Storia della canzone italiana 8804424052

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Storia della canzone italiana
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STORIA DELLA CANZONE ITALIANA Prefazione di RENZO ARBORE Me OSCAR

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Gianni Borgna

Storia

della canzone italiana Prefazione di Renzo Arbore

OSCAR

MONDADORI

© 1992 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione Bestsellers saggi agosto 1992 ISBN 88-04-42405-2

Questo volume é stato stampato presso Mondadori Printing S.p.A. Stabilimento NSM - Cles (TN)

Stampato in Italia - Printed in Italy

Ristampe:

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2007

La prima edizione Oscar saggi € stata pubblicata in concomitanza con la terza ristampa di questo volume

www.librimondadori.it

Prefazione

Allorché sono capitato a... “lavorare” in quello che chiamavo scherzosamente il “rutilante mondo delle sette note” vivevano e vigevano (in quel mondo) alcune robuste credenze. La prima era che occuparsi di musica leggera non era un lavoro (e questa mi é rimasta: prima del verbo “lavorare”, all’inizio di queste note, mi sono venuti automatici

alcuni significativi puntini sospensivi...); la seconda era che di canzoni e musica leggera ne potevano parlare tutti “tantochecivuole”; la terza — piu preoccupante per tutti noi appassionati — era che chi ne parlava, per esempio sui giornali, era un poveretto che non aveva trovato di meglio da fare e veniva messo dal Direttore, appunto, nell’unico territorio sul

quale avrebbe potuto scrivere anche diffusamente senza nessuna specifica competenza in materia. Per la verita ricordo con affetto critici mangioni e divertenti, pieni di fantasia e di gioia di vivere, assolutamente ignari di chi fosse Armando Gill o Cole Porter, spaventati dall’arrivo di tali, incomprensibili, Bea-

tles. E cosi il povero appassionato come il sottoscritto (che pur amava il jazz e il rock’n’roll...) non poteva far altro che aver come punti di riferimento quei quattro o cinque critici “d’altro” (di jazz, di folk, di canzoni politiche) che perd non avevano la puzza sotto il naso con la musica leggera: Testoni, Leydi, Polillo, Straniero, Liberovici, provenienti appunto dal jazz, dal folk, dalla canzone politica o “di impegno”. Poi (l’autore di questo libro mi perdoni lo sfottd...) venne un Uomo. Quest’Uomo, manco a dirlo, era Gianni Borgna. Borgna arrivo da ter-

ritori misteriosi e affascinanti — per noi della “canzonetta” — che erano quelli della filosofia e della politica. Forse questo Borgna non sapeva neanche lui il vero motivo per il quale era morto Maramao, pur avendo linsalata nell’orto, una casa e alcune micine innamorate che gli facevano ognor le fusa. Perd tre cose non lo finivano mai di stupire e sorpren3

dere: il «cielo stellato sopra di lui» (cfr. E. Kant: Critica della ragion pratica, Edizioni Laterza), la “legge morale” in lui e la gran quantita di canzonette che gli veniva in mente durante la giornata pur essendo un intellettuale di purissima estrazione. Era nato cosi il “primo” critico della canzone italiana, in senso cronologico, s’intende. Roba da rincuorarsi: siamo cosi giovani che apparteniamo a quella generazione che ha visto nascere il primo libro sulla canzone, La grande evasione (poi ribattezzato Le canzoni di Sanremo), e naturalmente il primo critico della medesima, il primo che le ha dato (addirittura!) dignita d’arte (talvolta) o importanza nel costume (talaltra). Scherzi a parte (l’uomo é troppo amabile perché non si possa scherzare con lui), nella storia di quelle che tanti continuano a dire essere solo canzonette, Borgna é veramente un personaggio fondamentale, essendone egli, in realta, il primo “storico”. Nato come tale nei difficilissimi anni Settanta quando occuparsi di canzoni 0, peggio, di Sanremo era in un certo ambiente intellettualpolitico considerato un reato, Borgna ha avuto il merito fondamentale di avere “fatto da perno” 0, se preferite, da spartiacque (Borgna non me ne volere, mai prefazione fu pit pedestre...), iniziando una vera e propria inversione di tendenza che oggi viene confortata da moltissimi autorevoli critici, giornalisti specializzati, appassionati. Forse... non sono solo canzonette. Forse, come ormai sostengono anche i pill accesi fautori dei... luoghi comuni (ma quale é luogo comune e quale é vox populi e quindi vox Dei...), non c’é niente di meglio di una canzonetta per farti rivivere un periodo, un “pezzo” di passato, o addirittura di “storia patria”. . Quindi, via i falsi snobismi, via i giudizi solamente estetici, via i giudizi strettamente e tecnicamente musicali, via il pregiudizio sulla canzone “all’italiana”, via persino il pregiudizio sui guasti dell’industria discografica che per anni ha animato noi tutti. E allora? Allora si ricomincia da capo, con l’aiuto di un po’ di quel “senno di poi” che finalmente l’ancora giovane musica leggera italiana si é conquistato. Borgna, autentico appassionato, ha cosi collezionato curiosita, notizie, aneddoti sulla canzone, sposandoli ad avvenimenti, a momenti della storia del nostro paese. Insomma una vera a propria “storia d'Italia in canzonetta” che rida quindi dignita anche, qualche volta, al motivetto apparentemente “facile facile” o “stupido stupido” ma fa anche giustizia, al contrario, di quello fasullo, di cattiva lega. 4

Eppoi, a parte la rivalutazione di certe cose del passato, merito del libro — di questo libro in particolare — é quello di confortare un’idea che comincia a insinuarsi tra noi appassionati della prima ora e tra quelli... dell’ultima. L’idea che, alla fin fine, sia stata proprio la musica leggera la musica pit viva, vitale e creativa di questa seconda meta del secolo, insieme al jazz e al rock. Naturalmente quella buona. O no? Renzo Arbore

Storia della canzone italiana

A Marta e Luca e a “Calicut”

Si ringraziano tutte le Case Editrici per aver gentilmente concesso |’autorizzazione alla pubblicazione di alcuni brani delle canzoni citate nel testo.

Premessa

Tempo fa, in occasione della ristampa dei Dischi del Sole, si accese un dibattito sul perché gli italiani non cantano pit. Mi venne allora in mente quello che accadeva una volta all’indomani del Festival di Sanre-

mo: non c’era chi — facendosi la barba davanti allo specchio, rigovernando la casa o sfrecciando in bicicletta per la strada — non ripetesse ad alta voce i motivi ascoltati la sera prima. Si, forse allora le canzoni erano pil orecchiabili e c’era anche pili gioia di vivere. Ma soprattutto la nostra vita, allora, non era dominata dal rumore, come purtroppo accade oggi. Oggi viviamo in un acquario sonoro, non solo perché la musica ci arriva da tutte le parti, ma anche perché il chiasso é una costante della nostra esistenza. Provate ad affacciarvi alla finestra e ad accennare un motivo: la voce vi morira subito in gola, sopraffatta dal clacson delle automobili e dal generale frastuono. Perd, anche se cantiamo di meno, il peso che le canzoni hanno nella

nostra vita non é affatto diminuito. Se il loro posto nella storia dell’arte é dubbio, é perd immenso in quella dei sentimenti. Lo scrisse una volta Proust, lo ha confermato Pasolini, l’ha fatto dire Truffaut ai personaggi dei suoi film. E allora deve essere vero. Oggi, del resto, tutti i pit acuti studiosi della cultura di massa sottolineano che la Trivialliteratur non forma un genere a sé stante ma é piuttosto un insieme di elementi che possono entrare in ogni genere artistico. Risulta quindi impossibile delimitare a priori un campo della “paraletteratura”. Diviene, viceversa, indispensabile una analisi e formale e

di contenuto prima di far rientrare un testo, o anche solo una parte di esso, nella categoria della Trivialliteratur. Bisogna percio riuscire a cogliere e ad analizzare non solo la distinzione ma anche la confusione tra “popolare” e “artistico”: tra Kerouac 9

e Vasco Rossi, per dirla scherzosamente, a costo di attirarsi i lazzi di Roberto D’ Agostino. E cioé, non solo la loro opposizione e concorrenza, ma anche la loro complessa unita e complementarieta. Questo spiega perché sia arbitraria la pretesa di chi, ancora oggi, vorrebbe erigere uno steccato tra poesia e canzone. Intendiamoci, che siano cose completamente diverse é indubbio. Ma non in base ad astratti e precostituiti criteri di valore, ma perché adoperano linguaggi estremamente differenti. Non foss’altro che per una ragione: mentre la poesia ha come “materia dell’espressione” le parole soltanto, la canzone usa parole e musica. Resta incontrovertibile il fatto che la canzone risponde a un bisogno di poesia. Ieri come oggi. Umberto Eco ha ricordato una volta che una canzone prende rilievo dalle circostanze in cui nasce e in cui, magari per caso, va a cadere. Rosamunda, per esempio, era un brano abbastanza sciocco, ma divento l’inno delle truppe di liberazione nell’ultimo conflitto; mentre per l’esercito tedesco, e non solo per quello, Lili Marléne, che raccontava le vicende di una signorina non troppo morigerata, divento il simbolo puro e sconsolato della nostalgia, della disperazione, di una tristezza tutto sommato nobile. Le canzoni, poi, sanciscono strani matrimoni con le occasioni senti-

mentali della nostra vita. Anche un grande poeta puo fremere di fronte a parole scadenti come «amore mio, non ti vedro mai pit», solo che gli accada di sentirle nel momento

in cui piange, e sul serio, un amore

finito. Ed é forse vero che tutto quello che é troppo stupido per essere detto pud invece essere cantato. La poesia o il romanzo non hanno la forza di esprimere la nostra sentimentalita dispiegata, che é liquida e palpitante come quella degli adolescenti. La musica, si. Le canzoni non sono gli stampi che noi riempiamo con le nostre passioni; sono gli stampi che imprimono, a lungo andare, la forma alle nostre passioni. Chi consuma musica leggera assimila pid 0 meno consapevolmente, tutto un modo di concepire le vicende sentimentali. Credo che in tutto cid risieda anche quel particolare potere che le canzoni hanno di restituire immediatamente il profumo di un’epoca. Bastano poche note di Vola, colomba per tornare a respirare il clima dell’Italia del dopoguerra. Basta riascoltare anche solo un attimo il refrain di Volare per riprovare di colpo l’euforia degli anni del “boom” economico. Oggi, forse, 1e canzoni non hanno pit lo stesso impatto emotivo, la stessa incidenza. Ma comincio a chiedermi se anche questo sia vero: se 10

non sia, cioé, la lente deformante della memoria a trascolorare e rende- » re pil accettabili quelle pit lontane nel tempo. E un fatto che, per limitarci a Sanremo, tutti gli anni finiamo per decretare che erano mol-

to pit belle le canzoni dell’anno precedente. Spesso irridiamo la nostalgia, quasi fosse un sentimento di cui vergognarsi. Ma basta riandare al significato etimologico della parola (dal greco nostos, “ritorno”, e algia, “dolore”) per capire che quell’acuto desiderio di rivivere un episodio 0 un momento della vita che la parola sottende é qualcosa di profondamente umano. La vita é un flash e il tempo che ci é dato di vivere é irrimediabilmente breve... Ecco perché le canzoni, anche quelle pit brutte — facendoci tornare indietro nel tempo e rivelandoci, come scrive Oscar Wilde, un passato

personale che fino a quel momento ignoravamo -, riescono a toccare le nostre fibre pit intime, commuovendoci spesso fino alle lacrime.

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Le origini

Sul mare luccica Pastro d’argento, placida é l’onda, prospero é il vento. Venite all’agile barchetta mia... Santa Lucia! Santa Lucial... Con questo piccolo gioiello di Enrico Cossovich e Teodoro Cottrau si pud dire che ha inizio la storia della canzone italiana. Certo la datazione é di comodo, tanto pit che l’anno di composizione di Santa Lucia, il 1848 (sara pero pubblicata solo due anni pit tardi), é di molto antecedente a quello dell’unita d’Italia. Ma non é una datazione

arbitraria, se si riflette solo un

momento sulle caratteristiche di questo brano. E scritto in italiano (anche se bisogna dire che la prima stesura era in dialetto), un italiano letterario ma gia sufficientemente prossimo ai modi del parlato; la forma in cui é concepito — in bilico tra melodia popolare (villanella, serenata) e tradizione musicale colta: si sente un’eco dell’aria Com’eé bello, quale incan-

to della Lucrezia Borgia di Donizetti — é pero decisamente quella della canzone. Questi due elementi ne fanno qualcosa di assolu-

tamente unico e particolare. Tranne rare eccezioni — tra cui quella dell’Addio a Napoli (1868), sempre di Teodoro Cottrau — sara solo alla fine dell’Ottocento che la canzone italiana in lingua riu13

scira definitivamente ad affermarsi. Prima di allora il posto dicomando era saldamente occupato dalla canzone dialettale e, al suo interno, dalla canzone napoletana.

La canzone napoletana Uno dei pid antichi canti popolari napoletani é il Canto delle lavandaie del Vomero, che si pud far risalire al XIII secolo e che

rimonta a un tempo felice in cui il Vomero era una selva di castagni, popolata da case rustiche e da lavandaie che scendevano alle case aristocratiche del centro a ritirare la biancheria da lavare nei ruscelli campestri fra brevi canti “a dispetto” e d’amore, in un’atmosfera idilliaca che questo brano, cosi lineare e ricco di echi,

fresco pur nella sua intonazione quasi dolente, ci restituisce in modo mirabile: Tu m’aje prommiso quatto moccatora oje moccatora, oje moccatora! Io so benuto se, io so benuto se me lo vuo dare, me lo vuo dare. E si no quatto embé, dammenne ddoje

oje moccatora, oje moccatora! Chillo ch’é ’ncuollo a tte nn’é rroba toja me lo vuo dare me lo vuo dare. Il genere di canto tipico di questa fase é, non acaso, la villanella,

sorta di canzone agreste — Napoli era allora tutta cinta di orti e di campi-—che diede origine a un fenomeno musicale fra i pid interessanti della storia della canzone in Europa. Su versi in dialetto scrissero villanelle alla napoletana famosi compositori come Orlando di Lasso, Claudio Monteverdi, Giulio Caccini, i nomi pit

illustri della musica polifonica italiana. Pit tardi le villanelle cede-

ranno il posto a composizioni meno dotte, meno polifoniche e nascera la canzone monodica, a una sola voce, con accompagnamento di strumenti: cioé la moderna canzone napoletana. Sempre nella prima meta del 1200, sotto Federico II, era sulle 14

labbra di tutti un motivo a nenia, che ancor oggi i pit umili continuano a cantare: Jesce sole, jesce sole,

nun te fa’ cchiu suspira. Siente maie che le figliole hanno tanto da pria?

Il canto é notato o registrato da molti folcloristi, ed é ricordato perfino dal Boccaccio nella terza novella dell’ottava giornata del Decamerone. Altro famoso antico canto popolare é Michelemma, del 1650 circa, una “canzone a ballo” dalla dolce melodia in fa, in tempo sei ottavi, allegro, in cui gia si scorgono i segni della futura tarantella. Fu attribuita’ al pittore-poeta Salvator Rosa, ma senza validi elementi a conferma di questa suggestiva paternita. L’ambientazione, comunque, é tutta napoletana e si riferisce alle frequenti scorrerie dei pirati turchi e algerini sul litorale campano, ai rapimenti e ai ricatti che essi compivano, giungendo fino a qualche chilometro da Napoli: E nata mmiez’ ’o mare Michelemma Michelemma. E nata mmiez’ ’o mare Michelemma Michelemma.

Oje, n’a scarola oje, n’a scarola. Li Turche se ’nce vanno Michelemma a reposare.

Chi pe la cimma e chi Michelemma

pe lo streppone. 1 Da Salvatore Di Giacomo, con un abile apocrifo, all’interno del fascicolo, da lui

curato nel 1901, dal titolo Piedigrotta for ever! 15

- Viato a chi la vence Michelemma co Sta figliola. Sta figliola ch’é figlia Michelemma oje de Notare. E ’mpietto porta na Michelemma stella Diana

Pe fa muri I? amante Michelemma a duie a duie...

Il testo & poco chiaro. Controversa persino la traduzione del titolo: “Michela

a mare”,

“Michela

mia”, “Michela

€ mia”.

Secondo alcuni durante le lotte tra saraceni, algerini e turchi contro le popolazioni del litorale campano, Michela, una bellissima ragazza, figlia di un notaio, venne rapita dai turchi, ma, aiu-

tata da una stella portentosa che portava sul petto, riusci a liberarsi facendo morire gli amanti rapitori a due a due. Per altri la canzone potrebbe raffigurare simbolicamente I’Ita-

lia, in quanto la cimma (“cima”) sarebbe il Nord e lo streppone (“gambo”) il Sud, cosicché anche l’interpretazione dei versi: “I Turchi vi ci vanno a riposare / chi per la cima e chi per il gambo” diventerebbe molto pit agevole.* Alla seconda meta del Seicento si fa risalire anche la nascita della tarantella, la quale, anche se diverra popolarissima a Napoli gia nel corso del secolo successivo, é, come il suo stesso nome

lascerebbe supporre, quasi certamente di origine pugliese. Vero é che il nome di questa danza in tre o sei ottavi dal ritmo indiavolato potrebbe anche alludere al moto convulso provocato dal morso della tarantola. 2 Per il De Simone, invece, i versi di Michelemma, desunti dal repertorio popolare, si riferiscono a un emblematico tessuto di “segni” e possono essere messi in relazione — pit credibilmente — con i cosiddetti canti del “mondo alla rovescia”, 0, comun-

que, con elementi di un antico mito rimasto oscuramente nella coscienza popolare. 16

Resta il fatto che l’origine pugliese é difficilmente contestabile. Come difficilmente contestabile é che la sua terra di elezione diventera comunque Napoli (si pensi a Lo Guarracino, a Cicerenella), che adottera con entusiasmo le sue attraenti figurazioni di corteggiamento e di conquista e il suo allegro accompagnamento di nacchere e tamburelli. A essa, nell’Ottocento, si ispireranno i

maggiori compositori, da Auber a Chopin, da Liszt a Mendelssohn, da Bellini a Donizetti. Del Settecento (ma la datazione é incerta: c’é anche chi parla

del Cinquecento) é un’altra famosa canzone napoletana, quella Fenesta vascia che, riadattata per la parte musicale da Guglielmo Cottrau (il “parigino di Mergellina”, grande “arrangiatore” della canzone napoletana e padre del gia citato Teodoro) e per il testo dall’abate Giulio Genoino, sara pubblicata ufficialmente nel 1825. Si tratta di una classica “calascionata”, cioé di una serenata

ariosa cantata con l’accompagnamento di un calascione, chitarrone panciuto come un grosso mandolino, col lungo manico, dal suono piu profondo della moderna chitarra:

Fenesta vascia e padrona crudele, quanta suspire m’aje fatto jettare! M’arde ’stu core comm’a na cannela,

bella, quanno te sento annommenare!... Sempre al Genoino e al Cottrau viene attribuito anche il riadattamento della celeberrima Fenesta ca lucive, pubblicata ufficialmente nel 1842 dalle edizioni Girard e in seguito, nel 1854, perfezionata e arricchita di due strofe da Mariano Paolella. Il testo si riferisce a una storia siciliana del Cinquecento, che narra una tragica vicenda di amori colpevoli, chiusasi con la morte dei protagonisti a Carini, vicino a Palermo: Fenesta ca lucive e mo nun luce,

sign’é ca nenna mia stace malata. S’affaccia la sorella e me lo dice: «Nennella toi’ é morta e s’é atterrata!»

Chiagneva sempe ca durmeva sola, mo dorme cu li muorte accumpagnata... 17

Sono versi stupendi, “altissimi”, come li definisce Pasolini nel suo saggio sulla poesia popolare italiana.* Splendida é anche la melodia che ricorda motivi del Mosé in Egitto di Rossini, non a caso rappresentato per la prima volta al Teatro San Carlo di Napoli il 5 marzo del 1818, e della Sonnambula di Bellini (1831). Ed é forse per questo che proprio a Vincenzo Bellini sara a lungo attribuita la paternita di questa composizione. «Nella prima parte essa si fonda su d’una mossa melodica che dalla quinta si porta alla tonica e da questa ascende per gradi. Or proprio questa mossa é, invece, preferita in tutto e per tutto dal Rossini, tanto nel modo maggiore quanto nel minore. Nel Mose, infatti, essa informa la preghiera Dal tuo stellato soglio e il duetto Non merto pitt consiglio. La seconda parte o secondo inciso, “cadenza”, si trova nell’aria finale della Sonnambula:

Piu non

reggo a tanto duolo; il tono, cosi nell’aria belliniana come nella canzone, é identico: quello di fa terza minore; le somiglianze, i

rapporti sono evidenti.»* Ma il passaggio dalla canzone popolare alla canzone d’amore di gusto moderno é segnato, come é riconosciuto dai pit, da quella magnifica melodia in si bemolle, tempo sei ottavi, moderato espressivo, che risponde al nome di Te voglio bene assaje: Pecché quanno me vide te ’ngrife comm’a gatto? Nenné che t’aggio fatto ca no mme puo vede’? Io taggio amato tanto si tamo tu lo saie Io te voglio bene assaje e tu nun pienze a me... I versi, di Raffaele Sacco, risalgono secondo alcuni alla Festa

di Piedigrotta del 1835, secondo altri — per esempio il De Mura, uno dei pit illustri storici della canzone napoletana — al 1839, 3 Pier Paolo Pasolini, La poesia popolare italiana, Garzanti, Milano 1960, p. 159. “ Come scrive Salvatore Di Giacomo nelle sue Cronache e memorie, ora in Poesie e Prose, a cura di Elena Croce e Lanfranco Orsini, Mondadori, Milano 1984, p. 947.

18

anno di inaugurazione della Napoli-Portici, la prima linea ferroviaria italiana. La musica é stata spesso attribuita a Gaetano Donizetti e sembra che a dar credito a questa voce fu inizialmente lo stesso autore dei versi. E in effetti, se la canzone fosse nata

nel 1835 — anno in cui Donizetti presentd al Teatro San Carlo il suo capolavoro, la Lucia di Lammermoor, esattamente il 26 settembre, poco dopo, dunque, la Festa di Piedigrotta — tale paternita sarebbe stata anche possibile, pur se poco attendibile, vista tra Paltro la somiglianza del motivo con quello di Vi ravviso o luoghi ameni della belliniana Sonnambula. Ma nel 1839 Donizetti era mille miglia lontano, visto che gia dall’anno precedente la benevolenza di Rossini gli aveva aperto le porte di Parigi. La musica é allora, come taluni sostengono, del celebre Maestro Campanella? Sia come sia, la canzone soggiogo letteralmente Napoli, al punto di diventare ossessionante. «Si cantava da per tutto: nella

cantina di Verdone il Siciliano al vico Campane, come nel salone nobile, nel negozio di musica di Girard e compagni a Toledo e nel laboratorio di madama Cardon; in piazza, in casa, in carroz-

za, a teatro...»° Ossessiono talmente i cronisti dell’epoca che uno di loro, un certo G.S., scrisse su un giornale:

Addio mia bella Napoli fuggo da te lontano. Perché pensier si strano, tu mi dirai, perché?

Perché mi reca nausea quella canzone ormai: ti voglio bene assai e tu non pensi a me...

Ma, al di 1a delle parodie, la canzone ebbe un successo travolgente (se ne vendettero subito 180.000 “copielle”), ed € molto importante perché, nata in settembre, diede |’avvio all’usanza di

diffondere a ogni Piedigrotta le nuove canzoni dell’anno, facen5 Ivi, p. 933. 19

do identificare la festa religiosa, una delle pid caratteristiche delle tante ereditate dai Borboni, con la manifestazione musicale.

Il 7 settembre di ogni anno, Nativita di Maria Vergine, diventera cosi l’occasione per suonare e cantare — a bordo di carri allegorici e fra luminarie imponentissime — quei brani che avevano riscosso il maggior successo nelle audizioni precedenti e che venivano alla fine premiati nella Villa Comunale che bordeggia il mare di Mergellina. Siamo cosi arrivati al 1848, l’anno di Santa Lucia, la barcarola in mi bemolle, tre ottavi, che gli svedesi hanno adottato come

inno liturgico per la festa della protettrice degli occhi. Sono ormai lontani i tempi delle villanelle e delle canzoni del-

opera buffa.® Adesso é la canzone moderna ad affermarsi pienamente. E, anche se nel 1861 la tradizione di Piedigrotta sara momentaneamente sospesa, nel 1876, quando riprendera su ini-

ziativa di un distributore di giornali, Luigi Capuzzo, conoscera i suoi pit’ splendidi fasti. Molti saranno i successi, tra cui Funiculi funicula (1880), ’E spingole frangese (1888), ripresa da un canto tradizionale di Pomigliano d’Arco, e ’O sole mio (1898): Jammo, jammo, ’ncoppa jammo, ja... Funiculi, funicula...

Parole celeberrime, che hanno fatto il giro del mondo. Eppure pochi ne conoscono lorigine. Si era, appunto, nel 1880. Per raggiungere, non pil a piedi, il Vesuvio, era stata ideata dal finanziere Ernesto Emanuele Oblieght la funicolare. L’aveva realizzata Pingegnere milanese Olivieri, per conto della Société anonyme du chemin de fer funiculaire du Vésuve. II pacchetto azionario fu venduto in seguito — 170.000 lire, prezzo di liquidazione — alla Thomas Albert Cook and Son di Londra, quella dei vagoni letto. Dopo l’inaugurazione, avvenuta il 6 maggio di quello stesso anno, il cassiere cominci6 a lamentarsi: il bilancio delle

prime settimane era stato pressoché fallimentare. I napoletani ® Le villanelle e le canzoni dell’opera buffa sono state quasi tutte raccolte da Teodoro Cottrau e dagli editori Girard e Fabbricatore; alla fine del secolo scorso il De Meglio ne curd una scelta per la casa Ricordi col titolo di Eco di Napoli. 20

preferivano salire in cima al vulcano col placido ciucciariello ed evitavano la cigolante carrozza ’e ferramenta (che era poi formata da due vagoncini, il “Vesuvio” e I’“Etna”, che arrancavano

lungo le tre rotaie, la pid grande al centro). Una certa diffidenza per tutto quanto fosse nuovo, forse anche un’ancestrale superstizione, scoraggiava i potenziali clienti. L’inviato dell’«IIlustrazione italiana», Nicola Lazzaro, registro le voci del dissenso: «E

una profanazione, é come togliere la poesia al monte». Fu cosi che il giornalista Peppino Turco, direttore del satirico «Don Marzio», scommise con un amico che avrebbe convinto i napole-

tani a servirsi del nuovo mezzo. Butto git dei versi e li fece musicare da un valente compositore stabiese, Luigi Denza, che era stato allievo di Mercadante a San Pietro a Majella. Gli autori la proposero, cantandola pure, nei saloni dell’ Albergo Quisisana a Castellammare di Stabia, e poi ebbero l’accortezza di presentarla alla rassegna di Piedigrotta, che, nata nel 1835, dopo alterne vicende e interruzioni, era stata ripresa pochi anni prima, nel 1876. Pietro Gargano e Gianni Cesarini, nel loro libro sulla canzone napoletana,’ hanno cercato di spiegare i motivi del suo travol-

gente successo. In primo luogo, Funiculi, funiculad si rifa al canto popolare, prende le mosse dall’improvvisata e dallo Zoccolaro che a meta Ottocento Teodoro Cottrau aveva strappato alla voce di un venditore ambulante. Ma é diversa da questo canto, come da altri precedenti e pit famosi, perché mostra una nuova possibilita di relazione fra il far poesia, sia pure di propaganda, e il fare musica, sia pure d’occasione. Reca il segno di un rapporto, nuovo é€ strettissimo, tra il poeta e il musicista. La vena colta degli autori, del resto, diventera

una costante

nella fase del

decollo della canzone napoletana: poeti veri, giornalisti competenti, maestri di conservatorio. A essi arrivera poi l’incentivo di verseggiatori e musicisti di spontanea formazione. In secondo

luogo, Funiculi, funicula seppe utilizzare industrialmente |’occasione della rinata Piedigrotta, che aveva ormai per scopo quello 7 Pietro Gargano e Gianni Cesarini, La canzone napoletana, Rizzoli, Milano 1984,

pp. 9-12. 21

di diffondere la canzone, fino ad allora portata al popolo da “postegge” e “pianini”. Nel giro di un anno della composizione di Turco e Denza si vendettero un milione di copie. Le aveva pubblicate Ricordi. Ripresa da Richard Strauss in Aus Italien, Funiculi, funicula apre la stagione d’oro della canzone classica partenopea: successo mondiale e pretesto di un movimento che attirera alla canzone il fiore dell’intelligenza napoletana dell’epoca. Insomma, un grossissimo affare per la Ricordi, nonché ner i proprietari della compagnia Cook. L’avvento di Salvatore Di Giacomo

Sempre attorno al 1880 l’avvento di Salvatore Di Giacomo, poco pid che ventenne, determino una profonda svolta nella canzone napoletana. Di Giacomo era nato il 12 marzo 1860 dal medico napoletano Francesco Saverio Di Giacomo e da Patrizia Buongiorno. Dopo aver seguito gli studi classici, cercO di calcare le orme paterne iscrivendosi alla Facolta di Medicina ma arrivo soltanto al terzo anno di Universita: un giorno un bidello lascid cadere a terra inavvertitamente un recipiente contenente brandelli di membra umane su cui si erano esercitati i bisturi degli studenti. Quel macabro episodio lo scoraggié talmente da indurlo al gran rifiuto. Contando un sincero amico in Martino Cafiero, uno dei migliori giornalisti del tempo, Salvatore Di Giacomo venne assunto al «Corriere del mattino», cominciando cosi una

brillante carriera di giornalista. L’anno di grazia di Di Giacomo paroliere é indubbiamente il 1885. In quell’anno il poeta napoletano compose, tra le altre, Oili oila, con la musica di Mario Costa; Era de maggio, musicata sempre dal Costa,

Era de maggio e te cadeano ’nzino a schiocche a schiocche li ccerase rosse,

fresca era l’aria e tutto lu ciardino addurava de rose a ciente passe. Era de maggio; io, no, nun me ne scordo,

‘na canzone cantavemo a doje voce, 22,

cchiu tiempo passa e ccnitt me n’allicordo. fresca era l’aria e la canzone doce E diceva: Core,core!

Core mio! Luntano vaie; tu me lasse, io conto ll’ore,

chi sa quanno turnarraie!». Rispunneva io: «Turnarraggio

quanno tornano li rrose, si ’stu sciore torna a maggio pur’a maggio io stonco cca»... e la famosissima Marechiare, musicata da F. Paolo Tosti:

Quanno sponta la luna a Marechiare pure li pisce nce fanno a l’ammore; se revotano l’onne de lu mare, pe la priezza cagneno culore, quanno sponta la luna a Marechiare. A Marechiare ce sta ’na fenesta,

la passione mia ce tuzzulea, ’nu carofano addora int’a ’na testa, passa Ilacqua pe’ sotto e murmulea... a Marechiare ce sta’na fenesta...

Pare che Di Giacomo avesse scritto quei versi — adornati di

una melodia limpida e trasparente ispirata al Tosti dalle note di un suonatore di flauto che le ripeteva per provare il suo strumento — senza essere mai stato a Marechiaro. Ci andd molto tempo dopo esclusivamente per accompagnarvi, come lui stesso raccontd, una studentessa di Cambridge: «In un giorno d’aprile, una piccola navicella a vela mi porto per la prima volta laggiu, su

que’ lidi che, senza conoscerli, avevo cantato e celebrato». Cosi Di Giacomo si accorse che a Marechiaro c’era una trattoria, che c’era una civettuola finestra immersa nei garofani e che la cameriera del locale si chiamava proprio Carolina. L’oste, autore di questa sceneggiata, si avvicind premuroso agli avvento-

ri e, senza riconoscere Di Giacomo, disse: «Un giorno il poeta venne qui a colazione, vide la finestra, vide i garofani, vide Ciro23

lina e mise tutto nella canzone». Di Giacomo esplose in una fra gorosa risata. ce pero da dire che il posteggiatore peels Sciarra sosterra a lungo, invece, che il poeta era di casa nella trattoria sotto la fine stra, e che, dunque, aveva lui stesso contribuito alla crescita del

mito. Con ostentato distacco Di Giacomo criticava alcuni versi («passa l’acqua pe sotto»: il mare non passa, sta) e l’immagine della passione che «tuzzulea», bussa alla finestra, gli sembrava troppo carica. E.A. Mario, nel sostenere che l’idea era gia in un libretto set tecentesco di Francesco Cerlone musicato dal Maestro di cappella Giacomo Insanguine detto Monopoli (L’osteria di Marechiaro), si tormentava in un dubbio: tra «quanno sponta la luna».e «a Marechiare» c’é una virgola o no? Se non c’é, i pesci fanno l’amore tra loro; se c’é fanno l’amore con la luna. Ma — come

sottolineano sempre Gargano e Cesarini —, nonostante ripudi, autocritiche e dubbi, Marechiare é magica come le onde che si rivoltano e cambiano colore per la gioia. «Quanno sponta la luna a Marechiare», virgola 0 no, sei gia dentro allo scenario, immer-

so nei suoi colori, nelle luci e nelle ombre. Nell’interpretazione di Gennaro Pasquariello Marechiare Ho ublassideti forse, l’atto di nascita della canzone moderna.

“Copielle” e “pianini”: nasce l'industria della canzone I principali cantanti napoletani di questo periodo furono Giovanni Di Francesco, detto “Zingariello”, il pit celebre posteggiatore della fine dell’Ottocento, cantante e suonatore di violino che riusci a destare l’ammirazione di Wagner; il Fraschini, menzionato

nella famosa Piedigrotta for ever!; e Pasquale Jovino detto “’O piattaro” (in gioventi era stato decoratore di piatti), che sara tra i pochissimi a incidere anche dei dischi. Ma le canzoni venivano diffuse anche attraverso i “pianini” (la fabbrica pit importante era quella del cavaliere Vittorio Fassone, che si appassiono talmente alla canzone da diventare egli stesso autore di alcuni celebri motivi, come ’A tazza ’e café) e le “copielle”, ossia i fogli volanti sui quali erano stampati alla 24

meglio i testi delle varie composizioni. Le “periodiche” (festicciole a scadenza settimanale) e le riunioni in famiglia rappresentavano i palcoscenici. Nelle famiglie nobili funzionava il buffet freddo. Nelle case dei poveri — da qui la famosa espressione — tarallucci (piccole ciambelle) e vino. _ Precursore di Ricordi e di Bideri, il tipografo Francesco Azzo lino, con bottega in via Gerolomini, lancia la nuova industria dell’editoria della canzone. All’autore, Azzolino versa sei carlini

e dona mille “copielle” stampate della canzone; le altre “copielle” le affida ad abili venditori ambulanti che le diffondono nelle strade della citta. Il primo che si ricordi é un certo Gennaro Pennone, nativo di Casoria.

Gli anni che vanno dal 1885 al 1914 sono tra i pid esaltanti della canzone napoletana. Del 1887 é Scetate, di Mario Costa e Ferdinando Russo, una delle pit’ belle serenate che siano mai state scritte. Del 1892 &@’A vucchella, scritta nientemeno che da

Tosti e da Gabriele D’Annunzio. I] poeta soggiorno infatti in quel periodo a Napoli, collaborando intensamente al «Corriere di Napoli» e poi al «Mattino» di Scarfoglio. Un mattino del 1893, avendo deciso di allontanarsi precipitosamente dalla citta partenopea, lascid dietro di sé, in un cassetto della scrivania del col-

lega Ferdinando Russo, questa lirica in dialetto che aveva composto in pochi minuti, dedicandola alla principessa Maria di Gravina, per rispondere a una scherzosa sfida rivoltagli da quest’ultimo. Tosti la music6 soltanto nel 1904. Fu molto amata e cantata da Enrico Caruso: Si cumm’a ’nu sciurillo tu tiene ’na vucchella

’nu poco pocorillo

appassuliatella. Meh, dammillo, dammillo, —écomm’a ’na rusella dammillo ’nu vasillo, dammillo Cannetella!

Dammillo e pigliatillo, ’nu vaso piccerillo 25

comm’a chesta vucchella,

che pare ’na rusella ’nu poco pocorillo appassuliatella...

Come il preludio di Marechiare riproduce l’assolo stonato di un violino che I’autore sentiva abitualmente a Napoli in un ristorante di Via Nardones,® cosi ’A vucchella € una romanza innesta-

ta sull’antico corpo di un canto abruzzese. Questo per sottolineare che la musica di Tosti serba nelle sue pieghe anche un filone popolaresco e campestre, che prende le mosse addirittura dagli stornelli. Il 1893 é l’anno di ’O marenariello, di Salvatore Gambardella e Gennaro Ottaviano, lanciata al Teatro Politeama da Emilia Persico. Il 1898 di ’O sole mio. Che, a dispetto del titolo, nacque dalle ombre. Pochi sanno, infatti, che questo brano, cosi gaio e

solare, non nacque a Napoli ma a Odessa, sulle rive del Mar Nero. In tournée nella citta ucraina con il padre Giacobbe, Eduardo Di Capua s’era portato lavoro da casa, un foglietto con i versi di Capurro dedicati a donna Nina Arcoleo. Li musico in albergo, davanti a una finestra dalla quale il sole, pit: che visto, poteva essere immaginato o sognato. Era I’aprile del 1898. Tornato in patria. presentd ’O sole mio al concorso della «Tavola Rotonda», il giornale edito da Bideri. Da allora ha fatto il giro del mondo. L’hanno cantata, oltre ai pit. grandi tenori lirici, da Joséphine Baker a Elvis Presley. A essa tocco persino la promozione a inno nazionale. Durante l’inaugurazione dei Giochi Olimpici di Anversa, nel 1920, la banda aveva smarrito lo

spartito della Marcia Reale e di italiano conosceva solo le note che accompagnano i famosi versi: Che bella cosa é ’na iurnata ’e sole,

’n’aria serena doppo ’na tempesta! Pe’ laria fresca pare gia ’na festa... Che bella cosa é ’na iurnata ’e sole! 8 Lo stesso Tosti lo confessd a Enrico De Leva, che era andato a visitarlo a Londra.

26

Ma ’rwatu sole cchiu bello, ohi ne’. O sole mio sta ’nfronte a tel...

Sorte ben diversa riservarono alla canzone i parroci di due paesi della Valle Caudina, San Martino e Cervinara: proibirono

ai loro fedeli di cantarla, perché la consideravano “colpevole” di aver portato la grandine che aveva distrutto i raccolti! Del 1899 & Maria Mari, di Eduardo Di Capua e Vincenzo Russo, largamente debitrice all’aria Nume, custode e vindice dell’ Ai-

da; mentre il 1900 vede la nascita di una delle pit belle canzoni di Napoli, I’ te vurria vasa’ di Russo e Di Capua, dalla melodia

candida e innocente, purissima tanto nella strofa in minore che nel ritornello in maggiore: Ah! Che bell’aria fresca ch’addore ’e malvarosa. E tu durmenno staje ncopp’a Sti fronne ’e rosa.

