Storia del cinema. Dalle nouvelles vagues ai nostri giorni [Vol. 3.1] 8811473004, 9788811473008

Storia del cinema. Volumi 1-2-3.1-3.2. Copertina: in brossura, sporca lievemente. Pagine testo: ingiallite lievemente. I

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Italian Pages 564 Year 1995

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Storia del cinema. Dalle nouvelles vagues ai nostri giorni [Vol. 3.1]
 8811473004, 9788811473008

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Strumenti di studio

Storia del cinema dalle origini ai nostri giorni. (Strumenti di studio). 1. Storia del cinema, di Cari Vincent. 2. Storia del cinema, di G. Fofi, M. Morandini, G. Volpi. 3. Storia del cinema, di G. Fofi, M. Morandini, G. Volpi. (Strumenti di studio). 1. Cinematografo - Storia I. Vincent, Carl - IL Fofi, Goffredo III. Morandini, Morando - IV. Volpi, Gianni 791.43 Dati catalografici a cura del Servizio Biblioteche della Provincia di Milano.

Goffredo Fofi • Morando Morandini • Gianni Volpi

Storia del cinema Dalle nouvelles vagues ai nostri giorni

Volume terzo*

Garzanti

Prima edizione: maggio 1988

ISBN 88-11-47300-4

© Garzanti Editore s.p.a., 1988 Printed in Italy

Storia del cinema

Il cinema nell’Italia del «boom»

Nel 1959 escono in Italia II generale Della Rovere di Rossel­ lini e La grande guerra di Monicelli, due film di successo. Con significativa concomitanza tematica hanno al centro perso­ naggi infingardi e intrallazzatori che riscattano una vita me­ diocre con una morte eroica. L’anno dopo Fellini con La dolce vita, Visconti con Rocco e i suoi fratelli, Antonioni con L’avventura aprono una nuova stagione del cinema italiano. L’italia è cambiata, passando da paese prevalentemente agricolo a paese prevalentemente industriale. La grande mi­ grazione dalle campagne del sud alle città del triangolo indu­ striale mette a contatto massicciamente due parti della peni­ sola che avevano avuto finora scarsa comunicazione storica. La guerra fredda ha lasciato il posto ai nuovi miti della coesi­ stenza pacifica; sul fronte interno, la Democrazia cristiana non riesce più a rispondere alle esigenze di un paese profon­ damente mutato e apre ai socialisti che entrano nel governo, chiedendo in cambio, tra altre cose, il riconoscimento dei valori della resistenza, conculcati durante il precedente de­ cennio democristiano, e la fedeltà al dettato costituzionale. Risultato di una capacità di concorrenza delfindustria ita­ liana sul mercato intemazionale, dovuta alla «fantasia» crea­ tiva e imprenditoriale ma anche al basso costo della mano­ dopera, il cosiddetto «boom» o «miracolo economico» crea nuovi ricchi e riduce i livelli di miseria, migliora condizioni di vita che sino allora erano state di semplice sopravvivenza, per la maggior parte della popolazione. Ma sotto covano ancora contrasti insanabili, pronti a riesplodere di fronte a nuovi sintomi di crisi. L’intellighenzia trova nuovi e più vasti spazi e ascolto nel­ l’impetuoso sviluppo dei mass media: editoria, televisione, giornali. Il cinema — che non ha ancora subito drastiche riduzioni di pubblico come in altri paesi: nel 1960 le frequen­ 7

ze annue sono di 745 milioni che scendono a 525 nel 1970 — riprende fiato, pur nell’abituale caos produttivo e distributi­ vo, grazie anche ad alcuni clamorosi successi internazionali, primo fra tutti La dolce vita. Temi considerati sino allora tabù possono essere portati nuovamente, o per la prima vol­ ta, sullo schermo: tra il 1960 e il 1963 escono una dozzina di film importanti che rievocano con accenti assai simili il pe­ riodo cruciale della resistenza cui si torna per riaffermare ideali trascurati e parlare del passato recente della nazione. Esordiscono numerosi i nuovi registi. Diversificato è il loro rapporto con la generazione prece­ dente. I seguaci del neorealismo cercano, nel rispetto conte­ nutistico dei temi, di aggiornare l’analisi della società italiana e del suo popolo; liberati da quell’ipoteca per merito di An­ tonioni e Fellini, altri procedono per un cammino più imme­ diatamente borghese, di intonazione autobiografica o priva­ ta, spesso riuscendo meglio dei primi a fare i conti con la lezione stilisticamente più ricca del neorealismo. In generale, i primi affrontano la realtà sulla base di solide costruzioni narrative, di stampo più «americano» che sperimentale, di­ retto, documentario. Presto, però, le carte tenderanno a con­ fondersi, in uno slancio verso la metafora e le grandi ambi­ zioni totalizzanti. I secondi sono più sensibili ai nuovi temi di moda: inco­ municabilità e «alienazione», in una vaga ottica post-antonioniana e pseudofenomenologica. Convinti della «fine delle ideologie», dell’«integrazione della classe operaia», della vi­ sione di una società industriale che tutto uniforma rendendo impossibili le grandi trasformazioni, sono ispirati da una tar­ diva scoperta della psicoanalisi — per lo più in chiave jun­ ghiana e «mitica». Contrariamente ai teorici del centrosini­ stra e dell’Italia industriale, vedono la nuova situazione al negativo, ma all’interno di questo panorama si scavano i loro spazi e si costruiscono piccole nicchie. Siano, come afferma una dicotomia di moda, «apocalittici» o «integrati», due fac­ ce della stessa medaglia, sono i nuovi astri dell’industria cul­ turale. La provvisorietà di queste idee verrà disvelata brutalmente pochi anni dopo, verso la fine del decennio — ma intanto tengono banco e danno al dibattito culturale un’apparenza di novità. Ma la novità reale consiste nell’adeguamento dei ci­ 8

neasti alla nuova realtà in cui i più abili e dotati finiscono col trasformarsi (Visconti, Antonioni, Fellini, Pasolini, Berto­ lucci, lo stesso Ferreri) in personaggi pubblici al pari dei divi. C'è, nei più, un progressivo svilimento del rapporto con la realtà. Le istanze autobiografiche collimano sempre più ra­ ramente con quelle collettive. Si smarrisce l’istanza più viva del lascito neorealista, quella che poteva essere la sua più feconda evoluzione: la volontà di andare più a fondo, di scavare dietro le superfici, di scoprire e analizzare le contrad­ dizioni, di interpretare, sentire e prevedere i tempi. Del cine­ ma di questo decennio colpisce, insieme con una certa corpo­ sità spettacolare, l’incapacità di assimilare o inventare nuovi linguaggi, di cogliere i nodi reali dei conflitti, che torneranno a esplodere col ’68 e il ’69. A questo sconvolgimento che tanto rimette in discussione, gli autori italiani si adeguano supinamente, tutt’al più accennando a generalizzazioni bana­ li. Poco è cambiato nel modo di fare cinema in Italia. L’indu­ stria è legata — anno buono, anno meno buono — ai condi­ zionamenti di sempre: estrema parcellizzazione delle società di produzione che nascono e muoiono nel giro di un anno o di un film con rare eccezioni (Ponti, De Laurentiis, la Titanus di Lombardo, la Vides di Cristaldi, la Euro); finanziamenti e credito controllati dalle solite banche e dai soliti nomi; distri­ buzione con forti interessi americani ed esercizio sempre più monopolizzato, città per città, da grossi «boss» spesso pro­ venienti dal sottogoverno democristiano; possibilità di debut­ to controllate dai rapporti clientelari del giro romano, o di­ pendenti dai rapporti di forza interni all’ente cinematografico di stato, o infine insabbiate in una marginalità televisiva. Cresce, intanto, il peso determinante degli attori e dei loro agenti. Contano soprattutto i dominatori della commedia di costume: Alberto Sordi, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi, Vit­ torio Gassman, più tardi Monica Vitti, Giancarlo Giannini e, su gradini più bassi per qualità e influenza, Lando Buzzanca, Paolo Villaggio, Renato Pozzetto; ai margini stanno, col fi­ lone politico, Gian Maria Volontà e, in ibrida e fertile dispo­ nibilità, Marcello Mastroianni. Tutti sono in grado di decide­ re col loro consenso la realizzazione di un progetto e di con­ dizionare ai propri voleri registi che non siano, come loro, star. Il novero degli sceneggiatori è ristretto, anch’esso ten­

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dente alla monopolizzazione: Age e Furio Scarpelli, Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, Ruggero Maccari ed Ettore Scola, Rodolfo Sonego per la commedia; Ugo Pirro e Franco Solinas per il film politico e pochi altri più eclettici o persona­ li: Sergio Amidei, Suso Cecchi d’Amico, Tonino Guerra. La realizzazione di progetti non del tutto marginali che non rientrino in questo contesto ha del miracoloso. Ferreri, per esempio, lavora molto grazie al suo rapporto di fiducia con attori amici e ai suoi contatti con la Francia; altri — i Taviani, Marco Bellocchio — grazie ad azzardate e sfuggenti combinazioni. Manca, d’altronde, nonostante la recente «scoperta» del cinema da parte di avidi pubblici giovanili, una catena efficiente di cinema d’essai, mancano cineteche funzionali, sostituite da una gracile rete di cineclub e cinefo­ nim, fondati e gestiti da volenterosi cinéphiles. Manca in questo campo una politica culturale dello stato (o degli enti pubblici locali), che si limita ad amministrare mediocremente 1’esistente. Non sorprende, perciò, che manchino scuole e correnti definite, con rapporti interni di una certa coesione e vivace­ mente battagliere. Del resto, l’assenza di riviste specializzate di qualche peso (una sola delle quali, «Cinema e Film», sti­ mola la nascita di nuovi, seppur effimeri registi per un breve periodo di slanci sperimentali, sulla scia dei «Cahiers du Cinéma» francesi) rende incerto e generico anche il dibattito, affidato ai grandi rotocalchi o alla critica dei quotidiani, di­ spersiva e in genere sensibile alle disquisizioni sui valori con­ sacrati più che alla ricerca del nuovo.

L’eredità del neorealismo

Il soprassalto di dignità, conclamato dal cinema italiano negli anni Sessanta, è interno e funzionale al progetto politico ed economico della classe dirigente, spesso sminuito dai ce­ dimenti precedenti. Il recupero dei temi — più che dei valori — resistenziali si manifesta in Rossellini, ma anche nei più giovani, in forme (ideologicamente) solo morali e da nuovo «contratto» nazionale. Con II generale Della Rovere (1959) ed Era notte a Roma (1960) Rossellini ricalca in termini acritici e unanimistici, per­

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fino un po’ tronfi, le novità di coralità e di atmosfera di Roma città aperta. La ciociara (1960) di De Sica-Zavattini è tutto hollywoodiano, nonostante temi e ambienti neorealistici. Un giorno da leoni (1961) e Le quattro giornate di Napoli (1962) di Nanni Loy sono operazioni celebrative a effetto con «tipi­ che» fughe verso il bozzetto popolaresco e, nel secondo, ver­ so un’aggiornata magniloquenza patriottica. Dopo Giovanna (1956), mediometraggio da ricordare perché, caso ecceziona­ le, porta la cinepresa all’interno di una fabbrica, Gillo Pontecorvo annega nel mèlo dell’«amore che riscatta» l’idea bella e durissima di Kapò (1960), sui lager nazisti. Carlo Lizzani si perde in ricostruzioni drammatizzate a forti tinte di avveni­ menti del tempo di guerra. Più sincero e meno ambizioso, Luigi Comencini ricorre con Tutti a casa (1960) a moduli di commedia di costume per la sua rievocazione dell’Italia dei 45 giorni; questa commistione si farà in altri ripresa farsesca e macchiettistica dei temi antifascisti. L’Estate violenta (1959) di Valerio Zurlini è ancora quella del ’43, ma rappresentata come crisi morale e borghese di fronte alla dissoluzione di un mondo, sullo sfondo di un incontro sentimentale allusivo e tessuto con finezza. Più denso di un’acre e amara morale che connette gli orro­ ri fascisti con i conformismi presenti è La lunga notte del *43 (1960) di Florestano Vancini, altra cronaca di sentimenti fondata sul ritratto di un mondo borghese e delle sue piccole viltà civili. Con gli stessi occhi dei borghesi in crisi guardava alla resistenza Gli sbandati (1955) di Francesco Maselli, uno degli allievi di Zavattini, autore a ventitré anni, col teorico e sceneggiatore emiliano di La storia di Caterina, episodio di Lamore in città (1953). Al mondo borghese e a quello intel­ lettuale Maselli rivolge in seguito la sua attenzione con parte­ cipazione fin eccessiva e un linguaggio fin troppo elegante. Ormai estranei all’immediatezza realistica, questi film incar­ nano nel meglio una comune tensione a cadenze espressive più colte ed evocative, che si rifanno a esperienze collettive in termini di scavo in destini individuali — e quindi parzialmen­ te autobiografici, tutti borghesi — embrionalmente storiciz­ zati in Maselli e visti con piglio moralistico in Vancini. Con un legame etico-politico più concreto col neorealismo, i primi, promettenti film di Francesco Rosi (La sfida, 1957; I magliari, 1959) calano tematiche sociali — la mafia dei mer­ 11

cati, l’emigrazione italiana in Germania — in forme «ameri­ cane», senza trovare ancora una definizione personale. I film di Mauro Bolognini sul mondo delle borgate romane (La notte brava, 1959; La giornata balorda, 1960), come Morte di un amico (1959) di Franco Rossi e il primo film di Bernardo Bertolucci La commare secca (1962), tutti e quattro sceneg­ giati da Pasolini, tornano ad ambienti tipici della polemica sociale, ma spinti da interessi epidermicamente picareschi, elegantemente erotici ed estenuati, raffinatamente manieristi. Del neorealismo restano le scenografie, svuotate di perso­ naggi e di presenza. Diverso è il caso di altri registi che s’erano formati con un lavoro all’ombra dei «vecchi», alla ricerca di un superamento consapevole del neorealismo, dentro alla lezione della realtà. S’è detto di Rosi, ancora legato all’elaborazione di una forma che sappia sintetizzare la volontà di documento con quella di ricostruzione drammatizzata. Attento alla lezione di Flaherty il siciliano Vittorio De Seta ricupera con Banditi a Orgosolo (1961), grazie a un asciutto rigore, un po’ «chiuso» nel suo oggetto, il documento di un mondo contadino e povero con i suoi comportamenti e valori; con II tempo si è fermato (1959) e II posto (1960) il lombardo Ermanno Olmi tenta un descrit­ tivismo minore, preciso di dati sociologici e come studio di caratteri, che parte lontanamente da Zavattini ma è corretto da una rigorosa «linea lombarda». Più pedissequo, Pelle viva (1962) di Giuseppe Fina segue la vita dei pendolari lombardi con documentaria e sentimentale sincerità. Già aiuto di De Santis, il romano Elio Petri (I giorni contati, 1961) pedina il suo personaggio di anziano stagnaro con una salda attenzio­ ne mescolata a una nuova e più complessa ironia, cercando di dare una base oggettiva, fatta di condizioni materiali, ai temi esistenziali della solitudine e dell’alienazione. Il veneto Gianfranco De Bosio, uomo di teatro, imposta con II terrori­ sta (1963) una riflessione, in forme teatraleggianti e didatti­ che, su contrasti di linee interne al cln veneziano e sul pro­ blema del terrorismo individuale; il suo è un film che avrebbe potuto dare il via a una sorta di maturo «neorealismo dialet­ tico». Anche i fratelli Taviani e Valentino Orsini, col loro primo film Un uomo da bruciare (1962), rileggono una storia tipica del dopoguerra — la vita e la morte di un sindacalista sicilia­

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no eliminato dalla mafia — sottoponendo l’eroe a un’inter­ pretazione critica e dialettica, e a essa piegando la loro scrit­ tura. Con maggiore radicalismo le prime opere di Marco Ferreri — che era partito da assunti zavattiniani sino al pun­ to di farsi organizzatore e produttore, con la serie Documento mensile (1951), di brevi documentari neorealistici di attualità — percorrono una strada nuova, aggressiva e pungente, me­ diando con Raphael Azcona (in El pisito, 1958, El cochecito, 1959, fatti in Spagna come Los chicos, 1958, bandito dalla censura franchista) questi assunti con umorismo ispanico e bunueliano, nero e mistificatore fino al paradosso, letture di fatti e personaggi ancora quotidiani, ma di una cattiveria e una distanza estranee all’ottica zavattiniana. Nel 1965 coni pugni in tasca Marco Bellocchio chiude con aggressività ancor più acuminata i conti con i buoni senti­ menti del neorealismo, ribaltandoli (la famiglia è nido di pazzia, le mamme sono cieche; esplodono incesto e violenza) e ponendo in più complesse forme di analisi grottesche del «negativo» il proprio rapporto con una «realtà oggettiva­ mente conoscibile». Con Ferreri e Bellocchio s’afferma una tensione verso me­ tafore la cui portata sappia travalicare i soggetti narrati, co­ gliendo — i migliori e nei casi migliori — più dell’aneddoto e del contingente narrativo, ma scivolando — i più incontinen­ ti, compresi i «grandi» — verso il metafisico, il metastorico, la genericità totalizzante e sradicata. L’influenza di Fellini e Antonioni, e del tardo Visconti — non tanto sul piano dei contenuti e dello stile quanto su quello del «modello» di regista che essi incarnavano, insoffe­ rente di definizioni tematiche e di corrente, di mandati sociali e civili — stabilisce un punto di riferimento che per molti registi è un vero e proprio alibi. Ciascuno per suo conto, nella piccola giungla del cinema romano (e, se possibile, interna­ zionale), alla ricerca di un successo che consolidi le posizioni e il potere contrattuale e che li consacri «autori» agli occhi del mondo, i registi italiani accentuano il loro distacco da un paese che cambia e in cui già si muovono altre forze con istanze diverse. Non vogliono più essere come un tempo — sia pure per generici sensi di colpa più che per vera convinzione politica — i narratori del popolo, fosse pure quello indifferenziato e

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visto in un’ottica piccolo-borghese e sentimentale del neorea­ lismo, cui si attribuivano le proprie confuse idealità senza riuscire a coglierne le verità più profonde, economiche e an­ tropologiche. Essi si fanno narratori della borghesia ma più ancora di se stessi. Con rare eccezioni (Rosi, Ferreri, Belloc­ chio, a tratti Maselli) non si misurano neanche con una seria analisi della propria classe e dei suoi destini. Preferiscono o narrare se stessi, fidando in una propria «rappresentatività» e in una propria capacità di cogliere in sé l’universale, o cesel­ lare più o meno finemente la crisi dei sentimenti. Dopo i film che cantano i «funerali di Togliatti», simbolo di uno smarrimento quasi sempre vissuto in termini di auto­ compiaciuto tormento più che di critica, alcuni tornano an­ che al popolo con il «cinema politico» dove gli apporti di vera conoscenza, o anche di corretta informazione, sono scarsi, sacrificati allo spettacolare, requisitorie fondate su luoghi comuni. E una tendenza che, mediando tra aspirazioni psicanalitiche e metafisiche (Petri), moduli di commedia di costume (Risi, Loy), denunce moralistiche (Damiani), ha ra­ sentato, cadendovi spesso, forme di nuovo e generico qua­ lunquismo. Rari, compresi gli spunti più inquieti di Pasolini, sono gli sviluppi di metodi e forme rigorose di approccio ai conflitti reali, o almeno di ricerca di un rapporto con il reale. Con più profondo e radicato disprezzo, spesso con i metodi e gli alibi della commedia di costume nella sua fase involutiva, altri affrontano ambienti e personaggi sottoproletari o piccoloborghesi, persino proletari di fabbrica, per fustigarne o irri­ derne i costumi: certe sceneggiature di Age e Scarpelli, i film di Lina Wertmuller, Luciano Salce, Ettore Scola.

Luchino Visconti e gli altri grandi Con L’avventura e La dolce vita, nel 1960 Rocco e i suoi fratelli sembra annunciare un rinnovamento del cinema ita­ liano, pur restando Visconti più ancorato degli altri a temati­ che sociali tradizionali. Di ambiziosa struttura romanzesca, Rocco rifa La terra trema con lo stile di Senso, Personaggi a tutto tondo evolvono, portandosi appresso una storia di mi­ seria contadina meridionale (con echi di Levi, Scotellaro, De

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Martino) messa a confronto con la civiltà industriale del nord, fabbrica e coscienza proletaria per alcuni, ma anche corruzione, marginalità, autodistruzione per altri. Mann e Dostoevskij (la crisi di un gruppo familiare, il contrasto tra un bene tutto bene e un male tutto male) sono riferimenti obbligati, ben più del morbido populismo di Testori cui Vi­ sconti fa ricorso nella ricerca di aneddoti e ambienti significa­ tivi, o di quello più antico di Pratolini. Tutto è abilmente intriso di melodramma e, a tratti, di schematismo. Visconti è più attratto dalla descrizione dei turbolenti sentimenti dei protagonisti che dalla morale delle soluzioni: l’integrazione dell’immigrato nel mondo operaio come sua sola verità, e un possibile ritorno al sud dei padri, mitico e remoto. Romanzo è ancora, a maggior ragione, la riduzione di II Gattopardo (1963) di Tornasi di Lampedusa, fedele e sfarzosa illustrazione del passaggio della Sicilia dai Borbone ai sabau­ di, e della conciliazione tra due mondi affinché «tutto cambi purché nulla cambi». Già qui il gusto un po’ processionale di Visconti sembra più importante che i personaggi e il loro destino. Sostenuto dal leitmotiv della pietà per il passato, si scopre un Visconti sempre più gestuale, esteriore, decorativo. // lavoro, episodio di Boccaccio *70 (1962) e Vaghe stelle dell’Orsa (1965) accentuano la nuova definizione. Quest’altera freddezza, anche nella descrizione dei personaggi più passio­ nali e urlati, è applicata ad ambienti tutto e solo borghesi, nel secondo con echi addirittura dannunziani. Se II lavoro mo­ stra ancora un distacco critico da personaggi di un mondo al regista ben noto, la tragedia incestuosa di Vaghe stelle dellOrsa, declamatoria e liberty, sconcerta anche coloro che, convinti da sempre di una latente anima decadente viscontiana, ne verificano una sontuosa superficialità: anche la mor­ bosità vi è più dichiarata che sofferta. Dopo l’adattamento di Lo straniero (1967) di Camus, la cui tematica è estranea al regista che si limita a illustrarla con­ venzionalmente con dispendio di voce fuori campo a dire la lontananza esistenziale del protagonista, La caduta degli dei (1969) è un altro gran romanzo familiare di crisi, tragedia, decadenza. Per costruire quest’ampio edificio spettacolare Visconti scomoda un po’ tutti, in una messe di riferimenti colti, dimenticando di citare, però, il melodramma holly­ woodiano e i suoi risultati migliori, con cui questo film ha 15

molti punti di contatto. Dopo una prima parte serrata come un atto unico, quella della cena celebrativa in una grande famiglia di industriali tedeschi, minata all’interno da una nuova generazione che si disfa e fuori dal nazismo che avan­ za, La caduta degli dei ricorre spesso a suggestioni espressio­ nistiche per dire la tara borghese e il luciferino male crescen­ te. Resta, però, estranea a un senso di vera tragedia proprio per i suoi eccessi melodrammatici, convenzionali, e per una conclusione che non convince: il nazismo uccide e fagocita la borghesia industriale che, invece, è ben sopravvissuta al nazi­ smo e ha continuato la sua strada, cambiando soltanto volto e stile. Gruppo di famiglia in un interno (1974) mette a confronto una famiglia borghese di nuova specie — romana, volgare, golpista, priva di tradizioni e di valori — con un vecchio intellettuale di stampo manniano o alla Praz, isolato dal mondo tra i cari libri e oggetti, che non la capisce ma ne resta, per bisogno di vita, attratto e coinvolto sino alla trage­ dia. Vi si proclama un caos inconoscibile nell’Italia e nel mondo contemporanei. Ci si lancia in tirate generiche e mo­ ralistiche. Una tarda dimostrazione di chiusura e banalità. Dal canto loro Morte a Venezia (1971), Ludwig (1973) e L'in­ nocente (1976), che uscì postumo nell’anno della sua morte, sono illustrazioni di una decadenza tutta decorativa, senza nerbo né distacco critico, con la parziale eccezione di Ludwig, chiusura di un’ideale trilogia tedesca, in possesso a tratti di una struggente forza visionaria che nasce dall’identificazione del regista col suo eroe. L’iter dei due altri registi «ufficiali» degli anni Sessanta e Settanta è più arduo. Quello di Fellini è il più inventivo, fantasmagorico. Dal gran carnevale ambizioso di La dolce vita (1960), una specie di personale sintesi, cattolicamente dentro, sulla trasformazione di una società al margine tra due decenni, fino a Roma (1972) e Amarcord (1973), due facce dello stesso medaglione di ricordi visionariamente deformati (Rimini, cioè la provincia natia, e Roma, la capitale, dal fascismo al presente), e fino a Ginger e Fred( 1986) che aggre­ disce l’invadenza televisiva con un controcanto nostalgico per gli anni dell’avanspettacolo, Fellini ha inventato un mo­ do tutto suo di fare spettacolo, riuscendo a rinnovarsi e a mantenere, in modi personalissimi, un suo strambo dialogo

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con la società e la cultura italiane di cui ha finito per ac­ centuare i difetti ma che, a tratti, ha saputo rappresentare nelle sue componenti di fondo, maggiori o minori. Sono doti che ha mantenuto anche in prove di destinazione tele­ visiva, / clowns (1970) e Prova d'orchestra (1978), come in Casanova (1976), dove per la prima volta esce dal suo abi­ tuale terreno per affrontare, con un atteggiamento ambiva­ lente e su un panorama europeo, un personaggio storico del Settecento, emblematicamente proiettato sull’oggi, o in E la nave va (1983), che si voleva film europeo sulla fine di un mondo. Dopo la consacrazione critica internazionale seguita alla tetralogia di L'avventura, La notte, L'eclisse e Deserto rosso, Antonioni ha scelto un’altra strada, cimentandosi con quelli che, a suo parere, sono i problemi di fondo della civiltà occi­ dentale: Blow-up (1967), Zabriskie Point (1970), Professione: reporter (1975) e, abbassando il tiro, Identificazione di una donna (1982). Vi ha dimostrato il suo sconcerto di fronte a tanta materia, la difficoltà di offrirne sintesi convincenti, una certa sproporzione tra apparato figurativo e idee. ChungKuo: Cina (1973), documentario di inadeguata descrizione di una realtà estremamente complessa, svela i limiti del suo metodo proprio per la sua natura documentaria; Il mistero di Oberwald (1919) è il maldestro tentativo di impiegare il colore elettronico in funzione espressiva a spese di un testo — L'a­ quila a due teste di Jean Cocteau — troppo lontano dai suoi interessi. L’opera di Antonioni è quella di un biografo del proprio stile più che di un artista in grado di narrare i dilem­ mi centrali del nostro tempo. Roberto Rossellini

Dopo alcuni insuccessi di pubblico e di critica (Anima nera, 1962, fu il più grave), Rossellini, il primo maestro del cinema italiano che aveva dato con Viva l'Italia (1961) un vivace film celebrativo del centenario dell’Unità e con Vanina Vanini un racconto stendhaliano di un certo fascino, si dichiara stanco del cinema e delle sue vanità a favore del documentario tele­ visivo. Quale documentario? Un documentario al passo con le necessità di accesso alla cultura da parte di larghe masse, 17

secondo una richiesta caratteristica della società contempo­ ranea; che possa offrire informazioni didattiche precise, chia­ re, di immediata trasmissibilità; che possa aiutare a capire come si è arrivati all’oggi, quali sono le radici storiche del presente, intendendo per storia non soltanto i singoli avve­ nimenti e rivolgimenti, ma anche i processi più profondi: economici, tecnologici, religiosi. Derivano da questo programma, per il quale sa trovare mezzi adeguati nella Rai-TV e anche nella ortf francese, i cicli di L’età delferro (1964, 5 puntate), Atti degli Apostoli (1968,5 puntate), La lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza (1967-69, 12 puntate), L’età di Cosimo de’ Medici (1972, 3 episodi) e inoltre le biografie di Socrate (1970), Blaise Pascal (1971), Agostino d’Ippona (1972), Cartesius (1973). Sulla stessa linea si pone II Messia (1975), vita di Gesù Cristo basata sulla lezione dei Vangeli, e intendeva porsi un Marx che la morte, il 3 giugno 1977, gli impedì di realizzare. Se talvolta la semplici­ tà del progetto rosselliniano è pagante, le sue restano opera­ zioni riduttive, semplicistiche più che semplificatrici. E la storia ne è assente. In L’età del ferro una congerie di dati enciclopedici viene imposta, amputata del riferimento a un presente storico cui ricondurre la visione del passato e la sua interpretazione; quando questo presente cronologicamente arriva, si dispiega un’esaltazione indiscriminata della civiltà industriale, portatrice di benessere per tutti. Negli Atti degli Apostoli la lettura è in chiave di Provvidenza e di inerte evo­ cazione di pani azzimi, con una riduttività che umilia il com­ plesso personaggio di Paolo di Tarso. Socrate non è più, in Rossellini, un filosofo rivoluzionario né è collocato in un preciso contesto, ma diventa il portavoce di un mediocre buon senso, intessuto di un’eticità pragmatica e di disprezzo per politica e storia. Diverso è il caso di La presa del potere da parte di Luigi xiv (1966), l’ultimo dei buoni film, veramente aperti all’interro­ gazione, di Rossellini. Descritta con minuziosa quotidianità, la storia è osservata con materialistica esattezza; i suoi svi­ luppi hanno radici concrete, politiche ed economiche. La descrizione dei meccanismi del potere e delle loro ragioni è illuminante, finalmente didattica come Rossellini teorizza, a partire dall’uso dello sfarzoso cerimoniale come funzione del potere assoluto che depaupera, dall’interno, sul piano eco­

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nomico e su quello del ruolo sociale, le velleità di indipen­ denza dei nobili. Rossellini ha scambiato troppo spesso per non-autoritarismo, disponibilità, informazione aperta ciò che, invece, è sol­ tanto una coerente visione del mondo di impronta cattolica e sottilmente conservatrice, autoritaria come quella di qualsiasi libro di testo che si pretende libero da ideologie particolari. Il suo metodo ha funzionato egregiamente nel cogliere una realtà quando c’era uno scambio vivo tra l’autore e la realtà, quando la sua ricerca di significati, pur spiritualistica, era determinata da una sete sincera di capire. I suoi documentari sono, al contrario, fastidiosamente prevaricanti: il rifiuto del metodo si fa metodologia superficiale e mistificante. I due ultimi film di Rossellini per il cinema sono Anno uno (1974) e II Messia (1975). Incentrato su Alcide De Gasperi, rappresentato come figura carismatica di sagace mediatore, Anno uno fu. accolto dalla maggior parte dei critici come una penosa compromissione col potere democristiano, determi­ nato dalla committenza di un produttore ed editore di destra (Edilio Rusconi). Si può vederlo, invece, come il tentativo di fare un film di storia contemporanea che riassuma — dalla vigilia della liberazione di Roma nel 1944 fino alla partenza di De Gasperi da Roma nel 1954: uno dei finali più tristi e asciutti di Rossellini — il decennio della ricostruzione che si compie con la collaborazione di tutti i partiti, dal comunista al liberale. Si tenga conto che fu realizzato alla vigilia del cosiddetto «compromesso storico» tra dc e pci. L’accentuato didascalismo dell’impianto soffoca e appiattisce il pathos del racconto (fiacco soprattutto nel nesso tra vicende pubbliche e private), ma è anche una spia del distacco con cui si rievoca­ no gli avvenimenti. Film esplicitamente popolare nel puntiglioso rispetto della tradizione iconografica, con forte accentuazione mariana e un atteggiamento di fondo da cattolico preconciliare, Il Mes­ sia è rosselliniano nella sua lucida indolenza, nel ritmo incal­ zante dell’azione, nella disadorna semplicità della prosa, aliena da ogni ricerca poetica, nella sordina messa ai momen­ ti di pathos.

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Pier Paolo Pasolini Eterodosso rispetto alla cultura cinematografica italiana, il caso di Pier Paolo Pasolini (Bologna 1922 - Roma 1975) è quello di un poeta e letterato dotato che verso i quarant’anni scopre nel cinema il mezzo più congeniale alle proprie neces­ sità espressive, senza rinunciare ad altri tipi di intervento. L’uno e gli altri sono operazioni determinate da una narcisi­ stica ossessione di presenza in cui mal si distingue, col pro­ gredire degli anni e dell’opera, la necessità autobiografica da quella poetica. D’origine cattolica e piccolo-borghese, Paso­ lini viene dalle esperienze traumatiche della resistenza e si afferma negli anni Cinquanta con poesie che dimostrano un conflitto, passibile di sviluppi teorici e poetici, tra spinta poli­ tica (rappresentata allora dall’insegnamento gramsciano e dalla fiducia nel pci e nella sua rappresentatività) e spinta esistenziale, fatta di senso di miseria e corruttibilità indivi­ duale, di volontà di riscatto e di coscienza di colpa indissolu­ bilmente intrecciate. Il suo intervento poetico vuole essere compenetrato di «passione e ideologia», che trovino nell’opera una concilia­ zione alla loro quotidiana dilacerazione. Come cineasta pro­ pugna un «cinema di poesia», ma tuttavia di poesia raziona­ le, in grado di comprendere gli aspetti irrazionali dell’espe­ rienza singola e collettiva. A Roma s’era chinato a studiare e a raccontare con partecipazione «passionale» la realtà del sottoproletariato in romanzi come Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959) e nel suo primo film Accattone (1961), storia di un ladro di borgata la cui angoscia è preisto­ rica rispetto alla nostra, esistenzialistica. Con immagini semplici, quasi ieratiche, con movimenti funzionali, con asciuttezza di linguaggio, ma con musica da «largo» sacrale, Pasolini è lontano dall’esperienza neoreali­ stica, pur rivelando al fondo una matrice ancora populista nell’indicazione di una vitalità sottoproletaria «autentica», benché tragica, contrapposta al mondo e alla cultura borghe­ se ma anche a quella proletaria, che gli era di fatto estranea e che non tentò mai di affrontare. Il tema dell’incoscienza, o diversa coscienza, proletaria — narrato con tanta moderna intelligenza, priva di miti ed este­ tismi, dal Bunuel di Los Olvidados — torna in Mamma Roma

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(1962) dove la presenza di Anna Magnani porta un che di irrisolto e di non produttivo, nel documentario Comizi da­ mare (1964), in La ricotta (1963) e in un film-saggio di stimo­ lante originalità, Uccellacci e uccellini (1966). Attraverso il peregrinare di Totò e Ninetto Davoli, accompagnati da un corvo che parla con la voce della coscienza storica dell’intel­ lighenzia marxista italiana, questo film propone in brevi fa­ vole e in aneddoti poetici una riflessione conclusiva su questa tematica, più importante che non la divagazione evangelico­ francescana, che pure ne fa parte, omaggio al Rossellini di Francesco giullare di Dio. Il momento artisticamente più alto di questa ricerca è, forse, La ricotta che contrappone al mon­ do del cinema (un regista, Orson Welles, portavoce anche di Pasolini, che nella periferia romana gira un film convenzio­ nale e spettacolare sul Calvario) il mondo delle borgate at­ traverso Stracci, sottoproletario affamato che muore sulla croce del ladrone per un’indigestione di ricotta. «Non aveva altro modo per ricordarci che anche lui era vivo», dice il regista, riassumendo il senso di una morte narrata con altis­ sima tensione morale. È ancora il terreno di un dialogo con la storia e la coscienza della storia ad attrarre Pasolini: la trage­ dia sottoproletaria, pur vista decadentisticamente come pro­ pria, odora di reale e di presente. Col suo sincretismo formale, i riferimenti pittorici, la sca­ bra luminosità, il richiamo a un Terzo mondo che non è più solo preistoria, Il Vangelo secondo Matteo (1964) raggiunge una forte tonalità epico-religiosa. Pasolini parla di un mondo che esiste, che lotta e ha motivi per lottare. Scivola nel mito, invece, tutta la sua opera successiva, do­ po l’intermezzo manierista e bizzarro di La Terra vista dalla Luna (1967) e Che cosa sono le nuvole? (1968), esaltati da un Totò indimenticabile, come in un’appendice fiabesca a Uccel­ lacci e uccellini. Edipo re (1967), Teorema (1968), Medea (1970) sono le tappe di un allontanamento dalla storia sempre più radicale. Il mito in cui Pasolini si rifugia — incertamente mescolando pulsioni autobiografiche e conoscenze letterarie più che etno­ logiche o antropologiche — è una giustificazione al distacco da un presente che rifiuta e di cui non riesce a comprendere le ragioni e le novità. Sono film di sconfitta, la cui cifra è evi­ dente: una ricerca di verità ultime, un pianto su sé, una tra­

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gedia esteriore quanto la «felicità» della successiva «trilogia della vita». Mito e fiaba sono per Pasolini un modo di torna­ re indietro, in un «altrove» metastorico. È un rifiuto di matu­ rità che vagheggia di età della pietra o dell’oro con la mede­ sima ripulsa dell’oggi. Il più interessante è Teorema, confusa ma ardita dimostrazione dell’incapacità dell’uomo moderno di percepire, ascoltare, assorbire e vivere il sacro. Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972), Il fiore delle Mille e una notte (1973) hanno al centro l’esaltazio­ ne di una felicità e di una vitalità — che è soprattutto sesso — idealizzate e astoriche in cui un’incombente presenza di mor­ te ricorda, ancora secondo moduli di tradizione decadente, che la conciliazione è impossibile. Dei tre film il primo è il più trascinante e l’ultimo appare come il più sereno e risolto, probabilmente perché la natura stessa dell’universo poetico della raccolta araba aveva esentato Pasolini da ogni obbligo di fare i conti con la storia e il potere, qui sostituiti dalla forza trascinatrice della fatalità e dei sentimenti assoluti. Abbandonato al contrasto irrisolto tra la «passione» per i valori naturali e I’«ideologia» che vorrebbe razionalizzarli, riuscendo soltanto a drammatizzarne il mito; manicheo dila­ niato in una disperata mistura di storia e antistoria, tra una volontà progressista di trasformazione della società e la pre­ tesa di attuarla attraverso processi regressivi; epigono degli artisti per i quali vita e letteratura fanno tutt’uno: Pasolini ha dato un cinema all’insegna della congiunzione Marx-Freud dove il tema della morte — e dei suoi legami con eros — è dominante fin da Accattone e trova in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) — uscito postumo dopo la tragica morte, avvenuta a Ostia nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975 —, attraverso un’accumulazione ossessiva di fatti sadici, la sua ultima espressione con la monomaniaca e furiosa tetraggine di un quaresimalista, anche se venata, in contraddizione con Sade, da un pietoso intenerimento per le vittime e gli inno­ centi. Di questo grande e provocatorio personaggio della nostra storia recente, resteranno probabilmente, più che i film (esclusi i più originali e nuovi: Accattone, La ricotta, Il Vangelo, Uccellacci e uccellini), la poesia, le notazioni critiche acutissime e l’intensa, appassionata polemica con il disastro di una «mutazione» antropologica voluta e subita dal nostro paese nella sua corsa al benessere.

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Francesco Rosi Con Rosi (Napoli 1922), erede del secolo dei lumi e della tradizione razionalista, si rientra di prepotenza nella storia e nella cronaca dell’Italia contemporanea, con un’opera che è tutta corposamente politica. Il momento della verità (1965) sul mondo della corrida e i suoi miti di successo per giovani contadini spagnoli; Cera una volta (1967), una favola dal Pentamerone campano di Giovambattista Basile, divertita ma estenuata sintesi di una tradizione contadina; il forte Uomini contro (1970) dal bel libro di Emilio Lussu Un anno sull*alto­ piano, un po’ sfrondato della sua chiarezza politica (il prima e il dopo della guerra 1915-18, le sue cause, le sue conseguenze) a vantaggio di una polemica antiautoritaria e pacifista, ap­ paiono titoli interessanti ma in fondo marginali rispetto all’i­ tinerario più ricco di implicazioni e di novità dei quattro film più rappresentativi: Salvatore Giuliano (1961), Le mani sulla città (1963), Il caso Mattei (1972) e Lucky Luciano (1973). Sono film-inchiesta, anche nel caso di Le mani sulla città che inventa un personaggio centrale di costruttore edile per collocarlo in un contesto reale, tra personaggi reali, in mezzo a reali fatti di cronaca. Dei quattro è il film più lineare e aggressivo: la polemica sociale è più chiara, la denuncia più immediata, l’intento didattico più scoperto. Dopo l’avvio an­ cora incerto di La sfida (1958) e I magliari (1959), nessuno come Francesco Rosi sa mescolare la ricostruzione documen­ taria e il documento vero e proprio con la finzione, superan­ do una delle maggiori impasses del neorealismo (la divarica­ zione tra documentario e finzione, realtà immediata e inven­ zione drammatica) e mantenendo aperti spiragli e interroga­ tivi di vigorosa dialettica materialista. Salvatore Giuliano, il più bel film sul sud del cinema italia­ no, affronta la vita e la morte del celebre bandito siciliano, ma mette ai margini il personaggio Giuliano per parlare dei rapporti tra mafia, banditismo, potere politico e potere eco­ nomico. Resta ancor oggi il film di Rosi più ambizioso e possente, con pagine non indegne di un Ejzenstejn, specialmente per la cruda e assolata sequenza della strage dei conta­ dini di Portella della Ginestra, il 1° maggio del 1947. La costruzione e il montaggio di questo film sono un’impaginazione di brani scomposti di una realtà in cui il regista scava,

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incurante di precisione cronologica, teso a una precisione di interne sostanze: gli sbalzi della narrazione risultano giustifi­ cati dall’inchiesta e dalle sue associazioni. Eliminati l’intrec­ cio e la progressione temporale, il personaggio e ogni elucu­ brazione fantastica, Rosi presenta gli avvenimenti in una panoramicità presente, corale, epica, riconquistando la storia e il suo svolgersi con una frantumazione sapiente degli acca­ dimenti per rintracciarne, con lo spettatore, le coordinate nascoste. Fin da questo film Rosi rifiuta di fare, su queste coordinate, una sintesi interpretativa da storico e rimanda il giudizio allo spettatore, arrestandosi a cavallo tra cronaca e storia, su un terreno forse più produttivo in termini cinema­ tografici che politici. Il caso Mattei e, con maggiori scompensi, Lucky Luciano frugano nelle pieghe di casi difficili e tentano anche un’inter­ pretazione del personaggio che è al centro. Gli esiti non sono indiscutibili: per un taglio politico appoggiato solo sui temi della lotta contro le «sette sorelle» del petrolio e dello svilup­ po tecnico, Il caso Mattei sfocia, pur senza tacerne i difetti, in un’apologià del costruttore dell’industria di stato in Italia; Lucky Luciano cerca, intorno a un personaggio di minor peso storico, di indicarne gli aspetti d’ombra anche attraverso una costruzione a puzzle (come in Citizen Kane di Welles, che è il modello lontano di questo cinema) di dati e avvenimenti più semplici, ma anche più poveri di senso. Con Cadaveri eccellenti (1976), labirintico «giallo» politico sulla strategia della tensione, Rosi continua il discorso sul potere — tema che lo affascina — o meglio sui mostri e le mostruosità del potere, ma finisce col dame un’immagine mitica, astratta, metafisica che, se nel romanzo di Sciascia (Il contesto) conserva una certa plausibilità metaforica, nel film, proprio per la maggiore concretezza realistica del mezzo, dà nel vago e nell’elusivo. Anche Cristo si è fermato a Eboli (1979), realizzato in duplice edizione televisiva e cinemato­ grafica, è in un certo senso un’inchiesta, ma etnografica e non più poliziesca, alla ricerca della verità. Nella progressiva sco­ perta, da parte di uno sguardo estraneo, del microcosmo rurale della Lucania dove Cristo non è penetrato e dove la presenza del potere centrale — il fascismo — incide sulle divisioni sociali e nei rapporti di forza, prevale un atteggia­ mento contemplativo ed emerge una vena lirica, persino in­ 24

timista. È la stessa vena che segna le pagine più belle di Tre fratelli (1981), apologo un po’ riduttivo e approssimato sull’I­ talia di oggi in chiave, inedita per Rosi, di cronaca familiare. Il regista sembra ormai più interessato a una riflessione di tipo etico più che non politico, dopo il punto culmine di Cadaveri eccellenti. Da questa tendenza esula per owii motivi l’adattamento cinematografico dell’opera di Bizet Carmen (1984), girato in Spagna, vivacissimo e spettacolarmente effi­ cace. Con Cronaca di una morte annunciata (1987) Rosi si sposta, rimanendo nel sud, in Colombia, in un quasi perfetto romanzo di Garcia Màrquez, privilegiando la dimensione sociale a scapito di quella della fatalità, senza riuscire a ren­ derne l’umorismo grottesco: un film illustrativo in cui lo splendore delle immagini non riscatta il formalismo di fondo.

Marco Ferrea Ferreri (Milano 1928) detesta il realismo contingente, ma anche il mito e la fiaba. Il suo è un cinema di metafora, rappresentativo di una diffusa tendenza del cinema italiano nel ventennio 1960-80. Nessuno sa servirsene con maestria altrettanto spregiudicata. Egli gira con estrema facilità e spe­ ditezza, seguendo l’insegnamento di Bunuel, senza troppo curarsi della resa degli attori o della bellezza delle immagini. Gli interessa soprattutto la capacità di risonanza intima, in­ tellettualmente e psicologicamente provocatoria, dei suoi film, sebbene affermi l’inutilità del cinema (e anche, in parti­ colare, del suo cinema) per la vita sociale e politica, giustifi­ candolo come commercio (modo di guadagnarsi il pane e magari un abbondante companatico) e come nevrosi di bor­ ghese (modo di esprimere le proprie ossessioni e paure: con­ sumo, cibo, regressione, evasione, feticismo, sesso, morte). Ma sul fondo resta in lui un’inconfessata fiducia nella provo­ cazione. Provocatore, dopo il suo rientro in Italia nel 1961, Ferreri lo è sempre, allarmando gli spettatori con le sue storie di mogli che distruggono i mariti, di harem maschili, di don­ ne-scimmia, di insegnanti ossessionati dal sogno di mettere un w.c. in un’aula femminile (// professore, episodio di Controsesso, 1964), di grandi abbuffate che non tacciono l’altro aspetto dell’operazione fisiologica del nutrimento.

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Nel primo periodo lo interessa specialmente, per demistifi­ care e aggredire, il rapporto tra i sessi. In L'ape regina (1963) una giovane sposa cattolica sfibra sessualmente il marito, per lasciarlo morire una volta ottenuto il suo scopo: un figlio; il marito di La donna scimmia (1963) sfrutta la moglie barbuta al punto da utilizzarne come fenomeno da baraccone persino il cadavere mummificato; Marcia nuziale (1967) infila quattro aneddoti, non tutti efficaci, contro il matrimonio; in L'harem (1967) — smontato e ricomposto nel suo farsi per rendere più complesso, quasi ribaltandolo, il suo tema — un gruppo di uomini si costituisce in masochistico harem di una giovane ed energica donna che, però, finisce uccisa. L’inconciliabilità nella lotta tra i sessi è di tutti i suoi film, ma subisce una profonda metamorfosi di atteggiamento e di rappresentazione con un progressivo spostamento dalla par­ te della donna che si manifesta dapprima con la tenerezza (il personaggio di Claudia Cardinale in L'udienza, 1972) oppu­ re con una comprensione che raccomuna alla stessa miseria dell’uomo (La cagna, 1972). Ma, di fronte all’incoscienza del maschio, Anne Wiazemski in II seme dell'uomo (1969) rifiuta di procreare, cioè di contribuire alla restaurazione di una civiltà (di un’umanità) che sa portatrice di strage e di morte; e Andrea Ferreol in La grande abbuffata (1973) accompagna i quattro protagonisti borghesi alla morte suicida per ecces­ so di cibo (metafora della società del benessere e del consu­ mo), ma rifiuta di seguirli e resta sola nella grande casa as­ sediata dai cani, da un Terzo mondo affamato i cui echi giungono con un improvviso intervento musicale fuori campo. Marco Ferreri è lì, nei personaggi maschili, con dolorosa autoironia, ma sa anche prendere le distanze e vedersi dall’e­ sterno, in simili e fratelli quali il Tognazzi di tanti film, il Mastroianni industriale di Break-up (L'uomo dei cinque pallo­ ni, 1965-69), ossessionato dai suoi palloncini che gonfia fino a morirne, il Piccoli di Dillinger è morto (1969), feticisticamente attratto da oggetti che non hanno più senso e parola, gratuito uccisore della moglie insulsa, sognatore di lontane isole felici da raggiungere con magici brigantini. Dove la sua opera si fa più precisa e rigorosa, allungando il tiro su aspetti fondamentali di una cultura e di una classe in crisi — Dillinger è morto, La grande abbuffata — la metafora

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negativa è ricca di pregnanti risonanze, tali da porlo tra i migliori cineasti europei del suo tempo, tra quelli più consa­ pevoli della crisi di un mondo, e più sagaci nel narrarla, rifiutando facili consolazioni metafisiche e metastoriche, comprese quelle dell’arte. Talvolta la sua capacità di astrazione si incrina, sospin­ gendolo nella tautologia, nel rifiuto di una dimensione dialet­ tica, o nella metafisica di banali generalizzazioni. È il caso di un film pur suggestivo come II seme del!uomo (1969), fanta­ scientifica visione postatomica di un’umanità che non merita riscatto, o di Ciao maschio (1978) che pure è una favola angosciosa e ilare, ricca di invenzioni e di situazioni, e si avvale, come spazio drammatico, di una New York magica e allucinante, come vista dall’oblò di un’astronave. Dove, però, la metafora nasce dallo sforzo di verifica di un’intuizione grave, dallo scavo di contraddizioni profonde, di tipo quasi antropologico-culturale, sulla società occidenta­ le, allora Ferreri — come in La grande abbuffata — mette il dito su piaghe maleolenti, e la sua negatività è qualcosa di produttivo e utile nella sua provocazione. Tre film marginali rispetto a queste preoccupazioni —L'u­ dienza (1972), Non toccare la donna bianca (1975), Chiedo asilo (1979) — dimostrano una notevole capacità del regista anche nell’affrontare metafore di fondo positivo. L'udienza, variazione sul Castello di Kafka, trasferisce la metafisica kaf­ kiana su un terreno concreto: il castello è il Vaticano e l’a­ grimensore K. è un mite milanese che vuol comunicare qual­ cosa al papa, morendo prima di riuscirci. Altri, però, lo se­ guiranno. Non toccare la donna bianca tenta, con risultati molto parziali, di smontare un meccanismo classico del ci­ nema hollywoodiano, servendosi di Brecht e di Godard per narrare non soltanto l’orrore degli oppressori, ma anche un’altra parte ribelle e vincitrice. Sullo sfondo di Parigi e dentro il canyon provvisorio, derivato dalla distruzione delle Halles, i pellerossa di Ferreri sono un Terzo mondo di immi­ grati e sottoproletari, ancora d’incerta definizione politica. Cronaca del viaggio avventuroso di un adulto nel pianeta dell’infanzia, Chiedo asilo è una parabola di allegra e dispera­ ta vitalità, rifiutata e ripresa in un’altalena di contraddizioni e di segnali luttuosi. Il coltello elettrico con cui, alla fine di L'ultima donna (1976), Gerard Dépardieu si evira segna una

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svolta nel cinema di Ferreri nella misura in cui radicalizza il suo discorso sul rapporto di coppia, sulla fine dell’egemonia maschile e patriarcale, sulla mutazione antropologica in atto. Nonostante l’apparente digressione di Storie di ordinaria follia (1981), libera trasposizione di un racconto dell’ameri­ cano Charles Bukowski, i film successivi sino a Storia di Piera (1983) e II futuro è donna (1984) sono altrettante, più superficiali e con più concessioni alle aspettative del pubbli­ co, variazioni sullo stesso tema. E il catatonico protagonista di I love you (1986) che si perde dietro a un portachiavi dal volto femminile ne è il punto estremo, un povero cristo senza più capacità di scandalo che è la summa degli stereotipi at­ tuali di deriva, aridità, comunicazione solitaria. La seconda metà degli anni Settanta, non facile per nessun regista italia­ no e non facile in generale per il paese, ha visto anche Ferreri incerto e sfocato nella sua opera, che ha via via perso di originalità e di inventiva e soprattutto di capacità di provoca­ zione (e quando la provocazione è giunta a segno, ciò è stato determinato non dalla forza dell’opera ma dalla debolezza della cultura che se ne è sentita colpita). Ferreri ha dato molto al cinema italiano, ma è stato coinvolto nella generale difficoltà dei temi che la società ha proposto, e nella altret­ tanto generale stanchezza di intellettuali impreparati a inter­ pretarne adeguatamente le trasformazioni.

Marco Bellocchio Nel panorama del cinema italiano l’itinerario registico di Marco Bellocchio (Piacenza 1939) è anomalo, senza parago­ ni. Tra I pugni in tasca (1965) — esordio così perentorio e folgorante da essere confrontabile soltanto con quello del Visconti di Ossessione — ed Enrico iv (1984), dalla commedia di Pirandello, e Diavolo in corpo (1986), contraddittoria rilet­ tura del romanzo di Radiguet, si contano in tutto dieci film di fiction tra cui c’è II gabbiano (1977), singolare e acuta trascri­ zione di Cechov. Al conto bisogna aggiungere due brevi film militanti nel 1969 per l’Unione dei comunisti italiani; Discu­ tiamo, discutiamo, quinto episodio di Amore e rabbia (1969) al quale contribuirono anche Lizzani, Bertolucci, Pasolini e Godard; il documentario-inchiesta Nessuno o tutti (1974), poi 28

abbreviato in Matti da slegare (1975), realizzato da un collet­ tivo di cui fanno parte con lui Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli, coautori anche del programma televisivo La macchina cinema (1978). Di essi si discute altrove. Il filo rosso che attraversa per intero questo itinerario, pur tuttavia su sfondo provinciale e con perno sulla famiglia, è un discor­ so critico contro le istituzioni. Bellocchio comincia con la famiglia (/pugni in tasca, ma il tema sarà ripreso in modi più pacatamente riflessivi ma altrettanto impietosi con Salto nel vuoto, 1980, e in modi più sfatti con Gli occhi, la bocca, 1982) e passa ai partiti e alle pratiche del centro sinistra (La Cina è vicina, 1967), ai collegi cattolici (Nel nome del padre, 1972), alla grande stampa d’informazione (Sbatti il mostro in prima pagina, 1972, dove, però, subentra nella regia quando lo sce­ neggiatore e regista Sergio Donati deve abbandonare per dissensi con la produzione e con il primattore Gian Maria Volonté), all’esercito (Marcia trionfale, 1976), agli istituti psi­ chiatrici (Nessuno o tutti) e allo stesso cinema (La macchina cinema). C’è in Bellocchio una capacità espressiva che, unita al pas­ so fermo del narratore di razza, gli permette di passare senza inciampi né forzature dal registro naturalistico a quello espressionistico di deformazione e trasfigurazione della real­ tà, ossia di rappresentare con estremo nitore l’oggetto e di rivelarne la potenzialità fantastica. La lucida rabbia con la quale, nella prima fase del suo lavoro, Bellocchio aggredisce le istituzioni e i valori della borghesia ha un fondo autobio­ grafico e provinciale: il paesaggio di Ipugni in tasca è quello appenninico del paese natale del regista (non lontano da quello dei Piani di Bobbio che fa da sfondo alla cronaca familiare del mediometraggio Vacanze in vai Trebbia, 1980); La Cina è vicina è tutto chiuso nelle mura di una cittadina romagnola e Nel nome del padre in quelle di un collegio clericale degli anni Cinquanta. Il riferimento a esperienze personali e ad ambienti al regi­ sta ben noti serve soprattutto — anche in Marcia trionfale e nelle opere successive — a fornire una base concreta a un progetto metaforico e generale, e a dare alla sue storie una riconoscibilità immediata, comune. Rispetto a Ferreri manca a Bellocchio la capacità di respiro «europeo», ma egli ha il vantaggio di risultare più radicato in una realtà, in una storia 29

culturale italiana. Lo stesso Diavolo in corpo, successo di «scandalo» per il suo erotismo duro, esplicito, è in un certo senso il primo film sull’Italia del post-terrorismo, riflessione sul disordine e la confusione dei tempi. Ricorrente nella sua opera è il rapporto tra normalità e anormalità, tra salute (efficienza) e malattia, tra repressività borghese e liberazione, tra un ordine mortuario e, da ultimo, un volontaristico spirito di vita, variamente combinato con la dialettica di un personaggio «leader» e di un secondo, spesso aH’interno della stessa famiglia o istituzione, che ne ammira il ruolo e vorrebbe appropriarsene. Intrecciata, c’è una dimen­ sione di violenza latente, compressa, una carica di aggressivi­ tà che impregna in modi diversi tutti i suoi film. Talora erompe in sfoghi di esasperata drammaticità; altre volte, nei casi meno felici (l’episodio di Amore e rabbia, l’ibrido Sbatti il mostro in prima pagina), declina verso soluzioni facili, natura­ listiche o verso esiti di una velleitaria astrazione. Questa violenza che, nella prima fase della sua carriera, indusse qualche critico a definirlo un poeta della rabbia, è la manifestazione più vistosa di quel confronto traumatico che, unendo gli strumenti del marxismo e della psicoanalisi, Bel­ locchio persegue con una serie di «padri», le istituzioni nega­ tive di cui s’è parlato, ma anche con altri vincoli interni come i modi tradizionali del racconto, il linguaggio filmico domi­ nante, l’industria dello spettacolo, l’eredità neorealistica con cui ha un contraddittorio rapporto di attrazione e ripulsa. C’è, infine, nel cinema di Bellocchio, nonostante le ultime prove incerte e fiacche e spesso eccessivamente «autobiogra­ fiche», la solidità di un narratore che crede nel racconto di situazioni, di ambienti, di dialoghi e di personaggi. Contra­ riamente a Bertolucci, quello di Bellocchio è un cinema di prosa: il punto di forza dei suoi film è proprio quella sceneg­ giatura che tanti registi cinéphiles della sua generazione e di quelle successive hanno vituperato. Ifratelli Taviani

Nel 1962 Un uomo da bruciare dimostrò la possibilità di una lettura critica del neorealismo aH’interno del neorealismo stesso. Il personaggio del sindacalista siciliano è al centro di 30

un dilemma fondamentale: riafferma, in quegli anni pacifica­ tori, la necessità della violenza rivoluzionaria; nello stesso tempo il film prende da esso le distanze, alzando i suoi toni (la recitazione di Volontà teatralmente accentuata) e ponen­ dolo in rapporto con il proprio mito, con la propria morte, vissuti in una febbrile esaltazione di riferimenti culturali e popolari. È già tutta presente la tendenza dei Taviani a stac­ carsi dal neorealismo, da quello partendo, con l’introduzione di elementi di riflessione politica ed esistenziale, sconvolgen­ done l’assetto realistico con un linguaggio infiltrato di altro, in una sorta di pastiche o di deformazione, anche di mosaico. Ancora assieme a Valentino Orsini, i Taviani, Paolo (San Miniato 1931) e Vittorio (1929), fanno nel 1963 I fuorilegge del matrimonio, quattro racconti che illustrano l’assurdità delle leggi matrimoniali italiane, scegliendo una cifra diversa per ogni episodio: l’unità è polemica e di costume, ma la sperimentazione linguistica è confusa. Anche il successivo Sovversivi (1967), dove gli episodi sono incastrati tra loro e l’unità è cercata nel rapporto tra le crisi dei personaggi e un preciso momento storico (i funerali di Togliatti, narrati anche da Vancini, Bertolucci, Pasolini), visto come «morte del pa­ dre... morte del neorealismo», tenta incertamente un intrec­ cio che sia valido come momento di riflessione generazionale, esistenziale e politica, momento anche di ricerca di un lin­ guaggio a partire dalla rottura del vecchio ordine e delle vecchie certezze. Con ambizioni più vaste e su uno sfondo storico lontano (la restaurazione in Italia dopo il congresso di Vienna, la lotta di una minoranza rivoluzionaria in un periodo di im­ possibilità rivoluzionarie), anche Allonsanfàn (1974) rimesco­ la le carte della narrazione tradizionale, ricorrendo a Visconti e al melodramma per travisarlo criticamente. C’erano stati in mezzo la favola di Sotto il segno dello Scorpione (1969) e l’apologo di San Michele aveva un gallo (1971), da molti critici considerato il loro risultato più felice. Il primo, per una rifles­ sione ormai metafisica e metastorica, sposta la loro tensione di coerenza su orizzonti troppo distanti e, nonostante le in­ tenzioni, irriconoscibili e generici; costruito in tre movimenti di musicale pregnanza e su tre soli ambienti con un unico protagonista (Giulio Brogi, anarchico fine secolo), il secondo raggiunge un’affascinante e convinta solidità strutturale. Al 31

contrario di quello totalizzante ed eccessivo di Sotto il segno dello Scorpione, il dilemma politico-esistenziale è di una rico­ noscibilità e di una «utilità» presente, attaverso il confronto tra due modi di intendere la rivoluzione, l’anarchico e il mar­ xista. Col suo personaggio di traditore da operetta più che da opera, col suo contorno di rivoluzionari puerili, con la sua congerie di elementi enfatizzati più che ironizzati, con la sua approssimativa visione storica e con la presentazione del gruppo rivoluzionario in una chiave esistenziale ai limiti del grottesco, l’ambizioso e confuso Allonsanfàn dimostra come sia la visione stessa della politica che nei Taviani è stata corrosa dal tentativo di arricchirla esistenzialmente. Con Padre padrone (1977), tratto dal libro omonimo di Gavino Ledda, i Taviani colgono il loro primo successo di pubblico, propiziato dalla Palma d’oro, assegnatagli a Can­ nes da una giuria presieduta da Roberto Rossellini, e dalla presenza di un eroe positivo. È la storia di un progetto — di un’utopia — che si realizza: una storia privata, ma con le ambizioni di un apologo sulla necessità di lottare e vincere contro il potere — ogni potere — da cui dipendono solitudi­ ne, isolamento, separazione. Dopo l’ambizioso passo falso di Il prato (1980), che intendeva discutere di padri e figli, di vecchia e nuova sinistra, di tensioni esistenziali che da questi confronti e dalla ricerca del nuovo derivano, e lo faceva con approssimazioni costernanti, i due registi trovano con La notte di San Lorenzo (1982) un altro momento felice del loro itinerario creativo. Con questa favola sulla resistenza e l’occupazione tedesca, scritta con Tonino Guerra, in continua oscillazione tra ricor­ di personali e memoria collettiva, cronaca e fantasia, epica ed elegia, fanno il loro film più libero e leggero in cui l’impegno ideologico si scioglie nella felicità del raccontare e nel ricupe­ ro dei sentimenti primari. Kaos (1984) ne conserva la ricchez­ za plastica, ma nella sua declinazione di colto e primitivo, di letteratura e mito a partire da alcuni racconti siciliani di Pirandello, risulta in definitiva un’operazione di calligrafia, di grande distanza dall’oggi. Come in La notte di San Lorenzo, il piacere di raccontare contraddistingue Good Morning Babilonia (1987), ma si con­ fonde con la volontà di piacere a tutti i costi. In questa favola

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di due emigranti italiani che nell’America degli anni Dieci trovano lavoro nella troupe di D.W. Griffith alle prese con Intolerance (1916), tutto è rappresentato in chiave mitica (il cinema, la costruzione delle cattedrali, i legami familiari, l’ita­ lianità, la guerra, persino la toscanità) con risultati diseguali. Il coregista dei loro primi film, Valentino Orsini (n. 1926), ha seguito una parabola di minore interesse, determinata da un individualismo che ha dato la confessione autobiografica di I dannati della terra (1969), incontinente e confusa nella sua autocommiserazione e nella ricerca di un «nuovo» mitiz­ zato nella rivoluzione del Terzo mondo. In Corbari (1970) Orsini tenta un cinema spettacolare e popolare sulla resisten­ za, come un Ciapaiev ribaltato, esaltando il polo della spon­ taneità invece che quello dell’organizzazione, ma la sua ano­ malia nel panorama del cinema resistenziale non basta a sal­ varlo. Ancor meno riusciti sono L’amante dell’Orsa Maggiore (1971) in cui accentua l’inclinazione alla spettacolarità, senza contenuti politici diretti, e la fascinazione di eroi di vitalistica irruenza, e Uomini e no (1980), trascrizione riduttiva e algida di un romanzo di Elio Vittorini, peraltro a suo tempo so­ pravvalutato, in cui si cerca, senza affatto convincere, di rin­ novare la tematica resistenziale agganciandola a quella del terrorismo degli anni Settanta. Un’altra tragica realtà di oggi, la droga, che innesca un patetico rapporto di pietà paterna, affronta Figlio mio infinitamente caro (1985), a momenti commosso, spesso incerto e didascalico, ma segno di una persistente volontà di ricerca nel presente anche se di rado condotta con strumenti adeguati. I registi dell’«impegno»

Della generazione venuta dall’impegno politico-culturale degli anni Cinquanta che, dopo la supina accettazione delle nuove mode intellettuali e delle regole del cinema più com­ merciale, fu messa in crisi dal ’68 e spinta verso forme incerte di impegno nuovo e una difficile ricerca di originalità, Fran­ cesco Maselli (Roma 1930) è, con i Taviani, l’esponente più significativo. In passato aveva puntato, secondo suggestioni in parte autobiografiche e in parte moraviane, su personaggi e storie borghesi. Gli sbandati (1955) sceglievano la strada 33

giusta dopo lunghi tormenti; I delfìni (1960) si perdevano nel cedimento a una provincia senza qualità; Gli indifferenti (1963) si facevano fagocitare dall’aggressiva nuova borghesia del fascismo per pavida incapacità di ogni scelta. Il conformi­ stico mondo che Maselli descrive e di cui si fa, specialmente con Gli indifferenti, descrittore di minuziosa eleganza, sem­ bra affascinarlo, essergli vicino. Dopo due sgangherate commedie, intese a rievocare fasti lubitschiani con sceneggiature volgari e attori bovini, Maselli raddrizza la rotta con Lettera aperta a un giornale della sera (1970) che tenta la descrizione di un gruppo di intellettuali comunisti, addormentati dal benessere e dalla routine, ma messi in crisi dai rivolgimenti politici in atto e trascinati, loro malgrado, in un risibile tentativo di rigenerazione come bri­ gata internazionale in Vietnam. Invece di narrare questa sto­ ria come meritava, accentuandone gli aspetti critici e grotte­ schi, Maselli prende sul serio i suoi personaggi, ispirati ad amici e compagni (tra i quali si colloca anche lui), e, con un convulso narcisismo di cinepresa in mano, li segue in lunghe e patetiche discussioni, inerti perché solo moralistiche. Con II sospetto (1975), invece, Maselli abbandona il mon­ do borghese per chinarsi su un periodo importante della sto­ ria del suo partito. Una missione nell’Italia fascista, affidata nel 1943 dal pci in esilio a un militante già in odore di eresia, è in realtà, per il partito, un modo di verificare la tenuta del­ l’organizzazione clandestina in Italia. L’emissario deve servi­ re da cavia, ma, di fronte alla polizia fascista, sosterrà di essere sempre stato a conoscenza del piano, e del proprio ruolo in quel piano. Più che lo scavo in un passato contraddittorio e in un’epo­ ca difficile, si ricava dal film la messa in discussione di un’e­ saltazione acritica del partito quale vissuta dai suoi militanti, in tutte le sue scelte. La visione del film è «chiusa» sulle forme della lotta politica in quella fase, e non sul loro senso, con un interesse portato soltanto sulle «tecniche» del lavoro politico e, in primo luogo, sulla logica di disciplina di partito. Con innegabile coerenza sul piano formale, il gusto raffinato di Maselli continua ad avere il sopravvento, nel rifiuto della spettacolarità del corrente cinema politico, ma anche della fatica di una scelta «altra», determinata — dopo Brecht e Godard — dallo sforzo di inventare un linguaggio in grado 34

di dare corpo e consistenza a nuovi contenuti politici. A Maselli non interessa essere epico o didattico, ma rendere una psicologia piuttosto che una problematica, un ambiente piuttosto che un dibattito. Il sospetto rimane, comunque, un film originale e diverso, specialmente se si confronta la sua rievocazione degli anni Trenta con tante altre, sollecitate da­ gli aspetti più esteriori dell’epoca o da ambigue fascinazioni per il contesto fascista piuttosto che per quello della parte oppressa che al fascismo si contrappone. Controcorrente ai miti consumistici di oggi vuole porsi anche Storia damore (1986), ritorno manierato a un mondo proletario di borgata, d’immigrazione, di militanza, al cui centro c’è però un riusci­ to personaggio femminile. La sua Bruna, da un lato, ha la vitalità, il temperamento, la popolarità di una piccola Ma­ gnani, dall’altro possiede una modernità e un mistero che richiamano la Monà della Varda. Nella realtà della sua morte senza moralismi si sente la verità di mondo più che in tanti discorsi impegnati. Quasi insieme con Lettera aperta esce Sierra Maestra (1969), il primo film del documentarista toscano Ansano Giannarelli (n. 1933), anch’esso frutto di un senso di colpa generazionale nei confronti dei movimenti rivoluzionari con la proposta di un’ipotesi «fochista» nella nostra Sardegna. Oltre alla guerriglia latino-americana su cui fornisce secchi documenti, interessa a Giannarelli parlare degli intellettuali, del loro tradimento e delle loro possibilità di riscatto secondo verbose e mitizzate visioni terzomondiste. In Non ho tempo (1972), girato per la tv, sulla figura appassionante del giova­ ne matematico francese Evariste Galois e la sua breve, tragi­ ca esistenza, Giannarelli torna al problema dell’intellettuale rivoluzionario con un’arditezza di costruzione narrativa e di montaggio che non riesce, però, con i suoi forzosi richiami e impervie analogie con l’oggi, a raggrumarsi in una concreta chiave interpretativa. Su un altro piano, con II rapporto (1970) Lionello Massobrio tenta una sorta di analisi dei limiti e problemi di una coppia in crisi per l’impossibilità di costrui­ re qualcosa di sal3o in questo tipo di società, ma la zavorra di un invadente e noioso autobiografismo vi è davvero insop­ portabile. Sono tutte opere nate dal tentativo di capire e risolvere una crisi ma che, pur chiuse in tormenti secondari e ancora invi­ 35

schiate nella fragilità di tardi lasciti politici e culturali, si sapevano e volevano marginali. Altri autori della stessa gene­ razione, venuti da esperienze analoghe, si muovono, invece, dentro il cinema di spettacolo, spesso di grande spettacolo. Dopo La grande strada azzurra (1957), aneddoto sociale goffamente romanzato per Yves Montand, Gillo Pontecorvo (Pisa 1919) — un altro regista che, come Maselli, lascia lun­ ghi intervalli tra un film e l’altro — dirige La battaglia d*Alge­ ri (1966), praticamente per conto del governo algerino: è una rievocazione sobria di solido impianto documentario ma sul­ la base di una «sceneggiatura di ferro» di Franco Solinas lungamente elaborata che, con forte coralità e qualche dila­ tazione nelle fasi degli attentati, mostra una guerra di popolo, spiegando anche le ragioni del «nemico», dei francesi. Dopo il Leone d’oro alla mostra di Venezia, il film ha una vasta risonanza intemazionale, soprattutto sui mercati di lingua inglese, e apre la strada a Queimada (1969), anch’esso scritto con Solinas, superspettacolo a ordito politico che, con una storia fin troppo didascalica nella sua linearità, ha l’ambizio­ ne di spiegare al vasto pubblico internazionale che cosa è stato ed è il colonialismo nelle sue varie forme. In quest’as­ sunto il film trova un limite grave nel fare del protagonista Marion Brando un antieroe troppo consapevole della sua funzione storica. Dopo l’Africa e l’America latina Pontecor­ vo passa alla Spagna con Ogro (1979) in cui, raccontando l’attentato all’ammiraglio franchista Carrero Bianco, cerca inutilmente di agganciare, in filigrana, un discorso sul terro­ rismo italiano. Dopo essersi dedicato a incerte ma coerenti analisi sull’«altra parte», in forma di resoconto sulla difficile presa di co­ scienza di un giovane fascista repubblichino (Tiro al piccione, 1961) e su un caso di cinico arrampicatore sociale (Una bella grinta, 1965), Giuliano Montaldo (Genova 1925) concede al periodo dei generali cedimenti con due polizieschi di discreta fattura, ma torna a temi politici con Gott mit uns (1969), magniloquente film di guerra che non sa scavare fino alle radici di classe del militarismo, e prosegue una bella battaglia contro l’intolleranza con Sacco e Vanzetti (1970) e con Gior­ dano Bruno (1973). Preciso nella denuncia della funzione e delle forme della repressione contro gli immigrati, il primo è più efficace del secondo che, nonostante il suo decoro figura­ 36

tivo (grazie anche all’apporto della fotografia di Vittorio Storaro), non riesce a mettere a fuoco né un’epoca né un perso­ naggio. Coerente con l’impegno civile degli inizi, l’itinerario di Montaldo prosegue con L'Agnese va a morire (1976), solo dignitosa trascrizione del romanzo resistenziale di Renata Viganò, e con l’ambizioso e monocorde kolossal televisivo di Marco Polo (1982), vacuo ed efficace compromesso tra «cul­ tura» europea e «spettacolo» hollywoodiano. Più interessan­ ti, anche se un po’ programmatiche, sono le sue indagini in nuove, inquietanti realtà: Circuito chiuso, 1977, sulla e per la tv; Il giocattolo, 1979, sulla mania delle armi; Il giorno prima (1987), sui rifugi antiatomici. La scelta di un «cinema aH’americana» con tutti i suoi espedienti e le sue costrizioni a enucleare gli aspetti spettaco­ lari dei contenuti sociali e a operare in base alla mozione degli affetti — il peccato capitale del cinema italiano detto politico —/impedisce spesso un discorso serio, seppur sem­ plificato, che chiami in causa e non consoli, che non sia soltanto requisitoria, fatta di luoghi comuni, contro «episo­ di» di degenerazione delle istituzioni, ma porti, di là dalle indignazioni facili, la conoscenza sui concreti meccanismi di una società. È il caso di II delitto Matteotti (1974) e di La violenza: quinto potere (1973), sulla mafia, di Florestano Vancini (Fer­ rara 1926) che, al suo esordio nel 1960, aveva rievocato una «storia ferrarese» di Giorgio Bassani, La lunga notte del ’43, ricca di vigore narrativo e di un risentito impeto morale. Dei suoi altri film, in un’alternanza di ricostruzioni minori {La banda Casaroli, 1962; Amore amaro, 1974; La neve nel bic­ chiere, 1984) e di divagazioni erotiche che tentano una sorta di volgarizzazione dei temi di Antonioni {La calda vita, 1964; Lisola, 1968; Un'estate in quattro, 1970) fino a un penoso cedimento allo spaghetti-western {I lunghi giorni della vendet­ ta, 1967), si fanno ricordare Le stagioni del nostro amore (1966) che spinge sino al grottesco, e in anni incerti, una critica ai cedimenti morali e politici della sinistra, mettendo, però, in sottordine il momento dell’autocritica, in una chiave viziata da moralismo e da eccessive concessioni ai propri tormenti, e il suo film più degno, Bronte. Cronaca di un mas­ sacro (1970), su un episodio rivelatore dei modi con cui fu fatta l’unità d’Italia.

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Dopo avere scritto e diretto con Nanni Loy (Cagliari 1925) piccole commedie di costume {Parola di ladro, 1957; Il mari­ to, 1958) e da solo il fine ritratto in chiave agrodolce di L’impiegato (1959), Gianni Puccini (Milano 1914 - Roma 1968) riuscì a realizzare solo poco tempo prima di morire un vecchio progetto in vari modi osteggiato, I sette fratelli Cervi (1968), secondo echi di un nazional-popolare condito di una nuova padronanza tecnica, puntando almeno alla definizione di alcuni tratti psicologici della figura eroica di Aldo Cervi. Documentarista e critico prima che regista, Giuseppe Ferra­ ra (n. 1932) ha dato con II sasso in bocca (1969) una storia della mafia nel dopoguerra e dei suoi legami politici, che mescola documenti e ricostruzione di documenti senza vera invenzione o approfondimento né tecnico né strutturale, ma con spiccia efficacia di denuncia di nomi e di fatti, efficacia che manca a Faccia di spia (1975), confuso tentativo di de­ scrizione delle imprese della cia, e a Cento giorni a Palermo (1983), sull’omicidio del generale Dalla Chiesa a opera della mafia, pesantemente spettacolare. Non meno polemico nelle tesi e sommario nel suo cronachismo, Il caso Moro (1986) propone almeno una sentita interpretazione dello statista democristiano da parte di Gian Maria Volonté che rovescia il ritratto in «nero», caricaturale di Todo modo. Il caso di Elio Petri (Roma 1929-1982) è ancora diverso. È bene dimenticare i brutti film da lui girati tra il 1963 e il 1967, anno di A ciascuno il suo (da Sciascia) dove la denuncia dei meccanismi di mafia si fonde con una sapida descrizione di ambiente siciliano nella cui ragnatela si trova invischiato, sino a esserne ucciso, un tormentato intellettuale. Come nelle sue prime opere — L’assassino (1961) che narra angosce e sensi di colpa di un borghese sotto il torchio poliziesco, e il già citato I giorni contati (1962) — c’è in Petri la volontà di raggiungere una certa complessità dietro l’aneddoto, sul filo di una tematica freudiana, esistenzialistica, metafisica, e di descrivere la «schizofrenia dell’uomo moderno», volontà che si fa turgida e indisponente, nonostante un ambizioso appa­ rato figurativo, in Un tranquillo posto di campagna (1968), sulla fumosa crisi di un artista. Già cominciato con A ciascuno il suo, l’apporto dello sce­ neggiatore Ugo Pirro si fa importante in Indagine su un citta­ dino al di sopra di ogni sospetto (1969) dove gli echi di Piran-

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dello e Moravia si mescolano con sagacia all’influenza della commedia di costume e ai dettati dell’impegno socio-politico. Più che i meccanismi interiorizzati dell’autorità e le loro basi psicologiche, conta nel film, e colpisce, la precisa descrizione di un personaggio di piccolo borghese meridionale (Gian Maria Volente nel suo miglior ruolo) che non ha possibilità di accesso a un potere diverso da quello burocratico-poliziesco e che sfoga nell’autorità le sue repressioni sessuali e di classe. Propensioni metafisiche — espressionisticamente caricate in grido, rumore, esasperazione — muovono anche La classe operaia va in paradiso (1971), appoggiato a interpreti in buo­ na forma (ancora Volontà, Mariangela Melato), il disastroso La proprietà non è più un furto (1973), lo squinternato e viru­ lento Lodo modo (1976), il costernante Buone notizie (1980). Si tratti di borghesi o proletari, studenti o poliziotti, com­ mercianti o intellettuali, politici democristiani o funzionari televisivi, interessa a Petri mostrare le contraddittorie spinte di una contemporanea antropologia negativa e di un patolo­ gico disfacimento sociale: un traguardo ambizioso perseguito in modi fin troppo programmatici, in confusa mescolanza di psicoanalisi e politica.

Olmi e De Seta Per la pervicace fedeltà a una poetica, a una idea — e a una pratica — di cinema, il posto marginale di Olmi, regista di frontiera, nel cinema italiano è dei più interessanti. Lombar­ do (Treviglio 1931), estraneo al mondo romano, l’autodidat­ ta Olmi comincia con una serie di documentari per la Mon­ tedison e continua, lavorando di preferenza per la tv. Non usa attori professionisti, non narra grandi storie drammati­ che, ma vicende quotidiane, semplici crisi sentimentali e mo­ rali di personaggi comuni: impiegati, operai, giovani, conta­ dini. Tutto il suo cinema è fatto di film a basso costo, realizzati in modi artigianali (più di una volta Olmi ne ha curato anche la fotografia) seppure in un linguaggio di grande rigore stili­ stico e, col passare degli anni, sempre più raffinato nella sua semplicità. Sono film che, per le minuziose descrizioni di

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piccoli fatti quotidiani e l’attenzione alle sottili modificazioni psicologiche, ricordano il cinema neorealista delle origini, specialmente quello di Rossellini con cui Olmi ha in comune anche il senso del sacro, la ricerca di valori assoluti nella vita quotidiana. I suoi personaggi vivono vite comuni in ambienti comuni nella cui descrizione Olmi eccelle: il ragazzo di II posto (1962) dalla campagna alla città, alle prese col primo lavoro di im­ piegato in una Milano nevrotica e alienante; l’operaio mila­ nese nella nuova fabbrica del sud (/ fidanzati, 1963); il diri­ gente di Un certo giorno (1968) o l’impiegato di La circostanza (1974) sono descritti nella loro routine, fino al momento in cui qualche accidente, drammatico oppure banale, mette in discussione il loro rapporto non con l’ambiente ma con se stessi. Allora essi devono riconfrontarsi con gli altri, riscopri­ re il senso dei loro legami con la vita, in qualche modo trasformarsi: accettando, però, il loro posto nel mondo come un dato ineliminabile, immodificabile, non mettendo in di­ scussione il proprio destino ma il modo di starci dentro, con maggiore pulizia sentimentale e morale, e non con maggiore coscienza sociale che a questo cattolico lombardo interessa poco, nei limiti di un metodo attento soprattutto ai tremori e sussulti di coscienze calate in realtà minime e volutamente banali, frammentate. Sono limiti che si fanno vistosi in alcune sue prove televisi­ ve, tra cui il ritratto in tre puntate di Alcide De Gasperi, nell’ambizioso E venne un uomo (1965) sulla figura di Angelo Roncalli, papa Giovanni xxm, di cui, sulla scorta del Giorna­ le del!anima, rievoca le origini contadine, e in Durante resta­ te (1965). Le sue qualità di narratore delicato di sentimenti schivi e segreti e di calmo rivelatore di ambienti inediti, evi­ denti fin dal suo primo lungometraggio II tempo si è fermato (1961) e ancor più ricche e colorite in I recuperanti (1969), girato sull’altopiano di Asiago, trovano la loro più alta espressione nella rappresentazione del mondo contadino ar­ caico di L’albero degli zoccoli (1977). Attraverso la storia di alcune famiglie contadine della bassa bergamasca alla fine dell’ottocento, fedele al principio estetico che non tutto deve essere detto e mostrato, Olmi porta a pieno compimento espressivo il tema centrale della sua poetica: la riflessione sul passaggio dal mondo contadino alla società industriale, l’in­

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terrogazione sulla natura di questo passaggio e le sue conse­ guenze: evoluzione o frattura insanabile? Oggetto di un’ampia polemica culturale in cui — pur non contestandone i valori estetici, lo splendore delle immagini, l’intenso lirismo, la sapienza narrativa — fu vivacemente messa in discussione la sua ideologia, L’albero degli zoccoli è un solenne e sereno poema della memoria sulla terra, il lavo­ ro dei campi, le gioie e gli stenti del vivere rurale. Più che nell’abbandono oleografico all’elegia nostalgica, in una pre­ sunta «morale della rassegnazione» e in un’assenza della sto­ ria e della realtà sociale (che, invece, sono presenti specialmente nella seconda parte, sia pur di scorcio, con la pudica arte del sottovoce che è propria di Olmi), il suo limite è in un eccesso idillico, nell’occultamento del versante in ombra del mondo contadino, quello della grettezza, dell’avidità, della violenza, degli odi feroci, qua e là indicati ma in cadenze bonarie. Alla straordinaria fortuna di L’albero degli zoccoli è segui­ to l’insuccesso del suo decimo film, Cammina cammina (1983) in cui, liberamente e fantasiosamente rielaborando l’episodio evangelico dei Re Magi, nelle lente cadenze di un film di viaggio verso un appuntamento di speranza e di salvezza, Olmi ha fatto un’opera profondamente religiosa e severa­ mente anticlericale (antistituzionale), confermando di essere, scomparsi Rossellini e Pasolini, il solo cineasta italiano con un autentico sentimento del sacro. Secondo un’esiziale ten­ denza diffusa nel cinema italiano (e non solo italiano) degli anni Ottanta, ha nuociuto al film la riduzione della sua dura­ ta dai 255 minuti dell’edizione televisiva ai 165 minuti di quella cinematografica. Raggiunta la maturità espressiva, pur rimanendo fedele a se stesso e a una sua sentenziosità di fondo, Olmi ha asciugato il suo mondo poetico e il suo stile; ha reso, in qualche modo, più duro e netto il suo giudizio critico, specialmente quando volge lo sguardo al mondo bor­ ghese di oggi, come rivela il suo spigoloso documentario Milano ’83 che ha suscitato accese polemiche. Il siciliano e aristocratico Vittorio De Seta (Palermo 1923) è autore di pochi film, assai diversi l’uno dall’altro. Banditi a Orgosolo (1961), forte della preparazione documentaristica e meridionalistica del regista (gli affascinanti Lu tempu de li pisci spala, Isole di fuoco, Contadini del mare e Pescherecci,

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girati in Sicilia tra il 1954 e il 1958), racconta, con secchezza pudica degna di Flaherty, il processo di formazione del ban­ ditismo sardo. È un film duro nella sua semplicità che ha il limite di chiudere in un arco di mondo chiuso, con le sue leggi e le sue strutture economiche e culturali, quasi a esse arreso, la storia che narra, con una visione che ancora non sa render­ si conto del complesso rapporto tra sviluppo e sottosviluppo, già pienamente in moto in quegli anni e destinato a trasfor­ mare radicalmente i dati economici e sociali della questione sarda. Un uomo a metà (1965) rovescia il suo stile con un resocon­ to di psicoanalisi junghiana, dal regista ricostruita con una tensione stilistica (e formalistica) insolita e con una rimessa in discussione di sé che sfocia nel mito e in un onirico solipsi­ smo. Girato in Francia su un soggetto di Tonino Guerra, dal fondo antonioniano, Linvitata (1969) descrive — in modi non dissimili da quelli dell’Olmi di Un certo giorno x— il ripensamento, intimista e lirico più che critico, dei propri sentimenti da parte di una donna ingannata dal marito. Iso­ lato e quasi emarginato nella sua ricerca, trascurato dalla critica, De Seta passa negli anni Settanta a lavorare per la rai per la quale realizza il Diario di un maestro (1973), sceneggia­ to a puntate nella forma di un rapporto su un esperimento didattico in una scuola romana di borgata, con Bruno Cirino protagonista. Pur con qualche risvolto troppo consolatorio, è il solo film italiano che ha messo a frutto la lezione della Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani, pubblica­ ta cinque anni prima. Anche l’emiliano Gian Vittorio Baldi (Bologna 1930) pro­ viene da un’attività di documentarista che, filtrando i suoi presupposti neorealistici attraverso esperienze franco-cana­ desi di cinéma-vérité, narrava di marginalità urbane senza polemica sociale, interessato, sulla scia di Rossellini, a capta­ re il vissuto immediato e la verità intima dei personaggi: Il pianto della zitella (1958), Via dei cessati spiriti (1959), e so­ prattutto La casa delle vedove (1960). Luciano, una vita brucia­ ta (1962, ma distribuito cinque anni dopo) non è che il do­ cumento dilatato della vita di un ladro romano, scomparso nel confronto col pasoliniano Accattone, Girato in presa di­ retta, portando alle estreme conseguenze l’impiego della ci­ nepresa a mano, con tagli di montaggio ridotti al minimo, 42

Fuoco! (1968) descrive l’insorgere della pazzia in un perso­ naggio qualsiasi. Dalla pazzia Baldi è attratto per la sua irrazionalità che insorge come sentimento di panico di fronte all’assurdità dell’esistenza più che per la sua parte razionaliz­ zabile. Questo nodo è alla radice anche di La notte dei fiori (1971) in cui, con risicato poeticismo, si contrappone una «villa della morte» (con riferimenti al massacro californiano di cui fu vittima Sharon Tate) al candore di una ragazza hippy crudelmente lasciata partorire in aperta campagna, e di L’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale (1974) dove un approccio veristico, spinto verso un irrealismo lirico e delirante, vorrebbe evocare, collegandosi ai modi della memoria popolare, la ferinità dei fascisti repubblichini che a uno a uno fanno strage dei passeggeri di una «corriera fanta­ sma». Il lombardo Nelo Risi (Milano 1920), poeta e fratello di Dino, di formazione laica e umanistica, è interessato al rap­ porto tra realtà e sogno (evasione o incubo) e alla difficoltà di conciliazione tra loro. In Andremo in città (1966), da un testo della moglie Edith Bruck, una giovane ebrea deportata de­ scrive al fratellino cieco un mondo inesistente e idealizzato in contrasto con l’orrida realtà circostante; in Diario di una schi­ zofrenica (1969) una dottoressa tenta di strappare una ragaz­ za malata al suo mondo di follia; in Ondata di calore (1970) l’incubo della protagonista è interna ossessione che, però, colora di sé tutto il reale. Nell’ambiziosa, impudica, scombi­ nata biografia di Rimbaud, Una stagione all’inferno (1971), l’assunto centrale è il contrasto tra sete d’assoluto e mediocri­ tà della vita e della società, ma si smarrisce per le strade di una spettacolarità tutta esteriore. Dopo La colonna infame (1975) in cui, sulla scorta di un Manzoni anche troppo drammatizzato, si propone un discorso di tolleranza, Nelo Risi ha continuato con lavori televisivi. Se Enzo Muzii (Asmara 1926), attivo anche come fotogra­ fo, ha descritto, nell’ambito di un antonionismo diluito e di maniera, altre lente, sottili e sfibrate crisi sentimentali e intel­ lettuali (Come l’amore, 1968; Una macchia rosa, 1970), Fabio Carpi (Milano 1925), amico e collaboratore di De Seta e Nelo Risi, alterna la sua attività di giornalista e scrittore con quella di regista e sceneggiatore. Esempio di cinema da camera (postantonioniano) all’aria aperta, Corpo d’amore (1972) raccon­

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ta un difficile rapporto tra padre e figlio, reso drammatico dalla presenza di una giovane sconosciuta, con un intellettua­ lismo freddamente geometrico sorretto da una forma solenne di grande eleganza figurativa. Dopo L'età della pace (1974), ritratto a tutto tondo di un vecchio alle soglie della morte che si apparta dal mondo, sondando il proprio inconscio e il passato di combattente in Spagna, Carpi ha diretto per la tv Il quartetto Basileus (1981), un’altra amara meditazione sulla terza età, di insolita finezza nell’incrocio di più storie e per­ sonaggi nel mondo della musica classica. Bernardo Bertolucci La novità di Prima della rivoluzione (1964), stendhaliano e autobiografico Bildungsroman di un giovanissimo, Bertolucci (Parma 1941) aveva allora ventitré anni, consiste in una ele­ giaca ma anche ironica narrazione di un cedimento: al termi­ ne di un’educazione sentimentale, il giovane Fabrizio rientra nei ranghi della borghesia, lasciando alle sue spalle il cadave­ re dell’amico puro, la nevrosi della zia Sanseverina e le ban­ diere rosse del festival dell’«Unità». In bilico tra ideologia e passione, Bertolucci ha qualcosa di significativo da narrare, e lo fa con accenti nuovi e uno stile, pur ricco di riferimenti e citazioni, di accesa limpidezza. Dopo un lungo periodo di inattività forzata, Partner (1968) rivela una crisi e un’incertezza gravi, con tutte le difficoltà di una seconda opera (se si trascura l’esercizio di esordio di La commare secca, 1962, su un soggetto di Pasolini) in cui biso­ gna fare i conti con una scelta culturale ed estetica più ardua. Bertolucci la risolve ondeggiando tra Julian Beck e Godard, ma senza possedere l’assolutezza quasi religiosa del primo né la forza del secondo nel manipolare immagini e idee provoca­ torie che rimandino ad altro e che dimostrino, pur nel loro disordine, un’insofferenza verso il già noto e una ricerca del nuovo. Bertolucci tenta una rivoluzione di forme che esprima un’idea-base, quella di uno sdoppiamento tra l’impotenza reale e la fantasia della disponibilità artistica, politica, rivolu­ zionaria. Sceglie, infine, di sostituire la rivoluzione nelle for­ me (il teatro) alla rivoluzione nella vita in ambigua sublima­ zione, affermata con aggressivo narcisismo. 44

Bertolucci ritrova la sua strada, parzialmente rivisitando il se stesso di Prima della rivoluzione, con Strategia del ragno (1970), di ispirazione borgesiana, con colori (comincia il fe­ condo sodalizio con l’operatore Vittorio Storaro) e un am­ biente (il Po, Sabbioneta e l’estate della grande pianura) di fascinose suggestioni. Athos «secondo» ritorna sui luoghi na­ tii a rivivere e ricostruire il mito del padre, e scopre che Athos «primo», eroe della resistenza, era stato un traditore ucciso dai suoi stessi compagni. Il tema del padre, e dei padri, torna deviato ma ossessivo con II conformista (1970), dal romanzo di Moravia. Qui la fascinazione è subita più che analizzata e scavata: quella del passato fascista dell’Italia, della borghesia italiana. Borghese che si fa fascista per paura di non essere abbastanza virile e per il presunto omicidio di un servo osce­ no, il protagonista si muove incerto in una Parigi rievocata con nostalgico gusto decorativo, tra personaggi brutali, don­ ne vili, antifascisti onesti e ingenui, e partecipa all’omicidio del fuoriuscito, del possibile padre pulito, per inettitudine a scegliere, a uscire dal cerchio della fascinazione fascista. Sco­ pre, infine, che tutto era stato un equivoco, che non aveva mai ucciso il servo osceno. Ma il fascismo era dentro di lui e — sembra suggerire il regista — del fascismo partecipa la borghesia in un contrasto tra «male» (fascismo) e «bene» (antifascismo) interni a essa, ma dove il primo polo è il più forte. Il madornale successo di scandalo di Ultimo tango a Parigi (1973) — sedici milioni di dollari sul mercato del Nordamerica e più di sei miliardi di lire su quello italiano, nonostante i ripetuti sequestri e la condanna della cassazione con conse­ guente distruzione delle copie — ha posto Bertolucci tra i registi più quotati in campo internazionale. Happening dove un americano di mezz’età (Marion Brando) e una giovane francese si rinchiudono per fare l’amore in un appartamento vuoto di Passy che è caverna primitiva, cella d’isolamento, zattera per naufraghi, Ultimo tango a Parigi è un abile cock­ tail di trasgressioni erotiche, divulgazione di Georges Bataille, romanticismo maledetto da lost generation, eros e thanatos, Kamasutra, estetismo liberty, aggressiva misoginia, guer­ ra dei sessi, tema del «doppio», rapporto col padre, irrisioni del cinéma-vérité, citazioni del cinema hollywoodiano, fran­ cese e neorealistico. Il tutto è legato, e parzialmente trasfigu­ 45

rato, dal talento di Bertolucci, dal suo senso del tempo e della luce, dalla musicale mobilità della cinepresa che mette in rapporto spazio, personaggi, oggetti e décor. Con il ridondante e in definitiva fiacco e tutto esteriore Novecento (1976) si fa ancor più precisa la natura di media­ zione del lavoro di Bertolucci, alle prese con un cinema che attraversa le zone del «commerciale», pur sfruttando a fondo la nozione di «autore» e che punta su rischiosi compromessi per trovare uno spazio di libertà all’interno del sistema pro­ duttivo. Storia parallela di due personaggi, un padrone e un contadino, nati nello stesso giorno del 1900 in una fattoria emiliana, Novecento — diviso in due parti per una durata originaria di cinque ore e venti minuti, successivamente ridot­ te — è un’opera fondata sulla dialettica dei contrari: è un film sulla lotta di classe in chiave antipadronale, finanziato con dollari (sei milioni) americani, che cerca di fondere la tecnica narrativa del cinema classico hollywoodiano con quella del realismo socialista sovietico e un risvolto finale da film-bal­ letto cinese; è un melodramma politico, in bilico tra Marx e Freud, che attinge a Verdi, al romanzo ottocentesco, al mèlo del cinema hollywoodiano degli anni Cinquanta e si conclude nei modi di una sacra rappresentazione dove la religiosità è sostituita dalla politica per prolungarsi in un epilogo simboli­ co tra Brecht e Beckett. A partire da Olmo (G. Dépardieu), il mondo contadino è mitizzato in quanto è tutto visto e filtrato attraverso lo sguardo di Alfredo (R. De Niro) e il suo com­ plesso di colpa. Senza evitare i rischi della ridondanza visio­ naria, Bertolucci gioca le sue carte sui due versanti del rac­ conto, quello della politica e quello del melodramma di cui riprende due componenti basilari, la qualità dell’immagina­ rio e l’universo familiare che fa da base alla narrazione. Sotto il segno del mèlo è anche La luna (1979) sul rapporto madre-figlio e sulla pulsione incestuosa che ne è il sottofondo più o meno fantasticato, film ondeggiante su una poesia ora sincera ora esitante, qua esibita, là reticente, fatto di sconfi­ namenti, fratture, liriche accensioni, sperperi romantici, ri­ mandi simbolici troppo ostentati. Per vari motivi La tragedia di un uomo ridicolo (1981) segna una svolta nell’itinerario di Bertolucci. Non è soltanto un passaggio «dalla poesia alla prosa», sottolineata dalle immagini chiare e distinte dell’ope­ ratore Carlo Di Palma che sostituisce il suo abituale collabo-

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ratore Vittorio Storaro. Anche qui si narra di padri e figli, ma per la prima volta dal punto di vista — in tutti i sensi — del padre: l’ottica di questo film critico-comico coincide con quella del suo protagonista (un ottimo e sconvolgente Ugo Tognazzi) che non riesce a vedere chiaro in una realtà oscura, ambigua, equivoca, efferata, quella dell’Italia degli «anni di piombo». Anche Liliana Cavani (Carpi 1937) ha raggiunto il succes­ so intemazionale con un film che in qualche modo può essere avvicinato a Ultimo tango a Parigi e a II conformista, con quel Portiere di notte (1974) dove il rapporto tra vittima e carnefi­ ce, impregnato di letteratura post-sadiana e post-freudiana, è ambigua fascinazione di nazismo. Regista senza una persona­ le impronta a livello stilistico, la Cavani rimpolpa di grandi problemi e di contenuti trasgressivi i suoi film. Se era riuscita a dare sincerità e vigore a un televisivo Francesco dAssisi (1965) e a una vita di Milarepa (1973), che si serve di un efficace pretesto narrativo per accostarsi a una dimensione religiosa orientale, le ambizioni di Galileo (1968), biografia critica di grevi intenti didascalici, del confuso I cannibali (1970), di vaga derivazione camusiana, di L'ospite (1971), sulla malattia mentale, dimostrano un rimescolamento cultu­ rale vittima della moda. Gli ultimi film — Al di là del bene e del male (1977) sui rapporti tra Nietzsche e Lou Salomé, La pelle (1980) dal romanzo di Curzio Malaparte, Dietro la porta (1982) — sono di trascurabile interesse perché le ambizioni culturali lasciano il posto a una smodata e goffa ricerca dello scandalo e degli effetti. In questo ambito è da preferire il più elegante e raggelato Interno berlinese (1985), trasposizione in un 1938 nazista dei misticismi sadomasochistici di Tanizaki. Zurlini, Bolognini e C.

Esiste un cinema italiano che, per metodo e problematiche, possiamo definire «secondariamente borghese», cioè dentro a tradizioni letterarie e cinematografiche dignitose, ma lontane dai dibattiti e dalle esperienze maggiori, interessato ad ag­ giungere, dall’interno dell’esperienza borghese, piccole pia­ strelle a un mosaico di cose già dette. Senza novità né origina­ lità, ora con intenso intimismo e scavo sincero nei sentimenti

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e negli affetti, ovattati dal lirismo della memoria che filtra alla sua luce anche gli eventi collettivi, sovente solo con un gusto manierista da filologo che si limita a «mettere in sce­ na», a illustrare, è un cinema che adatta spesso opere lettera­ rie e che, quando inventa, lo fa ancora secondo modi e toni «letterari» già noti. Sia pur raramente, e nei primi anni Sessanta più che nel decennio successivo, questa tendenza non esclude un apporto personale autentico e sofferto. Con i loro riferimenti letterari e pittorici, quasi sempre desunti da zone naturalistiche e cre­ puscolari, e per lo più calando le prime nei toni delle seconde, sono film che hanno talvolta un’indubbia dignità culturale e formale, persino superiore a molte cose dei presunti innova­ tori. Anche negli esiti più felici, però, rimangono irrimedia­ bilmente secondari, come peso culturale, rispetto a quegli autori che cercano un linguaggio personale e un confronto più contrastato e ricco con la realtà e con la storia. Dopo Estate violenta (1959), lirico incontro di tormenti adolescenziali e di inquietudini borghesi sullo sfondo del 1943, Valerio Zurlini (Bologna 1926 - Verona 1982) realizza La ragazza con la valigia (1960) e Cronaca familiare (1962, Leone d’oro di Venezia) nelle stesse forme di indagine di caratteri colti nei rapporti affettivi e con un finissimo e sorve­ gliato senso del paesaggio che è il frutto dei suoi trascorsi di documentarista e di una solida cultura figurativa. Nel primo dei due film l’adolescente della buona borghesia (Jacques Perrin), innamorato di Aida (Claudia Cardinale), proletaria con la valigia, vive di palpiti, fremiti, sguardi e silenzi il suo primo amore, destinato a non avere sbocco per differenza di età e di classe sociale: è quest’adolescenza a incantare per il ritegno e la delicatezza, non privi di humour, con i quali Zurlini la narra per piccoli tocchi aneddotici. In Cronaca familiare, tratto con puntigliosa e amorevole fedeltà dal lun­ go racconto autobiografico di Vasco Pratolini, il sentimento che lega Mastroianni al fratello moribondo (ancora Perrin) è di scoperta di una persona diversa, eppure simile, e lo sfondo dell’autunnale Firenze, con i colori tenui di un Rosai, rende ancor più struggente e malinconico questo tardivo incontro. Questa vena ora crepuscolare, ora elegiaca — con rischi di patetico, ma sempre con una ferma misura e una costante precisione realistica, rintracciabili anche nel vivace bozzetto

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d’esordio, anch’esso di derivazione pratoliniana: Le ragazze di San Frediano (1955) — non si ritrova più nei film successi­ vi, nemmeno in La prima notte di quiete (1972), possibile storia di caduta e redenzione di taglio dostoevskijano che risulta, invece, anche a causa del protagonista-produttore Alain Delon (che ne manipolò la versione francese), inquina­ ta di eccesso melodrammatico. Su una materia a lui estranea, Le soldatesse (1964) si fa ricordare appena per qualche ac­ cenno di ritratto femminile e Seduto alla sua destra (1968), col quale si lasciò tentare dalla politica, vuole essere la rievoca­ zione degli ultimi momenti di un capo rivoluzionario africa­ no (Lumumba), ma in termini troppo infarciti di riferimenti evangelici e di presunta sacralità per farsi carne e sangue politici. Cineasta troppo aristocratico, schivo e integro per venire a patti o aggirare il volgare mercantilismo e il disordine orga­ nizzativo del mondo del cinema romano (soltanto otto film in quasi trent’anni), Zurlini riuscì a esprimere la segreta vena epica del suo talento soltanto con II deserto dei Tartari (1976), originale adattamento del celebre romanzo di Dino Buzzati in cui, con un’ammirevole tenuta stilistica e una sapiente costruzione drammatica, racconta la fine di un mondo e di un’epoca con una virile malinconia degna di Joseph Roth. Mauro Bolognini (Pistoia 1922) ha fatto sovente ricordare, con il suo gusto raffinato dell’illustrazione, le movenze del calligrafismo dei primi anni Quaranta. I suoi primi passi erano stati contrassegnati da alcune esili commedie alla «po­ veri ma belli», la migliore delle quali, di insolita finezza nella descrizione di personaggi provinciali, era stata Giovani mariti (1958). Dopo due esercizi su temi pasoliniani {La notte brava, 1959, e La giornata balorda, 1960) al cui attivo c’è soltanto una cattivante sensualità, si dedica ad adattare e «ridurre», con esiti diversi, ma sempre con particolare attenzione al décor, ai costumi, alle luci, ai colori, cioè con un manierismo di gusto, Brancati {Il bel!Antonio, 1960), Pratesi {La viaccia, 1961), Svevo {Senilità, 1961), Moravia {Agostino, 1962), Gautier {Madamigella di Maupin, 1966), Patti {Un bellissimo novembre, 1968), Parise {L’assoluto naturale, 1969), Pratolini {Metello, 1969), Philippe {Bubù, 1970), Tobino {Per le antiche scale, 1976), Chelli {L’eredità Ferramonti, \9TT) e, sia pure per negarlo, Dumas figlio {La vera storia della signora delle carne-

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lie, 1982). Per la tv, anche La Certosa di Parma (1983). Si è lasciato anche tentare occasionalmente, con risultati fiacchi o disastrosi, dalla commedia di costume o dal cinema politico­ poliziesco. Nonostante spunti potenzialmente più corposi, ha rivelato altrettanta inerzia nel ritratto di una giovane anar­ chica (Libera, amore mio, 1973-75) e nella ricostruzione di delitti d’altri tempi (Fatti di gente per bene, 1974; Gran bollito, 1977). Nei suoi film migliori, invece (tra i quali La viaccia e Metello, entrambi crepuscolari, al contrario della dura vena naturalistica di Pratesi e del populismo di Pratolini), questo pittore di controllato gusto figurativo ha saputo legare un ambiente a una psicologia, un fondo tenue a sentimenti mor­ bidi, atmosfere e situazioni puntualmente ricreate. Formatosi con Visconti, illustratore tutto esteriorità e grancassa di apparati produttivi, regista-sarto da jet-set in­ ternazionale è Franco Zeffirelli (Gianfranco Corsi, Firenze 1923). Salvata in parte La bisbetica domata (1967), grazie a una sua dimensione sanguigna dovuta alla godibile recitazio­ ne di Elizabeth Taylor e Richard Burton, e forse La Traviata (1983), per un certo gusto decorativo, ha dato con Romeo e Giulietta (1968) e specialmente con l’incredibile Fratello Sole, sorella Luna (1971), smaccato carosello su Francesco d’Assi­ si, parate di manichini ben vestiti. Dopo un televisivo Gesù di Nazareth (1977) agiografico e pompieristico, ha diretto a Hollywood The champ (Il campione, 1979) e Endless love (Amore senza fine, 1981), in linea con la peggiore tradizione del mèlo d’oltratlantico, e un Otello (1986) di esibita rigatteria hollywoodiana. Se nel piatto e grigio panorama del repertorio teatrale ita­ liano Giuseppe Patroni-Griffi (Napoli 1921) è riuscito a farsi almeno una neoromantica nicchia, al cinema si limita al pic­ colo e saltuario cabotaggio di una tematica morbosa e salot­ tiera, calandola nello sfatto e flebile poeticismo di II mare (1962) o nei cerebralismi plurisessuali di Metti una sera a cena (1969), tratto da una sua pièce di successo, sino ai moralismi di Divina creatura (1976), da un romanzo di appendice di Zuccoli, e alla ruffiana e decadente crudeltà a porte chiuse di La gabbia (1985). E Addio fratello crudele (1971) decora, se­ guendo la falsariga di Peccato che sia una sgualdrina di John Ford, un incesto elisabettiano a Parma con grande spreco di sangue e violenza, della fotografia di Storaro e delle lignee 50

sculture scenografiche di Ceroli. Si va un po’ meglio con Identikit (1974), più contenuto studio di una smania di morte e autodistruzione, freddamente perseguita da una tozza Liz Taylor sullo sfondo di una Roma di oggi, decadente e malsa­ na (ancora Ceroli e Storaro). Franco Brusati (Milano 1922), un altro regista-autore che fa la spola tra teatro e cinema, possiede una personalità più interessante, una sensibilità più attenta ai segni del tempo. Se Il padrone sono me (1956), da Fanzini, è ancora un calligrafi­ co esercizio su commissione che illustra la fine di un mondo agrario borghese e ottocentesco, Il disordine (1962), caotico e magmatico, meriterebbe una seconda visita per l’accumulo di elementi episodici, tesi a dimostrare il «disordine» di una società e di una città come Milano. Ambientato in Svezia, Tenderly (1968) è l’insolito caso di una sophisticated comedy all’italiana, costruita con impeccabile ingegneria. I tulipani di Haarlem (1970) racconta crudeli amori di adolescenti allo sbando con procedimenti letterari di crudeltà e finezza con­ vincenti soltanto in modo intermittente; Pane e cioccolata (1974), emblematica storia di un operaio italiano emigrato in Svizzera, ha, pur costretto dall’invadenza di Nino Manfredi, risvolti comici e grotteschi sorprendenti, su una base decisa­ mente, e coraggiosamente, antipopulista. La posizione ap­ partata, se non eccentrica, di Brusati rispetto al panorama del cinema italiano ha trovato minor conferma in Dimentica­ re Venezia (1979), nient’affatto persuasivo nella sua ambizio­ sa e complessa articolazione narrativa, e neH’irrisolto II buon soldato (1982).

La commedia al!italiana È il genere che, specialmente a partire dagli anni Sessanta, fa da architrave al cinema italiano. La sua pretesa è di offrire — anno per anno, in forma di intervento attivo e tempestivo — una cronaca di quel che cambia nel costume, nei valori, nel comportamento degli italiani, in una sorta di specchio critico dei difetti nazionali e di inchiesta permanente, alle­ gramente feroce. Sulla base dei suoi materiali uno studioso del costume potrebbe tracciare una storia di tipo antropologico-culturale di questo ventennio, a patto, però, di tenere

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presenti due fattori che incidono negativamente sulla sua rappresentatività: registi, sceneggiatori e attori (le due ultime categorie sono ancor più importanti della prima nella costru­ zione e nell’ideologia di questi film) sono anch’essi prodotti di un costume, non neutri rispetto a quel che raccontano; le strutture narrative del genere si sono cristallizzate, col passa­ re del tempo, in una serie di schemi e di regole canoniche che costringono su binari prestabiliti le vicende che narrano e l’analisi del costume che tentano. L’appartenenza degli autori a quella piccola e media bor­ ghesia sulla quale di preferenza puntano i loro obiettivi im­ plica e determina la tendenza a idealizzarne i conflitti: sono partecipi delle sue contraddizioni e delle sue morali come delle sue ambiguità culturali e ideologiche. Sono, inoltre, professionisti, ossia per definizione, soprattutto in questo ge­ nere, alla ricerca del successo, perciò costretti a non spingere troppo oltre la loro critica, a lasciare al pubblico spazi di lusinga e di riconoscibilità immediati, compiacendo nella ri­ petizione semantica la sua pigrizia, il tradizionalismo, il biso­ gno di vedere ciò che sa in partenza essere un prodotto ben determinato, con proposte rodate e bene accette. All’interno di questi limiti, che in alcuni autori e in alcuni periodi sono stati assai rigidi, specialmente per il condizionamento degli interpreti, si è avuta tuttavia una produzione di film intelli­ genti e interessanti, anche per umori di polemica sociale. Il genere non ha le sue radici nella commedia americana: ne sono assenti la raffinatezza della «sofisticazione» e il gioco tutto interno a un mondo artificioso e, generalmente, alto­ borghese così come la tendenza allo splapstick e alla bizzarria comica. Le ascendenze vanno cercate, alla lontana, nel Ca­ merini prebellico, primo ma soltanto benevolo descrittore della piccola borghesia italiana, e dopo la guerra nei film di Zampa-Brancati che con acre moralismo collocarono i com­ portamenti borghesi in precisi contesti storici e politici. Qual­ cosa è stato preso anche dal neorealismo rosa dei «pane e amore» e dei «poveri ma belli» (non a caso Comencini e Risi sono protagonisti di entrambi i fenomeni) e dal ricupero di alcuni aspetti del cinema comico, decaduto e sfibrato negli anni Sessanta proprio a causa della commedia di costume (con l’eccezione, periferica sotto ogni riguardo, della coppia Franchi-Ingrassia), ma dalla cui fucina di talenti erano venuti

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sceneggiatori come Age e Scarpelli, Maccari e Scola, Benve­ nuti e De Bernardi, registi come Monicelli, attori come Sordi e Tognazzi. Un apporto decisivo alla sua formazione fu, inoltre, quello felliniano di I vitelloni con la definizione di un personaggio (Sordi con la sua viltà da poveraccio), degli ambienti (la piccola borghesia, la provincia, la famiglia) e di un atteggia­ mento (amaro e satirico, ma con risvolti patetici), insieme col moralismo sotterraneo di Lattuada, Comencini, Pietrangeli, Germi e con la messa a punto del personaggio Sordi, cui fu addetto lo sceneggiatore Rodolfo Sonego. Questo personag­ gio dell’infingardo opportunista, cattolico ipocrita e mammarolo, figura centrale nella commedia di costume anche come base per altri tipi, doveva incarnarne le successive evo­ luzioni fino a poter rappresentare (Una vita diffìcile) lo stesso italiano progressista, ex partigiano, corrotto dai cedimenti ma pronto a riscattarsi con gli anni del centrosinistra e, più tardi, a ricercare una sua «signorilità» di nuovo ricco e nuovo borghese, vagamente democratico, conservandone, però, gli aspetti comici di piccola viltà, piccole paure, provincialismo. I temi affrontati dalla commedia di costume sono esemplari. La famiglia, anzitutto: vedovi, scapoli, bigami, mariti in città e mogli al mare, l’adulterio, il divorzio e, di conseguenza, la donna, posta al centro del loro interesse dai film di Pietrange­ li, da Lattico (1963) di Puccini, Le ore dell’amore (1963) di Salce, La bambolona (1968) di Franco Giraldi, dai film di Comencini, Lattuada, Fondato e tanti altri ancora, cartina di tornasole delle repressioni e delle nevrosi del mutamento. Altri temi sono: la provincia, per una lunga fase solo meri­ dionale, con i suoi riti avvilenti, gli ottusi pregiudizi, la me­ diocrità; la politica, passando dal referto di opportunismi, intrallazzi, carrierismi al riesame del comportamento del­ l’uomo comune alle prese con eventi di importanza collettiva: La grande guerra (1959) di Monicelli che ne è, in molti sensi, il capostipite; Ilfederale (1961) di Salce, Una vita diffìcile (1961) e La marcia su Roma (1962) di Risi, Anni ruggenti (1962) di Zampa. Più tardi la tematica politica è ripresa dal banale Colpo di stato (1968) di Salce e, in chiave di grottesco antifa­ scista, da Vogliamo i colonnelli (1972) di Monicelli, entrambi spinti verso una sorta di fantapolitica che si fa eco di paure e intrighi militari e reazionari di quegli anni. Anche Ettore

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Scola, uno degli sceneggiatori di Una vita diffìcile, s’innesta nel filone con Ceravamo tanto amati (1974), uno dei suoi film migliori e più ambiziosi, in cui tenta il bilancio di un trenten­ nio di vita nazionale, e, in modi più indiretti ma anche meno efficaci, con La terrazza (1980). C’è poi il tema delle «professioni e mestieri», da II magi­ strato (1959) a II medico della mutua (1968) di Zampa, da II commissario Pepe (1969) di Scola al giudice democratico di In nome del popolo italiano (1972) di Risi, contrapposto a un industriale cialtrone e ciurmadore, e a tanti altri. C’è la chiesa cattolica, vista quasi esclusivamente nell’ottica delle crisi sa­ cerdotali (Contestazione generale, 1970, di Zampa; Il prete sposato, 1970, di Vicario; La moglie del prete, 1971, di Risi); c’è l’italiano all’estero, rappresentato nei suoi pregiudizi e nella sua chiassosa pacchianeria attraverso il confronto con una società industriale avanzata come nei film di Sordi (Un italiano in America, 1967; Fumo di Londra, 1966 ecc.), con un mondo sciocco e vacuo come il nostro (Parigi o cara, 1962, di Vittorio Caprioli) o più assurdo e feroce del nostro (Permet­ te? Rocco Papaleo, 1971, di Scola e, in modi più bonari, La mortadella, 1971, di Monicelli) o con nuove realtà di classe (Vado, sistemo !America e tomo, 1974, di Nanni Loy, dove il cestista negro, attivo nella lotta razziale, consente al servile Paolo Villaggio di ritrovare un sussulto di dignità) per finire con Pane e cioccolata (1974) di Brusati. C’è il sud con la sua arretratezza civile, dai delitti d’onore di Germi (Divorzio all’i­ taliana, 1961; Sedotta e abbandonata, 1963) agli oziosi e vellei­ tari personaggi dei giovani Basilischi (1963) di Lina Wertmuller, salvo farsi terreno di elezione per analizzare le forme contraddittorie della trasformazione sociale, non solo di co­ stume, a partire da Mafioso (1962) e anche da Don Giovanni in Sicilia (1967), entrambi di Lattuada, con la sua tollerante ironia sui vizi meridionali ma pure con aperture sulla Milano dell’immigrazione e un’Italia diversa. A questi temi, quasi sempre situati in un contesto piccolo­ borghese, si sono aggiunte negli anni Settanta incursioni in ambienti altoborghesi e nel mondo sottoproletario e operaio. Raccontati con vena picaresca ma amara nella loro dispera­ zione e nella loro fame, dal Comencini di A cavallo della tigre (1961), lumpen ed emarginati ritornano quasi sempre in que­ sta chiave con il feuilletonesco e ironico Senza famiglia nulla­ 54

tenenti cercano affetto (1972) di Gassman, con un gioiellino di comicità paradossale come Straziami ma di baci saziami (1968) di Risi, con Dramma della gelosia, tutti i particolari in cronaca (1974) di Scola che mette in scena una fioraia (Moni­ ca Vitti), un muratore comunista (Marcello Mastroianni) e un pizzaiolo (Giancarlo Giannini, al suo lancio) e i loro amo­ ri, ricalcati sul mondo e il gergo dei fotoromanzi. Sono tutti e tre scritti da Age e Scarpelli e rispecchiano il loro gusto per il calco filologico e deformante delle forme espressive della subcultura popolare {feuilleton, canzonette, fotoromanzi). È lo stesso Scola che, con una sgradevolezza premeditata ma non sempre controllata, porta il filone alle estreme conse­ guenze con Brutti, sporchi e cattivi (1974) sulla vita degradata delle borgate romane nella società del benessere. Più calibrati viaggi nel sud del lavoro sommerso, viaggi nel ventre di Na­ poli saranno due tardi film di Nanni Loy, Café Express (1980) e Mi manda Picone (1984), entrambi scritti da Elvio Porta, specie il secondo con insoliti toni di fantastico sociale. Messi da parte femministe e omosessuali le cui proposte risultano ancora troppo avanzate per i gusti del pubblico e che sono ridotte a figure comiche di contorno con sottofondi razzistici (forse, con l’eccezione di Bionda fragola, 1980, di Mino Bellei, più vicino alle strane coppie di Neil Simon che ai tanti Vizietto), i proletari, nella veste precisa di operai di fabbrica, compaiono dopo il 1969, terreno di caccia per i film della Wertmuller di greve volgarità mascherata di morali­ smo, e in Romanzo popolare {1914) di Monicelli, con Tognazzi operaio milanese e Michele Placido poliziotto meridionale, che si contendono la stessa donna. Per sceneggiatori e registi che affrontano questi temi e questi ambienti c’è il rischio, effetto della loro ottica di classe, che finiscano per vederli con un retrogusto di spregio {Dramma della gelosia) e persino di razzismo (diversi film con Lando Buzzanca, Mimi metallurgi­ co ferito nell’onore, 1972, della Wertmuller di cui è da preferi­ re, sullo stesso terreno di un grottesco plateale, il ritratto di un mostro di vitalismo e arte di arrangiarsi del tempo di guerra di Pasqualino Settebellezze, 1975), raffigurandoli come esseri inferiori che s’agitano disordinatamente nel più grande marasma. Il periodo d’oro della commedia di costume resta, dunque, quello dei primi anni Sessanta, nato da un felice senso del

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tempo e da un’attenzione morale più seria. Di quel periodo è il capolavoro del genere: Il sorpasso (1962) di Dino Risi, con un Gassman prepotente e un Trintignant timido, attratto dalla vitalità dell’altro, a zonzo per un’Italia densa di nota­ zioni precise, di riferimenti validi alla frenesia degli anni del «boom». L’incontro dei due personaggi finisce in tragedia: il nuovo, vitale e volgare borghese provoca la morte del giova­ ne rappresentante di una borghesia agraria e provinciale che in quegli anni stava morendo o trasformandosi sotto la vio­ lenta pressione degli eventi. Oltre ai titoli citati, frammisti a parecchi altri inconcluden­ ti e secondari all’intemo di una camera condotta per intero nel quadro della commedia, Dino Risi (Milano 1916) ha al suo attivo la galleria di I mostri (1963), collana di brevi e brevissimi sketch degli orrori del costume italiano spesso di immediatezza graffiante, carattere in lui dominante insieme con un moralismo acre e negativo (attribuibile in parte ad Age e Scarpelli) che emerge specialmente con In nome del popolo italiano (1971), Mordi e fuggi (1972) e, in modi più sfocati e velleitari, con Caro papà (1979), con le loro intrusio­ ni nell’attualità politica e poliziesca. La sua proposta più sentita e personale è una galleria di nuovi «mostri» la cui molla è l’irregolarità sessuale, di una notevole forza d’urto in alcuni episodi di Noi donne siamo fatte così (1971), con la Vitti impegnata a mostrare certe «deformazioni» femminili, e in altri di Vedo nudo (1969) e Sesso matto (1973) sulle grotte­ sche manie del sesso di consumo. Nell’ambito di una svolta generale verso il dramma, verso toni più cupi e lividi, che in concomitanza con il peggiora­ mento della situazione italiana (delinquenza organizzata, ter­ rorismo, corruzione, scandali finanziari ecc.) si attua nella commedia di costume verso la fine del decennio 1970-79, anche l’ultimo cinema di Risi si tinge di colori macabri, oniri­ ci, ora grotteschi ora melodrammatici: Profumo di donna (1974), Anima persa La stanza del vescovo (1977), Pri­ mo amore (1978), i primi due con Gassman (derivati da ro­ manzi di Giovanni Arpino), gli altri con Tognazzi. Sino alla patetica follia di Scemo di guerra (1985), con Coluche e Bep­ pe Grillo, tratto da un libro di Mario Tobino. Rare sono in questo genere autentiche personalità di auto­ ri, da identificare piuttosto tra gli sceneggiatori che tra i regi­

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sti, anche per il peso di alcuni mostri sacri che si sono costrui­ ti un proprio tipo (o maschera) con suoi caratteri e peculiari modi di recitazione: oltre a Sordi, Gassman con il suo parti­ colare gusto della dismisura; Tognazzi più controllato nella sua vena arguta e patetica (il solo che si sia piegato al servizio di un regista-autore come Ferreri); Manfredi di un umorismo colorito e fin troppo manierista, dai tempi lunghi. In disparte si colloca Marcello Mastroianni, duttile, eclettico, il più di­ sponibile e plasmabile, il solo a non farsi chiudere nel quadro del genere e Punico ad avere veramente un mercato interna­ zionale. Non a caso, escluso Mastroianni, tutti hanno tentato la regia in proprio, con risultati mediocri (Sordi, Tognazzi), opinabili (Gassman), inizialmente felici in Manfredi che, do­ po un originale mediometraggio (L’avventura di un soldato, episodio di L’amore difficile, 1962), ha diretto Per grazia rice­ vuta ( 1970), di un bergmanismo alla ciociara filtrato attraver­ so i patemi della superstizione miracolistica, vivo specialmen­ te nella prima parte di rievocazione di un’infanzia contadina e cattolica. Con loro si sono imposti Monica Vitti, unica donna, e a un livello più basso Lando Buzzanca e Renzo Montagnani, i cui film toccano spesso il fondo della volgarità erotica nazionale. Negli anni Settanta, provenienti dal cabaret, dalla tv o dalla canzone, si sono imposti Paolo Villaggio (coi suoi iperbolici repressi Fantozzi e Fracchia), Renato Pozzetto, Enrico Mon­ tesano, Adriano Celentano e, sul registro del «brillante», Johnny Gorelli. Tra i registi Mario Monicelli (Roma 1915) possiede una buona mano di artigiano, non disgiunta da una serietà di impegno storico-politico, che, dentro o in margine al genere, gli ha permesso di dare film di un inventivo picarismo come I soliti ignoti (1958) e Amici miei (1975) con la sua vena amaro­ gnola e compiaciuta da «maledetti toscani», un paio di biz­ zarre fantasie medievali, non prive, specialmente la seconda, di una comicità dissonante sulla corda del grottesco: L’arma­ ta Brancaleone (1966) e Brancaleone alle Crociate (1969), cui in fondo rifà maldestramente il verso Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno (1984). Oltre a La grande guerra (1959) dove le ambizioni di affresco epico-popolare coabitano, non sempre felicemente, col bozzettismo, è di Monicelli I compagni (1963) 57

che, con sdolcinature deamicisiane e una puntigliosa rico­ struzione ambientale, è una commossa rievocazione del so­ cialismo torinese agli inizi del secolo. Messi da parte i casi più complessi di Pietrangeli, Lattuada e Comencini, ebbe una certa rilevanza sociologica un morali­ sta risentito come Pietro Germi. Sovraccaricando i suoi livori di effetti sinistri e di un umor nero e sfiduciato ottenne qual­ che frutto in Divorzio all’italiana (1961) e, passando dalla Sicilia al Veneto, in Signore e signori (1966), mentre le sue favole positive, farse paesane o polemiche per una gioventù sana e non contestatrice {Serafino, 1968; Le castagne sono buone, 1970), mostrano la scarsa profondità morale di questo moralista. Se l’itinerario di Germi è andato dal dramma alla comme­ dia e alla farsa, in direzione contraria si muove il cammino di Ettore Scola (Trevico 1931) che, dopo un’iniziale attività di sceneggiatore di film comici e commedie, esordisce nella regia nel 1964 con Se permettete parliamo di donne in nove episodi, si mette in luce con II commissario Pepe (1969), impregnato di acri umori satirici sui vizi pubblici e privati della provincia veneta, e il citato Dramma della gelosia (1970), si arrischia in un’operazione off con Trevico-Torino (1973), girato in 16 mm con attori sconosciuti, dove, tra sprezzature stilistiche da film politico militante corrette dal sagace mestiere narrativo di sceneggiatore scafato, racconta l’inserimento nella fiat di un giovane immigrato campano, alle prese anche con l’estremi­ smo di sinistra di una studentessa di estrazione borghese. Sul filo delle biografie incrociate di tre ex partigiani, in Ceravamo tanto amati (1974) Scola traccia l’amaro consunti­ vo di una generazione, che è in fondo un’apologià del populi­ smo comunista contro l’inconcludenza di certi intellettuali stanchi ma ricuperabili e contro i tradimenti centristi, un omaggio a De Sica e all’impegno neorealista. Le ambizioni non mancano in Una giornata particolare (1977), forse il suo film più esemplare e riuscito, analisi del fascismo quotidiano attraverso il breve incontro tra due personaggi di emarginati, una popolana carica di figli (Sophia Loren) e un intellettuale omosessuale (Marcello Mastroianni) né, dopo il relativo pas­ so falso di La terrazza (1980), in II mondo nuovo (La nuit de Varennes, 1982), ultima fatica di Sergio Amidei, girato in Francia con una compagnia internazionale di attori tra i 58

quali spicca Mastroianni nel sagace ritratto di un Casanova al tramonto. L’eclettica sagacia spettacolare di Scola, ormai assurto al rango di professionista europeo, ha dato i suoi frutti anche in Passione d’amore (19S2), tratto da un romanzo minore dell’ottocento italiano, Fosca di Iginio Ugo Tarchet­ ti, e con maggiore successo in Le bai (Ballando ballando. 1984), suggestivo adattamento di uno spettacolo del parigino Théàtre du campagnol. Se Maccheroni (1985) è risultato un incontro artificioso di due mondi e culture e soprattutto di due mostri sacri, Mastroianni e Jack Lemmon, La famiglia (1987) ha mostrato un’alta maestria descrittiva di un ambien­ te e delle figure che vi si succedono, una varietà e giustezza di toni, un professionismo nella scelta e nella direzione degli attori, che fanno quasi dimenticare la compiaciuta chiusura su se stessa di questa vita di una famiglia della media borghe­ sia romana dal 1906 al 1986. L’ormai anziano Luigi Comencini è stato, con Lattuada, Scola e pochi altri, tra i pochi professionisti del cinema ad aver saputo reggere alle mutate condizioni di produzione e alle trasformazioni della società italiana mantenendo intatta una qualità di regia, nonostante qualche cedimento, e una sensibilità autentica e personale. Con gli adattamenti televisi­ vi di Le avventure di Pinocchio (1972) da Collodi e Cuore (1984) da De Amicis ha proseguito quell’attenta esplorazione del mondo dell’infanzia cui aveva dedicato anche inchieste, sempre televisive, e film come Incompreso (1967), la prima parte di Infanzia, adolescenza, prime esperienze di Giacomo Casanova veneziano (1969) e infine Voltati, Eugenio (1980), ironica e accorata descrizione di una crisi della famiglia ac­ centuatasi con la generazione del ’68, e La Storia (1986), in cui è lo sguardo di Useppe a riscattare nella seconda parte la manierata riduzione del grande romanzo della Morante. Comencini è anche uno dei registi che hanno saputo valoriz­ zare meglio le attrici in ritratti femminili a tutto tondo: Clau­ dia Cardinale in La ragazza di Bube (1963) e, vent’anni dopo, in La Storia, Paola Pitagora in Senza sapere niente di lei (1969), Stefania Sandrelli in Delitto d'amore (1976), fragile incursione sentimentale nel melodramma politico, e in alcuni bozzetti di film a episodi. A una bambina «presa dalla stra­ da» era affidata la conclusione morale e politica di Lo scopo­ ne scientifico (1972), bella sceneggiatura di Sonego su una

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coppia di borgatari romani (Sordi e la Mangano) a confron­ to con due vecchi capitalisti americani (Bette Davis e Joseph Cotten) in una partita a carte che era una metafora esplicita dei rapporti tra America e colonie. Era già una commedia nera, nonostante un finale di rivolta e fiducia nei ragazzini, una fiducia che sembra scomparsa dall’affresco provocatorio e ai limiti del fantastico che è L’ingorgo (1979). E non è certo un caso se tra le poche cose interessanti della seconda metà degli anni Settanta il cinema italiano abbia visto un’e­ voluzione della commedia di costume, soprattutto con le sceneggiature di Age e Scarpelli, in direzione di una critica più radicale e di una sfiducia più grande nei confronti del paese e della sua gente, non solo della sua classe dirigente. Si è detto di certi film di Scola, Brusati, Risi, e occorre an­ cora ricordare Un borghese piccolo piccolo (1977) di Monicelli, da un romanzo di Vincenzo Cerami, che mostrava, spingendolo al grottesco, un Sordi in cui si sintetizzava il disagio e la latente violenza di una sottoclasse di fronte alla violenza del contesto. Più che il cinema direttamente politi­ co, sono questi i film che hanno saputo esprimere, benché senza distanza sociologica, il clima turbato e feroce degli «anni di piombo». Lattuada, dal canto suo, ha proseguito un discorso ai mar­ gini della commedia, cui aveva pur dato uno dei primi titoli significativi con La spiaggia, già nel 1955. Tra i suoi adatta­ menti letterari occorre citare, da Machiavelli e debitamente in costume, La mandragola (1965), da Bulgakov, Cuore di cane (1975) e più in basso, da Piero Chiara, Venga a prendere il caffè da noi (1970), che resta però uno dei film più sapidi e sarcastici sulla piccola borghesia italiana. Ma il discorso che lo ha vieppiù interessato è quello dell’erotismo, cui ha saputo dare da ultimo, dopo film come I dolci inganni (1960), spre­ giudicata (per allora) descrizione dei turbamenti di un’adole­ scente alla scoperta del sesso, Le farò da padre (1974), sul rapporto tra un adulto facoltoso e una Lolita ritardata men­ tale che sarà l’amore a ridestare, e Così come sei (1978) il cui tema è decisamente l’incesto (tra un adulto e una ragazza che ignorano il passato l’uno dell’altra). Il suo film più curioso tra i recenti è La cicala (1980), ritratto ai confini del naturali­ smo di una ragazza attorniata da passioni, interessi, morbosi­ tà, e rivisitazione di un genere, il melodramma alla Mataraz-

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zo, affrontato con sapienza e distanza in un film non privo di veleni sull’Italia contemporanea. Ai piani bassi del genere si situano invece le regressive e stupide farse familiari su temi incestuosi, dapprima velati (Malizia, 1973; Peccato veniale, 1974, di Salvatore Samperi; Per amare Ofelia, 1974, di Flavio Mogherini), poi scatenati in una volgarità da repressi della peggior specie regressiva; e la prolifica attività — una quarantina di film in trent’anni — di Pasquale Festa Campanile (1927-1986), romanziere di qual­ che merito e regista seriale di commediole e commediacce erotico-comiche, con qualche esito apprezzabile per gagliar­ da e ribalda buffoneria (Le voci bianche, 1964; Il merlo ma­ schio, 1971; Gegè Bellavista, 1979). Ai margini del genere Luigi Magni (n. 1928) ha congegnato film in costume di ambiente romanesco, percorsi da una sco­ perta vena di satira anticlericale, di robusta e becera efficacia: Nel!anno del Signore (1969), Scipione detto anche FAfricano (1970), La Tosca (1973), In nome del papa re (1977), Arrivano i bersaglieri (1981). Ancor più eterodosso è il caso di Ugo Gregoretti (n. 1930) che al cinema esordisce con Innovi angeli (1962), stimolante film-inchiesta sulla gioventù italiana del «boom» economico che non ebbe seguito forse perché, alme­ no in quegli anni, il pubblico della commedia era formato soprattutto da adulti interessati ai loro casi più che ai contra­ sti tra generazioni. Prima di ritornare a lavorare per la tv, mezzo che sembra essergli più congeniale, Gregoretti ha di­ retto Omicron (1963), curioso apologo fantascientifico in cui, portando un extraterrestre alla fiat, descrive con notevole lucidità l’ingranaggio della società industriale, e Le belle fa­ miglie (1965), graffiarne commedia a episodi, oltre ad alcuni film politici militanti.

