Storia dei concetti musicali. Espressione, forma, opera 8843040049, 9788843040049

N. 2 della collana *Storia dei concetti musicali*. Sebbene il concetto di espressione si sia affermato nel Settecento, l

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Storia dei concetti musicali. Espressione, forma, opera
 8843040049, 9788843040049

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STORIA DEI CONCETTI MUSICALI

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Storia dei concetti musicali Espressione, forma, opera A cura di Gianmario Borio e Carlo Gentili

Carocci editore

r• •

ristampa, maggio 2008 edizione, gennaio 2007 © copyright 2007 by Carocci editore S.p.A., Roma r

Finito di stampare nel maggio 2oo8 per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 2 2 aprile 19 4 1, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Prefazione di Gianmario Borio

II

Parte prima Espressione I.

2.

Segno ed espressività nella liturgia. L'orizzonte s1m­ bolico del canto gregoriano di Giacomo Baro/fio

L'espressione dei contrasti fra madrigale e opera di Stefano La Via



Espressione e sensibilità nel Settecento. La riflessione filosofica e musicale in area tedesca di Carlo Benzi



L'estetica musicale del romanticismo tra espressione del soggetto e metafisica del sentimento di Alessandro Cecchi

79

L'espressione del servo muto. Mente e mondo dopo Kant di Luca Bagetto

97



7

6.

L'istanza espresstva in Schonberg e nell' espressio­ nismo di Anna Maria Morazzoni

II9

Parte seconda Forma 7·

Storia filosofica del concetto di forma di Carlo Gentili

8.

Il concetto di forma nella trattatistica musicale del Medioevo di Rodobaldo Tibaldi

I5 3



La regola che si torce: alla ricerca del concetto di for­ ma nella toccata del primo Seicento di Massimiliano Guido

I77

IO.

Forma come sintassi o come energta: la morfologia musicale dopo Beethoven di Gianmario Borio

II.

Prospettive del frammentario e del discontinuo nella musica del Novecento di Pietro Cavallotti

2I3

Parte terza Opera I2.

Storia filosofica del concetto di opera di Carlo Gentili

8

235

I 3·

L' opus musicale agli albori dell'età moderna di Michele Ca/ella

247

1 4.

L'opera d'arte musicale tra Settecento e Ottocento d i Angela Carone

259

15.

Gesamtkunstwerk, sinestesia e convergenza delle arti di Michela Garda

275

1 6.

Le teorie dell'opera d'arte musicale nel Novecento di Michela Garda

295

I l·

Opera aperta: teoria e prassi di Angela Ida De Benedictis

317

18.

Multimedialità e metamorfosi del concetto di opera d i Sara Gennaro e Gianmario Borio

335

Bibliografia

355

9

Prefazione

Reinhart Koselleck, uno dei fondatori della storia dei concetti come disciplina autonoma, ha affermato che ogni esperienza umana viene elaborata mediante concetti e che pertanto la storia dei concetti è componente indispensabile del lavoro storiografico. Il concetto è qualcosa di più di una semplice parola che si riferisce a un oggetto o a un fatto, è una " concentrazione di significati multipli " che varia nel corso delle epoche. Lo storico dei concetti studia queste trasforma­ zioni come riflessi di un determinato contesto storico e linguistico, come continua interazione tra eventi e discorsi. La musica occidenta­ le, la cui produzione è costantemente accompagnata dalla riflessione teorica, presenta un campo particolarmente favorevole per l'indagine sull'insieme di esperienze e attese, di prospettive e spiegazioni che sono immagazzinate in un concetto. Le fonti primarie della presente opera sono rappresentate dai trattati musicali dall'antichità ai giorni nostri, a cui si aggiungono le riflessioni sulla musica di filosofi, artisti e scienziati che hanno avuto importanti ripercussioni sulla storia di un concetto. I cinque concetti, la cui storia viene discussa in questi primi due volumi, sono componenti fondamentali della comunicazio­ ne musicale e al contempo permettono importanti collegamenti con altre sfere del sapere e della creatività artistica. Per questa peculiarità, uno degli obiettivi primari degli autori è stato quello di dispiegare i rapporti tra concetto, oggetto e contesto nelle specifiche epoche e aree linguistiche. Il primo impulso a questa opera è venuto da Giovanni Guanti che, durante il Convegno dell'Associazione Italiana degli Studiosi di Estetica del I 999, aveva sollecitato la progettazione di un "lessico in­ tellettuale" che avrebbe dovuto raccogliere termini ugualmente rile­ vanti per la saggistica musicologica e per la filosofia. La proposta di Guanti, che negli anni 2 0oi-o4 è stato docente a contratto presso la facoltà di Musicologia dell'Università di Pavia, ha trovato un fecondo terreno di discussione presso i colleghi. L'invito alla cooperazione II

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delle discipline ha avuto immediato riscontro, diventando un momen­ to qualificante della nascente impresa; l'impostazione lessicografica ha invece lasciato il posto a una prospettiva metodologica che aveva mo­ strato i suoi pregi nel campo della Begrz//sgeschichte di area tedesca. Grazie a un finanziamento del ministero della Ricerca e dell'Universi­ tà nel quadro dei Progetti di ricerca di interesse nazionale, si è co­ stituito nel 2 002 un gruppo di lavoro che, sotto la responsabilità di Gianmario Borio, compie studi sistematici sui concetti fondamentali del discorso musicale dell'Occidente. Questi due volumi rappresenta­ no la prima pubblicazione del gruppo, che nel frattempo si è consi­ derevolmente ampliato e, grazie ai finanziamenti del ministero del 2005 , sta completando le sue ricerche su altri concetti. I curatori sono riusciti a ottenere il risultato che si auguravano sia sul piano dei contenuti scientifici che su quello editoriale grazie al rapporto di generosa collaborazione che si è instaurato tra gli autori e all'impegno di molti colleghi e amici a cui va un caloroso ringrazia­ mento. Un ruolo essenziale è stato svolto da un gruppo di filosofi e musicologi che hanno accettato di leggere criticamente le prime ver­ sioni dei saggi e di discuterne i contenuti con il gruppo di ricerca in un seminario che si è tenuto presso la facoltà di Musicologia nell'ot­ tobre del 2004; questo gruppo era formato da Amalia Collisani, Ma­ nuel Pedro Ferreira, Daniele Goldoni, Ulrich Mosch, Philippe Ven­ drix e dal compianto Paolo Bagni, la cui memoria rimane viva in tutti i partecipanti al seminario. Per la fase di realizzazione editoriale è sta­ to determinate il lavoro paziente e accurato di Angela Carone e Nico­ la Bizzaro. Infine ringraziamo i collaboratori della facoltà di Musico­ logia e del Dipartimento di Filosofia dell'Università di Bologna per avere messo a disposizione strutture e personale. GIANMARIO BORIO CARLO GENTILI