’O sole a poco a poco pe’ stu ciardino sponta; ’o viento passa e vasa stu ricciulillo nfronte. IT te vurria vasa... I te vurria vasa,

ma ’o core nun m’ ’o ddice ’e te sceta,

’e te sceta... Del 1904 é Pusilleco addiruso di Ernesto Murolo e Salvatore Gambardella, ma anche la celeberrima Torna a Surriento di Giambattista ed Ernesto De Curtis:

Vide ’o mare quant’é bello! Spira tanto sentimento, Comme tu a chi tiene mente Ca scetato ’o faie sunna... Ma nun me lassa, 27

Nun darme ’stu turmiento! Torna a Surriento, Famme campal... Questa canzone era stata scritta due anni prima, e non, come comunemente si crede, per far capitolare una bella fanciulla, ma,

molto pi prosaicamente, per ricordare al presidente del Consiglio dei ministri dell’epoca, Giuseppe Zanardelli, che aveva eletto a sede dei suoi ozi |’Albergo Tramontano - il cui proprietario era anche il sindaco della citta —, la promessa di far installare a Sorrento un ufficio postale “di prima classe” e di inaugurarlo di persona. E, infine, del 1904 é l’altrettanto famosa Voce ’e notte

di Ernesto De Curtis e Eduardo Nicolardi: Si ’sta voce te sceta int’ ’a nuttata, mentre t’astrigne ’0 sposo tuio vicino, statte scetata, si vuo Sta’ scetata,

ma fa’ vedé ca duorme a suonno chino. Nun gghi’ vicino ’e llastre pe ffa’’a spia, pecché nun puo sbaglia: ’sta voce é’a mia... FE ’a stessa voce ’e quanno tutt’e dduie scurnuse, nce parlavamo c’ ’o “vvuie”... Il periodo felice che precede lo scoppio della prima guerra mondiale é concluso da due autentiche perle: la canzone-romanza Core ’ngrato scritta nel 1911 da Riccardo Cordiferro (nome d’arte di Alessandro Sisca) e Salvatore Cardillo, due emigrati d’America che, in un momento di felice ispirazione, scrissero la loro unica canzone dedicandola a Enrico Caruso,

Catari, Catari,

pecché me dice sti parole amare? Pecché me parle, e ’o core me turmiente,

Catari?... Core, core ’ngrato,

aie pigliato ’a vita mia, tutt’é passato e nun ’nce pienze cchit!... 28

e Guapparia (1914), Vincalzante “tammurriata” di Rodolfo Falvo e Libero Bovio, costruita sulla tipica figurazione della “polacca”, intorno alla quale si svolge un’impetuosa melodia falsamente spagnoleggiante. II “guappo” vede tramontare il mondo pseudoeroico che era teatro delle sue gesta. Accanto a lui i compagni della serenata “guappesca” piangono, dinanzi al vano amore che lo consuma: Pecché nun va cchiti a tiempo ’o mandulino? Pecché ’a chitarra nun se fa senti? Ma comme,

chiagne tutto ’o cuncertine

addo che avesse chiagnere sul’i’?... E come l’addio a un mondo, a una Napoli di maniera, in cui la

figura del guappo riacquista di colpo il senso dei tempi e una umanita pil autentica e vera. Canzone romana e canzone milanese

Ma non c’é solo la canzone napoletana. Almeno altri due generi

di canzone dialettale hanno avuto in quello stesso periodo una funzione importante: si tratta della canzone milanese e della canzone romana. Intorno al 1786 Goethe, interessandosi ai canti romaneschi,

scriveva: «II canto con cui il popolo romano ama intrattenersi é una specie di canto fermo con passaggi di tono che non si possono trascrivere graficamente. Esso abitualmente risuona all’ora del tramonto e a notte avanzata... Appena il popolo si sente libero si rallegra con questa musica... Una fanciulla che apre la sua finestra, un carrettiere che passa con il suo carretto, un operaio

che esce di casa o torna dal suo lavoro; tutti emettono questo canto».

Esso — come ricorda il Micheli neua sua Storia della canzone romana —° fu genericamente chiamato dal popolo “sonetto” e fu 9 Giuseppe Micheli, Storia della canzone romana, Newton Compton Editori, Roma 1989, pp. 19-20. 29

confuso da Goethe con il canto dei gondolieri. In sostanza si tratta di una melodia nata a Roma dove — dice il Parisotti — «si € mantenuta senza cambiamenti essenziali e si pud affermare che é l’unica che rappresenti incorrotta l’espressione del popolo romano». Non per caso la prima canzone romanesca giunta fino a noi, che risale al XIII secolo, ha per titolo Sonetto («bella quanno te fece mamma tua»); si pud ancora ascoltarla in qualche osteria di Trastevere. Da allora sono moltissimi i canti romaneschi entrati almeno nella letteratura folcloristica e di cui il Micheli ha fatto,

per oltre trent’anni, una raccolta pressoché completa, integrando i vuoti con rielaborazioni da restauratore. Alcune canzoni come La finta monachella (XVII secolo) e Partenza amara («Partire partirO, partir bisogna», XIX secolo) sono presenti nel repertorio folcloristico italiano anche in altri dialetti, mentre motivi quali Come te posso ama (anche conosciuto come Alla Renella, XVIII secolo) sono soltanto romani. La canzone romana moderna nasce nel 1890 in occasione del ventennale della presa di Porta Pia. Era stato bandito il primo concorso di bellezza fra le giovani romane e per la circostanza Giggi Zanazzo aveva scritto Feste di maggio, una bella canzone musicata da Antonio Cosattini: Er giorno che daranno er premio a la piu bella a te che sei ’na Stella chi te lo po’ nega? Gnisuno te passa, boccuccia smelata, piedino de fata, er premio va a tel...

Il fulcro della canzone romana moderna non poteva non essere la “serenata”, canto prettamente romanesco esaltato oltre cinquant’anni fa prima da Giuseppe Gioachino Belli con un sonetto intitolato appunto La serenata, forse scritto per Maria Corti — che egli sposo nel 1816 -, che in quel maggio 1890 Alessandro Parisotti, accademico di Santa Cecilia, volle musicare in omaggio al poeta, come altri fecero successivamente. S’era cosi giunti al Carnevale 1891 che, secondo un cronista di quel tempo, fu animato da balli, divertimenti che si svolgevano 36

in piazza del Popolo e a Tor di Quinto, corse di cavalli e molti veglioni. La canzone di Giggi Zanazzo aveva destato l’interesse dei poeti e dei musicisti che scrivevano per l’operetta romanesca, tanto che l’editore Pietro Cristiano, sollecitato — si disse — da

Alipio Calzelli e da altri musicisti, bandi il primo concorso di canzoni romanesche proprio per quell’anno. Anche l’editore Edoardo Perino non volle perdere tempo e tramite il suo giornale, il «Rugantino de Roma», indisse un analogo concorso che si sarebbe poi ripetuto ogni anno nella notte delle streghe, ovvero per la Festa di San Giovanni. Questa solennita, fino al 1870, veniva annunciata dalle artiglierie di Castel Sant’Angelo con festose salve, al tramonto della vigilia della festa — quale simbolico inizio della notte di tregenda — e al mattino del 24 giugno quando il Papa «in treno di mezza gala» si recava a pontificare nella basilica di San Giovanni in Laterano. Per i romani era, insomma, una festa della massima importanza.

I] 24 giugno 1891 nacque cosi una nuova tradizione della canzone romanesca. Una tradizione che, organizzata di volta in vol-

ta dai giornali romani, si svolse fino all’indomani della seconda guerra mondiale. L’audizione, per quel 1891, era prevista all’osteria di Facciafresca, appena fuori Porta San Giovanni, al bivio della Tuscola-

na, osteria che era gia stata celebrata in una popolarissima can-

zone del repertorio romanesco: Da Facciafresca gia tho preparato ’na tavola imbandita e ricamata e sotto l’ombra di un bel pergolato la lumachetta te faro assaggia... Ma la terrazza del locale si riempi di gente fino all’inverosimile, tanto che, per evitare guai, si decise di spostare l’audizione di una settimana e di trasferirla al Grande Orfeo, sala di varieta che

si trovava alla Galleria Regina Margherita, di fronte al Viminale. Le canzoni in gara furono quattordici. Il primo premio, cento lire, lo vinse Le streghe, versi di Nino Ilari, musica di Alipio Calzelli. La cantd con voce baritonale, e fu praticamente il suo

debutto, Leopoldo Fregoli che, appena rientrato dal fronte abis31

sino, aveva iniziato proprio a Roma la carriera che lo avrebbe portato ai vertici della notorieta: dal 1896 al 1922 sara, con il suo vulcanico “trasformismo” e i suoi trecento bauli di travestimenti,.

la vedette incontrastata dei pit prestigiosi teatri europei e americani. Al riguardo si racconta che il maestro Calzelli, per incitare

Fregoli, quella sera gli disse: «A Leopd, te chiami Fregoli: embe: fregheli tutti». Dall’anno successivo il concorso fu definitivamente bandito dall’editore Edoardo Perino, che — come detto — aveva iniziato

nel 1887 le pubblicazioni del «Rugantino de Roma» diretto da Giggi Zanazzo. Il primo premio quell’anno fu vinto da Svejete amore santo di Luigi Angelo Luzzi, il cui nome ricorrera spesso

nella storia successiva della canzone romana. L’anno del maggior trionfo del Festival di San Giovanni, ormai divenuto una vera e propria sagra della canzone, fu il 1893. Lo vinse A San Giuvanni, testo di Giuseppe Bacigalupi e musica di Giuseppe Faberi, ma il vero successo arrise a una canzone fuori concorso di Antonio Guida e Nino Ilari, quell’ Affaccéte "Nunziata che é senza dubbio una delle pit belle canzoni romane in assoluto e che fu un grande cavallo di battaglia di Ettore Petrolini: Affaccéte ’Nunzia, core adorato, che ’sta nottata invita a ffa l’'amore;

er cielo é tutto quanto imbrillantato la luna manna a sfasci lo sprennore... Affaccéte "Nunziata boccuccia de cerasa fravola inzuccherata fatte vedé lassi...

Nel 1893 ebbe inizio anche la tradizionale sfilata di carri allegorici con suonatori in costume che avanzavano per via Nazionale, Santa Maria Maggiore, via Merulana, per poi entrare, acclamati, sul piazzale di San Giovanni. Nei giorni successivi le canzoni vennero ripetute singolarmente nei vari locali campestri o “trattorie sciantanti”, tra cui l’Olimpo in via Flaminia dove, come é ricordato nella «Tribuna», uno dei pid prestigiosi quoti32

diani del tempo, “Ja signorina NATALINA CAVALIERI canta le

migliori canzonette del suo largo repertorio”. Poco tempo dopo la quasi sconosciuta “romanzista” prese quota e si fece chiamare Lina Cavalieri, la “donna pid bella del mondo”. E veniamo alla canzone milanese, anche se va subito detto che

per molti una canzone popolare milanese, soprattutto se distinta dalla canzone lombarda e se intesa come una struttura musicale e poetica non elementare, in effetti non & mai esistita. Si cantavano a Milano motivi che giravano per tutta la regione, e che spesso provenivano dalle regioni vicine, anche se poi erano rivestiti da versi nel dialetto locale. Pit’ che canzoni erano strofette, filastrocche, cantilene.

Molte venivano dalla campa-

gna, dove si cantava probabilmente pit che in citta. Milanesi erano probabilmente i canti a sfondo politico, quelli dell’osteria o quelli della “mala”. Una bella raccolta di canti popolari milanesi e lombardi é stata curata di recente, sia in forma di libro che

su dischi, da Nanni Svampa.!? Ma la raccolta classica dei canti milanesi é quella pubblicata nel 1857 da Giulio Ricordi, il nipote di Giovanni, fondatore della celebre casa editrice."

Una bella canzone popolare, molto nota, legata agli eventi politici, ¢ El pover Luisin, che risale alla guerra del 1859:

Un di pe’ sta cuntrada pasava un bel fioeul e un mazulin de ros Vha tra in sul me puiet... Luigino va in guerra e muore. La ragazza riceve una lettera «col bord de condizion», cioé listata a lutto, ma continua a pen-

sare a lui e ad amarlo. Poi c’é De tant piscinin che l’era, nota anche come EI piscinin, “i] piccolino”, cosi piccolino che ballava sopra un quattrino, 10 Dj Nanni Svampa vedi i dodici Lp della Durium che compongono la raccolta dal titolo Milanese (a cura di L. Patruno, M.L. Straniero e A. Ajroldi) e il volume La mia morosa cara (canti popolari milanesi e lombardi), a cura di Mabi Svampa, Mondadori, Milano 1980. 1 Giulio Ricordi, J canti popolari lombardi raccolti e trascritti con accompagnamento di pianoforte, Ricordi, Milano 1857-58. 33

insieme al suo fratellino, piccolino come lui. E una serie di strofe che puo andare avanti all’infinito ed é il pezzo pit famoso del repertorio del Barbapedanna (o Barbapedana), un personaggio realmente esistito che si chiamava Enrico Molaschi 0, meglio, Molaschi, vissuto a Milano tra il 1823 e il 1911, Pultimo di una

serie di suonatori e cantanti ambulanti che portavano questo soprannome. Un/’altra canzone degli inizi del secolo é La roeuda la gira, della quale sono noti gli autori, Sigismondi e Antonacci. E una di

quelle tipiche canzoni legate ai mestieri girovaghi, in questo caso a quello del moletta o molettin, ’“arrotino”, ed é soffusa di tene-

ra malinconia. D’autore, Raffaele Paravicini, é anche J sartinn de Milan (“Le

sartine di Milano”), del 1903: I sartinn de Milan,

Hin tutt grazie e bontaa Propri bonn com’el pan,

Cont on coeur tanto faa... Questo brano é particolarmente interessante perché con il suo naturalismo di fondo, il suo patetismo sociale, la sua commozio-

ne a stento trattenuta, anticipa per molti aspetti lo stile dei due veri fondatori della canzone milanese moderna: Alfredo Bracchi e Giovanni D’Anzi.

II

Le romanze da salotto

Nell’Ottocento si presero a cantare le arie delle opere pit famose come brani a sé stanti. Su queste arie i musicisti iniziarono a modellare brevi romanze da intonare al pianoforte, che, dal 1871

al 1914, furono la colonna sonora della societa europea e uno degli incunaboli della canzone moderna. Le cosiddette “romanze da salotto” — in cui eccelsero musicisti come Costa, Denza, Gambardella, Leoncavallo e Tosti — consentirono anche alla piccola e media borghesia, a modico prezzo, il lusso aristocratico del concerto in casa. Per cantarle era sufficiente, del resto, qualche ami co di famiglia, dilettante si ma dalla voce bene impostata. Strut

turalmente, invece, erano composizioni molto complesse. Nate come lavoro di operisti (Mercadante, Donizetti, Ponchielli e, in

Francia, Gounod e Bizet), seppero anche successivamente man tenere un tono che stava tra l’aria d’opera e la canzone, soprattutto quella di gusto patetico, e che finiva quindi per accontentare tutti. Tipiche del genere sono quelle incise, fra il 1905 e il 1920, da Enrico Caruso nei suoi famosi dischi made in Usa.

La voce di Caruso fu la prima a entrare nel mercato discografi: co, mentre quelle di altri mitici tenori, come Tamagno, scomparvero con la labile memoria di chi li aveva ascoltati dal vivo. Egli fu il grande interprete dell’opera-canzone, inventata da Donizet ti con L’elisir d’amore e poi diventata espressione dell’animo popolare con Cavalleria rusticana di Mascagni e Pagliacci di Leoncavallo. Nel suo canto c’era qualcosa di profondamente popolare ma anche di raffinato: la scoperta del valore della paro 35

la, che spinge a farsi interpreti di passioni e non esecutori di vocalizzi. Le “romanze da salotto” costituivano — come ha notato il Celletti — una sorta di ars amatoria, valida sia per la piccola borghesia provinciale italiana sia per la corte della regina Vittoria, dove un autore come il Tosti era praticamente di casa. Erano «l’ultimo baluardo del buon canto tradizionale italiano, quello del fraseggio morbido, vaporoso, legato e per ciO stesso aperto a tutte le risorse espressive delle mezze tinte e dei chiaroscuri, nel momento in cui l’opera verista e il dramma musicale dirottavano la vocalita verso un lungo imbarbarimento». I riferimenti a casi concreti erano sempre possibili giacché gli eventi cantati affrontavano di volta in volta tutto liter di una passione amorosa, spesso contrastata, dall’a alla zeta. Si partiva dalle prime insinuanti dichiarazioni dell’eroe, che magari si dichiarava vittima di un fiore, come il Don José della Carmen,

per passare alle forme tradizionali di corteggiamento attraverso serenate, mattinate, magari alternate a profferte amorose occa-

sionalmente platoniche, come nel caso del famoso /deale (1882): To ti seguii, com iride di pace, lungo le vie del cielo. Io ti seguii, come un’amica face, della notte nel velo. -E ti sentii, nella luce

nell’aria, nel profumo dei fior! E fu piena la stanza, solitaria,

di te, dei tuoi splendor’...

E le reazioni dell’eroina? Le rivelano i titoli stessi di certe romanze di parte femminile: Non me lo dite, Non mi guardare, e, magari, Vorrei morir.

L’espressione “romanze da salotto” é danigue quanto mai appropriata. Nella grande famiglia patriarcale anche il diverti36

mento e lo svago si consumano all’interno delle pareti domestiche. I salotti vi ricoprono il ruolo di ritrovi di artisti, letterati, uomini politici e non mancano serate musicali, di recitazione, di

letture poetiche, di canto. II pit importante, nel XIX secolo, é quello di Clara Maffei a Milano, che, almeno fino al 1880, @ una

delle manifestazioni pit vive della societa del tempo. Verso la fine deli’Ottocento il salotto comincia a “femminilizzarsi”. E — osservo non senza una certa malizia Ferdinando Martini— «prima il sigaro, che offese con le sue esalazioni la sensibilita degli olfatti femminili, caccid gli uomini dai salotti, per adunarli nei circoli ad annoiarsi fra loro; poi quell’istrumento talora

delizicso, il pit spesso fastidiosissimo, che é il pianoforte». Oltre che per i suoi stretti rapporti con il melodramma e con la musica dell’Otto-Novecento, la “romanza da salotto” é importante anche perché é | anticamera della canzone di gusto moderno. Come intui Augusto Delaire analizzandone il “modo di produzione”: «Commercialmente» scriveva «la romanza é una derrata che trova credito quando é lanciata nei salotti sotto il patronato di un cantante famoso e, cosa poco onorevole pei nostri tempi, le sue azioni crescono in proporzione del ribasso di quelle dei quartetti, quintetti e altre opere importanti, che gli editori rifiutano come merce non richiesta dal mercato». Francesco Paolo Tosti, che fu anche un ottimo cantante, é il

pit noto degli autori del tempo e le sue melodie (deale, L’ultima canzone, Luna d’estate) furono le beniamine dei cantanti e del pubblico dei concerti da salotto e pil tardi anche del “caffe concerto”, che era nel frattempo giunto in Italia dalla vicina Francia. Famoso é il sodalizio che si stabili fra Tosti e Di Giacomo, che

diede, peraltro, degli ottimi risultati. Tutto se scorda (1892) e Comme va (1893) sono ariette che tendono alla romanza. Tu duorme (1908) offre accordi delicati da suonare staccato e pianissimo. Napule (1895) é una barcarola da intonare a due voci. Serenata allegra (1901) é briosa e accattivante. Ma la piu nota, e sicuramente la pid importante, é, come gia abbiamo visto, Marechiare, del 1885. 37

Non va dimenticato, inoltre, il lavoro in comune con Gabriele

D’Annunzio, frutto di un’amicizia rinsaldata soprattutto all’interno del cenacolo di Michetti nel convento di Francavilla. «Ci guardavamo in faccia impallidendo e ci sentivamo soffocare come da una sovrabbondanza di forze. La musica ci aveva chiusi in un circolo magico»: cosi scriveva D’Annunzio sulla «Tribuna» del 1888, firmandosi il Conte Minimo. Basterebbe citare le Quat-

tro canzoni d’Amaranta (tra cui la splendida L’alba separa dalla luce l’ombra), O falce di luna calante dai Due piccoli notturni, e la gia citata "A vucchella, scritta dal poeta a Napoli nel 1892 e musicata dal Tosti, come sappiamo, solo nel 1904.

Con il passare del tempo delle “romanze da salotto” furono divulgate non solo le trascrizioni per canto e pianoforte ma anche le riduzioni per mandolino e magari per violino. E cosi

penetrarono nelle decorose case borghesi dei centri urbani come | nelle botteghe di barbiere dei pit sperduti villaggi, diventando un business e aprendo la strada alla canzone moderna. Tutte queste composizioni,

al pari della citata Santa Lucia,

erano infatti in lingua e segnarono per molti aspetti la nascita della canzone italiana. Eppure si stenterebbe a definirle “canzoni italiane” tout court. Innanzitutto per l’accentuata letterarieta dei testi: To ti seguii, come un’amica face, della notte nel velo...

oppure Commosso da un fremito arcano intorno il creato gia par... oO ancora

Vieni meco, t’aspetta la bruna,

fida barca del tuo marinar...

poi per la loro stessa struttura musicale, sempre ancora in bili-

co tra romanza e canzone. In questo senso la famosa Mattinata 38

(1883) di Ruggero Leoncavallo é davvero emblematica. Quasi stabilisce una misura tecnica:

L’aurora di bianco vestita gia l’uscio dischiude al gran sol, di gia con le rosee sue dita carezza dei fiori lo stuol. Commosso da un fremito arcano intorno il creato gia par, e tu non ti desti ed invano mi sto qui dolente a cantar... La sua forza é la melodia. Una melodia «mai coperta dal controcanto, con un pianoforte che si pone al servizio del cantante per accompagnarlo. Le migliori tra queste pagine, quelle che hanno vinto la prova del tempo —- e sono tante — hanno infatti bisogno, alla lettura, dell’intelligenza, della sensibilita, della fan-

tasia interpretativa della coppia pianista-cantante».! Ma altrettanto si pud dire della splendida Musica proibita (1881) di Stanislao Gastaldon, su testo dello stesso autore, celatosi dietro lo pseudonimo di Flick-Flock:

Vorrei baciare i tuoi capelli neri le labbra tue e gli occhi tuoi severi. Vorrei morir con te angel di Dio o bella innamorata tesor mio!... Questa contro-serenata che la ragazza, fatta oggetto di musicali attenzioni, dedica alla musica stessa, suscitatrice di ineffabili

emozioni

;

Oh, com’é dolce quella melodia,

‘quanto m’é cara, come m’eé gradita! Che la canti non vuol la mamma mia,

vorrei saper perché me l’ha proibita... é tanto complessa, anche musicalmente, da contenere almeno tre canzoni in una. 1 Come rileva Daniele Rubboli nel suo saggio sulla romanza da salotto italiana in AA.VV., Tosti, a cura di Francesco Sanvitale, E.D.T. Edizioni, Torino 1991.

39

Il caffe concerto A favorire il rinnovamento della canzone italiana concorse non poco l’affermarsi anche da noi della moda del caffe concerto (all’inizio ospitato su piccole pedane in caffé di second’ordine, o all’aperto, poi, negli anni della sua fortuna, in veri e propri teatri, adattati o appositamente costruiti), che furoreggiO nel nostro Paese tra la fine dell’Ottocento e lo scoppio della prima guerra mondiale. Le origini del caffé concerto, o café chantant, sono rintracciabili a Parigi e a Londra nella seconda meta del Settecento. C’é chi indica anche una data e un luogo: il 1770 al Café des Musicos, sul Boulevard du Temple. Ma i suoi fasti saranno celebrati pit tardi, nella Parigi de! Secondo Impero, simbolo della Belle époque. In Italia se ne aprirono un po’ dovunque, aiutando la canzone a uscire dai salotti e dai teatri lirici e ad alleggerirsi del suo passato melodrammatico. I] primo fu il Caffé Margherita di Napoli, dei celeberrimi fratelli Marino, inaugurato nel novembre del 1890. Quello di Roma sara aperto invece molto pit tardi, nel 1908. Era un immenso salone, con cinque file di tavolini e, in fondo, un suggestivo palcoscenico. Le pareti erano dipinte in un tenerissimo giallo; c’era grande spreco di stucchi e decorazioni floreali in stile liberty. Andavano in scena solo spettacoli “eccezionali”, il biglietto d’ingresso costava dieci lire. Fin dalla prima sera vi afflui un pubblico che veniva dai palazzi della vecchia Roma e dai nuovi quartieri borghesi della Roma umbertina: aristocratici, ufficiali del Piemonte Reale, figli di papa, quarantenni col monocolo, mondane dalle scollature splendenti di smeraldi,

ricconi in vena di spendere denaro. Altri locali famosi furono le Folies-Bergére e l’Alhambra a Firenze, |’Eden e il Diana a Milano, il Maffei a Torino, ancora l’Eden a Bologna, |l’Olympia a Roma, la Fenice e il Caffé Scotto-Jonno, nonché lo stabilimento

balneare Eldorado, a Napoli. La sera dell’inaugurazione del Caffé Margherita di Napoli il programma non prevedeva cantanti italiane. Il café chantant non aveva formato da noi alcuna personalita degna di un’occasione 40

cosi eccezionale e allora cantarono l’ungherese Rosa Dorner e la viennese Dora Parner. Per molto tempo ancora continuarono a calcare le scene dei pitt famosi locali e a mietere successi solo 0 soprattutto artiste straniere. Nomi leggendari come Cléo de Mérode o “la bella Otero” si alternarono a colleghe, meno famose ma altrettanto brave, come Lucy Nanon e Eugénie Fougére. Fu cosi che le cantanti di casa nostra, aspirando all’etichetta di étoile internationale, dovettero adottare nomi francesizzanti in ossequio all’attivita di chanteuse, “sciantosa”, secondo la versio-

ne italiana, 0, meglio, napoletana, del termine. Qualcuna, pid originale, pur di liberarsi di un nome che suonava casareccio, rovescio le lettere che lo componevano. Aurelia Addati divenne Itadda Ailerua. O s’ispird alla natura: Maria D’Affitto, per esempio, divenne Alba Primavera. Fioccarono le Yvonne De Fleuriel, alias Adele Croce, le Fulvia Musette, al secolo Angiola Lombardi, le Nina De Charmy, vero nome Giovanna Cardini.

Scrivera Roberto Bracco nel 1904:

Vedete: io la chanteuse ho in gran concetto, ché, come donna, essa é la pitt... costante.

Ma se offre solamente un do di petto, non é chanteuse autentica: é cantante.

Or dunque la chanteuse da un diletto profondo, ponderale e... toccante; e nondimeno a dichiarar naffretto che c’é delle chanteuses integre e sante. Le brutte, per esempio, chi le tocca? E le altre, le carine, o sagge o strambe, io tutte, in certo modo, ammiro e apprezzo.

Ma tra quella che canta con la bocca e quella poi che canta con le gambe, io scelgo, in verita... la via di mezzo.’

Il caffé concerto, che all’estero era nato all’insegna dell’intrattenimento ma anche dell’intelligenza e dell’eleganza, da noi fu 2 Dalla poesia Elogio della “Chanteuse”. 41

confezionato quasi unicamente su un’immagine peccaminosa della bellezza femminile e mai si liberd dal sospetto di mezzaneria. L’aria che vi si respirava era pit: da postribolo che da teatro. Del resto, Lina Cavalieri, Carolina Otero, Joséphine Baker e Anna Fougez vi esordirono rispettivamente a 14, 9, 10 e 7 anni.

Gli studenti andavano al café chantant come a un peccaminoso convegno; i viveurs vi spadroneggiavano; |’ingresso era interdetto alle fanciulle di buona famiglia. I figli di papa si rovinavano

per le bellissime vamp. Gli ufficiali di cavalleria confezionavano duelli per contendersi le grazie di diseuses e danseuses. Maria Campi, una florida artista romana,

gia distintasi per

“sollevamento di gonnellini” e battute sul seno per farne constatare dal rumore la turgidita, portd alle estreme conseguenze la diffusa insofferenza alle matrici straniere e, esasperando le componenti oscene della gestualita popolare, perfeziono e rese celebre la “mossa”, inventata in precedenza, in teatrini per gente dal palato facile, da Maria Borsa. Ma gia molto tempo prima, a Napoli, Luigi Stellato aveva aperto la strada alla “via nazionale al caffé concerto” inventando un nuovo genere di spettacolo: lo spogliarello. Nel 1875, rielaborando col musicista Francesco Melber un motivo di origine popolare, Stellato cred "A cammesella, che, come gia abbiamo detto, era un divertente duetto tra

due sposini, con il marito che tende a eliminare a uno a uno i numerosi veli dietro i quali la moda del tempo nascondeva le grazie della sposa e quest’ultima che di volta in volta si schermisce e cede: abile pretesto per dare vita a un vero e proprio streap-tease ante litteram. La grande stella del nostrano café chantant fu comunque Lina Cavalieri, trasteverina purosangue che gia vedemmo muovere i

primi passi nel varieta con le canzoni romane di Alipio Calzelli. Del varieta era poi divenuta uno dei maggiori astri passando di trionfo in trionfo. Ma prima aveva dovuto lottare non poco per farsi notare e passare dal minuscolo palcoscenico delle “osterie sciantanti”, come si chiamavano a Roma, a quello pid impegnativo dei piccoli teatri romani del suo tempo: a piazza Navona, all’ Esquilino, a via Napoleone III, al Flaminio.

42

Sul programma a stampa del Concerto delle Varieté di domenica 8 aprile 1894, a Roma, appariva per la prima volta il suo nome in caratteri minuti: Signorina Lina Cavalieri, cantante italiana.

L’anno seguente sul programma a stampa del Grande Orfeo i caratteri furono un poco pit grandi; divennero pid vistosi quando Lina Cavalieri passo al Margherita di Napoli e da qui a Parigi come vedette della canzone italo-napoletana. Ormai era diventata la grande Lina Cavalieri, un nome prestigioso del teatro lirico, a Pietroburgo come in America. Romana era anche Zara 1°, nome d’arte di Giulia Cerasaro,

moglie dell’impresario Graziano Jovinelli, che, quando nel 1916 debuttd come sciantosa alla Sala Umberto d. Roma, aveva vent'anni. Nelle sue canzoni, come vedremo, é contenuta quasi una

risposta al proto-femminismo della napoletana Ria Rosa. Se Ria Rosa (Lo penso... ma non lo fo’, di Pisano-Cioffi) esclamava:

Ma guarda un pochettino ma tieni mente un po’ uno nun é padrone ’e fa quello che vvo! To te so fidanzata, sissignore, e che vvo ri? Ma non te so mugliera e voglio fa quel che vogl’i’!...

Zara 1° (Canzone sincera, di Zuccoli-Lindi-Spina) rispondeva cosi: Lasciatemi cantare fiore di primavera, la donna é senza cuore, volubile e leggera... In sintonia con il clima da postribolo, quasi tutte le canzoni del nostrano café chantant sono sboccate e audaci: le battute pesanti non si contano, il doppio senso é all’ordine del giorno. Sentite cosa dichiara Yvonne De Fleuriel in Nini di Luigi Mattiello

(1908): 43

Che paniere, é proprio da vedere. Tutti in coro mi dicon cosi «uh, che paniere ~he tiene Nini»...

e Nella Vandea ne Il cestino... rotto di Libero e Perpignan (1900): Come é bello il tuo cestino! lleru! lleru! E lo prese l'assassino in tal maniera

Che di colpo lo sfascio... Il sedere femminile é, in queste canzoni, una vera e propria ossessione, come ci conferma un altro brano di Emilio ed Edoar-

do Firpo, Non mi toccare... il Bosforo!, del 1912: Del gran Bosforo gelose, ei disse, ben vi so,

rassegnar pur vi dovrete se sforzar ve lo dovrol... Il doppio senso é continuamente in agguato: da La spagnola di Vincenzo Di Chiara (1906) a L’ingenua di Carlo Mirelli e Domenico Albin (1910): Penso al furbo un oggetto, che ma spiegarvelo é una cosa che

che aveva poi m’ha bene non io non ce

celato mostrato... so... Vho...

Eppure proprio queste canzoni — se si osservano con attenzione i loro versi e la loro struttura musicale — possono fregiarsi da pit punti di vista del titolo di prime, vere canzoni italiane. L’impatto delle varie ’A frangesa (Costa, 1893, portata al successo dalla bellissima Armand’ Ary: «Songo frangesa/ E vengo da Parigge,/ I’ so’ na chiapp’ ’e ’mpesa/ Ve ll’'aggia di’...»), Lili Kangy (Capurro-Gambardella, 1905, cantata per la prima volta da Nicola Maldacea al Teatro Verdi di Napoli: «Chi me piglia pe’ francesal chi me piglia pe’ spagnola:/ ma so’ nata ’o Conte ’e Mola,/ metto ’a coppa a chi vogl’i’!»), Nini Tirabuscio («Addio, mia bella Napoli,/ mai pit ti rivedro!/ Oh! Oh! Oh!/ perderai 44

Tirabuscio», 1911, cavallo di battaglia di Gennaro Pasquariello;

autori Califano momento

e Gambardella),

persino le canzoni

fu cosi forte che da quel

a sfondo

patriottico dovettero

tenerne conto, finoa far propri, letteralmente, i moduli del caffé

concerto. E il caso, per esempio,

di A

Tripoli (1911, di Corvetto

e

Colombino): Tripoli, bel suol d’amore,

tt giunga dolce questa mia canzon, sventoli il tricolore sulle tue torri al rombo del cannon...

Gea della Garisenda present6 questa canzone al Teatro Balbo di Torino indossando una sciarpa tricolore. I] brano conobbe anche una pungente parodia di ispirazione socialista: Tripoli, bel suol d’amore, ti giunga in pianto questa mia canzon, sventola il tricolore mentre si muore al rombo del cannon. Naviga, o fornitore, benigna é l’ora, bella l'occasion,

Tripoli tu sei l'aurora, il dolce sogno dell’italo succhion! Paga, paga, Pantalon!... Ma analogo discorso pud essere fatto per tutte quelle canzoni che la nascente industria discografica italiana sforno in serie per inneggiare al mito della “quarta sponda”: canzoni, peraltro, falsamente popolari, apertamente finalizzate al consenso, che saranno ampiamente copiate durante le guerre combattute nel successivo trentennio.

Viva I’Italia

e Grandi manovre, lanciate

allora da Olimpia D’Avigny, 0 Pascale vo i a Tripoli, portata al successo dal grande Armando Gill, sono importanti almeno per due motivi. Perché la fonografia italiana le produsse, come si direbbe oggi, secondo il principio della “serialita”, nello stesso stile delle copertine della «Domenica del Corriere»: erano infatti una sorta 45

di resoconti dal fronte (la radio ancora non esisteva) 0, come ‘anche furono chiamate, delle “scene dal vero”, in realta false

; quant’altre mai. E poi per il loro linguaggio: che non é pit quello aulico e letterario di un tempo, o almeno non lo é spesso, e viene accostandosi sempre piu ai modi diretti della lingua parlata Tl varieta

Poco prima della guerra al café chantant comincio a subentrare il

“teatro delle varieta”, che avra una grossa fortuna in epoca fascista e diventera il pid serio concorrente della popolarissima operetta, fino addirittura a soppiantarla, intorno al 1932, nei favori del pubblico. I futuristi, che vi vedono lo strumento col quale scalzare dalle fondamenta un teatro decadente e borghese, lo esaltano e sostengono di volerlo trasformare in «teatro dello stupore, del record, della fisicofollia», affidandogli il compito di provocare e dissacrare tutto quanto é accusato di passatismo. Nel Manifesto del Teatro di Varieta, apparso in «Lacerba» del 1° ottobre del 1913 e ripreso sul «Daily Mail» nel novembre dello stesso anno, si afferma: «I] Teatro di Varieta é oggi il crogiuolo in cui ribollo-

no gli elementi di una sensibilita nuova che si prepara. Vi si trova la scomposizione ironica di tutti i prototipi sciupati del Bello, del Grande, del Solenne, del Religioso, del Feroce, del Seducente e

dello Spaventevole e anche l’elaborazione astratta dei nuovi prototipi che a questi succederanno».? Molte chanteuses vennero presto dimenticate; altre, le migliori, Sopravvissero e si adeguarono alla nuova situazione. E il caso di Elvira Donnarumma, la pill grande interprete, assieme a Gennaro Pasquariello, della canzone napoletana (trionfarono fino a verso il 1930), e di Gilda Mignonette (pseudonimo di Griselda Andreatini), artista grande, passionale, incisiva nella dizione e 3 Sui manifesti futuristi rimandiamo in particolare al volume di F.T. Marinetti, Teo

ria e invenzione futurista, Mondadori, Milano 1990.

46

negli accenti, paragonabile alle grandi blues-singers di New Orleans. Altre ancora soprawvissero grazie alle protezioni di cui godevano.

Il centro del teatro di varieta fu inizialmente Napoli e napole tani furono anche i pit prestigiosi periodici che si specializzarono in questo campo: da «La scena» al «Café chantant», mensile fondato nel 1896 che continud a uscire fino agli anni Trenta. Un altro giornale del genere, di tono elevato, fu «L’Eldorado», fon-

dato e diretto dai napoletani Nobile, padre e figlio. «L’Eldorado» vantava firme di prim’ordine e, un giorno, trasferi la sede da

Napoli a Milano, dove si pubblicavano da tempo «La canzonetta» e «Il risveglio». Questi periodici largamente diffusi contene vano illustrazioni e notizie, con elenchi e indirizzi degli artisti. A essi si affiancarono presto il «Programma» di Genova e lo «Zanetto» di Bologna. In un numero di «Café chantant» del 1926 si tenta una ricostruzione a grandi linee della storia del caffé concerto: «Del vecchio e glorioso caffé concerto nulla € sopravvissuto, il tempo ha cancellato ogni orma della serena semplicita che caratterizzava le trattative degli affari, ’armonia fra datori di lavoro e artisti, la colleganza che univa la famiglia, gloria e fasto delle prime canore

battaglie [...]. Sotto impetuosi fasci di luce brillano alle ribalte d’oggi stelle e semistelle, dive e divette cariche d’ori e orpelli, abbondantemente bistrato il cerchio degli occhi vagabondi, fragili corpi avvolti nella vaporosita delle sete multicolori e belle testoline che sacrificate ai capricci della moda burlona, con la ostentazione della parigina garconne, sembrano vergognarsi di non possedere pit il suggestivo casco di capelli comuni disposti dalla natura con un mirabile senso d’estetica sulla testa della nostra prima madre Eva. Alla conquista delle scene italiane scesero i gruppi di nuove falene assetate di fiori e d’applausi, bellezze plastiche d’orizzonti lontani, nudi accentuati, fragranze di rosee carni, profumate d’aromi inebrianti e d’essenze floreali esotiche, ricchi guardaroba di danze e canti ove il geniale e il grottesco risaltano senza tregua accanto alla linea scultorea leg-

germente sfiorata di lascivia [...]. Col trionfo dell’artista donna,

l’altro sesso fu votato a un notevole ribasso sul mercato teatrale; 47

cid non impedi un aumento di pseudo cantanti illusi e disillusi a un tempo, quando il pubblico gettava loro in faccia il guanto della propria esigenza». Ma l’era del caffé concerto, e poi del varieta, generd anche artisti maschi di notevole livello. Uno é stato gia citato: Gennaro Pasquariello, che, nato a Napoli 1’8 settembre 1869, comincid ad affermarsi ai tempi dell’apertura del Salone Margherita. Un altro € Alfredo Bambi, soprannominato il “comico dei gilé” (ne aveva un centinaio di tutte le fogge e colori), il quale, con la sua vocina chioccia e il gestire garbato e cerimonioso, dava a intendere, nell’eseguire le sue macchiette, di divertirsi quanto gli ascoltatori. Popolarissima diventO Er fattaccio: Quello che ha pubbricato «Er Messaggero» sopra er fattaccio a Vicolo der Moro sor delegato mio... é tutto verol... Ricordiamo poi Luciano Molinari, raffinato e signorile, frequentato e apprezzato sia da Guido da Verona che da Marinetti. Un altro, e dei pil importanti, é indubbiamente Nicola Maldacea, formatosi alla scuola di Carmelo Marroccelli in Vico Nilo.

Anch’egli napoletano (era nato il 29 ottobre del 1870), fu il mat- tatore incontrastato del Salone Margherita tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo; si esibi anche in duetti con le grandi

chanteuses come Eugénie Fougére, Amelia Faraone e Consuelo Hernandez, detta la “Tortajada”. Maldacea

era il tipico fine dicitore, cantante con un filo di

voce. Inventore della “macchietta” (che in realta fu ideata per lui da Ferdinando Russo), per Maldacea scrissero autori come Murolo, Galdieri e persino Trilussa. «Come il pittore, come il

disegnatore» chiari una volta «mi ripromettevo di dare al mio pubblico una impressione immediata, schizzando il tipo, renden done i tratti salienti. Da cid l’origine della parola “macchietta”, che € propria dell’arte figurativa, schizzo frettoloso, che renda

con poche pennellate un luogo o una persona» Tra le sue pit famose macchiette. ’O rusecatore, definita da Roberto Bracco «un capolavoro»; L’elegante (di Russo e Valente): 48

La sera vado al circolo il giorno a via Caracciolo, sono il conte Mammocciolo y de Cavaturacciolo...

