Storia della filosofa. Dal Rinascimento all’Illuminismo [Vol. 2]

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Storia della filosofa. Dal Rinascimento all’Illuminismo [Vol. 2]

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EDITORE BuLGARINI FIRENZE

Copyright© 1994

Prima edizione, marzo 1994 Ristampe

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1999

1998

1997

1996

Finito di stampare per i tipi della tipolitografia Stiav s.r.l. in Firenze

Redazione Progetto grafico Copertina

Maurizio Landi Carla Prati Paolo Lecci Paolo Lecci Federica Giovannini

Impaginazione

Paolo Lecci Alba Melani Arianna De Lapi

Ricerca iconografica

Silvia Morpurgo

A questo volume ha contribuito: MASSIMO MUGNAI

autore del cap. 19 Leibniz 0646-1716): «praedicatum inest subiecto»

1995

1994

Salvatore Tassinari

STORIA DELLA FILOSOFIA OCCIDENTALE Dal Rinascimento al! 'Illuminismo

PARTE PRIMA

L'ETÀ DEL RINASCIMENTO EDELLA RIFORMA SEZIONE PRIMA

LA RINASCENZA IN ITALIA SEZIONE SECONDA

RINASCIMENTI ERIFORME RELIGIOSE IN EUROPA . SEZIONE TERZA

DALLA MAGIA ALLA SCIENZA

SEZIONE PRIMA

LA RINASCENZA IN ITALIA

1

L'umanesimo rinascimentale Capitolo

2

Il platonismo rinascimentale 3

L'aristotelismo rinascimentale

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1

Capitolo ······ ................................. ,.. ,,,,,,,,,,,,iii!i!iii''''''''' .............. ,,,,,,,,,,,iiiii'iiiii!!!ii'''''''··

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L'umanesimo rinascimentale

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Le radici trecentesche: Petrarca e Cola diRienzo el De sui ipsius et multorum ignorantia, composto nel 1367 in polemica con l'aristotelismo averroistico dominante tra i cultori di medicina e di scienze della natura dello Studio di Padova, ma più in generale con l'aristotelismo della Scolastica, accusati di essere portatori di un «naturalismo» dimentico dell'uomo, cosi scrive Francesco Petrarca:

Eppure, una novità va profilandosi in questo agostinismo petrarchesco: il riconoscimento delle «humanae litterae» come strumento essenziale della «salvezza» dell'uomo; la convinzione che, accanto al Cristo, operi, nella medesima direzione, Cicerone. È vero che il vescovo di lppona- è lo stesso Petrarca a ricor- A . che Agos t'mo «non arrossi, Cristo ccanto a1 darlo quan do scnve mai nel riconoscere la grandezza di Cicerone» - Cicer~ne aveva accolto nel sapere cristiano la cultura proffana delle arti liberali, ma nel De doctrina christiana l'aveva riconosciuta legittima non per un suo valore in sé ma solo come mezzo per l'intendimento delle sacre scritture. Petrarca, al contrario, scorge in Cicerone, e più in generale negli «studia humanitatis», uno stimolo che già apre gli occhi della mente alla luce della verità, avviando l'anima alla vera sapienza. Ed è per questa felice congiunzione di antichità e cristianesimo che le vie dell'interiorità non inducono Petrarca a proporre un ascetico 'contemptus R. . 1 · bens1, a 1are ç IIUIO mun d1., e l''1solamento monastico, dell'ascetismo delle lettere e della teologia le condizioni per un operoso intervento nella città degli uomini. In una lettera a Luigi Marsili, l'agostiniano del convento di S. Spirito suscitato re del primo cenacolo umanistico fiorentino, aveva scritto il poeta:

«... molte cose sa (lo scienziato) delle belve, degli uccel-

Petra~ca e la li e dei pesci, e ben conosce quanti crini il leone abbia

P~le~lca C?~ sul capo, e quante penne nella coda lo sparviero, e con quante spire il polipo avvolga il naufrago; come a ritroso si accoppino gli elefanti e quanti anni duri la loro gravidanza ... ; come deforme sia il parto dell'arsa, raro quello della mula, unico ed infelice quello della vipera; come sian cieche le talpe, sorde le api, ed infine di tutti gli animali il coccodrillo solo muova la mandibola superiore. Codeste cose, in gran parte, o son false, il che apparve quando se ne poté fare esperienza, o sconosciute a quelli stessi che le affermano ... ma quand'anche fossero vere, a nulla servirebbero per la vita beata. Io infatti mi domando a che giovi il conoscere la natura delle belve e degli uccelli e dei pesci e dei serpenti, ed ignorare e non curar di sapere la natura dell'uomo, perché siamo nati, donde veniamo, dove andiamo».

gh anstotehcl

Non era certo nuovo nella cultura cristiana il richiamo, implicito in questa pagina, a raccogliersi nell'esame di sé, liberi dalla dissipatrice curiosità per le cose esteriori, né la contrapposizione conseguente . . tra «scientia» e «sapientia». Agostino, cui PetrarAgostmo, 11 ca guarda come al maestro tra tutti il più caro, maestro . , d . . . . g1a a quasi un m111enmo aveva pronunciato parole decisive in questa direzione, facendo rivivere nel cristianesimo l'antica suggestione socratico-platonica, riapparsa nei grandi scritti dei neoplatonici. Petrarca non aveva da far altro che riprendere il suo insegnamento, in opposizione all'aristotelismo trionfante nelle scuole cristiane.

«Pur di una cosa io non mi posso tenere che non ti avverta; ed è che tu non presti l'orecchio a coloro che, pretendendo la necessità di applicare tutta la mente agli studi teologici, vorrebbero al tutto distoglierti da quei delle lettere, dei quali se fossero stati digiuni (per tacer di molti altri) Lattanzio e Agostino, né quegli avrebbe tanto agevolmente combattuto le superstizioni dei pagani, né questi edificata l'eccelsa mole della città di Dio».

Ed è, appunto, per incitare all'attivo operare tra gli uomini un giovane tentato dalla prospettiva claustrale che Petrarca, in una delle «epistole

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Le «adunanze... che si chiamano cittàll

SEZIONE PRIMA. LA RINASCENZA IN ITALIA CAPITOLO l

L'amore per le lettere e l'eloquenza è l'altro motivo della avversione petrarchesca, più che per Aristotele, che certamente egli non amò, per l'aristotelismo scolastico, esauritosi tutto nel formalismo e nel virtuosismo della dialettica e della logica. Alle dispute, avvertite vacue ed astratte, dei logici di Oxford e L'eloquenza di Parigi, Petrarca ama contrapporre il concreto, contro il vivo comunicare degli uomini tra loro, per via formalismo d'una parola non isterilita nei virtuosismi di logico degli scuola, ricca ancora di tutte quelle potenzialità aristotelici morali ed affettive, che la fanno espressione la più limpida dei moti dell'anima e della vita interiore, e insieme strumento efficace a dare giovamento all'anima altrui. A questa parola egli mostrava di volersi riferire quando, suggestivamente, scriveva:

familiari», aveva citato del suo Cicerone la sentenza secondo cui «in terra nulla è più gradito a quel signore Iddio, che regge tutto questo mondo, di quelle adunanze o riunioni di uomini secondo un legame sociale, che si chiamano città».

Il che non impediva, peraltro, all'animo combattuto del Petrarca di provare anche la suggestione - ne . sono testimonianza 'il De vita solitaria e il De otio Lasolltudinee · · con• • • rez·zgwsorum - dll e a so l'd' 1tu me e dl e s1'lenz10 11 5 1 11 0 l e z1 l . d l h' l . l temp at1vo e c wstro, a pnma, pera tro, mm. vissuta come-alternativa alla vita associata, il secondo avvertito, piuttosto, come l' «analogo m> cristiano dell' otium dei la:tini.

«Bene Socrate, visto un giovinetto in silenzio, disse: 'parla, affinché io ti veda', perché egli pensava che l'uomo si vede non tanto nel volto, quanto nelle parole».

Ed anche a Cicerone, e più in generale ai latini, pensava Petrarca, essi che «dirigono e immergono acutissime e roventi le punte della loro eloquenza fin dentro il cuore». Per tutto questo Petrarca è da considerarsi anticipatore, ispiratore principale di quell'umanesimo italiano, e principalmente fiorentino, che di lì a po- A .. · Salutatl,· Leonardo Brum,. p og- dell'umanesimo nllCJpatore co, con Coluccw gio Bracciolini, Giannozzo Manetti ecc., avrebbe aperto un nuovo capitolo nella storia della civiltà e della cultura occidentale. E non solo per questo. Tanta parte dell'umanesimo rinascimentale, in particolare quattrocentesco, avrebbe vissuto di quel medesimo, tormentoso, irrisolvibile contrasto - e insieme dell'inesausta aspirazione a comporlo - tra amore della vita e sentimento della morte, che Amore della accompagna tutta intera l'inquieta vita interiore vita e del poeta aretino, scissa tra il pensiero dell'im- sentimento mortalità e della beatitudine celeste da una parte, della morte e l'aspirazione ad una sopravvivenza tutta diversa, ricercata nella gloria mondana dall'altra, tra il senso della caducità delle cose terrene, resa evidente dall'ombra incombente della morte, e lo struggente bisogno di trattenerne la soave bellezza. Il De secreto conflictu curarum suarum, colloquio di Francesco con Agostino alla presenza della Verità, rappresenta, di questa contraddizione irrisolta, il celebre, drammatico documento. L'altro grande personaggio del Trecento che, a parere di alcuni studiosi, primo tra tutti Konrad Burdach (1859-1936), autore nel1918 di un'opera restata famosa, Riforma, rinascimento, umanesimo, rappresenterebbe un'anticipazione significativa dello spirito umanistico-rinascimentale, è Cola di Rienzo, il tribuno romano che alla metà del secolo, infiammato Il sogno di dalla lettura dei classici, aveva tentato la restau- Cola di Rienzo razione delle antiche libertà repubblicane di Ro-

Pagina miniata raffigurante Francesco Petrarca nella sua biblioteca.

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PARTE PRIMA L'ETÀ DEL RINASCIMENTO E DELLA RIFORMA

ma, per finire poi col sognare il dominio universale di un rinnovato impero romano e cristiano, capace di dare compimento alle speranze di quella «renovatio» ~ religiosa e insieme politica, alimentate, soprattutto a U partire dal Duecento, da tanta parte dei movimenti ~ riformatori popolari a sfondo profetico. z Secondo questa lettura delle origini dell'umanesioc mo rinascimentale, orientata, come si può facilmente .,.J L . arguire, a sottolineare la continuità che leghereb'" a tes1 b . . d' 'b'l . . . storiografica e m un rappor~o m 1~~er~1 1 ~ proces.sl _tip.lca0 di Burdach mente med1evah ed es1t1 nnascunentah, 11 nna~ scimento quattrocentesco sarebbe attraversato o per tutta intera la sua parabola dall'idea, appunto, religiosa e mistica della «rinascita». Ora, è vero che, per tutto un filone del neo-platonismo rinascimentale, da Cusano al platonismo fiorentino di Ficino, ispirato ad un ecumenismo che aveva fatto della «pax» filosofica e religiosa il proprio ideale - e che, per un momento, era sembrato trovare una sua prima realizzazione nel concilio di Firenze del 1439, quando ci si era illusi di aver compiuta la riunificazione della Chiesa bizantina con quelccRenovatio» rinascimentale la romana -, si può legittimamente parlare di e messianismo una prospettiva di mistica «renovatio», ma quemedievale sta va riferita alla dimensione puramente interiore degli spiriti e, pertanto, appare ben lontana dal me.ssianismo medievale, non escluso quello di Cola, che aveva invece sognato della gioachimita «terza età», di un regno visibile dello spirito da realizzare fin d'ora sulla terra. Senz'altro estranea a cosiffatte aspettative messianiche è, comunque, quella moltitudine di umanisti che, tra fine Trecento e primo Quattrocento, si adoperano, quasi sempre sulla scia di Petrarca, alla «rinascita» dell'antichità classica. Persuasi, insieme con gli antichi scrittori, dell'insuperabile finitezza mondana . . . . della vita degli uomini, ma anche della non vaniRe lIQIOSita ' d 11 • f' • d 11 • cristiana degli ta e oro operare entro 1 con m1 e a gwrnata umanisti terrena, gli umanisti italiani, peraltro, non sono affatto privi di una loro profonda religiosità, ed anzi la loro opera sarebbe del tutto incomprensibile al di fuori dell'orizzonte cristiano, cui essi a pieno diritto appartengono. La loro insistenza sul limite terrestre dell'uomo è costantemente riequilibrata da una fede, non residuale, nella sua ultima destinazione ultramondana, e così la loro «riscoperta» dei classici si accompagna ad un nuovo modo, laico e mondano, di «rivivere» la verità cristiana. Del tutto superata, quanto meno nella sua crudezza e perentorietà, appare oggi la celebre tesi, avviata da Jacob Burckhardt (1818-1897) col suo splendido affresco de La civiltà del rinascimento in Buctarl:una lh d tesi datata I ta l'za de11860 , d'1 una ra d"1cale frattura fra medioevo e rinascimento, quest'ultimo presentato come un'epoca sostanzialmente acristiana, paganeggiante, proclive ad una visione individualistica, senO

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suale, estetica della vita e dell'esistenza, che aprirebbe per tutta l'Europa l'età moderna. Una considerazione del rapporto tra età nuova dell'umanesimo e passato medievale più articolata e più attenta ai cambiamenti lenti ma profondi della sensibilità collettiva, ha consentito agli stu- ~~~~:~~o di storiografici di quest'ultimo cinquantennio di continuità e sfuggire alla deviante alternativa tra sostenitori frattura di una improvvisa e, come tale, improbabile frattura, e sostenitori di una omogeneità mortificante, e di individuare, di quel rapporto, insieme gli elementi di continuità e quelli anche però di dirompente novità. Un risultato, questo, cui ha certamente concorso l'attenzione anche al più ampio quadro della storia economica e politico-sociale italiana. dalla fine del XIII secolo agli inizi del XV, in cui si' inserivano gli eventi culturali di cui ci stiamo occupando. Ne è emerso che l'epoca è quella della prima crisi del feudalesimo, della transizione lenta e non priva di . .. . .. . . ll'. d" . . .ç La pnma cns1 1mp~ov_v1~1 ntor~1 a .m 1etro - Sl pe~s1 a1 1eno- · dell'età feudale mem d1 nfeudahzzazwne spesso coev1 delle lotte antifeudali - verso una economia ed un assetto sociale, in cui il predominio della nobiltà e della Chiesa viene sempre più contrastato dall'avanzata dei ceti «popolari» dei mercanti, degli artigiani-imprenditori, dei banchieri, col conseguente affermarsi della civiltà urbana fondata sul primato di nuovi valori, come quelli del denaro e del lavoro «borghese». Gli umanisti del tardo Trecento e del Quattrocento sono in larga misura espressione di questi ceti, sono i nuovi intellettuali laici, profondamente ancorati ai nuovi fermenti della vita civile e, nel caso, in particolare, di società urbane evolute come quella fiorentina, all'esercizio delle libertà politiche repubblicane. Si guardi alle figure più eminenti del primo umanesimo fiorentino, e si troverà che esse sono qua- ". .. .ç ..,h umamst1: s1. sempre appartenenti. alle componenti. ant11eu. • ' ed operose ne 11a v1ta . c1v1 • 'le e po l'1- intellettuali llUOVI dal1• de11a c1tta, laici tica: Coluccia Salutati (1331-1406) fu per trent'anni cancelliere della repubblica e fiero difensore della «fiorentina libertas», ora contro il papato avignonese, ora contro le mire espansionistiche dei Visconti di Milano; anche Leonardo Bruni (1370 ca.1444) e Poggio Bracciolini (1380-1459) ebbero per qualche tempo il cancellierato, mentre Giannozzo Manetti (1396-1459) fu a lungo impegnato nelle magistrature interne della repubblica, e più volte legato in ambascerie presso sovrani e pontefici. Nuovi i soggetti produttori di cultura - laici, non più chierici -, nuovi di conseguenza i luoghi della produzione: non più le università, dove peraltro sarebbe continuato fino al Seicento, sempre più stancamente, il vecchio insegnamento scolastico, bensì le ricche dimore di mercanti e banchieri che sem.' f · d' , l nuovi ((luoghi» pre. pn~ reque~t~mente. osp1tano presso . 1 se della cultura scntton ed artlstl, e p01, soprattutto, le hbere

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SEZIONE PRIMA. LA RINASCENZA IN ITALIA CAPITOLO l

istituzioni rappresentate da «studi» e accademie, che si moltiplicano nelle città italiane, da principio per iniziativa di piccoli gruppi di studiosi, ma poi principalmente per impulso delle innumerevoli corti signorili che fanno a gara nel proteggere letterati e poeti, artisti e filosofi: i Medici a Firenze, i Visconti e poi gli Sforza a Milano, e così i Gonzaga a Mantova, i Montefeltro ad Urbino, gli Estensi a Ferrara, i Malatesta a Rimini, e infine, non ultimi, i dogi a Venezia, i sovrani di Napoli, i pontefici romani. Questo mecenatismo di prìncipi e signori, peralDa intellettuali liberi a tro, si sarebbe rivelato col tempo - e la cosa si «cortigiani)) sarebbe fatta evidentissima a partire soprattutto dalla metà del Quattrocento - una delle condi-

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zioni non secondarie del ripiegamento della cultura umanistico-rinascimentale verso atteggiamenti sempre più discosti dall'iniziale impegno civile e politico. Con il progressivo eclissarsi delle libertà e l'accentramento dei poteri nelle forme del principato, e il correlativo sprigionarsi anche nell'economia e nella società italiana di tendenze neo-feudali, la funzione degli intellettuali si sarebbe andata rapidamente mutando nella condizione del cortigiano, condizionato se non addirittura asservito al potere, sicché la filosofia, fino allora immersa negli spazi della vita attiva e mondana, si sarebbe ritagliata uno spazio per sé, separato, cercando sempre più volentieri evasioni consolatorie, di carattere metafisica e contemplativo.

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Gli «studia humanitatis»: filologia e filosofia anche stata pressoché abbandonata dagli studiosi la tradizionale distinzione tra umanesimo e rinascimento in senso proprio, secondo la quale il primo sarebbe consistito nel fenomeno meramente filologico-letterario dello studio e della «imitazione» degli antichi autori classici, mentre il secondo avrebbe rappresentato l'emergere di una nuova visione del mondo - Dio, uomo, e naturipresa dell'antico avrebbe avu. umaneslmo e ra-l' che in· quella · llllZlO. · · · 0 gg1· preva1e 1a rinascimento to occasiOne del propno tendenza a negare che si possa tracciare una distinzione così netta tra questi due momenti storici: già nel modo, come vedremo subito, profondamente nuovo, dei primi umanisti di studiare gli antichi si manifesterebbe quello stesso spirito filosofico che, una volta maturato, avrebbe dato luogo, tra la fine del Quattrocento e la fine del Cinquecento, alla splendida stagione di quello che è stato detto rinascimento in senso proprio. Ma veniamo ora al merito del nostro discorso, provandoci in una prima, necessariamente schematica, individuazione dei temi principali, che ci aiutino a ricostruire figure e atteggiamenti mentali di questo umanesimo rinascimentale. Innanzitutto, naturalmente, l'amore e lo studio dell'antichità classica. Grande ne era stata la diffusione già durante i secoli medievali: non sarebbe Lo studio medievale neppure pensabile la letteratura medievale senza dell'antichità i suoi Virgilio, Ovidio, Lucano e Stazio, per non classica parlare del diritto e della medicina, della geografia e dell'astronomia, e della filosofia e della teologia, che per secoli si erano provate nel tentativo rischioso di «versare il vino nuovo del cristianesimo nei vecchi otri della filosofia degli stoici e dei platonici e di Aristotele».

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Ciò che è nuovo nell'umanesimo della fine del Trecento e del Quattrocento, e nuovo in senso dirompente, è il modo con cui gli umanisti leggono i libri antichi: a. gli uomini del medioevo li avevano letti, si, ma con gli occhi fissi all'immobile, divina ve- L'antichità come rità, e di questa in quei libri si eran sforzati di preparazione al cogliere sintomi e preannunci, persuasi com'era- cristianesimo no che la luce del Verbo illuminasse ogni uomo che viene nel mondo, e che dunque anche tra i pagani, in Virgilio come in Seneca, in Platone come in Aristotele, andasse ricercata la prefazione della sapienza cristiana. Nella loro teologia della storia, l'antichità classica tutta intera fungeva da momento preparatorio dell'avvento del Cristo, e per questo valeva, e come tale doveva essere studiata ed amata. Se così, nella sostanza, si era pensato, dal De civitate Dei di Agostino alla Commedia di Dante, nella quale Virgilio fa strada fino a Beatrice, allora gli umanisti rappresentano davvero una novità: essi si accostano agli autori antichi come ad una umanità «altra», e come tale irriducibile a sé, di cui si La novità deve intendere il senso suo proprio, senza so- dell'umanesimo vrapposizioni e proiezioni che lo alterino, senza quattrocenpretese di appropriazioni che ne cancellino la di- tesco versità, ma anzi con la preoccupazione di farlo emergere nella sua integrità e inconfondibilità ..E così leggere un testo fu davvero pensato come un dialogare, un confrontarsi e riconoscersi, o anche uno scontrarsi, comunque sempre un entrare in rapporto' con una esperienza diversa, particolare e parziale, consegnata una volta per sempre ad un determinato momento, mai destinato a tornare, della storia; b. la storia: questo è il punto. Nello spazio intellettuale dei medievali essa non esiste: la Verità è eter-

PARTE PRIMA L'ETÀ DEL RINASCIMENTO E DELLA RIFORMA

e umiltà, la precisione di vocaboli e verbi, nei quali è definito un pensiero preciso. E questo significa aver scoperto la storia: che è aver capito la distanza che separa l'oggi dall'ieri, s d coperta e11 a . b"l" e vo lerla nsta 11re, consapevo11. che le opere de- storia gli uomini non sono divine, come fuori del tempo, ma, appunto, umane, e dunque precarie; anche le sole, però, attraverso le quali quelli faticosamente vengono facendosi umani. In questo «farsi» sta, appunto, la storia. Ed è in questa «filologia» che sta la «filosofia» dell'umanesimo. Ne coglieremo i tratti essenziali, passando in rassegna alcune delle principali figure dell'umanesimo fiorentino e non, tra gli ultimi Filologia è filosofia decenni del XIV e la metà del XV secolo.

na. Aristotele non è l'uomo e il pensatore di Sta. • g1ra, v1ssuto ne liV secolo a. C., cos1, e cos1, con d"1zionato dalla sua età, grande filosofo, ma pur sempre 'un' filosofo; no, egli è il «maestro di color che sanno», e sempre questo sarà. Sileggano i suoi libri, si chiosino e si commentino, e così ne sarà illustrata la verità, in essi rinserrata per sempre. Gli umanisti, invece, hanno inventato la «filologia»: il suo primo ufficio è quello di ricollocare il testo, e il suo autore, nel loro tempo, né prima né dopo, di restituirlo alla sua lezione autentica, spo. gliandolo delle scorie - correzioni e integrazioni . l a 111o1ogta b" . l . . . d' . . critica ar 1trane, g osse mter1mean 11gnot1 commenta. tori assunte nel testo, interpolazioni e così via che ne oscurano il senso, ripristinando, con pazienza

'A . L nstotee 1 medievale

La filosofia dell'umanesimo: «agere et intelligere»

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~~·" e l'uomo non è una creatura già fatta una volta

scritti si affaccia con significativa frequenza il tema del confronto tra vita attiva e vita contemplativa, tra «Marta» e «Maria», non esitino a riconoscere . il primato dell'azione e della volontà rispetto alll pnmato de 11 a l'· t 11 tt · vita attiva m e e o .contemplat'1vo. La cont emp lazwne, ' certo, come insegna la fede cristiana, sarà la condizione gloriosa della vita eterna, ma finché noi uomini siamo qui nel mondo terreno, è all'azione che dobbiamo affidare innanzitutto il senso e il compimento della nostra vita: «... dobbiamo stare in campo, attaccar battaglia, combattere; per la giustizia, per la verità, per l'onestà».

Chi cosi scrive è Coluccio Salutati (1331-1406), il primo e il maggiore degli umanisti dopo l'età del Petrarca. Nei suoi trattati morali, come il De saeculo et religione del 1381 circa, o il De fato, fortuna et casu . del 1396-99, e così nel suo amplissimo epistolaSalutatt: . h l l . fl . avversione alla no,_ c e ~ r~se noto _e a u?go m uente m tutta vita monastica ltaha, egh ntorna d1 contmuo su questo tema, attraverso il quale si configura un modo nuovo, laico e mondano, di riscoprire e rivivere il cristianesimo. La vita monastica dei religiosi, che ancora in Petrarca suscitava riconoscimenti devoti, non appare più modello indiscutibile di perfezione. Così, Coluccia in una sua lettera:

siano la via della perfezione. Credi tu veramente che a Dio sia stato più caro Paolo eremita inattivo di Abramo operoso? Non pensi tu che al Signore sia stato ben più diletto Giacobbe con dodici figli, con due mogli, con pingui greggi, dei due Macari, di Teofilo, di Ilarione? Fuggendo dal mondo tu puoi precipitare dal cielo in terra, mentre io, rimanendo tra le cose terrene, potrò alzare il mio cuore dalla terra al cielo».

E, a mettere in evidenza l'ispirazione civile, politica, insieme che religiosa, della sua convinzione, così Salutati conclude: «Provvedendo, servendo, preoccupandoti della famiglia, dei figli, dei parenti, degli amici, della patria che tutto riabbraccia, non puoi non elevare il tuo cuore al cielo e non piacere a Dio».

È stato detto che questa esaltazione della vita attiva si fonda su di una affermazione del primato della volontà di indubbia ascendenza scotista (per Duns Scoto, v. voL. 1 CAP. 28, PAR. 3.3), e non manca- u , d . . ff . l D n ascen enza no ~~rto 1 test1 a su raga~e questa tes1; ~e ~ scotista ... nobzhtate legum et medicznae del 1404, m cm Salutati riprende la polemica di Petrarca contro la medicina e le scienze della natura in nome della superiorità del diritto e delle «humanae litterae», si afferma con grande chiarezza: «quando questa (la volontà) vien meno, subito cessa e finisce qualsiasi azione dell'intelletto, ed esso rimane passivo secondo la propria natura: quindi non resta che affermare che è più nobile la volontà, la quale agisce e muove, rispetto all'intelletto che non fa nulla se non per ordine della volontà».

«Non credere che fuggire la gente, evitare la vista delle cose belle, chiudersi in un chiostro o segregarsi in un eremo,

Scotismo, certo; ma non v'è dubbio però che

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SEZIONE PRIMA. LA RINASCENZA IN ITALIA CAPITOLO l

saremmo tutti costretti a coltivare il nostro campo ... Scomparirebbero virtù egregie come la misericordia e la carità ... Dalle città scomparirebbe ogni splendore, ogni bellezza, ogni ornamento; non più templi, non più portici; cesserebbero le arti; sarebbero sovvertiti la nostra vita e lo stato ... Allo stato il denaro è necessario come i nervi al corpo, e quando vi siano numerosi gli avari, essi devono esser considerati come la base e il fondamento ... Di chi è meglio che la città sia popolata, di ricchi che con i loro mezzi aiutano sé e gli altri, o di poveri che non servono né a sé né agli altri?».

questo volontarismo vien poi fatto valere dal Salutati contro la pretesa del pensiero scolastico, scotismo compreso, di fare della filosofia una attività puramente contemplativa, rivolta a rispecchiare, nelle 'iJ:O~ ~:~~ ampie volute dei propri sistemi teologico-metafisici, le immutabili strutture dell'essere. Già ad opera del cancelliere della repubblica fiorentina risuonano le semplici quanto decisive parole, riecheggiate da tutti gli umanisti della prima generazione, che rompono con secoli di «contemplativismo»: «La vera sapienza non consiste nel puro intendere». Non a caso, Socrate vien illustrato come il filosofo per eccellenza, e collocato accanto al Cristo e a Francesco d'Assisi, e il mito di Ercole, destinato a . grande fortuna nella letteratura e nell'arte rinaS t 1 • le - Sl· pens1· a11a ra ff'1guraz10ne · mitoocraeeJ di Ercole sc1menta che Antonio del Pollaiolo avrebbe fatto dell'atleta Ercole in lotta con l'Idra -, viene assunto da Salutati nel suo De Hercule eiusque laboribus, come allegoria dell'«homo faber» che con fatica si costruisce un mondo, sottoponendo alla propria «virtù» le forze irrazionali della natura. Il lavoro comincia ad essere riscattato dalla biblica maledizione e riscoperto come valore fondativo della umana civiltà. Esemplare l'apologo con cui un giurista marchigiano, Pandolfo Collenuccio, ne Iliavoro: con l ro l . f~ . c · d' · ·1 L la maledizione esa ta g11 e 1ett1: 1atto personaggiO 1vmo, 1 abiblica voro sposa Agenoria, figlia di Uso, e dalle nozze nascono sette figlie: Vita, Valentia, Virtù, Vittoria, Ubertà, Verità, Voluttà. Vero uomo, scrive Pandolfo, è solo colui che «coltiva i campi, i mari, costruisce città». Con un nuovo occhio si guarda alla ricchezza, prodotta dal lavoro. Poggio Bracciolini ( 1380-1459), l'infaticabile ricercatore di codici antichi nelle biblioteche conventuali di mezza Europa - a lui si deve la scoperta, tra le sue numerosissime, del De rerum . .. Bracc1o11m: 1a d' L . , c l' . h valorizzazione natura 1 ucrez10 -, e 10rse umamsta c e, per della ricchezza essere più del Salutati e di altri- assai influenzati dall'etica stoica- aperto alla cordiale accettazione di ogni aspetto della vita mondana degli uomini, più, e più modernamente di altri, sa anche esprimere il valore civile, umano, oltre che economico, della ricchezza, fino a giungere a vedere in essa, precorritore dell'etica di Calvino, il segno della benevolenza divina. Nel suo dialogo De avaritia del1428-29, così possiamo leggere:

Il-tema del lavoro e del denaro è presente anche in Leon Battista Al berti (1404-14 72), il grande architetto autore del palazzo Rucellai e della facciata di Santa Maria Novella a Firenze, della chiesa di S. Al • 1 . malatestlano . d'1 «santa betti: a Andrea a Mantova, del temp10 Rimini, ma anche pensatore e scrittore di trattati masserizia» come il De pictura del 143 5 circa, il Della famiglia del 1443, De re aedifìcatoria compiuto nel 1450, e di opuscoli morali di grande rilievo come Momus del1443 e gli Intercoenales. Nei libri Della famiglia si trova una specie di filosofia della «santa masserizia», che bene sa dar voce all'oculata saggezza dell'impren-

«L'avarizia è naturale. Percorri città, piazze, case, templi; se qualcuno affermerà di non volere più di quello che gli basti, ritieni di aver trovato la fenice. E non citarmi qualcuno di quei rozzi, agresti, ipocriti parassiti, che vanno in giro dando la caccia al vitto, col pretesto della religione, senza lavoro, predicando agli altri la povertà e il disprezzo dei beni ... Non costruiremo le nostre città con codeste larve d'uomini che in ozio completo vivono del nostro lavoro ... Se ognuno trascurasse di fare quello che eccede le sue necessità,

Leo n Battista A/berti, in un disegno dell'epoca.

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PARTE PRIMA L'ETÀ DEL RINASCIMENTO E DELLA RIFORMA

ditore o del mercante dell'epoca, educato alla misura degli antichi: le ricchezze prodotte dal lavoro non vanno certo sperperate come fanno «quelli spenditori che spendono sanza ragione», ma neanche accumulate, quale sterile e inutile possesso, come sono soliti fare gli avari che «non usano le cose quando bisogna»· all'Alberti piacciono piuttosto quelli che chiam~ «massai», «i quali a' bisogni usano le cose quanto basta, e non più, e l'avanzo serbano». Per u_na cultura come questa umanistica, che dconsegna mteramente l'uomo alla sua storicità, gran. de rilievo doveva assumere il concetto del temLa rtscoper1a E' d . . del valore del po. urante l' epoca nnasctmentale che l'orolotempo gio acquista un'importanza fondamentale nella vita quotidiana, a segnalare insieme l'irrimediabile brevità e vanità dell'esistenza umana e la necessità, d'altronde, di mettere a profitto ogni istante della vita. Ed è ancora il Della famiglia a dire con grande efficacia di quest'uso proficuo del tempo:

Un nuovo senso della morte

«~a mattina, prima, quando io mi levo, così fra me stesso 10 penso: oggi in che arò io da fare? tante cose: annòverole, pensavi, e a ciascuna assegno il tempo suo. Questo stamane; quello oggi; quest'altro stasera: e a quello modo mi viene fatto con ordine ogni faccenda, quasi con niuna fatica».

Un mercante non avrebbe saputo dir meglio la necessità di far del tempo denaro. Dio stesso può apparire, in questa visione della vita così connessa con l'affermarsi dell'economia di mercato nelle sem. ' btanze di un mercante. Giannozzo Manetti (13961459) così per esempio lo raffigura: «... l'onnipotente Iddio fa come uno maestro d'uno trafico, che dando al cassiere danari, glieli fa mettere a entrata, di poi vuole vedere in quello che gli ha spesi. Cosi l'onnipotente Iddio, il tempo ch'egli ha dato agli uomini, vuole vedere quando si partono di questa vita, in quello che l'hanno ispeso, infino a uno sguardare d'occhio».

Il De dignitate et excellentia hominis del Manetti appare alla metà del secolo come il più importante manifesto della filosofia civile dell'umanesimo quattrocentesco. Nata da una richiesta di Alfonso d'AraManetli: un gona, re di ~apoli - pre~so la cui corte Manetti manifesto fu esule sul fmue della v1ta -, che alla domanda dell'umanesimo di quale fosse l'ufficio dell'uomo, si era sentito rispondere dal dotto umanista: «Agere et intelligere», quest'opera propone arditamente l'operare intelligente dell'uomo come prosecuzione e compimento della creazione divina, e fa dell'uomo stesso un «dio terreno». Una creatura è l'uomo, scrive Manetti al termine del suo elogio, «ricchissima e potentissima», che «può fare uso secondo la propria volontà di tutte le cose che sono state create e secondo la propria volontà può dominarle e comandare su di esse».

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partire all'incirca dalla seconda metà del Xlii secolo, un nuovo sentimento della morte, mai prima d'allora esistito nell'universo cristiano, va diffondendosi nella sensibilità collettiva, e si esprime nei Trionfi della morte e nelle «danze macabre» della iconografia del tempo. Riportiamo qui una pagina in cui Ruggiero Romano e Alberto Tenenti hanno descritto questo fenomeno che prelude al nascere della nuova sensibilità moderna. «Il macabro non è un valore cristiano. Esso consiste, soprattutto all'inizio, in un sentimento di ripulsione per la misera sorte del corpo umano. Tale modo di sentire è già nettamente riscontrabile nel Duecento ed il tema principale in cui s'esprime è quello dei 'Tre morti e Tre vivi'. In questa prima fase si scopre, per così dire, la decomposizione fisica: la si svela, cioè, e la si sottolinea in componimenti letterari e rappresentazioni iconografiche. È di grande rilievo che allora si sia dato grande significato ad un fatto, il macabro, ch'era rimasto estraneo o, al massimo, tangente, alla sensibilità cristiana. Tale scoperta, tuttavia, non raggiunge nel secolo tredicesimo un'autonomia propria e va ad inserirsi nella visuale religiosa dominante. Assai agevolmente inquadrato in un'impostazione pedagogica, il macabro viene sfruttato per dire al fedele: guarda cosa ti attende, guarda com'è vano il corpo ed ogni valore terreno che vi si riallaccia. La novità del Trecento consiste nel fatto che non ci

si ferma al ribrezzo per il cadavere. Intorno al 1350 si assurge ad una raffigurazione nuova e autonoma: quella della Morte. Essa non era del tutto sconosciuta alla !ematica cristiana del periodo precedente: ma la sua presenza, di per sé molto rara, non era quella di una realtà terribile; la si immaginava più spesso come una messaggera di Dio, una sorta di angelo. Ben diverso è il prodotto della sensibilità trecentesca: Dea trasvolante nell'aria a recidere inesorabilmente le vite umane, o essere cadaverico armato, o cavaliere impetuoso che fa strage intorno a sé, la Morte è ormai una personificazione: essa raffigura un potere che agisce come di propria iniziativa, sempre irresistibile. Non si è ancora stabilito quanto lo spettacolo terribile ... delle epidemie abbiano contribuito a potenziare un sentimento collettivo di soggezione a una forza sterminatrice e a farne una rappresentazione necessaria ... La Morte è un essere nuovo nel mondo della sensibilità tradizionale: è una forza impersonale, né benigna né maligna, senza alcunché di demoniaco o di divino ... è imparziale e non assolve alcuna funzione etica; è il simbolo di una legge che si applica ad aghi uomo senza scampo e senza motivazioni morali: è l'inesorabile finitezza umana divenuta coscienza collettiva. Questa consapevolezza che riguarda esclusivamente il proprio essere terreno non è di natura cristiana e non rinvia al sistema delle credenze abituali ... Nell'intimo recesso delle

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La Morte, da un libro di preghiere de! XV secolo.

proprie convinzioni, ove il dogma avrebbe dovuto regnare senza contrasti, l'uomo pensa ormai a se stesso in quanto uomo, non più soltanto come cristiano. Ci si abbandona così a sensazioni inusitate, a raffigurazioni inaudite. Un quadro di scuola senese della metà del Trecento rappresenta i tre grandi momenti della Creazione dell'uomo, della Redenzione e del Giudizio; la Morte vi appare nell'atto di mietere con la falce la vita di Cristo! Francesco Petrarca celebra e consacra letterariamente pochi anni dopo il tema del Trionfo della Morte. Le sue rime sono all'origine di tutta una serie iconografica che prospera nel Quattro e nel Cinquecento ... La Morte è insieme il destino di tutti e la sorte di ciascuno: il rovescio inscindibile della personalità individuale; è, dunque, il senso interiore

della propris. umana ed irrecuperabile durata. Così si prova, e i poeti cantano - fra tutti basterebbe citare Eustache Deschamps (1346-1406)- il rammarico di abbandonare la vita; stato d'animo tanto vasto e polivalente che forse i suoi aspetti illustrano nel modo migliore il senso della morte della fine del secolo XIV e del secolo seguente ... lnnanzitutto la malincònia ·dinanzi al proprio destino fisico, il senso profondo ma come inaspettato - del carattere naturale, del ritmo organico della vita umana. Poi il rammarico dei piaceri corporei che non si possono rinnovare o prolungare. Deschamps rimpiange la perdita delle gioie sessuali e dichiara che accetterebbe qualsiasi sventura in cambio del suo vigore perduto: le dolcezze che ne trarrebbe lo compenserebbero largamente. Villon

(1431-1465) rimpiange gli stravizi di una volta e gli sembra che la gioventù lo abbia lasciato all'improvviso in maniera così insidiosa da non poter dire come. Successivamente sopravviene una nota tragica e patetica: la pietà sconfinata per la sorte umana. Mai forse come nelle prime generazioni del secolo XV e particolarmente in Francia -l'amore per la vita del corpo come vita dell'uomo si è sprigionato così direttamente dal senso della sua necessaria decomposizione, mai la caducità della materia è stata umanizzata in modo tanto vitale. Mentre in tal maniera si opera nella sensibilità laica l'inversione del significato tradizionale della morte, sorge in terra franco-germanica il più originale tra i temi macabri ... La 'Danza macabra', infatti fu quasi una dimensione della sensibilità collettiva fin dagl'inizi del secolo XV: essa fu certamente rappresentata in forma teatrale, oltre ad ispirare composizioni letterarie ed a figurare in forma di affresco nelle chiese, nei chiostri, nei cimiteri ... La 'Danza macabra' è una delle prime manifestazioni corali della nuova cultura laica. Tutta la società vi celebra il suo acre incontro con la finitezza corporea. Ordinati in digradante gerarchia, i membri di ogni stato - dal papa e dall'imperatore al curato ed al contadino - s'incontrano ciascuno con un morto: ogni coppia rappresenta un cadavere alle prese con un vivente ... l morti non sorprendono i vivi alle spalle, anzi non li uccidono,

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nemmeno materialmente ... La Morte s'impone a ciascuno con la sua stessa presenza, con un solo gesto gli toglie ogni velleità di resistenza. L'unicità e l'unità del potere di tutti questi morti non deriva immediatamente da Dio ma dalla condizione naturale: con il loro venire in tanto numero a prendere i viventi, fanno valere il loro stato come fondamentalmente conclusivo e veramente attuale della realtà umana. Nella 'Danza' si realizza un nuovo senso della durata ... Vi è altresì lo stupore del vivo, il riconoscimento della caducità del corpo e dei beni: e su questo stupore matura dall'inizio alla fine, implacabile, l'ironia. La pesantezza e la ritrosia dei viventi acquistano una goffaggine restia ed insospettata di fronte agli scheletri che si dondolano, si dimenano, li trascinano sghignazzando nella loro ronda ... Alla malinconia dell'abbandono di tutte le gioie terrene si contrappongono, infatti, ironie e sarcasmi che la saggezza cristiana e anche la veemenza ascetica avevano fino allora ignorato. Non si vuole più ribadire soltanto l'eguaglianza di qualsiasi condizione sociale di fronte alla morte ma affermare che essa può far da contrappeso alle passioni ed agli slanci, agli errori e alle verità degli uomini. ' Senza inferno e senza paradiso, l'amarezza insormontabile dell'annientamento fisico, la realtà sconvolgente del terrestre finire bastano da sole a dare alla vita un senso insieme tragico e pienamente umano».

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>, di cui è l'Alberti ad offrirei la prima importante tematizzazione. Se non ha più il senLa fortuna so che aveva ne ll' antlc . h'1ta, , d'1una 10rza "" cl1e, quale destino inesorabile, sovrasta e domina la vita degli uomini, la fortuna non possiede più neanche il volto, in fondo rassicurante, che, data la sua dipendenza dai

e ancora: «... l'uomo nacque non per attristarsi in ozio, ma per adoprarsi in cose magnifiche et ampie, colle quali e' possa piacere e onorare Iddio in prima, et per avere in se stesso come uso di perfecta virtù, così fructo di felicità».

Eppure, nello stesso Alberti, quanto profondo è, a conferma della ambivalenza del messaggio umanistico, il senso della fragilità, anzi della vanità della vita dell'uomo! Tra gli Intercoenales ve n'è uno, . Fatum et for~una, in cui traspar~ il triste sen~~- :~~~~::~:io mento della fme, quando anche l uomo della vn- umanistico tù dovrà soccombere alla fortuna nella sua ultima contesa, mentre la speranza ultramondana, così ferma ancora negli altri umanisti, sembra nelle pagine albertiane, non diremo spenta, ma certo non più così intatta da rendere meno dolente il pensiero dell'ultimo passaggio. Per non dire dell'avanzante sfiducia con la quale l'Alberti medita sui limiti intrascendibili dell'umana conoscenza, condannata all'angusto orizzonte dei sensi. Così le ombre che, lungo il fiume vorticoso della Vita, appaiono in sogno al filosofo, lo ammoniscono: «Smetti, uomo, smetti di andar ricercando, oltre il limite consentito ai mortali, siffatti misteri del Dio degli dèi. Sappi che a te, e a tutte le altre anime, imprigionate in un corpo, questo solo è stato concesso: di non ignorare del tutto le cose che cadono sotto i vostri occhi ... ».

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Valla

(1407-1457):

un umanista epicureo e cristiano

l ritrovamento nel1418, ad opera del Bracciolini, del codice contenente il De rerum natura di Lucrezio, e la traduzione in latino delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio ad opera del camaldolese Ambrogio Traversari, offrirono all'umanesimo italiano l'opportunità di scoprire nell'epicureismo ciò che c'era, forse, fra tutta la filosofia classica, di più congeniale con il proprio amore della terrestrità. Non c'è dunque motivo di meravigliarsi se, nonostante l'influenza che l'etica stoica aveva Recupero del· ·' l · · d 1S 1 · l'epicureismo esercitato g1a su pnmo umanes1mo e a utatl fino poi all'elaborazione albertiana della dialettica virtù-fortuna, l' edoné di Epicuro sia apparsa, già intorno al 1420, quando in uno scritto epistolare ne prendeva le difese contro una plurisecolare avversione l'umanista cremonese Cosimo Raimondi (14001435), valido punto di riferimento per la fondazione di una antropologia autenticamente umanistica. Scriveva Raimondi: «... se fossimo fatti di puro spirito ... seguirei gli stoici e riterrei che solo nell'anima va posta la felicità. Ma poiché siamo fatti di anima e corpo, perché trascurano essi, nella felicità dell'uomo, qualcosa che è dell'uomo e lo riguarda? perché curano l'anima e trascurano il corpo, che è la dimora dell'anima e una delle due parti dell'uomo?».

sivamente passò al servizio di Alfonso d'Aragona prima e dopo la conquista da parte di questi del regno di Napoli, e infine nel 1448 fece ritorno nella sua città, dove fu alla corte di papa Niccolò V, e dal 1450 titolare della cattedra di eloquenza alla Sapienza. A Roma sarebbe morto nel 1457. Gli scritti più rilevanti del Valla, ognuno dei quali concorre ad una opera di vera e propria . . . . eversione degli equilibri e delle «autorità» su cui ~hllscnttl di si reggeva la tradizione culturale e ideologica cri- a a stiana, sono i seguenti: 1. De voluptate, redatto nel 1431 durante il soggiorno pavese, e ripubblicato successivamente col titolo più anodino di De vero falsoque bono, che è il manifesto del suo epicureismo cristiano; 2. De libero arbitrio e Dialecticae disputationes, prodotti fra il1435 e il1439 nel periodo napoletano, che mettono in discussione, rispettivamente, l'intellettualismo della filosofia delle scuole che pretende di risalire per via razionale alle verità di Dio e della libertà, e la logica di Aristotele e degli scolastici, accusata di aver perso di vista il rapporto tra parole e cose; 3. De falso eredita et ementita Constantini donatione declamatio del 1440, il celebre opuscolo in cui,

Contro il dimezzamento dell'uomo insorgeva dunque il nostro umanista, indicando nel piacere, contro la disumana virtù degli stoici, il punto in cui anima e corpo celebrano gioiosamente la loro concreta unità. Di questo riscoperto epicureismo era, certo, possibile una interpretazione anticristiana, considerato quanto dell'ascetismo implicito nelle proposizioni stoico-platoniche era passato, fin dai tempi di Agostino e di Boezio, nella morale cristiana. E in effetti Tra nell' Accademi_a romana di Giuli~ Pm;nponio L~­ el>icureismo to ( 1428-14? 7) furono. prese~~l onentamentl, anticristiano ... rappresentati per esempw da F1hppo Buonaccorsi (143 7-1496) detto Callimaco Esperiente, che ripresero l'ispirazione materialistica ed antireligiosa dell'epicureismo lucreziano, giungendo a provocare la reazione repressiva di papa Paolo II. Chi vide invece nell'insegnamento etico epicureo un messaggio, non solo non contraddittorio col cristianesimo e integrabile in esso, ma addirittura molto più cristiano di tutte le tendenze ascetiche via via prevalse nella tradizione cristiana, fu Lorenzo Valla, ... ed uno dei più grandi esponenti della filologia e delepicureismo la cultura umanistica quattrocentesca. Nato a cristiano Roma nel 1407 circa, fu professore di retorica nello Studio di Pavia tra il1431 e il1433, succes-

Lorenzo Valla.

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armi della filologia alla mano, vien dimostrata la falsità del documento, fondativo delle pretese teocratiche del papato medievale, secondo il quale l'imperatore Costantino avrebbe trasferito nelle mani del papa la sovranità della parte occidentale dell'impero; 4. infine, In novum Testamentum adnotationes del1449, col quale Valla rivendica il diritto di applicare allo studio delle sacre scritture il metodo della critica filologica, onde restituirle alla loro lezione autentica, e liberarle dalle interpretazioni arbitrarie della tradizione scolastica. Il cristianesimo di Valla è una religione perfettamente riconciliata con l'esaltazione della natura, della forza vitale e impulsiva che la costituisce e la rivela quale «ministra di Dio». Ogni filosofia che come quella stoica pretenda negare la spontaneità genuina degli impulsi naturali è nemica dell'uomo, invi. . . Cnstmnesnno e d' d ll · · d' · h d bb Jliacere wsa e a sua g101a 1v1vere, c e preten ere e soffocare nella tetraggine di un'ascetismo monastico. L'uomo è, invece, destinato naturalmente al piacere, che è il sommo bene, ciò che ognuno vuole per se stesso e in vista del quale vuole ogni altra cosa. E siccome l'uomo è stato voluto da Dio unità indissolubile di carne e spirito, si dirà allora che la voluptas, come i latini chiamano l' hedoné dei greci, è insieme «letizia nell'animo soavemente commosso e giocondità nel corpo». Dal piacere sessuale ai piaceri dello spirito, da quello per le leggi al piacere dell'arte e della cultura, a nessuno l'uomo deve negarsi nella sua esistenza terrena, pur essendo tenuto a riconoscere di ognuno il grado e la diversa nobiltà. E se ad un piacere si dovrà rinunciare, sarà solo per acquistarne uno più intenso e durevole. Per il cristiano le cose non cambiano. Sopravanzando anche Epicuro che non ha saputo vedere più in là del piacere terreno, il cristianesimo invita gli uomini alla beatitudine celeste, essa stessa voluptas, anzi suprema voluptas, in vista della quale si può anche sacrificare i piaceri inferiori. Con la stessa materiale . concretezza che i predicatori dal pulpito mettePara dISO e . de11e pene m1erna . c l'1, piacere vano ne11a raff'1gurazwne Valla descrive nel De voluptate i piaceri sensuali del paradiso, vera e propria proiezione e sublimazione delle gioie terrene. Ed ecco la visione gioiosa di mille e mille stelle mai prima viste così vibranti di luce, ecco i cortei delle creature angeliche dalle. ali d'argento e dai volti più belli di quelli della più bella fanciulla mortale, e i canti dei beati, e la città paradisiaca ingemmata di pietre preziose, e la piazza dorata, e il fiume d'acqua viva, e, infine, la visione suprema di Dio, culmine del piacere, e impossibile a dirsi. . Con analogo senso della concretezza e dei confini Onmpotenza d 11' . d'1 divina e libertà e umana natura, Va11 a ne l De l'h z ero arb.ltrzo, umana fronte al problema di come sia conciliabile la prescienza e l'onnipotenza divina con la libertà umana, impetuosamente aggredisce la filosofia che,

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da Boezio a Tommaso, invece di tenersi entro i limiti delle umane possibilità, ha preteso di innalzarsi fino al cielo, a scrutare superbamente i segreti divini, il perché Dio «l'uno indurisce nel male e dell'altro ha pietà»: «Egli ha misericordia di chi vuole ed acceca chi vuole ... O uomo, chi sei tu per discutere con Dio? forse che il vaso chiede al vasaio perché l'ha modellato? non può fare il vasaio dalla medesima creta vasi nobili e vasi turpi?».

Non alla ragione di Aristotele e degli altri filosofi, non si sa se più superba o più folle, dobbiamo affidarci, ma, secondo quanto dice l'Apostolo, all'umiltà della fede e all'edificazione dell'amore. Dopo secoli di L d . 1 · f'l1 osof'1ca che ha preteso.d'1ut1'l'lZzare s'llogismi a 1e e e della speculazwne Aristotele e la filosofia pagana per diradare i mi- r~gione steri della fede, Valla richiama, con una intenzione che sarebbe stata più tardi dei Lutero e dei Calvino, all'originaria fede nel Cristo dei Vangeli, che non ha alcun bisogno dei sillogismi della ragione. Come pretendono di fare della ragione l'intermediaria tra uomo e Dio, in realtà smarrendo le tracce dell'uno e dell'altro, così Aristotele e i maestri della scolastica, suoi seguaci, affidandosi ai sillogismi di una logica astratta, perdono il contatto vivo con le c . lectlcae . d'zsputatwnes . antro 1a cose concrete. Ne11e Dza logica esprime Valla tutta la sua avversione alla logica aristotelica aristotelica, astratta e formalistica, responsabile di aver separato i «verba» dalle «res», e ne fa risalire l'insufficienza all'estraneità di Aristotele ai luoghi dove si forma il vivo linguaggio degli uomini: «... egli non si distinse là dove si rivelano specialmente gli uomini egregi, nei pubblici consigli, nel reggere provincie, nel guidare eserciti, nel perorare cause, nel coltivare la medic!na, nel diritto, nello scrivere la storia, nel comporre poesie ... ».

La logica autentica va appunto ricercata in queste attività, e dunque, piuttosto sul terreno concreto e mondano della retorica e della grammatica che su quello disadorno e «barbaro» della dialettica, R . 'h'l . e,.m~ dialettica etoncae pmc e a vera, concreta ~eal'dl ta e pen~1ero carnata nelle parole stancamente realizzate de1 testi letterari e poetici come di quelli giuridici e religiosi, quelle parole di cui è compito della filologia riscoprire i legami con le cose, ricostruendone la storia e così restituendole alloro significato originario. La stessa celebrazione, negli Elegantiarum latinae linguae libri, della lingua latina nella sua forma ciceroniana, di cui Valla parla come di un «sacra- L . . . . . . d' . a 1mgua mento» m cm Sl trova mcarnato, 1vmamente ciceroniana· un compiuto, l'umano pensiero, risponde all'esigen- «sacrament~mn za di combattere quella «barbarie» linguistica che, da Boezio in poi, aveva provocato la dispersione di una cultura come quella latina, il punto più alto di civiltà mai raggiunto nella loro storia dagli uomini.

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L'umanesimo rinascimentale

··= Il termine rinascimento rappresenta una costruzione storiografica, la quale, pur trovando le sue iniziali, consapevoli premesse già negli scritti di umanisti come Leonardo Bruni, Leon Battista Alberti, e di filosofi come Marsilio Ficino, ebbe i suoi momenti decisivi di elaborazione più tardi, innanzitutto nell'opera di illuministi come Voltaire e d'Aiembert, che credettero di vedere, nella rinascita delle lettere e delle arti italiane del Quattro-Cinquecento, l'uscita dell'umanità dalle tenebre del medioevo e le origini di quella cultura che celebrava il proprio trionfo, appunto, nell'età dell'illuminismo. Dopo la rivoluzione dell'89, poi, si rafforzava la convinzione che il rinascimento avesse segnato, più in generale, gli inizi dell'età moderna; in questa direzione andava, ad esempio, il celebre scritto di Jules Michelet, Storia di Francia nel XVI secolo. Il rinascimento, apparso nel 1855, nel quale rinascimento e rivoluzione venivano connessi in una medesima linea di evoluzione della storia dell'umanità. Frutto di questo filone storiografico, e primo grande affresco della civiltà rinascimentale, doveva essere il classico libro di Jacob Burckhardt, datato 1860, La cultura del rinascimento in Italia, Sansoni, Firenze 1968, con Introduzione di E. Garin, con il quale veniva perfezionato il mito del rinascimento, quale cultura in radicale discontinuità col medioevo, contrassegnata da una nuova visione della natura e dell'uomo libera dai vincoli della morale e della religione. tradizionali, da uno sfrenato individualismo e da una sorta di neopaganesimo, dal culto della bellezza e della forza. In particolare, il grande storico di Basilea scorgeva nell'idea dello stato quale opera d'arte, il contributo maggiore di quella civiltà alla storia dello spirito moderno: è stato più volte ricordato come significativo il fatto che il libro burckhardtiano iniziasse con la figura di Federico Il, «tipo dell'uomo moderno sul trono», e concludesse con quella di Carlo V. Per strade diverse, ad un'analoga congiunzione del rinascimento coll'idea del mondo moderno in formazione era giunto, agli inizi dell'Ottocento, lo Hegel (v.vol.3*, cap.?), che, nelle Lezioni sulla storia della filosofia e nelle Lezioni sulla filosofia della storia (in traduzione italiana nelle edizioni de La Nuova Italia, Firenze), aveva scorto nel rinascimento gli inizi della filosofia moderna, quale si sarebbe svolta fino a Kant ed all'idealismo. Avrebbe ripreso questa interpretazione, nei primi decenni del Novecento, il Gentile (v.vol.lll**, cap.10) con i suoi Studi sul Rinascimento, Sansoni, Firenze 1936, e con Il pensiero italiano del Rinascimento, Sansoni, Firenze 1940. In radicale contrapposizione con la linea interpretativa culminata nel capolavoro del Burckhardt, si era collocata l'opera storiografica di Konrad Burdach, apparsa nel 1918, Riforma-Rinascimento-Umanèsimo. Due dissertazioni sui fondamenti della cultura e dell'arte della parola moderne, La Nuova Italia, Firenze 1935. Rifacendosi ai lavori tardo-ottocenteschi di H.Tode ed E. Gebhart, i quali avevano retrodatato le origini dell'umanesimo, facendolo discendere dallo spirito di Francesco d'Assisi, così affermandone l'ispirazione cristiana, Burdach si presentava come l'assertore di una sostanziale continuità tra medioevo e umanesimo rinascimentale, e scopriva nelle figure di Dante, Petrarca e Cola di Rienzo, tutte intrise di spiritualità francescana, i tre grandi padri dell'umanesimo. · Al superamento dell'alternativa rottura-continuità tra medioevo e rinascimento, nella sostanza astratta e povera di una ricerca filologica sufficientemente ampia ed approfondita, dovevano contribuire, nei decenni successivi al secondo conflitto mondiale, i fondamentali studi di E.Garin, tra i quali si suggeriscono, tutti editi da Laterza tra il 1952 e il 1967, L' Umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento; Medioevo e Rinascimento. Studi e ricerche; La cultura filosofica del Rinascimento italiano; Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano; La cultura del Rinascimento. Profilo storico. Ed ancora: L'Età nuova. Ricerche di storia della cultura dal Xl/ al XVI secolo, Morano, Napoli 1969; Dal Rinascimento all'Illuminismo. Studi e ricerche, Nistri-Lischi, Pisa 1970. Caratte-. rizzata dall'intento di mostrare, contro orientamenti quale quello rappresentato da P.O.Kristeller (di cui si vedano: La tradizione classica nel pensiero del Rina-

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1 scimento, La Nuova Italia, Firenze 1965; Otto pensatori del Rinascimento, Ricciardi, Napoli 1970; Concetti rinascimentali dell'uomo e altri saggi, La Nuova Italia, Firenze 1978), che la «non filosofia» del primo umanesimo italiano tra Trecento e Quattrocento aveva rappresentato, in realtà, l'inizio di un nuovo modo di filosofare rispetto a quello scolastico-medievale, l'opera del Garin ha avuto il merito, contro la tendenza a concepire il trapasso dal rinascimento all'età moderna come una pacifica ed indolore ascesa progressiva, di far emergere temi ancora ignorati della cultura rinascimentale: da una parte le sue componenti magiche, ermetiche ed astrologiche, dall'altra il senso della fragilità e fuggevolezza dell'esistenza degli uomini, su cui aveva insistito la meditazione deii'Aiberti, quasi a far in anticipo da controcanto all'esaltazione umanistica dell'Orazione di Pico della Mirandola, non ancora apparsa. Ispirato all'indirizzo storiografico delle Anna/es è il bel libro di A.Tenenti, Senso della morte e amore della vita nel Rinascimento, Einaudi, Torino 1957, che, valendosi di una vasta documentazione, in particolare iconografica, ha fatto oggetto di una raffinata interpretazione storica il tema della sensibilità collettiva tra XIV e XVI secolo. Di orientamento invece marxista è il libro del boemo J.Macek, Il Rinascimento italiano, Editori Riuniti, Roma 1972, che colloca il rinascimento nel periodo di transizione dal feudalesimo al capitalismo. Già nel1955, in un saggio sulla Periodizzazione dell'età del Rinascimento in Studi di storia, Einaudi, Torino 1959, D.Cantimori aveva messo in discussione la validità scientifica della categoria «rinascimento», cui aveva proposto di sostituire, quale periodizzazione più attenta al concreto svolgersi delle situazioni, la dizione «età umanistica>>, indicativa del periodo che va da Petrarca a Goethe, dal precapitalismo mercantile alla rivoluzione industriale, dalla morte dell'imperatore Carlo IV alla rivoluzione francese. · Ma a relativizzare di molto l'importanza dell'età rinascimentale nella genesi del mondo moderno, dovevano concorrere gli studiosi che hanno preferito ricercare le origini di questo mondo, piuttosto che nel naturalismo vitalistico del Cinquecento, nella rivoluzione scientifica da Copernico a Newton, nella quale hanno visto il superamento, appunto in direzione del mondo moderno, del limite rappresentato dalla «premodernità>> del rinascimento, ancora troppo imbevuto di cultura magica ed ermetica. Per tutto questo si vedano le indicazioni bibliografiche della Pista del cap.8. Eppure, il tema del rinascimento ha riguadagnato negli ultimi decenni una sua nuova attualità. In connessione col tramonto del mito dell'autosufficienza ed esaustività della razionalità scientifica tecnologica, vi ha concorso la consapevolezza crescente dell'unilateralità dell'immagine meccanico-quantitativa del mondo trasmessa dalla tradizione scientista, e l'esigenza di recuperare, a monte della rivoluzione scientifica moderna, e proprio nel cuore dell'intuizione rinascimentale della vita e del mondo, un'idea più larga della ragione e il senso pieno della vita e della complessità del reale. In questa direzione - uno dei cui percorsi è il rinascente interesse per Bruno -, si è riproposto un modo nuovo di apprezzare la «modernità» del rinascimento. Per una prima introduzione allo studio dell'idea di rinascimento, suggeriamo M.Ciliberto, Il Rinascimento. Storia di un dibattito, La Nuova Italia, Firenze 1975. Ulteriori letture da consigliare sono le seguenti: W.K.Ferguson, Il Rinasci~ mento nella critica storica, Il Mulino, Bologna 1969; H.Saron, La crisi del primo rinascimento italiano, Sansoni, Firenze 1970; AA.VV., Interpretazioni del Rinascimento, Il Mulino, Bologna 1971; C.Colombero, Uomo e natura nella filosofia. del Rinascimento (con antologia), Loescher, Torino 1976; C.Vasoli, Umanesimd e Rinascimento. Storia della critica, Palumbo, Palermo 1976; A.Heller, L'uomd del Rinascimento, La Nuova Italia, Firenze 1977; AA.VV., Il Rinascimento. lnter" prefazioni e problemi, Laterza, Bari 1979; C.Vasoli, La cultura delle corti; Cap~ pelli, Bologna 1980; E.Bioch, Filosofia del Rinascimento, Il Mulino, Bologné\ 1981; AA.VV., L'uomo nel Rinascimento, Laterza, Bari 1988. '

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fim&~~7.$%' re{pl e Giovanni Bessarione (1395-1472). ·Jendii t:1 Gemisto, che per il culto che nutriva per Platone iUÌ uereripoté"ritt,ntlflllr . . i aveva cambiato il suo nome - in greco, 'pieno' - in ·tni,Ubroxll ~uiuft~nrodì leéfìoe quello di Pletone, di pari significato etimologico ma ·ibuti; fitcile unii Ariflotel? ~11Jplex4rémr,pl4toni ue Gemisto asson~nte con ~uell~ del. fi.lo~ofo ~teniese, dette rq f{utnegligerét, aut Pletone occaswne con 1 suo1 scnttl, m cm sosteneva la ·. ·eliigt'auiru ~ace.r1 superiorità del pensiero platonico su quello di . hilf$4c~9fi'Ye!ft ~- •· Aristotele, accusato di attentare alle verità religiose della creazione, della provvidenza divina e dell'immortalità dell'anima, al divampare di una polemica tra sostenitori dell'uno o dell'altro dei due filosofi Una pagina da Comparationes phylosophorum. greci, polemica che in verità coinvolse quasi esclusidi Giorgio di Trebisonda.