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Parte prima Espressione

I

Segno ed espressività nella liturgia. L'orizzonte simbolico del canto gregoriano di Giacomo Baro/fio

Il repertorio musicale che le comunità cristiane utilizzano durante il servizio liturgico costituisce un crocevia in cui s'intersecano elementi molto eterogenei, il cui intreccio ha dato luogo a un fenomeno estre­ mamente complesso, difficile da studiare e da comprendere sotto il profilo storico. Chi affronta lo studio del canto liturgico è chiamato subito a chiarire un dato fondamentale, cioè l'oggetto stesso della ricerca. Non è sufficiente, infatti, voler indagare su un oggetto che si presume di conoscere, ma che di fatto si sottrae a un'esplorazione sistematica e coerente sotto il profilo metodologico. La precarietà delle fonti e la loro frammentarietà sono la causa principale che spiega come mai la storia del canto gregoriano sia tutta un susseguirsi di affermazioni e di successive negazioni. Il fatto è che ci si muove su una fragile zatte­ ra che si regge su mere ipotesi - spesso taciute come tali - in un oceano di ignoranza (McKinnon, 2ooo; Pfisterer, 2oo r ) . L e melodie gregoriane - e anche quelle di altri riti latini medievali - sono tramandate da fonti molto tardive rispetto alla presunta data di composizione. Il processo redazionale " definitivo" , inoltre, ha cer­ cato di coniugare insieme nova et v etera nell'amalgamare, attraverso un linguaggio il più possibile unitario, impulsi creativi contemporanei e patrimonio tradizionale con una lunga storia alle spalle. Tale opera­ zione è avvenuta presumibilmente tra la seconda metà del VII secolo (a Roma) e la prima metà del secolo successivo (in territorio franco) (Baroffio, 1 9 89b; Pfistener, 2002 ) . Occorre tener presente tre costellazioni culturali che hanno un grande peso nella storia della musica sacra. In primo luogo è dovero­ so distinguere la musica liturgica cristiana dalla Chiesa fondata da Gesù Cristo e strutturata attraverso l'elaborazione dottrinale e l' orga­ nizzazione sociale operate dagli apostoli e da Paolo di T arso. In tale prospettiva, la Chiesa cristiana ha avuto un inizio preciso, la sua sto­ ria comincia nell'anno zero in cui si è vissuta la prima Pentecoste.

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Questa stessa Chiesa, nei primi decenni con una preponderante pre­ senza di convertiti dall'ebraismo, non nasce dal nulla, ma si radica nell'esperienza bimillenaria d'Israele soprattutto sotto il pro@ o della speculazione teologica e della vita spirituale (preghiera individuale e comunitaria) . Ciò significa che dalla storia del canto liturgico occorre bandire ogni prospettiva evoluzionistica e, al contrario, è doveroso aprire le porte all'ipotesi di una coesistenza, già agli inizi, di realtà musicali più differenziate per forma, stile, linguaggio e grammatica musicale. Seconda costellazione: sgomberare il campo da pregiudizi odierni non risolve, tuttavia, le difficoltà di fondo, perché non è dato cono­ scere, e quindi neutralizzare e superare, le tante precomprensioni del passato che dovrebbero aver segnato il cammino e l'evoluzione del repertorio. È pertanto probabile che anche a livello liturgico ci siano stati interventi drastici intesi, ad esempio, a differenziare il nuovo cul­ to da quello ebraico e dai riti del mondo pagano circostante. Anche in ambito liturgico si può pensare all'esistenza di fenomeni affini ad alcuni fatti emblematici estremamente delicati che hanno in­ teressato la vita della Chiesa nei primi secoli . Si pensi al problema del canone delle Scritture e all'alterazione del testo sacro con traduzioni­ interpretazioni di parte. Il fenomeno è già conosciuto nell'ebraismo, come insegna, ad esempio, la storia del testo e dell'esegesi del Cantico dei Cantici (Garbini, r 9 92 ) . Altro problema delicato è quello dell'ini­ ziazione cristiana, completamente travisato dalla moderna sedicente pastorale. Sin dai tempi apostolici si prevedeva un duplice itinerario che comunque culminava sempre nell'Eucaristia: a) lavacro di rigene­ razione (conosciuto poi come battesimo) , unzione dello Spirito (la fu­ tura confermazione) ed Eucaristia; b) unzione, lava ero, Eucaristia. A proposito di gesti battesimali, non si dimentichi il compimento del rito attraverso la lavanda dei piedi in alcune Chiese orientali e nell'I­ talia settentrionale. Nel campo della penitenza, Cipriano testimonia il ministero sacramentale affidato se pur eccezionalmente al diacono, e non solo al vescovo e, in linea subordinata, al presbitero. Più tardi, la stessa configurazione dell'ordinamento sacramentale definito nei sette sacramenti è una delle possibili soluzioni - ma non è logica e coe­ rente - per affermare la complessa economia dei sacramenti che nes­ suno mette in dubbio. N ella stessa storia della Chiesa si assiste all'epopea delle correnti dottrinali che hanno finito per prevalere, talora soffocando le più au­ tentiche suggestioni dello Spirito, sacrificate alla miopia culturale e al calcolo di potere mondano. Questa opacità che accompagna tutta la vita della Chiesa cristiana si aggiunge alla penuria delle fonti ed è tra