Il western all*italiana Il cambiamento della società italiana ha provocato anche un cambiamento nei generi cinematografici di maggiore ri­ chiamo popolare. Secondo la legge di un’offerta-richiesta da parte di un pubblico ormai prevalentemente urbano, s’è avu­ to il successo soprattutto del western all’italiana, chiamato all’estero con intenzione spregiativa «spaghetti (macaroni)

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western» e da qualche critico indicato ironicamente come «western ciociaro-andaluso», in riferimento al frequente ap­ porto di tecnici, attori, capitali e paesaggi iberici. La fortuna del filone si fa cominciare con Per un pugno di dollari (1964) di Leone, che pure era stato preceduto fin dal 1962 da alcuni western tedeschi ispirati ai romanzi di Karl May e nello stesso 1964 da una dozzina di film di coproduzione italo-francospagnola. Da allora sino al 1978, subendo varie trasforma­ zioni, sono stati prodotti in Italia (spesso in cooperazione con Francia, Spagna e Germania) più di quattrocento film con punte di quaranta-cinquanta titoli all’anno (sessantasei nel 1967), anche se all’inizio del decennio 1970-79 il genere entra in fase calante. In subordine al western si sviluppano in questo periodo altri generi di imitazione: il film erotico-pornografico che negli anni Settanta acquista man mano connotati sempre più hard', il poliziesco di ambiente urbano («poliziottesco»), quasi sempre di ideologia reazionaria; lo spionistico degli agenti speciali variamente targati, il più effimero di tutti; il giallo macabro e il film del terrore che, dopo il successo internazio­ nale di Rosemary's baby e L'esorcista, si modifica in film di magia nera e parapsicologia o in horror sanguinolento. Se fino agli anni Cinquanta i generi popolari si radicavano, sia pure in forme distorte e paternalistiche, nei miti e nelle com­ ponenti della cultura contadina e proletaria, nella nuova so­ cietà dei consumi e dello spettacolo il prodotto si fa più artificiale e cinico, canale di sfogo delle paure, delle frustra­ zioni, della violenza repressa di un pubblico prevalentemente urbano. Anche nel western all’italiana l’aspetto più vistoso è, so­ prattutto nella sua fase di maggiore successo, il ricorso osten­ tato alla violenza con una dimensione sadomasochistica così iperbolicamente sforzata da sfociare nella parodia, nella cari­ catura, temperata nei casi migliori dall’ironia ma più spesso perpetrata con cinico calcolo mercantile. Non ne è esente nemmeno Sergio Leone che in questo campo s’è rivelato come il più geniale artefice italiano di cinema popolare. Fi­ glio di Roberto Roberti, noto regista del muto (al quale s’è riferito nello pseudonimo — Bob Robertson — usato per il suo primo western) e proveniente dal peplum (Il colosso di Rodi, 1961), Leone (Roma 1929) s’è imposto con una trilogia

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di alto ed esibito manierismo — Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965), Il buono, il brutto, il cattivo (1966) — che, tra l’altro, ha dato il successo, come attori, a Clint Eastwood, Lee Van Cleef e persino a Gian Maria Volontà. Con Cera una volta il West (1968), che già si discosta dalle formule del genere, tenta una sintesi immagi­ nosa e mitica dell’universo della frontiera, mentre in Giù la testa (1971) affronta il tema del traditore e dell’eroe e quello della rivoluzione, pur senza prendersi troppo sul serio e senza sacrificare mai il piacere della favola all’impegno ideologico. Una vocazione di narratore di razza non ha impedito a Leone di depurare con ammirevole progressione il suo stile, la cui sostanza e il relativo fascino derivano da una rilettura personale, manierista e barocca, dei temi dell’Ovest, trasferiti in una terra di nessuno dove maschere, più che personaggi, si combattono con una solennità ripetitiva da rito mortuario. Il sadomasochismo della «trilogia del dollaro» mima ossessioni stilizzate, manierate, retoriche, sradicate da ogni contesto storico. Cera una volta il West, invece, percorre strade note come, almeno in parte, fa Giù la testa. Nonostante il ricorso a luoghi topici americani, peraltro mescolati a stereotipi mediterranei con sagace senso del pastiche, il manierismo stilistico di Leone — la lentezza liturgica, il ritmo dilatato, l’indugio sulle atmosfere, l’esibizione della tecnica, della scrittura (del montaggio, in particolare) — purga la narrazione delle sue componenti più esteriori e arriva a creare un universo che somiglia al western, ma non è il western, un universo, non sorretto da una visione morale, che è l’espressione esaltata di un amore per il cinema, dentro il cinema, di malata, ossessi­ va, estetizzante chiusura. Dopo un lungo silenzio, interrotto da una saltuaria attività di produttore, Leone è tornato alla ribalta con Cera una volta in America (1984), ambiziosa ed eccentrica saga gangsteristica, sontuoso riepilogo di miti e archetipi del cinema nero hollywoodiano, di labirintica archi­ tettura narrativa, che è anche un viaggio nostalgico della memoria e nella memoria del cinema. Nonostante il predominio della truculenza, spinta a eccessi di efferato Grand-Guignol e talvolta penosamente motivata dalla volontà di rappresentare la vera storia della conquista del West, ossia un’epoca spietata, il panorama del western italiano è vario. Spesso coperti da pseudonimi anglosassoni,

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vi hanno fatto incursioni più o meno decenti registi noti come Brass, Damiani, Lizzani, Vancini, cineasti irregolari come Giulio Questi, abituali artefici dei generi popolari come Ba­ va, Freda, Margheriti, Paolella. È stato usato, soprattutto intorno al 1968, come veicolo e pretesto di discorsi politici e messaggi rivoluzionari, terzomondisti, antimperialistici: Quien sabe? (1966) di Damiani, Tepepa (1969) di Giulio Petroni, Requiescant (1967) di Lizzani e altri. È servito da banco di prova almeno per un trio di registi di qualche merito: Tessari, Sòllima, Giraldi. Accorto sceneggiatore di film mitologici, collaboratore di Leone, autore di un’intelligente incursione nel romanzo d’appendice (Il fornaretto di Venezia, 1963), Duccio Tessari ha portato al successo Giuliano Gemma (con lo pseudonimo di Montgomery Wood) con Una pistola per Ringo (1965) e II ritorno di Ringo (1965), il secondo dei quali è una sagace parafrasi di temi omerici. Specialmente in Faccia a faccia (1967) e Corri, uomo, corri (1968) Sergio Sòllima ha giocato le carte di un divertito e colorito picarismo, non privo di risvolti ideologici, al servizio di un istrionico Tomas Milian, mentre Franco Giraldi, fine intellettuale di solida cultura mitteleu­ ropea, ha fatto nel genere il suo apprendistato con film ariosi e leggeri, di ispirazione fordiana nel tono, come Sette pistole per i McGregor (1966) e Sugar Colt (1967), che anticipano l’evoluzione conclusiva del genere in chiave ridanciana più che eroicomica e in cadenze di farsa bonaria, rappresentata dalla serie di Trinità di E.B. Clucher (l’ex operatore Enzo Barboni), interpretata dalla coppia Terence Hill (Mario Gi­ rotti) e Bud Spencer (Carlo Pedersoli) che nel decennio 197079 figurano spesso in testa alla classifica dei campioni d’in­ casso. Nel ciclo, aperto da Lo chiamavano Trinità (1970), l’eccesso di violenza dello «spaghetti-western» è svelenito in un’alternativa incruenta per famiglie. Horror e altri generi

Sul fronte della sessualità hanno operato, con balordo e sciamannato cinismo, Ugo Liberatore, Luigi Scattini, Paolo Cavara, Piero Schivazappa, Alberto Cavallone e altri, fin­ gendo anche di trovare pretesti nobilitanti a un consumo

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erotomane nient’afiatto liberatorio. E con i documentari di Gualtiero Jacopetti (Mondo cane, 1962; Africa addio, 1966), cui hanno collaborato anche Franco Prosperi e Paolo Cavara, intrisi di triviale sadismo e di macabri compiacimenti, politicamente e umanamente ributtanti, in parte manipolati, ha preso corpo un cinegiomalismo falso e scandalistico che sollecita bassi istinti con la giustificazione dell’obiettività e del rispecchiamento di un mondo assurdo e violento, met­ tendo a nudo i connotati fascisti e razzisti in questo fare spettacolo con una pornografica miscela di sesso e violenza; allo stesso livello, nonostante l’alibi «filosofico» e l’ispirazio­ ne al capolavoro involontario di Voltaire, si colloca Mondo candido (1975) con cui Jacopetti s’è cimentato per la prima volta nel cinema di finzione. Inaugurato da Mario Bava (La maschera del demonio, 1960) e, con lo pseudonimo di Robert Hampton, da Riccardo Freda (L'orribile segreto del dottor Hichcock, 1962; Lo spettro, 1963), l’horror italiano vanta al­ meno una decina di prodotti di qualche interesse spettacolare per decoro figurativo, invenzioni audiovisive, ricorso a fonti letterarie anche illustri e persino per l’uso accorto di un’iro­ nia straniarne. Nel territorio attiguo del giallo-macabro s’è fatto un nome Dario Argento (n. 1940) che, paragonato con risibile approssimazione a Hitchcock, arriva al successo sin dal primo film, L'uccello dalle piume di cristallo (1970), già contrassegnato da un esibito virtuosismo formalistico e dall’insistito ricorso a una violenza efferata e compiaciuta. Il suo itinerario va dal thriller a un cinema dell’orrore puro dove, con Suspiria (1979) e Inferno (1980), coglie gli esiti più ap­ prezzabili per un certo gusto manieristico dell’eccesso visio­ nario. Con Le cinque giornate (1973) Argento ha fatto anche un film storico-politico in chiave grottesca, di ideologia qua­ lunquistica nonostante le pretese populiste. Tra i generi di imitazione, fioriti tra gli anni Sessanta e Settanta, quello degli agenti speciali sulla scia del successo di James Bond dura poco e non lascia tracce, quello di fanta­ scienza — in cui si fa notare il factotum Antonio Margheriti, alias Anthony M. Dawson — è sporadico e irrilevante anche per la mancanza di mezzi. Ha durata più lunga il filone giallo-poliziesco con le varianti del «colpo grosso» e del film gangsteristico. Nella prima si mette in luce, per la sua grade­ vole efficacia, I sette uomini d'oro (1965) di Marco Vicario 65

che, però, non ha seguito; nella seconda si fa valere Carlo Lizzani con prodotti di veloce ispirazione cronachistica come Svegliati e uccidi (1967), Banditi a Milano (1968), Torino nera (1972). Con La polizia ringrazia (1972) di Steno (Stefano Vanzina), ancora a suo modo critico verso le degenerazioni delle istituzioni nel nostro paese, si inaugura il filone poliziottesco che negli anni successivi annovera un centinaio di pro­ dotti in serie che rastrellano pubblico specialmente «in pro­ fondità», nelle sale di periferia e della provincia. Il modello da imitare diventa non tanto Serpico (1974) quanto i film polizieschi reazionari dell’ispettore Callaghan e II giustiziere della notte (1974) con Charles Bronson. Merita maggiore considerazione il filone del giallo politico che ha il suo portabandiera in Damiano Damiani (Pasiano, Udine, 1922) che, dopo un apprezzabile esordio in chiave ancora neorealistica (Il rossetto, 1960; Il sicario, 1961) e alcu­ ni corretti e sciapi adattamenti letterari dalla Morante e da Moravia, trova in Sciascia (Il giorno della civetta, 1968) un buon libretto di partenza e apre una serie sulla Sicilia e il potere mafioso: Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica (1970), L’istruttoria è chiusa: di­ mentichi (1971), Perché si uccide un magistrato (V)75), Pizza connection (1985), tutti però inferiori al suo sceneggiato tele­ visivo La piovra (1983), corposo e veloce racconto popolare radicato in una realtà e in un problema. Gli si può accostare — per la foga con cui cerca di conci­ liare la lezione del cinema americano d’azione, la tradizione culturale della sceneggiata napoletana e l’impegno civile — Pasquale Squitieri (n. 1938) che, dopo due passaggi nel we­ stern, dirige Camorra (1972) e I guappi (1974), cogliendo i risultati più maturi con II prefetto di ferro (1977) che ha la particolarità di essere uno dei pochi film italiani ad alto costo di questo periodo con un eroe positivo, Cesare Mori, funzio­ nario dello stato che nel 1925 Mussolini inviò in Sicilia con poteri speciali al fine di estirpare la criminalità mafiosa. Do­ po un mediocre e ambiguo Claretto (1984), ovvero il Duce ridotto al solo «privato», continuerà nel «filmafia» con il magniloquente II pentito (1985).

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Carmelo Bene

Una sua breve e intensa stagione ha avuto anche in Italia negli anni Sessanta un cinema d’avanguardia, o che tale vole­ va essere, insofferente di spettacolo e di tradizione, teso al­ l’infrazione di codici per farsi scoperta autonoma di un lin­ guaggio diverso, anche a rischio dell’incomunicabilità e del solipsismo, ma dove, al contrario che nelle avanguardie sto­ riche, sono rari i sintomi di una rottura polemica con il mon­ do borghese. In questo movimento che non ha avuto molti contatti con l’avanguardia letteraria e poetica di quegli anni (il Gruppo 63) hanno operato influssi del cinema under­ ground newyorkese, del teatro di derivazione artaudiana e di certa pittura contemporanea. Del primo filone s’è detto al­ trove; nel secondo fanno spicco i film di Carmelo Bene; nel terzo rientrano i tentativi di alcuni pittori e artisti visuali (Ugo Nespolo, Gianfranco Barucchello, Mario Schifano, Al­ fredo Leonardi) che hanno sentito il bisogno di allargare al cinema il proprio campo espressivo e sperimentale. Trascurati diversi puerili tentativi di confutare i codici co­ municativi del cinema all’interno del cinema, propugnando una distruzione «rivoluzionaria» delle sue forme di cui è esemplare Come ti chiami amore mio? (1970) di Umberto Silva, film «non consumabile» e in realtà non usabile in alcun senso — variamente interessante è il cinema dei pittori sul quale è determinante l’influenza di Godard e che spesso è troppo «specifico» nella sua ricerca per poterne parlare qui. È da ricordare almeno, come il suo risultato più notevole, la trilogia di Mario Schifano: Satellite (1968), Umano, non uma­ no (1968) e Trapianto, consunzione e morte di Franco Bròcani (1969); il quale Bròcani è autore di Necropolis (1971), goffo esperimento in bilico tra Warhol e Bene, ispirato al surreali­ smo di Bataille. La ricerca di Schifano ha un significato pre­ valentemente autobiografico come sfogo di un disagio esi­ stenziale, della difficoltà di essere artista in questa società, di un’ansia liberatoria. C’è in questi film, specialmente nel se­ condo, anche una struttura logica, e non soltanto una mag­ matica espressione del proprio «io»: la proposta quasi osses­ siva di poche immagini-situazioni-personaggi tende a indica­ re precisi rapporti con la realtà, a invitare chi guarda a distin­ guere tra realtà e non realtà, tra umano e non umano, tra 67

positivo e negativo. Non a caso Schifano s’è fatto poi tentare brevemente dal cinema di militanza politica. Carmelo Bene (Lecce 1937) è soprattutto teatrante, e al teatro, come attore-autore-regista, ha dato, soprattutto nel decennio 1960-69, una serie di spettacoli straordinari per di­ struzione dei vecchi canoni e per tensione panica, mettendo a partito con originalità la lezione di Artaud. Al cinema — con Nostra Signora dei Turchi (1968), Capricci (1969), Don Gio­ vanni (1970), Salomè (1972), Un Amleto in meno (1973) — ha rivisitato, come già aveva fatto sul palcoscenico, personaggi mitici rimessi in discussione come occasioni al proprio narci­ sismo interrogativo. Che si tratti di un cinema ripetitivo — in fondo, dello stesso film — non è un valido argomento di riserva critica. Importa che siano film personali, rivelatori, affascinanti. In una sorta di delirio istrionicamente esibizio­ nistico Bene si mette in scena con furia barocca, e mette in scena la sua cultura dapprima caotica, una formazione catto­ lica, piccolo-borghese, dannunziana, verdiana ma, a differen­ za di altri, la mette in caricatura e si caricatura con aggressiva ironia, trovando — qui, forse, è la sua peculiarità — il punto di fusione di questi eterogenei elementi in un atteggiamento di ricerca di un assoluto che sa irraggiungibile. Come il suo Don Giovanni è attratto dalla brutta bambina, così Bene è attratto dalla vita e dalla sua purezza, che pure sa stupida e inutile. Fallita anche la violenza nel tentativo convulso di contatto e di possesso, la morale è sdegnosamente precisa: la distruzione dello specchio e il rifiuto del contatto; al quale, però, arriva sapendo che si dovrà pur ricominciare daccapo, con angoscia. Se il suo film più autobiografico è Nostra Si­ gnora dei Turchi, a tratti di eccezionale comicità, e se il più rivelatore è Don Giovanni, il più compiuto, quello che rag­ giunge formalmente una dimensione quasi classica nel suo apparente disordine è Salomè. Nuovi nomi e scarse promesse

Dopo Bellocchio e Bertolucci nessun altro regista della stessa generazione ha saputo imporsi con eguale forza e ca­ pacità anche se non sono mancati alcuni esordi promettenti di giovani registi interessanti che, però, o si sono presto arresi 68

ai compromessi del mestiere o sono stati ridotti al silenzio dalle leggi del mercato e della sua generale recessione (soprat­ tutto dopo il precipitoso calo delle frequenze, cominciato con irreversibile progressione nel 1976-77 in coincidenza con l’avvento selvaggio delle televisioni private) o sono passati a una collaborazione, più o meno continua, con l’azienda tele­ visiva di stato. Al primo gruppo degli arresi s’iscrive Salvatore Samperi (n. 1943) che, più che con Grazie zia (1968), miscuglio di Losey, Bellocchio, Bertolucci e di un morboso autobiografi­ smo provinciale in senso autodistruttivo, destò qualche inte­ resse con Cuore di mamma (1970), favola filosofica, confusa e aggressivamente ribalda. Non trovò sbocchi nemmeno l’ag­ gressività estrosa e sapientemente orchestrata di Escalation (1968), in cui Roberto Faenza (Torino 1943) fonde commedia nera e metafora antiborghese, e di FhS (1969), contorta pa­ rabola di umori anticonformisti con una sotterranea adesio­ ne alle idee e alle parole d’ordine del Movimento studentesco (anche perciò tartassato dalla censura). Lasciato il cinema, Faenza si dedicò per molti anni a un lavoro, anche teorico, col videotape e a esperienze militanti nel campo della con­ troinformazione. Al cinema è tornato con Forza Italia! (1977), film di mon­ taggio, graffiarne pamphlet sul trentennale «regime» della Democrazia cristiana, e, dopo un goffo tentativo di comme­ dia di costume (Si salvi chi vuole, 1979), con Copkiller (1982), film nero di qualche suggestione. Nel panorama dei film ispi­ rati al ribellismo del ’68 si situano II gatto selvaggio (1969) di Andrea Frezza, attacco, non privo di sincerità e di lucidità critica nel suo nichilismo, al sistema e alle sue maschere; La sua giornata di gloria (1970) di Edoardo Bruno, verboso e velleitario nel suo godardismo, e un film per ragazzi di Lino Del Fra, La torta in cielo (1972), tratto con greve didascali­ smo da una favola di Gianni Rodari. Già coautore, con la moglie Cecilia Mangini e Lino Miccichè, dell’ammirevole film di montaggio Allarmi siam fascisti (1962), Del Fra ha collaborato alla sceneggiatura di La villeggiatura (1973) di Marco Leto che, pur in povertà di mezzi e con un linguaggio un po’ piattamente televisivo, cala in personaggi plausibili e in una articolata struttura narrativa una perspicua riflessione sulle origini e la natura del fascismo come forma di dominio 69

borghese: è uno dei migliori film «politici» del periodo. È suo anche l’inerte e illustrativo Antonio Gramsci - I giorni del carcere (1977). Con un film d’autore, impregnato di umori anarchici e di una veneta bizzarria, che in certe sprezzature di ripresa e nel montaggio sincopato teneva conto della lezione di Godard, Chi lavora è perduto (1962), aveva esordito Tinto Brass (Mi­ lano 1933) che, con innegabile coerenza di temi, personaggi e di linguaggio, ha condotto un discorso polemico e «dissacra­ tore», in film esibizionistici, all’insegna di un aggiornato gu­ sto pop e di altre mode culturali, come Col cuore in gola (1967), Nerosubianco (1969), La vacanza (1968-74), L’urlo (1969), per convogliare, infine, la sua inclinazione al kitsch, il gusto goliardico della provocazione scandalistica, le osses­ sioni da erotista sregolato in Salon Kitty (1976), Caligola (1977-79), La chiave (1983), Miranda (1985), Capriccio (1987). Dopo un tirocinio di documentarista con esiti ammirevoli {Con il cuore fermo, Sicilia, 1965), Gianfranco Mingozzi (Bo­ logna 1932) non ha saputo definire nel cinema narrativo la propria ispirazione che l’ha portato ad alternare scavi esi­ stenziali sulla condizione giovanile, ricchi di sfumature e di positive ambiguità {Trio, 1967; La vita in gioco, 1973) a inda­ gini di impegno civile {Sequestro di persona, 1968), a passare da un anomalo film storico {Flavia, la monaca musulmana, 1974) in cui l’esibizione spettacolare di violenze efferate s’ac­ compagna a un discorso quasi didattico sui problemi della donna, a La vela incantata (1982), delicato, elegante e flebile racconto di vita provinciale, a una solare trasposizione da Apollinaire {L’iniziazione, 1987). A infoltire la gremita pattuglia dei registi di origine emilia­ na c’è anche lo scrittore di successo Alberto Bevilacqua (n. 1934) che, senza rivelare nessuna particolare vocazione cine­ matografica, ha trasferito sullo schermo due suoi romanzi, La califfo (1971) e Questa specie d’amore (1972), ma ha fatto ancor peggio con i successivi Attenti al buffone (WIS), Le rose di Danzica (1979) ecc. Cineasta anomalo, se non altro per pratiche produttive, è pure Pupi Avati (n. 1938) in cui convivono due anime, quella di un bolognese bizzarro con il gusto dell’eccesso e della provocazione, a mezza strada tra il naif e il goliardico, e quella di un emiliano nostalgico che ha il culto del passato e 70

della sua terra, con una vena crepuscolare non esente da sdolcinate concessioni ai buoni sentimenti. Nel primo regi­ stro contano specialmente La casa dalle finestre che ridono (1976) e Tutti defunti... tranne i morti (1977); nel secondo Le strette nel fosso (1978) e una serie di sceneggiati televisivi tra cui hanno avuto successo specialmente Jazz band (1978) e Aiutami a sognare (1980), elegiaco musical padano. I suoi ultimi film lo hanno imposto e ne hanno fatto un piccolo «caso». Tutti giocati sull’evocazione di figure e atmosfere, il nostalgico Una gita scolastica (1983), l’acuta esercitazione letteraria su Mozart giovane di Noi tre (1984), il contempora­ neo Impiegati (1985) e Festa di laurea (1985), commedia ama­ ra sull’Italia del dopoguerra, mostrano un talento esile ma vero e una certa finezza di analisi introspettiva, che non sa e non vuole, però, scavare troppo a fondo nel suo universo piccolo-borghese. Tuttavia, gli ultimi due, disseminati di elementi «cattivi», sembrano mostrare il lato in ombra della sua ispirazione, tendenza accentuata nel più squilibrato Rega­ lo di Natale (1986), crudele rimpatriata in forma di partita a poker. C’è poi un gruppo eterogeneo di registi che, per varie ra­ gioni, si possono definire irregolari: Silvano Agosti, Gian­ franco De Bosio, Sergio Cittì, Gianni Da Campo, Augusto Tretti. Da II giardino dette delizie (1967) a Nel più alto dei cieli (1977), il lombardo Silvano Agosti (n. 1938) non è riuscito nel cinema di fiction ad adeguare gli strumenti espressivi ai temi ambiziosi: la crisi di un’educazione cattolica è trattata con un simbolismo soverchiante che gli prende la mano an­ che nei furori satirici, gli apocalittici destini dell’uomo sono rappresentati con virulenza metafisica più che con forza di analisi politica, mentre la sua vivace personalità si è manife­ stata con maggiore controllo in alcuni film-inchiesta, realiz­ zati da solo (Panagulis, 1979; D’amore si vive, 1983, in video) o collettivamente con Bellocchio, Petraglia, Rulli (Nessuno o tutti - Matti da slegare, 1975-76; La macchina cinema, 1979). Unico regista italiano di nascita proletaria, amico e assi­ duo collaboratore di Pasolini, Sergio Citti (n. 1933) ha esor­ dito con Ostia (1970), fiaba torva, truce e candida sull’amore fra due fratelli, insidiato dal diavolo, una fiaba situata in quel microcosmo di borgata e di «ragazzi di vita» che aveva già ispirato Pasolino. I film successivi, da Storie scellerate (1977) 71

a II minestrone (1981), al televisivo Sogni e bisogni (1984), hanno confermato la forza poetica «ingenua» di questo anar­ chico epicureo che possiede una saggezza antica e che guarda il mondo «dal basso», come se per istinto sapesse già tutto. A Cittì si può accostare un altro cineasta naif del nord, il veneto bislacco Augusto Tretti (n. 1924) che ha sempre lavorato, però, al di fuori del sistema, autofmanziandosi i film, realiz­ zati artigianalmente in casa all’insegna di una satira grottesca contro ogni forma di potere: La legge della tromba (1960-63), Il potere (1971) e Alcool (1979) dimostrano che Tretti è la testa più matta tra gli irregolari del cinema italiano. Tra costoro bisogna segnalare almeno il caso di un altro veneto, Gianni Da Campo che, aiutato in edizione da Zurlini, fece un esordio felice con Pagine chiuse (1968-70), un piccolo, delica­ to e sensibile film di sottile introspezione psicologica, storia di una solitudine infantile in un contesto contadino e cattoli­ co. Dopo, è riuscito a fare soltanto due e meno risolti film, La ragazza di passaggio (1971) e II sapore del grano (1986). Presto è uscito di scena anche un altro veneto Gianfranco De Bosio (n. 1924), regista teatrale di chiara fama. Oltre a un mediocre La betia (1971), da Ruzante, egli ha al suo attivo II terrorista (1963), intenso e originale film sulla resistenza, ambientato a Venezia, il solo che abbia analizzato la politica dei partiti del cln (Comitato di liberazione nazionale) e i modi con cui si manifestò: azione estremista, azione popolare, azione insur­ rezionale, attendismo, proponendo una riflessione dramma­ ticamente dialettica sul problema della violenza in cui si guarda a Brecht e, insieme, a Camus. La funzione degli enti di stato Negli anni Settanta la produzione cinematografica della azienda radiotelevisiva di stato, ha avuto un’impor­ tante funzione a livello culturale e ha svolto un ruolo non trascurabile a livello economico, contribuendo in parte a sal­ vaguardare i livelli di occupazione e a migliorare lo standard della produzione nazionale. I casi di Padre padrone e di L’al­ bero degli zoccoli sono di notorietà internazionale. Anche Fellini ha fatto I clowns (1972) e Prova dorchestra (1978) su commissione della rai, che ha permesso ad Antonioni di rai-tv,

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uscire dall’inattività forzata con Chung-Kuo: Cina (1972) e II mistero di Oberwald (1980). Hanno fatto film per la rai Berto­ lucci {Strategia del ragno, 1970), Bellocchio {Il gabbiano, 1977, da Cechov), la Cavani {Milarepa, 1974), Ferreri {Yer­ ma, 1977, da Garcia Lorca), Petri {Le mani sporche, 1978, da Sartre) e Franco Giraldi che ormai vi lavora abitualmente, realizzando, tra l’altro, due film ammirevoli per misura nar­ rativa, eleganza figurativa e intelligente fedeltà al testo lette­ rario di partenza: La rosa rossa (1973), da Quarantotti Gambini, e La giacca verde (1979), da Soldati. Nel 1977 l’Italnoleggio cinematografico, società statale che nasce come conseguenza della legge sul cinema n. 1213 del 1965 (ancora vigente nel 1985), pubblicò un catalogo dei centoventuno film distribuiti sul mercato italiano dal 1967 al 1976: trentanove sono stranieri e ottantadue italiani, quasi tutti finanziati per intero dallo stesso Italnoleggio anche se prodotti da piccole società. Accanto a nomi noti (Bellocchio, Brass, Brasati, Fellini, Ferreri, Lattuada, Lizzani, Maselli, Monicelli, Olmi, Risi, Rossellini, Taviani, Visconti, Zurlini) vi figurano diversi giovani registi all’esordio, tra i quali meri­ tano una menzione almeno Mario Brenta, Peter Del Monte, Luigi Faccini, Ennio Lorenzini, Maurizio Ponzi e Gianni Toti. Ritratto di un emarginato deviarne ex contadino che cerca di sopravvivere alla periferia di Milano, Vermisat (1974) del veneziano Mario Brenta è un film triste e crudele che, al di là delle sue virtù narrative e della sua sapienza figurativa, è una suggestiva testimonianza sociologica sul passaggio da una civiltà agraria a una civiltà industriale, un’incursione tra i residui di quell’arcaico mondo contadino che ancora esiste anche nell’Italia del nord e in cui era già penetrata la sonda di Gianfranco Bettetini con il film per la tv Stregone di città (1973). Un’altra promettente opera prima è Garofano rosso (1975) con cui il ligure Luigi Faccini (Lerici 1939) ha traspo­ sto un romanzo giovanile di Elio Vittorini in un film elegante e armonioso, anche se di un lirismo un po’ atteggiato, sullo sfondo di una Sicilia descritta come un luogo di bellezza, un paese dell’anima. Faccini ha proseguito il suo lavoro registico in televisione con Nella città perduta di Sarzana (1980), in cui ha ricostruito con impegno storicistico un sanguinoso episo­ dio di guerra civile del 1921 (la sconfitta militare dell’ala

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militare del fascismo toscano), quasi sempre dimenticato dai libri di storia, e il bel documentario Sassalbo, provincia di Sidney (1982), ma è poi tornato al cinema con il discusso e originale Inganni (1985), sulla figura del poeta Dino Campa­ na di cui ricerca più la verità poetica che non quella biografi­ ca. Accoglienze critiche fin troppo lusinghiere e molti premi ebbe il film d’esordio di Ennio Lorenzini che aveva fatto un lungo e serio apprendistato nel campo del documentario: Quanto è bello lu nutrire accisa (1975) rievoca — con un’a­ sciuttezza che talvolta trasmoda in impaccio e rigidità didat­ tica — Carlo Pisacane e la sua sfortunata spedizione del 1857 nel Salento. Con Bronte (1972) di Vancini il suo è uno dei rari film sul risorgimento, visto dalla parte delle cuciture. È rima­ sto al palo del primo film anche Gianni Toti, poi dedicatosi alla video-poesia. Il suo ... e di Shaul e dei sicari sulle vie di Damasco (1973), al di là di uno sperimentalismo linguistico variamente giudicato, ha il merito di mettere in rapporto i temi del messianismo cristiano con una moderna coscienza rivoluzionaria, nei termini di un discorso razionale e materialista. Su un registro di intimismo sussurrato e di fievole eleganza nelle sue cadenze pudicamente dolorose si situa Irene, Irene (1975), ritratto di un anziano magistrato in crisi sentimentale e professionale, dopo il quale Peter Del Monte (San Franci­ sco 1943) ha continuato con L’altra donna (1980), Piso pisello (1981) e Invitation au voyage {Invito al viaggio, 1982), realizza­ to in Francia, film gotico di stregata bizzarria di cui. sono apprezzabili, come in tutto il cinema di Del Monte, l’algida tenuta stilistica e la finezza psicologica. In Piso pisello c’era un bambino che diventava padre, in Piccoli fuochi (1985) c’è un bambino che scopre la sessualità e uccide per amore. E un altro e più risentito viaggio nell’universo interiore infantile, in cui l’autore riesce a fondere realtà quotidiana e personaggi fantastici. Un regista che può essere accostato, almeno per ragioni stilistiche, a Del Monte è il suo coetaneo Gianni Amelio (n. 1945) che, dopo l’esordio nel lungometraggio con La città del sole (1973), film per la tv su Tommaso Campanel­ la, ha continuato a lavorare per la rai-tv con gli squisiti La morte al lavoro (1978) e II piccolo Archimede (1979) finché ha diretto Colpire al cuore (1982) in cui, attraverso un tormenta­ to rapporto tra padre e figlio, si cimenta col tema del terrori­

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smo. È uno dei pochi film italiani — e il migliore in assoluto — su quest’argomento che, pur non essendo il suo tema centrale ma nemmeno un pretesto narrativo o una tela di fondo, risulta come un veleno che impregna il suo tessuto connettivo, i rapporti tra i personaggi. A dimostrare quanto sia frastagliato l’arcipelago semi­ sommerso del nuovo cinema italiano negli anni Settanta stanno anche i nomi di Gianni Amico (n. 1933), Carlo Di Carlo (n. 1938) e Giuseppe Bertolucci (n. 1943). Venuto col primo Bertolucci dagli amori per la nouvelle vague, il ligure Amico aveva esordito nel 1968 con Tropici, film per la tv girato in Brasile al seguito delle migrazioni dal Mordeste ver­ so la città, in cui la lezione rosselliniana, pur intrisa di altri umori, è applicata con limpido pudore e apprezzabile sforzo di comprensione. Sempre per la tv Amico ha realizzato —ol­ tre a due film a soggetto e Lo specchio rovesciato (1980), inchiesta su un’esperienza di autogestione operaia dei lavora­ tori portuali genovesi — gli sceneggiati Le cinque stagioni (1975), ambientato in un ospizio di anziani, e Le affinità elettive (1977) da Goethe, approdando al cinema con Io con te non ci sto più (1983), commedia brillante senza particolare scatto. Proveniente dalla critica dove s’è distinto per i suoi studi su Antonioni, per il quale ha fatto anche l’assistente, il bologne­ se Carlo Di Carlo ha realizzato una quarantina di corto e mediometraggi, alcuni dei quali per la zdf, la seconda rete della tv tedesca, apprezzabili per un certo rigore del linguag­ gio, finché ha diretto in Italia, grazie all’ltalnoleggio, Per questa notte (1977), tratto da un romanzo di Juan Carlos Onetti, film d’azione in chiave di parabola sullo sfondo di una metafisica Livorno. Per la zdf ha spesso lavorato anche Ivo Bamabò Micheli (Brunico 1944) che ha trovato una sua interessante dimensione tra documento e finzione. Specie La memoria di Kunz (1971), radicato nella realtà umana e cultu­ rale dell’Alto Adige, e II lungo inverno (1984), incontro di due ragazzi in un istituto per sordomuti, possiedono momenti percorsi da una loro autenticità e poesia. Un forte filmdocumento è A futura memoria (1986), viaggio nel mondo di Pier Paolo Pasolini, nelle sue radici contadine e nella sua diversità di omosessuale, mosso da una precisa volontà di documenta­ re e capire.

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Giuseppe Bertolucci, fratello cadetto e collaboratore di Bernardo, conta finora più che per i lungometraggi narrativi — Berlinguer ti voglio bene (1977) con Roberto Benigni e Oggetti smarriti (1982) — per Panni sporchi (1979), che fa parte di una serie di film-inchiesta in 16 mm sulle grandi città italiane rette da giunte di sinistra. Torino, Roma e Napoli sono state affidate rispettivamente alla regia di Scola (Vorrei che volo), Gregoretti (Comunisti quotidiani) e Antonio Vergi­ ne (Napoli 2 città); Bertolucci jr. ha scelto Milano, anzi la stazione centrale e il microcosmo di emarginati che la abita, cavandone un ottimo documentario antropologico che abbi­ na le virtù del primo neorealismo con le pratiche del cinema diretto in una messa in scena di elegante rigore. Nel ritorno alla fiction, Segreti segreti (1984), confronto di ben sette per­ sonaggi femminili dei nostri anni con le pratiche del terrori­ smo, è apparso, nonostante pagine intense e un linguaggio ormai autonomo e sicuro, un film non pienamente convin­ cente. Ma il suo è uno dei pochi nomi su cui si possano fondare delle speranze di qualche peso. Crisi e recessione «Ciascuno per sé, la crisi per tutti» è il titolo di un’inchiesta sull’industria europea del cinema, pubblicata nel 1979 sul quotidiano parigino «Le Monde». Il calo delle frequenze era stato generale, progressivo e irreversibile in tutti i paesi indu­ strialmente sviluppati fin dagli anni Sessanta, ma in Italia assunse i caratteri di crollo negli ultimi anni Settanta, quando si passò da 514 milioni di biglietti venduti nel 1976 ai 276 nel 1979. Negli anni successivi l’emorragia è continuata fino a toccare i 165 milioni di presenze nel 1983, i 120 nel 1986. Oltre alle cause generali che riguardano anche gli altri pae­ si, compresi quelli dell’Est socialista sia pur in misure e modi diversi, di questo calo delle frequenze esistono per il mercato italiano cause specifiche: il ritardato ricorso al colore da par­ te della tv di stato, la mancata ristrutturazione delle sale e soprattutto la proliferazione selvaggia su tutto il territorio nazionale, a partire dal 1976, delle tv private la cui pro­ grammazione si fonda in gran parte sulla trasmissione di film (circa millecinquecento alla settimana). Dalle 10.517 sale

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(comprese le parrocchiali e quelle dei piccoli centri, in fun­ zione solo due o tre giorni alla settimana) ancora aperte nel 1973 si è scesi alla metà dieci anni dopo. Il precipitoso calo delle frequenze si è ripercosso sulla produzione: dai 233 film di lungometraggio prodotti nel 1976 si è scesi a 156 nel 1977 e a 103 nel 1981, il minimo storico del dopoguerra, con una parallela diminuzione delle coproduzioni con l’estero. Il ci­ nema italiano è, dalla seconda metà degli anni Settanta, in stato quasi comatoso, e non sembra possibile riporre per il momento molte speranze né sui suoi funzionari (della distri­ buzione, del noleggio, della produzione, dello stato, della tv) né sui suoi autori né sui suoi critici. I nuovi comici

Il fenomeno dei nuovi attori-autori degli anni Ottanta si può paragonare a quello dei cantautori nella canzone degli anni Sessanta. Negli anni precedenti, come rispecchiando raggravarsi della situazione interna del paese (terrorismo; crescita della delinquenza organizzata, maliosa e camorristi­ ca; scandali finanziari; crisi politica delle istituzioni, oltre alla crescente diffusione del consumo della droga), la commedia italiana aveva subito una profonda mutazione, inclinando verso un grottesco sempre più livido e contaminandosi col dramma, come rivelano molti film di Comencini, Monicelli, Risi, Scola ecc. A cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta c’è stata una reazione: le commedie di maggiore successo — quelle di Castellano e Pipolo (Franco Castellano e Giuseppe Moccia), spesso con Adriano Celentano protagonista —- so­ no di carattere evasivo, con un rapporto sempre più labile con la realtà che fingono di rappresentare, blande e a volte pacchiane imitazioni della commedia brillante americana de­ gli anni Trenta-Quaranta. Ad aprire la strada ai nuovi comici fu nel 1976 Nanni Moretti (Brunico 1953) con Io sono un autarchico, girato in Super8, seguito da Ecce Bombo (1978), Sogni doro (1981), Bianca (1984), La messa è finita (1985). Il rifiuto della volgari­ tà (e del « machismo» che le è complementare), l’attenzione ironica e affettuosa per il mondo giovanile urbano, l’assillo di modi narrativi nuovi o, comunque, diversi da quelli tradizio­ 77

nali caratterizzano i suoi film, intrisi di nevrotica malinconia e di domande inquiete. È un umorista, non un comico; appa­ re vicino ai giovani autori degli anni Sessanta più che ai suoi coetanei, e anche le sue commedie sembrano farsi sempre più nere, in una ricerca estrema, laica ma con sfumature spiritua­ listiche, di ragioni autentiche nella dispersione violenta della realtà presente, condotta attraverso personaggi paradossali (il professore di Bianca uccide per crudele moralismo) o in­ quietanti (il prete di borgata di La messa è finita rinuncia per confessata impotenza ad aiutare gli altri). E di questi ultimi film va ricordato positivamente un ritorno alla sceneggiatura elaborata e complessa, nonostante una certa invadenza del­ l’attore a scapito del regista. Dopo aver battuto il primato degli incassi con quattordici miliardi rastrellati in due stagioni da Ricomincio da tre (1981), Massimo Troisi (Napoli 1953) ha diretto e interpretato Scu­ sate il ritardo (1983), confermando di essere un degno espo­ nente di quel teatro napoletano che ha in Eduardo De Filip­ po il suo maestro e modello. Il Gaetano di Ricomincio da tre è il primo personaggio maschile italiano del cinema italiano che rivela la profondità del rivolgimento antropologico por­ tato dal femminismo, dal movimento delle donne. Provenien­ te dal mimo e dal cinema d’animazione alla bottega di Bruno Bozzetto, Maurizio Nichetti (Milano 1947) ha fatto con Ratataplan (1979) un film comico sonoro e non parlato in cui la lezione del cinema muto si mescola con i lazzi mimici della commedia dell’arte e la tecnica veloce del disegno animato. In Ho fatto splash (1980), sulla scia di un vitalistico pragmati­ smo lombardo, ha dato spazio a tre personaggi femminili, combinando la commedia di costume e la farsa dinamica, verso cui è più spostato IlBi e il Ba (1986), al servizio di Nino Frassica. Carlo Verdone (Roma 1950) è, nel gruppo, l’attore più consumato, almeno per il virtuosismo trasformistico, e il regista meno originale. E lui il vero erede e continuatore della commedia all’italiana, dei suoi snodi topici e dei suoi effetti tipici: da Un sacco bello (1980) a Borotalco (1983) si è ammi­ nistrato con un’oculatezza degna di Sordi che è il suo padre spirituale e di cui condivide l’oscillazione tra cinismo e senti­ mentalismo, antica malattia italiana. Sulla linea direttrice Napoli-Roma-Milano della comicità italiana si sono inseriti anche due toscani. Miscuglio di intelligenza bertoldiana ed 78

estro surrealista, di fragilità aggressiva e atroce allegria («un Woody Alien da letamaio», è stato definito), Roberto Beni­ gni (n. 1952) è stato diretto da Giuseppe Bertolucci (Berlin­ guer ti voglio bene, 1977), Ferreri (Chiedo asilo, 1979), Renzo Arbore (Il Pap’Occhio, 1979), Citti (Il minestrone, 1980) e ha esordito nella regia con Tu mi turbi (1983), anomalo film a episodi. Diverso, nonostante la parentela regionale, è Fran­ cesco Nuti (n. 1955), proveniente dal cabaret: un Benigni più dolce, meno originale ma anche più capace di staccarsi dalla maschera e di essere attore, interprete. Ha avuto la modestia accorta di affidarsi a un regista forbito come Maurizio Ponzi che l’ha diretto in tre film di leggera eleganza, il migliore dei quali è Io, Chiara e lo Scuro (1983), per poi mettersi in pro­ prio con un ripetitivo Casablanca, Casablanca (1985), il poeticistico Tutta colpa del Paradiso (1986) e il notturno Stregati (1986). Come fenomeno di costume, e di successo popolare, c’è da ricordare la meteora di Diego Abatantuono nei cui film — specialmente quelli diretti da Carlo Vanzina, figlio di Steno (Stefano Vanzina), che li scrive col fratello Enrico — i giova­ ni spettatori hanno visto e riconosciuto qualcosa che li ri­ guarda: il mondo deH’immigrazione meridionale al nord; il conflitto tra campagna e metropoli; il microcosmo delle di­ scoteche urbane; le piaghe della droga e della violenza, sia pur meneghinamente svelenile e pateticamente esorcizzate; una volgarità di fondo di cui la mimica stonata dell’attore è il supporto e il correttivo. Come uomo di spettacolo, un ruolo importantissimo ha svolto, anche se più alla televisione che nei film, Renzo Arbore (Foggia 1937) sensibilissimo e com­ piaciuto catalizzatore di tante sottoculture e delle loro mise­ rie «creative». In attesa degli sviluppi di una produzione regionale e de­ centrata di cui s’avvertono già i sintomi soprattutto a Torino e a Milano, e che potrebbe trovare una committenza nelle sedi regionali della rai-tv e nei network privati — le opere a cavallo tra cinema verità e fiction di Daniele Segre, torinese (in particolare, Vite di ballatoio, 1984), e quelle di inchiesta messa in scena di Alberto Chiantaretto e Daniele Pianciola (e più Venerdì sera, lunedì mattina, 1983, che L'enigma, 1986, codiretto con Jean Rouch); quelle dei milanesi Silvio Soldini (Paesaggio con figure, 1983; e Giulia in ottobre, 1984), Paolo

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Rosa {L'astronave atomica del signor Nanof, 1984), Gianluca Fumagalli {Come dire..., 1983; A fior di pelle, 1987), Kiko Stella, Bruno Bigoni, la varesina Gabriella Rosaleva {Proces­ so a Caterina Ross, 1982; Sonata a Kreuzer, 1985), i romani Paolo Bologna {Fuori dal giorno, 1982) ed Egidio Eronico e Sandro Cecca {Viaggio in città, 1982-86) ecc. — si possono menzionare alcuni esordi che in qualche misura si staccano dal cinema «romano». Con Immacolata e Concetta (1979), tragica storia d’amore tra due donne, Salvatore Pisciceli! (Pomigliano d’Arco 1948) ha fatto un film duro, senza con­ cessioni sentimentali, sullo sfondo di Napoli e del suo retro­ terra, dove i personaggi e i loro comportamenti sono raccon­ tati con l’occhio lucido e spassionato di un entomologo. Lo stesso sguardo si ritrova nei più discontinui Le occasioni di Rosa (1981) e Blues metropolitano (1985), film corale alla Nashville, e nel bianco e nero Regina (1987), ritratto di attrice quarantenne nevrotica che ambisce al grande mèlo e non è a caso dedicato a Sirk. Nonostante le deludenti o-soltanto cor­ rette prove successive, il milanese Marco Tullio Giordana s’era messo in luce con Maledetti vi amerò (1980) che, con sofferta sincerità e qualche pagina incisiva, fa i conti col terrorismo e la generazione del ’77, mentre si sono affermati Luciano Odorisio (Chieti 1942) con Sciopèn (1982), caso raro di una commedia agrodolce di costume sulla vita di provincia (Chieti) che ha poco da spartire con gli stereotipi della com­ media all’italiana, e la fiorentina Cinzia Torrini (n. 1954) con Giocare d'azzardo (1982) che, sullo sfondo di una Firenze notturna e livida, era il ritratto in piedi di una Bovary di Rifredi, percorso in filigrana da un lucido discorso sulla con­ dizione femminile. L’uno e l’altra hanno poi deluso, Odorisio con la commedia sugli anni Cinquanta-Sessanta Magic mo­ ments (1984), la Torrini con la fiacca superproduzione esotico-avventurosa Hotel Colonial (1986). Decisamente più pro­ mettente appare Massimo Mazzucco (Torino 1954), il cui Summertime (1983) è un decontratto racconto di un milanese a New York e di un rapporto né mitico né moralistico con l’America, e Romance (1986), un confronto tra padre e figlio dominato dal malinconico istrionismo di Walter Chiari. E qualcosa ci si può aspettare da alcuni esordienti film poveri: Felice Farina {Sembra morto... ma è solo svenuto, 1986, com­ media proletaria agra e grottesca), i giovanissimi napoletani 80

Antonietta De Lillo e Giorgio Magliaio {Una casa in bilico, 1986, fragile storia di vecchi), Nino Bizzarri (il rarefatto La seconda notte. 1985). Fa storia a sé, come caso-limite, Il pia­ neta azzurro (1982) del bresciano cinquantenne Franco Piavoli, poema audiovisivo di complessa struttura, che trasfor­ ma una ricognizione nella campagna padana in una meravi­ gliosa avventura, ricca di sorprese e di scoperte.

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Europa e «nouvelle vague»

LA «NOUVELLE VAGUE» E LA V REPUBBLICA

Presa dal titolo di un’inchiesta sulla gioventù francese, svolta nel ’57 dal settimanale «L’Express», l’etichetta della nouvelle vague (nuova ondata) designò, soprattutto all’estero, un gruppo eterogeneo di registi francesi che realizzarono il loro primo lungometraggio tra il ’58 e il ’60, prima di passare a indicare un modo nuovo di fare cinema. L’anno chiave è il 1959, quando a Cannes Orfeu negro (Orfeo nero) di Marcel Camus, col suo lirismo fantastico e furbescamente esotico, vince la Palma d’oro e Les 400 coups (I quattrocento colpi) di Truffaut il premio della regia, mentre fuori concorso Hiro­ shima mon amour (id.) di Resnais fa sensazione e suscita po­ lemiche. Come tutte le etichette, anche quella di nouvelle vague ha del giornalistico e del pubblicitario, e rischia di rendere gene­ rici fenomeni specifici, di amalgamare fittiziamente differen­ ze anche radicali. L’equivoco durerà a lungo, in questo caso, e imporrà a più riprese un aggiustamento dell’analisi, una precisazione delle componenti dovuta alla necessità di distin­ guere tra movimento e ondata', fenomeno generazionale e in sostanza economico quello dell’ondata, fenomeno più preci­ samente artistico quello del movimento. Anche per questo, i primi a dolersi della genericità dell’etichetta, dopo l’euforia del gran lancio e dei riconoscimenti, e di fronte ai colpi di ritorno dell’ostilità dei «vecchi» del cinema e di un certo apparato ideologico, saranno i veri protagonisti del rinno­ vamento, e cioè quel gruppo di collaboratori della rivista «Cahiers du cinéma», fondata nel 1951, che erano passati velocemente dalla critica (e dall’assidua frequentazione della Cinémathèque parigina diretta da Henri Langlois) all’attività 82

registica. I loro nomi: Chabrol, Truffaut, Godard, e i meno fortunati Rivette e Rohmer, e i meno dotati Doniol-Valcroze e Kast. Alla corrente vengono però aggregati altri esordienti del periodo, alcuni provenienti dalla pratica del documenta­ rio (Alain Resnais, Georges Franju, Chris. Marker), o da pratiche professionali e culturali più varie (Louis Malie, Agnès Varda, suo marito Jacques Demy e Jean-Pierre Mocky). E infine registi già inseriti nel cinema «ufficiale» come quel Roger Vadim che aveva contribuito con Et Dieu créa la femme {Piace a troppi, 1956), di superficiale spregiudi­ catezza erotica, al lancio divistico di Brigitte Bardot, o Mar­ cel Camus, la cui opera prima — il mediocre Mort en fraude {La donna di Saigon) sulla guerra d’Indocina — è del ’57. A livello quantitativo il fenomeno è imponente. Messi da parte i «precursori», Roger Leenhardt, Jean-Pierre Melville, Alexandre Astruc, in sette anni esordiscono duecentoventi registi nuovi. Quasi la metà, però, non va oltre il primo film; molti, inoltre, realizzano l’opera prima in 16 mm, a costi molto bassi, al di fuori delle norme sindacali, il che rende la loro circolazione quasi impossibile e incerta la divisione tra dilettantismo e professionismo. Anche senza volergli dare lo statuto di scuola o di corrente, rimane indubbio che il fenomeno della nouvelle vague fu per­ cepito e descritto allora come ventata d’aria fresca nel clima stagnante del cinema francese degli anni Cinquanta. Un elen­ co dei suoi caratteri di base potrebbe comprendere: la strada contro gli studi; l’invenzione o il fatto di cronaca e l’aneddoto contro l’adattamento letterario; il racconto in prima persona contro la sceneggiatura impersonale; la luce del giorno con­ tro le ombre e le luci dei riflettori; la spensieratezza irrespon­ sabile e un po’ dandy contro la serietà sussiegosa e il pessimi­ smo ufficiale del cinema affermato; attori giovani e scono­ sciuti (Godard trovò Anna Karina, sua attrice feticcio e compagna per tanti film, attraverso un annuncio sui giornali) contro i mostri sacri ormai invecchiati e usurati; l’idea che il cinema è passione più che apprendistato e che s’impara a fare i film guardandoli con i propri occhi più che facendo da assistente ad altri registi. Molte di queste cose non erano nuove, ma erano state sino ad allora fatto di minoranze e di isolati. Non fu certo un caso se tra gli idoli della nouvelle vague vi furono registi come 83

Renoir o Rossellini, con la loro sovrana libertà stilistica e il modo diretto di girare. Una lezione sino ad allora male as­ sorbita. Lo stesso neorealismo aveva spesso fatto ricorso alla «sceneggiatura di ferro», e di esso i registi della nouvelle vague, cresciuti al cinema dopo la guerra, non ne apprezzavano certe connotazioni ideologiche. Fratelli maggiori erano con­ siderati solo Roger Leenhardt e Jean-Pierre Melville, per la libertà di approccio al cinema. D’altronde l’altro corno delle scelte di questi registi era stato proprio il cinema americano classico, attraverso la politique des auteurs sostenuta sulle pagine dei «Cahiers», l’apprezzamento della mano del regista e del suo stile come elemento di continuità in carriere anche assai diversificate e condizionate dalla produzione di studio. Non fu merito da poco, questo, poiché i «Cahiers», a comin­ ciare dal magistero di André Bazin (1918-1958), le cui rifles­ sioni teoriche furono fondamentali nella formazione di registi che furono prima di tutto dei critici, riuscirono ad affermare mondialmente il concetto di autore applicato al cinema, e a far valutare, per esempio, in tutta la loro originalità e porta­ ta, l’opera di registi come Welles, Hitchcock, Hawks, il Lang americano, Ray, Sirk e tanti altri, a mostrarne l’intima co­ erenza morale e stilistica, e a imporre questi e altri nomi nel pantheon dei grandi dell’arte del secolo, a fianco, per il cine­ ma, di quelli di Dreyer o Bresson, Mizoguchi o Èjzenstejn. Ciò spiega anche il ritorno di molti registi della nouvelle vague in alvei più istituzionali, la loro accettazione, con mutate libertà, delle regole economiche di un cinema per il grande pubblico. Non ci fu dunque una contraddizione così grande tra l’aggressione al «cinema di papà» dei professionisti del dopoguerra europeo, ormai imbolsiti nella freddezza di ope­ razioni rigidamente precostituite (a cominciare per esempio dalla canonica, sino allora, distinzione francese tra soggetto, sceneggiatura, dialoghi e regia, affidati a persone diverse tra loro), la rivendicazione di modi più liberi di creare, e la rivalutazione di opere considerate dalla critica ufficiale solo commerciali, come quella di un Hitchcock. La novità maggiore e di maggior risonanza e portata fu comunque quella del passaggio alla regia di giovani critici insofferenti delle classiche norme di produzione e realizza­ zione, tesi all’affermazione innanzitutto di un proprio stile. In un comune retroterra di idee di cinema e per il cinema, 84

furono due, in definitiva, e complementari, i postulati di par­ tenza per questa generazione: l’inserimento nel sistema pro­ duttivo con relativa, a volte grandissima autonomia (anche grazie alla solidarietà con alcuni giovani produttori formatisi al loro fianco), e la nozione di cinema d’autore. Il primo fu attuato in parte con l’autofinanziamento, in virtù di favore­ voli circostanze personali e familiari, in parte con il meccani­ smo dei premi di qualità (la loi daide istituita nel 1955), grazie all’adozione sistematica del basso costo e dell’alleggerimento dei mezzi tecnici. Corollario della politique des auteurs perseguita da Bazin e dai «Cahiers», il secondo postu­ lato aveva avuto la sua prima formulazione in un articolo­ manifesto di Alexandre Astrae, Naissance dune nouvelle avant-garde: la caméra-stylo apparso in «L’écran fran^ais» n. 144 del 1949, in cui il futuro regista sosteneva che, per fare un film, non era indispensabile avere un bagaglio tecnico, basta­ va considerare il cinema come scrittura e avere una sufficien­ te cultura cinematografica: tutto si può esprimere con il ci­ nema, idee generali ed espressioni personali, così come si fa col romanzo o col saggio. Ma, a livello teorico, il vero padre spirituale della nouvelle vague fu André Bazin e le sue pre­ messe devono essere cercate negli scritti che gli stessi Rivette, Chabrol, Truffaut, Rohmer avevano pubblicato sui «Ca­ hiers». Nell’esigere la premessa pratica del basso costo, i due po­ stulati imposero un rinnovamento dei metodi di ripresa che, a sua volta, influì sulla scelta degli argomenti e sul loro trat­ tamento. Sebbene cause ed effetti siano difficilmente separa­ bili in quest’ambito, sta di fatto che — anche in opposizione alla tradizione francese del cinema di qualità, accusata di muffito accademismo — s’arrivò non soltanto alla formazio­ ne di nuovi quadri d’attori, sceneggiatori, operatori, musici­ sti, ma a un rinnovamento narrativo e stilistico del linguaggio cinematografico com’era stato codificato soprattutto a Hollywood: una parte delle innovazioni stilistiche che hanno cambiato il volto del cinema nel decennio 1960-69 procedono in linea più o meno diretta dalle invenzioni e dalle trasgres­ sioni di Godard, Resnais, Rivette; se si situa Jean Rouch, cineasta ed etnologo, in un territorio attiguo alla nouvelle vague, si può dire che anche il movimento del cinema diretto trova là delle nuove basi.

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Non si può, a ritroso, non considerare come merita l’effet­ to avuto dalla nouvelle vague francese sul rinnovamento del cinema in molti altri paesi. L’esempio si diffuse e influì in Polonia (Skolimowski...) come in Cecoslovacchia (Forman, Passer, Menzel...), in Brasile (Rocha, Guerra, Diegues...) co­ me in Italia (Bertolucci...), ma in generale dovunque, sia pure nella sola accezione della rivendicazione di un nuovo spazio e di nuove tematiche da parte di una nuova generazione di registi. In Italia, dove si assiste negli stessi anni a una seconda fioritura del nostro cinema dopo quella del neorealismo, an­ corata bensì a tematiche prevalentemente sociali, l’esempio fu assai poco seguito, e in alcuni paesi come l’Inghilterra — che aveva preceduto i francesi con gli arrabbiati e il cinema di Richardson, Reisz e altri, anch’esso assai radicato socialmen­ te — e gli Stati Uniti — dove già agiva in forme bensì margi­ nali rispetto al sistema hollywoodiano, il new american cine­ ma — l’effetto fu più lento ma servì, intanto, sul piano criti­ co, a creare nuove consapevolezze o nuovi miti; in paesi come la Germania, infine, doveva agire ancor più lentamente e faticosamente, ed esplodere solo un decennio più tardi con il «nuovo cinema tedesco» dei Fassbinder, Wenders, Herzog. Più in generale, è possibile vedere la nouvelle vague france­ se all’interno di un’irrequietezza generazionale che ha investi­ to, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta, molte forme d’espressione (il teatro, la musica, la pittura), con una vitalità estremamente produttiva per quanto disordinata. Questa generazione di artisti ha in qualche modo preparato la strada alla rivolta generazionale del decennio dei Sessanta, culminata nei movimenti del ’68. E una generazione che non ha vissuto i problemi della guerra se non nella sua infanzia, e cui sono estranei i dilemmi dell’impegno dominanti nel pri­ mo dopoguerra. Una generazione, infine, che usufruisce delle mutate condizioni storiche (fine della guerra fredda e coesi­ stenza pacifica, ripresa economica e affermazioni variamente socialdemocratiche in politica) e della diffusione di nuovi mezzi tecnici «leggeri», disponibili a costi ridotti. In Francia, in particolare, sul piano ideologico il giovane cinema rifiuta nella maggior parte dei casi, l’impegno sociale e politico avvertendone la costrittività e gli schematismi: i cineasti della nouvelle vague sono i figli o i fratelli minori di

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una generazione che deìV engagement aveva fatto una norma di vita e ne era uscita delusa e frustrata. Senza contare che la censura era in quegli anni particolarmente rigida: dal ’58, da quando De Gaulle è richiamato al potere e dà inizio alla v Repubblica, essa stringe i freni sia in modi direttamente re­ pressivi — Le petit soldat (Il piccolo soldato) di Godard, del ’60, rimane bloccato per tre anni perché, pur se in modi assai equivoci, parla della tortura, del fnl algerino e dell’oAS — sia con i sistemi indiretti della restrizione dei crediti bancari e dei «suggerimenti» ai produttori. È di moda, negli anni di esplosione della nouvelle vague, contrapporre cineasti della rive gauche (Resnais, Varda, Marker e altri, che dal magistero sartriano e dalla lettura di «Les temps modernes» hanno pur preso qualcosa) e quelli della rive droite (Godard, Truffaut ecc.), che rivendicano la loro spoliticizzazione, il loro individualismo, il loro (presun­ to) anarchismo, più spesso di destra che non di sinistra, tal­ volta maldestramente e presuntuosamente dilettantistico, spesso narcisistico, in cui i problemi sentimentali e sessuali assumono un posto centrale. Il loro è un cinema che tace (come quello «vecchio», d’altronde) sulle guerre d’Indocina e d’Algeria, sull’egemonia dell’imperialismo nordamericano, sui conflitti sociali, sui problemi dell’immigrazione, sulla condizione operaia. È un cinema segnato da un’assenza: quella della Francia. Con poche eccezioni e tolte le evasioni più o meno esotiche in paesi lontani, l’universo della nouvelle vague è parigino e borghese. Anche per questi motivi la nou­ velle vague seppe trovare un sostegno ufficiale (era allora ministro per la cultura André Malraux) e di stampa: rinver­ diva la fama di Parigi come produttrice internazionale di cultura e di mode esportabili (e monetizzabili), senza dare al regime eccessivi fastidi. A distanza di tanti anni, la contrapposizione tra rive gau­ che e droite acquista meno senso, i percorsi dei singoli registi si sono troppo diversificati per essere più accomunabili, ma essa aveva la sua ragion d’essere, non solo ideologica: il ci­ nema di Resnais, Marker, Varda era più letterario e connota­ to, ma soprattutto restava una forma di espressione non fina­ lizzata in se stessa, un linguaggio di cui servirsi per «dire», uno strumento (ed è significativo che a questo gruppo si affiliassero naturalmente scrittori divenuti sceneggiatori e poi 87

registi come Marguerite Duras o Alain Robbe-Grillet, il ca­ pofila in quegli anni di un’altra avanguardia, quella del nou­ veau roman e della «scuola dello sguardo»), mentre per i registi della nouvelle vague il cinema era tutto, e «un’inqua­ dratura era questione di morale». Il loro cinema d’autore rivendica la prevalenza dell’autore, deve portarne dovunque il segno e le tracce, deve «mostrare» ed essere, come diceva Bazin, un linguaggio e non una lingua, partendo dalla convinzione che il «linguaggio della realtà» è fatto di «ambiguità» e di «durata». Di qui la svalutazione del montaggio a vantaggio del piano-sequenza, delle scene madri a vantaggio della descrizione di minimi comportamenti, della esibizione della tecnica e dei propri mezzi, del gusto della citazione quasi sempre solo cinematografica, rispondente al ricordato connubio critico-regista. Il cinema della nouvelle vague riflette sul cinema nel mentre che si fa cinema, con una consapevolezza fino allora inusitata. È forse proprio questa la maggiore novità portata dalla nouvelle vague, più ancora di quelle tecniche ed economiche e dell’impulso dato alla nasci­ ta di nuove leve di registi in molte parti del mondo: nel bene o nell’eccesso, il cinema acquista con la nouvelle vague uno statuto di modernità e di autonomia artistica, e la sua lettura ne viene irrevocabilmente modificata. Godard della crisi

Due film che contano nella trasformazione linguistica del cinema negli anni Sessanta sono Hiroshima mon amour e À bout de souffle. Mentre Resnais rinnova i mezzi narrativi, trasformandoli dall’interno e facendoli passare — per dilata­ zione, confronto e distorsione — da un sistema linguistico all’altro in un rapporto con la letteratura tanto intenso quan­ to autonomamente creativo, Jean-Luc Godard (Parigi 1930) li attacca dall’esterno con un lavoro sempre rinnovato (e sempre più consapevole a livello teorico) di distruzione e destrutturazione che trae alimento da una forsennata cinefilìa (film americani di serie b ma anche il cinema muto) e da un onnivoro rapporto con i libri. Tra À bout de souffle {Fino all’ultimo respiro, 1959) e Détective {id, 1985) il suo itinerario si può dividere in cinque fasi, 88

in ciascuna delle quali, rompendo con se stesso e con il pro­ prio passato, riparte verso una nuova direzione. La prima fase va fino a Pierrot le fou (Il bandito delle 11, 1965), dieci film e quattro episodi, ognuno dei quali contrad­ dice, integra, approfondisce il precedente, passando da un cinema estraniante a un cinema coinvolgente con coerenza di poetica (digressione, citazione, collage, cinema che si nutre di cinema più che di realtà) e di tematica sulle linee romantiche di fondo «dolore-amore-morte» e «solitudine-tenerezza-au­ todistruzione»; è una fase, contraddistinta da una critica so­ ciale di senso spesso ambiguo, in cui s’alternano le tendenze dell’istinto e della riflessione o, come sostiene Truffaut, le opere in cui filma i suoi sentimenti, e quelle in cui filma le sue idee. E questo il periodo in cui la provocazione godardiana ha più risonanza. È un regista-divo, scontroso e insieme à la page, che entusiasma giovani intellettuali di tutto il mondo e ne fa arrabbiare molti, che suscita amore o antipatia ma che, certamente., non lascia indifferenti. Gli importa soprattutto ridiscutere il cinema, mostrarne tutte le potenzialità non an­ cora espresse, o espresse solo parzialmente. (E della dicoto­ mia Lumière-Méliès affermata allora da molti egli dirà più tardi: «per saper fare del cinema dobbiamo ritrovare Méliès, ma per far questo occorrono ancora molti années Lumière»,) Gli importa riconoscere allo sguardo una nuova verginità — ricorrendo a procedimenti abbandonati, inventandone di nuovi, spesso in corrispondenza stretta, a volte solo in con­ comitanza con le ricerche emergenti in altri campi dell’e­ spressione artistica. L’unità della sua opera, fitta di titoli e di esperienze, sta qui; il resto è, a ritroso, accidente e autobio­ grafia, dialogo contingente col proprio tempo. Come Vertov, che egli riscopre attorno al ’68, pare lavora­ re più per gli altri autori che per il pubblico, teso a un rinno­ vamento delle forme, alla loro perlustrazione e sperimenta­ zione, alla loro invenzione. Ma Godard è anche «autore» e si scopre e mette in questione definendo, da un’asserzione al­ l’altra, da una contraddizione all’altra, un suo «discorso poe­ tico». L’evidenza della macchina da presa, il rifiuto del cam­ po-controcampo, la citazione visiva o sonora, la didascalia, l’attore che parla direttamente allo spettatore, la ripetizione, la voce fuori campo, spesso in discordanza con le immagini,

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il racconto, l’intervista, il teatro, la tv, le tecniche della pub­ blicità (per quanto detestate: «la pubblicità è il fascismo dei nostri anni»), lo smontaggio delle parole, la cancellazione improvvisa della voce o deH’immagine, i tempi morti, il pas­ saggio da attore a personaggio o viceversa nella stessa inqua­ dratura, la lettura di brani di libri, l’assemblaggio imprevisto di materiali apparentemente disparati, il collage visivo e/o sonoro, i momenti «classici» e quelli «stranianti» — tutto ciò si dispone, nello scorrere della pellicola, anche secondo un progetto volta a volta più o meno coerente, ma indubbia­ mente sempre personale. Dopo cortometraggi in cui si avverte il peso di una colla­ borazione (con Rohmer, con Truffaut), Godard si presenta nel ’59 con Charlotte et son Jules (Charlotte e il suo Jules) ancora un cortometraggio, girato in un giorno e in una stan­ za, e con Fino all’ultimo respiro in modo prepotentemente autonomo. Il suo lungometraggio, su un soggetto scritto anni prima daH’amico Truffaut, parte, egli dice, da Scarface per farsi Alice nel paese delle meraviglie: il cinema di gangster americano (Beimondo vi imita, in una scena subito famosa, Bogart, e il film è dedicato alla Monogram, una casa minore di Hollywood specializzata in poveri polizieschi) e una giro­ vagante scoperta di una realtà/linguaggio estraniati. Esibisce un radicale sprezzo delle regole canoniche del buon girare e del buon fotografare e del buon montare, e una sorta di casualità della storia, retta bensì da un personaggio «forte» di sbandato e da un contrasto uomo-donna che contrassegnerà molto altro cinema di Godard, fino a un tragico ma non meno casuale finale; ma l’anarchismo di cui il film venne allora accusato da parte della critica è più formale che conte­ nutistico: nelle peripezie di un Beimondo che «recita» il duro e il gangster si nasconde invero molta tenerezza, e un esplicito affetto del regista per il suo personaggio. Il piccolo soldato (1960, uscito per i motivi già detti nel ’63) parla invece di politica, dell’Algeria e del presente, ma con voce off che colloca i fatti al passato e con una distanza che è espressione di incertezza e incapacità di giudizio, una scon­ certante scelta di non scegliere, e una acuta banalizzazione di fatti in sé tragici. La confusione in cui si muove, tra destra e sinistra, il protagonista, è la stessa dell’autore. Film sugli attori e sui giochi di coppia, ispirato a Lubitsch,

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Une femme est une femme (La donna è donna. 1962) procede a sbalzi e negazioni, esplicita la commedia nella discontinuità e non nella regola, e scivola dalla vita alla realtà attraverso una Anna Karina che recita se stessa e un Godard che ne è visi­ bilmente innamorato. Il colore, nuova scoperta del regista, accentua a tratti una levità da musical. Il bisticcio muto tra i due protagonisti a colpi di copertine di libri è il primo uso, poi ricorrente e sistematico, della parola scritta, della dida­ scalia significante o paradossale. Il successivo Vivre sa vie (Questa è la mia vita. 1962) — ma prima vi è un episodio, La paresse (La pigrizia) dell’italofrancese I sette peccati capitali (1962) con un inedito Eddie Constantine, e dopo gli seguiranno altri episodi di altri film, interessanti per le aperture stilistiche o per l’introduzione di tematiche sviluppate in seguito — è a detta di alcuni il capo­ lavoro del Godard di questo primo periodo, e ne è probabil­ mente il film meno invecchiato, più adulto, quello in cui le invenzioni appaiono maggiormente congeniali e integrate a un progetto che non è solo cinematografico. I dodici quadri — brani della vita e morte di una giovane prostituta resa dalla Karina — hanno registri diversi, dal sociologico e do­ cumentario al letterario e cinematografico (c’è un intero bra­ no dalla Giovanna d’Arco dreyeriana), con linguaggi diversi, non uniti da una consequenzialità ma giustapposti, forse ri­ combinabili altrimenti: «vivere la propria vita», accettarla così com’è, mostrarla nella sua mescolanza di elementi e di verità e messa in scena — ma anche, infine, aiutarne una comprensione, aprire a un possibile giudizio. Apologo sulla guerra, Les carabiniers (I carabinieri, 1963), da Beniamino Joppolo e con collaborazione alla sceneggiatu­ ra di Rossellini, dedicato a Vigo e aperto da una citazione di Borges in elogio alla semplicità, sostenuto da una scelta di fondo dichiaratamente brechtiano, non oltrepassa i limiti del­ la favola didascalica, non sorretta né dalla necessaria chia­ rezza né dalla dichiarata distanza. Si dà per finzione, ma come riflessione sulla finzione del cinema (del cinema-verità, anzi) va più lontano l’episodio di Les plus belles escroqueries du monde (Le più belle truffe del mondo) dello stesso anno, Le grand escroc (Il grande truffatore), eliminato nella edizione definitiva del film. Ugualmente ambizioso, Le mépris (Il di­ sprezzo, 1963) è un tentativo di produzione importante, che

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lo condiziona con tagli pesantissimi. Produttore De Laurentiis. Da un romanzo di Moravia («un volgare e grazioso romanzo di quelli che si comprano alle stazioni»). Con Bri­ gitte Bardot. Girato in Italia tra Cinecittà e Capri. È nondi­ meno una riflessione efficace sul cinema (anche sulla coppia, ma in termini più noti) che mette in scena il mondo del cinema e trova in Fritz Lang, attore nella parte di se stesso, la voce della morale del cinema classico, cui si contrappongono i cedimenti dello sceneggiatore Piccoli e, in qualche modo, la modernità della regia e della morale godardiana. Piccolo film veloce, Bande à part (Banda a parte, 1964) mette in campo eroi e situazioni da cultura massificata, nel suo scambio con la grande cultura, o meglio nel suo depredamento dalla gran­ de, e non molto aggiunge al Godard già noto, accentuandone bensì un certo intenerimento sentimentale; mentre Une fem­ me mariée (Una donna sposata, 1964), sorta di inchiesta an­ tropo-fenomenologica in più quadri sulla «donna sposata del ’64», si rifà a Vivre sa vie con minor vigore e maggior distan­ za, e accentua invece, nel gioco controllato e determinato delle citazioni, il tema di un’alienazione che non è certo solo femminile, e di un disagio del vivere nella civiltà dei consumi e della pubblicità, che ancora sospendono, ma in parte vi preludono, una più adeguata e più drastica attenzione. An­ nunciato da un episodio di Rogopag, Le nouveau monde (Il nuovo mondo, 1962), il fantascientifico-poliziesco Alphaville (Agente Lemmy Caution, missione Alphaville, 1965) contrap­ pone il computer e la macchina (la ragione tecnologica) alla poesia e all’amore in modi assai schematici, ma diretti e spes­ so duri, nella coscienza della fine di certi lavori, e della stessa parola. Il bandito delle 11 (1965) conclude pirotecnicamente questa fase di trionfale ascesa del regista, tornando sulle tracce di Fino all'ultimo respiro per un’ultima, dolorante affermazione romantica (amore e morte, inseguimento della purezza, os­ sessione del tradimento, fuga degli amanti) sullo sfondo sola­ re del mezzogiorno e dei suoi dèmoni in agguato, ma la sprezzatura narrativa, fino al massimo dell’irritazione e della provocazione, vi è massima, esclude ogni immediatezza della compassione e della partecipazione simpatetica, e cerca rifu­ gio semmai nei tempi intermedi o morti dell’azione e della story. La scomposizione del linguaggio, l’abuso delle citazio-

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ni (classiche e volgari, alte e basse; e prevalentemente, ora, pittoriche e letterarie) e l’eterogeneità dell’insieme trasmetto­ no una sensazione dominante di assurdo: il protagonista (un Beimondo già gran divo) si chiama Ferdinand, come quello autobiografico di Céline. Il bandito delle 11 appare come una disperata dichiarazione di disorientamento; chiude un perio­ do anche perché, su questa strada, era forse impossibile an­ dare oltre, come indica asciuttamente il suicidio, appunto pirotecnico, dell’anti-eroe di Godard. Il secondo periodo in cui è possibile dividere l’opera di Godard va da Masculin féminin (Il maschio e la femmina, 1966) a Weekend (Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica, 1967), cinque film e tre cortometraggi: è un cinema di impianto ormai più saggistico che narrativo, decli­ nato esplicitamente in prima persona, in cui la volontà di penetrazione del reale presume di definire l’origine dei mali della società, attribuendoli al sistema borghese, capitalistico e imperialistico; mentre La chinoise (La cinese, 1967) è già un film in cui la tensione utopica annuncia la rivolta studentesca del ’68 attraverso l’analisi dei «gruppuscoli» della nuova sini­ stra, e continua la riflessione sul linguaggio cinematografico col ricupero dei metodi brechtiani e la rivalutazione delle teorie di EjzenStejn sul montaggio, Week-end, spostato sul versante della critica sociologica, è un pamphlet antiborghese dove l’ironia si colora spesso di sarcasmo e di un’empietà tragica. Il maschio e la femmina è un film sui giovani, «i figli di Marx e della Coca-Cola», che dei giovani coglie la solitudine o l’alienazione, soprattutto femminile: sono vissuti più che non vivano; non hanno spontaneità e calore; non hanno scel­ te di fronte se non condizionate e condizionanti (tutt’al più, il solito «atto gratuito» gidiano); crescono in un mondo di estraneità e di chiacchiere che non dicono verità. E tutto il film lo dimostra, insistendo con oggettivato calore sul ruolo della menzogna nella società e sul suo peso sul singolo, con il giovane protagonista solitario Paul, reso da Léaud, che ap­ pare come un alter-ego del regista in chiave patetica. Made in usa (Una storia americana, 1966), girato velocissi­ mamente, in contemporanea col successivo e ben più pre­ gnante Deux ou trois choses que je sais delle (Due o tre cose che so di lei) è certo il film godardiano più pieno di citazioni 93

hollywoodiane, ma usate per dire come tutto dall’America sia ormai colonizzato. Caoticamente sperimentale, «narra» un episodio politico di forze occulte e spionaggi e contro­ spionaggi che rendono incomprensibile una realtà in cui de­ stra e sinistra sembra non abbiano più senso o non servano più a capire e spiegare. La «lei» di Due o tre cose è la «regione parigina», ma anche la protagonista Marina Vlady, casalinga inquieta vittima del consumo e per questo occasionale prosti­ tuta, così come la regione parigina lo è della pianificazione urbanistica e della sua logica. Godard cerca spiegazioni e connessioni, tratta il suo film come tratta l’attrice: data per tale, ma anche per oggetto e per personaggio. Non si accon­ tenta dei fenomeni, ma ne cerca i legami e passa continuamente dal particolare al generale, dall’apparente al nascosto, dal quotidiano al politico. La cinese, considerato da molti come il film più rappresen­ tativo del godardismo, racconta una cellula di giovani stu­ denti politicamente definiti come marxisti, e già gauchistes. Ormai i brandelli del mondo che Godard mostra acquistano un senso, si legano tra loro, oltrepassano il contingente e la Francia e la poetica personale di un artista; egli si pone pro­ blemi che tutta una generazione va ponendosi. Il finale di La cinese è aperto a più soluzioni: il suicidio, la scelta della sinistra tradizionale, il terrorismo, il «lavoro sociale» semistituzionale... Il cinema non serve a cercare soltanto la verità del cinema, bensì la verità delle cose, dei rapporti, dei conflitti. Ma tutto questo senza dimenticare il cinema, con i mezzi specifici del cinema che Godard ha rielaborato o, mutuandoli da altre arti, elaborato, e dei quali La cinese offre un vasto e quasi sempre pregnante, non divagante campionario. Week-end, subito dopo l’episodio-confessione di Lontano dal Vietnam (1967) di cui si dice in altra parte del libro, narrando un normale week-end di una normale coppia di giovani borghesi, diventa la più cupa critica del presente che il cinema di quegli anni abbia forse dato. Quello dei due protagonisti è un assurdo viaggio tra massificazione, consu­ mo, etero-direzione, verso il baratro della cannibalica autodi­ struzione di un sistema, rappresentata da guerriglieri-hippy di metaforica ambiguità, partecipi dello sconquasso del futu­ ro prossimo venturo già incominciato e già esplosivo. «Fine del cinema», dice la didascalia che sostituisce l’abituale «fi­

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ne», benché non fine dello spettacolo, poiché qui tutto è spettacolo, e la violenza che regna come quella cui si ricorre per combatterla sono esse stesse spettacolo. L’immaginario godardiano è apocalittico, ma si permette gli ultimi sberleffi e le ultime citazioni aprendo bensì la sua sperimentazione a un nuovo terreno, quello della militanza e della provocazione dentro la militanza, per un pubblico non più generico. Di questa fase tutta «politica» si è detto anche altrove. Essa va da Le gai savoir (La gaia scienza, 1968) a Tout va bien (Crepa padrone, tutto va bene, 1972), dodici titoli di cui sei girati in 16 mm col gruppo Dziga Vertov in collabora­ zione con Jean-Pierre Gorin, direttore di «Cahiers marxistesléninistes», quasi tutti realizzati al di fuori degli apparati tecnici e ideologici dell’industria: è la fase dei film non finiti o «imperfetti» perché sabotati in spregio alla committenza, pri­ vi di «senso» come Vent (fest (Vento dell’est, 1969), o distri­ buiti clandestinamente o rifiutati dai produttori; sono film militanti di taglio gauchiste e di colorazione maoista, in cui Godard mortifica e oscura la propria dimensione d’autore e di soggetto parlante (secondo le teorie elaborate in quegli anni da Lacan, Kristeva, Foucault), tenta una ridefinizione e una nuova prassi rivoluzionaria del cinema politico militante e continua il processo distruttivo del linguaggio, alternando la flagellazione dell’autocritica, il terrorismo del discorso apodittico, la sincerità che sconfina nell’esibizionismo. Godard, e il suo «commissario politico marxista-leninista» Gorin, cercano le «immagini di sinistra» secondo schemi for­ temente ideologici. Questo lavoro risulta ben presto, e più pervicacemente che in passato, un discorso sul cinema assai più che sulla politica e sui destini e le contraddizioni del dopo-’68, e in esso fallisce innanzitutto il rapporto con un pubblico, che dovrebbe essere diverso (proletario, militante, giovane) e che invece rifiuta l’ermetico propagandismo di Godard, accettando magari discorsi più semplificati e banali, nel mentre che l’intellighenzia che fino al ’68 lo aveva costan­ temente applaudito, gli volta rapidamente le spalle. La fase si chiude con Crepa padrone, tutto va bene, in cui, valendosi di due star come Jane Fonda e Yves Montand e ricorrendo a una storia d’amore confrontata con la realtà sociale di una fabbrica occupata, Godard tenta un riaggancio con il pubbli­ co. Rotta da monologhi sulla dilacerata coscienza dell’artista 95

e sulla sua idea del rapporto cinema-vita, la rappresentazione è didascalica e mette in campo personaggi-simbolo alquanto facili, molto sessantotteschi (con molta nostalgia del ’68), e senza grandi novità formali così come senza un qualche auspicabile nuovo rigore. Il regista di Vento dell’est tenta ancora di «sabotare» il grande film che gli è stato commissio­ nato? Si direbbe piuttosto che non sappia o non voglia più farlo. Il regista di Lotte in Italia (1970), il più coerente dei suoi film militanti e quello in cui la teoria si era maggiormen­ te precisata («Noi non cerchiamo forme nuove, cerchiamo rapporti nuovi»), spinge la contraddizione su un terreno che non sa più controllare, e risolve con una sorta di lamento su di sé e sulla fine di un’epoca, peraltro avvertita con più acu­ tezza e tempestività di altri. Ma non è un mero ritorno al privato la scelta che egli attuerà. Terminata la collaborazione con Gorin e sciolto il gruppo Dziga Vertov, nel 1974 Godard si trasferisce a Gre­ noble dove, insieme con la sua compagna Anne-Marie Miéville, apre, rilevando una società di informatica, il laborato­ rio Sonimage. Realizza alcuni video: Numéro deux (Numero due, 1975), Comment $a va (Come va), lei et ailleurs (Qui e altrove), Sixfois deux (Sei volte due, 1976), France tour detour deux enfants (Francia giro deviazione due bambini, 1979), con cui porta fino alle estreme conseguenze la sperimenta­ zione sul linguaggio audiovisivo. «L’autore si trasforma in artigiano, detentore non più del “senso” del film, ma del lavoro che lo produce. Padrone e insieme operaio di se stesso, produttore e insieme regista» (Farassino). Godard ha scoper­ to il video e si interessa ora all’intero universo delle comuni­ cazioni. Lontano da Parigi, affianca a questo studio-speri­ mentazione una riflessione su di sé che si allontana vieppiù dalla fase marxista-leninista. Medita un Moi, je, ma accetta di realizzare per una produzione normale il «numero due» di À bout de soufflé, appunto Numéro deux, che con Fino all’ultimo respiro ha ben poco a che vedere, ma che è una nuova dispe­ rata partenza, una sorta di secondo debutto. Video e cinema, cinema alto e cinema porno, politica e sesso, e le logiche della sopraffazione che tutto attraversano, egli le presenta con un rapporto suono-immagine invero mai così spinto: corpi e immagini, per parlare e comunicare, devono subire violenza; estrarne una verità è faticoso, anzi terribile. A partire da

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questo film, molto si parlerà nel cinema di Godard di morte, e non più in termini di mero spettacolo o di mera teoria. Il cinema godardiano continua a porsi delle domande e a tentare delle risposte. E che analizzi i media o analizzi la vita (se stesso) è ancora la stessa cosa. L’ultima fase, iniziata nel 1980 dopo la lunga parentesi grenoblese, si apre con Sauve qui peut (la vie) (Si salvi chi può (la w7a], 1980), seguito da Passion (Passione, 1982), Prénom: Carmen (id,, 1983) che vin­ ce il Leone d’oro alla Mostra di Venezia, Je vous salue, Marie (id, 1981), Détective (id, 1985). È la fase in cui, a livello linguistico, sembra muoversi in due direzioni: la ricodifica­ zione delle tecniche di pre e post-produzione e l’alta defini­ zione (fedeltà) delle immagini e dei suoni. C’è in questi ultimi film il timido, goffo tentativo di ritrovare valori stabili dentro un mondo di valori impazziti o dimenticati, e il ritorno di un sentimento vecchio come il mondo e l’arte: la nostalgia dell’Eden e dell’innocenza perduta, la ricerca di una vita auten­ tica, di un comportamento libero in una realtà dove tutto è in crisi e l’uomo si trova sradicato, schiacciato dal potere della società dei consumi e delle centrali burocratiche. E sempre stata, questa nostalgia, uno dei temi maggiori del suo lavoro. Il più interessante di questi film è probabilmente Prénom: Carmen, in cui la lotta tra i sessi si fa persino fisica, e lo sdoppiamento tra la terrestre e aggressiva Carmen e la musi­ cista Claire (ideale botticelliano) pare rimandare a quello del bunueliano Quell'oscuro oggetto del desiderio. Come Passio­ ne, è un film di dicotomie: tra uomo e donna, tra capitale e lavoro, tra immagine e suono, tra cinema e video, tra studio e plein air. In esso Godard si mette in scena con maggiore ironia di quanto abbia mai fatto (perfino con effetti da comi­ co) nella propria dissociazione: di uomo e artista, tra mercato e ricerca, tra passione e ideologia. Sono film, questi, di una schizofrenia sofferta ma non nascosta, anzi rivendicata: la conciliazione è impossibile, armonia e disarmonia cozzano tra loro aspramente, la piaga resta aperta e l’artista vi getta sale. Godard non sembra più aspirare a spiegare il mondo, ma ne avverte però lucidissimo le contraddizioni e su quelle lavora. Ma, di nuovo sconcertando, nel successivo Je vous salue, Marie si avverte prepotente un alito nuovo di stampo perfino religioso. Rivalutazione da parte di un calvinista della consolazione materna del mito mariano, questo film sembra 97

conciliare nei contenuti (la vittoria dello spirito sul corpo) e nella forma (che unisce a provocazioni di superficie laccati tramonti e un dialogo impossibile), sulla scia, si direbbe, del­ lo spiritualismo di un Artaud di cui annacqua bensì la radica­ lità. Ma è presto per dire (e il «poliziesco» Détective non aiuta molto) quali altre sorprese ci riserva Godard, tuttavia inde­ fesso e coraggioso ricercatore, sempre. Per riassumere in qualche modo il senso di un’opera così varia e così viva, per Godard, che ha cessato di credere nella realtà delle apparenze e nel cinema classico, fondato sul ri­ spetto di quella realtà, si è sempre trattato di restituire al­ l’immagine filmica la profondità e l’ambiguità delle origini, di farne non il fine ma il mezzo della comunicazione per trasmettere qualcosa che è al di là: i concetti, le idee di cui le immagini sono solo il residuato figurativo. Nel ricollegarsi alla prospettiva fenomenologica che si rifiuta di vedere nel linguaggio la semplice traduzione di un pensiero anterior­ mente concepito, Godard definisce la regia cinematografica, cioè il proprio mestiere, come una forma creatrice di pensiero in cui cerca di identificarsi alla macchina da presa piuttosto che identificare la macchina da presa a se stesso. Non è facile distinguere in Godard il cineasta della crisi della società da quello del cinema in crisi dopo l’avvento della televisione, attento alle trasformazioni che avvengono nel più ampio universo dei media, ma sembra lecito dare maggiore importanza al secondo. Di fronte alla crisi del mondo, comunque, Godard non si pone come un testimone, ma dal di dentro, identificandosi con quel che la sua cinepresa registra. Perciò i suoi personag­ gi sono stati spesso irregolari nevrotici, estranei alle conven­ zioni sociali cui si ribellano con una consapevolezza più o meno lucida. In questo senso si può parlare per lui di un atteggiamento giovanile; perciò in ogni parte del mondo tanti giovani cineasti si sono sentiti così vicini a questo poeta del disordine che ha raggiunto i suoi risultati più alti dove le tecniche d’avanguardia e la propria passione si conciliano e s’illuminano a vicenda.

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Francois Truffaut Entrato a ventun anni, sotto la guida paterna di André Bazin, a far parte dei collaboratori dei «Cahiers du cinéma», dove nel 1954 gli fu pubblicato un polemico articolo (Une certame tendance du cinéma fran^ais) che lo rese famoso e che distingueva gli «autori» (Renoir, Bresson, Cocteau, Becker, Ophuls, Leenhardt...) dai «non» autori (Delannoy, AutantLara, Carnè, Allégret...), critico insolente e appassionato dal 1954 al 1959 sul settimanale «Arts et spectacles», Francois Truffaut (Parigi 1932-1984) è con Eric Rohmer il più classico autore del giovane cinema francese, il più legato ai modi tradizionali della narrazione e della comunicazione. Fa un cinema di prosa dove ha bisogno di parlare di quello che ama: le donne, i bambini, i libri. Un film su due è di deriva­ zione libresca, anche se, con l’eccezione di Henry James, si rivolge alla letteratura «bassa» (romanzi gialli di David Goodis, Cornell Woolrich, Charles Williams) oppure margi­ nale (Henri-Pierre Roché, Jean Itard, Francis Vemon Guille che curò la pubblicazione di Le journal cTAdèle Hugo) per avere maggiori margini di libertà nel cambiare senso e dire­ zione ai testi, nel riscriverli. Caso quasi unico nella storia del cinema d’autore, era riuscito, a partire dal primo film e con l’eccezione di Fahrenheit 451 (id., 1966), a garantirsi una rela­ tiva indipendenza economica con la sua società di produzio­ ne Les films du carrosse. Era l’autore, il produttore, il colle­ zionista (e il critico) dei suoi film: non era di quei registi che amano anche i loro insuccessi perché vi scorgono bellezze segrete e si sentono incompresi. Anche perciò ammirava tan­ to Hitchcock che fu con Jean Renoir uno dei suoi maestri e sul quale scrisse un libro-intervista che è diventato uno dei rari best-seller della pubblicistica cinematografica: gli piace­ va, come a Hitchcock, giocare con lo spettatore, manipolar­ lo; voleva avere col pubblico il medesimo rapporto; senza imitarlo, cercava gli stessi effetti di sceneggiatura e di regia, voleva essere come lui anzitutto un costruttore di storie, di un universo romanzesco: «È questo uno dei grandi punti di for­ za del suo cinema: aver saputo stare al passo con i tempi, evitando le mode e tenendo conto del pubblico senza inchi­ narsi ai suoi voleri. Così, in Francia e nel mondo intero, il pubblico si è avvicinato ai film di Truffaut più di quanto il

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regista non sia andato incontro ai suoi desideri» (Serge Toubiana). Penetrante, pudico descrittore di moti psicologici e di con­ flitti tra sentimenti definitivi e sentimenti provvisori, incline all’analisi di passioni violente — come rivelano i suoi film più segreti e «freddi», le sue storie di amanti violenti e difficili — Truffaut fa un cinema i cui temi centrali sono l’infanzia come condizione e l’amore come situazione, un cinema sul corpo che è anche un sottile esercizio d’erotismo, sul quale è sempre sospesa l’ombra della morte. La linearità, la misura, l’appa­ rente semplicità della sua scrittura, la sua grazia leggera, l’as­ sidua preoccupazione di raccontare una storia e personaggi che funzionino — in una parola: il suo classicismo — non devono far dimenticare la complessità stilistica e tematica del suo cinema, gli squilibri, le trasgressioni, l’imprevedibilità, una certa incompiutezza di tipo artigianale, la problematicità esistenziale dei suoi film, ora latente, ora emergente. Già nei cortometraggi di esordio — La visite (La visita, 1955), Histoire d’eau (Storia d’acqua, 1958, montato da Go­ dard) e soprattutto Les mistons (I ragazzacci, 1957) — si individuano i temi che saranno suoi: l’infanzia e la sua soli­ tudine e crudeltà, la delicatezza dei sentimenti e la fragilità della coppia, il carattere provvisorio della felicità, e il tempo che corre e tutto modifica... Ma è Iquattrocento colpi (1959) a imporlo e definirlo. Autobiografico (le fughe di un ragazzo male amato), cinefilo (l’omaggio a Vigo), ma anche narrati­ vamente solido e semplice nella ricerca di un’autenticità pu­ dica e diretta. È il suo primo film, e il primo del ciclo di Antoine Doinel — è il nome del protagonista, che avrà sem­ pre il volto di Jean-Pierre Léaud e che crescerà col suo perso­ naggio nell’episodio Antoine et Colette di L’amour à vingt ans (L’amore a vent’anni, 1962), Baisers volés (Baci rubati, 1968), Domicile conjugal (Non drammatizziamo.., è solo questione di corna, 1970) e infine nel film che riassume e conclude il ciclo, L’amour en fuite (L’amore fugge, 1979): diventato scrittore, divorziato, Antoine ricostruisce la sua vita rubando dai film precedenti. Più amaro che dolce, l’ultimo film getta una luce malinconica sulla serie, a volte un tanto consolatoria all’ap­ parenza e nella lettura che ne ha dato il pubblico, nonostante un certo costante pessimismo che la percorre. In questo ciclo, unico nella storia del cinema e possibile 100

prototipo di serial d’autore per la televisione, che racconta la storia (meglio: le storie) di uno stesso personaggio in epoche diverse della sua vita, circondato dagli stessi amici, le stesse relazioni, negli stessi luoghi, l’unità sembra risiedere nella temporalità che lo percorre, o che i singoli film percorrono, ma è anche, nella sua miscela di commedia e dramma e sotto il segno della dispersione, una unità di tono e di forma. Truffaut vi svolge il tema dell’infanzia — e dell’impossibile prolungamento della sua innocenza — come condizione in conflitto con la realtà e con il mondo degli adulti, tema al quale è ritornato con Largent de poche (Gli anni in tasca, 1976), interamente incentrato sui bambini, film dove si co­ niugano la cronaca, il fiabesco e l’ingegneria della commedia. Tirez sur le pianiste (Tirate sul pianista, 1960), opera secon­ da, è anche il film più libero del regista, forse influenzato allora dall’esempio godardiano. Affronta il genere (il noir) ma divaga, sperimenta, e lo nega con bruschi salti di tonalità. Se questo film in qualche modo metteva in discussione I quattrocento colpi, il successivo Jules et Jim (Jules e Jim, 1961), uno di quelli che invecchiano meglio, lo nega a sua volta. La sceneggiatura vi è ferma e raffinata, la realizzazione sinuosa ed elegante, l’attenzione ai dettagli (il film è in co­ stume, si svolge prima, durante e dopo la grande guerra) e ai movimenti minuziosa. Il successo gli arride presso pubblico e critica, perché l’originalità e la stessa crudeltà della storia (un impossibile amore a tre tra due grandi amici e una donna, Jeanne Moreau nel suo ruolo più mitico, più forte di loro) vi sono presentate con il massimo di pudore e di misura, e risultano infine di straziante utopia romantica e moderna: la contraddizione tra «l’innocenza del possibile e l’astuzia del reale» (Micciché), tra trasgressione e norma, sono in definiti­ va una delle chiavi, se non la maggiore, per leggere tutto il cinema di Truffaut, e anche per questo, Jules e Jim, per il nitore con cui il conflitto è qui narrato, resta uno dei suoi film più rappresentativi. La peau douce (La calda amante, 1964) ha molti punti di contatto con Jules e Jim, ma la differenza è al contempo assai grande, e non solo per la volontà di Truffaut di non rifare mai lo stesso film. «Jules e Jim è la tragedia dell’anticonfor­ mismo, costretto all’incessante trasgressione di un ordine, senza possibilità di liberazione che non sia la morte; calda 101

amante, al contrario, è la tragedia del conformismo, della incapacità storica ed esistenziale a realizzare se stessi» (Bar­ bera). Due donne e un uomo, stavolta, in un contesto di mediocrità e, nell’uomo, un intellettuale borghese, ipocrisia e velleità; una «normale» storia d’adulterio; e un’ambiguità, una incapacità di definirsi e scegliere che è essa «la tragedia». Dopo il relativo insuccesso di Fahrenheit 451 {id., 1966) in cui, con produzione inglese, Truffaut visualizza l’umanistica utopia negativa di Ray Bradbury in amore dei libri, con attenzione all’intreccio e al messaggio (a tratti dolciastro) e un’insolita trascuranza dei sentimenti dei protagonisti, La mariée était en noir {La sposa in nero, 1967) è un poliziesco tratto dal nero universo di Cornell Woolrich: insieme un’in­ terrogazione e ricerca sul magistero di Hitchcock anche per distinguersene, per leggerlo da francese della nouvelle vague (cui i classici servono per amarli e negarli, ché il contesto è diverso, come la sensibilità e le ambizioni) e uno scavo a freddo sulla violenza di una passione, nella storia di una maniacale vendetta femminile. Dopo il ’68, da cui si tenne coerentemente lontano, Truffaut dirige Baci rubati e La sirène du Mississippi {La mia droga si chiama Julie, 1969) ancora da Woolrich, un thriller in cui domina il tema, insistito e dichia­ rato, dell’amore, delle difficoltà dell’amore che chiede ancora agli amanti di potersi perdere perché l’amore viva. È certo questo uno dei film più segreti, dei più delicati da maneggia­ re, del regista francese: fatto di miti, di citazioni, di rinvii, di tecnica, di apparenza, gioca con la menzogna perché attra­ verso di essa sia possibile giungere a una verità, a una parte­ cipazione non supina. Gli segue, lo stesso anno, uno dei film invece più ambizio­ samente espliciti del regista, L’enfant sauvage {Il ragazzo sel­ vaggio), ispirato alla settecentesca «memoria» di Jean Itard su un ragazzo lupo, Victor dell’Aveyron, e sul suo tentato ricupero attraverso prove attuate con scientifica distanza, ri­ petitiva e ossessiva. È la storia di un super-emarginato alla conquista del linguaggio e della norma tramite gli sforzi di un pedagogo-regista (Itard è interpretato dallo stesso Truffaut). Il film chiude su un dubbio: «Domani riprenderanno gli eser­ cizi». Se vi sono alcune segrete assonanze tra questo film e I quattrocento colpi, ve ne sono di vistose in Les deux anglaises et le continent {Le due inglesi, 1971), con Jules e Jim, a comin­

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ciare dal fatto che sono entrambi tratti da romanzi dello stesso autore e che entrambi mettono in scena un triangolo. Ma Le due inglesi è un film classico e classicistico, non ro­ mantico; e insieme crudo, materiale, mortuario. Come il teatro di Anouilh, il cinema di Truffaut potrebbe essere spartito in opere «nere» e «rosa». Le seconde — tra cui il delizioso La nuit américaine {Effetto notte, 1973), cronaca della lavorazione di un film col suo film dentro un film, col suo compianto sulla morte di Hollywood e sulla forza che ha il cinema di contrastare la morte, di sopravviverle; ma anche col suo affresco agrodolce sulle varie età della vita: Jean-Pierre Léaud, Jacqueline Bisset, Valentina Cortese — gli hanno assicurato spesso, in virtù di uno charme coinvolgente, anche il favore del pubblico più vasto in Francia e all’estero, sebbe­ ne, grazie a un sapiente contenimento dei costi, nessuno dei suoi film sia risultato in deficit. Sono specialmente le prime opere, però, a dargli un posto di prima fila nel cinema france­ se degli anni Sessanta e Settanta anche se, come ha detto Rohmer, «a caratterizzare l’opera di Truffaut sono al tempo stesso la varietà e la solidità del legame che unisce l’uno all’altro i suoi film. Essi si illuminano e si rafforzano a vicen­ da, senza nuocersi in alcun modo...». Un’altra costante del suo lavoro è stata la mescolanza della leggerezza con la gravi­ tà, come appare, tra gli altri, in Le demier mètro {L'ultimo metrò, 1980), che nel suo itinerario creativo corrisponde a quel che è La carrozza doro nell’opera di Jean Renoir: un omaggio al teatro (Truffaut voleva arrivare a una trilogia sullo spettacolo con un film sul music-hall), una riflessione sulla vita del teatro e sul teatro della vita che è anche un’abile ricostruzione archeologica che risuscita la Parigi del 1942. Sono, quest’omaggio al cinema e quest’omaggio al teatro, i due maggiori successi di pubblico conquistati da Truffaut nella seconda metà della sua carriera, quella della raggiunta e piena maturità; al loro fianco, L’histoire dAdèle H. {Adele H., una storia damore, 1975), un altro successo che non sembra aggiungere molto alla comprensione dell’autore ma che, nella passionale descrizione di una follia amorosa e frustrata, met­ te in campo, col nascosto personaggio del padre (Victor Hu­ go, scrittore) e col palese elogio dell’amore e del desiderio guatato bensì dalla morte, l’universo tematico dell’autore con pregnante austerità e semplicità, sino a farne un film in cui i 103

sentimenti portano sempre al limite, mai investito, del mèlo, e la «scrittura truffautiana dei sentimenti» si mostra in tutto il suo vigore. Degli altri film — Une belle fitte comme moi (Mica scema la ragazza, 1972), sexy-comedy ai limiti della farsa, del grotte­ sco, del brutale; L’homme qui aimait les femmes (L’uomo che amava le donne, 1977), i ricordi di un don Giovanni in cui traspaiono l’amore dell’autore per le donne e per i libri; La femme d’à còte (La signora detta porta accanto, 1981), altra ossessione amorosa femminile che porta, nel mondo medio­ cre di una borghesia assai perbene, al suicidio-omicidio; Vivement dimanche! (Finalmente domenica, 1982), che torna al bianco e nero per una storia poliziesca divertita e vivace, ma che anche parla di morte e che è l’ultimo girato da Truffaut prima della sua morte — converrà ricordare anzitutto La chambre verte (La camera verde, 1978), dove Truffaut si mette in scena nel personaggio di un racconto di Henry James ossessionato dalla morte dei suoi cari e che, come la protago­ nista di Lamour à mort di Resnais, rifiuta di dimenticarli e allontanarli dalla propria vita. In definitiva, Truffaut ha raccontato la storia di un’idea fissa, di una fissazione «perversa». Giovane critico arrogante e appassionato, Truffaut riteneva che un film, per essere riu­ scito, dovesse esprimere simultaneamente un’idea del mondo e un’idea del cinema. Con varia intensità ed esiti più o meno felici, i suoi film le esprimono entrambe. Al di là delle loro differenze, costituiscono Un insieme armonico e prendono senso l’uno dall’altro.

Eric Rohmer

A differenza dei suoi colleghi dei «Cahiers du cinéma», Eric Rohmer (vero nome: Maurice Schérer, Nancy 1920) ar­ riva al cinema piuttosto tardi, dopo aver insegnato lettere moderne in un liceo della città natale. Pubblica nel 1957 un libro su Hitchcock, scritto con Claude Chabrol, dirige alcuni cortometraggi e, dopo il fiasco di Le signe du Lion (Il segno del Leone, 1959), descrizione «orizzontale» della degradazio­ ne fisica e morale di un uomo e del caso che la governa, ormai entrato nella categoria un po’ mitica dei film «maledet­ 104

ti», si applica, sull’arco di un decennio, alla realizzazione della serie dei «Sei racconti morali» che comprende — oltre ai due mediometraggi La boulangère de Monceau (La fornaia di Monceau, 1963) e La carrière de Suzanne (La carriera di Susanna, 1963) — La collectionneuse (La collezionista, 1967), Ma nuit chez Maud (La mia notte con Maud, 1969), Le genou de Claire (Il ginocchio di Claire, 1970), Lamour l’après-midi (L’amore il pomeriggio, 1972). Concepiti come novelle di una stessa raccolta, i sei film, tutti film di idee, ruotano attorno a uno stesso nucleo: la scelta morale di un uomo di fronte a due donne, una scelta di fedeltà e di possibile tradimento lungo un percorso di sviamento, attrazione, conflitto con il proprio codice morale, narrato dalla voce fuori campo del protagonista, sempre assai autoriflessivo. Moralista cristiano che ha letto Pascal — e riletto gli scrit­ tori libertini del Settecento alla luce dei giansenisti —, Roh­ mer punta su una dialettica di destino e libero arbitrio, punta sulla scommessa, su un’avventura dello spirito all’insegna di un linguaggio di una trasparenza ed evidenza che sfida l’ana­ lisi critica. La parola, una parola morale, ha un ruolo prima­ rio, integrata con l’immagine senza mai assorbirla. C’è una coincidenza perfetta tra il piano della forma e quello del contenuto. Rohmer traduce in pratica la teoria del cinema come «mezzo invisibile» (come nel cinema americano classi­ co), sviluppata da André Bazin, un linguaggio caratterizzato da una serie di esclusioni: pochi movimenti di macchina, rinuncia a inquadrature soggettive o «impossibili», elimina­ zione di ogni distorsione, cancellazione della presenza della cinepresa. Nei «Sei racconti morali» Rohmer «invita lo spettatore a prestare attenzione alla complessità della riflessione morale mentre una tessitura visiva accarezza i suoi sensi con proprie sovversive indicazioni» (Tom Milne). Il progetto ne è pur sempre letterario, la voce del narratore sottolinea la scrittura del film, e Rohmer ha detto: «Perché filmare una storia quando la si può scrivere? Perché scriverla quando la si filme­ rà? L’idea di questi “Racconti” mi è venuta a un’età in cui non sapevo ancora che sarei diventato cineasta. Se ne ho fatto dei film, è perché non sono riuscito a scriverli. E se, in un certo senso, è vero che li ho scritti — nella forma stessa in cui vanno letti — è unicamente per poterli filmare».

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Negli anni Ottanta Rohmer ha intrapreso un secondo ciclo di film cui ha dato il titolo leggermente abusivo di «Comédies et proverbes»; La femme de laviateur (La moglie dell’aviato­ re, 1981), Le beau mariage (Il bel matrimonio, 1982), Pauline à la plage (Pauline alla spiaggia, 1983), Les nuits de la pieine lune (Le notti della luna piena, 1984), Le rayon vert (Il raggio verde, 1986). Non c’è più un tema comune, e la loro struttura non è più riferita al romanzo ma al teatro; l’accento è messo più sulle regole pratiche che sull’atteggiamento morale, sui mezzi più che sui fini; i personaggi sono più commoventi e fragili di quelli del primo ciclo, ma la loro dimensione pateti­ ca ha spesso un sottofondo ironico; il fulcro dell’intrigo è spostato sulle figure femminili; la scrittura registica si fa an­ cor più trasparente nella geometria dei percorsi, nel gioco dei malintesi, delle false interpretazioni, dei ribaltamenti. L’insignificanza degli intrecci è tuttavia complicata da infinite e sottili varianti, da interni giochi di rapporti e di scambio, dalla costante attenzione, ancora, «a quello che la gente pen­ sa mentre fa una cosa, piuttosto che a quello che la gente fa», dalla diversità degli atteggiamenti dei molti protagonisti, spesso circondati da personaggi minori che intervengono oc­ casionalmente ma in modo rivelatore. Il tono vi è più sofisti­ cato e affettuoso, con un aspetto di chiacchiera esibizionista, la commedia vi ha il sopravvento, ed è questo certamente che ha decretato, per esempio, il successo di pubblico di Le notti della luna piena, e l’insuccesso del più sottile e segreto Pauline à la plage. I personaggi e la loro situazione sono dati in partenza, decisioni, scelte di diversità esistenziale, capricci, spesso rove­ sciati in scacco, che non conducono da nessuna parte. «Un personaggio rohmeriano non evolve, non muta, non risolve nulla: è alla fine ciò che era all’inizio e era all’inizio ciò che era l’attore fuori del film» (S. Daney). È un processo che sembra estremizzarsi e aprirsi nei suoi ultimi film, Il raggio verde, Quatre aventures de Reinette et Mirabelle (Reinette e Mirabelle, 1986). Sono film di attesa e di rivelazione «natura­ le» che ha un suo esito e che spinge il cinema ai limiti della sua capacità di captare un reale sconosciuto e aleatorio se­ condo l’accezione baziniana. Girati a 16 mm e poi gonfiati a 35 mm, troupes leggere, piena libertà di tempi di lavorazione, ampi margini d’improvvisazione, sono costruiti addosso alle

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attrici, Marie Rivière nel primo, Joèlle Miquel nel secondo, ai loro racconti e alle loro esperienze, e mostrano una scioltezza che supera se stessa, che è volontà di sfuggire alle costrizioni del cinema classico e del successo, ma finisce per riaffermare la maestria del regista in chiave di autore assoluto del film. Il mondo ideale di Rohmer «non evolve, la sua opera sì». Tra i due cicli Rohmer ha diretto Die Marquise von O... (La marchesa von..., 1975), tratto da una novella di Heinrich von Kleist e interpretato in tedesco da un gruppo di attori della Schaubiihne di Berlino (Edith Clever, Bruno Ganz, Peter Luhr, Otto Sander), e Perceval le Gallois (Perceval, 1978), ispirato alla leggenda del Graal di Chrétien de Troyes. Situa­ to nelfambito del revival di Kleist, che prese il via dal famoso allestimento del Principe di Homburg da parte della Schaubiihne con la regia di Peter Stein, La marchesa von... è un’o­ perazione esemplare di trascrizione (di «raddoppiamento») di un testo letterario, seguito da Rohmer con un rigore filolo­ gico quasi maniacale, riprodotto con uno squisito senso figu­ rativo con espliciti riferimenti alla pittura tedesca neoclassica e affidato con icastici risultati non soltanto alla professionali­ tà, ma al corpo degli interpreti. Altrettanto rigoroso, ma con esiti di una freddezza che ha sconcertato pubblico e critica, è Perceval per il quale Rohmer si è preoccupato in modo quasi ossessivo di rispettare, cioè di reinventare, una concezione e una organizzazione dello spazio scenico di tipo medievale, e di conservare quasi alla lettera la scansione dei dialoghi in versi ottonari e una lingua francese tanto arcaica da risultare incomprensibile. Jacques Rivette Sotto il segno del rigore stilistico, ma con uno sperimenta­ lismo più accentuato, si pone anche Jacques Rivette (Rouen 1928). Nel 1952 comincia a scrivere sui «Cahiers du cinéma» di cui diventa capo redattore tra il 1963 e il 1965, ma già nel 1956 esordisce nella regia con Le coup du berger (Il colpo del pastore, scritto con Claude Chabrol che è anche uno dei produttori), seguito da Paris nous appartieni (Parigi ci appar­ tiene, 1958-60) e da Suzanne Simonin, la religieuse de Diderot (La religiosa, 1966), tratto dal romanzo di Denis Diderot.

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Sono film che si rifanno al cinema classico col predominio di una drammaturgia preesistente alle riprese e del dialogo scrit­ to. In quelli successivi la sceneggiatura non è più una partitu­ ra da mettere in immagini, ma una sorta di grande trappola romanzesca che orienta l’improvvisazione degli attori (e dei tecnici), sottomettendola a passaggi obbligati, e che trova la sua organizzazione razionale soltanto nella fase del montag­ gio. Affascinato dalla lezione di Lang e Rossellini (per la Fran­ cia, in parallelo, Feuillade e Renoir), Rivette verifica con Paris nous appartieni l’intrusione di un tema astratto — quel­ lo del complotto e della paranoia che lo produce e l’accom­ pagna — nel microcosmo quotidiano della gioventù studen­ tesca parigina negli anni della guerra d’Algeria. Vittima della censura gollista, La religiosa aveva finito per sconcertare (nonostante resti il suo unico successo di pubblico) per la sua austerità e perché non vi si trovò nulla di direttamente pole­ mico. Era derivato da una sua messinscena teatrale, mentre in Paris nous appartieni il teatro era uno degli oggetti, in qualche modo il principale del film, che narrava di un gruppo che metteva in scena Shakespeare. Il teatro, come menzogna, s’inseriva in una storia di complotto (e sul fondo si avvertiva l’eco del ’56 e di Budapest così come la minaccia quotidiana dell’oAs). Tutti i film di Rivette saranno da allora anche «do­ cumentari sulla loro realizzazione, ma la cui realizzazione è a sua volta una finzione o una macchinazione o un complotto di cui lo stesso autore finge di essere solo lo strumento» (Turigliatto). I rituali cui sottostà la Religiosa ne sono un altro aspetto. In L’amour fou (L’amore folle, 1968, quattro ore e mezzo di durata), esperienza limite, forse, nella contaminazione fra cinema diretto e fiction, finzione, si mette in scena Racine, e la dialettica tra vita e teatro è sviluppata con tecniche nuove, impersonali. Esso è anche un documentario sulla coppia, una coppia di artisti che verifica sulla propria pelle e nella propria storia, con il rigore di una ricerca assoluta, lo scambio vitamenzogna nella durata', il tempo è l’altro grande protagonista di questo film, nello spazio chiuso del teatro e, appunto, àe\V amour fou. Out one (id., 1970), girato in 16 mm, è lungo dodici ore e quaranta minuti, ed ebbe un’unica proiezione pubblica nel

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settembre del ’71 alla Casa della cultura di Le Havre; venne poi ridotto a duecentosessanta minuti e presentato come Out one: Spectre (id.). L’autore sembra quasi cancellarvisi, spinge la sua sperimentazione agli estremi limiti possibili, rinuncia alla psicologia del personaggio e propone la sua frantuma­ zione. Il soggetto vi è ancora il teatro, il complotto: parte dalla Storia dei tredici di Balzac, con la cui storia quella di ciascuno degli interpreti viene in qualche modo a intrecciarsi. Céline et Julie vont en bateau (Céline e Julie vanno in barca, 1974), forse il suo film più felice, è invece una deliziosa com­ media fantastica d’avventura in cui Lewis Carroll s’incrocia con Henry James con un’ironica allegrezza aerea e magica. Film onirico, le storie che vi racconta una delle protagoniste si mescolano con il reale, ma in esso tutto si mescola, nella visione di un regista che tutto avvicina e allontana, crea e rifiuta. Anche i suoi film successivi — Ducile (Duale, 1976), Noroit (Maestrale, 1976), Merry-go-round (id., 1979), e, dedi­ cati a Parigi, Le poni du Nord(\\ ponte del Nord, 1981) e Paris s’en va (Parigi se ne va, 1981), fino a Lamour par terre (L’a­ more per terra, 1984) — ripropongono il tema dei rapporti tra realtà, finzione e sogno, il piacere di ricordare il cinema attraverso il teatro, il piacere di far recitare le donne in cop­ pia (Bulle Ogier, Juliet Berto, Marie-France Pisier, Jane Bir­ kin, Geraldine Chaplin), il governo dell’intelligenza su quelli che Rivette stesso chiama imbrogli comici e dolorosi. Con lo stesso metodo, senza sceneggiatura precostituita, ha traspo­ sto la prima parte di Cime tempestose in Hurlevent (id. 1985), spostandolo dallo Yorkshire del ’700 alla campagna occitani­ ca del 1931 e facendo dei due protagonisti di questa storia & amour fou degli adolescenti, ma soprattutto disseccandolo in un gioco formale ambiguo e non poco arido.