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PARTE PRIMA L'ETÀ DEL RINASCIMENTO E DELLA RIFORMA

consistenza filosofica e, per di più, di costituire un pericolo per la fede cristiana, mentre indicava in Aristotele colui che aveva saputo prefigurare le dottrine fondamentali del cristianesimo, e non solo quelle relative alla creazione, alla provvidenza e all'immortalità dell'anima, ma addirittura dogmi come quello della Trinità. Al Trapezunzio aveva replicato nel1458 il Bessarione, nel frattempo convertitosi al cattolicesimo e divenuto cardinale, con uno scritto, In calumniatorem Platonis, che aveva innalzato il tono di un dibattito altrimenti assai povero, e che avrebbe lasciato un segno nello sviluppo della filosofia platonizzante successiva. Suo merito principale era stato quello di rifiutare la tendenza a cercare nelle filosofie pagane l'anticiBessarione e la concordanza di pazione delle dottrine cristiane, con la conseguenPlatone e za di mortificare di queste l'originalità e la sopranAristotele naturalità. Non nascondendo la propria propensione per il pensiero platonico, di cui metteva in evidenza la vicinanza su molte questioni al cristianesimo, pur insieme sottolineando anche le singole dottrine platoniche col cristianesimo inconciliabili - quale, per esempio, l'ammissione della preesistenza delle anime-, il cardinale riconosceva i meriti di Aristotele, di cui egli stesso aveva tradotto la Metafisica, e si sforzava di mettere in evidenza la profonda concordanza tra i due grandi filosofi antichi, preparando cosi il terreno all'operazione unificatrice delle due tradizioni che, nel momento più alto del platonismo rinascimentale, sarebbe stata tentata da Pico della Mirandola. Una caratteristica del platonismo dei bizantini, che ritroveremo immutata nel platonismo rinascimentale, e si sarebbe addirittura perpetuata fino al XIX secolo, fu di non fare alcuna sostanziale distinzione tra il pensiero di Platone, di cui non ci si preoccupò di ricostruire la precisa fisionomia, pur essendo in possesso del corpo complessivo dei suoi scritti, e la Platone e neo· platonismo: grande tradizione neo-platonica dell'epoca elleniuna koiné stica, rappresentata in particolare da Plotino e da platonica Proclo. Tanto era radicata la consuetudine degli antichi di attribuire al fondatore di una scuola filosofica anche le dottrine maturate successivamente all'interno di questa, che a nulla servi in questo caso il pur forte spirito filologico e critico dell'età umanistica. Il fatto poi che Platone avesse lasciato scritti dialogici, di per sé problematici e aperti, e non avesse consegnato il proprio pensiero a opere sistematiche, aveva favorito il nascere di tentativi di sistemazione della sua filosofia, e la formazione di una koiné platonica segnata in particolare dall'impronta di Plotino, che per l'appunto era stato un pensatore sistematico. Ma il platonismo rinascimentale che si sarebbe sviluppato nella Firenze medicea ad opera di Marsilio Ficino, non si sarebbe nutrito solo del neoplatonismo plotiniano, e nemmeno soltanto del neoplatonismo cristiano degli scritti dello pseudo-Dionigi (V. voL. 1, CAP. 19, PAR. 2), già diffusissimi nei secoli medievali. A rende-

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re ancora più complesso e composito, più ricco di suggestioni, questo platonismo, sarebbe subentrata l'influenza di un imponente e multiforme insieme di scritti, risalenti ad antiche tradizioni filosofico-religiose orientali ed a mitici personaggi, mezzo profeti e mezzo magi, quali Ermete Trismegisto, leggenda- E · autore d el cos1'dd ett? Corpus h~rmetzcum; · Zo- zoroas;ro, rmete no roastro (o Zaratustra), 11 grande nformatore per- Orfeo siano vissuto nel VII-VI secolo a.C., ma a cui venivano attribuiti scritti, i cosiddetti Oracoli caldaici, risalenti probabilmente ad un Giuliano detto il «Teurgo» vissuto nel II secolo d.C.; ed infine Orfeo, il mitico poeta tracio a cui si rifaceva quella religione, detta da lui orfica, di cui abbiamo parlato a suo tempo (v. voL. !,CAP. 3,PAR.l), al quale venivano attribuiti gli Inni orflci, in realtà risalenti anch'essi alla tarda età ellenistico-imperiale. Tutti questi documenti furono considerati nei secoli XV e XVI autentici, e costitutivi di un'antichissima sapienza di origine divina, da cui sarebbe discesa la stessa sapienza dei Pitagora e dei Platone, e che doveva confluire insieme con questa nel neo-platonismo e nel cristianesimo. Degli scritti ermetici, appartenenti nella loro prima apparizione ad una cultura ellenistica risalente al II secolo a.C., abbiamo già parlato altrove (V. voL. 1, CAP. 24,PAR.4). Ci limiteremo a ricordare che in essi è rintracciabile una «filosofia» in cui dottrine platoniche Gl' .. · l'1che s1. mesco lano con element1· d'1on-· ermetici l SCflltl ed anstote gine stoica, in una atmosfera fortemente segnata da attese soteriologiche di liberazione dell'anima dal mondo materiale e di ricongiungimento col divino. All'apice di una realtà gerarchizzata in entità intermediarie tra il divino e e la materia, viene collocato il Dio supremo, ineffabile per la ragione e conoscibile solo nell'estasi di una rivelazione sovrarazionale. Il tema della redenzione dell'anima dal contatto impuro con il corporeo è al centro anche degli Oracoli caldaici, il cui principale interesse storico va ricercato nell'impostazione teurgica del rapporto dell'uomo con . la divinità. La teurgia è l'arte magica con la quale G. . possesso de11 a conoscenza del nome, caldaici h 0racol1 colm. che e, m 0 la considerato come identico all'essenza, della divi- teur~ia nità, sarebbe in grado di agire su di questa, di evocarla, di «çostringerla» a soccorrere colui che anela a ricongiungersi con essa. Questo magismo teurgico aveva influenzato il neo-platonismo del IV e del V secolo (Giamblico e Proclo, v. voL. 1, CAP. 11, PARR. 3, 4) e, dopo una lunga stagione di ostracismo provocata dall'opposizione del cristianesimo, viene riscoperto, appunto, ora, nel XV secolo, ad opera di Pletone, che ne accredita l'antica origine zoroastrica e lo intreccia con l'insegnamento di Platone. Quanto agli Inni orflci, essi rappresentano Gr . rt: . una eredità dell'antico orfismo combinata con 11nm 0 1c1 influenze stoiche e del tardo neo-platonismo del IV e V secolo.

SEZIONE PRIMA. LA RINASCENZA IN ITALIA CAPITOLO 2

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Cusano

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il filosofo e la pace

(1401-1464):

n posto singolare e solitario nel panorama della cultura filosofica quattrocentesca occupa Niccolò Krebs, detto il Cusano dal villaggio nativo di Cues presso Tt·eviri. Pur essendo venuto in Italia fin da giovanissimo a studiare matematica e diritto a Padova, dove aveva vissuto tra il1417 e il 1423, egli rimase del tutto estraneo all'ambiente umanistico italiano che non conobbe il suo pensiero. Il suo platonismo, d'altronde, che affonda le radici nella grande tradizione che, discendendo da Proclo, . Agostino e, soprattutto, dallo Pseudo-Dionigi, Un platomsmo . S E. l l d' di diversa gmnge, attraverso coto nugena e a scuo a 1 ascendenza Chartres, fino a Bonaventura (per tutte queste fonti, v. voL. 1, CAPP. 11, 17, 19, 23, 26), non ha nessun rapporto, a differenza del platonismo italiano tardoquattrocentesco di Ficino e Pico della Mirandola, con il filone gnostico-magico-teurgico rappresentato dagli scritti ermetici e dagli Oracolicaldaici. Piuttosto, esso risente della grande tradizione mistica tedesca risalente ad Eckhart, e dell'influenza della «Devotio moderna» (v. voL. 1, CAP. 30, PAR. 5), esercitata sul giovane Niccolò dalla scuola dei Fratelli della vita comune di Deventer, presso cui egli sembra ricevesse la sua prima istruzione, avanti di venire in Italia. Ad un primo esame, la filosofia cusaniana appare non discostarsi, per la predominanza che in essa ha la problematica metafisica-teologica, dai grandi sistemi della tradizione medievale, tanto che alcuni studiosi l'hanno potuta considerare estranea allo spirito rinascimentale e del tutto appartenente al passato. Solo una più attenta considerazione ha consentito di indiessa i temi, primo tra tutti quello della un 1l.1oso1o d.l viduarel' in . controversa centra lta, d e11' uomo ne l mon d o, cl1e ne testlmointerpretazione niano il legame con la cultura umanistica, e che, sopravvalutati, hanno spinto però altri interpreti a proporre della filosofia di Cusano una lettura tanto opposta quanto anch'essa poco credibile, secondo cui essa anticiperebbe aspetti del pensiero moderno più maturo, da Spinoza a Hegel, addirittura fino ad Heidegger. In realtà, Cusano appartiene interamente al suo tempo, a quel XV secolo in cui, come spesso accade nelle età di transizione, il vecchio può continuare a convivere e confondersi col nuovo. È un'appartenenza quella di Cusano al suo tempo veramente piena, che non coinvolge solo il pensatore ma l'uomo tutto intero. Maturata l'intenzione di dedicarsi alla vita ecclesiastica, egli si trasferisce nel 1425 a Costanza- dove studia teologia e s'impadronisce del pensiero scolastico, da Alberto Magno a Tom.b . maso, da Lullo ad Ockham -, e partecipa al con11 d1 811110 su 11 a 'l' d. B ·1 · lto ne l Chiesa c110 1 as1 ea del 1431 venen do comvo dibattito che allora opponeva i sostenitori del-

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l'autorità suprema del concilio nella vita della Chiesa ai difensori dell'autorità insindacabile del pontefice romano. Se l'atteggiamento pratico di Cusano era destinato col tempo a modificarsi radicalmente - da una iniziale simpatia per le tesi conciliariste egli sarebbe passato dalla parte del papa, al cui servizio sarebbe rimasto per tutta la vita-, non così può dirsi della sua posizione dottrinaria che, esposta nel De concordantia catholica del 1433, sarebbe rimasta immutata per sempre. In questo scritto egli sosteneva la necessità di llll armonioso rapporto tra i diversi poteri nella Chiesa, rifiutando la tesi dei conciliaristi secondo cui il papa si ridurrebbe a semplice esecutore dei decreti conciliari, ma anche il principio teocratico della autorità assoluta del pontefice, che detiene, sì, il primato nell'organizzazione della Chiesa, ma è tenuto, nel con-

Venfidantur cum c~te

RlSltfVSOPERII3VSIN ABD18VSASCEN 51AN1S.

Frontespizio del De concordantia catholica di Cusano.

PARTE PRIMA L'ETÀ DEL RINASCIMENTO E DELLA RIFORMA

tempo, una volta convocato il concilio, a rispettarne le deliberazioni. Tutta intera l'azione politica e religiosa successiva di Cusano, che nel 1449 sarebbe divenuto cardinale e successivamente vescovo di Bressanone, si sarebbe del resto ispirata ad un ideale di concordia, di pace e di tolleranza, che lo avrebbe visto impegnato nel tentativo di riunificazione delle Chiese greca e Un ideale di latina, e perfino convinto che anche nel Corano pace e di e, più in generale, in tutte le religioni altre da concordia religiosa quella cristiana, siano presenti concordanze ed elementi di verità comuni al cristianesimo. Quest'ultimo viene riconosciuto come «religione della ragione» e, come tale, espressione della universale natura degli uomini, con cui tutte le altre religioni dovrebbero finire col consentire, nella prospettiva di «una sola religione pur nella varietà dei riti». Questo irenico concordismo non è affatto estraneo al pensiero filosofico di Cusano, ed anzi costituisce il corollario necessario ed essenziale di quella dottrina della «dotta ignoranza» che rappresenta il Molte~li~~i~~· cuore della sua speculazione. Nel De pace fidei inelf~bi:e Di~ del 1453, l'anno stesso della caduta di Costantinopoli nelle mani dei turchi, convinto della relatività di tutte le conoscenze umane e di tutti i riti religiosi, e di conseguenza della necessità per ogni uomo di riconoscersi in ultima istanza ignorante di fronte all'infinita sapienza di Dio, cosi Cusano giustificava, rivolgendosi a Dio, la propria convinzione: «Tu, dunque, che sei il datore della vita e dell'essere, sei colui che appare cercato in modo diverso in diversi riti, e nominato con nomi diversi, perché nella tua realtà rimani per tutti sconosciuto ed ineffabile. Tu che sei virtù infinita, non sei qualcuna delle cose che hai creato, né la creatura può comprendere la tua infinità, poiché non c'è proporzione tra finito ed infinito».

Il De docta ignorantia è il primo grande scritto filosofico di Cusano, che egli compone nel 1440, durante il viaggio di ritorno da Costantinopoli dove si era recato per preparare il concilio di Firenze. La «dotta ignoranza», prima che richiamarsi al sapere di non sapere socratico, è l'espressione dell'ispirazione mistica del pensiero cusaniano, fermo nell'idea La dotta h l . d' . !' d ,, l . ·gn ran a c e a ragwne 1scors1va, 10n ata com e su pnn1 ° z, cipio aristotelico della non-contraddizione e, dunque, destinata a vedere della realtà solo le distinzioni e la molteplicità, sia incapace di cogliere la suprema unità del mondo, Dio come «coincidentia oppositorum», Uno in cui si contraggono, risolvendovisi, quelle distinzioni e quella molteplicità. Solo riconoscendo la propria ignoranza, spogliandosi del sapere relativo alle cose finite, e così progredendo oltre di esso, la mente può innalzarsi alla suprema intuizione intellettuale dell'infinita, divina unità. Si tratta, peraltro, come da Platino in poi il neo-

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platonismo non si era mai stancato di ripetere, di una intuizione ineffabile - Cusano con grande efficacia scrive: «... noi vediamo incomprensibilmente ... » -, sicché la teologia positiva, o catafatica, fondata sul principio tomista dell'analogia dell'essere, Teologia catalatica, pur non essendo priva, come vedremo, di una apofatica, qualche validità, deve lasciare posto - lo ha inse- copulativa gnato con grande forza lo pseudo-Dionigi - alla teologia negativa, apofatica, che insegna che, se è vero che Dio è l'essere, ancora più vero è dire che Dio 'non' è l'essere. Ancora più in alto sta poi la teologia copulativa, la quale sostiene che Dio sta oltre l'essere e anche il non essere, e che dunque di lui non può dirsi proprio nulla, neppure che non è. Questo tema della dotta ignoranza non introduce, come potrebbe sembrare a prima vista, una nota di scetticismo, quasi volesse significare un invito a rinunciare allo sforzo conoscitivo, ché anzi esso assolve ad una funzione propulsiva proprio del processo conoscitivo, nel senso di impedire alla mente di chiudersi nella determinazione concettuale raggiunta, come se fosse esaustiva della verità, o rappresentas- .. . . ultlmo . e se comunque 1.1 1nmte oltre 1.1 qua le la aFm1tezza 11 ra mente non sarebbe in grado di andare, e di so- a~~nf~nito spingerla piuttosto ad una approssimazione sempre più ravvicinata alla verità, anche se mai destinata a concludersi nel possesso pieno e definitivo di questa. Si tratta, come si vede, di un misticismo aperto al senso umanistico della infinitudine potenziale della mente umana, cui più nessuna «colonna d'Ercole» vieta, quale peccato, come ancora accadeva all'Ulisse di Dante, di tentare l'impresa dell'infinito. Come nelle grandi sistemazioni teologico-metafisiche medievali, anche in quella cusaniana è centrale il problema del rapporto tra Dio e mondo. Lo schema di risoluzione di questo problema è ricercato da Cusano nella combinazione, non esente da qualche oscillazione in senso panteistico, tra il concetto cristiano di • Creazione e creazione e quello neo-platonico, m particolare processione, procliano, di processione. Secondo questo sche- explicatio e ma, il mondo sarebbe l' explicatio di Dio, il con- complicatio trarsi della sua infinità nell'individualità e molteplicità delle cose, mentre Dio, in quanto coincidentia oppositorum, sarebbe la complicatio delle cose, le conterrebbe cioè in sé in perfetta unità. Dio: un universo «implicito»; il mondo: un «Dio contratto». In quanto si esplica, Dio è nelle cose, ma anche rimane assolutamente al di là di esse, in quanto, nonostante il suo esplicarsi, permane nella sua unità immoltiplicabile. Per illustrare il discendere del mondo da Dio, Cusano utilizza i simbolismi della matematica, come, per esempio, quello dell'unità che moltiplicandosi dà luogo alla molteplicità. Se non è certo la prima Matematica e volta che il pensiero matematico viene utilizzato verità come strumento simbolico della teologia - baste- teologiche rebbe pensare al Timeo di Platone e ai suoi com-

SEZIONE PRIMA. LA RINASCENZA IN ITALIA CAPITOLO 2

mentatori medievali come Calcidio, o a Proclo e ai maestri della scuola di Chartres -, è però una novità il fatto che Cusano faccia della matematica il terreno privilegiato di verifica delle verità teologiche, pervenendo, nel far questo, a dare importanti contributi, con scritti come Dialogus de circuii quadratura e De mathematica perfectione del 1457-58, al progresso stesso del pensiero matematico, sotto la guida del grande astronomo e matematico Paolo Toscanelli, di cui era intimo amico fin dai tempi degli studi padovani. Alcuni procedimenti matematici rappresentano la verifica di quella coincidentia oppositorum che caratterizza l'infinitudine divina: è il caso della suddivisione all'infinito della circonferenza, che porta alla . .,, . coincidenza dell'arco con il suo opposto, e cioè La COtnCiue/1118 l d h l l' oppositorum con a cor a c e o sottende, o del aumento all'infinito del diametro della circonferenza che conclude all'identificazione di questa con la linea retta. E cosi con la linea retta si identifica il triangolo, qualora siano rese infinite le sue dimensioni. Tutto congiura a dimostrare la verità fondamentale della teologia, che nell'infinito gli opposti coincidono, e che .come il punto è complicatio di tutte le figure geometriche, in quanto la linea e il piano non sono altro che sue «esplicazioni», così Dio è complicatio di tutte le cose del mondo, in cui egli si esplica. Queste elaborazioni teologico-matematiche conducono Cusano - ed anche questo è un segno della novità del suo pensiero - a rifiutare del tutto la vecchia, tradizionale cosmologia di origine aristotelico-. . . . tolemaica, e ad anticipare quelle ·prospettive AniiCipaziOnl · h h d" l' h' d ·. . copernicane astro~omtc e c e 1 1a poc 1 e~e~m11copermcanestmo avrebbe aperto su bas1 ngorosamente sperimentali e scientifiche. Dal fatto che Dio è infinito e il mondo è la sua immagine, discende, infatti, che anche il mondo deve essere in qualche modo infinito, e pertanto la terra non può esserne il centro e il cielo delle stelle fisse la periferia. Il mondo, anzi, non può avere né un centro né una periferia: esso «ha il centro dappertutto e la circonferenza in alcun luogo, giacché circonferenza e centro sono Dio, che è dappertutto e in nessun luogo».

La terra è una stella come tutte le altre, sicché generazione e corruzione, che Aristotele aveva voluto escludere dal mondo celeste, si estendono quanto si estende l'universo. È la stessa distinzione tra sfere celesti e mondo sublunare che pertanto viene fatta cadere, giacché non vi può essere alcuna parte del mondo che sia perfetta, solo Dio potendolo essere. Con il geocentrismo cade anche la presunzione degli uomini di poter misurare in modo arbitrariamente antropomorfico e sostanzialmente miope Finalismo e logica del finito il finalismo che pervade certamente l'illimitata estensione dell'universo. Altre creature intelligenti, diverse dagli uomini, è possibile che abiti-

no altre stelle, e pertanto ci si deve guardare dall'errore degli antichi, perpetuatosi fino ad oggi, per il quale si è trascurato di considerare che «tante stelle senza numero più grandi di questa terra che noi abitiamo, e tante intelligenze, non possono essere state create per rimanere subordinate ai fini di questo mondo terrestre». '

Occorre pertanto che ci eleviamo ad una considerazione dell'universo che assuma come criterio di valutazione non più la logica del finito, bensì la logica infinita di Dio. Da questa radicale mutazione di prospettive cosmologiche e della stessa collocazione dell'uomo nell'universo fisico non fa discendere Cusano, come si potrebbe essere indotti a pensare, una mortifica- , zione della dignità e della rilevanza antologica L ~orno, . def'tmto, . sul f'l1 o d'1un ,.i- m1crocosmo de11,uomo, che anz1. vten spirazione umanistico-rinascimentale che ritroveremo in altre espressioni filosofiche quattro-cinquecentesche, «microcosmo», nel quale tutte le cose del mondo sono contratte. Veramente, ogni cosa, e non soltanto l'uomo, è un microcosmo, e proprio in quanto in Ogni cosa è un microcosmo ... . l l ognuna d1 esse son contratte tutte e a tre: «... tutto è in tutto, scrive Cusano, e qualunque cosa è in qualunque cosa ... In una creatura qualunque, l'universo è questa stessa creatura; così ogni cosa le accoglie tutte, affinché siano, in questa, questa stessa creatura in modo contratto».

Questo, certo, è vero, ma l'uomo è microcosmo in un significato antologicamente più ricco di quanto sia per ogni altra creatura: egli, infatti, per il fatto di esserè mente e potere conoscitivo, contrae in sé , . tutte le cose in quanto, conoscendole, si assimila ... ma.l uomo e . . superiore per ad esse - come Cusano dtce nel De mente, tl la mente terzo libro del De idiota del 1450 -, e ne coglie le forme, prima in quanto unite alla materia, poi, attraverso l'intuizione intellettuale, quali sono in Dio, con Dio coincidenti. Nel De coniecturis, composto tra il 1440 e il 1444, Cusano si era già provato nella trascrizione in termini gnoseologici della metafisica sviluppata nella Docta ignorantia e nello stesso De coniecturis, ed aveva elaborato una teoria «congetturale» della congetturale Una teoria conoscenza. A somiglianza di Dio, che crea gli della enti reali, la mente umana, in quanto >, alle leggi impostegli, e non si cura affatto «che le sue recondite ragioni e modi d'operare sieno o non sieno esposti alla capacità de gli uomini». Se è vero dunque che tra scrittura sacra, «dettatura dello Spirito Santo», e natura, «osservantissima "' e que,no . de g11. ord'm1. d'tvmm, . . non potrebb e ce1 11a na ura esecutnce mai esservi vero contrasto, è anche vero che la Bibbia «nelle dispute naturali doverebbe esser riserbata nell'ultimo luogo», e che in esse la sola autorità riconosciuta dev'esser quella delle «sensate esperienze» e delle «necessarie dimostrazioni», che sono i due modi di procedere del sapere scientifico. Conclude, pertanto, Galilei che «quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi agli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch'avesser nelle parole diverso sembiante, poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com'ogni effetto di natura».

Ci sarebbe anzi da meravigliarsi se la Scrittura, che, per «accomodarsi alla capacità de' popoli rozzi e indisciplinati», è giunta ad oscurare «suoi principalissimi dogmi», attribuendo «all'istesso Dio condizioni lontanissime e contrarie alla sua essenza», avesse adottato, parlando incidentalmente della terra o del sole, un linguaggio rigoroso, «contenuto con tutto rigore dentro a i limitati e ristretti significati delle parole». Facendo così, essa avrebbe prodotto l'effetto opposto a quello voluto, poiché, parlando dei segreti comportamenti della natura «con verità nuda e scoperta», del tutto incomprensibile al volgo, avrebbe allontanato quest'ultimo anche dalla fede nella sua parola relativa alle cose divine, invece che persuadernelo. In tal modo, pur concordando con Tommaso d'Aquino nel negare ogni contrasto tra ragione e fede, Galilei rifiuta seccamente quel controllo della fede sulle conclusioni cui la ragione perviene nello studio delle verità naturali, che invece il maestro scola- , . stico aveva sostenuto, quando aveva affermato L 8 " 10 ? 01m~ .. d l d' IIIOSOIIB . caso d'1 con fl'1tto tra es1tt che, m e 1scorso ra- della naturale zionale e dettato delle sacre scritture, quest'ultimo doveva comunque prevalere. Alla distinzione nell'unità, che era stato il modo tomista di proporre il

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PARTE SECONDA IL SEICENTO

rapporto tra teologia e filosofia, si sostituisce ora una radicale separazione tra scienza e fede, resa possibile dall'aver Galilei ristretto la Bibbia, e la teologia che sulla Bibbia ha il suo fondamento, ad una funzione eminentemente pratica, spoglia di ogni valenza scientifica. E difatti- ha così inizio la seconda argomentazione galileiana, dalla prima inseparabile -, la ragione per cui Dio ha ispirato gli scrittori sacri non è stata quella d'insegnare astronomia o qualsiasi altra verità natura.bb. le, ché, in questo caso, non si capirebbe perché La B1 1a e 1c . . . . d' , . . intenzioni dello cos1 poco Sl par11 nel tesh sacn 1 astronom1a Spirito santo non vi vengono nominati nemmeno tutti i pianeti! - e delle altre discipline naturali. Dio, afferma Galilei con argomento già usato da Tommaso d' Aquino, ha fornito gli uomini degli strumenti - «sensi, discorso e intelletto» - · necessari e sufficienti per condurre l'indagine intorno alle verità naturali. Se dunque Egli ha parlato agli uomini attraverso i sacri scrittori, ciò è dovuto avvenire per ben altra ragione: «lo crederei che l'autorità delle Sacre Lettere avesse avuto solamente la mira a persuadere a gli uomini quegli articoli e proposizioni, che, sendo necessarie per la salute loro e superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo farcisi credibili, che per la bocca dell'istesso Spirito Santo».

La Bibbia è dunque un libro di insegnamenti morali e religiosi, necessari per la salute sovrannaturale degli uomini, e pertanto essa non può e nemmeno vuole essere un punto di riferimento per gli uomini di

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scienza. Questa ne è del tutto autonoma, e così quella lo è dalla scienza. Come Galilei dice nella lettera a Madama Cristina, facendo sua un'espressione da lui còlta sulle labbra di un cardinale di Santa Romana Chiesa, «l'intenzione dello Spirito Santo», nell'ispirare gli scrittori sacri, era «d'insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo». Nella medesima lettera, riprendendo diffusamente la tematica affrontata nella lettera al Castelli, Galilei discute il senso che si deve dare all'espressione che vuole la teologia «regina» delle scienze, e nega che ciò possa significare che in essa sia compreso e dimostrato, «con mezi più eccellenti e con più sublime dottrina», tutto ciò che viene insegnato dalle altre L scienze. Al contrario, la «regia preminenza» della s~i!~~~~gia ele teologia è da intendersi nel senso che il suo ogget' to - «l'acquisto dell'eterna beatitudine» - supera in dignità «tutti gli altri .. che son materia dell'altre scienze». Sarebbe dunque assurdo che i teologi, immischiandosi nelle «più basse ed umili speculazioni delle inferiori scienze», che nulla hanno a che fare con la beatitudine eterna, pretendessero che «i professori d'astronomia ... non vegghino quel che e' veggono e che non intendino quel che gl'intendono, ma che, cercando, trovino il contrario di quel che gli vien per le mani».

Sarebbe come se un principe assoluto «volesse, non essendo egli né medico né architetto, che si medicasse e fabbricasse a modo suo, con grave pericolo della vita de' miseri infermi, e manifesta rovina degli edifizi».

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Il primo processo. La Chiesa «ammonisce» ... a or~ai l~ macchina r~pressiva della Chiesa cattohca s1 era messa m moto. Nello stesso 1615, poco dopo la denuncia di Galilei al S.Uffizio, era apparso a Napoli, ad opera di un teologo e matematico carmelitano, Paolo Antonio Foscarini (1565 ca.-1616), uno scritto il cui titolo non avrebbe potuto esser più esplicito: Lettera soIl Bellarmino: come si deve leggere Copernico

pra la opinione di Pitagorici e del Copernico, nella quale si accordano e si appaciano i luoghi della Sacra Scrittura e le proposizioni teologiche, che giammai potessero addursi contro tale opinione,

L'autore aveva inviato in visione questa sua opera al cardinal Roberto Bellarmino, professore del Collegio Romano, consultore del S. Uffizio, partecipe in quest'ultima veste all'istruzione del processo a suo tempo intentato contro Bruno. La risposta del Bellarmino era stata assai significativa, per la precisione con cui esprimeva, a proposito della questione coper-

nicana, gli orientamenti prevalenti nelle alte sfere della Chiesa cattolica. Dopo aver fermamente ricordato al buon'frate carmelitano l'obbligo, solennemente prescritto dal concilio di Trento, di attenersi nell'esporre le Scritture al «comune consenso de' Santi Padri» « ... troverà che tutti convengono in esporre ad literam ch'il sole è nel cielo e gira intorno alla terra con somma velocità, e che la terra è lontanissima dal cielo e sta nel centro del mondo, immobile» -, così egli proseguiva: «mi pare che V.P. et il signor Galileo facciano prudentemente a contentarsi di parlare 'ex suppositione' e non assolutamente, come io ho sempre creduto abbia fatto il Copernico. Perché il dire, che supposto che la terra si muova et il sole sia fermo si salvano tutte le apparenze meglio che con porre gli eccentrici et epicicli, è benissimo detto, e non ha pericolo nessuno; e questo basta al mathematico: ma voler affermare che realmente il sole stia nel centro del mondo, e solo si rivolti in se stesso senza correre dall'oriente all'occidente, e che la terra stia nel terzo cielo e giri con somma ve-

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locità intorno al sole, è cosa molto pericolosa non solo d'irritare tutti i filosofi e theologi scholastici, ma anca di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante».

Era questa l'unica concessione che,· sulla linea della prefazione dell'Osiander al De revolutionibus di Copernico (v. CAP. 8, PAR. 5), la Chiesa di Roma sarebbe . stata disposta a fare ai copernicani, di consideraUna se~p,hc~ re la loro teoria una semplice ipotesi matematica, 1poes1 . . l . . . . d' ., atematica? ut11e per 1 ca co11 astronom1c1, ma pnva 1 venta 01 fisica. Proprio il punto di vista che Galilei aveva nettamente rifiutato anche recentemente, nella seconda delle lettere al Dini, ove diceva: « ... il voler persuadere che il Copernico non stimasse vera la mobilità della terra, per mio credere, non potrebbe trovare assenso se non forse appresso chi non l'avesse letto, essendo tutti 6 i suoi libri pieni di dottrina dependente dalla mobilità della terra, e quella esplicante e confermante. E se egli nella sua dedicatoria molto ben intende e confessa che la posizione della mobilità della terra era per farlo reputare stolto appresso l'universale, il giudizio del quale egli dice di non curare, molto più stolto sarebb'egli stato a voler farsi reputare tale per un'opinione da sé introdotta, ma non interamente e veramente creduta».

Altrettanto netto è Galilei nel riconfermare il proprio progetto: Galileo Galilei, in un ritratto di Justus Sustermans.

«... vo mettendo insieme tutte le ragioni del Copernico

... , aggiungendovi molte e molte altre considerazioni, fondate sempre su osservazioni celesti, sopra esperienze sensate e sopra incontri di effetti naturali, per offerirle poi a i piedi del Sommo Pastore ed all'infallibile determinazione di Santa Chiesa, che ne faccia quel capitale che parrà alla sua somma prudenza».

Eran poste così le premesse che avrebbero rapidamente portato al precipitar della crisi. Nel dicembre del 1615, Galilei si era recato a Roma, nella ingenua speranza, dopo le trionfali accoglienze del 1611, di trovare conforto in quella «somma prudenza» di cui parlava alDini. Gli sfuggiva il fatto, ben avvertito • allora dall'ambasciatore fiorentino a Roma, che 11 pro~;~~o0 «questo (la Roma papale) non è paese da venire a disputare della luna, né da volere, nel secolo che corre, sostenere né portarci dottrine nuove». In particolare, non si rendeva ben conto Galilei che la proposta copernicana, come altrove abbiamo già detto (v. CAP. 8, PAR. 5), comportava un vero e proprio scardinamento della antropologia tradizionale, e del suo modo d'intendere il posto dell'uomo nella natura, su cui riposavano i fondamenti della teologia ufficiale della Chiesa cattolica. Il 24 febbraio 1616, i teologi del S.Uffizio riconoscevano eretiche la teoria eliocentrica e quella del movimento terrestre; due giorni dopo il Bellarmino, convocato Galilei, lo «ammoniva» ad abbandonare la dottrina copernicana; infine il 3 marzo, la Sacra Congregazione dell'Indice condannava i libri di Copernico e dei copernicani, che si andavano così

ad aggiungere ai tanti altri che in quegli anni di veemente repressione controriformistica avevan conosciuto la medesima sorte, dal De rerum natura di Telesio agli scritti di Bruno e di Campanella. Una specie di «giallo» accompagnò questo primo processo galileiano: il verbale della seduta in cui Galilei fu «ammonito» registra il fatto che, subito dopo l'ammonizione, sarebbe stato solennemente «ordinato» allo scienziato fiorentino di abbandona- Un «giallo)) re la dottrina copernicana, e di «non accoglierla, difenderla e insegnarla in alcun modo con parole e con scritti». Al momento del secondo processo, Galilei avrebbe negato di aver ricevuto ordini del genere, cui veniva accusato di aver contravvenuto, dicendoli «novissimi et inauditi». In effetti, quel verbale non recava le firme né di Galilei né degli altri convenuti, sicché alcuni studiosi lo hanno ritenuto non conforme a verità, e probabilmente dovuto ad un membro del S.Uffizio particolarmente malevolo nei confronti dello scienziato. Galilei non esce comunque condannato da questa vicenda; non gli è stata chiesta nessuna abiura, né imposta penitenza di sorta; gli è stato solo notificato come, su sua stessa richiesta, attesta per iscritto il u . h l d . . , na cocente Be11~rmmo - c e ~ ottrma copermcana e. con: sconfitta trana alle Sacre Scntture e, pertanto, non s1 puo «né difendere né tenere». Ma si tratta, in realtà, di una cocente sconfitta.

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PARTE SECONDA IL SEICENTO

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Il «Saggiatore»:

un nuovo modo di fare e pensare la scienza ornato da Roma a Firenze, l'animo colmo di tristezza e di ira, Galilei cade malato, in preda ai segni di quell'artrite deformante che gli avrebbe presto tolto il libero movimento della mano, e di altri malanni che avrebbero messo a dura prova il suo organismo, senza che peraltro si spegnesse quella gagliarda vitalità, al cui richiamo un temperamento focoso e sensuale come il suo non avrebbe mai facilmente rinunciato. Dopo alcuni anni di silenzio, trascorsi in sempre nuove osservazioni astronomiche, egli doveva tornare nel 1619 a far sentire la sua voce pubblicamente, sia pur per interposta persona. Fu in quell'anno che infat. ti egli fece leggere all'Accademia fiorentina, da La quest1one • · ll 1 1 delle comete un discepolo, un _Dlscorso.su e come~e, co qua e entrava m polem1ca con l'mterpretazwne data da Orazio Grassi, un matematico della Compagnia di Gesù, dell'apparizione nei cieli di tre comete. Alla replica del gesuita, Galilei avrebbe risposto nel 1623 con la pubblicazione del Saggiatore, un capolavoro del pensiero scientifico moderno. In realtà, l'ipotesi avanzata da Galilei - non lontana da quella aristotelica -, che non si trattasse di cose reali, e che le comete fossero piuttosto, non diversamente dall'arcobaleno, fenomeni ottici prodotti ' d' dalla riflessione della luce solare negli strati più L errore 1 l . c Ganeo a t1 e vaporos1. dell' atmos1era, era clamorosamen1 te sbagliata, ed invece assai più vicina alla verità l'ipotesi del Grassi, che, ispirandosi al sistema astronomico tychonico, allora assai popolare tra i gesuiti per il suo carattere di moderna alternativa al copernicanesimo, riconosceva, nelle comete, meteore muoventisi assai oltre il cielo della luna. L'errore galileiano, oltre che essere favorito, probabilmente, da un qualche impulso aggressivo di Galilei nei confronti dei gesuiti, cui egli rimproverava il comportamento ambiguo assunto in occasione dell'ammonizione del 1616, e da una ostilità pregiudiziale per Tycho Brahe che lo induceva addirittura a vestire i panni dell'aristotelico sordo alle novità scientifiche introdotte dall'astronomo danese, nasceva però anche da un sacrosanto duplice rifiuto: da una parte, del tentativo del Grassi di conciliare la teoria tychonica delle comete con i principi della fisica aristotelica, dall'altra, di un modo di argomentare, tipico degli aristotelici, viziato da osservazioni imprecise e sommarie e da un astratto e libresco sillogizzare, cui Galilei intendeva contrapporre un nuovo modo di condurre il discorso scientifico. La straordinaria importanza del Saggiatore sta; non tanto nella specifica problematica astronomica

che vi è affrontata- il problema delle comete -, quanto nell'essere esso lo scritto-manifesto della nuova scuola galileiana, in cui viene, appunto, proposto 11 s . c · · 'f' e d'1 un man·r aggmtore·· un nuovo mo do d1. 1are ncerca se1ent11ca . . . ll 1 esto pensare la sc1enza, m contmua, marte ante~ po1emica con quello della tradizione aristotelica, incarnato nella figura del Grassi. Innanzitutto, Galilei polemizza con la consuetudine, segno di mentalità «libresca» e dogmatica, di appoggiarsi «nel filosofare» - gli aristotelici ne sono un tipico esempio - «all'opinione di qualche celebre autore», come se «la mente nostra, quando non si maritasse col discorso di un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda». Nulla di più sbagliato! Non è l'autorità di Aristotele o di altro filosofo a far

Pian de' Giullari

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alilei abitò, negli anni del suo domicilio coatto ad Arcetri, sulle colline fiorentine, una villa, «Il Gioiello», avuta in affitto dalla famiglia dei Martellini, sita al n. 42 dell'attuale via del Pian dei Giullari. È questa una via collinare che, a stare alla notizia dataci da Benedetto Varchi, deriverebbe il suo nome dalle «giullarate» che si svolgevano periodicamente nel borgo circostante, situato tra la collina di Arcetri e quella di Montici. Secondo un'altra ipotesi, più verosimile, l'origine del nome sarebbe da ricercarsi nel fatto che in uno stanzone di una villa sita nella medesima strada, oggi villa Spadolini, vi avrebbe trovato posto un teatro gestito dai giullari, che vi recitavano le loro allegre

commedie. Lungo il lato della villa «Il Gioiello» prospiciente la strada, tra due belle finestre, si affaccia il busto del grande scienziato, illustrato dalla seguente epigrafe: . QUESTA EFFIGIE DEL DIVINO GALILEO FECE PORRE NEL MDCCCXLIII ANTON FILIPPO MARCHIONNI Più sotto, si legge: AEDES QUAS VIATOR INTUERIS LICET EXIGUAS DIVINUS GALILAEUS COELI MAXIMUS SPECTATOR ET NATURALIS PHILOSOPHIAE RESTITUTOR SEU POTIUS PARENS PSEUDOSOPHORUM MALIS [ARTIBUS COACTUS INCOLUIT AB ANNO MDCXXXI [KAL NOVEMBRIS • AD ANNUM MDCXLII VIIDUS IANUARI . HEIC NATURAE CONCESSIT LOCI GENIUM SANCTUM VENERARE [ET TITULUM AB LO: BAPTISTA CLEMENTE NELLIO STEPHANIANI ORDINIS EQUITE SENATORE AC PATRICIO FLORENTINO AETERNITATI DICATUM SUSPICE ANTONIO BONAIUTIIC FUNDI DOMINO .· [ANNUENTE l' d' · l'I~azw.ne · platonico... or. ~ne d. e.11 a natur~ che, per la sua ~n~ antifmahstica e decisamente meccamc1st1ca, nnvia piuttosto a posizioni atomistico-democritee. Appare questo con particolare evidenza dalla seconda questione affrontata nel Saggiatore, quella relativa alla distinzione che sarebbe da farsi tra qualità e qualità dei corpi, risalente appunto all'antico Democrito, e che sarebbe stata ripresa più tardi da numerosi pensatori seicenteschi: da Cartesio come da democrit~~~ Locke, da Hobbes come da Mersenne. Galilei · sostiene, in sostanza, la necessità di distinguere tra la realtà oggettiva dei corpi, cui competerebbero tutte e soltanto le qualità suscettibili di misura, ossia i caratteri quantitativi, matematico-geometrici della materia, e la percezione che dei corpi abbiamo tramite i sensi, per la quale quelli ci appaiono provvisti di qualità non calcolabili che, invece, non apparterrebbero loro ma piuttosto alla stessa sensazione che ne abbiamo. Cosi egli scrive: «... io dico che ben sento tiranni dalla necessità, subito .,.,J

tanta e tanta velocità», che, costituendo in gran moltitudine, per esempio, quella materia cui diamo nome di fuoco, produrrebbero nel nostro corpo, con «il lor toccamento», quell'affezione che chiamiamo caldo. Che l'ispirazione, cui obbedisce la visione generale della natura quale emerge dalla riflessione metodologica del Saggiatore, sia in sostanza remota dal platonismo, nonostante il debito con esso contratto, risulta anche dal fatto che la «filosofia» cui Galilei guarda è, in realtà, la scienza nel senso moderno della parola, e poco ha da spartire con la filosofia nel senso tradizionale della parola, come scienza che pretènda ~;;enta di risalire alla struttura metafisica della realtà. Il antimet~~~~o nostro scienziato è molto chiaro in proposito: compito della scienza non è quello di «tentar l'essenza», ossia di «penetrar l'essenza vera ed intrinseca delle sustanze naturali» - impresa che sta ben oltre le possibilità umane -, bensì quello, più modesto, «di venir in notizia d'alcune loro affezioni», di stabilire i rapporti costanti tra i fenomeni, e di enunciare le leggi matematiche secondo cui questi si verificano, sicché non è più il «perché» dei fenomeni ad esser ricercato, bensì semplicemente il «come». Il rapporto causale perde quello spessore metafisica che aveva nei platonici come anche negli aristotelici, per risolversi nella semplice successione necessaria tra due fenomeni. Del-

che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch'ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch'ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch'ella è in questo o quel luogo, in questo o in quel tempo, ch'ella si muove o sta ferma, ch'ella tocca o non tocca un altro corpo, ch'ella è una, poche o molte, né per veruna imaginazione posso separarla da queste condizioni; ma ch'ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata: anzi, se i sensi non ci fussero scorta, forse il discorso o l'immaginazione per se stessa non v'arriverebbe già mai. Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori etc., per la parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso l'animale, sieno levate e annichilate tutte queste qualità».

Naturalmente, questo non significa che dette qualità sensoriali non abbiano, quanto alloro sorgere, un fondamento nella realtà, come se venissero dal nulla; sono infatti gli stessi caratteri matematico-meccaQualità nici dei corpi a provocarle in noi. E qui Galilei, sensoriali e particelle appieno recuperando il meccanicismo risalente materiali agli atomisti antichi, si spinge a parlare di «corpicelli minimi, in tal e tal modo figurati, mossi con "

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Nelgmle Co:nbì1a.ncia dquifi.ra egiuiia. Ìt po11ck-r.lno le cofe contenute

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GALILEO· GALILEI Ac.c~l~in-ceo -No bile fibn~niino fllolòfò -e~{.ucmatico Prim- .i rio

del

Frontespizio della prima edizione del Saggiatore.

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SEZIONE PRIMA.

l FONDATORI DELLA RAGIONE MODERNA CAPITOLO 9

lo stesso atomismo democriteo sembra Galilei diffidare, per la metafisicità del suo «sistema» degli atomi, nonostante che, sul finire proprio del Saggiato re, appaia un rapido ma interessante accenno ad «atomi realmente indivisibili». Ciò in cui sta sicuramente il determinante contributo galileiano alla formazione deila mentalità scientifica moderna è, insieme alla felice connessione di matematismo e sperimentalismo, la radicale «diLa disantropo· . . morlizzazione santropomorf~zzazwne» della natura. Allo spodella natura stamento dell uomo lontano dal centro del mondo corrisponde, infatti, il rifiuto di considerare il suo punto di osservazione - in concreto, le sue percezioni- quale «misura di tutte le cose». Eliminato ogni

ricorso alle cause finali, che per tutto il medioevo aveva consentito operazioni antropomorfiche ed antropocentriche, escluse dalla costituzione oggettiva dei corpi tutte le proiezioni della sensorialità umana, fatte cadere nel nulla, in nome di una visione rigorosamente meccanicistica del movimento, le interpretazioni comunque compromesse con quell'animismo di origine neo-platonica che aveva ispirato maghi, astrologi e filosofi della natura quattro-cinquecenteschi, ed era ancora presente nelle elaborazioni di scienziati come Keplero, l'universo fisico raffigurato da Galilei è già quello che la scienza moderna avrebbe pensato nei secoli successivi, si può dire fino ad oggi.

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La ripresa della battaglia copernicana l Saggiato re, pubblicato a cura dell'Accademia . dei Lincei, era stato da questa dedicato al cardinal Barberini, proprio nel 1623 innalzato al ·•. pontificato col nome di Urbano VIII. Amico ed - estimatore di Galilei, e universalmente riconosciuto come uno degli esponenti della Chiesa più aperti alle suggestioni della cultura e, forse, più auto·b nomi da uno spirito angustamente controriforp U apa t ano . • la sua elezwne . . ne11 o VIli mtstlco, aveva f atto n'f'wnre scienziato fiorentino le speranze, mai sopite, di portare a buon fine la battaglia copernicana. Nonostante che da un viaggio a Roma nel 1624 e dai colloqui col nuovo pontefice egli non ottenesse alcun mutamento significativo· nell'atteggiamento del papato circa la teoria eliocentrica, per tutti gli anni venti Galilei si adoperò a preparare il terreno quantomeno ad una cessazione dell'ostilità della Chiesa al copernicanesimo, confortato anche dal gesto con cui Urbano aveva liberato dal carcere Campanella nel 1626. In particolare, egli venne studiando in quegli anni il fenomeno delle maree, che si era convinto, erroneamente, costituisse la prova fisica decisiva della verità Il Dialogo dei copernicana. Quando poi gli sembrò che il momassimi mento fosse propizio, si decise a pubblicare l'opesistemi ra alla cui preparazione aveva dedicato gli ultimi anni del suo lavoro, il celebre Dialogo dei massimi sistemi, che apparve nel febbraio del 1632. Significativo è il titolo completo, volutamente neutrale, con cui Galilei si convinse a pubblicare lo La d scritto: Dialogo di Galileo Galilei Linceo, mate-

pru enza non bast·l a coprir~ le certezze dello scienziato

. . e fil1 osomatzco sopraord.mano. deIlo stud.10 d.l ptsa fo e matematico primario del serenissimo granduca di Toscana, dove ne i congressi di quattro giornate si discorre sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, proponendo in-

determinatamente le ragioni filosofiche e naturali tanto per l'una quanto per l'altra parte. Nel Proemio, inoltre, così come nelle parole conclusive dell'opera, l'autore sottolineava il carattere puramente ipoteticomatematico della teoria copernicana, mostrando di volersi adeguare all'opinione della Chiesa, alimentata, egli scriveva, dalle «ragioni che la pietà, la religione, il conoscimento della divina onnipotenza, e la coscienza della debolezza dell'ingegno umano, ci somministrano». Tutte le precauzioni, dunque, aveva preso Galilei per evitare obbiezioni e censure, tranne una, di valore sostanziale, che il suo istinto di autentico scienziato non avrebbe mai potuto consentirgli. Al lettore, anche il meno attento, non poteva infatti sfuggire che nello svolgimento del dialogo l'autore era ben lungi dal mantenersi in una posizione neutrale, tanto evidente emergeva che la proposta copernicana era davvero quella vincente, non semplicemente un'ipotesi matematica, ma una verità fisica. La stessa scelta di usare la lingua italiana era un segno che l'intenzione galileiana, lungi dall'esser quella di dibattere tra dotti sottili ipotesi matematiche, era di rivolgersi, come già aveva fatto col Saggiatore, ad un pubblico ben più vasto, ai ceti intellettuali espressione della borghesia in ascesa, alla parte del clero più sensibile alle novità della scienza, agli uomini u 1.b . . n l ro m de11e corti. de11e case regnant1. d'Europa, msomma italiano 1 a quella parte più dinamica della società, e anche person~ggi più insofferente del clima stagnante dell'età controriformistica, presso la quale propagandare la nuova visione del mondo. Anche il profilo dei personaggi del dialogo è significativo: Giovan Francesco Sagredo, l'amico veneziano, rappresenta lo spirito colto, intellettualmente curioso, estraneo ai dogmatismi delle scuole, che guarda al copernicanesimo senza pregiudizi,

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PARTE SECONDA IL SEICENTO

disposto ad accoglierne le provocazioni; Filippo Salviati, nobiluomo fiorentino anch'egli amico di Galilei, sostiene la parte dello scienziato copernicano, socraticamente disposto al dialogo ma saldo nelle proprie convinzioni razionali; infine, Simplicio, un personaggio immaginario, rappresentante dell'aristotelismo ligio alla tradizione e timoroso di ogni novità che tenda «alla sovversion di tutta la filosofia naturale, ed al disordinare e mettere in conquasso il cielo e la terra e tutto l'universo». Non è possibile neppure provare a riassumere il ricco e complesso, anche disordinato, contenuto di questo ampio dialogo, che si distende nel giro di quattro giornate. Ci limiteremo pertanto ad accennare ad alcuni temi, più significativi da un punto di vista generale. Prima di ogni altro, il capovolgimento di valori e di mentalità che le scoperte astronomiche galileiane vanno producendo, come, per esempio, il rifiuto del . primato assegnato dalla metafisica aristotelica al1 81 N101,.81 pr mb . ° l'incorruttibile e all'immutabile rispetto al mutede lmmu1a l1e ~: tang1'b'l vo le e al corrutt1'b'l 1 e, n'f'mto che s1. 1a 1e nella distinzione tra mondo celeste e mondo sublunare. È Sagredo a farsi interprete degli umori del nuovo spirito moderno, mondano ed attivistico: «lo non posso senza grande ammirazione e, dirò, gran repugnanza al mio intelletto, sentir attribuir per gran nobiltà e perfezione a i corpi naturali ed integranti dell'universo questo esser impassibile, immutabile, inalterabile, etc., ed all'incontro stimar grande imperfezione l'esser alterabile, generabile, mutabile, etc.: io per me reputo la terra nobilissima ed ammirabile per le tante e sì diverse alterazioni, mutazioni, generazioni, etc., che in lei incessabilmente si fanno; e quando, senza esser suggetta ad alcuna mutazione, ella fusse tutta una vasta solitudine d'arena o una massa di diaspro ... dove mai non nascesse né si alterasse o si mutasse cosa veruna, io la stimerei un corpaccio inutile al mondo, pieno di ozio, e per dirla in breve, superfluo ... , e quella stessa differenza ci farei che è tra l'animai vivo e il morto».

E non può certo essere per Sagredo-Galileo il timore della corruzione e della morte· a distogliere gli uomini dal vivere animosamente e attivamente Accettazione · accettan do d'1 questa, f'mo 11110n ' r do, · . • 1a 1oro v1ta, de11a mor1a111a . . , . propno la mortahta: «Questi che esaltano tanto l'incorruttibilità, l'inalterabilità, etc., prosegue Sagredo, credo che si riduchino a dir queste cose per il desiderio grande di campare assai e per il terrore che hanno dellamorte; e non considerano che quando gli uomini fussero immortali, a loro non toccava venire al mondo».

Lo stesso senso - che gli viene dalla migliore tradizione rinascimentale - della finitezza, sì, ma insieme anche della grandezza dell'uomo, rivela Scienza umana Galilei quando, in una pagina giustamente famoe sapienza divina sa, commisura la scienza degli uomini alla sapienza di Dio. Se quanto alla 'estensione' del

conoscere la scienza degli uomini è come zero rispetto all'infinito sapere divino, non cosi per quanto riguarda l' 'intensità', per la quale la conoscenza umana, sia pur limitatamente alle verità matematiche, non è inferiore alla sapienza divina, anzi la eguaglia in certezza, e ad essa si assimila perfettamente. Ma ascoltiamo quanto ci dice lo stesso scrittore, attraverso la voce di Salviati: «... l'intendere si può pigliare in due modi, cioè 'intensive', o vero 'extensive': e che 'extensive', cioè quanto alla moltitudine degli intelligibili, che sono infiniti, l'intender umano è come nullo, quando bene egli intend§sse mille proposizioni, perché mille rispetto all'infinità è come un zero; ma pigliando l'intendere 'intensive', in quanto cotal termine importa intensivamente, cioè perfettamente, alcuna proposizione, dico che l'intelletto umano ne intende alcune così perfettamente, e ne ha così assoluta certezza, quanto se n'abbia l'istessa natura; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e l'aritmetica, delle quali l'intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall'intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore».

Di fronte alla preoccupazione di Simplicio, di veder. in qualche modo diminuita, da un parlar così «ardito», la maestà della sapienza divina, AncOI'a sulla limitatezza Salviati segnala però anche un secondo aspetto umana della limitatezza umana rispetto alla divina potenza: «... il modo col quale Iddio conosce le infinite proposizioni, delle quali noi conosciamo alcune poche, è sommamente più eccellente del nostro, il quale procede con discorsi e con passaggi di conclusione in conclusione, dove il Suo è di un semplice intùito ... questi passaggi, che l'intelletto nostro fa con tempo e con moto di passo in passo, l'intelletto divino, a guisa di luce, trascorre in un istante, che è l'istesso che dire, gli ha sempre tutti presenti».

Dopodiché, pur con tutte queste limitazioni, Salviati-Galileo resta convinto, quando si vada «considerando quante e quanto meravigliose cose hanno intese investigate ed operate gli uomini, esser la mente umana opera di Dio, e delle più eccellenti».

Nella seconda giornata, in gran parte dedicata alla confutazione delle obbiezioni contro il movimento diurno e annuo della terra, è di notevole importanza scientifica l'illustrazione che Salviati fa di . . . d· . 11 prme1p10 1 . , .. . . d' que11o che s1 e so11t1 ormai m 1care come 11 1 rvità 1 «principio della relatività galileiana». Potremmo re a così formularlo: è impossibile, sulla base di esperienze condotte all'interno di un sistema, stabilire se questo sia in quiete o si muova di moto rettilineo uniforme. Tale principio consente a Galilei di neutralizzare le tradizionali obbiezioni contro il moto diurno della terra, quali quelle della pietra lasciata cadere dall'alto di una torre o della palla di cannone sparata verso occidente, tutte basate sul fatto attestato dall'espe-

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rienza comune che i movimenti terrestri avvengono come se la terra fosse ferma. Tali obbiezioni commettono l'errore di supporre che i corpi terrestri, al momento di iniziare il loro movimento, si trovino in uno stato di quiete assoluta, e di fare intervenire, in ipotesi, il movimento di rotazione della terra solo dopo, come se questo non riguardasse fin dall'inizio anche quei corpi. La verità è che tutti i corpi terrestri, senza eccezione, partecipano da sempre al movimento di rotazione terrestre, e proprio per questo il rapporto che sussiste all'interno del sistema terrestre tra i vari movimenti rimane invariato, allo stesso modo che se la terra stesse ferma. Ed è appunto per questo che, sulla base dell'esperienza che abbiamo all'interno del sistema terrestre, è impossibile stabilire se la terra si muova oppure no. È come se- questo l'esempio limpidissimo portato dal Salviati - nella stiva di una nave ancorata al porto volteggiassero mosche e farfalle, nuotassero in una vasca dei pesci, giuocassero a palla dei ragazzi e , . dell'acqua cadesse goccia a goccia in un recipiente ~~~ae~:~~ dal collo stretto. Qualora la nave si mettesse in movimento, fatta l'ipotesi che questo fosse uniforme e non fluttuante, nulla cambierebbe nei movimenti supposti all'interno della stiva, e un osservatore rinserrato in questa - allo stesso modo che noi siamo rinchiusi nel sistema terrestre- mai potrebbe decidere se la nave sia ferma oppur si muova. Grandissima è l'importanza di questo riconoscimento della relatività dei movimenti, poiché da esso discendono conseguenze che portano Galilei vicinissimo alla formulazione del principio d'inerzia. Ne deri• • • • va, infatti, che moto e quiete non sono più da 11 pnnc1p1o d1 • • • . ll d . . relatività concepust merentl a a natura et corpt, come voleva la fisica aristotelica, sicché vi sarebbero corpi per natura necessariamente immobili ed altri per natura necessariamente mobili, bensì devono essere

intesi come stati persistenti dei corpi, soggetti a essere modificati solo per l'intervento di una forza esterna. Galilei, dopo aver osservato che un corpo che discendesse lungo un piano inclinato sull'orizzonte si muoverebbe di un moto accelerato, mentre si muoverebbe di moto ritardato se risalisse quel piano, ipotizza un piano perfettamente orizzontale e illimitato, sostenendo che il corpo che vi si muovesse, non esistendo causa né di accelerazione né di ritardo, non cesserebbe mai di muoversi di moto perfettamente uniforme. In questo che è il modo galileiano di stabilire il principio d'inerzia, vecchie convinzioni di eredità aristotelica continuano a sopravvivere accanto alle nuove idee. In particolare, Galilei continua a concepire l'universo come una sfera dal raggio, sì, enormemente più grande di quanto prima si pensasse, ma pur sempre finito, e di conseguenza esclude l'idea di un moto inerziale in linea retta estensibile all'infinito. Il piano orizzontale illimitato nel quale si verifica il moto perpetuo è concepito pertanto come una superficie sferica che ha come centro la terra, e che di conse- R . . · · · d'1 d'tstanza da aristotelici es1dU1 guenza esclude que11e vanaz1?~1 questo centro che sono all'ongme dell'accelerazione o del rallentamento di un mobile su un piano inclinato. L'inerzia viene dunque pensata come tendenza a perseverare in un movimento circolare, e in questa forma- cui sfugge il fatto che il moto circolare richiede l'azione di una forza centripeta -, essa è fatta valere a sostegno della teoria copernicana. Ignorando completamente la scoperta kepleriana del movimento ellittico dei pianeti, la cui notizia risaliva al 1609, Galilei continua a pensare con Copernico che il movimento circolare sia connaturale alla sfericità della terra - e degli altri pianeti -, e con lo stesso Aristotele, cui ancora lo lega l'idea della finitezza del mondo, che il movimento circolare costituisca il movimento naturale per eccellenza. ·

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Sconfitto e crudelmente umiliato opo che già nel luglio del 1632 l'Inquisitore di Firenze aveva dato ordine di impedire la vendita del Dialogo, definito dai gesuiti del Collegio romano «più esecrando e più pernicioso per la S.Chiesa che le scritture di Lutero e di Calvino», parte il primo di ottobre da Roma l'intimazione a Galilei di recarsi in quella città e di presentarsi Con dinanzi al tribunale del S.Uffizio. È solo ora che vocato a .1 · · · · · h 1 b Roma 1 n?st~o. s~tenztato. com~nCl~ a capue c e ~ attagha tmztata tantt anm pnma con grandt speranze sta volgendo verso una drammatica sconfitta, e grande è l'amarezza e lo sconforto da cui viene preso.