Il collettivista (equivalente, allora, di comunista), che provocd le ire dei socialisti romani fino al divieto di esecuzione: Il tuo non é pit tuo; il mio non é pit mio; se producete voi,

debbo produrre anch’io? Avete dei risparmi? Embé, mettite cca...

Bisogna riconoscere la Collettivita!...

Il superuomo, caricatura di D’Annunzio che il poeta gradi molto e che é una chiara anticipazione di Petrolini: Io chiudo gli occhi e vedo, e nella mia visione rizzo

[l’epifenomeno dell’autosuggestione. Di grande interesse anche La cocotte intellettuale, scritta da Trilussa, ricca di doppi sensi: «Mah — dice la cocotte — facciamoci un frego! Mah, facciamoci un casso», ma anche di gozzaniana ironia: E quali dolcezze, e quali frenesie, come eravamo matti tutti e due, tu mi parlavi delle cose tue,

io ti parlavo delle cose mie. Una menzione a parte, naturalmente, spetta infine a Raffaele Viviani, anche se il suo nome fa parte di diritto della nostra storia teatrale (per Viviani il teatro era tutto, specchio completo della vita e dell’arte, parola e gesto, musica e canzone), piuttosto che di quella, molto pit circoscritta, del varieta. Viviani nacque

il 10 gennaio del 1888 a Castellammare di Stabia. Gia a cinque anni cantava in fracchettino di velluto grigio per sostituire l’am49

malato Carlo Ciofi al Masaniello di Porta Capuana e a sette duettava con la sorella Luisella, pit grande di lui di tre anni. Diciottenne ebbe un contratto dal Teatro Petrella, onorato con il

successo di ’O scugnizzo, la macchietta sociale di Capurro e Buongiovanni.

E macchiette, ma senza pretese, furono le sue

prime composizioni, nel 1906. Ben altro spessore, solo qualche anno pit tardi, avranno i suoi canti della malavita, che contribuiranno a precisare il suo stile. I

guappi li aveva conosciuti all’Arena Olimpia. «Li descrive né carnefici né eroi, con le loro debolezze e la meschinita delle loro

smargiassate», comprendendo che «il costume camorristico é anche conseguenza di arbitrii subiti, angherie sopportate, e anche, sovente, di ipocrisie imposte dall’alto».* E proprio in brani di questo periodo — ’O mariunciello (1910), 'O guappo ’nnamurato (1910), Ribellione (1912) —, insieme crudi e dolenti (dove anche il dialetto, non essendo pit quello letterario di Di Giacomo ma quello vero dei vicoli, assolve a una funzione di rottura), che emerge con forza l’arte di Viviani, quell’arte che il regime fascista apertamente osteggid, almeno fino a quando non si stemperera anch’essa, per quieto vivere, nel folclorismo di maniera. E il caso, per esempio, de La rumba degli scugnizzi (1931), di stridente musicalita: Chesta é ’a rumba d’ ’e scugnizze,

ca s’‘abballa a tutte pizze. Truove ’e dame ’mpizze ’mpizze ca te fanno duie carizze...

Fino al 1917 Raffaele Viviani calpestd i palcoscenici del varieta. Quel suo straordinario repertorio piaceva. Nel 1911 i futuristi di Marinetti, radunati a Napoli, avevano applaudito solo lui e lo scultore Gemito, anche se si era trattato, con ogni probabilita, di un madornale equivoco ideologico.

4 Lo sottolineano efficacemente Gargano e Cesarini nel loro libro sulla canzone napoletana, op. cit., p. 135. 50

L’operetta Un altro genere di spettacolo assai importante per la storia della canzone fu in quegli anni l’operetta. La Belle époque si potrebbe anzi far nascere proprio con le prime operette firmate da Jacques Offenbach in quella Parigi che lo aveva adottato per farne il geniale traduttore della sua voglia di satireggiare in musica. Nato a Colonia nel 1819, Offenbach si trasferi, con il suo vio-

loncello, nella capitale francese a quattordici anni e dopo aver studiato per breve tempo al Conservatorio preferi agli studi accademici un posto nell’Orchestra dell’?Opéra-Comique. Valzer, polke, mazurke trovano in lui uno slancio diverso, diventando

colonna sonora di un ghigno satireggiante destinato a conquistare la Francia. La sua fortuna procede a ritmo di galoppo tanto che nel 1855 riesce ad aprire un teatro: Les Bouffes-Parisiens, inaugurato con l’operetta in un atto Les deux aveugles. E qui che la sua genialita esplode consacrandolo per sempre tra i protago-

nisti della storia musicale il 21 ottobre 1858 quando presenta Orfeo all’inferno, autentico trionfo dell’ironia in musica. In Italia si possono osservare con estrema chiarezza i tentativi di incontro tra il nostro pubblico e l’operetta francese, tentativi che si realizzano nei teatri delle due citta geograficamente e storicamente pil vicine al gusto parigino: Genova e Roma. Le cronache genovesi gia nel 1869 parlano della Compagnia francese dei fratelli Grégoire, i quali hanno in cartellone tre operette di Offenbach: La Grand-Duchesse de Gérolstein (1867), La belle Héléne (1864), Jeanne qui pleure et Jean qui rit (1865), oltre a Fleur de the di Charles André Lecocq. Sara sempre Genova, nel 1873, a presentare la prima edizione italiana di un’altra fortunatissima operetta di Lecocq, poi replicata in quasi tutte le stagioni teatrali fino al 1931: La figlia di Madame Angot (1872). Nel 1870 ancora Genova aveva proposto L’oeil crevé (1867) e Petit Faust (1869) di Florimond Roger, in arte Hervé, nato a Houdain nel 1825 e morto a Parigi nel 1892, autore tra l’altro dell’eccellente Ma ’zelle Nitouche (1883), nota in Italia come Santarellina. La vedova allegra di Franz Lehar deve fare invece un po’ di anticamera: scritta nel 1905 approda a Genova solo nel 1908. 51

Anche Roma tira la volata all’operetta francese che trova spazi, faticosi e tribolati, con scarso successo di pubblico, anche al

Costanzi, |’attuale Teatro dell’Opera, dove gia nel 1883 la com pagnia di G. Tani presenta Camargo di Lecocq. Offenbach, invece, arriva al Costanzi solo nel 1898 con Barbableu.

Nella provincia le cose vanno diversamente. Trieste, a diventare la gran via dell’operetta viennese e che é capitale italiana della “piccola lirica”, ha con questo spettacolo un primo approccio rovinoso. Stando alle

destinata tuttora la genere di cronache

locali, il Politeama Rossetti, dal 1880 al 1885, non fa che colle-

zionare fiaschi per ogni operetta programmata. A rompere il ghiaccio é ancora una volta una compagnia francese che, nel 1892, presenta Ma ’zelle Nitouche di Hervé. Vediamo ora i grandi nomi dell’operetta italiana: uno di questi, senza alcun dubbio, é Mario Costa, nato a Taranto nel luglio del 1858, l’autore di Era de maggio, di Serenata napulitana, di

Catari e di quell’autentico capolavoro che é la pantomima Histoire d’un Pierrot, presentata nel 1893 al Teatro Dejazet di Parigi e divenuta popolarissima in tutto il mondo. Un altro é Giuseppe Pietri, nato a Sant’Ilario nell’isola d’Elba il 6 maggio 1886. Musicd la celeberrima Addio Giovinezza (1915) su testo di Sandro Camasio e di Nino Oxilia, che venne presentata in quell’anno prima al Goldoni di Livorno, poi al Dia_na di Milano. Pit tardi, nel 1920, compose le musiche di Acqua cheta, tre atti in dialetto fiorentino di Augusto

Novelli, che

debuttd al Teatro Nazionale di Roma. Altri due grandi dell’operetta italiana sono Carlo Lombardo e Virgilio Ranzato, autori di Cin Ci La, Il paese dei campanelli, Cri Cri (rispettivamente del 1925, del 1923 e del 1928). Ranzato era nato a Venezia il 17 maggio del 1882, Lombardo,

invece, era

napoletano. I] famoso Paese dei campanelli debutt6 al Lirico di Milano il 23 novembre del 1923 e fu tenuto a battesimo da Nella Regini, affiancata dal tenore Ferrini e dai comici Trucchi e Leoni. Fu un trionfo di tali proporzioni che Ranzato e gli interpreti furono chiamati alla ribalta ben quindici volte. Gea della Garisenda, Ines Lidelba, Emma Vecla, affascinante

“vedova allegra”, furono invece le pit’ acclamate interpreti del52

operetta italiana, un genere che celebrera in Italia i suoi ultimi fasti attorno al 1930. Oggi — come detto — la capitale italiana dell’operetta é Trieste, dove ogni anno é in programma una stagione al Teatro Verdi e al Castello di San Giusto si svolge un festival dedicato alla “piccola lirica”.

La nascita della fonografia Ma il fatto che senza dubbio contribui in modo determinante al definitivo decollo della canzone italiana di gusto moderno fu senza dubbio la nascita della fonografia.

Era la calda estate del 1877 quando il trentenne americano Thomas Alva Edison, dopo aver inventato e messo a punto il telegrafo e prima di dedicarsi agli esperimenti sulla luce elettrica, scopri per caso il sistema di registrazione della voce umana e di qualsiasi altro suono. Vi era giunto pil o meno contemporaneamente al francese Charles Cros. Emile Berliner, un giovane tedesco emigrato in America, fu il primo a incidere la propria

voce non pit su un cilindro di cera, ma su un disco piatto (il brevetto di Berliner é del 26 settembre 1887). Il 23 novembre 1889, a San Francisco, Louis Glass installo al

Palais Royal quello che sembra sia stato il primo fonografo pubblico a pagamento della storia. Era una macchina con quattro tubi per l’ascolto e altrettante fessure in cui inserire delle monete da venti centesimi. Ebbe tanto successo che nel 1891, alla seconda National Phonographic Convention, che riuni gli avventurosi

americani che si erano dedicati al nuovo e ancora incerto business della riproduzione dei suoni, Glass poté trionfalmente annunciare che |’applicazione dell’invenzione di Edison era la sua principale fonte di guadagno. Gia dall’anno prima, a New York, era nata con un capitale di un milione di dollari la Auto-

matic Phonograph Exhibition Company, con lo scopo di produrre fonografi a gettone da noleggiare su tutto il territorio nazionale. Nel 1897 l’industria fonografica era ormai all’apice della sua popolarita in Europa e nel mondo. Intanto nel 1890 la Columbia 33:

aveva messo in vendita le prime macchine parlanti complete di cilindri gia incisi e pronti per l’ascolto.

Compiuta la sua funzione pionieristica la fortuna della fonografia comincid a declinare; nei primi due decenni del nostro secolo venne il momento del disco, che sostitui il cilindro, e del

l’economico grammofono a molla: essi portarono la musica nelle case di milioni di famiglie. Le prime incisioni della Fonit sono del 1911, mentre nel 1912 nasce a Milano la Societa Nazionale del

Grammofono. Fu esattamente nel 1913 che si chiuse definitivamente |’epoca del cilindro. Fino al 1913 le case produttrici di grammofoni furono solamente tre, nel 1916 diventarono quarantasei. Nel 1921 furono stampati oltre 100 milioni di dischi di jazz! Chi in Italia si adattO perfettamente alle nuove tecniche di registrazione del suono fu Berardo Cantalamessa, napoletano,

attivissimo tra il 1895 e il 1907. Protagonista degli inizi del café

chantant, si distinse per la sua eleganza (amava indossare un frac rosso su pantaloni di raso nero), per la sua signorilita (fu sempre alieno dai doppi sensi e dai trucchi volgari) e per le sue capacita di interprete (era sempre disinvolto e raffinato nel porgere, cantava con voce da baritono e falsetto femminile, fischiava con vir-

tuosismo). Specialista nel genere comico, fu uno dei primi esecutori di duetti, esibendosi con le pit: famose sciantose dell’epoca, dalla Faraone alla Sampieri, dalla Persico alla D’Avigny, rimasta a lui legata per oltre un decennio. E passato alla storia per una delle sue prime incisioni, ’A risa (La risata), composta nel 1895. E con giusta ragione. A Napoli erano esposti in quel periodo i

primi fonografi, recentissima invenzione. Per udire la voce umana bisognava accostare all’orecchio una specie di pera di cauccit che era in comunicazione con altri cilindri di gomma. A questi ultimi era applicata la macchina riproducente i suoni. La maggiore attrattiva era costituita da una canzonetta in inglese, curiosa fatica di un artista nero del Nord America. Quel cantante rideva a suon di musica, e la sua risata era cosi spontanea e divertente che si era invitati senz’altro a imitarlo. Cantalamessa ebbe la geniale idea di riadattarla con l’aiuto di un maestro di musica. Nacque cosi una canzone che ancor oggi si ricorda (la cita anche Visconti in Morte a Venezia) e che, con la sua contagiosa alle54

gria, spazzo via definitivamente un passato fatto di retorica e di intonazioni melodrammatiche: De tutto rido e che nce pozzo fa! Ah, ah, ah, ah!

Nun me ne ’mporta si stongo a sbaglia! Ah, ah, ah, ahl...

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III

Canti patriottici e canti politic!

Per tutto l’Ottocento e poi ancora nei primi anni del nostro seco lo, fino allo scoppio della Grande Guerra, un ruolo assai impor tante, come é facile immaginare, hanno i canti patriottici e politici in genere. Per i primi, basti pensare al Canto degli italiani (1847) di Novaro e Mameli, divenuto pit tardi l’inno nazionale, cantato per la prima volta durante i moti di Genova, probabilmente i] 9 novem

bre del 1847, Fratelli d’Italia V'Ttalia s’é desta;

dell’elmo di Scipio s’é cinta la testa. Dov’eé la vittoria? Le porga la chioma,

che schiava di Roma Iddio la creo. Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte, Italia chiamo. Noi fummo da secoli calpesti e derisi,

perché non siam popolo. perché siam divisi.

Raccolgaci un’unica bandiera, una speme =i!

di fonderci insieme gia l’ora suono... oall’ Inno a Giuseppe Garibaldi, composto da Luigi Mercantini e musicato da Alessio Olivieri, capobanda della Brigata Savoia, Si scopron le tombe, si levano i morti i martiri nostri son tutti risorti;

le spade nel pugno, gli allori alle chiome, la fiamma ed il nome d'Italia nel cor...

o ad Addio mia bella addio (ovvero La partenza del soldato), la «pid popolare gentile canzone che sia stata scritta e cantata da coloro che combatterono le guerre dell’ Indipendenza dal 1848 al 1878», scrive il Gori nel suo Canzoniere nazionale,' Addio, mia bella, addio, V'armata se ne va,

e se non partissi anch’io sarebbe una vilta. Il sacco e le pistole, il fucile io Pho con me;

allo spuntar del sole io partiro da te...

0, in epoca pit tarda, al vigoroso Inno a Oberdan (1882) dedicato all’eroe irredentista Guglielmo Oberdan, che aveva attentato senza successo alla vita di Francesco Giuseppe (“Franz”) ed era stato impiccato: Morte a Franz, viva Oberdan! Morte a Franz, viva Oberdan! Le bombe, le bombe all’ Orsini,

il pugnale, il pugnale alla mano; a morte l’austriaco sovrano,

noi vogliamo la libertad... ' I versi sono stati attribuiti al Mercantini e poi al Poerio, ma sono in realta di Carlo

Bosi, avvocato fiorentino conosciuto anche con lo pseudonimo di “Basocrilo fiorentino”. 58

Tra i canti politici, numerosissimi e consegnati per lo pid ai fogli volanti dei cantastorie, si pud citare l’Addio a Lugano, scritta in carcere nel 1894 dall’anarchico Pietro Gori prima di essere espulso anche dalla Svizzera: Addio, Lugano bella, o dolce terra pia, scacciati senza colpa gli anarchici van via e partono cantando

colla speranza in cor. Ed é per voi sfruttati, per voi lavoratori che siamo ammanettati al par dei malfattori; eppur la nostra idea non é che idea d’amor... Sempre di Pietro Gori e sempre del 1894 é Sante Caserio, probabilmente su musica di A. Capponi, dedicata all’anarchico lombardo che il 24 giugno 1894 a Lione aveva ucciso con una pugnalata al petto il presidente della Repubblica francese Sadi Carnot e, condannato a morte, era stato ghigliottinato il 16 agosto di quell’anno (va pero detto che forse, su quest’episodio, la ballata pid bella é quella di Pietro Cini, Le ultime ore e la decapitazione di Sante Caserio, che @ anche una delle pit tipiche arie da cantastorie). Per non parlare dell’Inno dei lavoratori (1886), scritto dall’ancor giovane e poco conosciuto Filippo Turati su musica di Amintore Galli ed eseguito per la prima volta a Milano il 28 marzo di quell’anno nella festa proletaria del Partito operaio italiano,

Su fratelli, su compagne, su venite in fitta schiera,

sulla libera bandiera splende il sol dell’avvenir. Nelle pene e nell’insulto ci stringemmo in mutuo patto 59

la gran causa del riscatto niun di noi vorra tradir. Il riscatto del lavoro

de’ suoi figli opra sara o vivremo del lavoro

O pugnando si morra... e di Bandiera rossa, senz’altro la pit famosa canzone del movimento operaio, scritta da Carlo Tuzzi su una musica che secondo Roberto Leydi deriverebbe dalla fusione di due arie probabilmente lombarde. La strofa sarebbe stata coniata su un’aria che dice: Ciapa on saa, pica la porta o bruta porca, vien gio de bass.. mentre il ritornello deriverebbe da un motivo sul quale si cantava: Ven ven ven ven

chi Nineta chi Nineta chi Nineta chi Nineta

sotto l’ombrelin sotto l’ombrelin sotto !ombrelin te daro on basin.

In tutti questi canti la patina letteraria é fortissima, e se cid é pit che comprensibile per i canti patriottici, lo é meno per quelli anarchici e socialisti nei quali, in contrasto con l’incitamento alla ribellione verso l’ideologia borghese, sopravvive la forma retorica e melodrammatica tipica di quella stessa ideologia. V1 sono pero delle eccezioni. Esse riguardano in particolare quei canti nati direttamente dal popolo che segnarono il periodo delle grandi lotte per il lavoro degli inizi del nostro secolo. Si pensi, per esempio, a Le otto ore, assai diffusa in tutto l’arco

padano-mantovano-emiliano e risalente con tutta probabilita al 1906, anno in cui il deputato socialista Modesto Cugnolio presento in Parlamento un progetto di legge per la concessione delle otto ore lavorative (il riferimento alla Russia sarebbe in tal caso da intendersi in rapporto alla rivoluzione del 1905). Se la musica presenta notevoli somiglianze con quella della canzone risorgi60

mentale La bandiera tricolore, il testo & invece immediato e diretto:

Se otto ore vi sembran poche, provate voi a lavorar e troverete la differenza di lavorar e di comandar...

Identico discorso per Gli scariolanti, un canto legato alle grandi opere di bonifica sviluppatesi a partire dal 1880 nelle zone costiere del Ferrarese e della Romagna, opere che impiegarono migliaia e migliaia di braccianti in un lavoro durissimo e che in mezzo secolo trasformarono il paesaggio agricolo e la realta economica di tutta la regione: A mezzanotte in punto Sl sente un gran rumore: sono gli scariolanti leri lera che vanno a lavorar. Volta, rivolta e torna a rivoltar;

noi siam gli scariolanti leri lera che vanno a lavorar... L’arruolamento degli scariolanti avveniva settimanalmente. I “caporali” suonavano un corno alla mezzanotte della domenica, il segnale per chi voleva avere il lavoro di mettersi in cammino verso gli argini. Lo ottenevano tutti quelli che, portandosi dietro la loro carriola (da qui il nome di scariolanti), arrivavano per primi. Un discorso a parte meritano i canti dell’emigrazione. I primi fenomeni migratori risalgono al Sei-Settecento quando, in molte regioni agricole dell’Italia centro-meridionale, le misere condizioni di vita e la malaria sempre incombente indussero vasti strati della popolazione a seguire i sentieri della transumanza. A questo periodo verosimilmente dovrebbe risalire, per esem-

pio, Maremma, Tutti mi dicon Maremma Maremma 61

ma a me mi pare una Maremma

amara..

il notissimo “rispetto” dato per la prima volta alle stampe da Elisabetta Oddone-Sulli-Rao, mezzosoprano e collaboratrice del musicologo e compositore futurista Francesco Balilla Pratella e riproposto, in epoca recente, da Caterina Bueno.

La grande ondata migratoria, un vero e proprio esodo biblico, si ebbe, perd, solo alla fine del secolo scorso. Furono pit di quattro milioni gli italiani che si diressero allora nei soli Stati Uniti d’America:

di essi, circa un terzo si stabili

a New York, che

divenne cosi la pit grande citta italiana, una piccola Italia, la Little Italy. Sta di fatto che tra il 1880 e il 1920 ben venti milioni di italiani, per lo pit meridionali, muniti del famoso passaporto rosso, si imbarcarono per le lontane Americhe dal porto di Napoli. Questi canti (da Trenta giorni di nave a vapore a Mamma mia dammi cento lire che nell’America voglio andar!) Mamma

mia dammi cento lire

perché nell’America voglio andar. «Cento lire te le do ma nell’America no, no, no.»... sono tutti, pur nel loro risvolto dolente, di una freschezza e di una immediatezza, anche linguistica, straordinarie. Queste caratteristiche le ritroviamo anche nei canti dell’emi-

grazione a carattere pil propriamente politico. E il caso, per esempio, degli stornelli di /talia bella mostrati gentile, raccolti da Caterina Bueno nel Casentino nel 1965, nei quali non c’é davve-

ro pil traccia di toni melodrammatici e di retorica risorgimentale:

Il secolo presente qui ci lascia il millenovecento s’avvicina la fame ci han dipinta sulla faccia e per guarirla ’un c’é la medicina...

62

Le canzoni della Grande Guerra Di retorica risorgimentale, invece, sono nuovamente

imbevuti

-molti dei canti della Grande Guerra. Ne é un classico esempio La leggenda del Piave, scritta di getto da E.A. Mario (pseudonimo di Giovanni Gaeta, autore in un cinquantennio di attivita artistica di non meno di duemila canzoni) nella notte del 23 giugno 1918, cantata per la prima volta al Rossini di Napoli dalla bruna, giunonica Gina de Chamery e portata definitivamente al vi successo da Gabré: Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il ventiquattro maggio. L’esercito marciava per raggiunger la frontiera, per far contro il nemico una barriera... Muti passaron quella notte i fanti, tacere bisognava e andare avanti. S’udiva intanto dalle amate sponde, sommesso e lieve il tripudiar dell’onde; era un presagio dolce e lusinghiero, il Piave mormoro: non passa lo straniero!... In essa espressioni come

“tripudiar”, “notte trista”, “onta”,

“piano aprico”, sono all’ordine del giorno. E cosi é per quasi tutti gli altri canti, molti dei quali recano ancora la firma del

_prolifico autore napoletano: da Verso la frontiera a Il general Cantore, da Mandolinisti

a La madre di Sauro.

Una delle poche eccezioni é costituita da ’O surdato ’nnamurato (1915) di Cannio e Califano, una toccante canzone-marcia che riesce a esprimere efficacemente la rabbia e la malinconia dei

soldati al fronte e che Anna Magnani interpreto in modo insuperabile:? Staje luntana da ’stu core e a te volo cu’ ’o penziero: niente voglio e niente spero 2 Nel film per la televisione La sciantosa, del 1971, di Alfredo Giannetti. 63

ca tenerte sempe affianco a me! Si’ sicura ’e chist'ammore commi i’ so’ sicuro ’e te... Oje vita, oje vita mia,

oje core ’e chistu core, ‘si’ stata 0’ primm’ammore,

’o primmo e ll'ultimo sarraie pe’ me!.. Ma la vera testimonianza di cosa fu quell’atroce conflitto é racchiusa anche in questo caso nei canti nati spontaneamente nei campi di battaglia. Li la parola d’ordine — rimasta poi famosa — era una soltanto: «Canta che ti passa!». Un “foglio volante” cosi catechizzava i combattenti: Hai freddo, hai fame? Canta che ti passa! Senti la nostalgia del tuo paese, della tua casa, della tua mamma? Canta che ti

passa! .. Senti la febbre per l'azione che dovra cominciare e nella quale ti butterai a capofitto, senza speranza di conservarti la vita? Canta che ti passa! Senti la noia sfibrante degli ozi, della lunga vigile attesa? Canta che ti passa!

E i soldati — come ricordano nella loro bella raccolta di canti della grande guerra Michele Straniero e Virgilio Savona? — cantavano.accorate villotte friulane, cantilene venete o lombarde, ballate piemontesi, stornelli toscani, nenie meridionali. O rifacimenti di canzoni in voga, come la citata ’O surdato ’nnamurato,

in cui le parole del famoso ritornello venivano sostituite con: Addio cuccagna, addio, addio sogni beati...

Oppure cantavano antichi brani popolari come I] ventinove luglio e Era bella come gli orienti. E rielaboravano, tra gli innumerevoli canti che avevano portato dai loro paesi d’origine, brani come L’aibella (cioé La bella la va al fosso), Se ti viene il mal di pancia, Di qua di la dal Piave. O ancora davano vita a canti di rassegnazione e di dolore, che sono, tra tutti, il gruppo pid folto. 3 Virgilio Savona — Michele L. Straniero, Canti della Grande Guerra, Garzanti, Milano

64

1981.

Facciamo degli esempi. Ta-pum, non a caso scelto emblematicamente da Salsa, Piccinelli e Bazzi come titolo di una loro sug-

gestiva raccolta di canzoni di guerra. La sua origine pare risalga a un canto di minatori nato tra il 1872 e il 1880 durante i lavori di scavo

della Galleria

del San Gottardo.

Allora,

ovviamente,

Ponomatopeico “ta-pum” serviva a imitare lo scoppio delle mine. Nella versione di guerra, nata probabilmente attorno al giugno del 1917, quando fu conquistato il Monte Ortigara Venti giorni sull’Ortigara senza cambio per dismonta... lo stesso “ta-pum” imita invece il colpo di un’arma da fuoco seguito dall’eco nella valle. O Dio del cielo (s’io fossi una rondinella), un canto dall’andamento largo, maestoso, di grande suggestione, che richiama alla mente per certi versi la densa espressivita dei cori verdiani. Regazzine, vi prego ascoltare, rifacimento di un canto lombardo di antica origine* che esprime il dolore della fidanzata del soldato che, «innocente», € morto sul Piave «non avendo compiuto i vent’anni». Addio padre e madre addio, su una tipica aria da cantastorie, che Roberto Leydi ha raccolto sul campo in pit d’una versione nelle province di Novara, Bergamo, Mantova, Padova, Reggio Emilia e Modena. Monte Nero, la cui prima versione fu scritta su uno spiegazzato foglio di carta a quadretti (il che rimanda agli esempi illustri di un Jahier o di un Ungaretti) dall’alpino Domenico Borella subito dopo l’azione. La tradotta che parte da Torino, derivata da un antico modello in uso tra i minatori del bresciano trasformato e diffuso dai nostri soldati. Infine sono da menzionare i canti di vera e propria protesta, che sono anche i pit belli, oltre che i pit consapevoli. Tra questi spicca la stupenda O Gorizia tu sei maledetta, che affonda le radici in moduli di estrazione popolare risalenti almeno al 1911-12. Roberto Leydi nota infatti che una strofa simile alla seconda di 4 Fu raccolto da R. Schwammenthal a Cologno al Serio (Bergamo) nel 1966 dalle voci di Palma e Maria Facchetti e di Sperandio Carrara. 65

O Gorizia si trova anche in un’altra composizione, cantata al tempo della guerra di Libia e riportata sul foglio volante // canto di un eroe ferito ovvero lo squillo della vittoria di Guido Longianni (Tip. Ducci, Firenze 1912):

La mattina del cinque d’agosto si muovevano le truppe italiane per Gorizia, le terre lontane,

e dolente ognun si parti. Sotto l'acqua che cadeva al rovescio grandinavano le palle nemiche; su quei monti, colline e gran valli si moriva dicendo cosi: «O Gorizia tu sei maledetta per ogni cuore che sente coscienza!». Dolorosa ci fu la partenza

e il ritorno per molti non fu... O Gorizia annovera anche un’importante variante: Traditori signori ufficiali che la guerra l’avete voluta, scannatori di carne venduta

e rovina della gioventi. Si tratta di una strofetta raccolta da Emilio

Jona e Sergio Libe-

rovici a Buzzoletto, nel mantovano, e registrata da Margot nei

Canti di protesta del popolo italiano. Riguardo al contenuto, la ballata si riferisce alla battaglia di Gorizia (9-10 agosto 1916), che costo la vita, secondo stime ufficiali, ad almeno 50.000 solda-

ti di parte italiana e a 40.000 soldati di parte austriaca. Molto bella é anche Fuoco e mitragliatrici, che & concepita come un lungo, doloroso lamento, quasi una tragica cantilena.

La sua melodia riprende apertamente quella di una canzone napoletana di Libero Bovio ed Ernesto De Curtis pubblicata nel 1913 con il titolo di Sona, chitarra! E probabile che la canzone sia nata tra la fine del 1915 e l’inizio del 1916, ma forse anche

prima. La «trincea di raggi» menzionata nel testo é probabilmen66

te la famosa trincea dei Razzi, la cui conquista costo alla Brigata Sassari la morte di circa due terzi dei suoi componenti. Rimarchevole é, infine, La tradotta che parte da Novara (rifacimento della citata Tradotta che parte da Torino), assai diffusa

in Emilia ed entrata stabilmente nel repertorio delle mondariso. Era, infatti, uno dei canti prediletti da Giovanna Daffini:

La tradotta che parte da Novara e va diretta al Montesanto,

e va diretta al Montesanto, il cimitero della gioventu. Sulle montagne fa molto freddo ed i miei piedi si son gelati, ed i miei piedi si son gelati e all’ospedale mi tocca andar... Tutte queste canzoni — come anche 1 diari dei soldati 0 le lettere raccolte dallo Spitzer e dall’?Omodeo — testimoniano di quel passaggio dall’italiano aulico o dai dialetti all’italiano popolare unitario (ricco di regionalismi e gergalismi ma non regionale) che la guerra favori e acceler straordinariamente. Questa constatazione, che si ricava da un/’attenta lettura dei

canti delle trincee (canti che Cesare Caravaglios’ pubblicd per primo nel 1930), é confermata anche dall’ascolto di quelle canzo-

ni di spiccata impronta nazionalistica immediatamente successive alla fine del conflitto. Si prendano come esempio le “strofette” degli arditi della Grande Guerra, strofette che generalmente iniziano con le ormai proverbiali parole «se non ci conoscete». Ne esistevano a centinaia. I versi esaltavano lo sprezzo del pericolo, l’efficienza dei reparti, la determinazione e la prontezza nell’azione, la superiorita nei confronti degli altri corpi e del nemico. La musica proveniva, con

moltissime

varianti,

da un

modulo

risalente

al famoso

posteggiatore romanesco Pietro Capanni, detto “er sor Capan-

5 Cesare Caravaglios, I canti delle trincee, a cura del Ministero della Guerra, Roma

1934. 67

na”, di cui nel Lazio si ricorda ancora una strofa con riferimento

a Francesco Giuseppe, imperatore d’ Austria: Bombacé, aritirate Cecco Pé!

La stessa melodia veniva cantata dai nostri soldati, sempre nel corso della guerra 1915-’18, con intenzioni di protesta o di scher-

no. Famose, per esempio, le strofette contro il generale Cadorna:

Il General Cadorna ha scritto alla Regina: se vuol veder Trieste te la mando in cartolina. Bim bim bom al rombo del cannonl!...

Queste strofette sono un chiaro esempio delle profonde trasformazioni linguistiche nel frattempo intervenute. Per maggior chiarezza tenterO una comparazione tra due testi che trattano dello stesso argomento, |’avventura fiumana di Gabriele D’An-

nunzio. Il primo (parole di Cuniolo Volfango “Genova”, musica di Ettore Benda) si intitola I] gesto di D’Annunzio, ed é tratto da un foglietto volante vergato a mano e riprodotto a Trieste nel gennaio del 1920 (prima del titolo reca la dedica: «Al pid puro esempio di fulgida italianita / gli autori ammirandi»). Il secondo é, invece, l’Inno delle truppe fiumane, che veniva cantato presumibilmente sull’aria delle solite strofette degli arditi. Nel primo il gesto del “poeta soldato” viene commentato secondo i piu vieti modi della retorica ottocentesca: Era alba! Un manipol d’eroi,

salutava i fratelli di Fiume! «Viva Fiume, che i palpiti suoi, alla Madre, fedele serbo!...» Nel secondo il commento é in linea, anche dal punto di vista

linguistico, con i profondi cambiamenti che avevano scosso il clima dell’epoca: Contro la nostra forza nessuna forza vale, andremo contro tutti, financo in Quirinale!...

Ci dicon da Parigi che l’equilibrio é rotto e il nostro Comandante rispose: «Me ne fotto». Si noti questo «me ne fotto» posto a chiusura dell’inno, anticipazione evidente del successivo «me ne frego». Migliore conferma, anche sul piano linguistico, del legame di parentela esistente tra Pavventura fiumana e l’insorgente fascismo non si sarebbe potuta trovare.

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L’era del ballo

In questo processo dominato ormai da forze che dal centro irradiano modelli linguistici alla periferia — fatto di grande importanza se si pensa che nel 1861 oltre il 78% della popolazione era analfabeta e gli italofoni erano solamente 600.000 su 25 milioni: il 2,5% della popolazione! —, un posto di grande rilievo, come gia abbiamo

detto, deve essere

assegnato

alla nascente

industria

discografica. L’era del disco ha inizio nel 1913. Gia nel 1925 viene messa a punto la registrazione elettrica con microfono e amplificazione.

Nel giugno di quello stesso anno la Columbia realizza il primo disco a registrazione elettrica. Le sue caratteristiche sono: 78 giri, incisione “laterale” e partenza dall’esterno. Attorno alla fine degli anni Venti, a Milano, nasce anche I’editoria musicale

(Suvini e Zerboni, Bixio, Monzino e Garlandini e un po’ pil tardi le multinazionali). In questo clima profondamente mutato esplose anche la febbre del ballo, le cui prime avvisaglie si erano avute nel 1905, anno dell’improvvisa quanto perentoria affermazione del cakewalk. «Doniamo la focaccia (cake) al vincitore della marcia (walk)» era un ballo che si svolgeva su un movimento di polka sincopato. La sua figura principale consisteva nell’inarcare il corpo all’indietro, spingendo il ginocchio di una gamba avanti il pid

possibile, col piede ciondoloni e le braccia tese, Da principio fece ridere, ma poi piacque molto.

E pero intorno al 1913 che la mania del ballo comincia a diventare a dir poco ossessiva. Il 1913 é infatti l’anno dell’arrivo in 71

Europa del tango, in un’epoca in cui ogni Paese freme di febbre rinnovatrice, mentre si diffonde il gusto del proibito. Il tango, secondo le testimonianze raccolte da Borges che scrisse al riguardo anche una vera e propria storia,’ era nato tra il 1880 e il 1890 nei bordelli sudamericani. Borges ricorda l’allusivita di certi titoli originali, la lascivia delle figurazioni, |’ostracismo

decretatogli dalla buona societa argentina, mantenuto in parte anche dopo i successi parigini. Il primo tango che attraverso l’Oceano non ha un titolo esatto, ma é certo che aveva gia almeno trentacinque anni. La rubia (La bionda), musica di Ramon Coll, fu iscritto nell’albo dei diritti d’autore di Buenos Aires nel

1880, ma prima di quella data — secondo un computo eseguito dalla Biblioteca Nazionale di Buenos Aires — gia 65.000 tanghi erano stati pubblicati. I] tango é dunque un ballo tanto antico quanto duro a morire. Di sicuro c’é il fatto che la paternita del tango non é nobile: esso discende in linea diretta dall’accoppiamento del tango andaluso con il tamburo africano. Per capire come poté compiersi questo connubio bisogna risalire alla situazione dell’ America latina della seconda meta dell’Ottocento, quando i ne.: razziati in Africa

e portati nelle piantagioni come schiavi, riuscirono_ per il divertimento dei padroni e per il loro proprio sfogo, a innestare richiami culturali atavici come il candombe, un tamburo africano usato

per battere il tempo, sulla musica salottiera proveniente dalla cultura spagnola. E possibile che il tango, nato dalle improwvisazioni degli schiavi neri d’America eletti a maestri di musica nelle fazendas dei bianchi, abbia avuto un primo successo popolare nei locali d’infimo rango, dove la verve dei musicisti poteva sfogarsi pit liberamente.