Chabrol, Kast e Malie

Nato a Parigi nel 1930 ma cresciuto in provincia, Chabrol è autore con Rohmer, nel 1957, di un libro su Hitchcock, suo maestro. Cinema e letteratura poliziesca sono le sue passioni, e nella sua prolifica carriera dominano appunto i polizieschi in una versione molto francese; e insieme lo affascina il mon­ do chiuso della provincia, delle famiglie, delle ville borghesi e 109

piccolo-borghesi, con ciò che si nasconde dietro le loro appa­ renze, dietro le loro mura. Con Le beau Serge (id., 1958) e Les cousins (I cugini, 1959) ha fatto da battistrada alla nouvelle vague, provinciale il pri­ mo e parigino il secondo, ma entrambi storie ai margini del giallo, di amore e di morte e di rapporti chiusi e morbosi. Già nel 1959 con À double tour (A doppia mandata), adattato da un romanzo, la sua propensione per il poliziesco si precisa, anche se con Les bonnes femmes (Donne facili, 1960) dà il suo film più duro ed «entomologico», forse anche il suo film più maledetto, in direzione di una nera commedia di costume, e nell’episodio La Muette (un quartiere «bene» di Parigi) di Paris vupar... (Parigi vista da..., 1964) dà l’ironica descrizione di una famiglia borghese, tra sociologia e aggressione, senza «giallo». La sua carriera è stata alterna di risultati, ma solidamente inserita nel cinema di consumo, qualificandosi — con il suo assiduo sceneggiatore Paul Gégauff — per l’atteggiamento ambiguamente provocatorio verso il pubblico, tra disprezzo e lusinga, per il gusto facile della dissacrazione, il cinismo senza passione, la corrosiva descrizione dell’universo borghe­ se, l’intelligenza sinuosa di un linguaggio spesso volto a na­ scondere, decorandoli, i vuoti e gli artifizi della sceneggiatu­ ra. Chabrol ha avuto il suo periodo più felice con un quartetto di film — La femme infidèle (Stéphane, la moglie infedele, 1968), Que la bète meure (Ucciderò un uomo, 1969), Le boucher (Il tagliagole, 1970), La rupture (Al!ombra del delitto, 1970) — in cui, mettendo a frutto la lezione dell’amato Hitchcock, ha raggiunto la maturità tranquilla e l’allure sicu­ ra di un narratore ottocentesco, qualità che ha poi conferma­ to solo saltuariamente. Descrittore dei peccati e castighi se­ greti della provincia francese, si è rivolto ai giallisti di più generazioni, prediligendo infine i francesi delle ultime leve come-in Nada (Sterminate Gruppo Zero, 1973), da Dallacorta, ma senza abbandonare il maestro Simenón come in Les fantòmes du chapelier (Ifantasmi del cappellaio, 1982). Il suo film più interessante degli ultimi anni è bensì Violette Nozière (id., 1978), abile ricostruzione di un fatto di cronaca degli anni Trenta. E, nei toni di giallo ironico, Masques (Maschere, 1986) è un affilato smascheramento della doppiezza di un

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presentatore televisivo, gran mercante di buoni sentimenti. Insomma, di fronte alla voga tutta francese di polizieschi sempre più «astratti» e sradicati da qualsiasi realtà, interpre­ tati di solito da Delon, Beimondo, Ventura, Trintignant, Pic­ coli, che ha tenuto banco negli ultimi vent’anni, il cinema di Chabrol ha il vantaggio di continuare a parlare di costanti francesi, ancora contestualizzate, nonostante un cinismo non di facciata e la convenzionalità dei suoi temi, perlopiù tesi meccanismi di cui spingere sino all’estremo la logica inelutta­ bile, perversa. Anch’egli proveniente dalla critica (su «Action», «La révue du cinéma», i «Cahiers») e collaboratore di Langlois alla Cinémathèque, ma, a differenza dei suoi più giovani colleghi, con un apprendistato di assistente di Grémillon, Renoir, Clément, e di documentarista (fu nel cortometraggio, anzi, che ottenne i suoi risultati più felici), Pierre Kast (Parigi 1920 - Roma 1984) si distingue — sin da Un amour de poche (Un amore tascabile, 1957) su esile pretesto fantascientifico, Le bel àge (La dolce età, 1960), diviso in tre episodi, La morte saison des amours (La morta stagione dell"amore, 1961), che è il suo film più ambizioso e corale, e il ripetitivo Vacances portugaises (Antologia sessuale, 1963) — come un letterato che fa il cinema (e la televisione) en amateur, all’insegna di un razionale moralismo settecentesco, oscillando tra un atteg­ giamento d’intellettuale di sinistra, una filosofia ironica dei rapporti amorosi, la passione per l’utopia e la fantascienza, l’amore per il Portogallo e il Brasile. Ciò gli ha permesso qualche discreto risultato: la fiaba cosmica e avventurosa Les soleils de file de Pàques (I soli dell’isola di Pasqua, 1972); l’ambizioso e irrisolto Un animai doué de déraison (Un anima­ le irragionevole, 1975) girato in Brasile come Le drapeau blanc cTOxala (La bandiera bianca di Oxala, 1974), d’impian­ to etnografico ma ancora coi toni della fiaba filosofica. Suo sceneggiatore per Le bel àge e Vacances portugaises è stato Jacques Doniol-Valcroze (Parigi 1920), già critico di «France Observateur» e cofondatore dei «Cahiers du cinéma». Disin­ cantato, fine letterato, ha dato all’esordio con L'eau à la bouche (Le gattine, 1959) un delicato racconto libertino di coppie che si fanno e si disfano nella cornice di un castello barocco. Poi, si è perso in stanche variazioni su temi filosofici o passionali, da La dénonciation (La spiata, 1962) a La femme

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fatale (Femminilità, 1974), prima di passare alla televisione. Un regista che ha fatto una corsa isolata da outsider tra gli altri autori del giovane cinema francese, poi velocemente in­ ternazionalizzatosi e infine americanizzatosi, è Louis Malie (Thumeries 1932). Rampollo di una ricca famiglia di indu­ striali, dopo la scuola dell’iDHEC e di Bresson, ha firmato con Jacques-Yves Cousteau Le monde du silence (Il mondo del silenzio, 1956), documentario subacqueo che vinse la Palma d’oro a Cannes. Ha poi percorso un itinerario di spericolato eclettismo, ha puntato sulle audacie erotiche di Les amants (id, 1958), di elegante impronta libertina, Le souffle au coeur (Soffio al cuore, 1971), su una mamma che sacrifica una tantum all’incesto col figlio adolescente, e Pretty Baby (id, 1978), suo primo film americano, sull’iniziazione di una bambina alla prostituzione in un bordello inizi secolo; è pas­ sato dal film «nero» — Ascenseur pour l’échafaud (Ascensore per il patibolo, 1957), opera prima allora molto apprezzata, ma anche Atlantic City (id, 1980), il suo miglior film ameri­ cano con un Burt Lancaster sul declino — al pastiche surrea­ lista di tipo grottesco, con l’esteriore Zazie dans le mètro (Zazie nel metrò, 1960), da Queneau, od onirico-fantastico con il raffinato quanto sterile Black moon (Luna nera, 1975); dal film d’azione in chiave parodistica come Viva Maria (id., 1965) al film in costume che si vorrebbe anarchico, Le voleur (Il ladro di Parigi, 1967); dal documentario militante come Humain trop humain (Umano troppo umano, 1972) sugli ope­ rai della Citroen a quello di scoperta misticheggiante dell’in­ dia — Calcutta (id., 1968) e Linde fantòme (L’India fanta­ sma, 1969) — e a quello para-sociologico sulla Francia — Place de la République (id., 1972-74) — o sugli usa come My dinner with André (La mia cena con André, 1981) e And the pursuit of happiness (E la ricerca della felicità, 1987), con commistione di cinema diretto e interventi d’autore. I suoi esiti migliori e più personali restano Le feu follet (Fuoco fatuo, 1963), rigorosa parafrasi di un romanzo di Drieu La Rochelle sulle tensioni suicide di un intellettuale, benché sopravvalutato a suo tempo, e Lacombe Lucien (Co­ gnome e nome: Lacombe Lucien, 1974), acuta analisi del pas­ sato fascista della Francia sotto l’occupazione tedesca, cen­ trata sulla figura di un giovane proletario che si fa collabora­ zionista, visto forse con eccesso di partecipazione. In Ameri­

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ca, oltre ai lavori di cinema-verità un po’ leccati e televisivi, ha diretto Pretty Baby (id., 1977), Atlantic City, usa {Atlantic City, 1980), capzioso, elegante ma sopravvalutato film «ne­ ro», Crackers (id., 1983), balordo rifacimento di Isoliti ignoti e Alamo Bay (id., 1985), sui pescatori vietnamiti emigrati nel Texas dopo la guerra, dove sfoga ancora una volta il suo gusto per le ironie della storia. Quella di Malie è un’opera disparata, spesso altera nella sua eleganza e presuntuosa nelle sue idee non sempre peregrine, ma di un solido mestiere e, a volte, non tutta o solo esteriore. Jacques Rozier (Parigi 1926) ha invece dato con Adieu Philippine {Desideri nel sole, 1962) una delle opere più libere, innovatrici e fresche della nouvelle vague, giustamente acco­ stata a Les dernières vacances di Leenhardt e a I quattrocento colpi di Truffaut. Un giovane tecnico della tv, i suoi rapporti con due ragazze e un piccolo intrallazzatore della pubblicità, le sue ultime vacanze in Corsica prima di partire per l’Alge­ ria: questa storia lineare è raccontata con naturalezza e origi­ nalità di costruzione, appena percorsa sottopelle dalle inquie­ tudini della gioventù dell’epoca. Una analoga libertà e affetto per i personaggi li si ritrova in parte in Maine Océan (Maine Oceano, 1985) in cui il rapido Parigi-Nantes è il punto focale di incontri bizzarri e fantasiosi, e che è l’ultimo dei rari e indipendenti film cui è stata costretta la carriera di Rozier, dopo l’insuccesso commerciale di Desideri nel sole. La «rive gauche»

Fra gli inutili tentativi di identificare i gruppi e le tendenze nella mappa del cinema francese degli anni Sessanta il più probante è quello che parla di una nouvelle vague della rive gauche, contraddistinta da una formazione culturale legata all’impegno politico degli anni Cinquanta. Ha in Alain Re­ snais il suo esponente di maggiore spicco, se non un capo­ scuola, al quale si possono collegare — per rapporti persona­ li, affinità letterarie e un certo uso del montaggio — Agnès Varda, Jacques Demy, Henri Colpi, Chris. Marker, Margue­ rite Duras, Jean Cayrol, Alain Robbe-Grillet. Esordiente nel lungometraggio con La Pointe Courte (id., 1954-56) di cui Resnais aveva curato il montaggio, Agnès 113

Varda (Bruxelles 1928), fotografa e documentarista di gusto prezioso — Ó saisons, ò chateaux (O stagioni, o castelli, 1956), LOpéra Mouffe (Lo spettacolo della rue Mouffetard, 1958) — ha dato il meglio di sé in Cléo de cinq à sept (Cleo dalle 5 alle 7, 1962) che è un documentario soggettivo su Parigi vista in un’ora e mezzo della vita di una giovane donna malata, una meditazione sulla morte, un saggio sulla condi­ zione femminile, e in Le bonheur (Il verde prato dell amore, 1965), film di grazia mozartiana sul tema della felicità, dove l’uso del colore, ispirato alla pittura impressionista, è fin troppo sapientemente organizzato. Se La Pointe Courte aveva il suo pregio nel nitore un po’ freddo dello sguardo fotografico dell’autrice, rivolto con la stessa attenzione ai personaggi e agli oggetti e all’ambiente, e i suoi limiti nella letterarietà del dialogo, Cleo seppe convin­ cere per il distacco dello sguardo, rivolto su una città in anni difficili oltre che su un personaggio, e su una piccola signifi­ cativa galleria di figure di contorno che precisavano compo­ nenti e ambienti della città, mentre II verde prato dell amore sconcertò alcuni per la sotterranea crudeltà che muoveva la descrizione di un non nuovo tentativo di «coppia a tre» bensì in ambiente operaio, e per il legame, forzoso spesso, tra colo­ re e sentimenti. Sempre interessanti ma meno riusciti i suoi film successivi. Les créatures (Le creature, 1966) fu insieme sul processo della creazione artistica e su figure femminili, che campeg­ giano anche in Lune chante, l’autre pas (Una canta, l’altra no, 1976). In America girò Lion's love (L’amore del leone, 1971) e il documentario politico Black Panther (id., 1968), e documentari, o meglio riflessioni sul documentario, sulla fo­ tografìa, sulla società contemporanea nelle sue piccole rivela­ trici misure furono, tra gli altri, Mur murs (Muro muri, o a piacere Mormorii, 1980-82), Documenteurs (Documentatori, o a piacere Documentitori, 1980-82), Une minute pour une image (Un minuto per un’immagine, 1983, centosettanta mi­ ni-film, ciascuno su un’immagine fotografica). Annunciato dal cortometraggio 7° cuis.s. de b. ... à saisir (un annuncio di vendita di un appartamento, 1984) che privi­ legia il chiuso di un ambiente, Sans toit ni loi (Senza tetto né legge, 1985, Leone d’oro a Venezia) torna alla story, ma seguendo una originale struttura narrativa costruita a partire

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da ambienti e personaggi presi dalla realtà. Ha al suo centro i vagabondaggi e gli incontri di una ragazza sbandata, e riesce nell’intento di distinguere la pietà per il personaggio dalla ripulsa per la sottocultura di cui è impregnato e che lo guida, atteggiamento tipico di questi ultimi anni. Il suo è un ritorno in grande stile, aperto e in grado di rendere il mistero di un personaggio diverso che sfugge a ogni testimonianza e inchie­ sta documentaria. Agnès Varda è moglie di Jacques Demy (Pont-Chàteau 1931), regista molto meno originale di lei, portato alla grazio­ sa divagazione fantastica, ma che aveva esordito nel 1961 con un Lola (Lola, donna di vita), raffinata e tenera commedia con Anouk Aimée, in cadenze di balletto e sul filo di un sentimen­ talismo struggente, nella cornice della città costiera di Nan­ tes. Dopo La baie des anges (La grande peccatrice, 1962), in omaggio a Jeanne Moreau nel pieno del suo fascino, travolta dalla furia del gioco, film ugualmente sentimentale ed elegan­ te, Demy ha rivelato la sua vocazione per lo spettacolo musi­ cale con Lesparapluies de Cherbourg (id., 1964), squisitamen­ te «falso», cantato da cima a piedi su musiche di Michel Legrand, e Les demoiselles de Rochefort (Josephine, 1966), elegante ripresa con variazioni della tradizione del musical hollywoodiano, anch’essa sullo sfondo di una città portuale, seguiti, con brio accademico sempre più appannato, da Mo­ del shop (L'amante perduta, 1968), girato a Los Angeles, e dalle favole Peau (Jane (La favolosa storia di Pelle d'asino, 1971) e The Pied Piper (Ilflautista di Hamelin, 1973) realizza­ to in Gran Bretagna, giù giù sino al pessimo Parking (id., 1985), cocteauiano Orfeo in versione pop. Sola eccezione è, tra gli ultimi film, Une chambre en ville (Una camera in città, 1982), mèlo cantato, aspro, crudele, sullo sfondo ancora di una Nantes 1955 di scioperi e lotte sociali. Cineasta, scrittore, operatore culturale di coerente impe­ gno progressista (ha fatto la resistenza come Pierre Kast, Armand Gatti, Jean Cayrol), infaticabile viaggiatore, intel­ lettuale curioso col gusto dell’insolito e spirito paradossale col senso dell’evidenza, Chris. Marker (vero nome: ChristianFrancois Bouche-Villeneuve, Neuilly-sur-Seine 1921), colla­ boratore di Resnais per Les statues meurent aussi (Anche le statue muoiono, 1953) e Nuit et brouillard (Notte e nebbia, 1955), considera il cinema come un mezzo per comporre

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saggi e offrire testimonianze sul nostro tempo. Ha fatto lucidi e appassionati film di viaggio: Dimanche a Pekin (Domenica a Pechino, 1956), Lettre de Sibèrie (Lettera dalla Siberia, 1958), Description dun combat (Descrizione di una battaglia, 1960, girato in Israele), Le mystère koumiko (Il mistero koumiko, 1965), Cuba sì! (id, 1961) e La bataille des dix millions (La battaglia dei dieci milioni, 1970); e con Le joli mai (Il bel maggio, 1963) ha proposto uno dei più densi e felici saggi di «cinema diretto». È poi passato da La jetée (La rampa di lancio, 1963), affascinante esempio di film di fantascienza a foto fisse, a Le fond de Fair est rouge (Il fondo dell’aria è rosso, 1977), film di montaggio sulle lotte operaie e studente­ sche, e Sans soleil (Senza sole, 1982). Spinto da un’insaziabile curiosità per la realtà e da un inesauribile amore per la giusti­ zia, ha portato attraverso il mondo uno sguardo lucido di sociologo e un impegno appassionato. È lui il vero autore, come organizzatore e coordinatore, del film collettivo Loin du Vietnam (Lontano dal Vietnam, 1967), ammirevole antolo­ gia di riflessioni e testimonianze cui hanno collaborato Go­ dard, Resnais, Ivens, Lelouch, Klein e altri. Dopo aver fornito soggetti e sceneggiature ai più vari regi­ sti (Clément, Richardson, Brook, Colpi, Dassin) e a Resnais il testo di Hiroshima mon amour, la scrittrice Marguerite Duras (vero nome: M. Donnadien, Indocina 1914) è passata al cinema in prima persona con La musica (1966), seguito da Détruire, dit-elle (id., 1969) e da un’altra ventina di film tra cui India song (id, 1975), Baxter-Véra Baxter (id., 1976), Le camion (Il camion, 1977), Le navire Night (La nave Night, 1979), L’homme atlantique (L’uomo atlantico, 1982) e il deli­ zioso, paradossale Les enfants (I bambini, 1984), che spesso sono spostamenti e dislocazioni di personaggi, voci, azioni da un mezzo d’espressione all’altro. Il tema centrale di queste «opere multiple» è la passione che folgora, legata alla follia e alla morte, «che lascia gli esseri bruciati, erranti, senza me­ moria» (D. Noguez). Più che un linguaggio o una scrittura, per la Duras il cinema è la distruzione del linguaggio o, comunque, la rinuncia agli «effetti di reale» della scrittura cinematografica, il predominio concesso al testo, anzi ad al­ cune parole ossessivamente ripetute e legate all’evocazione di un ambiente, di un’atmosfera: la sua opera è una sorta di testo che prolifera su se stesso e sulla propria memoria, ri­

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producibile all’infinito, ma indecifrabile al di fuori dell’uni­ verso di riferimenti da esso stesso creati. Del gruppo della rive gauche fanno anche parte lo svizzero Henri Colpi che con Une aussi longue absence (L’inverno ti farà tornare, 1961), su soggetto della Duras, vinse inopina­ tamente mezza Palma d’oro al festival di Cannes e potè poi girare in Romania il populista Codine (Sangue al sole, 1963) adattando un romanzo-affresco di Panait Istrati; lo scrittore Jean Cayrol che, dopo aver fornito a Resnais il copione di Muriel, diresse Le coup de grace (Il colpo di grazia, 1964) che ne è quasi una parafrasi, e Alain Robbe-Grillet (Brest 1922) che, con risultati spesso deludenti e sempre artificiosi, ha cercato di trasporre nel cinema i modi e le tecniche della «scuola dello sguardo», spesso applicandoli a situazioni ero­ tiche, da L’immortelle (L’immortale, 1963) a L’homme qui meni (L’uomo che mente, 1967), da Glissementsprogressifs du plaisir (Spostamenti progressivi del piacere, 1974) a Le jeu avec le feu (Giochi di fuoco, 1975) e La belle captive (La bella prigioniera, 1982), tutti di un intellettualismo interno a priva­ te ossessioni.

Dopo la «nouvelle vaglie» Non è facile tracciare una mappa del cinema francese tra gli anni Sessanta e Ottanta che, tra colpi di regia e fuochi di paglia, offre una grande varietà di opere e registi, un folto stuolo di esordi che spesso non hanno avuto seguito, una diversificazione di generi che vanno dal cinema d’autore più impervio ed elitario fino alla produzione più esplicitamente mercantile, insomma una invidiabile vitalità. Nonostante l’ir­ reversibile calo degli spettatori, parzialmente tamponato col sistema delle multisale, l’industria del cinema resiste, sostenu­ ta da governi — sia di destra, sia di sinistra — che considera­ no il cinema un bene culturale; da un complesso di leggi che, nel bene e nel male, sono servite da modello anche per altri paesi; dal ritorno alla ribalta di alcune grandi compagnie, veri trust verticali, come la Gaumont il cui direttore generale, Daniel Toscan du Plantier, ha tentato di rifare negli anni Settanta il «cinema di qualità» (sceneggiature robuste e ben costruite, dialoghi calibrati, attori di sicura professionalità

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ecc.) attraverso gli «autori» degli anni Sessanta, la prima generazione di registi-cznépAz/ej della storia, cioè di conciliare le nuove vagues col commercio. A cominciare da Truffaut e Godard, la risposta degli auto­ ri è stata quella di accollarsi anche la parte del produttore, di costruire microsistemi produttivi la cui funzione non è limita­ ta, come succede in Italia e altrove, al singolo progetto di montare un film già ideato, ma di predisporre il campo per produrre i successivi: Godard con Sonimage, Truffaut con Les films du carrosse, Rohmer con Les films du losange, Paul Vecchiali con Unité trois e poi con Diagonale, Claude Lelouch con Les films 13. Nasce così una nuova politique des auteurs che è anche una politique des producteurs, ma non sono molti in grado di praticarla, non tutti hanno la grinta, gli appoggi, l’attitudine di autogestione per trasformarsi in imprenditori, pagando quest’incapacità con lunghi periodi di inattività, con esiti talvolta amari (Jacques Demy), talvolta tragici (Jean Eustache, morto suicida nel 1981). È giusto osservare con ammirazione che soltanto in un paese come la Francia esistono casi come quelli di Marguerite Duras e di Eric Rohmer, di due autori che hanno potuto lavorare in libertà e continuità, ma entrambi capaci, pur nella loro diver­ sità, di fare film economici, redditizi o comunque non passivi, adeguando i costi al loro pubblico potenziale. Lo spazio che, nonostante la crisi, la cinematografia fran­ cese continua a conservare ai film d’autore, in una propor­ zione impensabile in altri paesi, è dovuto anche all’assistenza e alla protezione dello stato che nel corso degli anni ha sapu­ to escogitare diversi canali di aiuto finanziario: la formula dell’avance sur recettes, cioè un contributo anticipato prima dell’inizio delle riprese, della legge Malraux del 1959; l’impe­ gno dell’oRTF, l’azienda televisiva di stato, nella coproduzio­ ne di film, che ebbe inizio nel 1966 col finanziamento di Mouchette di Bresson; il contributo produttivo dell’iNA (Institut national de l’audiovisuel, divenuto nel 1982 Institut na­ tional de la comunication audiovisuelle) che nelle sue varie fasi ha finanziato film di Raul Ruiz, Robert Kramer, Philippe Colin, Benoìt Jacquot, Patricia Moraz, Syberberg, Frank Cassenti; la legge Lang (dal nome di Michel Lang, ministro del governo socialista di Mitterrand) che nel 1981 ha risiste­ mato, equilibrato e rivitalizzato tutta una serie di interventi

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statali in quello che è ormai da molti anni il cinema più aiutato del mondo. Se nel periodo 1960-68 i tre registi più spesso premiati dalla legge dell’avance sur recettes sono Yves Robert, Robert Enri­ co e Claude Lelouch, ossia tra i cineasti di maggior successo commerciale del decennio successivo, dopo il 1968 la com­ missione comincia a privilegiare film più «difficili» come quelli di Jacques Rivette, Jean-Fran^ois Adam, Gérard Blain, Pierre Kast, Edouard Luntz, René Féret, Philippe Garrel. Come ogni provvedimento di questo genere, questa legge di aiuto finanziario non è «innocente» né neutrale. Poi­ ché la commissione che assegna le avances deve giudicare in base a una sceneggiatura scritta, è inevitabile che finisca col favorire i film che nascono dalle idee più che dalle immagini. «In tal modo», scrive René Prédal in Le cinéma frangais contemporain (1984), «il sistema privilegia un cinema intellettua­ le: riflessivo più che descrittivo... che discute più che mostrare i personaggi... psicologico più che sociologico... di fiction più che documentaristico... e mai al passo con gli eventi del pre­ sente... lo stato pertanto riserva il suo denaro per film che riflettono sul cinema anziché sulla realtà, rivelando così la caratteristica essenziale del cinema francese, che offre spesso lavori di seconda mano, se rapportati alla spontaneità del western americano o della commedia italiana...».

Il «polar» Rigorosamente codificato e alimentato da una florida let­ teratura di lunga tradizione, con origini che risalgono agli anni Dieci (i feuilletons o serials di Louis Feuillade) e fiorente negli anni Cinquanta prima dell’avvento della nouvelle vague, il genere più fertile nel cinema francese è il poliziesco, ormai chiamato diffusamente polar la cui etichetta racchiude le va­ rie categorie del «giallo» (come s’usa dire in Italia), del «ne­ ro» e del poliziesco in senso stretto e delle sue diramazioni verso l’avventuroso, il comico e il politico. Officiato da vec­ chi volponi del mestiere come Henri Verneuil (da Mélodie en sous-sol, Colpo grosso al Casinò, 1963, a Le corps de mon ennemi, Il cadavere del mio nemico, 1976) e Georges Lautner (da Le pacha, La fredda alba del commissario loss, 1967, a Le

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professione^ Joss il professionista, 1981), questo genere hà dato apprezzabili risultati a opera di abili artigiani come Yves Boisset, Jacques Deray, José Giovanni, Pierre Granier-Defferre, Philippe Labro, Jean-Pierre Mocky (che aveva all’ini­ zio altre ambizioni, ma non ne è stato all’altezza), Edouard Molinaro, ma resta soprattutto un cinema di effetti, cinico, misantropo e spesso misogino, anche quando si ammanta di contenuti progressisti. È un cinema soprattutto di attori: Li­ no Ventura, Yves Montand, Jean-Louis Trintignant e spe­ cialmente Alain Delon e Jean-Paul Beimondo, produttoripadroni al cui servizio si pongono negli anni Settanta registi yes-men. È un cinema di registi-sceneggiatori che, sulla scia di Mel­ ville, si sono formati sui romanzi della «Sèrie noire» di Gal­ limard, sulla frequentazione del cinema gangsteristico holly­ woodiano e anche su quella del poliziesco politico italiano: L’attentat (L’attentato, 1972) sull’affare Ben Barka e Le juge Fayard dit «Le Shérif» (Giudice d’assalto, 1977) di Boisset; Un papillon sur l’épaule (Morti sospette, 1978) di Deray; Adieu, poulet (Dai, sbirro, 1975) di Granier-Defferre; Sterminate Gruppo Zero (1974) di Chabrol, che fa diverse incursioni in questo territorio, inclinando al giallo e al thriller. Col genere si cimentano, abbastanza alla larga, Bertrand Tavernier con due film notevoli, L’horloger de Saint-Paul (L’orologiaio di Saint-Paul, 1970, da Simenon) e Le juge et I’assassin (Il giudice e l’assassino, 1976), entrambi interpretati da un ottimo Philippe Noiret e, prima di Péril en la demeure (Pericolo nella dimora, 1985), Michel Deville con Le dossier 51 (id., 1985), livido film di spionaggio che, nella forma di un allucinato apologo di originale struttura stilistica, tratta i te­ mi delle maschere del potere politico e tecnocratico, della manipolazione degli individui-cittadini e della perdita d’iden­ tità, per non dire dell’ultimo Truffaut (Finalmente domenica), e, in modi più indiretti, dell’ultimo Godard (Prénom: Car­ men, 1983; Détective, 1985). Negli anni Settanta e Ottanta il genere ha attratto giovani registi di vario talento come Serge Moati che, venuto dagli sceneggiati televisivi, ha diretto un originale e trascinante Nuit d’or (Notte d’oro, 1977); André Téchiné che, dopo esser­ si messo in luce con Souvenirs d’en France (Ricordi di inFrancia, 1974), ha fatto il fumistico e pretenzioso Barocco

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(id., 1976); Bob Swaim con La balance (La spiata, 1983), premio César per il miglior film; Gilles Béhat col cupo Rue Barbare (id,, 1983); l’ex giornalista Francis Girod con Le trio infernal (Trio infernale, 1973); l’iraniano Jacques Bral con Extérieur nuit (Esterno notte, 1979) e Polar (id., 1983); Robin Davis, l’americaneggiante Jean Marboeuf ecc. I registi più notevoli del gruppo sono Claude Miller (Parigi 1942) e Alain Comeau (Meung-sur-Loire 1943). Dopo l’e­ sordio promettente di La meilleure fa^on de marcher (Il mi­ glior modo di camminare, 1975), Miller attinge a Patricia Highsmith per Dites-lui que je I’aime (Gli aquiloni non muoio­ no in cielo, 1977), racconto di amourfou che ha in comune col precedente l’ambiente di provincia (là l’Auvergne, qui le Al­ pi) e il tema dell’ossessione amorosa, e con Gardé à vue (Guardato a vista, 1981), su sceneggiatura del sagace Michel Audiard, fa un film nero nella migliore tradizione del cinema francese di qualità. Meno convincenti i film successivi, com­ preso il pluripremiato L'effrontée (La sfrontata, 1986), delica­ ta ma annacquata analisi di due adolescenze femminili. An­ cor più originale è Comeau che ha fatto una serie di polars sotto il segno del crepuscolo e della periferia metropolitana, su sfondi alienanti e indifferenti ai drammi dei personaggi, antieroi spesso miserabili, sganciati da un contesto sociale preciso, automi coinvolti in intrighi assurdi e imprevedibili, immersi in un lirismo sordido, talvolta corretto da una livida ironia: France, societé anonyme (id., 1974), Police Python 357 (id,, 1976), La menace (La minaccia, 1977), Sèrie noire (Il fascino del delitto, 1979), notevole per la sceneggiatura di Georges Perec e per l’interpretazione di Patrick Dewaere, Le choix des armes (Codice c!onore, 1981). Tutt’altro che felice è la sua incursione nel campo del kolossal militare e coloniale con Fort Saganne (id., 1984). La commedia

Claude Zidi ha fatto centro e colto i principali premi César con Les ripoux (Il commissadro, 1984). Era il ritratto, a mezzo tra il polar e la commedia, di un poliziotto corrotto ma accat­ tivante, superbamente interpretato da Philippe Noiret, sullo sfondo di una Parigi minore dei mercati e dei bistrot. Ma Zidi

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è un vecchio routinier cui si deve la regia delle farsacce degli Chariot, che hanno furoreggiato nei primi anni Settanta, esportati anche in Italia. È uno dei poli tra cui ha oscillato la commedia francese, assieme al teatro di boulevard con i suoi intrighi di impiegati e di corna, non senza incursioni nella commedia di costume con prestiti dai modelli transalpini. I suoi registi campioni d’incasso sono Yves Robert, ex attore e produttore in società con la moglie Danièle Delorme, attivo nella regia dal 1953, noto all’estero specialmente per il suc­ cesso della gradevole storia paesana di bambini La guerre des boutons (La guerra dei bottoni, 1965), ma scaltro assimilatore dei temi altrui con Un éléphant qa trompe énormément (Certi piccolissimi peccati, 1976); Jean Girault che si è messo al servizio della buffoneria esagitata di Louis de Funès, erede del ruolo e della popolarità di Fernandel e Bourvil, come l’ex attore Gérard Oury con Le corniaud (Colpo grosso, ma non troppo, 1965) e La grande vadrouille (Tre uomini in fuga, 1966) che detiene ancor oggi il primato assoluto degli incassi del cinema francese. La lista si potrebbe allungare con Robert Thomas (facile da confondere, per anonimo mestiere, con gli omonimi di varia nazionalità), Serge Korber, Robert Lamoureux, Robert Pecas e Claude Berri che aveva fattto una promettente opera prima al servizio del grande Michel Simon con Le vieti homme et Fenfant (Il vecchio e il bambino, 1968) e ha azzeccato un buon polar con Tchao Pantin (id., 1981), col comico Coluche in un ruolo drammatico. Come in Italia, nel comico i registi contano meno degli sceneggiatori e degli attori, quasi tutti rodati dal teatro di boulevard, di cabaret e lanciati dalla televisione: oltre a Fu­ nès e Coluche, Francis Bianche, Jacques Dufilho, Pierre Ri­ chard, Michel Galabru, Jean-Pierre Marielle, Dairy Cowl, Pierre Mondy, Jean Rochefort e Gerard Dépardieu, solido attore-personaggio in film di registi importanti, che, al fianco di Richard, è stata la vedette di due commedie di Francis Veber, La chèvre (La capra, 1981) e Les compères (Noi siamo tuo padre, 1983). Tra i registi nuovi degli anni Settanta che si sono cimentati nella commedia si possono citare almeno l’ex attore Claude Faraldo (n. 1936) che s’è messo in luce con Bof (id., 1970), ispirato alle sue esperienze di fattorino, Themroc (Il mangia-

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guardie, 1972) e Deux lions au soleil (Due leoni al sole, 1979); Michel Lang (n. 1939) che ottenne grande successo con la sua opera prima, À nous les petites anglaises (A noi le inglesine, 1975); Patrick Schulmann che ha esordito con Et la tendresse, bordel! (Amarsi?... Che casino!, 1978), impertinente film sulla guerra dei sessi. Il capofila del plotone, almeno per gli incassi, è Claude Pinoteau che, pur arrivato tardi alla regia, ha ricu­ perato il tempo perduto con La gifle (Lo schiaffo, 1974), commedia familiare che ha visto il debutto di Isabelle Adjani, e specialmente con il successo intemazionale di La boum (Il tempo delle mele, 1981), un lezioso filmetto sugli adolescenti parigini. Da un vivaio di attori e registi che si sono formati sulle tavole dei café-théàtres parigini con spettacoli satirici e ico­ noclasti in presa diretta sull’attualità politica e sociale, sono usciti negli anni Ottanta diversi comici giovani che hanno ringiovanito i quadri e le idee della commedia cinematografi­ ca: Michel Blanc, Gérard Giugnot, Josiane Balasko ecc. Al­ cuni di essi sono passati alla regia, seguendo l’esempio dei nuovi comici italiani. Il genere poliziesco e il comico si contaminano talvolta per dar vita a una sorta di cinema d’azione avventurosa all’inse­ gna dell’esotico e dell’eccesso che ha avuto il suo tandem più prestigioso in Philippe de Broca regista e Jean-Paul Beimon­ do attore: L’homme de Rio (L’uomo di Rio, 1963), Les tribula­ tions dun chinois en Chine (L’uomo di Hong Kong, 1965), Le magnifìque (Come si distrugge la reputazione del più grande agente del mondo, 1973). Beimondo e Delon sono stati fino ai primi anni Ottanta le due grandi vedettes del cinema francese. Entrambi si sono assicurati il controllo finanziario dei film cui prendevano parte, attraverso le loro società di produzio­ ne, Cérito Film per il primo, Adel Productions per il secon­ do. Mentre, con l’eccezione dello Stavisky di Resnais, Bei­ mondo ha praticato un cinema di consumo, alternando commedie e avventure più o meno poliziesche, la carriera di Delon è più contraddittoria: ha sfruttato il proprio divismo in una serie di film popolari, quasi sempre polizieschi e do­ minati dal suo ruolo, ma ha permesso la realizzazione di Mr, Klein di Losey, ha interpretato parti ingrate in film di qualche ambizione.

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Neo-populismo Un discorso a parte meritano Deville, Lelouch e Sautet. Nel primo periodo del suo lavoro registico Michel Deville (Boulogne-sur-Seine 1931) si mantiene sul territorio della commedia leggera ed elegante con una grazia tenera sfiorata dall’ombra del lezioso e del futile. Se non fosse stato fuori dal giro della nouvelle vague, avrebbe avuto un maggior appog­ gio dalla critica parigina per le sue deliziose commedie con­ trassegnate da un’insolita attenzione per la psicologia fem­ minile, dovuta anche aH’intelligente contributo in sceneggia­ tura di Nina Companeez: Ce soir ou jamais (Stasera o mai, 1960), Adorable menteuse {Le bugie nel mio letto, 1961), A cause, à cause d’une femme {Il diavolo sotto le vesti, 1962), L’appartement des fllles {L’appartamento delle ragazze, 1963), L’ours et la poupée {L’orso e la bambola, 1969). Dopo una fase di sbandamento e di concessioni impacciate al cinema di consumo, aH’interno della quale va però segna­ lato il gradevolissimo Benjamin ou les mémoires dun puceau {Benjamin. Le confessioni di un adolescente, 1968), elegante gioco erotico ambientato nel Settecento libertino, Deville ri­ badisce la sua fìloginia con un trio di film — La femme en bleu {id, 1972), Le mouton enragé {Ilmontone infuriato, 1973), L’apprenti salaud (L’apprendista farabutto, 1976) — sul tema del dongiovannismo con l’eroe maschile che muore. Dopo l’ammirevole digressione di Le dossier 51 {id, 1978), corag­ giosa denuncia dei meccanismi condizionanti della burocra­ zia e dei media, torna ai suoi ritratti femminili, al gusto di «dipingere la permanenza del cuore e le ambiguità della feli­ cità» con Le voyage en douce {Un dolce viaggio, 1979), com­ media di raffinata e ironica sensualità, profonda nella sua leggerezza, apprezzabile per la miscela di garbo, malinconia, umorismo, delicatezza, brividi perversi e controllata eleganza di mise en scène. Ma il suo maggior successo di critica e di pubblico, dopo Benjamin, lo deve all’ossessivo poliziesco Pé­ ri/ en la demeure {Pericolo nella dimora, 1985), dove la sua eleganza è posta al servizio di un erotismo morboso, ma piuttosto prevedibile. Tra il 1960 {Le propre de l’homme, Ciò che compete al­ l’uomo) e il 1986 (il costernante Un homme et une femme: vingt ans déjà, Un uomo e una donna, vent’anni dopo) Claude

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Lelouch (Parigi 1937) ha scritto e diretto ventotto lungome­ traggi, oltre a diversi documentari e partecipazioni a film collettivi come Lontano dal Vietnam, e ha svolto un’assidua attività nel cinema pubblicitario. Osannato dalla stampa a grande diffusione, vituperato dalla critica delle riviste, la sua carriera è stata accompagnata da grandi successi di pubblico: oltre a Un homme, une femme (Un uomo, una donna, 1966), Palma d’oro a Cannes, due Oscar e altri quaranta premi intemazionali, bisogna ricordare almeno Laventure c'est l’aventure (L'avventura è l'avventura, 1972), Le chat et la souris (Il gatto, il topo, la paura e l'amore, 1975), Les uns et les autres (Bolero, 1981), Edith et Marcel (Edith e Marcel, 1983), sull’a­ more tra Edith Piaf e Marcel Cerdan, che si sono alternati con fiaschi commerciali come Toute une vie (Tutta una vita, 1974), Another man, another chance (Un altro uomo, un'altra donna, 1977), sciagurata incursione nel western. Il cinema di Lelouch, posseduto da un innegabile piacere di filmare, si nutre di due smisurate ambizioni: ritrovare, attraverso le tec­ niche moderne, l’invenzione visiva dei grandi cineasti e dei grandi studios di un tempo e comporre grandi e geometrici affreschi storici. La prima si traduce in una propensione os­ sessiva per il virtuosismo tecnico e l’iperbole visiva, la secon­ da nella sciropposa idealizzazione della santa banalità dei sentimenti quotidiani. Cineasta charmeur e farceur, incline a sfiorare problemi gravi e seri neutralizzandoli nella crema di un cineromanzo evasivo, gradevole e rassicurante come le musiche di Francis Lai che lo decorano, Lelouch dà il meglio di sé quando gioca in casa nel suo piccolo orto piccolo-bor­ ghese: La bonne année (Una donna e una canaglia, 1972), Si c'était à refaire (Chissà se lo farei ancora, 1976), Robert et Robert (Agenzia matrimoniale A, 1978) che è un po’ il suo I due timidi. Dopo aver mostrato di aver bene assimilato la lezione del cinema americano classico con Classe tout risque (L'asfalto che scotta, 1960) nell’ambito del poliziesco al quale ritorna con Max et les ferrailleurs (Il commissario Pelissier, 1971), Claude Sautet (Montrouge 1924) la coniuga con la definizio­ ne psicologica dei personaggi (sostenuta da un’ottima dire­ zione degli attori: guidato da lui, Yves Montand è stato ra­ ramente così bravo), la cura del dettaglio e dell’ambientazione, l’attenzione alle vicende quotidiane della gente comune, 125

l’indugio sui sentimenti (l’amore, l’amicizia, la solidarietà), in Les choses de la vie (L’amante, 1970), César et Rosalie {È simpatico, ma gli romperei il muso, 1972) e, migliore di tutti, Vincent, Francois, Paul et les autres (Tre amici, le mogli e — affettuosamente — le altre, 1974). Anche nei successivi Mado (id., 1976), Une histoire simple (Una donna semplice, 1978), Gorgon (Cameriere, 1983), Sautet conferma di essere degno allievo dei suoi amati Renoir e Becker, non inferiore al Truf­ faut della serie di Antoine Doinel. I limiti del suo cinema — al quale ha dato un notevole contributo lo sceneggiatore Jean-Loup Dabadie — sono un eccesso di gentilezza, buon gusto, discrezione, un cinema così attento all’analisi psicolo­ gica da tagliarsi fuori dalla realtà sociale e politica, un cinema di stati d’animo più che dell’anima. Dai suoi migliori film, comunque, si esce pensando che la vita è dura, piena di problemi e dolori, ma degna di essere vissuta se si ha la forza di prendere il proprio destino in mano. Una morale non diversa regge l’opera di Pierre GranierDefferre (n. 1927) con qualche propensione in più per il poli­ ziesco o per il melodramma. Solido artigiano, emblema di un cinema medio di qualità attento alla sceneggiatura e agli at­ tori, narra rapporti sentimentali complessi, in cui si giocano ruoli di potere (sessuale o sociale) in storie forti, non prive spesso di sincera tensione morale. È un professionista coeren­ te, la cui opera meriterebbe una attenzione maggiore. I suoi film più riusciti, in una carriera assai prolifica, sono (tutti e tre con Simone Signoret e da Simenon) Le chat (L’implacabile uomo di Saint-Germain, 1971), gioco di massacro tra due mostri sacri come la Signoret e Gabin; La veuve Couderc (L’evaso, 1971), ambientato negli anni Trenta e con un Delon giovane criminale in fuga, di tendenze anarchiche; e L’étoile du Nord (La stella del Nord, 1981). Ma il film più rappresen­ tativo, un delicato rapporto su una falsa amicizia e un amore autentico in ambiente impiegatizio, è Une étrange affaire (Uno strano affare, 1981). Per i film di Sautet e C., di Tavernier e di tanti altri, invece che della formula del nouveau naturel escogitata dalla critica francese, si potrebbe parlare appunto di neo-populismo, con l’avvertenza che quel che lo distingue dal populismo degli anni Trenta o da quello del «cinema di qualità» del dopo­ guerra consiste in uno spostamento di obiettivo dal proleta126

nato alla piccola borghesia metropolitana o provinciale, fer­ ma restando l’impressione di scambio e spesso di simbiosi culturale che esiste oggi nella società detta postindustriale tra proletariato (un certo proletariato) e piccola borghesia. Nella sua quotidianità di conflitti sentimentali spesso ovvi, nel suo rapporto con una professionalità sempre «per bene», nel suo intreccio di legami parentali e di amicizia, queste vicende di gente comune, viva e simpatica finiscono per formare un quadro veritiero ma piuttosto idealizzato del popolo francese di oggi e dei suoi miti: i sentimenti prendono il posto del conflitto sociale, e la vita, l’amore e la morte sono temi di riflessione assidua in un contesto di moderato benessere dove lo scontro con la società e le sue istituzioni è attenuato ed edulcorato, in una sorta di nuova alienazione accettata senza traumi reali. Con l’eccezione di Pialat, è questo un cinema privo di vera crudeltà. Anche le venature di anarchismo o, meglio, di individualismo si riducono a estri, bizzarrie, tic caratteristici più che essere i frutti di nevrosi di adattamento o di difficoltà esistenziali. È un cinema di choses de la vie, per dirla col titolo di un capofila di Sautet. Maurice Pialat Alla generazione di Sautet appartiene Maurice Pialat (Lunhat 1925) che, dopo un decennio di attività nel docu­ mentario e in televisione, aiutato da Truffaut e Berri, due colleghi che condividevano il suo interesse per l’infanzia, fa il suo vero esordio con L’enfance nue (L’infanzia nuda, 1969), ritratto di un orfano adottato successivamente da due fami­ glie. Il film evita tutte le trappole dell’argomento (sentimenta­ lismo, didascalismo, oratoria) grazie a un realismo di tipo behaviorista, non lontano da quello di John Cassavetes, che ha poco da spartire con la tradizione documentaristica anche se ne applica alcune tecniche. Sono qualità che, sulla base di una struttura narrativa fatta di ripetizioni con minime varianti e col ricorso sistematico al piano-sequenza, si trovano in Nous ne vieillirons pas ensemble (L'amante giovane, 1972) sulla disgregazione di una coppia e in La gueule ouverte (La bocca aperta, 1974) sul tema della morte, ritenuto da molti critici il suo capolavoro e, a causa

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del suo impietoso realismo, un disastro commerciale. Insie­ me, questi tre film, formano come una trilogia morale, di infanzia, età adulta, vecchiaia: l’infanzia come resistenza ed esclusione, la famiglia e la sua impossibilità, la morte. Dopo Passe ton bac d’abord (Prendi prima la licenza liceale, 1979) e Loulou (id., 1980), radicati in una Francia «profonda», di provincia o di banlieu, Pialat è arrivato al successo di pubbli­ co e di critica con À nos amours (Ai nostri amori, 1983) di cui è anche interprete. Insignito del premio Delluc, il film rap­ presenta una sorta di crocevia e di summa delle sue opere precedenti. Nella vicenda molto quotidiana di una ragazza di provin­ cia e della sua irrequietezza senza sbocchi e fini, confrontata con un mondo familiare in crisi e disfacimento (il ruolo del padre è sostenuto dallo stesso Pialat) e con un ambiente di conformismo giovanile e non, è alla descrizione del disagio piccolo-borghese odierno, non solo francese e non solo euro­ peo, che il regista mira, con una lucidità che non ha nessun bisogno di ricorrere alla satira o alla crudeltà. Tutto si può dire di questo film salvo che sia neo-populista; esso è anzi la risposta più dura al cinema dei Lelouch, dei Sautet o dei Granier-Defferre, e una delle punte più alte del cinema fran­ cese degli ultimi anni. Dopo questo risultato — coronato da un imprevisto successo di pubblico — che ne ha sancito la maturità, ha diretto, sacrificando alle esigenze del mercato e alle richieste dei produttori, un polar, Police (id., 1985), ma un polar degno e duro, che è un superbo saggio d’ambiente, di poliziotti duri e di immigrati, di pedinamenti e interrogatori senza fine, di doppiezze e menzogne come regola di com­ portamento. Per il suo primo film di origine letteraria Pialat si rivolge a un romanzo (1926) potente e diseguale, fuori dalle regole, di Georges Bernanos, narratore visionario di un cat­ tolicesimo severamente giansenista. Contestata Palma d’oro a Cannes, Sous le soleil de Satan (Sotto il sole di Satana, 1987) è un film duro e freddo, qua e là opaco, dove la complessa dialettica religiosa è livellata da un approccio materialistico, con un assillo di realismo che gli dà una compattezza petrosa.

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Donne e stranieri A questo cinema si avvicinano anche alcune donne-registe, pur portatrici di novità indiscusse, come Coline Serreau che passa da Mais qu'est-ce qu’elles veulent (Ma che cosa vogliono le donne, 1975), buon esempio di cinema diretto sotto il se­ gno di un femminismo ben temperato sulla condizione della donna dopo il ’68, a Pourquoipas! (Perché no!, 1977), storia di un rapporto a tre, due uomini e una donna, anche omoses­ suale, narrata con acume, allegria e sensibilità, ma che finisce con l’assumere una forte componente consolatoria, e a Qu’est-ce quon attend pour ètre heureux (Che cosa si aspetta per essere felici, 1982), gradevole, arguta e programmatica metafora sul set cinematografico come microcosmo della so­ cietà, prima di dedicarsi anche lei alle consolazioni neo-popu­ liste tipo Trois hommes et un couffìn (Tre uomini e una culla, 1986), commedia di spiccioli equivoci sul tema del maschio di fronte alla maternità. Le si può accostare Yannick Bellon che, dopo un’attività documentaristica e televisiva, ha esordito nel lungometraggio con Quelque part, quelqu’un (Da qualche parte, qualcuno, 1972) di notevole originalità anche stilistica, seguito da La femme de Jean (Una donna... una moglie, 1974) sulla dipen­ denza economica e affettiva delle donne, Jamais plus toujours (Mai più sempre, 1975) sull’usura del tempo, L'amour violé (id., 1977) sulla «normalità» dello stupro e La triche (Barare, 1984) sull’omosessualità maschile. Non hanno lasciato trac­ ce, pur contraddistinti da un’apprezzabile sensibilità, i due film diretti da Jeanne Moreau, Lumière (Storia di un'amicizia tra donne, 1975) e L'adolescente (1978), mentre, prima del deludente La garce (La sgualdrina, 1984), si era messa in luce l’attrice Christine Pascal con Félicité (Felicità, 1979), analisi della sessualità femminile, della gelosia, dei condizionamenti familiari e sociali. Interprete di Rivette, Godard e Tanner, Juliette Berto ha effettuato il passaggio alla regia in coppia con Jean-Henri Roger, anch’egli collaboratore di Godard, con Neige (Neve, 1981) e Cap Canaille (Capo Canaglia, 1983), due polizieschi di suggestiva ambientazione. Mentre la scrittrice Catherine Breillat con Tapage nocturne (Movimenti notturni, 1979), sugli amori anticonvenzionali di una donna «liberata», e la giornalista Aline Issermann, la più prometten­

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te di questi nomi, con Le destin de Juliet (Il destino di Juliet, 1982), storie familiari in ambiente operaio esposte senza in­ dulgenza populista, non sono riuscite a continuare, Fattrice Diane Kurys ha vinto il premio Delluc con Diabolo menthe (Gazzosa alla menta, 1977) e, dopo Cocktail Molotov (id., 1979), ha colto un vasto successo anche di pubblico con Coup de foudre (Prestami il rossetto, 1982), agrodolce ritratto in chiave rétro di un’amicizia amorosa tra due donne negli anni Cinquanta. La relativa buona salute del cinema francese (tra il 1975 e il 1983 la frequenza degli spettatori nelle sale non ha subito flessioni sensibili, con la punta più bassa di 169 milioni nel 1977 e quella più alta di 200 milioni nel 1982) e il complesso sistema degli interventi e delle assistenze statali hanno attira­ to numerosi cineasti stranieri. Oltre a Bunuel, Ferreri, Losey, Polanski e agli esuli Andrzej Zulawski, Dusan Makaveiev, hanno trovato supporto finanziario i polacchi Wajda (Dan­ ton) e Skolimowski (Success is the best revenge), il georgiano Otar Ioseliani (Les favoris de la lune), gli italiani Dino Risi (Dagobert, Scemo di guerra), Scola (Le bai), Rosi (Carmen), il tedesco Wenders (Paris, Texas) l’americano Robert Kramer, il giapponese Oshima (Ecco l’impero dei sensi), il filippino Lino Brocka (Bayan-Ko). Un caso particolare è il cileno Raul Ruiz (Puerto Montt 1941), l’autore di Tres tristes tigres (Tre tristi tigri, 1968), emigrato dopo il golpe del settembre 1973, con la moglie Valeria Sarmiento, sua collaboratrice al montaggio e regista in proprio, a Parigi dove, dopo Didlogos de exilados (Dialo­ ghi di esiliati, 1974), ha iniziato un’intensa attività nel campo degli audiovisivi, che gli ha valso la scherzosa definizione di regista più veloce d’Europa dopo Fassbinder e Godard. Ruiz è un cineasta difficilmente classificabile perché si trova a suo agio con la narrazione, il saggio e il documentario, col cine­ ma tradizionale e quello sperimentale, passando con disin­ voltura dal corto al lungometraggio, dal cinema alla televi­ sione. Di lui si parla ampiamente altrove. In Francia, in tempi diversi, si sono stabiliti anche due importanti registi polacchi, l’uno, Walerian Borowczyk, ap­ partenente alla cosiddetta seconda generazione, l’altro, Andrzej Zulawski, alla terza. Borowczyk (Poznan 1923) vi si è trasferito sin dal ’58, imponendosi negli anni Settanta come 130

maestro di un cinema erotico più di successo — nonostante vari guai con la censura e le gravi manomissioni imposte ai suoi film — che maledetto, più ribaldo che davvero trasgres­ sivo. Infrazioni di tabù, iperrealismo di rappresentazione, inventari di oggetti preziosi o bizzarri secondo la lezione del surrealismo nel cui clima si è formato, voyeurismi della cine­ presa, gusto dell’immagine (e della scena) bella, erotica, un po’ a detrimento del ritmo narrativo, natura e cultura, corpo e morte, desiderio e fato totalmente racchiuso nell’oggetto sessuale, morale e immoralismo, vi sono dispiegati sul filo di un’indubbia maestria artigianale e figurativa e, in alcuni casi, di uno sguardo freddo, geometrico che sa riannodare con una tradizione dai cui pretesti letterari quasi sempre parte. Da André Pieyre de Mandiargues è tratto l’episodio più riuscito di Contes immoraux (I racconti immorali di Borowczyk, 1974), un orgasmo adolescenziale scandito dal rit­ mo della marea, e da un suo romanzo, depurato delle com­ ponenti antifranchiste e «volgarizzato», reso fattuale, evene­ menziale, è tratto Le marge (Il margine, 1976), dépense sessua­ le in attesa della morte, con un Joe Dallesandro e una Sylvia Kristel venuti da altri lidi. Miti arcaici e cultura figurativa, Cocteau e Sade, etnologia e inconscio, percorrono La bète (La bestia, 1975), lungo sogno di un’animalità innocente. Su­ bito prima, il regista era tornato in Polonia per realizzarvi Dzieje grzechu (Storia di un peccato, 1975), pastiche giocato sul contrasto tra raffinatezza della fattura e rozzezza della materia che è quella di un polpettone di Stefan Zeromski, sulla degradazione di un’eroina nella prostituzione e nel delit­ to. In Italia, farà Interno di un convento (1977), da Stendhal, che è apparso ai limiti di una pornografia senza più troppe motivazioni e di un blasfemo che sono stanche ripetizioni dei suoi motivi. Come lo saranno i suoi film successivi, da Les héroines du mal (Tre donne immorali?, 1979) in cui si salva forse il primo episodio, una ronde di artisti e papi in una sensuale Roma cinquecentesca, a Lulù (id., 1980), operazione di pura superficie sul bel personaggio di Wedekind, «emble­ ma di una sinistra iterazione sessuale che conduce ogni volta alla morte», di una doppiezza che affronta direttamente in Docteur Jekyll et les femmes (Nel profondo del delirio, 1981) che perlomeno è un’assurda, ma eccentrica e ironica versione vampiresca del celebre racconto di Stevenson. Sino allo

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squinternato L'art daimer (Ars amandi, 1983) che mette in scena addirittura Ovidio a spiegare le ragioni del desiderio. Di gran lunga più importante è, però, a nostro parere, la prima fase del suo lavoro in Francia. Quella dei film d’ani­ mazione, conclusa nel ’67 con Le théàtre de M. e M.me Kabal (Il teatro di M. e M.me Kabal), inquietante e surreale gioco di coppia e di solitudine, in una lenta, ossessiva discesa nell’as­ surdo, nel male che è il mondo. Quella dei suoi due primi, bellissimi film di fiction, Goto file damour (Goto l'isola del­ l'amore, 1968) e Bianche (Bianche, un amore maledetto, 1971). Il primo, film maledetto ed essenziale degli anni Sessanta, visionario nel suo rigore tonale, nel suo freddo bianco e nero, nella sua geometricità di ambienti, di scene, di gesti ripetitivi e allusivi, è un film cannibalico e kafkiano, di uno humour nero, un’allucinata e sospesa tragedia in un universo totalita­ rio, immagine della società moderna, in un’isola deserta, chiusa a ogni prospettiva di libertà. Il secondo attinge a un testo letterario tutto dentro la tradizione romantica polacca, il Mazeppa di Julius Slowacki, trasferendone l’azione dal ’600 polacco al ’200 francese e spostandone il baricentro dramma­ tico su Bianche, bella e virtuosa castellana, sposata a un vecchio feudatario, segretamente amata dal figliastro, concu­ pita dal re in visita, corteggiata dal suo galante paggio. Casto e sensuale, è un film di seduzioni, di destino, di onore e morte, di personaggi presi nelle spire del sacrilegio sfiorato. Un medioevo crudele e ritualistico, poetico e vero come mai si era visto; un luogo chiuso, ossessivo, un castello isolato, décor labirintico che è prima di tutto un luogo dell’immagi­ nazione in cui si compiono i percorsi di più passioni; un gusto nella rarefatta composizione del quadro da grande pittore; la funzione narrativa ed espressiva degli oggetti e degli animali; la suggestione delle musiche d’epoca: è la messa in scena cerimoniale, ma percorsa dal pathos delle passioni, della tra­ gedia di un’eroina cortese, con al fondo il grande conflitto tra passione e morale, la visione del male che corrode la bellezza, l’acre e lucido pessimismo che era del primo Borowczyk. A interpretare entrambi è Ligia Branice, moglie del regista, di una grazia angelicata, con accanto nel primo un Pierre Bras­ seur grande «eroe negativo» e nel secondo Michel Simon in una delle sue ultime e memorabili interpretazioni. Zulawski, che in Francia era già vissuto nel dopoguerra

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assieme al padre, lo scrittore Miroslaw, e nel ’57 vi aveva frequentato I’idhec, vi si stabilisce dopo le noie censorie avu­ te con Diabel (Diavolo, 1973). Nei film francesi si esprime appieno il suo turgore espressionistico, che si è fatto vieppiù artificioso, urlato, sotto il segno della dismisura, dell’isteria, di un delirio un po’ troppo esibizionistico, eppure a volte capace di non lasciare indifferenti con la sua coerenza, la visionarietà delle sue invenzioni narrative o soltanto figurati­ ve, la stessa recitazione esasperata, istericamente mimata, pa­ rossistica cui costringe le sue protagoniste femminili. Interes­ sante è L’important c’est daimer (L’importante è amare, 1974), storia d’amore crudele con Romy Schneider che fa capo a una compagnia di attori che mettono in scena Riccar­ do ni. Irritante è Possession (id., 1981) con Isabelle Adjani che, in una Berlino ai piedi del muro, si fa possedere alla lettera da un essere mostruosamente polipesco, forse da lei stesso generato. Vi domina un gusto ossessivo del sangue da gratuito Grand-Guignol. Calcolato ma efficace è Femme publique (id., 1984), costruito attorno a una Valérle Kapriski decisa a diventare «donna pubblica», cioè attrice in un film tratto da I demoni e spinta a risultati persuasivi sul versante di una spudorata nudità e sincerità. Ancora Dostoevskij, ma questa volta L’idiota, in linea con il taglio estetizzante che è di tutti i suoi film, è il modello dell’intollerabile L’amour braque (Amour braque, Amore balordo, 1985) che ne dà un libero e fumettistico adattamento in chiave gangsteristica nella Parigi dei nostri giorni, con una decorativa Sophie Marceau come Natasja. Come in uno sprofondamento autodistruttivo nella sua stessa poetica. Rapporto con la storia

Il rapporto tra cinema e storia è un tema di ricerca che attraversa con frequenza il dibattito teorico e critico degli anni Settanta, come testimoniano un convegno a Valence nel 1974, diversi interventi su riviste («Image et son», «Cahiers du cinéma», «La revue de cinéma»), la pubblicazione di libri importanti come Cinema e storia di Marc Ferro (Feltrinelli, 1980), Sociologia del cinema (Garzanti, 1979) e La storia nei film (La Nuova Italia, 1984) di Pierre Sorlin. È un dibattito

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produttivo anche per una serie di film assai diversi tra loro per impianto e valore come Que la fète commence (Che la festa cominci..., 1974) e Le juge et Tassassin (Il giudice e !as­ sassino, 1976) di Tavernier, Souvenirs den France (1974) di Téchiné, Moi, Pierre Rivière... (Io, Pierre Rivière..., 1976) di René Allio, La Cécilia (Cecilia, 1975) di Jean-Louis Comolli, L’affìche rouge (Il manifesto rosso, 1976) di Frank Cassenti, La brigade (La brigata, 1975) di René Gilson, il corale e populista La communion solennelle (La comunione solenne, 1977) di René Feret. I temi e i procedimenti sono diversi: si va dalla riappro­ priazione del discorso sulla memoria popolare (secondo schemi di romanzo familiare in Téchiné e Feret; con una rievocazione teatrale indiretta e straniata in Cassenti; in ca­ denze di racconto tradizionale ora epico ora melodrammati­ co in II giudice e !assassino di Tavernier) alla rappresentazio­ ne antieroica «dal basso» del periodo della resistenza antite­ desca (Gilson); dall’analisi dei meccanismi del potere e dei suoi antagonisti in termini di spettacolo e di carnevale ma anche di critica, in modo da cavare dal periodo della reggen­ za (1715-23) gli spunti e gli agganci di attualità (Che la festa cominci di Tavernier), all’impianto didattico e gauchiste nella ricostruzione delle vicende di una comune anarchica nel Bra­ sile dell’800 (Comolli). Alla densità ironica e didattica di Che la festa cominci si può contrapporre, come approccio storico e a livello formale, 1789 (id., 1974) con cui l’anglo-russa-francese Ariane Mnouchkine (Boulogne 1939), per diversi anni una delle più inventive e originali teatranti europee, ha trasposto dopo 348 repliche il suo famoso spettacolo del Théàtre du soleil (da lei fondato nel 1964) in cui i momenti principali dell’anno i della rivoluzione francese sono rivisitati con lo slancio, l’esuberan­ za e l’entusiasmo del maggio 1968. È un film che parte dal teatro e arriva al cinema: grazie alla sua dimensione docu­ mentaristica, scopre la sua natura di finzione (messinscena) e, insieme, riproduce la totalità della finzione, realizzando con mezzi filmici la sintesi del plurimo spazio scenico e del coin­ volgimento del pubblico in quello spazio, alla maniera delVOrlando Furioso (1969) di Luca Ronconi. Con Philippe Caubère protagonista e la compagnia del Théàtre du soleil la Mnouchkine ha scritto e diretto per la tv Molière (id., 1978),

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prodotto dalla società di Lelouch, della durata di 250 minuti nell’edizione cinematografica, opera di grande complessità tematica e di virtuosistico sfarzo spettacolare che procede per accumulazione, punta a meravigliare, preferisce la magia del­ l’immagine all’approfondimento del testo ma offre, comun­ que, sequenze memorabili. Uno dei film più stimolanti del gruppetto dianzi elencato è Moi, Pierre Rivière... (Io, Pierre Rivière..., 1976) in cui Allio rievoca un fatto di cronaca del 1835 (un triplice omicidio commesso da un contadino ventenne), basandosi sul memo­ riale dell’assassino, scoperto nel 1971 e commentato in un ampio dossier del 1973 da una squadra di ricercatori guidata dal filosofo Michel Foucault, un argomento su cui si è anche misurata Christine Lipinska con Je suis Pierre Rivière (Sono Pierre Rivière, 1978). Uomo di teatro e collaboratore di Ro­ ger Planchon, René Allio (Marsiglia 1924) aveva esordito felicemente con La vietile dame indigne (La vecchia signora indegna, 1965, da un raccontino di B. Brecht) cui avevano fatto seguito L’une et !autre (L’una e l’altra, 1967), Pierre et Paul (Pierre e Paul, 1969), Les camisards (I camisardi, 1972, una rievocazione molto riuscita delle guerre di religione in Francia sotto Vancien régime, di tono documentario) e Rude journée pour la reine (Giornata dura per la regina, 1973). In Moi, Pierre Rivière... la «grande storia» è assente, ma manca anche la «contro-storia» delle classi subalterne che si trova in Cecilia di Comolli, Winstanley degli inglesi Bronlow e Mollo, Bronte. Cronaca di un massacro di Vancini e Les camisards. Interessa ad Allio mettere l’accento sullo stato di permanente conflittualità, dovuta anche a problemi di lingua e di comu­ nicazione, tra mondo contadino e apparati dello stato, porsi all’interno del discorso di Rivière, inserire il fatto di sangue dentro le coordinate sociali della storia contadina. Anche II giudice e ! assassino (1976) s’ispira a un caso vero di cronaca nera, avvenuto mezzo secolo dopo quello di Riviè­ re, ma l’approccio di Tavernier (Lione 1941), ex critico e specialista di cinema americano, è radicalmente diverso. Sto­ ria di un confronto e di un antagonismo, il film — l’unico di carattere dimostrativo del suo autore — mette in discussione la pena di morte, la medicina ufficiale, l’amministrazione della giustizia borghese e i suoi rapporti politici con la società francese dell’ultimo ’800. A Tavernier interessano special­

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mente i personaggi e i loro rapporti, il loro retroterra socio­ politico. Con i suoi primi tre film e, pur con diversità di esiti, nei cinque successivi — Des enfants gàtés (Bambini viziati, 1977), commedia neo-populista come Une semaine de vacan­ ces (Una settimana di vacanza, 1980), La morì en directe {La morte in diretta, 1979), film non-elettronico, vittoriano, sul­ l’invadenza dei media e la loro funzione di controllo sociale, Coup de torchon {Colpo di spugna, 1982) e Un dimanche à la campagne {Una domenica in campagna, 1984), sottile racconto della giornata di un vecchio pittore d’inizio secolo e dei suoi rapporti con i figli, con 1’esistenza, con l’arte; al conto va aggiunto Mississippi blues (id., 1984), ballata in forma di lun­ go documentario realizzato con l’americano Robert Parrish — Tavernier si collega a quel cinema di qualità francese degli anni Trenta-Cinquanta, disprezzato a torto, e spesso in mala­ fede, dai critici-registi della nouvelle vague. Il ritorno della vecchia coppia Jean Aurenche e Pierre Bost, voluto da Tavernier per L’horloger de Saint-Paul {Loro­ logiaio di St. Paul, 1973), premio Delluc, diventa retrospetti­ vamente emblematico per la continuità di una tendenza che cerca di coniugare il professionismo, il lavoro artigianale ben rifinito con la libertà di tono e di stile del cinema d’autore, la tradizione classica con i nuovi tempi. La collaborazione di Jean Aurenche a II giudice e ! assassino e la scelta di un romanzo breve di Pierre Bost per Una domenica in campagna sono altri segni di questa continuità. Nella discrezione allusi­ va ed elusiva del suo stile, quest’ultimo film, soltanto appa­ rentemente intimista, rimanda ai Renoir (Auguste e Jean) e a Bergman, ma anche a Truffaut: Tavernier vi raccoglie il te­ stimone caduto dalla mano del suo collega e ne continua il cammino. Compenetrata, vi è un’altra tradizione, quella del cinema americano classico. Presente in Colpo di spugna, ten­ tata sintesi con il noir americano, che traspone un romanzo di Jim Thompson nell’Africa coloniale, è esplicitata in Round Midnight {id., 1986), da molti ritenuto il suo capolavoro e il più bel film d’invenzione mai fatto sul jazz. È la storia di un’amicizia tra il vecchio saxofonista nero, «improvvisato» con incredibile verità e autoidentificazione da Dexter Gor­ don, e il suo giovane ammiratore parigino, testimone attivo della sua lenta, malinconica ma non disperata deriva verso la morte, ma anche della purezza nascosta della sua musica, del 136

suo carattere di ricerca e rischio. Film di costruzione sapiente e complessa sotto l’apparente immediatezza, ripercorre un momento e un aspetto importanti della cultura americana, ma nei modi come è stata vissuta da un europeo.

Delusioni e promesse Il cinema francese degli ultimi vent’anni non è soltanto quello della pletora degli esordienti i cui film, dopo le appari­ zioni nei festival nazionali e internazionali, rimangono per pochi giorni nelle sale d’essai del Quartiere Latino o della provincia e spariscono velocemente. Insignito del premio Delluc per l’opera prima On n'enterrepas le dimanche (Non si seppellisce la domenica, 1959), Michel Drach (Parigi 1930) si è mantenuto a un livello di decoroso artigianato in un itine­ rario nel quale si possono citare Élise ou la vraie vie {Elisa o la vera vita, 1970), storia di una presa di coscienza sullo sfondo della guerra d’Algeria, Les violons du bai {I violini del ballo, 1974), variazione delicata e intimista sull’infanzia durante la guerra, e Le pull-over rouge (Il pullover rosso, 1979). È torna­ to al teatro Armand Gatti (Principato di Monaco 1924), commediografo, poeta, giornalista che aveva cercato di co­ niugare sperimentazione linguistica e impegno politico con L’enclos {Otto ore al buio, 1961), che rievoca la sua esperienza di prigionia negli anni della resistenza, ed El otro Cristobal (L’altro Cristóbal, 1963), fantasiosa carrellata storica girata a Cuba. Non ha mantenuto le promesse dell’esordio con Les mauvais coups {I cattivi colpi, 1960) Francois Leterrier (n. 1929), l’eroe di Un condannato a morte è fuggito di Bresson. Dopo il bizzarro Le Socrate (Il Socrate, 1968) e il metafori­ co Le sourire vertical (Il sorriso verticale, 1973), allegoria della storia rappresentata come progressivo disfacimento che ha più di un’affinità col cinema di Syberberg, Robert Lapoujade (n. 1921) è tornato alla letteratura e alla pittura. Dopo il sopravvalutato ed effettistico La rivière du hibou (Il fiume del gufo, 1960), da Stephen Crane, con cui vinse a Cannes la Palma d’oro del cortometraggio, e un discreto La belle vie (La bella vita, 1963), Robert Enrico (Liévin 1931) è diventato un regista convenzionale di routine nel campo del cinema di azione. Autore di due nitidi e combattivi film a basso costo 137

sulla classe operaia come Camarades (Compagni, 1970) e Coup sur coup (Colpo su colpo, 1972), Marin Karmitz (n. 1940) si è trasformato in produttore, cercando di rimanere fedele al suo impegno politico. Gli esordi nel lungometraggio dei critici cinematografici Michel Cournot (Les Gauloises bleu, Le Gauloise blu, 1968), Robert Benayoun (Paris n'existe pas, Parigi non esiste, 1969), Jean-Claude Biette (Le théàtre des matières, Il teatro delle materie, 1977, e Loin de Manhat­ tan, Lontano da Manhattan, 1980), tutti all’insegna di uno sterile intellettualismo elitario, non hanno avuto seguito. Ha dato un buon film il «mac-mahoniano» Pierre Rissieut con Cinq et la peau (Cinque e la pelle, 1981), racconto di sesso e di isolamento in una Manila difficile da penetrare. Ha continua­ to Lue Moullet, critico dei «Cahiers du cinéma», ma il suo primo film, Brigitte et Brigitte (Brigitte e Brigitte, 1966), ri­ mane il migliore. E Alain Jessua (Parigi 1932), che aveva attirato l’attenzione della critica, non soltanto francese, con La vie à l'envers (Una vita alla rovescia, 1964), minuta descri­ zione di una nevrosi che porta alla scelta della solitudine, del rifiuto di un mondo di cui si notano le regole e gli usi svelan­ done l’assurdo. Da Jeu de massacre (Gioco di massacro, 1967) ad Armaguedon (Quel giorno il mondo tremerà, 1977), passan­ do per Traitement de choc (L'uomo che uccideva a sangue freddo, 1972), nessuno dei suoi film successivi ha lasciato il segno, anche se hanno continuato un discorso lucidamente satirico sulla società capitalistica. Patrice Chéreau (n. 1944), regista teatrale il cui talento ha avuto una verifica anche in Italia, aveva fatto una curiosa opera prima: La chair de l'orchidèe (Un'orchidea rosso sangue, 1975) di ridondante ed efferato decadentismo, ma il successi­ vo Judith Therpauve (id., 1978) non ha destato echi, mentre Jean-Jacques Beneix, dopo il clamoroso e acclamatissimo esordio di Diva (id, 1981), bizzarra incursione nel cinema nero all’insegna di un barocco postmoderno e di un notevole gusto visionario, è incappato nel disastroso e ridicolo La lune dans le caniveau (Lo specchio del desiderio, 1983) e ha fatto un po’ meglio con 3 7° 2 le matin (Betty Blue, 1986), provocatoria storia d’amore devastante. Una serie incredibile di successi ha colto Jean-Jacques Annaud (n. 1943), dopo una fortunatis­ sima carriera nel cinema pubblicitario. Nel 1977, all’esordio, ha vinto l’Oscar per il miglior film straniero con La victoire 138

en chantant (La vittoria cantando), su una comunità francese in Africa durante la i guerra mondiale; poi ha ottenuto il premio César e buoni incassi con La guerre du feu (La guerra del fuoco, 1981), suggestiva fantasia preistorica che si avvale­ va di una squadra di famosi collaboratori (Anthony Burgess per il linguaggio, Gérard Brach per la sceneggiatura, De­ smond Morris per i comportamenti); infine, è stato campione d’incassi in tutta Europa con II nome della rosa (1986), tra­ sposizione riduttiva del best-seller di Umberto Eco, non priva di un suo interesse come giallo gotico, ed esempio di prodot­ to europeo che media abilmente tra cultura e spettacolo. In possesso di solido mestiere ma anche di un evidente piacere di filmare, Alain Cavalier (n. 1931) ha fatto — tolto un lungo intervallo tra La chamade (id,, 1968), da un roman­ zo di Fran^oise Sagan, e Le plein de super (Il pieno di super, 1976) — una regolare e decorosa carriera che passa dai film indirettamente politici come Le combat dans Vile (Gli amanti decisola, 1962) e Uinsoumis (Il ribelle di Algeri, 1964) al poliziesco di Mise à sac (Una notte per cinque rapine, 1967), ottenendo i risultati più convincenti nella commedia psicolo­ gica: Martin et Léa (Martin e Léa, 1978) e specialmente Un étrange voyage (Uno strano viaggio, 1980), viaggio lungo la ferrovia di un padre e una figlia in rapporti difficili, alla ricerca della nonna scomparsa, ma anche viaggio in solitudi­ ni, in paesaggi, in un senso incombente di morte. Ancor più, Thérèse (id., 1985), descrizione realistico-intimista della vita di una santa bambina, a brevi flash austeri e limpidi come in un Bresson laico, ha sorpreso e convinto il pubblico e la giuria di Cannes nel 1986, e apre forse una seconda carriera. Jean Eustache e Jacques Doillon Fa la figura di un isolato maudit, e non soltanto per la tragica morte a quarantatré anni, Jean Eustache (Pessac 1938 - Parigi 1981): La maman et la putain (La mamma e la putta­ na, 1973) di tre ore e mezzo è salutato al festival di Cannes, dove suscita tempestose polemiche, come «la punta più avan­ zata della tendenza più costante e tipica del cinema francese, quella dell’analisi psicologica e della speculazione morale» (Marcel Martin). Su un rigoroso impianto narrativo, fondato

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sul Ricorso al tempo reale con la cinepresa spesso ferma che registra il quotidiano nella sua banalità, il film mette a fuoco la problematica esistenziale di una gioventù inquieta e incer­ ta. Eustache aveva già attirato l’attenzione della critica con Le pére Noèl a les yeux bleus (Babbo Natale ha gli occhi blu, 1966), piccola cronaca provinciale con qualche affinità con I vitelloni di Fellini, anch’esso con Jean-Pierre Léaud protago­ nista (abbinato a Du coté de Robinson, Dalla parte di Robin­ son, 1963, fu distribuito come Les mauvaises fréquentations, Le cattive compagnie) e con alcuni documentari sulla provin­ cia (La rasière de Pessac, La virtuosa di Pessac, 1968, rifatto nel 1979; Le cochon, Il maiale, 1970), realizzati con le tecniche del cinema diretto. Meno felice è Mes petites amoureuses (Le mie piccole innamorate, 1975), mentre Une sale histoire (Una sporca storia, 1978), racconto di una esperienza di voyeuri­ smo, non trova una distribuzione. Dopo aver diretto con Resnais e Rouch Uan 01 (L’anno 01,1972) su un copione di Gébé, autore di un fumetto utopistico-ecologico pubblicato da «Charlie-Hebdo», Jacques Doillon (Parigi 1944), già montatore, dirige Les doigts dans la tète (Le dita nella testa, 1974), film divertente, vero e limpido, accolto dalla critica parigina come un faro del nuovo reali­ smo. Dopo Un sac de billes (Un sacco di biglie, 1975), storia di adolescenti nella Francia occupata dai tedeschi, il cui in­ successo lo condanna all’inattività, Doillon torna al lavoro grazie alla fiducia di Yves Robert e Danièle Delorme, produt­ tori dei Films de la Guéville, con La femme qui pleure (La donna che piange, 1978), di cui è anche interprete con la figlia Dominique («moralista di se stesso, si fa materia di lavoro e suo unico giudice, portando la nozione di autore oltre le frontiere morali che le convenzioni o la nostra pigrizia sono propense ad ammettere», Jeancolas), e La drdlesse (La bric­ cona, 1979), premiato a Cannes, storia dell’amore tra un ragazzo di vent’anni e una bambina di undici nella solitudine della campagna. Anche La fitte prodigue (La figliola prodiga, 1981) e La vie de famitte (La vita di famiglia, 1985) conferma­ no la fedeltà di Doillon ai suoi temi (infanzia, paternità, famiglia) e a un linguaggio austero e spoglio nella sua sempli­ cità, che non trova però conferma nell’insensato La puritaine (La puritana, 1986), ancora un rapporto padre-figlia in ambi­ to teatrale ma isterico e vietamente letterario.

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Politica sullo schermo

Per vent’anni e più dopo la fine della guerra, il cinema francese di spettacolo ha praticato il disimpegno sociopoliti­ co più accanito, lasciando Vengagement al cinema militante e parallelo, più o meno clandestino, sotterraneo, finché ha co­ minciato a soffiare il vento del maggio ’68 quando, in man­ canza di una rivoluzione, la Francia si offrì una rivolta, pre­ sto assorbita dal sistema. Nel 1969, dopo le dimissioni di De Gaulle, la Francia passa sotto la presidenza di Georges Pom­ pidou sotto il cui regno Ionesco entra all’Accademia, Roger Garaudy è espulso dal pcf, arrivano in visita ufficiale Tito e Breznev, muore De Gaulle e Roland Barthes pubblica Lempire des signes (1970). Non sono pochi negli anni Settanta i programmi televisivi dell’oRTF (che nel 1966 con Mouchette di Bresson aveva per la prima volta partecipato al finanziamento di un film per le sale cinematografiche) che, nella forma del film ideologico di montaggio, rievocano il passato prossimo (l’Indocina e la guerra d’Algeria) o più lontano. Vale la pena di parlare di Le chagrin et la pitie (Il dolore e la pietà, 1971) di Marcel Ophùls, e non soltanto perché, dopo il rifiuto dell’oRTF di metterlo in onda, fu proiettato allo studio Saint-Séverin, piccola sala del Quartiere Latino, dove, nonostante la lunghezza (quattro ore), tenne il cartellone per alcuni mesi. Realizzata con il contributo di due giornalisti di sinistra, André Harris e Alain Sedouy, autori in proprio di Francois si vous saviez (Francesi se sapeste, 1972), è la cronaca del periodo 1940-44 nella città di Clermont-Ferrand, non lontana da Vichy, Spoon River politico-ideologica di quegli anni di ferro. È un’inchiesta sul comportamento del francese medio durante la guerra e l’oc­ cupazione, registrato con un atteggiamento di pacata e quasi indolente obiettività. Sotto la spinta della storia il quadro si allarga alla Francia intera. Una moltitudine di personaggi (uomini politici, capi militari, modesti cittadini, ex combattenti, partigiani e colla­ borazionisti) si succedono, rievocando gli avvenimenti cui hanno partecipato o di cui furono testimoni. Il film smantella più di un mito, a cominciare da quello di una Francia una­ nime nel suo martirio di nazione antinazista travolta dalla potenza tecnico-militare delle Panzerdivisionen germaniche, 141

e pone sul tappeto diversi temi: la contestazione dell’eredità culturale e storica proposta dalla classe dirigente; il rifiuto della classica, e falsa, dicotomia tra resistenti e collaborazio­ nisti; l’interrogazione sul ruolo dei mezzi di comunicazione e propaganda. A un procedimento analogo, ma senza ricorso a materiale d’archivio, si ispira Shoah {Olocausto, 1985), realizzato con un lavoro di cinque anni da Claude Lanzmann, uno dei diret­ tori della rivista «Les temps modernes». In quest’inchiesta di dieci ore sul «presente» dell’olocausto, Lanzmann fa parlare i luoghi dello sterminio, li risuscita attraverso le voci dei testimoni e dei sopravvissuti e, al di là delle parole, suggerisce l’indicibile attraverso i volti. L’idea dell’abolizione della di­ stanza tra passato e presente è all’origine anche di Mourir à trente ans (Morire a trent’anni, 1982) in cui — miscelando documentario, fiction e materiali di archivio in una sorta di cantata funebre che non esclude l’autoironia — Romain Goupil ripercorre gli itinerari di quattro coetanei, come lui reduci del maggio francese, che sono arrivati al suicidio. Se film come Remparts d’argile (Bastioni d’argilla, 1969) di Jean-Louis Bertucelli, documentario di impianto etnologico su un villaggio tunisino di frontiera, o come La question (La questione, 1976) di Laurent Heynemann, ispirato al libro autobiografico di Henri Alleg, prefato da Sartre, sulla tortura nella guerra d’Algeria, sono rimasti episodi isolati, l’esponen­ te più celebre del cinema politico-civile è Constantin Gavras, detto Costa-Gavras (Atene 1933), il cui itinerario è sotto il segno dell’internazionalismo degli argomenti: la Grecia dei colonnelli in Z (Z - L’orgia del potere, 1968) che gli valse un premio Oscar; la Cecoslovacchia degli anni di piombo dello stalinismo in L’aveu {La confessione, 1970); l’America Latina delle dittature militari in État de siège {L’amerikano, 1973) e in Missing {id., 1982), Palma d’oro al festival di Cannes ex aequo col turco Yol, prodotto col finanziamento americano dell’Universal; la Palestina in Hanna K {id., 1983). L’unico film di ambiente francese — Séction Spéciale {L’affare della Sezione Speciale, 1975) sul regime di Vichy — è uno dei meno riusciti. Anche per merito di sceneggiatori come Jorge Semprun, Franco Solinas {L’amerikano, il migliore della serie), Donald Stewart, Costa-Gavras possiede la qualità principale del regista-giornalista: si fa leggere e, nel suo caso, vedere con

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appassionata aderenza; il suo limite, anch’esso di natura giornalistica, è quello di puntare spesso su un’efficacia retori­ ca più che espressiva, frutto di uno stile artificioso, ridondan­ te di effetti e di colpi di scena. Esperto nel campo del thriller d’azione poliziesca o avven­ turosa, l’ex giornalista Yves Boisset (Parigi 1939) gioca, inve­ ce, sempre in casa nelle sue incursioni nel cinema civile. A differenza di Costa-Gavras che inclina alla problematica ideologica, Boisset immerge la componente politica nel con­ testo psicologico-sociale. In L’attentat (L’attentato, 1972) ri­ evoca il caso Ben Barka e sul problema algerino ritornerà con R.A.S. Rien à signaler (R.A.S. Nulla da segnalare, 1973). I risultati più apprezzabili nella sua carriera sono Dupont-Lajoie (id., 1974) sul tema del razzismo, Le juge Fayard(Ilgiudi­ ce d assalto, 1977) e Lafemme flic (La donna poliziotto, 1980) sui problemi della giustizia. Qualche marginale

Un caso insolito di regista che ha trovato in Italia una critica attenta (ma non un mercato) più che in Francia è il corso Paul Vecchiali (Ajaccio 1930) che, grazie alla pratica del basso costo e una caparbia capacità imprenditoriale, è riuscito dal 1961 in poi a svolgere un’attività continua e in­ tensa, alternandola con quella televisiva. I suoi film più felici sono Femmes femmes (Donne donne, 1974) e Corps à coeur (Corpo a cuore, 1979) dove l’approccio melodrammatico a temi «alti» come l’amore, la morte, la disperazione, l’ango­ scia quotidiana opposta all’oppressione del sistema sociale, è esaltato nel disegno appassionato dei personaggi e in una scrittura che tenta e spesso riesce a liberarsi degli stereotipi. Estimatore del cinema populista di Jean Grémillon, Vecchiali sa piegarsi ai diversi argomenti come si vede nelle differenze tra L’étrangleur (Lo strangolatore, 1970), notturno e onirico, e La machine (La macchina, 1977), sobria requisitoria contro la pena di morte senza concessioni oratorie alla Cayatte, tra C’est la vie (È la vita, 1980) e En haut des marches (In cima agli scalini, 1983). Attore di qualche notorietà negli anni Sessanta, Gérard Blain (Parigi 1930) può essere messo nel novero dei cineasti

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della crudeltà insieme con Eustache, Pialat, Doillon. Dopo l’esordio in Les amis (Gli amici, 1970), storia di un rapporto omosessuale tra due uomini all’insegna di una scrittura spo­ glia che rifiuta il coinvolgimento emotivo, Blain ha diretto Le pélican (Il pellicano, 1973), Un enfant dans la foule (Un bam­ bino nella folla, 1975), Un second souffle (Un secondo soffio, 1978), Le rebelle (Il ribelle, 1980), Pierre et Djemila (Pierre e Djemila, 1987) in cui ha continuato a descrivere con scabro pudore il mondo dell’adolescenza con personaggi di ribelli solitari e vinti dalla vita. Un altro attore, Jean-Fran^ois Stevenin (n. 1944, nel Giura), venuto da esperienze con Truffaut e Rivette, ha messo in mostra un personale, e intenso nella sua dispersione, modo di raccontare con Passe-montagne (Passamontagna, 1977) e Double messieurs (Doppio maschile, 1986), singolari viaggi di deriva e di iniziazione alla respon­ sabilità in ambienti isolati di montagna. Anch’egli marginale, ma situato nel territorio estremo di un cinema poetico e astratto underground, è Philippe Garrel (Parigi 1948) che, dopo film corti di influenza godardiana, esordisce ventenne nel lungometraggio con Marie pour mémoire (Maria per memoria, 1968) cui seguono diversi altri film (Le Ut de la vierge, Il letto della vergine, 1969; La cicatri­ ce intérieure, La cicatrice interiore, 1970; Les hautes solitudes, Le alte solitudini, 1974; Le voyage, Il viaggio, 1977), tutti nell’ambito di uno strenuo sperimentalismo imparentato con le tecniche surrealiste e di una ricerca estetizzante incapace di uscire da se stessa. Gli si può accostare, come cineasta speri­ mentale, Jean-Daniel Pollet (La Madeleine 1936), accanito e non sempre convincente ricercatore di nuove soluzioni for­ mali, che esordì giovanissimo ed ebbe il suo momento di gloria con Méditerranée (Mediterraneo, 1963), realizzato con lo scrittore Philippe Sollers e considerato da alcune riviste un esempio di cinema politico in funzione anticapitalista. Dopo Tu imagines Robinson (Immaginati, Robinson, 1967), ancora discusso, è passato al cinema commerciale, con commediole populiste di scarsa risonanza. Fra i nomi nuovi, Benoit Jacquot (n. 1947) aveva destato interesse con Lassassin musicien (L’assassino musicista, 1975) e Les enfants du placard (I bam­ bini della cassapanca, 1977), l’uno rarefatto studio dei rap­ porti tra arte e denaro che era piaciuto a Lacan, l’altro di rapporti familiari, ma si è poi perso in aride operazioni intel­

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lettualistiche; Léos Carax (n. 1961) ha messo a frutto la sua cinefilia e il suo talento moderno in Boy meets girl (Ragazzo cerca ragazza, 1984), di un artificio cocteauiano, e nel noir negato Mauvais sang (Cattivo sangue, 1986), sofisticata e abi­ le mistura di Beneix, new wave e magia dell’immagine; so­ prattutto, Olivier Assayas (n. 1955) ha dato il risultato più maturo con Désordre (Disordine, 1986), storia di un gruppo rock di provincia lacerato, più che dal successo, dal ricordo di un delitto assurdo che ha la cupezza di film nero e la febbrilità di un romanticismo adolescenziale, ma mostra an­ che una tempra di moralista lucido ed essenziale. Quasi trent’anni dopo la nouvelle vague, ancora un esordio sorprenden­ te di un critico che proviene dai «Cahiers du cinéma».

LA RINASCITA DEL CINEMA TEDESCO

Il 28 febbraio 1962, durante il festival del lungometraggio di Oberhausen, ventisei giovani cineasti tedeschi, quasi tutti documentaristi, firmano un manifesto in cui si auspica la nascita di un cinema socialmente impegnato, libero dalle convenzioni e dai condizionamenti commerciali. La prima conseguenza pratica di quel manifesto è, tre anni dopo, la costituzione del Kuratoriumjunger deutscher film cui seguo­ no nel 1966 la berlinese Accademia del cinema e della televi­ sione e l’istituto cinematografico di Ulm, fondato da Ale­ xander Kluge ed Edgar Reitz. Attraverso le sovvenzioni dello stato (sino a 300.000 mar­ chi per film, a titolo di prestito senza interessi, a condizione che si presenti un piano di lavorazione ed esista un produtto­ re), il Kuratorium diventa una società di produzione con partecipazione agli utili. Il primo a beneficiare di questa for­ mula è Alexander Kluge, con Abschied von gestern (La ragaz­ za senza storia, 1966). Laureato in diritto e storia, autore di romanzi sperimentali, aderente al Gruppo ’47 (di cui fanno parte, con altri scrittori liberal-radicali, anche Heinrich Boll e Gunther Grass), assistente di Fritz Lang che agli inizi degli anni Sessanta era tornato in Germania a girare La tigre di Eschnapur e II sepolcro indiano, Kluge fa con La ragazza senza storia — ritratto di Anita G., giovane ebrea che attraversa la 145

società germanica del miracolo economico come una sonda — un film lucidamente critico e politico nei modi di un cine­ ma fenomenologico influenzato dalla nouvelle vague. A Venezia, nel 1966, il film di Kluge s’aggiudica il Leone d’argento. Ma il nuovo cinema tedesco si è già affacciato alla ribalta internazionale mesi prima al festival di Cannes dove sono esposti con successo Der junge Tòrless (I turbamenti del giovane Torless, 1966) di Volker Schlòndorff, Nicht versòhnt (Non riconciliati, 1965) di Jean-Marie Straub e Es (id., 1965) di Ulrich Schamoni, crisi di una coppia del benessere di fron­ te al problema dell’aborto. Nel medesimo anno si mettono in luce Peter Schamoni, fratello di Ulrich, con Schonzeit fur Fuchse (Divieto di caccia alla volpe, 1965), sulla fine della giovinezza e di un modo di vivere non convenzionale, e il pittore e disegnatore iugoslavo Vlado Kristl, figura di rilievo di quegli anni con il suo anarchismo sperimentale, espresso in decine di cortometraggi e Super8 e nei lungometraggi Der Damn (La diga, 1964) e Der Brief (La lettera, 1966). A questo gruppo, che viene chiamato la prima deutsche neue Welle, la nuova ondata tedesca, per distinguerla dalla seconda, e assai più importante, del decennio successivo, si possono ascrivere una ventina di giovani registi debuttanti negli anni Sessanta, tra i quali Edgar Reitz, Peter Fleischmann, Michael Verhoe­ ven con Paarungen (Accoppiamenti, 1967), Klaus Lemke e Rudolf Thome, specialisti di un cinema d’azione americano, Franz Josef Spieker con Wilder Reiter GmbH (Cavaliere sel­ vaggio s.r.l., 1966), Gustav Ehmek con Spur eines Màdchens (Tracce di una ragazza, 1967), l’americano George Morse con l’estetizzante Der Findling (Il trovatello, 1967), Johannes Schaaf con il brillante Tàtowierung (Tatuaggio, 1967), Haro Senft con lo scarno Der sanfte Lauf (Il corso tranquillo, 1968), l’importante regista teatrale Peter Zadek con Ich bin ein Elefant, Madame (Sono un elefante, signora, 1968), tutti autori di ritratti di giovani devianti o assassini «senza causa», alienati, ribelli o riluttanti a integrarsi. Anche se non di rado questi registi s’ispirano alla letteratu­ ra tedesca del presente (Boll, Grass, Musil, Martin Sperr, Thomas Valentin) o del passato (Kafka, Kleist), il giovane cinema tedesco degli anni Sessanta è sostanzialmente antilet­ terario, sia quando assume cadenze da inchiesta televisiva, sia quando, aspirando a una sorta di «nuova oggettività», prefe­ 146

risce registrare situazioni piuttosto che raccontare storie. Realizzati da giovani intellettuali, spesso influenzati a livello ideologico dalla scuola di Francoforte (Adorno, Horkhei­ mer) e a livello stilistico dalla nouvelle vague francese, sono in maggior parte film intellettualistici, talora caratterizzati da uno sperimentalismo velleitario. Pur rivolti spesso a un’aspra critica della società tedesca del miracolo economico, del fili­ steismo borghese, della cattiva coscienza verso il passato na­ zista e della «tolleranza repressiva», affrontano, escluse po­ che eccezioni, una tematica orientata sul conflitto tra genera­ zioni, sui problemi della coppia, dei rapporti tra i due sessi, della condizione della donna, quasi sempre all’interno della classe borghese. Accanto a registi presto persisi (i fratelli Schamoni ecc.), passati alla televisione (Morse, Lemke), morti (Spieker, il cecoslovacco di nascita Khittl che lesse il manifesto a Oberhausen) o che hanno lasciato il cinema (Kristl, fra gli altri), il gruppo può vantare alcuni autori note­ voli: Kluge, Reitz, Schlòndorff e, in posizione eccentrica, Straub.

Alexander Kluge Dopo La ragazza senza storia, Kluge (Halberstadt 1932) si cimenta a più riprese con altri ritratti e percorsi di donne. Leone d’oro a Venezia nel 1968, Die Artisten in der Zirkuskuppel: ratios (Gli artisti sotto la tenda del circo: perplessi) ha al centro Leni Peickert, trapezista che sogna di montare un proprio circo. Contrariamente che per il caso di Anita G., è la radiografia di un successo, ma un successo futile, come se l’autore intendesse dire che nel sistema capitalistico vincere o soccombere si equivalgono poiché, per vincere o almeno per sopravvivere, si è costretti ad accettare le regole del sistema e la sua violenza. Opera a chiave, densamente allegorica ed ermetica, ricca di parentesi e digressioni con scarsi nessi col tema centrale, resta un film ambizioso e mancato, apprezza­ bile come progetto letterario di tipo sperimentale più che non nella sua concretezza filmica. Più leggibili e risolti sono Gelegenheitsarbeit einer Sklavin (Lavori occasionali di una schiava, 1973) e Der starke Ferdi­ nand (Ferdinando il duro, 1978). Il primo, di cui è ancora 147

protagonista la sorella è collaboratrice Alexandra, è forse il miglior esempio di quel cinema della «coscienza valutativa» che Kluge è sembrato perseguire, di quella razionalità fred­ da e utopica, a mezzo tra Adorno e Brecht, e più alla lonta­ na Benjamin e Marx, che costituisce il sostrato delle sue opere. Questi lavori occasionali di una donna che procura aborti clandestini per poter avere più figli, che si dedica a un lavoro sociale su una fabbrica da cui il marito sarà licenzia­ to, oltre a tracciare la presa di coscienza di una borghese nella chiave di un femminismo fortemente politicizzato, of­ frono un penetrante «spaccato» di una metropoli industrializzata di cui Kluge fissa icasticamente le contraddizioni, gli aspetti di alienazione e provvisorietà. Più in minore, il se­ condo è il ritratto di un ex commissario di polizia, un «bol­ scevico del capitale», fanatico dell’ordine e della sicurezza aziendale sino a diventare pericoloso per i suoi stessi padro­ ni. In una luce sarcastica e a suo modo epica, è l’immagine di un mondo «rovesciato». Tra questi due film, Kluge ha scritto e diretto con Reitz In Gefahr groesster Not bringt der Mittelweg den Tod (Nei casi di maggior pericolo il giusto mezzo porta la morte, 1974), cro­ naca ideologica e attivamente pessimista di dieci giorni di cortei di protesta, comizi, occupazioni di case a Francoforte sul Meno nel ’74, visti ancora attraverso gli occhi di due donne. Mescolando finzione e attualità in presa diretta, è un’esperienza estrema, «teorica» — con tutti i limiti connessi — della sua ricerca di una forma critica e straniata, di asso­ ciazioni impreviste e «libere» dei materiali usati, che solleciti­ no nello spettatore una visione attiva ed eversiva in quanto dissonante rispetto a un oppressivo principio di realtà, alla normalità quale, secondo Kluge, è espressa nel racconto clas­ sico. Seppure combinato in forme diverse, è lo stesso princi­ pio che informa i suoi contributi ad alcuni film politici collet­ tivi — Deutschland im Herbst (Germania in autunno, 1977), Der Kandidat (Il candidato, 1979) su Franz Josef Strauss, Krieg und Frieden (Guerra e pace, 1983) — e la sua stessa lettura di mezzo secolo di storia tedesca proposta da Die Patriotin (La patriota, 1979), che ha trovato sostenitori entu­ siasti. Die Macht der Gefuhle (La forza dei sentimenti, 1983), sorta di «trattato sulla felicità e la sua impossibilità», è una singo­

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lare, affascinante nella sua stessa discontinuità, mistura di cinema narrativo e saggistico in dodici capitoli in cui, colla­ zionando e rielaborando materiali eterogenei sul filo di un’i­ ronia brechtiana, Kluge conferma di essere uno dei rari ci­ neasti contemporanei in grado di trasformare teorie e concet­ ti in immagini. Nella sua scia si colloca Der Angriff der Gegenwart auf die ùbnge Zeit (L’assalto del presente al resto del tempo, 1985) che, diviso in capitoli come il film precedente, affronta con il suo consueto gusto del paradosso e con un’e­ sposizione non sempre limpida, anzi a volte tedescamente astrusa, il difficile tema del tempo, del nostro presente come concentrazione di bisogni e desideri, come assoluto, privo di passato e di futuro. Tra i suoi personaggi-metafora, rimane nella memoria specialmente quello del regista cieco che, dice Kluge, «permette di incrinare ancora una volta l’ormai ce­ mentata superstizione che il film significhi automaticamente, semplicemente immagine».

Reitz e Schlòndorff Amico e collaboratore di Kluge ma, contrariamente a lui e a molti altri autori del giovane cinema tedesco, in possesso di una lunga esperienza tecnica, Edgar Reitz (Morbach 1932) fa pratica di fotografia, montaggio, laboratorio e realizza un centinaio di cortometraggi prima di esordire nel lungome­ traggio con Mahlzeiten (Pasti, 1967), storia di una coppia e ritratto di cannibalismo coniugale che, per ideologia e strut­ tura, è nel bene e nel male un’opera caratteristica della prima neue Welle germanica. Nel successivo Cardillac (id., 1969), ispirato a un racconto «serapionico» di E.T.A. Hoffmann, Reitz si pone il problema dei rapporti tra artista e società; mentre in Hoffmann la vicenda dell’orafo che, per amore ai propri gioielli, ne uccide i compratori, è soprattutto una escursione nel magico e nel demoniaco, qui diventa una pa­ rabola sull’artista che non solo si estrania dalla realtà, ma pretende di plasmarla a propria misura sino all’esaltazione autodistruttiva. Dopo varie esperienze nel decennio successivo tra cui Stunde Nuli (Ora zero, 1976) e Der Schneider von Ulm (Il sarto di Ulm, 1978), Reitz ha dedicato i primi anni Ottanta a Hei-

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mat (Patria, 1984), sceneggiato per la tv di quindici ore e ventiquattro minuti, diviso in undici parti. Ambientato a Schabbach, villaggio immaginario dell’Hunsriick (Germania sudoccidentale), terra natale di Reitz, Heimat traccia, attra­ verso le vicende di tre famiglie, un ampio affresco di storia tedesca contemporanea dal 1919 ai giorni nostri. Nella sua affascinante semplicità, frutto di una decantata e controllata combinazione di molti elementi, è un’opera — filmata per metà a colori — in cui i valori simbolici e le tensioni metafo­ riche sono concretamente calati in un’epica del quotidiano che, nel suo puntiglioso realismo, tende al ricupero di un’«anima» tedesca da riscoprire nelle sue zone rurali. Imparato il mestiere, dopo la scuola parigina dell’iDHEC, con Resnais, Melville, Malie, Vòlker Schlòndorff (Wiesbaden 1939) si mette subito in luce con Der junge Tòrless {I turba­ menti del giovane T., 1966) che, seppure riduttiva, è una tra­ sposizione decorosa del romanzo di Musil, mentre deludono Mord und Totschlag {Vivi ma non uccidere, 1967) e Michael Kohlhaas, der Rebell {La spietata legge del ribelle, 1969), flac­ cido e slabbrato film in costume, tratto da un racconto di Kleist. Più riuscito è Der plòtzliche Reichtum der armen Leute von Kombach {L'improvvisa ricchezza della povera gente di Kombach, 1970) dove, grazie all’apporto di Margarethe von Trotta, la cronaca storica, ambientata nella Germania del primo Ottocento, diventa strumento limpido ed efficace per l’analisi dei meccanismi di potere e di alienazione. Ancora con la preziosa collaborazione di M. von Trotta, Schlòndorff ha diretto Strohfeuer {Fuoco di paglia, 1972), penetrante sag­ gio sulla condizione femminile; Die verlorene Ehre der Katha­ rina Blum {Il caso Katharina Blum, 1975), dal romanzo di H. Boll, vigoroso e dialettico film di denuncia contro il giornali­ smo scandalistico e la repressione politica in atto nella rft degli anni Settanta; Der Fangschuss (Il colpo di grazia, 1976), dal racconto di Marguerite Yourcenar ambientato nel Baltico del 1919, insanguinato dalla guerra civile e dalla lotta anti­ bolscevica, in cui il discorso sul militarismo e lo spirito di casta si fa indiretto ma non meno convincente; Die Fàlschung {L'inganno, 1982), ritratto di un giornalista in crisi davanti al dramma del Libano devastato dalla guerra, nell’impossibilità di dividere i buoni dai cattivi e di schierarsi. Schlòndorff ha anche diretto Die Blechtrommel {Il tamburo di latta, 1979),

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ambizioso adattamento della prima parte della saga di Gunther Grass, metaforica cavalcata attraverso la storia della Germania dalle origini del nazismo al 1945, e Un amour de Swann (Un amore di Swann, 1983) in cui condensa nel giro di ventiquattro ore il primo tomo della Recherche di Proust. L’operazione gli è riuscita meglio quando ha giocato in casa.

Jean-Mane Straub Francese di nascita (Metz 1933), formazione, cittadinanza e spirito libertario, ma profondamente tedesco per la voca­ zione alle idee astratte e la testarda incapacità di porre con chiarezza i problemi, Jean-Marie Straub ha realizzato tutti i suoi film — da Machorka-Muff (id., 1963) a Der Tod des Empedokles (1987) — con la moglie Danièle Huillet che da Moses und Aron (1975) firma anche la regia. Uno dei proce­ dimenti caratteristici del loro cinema è il rapporto strettissi­ mo, quasi filologico, con un’opera antecedente che si dispone nei modi di una lettura interpretativa. L’opera può essere musicale come in Chronik der Anna Magdalena Bach (Crona­ ca di Anna Magdalena Bach, 1968) e Moses und Aron (Mosè e Aronne, 1975) dall’opera di Arnold Schonberg; teatrale come in Der Brautigam, die Komódiantin und der Zuhdlter (Il fidan­ zato, l’attrice e il ruffiano, 1968) da Ferdinand Bruckner, Othon (Ottone, 1970) da Pierre Corneille, Der Tod des Empe­ dokles (La morte di Empedocle, 1987) da Friedrich Holder­ lin; letteraria come in Nicht versòhnt (Non riconciliati, 1965) da Heinrich Boll, Geschichtsunterricht (Lezioni di storia, 1972) da Bertolt Brecht, Fortini Cani / Die Hunde von Sinai (Fortini Cani / I cani del Sinai, 1976) da Franco Fortini, Toute révolution est un coup de dés (Ogni rivoluzione è un colpo di dadi, 1977) da Stéphane Mallarmé, Dalla nube alla resistenza (1979) da Cesare Pavese, Klassenverhàltnisse (Rapporti di classe, 1983) da Amerika di Kafka. Anche un documentario come Trop tot, trop tard (Troppo presto, troppo tardi, 1981) s’appoggia a una lettera di Engels a Kautsky e alla post-fazione a Lotte sociali in Egitto di Mah­ mud Hussein. C’è chi ritiene Straub un «esempio quasi unico di artista in 151

cui si uniscono la dialettica del negativo secondo Adorno, quella della profezia secondo Benjamin e quella del concreto presente che porta il nome di Brecht» (F. Fortini) e chi lo definisce un terrorista della purezza che ha il terrore di non essere mai abbastanza essenziale e assoluto. Straub, citando Stravinsky («So bene che la musica non è capace di esprimere alcunché»), sostiene che un film non è fatto per raccontare una storia in immagini né per mostrare qualcosa né per esprimere sentimenti o altro e nemmeno, forse, per dimostra­ re qualcosa. Soltanto distruggendo, durante il lavoro di sce­ neggiatura, queste diverse tentazioni di espressione, si può fare, secondo Straub, un vero lavoro cinematografico duran­ te le riprese. È un esteta che non solo si oppone, negandola, all’industria dello spettacolo e al consumo «normale» del cinema, ma anche alla sua fruizione «estetica» tradizionale. Questa pratica è condotta alle estreme conseguenze in quel paradosso impoetico che è Othon dove il testo della tragedia di Corneille è detto, anzi citato, dagli interpreti non profes­ sionisti in modo atonale, col sottofondo sonoro e visivo del traffico automobilistico di Roma. Ma è una pratica presente sin dal bellissimo Nicht versohnt in cui la «frustrazione» di una grande famiglia tedesca non solo è mediata attraverso la ripresa dei simboli mistici di Boll — gli «agnelli» contrappo­ sti ai «bufali» via via militaristi, nazisti, neocapitalistici —, ma è condensata in brevi, ellittiche scene che spaziano senza sosta e senza recise determinazioni da un’epoca all’altra a sottolinearne l’identità, e la necessità di una brechtiana, vio­ lenta rottura. In Chronik der Anna Magdalena Bach, la musica (comprese le sue forme di messa in scena) è assunta in quanto oggetto «diretto e spazialmente irridotto» dell’immagine fil­ mica (durata reale delle partiture, attori musicisti, strumenti d’epoca, suono diretto) e, unita a scarne immagini dei luoghi reali in cui visse Bach e alle brevi note della moglie sui propri rapporti, sulla morte dei figli, sui suoi urti con i datori di lavoro, viene a comporre il ritratto di un «uomo libero» in armonia con la vita e con l’arte e con cui si è chiusa, secondo Straub, la «civiltà cristiana». Anche in Moses und Aron la musica è guida dell’azione e del ritmo filmico, ma viene sot­ toposta da Straub-Huillet — che vogliono neutralizzare la «cecità storica» dell’arte borghese di Schonberg — a una critica ideologica di tipo marxiano, espressa in un costante 152

estraniamento che non consiste nella lacerazione del testo, ma nel modo di far cinema, cioè nella messinscena: la scarna geometria degli ambienti naturali e detrazione che vi si iscri­ ve (sia pure con qualche contraddizione), la sottolineatura della dialettica nei rapporti tra i due protagonisti, e tra loro e il coro (popolo), la spoliazione plastica dell’immagine, la sdrammatizzazione dell’intreccio, il ricorso al recitativo per neutralizzare il lirismo dell’opera intendono sottrarre lo spet­ tatore all’incantesimo della musica per portarlo a un con­ fronto razionale con un cinema che Straub intende come «l’aspetto concreto di una prassi politica marxista». E Klassenverhàltnisse è una lettura insieme «semiologica» e lukacsiana del testo di Kafka, ripreso alla lettera e straniato nella sua verità di ingiustizia e di violenza come regola essenziale di ogni rapporto, nella visione di un’America iperrealistica, co­ me distanziata dietro una fredda lastra di vetro. Ancora un esempio di «cinema-limite», senza riconciliazione.

La seconda ondata Il rilancio del cinema tedesco nella rft divenne definitivo negli anni Settanta con la «seconda ondata» i cui capitila sono stati Fassbinder, Herzog, Wenders ma che comprende anche un terzetto di autori «decadenti» (Werner Schroeter, Hans-Jurgen Syberberg e lo svizzero Daniel Schmid), un gruppetto di donne-regista tra cui spiccano Margarethe von Trotta e Helma Sanders, e altri registi-autori di vario interes­ se come Herbert Achternbusch, Alf Brustellin, Hans W. Geissendorfer, Vadim Glowna, Reinhard Hauff, Peter Li­ lienthal, Ulli Lommel, Wolfgang Petersen, Bernhard Sinkel oltre a Peter Stein, regista teatrale di fama internazionale la cui attività è legata allo Schaubiihne di Berlino. Lo sviluppo del nuovo cinema tedesco e le sue affermazio­ ni in campo internazionale, almeno a livello di festival e di circuiti d’essai, non si spiegano senza un accenno alle struttu­ re economiche. Nell’accezione capitalistica del termine, infat­ ti, un’industria cinematografica non esiste nella rft: con po­ che eccezioni, i film di lungometraggio sono prodotti attra­ verso sovvenzioni che vanno dal 40 all’80 per cento. Si è già detto del Kuratorium Jiinger Deutscher Film, finanziato dai

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Lànder, che dal ’65 sovvenziona le opere prime; bisogna ag­ giungere, da parte dei ministeri dell’interno e dell’Economia, le sovvenzioni date sulle sceneggiature, i premi di qualità (fino a mezzo milione di marchi) a film di particolare valore con l’obbligo di reinvestirli in un altro film e le sovvenzioni del ffa (Filmforderunganstallt, cioè Centro d’aiuto per il cinema), paragonabili ai ristorni erariali (detrazioni su ogni biglietto venduto) del sistema italiano. Ancor più importante è l’apporto della televisione (due reti nazionali e nove canali regionali). Specialmente la zdf, la seconda rete, è diventata di fatto il maggior produttore di film tedeschi in Germania at­ traverso tre sistemi: la coproduzione; il finanziamento a sca­ tola chiusa amministrato dal ffa; l’acquisto anticipato dei diritti d’antenna. A parte lo sfruttamento televisivo, però, questo sistema di sovvenzioni pubbliche non prevede una struttura distributiva che assicuri la circolazione dei prodotti. Non a caso i film tedeschi più interessanti degli anni Settanta hanno avuto in Germania una risonanza — e talvolta anche un pubblico — minore che all’estero. Nelle tremila sale ancora aperte nella rft i film tedeschi non raccolgono più del 10-15 per cento degli incassi. La Filmverlag der Autoren, costituita nel 1970 da un gruppo di tredici registi, ha rimediato in parte a questa situazione. In quindici anni, dal 1965 al 1980, hanno esordito almeno trecento nuovi registi; ogni anno sono venuti alla ribalta almeno quattro o cinque talenti promettenti, ma al­ trettanti sono scomparsi dopo il primo o il secondo film. «Solo una piccola parte dei film prodotti arriva al pubblico delle sale, solo una minima frazione ricupera i costi di produ­ zione. La rft è forse il paese dove il cinema è il più ricco, eppure è il più povero dei paesi che hanno un cinema» (Peter W. Jansen). Il prolifico Fassbinder

Più di quaranta film, una dozzina di commedie, trenta regie teatrali, adattamenti radiofonici e qualche libro sono lo straordinario bilancio del bavarese Rainer Werner Fassbin­ der (Bad Wòrishofen, Baviera 1946 - Monaco 1982), morto a trentasei anni per una overdose di droga e alcool, che pure 154

fino a Die Ehe der Maria Braun (Il matrimonio di Maria Braun, 1978), affascinante, didascalico apologo post-brechtiano dei tempi della guerra e della ricostruzione, riassunti in una Hanna Schygulla umiliata ma mossa da una teutonica sma­ nia di vincere, fu un regista per pochi, un autore da festival e da cinema d’essai. Questo bilancio di forsennata attività pro­ duttiva si spiega in parte con la stretta interdipendenza tra teatro e cinema nel suo lavoro. Dopo aver fondato a Monaco nel ’68 1’Antitheater, gruppo di avanguardia, aveva costituito una squadra di tecnici e di attori — tra cui la moglie Ingrid Caven — che gli permise di ridurre al minimo i tempi di lavorazione con una scrittura che, pur influenzata da Godard e Straub, era modellata su quella del teatro, la sua prima passione, per la quale a sedici anni era scappato di casa per fare l’attore. Die bitteren Tranen der Petra von Kant (Le lacri­ me amare di Petra von Kant, 1972), complesso rapporto di desiderio e di potere tra donne basato su un testo teatrale e uno dei migliori film del primo periodo, fu girato in dieci giorni. Ma anche negli ultimi anni, ormai passato al cinema di alto costo, da esportazione, il suo ritmo di lavoro fu frene­ tico: dopo 1’80 ha dato Berlin Alexanderplatz (id.) cavando dal romanzo di Alfred Dòblin un variegato sceneggiato tele­ visivo che dura più di quindici ore, l’«hollywoodiano» Lili Marleen (id., 1980), Lola (id.), Die Sehnsucht der Veronika Voss (Veronika Voss, 1981), primo premio al festival di Berli­ no, e Querelle (id.) che, presentato alla mostra di Venezia, vi fa sensazione e scandalo. Esprimono una prepotenza narrati­ va e produttiva, però, che è stato il segno della sua passionali­ tà più ancora che del suo narcisismo, insieme nevrosi e pro­ getto. Fassbinder fa un cinema che è classico e moderno insieme: classico perché con un linguaggio tradizionale, denso, asser­ tivo anche se sorvegliato da una raffinata sobrietà, racconta storie e situazioni che potrebbero essere definite melodram­ matiche, attento alla lezione del cinema hollywoodiano degli anni Quaranta e Cinquanta, in alcuni suoi casi limite, von Sternberg, Ophiils, e specialmente Douglas Sirk; moderno perché questo ricupero del mèlo è segnato dalla presenza dell’autore, è permeato da una coscienza tragica della società capitalistica, divisa in classi e dominata dai rapporti di pro­ duzione, dalla legge del profitto, dall’espansione economica.

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Quest’inclinazione al melodramma è anche la scelta di una struttura narrativa forte, di immediata riconoscibilità nei personaggi e nelle azioni, che fa appello a una lettura intensa, a un tempo partecipe e distanziata, da parte del pubblico e permette di spostare le problematiche dello sfruttamento e dell’oppressione dal piano sociale a quello privato, dei rap­ porti tra individui che esse producono. Ha raccontato il do­ minio del bianco sul nero, sull’immigrato (come in Katzelmacher, Il terrone, 1969, uno dei più rigorosi esempi, con i suoi quadri fissi e le sue ellissi dell’Antitheater degli inizi; come in Angst essen Seele auf, La paura mangia l’anima, 1973), quello dell’uomo sulla donna, del regolare sul diverso, del bello sul brutto, e quello stesso che, nel chiuso gioco di rapporti inter­ personali profondi, divide anche tra diversi ed emarginati chi più ha da chi meno ha, chi è più forte da chi è più debole (come in Faustrecht der Freiheit, Il diritto del più forte, 1974, così lucidamente estraneo a ogni utopia omosessuale al di sopra delle divisioni sociali). Pur sensibile al marxismo e più in generale alla critica del sistema capitalistico, Fassbinder non è un regista ideologico, teorico. Per il ricorso alla violenza, fisica ed emotiva, come catalizzatore formale e tematico, è paragonabile a Losey, ma come tanti altri questi è un referente parziale per un’opera così plurima di stili e ricerche come quella di Fassbinder, sempre in evoluzione, seppure così personale e precisa nel suo senso di fondo. Si possono anche stabilire una serie di periodizzazioni: la fase dell’Antitheater e del «formalismo informale» post-ncwve//e vague, a volte calato in claustrofobici film di gangster, che dura sino ai primi anni Settanta e che trova il suo film — svolta nella anarchica e nevrastenica riflessione sul proprio mestiere di Warnung vor einer heiligen Nutte (Attenzione alla puttana santa, 1970); quella dei grandi melodrammi raffreddati; quella dei film spettacolari degli ul­ timi anni; ma ci sono continue oscillazioni da film a film dello stesso periodo (e talvolta nell’ambito dello stesso film): per esempio, tra la raffinata lettura-rapporto con un testo letterario (il bellissimo EffiBriest, 1972-74, da Fontane) e una scrittura nervosamente, talora sciattamente naturalistica (Wildwechsel, Selvaggina di passo, 1972). Sa passare da Go­ dard a Sirk; da una fiction esasperatamente stilizzata, ai limiti del kitsch — Despair (id, 1977), Lola (1981), Querelle (1982)

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— ai film dove l’urgenza del discorso politico lo porta a sprezzature formali di volgarità quasi televisiva; dalle ridu­ zioni letterarie e teatrali (oltre a Fontane e Dòblin, Nabokov in Despair, un Goldoni e l’Ibsen di Nora Helmer, 1973, per la tv) ad argomenti e storie di attualità (In einem Jahr mit 13 Monden, Un anno con 13 lune, 1978; Die dritte Generation, La terza generazione, 1979, irriverente «mascherata» attorno al terrorismo); dai film di ambiente proletario (Mutter Kiìsters Fahrt zum Himmel, Il viaggio in cielo di mamma Kiister, 1976, ispirato a un famoso film muto di Piel Jutzi, è un solo esempio tra i tanti che trattano, specie nel primo decennio, di quelli che Fassbinder chiamava i «sotto-privilegiati») a quelli ambientati nella ricca borghesia, frenetici come Chinesisches Roulett (Roulette cinese, 1976), nichilisti e autoparodistici come Satansbraten (Nessuna festa per la morte del cane di Satana, 1978), analitici e strutturati come i già citati mèlo della maturità. Da questa nevrotica oscillazione tra mèlo e impegno politi­ co, tra professionismo e sregolatezza, tra esibizionismo e ri­ flessione critica, esce un cinema che è una significativa, ap­ passionata testimonianza sulla Germania e la sua storia, sul che cosa significhi essere tedesco, oggi. Fassbinder era osses­ sionato dalla paura di non sapere, di non capire. È la paura che esprime in prima persona, esibendo anche la propria omosessualità, in un allucinato episodio di Germania in autunno (1978). Insieme con quello della Germania, spesso interpretata, espressa, ricusata nelle donne (il suo cinema è una galleria di memorabili ritratti femminili: Maria Braun, Petra von Kant, Lola, Effi Briest, Veronika Voss), è il tema del dominio, che perlopiù fa corpo con quello dell’amore e del suo uso nella società, il vero nucleo della sua poetica. Sotto il segno di una lucida e pessimistica visione del mondo, governato dai rapporti di forza, Fassbinder si è messo dalla parte dei dominati, dei diversi, degli emarginati, dei non pri­ vilegiati per ricchezza, linguaggio, educazione, cultura, con un’analisi spesso acuta deU’autoritarismo, del razzismo, del­ l’ipocrisia, della borghesia intesa come categoria umana ba­ sata sull’avere invece che sull’essere. Sempre dalla parte delle vite perse, come la sua.

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Herzog il viaggiatore Bavarese come Fassbinder e, come lui, appassionato di cinema sin dall’adolescenza (a diciassette anni progetta e propone, inascoltato, un film sulla riforma carceraria), nipo­ te di un archeologo professionista, grande viaggiatore, Wer­ ner Herzog (vero nome: W.H. Stipetic, Sachrang 1942) ha girato fuori dalla Germania la maggior parte dei suoi film, pure così profondamente tedeschi: in Grecia l’opera prima Lebenszeichen (Segni di vita, 1967), misterioso e violento ri­ fiuto da parte di un soldato convalescente nell’isola di Cos di una società nazista; in Messico e alle isole Canarie Auch Zwerge haben klein angefangen (Anche i nani hanno comin­ ciato da piccoli, 1970), allucinante e sovversivo resoconto sulla rivolta di una comunità di nani in una colonia di riedu­ cazione; nel Sahara Fata Morgana (id., 1971), documentario fantastico e utopico sulla bellezza del continente nero deva­ stata dallo sfruttamento della civiltà industriale; in Perù Aguirre, der Zorn Gottes (Aguirre, furore di Dio, 1972), dove da un episodio minore della conquista spagnola del Perù nasce un poema di potere, follia e morte nella chiave espres­ sionisticamente dilatata di un apologo sulla cupidigia dell’o­ ro e della gloria; nel Wisconsin la seconda parte di Stroszek (La ballata di Stroszek, 1977) che ritrova in America forme e simboli ancor più allucinanti di quella violenza da incubo industriale che ne ha fatto un rifiuto, un emarginato; nelle foreste dell’Amazzonia Fitzcarraldo (id., 1982); in Australia l’ecologico e animistico Wo die griinen Ameisen traumen (Do­ ve sognano le formiche verdi, 1984), sugli aborigeni che di­ fendono con la forza dei propri miti e dei propri sogni la loro terra e cultura secolare. Luoghi e paesaggi sono «scoperti», visti in un significato imprevisto, arcaico o metafisico, astrat­ to o allucinato, mediato da altre culture confrontate con quella europea. Il cinema di Herzog, il più visionario ed eccentrico autore del nuovo cinema tedesco, è popolato di anormali, minorati, folli, invasati. Hanno in sé un’altra, più autentica verità. Behinderte Zukunft (Futuro impedito, 1970) è un saggio sugli handicappati fisici; Land des Schweigens und der Dunkelheit (Paese del silenzio e dell’oscurità, 1971), documentario sui sordi e i ciechi, è un doloroso poema sull’incomunicabilità e

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la solitudine, ma non necessariamente la disperazione che ne deriva, in cui gli fa da guida la tenera e determinata Fini Straubinger. È un tema che Herzog riprende e sviluppa nel suo film di maggior respiro e impatto, Leder fur sich und Gott gegen alle (L’enigma di Kaspar Hauser, 1974), racconto del misterioso caso di un «ragazzo selvaggio» nella Germania dell’epoca Biedermeier che da più di un secolo è oggetto di studi e ricerche e ha ispirato, tra gli altri, Paul Verlaine, Jakob Wassermann, l’espressionista Trakl e il commediogra­ fo Peter Handke. Kaspar li riassume tutti, è la figura più densa di mistero e di rivelazione di una condizione fatta all’uomo. È l’estraneità assoluta, l’imprevisto che non rientra nelle norme sociali, giuridiche, religiose, nella Kultur. Ma è anche apertura al reale, disponibilità all’apprendimento della vita come linguaggio, come comunicazione (la cui assenza connota, secondo Herzog, il nostro mondo, forse la Civiltà). La sua è una «passione laica» in un mondo che lo rinserra e opprime, e Herzog ne delinea lo spazio popolato di sogni e incubi, di angoscia e premonizioni di morte, la segue con rigore visionario e con quella «verità intensificata» che ricer­ ca da sempre e che qui trova in Bruno S. un interprete quasi sciamano, lui stesso, orfano cresciuto tra riformatori e carce­ ri, Kaspar. Se dopo Herz aus Glas (Cuore di vetro, 1976), il più arca­ no, magico, esoterico dei suoi film, Nosferatu (Nosferatu, principe della notte, 1978), rivisitazione raffinata del capola­ voro di Murnau, e Woyzeck (id, 1978), terso e asciutto adat­ tamento del dramma di Georg Buchner, sono sembrate opere di ripiegamento o comunque di un ritorno alle proprie radici culturali, Fitzcarraldo — film in cui, a causa anche di disgra­ ziate vicissitudini di lavorazione, il regista ha investito otto miliardi di lire e più di tre anni di vita e che racconta la storia di un’ossessione grandiosa e di un’assurda ed epica impresa incarnate come in Aguirre in Klaus Kinski — è paradossal­ mente il più ordinato, accademico dei suoi film anche se le sue qualità visionarie sono ancora ben visibili. E un altro sogno «folle» non indegno della radicalità «mistica» — am­ bigua e crudele nella sua pratica cinematografica, nel suo «uso» qui degli indios come prima dei minorati (ma pure di se stesso che rischia la vita per filmare l’infilmabile, l’eruzione vulcanica in un’isola destinata a sprofondare, in La soufrière, 159

La zolfatara, 1976), ed estrema nella sua ansia romantica di verità, di purezza — che è peculiare di questo autore così rivelatore nella sua atemporalità.