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Ne è testimonianza questo passo di una lettera da lui scritta pochi giorni dopo: «Perloché non posso negare, l'intimazione fattami ultimamente d'ordine della Sacra Congregazione del S.Uffizio, di dovermi presentare dentro al termine di questo mese avanti a quello eccelso Tribunale, essermi di grandissima afflizzione; mentre meco medesimo vo considerando, i frutti di tutti i miei studi e fatiche di tanti anni, le quali avevano per l'addietro portato per l'orecchie de i letterati con fama non in tutto oscura il mio nome, essermi ora convertiti in gravi note della mia reputazione ... Questo in modo mi affligge, che mi fa detestare tutto 'l tempo già da me consumato in quella sorte di studii, per i quali io ambiva e sperava di

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p ARTE SECONDA

IL SEICENTO

potermi alquanto separare dal trito e popolar sentiero de gli studiosi; e con l'indurmi pentimento d'avere esposto al mondo parte de miei componimenti, m'invoglia a supprimere e condannare al fuoco quelli che mi restano in mano, saziando interamente la brama de i miei nemici, a i quali i miei pensieri son tanto molesti». E non sono di sufficiente conforto a questa «afflizzione» nemmeno gli applausi che pur non sono mancati al Dialogo, tra i quali quello eloquente di Campanella: «... questa novità di verità antiche, di novi mondi, nove stelle, novi sistemi, nove notioni etc., son principio di secol novo». Inutilmente Galilei, malato, in età ormai avanzata, portando a motivo anche l'avversa stagione, tenta di dilazionare un così faticoso viaggio. La risposta di Roma è durissima: «... se non ubbidisce subito, si manderà costì un Commissario con medici a pigliarlo, et condurlo alle carceri di questo supremo Tribunale, legato anco con ferri ... ». Il venti gennaio 1633 lo scienziato, che nel frattempo ha rinunciato all'opportunità offertagli di riparare in territorio veneziano, parte per Roma, dopo aver fatto testamento. L'accusa che gli viene formalmente rivolta durante il primo interrogatorio è precisa: non aver ottemperato al precetto del 1616 - della cui discussa ' formulazione ed esistenza abbiamo già detto - di L accusa . . copermca. non msegnare o d'., 11endere la dottnna na quovis modo, con la parola o con gli scritti, e di aver pubblicato un'opera palesemente sostenitrice, appunto, di quella dottrina. Pur negando con energia di aver mai saputo qualcosa del divieto del 1616, l'autodifesa di Galilei appare subito difficile e assai debole, quanto al merito dell'imputazione. Doveva apparire talmente improbabile la dichiarazione resa dall'imputato di non aver «né tenuta né diffesa l'opinione della mobilità della , d'l terra e della stabilità del sole» e di aver anzi Un au1o 1 esa t . . d ll' . . dl debole sos enuto «l1 contrano e op1mone e Copernico, et che le ragioni di esso Copernico sono invalide e non concludenti», che Galilei stesso avrebbe successivamente ammesso come in diversi punti il suo libro peccasse di un'evidente inclinazione copernicana, scusandosene come di un errore dovuto ad «una vana ambizione» e a «una pura ignoranza et inavvertenza», ed impegnandosi addirittura ad aggiungere al Discorso una confutazione del copernicanesimo. A tal punto era fiaccato lo spirito di un vecchio ormai solo e impotente, lontani e dispersi gli amici, di fronte a giudici inflessibili che promettevano estrema severità. E allorché, nel secondo interrogatorio del 21

giugno, gli fu ingiunto di confessare, con la minaccia della tortura, se egli credesse o avesse creduto alla verità della teoria copernicana e, se sì, da quando, così egli rispose:

Un vecchio solo e impotente

«lo non tengo né ho tenuto questa opinione del Copernico, dopo che mi fu intimato con precetto che io dovessi !asciarla; del resto son qua nelle loro mani, faccino quello che gli piace». Il 22 giugno Galilei fu trasferito, «come reo in abito di penitenza», dal palazzo del S.Uffi;zio nel convento di S.Maria sopra Minerva, dove gli venne letta la sentenza di condanna, che così terminava: La sentenza «Et acciocché questo tuo grave e pernicioso errore e transgressione non resti del tutto impunito et sii più cauto nell'avvenire et esempio all'altri che si astenghino da simili delitti, ordiniamo che per pubblico editto sia prohibito il libro dei Dialoghi di Galileo Galilei. Ti condaniamo al carcere formale in questo S.Offizio ad arbitrio nostro; et per penitenze salutari t'imponiamo che per tre anni a venire dichi una volta la settimana li sette Salmi penitenziali: riservando a noi facoltà di moderare, mutare o levar in tutto o parte de sodette pene e penitenze». Dopodiché, toccò al condannato pronunciare in ginocchio, parola dopo parola, l'abiura. Assai presto, ormai ottenuta la vittoria che sola alla Chiesa importava, sarebbe stato concesso a Galilei di trasferirsi a Siena, dove egli avrebbe vissu. . d.1 quell a A S1ena to per alcum. mes1· presso l' arc1vescovo città, Ascanio Piccolomini, suo amico ed estimatore, sotto assidua sorveglianza e con l'obbligo di mai lasciare il palazzo arcivescovile. Finalmente, nel dicembre, otteneva Galilei di risiedere nella sua casa . ad . di Arcetri, . presso Firenze, Il ntorno cl1e sarebb e stato 11 suo «contmuato carcere ed A t. esilio» fino alla morte. Gli veniva imposto, infat- ree n ti, di vivere in solitudine e di non ricevere visite che non fossero quelle dei familiari.

Galileo Galilei di fronte al Sani'Uffizio, in un dipinto di Robert Fleury. ·

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I FONDATORI DELLA RAGIONE MODERNA CAPITOLO 9

La gioia di rivedere la figlia Virginia, suor Maria Celeste, che sola aveva preso parte con affetto intensissimo alle dolorose vicende del padre e lo aveva M . confortato con le sue lettere, e che si disponeva suo~el:::: ora ad assisterlo nella sua dolente vecchiaia, sarebbe stata presto tramutata in cocente dolore, giacché ella sarebbe morta, ancor giovane, nella primavera del 1634, lasciando nell'animo paterno «una tristizia e melanconia immensa». c· Qualche anno dopo, un'altra sventura avrebbe Ieco colpito il vecchio scienziato: la perdita progressi-

va della vista lo avrebbe sospinto inesorabilmente verso le tenebre. Così egli stesso lo avrebbe annunciato nel 1638, in una lettera ad un amico: «Ahimè, Signor mio, il Galileo, vostro caro amico e servitore, è fatto Irreparabilmente da un mese in qua del tutto cieco. Or pensi V.S. in quale afflizzione io mi ritrovo, mentre che vo considerando che quel cielo, quel mondo e quello universo che io con mie meravigliose osservazioni e chiare dimostrazioni aveva ampliato per cento e mille volte più del comunemente veduto da' sapienti di tutti i secoli passati, ora per me s'è si diminuito e ristretto ch'e' non è maggiore di quel che occupa la persona mia».

lO L'ultima fatica a gli anni di Arcetri non sarebbero stati solo anni di desolazione e sconforto. Riuscendo pre. sto a vincere il turbamento prodotto dalla con. danna, Galilei aveva ripreso, fin dal periodo · della residenza senese, gli studi sul movimento e sulla resistenza dei corpi, che aveva condotto fin dagli anni giovanili, e frutto di questa sua fatica sa. . rebbe stato il suo ultimo e più grande capolavol Dtscorst . . matematlc. he m. ro, que1. D'zscorsz. e d'zmostrazzonz

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torno a due nuove scienze, attinenti alla meccanica e i movimenti locali, che segnano la nascita della statica e della dinamica nella loro forma moderna. Pressoché terminati già nel 1634 e pubblicati a Leyda, in Olanda, nel 1638, i Discorsi, pur non trattando esplicitamente il sistema copernicano, in realtà lo presupponevano e, insieme, ne costituivano una ulteriore conferma, giacché in essi venivano ulteriormente approfondite quelle leggi della meccanica che nel Dialogo del 1632 erano servite per confutare le obbiezioni contro il moto della terra. Ritornano nei Discorsi i personaggi - Sagredo, Salviati e Simplicio - che abbiamo conosciuti nel Dialogo, ed anche qui essi discutono lungo lo spazio di quattro giornate : nelle prime due, vengono affrontati i problemi della scienza che studia la resistenza dei materiali, mentre nella terza e quarta giornata sono le questioni relative al moto ad essere al centro dell'attenzione. Non potendo soffermarci sulla complessa trattazione che occupa le prime due giornate, ci limitiamo qui a rilevarne il punto scientificamente più imporUn'isp· . tante. Intanto è evidente l'ispirarsi del discorso 1raz1one . . .l A h' d l archimedica ga111etano a «sovrumano re 1me e», per a stretta connessione che vien fatta tra problemi teorici e contributi provenienti dalle tecniche e dalle costruzioni meccaniche. Non a caso, fin dall'inizio dell'opera, Salviati fa riferimento- abbiamo già citato di sopra questo passo - a quella pratica degli

artigiani lungamente osservata all'arsenale di Venezia durante gli anni padovani, che era stata per Galilei vera e propria scuola di «filosofia». Non è pertanto un caso che il fatto di essersi posto il problema, suggerito dall'ingegneria, del perché, quanto più una macchina è di grandi dimensioni, tanto meno resistenza essa oppone alle «violente invasioni» di forze che agiscono su di essa fino a poterla spezzare, costringa Galilei ad affrontare sottili problemi 11 bi pro ema . l . . ll d1. grande portata teonca, re at1v1 a a struttura della coesione della materia. La geometria, infatti, non sembra, dei corpi almeno a prima vista, in grado da sola di risolvere il problema, avendo, ovviamente, due macchine diverse tra loro solo per grandezza le medesime proporzioni geometriche, e non potendo pertanto risiedere in queste la causa del fenomeno fisico in questione. Di conseguenza, la ricerca delle cause della diversa coesione tra le parti costitutive dei corpi, che sembra stare all'origine della loro diversa resistenza, deve necessariamente portarsi sul terreno diverso della fisica. È nell'affrontare questa indagine che Galilei s'incontra ancora una volta con l'atomismo di Democrito, e ne utilizza i concetti di continuità, atomo, vuoto, e delle differenze, oltre che delle analogie, tra i processi di divisione propri della matematica e quelli della fisica, in vista della spiegazione appunto della diversa resistenza dei materiali. In questo contesto, viene . 1 . emocntoea . 0struttura . . ra d'1cale della f'. 11condotta una cnt1ca 1s1ca anstote della ca, ed in particolare della negazione del vuoto, che materia prelude all'indagine sul moto sviluppata nelle parti successive dei Discorsi. Come impressionato dall'arduità dei problemi sollevati, Galilei finisce poi col ripiegare sul terreno più facilmente praticabile della semplice determinazione dei rapporti matematici tra resistenza e dimensioni dei corpi, rinunciando cosi ad approfondire l'indagine, pur così affascinante, sulla struttura della materia, per la prima volta liberata, dopo tanti secoli, da ogni sovradeterminazione metafisica.

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PARTE SECONDA IL SEICENTO

Ma la parte più compiuta e creativa dell'opera galileiana è certamente quella relativa alla dinamica, di cui trattano la terza e la quarta giornata. Qui il nostro scienziato elabora, secondo un procedimento L rigorosamente deduttivo che astrae da ogni riferidinamic: mento sensibile, le leggi e i concetti di moto uniforme, naturalmente accelerato e uniformemente accelerato o ritardato, che solo in un secondo tempo sottopone a verifica sperimentale, attraverso l'utilizzazione di piani inclinati appositamente costruiti. Già nella prima giornata, peraltro, Galilei aveva messo in discussione le leggi aristoteliche sulla caduta . dei gravi, particolarmente quella secondo cui i La ca duta de1 · , proporzwna · le al gravi corpi• ca drebb ero con ve loc1ta loro peso e inversamente proporzionale alla densità' del mezzo che nel cadere attraversano, ed era giunto alla conclusione, al termine di un percorso fatto di argomentazioni teoriche e di ingegnosi esperimenti «mentali», che «se si levasse totalmente la resistenza del mezzo, tutte le materie descenderebbero con eguali velocità».

Ora, lo scienziato perviene alla definizione di moto naturalmente accelerato, affermando che un cor-

po che cade riceve, in eguali intervalli di tempo, eguali incrementi di velocità. Si tratta, in sostanza, di quello che sarebbe stato fissato da Newton come secondo principio della dinamica- il primo è il princi- 11 moto pio di inerzia (V. CAP. 18, PAR. 5) -, secondo il quale naturalmente accelerato e una forza applicata ad un corpo imprime ad esso, concetto di non già una velocità, bensi una variazione di ve- massa locità, o accelerazione, che è direttamente proporzionale alla forza stessa che l'ha causata. A questo principio è connesso poi il concetto di massa come rapporto proporzionale tra le forze applicate ad un corpo e le accelerazioni da esse prodotte. Al momento dell'apparire dei Discorsi, mancavano poco più di tre anni alla morte del loro autore, che questi avrebbe trascorso impegnato ancora nel lavoro e nella ricerca, senza voler concedere «qualche quiete al 'suo' inquieto cervello». Intenso sarebbe conti- Gr1 1.. 11 1 nuato lo scambio di idee su svariatissimi argou m anni menti con numerosi scienziati, oltre che con i propri discepoli - il Castelli, Vincenzo Viviani, e soprattutti Evangelista Torricelli che assisté, insieme col Viviani, il maestro negli ultimi tempi di sua vita -; ancora Galilei avrebbe lavorato all'ampliamento dei Discorsi, e una delle sue ultime fatiche sarebbe stata dedicata

11

1fo.

Dial0go terzo

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Sl.JJ1P. Si.-1 q.11e[to fi:~nlltO ..J; ;t luOJ{n ddglor·o tet'rcflrt •. "iALV. Benr.:JÌd. ~' ~cum!:n·imm:mt:, ciJe vo1 Japcte ben!flìmo; .çhe eJ!a tn•ra non è 'ri:.:i.:ro ~l c~_~.f,'! Jol.1':'t:, ~t meno a qtu~ lo ronttgt!il, ma pt:r cer .. ojpt~zw c,._JliWtL-, epero aflr,_'{rlate at So• le qt..d'altro tuo.{ o piit > che di persona vivente}}, e che si ritrovasse «più

con la testa nella sepoltura che con l'ingegno ne' studi matematici}}, Gli era stato concesso di scendere periodicamente a Firenze, in una sua casa di Costa S.Giorgio, coll'ordine però di «non uscire per la città, con pena di carcere formale in vita e di scomunica, ... e di non entrare con chi si sia a discorrere della sua dannata opinione del moto della terra».

E intanto precipitava il tempo della fine. Sul declinare del 1641, il vecchio scienziato, ormai agli estremi delle forze, si era messo a letto «con una . febbriciattola lenta lenta}}, e poche settimane do- La Ime po si sarebbe spento nella casa di Arcetri, alle quattro di mattina dell'8 gennaio 1642. Il mausoleo che il granduca Ferdinando II aveva pensato si dovesse innalzare nella chiesa di S.Croce, in onore del grande fiorentino, non venne costruito per l'opposizione di Urbano VIII, il som- In s. Croce: un . . !" • mo ponte f1ce, 11 qua le aveva 1atto pervenue al posto vuoto granduca un messaggio di questo tenore: non essere opportuno «fabricare mausolei al cadavero di colui che è stato penitenziato nel Tribunale della Santa Inquisizione, ed è morto mentre durava la penitenza, perché si potrebbono scandalizzare i buoni».

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Alcune riflessioni sul «metodo» galileiano rima di concludere questa nostra esposizione, riteniamo opportuno ritornare su un aspetto dell'opera scientifica galileiana -la formulazione del suo metodo d'indagine -, che forse rappresenta, più ancora delle sue stesse scoperte astronomiche e dei suoi studi di meccanica, il contributo più rilevante che egli abbia dato allo sviluppo del pensiero scientifico moderno. A differenza di grandi filosofi suoi contemporanei, come Bacone o Cartesio, che espongono, in scritti a ciò espressamente destina. ti - il Novum organum del primo, apparso nel li contnbuto più • . l d rilevante: l ~20, e 11 D1scorso su. meta o de~ sec~ndo, publa nietodologia bhcato nel 16 37 -, 11 loro pensiero mtorno al metodo da seguire per fare scienza, articolandone esplicitamente i diversi momenti e indicandone con precisione le regole, Galilei non fa nulla di tutto questo, sicché, per ricostruire la metodologia che egli pratica nelle sue indagini scientifiche e di cui anche possiede consapevolezza teorica, occorre raccogliere gli spunti e le riflessioni che sono sparsi un po' in tutti i suoi scritti, e particolarmente, lo si è visto, nel Saggiatore. Questa circostanza ha favorito, come ora accenneremo, le più diverse interpretazioni del pensiero metodologico galileiano.

Abbiamo già visto che al centro dell'indagine di Galilei c'è una continua interconnessione di ragione ed esperienza, di sensate esperienze e certe dimostrazioni, un intreccio che sembrerebbe dover scoraggiare gli studiosi dalla tendenza ad interpretare il suo pensiero in modo unilaterale, o in senso empiri- Sensate esperienze e stico e induttivistico, come se egli avesse voluto certe fare dell'esperienza il momento veramente essen- dimostrazioni ziale del procedimento scientifico, o, all'opposto, in senso deduttivistico e platonizzante, come se per lui il luogo veramente decisivo delle conclusioni scientifiche fosse quello della rigorosa deduzione teorica. Eppure, proprio questo si è verificato. Se diamo uno sguardo ai dibattiti che durante il nostro secolo, così esperto di sottili discussioni epistemologiche, si sono svolti intorno a Galilei, troviamo che questi è .. stato di volta in volta interpretato nei modi più diversi e contrastanti. Dobbiamo dire subito che Empm~ta ~ . a questa platomsta. e, lo stesso Ga11.1e1. a dare spunto e motivo pluralità di versioni, giacché nei suoi scritti, privi come sono di sistematicità e legati sempre a problematiche ben determinate e circoscritte, si possono trovare le basi per far valere ora l'una ora l'altra di esse. E così vediamo i sostenitori del Galilei empirista citare vo-

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PARTE SECONDA IL SEICENTO

lentieri passi come quello del Dialogo sui massimi sistemi, in cui il nostro scienziato afferma perentoriamente che «quello che l'esperienza e il senso ci dimostra, si deve anteporre ad ogni discorso, ancorché ne paresse assai ben fondato»;

e, all'incontro, gli interpreti di Galilei come di un matematico platonizzante ricordare la lettera scritta dal vecchio scienziato nel1639, nella quale, parlando delle sue ricerche sul moto e del fatto che esse si fondano su argomenti «ex suppositione», ossia su ipotesi puramente razionali, egli afferma: «... quando bene le conseguenze (di quelle ipotesi) non rispondessero alli accidenti del moto naturale, poco a me importerebbe, siccome nulla deroga alle dimostrazioni di Archimede (sulla spirale), il non trovarsi in natura alcun mobile che si muova per linee spirali».

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Dove sembrerebbe che gli attestati diversi e contrastanti dell'esperienza niente farebbero perdere alle dimostrazioni della loro forza e conclusività. Ad evitare forzature del pensiero galileiano in un senso o nell'altro, ci sembrano opportune le seguenti considerazioni e precisazioni. a. La diversa sottolineatura che senza dubbio vien fatta da Galilei, ora della priorità delle «sensate esperienze», ora invece della natura ipotetico-deduttiva, non sempre suffragata dall'esperienza, di tante sue «necessarie dimostrazioni», dipende dal diverso carattere delle indagini cui egli di volta in volta si dedica. Una cosa è, infatti, studiare le macchie lunari o le ,. . . fasi di Venere, ove l'esperienza diretta dei fatti c e m~adgm? e non può non essere decisiva, altra cosa è studiare .. m ag1ne . .., h , d . 11 moto rettl1meo un11orme, c e non e ato m natura, o la caduta dei gravi, che non avviene nella esperienza quotidiana come vuole il secondo principio della dinamica, il quale, dunque, non può, ma nemmeno vuole, far dipendere da quell'esperienza la propria validificazione, prioritariamente affidata a procedimenti puramente teorici. Il famoso racconto che Galilei avrebbe verificato la legge della caduta dei gravi facendo esperimenti dall'alto della torre di Pisa, è privo di ogni fondamento, giacché questi esperimenti avrebbero dato ragione piuttosto agli aristotelici che a lui. b. Bisogna tener presente -lo abbiamo accennato nel PAR. 7 - che le «sensate esperienze» cui Galilei si appella non sono la stessa cosa dell'esperienza sensibile nella sua quotidiana immediatezza. L'esigenSensate za cui obbedisce la ricerca scientifica è di traduresperienze ed esperienze re il linguaggio dell'esperienza comune in un !insensibili guaggio, quale quello matematico, che solo consente di riconoscere i «caratteri» in cui è scritta la natura. Pertanto, molti aspetti dell'esperienza immediata dovranno esser messi da parte - si pensi alla

distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie -, e con essi le conclusioni cui perviene la scienza potranno essere facilmente in contrasto, senza che questo significhi che tali conclusioni siano meramente ipotetiche, e prive di verificabilità e corrispondenza nella realtà. Non dobbiamo dimenticare che l'ispirazione della scienza galileiana è realistica, e che proprio per questo Galilei si trovò in drammatico conflitto con la Chiesa. c. Il rifiuto dell'ingenuo realismo del senso comune e dell'esperienza quotidiana ubbidisce all'intento, che era quello di costruire una scienza fisica che valesse per l'universo intero, e quindi si rendesse indipendente dalle condizioni che caratterizzano l'e. speri enza terrestre degli uomini. Per fare un solo du 11181, sc.lenza . d' . . . e umverso esempiO: occorreva poter stu 1are 1 motl terrestn intero prescindendo dalla resistenza dell'aria, in modo da far valere le conclusioni a cui si pervenisse, per · tutti i corpi dell'universo, e non solo per quelli terrestri. Di qui la preminenza che spesso assume, nella meccanica galileiana, il procedimento deduttivo e l'astrazione della teoria dagli elementi sensibili. d. Questo però non significa che gli esiti del procedimento ipotetico-deduttivo siano considerati da Galilei necessariamente limitati al campo della pura teoria, e privi di ogni riscontro empirico. Se non di rado si trovano nei suoi scritti passaggi nei quali la matematica sembra esser considerata una scienza tipicamente platonica, molto più spesso risuonano lnesausta invece in quei libri accenti decisamente archime- ricerca delle dei, come di chi attribuisca alla matematica un conferme ruolo eminentemente operativo, di strumento empiriche per intervenire nell'esperienza, e che dunque in questa deve trovare una qualche verifica. Non è un caso che anche per le teorie che più devono al lavoro deduttivo della ragione matematica la loro origine, come quelle relative al moto naturalmente accelerato, Galilei mettesse in opera esperimenti sui piani inclinati meticolosamente preparati e ripetuti puntigliosamente innumerevoli volte, attraverso "i quali cercava quella conferma empirica delle sue «necessarie dimostrazioni», che evidentemente riteneva necessaria alla completezza dell'indagine scientifica. Tutte queste considerazioni sembrano dunque persuaderei deLcarattere matematico, sì, ma anche sperimentale del procedimento scientifico come inteso da Galilei, tanto che l'esperienza risulta così poco marginale da avere lei l'ultima parola in fatto di controllo e conferma della teoria. E, anche qui, non intendendo per esperienza la passiva registrazione dei dati, bensì quell'attivo sperimentare, attraverso cui si interroga la natura, e la si provoca a manifestarsi. Volendo, a questo punto, schematizzare, si potrebbe dire che quattro siano i momenti del metodo galileiano:

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a. l'osservazione di un fenomeno o di un gruppo di fenomeni; b. l'ipotesi di lavoro secondo cui dare spiega111 l q.uda ° zione di quanto osservato - Galilei lo chiama momenti e11a . • ricerca «asswma» -, c. lo sviluppo delle sue conseguenze matematiche, che Galilei dice «progresso matematico»; d. infine, la verifica sperimentale della ipotesi- o «cimento sperimentale», come ancora Galilei si esprime. Come ogni volta che si adoperano degli schemi, questa distinzione in momenti dell'indagine non va presa rigidamente, pena il fraintendimento del reale procedere galileiano. E allora non si deve pensare, per esempio, che sul primo momento non eserciti già una propria azione il pensiero matematico, che, nello schema, sembrerebbe intervenire solo dopo: abbiamo già visto che osservare significa per Galilei selezionare quello che deve essere osservato, e che il criteEv~ti~dmo le rio della selezione è appunto di tipo matematico. ngt ezze E , . d ll . schematiche cos1, a~cora a prop~s1to . e a ~sserv~zwn~, questa puo essere ampm e ncca d1 partlcolan, quanto ridursi a pochissimi dati, al punto da fare apparire il momento ipotetico-matematico come il vero punto di partenza dell'indagine. E se il momento della verifica sperimentale è sempre l'ultimo e conclu-

sivo, esso può consistere in vere e proprie verifiche empiriche realmente eseguite in laboratorio, attraverso tecniche e l'uso di strumenti approntati artigianalmente, come anche in esperimenti puramente mentali, non eseguibili realmente ma, nondimeno, efficaci punti di riferimento delle argomentazioni teoriche. Abbiamo titolato questo capitolo galileiano con una celebre espressione del Salviati, tratta dal Dialogo

sopra i due massimi sistemi: «l discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta».

Ci sembra utile riportare, a mo' di chiarimento di questa sentenza, quanto efficacemente ha scritto Giulio Barsanti: «Questa affermazione costituisce forse ... la migliore caratterizzazione del pensiero galileiano. Essa va (però) precisata .. : ... in primo luogo, nel senso che il 'mondo sensibile' di cui parla Salviati-Galileo non è affatto ... quello della nostra esperienza quotidiana. L'affermazione va precisata inoltre osservando che a quel mondo sensibile Galileo non realizzò sempre un approccio di tipo empirico, ma spesso un approccio opposto di tipo razionalistico. Essa va precisata, infine, rilevando che il rifiuto galileiano del 'mondo di carta' riguardava la cultura libresca e l'ossequio verso le autorità del passato, ma non certo l'astrattezza delle teorie e il ricorso a ipotesi difficilmente verificabili».

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Capitolo ~~i,L=-~""'1\ ·=:~7>1A-.

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Galilei (1564-1642):oca sità della costruzione di un nuovo metodo della ricerca, e invocava una politica economico-culturale del regno che fornisse gli strumenti necessari al rinnovamento delle scienze: la formazione di una grande biblioteca, un giardino zoologico e botanico, un museo delle invenzioni, un attrezzato laboratorio scientifico. Alla critica del sapere tradizionale sono dedicati i primi scritti filosofici, molti dei quali Bacone non pubblica per timore di reazioni ostili da parte delle istituzioni della cultura ufficiale. Così non avrebbero visto la luce, tra gli altri, se non dopo la sua morte, il

Temporis partus masculus sive instauratio magna imperii humani in universum del 1602, Cogitata et visa del1607, la Redargutio philosophiarum del1608; tutti saggi nei quali i filosofi antichi - a cominciare da u d . l;::.. nsecono . l Pl atone edA nstote e e 1att1 m parte sa1v1 so tan- peccato to i presocratici, - i maestri della scolastica, mol- originale ti pensatori del rinascimento, e in particolare maghi ed alchimisti come Cardano e Paracelso, vengono additati come colpevoli di un vero e proprio secondo peccato originale, per la superbia con cui, invece che ascoltare umilmente la natura che parla

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P ARTE SECONDA IL SEICENTO l..lJ

attraverso i fenomeni, hanno preteso di sostituirvi il verbalismo astratto di dottrine che nutrono la pretesa o di esaurire in se stesse la conoscenza del mondo. C> > di un corpo diverso. Tutto ciò peraltro non significa, come spesso si è ripetuto, che Bacone sia rimasto prigioniero della mentalità magica del rinascimento. Lo impediva la sua estraneità alla teoria di discendenza neo-platonica dell'animazione universale e dell'uomo microcosmo, fondante delle filosofie rinascimentali della natura e della vocazione «mistica» della magia e dell'alchimia . dell'epoca. Tanto è vero che la stessa più impor- ~~~st,andz 181 1 e , ' del natural'1smo mag1co-a . lchem1eo, . rl IU O e 8 tante ere d1ta magia costituita dalla duplice idea della scienza come potere d'intervento operativo e di dominio dell'uomo sulla natura, e dello scienziato come «ministro e interprete» della natura stessa, acquista nel pensiero di Bacone un significato tutto nuovo e diverso, che evidenzia il rifiuto ormai esplicito della magia. Vediamo. È stato in particolare Paolo Rossi a sottolineare la distanza che Bacone pone tra sé e i filosofi ermetici e i maghi e gli alchimisti del Cinquecento, allorché

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PARTE SECONDA IL SEICENTO

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afferma il carattere necessariamente collettivo, collaborativo, finalizzato all'utilità dell'umanità, della rio cerca scientifica, e la necessità che essa sia umile e o>, e ci rende «quasi padroni e possessori della natura».

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Il metodo. Intuizione e deduzione. Le quattro regole a a ciò non si potrebbe giungere senza provvedersi di un metodo d'indagine idoneo. Anche in questo Cartesio concorda con il barone di Verulamio, nonostante che poi sia abissale la distanza da lui nel modo d'intendere la cosa. Già nelle Regulae del 1628 - che avrebbero visto la Il metodo luce soltanto nel 1701 - egli aveva offerto una prima esposizione del metodo «secondo cui dirigere l'intelligenza», e ne aveva dato una definizione che cosi suonava: «Per metodo intendo delle regole certe e facili, osservando le quali fedelmente non si supporrà mai come vero ciò che è falso, e senza inutili sforzi da parte della mente, ma con un graduale e continuo progresso della scienza, si perverrà alla vera conoscenza di tutte le cose di cui si è capaci».

Già in quello scritto, inoltre, eran delineate con chiarezza alcune acquisizioni metodologiche ed epistemologiche di fondo, che nel Discorso avrebbero trovato conferma: dall'idea che la verità debba essere il risultato di una ricerca personale non delegabile ad altri, all'indicazione nell' «evidenza» e nella «certez. . . . za» dei connotati essenziali della conoscenza ACqUISIZIOnl • 'f'ICa; da11''md'lVI'd uazwne ' del' due atti' de11a fondamentali sc1ent1 mente - l' «intuizione» e la «deduzione» -, dal cui intreccio ci è consentito di «pervenire alla conoscenza delle cose senza timore alcuno di sbagliare», fino alla distinzione di ciò che attraverso il metodo può essere conosciuto, in «nature» (o nozioni) «semplici» e in «nature» (o nozioni) «composte». Quanto all'evidenza, intesa come presenza indubitabile dell'oggetto alla mente, Cartesio nel Discorso, e poi nei Principia philosophiae, l'avrebbe identificata con la «chiarezza» e la «distinzione» delle idee, dove per chiarezza s'ha da intendere l'essere un'idea del tutto «presente e manifesta allo spirito di chi vi presti attenzione, al modo in cui diciamo chiare le cose che abbiamo presenti dinanzi all'occhio che le guarChiarezza e distinzione da», e per distinzione il fatto che l'idea, «essendo delle idee. La chiara, è da tutte le altre così disgiunta e separata certezza da non contenere assolutamente in sé nient'altro che quel che è chiaro». La certezza, poi, non è al-

tro che la consapevolezza soggettiva dell'evidenza. Il grado più alto di evidenza, cui corrisponde il massimo della certezza, accompagna quell'atto .. • c}uama • • •· s·1 dfniUIZIOile e mtmzwne. d . de11a mente che Cartes10 R l . , d ll e uz1one . l tratta - dIcono ancora e egu ae - non g1a e a malferma testimonianza dei sensi o del giudizio ingannevole dell'immaginazione, bensì del «concetto non dubbio della mente pura ed attenta, che nasce dalla sola luce della ragione, ed è più certo, perché più semplice, della stessa deduzione».

La quale, infatti, gode di una evidenza solo indiretta, poiché consiste, non nella percezione immediata di qualcosa, bensì nel concludere ad una conoscenza attraverso una catena più o meno lunga di altre idee, ognuna delle quali è appresa sì per intuizione, ma senza che la mente sia in grado di abbracciare in un'unica e complessiva intuizione tutti gli anelli intermedi attraverso cui essa è trascorsa. Mentre la certezza dell'intuizione sta nell'immediatezza dell'evidenza, la certezza della deduzione riposa sulla consapevolezza, sorretta dalla memoria, della rigorosa concatenazione delle idee via via intuite, e dunque della necessità razionale della conclusione cui la ragione è in tal modo pervenuta. Quanto alle «nature semplici», Cartesio intende per esse gli elementi della conoscenza, ossia le nozioni prime, apprese per intuizione e non ulteriormente scompom'b'l' 11, d'1 cm. sono composte le nostre Le -, alla geometria tradizionale rimprovera di non saper svincolare l'intelletto dalla considerazione delle figure e dunque dall'immaginazione, mentre dell'algebra critica le «regole» e le «cifre» complicatissime che la rendono «arte oscura e confusa»'. Alla complicatezza della logica aristotelica ed al difetto di rigore delle discipline matematiche sostituìsce dunque Cartesio nel Discorso le quattro regoLe qua ltro l 'd .. . . d regole e - «evt enza», «ana1tsm, «smtesm e «enumerazione» - del suo metodo, una drastica semplificazione e riduzione del folto numero proposto nello scritto del 1628. Così egli le enuncia: a. «La prima era di non accettar mai per vera alcuna L'evidenza cosa, che non conoscessi in modo evidente esser tale: vale a dire d'evitar con cura la precipitazione e la prevenzione; e di non comprendere nei miei giudizi altro che ciò che si presentasse al mio spirito con tal chiarezza e distinzione, che non avessi mai nessun motivo di metterlo in dubbio»; L'analisi

b. «La seconda, di dividere in parti ogni problema che prendessi in esame, fin dove fosse possibile e fin dove ce ne fosse bisogno per meglio risolverlo».

È questo il procedimento dell'analisi che consente di scioglier le nozioni complesse in quelle «nature ' Sarebbe stato lo stesso Cartesio a riformare algebra e geometria. Egli è stato il fondatore della geometria analitica, in cui lo studio delle grandezze viene svincolato dalle figure attraverso l'espre8sione delle loro relazioni in equazioni algebriche; quanto all'algebra, a lui si deve la riforma delle vecchie notazioni algebriche con altre più semplici, che sostanzialmente sono quelle stesse ancor oggi in uso.

semplici» che, come tali, sono immediatamente evidenti. La nozione di triangolo può, per esempio, venire risolta in quelle meglio conosciute di angolo, linea, numero tre, figura, estensione. c. «La terza, di guidare ordinatamente i miei pensieri, cominciando dagli oggetti più semplici e più facili a conoscere per salire a poco a poco, quasi per gradi, fino alla conoscenza dei più complessi».

Si tratta del procedimento della sintesi, inverso e complementare di quello precedente: dopo aver separato gli elementi, occorre ricongiungerli in modo L . . . . 1,.mtero, stcc . h,e la conoscenza ch'tara a smtes1 da ncostrmre e distinta riguardi non solo i singoli elementi, ma si estenda anche ai loro rapporti. Per riprendere l'esempio del triangolo: solo l'operazione della sintesi ci consente di conoscere la somma degli angoli, i rapporti tra i lati e gli angoli, la grandezza dell'area, e così via. d. «E ultima, di far in ogni caso enumerazioni così complete e rassegne così generali, da sentirmi sicuro di non omettere nulla».

Viene espressa qui la giusta esigenza di procedere a continue verifiche, sia del processo di analisi e 1, . . ne . h.testo dalla secon da e terza rego la, sta, . zione . enumerasmtest più in generale, del procedimento deduttivo della ragione, che, dovendo sorreggersi, come si diceva di sopra, sull'aiuto della memoria, è esposto al rischio di saltare dei passaggi logici. Come si vede, siamo in presenza di un metodo d'indagine deduttivo, di stampo nettamente razionalistico, dominato dalla prima regola dell'evidenza, cui le altre sono del tutto funzionali. Altro che poco u 1 d0 spazio lascia invece Cartesio al momento empiri- d~;:~i~o co dell'induzione, cui affida il compito di intervenire solo al termine del processo deduttivo, quando si tratta di decidere, in base appunto all'esperienza, quale sia quello reale tra gli effetti possibili cui ha condotto la deduzione.

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La favola del «Mondo»

rima di prendere in esame le lince essenziali della metafisica cartesiana, ci sembra opportuno, per rispettare l'itinerario percorso dal filo·.·.'. r_·:_j sofo francese, far precedere l'esame della sua U filosofia della natura, quale veniva proposta nel libro rimasto inedito sul Mondo. Ciò che rende inconfondibile la fisica cartesiana, .. Una lISIC:a l f: d' ' d 11 f' • 1"1 . razionalistica e a a tversa cos1 a a lStca ga 1 etana come poi da quella newtoniana, è il carattere aprioristico, razionalistico, rigorosamente ipotetico-deduttivo

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della sua costruzione, che nulla concede al punto di vista dell'esperienza sensibile . Non è un caso che il Mondo inizi con il mettere in dubbio la veridicità delle sensazioni, ossia la loro corrispondenza alla realtà esterna, sicché non è affatto scontato che la luce, ad esempio, nella sua Inattendibilità realtà oggettiva, sia quale noi la percepiamo. Allo delle stesso modo che le parole, che sono istituite per sensazioni convenzione tra gli uomini a significare le cose pur non avendo con queste alcuna somiglianza, que-

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SEZIONE PRIMA.

l FONDATORI DELLA RAGIONE MODERNA CAPITOLO Il

ste ci fanno comunque concepire,

della «favola» con la verità:

«perché - si domanda Cartesio - anche la natura non avrebbe potuto stabilire qualche segno che ci facesse avere la sensazione della luce, senza che questo segno avesse in sé nulla che fosse simile a questa sensazione? E non è in questo modo che ha stabilito il riso e le lacrime per farci leggere la gioia e la tristezza sul viso degli uomini?».

«... la mia intenzione non è ... di spiegare le cose che effettivamente sono nel mondo vero, ma semplicemente di immaginarne uno qualsiasi dove non sia nulla che anche le menti più grossolane non siano in grado di concepire: un mondo tuttavia che possa essere creato esattamente come lo avrò immaginato».

Questo è quanto basta a Cartesio per dover togliere alle sensazioni l'autorevolezza che comunemente viene loro attribuita, e per dover cercare altroRifiuto ?~Ila ve - nel puro intelletto - il fondamento della fiSICa bb' , d l d p , t t .1 totelica conoscenza o 1ett1va e mon o. er m an o, ar s questo esordio consente di liquidare - il che si procede a fare nei primi capitoli dell'opera - la fisica aristotelica, con le sue forme sostanziali, le sue qualità 'reali', il suo movimento: tutte proiezioni sulle cose dei nostri modi di sentire, e nient'altro. La pretesa cartesiana è quella di recedere dal mondo 'reale' dell'osservazione empirica - quello di cui parla anche il Genesi -, di oltrepassarne col pensiero i confini, e di sostituire ad esso il mondo quale la ragione è in grado da sola di pensare, facendoli m~~~do lo nascere, «negli spazi immaginari» del pensie1 11pensa e>> ro, dalle «leggi ordinarie della natura» che Dio ha stabilito, e che non sono altro che i principi del~a meccanica razionale. Una pretesa, questa, che, p1ù tardi, avrebbe attirato sui «cartesianh> l'accu~a addirittura di materialismo ed ateismo, per aver ntenuto, sulle tracce del loro maestro, di poter fare oggetto di indagine scientifica l' «origine del mondo», ponendosi cosi al posto di Dio creatore. . E in effetti, proprio una ripetizione dell'atto Rlpe~eredl:at~o creativo di Dio aveva voluto compiere Cartesio creatiVO l DIO nel suo trattato:

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La «favola» del mondo - come Cartesio, in una lettera al Mersenne del 1630, chiama questa sua «riproduzione» della natura -, ha in realtà l'ambizione di valere come ciò «attraverso cui la verità non mancherà di apparire sufficientemente». Ma vediamo quale sia la «sostanza» di questo mondo «immaginario». Per «vederla», occorre intanto che la materia del mondo venga spogliata di tutte le sue forme particolari - legno, pietra o metallo che sia _ e di ogni qualità - caldo, fred~o, secco, umido, La 11sostanza» odore o suono o colore - che, d accordo con Ga- del mondo lilei, Cartesio ritiene tutte soggettive. Poi, invece che pensata, secondo l'opinione degli scolastici, quale «materia prima», mèra potenzialità indeterminata, essa dovrà venir intesa piuttosto al mondo dei geometri, ridotta cioè a pura estensione, puro spazio. «Concepiamola ... - scrive Cartesio - come un vero corpo perfettamente solido, che riempia in maniera uniforme tutte le lunghezze, larghezze e profondit~ di quel gr~nde spazio in mezzo al quale abbiamo fermato 11 nostro pensiero,

«Lasciate oltrepassare per un po' al vostro pensiero i limiti di questo mondo, perché vada a contemplarne un altro completamente nuovo, che farò nascere in sua presenza negli spazi immaginari. I filosofi ci dicono che questi spazi son~ infiniti, e in questo dobbiamo creder loro, perché sono ess1 stessi ad averli fatti. Ma perché l'infinità di questi spazi non ci sia d'ostacolo ... , non cerchiamo di arrivare fino al suo termine· limitiamoci solo ad addentrarci in essa fino a perder di ;ista tutte le creature che Dio creò cinque o seimila anni or sono, e dopo esserci fermati in un punto dete~mina­ to supponiamo che Dio crei nuovamente intorno a no1 tanta m~teria che la nostra immaginazione, da qualsiasi lato si estenda, non possa scorger più nessun luogo che sia vuoto».

È vero, dunque, che Cartesio parla del mondo ideale e perfetto della scienza come di un mondo fondato sulla «finzione», nascente da un procedimento . . ipotetico-deduttivo della ragione, e dunque diFtnzlone e , , d ll' · verità verso da quello vero , , atone esfp.enenz~, mta, a voler guardare bene, e esso a a me a nsu1 are come verità di quello filtrato dai sensi e che i teologi trovano nella Bibbia. È in questi termini che l'autore del Mondo suggerisce il passaggio all'identificazione

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La struttura dei vortici cartesiani dai Principia philosophiae di Cartesio.

PARTE SECONDA lL SEICENTO

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teme_nte pe.rmettendolo. E' la celebre ~potes1 . «gemo mahgno», «non meno astuto e mgannato- sua celebre affermazione, e innumerevoli ne so11 . . . da que lla 1'dea11st1ca . . 1·nnumerevo re che possente», che consente d'estendere il dubbio no state le mterpretazwm, e eta · • .. 1 ,sum , s1. nso . lverebb e senza res1'dm. 1111 rpr z1 0111 ad ogni realtà pensabile ed immaginabile, al punto secondo cm1 che più alcuna sicurezza sembra sorreggermi, «come nel 'cogito', con la conseguente liquidazione, dalla se d'un tratto fossi caduto in un'acqua profondissi- quale Cartesio si sarebbe astenuto a costo di una grama», e non potessi «né poggiare i piedi sul fondo, né ve incoerenza, di ogni dottrina sostanzialistica, a quelle di stampo antologico, per le quali nel pensare si nuotare per tenermi alla superficie». Eppure, proprio in questo momento di estrema rivelerebbe sì, indubitabile, il mio esistere, che però precarietà, che sembra annunciare lo scacco della ra- sarebbe anteriore al pensare, «sostanza» di cui il pengione e la vittoria dello scetticismo, è prossima, anzi sare costituirebbe solo l'attributo, sia pur essenziale. nascostamente presente, un'evidenza in alcun modo Secondo questa interpretazione, sarebbe pertanto del aggredibile dal dubbio. Proviamo a metterla allo sco- tutto coerente l'identificazione operata dallo stesso N d bb' perto. È vero che del mondo con tutti i suoi colo- . Cartesio dell'essere spirituale dell'uomo con l'idea 1 1 l'~vidue 1 ~ ri e suoni e figure e numeri, sensibile ed intelligi- tradizionale di anima. 1 z bile, e del mio stesso corpo, mani occhi carne e In qualunque modo stiano le cose - sappiamo sangue, ho potuto pensare che nemmeno esistano, ma ormai quanto ambiguo sia in più punti il pensiero

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PARTE SECONDA IL SEICENTO

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precedente - le sue precedenti certezze - fosse impegnato a costruirsene una nuova, dovendo nel frattempo continuare a vivere «quanto più felicemente possibile}}. Le tre massime, in cui quella morale veniva riassunta, rivelavano un modo d'intendere la saggezza tra il «conformista}}, il «rassegnatO>} e l'«eroicO>}, che sarebbe rimasto per sempre il modo di Cartesio. La prima di esse cosi prescriveva: «... ubbidire alle leggi e ai costumi del mio paese, osservando costantemente la religione in cui Dio mi ha fatto la grazia di istruirmi fin dall'infanzia, e regolandomi in .. tutte le altre cose secondo le opinioni più moderate e ConformiSIIlO più lontane da ogni eccesso, le quali fossero comunemente ricevute in pratica dai più assennati tra coloro fra cui dovevo vivere».

A questa disposizione al conformismo del buon senso, cui probabilmente non mancava di soccorrere il clima controriformistico dell'Europa cattolica del tempo, si univa poi l'impegno alla coerenza nella pratica delle opinioni adottate, anche qualora si fossero rivelate improbabili. La seconda massima così pertanto recitava: «... essere quanto più possibile fermo e risoluto nelle mie azioni, e seguire anche le opinioni più dubbie, una volta che avessi deciso di accoglierle, con la perseve- Perseveranza ranza che mi sarei imposto se fossero state assolutamente sicure».

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r PARTE SECONDA IL SEICENTO

Per uscire dalla foresta in cui ci si trovi smarriti, la miglior cosa è infatti, non già di vagare ora in una direzione ora in un'altra, bensì di procedere dritti, ché alla fine si arriverà da qualche parte dove stare meglio che nel mezzo della foresta. La terza massima, infine, riecheggia da vicino la morale stoica della rassegnazione: «... cercare sempre di vincere me stesso piuttosto che la fortuna, e di cambiare i miei desideri anziché l'ordine 11assegnazione del mondo e, in generale, di assuefarmi a credere che non vi è nulla in nostro completo potere, se non i nostri pensieri». .

Si tratta, come si vede, di norme che rivelano il carattere dell'uomo Cartesio, così prudente e sollecito della tranquillità della propria vita da prediligeunprudente, carattere re, nella propria condotta, l'adesione alla ragiaa suo modo nevolezza del buon senso, sia pur piattamente «eroicon conformistico, piuttosto che gli slanci ribelli e appassionati dell'individuo di eccezione. Senza che si possa dimenticare, peraltro, che queste massime traevano il loro senso da un proposito, a modo suo «eroico», cui il filosofo francese volle fedele la sua vita: quello di dedicarsi interamente «a coltivare la sua ragione e a progredire, per quanto gli era possibile, nella conoscenza della verità seguendo il metodo che si era prescritto».

Cartesio non avrebbe mai proceduto a sostituire questa sJa morale provvisoria con una dottrina definitiva, una scienza esatta della morale interamente dedotta, «more mathematico», da principi certi della ragione, poiché, al momento di farlo, si sarebbe reso conto dell'impossibilità dell'impresa. Questa sarebbe 1 .d 'b'l' . possibile solo nell'ipotesi che l'uomo fosse un anlrn UCI 1118 ' ' 11 della morale gelo posto nel corpo come 11 nocchwro ne a sua a rigore nave, quando invece, come già s'è detto, l'unione matematico dell'anima con il corpo è così stretta ed intima da far sì che la morale, che a questa unione ha da riferirsi e non all'anima nella sua distinzione reale dal corpo, sia condizionata dalle idee oscure e confuse del senso, che dall'unione dell'anima col corpo vengon prodotte. Il che peraltro non significa che la scienza morale non sia chiamata all'analisi razionale del proprio oggetto, ma solo che, essendo quest'ultimo legato alle innumerevoli e imprevedibili circostanze della vita, essa non può ambire né all'esattezza né all'apriorità delle scienze matematico-deduttive. Negli ultimi anni della sua vita Cartesio venne accentuando il proprio interesse per la morale, di cui c'è rimasta un'interessante documentazione, oltre che nelle cosiddette Lettere sulla morale, che egli venne scambiando tra il1643 e il1649 con la principes11 trattato sulle passioni sa Elisabetta del Palatinato, in esilio all'Aja e sua ammiratrice, e più tardi con la regina Cristina di Svezia, in un trattato in francese, Delle passioni

dell'anima, pubblicato pochi mesi prima della morte. Quest'ultimo non pretende essere un'esposizione complessiva delle concezioni morali dell'autore, ma solo vuole affrontare alcune questioni particolari della morale, attraverso una descrittiva delle emozioni e una loro classificazione, a seconda che nascano dall'unione di anima e corpo - in questo caso trattandosi delle passioni propriamente dette -, ovvero siano esclusiva espressione dell'anima pura da ogni condizionamento corporeo. Secondo quanto richiesto dall'ipotesi della ghiandola pineale quale luogo dell'interazione psico-fisica, l'analisi cartesiana delle passioni, e così anche le considerazioni di ordine morale circa l'atteggiamen- L' .. to da assumere nei loro confronti, poggiano su di J>a~~T~~~1 delle una spiegazione della loro origine di ordine fisiologico-meccanico, che, come si è visto, Cartesio aveva già esposto ne L'uomo. Ora, nel definirle, egli afferma che le passioni, differentemente dagli atti volontari dell'anima, sono «percezioni, o sentimenti, o emozioni dell'anima ... che sono causate, mantenute e rafforzate da qualche movimento degli spiri ti».

E così poi egli ricostruisce il meccanismo corporeo che le produce: allorché un oggetto esterno esercita una stimolazione di un organo di senso, gli «spiriti vitali», messi in movimento dal calore del cuore, penetrano attraverso i nervi sensitivi nella cavità cerebrale dove è collocata la ghiandola pineale, e urtandola provocano in questa un movimento per il quale, da una parte vengono innervati certi muscoli piuttosto che altri con la produzione di determinati movimenti automatici di reazione da parte del corpo, dall'altra vien suscitata nell'anima una sensazione corrispondente all'oggetto esterno - la passione -, da cui l'anima è come scossa e perturbata. Riprendendo un motivo che abbiamo già trovato nelle Meditationes, Cartesio riconosce alla dina- L t . de11e passwm . . una segreta f'mal'1ta, , m . ord'me finalità a segre a m1ca delle al fatto che gli oggetti che le suscitano sono per passioni noi diversamente interessanti, a seconda che possano nuocere o giovare alla conservazione della nostra vita. Così egli scrive: «gli oggetti che muovono i sensi ... eccitano in noi passioni diverse ... in ragione dei vari modi in cui possono nuocerei o giovarci, o, in genere, assumere per noi importanza; ... l'uso di tutte le passioni consiste solo in questo, nel disporre l'anima a voler le cose che la natura indica esserci utili e a persistere in questa volontà».

È sulla base di questo finalismo che Cartesio procede poi alla classificazione delle passioni, individuando nella meraviglia, nell'amore e nell'odio, nel desiderio, nella gioia e nella tristezza, le sei passioni primitive, di cui tutte le altre non sono che variazioni

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r SEZIONE PRIMA.

l FONDATORI DELLA RAGIONE MODERNA CAPITOLO Il

e derivati. La meraviglia è la prima ad insorgere, quando ancora non sappiamo se l'oggetto appreso è . . per noi conveniente o meno; quando questo venLe passrom h' . ll d' primitive ga c mnto, a ora sopravvengono amore e o 10, a seconda che l'oggetto giovi o nuoccia; nel primo caso esso produce nell'anima gioia, nel secondo tristezza; infine, c'è il desiderio, che è la passione tra tutte la più importante poiché si riferisce al futuro, verso cui si protende la vita degli uomini. Dobbiamo ora vedere come, sulla base di questa descrizione psico-fisiologica delle passioni, Cartesio venga prospettando le sue idee intorno alla morale. Innanzitutto egli, in questo caso in disaccordo con gli stoici - «spiriti malinconici quasi completamente di. staccati dal corpo» -, rifiuta ogni avversione nei l l conrogr f 'dll · . . , . . stoici con rontl e e passwm, e cos1 ogm concezwne della virtù che implichi la loro soppressione, del resto impossibile poiché equivarrebbe alla distruzione dell'unione di anima e corpo: le passioni «sono tutte buone per loro natura»; ciò che piuttosto è da evitare è soltanto il loro cattivo uso, sono i loro eccessi. Per un saggio come Cartesio, cui una volta era capitato di dichiarare di essere «tra coloro che più hanno amato la vita», si tratta allora di stabilire soltanto «fino a che punto si deve amarla». La sua risposta è del tutto coerente col suo razionalismo; così, per esempio, scrive una volta ad Elisabetta: «Non sono affatto dell'opinione di doverle disprezzare (le passioni), né tanto meno di dovercene privare. Basta renderle soggette alla ragione».

L'anima possiede questa capacità. Dotata com'è di libero arbitrio, essa è in grado di agire a sua volta sulla ghiandola pineale e di piegare la macchina del . corpo alla propria volontà. Non che la volontà l po leri . d' d'f' l dell'anima e le possa, con un mtervento netto, mo 1 1care a . passioni quantità e la violenza dell'agitazione fisiologica che scuote la macchina corporea, e nemmeno può pretendere, apponendovisi frontalmente, di annullare la passione che sconvolge l'anima; la sua strategia consisterà piuttosto nel rafforzare le rappresentazioni che sono legate alla passione contraria a quella da cui ci si deve emancipare. «Così, per suscitare in sé l'ardimento e cancellare la paura, non basta averne la volontà, ma occorre impegnarsi ad esaminare le ragioni, gli oggetti o gli esempi che ci persuadono che il pericolo non è poi grande, che c'è sempre più sicurezza nella difesa che nella fuga, che si avrà la gloria e la gioia di aver vinto, mentre che non ci si può attendere altro che rimpianto e vergogna per essere fuggiti, e cose simili».

Si tratta di un esercizio all'esame razionale rivolto a riflettere sui propri comportamenti, a sospendere il giudizio su di essi, in modo da imparare a L'esame razionale «separare in sé i movimenti del sangue e degli delle passioni spiriti dai pensieri ai quali sono abitualmente congiunti», e così conoscere, per poterla domina-

o re, la logica delle passioni, che sempre tendono ad Cl) ingigantire le ragioni che militano a favore dei loro UJ oggetti. ~ cc L'ideale etico cartesiano, tra suggestioni ora stoi'1, . .-:>.i'

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':1.::.;.,:~,,.-. ---r~,-.,•·r.'ux·-····· "'~;":)\ro mente in un rapporto, non più di semplice sue-. cessione più o meno costante, quale quello tra le «cose» offerteci dall'esperienza, bensì di connessione causale necessaria, e, così ordinati, li comunichiamo ad altri, dicendo e dimostrando loro che la nube è causa della pioggia. È in virtù di questa operazione, resa possibile dall'invenzione del linguaggio, che gli uomini si distinguono dalle bestie, e s'innalzano dall'esperienza alla scienza. Anche gli animali sono infatti capaci di esperienza, di prevedere, in base alla memoria del i Dall' . passato ed all'abitudine, un evento futuro, ma le espenenza . • d. . . . d . l alla scien a sensazwm e unmagm1 s1 succe ono m oro senz za ordine e necessità, a seconda delle cose che via via stimolano i loro sensi, sicché mai essi sarebbero capaci di trasformare la loro previsione in una previsione sicura. E nemmeno gli uomini potrebbero andare oltre un sapere puramente congetturale, se essi non fossero capaci di mettere ordine nelle loro esperienze, traducendole in un sistema ordinato di nomi. Naturalmente, per questo, è necessario che il discorso razionale non si fermi alla singola proposizione, ma si sviluppi, come già insegnava la logica aristotelica, nel ragionamento, in modo tale che i nomi vengano collegati tra loro così da dar luogo a rigorose

catene sillogistiche. cn Qui si manifesta la moderna originalità della logi~ ca hobbesiana: nel concepire il ragionamento come m una forma di «calcolo», nell'identificare la logica con ~ la matematica. Pensare significa sempre sommare un concetto ad un altro, o sottrarnelo, a seconda llormagionalmelnto d'1scendere da un c e ca co o . nspettlvamente . . che s1. vog11a concetto più universale ad uno meno, oppure risalirvi. Ad esempio, sottraendo al nome S,•·;'ì:J>'·:"~,>

I gradi della conoscenza bbiamo visto sopra che per Leibniz gli uomini non possono pensare senza l'ausilio di segni, di immagini sensibili alle quali fissare i pensieri e le idee. Ciò non significa tuttavia che Leibniz non distingua in maniera adeguata le idee dalle immagini mentali o 'rappresentazioni' che abitualmente vi vengono associate. Nelle Meditazioni sulla Le idee non c,?nosc~nza, la verità ~Je idee. separa .nettamente sono immagini l1dea (1l concetto) dall1mmagme cornspondente. mentali Ciò, unito al fatto che il linguaggio si interpone di solito tra noi e le idee, contribuisce a mettere in crisi uno dei capisaldi della teoria della conoscenza cartesiana. Se quando pensiamo, infatti, la nostra mente è 'attraversata' da immagini, rappresentazioni e parole, contro il non possiamo certo applicare a queste il criterio criterio della chiarezza e distinzione. Il criterio si limitecartesiano rebbe a garantire che abbiamo una percezione della chiara e distinta di immagini e parole, non delle 11 chiarezza e idee. Di solito accade addirittura che siamo condistinzione» vinti di avere ben chiara l'idea di qualcosa - del moto perpetuo, della velocità massima, ecc. - quando invece ne abbiamo soltanto il nome. Di per sè il crite-

rio della chiarezza e distinzione è fallace, perché non ci mostra la possibilità effettiva vale a dire la non-contraddittorietà dell'idea. Leibniz si propone perciò di riformulare i criteri di conoscenza delle idee, sostituendo alla percezione distinta di Cartesio l'analisi concettuale. A questo scopo, nelle Meditazioni, propone un'articolata descrizione dei vari gradi di conoscenza. Oscura è una conoscenza «che non è sufficiente a far distinguere la cosa che v.iene ra~presen~ata, come qu~ndo mi ricordo di un Conoscenza fwre o d1 un an1male che ho v1sto una volta, ma non . quanto basta pero, da poter1o nconoscere quan do m1· oscura venga posto davanti e da poter! o distinguere da qualche altro che gli è simile».