E in questi locali che s’incontrano, gia sul finire del secolo scorso, i compadritos, i grandi protagonisti delle figure complesse e sensuali del tango argentino. I] compadrito non ha niente a ' Jorge Luis Borges, “Storia del tango” e “II tango litigioso”, in Evaristo Carriego, ora in Tutte le opere, Mondadori, Milano 1984, pp. 263-268. 72

che fare col gaucho; é una specie di teppista urbano che indossa abiti dai colori sgargianti, fuma come un turco, regge le sbornie, sa maneggiare il coltello e vive alle spalle di qualche donna. II compadrito &, insomma, la versione argentina del guappo e del gigolo. Il primo attributo del tango é la tristezza, «e questo perché la sua materia é il tempo che consuma e divora. Nel tango campeggia, infatti, una straziante malinconia del passato, una dolorosa

assunzione dell’irreversibilita della vita, della gioventd perduta, della decadenza».* Il verbo-chiave del tango é volver, “tornare”,

come appunto si intitola il pil grande tango che compendia la problematica del ritorno e che — caso eccezionale — lascia un pur minimo margine alla speranza. Per far accettare in Italia questa danza ci volle il benestare del Vaticano e del Papa in persona. L’operazione fu portata a termine, tra il 1912 e il 1914, dal Maestro di danza Enrico Pichetti, che

riusci nell’impresa con vari stratagemmi, ma soprattutto presentandone in Vaticano una versione purgata. I] tango sara accantonato durante la prima guerra mondiale, ma riesplodera negli anni Venti (sulla scia del film J quattro cavalieri dell’Apocalisse, del 1921, in cui Rodolfo Valentino, vestito da gaucho, ballava La

cumparsita) e per altri vent’anni ancora ritmera, anche in Italia, le canzoni pil drammatiche e passionali, prima di convertirsi definitivamente a toni e maniere sempre pit’ melodrammatici, sentimentalistici e piccolo-borghesi. Tra i grandi interpreti italiani di tanghi non puo essere dimenticato Anacleto Rossi, che porto al successo pit d’una canzone di

gusto tipicamente esotico e di contenuto “peccaminoso”: da Apri il tuo veron, Chiquita di Marius e Chiappo a Machaquita di Voltolini e Storaci, che nella melodia ricorda molto il petroliniano Gastone, a L’edera di Mendes e Lao Schor («Come l’edera sei tu, / che m’incateni!...», alla quale si sono ispirati con ogni probabilita Seracini e D’Acquisto nel comporre il brano omonimo 2 Vedi in proposito la fondamentale ricerca di Meri Lao, Voglia di tango, Sugarco, Milano 1986, in particolare alle pp. 9-24. 73

cantato alla fine degli anni Cinquanta da Nilla Pizzi e Tonina Torrielli). Intanto altri balli cominciarono ad affermarsi anche nel nostro Paese. Il fox-trot (attorno al 1920), la rumba (tipica danza dei Tropici), la giava (un ballo dei bassifondi lanciato da Mistinguet te nella Parigi degli apaches e delle gigolettes), ma soprattutto il charleston: il ballo degli scaricatori del porto di Charleston che un esperto impresario, George White, lancia con Yes, sir, that’s my baby e che dilaga in Europa nel 1925, entusiasmando i giovani per la sua eccentricita. A Parigi esplode — é proprio il caso di dirlo — il 22 settembre del 1925. Quella sera Joséphine Baker, assieme al ballerino di

colore Louis Douglas, presenta la nuova danza in un teatro dei

~Campi Elisi dove va in scena la sua rivista «Black Revue». Joséphine Baker é la “Venere nera”. Spesso si esibisce completa mente nuda.E mulatta. Ha un corpo stupendo. Unisce in modo piccante lo spirito del varieta francese e la carica istintiva e selvaggia del jazz. Il suo primo grande successo é Yes, we have not bananas, che presenta avendo indosso solo una sottanina di banane. In Italia, pit modestamente, il nuovo ritmo di White diventa famoso con il titolo di Lola, cosa impari a scuola.,

Il charleston infrange tutte le regole istituite dalla danza in un millennio di evoluzione. I] passo-base (“bilancia”) viene eseguito con le punte dei piedi congiunte e i talloni divaricati. Poi si uniscono i ginocchi e i piedi strisciano verso l’esterno. Seguono salti e contorsioni che spingono i soliti benpensanti a definirlo il “ballo degli epilettici”. I] charleston é il simbolo di una modernita che esalta confusamente l’emancipazione femminile, la corsa al successo e, in definitiva, una liberta che non piace al fascismo, ormai stabilmente

al potere. Per ballare la nuova danza bisogna avere le gambe libere. Le gonne cominciano ad accorciarsi inesorabilmente: al ginocchio, sopra il ginocchio, al principio della coscia. In piu, sulla scia della Baker e di attrici americane come Colleen Moore,

prende piede la moda dei capelli alla gargonne, tagliati corti come quelli degli uomini. 74

Sale da ballo e accademie di danza AlPindomani della guerra, a Milano — fra tabarins, teatri, café

chantants e cinematografi — sono ormai venti le sale che funzionano a pieno ritmo: il Trianon, nato agli inizi degli anni Novanta dalle ceneri di un teatrino per marionette; la Sala Volta sotto la

galleria De Cristoforis, dove 1’11 febbraio del 1919 fara il suo esordio Maria Campi; il San Martino, dove il 13 febbraio dello stesso anno debuttera Anna Fougez; |’Eden; il Cinema Palace in corso Vittorio Emanuele; il Cinema dei Giardini a porta Venezia; il Filodrammatici; il Cinema Centrale sotto i portici della galleria Vittorio Emanuele; il Biffi; il Cova; il Teatro Santa Redegonda; il Casanova; l’Apollo; il Cinema-Teatro Italia in piazza Missori; il Cinema Alfieri a porta Genova; il Gerolamo; il Modernissimo in via Torino; il Cinema Excelsior; il Commenda;

il Teatro Lirico. Nel maggio del 1917 era stato inaugurato il Pathé Salon, una-sala di audizione in galleria Vittorio Emanuele, dove ogni mercoledi, per la modica cifra di dieci centesimi, si

potevano ascoltare i brani pit famosi incisi su dischi Pathé. L’attivita notturna milanese fu quindi intensissima, ma subi un riflusso quando I’11 novembre del 1917 al Cova, al Biffi, al Casa-

nova e al Grand’Italia furono sospesi gli spettacoli in conformita

alle restrizioni ordinate dalle autorita per lo stato di guerra. Queste restrizioni continuarono per quasi tutto l’anno successivo. Milano risentiva pit di Roma la vicinanza della guerra. Il fronte era a poche centinaia di chilometri e la citta era un punto nevralgico per lo smistamento delle truppe. Per questa ragione anche Milano,

pit di Roma

forse, ebbe la sua brava dose di

musica americana. Un po’ di rag-time, un po’ di cake-walk delle truppe del generale Pershing. Anche a Roma, attorno al 1920, le sale da ballo e le accademie

di danza sono numerosissime. Si trovano per la maggior parte nella zona di Prati, fra piazza Cavour e piazza Mazzini. Fra le tante citeremo la Ruel e Calore e il Tim Tum Ball, dove iniziano

la loro attivita diversi musicisti importanti. La pit celebre Accademia di Danza é@ invece la Sala Pichetti, in via del Bufalo, di

proprieta del gia ricordato Enrico Pichetti, dove vengono insegnati i nuovi balli e soprattutto il fox-trot.

is

Ma quando i balli moderni sono all’apice della popolarita, ecco che la Chiesa cattolica sferra un violento quanto imprevisto attacco nei loro confronti. La notizia é riportata dal «Corriere della Sera» del 25 marzo 1920 con queste parole: «Una nota arci-

vescovile che apparira nel prossimo fascicolo della Rivista diocesana segnala, tra l’altro, il male e il pericolo di certi divertimenti

quali sono i balli e soprattutto quelli che oltrepassano i limiti della pit elementare onesta e verecondia in teatri e in luoghi pubblici e privati. Il cardinale arcivescovo si rivolge, in particolar modo, alle donne cristiane, ricordando loro la parola di Cristo e gli ammonimenti di santi e vescovi, ammonendo che, se per la

gioventi é lecito il divertimento, questo non deve giungere alle forme di immoralita di certi modernissimi balli. Neppure deve cercarsi di scusare col pretesto della beneficenza il gettito di ogni pudore e lo scandalo. La nota chiama le donne di Milano e di tutti i luoghi a unirsi in una crociata contro il ballo inverecondo e l’immodestia del vivere e conclude richiamando anche la legge” dell’astinenza e del digiuno nella settimana santa». L’articolo, significativamente intitolato Ballo, digiuno e astinenza, fa co-

munque un buco nell’acqua. I balli continuano a far impazzire milioni di italiani. E nel 1926, quando comincia ad attenuarsi la frenesia del charleston, un nuovo ballo é li pronto per sostituirlo: é il black bottom.

L’eta del jazz Gli anni immediatamente successivi alla guerra sono anche quelli che vedono la piena, definitiva affermazione del jazz.? I] jazz non era pero il primo esempio di musica ritmata. Prima

— dal 1897 al 1917 — la scena era dominata dal rag-time. Ma il ragtime non attecchi molto nel nostro Paese. Giuseppe Alessandra fu il primo italiano a suonare musica sincopata in America. E i primi a suonarla in Italia?

A Roma, alla fine del 1917, furono le

3 Sul jazz italiano l’opera sicuramente pid organica é quella di Adriano Mazzoletti, Il jazz in Italia, Laterza, Roma-Bari 1983. 76

truppe del generale Pershing, alle quali si era aggiunto un “banjoista” italiano di appena tredici anni, Vittorio Spina. Le dirigeva un abile pianista, il sergente Griffith dei marines. A Milano, invece, fu l’impresario Arturo Agazzi che, con il

nome di Mirador, organizzo nell’inverno del 1918 le prime manifestazioni jazzistiche. Agazzi aveva diretto nel 1915 il Ciro’s Club di Londra, dove ebbe occasione di assistere alle esibizioni, straordinarie per l’epoca, della Ciro’s Coon Club Orchestra del

batterista Hugh Pollard. Nell’inverno del 1920 si apri nel capoluogo lombardo I’Ambassador’s New Club di corso Sempione, che altro non era se non il Mirador’s con mutata organizzazione e con la prima esibizione dell’ impareggiabile Ambassador’s Jaz Band, come informava il biglietto di invito. Per la prima volta la parola jazz — che esprimeva l’incontro in una terra nuova, quella americana, di due culture e civilta assai distanti fra loro, l’europea e l’africana della

costa occidentale, fra il Senegal e la Nigeria — appariva stampata, anche se scritta con una sola zeta, su un biglietto di invito e sulla

grancassa della batteria di un complesso italiano. Era ’autunnoinverno del 1920. Da quel momento, e per l’intero decennio, anche I’Italia visse la sua eta del jazz. A proposito di batterie c’é da dire che quelle d’allora erano coloratissime, enormi, dotate di accessori incredibili: tamburi,

tamburelli, piatti di tutti i generi, triangoli, trombe d’automobile, campane di mucca, campanelli. C’era di tutto, salvo il pedale per la grancassa che arrivo in Italia con un certo ritardo. Nell’ottobre del 1921, intanto, si inaugura a Roma il primo locale moderno: il Bal Tic Tac, un cabaret di gusto parigino con decorazioni cubiste. Poco piii tardi sara la volta della Bomboniera a via del Bufalo. La prima Orchestra da ballo romana é la Black and White Jazz Band, con Filippini, Escobar e Barboni, il

primo sassofonista italiano di tutti itempi. Anche a Torino, all’inizio degli anni Venti, si formano le prime Orchestre di gusto moderno. I veri pionieri torinesi sono il violinista Agostino Valdambrini e il pianista Edgardo Greppi, che gia nel 1921 sono in grado di suonare quel po’ di musica sincopata che giunge attraverso le rarissime incisioni americane. Poi viene Angelini, sulla 77

scia del suo vero maestro, Armando Di Piramo. Angelo Cinico (questo era il suo vero nome), nato nel vercellese nel 1901, forma un’orchestra che viene immediatamente ingaggiata dal proprietario della Sala Balakowsky. Si era nel 1923 e qualche mese dopo Angelini pass6 alla leggendaria Sala Gay. La sua orchestra divenne la favorita del principe Umberto di Savoia, che la invitava spesso a suonare nel corso dei ricevimenti che venivano dati a Palazzo Reale. Rimase unita fino al 1925, anno in cui Angelini, il sassofonista Salvatore Coja e altri partirono per una lunga tournée in Centro e Sud America, dove rimasero fino al 1929.

In questo periodo le case discografiche italiane, a parte la piccola Fonotecnica, non si interessano minimamente al jazz. La nuova musica appariva, di tanto in tanto, solo attraverso la pubblicazione di dischi americani. In questo senso le pit attive furono la Grammofono, La Voce del Padrone, la Parlophon e la Odeon. Le prime due pubblicarono in Italia, fin dal 1920, dischi di jazz americano; ma per quanto riguarda la prima (serie R etichetta verde), che immise sul mercato la Original Dixieland Jazz Band, Jelly Roll Morton e qualche altro, i dischi furono sempre fabbricati in Inghilterra (compresa l’etichetta stampata in italiano) esclusivamente per la vendita sul nostro mercato, con numeri di catalogo del tutto autonomi da quelli del catalogo inglese. Il poco, pochissimo jazz italiano inciso nel periodo 1920-’30 fu realizzato da piccole case, la Fonotecnica appunto, la Homocord, la Persic Fono Roma, alle quali si affiancd per breve tempo la Odeon. Poi, dopo sei anni di assoluto silenzio, nel 1935 venne

un nuovo impulso, ma il jazz italiano del periodo precedente era ormai irrimediabilmente perduto.

Le prime canzoni “italiane” Quando Rosa torna dal villaggio sola sola e mesta in volto,

io la seguo ma non ho il coraggio di pregarla a darmi ascolto. Dolce é la sera, ben lunga é la via... 78

A farla insieme, men lunga saria... Son fili d’oro i suoi capelli biondi e la boccuccia odora,

gli occhi suoi belli sono neri e fondi... é non mi guarda ancora... Son tornate a fiorire le rose alle dolci carezze del sol,

le farfalle s’inseguon festose nell’azzurro con trepido voll... Ma le rose non sono pitt quelle che fiorirono un giorno per te: queste rose son forse pit belle, ma non hanno profumo per me... C’eravamo tanto amati: per un anno e forse pit... C’eravamo poi lasciati... Non ricordo come fu... Ma una sera c’incontrammo, per fatal combinazion, perché insieme riparammo, per la pioggia, in un porton! Elegante nel suo velo, con un bianco cappellin, dolci gli occhi suoi di cielo, sempre mesto il suo visin...

Ed io pensavo ad un sogno lontano: a una Sstanzetta d’un ultimo piano, quando d’inverno al mio cor si stringeva ...come pioveva... come pioveval...

Son trenta giorni che ti voglio bene, son trenta notti che non dormo piu; non ve ne addolorate, ma conviene che non mi abitui ancora a darvi il tu. No — cara piccina, no, cosi non va;

diamo un addio all’amore,

se nell’amore é l’infelicita... Fili d’oro (1912), Come le rose, Come pioveva e Cara piccina (1918): sono queste, per molti, le prime vere canzoni italiane. Le prime due furono portate a uno strepitoso successo da Gennaro Pasquariello, |’ultima — che lo stesso Pasquariello si era rifiutato di cantare — da Lilly Gay che mando in delirio il Politeama Giacosa di Napoli, mentre Come pioveva fu scritta e inter-

pretata da quello che forse fu il nostro primo cantautore in assoluto: Armando Gill, al secolo Michele Testa, che la canto per la prima volta nella sua citta, al Teatro Trianon di Napoli. Molti napoletani ricordano come, in un bel mattino del 1918,

le strade della citta apparissero tappezzate da misteriosi manifesti sui quali vi era un sol disegno: un paracqua per uomo. «Sara la réclame di un negozio di abbigliamento maschile?» si domandava qualcuno. E qualche altro, arguto, insinuava: «Se quello vuol vivere vendendo ombrelli é arrivato! Questo é il paese del sole!». Che sara, che non sara, la curiosita dei buoni partenopei

duro una settimana, in capo alla quale su tutti i manifesti apparve il titolo di una canzone, Come pioveva, accanto al nome di Gill.‘ Gill, che era molto elegante e si presentava in palcoscenico in frac e monocolo, era l’opposto di Gino Franzi: la sua vena era _ crepuscolare, il suo stile ostentatamente dimesso. Le sue canzoni le presentava cosi: «Parole di Gill. Musica di Armando. Cantata da sé». Fu il creatore di un genere, quell’“improvwvisata” che poi altro non era che poesia estemporanea su motivi musicali. II suo pseudonimo fu da lui scelto, probabilmente, per la popolarita che avevano allora i fascicoli settimanali editi da Sonzogno in cui si magnificavano le gesta dello spadaccino Martino Gill, vissuto all’epoca di re Filippo II. I filoni della sua produzione sono almeno tre. Al primo appartengono gli “stornelli montagnoli e campagnoli” (1909); gli “stornelli spagnoli” (1969); gli stornelli “del ‘ Lo racconta Vittorio Paliotti nel suo La canzone napoletana, Ricordi, Milano

1962, p. 137.

80

cuore” e€ quelli “proibiti” (1912); i “canti d’estate” (1911); i “canti paesani” (1913); i “canti nuovi” (1919): ariette facili facili che per anni furono cantate da tutti. Un esempio: Chi vuole con le donne aver fortuna non deve mai mostrarsi innamorato...

oppure Quando l’amica mia volle andar via ebbi una stretta al cor ma non fiatai, prese la roba sua, lascio la mia, come se non m’avesse amato mai,

cosi l’amica mia se ne ando via.

Ma il mese appresso ebbi un espresso dalla mia bella ingrata: s’era pentita della sua vita e sera avvelenata. E ancora, i “rispetti all’antica” (1915) Cosi é amore che viene e va

gioie e dolor

sempre ci da... e gli “stornelli dell’aviatore” (1920) Fior di ogni fiore ed ho imparato l’arte di volare per secondare il gusto del mio amore fior di ogni fiore... Del secondo filone, tutto pervaso di un lirismo di maniera, possiamo citare Varca d’ammore (1919) e Bella ca bella si (1919),

napoletane nel dialetto e nell’oleografia: ’E marenare cantano

sott’ ’a na luna argiento... Del terzo, infine, fanno parte canzoni come Come pioveva (1918) e Palomma (1926): 81

Palomma te chiammava mamma toia Palomma e ne faceva lacrimelle, chella nun sape ’a casa soia sempe cumpagne e cumpagnelle. E cumm e’a palomma tu facive e ’a scola e dda maesta nun Ci ive;

ciente ’nnammuratielle appriesse a tte... E ’nce ’ncappaie pur’i’ senza vulé. Palomma palomma che vuole cagnanno ’nu sciore pe’ ’n’ato si truove quacche sciore avvelenato fernisce ’e vuld... Sono storie di donne. Di donne volubili, infedeli, destinate

alla perdizione, che Gill (la cui stella brilld un decennio, dal 1916 al 1926) riscatta con la tenerezza.

Ma cos’é che accomuna Fili d’oro, Come le rose, Come pioveva e Cara piccina e che le fa ritenere da molti le prime canzoni italiane a tutti gli effetti? Sicuramente |’elemento linguistico: un italiano finalmente depurato dagli arcaicismi e dai moduli letterari, colloquiale, intriso di spirito quotidiano. In Come pioveva, come in altre canzoni di Gill, la scelta di raccontare, di esporre un episodio svolgendolo compiutamente, € addirittura esplicita, programmatica, come anche la tecnica di inserire nei versi il dialogo, alla maniera dei crepuscolari. E cid non é affatto casuale, se si pensa che furono proprio i crepuscolari, e pit di tutti Gozzano, ad avere chiara consapevolezza dei profondi mutamenti avvenuti all’interno della lingua italiana nel periodo che va dall’eta giolittiana alla prima guerra mondiale. E poi c’é l’elemento squisitamente musicale. Queste canzoni sono le prime a essere concepite con frasi melodiche piu brevi, sono cioé le prime a essere adatte alla danza. Di qui, in primo luogo, la loro spiccata originalita e la loro evidente modernita.

82

Le canzoni del “tabarin”

Le canzoni del primo dopoguerra riflettono gusti e aspirazioni delle classi medie e il loro linguaggio colto si rifa al poeta-scrittore piu rappresentativo di quel periodo: Gabriele D’Annunzio. E soprattutto al principe dei divulgatori del verbo dannunziano, Guido da Verona. Anche in esse i valori tradizionali vengono in pit d’un caso sostituiti dal culto dell’istinto, dell’azione, del coraggio, dell’amore tempestoso, della passione, del vitalismo. Il successo di Guido da Verona come scrittore era cominciato durante la prima guerra mondiale, con Mimi Bluette; fra il 1920 e il 1930 fu lo scrittore pit letto d’Italia, da un pubblico che era educato a evitare la cultura, a crearsi entusiasmi infantili, a leggere pagine “cantanti” (il “romanzo-canzone”, corrispettivo in letteratura della “canzone-racconto” alla Gill). L’aristocrazia e l’alta borghesia del vecchio café chantant ave-: vano ceduto il posto, per varie ragioni tutte connesse alla guerra, a una nuova borghesia senza blasoni, che aveva investito fruttuosamente i risparmi in tempo di guerra 0 subito dopo; una borghesia irrequieta, vogliosa di vivere, vogliosa soprattutto di guardare al di sopra del proprio ceto e delle proprie reali possibilita e di differenziarsi, pit che mai prima, dagli operai e dai contadini. Era questa nuova borghesia che popolava, animava e trasformava in spettacolo quasi di massa il tabarin. Era questa nuova borghesia che tentava di imitare lo stile di vita di Parigi, “citta del vizio e della lussuria”, e di rifare il verso agli apache, ai gigold e alle gigolette. A Roma, per esempio, tra il 1915 e il 1920, i tabarins alla moda

(che prendevano a modello il famoso Bal Tabarin nato a Parigi nel 1904 all’angolo di rue Pigalle) vennero aperti uno dopo I’altro soprattutto nel quadrilatero via Veneto, piazza Barberini, piazza Venezia, piazza del Popolo, e in locali legati all’illustre passato del café chantant che si stavano gradatamente adattando alle nuove esigenze: |’Apollo, la Sala Umberto, il Salone Mar-

gherita. L’Apollo si trovava in via Nazionale, dove oggi é il Ridotto del Teatro Eliseo; fu per molti anni il tabarin pit importante della citta, frequentato dall’alta borghesia e dalla nobilta 83

romana ma anche da un pubblico internazionale. La Sala Um- | berto e il Salone Margherita si trovavano dove sono oggi, rispet- tivamente in via della Mercede e in via Due Macelli. Il primo Teatro di Varieta aperto a Roma fu invece il Metastasio in via di Paliacoraa. Sono gli anni di Vipera e di Scettico blues, gli anni del divismo esasperato che ben presto si creo attorno a cantanti come Anna Fougez e Gino Franzi. Anna Fougez, l’ultima diva del varieta, fu la vamp pil vamp delle scene italiane. Era nata a Taranto; il suo vero nome era Maria Annina Lagana-Pappacena. Si faceva chiamare Fougez in ricordo della fatalissima del passato, la bella Eugénie Fougére. Fu lei a dare l’avvio alla rivista sfarzosa, con piume, lustrini,

ballerine e “boys”: un genere ancora sconosciuto in Italia. Nel novembre del 1919 «Il risveglio» informava i propri lettori che «é tale il fanatismo ch’Ella suscita che é confermata al San Martino

di Milano fino al 5 dicembre con la paga favolosa di lire 1.500 serali» (un chilo di pane costava allora una lira e mezzo). Vipera, che la Fougez canto la prima volta al Teatro Fenice di Napoli nel 1919, € davvero emblematica di quel periodo: Ella portava un braccialetto strano: una vipera d’oro attorcigliata, che viscida parea sotto la mano, viscida e viva, quando l’ho toccata...

Quando ella abbandonavasi fremente sul mio seno, parea schizzasse tutto il suo veleno! Vipera... Vipera... sul braccio di colei che oggi distrugge tutti i sogni miei, sembravi un simbolo: l’atroce simbolo della sua malvagita...

Vi si narra di una donna immancabilmente malvagia e di un uomo che altrettanto immancabilmente trae un piacere masochistico dal sentirsi completamente in balia di lei («la sua perfidia che mi fa piacere»). 84

Gino Franzi, attorno al 1920 l’incontrastato signore della canzone, compariva in palcoscenico con frac blu notte, ghette e cilindro per cantare con timbrata voce baritonale il suo beffardo scetticismo verso un mondo che copriva l’inganno con la virtu. Le sue canzoni, da Alcova a Come una coppa di champagne, alla famosissima Scettico blues (“blues” e non “blu” come si dira erroneamente piu tardi) sono tutte assai significative in tal senso: Come una coppa di champagne tu mi puoi dar la foll’ebbrezza che mezz’ora puo durar, mentre il mio cuor cerca un amore per la vita. Lasciami star... Facciamola finita...

Cosa m’importa se il mondo mi rese glacial? Se d’ogni cosa nel fondo non trovo che il mal? Quando il mio primo amore mi sconvolse la vita,

senza lusinghe, pel mondo ramingo 10 VO...

e me ne rido beffando il destino cosi!... Ma la pii significativa di tutte é forse Addio Tabarin, scritta da Borella e Rulli nel 1922, l’anno della marcia su Roma, che il

fascismo spurgo degli spunti di pit: evidente critica sociale: Addio

Tabarin,

beffa atroce all’uman dolor! Vituperio alla povera gente che di miseria muor! Bada a te! Se il can-can del tuo carneval spegne il grido che sal,

fatalmente, verra la ribellion!

Freme ormai la legion 85

di chi incerto é d’aver un pan doman.. Perversione ed esotismo la fanno da padroni anche nelle canzoni di Daniele Serra, a cominciare dalla celeberrima Creola di Ripp, che ebbe la sua grande interprete in Isa Bluette:

Che bei fior carnosi son le donne dell’Avana hanno il sangue torrido

come I’Equator! Fiori voluttuosi come coca boliviana chi di noi s’inebria

el ripete ognor: Creola dalla bruna aureola

per pieta sorridimi che l’amor miassall...

Serra era nato in Argentina, ma aveva vissuto sin da giovanissimo a Milano. Presente sul mercato sin dal 1920 con la Fonoti, pia Italiana, la Eaglephone e la Pathé Actuelle, dal 1927 aveva cominciato a incidere per La Voce del Padrone (con etichetta Disco Grammofono e utilizzazione anche Victor), diventando in breve tempo ilprincipale interprete della canzone italiana, per tutti gli anni Trenta e persino per parte degli anni Quaranta. Di lui si ricorda anche una canzone legata al periodo del tabarin, Gigolo (1929) di Casucci e Frati, particolarmente lacrimosa e patetica: Chi riconosce nel mesto danzatore Vufficialetto protetto dallo Zar del Tabarin fu in quel tempo gran signore or per mestier le dame fa danzar...

Chi pit: d’ogni altro mise alla berlina ambiente e canzoni del tabarin fu Ettore Petrolini. Petrolini aveva debuttato al Gambrinus di Roma il 16 aprile 1903 con la canzone I/ bello Arturo. Era 86

poi passato attraverso molti teatri romani del tempo, dallo Jovinelli al Bellini, dall’ Acquario Romano alla Sala Umberto, diventando sempre pit famoso. Lavorava da solo in un repertorio tutto suo particolare dove faceva un po’ di tutto, dallo stornello alla macchietta, fino a cantare con la voce pil appassionata una delle piu belle canzoni romane, Affaccete ‘Nunziata. Indimenticabili sono i personaggi della vecchia Roma ch’egli porto sul palcoscenico e particolarmente quello di “Giggi er bullo”, che, come si sa, era il prototipo di quei bulletti che si dicevano appartenere alla malavita romana e che pit tardi il noto attore romano Gastone Monaldi portd sul palcoscenico nei suoi drammoni da coltello. Quasi sempre costoro s’accontentavano di vivere alle spalle di povere donne costrette alla vita del marciapiede ed erano percid chiamati dai romani “magnaccia di pane e pezzetti”. In Gastone (1921) — in cui inventa la figura del “gaga”, che poi trionfera nei giornali umoristici di mezzo mondo - la sua ironia verso il mondo frivolo e fatuo del tabarin si fa particolarmente feroce: Gastone, artista cinematografico, fotogenico al cento per cento, numero di centro per varieté, “danseur”, “diseur”, frequentatore dei “Bal-tabarins”, conquistatore di donne a getto continuo, uomo incredibilmente stanco di tutto, uomo che

emana fascino, uomo rovinato dalla guerra. Gastone, sei del cinema il padrone Gastone Gastone.

Gastone, ho le donne a profusione e ne faccio collezione Gastone Gastone... Ma anche la meno nota Baciami... baciami ben, vera summa

petroliniana, é una ghignante parodia del varieta. In tre minuti — tanto dura questa canzone — é contenuto un intero spettacolo di café chantant, con lo stesso motivo cantato prima da una divetta — cui spettava l’ingrato compito di aprire la serata —, poi dalla 87

grande stella — vero numero di centro — e infine da Petrolini alla sua maniera: il tutto illustrato e commentato con squarci su protagonisti e pubblico del caffé concerto. Nei pochi secondi del finale Petrolini rifa tutto se stesso, con le filastrocche, i ritmi

vertiginosi, la distruzione delle parole.

Vv

La sceneggiata napoletana

Un altro genere di spettacolo canoro si impose proprio negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra: la “sceneggiata napoletana”, termine con cui si indica uno spettacolo teatrale il cui soggetto sia tratto dal testo di una canzone. La sua data di nascita é il 17-settembre del 1919, giorno in cui la Compagnia Cafiero-Marchetiello-Diaz mise in scena al Teatro Olympia di Palermo (che sara poi distrutto negli anni Sessanta)

un lavoro dal titolo Surriento gentile. Sembra che una delle ragioni determinanti per la scelta della nuova formula “scene sulle canzoni” fosse legata al tentativo di eludere una nuova tassa (la tassa del due per cento) che, con lPintento di favorire il teatro di prosa, colpiva gli spettacoli di sole canzoni. Fu cosi confezionato per I’occasione — pare su suggeri-

mento del commediografo Enzo Lucio Murolo — un poutpourri di canzoni inneggianti a Sorrento, pit scenette e tarantelle. Nella sceneggiata si cimentarono in molti: da Gennaro Pasquariello a Giuseppe Milano, da Aurelio Gabré a Ria Rosa, fino alla grande Gilda Mignonette, davvero strepitosa nella sua interpretazione di Serenata ’e ’na femmena di Bovio e Valente, un impasto di fado e tragedia greca e uno dei pochi brani in cui linfedelta é del maschio e a piangere d’amore é la donna. L’autore piu versato nelle sceneggiate fu Libero Bovio, che tra l’altro si avvaleva di un’esperienza di lavoro per il teatro trasferita sapientemente nelle canzoni. Cantore drammatico, popolaresco, fu cosi apostrofato dal suo collega E.A. Mario: «Vittima del 89

“microbo bolscevico” e alimentatore di una “Viecernaia Moscova Partenopea”». Un altro autore importante, oltre al droghiere Raffaele Chiurazzi, fu Gaspare Di Majo, impiegato postale, che introdusse nella sceneggiata una notevole carica sociale e una violenta sottolineatura classista, che gli provenivano dalla sua formazione

socialista. Aveva iniziato a scrivere sceneggiate nel 1925 e incorse ben presto nei fulmini della censura fascista. Confinato a Salerno nel 1928, continud tuttavia a scrivere e a inviare 1 suoi

lavori a Napoli. Morira nel 1930 in un confino ancora pit lontano, a Trento.

La sceneggiata ha due prevalenti aree di diffusione: Napoli e la Little Italy. Le storie napoletane sono quasi tutte d’amore e di tradimento. La donna vi é sempre rappresentata come un essere perfido, infido e infedele, tale da meritare la pit dura delle punizioni e persino la morte. Come accade in Femmena ’e niente di Miccio, da questo punto di vista davvero paradigmatica: Mo proprio song’asciuto ’a carcerato e so’ venuto sott’a sta fenesta ma Si é overo ca tu mvhai ’ngannato

a chesta sera io te faccio ’a festa! Ricordate ca me vulive bene, ca me mettiste ’n cuollo st’abetiello mo porto dint’a sacca nu curtiello ca serv’apposta pe’ pote’ sfriggial!... In terra americana, invece, il contenuto delle storie cambia

profondamente. A parte il costante riferimento al tema dell’emigrazione, nuove soluzioni modificano il classico schema passionale e nuovi argomenti s’impongono, a cominciare da quelli di carattere sociale. Argomenti questi ultimi che, come gia abbiamo visto, non mancano del tutto nemmeno nella sceneggiata d’ambientazione partenopea. Ne é un classico esempio Zappatore di Bovio e Albano, composta nel 1929 e portata al successo, molto tempo prima di Mario Merola, ancora una volta da Pasquariello: 90

No, signore avvucato, sentite @ me, nun ve mettite scuorno,

i’ pe’ fa’ signore aggio zappato e sto’ Zappanno ancora notte e giuorno. E so’ duie anne, duie, ca nun scrive ’nu rigo a’ casa mia;

si ’ossignuria se mette scuorno ’e nuie, pur’io me metto scuorno ’e ’ossignuria...

La canzone napoletana del primo dopoguerra La sceneggiata ci ha riportato di colpo a Napoli, dove nel frattempo la canzone continuava a mietere successi e a fondersi indissolubilmente con lo spirito della citta. Del 1917 @ Reginella, una musica di valzer orecchiabilissimo creata da Gaetano Lama, il compositore che diventd famoso

come autore dei primi e pit celebri bostons, per dar veste sonora a un testo amaro e nostalgico di Libero Bovio: Te si’ fatta ’na vesta scullata nu cappiello cu ’e nastre e cu ’e rrose, stive ’mmiezo a tre o quatto sciantose, e parlave francese, é accussi...

Fuie l’atriere ca taggio ’ncuntrata! Fuie l’atriere, a Tuleto gnorsi. T’aggio vuluto bene a tte! Tu m’é vuluto bene a me! Mo nun nce amammo ma ’e vvote, tu,

cchiu,

distrattamente pienze a mel... Del 1918 é ’A tazza ’e café, di Giuseppe Capaldo e Vittorio Fassone, composta dopo una scherzosa e polemica discussione con l’avvenente ma riottosa cassiera del Caffé Portoricco di via

Guglielmo Sanfelice, interpretata per la prima volta da Elvira Donnarumma al Teatro Bellini:

Ma cu ’sti mode, oje Briggeta, tazza ’e cafe parite... 91

sotto tenite ’o zucchero e ’ncoppa amara Site... ma i’ tanto ch’aggia vuta... e tanto ch’aggia gira... c’’o ddoce ’e sotto ’a tazza fin’a mmocca m’adda arrival...

Del 1919 Santa Lucia luntana di E.A. Mario, lanciata a Napoli da Gina De Chamery e al Teatro Sacchini di Pozzuoli da Fulvia Musette, che presto diventa l’inno degli emigranti:

Partono pe’ terre Cantano Cantano ’o golfo

’e bastimente assaje luntane... a buordo: so napulitane! pe’ tramente gia scumpare,

e ’a luna ’a miezo ’o mare,

nu poco ’e Napule lle fa vede... Santa Lucia luntano ’a te quanta malincunia! Se gira ’0 munno sano,

se va a cerca fortuna... ma, quanno sponta ’a luna, luntano ’a Napule nun Se po Stal...

Rispettivamente al 1920, al 1922 e al 1923 risalgono Napule ca se ne va di Murolo-Tagliaferri, Canzone appassiunata di E.A. Mario e Core furastiero di E.A. Mario e Alberto Melina. Del 1923 é anche la stupenda Chiove di Libero Bovio ed Evemero Nardella, Tu staie malata e cante, tu staie murenno e cante.

So’ nove juorne nove ca chiove... chiove... chiove... 92

lanciata da Salvatore Papaccio al Teatro San Carlo per la mat_ tinata del giornale «II giorno» di Matilde Serao (l’accompagnava al piano lo stesso Nardella). E quasi un lied da camera e racconta la storia di un’anima malata, che canta fino alla morte. Dalla mestizia della strofa si passa al ritornello che é come un pallido raggio di sole in mezzo alle nuvole piovose. Pare che Bovio l’avesse scritta ispirandosi a Elvira Donnarumma che, alla fine dei suoi giorni, ancora esprimeva il desiderio di poter cantare “canzoni nove”. Il 1925 é l’anno di ’O paese d’’o sole di Bovio e d’Annibale, di Lacreme napulitane sempre di Bovio e di Francesco Buongiovanni, che cerca di riflettere sui sentimenti dei napoletani costretti a emigrare in America, E nce ne costa lacrime ’st’ America a nui napulitane. Pe’ nui ca nce chiagnimmo ’o cielo ’e Napule comme é amaro ’stu panel... e di Piscatore ’e Pusilleco di Murolo e Tagliaferri, una canzone quasi démodé ma pur sempre splendida, tale da restituire per un attimo il volto di un paesaggio ottocentesco, degno della Scuola di Posillipo:

Piscatore ’e ’stu mare ’e Pusilleco ch’ogne notte me sient’’e canta, piscato ’sti pparole so’ llagreme pe’ Maria ca luntana me stal... Del 1927 é N’accordo in fa di Luigi Pisano e Nicola Valente, una delle canzoni preferite da Pasquariello, che una sera al teatro Alhambra di Napoli dovette ripeterla per ben cinque volte. Del 1928 Dduje (o Dui) paravise di E.A. Mario e di Ciro Parente, una caratteristica canzone di posteggiatori che narra di come San Pietro, rimasto cosi entusiasta delle canzoni di Napoli, prego i due vecchi suonatori di rimanere nel suo regno; essi pero rifiutarono; il nostro paradiso, spiegarono, é Napoli! E del 1928 é anche ’A casciaforte di Alfonso Mangione e Nicola Valente, una canzone

amara e surrealistica, che allude allo 93

sconforto del napoletano moderno dinanzi al crollo dell’atmosfera romantica della sua citta: Vaco truvanno ’na casciaforte! E andevinate pe’ ne fa che?... Non tengo titoli... Non vivo ’e rendita...

Non ci ho un vestito pe’ ’ncuollo a mme! Ma ’a cassa mi necessita;

Pe’ fforza lhaggi’ ’a tené! ...Ce haggi’ ’a mettere tutt’”’e lettere che mi ha scritto Rusina mia...,

’nu ritratto (formato visita) d’ ’a bbuonanima ’e zi’ Zofia,

‘nu cierro e capille, ‘nu corno ’e corallo ed il becco del pappagallo che noi perdemmo nel ventitré!... Occorre una cassaforte per rinchiudere i cimeli del passato,

questo il succo della canzone. Mangione era un poeta finissimo, che collabor6 tra l’altro al «Monsignor Perrelli», famoso settimanale umoristico napoletano. Anche questo brano fu lanciato da Gennaro Pasquariello al teatro Bellini di Napoli. Gli anni Venti si chiudono con una provocatoria interpretazione di Ria Rosa, L’acquaiola ’e Margellina di Scalella e Nicolo

(1929): Io cagn’ogni momento ’o ’nnamurato, perché me piace l’ammore, senza mai m’entussecal...

Ria Rosa (al secolo Maria Rosaria Liberti) era approdata nel 1915 nel mondo dello spettacolo, giovanissima: aveva solo sedici

anni, Da allora aveva partecipato a tutte le Piedigrotte pit celebri, finché nel 1922 era addirittura andata in America a cantare

per i nostri emigrati. La potremmo definire una femminista ante litteram, anche se il femminismo aveva avuto storicamente inizio 94

anche in Italia qualche anno prima: gia nel 1914 si era svolto a Roma un congresso femminista presieduto dalla contessa di Aberdeen, presidente del Consiglio internazionale delle donne, e salutato dalla stampa come esempio di “mascolinizzazione larvata”. Il regime fascista intervenne di li a poco contro qualsiasi manifestazione di emancipazione femminile, tanto che alla donna sara consentito di votare solo all’indomani dell’ultimo conflitto mondiale. Sullo sfondo delle canzoni di Ria Rosa c’é poi Napoli. Nel teatro napoletano c’é tutta una tradizione di donne ’nziste ossia coraggiose fino alla protervia, aggressive e malandrine: si pensi a certe commedie settecentesche di Nicola Corvo e Pietro Trinchera, e non soltanto ad Assunta Spina di Di Giacomo. Ma é soprattutto nella realta napoletana che c’é una maggiore caratterizzazione e un maggior cumulo di mansioni nella figura femminile all interno della famiglia, che qualche volta hanno fatto parlare di “matriarcato”. Gli anni d’oro della canzone romana

Un luminoso periodo per la canzone romana fu quello che, iniziatosi nel 1926, giunse quasi alle soglie della seconda guerra mondiale. Parliamo del 1926 perché in quell’anno la vena popolare diede a Roma due canzoni, due veri gioielli che ben difficilmente saranno dimenticati: L’eco der core di Oberdan Petrini e Barcarolo romano di Pio Pizzicaria, entrambe musicate da Ro-

molo Balzani, vero e proprio cantautore romano cui ormai si schiudeva una vasta popolarita anche per le sue doti di attore:

Canzone de’ sto core appassionato che sospiri pe’ lei tutte le pene... Faje senti cor canto delicato ’sta fiamma che m’abbrucia ne’ le vene! Di, che pe’ lei sortanto,

io smanio, soffro e... canto: Nell’aria dorce e tenera assieme cor profumo d’ogni fiore 95

porta la nota limpida co’ l’eco de ’sto core... Che dice co’ ’na voce d’incantesimo Amore!... Amore!... Amore...

Quanta pena stasera c’é sur fiume che fiotta cosi: disgraziato chi sogna e chi spera, tutti ar monno dovemo soffri... Ma si un’anima cerca la pace

po’ trovalla sortanto che qui... Er barcarolo va contro corente e, quanno canta l’eco s’arisente, dice: si é vero che tu dai la pace fiume affatato, nun me la nega...