E «americano» Wenders Se Herzog è il mistico, Fassbinder il melodrammatico, Kluge il dialettico, Wim Wenders potrebbe essere definito l’antropologo del giovane cinema tedesco. Da Summer in the city (Estate in città, 1970), suo primo film lungo in 16 mm, a Paris, Texas (id., 1984), ogni suo film racconta un viaggio, vagabondaggio o fuga che sia: lo spettatore diventa esplora­ tore del mondo esterno e di quello interiore dei personaggi. Nato nel 1945 a Dusseldorf, Wenders appartiene a quella generazione di tedeschi cresciuti nella sempre più prospera Germania di Adenauer, che sono stati profondamente in­ fluenzati dalla cultura nordamericana, soprattutto musicale e cinematografica. Dal cinema americano classico (Hawks, Ray, Fuller, Walsh) ha imparato il gusto deH’immagine niti­ da e il rifiuto delle spiegazioni psicologiche. Ancor più i suoi personaggi hanno per il viaggio e per il movimento un’incli­ nazione che li avvicina agli eroi di Jack Kerouac, di Easy Rider e di altri «film di strada» americani, ma che affonda le radici anche nella tradizione romantica del Bildungsroman o Erziehungsroman, romanzo di formazione o educazione, che spesso è anche un viaggio di iniziazione. Tutti i viaggi, in fondo, non hanno fine, non hanno meta. Sono insieme eva­ sione e ricerca, confronto e ricerca, un modo di riconoscersi e ridiscutersi. Spinti al limite, possono essere fughe dalla paura e dall’angoscia come quella del portiere Bloch di Die Angst des Tormanns beim Elfmeter (Prima del calcio di rigore, 1971), versione piena di asprezze avanguardistiche del romanzo di Peter Handke, o da una malinconica presa di coscienza come quella del giornalista che rinuncia a un reportage negli Stati Uniti in Alice in den Stàdten (Alice nelle città, 1973), viaggi nell’insignificanza come in Falsche Bewegung (Falso movimen­ to, 1974), dal Wilhelm Meister di Goethe riscritto da Handke, viaggi sentimentali sulle tracce del maestro Ozu come nel documentario Tokyo-Ga (id., 1985) che si fa ricerca di un senso del cinema nel mondo attuale ipertecnologico. Nei casi 160

migliori, il viaggio è la forma d’espressione di soggettività diverse e vere. Viaggio nel «paese dell’anima» è uno dei suoi film migliori, Im Lauf der Zeit (Nel corso del tempo, 1975). I due protagoni­ sti vagabondano lungo una frontiera, quella fra le due Ger­ manie, emblematica di paura e afasia, «diversi» nella Ger­ mania prospera che è come cancellata dal film, spettrale non­ realtà, fantasma di qualcosa morto anni prima con il nazi­ smo. È una mortuaria normalità, doppiata nello schermo bianco, nella decadenza e morte del cinema. Per Bruno «re della strada» che con il suo camion-arca si guadagna da vivere riparando vecchi proiettori e per Robert, intellettuale kamikaze, impossibilitati a far scorrere il tempo, il corso della vita, è anche un viaggio nel proprio malessere, nelle proprie crisi, rese attive soltanto da questa disponibilità a cambiare posto in ogni senso, a mutare. Ciò che ne ha deter­ minato il successo grandissimo presso un pubblico di giovani degli anni Settanta è stata proprio la sua capacità di parlare di un generazionale ritorno all’introspezione e all’analisi dei rapporti interpersonali successivi alle sconfitte del movimen­ to del ’68. Nel corso del tempo ha mirabilmente raccontato questi disagi, e con le sue atmosfere, con la sua incredibile scioltezza, con la sua capacità di essere «reale», è riuscito a essere un punto di riferimento collettivo, di grande eco su molto successivo cinema di giovani. Il rapporto di Wenders con la letteratura di Handke è stretto ed evidente. C’è però in Wenders una lettura persona­ le, malinconico-pacata, mai crudele, dei motivi che ha in comune con lo scrittore austriaco. La differenza si può verifi­ care nei film che Handke (Griffen 1942) ha diretto in proprio. Bello e algido è Die linkshàndige Frau (La donna mancina, 1978), di essenziale linguaggio nel descrivere il progressivo e inarrestabile distaccarsi di una donna dai suo affetti e abitu­ dini, alla ricerca di una dolorosa autenticità e nuova comuni­ cazione con 1’esistenza. Film di parola, di ricerca di una scrit­ tura non naturalistica, anzi di vera e propria riflessione sul­ l’atto dello scrivere, è il successivo e fin troppo asettico e cerimoniale Das Mal des Todes (Il segno della morte, 1985), tratto da un testo della Duras. Tra i romanzi (fortemente autobiografici) di Handke, di grande influenza sul cinema di Wenders è stato Breve lettera

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del lungo addio del 1972, viaggio dentro l’America che è an­ che quello di un certo distacco da un luogo mitico. Come un sogno proibito cui si vuole credere, in piena e voluta falsa coscienza. È un mito del cui carattere di rimozione rispetto al passato tedesco recente, agli anni del nazismo con cui non si è in grado di fare i conti storici, di comportamenti di massa, Wenders sembra cosciente. Così ci si inventa un’altra «identi­ tà» che è anche un’identità generazionale, attiva, vitale: il rock, Von the road, il nero. Tre dei suoi shorts in 16 mm, girati quando frequentava la Scuola di cinema e tv di Mona­ co, Some player shoots again (Qualche giocatore spara anco­ ra, 1967), Alabama/2000 light years (Alabama/2000 anni lu­ ce, 1968), 3 amerikanische Lp’s (Tre Lp americani, 1969), sono in inglese ed esprimono quella fascinazione, e in atmo­ sfere da film nero esistenziale si muove Summer in the city (1970), lungometraggio di diploma che è una sorta di film corto dilatato. È una cultura non repressiva, giovane, libera­ toria, in cui nulla sprofonda, come dice Wenders, è un altro mondo rispetto alla profondità della coscienza europea, ma rivisitato con uno sguardo sempre più smaliziato. Non libera certo da un es e super-io tutti europei. L’America che si presenta allo sguardo vergine dei protagonisti di Alice nelle città, una bambina e un giornalista, è affascinante e repellen­ te, consumata, parte di lì il tentativo di un «ritorno a casa» dopo la verifica della sua consistenza solo immaginaria. A cominciare dal titolo e dal romanzo di Patricia High­ smith (Ripley"s game) da cui è liberamente tratto, l’America e il suo cinema incombono come lunghe ombre su Der ameri­ kanische Freund (Lamico americano, 1977), ma l’amicizia tra i due protagonisti, Bruno Ganz e Dennis Hopper, non è paritaria: il secondo ha il potere, è in definitiva il corruttore. E il grande pittore che si è fatto credere morto, è anche coscienza di una sopravvivenza bastarda dell’arte, di una sopravvivenza sconfitta di quel cinema americano così ama­ to, di quel romanticismo così profondamente assimilato, ma improponibili. Wenders ne legge su di sé il destino, senza riuscire a distaccarsene ma anche senza rinunciare alla co­ scienza del significato coloniale di questo fascino. («Gli ame­ ricani ci hanno colonizzato il subconscio», dice uno dei per­ sonaggi di Nel corso del tempo.) A interpretare il pittore era Nicholas Ray sulle cui ultime settimane di agonia e morte

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Wenders ha realizzato un crudele «film d’amicizia», Light­ ning over water - Nick's movie (Lampi sull’acqua - Nick’s Mo­ vie, 1979-80), film aperto che muta con la sua realtà, film fatto con Ray più ancora che su Ray: l’autore hollywoodia­ no? la vittima di Hollywood? È un’ambivalenza, cinema americano/cinema europeo, che toma a discutere in un altro film «povero», Der Stand der Dinge (Lo stato delle cose, 1983), Leone d’oro alla mostra di Venezia, che, dopo un’am­ pia parte portoghese dominata da un grigio senso della morte e del vuoto, si trasferisce in un finale ossessivo e folgorante a Los Angeles. E un’ambivalenza che sconterà con Hammett (Hammett. Indagine a Chinatown, 1979-83) che, fatto per Coppola, ebbe 38 versioni di sceneggiatura e fu rigirato e rimontato numerose volte. Il risultato è un film nero, affasci­ nante per tutto ciò che lo nega in quanto film nero: l’analisi della creazione artistica, del rapporto tra realtà e finzione. Il suo è un cinema sul tema della comunicazione, intesa come trasporto (il viaggio) e trasmissione (di idee, sentimenti, immagini). Nel corso del tempo è un vero catalogo dei mezzi di comunicazione: strada, parola, radio, juke-box, cinema, stampa, automobile. La televisione e la fotografia (polaroid, specialmente) ricorrono con frequenza assillante nei suoi film come si ripetono gli ambienti (camere d’albergo, bar, stazio­ ni, aeroporti) che sono luoghi di passaggio. Sono film di un europeo che si esprime deliberatamente, e quasi senza accen­ to, in americano anche se, rispetto alle norme che regolano la drammaturgia di Hollywood, Wenders conserva la sua liber­ tà di autore: nei loro vagabondaggi «i personaggi di Wenders hanno sempre l’aria di stare tra le quinte senza mai accedere alla scena oppure di cercare una storia — un dramma —dove poter recitare senza riuscire a trovarla» (Peter Kral). Ciò che li muove, specie nel caso di Nel corso del tempo, è un’esigenza morale ma rapportata a una coscienza storico-sociale di fron­ te a una difficoltà ben reale, soprattutto — ma non solo — generazionale. Perplessi ha perciò lasciato Paris, Texas, Pal­ ma d’oro al festival di Cannes 1984, ancora un itinerario — dal Texas alla California e ritorno — pullulante di posti dove non ci si può «fermare», ma questa volta scritto da Sam Shepard e oscillante tra il road movie e il family movie. L’eroe maschile torna a una sua ricerca solitaria e narcisistica che sembra ora escludere il confronto con il suo tempo e con la 163

società che l’ha prodotto, con un paesaggio e un ambiente, peraltro virtuosisticamente fotografati da Robby Muller. In questo viaggio nel deserto dell’espiazione e nel peep-show della confessione a ricomporre la trinità familiare, paura di fronte all’esistenza, complicità tra adulto e bambino, ricerca di un’identità, cioè i suoi temi di sempre, si mescolano con l’ambiguo, spiritualistico mito dell’Autentico, e delle sue di­ scutibili epifanie. Con Der Himmel uber Berlin (Il cielo sopra Berlino, 1987) Wenders, rientrato in patria e ripresa la colla­ borazione con Peter Handke, ha fatto una favola di strenua tenerezza, la storia di due angeli attraverso i cui occhi (e l’obiettivo del vecchio Henri Alekan) filma — prima in mo­ nocromia, poi a colori nelle sequenze «più umane» —una Berlino come non si era mai vista sullo schermo. La triade tematica — viaggio, America, cinema — è rin­ tracciabile, d’altronde, anche in altri cineasti tedeschi anni Settanta e Ottanta, testimonianza di quel processo di dipen­ denza e osmosi che lega la cultura tedesca a quella nordame­ ricana: Highway 40 West (Autostrada 40 Ovest, 1981) di Hartmut Bitomsky, Desperado City (id., 1981) di Vadim Glowna, Die Abfahrer (Coloro che partono, 1978) di Adolf Winkelmann, Rheingold (id., 1977) di Niklaus Schilling. Il modello del cinema hollywoodiano, specialmente del genere gangsteristico, è ravvisabile, spesso in chiave ironica, nei primi film di Rudolf Thome (Detektive, id., 1968; Rote Sonne, Sole rosso, 1969), Klaus Lemke (48 Stunden bis Acapulco, 48 ore ad Acapulco, 1967; Negresco-Eine tòdliche Affare, Negresco, un affare mortale, 1968), Roland Klick (Mord und Totschlag, Omicidio e uccisione, 1967; Deadlock, Punto mor­ to, 1970) oppure è palesemente ricalcato in Engel aus Eisen (Angeli di ferro, 1981) di Thomas Brasch e in Nacht der Wòlfe (La notte dei lupi, 1982) di Rudiger Nùchtern. Syberberg e gli irregolari Prima di realizzare la sua ambiziosa, visionaria trilogia tedesca — Ludwig. Requiem fur einen jungfràulichen Konig (Ludwig. Requiem per un re vergine, 1972), Karl May (id., 1974) e Hitler, ein Film aus Deutschland (Hitler, un film dalla Germania, 1977) — il prussiano Hans-Jurgen Syberberg

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(Nossendorf 1935) svolge un’intensa e varia attività nel cam­ po dello spettacolo, passando dalla rdt (dove ha modo di seguire gli ultimi anni di attività teatrale di Brecht) alla rft, dal teatro alla televisione. Come altri suoi colleghi, dopo documentari di vario genere, arriva al lungometraggio con due adattamenti da Tolstoj (Scarabeo - Wieviel Erde braucht der Mensch?, Scarabea - Di quanta terra ha bisogno l’uomo?, 1968, girato in Sardegna) e da Kleist (San Domingo, 1970), ma trova la sua strada ricorrendo, grazie a un procedimento tecnico di tipo fotocinematografico (da lui chiamato Aufpro, proiezione anteriore), a una mescolanza di finzione e docu­ menti, visioni, mito e quotidianità oggettuale ed esistenziale, per esplorare la presenza di alcuni personaggi chiave nella cultura germanica: Ludwig n, l’ultimo re di Baviera al quale nel ’73 anche Visconti ha dedicato un film; Karl May (18421912), prolifico e celebre scrittore di avventure, una sorta di Salgari, la cui opera «pacifista e triviale, utopica, proletaria, surreale... serve da fonte ideologica a patrioti che l’interpre­ tano in modo distorto» (Syberberg); e Adolf Hitler, dittatore, grande show-man e interprete-manipolatore della psiche tede­ sca, in un magniloquente e smisurato film che dura più di sette ore. Sulla stessa linea, rigorista, sperimentale, insolita nell’angolatura delle figure della storia e della cultura, si situano Winifred Wagner und die Geschichte des Hauses Wahnfried von 1914-1975 (W.W. e la storia della casa Wahnfried dal 1914 al 1975, 1975), intervista di cinque ore con la filonazista nuora di Wagner, quasi una prefazione al film su Hitler che suscitò polemiche scandalizzate in Germania, e al livello di produzione ricca Parsifal (id., 1982), film-opera con cui Syberberg si confronta con un altro dei grandi miti della cultura tedesca, percorrendone il labirintico itinerario interno per svelarne le radici irrazionali e puntando su un apparato scenografico in bilico tra il simbolismo e il kitsch e sulla riproposta della musica nella sua natura di «organismo arti­ ficiale». Spesso rivolto nelle sue opere più recenti a contami­ nare i mezzi espressivi del cinema e del teatro in una forma distanziata, riflessiva, in cui la parola assume un ruolo decisi­ vo, Syberberg non intende affatto il cinema come «una forma democratica di teatro nell’epoca della riproducibilità tecnica, come moltiplicatore in favore delle masse», ma come «un 165

prolungamento della vita attraverso altri mezzi». La dilata­ zione, il flusso di musica, parola, silenzio in una raffinatissi­ ma «povertà» di apparati tecnici e formali. Nelle sei ore di Die Nacht (La notte, 1985), Edith Clever recita Kleist, Hol­ derlin, Heine, Novalis, Beckett e tante altre poesie notturne in un composito collage che «esprime» la notte, la crisi della cultura occidentale. Un altro cineasta che ha il gusto dell’eccesso è Werner Schròter (Gotha 1945), attivo anche nel campo della regia teatrale con diversi spettacoli tra cui bisogna citare almeno Emilia Galotti di Lessing, messo in scena nel ’72 ad Ambur­ go, e la Medea di Alvaro, in Italia nell’83, universo scenico cui ha dedicato anche un referto dedrammatizzato come La rèpétition gènérale (La prova generale, 1980), sul festival di Avignone. Appassionato dell’opera lirica, specialmente ita­ liana, e influenzato dalla cultura pop e underground, Schrò­ ter ha fatto a lungo un cinema manierista, di un narcisismo disperato, sofisticato nella sua stessa impurità in cui mescola cultura alta e bassa, sperimentalismo linguistico (asincronismo, frammentazione e scomposizione della narrazione, esa­ sperazione del trucco e del falso), esibizione del kitsch e gusto del mèlo. Il suo risultato più suggestivo è, nella prima fase, Der Tod der Maria Malibran (La morte di Maria Malibran, 1971), percorso sotterraneamente dall’idea di matrice nietz­ schiana della musica come luogo stesso della follia e animato da un’inquietante poesia delle rovine. Ne è interprete l’androgina Magdalena Montezuma, la sua attrice preferita che, stravolta nella sua femminilità, rapata, è Erode nella wildiana Salomè (1971), oltre che figura centrale dell’americano Willow springs (Primavere deh salice, 1973). Rifratto dentro forme reiterate, ossessive, e con un gusto della pro vocazione che cancella le differenze dei sessi, c’è il suo interesse per le decadenze, le ambiguità, i relitti, gli incer­ ti, le marginalità viste come verità. Poi, esso si è travasato in un cinema a forte base naturalistica, un teatro morale-sociale mediato dalla chiave del melodramma (e magari della sce­ neggiata) che ha trovato espressione originale ed essenziale in Neapolitanische Geschwister / Nel regno di Napoli (1978), acu­ ta analisi di una città-limite, di frontiera tra sviluppo e sotto­ sviluppo, europea e colonizzata dagli americani, condotta, attraverso le storie di alcune famiglie di un casamento della 166

Napoli proletaria, dalla guerra alla giunta comunista, e nel successivo Palermo oder Wolfsburg (Palermo o Wolfsburg, 1980), storia di immigrazione che già nel titolo propone l’op­ posizione tra una cultura di miseria a suo modo vitale e la disumana città della Volkswagen, emblema di un mondo. Così, in Tag der Idioten (Il giorno degli idioti, 1982), la follia e l'istituzione psichiatrica sono metafore, chiavi d’interpreta­ zione del mondo impazzito in cui viviamo. Un altro cineasta eccentrico è il bavarese Herbert Achtembusch (n. 1938), romanziere, commediografo, sceneggia­ tore di Herz aus Glas per Herzog. Tutti ambientati nei luoghi natali dell’Alta Baviera per la quale nutre un ambivalente sentimento di amore-odio, i suoi film — da Das Andechser Gefiihl (Il sentimento di Andechs, 1974) aDerDepp (L’idiota, 1982), da Bierkampf (La lotta della birra, 1976) a Rita, Rita (id., 1983) — sono imperniati sulle traversie di un personag­ gio (interpretato dallo stesso Achternbusch), anarchico, biz­ zarro, sognatore e sconfitto. Sono film a basso costo, prodot­ ti in prima persona, spesso senza sovvenzioni pubbliche, par­ lati in dialetto bavarese — il che limita ancor più le loro possibilità di diffusione — che costituiscono, al di là dei giudizi di merito sui singoli risultati, un interessante e omo­ geneo work in progress. Contraddistinto da un atteggiamento rudemente polemico nei confronti della società tedesca (con­ sumismo, alienazione, disfunzioni istituzionali, emarginazio­ ne, arbitrii del potere costituito), il cinema di Achternbusch è percorso da guizzi di ferina fantasia, suggestioni surrealiste, momenti di struggente lirismo che fanno di questo regista «il nevrotico campione della lotta di liberazione anticolonialista sul territorio della rft», visceralmente attaccato ai suoi fan­ tasmi e umori scandalosi, al suo humus culturale ed etnico.

Margarethe von Trotta e il cinema delle donne Nel catalogo 1982 dell’Export-Union dei film tedeschi c’è un dizionarietto di registi con centodieci voci: quattordici sono donne, tutte nate dopo il 1940 con l’eccezione di Helke Sander (n. 1937). L’elenco non è né pretende di essere com­ pleto. Manca, per esempio, Ula Stòckl (n. 1938) probabil­ mente perché — dopo Neun Leben hat die Katze (Il gatto ha

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nove vite, 1968) e i due successivi film diretti in coppia con Edgar Reitz, che non ebbero successo — fondò una piccola società di produzione con cui fece diversi film di varia lun­ ghezza per la tv — tra cui Erikas Leidenschaften (Le passioni di Erika, 1976) e Eine Frau mit Verantwortung (Una donna con responsabilità, 1977) — tutti imperniati sui problemi della famiglia e della condizione femminile. Nel cinema della rft le donne sono così numerose in tutti i settori, così battagliere e organizzate che nel 1979 hanno costituito una società di produzione con quadri femminili — la Chaos film — e, dopo aver messo in piedi nello stesso anno un festival ad Amburgo, hanno creato il Verband der filmarbeiterinnen, l’associazione delle donne che lavorano nel ci­ nema; uno dei suoi traguardi è arrivare a occupare il 50 per cento dei posti nell’industria del cinema e della tv. Non sono poche le donne che hanno importanti responsabilità a livello di produzione come Renée Gundelach, che nel 1971 parteci­ pò alla fondazione e allo sviluppo della Basis film-verleih, e poi è diventata amministratrice della Road movies che ha prodotto film di Wenders (L’amico americano) e Peter Handke (La donna mancina). Alla Basis film le è succeduta Clara Burckner, mentre Ursula Ludwig dirige il lcb (Literarisches colloquium Berlin). Non meno importante è stata la funzione svolta dalla rivista «Frauen und Film», fondata nel ’74 da Heike Sander e Gesine Strempel, autofinanziata e aperta a collaborazioni solo femminili. Nei suoi articoli affiora una posizione precisa, quella per cui il cinema è anche e anzitutto apparato produttivo; strumento di comunicazione, ma anche processo di lavoro a catena, luogo della tecnica e della pro­ fessione; veicolo dell’espressione individuale, ma anche della documentazione e della riflessione storica, di spettacolo ma anche di battaglia politica. L’autrice che s’è conquistata una notorietà europea con il Leone d’oro vinto alla mostra di Venezia 1981, con Anni di piombo, è Margarethe von Trotta (Berlino 1942), moglie di Schlòndorff con cui ha lavorato come attrice e sceneggiatrice, condividendo con lui le responsabilità della regia di II caso Katharina Blum. Da sola ha diretto Das zweite Erwachen der Christa Klages (Il secondo risveglio di C.K., 1978), seguito da Schwestern oder die Balance des Glùcks (Sorelle o ! equilibrio della felicità, 1979), Die bleierne Zeit (Anni di piombo, 1981),

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Heller Wahn (Lucida follia, 1983). Tutti e quattro parlano di rapporti tra donne, tra sorelle: sorelle di sangue nel secondo e nel terzo film, sorelle per solidarietà femminile negli altri due. La peculiarità della Trotta consiste nell’accogliere, e fondere, nei suoi film l’impegno di critica e denuncia civile, l’ambizio­ ne, diffusa tra molte altre cineaste della sua generazione, di calare il punto di vista femminile nella politica della Germa­ nia di oggi e nella riflessione sul passato storico più o meno recente, il nazismo, il grigio silenzio degli anni del miracolo economico, ma anche il terrorismo post-sessantottesco e i problemi della vita privata, i temi e i sentimenti della quoti­ dianità nella condizione della donna. Quando mette in rap­ porto dialettico il «dentro» privato e commosso del rapporto tra sorelle (con i suoi problemi di identità e dipendenza) con il «fuori» accidentato della Storia, il suo cinema, fondato su una solida costruzione drammaturgica ma anche insinuante e sottilmente attento alle sfumature dei comportamenti, riesce a far coincidere etica ed estetica, passionalità e problematica, commozione e lucidità. Vi si ritrova un rigore morale, «pro­ testante», che è apertura al cambiamento, volontà di andare oltre la realtà mostrata, ed è la matrice del carattere attivo dell’opera di questa autrice, ne costituisce uno dei motivi di fascino e di interesse, di discussione, quale ogni suo film suscita. Per questo, ha sorpreso Rosa Luxemburg (id., 1986), ritratto corretto, tradizionale, qua e là convenzionale della grande rivoluzionaria polacco-tedesca, vista in una chiave più genericamente biografica che contemporanea, in cui il «personale» raramente trova vere risonanze politiche. Prima di lei, grazie a Unter dem Pflaster liegt der Strand (Sotto il selciato c’è la spiaggia, 1975), ritratto di due giovani che, nel clima di disillusione post-’68, cercano nella vita di coppia un risarcimento al fallimento delle lotte politiche, e Shirins Hochzeit (Le nozze di Shirin, 1976), storia amarissima di una donna turca emigrata a Kòln (Colonia), aveva rag­ giunto un notevole prestigio Helma Sanders-Brahms (Emden 1940). Passata dai documentari politici militanti al cinema narrativo, vi è apparsa non aliena al ricorso ai modi del melodramma, come mostrano, non tanto Heinrich (id., 1977), biografia dello scrittore Heinrich von Kleist (17771811) verso la cui opera la cultura tedesca ha avuto negli anni ’70 un forte interesse, quanto i suoi film più ad alto costo e

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solo parzialmente riusciti: Deutschland, bleiche Mutter (Ger­ mania, pallida madre, 1979) in cui, come in II matrimonio di Maria Braun (1978), il punto di riferimento nella rilettura del nazismo e della guerra è la vita di una donna, e il suc­ cessivo Flugel und Fesseln (Ali e ceppi, 1984). Assai più autentico e discreto è Laputa (id., 1986, dal nome dell’isola di Swift), ultimo incontro berlinese in durata reale di un architetto francese e di una fotografa polacca, tra giustezza letteraria dei testi e realtà delle immagini, tra sentimenti e ragione. Attiva militante nel movimento delle donne che, specialmente in Germania, si organizzò nel ’68 con una propria autonomia rispetto al movimento studentesco, Heike Sander (n. 1937) ha tradotto le sue esperienze e il suo impegno politi­ co in corto e mediometraggi di varia natura e in due lungometraggi, Die allseitig reduzierte Persònlichkeit - Redupers (La personalità universalmente ridotta - Redupers, 1977) e Der subjektive Faktor (Il fattore soggettivo, 1980), in cui l’analisi dei rapporti tra vita privata e attività politica è sorretta da un esplicito didascalismo, condito di ironia e di senso del para­ dosso. È stata al suo fianco nella fondazione (1972) della Coop der filmerinnen, la prima casa di produzione che si occupò esclusivamente di film delle donne, Claudia von Alemann (n. 1943), regista di documentari, che s’è cimentata nel cinema di narrazione con Flora Tristan (id., 1980) e Die Reise nach Lyon (Il viaggio a Lione, 1981) sul tema dell’oblio e della memoria, e del processo di riappropriazione del pro­ prio passato che le donne devono intraprendere. In fondo sono gli stessi temi che affronta Jutta Bruckner (n. 1941), già sceneggiatrice con Schlòndorff e la Stòckl, che nei suoi film — Hungerjahre (Anni di fame, 1980), Laufen lernen (Impara­ re a camminare, 1982) — mescola la memoria autobiografica con materiali di repertorio (fotografie, documentari, cine­ giornali). E forse proprio il «fattore soggettivo» l’elemento che accomuna queste autrici, cioè «il legame tra pubblico e privato come punto di vista non sorpassato del movimento delle donne. In questo modo si propongono di gettare uno sguardo sul mondo: così che autobiografia, esperienze vicine si legano spesso ad esperienze storiche e politiche in una specie di intreccio fortissimo, e spesso molto emozionante» (Maria Schiavo).

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A questa visione diversa è corrisposta, nella maggior parte dei casi, la ricerca di un linguaggio che instaurasse una certa distanza dagli schemi narrativi tradizionali. Espressione di un post-femminismo senza pretese ideologiche che diffida di una rigida distinzione tra i generi e ha ricuperato il valore dello humour, della satira o semplicemente della comicità, appare invece Doris Dòrrie (Hannover 1955) che ha colto un clamo­ roso successo di pubblico con Manner {Uomini, 1986). È una commedia vagamente wilderiana — leggera nel tono, più cinica che amara nel fondo — su due uomini, l’uno integrato, l’altro alternativo, rispettivamente marito e amante della stessa donna, e su come il primo riduce il secondo a una sua copia, a un perfetto yuppie. La Dòrrie aveva già al suo attivo due eccentriche variazioni sulla ambivalenza e la «follia» di­ struttiva dei sentimenti: Mitten ins Herz (In mezzo al cuore, 1983) e Im Innern des Wals (Dentro alla balena, 1984). Anco­ ra una sessualità trasgressiva, ancora un giro a tre (una cop­ pia borghese e l’amica irregolare) stanno al centro di Paro­ dies (Paradiso, 1986) che, dopo Uomini, ripropone uno sguardo pungente d’indagine di costume sui miti d’oggi, ma pure conferma il sospetto di un talento più abile e spregiudi­ cato che non davvero profondo e coinvolto dai temi che affronta. Tra impegno e industria

«Parlino altri della propria vergogna, io parlo della mia. O Germania, pallida madre, come insozzata siedi tra i popoli, fra i segnati d’infamia tu spicchi». Questi versi di Brecht, da cui Helma Sanders-Brahms ha tolto il titolo del suo film più noto, potrebbero essere l’emblema del rapporto di amore-o­ dio, dell’attenzione critica con cui molti registi dell’attuale cinema tedesco guardano e raccontano non soltanto il passa­ to nazista, più o meno rimosso, ma il presente «stato delle cose». Il discorso riguarda il discontinuo Peter Fleischmann (Zweibrucken 1937) che si mise in luce con Jagdszenen aus Niederbayem {Scene di caccia in Bassa Baviera, 1969), efficace trasposizione di un dramma di Martin Sperr che ne è anche l’interprete. Con feroce naturalismo narra riti, feste, lavori e spirito di tribù aggressivo e pieno di pregiudizi che si celano 171

dietro la pacifica e sana vita di una chiusa comunità contadi­ na, che è l’humus del suo fascismo quotidiano e che produce un normale processo di espulsione del diverso, l’idiota del paese, ma pure la prostituta e i lavoratori turchi condannati a una disperata solitudine. Interessanti seppur diseguali sono anche Das Unheil'(L& sventura, 1972) che, scritto con Martin Walser, stenta a concentrare attorno alla nevrosi distruttiva di un adolescente la realtà di una cittadina della Slesia, tra revanchismo dei profughi e guasti di un’industrializzazione sfrenata, e Dorotheas Rache (La dolcissima Dorothea, 1973) in cui — attraverso le esperienze erotiche di una ragazza alla ricerca di un sentimento perduto, l’amore, in una Amburgo colta nei suoi aspetti più squallidi — si prendono a bersaglio il maschilismo e la mercificazione del sesso. E, prima di opere più sbilanciate in senso commerciale, Der dritte Grand (La smagliatura, 1974), con Ugo Tognazzi e Michel Piccoli, appa­ re ancora capace di tessere il clima di oppressione e subdola persecuzione nella Grecia dei colonnelli. Con maggior coerenza e più salda tenuta stilistica sulla linea di un sobrio realismo sociologico si è fatto apprezzare Reinhard Hauff (n. 1939) i cui film più noti, anche a livello internazionale, sono Das Messer im Kopf (Il coltello in testa, 1978) e Stammheim (Stammheim, il caso Baader-Meinhof, 1986). Il primo, scritto da Peter Schneider e interpretato da Bruno Ganz, è una dolorosa e inquietante analisi della socie­ tà tedesca in forma di inchiesta di polizia sul caso di un violinista che, colpito alla testa durante una perquisizione a un circolo giovanile, perde memoria e parola e piomba in una condizione di paura. Il potere lo vuole terrorista, i mili­ tanti vittima del terrore di stato, in realtà nel film, che ha il merito di rifiutare le consolazioni sentimentali e ideologiche, appare vittima di due forme di violenza. Il secondo, scritto da Stefan Aust, ricostruisce il processo al gruppo Bader-Meinhof. Scene e dialoghi sono scrupolosamente desunti dai ver­ bali. L’azione drammatica è chiusa nell’aula grigiazzurra del tribunale, che è come il palcoscenico per un docu-dramma di impianto e stile televisivo in cui si scontrano due forme di illegalità, due modi di comportamento, due culture, espresse con una rozzezza turgida, ma comunicativa. Hauff sa sce­ gliersi gli sceneggiatori giusti; oltre a Schneider, ci sono Mar­ tin Sperr per la rivolta contadina di Mathias Kneissl (id., 172

1971) e Burkhard Driest che gli ha fornito i copioni di Die Verrohung des Franz Blum (L’abbrutimento di F.B., 1974), Paule Paulànder (id., 1975) ed Endstation Freiheit (Capolinea libertà, 1980) sugli ambienti della malavita e del carcere. In un cinema di impegno politico, segnato da un lungo soggiorno in Uruguay negli anni dell’adolescenza e della gio­ vinezza, s’è impegnato Peter Lilienthal (n. 1929) che, dopo un decennio di attività televisiva, ha diretto gli asciutti, crona­ chistici ma immersi nel cuore degli eventi storici, Malatesta (id., 1969), su un episodio londinese della vita dell’anarchico italiano, ed Es herrscht Ruhe im Land (La calma regna nel paese, 1975), partecipe e lucida descrizione dell’universo della delazione e della tortura in una dittatura latino-americana. Ha poi vinto l’Orso d’oro al festival di Berlino con David (id., 1979), sobrio e commosso film sulla persecuzione degli ebrei nel periodo nazista, seguito dai più schematici Der Aufstand (L’insurrezione, 1980), celebrativo dei giorni della presa del potere dei sandinisti in Nicaragua, e Das Autogramm (L’au­ tografo, 1984), incubo di un musicista e di un pugile in una provincia argentina fascista. Quest’ultimo, tratto da un bel romanzo di Osvaldo Soriano, Quartieri d’inverno, rimanda però anche all’altra anima di Lilienthal, quella letteraria, espressa in Tv-movies da Robert Walser e Gombrowicz. Wolfgang Petersen (n. 1941), regista attivo in televisione nel decennio 1970-79, merita una menzione per Das Boot (U-Boot 96,1981) e Die unendliche Geschichte (La storia infini­ ta, 1984): il primo, storia non militarista di un sommergibile durante la guerra 1939-45, perché è il film di maggiore suc­ cesso internazionale nella storia del cinema tedesco dopo la guerra; il secondo, fantasy tratta da un bestseller di Michael Ende tradotto in ventisette lingue, perché è il più costoso (ventisette milioni di dollari). Può essere avvicinato a Hans W. Geissendorfer (n. 1941), anch’egli attivo in televisione dove ha realizzato una decorosa trasposizione in cinque pun­ tate di Der Zauberberg (La montagna incantata, 1982). Geis­ sendorfer ha attinto spesso alla letteratura e al teatro, realiz­ zando, tra l’altro, Carlos (id., 1971), bizzarro rifacimento in chiave western del dramma di Schiller, ma ha raggiunto i suoi risultati più felici nel campo del cinema «nero» con i rarefatti Die glàserne Zelle (L’alibi di cristallo, 1978) e Ediths Tagebuch (Il diario di Edith, 1983), entrambi tratti da romanzi di Patri173

eia Highsmith, la scrittrice texana che ha fornito testi a molti altri registi tra i quali Hitchcock e Wenders. Con alcuni caratteri strutturali (politica del basso costo, autofinanziamento, difesa del cinema d’autore) non dissimili dalla nouvelle vague francese, ma contraddistinto da una osmosi continua con la tv e da una più accentuata attenzione critica per i problemi sociali e politici, il nuovo cinema tede­ sco ha permesso la crescita di un personale tecnico di altissi­ mo livello (tra i direttori della fotografia: Michael Ballhaus, Thomas Mauch, Robby Muller, Franz Rath, Jòrg SchmidtReitwein, Jost Vacano) e la rivelazione di ottimi attori, alcuni dei quali hanno acquistato notorietà intemazionale: Heinz Bennent, Ingrid Caven, Edith Clever, Bruno Ganz, Helmut Griem, Jutta Lampe, Gudrun Landgrehe, Eva Mattes, Han­ na Schygulla, Barbara Sukowa, Rudiger Vogler, Angela Winkler.

TRE SVIZZERE IN UNA

Oltre al ginevrino Jean-Luc Godard non sono pochi, a partire dagli anni Sessanta, i cineasti elvetici che cominciano a scoprire «la faccia nascosta della Svizzera», a dar corpo con impegno critico, rabbia, ironia, attraverso metafore e inchie­ ste, alle proprie insofferenze per valori, istituzioni, finzioni e cattiva coscienza di una società calvinisticamente chiusa e affaristica. All’inizio sono autori soprattutto francofoni, in­ tegrati in un’area di cultura francese e parigina. È impossibile identificare un simbolico «anno uno» per la nascita del giovane cinema svizzero. C’è un quasi mitico film­ manifesto di Henry Brandt, cinque cortometraggi raccolti sotto l’emblematico titolo di La Suisse s’interrogo (La Svizze­ ra si interroga) presentato all’Esposizione nazionale di Lo­ sanna nel ’64; ci sono alcuni esperimenti come Quatre dentre elles (Quattro di loro, 1967) di cui fa parte l’episodio Angèle, crudele ritratto-verità su una vecchia signora che rifiuta la violenza felpata di una casa di riposo, con cui Yves Yersin dà inizio a una serie di film sui vecchi i cui sussulti di rivolta, indotti da un rovescio di fortuna o da un senso di scacco morale, rimettono in discussione un ordine sociale oppressi­

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vo, di cinica neutralità morale. Ma fu col Groupe 5, costitui­ to nel ’68 da Tanner, Soutter, Roy, Goretta e Lagrange (cui più tardi subentra Yersin) e sostenuto dalla televisione della Suisse romande, che prese le mosse un vero movimento di rottura.

Alain Tanner

Furono i cineasti del Groupe 5 a porre il problema di «filmare la Svizzera» da un punto di vista critico, scegliendo di narrare il «grigiore» come spazio di un «malessere repres­ so», un agire «slegato, dolorosamente frammentario», incri­ nato soltanto dall’irruzione di gesti di rivolta e/o follia. Non a caso Alain Tanner (Ginevra 1929) si era formato nel clima del free cinema britannico cui diede con Goretta Nice time (Tempo piacevole, 1957), una Piccadilly vista di notte da due stranieri. Nei suoi film s’impone un evento bizzarro che in­ crina un ordine dove i conflitti sono latenti e soffocati. Esso è presa di contatto con la propria verità di fondo, inizio di una ricerca di senso esistenziale che si fa nostalgia di libertà anar­ chica. Così Charles mori ou vif (Charles morto o vivo, 1969) chiude in manicomio il ritratto di un industriale ginevrino che lascia un consuntivo desolato della propria vita e tenta di cambiare lontano dal suo ambiente. La salamandre (La sala­ mandra, 1971) mette a confronto due intellettuali e una ra­ gazza asociale il cui rifiuto dell’integrazione è il frutto di una rivolta istintiva, prepolitica. Il coerente discorso critico pro­ segue con Le retour (fAfrique (Il ritorno dall’Africa, 1973) e Le milieu du monde (Il centro del mondo, 1974) che ha al suo centro il personaggio di un’immigrata, una cameriera italia­ na, e trova, forse, la sua espressione più compiuta e articolata in Jonas qui aura 20 ans en Fan 2000 (Jonas che avrà 20 anni nel 2000, 1976), sceneggiato, come La salamandre, assieme al coraggioso scrittore inglese John Berger, dove s’intrecciano le vicende di otto personaggi originali e amabili che irradiano simpatia. Pur con qualche pesantezza programmatica, è un film grave e arguto, ironico e tenero, una parabola politica sulla parte della generazione che «ha fatto il ’68», che ha la testa nell’utopia e i piedi nella realtà. Tanner è convinto che i contenuti debbano essere lavorati attraverso la forma. Ha 175

messo a frutto la lezione di Godard, ma anche quella di Rossellini; se nell’uso sapiente del piano-sequenza ricorda Anghelopulos, nell’impiego degli attori può essere accostato a Cassavetes: più che dirigerli, li corregge, come si vede anche nei tre film successivi: Messidor (id., 1978), Light years away (Gli anni luce, 1981), girato in lingua inglese in Irlanda, e Dans la ville bianche (Nella città bianca, 1983), girato a Lisbo­ na con Bruno Ganz, interessante anche a livello stilistico perché sviluppa la ricerca, presente in tutti i suoi film, di una scrittura che non cancelli la «materia» a favore del racconto e dei personaggi come nei codici classici della narrazione reali­ stica, ma lasci i personaggi all’interno della materia. Partito da partecipate descrizioni di vite perdute in un avvilente quotidiano, da una critica dell’alienazione e dell’incomunicabilità mai forzata e didascalica, ha via via precisato le sue analisi in direzione di una tensione allegorica di grande rigore, culminata per ora in No man's land (id., 1985), dove la «terra di nessuno» è la zona geografica che sta tra Svizzera e Francia ma soprattutto quella in cui si muove una gioventù disorientata. Tanner non rinuncia all’utopia; conosce assai bene le sconfitte subite da chi l’ha tentata, ma sa che comun­ que ha senso vivere solo se si osa scavare nell’insoddisfazione e nelle contraddizioni del presente per cercarne il superamen­ to. Claude Garetta, Michel Soutter

La ferma scrittura di Claude Goretta (Ginevra 1929), il compagno londinese di Tanner, tende a riprendere il tema dell’autodistruzione che ogni atto di coscienza porta con sé come condanna alla solitudine e alla «pazzia», non scelta per narcisismo o per gusto anarchico, ma imposta dalla pressione dei rapporti sociali. L’impiegato in pensione di Le fou (Il pazzo, 1970) mette a frutto le sue qualità di ordine e precisio­ ne rubando a una società che lo ha privato dei suoi risparmi, con una rivolta che è quasi suicidio, tema che ritorna, con maggiore sottigliezza e una scrittura più raffinata, in Pas si méchant que $a (Il difetto di essere moglie, con Gerard Dépardieu e Marlène Jobert. Un largo successo internaziona­ le aveva, intanto, accolto L’invitation (L'invito, 1973), «spet­ 176

trografia critica di una società tramite l’attività ludica di al­ cuni suoi esemplari abbandonati in piena natura» (F. Buache). Sotto lo sguardo impassibile di Francois Simon, esotico cameriere, un gruppo di impiegati si sfalda nelle sue nevrosi, tabù, riti, manie, disvalori, repressioni che stridono in un quotidiano ordinato, e pietrificato nell’ultima immagine. Si sente che tra i suoi autori preferiti figurano Charles-Louis Philippe, Cechov, Pavese, ma s’avverte anche l’influsso di Jean Renoir. Due memorabili ritratti di donna sono il fulcro di La dentellière (La merlettaia, 1977) e La provinciale (id., 1980), en­ trambi girati in Francia. Interpretato da Isabelle Huppert, il primo è la storia di uno di quegli esseri comuni e solitari «che non hanno appuntamenti con la storia», secondo l’espressio­ ne di Georges Haldas, scrittore svizzero che è un abituale collaboratore di Goretta. Storia d’amore ma anche storia di un delitto, di una demolizione, il film è una sottile metafora sui rapporti di classe e sulla condizione della donna come oggetto di consumo. Pur con qualche concessione a un facile romanzesco, sono temi che ritornano in La provinciale, inter­ pretato da Nathalie Baye. Goretta ha confermato la sua in­ clinazione a un cinema di introspezione dei sentimenti, di­ screta ma tesa e riflessiva, che fa da cartina di tornasole alle piaghe nascoste sotto la quieta superficie della «pax helvetica», con il rigorosissimo La mort de Mario Ricci (Morte di Mario Ricci, 1983) in cui un giornalista, reso con verità e intensità da Gian Maria Volontà, scopre i reali retroscena della morte di un operaio italiano. Poi, per la rai, ha dato una messa in scena dell’Orfeo (1985) di Monteverdi, tutta in interni e con attori-cantanti, pienamente dignitosa nella sua sostanziale freddezza, ma che può essere vista come un altro segno della perdita di incisività del cinema svizzero di questi ultimi anni. Con Michel Soutter (Ginevra 1932) si definisce una linea di filtrazione del reale ai limiti del sogno, deH’onirismo che, sotto eventi minimi filmati col loro stesso ritmo e respiro, fanno trasparire i guasti che le norme borghesi provocano nelle persone. Come e più degli altri, è un cineasta del males­ sere. Dopo La lune avec les dents (La luna coi denti, 1967), incerto «giallo» permeato di furori godardiani, Soutter mette a punto con Haschich (id., 1968) le sue scelte di tecniche e

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forme sdrammatizzate in funzione del ritratto, solcato da urli nostalgici di libertà, di due giovani sempre frustrati nel loro progetto di lasciare il paese. Immagini scabre ed essenziali rendono il tono di grigiore, privo di veri contrasti, e diventa­ no il sintomo di un clima morale soffocante, con un fondo di disperazione. C’è un senso di scacco e di isolamento in cui la stessa evocazione di Lenin a Ginevra si fa lontana e irreale in La pomme (La mela, 1969) che gira attorno ai disincantati rapporti di Laura, giovane borghese che rientra dalla Ger­ mania. Casi, sortilegi, incontri strani, illuminazioni improv­ vise della realtà sono il nerbo di James ou pas (James o no, 1970), il suo film più risolto e compiuto, vicenda di «morti, di poliziotti e di pioggia» in cui si disgregano i rapporti, pregni di incertezza di fronte alla vita, tra Eva, Hector e il suicida James. Nei film di Soutter la vicenda si dissolve in molte storie, «raggrumate in base a intrighi vaganti che obbediscono a un unico principio, quello dell’incontro» (F. Buache). Alternan­ do la gravità con l’umorismo, da Les arpenteurs (Gli agri­ mensori, 1972) a Adam et Ève (Adamo ed Èva, 1974), pas­ sando per L’escapade {Coppie infedeli, 1974), Repérages (So­ praluoghi, 1977), L’amour des femmes (L’amore delle donne, 1981), SignéRenart (Firmato Renart, 1985), Soutter escogita congegni a incastro logici, quasi astratti, sotto i quali coglie il segno leggibile di un’ansietà di fondo, la verità di esseri op­ pressi dalla propria mancanza di libertà. Più breve è stata la parabola di Jean-Louis Roy (n. 1938) che con Black-out (id., 1970) racconta una storia di delirio autodistruttivo, quella di due anziani coniugi che contro ogni minaccia esterna si barricano nel proprio chalet. Di là da un’incerta sintesi di realismo e allusione fantastica, il film è fortemente emblematico di una condizione di paura incon­ scia, di ossessione per ciò che viene «di fuori» che si fa para­ noico rifiuto di ogni segno di mutamento. Era lo stesso stile già intrawisto in L’inconnu de Shandigor (Lo sconosciuto di Shandigor, 1966) in cui con una scrittura surrealistica si ribal­ tano i luoghi topici del film di spie.

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L'immigrato

«Residente», «stagionale» o «frontaliere», l’immigrato mette a nudo impietosamente la verità dei miti elvetici, il loro costo e sulla pelle di chi si fondano. Con Siamo italiani (1964), vero film-shock con cui lo scrittore Alexander J. Sei­ ler esamina la realtà degli immigrati non senza un sospetto di estetismo, prende le mosse un filone di film che documentano punto per punto condizioni di vita, soprusi, tensioni, umilia­ zioni, emarginazioni. Il loro respiro, però, è quello dell’atto d’accusa ai gruppi nazionalisti più rozzi e della riflessione morale sulla mancanza di sensibilità umana e sociale da parte degli svizzeri; non arriva quasi mai a scavare nel sistema economico e nella stessa scissione operaia che con virulenza emargina la categoria degli immigrati. Alvaro Bizzarri, pi­ stoiese emigrato, dà sinceri referti dall’interno con II treno del Sud (1970), La stagionale (1972), Il rovescio della medaglia (1973), Pagine di vite del!emigrazione (1977), realizzati col collettivo della colonia libera di Bienne. Dopo Braccia sì, uomini no (1970) sulle matrici, paure, incrostazioni fasciste che stanno dietro i referendum sui lavo­ ratori stranieri, Peter Ammann con Le train rouge (Il treno rosso, 1973) dà un referto un po’ retorico sugli immigrati che tornano in Italia a votare a sinistra. Già affrontato di petto in Storia di confine (1971) di Bruno Soldini, il tema della de­ vianza, incombente in tutto il cinema elvetico, che s’integra con quello dell’illegalità (del piccolo contrabbando), è ripreso nel mediometraggio di Willi Herman, ticinese originario di Lucerna, Cerchiamo operai per subito, offriamo... (1974). In ideale collegamento con Siamo italiani, il film di Herman descrive, sulla scorta di una inchiesta accurata, la situazio­ ne e lo sfruttamento dei «frontalieri» (sono circa trenta­ mila all’epoca del film), cioè dei pendolari italiani che si re­ cano a lavorare in Svizzera senza l’autorizzazione di dimo­ rarvi. Prima di realizzare I matlosa (1981), film a soggetto in cui si riprende in chiave ticinese il tema del malessere svizzero, e Innocenza (1986), fragile trasposizione di un racconto del maggiore scrittore svizzero-italiano, Francesco Chiesa, Her­ man fa San Gottardo (1977), ibrido di documentario e di fiction in cui il traforo del massiccio del Gottardo (1872-1882) 179

per la costruzione della galleria ferroviaria è messo in paralle­ lo con i lavori del tunnel autostradale (1969-1980). Accusato da molti giornali di parlare di lotta di classe, delitto di lesa maestà in un paese dove la pace sociale esiste da mezzo secolo, il film è un interessante tentativo di fare storia attra­ verso l’analisi della realtà economica e sociale. La necessità di fare i conti con la storia patria — diffusa specialmente tra i cineasti svizzero-tedeschi, come vedremo — si ritrova anche in Es ist kalt in Brandenburg - Hitler tbten (Fa freddo nel Brandeburgo - Uccidere Hitler, 1980) che Herman ha diretto con Hans Sturm e Niklaus Meienberg, ispirato alla storia vera di un giovane di Neuchatel che nel ’38 progettò a Mona­ co di Baviera un attentato contro il Fiihrer e fu ghigliottinato nel ’41. Insieme con quello dell’immigrazione italiana, un proble­ ma fondamentale che riguarda la comunità del Canton Tici­ no e di alcune parti dei Grigioni è la difesa della lingua e della cultura autoctona. E riflesso nell’esistenza precaria, stentata, embrionale di un cinema ticinese, non sempre stimolato e sostenuto dalla televisione della Svizzera italiana. Ne sono due buoni esempi i documentari di lungometraggio, girati in 16 mm col suono in presa diretta, Chronik von Prugiasco (Cronaca di Prugiasco, 1979) di Remo Legnazzi e Uramai (id., 1980) di Giovanni Doffini. Gli svizzeri-tedeschi

Meno favoriti dei compatrioti francofoni perché il loro tedesco incontra difficoltà di comprensione in Germania e in Austria i cui mercati sono, inoltre, meno aperti al cinema d’autore, i cineasti della Svizzera tedesca hanno cominciato a farsi largo in ritardo. C’è un denominatore comune in registi così diversi come Peter van Gunten, Kurt Gloor, Markus Imhoof, Rolf Lyssy, Thomas Koerfer? Meno influenzati dei romandi, a livello stilistico ma anche tematico, dal cinema francese uscito dalla nouvelle vague, sono accomunati da un più accentuato impegno storico e sociologico con una mag­ giore attenzione alla lezione di Bertolt Brecht e Peter Weiss e agli esempi dell’ala sinistra del nuovo cinema tedesco (Kluge, Fleischmann, Schlòndorff). 180

Due di essi si cimentano con episodi di storia svizzera. Con Die Auslieferung (L’estradizione, 1974) Peter van Gunten analizza i rapporti delle autorità elvetiche con l’anarchico russo Sergej Necaev che s’era rifugiato nella Confederazione nel 1870, mettendo a confronto la sopravvalutata tradizione dell’ospitalità svizzera con una realtà storica meno rispettabi­ le. mentre in Konfrontation (Confronto, 1974) Rolf Lyssy (n. 1936) rievoca con incisività la vicenda dello studente ebraico David Frankfurter che nel 1936 uccise a Davos il capo della Landesgruppe Schweiz del partito nazionalsocialista germa­ nico. Con Die Schweizermacher (I fabbricanti di svizzeri, 1978), che ebbe anche un notevole successo di pubblico, Lyssy mette alla berlina i poliziotti che hanno l’incarico di pedinare gli stranieri in attesa di naturalizzazione, piegando, non senza una certa disonestà di fondo, in chiave di bonaria critica di costume un fenomeno di repressione. Nel filone del cinema che fa i conti con la storia nazionale il risultato più limpido è Das Boot ist voli (La barca è piena, 1981) di Markus Imhoof (Winterthur 1941), che già si era messo in luce con un vigoroso e critico film di ambiente carcerario, Fluchtgefahr (Rischio d’evasione, 1975). Nel rac­ contare le vicissitudini di cinque ebrei e un disertore della Wehrmacht che nel 1942 entrano clandestinamente in territo­ rio elvetico, Imhoof si fa con La barca è piena delatore dei vizi nazionali: l’egoismo arrogante ma ufficialmente procla­ mato «sacro», la brutalità quasi amichevole e ragionata, l’an­ tisemitismo latente, l’ipocrisia. La sua è una risposta indiretta a un famoso film svizzero, glorificato anche con un premio Oscar, diretto dall’austriaco Leopold Lindtberg, Die letzte Chance (L'ultima speranza, 1945), e ne mostra il rovescio della medaglia. Squilibrato ma mosso dallo stesso intento civile di riflessione è Die Reise (Il viaggio, 1986), intricata trasposizione fitta di flashback del romanzo-diario del tede­ sco Bemward Vesper, figlio del poeta nazista Willi, sessantot­ tino e poi terrorista e poi transfuga dalla lotta armata prima di suicidarsi in manicomio criminale. Un’altra strada segue Thomas Koerfer (Berna 1944) nel notevole Der Tod des Flohzirkusdirektors oder Ottocaro Weiss reformiert seine Firma (La morte del direttore del circo delle pulci ovvero O.W. ristruttura la sua ditta, 1974) dove in chiave grottesca si analizzano i nessi tra capitalismo e morte, 181

il conflitto tra l’artista e chi detiene il potere. Koerfer non ha saputo mantenersi all’altezza della sua opera prima con i film successivi, tra i quali Alzire, oder der neue Kontinent (Alzire o il nuovo continente, 1978), che mette in scena Voltaire e Rousseau a confronto con una troupe teatrale dei nostri giorni. Non fa eccezione nemmeno l’ambizioso Glut (Brace, 1983), coproduzione svizzera-tedesca, in cui è di scena una famiglia di industriali metallurgici che nel 1944 forniscono imparzialmente armi a nazisti e ad alleati. Pur sostenuto da un apprezzabile assillo etico e dalla volontà di smascherare la cattiva coscienza della società svizzera, il film non sa trovare il giusto equilibrio tra racconto e denuncia, passato e presen­ te, impianto realistico e ambizioni espressionistiche. Dalla scuola zurighese del cinema documentaristico in cui, oltre ad Ammann e Imhoof, si sono messi in luce anche per l’esplicito impegno politico Urs e Marlies Graf, Richard Dindo, Hans Stùrm, esce Fredi M. Murer che, dopo la sfer­ zante e ossessiva parabola dell’indifferenza di Grauzone (Zo­ na grigia, 1978), ha dato con Hòhenfeuer (Falò, 1986) una profonda tragedia di solitudine, di incesto e violenza familia­ re di grande rigore e tenuta stilistica. Dalla stessa scuola escono Xavier Koller (Hannibal, Annibaie, 1972) e Alfred Radanowicz con Alfred R. Ein Leben und ein Film (Alfred R. Una vita e un film, 1972) e Das Ungluck (La disgrazia, 1976), da Max Frisch, che battono la strada dell’insolito, dell’oniri­ co, del magico senza esiti convincenti. È una tendenza che trova la sua espressione più felice nei barocchi, stravaganti giochi grotteschi di Daniel Schmid (Flims 1941), a comincia­ re da Heute nacht oder nie (Questa notte o mai, 1972) in cui, prendendo a pretesto un’usanza boema (nella sera del 16 maggio nobili e servi si scambiano per qualche ora le parti), intesse un delirante balletto di simboli post-romantici per raccontare una parabola su una società rigida e bloccata. Ancor più esasperato nella sua scelta manierista è La Paloma (id., 1974) in cui l’essere più vivo è la morta protagonista che decide di non trasformarsi in polvere per ribellarsi al rito dei padroni. Anche nei film successivi, da Schatten der Engel (Ombra degli angeli, 1976, da R.W. Fassbinder) a Hécate, maitresse de la nuit (Ecate, signora della notte, 1983) e Casa Verdi (Il bacio di Tosca, 1984), documentario sulla casa di riposo G. Verdi di Milano, anche quando si acquieta in for-

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me narrative più tradizionali, il cinema di Schmid rimane una macchina di fascinazione, «in una complicità avvincente e allarmante al pari dei suoi personaggi decadenti, perché specchio di noi stessi» (G. Volonterio).

L'INTROVERSO CINEMA AUSTRIACO

Gli anni Sessanta hanno visto in pratica la scomparsa del cinema austriaco, che nel ’68 ha prodotto otto film, quasi tutti coproduzioni, e negli anni Settanta non più di tre-quattro all’anno. In questa situazione non ci poterono essere esempi di nuovo cinema di un certo rilievo, nemmeno con i rari registi televisivi che mostrarono qualche ambizione, co­ me il Georg Lhotzky di Moos auf den Steinen (Musco sulle pietre, 1969). L’unico regista attivo, ma costretto in un ambi­ to meramente commerciale, è l’anziano Franz Antel (Fran­ cois Legrand) che si segnalerà più tardi con Der Bockerer (L’ostinato, 1981), su una sorta di Schwejk negli anni dell’Anschluss. In effetti, con gli anni Ottanta, se i grandi attori come Klaus Maria Brandauer continuano a lavorare all’este­ ro, si registrano segni di risveglio grazie ad aiuti statali e municipali. Si risale a dieci-dodici film all’anno, sino ai di­ ciassette dell’84. I nomi nuovi emersi, accanto a buoni docu­ mentaristi militanti e sociali, sono quelli di Ketty Kino, Man­ sur Madavi, Angela Summereder, Valie Export, il godardiano Hans Scheugl, la cineasta-pittrice Friederike Pezold, in qualche modo eredi del cinema d’avanguardia, il solo so­ pravvissuto (con Kubelka su tutti) negli anni Settanta, Kàthe Kratz, Leopold Huber, Ernst Josef Lauscher (l’impressio­ nante Kopfstand, Verticale, 1981), Robert Domheim, il ro­ meno, poi passato a Hollywood dove ha diretto Echo Park (id., 1985), Milan Dor (la commedia Malambo, id., 1984), Klaus Emmerich (Trokadero, id., 1981, una commedia dura), il prolifico Peter Patzak, Christian Berger (Raffi, id., 1985, un raffinatissimo Heimatfilm), Dieter Berner, Josef Aichholzer e Ruth Beckermann, nei cui lavori si ritrovano spunti di critica sociale e di disagio generazionale. Ma coloro che, in questo clima «caratterizzato dalla sessualità e dalla brutalità, dal pessimismo e dalla tristezza», si muovono in forme più per­ 183

sonali, sono forse Wolfgang Gliick con il sensibile e letterario Der Schuler Gerber (Lo studente G., 1981), Niki List con il figurativamente composito Malaria (id., 1982), dal nome di un ritrovo punk, e soprattutto Xaver Schwarzenberger e Ge­ rald Kargl: il primo, operatore degli ultimi Fassbinder, dopo il lirico, libero ritratto di intellettuale di Der stille Ozean (L’oceano pacifico, 1982), sostanzia il suo Der Donauwalzer (Il valzer del Danubio, 1984), racconto di memoria, di amore e delazione nell’Ungheria del ’56, con riferimenti alla tradi­ zione teatrale e al cinema austriaco classico (Forst); il secon­ do, ispirandosi a un caso reale, traccia in Angst (Paura, 1983) la cronaca meticolosa sino all’ossessione di ventiquattr’ore di libertà di un giovane asociale e sadico, concluse in un rituale di morte e commentate fuori campo dallo stesso assassino, dalle sue «sensazioni», in un distacco lucido e tremendo. Da ultimo, Axel Corti, nato a Parigi nel 1936 ma di formazione teatrale e televisiva austriaca, ha dato con Welcome in Vienna (Benvenuto a Vienna, 1986) una fine, ben scritta e solidamen­ te costruita rievocazione degli ultimi mesi di guerra e dei primi della pace, bilancio morale di dolente amarezza di un soldato americano, emigrato da Vienna perché ebreo e che si trova nuovamente esule, in una situazione di nazismo rimos­ so e strisciante sotto pelle, rispetto ai nuovi valori della rico­ struzione. Il film conclude una trilogia sull’Austria dopo l’Anschluss del 1938, sulla gente comune che passa attraverso i campi profughi in Francia (An uns glaubt Gott nicht mehr, Dio non crede più in noi, 1981) e l’emigrazione negli usa (Santa Fe, id., 1985), scritta dallo sceneggiatore Georg Toller sulla base delle proprie esperienze, e approfondisce il discor­ so iniziato da Corti sin dal suo esordio con Verveigerung (Il rifiuto, 1972), ritratto di un contadino cattolico che si rifiuta di servire nell’esercito di Hitler ed è decapitato.

BELGIO TRA DUE CULTURE

Preso slancio da una legge del 1964 con cui lo stato assicu­ ra un finanziamento (parziale) ai film di impegno culturale e artistico, il più recente cinema belga ha fatto raramente da specchio e da sonda ai problemi e alle tensioni di un paese 184

diviso in due culture, la francese e la fiamminga. Si è riferito di preferenza a una scuola di documentarismo, soprattutto d’arte (Henri Storck, Paul Haesaerts, Lue de Heusch), e a una tradizione letteraria e pittorica del fantastico. Specialmente nei cineasti francofoni, questo rifiuto di rispecchia­ mento di una realtà sociale s’è manifestato in termini di ana­ lisi dei sentimenti o di estenuati esercizi letterari, siano essi gli idilli naturali e sentimentali di Jacques Brel (Franz, id., 1971; Le Far West, Il Far West, 1972), siano i drammi erotici e intimisti di Samy Pavel (Miss O’Gynie et les hommes-fleurs, Miss O’G. e gli uomini-fiore, 1973). Più vivi, almeno in senso intellettualistico, sono i giochi di decostruzione del franco-tunisino Marcel Hanoun, gli eserci­ zi formalistici di Francois Weyergans, l’orrore umano di Thierry Zeno che, però, non portano lontano. Com’è pure per il più giovane Jean-Jacques Andrien con l’estenuato liri­ smo descrittivo di Le grand paysage dAlexis Droeven (Il grande paesaggio di A.D., 1982), di cui era migliore Le fìls dAmar est mort (Il figlio d’Amar è morto), vincitore al festi­ val di Locamo 1975. Il discorso vale anche per Harry Kùnel (n. 1940): Monsieur Hawarden (id., 1968), Le rouge aux lèvres (La vestale di Satana, 1971) con Delphine Seyrig, Malpertuis (id., 1972) rivelano, oltre a un brio tecnico all’ombra di Sternberg e di Resnais, l’inclinazione a stupire. Vampiri, fantasmi e altri luoghi topici del fantastico non scavano nell’anima fiamminga in cui pure sembrano affondare le ra­ dici. I registi che si misurano con la mentalità, i retaggi, i pro­ blemi concreti della gente belga sono rari, piuttosto accade­ mici se non scolastici. Sono Lue de Heusch, che prima di tornare ai documentari d’arte, ha tentato con Jeudi on chantera comme dimanche (Giovedì si canterà come domenica, 1967) un ritratto sociologico onesto, ma povero di spessore e di osservazioni, ed Emile Degelin che in Palabre (Chiacchie­ re, 1969) racconta con ironia le esperienze di tre studenti africani che visitano e giudicano l’«esotico» Belgio. Paix sur les champs (Pace sui campi, 1972) di Jacques Boigelot è un onesto, lineare ritorno ai temi rurali, che descrive usi e co­ stumi nella regione del Brabante. Questo ritorno alla terra, a una cultura contadina in via di sparizione o, almeno, di radi­ cale trasformazione, ricorre soprattutto in coproduzioni tra 185

Belgio e Olanda, una pratica piuttosto diffusa a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta come testimonia, tra gli altri, De vlaschaard (Il campo di lino, 1983) di Jan Gruyaert che narraun conflitto generazionale in una patriarcale fattoria delle Fiandre all’inizio del ’900. In disparte si pone Chantal Akermann (Bruxelles 1950) che s’è formata a Parigi e a New York, a contatto con l’un­ derground di Snow, Mekas, Brakhage, Warhol da cui imparò che si può fare un cinema «non costruito» che nega il raccon­ to e fa a meno del montaggio, affidato a una sorta di iperrea­ lismo filmico che punta sulla percezione invece che sul senso. Da Je tu il elle (Io, tu, lui, lei, 1974) sino a Toute une nuit (Tutta una notte, 1982) persegue un personale discorso sulla condizione della donna e la sua alienata solitudine nel deserto della civiltà moderna, insistendo, con un’ossessiva e beckettiana monotonia, sui tempi morti, sulla ripetizione di azioni prive di senso, sulla durata reale dell’azione. Il suo risultato più alto è, forse, Jeanne Dielmann, 23 quai du Commerce, 1080 Bruxelles (id., 1975) di 205 minuti, con Delphine Seyrig, pri­ ma di approdare alla commedia musicale lieve e superficiale di mere «parvenze»: Golden Eighties (Dorati anni Ottanta, 1986), non incoerente con il suo tipico modo di formare. Un’altra donna, Marion Hansel, anche attrice, ha fatto sen­ sazione più con il terribile ma sincero racconto di un’agonia Le Ut (Il letto, 1982), che non con il letterario e soltanto elegante nella scrittura Dust (Polvere, 1986), storia di repres­ sione, di parricidio e follia di una ragazza in Sudafrica, inter­ prete Jane Birkin.

André Delvaux Unico autore di statura internazionale del cinema belga, Delvaux (Lovanio 1926) si misura con un realismo magico, ben radicato nella cultura surrealista fiamminga. Onirismo e mistero scaturiscono da accostamenti insoliti, irruzioni biz­ zarre, legami viscerali e minacciosi tra esseri e oggetti, in­ somma da un «dubbio metodico» che fa vacillare il tessuto concreto della realtà e dà corpo a una realtà «altra» che sta oltre ogni contraddizione tra interiore e oggettivo, tra sensibi­ le e immaginario. Segreto nerbo di L’homme au cràne rasé (in

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fiammingo Der man die zijin haar kort liet knippen, L’uomo dai capelli tagliati corti, 1965) è la resa obiettiva di un’espe­ rienza interiore che nel romanzo di John Daisne era la con­ fessione ininterrotta di un malato. Nell’amore disperato di Govert per Frau si enuclea con fredda immaginazione il suo fondo romantico — la morte e la follia che seguono il piace­ re, l’immagine femminile che si configura come un essere arcano, la bellezza che s’identifica col terrore ed è minaccia continua di distruzione. La stessa sottile e inquieta moralità sostiene Un soir, un train (Una sera,., un treno, 1968), un viaggio nella morte di un professore universitario, vissuto in un intreccio di sogno, memoria, incubo e realtà, una ricerca di se stessi nel paese delle ombre al cui termine c’è un’altra forma di conoscenza. Letteratura, musica, pittura arricchiscono spesso i suoi film, sono più di una fonte d’ispirazione per agire invece sul suo stesso stile, sulla sua impronta narrativa. Possono però anche condizionarli, nei casi meno felici, in senso manierista. Così Rendez-vous à Bray (Appuntamento a Bray, 1971) non riesce a rendere il «fantastico differito» di una situazione di Julien Gracq, finendo in un passatismo compiaciuto, da sognatore delle cose che furono, e lo stesso Belle (id., 1973) propone una sapiente fusione di reale e immaginario nel ritratto di un intellettuale che brucia di passione per una donna enigmati­ ca, ma pur sempre nei limiti di esercizio colto. Invece, Femme entre chien et loup (Donna sull’imbrunire, 1979), dodici anni nella vita di una donna di Anversa tra il 1940 e il 1952 e primo film belga sull’occupazione tedesca durante la guerra, è un racconto accorato e penetrante sulla condizione subal­ terna della donna, vittima della storia e degli uomini che la fanno; e, sostenuto da uno strenuo rigore stilistico e una sommessa musicalità, definisce un suo spazio poetico di den­ sità quasi mistica. Anche Benvenuta (id, 1983) ha un’origine letteraria, il ro­ manzo di Suzanne Lilar La confession anonyme. Delvaux ri­ prende la tematica della commistione tra realtà e sogno, rac­ contando sullo sfondo di Gand una storia d’amore sdoppiata in due, l’una reale e l’altra immaginaria, attraverso due cop­ pie e una catena di rispecchiamenti, echi e rime. Nel film, che è soprattutto occasione di tre fini ritratti femminili, riaffiora il motivo dei conflitti e delle tensioni tra le due culture, fran­ 187

cese e fiamminga, già presente in filigrana nei film precedenti, quasi un sottofondo reale in un cinema così raffinato e colto, quale si conferma in Babel Opéra (L’opera di Babele, 1985), fusione di reale e immaginario, saggio e fiction a partire dai conflitti culturali che si liberano attorno alla messa in scena del Don Giovanni all’Opera di Bruxelles. Nell’ambito di una produzione annuale di una dozzina di lungometraggi bisogna segnalare ancora Frans Buyens (n. 1924) e Roland Verhavert (n. 1927). Dopo alcuni documen­ tari di esplicito impegno sociale come Combattre pour nos droits (Combattere per i nostri diritti, 1961) sulle lotte sinda­ cali e Dialogue ouvert (Dialogo aperto, 1971) sul lager nazista di Breendock, il primo s’è cimentato anche nella fiction con Chacun de nous (Ciascuno di noi, 1971), Zigzag (id., 1973), Où toussent les petits poiseaux (Dove tossiscono i piccoli pesciuccelli, 1974) dove rivela un discreto talento di favolista. Dopo l’esordio con Meeuwen sterven in de haven (I gabbiani muoiono al porto, 1955), firmato con Rik Kuypers e Ivo Michiels, Verhavert ha realizzato alcuni film — tra cui Het afschied (L’addio, 1966) — ispirati alla migliore letteratura fiamminga del ’900 e dell’800.

NUOVE ONDE IN OLANDA

Più ancora del Belgio, l’Olanda vanta una ricca tradizione di documentarismo sociale legata ai nomi di maestri come il grande Joris Ivens, Manus Franken, John Ferno. Allievo di Ivens, soprattutto sul piano della sapienza formale, perché i suoi interessi sono spostati in senso naturistico, è Bert Haanstra (n. 1916) cui si devono il poetico De stem van het water (La voce dell’acqua, 1965) e il rigoroso, eccezionale in certe riprese, studio sul mondo animale Bij de beesten af (La foresta che vive, 1972). Secondo P. Cowie aveva già mostrato «senso del movimento in Panta rhei (id., 1952), ritmo e controllo espressivo in Rembrandt (id., 1959), spirito da candid camera in Zoo (id., 1962), calore e tolleranza in Alleman (Tutti gli uomini, 1964)». Johan van der Keuken (n. 1938) si è invece segnalato in particolare con Der weg naar het zuiden (Viaggio verso il sud, 1980-81), amplissima immersione nell’emigra188

rione, nella difficoltà a vivere, colta con rara sensibilità di uomini e situazioni specifiche. Una prima ondata che segnò un’inversione di tendenza anche nella fiction, si ebbe con gli anni Sessanta. A iniziare era stato un ex assistente di De Sica e Renoir, Fons Rademakers (n. 1920), con due film di sottile ambiguità: Het mes (Il coltello, 1960) e Ais twee druppels water (Come due gocce d’acqua, 1962), sul tema del sosia, del doppio durante l’occu­ pazione nazista, per poi dare in Belgio un bel ritratto di donna libera, Mira (id., 1971), anche se slegato dallo sfondo di lotte contadine. Sono seguiti i film di Frans Weisz, Jan Vrijman, Eric Terpstra, René van Nie, del drammaturgo bel­ ga Hugo Claus che scrive Mira e dirige Den vijander (I nemici, 1967), di Vim Verstappen (n. 1937) con De minder gelukkige terugkeer van Joszef Katus naar het land van Rembrandt (Il ritorno non troppo felice di J. K. nel paese di Rembrandt, 1966), referto immediato e vivo di un provo, e Pim de la Parra che darà il meglio nel suo paese d’origine — il Suriname — con Wan pipel (Un popolo, 1975): nessuno di essi si è rivelato un vero e personale autore, espressioni di un disagio persona­ le ma presto disponibili a un cinema di genere, di suspense ed eros, al cui interno un ruolo importante hanno avuto Ver­ stappen e De la Parra con la loro Scorpio film ma su un piano meramente commerciale. Né hanno avuto seguito le infrazioni linguistiche e le provocazioni tematiche di Adriaan Ditvoorst (n. 1940) con il ribellistico bianco e nero Paranoia (id., 1967) e il più curato Antenna (id., 1970). Una seconda ondata si è avuta dieci anni dopo, assai più compromessa con le leggi del mercato, ma anche coronata dal successo, come mostra indirettamente lo stesso numero di film realizzati: tre nel ’55, più di dieci nel ’74. È una produ­ zione più variata il cui capofila sembra essere Paul Verhoe­ ven (n. 1938), affermatosi internazionalmente con un robusto racconto sull’occupazione, Soldaat van Oranje (Soldato d’Orange, 1975), e con la raffinata fantasy di avventure e amori cinquecenteschi di Flesch and blood (L’amore e il sangue, 1985), ma noto anche per i più modesti Turks fruit (Fiore di carne, 1971), audace storia di amore e tormento di una gio­ vane coppia, Keetje Tippel (Kitty Tippel, 1972) di un crudo verismo proletario e il morboso, surreale De vierde man (Il quarto uomo, 1979). Accanto ad abili film di genere come il

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thriller fantascientifico De lift (L* ascensore, 1983) di Dick Maas, ci sono stati i film di qualità di Fons Rademakers, da Max Havelaar (id., 1976), riduzione di buona tenuta politica del capolavoro ottocentesco di Multatuli sul rapporto colo­ niale con l’Indonesia, a De aanslag (Assault, 1986), sorta di diario privato attraversato dai grandi eventi storici, dalla re­ sistenza a oggi, indagine nei misteri di un’esistenza, e primo film olandese a ottenere un premio Oscar. Sulla stessa linea si muove la moglie Lili che con Menuet (Minuetto, 1982) ha proposto una matura e trasgressiva indagine esistenziale di un rapporto di coppia operaia. Quest’ultima è una delle tante coproduzioni con il Belgio. Belga è Eric de Kuiper che, già partecipe delle ricerche di Chantal Akermann, in Olanda ha fatto il teorico-corporale Casta diva (1982) e il più composito, surreale gioco letterario sul tempo e il fantasticare che è il raffinato Naughty boys (Ragazzi birboni, 1983). Visioni più sfumate della guerra e dell’occupazione hanno proposto Pa­ storale 1943 (id., 1975), acuta cronaca provinciale di Vim Verstappen, Charlotte (id., 1981) di Frans Weisz, Het meisje met rode haar (La ragazza dai capelli rossi, 1982), bell’esordio di Ben Verbong in forma di meditazione sulla necessità della violenza. È uno dei giovani che hanno esordito con film di un certo interesse: Ate de Jong, Marleen Gorris, Kees van Oostrum, Jacob Bijl, Frans Zwartjes, Pieter Verhoeff, il tea­ trante Alex van Warmerdam (Abel, id., 1986); ma il nome più nuovo appare quello di Orlow Seunke (n. 1952), narratore di razza, anche se qua e là un tantino artificioso, che sa caricare le sue storie apparentemente di carattere naturalistico — De smaak van water (Il sapore del!acqua, 1982) s’incentra su un burocrate dell’assistenza sociale messo in crisi dal caso pieto­ so di una ragazza mentalmente ritardata; Pervola (id., 1985) è tutto nel viaggio di due fratelli verso un nord desolato per seppellire il padre — di una sua magia espressiva, di un senso di indagine negli abissi dell’esistenza. Un talento singolare è Jos Sterling (n. 1945) che, dopo alcune eccentriche esperienze negli anni Settanta di riduzioni di classici della letteratura medievale, ha confermato le sue qualità visive con De illusionist (Il giardino delle illusioni, 1983), piccolo poema senza dialoghi di follia e di famiglia repressiva, di fratello artista e fratello idiota come reciproci doppi, risolto in termini di musica e mimica, di dramma e di

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slapstick, e ha poi mostrato un’analoga vena fantastico-grot­ tesca, surrealmente provocatoria, a precise e allusive scansio­ ni, con De wisselwachter (Lo scambista, 1986), originale kammeropiel di comunicazione frustrata in un isolato casello ferroviario. Degne di menzione sono anche due altre espe­ rienze inconsuete: l’amaro ritratto di una gioventù e dei suoi impossibili sogni di fuga, realizzato con De verwording van Herman Dùrer (La decadenza di H. D., 1980) da tre ex allievi dell’Accademia cinematografica di Amsterdam, René See­ gers, Jean van der Velde e Léon de Winter, quest’ultimo scrittore regista in proprio di un abilissimo e angoscioso De grens (La frontiera, 1984); e Opname (Opname. In osservazio­ ne, 1980) di Erik van Zuylen in collaborazione con l’Het werktheater, in cui malattia e morte sono trattati con un sapiente dosaggio di documentario cinematografico e per­ formance teatrali, vissute secondo certe lezioni di Grotowski e Barba, di racconto e realtà.

IL «FREE CINEMA» BRITANNICO

Il 1956, l’anno della crisi di Suez, segna la nascita ufficiale, dunque convenzionale, del free cinema. Il nome deriva dal titolo di un programma presentato il 3 febbraio 1956 al Na­ tional Film Theatre di Londra dal bfi (British Film Institute), organismo statale fondato nel 1933. Sono presentati due cor­ tometraggi in 16 mm — O dreamland (Paese dei sogni, 1953) di Lindsay Anderson, Momma don't allow (Mamma non permette, 1955) di Karel Reisz e Tony Richardson — e un mediometraggio di 50 minuti in 35 mm, Together (Insieme, 1956) di Lorenza Mazzetti, tutti realizzati a basso costo col finanziamento deU’Experimental Film Fund del bfi. I primi due sono di impianto documentaristico: una fiera a Margate, in riva al mare, dove si consuma il triste rito del divertimento di massa (O dreamland), un pub di Londra dove studenti, commesse, impiegati trovano, attraverso il jazz e la danza, momenti di effimera libertà (Momma don't allow). Influenza­ to dalle teorie zavattiniane del «pedinamento», il film della Mazzetti inclina alla fiction con la descrizione della vita e della solitudine di due sordomuti nel grigiore dell’East End 191

londinese. Quel programma — come i cinque successivi che si tengono al nft sino al 1959 — è l’iniziativa di un gruppetto di cineasti che comprende Lindsay Anderson, Karel Reisz, il tecnico del montaggio John Fletcher, l’operatore Walter Lassally. Il free cinema non nasce nel vuoto. A fornire le basi teoriche, la spinta ideologica e la poetica sono soprattutto i collaboratori della rivista «Sequence» (Gavin Lambert, e gli stessi Reisz e Anderson) e più tardi del trimestrale «Sight and Sound», edito dal bfi insieme col «Monthly Film Bulletin». Tra gli altri documentari del free cinema bisogna ricordare Every day except Christmas (Ogni giorno eccetto Natale, 1957) di Anderson, sui mercati generali di Londra; Nice time (Tempo piacevole, 1957) degli svizzeri Goretta e Tanner; l’eccellente We are the Lambeth boys (Noi siamo i ragazzi di Lambeth, 1959) di Reisz, finanziato come il film di Anderson dalla Ford Motors Company nell’ambito della serie Look at Britain, sui ragazzi di un quartiere popolare londinese e il loro locale di ritrovo; e il collettivo March to Aldermaston (Marcia su Aldermaston, 1958) sulla famosa marcia per il disarmo nucleare. Sulla loro scia si colloca anche Terminus (Capolinea, 1961) di J. Schlesinger sulla Waterloo Station. «Eravamo un movimento», dichiarò qualche anno dopo Lindsay Anderson, «senza essere, però, costituiti come grup­ po. Si aveva uno spirito di simpatia reciproca e si condivide­ vano ragionevolmente gli stessi ideali». Come si rileva anche dalle introduzioni scritte ai programmi, il free cinema si pre­ senta come un movimento realistico, impegnato nel rispec­ chiamento critico della realtà, nella descrizione della gente comune e della sua vita ordinaria. Libero, ma da che cosa, da chi? Libero come ideazione ed esecuzione («Questi film sono liberi perché le loro affermazioni sono personali»); libero dalle regole e costrizioni dell’industria cinematografica. Estraneo a una analisi aggressiva, classista, esso trova la pro­ pria forma nell’inchiesta in una realtà quotidiana. C’è un’at­ tenzione inusuale per il mondo popolare e per quello degli emarginati, per le lotte pacifiste; soprattutto c’è apertura ver­ so i modi di vivere e di comportarsi dei giovani in referti sensibili, senza condanne o denunce. Il giudizio è sospeso; ciò che conta è l’osservazione, ora partecipe e triste, ora disin­ cantata e pungente, di dati, fenomeni attuali, una sensibilità sociale diversa. 192

Sebbene, in senso stretto, la sua influenza diretta sia stata scarsa, limitata dalla durata (tre anni), dal campo d’azione (il documentario), dall’aperta ostilità o indifferenza dell’indu­ stria, il free cinema segna una svolta nel cinema britannico per l’aria e le idee nuove che i suoi esponenti portano all’in­ dustria. La sua è un’azione di dissodamento e di semina. È una specie di «neorealismo con precedenti», da cercarsi nella letteratura, nel teatro, nell’ambiente intellettuale. Il passaggio alla «fiction»

La nascita del free cinema coincide con l’affacciarsi alla ribalta di una giovane generazione di narratori e commedio­ grafi, i cosiddetti angry young men, i giovani arrabbiati, che si danno convegno in una serie di saggi pubblicati nel 1957 col titolo di Declaration, una vera e propria dichiarazione di guerra alla classe dirigente. Vi contribuiscono, oltre a Lind­ say Anderson, il critico Kenneth Tynan, il romanziere John Wain, il saggista Colin Wilson, il commediografo John Osborne. L’antologico manifesto ha grande pubblicità gior­ nalistica e scandalistica non tanto per l’intrinseco valore in­ tellettuale dei saggi, quanto per l’invettiva di Osborne contro la monarchia e la famiglia reale. Quali sono i bersagli? Il culto della monarchia, il mondo accademico dei college, le nostalgie imperialiste, i valori della classe alta e media, la resa aH’americanismo, il latente razzismo, il conformismo laburi­ sta, lo snobistico isolamento culturale, insomma {'establish­ ment nelle sue tante facce. Anche il rinnovamento teatrale ha una data ufficiale di inizio nello stesso 1956, 8 maggio, quando va in scena Look back in anger di John Osborne al Royal Court Theatre di Londra con la regia di Tony Richardson (Shiplay 1928), se­ guito a un anno di distanza da The entertainer (L’istrione) che si valse di una splendida interpretazione di Laurence Olivier. Il sodalizio tra Osborne e Richardson continua nel cinema con la fondazione della Woodfall che è, con la Bryanstone di Michael Balcon e la Allied Film Makers, una delle società indipendenti (dal capitale nordamericano) che fanno da sup­ porto al breve risveglio del cinema britannico. Il primo film della Woodfall — Look back in anger (I giovani arrabbiati, 193

1959) diretto da Richardson e interpretato da Richard Bur­ ton — ha scarso successo. Hanno migliore sorte i successivi, finanziati anche dalla Bryanstone: The entertainer (Gli sfasa­ ti, 1960), gli ottimi A taste of honey (Sapore di miele, 1961) e The loneliness of the long-distance runner (Gioventù, amore e rabbia, 1962), tutti diretti da Richardson, e Saturday night and sunday morning (Sabato sera, domenica mattina, 1960) di Reisz. Ma il primo film del nuovo corso che conquista pub­ blico e critica è l’opera prima di Jack Clayton (Brighton 1921) che ha poco da spartire con le esperienze del free cine­ ma: Room at the top (La strada dei quartieri alti, 1958), lucida narrazione dell’arrampicata sociale di un giovane impiegato, che negli Stati Uniti si guadagna due premi Oscar alla sce­ neggiatura di Neil Paterson e all’interpretazione di Simone Signoret. Gli altri film che si possono porre sotto l’influenza del free cinema sono A kind of loving (Una maniera d'amare, 1962), precisa ma dilatata narrazione del malessere di un impiegato di origine proletaria di fronte alle costrizioni piccolo-borghe­ si, che segna l’esordio di John Schlesinger (Londra 1926), più a suo agio con le impotenti ma creative fantasie d’evasione del divertente Billy liar (Billy il bugiardo, 1963); The angry silence (La tortura del silenzio, 1960) di Guy Green, su sce­ neggiatura socialmente coraggiosa ma di greve teatralità di Bryan Forbes che firma poi la regia di L-shaped room (La stanza a forma di L, 1962), anticonformista nel ritrarre rap­ porti umani e sentimentali interrazziali; This sporting life (Io sono un campione, 1963) con cui si cimenta per la prima volta nella fiction Lindsay Anderson, cupo dramma sociale, con ambizioni di tragedia moderna, di un minatore che diventa campione di rugby. Il 1963 è anche l’anno di Tom Jones (id) — film d’avventu­ re, commedia epica, ritratto di un’epoca — frutto della colla­ borazione degli «arrabbiati» Tony Richardson, John Osbor­ ne e Albert Finney che si era già messo in luce come protago­ nista di Sabato sera, domenica mattina. Nel capzioso adatta­ mento di Osborne, il malnato settecentesco di Henry Fielding diventa un antesignano dei «ribelli senza causa», dedito con fastoso e truculento brio a buttar giù i paraventi di ogni ipocrita rispettabilità. Quasi tutti registi che non venivano dall’industria cinema­

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tografica, ma dal teatro e dal documentario, essi fecero scuo­ la per l'attenzione alla condizione operaia (la nevrosi operaia nel welfare state) e per la critica del potere, del lavoro, dell’istituto familiare. Fatto raro non solo per le nouvelles vagues, la cinepresa entra in fabbriche, scuole, riformatori, uffici, stadi, periferie desolate. Minatori, impiegati, marginali socia­ li e razziali, artisti inquieti: c’è in loro un sordo rifiuto, una chiusa negazione di un ordine e dei suoi valori. Sabato sera, domenica mattina, scarno, disincantato ritratto di un giovane operaio di Nottingham, tra pub e notti con donne sposate, tra capi odiosi e padri abbrutiti dai consumi di massa, inca­ strato da una piccolo-borghese messa incinta ma non arreso, è una sensibile presa d’atto di un nuovo soggetto sociale e delle sue contraddizioni e insofferenze. Racconto di solitudini e di rapporti tra diversi è Sapore di miele, con Rita Tushingham sballottata tra un marinaio negro e un coetaneo omo­ sessuale. Un valore simbolico di rifiuto di un sistema, sia esso repressivo o paternalistico, ha la rinuncia a vincere la corsa campestre da parte di Tom Courtenay, recluso nell’abile e polemico Gioventù, amore e rabbia. Ma la loro rottura è assai più relativa di quanto apparisse. «I film della Woodfall — non tutti i loro film erano prodotti dalla Woodfall, ma il nome di questa compagnia può essere a ragione usato come simbolo del tipo di cinema che essi hanno creato — volevano mostrare che era normale un altro modo di essere; ma ciò che è differente va proposto e difeso nel suo senso alternativo, non trasformato in una normalità differen­ te, più liberal e, alla fine, rassicurante al di là delle stesse intenzioni» (G. Nowell-Smith). Insomma, qualcosa di diver­ so, ma di non troppo diverso. Tanto più che la loro era un’autenticità mediata. Tutti sono tratti da testi teatrali o da romanzi realistici contemporanei, e nel passaggio sullo schermo a volte qualcosa della forza dell’originale va perso, rischiando di produrre un realismo di maniera. Come Gio­ ventù, amore e rabbia, l’opera migliore del gruppo, cioè Saba­ to sera, domenica mattina, deriva da un romanzo di Alan Sillitoe; Io sono un campione da David Storey; La strada dei quartieri alti da John Braine; Billy il bugiardo da un romanzo di Keith Waterhouse, poi trasformato in commedia con la collaborazione di Willis Hall; Sapore di miele da una com­ media di Shelagh Delaney; Una maniera damare da Stan

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Barstow. È il periodo in cui, dopo aver adattato per lo schermo Moderato cantabile (id, 1960) di Marguerite Duras, il geniale teatrante Peter Brook dirige Lord of the flies (Il signore delle mosche, 1962) da un romanzo di William Gol­ ding, sorta di Robinson Crusoe rovesciato e crudele che mo­ strava il ritorno a miti e leggi primitivi in un gruppo di nobili ragazzini, isolati su un’isola dopo un disastro aereo. Lo stes­ so Losey si serve di due scrittori di punta dell’ultima genera­ zione come Alun Owen e Harold Pinter per la sceneggiatura di Giungla di cemento (1960) e II servo (1963). In questo i registi del free cinema non si discostano troppo dalla tradi­ zione del cinema inglese che «è sempre stato teatrale e lettera­ rio nelle sue fonti e stili, ed è sempre stato un cinema fonda­ mentalmente realistico», così come non è mai stato un cine­ ma di veri registi-autori. Se tre sono le figure chiave del mo­ vimento, «l’arte come espressione personale, l’impegno, una nozione di regista come editorialista della realtà», è su que­ st’ultimo terreno che il free cinema ha saputo dare i frutti migliori, nella registrazione di ciò che stava cambiando nella società, nell’esplorazione di ambienti e figure inedite nel con­ formismo degli anni Cinquanta.

Verso Hollywood

Paradossalmente Tom Jones segna l’apice del successo del free cinema, sanzionandone la fine. Rifiutato dalla Bryanstone per il suo costo troppo alto, il film è finanziato dai dollari della United Artists che ne assicura la distribuzione mondiale e lo porta alla conquista di tre Oscar. È la stessa società che — con Dr. No (Agente 007 licenza di uccidere, 1962) e From Russia with love (A 007, dalla Russia con amore, 1963) di Terence Young — vara la fortunata serie di James Bond in appoggio alla Eon dei produttori Harry Saltzman e Al­ bert Broccoli. Tom Jones segna un’altra svolta nel cinema britannico: il distacco dalle storie e dai personaggi della clas­ se lavoratrice per rivolgersi al mondo della swinging Lon­ don la cui moda s’instaura intorno alla metà degli anni Ses­ santa. E ancora la United Artists a finanziare i primi film della nuova corrente, quelli di Richard Lester (Filadelfia 1932), 196

americano di nascita che s’era formato nei ranghi della televi­ sione indipendente britannica: A hard day’s night (Tutti per uno, 1964), Help! (Aiuto!, 1965), The knack (Non tutti ce l’hanno, 1965). Nei primi due rincontro tra lo stile fantasioso e decontratto di Lester e il dinamismo dei Beatles dà risultati felici, confermati da Non tutti ce l’hanno, bizzarro e stimolan­ te pastiche di umorismo assurdo, esuberante gioia di vivere, tecniche di cinema diretto, montaggio asintattico. («Penso che fummo i primi», dichiara dieci anni dopo il regista, «a dare fiducia ai giovani del paese, contribuendo alla scompar­ sa degli angry young men... I Beatles mandarono a farsi bene­ dire la questione sociale...».) Si pongono sulla stessa linea di contaminazione tra tenerezza e cinismo, edonismo e ironia: Nothing but the best (Il cadavere in cantina, 1964) di Clive Donner, Darling (id., 1965) di Schlesinger, Blow-up (id., 1966) di Antonioni, Alfie (id., 1967) di Lewis Gilbert, Charlie Bub­ bles (L’errore di vivere, 1968) di Albert Finney, Performance (Sadismo, 1970) di Nicholas Roeg e Donald Cammei. E una fase di crescente asfissia delle produzioni indipen­ denti. Le conseguenze si fanno sentire anche nell’attività degli uomini di punta del free cinema. Dopo aver girato a Holly­ wood il desolante Sanctuary (Il grande peccato, 1961, da Wil­ liam Faulkner) e il caustico seppur sconnesso The loved one (Il caro estinto, 1965, da Evelyn Waugh), Richardson infila una serie di film cosmopoliti di trita fattura e di ambizioni sbagliate. Mai regista eccelso, anzi diseguale perché troppo dipendente dal valore delle sceneggiature che si trovava a mettere in scena, egli ha un ultimo soprassalto dissacratorio con The charge of the light brigade (1600 di Balaklava, 1968), tentativo riuscito solo a metà di demistificare uno degli epi­ sodi più celebrati della storia militare britannica. Si trasferi­ scono a Hollywood anche il mediocre Jack Clayton che nau­ fraga con The great Gatsby (Il grande Gatsby, 1974) e il più dotato John Schlesinger che ha successo con Midnight cow­ boy (Un uomo da marciapiede, 1968) e Yanks (Yankees, 1979), anche se ottiene il risultato più felice in patria con Sunday, bloody sunday (Domenica, maledetta domenica, 1971), storia di un giovane artista conteso tra un uomo e una donna che è in assoluto uno dei migliori film del periodo, di una malinco­ nica raffinatezza psicologica che non esclude il rumore di fondo di una metropoli e di un paese che cambiano.

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Questa emorragia di talenti è dovuta anche al brusco arre­ sto del flusso di investimenti americani in Gran Bretagna: le perdite crescono parallelamente a una crisi di sovrapprodu­ zione perché si sono fatti troppi film in rapporto al periodo di tempo disponibile per distribuirli. Alla fine degli anni Sessan­ ta, le majors hollywoodiane si ritirano, provocando una di­ soccupazione su vasta scala e l’interruzione di qualsiasi con­ tinuità nell’attività produttiva, e nello stesso tempo, alleate con le inglesi Rank ed Emi, rafforzano la loro presenza in altre forme: di controllo totale sull’esercizio, sulla distribu­ zione, su studi moderni come quelli di Twickenham, usati per le proprie produzioni, da 2001 a Guerre stellari. Esistono film inglesi, ma in pratica non esiste più un cinema inglese, fatto con capitali, registi, attori, tecnici inglesi, d’ambiente e spirito inglese, insomma un’industria cinematografica nazionale.

Da Reisz ad Anderson Il regista di maggior talento del free cinema, Karel Reisz (Ostrava, Cecoslovacchia 1926), dopo aver sbagliato il com­ plesso ritratto di criminale di Night must fall (La doppia vita di Dan Craig, 1964), fa centro con quello del pittore disadattato di Morgan, a suitable case for treatment (Morgan, matto da legare, 1966), caustico epitaffio sulle speranze e le illusioni della sinistra: all’arrabbiato Morgan non resta che una buf­ fonesca e impotente irregolarità, la follia come forma estrema di rifiuto del conformismo borghese. Dopo aver trattato di rivolta e integrazione, Reisz si arrende alla moda del prodot­ to internazionale con l’elegante Isadora (id., 1968), ispirato alla vita della Duncan. Attraversa l’Atlantico, o meglio fa la spola tra le sue due sponde, per fare un’onorevole carriera con film perlopiù d’azione: mai banali, da The gambler (40.000 dollari per non morire, 1974) a Sweet dreams (id., 1985), hanno tutti un motivo per farsi ricordare e riportano all’interno dei generi la sua impronta di osservatore realistico di ambienti, di rapporti e comportamenti che sono l’espres­ sione delle varie sottoculture di questi anni. Tornando a gio­ care in casa, ha trovato il successo con The french lieutenant's wife (La donna del tenente francese, 1981), dal romanzo di John Fowles, sagacemente adattato da Harold Pinter. Spo­

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stato verso un clima di mistero e un registro letterario e sentimentale (vagamente femminista) altro da quello pinteriano, appare alla fine un gioco superficiale di riflessi e di reazioni tra la scena vittoriana e quella contemporanea, tra la finzione degli eroi romantici e la realtà degli interpreti che la interpretano, tutto subordinato all’uso di una tecnica narra­ tiva sofisticata, aperta. Chi non deflette è l’indomito Lindsay Anderson (Bangalo­ re, India 1923) che, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, resta uno dei pochi autori che riesce a fare un cinema realisti­ co su temi di attualità specificamente britannica — i soli altri sono Kenneth Loach e Peter Watkins che provengono dalla televisione. Coerente nel suo gonfio e sarcastico anarchismo, persiste nella linea di un cinema critico verso le patrie istitu­ zioni, com’era nelle premesse teoriche del free cinema. Sia pur a lunghi intervalli (occupati da regie teatrali e dall’attività saggistica che comprende anche un ottimo libro su John Ford) Anderson dirige — oltre al mediometraggio The white bus (L’autobus bianco, 1966-68) e In celebration (In celebra­ zione, 1976), trascrizione di un dramma di David Storey — If... (Se..., 1969), O lucky man! (id., 1973) e Britannia Hospital (id., 1982). Tutti scritti da David Sherwin, sono tre incursioni sul terreno della satira, nutrita di un umanesimo che ha sem­ pre avuto in lui una componente di pessimismo arrabbiato, inacidito dall’età. In Se... è presa di mira, con giovanile furo­ re sessantottesco che si ispira a Zero de conduite di Vigo come a Stalky and Co. di Kipling, l’istituzione della public school, fucina e vivaio di futuri dirigenti conformisti. O lucky man! è, nella tradizione di The Pilgrim's Progress e Candide, una pi­ caresca morality play dove si racconta, attraverso grottesche peripezie, la scalata sociale di un ambizioso giovanotto, in­ terpretato — al pari di Se... e Arancia meccanica di Kubrick — da Malcolm Me Dowell, autore anche del soggetto. Bri­ tannia Hospital è un buon esempio di humour nero, cattivo e di un’eccessività e volgarità volute. La sua irrisione non ri­ sparmia niente e nessuno: tradizioni imperiali e misfatti di una scienza medica che crea mostri, lo snobismo dell’aristo­ crazia e la sclerotica burocrazia dell’amministrazione pubbli­ ca, il massimalismo dei sindacati e la rigidità della lotta di classe, in un gioco però tutto umorale, insofferente, che in fondo se la gode a sguazzare nello stato di dissoluzione di

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quello che fu un grande paese, mai davvero «swiftiano», co­ me vorrebbe, cioè mai davvero sostanziato di una radicale e morale negatività. La grinta di Anderson si è distesa e placa­ ta, ma senza facili languori, in The whales of august (Le bale­ ne d’agosto, 1987), racconto intimista di atmosfere quasi cechoviane, fin troppo esangue nella sua rinuncia a incidenti drammatici, interpretato da un quintetto (Lillian Gish, Bette Davis, Ann Sothern, Vincent Price, Harry Carey jr.) che è un compendio di storia del cinema.

Un panorama complesso

Dopo quanto si è detto, può apparire schematico il costan­ te riferimento per gli anni Sessanta e i successivi alle esperien­ ze del free cinema. Il panorama del cinema britannico è più variegato e complesso. In larga parte dipendente dalla com­ mittenza americana, comprende registi inglesi attivi soprat­ tutto in America (John Boorman, Peter Yates), registi ameri­ cani che lavorano spesso in Gran Bretagna (Richard Lester) o che vi sono emigrati per ragioni politiche, svolgendovi la parte più cospicua della loro carriera (Joseph Losey) o che vi si sono installati per scelta personale (Stanley Kubrick), regi­ sti canadesi (Sidney J. Furie) che hanno lavorato a Londra prima di passare a Hollywood, registi inglesi che tra Londra e Los Angeles fanno la spola (Richardson, Schlesinger, Reisz ma anche Michael Anderson, John Guillermin, Ken Hughes, Jack Lee-Thompson, Silvio Narizzano, Ronald Neame, Ca­ rol Reed, Michael Winner), raffinati accademici della regia che, come David Lean, si sono specializzati, sostenuti dai dollari delle majors di Hollywood, nel cinema di grandi temi e di grande spettacolo all’insegna del buon gusto: The bridge on the river Kwai (Il ponte sulfiume Kwai, 1957), Lawrence of Arabia (Lawrence d’Arabia, 1962), Doctor Zhivago (Il dottor Zivago, 1966), Ryan’s daughter (La figlia di Ryan, 1970), A passage to India (Passaggio in India, 1984). Film d’attori e d’ambiente — di sabbia e deserto il secondo, di neve il terzo che è una mascherata pasternakiana, di piovosi paesaggi ir­ landesi il quarto, il più sentimentale —, specialmente questi tre sono film di taglio accademico, di messa in scena tanto scrupolosa e accurata quanto inerte: «nobile, rispettabile e 200

morta», la definiva Pauline Kael. Un po’ diverso è il caso del primo e dell’ultimo: Il ponte sul fiume Kwai, tratto da un romanzo di Pierre Boulle e sceneggiato da Michael Wilson, è interessante per il suo apologo antimilitarista paradossal­ mente incarnato in un cocciuto colonnello (Alec Guinness, ovviamente) che, per riaffermare la dignità e lo spirito inglesi, si spinge sino a costruire un ponte per i nemici e aguzzini giapponesi; Passaggio in India, lettura riduttiva ma pure criti­ ca del romanzo di E.M. Forster, capolavoro del complesso rapporto coloniale e culturale tra India e Inghilterra, torna sul tema, a Lean così caro, della follia, della passione — qui con precise motivazioni erotiche — che con i suoi eccessi ed esaltazioni domina tragicamente i destini e gli avvenimenti umani e resta esemplare di una scrittura di raffinata eleganza, ai limiti della frigidità.

L'eccessivo .Russell

C’è un corpo estraneo in questo panorama, come un me­ teorite piombato da un altro pianeta: Ken Russell (Sout­ hampton 1927). Dopo una movimentata attività di ballerino, mimo, fotografo e cineamatore, realizza per la bbc una qua­ rantina di documentari e di ritratti d’artista, soprattutto mu­ sicali (Elgar, Bartók, Debussy, Richard Strauss, Isadora Duncan), per passare al grande schermo con French dressing (Abbigliamento francese, 1964) e Billion dollar brain (Un cer­ vello da un milione di dollari, 1967). Sono due film di mestiere ma di sgargiante visionarietà e irridente truculenza, specialmente il secondo che continua nel genere di spionaggio, in anni di bondismo rampante, la serie dell’agente Harry Pal­ mer (Michael Caine) di Len Deighton, avviata dal brillante The Ipcress file (Ipcress, 1965) di Sidney J. Furie e continuata con Funeral in Berlin (Funerale a Berlino, 1966) di Guy Hamil­ ton. Russell s’impone all’attenzione della critica con Women in love (Donne in amore, 1969) e Music lovers (L'altra faccia dell'amore, 1970). Il primo conta per il modo con cui, trascri­ vendo il romanzo di D.H. Lawrence, riesce a organizzarne la complessità tematica in una dimensione figurativa (e decora­ tiva) di suggestiva coerenza anche se, spinto a rendere esplici­ 201

ta la latente omosessualità dell’autore, se la cava con qualche impaccio, nascondendosi dietro al rispetto per la lettera dei personaggi e dell’intreccio. Nel secondo si butta con foga temeraria e compiaciuta nel pericoloso esercizio di visualiz­ zare la musica di Cajkovskij e, insieme, di giudicarla attraver­ so le immagini in un ambiguo rapporto di adesione e rifiuto. S’avverte nella frenesia aggressiva della sua partecipazione che il regista è, in fondo, un epigono di quella visione postromantica dell’uomo e del mondo di cui vorrebbe essere critico. Posto sotto il segno della ridondanza visionaria e del kitsch più ironicamente delirante, il cinema di Russell opera spesso su materiali artistici: musica {Mahler, La perdizione, 1974; Lisztomania, id., 1975, e l’opera-rock Tommy, id., 1975), dan­ za {The boyfriend, id., 1972, squisito omaggio a Busby Berke­ ley e tenuto da molti critici come il suo film migliore o, comunque, più equilibrato), pittura {The savage Messiah, Il messia selvaggio, 1972, sullo scultore francese Henri GaudierBrzeska), cinema {Valentino, id, 1977, con Rudolf Nureyev). Si è anche cimentato, ispirandosi a un saggio di Aldous Hux­ ley, con il genere storico in The devils {I diavoli, 1971) dove, in cadenze di forsennato Grand-Guignol, rievoca lo stesso epi­ sodio di superstizione religiosa e repressione erotica già rac­ contato dal polacco Jerzy Kawalerovicz in Madre Giovanna degli Angeli (1960). Seguendo l’esempio di molti suoi compa­ trioti, è poi passato a Hollywood dove da un romanzo di Paddy Chayefsky ha tratto Altered states {Stati di allucinazio­ ne, 1981), bizzarro e sfrontato coacervo di fantascienza bio­ genetica, esperienze mistiche e psichedeliche, rivisitazioni di miti, dirigendo poi Crimes of passion {China blue, 1984), sul­ l’aspro incontro sado-maso e pieno di ossessioni cattoliche tra un prete e una donna dalla doppia vita. Questo inglese dell’epoca elisabettiana trapiantato nel paese di Elisabetta n è, a modo suo, un moralista impegnato in una battaglia criti­ ca rivolta contro una tradizione culturale di cui è anche ere­ de, ostaggio e tremendamente complice nella superficialità effettistica delle sue aggressioni. Lo ribadisce il ridicolo hor­ ror Gothic {id., 1986), ambientato nella villa di Byron a Gine­ vra nella notte del 16 giugno 1816 in cui fu concepito il Frankenstein di Mary Shelley.

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Il pacifista Watkins e il realista Loach

Kenneth Loach e Peter Watkins appartengono a quel gruppo di registi (Peter Collinson, Boorman, Russell) che hanno fatto il loro apprendistato nei ranghi della televisiva bbc. Watkins (Norbiton 1935) vi si mette in luce con The battle of Culloden (L’ultimo degli Stuart, 1964), immaginaria telecronaca che riporta al presente e alla sua cruda realtà una famosa battaglia del 1746 e resta un efficace esempio di anali­ si e controinformazione storica nel campo della comunica­ zione audiovisiva, e con The war game (id., 1965), mediome­ traggio che descrive gli effetti di un attacco di missili sovietici nella regione del Kent dopo lo scoppio della terza guerra mondiale: calando la fiction nelle apparenze del più secco documentarismo, Watkins vi mescola con sagacia, ma senza sensazionalismo né ricatti emotivi, il quotidiano e l’apocalit­ tico, il familiare e l’inimmaginabile. Considerato troppo im­ pressionante e allarmistico, il film non fu mai messo in onda e causò la sua rottura con la bbc. Passato al cinema, Watkins non vi ha mai trovato la stessa forza espressiva. Tocca temi sociali-aweniristici enormi, lan­ cia gridi d’allarme dettati da un ossessionato pacifismo e antimilitarismo e da una visione orwelliana della civiltà occi­ dentale, ma lo fa in termini enfatici, a volte rozzi. Delirante nelle forme è Privilege (id., 1967) in cui un cantante pop è usato a fini di controllo sociale e in giochi politici e religiosi più grandi di lui. In Svezia, dove poi si è stabilito, ha profe­ tizzato con Gladiatòrerna (I gladiatori, 1968) futuri giochi olimpici di sangue e violenza; negli Stati Uniti di un postVietnam fascista ha analizzato rapporti tra individuo e potere con Punishment park (Campo di punizione, 1971). E conflitti atomici visti in tv (Fallen, La trappola, 1975), terrorismi (Aftenlandet, Un paese al tramonto, 1977) stanno al centro della sua successiva produzione scandinava, il cui punto più alto resta però l’ampio film tv Edward Munch (id., 1976) sulla vita e l’opera del pittore simbolista ed espressionista norvegese. Sul filo di una grande libertà visiva e di incastri temporali, ha dato appieno corpo a un’angoscia che si travasa nella crea­ zione artistica e in una radicale inconciliabilità con la società e con se stesso, con cui è sembrato identificarsi. Infine, una vera e propria summa dei suoi temi è riuscito a darla con The 203

journey (Il viaggio, 1986), 14 ore e 32 minuti sull’incubo ato­ mico, sulle armi nucleari e le conseguenze sociali, economi­ che e psicologiche che esse hanno avuto e hanno. Prodotto con il contributo di numerosi movimenti e organizzazioni culturali e televisive, è uno smisurato esempio di comunica­ zione orizzontale, tra utopia pacifista e intervento politico-i­ deologico, tra discussione in atto in ogni parte del mondo e documentazione storica dal ’43 a oggi: una grande riflessione dell’uomo sul proprio destino, ma anche una riflessione pra­ tica sul cinema e sulla possibilità di non essere soltanto spet­ tacolo o informazione autoritaria. Alla bbc Kenneth Loach (Nuneaton 1936) realizzò nel 1965 numerosi teledrammi nella popolare serie Wednesday plays. Soprattutto, però, occupa un posto rilevante nel cinema bri­ tannico di impianto realistico. I suoi film raccontano storie semplici con pochi personaggi, quasi sempre della classe la­ voratrice, ancorati a una realtà sociale descritta in toni som­ messi e precisi, di un’autenticità sostenuta da una sagace direzione di attori sconosciuti. Radicale di sinistra, vicino all’ala sinistra del Partito laburista, Loach sa evitare forzatu­ re polemiche e manicheismi a tesi e circondarsi per la sceneg­ giatura di collaboratori accorti (Jim Allen, Barry Hines, Da­ vid Mercer e Tony Garnett, suo produttore abituale e regista in proprio del film-dossier Prostitute, Prostituta, 1980). Poor cow (id, 1967), suo film d’esordio nel cinema, è l’a­ sciutto resoconto delle vicissitudini di una giovane operaia. Bel ritratto di adolescente che ama, addestra e perde un greppio (falco), Kes (id., 1969) è anche un efficace rapporto sulla vita in una città industriale dello Yorkshire, sfondo privilegiato del suo cinema. Influenzato dalle teorie antipsi­ chiatriche del britannico Ronald Laing, Family life (id, 1971) con il suo tono secco, con la sua struttura didattica, è un buon esempio di cinema politico per la capacità di analizzare e smascherare la natura del potere nella famiglia, nella socie­ tà e nell’ambiente medico, vera causa della schizofrenia di una ragazza. Days of hope (Giorni di speranza, 1975) è un inusuale sceneggiato in quattro puntate per 410 minuti di durata per la bbc, che s’incentra sulle vicende di una famiglia operaia dal 1916, quando in Gran Bretagna fu istituita la coscrizione militare obbligatoria, sino allo sciopero generale del 1926. The gamekeeper (Il guardacaccia, 1980) è il raccon-

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to, più dimostrativo del solito, di un anno di vita di un ex operaio che, per amore della libertà individuale e della cam­ pagna, si è fatto assumere come guardacaccia nella tenuta di un duca: più spontaneo e partecipe, Looks and smiles (Sguar­ di e sorrisi, 1981) affronta il mondo più che il tema della disoccupazione giovanile a Sheffield. Anche nel suo unico film romanzesco in costume, Black Jack (L’uomo nero, 1979), ambientato nello Yorkshire del xvm secolo, picaresco racconto della marcia avventurosa di tre eterogenei perso­ naggi verso il mare, Loach non viene meno ai suoi intenti di realismo sociale. Serio, persino rigorista, Loach è un raro caso di cineasta impegnato che riesce a non sacrificare la forma ai contenuti, merito riconoscibile anche in un film di intervento e di esplicito impegno sociopolitico come Which side are you on? (Da che parte stai?, 1984), sul lungo sciopero dei minatori inglesi nel 1984. E l’assenza della retorica di sinistra, la si riscontra anche nel più ambizioso e incerto Fatherland (Patria, 1986), scritto da Trevor Griffiths e miglio­ re nella prima parte, sarcastica e lucida nel descrivere l’impat­ to di un cantante contestatore di Berlino Est con l’oppressio­ ne, non più politica ma economica, occidentale che non nella seconda di delusoria ricerca del padre, passato in Inghilterra trent’anni prima. Peter Brook e gli attori-registi

Un marginale, a modo suo, è anche Peter Brook (Londra 1925), regista teatrale tra i più prestigiosi e originali della generazione che, tolti i già citati Moderato cantabile e II signo­ re delle mosche, si è servito del cinema come di un’estensione del suo lavoro sul palcoscenico. Già nel ’53 aveva dato una messinscena di The beggar’s opera (Il masnadiero), da John Gay, scattante, maliziosa, pre-arrabbiati nella sua vena po­ lemica verso l’establishment e nella sua gioia di vivere esaltata dalle arie popolari settecentesche. Il suo lavoro più comples­ so e originale resta, però, Marat-Sade (id, 1967), trasposizio­ ne del dramma di Peter Weiss, che applica le sue idee su uno spettacolo di provocazione e di crudeltà di ascendenza artaudiana. Storia e natura, tragicità di ogni esperienza umana di liberazione, si impongono in un complesso gioco visivo e

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teatrale, che fonde temi ideologici, storici, politici, e il vissuto di attori-matti e del loro pubblico, presente sulla scena. An­ cora da Weiss trae Tell me lies (Dimmi bugie, 1968), parafrasi deir«improwisato» spettacolo-collage d’attualità Ù.S., con cui mette in immagini una polemica requisitoria sul contesto ideologico della guerra del Vietnam, ma anche sulla cattiva coscienza di tanti umanitari, e poi, manipolando con origina­ lità una sua straordinaria messinscena teatrale con Paul Sco­ field, dirige King Lear {Re Lear, 1970), tutto coagulato intor­ no a pochi elementi scenografici. Espressione dei suoi recenti interessi per la spiritualità e per l’Oriente e la sua cultura è Meetings with remarkable men (Incontri con uomini notevoli, 1978), avventuroso viaggio di iniziazione, di ricerca della Ve­ rità, ispirato al libro autobiografico che sulle sue esperienze e i suoi incontri d’inizio secolo scrisse il turco-russo Georges Gurdjieff. In attesa della versione cinematografica del Mahabaratha, lo straordinario spettacolo che ha ricavato dal Libro dei Libri indiano. Nelle sue varie stagioni il cinema britannico ha goduto di un vantaggio che, senza indulgere troppo al paradosso, può essere interpretato come un condizionamento, se non come un handicap: una solida tradizione teatrale, sostenuta da un’adeguata organizzazione, che gli ha fornito un agguerrito e sempre rinnovato reparto di attori al quale, nella sua posi­ zione egemone, ha spesso attinto anche l’industria hollywoo­ diana. Tra gli attori che sono passati alla regia il caso di Laurence Olivier con la sua celebre trilogia shakespeariana {Enrico v, Amleto, Riccardo ni) non è isolato. Alcuni non hanno lasciato traccia: Richard Burton con una goffa e greve versione di Dr. Faustus {Il dottor Faust, 1967) di Christopher Marlowe; Lau­ rence Harvey, attore di origine lituana, col tronfio The cere­ mony {Cerimonia infernale, 1963) e l’insipido thriller Welcome to Arrow Beach, usa {Arrow Beach: la spiaggia della paura, 1973); Richard Harris con Bloomfield {Un uomo in vendita, 1969). Merita, invece, qualche considerazione il poliedrico Peter Ustinov (Londra 1921) che, tra le sue varie attività, s’è cimentato anche nella regia con una mezza dozzina di film tra cui si possono citare almeno Romanoff and Juliette {Giu­ lietta e Romanoff, 1960), adattato da una sua deliziosa com­ media, e Billy Budd {id., 1962), trascrizione statica, ma non 206

priva di acutezza psicologica, del breve capolavoro di Melvil­ le. Attore di medie virtù, regista di tradizionale mestiere senza particolari talenti, Richard Attenborough (Cambridge 1923) esordisce nella regia con una inerte trasposizione di Oh! What a lovely war (Oh, che bella guerra, 1969), commedia musicale antimilitarista di Joan Littlewood, che aveva fatto scalpore sul palcoscenico per la sua satira irridente sulle cause e la conduzione della guerra 1914-18. Dopo Young Winston (Gli anni deiravventura, 1972), verniciata rievocazione degli anni giovanili di Winston Churchill, e prima di A chorus line (Cho­ rus line, 1985), un musical di pretese realistiche sul mondo del musical, ha fatto con Gandhi (id., 1982), costato venti milioni di dollari, uno dei più solidi film biografici del cinema di lingua inglese in cui, oltre all’interpretazione dell’anglo-indiano Ben Kingsley e alla buona esposizione degli avveni­ menti, è ammirevole la capacità di rappresentazione critica dei crimini e degli errori del dominio britannico in India. Eccezioni e contraddizioni Il cinema britannico dell’ultimo ventennio è un frastagliato arcipelago di promesse non mantenute, di esordi che non hanno avuto seguito, di ingegni deviati o emarginati ma an­ che di improvvise emersioni dalla produzione di mercato. Attrice e regista teatrale di primo piano, commediografa di talento, Joan Littlewood è rimasta al palo di partenza con Sparrows can't sing (I passeri non sanno cantare, 1963), tratto da una buffa e irriverente commedia di Stephen Lewis, messa in scena nel 1960 dalla stessa regista al Theatre Workshop di Londra. Anthony Simmons non ha più fatto nulla di notevo­ le dopo Four in the morning (Alle 4 del mattino, due uomini e due donne, 1965) che, per l’attenzione alla realtà sociale e il linguaggio realistico in presa diretta, si colloca sulla scia del free cinema. Stephen Frears (Leicester 1941), dopo il curioso Gumshoe (Scarpa di gomma, 1971), dove Albert Finney im­ persona con istrionismo ben temperato un detective dilettan­ te che ha un culto feticista per Humphrey Bogart, è tornato soltanto negli anni Ottanta con il polemico ed esteriore Sai­ gon. The year of the cat (Saigon. L’anno del gatto, 1983), 207

scritto da David Hare, e con un bel film d’azione di ambizio­ ni metaforiche, The hit (Il colpo, 1984), con Terence Stamp come gangster invecchiato e appartato in attesa della vendet­ ta dei complici che ha denunciato. Soprattutto, Frears ha poi mostrato un’energia sobria e lucida di regia con My beautiful laundrette (id., 1985) e Prick up your ears (Ficcatevelo nelle orecchie, 1987), due film di omosessualità e scandalo, inno­ cente nel primo caso, più calcolato nel secondo: l’uno è una fresca storia di ascesa economica e di tenera amicizia tra un pakistano e un punk militante del National front, di precisa ambientazione popolare e razziale grazie anche a un bel testo dell’anglo-pakistano Hanif Koureishi; l’altro è la franca bio­ grafia di Joe Orton, commediografo anticonformista massa­ crato nel ’67, a 34 anni, dal suo amante, scritta da Alan Bennett in forma di inchiesta circolare e in termini di inferno di coppia. Per strada sembra essersi perso Jack Hazan, auto­ re di A bigger splash (Un grosso spruzzo, 1973), in collabora­ zione col noto pittore David Hockney, interessante, oltre che per la bellezza plastica delle immagini, per la lucidità e la partecipazione con cui descrive il microcosmo dell’omoses­ sualità maschile, tema che con coraggioso anticipo sui tempi (e la censura) era stato affrontato con civile discrezione da Basil Dearden in Victim (id, 1962). Più regolare è stata la carriera di Desmond Davis (n. 1928), significativa per un terzetto di film di ambiente irlandese in cui, senza concessioni al folclore, si esercita un’acuminata critica sulla diffusa ipocrisia sociale, specialmente in materia di rapporti sessuali. Sono tutti scritti da Edna O’Brien, la più nota delle scrittrici d’Irlanda: The girl with green eyes (La ragazza dagli occhi verdi, 1964), I was happy here (Sono stata felice qui, 1966) e The country girls (Le ragazze di campagna, 1983). Non sono mancati esponenti della vecchia guardia che nel decennio 1960-69, all’interno di una carriera di un professio­ nismo più o meno dignitoso, si sono messi in luce con qual­ che ragguardevole exploit. È il caso del già citato Alexander Mackendrick, uno dei piccoli maestri della commedia che ha fatto due belle incursioni nel campo del cinema di avventura (e di psicologia infantile) con Sammy going south (Sammy va al sud, 1962) e con High wind in Jamaica (Ciclone sulla Gia­ mo ica, 1965), degno del bellissimo romanzo di Richard Hu-

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ghes. Dopo aver fatto a Hollywood un intenso Joe Macbeth (id., 1955), bizzarro aggiornamento del dramma shakespea­ riano in chiave gangsteristica su sceneggiatura di Philip Yor­ dan, Ken Hughes si è messo in luce con The small world of Sammy Lee (Cinque ore violente a Soho, 1963), imparentato col free cinema per la nervosa ambientazione realistica nel sottobosco di un popolare quartiere londinese. C’è Ronald Neame (n. 1911), regista per tutte le stagioni e tutti i generi, che — oltre a The horse's mouth (La bocca della verità, 1959) e Tunes ofglory ( Whisky e gloria, 1960), due veicoli per un Alee Guinness in grande forma — dirige The prime of miss Jean Broadie (La strana voglia di Jean, 1969), ritratto di un’istitu­ trice inglese degli anni Trenta, affascinata dall’ideologia fa­ scista. Tre famosi direttori della fotografia sono passati, seppur non in modo irreversibile, alla regia: Jack Cardiff (n. 1914), Freddie Francis (n. 1917) e Nicholas Roeg (n. 1928). Se Car­ diff, regista di una dozzina di film, può essere ricordato solo per Sons and lovers (Figli e amanti, 1960), solido adattamento di un romanzo di D.H. Lawrence, e per Young Cassidy (Il magnifico irlandese, 1965), biografia dello scrittore irlandese Sean O’Casey, diretto secondo le indicazioni di John Ford malato che ne aveva preparato la produzione, Francis ha fatto la sua carriera registica tra il 1962 e il 1974 con una ventina di horror movies, spesso a episodi, con un’apprezzabi­ le miscela di fantastico e umoristico, prima per la Hammer, la società specializzata ntWhorror, e poi per la Amicus, finan­ ziata dagli americani. Più rilevante e personale è il lavoro di Roeg, soprattutto per la ricchezza delle invenzioni figurative, anche se incline a quel virtuosismo tecnico che spesso carat­ terizza il cinema degli ex operatori. Dopo due film curiosi ma irrisolti — Performance (Sadismo, 1970) con la coregia di Donald Cammei, di ambiente gangsteristico con il cantante pop Mick Jagger; Walkabout (Bighellonaggio, 1971), storia di due ragazzi sperduti in un deserto australiano — Roeg ha fatto due incursioni nel territorio che gli è più congeniale, il fantastico, con Don't look now! (A Venezia... un dicembre rosso shocking, 1973), thriller parapsicologico sullo sfondo di una Venezia invernale di perversa suggestione, e The man who fell to earth (L'uomo che cadde sulla Terra, 1975), singolare film di fantascienza con David Bowie nella parte di un alieno.