Chiara è invece un'idea o una conoscenza, Conoscenza quando siamo in grado di riconoscere la cosa in chiara questione; e tale conoscenza è, a sua volta, o confusa o distinta. Si avrà una conoscenza chiara confusa quando non siamo in grado di enumerare erceziOnm e consapevole. Vedremo tra poco l1mportanza che l'inconscio tutto ciò assume in relazione all'agire morale; per adesso basta aver sottolineato un aspetto importante della dottrina delle monadi, connesso alla teoria leibniziana della conoscenza. Al flusso delle percezioni nell'aggregato di monadi che compongono un corpo - per esempio il corpo di un uomo - corrisponde un flusso di percezioni nella monade dominante (nell'anima dell'uomo, nel nostro caso). Le percezioni nella monade dominante sono legate strettamente all'esistenza di un corpo. Abbiamo perciò, a questo riguardo, un'interessante affermazione da parte di Leibniz: che cioè il corpo è fondamentale per gli uomini, affinché possano esercitare la conoscenza. Benché le singole monadi o . anime generino dal proprio interno, per forza fl corpo~ . l . d ll . . necessano per propna, a successwne e e percezwm e rappre- la conoscenza sentazioni che le 'attraversano', i moti del corpo - ovvero della colonia di monadi che sono ad esse subordinate - costituiscono la condizione necessaria del dispiegarsi della loro attività. Così l'esperienza la percezione e la sensazione, il rapporto con quelli che a noi sembrano 'corpi' e oggetti fisici - è una condizione essenziale per l'esercizio del pensiero. Naturalmente non nel senso che i nostri pensieri abbiano origine dall'esperienza, ma nel senso che senza l'esperienza non potremmo pensare. Ma di questo avevamo già detto (V. PAR. 3). Torniamo però alla gerarchia delle monadi e alla

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struttura metafisica generale del 'mondo leibniziano'. Alla base di tale mondo -come costituenti fondamenr:n tali - ci sono le monadi semplici; queste, componendosi tra loro, danno luogo ad aggregati. Possiamo dire dunque che monadi semplici e aggregati costituiscono tre livelli due .livelli .ess~nziali dell'univer~o; Se tutt.ayia 1 del mondo facc1amo nfenmento alle capac1ta conosc1t1ve umane, dobbiamo convenire che noi non siamo in grado di 'vedere' le monadi semplici come tali; e che neppure possiamo vedere gli aggregati come tali: il mondo ci si presenta nella forma di un insieme di corpi per lo più solidi, dotati di massa compatta. Ai due livelli precedenti ne va perciò aggiunto un terzo: quello dei fenomeni. Il mio corpo, così come sono in grado di vederlo, il corpo di altri esseri umani e di animali, ma anche di piante· come l'albero in giardino, sono fenomeni bene .b fondati. L'unità che essi posseggono è un risultal l enomem en t d ll . , , l. fondati o e a nostra perceziOne: e quest u tlma, con l'aiuto dell'immaginazione, a trasformare un oggetto che in sé è un vero e proprio aggregato, in qualcosa di unitario. È così che concepiamo la proprietà dei corpi che chiamiamo estensione. Per Leibniz, a differenza che per Cartesio, l'estensione non è una sostanza né una proprietà primitiva, bensì deriva dall'esperienza della diffusione simultanea e omogenea, non successiva, di una medesima qualità (per esempio: un determinato colore). Analogamente, tempo e spazio non hanno per Leibniz esistenza assoluta: sono piuttosto l'ordine dei fenomeni coesistenti (spazio) e di quelli successivi (tempo). . Spazio e tempo addirittura Spaz1o e . t . . , . non esistono. .Ciò che tempo es1s e, m senso propno, e 11mutamento, m quanto base del tempo: se non registrassimo il cambiamento - in noi e nelle cose che ci circondano - non avremmo alcuna percezione del tempo; analogamente, ciò che esiste non è lo spazio, bensì una pluralità di oggetti che mantengono simultaneamente tra loro determinati rapporti (lo spazio è dunque l'insieme di tutte le possibili relazioni tra oggetti). La tesi della non-assolutezza di spazio e tempo darà luogo a uno dei principali contrasti con le posizioni di . Contrast1 con N . newtomana . la fisica ewton (v. CAP. 18, PAR. 5). D ell a f'1s1ca newtoniana Leibniz combatterà sia l'idea dello spazio assoluto sia l'ammissione di forze che agiscono a distanza nel vuoto: entrambi questi concetti sembreranno a Leibniz privi di supporto scientifico, e soprattutto l'azione a distanza verrà da questi paragonata alle qualità occulte degli scolastici. Il fatto che i corpi e, in particolare, i corpi di cui sono dotati gli esseri umani, risultino dall'aggregazione di monadi e che ci appaiano estesi e continui, mentre sono, in verità, dei semplici aggregati - è esplicativo riguardo alla natura dei corpi medesimi, ma non risolve un problema che, nella storia della filosofia occidentale, si era rivelato, da Cartesio in

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poi, un punto cruciale: il rapporto tra mente e corpo. Cartesio, separando res extensa e res cogitans e attribuendo a ciascuna una sua sfera autonoma, si era trovato a fronteggiare il problema della loro ef- 11 rap,porto .- . numone . . . L e1'b mz, . pur n-. men e-corpo 1ett1va o coord'mazwne. tenendo che - in un certo senso - 'il mondo' sia fatto di sole entità spirituali (quindi di un unico materiale), ha tuttavia ugualmente il problema di spiegare come a certi fenomeni in quello che noi chiamiamo corpo, ne corrispondano altri nella mente. All'interno della metafisica leibniziana, il problema assume la seguente forma: nel caso degli aggregati monadici con monade dominante (esseri organici, animali e uomini), com'è regolato il rapporto tra la monade che domina e la 'colonia' di monadi ad essa subordinata e che funge da corpo? La risposta di Leibniz si fonda sul concetto · dall' ar- L'armonia di armonia prestabilita (che va distmta prestabilita monia generale dell'universo, della quale semmai è un caso particolare). L'idea è quella di assumere l'esistenza di un perfetto parallelismo tra fisico e psichico: mente e . corpo sono stati regolati da Dio, all'inizio dei 11 ~aral!e!lsmo , , d l h , , l pSICO·fiSICO temp1, m mo o ta e c e a certl eventl ne corpo debbano corrispondere necessariamente determinati eventi nella mente. Per quanto paradossale, la tesi del parallelismo ha il vantaggio di non proporre una riduzione dello psichico al fisico (materialismo) o viceversa (idealismo; certo Leibniz propone una tale riduzione, ma a un altro livello: quello metafisica, relativo alla costituzione ultima delle cose). In questa prospettiva, il fatto, per esempio, che determinati danni cerebrali inibiscano certe funzioni del pensiero, lungi dal dimostrare che il pensiero dipende dal cervello, è visto ·' come una prova d' Contro tutt ' a1pm . 1~n rapport? asso lu- materialismo e tamente parallelo tra funzwm cerebrah (corpo- idealismo ree) e funzioni mentali. Come prova indiretta a favore del parallelismo, Leibniz adduce casi - che già al suo tempo erano ben noti - di percezione di arti assenti in persone che erano rimaste vittima di amputazioni. Chi viene privato di un braccio o di una gamba, talvolta, in determinati momenti, continua a percepire internamente come presente l'arto amputato: ciò dimostra, secondo Leibniz, che la mente è in qualche modo autonoma (parallela) rispetto al corpo; e che ha perciò una propria memoria. Le posizioni leibniziane circa il rapporto mentecorpo ricordano da vicino la tesi occasionalista dei due orologi coordinati da Dio: Leibniz tuttavia ci tiene a mettere in rilievo la differenza sostanziale con t Differenza . . (' . che separa la sua 1potes1 e mteressante no are l'occasionalismo che la chiamerà sempre così, appunto: 'ipotesi dell'armonia prestabilita') da quella degli occasionalisti (v. CAP. 12, PAR. 4.3). Per gli occasionalisti, ad eccezione di Geulincx (v. CAP. 12, PAR. 4.5), Dio deve compiere un

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intervento continuo per coordinare 'l'orologio' del corpo su quello della mente (per esempio, ogni volta che la mente dà un ordine al corpo, come quello di

alzare un braccio); per Leibniz invece, allo stesso modo che per Geulincx, Dio ha coordinato i due 'orologi' fin dal principio e una volta per tutte.

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Necessità e libertà: le condizioni dell'agire umano bbiamo visto che, nel pensiero leibniziano, il tema della contingenza si salda strettamente a quello della libertà. Tornando al consueto esempio di Cesare che sta per passare il Rubicone, possiamo dire infatti che Cesare è libero, soltanto se questi può effettivamente scegliere - quin. di, soltanto se non risulta necessario che passi il Contmgenza · !' 'l mente da11a selibertàe Rub'1cone. Come s1· ncava 1ac1 guente affermazione, Leibniz è ben consapevole di questo nesso tra libertà e contingenza: «la libertà ... consiste nell'intelligenza - che racchiude una conoscenza distinta dell'oggetto della deliberazione; nella spontaneità con la quale ci determiniamo; e nella contingenza - vale a dire nell'esclusione della necessità logica o metafisica».

Riformuliamo ancora una volta il problema centrale della metafisica leibniziana: se la proprietà 'passare il Rubicone' è inclusa nel concetto completo di Cesare (del 'nostro' Cesare, appartenente a questo mondo); e se Dio ha deciso di chiamare all'esistenza l'individuo che corrisponde al concetto completo del nostro Cesare - se cioè ha deciso di creare il 'Cesarein che senso si può argoconcetto che-passa-il-Rubicone'completo e mentare che Cesare e, l'b 1 ero d'1 passare o d'1 non libera scelta passare il Rubicone? Leibniz cerca di risolvere il problema, affermando che il concetto completo di Cesare contiene sì la proprietà di 'passare il Rubicone' - e quindi conferma che l'enunciato 'Cesare passa il Rubicone' è analiticamente vero - ma aggiunge anche che contiene tale proprietà come risultato di una scelta libera da parte dell'individuo Cesare. Sembra dunque che così la questione si sposti dal concetto di contingenza a quello di libertà: cerchiamo di vedere perciò come Leibniz caratterizzi l'agire libero di un agente razionale. 1requisiti della Già dal passo appena citato, ricaviamo che Leiblibertà niz, conformemente alla tradizione scolastica, ritiene che requisiti essenziali per la libertà siano: a. la spontaneità; b. una conoscenza distinta dell'oggetto della dèliberazione; c. il non esser soggetti alla 'necessità assoluta'. Riprendendo la definizione aristotelica, Leibniz chiama spontanea un'azione «quando il suo princìpio è dentro colui che agisce». La sola spontaneità non

basta tuttavia a render libera un'azione, in quanto si rende necessaria una consapevolezza e una cono.. . ng~ar. Spontanetta e . l' oggetto dell a sce.lta ..Le1'b m~, scenza c1!ca consapevolezza do all'ague morale, ha un'attltudme razwnahsta e ritiene che qualunque decisione venga presa, comporti comunque un giudizio (espresso o inespresso) circa la bontà del partito preso. Ogni agente cioè, secondo Leibniz, qualunque azione compia, la compie sempre in base alla convinzione di seguire il proprio bene apparente - vale a dire quello che, nell'occasione, gli sembra il proprio bene (si trattasse perfino di un'azione malvagia, come uccidere un uomo). I requisiti a. e b. sembrano soddisfatti dalla dottrina delle monadi. Ciascuna monade è infatti una sorta di automa spirituale - un flusso continuo di percezioni che «scaturiscono dal suo proprio fondo». E se non vi sono vincoli esteriori che impediscoIl problema ' . h . . no l azwne, questa .a. certamente ongn~e sponta: della necessità nea. Anche 11 requlSlto b., nel caso d1 monad1 assoluta razionali, è una richiesta che può essere agevolmente soddisfatta. Quello che continua a rimanere problematico è il requisito c. Per affrontare questo aspetto della speculazione leibniziana, cerchiamo prima di descrivere il modo in cui Leibniz ritiene debba svilupparsi un'azione. A questo fine è opportuno, come condizione preliminare, chiamare in causa quello che Leibniz ritiene essere il secondo grande princìpio della sua metafisica, insieme al princìpio di non-contraddizione. Si tratta del principio di ragion sufficiente, il quale asserisce che 'tutto ciò che esiste ha una causa, o ragione che lo ha determinato'. Se infatti il principio di noncontraddizione è il grande principio al quale si subordina l'attività razionale umana (ma anche Principio di • . ~00 quella divma: D10 infatti, secondo Leibniz, non sufficiente e può violare le leggi della logica), il princìpio di principio di non ragion sufficiente è l'altro princìpio generalissi- contraddizione mo al quale si riconduce tutto l'accadere fisico e l'attività morale. Di ciascuna nostra azione dovrà esserci una ragione, o causa, che la determina: Leibniz, come risulta dalle varie formulazioni del principio, considera la ragione, o motivo, che spinge un agente a fare una scelta, equivalente alla causa che ha determinato quella scelta. Ogni azione di un agente razionale è dunque determinata. Abbiamo visto che Leibniz si figura l'anima di

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ciascun uomo come percorsa da un flusso continuo di percezioni, solo alcune delle quali penetrano all'interr::a no della sfera della coscienza. L'anima umana è dunLU que sottoposta allo stimolo continuo indotto da que......l ste percezioni - che saranno di piacere e di doloLa vita dell'anima: una re o di piacere e dolore insieme - e si trova perperenne ciò in una condizione di perenne inquietudine. inquietudine Alcune percezioni, sommandosi quasi a formare aggregati più consistenti di altri, non solo richiamano su di sé l'attenzione dell'individuo cui appartengono, ma ne orientano anche l'azione o, se non altro, lo spingono all'azione. L'anima di ciascun uomo è così rappresentata da Leibniz come un campo di forze che collidono reciprocamente, che si associano o dissociano, spingendo nelle più diverse direzioni. È facile documentare che nella Teodicea e in altri scritti, le metafore che ricorrono pìù spesso, impiegate per spiegare la deliberazione umana, sono di carattere fisico: ora l'anima è paragonata a un recipiente chiuso nel quale viene compresso un gas, per cui, a un dato istante della compressione, il gas rompe il recipiente nel punto in cui quest'ultimo ha le pareti meno resistenti; ora è paragonata a un corpo soggetto a deliberazio~: forze contrarie, per cui, in base alla legge della una composizione delle forze, il corpo finisce per composizione muoversi lungo la linea della forza risultante, di forze ecc. Il tratto comune a tutti questi esempi e metafore è dato dal fatto che nell'anima, il conflitto delle ragioni che spingono l'individuo ad agire, finisce sempre per comporsi in un'unica direzione, lungo la linea di un'unica forza che lo spinge a scegliere in un modo e non altrimenti. Ciascuna ragione è un impulso che inclina l'anima in una direzione determinata; ed è dal conflitto delle ragioni che emerge una forza prevalente che stimola l'individuo a una scelta. Secondo questa prospettiva, Leibniz è forzato ad ammettere che un agente libero, nelle sue scelte, segue ,. . sempre l'impulso prevalente. L'impulso preval rmpu 150 l · " · l a ragwn · suff'1c1ente · · prevalente ente e' 1111att1 che determma l'agire di ciascun individuo. Per questo motivo, Leibniz considera il paradosso dell'asino di Buridano come una mera «finzione dei filosofi», al pari del vuoto e degli atomi, alle quali ' . d' niente corrisponde nella realtà. Il paradosso dell 851110 l l' . . da11 a tra d'1z10ne . .. meBuridano asmo, attn'bmto al f'l1 os010 ... dievale Giovanni Buridano cv. voL. 1, CAP. 29, PAR. 4), ipotizza la situazione di un asino affamato che venga posto a egual distanza da due sacchi di fieno (alternativamente si tratta di due prati d'erba o di due secchi d'acqua - nel qual caso l'animale è assetato: il paradosso ha varie forme). Ammesso che non vi sia nessuna differenza nel cibo posto a destra, rispetto a quello posto a sinistra, senza un atto di pura volontà che lo spinga in una direzione, invece che nell'altra, l'asinonon avendo una ragione razionale per scegliere un sacco invece dell'altro - morirebbe di fame. Il para-

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dosso - nella lettura che ne dà Leibniz - tenderebbe a dimostrare che le nostre azioni hanno come movente principale la sola volontà e non il giudizio razionale. Quest'ultimo infatti, nel caso dell'asino, è solo capace di produrre una situazione di stallo. Leibniz tuttavia è proprio questo punto che contesta: ritiene infatti che nelle scelte pratiche gli individui non si trovino mai in uno stato di pura indifferenza o equilibrio. Rispondendo all'esempio dell'asino, Leibniz osserva infatti che, se potessimo dividere 0 in due settori, mediante una riga ideale passante 1';·0bb'e . d' . . l l h d 11' . l . l Zlone l add mttura per a ung ezza e asmo, e porzw- Leibniz ni di spazio in cui sono situati i sacchi - e se fossimo dotati di vista sufficientemente acuta - vedremmo che i due settori differiscono in innumerevoli punti e sotto molteplici rispetti. Ciò segue dal principio secondo il quale non si danno nella realtà due cose perfettamente identiche. Come afferma Leibniz: nemmeno le due metà del corpo dell'asino sono uguali; e di certo non lo è il suo animo di fronte alla scelta. L'immagine che Leibniz dà dell'animo umano è quella di una bilancia con i bracci perennemente sbilanciati: come ripete continuamente, non esiste una libertà dovuta a indifferenza; l'animo umano non è mai indifferente di fronte alle scelte che deve L' . . compiere .. S~ dobbiamo scegliere se and~re a de: c;~~n~n: stra o a s1mstra, se fare una cosa o un altra, Cl bilancia sono sempre una miriade di piccole percezioni che spingono di più in una direzione. La volontà così non è mai un primum nelle nostre deliberazioni: segue semmai l'orientamento razionale e il giudizio, implicito o esplicito che sia. Di nuovo, il problema è come conciliare questa concezione con libertà e contingenza. Si supponga infatti di esser davanti a una scelta: fare una certa cosa o astenersi dal farla. Supponiamo inoltre di avere una forte inclinazione a farla, ma che alla fine prevalga il partito contrario. A una considerazione superficiale potrebbe apparire che questo sia appunto un caso nel quale l'inclinazione prevalente è risultata non vincente. In realtà, sarebbe più corretto dire che l'impulso prevalente non era quello che ci spingeva a Impulso prevalente e fare quella cosa, bensì che lo era invece l'insieme libertà: una di ragioni (morali, religiose o di varia natura) che difficile ci hanno spinto ad astenerci. Poiché noi abbiamo conciliazione deciso di non fare quella cosa in base a certe motivazioni, saranno queste ultime a costituire l'effettiva ragione della nostra scelta. Che non fosse cosi è stato solo frutto di una nostra momentanea ed errata convinzione. Se estendiamo questo tipo di ragionamento a tutto il nostro agire, risulta però difficile argomentare a favore della tesi secondo la quale siamo liberi. Esser liberi - almeno secondo un concetto comunemente condiviso di libertà - sembrerebbe comportare infatti la facoltà di sottrarsi all'impulso prevalente, non la sola capacità di secondario.

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Leibniz avverte acutamente questo problema e la sua risposta è che, sebbene di fatto seguiamo l'impulso prevalente, e facciamo una data cosa, il partito . Una nsposta · nmane • non contrano pur sempre poss1'b'l 1 e. s·1 tratta oddisfacente di una risposta non molto soddisfacente, in 5 quanto sembra adombrare una confusione tra possibilità logica e possibilità reale. Si supponga infatti che, posto davanti a un bivio, io scelga di andare a destra perché l'impulso prevalente nella mia anima mi spinge in quella direzione: ovviamente la possibilità di andare a sinistra rimaPossibilità ne, nel senso che non è logicamente contraddittologica e possibilità rio pensare che avrei potuto scegliere di andare a reale sinistra. Quello che mi interessa però - e che qualifica la mia libertà come tale - è appunto la possibilità reale, effettiva, sotto quelle date condizioni, di andare a sinistra. Leibniz cerca di salvarsi in extremis, ammettenÈpossibile do la possibilità di un momento, prima dell'aziosottrarsi ne, nel quale viene sospeso il giudizio e si ha all'impulso prevalente? facoltà di guardare con distacco ai due pesi dell'ideale bilancia posta nel nostro animo. E afferma,

N in relazione a questa situazione, che si tratta di 'una z sorta di indifferenza'. Di nuovo però la questione è se 00 chi agisce, nel momento in cui osserva distaccato la I.LI scena che ha davanti al proprio animo, può alterarla ..d significativamente, contrastando appunto l'impulso prevalente. La questione appare ancora più chiaramente problematica se viene posta in termini puramente logici, all'interno della metafisica dei concetti completi e dei mondi possibili. Nel concetto completo di Cesare infatti vi sarà senz'altro la proprietà di 'passare il Rubicone' a un dato tempo; e un istante prima di quel tempo, il nostro Cesare in carne e ossa avrà avu.. . to la possibilità di non passare il Rubicone. Evi- ~~nd~l:~s~:~a dentemente, pensare che Cesare avrebbe potuto non passare il Rubicone non comporta nessuna contraddizione e la possibilità è una possibilità logica a pieno titolo. Se però ciò si fosse verificato, allora quel Cesare non sarebbe stato più il nostro Cesare. È curioso affermare che un certo individuo sia libero di fare una certa cosa e sostenere però che se la fa realmente, sia un altro a farla, o meglio: diventi un altro.

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Linguaggio e conoscenza el De vulgari eloquentia Dante accenna a un'ipotesi circa la nascita delle lingue che per alcuni secoli ancora continuerà a essere accreditata nell'ambito della cultura occidentale e che era già ampiamente diffusa al suo tempo; si tratta dell'ipotesi legata al racconto 'biblico del Genesi. Com'è noto, secondo il racconto della Bibbia, Dio avrebbe concesso ad Adamo di dare un nome agli . animali e alle piante e a tutto ciò che si trovava La lingua l d' bb , l l' adamitica ne p~r~ 1so terrestre: ~are e ~ata cos1 a mgua adam1t1ca - la vera hngua d1 base del genere umano, che poi la confusione susseguente alla costruzione della torre di Babele avrebbe alterato e nascosto. Al tempo di Leibniz, l'idea che la lingua ebraica fosse, se non la lingua adamitica, almeno quella più vicina alle origini, era assai diffusa; e numerosi erano gli studi che nelle lingue storiche naturali, cercavano tracce della mitica lingua dell'inizio. Si pensava infatti che la lingua 'adamitica' avesse una maggior vicinanza alle cose nominate e che- in certo senso -fosse formata dai 'veri nomi' delle cose. Questo atteggiamento - che certo a noi oggi può apparire ingenuo portava comunque a interessarsi dell'origine storica delle parole (e quindi delle lingue); e ha sicuramente contribuito in modo positivo allo sviluppo di una linguistica storica su base scientifica. Leibniz partecipa al dibattito sull'origine delle

lingue naturali, esprimendo il proprio scetticismo riguardo all'esistenza di una lingua adamitica in senso proprio. Egli ritiene che non si debba considerare 'primitiva' una determinata lingua storica, ma che piuttosto, all'interno di ciascuna lingua naturale vi siano elementi che attestano le sue origini remote. Le lingue storiche (latino, greco, ebraico, tedesco, ecc.) non hanno avuto origine dalla corruzione di un'unica In ogni linç1ua ci sono lingua originaria: in ciascuna di esse, infatti, è elementi possibile rintracciare una serie di vocaboli che primitivi sono palese testimonianza di una fase primitiva. Ciascuna lingua è il frutto di un'evoluzione che può esser ricostruita mediante lo studio delle etimologie e lo studio comparato delle lingue. All'origine di ogni lingua storica - così pensa Leibniz - vi è il rapporto di determinati esseri umani con oggetti, 'cose' animate e inanimate del mondo, e altri esseri umani. Il linguaggio cioè, viene costruito per designare 'cose' e per comunicare con i propri simili. L'ipotesi di Leibniz è che agli albori della civiltà, i primi uomini abbiano dato nomi alle cose tenendo conto degli aspetti più vividi delle medesime; e che, per comunicare con altri uomini, abbiano quindi fatto ricorso a vocaboli che tendenzialmente riproducevano certi suoni delle cose designate. Per accennare, sia pur brevemente, alla concezione leibniziana circa la natura e l'origine del linguaggio

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naturale, occorre tener presenti alcuni concetti fondamentali, come quelli di affetto, di onomatopea, di ca 'casi e circostanze'. Con affetto, Leibniz intende desiLLI ...,.j gnare una reazione emotiva degli uomini di fronte a una cosa o a un evento. I primi uomini, quando veniAIIetto e va~o col~iti da u~ determinato o~getto, gli attrionomatopea bmvano 11 nome m base alla reaztone che aveva prodotto su di loro - ovvero a certe proprietà che richiamavano la loro immaginazione. Vedendo una rana, per esempio, l'avranno designata con un nome che ne riproducesse il gracidìo: la parola stessa 'rana', in italiano, rammenta il suono emesso dall'animale cui si riferisce ('gra-gra'). Le parole che tendono a riprodurre certi suoni degli oggetti che denotano, si chiamano appunto onomatopeiche (altri esempi scelti a caso: 'rumore', 'ronzìo', 'boato', ecc.). Questa attibuzione di nomi però, avrà senz'altro trovato un condizionamento nelle circostanze storiche e naturali all'interno delle quali gli uomini primiCasi e tivi si trovavano a vivere. L'ambiente di chi ahicircostanze ta zone fredde e desertiche è diverso da quello di coloro che vivono in zone tropicali; e, analogamente, diversa sarà la vita sociale, differenti gli oggetti che faranno parte della vita ordinaria di quegli individui. Così, 'i casi e le circostanze' all'interno delle quali sarà avvenuta la prima attribuzione di nomi e si sarà instaurata la comunicazione linguistica, avranno un ruolo importante per la costituzione di un dato linguaggio. Ora, Leibniz ritiene che i vari linguaggi storici si siano formati inizialmente su una base di Dalla parole onomatopeiche, che avranno avuto dapprima forma analoga a mere interiezioni ed denotazione di oggetti concreti esclamazioni di gioia o dolore (del tipo: 'ohi', a quella di 'ahimé', ecc.: sono queste infatti le forme più oggetti astratti spontanee di espressione verbale, simili a quelle degli animali). Poi, una volta consolidatosi il lessico e acquisito l'uso di particelle che esprimono relazioni (preposizioni e congiunzioni e tutti i termini che i medievali chiamavano sincategorematici), la lingua avrà avuto una prima struttura, ancora però abbastanza rozza. A partire da questa base, mediante espansione, il linguaggio avrà cominciato a designare non più oggetti concreti - come rane o alberi o sassi o altri individui - ma oggetti astratti, come lo spirito, la mente, la paura, la virtù, ecc. Questo passaggio dalla denotazione dei concreti a quella degli astratti si attua mediante il ricorso a figure retoriche del tipo della metafora, della metaniMetafora mia, dell'analogia, ecc. Dovendo tradurre, per rnetonimia: esempio, in lingua ottentotta, la preghiera del analogia Credo - osserva Leibniz, a questo riguardo - si è dato il nome allo Spirito santo mediante una parola che significa, presso gli Ottentotti, «un soffio di · vento benigno e dolce»; e lo stesso

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«avviene in relazione alla maggior parte delle altre pa-

role e non sempre ce ne accorgiamo, perché il più delle volte le etimologie sono perdute».

Anche il caso della genesi delle preposizioni è illuminante. Leibniz pensa che queste abbiano origine, nelle varie lingue, dall'esperienza spaziale quindi presuppone, implicitamente, una costan- Prepo.sizioni ed · . . al mutare espenenza za d1· t a1e espenenza ne1· van· uomm1, dello spa . dei 'casi e delle circostanze' storico-naturali. · zro Consideriamo, per esempio, l'uso di preposizioni quali 'a, con, da, davanti, per, su', ecc. Tali preposizioni, secondo Leibniz, «sono tutte prese dal luogo, dalla distanza, dal movimento, e trasferite poi a ogni sorta di mutamenti, ordini successioni, differenze, concordanze». '

Ed ecco come - nei Nuovi saggi - argomenta questa sua tesi: «A significa avvicinamento, come quando si dice: vado a Roma. Ma poiché per attaccare una cosa, la si avvicina a quella cui la vogliamo unire, diciamo che una cosa è attacca-~ ta a un'altra. E per di più, poiché vi è un legame immateriale, per così dire, quando una cosa ne segue un'altra secondo ragioni morali, diciamo che ciò che segue movimenti e volontà di qualcuno, appartiene a questa persona o vi è connesso come se fosse disposta ad andare dietro a lei o con lei. Un corpo è con un altro, allorché sono in un medesimo luogo, ma si dice anche che una cosa è con quella che si trova nel medesimo tempo, in un medesimo ordine o parte di ordine, o che concerne una medesima azione .... E allo stesso modo che ciò che è racchiuso in qualche luogo o in qualche tutto, vi si appoggia ed è tolto con esso, gli accidenti sono considerati analogamente, come nel soggetto ... ».

Un'interessante peculiarità delle osservazioni leibniziane sul linguaggio naturale è costituita dal fatto che per Leibniz, tutti i nomi - anche quelli propri -hanno avuto, all'origine, carattere generale. Infatti è intrinseca all'uso dei nomi la proprietà di poter essere applicati a una pluralità di oggetti, e non a uno solo: se il bambino, appena comincia a parlare, attribuisse un nome a ciascun oggetto che incontra o che· · h' i nomi ne 1ama la sua attenzione, di certo non potrebbe Tutti erano, mai pensare. Caratteristica distintiva del pensie- all'origine, ro è quella di riferirsi a più cose simultaneamen- generali te, prescindendo dai loro tratti individuali e acquisendo appunto un grado di generalità che si situa al di sopra degli esempi e casi singoli. Addirittura, il bambino, appena apprende il nome 'mamma', ne fa un uso generico, per indicare più donne simili alla madre; e i nomi di famosi personaggi del passato come Cicerone, per esempio, ci rivelano, attraverso le etimologie, il loro carattere di nomi comuni: «i nomi propri sono stati ordinariamente appellativi, vale a dire generali nella loro origine ... Si sa infatti che il primo Bruto ebbe tale nome per la sua apparente stupidità, che Cesare era il nome di un bambino estratto con un'inci-

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sione dal ventre della madre, che Augusto era un nome esprimente venerazione, che Capitone significa grossa testa, come pure Bucefalo, che Lentulo, Pisone, Cicerone furono nomi dati all'inizio a coloro che coltivavano particolarmente certi tipi di legumi ... Si può dire dunque che i nomi degli individui furono nomi di specie che si davano per eccellenza o altro motivo, a qualche individuo, come il nome di grossatesta a colui che, di tutta la città, era quello ad avere la più grande ... è così anche che si danno i nomi dei generi alle specie, che

ci si contenta cioè di un termine più generale o più vago, per designare specie più particolari, qùando non ci si cura delle differenze».

I nomi propri dunque non hanno per Leibniz una particolare capacità individuante: sono ca- Nomi propri paci di individuazione, da un punto di vista me- e concetti tafisica, solo in quanto vengono associati a con- completi cetti completi.

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Il linguaggio artificiale. Enciclopedia e logica a concezione leibniziana della struttura e della genesi delle lingue naturali, mostra quanto im.- portante sia per Leibniz l'esperienza e la cono: scenza sensibile. Egli ritiene tuttavia che le lin: gue naturali abbiano ancora troppi difetti per garantire una perfetta comunicazione tra gli uomini e per diffondere le conoscenze scientifiche. Ovviamente Leibniz si rende conto che tutta la scienza prodotta fino al suo tempo, è stata sistemata e diffusa sulla base dei linguaggi naturali. Ritiene però che l'uDalle lingue manità si gioverebbe moltissimo dèlla costruzionaturali ad un ne di un linguaggio comune, a carattere eminenlinguaggio artificiale ed temente razionale. Siffatto linguaggio non douniversale vrebbe, in linea di principio, sostituire i linguaggi naturali: questi hanno infatti il vantaggio di poter esprimere sentimenti e, come abbiamo visto, ajfectus: dovrebbe essere piuttosto un mero strumento razionale. È chiaro che Leibniz concepisce un simile progetto anche con intenti irenici: al suo tempo erano ancor vivi i ricordi e le impressioni della cosiddetta Guerra dei Trent'anni; e ancora dominavano le lotte religiose. Un linguaggio comune, così almeno sperava Leibniz, avrebbe potuto facilitare il contatto e la discussione: avrebbe facilitato la comunicazione e ridotto i malintesi tra gli uomini. Già con la Dissertazione sull'arte combinatoria ( 1666), Leibniz in analogia con un programma che già era stato di Lullo (v. voL. t, CAP. 28, PAR. 5), concepisce un progetto che costituirà uno dei punti centrali della sua speculazione filosofica - il progetto di costruire un linguaggio universale. Per comprendere di cosa si L'analisi dei concetti. 1 tratti, si immagini di analizzare nelle sue parti concetti componenti ogni concetto che sia possibile pensemplici sare. Il concetto corrispondente all'espressione 'uomo', per esempio, potrà essere scomposto in 'animale razionale'; e 'animale', a sua volta, in 'essere organico che consuma ossigeno ed è dotato di circolazione sanguigna', e così via. Se sottoponiamo ciascun concetto a questo tipo di analisi, ci troviamo davanti a un'alternativa: o procediamo all'infinito, senza mai raggiungere 'concetti ultimi' oppure, a un certo punto, ci imbattiamo in concetti non ulteriormente definibi-

li, e perciò semplici. Siffatti concetti, verosimilmente, sono quelli dalla cui composizione - in un processo di tipo combinatorio, opposto al processo di analisi sorgono tutti gli altri. All'epoca della stesura della Dissertazione sull'arte combinatoria, Leibniz pensa che gli uomini possano raggiungere i concetti semplici e ritiene realizzabile una struttura gerarchica come la seguente. Non appena si siano raggiunti i concetti semplici, o primi, li si elenchi in successione; si faccia quindi l'elenco , di tutti i concetti ottenuti combinando a due a L artbe. 1 . . . . , , d . d' com 111a ona . due 1semp11ct: s1 otterra cos1 una secon a sene 1 concetti; la terza serie sarà formata dai concetti ottenuti combinando i concetti primi a tre a tre, e così via. Mediante ulteriori procedimenti combinatori sarà possibile ottenere, a partire dai concetti primi, tutti i restanti; e tra questi figureranno non solo i concetti composti già noti, ma anche concetti composti nuovi, ai quali nessuno prima aveva mai pensato. In che modo siffatto procedimento di scomposizione e ricomposizione dei concetti si saldi al tema della lingua universale è presto detto: se si costruisce una sorta di alfabeto in cui certi segni assunti come primitivi sono impiegati per designare i concetti semAnalitica dei plici, si potrà far sì che a ciascun concetto com- concetti e plesso corrisponda una e una sola combinazione lingua di segni primitivi. Dal momento che si assume che artificiale i concetti semplici e le regole della loro composizione siano uguali per tutti gli uomini, ne segue che, per avere una lingua universale, quando si fosse portata a termine con successo l'analisi e la sintesi dei concetti, basterebbe accordarsi sull'alfabeto e sulle regole. Leibniz interpreta i concetti semplici - in obbedienza alla tradizione scolastica - come concetti che corrispondono alle proprietà essenziali (o perfezioni) dell'ente divino: bontà, saggezza, sapienza ecc. Tali concetti hanno origine nella mente di Dio, Concetti semplici e nel momento in cui questi esercita un atto di ri- perfezioni flessione sulle proprie qualità (naturalmente, un divine simile modo di esprimersi ha un forte carattere metaforico, poiché non si dà il caso che Dio prima esista e poi rifletta su di sé; Dio infatti non ha origine né

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i'

PARTE SECONDA IL SEICENTO

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esiste nel tempo). E il complesso delle idee o dei 'modelli' ideali ai quali Dio si ispira per creare il nostro 00 mondo, ha origine appunto dalla combinazione dei concetti semplici corrispondenti alle perfeziqni divine. In conclusione, per Leibniz esiste un mondo di archetipi, o idee, che ha il proprio 'luogo' nell'intelletto divino, al quale corrisponde una specie di immagine speculare nella mente degli uomini. I due mondi coincidono quanto agli elementi componenti, Id ee ne Il a d'f!ì . t . . 11' . d' mente umana e l enscono uttav1a nspetto a estenswne 1 idee nella ciascuna idea, nel senso che le idee degli uomini mente di Dio sono 'meno estese' di quelle divine. Ciò fa sì che gli esseri umani, indipendentemente dalle differenti comunità linguistiche alle quali appartengono, argomentino e ragionino sulla base dei medesimi elementi; ed· è per questa ragione che popoli lontani, assai diversi per usi e costumi, concordano, per esempio, nel riconoscere le stesse verità matematiche. Ben presto, il progetto di lingua universale si complica, rispetto al semplice modello presente nella Dissertazione del 1666. In primo luogo, Leibniz attribuisce sempre più al linguaggio universale una configurazione che si ispira alla struttura dei linguaggi naturali; in secondo luogo, la lingua universale diventa il punto di intersezione di tutta una serie di altri progetti ai quali converrà accennare brevemente. a. Il progetto enciclopedico. Se, come si è accennato, il linguaggio universale doveva esser costruito sulla base di un'analisi dei concetti, per poter svolgere siffatta analisi si rendeva necessaria la costituzione di un elenco, o inventario, di tutte le conòscenze raggiunte dal genere umano. Leibniz pensa, a questo scopo, alla composizione di una grande enciclopedia che raccolga tutto lo scibile del tempo, non solo nell'ambito di scienze come la matematica e la fisica, ma anche ' . d' nell'ambito di discipline a carattere pratico-emLencrclope ra • · f' d . ., . . delle scienze pmco, mo a compren ere 1111ormazwm legate, per esempio, al lavoro e all'attività di semplici artigiani. I numerosi abbozzi per la realizzazione dell'enciclopedia che Leibniz ci ha lasciato obbediscono a vari criteri che vanno dal semplice ordinamento alfabetico di tutte le nozioni, a una strutturazione per settori -o campi disciplinari - associata a una presentazione di tipo deduttivo all'interno di ciascun settore (da princìpi e concetti generali fino agli enunciati particolari). Un punto sul quale Leibniz insiste è la necessità che siffatto lavoro venga compiuto, data l'elevata specializzazione e complessità raggiunta dal sapere, non da un solo individuo, bensì da una équipe di scienziati ed esperti. b. Il progetto per la realizzazione dell'Accademia delle Scienze. È pensando appunto alla realizzazione dell'enciclopedia, e quindi anche del linguaggio universale, che Leibniz si impegna a propagandare, pres-

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so vari principi tedeschi, il progetto per la costituzione di un'accademia delle scienze sul tipo della Royal Society e - soprattutto - dell'Accademia france. , ·t L'Accademia se. Questo progetto tuttavia non e concep1 o delle Scien esclusivamente in funzione dell'enciclopedia, ze bensì possiede anche scopi autonomi come, per esempio, favorire gli scambi culturali tra scienziati e incoraggiare le applicazioni della scienza per aumentare il benessere sociale. Leibniz infatti vede il pensiero scientifico non come qualcosa di astratto e separato dai bisogni materiali, ma come un mezzo per migliorare le condizioni di vita e i rapporti reciproci tra gli esseri umani. c. La grammatica razionale. In numerosi testi

Le macchine calcolatrici

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ilhelm Schickard (1592-1635), professore di matematica e astronomia a Tubinga, scrive a Keplero nel1623,

annunziandogli di aver progettato una macchina calcolatrice che esegue le quattro operazioni. La macchina, quando ancora

SEZIONE TERZA. FILOSOFIA, SCIENZA E POLITICA: UN VASTO DIBATTITO CAPITOLO 19

Leibniz si applica allo studio della struttura grammaticale della lingua latina del tempo. Questo privilegio accordato al latino si spiega sostanzialmente col ruolo che tale lingua manteneva ancora tra gli scienziati, in . quanto strumento di comunicazione internazioLa grarm~attcla nale. Proprio tale caratteristica, del resto, unita raz10na e l ., h . . , , c a 1atto c e ormm era una 1mgua morta , 1aceva del latino un linguaggio semplificato con caratteri di artificialità. Leibniz ne studia la grammatica, senza perdere occasione di confrontarla con la struttura e la grammatica delle lingue 'volgari', al fine di isolare le strutture comuni ai diversi linguaggi. L'intento di Leibniz è, sotto questo riguardo, non solo descrittivo, ma anche normativo, nel senso che non si limita a portare

N alla luce le strutture della grammatica latina, ma si z propone anche di suggerire semplificazioni e di defi~ m nire quindi il più piccolo sotto-insieme di regole comuni a una molteplicità di universi linguistici. Lo stesso titolo di 'grammatica razionale', sotto il quale Leibniz rubrica queste sue indagini, indica con chiarezza l'intento di portare alla luce l'ossatura del linguaggio naturale - una specie di impalcatura sulla quale si innestano le grammatiche delle varie lin. gue 'storiche'. Nella prospettiva del linguaggio 1~8 8111111~tra det . l . d. . h 1119 uagg1 umversa e Sl trattava 1 un passo Importante c e naturali costituiva, in certo senso, il risvolto linguistico del lavoro di analisi dei concetti richiamato sopra. Se l'analisi dei concetti doveva condurre ai 'mattoni'

Macchina per le mo/tiplicazioni di Leibniz.

doveva esser finita, venne distrutta nel corso di un incendio e Schickard morì di peste prima di poter dar corso a una nuova costruzione. Una macchina calcolatrice funzionante venne progettata e costruita da Blaise Pascal (1623-1662) negli anni intorno al1644. Per suo mezzo potevano eseguire somme e sottrazioni, ed essa divenne la base per copie di altre macchine che furono costruite in Francia. Se ne trova una descrizione nell' Encyclopédie di Diderot e D'Aiembert. Nel1673 Gottfried Wilhelm Leibniz presentò alla Royal Society un suo progetto di macchina calcolatrice e il modello in legno della medesima. La macchina poteva eseguire le quattro operazioni fondamentali. Al tempo stesso, Leibniz si applicò alla realizzazione di un calcolo logico, di tipo rigorosamente «formale)), mediante il quale poter svolgere qualsiasi ragionamento, per quanto lungo e complesso. Sviluppò inoltre il calcolo binario (in base 2, mediante i simboli "O" e "1 ") e ritenne che, data la .

sua semplicità, dovesse avere un ruolo centrale nella codifica mediante numeri di ogni forma di ragionamento. Nel1847, il matematico irlandese George Boole (1815-1864), con L 'analisi matematica della logica realizzò il progetto leibniziano, costruendo un calcolo algebrico suscettibile di una duplice interpretazione: numerica (con i numeri "O" e ''1") e logica (con concetti di classe o insiemi qualunque di oggetti). Negli stessi anni, il matematico Charles Babbage (1791-1871) concepiva i progetti per la costruzione di due macchine calcolatrici: la cosiddetta «macchina alle differenze)) e la «macchina analitica)). La prima avrebbe dovuto calcolare polinomi era progettata cioè per automatizzare un procedimento matematico particolare; mentre la seconda aveva applicazioni più generali nell'ambito della matematica numerica. In relazione alla macchina analitica, Babbage concepì l'idea di usare un registro di istruzioni che avrebbero dovuto essere trascritte su schede perforate: si tratta

della prima intuizione di un problema per macchina calcolatrice in senso moderno. L'idea del ricorso alle schede perforate venne suggerita a Babbage dall'uso che delle medesime aveva fatto Joseph Marie Jacquard nella costruzione del telaio per l'orditura dei tessuti (1805: le schede con i fori definivano il programma per l'esecuzione della maglia). Babbage non riuscì tuttavia a portare a termine la costruzione delle macchine. Un modello perfettamente funzionante della macchina alle differenze, costruito seguendo scrupolosamente i disegni dello stesso Babbage, è stato di recente utilizzato presso il Museo della Scienza di Londra. Nel1936, in due lavori concepiti indipendentemente, i logici e matematici Alan M. Turing (1913-1954) ed Emil L. Post (1897-1954) ebbero l'idea di definire le condizioni teoriche generali per la costruzione di un calcolatore automatico. Il concetto fondamentale che sta alla base dei loro lavori è quello di specificare una serie di procedure di calcolo elementari (una sorta di

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«passi atomici)) di calcolo) empiricamente controllabili, tali che consentano di affidare alla macchina l'esecuzione di calcoli anche estremamente complessi. Una «macchina di Turin g)) è un calcolatore universale realizzato con mezzi concettualmente assai semplici: un nastro finito, ma potenzialmente infinito, diviso in caselle; un alfabeto a due simboli (di solito Oe 1: si noti che si tratta degli stessi simboli della numerazione binaria e dell'interpretazione numerica dell'algebra di Boole); un cursore che si sposta in due direzioni destra o sinistra - di una casella per volta e che è capace di scrivere su ciascuna casella uno dei due simboli dell'alfabeto, a seconda del contenuto della casella esaminata e di quel che gli impone l'elenco (finito) di comandi che deve eseguire. A partire all'incirca dal1945, l'incontro fecondo dei risultati ottenuti in ambito logico, matematico e tecnologico (con lo sviluppo delle nuove tecnologie elettroniche) ha consentito la costruzione dei primi calcolatori elettronici.

p ARTE SECONDA

IL SEICENTO

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00 l.U _J

L'Accademia delle Scienze a Berlino, fondata da Leibniz sul modello di quella parigina e londinese.

fondamentali dalla cui composizione e giustapposizione scaturisce l'intero edificio delle nostre articolazioni concettuali, la costruzione di una grammatica razionale avrebbe dovuto indicare le regole di connessione di quei 'mattoni', in modo da dar luogo a un vero e proprio linguaggio. d. La costruzione di una Scienza generale. Con l'espressione 'scienza generale', Leibniz intende designare una disciplina composta di due parti: l'analitica, il cui compito consiste nel ricondursi ai concetti e ai principi primi delle varie scienze; e la combinatoria, che da concetti e principi primi, per sintesi, La Scienza generale: conduce a nuove combinazioni di concetti e che analitica e quindi ha anche capacità di inventare nuove vecombinatoria rità. Leibniz, in un certo senso, riunisce in un'unica disciplina i due procedimenti che, come abbiamo visto, sono impliciti nell'idea di un linguaggio universale presente nella Dissertazione sull'arte combinatoria. La 'scienza generale' avrebbe dovuto contenere le regole e le procedure per condurre a termine sia l'analisi sia la sintesi. Un punto sul quale Leibniz non è chiaro concerne il ruolo preciso che la 'scienza generale' avrebbe dovuto assumere nei confronti delle altre discipline e degli altri progetti che ruotano intorno alla realizzadel linguaggio universale. Ora infatti conun pun to non zione • l , . l , . chiaro cep1sce a sc1enza genera e come parte 111troduttiva dell'enciclopedia; ora la presenta come una sorta di disciplina a sé stante, che interferisce sia con l'enciclopedia sia con la costruzione della lingua universale; ora ne parla come se fosse subordinata pressoché totalmente a quest'ultima.

e. La scelta dei segni o 'caratteri'. Ovviamente, un momento importante nella costruzione della lingua artificiale doveva essere la scelta dei segni o caratteri per la definizione dell'alfabeto. In Leibniz vi sono numerose osservazioni riguardo ai motivi che rendono un particolare sistema simbolico - per esempio il sistema numerico indo-arabo - più adatto di un altro (per esempio il sistema romano) per certi scopi (nel nostro esempio: il calcolo); non si hanno tuttavia L ricerche sistematiche che raffrontino tra loro dif- «~aratte.115r1 811 ferenti sistemi simbolici. Né Leibniz giungerà c mai a fare una proposta precisa riguardo all'alfabeto da adottare (anche se attribuirà grande valore alla notazione binaria per esprimere numeri): anzi, questo è un tipico esempio di problema che avrebbe dovuto essere affrontato dai componenti della costituenda Accademia. I segni dell'alfabeto, comunque, avrebbero dovuto essere di facile lettura, in modo che, chiunque avesse visto un complesso di tali segni, non solo ne potesse comprendere il significato, ma ne avesse contestualmente l'analisi, riconoscendo i segni semplici e i rapporti reciproci che li connettono. Di questo poderoso programma, Leibniz riuscirà a realizzare compiutamente soltanto la creazione dell' Accademia, la celebre Società delle scienze di Berlino, risalente circa al 1707. Riguardo agli altri, lascerà numerosi abbozzi e scritti programmatici, senza concludere tuttavia nulla di definitivo. Col passare u l . h' n programma . d b 1. , . l del tempo 111 ~ o 1:a 1110 tre.a cune 1~ste con- incompiuto e nesse alla reahzzazwne del hnguaggw umversale: ridimensionato riterrà improbabile che gli uomini, nel corso della loro analisi, possano arrivare ai concetti primi; si attesterà su pretese più modeste e su una concezione più pragmatica riguardo ai caratteri da scegliere per l'alfabeto. In attesa della scelta dell'alfabeto 'definitivo', opterà per l'impiego di numeri al posto di lettere o altri segni. Di fronte all'impossibilità di arrivare ai concetti assolutamente semplici, riterrà sufficiente che gli uomini assumano certi concetti come tali, limitatamente alle loro capacità conoscitive. L'idea di costruire un linguaggio universale che avrebbe facilitato non solo la comunicazione tra gli scienziati di tutto il mondo, ma anche tra gli uomini in generale - favorendo la pace e l'integrazione reciproca - non è originale di Leibniz. È un'idea che si trova in moltissimi autori del secolo XVII e che Linguaggio continuerà a esser presente a lungo nella cultura universale e occidentale (per lo meno fino a tutto il secolo riforma della successivo). Ciò che distingue Leibniz dagli altri logica fautori della lingua universale è il fatto di associarla a una profonda riforma della logica che comporta un'assimilazione di quest'ultima disciplina a un calcolo di tipo matematico. Al tempo di Leibniz, la logica aveva subìto un notevole impoverimento, rispetto allo straordinario sviluppo che aveva conosciuto nel periodo scolastico

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:1e

SEZIONE TERZA. FILOSOFIA, SCIENZA E POLITICA: UN VASTO DIBATTITO CAPITOLO 19

e tardo-scolastico (seconda metà del secolo XIV). La logica tradizionale veniva identificata pressoché esclusivamente col sillogismo e veniva associata al modo di pensare della scolastica, legato all' elaborazione di inutili distinzioni e sottigliezze, lontano dalle . concrete prospettive aperte con l'affermarsi della L'att.ebg~~~mendt? nuova scienza. Come si è visto, uno dei motivi lei OIZI8nO l • fronte alla che spmsero Descartes a proporre le sue 'regole' logica metodologiche consisté appunto nella convinziotradizionale ne dell'inadaguatezza della logica tradizionale. Diverso è invece l'atteggiamento di Leibniz, il quale, durante tutto l'arco della vita, pur uniformandosi al coro di chi denuncia la vacuità di tanti aspetti della filosofia scolastica, riconoscerà sempre a questa tradizione - soprattutto in ambito logico - il merito di aver dato contributi di grande valore. Una delle ragioni di questo giudizio è senz'altro da ricercarsi nel fatto che il giovane Leibniz si era formato da autodidatta proprio su testi classici della tradizione scolastica, che quindi conosceva direttamente e in modo non superficiale. Fin dai primi contatti con la filosofia, appena adolescente, Leibniz si era proposto di riformare le categorie aristoteliche; e nella seconda opera edita - la . Dissertazione del 1666 - aveva trattato a lungo La norma 1 d el SI'11 og1smo. · A d'f'~' · parte delle categorie 1 1erenza d e11 a maggwr e il sillogismo dei contemporanei, che attribuivano al sillogismo scarso valore in quanto strumento capace di far progredire la conoscenza, Leibniz concepirà il sillogismo e la logica tradizionale come momenti di una logica più vasta, i cui caratteri soltanto pochi grandi Ars a~tori, tra i qua~i A~istotele, hanno a~pe~a i~t~a­ demonstrandie visto; e cerchera d1 enucleare alcum pnnCipl e ars inveniendi regole di tale logica. Riterrà che il sillogismo appartenga alla dimensione propriamente dimostrativa della logica (ars demonstrandi), ma che l'attività dimostrativa non esaurisca l'intero ambito della disciplina; questa avrebbe dovuto essere integrata con l'attività inventiva (ars inveniendi). Dopo il soggiorno parigino ( 16 72-7 6) e gli studi di matematica, Leibniz concepirà la logica alla stre-

N gua di un calcolo, auspicando la costruzione di una z vera e propria 'logica matematica' (l'espressione è 00 sua). Ora, è proprio questo accostamento a rendere nuova e originale la proposta leibniziana. Sia nell'antichità sia in epoca medievale, infatti, logica e mate. matica erano considerate materie distinte (nelle L 1 . . , d' . . dd' . . a «OQICa umvers1ta me 1eva11 vemvano a 1nttura mse- matematica)) gnate in 'settori disciplinari' diversi, rispettivamente nel trivio e nel quadri vio). Anche se alcuni logici venivano gratificati con l'appellativo di calculatores, rimaneva pur sempre estranea alla mentalità medievale l'idea di assimilare la logica a un calcolo matematico in senso stretto. Del resto è facilmente documentabile il fatto che soltanto con l'affermarsi dell'algebra - la speciosa di F. Viète - nella seconda metà del secolo XVI, si incominciano a intravvedere analogie tra logica e alcune branche della matematica. È sintomatico, a questo proposito, che quando Leibniz stesso parla di 'logica matematica' assuma proprio l'algebra come punto di riferimento privilegiato. Ciò che fa di Leibniz un grandissimo logico non è tuttavia la sola, seppur geniale, proposta di un'integrazione tra due discipline fino allora ritenute L .b . , . l' l b . d' . e1 mz: un . . d1stmte: e pmttosto e a orazwne 1 numerosi grande logico saggi di logica, nei quali vengono ottenuti risultati che saranno poi riscoperti, per via autonoma, a partire dalla seconda metà dell'Ottocento. Il fatto che soltanto nel nostro secolo sia stato possibile documentare la grandezza di Leibniz come logico, è dovuto alla circostanza che questi non pubblicò mai, da vivo, i numerosi tentativi e saggi di calcolo logico. Rimasti nella Biblioteca reale di L .d' . . . a scoperta H annover ne11a 10rma 1 manoscntt1, giacquero della logica qui, pressoché dimenticati, finché ai primi del Novecento, grazie allo zelo e all'interesse della scuola del grande logico e matematico Giuseppe Peano (V. voL. 3*, CAP. 2s, PAR. 2), non si cominciò a riparlarne. È del 1903, a cura di Louis Couturat - un'altra importante figura di logico del Novecento -la prima edizione di una raccolta di testi logici leibniziani.

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Capitolo ==--~~c--

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. Leibniz

(1646-1716):

«praedicatum inest subiecto»

È tradotta in italiano l'unica biografia aggiornata di Leibniz: Eric J. Alton, Leibniz, Il Saggiatore, Milano 1991. Si tratta di una biografia intellettuale che ricostruisce l'insieme dei molteplici aspetti delle indagini leibniziane nel loro sviluppo. Per un'introduzione generale al pensiero filosofico leibniziano, possono essere consultati: B. Russell, La filosofia di Leibniz, esposizione critica con un'appendice antologica, Newton Compton, Roma 1972; E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, Einaudi, Torino 1953, voli. Il, pp. 153-221; G. Preti, Il cristianesimo universale di G. G. Leibniz, Bocca, Milano 1953; V. Mathieu, Introduzione a Leibniz, Laterza, Bari 1976. Per gli aspetti più propriamente connessi alla teoria della conoscenza e alla filosofia leibniziana del linguaggio, si veda: M. Mugnai, Astrazione e realtà. Saggio su Leibniz, Feltrinelli, Milano 1976.

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PARTE TERZA

IL SETTECENTO: I«LUMI» DELLA RAGIONE SEZIONE PRIMA

L'ILLUMINISMO BRITANNICO

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SEZIONE SECONDA

L'ILLUMINISMO FRANCESE SEZIONE TERZA

ILLUMINISMI DIVERSI: ITALIA EGERMANIA

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rtf

r SEZIONE PRIMA

L'ILLUMINISMO BRITANNICO

Capitolo

20

La filosofia inglese nella prima metà del XVIII secolo. > tività» a quello col quale godiamo della bellezza; morale e il ché, anzi, Shaftesbury riduce ad unità moralità e «gusto» della bellezza: lui, educato fin da ragazzo al 'kalòn ka- bellezza gathòn' degli antichi, ci dice della «bellezza degli affetti», della «grazia dell'agire~~, delle «proporzioni dell'anima». Buono e bello, infatti, si riconducono entrambi ad un'armonia, ad una proporzione interiore, per «sentire» la quale non servono la filosofia e le profonde speculazioni, quanto un intùito che è alla portata di ognuno che si affidi alla schiettezza e spontaneità della propria originaria «natura». Tanto è naturale e immediato, infatti, percepire col «cuore» oggetti mentali o morali, quanto, attraverso i sensi, le cose esteriori. Troviamo scritto nel Saggio sulla virtù: «lo spirito che contempla e ascolta altri spiriti non può esser privo d'occhio e d'orecchio, sì da non discernere le proporzioni, distinguere i suoni, vagliare ogni sentimento o pensiero che gli si presenti. Nulla esso lascia sfuggire al suo esame. Sente negli affetti il soffice e il rude, il gradevole e lo sgradevole; trova l'uno turpe e l'altro nobile, l'uno armonioso e l'altro stridente, allo stesso modo che le note musicali e le forme esteriori e le rappresentazioni delle cose sensibili. Né può trattenere la sua ammirazione estatica o la sua disdegnosa avversione verso gli uni o gli altri di questi oggetti. Sicché negare il senso comune e naturale di ciò che nelle cose è bello e sublime, apparirà, a chi consideri debitamente la cosa, una pura affettazione».

Della natura umana Shaftesbury, all'opposto di quanto ne aveva voluto dire Hobbes, ebbe un'idea fondamentalmente ottimistica: essa inclina ogni Un'idea uomo ad un rapporto di armonia con gli altri, di antihobbesiana innata benevolenza, che è il fondamento sicuro della natura della vita sociale. Il che non significa, d'altronde, umana che si volesse negare la presenza negli uomini di

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PARTE TERZA IL SETTECENTO: I «LUMI>> DELLA RAGIONE

chiusure egoistiche, di sentimenti negativi, di inclinazioni a percepire soltanto il proprio bene privato; l'ottimismo di Shaftesbury non fu cosi ingenuo e sprovveduto da non vedere che la spontaneità e l'immediatezza dell'istinto morale non significano affatto facilità e non bisogno di fatica e di tensione spirituale. Anche l'ombra della morte egli sentì con particolare intensità posarsi sulla vita degli uomini, ad insidiarne il fiducioso abbandono alla propria spontaneiL'ombra della t~. Nel diario ~ilosofico, ch.e tenne per lunghi anmorte... m della sua v1ta, emerge, m un tono severo che ricorda l'antico stoicismo di Seneca e di Epitteto, il richiamo a far fronte alle miserie della vita e alla fragilità delle cose umane con l'animoso coraggio del saggio:

·=··=·ò.··=· · .:,.,-="''""-'·::>::I::n:-c~-r::L:i~~

E::'ll· . .ii=·•···-~~ .. =·'··"=·'~""=--=·•·=t····=·····=·•·.c=,-··=·•

Opinione pubblica e giornali in Inghilterra

«felice è colui, e soltanto colui, che sa tener testa a tutto ciò; che può intrepidamente posarvi il suo sguardo, e non distoglierlo; che, conoscendo la somma e conclusione di tutto, attende a recitare fino in fondo la sua parte, intento soltanto ad eseguirla come più gli si addice, e a preservare il suo animo integro e saldo, intemerato e incorrotto».