Come mette in luce Giuseppe Micheli,! allora e per parecchi anni ancora non vi fu serenata a Roma in cui una tenorile voce accompagnata da chitarre e mandolini non cantasse L’eco der core; come non vi fu spettacolo d’arte varia, o festa familiare o scampagnata “for de porta” in cui non s’udisse cantare, sull’arpeggio di una chitarra, la malinconica melodia del Barcarolo romano che sembrava rievocare il classico “stornello” romanesco d’altri tempi. E bene precisare che gli stornelli si cantano un po’ in tutta Italia, ma in particolar modo nell’Italia centrale e in Toscana. E una delle forme pit antiche di canto: secondo alcuni sbocci6 fra il Seicento e il Settecento. I romani ne fanno risalire l’origine ai brevi canti intonati durante le feste di Adone: una ricorrenza pagana da cui sarebbe derivata quella cristiana della notte di San Giovanni. E bene anche sottolineare che stornello é diminutivo della voce provenzale estorn, che vuol dire combattimento. Da qui la tenzone canora, a mezzo di stornelli, tra rivali. Il Tommaseo,

che nel 1841-’42 scrisse la prima raccolta di folclore italiano (i 1 Giuseppe Micheli, op. cit., p. 491. 96

Canti popolari toscani, corsi, illirici e greci), parlando dello stornello si espresse cosi: «Cantano a vicenda, e questo chiamano “rispettare” o “stornellare”: canto or amoroso, or cruccioso, come ne’ bucolici antichi, or di semplice gara...». Ma ritorniamo a L’eco der core e a Barcarolo romano. Queste due canzoni aprirono il varco a tanti e tanti altri gioielli musicali che i romani cantarono con tutto l’entusiasmo che avevano in corpo. Gioielli musicali che il popolo poteva udire nelle varie edizioni del San Giovanni, nei piccoli teatri, alla sagra dell’uva a

Marino, alla festa dell’Immacolata nel quartiere Tiburtino e, da ultimo, alla trasteverina “Festa de Noantri”.

In quegli anni, assieme a Balzani, si affermd prepotentemente un altro grande posteggiatore romano, Alfredo Del Pelo. Questi conferi alla chitarra trasteverina quei caratteristici bassi volanti e profondi che meglio rispondevano alla sua particolarissima voce e alla sua sensibilita di compositore. Cosi, passando dagli stornelli alla danza spagnola, dal fox-trot ai ritmi latinoamericani, la sua chitarra alternava inusitati effetti di contrabbasso a vigorosi pizzicati popolari che imitavano la voce profonda del violoncello, a tutta una gamma di colori ritmici — sincope, accenti, capricci —e di effetti percussivi — tamburelli, drums, pum. E con quale

stupenda orchestrazione! Del Pelo — che negli anni Venti si esibiva generalmente con il suo quartetto alla Taberna Ulpia di Roma, in seguito distrutta dagli sventramenti per l’apertura di via dell’ Impero — ebbe all’attivo alcune composizioni davvero memorabili. Tra queste, Casetta de Trestevere,

E sotto quer piccone traditore come quer muro me sa sfascia er core. Casetta de Trestevere casa de mamma mia, tu me te porti via

la vita appresso a te... composta dallo stesso Del Pelo, da Alberto Simeoni e Ferran-

te Alvaro Torres e presentata fuori concorso al grande festival 97

poetico-musicale indetto dal Dopolavoro in occasione della festa di San Giovanni del 1931. Va poi ricordata la sua splendida interpretazione di Signorinella di Bovio e Valente, fatta di eccezionale sobrieta e di grande eleganza nell’esecuzione. Ma il suo autentico capolavoro fu una canzone scritta paradossalmente da un non romano, Franco Silvestri: Nanni... (una gita a li Castelli), che risale al 1926:

Guarda che sole ch’é sortito Nanni

che profumo de rose de garofali e panse. Com’é tutto un paradiso li Castelli so accosi. Guarda Frascati ch’é tutto un sorriso *na delizia, n’amore

na bellezza da incanta. Lo vedi? Ecco Marino

la sagra c’é dell’uva fontane che danno vino quant’abbondanza c’é. Appresso vié Genzano cor pittoresco Albano su viett’a diverti Nanni... Nanni... E una canzone gioiosa legata al nome di Ettore Petrolini che la lancid (e poi tenne sempre nel suo repertorio) alla sagra dell’uva istituita a Marino per iniziativa del poeta e drammaturgo romanesco Leone Ciprelli, dove per la circostanza le “fontane butteno vino” come voleva l’antica usanza romana allorché si celebrava Pavvento d’un pontefice o di un tribuno, secondo quanto narra lanonimo autore della vita di Cola di Rienzo. Una canzone magica, di una sensualita accesa e insieme trattenuta, che con i suoi odori, i suoi sapori, i suoi profumi, il suo antropomorfismo diffuso, il suo acceso panteismo, ci fa assapo98

rare l’incanto di una civilta ormai perduta. Magistrale é anche il suo impianto musicale, soprattutto nella seconda parte, quando la ripetizione del ritornello produce un effetto di crescendo veramente toccante e coinvolgente. Un impianto musicale esaltato dal sound di Del Pelo, ricco di recuperi folcloristici e di innovazioni jazzistiche, straripante di virtuosismo strumentale. Miscel e Gabreé

Una ricostruzione di questo periodo non sarebbe esauriente se non ricordassimo ancora almeno altri due personaggi: Gabré e

Miscel (al secolo i fratelli Aurelio e Michele Cimato). Aurelio Gabré debutt6 al Teatro Maffei di Torino la sera del 19 aprile 1913. Fu un artista particolarmente eclettico, capace di passare dalla retorica patriottarda de La leggenda del Piave all’esotismo peccaminoso del Tango delle capinere (Bixio e Cherubini, 1928); dai drammoni a sfondo sociale tipo Miniera (Bixio e Cherubini, 1927) alla garbata ironia di Villico black bottom (Rullie Bruno, 1928). Oltre a cantare era capace di porgere, di raccontare con la voce, un po’ come Pasquariello: tipica, in questo senso, la sua interpretazione de La leggenda del Piave. Ma sapeva adattarsi benissimo anche ai ritmi moderni, come dimostra

nella sua versione di Quel ritmo americano di Frassinett (1929), in cui la sua tecnica velocissima di canto, quasi a scioglilingua, ricorda molto da vicino lo stile di Petrolini.

Dopo essersi affermato nei teatri di varieta come “fine dicitore”, Gabré aveva rappresentato il perbenismo piccolo-borghese in antitesi al mondo del vizio e della perdizione impersonato dal suo rivale Gino Franzi. L’anno d’oro per I’artista romano fu il 1928. I] nuovo contratto discografico con la Parlophon gli garanti centinaia di incisioni. E Bixio e Cherubini, i suoi autori preferiti,

scrissero per lui una canzone dopo l’altra. Si tratta dei pit classici esempi di quella “canzone-feuilleton” che Clara e Gianfranco Manfredi hanno vivisezionato in Piange il grammofono’ e che si potrebbe definire come una forma di 2 Clara e Gianfranco Manfredi, Piange il grammofono, Lato Side, Roma 1982. 99

canzone popolare organizzata intorno a un intreccio in cui si racconta una storia, si cerca di muovere al pianto, allo sdegno o alla commozione e, infine, si trae una morale.

Una morale, in genere, profondamente retorica e a fosche tinte. Come é nel caso di Scintilla (1928), in cui la donna fedifraga muore assieme all’amante nell’incendio della casa che era stata testimone della loro lussuria: Or come una scintilla su, sfavilla... Distruggi quelle vite in un bagliore... Tu bimbo, che vivrai,

nulla saprai... La cenere cancella il disonore!...

Le donne — é bene aggiungere — nelle canzoni di questo periodo sono generalmente o brave ed esemplari mammine 0 seduttri-

ci (sole e indipendenti 0 puttane) o sedotte (vittime semplici o vittime da aborto). E il messaggio non é poi molto diverso anche quando i temi trattati sono di carattere spiccatamente sociale. Si veda, per esempio, Miniera, del 1927:

Va l’emigrante ognor con la sua chimera... Lascia la vecchia mamma,

il suo casolare

e spesso la sua vita in una miniera!...

Ma abbiamo gia detto che Gabré fu un interprete particolarmente eclettico e cid € dimostrato dall’abilita con cui sapeva cimentarsi anche con le canzoni ritmate e di gusto moderno, da noi conosciute soprattutto attraverso i fortunatissimi brani, allo-

ra imperanti, del francese Christiné. Il succo é pero sempre lo stesso. Quel ritmo americano o Villico black bottom altro non sono se non le prime manifestazioni di rigetto della cultura americana ed esterofila in genere, tipiche di un’Italietta sempre pil sciovinista e autarchica. Teatro delle grandi affermazioni di Miscel — che si protrassero per almeno un decennio, dal 1925 al 1935 — furono invece le popolari sagre canore di San Giovanni, a Roma. Miscel era un tenorino alla Gabré e riusci a diventare il cantante di punta della 100

Columbia nel periodo che va dal declino di Franzi all’avvento di Buti. Impersonava la tipica paura degli italiani per la donna, una paura che veniva esorcizzata mediante quel genere di canzone che Ugo Gregoretti in Fonografo Italiano ha definito «masturbatoria». Gli anni d’oro di Miscel,* sono anni nei quali, accanto ai nuovi

e impegnativi modelli della cultura anti-pantofolaia, continua tenacemente a sopravvivere il languore intimistico dell’Italietta piagnucolosa e mammona, un po’ deamicisiana, un po’ guidoveronesiana, dove le nostalgie maschili migrano dai tepori sicuri della stanza dei giochi a quelli gia meno sicuri delle camere

ammobiliate studentesche, a quelli insicurissimi, traditori e brucianti delle gar¢onnieres evocanti, tra “babbucce d’oro” e “pigiami blu”, il colore bianco delle grandi “imbiancate” (o dei grandi “fiaschi”, come li avrebbe chiamati Stendhal). Tutto cid é espresso perfettamente in una delle sue canzoni, una delle prime, frutto del sodalizio tra Bracchi

e D’Anzi, Garconniere:

Oh garconniere nel tuo tepor, oh garconniere che sogni d’or... Racchiudi ancor il palpitar dei nostri cuor ed il mister nel tuo profumo tentator! Babbucce d’or pigiama blu,

ma il nostro amor non trovo pill...

Tutto proteso verso un’esplicita, dichiarata adesione al regime fascista, Miscel interpreto anche canzoni di contenuto apertamente politico, come quell’Indovinalo un po’ del 1937 che stranamente — stranamente perché in genere furono autori di canzo3 Fonografo italiano, a cura di Paquito Del Bosco con la direzione di Ugo Gregoretti, Fonit-Cetra, Milano-Roma 1978-1983.

4 Come é sempre Gregoretti a ricordare. 101

ni programmaticamente disimpegnate — porta la firma di Mendes e Mascheroni e che contiene, tra le altre cose, anche un confronto invero caricaturale tra la Russia comunista e I’Italia fascista: Indovina, indovinalo un po’

qual é quel paese che selvaggio un bel di divento bruciando le chiese... Indovina, indovinalo un po’ qual é quel paese che fra tanti buffoni resto onesto e cortese...

Infine una curiosita. In quegli anni — esattamente nel 1926 — inizia la sua attivita il Coro della Societa Alpinisti Tridentini (Sat), un gruppo corale composto da una decina di valligiani trentini (artigiani, studenti, operai) privi di preparazione tecnica ma sostenuti da una grande passione per la musica popolare e per i canti raccolti nelle vallate e poi rielaborati. Qualche tempo dopo, alla formazione si aggiungono due musicisti e cultori del canto popolare: Antonio Pedrotti e Luigi Pigarelli. Con le loro sapienti rielaborazioni e armonizzazioni “a cappella” (locuzione con cui si definiscono i brani polifonici originariamente eseguiti nelle cappelle delle chiese, senza alcun supporto strumentale) riescono a dare al coro un colorito tutto particolare e una connotazione ben identificabile. Caratteristiche che continuano a contraddistinguerlo ancora oggi.

VI Comincia la radio

Intanto pero era accaduto un fatto destinato ad avere profonde ripercussioni anche sulla storia della canzone e a favorire ulteriormente quel processo che abbiamo gia descritto, di irradiazione di modelli linguistici dal centro alla periferia: anche in Italia era nata la radio. Impostasi in America nel 1920, in Italia nacque come Uri (Unione radiofonica italiana) in quanto il ministro delle Comunicazioni, Costanzo Ciano, aveva preteso che si formasse un’unica

societa monopolistica, un’unica stazione emittente, pit facilmente controllabile dalla censura.

L’Un, che aveva mandato in onda il suo programma inaugurale il 6 ottobre del 1924, comincid a trasmettere regolarmente il 1° gennaio del 1925. Giovinezza era la canzone che si replicava ogni sera per affermare che «la radio italiana, nata e sviluppata durante il primo decennio del regime, é un validissimo strumento di divulgazione di ogni nuova iniziativa...». Nel 1925 il canone della radio (che era nata il 27 agosto 1924 dall’unione della Radiofono — cioé del gruppo Marconi, azionista di maggioranza — con la Sirac) é di 20 lire l’'anno per gli apparecchi a galena, di 60 lire per quelli a due valvole, di 95 lire per quelli a tre valvole, di 150 lire per quelli a quattro valvole, di 180 lire per quelli a cinque valvole. Il primo cantante della radio fu Vittorio Belleli, che interpretava le sue canzoni in diretta dalla Sala Gay di Torino servendosi di rudimentali strumenti. Erano gli anni dei té danzanti, delle 103

veglie danzanti, persino degli aperitivi danzanti, come accadeva dalle undici a mezzogiorno alla Certosina di Sanremo. Importante fin dall’inizio fu Radio Napoli, che nel 1926 aveva sede in due stanzette all’ultimo piano del Palazzo Pantaleo in via Cesareo Console, sul lungomare. Con un responsabile dei programmi musicali (il Maestro Enrico Martucci), un tecnico, un

presentatore (Carlo Pennetti), una presentatrice (Rosa Di Napoli), alcuni musicisti, un conferenziere e il poeta Ernesto Murolo

che con voce pacata e affettuosa raccontava la storia e le vicende della citta e delle sue pit famose canzoni, Radio Napoli riusci a imporsi e a catturare l’ascolto di molti abbonati, che pagavano un canone di 8,75 lire, che dava diritto a un omaggio a scelta fra un rasoio Gillette e una bottiglia di marsala Florio. I pionieri della radio sono Alfredo Sivoli (alias Alfredo Vertullo), voce sottile e salottiera; il posteggiatore Giorgio Schottler; Mario Pasqualillo, al secolo Salvatore Baldi; Tina Castiglia-

na, vero nome Concetta Festa, primadonna per otto anni di Viviani e poi di Gill. «L’orchestra diretta da Tagliaferri e da Nardella é protagonista del concorso radiofonico delle canzoni napoletane, nel 1927. L’anno dopo — quando l’Uri é diventata Eiar e gli antifascisti sfottono: “eiar-eiar-alala” — la situazione degli studi partenopei non é pit! “indecorosa”; la nuova sede in via Egiziaca a Pizzofalcone é confortevole, la qualita dell’emissione decente, e c’é per-

fino un’orchestra stabile diretta dal violinista del San Carlo Giovanni Calveri e poi da Illuminato Cullotta, Evemero Nardella,

Tito Petralia.»! All’Uri segui appunto, nel 1927, l’Eiar (Ente italiano audizioni radiofoniche), costituito il 17 novembre di quell’anno. In soli tre anni il nuovo ente riuscira a triplicare i propri abbonati: da 51.000 a 177.000. Ecco comunque la progressione esatta degli abbonamenti alle radioaudizioni:

1 Come raccontano Pietro Gargano e Gianni Cesarini nel loro libro sulla canzone napoletana, op. cit., p. 175. 104

1929 102.000 1930 176.886 1931 241.889 1932 305.120 19339372807

1934 1935 1936 1937 1938

440.159 530.000 697.062 839.582 980.000

Nel 1940, l’anno dell’entrata in guerra dell’Italia, un anno —

come vedremo — molto importante per la nostra musica leggera, si arrivera al tetto del milione e mezzo. E interessante analizzare quale fosse percentualmente lo spazio attribuito ai vari generi. Nel 1928-’29 la situazione in percentuali era la seguente: musica varia

28%

opera lirica

10%

concerti sinfonici

prosa operetta musica da camera musica da ballo

5%

44% 5% 2% 6%

Dieci anni pit tardi — e il dato che possediamo é ancora pit preciso — sara questa: musica leggera

16,73

musica sinfonica e da camera musica da ballo

14,44 9,52

opera lirica operette e riviste esecuzioni corali

giornale radio e commenti politici notiziari per l’estero

7,85 2,56 0,68

12599 8,60

commedie

SZ

trasmissioni per le scuole medie e peri bambini

4,71

conversazioni notiziari, attualita, voci dal mondo radiocronache servizi religiosi

4,26 4,25 3,40 2,88

programmi agricoli

1,88

cultura fisica

0,57 105

Come si vede, la musica aveva un ruolo decisamente preponderante, reso ancor pit evidente dal primo posto della musica leggera. Tanto che gia nel 1928 si comincid a deprecare «l’uso indiscriminato del nuovo “tabacco auditivo” che genera riprovevoli assuefazioni e causa la degenerazione del gusto».* Ma queste critiche, che si rinnoveranno

continuamente,

non riusciranno

mai a mettere in discussione la leadership musicale, che alla radio e alla televisione dura ancor oggi.

Fascismo e musica leggera Il regime fascista, ormai insediatosi stabilmente al potere, esercito un controllo molto stretto, oltre che sulla vita politica e sulle varie forme di comunicazione di massa, anche sui piu disparati fenomeni musicali. Nel 1924 una circolare del Partito nazionale fascista recava Yordine di presentare tutte le canzoni straniere con parole «comunque tradotte». Sara la sagra delle parole in liberta. Un esempio? L’inno universitario Collegiate divento: Picche nicche e chi se ne fricche picche nicche

parroco e sindicche... E mentre il cognac diventava “arzente” e il pullover “farsetto”, il nome di Louis Armstrong veniva tradotto in quello di Luigi Braccioforte e quello di Benny Goodman in quello di Beniamino Buonomo. Nel 1929, invece, i carabinieri emanarono una serie di circolari

riservate aventi per oggetto i dischi contrari all’ordine nazionale © comunque lesivi dell’autorita. Nell’elenco figuravano, tra gli altri, inni nazionali come La marsigliese, canti socialisti e anarchici e persino ballate sulla ricostruzione della sfortunata impresa del generale Nobile al Polo Nord. Essendo entrati in vigore 2 Da Intossicazione radiofonica, ne «Il Messaggero» del 2 febbraio 1928.

106

quell’anno i patti lateranensi, non venivano ammessi riferimenti men che rispettosi alla “religione di Stato”. E, colmo dei colmi, nei fulmini della censura incappd addirittura La leggenda del Piave, divenuta nel frattempo popolarissima, perché conteneva espressioni sconvenienti come «tradimento» 0 «onta consumata a Caporetto» che verranno opportunamente emendate. Pit complesso l’atteggiamento che il fascismo ebbe nei confronti del jazz.? Sulle prime non esitd a definirlo «musica negroide» o «musica afro-demo-pluto-giudo-masso-epilettoide». Di questo tenore €, per esempio, l’articolo apparso su «Il popolo d'Italia» del 30 marzo 1928 a firma Carlo Ravasio, significativamente intitolato Fascismo e tradizione: «E nefando e ingiurioso

per la tradizione, e quindi per la stirpe, riportare in soffitta violini, mandolini e chitarre per dare fiato ai sassofoni e percuotere timpani secondo barbare melodie che vivono soltanto per le effemeridi della moda! E stupido, é ridicolo, é antifascista andare in

sollucchero per le danze ombelicali di una mulatta [si noti bene

quell’“antifascista”, N.d.A.] 0 accorrere come babbei a ogni americanata che ci venga d’oltre oceano! Dobbiamo crearle noi, le nostre forme di vita, d’arte e di bellezza, cosi come ci stiamo

creando la nostra forma di governo, le nostre leggi e le nostre originalissime istituzioni». Ciononostante, dal 1927 al 1929 (e in parte gia dal 1926, quando ancora era Uri), l’Eiar si collegd quasi giornalmente con locali da ballo di Torino, Milano, Roma e, pit! raramente, di Napoli.

Nel 1929 vard un programma giornaliero che duro per tutto I’anno dal titolo Eiar Jazz! Ii programma andava in onda dalla stazione di Milano in orari diversi (dalle 12,30 alle 14,30; dalle 17,00 alle 18,30; dalle 19,00 alle 19,55; dalle 23,00 alle 24,00). Improvwvisamente, nel 1930, Eiar Jazz! fu abolito e fino al 1935

la parola jazz apparve una sola volta nei programmi della radio: esattamente il 23 settembre 1935 alle 19,30 come ultimo brano di

un programma dell’Orchestrina Fonica. Si trattava di un fox-trot di Ansaldo, intitolato Jazzing. 3 Su tutta questa problematica una fonte ricchissima di informazioni (dalla quale, infatti, attingo) é il libro di Adriano Mazzoletti, Il jazz in Italia, op. cit., 1983. 107

Ma nel 1936 la situazione cambio nuovamente. I] 3 novembre di quell’anno, alle 17,20, ando in onda una trasmissione con

l’Orchestra di Piero Rizza che comprendeva tutti brani di autori stranieri. I] 1°, 8 e il 21 dicembre i microfoni si spostarono al Savoia Danze di Torino dove suonava il complesso di Max Springher che comprendeva molti eccellenti jazzmen. L’anno seguente fu ancor pid straordinario. In gennaio iniziarono le trasmissioni dell’Orchestra jazz Ramponi. II 6 aprile furono di scena Kramer e i suoi solisti. Il Quartetto Jazz dell’Eiar suond regolarmente tutte le sere alle 20,40 e programmi di musica jazz vennero irradiati spesso nel tardo pomeriggio. Nel 1938 nuovo, repentino mutamento.

Le trasmissioni jazz

scompaiono quasi del tutto dai programmi dell’Eiar. A tenere desto l’interesse per la musica d’oltre oceano rimangono solamente Barzizza e improvvisamente, la sera del 20 giugno di quell’'anno, Gorni Kramer, che esegue uno dopo I’altro Questo é swing, Piano stomp, After you’ve gone, Diga Doo, Star dust, Tiger rag. Dopodiché non rimise pit la sua fisarmonica davanti a un microfono della radio di regime.

Le canzoni del periodo fascista Il fascismo,

come

gia abbiamo

visto, prestO una

particolare

attenzione alla musica leggera, nel quadro di un interesse esplicito e dichiarato per la cultura di massa. Sara un caso, ma é un

fatto che la prima grande gara di canzoni si tenne in Italia nel 1922, sia pure in agosto, un paio di mesi prima, cioé, della marcia su Roma. I luoghi prescelti furono Castellammare Adriatico e Pescara, entrambi in Abruzzo, dove si dettero convegno sia i cantanti locali che i cantanti famosi, perché le canzoni in lingua e

quelle dialettali erano in lizza alla pari. La sagra canora si svolse a bordo di paranze infiorate sotto la direzione del Maestro Gargarella. Le canzoni dell’epoca fascista sono assai diverse tra loro.

Innanzitutto vanno ricordate le canzoni dichiaratamente politiche, che accompagnarono I’ascesa del movimento prima e del regime poi. Tra queste la pit popolare e insieme la pit ufficiale é 108

senza dubbio Giovinezza, la cui melodia si rifa apertamente a un canto goliardico molto diffuso al principio del secolo, composto nel 1909 da Giuseppe Blanc su testo di Oxilia. Il Commiato o Inno degli studenti diceva cosi: Son finiti i giorni lieti degli studi e degli amori, oO compagni in alto i cuori e il passato salutiam! E la vita una battaglia, é il cammino irto d’inganni, ma siam forti, abbiam vent’anni,

lavvenire non temiam. Giovinezza, giovinezza

primavera di bellezza! Della vita nell’asprezza il tuo canto squilla e val... Secondo Asvero Gravelli, il primo rimaneggiamento dell’ Inno degli studenti di Oxilia avvenne circa sei anni dopo. Racconta il Gravelli: «Nel 1910 a Bardonecchia si riuniva un gruppo di vigorosi ufficiali degli alpini inviati dai rispettivi reggimenti a compiere il corso sciatori. Al corso partecipava anche Giuseppe Blanc, il quale alla sera cantava alla mensa, accompagnandosi col pianoforte, canzoni di soldati, seguito dal coro degli alpini. Una sera canto per la prima volta il Commiato; la canzone piacque ai giovani ufficiali che entusiasticamente la proclamarono Inno

degli sciatori. In breve divenne popolare [...] E poi venne la guerra; e il Blanc combatté come ufficiale sciatore. In trincea

egli doveva

incontrarsi

stranamente

colla sua creatura

mai

dimenticata. «Fu appunto nei pressi di Rovereto — racconta Salvator Gotta — quando una notte, passando davanti a una barac-

ca, udi un flebile flauto suonare Giovinezza. Si fermo di botto,

quasi l’avessero chiamato per nome, entro nel ricovero e vi trovo un soldato che gli mostr6 un foglio di musica sul quale era scritto

Inno degli Arditi [...] Ma com’era giunto il canto sul limitare sanguinoso delle trincee? Ecco: quando il Comando italiano decise di estrarre dall’esercito nostro tutto il fiore dell’audacia 109

invincibile, costitul i prodigiosi battaglioni di arditi, mitraglia umana

inarrestabile,

irresistibile.

Nei campi di Manzano,

in

istruzioni pericolose e talvolta mortali, questa giovinezza terribile s’addestrava alla guerra. Le Fiamme Nere, create per la vittoria, cercarono allora un inno che secondasse il loro slancio ardimentoso, che risuonasse come un assalto vittorioso. Lo trovaro-

no nella musica gioiosa e marziale di Giovinezza che essi appresero dagli alpini. E subito un ardito, Marcello Nanni, creo e raccolse le strofe spavalde ed eroiche: Del pugnal al fiero lampo, della bomba al gran fragore, tutti avanti, tutti al campo: qui si vince oppur si muore! Sono giovane e son forte, non mi trema in petto il cuore! Sorridendo vo alla morte pria d’andare al disonore! Giovinezza, giovinezza

primavera di bellezza! Della vita nell’asprezza il tuo canto squilla e va!»* Il canto divenne cosi l’inno ufficiale degli arditi. Ma un nuovo adattamento lo attendeva, quello direttamente a opera del movimento fascista, del quale non si conosce pero né la data d’origine né l’autore del testo. Lo raccolse Lino Carrara nei suoi Canti fascisti:° Su compagni, in forti schiere® marciam verso l’avvenire,’

siam falangi audaci e fiere * Asvero Gravelli, J canti della rivoluzione fascista, Nuova Europa, Roma 1926. 5 Lino Carrara, Canti fascisti, Simoncini, Pisa 1923.

6 Si noti quell’inusitato «su compagni», che oltretutto ricorda I’attacco dell’ Inno dei lavoratori. 7 Anche questa espressione richiama il garibaldino e poi socialistico «sol dell’avvenire». 110

pronte a osar e pronte a ardire. Trionfi alfine Videale® per cui tanto combattemmo: fratellanza nazionale @ italiana civilta... Tutte queste incongruenze si spiegano con ogni probabilita con il carattere ancora propositivo ed esortativo del testo, in una fase in cui il fascismo tendeva oltretutto ad accreditarsi come movimento rivoluzionario e persino socialisteggiante. Non sara pit cosi nel caso della versione del Partito nazionale fascista, quella ufficiale, che porta la firma di Salvator Gotta. A Giovinezza si affiancarono moltissimi altri canti e inni, su cui

non é il caso di soffermarsi in questa sede. Basti ricordare che ogni “settore” del partito fascista — a riprova dell’attenzione che il regime rivolgeva alla comunicazione di massa — ne aveva almeno uno. Tipici in questo senso Balilla!, inno ufficiale dei fanciulli fascisti, e

il Canto delle donne fasciste composto sull’aria di Giovinezza. Il primo, scritto nel 1923 da Vittorio Emanuele Bravetta e musicato dal solito Giuseppe Blanc, inizia con i famosi versi: Fischia il sasso, il nome squilla

del ragazzo di Portoria e T’intrepido Balilla sta gigante nella storia... Pit interessante é il secondo, che porta la firma di Giuseppina Zei, in cui affiorano toni “femministi”,

Né cintralciano le gonne

nella lotta santa e pura, toni anticlericali

Le beghine disprezziamo, che non han niente di pio, 8 Ancora un verso preso di peso dalla tradizione socialista e comunista: si pensi a «l’ideale nostro alfine sara» dell’Internazionale. 111

e non pochi accenti antiborghesi:

Disprezziam gli svenimenti, le pettegole volgari, le megere delinquenti che han di sangue avidita... Ai canti apertamente politici che comunisti e socialisti non smisero mai di parodiare — si pensi, per esempio, a Spartacus Picenus, alias Mario Offidani, militante comunista, che svolse

instancabilmente questo ruolo e che gia nel 1919 aveva saputo trasformare Giovinezza in Bolscevismo — si accompagnarono canzoni di contenuto pit sfumato e soprattutto di impianto pit tradizionale. Gli esempi sono davvero molti e vanno dalle dialettali Ho scritto ar duce, composta in romanesco nel 1931 da Simeoni, De Torres e Del Pelo,

Ho scritto ar Duce: — Voi che lo potete e séte puro un padre, so certa che de no nw’ je direte ar core de ’sta madre,

‘sta madre che in preghiera chiede p’er fijo ’na camicia nera... e Un posticino ar sole, di Martelli, Neri e Simi, che nel 1936

vinse il primo premio alla Sagra di San Giovanni di Roma, Un posticino ar sole mo Italia bella e’hai pure tu! Cor sangue suo versato V’ha conquistato la gioventu!...

a canzoni tipo Nostra casa di Galdieri e Nardella sul risanamento delle paludi pontine: La dove gracidavano insidiose le rane nella landa paludosa, le bande sfavillarono gioiose, 112

e con il grano nacque un fiume rosa e con la rosa gid spunto una casal...

Sono brani molto pit quotidiani che eroici, tipici di un popolo che, nonostante tutto, tendeva ancora all’abbandono, al sentimentalismo, alla nostalgia. E difatti i valori della casa, della

famiglia, vi fanno la parte del leone. Sentite cosa dichiarava Daniele Serra in Signorine, sposatevi... di Confaloni: Abbiamo troppi scapoli fra noi ragazze belle & una scemenza, noi cominciamo a dar la colpa a voi: usate troppa indulgenza... O cosa furono in grado di partorire Borella e Mariotti in Jo sogno un pupo rosa: Regno senza re, é la casa in sé dove ancora non c’é un pupo tutto rosa...

Per non parlare dell’ormai proverbiale C’é una casetta piccina di Valabrega e Prato Sposi! Oggi s’avvera il sogno e siamo sposil... o delle aspirazioni piccolo-borghesi contenute in canzoni tipo Mille lire al mese

Se potessi avere mille lire al mese, senza esagerare, sarei certo di trovare

tutta la felicita! Un modesto impiego, io non ho pretese, voglio lavorare per poter alfin trovare tutta la tranquillita! Una casettina in periferia, ~. una mogliettina giovane e carina, tale e quale come te... 113

0 tipo I milioni della lotteria di De Angelis, sia pure, in questo caso, in chiave visibilmente ironica:

Per vivere felici, miei cari e buoni amici,

non ci vuol proprio nulla... Con la cartella d’una lotteria,

potrai viaggiare il mondo in ferrovia attraversare tutto il mare Giallo con la scimmietta, il cane e il pappagallo... Molti di questi brani — com’é facile arguire — erano finalizzati alla campagna di incremento demografico, ma non diventarono mai stimoli autonomi di propaganda, essendo del tutto simili agli altri motivi di evasione allora in voga. Questi ultimi, per parte loro, continuavano a registrare l’assoluto predominio del feuilleton, anche a sfondo sociale, e del dop-

pio senso sempre meno allusivo e sempre pit greve. Nel 1929 E.A. Mario compone quella che potremmo definire

la canzone-feuilleton per eccellenza, Balocchi e profumi, lanciata da Gennaro Pasquariello al Teatro Eden di Napoli, la storia di una mamma egoista e dissoluta che tentera di redimersi quando sara ormai troppo tardi, cioé quando la figlia, malata, sara sul letto di morte: Tutta sfolgorante é la vetrina piena di balocchi e profumi... Entra con la mamma la bambina

tra lo sfolgorio di quei lumi... «Comanda, signora, Cipria e colonia Coty...» «Mamma!»

mormora la bambina... mentre pieni di pianto ha gli occhi... «per la tua piccolina non compri mai balocchi... Mamma,

tu compri soltanto i profumi per te!»...

Del 1932 € Rotaie di Bixio e Cherubini, che narra gli stenti e i pericoli di chi € costretto a guadagnarsi il pane scavando gallerie 114

per i treni: canzone smaccatamente populista e altrettanto smaccatamente finalizzata al consenso. Sul versante “porno” i titoli sono poi numerosissimi: da composizioni tipo Sofia di Marf e Bernard in cui il protagonista finisce sempre per contrarre qualche malattia venerea, a Ti daro quel fior, sempre di Marf e Mascheroni (antesignana di Sara un fiore che Enrico Beruschi portera al successo nientemeno che al Festival di Sanremo del 1979), da Ziki-Paki, Ziki-Pu, la celeberrima canzone one-step di Mendes e Mascheroni,

Ah! Ziki-Paki o Ziki-Pul... L’italiano non ci stette a pensar su, se la prese per la mano, la condusse piu lontano, sotto un albero, laggiu... — Dimmi il tuo nome o bella Indu — Ziki-Paki son e non scordarlo piu! E per meglio ricordar tosto lui si mise a far: — Ziki-Paki, Ziki-Paki, Ziki-Pul... a Dai... Dai..., in cui ’estroso Rodolfo De Angelis si fa beffe dell’aviatore che, pur essendo andato apposta nel Mississippi, non riesce per quanti sforzi faccia a suonare il «saxofon»... E tutto un trionfo di oscenita e di doppi sensi a dir poco pesanti che culminano nel 1926 nella fin troppo esplicita In riva al Po

di Ripp, In riva al Po, Po, Po, le dissi mo, mo, mo, ti metto in po,

ti metto in po, in posizione ti metto un po’. In riva al Po, Po, Po, lei disse: «No, no, no,

ti sei sbagliato o mio tesor, qui siamo in riva al posterior»...

la quale conferma |’adorazione dei nostri parolieri per il sedere femminile. Interprete pressoché fisso di queste canzoni fu il 115

famoso Bernard, che era riuscito a passare indenne dal café chantant alla rivista. La rivista

Il teatro di rivista (che in origine voleva indicare un teatro che passava in rivista i fatti di attualita e che aveva fuso in uno i due spettacoli musicali che non avevano resistito al tempo: l’operetta e il caffé-concerto) era stato in pi di un’occasione tagliente e corrosivo, riuscendo talvolta a esprimere critiche centrate: si pensi alla Turlupineide di Renato Simoni, con la partecipazione del grande Edoardo Ferravilla, che é dell’aprile del 1908. Ma ai primi di gennaio del 1923, subito dopo l’avwvento dei fascisti al potere, venne istituita presso la Presidenza del Consiglio la censura sulle riviste, cosicché in poco tempo i testi tornarono a essere edulcorati e inoffensivi. A spingere a questa decisione concorse probabilmente un epi-

sodio accaduto alla fine del 1922.

A meta novembre di quell’an-

no la compagnia Rota mise in scena al teatro Fossati di Milano la rivista Manicomio! di Luciano Ramo, Carlo Rota e Guido Galli,

il primo spettacolo del genere firmato da ben tre autori. Ne erano protagonisti Maria Donati e l’attore-cantante Lino Medini. La rassomiglianza di quest’ultimo con Benito Mussolini era a dir poco stupefacente. Ma non fu questo il problema. I guai alla rivista vennero dal testo, in cui si parlava di un «puro folle» che era fuggito da un «letto d’ospedale parlamentare» dove era ricoverato assieme ad altri quattro «folli degenti» come lui: un folle liberale, un folle « Yrs Ae ¢

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XIII

Una canzone

“diversa”

Modugno, Celentano, Buscaglione sono — anche sul piano commerciale — la punta dell’iceberg della ricerca di una canzone “diversa”. Una ricerca che in quegli anni si sviluppa in varie direzioni e che ha uno dei suoi momenti pit significativi nell’esperienza di Cantacronache. Avviata a Torino nell’estate del 1957 per iniziativa di musicisti come Amodei, Margot, Liberovici e di scrittori come Calvino,

Jona, Fortini, coltiva il lodevole proposito di riportare nella canzone italiana il duro contenuto della cronaca quotidiana. E quanto appunto si ripromette (la sera del 3 maggio 1958, nella sala dell’Unione Culturale a Torino) con lo spettacolo 73 canzoni 13. Nascono cosi canzoni importanti come Dove vola l’avvoltoio?

di Calvino e Liberovici (1958), Un giorno nel mondo finita fu ultima guerra, il cupo cannone si tacque e pitt non sparo

e, privo del triste suo cibo, dall’arida terra un branco di neri avvoltoi si levo. Dove vola l’avvoltoio? Avvoltoio, vola via,

vola via dalla terra mia che é la terra dell’amor... Oltre il ponte, sempre di Calvino e Liberovici, del 1959, Avevamo vent’anni e oltre il ponte oltre il ponte che é in mano nemica 259

vedevam laltra riva, la vita

tutto il bene del mondo oltre il ponte...

Cantata della donna nubile di Jona e Liberovici (1960), Valzer della credulita, sempre di Jona e Liberovici, del 1963. E si impongono composizioni pungenti come Tiro a segno, del 1961, Su sparate, cittadini,

sul servo sciocco e sul protettor, sul mercante di bambini,

sul boia e sul dittator. Sugli sbirri e i parrucconi, sui baciapile e i leccaltar, sui fascisti e sui cialtroni e sui capitani d’affar... 0 Questa democrazia, sempre del 1961,

Ammesso e non concesso che Vitaliano medio é un poco fesso, é democratico, ma é un gran pericolo lasciar permettere troppa liberta. Abbiam la liberta d’esporre i panni al vento nell’ore consentite dal regolamento. Abbiam la liberta d’attraversare i viali fruendo delle strisce pedonaii...

che portano la firma di Mario Pogliotti, un autore-cantante versato anche nel genere esistenziale. Si pensi a Uno uguale a me, del 1961, Il mare non vedo,

soltanto la domenica ci vado con IElvira, che non ci so che fare, perché sempre a scavare

tutto il santo giorno 260

succede che uno dimentica che attorno

c’é pure il mare... € soprattutto a quello splendido ricordo di Pavese che é Un paese vuol dire non essere soli, del 1964: Un paese vuol dire non essere soli, avere gli amici, del vino, un caffe. Io vengo dalla citta conoscevo le strade dalle buche rimaste,

dalle case sparite, dalle cose sepolte che appartengono a me. Al di la delle gialle colline c’é il mare, un mare di stoppie, non cessano mai:

il mare non voglio piu; ne ho visto abbastanza;

preferisco una “tampa” e bere il silenzio,

quel grande silenzio che é la vostra virtu...

Con Cantacronache s’afferma anche una delle nostre prime cantautrici, Margot (pseudonimo di Margherita Galante Garrone), che propone, con la sua voce profonda e cristallina, canzoni e ballate di genere proto-femminista, assai suggestive e malinconiche: Sul davanzale c’é una mosca morta,

il balcone é ancora umido di pioggia. S’é accesa la radio dell’alloggio vicino sei uscito per comprarti da fumare...' In questo senso, il suo disco pit intrigante é indubbiamente quel Canzoni di una coppia (1963), al quale collabora in due brani anche un poeta come Franco Fortini: 1 Pomeriggio di domenica, Margot, 1963. 261

Quant’é lunga la vita e come é strana

quanto é lontana la citta a quest’ora e ieri non ti conoscevo ancora

e domani chissa se ti vedro...?

Al clima di Cantacronache é legata anche quella che é forse la piu bella canzone politica del secondo dopoguerra, Per i morti di Reggio Emilia, di Fausto Amodei, composta all’indomani dei moti popolari che nel luglio del 1960 rovesciarono il governo clerico-fascista di Tambroni: Compagno cittadino, fratello partigiano, teniamoci per mano in questi giorni tristi. Di nuovo a Reggio Emilia, di nuovo Ia in Sicilia son morti dei compagni per mano dei fascisti. Di nuovo, come un tempo,

sopra Italia intera urla il vento e soffia la bufera... In quello stesso periodo, a Milano, Gianni Bosio e Roberto

Leydi si erano fatti promotori alle Edizioni Avanti! di un vivace lavoro di ricerca sul canto e sulle tradizioni popolari. Loro punto di riferimento fondamentale erano gli scritti di Ernesto De Martino, il quale, in un celebre articolo apparso sul «Calendario del popolo» del 1951, aveva affermato, suscitando subito un ampio dibattito: «II folklore non é soltanto tradizione, memoria presente del passato, ma contiene anche motivi progressivi, vivaci riflessi delle aspirazioni attuali del mondo popolare, e accenni e indicazioni verso il futuro [...] Si tratta di canti che esprimono ora semplice protesta e ora aperta ribellione alla condizione subalterna a cui il popolo é condannato; owvero di stornelli satiri2 Le nostre domande, Margot-F. Fortini, 1963.