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Il suo risultato più originale è Bad timing (Il lenzuolo viola, 1980), labirintico racconto di un tormentato rapporto amo­ roso in cui, sotto il segno grafico dello Jugendstil di Klimt e Schiele, si pratica con sagacia la scomposizione del tempo e dello spazio. Ha poi assai deluso con Insignificance (Frivolità, 1985), iperartificioso, teatrale pastiche che fa incontrare Marilyn ed Einstein, mentre, con tutti i suoi vezzi formali, Castaway (Castaway, la ragazza del venerdì, 1986) è almeno un rapporto di coppia insolito tra due naufraghi volontari in un’isola deserta per un anno. Sia pur con caratteri specifici, il cinema britannico ha in comune con quello hollywoodiano parecchi generi: la com­ media umoristica, l’horror, il poliziesco, il film di guerra (con il sottogenere dei film sui campi di prigionia in cui l’evasione diventa uno sport), il film storico. Ha anche coltivato con continuità, soprattutto dopo il 1945, una categoria che per certi versi è diventata quasi un genere, quella dei film di origine letteraria, attingendo alla propria letteratura narrati­ va e teatrale. In questo campo si è distinto Alan Bridges che, dopo The hireling (Un uomo da affittare, 1973), da un roman­ zo di L.P. Hartley, l’autore di The go-between, inopinata Palma d’oro al festival di Cannes ex aequo con l’americano Lo spaventapasseri, ha colto un risultato ancor più apprezza­ bile con Return of the soldier (Prigionieri del passato, 1983), adattando con linda finezza un romanzo di Rebecca West. Hanno fatto buone prove in questo genere Jack Clayton con The innocents (Suspense, 1961), da Giro di vite di H. James; Peter Glenville con Becket (Becket e il suo re, 1964), da Jean Anouilh; Christopher Miles con The virgin and the gypsy (La vergine e lo zingaro, 1970), da D.H. Lawrence. «Momenti di gloria»

Alla fine del decennio 1970-79 il cinema britannico toma alla ribalta internazionale, aprendo una fase di vitalità inso­ spettata se si considera che la frequenza nelle sale resta una delle più basse d’Europa (in media si va al cinema meno di una volta all’anno, trenta volte di meno che nel ’45) e che l’egemonia dell’industria nordamericana fa sempre da irresi­ stibile calamita verso Hollywood per i professionisti più qua-

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liticati di ogni settore, registi compresi. L’attuale rinascita è nata giocando su queste contraddizioni più che risolvendole; nello stesso tempo, anche se lo stato, in tempi di crudo liberi­ smo thatcheriano, non pensa certo a elargire aiuti e sovven­ zioni, ci sono stati importanti mutamenti strutturali, come un maggior intervento nel campo produttivo del British Film Institute e l’apertura nel novembre ’82 di Channel Four che, finanziato attraverso un fondo pubblicitario delle due reti commerciali, produce annualmente una ventina di film per la tv, da distribuire eventualmente nel circuito cinematografico, come si usa fare in altri paesi europei e negli Stati Uniti. È una vitalità che dà frutti non solo in termini di consensi critici, ma si traduce in clamorosi successi di pubblico sul mercato nazionale e americano. Gli esempi più vistosi sono il Gandhi di Attenborough, il cui altissimo costo è coperto dalla coproduzione con l’india, e Chariots offire (Momenti di glo­ ria, 1981) di Hugh Hudson che conquista quattro Oscar, compreso quello per il miglior film. Canto dello spirito ingle­ se senza sciovinismi e prodotto di accurata confezione spet­ tacolare, quest’ultimo racconta la storia di Eric Liddell e Harold Abrahams, medaglie d’oro nei 100 e 400 metri piani nei Giochi olimpici di Parigi del 1924, e segna l’esordio nel cinema narrativo di Hudson, dopo essere stato uno dei dra­ ghi del cinema pubblicitario. Il successo gli vale, da parte della Warner Bros, la regia di Greystoke - The legend of Tarzan, lord of the apes (Greystoke, 1984), la prima tarzanata adulta (e ad altissimo costo) dopo una quarantina di film, per non contare i serial televisivi, sul popolare personaggio di E. R. Burroughs. Un altro kolossal è Revolution (id, 1985), cupa e improbabile descrizione della rivoluzione americana che non risparmia né gli inglesi né gli yankees e che è stata accolta negli usa con molto disagio. Il vero autore di Momenti di gloria è, però, David Puttnam, giovane e intraprendente produttore che è stato l’uomo di punta dell’attuale rilancio, prima di passare a dirigere la Co­ lumbia. Abile nel gioco delle partecipazioni, ha puntato su un prodotto di qualità, originale e molto inglese per stile e tono culturale senza essere insulare, cioè in grado di avere un richiamo internazionale. Al pari degli altri producers che si sono messi sulle sue tracce, ha lavorato in funzione del mer­ cato nordamericano, il che ha però via via accentuato il ca-

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ratiere multinazionale delle produzioni, correndo rischi di cui non è dato prevedere gli sviluppi. Dopo aver realizzato nei primi anni Settanta alcuni film per il mercato giovanile, tra cui That’ll be the day (Questo sarà il giorno, 1974) di Claude Watham e il suo seguito Star­ dust (Polvere di stelle, 1975) di Michael Apted su un gruppo rock che ha per star David Essex, Puttnam passa per Ken Russell (Mahler, Lisztomanid) e concede fiducia a diversi nuovi registi emergenti tra i quali Ridley Scott, Alan Parker, Adrian Lyne, come Hudson «figli della pubblicità». Prima di passare a Hollywood dove realizza due thriller di indubbio fascino figurativo e di sapiente spettacolarità postmoderna in cui la fantascienza si combina con l’horror (Alien, id, 1979) o col cinema nero (Blade runner, id, 1982), Scott dirige in pa­ tria The duellists (I duellanti, 1976), esercizio di raffinata calli­ grafia ispirato a un racconto napoleonico di Joseph Conrad. Dopo il curioso pastiche proibizionistico di Bugsy Malone (Piccoli gangsters, 1976), interpretato da ragazzi in vesti adul­ te, Alan Parker azzecca un grosso successo commerciale con il sensazionalistico Midnight express (Fuga di mezzanotte, 1977), ambientato in un carcere turco. Attento ai nuovi lin­ guaggi, specie la videomusica, Adrian Lyne dà il giovanilistico Foxes (Volpi, 1978), sui rapporti interni a un gruppo di ragazze, e poi a Hollywood centra Flashdance (id, 1982), ma mostra tutti i suoi limiti con un ambizioso soft'. 9Vi weeks (Nove settimane e mezzo, 1985). Pendolare tra le due sponde dell’Atlantico è anche Roland Joffe, assai professionale ma anche di una certa vitalità ideologica nel descrivere nel kolos­ sal The mission (La missione, 1986) un massacro coloniale di indios guarani alla metà del Settecento. Di più forte impatto appare il precedente The killing fields (Urla del silenzio, 1984) che tratta dell’odissea di un giornalista newyorkese e del suo amico-guida nella Cambogia, tra ritiro americano e campi della morte dei khmer rossi e lo fa in termini umanistici, a tratti schematici, ma con un realismo cronachistico e una libertà di discorso impossibili a un film usa. Joffe è uno dei giovani registi che, iniziata sotto l’egida di Puttnam una brillante carriera, hanno dato le opere forse più caratteristiche dell’attuale «rinascita»: Marek Kaniewska con Another country (id., 1983) affronta il tema dell’omosessualità nell’ambiente di una public school anni Trenta, che è l’imma­

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gine di un sistema da tradire, e Mike Newell con Dance with a stranger (Ballando con uno sconosciuto, 1985), precisa rievo­ cazione di un delitto passionale e classista nella Londra anni Cinquanta, l’uno e l’altro a un tempo critici e sedotti dal «clima» d’epoca; Malcolm Mowbray con A private function (Pranzo reale, 1984), maligna, grottesca satira di borghesi arroganti e di arrampicatori sociali attorno a un porco da mercato nero nel 1947; Bill Forsyth con Gregory's girl (La ragazza di Gregory, 1981) e Local hero (id, 1983), entrambi scozzesi di ambiente, ma soprattutto di humour e radici, e agganciati a fatti e problemi di attualità, come nel secondo caso la resistenza alla colonizzazione economica americana; l’altro scozzese Michael Radford che con Another time, anot­ her place (id., 1983) dà un finissimo breve incontro tra una contadina scozzese e uno dei prigionieri di guerra italiani, cioè rincontro di due culture e di due diverse forme di repres­ sione sociale, e si salva con 1984 (id, 1984) in cui la Londra dell’Oceania orwelliana, dove si è instaurato il plumbeo re­ gime totalitario dell’Ingsoc (socialismo inglese), è rappresen­ tata con la tetra iconografia di una città britannica degli anni Quaranta, sopravvissuta ai bombardamenti. Sono tutti film di giovani talenti ma pure film di produtto­ re (sia o no Puttnam), stilisticamente raffinati ma con una loro solidità industriale ed estranei a grandi slanci d’autore, a prepotenti avventure linguistiche. E sono film di sceneggiatori e di attori: ben scritti, costruiti, recitati. Eccetto che nel caso dei primi originali, spontanei film di Bill Forsyth, hanno alla base il lavoro di romanzieri e uomini di teatro come Alan Bennett (Pranzo reale), Julian Mitchell (Another country), Ian Me Ewan (L'ambizione di James Penfield), David Hare ( Wet­ herby) e le più anziane Shelagh Delaney (Ballando con uno sconosciuto) e Jessie Kesson (Another time, another place), anche se l’origine letteraria si sente meno che nelle commedie Ealing del dopoguerra e nei film del free cinema', e attingono a una grande riserva di attori bravi, da Ian Holm a Maggie Smith, alle inedite Margaret Richardson e Phyllis Logan, oltre al nuovo divo Rupert Everett, bello e dannato e attore teatrale di punta, però non ancora gravato della sacralità dei vecchi Laurence Olivier o John Gielgud. In queste forme, mediano un’equilibrata modernità e irriverenza di sguardo, portata sul proprio passato più o meno prossimo ma in 213

un’ottica presente che vi analizza radici, comportamenti, classismi di oggi. Ai margini, c’era però stato, a smuovere le acque con ipo­ tesi più sperimentali nei modi di produzione e nei linguaggi, un cinema indipendente, promosso a partire dagli anni Set­ tanta dal British film institute attraverso la propria Produc­ tion division. Senza trascurare i film d’avanguardia tra cui spicca Riddles of the Sphynx (Enigmi della Sfinge, 1977) di Peter Wollen e Laura Mulvey, comincia ad allargare la sua attività con fiction a basso costo in grado di entrare nel circui­ to commerciale senza rinunciare ai caratteri di impegno, di qualità e di ricerca linguistica connaturati al marchio. Tra gli otto film lunghi prodotti dal 1970 al 1976 spiccano Winstanley (id, 1975) e due mediometraggi di Bill Douglas, My childhood (La mia infanzia, 1972) e My ain folk (La mia gente, 1973). Il primo è firmato da due cineasti liberal, Kevin Bronlow e Andrew Mollo che insieme avevano fatto It hap­ pened here (Accadde qui, 1964), curioso film di fantapolitica retrospettiva dove, in cadenze documentaristiche e con im­ pietosa analisi politica, s’immagina quale poteva essere la situazione nell’Inghilterra degli anni Quaranta se i nazisti fossero riusciti a occupare l’isola. Film in bianco e nero, figurativamente ispirato alla lezione d$l cinema muto ameri­ cano e soprattutto sovietico, Winstanley rivisita in modi ori­ ginali il genere storico, ricostruendo un episodio poco noto del ’600, la storia e la sconfitta del movimento dei Diggers (zappatori) che tentarono nel Surrey l’esperimento di una comune agricola, retta da principi di comuniSmo evangelico e di radicalismo anarchico. Con My way home (Il mio ritorno a casa, 1977), i due film di Bill Douglas, scozzese anche lui, compongono una trilogia che, in chiave autobiografica, per­ corre l’infanzia e l’adolescenza di Jamie che cresce in un villaggio minerario a sud di Edimburgo. Sullo sfondo di un ambiente desolato, descritto con una triste lucidità che non fa concessioni né alla crudezza compiaciuta né alla nostalgia, la storia di Jamie si sviluppa di film in film in dialettico equili­ brio tra privato e pubblico, tra soggettività sentimentale del personaggio e acuta esplorazione delle strutture familiari e sociali in cui vive. Negli anni successivi l’attività produttiva del bfi s’intensifi­ ca. Dal 1977 al 1983 sono venti i lungometraggi che portano

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il suo marchio, mentre continua l’istituzionale finanziamento di film d’animazione, sperimentali e documentari. Spicca nel gruppo Radio on (Radio accesa, 1979) di Christopher Petit, coprodotto dalla Road Movies di Wim Wenders, film molto teorico, ai limiti dell’esercizio di stile, nel suo calcolato rifiuto di ogni emozione e nella ricerca di una spoliazione antinarra­ tiva, wendersiano nei temi (la strada, il vagabondaggio, il senso di disorientamento e disagio) e nei modi (musica rock, gusto del grigio, lunghi silenzi). I film successivi di Petit — An unsuitable job for a woman (Un lavoro inadatto a una donna, 1981) e Flight to Berlin (Volo a Berlino, 1983), entrambi thril­ ler negati — confermano la sua coerenza nella pratica del metacinema, cioè di un cinema che ha come vero argomento se stesso, ma mostrano anche che la sua è una strada intellet­ tualistica senza sbocchi. Il caso più notevole è però quello di The draughtsman’s contract (I misteri dei giardini di Compton House. 1982), con cui fa il suo ingresso nel lungometraggio narrativo Peter Greenaway (Newport 1942), pittore e illustratore di libri che negli anni Settanta si era messo in luce come uno degli espo­ nenti più originali del cinema strutturalista d’avanguardia. A mezzo tra detection e commedia grottesca dell’assurdo, so­ stenuta da una calcolatissima congruenza delle sue compo­ nenti visive, musicali, letterarie, teoriche, è un film sull’arte e sul sesso, rappresentati entrambi come lavoro e subordinati agli interessi economici: l’arte aiuta a decifrare la realtà, ma non possiede alcun potere reale. Pure con A zed & two noughts (Lo zoo di Venere, 1985), discussa, enigmatica ma visivamente e letterariamente scintillante non-storia di morte e decomposizione, Greenaway si conferma uno dei cineasti inglesi più dotati, freddo, crudele, cerebrale. Angosce, graf­ fiami sarcasmi, geometrie, codici nascosti, citazioni, associa­ zioni di idee di ordine culturale percorrono anche The belly of an architect (Il ventre di un architetto, 1987), il suo film forse più semplice ma anche viscerale in cui l’architettura è il vero motore dell’azione e riscatta con il suo rigore spaziale una certa greve artificiosità della vicenda, un itinerario romano di fallimenti e di morte di un architetto americano. L’ultima leva indipendente può contare su diversi nomi di un certo rilievo: Terence Davies con The Terence Davies tri­ logy (La trilogia di T.D., 1976-83), spietato apologo sull’e­ 215

marginazione di un omosessuale cattolico; Edward Bennett con Ascendancy (Ascendente, 1982), azzardoso ed edulcorato miscuglio di dolore privato della figlia di un industriale e di repressione militare nell’Irlanda del 1920; Vitaliano Franco Rosso con il musicale Babylon (Babilonia, 1982), sui giamai­ cani a Londra; e soprattutto Derek Jarman, raffinato e biz­ zarro, incline al gusto gay e camp, pittore e scenografo (I diavoli di Russell), che è passato da un compiaciuto Sebastiane (Sebastiano, 1976), recitato in latino, a un punk Jubilee (Giubileo, 1978), dallo shakespeariano The tempest (La tem­ pesta, 1979) a un irritante, affascinante Caravaggio (1986) che, tutto ricostruito in studio, oscilla tra biografia tradotta in pittura e facili provocazioni, tra nauseanti estetismi e illu­ minazioni sorprendenti. A complicare il panorama c’è stato negli ultimi anni l’in­ tervento, spesso intrecciato con queste due forme produttive, di industrie parallele come quelle televisiva e discografica. Anzi, i soli film interamente inglesi di questi anni sono stati quelli di Channel Four. Di qui sono emersi numerosi giovani talenti, di qui sono venute, a volte appena condizionate nelle forme dalla loro destinazione e dal basso costo, opere rigoro­ se come il già citato Another time, another place. Come We­ therby (Il mistero di Wetherby, 1984), teso thriller con cui ha esordito nella regia il più importante commediografo postsessantottesco, David Hare, e che introduce in un quieto mondo borghese e provinciale un pinteriano senso di minac­ cia e di colpa. Come Moonlighting (id., 1982), perfetto, claustrofobico racconto di un mese di lavoro nero a Londra da parte di quattro operai polacchi capeggiati da un intensissi­ mo Jeremy Irons, un film quasi a suspense nel suo rigore lineare e necessario e nello stesso tempo percorso da un umo­ rismo caustico (specie sulla figura del capo, ma pure sulla società dei consumi) e allusivo (in patria è in atto il colpo di stato militare del 12 dicembre 1981, ma gli operai ne sono tenuti all’oscuro) sino ad assumere risonanze di inquietante metafora di disperazione e solitudine: è senza dubbio il film più bello e maledetto che abbia fatto in Inghilterra l’esule Jerzy Skolimowski, che farà seguire l’elegante e nevrastenico ma irrisolto Success is the best revenge (Il successo è la mi­ glior vendetta, 1984), sulle ossessioni di un regista polacco esule, i suoi rapporti con i figli (interpretati dai veri figli di 216

Skolimowski), le possibili forme di solidarietà con la propria patria, compreso il ritorno. E poi ci sono i film di Richard Eyre, teatrante di vaglia e preciso narratore cinematografico che, dopo l’indipendente The ploughman's lunch (L’ambizione di James Penfield. 1983) che era un bel ritratto di intellettuale arrivista nella cinica Inghilterra thatcheriana, ha dato con Laughter house (E venne... il giorno delle oche, 1984) e Insu­ rance man (L’assicuratore, 1986) due diversi viaggi: l’uno ec­ centrico, epico, di trasmigrazione a piedi dal Norfolk ai mer­ cati di Londra con 500 oche, attraverso i più veri paesaggi naturali e sociali inglesi; l’altro kafkiano, di un operaio inva­ lido da lavoro nella burocrazia della Praga del 1945, di una quotidiana allucinazione. In questa inedita zona di cinema finanziato dalla televisio­ ne ha trovato la sua occasione un buon numero di giovani registi: Colin Gregg che, in coppia con il commediografo Hugh Stoddart, dopo il letterario The trespasser (Il trasgres­ sore, 1980), da D.H. Lawrence, ha dato con Remembrance (Memoria, 1982) il primo film di Channel Four; Karl Francis con il thriller sociale sui media Giro City (id., 1982); Barney Platt-Mills che, dopo il lontano Bronco Bullfrog (1970), secca, sciolta descrizione di giovani proletari di Stafford, ha tratto da leggende popolari scozzesi del medioevo il dedrammatiz­ zato Hero (Eroe, 1982), parlato in gaelico; l’irlandese Neil Jordan con il thriller metafisico e crudele Angel (Angelo, 1983), itinerario di vendetta di un jazzista in un allucinato Ulster rurale, per poi mettere il suo talento visivo al servizio del fantastico adulto di The company of the wolves (In compa­ gnia dei lupi, 1984), scritto da Angela Carter, e poi di quella traversata del labirinto della prostituzione in un’inedita Lon­ dra a forti contrasti che è il suo notevole, energico, iperreali­ sta ultimo film Mona Lisa (id., 1986). Di qui continuano a venire cose fresche e controcorrente come Letter to Brezhnev (Lettera a Breznev, 1985) di Chris Bernard e il citato My beautiful laundrette (id., 1985) di Frears, delicate storie d’a­ more o d’affari con «diversi», con marinai sovietici od omo­ sessuali pakistani, o come The Assam garden (Il giardino in­ diano, 1984) di Mary Mac Murray, finissimo ritratto di una vedova, resa con grande sensibilità da Deborah Kerr, e del suo breve rapporto con un’immigrata indiana. C’è, dietro questa politica, la concezione di un rapporto 217

integrato e non conflittuale tra cinema e televisione, c’è l’in­ tuizione dell’esistenza di un unico, seppur differenziato, si­ stema dei media, come confermano da parte loro le etichette Emi, Virgin con 1984 di Radford e la favola elettronica Elec­ tric dreams (id., 1984) di Steve Barron, e Palace con Absolute beginners (id, 1986), il forse troppo mimetico musical sugli anni Cinquanta di Julien Temple, come Barron uno dei ma­ ghi di videoclip, ma già autore di un dissacrante The great rock'n'roll swindle (La grande truffa del rock'n roll, 1979), con i Sex Pistols. Era uno dei migliori film sulla scena musicale del momento, assieme a Quadrophenia (id, 1979) di Frane Roddam, dall’opera rock sui mods con The Who, e Rude boy (id, 1980) di Jack Hazan, con i Clash, accomunati dalla commistione tra fiction e documento, tra concerto e realtà, specie quella dell’industria discografica e delle sottoculture giovanili. Dopo quei film poveri la musica ha assunto un peso crescente che, ben al di là delle colonne sonore, tende a farsi presenza diffusa e vincente, imponendo i propri ambien­ ti, e spesso sensibilità, ritmi, linguaggi, con rock-star — Sting e David Bowie — come attori. Poi c’è l’ex-Beatle George Harrison come produttore di successo, che iniziò con alcuni film dei Monty Python, un gruppo comico di matrice televi­ siva che si affida a una certa vena surreale e allo snobismo dell’offesa, del cattivo gusto, della trasgressione a ogni costo e in fondo manierata. Uno di loro, il gallese Terry Jones, li ha diretti in una dissacrante vita di Cristo, Monty Python's life of Brian (Vita di Brian, 1979), e in un beffardo circo di sketch sul senso della vita e della storia, del mondo e dell’aldilà, Monty Python's meaning of life (Monty Python, il senso della vita, 1983). Un altro, l’americano Terry Gillian, ha ripercorso a suo modo la ricerca del Graal con Monty Python and the Holy Grail (Monty Python, 1974), per poi mostrare una sua autonoma personalità con l’inventiva pur se squilibrata fan­ tasy di Time bandits (I banditi del tempo, 1981) e soprattutto con Brazil (id, 1985), ridondante di fantasie e divagazioni attorno al tema di un sistema autoritario-burocratico. Insomma, il numero di registi giovani sui quali il cinema inglese può oggi contare è grande, pur se all’interno di una situazio­ ne strutturale originale e precaria, ed è legittimo aspettarsi da alcuni di loro un reale rinnovamento di una «scuola» ancora incerta sulle sue possibili strade. 218

IRLANDA

Dominion dal 1922, indipendente dal *49 dopo una secolare lotta contro gli inglesi che ancora occupano la parte nord dell’isola (Ulster), l’Eire è stata sempre nel cinema una colo­ nia inglese, pur possedendo sin dal 1910 studi di alto livello. Quelli di Ardmore, creati nel ’58, hanno visto tra i loro diri­ genti John Huston, da tempo stabilitosi qui, e sono stati diretti da John Boorman, prima di passare recentemente allo stato. In tempi, in esperienze diverse hanno lavorato nel pae­ se Flaherty (L'uomo di Aran) e Altman (Images), Blake Ed­ wards, Coppola, Kubrick. Ma non ci sono state sino al ’70 fictions autoctone, eccezion fatta per il pionieristico The dawn (L’alba, 1935), dovuto a un gruppo di dilettanti diretti da Tom Cooper. In compenso, vi hanno agito documentaristi di valore, da George Morrison (l’ormai mitico Mise Eire, 1958), Liam O’Leary, John Sheridan, George Fleischmann ai più giovani Patrick Carey (Oisin, 1970), Colin Hill (Duhallow home, 1973, mediometraggio altmaniano narrato da Susan­ nah York), Wolf Mankowitz, all’attivissimo Louis Marcus. Di più ampio respiro sono i lungometraggi An toileanach a dfhill (Il ritorno dell’isolano, 1971) di Jim Mulkerns che ri­ torna ad Aran, e Oilean eile (Un’altra isola, 1984), racconti orali fissati da Muiris Mac Conghail. Un aggressivo esempio di cinema-verità è stato Rocky road to Dublin (Strada dura per Dublino, 1968) di Peter Lennon: boicottato in patria in quanto deprimente, non concede nulla ai miti nazionalisti e cattolici dell’isola di smeraldo, visti anzi con ironia crudele e lucida. Nonostante aiuti statali saltuari e ridotti, si è a poco a poco formato un buon numero di cineasti indipendenti: Kie­ ran Hickey, Bob Quinn (Poitin, 1978, su un moonshine inter­ pretato da Cyril Cusak), David Show-Smith, Cathal Black (Pigs, Maiali, 1985), e soprattutto Joe Comerford con Down the corner (Dietro l’angolo, 1976) e Traveller (Viaggiatore, 1982), descrizioni semidocùmentarie di ragazzi di periferia dublinesi e di operai dell’Ulster. Il secondo, scritto da Neil Jordan, racconta con piccoli e assai giusti tocchi le vicende di una giovane coppia coinvolta suo malgrado in un traffico d’armi dell’iRA. Ancora il clima tragico e qua e là disilluso del mondo operaio e repubblicano di Belfast è al centro del dia­ lettico Maeve (id., 1982) di Pat Murphy, che ha poi affrontato

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in chiave popolare e femminile Anne Devlin (id., 1984). Se sono di produzione inglese due dei film più importanti, il citato Angel dì Jordan, e Ca/(1984) di Pat O’Connor, raccon­ to appassionato e un po’ semplicista del rapporto tra un giovane terrorista e la vedova di un poliziotto che è valso a Helen Mirren il premio come miglior attrice al festival di Cannes, una vera sorpresa è stato The outcasts (I reietti, 1984) di Robert Wynne-Simmons che osa arrischiare con inevitabili squilibri ma pure con grande forza immaginativa il quadro di un’Irlanda rurale d’inizio ’800 in cui fantasia e realtà coesi­ stono e la magia appartiene alla vita quotidiana. Sono i primi film irlandesi a tentare strade non evasive ma più complesse, a uscire dal consueto registro di racconto a forte base docu­ mentaria.

LA SPAGNA SI SVEGLIA

Nel maggio 1955 il comitato di redazione della rivista «Objectivo», fondata due anni prima a Madrid, convoca, insieme col cineclub universitario locale, le Conversaciones nacionales di Salamanca alle quali partecipano cineasti e intellettuali di diverso segno politico: comunisti clandestini e falangisti militanti, socialisti e cattolici liberali. È l’occasione per fare il punto sulla situazione del cinema spagnolo, un pubblico esame di coscienza. L’esito del convegno può essere riassunto dalle polemiche dichiarazioni del regista Juan Antonio Bardem secondo il quale il cinema spagnolo era «politicamente inefficace, socialmente falso, intellettualmente infimo, esteti­ camente nullo, industrialmente rachitico». Le Conversacio­ nes di Salamanca non hanno alcuna influenza (almeno visibi­ le) sull’industria, ma servono ad agglutinare un gruppo di scrittori, registi e critici intorno alla parola d’ordine del reali­ smo, di un cinema più impegnato nel rispecchiamento della realtà sociale. In quello stesso 1955 Bardem (Madrid 1922), grazie a una certa sopravvalutazione da parte della critica straniera, si afferma al festival di Cannes con il moralistico e schematico Muerte de un ciclista (Gli egoisti), e rinnova con più merito quel successo con Calle Mayor (id., 1956), amara commedia 220

di ammirevole discrezione. A partire da La venganza (Ho giurato di ucciderti, 1957), che ha rimpianto di una superpro­ duzione intemazionale, l’itinerario di Bardem, sceneggiatore di film pesantemente oratori, entra in un irreversibile declino dal quale si può salvare in parte solo A los cinco de la tarde (Alle cinque della sera, 1960), un dramma sul mondo della corrida ispirato a un copione di Alfonso Sastre. Più apprez­ zabile per coerenza tematica, brio narrativo e lucida intelli­ genza è Luis Garcia Berlanga (Valencia 1921) che, dopo aver esordito in coppia con Bardem in una ironica commedia di impianto neorealistico, Esa pareja feliz (Una coppia felice, 1951), coglie un successo internazionale con Bienvenido Mr. Marshall! (Benvenuto, Mr. Marshall!, 1952), pungente com­ media satirica sugli aiuti postbellici nordamericani. Con un certo schematismo critico si è diviso l’itinerario di Berlanga in due fasi. La prima, che arriva sino a Placido (id., 1961), all’insegna di un umorismo «umanista», populista e ottimista sotto l’influenza del neorealismo italiano; una se­ conda in cui il suo umorismo si tinge di nero, si fa più causti­ co e critico, segnato dallo stile e dai temi di Rafael Azcona, suo sceneggiatore abituale. Con El verdugo (La ballata del boia, 1963), protagonista Nino Manfredi, che in Spagna su­ scitò scandalo e scalpore come pamphlet contro la pena di morte e, indirettamente, contro il regime franchista, e con Vivan los novios (Viva gli sposi, 1971), Berlanga coglie due risultati notevoli come analisi impietosa di una alienazione morale e politica, contrassegnata da una ribalda amarezza e da un’indignazione coperta ma efficace. Come mostrano an­ che i suoi film più recenti — il corrosivo e disperato Grandeur nature (Life size, 1973), realizzato in Francia, e La escopeta nacional (Il fucile nazionale, 1977), seguito da Patrimonio nacional (Patrimonio nazionale, 1980) e Nacional ni (id., 1982) — Berlanga è un aristocratico anarchico, un pessimista impenitente («la solitudine è l’atto più libero che l’uomo pos­ sa compiere»), un misantropo sorridente ed erotomane che si esercita nel tiro al bersaglio contro convenzioni, tabù, virtù pubbliche e vizi privati. Come ha fatto con Bunuel, il primo Ferreri e Billy Wilder (con cui ha più di un’affinità), una parte della critica l’ha accusato di «scrivere male», di trascu­ rare l’aspetto formale del suo lavoro registico, senza accor­ gersi che c’è una evoluzione nel suo lavoro verso un linguag-

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gio sempre più spoglio, incisivo, denso nella sua apparente semplicità. Il contributo di Azcona conta molto anche in due film spagnoli di Marco Ferreri: Elpisito (L’appartamentino, 1958) sulla crisi degli alloggi, tema affrontato anche da altri film ispanici del tempo, ed El cochecito (id., 1960). Quegli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta vedono l’esordio nel ’59 di Carlos Saura con Los golfos e soprattutto il caso Viridiana, premiato con la Palma d’oro a Cannes ’61. Bunuel per l’oc­ casione era tornato in patria per la prima volta dopo il 1939, accettando una proposta dell’Uninci, società che aveva fi­ nanziato alcuni dei migliori film ispanici degli anni Cinquan­ ta. Soprattutto dopo un violento articolo dell’« Osservatore romano», quotidiano del Vaticano, il successo di Viridiana suscita uno scandalo che, tra l’altro, provoca la morte di crepacuore di Gabriel Arias Salgado, ministro dell’informa­ zione e Turismo madrileno. Proibito in Spagna, il film gira per il mondo sotto bandiera messicana. Il vero giro di boa del cinema spagnolo avviene nel 1962 quando, dopo un radicale mutamento di governo in senso tecnocratico e l’accesso al potere dell’Opus Dei, il portafoglio del ministero dellTnformazione e Turismo è assegnato a Fra­ ga Libarne, uomo nuovo del regime, che nomina alla dire­ zione generale della cinematografia José Maria Garcia Escu­ dero, cattolico liberale che aveva partecipato alle Conversaciones di Salamanca. Garcia Escudero vara nel 1963 una legge sulla censura che la rende meno arbitraria se non più liberale, nel 1964 un apparato di sostegno per i film nazionali «di interesse speciale» con sovvenzioni che possono arrivare sino al 50 per cento del costo e nel 1967 provvedimenti atti allo sviluppo di una rete di «cinemas d’arte y ensayo». Gli anni della sua gestione dal 1962 al 1967 sono ricchi di fermen­ ti e di novità. È il periodo in cui si cominciano a girare, soprattutto nella provincia di Almeria, decine e decine di «spaghetti-western» in coproduzione con Italia, Francia e Germania, preziosi almeno per la formazione di quadri tec­ nici. Sono gli anni della fulminea ascesa e dell’altrettanto rapida caduta dell’«impero Bronston», del produttore rome­ no-hollywoodiano Samuel Bronston che in Spagna realizza colossi come II re dei re, 55 giorni a Pechino, El Cid, La caduta del!impero romano, Il circo e la sua grande avventura e che, in

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cambio dei favori ricevuti dal regime, produce con la regia di Andrew Marton El valle de lapaz (La valle della pace, 1961), documentario di propaganda sulla faraonica Valle dei caduti della guerra civile. Sono gli anni in cui, mentre comincia il calo delle frequen­ ze (dai 450 milioni di presenze agli inizi degli anni Sessanta si passa ai 377 milioni nel 1968), aumenta la produzione di lungometraggi (91 nel 1961, 160 nel 1966 anche se i film spagnoli al 100 per cento sono rispettivamente 72 e 49), esor­ discono una cinquantina di nuovi registi e si diffonde la no­ zione di nuevo cine espanol. Che cosa hanno in comune i suoi esponenti? Nati negli anni Trenta, si sono diplomati alla Escuela oficial de cine, fondata nel 1947 col nome di Istituto de investigaciones y experencias cinematogràficas, hanno vi­ sto più o meno gli stessi film e letto gli stessi libri. Il loro stile oscilla tra la lezione del neorealismo italiano e gli influssi della nouvelle vague francese, con una tematica ispirata a un realismo che si vuole «critico» più che sociale, ovviamente soggetto ai vincoli di una censura occhiuta, alla «tolleranza repressiva» della Falange, ma a volte capace di penetrare attraverso le maglie di una politica cautamente più liberale e occidentale. Come dicono in inglese i cartelloni turistici del­ l’epoca, «la Spagna è diversa, ma non troppo». La critica indica in Los golfos (1959) di Saura il film che preannuncia la nueva ola, ma gli trova anche i precursori in Esa pareja feliz di Bardem-Berlanga e in Surcos (Solchi, 1951) di José Antonio Nieves. Film interessanti del nuovo corso sono Quando estalló la paz (Quando scoppiò la pace, 1962) che la censura mette sotto chiave e che esce con fatica nel 1965 col titolo Los que no fuimos a la guerra (Noi che non abbiamo fatto la guerra): ne è autore Julio Diamante che si distingue anche con Tiempo de amor (Tempo d’amore, 1964), arguta operetta in tre episodi; Noche de verano (Notte d’esta­ te, 1962) di Jorge Grau; Los farsantes (I commedianti, 1963) e Young Sanchez (id., 1964) di Mario Camus; l’umoristico Del rosa alamarillo (Dal rosa al giallo, 1963) di Manuel Summers che poi cambia registro con Eljuego de la oca (Il gioco dell’o­ ca, 1965) e il grottesco Juguetes rotos (Giocattoli rotti, 1967); Los felices '60 (I felici ’60, 1964) di Jaime Camino; La bu­ sca (La ricerca, 1966) di Angelino Fons, da un romanzo del grande Pio Baroja, in cui, al fianco di Emma Penella, 223

recita Jacques Perrin, premiato alla mostra di Venezia. All’elenco possiamo aggiungere i primi due film di Franci­ sco Regueiro, El buen amor (Il buon amore, 1963) di ambien­ te studentesco e Amador (Amatore, 1965), grottesco ritratto di un Casanova di provincia, pluriassassino quasi per banale distrazione, non lontano dai toni di Berlanga; De cuerpopre­ sente (Corpo presente, 1965) di Antonio Eceiza, film di in­ fluenza godardiana nella sua ricerca stilistica, su sceneggiatu­ ra di Gonzalo Suàrez, un estroso scrittore barcellonese. Su toni grigi o allusivi si muovono le due opere forse migliori del gruppo: La tia Tuia (La zia Tuia, 1964) di Miguel Picazo, da un romanzo di Miguel de Unamuno, penetrante ritratto di una donna frustrata, vittima di una repressiva educazione sentimentale e sessuale, e Nueve cartas a Berta (Nove lettere a Berta, 1965) di Basilio M. Patino, uno degli animatori delle Conversaciones di Salamanca, che in nove capitoli tocca aspetti fondamentali della vita di provincia e affronta per la prima volta il tema del conflitto tra le «due Spagne». La Scuola di Barcellona Lo sforzo di essere europei — e «parigini» specialmente — ha un po’ castrato la sola corrente di avanguardia del cinema spagnolo, nota come la Escuela de Barcelona, che viene alla ribalta alla metà degli anni Sessanta e ha vita breve. In una dimensione meno razionalmente controllata e filtrata di quel­ la assunta, non senza ambiguità, da Saura, il surrealismo si combina nei giovani autori di Barcellona con letture di Bor­ ges e Cortàzar e con echi di ispanica visionarietà, difficili da trasmettere allo spettatore anche colto. Ma Fata Morgana (id., 1966) di Vicente Aranda, con la collaborazione in sce­ neggiatura di Gonzalo Suàrez, e Nocturno 29 (Notturno 29, 1968) di Pedro Portabella sanno dare, pur nel guazzabuglio isterico dei loro riferimenti letterari e cinematografici e nel labirintico percorso delle vicende, allusioni incandescenti e straziate aperture alla realtà spagnola, con un timbro specifi­ camente catalano. Scrittore di vivido ingegno fantastico e di esoterica ispira­ zione, l’asturiano Gonzalo Suàrez (n. 1934), esordisce nella regia col cortometraggio Ditirambo (id., 1967) e continua con

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altri film più lunghi di cui è anche produttore e interprete, trasferendo in immagini le sue ossessioni di narratore speri­ mentale. AH’interno di un’opera di suggestiva originalità per il groviglio di riferimenti che la pervade, ora efficace ora irritante nell’uso di simboli psicanalitici e magici, i titoli più notevoli appaiono El extrano caso del doctor Fausto (Lo stra­ no caso del dottor Fausto, 1968), Aoom (id., 1969), Morbo (id., 1971) e Parranda (id., 1977). Dopo aver costituito la società produttrice Filmscontacto, Joaquin Jordà e Jacinto Esteva realizzano Dante no es uni­ camente severo (Dante non è solamente severo, 1966), il film­ manifesto del gruppo in cui l’intellettualismo ermetico è tem­ perato da una sorta di gioco ironico. Nel 1970 Esteva da solo riesce a terminare dopo difficoltà di vario genere Lejos de los arboles (Lontano dagli alberi, 1965-70), curioso e insolito documentario su fatti e costumi di Spagna che la censura lascia passare soltanto dopo due anni. Le metafore di Saura

Le molteplici influenze attraverso cui Carlos Saura (Huesca 1932), aragonese come Bunuel, ha mediato la sua ricerca ostinata e coerente di uno stile personale sono indicative delle difficoltà di far cinema nella Spagna franchista. Il suo è un cinema di ossessioni e di allegorie in forma di viaggio critico attraverso la borghesia spagnola alla quale appartiene: un viaggio che, a livello simbolico, potrebbe essere letto come un continuo tentativo di «uccisione del padre» nella figura di Francisco Franco, padre della Spagna. Dopo un esordio in chiave neorealistica {Los golfos, I teppisti, 1959) alla quale tornerà senza esiti apprezzabili con Deprisa, deprisa (In fret­ ta, in fretta, 1981), e un film spettacolare di ambiente otto­ centesco con intenti nazional-popolari come Llanto por un bandido {I cavalieri della vendetta, 1963), coglie il suo risultato più significativo con La caza (La caccia, 1965) in cui il tema della violenza, frutto avvelenato di una pratica della rimo­ zione e dell’occultamento che informa i rapporti di un grup­ po di borghesi impegnati in una partita di caccia, trova un’e­ spressione di forza allucinata e di livida carica metaforica su un impianto apparentemente naturalistico. 225

Da questo film in poi Saura fa un cinema di programmati­ ca densità metaforica e allegorica che può diventare irritante, pur nella sua efficacia dimostrativa, in Anay los lobos (Anna e i lupi, 1972), ma gli permette di raggiungere risultati satirici di acuminata allegria in El jardin de las delicias (Il giardino delle delizie, 1970) dove il caso di un industriale che soprav­ vive a un incidente, paralizzato nella mente e nel corpo, di­ venta, in cadenze ilari e feroci, una parabola sul fallimento del padre, del Capo, della Guida. La Famiglia, la Religione, l’Esercito — questa triade che per quaranta mediocri anni ha retto il regime franchista — non sono i soli bersagli contro i quali Saura dirige le sue frecce sull’esempio di Bunuel. C’è il tema del passato e della regressione che trova i suoi esiti più alti in La prima Angelica (La cugina Angelica, 1973), scritto con Azcona, in cui, dopo l’approccio allegorico di La caza, c’è un ritorno esplicito alla tematica della guerra civile e delle «due Spagne», e in Cria cuervos (id., 1975), radiografia della famiglia vista come mi­ crocosmo sociale, ma anche analisi del complesso rapporto tra infanzia e vita adulta. Il tema ritorna in Elisa, vida mia (Elisa, vita mia, 1977), la prima opera di Saura dopo la morte di Franco e l’ultimo degli otto film che hanno per protagoni­ sta Geraldine Chaplin, sua moglie e collaboratrice. C’è la violenza che, oltre a La caza, impregna Los ojos vendados (Gli occhi bendati, 1978) dove, con la solita ottica metaforica, si affronta il tema della tortura della polizia politica, e c’è il sesso, rappresentato come fonte ossessiva di conflitti e fru­ strazioni in Peppermint frappé (id., 1967), dedicato a Bunuel, parabola sulla doppia immagine della donna spagnola (o serva o femmina fatale, ma anche figura di sogno) e in La madriguera (La tana, 1969). Saura racconta una Spagna — una borghesia spagnola — che ha per futuro un immobile passato, imbalsamato dalla chiesa e tenuto in piedi da una dittatura clericale. Anche per ciò i suoi film sono mappe di un inferno a porte chiuse, sempre diverso e sempre eguale, un luogo dal quale non si può uscire, dominato dagli oggetti sino al feticismo. Saura è, nel miglior senso del termine, un moralista. Dopo Marna cumpie 100 anos (Mamà compie cent'anni, 1979), il suo film più divertente insieme con El jardin de las delicias, tragicom­ media in cui ripropone l’ambiente e molti personaggi di Ana

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y los lobos, Saura sembra entrato in una fase di crisi creativa, riparando nel levigato professionismo registico di Bodas de sangre (Nozze di sangue, 1982), di Carmen (Carmen story, 1983), dello stanco El amor brujo (L’amore stregone, 1986), tutti e tre con Antonio Gades e il suo balletto, e dello sciapo Los zancos (I trampoli, 1984). Dopo Franco

Al lavoro di Saura è strettamente legato il nome del pro­ duttore Elias Querejeta al quale si deve il meglio del nuevo cine espanol. Se a questo cinema — e ai critici delle riviste che, come «Nuestro cine», lo sostennero — si rinfacciò, col senso ingeneroso e schematico del poi, di aver fatto il gioco del governo e del regime, agli autori della Escuela de Barce­ lona, che avevano tentato di crearsi uno spazio ai margini dei controlli della censura politica ed economica dello stato, fu rimproverato fintellettualismo ermetico ed elitario che im­ pedì ai loro film di trovare un pubblico, sia pure ristretto. («Poiché non possiamo fare Victor Hugo, facciamo Mallar­ mé...», disse nel *67 a Pesaro Joaquin Jordà, teorico del gruppo.) Col cambio del governo, imposto da Franco nel *69 dopo il grave scandalo economico della Matesa, il ministero dell’in­ formazione e del Turismo passa alla guida di Alfredo San­ chez Bella che, in conformità con le nuove direttive politiche, dà un giro di vite anche al cinema. La cauta apertura liberale degli anni Sessanta si chiude, la censura stringe i freni, dimi­ nuiscono le facilitazioni di credito, cala la produzione, la Escuela oficial de cine è ridotta all’inattività. Nei primi sei mesi del ’73 più di centomila spagnoli attraversano la frontie­ ra dei Pirenei per vedere nella francese Perpignan Ultimo tango a Parigi', il fenomeno dei week-end cinematografici al di là del confine per assistere alla proiezione di film proibiti è così diffuso che ispira una commediola di successo, El vierde empieza en los Pirineos (Il verde comincia nei Pirenei, 1973), diretta da Vicente Escrivà. Oltre ai film di Saura e a Vivan los novios di Berlanga, soltanto due opere meritano una menzio­ ne: El hombre oculto (L’uomo occulto, 1970) e El espiritu de la colmena (Lo spirito dell’alveare, 1973). Diretto dal giovanis­ 227

simo Alfonso Ungria (Madrid 1946) che poi fa Tirarse al monte (Salire al monte, 1971), altrettanto impegnato a livello sociopolitico ma più inconsistente, El hombre oculto è, in cadenze espressionistiche e surrealistiche, un viaggio nel ma­ lessere e nella coscienza nascosta della Spagna attraverso la storia di un uomo-topo, rimasto nascosto in casa per decenni dopo la vittoria di Franco. El espiritu de la colmena di Victor Erice Aras (San Sebastian 1940) è un magico e melanconico film d’atmosfera, affidato a immagini ascetiche e preziose, sospeso in un triste incanto, favola rarefatta e sconsolata sulla solitudine e l’isolamento, parabola sulla guerra civile rimossa, illuminata dagli occhi tristi della piccola Ana Tor­ rent che nel 1975 è la memorabile protagonista di Cria cuervos di Saura. Nel 1975, anno della morte di Francisco Franco (20 no­ vembre), escono almeno altri due film di rilievo: Las largas vacaciones del 36 (Le lunghe vacanze del 36) di Jaime Camino che all’estero ha un successo critico anche superiore ai suoi meriti di lirica rievocazione, perché è il primo che, in modo esplicito (dal punto di vista della piccola e media borghesia della Catalogna ancora repubblicana), descrive il periodo del­ la guerra civile; Pascual Duarte (id.), opera seconda di Ricar­ do Franco (n. 1949), che, tratta dal romanzo di Camilo José Cela uscito nel 1942, è un intenso e crudo referto su un contadino garrotato nel 37, un «mostro» generato dalla mi­ seria e dall’ingiustizia, da una condizione di solitudine ed esclusione. Con la scomparsa fisica del dittatore comincia la fase detta della reforma o transition', alluvione dei principali film ameri­ cani ed europei proibiti negli anni precedenti; modificazioni e miglioramenti delle leggi di sostegno all’industria; partecipa­ zione dei governi regionali autonomi al finanziamento della produzione; rapida espansione del mercato del video che contribuisce — come nel resto dell’Europa era già avvenuto, ma còn un’accelerazione più violenta, analoga a quella dell’I­ talia — al calo delle frequenze, con conseguenti contraccolpi sulla produzione che in questi ultimi dieci anni toccherà an­ che i 146 film ma per scendere a 63 nell’84. Dopo il ’75 si aprono le sale a luci rosse, s’intensifica la produzione di soft-core a basso costo. Si ricuperano i film nazionali messi al bando come Viridiana, come Canciones 228

para despues de una guerra (Canzoni per un dopoguerra, 1971), film di montaggio tra critico e sentimentale che rievoca il periodo ’39-58, gli anni della fame, del razionamento, del­ l’autarchia, della divisione Azzurra impegnata a fianco delle truppe dell’Asse, dei trattati post-bellici con gli Stati Uniti. Porta la firma di Basilio M. Patino (Salamanca 1930). L’au­ tore di Nueve cartas a Berta continua il suo lavoro di ricupero della memoria storica con Queridissimos verdugos (Carissimi boia, 1974), ritratto piano e umano di tre boia ma con punte di «normalità» allucinante, e Caudillo (id., 1976) che rico­ struisce con immagini d’archivio e non senza ambiguità la figura del Generalissimo. A esso è da accostare Raza, el espi­ rine de Franco (Razza, lo spirito di Franco, 1977) di Gonzalo Herraldo che usa frammenti di Raza (Le due strade, 1941) di José Luis Saenz de Heredia, esaltazione gentilizia della «mis­ sione» della Falange la cui sceneggiatura, sotto lo pseudoni­ mo di Jaime de Andrade, era dovuta allo stesso Franco. Con più radicalità altri due film mescolano cinegiornali d’epoca e interviste sul tema della guerra civile: sono Por qué perdimos la guerra (Perché perdemmo la guerra, 1977) di Gaiindo y Santillan, di impostazione anarchica, e La vieja memoria (La vecchia memoria, 1977) di Jaime Camino che dà la parola ai vecchi esponenti della repubblica come la comunista Dolores Ibarruri e l’anarco-sindacalista Federica Montseny. Mentre Bardem con El puente (Il ponte, 1976), commedia su un motociclista che attraversa la Spagna in nome dei nuo­ vi miti del week-end e del consumismo, aggiorna appena alle nuove mode formali il suo didascalico moralismo, torna al lavoro Berlanga con La escopeta nacional (1977), commedia corale a tratti di aguzza satira sui gerarchi del franchismo e la loro canagliesca ipocrisia. Almeno singolari sono poi Furtivos (Nascosti, 1975) di Borau, in cui disadattamenti e allusioni politiche sono tutti risolti in azione, e Mi hija Hildegart (Mia figlia Hildegart, 1977) con cui Fernando Fernàn Gomez si cimenta con una storia di tema femminista, novità assoluta per il cinema spagnolo. Questo famoso attore-regista aveva, però, già attirato l’attenzione della critica con il discontinuo ma a tratti graffiante El extrano viaje (Lo strano viaggio, 1964), descrizione di usi e costumi provinciali condita di ispanico «humour negro». La benevola giuria del festival di Berlino 1978 assegna 229

l’Orso d’oro a una coppia di film spagnoli, Las palabras de Max (Le parole di Max, 1977), esile divagazione sulla solitu­ dine dell’uomo d’oggi dovuta a Emilio Martinez Làzaro, e Las truchas (Le trote, 1977), a tratti mordace e politicamente allusiva commedia un po’ alla maniera dell’ultimo Berlanga, ma certo senza il ritmo di questi. A dirigerla era José Luis Garcia Sànchez e a scriverla Manuel Gutierrez che l’anno prima, a ruoli invertiti, erano stati gli autori del confuso Camada negra (Covata nera, 1976), storia di un gruppo gio­ vanile di fanatici violenti di estrema destra che non era priva di spunti interessanti. Di questo periodo tutto sommato fe­ condo vanno citate certe esperienze di Pilar Mirò, di Mendez Leite, di Josefina Molina, di Fernando Colomo (Tigres de papel, Tigri di carta, 1978, commedia sui maoisti), di Jaime de Arminan con i suoi saltuari umori antiborghesi, ma si mette in luce soprattutto Jaime Chàvarri (Madrid 1943). Con El desencanto (Il disincanto, 1976) dà un efficace esempio di «cinema diretto» in cui i familiari del più importante poeta franchista, Leopoldo Panerò, si prestano a una sorta di spo­ gliarello morale, dolce conversazione attorno a un fantasma edipico che mette a nudo la cruda verità delle cadute esisten­ ziali dei figli, drogati, alcolizzati, ribelli. Un altro ritratto «aperto» lo ha poi offerto con A un dios desconocido (A un dio sconosciuto, 1977), affrontando il tema dell’omosessuali­ tà maschile con finezza e discrezione attraverso il personag­ gio di un fantasista da night-club, benissimo reso dall’argen­ tino Hector Alterio, con sullo sfondo l’ombra di un lontano incontro con Garcia Lorca. Nel contesto delle lotte politiche per le autonomie regionali e il riconoscimento delle nazionalità storiche, si situa tutta una serie di film. La ciudad quemada (La città bruciata, 1976) del barcellonese Antoni Ribas è parlato in catalano e attra­ verso le peripezie di una famiglia rievoca gli avvenimenti politici e sociali della Catalogna dal 1899 alla «settimana tragica» del 1909, in chiave operaista e antiborghese. Dalla realtà basca nascono i film di Inaki Nunez, a partire da Toque de queda (Segnale di coprifuoco, 1978). Alla fine degli anni Settanta, contro le previsioni ottimisti­ che di molti, il cinema spagnolo entra in una fase di involu­ zione provocata da cause politiche (la lentezza e la difficoltà del passaggio alla democrazia dopo la lunga notte del fran­ 230

chismo), ma soprattutto dalla depressione generale del setto­ re cinematografico (le frequenze sono giunte nell’84 a 118 milioni, un quarto dei primi anni Sessanta), messo in crisi irreversibile dalle trasformazioni sociali e dalla concorrenza della televisione. Il solo nuovo regista di qualche originalità è il catalano José Juan Bigas Luna (n. 1946) che, dopo Tatuaje (Tatuaggio, 1976), si afferma con Bilbao (id., 1978) e Coniche (Barboncino, 1979) dove un microcosmo di erotismo ossessi­ vo e perverso è esplorato con uno stile di intrigante visiona­ rietà nella sua ellittica sobrietà. Su un suo soggetto José Antonio Salgot ha diretto l’impressionante e tenero Mater amatissima (id., 1980), sull’affetto infine omicida di una ma­ dre per il figlio handicappato. Vittima di sequestro per diffamazione è il film andaluso Rocio (id., 1981) di Fernando Ruiz che, mescolando fiction e documentario, descrive l’annuale pellegrinaggio al santuario della Vergine del Rocio, analizzando con vigore l’isteria po­ polare e la sua manipolazione da parte dei ceti abbienti con­ servatori. Opera prima (id., 1980) di Fernando Trueba è un brioso, spregiudicato ed esile ritratto giovanilista; ma il più consistente degli esordi di questi anni è forse Tasio (id., 1984) di Montxo Armendariz, trent’anni di vita nelle foreste di un carbonaro navarrese raccontati con rigorosa attenzione al personaggio. Mentre Chàvarri con Dedicatoria (Dedica, 1980), indagine sugli strani segreti della gente comune, e Franco con il controllato fantastico di Los restos del naufragios (I resti del naufragio, 1978) continuano un discorso per­ sonale con risultati meno apprezzabili, torna alla ribalta Vic­ tor Erice con El sur (Il sud, 1983), variazione in chiave elegia­ ca sul tema delle «due Spagne» filtrata attraverso un rappor­ to tra padre (Omero Antonutti) e figlia, analizzato con ammirevole finezza. Il resto sono ancora i giochi privati ce­ rebrali e autoironici di Gonzalo Suàrez (Epilogo, id., 1984), il faticoso ritorno di Patino ai Paraisos perdidos (Paradisi per­ duti, 1985) della Castiglia natia, le opere appena decorose di Gutierrez Aragon, la migliore delle quali è forse l’intrico familiare nella provincia franchista di Demonios en el jardin (Demoni nel giardino, 1983). Se il modesto Volver a empezar (Tornare a cominciare, 1982) di José Luis Garci è il primo film spagnolo che vince un Oscar, e l’umoristico Stico (id., 1985) di Jaime de Arminan è valso a Fernàn Gomez, profes­ 231

sore universitario che si fa schiavo moderno del borghese affarista, il premio come migliore attore al festival di Berlino, nel campo della commedia è più interessante il caso di Pedro Almodovar (n. 1950), autore di due notevoli grotteschi srego­ lati e blasfemi Laberinto de pasiones (Labirinto di passioni, 1982) e Entre tinleblas (L’indiscreto fascino del peccato, 1983), e di un più normalizzato ma inventivo Que he hecho yo para merecer esto? (Che cosa ho fatto per meritarmi questo?, 1985), liberazione di una moglie proletaria nell’omicidio e nella magia. Più abile e meditato è La ley del deseo (La legge del desiderio, 1986), intreccio esibito di telenovela e di pas­ sione omosessuale. Dopo la ventata libertaria che ha infranto tabù e ritardi sul terreno della politica e del sesso, dei valori e dei comportamenti, quello spagnolo è oggi un cinema vario nei suoi generi, ma senza un volto preciso, stenta a trovare un’efficace mediazione tra ragioni di ordine commerciale e ragioni di ordine espressivo, e ad avere un ruolo meno pru­ dente nel nuovo clima del governo socialista, che ha portato Pilar Mirò alla carica di direttrice della cinematografia spa­ gnola, poi sostituita da Mendes Leite senza che cambi la linea di forte sostegno al cinema «di qualità» e di notevoli anticipi (sino al 50 per cento) alla produzione.

APRILE IN PORTOGALLO

Nel Portogallo, paese di economia semisviluppata con un’ampia presenza di strati sociali intermedi e vasti settori contadini, il cinema è sempre stato fino agli anni Settanta un’industria sottosviluppata a tutti i livelli: 360 sale cinema­ tografiche per una popolazione di quasi nove milioni di abi­ tanti; una produzione annua di tre-quattro lungometraggi, quasi sempre mediocri; un mercato dominato dalle case nor­ damericane: 150 film all’anno più qualche decina di pellicole francesi e italiane, tutti distribuiti in edizione originale con sottotitoli, pratica che assume una connotazione reazionaria in un paese dove, tra la parte proletaria e rurale della popola­ zione, il tasso di analfabetismo (anche di ritorno) è sempre stato alto. Confrontata a quella di altre dittature di destra (Italia fa­

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scista, Germania nazista, Spagna franchista), la situazione del cinema portoghese rimase atipica durante il regime salazariano (1926-74) che lo condizionò soprattutto con l’assenza di ogni intervento diretto. E una faccia del paradossale pano­ rama culturale portoghese: onnipotente a livello di radio e televisione, un po’ meno a quello della stampa, l’ideologia ufficiale ha sempre avuto un impatto ridotto nei campi dell’e­ spressione artistica (letteratura, musica, arti figurative, teatro e persino cinema). L’unico importante intervento ammini­ strativo dello stato — la legge n. 2027, emanata nel 1948 col proposito di proteggere, aiutare e stimolare l’industria cine­ matografica nazionale — non sortì risultati tangibili se si toglie quello, a lunga scadenza, di permettere a diversi giova­ ni aspiranti cineasti di andare a studiare all’estero, specialmente all’iDHEC di Parigi. Dopo una punta di sette lungometraggi nel 1949, la produ­ zione declinò, toccando il fondo nel 1965 quando non entrò in cantiere nemmeno un film. C’era stata una fase di rigoglio nel decennio precedente quando si costituirono una quaran­ tina di circoli con 35.000 soci, ma negli anni Sessanta il mo­ vimento dei cineclub fu il bersaglio di una dura repressione politica: diversi dirigenti furono arrestati, il numero dei soci si ridusse a 15.000. Grazie all’appoggio finanziario dei cine­ club e alla creazione di una cooperativa di spettatori, nel 1961 Ernesto De Sousa, animatore culturale e caporedattore della rivista «Imagem», realizza Dom Roberto (id.); l’anno dopo, in condizioni analoghe, Arthur Ramos fa Passaros de asas cortadas (Passeri dalle ali tagliate, 1962) ma, nonostante le buone intenzioni, entrambi i film sono fallimentari a tutti gli effetti. Nel 1962 Antonio Cunha Telles, diplomato all’iDHEC, fon­ da una società di produzione, finanziando i primi film di Paulo Rocha (Verdes anos, Anni verdi, 1963, premiato a Lo­ camo), Antonio de Macedo (Domingo a tarde, Domenica pomeriggio, 1964), Fernando Lopes (Belarmino, id., 1964, ritratto di un pugile girato con i modi del cinema diretto). Si rimette al lavoro anche Manuel de Oliveira, il più prestigioso autore del cinema portoghese, con Acto da primavera e A ca$a, ma è una fioritura effimera, una falsa partenza. Dopo aver prodotto Mudar de vida (Cambiar vita, 1966), secondo film di Paulo Rocha, cronaca di cadenze neorealistiche sulla 233

trasformazione sociale di un villaggio di pescatori, la società fallisce. Nel 1969 Cunha Telles, però, riesce a fare a basso costo O cerco (Il cerchio), acuminata indagine della piccola borghesia intellettuale, presentato con successo nel 1970 alla Sémaine de la critique di Cannes. La vera partenza del cinema portoghese avviene nel 1970 quando si costituiscono il Centro Portugués del Cinema e altre cooperative di autori e tecnici che, grazie alle sovven­ zioni della fondazione Calouste Gulbenkian, realizzano l’in­ tellettualistico O recado (Il messaggio, 1971) di José Fonseca e Costa (che più tardi coglierà uno dei rari successi commer­ ciali con il farsesco Kilas, Il killer, 1981), Pedro Só (id., 1971) di Alfredo Tropa, O mal amado (Il male amato, 1972) di Fernando Matos Silva, Jaime (id., 1974) di Antonio Reis, Perdido por cem, perdido por mil (Perso a 100, perso a 1000, 1973) di Antonio Pedro de Vasconcelos e O pasado e o pre­ sente (Il passato e il presente, 1971) con cui Oliveira torna dopo trent’anni al cinema di finzione. Manuel de Oliveira

Nato nel 1908 a Oporto, Manuel Candido Pinto de Olivei­ ra è una figura quasi mitica nel deserto del cinema lusitano. Inizia con Douro, faina fluvial (Douro, lavoro fluviale, 1931), poetico documentario sotto il segno dell’avanguardia (i for­ malisti russi, il tedesco Walther Ruttmann), ma dirige il suo primo film narrativo soltanto dieci anni dopo con Aniki-Bobo (id., 1942), fresco e delizioso film sul mondo dell’infanzia, a mezza strada tra Vigo e De Sica, che anticipa certi modi del neorealismo italiano (attori non professionisti, esterni natu­ rali) ma con taglio espressionista. Dopo altri documentari corti tra cui O pintor e a cidade (Il pittore e la città, 1956) e O pào (Il pane, 1959), fa un secondo lungometraggio, Acto da primavera (Atto di primavera, 1962), di cui cura anche la fotografia a colori, filmando una rappresentazione popolare del Mistero della Passione, tratta da un testo del xvi secolo di Francisco Vaz de Guimaraes. In esso supera e trasfigura l’approccio documentaristico nella messinscena in modo che i contadini-attori (i paesani di Curalha, nella regione di Tràsos-Montes) non sono soltanto oggetti, ma soggetti del film. 234

L’opera di Oliveira che non è mai sceso a patti col regime salazariano, pur non essendo affatto un cineasta politico, si divide praticamente in due epoche e due cicli. Se la prima che comprende anche A ca$a (La caccia, 1964) è sotto il segno di una presa diretta sulla realtà, la seconda — la «tetralogia degli amori frustrati» — è costituita da film di finzione, girati in studio. Secondo Antonio Pedro de Vasconcelos, la prima fa parte di un grande progetto, non portato a termine, che Oliveira volle chiamare «il palco del popolo»: il popolo di Ribeira do Douro che lavora, fa il pane e rappresenta la Passione di Cristo ne è il protagonista. Con Acto da primave­ ra, però, Oliveira scopre che il palco è il cinema, ossia quel luogo e quel momento in cui tutti diventano attori e tutto diviene finzione. La seconda fase potrebbe intitolarsi «il pal­ co della borghesia»: è la borghesia contemporanea, descritta con ironica ferocia, di O passado e o presente (Il passato e il presente, 1971); la borghesia dei primi anni del salazarismo di Benilde ou a Virgem Mae (Benilde o la Vergine Madre, 1974); la borghesia dell*800 di Amor de perdilo (Amor di perdizio­ ne, 1978) e di Francisca (id., 1981). Sono quattro film diversi per argomento e tono. Si passa dalla commedia sofisticata ma intinta di nero, un Lubitsch con echi alla Bunuel (Il passato e il presente), al dramma romantico di un ascetismo che rimanda a Dreyer (Benilde), da un film-fiume (Amor de perdilo'. 260 minuti) in cui il tema accesamente melodrammatico, un amore folle, è raffreddato da una scrittura moderna che richiama Straub e la Duras, alla sua ideale continuazione, un’affascinante ed «eccessiva» figura femminile e due intellettuali amici-rivali (Francisca), filtrata attraverso un corpus di materiali colti e fondata sui principi della drammatizzazione e sul rifiuto di ogni identifi­ cazione tra spettatore e fiction. La costante che lega i quattro film è il desiderio intransigente di assoluto nel bene e nel male, un’ansia di irraggiungibile che accomuna i personaggi, specie quelli femminili, compresa la Wanda di II passato e il presente che s’innamora a posteriori dei mariti defunti. È un’ossessione — quella della verginità, della purezza incor­ rotta — che rimanda a una metafisica dell’amore e rivela in Oliveira il puritano ma anche l’anarchico, nella misura in cui quest’ansia di assoluto pone i suoi personaggi in aperto con­ flitto con la società, la famiglia, le istituzioni.

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Pur vivendo in un paese povero e ai margini dell’Europa, Oliveira ha saputo aprirsi in gioventù alle influenze dell’a­ vanguardia, nella maturità a quelle del cinema moderno, spesso anticipando le mode culturali. Usa lunghe inquadra­ ture, piani fìssi, una cinepresa oggettiva e distaccata rispetto all’azione e ai personaggi, musica e silenzio. Come altri ci­ neasti che sono maestri dell’immagine, Oliveira punta a un’altra forma di «sguardo» al quale la parola, rimessa in primo piano, dà una dimensione più interiore, ricca di echi profondi e insospettati. E la parola attraversa, oltre che O meu caso (Il mio caso, 1986), «moralità» teatrale di alta sofi­ sticazione visiva e di impervia lettura, quel Le soulier de satin (La scarpetta di raso, 1985) che egli ha tratto dal dramma di Claudel e che dura circa sette ore. C’è uno sfondo storico (il Portogallo tra xvi e xvn secolo, la guerra contro i mori, le esplorazioni e spedizioni che portano al trionfo di un impero coloniale), ma il testo di Claudel è rispettato nella sua libertà di composizione e soprattutto nella centralità, accanto al te­ ma così oliveiriano dell’amore impossibile, della ricerca di una suprema realizzazione, tra vicende contrastate, movi­ mentate, nell’assoluto dell’amore divino. Intanto, nel 1982, Oliveira ha diretto un lungometraggio-testamento, Memórias e confissdes (Memorie e confessioni), che per sua espressa volontà potrà venir visto soltanto dopo la sua morte.

Ultime tendenze

Nel 1971, varata una nuova legge per la protezione del cinema nazionale, viene creato I’ipc (Istituto portoghese del cinema), organismo governativo alle dipendenze del ministe­ ro della Cultura cui spetta il compito di dirigere e coordinare tutta l’attività cinematografica e che dal 1974, dopo il colpo di stato del 25 aprile, si dedica alla produzione. Al Centro portoghese del cinema s’affiancano cooperative di marcata tendenza marxista. La Cinequanon produce A confederando: o povo é que faz a historia (La confederazione: è il popolo che fa la storia, 1976) di Luis Galgao Teles, allegoria sul processo di normalizzazione politica (cioè di restaurazione) in Porto­ gallo dopo il 25 aprile 1975, e As horas de Maria (Le ore di Maria, 1976) di Antonio de Macedo sul fenomeno di Fatima

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e dell’alienazione religiosa; la Cinequipa realizza Deus, patria, autoridade (Dio, patria, autorità, 1975) di Rui Simòes, film di montaggio sul regime salazariano. Il solo film di questo pe­ riodo che riesce a imporsi all’attenzione internazionale è Tras-os-Montes (id., 1976), poetico viaggio, più che non do­ cumentario, di due ore dentro un villaggio di montagna del nord-est, vicino alle sorgenti del fiume Douro, con la regia di Antonio Reis e Margarida Martins Cordeiro. Lo stesso am­ biente, lo stesso stile entomologico-poetico, lo stesso senso morale e artigianale delle cose, dei paesaggi, degli esseri, del cinema, mostra il successivo Ana (id., 1982), più esile forse perché ancor più legato a un proprio mondo «privato» di ricordi e di cultura. Negli anni successivi il cinema portoghese trascina una vita stentata, contraddittoria, rarefatta. Col finanziamento delI’ipc, che cambia linea a ogni cambio di governo, si produco­ no cinque o sei film all’anno ma, tolti i pochi che hanno in partenza precise connotazioni commerciali, ciascun film co­ sta all’autore parecchi anni di travaglio come succede a Paulo Rocha che impiega un decennio per condurre in porto A ilha dos amores (L’isola degli amori, 1982), storia dell’itinerario — geografico ma anche intellettuale e morale — di Wenceslau de Moraes, scrittore portoghese, nato a Lisbona nel 1854 e morto a Tokushima, nel sud del Giappone, nel 1929, film di un barocchismo sontuosamente sfrenato che è, insieme, reali­ stico e simbolista. Un posto importante in questo panorama è occupato dal produttore Paulo Branco che, facendo la spola tra Parigi (dove ha gestito Action république, una sala d’essai di raffi­ nata programmazione) e Lisbona, ha contribuito alla realiz­ zazione degli ultimi Oliveira, di Oxalà (Volesse Iddio, 1980) di Antonio Pedro de Vasconcelos, distaccato racconto tra moralità privata e politica su uno scrittore antifascista negli anni a cavallo tra dittatura e democrazia, di A estrangeira (La straniera, 1982) con cui il giovanissimo Joào Mario Grilo intesse un sinuoso ma non troppo consistente film di memo­ ria, di A ilha dos amores, chiamando inoltre a girare in Porto­ gallo cineasti amici come Wim Wenders (Lo stato delle cose), Alain Tanner (Nella città bianca), Eduardo De Gregorio (Aspems), Raoul Ruiz (Le territoire), Robert Kramer (Doc's kingdom).

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A un analogo estremismo, attento ai propri moventi inte­ riori e culturali e incurante delle ragioni del mercato interno del resto troppo ridotto, sono improntati un po’ tutti i film migliori: Silvestre (id., 1982) di Joao Cesar Monteiro, raffina­ ta messa in scena di due leggende magiche e cavalleresche del *400; un risultato in parte confermato nell’atmosfera sospesa di À fior do mar (A fior d’acqua, 1986); Conversa acabada (Conversazione finita, 1981) e Um adeus portugues (Un addio portoghese, 1985) di Joao Botelho, l’uno rigorista evocazione di due grandi poeti modernisti, Fernando Pessoa e Mario de Sà-Carneiro, morto suicida a Parigi nel 1916, il secondo che accosta il bianco e nero di un episodio di guerra coloniale in Africa nel 1973 e il colore della visita di una coppia di anziani coniugi alla vedova di un loro figlio caduto in guerra, sul filo di una struggente malinconia e di uno stile fatto di silenzi e gesti minimi, un po’ alla Ozu; Gestos e fragmentos (Gesti e frammenti, 1982) di Alberto Seixas Santos, che già in Brancos costumes (Miti costumi, 1972) aveva montato materiali di repertorio sulle figure autoritarie del padre di famiglia e del dittatore e che qui dà un film-saggio sui mesi tra l’aprile ’74 e il novembre ’75, distanziati attraverso scarni giornali d’epoca e i discorsi attuali del generale Otelho de Carvalho, del saggi­ sta Eduardo Louren^o, del regista Robert Kramer; Manha submersa (Mattino nebbioso, 1980) di Lauro Antonio, la ma­ linconica descrizione del violento rifiuto da parte di un ra­ gazzo del seminario cui è spinto dall’ambiente retrivo. E non manca questa cura nei più esili raccontini di Jogo de mao (Gioco di mano, 1983) di Monique Rutler, nella cronaca di delinquenza giovanile di Dina e Django (id., 1982) dell’oriun­ da svedese Solveig Nordlund e nelle pretenziose fumisterie di Ninguem duas vezes (Nessuno due volte, 1984) di Jorge Silva Melo. Influenzati a volte dai francesi (quelli di Rocha e di Monteiro, a esempio), i film portoghesi di questa fase hanno in comune, pur nella loro diversità, un assillo di stilizzazione, una estenuata letterarietà di fondo, un’aristocratica perver­ sione estetizzante, un programmatico raggelamento della materia narrativa, portati sino alle estreme conseguenze, sino a sfiorare in qualche caso i limiti della leggibilità.

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SVEZIA: 1 RINCALZI DI BERGMAN

Il rilancio del cinema svedese fu favorito nel 1963 da un’i­ niziativa di intervento dello stato che fece perno sulla costitu­ zione dello Svenska filminstitutet, affidato all’energica e competente direzione di Harry Schein, marito dell’attrice In­ grid Thulin, cui verso la metà degli anni Settanta succedette il regista Jòrn Donner. Il 1963 fu l’anno in cui II silenzio di Bergman ottenne un madornale successo di scandalo, susci­ tando polemiche insolitamente accese in un paese tra i più tolleranti in materia di erotismo, ma è pure la stagione in cui la produzione toccava la punta più bassa dopo il 1930: dieci film. Nelle condizioni più favorevoli per un paese neutrale, cioè negli anni di guerra, l’industria cinematografica aveva sviluppato un apparato capace di produrre anche quaranta film all’anno, cifra altissima per un paese di otto milioni di abitanti e inevitabilmente destinata a contrarsi, una volta tornata con la pace la normalità. Ridotto il peso fiscale — dal 25 al 10 per cento degli incassi lordi — come chiedevano da tempo i produttori, il ricavato delle esazioni sui biglietti d’ingresso (quasi quaranta milioni di biglietti di cui il 20 per cento per film nazionali nella stagione 1963-64) fu affidato all’amministrazione dell’istituto che doveva distribuirne il 30 per cento ai produttori, il 20 per cento in premi di qualità, il 15 per cento per compensare le perdite eventuali di prodotti di qualità culturale, il resto per finanziare la fondazione di una scuola di cinema e tv, la promozione di film svedesi all’estero, la creazione di un cen­ tro culturale di documentazione, il restauro di vecchi film e altre attività culturali. Il cinema svedese degli anni Sessanta e Settanta può essere diviso in due generazioni di cineasti. La prima ha i suoi esponenti più significativi in Jòrn Donner, Vilgot Sjòman, Jan Troell e Bo Widerberg che, almeno nel periodo iniziale della loro attività, hanno in comune l’opposizione, talora polemica, a Ingmar Bergman, alla metafisica e allo spirituali­ smo di Bergman, e il proposito di puntare su una rappresen­ tazione più diretta e critica della realtà svedese e del suo passato. La seconda è formata dai giovani che, pur in modi quasi sempre confusi, si sono fatti i portavoce del rinnova­ 239

mento, della protesta e della contestazione che dopo il ’68 anche in Svezia hanno contraddistinto la crisi della società occidentale. Tra le generazioni precedenti, tolto Bergman, soltanto il vecchio Alf Sjòberg (Stoccolma 1903-1980), rino­ mato regista teatrale, torna al lavoro ma, dopo i deludenti e ridondanti Domaren (Angeli alla sbarra, 1960) e Òn (L’isola, 1965), ritrova l’antico valore soltanto con Fadern (Il padre, 1969), dal dramma di Strindberg. Donner, Sjòman, Widerberg Giornalista, autore di una ventina di libri tra cui alcuni romanzi, Jòrn Donner, finlandese di nascita (Helsinki 1933), pubblica nel ’62 un lungo saggio, Il volto del diavolo, sul «maestro» Ingmar Bergman, prima di esordire con En sòndag i September (Una domenica di settembre, 1963), livida crona­ ca del fallimento di un matrimonio nel giro di quattro stagio­ ni. Dirige poi Att àlska (Amare, 1964), dedicato a Mauritz Stiller, uno dei padri del cinema svedese e, come lui, di origi­ ne finnica. È una continuazione del primo film ma in ilari cadenze di commedia, ispirata a un naturalistico ottimismo nella visione del rapporto tra una fresca vedova e un vitale commerciante. Entrambi i film sono — come Anna (id., 1970) — interpretati da Harriet Andersson, allora compagna del regista, che in Amare ha per partner il polacco Zbigniew Cybulski, morto tragicamente nel 1967. Le donne e i problemi della condizione femminile sono al centro dei film di Donner, anche quelli realizzati nella natia Finlandia con la sua società di produzione, come Mustaa valkoijella (Giochi sulla pelle, 1968) e Naijenkuvia (Ritratti di donne, 1969), in cui aveva il ruolo di protagonista maschile, e Man kan inte valdtas (Gli uomini non possono essere violen­ tati, 1978), teso thriller di vendetta femminista a una violenza sessuale. Da ultimo Donner si è dedicato prevalentemente alla produzione e al documentario, in cui ha potuto afferma­ re in modi più diretti la sua forte vena polemica. Vilgot Sjòman (Stoccolma 1924) ha tempra più robusta, umori più sanguigni e non esita a essere spregiudicato sino alla provocazione per esprimere il suo anticonformismo libe­ ratorio. Romanziere, commediografo, saggista (frutto di un

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soggiorno americano è Ad Hollywood, 1961, interessante stu­ dio sociologico), anch’egli autore di un volume su Ingmar Bergman (L.136.Dagbog med I.B., diario di lavorazione del film Luci cf invernò), dopo un esordio incerto con Àlskarinnan (L’amante, 1962), grigia commedia sulle miserie di un adulte­ rio, Sjòman descrive con cupi accenti di estrema crudezza in 491 (490 + 1, 1964, sono 490, cioè settanta volte sette le volte che, secondo la Bibbia, bisogna perdonare) l’indifferenza del­ la società verso un gruppo di giovani delinquenti affidati alle cure di un educatore omosessuale. Klànningen (Il vestito, 1965) e Syskonbàdd (Il letto della sorella, 1966), su un amore incestuoso nella Svezia del Settecento, proseguono il discorso sui tabù della società svedese culturalmente e socialmente cristallizzata, discorso che è approfondito in termini più ag­ gressivi nel dittico Jag àr nyfìken-gul (Io sono curiosa-giallo, 1968) e Jag àr nyfiken-blà (Io sono curiosa-blu, 1969), scanzo­ nato, beffardo, dissacrante film contro il puritanesimo svede­ se, diviso in due parti — il giallo e il blu sono i colori della bandiera nazionale — in cui si mescolano modi della finzione e tecniche del cinema diretto, alimentando efficacemente il contrasto tra il vitalismo erotico e «curioso» della giovane protagonista e il goffo, impettito conformismo borghese. Nel 1969, riprendendo il metodo della contaminazione tra finzione e documentario, Sjòman dirige Njljuger (Voi menti­ te), opera di denuncia sulla vita nelle carceri che, però, non regge il confronto col film sullo stesso tema del più giova­ ne Lars Forsberg Misshadlingen (Assalto, 1969). Seguono Lyckliga skitar (Stupidi felici, 1970), commedia di burlesca giocondità all’insegna di un arguto anticonformismo, soste­ nuta da un serio impegno politico e da una memorabile in­ terpretazione di Berndt Lundquist nella parte di un simpatico camionista guevariano; Troll (id., 1971), grottesco in bilico tra realtà e sogno, tra critica sociale ed evasione poetica; En handfull kàrlek (Corruzione in una famiglia svedese, 1974) dramma sociale ambientato nel 1909 e affine nella tematica ad Adalen 31 di Widerberg, e, forse il suo film più riuscito di questi anni; Linus (id., 1980), claustrofobico interno di un grande palazzo della Stoccolma anni Venti, visto nella sua corruzione sociale e morale con gli occhi di un adolescente. Uno dei film di maggiore successo sul mercato svedese negli anni Sessanta fu Hàr har du liti liv (Questa è la tua vita, 241

1966). Lungo quasi tre ore, era tratto dal Romanzo di Olof saga in quattro libri di Eyvind Johnson, ed era la storia dell’educazione sentimentale e civile di un giovane durante la prima guerra mondiale. Il film segnò l’esordio nel lungome­ traggio di Jan Troell, nato nel 1931 a Malmò (come Bo Widerberg di cui era stato operatore per Barnvagnen), ed è contrassegnato da un senso deU’umorismo e da una ricchezza di pathos che sono tipicamente svedesi ma, al tempo stesso, piuttosto rari in quel cinema. Narratore lirico più che epico, Troell confermò il suo talento in Ole dole doff (id., 1968), storia di un maestro e del suo fallimento di educatore, e soprattutto nel dittico Utvandrarna (Gli emigranti) e Invandrarna (I pionieri), realizzato nel 1970-71, saga di sei ore e mezzo sul viaggio di una comunità di contadini svedesi alla ricerca della terra promessa nell’America del primo Ottocen­ to. È un vero monumento sulla miseria del proletariato agri­ colo, sulla sua sofferenza ma pure sulla sua dignità, che Troell — sceneggiatore, regista, operatore e montatore — ha tratto da un fluviale romanzo ciclico di Wilhelm Moberg di cui ha seguito fedelmente le tracce con un racconto «orizzon­ tale» in cui si esprime al meglio il suo puntiglio analitico. Oltre a ottenere in patria un successo plebiscitario di pubbli­ co e di critica, la saga — che ha due eccellenti protagonisti in Max von Sydow e Liv Ullman — raccolse un lusinghiero giudizio di Ingmar Bergman che la definì «una delle più grandi esperienze cinematografiche della mia vita». (In Italia fu distribuita in un’edizione ridotta a 132 minuti, intitolata Karl e Kristina.) Troell ha poi diretto negli Stati Uniti Zandy’s bride (Una donna chiamata moglie, 1974) e Hurricane (Uraga­ no, 1979). Pur con qualche concessione al sentimentalismo, il primo conferma le sue doti di lirico intimista, il robusto ro­ manticismo, il generoso umanesimo che ne fanno un degno erede di Sjòstròm; il secondo, magniloquente rifacimento di un film prebellico di John Ford, è uno stracco lavoro su commissione. In patria, infine, Troell ha diretto un costoso, ambizioso e celebrativo film di coproduzione con la Norve­ gia, Ingenjbr Andrées luftfard (Il volo del!aquila, 1982), che ricostruisce una delle prime imprese per la conquista del Polo Nord, tentata in pallone aerostatico dall’ingegnere svedese August Solomon Andrée con due compagni nel 1897. Autore di un saggio (Visionen i svensk film) severamente

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critico sulla commercializzazione del cinema svedese negli anni Cinquanta, e sull’egemonia artistica di Bergman «mo­ stro sacro», Bo Widerberg (Malmò 1930), romanziere e commediografo, esordisce con Bamvagnen (La carrozzella, 1962), film psicologico-sociale influenzato dal giovane cine­ ma francese, e precisa il suo mondo poetico in Kwarteret korpen (Il quartiere del corvo, 1963) dove, sullo sfondo della natia Malmò descritta con fine sapienza stilistica, si rievoca la Svezia del ’36, l’anno in cui la socialdemocrazia andò al pote­ re sulla spinta delle lotte operaie. Dopo due film minori e più fragili — Kàrlek 65 (Amore 65, 1965) e Heja Roland (Forza Roland, 1966) — prima Elvira Madigan (id, 1967), raffinata storia di un amour fou dell’ottocento in un preciso contesto sociale, e poi Adalen 31 (id., 1969), rievocazione di una rivolta popolare del 1931 soffocata nel sangue, che si fa rifiuto di tutta una classe, quella borghese, e della sua cultura, rivelano in Widerberg una raggiunta maturità espressiva, un pudore e un lirismo intrisi di passione e di sdegno civile, appena atte­ nuati da un eccessivo gusto per la «sensibilità dell’immagine». Più duro è Joe Hill (id, 1971) che, in toni da ballata popolare, narra il caso esemplare di un giovane emigrante, sindacalista rivoluzionario negli Stati Uniti, giustiziato dal potere con false accuse di delitti comuni, cioè con un assassi­ nio legalizzato, e sa definire un intenso quadro di lotte prole­ tarie d’inizio secolo nel «paese della libertà». Dello sport ha affrontato prima l’aspetto politico-militante realizzando con una squadra di giovani cineasti Den vita sporten (Lo sport bianco, 1973), sulle manifestazioni antirazziste in occasione dell’incontro tennistico di Coppa Davis tra Svezia e Rhode­ sia, e poi quello di gioco e sogno infantile con Fimpen (Firnpen, il goleador, 1974), in cui un campioncino di sei anni mette a soqquadro la squadra nazionale svedese di calcio prima di ritornare a una vita più consona alla sua età. Tra la sua ultima produzione spiccano Mannen pataket (L’uomo sul tetto, 1976), poliziesco ironicamente vigoroso tratto da un romanzo di May Sjòwall e Per Wahlòò, due bravi «giallisti» tradotti anche in Italia, e il thriller con punte di denuncia Mannen fran Mallorca (L’uomo di Maiorca, 1984).

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Attrici e attori registi, giovani

Fino agli anni Sessanta la sola donna regista del cinema svedese era stata Mai Zetterling (Vàsteraas 1925), attrice in­ ternazionalmente nota, che, dopo aver fatto in Gran Breta­ gna quattro documentari per la bbc e un cortometraggio {The war game, Il gioco della guerra, 1963), è passata al lungome­ traggio con Àlskandepar (Gli amorosi, 1964), storia incrocia­ ta di tre donne diverse per estrazione sociale e temperamento che destò un certo scandalo per la sua audacia erotica in chiave di sessualità femminile. Seguirono Nattlek (Giochi di notte, 1966), Doktor Glass (Doctor Glass, 1968) e Flickorna (Le ragazze, 1969) che è, come The war game, un film antimi­ litarista, ispirato a Lisistrata di Aristofane, nella chiave di una polemica femminista dai lucidi accenti satirici che è sem­ brata ai critici suoi compatrioti un po’ anacronistica, come se l’autrice avesse guardato alla realtà della Svezia con l’occhio dell’emigrata di lusso. I temi femministi e antiborghesi sono ripresi in Amorosa (id., 1986), non oleografica biografia di Agnes von Krusenstjerna (1894-1940), scrittrice scandalosa da un romanzo della quale aveva tratto Gli amorosi, una biografia isterica e visionaria alla Ken Russell che deve molto al superiore istrionismo dell’interprete, Stina Ekblad. Si sono cimentate nella regia anche due attrici che devono la loro notorietà internazionale ai film di Bergman. Di Gun­ nel Lindblom (Goteborg 1931) sono stati molto apprezzati Paradistorg (Villa Paradiso, 1976), gruppo di famiglia in va­ canza che si fa analisi di etica lucidità delle contraddizioni della borghesia svedese agiata, e Sally och friheten (Sally e la libertà, 1981) che, sulla linea del cinema femminista sulle «umiliate e offese», offre un bel ritratto di donna, ricco di sfumature. Dopo avere firmato, con l’attore Erland Joseph­ son e il prestigioso direttore della fotografia Sven Nykvist, En och en (Noi due una vita, 1978), Ingrid Thulin (Solleftea 1929) ha diretto con delicatezza di tocco e un sorvegliato abbando­ no lirico Brusten himmel (Cielo spezzato, 1982), semiautobio­ grafico ritratto di una adolescente che vive in un villaggio del nord. Tra le altre donne registe si contano Marianne Ahrne (n. 1940) che s’è messa in luce specialmente col terzo film Frihetens murar (I muri della libertà, 1978), l’islandese Larus Oskarsson (n. 1949), esordiente con Andra dansen (La secon­ 244

da danza, 1983), un singolare «film di strada» al femminile, e Suzanne Osten (n. 1944) che, dopo un’intensa attività teatra­ le, ha fatto con Mamma. Mit liv ar nu (Mamma. La mia vita è ora, 1982) quel che molti critici, in Svezia e fuori, hanno giudicato il film più originale, emozionante e appassionato del giovane cinema svedese, viaggio lirico e inquieto sulla scorta del diario di un anticonformista personaggio femmini­ le, che è la madre stessa della regista, negli anni ’39-44. Attore assai attivo anche nel cinema continentale, Erland Josephson (Stoccolma 1923) ha scritto, e diretto con Nykvist, Marmeladupproret (La rivoluzione della marmellata, 1980), ironica commedia sui problemi della coppia in età matura e sulla sclerosi della vita quotidiana. Sono passati dietro la cinepresa anche Jarl Kulle (Ekeby 1927), interprete di alcuni film di Bergman e rinomato teatrante, con Bokhandlaren som slutate bada (Il libraio che rinunciò a fare il bagno, 1970) e Per Oscarsson (Stoccolma 1927) che, in coregia con Stellan Olsson, ha fatto Oss emellan (È troppo su per te, 1970) in cui descrive con accenti autobiografici il disagio e la frustrazione dell’artista nei rapporti con la società, e ha poi diretto da solo Ebon Lundin (id., 1973). Mai Zetterling e Liv Ullman hanno partecipato come registe e sceneggiatrici al film canadese a episodi Love (id., 1983) con Nancy Dowd e Annette Cohen, la prima con tre novelle, la seconda con Parting. La produzione svedese ha oscillato da un massimo di trentadue lungometraggi nella stagione 1968-69 a un minimo di tredici in quella 1972-73. Specialmente nell’ultimo periodo a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta non ha potuto sottrarsi a una profonda contraddizione: se, da una parte, i cineasti hanno il vantaggio di avere nello stato un interlocutore (e un finanziatore) meno condizionato dei produttori privati dalle esigenze del profitto, dall’altra, si è fatta sempre più strada la consapevolezza che soltanto proposte di film aderenti al cli­ ma culturale dominante (e alla domanda di un pubblico sempre più giovane, come dappertutto) abbiano un’effettiva possibilità di realizzazione. Della ventina di film annuali, i più appartengono a un entertainment più o meno decoroso, polizieschi e commedie soprattutto, in cui si sono segnalati Hans Alfredson, Tage Danielsson, Mats Arehn, il prolifico Jam Halldoff, Kay Pollak. Sorde insofferenze, contraddizio­ ni, incertezze espresse in chiave politica e artistica, serpeggia245

no però nei film di alcuni cineasti della generazione di mezzo o di quella più giovane; a esempio, in certi lavori di Lars Forsberg, nelle ossessioni di uno scrittore interpretato da Erland Josephson in Bakom jalusin (Dietro le imposte, 1984) di Stig Bjòrkman, nelle immagini quasi prive di parole dei tormenti e le segrete tendenze di un borghese rispettabile raccontate da Jon Lindstrom in Den sista leken (L’ultima estate, 1983), nel piano e commovente ritratto delle immagi­ nazioni e ombrosità di un bambino che Allan Edwall intesse in Àke och hans vàrld (Àke e il suo mondo, 1984), nelle difficoltà di essere artisti proletari che Gòran du Rees e Chri­ stina Olofson descrivono nell’agit-prop Malaren (Il pittore, 1982) e più ancora nei documentari sociali di Stefan Jarl, che mostrano la faccia meno scontata di una società apparente­ mente così perfetta.

L’IMPEGNATA «NOUVELLE VAGUE» FINLANDESE

Figura chiave del notevole processo di rinnovamento che negli anni Sessanta ha investito il cinema finlandese e vi ha apportato una sorprendente vitalità soprattutto di indagine sociale, è stato Jòrn Donner, già critico e polemista irriveren­ te, narratore, fondatore della Cineteca nazionale, ma presto emigrato in Svezia seguendo una tradizione iniziata con Stil­ ler e Molander. Rientrato in patria nel ’66, fonda una propria compagnia di produzione attraverso la quale aiuta a imporsi alcuni dei più vivi cineasti finlandesi e realizza Mustaa valkoijella (Giochi sulla pelle, 1968), 1969 (1969), Naijenkuvia (Ri­ tratti di donne, 1970), Anna (id., 1970), perlopiù racconti di giovani borghesi insoddisfatti, frustrati nella ricerca di qual­ cosa di diverso sul piano dei rapporti interpersonali, ma con una provocatoria accentuazione degli aspetti erotici, figure rispetto a cui ha un atteggiamento di irrisione che si fa, però, confessione autoironica, visto che spesso ne è lui stesso l’in­ terprete, e in Naijenkuvia nel ruolo di un filmaker deluso di ritorno da un soggiorno all’estero. Lo spirito aggressivo ver­ so l’immagine che i suoi compatrioti hanno dei propri com­ portamenti esplode nel lungometraggio documentario Perkele! Kuvia suomesta (Merda! Immagini dalla Finlandia, 1971),

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che ha avuto guai con la censura e in realtà non è che il referto in diretta, per le strade, di una realtà e di una condi­ zione. I veri inizi di una nouvelle vague sono, però, anteriori al ritorno di Donner, risalgono al 1961, quando Maunu Kurkvaara esordisce con Rakas (La più cara), disincantata descri­ zione del breve separarsi e del ricostituirsi di una coppia intellettuale, un film che, nel suo tono agile, fresco, nella sua capacità di captare inediti modi di essere, assume un senso di rottura al di là del suo stesso valore estetico. Ad esso Kurkvaara aggiungerà altri due buoni film di taglio simile: Yksityisalue (Questione privata, 1962), scandaglio sulle ragioni di un suicidio, e Meren juhlat (Festa sul mare, 1963), sulla crisi di un pittore. La sua carriera, però, non ha avuto adeguati sviluppi, come quella di Eino Ruutsalo dopo Hetkia yòissà (Momenti nella notte, 1961), mentre Mikko Niskanen, dopo Sissit (Pattuglia lontana, 1963), ha dato con Kahdeksan surmanluotia (Otto pallottole mortali, 1972), tratto dalla versio­ ne lunga televisiva, un duro quadro naturalistico di un picco­ lo coltivatore della Finlandia centrale, vittima di condizioni di vero sottosviluppo, tra miseria e alcolismo, tra piccoli espedienti e leggi e tasse persecutorie. Chi ha segnato a fondo il cinema finlandese di questi anni è stata una coppia di registi, Risto Jarva e Jaakko Pakkasvirta, entrambi nati nel 1934 e che hanno esordito con due film a quattro mani. Attento, seppure con un approccio un tanti­ no rigido, alle ferite aperte da un difficile processo di tra­ sformazione del proprio paese in una società industriale e urbana, Jarva ha via via dato rigore alla sua critica sociale attraverso Onnenpeh (Il gioco della fortuna, 1965), l’impor­ tante Tyòmiskan pàjvàkirja (Non di solo pane o Diario di un operaio, 1968), Ruusujen aika (Il tempo delle rose, 1969), Bensaa suomissa (Benzina nelle vene, 1971), su un pilota di rally e il mito ossessivo dell’auto, Kun taivas putoaa (Quando il cielo cade, 1972), sui guasti umani e politici della stampa scandalistica, e ha poi raccontato in Yhden miehen sota (La guerra di un uomo solo, 1973) la complessa figura di un proletario che si compra una scavatrice, un senza classe ne­ mico per gli operai e sfruttato dalle imprese edili, non scosso nella sua fiducia nella libera impresa neppure dal proprio fallimento che lo costringe a emigrare in Svezia, vista come la

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terra promessa del capitalismo. In questo che resta il suo film migliore, Jarva mostra una grande giustezza di sguardo senza drammatizzazioni e senza schematismi politici, prima di mo­ rire nel ’77 in un incidente stradale, di ritorno dalla prima di Jàniksen vuosi (L’anno della lepre, 1977), commedia ecologi­ ca incentrata su un pubblicitario disgustato dalla civiltà, can­ to della libertà e della natura che modernamente ricupera una tradizione nordica. Pakkasvirta, come attore, era stato tra l’altro il protagoni­ sta di Rakas. Come regista, ha mostrato nei suoi primi film, Vihreà leski (La vedova verde, 1968), ambientato nei suburbi, e Kesàkapina (Ribellione d’estate, 1970), su una fotomodella come tipico esempio di una società dei consumi, un gusto per i forti contrasti, una tendenza al virtuosismo tecnico, alla contaminazione degli stili, agit-prop e cinema-verità, accen­ sioni letterarie e minuzie analitiche. Il suo stile che qui risente di tante lezioni, Godard in primo luogo, il suo tono estremi­ stico, polemico, si fanno più complessi, attenuano la loro virulenza intellettualistica senza perdere in capacità di provo­ cazione sociale nei suoi due film migliori: Jouluksi kotiin (Una casa per Natale, 1975), imperniato su un muratore che, dopo una vita passata a costruire case per gli altri, pur in assenza di ogni aiuto decide di farsi da solo una sua casa, impresa che lo uccide; Pedon merkki (Il segno della bestia, 1981), robusta narrazione tratta dai diari di guerra dello scrit­ tore Olavi Paavolainen in cui vedove di guerra sposano uffi­ ciali nazisti, quasi a simboleggiare l’alleanza tra la Finlandia e la Germania hitleriana, e intellettuali addetti alla propa­ ganda dei servizi segreti si fanno amari testimoni di verità e menzogna, di anni di oppressione e sbandamento. In questo cinema che realizza in media undici-dodici film all’anno — ma con sbalzi dai tre del 1975 ai diciotto dell’84 — e cui lo stato socialdemocratico assicura dal ’69 un aiuto che copre circa il 50 per cento delle spese di produzione, emergono nomi nuovi: Peter von Bagh con la commedia burlesca assai discussa Kraivi (Il conte, 1971), Heikki Partanen e Ritta Rautoma con la ballata popolare Antti Piuhaara (Antti del branco, 1976); Jòrn Lindstrom con Yòn sylissà (Ritorno a casa nella notte, 1976), calato nell’incubo esisten­ ziale di un emigrato finlandese in Svezia; Sakari Rimminen il cui Pilvilinna (Sogni, 1971) ha avuto a suo tempo un senso di

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violenta rottura con i valori costituiti che l’ha fatto parago­ nare al nostro Pugni in tasca, in ogni caso eco dei fermenti portati dall’inverno caldo ’70-71. Gli ultimi due film erano prodotti da Jòrn Donner, come lo è il film finlandese degli anni Settanta più noto all’estero Laukaus tehtaalla (Uno sparo in fabbrica, 1973). In una cittadina la principale fabbrica li­ cenzia gli operai di un reparto improduttivo; un vecchio ope­ raio che vi ha lavorato tutta la vita ed è ora delegato alle inutili trattative, taciturno, sente tutta la violenza che lo sot­ trae a se stesso, alle sue abitudini, alla sua ragion d’essere e torna in fabbrica a sparare al padrone. Film di fabbrica «po­ vero» e rigoroso, essenzializzato ai limiti della cronaca, secco, calato in città, paesaggi, ambienti reali, interpretato da veri operai, mostrando in apertura il delitto appare teso soprat­ tutto a narrare «come» e «perché» si è giunti a quella conclu­ sione, sul filo di una visione lucidamente pessimista e di un commento fuori campo in prima persona che è in realtà un soggetto collettivo. Ne è autore Erkko Kivikoski (n. 1936) che ha potuto dirigere soltanto sei film in vent’anni, da Kasàllà kello 5 (D’estate alle 5, 1963), fresco debutto d’ambiente giovanile con attori non professionisti, a Yò meren rannoila (Notte sulla riva, 1981), quadro di insoddisfatti quarantenni in poche ore notturne scandite dai riti estivi. Tra essi emerge forse il dialettico Kesyttòmàt veljekset (Fratelli rivali, 1969) che contrappone le scelte di vita di due fratelli, l’uno affari­ sta, l’altro radicale militante, ma sono tutti piccoli racconti con pochi personaggi, definiti con minuziosa precisione, con dialoghi naturali, e al fondo un senso amaro e critico verso la realtà e lo stile di vita attuali. Ma il nome forse più nuovo degli anni Settanta è quello di Rauni Mollberg (n. 1929), uomo di teatro e di televisione che ha esordito nella fiction cinematografica soltanto nel 1973 con Maa on syntinen laulu (La terra è canto peccaminoso), vero ciclo della disperazione in un villaggio della Lapponia del dopoguerra che è un’autentica rivelazione. È un film della terra, di morte e maledizione, di alcolismo e chiusura tribale, di fame di pane e di vita primordiale e di superstizioni medie­ vali, che nel suo ampio respiro, nella sua naturalistica fisicità percorsa da un senso crudele della religione, ma pure da una sorta di «solidarietà mistica con la terra», mostra una singo­ lare coscienza del mondo primitivo che ha fatto evocare il 249

nome del Sibelius di Una saga. Ha, invece, un piglio da Gor’kij di Nelfondo e da Renoir dei tempi del Fronte popola­ re Aika hyvà ihmiseksi (Niente male per un essere umano, 1977), espressione delle proprie radici sociali e popolari. È il racconto corale che dipinge la vita delle classi sfavorite in un quartiere proletario di una cittadina all’inizio degli anni Ven­ ti, quando sono ancora aperte le cicatrici della guerra civile, un mosaico diseguale, a momenti scostante, ma che trae la sua forza dall’autenticità del contesto come dall’immediatez­ za delle singole figure e caratteri. Rispetto all’impatto di que­ sti due film, appena dignitosi appaiono i successivi Milka. Elokuya tabuista (Milka. Un film sui tabù, 1980) che ritorna a un mondo contadino più normalizzato, austero, puritano, intollerante, in termini di ballata lirica e fatalista, e Tuntematon sotilas (Il soldato sconosciuto, 1986), impersonale traspo­ sizione del romanzo di Vaino Lanna sulla guerra persa con i sovietici nel 1939, da cui nel 1955 Edvin Laine aveva già tratto un accurato film, ma che sa almeno rendere il clima di violenza e di grigiore morale in cui un gruppo di ragazzi si trova a maturare. Alla fine, quello finlandese appare quasi un cinema di mi­ noranza — del resto la Finlandia non raggiunge i cinque milioni di abitanti — che riafferma una propria identità arti­ stica e culturale, un cinema soprattutto sociale e storico (a parte il tabù, che vale anche per la stampa, dei delicati equili­ bri nella politica estera verso I’urss) ma anche con un suo forte, nordico senso della natura. Non ci sono grandi espe­ rienze formali, ma all’interno del realismo dominante si pos­ sono a volte trovare varianti personali, oltre che efficaci. Lo confermano anche registi che si sono affermati lentamente come Timo Linnasalo, Heikki Partanen, Anssi Mànttàri. In­ tanto va emergendo una nuova, vivace generazione di tren­ tenni, i più interessanti dei quali sembrano Pirjo Honkasalo e Pekka Lehto con il loro intenso, liricheggiante e un tantino manierista Tulipàd (Cuore di fuoco, 1981), dedicato a un’im­ portante e misteriosa figura di scrittore, Maiju Lassila, fucila­ to dai Bianchi nel 1918, Markku Lehmuskallio con il naturi­ sta Korpinpolska (La danza del corvo, 1980), Tapio Suominen con il suo giovane sbandato di Tàdlta tullaan, elàmà (Sempre dritto, uomo, 1980), Jaakko Pyhàlà (il virtuosistico Jon, id., 1982) che ha studiato al vgik di Mosca, Lauri Tòrhò-

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nen che ha fatto scalpore con Palava enkeli (Angelo di fuoco, 1983) che tocca i temi della normalità e della pazzia, gli assai cinefili fratelli Mika (Toh the road malavitoso Arvottomat, I senza valore, 1982; il nero Klaani. Tarina sammakoitten suvusta, Il clan. Il racconto dei ranocchi, 1984) e Aki Kaurismaki con Rikos ja rangaistus (Delitto e castigo, 1983): Dostoevskij trasposto nella Helsinki degli anni Ottanta.

SPIRAGLI IN NORVEGIA

Parente povero tra i paesi scandinavi, la Norvegia può vantare nel cinema un solo primato: il più alto numero dei registi che hanno fatto soltanto un film. I 272 lungometraggi realizzati tra il 1909 e il 1969 furono diretti da 97 registi: fare un primo film in Norvegia è una prodezza, fare il secondo è un miracolo. L’industria cinematografica è fondata su una produzione statale, una distribuzione privata e un esercizio municipale: le sale cinematografiche appartengono ai comu­ ni. La produzione s’è aggirata sino al 1972 su una media di sei film all’anno; è quasi raddoppiata nel decennio successi­ vo, per calare di nuovo dopo 1’82, quando la crisi economica provocata dal crollo del prezzo del greggio, di cui la Norvegia possiede ampie riserve nel Mare del Nord, ha imposto tagli sulla cultura. Soltanto cinque film sono stati prodotti nell’82, otto-nove negli anni successivi. Destinata a una popolazione di circa quattro milioni di abitanti, essa è svolta per metà dalla Norsk film S/A (fondata nel 1934; le sue azioni appar­ tengono per due terzi allo stato e per il resto a ottanta muni­ cipalità) con investimenti coperti fino a metà da produttori privati che utilizzano teatri e laboratori del settore pubblico. Dagli anni Settanta una funzione importante è assolta dal­ l’azienda televisiva di stato che ha costituito un centro di formazione professionale, mentre una certa attività alternati­ va è promossa da associazioni private e gruppi universitari. Anche i produttori privati sottopongono i loro progetti a una commissione del ministero della Cultura e della Scienza che concede gli anticipi per la produzione, agevolando così i pre­ stiti bancari. Oltre alla Norsk film, altri organismi di suppor­ to sono lo Statens filmsentral che gestisce una larga fetta 251

della produzione in 16 mm, spesso commissionata dalla tv, e copre interamente la distribuzione non commerciale (scuole, unità mobili ecc.); il Norskfìlminstitutt con una grande cine­ teca, un museo del cinema e annessa biblioteca; il Norskfilmklubforbund che raccoglie settantacinque cineclub. Con l’attuale governo di centrodestra si è un po’ contratto l’inter­ vento dello stato in nome di un maggior liberismo economico anche in questo settore. La Norsk film ha puntato negli ultimi anni anche sulle coproduzioni con la Gran Bretagna (En dag i Ivan Denissowich’s liv, Una giornata di Ivan Denisovic, 1971, di Casper Wrede), gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e la Germania e su film in costume di grande spettacolo come Fru Inger til Ostrat (La signora Inger di Ostrat, 1975) di Sverre Udnaes, da un dramma giovanile di Ibsen. Sono due dozzine i registi norve­ gesi in servizio attivo, ma soltanto pochi riescono, fuori della tv, a svolgere un’attività regolare e continua come Knut Bohwim e Knut Andersen, fondatori nel 1962 della Team film che è, con la Central film e la Caprino filmcenter (che fa capo a Ivo Caprino, autore di film d’animazione), la più importante società privata, dedita a una decorosa produzio­ ne commerciale. Oltre a numerose commedie brillanti, Knut Andersen (n. 1931) deve la sua notorietà a due film sulla guerra e l’occupazione tedesca, Brent jord (Terra bruciata, 1968) e Under er steinhimmel (Sotto un arido cielo, 1974), e a due opere di origine letteraria, Den sommeren jeg fylte (Quando avevo 15 anni, 1975) e Karjolsteinen (La svolta, 1977). Secondo la critica norvegese, i due cineasti più dotati della penultima generazione sono Pai Lokkeberg (n. 1934) e Anja Breien (n. 1940). Dopo l’esordio con Liv (Vivere, 1967), cro­ naca della giornata di una giovane donna, elogiata per la finezza psicologica e la graffiarne descrizione ambientale, il primo ha diretto Exit (id., 1971), altro ritratto di donna dalle connotazioni fortemente critiche verso il conformismo della società norvegese, ma in seguito si è dedicato al palcoscenico, come regista del Teatro Nazionale di Oslo. Uscita dall’iDHEC di Parigi, e attiva anche in teatro, la Breien si mise in luce con Voldekt - Tilfellet Anders (Stupro ovvero il caso Anders, 1970), sobria e incisiva requisitoria contro il meccanismo giudiziario che incastra e demolisce un 252

individuo senza difesa e, dopo Den allvarsamma leken (Il gioco serio, 1973), sontuosa ma inerte trascrizione di un ro­ manzo ottocentesco, confermò le sue qualità di sensibilità, osservazione, umorismo e spirito critico con Hustruer (Mogli, 1975), storia di tre donne che per qualche giorno abbando­ nano marito e casa per affrontare, liberamente e in prima persona, la propria situazione esistenziale e sociale. Uno dei meriti di questo film tiepidamente femminista — cui ha dato un seguito ironico nell’85 con Hustruene 10 àr etter (Mogli 10 anni dopo) — è la qualità dei dialoghi che la regista ha scritto con la cooperazione delle tre attrici. Ancor più in Arven (L'e­ redità, 1978), un rito sociale come l’apertura di un testamento fa da catalizzatore di crisi, cioè toglie la maschera a un grup­ po di personaggi legati tra loro da vincoli familiari sul filo di una commedia di costume sostenuta da un sapiente dosaggio di ironia e amarezza. Con Forfolgensen (Caccia alla strega, 1981), ambientato in uno sperduto villaggio del Seicento, la Breien ha fatto con robusta drammaticità un film sull’intolleranza e la discriminazione, sulla paura paranoica del potere maschile verso la donna, sulle radici cristiane di questa pau­ ra, sulla presenza magica della natura che s’impossessa del­ l’uomo e lo trascende. Seppur rari, esistono però autori in contraddizione con questo sistema a protezione pubblica, così integrato nella catena produzione-distribuzione-esercizio e che produce un cinema non troppo spregiudicato nell’analisi della realtà e dei valori nazionali. È il caso di Oddvar Bull Tuhus che, dopo Rjndtblatt paradis (Paradiso rosso e blu, 1971) e Maria Maruskja (id., 1973), premio della critica per il miglior film nor­ vegese dell’anno, ha diretto Streik (Sciopero, 1975), vigorosa rievocazione in cadenze semidocumentarie di uno sciopero di metallurgici che ebbe luogo nel 1970. Avversato dalle orga­ nizzazioni padronali, non fu messo in onda dalla televisione svedese che pure l’aveva parzialmente finanziato. Bull Tuhus è uno dei dirigenti della Vampyrfilm, gruppo progressista costituito nel ’69, cui ha aderito anche Eldar Einarson, regi­ sta di Faneflukt (Diserzione, 1975), storia di un soldato tede­ sco che, dopo aver abbandonato il suo reparto, è catturato lungo la linea di confine dalla polizia svedese ed è riconsegna­ to ai tedeschi. È anche il caso di Brado Greve che, dopo Heksene fra den forstenede skog (Le streghe della foresta pie-

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trificata, 1976), boicottato ed escluso dal circuito della distri­ buzione, ha fatto Filmens, vidunderlige verden (Film, un mondo meraviglioso, 1978), commedia satirica sui metodi e la politica deH’industria cinematografica. Altri li hanno se­ guiti come Hans Otto Nicolayssen con il pacifista Krypskytte (Cacciatore di frodo, 1982), come la coppia di outsider Swend Warn e Petter Vennerod con la serie di film sulla propria generazione prodotti dalla propria Mefistofilm, il migliore dei quali sembra l’ultimo, Adjo solidaritet (Addio solidarietà, 1985), racconto anarcoide di due ex sessantottini integratisi, con sullo sfondo un mondo di benessere ma pure di corruzione e di fascismo strisciante. Ma il caso più clamo­ roso è stato quello di «L’ultimo raggio di luce» (1984) di Solve Skagen, Malte Wadman e Andrew Szepessy che, a mezzo tra parti documentarie e parti di fiction, è una messa in discussione radicale delle correnti concezioni esistenziali e sociali, sul filo dei pensieri di un militante di estrema sinistra che sta per annegare. Il film ha provocato la chiusura per ragioni politiche del Filmgroupe i, creato nel ’79 dal prece­ dente governo socialdemocratico su pressione dei filmaker e che aveva prodotto, oltre a film commerciali, alcune delle opere più discusse, tra cui gli ultimi lavori di Bull Tuhus. Oltre alla Breien, altre registe norvegesi che sono riuscite a mettersi in luce nell’ultimo decennio sono Laila Mikkelsen, soprattutto con Liten Ida (Piccola Ida, 1980), intensa storia dell’occupazione tedesca durante la guerra raccontata con l’ottica di una bambina, figlia di un collaborazionista; Nicole Macé, moglie di Knut Andersen, che ha fatto 3 (id., 1971) e Formyndere (I guardiani, 1977), sulla follia che per il confor­ mismo borghese tra ’800 e ’900 rappresentano il femminismo e l’arte; Vibeke Lokkeberg che ha diretto Apenbarigen (La rivelazione, 1977) e il duro, rigoroso L0perjenten (Tradimen­ to, 1981), anch’esso imperniato sul personaggio di una bam­ bina alle prese con il mondo spesso incomprensibile degli adulti. Quest’ultima è anche l’interprete del film del marito Terje Kristiansen, Hovdingen (Il capo, 1985). Motivi di interesse si possono trovare in opere discontinue di nomi nuovi come Ola Solum (Orions bette, La cintura di Orione, 1985) e Oddvar Einarson (X, id., 1986). Un caso singolare è quello del triestino Gianni Lepre, regista teatrale già allievo di Peter Brook, e dal ’72 attivo in Norvegia, dove 254

ha diretto due film: Henrys bekvaerelse (La cantina di Henry, 1982), efficace anche se schematico racconto di vendetta pri­ vata di un borghese piccolo-piccolo, un barbiere la cui figlia è stata spinta al suicidio, e 0ye for 0ye (Occhio per occhio, 1985), sui lavoratori stranieri. Con il suo sguardo poco nor­ vegese dà, al pari di altri outsider — artisti irregolari, militan­ ti politici, donne — un contributo a una visione più spregiu­ dicata della realtà di questo paese, frenato da una dura scor­ za di conformismo.

IL REALISMO DANESE

Una sorta di realismo quotidiano, che è più confessione di un malessere che critica della realtà, sembra percorrere il cinema danese i cui dieci-dodici lungometraggi annuali — erano più di venti negli anni Settanta — sono per 1’80 per cento finanziati dallo stato. In questo ambito, se la produ­ zione più commerciale basata su farse popolaresche e porno non troppo soft, il cui esempio più noto resta Stille dage i Clichy (Giorni tranquilli a Clichy, 1970), che Jens Jorgen Thorsen ha tratto da Henry Miller, è venuta via via declinan­ do, si possono trovare film interessanti. Negli anni Sessanta, accanto ad alcune opere come Sextet (Sestetto, 1960) di An­ nesse Hovmand che tratta di omosessualità con un certo coraggio, e Gift (Veleno, 1965) di Knud Leif Thomsen, aspro ritratto di arrampicatore sociale, emergono i film agili e pre­ cisi di Palle Kjoerluff-Schmidt, da Week-end {Coppie amanti, 1962) a Der var engang en krig (C’era una volta una guerra, 1966): il primo era il racconto intimista di insoddisfazioni e di incapacità a fare le necessarie scelte di giovani mariti, il se­ condo descriveva i normali problemi, sogni, comportamenti di un’adolescente classe media, appena sfiorata dall’occupa­ zione nazista. Chi, almeno in parte, si distacca da questa temperie è Henning Carlsen (n. 1927) che ha lavorato con Rogosin e in Francia ha diretto una commedia di costume con Bulle Ogier e Jean Rochefort, Un divorce heureux (Un divorzio felice, 1975). Carlsen è cineasta personale ma di­ scontinuo a causa anche della diversità delle matrici letterarie di partenza: Nadine Gordimer per Dilemma (id., 1962), duro

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ma irrisolto attacco a\Vapartheid girato clandestinamente in Sudafrica; Aksel Sandemos per Klabauterman (id., 1969), vi­ sionario dramma marino; Knut Hamsun per Suit (Fame, 1966), la sua opera più compiuta, di un realismo allucinato in grado di rendere, grazie anche a un impressionante Per Oscarsson, il valore di «scandalo» della fame dello scrittore nella Oslo indifferente del 1900. Analisi malinconica ma cor­ retta dal sarcasmo di un gruppo di perdenti e delle loro velleità cullate nel chiuso di un piano-bar è Man sku vare noget ved musikken (Come far parte della musica, 1972), che resta forse l’ultimo suo film di un certo rilievo. Eccellenti attori e fotografi, cura formale, spesso solide basi letterarie, un tono freddo, distaccato, con rare impenna­ te espressive o critiche: questo continua a essere il cinema danese che, tuttavia, nel suo stesso clima di ordinato grigiore e insoddisfazione nordica, vuole essere una forma di identità nazionale. Altri nomi si sono via via imposti nel corso degli anni Settanta e Ottanta: Henrik Stangerup con le sue autoa­ nalisi esistenziali, di un prete in Giv God en chance om sondagen (Date una possibilità a Dio la domenica, 1970), un Luci d'inverno danese, di un analista e della sua paziente in Farlige kys (Baci pericolosi, 1972); Nils Malmros con i suoi film di formazione giovanile (Lars Ole 5C, id., 1974; Drenge, Ragaz­ zi, 1977 ecc.), a base più o meno autobiografica; Bille August con l’olmiano Honeymoon (Luna di miele, 1978), ossia delu­ sioni di lavoro e di esistenza di una giovane coppia, e con il crudele Zappa (id., 1983), sulla fascinazione di un piccolo eroe negativo di liceo; e soprattutto Christian Braad Thom­ sen (n. 1940), il più inquieto da un punto di vista morale-poli­ tico che esordisce con un bel ritratto di giovane moglie che cerca di rompere i condizionamenti di un ambiente confor­ mista, Kaere Irene (Cara Irene, 1971), e dà il suo film più complesso con Kniven i hjertet (Il coltello nel cuore, 1981), inferno quotidiano di un escluso, un postino che sfoga la sua frustrazione affettiva con l’assassinio gratuito di una bambi­ na, ricuperando nel primo caso certe lezioni di Cassavetes e mostrando nel secondo una sensibilità alla Fassbinder di ana­ lisi di rapporti sotterraneamente violenti. Anno dopo anno, si segnalano alcuni titoli importanti: 92 minutter of i gaar (92 minuti in un'altra città, 1978) di Carsten Brandt, breve incon­ tro tra ironico e malinconico di un francese di passaggio e 256

una ragazza danese, quasi muto, emblematico nella sua im­ possibilità linguistica a comunicare; Johnny Larsen (id., 1979) di Morten Arnfred, ritratto di giovane proletario degli anni Cinquanta, ben radicato in quel clima e nei caratteri locali; l’aspro referto Rocking Silver (id., 1983) di Erik Clausen; Forbrydelsens element (L’elemento del crimine, 1984), film noir oscuro, decadente, beffardo, che segna l’esordio temati­ camente provocatorio e a volte irritante nel suo rigoglio espressionistico del giovanissimo Lars von Trier. Ma a indi­ care una vera strada è stata forse soltanto la veterana Astrid Henning-Jensen, ormai ultrasettantenne, che ancora di re­ cente ha mostrato la sua limpidezza di stile e la sua sensibilità di indagine in psicologie femminili in storie di nascita e di morte, tra cui spicca 0jeblikket (Il momento, 1980), incentra­ to su una madre di famiglia e sulla sua serena accettazione di una grave malattia.

L’EMERSIONE DELL’ISLANDA

In Islanda, isola scarsamente abitata (236.000 ab.), che è stata colonia danese sino al 1944, il cinema ha radici antiche, fatte di coproduzioni con paesi scandinavi. A Reykjavik esi­ ste ancora un cinema aperto nel 1906, che è considerato il più vecchio del mondo. Al pioniere Loftur Gudmundsson si deve il primo lungometraggio a soggetto, Milli fjalls og fjòru (Tra monte e mare, 1949). Un piccolo classico è la favola basata sul folclore nazionale Sidasti baerinn i dalnum (L’ultima fat­ toria nella valle, 1950) di Oskar Gislason, uno dei più ap­ prezzati documentaristi assieme a Oswaldur Knudsen, noto per i suoi film sulle eruzioni vulcaniche frequenti nell’isola, e al più giovane Reynir Oddson che nell’ampio Hernamsarin (1966-68) ha trattato dell’occupazione nazista durante la se­ conda guerra mondiale. Negli anni tra il ’44 e il ’79 sono stati girati undici film, i più importanti dei quali sono le coprodu­ zioni della Edda film, realizzate dagli svedesi Ame Mattsson {Saika Valka. 1954), Gabriel Axel e dal danese Erik Balling. La svolta risale al ’79, quando è creato un piccolo fondo d’aiuto statale per ovviare ai costi delle lunghe riprese impo­ ste dal maltempo e alla carenza di strutture (per lo sviluppo,

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si ricorre ai laboratori inglesi e danesi). La frequenza del pubblico resta alta: dodici volte all’anno per abitante. Com­ pagnie come la Isfilm hanno dato spazio a cineasti formatisi alla televisione — operante dal ’66 — o all’estero. Si produ­ cono circa quattro film all’anno che attingono al patrimonio storico nazionale, a quello letterario recente o arcaico di una lingua che poco è cambiata nel corso dei secoli, a quello della cultura popolare, specie di un attivo teatro contadino in gra­ do di sopperire alla scarsità di attori professionisti. Così Agust Gudmundsson si è mosso tra il racconto sociale e rurale anni Trenta di Land og synir (Terra e figli, 1980) e la saga medievale Utlaginn (Fuorilegge, 1981), il vivace rockmovie Med allt a hreinu (Al top, 1982) e la piccola moralità satirica di Gullsandur (Sabbia d’oro, 1984). Hrafn Gunnlaugsson, prima di tentare una mossa saga western con Hrafninn flygur (Quando la vendetta esplode, 1984), si è segnalato con l’ambizioso Okkar a milli (Inter nos, 1982), crisi di un cinquantenne giocata tra realtà e immaginario e risolta in una nuova conciliazione con la natura. È un tema che, fuso con la difesa di forme di vita locali, è presente anche in Atomic station (Centrale atomica, 1983) di Thorsteinn Jons­ son, decoroso adattamento di un romanzo del premio Nobel Halldór Laxness, polemico verso la presenza di basi usa. Mentre altri nomi si sono via via aggiunti, come Hilmar Oddson con Eins og skepnan deyr (La bestia, 1986), in cui l’isolamento nella natura acuisce, anziché pacificare, i tor­ menti interiori, e in Svezia si è messo in luce Larus Y. Oskarsson, una diffìcile situazione finanziaria e l’attenuarsi dell’in­ teresse del pubblico per le novità di un cinema locale hanno dopo 1’85 (tre soli film prodotti) frenato il nuovo slancio creativo.

ANGHELOPOULOS E IL NUOVO CINEMA GRECO

Negli anni Cinquanta il cinema greco esce dal suo ghetto provinciale e si fa conoscere all’estero, almeno ai festival, con le opere di Michael Cacoyannis, Nikos Kunduros, Georgios Tzavellas e altri. Formatosi sui palcoscenici di Londra dove lavorò anche come attore, Cacoyannis (Cipro 1922; vero

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nome: Mikalis Kakoghiannes) si fa notare con Kyriakatiko xypnima (Risveglio domenicale, 1953) di impianto neoreali­ stico, Stella (Stella, cortigiana del Pireo. 1955), commedia popolare che lanciò fattrice Melina Mercouri, To koritsi me ta mavra (La ragazza in nero. 1956), dramma psicologico con Elli Lambetti, e coglie un meritato successo internazionale con Elektra (Elettra. 1962), interpretato da Irene Papas. La sua inclinazione al folclore e all’oratoria, lo sfruttamento del pittoresco melodrammatico, i limiti estetizzanti della sua cul­ tura si fanno però palesi in film di stampo cosmopolita, rea­ lizzati anche con capitali americani, come l’italo-cipriota II relitto (1961), Zorba the greek (Zorba il greco. 1964) che vinse due premi Oscar per la fotografia di Walter Lassally e l’inter­ pretazione di Lila Kedrova, The troian women (Le troiane. 1971) e Iphighenia (Ifigenia, 1977) con cui chiude la trilogia euripidea. Attento alla lezione del neorealismo italiano e dotato di un forte temperamento lirico, il cretese Nikos Kunduros (n. 1926) esordisce con I mayiki polis (La città magica, 1954), su un soggetto analogo a quello di Ladri di biciclette, e si mette in luce con O drakos (L’orco, 1956), dramma satirico di sfon­ do sociale che suscitò curiosità alla mostra di Venezia, e Mikros aphrodites (Giovani prede. 1962), rielaborazione mo­ derna del mito di Dafni e Cloe. Georgios Tzavellas (Atene 1916-1976), commediografo e scenografo, rivela invece un robusto eclettismo, passando dall’epica avventurosa (Mari­ nos Kontares. id., 1947) al dramma popolare (O methystakas. L’ubriacone, 1950), dalla commedia a episodi alla riduzione del teatro classico (Antigone. 1961, anch’esso con Irene Pa­ pas). In assenza della concorrenza televisiva la produzione na­ zionale aumenta (trentuno film nel 1956, centodieci nel 1968), grazie anche all’impulso di una legge di sostegno al cinema, votata nel 1961 per rispondere alla crescente affluenza del pubblico. Verso la metà degli anni Sessanta l’ascesa al potere dell’Unione di centro, guidata da Georgios Papandreu, segna un’effimera svolta democratica nella travagliata vita del pae­ se. È vero che I cento giorni di maggio (1964), documentario di Dimos Theos sul caso Lambrakis — che nel ’68 avrebbe ispirato Z - L'orgia del potere di Costa-Gavras, girato in Algeria — è proibito dalla censura; è vero che non trova

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un’uscita Bioko (Blocco, 1965) sull’occupazione tedesca della Grecia che Ado Kyrou, esule greco a Parigi, surrealista ed esperto di erotismo, tornò a realizzare in patria. Tuttavia nel biennio 1965-66 riescono a filtrare attraverso le maglie della censura economica e politica film coraggiosi, impegnati a rispecchiare i problemi, gli scompensi, le contraddizioni di una società sottosviluppata in un difficile momento di cresci­ ta. Sono Prosopo meprosopo (Faccia a faccia, 1966) di Rovyros Manthulis che descrive, con accenti ferocemente satirici, i rapporti di un giovane istitutore povero con l’ambiente della ricca borghesia affluente; Mehri to plio (Fino al battello, 1966) di Alexis Damianos che analizza in tre episodi il tema dell’emigrazione; Me ti lampsi sta matia (Una scheggia negli occhi, 1966) di Panos Glykofridis che affronta il tema della resistenza antitedesca senza concessioni retoriche, come Ta­ kis Kanellopulos aveva fatto con l’aggressione italiana del 1940 in Uranos (Cielo, 1963), seguito da I ekdromi (L’escur­ sione, 1966). Il colpo di stato del 21 aprile 1967 dissipa le illusioni, blocca i fermenti, spegne l’euforia. Esule a Parigi, Nikos Papatakis è costretto a finire in Francia Les pàtres du désordre (I pastori del disordine, 1967), film visionario e affascinante sulla realtà greca, di piglio genetiano. Figura di rilievo della Parigi esistenzialista, Papatakis aveva già scandalizzato all’e­ sordio con Les abysses (Gli abissi, 1963), metafisica tragedia del Male in cui due sorelle cameriere uccidevano i loro pa­ droni, borghesi grotteschi, ed è tornato nell’87 con I photografìa (La fotografia), ancora tra Grecia e Francia, intelligen­ te racconto di verità e menzogna, di immagini fotografiche e realtà di cui, in una fine un po’ troppo simbolica, resta vitti­ ma un esule della Grecia dei colonnelli. A Parigi si rifugiano anche Manthulis e Kunduros che vi rimaneggia II volto di Medusa, traendone Vortex (id., 1968) e rientra in Grecia nel 1975 per girare il documentario Tragoudia tis fotias sulle pri­ me settimane di libertà democratiche dopo la caduta della giunta militare. Nel 1985 in Bordello (id.) narra le vicende di un bordello di Creta nel secolo scorso, e il film ha un notevo­ le successo. Mentre l’avvento della tv mette fine agli anni grassi del cinema commerciale, facendo crollare l’affluenza degli spet­ tatori (da 128 milioni nel 1970 a 62 milioni nel 1973 con un 260

calo progressivo sino ai venti-trenta milioni degli anni Ottan­ ta, quando la produzione si riduce a 40-50 film), si affaccia alla ribalta un nuovo gruppo di cineasti che fanno capo a una rivista di orientamento paramarxista, «Synchronos kinematographos», auspicando un cinema aperto alle correnti della cultura moderna di tipo nazional-popolare. Comincia per primo Theodoros (Theo) Angelopulos (Ate­ ne 1936) che nel 1970, con una squadra di cinque persone e poveri mezzi, gira in un villaggio dell’Epiro Anaparastasi (Ri­ costruzione di un delitto), film di importanza paragonabile a quella che ebbe Ossessione di Visconti per il cinema italiano. Entrambi i film raccontano la stessa storia — una donna che uccide il marito, aiutata dall’amante — e mettono in primo piano il paesaggio e la sua desolazione. Ricostruzione di un delitto è l’elegia di un paese che muore, dissanguato dall’emigrazione, un rapporto sociologico su un dramma collettivo, un’analisi dei problemi dello spopolamento, della degrada­ zione di una regione di antichissima cultura, dell’intervento repressivo della polizia rappresentato come una metafora globale sulla situazione dell’intera Grecia. Girato a colori con maggiore larghezza di mezzi tecnici, Meres tu ’36 (/giorni del ’36, 1972) precisa e arricchisce lo stile di Ricostruzione di un delitto — con la sua concentrazione sui tempi morti dell’a­ zione e la divisione in blocchi, in parti autonome che lavora­ no per il tutto. E un esempio riuscito di spaesamento, di racconto allusivo di un caso carcerario: un sospetto assassino politico sequestra nella propria cella il deputato amico che gli ha fatto visita. Tutto avviene dietro quella porta, in quella stanza chiusa, luogo del vero senso di trame oscure e compli­ cità, cioè il reale occulto, non-detto, ma che esprime con chiarezza il clima etico e politico dell’inquieta vigilia di una dittatura, quella imposta in Grecia nell’agosto 1936 dal gene­ rale Metaxas con l’appoggio del grande capitale nazionale e straniero, ma che non è nel fondo diversa da quella dei co­ lonnelli sotto cui il film è stato girato. /giorni del ’36 è, in una certa misura, la prova generale di O thiasos (La recita, 1975), il capolavoro di Angelopulos. Girato tra il febbraio e l’estate del ’74, nel pieno della repres­ sione con cui il governo Joannidis reagì ai fatti sanguinosi del Politecnico di Atene del novembre ’73 (ai quali presero parte attiva diversi esponenti del giovane cinema greco), La recita è

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un grande film epico — nei contenuti, ma soprattutto nel linguaggio, secondo l’accezione brechtiana — che traccia una sintesi della storia greca dal 1939 al 1952 attraverso le vicissi­ tudini randagie di una compagnia di guitti all’interno della quale si sviluppa una serie di rapporti ispirati al mito degli Atridi. Per una durata di quasi quattro ore, l’azione si sposta avanti e indietro nel tempo, sul filo di una memoria colletti­ va, in continuo e dialettico passaggio dai fatti privati agli avvenimenti pubblici. Si sono analizzate a iosa le lezioni del suo stile/visione delle cose, dai lunghi piani-sequenza che rimandano ad Antonioni e Jancsó, ma in un’ottica ben diver­ sa poiché scandiscono i «tempi» della riflessione e creano lo «spazio» della storia e istituiscono nessi tra fatti e personaggi, all’uso creativo del teatro, delle canzoni, dei passi di danza, dei movimenti di masse come elementi della ri-costruzione della particolarità storica greca (però, centrale nel contesto strategico delle grandi potenze). Angelopulos, pur non stac­ candosi mai dal realismo della rappresentazione, lo trasfigura con una serie di sintesi spaziali e temporali che sono quelle di un poeta: i tre livelli della narrazione — il teatro, la reincar­ nazione del mito degli Atridi, la storia — procedono paralle­ lamente e coincidono nei momenti di maggiore pregnanza simbolica. Con La recita Angelopulos ha saputo fare quel che dopo la grande epoca sovietica non era più riuscito a nessu­ no: un cinema epico, marxista, costruito coi fulcri brechtiani ridiscussi in funzione del cinema e delle sue capacità ancora così poco esplorate in questa direzione. Con I kynighi (I cacciatori, 1977), terza parte di un’ideale trilogia storica formata da I giorni del ’36 e La recita, Ange­ lopulos continua con coerenza il suo discorso su una partitu­ ra epica e drammatica, penetrando in alcune sequenze — tra cui quella memorabile del ballo col re invisibile — negli incu­ bi e nelle ambiguità della classe dominante. O Megalexandros (Alessandro il grande, 1980), Leone d’oro a Venezia, incentra­ to sulla figura di un bandito patriarca e autoritario e sulla tragica esperienza comunitaria nel suo villaggio di montagna nel 1900, ha convinto meno perché nel suo assillo stilistico, come avvelenato da una sorta di magniloquente ambizione di autore, Angelopulos pecca di autoindulgenza, sfiorando l’ac­ cademismo, il formalismo, il ritualismo fine a se stesso. Nep­ pure Taxidi sta Kythira (Viaggio a Citerà, 1984), in cui un 262

regista vuole fare un film su un ex partigiano di Markos che ritorna in patria dopo trent’anni di esilio in urss, ha davvero convinto, viaggio senza sviluppi nel tempo, quello perduto storico ed esistenziale e quello presente in un nuovo contesto che non accetta e che non lo accetta; ma sembra indicare nel suo itinerario una svolta, l’inizio di una nuova strada, estra­ nea a una scelta stilistica programmatica e anche a certe sue rigide regole tematiche. E una scelta che si esplicita piena­ mente nel notevolissimo O melissokomos (Il volo, 1986), con­ centrato su un solo personaggio, un ex insegnante tornato a essere come i suoi padri un apicultore e reso superbamente da Marcello Mastroianni. Ancora appoggiato sulla durata e sul piano-sequenza che è la cifra peculiare del regista, ma più breve e ravvicinato, è un film di alta tensione stilistica sul silenzio della Storia e sul ripiegarsi neH’interiorità: un consa­ pevole viaggio verso la morte, in lungo e in largo per la Grecia, in interni e paesaggi irrigiditi, estranei. Negli anni Settanta sono emersi nel cinema greco altri registi interessanti: Pandelis Vulgaris che con To proxenio tis Annas (Il fidanzamento di Anna, 1972), tenero nel suo minu­ zioso microrealismo eppur percorso da una rabbia sorda, analizza il costume della società borghese in modi da realista critico e che con Happy day (Giorno felice, 1976), ambientato in un’isola trasformata in un campo di concentramento, al­ lude in forma astratta alla dittatura; Takis Kanellopulos con To chroniko mias kyriakis (Cronaca di una domenica, 1972); Costantin Aristopulos con Topos kraniu (Il luogo del cranio, 1973) dove si riesamina il mito del Cristo sulla scorta di una sacra rappresentazione popolare; Nikos Nikolaidis con Eurydike B.A. 2037 (id., 1973) e Kotas Pheris con Prometheas se deutero (Prometeo in seconda persona, 1974), entrambe ri­ elaborazioni di miti classici, non scevre di cerebralismo lam­ biccato; Elen Budure che con O Karanziokis (id., 1975) ha composto un suggestivo saggio storico-didattico su una po­ polare marionetta del teatro delle ombre (una sorta di Pa­ squino che viene dall’Est, osceno e sboccato), interessante per l’esattezza delle corrispondenze tra figurazioni popolari e si­ tuazioni storiche; Ghiannis Smaragdis con To keli miden (Cella zero, 1975), storia di un ufficiale arrestato e torturato dai suoi colleghi al potere durante la dittatura dei colonnelli; Nikos Panayotopulos con il grottesco sociale di Ta kromata

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tis iridos (I colori dell’iride, 1975), in cui l’assurda scomparsa in mare di uno sconosciuto, filmata per caso, è trattata con scioltezza e gusto da cìnéphile, ma pure nei suoi risvolti socia­ li: c’è chi, come le autorità, ne nega 1’esistenza, chi come un musicista ci perde la ragione sino a ripeterne il suicidio. La fine della dittatura militare, favorita dalla disastrosa avventura cipriota del luglio 1974, e il parziale ristabilimento delle libertà democratiche hanno aperto spazi anche nel campo del documentario. Con Attila 74 (id., 1974) Michael Cacoyannis ha reso una commossa testimonianza sulla san­ guinosa tragedia della natia Cipro, servendosi come operato­ re di Sakis Maniatis che, con Yorgos Tseberopulos, è l’autore di Megara (id., 1975), cronistoria della battaglia condotta dagli abitanti di Megara, a 40 km da Atene, contro l’espro­ prio di diecimila iugeri di terre fertili a favore di un gruppo industriale che intendeva costruirvi una raffineria di petrolio: è un film esemplare per il modo con cui si passa dal piano didattico-informativo a quello politico. Un altro esempio di questo documentarismo impegnato nel rispecchiamento dei problemi sociopolitici della Grecia, ma anche nel ripensa­ mento dei mezzi espressivi, è Martyries (Testimonianze, 1974) di Nikos Kabukidis sui fatti del Politecnico del novembre 1973 e le lotte del movimento studentesco. Questi anni dopo la fine della dittatura e anche dopo l’av­ vento nell’81 del governo socialista di Papandreu, che attra­ verso il ministro per la Cultura Melina Mercouri ha dedicato più attenzione al cinema nazionale, hanno visto una ripresa difficile e lenta in presenza di un mercato controllato dalle compagnie americane e in ogni caso insufficiente a coprire i costi. Rari ed emarginati sono i prodotti che tentano di avere un rapporto serio con la propria realtà e la propria storia, o almeno con il proprio linguaggio. Più che a risultati compiu­ ti, siamo in presenza di spunti e ricerche. Una nuova genera­ zione è venuta alla ribalta, e guarda più alla new wave new­ yorkese e alle esperienze indipendenti. Dal frammentato uni­ verso sperimentale sono venuti lavori interessanti: gli inven­ tivi Viographia (Biografia, 1975), Corpus (id., 1979), Vangelo elettrico (1981) di Thanassis Rentzis, variazioni visive sui te­ mi dell’uomo industriale, del corpo, dell’erotismo; Model (Modello, 1975) di Kostas Sfikas, saggio a piano fisso e ma­ nichini sull’alienazione marxiana; gli stessi più mediati film di 264

Dimitris Mavrikios (Sto dromo tou Lamore. La strada verso Lamore, 1979) e Tonis Liquressis; il duro ritratto di un trave­ stito in Betty (id., 1979) di Dimitris Stavrakas; il militante Petrochimika, i kathedrikes tis erimou (Petrolchimico, catte­ drale nel deserto, 1982) di S. Katseros e G. Sifianos; il «televi­ sivo» I diki tis choundas (Il processo alla giunta, 1981) di Theodossis Thedossopulos. Difficile è trovare nella produzione di questi anni, che ha visto il ritorno sullo schermo del tempo rimosso della guerra civile (1947-49), film di vero rilievo. Semplicismi, compro­ missioni coesistono con motivi di interesse un po’ in tutti, dal quotidiano Repò (id., 1982) di Vassilis Vafeas al confuso ma a tratti suggestivo Roza (Rosa, 1982) di Christophoros Christophis, dal descrittivo I apenandi (I dirimpettai, 1982) di Georgios Panussopulos alle commedie di Nikos Perekis, a qualche lavoro di altri. Kostas Ferris è stato generosamente premiato con un Orso d’argento a Berlino ’84 per un elemen­ tare Rembetiko (id., 1983), quarantanni di storia greca coa­ gulati da una forma di musica popolare. Decorose cronache di lotta partigiana e di ventennale resistenza di una coppia di comunisti sono rispettivamente Kathodos ton ennea (La di­ scesa dei nove, 1984) di Christos Siopachas e Petrina chronia (Anni di pietra, 1985) di Pandelis Vulgaris. È forse l’ultimo, smaliziato film di Nikos Panayotopulos, Variétés (Varietà, 1984), ancora un’esplorazione di quella zona in cui cinema e realtà si confondono, che esprime il meglio ma pure i limiti di respiro dell’attuale cinema greco.