Restava però ben saldo l'ottimismo, come di chi l'ottimismo non crede, per una visione delle cose che a questo - lo cede vedremo subito - persuade, che «nulla accada né possa accadere che non sia sommamente conveniente e universalmente buono». Scontate le spinte egoistiche, Shaftesbury credette che l'amore di sé non fosse in alternativa all'apertuAmore di sé e ra verso gli altri, che egoismo e altruismo, felicità degli altri e virtù, individuale e sociale si riconciliassero in unità superiore, e che questo fosse dato sentire a chi si rendesse disponibile alle rivelazioni del senso interiore. Aver fondato il principio della moralità sul sentimento interiore rifiutandone ogni ancoraggio teologico trascendente, non volle d'altronde significare. per Shaftesbury l'accettazione di un punto di vista relativistico, ché anzi egli ampliò la sua visione delle cosci~~~: cose fino a riconoscere nella coscienza morale morale ad una l'indizio di un valore universale, della presenza religiosità di un' «anima» divina che pervade di sé, vivifipanteistica candolo, l'intero universo. Ne I moralisti, un dialogo d'impronta neoplatonica, avanza una concezione panteistica dell'universo, assai distante da quella di conio materialistico di Toland, nella quale la Natura, in cui Dio si è come tutto risolto, viene trasfigurata in una visione di bellezza, creatrice inesausta di belle forme proporzionate ed armoniche che si succedono le une alle altre, sicché «lo stato di disfacimento appare null'altro che una fase di passaggio ad uno stato migliore». È qui, in questa visione, estetica e insieme morale, della natura come espansione della stessa attività spirituale, che il senso morale, e la virtù della benevolenza che sta a fondamento della vita sociale degli uomini, scoprono il loro significato più vero; e così il senso morale, piuttosto che semplice ... cui

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n aspetto tipico della cultura illuministica, soprattutto in paesi come l'Inghilterra e la Francia, fu quello di saper coinvolgere nel dibattito delle idee una vasta cerchia di persone, appartenenti, oltre che alla nobiltà, perlopiù alla borghesia degli affari e delle professioni, con la conseguente formazione di un'opinione pubblica, al di fuori dei luoghi tradizionalmente deputati alla produzione e trasmissione della cultura, come le università e le accademie scientifiche. Fu così che, per esempio, vennero diffondendosi tra il pubblico le idee dei libertini e dei deisti, come George Berkeley fa dire, nel suo A/cifrane, ad uno dei personaggi del dialogo, in risposta alla domanda di dove trovino i giovani, «allevati col metodo moderno» della libera e antiaccademica conversazione, la nuova cultura: «dove i nostri gravi antenati non l'avrebbero mai cercata: nei salotti, nei caffè, dai cioccolattai, nelle taverna o dal groom-porter (ufficiale della Corte incaricato di arbitrare i giuochi). In questi e in simili luoghi di ritrovo alla moda, è abitudine delle persone distinte parlare liberamente su tutti gli argomenti, religiosi, morali o politici: così che un giovane gentiluomo che li frequenta ha modo di ascoltare molte lezioni istruttive, condite di spirito e ironia, e pronunciate con vivacità. Tre o quattro sentenze di un uomo di qualità, dette in tono adatto, fanno più impressione e istruiscono di più d'una dozzina di dissertazioni secondo il rigoroso metodo

accademico». Si trattava, come ben si può capire, di una cultura che, proprio per non essere espressione di un regolare corso di educazione e di studi accademici rigorosi ma anche più o meno pedanti, per il suo possedere la scioltezza, vivacità e, certo, anche la «leggerezza», tra il mondano e il dilettantesco, di ciò che nasce dal dibattito spontaneo e senza regole, si prestava assai bene alla comunicazione di tipo giornalistico, destinata ad un vasto pubblico di lettori. Ciò contribuisce a spiegare la grande diffusione di giornali, riviste, gazzette cui si assiste nell'Inghilterra settecentesca; è stato calcolato che nella sola Londra venissero vendute quotidianamente, già nei primi anni del Settecento, circa quarantaquattromila copie dei nove giornali che vi si pubblicavano. Nel 1733 questi erano saliti a diciassette, per divenire addirittura cinquantatré nel 1776. A promuovere inizialmente la diffusione di questo tipo di stampa avevano certo dato un impulso di primaria importanza le vicende politiche e sociali degli ultimi cento anni, a cominciare dalla rivoluzione del 1640. l dibattiti che allora si erano accesi a livello di massa sul futuro dell'Inghilterra - basti pensare, per fare solo un esempio tra i più significativi, ai dibattiti di Putney, all'interno dell'esercito puritano - dovettero necessariamente favorire il nascere dei giornali di informazione politica - tra i quali, il Mercurius politicus del 1650, diretto per qualche tempo da Milton -, che ora, nell'Inghilterra settecentesca

SEZIONE PRIMA. L'ILLUMINISMO BRITANNICO CAPITOLO 20

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2 Pagina del primo numero d/The spectator. dei partiti politici e dei dibattiti parlamentari tra maggioranze e opposizioni, trovavano nuovi motivi di successo e di diffusione. Ma nei primi anni del secolo c'era anche qualcosa di nuovo. Nasceva un nuovo tipo di giornale, non necessariamente limitato ad alimentare l'informazione di esclusiva natura politica, ma indirizzato a più vasti e variati scopi di informazione e promozione della cultura. Accanto al Dai/y Courant, il primo quotidiano inglese nato nel 1702, seguito nel 1726 dal Lloyd's List, appariva nel 1704 The Rewiew, il giornale di Daniel Defoe, che doveva proseguire le pubblicazioni fino al1713. Alle notizie politiche ed economiche lo scrittore inglese fu solito

aggiungere, assecondato dalla sua indole di romanziere, informazioni di viaggio, di costume, di varia cultura. Anche l'altro grande scrittore dell'epoca, Jonathan Swift, esordi nel 171 Ocome giornalista dell' Examiner, organo del partito tory, e fu lui il primo ad introdurre l'articolo di fondo. Nei giornali trovò un suo spazio anche la saggistica; lo stesso Swift pubblicò diversi dei suoi pamphlets sull' Examiner. Sul finire del secolo dovevano apparire i principali giornali londinesi: il Times, fondato nel1785 sotto il nome di London Dai/y Universal Register; il Morning Post, giornale dell'alta società, apparso nel 1772; infine II'Observer, giornale della

domenica, che iniziò le pubblicazioni nel 1791. Ma coloro che più si prodigarono per la diffusione di periodici specificamente culturali furono senza dubbio Richard Steele (1672-1729) e Joseph Addison (1672-1719), il primo fondatore nel 1709 di The tatler (Il chiacchierone), che ebbe vita fino al 1711, mentre Addison, che in un primo tempo aveva collaborato assiduamente all'impresa di Steele, diresse insieme con quest'ultimo, dal 1711 al 1714 il quotidiano The spectator. L'obbiettivo dei due pubblicisti era pedagogico; lo dichiarava apertamente, non senza un velo di ironia, Steele: «benché gli altri giornali che si pubblicano ad uso dei buoni cittadini inglesi abbiano certamente effetti salutari e,

T H E

E C T A T O R. No

1. T!! ed all'immaterialismo. Intanto, quella negazione fa cadere la distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie, sulla quale Locke aveva fondato l'ammissione dell'esistenza di sostanze materiali. Berkeley argomenta così: come sarebbe mai possibile, senza compiere un inverosimile atto astrattivo, separare nell'idea di una cosa, ad esempio la percezione del colore, ritenuto da Locke una qualità secondaria o soggettiva, dalla percezione Qualità dell'estensione, che sarebbe invece una qualità primarie e primaria o oggettiva? si può forse percepire un qualità colore che non sia esteso, o un'estensione non secondarie colorata? Una siffatta distinzione appartiene a quell'apparato concettuale astratto, caratteristico della metodologia scientifica della fisica moderna, che si è già messo in discussione trattando del problema della visione. Essa comporta la duplicazione della realtà in due piani, l'uno soggettivo costituito di qualità dipendenti dalla nostra sensibilità, e come tali non appartenenti alla natura dei corpi presupposta come reale al di fuori della mente, l'altro oggettivo delle proprietà meccanico-matematiche - le qualità che Locke chiama appunto qualità primarie, come l'estensione, la for-

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ma, il moto, la quiete, la solidità, ecc. -, che a quella natura invece inerirebbero. È una duplicazione questa, che, pur essendo ammissibile quale ipotesi scientifica utile alla spiegazione e previsione dei fenomeni naturali, non può invece essere accolta quando si voglia dare ragione della percezione reale delle cose. Tutte le qualità, infatti, che noi percepiamo, per il fatto stesso che le percepiamo, sussistono nella nostra mente, e non sono nemmeno pensabili separate tra loro, le une appartenenti a realtà corporee esterne, le altre, invece, risolventisi nelle sensazioni. «lo vorrei che ognuno riflettesse e provasse se può, con un'astrazione di pensiero, concepire l'estensione e il moto di un corpo senza tutte le altre qualità sensibili. Per conto mio vedo chiaramente che non è in mio potere formare un'idea di corpo esteso e in moto senza attribuirgli anche qualche colore o altra qualità sensibile di quelle che si ammettono esistere solo nella mente. In breve, estensione, forma e moto, astratti da tutte le altre qualità, sono inconcepibili. Perciò, dove sono le altre qualità sensibili, ivi debbono trovarsi anche queste, cioè nella mente e in nessun altro luogo».

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E questo equivale a dire che l'essere delle cose coincide con il loro essere percepite: «esse est percipi». Corollario di que$ta proposizione è l'immaterialismo. Cade infatti la ragione per la quale Locke ,. . aveva ritenuto di d~ver ammettere l'esistenza di ~~~~latena· una sostanza matenale, che fungesse da «sostegno» di qualità ritenute oggettive, e che ora si è chiarito non essere in nulla diverse da ogni altra qualità. Dice Berkeley: «perché dovremmo preoccuparci ancora di discutere questo substratum o sostegno materiale della forma, del movimento e delle altre qualità sensibili? non fa esso supporre che quelle qualità abbiano un'esistenza fuori della mente? e questa non è una contraddizione immediata del tutto inconcepibile?».

Basta, dunque, di trastullarsi con questa vacua astrazione, che tra l'altro, una volta che ne ammettessimo la realtà, ci farebbe trovare nella condizione Locke insegna - di doverne ammettere l'inconoscibilità, aprendo la strada allo scetticismo.

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«Esse est percipi»: ma allora son fantasmi le cose? a non significa forse una siffatta identificazione di esse e percipi scivolare verso una sorta di insostenibile e folle riduzione delle cose a fantasmi, e comunque a fenomeni soggettivi della mente? Così certamente parve, allorché della teoria berkeleyiana si ebbe la prima notizia, e Una teoria mal interpretata dopo ancora per tutto il secolo e oltre. Così racconta, ad esempio, in una lettera a Berkeley, un amico che a Londra aveva proposto agli uomini dotti della città la lettura del Trattato appena edito: «Accennai solo al contenuto del vostro libro sui Princìpi con alcuni miei amici, persone d'ingegno, ed essi lo mise-

ro subito in burla, rifiutando di leggerlo ... Un medico di mia conoscenza si mise a parlare di voi, concludendo che dovete essere proprio matto e dovete curarvi. Un vescovo vì compassionò d'esservi posto ad una tale impresa, mosso dalla vanità e dal desiderio di pubblicare qualcosa di nuovo ... Un altro mi disse che un uomo d'ingegno fa bene ad esercitare il suo spirito senza ritegni, e che anche Erasmo fu lodato per il suo elogio della pazzia, ma che tuttavia voi non avete saputo spingervi tanto oltre quanto un certo signore di Londra, il quale non solo nega la realtà della materia, ma anche la nostra stessa esistenza». Leibniz, Voltaire, Kant: lettori tendenziosi del Saggio

La musica non sarebbe del resto cambiata durante tutto il secolo, se è vero che Leibniz credette di dover interpretare il Trattato come documento di uno stravagante paradosso, e Voltaire ebbe a motteggiare sull'immaterialismo berkeleyano, annunciando che, in una certa battaglia, non era-

no morti migliaia di uomini, ma semplicemente mi- · gliaia di idee! Lo stesso Kant avrebbe interpretato il pensiero di Berkeley come una forma di idealismo empirico, misconoscente come tale la realtà oggettiva del mondo fisico. In questo modo non si rendeva giustizia al punto di vista berkeleyano, di cui veniva anzi frainteso grossolanamente il significato. Abbiamo visto proprio ora che Berkeley vedeva nell'immaterialismo l'efficace alternativa allo scetticismo di chi, come Locke, imprigionava la mente in un orizzonte di idee oltre il quale si nasconderebbe la realtà delle cose. Il nostro filosofo è molto chiaro e netto nell'affermare intanto che .. h non c'è nulla ~a conoscere delle cose oltre quello ~~~~oe~:~~o ~ che ne perceptamo; esse non nascondono alcun reale fondo inesplorato e inesplorabile, e noi ne cogliamo l'essere «reale», che tutto si esprime in quella collezione di percezioni che ne abbiamo. L' «esse est percipi» non va inteso comunque come negazione del mondo fisico, ché anzi questo - sostiene Berkeley viene riconosciuto in tutta la sua concreta esistenza molto di più di quello che avvenisse nell'empirismo lockiano, o nella filosofia di Cartesio, o nelle teorie degli scienziati: per tutti costoro oggettive sarebbero soltanto le idee delle qualità primarie, e invece tutte le altre si ridurrebbero a parvenza di immagini irreali, quando invece l'immaterialismo restituisce alle cose tutte le loro qualità, anche i colori e gli odori e i suoni. Dire infatti che tutte le qualità sono secondarie, per-

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ché tutte interne alla mente che le apprende, non esclude affatto che siano tutte anche oggettive, nel senso che tutte sono egualmente reali. Così Berkeley risponde alle obbiezioni che prevede debbano piovere sulla propria dottrina: «Si obbietterà anzitutto che, secondo quei principi, tutto ciò che è reale e sostanziale in natura viene bandito dal mondo e sostituito da un sistema chimerico di idee. Tutte le cose che esistono, esistono solo nella mente: cioè sono puramente immaginarie. Che ne è dunque del sole, della luna, delle stelle? che pensare delle case, dei fiumi, delle montagne, degli alberi, delle pietre; anzi, dei nostri stessi corpi? Sono essi soltanto chimere ed illusioni della fantasia? A questo, e ad ogni abbiezione consimile, rispondo che coi principi stabiliti non ci priviamo di nessuna cosa della natura. Tutto ciò che noi vediamo, sentiamo, udiamo, o comunque concepiamo o intendiamo, resta sicuro e reale come per l'innanzi. Vi è una rerum natura, e la distinzione tra realtà e chimere resta in tutta la sua forza».

Nei Dialoghi tra Hylas e Philonous, Berkeley farà dire a Philonous, il personaggio che sostiene la tesi

immaterialistica contro Hylas, difensore della realtà della materia: «Io non sono del parere di cambiare le cose in idee, ma piuttosto le idee in cose; dal momento che quegli oggetti immediati di percezione che, secondo voi, sono soltanto apparenze delle cose, io li prendo per le stesse cose reali».

Nulla cambia nell'idea che l'uomo della strada, il cui senso comune Berkeley ama contrapporre ai sofismi dei dotti, ha della realtà delle cose. Prosegue infatti Berkeley nel Trattato: «La sola cosa di cui neghiamo l'esistenza è ciò che i filosofi chiamano Materia o sostanza corporea. Ma questo non recherà nessun danno al resto dell'umanità che, oso dire, non ne sentirà mai la mancanza».

E subito dopo, a confessione dell'intenzione apologetica che sottende il suo immaterialismo, egli aggiunge:· «L'ateo, sì, soltanto lui, perderà l'ombra di un vuoto nome, cui appoggiare la propria empietà».

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Le cose: parole di Dio ualcuno però potrebbe insistere: « ... secondo gli anzidetti principi, le cose sono ad ogni momento annullate e ricreate. Gli oggetti del senso esistono solo quando sono percepiti: perciò gli alberi sono nel giardino o le sedie nella sala soltanto finché vi è qualcuno che li percepisce. Se chiudo gli occhi tutti i mobili della stanza sono ridotti a nulla; e col semplice riaprirli vengono creati di nuovo». Dall'empirismo al platonismo: un primo passo

La replica di Berkeley fa compiere un primo passo sulla strada che lo condurrà infine alla conclusione teologale, edificante, fin dall'inizio programmata, del suo immaterialismo. Vediamola:

«Quantunque sosteniamo che gli oggetti dei sensi non sono altro che idee le quali non possono esistere se non percepite, non possiamo tuttavia concluderne che essi esistano solo mentre sono percepiti da noi; vi può essere qualche altro spirito che li percepisce in nostra assenza: dovunque io ho detto che i corpi non hanno esistenza senza la mente, vorrei si intendesse che non alludevo a questa o quest'altra mente particolare, ma a tutte le menti in generale. Dai principi suddetti non segue perciò che i corpi siano annientati e creati ogni momento, o che non esistano affatto negli intervalli tra le 'nostre' percezioni».

Comincia a farsi evidente, a questo punto, che non ci si potrebbe fermare qui, a questa sorta di affidamento dell'esistenza dei corpi alle percezioni interu mittenti di non si sa quante menti «finite»; si na.1M1 1~~ 11e profila cioè la necessità di concludere all'ammis101 a swne · d'1 una Mente m · f'1mta, · che non solo perce-

pisca, ma anche produca le idee che, di volta in volta, vengono apprese dalle singole menti finite, sicché la' vita percettiva di quest'ultime vada rivelandosi per quello che è: un rapporto diretto con un Dio «parlante», non più impedito dall'opacità di una materia interposta, su cui, come si diceva di sopra, gli empi potevano fondare il loro misconoscimento di Dio. Vediamo, allora, i passi che conducono Berkeley al termine del suo cammino apologetico. Innanzitutto: «Per quanto potere io abbia sui miei pensieri, trovo che le idee percepite Mtualmente dai sensi non dipendono ... dal mio volere. l Quando apro gli occhi nella piena Le idee del luce del giorno, non è in mio potere di scegliere se senso non debbo vedere o no, e di stabilire quali oggetti particola- sono prodotte ri si presenteranno alla mia vista; e così per l'udito e gli da me... altri sensi; le idee che vi si imprimono non sono create dal mio volere».

Secondo: non possiamo più affermare, seguendo i modi di Locke, apparentemente persuasivi - e ... né da certo condivisi dal senso comune, in questo caso sostanze non affidabile -, ma in realtà inconcepibili, che materiali... la causa delle idee del senso siano delle sostanze non pensanti, materiali. Terzo: è impossibile che le idee si produca- ...e neppure si no da sé, le une dalle altre, poiché esse sono producono da sé inerti e prive di ogni potere ed attività. Quarto: dobbiamo dunque riconoscere che le idee che ci sono date, e che, non dimentichiamolo,

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PARTE TERZA IL SETTECENTO: l DELLA RAGIONE

La loro causa è Dio

anglicano nel negare alle cose corporee efficacia causale, esclusivamente riservata anche da lui alla 11 d . · Que111. che g11. sc1enz1at1 . · · d'Icono rap- Malebra ebito con Causa pnma. 1 porti causali tra le cose, in realtà sono semplici ne le connessioni regolari di antecedente e susseguente; inutile pertanto vagabondare alla ricerca di cause seconde, quando invece dovremmo curarci soltanto di riconoscere quale unica causa la volontà di Dio. Berkeley concorda con Malebranche anche nel riconoscere un rapporto diretto tra mente umana e mente divina, e semmai si chiede - ed avrebbe chiesto allo stesso filosofo francese quando nel 1715 lo conobbe personalmente pochi mesi prima che morisse - perché questi continuasse a credere nell'esistenza esterna dei corpi, una volta ammessa la visione delle cose in Dio. Dissente invece da Malebranche là dove costui ammette che la mente umana «veda» Dio; il rap- d. 11 issensoda D' , i . · . . porto che essa mtrattwne con 10 e s mt1mo Malebra h come quello tra due dialoganti, ma resta ben ferne e mo per Berkeley che noi udiamo le parole di Dio, vediamo i suoi segni, non Lui, «Deus absconditus».

sono l'essere stesso dei corpi, sono prodotte in noi dall'attività creatrice di uno Spirito infinito, da Dio. Tanto più questa conclusione apparirà necessaria, qualora si consideri

«la regolarità costante, l'ordine e la concatenazione delle cose naturali, la sorprendente magnificenza, la bellezza e la perfezione delle parti più grandi della creazione, il congegno finissimo delle parti più piccole, l'armonia e l'esatta connessione del tutto»:

uno spettacolo che non si potrebbe spiegare senza ricorrere alla saggezza e alla bontà dell'Autore della natura. Giacché, quelle che gli scienziati chiamano «leggi della natura» non sono altro che «le regole fisse e i metodi stabiliti secondo cui la Mente dalla quale dipendiamo eccita in noi le idee del senso».

Con il giovane Berkeley aveva studiato al Trinity College anche Malebranche, al quale in effetti egli deve qualcosa nella elaborazione della propria riflessione. Con l'oratoriano francese concorda il filosofo

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«Esse est percipi, aut percipere» implicita in modo del tutto trasparente, nel discorso fondativo dell'immaterialismo, l'ammissione, in una con il rifiuto della materia, dell'esistenza, invece, di sostanze spirituali. Là dove è dato un «percipi» deve infatti concedersi un «percipiens», un centro di attività spirituale capace, come ci rivela con immediata evidenza la coLesosanze l . • . h . bb' d' . . spirituali scienza mtlma c e no1 a 1amo. 1n01 stessi, non solo di ricevere nella percezione le idee, ma di elaborarle e anche combinarle variamente e liberamente. Assai efficacemente aveva espresso Berkeley, nei Commentari filosofici, questa sua convinzione, con una formula più completa di quella adottata negli scritti destinati alla pubblicazione: «esse est percipi aut percipere». Questa ammissione dell'esistenza di sostanze spirituali sarebbe apparsa a Hume come una inconseguenza; era infatti convinto il filosofo scozzese che la negazione della materia dovesse comportare anche quella dello spirito, essendo raccolte ambedue Una rilormulazione queste «realtà» sotto l'idea vacua ed inammissidella nozione bile di «sostanza». Ma, in verità, si deve dire che di sostanza nel Trattato era sì usato, per indicare la realtà spirituale, il termine consueto di sostanza, ma senza che gli venisse dato il significato di «substratum», di qualcosa che farebbe da «sostegno» immobile al fluire degli stati di coscienza, in analogia con la materia che starebbe a base delle percezioni del senso

esterno. Berkeley, viceversa, presentava una concezione tutta diversa, fortemente dinamica e personalistica, dello spirito, e lungi dal ridurlo ad una inerte ed immobile realtà, ne identificava piuttosto l'essere, senza alcun residuo, con l'attività stessa della mente. Della sostanza comunemente intesa egli mostrava di conservare soltanto la nozione di un essere esistente per sé. Conseguentemente egli sosteneva che del nostro spirito, ossia di quella che comunemente vien detta «anima», noi non possediamo un'idea, giacché ,. Checose . . . d l questa, essend o «mattlva» e cons1sten o a sua Yto esistenza nell'esser percepita, non potrebbe mai spii «essere l'immagine o l'imitazione di un agente esistente per se stesso». Il che comportava che l'anima fosse inconfondibile col corpo, e pertanto, oltre che attiva, indivisibile ed immortale, i corpi essendo appunto le idee passive presenti nella mente. Questa la definizione di spirito che troviamo nel Trattato: «Uno Spirito è un essere semplice, indiviso, attivo: in quanto percepisce idee, è chiamato 'intelletto', in quanto le produce o in vari modi agisce su di esse, si chiama 'volere'».

Il fatto che non abbia l'idea di me stesso, non significa dunque che io non possegga di me stesso una conoscenza, del ., , tuttod' certa e ,indubitabile - che La > DELLA RAGIONE

che costantemente precede, ed effetto ciò che costantemente segue, spetta alla metafisica conoscere invece le cause veramente attive ed efficienti delle cose e delle loro connessioni che, come sappiamo, si riconducono alla Causa prima che tutte le cose produce. In uno scritto successivo, del 1734, L'analista. Discorso ad un matematico miscredente, Berkeley avrebbe attaccato anche il pensiero matematico di Newton - e di Leibniz -, giungendo a liquidare il calcolo infinitesimale, con la motivazione che le flussioni newtoniane non si possono vedere - sarebRiliuto del calcolo bero «misteriose quanto i misteri della fede» -, e inlinitesimale pertanto degli infinitesimali, di cui non possediamo idea alcuna, non dobbiamo neanche parlare.

Lo scopo più generale di questo saggio, probabilmente indirizzato contro un astronomo che aveva scritto contro la religione, era di mostrare quanto anche nella scienza vi fosse di misterioso ed incongruo: «Chiedo se i matematici, che sono tanto esigenti in fatto di religione, siano rigorosamente scrupolosi nella loro scienza. Non è forse vero che si sottomettono all'autorità, che tendono ad un atteggiamento fideistico, e che credono in cose inconcepibili? Non è forse vero che anch'essi hanno i loro misteri e, ciò che è peggio, aggiungono a questi incongruenze e contraddizioni?».

Esempio lampante ne era, appunto, agli occhi di Berkeley, il calcolo infinitesimale.

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L' «Alcifrone»: la crociata contro i «minuti filosofi» ipreso per alcuni anni l'insegnamento al Trinity . College, Berkeley venne nominato nel 1724 de. cano della cattedrale di Derry, e cominciò a · meditare un audace progetto. Egli disperava · che la vecchia Europa avesse in sé le energie spirituali per risollevarsi dalla caduta materialistica, che sembrava ormai condannarla ad una decadenza irreversibile, e si era andato convincendo che il U d nprogetto au ace futuro de11 a re l'1g10ne · · 'lta' umana doe de11 a c1v1 vesse essere ricercato fuori del vecchio continente; ad esempio, tra gli aborigeni americani, i quali, una volta convertiti al cristianesimo, avrebbero potuto rianimare con le loro forze giovani e genuine l'antico patrimonio dello spiritualismo cristiano. Venne pertanto adoperandosi per ottenere un finanziamento che gli consentisse di passare all'azione, utilizzando amicizie politiche e l'intervento di potenti protettori, fino ad ottenere dal Parlamento l'approvazione del suo progetto, che consisteva nella fondazione alle isole Bermude di un collegio, ove i giova. 1n Amenca. . . d' . d'A menca . vemssero . L'Atcifrone m m 1gem acco lt1. ed educati. Nel 1728, dopo essersi sposato, salpava per l'America insieme a un gruppo di discepoli, e arrivato a Newport, nel Rhode Island, lì si fermava, nella vana attesa, che sarebbe durata quasi tre anni, dei finanziamenti disposti dal parlamento britannico. Nel 1731, deluso, avrebbe fatto ritorno in Inghilterra, senza aver tradotto nella realtà il suo progetto. Ma la «vacanza» americana non era stata senza frutto: nella tranquillità della sua casa, di fronte all'oceano, egli aveva composto l'Alcifrone o il filosofo minuto, in sette dialoghi contenenti un 'apologia della religione cristiana contro quelli che son chiamati liberi pensatori, che avrebbe _ dato alle stampe a Londra nel 1732. In un contesto dialogico di gusto platonico, reso

con squisita grazia stilistica attraverso il confronto tra diversi personaggi, l'autore conduce un attacco frontale contro latitudinari, libertini, deisti, e sostiene che tutti costoro avanzano concezioni destinate a concludere ad un sostanziale ateismo, anche se questo non è mai apertamente professato nei loro scritti, ed anzi viene accuratamente occultato. Ciò che appare tendenzioso in questo scritto non è tanto il processo alle intenzioni che così Berkeley mette in atto - che, peraltro, non sembra privo di qualche fondamento, se è vero che spesso un filo rosso ha congiunto deismi e ateismi - quanto sem- u d' 1 . 'l f atto che egl'1non tenga conto a suff'1c1enza . n mogo mm1 tendenzioso delle non secondarie differenze esistenti tra i «minuti filosofi» contro cui polemizza, sicché Collins, Toland, Tindal, Mandeville, Shaftesbury, cui si riferisce nascondendoli sotto nomi tratti dall'antichità greca - Cratilo, Diagora, Demilo, e così via -, finiscono col perdere la loro identità e differenza, sacrificati come sono in uno schieramento tanto compatto quanto poco attendibile. Soprattutto discutibile, e per certi aspetti odiosa, appare la tendenza a gettare su uomini e orientamenti culturali di ispirazione illuministica, solo per il loro dissentire dai valori religiosi tradizionali, l'om- A . , d' . . . ccuse bra del sospetto d1 1mmora11ta e 1 programm1 infamanti denigratori dell'uomo e della sua natura. Come quando Critone, che è il personaggio, insieme ad Eufranore, che fa da portavoce del pensiero di Berkeley, accusa Al cifro ne («spirito forte») e Lisi cl e, raffiguranti i liberi pensatori, di avere per scopo «di cancellare i principi di tutto ciò che è grande e buono dalla mente dell'uomo, di scardinare ogni ordine di vita civile, di minare le basi della moralità, e invece di migliorare e nobilitare la nostra natura, di abbassarci alle mas-

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sime e al modo di pensare delle nazioni più ignoranti e barbare, e perfino di degradare la specie umana al livello delle belve selvagge».

In tal modo, mostrava Berkeley di non saper intendere la portata innovativa del deismo, il suo essere propositore di una nuova moralità, espressiva delle esigenze che andavano maturando nella società del tempo. Sono in particolare le figure di Mandeville e di Shaftesbury ad uscire deformate dalla raffigurazione che ne fa l'Alcifrone. All'autore della Favola delle api Berkeley rimprovera l'immoralismo di chi ha preferito . apprezzare i vantaggi pratici dei vizi, piuttosto La polemica che condannare questi ultimi, e non vuol rendersi Mandevil~:,~ conto che il punto di vista di Mandeville non era quello del moralista, ma piuttosto, come oggi si direbbe, del sociologo o dell'economista. Questi comunque avrebbe risposto nello stesso 1732 a Berkeley con una Lettera, nella quale gli avrebbe rimproverato il fraintendimento del suo pensiero, ed avrebbe espresso il dubbio che egli non avesse letto attentàmente la

Favola. Quanto a Shaftesbury, ne viene offerta un'immagine unilaterale, come di uno scrittore avverso al cristianesimo, e in particolare viene presa di mira la sua pretesa, presentata in modo schematico e irrigidito, di rendere la morale autonoma dalla religione. In .t.. elcon essa Berkeley scorge un pericoloso incentivo alSImf es mry l' bb d · ' da parte degl'1 uomm1 · · a an ono de11a v1rtu comuni, non più trattenuti dal timore dei castighi divini né più incoraggiati dalla speranza nell'eterna ricompensa. A tutto questo egli contrappone una con-

cezione eteronoma della morale, che ne vuole.la fonda>L.J~ zione sull'insegnamento e le prescrizioni della religio~ ne ecclesiastica. w L'Alcifrone non è propriamente un libro di filosoৠfia, quanto piuttosto un'opera scritta da un prete . . LU · · · · · dell a Un libro d1. 00 . angl1cano s1mpat1Zzante per le poslZlom . l h .. apo1oge11ca «eh1esa a ta» (V. CAP. 20, PAR. n, c e ut11zza certe 1 proprie dottrine filosofiche - in questo caso, la teoria della visione del 1709 ripresa e aggiornata, piuttosto che direttamente la tesi immaterialistica, tenuta stranamente da parte-, in funzione di un'esplicita apologetica della religione positiva cristiana. Non che Berkeley voglia negare il fondamento naturale della religione, a riconoscimento del quale militava tutt'intera la sua speculazione prece- Religione naturale e dente; piuttosto egli è ostile alla pretesa deisti ca di religione ridurre la religione a pura religione naturale, scor- rivelata gendovi il primo passo verso l'ateismo, e rivendica la religione rivelata come conferma, sì, della religione naturale, ma insieme come superamento della sua mèra filosoficità. Delle Sacre Scritturèviene rivendicata una rigida interpretazione letterale, mentre della religione, alieno com'egli è dalle sottili disquisizioni della teologia e dal suo teoreticismo, Berkeley soprattutto esalta, secondo quello che è stato detto il suo pragmatismo re ligio. so, la funzione sociale, la sua utilità ed efficacia nel Prl~g.matismo ·ç l' ord'mamento c1v1 • 'le e po l'1t1co , de11 a re IQIOSO raf10rzare società, e nel guidare il comportamento morale dei cittadini, senza per ciò metterne menomamente in dubbio il fondamento di verità. Anche in questo egli si mostrava vicino alla cultura politica del partito tory.

George Berkeley all'estrema destra ne Il gruppo delle Bermude di Smibert.

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PARTE TERZA lL SETTECENTO: I DELLA RAGIONE

L'Irlanda agli inizi del Settecento l dominio inglese sull'isola d'Irlanda risaliva alla seconda metà del Xli secolo, quando, sotto il regno di Enrico Il re d'Inghilterra, era stata condotta la prima spedizione armata, cui sarebbe seguito un primo insediamento nell'isola e le prime spartizioni di terre tra i baroni inglesi. Dopo alterne vicende di ribellioni e di feroci repressioni, si era proceduto nel XIV secolo, per volontà del re Edoardo 111, all'istituzione di un parlamento irlandese, nel quale però sedessero soltanto i rappresentanti dei

dominatori inglesi, allo scopo di impedire la tendenza di questi a fondersi con la popolazione indigena. Fu in quella occasione che vennero emanate leggi che vietavano connubi tra inglesi e irlandesi, e disponevano la rigida separazione dei costumi e degli usi, sia nella vita associata che in quella privata. Più tardi, erano state sancite, sotto il regno di Enrico VII Tudor, le cosiddette «leggi di Pòynings», dal nome del sir inviato dal sovrano in Irlanda, che stabilivano una rigida dipendenza dell'isola dalla corona inglese: si disponeva

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che le leggi approvate dal parlamento irlandese non fossero valide senza la sanzione del Consiglio privato del re, e che, viceversa, tutte le leggi inglesi dovessero valere anche per l'Irlanda. La riforma religiosa di Enrico VIli, introdotta a forza anche in Irlanda, doveva aggravare ulteriormente le condizioni della popolazione, rimasta compattamente fedele al cattolicesimo. Nasceva così la Chiesa anglicana, assolutamente minoritaria ma dominante, mentre i vescovi cattolici venivano espulsi e i monasteri chiusi o distrutti.

Si dovette a Maria la Cattolica, che pur aveva ristabilito la Chiesa cattolica, l'avvio di quel sistema delle «piantagioni» che, adottato anche dai successori fino a Guglielmo d'Orange, avrebbe significato la completa distruzione della proprietà della terra da parte delle tribù, in cui tradizionalmente gli irlandesi erano divisi. Al momento in cui i nuovi proprietari, tutti inglesi e per giunta spesso reclutati tra avventurieri e malfattori, si impossessavano della terra, gli abitanti venivano deportati. In particolare, sarebbe stata

SEZIONE PRIMA. L'ILLUMINISMO BRITANNICO CAPITOLO 21

la spedizione dì Cromwell a metà Seicento a spezzare per lungo tempo la resistenza armata degli irlandesi dì fronte a quella che era ormai una vera e propria colonizzazione del paese: dopo aver messo a ferro e fuoco l'isola, il Protettore d'Inghilterra aveva disposto deportazioni in massa - sì calcola che fossero sessantamila gli irlandesi deportati nelle Indie occidentali -, cui sì aggiunse una vasta emigrazione dì irlandesi in vari paesi dell'Europa. Narrava la voce popolare della vecchia Irlanda che «tre bestie» soltanto erano rimaste a custodia della patria: il lupo che sì aggirava per i terreni incolti, il prete che, clandestino, manteneva vivo il sentimento nazionale, l'irlandese spogliato delle sue terre, che tramava contro i nuovi padroni. Berkeley era ancora in tenera età, allorché l'Irlanda diveniva teatro del tentativo degli Stuart dì recuperare il trono inglese, perduto dopo la «gloriosa rivoluzione». Sbarcato nell'isola e accolto favorevolmente dalla popolazione, Giacomo Il riuscì ad occupare. Dublino, ma nel 1690 venne sconfitto dal genero Guglielmo 111 e costretto a rifugiarsi dì nuovo in Francia. Nuove spoliazìonì a danno dei gìacobìtì cattolici furono seguite dalle «leggi penali» promulgate dal Parlamento inglese, che frattanto aveva rifiutato la concessione della libertà religiosa per i cattolici. Ridotti alla miseria o a fare i braccianti nelle terre espropriate, gli irlandesi, o più esattamente i quattro quìntì della popolazione - un quinto erano inglesi e dì

religione protestante persero così ogni diritto politico e civile. Scrive Mario Manlìo Rossi nel suo Saggio su Berkeley del 1955: «Un cattolico non poteva nemmeno possedere un cavallo che valesse più dì 5 sterline. Se un figlio sì convertiva al protestantesimo, il padre perdeva la proprietà dei beni a favore del figlio. Se il figlio restava cattolico, invece dì lui ereditava qualunque parente anche lontano. Proibito a un cattolico fabbricare armi, esser avvocato o procuratore legale, fare il maestro dì scuola, aver un impiego pubblico - e naturalmente, votare od esser nominato deputato al parlamento irlandese .... Se i poveri irlandesi potevano ancora respirare, era soltanto perché il parlamento inglese, che avrebbe visto dì buon occhio la rovina dell'Irlanda pericolosa sempre, incontrava l'ostilità degli anglo-irlandesi del parlamento irlandese che volevano vivere. Ma tuttavia, giocando con le tariffe doganali e con le restrizioni all'importazione ed esportazione, sì erano compiuti bei passi verso l'affamamento dell'Irlanda. Questa non aveva altro da esportare che la lana. Ma la lana era uno dei grandi proventi inglesi; quindi Guglielmo 111 promise dì far quel che avrebbe potuto per scoraggiare la produzione irlandese della lana e sostìtuìrla con quella del lino che l'Inghilterra non produceva. Così, nel1698 venne proibito all'Irlanda dì esportar lana fuorché in Inghilterra, la quale, naturalmente, metteva le dogane che voleva, ovvero la

pagava quanto voleva. Nel 1726 tutti i lanieri anglo-irlandesi erano rovinati, e non potevano più dare lavoro ai 'nativi'. Quanto al lino, se ne favorì l'importazione in Gran Bretagna: ma appena in questa (in Scozia) sì sviluppò la tessitura del lino, anche su questi tessuti vennero imposte dogane proibitive ... >>. Tra coloro che allora sì batterono con grande energia a favore della popolazione irlandese, fu lo scrittore anglo-irlandese ed anglicano Jonathan Swìft, autore a quel fine dì diversi pamphlets. Esasperato per l'indifferenza degli inglesi al problema e per le proposte sbagliate dei governanti, egli pubblìc.ò nel1729 un libello, destinato a restar celebre per il sarcasmo con cui veniva avanzata, a feroce parodia dell'ipocrisia dei politici, la paradossale proposta adombrata nel titolo dato al libello. In Una modesta proposta per impedire che i bambini della gente povera siano di peso ai loro genitori o alloro paese, Swìft, con fare concreto da mercante e con il tono da programmatore competente, avanzava l'idea dì organizzare una sorta dì allevamento dei figli dei poveri, per farne cibo dei ricchi, e sollevare così i loro genitori da un carico che lì costringeva ad elemosinare, o a lasciare i figli senza cibo e vestiti per il resto della loro vita: «Un americano molto competente che ho conosciuto a Londra, mi ha assicurato che un bambino sano e ben nutrito è, all'età dì un anno, un cibo quanto mai squisito, nutriente e salutare, sia che lo sì faccia stufato, arrostito, al forno, o

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bollito; e io non ho dubbi che sia egualmente buono anche per una fricassea o per il ragout. Sottopongo perciò alla pubblica attenzione la proposta dì riservare ventimila, dei centoventìmila bambini menzionati, all'allevamento ... E così i restanti centomila potranno all'età dì un anno, essere offerti in vendita alle persone ricche e nobili dì tutto il regno; e sì dovrà sempre raccomandare alle madri dì lascìarli succhiare abbondantemente nell'ultimo mese, in modo da renderli pieni, grassi e adatti alle buone tavole». E concludeva cgsì Swìft: «Non vi è il minimo interesse personale nei miei sforzi dì promuovere quest'opera indispensabile, non avendo altro scopo che quello dì contribuire al bene del mio paese dando impulso al commercio, soccorrendo l'infanzia, aiutando i poveri e procurando qualche gioia ai ricchi. Non ho bambini dai quali possa propormì dì ricavare anche un solo penny, essendo il più giovane dei miei figli dì nove anni, e avendo mia moglie superata l'età feconda».

PARTE TERZA lL SETTECENTO: I '~":, naie, che essi pretendono di fondare sull'idea di «anima», o «io», o «sostanza spirituale». Quanto al problema dell'esistenza di un mondo corporeo, Hume comincia con l'osservare che non si tratta di stabilire «se i corpi esistano o no», giacLa causa della credenza ché il filosofo critico sa che gli unici oggetti della nell'esistenza nostra esperienza sono le impressioni e le idee, dei corpi:... dalla cui cerchia mai si potrebbe uscire; la questione è piuttosto quella di stabilire «quali sono le cause che ci inducono a credere nell'esistenza dei corpi».

Chiarito che la credenza dell'uomo comune consiste nel ritenere che i corpi continuino ad esistere anche quando non sono presenti ai nostri sensi e che dunque abbiano un'esistenza indipendente e distinta dalle nostre percezioni, si tratta di capire se a produrre questa credenza siano i sensi, la ragione, oppure l'immaginazione confortata dall'abitudine. Come nel caso dell'idea di causa ed effetto, anche qui la risposta di Hume è netta: anche questa credenza è fondata su memoria, immaginazione ed abitudine, e mai i sensi o la ragione la potrebbero generare. . . Non i sensi, poiché per essi un oggetto esiste solo 1 ... non sensi... finché e in quanto sia percepito; supporre l'esistenza di oggetti distinti e indipendenti dalle percezioni, significa esser già andati oltre gli attestati dei sensi. Non la ragione- prosegue Hume -,poiché l'analisi critica che essa conduce delle nostre conoscenze empiriche mostra come «tutto ciò che si presenta 1 ... nep~~~~~~: alla mente non è che percezione, la quale è intermittente e dipendente dalla mente»: tutto il contrario, dunque, di un'esistenza continuata e indipendente dei corpì. Quanto al tentativo condotto dai filosofi moderni, ultimo tra tutti Locke, di fondare razionalmente la credenza nell'esistenza del mondo corporeo sulla distinzione tra qualità primarie e qualità secondaQualità rie, che autorizzerebbe ad ammettere una sostanprimarie e secondarie: za materiale quale sostegno delle prime, Hume d'accordo con riprende le argomentazioni contrarie di Berkeley, Berkeley e mostra come l'idea di sostanza materiale, non essendo riconducibile ad alcuna impressione, ri-

duca ad una «inintelligibile chimera», ad una «fantasia» del tutto illusoria. La conclusione cui perviene la ragione critica non può essere, allora, se non quella di riconoscere nei cosiddetti oggetti esterni nient'altro che delle collezioni di impressioni ed idee. Eppure, nonostante tutto, è radicata in noi, nella nostra natura, indistruttibile, la convinzione che le cose esistano davvero fuori di noi, e continuino ad esistere anche quando non le percepiamo. Questa certezza, che ci salva dall'opera altrimenti distruttiva della ragione, ce la offre, ancora una volta, l'immaginazione. Vediamo come. Il punto di partenza è costituito dal rilevare la costanza delle nostre impressioni: «Quelle montagne, quelle case, quegli alberi, che vedo presentemente, mi sono sempre apparsi nel medesimo ordine; e se chiudo gli occhi o volgo la testa, poco dopo mi si ripresentano senza la minima alterazione. Il mio letto, la mia tavola, i miei libri e le mie carte, si presentano a ~al~ostanza me nello stesso modo uniforme, e non cambiano per . e e . . un'interruzione del mio vederli o percepirli». nnpressiOm

Questa costanza delle percezioni è già una premessa che avvia alla supposizione dell'esistenza continuata e indipendente dei corpi. È vero che «spesso i corpi mutano di disposizione e qualità, sicché, anche dopo una breve assenza o interruzione, si riconoscono appena», ma si tratta di mutamenti che per la loro regolarità e coerenza non sembrano in contrasto con quella supposizione: «Quando ritorno in camera dopo un'ora di assenza, non trovo il fuoco nelle stesse condizioni in cui l'ho lasciato; ma io sono abituato a vedere una simile alterazione, prodotta in simile tempo, in altre circostanze, ch'io sia presente o assente». ·

Dal ripetersi costante e regolare di successioni di impressioni tra loro fortemente simili si forma un'abitudine, che sospinge l'immaginazione ad identificare tali insiemi di impressioni, colmandone la di- L b' d' · · , ne ll''d . scontmmta 1 ea d' una loro esistenza conti-. 'a 1tu me nuata. Insomma, dalla costanza, coerenza e somiglianza delle nostre percezioni nasce l'opinione di una esistenza continuata dei corpi, e di una loro indipendenza dalle nostre percezioni. Ed anche in questo caso, come in quello della connessione causale necessaria, noi non ci limitiamo a 'concepire' l'esistenza continuata ed indipendente dei corpi, ma ci 'crediamo', anzi non possiamo L d ~ . . frena- a ere enza 1are a meno d'1 ere derc1,· sotto la spmta 1rre bile di un istinto che nasce dalla nostra stessa natura e, anche in questo caso, confligge vittoriosamente con

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SEZIONE PRIMA. L'ILLUMINISMO BRITANNICO CAPITOLO 22

le argomentazioni della ragione critica. Lo stesso procedimento Hume segue per quanto riguarda la credenza nell'identità personale .e l'idea . dell'esistenza di sostanze spirituali. Se ci affidia,.d 1 Lostanza ea c11 mo a11 e anal'1s1· de11a ragwne · · lta e a quanto nsu !pirituale dall'esperienza, dobbiamo riconoscere l'inconsistenza di un concetto come quello, caro ai filosofi, di «anima» - o «spirito», «sostanza pensante», «sostanza immateriale», che dir si voglia -, con il quale si è creduto di poter fondare l'idea di un «io» personale, sempre identico a sé. . Intanto non è vero, con buona pace di Cartesio, Non ab bmmo h d' ''d d 11' . . hé m. . quel'idea di ((io» c e posse wmo un 1 ea e «I_D», P?IC sto caso ne dovremmo aver pnma 1'1mpresswne, e questa invece non si dà: «Se ci fosse un'impressione che desse origine all'idea dell'io, essa dovrebbe restare la stessa per tutta la nostra vita, poiché si suppone che l'io esista in questo modo. Invece non c'è alcuna impressione che sia costante e invariabile. Dolori e piaceri, affanni e gioie, passioni e sensazioni si alternano di continuo, e non si danno mai tutti insieme. L'idea dell'io non deriva quindi da alcuna di queste impressioni, né da nessun'altra: di conseguenza, una tale idea non esiste».

Incalza Hume: «Per parte mia, quanto più mi addentro in quello che chiamo il mio io, sempre m'imbatto in una particolare percezione, di caldo o di freddo, di luce o di ombra, di amore o di odio, di dolore o piacere, o di altro. Non riesco mai a cogliere il mio io senza almeno una percezione, a notare altro che non sia l'atto del percepire ... E se tutte le mie percezioni fossero soppresse dalla morte, sì che non potessi più pensare e sentire, vedere e amare e odiare, e il mio corpo si dissolvesse, io sarei completamente annientato, e non so che altro si richieda per far di me una perfetta non-entità».

Parlare, come fanno i metafisici, di noi stessi come di sostanze pensanti e immateriali, è pura fantasia: «Noi non siamo che fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità, in un pertetuo flusso o movimento ... La mente è una specie di teatro, dove le diverse percezioni fanno la loro comparsa, passano, ripassano, scivolano via e si mescolano in Una p~ra una varietà infinita di atteggiamenti e di situazioni>). fantaSia

E ad evitare che qualcuno cerchi ancora di pensare che in questo fluire qualcosa di fisso e sempre identico a sé pur vi sia, Hume aggiunge: «Non si fraintenda il paragone con il teatro: a costituir la mente non ci sono che le percezioni successive; noi non abbiamo lapiù lontana nozione del posto dove si rappresentano queste scene e del materiale di cui è composto».

Nonostante la forza di queste argomentazioni della nostra ragione usata criticamente, anche per l'i" dentità personale di ciascuno di noi resiste un'inclinazione naturale a credervi che, ancora una volta, Ancora una si nutre della forza dell'immaginazione e della volta, la forza memoria. In questo caso, l'immaginazione fa le- dell'immaginava sulla memoria, che le consente di vincere la zione e della frammentarietà e mutevolezza delle percezioni memoria interne, e di riunirle, per la somiglianza che le lega, nell'idea fittizia dell'io. In particolare, esercita un'influenza decisiva il fatto che quelle percezioni, similmente a quelle del senso esterno, son già legate tra loro dal nesso causale, secondo il quale «si generano reciprocamente, si distruggono, si influenzano e modificano l'una l'altra»: quello che si suole chiamare il nostro io, o la nostra persona, non è altro che questo concatenamento di cause ed effetti. Dalla risoluzione della vita interna della coscien-

Lettera di Hume a W. Strahan, il suo editore.

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PARTE TERZA IL SETTECENTO: I DELLA RAGIONE

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za nella successione delle percezioni, Hume ricava infine l'argomento che gli consente di subordinare :c anuniformi, nel senso che sussiste un'unione costante Uniformità dei che l'uomo a quell'uniformità che abbiamo tracomportamenti vato nei comportamenti della natura fisica, giunumani e libertà gendo così a metterne in discussione la libertà. Anche i comportamenti dell'uomo sono infatti

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tra le azioni che egli compie da una parte, e i moventi, le situazioni, i caratteri dall'altra; di conseguenza, quei comportamenti sono prevedibili, né più né meno di quelli della natura, e, al pari di quelli, necessitati, naturalmente nel senso sperimentale, e dunque relativo, del termine 'necessità'. Ma con questo già ci introduciamo alle problematiche della vita morale.

2.8

La vita di un saggio alla ricerca della gloria letteraria opo l'insuccesso della pubblicazione del Trattato, Hume mise da parte i suoi interessi più propriamente teoretici per dedicarsi, lungo il decennio l 741-51, prevalentemente a studi di morale, politica e religione, che si sarebbero concretizzati nei Saggi morali e politici, pubblicati nel Gr ·tr l 741, destinati ad un discreto successo, nella Rietico-p~~~~o~ cerca sui princìpi della morale del l 751, e nella religiosi stesura in questo stesso anno dei Dialoghi sulla religione naturale, che per motivi prudenziali rinunciò a pubblicare, e che sarebbero apparsi solo nel 1779, postumi. Egli si portava dietro, provocata dal Trattato, l'accusa fastidiosa di scetticismo e di ateismo - che tra l'altro, come s'è già ricordato, gli aveva fatto perdere l'opportunità di salire su una cattedra universitaria dell'università di Edimburgo - , e non intendeva probabilmente aggravare la propria posizione, facendo apparire un libro sulla religione audacemente spregiudicato. Ciò peraltro non gli aveva impedito nel 1748 di inserire nei Saggi filosofici sull'intelletto umano, anch'essi destinati ad un buon successo, uno scritto Sui miracoli, che otto anni prima aveva rinunciato a pubblicare nel Trattato, e nel quale non era difficile percepire la sua indifferenza religiosa. A proposito dei Saggi, ribattezzati dieci anni dopo Ricerca sull'intelletto umano, che rappresentavano, come sappiamo, una rielaborazione del primo liRidimensiona- bro del Trattato, si deve dire che essi, insieme mento del con la Ricerca sui princìpi della morale, segnavaprogramma no l'abbandono da parte di Hume dell'ambizioso primitivo programma giovanile di costruire una scienza sistematica della natura umana, a vantaggio di una considerazione più «saggistica» di quest'ultima, nella convinzione ormai maturata che non fosse nei poteri della ragione ricondurre a pochi princìpi la complessa ricchezza dell'esperienza umana. Negli anni precedenti, la vita di Hume era stata Interessi politici e movimentata per alcuni viaggi compiuti in Franstorici. La cia, Italia ed Austria, al seguito di un generale Storia che lo aveva preso al proprio servizio, e dai quali d'Inghilterra il nostro filosofo si era ripromesso, oltre che i proventi necessari al vivere, una più ampia espe-

rienza del mondo, che pensava gli sarebbe tornata utile anche per i propri studi. Questi si erano andati infatti sempre più orientando verso i problemi etico-politici dell'attualità e gli interessi storici, come sarebbe apparso durante gli anni cinquanta, quando avrebbe pubblicato nel 1752 i Discorsi politici, e si sarebbe dedicato, potendo valersi della biblioteca della facoltà degli avvocati presso l'università di Edimburgo, di cui nel frattempo era divenuto il conservatore, alla stesura della monumentale Storia d'Inghilterra da Giulio Cesare alla «gloriosa rivoluzione», apparsa tra il 1754 e il 1762, che gli avrebbe procurato grande notorietà internazionale ed agiatezza economica. Anche delle critiche, però: oltre che da parte dei soliti ambienti ecclesiastici, dagli whigs, che avvertirono nei volumi dedicati al XVII secolo un'ispirazione schiettamente conservatrice. Dopo essere scampato al rischio della persecuzione religiosa, culminato, come s'è già detto, negli anni 1755-56, Hume pubblicava nel1757 un saggio, fin nel titolo assai irriverente, sulla Storia naturale della .b . . h bb . l . l . . Un 1l ro relzg!on~, c e. avre. e ~usc1tat? e. ~10 ent1ss1me irriverente reazwm degh amb1ent1 eccleS1astlc1, non senza spaventare i suoi stessi amici, troppo moderati per anche soltanto apprezzare le sue idee religiose. Segno eloquente della fama ormai diffusasi anche nel continente, furono i riconoscimenti e gli onori tributatigli a Parigi durante un soggiorno di alcuni anni, tra il 1763 ed il 1766, in qualità di addetto all'ambasciata britannica, riaperta dopo la fine della guerra dei Sette Anni. Hume frequentò i circoli e i salotti illuministici della città, entrò in rapporti La amichevoli con i philosophes, da d'Alembert a frequentazione Diderot, da Buffon ad Helvétius, fino a d'Holba- dei ch. Più che come scrittore di cose strettamente philosophes filosofiche, egli era conosciuto e apprezzato per gli scritti politici e storici, oltre che per quelli intorno alla religione, circa i quali vi era chi, come d'Holbach, trovava che egli fosse anche troppo moderato. Il suo «Umore aperto, socievole e brioso», il modo sereno ed equilibrato di mettersi in rapporto con gli altri, la sua compagnia, «non sgradevole ai giovani ed agli spensierati, così come agli studiosi ed ai letterati», dovet-

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SEZIONE PRIMA. L'ILLUMINISMO BRITANNICO CAPITOLO 22

tero contribuire per la loro parte al successo anche mondano del filosofo, il quale non disdegnò l'amicizia sentimentale con la dama che lo aveva introdotto negli eleganti salotti parigini. Lui che, scherzosamente, avrebbe scritto di avere una famiglia composta da lui stesso, un gatto, una domestica, una sorella. Al ritorno in Inghilterra si sarebbe aperto per Hume un doloroso capitolo della vita, rappresentato dal caso Jean Jacques Rousseau: su suo invito, questi lo aveva raggiunto a Londra, in cerca di protezione dalle persecuzioni cui era soggetto e dopo la rot11 Rous~::~ tura con gli ambienti illuministici parigini. Il carattere ombroso del ginevrino e la mania di persecuzione di cui ormai era preda lo fecero vaneggiare di un complotto ordito da Hume ai suoi danni, dopodiché abbandonava bruscamente l'amico, facendo ritorno in Francia. Il nostro filosofo volle pubblicare la documentazione della spiacevole vicenda per allontanare da sé ogni sospetto, ma poco dopo se ne sarebbe pentito, essendosi reso conto delle condizioni di salute di Rousseau. Dopo un breve incarico nel governo inglese in Gli ultimi anni qualità di sottosegretario, Hume, ricco e ormai sicuro di quella gloria letteraria che aveva sempre cercato, decise nel 1769 di ritirarsi ad Edimburgo nella

quiete solitaria dei suoi studi, che lo avrebbe accompagnato fino alla morte, sopraggiunta nell776 in conseguenza di un tumore intestinale. Trascorse questi ultimi anni nella revisione dei propri scritti e, in particolare, dei Dialoghi sulla religione naturale, che considerò come il proprio testamento filosofico, e volle assicurarsi che non venissero lasciati inediti dopo la sua morte. Ormai colpito dal male, compose, negli ultimi mesi di vita, la propria autobiografia, che sarebbe apparsa un anno dopo la sua morte, col titolo di La mia vita. Della propria sorte, ormai segnata, così egli scriveva: «lo ora faccio conto in una rapida dissoluzione. Ho sofferto molto poco a causa della mia indisposizione; e, ciò che è più strano, non ho, nonostante il grande declinare del mio fisico, sofferto nemmeno un momentaneo abbattimento del mio spirito; cosicché, se dovessi indicare il periodo della mia vita da scegliere per riviverlo, sarei tentato di puntare su quest'ultimo periodo. Possiedo lo stesso ardore di sempre nello studio, e la stessa gaiezza nella compagnia. Considero inoltre che un uomo di sessantacinque anni, morendo, evita soltanto pochi anni di infermità; e sebbene io veda alcuni sintomi del crescere della mia fama letteraria da ultimo con maggiore lustro, so che ho soltanto pochi anni per goderla. È difficile essere più staccati dalla vita di quanto io lo sia presentemente».

2.9

La morale: le passioni e la ragione. n sentimento della simpatia n filosofo appassionato analista della natura umana come Hume non poteva non riconoscere nella morale «un argomento più interessante di ogni altro», riferendosi esso alla vita concreta e quotidiana degli uomini, assai più delle astratte problematiche della filosofia teoretica, interessanti solo per il dotto studioso. D'altronde, era lo stesso rilievo che nella trattazione dei problemi della conoscenza aveva assunto il ruolo dell'istinto, della credenza e del sentimento, a giustificare il crescente interesse di Hume per regioni come quelle dell'etica, della politica e della religione, nelle quali - lo vedremo - dominanti appaiono essere appunto le componenti arazionali, passionali della natura dell'uomo. Quanto alla morale, il discorso humiano sottende una dottrina delle passioni francamente antirazionalistica. Già nel secondo libro del Trattato, dedicato R . appunto alle passioni, Hume aveva sostenuto che ~~~~i~~ la ragione, da sola, non potrebbe mai offrire alla volontà un motivo di azione, e che, nel comportamento degli uomini, essa non è in grado di contrapporsi alle passioni, che sole motivano gli uomini ad agire. Se un ruolo essa è capace di assolvere, è solo di

fungere da strumento delle passioni, le vere padrone dell'animo umano; e questo, in due modi: «O quando suscita una passione con l'informarci dell'esistenza di qualcosa che rappresenta l'oggetto specifico della passione; o quando scopre la connessione tra le cause e gli effetti, in modo tale da offrirei dei mezzi per soddisfare una passione».

Per il resto, la ragione è impotente: «Non parliamo né con rigore né filosoficamente quando parliamo di una lotta tra la passione e la ragione. La ragione è, e deve solo essere, schiava delle passioni, e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire e obbedire ad esse».

Una così radicale negazione della ragion pratica doveva avere un immediato riflesso sulla questione del fondamento della morale. Questa ha il compito di offrire criteri la condotta . . .secondo cui. valutare . . . ,urna- Rag1one e na, se sta virtuosa o viziOsa, e pertanto g11 e pro- «dover essere)) prio un linguaggio normativa, cui è essenziale l'uso del verbo 'dovere'. Viceversa, la ragione, che Hume restringe al campo esclusivamente teoretico, ha a che fare solo con la distinzione tra vero e falso, e di conse-

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PARTE TERZA IL SETTECENTO: I «LUMI» DELLA RAGIONE

guenza le espressioni verbali che soltanto le si addicono, sono l"è' e il 'non è'; il 'dover essere' non è di sua pertinenza. Essa non può essere dunque il fondamento della morale. In effetti, Hume ricerca la base della valutazione morale nel sentimento, e certamente avrà tenuto conto della lezione di un moralista scozzese come Hutcheson (V. CAP. 20, PAR. 6), il quale aveva discorso, sulle . orme di Shaftesbury, di un «senso morale» innaIl senllmento. t Il' Sl h H h ç • . IMcheson o ne uomo. o o c e utc eson 1aceva nsa1ue questo senso morale ad un'origine trascendente, e lo interpretava come segno dell'impronta divina nell'uomo, mentre Hume, fedele al proprio sperimentalismo empiristico, mette da parte ogni implicazione metafisica e teologica, riducendo laicamente il principio della morale ad un sentimento puramente umano. Rifacendosi alla distinzione tra impressioni ed idee che, come si ricorderà, veniva fatta coincidere con quella tra sentire e pensare, il nostro filosofo sostiene che l'origine della valutazione morale, e dunque la distinzione tra vizio e virtù, sta in una ' .. d L ongme e11 a . . Sl b . . valutazione ImpressiOne. o o se uono e cattivo, virtuoso e morale vizioso, consistessero in qualità appartenenti agli oggetti in se stessi, avrebbero ragione i sostenitori del razionalismo etico a porre a fondamento del giudizio morale un atto della ragione consistente nel riconoscere, appunto, l'oggettività del bene e della virtù, allo stesso modo che con un atto della ragione si riconosce la verità. Ma le cose non stanno così: «Prendiamo un'azione ritenuta viziosa, ad esempio un omicidio premeditato. Esaminatela sotto tutti gli aspetti e vedete se riuscite a scoprire il dato di fatto, o esistenza reale che si chiama vizio. Guardate pure la cosa in tutti i modi: troverete soltanto certe passioni, moventi, volizioni e pensieri; non vi sono altri dati di fatto. Il vizio sfuggirà completamente finché considerate l'oggetto».

Cosa occorre allora che facciate? «Rivolgete la vostra attenzione al vostro cuore, e troverete che in esso è sorto un sentimento di disapprovazione nei confronti di quell'azione. Ecco allora un dato di fatto; esso però non è oggetto della ragione, bensì del sentimento. Esso si trova in voi, non nell'oggetto».

È dunque nel modo, soggettivo, con cui noi «sentiamo» le qualità degli oggetti che consiste il giudizio ... d morale; per questo, del tutto simile al giudizio SoggeIllVIta e1 t . 'l l . . d. d l beIlo e del giudizio morale es etlCO con 1 qua e Sl gm 1ca e brutto. In ambedue i casi, l'approvazione o disapprovazione che noi esprimiamo si riconduce ad un sentimento di piacere o di dispiacere immediati che le cose suscitano in noi. Naturalmente, ciò non va inteso come se una qualunque cosa che piaccia o dispiaccia sia, semplicemente per questo, buona o cattiva, bella o brutta: ci deve pur essere una differenza tra il piacere di una buona bottiglia di vino e quello procurato da una

buona composizione musicale, tra il piacere che si prova per un'azione nobile e generosa e quello suscitato da un oggetto inanimato. Ciò che con- Il sentimento morale: un traddistingue il piacere morale, o estetico, è che sentimento 11dì si tratta di un sentimento «di tipo particolare», tipo «disinteressato», senza alcun riferimento al no- particolare>> stro interesse particolare. Scrive Hume: «l sentimenti morali e i sentimenti dell'interesse personale possono esser confusi e convertiti naturalmente l'uno nell'altro. Raramente riconosciamo virtuoso un nemico, come raramente siamo capaci di distinguere il fatto che egli si oppone al nostro interesse dalla sua reale scelleratezza. Ma i due sentimenti sono, per se stessi, distinti; ed un uomo equilibrato può evitar di cadere in tali errori. Allo stesso modo, è certo che una voce armoniosa dà soltanto un piacere di un genere particolare; tuttavia è difficile per un uomo avvertire che la voce di un nemico è piacevole e riconoscere che è armoniosa. Però una persona di orecchio fine e che sia equilibrata può separare questi sentimenti e lodare ciò che merita di esser lodato».