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le cause che non permettono di conoscere in modo adeguato la li­ turgia e la sua tradizione musicale. Per avere un'idea delle tensioni che si possono presentare in questo campo e delle soluzioni unilatera­ li e assurde che finiscono per prevalere non perché virtuose, ma per giochi politici e grazie ad atti di mero iconoclasmo, si pensi alla situa­ zione degli ultimi quarant'anni. Purtroppo non è dato sapere in quale misura e in quali forme la musica per la liturgia sia stata condizionata da alcuni movimenti cul­ turali e contaminata da altri in un gioco di forze in continua tensione tra ciò che era ritenuto, giustamente o a torto, lecito e doveroso, ille­ cito e proibito, possibile e inammissibile (per gli ambiti ebraico e isla­ mico cfr. Shiloah, 2003 ; 2004 ) . Ricostruire l'immagine reale del passa­ to è quindi estremamente difficile. Spesso una scorciatoia è offerta dal proiettare indietro nei secoli "bui" le poche cose che si possono documentare in epoche più recenti; metodo talora legittimo, ma spes­ so fuorviante ( Smith, 2003 ) . Terza costellazione: l a difficile convivenza tra la creatività e la tra­ smissione dei canti in regime orale e la loro tradizione scritta. Da un lato c'è l'inadeguatezza totale di qualsiasi notazione a esprimere le molteplici componenti della realtà sonora. Questa si concretizza in un processo costantemente fluido con la conseguente modifica continua di altezze, valori ritmici, timbro: tutte sfumature microscopiche, ma pur sempre determinanti in un'esecuzione viva, che lo scritto impri­ giona e soffoca con i suoi scarsi mezzi espressivi. A tale proposito, c'è un aspetto assai problematico che emerge dal confronto tra la tradizione scritta delle opere poetiche letterarie e quella delle composizioni musicali. I testi letterari sono di regola tra­ scritti nel pieno rispetto delle strutture intrinseche, come avviene, ad esempio, nella trasmissione manoscritta e a stampa della Divina Com­ media. In campo musicale da sempre si è proceduto ammassando le note su una riga piena senza tenere in minima considerazione la struttura dell'opera musicale. Il fenomeno è perlomeno curioso per quanto riguarda la sua origine; è deleterio al massimo nella trasmis­ sione dei brani musicali della cui struttura poco per volta si è persa completamente la coscienza (Baroffio, 1 999) . L'impaginazione a riga piena dei canti nei codici medievali e nelle successive pubblicazioni a stampa sino ai nostri giorni (eccezione si­ gnificativa sono le " partiture" di opere contemporanee con enormi " sprechi " di spazi lasciati in bianco) può essere dovuta a più fattori. Un motivo fondamentale dovrebbe ricercarsi nel fatto che la scrittura dei canti non aveva uno scopo musicale in vista dell'esecuzione, ma assumeva una valenza prevalentemente simbolica. Di fatto, in Occi-

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dente è scomparsa del tutto la conoscenza di alcune realtà musicali di estrema importanza e di larga diffusione come il maqamlraga, cono­ scenza ricuperata faticosamente negli ultimi decenni grazie ai suggeri­ menti di altre discipline letterarie e musicali, in particolare l' etnomu­ sicologia (Antonelli, 1 9 8 8 ; B. J. Baroffìo, 1 99 1 ) . Eccezionalmente - forse caso unico nel mondo occidentale - il rito ambrosiano nei suoi libri indica un canto rivelandone la costru­ zione musicale: l' antiphona, segnalata negli antichi codici con l' appel­ lativo dupla, di fatto è costituita da due frasi simmetriche, più o meno identiche. Nei manoscritti e nei libri a stampa, tuttavia, la scrit­ tura di questi brani non permette di prendere atto di tale realtà. Basti confrontare la recensione di un brano ambrosiano in una trascrizione strutturale: ESEMPIO I.I .z.

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Per comprendere la postztone della musica nella liturgia è bene ri­ chiamare alcune brevi risposte alla domanda "Che cos'è la liturgia cristiana? " . La liturgia è lo spazio dove D-i-o si fa presente al popolo credente. A modo suo. Egli offre la sua Parola che abbatte ogni bar­ riera, partecipa la sua stessa vita a quanti considera figli, si rende nu­ trimento di quanti sono affamati di giustizia, svela il suo splendore a quanti, a tastoni, ricercano la verità. N ella celebrazione, tuttavia, prende consistenza una tensione tra il " già e non ancora" che fa spa­ zio anche a un D-i-o trascendente, inaccessibile, che non solo provo­ ca sino all'estremo delle resistenze umane con il suo silenzio, ma si 18

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sottrae anche alle pretese della conoscenza razionale rivelandosi inef­ fabile, al di là di ogni pensiero ed immaginazione. Altro non può essere il Padre del Crocifisso, il reietto dalle genti, il fallito che pretendeva di governare il mondo con la magna charta del discorso della montagna (Vangelo di Matteo, cap. 5 ) . La lettura, la meditazione e la comprensione approfondita della Parola di D-i-o e delle preghiere ecclesiali accompagnano e confortano il credente sino a un certo punto dell'itinerario di fede. Dopo passi sicuri e vie spianate, può iniziare per ognuno, in qualsiasi momento, un cammino irto di ostacoli: la via della vita si restringe sempre più ed obbliga ad abbandonare ogni bagaglio di sicurezza e di certezze acquisite. È la via dolorosa del Golgotha che vede lo spogliamento progressivo sino alla nudità della Croce, dell'isolamento sociale e di una solitudine che, sola, permette di lasciarsi cadere nel pozzo del cuore per ritrova­ re nel buio dello smarrimento totale l'unica Luce che può rischiarare l'esistenza. Si comprende allora che cosa significhi essere creatura, si avverte il miracolo quotidiano della misericordia: la vita si apre a D-i-o con la mano tremante e sporca dell'accattone. Lo sguardo di Cristo allora appare penetrante nella forza che riabilita e riscatta dal peccato. È il momento in cui si percepiscono lo spessore e il peso - in quanto a responsabilità da portare - della frase apostolica: non solo chiamarsi, ma essere realmente figli di D-i-o, invitati al banchetto nuziale dell'A­ gnello, convocati dalla Parola alla liturgia.

La musica sacra nasce intorno alla Parola di D-i-o di cui permette una migliore percezione acustica e, fatto più importante e decisivo, svela contenuti che la semplice lettura non riesce a comunicare (Ba­ roffio, 1 9 84; zooo) . Il canto nella celebrazione abbandona lo statuto musicale ed entra in una " economia" del tutto diversa, quella della sfera mistica. Detto senza mezzi termini, il canto nella liturgia non è musica, bensì preghiera. Come tale si sviluppa secondo dinamiche che sono proprie della vita spirituale che si apre alla ricerca di D-i-o. Nella sinagoga la musica non è fine a se stessa, ma strumento di esperienza religiosa. La funzione della musica è di aiutarci a vivere con intensità il mo­ mento del confronto con la presenza di D-i-o, ad aprirci a lui nella lode, nell'esame critico di noi stessi, e nella speranza. [. .. ] Il cantore che guarda alla santità dell'arca piuttosto che alla curiosità dell'uomo si renderà conto che il suo uditorio è D-i-o. Imparerà a capire che il suo compito non è di­ vertire, ma rappresentare il popolo di Israel. Sarà trasportato a vivere mo-