LA «NOVA VLNA» CECOSLOVACCA

Nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961 viene eretto il muro di Berlino. Per un paradosso soltanto apparente, il rigido controllo ideologico sulle arti si allenta dopo la chiusura della frontiera privilegiata con l’Occidente e un «nuovo cinema» può nascere in molti paesi dell’Est, seppure con scarti crono­ logici e di profondità determinati dalle situazioni specifiche di ogni singolo paese. Spesso è, più che in Occidente, in stretto rapporto con il movimento reale della società, ma presenta un fondo comune con le nouvelles vagues europee,

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soprattutto nella negazione del cinema dei padri, nel rifiuto della tradizione cinematografica, nel ricupero di un rapporto «soggettivo» con la realtà, nei personaggi, perlopiù giovani, senza ragioni e radici precise, nella presenza ed esibizione della cinepresa che in alcuni autori, però, coesiste con il «fi­ gurativismo» dell’immagine, nel modo di girare e produrre leggero, senza grandi apparati, senza burocrazie economicopolitiche, sostituite dall’autogestione, dai gruppi di produ­ zione autonomi: insomma, nella resistenza al dirigismo cen­ trale. Alla fine del decennio, i «nuovi cinema» seguono spes­ so la sorte di quei movimenti sociali di riforma che avevano riflesso in modi mediati nelle loro opere e cui in certi casi avevano contribuito, esplicitando nello stesso tempo le pro­ prie insufficienze nella riflessione politica sul proprio lavoro, ma anche restando un punto di riferimento per molte espe­ rienze successive, più condizionate da nuove realtà mediolo­ giche e da contesti sociali quasi dovunque normalizzati. Così, la fioritura del cinema cecoslovacco negli anni Ses­ santa è parallela a quel processo di democratizzazione politi­ ca, riforme sociali ed economiche che, avviato nel ’62, ebbe il suo culmine nella primavera del ’68, la sua fine violenta nel­ l’agosto dello stesso anno con l’intervento armato delle trup­ pe dell’uRss e degli altri paesi del patto di Varsavia e la sua liquidazione ufficiale nel settembre del ’69; ma alla sua origi­ ne c’è anche la riorganizzazione dell’industria cinematografi­ ca di stato con la costituzione di sette gruppi artistici —cin­ que a Barrandov (Praga) e due a Koliba (Bratislava) in Slo­ vacchia — che, in pratica, corrispondono ad altrettante so­ cietà o unità di produzione.

La scuola di Bratislava La divisione tra Praga (dove negli anni Sessanta si produ­ cevano circa trenta lungometraggi all’anno) e Bratislava (otto film in media) riflette la convivenza di due culture, la ceca (Boemia e Moravia a ovest con più di dieci milioni di abitan­ ti) e la slovacca (a est con più di cinque milioni, e una lingua leggermente diversa dalla ceca). Dagli studi di Koliba esce Slinko v sieti (Il sole nella rete) di Stefan Uher che, premiato dai critici cecoslovacchi come il miglior film del ’62 (aveva

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come principale concorrente l'intenso Transport z ràje, Tra­ sporto al paradiso, del boemo Zbynèk Brynych, sui campi di sterminio) e proiettato nel '63 alla Settimana della critica di Cannes, suscita l’attenzione della critica internazionale. Si comincia a parlare di nova vlna, nuova ondata. Pur non esente da incertezze e oscurità simbolistiche, il film — ritratto della prima generazione postbellica, di una gioventù alle prese con uno strisciante malessere esistenziale — rivelò subito, per scelta di temi e di linguaggio, la sua natura di opera di rottura con gli schemi del realismo sociali­ sta e del calligrafismo. Purtroppo dopo Organ (Organo, 1964), lineare storia di guerra nel contesto di una borghesia slovacca filonazista dove continua la collaborazione con lo scrittore Alfonz Bednàr, nei film successivi Uher (Prievidza 1930) non mantenne le promesse, rinchiudendosi in un di­ scorso religioso o parareligioso, pur con intenti ironici nei confronti di ogni dogmatismo e radici affondate nella tradi­ zione surrealistica slovacca. Non si salva nemmeno Genii (I diavoli, 1969), greve, grottesca storia di uomini e diavoli e di processi a un diavolo colpevole di eccessiva «umanità», che era leggibile in chiave allegorica in un momento critico del paese. Interessanti, della scuola di Bratislava, sono anche Peter Solan (Pripad Barnabas Kos, Il caso Barnabàs Kos, 1964), Martin Holly (Sedm obesenych, I sette impiccati, 1968), Eduard Greener (Nylovony mesiac, La luna di nylon, 1965), Stanislav Barabàs (Tango pre mevedva, Tango per un orso, 1966) e Juraj Herz che a Praga si mette in luce con Spalovac mrtvol (L’uomo che cremava i cadaveri, 1968), commedia nera su un uomo qualunque che è trasformato dall’ideologia in un assassino di massa. Il talento più notevole del gruppo slovacco è Jurai Jakubisko (Koiso v 1938) che, dopo Kristove roky (Gli anni di Cristo, 1967), ritratto di un pittore che entra nell’«età della ragione» comprendendo che la vita è fatta di «amore, follia e morte», s’impone anche a livello internazionale con Zbehovia a putnici (Il disertore e i nomadi, 1968) in tre episodi, pessimi­ stica allegoria sulla condizione umana in cadenze di un so­ vreccitato e visionario poema sulla morte, ricco di crudeli e deliranti immagini ma anche di metafore astruse e lancinanti. L’aspro lirismo di Jakubisko, il suo primitivismo figurativo 267

stralunato anche se fecondo di invenzioni, la tempestosa in­ clinazione all’irrazionale e alle deformazioni del reale si ri­ trovano anche in Vtackovia, siroty a blàzni (Gli uccellini, gli orfani e i pazzi, 1969) e, sia pure in toni raffreddati e linguag­ gio più tradizionale, in Tisicrocna vèela (L’ape millenaria, 1983), saga-favola contadina a cavallo del secolo con cui è tornato al lavoro, dopo un decennio di inattività forzata. Avvicinabili a Jakubisko, per palesi affinità di stile e di tim­ bro slovacco, sono il documentarista Dusan Hanàk (322, id., 1968) e il grafico Elo Havetta, immaturamente scomparso nel 1975, che in Sldvnosi v botanickej zahrade (Ricevimento al giardino botanico, 1969) diede un bel saggio di anarchizzante gioia di vivere e di immaginoso surrealismo.

Kafka a Praga Specialmente all’estero, però, la fama del nuovo cinema cecoslovacco è dovuta agli autori cechi di Praga. Si può porre questa scuola sotto l’egida di due padri spirituali, Franz Kaf­ ka e Jaroslav Hasek, il creatore del buon soldato Svejk, e di un fratello maggiore, lo scrittore Bohumil Hrabal, popolare in Cecoslovacchia dopo il 1963, nel quale si attua, come ha osservato Angelo Maria Ripellino, una convergenza della li­ nea metafisica Kafka-Meyrink con quella scurrile-loquace di Hasek. A Kafka si possono collegare Jan Némec, Pavel Juràcek e, almeno in parte, Evald Schorm. Nèmec (Praga 1936) esordisce clamorosamente con Démànty noci (I diamanti del­ la notte, 1964), storia di due giovani prigionieri di guerra, sfuggiti a un lager tedesco e braccati da un gruppo di vecchi della milizia territoriale, che si traduce, in una struttura bina­ ria di realtà e memoria-immaginazione, in un’allucinata me­ tafora di fascinosa tenuta figurativa, non priva di compiaci­ menti estetizzanti. Ancor più denso di reminiscenze kafkiane nel suo acceso surrealismo è O slavnosti a hostech (Gli invitati e la festa, 1966), trasparente apologo sul potere e sul confor­ mismo e l’intolleranza che genera. L’invitato che rifiuta la festa diventa la vittima di una nuova, allucinata caccia. No­ nostante il premio assegnatogli dai critici cecoslovacchi, il film fu bloccato per due anni dalla censura governativa fin­ ché fu esposto al tempestoso festival di Cannes ’68. Dopo

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aver realizzato Mucednici làsky (Martini d’amore, 1967), «suite in forma di rondò» divisa in tre novelle dove il discorso politico si stempera in malinconiche e ironiche storie d’amo­ re, Nèmec s’impegnò a fondo nelle lotte e nei dibattiti della «primavera praghese». Le dedicò, tra l’altro, un festoso lun­ gometraggio documentaristico che, intercalato con le imma­ gini dell’intervento sovietico, uscì poi in Occidente col titolo di Oratorium pro Prahu (Oratorio per Praga). Il regista ne curò l’edizione nella rft dove nel frattempo era emigrato. Passò poi a Parigi e negli usa, e lì si perdono le tracce di questo originale e forte talento che una tragedia politica col­ lettiva ha avvilito e costretto al silenzio. Uno spunto esplicitamente kafkiano è all’origine di Posta­ va k podpirdni (Un tipo da aiutare, noto anche come Josef Kilian, 1963) di Pavel Juràcek e Jan Schmidt, premiato in diversi festival europei, aggressiva metafora, fondata sulla logica dell’assurdo e del surreale (l’impossibilità di riconse­ gnare un gatto che si è affittato), a proposito dell’alienazione, l’indifferenza e la passività in una società socialista deforma­ ta dal potere burocratico. Juràcek (n. 1935) confermò il suo talento con Kazdy mlady mui (Ogni giovane uomo, 1965), in due episodi, arguto e aguzzo film, in bilico tra satira e com­ passione per le reclute durante il servizio militare, e con Prlpadpro zaclnajlclho kata (Il caso del boia debuttante, 1969), ispirato alla terza parte dei Viaggi di Gulliver, che non fu mai distribuito. Il coregista di Postava k podpirdni, Jan Schmidt (Praga 1934), diresse Konec srpna v hotelu Ozon (Fine d’ago­ sto all’hotel Ozon, 1966), scritto da Juràcek, amara favola su un mondo distrutto dalla guerra atomica. Un apologo kafkiano è posto in apertura di Kazdy den odvahu (Il coraggio quotidiano, 1964), designato dalla critica come il miglior film dell’anno. Scritto da Antonin Màsa, il film segnò l’esordio nel lungometraggio di una notevole per­ sonalità di regista, Evald Schorm (Praga 1931), che si muove, però, fuori dai ricorrenti toni surreali-kafkiani per puntare a un naturalismo amaro, di aspirazioni saggistiche e morali, penetranti nella sostanza di una condizione. Itinerario delle disillusioni di un giovane operaio che reagisce con un rifiuto scostante alla miseria piccolo-borghese dei compagni di par­ tito e cui è impossibile vivere sino in fondo la «normalità» della sua bella storia d’amore con una giovane vetrinista, il 269

film appare uno dei più significativi del periodo per la pro­ fondità polivalente del suo discorso, lucido e pessimista, non a caso indigesto per i burocrati della censura che lo bloccaro­ no per qualche tempo, non impedendogli, però, il suo vasto successo internazionale nei festival del ’65. Autore di ottimi documentari, regista di uno dei cinque episodi di Perlicky na dnè (Perline sul fondo, 1965) — una sorta di film-manifesto della nova vlna, ispirato ai racconti di Bohumil Hrabal; gli altri quattro sono di Jiri Menzel, Véra Chytilovà, Jan Nèmec e Jaromil Jires — Schorm affronta ancora il tema della libertà individuale, sottoposta alle pres­ sioni soffocanti delle convenzioni sociali, in Ndvrat ztraceného syna (Il ritorno del figliol prodigo, 1966), storia dei ripetuti tentati suicidi di un ingegnere e film sulla solitudine, riscatta­ ta da una aspra religiosità in Pèt holek na krku (Cinque ragazze da marito, 1967), stavolta sulla solitudine degli in­ namorati, e, inclinando alla commedia venata di satirica iro­ nia, in Fardvuv konec (La fine del sacrestano, 1969), la cui fine è però tragica: il sacrestano che si è fatto passare per parroco e ha duramente contrastato il funzionario politico, si suiciderà, vittima del suo inganno e sogno di rigore. Vittima della normalizzazione che nel 1969 pose fine al miracolo ci­ nematografico cecoslovacco, è anche Schorm, in pratica co­ stretto ad abbandonare il cinema dopo essere tornato ai temi della paura, della solitudine e dell’incertezza in chiave di far­ sa grottesca con Sedmy den, osma noe (Settimo giorno, ottava notte, 1969) in cui un villaggio è ridicolmente preda di un senso di pericolo senza causa né volto. Un villaggio in cui alla fine verranno davvero i carri armati.

1963-68 Nel 1963, anno decisivo della svolta, uscirono, uniti sotto il titolo di U stropu je pytel blech (C’è un sacco di pulci sul soffitto, 1962), due mediometraggi — l’uno su un’indossatri­ ce, l’altro su un gruppo di apprendiste — che per la novità dell’approccio e del linguaggio, influenzato dal cinéma-vérité e dall’underground americano, richiamarono l’attenzione su Vera Chytilovà, che si confermò col suo primo lungometrag­ gio O nécem jiném (Qualcosa d’altro, 1963), ritratto in paral270

telo di due donne, una campionessa di ginnastica e una casa­ linga, e delle loro speculari frustrazioni. Il talento originale della Chytilovà (Ostrava 1929), fantasiosa cantatrice di figure femminili a un tempo reali e immaginarie in cerca di una liberazione, fiorì in un film provocatorio a tutti i livelli, Sedmikràsky (Le margheritine, 1966), ilare inno alla forza positi­ va di un nichilismo eversivo e libertario, impersonato da due bambinacce sfrontate e piene di gioia di vivere e sostenuto da un virtuosismo stilistico di sapido surrealismo (fotografia di Jaroslav Kucera) e da una sapiente scenografia, curata da Ester Krumbachovà, autrice anche della sceneggiatura. An­ cora con la collaborazione della Krumbachovà e di Kucera, la Chytilovà dà un’altra ambiziosa parabola sulle donne in un mondo patriarcale, Ovoce stromu rajskych jimé (Mangia­ mo il frutto dell’albero del paradiso, 1970), seguito da Hra o jablko {Il gioco della mela, 1976), uno dei rari film di rilievo nel grigio panorama del cinema cecoslovacco degli anni Set­ tanta, fresca e maliziosa lezione d’indipendenza di un’infer­ miera verso una tipica figura di maschio-sultano che sente l’aria delle polemiche femministe. Forse l’irriverenza e l’ori­ ginalità dei primi film si sono stemperate in un di più di giochi formali, ma la Chytilovà è in più occasioni riuscita a ritagliarsi un proprio spazio di autonomia creativa, mante­ nendo brio narrativo e capacità di osservazione in Panel story (id., 1979), commedia isterica a frammenti di vite private in un quartiere-dormitorio, e in Faunovo prilis pozdni (Il tardo pomeriggio di Faun, 1983), brillante sino al virtuosismo e crudele ritratto di maturo impiegato-seduttore, altre volte ripiegando in un mediocre professionismo, come nel fanta­ scientifico e forse metaforico Ulci bonda (Lo chalet dei lupi, 1986). Sempre nel ’63 uscirono due altre notevoli opere prime, Krik (Il primo grido) di Jires e Cerny Petr {Lasso di picche) di Forman. Jaromil Jires (n. 1935) racconta, in vivaci e leggere cadenze di commedia neorealista, frantumata da una serie di sconnessioni temporali, la giornata di una giovane coppia di sposi — lei in clinica, lui al lavoro come riparatore di televi­ sori — in trepida attesa della nascita del primogenito. Non mancano in questo limpido film le note gravi — l’angoscia di una minaccia atomica, l’incertezza dell’avvenire — ma sono tenute in sordina. Esigente con se stesso, e poco incline ai 271

compromessi, Jire§ riesce a fare il secondo film soltanto nel ’68, Zert (Lo scherzo), che, tratto da un romanzo del caustico Milan Kundera, è un’accorata e lucida rievocazione del clima soffocante di sospetto degli anni Cinquanta, quando uno scherzo poteva essere visto come deviazionismo e portare ai campi di rieducazione, resi con greve e beffardo naturalismo. Con Valerie a tyden divu (Valerie e la settimana dei miracoli, 1969), aggirando gli ostacoli della nuova situazione politica, sconfina nel territorio del fantastico in un Ottocento in bilico tra realtà storica e sogno, attraverso una storia (attinta dal poeta surrealista Vitèzlav Nezval) dominata dalla potenza malefica di un tiranno che assume di volta in volta le fattezze del potere ecclesiastico, civile, familiare, tutte forme vampiresche della costrizione. Costretto a sopravvivere con film ac­ cettabili nei temi alle nuove direttive, rientra con un film sulla resistenza, ... a pozdravujte vlastovky (...e ricordatemi alle rondini, 1971), basato sul diario di una giovanissima partigiana trucidata dai nazisti durante l’occupazione, ma percor­ so dal suo intimismo e dai suoi spunti libertari, anche se soltanto a fine decennio può riaffrontare i temi che più gli sono congeniali. Strettamente legato al nome di Bohumil Hrabal è l’itinera­ rio di Jiri Menzel (Praga 1938), sin dal suo esordio con quello che è, forse, il migliore dei cinque episodi del collettivo Perlicky na dné, quel Smrt pana Baltazara (La morte del signor Baltazar, 1965), descrizione di una giornata al Gran Premio di due appassionati di corse automobilistiche che vedono morire il loro beniamino, notevole per compattezza di tono e tenuta formale. Le qualità di Hrabal — il senso tragicomico dell’assurdo quotidiano, la malinconica ironia, il lucido at­ teggiamento verso la gente comune — trovano in Menzel un traduttore congeniale. Ne è prova il suo primo film lungo: Ostfe sledované vlaky (Treni strettamente sorvegliati o Quando ramore va a scuola, 1966) — tratto da un suo romanzo — che ottiene un vasto successo internazionale, culminato nel pre­ mio Oscar 1968. Escluso il finale tragico, in questo tenero e ilare film, la cui vicenda è ambientata in una stazioncina ferroviaria nella Boemia occupata dai tedeschi, non c’è nulla di politico o eroico; ma lo stesso finale, di sabotaggio di un treno nazista, soltanto in apparenza contraddice l’atteggia­ mento spregiudicato verso il sesso e la guerra — una lunga

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vacanza alla Radiguet — che è la qualità più originale del film: per l’adolescente fattosi uomo è un atto virile prima ancora che patriottico. Il delicato e minuzioso talento di Menzel trovò una conferma nel gustoso Rozmarné léto (Un’e­ state capricciosa, 1967), tratto da un romanzo di Vladislav Vancura che presentava più personaggi bizzarri e i loro prov­ visori incontri sullo sfondo sospeso e un po’ magico di una cittadina termale. Il successivo Skrivanci na nini (L’allodola sul filo, 1969), descrizione in minore di vita operaia in pro­ vincia in epoca stalinista, fu vittima del «ritorno all’ordine» che indusse Menzel a occuparsi di teatro e a fare piccoli film non scomodi, di una quieta e graziosa eccentricità come Na samoté u lesa (In solitudine presso la foresta, 1976). La fedel­ tà a Hrabal lo ha premiato con Postrizny (Ritagli, 1981), gradevole bozzetto rurale sugli anni Venti, pervaso di allegra e robusta sensualità con un sottofondo di vitalità anarchica e retto dalla sua peculiare scrittura orizzontale, densa di figure, atmosfere, situazioni. È la prima parte di una trilogia com­ pletata da Slavnosti snézenek (La festa dei bucaneve, 1983), ancora da Hrabal, e Vesnicko ma stfediskovd (Il mio piccolo dolce villaggio, 1985), di minuta osservazione della vita di paese, dei suoi tipi resi con precisione nel loro modo di parla­ re, nella loro buffa debolezza umana e sociale. Ancor prima di emigrare con regolare passaporto negli Stati Uniti, il più conosciuto all’estero dei giovani cineasti cecoslovacchi fu Milo§ Forman (Cèsia v 1932). Dopo aver lavorato, come Jires, al famoso teatro praghese della Lanter­ na magica e diretto due pregevoli mediometraggi d’ambiente musicale — Konkurs (Concorso) e Kdyby ty muziky nebyly (Se non ci fosse la musica) entrambi del 1962-63 — di un cine­ ma-verità al servizio di una graffiarne osservazione di costu­ me, Forman fece scuola con Cerny Petr {L'asso di picche, 1963), Ldsky jedne plavovlàsky {Gli amori di una biònda, 1965) e Hory, ma panenko {Brucia, ragazza mia, noto anche come Al fuoco, pompieri, 1967) che approfondivano quel tipo di approccio e gli valsero molte noie dai guardiani del realismo socialista. Tutti sceneggiati in collaborazione con Ivan Passer e Jaroslav Papousek, sono tutte storie che tendono a dissol­ versi nell’attenzione a un personaggio (un giovane commesso alle prese con il primo lavoro e i sogni di sistemazione picco­ lo-borghese dei genitori; una bella operaia sulle tracce, in 273

città, di un suo delusivo sogno d’amore con un pianista di balera) e soprattutto alle situazioni (il ballo dei pompieri di una maligna provincia); sono referti immediati, originalmen­ te spontanei, vitali ma allusivi di un grigiore e malessere reali, sul filo di uno stile che colpisce per la sua decontrazione, ma che rischia presto di farsi maniera, bozzetto. Specie, nell’ul­ timo e più disarticolato caso. Con Menzel, Forman ha in comune un atteggiamento verso la realtà, specialmente quella del mondo giovanile, fatto di comprensione e lucidità, ironia e tenerezza, gaie invenzioni e notazioni amarognole, atteg­ giamento che s’impregna di succhi satirici più corrosivi, per­ sino stridenti, quando è rivolto al mondo degli adulti e del potere costituito. La proibizione del terzo film e gli avveni­ menti del 1968-69 indussero Forman a trasferirsi negli Stati Uniti, conquistandosi fama e Oscar con opere abili e ben condotte quali Qualcuno volò sul nido del cuculo e Amadeus, delle quali si parla altrove. Ivan Passer (Praga 1933), amico e stretto collaboratore di Forman, ha diretto in prima persona il mediometraggio Fddni odpoledne (Un insipido pomeriggio, 1965) da Hrabal, di precisa, sottile unità di tono che gioca sul grigiore e l’insolito di un’osteria di periferia, popolata di fans di calcio e facili signorine, di gente che muore nell’indifferenza e strane av­ venture galanti, e Intimnl osvètlenl (Illuminazione intima, 1965) dove, alle prese con il filisteismo piccolo-borghese di provincia, l’ironia stinge in una malinconia quasi crepuscola­ re. Racconto intimo, segreto del ritrovarsi di due musicisti, l’uno solista a Praga, l’altro appartato nella cittadina dell’a­ zione, è questo il suo film più personale e raffinato, di precisa attenzione al contesto e alle regole di comportamento che esso impone. Ed è uno dei risultati più compiuti di un meto­ do che ha in comune con Forman, teso a ricreare i rapporti quotidiani in tutta la loro ricchezza e variazione. Emigrato a Hollywood con Forman, vi ha realizzato con alterno succes­ so buoni film, non dimentichi della sua tenera crudeltà, a cominciare da II mio uomo è una canaglia (1971). Il terzo membro del trio, Jaroslav Papousek (n. 1929), sceneggiatore della trilogia di Forman e di Intimnl osvètlenl, è rimasto in patria dove, dopo il debutto in Nejkrdsnèjsi vek (L’età più bella, 1968), tre episodi di vita studentesca, ha fatto una serie di film sulla vita di una famiglia piccolo-borghese, iniziata 274

con Ecce Homo Homolka (id., 1970), di grana grossa e di notevole successo, vieppiù perdendosi nel genere.

La generazione di mezzo Anche durante la fioritura di nuovi talenti negli anni Ses­ santa i registi delle generazioni precedenti continuarono la loro attività, spesso con risultati apprezzabili. Almeno all’e­ stero i più noti sono Jan Kadàr (Budapest 1918 - Hollywood 1979) ed Elmar Klos (Brno 1910) che cominciano a lavorare in coppia, secondo un uso diffuso nelle cinematografie dell’Est socialista, realizzando una dozzina di film tra cui Tri pfàni (Tre desideri, 1958), commedia a fondo fantastico proi­ bita dalla censura in fase di controffensiva neostalinista, Smrt si rikd Engelchen (La battaglia di Engelchen, 1963), sulla resi­ stenza antitedesca, Obzalovany (L’accusato, 1964), primo premio al festival di Karlovy Vary, ideologicamente notevole per la sua esplicita denuncia delle disfunzioni staliniste nella società socialista, e Obchod na korze (Il negozio al corso, 1965) che, interpretato dalla famosa attrice polacca Ida Kaminska, fu il primo film di un paese socialista a ottenere negli Stati Uniti l’Academy award. In sagace contaminazione fra tragico e umoristico, è un racconto, ambientato nel ’42 in una cittadina slovacca, sostenuto da una forte tensione morale e da un’analisi drammaticamente efficace della paura e dell’i­ gnavia che spingono la «brava gente» a farsi complice del­ l’oppressore nazifascista. Da solo Kadàr ha firmato l’estetiz­ zante Adrift / Hrst pina vody (Nuda dalfiume, 1969-72), scrit­ to dall’ungherese Imre Gyòngyòssy, girato in Cecoslovac­ chia, edito negli Stati Uniti dove ha diretto Lies my father told me (Le bugie che mi raccontava mio padre, 1975) e Freedom road (La strada della libertà). Altri interessanti esponenti del­ la generazione cecoslovacca anziana sono Zbynèk Brynych, Voytèch Jasny e Karel Kachyna. Assistente di Jiri Weiss, Brynych (Praga 1927) ha dato il meglio di sé in Transport z rdje (Trasporto al paradiso, 1963: Primo premio al festival di Locamo), ricostruzione della storia del ghetto di Terezine, che costituisce uno dei più intensi e rigorosi film sulla perse­ cuzione e lo sterminio degli ebrei. Altrettanto suggestivo, ma con un maggiore ricorso agli effetti, è... apdty jezdec je strach

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(Il quinto cavaliere è la paura, 1964) che descrive una Praga da incubo sotto l’occupazione tedesca. Nella stessa epoca è am­ bientato Jd, spavedlnost (Io, la giustizia, 1968), il suo ultimo film di qualche interesse. Dopo aver lavorato in coppia con Kachyna, a partire da Neni stale zamraceno (Il cielo non è sempre coperto, 1953) con cui si diplomarono alla famu, la scuola di cinema dell’Accademia delle arti di Praga, dalla quale sono usciti quasi tutti i registi della nova vlna, Voytéch Jasny (Kelc 1925) è giunto a rinomanza internazionale con AI prijde kocour (Un giorno, un gatto..., 1963) che, nei modi di una favola elegan­ temente colorata in cadenze di balletto, è un grafitante apo­ logo umoristico sulle difficoltà di realizzare il socialismo «con sincerità e verità». Dopo Dymky (Le pipe. Tre originali notti d’amore, 1965), coproduzione con I’urss, in tre episodi ispirati a racconti di Il’ja Erenburg, operina maliziosa all’in­ segna di uno scherzoso surrealismo, Vsichni dobri rodaci (Tutti i miei buoni compatrioti oppure Cronaca morava, 1968) confermò che Jasny rende al meglio quando filtra la sua inclinazione al moralismo attraverso un romanticismo lirico di ispirazione contadina. Emigrato nella rft, vi ha rea­ lizzato Ansichten eines Clowns (Opinioni di un clown, 1975) da H. Boll, e Fluchtversùch (Tentativo di fuga, 1976). Legato — come Jasny, Brynych, FrantiSek Vlacil, Ladislav Helge — al lirismo formalistico che contrassegnò il miglior cinema ceco di transizione (la cosiddetta generazione del ’56) e che lo storico Antonin Liehm interpreta come una forma di engagement e di protesta contro la rigida e asfittica estetica del realismo socialista, Karel Kachyna (Vyskov 1924) ha le­ gato il suo nome a quello di Jan Prochàzka, prolifico scritto­ re di grande talento assai stimato dalla classe politica dirigen­ te di quel periodo. Tra il 1961 e il 1970 Kachyna e Prochàzka fecero insieme una dozzina di film, il primo dei quali è Trdpeni (Lenka e il puledro selvaggio, 1961), avvicinabile al noto Crin blanc (Criniera bianca, 1952) di Lamorisse. Il migliore, AiIije republika (Viva la repubblica, 1965), rievoca, attraver­ so lo sguardo impietoso e privo di pregiudizi di un bambino, le vicende di un villaggio moravo nelle ultime settimane del­ l’occupazione tedesca, tema al quale si ritorna con l’ammire­ vole Kocdr do Vidnè (Carrozza per Vienna, 1966). I loro due ultimi film — Smèsny pan (Un buffo vecchio, 1969) su una

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vittima delle persecuzioni staliniste degli anni ’50, e Ucho (L’orecchio, 1970), un’amara parabola sugli abusi del potere — furono messi al bando. Diventato uno dei principali ber­ sagli della persecuzione contro gli intellettuali scatenatasi dopo il ’68, Prochàzka morì di cancro nel 1971. La normalizzazione Questo fervido lustro 1963-68 portò alla ribalta intema­ zionale la cinematografia cecoslovacca con la sua straordina­ ria fioritura di ingegni e linguaggi diversi. Senza mai essere un vero movimento, la nova vlna innescò un processo di rinnovamento che travolse vecchie concezioni burocraticoprofessionali del fare cinema e impose una nuova generazio­ ne di cineasti, scrittori, ma anche quadri tecnici, formatisi negli anni precedenti al famu sotto la direzione di Vàvra e Klos. Partecipi del clima diffuso dalle nouvelles vagues, essi affermarono se stessi come autori, liberi da mandati e impe­ rativi ideologici, apportarono una nuova coscienza del cine­ ma come fatto espressivo rifiutando costrittivi apparati tecni­ ci e infrangendo le tradizionali, chiuse strutture narrative. Oscillando tra un’agile, ironica perlustrazione della realtà quotidiana e ampie metafore di sapore kafkiano, di nero pessimismo in cui sono presenti Kafka e il surrealismo, due grandi tradizioni dell’avanguardia ceca degli anni Venti e Trenta, finirono per esprimere per queste vie disagi e males­ seri reali e ossessioni morali e sociali profonde. Si trattava di nuovi linguaggi che offrivano nuovi stimoli e davano corpo a soggettività diverse, che si facevano forme di critica o rifiuto del passato e di reazione al presente, forme di apertura al nuovo in sintonia con le aperture di Dubcek con cui finirono per identificarsi. Nel quadro di questo intenso rinnovamento culturale a tutti i livelli, dall’economia al giornalismo, sembra giusto chiudere il discorso col nome del regista Ladislav Helge che, dopo essere stato uno dei più vivi esponenti della «generazio­ ne del ’56», sacrificò negli anni Sessanta la sua carriera per­ sonale per dare un prezioso contributo alla riorganizzazione produttiva e sindacale dell’industria cinematografica, diri­ gendo soltanto un film, Stud (Vergogna, 1968), ritratto di un

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funzionario politico corrotto dal potere che chiude la sua vita con un penoso fallimento esistenziale. La cosiddetta «norma­ lizzazione» della Cecoslovacchia dopo il 1969 segnò anche la fine del «miracolo» cinematografico. Molti registi — For­ man, Passer, Nèmec, Jasny, Kadàr, Barabàs, Alfred Radok, il fondatore della Lanterna magica, Jiri Weiss, Igor Luther — lasciarono il paese. Nel decennio successivo la produzione di lungometraggi fu ridotta del 50 per cento, attestandosi con poche eccezioni a un livello di mediocrità e di conformismo. Nel 1973 a Praga fu pubblicata una lista dei film proibiti che in pratica era un elenco dei migliori film degli anni Sessanta. Si concludeva con i titoli di alcuni film «proibiti per sempre»: Hory, ma panenko di Forman, Faravuv konec di Schorm, O slavnosti a hostech di Nèmec, Vsichni dobfi rodaci di Jasny. In questi anni che hanno visto riemergere la «vecchia guardia», a cominciare da Karel Stekly, e svolgere un ruolo importante i cineasti più professionali, ha dominato un certo pragmatismo che permette di vivere con più o meno decoro il ritorno all’ordine, i cui rigori si sono attenuati con la fine degli anni Settanta. Se Brynych è stato il regista più attivo dentro i generi e Vàvra ha fatto scontati film ambientati nell’epoca della lotta al nazismo, lentamente — come si è visto — hanno ripreso a lavorare gli slovacchi Jakubisko e Uher, quest’ultimo rivisitando l’eterno tema della guerra at­ traverso lo sguardo di un bambino e su un tono semplice e arguto, specie in Keby som mal pusku (Se avessi un fucile, 1971). Più di recente si è segnalato Zoro Zahon con Pomocnik (L’assistente, 1982), storia di tentate coerenze e di inevitabile solitudine, come lo sono il sobrio Ticha radost (Felicità silen­ ziosa, 1985) di Dusan Hanàk, che racconta la faticosa scelta di autonomia sentimentale e professionale di un’infermiera sposata, e il più metaforico Pavilón Seliem (Il padiglione delle belve, 1982) di Dusan Trancik, amaro, lucido confronto tra un violento guardiano dello zoo (un duro Bekim Fehmin) e il suo giovane e anticonformista aiutante, vittima predestinata. A Praga, accanto ai film citati di Menzel e della Chytilovà, alla decorosa routine di Kachyha senza Prochàzka, sono emersi nomi nuovi come Karel Smyczek con le sue indagini d’ambiente giovanile e Jaroslav Soukup, Vladimir Drha, An­ tonin Moskalik, mentre Jiri Svoboda ha proposto una serie di casi di coscienza tra cui Schuzka se stiny (Incontro con le 278

ombre, 1982), percorso dalle paure e impossibilità affettive di persone un tempo soggette a esperimenti medici nei campi di concentramento nazisti. Da parte sua, Jires ha ripreso a pieno ritmo con una serie di film ora severi ora malinconicamente ironici, che portano il segno del suo poetico interesse per gli esseri indifesi e del suo stile elaborato e tutto ritmo, da Mlady muzabilà welryba (Il giovane e la balena bianca, 1978), ritratto di un’impossibi­ lità di adattamento, a Causa kràlik (Il caso coniglio, 1979) in cui un caso legale di provincia si fa commedia morale scetti­ ca, da Neuplné zatmèni (Eclisse parziale, 1982) in cui le sin­ tomatiche traversie di una ragazzina divenuta cieca, pur viste con concretissima attenzione psicologica, sono leggibili in chiave allusiva al buio della Cecoslovacchia, a Katapult (Ca­ tapulta, 1985), espressione di una voglia di sfuggire a un grigio destino attraverso gli incontri di un «colletto bianco» con più donne «cuori solitari» della piccola posta. Sono forse ancora gli esponenti rimasti in patria della nova vlna a espri­ mere il meglio di questo cinema stabilizzatosi in una produ­ zione attorno ai quarantacinque film all’anno e che nelle opere migliori sembra svariare tra raffinate mediazioni lette­ rarie, da Hrabal e dai surrealisti, da Karel Capck e da Vàclav Rezàc, e l’attenzione ai casi della realtà quotidiana, del tutto rimossa la primavera del ’68.

UNGHERIA: UN CINEMA NELLA STORIA

La tragedia dell’autunno 1956 è il grande tornante della storia ungherese del dopoguerra. Ex perseguitato di Màtyàs Ràkosi ed ex alleato di Imre Nagy, Jànos Kadàr fu l’uomo giusto al posto giusto che seppe gradualmente sostituire il soffocante «silenzio» della repressione con una nuova, duttile linea di socialismo riformato. Le riforme economiche e il riordinamento del mondo produttivo — che riscoprivano i vantaggi della competizione, l’utilità del rischio, il gusto del­ l’impresa e davano spazio al movimento delle cooperative — sono andati di passo, non sempre pari, con una cauta libera­ lizzazione nel campo intellettuale, le amnistie («Chi non è contro di noi, è con noi») che riportarono alla ribalta emi­ 279

nenti personalità variamente compromesse col 1956, come lo scrittore Tibor Déry e il filosofo Gyòrgy Lukàcs. Sia pur schematico e approssimativo, è il quadro di una politica che tra gli anni Sessanta e Ottanta ha saputo conquistarsi il limite massimo di autonomia tra le repubbliche socialiste dell’Eu­ ropa centrale, e fare dell’Ungheria una sorta di laboratorio del socialismo riformato. Pur tra persistenti contraddizioni, dolorose lacerazioni, te­ naci resistenze interne ed esterne, l’Ungheria ha saputo esor­ cizzare quell’intrico di ragioni democratiche, di nazionalismo e di nostalgie irrazionali che aveva innescato la grande fiam­ mata insurrezionale. Nel campo culturale la dittatura del rea­ lismo socialista lasciava il passo a legittime possibilità di esperienze diverse: da quest’apertura, frutto dell’intelligente e relativamente aperta gestione kadariana del potere e di una maggiore disinvoltura rispetto all’ideologia, è nata l’espe­ rienza del nuovo cinema magiaro che, per certi versi, è ancor più feconda di quella della nova vlna cecoslovacca, più conti­ nua e omogenea di quella polacca, caratterizzata da un più profondo interesse per la storia, per il rapporto tra storia e individuo. Il nuovo cinema ungherese che comincia ad affiorare nel 1963 è opera di due generazioni che s’accavallano: la più giovane ha i suoi nomi di punta in Istvàn Szabó, Istvàn Gaàl, Sàndor Sara, Ferenc Kardos, Jànos Rózsa, Ferenc Kósa; quella poco più anziana fa capo a Miklós Jancsó, Andràs Kovàcs, Kàroly Makk, Jànos Herskó. È significativo che, verso la metà del decennio, i film che acquistano notorietà internazionale hanno tutti carattere storico: Szegénylegények (I disperati di Sandor, 1964) di Jancsó è ambientato nella seconda metà dell’800; Hideg napok (Giorni freddi, 1966) di Kovàcs e Igy iòttem (Il mio cammino, 1964) di Jancsó si svolgono durante la seconda guerra mondiale; Husz óra (Venti ore, 1964) dell’anziano Zoltàn Fàbri, Pdrbeszéd (Dia­ logo, 1963) di Herskó, Tizezer nap (Diecimila soli, 1965-67) di Kósa sono rievocazioni del dopoguerra fino a sfiorare i drammatici avvenimenti di quella che ufficialmente veniva chiamata la «controrivoluzione del ’56». Il discorso vale an­ che per i due primi film di Szabó, Almodozasok kora (L’età delle illusioni, 1964) e Apa (Padre, 1966). A differenza di altre cinematografie dell’Est in cui è spesso

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una fuga più o meno obbligata dal presente e un rifugio nell’accademismo, il ricorso alla storia nei cineasti magiari appare come la ricerca dell’identità morale e sociale di un popolo, uno strumento di autoidentificazione collettiva, un veicolo per la formazione di una coscienza sociale (secondo il poeta Endre Ady, «più un popolo è piccolo, più lungo è il suo inno nazionale»), un confronto dolorosamente dialettico e talvolta apertamente polemico con i miti nazionali. Perciò si è potuto parlare di autopsicoanalisi collettiva, e dire che non esiste un cinema più storicista di quello ungherese, più diret­ tamente ideologico. Questo confronto col passato non serve soltanto a contestare i miti, ma a rivelare una profonda veri­ tà: per quanto tragici e crudeli, gli avvenimenti storici non escludono le scelte e le responsabilità degli individui. Non c’è nel cinema magiaro quel fatalismo — quell’accettazione aprioristica e, in fondo, romantica del verdetto anonimo del­ la storia — che contraddistingue il cinema polacco anche nelle sue opere di punta. Quelle di Wajda, per esempio. I cineasti magiari non mostrano la storia come un viluppo di forze anonime e mitiche, ma come un sistema di circostanze e di condizionamenti che forgiano gli atteggiamenti morali, ma che non esimono gli individui dai doveri, dagli imperativi dell’etica. È una tesi che, portata alle estreme conseguenze fin quasi a sfiorare un grottesco parossismo, traspare in Utószezon (Fine stagione, 1967) di Zoltàn Fàbri, l’equivalente un­ gherese del cecoslovacco Negozio al corso, dove un vecchio farmacista si ritiene corresponsabile delle stragi degli ebrei durante l’occupazione nazifascista soltanto per avere pro­ nunciato nemmeno una frase, ma una parola sconsiderata.

Miklós Jancsó

Attivo nel documentario fin dal 1950, dopo alcune parten­ ze false, Miklós Jancsó (Vàc 1921) dà per la prima volta la misura del suo talento in Igy jòttem (t.l. Sono venuto così, 1964; noto come II mio cammino), avvalendosi per la sceneg­ giatura dello scrittore Gyula Hernàdi, di cinque anni più giovane, che rimarrà fino ad Allegro barbaro (id., 1978) il suo assiduo collaboratore. Nel raccontare rincontro e l’amicizia tra un ragazzo ungherese e un soldato dell’Armata rossa che 281

lo fa prigioniero nella primavera del ’45, Igy jòttem è ancora, nel suo fresco e pungente lirismo, un’opera di transizione, aneddotica, psicologica, sentimentale, a tesi, ma rivela già in Jancsó la padronanza dello strumento peculiare del suo di­ scorso, il piano-sequenza. Nella trilogia storica successiva —formata da Szegénylegények (I disperati di Sandor, 1965), Csillagosok, katonak (L’armata a cavallo, 1967) e Csend és kidltds (Silenzio e grido, 1968) — Jancsó mette a punto il suo metodo. In questi film s’affrontano due momenti cruciali della storia ungherese, due episodi di soffocamento dello slancio rivoluzionario: la repressione postquarantottesca e la spietata liquidazione della Repubblica dei consigli nel 1919. In tutti e tre i film Jancsó isola un gruppo di personaggi in un luogo aperto (i patrioti vittime del terrore morale e fisico asburgico del 1869 in I disperati di Sandor, i rossi e i bianchi, a turno «vincitori» e oppressori, nella guerra civile russa di L’armata a cavallo', i rivoluzionari crudelmente perseguiti do­ po la sconfitta di Béla Kun nel 1919 in Silenzio e grido) e analizza i loro rapporti in una geometrica e ieratica azione ritmata da lunghi, sinuosi, circolari piani-sequenza. È un co­ dice poetico che si definisce per una serie di negazioni e rifiuti: non soltanto dell’intrigo narrativo e degli aspetti più esterni del realismo socialista (romanticismo, sentimentali­ smo, ricorso alla propaganda, pompierismo epico ecc.), ma anche della psicologia, dell’illusione del realismo, dei moven­ ti ideologici. Attraverso questo procedimento Jancsó unifica le coordinate spazio-tempo e traspone i moti storici in movi­ menti spaziali, evitando di dare informazioni, spiegazioni, ragguagli, in un movimento circolare «perverso», in una spi­ rale ambigua. Il che corrisponde a una concezione pessimisti­ ca della storia, sentita come complesso di leggi imperscrutabi­ li di cui si possono rappresentare i moti cruenti, ma non le cause, e alle quali si può contrapporre soltanto la pietà del­ l’uomo e per l’uomo che ne è la vittima designata e spesso casuale. Pur se il regista non appare ancora del tutto estraneo a una prospettiva di materialismo storico, sembra chiaro che l’oggetto del suo discorso sono le leggi della Storia in assolu­ to, il Potere come entità in sé, l’eterna vicenda del vinto e del vincitore. In questo senso si può dire che il cinema di Jancsó sia antidialettico o, comunque, sotto il segno di una «dialettica

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negativa», influenzato dal pensiero di Adorno e Horkheimer più che da quello di Lukàcs, non senza gli echi della tematica esistenzialistica dell’uso del potere assoluto come ingranag­ gio fine a se stesso, un’eterna e statica riproduzione. È una reazione alla poetica del realismo socialista che, se non tra­ scina Jancsó verso quell’allegorismo a tesi che caratterizza alcuni cineasti dell’Est socialista come il cecoslovacco Jan Nèmec, ha suscitato discussioni e perplessità, disseminata com’è di ritorni all’indietro e impulsi consolatori; in ogni caso si è via via fatta meno produttiva di quanto fosse appar­ sa ai suoi inizi, quando si trattava di «sciogliere e legare», sciogliere con il passato stalinista e legare con il progetto kadariano. Tema centrale, e ossessionante, di questo cinema è la que­ stione del potere e dell’oppressione, e i rapporti degli uomini con l’uno e con l’altra. Dopo la trilogia della «violenza della storia», comunque di una forza e un respiro rari, Jancsó continua a fare variazioni sul tema: il potere e il nazionalismo patriottico {Téli sirokkó, Scirocco d’inverno, 1969); il potere burocratico e l’entusiasmo giovanile in una società socialista neonata {Fényes szelek, Venti lucenti, 1968); il potere e il fanatismo religioso {Égi bàrany, Agnus Dei, 1970); il potere e la figura del capo carismatico {La tecnica e il rito, 1971); il potere e la rivolta {Roma rivuole Cesare, 1973 — prodotto, come il precedente, dalla rai-tv italiana e, come quello, di un faticoso intellettualismo); il potere e la rivoluzione {Még kér a nép, Salmo rosso, 1972; Szerelmem Elektra, Elettra amore mio, 1974); il potere e la trasgressione come lotta contro il padre {Viziprivati, pubbliche virtù, 1975, film italo-iugoslavo ispirato alla tragica vicenda asburgica di Mayerling con cui Jancsó ritorna al montaggio tradizionale, ma anche a un gusto decorativo e a facili perversioni). Sebbene i sintomi siano visibili sin dall’inizio, a partire da Fényes szelek e soprattutto da Salmo rosso, il suo primo vero film «formalista», quasi un musical, la rivoluzione e i suoi temi sono ridotti (o esaltati, secondo un diverso punto di vista che ha, però, una ragion d’essere soltanto nei suoi film più limpidi e rigorosi: oltre ai due citati, Elettra, amore mio e Téli sirokkó) a sogno, a puro spettacolo. Il cinema di Jancsó diventa un esempio continuo di «jancsismo», cioè maniera, accademia, ripetizione, esercizio di stile, fattosi non di rado 283

cerebrale, criptico. Lo si vede nella fastosa e costosa Magyar rapszódia (Rapsodia ungherese, 1979) col suo seguito Allegro barbaro^ tratti da un dramma teatrale di Hemàdi, e in A zsarnok szive, avegy Boccaccio Magyarorszagon (Il cuore del tiranno ovvero Boccaccio in Ungheria, 1981), gioco di palaz­ zo principesco nell’Ungheria del ’400, tutto a porte chiuse e di studio, e ancora di continuo rovesciamento delle parti e di estenuate coreografie. Lo si vede in L’aube (L’alba, 1985, ispirato a un romanzo del premio Nobel per la pace Elie Wiesel) con cui è tornato al lavoro dopo un lungo silenzio, ritualizzata vicenda di un terrorista sionista nella Palestina del 1948 occupata dagli inglesi, stanco nei suoi dilemmi eticofilosofici di nobile e opaca oratoria e nella consueta ossessio­ ne del piano-sequenza, e anche nel disperato e cifrato Szòrnyek évadja (La stagione dei mostri, 1987) con cui è tornato a lavorare in Ungheria.

Kovacs, Gaal e altri

Mentre Jànos Herskó (Budapest 1926), docente alla Scuo­ la superiore del teatro e del cinema e responsabile di un gruppo di produzione, emigra in Svezia dopo aver fatto Szevasz Vera (Ciao Vera, 1967) e N.N. a haldl angyala (Requiem in stile ungherese, 1970), commedia intrisa di amari succhi satirici, Kàroly Makk (Budapest 1925) — il cui prestigio era legato soprattutto a un’opera intensamente drammatica co­ me Hdz a szikldk alati (La casa sotto le rocce, 1958) e a Megszdllottak (I fanatici, 1961) — riesce a lasciare il segno, dopo alcuni film poco significativi, con Szerelem (Amore, 1970), desunto da due racconti di Tibor Déry, il maggiore scrittore ungherese contemporaneo, e ambientato nel 1953, nella plumbea era rakosiana del sospetto e della paura. Tutto risolto nel confronto a porte chiuse tra una donna ancor giovane (Mari Tòròcsik, fulgida star primaverile del cinema ungherese negli anni Cinquanta) e sua suocera (Lili Darvas, vedova dello scrittore Ferenc Molnàr), resta un ottimo esem­ pio di cinema da camera. Dopo Egy erkòlcsòs éjszaka (Una notte molto morale, 1977), deliziosa e ironica commedia mo­ rale in costume che richiama Maupassant anche per l’ambientazione in una «casa dalla lanterna rossa», Makk ha fatto 284

con Egymàsra nézve (Uno sguardo diverso, 1982) il primo film dell’Est socialista che racconta in modo diretto un rap­ porto lesbico, sottolineando ironicamente che una delle due protagoniste, una giornalista, vive sotto lo stress di due per­ versioni che non procurano mai la felicità: è attratta dalle persone dello stesso sesso ed è incapace di dire bugie e di accettare compromessi. Le due interpreti polacche Jadviga Jankowska-Ciéslak e Grazina Szapolowska ottennero il premio dell’interpretazione al festival di Cannes. Infelice è, invece, Az utolsó kézirat (L’ultimo manoscritto, 1987), greve commedia satirica ispirata a un romanzo di Tibor Déry. Più importante è la personalità di Andras Kovacs (Kide 1925), cineasta che è riuscito a far coincidere spesso la fedeltà al marxismo con la fedeltà alla realtà. Dopo aver contribuito alla rottura col cinema «verniciato» e alla svolta del ’63 con Nehéz emberek (Uomini difficili o Gli intrattabili, 1964), filminchiesta di severa analisi critica della burocrazia socialista, Kovàcs acquista fama internazionale con Hideg napok (Gior­ ni freddi, 1966) in cui la ricostruzione dei massacri perpetrati dalle truppe di Horthy nel 1942, per rappresaglia contro le azioni dei partigiani serbi in una zona di confine con la Iugo­ slavia, mette a fuoco con lucido vigore il rapporto tra respon­ sabilità collettiva e responsabilità individuale, tema ripreso anche nell’austero Falak (I muri, 1967), ventiquattro ore fitte di azioni, luoghi, personaggi, di dialoghi estremamente ela­ borati e di paure ed esitazioni di fronte a un caso scottante. Bekòtòtt szemmel (Ad occhi bendati, 1974), in cui la critica dello stalinismo s’accompagna a quella della religione, e A ménesgadza (Il recinto, 1978) in cui il clima degli anni di Ràkosi è rivissuto nel chiuso di una fattoria-campo di lavoro per ex ufficiali dell’esercito di Horthy, confermano le qualità e la coerenza problematica di Kovàcs: il lucido e razionale coraggio della tematica etico-politica; la volontà di spingere a fondo l’autocoscienza dell’individuo nei confronti della col­ lettività; la spregiudicata analisi dei problemi e delle contrad­ dizioni di una democrazia socialista a partito unico; il ruolo dell’intellettuale e l’esigenza di dire la verità su «ciò che con­ ta»; il posto dominante dato al dialogo in funzione didattica e dialettica; la capacità di raccontare una storia, intreccian­ dovi un discorso a vari livelli, in continua spola tra privato e pubblico. A questo rigoroso itinerario registico non aggiun­

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gono molto Októberi vasàrnap (Una domenica d’ottobre, 1979) e Ideiglenes paradicsom (Paradiso provvisorio, 1981), entrambi ambientati durante la seconda guerra mondiale, e tanto meno Vòròs grófnò (La contessa rossa, 1985), banale film in costume sugli anni di transizione dopo la fine del dominio asburgico. Un posto particolare occupa invece Labirintus (Labirinto, 1976), racconto di un film che un regista non riesce a finire, e riflessione sulla libertà dell’artista, che costituisce una delle sue opere più ambiziose per complessità tematica ed elaborazione stilistica. Dopo essersi diplomato al Centro sperimentale di Roma, Istvàn Gaàl (Salgótarjàn 1933) rivela nei suoi primi film — Sodrdsban (Vortici, 1963), Zòldàr{Anni verdi, 1965), Keresztelò (Battesimo, 1968), Holt vidék (Paesaggio morto, 1972) — un’apertura ai nuovi fermenti stilistici del cinema europeo e una ricerca formale nella correlazione tra immagini, atmosfe­ ra e ambiente che gli danno un posto particolare nel pano­ rama del nuovo cinema ungherese. I suoi film sono quasi tutti al presente, ma strettamente legati alla memoria del passato attraverso il flash-back o il dialogo o anche il pae­ saggio, con una particolare attenzione per i problemi esisten­ ziali della propria generazione e i rapidi mutamenti imposti all’Ungheria rurale dallo sviluppo industriale. All’estero si impone soprattutto con Magasiskola (Alta scuola, 1970, in Italia: Ifalchi), il suo primo film su sceneggiatura altrui in cui l’addestramento dei falchi per la distruzione degli uccelli no­ civi all’agricoltura diventa una suggestiva e amara parabola sul potere e la repressione nella società. È il suo film più compiuto, più rarefatto e formalizzato. Dopo un lungo pe­ riodo di inattività Gaàl è tornato al lavoro con Legato (id., 1977), Cserepek (Cocci, 1981), ritratto di un intellettuale che si vede crollare intorno ogni certezza, ogni valore, e nel 1985 con un film-opera da Orfeo e Euridice di Gluck (Orfeusz es Euridike), rischiosamente ambientato in esterni naturali.

La Scuola di Budapest Insieme con Sàndor Sàra, prestigioso operatore che passa alla regia con Feldobott kò (La pietra lanciata, 1968), il gio­ vane Gaàl si era aggregato, al ritorno da Roma, allo Studio 286

sperimentale Béla Balàsz, costituito nel ’58 come club di ci­ nephiles e rifondato nel ’61 per iniziativa dei giovani autori appena usciti dal celebre corso di Félix Mariàssy: Imre Gyòngyòssy, Ferenc Kardos, Jànos Rózsa, Zolt Kézdi-Kovàcs, Judit Elek, Pài Gàbor, Zoltàn Huszàrik (geniale grafico e disegnatore che muore a cinquant’anni, nel 1981), il bulga­ ro Eduard Zahariev. Finanziato con un fondo speciale, lo Studio Balàsz ha svolto per vent’anni un’intensa attività pro­ duttiva nel campo del documentario e del cinema sperimenta­ le, contribuendo, alla fine degli anni Sessanta, alla nascita della cosiddetta Scuola di Budapest, caratterizzata dalla con­ taminazione tra documentario e fiction. Sotto la spinta dei soci fondatori e dei più giovani allievi lo Studio Béla Balàsz varò nel 1969 un programma di documen­ tari sociologici, fondato su un preliminare lavoro di ricerca scientifica. Nello spirito dei loro autori questi documentari avevano come modello alcuni film di qualche anno prima, specialmente Cigdnyok (Gli tzigani, 1962) di Sàndor Sàra e Nehéz emberek (1964) di Kovàcs. In quest’ambito si misero in luce Judit Elek {Istenmezején, Un villaggio ungherese, 1974; Egyszeru tortenet, Una storia semplice, 1975), Istvàn Dàrday {Jutalomutazds, Viaggio in Inghilterra, 1974; Filmregény-Hdrom nover, Filmromanzo - Tre sorelle, 1977), Gyula Gazdag e Judit Ember (A hatdrozat, La decisione, 1972), Imre Gyòngyòssy e Bama Kabay {Két elhatdrozds, Due decisioni, 1977; Orvos vagyok, Il dottore, 1979), Pài Schiffer {Cséplò Gyuri, Gyuri, 1977; A kovetkezò évtized, Il prossimo decen­ nio, 1981), Pài Zolnay {Fotografìa, 1972), Andràs Der e Làszló Hartai {Szénplednyok, Le più belle, 1986).

Istvan Szabó C’era anche Istvàn Szabó tra i fondatori dello Studio Ba­ làsz per il quale realizza una mezza dozzina di ottimi corto­ metraggi, premiati anche all’estero, il che gli permette di esordire nel lungometraggio quando ha appena ventisei anni con Àlmodozàsok kora (L’età delle illusioni, 1964), fresca commedia giovanile, seguita da Apa {Ilpadre, 1966), storia di un giovane che vive nel culto dell’immagine idealizzata del padre, figura morale di eroe morto durante la guerra, fine 287

nell’evocazione dell’universo dell’infanzia ma meno convin­ cente nelle parti che più investono le pratiche politiche del decennio ’45-56. A differenza di Jancsó e Gaàl, Szabó (Bu­ dapest 1938) è un cineasta urbano dal percorso stilistico non lineare, caratterizzato da un assillo continuo di rinnovamen­ to. Tra Szerelmesfìlm (Film d’amore, 1970) e Budapesti mesék (Racconti di Budapest, 1976), entrambi viziati da un lirismo manieristico e simbolistico di dubbia qualità, Szabó fa centro con Tuzoltó utca 25 (Via dei Pompieri 25, 1973), intenso e polifonico spaccato di un vecchio caseggiato in cui s’intrec­ ciano vicende, sogni, ricordi, incubi dei vari inquilini che l’hanno abitato, sino a comporre come un’unica esperienza collettiva lungo trent’anni di vita e di storia ungherese. Dopo Bizalom (La fiducia, 1979), dolorosa storia d’amore a porte chiuse sullo sfondo della Budapest desolata degli ultimi mesi di guerra, Szabó ottiene un meritato successo internazionale — e un premio Oscar — con Mephisto (id., 1981), tratto da un romanzo di Klaus Mann in cui sotto il velo della finzione è tracciata la parabola esistenziale e artistica del celebre atto­ re e regista tedesco Gustav Griìndgens (1899-1963). Imper­ niato su una memorabile interpretazione di Klaus Maria Brandauer, Mephisto svolge con fertile ambiguità il tema dei rapporti dell’intellettuale col potere, ma è anche una parabo­ la sul teatro, una riflessione sulla grandezza e le miserie del mestiere dell’attore, calata in una sontuosa e suggestiva rico­ struzione dell’epoca nazista. Szabó ha tentato di ripetere l’o­ perazione con Redi ezredes (Il colonnello Redi, 1985), incen­ trato su un’ambigua figura di alto ufficiale asburgico, ebreo galiziano a totale servizio dell’ideologia imperiale e per essa suicida. Anch’esso interpretato da Brandauer, è un film forse anche più asciutto e denso di riferimenti culturali e storici, ma necessariamente meno coinvolgente.

Talenti ed esperienze diverse

I quattro gruppi di produzione (cinque, poi ridotti a quat­ tro, negli anni Ottanta: Budapest, Dialog, Hunnia, Objectiv e Tàrsulàs) che fanno capo alla Mafilm (Magyar filmgyàrtó vàllalat), producono in media diciotto-ventidue lungome­ traggi all’anno, oltre a documentari, corto e mediometraggi 288

di vario genere, film d’animazione e per bambini. Un dizio­ narietto, pubblicato nel 1983 dall’Hungarofilm, comprende 129 voci di registi attivi dopo il 1948. Anche togliendo i deceduti e quelli che lavorano prevalentemente per la tv, si può calcolare che il cinema ungherese conti stabilmente su una settantina di professionisti della regia che, anche quando non sono direttamente impegnati in film propri, hanno la possibilità di continuare a far pratica in qualche lavoro di squadra. Questa organizzazione produttiva ha permesso la fioritura di notevoli ingegni diversi. Ferenc Kósa (Nyiregyhàza 1937) ha legato il suo nome al film d’esordio, Tizezernap (Diecimila soli) che, terminato nel 1965, rimase bloccato per due anni e vinse nel 1967 il premio della regia a Cannes. Ancorato nella migliore tradizione del populismo magiaro, racconta, attraverso le vicende di un povero contadino, la saga di un villaggio nell’arco di trent’anni (diecimila giorni), sviluppando il tipico tema del con­ fronto tra passato e presente che diventa anche la forma del film, poetica ai limiti dell’estetismo. Un’altra rivoluzione contadina, ma del xvi secolo, guidata da Gyòrgy Dózsa, è al centro di Itélet (Il giudizio, 1970), vasto e più che decoroso affresco realizzato in coproduzione con Romania e Cecoslo­ vacchia. Più ancora che in Kuldetés (Ritratto di un campione, 1977), polemico documentario su Andràs Balczó, campione del mondo di pentathlon, Kósa ha continuato il suo discorso sulla forza del dissenso, su una ricerca etica di libertà come necessario rapporto con un senso collettivo, con Nines idò (Fuori del tempo, 1973), mosso e a tratti barocco film carcera­ rio, protagonisti tre militanti comunisti degli anni Venti che attuano uno sciopero della fame che finirà con la loro morte e una presa di coscienza collettiva: carcerieri e carcerati leg­ gibili anche come metafora attuale. Attuale — il pacifismo di fronte al pericolo atomico — è anche il tema di Guernica (id., 1982), film rigoroso nella prima parte, ma opaco e persino bolso nella seconda ambientata in Occidente. A salvarlo in parte è il consueto pessimismo attivo di Kósa. Nel gruppo di film che, in modi critici più o meno obliqui, hanno affrontato il tema dello stalinismo, risaltano Mérsékelt égòy (Zona temperata, 1970) e, molto noto anche all’estero, Angi Vera (id, 1978). Col primo esordì Zsolt Kézdi-Kovàcs (n. 1936), dopo essere stato per cinque anni assistente di 289

Jancsó: è un buon esempio, anomalo nel cinema ungherese, di cinema da camera, fondato sul confronto fra tre personag­ gi. L’anticonformismo, il gusto per le situazioni estreme, la capacità di visualizzare l’azione drammatica di Kézdi-Kovàcs hanno dato risultati convincenti in Ha megjòn József (Quan­ do Giuseppe ritorna, 1975), che vanta in Lili Monori e l’an­ ziana Èva Ruttkai due eccellenti interpreti, e in Visszaesòk (I recidivi, 1982), storia dell’appassionato rapporto tra due fra­ tellastri, variazione sul tema dell’amore-passione che non co­ nosce né leggi né ostacoli, ambientata nel mondo contadino e raccontata con la scrittura asciutta e distaccata di un osserva­ tore impassibile. Angi Vera è il ritratto ben articolato di un’infermiera che nei primi anni del dopoguerra stalinista diventa funzionarla di partito, usata nei suoi slanci di pulizia morale per le finali­ tà di un potere autoritario. Ben radicato in un clima di quoti­ diano sospetto, è il film migliore e più complesso, oltre che il più rinomato, di Pài Gàbor (Budapest 1932) che appartiene al novero dei moralisti allineati, attento ai dilemmi personali, alle condizioni costrittive in cui gli individui si trovano ad agire e a fare le proprie scelte, mediando attraverso essi l’ana­ lisi critica della società ungherese. Un passato di insegnante spiega le sue preoccupazioni didattiche in film spesso centrati sulla critica della burocrazia in fabbrica e sul malessere delle giovani generazioni: Tiltott terulet (Territorio proibito, 1968), Utazds Jakabbal (Viaggio con Giacobbe, 1972), Kettévàlt mennyezet (Vite sprecate, 1981). Un altro ritratto femminile, di vedova bianca interpretata da Angela Molina, ha tentato di dare in Italia con l’esteriore La sposa era bellissima (1987). Dopo aver svolto un’intensa attività di sceneggiatore negli anni Cinquanta e aver insegnato drammaturgia alla Scuola superiore di cinema, Péter Bacsó (KoSice, Cecoslovacchia 1928) esordisce nella regia con Nydron egyszerù (In estate è semplice, 1963) e da allora, caso raro nel cinema ungherese, ha fatto un film all’anno — diciannove film in venti anni — cimentandosi con i vari problemi del passato prossimo e del presente, dalla repressione politica durante il regime rakosiano (Nydr a hegyen, Un’estate sulla collina, 1967) agli espatri clandestini (Kitorés, Rompere il cerchio, 1970). I suoi perso­ naggi, che appartengono alla classe operaia, cercano di «ri­ manere rivoluzionari in un paese dove la rivoluzione ha vin­ 290

to», ma spesso sono sconfìtti nella lotta contro l’egoismo, l’avidità, l’ottusità e la routine burocratica. Si passa dal dramma alla commedia, alla tragicommedia allegorica come Forró vizet a kopaszra (Il barbiere rasato, 1973) e A tanu (Il testimone, 1969) sui processi politici degli anni Cinquanta, che fu proibito per dieci anni, suscitando poi un vasto inte­ resse, ma che oggi appare troppo farsesco e troppo giustificazionista di un eroe ambiguo per rappresentare un vero di­ scorso politico sui processi staliniani degli anni Cinquanta. Bacsó ha anche un posto di grande responsabilità come diret­ tore di un gruppo di produzione, il Dialog. Un altro film bandito dagli schermi in quel periodo fu Agitatorok (Gli agitatori, 1969) di Dezsò Magyar, ambienta­ to nel 1919, al tempo della repubblica dei consigli, probabil­ mente perché echeggiava questioni e problemi dibattuti in Ungheria da sociologi marxisti in odore di eresia, da un gruppetto di filosofi usciti dalla scuola di Lukàcs e da giovani radicali, tutti interessati alle teorie rivoluzionarie in voga ne­ gli ultimi anni Sessanta. Dopo un apprendistato allo Studio Balàsz, Jànos Rózsa (n. 1937) fa un brillante debutto, al fianco di Ferenc Kardos, con Gyerekbetegségek (Smorfie, 1965), in cui la condizione dell’infanzia è raccontata in episodi in bilico tra lirismo sen­ timentale e ironia grottesca. È un tema sul quale torna spes­ so, specie con Àlmodó ifjusàg (Gioventù sognatrice, 1974), poetica trasposizione di un romanzo autobiografico di Béla Balàsz, e soprattutto Vasdrnapi szulòk (I genitori della dome­ nica, 1979), apparente semidocumentario su ragazze di un centro di rieducazione, percorso da un duro senso di irrecu­ perabile rifiuto. Posto sotto il segno di un problematico spiritualismo cri­ stiano e di un profondo amore per l’Ungheria rurale e per le sue minoranze etniche, Imre Gyòngyòssy (Pecs 1930) — che patisce per qualche anno il carcere nei rakosiani anni Cin­ quanta — comincia tardi a scrivere per il teatro e il cinema (Zolddr. Tizezer nap), ma la sua opera prima Viràgvasarnap (La Domenica delle Palme, 1969) lo impone all’attenzione della critica europea per il singolare impasto di storia, leg­ genda, politica e religione in cui le tragiche vicende della repubblica dei consigli del 1919 sono confrontate con la pas­ sione del Cristo. L’inclinazione a un acceso simbolismo si 291

accentua nei film successivi, specialmente in Meztelen vagy (Leggenda tzigana, 1971), e trova un correttivo nel sodalizio registico col più giovane Barna Kabay (n. 1948), a partire da Két elhatdrozds (Due decisioni, anche Una storia molto ordi­ naria, 1977), finanziato anche dalla seconda rete della tv tedesca, straordinario ritratto in piedi di una vecchia conta­ dina, soggetta ai cataclismi storici del secolo. L’interesse del film nasce dalla fusione tra invenzione e presa diretta sulla realtà, pratica che i due registi applicano anche in altri film tra cui conta soprattutto Pusztai emberek (Gente della pusz­ ta, 1981), mentre tornano alla finzione con Job Idzaddsa (La rivolta di Giobbe, 1983) che ottiene una nomination al premio Oscar, e Yerma (id., 1984) da Garcia Lorca. Alimentato dalle ricerche sperimentali dello Studio Balàsz c’è nel cinema ungherese una corrente formalistica di grande interesse che ha trovato il suo esponente più geniale in Zoltàn Huszàrik (1931-1981), dalla vita avventurosa alla Jack Lon­ don, per il quale il cinema è stato un’estensione del suo lavo­ ro di grafico. Oltre a Elégia (id., 1965), lirico e surrealistico requiem per il cavallo, A piacere (id., 1974), poetica escursio­ ne attraverso i miti della vita e della morte, e altri cortome­ traggi, Huszarik ha fatto, prima della morte prematura, solo due film lunghi di grande splendore figurativo che occupano un posto unico nel panorama del cinema magiaro: Szindbdd (Sindbad, 1971), fotografato da Sàndor Sara e tratto dal ro­ manzo dello scrittore Gyula Krùdy, e Csontvdry (id., 1979), opera di complessa struttura che ricostruisce la vita di Tivadar Csontvàry (1853-1919), famoso pittore ungherese, segue il percorso — da lui detto il «viaggio del Sole» — lungo il quale i suoi quadri videro la luce e rende omaggio alla me­ moria dell’attore Zoltàn Latinovits che, dopo essere stato protagonista di Szindbdd, si accingeva a impersonare Csont­ vàry. Poco prolifico come regista (tre film in dieci anni), ma intensamente impegnato in attività sociali, Làszló Lugossy (n. 1939) ha esordito con Azonositds (Identificazione, 1975), premiato al festival di Berlino, e ha colto una bella afferma­ zione con Szirmok, virdgok, koszoriìk (Fiori, petali, corone, 1985) in cui, con mano ferma e sapiente e con un approccio a un tempo romantico-fatalista e morale, rievoca la breve guer­ ra del 1848-49 per l’indipendenza della nazione ungherese

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contro gli austriaci. In una posizione eccentrica si situa Làszló Szabó (n. 1936), attore e regista che dopo il 1956 fa la spola tra Budapest e Parigi e che, dopo aver realizzato due film in Francia, ha diretto in patria Sortùz egy fekete bivalyért (Salva per un bufalo nero, 1984), commedia bizzarramente dolcea­ mara. Anche Pài Sàndor (n. 1939) e Gyòrgy Szomjas (n. 1940) hanno fatto il loro apprendistato nell’ambito dello Studio Balàsz. Sin dal suo esordio in Bohóc a falon (Clown al muro, 1967) il primo ha dato prova di un talento visionario che, appoggiato a un raffinato virtuosismo tecnico, inclina alle atmosfere allucinate e alle scenografie decadenti in film che rievocano i momenti salienti della storia ungherese: il 1919 con Herkulesfiìrdòi emlék (I bagni di Ercole, 1976), la guerra mondiale con Szabadits meg a genosztól (Liberaci dal male, 1977), la rivolta del ’56 e l’esodo verso l’Occidente con Szerencsés Daniel (Daniele prende il treno, 1982). Dopo due film — Talpuk alatt futyulaszél (Il vento soffia sotto i piedi, 1976) e Rosszemberek (I malvagi, 1979) — sul mondo dei briganti (betyar) dell’ottocento, Szomjas ha messo a frutto i suoi interessi sociologici in due spregiudicati racconti di ambiente giovanile contemporaneo, Kopaszkutya (Cane calvo, 1981), su un gruppo vagabondo di musicisti rock, e Kònnyu testi sértés (Ferite leggere, 1983), storia di un tempestoso ménage à trois di giovani sottoproletari. Tra i registi della generazione nata dopo la guerra merita­ no una menzione: Péter Gothàr (n. 1947) che ha diretto Ajàndék ez a nap (Un giorno speciale, 1979), Leone d’oro per l’opera prima a Venezia nel 1980, sottile ritratto di un adulte­ rio e di crudi rapporti interpersonali, e Megàll az idò (Il tempo sospeso, 1981), in cui tenta il ricupero di un tempo adolescenziale e di un tempo politico primi anni Sessanta; Ferenc Andràs (n. 1942) che esordisce brillantemente col sa­ tirico Veri az òrdòg a feleségét (Il diavolo batte la moglie e marita la figlia, 1977), premiato al festival di Karlovy Vary. Il suo Dògkeselyu (L’avvoltoio, 1982), robusto film d’azione, è un sintomo interessante di una recente tendenza del cinema ungherese, dettata dalla necessità di fare i conti con il merca­ to (settanta milioni di frequenze all’anno, ma soltanto il 1820 per cento per i film nazionali). Si sono imposti: Gàbor Body (n. 1946, morto suicida nell’85) con film in cui il gusto

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per il fantastico e l’onirico è sostenuto da una tecnica brillan­ te: Amerikai anzix (Ricordo d’America, 1975), Ndrcisz és Psyché (Narciso e Psiche, 1980), Kutya éji data (Il canto not­ turno del cane, 1983); Andràs Jeles con A kis Valentino (Il piccolo Valentino, 1979) e Angyali iidvòzlet (L’annunciazio­ ne, 1984), trasposizione del famoso poema La tragedia del­ l’uomo di Imre Madach, interpretata da bambini; il talentoso Gyula Gazdag (n. 1947) che, dopo aver avuto il privilegio di esordire nel lungometraggio a ventiquattro anni con A sipoló macskakò (Il selciato che fischia, 1971), ha fatto ammirevoli documentari per lo Studio Balàsz ed Elveszett illuziók (Illu­ sioni perdute, 1982), curiosa trasposizione nell’Ungheria de­ gli anni Sessanta dell’omonimo romanzo di Balzac; Béla Tarr (n. 1955) che, passato dal cinema amatoriale allo Studio Ba­ làsz, si è imposto all’attenzione della critica con Panelkapcsolat (Rapporti prefabbricati, 1982) dove affronta con originale linguaggio i condizionamenti del consumismo e la crisi della coppia; Pài Erdòss (n. 1947) che ha dato con Adi kirdly katondt (La principessa, 1983), amaro ritratto di una solitudine esistenziale, quella di un’operaia adolescente, e Gondviselés (Tolleranza, 1986), sui figli dei carcerati dati in affidamento, due buoni esempi di cinema civile stilisticamente sciolto, sen­ sibile, di una discrezione quasi documentaria. Le donne registe Nel biennio 1968-69 fanno il loro esordio nel lungome­ traggio tre donne: Màrta Mészàros, Judit Elek e Livia Gyarmathy. Figlia di un noto scultore, morto con la moglie in un campo di concentramento sovietico, cresciuta nell’Unione Sovietica dove fu rispedita a studiare negli anni Cin­ quanta, ex moglie di Jancsó, la Mészàros (Budapest 1931) si è conquistata notorietà anche in Occidente (a Parigi e a Lon­ dra, ma non in Italia dove fu distribuito soltanto il suo quar­ to film Szabad lélegzet, Senza legami, 1973) per il fine e pene­ trante intimismo con cui ha analizzato la crisi dei valori tra­ dizionali, affrontando specialmente i problemi della coppia e della maternità. Le tragiche vicissitudini della sua vita privata affiorano spesso in modo allusivo nei suoi film dove sono sempre i personaggi femminili a portare il peso dell’inquietu­ 294

dine, del malessere, dell’ansietà sociale: un’operaia alla ricer­ ca della madre in Eltàvozott nap (Un giorno finito, 1968); una vedova il cui marito, famoso economista, muore tragicamen­ te (Holdudvar, Alone di luna, 1969); il difficile amore tra un’operaia e il figlio di un affermato membro della nuova borghesia in Senza legami', la difficile lotta di una donna per un’autentica emancipazione in Òròkbefogadas (Adozione, 1975), Orso d’oro al festival di Berlino, un successo che le permette di fare poi con regolarità un film all’anno, spesso in coproduzione con società francesi, ricorrendo ad attrici stra­ niere come Marina Vlady (Kilenc hónap, Nono mese, 1976; Òk ketten, Loro due, 1977), Anna Karina (Qlyan, mint otthon, Come a casa, 1978), Isabelle Huppert (Òrókség, Le ere­ ditiere, 1980), Marie José Nat {Anna, 1981) oltre al suo predi­ letto interprete maschile, il polacco Jan Nowicki, protagoni­ sta anche di Napló (Diario, 1982-84), bloccato per due anni, in cui, rielaborando un’altra volta le proprie vicende persona­ li in un’angosciata rievocazione del periodo rakosiano, la Mészaros trasforma la cronaca di una educazione sentimen­ tale in lezione di storia. E un racconto a base autobiografica che ha avuto un seguito con Napló szerelmeimnek (Diario per i miei cari, 1986), negli anni fino al 1956, un film ugualmente suggestivo anche se, specie nella parte moscovita, più confu­ so. In entrambi la fotografia in bianco e nero è opera di suo figlio Miklós Jancsó jr. Diverso è l’itinerario di Judit Elek (n. 1937) che appartiene alla prima generazione dello Studio Béla Balàsz dove ha di­ retto alcuni pregevoli documentari in linea con i principi della Scuola di Budapest. È poi passata al cinema di fiction con Sziget a szàrazfóldón (L’isola in terraferma, 1969), com­ mosso ritratto di una donna anziana che cerca inutilmente di adattarsi ai mutamenti della società e dei tempi, e Majd holnap (Forse domani, 1979), che intreccia più esistenze sfasciate e più personaggi di una mezza età in crisi, l’uno e l’altro di un’attenta ma un po’ diluita quotidianità. Non a caso, i suoi esiti più notevoli sono nel campo del documentario sociale e antropologico con una intelligente applicazione delle tecni­ che del cinema diretto in Istenmezején (Villaggio ungherese, 1974) e Egyszeriì tórténet (Una storia semplice, 1975), doppio ritratto di ragazze di campagna che hanno tentato il suicidio. Anche Livia Gyarmathy (n. 1932) è ricorsa al metodo del 295

cinema diretto per i suoi primi documentari sociologici prima di passare alla fiction con Ismeri a Szandi-Mandit? (Conoscete «Sunday-Monday»?, 1968) dove, in bizzarre cadenze di commedia stralunata, mette a frutto la sua diretta conoscen­ za della vita in fabbrica come laureata in chimica, iniziando anche la sua collaborazione col marito Géza Bòszòrményi, regista di Maddrkdk (I due ingenui, 1971) e Szivzur (Cuori straziati, 1981). Attenta soprattutto ai temi della disgregazio­ ne e dei conflitti familiari da Minden szerdan (Ogni mercoledì, 1979) a Egy kicsit én... egy kicsit te... (Un po’ me... e un po’ te..., 1984), la Gyarmathy ritorna periodicamente al docu­ mentario d’inchiesta — come Koportos (id., 1979) ed Egyùttélés (Coesistenza, 1982), il primo sugli zingari e il secondo sulle tensioni tra le minoranze etniche d’Ungheria. Il cinema ungherese conta un’altra mezza dozzina di registe: Judit Em­ ber, Ilona Kolonits, Mara Luttor, Maria Sós, Gyórgyi Szalai, Judit Vas, Èva Zsurzs, a conferma della notevole varietà di personalità e di esperienze che lo caratterizzano e che nel suo complesso risente positivamente di un diffuso clima di ricerca e di tensione morale-sociale.

IUGOSLAVIA X 6

Alla fine degli anni Cinquanta, quando la cinematografia delle sei repubbliche (e due regioni autonome) ha già realiz­ zato un centinaio di lungometraggi e formato una generazio­ ne di tecnici agguerriti a tutti i livelli, si svolge nella Repub­ blica Socialista Federativa di Iugoslavia quella che fu chia­ mata la seconda rivoluzione, dopo quella del ’45, con l’acce­ lerazione del processo di decentramento, l’impulso all’au­ togestione, una certa liberalizzazione nella politica culturale e, nel cinema, un indebolimento del controllo sui gruppi di produzione. I primi sintomi di un rinnovamento si colgono nel campo dell’animazione (con la cosiddetta Scuola di Za­ gabria che ha i suoi esponenti più originali nel montenegrino DuSan Vukotic e nel croato Vatroslav Mimica) e in quello del cortometraggio da dove provengono due registi che aprono la strada al novi film, i serbi Aleksandar Petrovic e DuSan Makavejev. 296

Petrovic (Parigi 1929) s’impone all’attenzione della critica con Dvoje (Due, 1961) e Dani (Giorni, 1963), freschi racconti di amori giovanili che danno corpo a fermenti nuovi, a ma­ lesseri diffusi, e soprattutto con Tri (Tre, 1965), film a episodi sulla vita di un partigiano durante la guerra, esenti dalla vernice celebrativa di un genere che attraverso i decenni fa da architrave al cinema iugoslavo. Legati alla cultura gitana del proprio paese sono Skupljaci perja {Ho incontrato anche zin­ gari felici, 1967) e Bice skoro propast sveta (Piove sul mio villaggio, 1969), che gli danno un successo internazionale e rivelano in Petrovic un regista capace di miscelare l’azione con l’introspezione psicologica, la robustezza narrativa con la descrizione ambientale, non senza un’esibizione di virtuo­ sismo e una superficialità decorativa che si fanno evidenti nei suoi film di alta ispirazione letteraria girati all’estero, Majstor i Margarita {Il maestro e Margherita, 1972), da Bulgakov, e Gruppenbild mit Dame (Foto di gruppo con signora, 1977), da Boll.

Il nuovo cinema, da Makavejev a Pavlovic

Più originale e anticonformista, allineato allo sperimentali­ smo e alle irrequietezze stilistiche dei giovani cinéphiles rac­ colti intorno al Kino klub di Belgrado, è Dusan Makavejev (Belgrado 1932) che fa un clamoroso esordio con Covek nije tika (L’uomo non è un uccello, 1965), piccola storia di un operaio modello destinato a restare solo e senza nulla. Nel contesto socialista l’uomo è impossibilitato a «volare», dice Makavejev la cui sottile polemica antistalinista e antiburocra­ tica è condotta in termini di beffarda satira anarchica ed è risolta in una scrittura liberamente asintattica. Sono qualità che Makavejev conferma e approfondisce — svelando, sotto la scorza del suo sarcastico cinismo, una visione pessimistica del mondo — in Ljubavni slucaj ili tragedija sluzbenice ptt {Un affare di cuore, ovvero la tragedia di un'impiegato dei telefoni, 1967), misero rapporto tra una telefonista e un derattizzatore, contrappuntato dalla sublimità rivoluzionaria, e in Nevinost bez zastite {Verginità indifesa, 1968) dove riprende il primo film sonoro serbo (girato nel 1942 da Dragoljub Aleksic), lo vira in diverse tonalità cromatiche, v’innesta cinegior­ 297

nali dell’epoca sull’occupazione nazista, spezzoni di altri film e passaggi narrativi girati nel ’68 con lo stesso interprete di venticinque anni prima, l’acrobata Aleksic, in un divertito e felice gioco di rifrazioni tra passato e presente. Il tema dell’e­ rotismo come veicolo di eversione liberatoria è ripreso ed esasperato in W.R. - Misterije organizma (W.R. I misteri del­ l'organismo, 1971): intrecciato attorno a tre linee narrative (la figura e le teorie sulla liberazione sessuale di Wilhelm Reich; gli artisti dell’avanguardia newyorkese; uno spaccato di vita iugoslava), è un amaro e irridente commento sulla fine delle ideologie e la caduta delle speranze in una palingenesi sociale. Proibito il film in Iugoslavia ed espulso il suo autore dal pc iugoslavo, Makavejev espatria dando libera espansione a una personalità prepotente e un po’ autocompiaciuta, a uno spiri­ to di rivolta vitalistica, individualistica, sessuocentrica. Con una fortunosa combinazione internazionale (Francia, Cana­ da, Germania), realizza Sweet movie (id, 1974), «commedia erotica leggermente profumata di antipsichiatria», visionaria sino alla truculenza, esibizionistica sino alla provocazione. E uno sgangherato inno alla libertà-amore-rivoluzione (sino­ nimi per Makavejev) e un’allegoria sulla sessualità che la società moderna ha compresso, represso, deviato nell’Ovest capitalistico come nell’Est del socialismo reale. Lo scontro fra due culture diventa quello tra nord e sud, tra frigida razionalità e vitalità sensuale, fantasiosa, in Montenegro or pigs and pearls (Montenegro tango, 1982), girato in Svezia e di una linearità e concentrazione narrative insolite — la casuale immersione di una ricca moglie svedese nel caos dell’immi­ grazione slava — pur con il consueto gusto per la trasgres­ sione ilare e sarcastica. Dalla Svezia all’Australia, infine: The Coca-Cola Kid (Coca Cola Kid, 1985) non smentisce il suo discorso, ma i toni di commedia si fanno più scialbi, in un confronto a fior di pelle tra un iperefficiente dirigente usa e usi e costumi meno irreggimentati. Non lontano da Makavejev, con cui ha in comune l’anti­ conformismo e la visione pessimistica del mondo, si situa Zivojin Pavlovic (n. 1933), pittore e romanziere il cui primo film Povratak (Il ritorno, 1963-66), classica storia di un ex carcerato che non riesce a trovare un posto nella società, rimane bloccato per due anni dalla censura. Analoghe diffi­ coltà toccano in questo periodo ad altri film: oltre a GraZ(La 298

città, 1965) cui lo stesso Pavlovic collabora con un episodio, Covek iz hrastove sume (L’uomo del bosco di querce, 1963) di Mica Popovic, ritratto di un collaborazionista, e Pesceni grad (Castello di sabbia, 1962) di Bostjan Hladnik, banditi dal cartellone dell’annuale festival di Pola. Di Pavlovic hanno larga eco, invece, Neprijateli (Il nemico, 1965), rifacimento del Sosia di Dostoevskij in ambiente ope­ raio, e Budjenie pacova (Il risveglio dei topi, 1966), premiato al festival di Berlino 1967, cupo dramma naturalistico sulla miseria dei quartieri più poveri di Belgrado. Pessimista come nessun altro, incline a toni duri, neri, freddi ma senza grevità grazie a un linguaggio ellittico, discontinuo, a rapidi e minimi scorci, è venuto sempre più raccontando vite fallite, distrutte dalla propria incapacità ad accettare l’orrore «normale». Kad budem mrtav i beo (Quando sarò morto e livido, 1968) è il sordido ritratto di un giovane stagionale, braccato, tentato dai miti del divismo, degradato nella sua incapacità di rap­ porti e destinato a una morte derisoria nelle latrine; Zaseda (La trappola, 1969) è la storia di un tragico eroe negativo, un ex membro dei servizi di sicurezza disilluso, che finirà fucila­ to in un villaggio della Serbia del 1946. Giocato tra feste per la Nuova Società ed esecuzioni sommarie, era un film che andava troppo oltre. Pavlovic perde il posto alla Scuola di cinema di Belgrado ma, pur costretto per un decennio a scontrarsi con difficoltà produttive, dà in Slovenia alcuni sanguigni melodrammi rurali, caricati nei loro elementi eroti­ ci e violenti, ma percorsi dal tema della Terra come negazio­ ne della Storia. Tra essi, spicca il notevole Let mrtve ptice (Il volo dell’uccello morto, 1974), amara vicenda di disgregazio­ ne di una famiglia contadina, chi emigrato in Austria, chi adultero e suicida, chi ucciso. Soprattutto s’impone il contra­ sto tra benessere di ritorno e inconciliabili pulsioni profonde che trovano espressione in improvvise e radicali rotture liri­ che. E non meno amaro, sotto le cadenze di commedia satiri­ ca con cui sono descritti i problemi della collettivizzazione agricola del primo dopoguerra, è Rdece klasje (Spighe rosse, 1971), imperniato su un ex partigiano e attivista che si degra­ da, diviene ubriacone, donnaiolo, infine assassino, ritrovan­ dosi in prigione con i vecchi compagni comunisti scettici verso quel tipo di socialismo. Come spesso in Pavlovic, è il dato problematico, visionario, anche astruso nella sua pole­

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mica e nel suo profeticismo, a dare forza al discontinuo pamphlet Nasvidenje v nasiednji vojini (Arrivederci alla pros­ sima guerra, 1980), il suo titolo migliore di questi anni, in cui rincontro in una Spagna vacanziera tra un ex partigiano titoista e un tedesco dell’esercito di occupazione provoca l’in­ sorgere di fatti e figure della guerra, quando ormai le alleanze sono altre, quando un nuovo conflitto è alle porte. Personalità di grande prestigio culturale e organizzativo e uno dei padri fondatori della scuola di Zagabria, Vatroslav Mimica (Omis, Dalmazia 1923) ritorna al cinema di finzione con Prometej sa otoka Visevice (Prometeo dell’isola di Visevice, 1965) che per molti anni fu un modello e un termine di riferimento per i nuovi cineasti iugoslavi. In occasione del ritorno a un’isola dalmata dove durante la guerra combattè da partigiano e lavorò poi all’edificazione della nuova società socialista, un dirigente d’impresa fa, non senza amarezza e malinconia, il bilancio della propria vita. Tenendo in sagace equilibrio temi privati e pubblici, Mimica rielabora in modo personale le influenze stilistiche del giovane cinema francese e cecoslovacco, mettendo a frutto le esperienze di concentra­ zione narrativa fatte nel disegno animato. Altrettanto felici sono gli esiti di Pondeljak ili utorak (Lu­ nedì o martedì, 1966), ventiquattro ore nella vita di un giova­ ne giornalista che con i suoi sogni a occhi aperti rompe il ritmo abitudinario della routine. Si alternano in Mimica due filoni: quello lirico e intimistico che prevale anche in Dogadaj (L’avvenimento, 1969), esitante racconto di terrori infantili e orrori reali, e in Hranjenik (Sazio, 1970), metaforica rievoca­ zione di un campo di concentramento con un uso inventivo del colore; e quello più corposamente narrativo e spettacolare di Kaja, ubit cu te (Kaja, ti ucciderò, 1967), thriller di raffina­ ta stilizzazione visiva dove ha una parte importante l’ambientazione in un villaggio dalmata. Quest’ultima tendenza s’è espressa soprattutto nella rievocazione di fatti storici, da Machedonski de pakla (La parte macedone dell’inferno, 1972), dove ritorna il tema dei lager nazisti, a Seljacka buna 1573 (Anno Domini 1573, 1976), svariante affresco rurale nella Croazia feudale, a Strajinja Banovic (Il falcone, 1981), leg­ genda medievale di turchi e cristiani di impianto più conven­ zionale e con forte propensione all’eccesso, ma pur sempre radicata in una terra e in una cultura.

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Alla stessa generazione di Mimica appartiene PuriSa Djordjevic (Caòak, Serbia 1924) che ha legato il suo nome a un quartetto di film — Devojka (Ragazza, 1965), San (Il sogno, 1966), Jutro (L'alba, 1967) e Podne (Mezzogiorno, 1968) — che rievocano il periodo della guerra e, l’ultimo, quello della rottura del 1948 con Mosca, attraverso una scrit­ tura personale di ammirevole coerenza, fondata su una ri­ schiosa e suggestiva contaminazione di metafore surrealistiche e di approccio realistico. Scanditi su due tempi spesso succedentesi, quello della descrizione decontratta e ironica e quello della riflessione, il loro è un registro poetico-lirico e documentario-critico insieme, in grado di comporre un vasto quadro di realtà collettive e familiari, fìtto di figure precise di soldati e partigiani, occupanti e oppressi, prostitute e colla­ borazionisti, e percorso da un’amara ansia di giustizia che a tratti pare impossibile. Agli avvenimenti della guerra partigiana Djordjevic è tornato, su toni eccentrici e perciò antire­ torici e a loro modo più partecipati, con Biciklisti (I ciclisti, 1970), mentre con Pavle Pavlovic (id., 1975), acuminata satira della corruzione amministrativa poco tempo prima denun­ ciata in un famoso intervento di Tito, si attirò la censura della burocrazia che lo escluse dal festival di Pola e ne frenò la distribuzione. Da allora ha oscillato tra il lavoro televisivo e rare puntate nel cinema, non dimentiche del suo vigore narrativo, come l’amara commedia gitana di destino e nazi­ smo Osam kila srece (Otto chili di felicità, 1980).

Caratteri nazionali

Nel decennio 1960-69 è stata spesso usata la locuzione «cinema nero» per indicare, con segno negativo, la tendenza dominante, rintracciabile sotto varie forme nella corrente del novi film iugoslavo. I suoi fautori vi identificavano un rap­ porto antidogmatico ed eterodosso nei confronti della realtà, un rifiuto-negazione di ogni rigida spiegazione ideologica del­ la vita, uno sforzo per scoprire le verità individuali, singole. I suoi avversari — soprattutto tra quei critici e intellettuali che si sono assunti il compito di guardiani e controllori dell’ideo­ logia ufficiale — vi hanno visto un criticismo preconcetto (con radici in una filosofìa anarchica e nichilistica), pessimi­

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smo, misantropia, imitazione di modelli borghesi, interpreta­ zione deformata e menzognera della società socialista. Spesso in termini schematici, c’è stata una ricorrente contrapposi­ zione tra la lakirovka (espressione mutuata dalla terminolo­ gia russa che significa alterare la realtà presentandola volu­ tamente abbellita e falsa) e la serie nera, interpretata come il suo rovescio. È una polemica che riflette un più ampio dibat­ tito in corso nel paese a livello politico e culturale. Questi film sono l’eco delle idee di intellettuali — come i filosofi di Bel­ grado e Zagabria riuniti attorno alla rivista «Praxis» — se­ condo i quali un marxismo creativo, contrapposto allo stali­ nismo positivista, dev’essere una fonte costante di critica del­ la società socialista; i loro registi si schieravano in gran parte tra i fautori dell’autogestione democratica contro lo statali­ smo burocratico. Tentavano un cinema critico, anche dura­ mente negativo, anche ambiguo, ponevano problemi morali ed esistenziali sino allora ritenuti secondari. Pur in assenza di una peculiare lezione formale, per lo più oscillante tra lin­ guaggi autoctoni e influssi neorealisti e soprattutto delle nouvelles vagues occidentali, questo approccio dei Makavejev, dei Pavlovic ha il merito di creare una tradizione nazionale, destinata a far sentire il suo influsso a lungo. All’inizio degli anni Sessanta cominciano a delinearsi i ca­ ratteri particolari delle varie cinematografie nazionali. Come per altri settori della vita iugoslava, il cinema serbo è il più forte e numericamente consistente. Vi appartengono tutti i registi già citati, a eccezione del dalmata Mimica. Vanta con la Scuola di Belgrado la maggior produzione di documentari e cortometraggi ed è caratterizzato da un approccio alla real­ tà di taglio veristico che non esclude, però, la presenza di componenti «fantastiche», tipiche del surrealismo letterario e figurativo belgradese. Nel quadro del cinema serbo agisce anche un gruppo di cineasti della Voivodina (che è con Ko­ sovo uno dei due territori autonomi compresi nella Repub­ blica di Serbia) che hanno sede a Novi Sad. Influenzato dalle esperienze della scuola di animazione di Zagabria, le cui radici affondano in una tradizione figurativa locale di alto livello, il cinema croato è contraddistinto dalla tendenza allo sperimentalismo e alla ricerca formale che ha il suo punto di riferimento nella rassegna biennale del geff. Nel suo ambito agisce un folto gruppo di autori adriatici,

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venuti a Zagabria dalla Dalmazia e dalle isole. Tra essi, oltre a Mimica, spiccano Mihovil Pansini e alcuni giovani attivi negli anni Settanta, come Branko Ivanda, Lordan Zafranovic, Eduard Galic. Una certa risonanza ha avuto Krsto Papié specie con il polemico e allegorico Predstava Hamleta u mrdusi donjoj (La rappresentazione di Amleto alla cooperativa agricola. 1973). Secondo una formula molto usata, i cineasti della Jadran di Zagabria partono dalle idee e vanno verso la vita, mentre quelli di Belgrado fanno l’opposto. Il cinema croato comprende anche i veterani Branko Bauer (Dubrovnik 1921), che nel 1963 trionfò col premiatissimo e onesto film di fabbrica Licom u lice (Faccia a faccia), e Veliko Bulajic (NikSic 1928), apprezzato specialmente per Vlak bez voznog reda (Treno senza orario, 1959), neorealisti­ co esodo contadino verso le terre promesse della riforma agraria, ma più noto per i suoi verniciati e celebrativi colossi di guerra partigiana: Kozara (Kozara, f ultimo comando, 1962) e Bitka na Neretvi (La battaglia della Neretva, 1969), oltre all’estetizzante, sempre su tema resistenziale, Pogledu zjenicu sunca (Sguardo nella pupilla del sole, 1966). In generale, quel­ lo del film partigiano resta un genere diffuso, ma il cui senso politico, tranne rari e controversi casi, è ormai del tutto so­ verchiato dagli elementi spettacolari. A esso sono riservate le più consistenti risorse del cinema iugoslavo che si è stabilizza­ to su una media di venticinque-trenta film all’anno. Altri filoni-generi essenziali, che si ritrovano in forme più o meno impure e intrecciate, sono: il melodramma rurale; il film in costume, che ha nei lavori di Mimica gli esemplari più elabo­ rati e noti; la commedia alla serba, più o meno nera e satirica, che negli anni Settanta ha dato film di un certo interesse, tipo Bubasinter (Il cacciatore di scarafaggi, 1971) di Milan Jelic, ma che molto deve a una bella sceneggiatura degli specialisti Gordan Mihic e Ljubisa Kozomara, meno felici quando hanno tentato la regia in proprio (Vrane, Cornacchie, 1970). Il cinema della Slovenia — meno di due milioni di abitanti contro i cinque e mezzo della Serbia e i quattro e mezzo della Bosnia-Erzegovina — è stato dominato dalla forte personali­ tà di France Stiglic (Kranj 1919) che ha messo in ombra discreti talenti come Joze Babic (Materia 1917), segnalatosi con l’aspro ritratto di un piccolo mondo di sindacalisti e partigiani anni Cinquanta in Veselica (La festa, 1960), e il 303

regista teatrale Igor Pretnar (Ljubljana 1924-1977) nella cui opera ha un certo interesse il letterario Idealist (L’idealista, 1976), da Ivan Cankar. Più tardi, ha avuto due registi di punta in Matjaz Klopcic e BoStjan Hladnik, che hanno tra­ dotto in termini fìlmici il tradizionale lirismo sloveno. Oltre a dar vita alla fiorente scuola documentaristica di Serajevo, incline a un cinema etnografico alla Flaherty, il cinema della Bosnia-Erzegovina s’è messo in luce con Boro Draskovic (Serajevo 1935) e con Bata Cengic (Maglaj 1931). Il primo, teorico e regista teatrale e televisivo, è autore di pochi film tra cui spiccano quello di esordio, Horoskop (Oro­ scopo, 1969), commedia nera di passioni e autodistruzioni ambientata in un desolato paese della costa, e quello più recente, Zivot je lep (La vita è bella, 1985), uno dei quadri più neri e violentemente critici della Iugoslavia del dopo-Tito. Benissimo costruito, si svolge in una locanda dove è casual­ mente costretto un gruppo eterogeneo di passeggeri di un treno: contadini, intellettuali, musicanti, cittadini, venditori, vagabondi, funzionari di partito, trafficanti; un’osteria che è la Iugoslavia attuale, vista nel suo senso tragico più ancora che metaforico e trattata in forme da cinema della crudeltà, in un crescendo di degradazione e umiliazione violenta. Cengic, dopo essere stato in Gran Bretagna assistente di Reisz e Schlesinger, ha rivelato un talento lucidamente critico e un notevole brio narrativo, a tratti attratto da un grottesco da cabaret, con Uloga moje porodice u svetskoj revoluciji (Il ruolo della mia famiglia nella rivoluzione mondiale, 1971) e con Slike iz zivota udarnika (Scene della vita dei lavoratori d’assalto, 1972). Quest’ultimo fu il bersaglio ideologico dei critici più allineati e conformisti perché, mescolando la fiction col documentario (le interviste con autentici operai udarniki\ intacca uno dei tabù della realtà socialista, il lavoro in fabbri­ ca, mostrando con caustico umorismo che la classe operaia non va in paradiso e che nemmeno la società socialista iugo­ slava gliel’ha dato. Secondo il critico Mira Boglic, tra i circa cinquecento lungometraggi prodotti in Iugoslavia dal 1945 al 1975 soltanto venticinque, cioè il 5 per cento, sono di am­ biente operaio. Rientrano nel novero in questo periodo Kuo puklo da puklo (Vada come vada, 1974) di Rajko Grlic, Razmedja (Conflitto, 1973) di Kreso Golik, Kosava (La mietitu­ ra, 1974) di Dragoslav Lazic.

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Anche nelle repubbliche della Macedonia, del Montenegro e nel territorio di Kosovo, dove si parla albanese, esistono gruppi autonomi di produzione che, finora, però, non hanno prodotto film di risonanza internazionale, anche se hanno un certo fascino figurativo alcuni forti film del montenegrino Zivko Nikolic. L’egemonia delle cinematografie serba e croa­ ta non ha concesso il risalto che si merita, sola eccezione la critica francese, al regista sloveno Matjaz Klopcic (Ljubljana 1934) che con Zgodba ki je ni (Una storia che non esiste, 1966), Na papirnatih avionih (Su ali di carta, 1967) e Sedmina (Funerale, 1968) ha fatto della natia Ljubljana il nucleo poe­ tico — un vero paesaggio dell’anima, ma con risonanze col­ lettive e storiche, specie nell’ultimo caso — di questa fase del suo lavoro, sostenuto da un sentimento lirico di una tenerez­ za articolata e non pacificata. Klopcic è entrato nella maturi­ tà espressiva con due film ambientati alla fine dell’800, diver­ si per tono e argomento ma accomunati dal tema dell’immu­ tabilità sociale e dallo stile originale, di raffinata composizio­ ne figurativa e di alta tensione metaforica. Tratto da un romanzo di Ivan Tavcar, famoso scrittore sloveno, e prodot­ to all’origine come sceneggiato televisivo in tre puntate, Cvetje v jeseni (Fiori d’autunno, 1^73) è la storia di un maturo avvocato che s’illude di evadere dalla routine della vita citta­ dina attraverso l’amore di una giovane contadina. Strah (La paura, 1975), su sceneggiatura originale dello stesso Klopcic, ha al suo centro il proprietario di una casa di tolleranza, anch’egli in preda ai sogni di un’impossibile evasione, e pro­ pone due motivi principali: il bordello di lusso come metafo­ ra della società borghese e la paura della catastrofe che si materializza nel terremoto che colpì Ljubljana nel 1895. Me­ no noto ma non meno intenso e risolto è Vdovstvo Karoline Zasler (K.Z., vedova, 1977), ritratto di un’operaia vedova, banalizzata, rifiutata come un corpo estraneo da un contesto perbenista, spinta a un pirotecnico suicidio, ritratto amaro ma sostenuto dalla varietà di toni svarianti dal caustico allo stregonesco e da una vivace e articolata coralità. È un tor­ mento che si ritrova in parte nelle nevrosi dei personaggi del recente e peraltro incontrollato Dediscina (L’eredità, 1986), su una famiglia slovena che attraversa i momenti cruciali dei Balcani, dal 1914 al ’44.

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Il gruppo di Praga Con i pieni anni Settanta la crisi economica s’innesta, ag­ gravandola, sulla situazione politica interna dove il processo di liberalizzazione aveva prodotto spinte nazionalistiche cen­ trifughe. Ne deriva un giro di vite sull’attività culturale che si fa sentire anche nel cinema: espulsioni dal pc (Makavejev, Pavlovic); espatri di Makavejev e Petrovic, mentre Hladnik s’era già trasferito nella rft dopo due discreti racconti di difficili condizioni affettive {Ples v dezjn, Danza nella pioggia, 1961) ed esistenziali {Pesceni grad, Castello di sabbia, 1963); ostracismi, emarginazioni, sequestri di film come quello di Cengic sul lavoro operaio, come Das kapital (Il capitale, 1971) di Zelimir Zilnik. Cengic sarà costretto a un decennio di teatro e televisione prima di rientrare con un’anonima e moralistica commedia, Pisma glava (Testa o croce, 1983); Zilnik (Novi Sad 1942), già autore nel ’69 di un Rani radovi (Azioni di gioventù) percorso dai fermenti della contestazio­ ne giovanile seppure in chiave assai godardiana, è tornato al cinema, dopo alcuni anni nella rft, con Druga generacija (Seconda generazione, 1983), preciso referto di contraddizio­ ni attuali condotto attraverso lo sguardo straniero di giovani figli di emigranti, venuti a studiare in patria. Di pari passo, c’è il ritorno ai film sulla guerra partigiana tra cui il costosis­ simo Sutjeska {La quinta offensiva, 1974) di Stipe Delie, con Richard Burton nella parte di Tito. Sui temi dell’occupazione fascista ha attirato l’attenzione della critica il dalmata Lordan Zafranovic (n. 1944), apparso poi regista convenzionale, ma di un certo impatto soprattutto in Okupacija u 26 slika (L’occupazione in 26 quadri, 1979) la cui vicenda è ambientata a Dubrovnik (Ragusa) nel 1941: sagace nella descrizione dei rapporti tra gerarchi fascisti, uffi­ ciali della Wehrmacht e l’agiata borghesia locale, il film è debole nei suoi sviluppi drammatici per il frequente ricorso agli stereotipi e la convenzionale definizione dei personaggi. Sono difetti che, insieme con un gusto per la rappresentazio­ ne della violenza e dell’erotismo che sfiora il kitsch, segnano anche Pad Italije (La caduta dell’Italia, 1981), rievocazione un po’ troppo fantasiosa dell’occupazione italiana della Dalmazia nell’ultima guerra. Nomi nuovi di un certo interesse si sono intanto imposti.

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Fra essi il notevole operatore sloveno Karpo Godina che ha diretto Splav Medusa (La zattera della Medusa, 1980), tragico e manierato gioco di provocazioni di un gruppo di avan­ guardisti anni Venti; Zoran Tadic, croato, il cui Ritam zlocina (Il ritmo del delitto, 1981) è un lucido thriller ricco di echi letterari e di riflessioni strutturali; Bogdan Zizic, serbo, con il quasi antonioniano ritratto della nuova borghesia Kuka (La casa, 1975) e una caustica commedia di cinismo che diventa una sorta di inchiesta sociale, Daj sto das (Ciò che si può risparmiare, 1980). Per la nuova leva dei registi iugoslavi è stata coniata la formula di «gruppo di Praga» perché, a diffe­ renza dei colleghi più anziani che avevano studiato a Roma o a Parigi, molti di loro si sono formati al famu di Praga (soltanto lo sloveno Franci Slak, classe 1953, ha studiato a Lodz, con Has) e da quella scuola hanno tratto un gusto per il racconto vivace che sa rendere la carica vitale e anticon­ formista che serpeggia sotto i dati più banali e quotidiani, integrandovi, grazie anche a un uso libero, creativo degli attori, un preciso, accentuato senso dei caratteri. Così il croa­ to Goran Paskaljevic (n. 1947), allievo di Klos, ha dato al suo esordio con Cuvar plaze u zimskom periodu (Il bagnino din­ verno, 1975) un bel ritratto di ventenne mal integrato, a disa­ gio rispetto a costumi patriarcali mal sostituiti da nuove vel­ leità piccolo-borghesi. Un umorismo bizzarro, a tratti corro­ sivo, si stempera nei mezzi toni di una delicata descrizione ambientale. Argomenti seri sono trattati in forme leggere. Pas koji je voleo vozove (Il cane che amava i treni, 1977) è un mosso racconto di irregolarità giovanile; Zemaljnski dani teku (I giorni scorrono sulla terra, 1979), il ritratto in toni chiari di un marittimo in pensione; Poseban tretman (Tratta­ mento speciale, 1980), un farsesco elogio dei folli e degli alcolisti contro un potere autoritario. Appena curioso è Su­ tou (Crepuscolo, 1983), tutto affidato all’istrionismo del grande Malden Sekulovic, alias Karl Malden. Più sociologi­ camente interessante è il semplice ma efficace Andjeo cuyar (L’angelo custode, 1987), inchiesta di un giornalista sulla tratta di bambini zingari verso l’Italia. Karanovic, Grlic, Markovic, Sijan e Kustorica sono gli altri registi di punta del gruppo di Praga. Lontani dal costi­ tuire un vero movimento, sono accomunati dall’inclinazione per «commedie di costume assai amare, quasi tragiche, i cui 307

eroi, coetanei degli autori, si scontrano da un lato con i dogmi sempre più corrotti dell’ideologia comunista, dall’al­ tro con le brutali realtà della sopravvivenza quotidiana» (L. Codelli). Srjadan Karanovic (Belgrado 1945) si è segna­ lato specialmente con i veloci, pungenti Miris poljskog cveca (Il profumo dei fiori selvaggi, 1978), su un grande attore che invano tenta di sfuggire ai media, e Jagode u gurlu (Le fragole di traverso, 1985), malinconico-grottesca rimpatriata su una chiatta-ristorante di un gruppo di esponenti del privile­ gio socialista, che sono l’immagine della deriva della gene­ razione degli anni Sessanta. Un forte gusto caricaturale, che s’ispira alla commedia all’italiana ed è l’espressione di un pessimismo sociale, dà nerbo ai film di Goran Markovic (Belgrado 1946), come Specijalno vaspitanje (Educazione speciale, 1977) che sbeffeggia la rieducazione «aperta» di un ladruncolo al riformatorio. Ma lo si ritrova nell’automobili­ stico Nacionaina klasa do 785 cm3 (Classe nazionale 785 cc, 1979), scritto come molti dei migliori film slavi degli ultimi vent’anni da Gordan Mihic, e nell’anarchico Majstori, majstori (Maestri, maestri, 1980) che ha avuto qualche difficoltà di distribuzione. Slobodan Sijan sembra prediligere figure bizzarre, perso­ naggi derisori e inconsapevoli alle prese con situazioni drammatiche, dai passeggeri della corriera in viaggio verso Belgrado la vigilia dell’invasione tedesca di Koto tamo peva (Chi canta laggiù?, 1980) ai beccamorti della matura com­ media nera Maratonci tree pocasni krug (Giro d’onore dei maratoneti, 1982), ambientata in un tragico 1934, al com­ plesso barbone-ribelle sessantottesco di Koko sam sistematski unisten of idiota (Come sono stato sistematicamente di­ strutto dagli idioti, 1983), ispirato a un personaggio reale. Rajko Grlic è il solo di Zagabria, dove è nato nel 1947. Dopo l’ancora sperimentale Kud puklo da puklo (Vada come vada, 1974), è andato forse più in là di tutti con il bel mèlo sociale Samo jednom se Ijubi (Si ama una sola volta, 1981). Là un operaio smette un giorno di lavorare e tenta invano, con il cinema, con l’amore per una studentessa, di sfuggire alla propria condizione; qui, nei primi anni del dopoguerra, un dirigente di partito si autodistrugge a contatto con una borghese da «rieducare», in una ricerca, sarcastica e amara a un tempo, di autenticità esistenziale che non trova esiti se 308

non nel suicidio e assume un valore politico e libertario. Lo stesso spirito percorre Za srecu je potrebno troje (Tre per la felicità, 1986), vivacissima commedia sociale di caratteri e ambienti, di malessere e non-integrazione, protagonista un giovane avvocato appena uscito di prigione, diviso tra un’o­ peraia e una gallerista amante di un alto burocrate, prima di un fatale ritorno in carcere. Il più giovane di tutti, Emir Kustorica (Serajevo 1955), è anche il più noto all’estero. Allievo di Otakar Vavra, dopo un intenso apprendistato alla tv ha esordito con Sjecas li se Dolly Bell (Ti ricordi di Dolly Bell?, 1981), Leone d’oro a Venezia per l’opera prima, e Otac na sluzbenom (Papà è in viaggio daffari, 1985), Palma d’oro a Cannes. L’uno cronaca vissuta ma lucidamente dialettica di un’educazione sentimen­ tale nella Serajevo periferica dei primi anni Sessanta, il se­ condo un caso di assurda persecuzione politica nel ’48, negli anni del distacco da Stalin, visto attraverso lo sguardo di un bambino sonnambulo, tornano al passato degli anni duri del realismo socialista per mostrarne i risvolti familiari, comuni, poveri e privi di retorica. Sono commedie dolci-amare e spiri­ tose, finemente tramate di culture e ideologie, di comporta­ menti e rapporti, che con scioltezza e immediatezza toccano temi non nuovi con lo sguardo di una generazione che di quel periodo vuol liberarsi.

NORMALIZZAZIONE ALLA POLACCA

Gli anni Sessanta del cinema polacco sono aperti dal gran­ de successo (dieci milioni di spettatori) di Krzyzacy (I cavalie­ ri teutonici, 1960) di Ford, tratto da un popolare romanzo di Henryk Sienkiewicz che ha il suo epicentro nella battaglia di Grunwald (1410) dove polacchi e lituani sconfissero i monaci guerrieri dell’ordine teutonico. Già l’anno dopo si svolge ne­ gli ambienti culturali interessati al cinema una polemica che con enfasi giornalistica fu chiamata «la rivolta degli sceneg­ giatori» ed era incentrata sui rapporti di subordinazione di questi ai registi. La diatriba acquistava un rilievo particolare, al di là dei suoi limiti professionali e corporativi, nel contesto polacco dove la letteratura ha sovente svolto un ruolo impor­ 309

tante in rapporto alla lotta politica. Interprete e paladino degli interessi degli scrittori di cinema è Jerzy S. Stawinski che scrive un polemico articolo, quasi un manifesto, Lo sfrut­ tamento dell’industria cinematografica, nel quale si protesta contro l’eccessiva importanza data dai critici e dal pubblico all’opera dei registi a scapito degli sceneggiatori e contro l’arrogante e supponente disinvoltura con cui i primi manipo­ lano le storie e le sceneggiature dei secondi. Nella polemica si usa spesso la locuzione «film d’autore», messa in circolazione in quegli anni dopo l’entrata in scena della nouvelle vague francese. Stawinski e i suoi amici la usa­ no per esprimere la necessità di film che siano l’espressione fedele di riflessioni ed esperienze personali, e non il risultato di una mediazione, di una contaminazione. Mentre la pole­ mica è in corso, esce un film che, per il taglio lirico e psicolo­ gico con cui si cimenta con l’ossessione della guerra, messa in rapporto con il malessere del presente, sembra concretizzare queste esigenze: Zaduszki (Ognissanti, 1961). Ne è autore Tadeusz Konwicki, scrittore oltre che regista, che già nel 1958 aveva girato su una spiaggia, con la collaborazione del­ l’operatore Jan Laskowski e di due attori, Ostatni dzieri lata (Ultimo giorno d’estate), un film di sessanta minuti segnato dal rifiuto delle regole narrative tradizionali, da un tono e un tema (una coppia d’amanti che si parlano, i loro silenzi, il peso della memoria) che lo accostavano a un certo cinema letterario di quel periodo, quale La pointe courte di Agnès Varda. Ma la polemica non dà frutti immediati. Alexander SciborRylski, che aveva già scritto Cieri per Kawalerowicz e che già allora cominciava a lavorare con Wajda sul copione di L’uo­ mo di marmo, dirige Ich dzieri powszedni (Ieri, 1963), inerte dramma psicologico, e non hanno miglior sorte i tentativi di Stawinski con la commedia Rozwodow nie bedzie (Nessun divorzio, 1964) e di Jozef Hen con Weekendy (Week-end, 1963). Un esempio di collaborazione più feconda è offerto da Tadeusz Rózewicz, poeta e commediografo, che per il fratello Stanislaw scrive Swiadectwo urodzenia (Certificato di nascita, 1961) in tre episodi, Glos z tamtego swiata (Voci dall’al di là, 1962) ed Echo (Eco, 1964), tutti permeati di acuto senso del­ la solitudine esistenziale e dell’ossessione del passato. Se la generazione del ’56 sembra esaurire le proprie spinte inno­

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vative, quegli anni vedono l’arrivo alla ribalta di un nuovo gruppo di autori che ha i suoi capitila in Polanski e Skolimowski. Uscito dalla scuola di Lodz con alcuni sorprendenti cor­ tometraggi surreali, Roman Polanski (Parigi 1933) fa un cla­ moroso debutto nel lungometraggio con Noz w wodzie {Il coltello nel!acqua, 1962), scritto con Skolimowski e Jakub Goldberg. Due uomini, due generazioni su una barca chia­ mata Polonia. La donna — spettatrice, arbitro e polo d’at­ trazione di un falso melodramma sentimentale che, in realtà, è un dramma politico — dice al più giovane dei due: «Tu sei simile a lui con vent’anni di meno. E siete tutti e due delle bestie». C’è un’idea di cinema diversa, stilisticamente vicino alla nouvelle vague francese, c’è un nuovo clima morale e ideale che presenta più di un’affinità con Ingenui perversi (1960) di Wajda, al quale aveva dato il suo contributo Skoli­ mowski. Tuttavia, la normalizzazione della vita politica e culturale polacca procede con la quieta e inarrestabile forza di un rullo compressore. Nel suo rapporto al Comitato centrale del par­ tito del 1963 Gomulka trova il modo di citare Ingenui perversi e // coltello nel!acqua come due esempi di film per i quali non c’è più posto nella cinematografia polacca. In quello stesso anno Polanski lascia la Polonia e si trasferisce prima a Parigi, poi a Londra dove comincia con Repulsion {id., 1965) la sua carriera intemazionale. Sulla strada dell’esilio volontario era stato preceduto nel 1958 da Walerian Borowczyk, grafico e pittore, e da Jan Lenica (Poznan 1928), grafico e architetto, che avranno carriere autonome in Francia, ma che insieme avevano realizzato in patria tre notevoli film d’animazione, ultimo dei quali Dom (La casa, 1959), film sperimentale di genere surrealistico dove il disegno animato è contaminato con riprese dal vero. Il titolo di un film di Janusz Morgenstern — Potom nastapi cisza (Poi viene il silenzio, 1966) — assume un valore emble­ matico.