Proprio perché il piacere che sta a fondamento delle nostre valutazioni morali è disinteressato, queste possono pretendere di valere universalmente, . . di ottenere per sé il consenso di tutti gli uomini, La 1151111 patla» o, quantomeno, della maggior parte di essi. È così che Hume riconosce, alla base della valutazione morale, il sentimento della «simpatia», che consente ad ogni uomo, appunto, di oltrepassare la sua propria sensibilità egoistica, facendogli 'sentire' l'appartenenza al comune mondo degli uomini, all'umanità. «La simpatia - scrive Hume - ci fa uscire da noi stessi».

È essa un istinto che assolve ad un ruolo per molti aspetti simile a quello svolto dalla credenza nel campo del conoscere: così come questa rende possibile l'organizzazione dell'esperienza, di modo che al fluire e all'instabilità delle percezioni si sostituisca un mondo di «cose», in cui all'uomo sia possibile orientarsi, analogamente la simpatia rende possibile l'organizzazione sociale, un ·mondo comune che consente ad ogni uomo di uscire dal pròprio isolamento e di incontrarsi con gli altri. In ambedue i casi, non la ragione, ma una forza istintiva è il cemento che unisce le parti in un complesso ordinato, in un «mondo». Per questo riconoscimento della simpatia, della benevolenza, quale principio sul quale si fonda l'intera vita morale, Hume si oppone, come del resto avevano già fatto Shaftesbury ed Hutcheson, al pesd . . d'1 Hobb es, d'1 cm. n'f'mta l' asso lutlzza. Lontano a1 s1m1smo pessimismo zione dell'egoismo nel dipingere la natura del- hobbesiano l'uomo: non che egli neghi nell'uomo la presenza di «particelle del lupo e del serpente», ma ritiene che, tutto sommato, siano le «particelle della colomba» a prevalere; e comunque egli pensa che la preoccupazione per il proprio utile non sia incompatibile con l'im-

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SEZIONE PRIMA. L'ILLUMINISMO BRITANNICO CAPITOLO 22

pulso simpatetico. Come Hutcheson, anch'egli unisce pertanto a quella sentimentalistica una componente utilitaristica della moralità, dalla forte accentuazione sociale. Sicché, a rafforzare la spinta a simpatizzare con gli altri e a condividere le loro gioie e i loro dolori, si

unisce la consapevolezza che la propria felicità individuale dipende da quella della collettività, il che ci determina a considerare virtuose le azioni socialmente utili, viziose quelle esclusivamente rivolte al proprio utile particolare.

La politica nche nell'affrontare i problemi relativi all'origine della società e dello stato Hume rimane fedele all'impostazione empirico-sperimentale che caratterizza tutt'intera la sua indagine sulla natura umana; e pertanto si mostra ostile alle ipotesi astratte ed inverificabili cui la più recente filo. sofia politica inglese aveva dato largo credito, . d ll Avversione a11 o . d' l . 'd .10 come 11 mito e o «stato l natura» e a teona 0109 » !Il e · de11o stato. contrattual'1st1ea Per la stessa avversione alle ideologie, egli rifiuta anche l'idea, incompatibile col suo laicismo, dell'origine divina del potere, venendosi così a collocare dissimmetricamente non solo nei confronti del partito . whig, legato alla tradizione liberai-contrattualiTra whtg · d el lOC1Cismo, 1 • to~·ese stlca ma anche nei· con front1· d e1· 1 tories più ligi alla tradizione, dai quali già lo separava il proprio scetticismo religioso. Contro Hobbes e Locke, Hume difende il cm·attere naturale della società, che non è fondata su di un contratto, bensì sullo spontaneo «consenso» - proprio nel significato etimologico della parola - che sor. Carattere · · 1 · d 1 b' A naturale della ge tra g11 uom1m, sotto a spmta e 1sogno. società differenza di quanto avviene nella vita animale, nella vita umana sussiste una sproporzione tra i mezzi di cui gli uomini dispongono in quanto animali e la quantità di beni e~terni di cui hanno bisogno, i quali non sono reperibili in natura già pronti e in quantità sufficiente per tutti, ma devono essere acquisiti attraverso il lavoro, il quale a sua volta richiede unione delle forze, cooperazione e dunque socialità. Per avere garantito, in una tale situazione di scarsità, il possesso sicuro dei beni prodotti dal proprio lavoro o comunque acquisiti, gli uomini, avvertiti dell'interesse comune, si danno delle regole idonee ad assicurare stabilità e sicurezza al possesso dei beni di ciascuno, che acquista in tal modo il significato giuridico di «Prot?rietà». E da quelle regole che nasce la «giustizia», la quale, dunque, non è data originariamente nella natura umana, ma viene acquisita con l'evolversi sto. .. G111511z1a e . d 11 . , d ' 11' . . d l f propr'età neo e a soc1eta, e e, a ongme, e tutto un1 zionale alla tutela della proprietà. Solo in un secondo momento essa acquista la valenza di una virtù, ed alla coscienza della sua utilità sociale si aggiunge il

sentimento, fondato sulle simpatia, della sua obbligatorietà morale. Nulla sopravvive, come è evidente, in questa teoria della natura e del progresso della società, delle idee giusnaturalistiche: non esiste un diritto naturale; . diritti, obblighi, proprietà, presuppongono il sor- E~tranetita 1? 1 n 'd d' , , . , , ., QlliSila Uf8 ISI O gere de11e 1 ee 1 gmst1z1a e mgmstlzm, e sono dunque un portato del progresso sociale, non il mitico fondamento metastorico di cui favoleggiano i giusnaturalisti. Questo rifiuto del diritto di natura consente a Hume, tra l'altro, di liquidare, quale segno di fanatismo politico derivato da un originario fanatismo religioso, l'egualitarismo di coloro -i livellatori- che nel XVII secolo avevano preteso la eguale distribuzione della proprietà. In ogni società, che è sempre il risultato di vicende storicamente condizionate, l'unico diritto cui ci si possa appellare è quello positivo, in forza del quale la proprietà è necessariamente distribuita in modo diseguale. Quanto al governo - ovverossia allo stato -, Hume lo considera un'istituzione che nasce successivamente alla società, ed è resa necessaria, oltre che dal fatto che gli uomini sono deboli ed incostanti, .. 0 111 abbastanza da perdere spesso di, vista l'interesse ng • e ed · , 1UtlZIOile e 11 O generale e da anteporre ad esso 11 propno vantag- stato gio particolare, soprattutto a causa delle inimicizie che intervengono tra uomini appartenenti a società diverse venute a contatto tra loro. L'unica funzione spettante al governo consiste nel costringere gli uomini a rispettare la giustizia e la proprietà. Circa poi l'obbedienza che i cittadini debbono al governo, Hume rifiuta la tesi, sostenuta per esempio da Berkeley e dai teorici del diritto divino dei re, che essa debba essere assoluta ed incondizionata. L'obbligo dell'obbedienza- egli afferma- cessa nel mo. · cm· 1· governanti· Impongano, · · mo do Obbedienza e mento m m r'belr 1 1011 «flagrante», «clamoroso» ed «intollerabile», la e loro tirannia, venendo meno al compito di assicurare il rispetto della giustizia. E per questo, non è affatto necessario ipotizzare un contratto originario che sarebbe intervenuto tra sudditi e governo, ché anzi è proprio il contrario a legittimare la ribellione: «Dato che non si è fatta nessuna promessa, ribellarsi al governo non significa aver mancato di parola».

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PARTE TERZA IL SETTECENTO: I DELLA RAGIONE

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bisognoso, pressato da bisogni e passioni molteplici», voglioso di felicità, timoroso della vita futura, pieno cc di terrore della morte, il quale scruta ansiosamente negli eventi di cui teme l'opera distruttiva o da cui, viceversa, spera un van:tàggio, di volta in volta tremando, sacrificando e sperando. Nelle vicende e nei fenomeni della natura crede infatti di scoprire la presenza di volontà e poteri invisibili ed intelligenti, ora crudeli e vendicativi, ora invece benevoli, ora capricciosi e volubili, e ad essi dà il nome di dèi, cui si rivolge per placarne la collera o per attenerne soccorso e protezione. Quanto più il suo animo sarà angustiato dai timori, «malinconico ed abbattuto», tanto più sentirà il bisogno religioso, mentre quando la vita gli arride e l'animo è allietato dalla prosperità l'uomo «non è molto portato a pensare alle ragioni ignote e invisibili». È così dunque che nasce la religione, all'inizio naturalmente politeistica ed antropomorfica, e solo più tardi volta al monoteismo, spesso per il prePOI!elsmo l e l d' d' · · , ll l 11 monoteismo va ere 1 una tvtmta su e a tre, come ne a storia della società umana la figura del re finisce col cancellare quella degli altri potenti. Non senza che poi dal monoteismo, che li aveva innalzati ad una considerazione più alta della divinità, fino ad intenderla come spirito infinito ed onnipotente, gli uomini rifluiscano, di tempo in tempo, di nuovo, nel politeismo, come quando si fingono tante figure intermedie fra se stessi e la divinità, come eroi, angeli, santi e così via. A differenza dei deisti inglesi e della più parte degli illuministi europei, che guardavano alle forme popolari della religione, sia politeistiche che monow

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teistiche, con sufficienza e disprezzo, ed amavadi no contrapporre ad esse la religione filosofica e Estraneità Hume al razionale degli spiriti «illuminati», Hume mostra deismo di considerare proprio quelle forme come le più genuine espressioni della natura umana, nella quale le componenti conoscitive sono sempre mescolate con gli istinti e le passioni. D'altronde, in una sorta di cortfronto tra politeismo e monoteismo popolari, il filosofo scozzese mette in evidenza come ambedue conducano ad una idea irriverente della divinità, il primo nutrendosi di superstizioni e di visioni crudeli e terrificanti, l'altro coltivando fanatismo e intolleranza. Condotta a termine la sua indagine sulla natura ed origine della religione, messa in luce cosi l'in- L · della re1tgwne e «calme . . . le come la su- regioni conststenza razwna dell perstizione ed il fanatismo che si annidano nella filosofia)) a religione popolare, Hume si rifugia nelle «calme regioni della filosofia», ossia del proprio scetticismo critico, libero sì da ogni superstizione come dalla presunzione della ragione, ma, proprio per questo, consapevole anche dell'oscurità e degli enigmi che continuano ad avvolgere la vita degli uomini: «Tutto è ignoto: un enigma, un inesplicabile mistero. Il dubbio, l'incertezza, la sospensione di giudizio ci appaiono come il solo risultato delle nostre ricerche più accurate su questo argomento. Ma tale è la fragilità della natura umana, e tale il contagio irresistibile delle opinioni, che anche tener fermo a questo dubbio deliberato è difficile. Non cerchiamo oltre; e opponendo superstizione a superstizione, abbandoniamole tutte alle loro querele. Noi, mentre esse contendono e si infuriano, per fortuna possiamo rifugiarci nelle calme, quantunque oscure, regioni della filosofia».

L'illuminismo scozzese 3.1

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Reid

(1710-1796):

la scuola del senso comune

lasgow non fu soltanto il centro propulsore della nuova economia mercantile scozzese del Settecento - il suo porto fu secondo in Gran Bretagna solo a quello di Londra -, ma fu anche la sede della più importante università della Scozia del tempo. Basti dire che in essa si succedettero nelL'università di l'insegnamento i principali pensatori scozzesi del Glasgow secolo, eccezion fatta per Hume: prima Hutcheson, poi Smith, infine Reid, contribuirono a fare di quella università il luogo di produzione di una cultura filosofica e scientifica nazionale, non più tributaria, com'era avvenuto in passato, di quella inglese. Thomas Reid vi aveva insegnato filosofia morale, quale successore di Smith, dal1764 al1780, nel perio-

do centrale della propria riflessione filosofica, dopo aver tracciato in un saggio del1764, Ricerca sullo G.

·· umano secon d· . , 'dl spmto o 1prmc1p1 e senso comune, le linee essenziali di quella che sarebbe stata,

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hscntt1 reidiani

appunto, la «filosofia del senso comune», e prima di dedicarsi, ormai ultrasettantenne, alla stesura degli scritti contenenti il suo pensiero più maturo, apparsi nel 1785, i Saggi sulle forze intellettuali dell'uomo, e nel 1788, i Saggi sulle forze attive dell'uomo. Prima della Ricerca del 1764, egli aveva composto, nel periodo di Aberdeen, un Saggio sulla quantità di non grande interesse, ed aveva tenuto all'università quattro orazioni latine, nelle quali erano già presenti diversi elementi della sua filosofia successiva.

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SEZIONE PRIMA. L'ILLUMINISMO BRITANNICO CAPITOLO 22

Nato nel1710 a Stracham, nei pressi di Aberdeen, da una famiglia che aveva dato eminenti personaggi alla Chiesa presbiteriana, Reid aveva studiato teologia al Marichal College di Aberdeen, di cui era divenuto poi il bibliotecario; dopodiché, tra il 1737 ed il l 751, aveva ricoperto l'ufficio di ministro presbiteriano presso la parrocchia di New Machar. Chiamato all'università di Aberdeen, vi avrebbe insegnato per più di un decennio, fino al momento di trasferirsi all'università di Glasgow. A differenza di Hume, estraneo alla cultura universitaria, ed anzi da essa tenuto lontano e discriminato per i suoi orientamenti filosofici giudicati incompatibili con l'ortodossia religiosa, Reid fu un Un ce lebrato lb ç · · · ç d d' professore ce e rato pro1essore umversltano, 10n atore 1 una scuola filosofica in sostanziale armonia con la tradizione teologica e religiosa, cui veniva attribuito il merito di aver combattuto e confutato il soggettivismo della filosofia moderna avviato da Cartesio e destinato a concludersi nello scetticismo, appunto, di Hume. Per la verità, le origini filosofiche reidiane erano state all'insegna di una adesione convinta all'immaterialismo di• Berkeley, che più tardi avrebbe ricoLe origini . berkeleyane e noscmto mvece quale momento essenziale di la lettura di quella «dottrina delle idee», responsabile dello Hume scetticismo e dell'irreligiosità humiani. Sarebbe stata infatti la lettura del Trattato sulla natura umana del filosofo di Edimburgo a far sorgere nel parroco presbiteriano quel ripensamento che ne avrebbe fatto un irriducibile avversario dell' «ideismo» empiristico. Nella Ricerca del1764 Reid cominciava con l'individuare nella linea Cartesio-Malebranche-Lockela deriva rovinosa del pensiero una l.mea Berkeley-Hume d . . d 11 . . . d rovinosa mo erno, ongmata a a convmzwne, mtro otta dal filosofo francese, ripresa dai suoi successori, e condotta alle sue estreme conseguenze da Hume, che l'oggetto della mente umana siano le idee, e non direttamente le cose nella loro esistenza reale. Da questa premessa dovevano seguire inesorabilmente l'uno dall'altro, l'agnosticismo di Locke, l'immaterialismo di Berkeley, infine lo scetticismo di Hume. Molti anni dopo, a conferma di questa sua ricostruzione del percorso filosofico moderno, Reid avrebbe, nel Saggio sui poteri intellettuali dell'uomo, raccontato lo stupore dell'uomo comune - non L0 stupore · l'1ezze de1· f'l1 oso f'1, e che erede dell'uomo consueto a11e sottlg com~ne sul serio che il sole e la luna che vede muoversi nel cielo esistano realmente e come tali siano da lui conosciuti -, il suo sconcerto, al sentir dire dal filosofo che, invece, quel sole e quella luna altro non sarebbero che semplici idee esistenti soltanto nella mente degli uomini. Leggiamo: «Dopo che la sua mente si sia un po' riavuta dalla

sorpresa, sarà naturale per lui chiedere al suo istruttore filosofico: 'ma, per piacere, non v'è dunque nessun essere sostanziale e permanente, chiamato il sole e la luna, che continui ad esistere sia che io pensi ad esso, sia che io non vi pensi?' Qui i filosofi differiscono. Il Locke, e coloro che vennero prima di lui, risponderanno a questo quesito che è del tutto vero che vi sono degli esseri sostanziali e permanenti chiamati il sole e la luna; ma essi non appaiono mai a noi di persona, ma sempre attraverso le loro rappresentazioni, cioè le idee nella nostra mente, e noi non sappiamo nulla di essi all'infuori di quello che possiamo apprendere da tali idee. Il vescovo Berkeley e Hume darebbero invece una risposta diversa alla questione. Essi assicurerebbero l'interrogante che è un errore volgare, un mero pregiudizio dell'uomo ignorante e privo di istruzione il pensare che vi siano degli esseri permanenti e sostanziali chiamati il sole e la luna; che i corpi celesti, i nostri stessi corpi e qualsiasi altro corpo non sono altro che idee nelle nostre menti; e che non esiste nulla di simile alle idee di una mente se non le idee di un'altra mente. Non esiste nulla in natura, dice il vescovo Berkeley, all'infuori delle menti e delle idee. Anzi, dice Hume, non esiste nulla in natura all'infuori delle sole idee; infatti, quella che noi chiamiamo mente non è altro che una catena di id.ee connesse tra loro attraverso determinate relazioni».

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Reid si ribella a queste conclusioni aberranti, in nome del «senso comune», che già nelle orazioni · aveva m · d'1cato come quel mo do d'1gm . d'lca- Il «senso latme re comune a tutti gli uomini, in nome di «nozio- comune»... ni comuni» note a tutti, colti ed ignoranti, ed alle quali tutti danno il loro assenso in forza della stessa costituzione della natura umana. «Queste nozioni - aveva detto - sono più antiche e più stabili di ogni filosofia essendo come delle radici fissate nella nostra natura .. . O essi sono veri e certi, o tutta la vita dell'uomo è sogno e delirio».

Se la filosofia si è traviata tralignando dalle certezze comuni degli uomini, il compito che Reid . . si prefigge è di risanarla, nella consapevolezza ... e la fllosofm che, se il senso comune non ha certo bisogno della filosofia, questa invece «non ha altre radici che i principi del senso comune: si sviluppa da questi, e ne trae il suo nutrimento».

Prima di vedere in che cosa consistano questi princìpi, un breve cenno va fatto alla metodologia che Reid intende adottare per condurre la sua ricerca sulla mente umana, e che gli consente di contrapporre alla linea che ha avuto il suo inizio in Cartesio, quella altern~tiva che proce.d~ da Bacone a ~:~odologia Newton. In smgolare competlzwne con Hume, } dell'illuminismo e di «precorrimentO>} romantico. Quanto più corretto sarebbe riconoscere, invece, le mille diversità che corrono tra un autore e l'altro, ognuno di essi illuminista a proprio modo, rifiutandosi a definizioni preconfezionate di che cosa si debba intendere per vero illuminismo, che finiscono con l'impoverirne oltre ogni misura l'immagine. Forse che non partecipano a pieno titolo della cultura e mentalità settecentesca autori come Shaftesbury e gli altri moralisti inglesi, che fondano la moralità sul sentimento, o come Hume, che così gran posto fa, nel determinarsi dei comportamenti conoscitivi e pratici degli uomini, alla forza dell'istinto e delle credenze irrazionali? E non si è forse preoccupato Diderot, indiscutibilmente illuminista, di contemperare, nella sua concezione dell'umana esperienza, le ragioni del cuore con le ragioni della ragione? Quanto al cosiddetto antistoricismo illuministico, anche di esso è stata fatta giustizia dagli studiosi. Già il considerare le grandi figure di storici di cui è ricco il secolo XVIII avrebbe dovuto far sorgere qualche dubbio sulla vecchia accusa romantica. Il Settecento è il secolo della grande storiografia inglese, • rappresentata da storici come William Robertson 11 s!~~~oc~:~~ (1721-1793), cui si deve una Storia del regno delstoriografia l'imperatore Carlo V, apparsa nel1769, e dedicata allo studio della formazione del sistema politico europeo; o Edward Gibbon (1737-1794), l'autore della celebre Storia della decadenza e caduta dell'Impero romano, edita tra il 1776 ed il 1787; o ancora lo

stesso Hume con la sua monumentale Storia d'Inghilterra. Ma anche negli altri paesi europei si assiste al crescere dell'interesse storiografico. In Germania, dà impulso alla ricerca erudita, in vista della elaborazione di un quadro complessivo della storia universale, la scuola di Gottingen, sorta presso la settecentesca università di questa città, e illustrata da studiosi come Johann Christoph Gatterer (1727-1799), autore nel l 761 di un Manuale della storia universale, e Arno ld Hermann Ludwig Heeren (1760-1842), che utilizza le dottrine economiche di Smith nello studio dell'economia antica. Solitaria è poi la figura di Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), iniziatore di una moderna storiografia artistica svincolata dal modello biografico risalente al Vasari, che trova la sua espressione più importante nella Storia dell'arte nell'antichità del 1764. Anche in Italia si risveglia l'interesse storiografico, prima nella forma della storia erudita con l'opera del Muratori (V. CAP. 25, PAR. 4.1), poi secondo un'impronta apertamente illuministica con !'!storia civile del regno di Napoli del Giannone (IDEM, PAR. 4.2), risalente al 1723. In Francia, dove non si hanno realizzazioni storiografiche particolarmente importanti, si registra l'opera di Voltaire, iniziatore, a· metà secolo, di un nuovo modo di fare storia, non più fondato sulla preminenza delle vicende politico-militari ma attento piuttosto all'evoluzione della civiltà.

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Veduta di Londra (particolare), in un dipinto di A. Canaletto.

PARTE TERZA IL SETTECENTO: I ....J • è a Parigi che l'illuminismo diviene un fenomeno -l 11 dipllmato · lgoParigi d'1costume, una menta l'1ta' d'ff 1 usa, che comvo no vaste aree sociali, dall'aristocrazia alla grande e piccola borghesia, e insieme un movimento di idee capace di parlare agli intellettuali di tutta Europa, che guardano alla Francia come alla patria della filosofia; e questo, mentre il francese sostituisce ovunque il latino quale nuova: lingua internazionale, adottata così nelle relazioni diplomatiche tra gli stati come nei rapporti tra i dotti delle diverse nazioni, e comunque parlata nei salotti di Pietroburgo come in quelli di Napoli o di Berlino. Come non avviene con la medesima intensità in nessun altro paese europeo, è in Francia che essere illuminista produce un duro scontro con i poteri istituzionali, civili ed ecclesiastici, che spesso comporta persecuzioni, carcere, esilio, roghi di libri, costringe ad attività intellettuali clandestine, ma anche consente vaste e importanti campagne di opinione, che mobilitano gli animi a difesa della libertà delle idee e della tolleranza religiosa. Voltaire e Diderot conosco111 •• t' no il carcere, La Mettrie è costretto all'esilio, liummJs 1e b . . . . . L . . d' potere civile ed n apertamente matena11st1c1 come o spmto 1 ecclesiastico Helvétius e il Sistema della natura di Holbach, ma anche le Lettere inglesi di Voltaire o il Contratto sociale e l'Emilio di Rousseau, vengono condannati, la pubblicazione dell'Enciclopedia impedita, per non parlare del marchese de Sade che trascorre in carcere trent'anni della sua vita. Per contrappunto, i philosophes vengono corteggiati dai sovrani «illuminati» stranieri e invitati alle loro corti, La Mettrie e Voltaire a Berlino da Federico I di Prussia, Diderot a Pietroburgo da Caterina di Russia, Condillac a Parma dalla duchessa di Borbone. In un paese nel quale l'uniformità delle idee e della confessione religiosa erano imposte da un potere statuale dispotico, dove i gesuiti e le autorità ecclesiastiche conducevano una politica culturale bigotta ed oppressiva, era inevitabile che idee filosofiche e Lo scontro con la monarchia religiose anticonformiste subissero un suppleassoluta e con mento di repressione, e tendessero a radicalizzarla Chiesa si, ispirando forme di opposizione non solo culturale ma anche direttamente politica. Monarchia assoluta e Chiesa cattolica vengono in particolare additate come le roccaforti dell'autoritarismo culturalJ...

le e politico, del privilegio, dell'intolleranza, del fanatismo e dell'oscurantismo, che l'illuminista è chiamato a combattere in nome della ragione e dei diritti dell'uomo alla libertà delle proprie idee. Nemmeno in Francia però il radicalismo politico-filosofico giunge mai, neppure negli intellettuali

1 capricci della moda

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iportiamo dalle Lettere persiane di Montesquieu le osservazioni che Rica, uno dei due persiani in viaggio per l'Europa, fa sulla moda dei francesi, lui che appartiene ad un paese nel quale la foggia dei vestiti resta immutata per secoli: «Trovo straordinari i capricci dei francesi. Hanno già dimenticato come erano vestiti quest'estate, e ignorano ancora come lo saranno quest'inverno. È

incredibile quanto costi ad un marito mantenere sua moglie alla moda. A che servirebbe che io ti facessi una descrizione esatta dei loro vestiti e dei loro ornamenti? In men che non si dica una nuova moda verrebbe a rendere inutile la mia fatica, come quella dei loro operai, e, prima che tu ricevessi la mia lettera, tutto sarebbe cambiato. Una signora che lasciasse Parigi per passare sei mesi in éampagna, ne ritornerebbe

SEZIONE SECONDA. L'ILLUMINISMO FRANCESE CAPITOLO 23

più estremi nella contestazione anti-istituzionale, a proporsi obbiettivi di radicale sovversione politica e sociale dello stato delle cose esistente, che semNatura e mai si vuol correggere e migliorare attraverso destinatari della delle riforme, ed un'opera lenta ed assidua di propaganda diffusione dell'istruzione e di educazione all'uso illuministica critico della ragione. I destinatari dell'azione propagandistica degli illuministi non sono, d'altronde, le folle diseredate e le classi popolari, delle quali anzi quasi sempre si teme la rozza e violenta

insubordinazione, per prevenire la quale non si disdegna nemmeno di riconoscere come salutare la funzione contenitrice ed educativa delle Chiese e delle religioni positive, per altri versi così tanto aborrite. È piuttosto alla classe medio-borghese che si rivolgono pubblicisti e filosofi illuministi, i quali non sempre, peraltro, appartengono alla borghesia, ed anzi, non infrequentemente, provengono dalle file della aristocrazia, come è nel caso di Montesquieu, di Buffon, di Helvétius, del barone d'Holbach.

Abiti francesi dei primi del Settecento.

così antiquata come se ne fosse stata assente trent'anni. Il figlio non riconosce quasi l'effige di sua madre, tanto gli sembra strano l'abito nel quale essa è ritratta; crede che quella sia un'americana, o che il pittore abbia voluto riprodurre una qualche sua fantasia. Le pettinature che a poco a poco erano salite, ecco che una rivoluzione le fa discendere tutt'a un tratto. C'è stato un momento in cui

la loro altezza era così spropositata da far apparire la faccia delle signore a metà della loro figura, ma ecco che ora sono i piedi a trovarsi lì collocati: i tacchi sono un tal piedistallo da costringerli per aria. Chi lo crederebbe? Gli architetti sovente sono stati costretti ad alzare, ad abbassare, ad allargare le porte, a seconda che l'abbigliamento delle signore lo richiedesse, sicché le regole della loro arte sono

state asservite a questi capricci. Qualche volta si vedono su di una faccia una quantità prodigiosa di nei, ma ecco che l'indomani sono tutti spariti. Un tempo le signore non nascondevano, come ora, la vita sotto le gonne a paniere o il sorriso dietro i ventagli. In questo paese così volubile, checché ne dicano i burloni di cattivo gusto, le figlie si trovano ad essere del tutto diverse dalle loro madri.

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È dei modi di vivere come della moda: i francesi cambiano costumanze a seconda dell'età del loro re. Il monarca riuscirebbe perfino a rendere severa la nazione, qualora ci si provasse. Il principe comunica il carattere del proprio spirito alla corte; la corte alla città, la città alle province. L'anima del sovrano è uno stampo che imprime la propria forma su tutte le altre».

PARTE TERZA IL SETTECENTO: I DELLA RAGIONE

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Bayle

(1647-1707):

un razionalista scettico

bbiamo avuto già modo di mostrare (v. CAP. 20, come gli illuministi francesi siano stati a scuola dei Locke e dei Newton, e da questi abbiano appreso la lezione empiristico-sperimentale senza la quale non sarebbe ricostruibile la genesi del loro illuminismo. Questo, infatti, difficilmente avrebbe potuto nascere come filiazione diretta del cartesianismo, che aveva dominato la scena culturale e filosofica del grand siècle. Non che Cartesio non abbia contribuito per la sua parte alla formazione della filosofia dei «lumi»: l'aver insegnato che la ragione è una facoltà egualmente distribuita tra tutti gli uomini e sempre eguale a se stessa indipendentemente dai luoghi e dai tempi, l'aver preteso la chiarezza e la distinzione delle idee quale condizione della loro validità, l'aver teorizzato il dubbio attitudine critica indispensabile per chi vo11 co n1n.bu1o d'l come l' l. 'l . . . d ff' Cartesio g 1a co tlvare 1 propno mgegno m mo o e 1cace all'illuminismo ed utile al conseguimento della felicità degli uomini, costituivano indicazioni preziose per chi avesse voluto dotarsi di una mentalità libera da pregiudizi e antidogmatica. La stessa fisica cartesiana, con le sue audacie cosmogoniche -la teoria dei vortici -, con il suo meccanicismo e la negazione dell'anima dei bruti, aveva aperto la strada a prospettive materialistiche ed atee, maturate già nel XVII secolo nella letteratura libertina, ma che avrebbero continuato ad agire a fondo anche all'interno del dibattito illuministico settecentesco, ben oltre la crisi di quella fisica, provocata dall'affermarsi del newtonianesimo. Ma Cartesio era stato anche posseduto dallo «spirito di sistema», aveva chiesto alla ragione prestazioni metafisiche totalizzanti, aveva guardato con diffidenza alla lezione dei sensi e dell'esperienza, tanto da fare della fisica una geometria, e così aveva consentito che, dopci di lui, si riaprisse la strada al dogmatismo Aspetti che aveva preteso combattere, favorendo la nascidogmatici di Cartesio e del ta di una nuova scolastica -la scuola cartesiana-, cartesianismo incline a chiudersi nel proprio recintò, impermeabile alle novità della nuova scienza newtoniana, come attestato in modo evidente dalla difesa ad oltranza della fisica del maestro. Ancora nel 1752, ad esempio, Fontenelle, quasi centenario, dava alle stampe, imperterrito, una Teoria dei vortici cartesiani. Perché la linfa del miglior cartesianismo potesse nutrire di sé la filosofia illuministica, occorreva che qualcuno intervenisse a scioglierlo dai lacci metafisici, e restituisse la ragione, pur mantenendone tutto il rigore di analisi e la giusta pretesa alla chiarezza, al Ragione suo ufficio, schiettamente critico, di demistificametafisica e zione di credenze e dottrine fondate soltanto ragione critica sul principio d'autorità della tradizione, e di acPAR. l)

certamento, piuttosto, delle verità di fatto, suffragate dalle testimonianze dell'esperienza. Chi operò, sul finire del Seicento, in questa direzione, producendo materiali filosofici che avrebbero alimentato la riflessione di intere generazioni di illuministi non solo francesi - anche in Inghilterra, infatti, si sarebbe fatta sentire la sua influenza -, LB'oplera di . ., . ., ay e fu un pol1gra1o e controvers1sta, tanto 1ermamente ancorato al rigore cartesiano della ragione quanto consapevole della relatività delle umane opinioni, abbastanza da non volersi sottrarre ad un caustico scetticismo, assunto non già come una teoria, ma piuttosto come un metodo critico d'indagine, un dubbio laborioso ed attivo, mai destinato a tramutarsi in presuntuose certezze. Pierre Bayle era il suo nome. Era nato nel164 7 a Carla, un piccolo paese pirenaico della Francia meridionale, da una famiglia di religione ugonotta, e fin da giovanissimo era stato avviato dal padre, pastore calvinista, agli studi teologici. Nonostante la sua appartenenza confessionale, s'iscrisse ventiduenne all'università cattolica di Tolosa per seguire gli studi di filosofia, e dopo pochi mesi si era convertito al cattolicesimo, convinto dalle argomentazio~i razionali dei teologi gesuiti, ?~r ri- !r~a~~~~::o tornare pero appena un anno dopo alla rehgwne calvinista, negativamente colpito dall'irragionevolezza del culto- ai suoi occhi, una vera e propria idolatria - e dei dogmi cattolici. Esito di questa insolita esperienza sarebbe stata la convinzione, destinata a restare per sempre, che della religione fosse illusorio cercare di offrire giustificazioni di ordine razionale. Fu, con tutta probabilità, da quel momento che Bayle cominciò a prendere le distanze dalle rigidezze confessionali e da ogni forma di settarismo, e a convincersi anzi della ragionevolezza della tolleranza religiosa. Il ritorno alla fede nativa fu comunque segno di grande coraggio, poiché significava l'inizio di una vita da perseguitato e reietto. Le leggi condannavano all'esilio i protestanti recidivi, sicché Pierre dovette rifugiarsi a Ginevra, dove ebbe modo di studiare la filosofia cartesiana. Fatto ritorno in Francia, insegnò dal 1675 per sei anni all'accademia calvinista di Sédan, finché la ripresa delle persecuzioni antiugonotte . d' · · XIV ' 11a ch'1~sura d'1tutt e Una VIta 1 da parte d1. Lu1~1 . porto~ perseguitato le scuole supenon protestanti, costnngendo Bayle a riprendere la via dell'esilio. Questa volta la meta fu Rotterdam, dove gli venne offerta una cattedra di filosofia e storia alla «Scuola illustre» della città, che avr.ebbe tenuto dall681 al1693, finché le persecuzioni degli ambienti calvinisti ortodossi, che lo accusavano di sovvertire le verità morali e religiose e di essere addirittura a servizio della politica antiugonotta di

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SEZIONE SECONDA. L'ILLUMINISMO FRANCESE CAPITOLO 23

L'apparizione di una cometa ne/1680, in una incisione dell'epoca e, a destra, Pierre Bayle, in una incisione di Odieurve (XVIII secolo).

Luigi XIV, non riuscirono ad escluderlo dall'insegnamento. Bayle avrebbe trascorso gli ultimi anni della sua vita in povertà e solitudine, dedito alla stesura della sua opera più importante, il Dizionario storicocritico, che avrebbe visto la luce tra il1697 ed il1702. Rotterdam era, negli anni in cui vi dimorò Bayle, un crocevia internazionale, dove s'incontravano dissidenti politici e religiosi di mezza Europa - ugonotti, giansenisti, deisti, liberi pensatori, rifugiati politiRotterdam: un · · l · . una . c1 mg est, tra 1. qua11. lo stesso Loc1(

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Frontespizio dell'opera Lo spirito delle leggi e, a destra, ritratto di Montesquieu.

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SEZIONE SECONDA. L'ILLUMINISMO FRANCESE CAPITOLO 23

È subito evidente a chi si accosti ad esso lo iato => LU che ormai separa Montesquieu dalla tradizione giu=> snaturalistica. Egli non va più alla ricerca di princìpi o C/) naturali metastorici, in base ai quali giudicare dell'eLU sperienza concreta degli uomini, quale si svolge Una scienza l-nelle forme di convivenza storicamente determi«I viaggi aprono una vista assai ampia allo spirito: si nate. Secondo un criterio empirico-sperimentale, empirico- Z naturalistica ~ esce dai pregiudizi del proprio paese, senza per questo dover · analogo a quello fruttuosamente adottato nella della società far propri quelli dei paesi stranieri». scienza della natura, si tratta piuttosto di esamiNaturalmente, soggiunge Montesquieu, occorre nare, caso per caso, le leggi positive che regolano i per questo guardare ai «popoli d'Europa con la mede- rapporti tra gli uomini nei diversi paesi, e di comsima imparzialità con la quale consideriamo i diversi prendere che quelle leggi non sono che l'espressione popoli dell'isola di Madagascar», e prenderli per quel- delle condizioni naturali della vita sociale di quei paeli che sono; senza d'altronde ridursi ad osservatori si medesimi. Per questa via - sia detto di sfuggita - sarebbe d . estranei ed indifferenti, cui non potrebbe che lmportan~~ag:: sfuggire lo «spirito» del singolo popolo e delle giunto Montesquieu, pur così aperto ad un'ispirazio.. sue leggi. Fu così che Montesquieu venne accu- ne cosmopolitica, ad incentrare la sua concezio- c . ,. d' 'd . , d . d' . osmopoht1smo mulando, attraverso l'osservazione diretta dei costu- ~e de11 a stona su11 1~ 1y1 ua11ta e1 1ve.rs1.popo- e individualità mi e delle istituzioni delle nazioni, una vasta docu- h, ognuno contradd1stmto da un propno mcon- dei popoli mentazione che, più tardi, avrebbe utilizzato, insieme fondibile «spirito», evitando di riassorbire le difai tanti resoconti di viaggiatori sui popoli degli altri ferenze storiche nell'indifferenziata ed astratta idea di umanità. continenti, per la stesura de Lo spirito delle leggi. Ma per fare della politica una scienza, occorre Tornato in patria nel 1731, venne dedicandosi agli studi storici, e in particolare a quello intorno evitare anche l'estremo opposto di quello rappresenall'antichità romana, da cui dovevano sortire nel tato dal giusnaturalismo, ossia il machiavellismo delle 1734le Considerazioni sulla cause della grandezza dei teorie della ragion di stato rv. CAP. s, PAR. 6.4), che riduRomani e della loro decadenza. Si tratta di un tentati- cevano la politica a pura e semplice tecnica di govervo di interpretazione complessiva, e per così dire «fi- no fondata sull'inganno e sulla violenza. La politica, losofica», della storia di Roma secondo cause del tut- invece, trae la propria validità dalla capacità di Politica e to naturali ed umane, in alternativa ad una millenaria individuare, al di là delle vicende particolari - studio tradizione cristiana che, dall'antico Agostino fi- nelle quali, certo, conta la machiavellica «virtù» scientifico dei Le cause della degli uomini di stato -, l'uniformità e la regolari- fenomeni grandezza e no a Bossuet, aveva preteso sequestrare le vicentà dei fenomeni sociali, che devono essere ricon- sociali della de dell'impero romano antico all'interno di una dotti alla ricca molteplicità delle loro cause, le decadenza di lettura esclusivamente religiosa e provvidenzialiRoma: verso Lo stica. Convinto che le sorti di una nazione o di quali non attengono soltanto a fattori culturali, ma spirito delle uno stato non dipendano dal caso o da cause anche ad altri, di ordine fisico, sui quali Montesquieu ritorna con particolare insistenza, come il clima, le leggi accidentali, come una battaglia vinta o perduta o la mossa di un abile uomo di stato, bensì da ragioni condizioni geografiche, la natura del suolo, e così via. Non è che Montesquieu, da buon illuminista del molteplici tra loro interagenti, e operanti nel profondo di una società, Montesquieu ricerca le cause della paese di Cartesio qual è, dimentichi che grandezza di Roma nella solidità delle sue istituzioni, «la legge, in generale, è la ragione umana, in quanto nella virtù civica dei cittadini, nella forza militare; e governa tutti i popoli della terra», per converso, le ragioni della sua decadenza nella corruzione dei costumi, nel lusso asiatico, nella eccessiva e che «le leggi politiche e civili di ogni nazione Le leggi estensione della cittadinanza e dei confini dell'impe- non debbono essere che i casi particolari in cui delle nazioni ro. E, in tal modo, un passo ulteriore egli veniva com- questa ragione umana viene applicata»; ma egli piendo verso il momento culminante della sua rifles- sa anche che queste leggi sione, rappresentato dalla sua opera fondamentale, «devono essere adatte al popolo per cui sono fatte, Lo spirito delle leggi. tanto che solo eccezionalmente le leggi di una nazione possoNel raccoglimento del castello di La Brède, dove no convenire ad un'altra». fin dal 1734 egli si era ritirato - salvo frequenti sogE così chiarisce: giorni a Parigi -, Montesquieu a lungo elabora . d' Neaso1tume Il l · · di La Brède questo suo scntto che avrebbe v1sto la luce solo «Esse debbono essere relative alla natura fisica del paenel 1748, per essere successivamente rivisto fino se; al clima gelido, torrido o temperato; alla qualità del terreall'edizione definitiva del 1754, apparsa pochi mesi no, alla sua situ~zione ed estensione; al genere di vita dei popoli, siano essi coltivatori, cacciatori o pastori; debbono prima della morte dell'autore. Europa che, durante tre anni, lo avrebbe portato in Austria, in Italia, in Germania, e poi in Ungheria e in Olanda, e, infine, in Inghilterra, dove ebbe modo di studiare da vicino - e di ammirare - gli ordinamenti costituzionali di questo paese.

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PARTE TERZA IL SETTECENTO: I

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essere in armonia col grado di libertà che la costituzione è capace di sopportare, con la religione degli abitanti, le loro inclinazioni, ricchezze, numero, commercio, costumi, modi di vivere. Infine, esse hanno relazioni reciproche; ne hanno conia loro origine, col fine del legislatore, con l'ordine delle cose su cui si sono formate».

· Tutti questi aspetti «costituiscono, nel loro insieme, ciò che viene detto lo 'spirito delle leggi'». Non per caso il sottotitolo del libro montesquieinano suonava: Sul rapporto che le leggi devono avere con la costituzione di ogni governo, i costumi, il clima, la religione, il commercio, ecc. Per questa cosi concreta fondazione della scienza politica su basi positive, sperimentali e, diremmo, naturalistiche, e per la conseguente relativizzazione delle leggi, si è parlato di Montesquieu, già da parte «Padre della sociologia)) ma, di Comte (v. voL. 3*, CAP. 11, PAR. 2), e non senza insieme, un ragione, come di uno dei padri della sociologia. illuminista Questo non deve però far dimenticare che l'autore de Lo spirito delle leggi fu e rimase un illuminista, ancorato ad una concezione normativa della ragione, con la quale sempre si sforzò di conciliare il proprio empirismo e relativismo scientifico. Ciò significa che egli non volle essere il semplice spettatore che descrive le situazioni di fatto, astenendosi da ogni giudizio di valore, da ogni riferimento ad un dover-essere; al contrario, fece della libertà l'elemento discriminante tra regimi politici e forme di .b . .governo fondati sulla razionalità, e il dispotismo, L1 erta e d' . d ,. . l . dispotismo 1 cm ve eva 1 mcarnazwne, non so o ne1 governi di Turchia, Russia e Cina, ma anche nella monarchia assoluta di Luigi XIV. Circola nel suo capolavoro, trattenuto soltanto da una moderazione aliena da qualsivoglia intenzione rivoluzionaria, uno spirito di protesta nei confronti del dispotismo, che indirettamente traspare dal giudizio estremamente positivo che invece vien dato della costituzione inglese. Sulle diverse forme di governo, Montesquieu si attiene in sostanza ad una classificazione tradizionale: governo repubblicano, governo monarchico e goL d' verna dispotico, dove il primo si distingue a sua 1 efor v1ersd~ volta in democrazia e aristocrazia, a seconda che n e l 'l l l . . governo 1 potere sovrano appartenga a popo o numto o soltanto ad una parte di esso. Quanto al governo monarchico, esso prevede il potere di uno solo, «ma in base a leggi fissate e stabilite»; mentre il dispotismo «è quello in cui un solo uomo, senza legge e senza regola, dispone ogni cosa con la sua volontà e con i suoi capricci». Ad ognuna di queste forme di governo corrispondono altrettanti princìpi etici che ne promuovono l'azione e che sono necessari al suo funzionamento. Il principio che deve muovere il governo repubbliForme di cano è la «virtù», ossia «l'amore dello stato per governo e principi etici se stesso», ciò che oggi si direbbe «spirito pubblico»; nel caso della democrazia, la virtù deve ap-

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partenere a tutti i cittadini, nel caso del governo aristocratico è sufficiente che accompagni l'azione dei nobili che hanno in mano il potere; quanto alla monarchia e al dispotismo, invece, «non è necessaria molta probità affinché ... si mantengano e si sostengano. La forza delle leggi nel primo, ed il braccio del principe sempre alzato nel secondo, regolano o contengano ogni cosa».

Pertanto, il principio che regola il governo monarchico è l' DELLA RAGIONE

poco le prerogative dei corpi o i privilegi delle città. Nel primo caso si va verso il dispotismo di tutti; in questo, si procede invece verso il dispotismo di uno solo oo• La monarchia si perde allorché il principe, richiamando ogni cosa unicamente a se stesso, concentra lo stato nella capitale, la capitale nella corte, e la corte nella sua sola persona». La tirannide

Sulla «degenerazione» del governo tirannico il giudizio di Montesquieu non potrebbe essere più pesante:

«il suo principio si corrompe senza sosta, poiché è corrotto per sua natura».

Mentre monarchia e repubblica si corrompono solo per l'intervenire di cause accidentali, il dispotismo «perisce per vizio interno», ed è semmai l'intervento di fattori accidentali ad impedire che la corruzione giunga al suo ultimo esito. In questa descrizione delle forme di governo il nostro autore non nasconde la sua preferenza per il governo monarchico, che, particolarmente, ritiene il più adatto per l'Europa, dove i confini geografici naturali hanno dato luogo a paesi di media grandezza, i quali, per questa ragione, richiedono la forma monarchica, considerato che la repubblica, soprattutto Forme di nella sua forma democratica, si adatterebbe megoverno e . . . condizioni glia ai p1ccoli stati. Quanto m governi dispotlci, fisico- essi troverebbero una loro giustificazione fisicogeografiche geografica soltanto in Asia, dove i confini naturali disegnano paesi dai vastissimi territori, governabili solo in virtù del timore suscitato da un unico potere personale, arbitrario ed indivisibile. Montesquieu pensa per l'Europa ad una forma di monarchia temperata, e guarda al modello costituzionale inglese, nel quale il potere del re è moderato dalla presenza di altri organi di potere. È dallo studio del modello inglese che prende origine appunto la teorizzazione della separazione dei poteri, con la quale lo scrittore francese ritiene di aver individuato la migliore garanzia della libertà politica, e che sarebbe stata acquisita dal pensiero costituzional-liberale moderno fino ad oggi. Vediamo in che . cosa essa consiste. In ogni stato esistono tre speLa separazione . d' . . l .l . . . , dl dei poteri c1e 1 poten: 11 potere eg1s at1vo, 111 v1rtu e quale si stabiliscono «le leggi per un certo periodo di tempo o per sempre, correggendo o abrogando quelle già stabilite»; il potere esecutivo, in virtù del quale il principe o il magistrato «fa la pace o la guerra, manda o riceve ambasciate, impone la sicurezza, previene le invasioni»; infine, il potere giudiziario con il quale vengono puniti i delitti e giudicate le dispute tra privati cittadini. Scrive Montesquieu: «Allorché il potere legislativo è riunito al potere esecutivo nella stessa persona o nello stesso corpo di magistrati, non esiste libertà: infatti si può temere sempre che il monarca o il senato faccia leggi tiranniche, per eseguirle in modo tirannico. Non c'è libertà neppure quando il potere di giudi-

care non è separato dal potere legislativo ed esecutivo. Se esso fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e sulla libertà dei cittadini risulterebbe arbitrario: infatti il giudice sarebbe anche il legislatore. Se esso fosse unito al potere esecutivo, il giudice avrebbe la forza di un oppressore. Tutto poi sarebbe perduto se lo stesso uomo, o lo stesso corpo di notabili o di nobili o di popolo, esercitasse insieme questi tre poteri».

Occorre pertanto prevedere diversi organi quanti sono i poteri dello stato: «Il potere legislativo sarà affidato al corpo dei nobili e al corpo scelto per rappresentare il popolo: l'uno e l'altro dovranno tenere le loro assemblee e prendere le loro deliberazioni separatamente, in base a punti di vista ed interessi diversi oo• Il potere esecutivo deve essere invece nelle mani del monarca, poiché questa parte del governo - che ha quasi sempre bisogno di un'azione immediata - risulta amministrata meglio da uno solo che non da molti».

Quanto al potere giudiziario, deve venir affidato ad una magistratura indipendente. Notevole sarebbe stata l'influenza di questa teoria montesquieiana sulle vicende politico-costituInfluenza zionali del secolo: ne troviamo tracce evidenti storica della nella dichiarazione dei diritti della Virginia del teoria 1776, nella costituzione del Massachusetts del montesquieinana 1780, e, soprattutto, nella carta costituzionale francese del settembre l 791. Non possiamo concludere questa esposizione del pensiero di Montesquieu senza accennare al modo con cui egli tratta, ne Lo spirito delle leggi, delle religioni. Egli se ne occupa soltanto nella dimensione storico-sociologica, per il loro essere più o meno L r . . utili a favorire lo sviluppo della società, e non a re IQione esclude neppure il cristianesimo dall'inclinazione, di origine libertina, a veder esaurita la funzione delle religioni in quella, del tutto profana, dell'instrumentum regni. Il che non significa, peraltro, che egli condividesse orientamenti irreligiosi o ateistici. Vietano di pensarlo, non tanto la Difesa dello Spirito delle leggi, che egli compose nel 1750, per difendersi dalle accuse di empietà rivoltegli dagli ambienti ecclesiastici e u gesuitici, e che ubbidisce alla logica diplomatica o~entamento tipica di pubblicazioni del genere, quanto i Pen- deistico sieri, rimasti inediti fino ad epoca recente, nei quali l'autore confessa una fede d'impronta deistica nell'esistenza di un Dio creatore, e sembra riconoscere il carattere sovrannaturale del cristianesimo. Si trattava peraltro di un riconoscimento consegnato a pagine lasciate inedite, e per questo, diciamo, privato, non incidente sull'opera pubblica di Montesquieu, il cui capolavoro già nel 1752 venne messo all'Indice dalla Chiesa cattolica. Del resto, egli fu vicino agli enciclopedisti, alla cui opera collaborò nel 1753 con un Saggio sul gusto.

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SEZIONE SECONDA. L'ILLUMINISMO FRANCESE CAPITOLO 23

Voltaire (1694-1778).· «dobbiamo coltivare il nostro giardino» 7.1

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n «philosophe»

gli inizi del secolo era già al tramonto ormai la figura seicentesca del filosofo per così dire professionale, intento alla pura speculazione, costruttore di grandi sistemi metafisici, e creatore, talvolta, di una nuova scolastica, non meno pedante e dogmatica di quella che si era voluta combattere. Abbiamo già detto abbastanza, in proposito, nelle pagine precedenti; qui vogliamo soltanto aggiungere che esercitare la filosofia non voleva più dire coltivare un settore specialistico di competenze intellettuali, separato dai mille problemi ed interessi Un nuovo modo d ll . mon dana deg11. uomtm; . . non era pm · , un d'1 flosot e e a vtta 1 ar oggetto speciale d'indagine a distinguere il filosofo da chi non lo fosse, bensì una 'forma nientis', un atteggiamento intellettuale con il quale poter affrontare un qualsiasi argomento, e che poteva esprimersi sia in uno scritto filosofico che in uno spettacolo teatrale, in un articolo di giornale come in un poema o in un pamphlet. Voltaire è certamente l'esempio più prestigioso ed illuminante di questo nuovo modo di esercitar filosofia nella Francia del secolo dei lumi. Pregnante e di grande efficacia è in questo senso la presentazione che della sua figura e della sua opera ci viene offerta da Paolo Casini:

tutta risolta nella lotta per una più giusta convivenza sociale. Nel corso di un cinquantennio fu al centro della battaglia ideologica che i 'philosophes' combatterono contro gli abusi dell'assolutismo, la religione politica, i fanatismi residui delle guerre di religione, i privilegi delle classi dirigenti, l'assetto irrazionale dell'ancien régime. Innestando, meglio di tutti i 'confratelli', la polemica filosofica entro la lotta politica per l'affermazione dei lumi, promuovendo grandi movimenti di opinione, fu il portavoce dei fermenti ideologici che accompagnarono la maturazione politica della borghesia francese. Al di là delle riforme parziali che patrocinò, entro gli angusti schemi del dispotismo illuminato, i suoi scritti esprimevano esigenze di portata universale, che avrebbero trovato un'eco soltanto nelle solenni enunciazioni dei Diritti dell'uomo. Di fronte all'immensa portata storica e politica dell'opera di Voltaire, le riserve correnti circa la sua qualità di 'filosofo' appaiono irrilevanti. Gran mediatore di cultura, erede di Erasmo e di Montaigne piuttosto che dei filosofi

«Interprete per eccellenza della mentalità illuministica, 'patriarca' del partito filosofico francese ed europeo nei decenni più memorabili della lotta, Voltaire sembra sottrarsi ad ogni formula di convenzione. Ingegno estremamente duttile e inquieto, trattò tutti i 'generi' letterari tradizionali: lirica, epica, tragedia, commedia, madrigale, romanzo, epistola morale; compose scritti di divulgazione scientifica e trattati di controversia filosofica; rinnovò radicalmente la storiografia; seppe fare del pamphlet un'arma straordinariamente efficace per la divulgazione delle idee e per la controversia politica e giuridica. Eccelse soprattutto nella schermaglia politico-religiosa, con quei vivacissimi interventi, spesso contenuti nel breve giro d'un libello, nelle battute di una 'voce' di dizionario, in una lettera o nel fuoco d'artifizio d'una facezia, legati a situazioni contingenti e tuttavia carichi di significato universale, nei quali è condensata la quintessenza di ciò che si suole definire 'spirito voltairiano'. Ma ciò che sotto la sua penna arguta e brillante va perduto quanto a precisione e 'profondità' speculativa, è compensato dall'eleganza ed efficacia della pagina, dal magistrale esercizio dell'ironia: giacché Voltaire seppe, come nessun altro, demistificare l'impostura, ridurre le chimere alla misura della ragione, diffondere il gusto per il concreto e il positivo, la diffidenza verso i sistemi, l'avversione per le ambiziose costruzioni metafisiche, la limitazione del sapere all'orizzonte empirico, infine un deismo spoglio di dogmi ed un'etica

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Voltaire,

sistematici o professionali del XVII secolo, pose alla portata del borghese medio l'ideologia elaborata dagli scettici, dai libertini, dai moralisti laici, in opposizione ai dogmatismi delle varie chiese. Le sue idee, mobilissime ed incostanti ad un primo sguardo, acquistano coerenza nel quadro di una precisa scelta etico-politica: libertà civile e intellettuale, tolleranza religiosa, politica moderata e ragionevole, sono le parole d'ordine ch'egli oppose costantemente all'oppressione ideologica dell' ancien régime, alle dispute teologiche, agli

7.2

abusi governativi, agli ordinamenti irrazionali, alle leggi inique. L'appello voltairiano alla raison non invoca - come spesso si è sostenuto a sproposito - un'entità astratta o sovrastorica, ma un criterio di condotta tutto umano, una regola di tolleranza, un'etica moderata e aderente alla fluida realtà della natura e della storia. È un ideale estremamente composito, ove si ritrovano le massime morali dei libertini e dei freethinkers, il senso pratico della nuova borghesia, il gusto di vivere dei seguaci della voluptas».

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Alla scuola degli inglesi i questo personaggio, che di ogni suo scritto volle fare uno strumento di propaganda e l'arma di una battaglia, non sarebbe possibile, senza snaturarla, esporre l'avventura intellettuale separandola dal suo intreccio con una vita irrequieta, trascorsa ora nei grandi salotti mondani di Parigi o in disparte in castelli della provincia, ora alla corte di un re o viceversa nel buio di un carcere. François-Marie Arouet - fu lui stesso a cambiare il suo nome in quello, forse anagrammato, di Voltaire - era nato a Parigi nel1694 da una famiglia di ricche condizioni borghesi e, pur essendo cresciuto in un ambiente familiare di ispirazione giansenista, aveva studiato dall704 al1711 nel collegio gesuitico Louis le Grand di Parigi, ove aveva imparato a guardare Dal giansenismo al con diffidenza al pessimismo e all'ascetismo gian«libero senista. La frequenza dei circoli aristocratici liberpensiero>> tini, come la celebre Societé du Tempie, lo aveva poi acquisito alla spregiudicatezza del libero pensatore, convincendolo ad un atteggiamento ostile nei confronti delle religioni positive, non escluso il cristianesimo, considerate dai libertini una sorta di impostura attraverso cui i preti realizzerebbero i loro scopi di dominio. Nel contempo, a dispetto del volere del padre che intendeva avviarlo agli studi di diritto, egli si dedicava all'attività letteraria di brillante verseggiatore satirico, che gli doveva costare presto assai cara: alcuni versi offensivi nei confronti del duca d'Orléans, reggente in nome di Luigi XV, gli fecero conoscere nel1717 per quasi un anno la prigione della Bastiglia. Qui compone . la sua prima tragedia «filosofica», Edipo, che Tm~pmse . letterarie e' avrebbe messo m scena con grande successo nel carcere della l 718, e nella quale traspare una indiretta polemiBastiglia ca con la religiosità dei giansenisti e il loro «Dio crudele». Nel 1723 appare anonimo un suo poema storico, La lega o Enrico il Grande- riedito qualche anno dopo sotto il titolo definitivo di Enriade - col quale viene esaltata la politica di tolleranza religiosa del grande sovrano. Nel1726 è di nuovo rinchiuso alla Bastiglia per essere venuto a diverbio con un nobile, e

per aver osato, dopo essere stato bastonato dai suoi lacché, sfidare a duello, lui borghese, il loro blasonato padrone. Dopo breve tempo ottiene di essere liberato a condizione di allontanarsi da Parigi, e parte per l'Inghilterra, dove si sarebbe trattenuto per tre anni, fino al 1728. Il soggiorno inglese rappresenta una svolta decisiva nella vita di Voltaire; qui egli conosce Clarke (v. CAP. 20, PAR. 2), Swift, di cui legge il Gulliver appena uscito, e ancora Pope e Berkeley; viene a contatto con quelle che sarebbero diventate le fonti principali e i motivi di ispirazione della sua battaglia «filosofica» succes• 11 sogg1orno · · l' ep1stemo · l ogm · empmstlca · · . d'1 inglese siVa: 1'l de1smo, Locke, distruttrice dell'edificio della metafisica secentesca, il newtonianesimo; conosce da vicino il sistema politico inglese fondato sull'equilibrio dei poteri tra monarchia e parlamento; constata la possibilità della tolleranza religiosa, in un paese dalle tante sètte e confessioni religiose cristiane, nel quale ognuno, «da uomo libero, va in cielo per la strada che gli piace». Per cominciare da quest'ultimo tema, che tanto peso avrebbe avuto nella propaganda voltairiana, è interessante scoprire che quella tolleranza, che gli inglesi praticano non solo tra di loro ma anche verso le religioni non cristiane, molto deve, a parere di c . . ll . . . l le ommerc1oe Voltaue, a oro commerc10 mternazwna e, a 1at- tolleranza to che essi sono solidali tra loro, e con uomini di ogni altra nazione, nella quotidianità di una vita mondana, materiata di comuni interessi mercantili, ben più importanti, ai loro stessi occhi, delle loro diverse - e ridicole - fedi religiose. Si legge nelle Lettere inglesi, che Voltaire avrebbe scritto al suo ritorno in Francia: «Entrate nella borsa di Londra, questo luogo più rispettabile di tante Corti: vi vedrete riuniti i deputati di tutte le nazioni per l'utilità degli uomini. Là il giudeo, il maomettano e il cristiano trattano l'uno con l'altro come se fossero della medesima religione, e non danno l'appellativo di infedeli se non a coloro che fanno bancarotta. Là il presbiteriano si fida dell'anabattista e l'anglicano accetta la cambiale del quacchero. Uscendo da queste pacifiche e libere assemblee, gli uni si recano in sinagoga, gli altri vanno a bere; l'uno va a farsi battezzare in una grande tinozza nel nome del Padre,

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del Figlio e dello Spirito Santo, l'altro fa tagliare il prepuzio a suo figlio e borbottare sul bambino parole ebraiche che non capisce; altri vanno nelle loro chiese, col cappello in testa, ad aspettare l'ispirazione divina; e tutti sono contenti. Se in Inghilterra vi fosse una sola religione, ci sarebbe da temere il dispotismo; se ve ne fossero due, si scannerebbero a vicenda; ma ve ne sono trenta, e vivono felici e in pace».

Quanto a Locke e Newton, le sue guide filosofiche, Voltaire deve loro la confutazione dell'apriorismo metafisica secentesco e delle ipotesi romanzesche della fisica cartesiana. Egli celebra in Locke «il saggio che, dopo il romanzo dell'anima composto da tanti raziocinatori, è venuto a farne modestamente la storia. Locke ha spiegato all'uomo la ragione umana, come un valente anatomista spiega la struttura del corpo umano. Egli si vale sempre della fiaccola della fisica; qualche volta si arrischia a parlare in modo affermativo, ma osa anche dubitare; invece di· definire di colpo quel che non conosciamo, esamina per gradi ciò che vogliamo conoscere. Prende un bambino al momento della nascita, e segue passo passo lo sviluppo del suo intelletto».