262

ci contro il nemico di classe, di epiche memorie di lotte antiche e recenti, di lirici abbandoni all’appassionata anticipazione del mondo migliore di domani. Questo patrimonio folkloristico progressivo € stato sempre, per ovvie ragioni, trascurato dalla scienza folkloristica tradizionale, la quale proprio in questa “omissione” rivela il suo pit palese carattere classista». Il nuovo canzoniere italiano

Nel 1961 avviene la prima collaborazione tra i due gruppi, i quali — tra il 1962 e il 1963 — decidono di fondersi. Scompare cosi il Cantacronache e nasce il Nuovo canzoniere italiano, che annove-

ra tra gli altri nelle sue file Sandra Mantovani, Giovanna Marini, Ivan Della Mea, Rudy Assuntino (che ha tra l’altro il merito di tradurre per primo in Italia le canzoni di Bob Dylan) e Michele Luciano Straniero. Con il Nuovo canzoniere nascono anche due nuove etichette: I dischi del sole (creati da Gianni Bosio e Roberto Leydi) e le Edizioni del gallo (che prendono il posto delle vecchie Edizioni Avanti!, entrate in crisi dopo il distacco di molti dei loro collaboratori dal Psi a seguito della decisione dei socialisti di partecipare ai governi di centro-sinistra). Il 20 giugno del 1964, al Festival dei Due Mondi di Spoleto, il Nuovo canzoniere mette in scena al Caio Melisso lo spettacolo Bella ciao, destinato a passare alla storia. Michele Straniero ese-

gue a un certo punto O Gorizia (che, come sappiamo, é una vecchia canzone di trincea della prima guerra mondiale), includendovi alcuni versi che i fanti avevano effettivamente cantato:

Traditori signori ufficiali che la guerra l’avete voluta, scannatori di carne venduta e rovina della gioventu... Straniero ha appena terminato di eseguire questa strofa che un colonnello d’artiglieria salta in piedi gridando: «Viva gli ufficiali italiani». Due giorni dopo Straniero e gli altri responsabili dello 263

spettacolo vengono denunciati per vilipendio delle Forze armate (art. 290 del codice penale: da tre mesi a due anni di reclusione)! Nel 1965 e nel 1966, a Torino, si svolgono invece (su iniziativa del Comitato studentesco dell’Accademia Albertina) i due pit grandi “folk festival” mai realizzati in Italia. Il modello preso a prestito é quello statunitense. I] “folk festival”, infatti, é un’istituzione americana che proprio in quegli anni sta dando il meglio di sé. A quello di Newport del 1963 numerosi cantanti (Phil Ochs, Bob Dylan, Tom Paxton e altri) avevano fatto propria la causa dei neri e protestato contro gli abusi del capitalismo statunitense. Si erano rifiutati (Ochs) di prendere le armi e avevano condannato (Dylan) i “signori della guerra”. Del 1966 é l’altro grande spettacolo del Nuovo canzoniere, Ci ragiono e canto, che si avvale del lavoro di ricerca di Cesare Bermani e Franco Coggiola e della regia di Dario Fo. Il senso della proposta é gia contenuto nella copertina del programma di sala, che dice: Nasco piango

grido ammazzo mi faccio ammazzare faccio all’amore rido mi affatico prego credo non credo crepo ci ragiono e canto.

Una proposta che vuol essere un modo vero e al tempo stesso spregiudicato di rappresentare la condizione del mondo popolare e proletario. Le canzoni sono una pit bella dell’altra. Da Nana bobo (ninna-nanna di Chioggia) a So stato a lavora a Montesicuro (canto di lavoro raccolto a Montefiascone), dalla Lizza 264

delle Apuane (composizione ritmica dei cavatori di marmo di Carrara) a Cade l’uliva (frammento di antico rispetto lucchese). Fino alla celeberrima Donna lombarda, \a pit famosa canzone narrativa italiana, e una delle pit antiche, diffusa in tutte le

regioni. A interpretarle @ stato mobilitato un cast d’eccezione, che comprende, tra gli altri, Rosa Balistreri, Caterina Bueno, Gio-

vanna Daffini, Ivan Della Mea, Giovanna Marini, il Gruppo padano di Piadena, il Coro del Galletto di Gallura. Poi, con il passare del tempo, il Nuovo canzoniere italiano si

identifichera sempre pit con i tre grandi protagonisti della canzone politica dell’ultimo ventennio: Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli e Ivan Della Mea. Con loro il folk viene a essere inteso come uso dei codici linguistici e stilistici, degli impianti musicali e vocali, dei modi espressivi, comunicativi e rappresentativi della musica popolare, al fine di reinterpretarlie reinventarli, di porli a base di un atto creativo da compiersi nel presente. Dei tre la Marini é quella che portera pit avanti la ricerca sul piano prettamente musicale. Musicista di rigorosa preparazione e di grande talento, sviluppera a fondo la riflessione e lo studio sulle diverse forme di canto, da quello contadino a quello urbano, in lavori di grande suggestione come Vi parlo dell’America (1967), L’eroe (1972), I treni per Reggio Calabria (1974), dal titolo di una delle sue pit belle canzoni, Andavano col treno git nel Meridione per fare una grande manifestazione il ventidue d’ottobre del Settantadue in curva il treno che pareva un balcone quei balconi con la coperta per la processione il treno era coperto di bandiere rosse

slogan, cartelli e scritte a mano... fino ad approdare alla musica sinfonica in senso stretto, mantenendo pero intatto il suo gusto per il pastiche e per la contaminazione degli stili. Paolo Pietrangeli affinera sempre pit la sua vena ironica e sarcastica, anche se il suo nome é soprattutto legato alla famosissi265

ma Contessa, scritta nel maggio del 1966 —- in occasione della prima occupazione studentesca dell’Universita di Roma in seguito all’assassinio fascista dello studente Paolo Rossi — che diverra di li a poco I’inno dei cortei e delle manifestazioni del 1968: Compagni, dai campi e dalle officine prendete la falce, portate il martello, scendete git in piazza, picchiate con quello scendete git in piazza, affossate il sistema... Ivan Della Mea, gia autore di alcune delle ballate pit significative della canzone politica degli anni Sessanta, come, per esempio, Cara moglie O cara moglie, stasera ti prego,

di a mio figlio che vada a dormire,

perché le cose che io ho da dire non sono cose che deve sentir. Proprio stamane la sul lavoro, con il sorriso del caposezione, mi é arrivata la liquidazione,

m’han licenziato senza pieta. E la ragione é perché ho scioperato per la difesa dei nostri diritti,

per la difesa del mio sindacato, del mio lavoro, della liberta...

e la Ballata del piccolo An, forse la pit bella tra quelle dedicate alla lotta del popolo vietnamita,

O Cheu io vorrei che tu fossi qui con me a gioire degli ilang in fiore

con me a Ssentire cantar le campane ma tu sei lontano nel Nord Vietnam. E marzo a Kam-Tho ed é poesia la nostra poesia ma io non ho pace la nostra Kam-Tho dai viali di sao é stretta tra maglie di ferro nemico Ma un giorno il viale dei fiori di ilang avra nome viale del piccolo An... 266

approfondira il suo discorso sul nesso “scienza”-“conoscenza”. Prima della scienza — dice Della Mea — si deve possedere la capacita di conoscenza, la capacita di amare, persino nel modo pid semplice e indifeso, la capacita di rispettare l'uomo, manifestandogli sempre la propria solidarieta. E lo fara in brani bellissimi come Lettera a Michele del 1972 Mio caro Michele, ricordi la lotta,

le grida infuocate? «La fabbrica é nostra, cosi é la citta, é nostra la vita!»,

ma poi qualcosa é cambiato, Michele. E dopo la lotta, ricordi Michele?

Con giusta premura si fecero i quadri del nuovo partito, e il termine nuovo non fu cosi nuovo, non troppo, Michele. Mio caro Michele, nel nuovo partito

la nuova avanguardia di fatto sono io: ti do la teoria e la strategia; non é presunzione, Michele, ma é mia... e nell’intero album Fiaba grande, del 1975,

E ha scoperto che tutto il male puo diventare scienza e che la noia son diventati Palienazione, son diventati

e che la morte scienza lo sfruttamento scienza

e che il potere e che il fascismo sono la vera scienza...

in polemica anche con quei marxisti dottrinari che sanno solo ripetere fino alla noia delle formulette ideologiche ma sono incapaci di comprendere gli autentici sentimenti degli uomini. Del Nuovo canzoniere una citazione a parte merita anche Gualtiero Bertelli, veneziano, autore nel dialetto natio di molte

ballate “dure” e struggenti. Una di queste é Nina ti te ricordi, del 1967, che testimonia delle difficolta di sopravvivenza quotidiana dei ceti pit. umili: 267

Nina ti te ricordi quanto che g’avemo messo a andar su ’sto toco de leto insieme a far l’amor... E dopo se semo sposai te giuro che a mi me pareva parfin che fusse un peca... Amarse no x’é no un pecato ma ancuo el x’é un lusso de pochi e intanto ti Nina ti speti € mi son disocupa... Un/’altra, del 1975, & Mi voria saver:

Mi voria saver perché ’st’aria xe ciara e sta zente sbasia che speta el siroco; ’sto mar grosso che va

soto un cielo de piombo e che porta lontan un sol povaro e stanco... La canzone “intellettuale”

Verso la fine degli anni Cinquanta la canzone “diversa” si arricchisce di altri importanti protagonisti. Tra questi c’é Milly (nome d’arte di Maria Carla Mignone), I’eclettica cantante-attrice balzata alla notorieta verso la meta degli anni Venti con brani del

repertorio di Anna Fougez (tipo Gira, rigira, biondina). Col tempo la sua voce si € un po’ arrochita, diventando, se possibile, anche pit sensuale. Nel 1956 é Strehler a scritturarla. Col Piccolo Teatro di Milano ottiene una nuova consacrazione artistica, interpretando con grande personalita il non facile personaggio di Jenny delle Spelonche

nell’ Opera da tre soldi di Brecht-Weill. Nel 1962 al Teatro Gerolamo di Milano é la splendida protagonista con Tino Carraro (e Anna

Nogara, Enzo Jannacci, Sandra Mantovani) di Milanin Milanon, 268

un ritratto di Milano ricostruito attraverso un ricco repertorio di poesie e canzoni, grazie all’estro di Roberto Leydie Filippo Crivelli. Una citazione d’obbligo per La roeuda la gira (Sigismondi-Antonacci, 1901), Nostalgia de Milan (Bracchi-D’ Anzi, 1938) O mama mia insci lontan

mi go la nostalgia del me Milan. Mi voraria torna doman...

Stramilano (Ramo-Mascheroni, 1937), Stramilano S.T.R.A.M.I.L.A.N.O.

piano piano Montemerlo confondi col Pincio,

il Naviglio col Po! Vai lontano a Parigi con lautostrada, a Berlino in metro...

La brutta citta (Fo-Carpi-Chiosso, 1963): Non esiste pianura piu piatta di questa

dove il vento ha paura di sporcarsi di nebbia,

dove un Duomo pazzesco coperto di pizzi é una cava di marmo vestita da sposa. Il Naviglio sta fermo e soffoca i pesci, solo un sogno si muove e triste va via

dalla brutta citta che é la mia... 269

Una menzione speciale va poi a due artisti come Paolo Poli e Laura Betti. Il primo, dissacratore geniale — in spettacoli memorabili come II diavolo (1965), Rita da Cascia (1969), Cane e gatto (1984), e in dischi graffianti come Mezzacoda (1979) — della musicaccia dell’Italietta provinciale e autarchica. La Betti, interprete ideale della canzone “intellettuale”, in brani composti appositamente per lei — e da lei proposti, vestendo i panni dell’esistenzialista, con calzamaglie nere alla Juliette Greco, ma anche

con molto spirito, molta verve e una voce notevole da soprano leggero, nei due spettacoli di Giro a vuoto e Giro a vuoto N. 2 da Fortini (Quella cosa in Lombardia, Fortini-Carpi, 1960),

Sia ben chiaro che non penso alla casetta, due locali piu servizi, molte rate pochi vizi,

che verra quando verra. Penso invece a questo nostro pomeriggio di domenica, di famiglie cadenti come foglie, di figlie senza voglie, di voglie senza sbagli, di millecento ferme sulla via con i vetri appannati di bugie e di fiati lungo i fossati della periferia... da Arbasino (Seguendo la flotta, Carpi-Arbasino, 1960), Ossigenarsi a Taranto é stato il primo errore: l’ho fatto per amore di un incrociatore, e sono finita, su un rimorchiatore...

da Pasolini (Macri Teresa detta Pazzia, Cristo al Mandrione, e,

soprattutto, il Valzer della toppa, Pasolini-Umiliani, 1960) Me so presa la toppa emo so’ felice! 270

Me possi cecamme me sento tornata a esse un fiore de verginita!... e tanti altri: da Soldati a Flaiano, da Moravia a Parise, da

Fabio Mauri a Ercole Patti. In particolare questo valzer pasoliniano — storia di una prostituta di Testaccio che una sera si ubriaca (toppa sta per “sbornia”) e crede di essere tornata improvvisamente vergine — é cosi coin-

volgente che anche Gabriella Ferri ne fara molti anni dopo uno dei suoi cavalli di battaglia. Pasolini racconto d’averlo scritto anche per il piacere di usare liberamente espressioni dialettali come anvedi 0 me possi cecam-

me, che esercitavano su di lui un fascino particolare, capaci come sono di esprimere fulmineamente tutto un mondo poetico. Dalla “mala” ai cantautori

Anche due interpreti “tradizionali” hanno avuto molto a che fare con la canzone “diversa”. Una é Ornella Vanoni, milanese, attrice del Piccolo di Milano,

poi, dal 1959, interprete ineguagliata delle “canzoni della mala”, che incide per la Ricordi con l’impostazione di Giorgio Strehler e la supervisione di Fiorenzo Carpi. Qualche titolo: La zolfara (Amodei-Straniero, 1958), Hanno ammazzato il Mario (Car-

pi-Fo), Hanno ammazzato il Mario in bicicletta,

gli hanno sparato dal tram che va all’Ortica, era in salita ma pedalava in fretta, poi han beccato e andava con fatica...

Ma mi (Strehler-Carpi, 1958) e Le Mantellate (Strehler-Carpi, 1959), Le Mantellate so’ delle suore a Roma so’ soltanto celle scure... che recavano la firma di Strehler, Carpi e Anonimo. Con cid si

voleva alludere alla genuinita della loro origine popolare. Su 271

questo non tutti erano pronti a mettere la mano sul fuoco, convinti che in realta si stava cercando di sfruttare al meglio la moda del canto popolare allora in auge.

Passera qualche anno e la Vanoni conoscera il vero grande successo diventando l’interprete “ufficiale” delle canzoni dei cantautori, grazie, in particolare, al sodalizio artistico e umano con Gino Paoli. Di quest’ultimo incidera brani indimenticabili come Senza fine (1961, da lei interpretata in modo magistrale), Me in tutto il mondo (1961), Se mi potessi vedere ogni volta che penso a te,

se tu mi potessi sentire ogni volta che chiamo te: tu mi berresti nel bicchiere che bevi,

mi leggeresti dentro il libro che leggi, vedresti me, solo me, in tutto il mondo...

Che cosa c’é (1963): Che cosa c’eé, c’é che mi sono innamorata di te,

c’é che ora non mi importa niente di tutta l’altra gente di tutta quella gente che non sei tu... Ma ai cantautori in genere (italiani, francesi, brasiliani eccete-

ra) dedichera molte delle sue pit convincenti interpretazioni e anche alcuni album davvero bellissimi. Passata pit tardi alla rivista musicale (un titolo per tutti: Roma nun fa’ la stupida stasera) e alle canzoni di impianto pid tradizionale (Coccodrillo, Siamo pagliacci, Domani é un altro giorno), la Vanoni restera una delle nostre interpreti pit affascinanti, anche se il suo stile sempre pit “raffinato” e “sofisticato” non sempre le giovera. Di recente, pero, la cantante milanese é tornata ai suoi vecchi

amori €, prima come cantautrice (si pensi a Lp come Duemilatrecentouno parole, dell’81,

e Uomini, dell’83), poi in coppia pro-

prio con Paoli in una fortunatissima tournée (Jnsieme, tra l’au272

tunno dell’84 e la primavera dell’85) é ritornata a esprimere il meglio di sé. Dalle canzonette a Brecht

L’altra cantante cui facevamo riferimento é Milva (vero nome: Maria Ilva Biolcati). Emiliana, di umili origini, la “pantera di Goro” ha dovuto percorrere tutte le difficili tappe dell’apprendistato canoro prima di imporsi definitivamente in occasione del Festival di Sanremo del 1961 con I/ mare nel cassetto, ma nella

poco simpatica veste di “rivale di Mina”:

Un piccolissimo lembo di vela baciata dal sol con una scheggia di barca e fili di rete d’or... Questo é il mio mare, il mio mondo

che sol di sogni vive... E il piu bel mare del mondo... Questo é il mio mar!...

Quest’abito le era stato cucito addosso dai giornalisti pit conservatori, che volevano limitare il dominio sempre pit incontrastato dell’“urlatrice” cremonese.

Agli inizi, infatti, il repertorio di Milva sara quanto di pit tradizionale si possa immaginare (Flamenco rock, Tango italiano, Stanotte al luna park, Quattro vestiti). Col tempo, perd, la can-

tante emiliana affinera molto il suo stile e anche la sua tecnica vocale. Si pud dire che il suo percorso sara esattamente l’opposto di quello seguito dalla Vanoni. Quest’ultima — come detto — era passata dal Piccolo alla canzone impegnata e infine alla canzonetta; Milva, invece, passera dalla canzonetta alla canzone impegnata e, infine, al Piccolo, dove sara reinventata e reimpostata

anche lei da Giorgio Strehler. Da allora il suo repertorio comprendera i canti della Resistenza come i gospels, le canzoni di Brecht e Weill come quelle dei cantautori. 273

Una frase di Sandro Bolchi é sufficiente a riassumere il passaggio di Milva a questo secondo stadio della sua carriera: «La voce di Milva, quella voce gia temporalesca e con il tuono che le grugniva dentro, ammutoliva la gente. Adesso la voce della cantante & sempre nera e fonda, ma allora aveva proprio il colore della notte».? E anche nel suo caso sara un cantautore, e uno dei pit colti e sensibili, Enzo Jannacci, a scrivere per lei, nel 1980, i brani di un intero Lp, La rossa, che la consacrera definitivamente interprete

insieme colta e popolare, raffinata ma ancora sanguigna: La primavera ormai é passata, la pioggia, quando viene, é andata,

povera rossa fingi Vallegria, ma il disco é di dieci anni fa. Si, ma una mattina che pioveva,

una mattina che pioveva, i lampi, i tuoni litigavan forte pero si senti cantar...

La scuola genovese Tutto avvenne quasi per caso, nell’arco di due estati, quelle del 1959 e del 1960. Alla Ricordi, che fino allora era stata solamente una casa edi-

trice, decisero di dar vita anche a una etichetta discografica, ma piu che altro per il gusto dell’avventura, se é vero che affidarono Pimpresa a dei giovani dalle idee fin troppo stravaganti e anticonformiste come Nanni Ricordi e Franco Crepax. Questi non ci pensarono su due volte e decisero di sfruttare quell’occasione, forse irripetibile, per provare a lanciare dei nuovi talenti. Fu cosi che sul loro tavolo piovvero le richieste pid disparate, oltre ai provini dei pit vari autori e interpreti. Tra tante cose improbabili, idue, armatisi di santa pazienza, riuscirono a scova-

re anche delle “chicche”. Erano delle canzoni in tutto e per tutto 3 Dal fascicolo allegato all’album Milva, Armando Curcio Editore, p. 6.

274

diverse da quelle che avevano fino a quel momento tenuto banco. Si intitolavano La gatta, Arrivederci, Non arrossire, e sem-

bravano scritte apposta per incontrare i gusti di un pubblico giovanile assetato di novita. Ma a chi affidare l’interpretazione di brani tanto eccentrici? E qui che i due diedero prova di tutta la loro genialita, oltreché di una buona dose di incoscienza. Decisero infatti che, novita per novita, tanto valeva chiedere agli autori stessi di improvvisarsi interpreti dei loro brani. E cosi — dal nulla, @ proprio il caso di dire — nacquero i Paoli e i Bindi, i Tenco e i De André, i Lauzie

gli Endrigo. L’idea si rivelo subito vincente, tanto che di li a poco — esattamente nel 1960 — venne coniato da Gianni Meccia, Enrico Polito,

Rosario Borelli e Maria Monti* il termine che tuttora designa questa singolare categoria di artisti: cantautore. Forse c’é una ragione ancora pit sottile che spiega il loro immediato quanto strepitoso successo. Ed é che I’Italia di quegli anni era profondamente provinciale, e non solo nella canzone. Bigottismo e conformismo la facevano da padroni, solo scalfiti

dalle nuove mitologie del benessere e del consumo, se possibile ancora pill insopportabili e volgari. A quell’Italia, discofila e pudibonda, quei primi cantautori trasmisero una carica di anticonformismo e di spregiudicatezza. Loro esprimevano una tensione appena trattenuta verso altri valori e modelli di vita, verso un «mondo diverso, diverso da

qui», come cantava Paoli in Sapore di sale, lanciata al Cantagiro del 1963: Sapore di sale, sapore di mare,

che hai sulla pelle, che hai sulle labbra,

quando esci dall’acqua e ti vieni a sdraiare vicino a me, vicino a me... * La notizia é nel «Musichiere» del 17 settembre 1960.

215

un mondo che — era sempre il cantautore genovese a suggerirlo — poteva essere racchiuso anche solo in una stanza: Quando sei qui con me questa stanza non ha piu pareti ma alberi,

alberi infiniti. Quando sei qui vicino a me questo soffitto viola no, non esiste piu.

Io vedo il cielo sopra noi che restiamo qui abbandonati come se non ci fosse piu niente, pitt niente al mondo... Quest’ultimo é, con La gatta, il brano che rivoluziono la canzone italiana. Entrambi del 1960, furono ispirati a vicende di vita vissuta:

C’era una volta una gatta che aveva una macchia nera sul muso e una vecchia soffitta vicino al mare con una finestra a un passo dal cielo blu... La gatta siamese complice della vita bohémienne del cantauto-

re genovese si chiamava Ciacola. Mentre il romanticissimo pezzo portato da Mina a un successo travolgente raccontava in realta di un amore mercenario consumato (come il particolare del «soffitto viola» dovrebbe suggerire) in un casino, prima che la legge Merlin ne decretasse la chiusura. Allegri e spensierati, gli anni Sessanta? Forse. Ma loro, icantautori, davano voce a un sentimento diverso, al malessere allora diffuso tra i giovani. I loro testi (come la loro vita, del resto: Paoli

nel 1963 tento di togliersi la vita, Tenco nel 1967 mise fine ai suoi

giorni al festival di Sanremo) erano pieni di dolore autentico: Sassi, che il mare ha consumato sono le mie parole d’amore per te... 276

intonava Paoli. E Bindi:

Un vento freddo volta le pagine di questa storia senza miracoli...°

Cantava Piero Ciampi:’ In questa vita io sono uno Straniero...

E Tenco:

E poi mille strade grigie come il fumo, in un mondo di luci sentirsi nessuno...® D’altronde dovranno passare molti anni prima della loro consacrazione ufficiale. Sentite come «Sorrisi e Canzoni», che pure era una delle pochissime riviste musicali dell’epoca, recensi nel 1961 i primi dischi di Sergio Endrigo e di Luigi Tenco: «Endrigo é il discepolo di Gino Paoli, ed é arrivato alla canzone sulla scia del maestro. II suo disco presenta J tuoi vent’anni e Chiedi al tuo cuore.

Sono composizioni incolori, musicalmente

confuse, ma

sovraccariche di ambizioni. Anche Endrigo, infatti, riprende certi procedimenti di canti chiesastici, con l’unico risultato di creare

delle anemiche canzoni da chierichetto». E ancora: «Oggi il mondo della canzone pit che dai dilettanti € dominato dai velleitari. Il caso-limite é€ rappresentato da Luigi Tenco, i cui primi due dischi (Quando e Triste sera; I miei giorni perduti e Il mio regno) segnaliamo soltanto come curiosita. Tenco, che imita palesemente Nat King Cole, ha dell’intonazione un concetto per-

sonalissimo e stravagante».? Ma anche al loro “maestro”, Gino Paoli, non venivano certo

risparmiate le critiche. Sentite in proposito cosa scriveva un ano5 6 7 8

Sassi, G. Paoli, 1960. Jo e la musica, Bindi-Lauzi, 1972. L’ultima volta che la vidi, Litaliano-Reverberi, 1961. Ciao amore, ciao, L. Tenco, 1967.

9 Dalla rubrica Dischi nuovi del 16 aprile e del 21 maggio 1961. 277

nimo corsivista di un giornale del Nord all’inizio degli anni Sessanta: «Caro Gino Paoli, tu sei un ottimo compositore e un ottimo cantante. Ne fanno fede le tue canzoni che, meritatamente,

corrono sulla bocca di tutti [...] C’é perd qualcosa di te che non riusciamo a comprendere, e che tu solo ci puoi forse spiegare. Mentre nella vita di ogni giorno sei una persona normale, non appena posi piede sulle tavole di un palcoscenico, ti trasformi in modo diabolico. Vuoi diventare a tutti i costi anticonvenzionale: ti presenti con le scarpe sporche, abbandoni camicia e cravatta per indossare funerei maglioni; qualche volta arrivi al punto di cantare tenendo in mano o in tasca un giornale spiegazzato. Francamente questo non va. Tu sei una persona intelligente, dotata anche di una forte personalita. Perché cercare allora di alterarla per apparire diverso da quello che sei realmente? Per far colpo? Ascolta il nostro consiglio: sforzati di essere te stesso sempre, ma soprattutto quando canti...». I cantautori sono dei veri “intellettuali della canzone”. Paoli,

in origine, fa il pittore, Ciampi é un poeta, Lauzi e Tenco hanno un ottimo curriculum universitario. Sono imbevuti di esistenzialismo e di letteratura maudit. Musicalmente prediligono il jazz, il blues e la canzone francese. Brassens, Brel, Ferré, Mouloudji:

sono loro i modelli cui s’ispira inizialmente la nostra canzone d’autore. E anche musicalmente la loro é una vera rivoluzione.

Mi servird, a mo’ d’esempio, di Senza fine (1961), una delle pit belle canzoni di Paoli e dei cantautori in genere: Senza fine tu trascini la nostra vita senza un attimo di respiro per sognare, per potere ricordare cio che abbiamo gia vissuto...

Mentre prima la canzone tendeva a chiudere le frasi a ogni respiro del canto, qui il testo corre tutto d’un fiato, ogni cosa detta é legata alla successiva: come in uno sfogo liberatorio. In questa, come

in altre canzoni dei cantautori, non c’é il solito

crescendo d’attesa pronto a sfociare nel ritornello: anzi, la parte 278

dominante del brano, quella cantabile, in “giro di do” (do-la minore-fa-sol7), @ collocata all’inizio. Una volta catturato 1’orecchio, il brano si fa insinuante, scende su accordi di bemolle,

cerca sfumature non abitudinarie. Ma forse il vero musicista del gruppo é Umberto Bindi, che ha studiato pianoforte al conservatorio e ha cominciato subito a comporre per le riviste goliardiche (la pid celebre era la Baistrocchi). All’asciuttezza scabra di un Paoli si contrappone in lui una concezione “sinfonica”, una linea pit elaborata di articolazione del tessuto musicale. Per questo si parlera per Bindi di “barocchismo”, che esplode in uno dei suoi brani pid classici, quel Nostro concerto (Bindi-Calabrese, 1960) che é uno dei grandi hit

della canzone d’autore e che ha avuto parecchie covers anche all’estero: Ovunque sei se ascolterai accanto a te mi troverai. Vedrai lo sguardo che per me parlo e la mia mano che la tua cerco...

La dimensione, anche linguistica, di queste canzoni é la quotidianita: la loro struttura assomiglia pit al “recitar cantando” che alle “arie” delle opere. Nel loro impianto formale domina la prima persona singolare. L’interlocutore, il tu, é il compagno o la compagna, qualche volta un oggetto o un luogo idealizzato, un pullover o una vecchia balera:

Il pullover che sai, Ha che

m’hai dato tu mia cara, possiede una virtu. il calore tu davi a me, e milludo di stare in braccio a te...'°

10 J] pullover, Meccia-Migliacci, 1961.

279

Vecchia balera di periferia dove ho passato la mia gioventu, la ho incontrato Maria il mio primo sogno d’amore. Prima illusione della vita mia,

tra le tue luci io mi sentivo un re. La io stringevo Maria e Maria non capiva perché..." Soltanto nelle canzoni di De André l’impianto é un tantino pit mosso: il noi della Canzone del maggio, Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio se la paura di guardare vi ha fatto chinare il mento se il fuoco ha risparmiato le vostre millecento anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti...' Pimprovwvisa rottura del racconto-rievocazione tra terza e seconda persona con una lirica e drammatica intrusione dell’apostrofe in prima persona a Ninetta nella ballata di Piero,

Cadesti a terra senza un lamento e ti accorgesti in un solo momento che la tua vita finiva in quel giorno

é non ci sarebbe stato ritorno. Ninetta mia, crepare di maggio ci vuole tanto troppo coraggio. Ninetta bella, dritto all’inferno avrei preferito andarci in inverno...* modulo che gioca in senso ironico nella ballata di Re Carlo: " Vecchia balera, S. Endrigo, 1962. 2 Canzone del maggio, De André-Bentivoglio-Piovani, 1973. 3 La guerra di Piero, De André, 1963. 280

Quand’ecco nell’acqua si compone, mirabile visione, il simbolo d’amor,

nel folto di lunghe trecce bionde il seno si confonde ignudo in pieno sol. «Mai non fu vista cosa pit bella,

mai io non colsi siffatta pulzella» disse Re Carlo scendendo veloce di sella. «Deh! Cavaliere non vi accostate,

gia d’altri é gaudio quel che cercate, ad altra piu facile fonte la sete calmate»...'4 La frase é di una estrema linearita sintattica, il ritmo nasce sempre con le parole, non prima e non dopo, le parole sono di largo accesso, 0, se auliche, sono sempre ironizzate. Si sentono echi di poeti crepuscolari ed ermetici, di surrealisti francesi: quest’ultimo é soprattutto il caso di De André, che di tutto il

gruppo ha anche la particolarita di usare assai di frequente la forma della ballata. E una ballata €, appunto, quella che é forse la sua canzone pit! famosa, la Canzone di Marinella (De AndréMonti, 1964), Questa di Marinella é la storia vera

che scivolo nel fiume a primavera ma il vento che la vide cosi bella dal fiume la porto sopra una stella. Sola senza il ricordo di un dolore vivevi senza il sogno di un amore ma un re senza corona e senza scorta busso tre volte un giorno alla tua porta... molto simile nel testo e nel tessuto musicale a una romanza di circa mezzo secolo prima di Francesco Quaranta, su versi di Carmelo Errico, dal titolo E morta!

I modi e le locuzioni sono accentuatamente colloquiali. Eccone un piccolo catalogo: 4 Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, De André-Villaggio, 1966. 281

C’é gente che ha avuto mille cose: tutto il bene, tutto il male del mondo. Io ho avuto solo te e non ti perdero, non ti lascero per cercare nuove avventure...'°

Se passate da Via Broletto al numero trentaquattro potete anche gridare, fare quello che vi pare, l’'amore mio non si svegliera...'° Con una stretta di mano, da buoni amici sinceri,

ci salutiamo per dir «arrivederci»."

E alla fine una notte si uccise per la gran confusione mentale fu un peccato perché era speciale proprio come parlava di te..." Ho la nostalgia di quella casa dove stavo con il mio papa, del coniglio rosa che mi regalo quando mamma mia per sempre se ne ando... Io si, che tavrei fatto vivere una vita di sogni

che con lui non puoi vivere...”° State tranquilli che siete voi,

voi, gli unici padroni, padroni del mondo.” 18 Jo che amo solo te, S. Endrigo, 1962. 16 Via Broletto, 34, S. Endrigo, 1962. 17 Arrivederci, Bindi-Calabrese, 8 Jl poeta, B. Lauzi, 1965.

1959.

19 JI coniglio rosa, M. e C. La Bionda-B. Lauzi, 1971. » Jo si, L. Tenco, 1962. 21 Gli innamorati (sono sempre soli), G. Paoli, 1961.

Anche le situazioni descritte attingono al quotidiano. Si parte sempre da fatti e oggetti reali. Un sasso, un barattolo, o magari un cane di stoffa.7 Ma, come nell’ermetismo — che, guarda

caso, conobbe proprio in Liguria esiti altissimi — l’oggetto acquista un nuovo spessore, diventa simbolo. In De André, poi, pit che negli altri, c’é anche il recupero delle proprie radici dialettali, come dimostrera soprattutto con un album del 1984,

quel Creuza de ma, che significa letteralmente “mulattiera di mare”. Talvolta i brani sono invece pit espliciti e pid esplicitamente politici: Cara maestra, un giorno mi insegnavi che a questo mondo noi noi siamo tutti uguali.

Ma quando entrava in classe il direttore tu ci facevi alzare tutti in piedi

e quando entrava in classe il bidello ci permettevi di restar seduti...” Oppure: Io vorrei essere la dove i soldati muoiono senza sapere dove senza saper perché...”4 E ancora:

I razzi vanno sulla luna noi restiamo qua, sul corso

sempre avanti e indietro stiamo a passeggiare. Viene il sole, il sole muore, viene la luna e se ne va 2 Come nelle rispettive canzoni di Paoli (1960), Meccia (1960), Donaggio (1961). 23 Cara maestra, L. Tenco, 1962.

2 Io vorrei essere la, L. Tenco, 1966. 283

ma sta’ vita, questa vita nostra

quando cambiera?...* Per non parlare di Endrigo: Dal treno che viene dal Sud

discendono uomini cupi che hanno in tasca la speranza ma in cuore sentono che questa nuova, questa bella societa, questa nuova, grande societa

non si fara, non si fara... O di De André:

Ora che é morto la patria si gloria d'un altro eroe alla memoria.

Ma lei che lo amava aspettava il ritorno d'un soldato vivo, d’un eroe morto che ne fara?...””

Non ci sono dubbi. Queste canzoni rappresentano I’altra faccia del miracolo economico, l’altra faccia della luna. Quella sof-

ferta e, insieme, pit’ vera. Esprimono il desiderio di una vita meno conformista e vuota, il sogno di un’esistenza pill autentica, di amori pid veri e pit liberi: Anche se sei stata di un altro ho bisogno lo stesso di te e non m’importa di sapere altro...*8 Io ti guardo mentre cammini tra la gente delle dieci

di mattina che ti guarda come fossi una di quelle, come fossi Pultima delle donne.” 28 6 27 2% 2%

Nel corso, Wertmuller-Morricone, 1964. [I treno che viene dal Sud, S. Endrigo, 1967. La ballata dell’eroe, De André-Monti, 1962. Anche se, G. Paoli, 1962. Una di quelle, G. Paoli, 1962.

284

La scuola milanese

Anche Milano, in quegli anni, é al centro della canzone d’autore. Milly, Dario Fo, come abbiamo appena detto. Ma anche Maria Monti, che alterna a canzoni ironiche e vagamente surrealiste,

come Nina e l’aspirapolvere e Benzina e cerini,

Il mio destino é di morire bruciato... La mia ragazza

deve averlo proprio giurato. Ha inventato un nuovo gioco: mi cosparge di benzina e mi da fuoco...

brani pit. malinconici, come La mosca o Io da una parte tu dall’altra, nonché un repertorio di canti politici e civili (compresi quelli della guerra civile spagnola) e popolari: Un bicchier di dalmato, La balilla, che, incisa in coppia con Gaber, segna una svolta per il cabaret milanese. E poi Nanni Svampa (il Brassens meneghino), Lino Patruno, Walter Valdi, e, pit’ tardi, Cochi e Renato: sono questi alcuni dei

nomi principali del “nuovo corso” della canzone milanese. Ma i grandi protagonisti di questa nuova fase sono soprattutto due giovanotti simpatici e strambi che, con il nome d’arte di Due Corsari, si fanno conoscere in giro cantando canzoni vagamente surrealiste e un tantino dissacratorie: Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci.

Il cantore dei pover crist A chi gli domanda quale sia la sua professione, Enzo Jannacci senza esitare risponde di essere medico. A chi gli chiede cosa pensa del suo hobby preferito (la musica), replica che comporre canzoni, certo, gli piace, ma che le canzoni non hanno mai cambiato il mondo. A chi lo interroga sul “messaggio” che la sua maschera di chansonnier nasconde, ribatte di essere un disgraziato che canta i disgraziati. La prima volta che si mostrd al grande pubblico fu in un film, un vecchio film dei primi anni Sessanta ispirato al romanzo di 285

Luciano Bianciardi, La vita agra. Esile, pallido, con scatti im-

provvisi da marionetta, la voce spezzata e la chitarra tenuta all’altezza del petto cosi da sembrare un collarone alla Pierrot, interpretava una canzone assolutamente folle, quella che racconta la storia di uno che cerca un ombrello, «l’ombrello di suo fratello». Poi apparve in una trasmissione televisiva, una delle tante trasmissioni a quiz di Mike Bongiorno. Con un/aria ancora piu allucinata, gli occhi persi nel vuoto, andava su e gil nei pochi metri dello studio senza riuscire a darsi pace.

Smaniava,

sbuffava,

imprecava e raccontava una storia di un’amarezza senza pari: la storia di un uomo che «portava i scarp del tennis». C’era da pensare che quel giovanotto allampanato e spaurito dovesse avere un rapporto decisamente patologico con tutto cid

che é legato al camminare. E cosi era, infatti. Le scarpe campeggiano in quasi tutte le copertine dei suoi dischi, fino a diventare incubo nella copertina doppia di Quelli che... Ei piedi ritornano ossessivamente in molte delle sue canzoni («me fa male i pé, me fa male i pé», urla disperato il protagonista de La luna é una lampadina, storia di un innamorato povero e pedone che cammina «avanti e indré» sotto la finestra della sua bella, in tutt’altre

faccende affaccendata, e alla pena del cuore si somma quella dei piedi, che gli fanno male). Questa, come altre implorazioni amorose di Jannacci, era a dir

poco insolita, anche in tempi in cui i cantautori cominciavano a essere accettati dal pubblico e a mietere i primi successi. E cosi Jannacci ricevette un’accoglienza piuttosto freddina. Ma al ragazzo non mancava certo la stoffa e non era difficile capire che presto avrebbe ottenuto vasti consensi. E i consensi vennero, persino al di la di ogni previsione, quando in pieno 1968 la sua Vengo anch’io. No tu no divenne un’espressione addirittura proverbiale, una sorta di manifesto degli ecce-bombo di tutta Italia: Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale vengo anch’io. No, tu no! Per vedere come stanno le bestie feroci e gridare aiuto aiuto é scappato il leone 286

e vedere di nascosto Vengo anch’io. No, Vengo anch’io. No, Ma perché? Perché

l’effetto che fa. tu no! tu no! nol...