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Jerzy Skolimowski Il talento più originale emerso in quel periodo è forse Jerzy Skolimowski (Varsavia 1938), laureato in etnografia, poeta, pugile dilettante (tale appare in una piccola parte di Ingenui perversi), sceneggiatore. Realizzato ancora alla scuola di Lodz, il suo primo film Rysopis (Identikit, noto in Europa come Segni particolari: nessuno, 1964) è all’insegna di un autobiografismo generazionale — narra le ultime ore libere di un giovane chiamato al servizio militare —, portavoce del malessere irrequieto dei giovani il cui ingresso nella maturità ha coinciso con la fine dell’ottobre polacco, tra assenza di valori-significato e senso diffuso di impotente rassegnazione. Il suo è un linguaggio sincopato affine a quello di Polanski, non ha la sapienza costruttiva di questi ma è più aspro, disarticolato, digressivo sull’onda di influenze dalla nouvelle vague francese e dall’underground newyorkese. In Walkover (id., 1965), Skolimowski ripropone il medesimo personaggio — da lui stesso interpretato — cinque anni dopo il servizio militare, «viaggiatore senza bagagli» tra un torneo di boxe e l’altro, tra risse e precari rapporti con un’ex studentessa. In Bariera (Barriera, 1966) tenta un’analisi più articolata, più simbolica, più vicina a una tradizione polacca, di una realtà, seguendo un altro outsider, uno studente che rinuncia alla medicina e si mette a vivere di traffici ed espedienti, fuori di ogni schema esistenziale. La barriera è quella che divide due generazioni, e segna una differenza inconciliabile nel modo di vedere le cose, ricuperate nella chiave di una soggettività che la prima ha rimosso. La trilogia giovanile di Skolimowski, nella sua libertà registica e nei suoi stessi contenuti, rappre­ senta a ritroso il più preciso punto di passaggio e di incontro tra l’irrequietudine delle nouvelles vagues occidentali e quella dei giovani cineasti dell’Est. Dopo aver girato in Belgio Le départ {Il vergine, 1966), veloce, capriccioso, tenero ritratto di giovane appassionato dei rallies con Fattore-feticcio della nouvelle vague, Jean-Pierre Léaud, Skolimowski dà ancora in patria il piccolo capola­ voro maledetto Rece do gòry (Mani in alto, 1967). Gioco-e­ sperienza collettiva di morte condotto da un gruppo di stu­ denti in un vagone di treno immobilizzato sui binari, ha il ritmo nervoso dei film del tempo e il senso di una caustica

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parabola sull’intolleranza e l’oppressione: nessuno è innocen­ te, non «quelli che obbligano gli altri a vivere con le braccia alzate, nemmeno quelli che obbediscono». Il film è proibito dalla censura. Skolimowski dopo di allora preferisce lavorare all'estero, passando di paese in paese e faticando per mante­ nere una propria coerenza attraverso imprese difficili da por­ tare a termine. Incappa in due infelici imprese cosmopolite —Le avventure di Gérard (1969) in Italia; Herzbube / King, queen, knave (Un ospite gradito per mia moglie, 1972) in Ger­ mania, da un romanzo di Nabokov — ma sa poi farsi uno spazio nel cinema britannico con Deep end (La ragazza del bagno pubblico, 1970), descrizione acuta e coraggiosa di un adolescente che fatica a crescere in un mondo sconfortante, con una conclusione disperata e amarissima, e The shout (L’australiano, 1978), esercizio di regia che gioca su tensioni magico-orrorifiche con indiscussa abilità. La Polonia, la sua cultura e i suoi temi, la condizione dei suoi compatrioti e la propria di esule, tornano però presto a imporsi nei suoi film. Moonlighting (id., 1982), il risultato più alto da Skolimowski raggiunto all’estero, è un angoscioso apologo con risvolti di efferato umorismo: quattro muratori polacchi, nel dicembre 1981, nei giorni dell’intervento milita­ re a Danzica e della legge marziale in Polonia, lavorano a Londra a rimettere a nuovo l’appartamento di un loro ricco compatriota, da lui «importati» clandestinamente. Il passag­ gio dall’umorismo al tragico è acuto quanto violento, come spesso in questo regista, caustico sulla figura del capo ma pure sulla società dei consumi sino a toccare toni di disperata solitudine. Il rapporto degli esuli con la loro patria è al centro di Success is the best revenge (Il successo è la miglior vendet­ ta, 1984), attraverso la figura di un regista che prepara in Inghilterra uno spettacolo per la Polonia lontana. Di esso, questo film nevrastenico, elegante, anche se irrisolto, descrive con precisione le ossessioni e l’universo familiare (quei rap­ porti tra generazioni che vedono ora l’autore adulto di fronte a giovani, interpretati dai suoi veri figli, così diversi da lui) e conclude mettendo in questione le possibili forme di solida­ rietà, la loro utilità rispetto alla realtà dei dilemmi polacchi, senza escludere la tentazione del ritorno. Con l’americano The lightship (La nave faro, 1985), infine, Skolimowski risuscita il fantasma del connazionale Conrad, 313

narrando il conflitto, in luogo chiuso, in alto mare, tra un capitano ossessionato da una presunta, lontana colpa e un gangster signorile quanto nevroticamente brutale; ma anche stavolta, nelle pieghe di una vicenda claustrofobica di rigoro­ sa resa stilistica, ricompare l’assai sentito tema dei rapporti tra padri e figli le cui risonanze vanno ben oltre un valore privato. Anni difficili

Le linee di tendenza di questa fase interlocutoria si manife­ stano in altri film oltre a quelli capifila di Polanski e Skolimowski e a Salto (Il salto, 1965) di Kqnwicki, pungente de­ mistificazione del mito eroico polacco. È il caso di Sublokator (Il subaffittuario, 1967) di Janusz Majewski, paragonato a una bella commedia del decennio precedente di Chmielewski, Ewa chce spac (Eva vuole dormire, 1958); di Chudy i inni (Il magro e gli altri, 1967) di Henryk Kluba, sui contadini che lasciano la campagna per lavorare in cantieri edili; di Dziraura w ziemii (Un buco nella terra, 1970) di Andrzej Kondriatuk, su un gruppo di tecnici e operai alla ricerca di giacimenti petroliferi. Kluba (n. 1931) è anche autore di Slorìce wschodzi raz na dzieri (Il sole sorge una volta al giorno, 1968) che per la prima volta rievoca la prima fase neH’edificazione di uno stato socialista, il contrastato passaggio dalla proprietà, col­ lettiva ma locale e ben circoscritta, dei mezzi di produzione a quella anonima e centralizzata dello stato. Il film fu distribui­ to soltanto con cinque anni di ritardo, e in misura limitata. Non c’è, però, molto altro, se non Zywot Mateusza (I giorni di Matteo, 1968), di nordica malinconia, il cui autore Witold Leszczynski si ritroverà soltanto con il ritualistic© e filosofico Ko-no-piel-ka (id., 1981). Sono anni tormentati per la repubblica e il poup, il Partito operaio unificato polacco. Nel 1968 sono duramente represse le manifestazioni studentesche di solidarietà con la Cecoslo­ vacchia e per una maggiore libertà accademica, la censura stringe i freni, si dà l’avvio dall’alto a una campagna di anti­ semitismo: l’illustre storico Jerzy Toeplitz è rimosso dalla direzione della scuola di Lodz; Aleksander Ford e Jerzy Bossak (sotto la cui guida il documentario polacco era diventato 314

uno dei migliori d’Europa) sono allontanati dai loro posti direttivi; la produzione di lungometraggi scende sotto la quo­ ta venti, in gran parte adattamenti di opere letterarie. Ma nel biennio 1970-71 la Polonia si conferma il più instabile, reatti­ vo e imprevedibile dei paesi europei a regime comunista. Ormai ridotto al ruolo di custode di un malfermo e plumbeo equilibrio interno, Gomulka, l’eroe nazionale dell’ottobre 1956, è travolto — a pochi giorni da un incontestabile succes­ so di politica estera (il solenne riconoscimento della frontiera dell’Oder-Neisse da parte della rft) — dalla rivolta operaia esplosa nelle città baltiche (Danzica, Gdynia, Elblag) il 14 dicembre 1970 e soffocata nel sangue. Alla testa del poup lo sostituisce Edward Gierek, principale esponente dell’opposi­ zione tecnocratica. Gli effetti si fanno sentire anche nel cinema. Negli anni 1969-71 erano stati dissolti, con l’eccezione di Iluzjon e Tor, i nove gruppi produttivi, sostituiti con quattro gruppi nuovi (Kraj, Nike, Pian, Wektor), affidati alla direzione di letterati e giornalisti. Nel 1972 si torna all’organizzazione in gruppi autonomi sotto la direzione di registi di chiara fama: Iluzjon (C. Petelski), Kadr (J. Kawalerowicz), Panorama (J. Passendorfer), Pryzmat (A. Scibor-Rylski), Profìl (B. Porcba), Sile­ sia (K. Kutz), Tor (St. Rózewicz), X (A. Wajda), Perspektywa (J. Morgenstern). A differenza del periodo anteriore al 1968, una grossa parte dei problemi di natura produttiva, come il personale ausiliario, sono di diretta competenza dello Zespoly Filmowe, azienda centrale di stato. Erano stati 266 i film a soggetto prodotti dal 1955 al 1968; sono 80 dal 1969 al 1971, e 192 dal 1972 al 1° settembre 1979, senza contare la produzione di film e sceneggiati per la tv. La media annuale oscilla dai 22 ai 26 lungometraggi. Continua negli anni Settanta il filone delle grosse produ­ zioni di carattere storico-letterario. Accanto al monumentale La terra promessa (1975) di Wajda, Jerzy Hoffman (n. 1932) attinge a Henryk Sienkiewicz per Pan Wolodyjowski (id., 1971) e Potop (Il diluvio, 1974); i coniugi Petelski fanno Kopernik (Copernico, 1973), Jan Rybkowski celebra la nascita dello stato polacco intorno all’anno 1000 con Gniadzo (La culla, 1975). Intanto vengono alla ribalta nuovi registi: Ma­ rek Piwowski (n. 1935), documentarista di valore, dirige Rejs (La crociera, 1970), sgangherato psicodramma comico-satiri­

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co sulle manie e le storture del regime socialista, con fram­ menti di un irresistibile grottesco; Antoni Krauze (n. 1940) con Palec Bozy (Il dito di Dio, 1973), metaforica storia di un giovane che vuole fare l’attore e ci riesce nell’ambito di un istituto psichiatrico; Jan Lomnicki (n. 1930) con Poslizg (La sbandata, 1972), scritto da Skolimowski; Andrzej Tros-Rastawiecki con il freddo Zapis zbrodni (Cronologia di un delit­ to, 1974), su un delitto gratuito di uligani; Grzegorz Królikiewicz con il duro e a tratti espressionistico Na wylot (Da parte a parte, 1973), ritratto di una disperata coppia di disoc­ cupati che commettono un omicidio e al processo chiedono di essere condannati a morte (soltanto alla fine si dice che l’azione si svolge nel 1933). C’è anche Andrzej Zulawski (Lvov 1940) che, dopo aver imparato il mestiere con Wajda e prima di trasferirsi in Francia, esordisce con Trzecia czecs nocy (La terza parte della notte, 1971), film sull’occupazione tedesca permeato di un furibondo espressionismo, in linea con la tradizione letteraria dell’assurdo che fa capo a Gombrowicz, Schulz, Mrozek, e prosegue con Diabel (Il diavolo, 1972), storia dell’orrore settecentesco, uno dei film di questi anni proibiti dalla censura. Anni di lotta

Non troppo sotterraneamente, qualcosa si sta muovendo a livello operaio e ha i suoi riflessi anche nel cinema, cui dopo la metà del decennio il governo Gierek lascia margini di autonomia controllata. Nel ’76 esplodono nuovi scioperi e una nuova rivolta popolare per l’aumento dei prezzi degli alimentari. Nel ’77 si ha un vero e proprio atto di rottura, quando al festival di Gdansk sono presentati e premiati L’uomo di marmo di Wajda e Barwy ochronne (Colori mimeti­ ci, 1976) di Zanussi, in chiavi diverse duramente critici verso le deformazioni e la corruzione del sistema. Sulla spinta di questi eventi che portano Wajda alla presidenza dell’Asso­ ciazione dei cineasti e di pari passo con il crescere di un movimento di massa e delle sue lotte, che culminano con la creazione di Solidarnosc e la firma degli accordi di Danzica tra governo e sindacato libero nell’agosto 1980, s’impone negli ultimi anni Settanta una nowa fala, una nuova ondata di

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giovani registi. Un notevole lavoro di dissodamento è già stato compiuto da documentaristi come Zygadlo, Wojcie­ chowski, Królikiewicz, Marcel Lozinski, nato in Francia e lontano parente di Jean Vigo, e soprattutto Kieslowski, ca­ pace di scavare in realtà scomode con uno sguardo sovversi­ vo e di radicale estraneità. Più compromessi con problemi e realtà contemporanee, danno analisi dure, di intervento senza mediazioni nel socia­ le. Esprimono un’ansia diffusa, anche manichea, di verità, di valori autentici; rivendicano le ragioni dell’individuo, quan­ do non della «persona», contro una società corrotta e ingiu­ sta che impone l’alternativa di rinnegare se stessi e la propria integrità o di essere schiacciati. I tanti carrieristi messi alla berlina — funzionari, dirigenti d’azienda, addetti ai media, cioè la classe dirigente socialista — sono il segno di questa tensione morale, non di rado a radice religiosa e non di rado portata dal suo rigorismo a sfiorare il moralismo. Il linguag­ gio usato mira prima di tutto all’efficacia, vuole essere diret­ to, immediato, senza preziosismi formali, anche se non man­ cano esempi più elaborati di innesto di parti documentarie all’interno della fiction. I nomi più interessanti sono Krzysztof Kieslowski (n. 1941) che, dopo Blizna (La cicatrice, 1976) in cui ritraeva quasi documentaristicamente un tecno­ crate sullo sfondo di Danzica ’70, ha dato con Amator (Il cineamatore, 1979) un bel ritratto di dilettante che passa dai film familiari a quelli più scottanti di fabbrica e paga di persona, ritratto che da divertito diviene serio e si fa quasi un manifesto su che cosa potrebbe essere il cinema e sui suoi rapporti con la realtà, tra verità e autocensura; il polemico Feliks Falk (n. 1941) con il discusso Wodzirej (Il direttore del ballo, 1978), su un eroe del tutto negativo, un piccolo arrivi­ sta interpretato come Amator da Jerzy Stuhr, assai impegna­ to con Solidarnosc, e con Szansa (L’occasione, 1979), sull’obbligo di vincere a ogni costo, anche nello sport, anche a livello scolastico; Janusz Kijowski (n. 1948) con Kung-fu (id., 1979), sbrigliato, insinuante racconto sulla necessità e l’am­ biguità dell’uso della forza come difesa contro i soprusi socia­ li, dopo che Ksiazka studenta (Libretto scolastico, 1977) era stato proibito a causa dei suoi precisi riferimenti ai moti studenteschi del marzo ’68; Tomasz Zygadlo (n. 1948) con il discontinuo Cma (Farfalle notturne, 1980), su un conduttore 317

di una trasmissione-confessione notturna che rivela un volto nascosto e schizofrenico della Polonia. Wojciech Marczewski (n. 1944) ha mostrato notevole sottigliezza analitica raccon­ tando i casi di ragazzi lasciati soli ad affrontare crudeli cam­ biamenti sociali, in Zmory (Incubi, 1978) in un collegio reli­ gioso della Galizia asburgica, in Dreszcze (Brividi, 1981) in una scuola stalinista dopo che il padre è stato arrestato per motivi politici. E ancora: Ryszard Czakala, proveniente dal cinema d’animazione, che in Sofia (id., 1976) dà un rigoroso ritratto di solitudine senile, e i cosiddetti, brillanti «creazionisti» Filip Bajon (n. 1947) il cui Aria dia atlety (Aria per un atleta, 1979) ritrae con fantasia e divertita commistione un altero lottatore d’inizio secolo che ama l’opera e cerca invano di restare coerente con la propria concezione della lotta, e Piotr Szulkin (n. 1950) il cui Golem (id., 1979) è un incubo fantascientifico post-atomico, seducente soprattutto sul pia­ no figurativo. Legata ai nomi di Zanussi e Wajda, con il quale ha scritto Bez znieczulenia (Senza anestesia, 1978), è Agnieska Holland (n. 1948), diplomata al famu di Praga, che ha esordito con il notevole Aktorzy prowincjonalni (Attori di provincia, 1979), sagace descrizione di un microcosmo teatrale con un conti­ nuo scambio tra realtà e finzione, e uno stretto e dialettico legame tra privato e pubblico. Anche in Goraczka (Febbre, 1981), ambientato in un frammentato inizio secolo di scioperi generali, assassini, repressioni, la Holland rivela di avere in comune con Zanussi la tensione morale, lo sguardo lucido sulla società polacca, e con Wajda il tema tipicamente polac­ co della rivolta romantica contro i vincoli e le ipocrisie del­ l’apparato. Il più anziano Andrzej Kondriatuk (n. 1936) ha dato con Pelnia (Pienezza, 1979), incentrato su un conflittua­ le ritiro in campagna di un affermato architetto, una pene­ trante riflessione esistenziale con sfumature cattoliche, così come è il problema morale a interessare Edward Zebrowski (n. 1935) nel più drammatico Szpital przemienienia (L’ospe­ dale della trasfigurazione, 1979), calato nell’universo chiuso di un ospedale psichiatrico sotto l’occupazione tedesca e trat­ to dall’unico testo realistico di Stanislaw Lem. Ex cosceneggiatore di Zanussi, Zebrowski si è confermato autore di rilie­ vo con W bialy dzien (In pieno giorno, 1980) che rievoca il caso di coscienza di un membro di un’organizzazione clande­ 318

stina, incaricato di uccidere uno scrittore socialista in disac­ cordo con il partito e sospettato di collaborazionismo con gli occupanti zaristi. Ispirato alla figura di Stanislaw Brzozow­ ski, scrittore a cavallo del secolo amatissimo da Milosz, il film per sensibilità d’epoca e pregnanza di discorso è un ottimo esempio di trattamento non neutro e appiattito della complessa storia polacca. Il metafìsico Zanussi L’esponente più autorevole della terza generazione è Krzysztof Zanussi (Varsavia 1939) che deve il suo cognome italiano, anzi friulano, a un trisavolo ingegnere, suddito del­ l’impero asburgico inviato nella lontana Polonia a sovrinten­ dere alla costruzione di strade ferrate. Dopo studi di fisica a Varsavia, si iscrive a filosofia all’università di Cracovia, dove ha per docente Roman Ingarden, allievo di Husserl, di cui segue i corsi di orientamento fenomenologico. Ma cova già la passione per il cinema. Dopo aver fatto en amateur una doz­ zina di filmetti, nel 1960 supera gli esami di ammissione alla scuola di Lodz, ma, per ragioni soltanto in parte conosciute, si diploma nel ’66. Il suo saggio di regia Smierc prowinciala (La morte del padre provinciale), ventotto minuti senza dia­ loghi, è una rivelazione: per maturità narrativa, rigore di linguaggio, intensità e scelta di temi (vecchiaia, malattia, ri­ cerca della verità) preannuncia l’opera futura. Ancor più, il suo film d’esordio nel lungometraggio Struktura krysztalu (La struttura di cristallo, 1969) — due scienziati, una donna, una ricerca intellettuale e morale — definisce quasi allo stato puro il suo mondo poetico, per molti versi agli antipodi di quello di Skolimowski e lontano anche da quello di Wajda. Film da camera e operetta morale, è un esempio di cinema intellettuale dove non succede nulla, ma la cui azione interio­ re si svolge attraverso il confronto tra due posizioni, due visioni del mondo. I titoli dei suoi film hanno spesso qualcosa di assoluto (o di scientifico?) nella loro concisione come se, superando l’aned­ doto, interrogassero il proprio contenuto: Hipoteza (Ipotesi, 1972), Iluminacja (Illuminazione, 1973), Bilans kwartalny (Bi­ lancio trimestrale, 1975), Proba cisnienia (Prova di pressione,

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1976), Barwy ochronne (Colori mimètici, 1976), Spirala (La spirale, 1978), Constans (La costante, 1980), Kontrakt (Con­ tratto, 1980), Imperati? (Imperativo, 1982). In questo itinera­ rio apparentemente così rigoroso e lineare, un vero e proprio corpus tematico, si possono in realtà riscontrare un anda­ mento a singhiozzo nella sperimentazione di nuove forme, un’alternanza di facile e difficile, linguaggio più accessibile al pubblico e austerità stilistica. A La struttura di cristallo segue il più tradizionale Zycie rodzinne (Vita di famiglia, 1971), che ha un intreccio più solido e personaggi più corposi. Dopo Za sciana (Dietro la parete. 1971), rarefatto mediometraggio che contrappone l’inquieta radicalità di una studentessa che tenta il suicidio e l’efficienza fredda e burocratica di uno scienziato di regime, e Illuminazione, ricerca di verità e assoluto oltre le imperfezioni della società sul filo di uno spiritualismo umani­ stico, arriva nel ’75 Bilans kwartalny, descrizione dei proble­ mi di una famiglia di ceto medio che sfiora il melodramma, offrendo a Maja Komorowska, la sua attrice preferita, l’oc­ casione per una memorabile interpretazione. E subito prima c’era stato l’infortunio americano di The catamount killer (Kit o ! omicida o L’amante del! assassino. 1974), noir di serie b tratto da J.H. Chase. Un’analoga rispondenza si può stabilire tra il sociale e aggressivo Barwy ochronne, che è un vero spaccato di corru­ zione carrieristica e impotenza morale in un campus universi­ tario, e Spirala, spirale interiore di disperazione e morte di un ingegnere di mezza età; tra Kontrakt e Constans, l’uno com­ media nera, satira attorno a un matrimonio interrotto in cui si raggrumano tutte le miserie e i conformismi della borghe­ sia socialista, l’altro il denso, alto ritratto in forma a un tempo di oratorio e di teorema di un giovane idealista che si ritiene un «giusto»; tra Imperati?, girato in Germania e che segue nella sua logica parossistica un giovane matematico tormentato dai problemi della conoscenza e della sacralità, e Rok spokojnego slonca (L’anno del sole tranquillo, 1984) che è la più distesa storia di un sogno irrealizzato di America di una donna polacca che, nel ’45-46, ha una relazione con un soldato americano in missione. Per larga parte è un film di cupo splendore, cui la barriera linguistica dà un taglio origi­ nale e di struggente umorismo. Inoltre Zanussi ha perseguito altre esperienze, telefilm in patria e nella rft e messe in scena

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teatrali in Italia di testi, fra gli altri, di Slawomir Mrozek e di Karol Woityla. E la figura del papa, pur relegata sullo sfon­ do, è al centro di quel film di occasione celebrativa e su commissione che è From a far country {Da un paese lontano, 1981), superficiale saga di mezzo secolo di storia della cattoli­ ca Polonia. È costante nel suo cinema il passaggio dal piano etico a quello metafisico, ma il suo spiritualismo non è facilmente riducibile in termini religiosi e mistici, come cercano di fare i suoi esegeti di matrice cattolica, se non in Imperati? e Da un paese lontano. Il suo cinema è fondato su una puntigliosa osservazione del comportamento, su un’assidua interroga­ zione sul senso dell’esistenza e la presenza del male (sino al greve II potere del male, 1985, di produzione rai), su una lucida e sofferta analisi dei meccanismi sociali nella vita quo­ tidiana, espressi in chiave di malattia, di sacrificio/rinuncia. Con i suoi personaggi che sono quasi sempre intellettuali, con i suoi rarefatti teoremi, Zanussi sembra rivendicare «cer­ te origini e tradizioni, un’educazione elitaria, europea, non­ comunista, che si sposa però con una consapevolezza storica assai precisa e perfino con la difesa di un sistema sociale» (R. D’Agostini). Ausculta, da scienziato prima ancora che da artista, il cuore della Polonia contemporanea. La sua è una costante ricerca attorno alla libertà umana che è libertà, co­ me dice lui stesso, in rapporto ai condizionamenti biologici come a quelli sociali; la sua forma è quella del confronto aperto, tutto riflessione e dialogo, anche a rischio di farsi maniera, anche a rischio di fare un cinema da laboratorio.

Anni normalizzati Il 13 dicembre 1981 il generale Jaruzelski prende il potere e pone fine alla stagione della protesta operaia. Di essa ci resta la testimonianza: Robotnicy 80 (Operai ’80, 1980) di Andrzej Chodakowski e A. Zajaczkowski, cronaca quasi televisiva degli avvenimenti dal 14 al 31 agosto 1980 ai cantieri Lenin di Danzica, quando Solidarnosc viene ufficialmente riconosciu­ ta dallo stato socialista, una cronaca però capace di esprime­ re il carattere di questo movimento in cui una forte coscienza operaia di classe fa corpo con una presenza religiosa come

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legame comunitario. Dopo l’instaurazione dello stato d’asse­ dio, alcuni registi e attori emigrano. Sono bloccati alcuni film. Przescluchanie (L’interrogatorio, 1981), che racconta arresti, torture, angherie subite da una donna (Krystyna Janda) che, in anni staliniani, si rifiuta di testimoniare il falso in un processo a un amico ufficiale che alla fine sarà giustiziato lo stesso, non uscirà mai. Era l’esordio di Ryszard Bugajski, e a tutt’oggi resta il suo unico film. Przypadek (Il caso, 1981) di Kieslowski, ritratto di un giovane intellettuale che passa dal partito all’opposizione, al disimpegno, uscirà soltanto nel marzo 1987. Il dimissionario Wajda è sostituito alla presi­ denza dell’Associazione dei registi da Janusz Majewski che non è certamente uomo di regime. In effetti, la giunta milita­ re è intenzionata più a mediare che a reprimere, mantenendo al loro posto tutti i cineasti di maggior prestigio. Il gruppo X di Wajda è l’unico a essere sciolto. La produzione non rista­ gna, anzi aumenta: negli anni 1982-86 sono realizzati 173 film, quasi 35 all’anno. Com’è nella logica degli eventi, scompaiono i film dell’«inquietudine morale», di intervento diretto nella realtà presen­ te. Per vie più mediate si affrontano temi controversi nella storia e nella cultura polacche, dal mondo lituano, impasto di etnie e culture spazzato via dall’uRss, che Tadeusz Konwicki perlustra in Dolina Issy (La valle d’Issy, 1983) ispirandosi a un testo di Milosz, a quello degli ebrei chassidisti nella Galizia della prima guerra mondiale, che Jerzy Kawalerowicz descrive nel meno risolto Austeria (Osteria, 1982). Accanto a qualche stravolto, espressionistico film di Krolikiewicz o con­ fusamente polemico di Rózewicz (Rys, Lince, 1982), si sono imposti nomi nuovi: Barbara Sass con la sua nervosa trilogia di eroine femminili, da Bez milosci (Senza parole, 1980) a Krzyk (L’urlo, 1983); Juliusz Machulski (n. 1955) che è ap­ parso un vero talento cinematografico naturale; Janusz Zaorski (n. 1947) con il satirico Baryton (Il baritono, 1984), più che con il letterario Jezioro Bodenskie (Il lago di Costan­ za, 1986), Pardo d’oro a Locamo; Radoslaw Piwowarski (n. 1948) che ha dato una simpatica e malinconica commedia, Yesterday (id., 1985), ambientata in un 1964 di culto per i Beatles; Jerzy Domaradzki con la piccola metafora Pianeta krawiec (Il pianeta sarto, 1983), mentre appare assai primario il polemico Wielki bieg (La grande corsa, 1981), che trattava 322

di un gruppo di giovani in era stalinista. Quest’ultimo era scritto da Feliks Falk, confermatosi figura di primo piano come sceneggiatore e regista in proprio, un po’ didascalico ma preciso nel cogliere un «clima», specie in Byljazz (C’era il jazz, 1981 ma uscito nel 1984), che rievoca un vero e osteggia­ to gruppo jazz nei primi anni Cinquanta. Ma forse il meglio è venuto ancora da Kieslowski che ambienta Bez konca (Senza fine, 1984) nel 1982, in piena legge marziale, sapientemente integrando reale e fantastico. Un giovane avvocato, difensore di operai incarcerati per aver organizzato scioperi (è Jerzy Radzwilowicz, l’interprete di L’uomo di marmo e L’uomo di ferro), muore ma resta in questo mondo, presenza di integrità morale, ormai del tutto libera da condizionamenti, che si contrappone ai comportamenti contraddittori dei vivi: il suo ex assistito diviso tra idealistica coerenza e un utile compro­ messo con il potere cui lo spinge il vecchio avvocato in nome di una lotta futura, gruppi di opposizione sempre più sfatti e disperati, piccoli opportunismi e piccole solidarietà. Alla fine l’operaio è assolto, ma è una vittoria o una sconfitta per tutti? Il suicidio finale della vedova dell’avvocato, che si è identifi­ cata nella sua causa, è un’amara confessione di solitudine e di assenza di ragioni, private e pubbliche, per resistere. Un pes­ simismo ancor più radicale lo aveva dimostrato, prima di emigrare in Occidente, Agnieska Holland con il nerissimo Kobieta samotna (Una donna sola, 1981, ma tuttora proibito in Polonia). È il ritratto, scarno e rigoroso come un incubo kafkiano, di una donna non più giovane e del mondo in cui si trova a vivere. Tutti i valori sembrano distrutti. Nulla si salva, nemmeno Solidarnosc, nemmeno una Chiesa gretta e interessata. Ne risulta uno squarcio impressionante di mise­ ria, di oppressione, di corruzione, di intolleranza. Di dispera­ ta voglia di fuggire all’estero, che ha per approdo la follia e la morte.

LA DIFFICILE EMERSIONE DELLA ROMANIA

Nel ’65 Liviu Ciulei, il più importante cineasta della gene­ razione del dopoguerra, ottiene con Padurea spinzuratilor (La foresta degli impiccati) il premio per la regia al festival di 323

Cannes. Nello stesso anno, il giovane Lucian Pintilie attira l’attenzione con Duminicà la ora sesa (Domenica alle sei), premiato a Mar del Piata, e poi fa sensazione con Reconstituirea (La ricostruzione, 1969). Sono i primi riconoscimenti in­ ternazionali del cinema rumeno, nato in pratica nel 1948 con la nazionalizzazione delle società di produzione e costretto a lungo a fare i conti con dirigismi burocratici e ideologici, in un disgelo dallo stalinismo più che cauto sul fronte interno, di contro a una politica estera di apertura verso l’Occidente e di rifiuto a una stretta integrazione economica e militare con l’Unione Sovietica.

Lucian Pintilie

Pintilie (Tarutino 1933) era un affermato regista teatrale, che si era fatto notare per messe in scena di autori problema­ tici come Durrenmatt e Frisch. Duminicà la ora sesa può apparire scontato nel soggetto tipico dei paesi dell’Est — una storia di resistenza e di tradimento nel ’40, agli albori della guerra e del fascismo — ma è trattato con una frenesia for­ male che è delle nouvelles vagues: racconto discontinuo, commistioni temporali alla Resnais, piani ossessivi della sce­ na primaria (un cortile con un montacarichi) che fa da leit­ motiv al corso della memoria di un breve amore e della sua morte. Nella sua desolata visione dell’esistenza, nella prepo­ tente affermazione della presenza dell’autore e della sua sog­ gettività, il film rappresenta un vero atto di rottura. Quel tanto di sperimentale che ancora c’è in questo esordio diven­ ta davvero personale e moderno in Reconstituirea. Due studenti, implicati in una rissa in un’osteria, sono indotti dal giudice, con la promessa del perdono, a ricostruire i fatti per un film educativo, ma uno di loro accidentalmente resta ucciso. Dentro allo schema allora abusato del metafilm, è una riflessione di singolare complessità sul cinema, sulla verità del set e l’unicità dell’esperienza, sull’ambiguità della ricostruzione del reale, ulteriormente deformato nelle reazio­ ni di una folla indifferente e non informata, appena uscita da una partita di calcio. L’invito al reale fuori dagli schemi, dalle tesi e visioni precostituite, è chiaro, così come il discorso su una pedagogia della repressione e dell’irresponsabilità collet324

riva che finisce per riferirsi a tutto un ordine. Non a caso, per le sue implicazioni e l’inedita dialettica tra piano formale e piano del discorso, che denotano «pericolosi influssi occiden­ tali», ha avuto noie con la censura che ne ha ritardato per un paio d’anni l’uscita senza poterne impedire il vasto successo di pubblico e di discussione. Pintilie sosteneva di voler «spezzare con rabbia gli specchi deformanti che si frappongono tra noi e il reale», ma non ne ha più avuto occasione. Dopo una messa in scena nel ’72 del gogol’iano Ispettore generale, tanto contemporanea da por­ tare alla sospensione dello spettacolo e da costare a Liviu Ciulei il posto di direttore del Teatro Burlanda di Bucarest, Pintilie emigra a Parigi impegnandosi nel lavoro teatrale, con la sola eccezione^ della riduzione per la televisione iugoslava del racconto di Cechov «Reparto n. 6» (1978). Al di là della povertà dei mezzi, è ancora una riflessione sul conformismo e sulla violenza di certi poteri, giocata sulla ripetizione dei comportamenti e sull’inerzia mortuaria di un’umanità abbru­ tita. In quella seconda metà degli anni Sessanta, si ebbero altri, minori esempi di cinema non schematico, dovuti a registi poco più che trentenni, come Iulian Mihu, Mircea Dràgan con Golgota (id., 1967), seguito di Lupeni *29 e dedicato alle vedove delle vittime di quello sciopero, Mircea Muresan con Ràscoala (Sommossa, 1965), robusto ritratto di un capo di rivolta contadina del 1907 come lo sarà poi quello del sette­ centesco Horea (id., 1984), e i più contemporanei Mircea Sàucan, diplomato al vgik di Mosca, il cui sguardo in Meandre (Meandri, 1966) è più spostato verso temi intimisti e familiari, e Andrei Blaier con Diminetile unui bàiat cuminte (Le mattinate di un bravo giovane, 1966), sulle incertezze giovanili. Gli anni Settanta. Dan Pita e Mircea Veroiu

Nel ’71 il presidente Nicola Ceausescu attacca duramente, al congresso degli attivisti di partito, gli artisti e gli intellet­ tuali. E un atteggiamento in cui si ritrovano la cautela verso I’urss, sospettosa di indiscriminate aperture nei paesi est-eu­ ropei, e la suggestione del modello cinese, didattico e forte­

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mente politicizzato. È un richiamo all’ortodossia che è poi nella pratica gestito con sorvegliata tolleranza, ma che indica precisi confini alla critica e alla ricerca. Si è così oscillato nel cinema tra discreti prodotti di genere di Sergiu Nicolaescu, noto per i suoi thriller e soprattutto i film storici (Dadi, I Dad, 1965; Mihai Viteazul, Michele il Coraggioso, 1971), Mircea Dràgan, Manole Marcus che ha poi diretto il politico Puterea si adevàrul (Il potere e la verità, 1972), tratto dalla biografia di Ceausescu, e rari tentativi di ricerca, tenuti nell’ambito di una lecita analisi familiare-sim­ bolica da Malvina Ursianu con Serata (Festa, 1970), decisa­ mente dissonanti invece in Radu Gabrea (n. 1937), influenza­ to da Paradzanov e da Jakubisko nel ricupero di culture autoctone. Dopo un Prea mie pentru un ràzboi atìt de mare (Troppo piccolo per una guerra così grande, 1970) di forte impatto visivo, si scontra con le autorità con Dincolo de nisipuri (Oltre le sabbie, 1973), inchiesta piena di angoscia e profetismo su un anarchico le cui vicissitudini attraversano tutta la recente storia rumena, ma che è trasformato dalla censura in un comunista portatore di linee più ufficiali. Così, oltre a Pintilie, in quegli anni lascia il paese anche Gabrea, cioè gli autori più personali delle ultime generazioni, non dissimili nelle loro inquietudini da quelle polacca e cecoslo­ vacca. Destinati a diventare i registi di punta dell’ultimo decen­ nio, Dan Pita (Dorohoi 1938) e Mircea Veroiu (Tirgu-diu 1941) esordiscono in coppia nel ’73 con Nuntà de pietra (Noz­ ze di pietra), che riunisce due mediometràggi autonomi, ma incentrati su figure di donne — l’una deprivata di ogni forma di resistenza dopo la morte del marito e dei figli; l’altra che alla festa di nozze abbandona l’uomo impostole — e girati con la stessa troupe e negli stessi ambienti, un mondo conta­ dino carpatico rappresentato nei suoi costumi e nelle sue durezze con austera letterarietà. Più interessato alle cose, Pi­ ta, in una carriera che non ha escluso divagazioni in generi popolari come il thriller e persino western autoctoni, ha poi dato non pochi film di rilievo realistico: Filip cel bun (Filippo il gentile, 1974), inquieto ritratto di giovane in cerca d’identi­ tà; il letterario Tanase Scatiu (id., 1976), sull’ascesa di un carrierista di fine ’800; Concurs (Concorso, 1982), metafora politica assai interna in cui un gruppo di burocrati, impegnati

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in una gara di orientamento nel bosco, mostra tutta la sua miseria, il suo cinismo, la sua impotenza, sinché non arriva a salvarli e a imporre nuove regole un operaio, ma pure rifles­ sione esistenziale non lontana nei temi da altre opere dell’Est come Stalker e II direttore dorchestra-, Pais in doi (Paso do­ ble, 1985), Orso d’argento a Berlino 86, stramba commedia su due amici operai innamorati delle stesse ragazze, che as­ sume a poco a poco i toni cupi di un’ossessione amorosa. In Veroiu è preminente l’interesse stilistico che ha sempre più richiamato Visconti: la propensione per bei mèlo percorsi dai temi della storia come in Dincolo de pod (Al di là del ponte, 1976) o da quelli più vicini della lotta nazionale contro i fascismi come in Sa mori rànit din dragaste de viata (Morire per amore della vita, 1982); il gusto dell’immagine raffinata, quasi pittorica, la cura per i dettagli, i costumi, il gioco delle luci e delle ombre, il senso letterario dei dialoghi densi. Nero o fantascientifico, come agli inizi, desunto dalla letteratura tra le due guerre come quasi sempre, il soggetto è passato attraverso il filtro di un vero talento formale, visivo. Da Garabet Ibraileanu è tratto il suo film più famoso, Adela (id., 1984), gran premio alla Mostra del cinema d’autore di San­ remo 1985. E il racconto abilissimo di un amore reso impos­ sibile dalla differenza d’età, in un fine secolo del 1899 che è anche la fine della giovinezza per un intellettuale quaranten­ ne, schopenhaueriano, che sceglie la rinuncia. Soprattutto è una sottile analisi di sentimenti non espressi, in modi cechoviani e in ampie ma asciutte partiture. I nuovi: Mircea Daneliuc

Pur se l’autoritarismo politico resta forte e il livello di vita rimane il più basso dei paesi del Comecon, il cinema romeno è in piena emersione. Decentralizzato nel ’72 in cinque unità autonome, ha messo a frutto le risorse del centro produttivo di Bucarest Buftea e ha visto crescere la produzione sino ai trentasei film dell’84 — erano in media quindici all’anno a fine anni Sessanta — e di pari passo il successo di pubblico sul mercato interno. Ciò che accomuna i migliori registi sem­ bra essere l’assillo stilistico, pur se raramente riesce a staccar­ si dalle convenzioni di un naturalismo attualizzato, una ten­ 327

sione estetica che ancora non riesce a tradursi in una visione davvero nuova. Il nucleo più interessante di questo cinema appare sempre più la cosiddetta generazione ’70: Iulian Mihu che, dopo il barocco e nero Felis si Otilia (Felix e Otilia, 1972), continua a proporre rari e rarefatti film, tra cui il letterario e contadino Rumina palidà a durerii (La luce pallida del dolore, 1980); il regista teatrale Alexandru Tatos con il suo realismo minuto e il suo moralismo (Secvente, Sequenze, 1982; Intunecare, Oscuramento, 1986); Malvina Ursianu con Intoarcerea lui voda Lapusneanu (Il ritorno del voivoda Lapusneanu, 1979), sulla controversa vicenda di questo re cinque­ centesco di risonanze shakespeariane; Constantin Vaeni, Di­ nu Tanase, oltre a Dan Pita, Veriou. Sono intanto maturati nomi nuovi quali l’ex critico Stere Gulea, l’operatore Josif Demian, Serban Marinescu con il decoroso ritratto storicointimista Domnisoara Aurica (La signorina Aurica, 1987). È, però, soprattutto Mircea Daneliuc (Hotin 1943) a con­ quistarsi una certa risonanza oltre i confini nazionali. Dopo l’esordio con Cursa (La corsa, 1976), spigoloso e tenero rac­ conto di ventiquattro ore di due camionisti e una ragazza che deve raggiungere in città un uomo che risulta poi già sposato, s’è segnalato soprattutto con Proba de microfon (Prova di microfono, 1980) e Glissando (id., 1984). Il primo, veloce, nervoso nei suoi continui mutamenti di tempi, tagli, approc­ ci, mischia fiction e candid camera per raccontare con dura, sarcastica ironia un’inchiesta tv su un gruppo di cittadini indisciplinati. Il medium è manipolazione e falsa ogni rap­ porto, la gente è diversa: la comunicazione è impossibile. Il secondo, incentrato sulla deriva di un giocatore spregevole ma colto e lucido, in anni Trenta a sfondo fascista, è un film impervio, persino enigmatico nella sua strenua tensione verso la metafora ambigua, nella sua compenetrazione di realtà e sogno, con zone surreali e grottesche come la clinica-lager annessa al casinò non indegne di un Bruno Schulz. E alla fine quest’incubo di notevole forza visionaria finisce per essere lo stravolto ritratto, con implicazioni metastoriche, di una so­ cietà malata.

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IL CINEMA DELLA RDT DOPO IL 1960

Come si è detto, nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961 viene eretto ai confini con Berlino Ovest quello che le autori­ tà della rdt — che nel 1957 ha riconquistato la piena sovrani­ tà in base ai trattati stipulati con I’urss — chiamano der Friedenwall, il vallo (muro) della pace; ma a questo evento corrisponde all’interno un certo allentarsi del controllo ideo­ logico in campo artistico. I «film socialisti contemporanei» sono in questo periodo soprattutto storie d’amore. Attraver­ so i conflitti privati appaiono, di sbieco o sullo sfondo, i problemi sociali: Septemberliebe (Amore di settembre, 1960) di Kurt Maetzig; Und deine Liebe auch (E anche il tuo amore, 1962) e Julia lebt (Giulia vive, 1963) del giovane Frank Vogel; Lots Weib (La moglie di Lot, 1964) dell’esordiente Egon Gunther (n. 1927) che intacca, se non attacca, uno dei ba­ stioni della moralità socialista, il matrimonio e la famiglia. Il film più notevole del gruppo è probabilmente Der geteilte Himmel (Il cielo diviso, 1964), storia di due fidanzati separati dal muro di Berlino. Lavorando su un bel romanzo di Chri­ sta Wolf, scrittrice di primo piano nella rdt (nessuna paren­ tela col regista), Konrad Wolf continua e approfondisce quel­ la ricerca di una personale forma narrativa, in trasgressione dei canoni del realismo socialista, che aveva già intrapreso nei film precedenti. Il periodo di relativa liberalizzazione di cui aveva profitta­ to anche Wolf ha breve durata. I possibili effetti della prima­ vera di Praga mettono in allarme le autorità di Berlino. All’i­ nizio del 1967 nella n sessione plenaria del comitato centrale della sed (Partito socialista unitario) si ribadiscono con fer­ mezza l’opposizione alle deviazioni dall’ortodossia del parti­ to e la lotta contro l’inquinamento ideologico dello stato socialista. Dopo la pubblicazione di un suo articolo su «Der Spiegel», settimanale della rft, si rivolgono severe critiche al celebre fisico Robert Havemann, già radiato dall’università Humboldt di Berlino e bersaglio di una dura campagna di stampa, insieme col filosofo marxista Ernst Bloch. Si proibi­ sce ogni pubblicazione del popolare poeta e cantautore Wolf Biermann, accusato di deviazionismo di sinistra, e dello scrit­ tore Stefan Heym che, dopo l’esilio negli Stati Uniti, era

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ritornato nella rdt. Nella stessa sessione plenaria della sed sono aspramente criticati alcuni film che «macchiano il pri­ mo stato germanico di operai e agricoltori». Il bersaglio principale è Das Kaninchen bin ich (Il coniglio sono io, 1965) di Kurt Maetzig, adattamento di un romanzo di Manfred Bieler, d’altronde mai pubblicato nella rdt. La voce popolare soprannominò «film-coniglio» quei film della stagione 1965-66 che, in seguito alla sessione plenaria, furono messi al bando, pur essendo piuttosto blanda la loro critica di costume e assai prudente la rappresentazione delle storture burocratiche: Der Friihling braucht Zeit (La primavera ha bisogno di tempo) di Giinther Stahnke, Denk bloss nicht, ich heule (Non pensare che io pianga) di Frank Vogel, Wenn du gross bist, lieber Adam (Quando sarai grande, caro Adamo) di Egon Giinther, Spur der Steine (Il solco delle pietre) di Frank Beyer (n. 1932) che pur aveva molto annacquato i veleni del romanzo omonimo di Erik Deutsch. Vittime del giro di vite sono anche due opere prime: Fràulein Schmetterling (Signorina Farfalla, 1966), scritto da Christa Wolf e di­ retto da Kurt Barthel, primo film della defa che ricorreva ai metodi del cinéma-vérité, e Karla (id., 1966) scritto da Ulrich Plenzdorf e diretto da Hermann Zschoche. Per qualche tem­ po fu impossibile ai cineasti della rdt affrontare storie e temi contemporanei; le uniche tracce di questa realtà sono rintrac­ ciabili sullo sfondo di film polizieschi o di commedie musica­ li. Oltre a Ich war neunzehn (Avevo diciannove anni, 1967) di Wolf, i film più interessanti di questo periodo sono Abschied (Addio, 1967), scritto e diretto dall’ex operaio Egon Giinther che s’ispira a un romanzo di Johannes Becher e racconta la storia di un ragazzo della buona borghesia nella Germania imperiale del primo ’900 che si ribella contro il suo ambiente; Die Toten bleiben jung (I morti restano giovani, 1967) di Joa­ chim Kunert, tratto da un romanzo di Anna Seghers sulla seconda guerra mondiale, e Die Fahne von Krivoy Rog (La bandiera di Krivoy Rog, 1967) del veterano Maetzig (è nato nel 1911) sulle lotte operaie, in celebrazione del cinquantesi­ mo anniversario della rivoluzione d’ottobre. Una schiarita nella situazione politica interna si profila verso la fine del 1968 e contraddistingue il decennio successi­ vo, dopo che il pericolo dell’«infezione cecoslovacca» è stato 330

scongiurato e che nel 1971 alla testa del sed Erich Honecker succede a Walter Ulbricht. Non si può parlare, come per altri paesi dell’Est socialista (Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Iugoslavia, persino Romania), di una neue Welle, di una nou­ velle vague tedesca; per difetto di un’autentica originalità o per eccesso di costrizioni politiche, nemmeno Konrad Wolf riesce a diventare un «nome» agli occhi della critica interna­ zionale. Vengono, però, alla ribalta alcuni giovani registi, usciti dalla Scuola superiore di cinema, aperta nel 1954 a Potsdam-Babelsberg: Lothar Warnecke, Roland Gràf, Horst Seemann, Rolf Losansky, Siegfried Kuhn, Giinther Scholz. Il più dotato del gruppo è, forse, Warnecke (n. 1936) che esor­ disce con Dr. med. Sommer n (Dottor Sommer n, 1969) di ambiente ospedaliero, dove, mettendo in pratica le teorie esposte in un saggio di laurea, cerca di combinare la fiction col documentario, il neorealismo con le tecniche del cinema diretto. Sulla stessa scia si pongono nel 1969 Siegfried Kuhn con Im Spannungsfeld (Nel campo della tensione), Frank Vo­ gel con Das siebente Jahr (Il settimo anno), Ralf Kirsten con Netzwerk (Network), tutti film che raccontano personaggi in crisi d’identità, conflitti tra sentimenti privati e ambiente di lavoro. Warnecke conferma il suo modesto ma coerente ta­ lento con Es ist eine alte Geschichte (È una vecchia storia, 1970) e Leben mit Uwe (Vita con Uwe, 1974) entrambi di ambiente scientifico; con Unser kurzes Leben (La nostra bre­ ve vita, 1981), scritto da Regine Kuhn sulla base di un ro­ manzo di Brigitte Reimann, ritratto di una giovane architetta alle prese col suo «maestro» e con una situazione assai poco «creativa»; con Die Beunruhigung (L’inquietudine, 1982), de­ licato ritratto in stile semidocumentario di una quarantenne divorziata (interprete Christine Shorn) che, sotto la minaccia di un tumore, fa un bilancio della propria vita, e infine con Blonder Tango (Tango biondo, 1986), ritratto in piedi di un attore cileno emigrato a Berlino Est dopo il colpo di stato di Pinochet. La distensione permette nel 1972 l’uscita, a quindici anni di distanza dalla sua lavorazione, di Die Sonnensucher di Wolf prima in televisione e poi nelle sale e nel 1975 la realizzazione del primo film prodotto dalle due Germanie: Lotte in Weimar (Carlotta a Weimar) da Thomas Mann, diretto da Egon Giinther (dopo il ’78 passato a lavorare nella rft), interprete 331

Lilli Palmer e con Jutta Hoffmann, popolare attrice della rdt in una parte di fianco. Ma, pur nel suo garbo, il film è mode­ sto e non supera i limiti di un accademico decoro illustrativo come Die Wahlverwandtschaften (Le affinità elettive, 1974) di Siegfried Kuhn, tratto dal romanzo di Goethe. I film di mag­ giore successo del decennio sono, però, di ambiente contem­ poraneo come Der Dritte (Il terzo, 1972) di Gunther, com­ media agrodolce dai risvolti femministi; Die Legende von Paul und Paula (La leggenda di Paolo e Paola, 1973) di Heiner Carow, anch’esso imperniato sul ritratto di una giovane donna indipendente; Das zweite Leben des Friedrich Georg Platow (La seconda vita di F.G.P., 1973) di Kuhn, commedia satirica di un anziano lavoratore delle ferrovie che prende il posto del figlio a un esame e scopre una nuova vita. La pubblicità del film riportava un passaggio del racconto Storia del signor K. di Bertolt Brecht: «Un uomo che da molto tempo non aveva visto il signor K., lo salutò con queste parole: perbacco, non sei cambiato nemmeno un po’! Oh! disse il signor K., e impallidì». Una citazione che conviene anche al cinema della defa le cui novità sono a tutt’oggi relative solo a tentativi di aggiornamento e di messa al passo con sollecitazioni occidentali, in un momento in cui esse non sembrano poi così eccitanti. Dell’ultimo decennio, tra i sedici-diciassette film prodotti ogni anno, possiamo ricordare, sul versante del «vecchio», la provvisoria voga di film-fiaba e quella costante del film anti­ nazista, che pure ha dato discreti risultati come Jakob der Lùgner (Jakob il bugiardo, 1975) di Beyer ma tratto dal ro­ manzo dello scrittore ebreo Jurek Becker e ambientato nel ghetto dove le false notizie inventate dall’immaginazione di un pover’uomo aiutano a sopravvivere. E di un certo interes­ se era Die Verlobte (La fidanzata, 1979) di Gunther Riicker, su sceneggiatura di Gunther Reisch da un romanzo di Èva Lippold, ritratto di una giovane nelle carceri degli anni Tren­ ta, sorretta da un amore di impossibile realizzazione. Il diret­ tore della fotografia del film, Jurgen Brauer, ha esordito nella regia adattando un romanzo di Alfred Wellon, Pugowitza (id., 1980) sull’amicizia di un orfano e un vecchio pescatore negli anni della guerra. L’ambiente è invece quello della pri­ ma guerra mondiale in Die Frau und der Fremde (La donna e l’estraneo, 1985), Orso d’oro a Berlino, piccolo film malinco­

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nico e crudele che Rainer Simon ha tratto da un romanzo di Leonhard Frank, su due prigionieri di guerra uno dei quali poi si sostituisce all’amico, creduto morto, nella convivenza con la moglie. Cineasta interessante, Simon è un po’ più giovane (è nato nel 1941) rispetto a tutti gli altri registi citati che sono oltre i cinquant’anni e, in un cinema in cui ha gran peso il cosiddetto «drammaturgo», si sceneggia lui stesso i propri film. Ha partecipato anche alla sceneggiatura di Junge Leute in der Stadt (Giovani in città, 1986) del quarantenne Karl Heinz Lotz, agile storia di proletariato giovanile in un’emblematica Berlino alla vigilia del nazismo, che ha fatto discutere per il suo formalismo che tende a essere prevarican­ te sul soggetto, ma che alcuni critici locali ritengono di gran­ de importanza nel proprio contesto, perché esce dai consueti e piatti schemi narrativi. Originale è anche il ritratto che di due intellettuali, un accademico e un insegnante di villaggio, entrambi alla caccia di inediti di un grande scrittore del pas­ sato, traccia con esibita letterarietà Roland Gràf in Màrkische Forschungen (Indagini nella Marca di Brandeburgo, 1983). Horst Seemann ha invece narrato con corretta atten­ zione Beethoven. Tage aus einem Leben (Beethoven. Giorni da una vita, 1977), avvalendosi della sceneggiatura di un ottimo scrittore come Gunter Kunert, poi emigrato a Ovest, e del­ l’interpretazione del lituano Donatas Banionis e, subito do­ po, ha portato allo schermo il bel romanzo di un grande poeta Johannes Bobrowski: Levins Miìhle (Il mulino di Levin, 1981), sfuggendo all’accademia ma non sempre a un linguag­ gio un tantino televisivo. Più interessanti i risultati ottenuti dai registi che hanno affrontato la vita contemporanea. Sul fronte della commedia il maggior successo lo ha ottenuto Giinther Reisch col non banale ritratto di un piccolo genio dell’organizzazione le cui qualità vengono sistematicamente avvilite lungo trent’anni di dopoguerra, Anton der Zauberes (Anton il mago, 1979). Cu­ rioso è il ritratto di un postumo fan della grande diva del muto Asta Nielsen, abbozzato da Roland Oehme in Asta, mein Engelchen (Asta, angelo mio, 1980). Intanto, un vero e proprio genere, consistente per numero di buone opere, è diventato quello del film femminile. In un paese che ha avuto due grandi scrittrici e propugnatrici dei diritti della donna, la seconda modello anche per l’Ovest, come Anna Seghers e 333

Christa Wolf, questo non stupisce e va visto come un segno assai positivo. Un’opera da aggiungere a quelle già citate, tratte da Christa Wolf e da altre scrittrici, è Burgschaftfur ein Jahr (Garanzia di un anno, 1981) di Hermann Zschoche, ritratto di una donna che vive sola con due bambini. Dopo il Beethoven, Seemann ha proposto, invece, più ritratti femmi­ nili, scrivendo dirigendo e musicando, tra l’altro, Àrztinnen (Dottoresse, 1984) che, ispirato al dramma di Rolf Hochhuth, ha rinnovato le polemiche che ne avevano accompa­ gnato la rappresentazione. Allo stesso filone potrebbe ascri­ versi Bis der Tod uns scheidet (Finché la morte non ci separi, 1979) di Heiner Carow, film assai discusso e controverso in patria, sulle difficoltà che intralciano la vita di una giovane coppia, coraggiosamente critico verso la società della rdt, il suo funzionamento e il suo conformismo. In questo contesto sociale e culturale un ruolo chiave, simile a quello di Wajda in Polonia, l’ha svolto, sino alla sua prematura scomparsa nell’82 a 57 anni, Konrad Wolf, di cui si è già ampiamente parlato nel precedente volume. È stato un ruolo, il suo, di aiuto e di apertura ai fermenti innovatori, sia come presiden­ te dell’Accademia delle Belle Arti, sia come autore che, nel pur irrisolto Der nackte Mann auf dem Sportplatz (L’uomo nudo sul campo sportivo, 1974), ha proposto un’importante riflessione sull’artista nella società socialista e con Solo Sunny (id., 1980, co-regia di Wolfgang Kohlhaase) ha indagato nuove realtà e sensibilità attraverso il penetrante ritratto di una proletaria, se non una marginale, che diventa una can­ tante pop. Nonostante queste interessanti premesse, fa però fatica ad affermarsi un filone giovanile non di maniera, anche se l’ambizioso Bockshorn (id., 1984), diretto da Frank Beyer su sceneggiatura di Ulrich Plenzdorf da un romanzo di Chri­ stoph Meckel, è decisamente un film sui e per i teenagers della rdt, di due dei quali racconta in chiave realistica ma con fondo favoloso-metaforico la ricerca on the road di buoni angeli custodi e gli intralci posti loro da custodi cattivi.

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BULGARIA

Il 18 gennaio 1968 il «Literaturen Front» invitava a non trattare gli artisti come «le istitutrici trattano i bambini ritar­ dati». Era il segno di un certo risveglio culturale che, a fine anni Sessanta, dà opere meno conformiste almeno sul piano tematico. Così Binka Jeliazkova, per il suo secondo film Prizurvaniat balon (L’aerostato, 1967), si ispira a un racconto singolare e sferzante di Jordan Radichkov per raccontare con forte coloritura un mondo contadino degradato. Durante la seconda guerra mondiale, i contadini scelgono di consegnare ai gendarmi la partigiana ricercata, per salvarsi dall’accusa di furto dell’aerostato militare con la cui stoffa avrebbero volu­ to farsi camicie. La Jeliazkova (n. 1923) era stata dieci anni prima uno dei protagonisti del disgelo culturale, seguito al xx congresso del pcus, assieme a Rangel Valcanov (Na malkia ostrov, Su una piccola isola, 1968, analisi di un gruppo di antifascisti detenuti nel ’23), Christo Piskov (Bednata uliza, La strada povera, 1960), la carriera dei quali fu assai intral­ ciata dall’ostracismo ufficiale. Valcanov (n. 1928), alla fine della primavera di Praga, potè realizzare in Cecoslovacchia uno sconnesso Esop (Esopo, 1969), interessante soltanto per il tema, la libertà dell’artista di fronte al potere e al tradimen­ to di tutti. Se un contributo importante ai film della Jeliaz­ kova lo aveva dato il marito e sceneggiatore Christo Ganev, i primi e più bei film di Valcanov dovevano non poco all’abili­ tà dello scrittore Valeri Petrov, che scrisse anche Ritzar bez bronia (Il cavaliere senza corazza, 1966) di Borislav Sharaliev, onesto artigiano, efficace nel suo moralismo a suo modo critico. Questo era un bel ritratto di bambino posto di fronte alla menzogna come forma di vita degli adulti. Ganev e Pe­ trov sono, però, destinati a scomparire con gli anni Settanta, espulsi dal partito comunista e dall’Unione degli scrittori per il loro rifiuto a condannare Solzenicyn. L’altro film-chiave del periodo è Ikonostasat (Iconostasi, 1969), una sorta di Rublev bulgaro che Todor Dinov e Chri­ sto Kristov hanno tratto da II candelabro di ferro, primo e più sociale romanzo di un’importante trilogia scritta a cavallo del secolo da Dimitri Talev. Sullo sfondo di un tema democrati­ co e risorgimentale, di indipendenza dal giogo ottomano, 335

prende grande rilievo la figura dell’artista Rafe, l’intagliatore che si scontra con i potenti e con un sistema di rapporti arcaico, patriarcale ed esprime nella sua iconostasi, l’altare ortodosso con le icone, la vera anima del popolo. Nella linea di una diffusa concezione slava è l’artista che ha legami pro­ fondi con le radici di una cultura. Ed è un discorso che, alla -maniera di un ParadÈanov o un Jakubisko, trova espressione in una struttura polifonica, fondata su suggestioni visive e fantastiche più che narrative, attingendo e rivitalizzando il patrimonio folclorico nazionale. Dei suoi autori, Dinov (n. 1919) era pittore e uno dei maestri del cinema di animazione ed è tornato a operare in quel settore, tentando anche spetta­ colari contaminazioni con il film a soggetto, Kristov (n. 1926) veniva da notevoli esperienze teatrali a Plovdiv e all’opera di Sofia. Quello bulgaro, più che un cinema di autori, è un cinema di occasioni culturali, e ne è esempio la stessa carriera successiva di Kristov che ha spaziato tra il monumentale ma efficace Nakovalna ili chuck (Incudine o martello, 1972), biografia in due parti di Georgi Dimitrov, accusato dai nazisti nel ’33 di avere incendiato il Reichstag, e opere più pervicacemente personali e fantastiche (Barierata, Barriera, 1979; Kamionat, Il camion, 1981; Harakteristika, Caratteristiche, 1985). Le mi­ gliori restano forse Posledno Hata (L’ultima estate, 1973) che era il forte ritratto di contadino renitente al mondo moderno, ma con una valenza fantastica e metaforica che andava al di là dello scarno aneddoto, e Durvo bez koren (Un albero senza radici, 1974), più intimo e diretto ma ancora sullo sfondo di migrazioni verso la città, cui il vecchio contadino non riesce ad adattarsi, tema ossessivo in un tessuto sociale stravolto dalla rapidissima industrializzazione di questi anni. Di questi due film, l’uno rielaborava testi grottesco-surreali di Jordan Radichkov, l’altro era scritto da Nikolai Haitov un cui racconto permise a Metodi Andonov di dare il corposo epos familiare di Koziat rog (Corno di capra, 1970), incentrato su un fuorilegge per ribellione all’oppressione turca. Il rapporto con la letteratura è stato sempre importante per il cinema bulgaro, sia per una concezione del cinema che è anche dell’uRSS e che assegna importanza primaria al testo, alla sceneggiatura, sia per quello che gli scrittori hanno rap­ presentato nella storia del paese, nel processo di indipenden­

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za nazionale dall’ottocento in poi. Accanto ai classici come Jordan Jovkov, da cui è stato malamente tratto Scibil (id., 1969) del pioniere Zakari Giandov (n. 1911), si aprono spazi per autori attuali che permettono un maggior intervento per­ sonale e contemporaneo. La poetessa Blaga Dimitrova ha scritto l’importante Otklonenie (Deviazione, 1967), sul delu­ dente successo adulto di un uomo e una donna il cui incontro li porta a ricordare i rigidi anni staliniani che sono però anche quelli degli entusiasmi giovanili. È il ritratto di una generazione che ha «deviato» in una grigia normalità, rac­ contato con eleganza e sciolta precisione professionale da Todor Stojanov (n. 1930), ex operatore dei più importanti film bulgari, e dal regista teatrale Grisha Ostrovski (n. 1918) che si ripete in Gherlovska istoria (Storia di Gherlovo, 1971), ambientato in un villaggio, dopo la liberazione, in cui s’aggi­ ra un militare monarchico sbandato, segno di un «male» non morto che continua a portare distruzione. Sono le stesse, relative qualità che Metodi Andonov (1932-1974), venuto come Ostrovski da una lunga esperienza al Teatro satirico di Sofia, mostra in Bialata staia (La camera bianca, 1968), da Bogomil Rainov. Altro consuntivo memoriale di un’esisten­ za, quella di un cattedratico che sta per morire, tra carriera e ricerca di valori, e ancora in anni staliniani e posteriori. Nel chiuso clima culturale del paese, il cinema è soggetto negli anni Settanta a spinte contraddittorie. Non mancano di farsi sentire direttive del potere in senso retrivo e censorio, ma nel ’70 sono istituiti, sul modello di altre democrazie popolari, i gruppi di produzione autonoma. Continuano i film sulla guerra e la resistenza da cui si salva forse qualche discreto racconto di Zako Heskia (Tri v reserva, Tre riservisti, 1970) o di Vulo Radev, dopo l’esordio con Kradetzat na praskovi (Il ladro di pesche, 1964), accurato film di atmosfere sul tragico amore tra un prigioniero-attendente e la moglie di un ufficiale durante la prima guerra mondiale. Proliferano le coproduzioni, con I’urss ma anche con l’Italia (Galileo Gelilei della Cavani, L’amante di Gramigna di Lizzani, L’amante dell’Orsa Maggiore di Orsini). Se Pokriv (Il tetto, 1978) di Ivan Andonov è una denuncia dura ma moralistica e assai interna sulla corruzione diffusa per il possesso di una casa, Vechni vremeno (Tempi eterni, 1975) di Assen Chopov, Pardo d’argento a Locamo, tocca pur se in forma intricata il diffici­ 337

le passaggio nelle campagne dalle cooperative alla proprietà statale, visto attraverso un militante che rifiuta di adattarsi alle successive «verità» dello stato-partito. Poi, ci sono i con­ troversi film della Jeliazkova; meglio, comunque, le malin­ conie dei vecchi e i disorientamenti dei giovani attorno all’al­ legorica Bascinat (La piscina, 1978) che non i tristi riti di intellettuali dell’artificioso Goliamota nochto kopane (Il gran­ de bagno di mezzanotte, 1980), mentre Valcanov dà con Latchenite obouvki na neiznainiat voin (Le scarpe di vernice del soldato ignoto, 1980) un interessante ritorno, realistico e ma­ gico, a un’infanzia contadina negli anni Trenta, cioè alle pro­ prie radici. Intanto si è fatta avanti una nuova generazione di cineasti che hanno studiato a Lodz o a Praga, al vgik di Mosca (se non all’iDHEC di Parigi), e delle inquietudini di quelle cinema­ tografie riportano nei loro film l’eco seppure attutita. Georgi Stojanov (n. 1939), dopo l’assurdo di vita militare di Sluciaiat Penlevè (Il caso Penlevè, 1968), dà prova di forza caricaturale e metaforica con Ptitzi i hrutki (Uccelli e cani, 1970), in cui contrappone i cani da caccia della repressione agli uccelli libertari. Georgi Diulgerov (n. 1943) mostra un insolito senso del cinema, seguendo nell’intenso Doide deniat (Venne il giorno, 1973) le esperienze di guerra di un giovane capo par­ tigiano, che lo segnano e lo rendono incerto a vittoria ottenu­ ta, e proponendo, assieme allo sceneggiatore e interprete Russi Cianev, con Avantaj (Vantaggio, 1978) un fantasioso ritratto di «diverso», un ladro-artista, esemplare dell’interesse dell’autore per le personalità estreme, incapaci di vivere sul metro dei valori correnti. Specie quest’ultimo è un film che segna una piccola svolta. Altri giovani sono protagonisti di decorosi film di Ljudmil Staikov (Obich, Affetto, 1972) e Ivan Nichev (Spomen, Ricordi, 1974). Un vero e proprio esercizio di stile, di messa in scena di vecchi e di passati tradimenti coniugali è Cui petela (Ascolta il gallo, 1979) di Stefan Dimitrov, e insolito, pur se applicato al burocratismo, è l’umorismo di Ivan Terziev, Siina vada (Acqua forte, 1976). A proporre buoni esempi di commedia sociale è, però, soprattutto Eduard Zakhariev (n. 1938) con Prebroiavane na divite zaitsi (Il censimento delle lepri, 1973), sulla mania delle classificazioni, pregnante di allusioni attua­ li, e con Vilna zona (Zona delle ville, 1975), forse più interes­

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sante per la sceneggiatura di Georgi Michev, una festa come occasione di analisi del consumismo socialista e di uno stile di vita piccolo-borghese, che non per la sua realizzazione. Interessato ai rapporti in atto nel chiuso delle famiglie, Zakhariev ha poi dato con Elegia (id., 1982), su un pensionato che si rifiuta agli spregiudicati costumi attuali sino a divenire folle, e Skupa moia, skupi moi (Cara mia, caro mio, 1985), su una crisi coniugale, intensi racconti ricchi di notazioni sociali. Il filone dei film storici ha ricevuto nuovo impulso dal 1300° anniversario della nazione bulgara. Opere monumenta­ li di enorme successo sono: Han Asparuh (Il Kan Asparuh, 1982, in tre parti) di Ljudmil Staikov, che è riuscito a pene­ trare nei mercati nordamericani; Boris i (id., 1983, in quattro parti) di Borislav Sharaliev; Konstantin Filosof (Costantino il Filosofo, 1983) di Georgi Stojanov, sul padre dell’alfabeto slavo, Cirillo; il precursore Julia Vreskaia (id., 1978) di Niko­ lai Korabov che aveva fatto meglio con Ivan Kondarev (id., 1974). Se ne distacca Mera spored mera (Palmo a palmo, 1982, in tre parti) di Diulgerov, in cui l’epos della rivolta macedone del 1903 è vissuto modernamente attraverso la coscienza di un uomo comune, il pastore Thanos, una sorta di Megalexandros, ed è radicato in un complesso contesto mitologico e fantastico. Il cinema bulgaro è strutturalmente assai cresciuto: tre studi efficienti; due film prodotti nel ’52, dieci nel ’60, ventiquattro nel ’70, più di trenta nell’85; attenzione al film per ragazzi, ottimi settori documentari e soprattutto d’animazio­ ne. Nella sostanza resta un cinema tradizionale e di denuncia e critica assai interne. In questo ambito rientrano opere deco­ rose come quelle di Valcanov, ultima Zakade petuvate (Parti­ re per dove?, 1986), sogno surreale di un matematico annoia­ to, o di Ljudmil Kirkov dopo Matriarkat (Matriarcato, 1977) o lo stesso esordio di Vasselin Brunev Hotel Tsentral (Hotel Centrale, 1983). Rari sono gli autori e le esperienze davvero nuove e diverse: Diulgerov, magari Kristov e in prospettiva qualcuno dei giovani debuttanti negli anni Ottanta, quali Plamen Maslarov, Rumyana Petkova (Prizemyavané, Torna­ re con i piedi per terra, 1985), Nikolai Volev.

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IN ALBANIA

Scarsa — ma oggi più per gli ostacoli industriali e culturali alla diffusione che non per veti politici — è la conoscenza del cinema albanese. Dopo il ’57, anno del primo lungometrag­ gio a soggetto, la produzione è venuta crescendo (una cin­ quantina di film nel ventennio successivo), per stabilizzarsi dopo 1’80 su una media annuale di dodici-quindici film. Ci sono buoni studi (Nuova Albania) e scuole di settore specia­ lizzate; non c’è crisi di pubblico né per le sale di città né per gli spazi e i cinema ambulanti nelle campagne. A giudicare dalle rare rassegne organizzate in Occidente, i film sono di buona qualità tecnica e, al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare dalla patria del «vero socialismo», sufficientemente variati nei temi e nei toni: commedie rurali («La signora di città», di Piro Milkani, 1976), musicali storie d’amore di mu­ sicisti (In ogni stagione, di Viktor Gjika, 1981) ecc., più inte­ ressanti dal punto di vista sociologico che non da quello politico, però ancora poco più che amatoriali sotto l’aspetto dell’elaborazione espressiva. Né troppo eroici e retorici sono i numerosi film dedicati al passato, all’occupazione turca d’i­ nizio secolo (Mentori i djte, Il secondo novembre, di Gjika, 1983), all’Albania arretrata degli anni Trenta (Concerto del 36, di Saimin Kumbaro, 1979, non privo di una sua vivacità popolaresca), all’occupazione italiana e alla resistenza in cui i «cattivi» sono qui gli italiani — da Gjneral Grammofoni (Il generale Grammofono, 1979), in cui ancora Gjika, uno dei registi più ufficiali, rievoca la guerra culturale condotta dagli italiani a suon di romanze, a Lulukuquet subi mure (Papaveri rossi sui muri, 1976), dedicato da Dhimiter Anagnosti alle sofferenze dei bambini di un orfanotrofio, e bambini erano i partigiani protagonisti dell’ormai classico Debatiku (Debatik, 1961) di Hysen Hasani. Ma su questi temi si resta ben lontani dal vigore espressivo e dalla capacità di riflessione di un romanziere come Ismail Kadaré.

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L’avventura del cinema diretto: le tecniche e le scuole

Nel 1922 Dziga Vertov (pseudonimo di Denis Arkad’evic Kaufman, 1896-1954), nato, primo di tre fratelli, a Bialystok nella Polonia zarista, fonda a Mosca il gruppo del Kinoglaz o cineocchio; i suoi seguaci si chiamano «kinoki», cineocchi (pko in russo è sinonimo poetico e desueto di glaz, occhio) e formano, all’inizio, il Consiglio dei tre: Dziga Vertov; sua moglie Jelisaveta Svilova, montatrice; suo fratello Michail A. Kaufman, operatore. L’annuncio viene dato con un manife­ sto, intitolato Noi, pubblicato sulla rivista ufficiale del co­ struttivismo «Kinofot». L’anno dopo la rivista «lef» (del Fronte artistico di sini­ stra), diretta dal poeta Vladimir Majakovskij, pubblica sul n. 3 un altro manifesto: Kinoki perevorot (La rivoluzione dei cineocchi) in cui Dziga Vertov asserisce, con futuristica e perentoria veemenza, il rifiuto di tutti i procedimenti del ci­ nema tradizionale: «Il cinedramma è oppio per il popolo... Il cinedramma e la religione sono un’arma mortale nelle mani dei capitalisti... Viva la vita qual è!». Anche sulla base di scritti posteriori, i principi del movi­ mento si possono così riassumere: il cineocchio è in favore dell’azione dei fatti contro l’azione della finzione; la cinepre­ sa, occhio che vede meglio dell’occhio umano, è il microsco­ pio e il telescopio del tempo; bisogna cogliere la vita all’im­ provviso, fotografare la gente a sua insaputa per ottenere una maggiore verità; il cineocchio è al servizio della rivoluzione, realizza una spiegazione cinematografica documentaria del mondo visibile, serve a stabilire un legame visivo tra i lavora­ tori sulla base di fatti e documenti fissati dalla cinepresa e organizzati dal montaggio che non deve solo analizzare un’a­ zione, ma essere un’«attività globale», creare una struttura filmica in funzione di una volontà tematica e ideologica; bi­ sogna liberare il cinema dagli elementi estranei come teatro,

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scenografie, musica, attori, soggetto ecc., cioè isolare la con­ dizione essenziale della comunicazione cinematografica, il movimento, e organizzare un «insieme artistico-ritmico con­ forme alle proprietà del materiale e al ritmo interno di ogni cosa». È un processo che Dziga Vertov definì poi «ristruttu­ razione leninista del cinema». Dal maggio 1922 al 1925 Vertov e i suoi collaboratori realizzano, tra molte difficoltà tecniche ed economiche, venti­ tré numeri di un cinegiornale d’attualità che, in riferimento al quotidiano moscovita «Pravda» è chiamato Kinopravda (cineverità). I primi dodici numeri rispettano lo schema tipico dei cinegiornali normali, con quattro o cinque temi diversi; col xni numero, tutto dedicato al quinto anniversario della rivoluzione d’ottobre, Vertov comincia a concentrarsi su un tema unico, cercando di articolarlo nei suoi vari aspetti: il discorso concettuale si alterna e si sovrappone a quello in­ formativo, la proposta di soluzioni linguistiche originali si fa più incisiva. Non occorre qui indugiare ancora sull’opera di questo in­ novatore, poco compreso, avversato e poi frainteso, che non seppe adattarsi all’evoluzione sociale e politica del suo paese. Basti ricordare che delle progettate sei serie del Kinoglaz riu­ scì a realizzare soltanto la prima, Zizn vrasyloch (La vita in flagrante, 1924); che, dopo il cinepoema Sestaja cast’ mira (La sesta parte del mondo, 1926), Simfonija Donbassa o Entuziazm (Sinfonia del Donbass o Entusiasmo, 1930), dove potè applicare le sue teorie del montaggio analogico suono-imma­ gine; fondato sui rumori autentici di una fabbrica, è il primo documentario sonoro del mondo; che, inserendo in Tri pesni o Lenine (Tre canti su Lenin, 1934) conversazioni autentiche, spontanee, registrate in presa diretta e sincronizzate con l’immagine, precedette il britannico Paul Rotha nell’impiego dell’intervista filmata.

Flaherty e altri precursori

Dziga Vertov è uno dei due grandi precursori del cinémavérité, ormai più correttamente detto cinema diretto. La pri­ ma locuzione fu inventata, in omaggio al cineasta sovietico, da Edgar Morin, sociologo francese di estrazione marxista, 342

nel gennaio 1960 in un articolo per il settimanale «FranceObservateur» sul 1° Festival dei popoli di Firenze, e impiega­ ta, a fini pubblicitari, nel motto «Pour un nouveau cinémavérité» quando al festival di Cannes 1961 fu presentato Chronique dun été (Cronaca di un’estate, 1960), realizzato da Mo­ rin e Jean Rouch, inchiesta tra i giovani francesi dell’estate 1960. Morin ha così spiegato il termine: «Si tratta di fare un “cinema verità’’ che superi l’opposizione fondamentale tra cinema romanzesco e cinema documentaristico (...) bisogna fare un film di autenticità totale, vero come un documentario ma col contenuto di un film romanzesco, cioè col contenuto della vita soggettiva». Mentre nelle intenzioni di Morin l’accento cadeva sull’ag­ gettivo «nuovo», fu ritenuta soltanto la locuzione cinéma-vérité, fonte di numerosi equivoci e di interpretazioni erronee, finché nel marzo 1963 in un convegno di Lione un altro cineasta francese, Mario Ruspoli, propose il termine di «ci­ nema diretto», meno restrittivo e più pertinente per indicare un cinema che capta in presa diretta la parola e il gesto per mezzo di strumenti tecnici (cinepresa e magnetofono) sincro­ ni, leggeri e facilmente maneggevoli; un cinema che stabilisce un contatto diretto con l’uomo e che tenta di aderire alla realtà senza pretendere di arrivare alla verità, cercando inve­ ce di porne il problema al livello dei rapporti umani: il cine­ ma diretto è anzitutto un cinema della comunicazione. L’altro grande precursore fu l’americano Robert Flaherty (1884-1951), l’autore di Nanook of the north (Nanuk l’eschi­ mese, 1922) e di Man of Aran (L’uomo di Aran, 1934). Al contrario di Vertov che piazzava la cinepresa in qualche po­ sto, aspettando che succedesse qualcosa, Flaherty aspettava pazientemente un avvenimento preciso e lo riprendeva quan­ do avveniva, affidandosi a una sorta di messinscena docu­ mentaristica, fondata su una drammatizzazione (la lotta del­ l’uomo contro la natura), e ricorrendo ad attori non profes­ sionisti ai quali chiedeva una collaborazione effettiva. Viveva per mesi in mezzo a loro per conoscerli da vicino e assegnava alla cinepresa una funzione di partecipazione attiva. Nel pra­ ticare l’arte dell’attesa Flaherty si sottomette alla vita e alla natura che gli dettano la loro «sceneggiatura» e gli suggeri­ scono il ritmo del film; le virtù creative del montaggio sono relegate in secondo piano (tranne che in Louisiana Story, id, 343

1948) e obbediscono soprattutto a esigenze di chiarezza nel­ l’esposizione e di continuità nel movimento plastico. Altri cineasti cercarono questo contatto diretto con la real­ tà: Jean Epstein che in Finis terrae (id., 1929) sceglie per interpreti gli abitanti di un paese che non hanno mai visto un film e ignorano i sortilegi della cinepresa; Jean Vigo che in A propos de Nice (id, 1930) — dove ha per operatore Boris Kaufman, il fratello minore di Dziga Vertov — punta su un documentario sociale secondo «un punto di vista documenta­ to»; Joris Ivens che daBorinage (id, 1933), su uno sciopero di minatori belgi del carbone, a Comment Yukong deplora les montagnes (Come Y. spostò le montagne, 1973-75), grande affresco di vita nella Cina popolare di dodici ore complessive, ha fatto un cinema di testimonianza, combinando la lezione di Vertov con quella di Flaherty, la presa diretta con la mes­ sinscena documentaristica; Georges Rouquier che in Farrebique (id., 1946), Lourdes et ses miracles (Lourdes e i suoi mira­ coli, 1954) e Biquefarre (id, 1983) cerca di illustrare un’idea del reale con autenticità, onestà e rispetto; i registi italiani del neorealismo che ricorrono a un quadro reale per dare un’im­ pressione di realtà ai loro film di finzione, cercando di ricrea­ re una realtà plausibile, sia pure attraverso un forzato divor­ zio tra immagine e suono; i documentaristi della scuola bri­ tannica degli anni ’30, raccolti intorno a John Grierson, e quelli del free cinema (specialmente Lindsay Anderson e Ka­ rel Reisz) che, prima di passare al cinema di fiction e di spettacolo, s’awicinano allo spirito del cinema diretto, cer­ cando di stabilire un contatto diretto con la gente e gli am­ bienti che filmano; i documentaristi canadesi dell’office na­ tional du film (o, all’inglese, National Film Board) che co­ minciano negli anni ’50 la pratica della cinepresa in mano, del suono sincrono e della pellicola ultrasensibile; i documen­ taristi americani, soprattutto di New York (la Frontier Film di Paul Strand), che nel periodo del new deal cercano di rappresentare, analizzandole in termini critici, quelle realtà sociali degli Stati Uniti che Hollywood ignora; i giovani regi­ sti francesi della nouvelle vague che a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 impostano, seppure a livello di principi teorici più che nelle loro opere, una loro ricerca di autenticità. Rientrano nel conto alcuni cineasti indipendenti nordamericani come Sid­ ney Meyers che dirige The quiet one (L'escluso, 1948), lungo 344

documentario romanzato sulla rieducazione di un ragazzo negro in una scuola specializzata; Morris Engel che — dopo aver realizzato con la moglie Ruth Orkin e Ray Ashley The little fugitive {Il piccolo fuggitivo, 1953), delizioso saggio neo­ realistico su un bambino, e Lovers and lollipops (Amanti e lecca-lecca, 1955) — gira Weddings and babies (Matrimoni e bambini, 1958-60) con Viveca Lindfors, primo film a sogget­ to in 35 mm realizzato con un sistema mobile e sincrono di suono-immagine; Lionel Rogosin, autore di On the Bowery (Sulla Bowery, 1956), sconvolgente documentario di medio­ metraggio sulla vita quotidiana di un barbone alcolizzato in uno dei quartieri più poveri di New York City, e di Come back Africa (Africa in crisi, 1959), dramma sociale a sfondo documentario, lucida e appassionata denuncia della politica deWapartheid nel Sudafrica; l’attore John Cassavetes che in Shadows (Ombre, 1960), girato in 16 mm con una troupe di quattro persone, impiega la finzione — fondata in gran parte sull’improvvisazione degli attori, dei dialoghi, dei movimenti della cinepresa — come catalizzatore della realtà. (In Italia, dove fu presentato alla mostra veneziana del 1961, come su altri mercati, il film fu distribuito in una successiva versione «pulita» in 35 mm.)

Le cause del!avvento Due sono le cause principali e interdipendenti che hanno favorito negli anni Sessanta la nascita e la crescita del cinema diretto: lo sviluppo del giornalismo filmato per corrispondere all’incessante domanda della televisione; l’evoluzione delle tecniche cinematografiche, inevitabile in una certa misura, ma ricercata, accelerata e rivendicata dagli stessi cineasti. Sotto la spinta della televisione, grande consumatrice di pellicola in 16 mm prima del videonastro, l’industria cinema­ tografica subì a tutti i livelli una trasformazione senza prece­ denti. Su richiesta e con l’aiuto e i suggerimenti dei cineasti, ansiosi di disporre di strumenti sempre più sofisticati e ma­ neggevoli per captare il reale con la maggiore fedeltà e rapidi­ tà possibili, si fabbricarono cineprese sempre più leggere e silenziose; si perfezionarono i sistemi di presa sincrona del suono con magnetofoni portatili e autonomi (cioè senza il

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filo di collegamento tra magnetofono e cinepresa); si misero a punto dopo il 1960, nei laboratori del canadese Office natio­ nal du cinéma, processi d’intensificazione nello sviluppo fo­ tografico, portando quello della pellicola Plus x normale da 50 fino a 1200 asa, dando così la possibilità di filmare senza lampade anche nell’oscurità quasi totale. Anticipato dalle teorie del cineocchio di Dziga Vertov, influenzato dalla poetica del «pedinamento» di Cesare Zavattini, figlio del progresso tecnico, il cinema diretto — nato e cresciuto tra il 1958 e il 1965 contemporaneamente negli Stati Uniti, in Canada e in Francia — è l’ultimo stadio di quel processo di decantazione cinematografica che tende ad avvi­ cinarsi alla realtà visibile quotidiana, ad assottigliare il dia­ framma tra strumento che registra e realtà da registrare. Il suo obiettivo finale è quello di mettere il primo al servizio completo della seconda. Nel 1919 il teorico e regista francese Louis Delluc scriveva: «Le cinéma est justement un cheminement vers cette suppression de l’art qui dépasse l’art, étant la vie». I modi di applicazione del cinema diretto sono diver­ si, ma si può parlare di tre tendenze, di tre scuole: l’america­ na, la francese e la canadese. La prima dà il primato all’azio­ ne e al comportamento; la seconda alla parola e all’elabora­ zione del pensiero: il che corrisponde, in termini di tradizione culturale, al pragmatismo degli americani e al concettualismo dei francesi. I cineasti canadesi, quasi tutti francofoni del Québec (di lingua e cultura francese, ma appartenenti all’u­ niverso fisico nordamericano) hanno cercato di conciliare l’una e l’altra.

LEACOCK E LA SCUOLA AMERICANA

Londinese, nato alle Canarie nel 1921, ma americano di adozione e di nazionalità, fotoreporter di guerra, operatore di Flaherty per Louisiana story, dopo aver realizzato Toby (id., 1954), mediometraggio sulla vita di un teatro ambulante del Middle West, Richard Leacock costituì nel 1959 con Ro­ bert Drew, giornalista del gruppo «Time-Life», la Drew As­ sociates alla quale s’aggregarono l’ingegnere elettronico Donn Alan Pennebaker e l’operatore Albert Maysles. Dal

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1959 al 1963 (anno in cui lascia la società per fondarne un’al­ tra con Pennebaker, in questo preceduti da Maysles che nel 1961 aveva costituito col fratello David una propria compa­ gnia) la Drew Associates produce più di trenta film e, contri­ buendo alla rapida evoluzione delle riprese verso il suono diretto sincrono, mette a punto un nuovo metodo di giornali­ smo filmato. Vengono così realizzati Primary (id., 1960), straordinario documentario sulla battaglia elettorale di John F. Kennedy nel Wisconsin contro Humphrey, l’altro candi­ dato del Partito democratico alla presidenza; Yankee no! (id., 1960) su Fidel Castro e lo sfruttamento neocolonialista nel­ l’America latina; On the pole - Eddie Sachs at Indianapolis (Al palo - E.S. a Indianapolis, 1961) sulle corse automobilistiche; Pete and Johnny (Pete e Johnny, 1961) sui rapporti tra un assistente sociale negro e il giovane capo di una gang portori­ cana ad Harlem; Crisis (Crisi, 1962) sul problema dell’inte­ grazione degli studenti negri nell’università dell’Alabama; The chair (La sedia, 1962) sulle battaglie legali per salvare dalla sedia elettrica il negro Paul Crump; Jane (id., 1962) sull’attrice Jane Fonda, figlia di Henry, in tournée fino alla disastrosa «prima» a Broadway della commedia The fun cou­ ple (Buffa coppia) di N. Jansen e J. Haase; Nehru (id., 1962) sul grande statista indiano. Quando, per contrasti con Robert Drew che aveva la ten­ denza a intervenire in fase di montaggio per drammatizzare i documentari dei suoi collaboratori, lascia la Drew Associa­ tes, Leacock ha la possibilità di mettere in pratica con mag­ giore libertà le sue idee di giornalismo filmato con A happy mother's day o Quintet (Una felice giornata della mamma o Quintetto, 1963) che descrive quel che successe ad Aberdeen (South Dakota) quando la signora Fisher diede alla luce cin­ que gemelli; Igor Strawinsky, a portrait (I.S.: ritratto, 1966); Chiefs (Capi, 1968) su un congresso dei capi della polizia statunitense a Honolulu. Per Leacock il cinema diretto — quel che egli chiama the living camera, la cinepresa vivente — dev’essere uno strumento passivo che ha lo scopo di ripro­ durre, nel modo più fedele e autentico, una realtà (un avve­ nimento) che il cineasta si è limitato a scoprire senza provo­ carla né, tanto meno, organizzarla, ma cercando insieme di comunicare allo spettatore il sentimento — e i significati più o meno latenti — dell’avvenimento filmato. 347

Nella sua teoria del «pedinamento» Zavattini sostiene che anche l’insignificante e il banale della vita quotidiana hanno la loro importanza: sta al cineasta scoprirla e comunicarla. Per l’anglosassone Leacock la vita quotidiana non è mai ba­ nale o insignificante: un americano vive sempre ad alta ten­ sione. Si tratta di scegliere, tra questi tempi forti, i più rivela­ tori. Generalmente un film di Leacock ha per oggetto una persona interessante «che fa notizia», implicata in una situa­ zione che la impegna profondamente in un periodo di tempo circoscritto e alla quale il cineasta può avere accesso senza pretendere di modificarla. A chi gli obietta che, per quanto poco avvertibile e discreta, la presenza della cinepresa non può non influire sul comportamento della persona filmata, Leacock risponde in modo empirico: dipende dalla sensibili­ tà, dall’abilità, dalla discrezione del cineasta, e dai rapporti di fiducia che ha saputo instaurare col soggetto. Secondo le regole del giornalismo anglosassone, il cinema di Leacock è fondato sul principio di una «obiettività impe­ gnata» dove, pur esprimendo un punto di vista, si rispetta il diritto del lettore, o dello spettatore, di farsene uno proprio, e gli si forniscono gli elementi con i quali costruirselo. E vero che l’obiettività non è sinonimo di verità, ma solo uno dei suoi presupposti, e che la somma dei fatti non coincide neces­ sariamente con la verità, ma, da buon giornalista, Leacock non si pone come compito principale il raggiungimento della verità, ma quello di far partecipare lo spettatore — in modo emotivo più che razionale: non a caso nelle sue dichiarazioni ricorre spesso la parola feeling, sentimento — a un certo avvenimento colto con un certo sguardo. Da solo D.A. Pennebaker ha diretto Aga Khan (id., 1963), Don't look back (Non guardare indietro, 1966), lungometrag­ gio sui cantanti Joan Baez e Bob Dylan e — con la collaborazione di Leacock, dei due Maysles e di altri tre operatori — Monterey pop (id., 1967), appassionato rapporto sul festival omonimo, che precede Woodstock (id., 1970) di Michael Wadleigh, premiato con l’Oscar. Ma c’era già stato, seppur realizzato in modi più tradizionali, l’ammirevole precedente di Jazz on a summer's day (Jazz in un giorno d'estate, 1959), sul festival del jazz di Newport 1958. Dopo la rottura con la Drew Associates, Albert e David Maysles hanno realizzato diversi film tra cui i più interessanti sono Showman (L’impre-

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sario, 1962) che racconta la visita del produttore Joseph Le­ vine ai suoi amici di gioventù di Boston, The Beatles in New York (I Beatles a New York, 1964) dove portano alle estreme conseguenze il metodo del «documento personalizzato» (gi­ rato con una sola cinepresa) sulfa wenimento, e il documen­ tario Gimme shelter (id., 1970) sul cantante Mick Jagger e il gruppo dei Rolling Stones, una delle più impressionanti e significative testimonianze sulla cultura rock. Alcuni principi del cinema diretto sono stati applicati al cinema di finzione da esponenti del cinema americano indi­ pendente. All’epoca di Shadows di Cassavetes, Shirley Clarke (New York 1925) provocò non pochi malintesi con The con­ nection (Lo spacciatore, 1960), sul mondo dei drogati che, nonostante le apparenze documentaristiche dell’improwisazione, è la trascrizione di un copione teatrale di Jack Gelber, interessante nella misura in cui illustra, con i modi della finzione, il modo con cui si può ideare e fare un film di cinema diretto. Allo stesso livello si pone The cool world (Il mondo freddo, 1963), ispirato a un romanzo di Warren Mil­ ler, sulla vita di alcuni giovani delinquenti di Harlem, con un bel commento jazzistico di Mal Waldron. Soltanto Portrait of Jason (Ritratto di Jason, 1967) partecipa pienamente dell’av­ ventura del cinema diretto: è la sintesi di una confessione che per dodici ore Jason, un prostituto nero, ha fatto davanti alla cinepresa della regista. La lezione del cinema diretto è rinvenibile nella maggior parte dei film militanti o comunque politicamente orientati, realizzati negli Stati Uniti negli anni Sessanta e Settanta, da The march (La marcia, 1963) di James Blue, sulla grande manifestazione della minoranza negra a Washington nell’a­ gosto 1963, a Winter soldier (Soldato d’inverno, 1971), film collettivo d’inchiesta sui reduci dal Vietnam. Oltre a Emile De Antonio, specialista di film di montaggio assai polemici di cui si parla nel cinema politico, bisogna ricordare almeno Frederick Wiseman. Avvocato di Boston, Wiseman (n. 1930) ha realizzato dopo il 1967 una decina di documentari di lungometraggio su alcune istituzioni della società americana, tutti contraddistinti da una puntigliosa volontà di obiettività e imparzialità. Tre di essi Hospital (Ospedale, 1970), High school (Scuola secondaria, 1968) e Basic training (Addestra­ mento di base, 1971), rispettivamente su un ospedale di New

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York, su una scuola media superiore e su un campo di adde­ stramento dell’esercito — sono stati messi in onda dalla raitv italiana; gli altri sono Titicut follies (Le follie di Titicut, 1967), su un ospedale psichiatrico, Law and order (Legge e ordine, 1969), sulla polizia, Essene (id., 1972), sulla vita in un monastero, e Juvenile court (Tribunale minorile, 1973), su un tribunale minorile di Memphis. Sostenuto da alcune televisioni e da alcune fondazioni, Wiseman ha iniziato un’impresa enorme di conoscenza e studio della società americana attraverso le sue istituzioni. L’ospedale, la polizia, il college, il convento, l’esercito, la ricerca scientifica, il sistema assistenziale vengono studiati e smembrati con una precisione che fa pensare a certi studi di Wright Mills, e contemporaneamente rimandano a tanto ci­ nema americano contemporaneo. Welfare (Assistenza pub­ blica, 1970), per esempio, fa immediatamente pensare a Nashville, come Basic training a L'ultima corvée ecc. Ma qui la fiction non c’entra, e la realtà c’entra di prepotenza. Accumu­ lando materiale su materiale (è tipico di Wiseman girare mol­ tissimo, dapprima per «sciogliere l’ambiente» e poter così cogliere comportamenti e reazioni altrimenti falsati dalla pre­ senza non ancora abituale della macchina da presa), Wise­ man taglia e cuce scegliendo quel che gli sembra più significa­ tivo per redigere il suo «rapporto». E sono allora personaggi e comportamenti che finiscono per rendere in tutta la sua complessità e interezza il senso di un rapporto dell’individuo con l’istituzione, sia quando l’individuo è soggetto («cliente») dell’istituzione, sia quando è partecipe della sua struttura. Ne risulta un’America fuori degli schemi: la società, le classi, le razze, i sessi, le strutture, le famiglie, l’autorità, i meccanismi del consenso e del dissenso, e soprattutto la verifica di un’i­ deologia (il «sogno americano») nei fatti concreti della vita quotidiana dei cittadini. È su questo terreno che Wiseman interviene da «autore», con grande capacità analitica e co­ struttiva.

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LA SCUOLA CANADESE E IL QUÉBEC

L’esperienza del cinema diretto in Canada — che ha la sua premessa nel trasferimento del National film board da Otta­ wa a Montreal nel 1956 e il conseguente sviluppo della pro­ duzione di lingua francese — si può dividere in tre fasi: il candid eye (1958-60), Véquipe fran^aise (1960-62), l’espansio­ ne del lungometraggio di finzione o di carattere sociologico (dal 1963 in poi). Il candid eye comprende una serie di quindici film corti per la tv, prodotti da Tom Daly, cui collaborarono registi anglo­ foni (Terence Maccartney-Filgate, Wolf Koenig, Roman Kroitor) e francofoni (Georges Dufaux, Michel Brault, Gilles Gascon) e consiste in una tecnica di ripresa: cogliere la realtà con un «occhio candido» (cioè nuovo, non preconcetto), per mezzo di cineprese leggere e mobili, spesso dissimulate (te­ leobiettivo, falsi specchi) e prestare orecchio alle sue manife­ stazioni, registrandone i suoni anche se, dato l’equipaggia­ mento tecnico dell’epoca, la registrazione era sincrona solo in piccola parte. Tirate le somme, l’esperienza fu deludente e presto abbandonata dai cineasti anglofoni sebbene a due di loro, Koenig e Kroitor, si debba un ottimo film che del candid eye è un ideale prolungamento: Lonely boy/Paul Anka (Ra­ gazzo solitario/Paul Anka, 1962), rapporto sul giovane can­ tante, idolo della gioventù nordamericana di quegli anni, fenomeno che precorse la moda dei grandi concerti-eventi all’aperto come Woodstock e Monterey. Il merito équipe frangaise fu di portare fino in fondo l’esperienza del candid eye e superarla, cercando di descrivere dall’interno un avvenimento, stringendolo da vicino, rifiu­ tando la nozione di obiettività (sinonimo, in realtà, di accor­ do con l’ordine costituito) in nome della spontaneità, dell’au­ tenticità, della personalità, ossia di una obiettività soggettiva, critica e partigiana. All’origine di questo atteggiamento c’era una esigenza di carattere etico e politico: sono gli anni in cui i french/Canadians del Québec decidono di prendere in mano il loro destino, reagendo contro l’egemonia politica ed econo­ mica dei canadesi di lingua inglese e aspirando, più o meno apertamente, all’autonomia, se non all’indipendenza. I cinea­ sti deW'équipe frangaise dell’oNF — anch’esso dominato, no­ 351

nostante le apparenti garanzie ufficiali, dagli anglocanadesi — vedono nelle tecniche del cinema diretto uno strumento per demistificare la società sclerotizzata e alienante in cui vivono, favorire una presa di coscienza politica, ritrovare le radici culturali e nazionali del Québec, soffocate dall’ideolo­ gia dominante. Così in Les raquetteurs (Quelli delle racchette, 1958) di Gilles Groulx, Michel Brault e Marcel Carrière, in Bucherons de la Manouane (I boscaioli del Manouane, 1962) di Arthur Lamothe, in Télésphore Légaré, garde-pèche (T.L., guardapesca, 1959) di Claude Fournier s’indaga sugli aspetti quotidiani della vita nel Québec e in Québec-usA (id., 1962) di Claude Jutra e Michel Brault si descrive con umorismo la condizione di «negri-bianchi» dei franco-canadesi, mostran­ do una guida turistica bianca che accompagna una coppia di ricchi negri a visitare il folclore povero del Québec.

Michel Brault, Pierre Perrault e il lungometraggio La tecnica del cinema diretto esige nuove qualità dagli operatori: prontezza di riflessi, intuito, agilità e morbidezza di movimenti, capacità percettiva. Il vero iniziatore di questa nuova disciplina, il capofila del cinema diretto canadese, è Michel Brault (n. 1928). Inventa quell’«arte della cammina­ ta» per seguire da vicino una persona con un obiettivo gran­ dangolare che tutti gli operatori del «diretto» hanno dovuto imparare. Influenza Leacock, insegna molte cose ai cineasti francesi del primo cinéma-vérité d’oltreatlantico, lascia la sua impronta nelle varie fasi di sviluppo del «diretto» canadese, anche e soprattutto in quella del lungometraggio, collaborando con i suoi principali esponenti (Groulx, Jutra, Per­ rault, Lamothe, Foumier) e realizzando in prima persona il lungometraggio di finzione Entre la mer et l’eau douce (Tra il mare e l’acqua dolce, 1967). Il suo contributo è determinante nel primo e più poetico film della bella trilogia di Pierre Perrault: Pour la suite du monde (Perché il mondo continui, 1963), in cui i due cineasti ripropongono agli abitanti dell’Ileaux-Coudres — situata «tra il mare e l’acqua dolce» nell’e­ stuario del fiume San Lorenzo a 80 km dalla città di Québec — l’antica caccia al marsuino (suino di mare, piccolo cetaceo bianco), abbandonata da trentanove anni. La loro cinepresa

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provoca una situazione e non si nasconde mai. Così, nella tradizione del più puro Flaherty, realizzano un documentario che ha la commossa dimensione lirica di un poema, la fre­ schezza e lo slancio di un evento collettivo nel più grande e affettuoso rispetto di una comunità ritratta nella cornice di vita patriarcale. Perrault (n. 1933) ha mantenuto una di quel­ le famiglie di pescatori, i Tremblay, al centro dei successivi Le règne du jour (Il regno del giorno, 1967), viaggio in una Fran­ cia rurale alla ricerca delle tracce dei propri antenati, e Les voitures deau (Le vetture d’acqua, 1969), sulla fine dei battelli di legno sostituiti da quelli di ferro. Nel suo cinema diretto, Perrault sa far sorgere dal quotidiano il passato, è un cineasta lirico e personale per il quale il cinema diretto è soltanto un mezzo per riflessioni sul «tempo e il cambiamento, sulle diffe­ renze e i contrasti tra inglesi e francesi, contadini e gente di città, francesi di Francia e francesi del Canada» (M. Ciment). Cineasta della parola e delle conversazioni, ha proseguito la sua indagine coerente e complessa sino a questi anni, propo­ nendo con La bète lumineuse (La bestia luminosa, 1982) rac­ conti (nel senso letterale del termine) di cacciatori che, am­ piamente e sapientemente montati, assumono a poco a poco valenze poetiche e mitiche. Nel 1971 Brault e Perrault avevano ancora realizzato LAcadie, l’Acadie (Acadia, Acadia), reportage sulla contestazio­ ne studentesca all’università di Moncton nel biennio 1968-69 e le sue ripercussioni sulla città, dove la collettività francofo­ na (il 40 per cento della popolazione) è sottomessa ai mecca­ nismi di assimilazione della maggioranza anglofona. Su que­ sti temi, si erano avute numerose esperienze di fiction appog­ giata alla realtà, all’evento nel suo farsi, che, pur nella loro volontà di essere l’espressione artistica di una cultura della rivolta, appaiono piuttosto all’insegna del disagio, dell’impo­ tenza e della frustrazione, cronache di un’esperienza più che di una conoscenza del reale: À tout prendre (Tutto considera­ to, 1963) di Claude Jutra, Le chat dans le sac (Il gatto nel sacco, 1964) ed Entre tu et vous (Tra tu e voi, 1970) di Gilles Groulx, Le révolutionnaire (Il rivoluzionario, 1965) di JeanPierre Lefebvre, tutti film in diversa misura autobiografici. In una direzione più risolutamente politica si pongono i docu­ mentari d’inchiesta sociale Saint-Jeròme (id., 1968) e Faut aller parmi l’monde pour savoir (Bisogna andare nel mondo

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per sapere, 1971) di Fernand Dansereau, Le mépris n’aura qu’un temps (Il disprezzo non avrà che un tempo, 1970) di Arthur Lamothe, sulla condizione degli operai edili, On est au coton (Eccoci alle corde, 1970) di Denys Arcand, analisi sociologica deirindustria tessile del Québec in termini di lotta di classe, che, dopo averlo prodotto, l’Offìce national du film non ha mai distribuito, com’è successo anche a Vingt-quatre heures ou plus (Ventiquattro ore o più, 1973) di Groulx. Anche se molto più limitato e politicamente meno impe­ gnato, non è mancato nemmeno tra i canadesi anglofoni il tentativo di integrare le tecniche del «diretto» al cinema di finzione: Nobody waves goodbye (Partenza senza addio, 1964) di Don Owen, Prologue (Prologo, 1969) di Robin Spry, A Married Couple (Una coppia sposata, 1969) di Allan King che con Warrendale (id., 1967) ha rappresentato con commossa sincerità e discrezione la difficoltà di vivere di un gruppo di ragazzi disadattati in un istituto alla periferia di Toronto.

JEAN ROUCH E LA SCUOLA FRANCESE

Nel 1952 Jean Rouch, ingegnere ed etnografo (Parigi 1917), è tra i fondatori del Comitato del film etnografico al Musée de l’homme di Parigi, nel 1978 tra quelli dell’Associa­ tion Varan, centro di ricerca e formazione al cinema diretto. Nel 1946 parte per una spedizione in canoa sul Niger con una cinepresa Bell-Howell di 16 mm con cui gira senza sonoro il suo primo documentario etnografico Au pays des mages noirs (Nel paese dei maghi neri, 1947), continuando la sua attività di ricerche e studi africani nella Costa d’Oro (oggi Ghana) e nella Costa d’Avorio con altri documentari tra cui Initiation à la danse des possédés (Iniziazione alla danza dei posseduti, 1949), Les fils de l’eau (I figli dell’acqua, 1952), antologia di cinque cortometraggi, Les maitres fous (Gli stregoni invasati, 1953-54) sulle pratiche della setta religiosa degli Haouka, e cominciando nel 1954 il lungometraggio Jaguar (Giaguaro, sull’emigrazione di tre giovani nigeriani in Ghana e il loro ritorno al paese natale) che termina nel 1965, approntandone due versioni di diversa durata. A poco a poco, però, i suoi interessi si spostano dal docu­ 354

mentario etnografico in senso stretto al saggio sociopsicolo­ gico e al film di finzione come strumento di conoscenza della realtà. Al contrario di Richard Leacock, Rouch ipotizza una cinepresa attiva e partecipante, strumento di comunicazione non solo con gli spettatori, ma anche tra il cineasta e la gente che filma: un reagente e un catalizzatore che con la propria presenza modifica il comportamento dei «personaggi». Così in Moi, un noir (Io, un nero, 1957), premio Delluc 1958, induce tre giovani nigeriani a trasformarsi in attori, recitando se stessi in una sorta di psicodramma. A una prima parte documentaria sulle condizioni di vita dei negri dell’interno che vanno a lavorare nella città di Abidjan, ne segue una seconda che, mescolando finzione e realtà, vuole essere rap­ presentazione della psicologia di questi proletari africani, del­ le loro preoccupazioni, speranze, problemi, disillusioni. Uno dei tre, poi, improvvisa a ruota libera un commento parlato. Le tappe successive sono La pyramide humaine (La pirami­ de umana, 1959) e Chronique cTun été (Cronaca di un’estate, 1960) realizzato con Edgar Morin. Nel primo, il cui titolo è tratto da un poema di Paul Éluard, Rouch sviluppa l’espe­ rienza dello psicodramma tra un gruppo di studenti bianchi e negri in un liceo di Abidjan: il tema latente è il razzismo, o meglio l’ignoranza tra due gruppi razziali. Postsincronizzato, quest’esperimento di coesistenza attiva davanti alla cinepresa non è ancora tecnicamente cinema diretto, ma spiritualmente vi appartiene. Centrato sul tema della felicità (Come vivi? era il suo titolo originale), Cronaca di un’estate punta sul pro­ blema della comunicazione attraverso la parola nel quadro di una discussione in vario modo preordinata. Rouch e Morin possono realizzarlo quando nel 1960 l’operatore André Coutant mette a loro disposizione il prototipo di una cinepresa di sei chili collegata con un magnetofono portatile per la presa sincrona del suono, la Coutant-Mathot-Éclair kmt, affidata al canadese Michel Brault. A differenza di La pyramide hu­ maine, le persone che Rouch e Morin filmano non recitano parti, ma vivono se stessi come sono nella realtà quotidiana, sollecitati, con la confidenza o la provocazione, a esprimersi, confessarsi, rivelare la propria verità interiore. La cinepresa è ora testimone, ora strumento di stimolo. Alla fine tutti sono chiamati ad assistere alla proiezione di un primo montaggio del film, a esprimere opinioni, giudizi, commenti. La sequen­

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za viene aggiunta al film insieme con gli interventi e le do­ mande che gli stessi autori pongono sul valore della loro esperienza («si è voluto fare un film d’amore», conclude Rouch, «si è arrivati a un film di reazioni...»). Pur con difetti, squilibri, compiacimenti, contraddizioni (in parte dovuti alle diversità di metodo e d’intenti dei due autori), Chronique dun été è un saggio avvincente, una tappa fondamentale nella storia del cinema diretto. Il lavoro di Rouch prosegue con La punition (La punizione, 1960), Gare du Nord, sesto episodio del film Paris vu par,.. (Parigi vista da..., 1965), un’altra serie di film etnografici africani (tra cui La chasse au lion à fare, La caccia al leone con l’arco, 1957-64) e Petit à petit (A poco a poco, 1969), anch’esso in duplice versione, presa diretta e grande spazio aH’improwisazione, in cui la società parigina e, più in genera­ le, il mondo europeo sono visti, non senza umorismo e burle­ sche invenzioni, da due uomini d’affari africani («L’idea del mio film è di trasformare l’antropologia, figlia maggiore del colonialismo, cioè disciplina riservata a persone colte che interrogano altre persone che colte non sono, in antropologia condivisa, cioè in dialogo antropologico tra persone che ap­ partengono a culture differenti», J. Rouch). Umorismo, ironia, gusto della provocazione intellettuale non mancano nemmeno in Dionysos (Dioniso, 1984) che se­ gna il vero passaggio di Rouch al cinema di finzione. Anima­ ta da un fervore sessantottesco, è una parabola utopistica in cui uno studioso del dionisismo (che, forse, è anche una rein­ carnazione del dio) tenta di riportare il principio del piacere nel mondo d’oggi, mettendo in discussione la fabbrica, l’uni­ versità, la cultura, l’organizzazione del lavoro e della vita. Dal cinéma-vérité Rouch è arrivato al cinéma-plaisir. mette in immagini la «pantera profumata», l’unica automobile co­ struita nella gioia in una officina-teatro, un concerto per flau­ to e macchine, danze di possessione, rincontro tra Nietzsche e De Chirico nella scenografia di una piazza metafisica, cori di baccanti e d’ingegneri, cortei bacchici, una festa nel bosco di Meudon dove risuona il grido: «Il dio Pan non è morto». In 40 anni Jean Rouch ha realizzato più di cento film, ma soprattutto è stato di esempio per un nuovo approccio al cinema. Non aveva tutti i torti Rivette che nel 1968 ha scritto: «In certo modo Rouch è più importante di Godard nell’evo356

luzione del cinema francese. Godard va in una direzione che vale soltanto per lui, che non è esemplare, mentre tutti i film di Rouch sono esemplari, anche quelli falliti». Romano di nascita, entomologo, pittore, giornalista, regi­ sta del documentario Les hommes de la baieine (Gli uomini della balena, 1958), finanziato dall’armatore greco Aristotelis Onassis, Mario Ruspoli entra nel campo del cinema diretto con Les inconnus de la terre (Gli sconosciuti della terra, 1961) e Regard sur la folte (Sguardo sulla follia, 1962), entrambi fotografati da Brault con la stessa Coutant-Mathot, chiamata anche kmt, usata per Chronique dun été. Il primo è un’inchie­ sta sulle disagiate condizioni dei contadini di una regione depressa, la Losère; l’altro è un rapporto sull’ospedale psi­ chiatrico di Saint-Albane, nella stessa zona. (Dal 1963 la cinepresa Eclair 16 fu costruita in serie e usata in coppia col magnetofono Nagra; il primo film di fiction in 35 mm, girato col suono in presa diretta, fu La religiosa, di Rivette nel 1966.) Autore di film di montaggio e di documentari in forma di quaderni di viaggio, dove ha un posto egemone il commento parlato sempre lucido, spesso brillante, talvolta sin troppo letterario, il cineasta di sinistra Chris. Marker impiega par­ zialmente i procedimenti del cinema diretto in Cuba si! (id., 1961-63), soggetto però, almeno nell’edizione in commercio, a varie manipolazioni, ad ambizioni metaforiche. Ben più interessante è Le joli Mai (Il bel maggio, 1963), film-inchiesta, non privo di ironia, sulle reazioni dei parigini agli avvenimen­ ti algerini del maggio 1962, una serie di interviste, lavorate in sede di montaggio, che sono espressione di una realtà viva, rispettata nei suoi dati ma senza negare la presenza dell’auto­ re come testimone non impersonale. Nei primi anni Sessanta gli altri esempi francesi di film imparentati col cinema diretto sono Hitler connais pas (Hi­ tler, non conosco, 1963) di Bertrand Blier e Les chemins de la mauvaise route (Le vie della cattiva strada, 1962) di Jean Herman, entrambi di impianto televisivo per il ricorso acca­ nito all’intervista a gente comune, registrata nel primo caso in studio. Marginale è stato l’apporto di Francois Reichen­ bach (n. 1924) che, dopo un saggio di giornalismo fin troppo brillante ed effettistico come L’Amérique insolite (L’America vista da un francese, 1960), impiega alcuni procedimenti del

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cinema diretto per un film in bilico sulla finzione, Un coeur gros comme $a (Un cuore grande così, 1961), ritratto di un pugile negro a Parigi, viziato da una estetizzante ricerca del «poetico», e si è sempre più arreso alla piacevolezza illustra­ tiva, come in Arthur Rubinstein ou l’amour de la vie (A.R. o l’amore della vita, 1968). Quella del «diretto» è una lezione che in Francia ha trovato espressione in più forme e varianti. Ha trovato un continuatore soprattutto in Raymond Depardon, noto fotoreporter prima di essere cineasta, che si è dap­ prima interessato alla politica (Jan Palach, id., 1968; Tchad, Ciad, 1973-76) e ai media (Numéro zero, Numero zero, 1977, sul quotidiano «Le Matin»). Il suo sguardo discreto e preciso ha potuto, però, esprimersi pienamente alle prese con una realtà sconosciuta e chiusa, quella di un ospedale psichiatrico veneziano in San Clemente (id., 1981), quella di un commis­ sariato parigino in Faits divers (Fatti di cronaca, 1983), che ha filmato e penetrato senza alcun punto di vista precostitui­ to, ma con attenzione al vissuto quotidiano, in paziente atte­ sa degli eventi o «incidenti». Influenze e conseguenze

Per un complesso processo di osmosi le tecniche del cine­ ma diretto hanno esercitato una vasta e benefica influenza sulle altre forme di cinema, e in particolare su quello di fin­ zione che negli anni Sessanta e Settanta ha molto guadagnato in libertà, semplicità, autenticità espressiva. Basta ricordare, per rimanere ancora nell’ambito del cinema francese, l’inter­ vista col piccolo Jean-Pierre Léaud in Les quatre cents coups (1959) di Truffaut, la freschezza di Adieu Philippine (1962) di Rozier, l’influenza che ha avuto Jean Rouch sul primo Go­ dard (il primo titolo di À bout de souffle era Moi, un blanc), un film come Lamour fou (1969) di Rivette in cui cinema e teatro, realtà e finzione si mescolano attraverso il doppio approccio del 35 e del 16 mm: il primo filma il secondo effettuando un reportage sulla messinscena teatrale di An­ dromaca. Bisogna tener conto, comunque, che tutti i registi della nouvelle vague realizzarono i loro primi film in 35 mm, rinunciando ai vantaggi tecnici (suono sincrono, maggiore mobilità) che le nuove apparecchiature leggere del 16 mm

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offrivano: l’evoluzione del sonoro è stata notevolmente in ritardo rispetto a quella dell’immagine. In Italia — dove, secondo una boutade di Godard, il cine­ ma sonoro non è ancora stato inventato, essendo stata ege­ mone la pratica della post-sincronizzazione — i cultori del suono in presa diretta sono stati rari negli anni Sessanta e anche nel decennio successivo: Gian Vittorio Baldi, da Lu­ ciano (1959, ma distribuito soltanto nel 1967), ad Anni duri (1977), uno dei pochi film italiani che sono entrati in una fabbrica; Gianfranco Mingozzi con La taranta (1962), docu­ mentario etnografico, e Trio (1968), film lungo di finzione, entrambi girati in 16 mm sincrono; Vittorio De Seta che, oltre ai suoi documentari isolani e a Banditi a Orgosolo (1961), ha realizzato Diario di un maestro (1972), in quattro puntate, che ha segnato una data nella storia della televisione italiana. Evidenti sono le influenze del «diretto» nelle migliori opere del nuovo cinema brasiliano (Rocha, Saraceni, Pereira dos Santos, Hirszman, de Andrade), nella produzione indipen­ dente nordamericana, specialmente newyorkese, e nel lavoro di Jean-Marie Straub, inflessibile cultore del suono in presa diretta, persino in alcuni film di Ingmar Bergman {Luci din­ verno e Passione, per esempio) e in alcuni cineasti dei paesi socialisti dell’Est come i cecoslovacchi Milos Forman {Konkurs, 1962) e Véra Chytilovà (O nécem jiném, Qualcosa d’al­ tro, 1963), gli ungheresi Andràs Kovàcs (specialmente in Nehéz emberek, Gli intrattabili, 1964), Marianna Szemes {Valas Budapesten, Divorzio a Budapest, 1963), Judit Elek {Meddig él az ember?, Dove finisce la vita?, 1968). Altrettanto evidente è il segno del «diretto» nel cinema politico di carattere militante, soprattutto dopo il 1968; quando non ci si è troppo fidati dello spontaneismo «miraco­ listico» delle nuove tecniche, si è rivelato un efficace strumen­ to d’informazione e presa di coscienza. Passati i primi entu­ siasmi, le illusioni e le infatuazioni, le mitologie di «rivelazio­ ne della realtà autentica», appare chiaro che il cinema diretto è un mezzo, non un fine; una pratica, non un’estetica. Per dirla con Lue de Heusch, etnologo belga che fu con Rouch uno dei fondatori del Comitato del film etnografico, quali che siano le condizioni di registrazione, il cinema diretto è sempre un linguaggio applicato alla descrizione della realtà,

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non il puro riflesso di questa realtà. Se ha avuto il merito di proporre un’alternativa, o un’evoluzione, al linguaggio filmi­ co tradizionale, esso può essere messo al servizio di qualsiasi ideologia. Non bisogna confondere le tecniche del «diretto» con l’uso che i cineasti possono farne: qualunque sia il poten­ ziamento del mezzo tecnico, i risultati dipendono da chi lo usa.

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Il cinema militante

Teorie e precursori

Dietro il ritorno a un cinema militante, marginale in quan­ to di classe, c’è il coagularsi nel ’68 di complessi fermenti di opposizione sociale, cioè le lotte studentesche e operaie che hanno investito ogni paese del mondo capitalistico imponen­ do teorie, analisi, linee, forme liberatorie sovente in violento contrasto con quelle revisioniste. La critica delle istituzioni, per prime quelle culturali come la scuola e l’università, che era stata la base stessa del movimento, si tradusse anche nella ricerca di un uso degli strumenti di conoscenza «altro» da quello «borghese», teorizzando, più che praticando, il rifiuto di appartarsi dell’intellettuale, negando il ruolo e rivendican­ do la funzione, sulla scorta in realtà non tanto delle lezioni della rivoluzione culturale cinese e della lotta vietnamita, quanto del mito guevariano del «suicidio» e di certe proposte dell’estremismo nero incisive e operanti. Il cinema militante, negata una creazione artistica in ter­ mini di pura messa in forma e autoespressione, sorge con il fine di servire direttamente una pratica militante, politica. Con il suo apporto di informazione (e controinformazione), di parte ma rigorosa, sulle lotte, eterogenee per le loro forme, salariali o sociali, legali o armate, e i loro contenuti di classe, vuol essere una forma di conoscenza che si commisuri con le necessità dei proletari, i loro comportamenti, le contraddi­ zioni che essi vivono in fabbrica e fuori, la loro storia, e che deve essere praticata in stretto collegamento, sin dai suoi modi di costruzione e uso, con i propri destinatari, dentro un progetto comune e una comune lotta. Sono ipotesi, queste, rimaste in certa parte insolute, specie in riferimento a rapporti attivi con gruppi e partiti e al pro­ getto di integrazione con punti di vista e valori operai. Ci si è 361

scontrati con un’oggettiva difficoltà a essere veramente «den­ tro» le lotte, parte in causa in forma di riflessione politica delle concrete situazioni, delle loro cause strutturali e della loro interna variabilità e complessità. Poco è stata praticata l’inchiesta, e pur dando alcuni ottimi documenti sulle lotte e sui misfatti del potere, raramente si è saputo usare un metodo e una forma connaturati ai veri protagonisti e che sapessero parlare loro in termini alieni da ideologismi e/o formalismi, sintomi di un disagio a trovare forme di conoscenza adegua­ te. Gli stessi e altri problemi si sono posti per la zona riformi­ sta, con soluzioni che puntano a un’«informazione oggetti­ va» e usano apparati pratici più ramificati ed efficaci. I cinea­ sti, piuttosto propensi a una visione burocratica della politica e del sindacato, in genere hanno svolto un lavoro da funzio­ nari che vedono la lotta operaia in senso celebrativo, conclu­ sa nella difesa salariale e antirepressiva e subordinata a esi­ genze tattiche nella gestione dell’«ordine democratico». Cioè condanna di «deviazioni» ed errori del sistema, e mai del sistema stesso che li produce, sostegno generico agli operai e alle loro lotte e non scavo e analisi dei loro nuovi e alternativi contenuti. Con rare eccezioni. In realtà i veri precursori del cinema militante non sono numerosi, oltre Dziga Vertov e Medvedkin, mature espres­ sioni della rivoluzione d’ottobre solo ora usate nella loro ricchezza teorica e classista, e certe rare esperienze di Renoir con il pcf (La vie est à nous, La vita è nostra, 1936) o collettive con Pivert (Cantre le courant, Contro corrente, 1939) ai tempi del Fronte popolare. Dopo saltuari film sulle lotte operaie di cineasti comunisti come Robert Mennegoz, René Vautier, Paul Carpita, Jean Herman, fu con le lotte di liberazione dei popoli colonizzati che si formarono nuclei militanti, specie per la guerra d’Algeria durante la quale furono realizzati film clandestini, diffusi in un embrione di circuito parallelo, per lo più di tipo culturale. Discreti esempi ne sono stati Pai huit ans (Ho otto anni, 1962), cortometraggio sui ragazzi algerini, e Octobre à Paris (Ottobre a Parigi, 1962), impressionante lungometraggio fatto da Jacques Panijel per il Comité Audin, che elucida gli eventi dell’ottobre ’61, quando la poli­ zia causò decine e decine di morti reprimendo brutalmente un’immensa manifestazione indetta dal fln. Rivolto ai fran­ 362

cesi, il film punta soprattutto a un lavoro in funzione antiraz­ zista, estendendosi ai temi sociali della condizione algerina, le cui bidonvilles formano una cintura di segregazione e miseria alle porte stesse di Parigi. L’alcatorietà di un’azione giusta, ma naturalmente «ambigua» per il loro essere francesi, e destinata a «coprire» la totale inazione delle masse, altri ten­ tano di bruciarla con scelte più compenetrate nella parte algerina. Così Vautier passava con i djoundi degli Aurès gi­ rando per il gpra di Ben Bella Algerie en flammes (Algeria in fiamme, 1958), composto di documenti scarni e lucidamente partecipi, poi in parte ripresi da altri in Djezaine (id.). Da queste esperienze che compresero anche film di Marker e di Le Masson (Sucre amer, Zucchero amaro, 1963), sorse un primo manifesto per un «cinema parallelo» che fosse di lotta contro ogni censura del potere e del denaro toccando temi tabù e di forte presa politica. In esso c’è già coscienza dell’uso del film come controinformazione e aiuto alla lotta, ma con­ nesso necessariamente, più che a organizzazioni di classe, a quella zona di «società civile», progressista, dei circoli di cultura e dei comitati di difesa. Era ancora un discorso minoritario, privo di referente e sostegno politico, e quindi di respiro, a circolazione saltuaria. Fa eccezione forse il solo Frans Buyens che, in stretti rapporti con i sindacati belgi, gira con Combattre pour nos droits (Combattere per i nostri diritti, 1961) una cronaca degli scio­ peri del ’60. Paul Meyer, da parte sua, affronta, con uno stile più penetrante anche se non esente da tentazioni «poetiche», il tema dell’immigrazione italiana nelle miniere del Borinage (Déjà s’envole la fleur maigre, Già vola via il fiore magro, 1963). Nel nostro paese Paolo e Carla Gobetti sanno definire il tessuto politico delle lotte torinesi dell’inverno ’62, che per­ mea cortei, picchetti, interviste del loro Scioperi a Torino (1962) interpretato dall’incisivo, anche se staccato dalie im­ magini, commento di Fortini, secondo una linea di autono­ mia operaia. Usciva da questo ambito, anche per la sua capa­ cità d’incidenza, Air armi siam fascisti (1962), film di montag­ gio di Lino Miccicchè, Lino Del Fra e Cecilia Mangini, commentato da Franco Fortini, che, voluto dalle frange vive del Partito socialista, era nato come film parallelo per ragioni di censura. Oltre il suo senso di presa di coscienza del «vissu­

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to» di un’intera generazione, il film sa prospettare in filigrana a fatti e dati filologici una visione organica del fascismo, termine ultimo della crisi degenerativa della società liberale e fase della dittatura di classe del capitale agrario e industriale. Proprio questo taglio classista consente al film di collegare i colonialismi del dopoguerra con i fascismi tra le due guerre e di sottolineare continuità e ruolo di certe forze economiche e organi dello stato del nostro paese. Con il suo rigore di parte il film finiva per andare oltre i suoi stessi limiti di «proposta di coscienza» e di «mancanza di prospettive di lotta» che lo rendono un po’ marginale ai temi e ai modi di un cinema militante. Fu da questi embrioni che più tardi, con il rilancio di lotte e movimenti violentemente anticapitalistici, sorse in numerosi paesi un vero cinema militante con una sua teoria e suoi fini, di cui (trattati a parte i gruppi latino-americani e giapponesi, organici a un discorso complessivo dei loro ci­ nema nazionali) si esamineranno i fenomeni presenti nel mondo dell’occidente europeo e statunitense.