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menti nei quali dimenticherà il mondo, ignorerà l'assemblea e sarà sopraffat­ to dalla consapevolezza di Colui alla cui presenza egli si trova. L'assemblea allora presterà ascolto e avvertirà che il cantore non sta recitando, ma sta adorando D-i-o, che pregare non significa ascoltare un cantore, ma identifi­ carsi con quanto viene proclamato in nome dell'assemblea (Heschel, [ 1 958] 1 999, pp. 1 1 3 e 1 1 8). La musica percorre due itinerari all'interno della celebrazione liturgi­ ca. Essa nasce da un'esperienza di fede, nell'ascolto della Parola, e serve alla santificazione dei fedeli aiutandoli a varcare la soglia del mistero, dell'inaccessibile ambito del divino. A questo movimento di­ scendente - il canto che rivela la Parola di D-i-o all'uomo - corri­ sponde un moto ascendente che il credente percorre facendo della musica l'espressione di un'altra esperienza di fede: la voce della Chie­ sa arante che glorifica D-i-o. Nel microcosmo dell'evento musicale si sviluppa e si dilata un modo sonoro che si apre al macrocosmo della vita divina. Melodia, ritmo, timbro, voce, successione di note e inter­ mezzi di pause non sono soltanto elementi musicali che si analizzano sotto il profilo tecnico e fisico; sono tutti elementi che si fondono e trovano la loro ragion d'essere nel canto che diviene "teo-logia " : Pa­ rola di D-i-o rivolta all'uomo e voce dell'uomo che sale a D-i-o (Ba­ roffio, 1 9 89a) . N ella sfera mistica sono annullate, o almeno sospese, alcune cate­ gorie fondamentali quali tempo e spazio. Eseguito hic et nunc, il can­ to liturgico trascende i limiti cronologici (nunc ) nel momento in cui il credente, attraverso l'ascolto della Parola cantata riesce a porsi alla presenza di D-i-o, vive l'esperienza di un istante atemporale in cui si fondono insieme passato, presente e futuro. Nella liturgia l'arante è contemporaneo sia di Adamo e di Abramo, sia delle generazioni a venire. Hodieloggi: è il termine che riecheggia all'inizio di molti brani liturgici occidentali e orientali per sottolineare questa dimensione di una contemporaneità di tutti i tempi, siano essi rivissuti o siano essi anticipati . Analogicamente si vive l'esperienza dello spazio (hic) : la liturgia svela la storia perché toglie i veli che impediscono il passaggio (phase) pasquale, abbatte i confini dello spazio che prima di essere geografico è mentale. Il detto "Essere nel mondo, ma non essere del mondo " sottolinea che la radicazione del credente non è in un territorio, ma nel " regno dei cieli" . Non è un caso se in molte chiese la volta è dipinta in modo da raffigurare il cielo che si apre, stabilendo nello spazio architettonico l'unione tra terra e cielo, finito e infinito, tempo ed eternità. La pianta delle chiese medievali, il loro orientamento, la 20

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disposizione degli spazi interni, le vetrate istoriate e gli affreschi non sono concepiti soltanto in una prospettiva funzionale quale semplice luogo d'incontro comunitario, ma hanno tutti un significato simbolico che esprime una realtà nascosta e pur presente. La musica nella li­ turgia fa parte integrante di questo universo simbolico e non può es­ sere sradicata da esso senza essere snaturata. In questa prospettiva i diversi luoghi perdono le loro caratteristiche che li differenziano e rendono antagonisti. C'è un unico luogo in cui si celebra la liturgia: il profondo del cuore, animato e reso fecondo dallo Spirito. La liturgia del cuore ha nell'azione ecclesiale la sua visibilità esterna ed è autentica nella misu­ ra in cui riesce a essere segno e anticipazione della liturgia del cielo, nella pienezza del regno di D-i-o. In questo orizzonte culturale e spirituale è da ricercarsi il senso della musica sacra e il significato del percorso che si snoda dalle più antiche liturgie neotestamentarie alle celebrazioni odierne. Ciò che anima dall'interno il linguaggio sonoro non è un codice musicale con precise forme e stili ben caratterizzati. Il canto ubbidisce alle dinami­ che della ricerca di D-i-o che si realizza nel contesto dell'azione li­ turgica secondo un itinerario di fede che non è preventivabile in tutti i particolari, ma che sempre risponde a situazioni vissute e testimo­ niate. Si considerino soprattutto, perché espliciti al riguardo, gli scrit­ ti dei mistici da Agostino a Gertrude, da Odo Casei a Divo Barsotti. La liturgia è un cammino mistico. Nonostante i suoi testi e i suoi riti siano fissati con sempre maggior cura e meticolosità nei libri ma­ noscritti e a stampa, il suo svolgersi nella storia di una comunità at­ traversa momenti inediti di luci e ombre, certezze e smarrimento, beatitudine e angoscia. Ciò spiega la presenza di canti differenti, dal­ l'urlo (alleluia) alle lunghe espressioni mono-tone (salmodia) , da bra­ ni brevi (antifona delle ore) a interminabili meditazioni bibliche (trat­ to nella Messa) . La maestria dei cantori romani prima, e di quelli franchi successi­ vamente, ha consolidato non tanto una pratica musicale, quanto piut­ tosto un'esperienza spirituale. Il risultato finale è l'affresco del canto gregoriano dove ogni punto ha una sua precisa collocazione. A diffe­ renza degli altri repertori liturgici paralleli (canto beneventano, roma­ no-antico, ambrosiano), la tradizione gregoriana presenta una tipolo­ gia letterario-musicale peculiare per ogni momento di ogni azione li­ turgica. Ciò permette a un orecchio addestrato di distinguere facil­ mente ogni tipologia liturgico-musicale dall'ascolto di una melodia. Il canto d'ingresso dell'introito, ad esempio, è diverso dall'antifona di comunione, che a sua volta differisce dalle antifone dei cantici evan2I

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gelici delle ore, brani, questi, meno semplici delle antifone della sal­ madia. Si può individuare il responsorio che si canta a mattutino che è differente dal responsorio costituito dal canto offertoriale della Messa con i suoi versetti (scomparsi dopo il XII secolo) (Baroffio, 1 995 ) . Stile e forma sono a servizio della Parola che è proclamata nel canto hic et nunc: tutto diviene segno della presenza di D-i-o ed esprime l'esperienza di un incontro già preso in considerazione: la Parola di D-i-o accolta nel cuore dell'uomo diviene preghiera dell'uo­ mo che sale a D-i-o.