Di Jannacci si pud parlare in due modi. O ripercorrendo le tappe della sua carriera: dall’arrivo a Milano all’incontro con Gaber (gli spettacoli che i due erano soliti tenere per gli studenti dell’Istituto Moreschi sono ancora avvolti nella leggenda), dal lungo sodalizio con Fo alla collaborazione con il pid grosso gruppo di “sballati” milanesi che si conosca (da Cochi e Renato a Viola, da Boldi a Teocoli, da De Filippi a Sacchetti). O suddividendo la sua produzione, pit che in periodi cronologici, in grandi filoni di ispirazione poetica, corrispondenti, a loro volta, ad

altrettanti generi. Jannacci é infatti uno dei pochi cantautori che sa far uso dei pill diversi generi, evitando di rimanere legato a un unico cliché. Al genere canzone d’autore (alla Paoli e alla Bindi) appartengono chiaramente molte delle sue prime canzoni (Passaggio a livello, Niente, Sfiorisci bel fiore). Ai moduli del cabaret si rifanno esplicitamente Aveva un taxi nero, Veronica, L’Armando, Ho

visto un re, Alla tradizione della canzone lombarda di tono populista M’han ciama, E Tera tardi, Sensa de ti, e la stupenda I] Duo-

mo di Milano (1970), anche se scritta in lingua:

Il Duomo di Milano é pieno di acqua piovana,

il Duomo di Milano é pieno di acqua piovana, ce l’han portata con gli ombrelli ce l’han portata con i pianti

ce ’han portata con i pianti per la redenzione delle puttane. Ealla “schizo-music” —cosil’ha definita Gianfranco Manfredi—”

sono da collegare Vengo anch’io, Ragazzo padre, Musical, Silvano, e, soprattutto, El portava i scarp del tennis (1964): 3 Gianfranco Manfredi, Enzo Jannacci. Canzoni, Lato Side, Roma 1980. 287

EI portava i scarp del tennis,

el parlava de per lu, rincorreva gia da tempo un bel sogno d’amore. El portava i scarp del tennis, el gh’aveva du occ de bun; Pera el primm a mena via perché l’era un barbun...

Insomma, la produzione di Jannacci é multiforme e poliedrica. Come multiforme e poliedrico é il suo stile. Ha scritto Umberto Eco: «La voce di Jannacci rende stranite frasi e situazioni che di per sé non lo sarebbero, mentre frasi e situazioni stranite, lette sulla pagina, chiedono la voce e la faccia di Jannacci per essere pienamente godute. In altri termini, sarebbe far torto a Jannacci considerarlo poeta da cantare; l’arte di Jannacci é multimediale, gioca sui tre registri della parola, della musica e della mimica (ovvero di una straordinaria e apparente assenza di mimica)». Quanto Eco afferma accade soprattutto e sempre nella variante “schizo-music” (dove “schizo” sta, ovviamente, per schizoide). E qui che Jannacci manifesta interamente la sua bravura. Se, infatti, nelle canzoni di tono drammatico descrive l’universo dei pover crist cadendo spesso nel patetismo e nel populismo (anche se il suo patetismo é generalmente riscattato da una grande intensita poetica), nelle canzoni “schizo”, invece, Jannacci rappresenta l’emarginazione come esclusione del “diverso” che si libera nella follia e nel risO, un riso nervoso, imbarazzante, martellante, che non é neppure uno sberleffo. E questo il Jannacci migliore. Siamo percid d’accordo con Gianfranco Manfredi quando scrive che la sua vena pili autentica sta, appunto, «nell’osservazione quotidiana e nella descrizione di precisi personaggi marginali che gridano la loro diversita neanche come protesta, proprio come grido isolato, irrazionale, spaesato e comico, come é comico tut-

to cid che viene emarginato non perché sconosciuto, ma perché troppo ben conosciuto e quindi rimosso per fastidio, per paura o per imbarazzo».*! 31 Jyi, p. 40. 288

Un “filosofo ignorante” Anche Gaber raggiunge il successo all’inizio degli anni Sessanta. E quel che pit conta é che allora la sua autentica personalita comincia a delinearsi. E quello, infatti, il periodo in cui compone le sue prime accattivanti ballate, da Porta Romana a La ballata del Cerutti (1961); Il suo nome era Cerutti Gino ma lo chiamavan drago, gli amici, al bar del Giambellino,

dicevan che era un mago...

Presenta Canzoniere minimo e Le nostre serate, le prime trasmissioni televisive ad avere il merito di occuparsi della canzone popolare e della canzone d’autore; e soprattutto da vita — per lo pill in coppia con Maria Monti, la sua compagna d’allora, a sua volta interprete ideale del cabaret milanese e cantautrice di grande temperamento — a composizioni delicate che preludono ai temi della maturita: la solitudine, l’alienazione, il disagio di vivere. Citeremo, al riguardo, La cartolina colorata, II girasole rosso,

Le strade di notte del 1961-62: Le strade di notte mi sembrano pit grandi ed anche un poco pit tristi: é perché non c’é in giro nessuno. Anche i miei pensieri di notte mi sembrano piu grandi e forse un poco piu tristi: é perché non c’é in giro nessuno...

Diventa rapidamente famoso, ma il successo non gli giova. Dal 1961 al 1967 partecipa pressoché ininterrottamente al Festival di Sanremo, presentando dei brani assolutamente insignificanti e, talvolta, maldestri: da Mai, mai, mai, Valentina a ...E

allora dai! Nel 1966 calca persino le scene del Festival di Napoli, piazzandosi secondo con l’ineffabile ’A pizza. E — tra un festival 289

e l’altro — trova anche il tempo di apparire varie volte in televisione, ma in trasmissioni generalmente di pura evasione. A questo periodo, del resto, lo stesso Gaber si riferisce in Suona chitar-

ra, una canzone scritta attorno al 1970: e sara un’autocritica spietata.

Siamo cosi alla svolta decisiva della sua carriera. Tra il 1970 e il 1971 nasce infatti l’idea de // signor G che é, a un tempo, il suo

primo spettacolo teatrale e uno dei primi Lp incisi dal vivo in Italia. I] signor G mescola teatro, cabaret e canzone e affida a una sola persona, Gaber appunto, tutti i ruoli esecutivi: cosa alquanto inconsueta sui nostri palcoscenici. Ma questo non é che Vinizio di un’esperienza che Gaber proseguira con esiti alterni ma sempre pregevoli (dal Dialogo tra un impegnato e unnon soa Far finta di essere sani, da Liberta obbligatoria a Polli di allevamento). Il 1968, insomma,

non passera invano nemmeno

per

Gaber. «Vous étes tous concernés» diceva uno degli slogan pit famosi del maggio francese. Poteva il “signor G” non restare coinvolto da quanto gli accadeva attorno? Poteva non cominciare a prendere coscienza dei falsi miti di cui é lastricata la condizione del borghese e a non percepire che i giovani «solo per il fatto che sono giovani hanno ragione per forza»? In questo Gaber deve molto a Jacques Brel. Con lui condivide Pidea che «i vecchi bisogna ammazzarli da bambini» e che la borghesia, prima ancora di essere una classe, é una malattia, una condizione esistenziale. Ma questo odio, in lui come in Brel, non

sfocia in un grido, in un proclama. Tra I’“impegnato” e il “non so”, € a quest’ultimo che vanno anche le sue preferenze. Si puo parlare quanto si vuole di Vietnam, di Cambogia, di Cina, ma «é cambiarsi davvero, é cambiarsi di dentro che é un’al-

tra cosa». E «parlare di Maria» che ci fa comprendere la realta: Chiedo scusa se parlo di Maria non nel senso di un discorso, quello che mi viene non vorrei che si trattasse di una cosa mia e nemmeno di un amore, non conviene.

Quando dico parlare di Maria voglio dirvi una cosa che conosco bene 290

certamente non é un tema appassionante in un mondo cosi pieno di tensione certamente siam vicini alla pazzia ma é piu giusto che io vi parli di Maria, Maria, Maria, Maria,

la liberta la rivoluzione il Vietnam, la Cambogia la realta...*

Sono temi, questi, su cui Gaber ritorna in tutti i suoi spettacoli

successivi. La delusione sembra avere talvolta il sopravvento sulla voglia di fare, perché «quando é merda é merda, non ha importanza la specificazione». L’espressione, un po’ forte, é indirizzata verso una certa sinistra, soprattutto “extra-parlamentare”, che é proclive a esaltare ogni tipo di devianza, droga compresa. Quella sinistra che lui irride nella famosa Al bar Casablanca (1972):

Al bar Casablanca con una Gauloise la Nikon, gli occhiali

e sopra una sedia i titoli rossi dei nostri giornali blue-jeans scoloriti la barba sporcata da un po’ di gelato parliamo parliamo di rivoluzione di proletariato.

Qualunquismo, direte voi. Niente affatto. Gaber € un personaggio scomodo, che non si presta a strumentalizzazioni di sorta. Da “filosofo ignorante”, come ama definirsi, sa di non sapere e, dunque, cerca la verita mettendo tutto in discussione. A comin32 Chiedo scusa se parlo di Maria, G. Gaber, 1973. 291

ciare da se stesso. Lo confermera nel 1980 nell’apocalittica invettiva di Jo se fossi Dio, in cui sparera a zero contro tutto e tutti: To se fossi dio, quel dio di cui ho bisogno come di un miraggio

ci avrei ancora il coraggio di continuare a dire che Aldo Moro insieme a tutta la Democrazia Cristiana é il responsabile maggiore di trent’anni di cancrena italiana... Piero l'anarchico

Un caso a parte é quello di Piero Ciampi, che agli inizi si faceva chiamare Piero Litaliano. Nato a Livorno il 28 settembre 1934,

aveva preferito fare il suo apprendistato, umano e poetico, a Parigi —1a mitica Parigi dei Sartre, Prevert, Vian, Piaf — piuttosto

che muovere i primi, incerti passi nei deprimenti locali di provincia. E a Parigi aveva conosciuto Céline, uno dei suoi padri spirituali; aveva cominciato a scrivere poesie sui tovagliolini delle trattorie e a cantarle in tre locali a sera, a duemila franchi per locale; e si era visto affibbiare da una ragazzina che, non sapendo chi fosse, lo chiamava “litaliano” con l’accento, naturalmente, sulla “o”, quel buffo soprannome.

Dopo la Francia, la Spagna, l’Inghilterra, PIrlanda. Ma la moglie irlandese la incontra a Genova, a una festicciola. Nei suoi versi, ce la descrive «bella, bionda,

alta, snella», ma chi Vha

conosciuta ricorda che i suoi capelli erano rossi, da perfetta irlandese, appunto. Gli da un figlio ma non riesce a stare con lui che poco tempo. Poi fugge e, da allora, di lei non si sapra pid nulla. «Figli, come mi mancate» implorera pit tardi Ciampi in quella Sporca estate (Ciampi-Marchetti, 1971) che é una delle sue pid struggenti composizioni. Ma soprattutto gli manchera lei. Da quel momento suo unico vero compagno rimarra il vino, Com’eé bello il vino rOSSO YOSSO YOSSO, bianco é il mattino, 292

sono dentro a un fosso. Ma com’e bello il vino, bianco bianco bianco, rosso é il mattino,

sento male a un fianco...* di cui mai aveva potuto fare a meno e che era stato certamente tra le cause della fuga della moglie, ma che in seguito sara anche la molla di tutta la sua ispirazione poetica. Cosi quando, dopo tanto vagabondare, torna definitivamente in Italia e approda a Milano, complice Franco Crepax, alla fucina dei cantautori — la Ricordi -, la sua vita é gia praticamente segnata. Franco Belli, su «II Giorno» del 4 gennaio 1962, nel recensire i

suoi primi dischi, scrive: «Uno stile nebbioso. Canzoncine tutte piuttosto uguali, per quell’aria crepuscolare e sonnolenta che le pervade, per le musiche lentissime e snervanti che le accompagnano». Quei primi dischi erano L’ultima volta che la vidi e Quando il vento si leva, Fino all’ultimo minuto (Litaliano-Reverberi, 1961) e Qualcuno tornera (Litaliano-Roberto Ciampi, 1961), Autunno a Milano (Litaliano, 1961) e Hai lasciato a casa il tuo sorriso (Litaliano-Reverberi, 1961). Lo stile é ancora acerbo. Si rifa apertamente a Paoli, a Bindi, qua e la persino a Fidenco; e, in Quando il vento si leva (Litaliano-Reverberi, 1961), a Modugno, in modo quasi sfacciato. L’origine della sua metamorfosi sara l’incontro, artisticamente e€ umanamente decisivo, con Gianni Marchetti. Marchetti rincor-

re con la musica le parole che Ciampi inventa all’impronta, oppure é Ciampi a inventare direttamente su una melodia che gli ha appena rubato. Nascono cosi brani di grande suggestione: da L’amore é tutto qui (Ciampi-Marchetti-Pavone, 1971) a Jn un palazzo di giustizia (Ciampi-Marchetti-Pavone, 1973), da Jo e te, Maria (Ciampi-Marchetti, 1973) 33 JI vino, Ciampi-Marchetti, 1971.

293

Vado in giro nella notte facendo soliloqui, talvolta sotto un ponte scrivo una poesia. Maria Maria Maria Maria Maria

Maria... a Tu no (1970): Tu no, tu no, tu no,

tu non puoi andare via, tu non devi andare via, tu no, amore, no, anche se ti ho fatto male,

anche se ti ho esasperata, tu no, tu no, tu no, sono a tua disposizione per la vita e per il cuore. Tu no, tu no... Di grande suggestione, ma ancora una volta destinati a un insuccesso di pubblico. Nonostante che su Ciampi, adesso, abbia cominciato a puntare, e con convinzione, nientemeno che la

Rca. E nonostante che una cantante come Nada incida nel 1973 — con molto coraggio, oltreché con estrema bravura — un intero album con le sue canzoni. Ma perché questo destino? Non certo per la qualita dei brani e tanto meno per l’interpretazione. Anche come interprete Ciampi é intensissimo. Ha una voce calda, profonda, roca. Talvolta insolente e capricciosa. Pit spesso implorante o euforica. Insomma, la verita é che Ciampi quel destino se lo é costruito con le sue mani. Non per disperazione, ma per la voglia di andare controcorrente: lo stereotipo del Ciampi “disperato”, che di continuo viene riproposto, suona infatti sostanzialmente falso. Lui, in realta, era capace di essere anche allegro, tenero, bef-

fardo. Aveva la «capacita intatta di stupirsi per un attimo e di 294

vivere con tutto se stesso, persino felicemente, quel poco che c’é»4

E, per ironia della sorte, proprio lui che aveva scritto «non Dio, decido io» & morto in un giorno di gennaio del 1980 non per

il vino, come forse aveva sempre sperato, ma per un nemico molto pit subdolo, un cancro alla gola.

3 Come ha scritto Maurizio Cucchi su I’«Unita» del 27 gennaio 1980.

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XIV

Il boom discografico

Nel 1960 «Sorrisi e canzoni» indice una singolare campagna elettorale per il“Parlamento della canzone”. I risultati, dovutial voto dei lettori, si conosceranno soltanto I’8 gennaio del 1961. Eccoli: Formazione candidata

Movimento juke-boxista Partito musical-moderato P. restaurazione melodica P. modernista

P. italo-partenopeo P. cantanti-compositori Mov. d’azione lirica P. attori-cantanti P. estremista dell’urlo

Voti

%

Seggi

67.855 63.931 49.612 48.315 33.212 26.987 20.123 3.348 1.826

21,53 20,28 15,74 15,33 10,54 8,50 6,38 1,06 0,58

5 4 3 3 Ps zy 1 0 0

Risultano eletti:

Movimento juke-boxista Mina (7.764 voti), Di Capri, Celentano, Dallara, Curtis Partito musical-moderato

Germana Caroli (10.751), Flo Sandon’s, Carla Boni, Giuseppe Negroni P. restaurazione melodica

Tonina Torrielli (12.311), Nilla Pizzi, Claudio Villa

P. modernista Johnny Dorelli, Jimmy Fontana, Miranda Martino P. italo-partenopeo Sergio Bruni Giacomo Rondinella P. cantanti-compositori

Domenico Modugno, Gianni Meccia Mov. dazione lirica Anna Moffo 297

L’iniziativa, oltre a mettere in luce il cambiamento che i gusti del pubblico stanno rapidamente subendo, é importante perché mostra come la canzone sia divenuta uno degli hobby principali degli italiani. L’industria discografica, dopo la breve parentesi del 1961, é in pieno rigoglio e attraversa una fase di sperimentazioni e di profonde innovazioni. E in questi anni che nascono le cosiddette copertine “personalizzate” dei 45 giri (un’invenzione tutta italiana), che sostituiscono le buste neutre con foro centrale e riflettono visivamente il contenuto del disco. La Rca apre un reparto grafico autonomo e nel 61 conquista la leadership delle vendite. La imita la Ricordi, soprattutto per quanto riguarda i 33 giri: i primi Lp di Paoli, di Gaber, di Tenco nascono cosi in forma di libro.

Minor fortuna avra la trovata degli oggetti promozionali da vendersi insieme al disco: un sasso per |’omonima canzone di Paoli, un barattolo-portamatite e un omino di ferro con indosso

un pullover per quelle di Meccia. Negli stessi anni cominciano ad affermarsi le serie “economiche”, un espediente mediante il quale le principali case riciclano il proprio catalogo con costi assai contenuti. Le canzoni dell’ estate Intanto, nel 1961, Legata a un granello di sabbia di Marchetti e

Fidenco (canzone peraltro della durata insolita, per quei tempi, di oltre quattro minuti) é il primo 45 giri a superare in Italia la vendita di un milione di copie. E a stabilire definitivamente la moda delle canzoni per l’estate: Ti voglio cullare, cullare

posandoti su un’onda del mare, del mare legandoti a un granello di sabbia cosi tu nella nebbia piu fuggir non potrai e accanto a me tu resterai... 298

Il tenore di vita degli italiani enormemente migliorato. All’inizio degli anni Sessanta sono ormai oltre dieci milioni le persone che possono permettersi una lunga vacanza, preferibilmente al mare. Anche a loro l’industria del disco comincia a rivolgersi

con dei prodotti appropriati. Esponente di primo piano di questa nuova moda, anzi suo artefice vero e proprio, é Edoardo Vianello, che passa di successo in successo con canzoni come Pinne, fucile ed occhiali (Vianel-

lo-Rossi, 1961), Con le pinne, fucile ed occhiali,

quando il mare é una tavola blu, sotto un cielo di mille colori

ci tuffiamo con la testa all’ingiu...

I Watussi (Vianello-Rossi, 1963), Nel Continente Nero,

alle falde del Kilimangiaro, ci sta un popolo di negri che ha inventato tanti balli il pit famoso é Vhully-gully, hully-gully, hully-gu... Guarda come dondolo (Vianello-Rossi, 1962), Guarda come dondolo,

guarda come dondolo; con il twist. Con le gambe ad angolo,

con le gambe ad angolo; ballo il twist... rispettivamente un cha-cha-cha, un hully-gully e un twist, tutti composti tra il 1961 e il 1963. La formula di Vianello é semplice: si deve coniare uno slogan elementare (di quelli che entrano subito nella testa della gente), lo si deve collegare a un motivetto molto cadenzato e a un nuovo tipo di ballo, magari di propria invenzione, e il gioco é fatto. 299

Vianello ha avuto il merito di teorizzarla, ma é bene osservare

che questa @ la formula pid’ o meno fissa di tutte le canzoni di questo tipo. Le quali, conseguentemente, non sono certo dei capolavori (tranne la splendida Sapore di sale di Gino Paoli, che é pero la classica eccezione che conferma la regola), ma hanno una freschezza, una vivacita, un brio, che le faranno durare a lungo, che consentiranno loro di essere ricordate tutto sommato

con simpatia. Ma c’é anche chi canta I’estate con accenti diversi. Uno di questi € Bruno Martino: Estate,

sei calda come i baci che ho perduto, sei piena di un amore che é passato, che il cuore mio vorrebbe cancellar. Odio estate,

il sole che ogni giorno ci donava gli splendidi tramonti che creava adesso brucia solo con furor...' Musicista di prim’ordine, aveva sin da giovanissimo iniziato a

formare dei complessi jazz — come lo O 13 -, con i quali aveva preso a esibirsi nei locali notturni della capitale, fino a diventare, con la sua voce calda e vellutata, uno dei maestri della “musica

da night”. Tutti questi dischi si rivolgono, a ogni modo, principalmente, se non esclusivamente, ai “nuovi fruitori”: i giovani. Che li ascoltano nelle rotonde sul mare, e il cui beniamino é un giovane di Campobasso, Fred Bongusto, che quelle rotonde ha immortalato con la canzone omonima: Una rotonda sul mare il nostro disco che suona

vedo gli amici ballare ma tu non sei qui con me...” ' Estate, Brighetti-Martino, 1960. 2 Una rotonda sul mare, Migliacci-Faleni, 1964.

300

«La rotonda sul mare era un posto che esisteva: a Termoli, in

Molise, dove avevo fatto le prime fughe estive da Campobasso, ed era una delle tante rotonde che divennero tipiche dell’ Adriatico.»* I giovani (ingrigiti e forse addormentati d’inverno dal torpore delle citta) vivono finalmente il loro momento magico. Usano i dischi per tentare, spesso goffamente, un approccio, per avviare un possibile flirt. O per improwvisare su quei ritmi balli sempre pit nuovi e scatenati. Balli legati ai titoli delle canzoni (watussi, loco-motion, per non parlare del fortunatissimo twist, esploso in tutto il mondo

nel 1961), ovvero ispirati da dischi le cui parole danno istruzioni per eseguirli (é il caso del popeye, del madison, dell’hully-gully). O anche semplicemente affermatisi grazie a determinati brani: il

calypso nel 1958 sull’onda di Banana Boat di Harry Belafonte, il cha-cha-cha nel 1960 e poi soprattutto nel 1961 per merito di Brigitte Bardot, che l’aveva ballato con intenso erotismo nel film La verita (il brano era, per la precisione, Yo tengo una mujneca). La loro novita sostanziale consiste nel fatto che — a differenza del rock — non sono pit balli di coppia e non richiedono pit, per essere eseguiti, particolari abilita. Se tra il 1960 e il 1964 ne

nascono almeno una trentina, nessuno dei quali fa veramente presa, é proprio perché é venuta meno nel frattempo la funzione sociale del ballo: da un lato, la coppia non funziona pit come rifugio, e i nuovi balli mettono in scena l’isolamento dell’individuo nel gruppo; dall’altro, si sono aperti canali nuovi per la comunicazione tra i sessi, e la coppia non si forma pit necessariamente per il tramite del ballo. Del resto, nei nuovi tipi di danza l’isolamento di ogni ballerino (che pud avvicinarsi di tanto in tanto al suo partner) sembra rispondere meglio ai bisogni degli adolescenti che non la spuria intimita dei ballerini appiccicati l’uno all’altra, e al tempo stesso intenti a fissare il vuoto senza guardarsi. 3 Lo racconta il cantautore molisano nel libro di Walter Veltroni I/ sogno degli anni 60. 301

Nel 1964 in Italia ci sono 1.229 cantanti, 111 case discografiche, 772 dancing e night, 600 case musicali, 6.200 tra complessi e orchestrine. II disco é in pieno boom. Ormai da noi si vendono 28 milioni e mezzo di 45 giri e 4 milioni e mezzo di 33 giri, per un fatturato globale di 24 miliardi di lire, mentre comincia ad affacciarsi anche sul nostro mercato il nastro preinciso. In quello che passera alla storia del costume come |’anno del topless approdano nel nostro Paese numerosi cantanti stranieri, soprattutto di sesso femminile, come la bella Marie Laforet, che

lega il suo nome a due grandi hit: La vendemmia dell’amore, Quest’autunno noi faremo sotto il cielo pit sereno la vendemmia dell’amore. Tu cadrai nelle mie braccia

come i grappoli dell’uva che teniamo nelle mani...

un rock-bajon lento di Gérard e Jourdan tradotto da Daniele Pace, e E se qualcuno s’innamorera di me (Van WetterPace) E se qualcuno S'innamorera di me la mia chitarra suonera per voi. Ma se nessuno mi vorra, la mia chitarra

nel silenzio piangera... Il fenomeno é puntualmente registrato anche dal Festival di Sanremo, che per la prima volta, dopo aver superato le resistenze “corporative” dei cantanti italiani, apre le porte agli artisti stranieri. Gli anni d’oro di Sanremo

Sbarcano cosi nella citta dei fiori Ben E. King e Gene Pitney, i Fraternity Brothers e Paul Anka, Antonio Prieto e gli Hermanos Rigual. 302

Ma quella degli stranieri non é l’unica innovazione di rilievo. In questa fase il Festival muta radicalmente fisionomia, adeguan-

do le sue strutture ai tempi mutati e introducendo novita di rilievo nel suo meccanismo interno: fra queste quella di eleggere una sola canzone vincente, eliminando il sistema della graduatoria. Anche il metodo della doppia versione orchestrale viene accantonato, sostituito dall’impiego di un’unica formazione, alla cui guida si alternano piv direttori. Il Festival si ravviva. I ritmi sanremesi cominciano ad andare al passo coi tempi: da Quando vedrai la mia ragazza a Ogni volta, da Un bacio piccolissimo a Come potrei dimenticarti, & tutto un trionfo di shake, rumbe-rock, twist, surf, hully-gully. Se ne ha

una traccia nel ritmo vorticoso delle vendite discografiche. Solo dei dischi di Sanremo se ne vendono oltre sei milioni di copie. Ma, mentre tutti attendono la vittoria di uno dei big stranieri,

ecco comparire sulla ribalta sanremese una figurina esile, il ritratto vivente della ragazza “acqua e sapone”: Gigliola Cinquetti. Ha appena compiuto sedici anni e gia sembra un ’interpre-

te consumata: Non ho Veta non ho Teta per amarti non ho Leta per uscire sola con te. E non avrei,

non avrei nulla da dirti perché tu sai

molte pitt cose di me...* Interpretando se stessa — con un filo di voce e un abitino color verde bottiglia — stravince per la tenerezza che riesce a suscitare. Il vero trionfatore del 1964 é pero Roberto Satti, in arte Bobby Solo, un giovanotto romano dal ciuffo impomatato che sfoggia un timbro di voce particolare, fatto di vibrati e di insoliti salti tonali, alla Elvis Presley: 4 Non ho Veta, Panzeri-Nisa-Panzeri, 1964.

303

Da una lacrima sul viso ho capito molte cose dopo tanti tanti mesi ora so cosa sono per te...°

Se non vince é perché una fastidiosa faringite lo costringe a cantare, come si dira da quel momento, in play-back: cosa che gli viene concessa, ma al prezzo di non poter concorrere alla vittoria finale. L’altro vincitore morale di quell’anno, anche pit di Paul Anka, é Gene Pitney, che, soprattutto con Quando vedrai la mia

ragazza (Ciacci-Giangrano), riscuote, in coppia con Little Tony, un grande successo. Tanto da diventare il personaggio musicale dell’anno in virtt delle misteriose sillabe che strilla alla fine di ogni strofa («yé-yé») e che diventeranno presto un termine d’uso corrente per indicare i giovani “moderni” e i loro strani gusti e modi d’esprimersi. L’anno seguente, per il solito meccanismo di compensazione, la vittoria arride a Bobby Solo. E per una volta anche il pubblico conferma con Il’acquisto dei dischi il verdetto. Se piangi, se ridi (di Mogol-Marchetti-Satti, proposta in seconda versione dal gruppo dei Minstrels) vende infatti 580.000 copie. L’anno dopo, ancora una novita. II beat approda a Sanremo. I giornali assicurano che lo scontro tra beat e melodia sara all’ultimo sangue e avverra al cospetto di 300 milioni di spettatori: dal 1966, infatti, la serata finale viene trasmessa in Eurovisione.

Oddio, quello di Sanremo é un beat quanto mai edulcorato, fatto apposta per tranquillizzare i “matusa” sul conto dei loro figli. Ma é gia qualcosa, tanto pit che si uffre per quello che é, senza infingimenti e pretese anglofile o amcricaniste; insomma, con il volto fresco e gioviale di Caterina Casclli che, pur cantando a tempo di shake indiavolato Nessuno mi puo giudicare, nemmeno tu!

5 Una lacrima sul viso, Mogol-Lunero,

304

1964.

0, pil arditamente,

Ognuno ha il diritto di vivere come puo! assomiglia a tutto tranne che a una pericolosa sowersiva. Ma la vittoria arride nuovamente a Modugno e alla Cinquetti che, in coppia, propongono Dio, come ti amo! (Modugno): Dio, come ti amo!

Non é possibile avere tra le braccia

tanta felicita. Baciare le tue labbra che odorano di vento, noi due innamorati, come nessuno al mondo...

Altra coppia insolita é quella formata per la circostanza da Pino Donaggio, il delicato cantautore veneziano, e Claudio Villa, che interpretano un brano dello stesso Donaggio e di Pallavicini, Una casa in cima al mondo, che diventera anche un grande

hit di Mina: Amor, non piangere per me.

Se questo mondo non ha sorrisi per me, ringrazio il cielo di avermi dato gia te, gid te.

Vedrai che un giorno cambiera. Verra un mattino ed a svegliarti verro: andremo via, nella mia casa, io e te,

Cane wi La melodia, insomma, fa strame del beat. Ma, all’atto pratico,

Celentano con I/ ragazzo della via Gluck, che era stato persino escluso dalla finale, e la Caselli con Nessuno mi puo giudicare (Pace-Panzeri-Beretta-Del Prete) vendono oltre un milione e 305

trecentomila copie, cioé un milione in pit di quelle della canzone di Modugno.

L’esercito dei giovani Ma il fatto pid rilevante del momento resta l’ingresso prepotente nel mercato discografico dei giovanissimi, tanto che si puo dire che se gli anni Cinquanta si erano caratterizzati per una rivoluzione di tipo tecnologico (la nascita del 45 giri, l’affermazione del juke-box eccetera), i Sessanta si caratterizzano subito per una rivoluzione nel costume. Sull’«Europeo» del 12 gennaio 1964, Roberto Leydi riferisce i risultati di una sua inchiesta tra un gruppo di ragazzi trai 15 e119 anni appartenenti a tutte le classi sociali. Dall’inchiesta, in primo luogo, si apprende che ormai i giovani acquistano in media un disco ciascuno la settimana. Dice Piera (una delle giovani operaie intervistate): «Io compero due o tre dischi al mese, 45 giri. 133 sono troppo cari e poi su dodici pezzi ce ne sono soltanto due o tre buoni. Con i 45 posso scegliere le canzoni che mi piacciono». E quali sono queste canzoni? Risponde sempre Piera: «Le canzoni moderne, le “nostre” canzoni. Mi piacciono tanto quel-

le veloci che quelle lente, malinconiche». E poi, suggerendo una distinzione che puo essere assunta a criterio universale, aggiunge: «Per le prime mi basta che la musica sia piacevole e allegra, le parole non contano. Per quelle malinconiche le parole sono tutto. Devono essere belle, sincere, esprimere i nostri sen-

timenti». Insomma, questi giovani amano soprattutto, come é giusto che sia, «le nostre canzoni, quelle dei cantanti ragazzini», come dice

Marisa, studentessa di liceo: le canzoni della Hardy, della Spaak («che non sono proprio ragazzine, ma quasi») e «ancor pit» come

dice Sandra,

studentessa

di scuola tecnica, e con lei la

grande maggioranza dei copains italiani «la Pavone, Morandi, anche Celentano. Ma soprattutto la Pavone».

E perché proprio questi cantanti, queste canzoni? «Perché interpretano i nostri sentimenti e i nostri problemi»: e la risposta di Liliana, impiegata, pud valere sicuramente per tutti. 306

Rita Pavone e Gianni Morandi, all’epoca men che adolescenti,

Sl €rano prepotentemente affermati nella trasmissione televisiva Alta pressione, lo show giovane e spigliato con cui il neonato secondo canale della Rai-Tv aveva voluto nel 1962 differenziarsi dal primo. La Pavone vi aveva lanciato La partita di pallone (VianelloRossi), che in poco tempo vendette la bellezza di 700.000 copie, Perché, perché la domenica mi lasci sempre sola per andare a vedere la partita

di pallone perché, perché una volta non ci porti pure me... Morandi Go-kart twist, che era tratto dalla colonna sonora del

film Diciottenni al sole interpretato da Catherine Spaak. Cantava in quegli anni Rita Pavone: Non é facile avere diciotto anni non é facile amare cosi no, non é facile

perché tu non ti accorgi di me...° Ha ragione Gianfranco Manfredi: questo testo é esattamente il contrario di Non ho leta di Gigliola Cinquetti. La una ragazzina dice, al tipo che la vuole, che é meglio che si metta in attesa.

Qui una ragazzina che vuole un tipo é solo un po’ imbarazzata a dirglielo ma, per quanto la riguarda, ha gia deciso.’ Sempre Manfredi sottolinea giustamente come in quegli anni si fosse determinata una vera rivoluzione nella musica leggera, anche a livello di organizzazione industriale: la discografia era ormai molto pit importante della editoria musicale e della musica “dal vivo”. Cantare per incidere dischi € un mestiere molto diverso dal cantare di fronte alla gente. Si tratta di “cantare per il

microfono”. E un/arte a sé. 6 Non é facile avere diciott’anni, Bernabini, 1963. 7 Gianfranco Manfredi, La strage delle innocenti, Lato Side, Roma 1982, p. 31.

307

Bisogna saper tenere le giuste distanze, essere in grado di limitare e giocare la propria fascia sonora per non invadere le frequenze altrui. E una tecnica tia sane Sr nuova di emettere il fiato, di usare sapientemente i “piano” e i “forte”, di timbrare il suono. In sala di registrazione ormai non usa pit la registrazione in diretta. Il cantante si fa mandare in cuffia la base strumentale e sovrappone il suo canto, con successivi tentativi, su un nastro a

due piste. E il sistema di registrazione a tre piste in uso alla Rea. A Milano dal 1964 si useranno impianti Telefunken a quattro piste e poi a otto piste dal 1969. Alla Rca di Roma si passera invece dal tre piste al sei piste nel 1966-1967. Il fatto di registrare l’accompagnamento orchestrale prima dell’incisione della voce cambia lo stile di lavoro in sala e rende fondamentale la figura dell’arrangiatore che deve (o meglio dovrebbe, perché molti ancora non se ne rendono conto) preoccuparsi di far suonare l’orchestra in fasce di frequenze che non disturbino le frequenze della voce. Ecco perché una voce che possieda una grande estensione comporta anche grandi problemi di arrangiamento. Per il canto che, un po’ sbrigativamente, si pud definire “moderno”, le caratteristiche richieste sono un unico timbro, chiaro e ben riconoscibile, caratterizzato. Non é necessaria, anzi é scon-

sigliabile, una grande ampiezza di voce. E meglio che la voce si muova su un “binario” ristretto senza sbalzi, il che permette di costruire basi musicali compatte e di far sentire benissimo non solo la voce, ma anche tutti gli strumenti: la voce va a occupare le frequenze medie, la ritmica le frequenze basse, e violini e/o tastiere quelle alte. A ognuno la sua fascia sonora: tutto é perfettamente udibile e distinto. Manfredi conclude dicendo che, se si ascoltano con un minimo

di attenzione i dischi di Rita Pavone, si nota che queste tre fasce sono perfettamente distinte e distinguibili, e che il suo stile di canto é completamente nuovo. La Pavone non passa da toni sussurrati a toni gridati, non alterna “piano” e “forte”, non aumenta

e diminuisce il volume della voce. La Pavone timbra la prima nota come l’ultima; se deve fare un acuto perché la melodia lo 308

esige, tende con grandissimo istinto ad attutire il tono della voce in modo da rimanere sempre sullo stesso livello di canto. La Pavone muove invece la voce su un altro piano, quello della scansione ritmica: quasi mai canta allo stesso modo la stessa frase quando ritorna dopo I’inciso. Questo suo modo di cantare che non appartiene al solito stile melodico all’italiana, anzi non ha nulla di esso, é sicuramente anticipatorio e per molti anni resta ineguagliato. Stesso discorso per Morandi, sia, almeno in parte, per quanto riguarda l’impianto musicale, con in pit una voce tenorile da far gridare al prodigio,® sia rispetto al contenuto dei testi. Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte (Migliacci-Enriquez, 1963), In ginocchio da te (Zambrini-Migliacci, 1964), Ritornero in ginocchio da te, Paltra non é non é niente per me,

ora lo so ho sbagliato con te ritornero in ginocchio da te...

La fisarmonica (Zambrini-Migliacci-Enriquez, 1966), La fisarmonica Stasera suona per te,

per ricordarti un amore uno di tanti anni fa, la fisarmonica. Ma tu non piangere non si cancella cosi, torna pit grande che mai il desiderio di te quando vivevi felice con me... ripropongono il tema dell’adolescenza non pit solo come eta anagrafica ma come condizione esistenziale. 8 Come ha notato una volta Sylvano Bussotti.

309

Sono canzoni che si ascoltano nelle festicciole del sabato pomeriggio o al mare, durante le vacanze. Qualcuno ha scritto che la vacanza é il corrispettivo strutturale della notte, perché per un giovane l’una e l’altra sono “tempo senza scuola”. La notte invita alla trasgressione; la vacanza, in quanto interruzione del tempo, mette in crisi le sicurezze esistenziali. E durante la vacanza che la ragazza se ne vacon un altro. E in vacanza che si infrangono vecchi rapporti e ne nascono di nuovi. E allora che si é pit esposti al calore della comitiva come al tarlo della solitudine. Gli adolescenti degli anni Sessanta sono un misto di innocenza

ribollire di sessualita in dosi controllate dalle mamme. Ne é un tipico esempio Catherine Spaak, che é l’opposto sia della Cinquetti che della Pavone, della vergine pudica e della compagna di classe ribelle ma bruttina: che é, insomma, il simbolo della compagna di banco “sexy”. Un po’ quello che, su un versante pit! malinconico e meno malizioso, rappresenta in Francia Francoise Hardy. Non é un caso che il loro grande successo sia legato alla stessa canzone: Tous les garcons et les filles de mon age ovvero Quelli della mia eta (1963) di Frangoise Hardy e Samyn, tradotta in italiano da Pallavicini: Quelli che hanno la stessa mia eta

io li vedo a due a due passar. Quelli che hanno la stessa mia eta

hanno tutti qualcuno da amar e la mano nella mano sé ne vanno piano piano, se ne vanno per le strade a parlare dell’amo-ore,

solo io devo andare sola sola senza amore, senza chi mi puo dar un momento d’amor...