E così Locke ha smentito i sostenitori delle idee innate, stabilendo che tutte le nostre idee provengono .. d' dai sensi, ed ha avuto il merito di affermare che, . . l mentt t Locke non possedendo no1 nessuna nozwne adeguata né della materia né dello spirito, non è irragionevole supporre, con buona pace dei teologi e delle anime devote, che anche la materia possa pensare. Newton, poi, ha avuto il merito di rendere del tutto inutile la lettura di Cartesio, sostituendo al suo sistema del mondo - nient'altro che «un romanzo

7.3

ingegnoso» - la vera conoscenza su basi sperimentali della natura: se la filosofia di Cartesio è stato un «tentativo», quella di Newton è «un capolavoro». Certo, Cartesio ha avuto il merito di distruggere «le assurde chimere con le quali da duemila anni s'infatuava la gioventù; ha insegnato agli uomini del suo tempo a ragionare e a servirsi contro di lui delle sue stesse armi»; ma questo non toglie che «egli s'ingannò sulla natura dell'anima, sulle prove dell'esistenza di Dio, sulla materia, Ne~t~n e i sulle leggi del movimento, sulla natura della luce; am- mer~tt (e mise idee innate, inventò nuovi elementi, creò un mon- demeriti) di do, fece l'uomo a suo modo, e a ragione si dice che Cartesio l'uomo di Cartesio non è che l'uomo di Cartesio, assai lontano dall'uomo re.ale».

L'esistenza di Dio e l'ottimismo voltairiano

«come la cosa più verosimile che gli uomini possano pensare ... e la proposizione contraria come una delle più assurde».

Infatti: «Allorché vediamo una bella macchina, diciamo che c'è un macchinista e che questo macchinista deve aver pure

Voltaire non si aspettava l'accoglienza fatta alle sue Lettere filosofiche o Lettere inglesi, con le quali proponeva nel 1734 ai francesi le novità filosofiche e politico-culturali d'oltremanica: il libro venne giudicato dal Parlamento di Parigi atto «ad ispirare illibertinaggio più pericoloso per la Religione e per l'or- P . . de11 a socwta · · c1v1 · 'le», fu bruc1ato · sull a pub- per ersegmtato dme un libro A blica piazza, e il suo autore minacciato di arre- Cirey • sto. A questi non rimase che fuggire e rifugiarsi nel castello di Cirey, in Champagne, presso l'amica Madame Emilie du Chàtelet, seguace di Leibniz e di Wolff e traduttrice di Newton, con la quale convisse fino alla morte di costei nel 1749. A Cirey Voltaire compose nel 1734 un Trattato di metafisica, e completò il proprio apprendistato newtoniàno con gliElementi della filosofia di Newton del1737 ed una Metafisica di Newton del l 741.

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e negli Elementi Voltaire procedeva ad un'esposizione accurata della scienza newtoniana, dalla teoria della luce alla legge gravitazionale, negli altri due scritti, rifacendosi allo Scholium generale di Newton e, in particolare, alle prove dell'esistenza di Dio di Clarke, si provava a dare fondamenta metafisiche alla propria fede deistica. Pur riconoscendo che, «nell'opinione che esiste ttDio esiste»: la cosa più un Dio, non mancano difficoltà», egli sosteneva verosimile che la proposizione «Dio esiste» sarebbe da considerarsi

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un ingegno d'eccezione. Ora, il mondo è di certo una mirabile macchina: pertanto esiste .una mirabile intelligenza, dovunque essa sia. Un siffatto argomento- commenta Voltaire - è vecchio, ma non è dei più scadenti».

Si tratta di riconoscere che l'ordine che regna nell'universo testimonia dell'esistenza di cause finali, e che queste devono concludere all'esistenza di un supremo ordinatore del mondo, come un orolo- L' 1 . . . . . d l . . I . oro ogto e gw nnvm necessanamente a un oro og1a10. ns1- l'orologiaio stentemente Voltaire polemizza col materialismo di chi sostiene l'eternità e l'autosufficienza della materia, cui obietta che il riconoscimento newtoniano dell'esistenza del vuoto comporta quello della contingenza della materia, che pertanto richiede una causa esterna per poter esistere. Quanto al rapporto di Dio col mondo degli uomini, è preoccupazione dominante di Voltaire di respingere ogni forma di antropocentrismo, e di mettere

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PARTE TERZA IL SETTECENTO: I DELLA RAGIONE

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Lima provò le medesime scosse in America l'anno scorso· stesse cause, stessi effetti; certamente è rimasta sotto terr~ una scìa di zolfo da Lima fino a Lisbona)),

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Moltissime ancora sono le disgrazie che si abbattono sui due protagonisti, cui ad un certo momento si . aggiunge Martino, un vecchio saggio anche lui Un sagg1o d Il . . musulmano tartassato a a cattiva sorte, ma che prendeva le cose con pazienza, convinto fermamente com'era «che si stesse ugualmente male dappertutto». La conclusione del romanzo trova riunita l'intera compagnia a Costantinopoli, dove i nostri eroi s'imbattono in un vecchio e saggio musulmano che, indifferente al corso del mondo, si accontenta di vendere, aiutato dai propri figli, i frutti del giardino che coltiva: «Ho soltanto venti jugeri, li coltivo coi miei figli. Il lavoro allontana da noi tre grandi mali: la noia, il vizio e il bisognO)),

ranza in quella sopravvivenza oltremondana di cui, come sappiamo, Voltaire aveva finora rifiutata l'attendibilità . In questo modo, il suo deismo - o teismo, come ora preferisce chiamarlo perché non venga confuso con le idee a sfondo spinoziano-ateistico di Toland o di Collins -, che si era voluto distinguere radicalmente dalla religione cristiana confessionale, finisce d. 01 con l'accogliere di questa la fede nell'immortalità alatei:,~~no individuale, finora considerata buona soltanto per una religione ad uso del volgo. Allo stesso modo, Voltaire anche fa propria del cristianesimo l'idea, finora anch'essa rifiutata, di un Dio remuneratore dei buoni e castigatore dei malvagi.

Voltaire e Federico II

Pangloss, Martino, Candido fanno profonde riflessioni sulle parole del turco e sulle vicende trascorse; ma mentre il primo insiste nel ripetere con Leibniz, che «tutti gli avvenimenti sono concatenati nel migliore dei mondi possibili», Martino, il filosofo che sembra invece incarnare lo spirito scettico di Bayle, è stanco di queste discussioni: «Lavoriamo senza discutere è il solo mezzo per rendere la vita tollerabile)). '

Mentre Candido, in risposta alle tiritere di Pangloss, conclude: «È giusto, ma bisogna coltivare il nostro giardino)).

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«Coltivare il proprio giardino»: è la metafora con la quale Voltaire vuoi distogliere gli uomini dalla predi scoprire la logica oscura che coIl.1vare 1.1 tesa l ambiziosa l' . proprio rego a umverso mondo, e richiamarli piuttosto giardino ad operare rassegnatamente e pazientemente entro i limiti brevi della loro condizione umana in vista di migliorare il più possib\le quella piccola ai~o­ la in cui sono stati destinati a vivere. . Un passo soltanto sembrerebbe separare il nostro filosofo da un pessimismo virile ed attivo libero ormai da o.gni sorta di consolazione religios~; ma quel passo egh non lo avrebbe mai fatto. Glielo impedivano la sincera fede razionale in un Dio autore della natura, seppur inconoscibile, e l'intento anche di sbarrare la strada alle posizioni materialistiche ed «Un giorno ~tee che andavano emergendo tra i philosophes. tutto sarà E cosi che nella prefazione al Poema sul disastro bene» di Lisbona, per esempio, al momento di rifiutare il menzognero 'tutto è bene', egli si affida alla speranza che «un giorno tutto sarà bene»: dove la fiducia nell'opera mondana, intesa al progresso dell'umanità, sembra prolungarsi, e trascendersi, nella spe-

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appiamo che Voltaire fu per qualche tempo a Postdam, alla corte di Federico Il di Prussia. Riportiamo da una pagina dello storico Franco Catalano il vivace racconto della permanenza del filosofo in quella «dorata prigione»: «Il Voltaire fu da lui invitato a recarsi a Postdam, la residenza reale a 30 chilometri da Berlino, con la promessa che gli sarebbe stato offerto il posto di ciambellano con la grande croce dell'ordine del Merito ed una pensione annuale di 20 mila lire. Lo storico e letterato partì il 28 giugno 1750, dopo essere stato a Compiègne a 'chiedere al più grande re del Mezzogiorno (Luigi XV) il permesso di andare a mettersi ai piedi del più grande re del Settentrione'. A Postdam Federico Il gli assegnò l'appartamento del maresciallo di Sassonia, cosa che lusingò molto il Voltaire che, scrivendone al conte d'Argentai, ... disse: 'Han voluto mettere lo storico nella camera dell'eroe'. Anch'egli aveva la concezione di una cultura . pugnace e dovette colpirlo

quell'omaggio a\ letterato accomunato all'uomo d'azione, al condottiero di eserciti. All'inizio tutto gli parve bello e grande: vivere accanto a quel re vittorioso in cinque grandi battaglie ... lo commuoveva e lo esaltava nello stesso tempo e celebrava la corte in cui si trovavano 'centocinquantamila soldati vittoriosi, opera, commedia, filosofi, poesia, un eroe filosofo e poeta, grandezza e grazie, granatieri e Muse, società e libertà'. Ma in una lettera successiva, del 13 ottobre, a M.me Denis, incominciava a notare qualcosa che non gli piaceva del tutto: anzitutto, il re non aveva né una corte né un consiglio, cosa che, affermava, non lo disturbava, sebbene a lui, abituato alla vita francese, dovesse sembrare molto strano. E poi, non si vedevano che mustacchi e colbacchi da granatiere: troppi generali e troppi principi che avrebbero dovuto abituarlo ad essere sempre davanti ad un re in cerimonia ed a parlare sempre in pubblico. Così, aveva preso l'abitudine, tutte le volte che poteva, di

SEZIONE SECONDA. L'ILLUMINISMO FRANCESE CAPITOLO 23

7.6

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«Ecrasez l'infame!». La tolleranza. Contro l'ateismo

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PARTE TERZA JL SETTECENTO: !.> e «spirito di al contrario - il rifiuto del quale d' Alembert atsisteman tribuisce a merito di Condillac -, pretende di formulare «frivole congetture» non suffragate da · alcuna verifica sperimentale ed innalzate a sistemi assoluti di verità, «più adatti a lusingare l'immaginazione che ad illuminare la ragione». Nel 1759, ormai abbandonata l'impresa dell'Enciclopedia, d' Alembert sarebbe tornato a risistemare la propria riflessione filosofica negli Elementi di filosofia o princìpi delle conoscenze umane, cui avrebbe . . fatto seguire nel1767, su richiesta di Federico II, 111050118 La. : un'appendice di Schiarimenti. L'autore si vien

dagli illuministi. Dopo la sua morte, ne sarebbe 11 «:a!otton ;,;§ stata assicurata la sopravvivenza dalla moglie pangmo - ' Anne Catherine, intorno alla quale si sarebbe raccol§È to, durante gli anni della rivoluzione, il gruppo degli «idéologueS» (V. VOL. 3*, CAP. 9, PAR. 2).

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un «ateista furiosissimo»

aul Henry Thiry d'Holbach nasce nel l 723 in terra germanica ad Edesheim, una cittadina del Palatinato prossima al confine francese. Nonostante le modeste origini borghesi, egli eredita il titolo nobiliare di barone da uno zio materno che di recente l'aveva acquistato, e che, al momento della sua morte nel1753, gli avrebbe lasciato in eredità anche un ricco patrimonio terriero. Dopo aver studiato all'università di Leida, in Olanda, dov'era venuto a contatto con la più recente cultura inglese e fran. utn cese assai diffusa in questo paese, Paul si stabilisce . naIura ltzza o • . P . . d . d' francese vent1se1enne a ang1 e ottlene 1essere natura1lZzato francese. Entra in amicizia con Diderot, al quale sarebbe rimasto legato per tutta la vita, conosce Rousseau, con cui invece sarebbe presto intervenuta una definitiva rottura, collabora all'Enciclopedia, per la quale scrive alcune centinaia di articoli riguardanti la chimica, la geologia, la mineralogia, delle quali era divenuto un conoscitore esperto anche se dilettante. Celebri sono rimasti gli incontri intellettuali che egli, fino agli ultimianni della sua vita, fu solito organizzare due volte la settimana nella sua casa di Un cellctbtre Parigi e nella dimora di campagna del castello di «saoon Gran dva l, ne1· press1'd'S 1 ouc1,· e che v1'dero, tra gl'1 ospiti occasionali, personaggi illustri come Hume, Beccaria, Smith, Voltaire, e tra i partecipanti più assidui, Diderot, Buffon, Helvétius, Turgot, Galiani. Al momento della crisi intervenuta nel gruppo degli enciclopedisti sul finire degli anni cinquanta, Holbach fu d'accordo con Didero t nel ritenere che fosse necessaria, in presenza dell'acutizzarsi della reLotta filosofica pressione antiilluministica, una radicalizzazione e ~;~rs~i~:~~,~~ della lotta filosofica, che in breve tempo lo avrebbe mezzo al portato all'esplicitazione di idee apertamente maPOIJolon terialistiche ed atee. Ebbe così inizio una sua febbrile attività propagandistica che si espresse soprattutto nella pubblicazione clandestina di testi irreli. giosi fino allora Circolanti manoscritti, di saggi di deisti inglesi come Toland. e Tindal, di scritti dello stesso Holbach ma divulgati in forma rigorosamente anonima o attribuiti ad autori già morti, nei quali potessero essere esposte dottrine materialistiche ed atee, senza

bisogno di occultarle sotto moderate sembianze deistiche. A differenza di quanto si era prefissa la letteratura libertina seicentesca e settecentesca, e in dissenso radicale con la politica delle «due verità» -una per i dotti, l'altra per la 'plebe' ignorante-, cara al deista Voltaire come anche ad un materialista quale La Mettrie, l'obbiettivo holbachiano era quello, al contrario, di diffondere l'ateismo il più largamente possibile, anche in mezzo al popolo. Videro così la luce, durante gli anni sessanta, numerosi scritti, tra i quali Il cristianesimo

svelato, ovvero esame dei princìpi e degli effetti della religione cristiana, Il contagio religioso, Lettere a Eugenia, la Teologia portatile, la Storia critica di Gesù Cristo, un Saggio sui pregiudizi. Nell770 apparve, sotto il nome di Jean Baptiste Mirabaud, uno scrittore antireligioso morto qualche anno prima, quello che tradizionalmente è stato considerato il libro più importante di Holbach, una sorta di bibbia del materialismo ateo, quel Sistema della natu-

ra, ossia delle leggi del mondo fisico e del mondo morale, nel quale egli presenta la sua concezione generale . della natura, insomma il suo «sistema» materiali- 11 51'81?1111.81. ' S'1e' d'1f ronte ad un ' opera pmttosto • st1co. prol'1ssa, 1118 erta IS ICO piena di ripetizioni, nient'affatto originale, che raccoglie in una visione sistematica idee già ampiamente divulgate da una letteratura filosofica che da Hobbes discende fino a Toland e a La Mettrie. Privo di interessi propriamente scientifici, l'autore non si confronta- in questo assai diverso e più «arretrato» dell'amico Diderot - con le ipotesi e le teorie che si andavano allora dibattendo in sede scientifica ed anche filosofica, in particolare intorno alla questione nodale del passaggio dall'inorganico all'organico, dall'animale all'uomo. Egli sembra volersi limitare a tracciare alcune linee essenziali, a fissare i punti, a suo parere ormai definitivamente assodati, sufficienti a fondare una concezione materialistica dell'universo e dell'uomo. Ecco dunque l'affermazione che la materia . non è inerte estensione, sostrato passivo bisognoso Mat~rta et movnnen o . . dal d'1fuon,. da un mve. 1.1.mov1mento d1. ncevere rosimile e incomprensibile essere spirituale, bensì realtà eterna cui il movimento inerisce naturalmente dall'e

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PARTE TERZA IL SETTECENTO: I «LUMI>> DELLA RAGIONE

ternità, e secondo le cui leggi invariabili tutti i fenomeni naturali vengono svolgendosi, in una catena ininterrotta di cause ed effetti. Di nessun dio-orologiaio c'è dunque bisogno; per spiegare l'ordine della natura, è sufficiente ammettere, insieme con la necessità delle cause, l'eterogeneità della materia, ossia il suo essere costituita dall' «assemblaggio» di diverse materie che interagiscono e si combinano in infiniti modi tra loro:

sue leggi, non può affrancarsene, nemmeno col pensiero può uscirne; invano la sua intelligenza tenta di spingersi oltre i limiti del mondo visibile, sempre è costretta a rientrarvi. Per un essere formato dalla natura e da essa circoscritto, niente esiste al di là del gran tutto di cui è parte e del quale subisce le influenze».

«L'universo, questo assemblaggio di tutto ciò che esiste, non ci mostra ovunque che materia e movimento: il suo insieme non è che una immensa ed ininterrotta catena di cause ed effetti ... Materie assai diversificate, combinate in una infinità di maniere, ricevono e trasmettono senza sosta movimenti diversi. Le proprietà differenti di queste materie, le loro diverse combinazioni, i loro così diversi modi di agire, che necessariamente ne discendono, costituiscono le essenze degli esseri; ed è da queste essenze diversificate che risultano i diversi ordini, gradi e sistemi che questi esseri occupano, nella cui somma complessiva consiste ciò che chiamiamo natura ... Essa è il gran tutto che risulta dall'assemblaggio di diverse materie, dalle diverse loro combinazioni, dai movimenti diversi che vediamo nell'universo».

«L'uomo è un essere del tutto fisico; l'uomo spirituale non è che questo stesso essere fisico considerato sotto un particolare punto di vista, ossia in relazione a qualcuno dei suoi modi d'agire, dovuti alla sua particolare organizzazione. Ma questa non è forse anch'essa opera della natura? I movimenti o i modi d'agire di cui è capace, non sono forse fisici? Le sue azioni visibili, allo stesso modo dei movimenti invisibili eccitati al suo interno, che provengono dalla sua volontà o dal suo pensiero, sono allo stesso modo effetti naturali, conseguenze necessarie del suo specifico meccanismo, impulsi che esso riceve dagli esseri dai quali è circondato ... Tutto q~anto facciamo o pensiamo, tutto ciò che siamo e che saremo non è altro che una conseguenza di come la natura ci ha fatti: tutte le nostre idee, le nostre volontà, le nostre azioni sono gli effetti necessari dell'essenza e delle qualità che la natura ha messo in noi, oltre che delle circostanze attraverso le quali essa ci costringe a passare e dalle quali veniamo modificati».

Non ha difficoltà Holbach a riconoscere ·nel movimento intrinseco alla materia una sorta di energia, di forza dinamica e agente, una volta però che da concezi~~: questi termini siano eliminate del tutto quelle ((fisicissima)) suggestioni, quei significati animistici, caratteristici da sempre delle concezioni panteistiche della natura; la sua visione della natura vuole essere, per così dire, fisicissima; non semplicemente empia, come quella di Spinoza o di Bruno che la natura avevano divinizzato, ma propriamente atea, esclusiva di ogni divinità, sia pur identificata con la stessa materia. Devianti sembrano dunque - sia detto di sfuggita -certe tendenze affiorate tra gli studiosi ad interpretare in senso panteistico il materialismo holbachiano, ad attribuirgli una sorta di religione della natura, addirittura a romantizzarlo, come se rappresentasse un'anticipazione delle concezioni vitalistiche ed organicistiche care all'età romantica. È vero che Holbach parla della . . natura come di un «gran tutto» - espressione cara lnterpretaz1om l . · d · · · d d devianti a 1mguagg10 e1 pante1st1 -, ma a guar are a vicino si scopre che essa si risolve, come si è visto, in un assemblage, che è parola appartenente al linguaggio della meccanica; è vero che nell'apostrofe alla natura, con cui il Sistema si chiude, Holbach parla di una religione da eleggere in alternativa alla religione sovrannaturale, ma si tratta di nient'altro che della morale naturale, la quale ha per oggetto semplicemente «la conservazione, il benessere e la pace tra gli uomini», insomma «l'interesse di ciascun uomo, di ciascuna società, dell'intera specie umana». L'uomo nella Naturalmente, l'uomo non fa eccezione nel sistenatura ma della natura: esso . «è opera della natura, esiste nella natura, è sottoposto alle

La distinzione che sovente si è fatta tra uomo fisico ed uomo spirituale costituisce un abuso:

L'idea che l'uomo sia libero è pertanto priva di alcun senso: «La nostra vita è una linea che la natura ci costringe a tracciare sulla superficie della terra, senza che noi possiamo distanziarcene per un solo istante. Nasciamo senza che l'abbiamo voluto, la nostra organizzazione non dipende in nulla da noi, le idee che abbiamo ci vengono involontariamente, le nostre abitudini dipendono da coloro che ce le fanno contrarre, siamo continuamente modificati da cause, cosi visibili come nascoste, che regolano necessariamente il nostro modo di essere, di pensare e di agire. Che siamo felici o infelici, savi o folli, ragionevoli o irragionevoli, questo non dipende in niente dalla nostra volontà».

Basta ad Ho lbach avere fissato questi punti fondamentali della sua filosofia della natura e dell'uomo, per venire a quello che è l'obbiettivo principale della sua opera di infaticabile propagandista della verità del materialismo: la lotta ad oltranza contro la religione, in tutte le forme che essa ha assunto nella storia dell'umanità, dalle religioni dell'uomo primitivo fino al L . . . D' .. . . . . a lotta con1ro cnst1anes1mo. 1 questa cntlca antlre11g10sa, m la religione nome di un ateismo che operasse per la liberazione degli uomini e la loro maggiore felicità possibile, è espressione la seconda parte del Sistema della natura, ma particolarmente un'operetta concepita e pubblicata successivamente da Holbach, nel l 772, e destinata a grande fortuna per tutto il secolo successivo alla sua apparizione, Il buon senso, ovvero le idee naturali opposte alle idee sovrannaturali, attribuito all'inizio solitamente a Meslier (V. PAR. s). Di essa è stata proposta recentemente una ben motivata rivalutazione nei con-

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SEZIONE SECONDA. L'ILLUMINISMO FRANCESE CAPITOLO 23

fronti del Sistema della natura da Sebastiano Timpanaro, che ne ha curato la traduzione italiana. Ciò che distingue la critica holbachiana della religione dall'orientamento soltanto anticlericale di un Voltaire, che faceva risalire le religioni positive all'impostura dei preti ed alla loro volontà di dominio, è che l'origine prima della religione è piuttosto da ricercare nel fondo dell'animo umano, là dove si annidano paura ed ignoranza, alleate nell'incatenare gli uomini a credenze irragionevoli ed assurde. Non che Holbach non tenga conto dell'aspetto politico della religione, L'origine della religione e dell'alleanza dei preti con i troni per costringere l'1> rienza religiosa, di cui invece viene avvertito il radicamento nell'esperienza interiore della coscienza. Pur aderendo ai principi della religione naturale e condividendo il rifiuto, proclamato dai philosophes orientati in senso deistico, di qualsivoglia mediazione ecclesiastica e di ogni sovraccarico dogmatico della fede in Dio prodotto dalle diverse confessioni religio-

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se, Rousseau non condivide la tendenza dei philosophes a fare della religione una questione di semplice adesione filosofica, e di essa piuttosto rivendica l'origine dalle rivelazioni del «cuore». In una celebre lettera a Voltaire del 1756, alla vigilia della sua pubblica rottura con i philosophes, così egli si dichiarava: « ... credo in Dio cosi fermamente come non credo in nessun'altra verità, perché credere e non credere sono le cose che dipendono meno da me, perché lo stato di dubbio è troppo insopportabile per la mia anima, perché quando la mia ragione oscilla, la mia fede non può restare a lungo sospesa e prende le decisioni senza il suo sussidio, perché infine mille motivi di preferenza mi attirano verso una teoria più ricca di consolazioni e aggiungono il conforto della speranza all'equilibrio della ragione».

E continuava, più sotto: «Nessuna sottigliezza della metafisica mi farà dubitare un solo istante dell'immortalità dell'anima e di una Provvidenza benefica. La sento, ci credo, la voglio, spero in essa, la difenderò fino all'ultimo istante di vita ... ».

Del cristianesimo, lui nativo di Ginevra e cresciuto nella fede calvinista, avvertiva l'intensa drammaticità e la suggestione «mistica», se così si può chiamare il sentimento di una patria perduta, di una colpa intervenuta a corrompere il cuore degli uomini, di una possibile redenzione finale. E, comunque, egli restava abbastanza laico e uomo di ragione Colpa e illuminista, insomma - da voler rifiutare, di queredenzione: sto suo recupero cristiano, gli esiti sovrannaturavicende soltanto umane listi ci: la colpa che ha deturpato la natura umana, nativamente integra, non ha una dimensione teologica, non riguarda il rapporto tra uomo e Dio, e non richiede dunque, per essere cancellata, un intervento divino; essa s'è consumata nel quadro tutto umano della storia della civiltà, e sono gli uomini stessi a poter portarvi rimedio, attraverso una rinascita del tutto secolare, da promuovere sul terreno mondano della politica, e non già su quello metastorico della

salvezza eterna. Non mancano, come si vede, in questo scenario elementi che differenziano profondamente la collocazione di Rousseau all'interno della cultura illuministica, principale tra tutti il dissenso dalla lettura Dissenso ottimistica che gli enciclopedisti facevano della dai storia della civiltà, considerata come progressiva philosophes ... affermazione delle scienze e delle arti e insieme attuazione progressiva di costumi etici sempre più congrui con la natura razionale dell'uomo. Fa da contrasto a questa ingenua fiducia la convinzione rousseauiana che la civiltà, con tutti i suoi «lumi», abbia, viceversa, indotto il corrompimento morale degli uomini, e che s'imponga l'urgenza di un «ritorno» dell'uomo alla propria originaria natura. Questa divergenza dall'opinione prevalente tra gli illuministi non è comunque sufficiente a collocare Rousseau fuori dal contesto della cultura del suo secolo. Pur nella singolarità della sua posizione, il ginevrino condivide con gli altri illuministi la battaglia contro le istituzioni e le credenze sedimentatesi nella «tradizione», oppressive ed ingiuste, in nome :1•1•di."~ 1 , v1sta • d'1una tra- l UffillliS a de11a l1'b erta' de11''md'1v1'duo ed m sformazione dell'ordine politico e sociale esistente, impastato di violenza e di spirito di sopraffazione. In maniera non dissimile dai Voltaire e dai Diderot, anche se con risposte tanto più radicali, Rousseau si propone un programma di umanizzazione del mondo degli uomini, e ne vuole l'emancipazione in nome dei princìpi della ragione. Ciò che lo fa singolare, diverso da ogni altro esponente della cultura del tempo, è semmai l'insistenza con la quale egli chiede che all'ossequio ,. . . della ragione si accompagni la riscoperta della L_mtenonzza· . d . . .d l . z1one della «coscienza>>, e1 mot1 spontane1 e «cuore», m ragione una sorta di interiorizzazione della razionalità, e di sua riconciliazione con le sorgenti del sentimento e della passione, là dove affondano le radici della vera, genuina «natura» dell'uomo.

Una vita errabonda. L'illuminazione di Vince nn es ean Jacques Rousseau era nato a Ginevra nel l 712 da una famiglia di remota origine francese; il padre, lsaac, era un modesto orologiaio mentre la madre era morta pochi giorni dopo averlo dato alla luce; egli avrebbe sofferto molto di questa perdita, uno dei fattori, probabilmente, di quella sensibilità nervosa e malata che lo avrebbe L' . tormentato per tutta la vita. Il piccolo crebbe 10110 educaz fino a dieci anni affidato alle cure del padre, che pa1ern 8 fu per lm· una sorta d'1 d'1sord'mato maestro e com-

pagno di lunghe letture notturne di romanzi e delle Vite di Plutarco, che molto avrebbero influito sul temperamento sensibile e sognatore del figlio. E cosi, fonte di futuri conflitti emotivi doveva essere il contrasto tra l'esempio non proprio edificante del padre, homme de plaisir, e l'influenza dell'ambiente calvinista ginevrino, severo e repressivo. Perduto anche il padre, costretto a lasciare Ginevra per problemi con la giustizia, Jean Jacques viene affidato alle cure di un pastore di campagna, unico ad

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PARTE TERZA lL SETTECENTO: I DELLA RAGIONE

:;:)

avviarlo a studi più regolari, presto interrotti per la necessità di lavorare come apprendista da un Cf) dei mali incisore. Il fanciullo dodicenne fa esperienza per Cf) :;:) del mondo la prima volta, con i maltrattamenti del padrone, dell'oppressione e dell'ingiustizia, ed impara a o cc difendersene con le astuzie e le falsità, che la società è così pronta ad insegnare. Una sera, all'età di sedici anni, trova chiuse le porte della città e decide di andarsene via per il mondo: inizia così la sua vita inquieta ed errabonda. Ospitato ad Annecy, in Savoia, da Madame de Warens, una dama svizzera convertita al cattolicesimo e al soldo del re di Sardegna, per il quale svolgeva opera di proselitismo e anche di spionaggio, viene da lei Md a Warens ame de mv1ato · · a Tonno, · dove ne l 1728 Rousseau Sl· converte alla fede cattolica. Succedono anni di spostamenti continui dalla Savoia al Piemonte e alla Svizzera, mentre egli pratica i mestieri più diversi e più umili, provandosi anche come studente di musica, per la quale ha una grande passione. Nel1734 trova rifugio nuovamente presso la Warens, la «maman» di cui diviene anche amante. Iniziano gli anni che nelle sue Confessioni dirà i più felici e pieni della sua vita: erienza

tito filosofico'. Nel frattempo frequenta, da provinciale un po' spaesato, i salotti intellettuali, e si adatta a corteggiare i potenti e le dame, passaggio inevitabile per poter emergere. Il figlio dell'orologiaio, l'orgoglioso «cittadino» della repubblica di Ginevra, costretto a cercare protezione di nobili e finanzieri, «sudditi» di un monarca assoluto, in un paese papista, vive con sorda inquietudine interiore questa sua personale scissione ed ambiguità sociale, ben materializzata nel fatto che, uscito dai salotti dei ricchi, si rifugia tra le braccia di una popolana, Thérèse Levasseur, una in-

lit-.:;.:ldc•' :0, ';-; J" lavoro conseguitane, a rappresentare la «grande rivoluzione», il passaggio decisivo alla civiltà: «Per il poeta è l'oro e l'argento; ma per il filosofo sono il ferro e il grano gli autori della civilizzazione degli uomini e della perdizione del genere umano».

È dalla spartizione dei terreni che è nata infatti la proprietà privata, causa prima dell'ineguaglianza . . degli uomini e del dominio degli uni sugli altri. La. p\opneta Celebre è la pagina nella quale Rousseau «rac- pnva a conta» il fatale momento: «Il primo che recinse un terreno e dichiarò: 'questo è mio', e trovò persòne tanto semplici da crederlo, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, assassini, quante miserie ed errori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i paletti e colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: 'non ascoltate questo impostore; se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti!'».

Da quel momento, la progressiva appropriazione privata della terra produce la divisione degli uomini in ricchi e poveri, con il conseguente asservimento di questi ai primi, e il dilagare nella società civile di , 11 quella violenza e di quel 'bellum omnium contra ommum b~llum . . con1ra omnes' descntto da Hobbes, e che questi ha avu- omnes' to il torto di riferire allo stato di natura quando invece esso nasce per l'appunto con l'umanità civilizzata: «La rottura dell'eguaglianza fu seguita dal più orribile disordine; cosi le usurpazioni dei ricchi, il brigantaggio dei poveri, le passioni sfrenate di tutti, soffocando la pietà naturale e la voce ancor debole della giustizia, resero gli uomini avari, ambiziosi e malvagi ... La società nascente fece posto al più orribile stato di guerra ... ».

In questa situazione era interesse del ricco proporre al povero una sorta di «patto iniqua>} che, .. nell'articolo sull'Economia politica compilato per 11 l'Enciclopedia in quello stesso 1754, Rousseau cosi riassume: «Voi avete bisogno di me, perché io son ricco e voi povero; stipuliamo dunque un accordo fra noi: io permetterò che voi abbiate l'onore di servirmi a patto che mi diate il poco che vi resta in cambio del disturbo che mi prenderò dandovi degli ordini».

Ma questo non poteva bastare al ricco; occorreva che detto patto sociale venisse sancito anche sul piano giuridico, in modo da venir rafforzato dall'autorità e dal vigore della legge, che trasformasse in legittima .

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SEZIONE SECONDA. L'ILLUMINISMO FRANCESE CAPITOLO 24

, ..

proprietà privata un possesso di continuo reso da.11o stato d·1guerra. Cos1' nacque lo stato, a garantire lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, e a convincere che la diseguaglianza intervenuta fosse da credersi in armonia con lo stato naturale delle cose. Il discorso con cui il ricco riuscì a convincere gli altri al patto politico è in effetti intessuto d'inganno e d'ipocrisia:

L ongme · · dello stato ms1curo

«Uniamoci- disse loro- per garantire i deboli dall'oppressione, moderare gli ambiziosi ed assicurare a ciascuno il possesso di ciò che gli appartiene; istituiamo regolamenti di giustizia e di pace ai quali tutti siano obbligati ad uniformarsi, che non facciano eccezione per nessuno, e che riparino in qualche modo i capricci della fortuna, sottomettendo sia il forte che il debole a doveri reciproci. In una parola, invece di volgere le nostre forze contro noi stessi, uniamole in un potere supremo che ci governi con sane leggi, che protegga e difenda tutti i membri dell'associazione, respinga i nemici comuni e ci mantenga in un'eterna concordia».

La forza di trascinamento di questo discorso fu, scrive Rousseau, irresistibile: «Tutti corsero incontro alle loro catene, credendo assicurarsi la libertà».

Al contrario, si sarebbe innescato un processo degenerativo scandito in tre tappe: dopo la formalizzazione del diritto alla proprietà, che sanciva la Le tappe ~ella divisione tra poveri e ricchi, l'istituzione della degeneraz10ne . . . magistratura avre bb e pro dotto la d'1stmzwne tra potenti e deboli, e infine il tralignare del potere legittimo in un potere arbitrario e dispotico sarebbe culmi-

nato nella contrapposizione tra padrone e schiavi. Nelle ultime pagine del Discorso, Rousseau, in risposta alla seconda parte del quesito di Digione «se l'ineguaglianza sia autorizzata dalla legge naturale» -, mette in discussione le dottrine giusnaturalistiche dello stato elaborate da Grozio fino a Pufendorf e Locke, lungo il corso della storia del mondo borghese moderno, scorgendo in esse proprio la legittimazione del discorso ingannevole ed ipocrita su riportato, rivolto a giustificare la società individualistica e competitiva, fondata sull' «amor proprio» e sullo scontro degli egoismi, cui fa da riscontro la perdita della libertà e l'estraneazione da sé degli uomini tutti, Giusnaturalismo e autentica la cui natura originaria viene profondamente alte- cdegge di rata. Tutto ciò, infatti, è in contrasto con la «legge natura» di natura», che mai potrebbe consentire che «un pugno di uomini nuoti nel superfluo, mentre la moltitudine affamata manca del necessario».

Alla luce della nuova prospettiva acquisita, Rousseau può anche recuperare il tema svolto nel Discorso sulle scienze e le arti, lì segnato da un accento astratto e moralistico, sull'ipocrisia dell'uomo civilizzato, che preferisce apparire piuttosto che Becupero della scissione tra essere, e si adatta a vivere in una società ridotta apparire od ad «un insieme di uomini artificiali e di passioni essere fittizie». Appare questa, ora, la conseguenza del fatto che, in una società di diseguali - scissa in poveri e ricchi, in potenti e deboli, padroni e schiavi -, l'utile proprio è divenuto l'unica misura della condotta, e questo vuole che ciascuno si mostri altro da quello

La casa di Rousseau a L'Ile Saint-Pierre, in un disegno dell'epoca.

Jean Jacques Rousseau a passeggio, in un disegno di J.-M. Moreau de Jeune.

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PARTE TERZA lL SETTECENTO: I «LUMI» DELLA RAGIONE

c~e é nella realtà, e, invece di «vivere in se stesso», VIva estroverso ed alienato da sé: . . «L'uomo socievole, sempre fuori di se stesso, non sa v1vere. ch.e .nell'opinione degli altri, ed è, per così dire, dal loro gmd1z1o che deriva il sentimento della propria esistenza».

Una società che vien detta civile ed umana, ma

nella quale si è costretti a far ricorso agli altri per sapere chi siamo: «... chiedendo sempre agli altri quel che noi siamo e non osando mai interrogar noi stessi su ciò, in mezzo a tanta filosofia, umanità, civiltà, e massime sublimi, abbiamo un'esteriorità ingannevole e frivola, onore senza virtù, ragione senza saggezza, piacere senza felicità».

5 ' '""'" ,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,.,.,,,,.,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,, ;;::;;;::;;;:;;;;:::;::;;;:;;::::::::::::;;::;:;:::;;;::,:;;;;:::::; ,,,,,,,,,,,,,,,,,, "'' "' ''''''''" ,,,,,,,,,,,,, . . La rottura con i «philosophes» on doveva passare molto tempo dall'apparizione dei due Discorsi al momento della rottura tra Rousseau e gli enciclopedisti, alla cui impresa Rousseau aveva fin dall'inizio collaborato, aderendo al programma formulato da Diderot e compilando numerosi articoli per l'Enciclopedia, prevalentemente dedicati ad argomenti musicali. Già il primo Discorso, che aveva assicurato all' autore grande notorietà, aveva sollevato vaste ed aspre 1due Discorsi e polemiche negli ambienti illuministici, delle quai phi/osophes h un'eco, sia pur attutita, è possibile cogliere nello stesso Discorso preliminare di d' Alembert, là dove l'autorevole enciclopedista ritiene opportuno «rintuz~are gli strali che uno scrittore eloquente e filosofo ha lanc1ato or non è molto contro le scienze e le arti accusandole di corrompere i costumi». '

Quando poi Rousseau invia nel 1755 una copia del Di~corso sull'origine della diseguaglianza a Voltaire, .la nsposta del maggiore esponente dell'opinione dei Phl{os?p~es non si fa attendere, arguta quanto maligna. ~gli gmdica lo scritto rousseauiano «un libello contro Il genere umano», e così commenta in una lettera indirizzata all'autore: . «È impossibile dipingere con colori più energici gli orr?n d~lla soci~tà umana. Nessuno ha usato tanto ingegno per n~urc1 a bestre: leggendo il vostro libro vien voglia di cammmare a quattro zampe». 11 segno classista della malevolenza di Voltaire

E così Voltaire non faceva che riprendere l'accusa già rivolta da tanti a Rousseau di voler restituire gli uomini alla primitiva selvatichezza, nonostante che il ginevrino proprio questo avesse preventivamente negato:

come del Consiglio di Ginevra, mentre il governo del . . . . . . • mente ClVlle», che h faccia esser «buom c1ttadm1 in questa vita». Di questa fede

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«spett~ a~ sovrano fissare gli articoli, non precisamente

come dogmi d1 religione, ma come sentimenti di socievolezza, senza i quali è impossibile essere buon cittadino o suddito fedele».

i suoi ex amici enciclopedisti, materialisti ed · partiCo · 1are H el- 0ue avversari ate1,· da una parte, e tra questi· m vétius e il suo Dello spirito, e le religioni rivelate dall'altra, avverso alle quali utilizza il materiale di argomenti 'contro' che la letteratura razionalistica degli ultimi cento anni era venuta accumulando, intorno ai miracoli, ai misteri - primo tra tutti quello del peccato originale -, alle prove storiche e scritturali della Rivelazione, e ad ogni altro aspetto sovrannaturalistico della religione confessionale. Il buon sacerdote savoiardo, il cui messaggio gran successo avrebbe riscosso nell'età romantica, fa appello ad una ragione, ad un «buon senso», non . 11 deviati dalle capziose argomentazioni dei filosofi v~;~o~:n: e dei metafisici, capaci di ascoltare piuttosto la «coscienza» voce della «coscienza», del «sentimento», del «cuore», cui soltanto egli sa che Dio si rivela, e cui richiama, fin dall'inizio del suo discorso, l'ascoltatore: «Figlio mio, non vi aspettate da me né discorsi sapienti né profondi ragionamenti. Io non sono un gran filosofo, e mi

. Essi. sono . pochi e.semplici' da enunciare senza sptegazwm e commenti:

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Il rifiuto dell'intolleranza, che pure Rousseau ritiene debba venir accolto - ed egli è particolarmente severo con l'intolleranza teologica, destinata sempre a produrre anche intolleranza civile- incontra nel Contratto singolari ed illuminanti ecce;ioni: intanto è nei poteri del sovrano bandire dallo stato chiunque non .. creda agli articoli della fede civile, «non in quanto Rllmto del· mpio m . . . h' . l'intolleranza. e ' . a m qu~nto msoctevo1e»; c 1 p01, avenEccezioni do adento ad esst, si conducesse come se non vi credesse, dovrebbe, addirittura, venir punito con la morte: Seg~o, tutto questo, di quanto fosse pressante nel gmevrmo la preoccupazione di assicurare al corpo politico collettivo univocità e compattezza. La riflessione etico-religiosa di Rousseau non si esaurisce certo nella prospettiva puramente politica; troppo forte è in lui, accanto alla componente sociale il sentimento dell'individualità e interiorità del~ «prolessione La di l'esistenza umana, per poter rinunciare a considefede del vicario rare la religione dal punto di vista del singolo e savoiardo» della coscienza morale. Questo egli fa nel quarto libro dell'Emilio, dove introduce la celebre «Professione di fede del vicario savoiardo». Due sono gli avversari contro i quali il ginevrino conduce la sua battaglia, in nome di una religione «naturale» fondata sulle rivelazioni della «coscienza»:

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«l'es~stenza della divinità, possente, intelligente, bene-

fica, previdente e provvida la vita futura la felicità dei giusti, il castigo dei malvagi, ia santità del co~tratto sociale e delle leggi».

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DE L'ÉDUCAI'l()N. P.u ]. l. R o u s s

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Citoyen de Genèvc. SJll.lbilibu> asro:;:mul ·malis ,; in~1quc nus in rc(t:Hn n:nura !;('llÌ: nico-rinascimentale. >< Non fa meraviglia dunque che in varie parti d'IL1J talia risuonassero elogi della filosofia di Cartesio per bocca di studiosi platonizzanti, e, all'inverso, si recu> >< perassero dottrine platoniche da parte dei seguaci del

{'".ç:>.,.~·.c ..~ •7t~-t .... 'C.A ,...,.....-.r,,_t ;:~~·

~: f!~·~r...:J~.~u; tutte è stato comune, ad esempio, Giove fulminatore ed atterratore dei giganti, o Giunone propiziatrice dei matrimoni, tutte hanno avuto la loro Cibele, rappresentativa della coltura della terra, o la propria Minerva che è il principio degli ordini civili. E via via che gli uomini si venivano civilizzando, le favole mitiche dovevano moltiplicarsi e arricchirsi. All'età degli dèi succedeva l'età degli eroi, egualmente dominata da forti passioni e robusta fantasia, ma nella quale al predominio della «teologia poetica>> caratteristico della prima età subentrava una fiducia degli uomini nei propri poteri mondani. In essa le prime tribù vennero ingrandendosi per il sopraggiungere di quanti vi cercavano protezione ed asilo e che dovevano formare la popolazione dei «famuli», ossia dei servi. Nacquero così gli «ordini eroici», fondati sul priL'età degli eroi mat~ dei patrizi, ritenuti figli ~i d~i - e~oi -, i quah, per tenere a freno le voghe d1 serv1 e plebei, vennero dettando il «diritto eroico», «che pone tutta la ragione sulla punta della spada», fondandosi esso sulla forza, a sua volta «prevenuta e tenuta in dovere» dalla religione. Fattosi cosi ordinato il corpo sociale, le giovani nazioni vennero allora gareggiando tra loro in guerre crudeli e sanguinose, nelle quali le opposte aristocrazie si contendevano l'ambito primato della virtù guerriera e dell'onore, mentre la scoperta del mare, la fondazione di colonie, i traffici con i loro «ladronecci eroici», dovevano subentrare ad ingentilire ma anche a complicare i costumi. I miti do-

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vevano farsi sempre più ricchi e complessi: Vulcano, il dio plebeo, rappresenta la moltitudine dei famuli che contendono alle vecchie monarchie patriarcali, fondate sul primato di Giove, lo spazio delle tribù; il mito di Marte ferito da Minerva simbolizza la vittoria degli eroi sulla plebe; Teseo ed Arianna, il Minotauro, gli Argonauti, sono i racconti mitici delle avventure marinaresche degli uomini, mentre la figura di Circe insegna l'insidia delle passioni sempre pronte a ribellarsi al controllo della virtù. Non meraviglierà il posto che hanno nella Scienza nuova i poemi di Omero, monumento imponente della sapienza poetica dell'età degli eroi. Nel terzo libro Vico propone la figura dell'antico poeta co• •• 1 poem1 omenc1 • . me essa stessa un > DELLA RAGIONE

l L SETTECENTO: l

Preferisco la monarchia perché mi sento più vicino al governo che all'aratro. Ho quindicimila lire di rendita, che perderei arricchendo dei contadini. Ciascuno faccia come me, e parli secondo i suoi interessi: in questo mondo non ci saranno più dispute. Le chiacchere e la confusione provengono dal fatto che tutti si intromettono a sostenere la causa degli altri, e mai la propria ... tutti parlano a favore del prossimo. Maledetto il prossimo! Il prossimo non esiste. Dite quel che vi conviene. Oppure tacete».

Un tema su cui Galiani dovette tornare spesso nelle Lettere, come in pagine sparse e frammentarie, fu quello della religione, che gli dava modo di ironizzare su un luogo caro alla pubblicistica dei suoi amici philosophes, come quello della natura dell'uomo. In vena di polemica con Voltaire, sosteneva, per esempio, nel dialogo È sempre la stessa storia, che la .. La re l1g1one e l. . , f'ç , · l ... le scarpe re 1g10ne non e .a 1atto un espres~wne natura e dell'uomo, ma pmttosto una creaztone culturale, non diversamente - si dice scherzosamente in questo scritto - dalle scarpe. Guai a sbagliarsi con i piedi, e a crederle prodotti della natura; e con allusione, appunto, ad una argomentazione di Voltaire - introdotto appositamente nel dialogo -, rivolta a sostenere la religione naturale, Galiani osservava che il fatto che tutti portino le scarpe non vuol dire che esse siano opera della natura. Questo non significa che il Galiani opti per l'irreligione e l'ateismo. In una lettera del1771 se la prende con la teoria leibniziana del migliore dei mondi possibili, ma non per i motivi che avevano spinto alla 'b . critica Voltaire, i quali, a pensarci bene, avrebbeLel mz, 0 · det· phz'losophes dell'ateismo ro dovuto dect'd ere 1'l patnarca all'ateismo. Egli sostiene viceversa che è proprio quella dottrina di Leibniz ad essere indiziata di ateismo: dire infatti che il mondo creato da Dio è il migliore tra gli infiniti possibili, è come confessare, visti tutti i mali e le sciagure che vi s'incontrano, che non è stato creato da Dio, e che anzi Dio non esiste.

Per fortuna ci soccorre la religione ad insegnarci che Dio ha creato il mondo dal nulla, il che ci permette di capire, senza dover diventare atei, tutte le imperfezioni del mondo, visto che gli è toccata come madre il nulla. È anzi l'imperfezione del mondo a rappre- • 0 1 sentare la prova più eloquente del suo essere una c:~~z~one creatura di Dio. E Galiani conclude con una bat- e il nulla tuta, che non si sa fino a che punto sia una irriverente facezia e quanto invece verità meditata ed amara: alla domanda del perché Dio abbia creato il mondo, propone di rispondere che è stato per le insistenze del nulla, che «doveva infinitamente annoiarsi della propria nullità». «È la noia mortale di nostra madre che ci ha messo in condizione di esistere».

Un altro «mito» illuministico che il piccolo abate si è divertito a demolire è che l'uomo sia fatto per la conoscenza, e che la ragione ne costituisca la specificità. Nulla di più inesatto! Se la vita dell'uomo fosse dominata dalla conoscenza, l'uomo saprebbe di L' . uomo, un non essere l1'b ero - D'10 esiste, e dunque l' uomo essere non può essere libero -, e non sarebbe possibile razionale? la morale che vuole invece che l'uomo si creda responsabile delle proprie azioni. L'uomo è fatto, viceversa, «per godere o per soffrire», ha bisogno di credersi libero, e d'altronde la ragione, di cui non c'è motivo di andare orgogliosi, è costretta ad un difficile condominio con le passioni nel governo della vita degli uomini. Galiani: un illuminista pentito? non proprio. Semmai, un critico dell'illuminismo per eccesso u .11 •• . n l ummlsta d1.1'11ummtsmo, quasi a segnare 1'l moment o m pentito? cm, come avrebbe osservato Hegel (V. voL. 3*, CAP. 7, PAR. 8), l'illuminismo si converte, col suo intellettualismo ostinato e la sua arguzia scintillante, in un «universale parlare».

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Capitolo Vico e la filosofia italiana dalla fine del Seicento all'età illuministica

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Fin dagli inizi della sua fortuna in Italia, che non sopravviene prima degli inizi dell'Ottocento, Vico è stato al centro di un'accanita battaglia interpretativa di schietta impronta ideologica. Basti ricordare le opposte letture che della Scienza nuova ebbero a fare, da un lato, gli intellettuali cattolici dell'età risorgimentale, come Rosmini o Gioberti o Tommaseo, che videro in Vico l'antesignano della lotta contro gli errori del pensiero laico moderno, da Rousseau a Kant e soprattutto al sensismo ed al materialismo illuministici; dall'altro, Romagnosi o Ferrari o Cattaneo, e in genere gli scrittori di ascendenze illuministiche dell'epoca, che invece predilessero di Vico gli accenti laici ed intramondani. Le contrapposizioni dovevano proseguire ed accentuarsi più tardi, lungo la prima metà del Novecento, quando ad una lettura di Vico quale anticipatore dell'idealismo tedesco e del suo storicismo immanentistico se ne sarebbe contrapposta un'altra, impegnata nel tentativo di recuperare l'immagine di un Vico pensatore cattolico ortodosso. Al centro della discussione era, naturalmente, l'interpretazione da dare, immanente o trascendente, della provvidenza divin~. li libro che seppe esprimere con forza la prima di queste letture fu quello di Croce (La filosofia di G.B. Vico, Laterza, Bari 1911), che ebbe il merito di far conoscere il filosofo napoletano nel mondo e di evidenziare la ricchezza e vastità del pensiero vichiano. Rifacendosi ad alcuni spunti offerti fin dagli inizi dell'Ottocento. da Cuoco e, soprattutto, alla proposta di Bertrando Spaventa - filosofo hegeliano della seconda metà dell'Ottocento (v. vol. 3**, cap. 8, par. 1) - di. considerare Vico precursore di Hegel, Croce sosteneva che nella Scienza nuova sarebbe contenuto «il secolo decimonomo in germe», e voleva dire .la cultura romantica e l'idealismo postkantiano. In particolare, egli insisteva sull'«estetica» vichiana, assimilandola alla propria concezione dell'arte (v. vol. 3**• cap. 9, par. 5) - e così però perdendone il significato più ricco, sostanziato nell'idea della sapienza poetica e del mito -, e sul tema della provvidenza, riconducendola alla teoria immanentistica hegeliana della razionalità della storia. Da parte cattolica si rispondeva alla provocazione crociana - ma anche agli Studi Vichiani di Gentile (Principato, Messina 1915), l'altro esponente del neo-hegelismo italiano (v. vol. 3**, cap. 10)- con il libro di E. Chiocchetti, La filosofia di G. B. Vico, Vita e Pensiero, Milano 1935, ma soprattutto con F. Amerio, Introduzione allo studio di G.B. Vico, Sei, Torino 1947. Ne emergeva la restituzione della provvidenza ad una dimensione trascendente, ed una unilaterale accentuazione della sua incidenza nella storia, al punto di compromettere l'idea vichiana del verum-factum e della storia come opera degli uomini. Solo nel secondo dopoguerra si .doveva superare gradualmente questa violenta contrapposizione di tesi storiografiche, non senza che, sotto la sollecic tazione dei nuovi orientamenti filosofici diffusisi allora in Italia, si prospettassero nuove letture, idonee a mettere in evidenza aspetti della problematica vichiana, ancora rimasti in ombra. Segnaliamo, tra queste, E. Paci, lngens Sylva: saggio sulla filosofia di G.B. Vico, Mondadori, Milano 1949, un libro di ispirazione esistenzialistica, nel quale l'autore, lasciando da parte gli aspetti religiosi del pensiero vichiano, poneva al centro dell'attenzione il tema del mito, interpretandolo come una categoria destinata a mediare storia e verità, immanenza e. trascendenza. Chi fosse interessato ad accostare il pensiero vichiano dai punto di vista, dei problemi giuridici potrebbe vedere G.Fassò, l q[Jattro auttori del Vico, Giuf~. frè, Milano 1949. L'autore ricostruisce la genesi della Scienza nuova sostenendo la determinante importanza degli studi di Vico sul diritto. · Interessanti sono anche gli studi sul rapporto tra Vico e gli sviluppi della

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Capitolo

25 linguistica e della poetica moderna. Si potrebbero vedere: M.Fubini, Stile e -umanità di G.B. Vico, Laterza, Bari 1946 e, soprattutto, di A.Pagliaro, Lingua e poesia secondo G.B. Vico, e Omero e la poesia popolare in G.B. Vico, ambedue in Altri saggi di critica semantica, D'Anna, Messina-Firenze 1961; del medesimo autore, Le origini de/linguaggio secondo Vico, in Atti dell'Accademia nazionale dei Lincei, 1969. Un'altra tematica che ha occupato gli studiosi durante gli anni cinquanta si riferisce, quale salutare reazione alla pretesa di fare di Vico il precursore di culture e filosofie successive, ai rapporti di Vico con la cultura del suo tempo. In questa direzione si possono fare le seguenti letture: N. Abbagnano, Introduzione a La scienza nuova e opere scelte, Utet, Torino 1952 (importanti aggiunte nella seconda edizione del1976), nella quale si proponeva un Vico strettamente legato alla cultura illuministica in una concezione problematica ed antideterministica della storia tutta incentrata sui poteri dell'uomo; in contrasto con questa lettura, P. Rossi, Introduzione a Vico, Opere, del 1959 (ora, in Vico, La scienza nuova, Rizzoli, Milano 1977), ove l'autore insisteva sul rifiuto vichiano della rivoluzione scientifica moderna. Su Vico, Rossi doveva tornare successivamente con Le sterminate antichità. Studi vichiani, Nistri-Lischi, Pisa 1969 e l segni del tempo. Storia della terra e storia delle nazioni da Hooke a Vico, Feltrinelli, Milano 1979. Tra gli studi rivolti a indagare da vicino i rapporti di Vico con la cultura napoletana ed italiana del suo tempo, suggeriamo: B. De Giovanni, Filosofia e diritto in F. D'Andrea: contributo alla storia del previchismo, Giuffrè, Milano 1958; E. Garin, Dal rinascimento all'illuminismo. Studi e ricerche, Nistri-Lischi, Pisa 1970, in cui sono raccolti articoli prodotti lungo gli annr sessanta; infine, N. Badaloni, Introduzione a G.B. Vico, Feltrinelli, Milano 1961. Quest'ultimo lavoro si distingue per essere una lettura di Vico da un punto di vista marxista. Tra gli studi più recenti segnaliamo: AA.VV., Omaggio a Vico, Morano, Napoli 1968; L. Pompa, Giambattista Vico. Studio sulla Scienza nuova, tr.it., Armando, Roma 1977, uno studio condotto sul filo di una lettura analitica del capolavoro vichiano sotto il profilo sociologico; l. Berlin, Vico ed Herder. Due studisulla storia delle idee, tr.it., Armando, Roma 1977, che radicalizza la tendenza ad interpretare Vico come pensatore controriformistico; AA.VV., Vico oggi, Roma 1979; AA.VV., Leggere Vico, ed. Spirali, Milano 1982; G. Cantelli, Mente Corpo Linguaggio. Saggio sull'interpretazione vichiana del mito, Sansoni, Firenze 1986, interessante studio di carattere teorico, volto a sottolineare la difficoltà vichiana a ricostruire il passaggio dal linguaggio mitico alle lingue prosaiche. Dello stesso autore si può vedere anche un breve saggio precedente, Vico e Bay/e: premesse per un confronto, Guida, Napoli 1971. Può interessare la lettura del saggio di S. Hampshire, Joyce e Vico, in Vico, Ga/iani, Joyce, Lévi-Strauss, Piaget, a cura di G. Tagliacozzo, Armando, Roma 1975, nel quale si cerca nella Scienza Nuova la chiave di lettura de La veglia di Finnegan del grande scrittore irlandese. Infine, un'indicazione per un primo approccio con la filosofia vichiana: A.M. Jacobelli lsoldi, Invito al pensiero di Vico, Mursia, Milano 1989. Sull'illuminismo italiano, son da vedere: L. Actis Perinettj., Gli illuministi italiani, Loescher, Torino 1960 (antologia con introduzione); F. Diaz, Politici e ideologi, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, vol. VI, Il Settecento, Garzanti, Milano 1968, pp.76-263; F. Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Einaudi, Torino 1969 {di fondamenta!~ importanza); P. Casini, Introduzione all'illuminismo. Da Newton a Rousseaù, Laterza, Bari 1972 (capp. IV e VII); AA.VV., Immagini del Settecento in Italia, Laterza, Bari 1980; AA.VV., La tradizione illuministica in Italia, Palumbo, Paler;. mo 1986.

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Capitolo

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L'illuminismo tedesco

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Un'esperienza illuministica singolare a diffusione di idee illuministiche in Germania segue un percorso e presenta caratteri assai diversi da quelli che abbiamo riscontrato in paesi come l'Inghilterra o la Francia, tanto da fare dell'Aujklarung - come, dall'etimo aujklarer = 'rischiarare', 'illuminare', si chiamò l'illuminismo in Germania - un movimento del tutto singolare nel panorama della cultura del Settecento europeo. Le ragioni di questa singolarità son da cercare nelle condizioni culturali, politiche e sociali che contraddistinsero in quel secolo il mondo germanico. lnnanzitutto va ricordato che la Germania era il paese della riforma luterana, nel quale le istituzioni ecclesiastiche riformate erano assai solide, anche per l'intima loro connessione con i poteri politici, e pro,. . . fondamente partecipato il patrimonio di idee reL lllummlsmo ligiose risalente all'opera di Lutero ed alla tradìnel paese . b'bl' C l, d f: . di Lutero zwne 1 1ca. on questa rea ta ovette are 1 conti la cultura illuministica, e disporsi ad un compromesso con essa, che l'avrebbe tenuta lontana, ad eccezione che per certe sue componenti minoritarie e, in sostanza, marginali, dalla radicalità di tanta parte dell'illuminismo francese ed inglese. Tanto più che a questo esito la disponeva anche il mai venuto meno interesse per la metafisica e per la stessa teologia, che proprio di recente era stato rinvigorito e rinnovato in modo creativo dall'opera di Leibniz. Mentre l'illuminismo inglese era stato tenuto a battesimo dall'empirismo di Locke e dal newtonianesimo, e lo stesso illuminismo francese si era Un «g~~e)) svolto liberandosi per l'appunto dell'eredità memetaf1s1co f' . d l . . l' e logico ta 1s1ca e cartes1amsmo attraverso opera propagandistica del giovane ed anglofilo Voltaire, e prima ancora dello scettico Bayle, l'Aufklarung doveva invece portare nel proprio corredo ereditario il «gene» metafisica e logico di Leibniz. Wolff, uno dei

maggiori rappresentanti dell'illuminismo tedesco, del quale viene concordemente considerato la prima figura emblematica, doveva edificare un vasto sistema filosofico d'impianto metafisica-teologico ispirato al leibnizianismo, anche se naturalmente sulla base di una metodologia rigorosamente razionale, ispirata ai princìpi illuministici dell'autonomia e della onnipervasività della ragione. Forte era ancora, del resto, la presa della filosofia aristotelico-scolastica che Melantone (v. CAP. 5, PAR. 2.5), discostandosi dallo spirito antifilosofico ed antirazionale del messaggio di Lutero, aveva ampia- Vitalità della tradizione mente accolta, in vista della sistemazione dogma- aristotelicotica della nuova fede luterana, e che Leibniz ave- scolastica va di recente rivalutata, sicché non fa meraviglia che lo stesso Wolffl'integrasse all'interno della propria antologia. Agirono infine sul movimento illuministico tedesco, a !imitarne le possibilità di espansione e di . egemonia culturale, le particolari condizioni poli- La Germama tiche ed economico-sociali peculiari della Germania settecentesca. Come l'Italia, anche la Germania era priva di unità politica. Dopo la pace di Westfalia del1648 era stata frazionata in più di trecento stati dotati ognuno di autonomia giuridica e territoriale, spesso estesi . non più di dieci o dodici miglia quadrate, gover- u_n P~~se pnvo . . de.11' asso lutlsmo . umta natl. secon do 1. cnten e, f attl. salVl. dipolitica alcuni vasti organismi territoriali, come il Bran... deburgo, la Baviera, la Sassonia, il Palatinato, da principi alla testa di minuscole corti incapaci di allungare lo sguardo al di là dei piccoli interessi locali. Si trattava di una sistemazione politica che non favoriva di certo lo sviluppo delle attività ... con strutture economicoeconomiche ed imprenditoriali, ostacolate da da- sociali arretrate zi, divisioni doganali - ancora alla fine del secolo

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PARTE TERZA IL SETTECENTO: I «LUMI>> DELLA RAGIONE

se ne contavano milleottocento - che impedivano la libera circolazione delle merci, e non favorivano la crescita di ceti borghesi moderni. E tutto questo in un paese che, non soltanto era ancora saldamente nelle mani dei ceti nobiliari di origine feudale dominanti una massa di contadini servi della gleba o poveri fittavoli, ma era uscito da non molto tempo da una guerra terribile come quella dei Trent'anni, al cui termine la popolazione sopravvissuta, dai calcoli fatti dagli studiosi, non superava il 60%. Soprattutto le regioni centrali e nordorientali del paese erano state duramente colpite, alcune delle quali, come ad esempio il Wiirttemberg, soltanto dopo un secolo avrebbero recuperato i livelli di vita precedenti. Ciononostante, durante il secolo venne crescendo anche nei paesi tedeschi - quantomeno in alcuni di essi, come la Slesia, la Renania o anche il Brandeburgo, e soprattutto la Sassonia -, l'iniziativa dei ceti borghesi che, pur in mezzo a mille difficoltà, venne gradualmente superando, anche se non del tutto Ascesa dei ceti. ed ovunque, le veceh'1e 10rme " · · l'1 ed assuartigiana borgJesr t d . . 'f . . , men o proporzwm mam attunere. Una c1tta come Lipsia si doveva affermare come il più importante centro commerciale collegato alle attività minerarie e tessili, e la stessa Berlino doveva diventare la maggiore città tedesca per numero di abitanti, fervida di attività produttive, soprattutto nel settore tessile. Mancavano comunque i livelli di unificazione economica e di maturità sociale caratteristici di paesi come l'Inghilterra o la Francia, in un paese nel quale

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lo stesso riformismo dei principi illuminati - ne . altamente sigmicativo . 'f' . l'opera d'1 Un riformismo e, un· esempiO Federico II di Prussia - doveva trovare un limite respiro senza grande insuperabile alle proprie iniziative nell'opposizione della nobiltà feudale, che avrebbe impedito l'abolizione di un istituto fondamentale del vecchio ordine feudale qual era il servaggio. Per di più, a rendere ancora più singolare ed impervia la storia della propria cultura illuministica, la Germania era un paese ancora privo, agli inizi del Settecento - ed avrebbe continuato ad esserlo per tutta la prima metà del secolo ed oltre - di una propria letteratura nazionale, nonostante che invece propaese privo prio allora la musica tedesca giungesse ai suoi più diUnuna alti vertici con l'opera di Johann Sebastian Bach letteratura (1685-1750) e di Georg Friedrich Haendel (1685- nazionale 1759), ed una splendida architettura rococò rivestisse della propria raffinata leggerezza le vie e le piazze delle città meridionali del paese. Le politiche culturali, se così possiamo chiamarle, delle corti tedesche agli inizi del secolo erano tutte caratterizzate dalla tendenza ad importare costumi ed usi francesi, e lo stesso dispotismo illuminato avrebbe guardato con Federico II esclusivamente alla cultura francese, sicché la battaglia per la realizzazione di una letteratura nazionale, in un paese privo tra l'altro di un centro culturale che assolvesse, anche alla lontana, ad una funzione egemonica simile a quella svolta in Francia da Parigi, non poteva che coincidere con la lotta contro il dispotismo disseminato nelle «trecento patrie» tedesche.