Dall'ebraismo la Chiesa cnstlana assume il modello fondante della cantillazione: una linea melodica adattata a ogni singola unità lettera­ ria con particolari flessioni della voce che ne evidenzino l' articolazio­ ne con due momenti cardine: inizio letterario/intonazione musicale e conclusione letteraria/cadenza musicale (Flenderer, 1 9 8 8 ) . Dal mondo ebraico la Chiesa ha pure accolto la concezione della storia della sal­ vezza con precise e periodiche scadenze (settimanali, mensili, annuali ecc.) vissute nell'ottica del memoriale liturgico: non una commemora­ zione né una rappresentazione, bensì una reale riattualizzazione di eventi passati. In questo contesto vitale (Sitz im Leben) la proclamazione in canto della Parola di D-i-o subisce modifiche sostanziali atte a plasmare il linguaggio musicale adattandolo alle diverse situazioni liturgiche e, cosa non di poco conto, ai differenti cantori ( solista, piccolo/grande coro, gruppo maschile/femminile, assemblea) che intervenivano secondo mo­ dalità precisate nel tempo. L'interazione tra la realtà liturgica (una cele­ brazione specifica in un particolare giorno dell'anno) e il soggetto che interviene con il canto ha segnato lo sviluppo del repertorio attraverso l'affermarsi di alcune componenti, l'adattamento di varie tipologie omologate su modelli comuni, l'introduzione di nuove forme. Se nel campo della notazione è chiaro che la scrittura musicale segue la scrittura di testi letterari e in parte si basa su quei modelli, non è per nulla scontato che la produzione musicale segua quella te­ stuale, nel senso che dopo aver composto un testo si sia pensato a metterlo in musica. Soprattutto in campo poetico non è escluso che l' artista concepisse un testo letterario in musica, in un processo crea­ tivo cioè che vede sbocciare nel canto il testo stesso. È pertanto diffi­ cile stabilire per i canti liturgici una priorità del testo, a meno che non si tratti dell'elaborazione di un brano biblico. Questa osservazio­ ne è necessaria prima di affrontare l'analisi dei brani musicali, perché spesso nelle melodie si ritrovano processi compositivi studiati in 22

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modo pm approfondito in campo letterario, senza che ciò implichi necessariamente una priorità cronologica e logica della letteratura ri­ spetto alla musica. Una realtà che spesso s'incontra nelle espressioni artistiche (musi­ cali, letterarie, iconografiche e architettoniche) è la costruzione specu­ lare che dà origine alle composizioni per inclusione o secondo il mo­ dello del chiasmo. L'antifona di comunione In splendoribus della I Messa di Natale è un brano ad inclusione che appartiene ad uno sta­ to arcaico della musica liturgica occidentale. Il brano è scritto su una pentatonica che esclude i semitoni inferiori Mi e Si; inoltre un'unica nota - l'attuale Fa che sostituisce il Do primitivo - svolge la funzione di tonica e di dominate/corda di recita. Il pezzo è costruito su una struttura ad inclusione ( I e IV inciso) e con un chiasmo ( I-IV + n-m ) . È evidente che questa melodia è una dilatazione sonora di una recita originaria sul Do che nella sistemazione m o dale dell' octoechos è stato trasportato al Fa (Benevento, Bibl. Capitolare, 34, c. 1 5> e «i secondi», stimolati rispettivamente dalla «materia allegra» o «mesta») significa «imitare le parole con la bene intesa harmonia». Affinché l'espressione musicale possa oltrepassare la dimensione in­ trinseca che le è propria, ed agire in modo estrinseco sull'ascoltatore, essa dovrà essere unita alla parola poetica in modo da imitarne - e non contraddirne - gli specifici contenuti emotivi, che a loro volta ne risulteranno assai potenziati. Passando da Zarlino ad altri teorici e musicisti più "progressisti " , i termini rimangono gli stessi, così come l a concezione umanistica di fondo: «la musica fatta sopra le parole non è fatta per altro che se non per esprimere il concetto e le passioni e gli effetti» (Vicentino, [ 1 5 5 5 ] 1 95 9 , c. 88v [ 94v] ); «L'uso della musica [ .. .] non da altro principalmente nacque che dall'esprimere con efficacia maggiore i con­ cetti dell'animo loro» (Galilei, 1 5 8 1 , p. 8 1 ) ; «non havendo mai nelle mie musiche usato altr'arte che l' immitazione de' sentimenti delle pa­ role» (Caccini, 1 6oo) ; «Lo a/fetta in chi canta non è che una espres­ sione delle parole e del concetto che si prendono a cantare, atto a =

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muovere affetto in chi ascolta» (Caccini, I 6 I 4 ) . Un intero studio po­ trebbe essere dedicato, in particolare, all'appena citato Galilei del Dialogo della musica antica et della moderna, e alle sue disquisizioni contro le «impertinentie» o gli «abusi de' Contrapuntisti intorno l'i­ mitatione delle parole» (Galilei, I 5 8 I , pp. 8 5 -9 ! ) : scagliandosi pro­ prio contro il cruciale capitolo 32 di Zarlino (nella Parte rv delle Isti­ tutioni) , egli critica il vizio madrigalistico di imitare ogni singola im­ magine del testo poetico con una corrispondente figura musicale, e al contempo condanna i moderni polifonisti per aver privilegiato «il di­ letto dell'udito» a discapito della «espressione dell'affetto» (ivi, pp. 8 8 - 9 ) . Mosso più che altro da intenti polemici, Galilei finisce con l' abbracciare posizioni per certi versi anche più rigide e tradizionali­ ste di quelle zarliniane; sulla scorta di Mei e Bardi, ad esempio, egli crede ancora che solo con un «Tuono» e un «rithmo», senza possibi­ lità di commistioni, si possano " esprimere" musicalmente i " concetti" di un testo poetico, alla maniera degli " antichi musici" (ivi, p. 90). Anche nei suoi ultimi scritti il presunto " codificatore" della seconda pratica tenta invano di screditare l'insegnamento di Zarlino, arrivando al punto di affermare: «quantunque in molti luoghi de' suoi scritti lodi estremamente l'Oratione, non perciò muove mai parola del modo vero di esprimerla, ma dà bene infiniti rimedi in tutto contrari all'e­ spressione di essa» (Galilei, [ ! 5 8 8-9 ! ] I 9 8o, p. 2 3 ) . Nella direzione opposta si muove invece l'unico vero avvocato della seconda pratica, Giulio Cesare Monteverdi, il quale, per difen­ dere il fratello dalle accuse dell' Artusi, gli ritorce contro le parole, evidentemente ancora valide, del suo stesso maestro Zarlino (G. C. Monteverdi, b 6o7] I 9 63, pp. 40 I , 403 -4) : non solo quelle dedicate all'espressività intrinseca della musica e alla sua forza imitativa (Zarli­ no, I 5 5 8 , n, 7 , p. 7 I ) , ma anche lo specifico passaggio in cui Zarlino ammette ed esemplifica l'impiego dei "modi misti " (ivi, rv, q, p. 3 I 5 ) . Per illustrare ancor meglio quest'ultimo punto, Giulio Cesare avrebbe potuto aggiungere la spiegazione, ancor più eloquente e det­ tagliata, proposta a suo tempo dal pioniere Vicentino: Anchora saranno alcune altre compositioni Latine che ricercheranno mante­ nere il proposito del tono, et altre volgari le quali havranno molte diversità di trattare molte e diverse passioni, come saranno Sonetti, Madrigali o Canzoni, che nel principio intraranno con allegrezza nel dire le sue passioni, e poi nel fine saranno piene di mestitia e di morte, e poi il medesimo verrà per il con­ trario; all'hora sopra tali il Compositore potrà uscire fuore dell'ordine del Modo, et intrerà in un altro, perché non havrà obligo di rispondere al tono di nissun Choro, ma sarà solamente obligato a dar l'anima a quelle parole, e 34