310

Parole che rispecchiano perfettamente la situazione di tanti giovani innamorati non corrisposti e che sembrano scritte per loro. La produzione discografica, per adattarsi al mercato, si differenzia ulteriormente. Non ci sono solo le canzoni per i giovani (fatto, comunque, gia di per sé nuovo); ci sono le canzoni per i giovani politicizzati come per quelli spoliticizzati, per chi ha la ragazza e per chi non ce I’ha, per chi vive intensamente un flirt e per chi di flirt non ne ha ancora avuto nessuno, per chi ha i piedi per terra e per chi sogna un radioso futuro. I] sentimento di appartenenza al gruppo dei pari é comunque, anche nel caso della Spaak, fortissimo. Dice un’altra sua canzone del 1963, Mes amis, mes copains di Pace, Pascal e Leccia:

Riprendetemi con voi, mes amis, mes copains,

riprendetemi con voi, insiemeé @ VOi... Vi ho tradito, si lo so, mes amis, mes copains,

ma se un giorno vi lasciai

fu perché mi innamorai!... Il teenager takeover (la presa del potere dei teenager) fa si che per i ragazzi sotto i vent’anni l’istituzione sociale pit significativa sia diventata, appunto, il gruppo dei pari. Noi siamo i giovani, i giovani piu giovani,

siamo l’esercito,

lesercito del surf...

dice ancora un’altra canzone di Catherine Spaak, L’esercito del surf (1964) di Mogol-Pattacini. I ragazzi, cioé, non si considerano parte di organizzazioni 0 di

tradizioni, ma piuttosto di movimenti: concetto, quest’ultimo, che sta a indicare non solo l’assenza di schemi tradizionali di gerarchia e di leadership, ma anche la mobilita fisica, la fluidita e la disponibilita dei suoi aderenti. 311

Insomma, i teenager, pit che con gli adulti (sia pure leader o eroi), si identificano con i giovani della loro stessa eta. Con i

vantaggi ma anche con i rischi che cid comporta, compreso quello, per esempio, di fare dell’adolescenza un limbo che a sua volta non é altro che il prolungamento di un’infanzia a sua volta senza disciplina: non gia l’inizio della maturita, ma una condizione valida in sé e per sé. Le “mie” canzoni, i “nostri” problemi, dicono i giovani inter-

pellati da Leydi. Anche perché a interpretarle, queste canzoni, non sono pit attempati signori in giacca e cravatta, ma, appunto, “cantanti ragazzini” che hanno la stessa eta dei loro innumerevoli fan. E un fenomeno (si pensi solo a Paul Anka) anch’esso di chiara derivazione statunitense. Attraverso il divo quindicenne i giovani divizzano se stessi. I nomi dei cantanti, col dilagare dei diminutivi, sottolineano la regressione anagrafica: Ricky Nelson, Little Eva, Frankie Avalon, Johnny Restivo, Bobby Darin, Bobby Rydell, Bobby Vinton, Bobby Vee. Nota Alessandro Portelli: «L’identita prepuberale proposta da questo gruppo di cantanti é sottolineata dalla comunicazione soprasegmentale dello stile: le voci sottili, acute, lamentose, che

esprimono bisogno di protezione».? Aggiunge Alan Lomax che questo stile di canto nasale e a gola stretta, molto lamentoso ma anche molto duro e drammatico, esprime una condizione di regressione culturale e soprattutto sessuale. Massimo Ranieri, al secolo Gianni Calone, completa la squadra dei “cantanti ragazzini” di casa nostra. Artista versatile e poliedrico, ha tutti i numeri per fare breccia nel cuore dei telespettatori. Sin dagli esordi, del resto, questo scugnizzo napoletano riesce a guadagnarsi i favori del pubblico, e non solo in virti della sua voce, indubbiamente calda e potente. A renderlo sim-

patico € anche la sua triste storia di quarto di otto figli di una famiglia poverissima del rione Sanita. ® Alessandro Portelli, “Elvis Presley @ una tigre di carta (ma sempre una tigre)”, in AA. VV., La musica in Italia, Savelli, Roma 1978, pp. 7-68. 312

Certo é che, da quando viene scoperto dal Maestro Enrico Polito alla fine degli anni Sessanta, Ranieri il successo non lo molla pit. Dopo aver vinto per due volte sia Canzonissima che il Cantagiro (chi non ricorda titoli come Rose rosse di Bigazzi e Polito, del 1969, o Erba di casa mia, del 1972, di Bigazzi, Polito e nel 1988 si toglie la soddisfazione di vincere anche il Savio?),

Festival di Sanremo, un alloro che ancora mancava al suo gia titolatissimo blasone. Non solo. Con gli anni la sua arte si é affinata, al punto che Ranieri riesce a imporsi prima nel cinema, in pellicole impegnate come il Metello di Bolognini, poi, pid di recente, anche in teatro: basti citare il Varieta di Maurizio Scaparro. L’“era Fizzarotti”

In quegli anni l’autore pit prolifico di film musicali @ Ettore Maria Fizzarotti, napoletano, che realizza, tra gli altri, Una lacrima sul viso con Bobby Solo, Dio come ti amo con Gigliola Cinquetti, la triade In ginocchio da te, Non son degno di te, Se non

avessi piu te con Morandi, Nessuno mi puo giudicare e Perdono con Caterina Caselli, Mezzanotte d'amore con Al Bano e Romi-

na Power, Stasera mi butto con Rocky Roberts. Questi film, concertati con le varie case discografiche, vengo-

no girati in pochissimi giorni (il record: quello di Rocky Roberts in tredici giorni) e garantiscono incassi a volte superiori al miliardo (contro costi sui venti-trenta milioni). Assicurano una diffusione capillare dei personaggi della canzone anche in zone di

provincia dove la televisione non arriva ancora o non ha sufficienti abbonati. In essi la “figlia moderna” ideale d’una famiglia media di Napoli o di Salerno é una ragazza che parla un italiano perfetto, reduce da qualche collegio svizzero dove i suoi hanno mandata con

grandi sacrifici, vergine, educata

e non

gesticolante,

che

veste “tailleurini” e abiti a tubo, che porta i capelli legati dietro con il fiocco, che é affezionatissima ai genitori. Mentre il “bravo ragazzo” @ generalmente militare di leva, dall’avvenire professionale un po’ incerto, cui improvvisamente arride un grande successo discografico. 313

Bene, in uno di questi film, Se non avessi pit te del 1965, al

protagonista (Morandi), che, finito il servizio militare, vorrebbe sposarsi, il dottor Neris (chiara allusione al dirigente della Rea Ennio Melis) ribatte: «Gianni ha successo perché é giovane [...] Se si sposasse ci sarebbe un calo di vendite dei dischi». Parole, queste, pil penetranti di qualunque saggio sociologico. Col matrimonio del divo verrebbe infatti meno l’identificazione del pubblico adolescente con il personaggio. E l’industria questo non se lo pud proprio permettere.

Il referendum di «Ciao Amici» I cantanti ragazzini si installano stabilmente ai primi posti della Hit parade. Un referendum lanciato dalla rivista «Ciao Amici» nel gennaio del 1966 da questi risultati. Il cantante pit popolare tra i giovani é Gianni Morandi (al quale vanno 124.878 preferenze), seguito da Celentano (49.980 preferenze), Bobby Solo (15.364), Michele (14.205) e Dino (7.950). La cantante pit popolare é Rita Pavone (con 102.880 preferenze); seguono Mina (100.201), Iva Zanicchi (5.900) e Ornella Vanoni (1.330). La classifica dei complessi vede in testa l’Equipe 84 (104.530 suffragi), che precede un plotoncino composto dai Ribelli (77.431), dai Rokes (43.520), dai Giganti (7.380) e dai Kings (2.050). E fra le trasmissioni televisive pit popolari figurano (dopo La fiera dei sogni di Mike Bongiorno, che vanta il primo posto con 54.740 preferenze) Adriano Clan (44.231), Studio Uno (32.230) e Stasera Rita (32.219): vale a dire tre trasmissioni musicali portate rispettivamente al successo da Celentano, da Mina e da Rita

Pavone. Riguardo agli hits, «Ciao Amici» fornisce due distinte classifi-

che, quella degli “amici” e quella dei negozi. La prima vede in testa Morandi con La fisarmonica; seguono Adamo con Lei (Salvatore Adamo, 1965) 314

Cammina per le strade deserte, cammina con la pace nell’anima. E libera, nessuno puo fermarla,

ha deciso di non amarmi pit... e Amo (Salvatore Adamo, 1966),

Amo il vento che ti stuzzica quando gioca fra i tuoi capelli quando tu ti fai ballerina per seguirlo con passi graziosi...

i Beatles con Michelle, ’Equipe 84 con Jo ho in mente te e Caterina Caselli (l’esuberante “casco d’oro” che, dopo il succes-

so sanremese, ha assaporato per ben sette settimane la gloria dei massimi vertici discografici), la quale s’impone nuovamente con

L’uomo d’oro. Nella seconda, invece, spiccano al primo posto i Giganti con Tema, seguiti da Morandi e dalla Pavone (rispettivamente con La fisarmonica e Il geghegé), dalla Caselli con L’uomo d’oro, da Adamo, ancora dalla Pavone con Fortissimo e dai Rokes con la

gettonatissima Che colpa abbiamo noi. Pit staccati i Rolling Stones e i Beatles (con Talkin’about you e Michelle): si devono accontentare del decimo e dell’undicesimo posto. Ma solo per il momento.

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XV

L’epopea del “beat”

In questo periodo, Beatles e Rolling Stones, i due storici complessi britannici, vivono il loro momento magico, unitamente a

due grandi folk-singer statunitensi, Joan Baez e Bob Dylan. Con loro siamo in piena “beat generation”, nel pieno di una generazione, cioé, che sta on the road per non stare da nessuna

parte, per stare sempre nel presente infinitamente espanso che é il solo tempo e il solo spazio in cui ci si pud sentire protetti. Beat equivale a “sconfitto”, “battuto”. Se lo leggiamo come abbreviazione di beatus (secondo quanto suggerito da Kerouac) a “sconfitto” e a “santo”: a quella identificazione della santita con la sconfitta che é il tratto caratteristico dei beat, i quali possiedono una mistica della poverta volontaria. I giovani beat sono la prima generazione che non deve lottare per la sopravvivenza e percio si rivolge a obiettivi di adempimento personale e di saggia convivenza. All’obiettivo di ricreare, per dirla con Ginsberg, «la sintassi e la misura della povera prosa umana». Siamo tutti imprigionati e indifesi, questo é il loro messaggio. Ognuno da solo e tutti invasi dagli stessi discorsi e dagli stessi doveri, da sogni pensati da altri e infilati subdolamente nel nostro cervello: tutti uguali e tutti insieme nella solitudine. Una «folla solitaria», per usare la felice espressione di David Riesman, il famoso sociologo americano; una folla soggetta a messaggi che vengono da fuori, un insieme non amalgamato di uomini orientati perd a ricercare in rapporto agli altri, anziché in se stessi, la propria identificazione. 317

Siamo come ci descrive Bob Dylan in una stupenda canzone: la catastrofe nucleare si é abbattuta su New York e non ce ne siamo nemmeno accorti. Come difendersi allora? Come liberarsi da questa solitudine collettiva, il cui simbolo pit palpabile sono i suburb, i nuovi quartieri residenziali dove si vive tutti insieme e tutti da soli in case separate ma identiche, le Jittle boxes di cui parla Malvina Reynolds in una famosa canzone? Qui si innesta la proposta della generazione beat. Difendersi si puo, ma a patto di allargare l’area della coscienza, di trascendere (anche attraverso vari stimoli artificiali, tra cui quelli ottenuti con le droghe) il proprio “io”, di uscire dalla propria pelle per raggiungere lo stato mentale in cui non si pongono pit questioni, né esiste un linguaggio articolato in cui porle. Ho visto la gente della mia eta andare via lungo le strade che non portano mai a niente cercare il sogno che conduce alla pazzia nella ricerca di qualcosa che non trovano nel mondo bias| e un Dio che é morto ai bordi delle strade Dio é morto nelle auto prese a rate Dio é morto nei miti dell’estate Dio é morto... Cosi scrive nel 1965 Francesco Guccini (anche se il brano verra portato al successo dai Nomadi) parafrasando in italiano la rabbia dell’Urlo di Ginsberg. Immediatamente dopo, Gianni Morandi, dall’insolita tribuna

del Festival delle Rose che si tiene all’interno dell’Hotel Hilton di Roma, esprime addirittura solidarieta al popolo vietnamita in lotta contro gli yankees:

C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones girava il mondo veniva dagli Stati Uniti d’America non era bello 318

ma accanto a sé

aveva mille donne se cantava Help!, Ticket to Ride

o Lady Jane o Yesterday cantava «Viva la liberta» ma ricevette una lettera la sua chitarra mi regalo fu richiamato in America stop coi Rolling Stones stop coi Beatles stop nvhan detto va nel Viet-Nam € spara ai viet-cong...

Il brano di Marco Lusini e Franco Migliacci, seppur in quella occasione opportunamente purgato, fara il giro del mondo e avra Ponore di essere interpretato anche dalla mitica Joan Baez. Anche in Italia, a partire proprio dal 1966, il termine “beat” entra nell’uso corrente del lessico giovanile. Dapprima circoscritto alla pura identificazione di una musica elettrificata e ritmicamente accentuata (che prende il nome dallo stesso tempo che usa, un tempo secco, fortemente

scandito, potentemente

amplificato, espresso in quella struttura che diventera classica: chitarra solista, chitarra ritmica, chitarra basso e batteria), il ter-

mine si estende a tutto cid che rappresenta il nuovo modo di esprimersi lontano dagli schemi del passato: pantaloni beat, occhiali beat, ballo beat, raduno beat eccetera.

«Una parola d’ordine di cui non era impellente ricercare il significato, tanto era forte il suo valore di simbolo, di suono quasi onomatopeico atto a scandire i ritmi di un dialogo che diventava sempre pili facile tra la “consorteria” dei giovani e che, contemporaneamente, appariva sempre pil oscuro al profano adulto.»! L’ondata beat, avversata dalla stampa conservatrice, riesce a

imporre il primo giornale concepito e scritto esclusivamente “per 1 Lo rammenta Nicola Sisto nel suo C’era una volta il beat, Lato Side, Roma 1982,

Do: 319

i giovani”: «Big», diretto da Marcello Mancini e nella cui redazione figurano Fabrizio Zampa, Sergio Modugno, Paola Dessy, oltre a un esercito di esterni che va da Elisabetta Ponti a Piero Vivarelli

e Leoncarlo Settimelli. La sua tiratura media si attesta

quasi subito sulle 400-500.000 copie con una resa che non supera il 15 per cento. Se «Ciao Amici» (nato a sua volta nel 1963) era la copia esatta del «Salut les copains» francese (e come tale si rivolgeva a un pubblico di tredicenni la cui unica preoccupazione era quella di ballare e di divertirsi), «Big» (che inizia le pubblicazioni nel giugno del 1965) si rivolge da subito a un altro pubblico, un pubblico attento a tutto cid che di nuovo va maturando in campo musicale e non solo in quello. Il successo non si fa attendere, e non certo per motivi contingenti ma perché «Big» é il primo giornale a intuire l’immenso spazio che si é creato attorno alla figura del “giovane”, una figura che emergeva non solo rispetto ai genitori e agli adulti in genere, ma anche, e forse piu, rispetto ai suoi fratelli maggiori, quelli della generazione precedente che, prendendo a prestito la macchina e la camicia bianca di papa per uscire con la fidanzatina, costituivano “una cieca perpetuazione della specie”. Ma c’é di pil. «Big» azzecca anche la formula giusta e, se da un lato ripropone gli schemi usuali del rotocalco sensazionalistico, dall’altro lancia, sempre secondo la logica del dialogo costruttivo, i suoi strali contro il potere, contro la societa repres-

siva e autoritaria. Sveglia ragazzi, la rubrica che settimanalmente apre le sue pagine e che, sotto la veste grafica, si avvale dell’emblematica foto di una ragazzina che urla portandosi una mano all’angolo della bocca, diviene in breve un esempio di come sia possibile costruire addirittura limpalcatura di un’ideologia solo su un minimo comun denominatore anagrafico. Sono gli anni del Piper Club, il locale di via Tagliamento che a Roma apre i battenti il 18 febbraio del 1965. Anch’esso é stato pensato esclusivamente per i giovani. Da li prenderanno le mosse i principali protagonisti del “beat italiano”, a cominciare da 320

due ragazze di grande temperamento che rispondono al nome di Caterina Caselli e di Patty Pravo. Il beat “duro” di Caterina Caselli La Caselli, prima dei trionfi sanremesi, aveva esordito al Canta-

giro del 1965 con una personalissima versione di Baby please don’t go dei Them, ribattezzata in italiano Sono qui con voi. In breve tempo incide brani dei Rolling, dei Monkees, di Donovan, di Cat Stevens, di Otis Redding. E infila una serie impressionante di hit: Il volto della vita, Insieme a te non ci sto pit, Il carnevale, L’uomo d’oro (Pace-Panzeri-Guatelli), Un uomo @oro tutto per me cerchero ayay, cerchero ayay. Un uomo adoro tutto per me trovero ayay, trovero ayay...

Perdono (Mogol-Soffici): Perdono, perdono, perdono io soffro pit ancora di te. Diceva le cose che dici tu,

aveva gli stessi occhi che hai tu. Mi avevi abbandonata ed io mi son trovata a un tratto gia abbracciata a lui... La sua caratteristica é di essere non pit soltanto una cantante adolescente, ma anche una “rockettara”, un’esponente di punta del beat pit duro: la prima caratteristica, infatti, non sarebbe piu sufficiente. Solo col tempo “Casco d’oro” rientrera nei ranghi fino a diventare un’interprete molto sofisticata (anche se a suo modo trasgressiva, tanto che in uno dei suoi ultimi album, Primavera, alludera pur con tutte le cautele del caso al tema dell’amore tra donne). 321

Ancora qualche anno e la goffa ragazzona emiliana degli esordi diventera una delle donne-leader della discografia nazionale. Il film che Ettore Maria Fizzarotti trarra nel 1966 da Nessuno mi puo giudicare risultera, al riguardo, davvero profetico. In un’atmosfera da Grandi magazzini in abiti moderni, la Caselli alla fine riesce a realizzare il sogno della sua vita: quello di trasformarsi da commessa in cantante e di essere scritturata dalla Cgd...

Patty la trasgressiva Anche Patty Pravo (il suo nome d’arte allude ai provos olandesi) é una cantante molto inquieta. Dopo aver studiato pianoforte al Conservatorio di Venezia, scappa di casa all’eta di sedici anni e approda a Roma, al Piper. Ragazzo triste (versione italiana di But you’re mine di Sonny Bono, 1966) é il suo primo grande successo: Ragazzo triste come me ah, ah che sogni sempre come me ah, ah non c’é nessuno che ti aspetta mai,

perché non sanno come séi. Ragazzo triste sono uguale a te: a volte piango e non so perché. Altri son soli come me eh, eh,

ma un giorno spero cambiera. Nessuno puo star solo,

non deve stare solo. Quando si é giovani cosi dobbiamo stare insieme,

parlare tra di noi, scoprire insieme il mondo che ci ospitera... Patty Pravo € un’adolescente come Rita Pavone, una donna beat come la Caselli, ma ha in pit una spiccata predilezione per le situazioni scabrose, tanto da divenire col tempo il primo idolo dei “gay” italiani colti. Pazza idea (Dossena-Monti-Ullu, 1973) 322

Io stasera insieme a un altro e tu sarai forse a ridere di me della mia gelosia che non passa pit ormai non passa pit... Pazza idea

di far ’amore con lui pensando di stare ancora insieme a te! Folle folle folle idea di averti qui mentre chiudo gli occhi € sono tua...

e Pensiero stupendo (Fossati-Prudente, 1978) E tu e noi e lei

fra noi vorrei vorrei e lei adesso sa che vorrei

le mani le sue

e poi un’altra volta noi due sono canzoni che parlano di triangoli, di scambi “multilaterali”, ma sempre con mano felice, avvolgendoli generalmente in

un’aura di mistero. E, a differenza della Caselli, non chiedera mai scusa a nessu-

no: tra orgoglio e provocazione, affermera sempre la sua presenza senza nemmeno chiederne il diritto. E sara anche capace di gesti violentemente polemici, come quando produrra un brano,

Miss Italia (1978) apertamente contro la Democrazia Cristiana, che la Rca si rifiutera di pubblicare, spaventata dalla sequenza volutamente sgangherata di insulti messi insieme dalla cantante veneziana. 323

Patty Pravo ripete il gesto di Mina. Le mani portate avanti al viso e alla bocca alludono a una infantile scoperta del corpo. Una scoperta fatta frammento dopo frammento, pezzo dopo pezzo: dalle mani alla bocca, dai piedi all’addome. Una scoperta che nasconde una forte carica erotica. I suoi gesti esprimono in genere un disgusto, un allontanamento delle cose da sé (per esempio, il polso piegato, il palmo spinto in avanti, mentre la testa, rigida, si porta indietro). E anche il suo modo di emettere la voce é analogo. Patty Pravo non ha una grande voce, ma ha un timbro molto particolare e manierato. Sembra allontanare la voce, facendo eco a se stessa. E la fa tremolare, ma senza ricorrere allo stile “nenia” di un Donovan. Si

direbbe che canti per “frammenti”.

La grande stagione dei complessi Gli anni del Piper sono anche e soprattutto gli anni dei primi grandi complessi, che sostituiranno rapidamente le grandi orchestre di una volta. Pochi sanno che il primo complesso beat italiano é stato quello dei Novelty, sorto nel 1960 e capitanato da Fausto Leali, al cui nome é legato, nel 1967, il grande hit di A

chi, la versione italiana di Hurt, “evergreen” americano del 1954 di Crane-Jacobs, gia riportato al successo nel 1961 da Timi Yuro: A chi sorridero se non a te. A chi se tu,

tu non Sel pitt qui. Ormai é finita é finita tra di noi ma forse

un po’ della mia vita é rimasta negli occhi tuoi... 324

A esso fecero seguito, attorno alla meta degli anni Sessanta, altre importanti band. Una di esse fu quella dei Rokes, che, for-

matasi in Inghilterra nel 1960, giunse in Italia I’8 maggio del 1963. Norman David “Shel” Shapiro, Bobby Posner, Johnny Raimond Charlton, Mike Shepstone trovarono la Mecca in Italia

e infilarono una serie impressionante di hit. Il pit famoso dei quali resta quel Che colpa abbiamo noi (Lind-Mogol, 1966) che diventera una delle bandiere della gioventi beat: La notte cade su di noi, la pioggia cade su di noi, la gente non sorride piu vediamo un mondo vecchio che ci sta crollando addosso ormai,

ma che colpa abbiamo noi... L’altra grande band di quegli anni fu "Equipe 84, cosi chiamata dalla somma degli anni dei suoi componenti: Maurizio Vandelli, Franco Ceccarelli, Alfio Cantarella, Romano Morandi, poi

sostituito da Victor Sogliani. Nata nel 1962, segnera di sé la sto-

ria musicale di quegli anni con brani “storici” come Auschwitz (Vandelli-Lunero, dietro il cui pseudonimo si cela in realta Francesco Guccini, del 1966, anche se composta nel 1964), Son morto ch’ero bambino, son morto con altri cento

passato per il camino e adesso sono nel vento. Ad Auschwitz c’era la neve, il fumo saliva lento

nel freddo giorno d’inverno e adesso sono nel vento... 29 settembre (Mogol-Battisti, 1967), Seduto in quel caffe io non pensavo a te. Guardavo il mondo che girava intorno a me. Poi dimprovviso lei sorriseé e ancora prima di capire 325,

mi trovai sottobraccio a lei stretto come se

non ci fosse che lei...

Nel cuore, nell’anima (Mogol-Battisti, 1967) Nel mio cuor,

nell’anima c’é un prato verde che mai nessuno ha mai calpestato, nessuno, se tu vorrai

conoscerlo cammina piano perché nel mio silenzio anche un sorriso puo fare rumore... e molti altri ancora. Vanno poi citati iCamaleonti (Gerry Manzoli, Livio Macchia, Antonio Cripezzi, Paolo Di Ceglie e Riki Maiocchi, poi sostituito da Mario Lavezzi), che, formatisi a Milano attorno al 1963,

conosceranno un grande successo verso la fine degli anni Sessanta. Tra i loro hit pit’ famosi: L’ora dell’amore (Reid-BrookerPace-Carrera, 1967),

Da molto tempo questa stanza ha le persiane chiuse, non entra pit luce qui dentro, ilsole é uno straniero. E lei che mi manca,

é lei che non c’é piu. L’orologio della piazza ha battuto la sua ora. E tempo di aspettarti, é tempo che ritorni, lo sento, sei vicina,

é l’ora dell’amore..

Io per lei, versione italiana di To give (Pace-Crewe-Gaudio, 1967), 326

To per lei io per lei morirei per quegli occhi vivrei una vita di pitt. Io per lei io per lei vincerei anche il sole perché questa vita che ho é per lei...

ed Eternita (Cavallaro-Bigazzi, 1970): Eternita spalanca le tue braccia 10 sono qua accanto alla felicita che dorme. Per lei vivro

e quando avra bisogno 10 Cl saro

ad asciugare le sue lacrime... E ancora: i Corvi (Fabrizio Levati, Italo Ferrari, Claudio Benassi, Angelo Ravasini), che s’imporranno nel 1966 con Un ragazzo di strada (Tucker-Mantz-Nisa): Io sono quel che sono non faccio la vita che fai io vivo ai margini della citta non vivo come te. Sono un poco di buono lasciami in pace perché sono un ragazzo di strada e tu ti prendi gioco di me...

i Nomadi (Augusto Daolio, Gianni Coron, Giuseppe Carletti, Franco Midili, Gabriele Coppellini), che porteranno al successo il Dio é morto di Guccini, assieme a molti altri brani, tra cui

Come potete giudicar e Noi non ci saremo, entrambi del 1966; i Giganti (Enrico Maria Papes, Sergio De Martino, Francesco Marsella, Giacomo De Martino), che con Tema (Amadesi-Albu327

la, 1966) stravincono il Disco per l’Estate e si piazzano saldamente al primo posto rimanendo per 19 settimane nella Top Ten: Tema, un giorno qualcuno ti chiedera: «Cosa pensi dell’amor?» Amor, amor, amor, amor.

Apre il tema Sergio: Penso che l'amor sia la piu bella cosa che dia felicita ma cio che credo é poi verita? Vedo tutti che

si dan da fare per trovare una donna che col pianto in gola poi ti lascera. Viva viva amor é per amore che si canta viva viva l’amor e per amore ancora Si vivra... I Dik Dik (Pietro Montalbetti, Giancarlo Sbrizziolo, Mario Totaro, Sergio Panno, Erminio Salvaderi), tra le cui cover non si

puo non citare la versione italiana, firmata Mogol, di A whiter shade of pale dei Procol Harum, da noi ribattezzata Senza luce (Reid-Brooker, 1967);

Han spento gia la luce e son rimasto solo io, e mi sento mal di mare.

Il bicchiere pero é mio, cameriere lascia stare, camminare io so. L’aria fredda, sai,

mi svegliera oppure dormiro...

gli Alunni del Sole (Bruno Morelli, Paolo Morelli, Gianpaolo Borra, Giulio Selfrigio), che con Jenny e la bambola (Paolo 328

Morelli, 1974) riusciranno a farsi apprezzare tanto dal pubblico dei concerti quanto da quello, pit tradizionalista, interessato al loro rock “melodico”: Jenny sembrava felice di correre lungo il mare di andare, tornare, giocare,

di farsi perdonare, io le baciavo le ciglia che meraviglia felici eravamo felici ma estate finiva e dovevo lasciarla... La “nuova

musica”,

come

tutte le correnti culturali che si

rispettino, comincia a influenzare i mass-media e la tv, ad avere le sue trasmissioni televisive (€ di questo periodo Per voi giovani, che si deve all’estro di Renzo Arbore) e ha anche il suo manifesto. Lo stilano nel 1966 il critico Piero Vivarelli, il paroliere Sergio Bardotti e un giovane cantante alle prime armi, Lucio Dalla. Dice cosi: Oggi non basta pili saper scrivere 0 interpretare una canzone: bisogna vedere come. Noi attingiamo alla tradizione, ma non la rispettiamo. Una tradizione é valida solo in quanto si evolve. Altrimenti interessa i musei. La canzone é una cosa viva, ma per essere tale deve guardare al domani e non a ieri. Nel 1966 il nazionalismo musicale é un nonsenso, sia da un punto di vista storicistico che dello stile. Vogliamo essere onesti con il pubblico e pertanto dargli tutto quanto c’é di pil attuale, vivo, impegnato e divertente. I “mostri sacri” non ci fanno paura. Siamo, senza alcuna riserva, decisamente contro tutti quelli che non la pensano come noi. ; Prima che qualcun altro ce lo dica, riconosciamo subito da soli la necessita di aderire a quella “tendenza” che, partendo da Ray Charles, passa attraverso i Beatles e Bob Dylan. Il nostro modo di pensare alla musica @ anche il nostro modo di vivere. 329

Noi crediamo nei giovani e lavoriamo per loro. Si pud essere vecchi anche a diciotto anni. Il “blues” non é solo una base, ma soprattutto una fede. Noi cerchiamo il disprezzo di tutti quelli che non la pensano come noi... del resto é abbondantemente contraccambiato.

Il suicidio di Tenco Ma il movimento della nuova musica (sorretto adesso anche da una trasmissione radiofonica, la leggendaria Bandiera Gialla di Gianni Boncompagni nata il 16 ottobre del 1965 e in onda il sabato alle 17,40 sul secondo programma) non sara sempre coerente con le sue premesse. Si pensi a quel che successe al Festival di Sanremo del 1967. La Proposta (Martelli-Albula) dei Giganti fu: Mettete dei fiori nei vostri cannoni. Era scritto in un cartello sotto il collo dei ragazzi

che, senza conoscersi, di citta diverse,

socialmente differenti, uscivano per le strade della loro citta, cantavano la loro proposta. Ora pare che ci sara un’inchiesta...

Notate il tono volutamente oggettivo, burocratico, proprio di chi — per fingersi aperto — strizza l’occhio alla sociologia e alle inchieste-campione. Ma notate soprattutto l’intento chiaramente rassicurante: i fiori nei cannoni, certo, ma pid ancora i contesta-

tori che sono solo dei “ragazzi” i quali, pit che manifestare, “cantano” la loro proposta. Difatti cosi annuncia anche La rivoluzione di Mogol-Soffici: Ci sara la rivoluzione, nemmeno un cannone pero tuonera. Ci sara la rivoluzione, 330

lamore alla fine vedrai vincera...?

Il 1967 é l’anno del suicidio di Tenco. Alla notizia che la sua canzone, Ciao amore, ciao, noné entrata in finale, Tenco si congeda bruscamente dagli amici e, rientrato all’Hotel Savoy, si sparaun

colpo di rivoltella alla tempia. Mala macchina del Festival non solo non s’arresta ma finisce col volgere a suo favore anche quel dramma. In pochi giorni le 80.000 copie del disco vengono completamente esaurite. E dire che la Rca le aveva stampate per sbaglio, dato che anche i brani pit’ famosi del cantautore genovese (Vedrai, vedrai e Lontano lontano, rispettivamente del 1965 e del

1966) non erano andati oltre le 35.000 copie La solita strada bianca come il sale;

il grano da crescere i campi da arare; guardare ogni giorno se piove o cé il sole per saper se domani si vive o si muore e un bel giorno dire basta € andare via...

Ciao amore, ciao € una canzone a suo modo “politica”. Nonostante il “miracolo economico”, in Italia c’erano ancora sacche

paurose di poverta e di indigenza, il Sud era ancora spaventosamente indietro, l’emigrazione non s’era arrestata. E mentre la classe operaia tornava a entrare in fermento, anche i giovani cominciavano ad avvertire un disagio crescente. Tenco capiva che bisognava scuotere le coscienze, e non pil solo sul piano del costume, come quando aveva composto i famosi versi:

Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare,

il giorno volevo qualcuno da incontrare; la notte volevo qualcosa da sognare...* 2 Mi sono innamorato di te, L. Tenco, 1962.

331

Certo non ci si uccide per una canzone. Ma forse ci si pud uccidere per tutto cid che sta dietro un certo tipo di canzone.’ La rivoluzione di Battisti

Nel 1967 finisce I’“era beat”. Nel mondo Il’avvenimento é legato all’uscita dell’album dei Beatles Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band. In Italia, pii modestamente, al gia citato brano del-

Equipe 84 (ma di Mogol e Battisti) 29 settembre, in cui per la prima volta la voce di Vandelli non segue la chitarra elettrica ma vola su un tappeto di note liberate da archi e tastiere. E poiché abbiamo fatto riferimento a Lucio Battisti, come non ricordare il ruolo decisivo svolto dall’autore di Mi ritorni in mente (generalmente in coppia con l’inseparabile Mogol) nella storia recente della nostra canzone, un ruolo al confine tra beat e pop, tra le fresche utopie degli anni Sessanta e il senso di disfacimento e di crisi tipico dei Settanta? Non si puo dire, pero, che Lucio Battisti abbia riscosso, almeno agli inizi, le simpatie dei critici, soprattutto di quelli pit “intellettuali”. Quando uscirono i suoi primi dischi, destinati a entrare nel mito, pit di un critico arriccid il naso. Mentre i ragazzi impazzivano per lui e passavano giornate intere a ripetere i versi di Mi ritorni in mente (Mogol-Battisti, 1969) Mi ritorni in mente

bella come sei

forse ancor di pit. Mi ritorni in mente dolce come mai come non Séi tu...

O a strimpellare sulla chitarra gli accordi di Emozioni (MogolBattisti, 1970) E guidare a fari spenti nella notte

per vedere se poi é cosi difficile morire 3 Come scrisse Enzo Forcella su «Il Giorno» del 28 gennaio 1967. 332

é Stringere le mani per fermare qualcosa che é dentro me ma nella mente tua non c’é capire tu non puoi tu chiamale se vuoi emozioni tu chiamale se vuoi emozioni...

beandosi di quella voce afona che — al pari di quelle di un Modugno e di un Paoli — mostrava per la prima volta che canto é soprattutto uso della voce, interpretazione, c’era chi non esitava a tacciare i suoi brani di qualunquismo e di cattivo gusto.

«Perché piace Battisti?» si chiese la semiologa Patrizia Violi.‘ E rispose: Battisti piace perché incarna la categoria del “moderno”. La “modernita” permette di assumere il comportamento e il linguaggio del nuovo senza costringere mai a una effettiva modificazione della propria realta, a una trasformazione reale della

vita e dei propri rapporti con essa. Nella canzone tale operazione di riconferma tranquillizzante si compie essenzialmente a livello linguistico, attraverso la parola apparentemente nuova e liberata. Dietro di lei ci si pud schermire, mantenendo inalterata la propria visione del mondo, con la

gratificante convinzione di essere esattamente quello che il proprio tempo richiede. Ci si puo credere, cosi, diversi, pur rimanendo uguali. Tanta acredine si spiega forse col fatto che allora si era in pieno clima sessantottino e qualunque cosa parlasse solo d’amore e non anche di lotta veniva guardata con estrema diffidenza, tanto

pill se aveva successo e raggiungeva le piu alte vette dell’odiatis-

sima Hit parade. E cosi non si riusci a capire quello che fu subito chiaro ai giovanissimi e pil tardi a tutti: e cioé che il cantautore reatino la rivoluzione la stava facendo, eccome, solo che la sua, com’era

giusto che fosse, riguardava esclusivamente la musica. Su quel terreno, pero, lui non temeva rivali, e ha ragione Renzo Arbore 4 Patrizia Violi, “Canzoni per tutti e per nessuno”, in Lucio Dalla, a cura di Simone Dessi, Savelli, Roma 1977, pp. 129-132. 333

ad affermare di averlo sempre considerato tra i massimi compositori di canzoni esistenti al mondo. Di lui si pud dire, in fondo, la stessa cosa di Mina: che se non

fosse stato schivo, introverso, persino un po’ “orso”, al punto di ritirarsi del tutto dalle scene per lanciare ogni tanto dei segnali solo attraverso i dischi, sarebbe stato probabilmente tra i pochissimi artisti italiani a poter sfondare anche all’estero. Si, viaggiare evitando le buche piu dure senza per questo cadere nelle tue paure gentilmente senza fumo con amore; dolcemente viaggiare rallentando per poi accelerare con un ritmo fluente di vita nel cuore gentilmente senza strappi al motore.. Un testo come Si, viaggiare del 1977 (scelto a caso nella sua sterminata produzione) sembrerebbe confermare |’analisi della -Violi. Senonché si puo dire che in Battisti il gioco é riscattato da una forte dose di ambiguita, proprio nell’accezione in cui un critico come Empson parla dell’“ambiguita poetica”. Nelle canzoni di Battisti e Mogol — irripetibile impasto di kitsch e sublime — ermetismo e «Grand’Hotel», Montale e Liala,

si tengono splendidamente per mano. Ma l’impressione che se ne ricava non é quella di una banalizzazione. L’operazione non procede dall’alto verso il basso. E pit complessa, pit sfaccettata. Di fronte a versi come E guidare a fari spenti nella notte

per vedere se poi é cosi difficile morire> 5 Emozioni, Mogol-Battisti, 1970.

334

o come

All’uscita di scuola i ragazzi vendevano libri, io cercavo soltanto il coraggio per imitarli...° O ancora

L’universo trova spazio dentro me, ma il coraggio di vivere quello ancora non c’é’

limpressione che si ricava é quella di un pastiche miracolosamente riuscito tra quelle che Gramsci chiamava le “filosofie dei filosofi” e le “filosofie di massa”. Acqua azzurra,

acqua chiara con le mani posso finalmente bere. Nei tuoi occhi innocenti

posso ancora ritrovare il profumo di un amore puro, puro come il tuo amor...® Sono versi pieni di ottimismo ma scanditi da una musica stranamente mesta, malinconica.

Gli anni Sessanta volgevano alla fine e, con loro, quella strana euforia che aveva accompagnato l’intero decennio. Una scia di sangue stava per macchiare il nostro Paese. Anche le canzoni avrebbero presto perduto l’ottimismo che le aveva a lungo caratterizzate. In questo Lucio Battisti é stato un po’ il nostro Dylan. Meglio di chiunque altro ha saputo cogliere il cambiamento di umore e farsi cantore del clima “uggioso” e accidioso degli anni di piombo. Con musiche d’avanguardia e testi, come abbiamo visto, geniali. Non scopro niente di nuovo se dico che tutti i cantautori che sono venuti dopo si sono rifatti, oltre agli inevitabili modelli stra6 I giardini di marzo, Mogol-Battisti, 1972. 7 I giardini di marzo, Mogol-Battisti, 1972. 8 Acqua azzurra, acqua chiara, Mogol-Battisti, 1969. 335

nieri, a Battistie a De André. Per molti versi sono loro gli ultimi grandi capiscuola della nostra canzone d’autore. Ma in che consiste, insomma, la rivoluzione di Battisti? Consi-

ste nell’inserire sul tronco della canzone di consumo moduli e stilemi da “canzone politica”. Per dirla diversamente, nel rendere la canzonetta molto pit inquieta e inquietante. Che gli ultimi dieci, quindici anni siano stati musicalmente caratterizzati dal predominio del “messaggio debole” € percid essenzialmente un luogo comune. In realta é avvenuta una cosa assai singolare. E cioé, nel momento stesso in cui entrava in crisi,

la canzone politica, per uno strano meccanismo di compensazione, finiva col permeare anche la canzone commerciale: quello che si é perso in profondita si € guadagnato in estensione. E questo anche nei testi apparentemente pit banali, una volta si sarebbe detto “d’evasione”. Quello che é cambiato, piuttosto,

é il clima generale. Nei “favolosi Sixties” si cantava la speranza. Il “sottomarino giallo” era il simbolo di un’adolescenza che si teneva in disparte in un luogo “protetto” e in un tempo “congela-

to” e il cui unico desiderio era quello di non finire mai. II rock di oggi € molto pil torbido e notturno ed esprime le ansie di una generazione che non smette di interrogare e di interrogarsi. Ma da quando Battisti ha smesso di ricorrere, per i suoi testi, al suo paroliere di sempre, Mogol, al secolo Giulio Rapetti, e soprattutto da quando ha deciso di sostituirlo con un giovane poeta romano, Pasquale Panella, dalla vena dadaista e dai versi

volutamente criptici che non di rado sconfinano nel rebus e nel crittogramma, le cose sono radicalmente cambiate.

Adesso é la critica pill esigente a gridare al miracolo, mentre i fans di un tempo, a parte gli irriducibili, stentano ad adeguarsi. Cosi € stato per Don Giovanni e L’Apparenza (rispettivamente del 1986 e del 1988), cosi anche per La sposa occidentale (1990), che ha segnato tra l’altro il passaggio dell’autore di 29 settembre alla Cbs. La formula é sempre la stessa: testi che rasentano l’assurdo,

infarciti di Ossimori e di allitterazioni, messaggi subliminali, melodie in maschera su un sottofondo ossessivamente ripetitivo, quasi da disco-dance, di tastiere elettroniche. Di nuovo c’é solo, 336

forse, che qui Battisti porta il discorso alle estreme conseguenze, rompendo definitivamente i ponti con il passato, votandosi a uno sperimentalismo assoluto, quasi fine a se stesso, un po’ per provocazione, un po’ per gioco. Il risultato, almeno sul piano stilistico, € eccellente. Ma non sara facile riuscire a far dimenticare brani come Acqua azzurra, acqua chiara, Pensieri e parole, Fiori rosa, fiori di pesco: quel loro romanticismo un po’ kitsch, forse, ma cosi fresco, spontaneo, e anche, in fondo, cosi intrigante.

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