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Illuminismo e pietismo a letteratura nazionale tedesca fin dalle sue prime grandi espressioni settecentesche, rappresentate da Christoph Martin Wieland (17331813) e da Friedrich Gottlob Klopstock (17241803), e poi nel suo grande splendore nell'età del classicismo di Schiller e di Goethe e nel primo romanticismo, cosi come del resto gli esponenti dell'AufkUirung da Wolff a Lessing, ebbero le loro Le radici radici nel mondo protestantico tedesco, giacché protestantiche le regioni cattoliche germaniche, come la Baviera della letteratura o anche l'Austria, restarono a lungo estranee ed na~ionale immobili sotto la coltre soffocante della Controriforma. Anche quando questa cultura letteraria e filosofica doveva rompere od estraniarsi dal suo originario humus protestantico, essa avrebbe continuato a confessare le proprie origini dalla pianta di Lutero. Ha scritto il germanista Ladislao Mittner: «La vigorosa spinta religiosa ed etica che Lutero aveva impresso nella cultura portò i suoi veri frutti con due secoli

di ritardo; frutti che peraltro cadevano spesso assai lontano dall'albero. Il protestantesimo è, comunque, l'humus in cui affonda le proprie radici la grande età classico-romantica, sia che ne sviluppi in modo originale gli ideali più profondi, sia che li secolarizzi in senso più o meno eterodosso, sia che li rinneghi o addirittura li capovolga, mostrando però anche in tal caso, con l'acredine stessa della polemica, l'importanza che quegli ideali avevano ancora per tutti».

Non si potrebbe pertanto trascurare di parlare, al momento di iniziare lo studio della cultura filosofica tedesca moderna, di un fenomeno di grande rilevanza come quello rappresentato dal pietismo, un movimento religioso sorto nella seconda metà del XVII secolo e diffusosi rapidamente in tutta la Germa. nia, per impulso di Philipp Spener (1635-1705), 11 pietrsmo che a Francoforte sul Meno fondava nel 1670 i Collegia pietatis, piccole assemblee di fedeli intenzionati a far sorgere all'interno della Chiesa luterana ufficiale la «chiesa di pietra», come veniva chiamata -, le «chiese del cuore» - «ecclesiolae in ecclesia» -, desti-

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SEZIONE TERZA. ILLUMINISMI DIVERSI: ITALIA E GERMANIA CAPITOLO 26

L'Università di Halle, in una incisione del XVIII secolo.

nate a recuperare l'originario spirito luterano. Spener, e il suo diretto discepolo, August Hermann Francke (1663-1727), animatore della neonata università di Halle destinata a divenire il principale centro d'irradizione del pietismo, ritenevano che il messaggio di Lutero fosse stato travisato dal momento in cui, con la riforma di Melantone, era prevalso nella Chiesa tedesca il «razionalismo» delle disquisizioni e sistemazioni teologiche a danno dell'ispirazione interiore e «sentimentale» della vita religiosa. Di qui il privilegiamento pietista della «devozione» individuale, delle ispirazioni del «cuore», del raccoglimento interiore, della lettura libera e in privato della Bibbia, non costretta dentro le formule e le !IDevozione)) · • · h d 11 d · individuale e mterpretazwm aride e pedantesc e e a ottnna ispirazioni del teologica. Di qui anche l'ostilità, sia pur in gene!lcuore)) re silenziosa, nei confronti della struttura gerarchica della Chiesa ufficiale, considerata un male necessario da subire in rassegnazione, ma priva di ogni vera autorità in materia di fede e di culto. Il pietismo amava rifarsi ai testi della grande mistica tedesca del Trecento, Tauler prima di ogni altro (v. voL. t, CAP. 30 PAR. 5), alla «Devotio moderna» di Tommaso da Kempis 1, ma anche alla mistica di maAscendenze trice luterana di un Bo hm e (V. CAP. 5, PAR. 5), e perfino ad una certa spiritualità mistica di correnti gesuitiche francesi e spagnole. Esso ebbe in altri paesi il proprio corrispettivo, sia pur con tutte le differenze del caso: i puritani e, in particolare, il metodismo in Inghilterra, cui lo legava il comune intento di far risorgere in seno alle rispettive Chiese lo spirito religioso originario; i giansenisti

1 Tommaso da Kempis (13 79-14 71 ), cosiddetto dal nome del luogo di nascita (Kèmpen) nella diocesi di Colonia, fu influenzato fin da giovane dalla devotio moderna dei Fratelli della vita comune; canonico regolare della congregazione di Windesheim presso Zwolle, è probabilmente l'autore della Imitazione di Cristo, un classico della pietà e della mistica cristiana tardo-medievale, destinato ad esercitare una vasta influenza sulla devozione cristiana dei tempi moderni.

in Francia; il calvinismo ortodosso olandese del Seicento; il quietismo in Italia. Di quest'ultimo il pietismo condivideva il tema della rinuncia del devo- c . d . volon t,a partlco . lare e dell' abb an- inornspon enze to a11a propna altri paesi dono nelle mani di Dio, ove trovare serenità e silenzio (Stille), imperturbabilità (Gelassenheit), ove attingere la forza di sopportare pazientemente le sofferenze del mondo (Geduld). Controversa è stata tra gli studiosi la valutazione da dare del rapporto intercorso tra pietismo e coeva cultura illuministiea, ma tutto lascia credere che le divergenze siano dipese dal fatto che in effetti si è trattato di un rapporto in se stesso ambiguo e contraddittorio. Da un lato le componenti sentimentalistiche e fideistiche del pietismo, l'umiliazione della volontà e la remissione nelle mani di Dio, portavano sicuramente lontano dall'ispirazione razionalistica dell'illuminismo, non meno di quel ritrarsi dal mondo Pietismo e nell'intimità della propria anima che non si pote- illuminismo: va di certo accordare con l'esigenza, essenziale divaricazioni ad una prospettiva illuministica, di intervento evidenti ... invece nel mondo, per modificarne orientamenti, assetti, istituzioni tradizionali. L'indubbia operosità del pietista impegnato nella costruzione di cenacoli, di assemblee, di scuole, di case di riposo, di istituti addetti alla propagazione della Bibbia, ove raccogliere in vita comunitaria i fedeli, rappresentava pur sempre una volontà di distinguersi, di separarsi dagli altri, in un proprio mondo, diverso da quello di tutti, e la rinuncia a trasformare quest'ultimo. Epperò, per un altro verso, il pietismo poté concorrere in qualche modo alla formazione di una mentalità illuministica, ed incontrarsi con essa, come sembra essere comprovato dal fatto che diversi · · d · l ... e qualche esponenti· de11''11 1 umtmsmo te esco, e tra esst a - convergenza cuni tra i più combattivi e radicali, avessero alle loro spalle un passato pietistico. Il suo rifiuto dell'ortodossia luterana e la messa in discussione dell'autorità della Chiesa ne facevano oggettivamente un alleato dell'illuminismo, e così la rivendicazione di una vita

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religiosa personale e della libertà di coscienza, la riduzione della religione entro l'ambito della vita interiore potevano agire in direzione di quella conversione della religione in semplice vita etica che era nella vocazione degli illuministi. Per non dire del rifiuto pieti-

stico di una lettura ed interpretazione autoritaria dei testi biblici, e dell'incoraggiamento invece ad una lettura personale della Bibbia, che poterono favorire l'attitudine alla critica testuale e lo sviluppo di uno studio biblico di natura storico-filologica.

Wolff (1679-1754): su tutto la ragione può «far luce» on potevano mancare comunque momenti di · collisione e di scontro tra fideismo pietistico ed orientamenti all'esercizio autonomo della ragione. Ne è testimonianza un episodio della vita di Wolff: chiamato nel 1706, su suggerimento di Leibniz, all'insegnamento nell'università di Halle, centro principale del pietismo, ne sarebbe stato allontanato nel 1723, per disposizione di Federico Guglielmo I e in seguito alle pressanti richieste di Francke e di altri suoi colleghi pietisti, che vedevano nel suo razionalismo un pericolo per la fede religiosa. Solo dopo l'avvento al trono di Federico II nel1740, Wolff avrebbe potuto riottenere la sua cattedra di Halle. Christian Wolff era nato nel 1679 a Breslavia, e, pur essendo stato avviato agli studi teologici, aveva mostrato una precoce predilezione per la matematica, dal cui studio aveva presto tratto la convinzione che l'estensione del suo metodo così rigorosamente razionale fuori del suo ambito, alle discipline filosofiche e, perfino teologiche, avrebbe consentito di risolveUn precoce d' . dd' . . C d convincimento re 1 queste mcertezze e contra lZlOnl. on otrazionalistico ti gli studi filosofici a Jena, dove approfondì la conoscenza della filosofia cartesiana, si addottorò a Lipsia nel 1703 con una dissertazione dal titolo estremamente significativo: De philosophia practica universali methodo mathematico conscripta. Lo studio della filosofia leibniziana e la consuetudine col grande filosofo tedesco, con il quale doveva intrattenere per diversi anni una costante corrispondenza epistolare, avrebbero finito di convincere il giovane studioso dell'importanza dei procedimenti logici della ragione. Il contributo più importante che Wolff doveva dare al secolo illuministico fu infatti quello metodologico: fondandosi esclusivamente sul principio di non contraddizione e procedendo secondo un metodo matematico-deduttivo, che Wolff chiama anche metodo «della fondazione», la ragione deve essere in graun metodo do di «far luce» su tutto. È significativo che tutti matematicodeduttivo per e sette i manuali che Wolff compone tra il l 712 una «scienza ed il 1725 - dedicati allo studio, in successione, del possibile>> delle «forze dell'intelletto umano e del loro retto uso nella conoscenza della verità», allo studio di «Dio, del mondo e dell'anima umana», delle «azioni degli uomini», della «vita sociale degli uomini e in

l

particolare della cosa pubblica», degli «effetti della natura», della «finalità delle cose naturali», e infine dell' «uso degli organi negli uomini, negli animali e nelle piante»-, rechino il titolo comune di Pensieri razionali. Nessuna verità può essere conosciuta in modo perfetto e rigoroso se non deducendola, per via di analisi puramente razionale e secondo la catena del ragionamento sillogistico, da certi fondamenti della ragione: l'ideale scientifico wolffiano è insomma quello, per usare il linguaggio di Leibniz, di ricondurre tutte le verità di fatto a verità di ragione, l'esistenza alla sua possibilità logica, e dunque il principio di ragion sufficiente al principio d'identità. È Wolff a definire la filosofia «scienza del possibile in quanto possibile», dove possibile significa ciò che, non essendo contraddittorio, è pensabile. Ed è la totalità del reale che deve poter essere pensata, risolta in pura intelligibilità. Questo non significa che Wolff volesse ignorare l'importanza dell'esperienza e del momento induttivo: egli distingue dalla conoscenza «superiore», costituita dall'analisi razionale dei concetti, la conoscenza «inferiore» o empirica, quella che otteniamo per via d'esperienza, e che però costituisce la base lmpordt~nza del . d'1spensab'l . del sapere ra- induttivo r>roce nnen1o m 1 e per l' elaborazwne zionale stesso. Wolff ebbe insomma viva l'avvertenza, anch'essa d'origine leibniziana, di dover congiungere in qualche modo ragione ed esperienza, «riconoscendo alla prima il diritto di collegare tra loro le verità che l'esperienza ci attesta». L'ambizioso programma filosofico wolffiano prevedeva la costruzione di una completa enciclopedia del sapere, articolata nella distinzione tra conoscenza razionale e conoscenza empirica, oltre che in quella tra filosofia teoretica, che studia il conoscere, e filosofia pratica, dedita all'esame dell'altra attività umana, che è il volere. Ne sortiva una sistemazione nella d' . . Per una nuova . l l . quale esord1va a og1ca come 1sc1p1ma prope- . lor>ed'ra . l . d' . . l deutlCa a tutte e sc1enze, e 1 segmto vemva a encrc del sapem distinzione di quest'ultime in «scienze raziomili teoriche» (antologia, cosmologia razionale, psicologia razionale, teologia naturale) e «scienze razionali pratiche» (filosofia pratica e diritto naturale, etica, politica, economia); «scienze empiriche teoriche» (psicologia empirica, teologia empirica, fisica dogmatica) e

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«scienze empiriche pratiche» (discipline tecniche, fisica sperimentale). Non è il caso di soffermarci nell'esame di una così vasta enciclopedia, se non per mettere a punto alcune osservazioni: a. In antologia, definita aristotelicamente come «scienza dell'ente in quanto ente», Wolff recupera il pensiero scolastico-cristiano, e in particolare il Ontologia: tema t omistico dell' «analogia entis» (V. voL. 1, CAP. recupero dell'((analogia 27, PAR. 3), che gli consente di fondare la pretesa della enlis» ragione umana di estendere la propria competenza alla totalità del reale; essa lo può, in forza appunto del rapporto di analogia che ha con la ragione divina. b. In cosmologia razionale viene assunta la monadologia leibniziana debitamente corretta: intanto le monadi vengono intese in modo non più spirituaCosmologia listico come in Leibniz, bensì come forme atomirazionale: una che connesse tra loro secondo i modi necessari del riformulazione della meccanicismo. Abolita è la dottrina dell'armonia monadologia prestabilita, e il mondo è raffigurato come un «horologium automaton», nel quale tutto si muove secondo necessità, senza alcun bisogno di ricorrere a cause finali. c. La teologia naturale si fonda sul principio della Teologia contingenza del mondo considerato nella sua totarazionale: l'argomento lità, e quindi la prova razionale dell'esistenza di cosmologico Dio è costituita dall'argomento cosmologico. Nessuno spazio invece viene dato alle argomentazioni teleologiche care alla teologia tradizionale. d. Nella trattazione della psicologia razionale, Psicologia Wolff, che fa sua l'idea leibniziana dell'anima razionale: come forza rappresentativa ed appetitiva, reintroap11etizione e armonia duce la teoria dell'armonia prestabilita per spiegaprestabilita re i rapporti dell'anima col corpo. e. Infine, nell'etica, registriamo un accentuato intellettualismo che comanda la teoria secondo cui l'or- · dine morale - e quindi la legge morale ed il bene Etica: un - è tale per sua intrinseca necessità, e pertanto orientamento intellettualistico «avrebbe luogo anche se Dio non esistesse». Così scrive Wolff:

ne, dovevano risultare funzionali ad una messa in discussione del soprannaturalismo caratteristico della teologia ecclesiastica, luterana o cattolica che fosse. Non è un caso che Wolff sostenesse che la rivelazione non potrebbe mai proporre verità in contrasto con la ragione o l'esperienza, non regolate dal principio di non contraddizione. Nonostante che egli aggiungesse che dalla rivelazione possono provenire verità che, pur non contraddittorie con i principi della ragione, ne oltrepassano però i poteri di comprensione, veniva comunque ad essere innescato un processo che lasciava aperta la strada ad una sostanziale naturalizzazione del dato religioso. Si spiega così a sufficienza l'ostilità che ad Halle doveva montare contro l'insegnamento wolffiano, accusato di propagandare il determinismo ateo di ... Spinoza, e che avrebbe toccato il culmine nel 0.511!11a del. l 721, allorché Wolff tenne una lezione sulla filo- ~~~:~mo di sofia pratica dei cinesi, in cui si esprimeva un alto apprezzamento per la saggezza di Confucio posta accanto, nonostante la sua qualità puramente umana, a quella del Cristo. L'espulsione da Halle non servì comunque a fermare la crescente popolarità della filosofia wolffiana: i manuali, che Wolff aveva voluto compilare in lingua tedesca per favorirne la diffusione anche al di fuori dell'ambiente accademico, avevano avuto una ., straordinaria fortuna non solo in Germania, do- ~opol~nta della , . . d filOSOfia ve numerose catte d.re un~verstta~1e ovev:ano es- wolfliana ... sere occupate negh anm avvemre da discepoli della scuola wolffiana, ma in diversi altri paesi europei. E Wolff, a Marburgo dove si era rifugiato, doveva continuare il proprio lavoro con la pubblicazione di una serie di scritti latini - funzionali alla diffusione

«Poiché conosciamo attraverso la ragione che cosa esige la legge di natura, un uomo razionale non ha bisogno di alcun' altra legge, bensì grazie alla sua ragione egli è a se stesso una legge».

L'opera di Wolff non è stata importante per questa sistematica esposizione del sapere, nella quale non molto si trova di originale, quanto per il significato illuministico che essa doveva assumere agli occhi di seguaci e avversari. L'aver insistito sui poteri amplissimi della ragione, l'aver proposto un'immagine del mondo come di una macchina nella quale ogni Filosofia parte ed ogni movimento è regolato da leggi neceswollliana e sovrannaturali- sarie, l'aver sostenuto che i princìpi della morale smo religioso valgono indipendentemente dal fatto che Dio esista o no, apparivano proposizioni che, una volta fatte valere anche in direzione della fede e della religio~

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Ritratto di Christian Wolff.

PARTE TERZA IL SETTECENTO: I > DELLA RAGIONE

z o Cf)

na dell'immortalità dell'anima e di una vita futura essenziale ad una religione effettivamente rivelata -, che sarebbe penetrata assai tardi tra gli Ebrei, per Cf) influenza di fonti babilonesi, persiane e greche. Le .......) assurdità e gli esempi di malvagità ampiamente diffuL.LJ o si nelle pagine veterotestamentarie sarebbero poi un z indizio di assoluta evidenza dell'origine meramente LLI umana della parola biblica. ~ Quanto alla predicazione di Gesù, Reimarus sostiene che essa non si discosta dall'insegnamento di «una religione pratica razionale», e che è stata responsabilità dei primi seguaci del Cristo interpretarla come un messaggio di liberazione mondana di Israele dalla servitù. Fallito con la crocifissione il preIl vangelo di sunto obbiettivo politico del «messia», i suoi diGesù: «una religione scepoli lo avrebbero sublimato in un programma pratica di redenzione spirituale dell'intera umanità, e si razionale» sarebbero fatti forti del racconto della resurrezione di Gesù per alimentare la fede nel suo vittorioso ritorno. Ma della resurrezione - conclude Reimarus - manca ogni prova attendibile nei Vangeli, che abbia qualche «consistenza davanti al tribunale della sana ragione». Una siffatta requisitoria contro i fondamenti biblici dell'ortodossia religiosa conteneva implicitamente una valenza anche politica, considerato l'in,. . • treccio, particolarmente stretto in un paese Iuteun 1mp11c1ta . · · · · · Il che non valenza politica rano, tra re11g10ne e poten costltmtl. doveva sfuggire a quell'esponente della Chiesa luterana di Amburgo, impegnato nella polemica antilessinghiana, il quale, all'indomani della pubblicazione dello scritto di Reimarus, ebbe a scrivere:

:::r::

«l frammenti di un anonimo sono indubbiamente la peggior cosa che si possa immaginare. Imprese del genere possono apparire indifferenti soltanto a chi ... non abbia compreso o non voglia comprendere che l'intero benessere della costituzione civile ha in essa (nella religione cristiana) il suo fondamento immediato, o a chi addirittura seguisse la massima secondo cui 'non appena un popolo è concorde nel volere un governo repubblicano, gli è lecito promuoverlo' e quindi rifiutasse come altrettanti errori le affermazioni della Bibbia su cui si basano i diritti dell'autorità politica».

Ad un ben diverso versante del pensiero tedesco del Settecento appartiene l'opera di Moses Mendelssohn (1729-1 786), esponente di quella «filosofia popolare» che si proponeva di diffondere in mezzo al pubblico la cultura filosofica dell'Aufklarung, in M desso l hn · . · d · dd . e en la «filosofia un 1mguagg10 ag11e e plano, a atto a1 «non a etpor>olare» ti ai lavori>}. Nato a Dessau ne11729 da genitori ebrei, si era trasferito ancora adolescente a Berlino, dove, anche per le discriminazioni cui erano soggetti nella società cristiana gli appartenenti alla religione ebraica, visse del lavoro di istitutore nella casa di un ricco mercante ebreo, e successivamente come contabile nella ditta commerciale di costui. Formatosi nello studio, oltre che del pensiero

ebraico medievale - in particolare di Maimonide -, dei filosofi moderni, da Locke a Spinoza, da Leibniz a Wolff, Mendelssohn non appartenne dunque alla . . . · · . con Un dIlluminiSta . pur legato da amicizia eultura acca demiCa; . egl'1 s1. mantenne lontano daIl e ten denze mo era1o Lessmg, radicali dell'Aufldarung, e ne rappresentò piuttosto la componente moderatamente razionalistica, restando fedele ai valori ed alle certezze della tradizione metafisico-religiosa che, da buon filosofo popolare, volle conciliare con le evidenze del buon senso comune. Autore nel1763 di un Trattato sull'evidenza nelle scienze metafisiche, Mendelssohn andò famoso soprattutto per un Pedone, apparso nel 1767, e per un saggio del1785, le Ore mattutine, dedicato alla dimostrazione dell'esistenza di Dio. Come suggerito dal titolo, il primo di questi due scritti voleva essere L'immortalità dell'anima e una ripresa in veste moderna del dialogo platonico l'argomento dedicato alla dimostrazione dell'immortalità del- antologico l'anima. E in effetti l'autore ripercorreva gli antichi sentieri della contrapposizione tra anima, sostanza semplice e dunque inattaccabile dalla morte, e corpo che devia dalla conoscenza delle cose spirituali e di Dio, e suggeriva la platonica operazione del «chiudere occhi ed orecchi e, se possibile, dimenticarsi del tutto del proprio corpo per concentrarsi in tanto maggiore solitudine interamente sulle facoltà dell'anima e l'intima efficacia di esse».

Quanto all'esistenza di Dio, Mendelssohn riprendeva nelle Ore mattutine l'argomento antologico e le tradizionali prove cosmologiche. Non è sfuggito il significato anche politicamente conservatore di queste inclinazioni tradizionaliste dell'opera mendelssohniana; in particolare è stato osservato che l'insistenza con la quale il buon filosofo berlinese indicava nell'esistenza dopo la Un ~ .valenza 11 ., d . . d . . . . po11Ca morte la meta pm vera e11a v1ta eg11 uom1m, m conservatrice vista della quale varrebbe accettare qualsiasi privazione terrena, costituirebbe il segnale della scarsa attenzione da lui riservata - in questo veramente assai poco uomo dell'Aufklarung- all'impegno rivolto a migliorare le condizioni della vita umana nel mondo. Singolare appare, in una filosofia religiosa di stampo così tradizionale, lontana da ogni arditezza deistica, l'uso che vien fatto della filosofia di Spinoza, ricondotta a forza all'ammissione della trascendenza di Dio e, così emendata, proposta come introdu. zione alla teodicea leibniziana. Allorché ne11785 Uno Sdp 1010oza ~ l emen a . . venne a11a luce che Lessmg s1 era con1essato a giovane Jacobi (v. voL. 3*, CAP. 2, PAR. 2) come un filosofo spinoziano, Mendelssohn avrebbe ancora cercato, senza grande fortuna, di dimostrare che quello di Lessing era uno spinozismo «purificatm}. Un aspetto del pensiero mendelssohniano che invece appare insolitamente aperto alle componenti empiristiche e laiche del pensiero moderno, orientate

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a valorizzare la sensibilità, è quello dedicato alla riflessione sui problemi del bello e dell'estetica, sollevati dall'opera di Baumgarten. Mendelssohn ne aveva trat.. tato fin dal17 55 quando aveva dato alle stampe le M~ddermtal dbe11119 Lettere sulle sensazioni, e ancora due anni dopo l ee su e o ne1. p rznclpl . ' . fion damenta z·l del!e be!le art!. e de!le scienze. Egli aveva ripreso la distinzione baumgarteniana tra conoscenza inferiorè, chiara epperò confusa, e conoscenza superiore dell'intelletto, tra perfezione sensibile e perfezione intellettuale, e della prima affermava che producesse una sensazione piacevole di equilibrio ed ordine cui sarebbe da ricondurre la natura del bello, secondo una tendenza a privilegiare dell'esperienza estetica la componente soggettivo-sentimentale rispetto a quella oggettivo-mimetica. Di qui anche il rifiuto, che ritroveremo anche nella Critica del giudizio di Kant, di precetti e regole che pretendano con-

Lessing

(1729-1781):

trollare troppo da vicino la spontaneità creativa dell'artista. A Mendelssohn si deve, inoltre, la tematizzazione della distinzione della facoltà del sentimento, operante nella conoscenza estetica, dal pensiero così come dalla volontà, secondo una tripartizione della vita della coscienza che anche Kant avrebbe seguito. Un posto di un certo rilievo occupano nell'attività di Mendelssohn anche le problematiche politico-religiose che affronta in uno scritto del1783, Gerusalemme, ovvero del potere religioso e del giudaismo, nel quale egli sostiene la netta distinzione tra compe- P°1ere dello . . . sa 1 1o e tenze del potere de11o stato e re l1g10ne: compito religione esclusivo del primo è di regolamentare attraverso la coercizione del diritto i comportamenti esteriori degli individui nella vita sociale, mentre le scelte relative alla religione ed alla morale devono essere interamente affidate alla libertà di pensiero del singolo individuo.

«Padre, la pura verità è soltanto per te!>>

ensatore libero e uomo estraneo alla cultura accademica fu anche, e sopra ogni altro, Lessing, lo scrittore e pensatore nel quale l'AufkHirung doveva toccare il suo punto più alto. La condizione cui egli più tenne fu quella dell'intelletuale indipendente dal potere politico, che gli consentisse di usare pienamente della propria libertà spirituale; e nonostante questo anch'egli alla fine do. vette piegarsi per poter vivere, e lavorare lfegli U~ m~ellettuale ultimi dieci anni di vita a Wolfenbiittel, come md1pendente mo desto 1mpwgato . . . ne lla b'bl' 1 10teca d'1 que ll a PICcola città, alle dipendenze del principe Carlo Guglielmo Ferdinando di Brunswick. Il che non significò d'altronde la rinuncia ad esercitare, sia pur nei modi indiretti necessari per sfuggire alla repressione, la denuncia politica del dispotismo. Lo dimostra l'aver pubblicato nel 17'72 l'Emilia Galotti, un dramma teatrale antitirannico nel quale, dall'ambientazione della storia in una piccola signoria italiana del rinascimento, traspariva evidente il riferimento polemico alle meschine corti principesche del suo tempo. Egli era persuaso che la nascita, anche sotto il profilo culturale, di una realtà nazionale tedesca dovesse passare attraverso la lotta contro il dispotiCultura smo, fosse pure quello «illuminato» di Federico nazionale e lotta al II, di cui aveva per tempo riconosciuto la natura dispotismo illusoriamente riformatrice. In una lettera del 1769 così egli scriveva della «libertà» di Berlino: «... non osiate dirmi nulla della vostra libertà berlinese di pensiero e di stampa. Essa si riduce alla mia libertà di spacciare contro la religione quanti sofismi si voglia. E di

usare questa libertà un uomo onesto dovrà presto finire per vergognarsi. Ma lasciate un po' che a Berlino qualcuno provi a scrivere su altri argomenti con ... libertà ... ; lasciate che provi a dire il fatto suo all'aristocratica plebaglia cortigiana ...; lasciate che a Berlino arrivi qualcuno che voglia levare la sua voce per i diritti dei sudditi e contro lo sfruttamento e il dispotismo, come succede ormai perfino in Francia e in Danimarca: e allora esperimenterete ben presto quale sia a tutt'oggi il paese più schiavo d'Europa».

Lessing per tutta la sua vita doveva mettere la propria opera di scrittore di teatro e di poeta, di studioso di estetica e di filosofia della religione, di brillante polemica, al servizio di un ideale di Un ideale di emancipazione emancipazione umana che ha fatto di lui, fuor umana d'ogni dubbio, l'espressione intellettuale e morale più elevata dell'Aufldarung prima di Kant. Gotthold Ephraim Lessing era nato a Kamenz, in Sassonia, nel 1729. Avviato dal padre, pastore protestante, alla carriera ecclesiastica, avrebbe presto ricevuto un animo nient'affatto incline a seguire le orme paterne, e a Lipsia, dove era stato mandato diciassettenne a studiare, fu preso da mille interessi che lo portarono ad occuparsi di medicina, di archeolo- , . gia, di poesia, di teatro soprattutto, che sarebbe Lamore per 11 . d ll . . ., d. teatro e per un nmasta una e e sue passwm pm gran 1, mentre pensare libero non rinunciava agli amori facili ed alla vita irregolare degli ambienti teatrali. Volle essere un libero scrittore- autore, per allora, di commedie brillanti e di anacreondiche - non disposto mai a scambiare la propria opera con mète di ordine pratico. Costretto a fuggire da Lipsia in seguito al fallimento di una compagnia di attori per cui rischiava la prigione, giunse nel 1750 a Berlino, ove conobbe e frequentò Voltaire, da

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cui apprese l'arma tagliente della polemica; strinse amicizia con Mendelssohn, con il quale scrisse nel 1755 Pope un metafisica!, un testo non solo polemico nei confronti della filosofia accademica e sistematica in nome di un pensare libero da formalismi ed aderente alla vita, ma anche impegnato nel tentativo, destinato a rimanere costante nella riflessione lessinghiana, di individuare il nesso e insieme anche la distinzione tra poesia e filosofia; intraprese infine a scrivere tragedie - Miss Sarah Sampson, nello stesso 1755 - traendo personaggi e vicende dalla vita di tutti i giorni. Ma intanto si era familiarizzato con la critica letteraria e aveva scoperto il problema della creazione di una letteratura nazionale tedesca, che voleva Per una • · · ·· · letteratura libera da tentaz10ni francesiZzanti e semmailSplnazionale rata a Shakespeare e agli antichi. Coinvolto nella tedesca Guerra dei Sette Anni, durante la quale ebbe modo di conoscere e apprezzare von Kleist, fu al servizio per alcuni anni di un generale prussiano. L'interesse teorico per i problemi di estetica avrebbe avuto il suo splendido frutto nel 1766 allorché apparve il Laocoonte ovvero sui confini fra la pittura e la poesia. Discutendo del perché Laocoonte, nella celebre scultura ellenistica, non apra la bocca al grido, Lessing rifiuta la spiegazione avanzata da Winckelmann - essere l'espressione del dolore segno di animo ignobile, incompatibile con la «nobile semplicità» e la «quieta grandezza» volute dall'ideale etico greco. In primo luogo, egli, fin dal Pope del 1755, aveva inteso salvaguardare l'autonomia dell'arte, . 111d~aocoontde: che ora vedeva messa a rischio dell'argomenta' rssenso a ' ' ·1, ' d'1 w·mckelWinckelmann z10ne extra-estetlca, mora 1st1ca, mann; questa, per di più, non consentiva di capire perché allora non si trovasse nulla da obiettare contro le urla di Filottete ferito nell'omonima tragedia di Sofocle. In altro deve risiedere la ragione del silenzio del Laoccoonte marmoreo e, per converso, del fatto che, ad esempio, urli, ed anche spaventosamente, il Laocoonte di Virgilio. Essa, agli occhi di Lessing, soltanto può emergere allorché si consideri che una bocca urlante raffigurata nel marmo avrebbe fatto apparire il viso deformato in modo repugnante, incompatibile con la bellezza, mentre a chi leggesse Virgilio mai avrebbe in mente «che per urlare è necessaria la bocca spalancata e che questa gran bocca rende brutti». Evidentemente, diverse devono essere le regole semantiche che presiedono all'una ed all'altra espressione artistica. Il caso del Laocoonte era soltanto l'occasione per avanzare la tesi centrale dello scritto: essere la «pittura» - e Lessing intende le arti figurative in genere, compresa quindi la scultura - irriducibilmente distinta dalla poesia, pur avendo in comune con questa, aristotelicamente, il fatto di essere ambedue !inPittura e guaggi imitativi della natura. La poesia ha per poesia oggetto le «azioni», che sono «oggetti che si sus-

(!J

z

Lessing e Lavater in visita da Mendelssohn, in una incisione di S. Maier.

seguono, o le cui parti si susseguono nel tempo», mentre la dimensione della «pittura» è, viceversa, lo spazio, e i suoi oggetti coesistono tra loro, giustapponendosi, appunto, in un luogo. Oggetto specifico delle arti figurative è la bellezza fisica, sono i corpi «con le loro proprietà visibili», e le azioni solo indirettamente, attraverso la raffigurazione nello spazio degli aspetti diversi che un corpo può assumere successivi l'uno dall'altro nel tempo, ognuno effetto di un altro precedente a causa di quello che lo segue. A sua volta, la poesia può anche «dipingere» i corpi, «ma solo indicativamente, attraverso le azioni». Fatto salvo questo intreccio tra le diverse arti, si rivela errato, agli occhi di Lessing, il vecchio detto oraziano ut pictura poesis, e compito dell'estetica è non solo di giustificare, come ben ha cominciato a fare Baumgarten, l'autonomia dell'arte, ma anche l'autonomia delle diverse specie di arte l'una dall'arta. Il secondo importante scritto estetico lessinghiano è la Drammaturgia di Amburgo del 1767-69, una sorta di giornale teatrale pubblicato da Lessing, imbarcatosi allora nell'impresa, altamente suggestiva epperò destinata al fallimento, di creare nella libera 1111 Teatro . , nor d'1ca, retta da ord'mament1. repubbl'1cam,· Per ·onale c1tta un Teatro nazionale tedesco. In quel giornale, ~:~~sco mescolata ad una serie di «recensioni» delle rappresentazioni previste nel repertorio del Teatro, ritroviamo una vera e propria teoria estetica intorno alla natura del dramma ed alla sua specificità all'interno dell'arte letteraria. Il testo cui Lessing si ispira è la

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Poetica di Aritotele, cui riesce a restituire, di contro ad una stanca e pedissequa tradizione, i suoi più profondi significati. In primo piano la distinzione tra poesia tragica e storia; tra verosimile poetico e verità storica: «a teatro non dobbiamo imparare ciò che questo o quell'uomo ha fatto, ma ciò che ogni uomo fornito di un certo carattere farebbe in certe determinate circostanze». Non l"accaduto' ma il 'possibile ad accadere' è l'oggetto della rappresentazione scenica, sicché il dramma, come diceva Aristotele, è più «filosofico» della storia: suo oggetto è si il singolo personaggio e la particolare vicenda, ma innalzati, nella trasfigurazione del possibile, a esemplarità universale. I «caLa lezione di Aristotele: ratteri» -più ancora di quanto insegnasse la stes'accaduto' e sa poetica aristotelica - sono il vero oggetto del 'possibile ad dramma, tanto che delle famose tre unità aristaaccadere'. teliche Lessing privilegia sulle altre, in concorLe tre unità danza del resto con lo stesso Aristotele, l'unità d'azione, con la motivazione che questà garantisce la coerenza della vicenda drammatica rispetto, appunto, ai caratteri del personaggi. Quanto allo scopo della tragedia, Lessing ripete con Aristotele: «tragedia ... è mimesi di un'azione seria e compiuta in se stessa ... la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e timore ha per effetto di sollevare e purificare l'animo da siffatte passioni». Che cosa egli intendesse per purificazione o «catarsi», e come dissentisse da ogni interpretazione ascetico-cristiana della stessa, lo si può così riassumere: lungi dall'avere come scopo quello di sradicare dall'animo dello spettatore le passioni rappresentate sulla scena, il drammaturgo muove a produrre nell'animo dello spettatore una chiarificazione razionale . delle passioni, tale da eliminare gli eccessi a renLa ttcatarsm derle compatibili con quel giusto mezzo tra gli estremi in cui consiste la virtù. Senzà, d'altronde, che questa valorizzazione dell'efficacia «morale» della tragedia significhi scadere in una interpretazione moralistica dell'arte, giacché, a garantire da questo, sta il fatto che quell'effetto catartico dell'azione tragica è reso possibile dalla stessa verosimiglianza poetica del dramma, e, nella fattispecie, da quella relazione che abbiamo detto correre tra il carattere tipico e universale del personaggio tragico e gli spettatori che, appunto, si riconoscono in esso. Scrive Lessing: «Tutti i personaggi della mimesi poetica debbono parlare ed agire non in modo che potrebbe convenirsi soltanto ed esclusivamente a loro, ma cosi come potrebbe e dovrebbe parlare chiunque avesse un carattere analogo e si trovasse nelle medesime circostanze». Se assai interessante appare il Lessing estetico e filosofo dell'arte, tanto più importante e significativo

(!J nello sviluppo dell' Aufklarung è il Lessing filosofo z della religione, i cui scritti più importanti sono nell'ordine, i Pensieri sugli Herrnhuter del 1750; Sulla genesi della religione rivelata del 1753-55; ~~::~so10 Sulla priva dello spirito e della forza del 1777, di religione grande rilevanza; l'Anti-Goeze de11778, nel quale replica all'ecclesiastico che lo avea attaccato in seguito alla pubblicazione dei Frammenti di un anonimo di Reimarus rv. PAR. s); e, infine, espressione della maturità del suo pensiero, L'educazione del genere umano del1780, l'anno precedente la sua morte. Se nei Pensieri sugli Herrnhuter - erano questi una comunità pietistica del tempo - Lessing aveva insistito, mostrando qualche simpatia per il pietismo, sul carattere essenzialmente morale e antiintelletualistico del cristianesimo - «l'uomo è stato creato per agire e non per escogitar sofismi» -, in Sulla genesi della religione rivelata egli riprende la consueta Funzione distinzione cara al deismo tra religione naturale e sociale delle religione positiva, ma non si ferma però ad enun- religioni ciarla astrattamente bensì ne tenta una spiegazio- positive ne storica, che così possiamo riassumere. Al fine di assicurare alla loro convivenza sociale il massimo di coesione e di uniformità, agli uomini hanno sempre dovuto accordarsi, nei diversi momenti e nelle diverse situazioni storiche, su di un certo insieme di credenze religiose, accreditandolo, attraverso l'autorità di profeti e di libri ispirati, quale sovrannaturale rivelazione divina, e così andando oltre quella religione naturale puramente razionale la quale, comune a tutti gli uomini epperò vissuta dalla coscienza di ciascuno di essi in modo differenziato, non era in grado di assolvere a questa funzione sociale unificante. È sulla base di questa promessa che Lessing, differenziandosi dal consueto deismo, può dire che «tutte le religioni positive e rivelate sono ugualmente L . . . ., l . d. · , e re 1IQIOill vere. e 1a se»: vere - ovv1amen~e 1 _una ~enta rivelate: vere e stanca e non assoluta -, nella m1sura m cm sem- insieme false pre ed ovunque si sono rivelate socialmente necessarie; false, poiché hanno finito con l'indebolire e rimuovere quel fondamento naturale sul quale tutte sono sorte. Il che fa dire a Lessing che

«la migliore religione rivelata o positiva è quella che contiene il minimo di aggiunte convenzionali alla religione naturale». Solo nello scritto del1777, però, Lessing avanza l'argomento che a lui, al di là delle obbiezioni avanzate da Reimarus e dalla critica biblica di stampo libertino-illuministico degli ultimi cento anni, doveva Un argomento apparire decisivo per scalzare dalle fondamenta decisivo la pretesa della religione rivelata, e del cristiane- contro il simo in particolare, di proporsi come verità me- sovrannaturale tastorica, e che più tardi avrebbe sollevato l'interesse di Kierkegaard rv. voL. 3*, CAP. t4, PAR. 6). Così egli argomenta: si prendano pure in parola i

565

PARTE TERZA IL SETTECENTO: I «LUMI» DELLA RAGIONE

teologi quando sostengono di fondare le loro costruzioni dogmatiche sulle «verità storiche» attestate dai libri sacri, a cominciare dai fatti miracolosi che vi sono narrati; si conceda loro, perfino, che i racconti testamentari corrispondano a fatti realmente acTra verità caduti- in realtà, la verità storicamente accertata storica e quella del racconto e non del fatto raccontato -; è verità eterna: l'impossibilità vorrà forse dire che con questo è stata provata la di verità del cristianesimo con tutte le sue dottrine positive? che il fatto che nei Vangeli si racconti che Gesù ha resuscitato i morti, e addirittura se stesso, sia sufficiente, anche a voler ammettere che tutto ciò sia realmente accaduto, per costruirvi sopra la credenza che il Cristo sia figlio di Dio e della stessa natura del Padre? No di certo! Da una verità storica non potremmo mai ricavare una verità eterna; per dirla con Leibniz, da una verità di fatto mai potremmo dedurre una verità di ragione. Chi provasse a farlo non eviterebbe l'aristotelica metàbasis eis àllo ghènos (passaggio a un altro soggetto di discorso). Scrive Lessing:

Il «gran Federico»

«contingenti verità storiche non possono mai diventare la prova di necessarie verità razionali ... Saltare mediante quelle verità storiche in una classe interamente diversa di verità e pretendere poi che io rimodelli in conformità a quest'ultima tutti i miei concetti metafisici e morali; esigere da me, poiché non posso contrapporre alla resurrezione di Cristo nessuna testimonianza degna di fede, che modifichi conformemente ad essa tutti i miei concetti fondamentali intorno alla natura della divinità: se ciò non è una 'metàbasi in altro genere', allora non so più che cosa Aristotele abbia voluto dire con quel termine. Si dirà certamente: eppure proprio quel Cristo di cui tu devi lasciar valere sul piano storico che ha risuscitato i morti e che è risorto lui stesso da morte, ha detto proprio lui che Dio ha un figlio di egual natura e che lui è questo figlio. Sarebbe davvero un gran bell'argomento! Senonché, il fatto che Cristo abbia detto questo non ha daccapo più che una certezza storica. Mi si potrebbe ancora incalzare con altri argomenti e dire: 'Che diamine! ciò ha una certezza superiore a quella storica; ne danno infatti garanzia storici ispirati, che non possono errare'. Ma anche questo, che tali storici fossero ispirati e non potessero errare, è certo purtroppo solo storicamente».

E, con tono di grande serietà e sincerità ma anche di sfida, così Lessing continua: «Questo, proprio questo è il maledetto e largo fossato che io non riesco a valicare, per quanto abbia tentato e spesso e seriamente il salto. Se qualcuno mi può aiutare a passar di là, lo faccia, io lo prego, lo scongiuro. Dio glielo rimeriterà per me».

L'orientamento che ormai andava maturando nella riflessione di Lessing, inedito rispetto alla problematica fino allora emersa nella cultura illuministica europea, era rivolto a storicizzare del tutto il Storicizzazione fenomeno religioso, compresa naturalmente la del fenomeno religioso religione cristiana. Astratta doveva apparirgli la posizione dei deisti che, rimproverando al cri-

566

a fama di Federico Il di Prussia doveva diffondersi in Europa soprattutto durante la guerra dei Sette Anni, allorché egli si trovò a guerreggiare, pressoché da solo, contro l'alleanza delle grandi potenze europee. Riportiamo, da E. Sestan, Europa settecentesca ed altri saggi, Ricci ardi, Napoli 1951, una pagina assai eloquente: «Quell'Europa settecentesca, così concorde, così 'europea' nei gusti e nei sentimenti, al di sopra delle frontiere che erano allora piu di stati che di nazioni, illuministica, 'libertina', cioè edonisticamente liberaleggiante, pacifista, ma anche cavalleresca, così sensibile al gesto di bravura presentato con grazia ed eleganza, pieni la testa e il cuore di reminiscenze e di magnanimità classiche, era stata, trepidante e ammirata, a guardare il lioncello . azzannato da tanti nemici, e pure non domo, anzi pronto a vibrare, ogni tanto, qualche tremenda zampata .... Tutta l'Europa si scaldava il sangue pro e contro Federico; e non solo nelle alte sfere; non solo uno zarevic Pietro poteva infervorarsi per quel suo eroe e, sottomano, quando gli capitava l'occasione, sabotare le misure militari della madre e zarina Elisabetta, fierissima nemica del re di Prussia; ma anche le buone e pacifiche famiglie borghesi di Francoforte (ricorda il Goethe, allora adolescente) si divisero fra odi e amori per Federico; e in Italia, nelle accademie, nelle conversazioni di salotto, nelle farmacie, nei caffè, nelle «barbarie», cioè nelle botteghe di barbiere, si

disputava a gran voce fra «fridericiani» e «teresiani», e a Venezia, nella quiete claustrale di S. Giovanni e Paolo, volavano piatti e bicchieri tra i frati dell'una e dell'altra parte; e poeti d'ogni risma e d'ogni metro davano la stura al loro estro immaginifico, osannando o dileggiando «la novella Giuditta>>, il «novello Oloferne» e le «invitte aquile prusse, aquile mosche», che vuoi dire, per chi non sapesse abbastanza di ornitologia, le aquile moscovite. Allora si creò la fama del «gran Federico»; gli anni non la scemarono, anzi la esaltarono, ne fecero, lui vivente, un mito europeo; l'eco se ne ripercuoteva fino alla lontana Sicilia, fra nobili paesani e modesti borghesi; e giunto il Goethe a Caltanissetta, nel1787, i maggiorenti del luogo gli si fecero attorno perché raccontasse del gran re; e davanti a tanto reverenziale interessamento, il poeta non ebbe il cuore di confessare che quel loro eroe era già morto, nella notte fra il 16 e il 17 agosto del 1786 ... Né era solo ammirazione per il fulmine di guerra, per lo stratega geniale, per il riordinatore della cavalleria e dell'artiglieria prussiana ... Né questa gran fama era solo ammirazione per l'amministratore accorto, riordinatore delle finanze dello stato; restauratore del benessere del paese, rovinato da sette anni di guerre ... Né era solo ammirazione per il politico capace di tenere, aggrovigliare, districare una trama complicata dai mòlti fili... Né questa gran fama era,

SEZIONE TERZA. ILLUMINISMI DIVERSI: ITALIA E GERMANIA CAPITOLO 26

Maria Teresa e Federico Il giocano a scacchi mentre Marie assiste alla partita, in una allegoria di J.C. Wille per l'inizio della guerra dei Sette Anni.

infine, solo ammirazione per il poeta e iL filosofo: quanto alla poesia, Federico stesso si diceva da sé > DELLA RAGIONE

La «Critica della ragion pura» 8.11

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La struttura del libro opo un'Introduzione, nella quale viene esposto il «problema generale della ragion pura», il capolavoro kantiano si distingue in due grandi parti, la prima delle quali, di gran lunga la più importante, consiste nella Dottrina trascendentale degli elementi, ossia nell'esame delle facoltà conoscitive dell'uomo. , t . Pertanto essa si articola in due sezioni - Estetica "' 5 ettca · trascen denta le -, destma· Logicae trascen den tale e L ogzca te ad esaminare rispettivamente la «sensibilità» e l' «intelletto», , ant proce e a una serie di chiarificazioni terminologiche, utili alla precisa comprensione del suo pensiero: «L'effetto di un oggetto sulla capacità rappresentativa, in quanto noi ne siamo affetti, è la sensazione. L'intuizione che si riferisce all'oggetto mediante una sensazione, dicesi empirica. L'oggetto indeterminato d'una intuizione empirica si dice fenomeno. Nel fenomeno, chiamo materia ciò che corrisponde alla sensazione; ciò che invece fa sì che il molteplice del fenomeno possa venire ordinato in determinati rapporti, chiamo forma del fenomeno. Poiché ciò in cui soltanto le sensazioni si ordinano e possono ess-ere in una forma determinata, non può essere, a sua volta, sensazione, ne viene che la materia di ogni fenomeno ci è di certo data soltanto a posteriori, mentre la forma relativa deve trovarsi per tutti i fenomeni già a priori nell'animo; epperò deve poter essere considerata separatamente da ogni sensazione. Chiamo pure (in senso trascendentale) tutte le rappresentazioni in cui non è mescolato nulla di ciò che appartiene alla sensazione. Di conseguenza, la forma pura delle intuizioni sensibili in generale si troverà a priori nell'animo, ed in essa verrà intuito, in determinati rapporti, tutto il molteplice dei fenomeni. Questa forma pura della sensibilità si chiamerà essa stessa intuizione pura ... la quale ha luogo a priori nell'animo, anche senza la presenza di un oggetto dei sensi o di una sensazione».

esse sono, da una parte, le condizioni, valevoli per ogni soggetto umano, che rendono possibile l'apprendimento dei dati sensibili e dunque dei singoli c 1 d 11 . dall' altra 1. pnnc1p1 . , . Dissertatio on erma e a spazi. e tempi. dell' espenenza, che, per essere a priori nell'animo, stanno a fondamento delle proposizioni della matematica, riconosciute ora, nella Critica - lo si è visto -, quali giudizi sintetici a priori. Questi sono resi possibili, appunto, dall'intuizione a priori dello spazio, nel caso della geometria; dall'intuizione a priori del tempo, nel caso dell'aritmetica. Trova risposta, in tal modo, la prima domanda che ci eravamo posti: «come sia possibile la matematica pura». Spazio e tempo si distinguono per essere, Senso interno l'uno la forma del senso esterno, ossia la condi- e senso zione dell'esperienza di oggetti esterni; il tempo, esterno invece, quella del senso interno, ossia dell'intui-

Sappiamo dalla Dissertatio che le forme pure a priori della sensibilità sono lo spazio e il tempo, e che

587

'

Il Collegium Fridericianum di Konigsberg, ìn una incisione del XVIII secolo.

PARTE TERZA IL SETTECENTO: l «LUMI>> DELLA RAGIONE

1-

z> DELLA RAGIONE

9.1

La «Critica della ragion pratica» Sapere scientifico, metafisica e vita morale

aremmo fatalmente condannati a !asciarci sfuggire il senso ultimo dell'indagine condotta nella Critica della ragion pura, se dimenticassimo che lungo tutta codesta indagine Kant ebbe il pensiero costantemente rivolto alla sfera degli interessi morali dell'uomo, nell'intento di conciliare il sapere scientifico con la fede nel valore morale. Lo dichiarava egli apertamente nella prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, là dove scriveva: «Ho dovuto delimitare il sapere per far posto alla fede».

Che cosa Kant intendesse dire lo si è cominciato a vedere quando si è trattato del problema della libertà nel contesto della terza antinomia dell'idea cosmologica. In assenza di una critica della ragione e della conseguente distinzione tra un mondo fenomenico e un mondo noumenico, che limitasse al primo il sapere, avremmo dovuto assolutizzare il determiniSapere elfedle smo delle cause naturali, che la scienza moderna, moralibertà e: a da Gal'l · newtomana, · ha d'liDo1 e1· a11 a meccamca strato governare i fenomeni fisici, e sarebbe divenuto impossibile riconoscere all'esperienza umana uno spazio di libertà. Se, infatti, ogni determinazione della realtà. fosse condizionata dalla serie delle cause, come sarebbe possibile da parte dell'uomo un qualsiasi atto di autodeterminazione, in cui ha da consistere la libertà? Ora, la libertà, così intesa - Kant la dice libertà trascendentale3 - , è la conditio sine qua non della moralità: ecco perché Kant ha potuto dire che,

soltanto da una delimitazione del sapere scientifico, che salvasse la pensabilità della libertà, poteva venire la garanzia di una agibilità della fede morale. Ma non si fermano qui le ambizioni kantiane. Aver preservato la possibilità logica della libertà trascendentale, così ponendo una premessa per la fondazione della moralità, vuoi dire anche aver lasciato aperto il discorso sulla metafisica, intesa come esigenza, che abbiamo visto insopprimibile, della ra. . Q l . ~ . " d 'f' Espertenza g10~ Pll;ra. u~ ~ra,, m1att~, 10sse ayvero ven ~- morale e cablle, m termm1 d1 espenenza pratlca, la poss1- metafisica bilità reale della libertà, e la volontà si mostrasse capace di indipendenza dal determinismo causale del mondo fenomenico, allora sarebbe praticabile il trascendimento di questo mondo, e quell'esperienza pratica avrebbe una valenza metafisica. Ciò che non sarebbe stato possibile nei termini di un sapere scientifico, si realizzerebbe in virtù dell'esperienza morale. Armati di questa speranza, iniziamo l'indagine intorno alla questione morale: «che cosa devo fare?».

' Kant intende per libertà trascendentale la capacità di autodeterminazione, ossia ne, alla propna ragwne, e dunque a conqmstare la libertà. Da animale fornito semplicemente della capacità di ragionare - anima! rationabile - egli deve diventare animale ragionevole. Contro Rousseau che mostrava di considerare lo sviluppo della civiltà e della cultura come un decadimento dell'uomo da una primitiva natura presunta come buona, Kant osserva che, sì, è vero che la condizione in cui l'uomo viene a trovarsi, al momento del suo distacco dall'innocenza dell'istinto naturale, significa una sorta di caduta, in quanto la sua raContro . d b l d . . R sseau gwne, ancora e o e e eteronoma, soggrace ag11 ou impulsi sensibili e dà origine al vizio, ma è altrettanto vero che questo passaggio è inevitabile, perché l'uomo possa realizzare la sua destinazione morale alla libertà. Se l'uomo - qualora mai fosse stato possibile - fosse rimasto fedele alla guida sicura ma sterile del proprio istinto, sotto la tutela della natura, e non avesse corso i rischi della vita razionale, avrebbe mancato alla propria destinazione morale. D'altronde, il mito di un'età dell'oro e del para-

1-diso perduto, da cui spesso ci si è lasciati sedurre, non z è altro che una illusione nella quale gli uomini, alle . La gnoseologia

PISTE DI RICERCA E SUGGERIMENTI INTERDISCIPLINARI

I fondatori della ragione moderna

7 Il naturalismo italiano del rinascimento

132

Il Seicento

Capitolo Capitolo

La cupola di Santa Maria del Fiore

l 2

(1561-1626)

ed il «labirinto» della

Un filosofo discusso Luci ed ombre nella vita di un uomo: tra corruzione politica e profetismo scientifico Dalla magia alla scienza Il «Novum Organum» e la dottrina della «forma» Un intrepido «trombettiere». La Nuova Atlantide

3 4 5

173 173 175 177 178 182

SCHEDA

637

0

Il processo contro il Barone di Verulamio

180

PISTE DI RICERCA E SUGGERIMENTI INTERDISCIPLINARI

184

INDICI

Capitolo

11 _____________ Cartesio (1596-1650): «come uomo che 185 cammini da solo tra le tenebre» «Larvatus prodeo». Un filosofo ambiguo 185 Da alunno dei gesuiti a solitario ricercatore della verità 186 Verso una prima sistemazione del proprio pensiero 188 Il metodo. Intuizione e deduzione. Le quattro regole 189 La favola del «Mondo» 190 La metafisica: dal dubbio al «Cogito» 195 La metafisica: dall'io a Dio 198 L'origine dell'errore. Intelletto e volontà 202 Esistenza ed essenza dei corpi. Il dualismo di anima e corpo 203 Il trattato «Delle passioni dell'anima» e la morale cartesiana 205 La morte «nel paese degli orsi, fra le rocce e i ghiacci» 208

l 2 3 4 5 6 7 8

9 IO Il

2 3 4

L'epistemologia pascaliana. Scienza e religione La «prima conversione». Un Pasca! «mondano» Ancora sull'epistemologia. L'«esprit de géométrie» e i suoi limiti La «seconda conversione». Tra Epitteto e Montaigne Le «Provinciali»: la speranza di riconvertire il mondo a Dio Gli ultimi anni: il ripiegamento su se stesso I «Pensieri»: la «pittura dell'uomo» I «Pensieri»: «tendere le braccia al Liberatore»

6 7 8

9

233 236 237 238 239 241 242 246

SCHEDA Yk.icSc';ifi\s"iS(::"ix>;;.s;::"'G1c\i\.Y•"·'>ttf(ii'd:P:\9éX/i:b":f;;!Li:Sk"'d'X't;/A7":!X>'>>

8

192

Harvey e la circolazione del sangue La satira di Molière contro i medici

200

PISTE DI RICERCA E SUGGERIMENTIINTERDISCIPLINARI

209

Filosofia e religione nella Francia cartesiana Capitolo

l

2 3 4.1 4.2 4.3 4.4

4.5 5

Capitolo

Capitolo

2 3

12 _____________

4

Cartesianismo e anticartesianismo nella seconda metà del Seicento Una battaglia intorno a Cartesio Illibertinismo Gassendi (1592-1655): per un sapere a misura d'uomo Malebranche (1638-1715!: come piegare Cartesio al teocentrismo agostiniano Come può essere importante l'incontro con un libro Un filosofo cartesiano? sì e no Ascendenze occasionalistiche Vedere le cose in Dio La morale e la libertà. La libertà e la grazia Il giansenismo e i «solitari» di Port-Royal

212 212 213 217

SCHEDA

220 221 222 223 226 227

Capitolo

Le origini dellibertinismo Jacqueline Arnauld

214 228

PISTE DI RICERCA E SUGGERIMENTIINTERDISCIPLINARI

231

SCHEDE

8

Filosofia, scienza e politica: un vasto dibattito

13------------Pascal (1623-1662): «io posso approvare soltanto coloro che cercano gemendo» Uno scienziato in erba

8

14 _____________ Il giusnaturalismo: la razionalizzazione del diritto e della politica Il Seicento: un inquietante «miscuglio» di ragione e irrazionalità Il giusnaturalismo Grazio (1583-1645): il fondatore del diritto internazionale Pufendorf (1632-1694): la laicizzazione del diritto

253 255

La guerra nel Seicento

252

PISTE DI RICERCA E SUGGERIMENTIINTERDISCIPLINARI

256

5 6 7 8

250 251

15 _____________ Hobbes (1588-1679): un uomo nato insieme con la paura Il filosofo e la rivoluzione La lenta maturazione di una filosofia dissacratrice Razionalista o empirista? Un'alternativa mal posta Gnoseologia e logica La filosofia della natura Un'antropologia da «malpensanti» Da «libero animale» a «cittadino virtuoso». Lo stato assoluto Hobbes e il giusnaturalismo

l 2 3 4

250

257 257 258 261 262 264 265 268 270

SCHEDA :