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con l'armonia dimostrare le sue passioni, quando aspre e quando dolci, e quando allegre e quando meste, e secondo il loro suggietto; e da qui si cave­ rà la ragione che ogni mal grado con cattiva consonanza sopra le parole si potrà usare secondo i loro effetti, adunque sopra tali parole si potrà compor­ re ogni sorta de gradi e di armonia, e andar fuore di T ono, e reggersi se­ condo il suggietto delle parole volgari, secondo che di sopra s'è detto» (Vi­ centino, [ 1 5 5 5 ] 1959, m , 1 5 , p. 48). Quel che cambia - procedendo da una concezione all'altra - è in­ somma non tanto la finalità ultima dell'espressione poetico-musicale, quanto i mezzi esegetici e tecnico- compositivi tramite cui realizzarla, che a loro volta si riflettono sulla natura stessa dell'auspicato «com­ movimento affettivo»: dalla resa diegetica e indirettamente descrittiva, statica e monotona, di un unico ethos, di un'unica dimensione emoti­ va - promossa non solo e non tanto da Zarlino, quanto semmai dai teorici della Camerata Fiorentina, Mei, Bardi e Galilei - si passa ad una sempre più diretta e dinamica imitazione di molteplici stati d'ani­ mo, fra loro non solo diversi ma diametralmente opposti. Questo cru­ ciale mutamento di tendenza, chiaramente riscontrabile sul piano del­ la pratica compositiva, trova i suoi fondamenti estetici e filosofici nel­ l' ambito della critica letteraria cinque-secentesca - di prevalente orientamento aristotelico - prima ancora che in quello della trattati­ stica musicale; ad appoggiarlo e sostenerlo, anche sul piano teorico, sarà soprattutto il musicista più direttamente coinvolto nella polemica fra le due pratiche, Claudio Monteverdi, in parte anticipato dal fio­ rentino Jacopo Peri (Euridice, r 6oo) e dal romano Emilio de' Cavalie­ ri (Rappresentatione, r 6oo) , e solo inizialmente assistito dal fratello Giulio Cesare. L'ansia di tradurre in musica i contrasti, le " mutazioni d'affetto " , le "passioni contrarie" di poeti quali Torquato Tasso o Battista Guarini - entrambi profondi conoscitori e studiosi della Poe­ tica di Aristotele - anima anzitutto quei madrigalisti cinque-secente­ schi contro cui si scagliano gli anatemi dell' Artusi. Ma sono proprio questi esperimenti madrigalistici - sempre meno platonicamente die­ getici e sempre più aristotelicamente mimetici - a spianare il campo per la nascita stessa del " dramma per musica" moderno, genere con­ trastivo per eccellenza, e in particolare di quelle forme di opera e di "madrigale rappresentativo " più di altre improntate sul modello ari­ stotelico della "favola tragica complessa " . Per poter comprendere il senso profondo d i questa delicata tran­ sizione storica, e metterne a fuoco anche solo alcuni degli esiti pratici più rilevanti (PAR. 2 -4 ) , sarà dunque indispensabile partire dai princi­ pi estetici definiti dallo stesso Aristotele nella Poetica (PAR. 2 .2 ) e ve35

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rificarne l'impatto nella sfera critico-letteraria tardorinascimentale pri­ ma ancora che in quella teorico-musicale coeva (PAR. 2 . 3 ) .

2 .2

I principi aristotelici di unità nella varietà e rivolgimento dei contrari Al centro del dibattito letterario cinque-secentesco sulla Poetica vi sono soprattutto due basilari principi classici, ben distinti ma fra loro intimamente connessi: r . da un lato il precetto dell'unità d'azione, che in sé racchiude anche quello più specifico di unità nella varietà; 2. dall'altro il principio altrettanto universale dell'antitesi od opposi­ zione di elementi contrastanti, che nella concezione drammaturgica di Aristotele si manifesta soprattutto attraverso il meccanismo dinamico del rivolgimento dei contrari, sia esso in forma di semplice " mutazio­ ne" o in quella più complessa di "peripezia" . r . Per unità d'azione Aristotele intende in sostanza l'imitazione vero­ simile e necessaria non certo di un solo evento, né delle azioni di un solo personaggio, quanto semmai dei molteplici eventi che in un'uni­ ca azione si succedono come parti di un tutto vario ma organico (Poetica, 145 1 a, 1 5 - 3 5 ; 145 1b, 3 3 - 34); unità nella varietà, dunque, come unità d'azione nella varietà dei fatti che compongono tale azio­ ne: quel che «occorre», soprattutto, è «che le parti dei fatti siano connesse assieme in modo tale che, se qualcuna se ne sposti o sop­ prima, ne risulti dislocato e rotto il tutto, giacché ciò la cui presenza non si nota affatto, non è per niente la parte di un tutto» (ivi, 145 ra, 30- 3 5 ) . A mo' di esempio, il filosofo propone il caso estremo dei poe­ mi omerici, i cui molteplici e diversi episodi sono logicamente con­ nessi in modo da divenir parte di un'unica azione (ivi, 20-2 9 ) . 2 . L'esigenza di u n nesso logico che leghi u n fatto, o u n intero epi­ sodio, a un altro (unità d'azione) non contrasta affatto, anzi va di pari passo, con l'esigenza altrettanto cruciale di sorprendere il pubblico con eventi inattesi e contrari alle aspettative, necessari per accrescere l'impatto emotivo della mimesi drammatica, tanto nel genere tragico quanto in quello epico. Aristotele parla anzitutto di " mutazione" o "metabasi" (metdbasis) , intesa in senso generico ed onnicomprensivo, ovvero in riferimento sia alla sfera drammatica degli eventi imitati ( "mutazione di fortuna" ), sia alla sfera emotiva degli affetti suscitati da quegli stessi eventi nell'animo dei personaggi coinvolti nell'azione e di riflesso in quello dei fruitori ( "mutazione d'affetto " ) . Tali muta­ zioni possono essere prodotte seguendo due procedimenti diversi,