La lezione di Ivens Di Joris Ivens (Nimega 1898), il regista olandese che ha lavorato in decine di paesi nei momenti più «caldi» della storia del nostro secolo, si lodano generalmente, e a giusta ragione, la prolifica e inesausta vitalità, l’energia e la sapienza (anche politica, anche tattica) con le quali egli ha saputo muoversi dentro le situazioni più delicate, complesse, perico­ lose. Dei suoi documentari «astratti» girati sul finire degli anni Venti e i primi Trenta parla Vincent nel primo volume di questa Storia, così come di quelli più direttamente militan­ ti e politici che lo portarono a lavorare oltre che in patria, nel Belgio dei grandi scioperi dei minatori, nella Spagna della guerra civile, nell’uRss della «costruzione del socialismo», nel­ la Cina dell’invasione giapponese, e su vari fronti della se­ conda guerra mondiale, anche per produzioni statunitensi. Il suo dopoguerra non sembra avere caratteristiche diverse dal passato: egli è presente con continuità ammirevole sulla scena delle grandi rivoluzioni o delle edificazioni di società che si vogliono nuove. Segue così le lotte per l’indipendenza nazionale o i primi anni dei regimi socialisti nei paesi satelliti

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dell’uRSs — come in Pierwsze lata (I primi anni, 1949), girato in Polonia, Bulgaria, Cecoslovacchia, Iugoslavia — e descri­ ve nel lirico Das Lied der Strome (Il canto dei fiumi, 1955-60) la vita di grandi fiumi (il Mississippi, il Gange, il Rio delle Amazzoni, il Nilo, il Volga e il Fiume Giallo), con una visio­ ne ottimistica del futuro dei popoli, o meglio: delle classi lavoratrici, nella loro immancabile solidarietà internazionale. In Italia, dove è venuto a più riprese, Ivens ha girato nel 1959 per la televisione, finanziato dall’ENi, L’Italia non è un paese povero, che mostrava un meridione pronto a grandi trasformazioni industriali che non sempre ci sono state, o che comunque non hanno avuto il segno che l’utopia di Ivens e del suo committente Enrico Mattei, e della politica meridio­ nalista del pci prevedeva. Negli anni Sessanta lo troviamo a Cuba per Pueblo en armas (Popolo in armi, 1961), in Cile per A Valparaiso (id., 1963), e soprattutto in Asia, dove docu­ menta la guerra dei contadini del Vietnam — in Le del, la terre (Il cielo, la terra, 1965) e Dix-septième parallèle (17° parallelo, 1967), e poi in un lungo film-intervista sulla figura e le opinioni di Ho Chi Minh del 1970 — o del Laos, Le peuple et ses fusils (Il popolo e i suoi fucili, 1969). Da ultimo, con le undici ore di Comment Yukong deplora les montagnes (Come Yukong spostò le montagne, 1975, in dodici parti), il già anziano regista, assistito dalla sua collaboratrice Marceli­ ne Loridan che lo firmò con lui, ha narrato la Cina maoista a partire dalla descrizione della costruzione delle strade che uniscono piccole e grandi località su un territorio sconfinato. Ivens ha saltuariamente girato anche documentari fedeli alla sua prima matrice, quella lirica più che non la sperimen­ tale, soprattutto in Francia, e in Francia aveva tentato con risultati mediocri anche il film a soggetto dirigendo, assieme a Gérard Philipe che ne era l’interprete, Les aventures de Till l’Espiègle (Le diavolerie di Till, 1956, coproduzione con la Germania dell’Est). Ma deve la sua fama al documentario politico, e su questo terreno la sua opera va giudicata, rap­ presentativa di una o più epoche e nella sostanza fedele a un’adesione mai messa in discussione ai dettami della Terza internazionale e alla sua politica, anche a quella delle «al­ leanze». Rispetto a questi principi, la sua autonomia di regista è consistita nell’attenzione ai valori formali dell’immagine, allo

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sfondo naturale (terra, mare, acqua, cielo) e al rapporto sta­ bilito con esso dalle persone inquadrate — «masse» mai indi­ vidualizzate, che mai parlano in prima persona. Il rapporto con la politica dell’Internazionale lo ha portato, perfetto «compagno di strada», dal film cinese sul Kuomintang a quello americano per il new deal, dai film di propaganda bellica ai film sull’edificazione (stalinista) dei paesi socialisti, senza mai «scoprirsi» troppo, senza mai una vera originalità ideologica. Non sono le lotte di liberazione africane né quella vietnamita a scuoterlo veramente, quanto il ’68 e il suo rap­ porto con i giovani cineasti militanti francesi del ’68. È II popolo e i suoifucili a costituire una svolta, ma pur sempre da «compagno di strada», benché non più dell’uRSs ma della Cina. Qualcosa è però cambiato nel suo modo di fare cine­ ma: vi si parla infine di ideologia; e vi si fanno parlare i personaggi, i protagonisti comuni delle lotte di liberazione, contadini e militanti. L’importanza di Ivens nella storia del cinema militante sta in definitiva nella ricchezza della sua biografìa di cineasta; nel suo rapporto pedagogico coi giova­ ni che, nel Terzo mondo come altrove, volevano fare cinema militante; nel suo legame con un certo umanesimo di tradi­ zione, di buona lega poetica. Dopo il maggio francese

Nel vivo del maggio ’68, come momento di solidarietà pratica con operai e studenti che occupano fabbriche ed eri­ gono barricate per le strade di Parigi, nascono gli stati gene­ rali del cinema i cui primi atti sono di messa in questione radicale degli organi del corporativismo professionale e delle sue istituzioni, come il festival di Cannes, sospeso e poi co­ stretto alla chiusura. Con i «sei punti di Suresnes» si elabora un progetto di autogestione, che, connesso con le lotte in corso all’oRTF, rifiuta ogni forma di asservimento economico. Si crea una commissione che deve realizzare film di immedia­ ta utilizzazione, strumenti e non «opere», da farsi, a tutti i livelli, con operai e studenti in lotta; ne uscirono non pochi film e ciné-tracts (cine-volantini), tempestivi e anche efficaci. Tra essi si segnalarono Les cheminots en grève (I ferrovieri in sciopero), Reprise du travail chez Wonder (Il ritorno alle offi-

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cine Wonder), Le brigadier Mikono (Il brigadiere Mikono), Ainsi font (Così fanno) e Le droit à la parole (Il diritto alla parola), diversamente interessanti, più come documenti di situazioni esemplari che non come analisi e proposte politi­ che. Fuori e a fianco degli états généraux, si girarono numerosi materiali che servivano più le smanie di «esprimersi» di certi autori che non fini militanti. Testimoni vivaci e diretti di lotte e repressioni nel loro farsi, questi film non vanno politicamente oltre il rifiuto dei «codismi» della cgt e del pcf e, con la dissoluzione dei comités (faction che ne erano il tessuto di diffusione, al pari del movimento si esauriscono in uno smi­ nuzzarsi di tendenze e gruppi settari che sono il portato di un ritorno alla normalità politica. Dopo una fase di crisi in cui la diffusione ritorna in mano a gruppuscoli che discriminano gelosamente il proprio pubbli­ co e ad associazioni di cultura che operano solo in termini di «informazione», si sono costituiti gruppi più solidi, differen­ ziati, che hanno riflesso una lotta di massa in questi anni, ramificata in strati diversi, dai contadini agli immigrati, con forme nuove di coscienza e organizzazione, siano esse «sel­ vagge» o di autogestione. Sorgono i gruppi «Dziga Vertov» e Cinéastes révolutionnaires prolétariens, cui si devono Flins 68-69 e Palestine vaincra (Palestina vincerà). Sorge Sion, gruppo di tecnici e autori fra cui Chris. Marker e William Klein, che volle essere non-settario aiutando i gruppi di base a fare i propri film e organizzando una rete di diffusione. Nel loro caso c’era stato il precedente di Loin du Vietnam (Lonta­ no dal Vietnam, 1967), film collettivo con commento di Mar­ ker, che tenta di analizzare gli aggressori (Lelouch, Klein) e gli aggrediti (Ivens) e «noi, lontani dal Vietnam» (Resnais, Varda, Godard), perdendo un po’ del suo impatto in certi deliri soggettivi e nella circoscritta capacità di vedere le im­ plicazioni anche occidentali della lotta vietnamita. Di questo film colpisce la presenza di un Godard ormai diventato «uomo di sinistra», e la sua confessione, la più politicamente intelligente del film. Oltre la denuncia, Marker vuole che il Vietnam parli all’Europa, che la guerra dei ricchi contro i poveri trovi, tra i ricchi (mondo occidentale), degli alleati, dei solidali. Punti di forza del film sono, di fatto, Ho Chi Minh (la guerra di popolo) e Fidel Castro (la guerriglia, la «rivolu­ 367

zione nella rivoluzione»). Una visione terzomondista, che pe­ rò solo Godard sembra discutere appieno, con le immagini di uno sciopero francese e l’affermazione che «il Vietnam sia in noi stessi», che cioè solo occupandoci del qui e noi e ora, francesi ed europei, e della possibile rivoluzione nei nostri paesi, si può aiutare veramente il Vietnam. Nonostante la «prigione culturale» in cui Godard afferma di sentirsi per la difficoltà di comunicare con gli operai francesi, prigionieri di una speculare «prigione economica». In un brano mediocre, anche Resnais tenta, su testo di Jacques Sternberg, un’auto­ coscienza di intellettuale borghese di fronte al Vietnam, at­ traverso la descrizione di un intellettuale parigino «di cattiva coscienza e dunque di mala fede», ma per affermare in so­ stanza un’incomprensione politica di ciò che accade, e di cui invece Marker e Godard partecipano in modi diversi ma egualmente sinceri, forieri di scelte radicali appena l’anno seguente, all’esplodere di un vero joli Mai. Nello stesso ’67 si sono ritrovati vicini anche ai cancelli della Rhodiaceta di Besan^on, a colloquio con gli operai in sciopero, e da que­ st’esperienza Marker ha tratto, con la collaborazione di mol­ ti, un documentario-inchiesta per la tv, À bientot, fespère (A presto, spero, 1967) di Marker e Mario Marret. Sion non si è posto al servizio di nessuna organizzazione, cercando di ricuperare un uso operaio di base, con il rischio di far passare in secondo piano, con questo unanimismo, il necessario momento di scelta e intervento critico. Eppure proprio il fatto di dare la parola, e l’apporto tecnico per esprimersi, a operai è il dato di fondo positivo di questo incontro tra cineasti e militanti come Poi Cèbe, da cui sono nati a Besan^on e a Sochaux i collettivi operai Medvedkin, dal nome del cineasta sovietico degli anni Trenta presentato dallo stesso Marker in Le train en marche (Il treno in marcia, 1971), documentano, oltre ai numeri di La nouvelle société (La nuova società), Classe de lutte (Classe di lotta, 1969), volutamente incentrato sul lavoro oscuro di tutti i giorni di una sindacalista, e À bientot, fespère. Week-end à Sochaux (1972) faceva ricorso anche a scene di finzione per mostrare la condizione operaia locale. Sui temi della contro informazione, dell’analisi del sistema, agit-prop da usare politicamente a livello di realizzazione e diffusione in sincrono con azioni militanti, operavano non

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meno di quindici gruppi. Marker è tornato a Cuba per girarvi un film di cinquantacinque minuti, a esaltazione della grande zafra (la raccolta delle canne da zucchero) del ’70, La bataille des dix millions (La battaglia dei dieci milioni, 1971), con punte di difesa a oltranza del castrismo disseminate in un tessuto di acuto studio dei fatti; e allo stesso Slon-Iskra, ora più caratterizzato in un senso di sinistra estrema, fecero rife­ rimento i film di Antoine Bonfanti, Hervé Pernot ecc., e Pano ne passera pas (Pano non passerà, 1969) che era un resoconto di Ody Roos e D. Jaeggi sui fatti del maggio-giugno ’68. Lasciato Sion, René Vautier creò l’Unité de production cinéma bretagne, a base comunista e progressista e intesa a difendere e imporre la causa bretone, sul cui terreno opera anche l’Apic in stretto rapporto con il movimento radicale Torr E Benn, che ha dato un risolto film sulle radici del razzismo, Mohamed Diab (id., 1973), inchiesta su un lavora­ tore algerino ucciso in un commissariato. In funzione di so­ stegno delle proprie tesi i «revisionisti» si organizzarono con Unicité (ex Dynadia), formato da militanti comunisti, e Ser­ vice cinéma de la cgt il cui sforzo si concentrò su La cgt en mai (La cgt in maggio, 1969) di Paul Seban, che tentò di inserire il maggio in una continuità sindacale, o mettendone caratteri e forme nuove. Oltre a gruppi minori che si riferiro­ no a lotte di carcerati, donne, occitani, corsi, arabi, immigra­ ti, e furono espressione di questo o quel gruppo politico minoritario, dalla zona gauchiste emerse soprattutto Cinéluttes, che integrò simpatizzanti maoisti e il cui Oser lutter, oser vainere (Osare la lotta, osare la vittoria, 1970) è il solo film sul *68 che tenti di organizzare i fatti secondo una visione di lotta di massa posta a confronto con la pratica della cgt, mentre Bonne chance» la France (Buona fortuna, Francia, 1975) ri­ trasse anche con gustose trovate filmiche alcuni momenti di lotta della fase tra Pompidou e Giscard. Di matrice culturale furono invece Crepac che, formatosi intorno a Roger Louis con giornalisti licenziati dall’oRTF nel ’68, realizzò una venti­ na di numeri del periodico filmato Certifìé exact, quaranta minuti su un tema, dalla Lip ai nuovi quartieri, secondo un’idea di informazione aperta alla discussione anche a ri­ schio di un’eccessiva «oggettività», e Cinéthique che, fondato da critici-registi della rivista omonima, passò da miti formali­ sti di decostruzione (Quand on aime la vie, on va au cinéma, 369

Quando si ama la vita, si va al cinema, 1974) a tesi marxisteleniniste in senso stretto. Maoista fu anche, diretto da Char­ les Belmont e Marielle Issartel, Histoires d’A. (Storie di A., 1974), film che, al di là di tesi un po’ rigide, ebbe il pregio di essere impostato secondo una logica di movimento e di svol­ gere un ruolo incisivo nella campagna per l’aborto. Sui metodi e le forme del film militante secondo un’acce­ zione più ampia, si sono opposte tesi ed esperienze di Karmitz (con il suo gruppo MK2) a quelle di Godard e Gorin (definitisi gruppo «Dziga Vertov»). Perno della discussione è ancora quello dell’approccio e della forma per una realtà di classe. Quelle di Marin Karmitz furono scelte concrete, di tipo didattico e populista, con una loro capacità di parlare ai proletari, eppure finendo per offrire più occasioni di «canto» che di crescita politica. Dopo Camarades (Compagni, 1970), un film in cui acute sequenze-dibattito sull’oppressione in fabbrica e sui comitati di base erano innestate su un nucleo di «vissuto» ai limiti del bozzetto, il suo Coup pour coup (Colpo per colpo, 1973) cercò di narrare, basandosi su fatti reali, uno sciopero con sequestro di padrone in una fabbrica tessile di donne. Film di forte presa proprio perché elaborato con le vere protagoniste, ebbe anche i limiti intrinseci in questo taglio, di chiusura in una lotta circoscritta, portato infine a una morale populista e a un connesso spontaneismo. Questo film piacque ai proletari cui era destinato, una cosa invece assolutamente preclusa a Godard, che pure ha com­ preso le insufficienze di una visione e rappresentazione popu­ lista, tendendo, vanamente, a una forma che fosse il portato e il corrispettivo del pensiero marxista. Fatta dopo il maggio del ’68 una scelta di reale rottura, Godard parve ossessionato dalla ricerca di fondare rapporti altri con le cose, per cui ogni spiegazione del reale si faceva in lui prima di tutto riflessione pubblica sui mezzi per descriverlo, sulle immagini come por­ tatrici di ideologia, fino a fumose teorie di «immagini di sinistra». Firmati quasi tutti con Jean-Pierre Gorin, ex mili­ tante marxista-leninista, Le gai savoir (La gaia scienza, 1968), Un film comme les autres (Un film come gli altri, 1968), One plus one (Uno più uno, 1968), British sounds (Suoni britannici, 1968), One american movie (Un film americano, 1969), Vento dell"est (1969), Lotte in Italia (1970), Pravda (1969), Vladimir et Rosa (Vladimir e Rosa, 1969), Jusqu’à la victoire (Fino alla

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vittoria, 1970) sono stati girati in Francia, in Italia, a Praga, con i neri, con i palestinesi, e con forme e committenze oppo­ ste, ma con in comune una base distruttiva di non-cinema. Sono sequele di slogan e discorsi marxisti-leninisti con scar­ sissimo riferimento ai contenuti e alle immagini, più giacula­ torie che testo, inframmezzate da dubbi godardiani sul cine­ ma e intenti di «critica delle immagini» nel loro farsi e nel loro uso. In base alla constatazione di come l’inesistenza del partito di massa obblighi a un rapporto non chiaro, e quindi ancora «artistico», con la politica e con le masse, Godard si focalizzò su un «modo politico» di fare film, secondo una ricerca idealistica di un’autonomia del linguaggio, e secondo un ideologismo come schema e definizione astratta, contro una diffusione militante in cui non credeva. Rifiutò, in so­ stanza, il confronto con i veri destinatari che il suo «cinema motivante» non concerneva e neppure toccava. Con il più complesso Tout va bien (Crepa padrone, tutto va bene, 1972) sembrò invece prendere a pretesto uno schema brechtiano, narrando per personaggi-simbolo e realtà-concetti, e non per resoconto di cronaca, un altro sciopero, sequestro del padro­ ne e crescita politica di due intellettuali in crisi. Vi agiva però da freno una visione delle cose povera, ripetitiva, e ancora il soggettivismo del maggio. Finiva con i suoi monologhi e appunti non organizzati per ruotare attorno alla coscienza dilacerata di un artista riluttante a oggettivare e oggettivarsi, nonostante la sua lucidità teorica.

Le esperienze italiane

Sorto da ipotesi sessantottesche, rese più concrete da anni di tentata integrazione nelle lotte sociali e operaie, il nucleo del cinema militante italiano si è riferito alla riscoperta del­ l’autonomia della classe operaia. Formati collettivi che han­ no operato in particolare sul terreno della diffusione, esso ha trovato il proprio necessario supporto e referente soprattutto nel movimento e poi in un’indistinta sinistra di classe, ma è rimasto sempre abbastanza eccentrico rispetto ai momenti essenziali della lotta. A partire dai cinegiornali del movimen­ to studentesco romano montati da Silvano Agosti, ha docu­ mentato e descritto, raramente facendosi interpretazione e 371

intervento sui fatti. Rari furono i casi di un’informazione «di parte» rigorosa sul piano internazionale: La lunga marcia del ritorno (1969), rapporto di Ugo Adilardi e Paolo Sornaga sul lavoro del fdlp nei villaggi palestinesi; Turkije (1975) di Franco Barberi, sulla condizione proletaria di un paese del sottosviluppo. Assieme al film di Agosti su Panagulis, Altri seguiranno (1973), erano tra i pochi film che cercavano un rapporto preciso, analitico con le situazioni. Sulle lotte dei neri Antonello Branca ha scelto, con Seize the time (Cogli il momento, 1970), la strada del film di idee e scene didattiche teso a oggettivare l’attività sociale, parallela a quella armata, delle «pantere nere». C’è qui, dietro il caso della presa di coscienza di un «negro da cortile», un uso, sia pure non del tutto controllato, di materiali eterogenei, la commistione di forme diverse d’espressione. Con la sola eccezione di Totem (1969), volenteroso disegno animato di Giancarlo Bonfino su capitale e cultura borghese, è questo, della creatività, un campo spesso dimenticato dal cinema militante, di fatto atte­ stato su un oggettivismo di matrice televisiva. Un caso felice di come gli operai possono fare e usare i «loro» film, è costi­ tuito da La fabbrica aperta (1971), reportage di Franco Platania, operaio fiat torinese, sulla Cina della rivoluzione cul­ turale, concreto e scarno. Con la sua autenticità superava i limiti di tecnica impliciti nel «dare una cinepresa in mano agli operai», di cui era significativo anche Lotte alla Rhodiatoce, fatto da un collettivo operaio nel lontano ’68. Si può dire invece che la quasi totalità dei film di vero e proprio intervento nella realtà italiana non abbia offerto al­ tro che manifestazioni, cortei, interviste e sovente in ritardo, e a volte sommersi da fiumi di parole e slogan. Pochi hanno tentato l’inchiesta di fabbrica — Porto Torres (1971) di Pino Adriano, AirAlfa (1970) di Virginia Onorato, Spezziamo la catena (1972) di Ivo Micheli — attestandosi su una buona medietà documentaristica. Tanto meno seppe farsi momento di coscienza ed elaborazione 12 dicembre (1971), nato male come alleanza strumentale di un artista e di un militante, Pasolini e Bonfanti. Lungi dall’essere il possibile film-sintesi del dopo ’68, non aveva idee portanti ma solo un giusto spunto, il 12 dicembre e la «strage di stato» come segno riassuntivo dell’offensiva reazionaria per spezzare l’ascesa delle lotte operaie, inserito in una struttura ad assommare

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dati, fatti, realtà, finendo così per valere quel che valgono i suoi frammenti; e certi sono notevoli, specie una Reggio Ca­ labria di barricate e discussioni in presa diretta. Così è anche per i Frammenti sull'autunno caldo di Agosti, presentati in televisione poco dopo gli avvenimenti che documentavano, che hanno il pregio di porsi come tali e posseggono sovente una loro pregnanza. È come un grande archivio delle lotte di questi anni che attende ancora chi sappia utilizzarlo e trame le necessarie sintesi. Ancora più rare sono state le esperienze di un certo rilievo sul terreno del ricupero di momenti della storia del movimento di classe alla luce di una nuova coscien­ za. Così Marzo '43 - Luglio '48 (1972) di Renato Ferraro e Alessandro Ojetti cercò di impostare la resistenza secondo un taglio altro dai canoni revisionisti. Più modesti, nei loro intenti didattici, ma anche più nitidi, furono i film-lezione di Paolo Gobetti e Giuseppe Risso, Dalla marcia su Roma a piazzale Loreto (1974), Lotta parti­ giano (1975), specie il primo che, per forza di regia, sa criti­ camente oggettivare l’immagine interna del regime data dai cinegiornali Luce, facendone un mezzo di indagine sulla real­ tà storica. Ricognizioni sociali più ampie sono state proposte da E nua ca simu a forza du mundu (1971), fatto per la tv e mai programmato, di Guido Lombardi, Anna Lajolo e Al­ fredo Leonardi (vi si cercava di ricostruire la figura umana e sociale di una vittima di un omicidio bianco, secondo un approccio al reale di tipo critico-poetico) e da Napoli: la parola ai proletari (1974) di Calanchi, Collo, Bizzarri, che è una sorta di lungo atto unico parlato in dialetto. Oltre ogni diatriba di formule, l’apporto più maturo in questo campo resta però Nessuno o tutti (1975) che Marco Bellocchio, uscito dalle esperienze partitiche in senso riduttivo dei suoi docu­ mentari per l’Unione marxista-leninista, ha girato in colletti­ vo con Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli, per riferire, con la committenza degli enti locali di Parma, di forme di intervento sull’esclusione e sulla malattia mentale poste in atto da organismi del movimento operaio. Docu­ mento che sa farsi momento di analisi della realtà in chiave di una sua concreta ed espressiva scoperta, ci pone, specie nella parte del film intitolata Tre storie, in rapporto con gli esclusi, facce e gesti e paesaggi e ambienti e parole proletari colti con forte verità, e con la violenza che subiscono nell’urto con una

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società escludente e con le sue regole di classe; e con Matti da slegare, seconda parte del film, sviscera il connesso tema «pazzia» con un’analisi reale che si giova di apporti e lotte degli anti-psichiatri e di esperienze di ricupero con gli operai, strappando infine il malato e il diverso a tabù e inconsce paure e aiutando a vedere la sua diversità come parte della nostra normalità. Dai cineasti che facevano riferimento al pci e alla cgil non sono venuti in genere, fatta eccezione per rari momenti di indagine autonoma o in comune con altre forze, particolari apporti né sul piano teorico né su quello dei film, fermi in sostanza a una visione funzionariale del proprio compito. Per un’efficiente struttura comprendente l’Unitelefilm e una rete di sedi di partito, di cooperative, di camere del lavoro ecc., sono passati film su mancate riforme, su scioperi, su lotte di liberazione, corredati di commenti «responsabili». Alla loro base c’era stata l’iniziativa dei Cinegiornali liberi, animati da Cesare Zavattini, che fondevano un nuovo oggettivismo di tipo televisivo con i vecchi e grigi modi neorealisti. I casi più emblematici sono però i due film di Ugo Gregoretti, Apollon (1968) e Contratto (1970), dei quali l’uno ricostruiva con atto­ ri e operai l’occupazione di una piccola fabbrica romana secondo una visione di sola difesa del posto di lavoro, e il secondo, fatto per conto dei sindacati confederali, era un deciso impoverimento dell’«autunno caldo» ridotto a un uni­ co, ordinato corteo e a trattative tra burocrati, ministri e padroni, fuori di ogni realtà, fosse pure di cronaca, e fuori delle stesse forme di lotta e organizzazione poi ricuperate dai sindacati. Più dentro al movimento reale si ponevano film come La fabbrica (1972) di Lauriello, o Bianco e nero (1975) di Paolo Pietrangeli, indagine condotta dall’interno, tramite interviste carpite con varie astuzie, sul neofascismo, le sue origini e le sue connivenze dentro i corpi dello stato e nella classe politica che hanno permesso la strategia della tensione. Oltre tutto è forse il solo film che, a contrasto con certe cronache a fior di pelle o spunti tardoneorealistici sul caso umano (Nelo Risi, Pinelli, 1971), tocchi in termini un po’ organici uno dei nodi politici essenziali di quegli anni: la strage di piazza Fontana.

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Dentro il «movement»statunitense: da Newsreel a Robert Kramer

Come in ogni paese la new left ebbe un suo cinema che riflesse i caratteri del movement, non partito con un suo ap­ parato e una sua linea politica, bensì aggregazione informe di forze, gruppi, organizzazioni, comitati di lotta, intenzionati a impostare i rapporti con la realtà sociale in termini di autodi­ rezione di base. Cercò quindi di essere espressione della plu­ ralità di iniziative, integrate nelle comunità, anche se il Viet­ nam, con la crescita di un movimento di rifiuto e di insubor­ dinazione interno all’esercito, e la lotta dei neri, con l’esplo­ sione dello scontro armato e sociale nei ghetti, finirono per porsi come poli di riferimento comuni e dominanti per l’inci­ denza delle loro conseguenze politiche. Operarono in questo campo, in forme eterogenee, militanti e intellettuali dei vari movimenti, e soprattutto cineasti, pochi dei quali erano veramente radicati in un lavoro politico, ec­ cetto che per le lotte nei campus universitari; e, per quanto conseguentemente fossero portati a sopravvalutare il peso dei media e dell’agire sulle coscienze, seppero in ogni caso usare sin dal ’66-67 in maniera incisiva e capillare i film come documento e aiuto alle lotte. Il primo consistente collettivo che ne emerse fu quello dell’ADF, American documentary film, che allo scopo di sensibilizzare l’opinione comune mise insieme un ricco catalogo di film politici che investivano tutto l’arco delle «gravi crisi della società americana» e delle inizia­ tive di lotta. I suoi legami più stretti erano però, come quasi sempre per la sinistra bianca di origine studentesca e classe media, quelli con il movimento contro la guerra, cui diede Sons and daughters (Figli e figlie, 1967) di H. Stoll, Viet-nam: how did we get in; how can we get out? (Vietnam: come ci siamo entrati; come possiamo uscirne?, 1969) di D. Schoenbrun, The Pentagon papers and american democracy (I docu­ menti del Pentagono e la democrazia americana, 1972); e in essi è possibile seguire il progressivo radicalizzarsi di un’op­ posizione che da forme di dissenso civile e idealista, motivate solo dai costi umani di vite e di dolori, passa al rifiuto delle basi stesse del sistema. Colpiti duramente sul piano finanzia­ rio dal ministero del Tesoro, che sequestrò una serie di film cubani con il pretesto della violazione del blocco commercia­ 375

le contro lo stato castrista, i cineasti di questo gruppo furono costretti a sospendere la propria attività nell’autunno del ’72, dopo avere assolto un’importante funzione specie nel mettere in piedi una rete alternativa e/o militante di diffusione. Più organico a una linea di estrema sinistra, anche nel virus delle scissioni a catena, fu il Newsreel, gruppo di matrice newyorkese e poi decentrato con collettivi autonomi a De­ troit, San Francisco ecc. Operante sin dal ’67, sorse con fini più definiti di attacco a miti, ideologie, oppressioni della so­ cietà americana e di rifiuto dei sistemi di controllo e organiz­ zazione. A parte certe secondarie tensioni a una «contro cul­ tura» di carattere hippy, esso si mosse nel suo filone centrale verso alcuni tipi differenziati di intervento: l’informazione su eventi e lotte che mettono in crisi l’immagine stessa della propria società; l’educazione come analisi a fondo di un tema o una condizione; la diffusione di materiali «tattici». Ghetti, scuole, lotte di reduci, marce sul Pentagono, Convenzione di Chicago furono così oggetto di numerosi film, tra cui emerse­ ro Columbia revolt (Rivolta alla Columbia University), cinquantacinque minuti che stanno dentro l’occupazione di quella università nel giugno ’68 vivendone con precisione cronachistica modalità e tattiche, in specie contro l’industria militare cui molto lavoro di ricerca di quell’università era ed è collegato; Lincoln Center (id., 1969) sulla cultura di classe e la speculazione urbanistica a New York; Know your enemy (Conosci il tuo nemico, 1969) che è uno studio minuzioso e violento sulle forme di dominio di una famiglia su un’intera città; Young lords (I giovani lord, 1970), rapporto incisivo e didattico, suddiviso in brevi capitoli, su come i portoricani sanno riappropriarsi dei propri problemi; Teach our children (Insegnare ai nostri figli, 1972) a proposito della rivolta nelle carceri di Attica finita in un massacro; Janie*s Janie (La Janie di Janie, 1973) e The woman’s film (Il film della donna, 1971) che s’inseriscono nella lotta del Woman Liberation, l’uno seguendo le scelte di una donna che lascia il marito e decide di vivere da sola con i figli, e l’altro indagando con interviste i cambiamenti avvenuti nella coscienza delle donne americane. Altri film vertevano su hippy, yuppy, radicai ecc., in varie forme connessi con la crisi generale dell’ideologia americana sia negando un’intera cultura sia criticando le scienze, e che erano il sostrato del movimento di rifiuto della guerra. 376

Sostanzialmente impostato come struttura di collegamento di cineasti e militanti che usa tanto canali politici (sds e vari raggruppamenti) quanto canali underground (cooperative, film-maker ecc.), il Newsreel fu oggetto di dure critiche da parte di organizzazioni politiche perché elitario nelle sue forme di decisione e nella sua concezione del cinema, in quanto esterno alle situazioni e senza reali rapporti con le lotte, fatto da «specialisti» e non da militanti di base. Eppure c’erano state saltuarie esperienze di più interna integrazione con il movimento e con le sue necessità di lotta, per esempio con i brevi film sui gas e le armi antisommossa della polizia americana e sui loro effetti e con mediometraggi fatti fare dalle pantere nere stesse e da queste impostate in base a criteri di utilità pratica per fare conoscere il proprio lavoro di base e il proprio programma fuori di ogni contemplazione culturale. E in fondo principi simili sono stati alla base di Revolution until the victory (Rivoluzione fino alla vittoria, 1973), mediometraggio di cinquantadue minuti in cui cineasti di origine ebrea hanno tentato con acume di calare la lotta dei palestinesi nelle sue radici di resistenza ai vari invasori e di scavare nel fondo ambiguo del sionismo. Queste critiche, riflesse all’interno del Newsreel, finirono però per frantumare un gruppo già decentrato come linee di lavoro in una serie di organizzazioni che si riferivano a varie tendenze della sinistra rivoluzionaria. Sorti magari dal tronco Newsreel, il cui gruppo newyorke­ se dopo la scelta maoista si è denominato Third world N., così come quello di San Francisco Cine news, si formarono altri gruppi con piani di intervento divergenti, dal Ciné-manifest legato a un cinema di impegno civile e «popolare» al New world cinema di Yves de Laurot con i suoi intenti di «agita­ zione poetica», dal Long march al Revolutionary film C. ecc., cui vanno aggiunti collettivi occasionali nati intorno a un’or­ ganizzazione e a una personalità, specie per sostenere il mo­ vimento contro la guerra. Emblematico fu il caso di Winter soldier (Soldato d’inverno, 1971), fatto in stretto legame con il Vietnam veterans against the war, che registrò le confessio­ ni dei reduci a proposito di torture, massacri, uso dei gas, violenze su donne e bambini. Unico sul piano della violenta denuncia di atroci meccanismi di morte, il film trovava i suoi limiti in un’oggettività scarna di ogni ulteriore analisi, che è 377

nello stesso tempo ciò che ne fa un documento essenziale sul movement come vasta ed eterogenea reazione di massa e che gli consente di far parlare le cose stesse anche, per esempio, a proposito di rapporti con gli ufficiali o dell’uso razzista di neri e indiani. Ciò è capitato in parte anche con il film di Littman sui veterani che gettano via le medaglie e con quello di Catherine Leroy e Frank Cavastani sulle loro marce di protesta {Operation last patrol, Operazione ultima ricogni­ zione, 1973), con il «democratico» The trial of the Catonsville nine (Processo ai nove di C., 1971) di Gordon Davidson, finanziato da Gregory Peck, che seguì il processo a padre Berrigan e ai suoi compagni incriminati per avere organizza­ to un falò di libretti militari, come con il radical Introduction to enemy (Presentazione del nemico, 1974) di Jane Fonda e Tom Hayden, che presentò il «nemico» vietnamita con un’ot­ tica diversa. Sui neri e le loro attività nei ghetti, scuole, mense, cure mediche, azioni di strada e processi, soppressioni, lotte nelle carceri, momento focale della presa di coscienza e dell’azione politica dell’intera sinistra, si venne formando un vero e pro­ prio repertorio di film fatti da americani e stranieri (Klein, Varda, Branca ecc.), cineasti e militanti. Termini di riferi­ mento dei tipici modi di approccio a questa decisiva materia possono essere, come controinformazione, The murder of Fred Hampton (L’assassinio di F.H., 1970) che, girato da Mike Gray con il partito delle Pantere nere, dimostrò, in contrasto con le versioni ufficiali, come Fred Hampton, pre­ sidente del bpp dellTllinois, fosse stato ucciso nel suo letto con un’azione concertata a freddo dai poliziotti, e ne indicò indi­ rettamente le ragioni presentando la sua figura di militante presente nel ghetto anche con azioni di difesa armata; e come espressione della linea e del lavoro di un’organizzazione Fi­ nally got the news (Finalmente le notizie giuste, 1970), realiz­ zato e gestito in proprio da militanti e operai neri della Lea­ gue of the revolutionary black workers, sulle lotte nelle fab­ briche di Detroit e le loro articolazioni (scioperi a gatto sel­ vaggio ed elezioni di delegati neri di officina, azioni di soste­ gno da parte della comunità e degli studenti di Wyatt ecc.), inserite in un contesto di interviste tese a elucidare sia la condizione operaia sia le analisi di Watson e del suo movi­ mento. Connesso è il tema del carcere, la più brutale istitu­

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zione chiusa che però si è fatta per i neri anche coagulo di lotte e di elaborazione politica, e a proposito del quale Cinda Firestone ha dato con Attica (id., 1973) la cronaca di una rivolta di prigionieri stroncata dalla polizia, il 13 settembre ’71, nel sangue di quarantatré morti e oltre duecento feriti, una cronaca che si fa via via indagine in vessatorie condi­ zioni di esistenza e atto di accusa alle autorità carcerarie e al governatore Rockefeller, operanti fuori di ogni norma lega­ le. Gli esclusi, le vittime interne del sistema neocapitalistico, minatori, taglialegna, operai dell’auto protagonisti di scioperi selvaggi, e soprattutto neri, portoricani, carcerati e le loro lotte — come per esempio mostrano Carlos de Jesus in The devil is a condition (Il diavolo è una condizione, 1974), sulle forme di reazione delle comunità nere e portoricane di New York ai problemi dei tuguri e delle espulsioni, e Glen Pearcy con Fighting for our lives (Lotta per la nostra vita, 1975), intenso documento sugli scioperi con morti dei chicanos nelle campagne californiane — furono ovviamente i protagonisti di questi film, partecipi di una sentita necessità di identificarsi con un’altra nazione, umana. Tensioni, queste, che in certe frange libertarie, legate a idee di «anticomunità», erano spes­ so espressione di un misticismo egualitario, certo non esente da connotati di controcultura come dissidenza apolitica. Così nei tanti film sugli indiani, da The dispossessed (Gli spodesta­ ti, 1972) di G. Ballis a Home (Patria, 1973) di J.C. Stevens, era sottesa oltre ogni coscienza storica e adesione con le vittime di un genocidio, il rifiuto dei valori della free market society con intrinseca proposta di un modo di vivere e di un sistema educativo altri. In forma di contestazione dei riti di una società sessista (Miss America, id., 1970) e di intervento nei problemi delle donne (l’aborto per It happens to us, Capi­ ta a noi, 1973, di Amalie Rotschild), i film femministi poi si fecero coscienza e riflesso di un’oppressione basata sulla con­ traddizione uomo-donna e non solo sulle differenze di classe. Esame di una condizione che tendeva a emanciparsi anche nel lavoro (Growing up to female, Diventare donna, 1974, di Julia Richter e Jim Klein) e a negare certi ruoli sociali, sessua­ li, familiari (Three lives, Tre vite, 1970, di Kate Millet; Woman to woman, Da donna a donna, 1975, di Donna Deitch) o l’aggressione classista connessa con la condizione delle donne

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nere, messicane ecc. Woman's film, magari tentati dai modelli cinesi (The other half of the sky, L’altra metà del cielo, 1973, dell’attrice e militante Shirley Mac Laine), essi resero spesso il senso specifico di sovversione sociale che, nella sua etero­ genea composizione e nelle sue forme di lotta, il movimento di liberazione della donna ha avuto. Dei Newsreel hanno fatto parte e ne sono in seguito usciti dando in ogni caso film di finzione e/o di indagine più perso­ nale, intellettuali new left come Norman Fruchter e registi come Robert Machover, e soprattutto Robert Kramer che si impose con una carriera di autore deciso a parlare per il movimento e nel movimento. Girati con un gruppo di amici e con pochi mezzi, i suoi film tra finzione e documento mo­ stravano come si possa fare del cinema che abbia attinenze alla politica, se si sa scavare nella contraddizione, e quale funzione esso riesca ad avere agendo, fuori della facile dico­ tomia tra arte borghese e volantino, sulla tensione tra la parte borghese che è dell’artista, con il suo vissuto e anche con i suoi strumenti di critica di fenomeni e gruppi che gli stanno intorno, e la ricerca legata a un collettivo e a una teoria-prassi di chiarezza militante, di azione-negazione di una società, compreso il suo passato, la sua storia, gli istinti, la struttura mentale. Ma dei suoi film, che infine travalicano e di molto i confini del cinema militante, si è trattato in un altro capitolo. Altrove

In forme e impostazioni analoghe si diffusero esperienze di cinema militante nei vari paesi europei, sovente come referti sul Terzo mondo e sui movimenti armati latino-americani, quanto meno c’erano lotte e partiti di classe nel proprio paese e possibilità reali di integrarsi, come intellettuali, in esse. Così gruppi svedesi, riuniti nel Film centrum, diedero a fine anni Sessanta accanto a The white sport (Lo sport bianco, 1968) e Sarmingen om Baastad (La verità su Baastad, 1968), che do­ cumentavano il boicottaggio degli incontri di Coppa Davis con la Rhodesia razzista, alcuni film su obiettori di coscienza e disertori dell’esercito statunitense. Rudi Spee, olandese, e Axel Lohmann, tedesco, che lavorarono con questi gruppi, informarono meticolosamente su lotte di liberazione africane

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in bruì manniskor i «portugtMsku» (jui/iua (Lumini liberi nella Guinea «portoghese», 1970) e Jan Lundqvist sui Tupamaros (id., 1973). Lundqvist affrontò anche analisi dei conflitti di classe del proprio paese. Ancor più nei film tedesco-federali si sentì il peso di un oggettivismo di matrice televisiva e di un ideologismo astratto; eppure ne sono venuti discreti docu­ menti, come Viva Portugal (Viva il Portogallo, 1975) di Rauch, Gerhards, Schirmbeck, July. Saltuariamente si sono tentate forme più complesse, di cui resta esemplare la rico­ struzione di una lotta operaia chiusa e fallita in un’officina berlinese di Liebe Mutter, mir geht es gut (Cara mamma, io sto bene, 1972), con cui Christian Ziewer calò in un più ricco tessuto sociologico, però con minore forza di impatto, la lezione di Karmitz. Negli stessi paesi fascisti, come la Spagna, erano stati fatti brevi, clandestini film che riferivano delle lotte operaie e di certe manifestazioni, e dal toccante Presos (Prigionieri) ci sono venute immagini dall’interno stesso delle carceri fran­ chiste, spezzoni commentati da poesie e canzoni che assumo­ no subito un incisivo senso politico rompendo il muro di silenzio imposto dalla repressione franchista, a sua volta do­ cumentata per esempio in Proceso 1001 (Processo 1001). Si riferiscono invece al non ancora chiuso trauma della guerra civile i film del tedesco Peter Nestler, Espana (Spagna, 1973), centrato sui vecchi combattenti che continuano a essere tali, e di Richard Dindo, Les suisses dans la guerre civile espagnole (Gli svizzeri nella guerra civile spagnola, 1974) in cui ex mili­ ziani delle brigate internazionali raccontano le proprie espe­ rienze. Fuori della Grecia dei colonnelli, Dimitri Makris potè realizzare Qui Politecnico (1974) che, a proposito della rivolta degli studenti ateniesi del novembre ’73, repressa nel sangue dai carri armati, univa documenti veri e parti ricostruite con attori, ponendo ancora una volta il problema del limite del­ l’invenzione in una cronaca politica. E, sempre in esilio, Co­ sta Chronopulos mise insieme una notevole indagine sul pe­ riodo compreso tra il ’44 e il regime dei colonnelli passando per resistenza, guerra civile, democrazia autoritaria e golpe del ’67, intitolata da una parola d’ordine fascista «La Grecia degli Elleni cristiani» (1974). Alcuni israeliani con un colletti­ vo londinese tentarono, analogamente, con To live in freedom (Vivere in libertà, 1973) di analizzare in termini di classe la 381

propria società e il ruolo egemone degli ebrei venuti dall’Eu­ ropa. L’inglese Michael Beckam, da parte sua, ha steso in Sud Vietnam. A question of torture (Sud Vietnam, un proble­ ma di tortura, 1973) un serrato atto di accusa sui crimini perpetrati dal regime di Thieu contro ogni oppositore, e un altro inglese, Jeremy Wallington, ha girato clandestinamente in Sudafrica The dumping grounds (I motivi del dumping, 1972). In questo paese poi alcuni militanti sudafricani riusci­ rono a dare un saggio stringente sulle concrete cause e tecni­ che apartheid, The last grave at Dimbaza (L’ultima tomba a Dimbaza, 1974). Il cinema politico Saggio e reportage, inchiesta e film di montaggio, i primi anni Settanta hanno visto, più in generale, rifiorire una forma di riflessione politica tramite film che, estranei ai problemi connessi con un loro uso militante, sono tornati sui temi che le lotte rimettevano in discussione; così in Francia si è tentato di scavare in un passato recente e ancora scottante, segnato dal collaborazionismo con i nazisti e dalle guerre coloniali, in certi casi anche con un taglio sospetto di falsa coscienza. La cosa più incisiva in questo campo resta il film di Marcel Ophùls, Le chagrin et la pitié (Il dolore e la pietà, 1969), di cui s’è già parlato. Tramite documenti d’epoca e interviste a gen­ te comune e collaborazionisti, traccia un lucido e interno ritratto della durata di quattro ore e mezzo della realtà di una cittadina, Clermont-Ferrand, durante l’occupazione, met­ tendo a nudo zone d’ombra, compromissioni, fascismi quo­ tidiani ed eroicistici appena contrastati dai pochi che fecero le scelte giuste, le une e le altre vissute e confessate da piccolo­ borghesi e non di provincia. Lo stesso tipo di inchiesta viene da Ophùls usato per la guerra civile in Irlanda del Nord (A sense of loss, Un senso di rovina, 1973), sviscerata nelle sue componenti religiose e storiche, con una dialettica che ne fa un processo aperto sul futuro. Tenta di decifrare un altro paese straniero e complesso, il Giappone, Kashima paradiso (Il paradiso di Kashima, 1973), con cui Yann Le Masson e Benie Deswarte sanno innestare in un tessuto di cause minuziosamente definite le lotte di Ka-

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shima e di Narita, in cui la difesa di una proprietà e cultura contadina si fonde con il rifiuto di un espansionismo econo­ mico sintetizzato nell’esproprio coatto per costruire un aero­ porto. Più reticente e in fondo slegata da una seria analisi delle cause strutturali è per contro la presa di coscienza che, dopo le assenze paurose del tempo, cercano di avviare sulle proprie guerre coloniali in Indocina e in Algeria film come La guerre cTAlgérie (La guerra d’Algeria, 1972) di Y. Courrière e Ph. Monnier e La république est morte à Dien-Bien-Phu (La repubblica è morta a Dien-Bien-Phu, 1974) di J. Kanapa, Ph. Devillers, J. Lacouture, dove il primo propone una serie di acute e rigorose contro-verità ma non il loro senso comples­ sivo, e il secondo offre buoni materiali, anche se quasi tutti inerenti i leader, e per di più francesi, sfiorando infine quasi una nostalgia per un neocolonialismo mancato. Pesa anche, vizio comune a questi e altri film, un certo feticcio dell’oggettività, un far «esprimere serenamente» noti criminali mai confrontandoli con i loro crimini; e non è un caso, visto che gli autori si sono quasi tutti formati, come cineasti e giornali­ sti, all’oRTF. Così come un po’ troppo soggettivo e «di costu­ me» è il taglio con cui Harris e Sedouy, già collaboratori di Ophuls, affrontano il tema dei rapporti dei francesi con il potere, catalizzati dalle grandi crisi del ’40, ’44 e ’58: Francois si vous saviez (Francesi, se sapeste, 1973). De Antonio e Klein: due tipi di coscienza della realtà ame­ ricana, cioè di essere l’uno interprete di una crisi liberal di fronte a guerre, orrori, complotti con presidenti uccisi o cor­ rotti, il secondo dei movimenti di opposizione radicai o raz­ ziali, e conseguentemente due modi di porsi con il cinema in rapporto con il reale, documentato e razionale in De Anto­ nio, nervoso e addosso alle cose in Klein. Émile De Antonio (Scranton, Pennsylvania 1920), amico di John Kennedy a Harvard, figura di rilievo nella pop-art cui ha dedicato uno straordinario Painters, painting (Pittori, pittura, 1972), elabo­ rò film di montaggio che puntavano sulla forza intrinseca dei fatti, organizzati secondo una logica interna per via di nessi dialettici, film privi di commento parlato, da lui ritenuto un’imposizione autoritaria. Così condusse una serrata accusa al maccartismo visto con le sue radici nell’establishment con Point of order (Questione di ordine, 1964), che condensa le 188 ore di dibattito televisivo con il senatore Me Carthy;

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cercò di demolire, in Rush to judgement (Corsa al giudizio, 1966), le tesi ufficiali sulla morte di John Kennedy servendosi dell’avvocato Mark Lane che sostiene con vigore la teoria di una congiura di estrema destra; ritrasse con efficacia satirica, data dalla commistione di interviste e materiali d’archivio, l’allora presidente come «prodotto di consumo» imposto con un uso manipolato della tv, in Richard Millhouse Nixon, a white comedy (R.M.N., una commedia bianca, 1971). Soprat­ tutto con In the year of the pig (Nell’anno del maiale, 1969) il suo metodo di analisi si fuse con equilibrio con il documento vissuto dell’oppressione coloniale di oggi e di ieri, certo non esauriente sulla natura dell’imperialismo ma, punto estremo della coscienza democratica, facendo scaturire senso e ragio­ ni strutturali dell’aggressione contro il popolo vietnamita. L’analisi nelle contraddizioni americane, De Antonio l’ha proseguita in questi anni con due esperienze estreme: Under­ ground (Clandestinità, 1976), intervista, realizzata con l’operatore-regista Haskell Wexler, a cinque terroristi Weather­ men in clandestinità, che si fa analisi assai interna delle lotte degli anni Sessanta e Settanta, ma soprattutto interrogazione sul perché tanti figli della borghesia siano passati a un violen­ to rifiuto dei valori americani; King ofPrussia (Re di Prussia, 1982), quasi un dossier televisivo che, nei tre giorni che pre­ cedono la sentenza, ricostruisce con gli stessi protagonisti e con attori (Martin Sheen come giudice) il processo ai fratelli gesuiti Berrigan e ai loro amici cattolici, rei di avere distrutto in un centro della General Electric più testate nucleari, primo atto di «vero disarmo». Con il suo documentarismo moderno, cinepresa alla ma­ no, curioso, aperto, anche confusionario perché troppo im­ merso nei fatti, il pittore e fotografo William Klein ha invece tentato di captare in presa diretta il convulso rifiuto, nello stesso tempo esistenziale-culturale e politico-economico, at­ tuato dai neri e dai giovani. Ciò non tanto con film a sogget­ to, cioè Qui ètes-vous Polly Magoo? (Chi è Polly Magoo?, 1966), una farsa a proposito di un’inchiesta televisiva su una modella, o la sconnessa satira anti imperialistica in forma pop di Mister freedom (Evviva la libertà, 1969), bensì con le sue indagini e i suoi documenti sulla «nazione nera» la cui dialettica sociale viene sintetizzata nei suoi esempi e miti più emblematici, Cassius the big (Cassius il grande, 1964) e Mu-

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hammad Alì the greatest (M.A., il più grande, 1975), e nei suoi leader come Malcolm X o Eldridge Cleaver, Black Panther (E.C., pantera nera, 1970), seguito nel suo esilio algerino facendogli esporre le discusse teorie di violenza terroristica. Altrettanto interna all’eterogeneo movimento contro la guer­ ra, cui contrappone il fascismo virulento dei minutemen e del cardinale Spellman, è la sua parte in Loin du Vietnam (Lonta­ no dal Vietnam, 1967); qui il suo tono frenetico, non alieno da esibizionismi nel sicuro uso di tecniche à la page e da giochi deformanti, si fa sintomo di una serpeggiante tensione a chiudersi nell’«immediato», magari pregnante, però necessa­ riamente a frammenti e squarci, della natura della società americana. Antitetico alle forme violente di captazione della violenza di Klein è il taglio alla Ivens del russo Roman Karmen, ecce­ zionale operatore di attualità che a suo tempo diede intensi documenti della guerra di Spagna e di Leningrado assediata, e poi dell’Indocina con le famose, emblematiche colonne dei vinti di Dien-Bien-Phu, ma che denunciò i suoi limiti di respi­ ro teorico e politico, legato com’era a un progressismo datato nelle sue connotazioni da anni Trenta, quando si misurò con le guerre di liberazione latino-americane. A parte i precisi rapporti dal Vietnam e dalla Cina di F. Greene, eccezionale dal punto di vista tecnico e giornalistico fu l’uso che del reportage diretto dalle prime linee della re­ azione, Congo, Vietnam, Cile, fecero Walter Heynowski e Gerhard Scheumann, tedeschi della rdt. Con Der lachende Mann (L’uomo allegro, 1966) presentarono un ex nazista ca­ po dei mercenari operanti in Congo per conto di Ciombe e dei belgi; con Piloten in Pyjama (Piloti in pigiama, 1968) fecero parlare i piloti yankee catturati in Nord Vietnam, defi­ niti «ingegneri idioti» a causa delle loro notevoli conoscenze tecniche che si accompagnavano a un completo condiziona­ mento intellettuale. Ci sono nei loro film, elaborati in senso marxista tutto e solo ideologico, documenti e informazioni di prima mano che erano allora veri «colpi» giornalistici. So­ prattutto nella serie dedicata al Cile di Pinochet, da Der Krieg der Mumien (La guerra delle mummie, 1974), che per primo mostrò golpe e repressione portando precisi atti d’accusa a persone ed enti che l’hanno organizzato e finanziato, a Ich war, ich bin, werde sein (Ero, sono, sarò, 1975) in cui, entrati 385

con uno stratagemma nei campi di concentramento del regi­ me, riuscirono a parlare con i prigionieri, a mostrarne l’umi­ liante «rieducazione» proprio in quelle ex miniere di salnitro dove si era formato il movimento operaio cileno. Per concludere Il fallimento delle ipotesi guerrigliere, l’involuzione cuba­ na, l’involuzione cinese, il riacutizzarsi dell’oppressione dei due imperialismi sul Terzo mondo e in Europa, la crisi dei gruppi in Italia come altrove, il fallimento tragico e previsto dell’offensiva terroristica in Germania e poi in Italia, che ha lacerato e avvilito ogni reale autonomia operaia e del movi­ mento, la profonda e sonnambolica stasi del movimento e poi l’attuale sfacelo, hanno messo in crisi, non potevano non mettere in crisi anche il cinema militante, che soltanto in questi ultimissimi anni sembra conoscere una certa ripresa, legata ai movimenti pacifisti e antinucleari, esempio estremo e fuori dal comune, come si è visto: The Journey (1986) di Peter Watkins. Nel 1977, a quasi dieci anni dal Maggio, Chris. Marker ha tentato in Francia con Le fond de fair est rouge. Scènes de la troisième guerre mondiale 1967-1977 (Il fondo dell’aria è ros­ so. Scene della in guerra mondiale 1967-1977), una riflessione sintetica su questi anni e su queste sconfìtte. Saggio, cronaca, poesia, reportage, lettera: egli si serve qui di un assemblaggio coerente di generi della riflessione militante per comporre un film denso e discorsivo in cui la commozione non soverchi mai la riflessione, la comprensione. Rifiuta anche la lezione, la sintesi troppo sintesi, troppo rigidamente schematica e ideologica, ché anzi il suo proposito è quello di confrontare fatti (storia e ideologia) e di indicare lo scarto, l’insufficienza dell’ultima a capire i primi (la prima). Si serve del materiale suo e di altri, militante o ufficiale, e sa esaltare il più povero (per esempio le riprese di brani televisivi dall’apparecchio tv stesso mentre il programma scorre, le più scabre tecnicamen­ te tra le tutte possibili) per precisione di trattamento (viraggi al colore, per esempio) e arte di montaggio. Con pudore accenna a riflessioni sul mezzo (contrariamente a quel che fanno, all’eccesso, Godard e seguaci), ed è per spiegare «per­

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ché a volte le immagini si mettono a tremare» con la voce off di cineoperatori che raccontano come esse sono state prese, a Parigi come a Santiago, negli scontri. Nella lunga sequenza d’apertura, montaggio alternato di brani del Potèmkin e di brani simili di riprese dal vero pescati da materiale militante di più paesi — morti comizi scale... — ma già essa commen­ tata da una voce off di tono epico, ricorre all’analogia, e altrove alla metafora e alla metonimia, ma mai questi proce­ dimenti diventano formalistici o forzati: semplicemente, sono il modo migliore per esprimere quel dato concetto, riassume­ re quella data esperienza derivandone un significato di espe­ rienza storica collettiva. Immagine, parola (intervista o commento), musica (di Marker stesso, a eccezione dei titoli di testa di Berio) concor­ rono a una tonalità da saggio, discorsiva e sintetica ma mai prevaricante. E mentre la musica è sempre un po’ tesa, e le immagini lo sono solo a tratti (per esempio, a commento visivo di una lettera di critica a un militante marxista-lenini­ sta sui suoi miti e riti, figura un balletto cinese di tre ballerini «didascalici», che nell’uso di Marker diventa indicazione di un preziosismo formalistico, da disegno animato astratto, cui si contrappone la durezza critica della lettera), la parola è sempre letterariamente esplicativa, la frase non contratta, il senso non è oscuro o ermetico. Se qualche ermetismo c’è, è perché nonostante le quattro ore del film non si può raccon­ tare un decennio così «caldo» e presente come questo senza alludere, senza sottintendere, senza ricorrere a ellissi. La lezione del film è che le fragili mani delle nuove speran­ ze rivoluzionarie che hanno squassato il mondo negli ultimi quindici anni sono state tagliate perché troppo poco «politi­ che». Il movimento avrebbe dovuto uscire dall’adolescenza e conquistare un’età adulta. Ma quest’età adulta non si basa sulla analisi del nuovo assetto imperialistico mondiale, delle strategie delle grandi potenze, delle trasformazioni nel capita­ lismo, delle classi oggi, dentro il «primo e il secondo e il terzo mondo», dei contenuti nuovi della liberazione, tutti veloce­ mente accennati. Ne consegue, anche se gli autori non si pronunciano esplicitamente, la prospettiva dell’abolizione del fossato dell’intolleranza tra le generazioni di militanti di questi anni e le organizzazioni della sinistra tradizionale: lot­ tare per il rinnovamento della sinistra tradizionale, senza 387

concessioni per i residui staliniani ma anche senza un’imma­ gine diversa di modi di organizzare e di politiche da proporre. Régis Debray, uno dei protagonisti di questo film e di questa storia, non poteva che approvare quest’appello alla «maturi­ tà» da posizioni certamente più a destra di quelle del film. Ha parlato di Bildungsfilm di una generazione, come se questa generazione una maturità l’avesse raggiunta. Ma è possibile una «maturità», oggi, di fronte a quest’immane fallimento mondiale della sinistra rivoluzionaria nella «terza guerra mondiale»? Cercare nuove speranze collettive e rivoluziona­ rie è arduo, lento, faticoso, terribile, e intanto la storia prose­ gue, coi suoi aggiustamenti tra poteri, con le sue oppressioni, con le sue stragi. Il modo migliore per concludere questo capitolo è forse quello di lasciare la parola a Chris. Marker, che alla fine del suo film dice: «E una guerra. È la terza guerra mondiale. E cominciata senza data, senza allarme, senza ordini di mobili­ tazione. A volte è una guerra militare, a volte è economica, le regole cambiano nel corso della partita, quelli che si ritene­ vano avanguardie di un movimento futuro si accorgono a volte di essere strumentalizzati dai poteri, prima di tutto dalle grandi potenze. All’Est e all’Ovest si mettono in piedi nuovi tipi di società i cui pilastri sono l’informatica e il nucleare, contro i quali lo spirito di resistenza degli anni Sessanta avrà lo stesso peso che ebbero gli indiani sui colonizzatori o che hanno i lupi nei confronti degli elicotteri... La corsa contro il tempo è cominciata. O il profondo sconvolgimento dell’idea stessa di Rivoluzione che abbiamo finora vissuto riuscirà a brevissima scadenza a incidere con le sue forze sugli avveni­ menti, oppure la società che si sta costruendo sotto i nostri occhi non ci lascerà, come alternativa alla più probabile guerra di annientamento, che una pace insopportabile».

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Esplosione e crisi del cinema latino-americano

Politiche in forme meno mediate che altrove — la politica come condizionamento del potere e all’opposto la cultura, la creazione artistica voluta come atto politico — sono le cause che hanno marcato lo sviluppo dei cinema dei paesi latino-americani, tra improvviso emergere e attuale crisi, o forse momento di ripensamento in cui un processo prose­ gue, si differenzia in altre, più sotterranee linee di evoluzio­ ne. Per tutta una lunga prima fase questo cinema, esploso prepotentemente a metà degli anni Sessanta, ha trovato nella rivoluzione cubana (per Solanas e tanti altri, «fatto storico che è stato la maggior espressione di cultura del subcontinen­ te») e nell’utopia socialista del «Che» il proprio necessario sostrato. Via via le lotte riformiste in fasi di governo di bor­ ghesia nazionale e i focolai di resistenza armata hanno costi­ tuito i concreti punti di riferimento di un processo di risco­ perta di un’identità nazionale e sociale che si è posto come fine la rottura del cerchio della dipendenza, dell’oppressione, operanti e deformanti anche a livello culturale: un atto di coscienza di se stessi. In un’icastica sintesi, ha scritto Manuel Scorza che «gli europei ci vollero costringere a ballare in punta di piedi la morte del cigno, ma i nostri corpi enormi non ci stavano dentro a quei vestitini da balletto» ed essi «ridevano della nostra goffaggine, finché non ci strappammo la maschera e recuperammo la nostra pelle, la nostra mo­ struosità, il nostro eccesso». Nel loro lavoro le nozioni di ritardo, di arretratezza vengono rovesciate in quelle di pecu­ liarità antropologica e di centralità politica, e si fanno base, polemicamente rivendicata, di una proposta positiva e disso­ nante rispetto ai canoni europei. Così il sondaggio nelle pro­ prie radici, condotto in parallelo con la narrativa ispano-a­ mericana e brasiliana e spesso nutrendosi delle lezioni di 389

queste, sfocia in un’eccezionale opera di ricerca, di denuncia, di rivelazione, in una tensione conoscitiva col reale. Il processo si interrompe, è mutato dieci anni dopo da cause specifiche o indotte. Si devono fare i conti con il riflus­ so del cinema come industria trainante, con la diffusione della televisione, che nelle aree interne, le dominanti, mai raggiunte da questi film, assolve un’opera unica di «alfabetiz­ zazione culturale». Più ancora, il golpismo militare, che ha via via generato un’impressionante serie di dittature e sistemi autoritari, ha chiuso ogni spazio liberale innescando la spira­ le di dure repressioni, con il carcere o la diaspora come esiti. Oppure il ritorno all’ordine, compreso quello di marginalità tollerate. Le prospettive concrete, a breve termine, di rivolu­ zione appaiono o sconfitte (i gruppi di lotta armata, urbana o contadina, fochista o entrista) o in fase involutiva (Cuba), al di là del sostegno ai soli fronti di liberazione attivi, quelli centro-americani. Cesure, particolarismi, divisioni, riflessi nelle stesse «vie nazionali» dei partiti progressisti, sono il segno della crisi delle visioni unificanti, di una «patria comu­ ne», cui subentra la realtà di una balcanizzazione sociale ed economica. Così, fuori di miti e utopie, è necessario a tutti tenere presente il ruolo che certi paesi sono chiamati a svolgere (leadership economica e di sviluppo in Messico, fino a pochi anni fa, e Venezuela, politica di Cuba, subimperialismo brasi­ liano) e i veri, grandi raggruppamenti etnici e culturali. Che, pur poco applicabili alle classi dirigenti, sono almeno tre: le nazioni a prevalenza india, dal Messico al Perù; quelle sube­ quatoriali, Brasile, Venezuela, isole caraibiche, a forte pre­ senza nera; quelle bianche, a predominio europeo, del cono sud. Si scoprono altre «anime», altre peculiari radici e tradi­ zioni. Di pari passo, l’esilio, fatto endemico e vasto come non mai, ha alimentato il sincretismo culturale e linguistico, ha imposto revisioni. Così, accanto a un cinema militante, di lotta, non di rado operante in condizioni disperate, si fanno strada scelte socio-spettacolari, metaforiche, letterarie, che non sempre sono solo riflessi in negativo di un’impasse. C’è una coscienza che non sa, che non sempre può farsi reale conoscenza delle situazioni, classi, culture, ma che in ogni caso si rifiuta a una funzione di «utopia rivoluzionaria» o di

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mito arcaico a uso della falsa coscienza europea. Si tenta di fare i conti con la propria doppia natura di cultura nazionale e di periferia comunque partecipe dell’attuale sistema delle comunicazioni di massa. Così a un datato «cinema imperfet­ to» si sono affiancate teorie più articolate che ipotizzano un uso critico della nuova realtà tecnologica e mediologica, ma­ gari rischiando di farsene prigioniere. In ogni caso, c’è forse un panorama più articolato di quanto non appaia da noi, da quando è passata la «moda» deH’America latina.

GLI ARGENTINI TRA COSMOPOLITISMO E CINELIBERAZIONE

Precarietà delle infrastrutture e assenza di un vero cinema nazionale sono i due nodi essenziali che si è trovato ad af­ frontare il cinema argentino dopo la caduta di Perón nel ’55. Vi agivano, più o meno intrecciate, due anime, una di forti interessi stilistici, ricca di reminiscenze colte ed europee ma non esente da uno snobismo da colonizzati, cui fanno riscon­ tro più rari casi di tensione verso ragioni sociali e politiche, di scoperta di aspetti rimossi della propria realtà. Inoltre, queste esperienze, se portarono una salutare dose di inquietudine, non riuscirono mai a coagularsi in una scuola con caratteri precisi, sia per la condizione culturale argentina, aperta a tutti gli influssi occidentali cui non si oppone un forte tessuto di cultura autoctona, sia per la crisi economica e sociale che a più riprese negli anni Sessanta ha investito il paese, dilaniato da uno scontro di classe durissimo, e ha causato nel cinema, con la fine di misure protezioniste, una caduta verticale del numero di film prodotti, sceso spesso sotto i trenta all’anno.

Leopoldo Torre-Nilsson

Precursori e figure dominanti di un cinema come compiuta e matura ricerca espressiva sono stati Fernando Ayala e, soprattutto, Leopoldo Torre-Nilsson. Più alterna è la carriera del primo, presto persosi in un impraticabile compromesso tra moduli nuovi e vecchi generi; ma il suo El jefe (Il capo, 1958) era una storia di blousons noirs aspra e carica di allu­

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sioni a una condizione politica chiusa. Ciò grazie anche all’ap­ porto di David Vinas, scrittore aggressivo i cui interessi, volti a mettere in causa un ordine sociale sfatto, si saldavano con quelli, più di ordine morale e psicologico, di Ayala. Le loro discrepanze erano destinate ad accentuarsi, non senza avere ancora dato, sul tema del «caudillismo» («ogni capo mente»), Elcandidato (Il candidato, 1959) in cui crisi morali, riti, servitù di un politico erano rese con sicura presa realistica. Piena di referenze colte, cosmopolita ma non aristocratico­ babelica come quella di un Borges, fu l’opera di Torre-Nilsson (Buenos Aires 1924-1978) coi suoi resoconti quasi rituali di una borghesia che vive chiusa nei suoi palazzi e nei suoi vizi, rimorsi, ossessioni, colpe segrete. Eppure lo stesso Bor­ ges gli aveva dato una mano a trasporre un suo fulmineo racconto, Emma Zunz, per Dias de odio (Giorni di odio) con cui nel ’54 esordì in proprio dopo dieci anni di lavoro come aiuto e sceneggiatore del padre Torre Rios. Decisivo per lui fu, invece, rincontro con Beatriz Guido. Più che anime ge­ melle, erano intelligenze complementari. Lei scrittrice incline ai temi fantastici e ai problemi dell’inconscio, lui razionale, deduttivo, artigianalmente metodico, attento alla realtà. Dal­ la sintesi o dal contrasto tra i due coniugi nacquero film diversi in cui le influenze stilistiche più disparate di registi americani ed europei (da Welles a Bergman, Ophiils, Wyler, alla nouvelle vague francese) si combinarono, in modi più o meno rigorosi, con quelle letterarie (da Henry James al ro­ manzo gotico inglese), ora in linea con i tipici temi del mondo poetico della Guido (la mescolanza di innocenza e corruzione attraverso l’inquieta consapevolezza del sesso), ora al servizio di una problematica civile (l’analisi dei miti argentini del «machismo» e del «caudillismo»). La casa del dngel (La casa dell’angelo, 1957) e Fin de fiesta (Fine di festa, 1960) sono ritratti vitali e crudeli dell’alta società, qui vista negli anni Trenta, decisivi per i ceti oligarchici. Specie nel secondo, agi­ sce al meglio la sua vena morale-visionaria, applicata al pote­ re e alla famiglia, se ne impone il carattere attivo. Di essa si sostanziano film intensi, inquietanti nei loro intrighi sinuosi, nel loro clima claustrofobico e voyeuristico, come La mano en la trampa (La mano nella trappola, 1961), mistero nottur­ no «da casa assediata, da donna oppressa dall’ipocrisia bor­ ghese», e El ojo de la cerradura (L’occhio della serratura,

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1965) che muove neonazisti ed esuli spagnoli nello spazio scenico di un hotel fantasma. Variazioni più o meno in mino­ re sono, invece, La calda (La caduta, 1959), Pici de verano (Pelle d’estate, 1961), Setanta veces siete (Settanta volte sette, 1962) in cui la sua crudeltà sociale lascia il posto ad atmosfere più spinte in senso morboso e di gioco intellettuale. In queste forme, il suo è parso un cammino chiuso. In presenza di processi radicali e crisi della società argentina, Torre-Nilsson è rientrato nelle file con opere epico-storiche ufficiali su Mar­ tin Fierro, San Martin, Guemes, e poi con trascrizioni assai letterarie da Arlt, Puig, Bioy Casares, adatte al gusto sofisti­ cato delle classi medie. Prima di morire, l’ultima unghiata di Piedra libre (Libera tutti, 1976), apologo su un’attrice, cinica arrampicatrice sociale, che prende il posto di una morta. Vi aleggia l’ombra di Isabelita Perón; il che ha causato gravi guai di censura. In ogni caso, ancora un acuto ritratto di corruzione borghese.

La nuova ondata sotto Frondizi Negli anni tra il ’58 e il ’62 prese una certa consistenza un cinema indipendente che si valse di una serie di opportunità offerte dallo stato sotto la presidenza Frondizi. In alcuni casi, ci si limita a un discorso di forme, cioè a un mimetismo che attinge specie da Resnais e dalla nouvelle vague. Così Manuel Antin, autore d’estrazione letteraria, si dedica a una sua ri­ cerca sulle ambiguità del reale, tratte spesso da testi di Cortàzar, ben risolte in La cifra impar (La cifra dispari, 1961) in un gioco di realtà e di mistero. Dopo Circe (id., 1963), appare evidente la sua involuzione verso forme narcisiste e di totale irrazionalismo, per dedicarsi, poi, nell’epoca di Ongania ad abili celebrazioni di miti ed eroi storici nazionali, e ritrovare un minimo di concreto interesse con La invitación (L’invito, 1982), grazie a un testo della Guido denso di riferimenti attuali. Altri erano mossi da una più accentuata posizione morale, riflessa in referti intimisti di un diffuso malessere. Così è per Prisioneros de la noche (Prigionieri della notte, 1960) di David Kohon, ritratto, cinepresa alla mano, di due emarginati in conflitto con una città ostile che fatalmente distrugge il loro 393

amore. Così è per Simon Feldman che, dopo aver irriso certe immagini di dittatore (El negoción, L’affare, 1959), è passato poi a sondare le difficoltà di una coppia di diversa estrazione sociale (Los de la mesa 10, Quelli della tavola 10, 1960). Con un taglio più caratterizzato in senso sociale, José Martinez Suarez era venuto narrando con El crack (Il crack, 1960) sudori e lacrime del mondo del calcio, e con Dar la cara (Far fronte, 1962), scritto da Vinas, un faticoso inserimento nella vita adulta e attiva. E Rodolfo Kuhn si era rivelato un attento e sensibile analista di inquietudini giovanili, specie in Los jovenes viejos (I giovani vecchi, 1961), mentre è apparso più discontinuo in Pajarito Gómez (id., 1965), incentrato sui ma­ neggi con cui si fabbrica un cantante alla moda. Serpeggia nei loro film una salutare, anche se epidermica, insofferenza per valori e immagini costituite che non si è mai calata in un progetto coerente di lavoro culturale; e, chiusa con la caduta di Frondizi la zona franca di libertà e di possi­ bilità pratiche loro concessa, per questi autori ebbe termine la loro stessa carriera, spesso riassunta in due-tre film. Salvo qualche più tardo ritorno, come quello di Kuhn con il magico-lirico La hora de Maria y elpdjaro de oro (L’ora di Maria e l’uccello d’oro, 1975), buona sintesi di spettacolo e di cultura antropologica. Lautaro Murila e Fernando Birri

Più vera compromissione con temi, figure, radici profonde, contraddizioni del paese reale si ebbe solo in pochi autori che misero a frutto o il metodo dell’inchiesta o le lezioni di certi scrittori. Già ottimo attore, Lautaro Murùa (Santiago del Cile 1927) scelse subito con Shunko (id., 1960) di narrare, sulla traccia di un testo di ricordi di Jorge Abelos, l’interno contadino e creolo del paese, una comunità rurale dimentica­ ta nella sua povertà e nei suoi riti ancestrali cui un maestro tenta di infondere il senso dei suoi diritti umani. Poi, con il più approfondito Alias Gardelito (id., 1961), scritto da Augu­ sto Roa Bastos, ha dato l’opera chiave del «nuovo cinema». Gardelito è il frutto corrotto di una società sfatta, usato nel suo cinismo e nella sua ansia di ascesa sociale e infine distrut­ to da coloro che al coperto tirano le fila. Il suo è un ritratto

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duro, sottile, chiuso in se stesso ma con un rigore e una logica interni che rimandano alle leggi brutali di un ordine, ai suoi meccanismi classisti di esclusione. Gli stessi con cui si scon­ trerà La Raulito (id., 1974), resoconto in minore ma preciso su una giovane «marginale» che passa i suoi giorni tra strada, carcere, ospedale psichiatrico, con il solo, calcistico mito del Boca Junior. Tutta intema a un documentarismo che sapesse concentra­ re vissuto e problemi degli strati emarginati, è stata invece la strada perseguita da Fernando Birri (n. 1925) agli inizi. Vero film-svolta, Tire dié (id., 1956-58) è un’inchiesta sociale, fil­ mata in collettivo con i suoi studenti dell’Universitad del Litoral, sui bambini di Santa Fé che, sul ponte di ferro, corrono lungo il treno per farsi gettare monetine dai passeg­ geri. Contro Buenos Aires, la città-porto, testa mostruosa e civile di un paese quasi disabitato e di pampa, Birri sceglie di farsi parte e riflesso del sottosviluppo. Si radica nella gente stessa della sua terra, con un atto che è presa di coscienza militante e proposta di metodo cinematografico. Racconto picaresco e polemico è poi Los inundados (Gli alluvionati, 1961), protagonista una famiglia di vittime abituali delle pie­ ne del Rio Parana che vive una condizione di «assistiti». Per errore, si trovano con il loro vagone-alloggio agganciati a un treno in un viaggio sino ai confini, odissea neorealistica verso l’interno dei paese, dentro le realtà argentine. In fondo, era proprio questo il senso vero e positivo dell’intera opera di Birri. Fallito un progetto sugli emigranti italiani (su cui ha dato un bel cortometraggio, La pampa gringa, id., 1963), egli non ebbe più che rare e saltuarie occasioni di lavoro. Ecce­ zion fatta per Vexperiencia di Org (id., 1978), il suo film «cosmico, delirante e lumpen» (e sconnesso), frutto di dieci anni di lavoro in Italia dove da tempo vive, e i mossi e non agiografici Rafael Alberti, un retrato del poeta (R.A., un ri­ tratto del poeta, 1983) e Mi hijo el Che, Un retrato de fumilia de don Ernesto Guevara (Mio figlio il Che. Un ritratto di famiglia di don E.G., 1985), cioè il «Che» raccontato dal vecchio padre. Solo, più tardo erede di queste lezioni fu in qualche modo un altro attore, poi cantante popolare fra le nuove genera­ zioni, Leonardo Favio (Mendoza 1938), che con un realismo severo ma a tratti minato da alcune propensioni all’estetismo,

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descrisse in Crònica de un nino solo (Cronaca di un bambino solo, 1965) le condizioni d’esistenza violente e oppressive che un ragazzo subisce dentro e, dopo la fuga, fuori di un rifor­ matorio, vittima e succube di valori deformi, come il machi­ smo e la delazione, in una costrizione al cinismo nella lotta per la sopravvivenza. Dopo alcuni film un po’ manieristi su chiusi nidi di vipere provinciali, Favio era poi destinato a riscuotere con Juan Moreira (id., 1973) — una sofisticata ballata su un bandito di fine ’800, visto come mito romantico calato nel mondo dei gauchos emarginati e vittime del sopru­ so sociale — un clamoroso successo in cui è riflesso il nuovo clima di volontà delle masse di vedere espresse se stesse, apertosi con il governo peronista di Càmpora.

Solanas, Gelino, Vallejo e i collettivi per un cinema di lotta Dopo il ’68, e in contrasto con i film di mera provocazione intellettuale dei vari Stagnaro, Fischerman, Becher, Paterno­ stro, Jusid, si è venuta attuando una vera presa di coscienza dell’oppressione, in particolare con il gruppo Cine-liberación che ha messo in pratica un coerente disegno di cinema politi­ co e militante, clandestino, organico a lotte, sindacali e arma­ te, della sinistra peronista. La hora de los hornos (L’ora dei forni, 1968) è stato il frutto più articolato e complesso che, al di là di ogni verifica sulla sua utilità pratica, resta un fatto culturale importante, un esempio forse unico di riflessione storica. Diretto da Fernando E. Solanas e da lui scritto con Octavio Getino, è un film-atto che si vuole funzionale all’a­ zione, un film-saggio che si fa scoperta di una realtà sociale vista secondo l’oggettività della lotta di classe con esplicite intenzioni di analisi e proposta. Con una esposizione che dietro a fatti e dati sa riconoscere le fila nascoste del potere e i concreti elementi per un lavoro politico, questi «appunti e testimonianze sul neocoloniali­ smo, la violenza e la liberazione» sviscerano, sul filo di un pensiero di matrice terzomondista influenzato da Fanon e Guevara, efficace anche se forse non appieno dialettico, di­ pendenza e sue diverse forme, servendosi dei mezzi e delle tecniche di volta in volta utili in una complessa e lucida contaminazione. Specialmente nella prima delle tre parti in

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cui il film (della durata complessiva che supera le quattro ore) è spartito, gli autori mettono a fuoco con acume in tredici capitoli una condizione neocoloniale, le sue cause e forme, non ultima la «guerra ideologica» che spossessa la nazione di una identità. Divisa in due sezioni e ventidue capitoli, la seconda parte (Atto a favore di una liberazione) espone e analizza la cronaca, le lotte e le crisi del movimento peronista, mentre, in altri dodici capitoli con testimonianze, lettere, interviste, la terza (Violenza e liberazione) propone materiali di base per una discussione con e tra i militanti stessi sino al «canto finale» sull’altra forma di violenza, non più oppressiva ma liberatoria. Più tardi Solanas sostituì la parte finale sul «Che» con episodi tolti dalla cronaca politica del governo peronista, il che gli valse attacchi e accuse di averne fatto un documento non più rivoluzionario, ma uffi­ ciale, ma è pure una conferma del carattere «aperto» dell’o­ pera, sin dall’inizio intesa come film di intervento. Oltre a numerosi cine-volantini, lo stesso gruppo di Cineliberación ha scritto El camino hacia la muerte del viejo Reales (Il cammino verso la morte del vecchio R., 1969) che, diretto da Gerardo Vallejo, integra il racconto con parti saggistiche e documentarie sui contadini tucumani. Nonostante qualche scompenso e squilibrio, il film funziona efficacemente come critica di un’ipotesi di vita, cioè delle risposte date dal vecchio e dai suoi tre figli a una condizione di miseria rurale, vista come polo tipico della realtà argentina, ma, in fondo, è do­ minato dalla figura del vecchio patriarca, splendido ritratto di irriducibile ribelle che vive come una forza le proprie con­ traddizioni e valori di proletario del sottosviluppo: è il passa­ to con fonde radici in quella terra, nei suoi retaggi e nei suoi morti. Nate dallo stesso coacervo peronista, altre opere che tentano di approfondire la realtà, lo fanno, invece, con stru­ menti che non consentono incisivi ricuperi. Octavio Getino (Leon, Spagna 1935) intesse con Elfamiliar (Il genitore, 1973) una esoterica allegoria su terrore e mali sociali con forza visionaria di oscura decifrazione. In un senso opposto Ope­ ración Massacre (Operazione Massacre, 1972), diretto da Jorge Cedrón e scritto da Rodolfo Walsh, cerca invano di ricostruire — con un tessuto narrativo popolare, ai limiti del bozzetto — le ragioni delle esecuzioni di operai peronisti nel giugno 1956. 397

I quattordici mesi Solanas e Getino nel ’71 realizzano a Madrid due film-in­ tervista a Perón che vogliono essere una messa a punto teori­ ca e politica della revolution justicialista, Sono il preannuncio della seconda, breve fase di potere peronista, tra il maggio 1973 e il luglio 1974, cioè tra il governo Càmpora e il ritorno e la morte di Perón. In questi quattordici mesi Getino, capo dell’ufficio di censura, s’impegna sul piano delle strutture, così come Solanas, il cui Los hijos de Fierro (I figli di F., 1974, completato quattro anni dopo in Europa) è una libera para­ frasi del grande poema nazionale Martin Fierro (1872-78) di José Hernandez, reinterpretato in chiave politica rappresen­ tando l’eroe come incarnazione della coscienza nazionale e i suoi figli come personaggi collettivi. Il racconto in chiave peronista degli eventi dal 1945 al 1973 appare di rara forza concettuale e linguistica, tutta dentro alla sua ricerca di un non colonizzato «terzo cinema», ma è anche incredibilmente evasivo rispetto alle contraddizioni del movimento peronista. Vallejo, da parte sua, ha lavorato a una tv indipendente con cortometraggi che hanno formato un’emissione di vasta eco: Testimonies (Testimonianze). Altri tentano di radiografare con metodo marxista la nuo­ va realtà. È il caso dei «comunicati cinematografici» dell’ERP che informano su azioni di lotta, espropri, sequestri, e di La tortura politica en Argentina (La tortura politica in Argentina, 1973), documentata con crudele precisione da un gruppo dell’Università de la Piata. Più di tutti Los traidores (I traditori, 1973), di Raimundo Gleyzer e del Grupo cine de la base, è sintomatico della situazione, sia per una malintesa ricerca di «forma popolare» e un grottesco non sempre voluto, sia per la violenta attualità politica, ossia la corruzione di certi sin­ dacalisti che si ritiene giusto eliminare fisicamente (all’etero­ geneità del movimento peronista lo stesso autore alludeva già nel ’70 in La revolution congelada, La rivoluzione bloccata). Gleyzer veniva dal documentario etnografico; suo abituale compagno era stato Jeorge Preloran, singolare e appartata figura di cineasta i cui film, a parte il loro valore scientifico, esprimono la vera esistenza di antiche comunità. Così Los onas (Gli ona, 1973) documenta riti, costumi e storia, cioè genocidio, di una tribù della Terra del Fuoco.

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El cambio Oltre che il filone politico e documentario, esprime le ten­ sioni, ma pure la vitalità di questa fase di transizione e mu­ tamento, del «cambio» in atto, un cinema di tipo intellettua­ le, quello dei Sarquis (che nel ’76 darà un film «povero» ma interessante, Muerte de Sebastian Arache y so pobre entierro, Morte di S. A. e il suo povero funerale, tutto dentro alla realtà e al mito del sottosviluppo), Sabato, Rios, presto passato al servizio di Unidad popular in Cile. Hugo Santiago il cui Invasion (Invasione, 1968), da Borges, è ritenuto dai critici francesi di «Cinéthique» uno dei rari esempi di cinema strut­ turalista. Via via, questo cinema si radicalizzerà in forme più underground, che si vogliono «alternative»: le commistioni tecniche di Bebe Kamin, i rituali di degradazione di Lescovitch (Ceremonias, Cerimonie, 1973), le ricerche «povere» a innesti didascalici e anticapitalistici di Julio Luduena, le «fantasie» di Miguel Bejo. Più complessa è la figura di Ed­ gardo Cozarinsky, espressione di una certa cultura bonoarense, cosmopolita, decadente, in grado però in Puntos suspensivos (Punti di sospensione, 1971) di esprimere il cama­ leontismo dei vecchi ceti privilegiati, e poi con Les apprentis sorciers (Gli apprendisti stregoni, 1977) di dare corpo all’immaginario, alla realtà fantasmatica della Parigi degli esuli. Concertato raffinatissimo è poi La guerre d’un seul homme (La guerra di un sol uomo, 1981) in cui la verità dell’occupa­ zione nazista nasce dalla reazione fra due menzogne, quella documentaria dei materiali d’archivio di Vichy e quella lette­ raria del Diario di Ernst Junger, detto in voce off. Ancor più è dato sentire la breve ventata libertaria nei temi toccati da film di robusto impianto narrativo e spettacolare. Come quelli citati di Favio (Juan Moreira) e Murùa (La Raulito). Come i successi del ’74, da La tregua (id.), mèlo d’am­ bienti e stati d’animo piccolo-borghesi che l’attore Sergio Renan ha tratto da un testo di Mario Benedetti, a La Patago­ nia rebelde (La Patagonia ribelle) e Quebracho (Chebracio). Di questi ultimi, il primo s’incentra su uno sciopero rurale nell’estremo sud nel 1921, stroncato dai militari, ed è dovuto a Hector Olivera, con Ayala proprietario della principale casa di produzione, l’Aries. Il secondo segna l’esordio di Ricardo Wulicher che, in una sorta di finzione documentata,

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dà un mosso quadro di lotte degli anarchici negli anni VentiTrenta, represse dal corpo speciale dei cardinaies, al soldo di una multinazionale inglese. Un caso a sé è quello di Raul de la Torre, come il «gruppo dei cinque» e come lo stesso Sola­ nas, venuto dal cinema pubblicitario. Autore di alcuni inte­ ressanti film «teatrali» commisti di elementi di attualità, si è spinto con La revolution (La rivoluzione, 1973) ai limiti di una «meditazione sull’essere argentini attraverso un parallelo con i modelli del passato», forse confusa, eppure sintomatica di un momento del paese, piombato invece dopo la morte di Perón nel ’74 sotto il terrore fascista del regime di Isabelita e della sua anima nera Rega, e poi nel ’76 vittima di un nuovo golpe militare.

La lunga notte Terrore di stato e dei suoi squadroni della morte, snaziona­ lizzazione dell’economia, inflazione che ha toccato punte del 900 per cento. Gleyzer, Szir, Juarez, gli scrittori Rodolfo Walsh e Haroldo Conti sono desaparecidos nelle carceri dei militari, uccisi. Cédron è morto nel 1980 in Francia, in circo­ stanze oscure. Il cinema vive i problemi di quella che Mario Benedetti chiama una «cultura dispersa». Solanas a Parigi ha realizzato Le regard des autres (Lo sguardo degli altri, 1980), sugli handicappati, la loro solitudine e visione del «normale», Vallejo, Murùa, Kuhn sono a Madrid, Rios in Messico, Getino in Perù. In patria si fanno sempre meno film, nel ’76 e nell’81 poco più di una decina, farse erotiche o con un can­ tante o una star locale della tv, mentre il mercato è invaso dai prodotti stranieri. Quelli che si sono visti, e sono forse i migliori, sono allusivi, chiusi in universi separati, come l’alle­ gorico La isla (L’isola, 1979) di Alejandro Doria, come pare siano i film di Wulicher, Renan, Kohon, Favio, perlopiù modesti, come lo stesso esordio del figlio di Torre-Nilsson, Javier, Fiebre amarilla (Febbre gialla, 1982), su un’epidemia del xix secolo. La fantasy che Mario Sabato ha tratto dal libro del padre Ernesto, El poder de las tinieblas (Il potere delle tenebre, 1979), perlustra l’ossessione di un potere occul­ to, di un mondo dominato dai ciechi. Percorso da segni di morte è El inferno tan temido (L’inferno tanto temuto, 1979), 400

ispirato a De La Torre da un racconto di Onetti. Vi si ritrova, insomma, un «clima», ed è esso che dà spessore agli acuti thriller di Adolfo Aristarain (n. 1943), il più dotato dei nomi nuovi e già regista di seconde unità hollywoodiane. Ciò più in Tiempo de revancha (Tempo di rivincita, 1981), in cui un operaio ex sindacalista si chiude nel mutismo e infine si muti­ la per ricattare una multinazionale, che non nella più esterio­ re variazione sul tema del doppio di Los ultimos dias de la victima (Gli ultimi giorni della vittima, 1982). E dal duo della Aries, Ayala e Olivera, che è venuto il segno di una situazione che, nonostante una spaventosa in­ flazione e la pesante censura, stava cambiando. Una diversa tensione morale c’è nelle commedie di osservazione sociale e popolare del primo {Plata dulce, Denaro facile, 1982; Elarreglo, L’arrangiamento, 1983), e nell’abilissimo No habras mas pena ni olvido {Piccola sporca guerra, 1983) del secondo, mes­ sa in scena in chiave grottesca, sulla base del romanzo di Osvaldo Soriano, della confusione peronista, della sua dop­ pia anima in un derisorio e tragico paesino. E nomi nuovi s’impongono, come quello della non più giovane Maria Luisa Bemberg, autrice di Camila (Camilla, 1983), raffinato melo­ dramma in costume di implicazioni contemporanee e di grande successo, e poi di Miss Mary {id., 1986), preciso e accuratissimo «interno» di una aristocratica e reazionaria famiglia di proprietari terrieri negli anni 1938-45, visto attra­ verso lo sguardo straniero di un’istitutrice inglese (una straordinaria Julie Christie). Dopo il ritorno alla democrazia con l’elezione a presidente del radicale Alfonsin, alla fine del 1983, Bebe Kamin ha potu­ to raccontare la guerra delle Malvine in Los chicos de la guerra (I ragazzi della guerra, 1984), piuttosto didascalico nelle vicende esemplari di tre ragazzi di diversa estrazione sociale, ma capace di vederne le radici nella violenza della dittatura e di renderne il clima di gelo naturale e morale, mentre con La historia ofìcial {La storia ufficiale, 1985, pre­ mio Oscar ’86 come miglior film straniero) Luis Puenzo si cimenta con il tema dei desaparecidos nelle cadenze di un racconto intimista e un po’ accademico, narrandolo, non senza accortezza, dalla parte del «fascismo quotidiano», ri­ spettabile, benpensante. In questa chiave, di bel cinema umanista di sentimenti personali che s’intrecciano con le la401

aerazioni storiche, Alejandro Doria, dopo l’interessante Darse cuenta (Rendersi conto, 1984), ha raccontato con Sofìa (id., 1987) un ’78 di dittatura e desaparecidos attra­ verso il rapporto di un adolescente e una militante ricerca­ ta, cioè rincontro di due solitudini «esistenziale l’una, poli­ tica l’altra». E Alberto Fischerman, senza rinunciare al suo intellettualismo, ha tracciato con Los dias de junio (I giorni di giugno, 1985) un non troppo originale ma sentito bilan­ cio di un gruppo di intellettuali dopo la guerra delle isole Malvine. Nel 1985 Solanas torna alla ribalta con Tangos. El exilio de Gardel (Tangos. L'esilio di Gardel}, prima coproduzione fran­ co-argentina, film sui rifugiati argentini a Parigi, tanguedia (tango + commedia + tragedia) sull’esilio come triste carne­ vale, assenza, perdita, nostalgia del ritorno in cui i toni drammatici e dolorosi si mescolano con quelli ironici (autoi­ ronici) e allegri, ma anche film politico che s’interroga sulle radici della storia, della cultura, della musica argentina, sul cinema e sull’arte con una matura padronanza dei mezzi espressivi che non esclude i rischi dell’originalità. È il risulta­ to più compiuto di un cinema che rinasce e che ha visto risalire la produzione a una cinquantina di film all’anno. Lo è ben più di La pelicula delRey (id., 1986) dell’esordiente Car­ los Sorlin, Leone d’argento alla Mostra di Venezia ma ma­ nierato racconto delle surreali vicissitudini di una troupe in Patagonia, e Pobre mariposa (Povera farfalla, 1986) di De La Torre che spreca un bello spunto — l’arrivo dei nazisti in fuga nel ’45 — dovuto ad Ada Bortnik (sceneggiatrice anche di La storia ufficiale), con una regia retorica.

IL «TERGER CINE» IN URUGUAY

La stessa sorte ha subito, e continua a subire, sull’altra sponda del Rio de La Piata, il cinema uruguayano dopo il 1978, dopo il golpe militare che ha brutalmente interrotto una tradizione di relativa libertà e democrazia. Prima della repressione c’era nel paese una diffusa coscienza cinemato­ grafica, attivata da cineclub, cineteche, concorsi, ricerche teoriche universitarie, diffusione di film d’arte e politici. Po­ 402

chi i cineasti, ma dediti a mettersi in rapporto con la realtà nazionale. La funzione di far riscoprire gli uruguayani a se stessi caratterizza negli anni Sessanta il lavoro di Ulive e di Hand­ ler. Un vinten p'al Judas (Un soldino per il Giuda, 1959) è un mediometraggio neorealista sui bambini che raccolgono mo­ netine per il loro pupazzo natalizio, via via svelando il grigio­ re morale della gente di città. Como el Uruguay no hay (Come l’Uruguay non ce n’è, 1961) distrugge con rabbia da pam­ phlet i miti derisori del benessere uruguagio. Carlos (Carlo, 1965) intesse un referto diretto di bichicome, di barbone. Re­ gista dei primi due era Ugo Ulive, Mario Handler lo era dell’ultimo; insieme hanno poi realizzato Elecciónes (Elezio­ ni, 1967) che traccia una dura, amara satira delle elezioni in cui la gente è usata, manipolata. Vi era riflessa una crisi di sfiducia totale, un radicalizzarsi della lotta politica che pone anche per i cineasti la necessità di una presenza attiva. E questa del cinema militante, del tercer cine, la logica conclusione di un processo. Sono così sorte teorie estreme di «cinema imperfetto», di «cinema primitivo», nei casi limite di quattro minuti, a 8 mm, di qualsiasi formato, e dove tutto è rigorosamente funzionale alla necessità politica. Handler e il gruppo della Cineteca del Tercer Mundo usano le tecniche del documentario in funzione didattica, di intervento, come mostrano i cortometraggi Me gustan los estudiantes (Mi piac­ ciono gli studenti, 1968), per Guzman un «piccolo capolavo­ ro di cinema emergente», un film «neolitico», Uruguay: el problema de la carne (Uruguay: il problema della carne, 1969), su uno sciopero in un settore chiave e Liber Arce (id., 1970), su uno studente ucciso dalla polizia il cui nome diven­ ta sinonimo di liberazione. Nei film anonimi della Scuola di Belle Arti, come La pelicula (Il film, 1970), si tenta invece di innestare una riflessione politica su una base di esperimenti visivi e sonori. Degli stranieri, più che Costa-Gavras con Stato d'assedio, è lo svedese Jan Lundqvist a proporre con Tupamaros (id., 1973) un incisivo documento sia per il qua­ dro della situazione che traccia, sia per il suo materiale di interviste clandestine, in parte girate dagli stessi militanti, cioè un documento che nasce, come discorso politico e come fatto filmico, dall’interno del movimento. Tutto sembra, pe­ rò, spegnersi in questi anni tra dittatura, crisi economica, e

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chiusura delle sale; un’eccezione in ogni senso è il lungome­ traggio di Juan C. Rodriguez Castro, Mataron a Venancio Flores (Hanno ucciso V.F., 1982), prodotto dalla Cineteca e incentrato sui conflitti politici del xix secolo.

IL CINEMA CILENO E UNIDAD POPULAR

Accanto a sporadici fermenti nel campo documentario, ispirati a Ivens e Morin, e a una certa ricerca teorica promos­ sa dal festival di Vina del Mar, il cinema cileno si era sempre ridotto a formare tecnici e a girare dei film, pochi, d’evasione borghese. Le stesse rare cose «nuove» apparse dopo il ’60, dopo la fine del «decennio delle ombre» in cui si erano pro­ dotti in tutto tredici film, di cui cinque diretti da cineasti stranieri, erano segnate da un tono social-cristiano alla Frei, assai neutro. Alvaro Covacévic ne dà un buon esempio con Morir un poco (Un po’ morire, 1967), che resta uno studio sincero dei piccoli problemi di gente modesta. Sarà su basi di intervento politico che, a partire dal ’68, per influsso di altre esperienze latino-americane, nascerà un «altro» cinema, ca­ ratterizzandosi con i lungometraggi di Littin, Ruiz, Francia, Soto e anche Comejo, come critica della classe dominante e dei suoi corrotti istituti, giudiziari, militari, sociali, e tentan­ do con film brevi, documentari di Bravo, Chaskel, Hùbner, Ramirez, di farsi rivelazione dei dati veri del sottosviluppo. Questi registi trovarono un ruolo e uno spazio più ampio e complesso dopo il ’70, nel clima di riforme e mobilitazione delle masse del governo Allende. Si tentò anche nel cinema di modificare le strutture di base riorganizzando la Chile film, ente di stato che in realtà risultò efficace solo nel campo dei documentari di analisi sociale e dei servizi di informazione e attualità. Di fatto, più che di un cinema di stato di stampo socialista, si trattava di un settore a «doppio regime», con un’area privata e un’area pubblica soggetta ai ricatti dei pre­ stiti bancari. Così condizionato, l’ente pubblico non potè e non seppe, anche per propri errori, farsi vero centro motore. Solo in parte si attuarono le scelte che con Miguel Littin direttore tendevano a creare nuclei decentrati di lavoro, e che poi con Eduardo Paredes, già capo della polizia e in seguito 404

ucciso dai golpisti, puntavano a nazionalizzare un certo nu­ mero di sale e a curare i cinegiornali. Gli stessi autori di punta (nel cui manifesto, Un cinema per il popolo, erano già poste nel '70 le questioni del rapporto artista e classi popola­ ri, di una cultura che nascesse dai valori e dalle lotte delle masse, di una forma che sapesse parlare ai propri destinatari, cose rimaste per larga parte sulla carta) furono costretti a fare i conti con una realtà complessa e difficile a ogni livello. Di scarsità di mezzi tecnici, di «schermi vuoti» a causa dell’o­ struzionismo attuato dalle società di distribuzione, nel 90 per cento americane. Per di più, per opportunità di ordine pub­ blico o per ostacoli di esercenti, i loro film spesso non erano visti nelle sale, ma proiettati e discussi in officine, sindacati, sedi sociali, o in apparati d’esercizio alternativi. Subentraro­ no le insofferenze per i tatticismi di Unidad popular e per la disorganizzazione del settore; vennero a galla fughe e nostal­ gie che portarono gli uni a rivendicare i propri, se si vuole giusti, diritti di creatori, di «artisti», e altri, rari, a cercare volontaristicamente la propria scomparsa nel lavoro all’in­ terno dei nuovi organi di potere proletario di base. Fuori di questo contesto, vitale ma frammentato, non è possibile valu­ tare il vero senso dei film, in ogni caso sintomatici, però nel loro insieme ricchi di fermenti e contraddizioni più che di soluzioni originali. L'autore: Raul Ruiz Riti e miti imposti dai mass media, comportamenti e manie linguistiche delle persone e dei gruppi, dei clan, dei partiti, le false immagini del paese e della realtà, cioè il «grado zero della cilenità» come lui stesso li definisce, sono captati, fissati, decostruiti con stramba ma lucida, e alla fine utile, intelligen­ za nell’opera di Raul Ruiz (n. 1941). Non-senso, surrealtà erano le sue armi sin da Tres tristes tigres (Tre tigri tristi, 1968), dal romanzo del cubano Guillermo Cabrera Infante, sonnambolico gioco a tre di disfacimento e rabbia repressa in un lungo fine settimana in una Santiago sotterranea, dove la ferocia nasce dall’oppressione. Ma Ruiz si espresse soprattut­ to in un gioco tutto umorale, pervicacemente personale, su una quotidianità deforme. È un gioco a volte irritante, come

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in Nadie dijo nada (Nessuno disse niente, 1971), troppo inter­ no alla pittoresca noia dei recinti intellettuali; il suo gusto ironico, scettico, il suo pensare per paradossi che ne costitui­ sce il produttivo limite, è però la forma con cui esplora le relazioni sociali, con cui dice altre, non dette verità. Così L’expropriation (L’espropriazione, 1971) tratta della riforma agraria in funzione della comune origine di classe tra latifon­ dista e agronomo espropriatore, in una gustosa e infine tragi­ ca riscoperta di riti e ricordi; e lo stesso distacco caustico e propenso a vedere le cose per partito preso da una prospetti­ va ribaltata, come per paura del «discorso unico», informa tutti i suoi film, da El tango del viudo (Il tango del vedovo, 1967-71) a Realismo socialista (id., 1972), a Palamita bianca (Colombina bianca, 1973). Poi, con Colonia penai (Colonia penale, 1970), da uno spunto kafkiano e soprattutto dal film di Borowczyk, Goto, sfuma in un incubo raffinato, metafisi­ co, di repressione e miseria, di voluta distanza dal reale e dalla liturgia politica. Vero «autore», con una personalità culturalmente ricca e inquieta, «libero», irregolare, che non sta fermo sulle posizioni, che difficilmente rifinisce i suoi film dopo averli improvvisati in pochi giorni di riprese, Ruiz sem­ bra trovare nel lavoro, distruttivo e affascinato, sugli stereo­ tipi, sulle idee pietrificate, una continuità anche nell’esilio con le sue tensioni profonde. L'impegnato: Soto Altro polo tipico di questo cinema è stato quello sartriano rappresentato da Helvio Soto (n. 1930). Giornalista, direttore di Canale 7, è l’intellettuale cosciente, critico, che vuole sca­ vare all’interno del versante morale della lotta politica, ri­ vendicare verità scomode e sovente accantonate, siano esse la ripulsa dell’azione come droga o un classismo impoverito, fideistico, viste però in una luce esistenziale, etica e non «poli­ tica». Dopo un paio di film che in anni difficili tentavano di introdurre una «sensazione di realtà», aveva dato con Caliche sangriente (Salnitro insanguinato, 1969) una sorta di western militare, proibito dal governo Frei per «offesa alla dignità nazionale». In effetti, l’odissea di una pattuglia sperduta e i contrasti tra due ufficiali servivano, soprattutto, a mettere a

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nudo le basi economiche (cioè, le miniere di salnitro) che stavano dietro tutta la retorica sull’eroica guerra del Pacifico del 1879. Saranno, però, i due film fatti sotto il governo popolare, Voto + Fusil (Voto 4- Fucile, 1971), in cui la crisi ideologica di un intellettuale borghese si fa filo conduttore delle «attualità» su clima e fatti della campagna elettorale, e Metamorfosis de un jefe de policia (Metamorfosi di un capo della polizia, 1973), ispirato alla figura vera di Paredes come esempio di dubbio critico e attivo, a suscitare polemiche e aspre accuse da parte di altri cineasti di sinistra. Non piena­ mente risolti nella tentata fusione di fiction e documenti in presa diretta, i suoi film vogliono essere una riflessione su interferenze e mutamenti, indotti anche nella coscienza e nelfesistenza personali dai fatti collettivi; si arenano però in una visione da «anima borghese» nelle cui esitazioni, paure e insofferenze sono solo in parte riflessi i problemi di tutti.

Littin: le forme di una cultura di classe

Con Miguel Littin (n. 1942) si ha un più complesso tentati­ vo di radicarsi nei valori e nelle forme di una sottocultura popolare, di miseria, anche se nei risultati mai superando il rigore critico «borghese» di El chacal de Nahueltoro {Lo scia­ callo di Nahueltoro, 1970). Desunto da un fatto di cronaca, è un’« odissea sociale di un condannato a morte» che mostra come coloro che condannano un essere umano a una vita da bestia, da emarginato senza scampo, siano poi gli stessi che fanno giustizia. Vi sono ripercorse in termini razionali le condizioni in cui nascono i crimini di questo «mostro», ne­ gando infine i valori della legge borghese, in nome di quella parte contadina su cui la pena capitale è esercitata ogni gior­ no come fame e violenza occulta. La tierra prometida {La terra promessa, 1973) cerca di rendere dall’interno l’altra fac­ cia della stessa realtà, cioè occupazioni di terre, comuni pro­ letarie, massacri, qui concentrati nella breve esperienza socia­ lista del giugno 1932, nella linea di quel ricupero della memo­ ria collettiva, di una storia non scritta che è nodo centrale, ossessivo per i cineasti latino-americani. Ciò che conta in questo apparente passo indietro, troppo giocato tra una vi­ sione da eden liberato e il moralismo sulla decadenza dei 407

potenti, è che Littin, con il suo stile barocco che ricalca arti popolari, cerca di farsi espressione di un mondo con una sua cultura profonda, componente essenziale della quale è una religione istintiva, popolare, superstiziosa, ma contrapposta a quella istituzionale, e che si fa carne e sangue dell’esistenza contadina e funzione della rivolta. C’era, cioè, almeno la base per un’integrazione attiva nell’esperienza di un popolo, in un processo politico che ha saputo documentare con Compatterò presidente (Compagno presidente, 1971), imperniato su un’intervista-discussione di Régis Debray ad Allende. In questo cinema, posto sotto il duplice segno della «com­ promissione politica» e della «ricerca personale» (Zuzana Pick), era in atto un comune e diffuso sforzo di riflessione sul reale, anche se non ancora espresso in vere sintesi, in film di vero rilievo. Così è per i racconti veristi sui pobladores come Los testigos (I testimoni, 1971) di C. Elsesser. Così è per Aldo Francia (Valparaiso 1923), medico, cristiano, che può appa­ rire regista un po’ schematico nel suo uso di toni neorealistici a proposito delle sciagure di una famiglia povera in Valparai­ so, mi amor (Valparaiso, mio amore, 1969) e di modi didasca­ lici in Ya no basta rezar (Non basta più pregare, 1972), itinera­ rio di un prete che passa dalla «chiesa del padre a quella dei fratelli, e infine a quella dei compagni», capace, però, di proporre temi ed elementi essenziali di dibattito, in una vi­ sione della vita degli umili, soprattutto dei bambini, non neutra ma riscattata da un richiamo all’azione, da intenti mobilitanti.

Il documento sociale

Lo stesso si può dire per il cinema diretto, scarsamente sperimentato nelle sue potenzialità d’espressione e d’uso di­ versi. Se nemmeno nel campo documentario ci sono state innovazioni radicali, qui però la sinistra ha messo in atto un serio sforzo per darsi mezzi di comunicazione propri che, insieme al canale televisivo di stato, a radio popolari, a gior­ nali operai e femminili, formassero un’infrastruttura diversa e parallela a quella borghese. Diffusi da unità mobili, i filmdocumento si sono assunti la funzione di informare, di dare dati precisi, forse più nel senso di denuncia, di giusta propa­ 408

ganda, di ricerca del consenso, forti delle esperienze fatte negli anni Sessanta con l’universitario Cine experimental di Sergio Bravo e poi di Pedro Chaskel, che non di vero scavo. Alcuni hanno sentito l’urgenza di registrare le sempre più veloci fasi di lotta politica, con un reportage quotidiano, utile ma disperso e in perenne rincorsa degli eventi, rubando, co­ nfò il caso di El primero ano (Il primo anno, 1972) e La respuesta de octubre (La risposta di ottobre, 1972), di Patricio Guzman, non più di qualche incisivo frammento, sommerso da piatte interviste da cui non emerge di certo la complessa verità dei fatti. La coscienza del ricupero di strumenti più affilati era però ben presente e primaria in alcuni cineasti, capofila lo stesso Guzman. Non senza discreti risultati iniziali, da Escuela San­ ta Maria de Iquique (Scuola S. M. de I., 1971) di Claudio Sapiain, che ripercorre con forza discreta e suggestiva luoghi, episodi, testimonianze di un massacro di 3500 minatori del salnitro nel 1907, a No es hora de llorar (Non è ora di piange­ re, 1971), impressionante e didattica testimonianza di Pedro Chaskel sulle torture subite da cinque rivoluzionari brasilia­ ni, che è quasi una tragica premonizione della condizione cilena, da certi spunti di Cahn, Ramirez, Hiibner, Mallet, Larrain a Entre ponerlo y no ponerlo (Fra porlo e non porlo, 1972) in cui Humberto Rios, commistionando i soliloqui di un alcolizzato e dati scientifici, propone un tragico ritratto di una piaga che abbrutisce numerosissimi proletari eppure è una fuga da una condizione bestiale. Era questa già l’indica­ zione di un efficace intervento su un problema preciso, come su un piano di riflessione politica lo era Citando el pueblo se despierta (Quando il popolo si desta, 1973) che, vicino alle tesi del mir, era quasi una sintesi, quasi un quadro totale tracciato subito prima dello scontro decisivo, su lotte delle masse e forme di contropotere di base, occupazioni di terre e tesi di «governo operaio», «spirito della borghesia» e scioperi di momios, non senza fatali e tipiche illusioni sul ruolo delle forze armate e delle multinazionali. Cioè, i promotori del golpe dell’11 settembre 1973, che segna la fine del governo di Unidad popular, con la morte del presidente Salvador Allen­ de nel palazzo della Moneda e con l’instaurazione del regime fascista del generale Pinochet.

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Il resistente: Guzman Sarà come forma di resistenza che questo tipo di cinema darà i suoi frutti più complessi. Soprattutto con La batalla de Chile (La battaglia del Cile) che, con l’aiuto del cubano icaic, Patricio Guzman ha montato negli anni ’73-76. E un impres­ sionante documento dal vivo di un processo di mutamento sociale di cui si fa consuntivo critico. Nella prima parte, «L’insurrezione della borghesia», la sua analisi si affida a casi concreti, lascia parlare in lunghi piani-sequenza persone, si­ tuazioni, fatti; tesse così il quadro dei mesi tra marzo e giu­ gno ’73: con accaparramento di viveri, sabotaggio del lavoro della camera dopo le elezioni parziali favorevoli ad Allende, trame dei gruppi fascisti di Patria e libertà, ma anche con contraddizioni operaie come lo sciopero di 76 giorni dei mi­ natori di El Teniente. In chiusura, il putsch di giugno, ripreso dall’operatore argentino Larsen che cade sotto i colpi dei sedizionisti. Di un’analoga dialettica è la seconda parte, «Il colpo di stato», ossia le lacerazioni in seno a up, tra un gover­ no che agisce nei limiti della legalità borghese e un popolo che lotta su fronti più avanzati, e il clima di guerra civile che sfocia nel bombardamento della Moneda e l’instaurazione della giunta. È, però, un discorso che non si chiude, e nella terza parte, forse la più nuova, è appunto «Il potere popola­ re» a essere discusso da operai e contadini, cioè le nuove forme di organizzazione politica ed economica, dai cordones alla gestione di fabbriche e cooperative commerciali. Guz­ man ha poi continuato il suo discorso con la sua prima fic­ tion, La rosa de los vientos (La rosa dei venti, 1983), discussa ma viva favola magica sulle radici culturali e sulla secolare lotta dell’America latina per l’indipendenza. A Cuba, a Berlino e nella rdt, in Svezia, sono portati a termine altri film-documento di Ramirez, de La Barra, Fa­ jardo, Sapiain, Chaskel, Meneses, Gonzales, Tirado, Valeria Sarmiento. Si vedono, fra l’altro, immagini dall’interno del­ l’universo concentrazionario, dai funerali di Neruda nel ’73, pochi giorni dopo il golpe, sino alle prime giornate di protesta contro Pinochet nell’83, documentate da Chile no invoco tu nombre en vano (Cile non invoco il tuo nome invano, 1983) del collettivo Cine-ojo. Da parte sua, Los puhos frente al canon (I pugni contro il cannone, 1975), realizzato da Orlan-

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do Liibbert e Gastón Ancelovici con ottimo e quasi tutto inedito materiale d’archivio, fortunosamente portato all’e­ stero, si fa studio preciso dei processi di formazione della classe operaia cilena. Vi si ritrova il filo rosso di forme e luoghi di lotta, di sangue, che lega le prime, incerte organiz­ zazioni d’inizio secolo alla coscienza degli anni Trenta e poi a up, movimento di classe determinato nei suoi caratteri dal­ le proprie origini e dalla natura dei propri nemici, interni e stranieri. Ma il tema del Cile è stato oggetto di decine di film di diversi paesi e a diverso titolo militanti, fra cui spic­ cano per qualità di analisi La spirale commentata da Chris. Marker e, per i materiali proposti, i lavori di Heynowski e Scheumann. Un cinema in esilio

Caso unico, lo stesso cinema cileno riesce a sopravvivere fuori del proprio paese, producendo in dieci anni più di no­ vanta film di vario metraggio, documentari e di finzione. Ruiz inizia con un atto di rottura, Diàlogos de exilados (Dia­ loghi di esiliati, 1974), smontaggio più godardiano che brech­ tiano della «sacra» figura dell’esule. Con un uso libero, cau­ stico del suo narrare per «pezzi» di realtà in chiave di para­ dosso, stabilisce una distanza rispetto a manie e modi di comportarsi «come se» up fosse ancora una realtà. Egli non sarà uno di quegli «ebrei polacchi che, alla vigilia della se­ conda guerra mondiale, filmavano a New York scene am­ bientate a Varsavia, con dialoghi in yiddish». Le condizioni in cui il film è fatto diventano uno degli elementi in gioco. Tra film corti e lunghi che smascherano e sperimentano l’a­ rea di finzione del documentario e stnaX/feuilleton, commis­ sionati, manomessi da varie televisioni, prende corpo un gio­ co mobile, che di continuo muta scala. Che si fa riflessione pura. La vocation suspendue (La vocazione sospesa, 1977), da Klossowski, perlustra per tortuose vie teosofiche riti, querelles e sistema di rapporti all’interno di un’altra istituzione, la chiesa cattolica. L’hypothèse du tableau volé (L’ipotesi del quadro rubato, 1978) è uno studio teorico delle possibilità di «relazioni e malintesi tra ciò che si mostra e ciò che si dice». Ruiz pratica un cinema di idee che con metodo sperimentale 411

si costruisce i limiti del proprio campo di ricerca, esplora un suo territorio che può essere quello del film d’orrore, appun­ to con The territory (Il territorio, 1981), oppure quello del «mistero della lingua», della comunicazione, con Het dak van de walvis (Il tetto della balena, 1982). Sino al mitico, logico, orrorifico racconto di viaggi di Les trois couronnes du matelot (Le tre corone del marinaio, 1982), sino alla fantasia crudele di un Peter Pan in un mondo di rovine di La ville des pirates (La città dei pirati, 1983), in una serie senza fine, giunta ormai a una cinquantina di titoli, circolare come i suoi mon­ di, ma unificata da un’incredibile capacità di produrre im­ magini e cinema. È il suo modo di vivere il rapporto con la cultura europea comunque colonizzatrice, un modo coerente con la sua vocazione eretica, con il suo sincretismo culturale e linguistico di recente ancora espressosi con due personalis­ sime reinvenzioni di classici teatrali: Richard ni (Riccardo ni, 1985) e La vida es sueno (La vita è sogno, 1986). Da parte sua, Percy Matas rovescia la situazione dei Diàlogos di Ruiz, di cui era stato assistente e attore, con Los trasplantados (I trapian­ tati, 1975), freddo studio di comportamenti di una famiglia altoborghese in sdegnoso esilio sotto Allende. Littin, invece, continua le sue «variazioni di massacri», risolte in azioni simboliche. Siano esse ricostruzioni di fatti storici come Aetas de Marusia (id., 1976), sul fascismo all’o­ pera in un villaggio minerario nel 1907, o siano ingenui e didascalici apologhi ispirati all’attualità continentale, come il nicaraguegno Alsino y el condor (A. e il condor, 1982), Littin vi appare cineasta a forti propensioni accademiche. Il suo segno è più turgido in senso epico-populista che non barocco. In ogni caso, non visionario, come avrebbe richiesto, per esempio, La viuda de Montiel (La vedova di M., 1980), in cui la «follia» dell’eroina di Garcia Màrquez appare appiattita, solo illustrata. Più riuscito è El recuerso del metodo (Il ricorso del metodo, 1978), bell’affresco d’epoca che si fa analisi della figura del dittatore, anche se il testo di Alejo Carpentier appare impoverito in due elementi portanti, quella forma magico-realistica che esprime la non-razionalità cartesiana della realtà latino-americana e quell’intersecarsi delle culture, matrice di distorsioni e afasie di fronte al «nuovo». Questa vasta coproduzione che riunisce gli attori Nelson Viliagra e Alain Cuny, il saggista Régis Debray e il poeta Jaime Shilley,

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ha comunque il merito di porsi e porre i problemi del pubbli­ co, di un proprio spazio nel mercato internazionale. Se li pone anche Soto, e li risolve male nell’edificante // pleut sur Santiago (Codice 215: Valparaiso non risponde, 1975), con Trintignant, Bibi Andersson, la Girardot, e appe­ na meglio nel poliziesco di ambizioni letterarie e politiche La triple muerte del tercer personaje (La triplice morte del terzo personaggio, 1979). Più dentro a una condizione ci appaiono i più modesti ma sensibili racconti d’esilio canadese di Marilù Mallet (Journal inachevé, Giornale incompiuto, 1982) o fin­ landese di Angelina Vasquez che in Gracias a la vida (Grazie alla vita, 1980) racconta per tocchi delicati il caso di una donna rimasta incinta dei suoi torturatori, o il trittico No hay holvido (Non si può dimenticare, 1976) o il ritratto immagi­ nario di Neruda di Ardente paciencia (Pazienza ardente, 1982) che nella rft intesse lo scrittore Antonio Skarmeta; e le cica­ trici del presente sono ben visibili nel film russo di Sebastian Alarcón (La calda del condor, La caduta del condor, 1981), su un gruppo di prigionieri politici, e soprattutto in El paso (Il passaggio, 1979), produzione rdt in cui O. Lùbbert evoca una fuga-inseguimento dopo il golpe. Dentro il regime

La giunta militare di Pinochet ha tentato invano di monta­ re un pamphlet sugli «orrori di up», affidato a German Bec­ ker, già ideologo della campagna elettorale di Frei nel ’64 e autore di un bolso polpettone di successo, Ayudame usted, compadre (Mi aiuti lei, compare, 1967), pieno di luoghi co­ muni sulla «ciienità». Dopo il ’77, pur tra censure e difficoltà (anche economiche: inflazione e concorrenza della televisione a colori hanno ridotto i cinema di Santiago da 410 a 100, e hanno permesso di produrre non più di quindici film in dieci anni), s’è formato un piccolo gruppo di cineasti indipendenti che unisce i «vecchi» Carlos Flores e Guillermo Cahn e i giovani Carmen Neira, Jaime Alaluf e Benjamin Galemir con il loro lodatissimo Invernadero (Serra, 1981), Christian San­ chez con l’ossessivo e «iniziano» El zapato chino (La scarpa cinese, 1979) e Los deseos concebidos (I desideri concepiti, 1982) e Silvio Caiozzi, come gli altri protagonista anche di 413

un’interessante attività in video. Il suo secondo film, Julio comienza en julio (Julio comincia in luglio, 1979), è ^educa­ zione sentimentale» di un quindicenne rampollo di latifondi­ sti, film calligrafico, ma non per questo meno privo di vigore anticlericale e antiborghese, a riprova di una non assoluta distanza tra chi è dentro e chi è fuori. Del resto, è con l’aiuto di Ruiz che Sergio Bravo ha potuto finire all’estero, in Fran­ cia, No eran nadie (Non erano nulla, 1981), racconto lirico della realtà dei familiari degli scomparsi, vittime delle forze della natura come di quelle della politica. Ai margini del sistema l’esordiente Gonzalo Justiniano ha realizzato il suo Los hijos de la guerra fria (I figli della guerra fredda, 1985), mordente commedia di miserevoli costumi della classe me­ dia, calata in un preciso clima di violenza e di paura sempre più sfumante verso l’allegoria. In incognito, Miguel Littin, uno dei cinquemila cileni cui è fatta proibizione assoluta di tornare in patria, è riuscito a girare, grazie a una complessa operazione della resistenza interna e di alcune televisioni europee, Acta general de Chile (Documento generale del Cile, 1986), film-beffa che è un ampio ritratto dall’interno del Cile di Pinochet, che ha l’andamento di un referto immediato, più vissuto che retorico e ideologico nonostante l’eccessivo uso dell’intervista di taglio televisivo. Spartito in quattro parti organiche di un’ora ciascuna, è un viaggio di testimonianza umana e politica che si muove tra Santiago e Valparaiso, la normalità e il dolore, borghesi e resistenti, manifestazioni e repressioni, il nord delle miniere sotto il controllo dell’eserci­ to e il sud degli araucani e dei passaggi clandestini, la casa abbandonata di Neruda e la persistente presenza di Allende, perché — dice Littin — « Allende è la storia, e la storia non si può uccidere».

I PAESI ANDINI

Per numerosi paesi, il problema primario non è stato solo quello di rompere con un passato e una realtà presente di cinema colonizzato, bensì anche quello di darsi le necessarie basi economiche e tecniche di produzione. In Paraguay ed Ecuador non si realizzano normalmente film nazionali, tanto 414

meno che siano espressione delle proprie culture così distorte nel populismo dei dittatori al potere. A smuovere le acque sono stati rari documentari, nel primo caso quelli di Carlos Saguier di cui pare di buon livello El pueblo (Il villaggio, 1969), nel secondo le ricerche stimolate, dieci anni dopo, dal concorso di una rete televisiva. Se non mette conto fare menzione di un cinema di imita­ zione parassitaria, nordamericana o messicana, nelle nazioni andine di relativo sviluppo, si riscontrano con gli anni Ses­ santa alcuni solitari segni di mutamento, di rado protetti, più spesso contrastati dai detentori del potere, e che si muovono nella sostanza secondo due linee di lavoro serio e marginale. Gli uni, dentro la finzione narrativa, tentano di riscattare procedure formali di decoro e di dare un’immagine, sia pur cauta, della propria realtà. Così José Maria Arzuaga, naturalizzato colombiano, si serve di un neorealismo primitivo per rompere il silenzio imposto su una miseria vissuta giorno per giorno. E, se in Raices de piedra (Radici di pietra, 1963) sfiora appena la logica di un raponero, uno sbandato degli alluci­ nanti barrios bogotani, in Pasado el meridiano (Oltre il meri­ diano, 1968) riesce a raccontare con più precisione, attraver­ so lo sguardo di un proletario, un ascensorista, violenza e cinismo borghese. Però, vi si sente qui sia la scarsità di mezzi, sia l’inesistenza di un retaggio autoctono di ricerca. In Colombia, sino al 1957 si realizzava un film all’anno a opera di cineasti «paracadutati» da vari paesi. Perciò, arche­ tipi, luoghi comuni, poeticismi del subumano, spesso intrec­ ciati con la visione desarollista del Fronte nazionale, partito unico che ha dominato il paese per venticinque anni, e con un tocco di raffinatezza per chi si è formato nelle scuole di cine­ ma straniere, si presentano come pericolose e naturali tenta­ zioni. Come mostrano, per esempio, i film di Julio Luzardo, Tres cuentos colombianos (Tre racconti colombiani, 1964, il terzo dei quali diretto da A. Mejia) ed Elrio de las tumbas (Il fiume delle tombe, 1965), o gli stessi isolati tentativi, negli anni Ottanta, di racconto più complesso di Francisco Norden e Carlos Mayolo, e soprattutto di Luis Ospina con il suo humour nero applicato ad alcuni casi di vero e proprio vam­ pirismo di classe avvenuti a Cali (Pura sangre, Sangue puro, 1983), e Jorge Ali Triana con Tiempo de morir (Tempo di morire, 1985), coproduzione con Cuba premiatissima anche 415

all’estero, ma che non è più di una corretta messa in scena di un soggetto di Garcia Marquez, una sorta di western di vio­ lenza rurale, già portato sullo schermo da Ripstein in Messico nel ’65. Riorientare i temi, le forme è un processo faticoso, contra­ stato. Pure nelle forme più smaliziate si riscontrano i segni residui di matrici culturali di dipendenza. Lo mostra, in Perù, il lavoro di Armando Robles Godoy, coi suoi miti d’autore che rendono artificiosi Ganaras el pan (Ti guadagnerai il pa­ ne, 1965) o La muralla verde (La muraglia verde, 1969). Più che mai sofisticato, Espejismo (Illusione, 1973) col suo turgo­ re visionario vuole essere sintesi di una condizione umana, i cui sogni, deliri, oscure tragedie sono in realtà visti secondo una concezione di angoscia e di nausea scoperta sotto altri cieli. Oltre i limiti personali, si pone però il problema dell’as­ senza di un contesto di lavoro continuo che rende ancor più difficile toccare un pubblico normale. Una svolta in questo senso la impresse la legge varata nel ’72 dal governo militare di sinistra populista di Velasco Alvarado, al potere dal ’68; legge d’impronta liberale, di sostegno all’iniziativa privata, che in ogni caso ha posto le basi di una possibile industria e ha messo in moto una certa attività prima nel film corto di ogni tipo e dopo il ’77 nel lungometraggio a soggetto. Paese scisso nelle sue culture e condizioni economiche, il Perù ha visto così imporsi un filone urbano e un filone rurale, contadino, indigenista, con temi di grande attualità dopo la riforma agraria. Capofila del primo è Francisco Lombardi che con il suo episodio di Cuentos immorales (Racconti im­ morali, 1978) ha il merito di esplorare ambienti e realtà uma­ ne di Lima. Ispirati a casi di cronaca nera sono invece Muerte al amanecer (Morte all’alba, 1977) che con essenzialità mette in scena le ultime dodici ore di un «mostro» cui si contrappo­ ne la mostruosa cecità della classe dirigente, e Muerte de un magnate (Morte di un magnate, 1980) in cui un giovane indio sfoga nel sequestro e uccisione del potente principale la sua alienazione sessuale, sociale, razziale. Tratto dal famoso ro­ manzo di Vargas Liosa di cui riproduce la corposità del sog­ getto e dei rapporti all’interno di un collegio militare, è l’am­ bizioso La ciudady los pierros (La città e i cani, 1985), senza tuttavia sfruttarne veramente la pregnanza metaforica e sen­ za osare troppo sul piano dell’invenzione.

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Appartengono al secondo filone i film etnologici e politici di Federico Garcia la cui geografia è quella aspra delle Ande. In un agire che si fa carico di antiche tradizioni la comunità indigena lotta in Kuntur wachana (Dove nascono i condor, 1977) contro il ge?n