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che a loro volta danno vita a due tipi di favola drammatica, " sem­ plice" o " complessa" come i rispettivi tipi di azione rappresentata: nel primo caso il cambiamento avviene in modo graduale, omogeneo, senza creare forti contrasti o effetti di sorpresa; nel secondo caso l' ef­ fetto contrastivo è accresciuto e reso ancor più drammatico dal fatto­ re dell"'imprevisto " e " sorprendente" (thaumast6s) (ivi, 1 4 5 2 a ) . L'evi­ dente predilezione di Aristotele per quest'ultima categoria dipende, in sostanza, dalla presenza della peripezia (peripéteia) , ovvero di quel­ la che soprattutto nel genere tragico emerge come la più importante "parte qualitativa" della favola drammatica, intimamente connessa al riconoscimento o agnizione (anagn6risis) e alla perturbazione (pa­ thos). Per peripéteia Aristotele intende una forma particolarmente estre­ ma di metabasis: ossia il " rivolgimento " improvviso e inaspettato, non desiderato e sorprendente «da una condizione di cose nella condizio­ ne contraria, anche in questo caso secondo le leggi di verosimiglianza o necessità». L'elemento improvviso - sorprendente - involontario, per quanto non incluso nella definizione, si evince dalla citazione su­ bito seguente: «come ad esempio nell'Edipo il messo, venendo come per rallegrare Edipo e liberarlo dal terrore nei riguardi della madre, rivelandogli chi era, ottiene l'effetto contrario; e nel Linceo, mentre il protagonista viene condotto a morire e Danao lo segue per ucciderlo, in forza dello svolgimento dei fatti accade che Danao muoia e Linceo si salvi» (ivi, 2 2 - 2 9 ) . I n entrambi gli esempi l a peripezia segue o accompagna il realiz­ zarsi di un evento traumatico e perturbativo - pathos nell'accezione aristotelica - come le morti rispettive di Laio, padre inconosciuto di Edipo (fonte primaria di tutte le sue successive sventure) , e di Danao. Solo nel primo esempio, invece, la peripezia si accompagna al ricono­ scimento: la rivelazione del messo, infatti, permette via via ad Edipo di apprendere sia la vera identità di sua moglie Giocasta (in realtà sua madre) e di suo padre Laio, sia la propria tremenda responsabili­ tà nell'avere ucciso il padre, sposato la madre, generato con lei dei figli e condotto alla rovina l'intero regno di Tebe. Un esempio analo­ go è riproposto per chiarire la definizione stessa di riconoscimento, ulteriore forma specifica di metabasi, e parente stretta della peripezia: ovvero, «rivolgimento dall'ignoranza alla conoscenza», che a sua volta genera «la mutazione dall'inimicizia all'amicizia, o viceversa, di perso­ ne destinate alla fortuna o alla sfortuna». Nell'esempio in questione, in effetti, non è la semplice uccisione di Laio (pathos, evento trauma­ tico narrato retrospettivamente) a rendere terribile, pietosa e sorpren­ dente la peripétea di Edipo, ma è la sua improvvisa " conoscenza" 37

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(anagn6risis) di avere ucciso il proprio padre. Ecco perché, secondo Aristotele, «la forma migliore di riconoscimento è quella che si com­ pie assieme alla peripezia» (ivi, 30; I452b, I o ) . Nelle più alte forme di tragedia, di genere complesso, la peripezia - soprattutto se unita non solo alla perturbazione ma anche al riconoscimento - si rivela dunque come il meccanismo drammaturgico fondamentale sia ai fini dello scioglimento del "nodo" , sia ai fini degli affetti di pietà e terro­ re indispensabili all'effetto catartico finale.

2.3

Letture e applicazioni cinque-secentesche dei principi aristotelici 2 . 3 . 1 . UNITÀ NELLA VARIETÀ VERSUS CONFUSIONE

N el corso del Cinquecento, una concezione similmente organica e unitaria ma anche varia e mutevole della mimesi poetica - formulata ed esemplificata da Aristotele in termini non poi così ambigui - viene abbracciata senza alcuna riserva soprattutto da quei letterati-poeti per i quali la speculazione teorica è inscindibile dall'esperienza creativa. È questo il caso di Giovangiorgio Trissino (La poetica, I 5 2 9 , I 5 6 2 ) e Giovan Battista Giraldi Cinzio (Lettera sulla "Didone", [ I 543] I 97 2 ) , m a forse ancor più significativamente - nella seconda metà del secolo - di Torquato Tasso e Giovanni Battista Strozzi il Giovane, rispettivi autori dei Discorsi dell'arte poetica e del poema eroico (concepiti a partire dagli anni sessanta e settanta per essere stampati a Venezia e a Napoli solo nel I 5 87 e I 5 94) e della lezione accademica Dell'unità della /avola (Firenze, Accademia degli Alterati, I 5 9 9 ) . Al Tasso teori­ co, anche sulla scorta del passaggio aristotelico testé citato, si deve soprattutto l'individuazione di un preciso «termine» oltre il quale la «varietà» si tramuta in «confusione», tale da sconvolgere l'unità glo­ bale del poema: «Dico bene che la varietà è lodevole sino a quel ter­ mine che non passi in confusione, e che sino a questo termine è tanto quasi capace l'unità quanto la moltitudine delle favole; [ . . . ] perché la varietà degli episodi in tanto è lodevole in quanto non corrompe l'u­ nità della favola, né genera in lei confusione» (Tasso, [I 5 87] I 964, II, pp. 3 5 , 3 9 ) . La distinzione è più tardi riformulata dallo Strozzi in ter­ mini quasi identici: posto che «l'unità e la varietà non repugnano», e che «l'unità del poema è eterogenea e non omogenea», è anche vero che «non ogni varietà è dilettevole»; se infatti «il veder più cose indi­ pendenti e confuse, e che non abbiano a che fare insieme» non reca

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diletto alcuno, assai «migliore» è la «molteplicità quando molte cose, o vogliam dire il tutto riguardi un medesimo fine et abbia ordine e dependenza» (Strozzi, [ 1 5 99] 1 97 2 , pp. 3 3 9-40 ) . Ben diverso è l'atteggiamento d i quei teorici puri - d'impostazio­ ne più filosofica che estetico-letteraria, spesso animati da espliciti in­ tenti polemici antiaristotelici - che nella stessa epoca si mostrano as­ sai meno disposti a riconoscere tanto l'inconsistenza dell'apparente opposizione fra unità e varietà, quanto la distinzione fra varietà e confusione. Esemplare, in tal senso, è il caso di Francesco Patrizi, au­ torevole "filosofo platonico" presso l'Università di Ferrara, che nel 1 5 85 (Parere in dz/esa dell'Ariosto) s'inserisce nell'estenuante dibattito accademico fiorentino fra i rispettivi sostenitori del T asso e dell' Ario­ sto, perdipiù su richiesta di un altro celeberrimo Alterato, intimo amico e collaboratore dello Strozzi, quale Giovanni Bardi. Il suo principale contendente, il frate capuano Camillo Pellegrino (Il Carra/a overo dell'epica poesia, Firenze r 5 84) - rigido cultore aristotelico del­ l"'ordine" applicato ad ogni ambito del sapere - aveva appena sanci­ to la superiorità della Gerusalemme liberata sull' Orlando furioso so­ prattutto in base al principio di unità d'azione: se l'Ariosto del Furio­ so come anche il Bernardo Tasso dell Amadzgi non han potuto conce­ pire un "poema eroico" comparabile alla Liberata, ciò dipende anzi­ tutto dalla loro incapacità di formare «da una sola azione [. . . ] un sol corpo» che potesse essere «compreso in una sola vista», arrivando così a generare «un mostro di più capi, e di diverse membra non or­ dinate» (Patrizi, 1 5 7 2 , pp. 7 5 - 80, cit. in Vasoli, 2ooo, p. 44 ) . Una po­ sizione così rigidamente " aristotelica" - dai toni assai più scolastici che umanistici - finisce per generare nel platonico Patrizi una reazio­ ne polemica forse ancor più ottusa e inflessibile, tale da negare la va­ lidità stessa del precetto classico dell'unità d'azione, e dunque anche la sua presunta applicazione sia ai poemi omerici sia a qualsiasi poe­ ma epico moderno, non certo solo il Furioso. Da una parte e dall'al­ tra, i termini del dibattito sono così schematici e astratti che lo stesso Tasso sente il bisogno di scendere in campo (Discorso sopra il parere del Signor Francesco Patrizio in di/esa di Ludovico Ariosto, 1 5 86?, cit. in Vasoli, 2 ooo, pp. 49- 5 2 ) per ribadire la rilevanza anzitutto pratico­ compositiva e formale del principio dell'unità d'azione nella formula­ zione aristotelica, dalla cui perfetta applicazione dipende la superiori­ tà dell epos america rispetto a quello moderno: il punto fondamenta­ le, ancora una volta, è che solo in base a una lettura flessibile ed em­ pirica dell'originale formulazione aristotelica è possibile comprendere in concreto ciò che distingue la " confusione" incontrollabile di un "poema infinito" e "indeterminato" , composto da più " azioni " fra '

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loro sconnesse, dalla "unità" versomilmente e necessariamente "varia" di un "poema perfetto " come quello rappresentato dal modello omerico. Argomenti e atteggiamenti non dissimili ricorrono, appena due anni dopo, nell' appassionata arringa con cui il ferrarese Battista Gua­ rini avrebbe difeso il nuovo genere della tragicommedia (Il Verrato, Ferrara 1 5 8 8 ) contro gli attacchi dell' ennesimo filosofo moralista, Ja­ son De Nores (Discorso, Padova 1 5 87 ) . Su basi non più platoniche, ma ancor più rigidamente aristoteliche, il teorico puro rimprovera al poeta tragicomico del Pastor fido di aver mescolato «due contrarie azioni e qualità di persone», ovvero «due imitazioni contrarie, come è la comedia e la tragedia», col risultato di concepire solo un «mo­ struoso e disproporzionato componimento», e con esso un genere ibrido e immorale di "favola mista" mai contemplato da Aristotele. A un profondo conoscitore della Poetica e del repertorio classico come il Guarini basterà rispondere, in sostanza, che la «mistione» di perso­ ne, fatti, passioni di genere diverso (nobili e basse, pietose e allegre) si ritrova già nella tragedia antica (l'esempio è ancora una volta quel­ lo aristotelico dell'Edipo re) , il cui fine ultimo, d'altra parte, era quel­ lo anche morale di purificare l'animo umano dalle passioni di pietà e terrore; ma se questo tipo di catarsi, almeno a teatro, non è più ne­ cessario in epoca cristiana moderna, meglio allora sforzarsi di "tem­ perare" il tragico col comico, ossia di creare forti tensioni drammati­ che (più pericoli di morte che morti reali) destinate a sciogliersi con rivolgimenti felici (come avviene anche in più di una tragedia greca, a partire dall'Ifigenia), al fine ultimo di «purgare gli animi dal male af­ fetto della malinconia». Come si vede, la commistione non solo di azioni e passioni diverse, ma persino di generi drammatici, all'interno di un singolo componimento, non potrà generare né "mostri" né "confusione" se essa continuerà ad essere regolata dai principi real­ mente aristotelici di unità d' azione, consequenzialità logica, unità nel­ la varietà. Passando dall' ambito letterario-filosofico a quello propriamente musicale, dai dibattiti fra ariosteschi e tassiani, o fra sostenitori e de­ trattori della tragicommedia, all'altrettanto accesa querelle fra prima e seconda pratica, i termini della questione rimangono in sostanza gli stessi. Fra i principali motivi di risentimento manifestati dal più con­ servatore e scolastico dei teorici, il canonico bolognese Giovanni Ma­ ria Artusi ( 1 6oo, 1 60 3 ) , nei confronti dei madrigali del più innovativo fra i compositori dell'epoca, Claudio Monteverdi (risalenti almeno al 1 5 9 8 , pubblicati dal r 6o3 al 1 605 nei libri rv e v), vi è proprio la presunzione di commuovere in modo nuovo l'ascoltatore tramite l'al-

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trettanto «nova» resa musicale non tanto di singole passioni quanto di " mutazioni" e contrapposti affettivi: ovvero, nello specifico, attra­ verso il ricorso ad un più libero impiego della dissonanza e alla co­ siddetta " commistione modale" ; secondo Artusi tali "licenze" avreb­ bero l'effetto di sconvolgere tanto l'armoniosa consonanza quanto l'u­ nità tonale e formale dell'intera composizione. Ribadendo uno dei cardini dell'estetica musicale rinascimentale - ma in termini anche più rigidi e intransigenti di quelli già formulati dal suo stesso maestro Zarlino -, il teorico bolognese considera a priori fallimentare qualsiasi tentativo di conciliare elementi contrari, o di farli interagire in qualsi­ voglia maniera: ne risulterebbe infatti non solo un'intollerabile offesa all'udito, ma anche e soprattutto - nelle sue stesse parole - «una con­ fusione di cose tutte poste insieme» (Artusi, r 6o 3 , pp. r o- r ) . Un po' come nel caso dei filosofi Patrizi e De Nores, un sistema di valori astratto e precostituito - in questo caso più genericamente scolastico e antiumanistico che rigidamente platonico o aristotelico - impedisce a un teorico puro come Artusi di cogliere sia la sostanza concettuale ed estetica del principio classico di unità nella varietà, sia la sua con­ creta rilevanza ed applicabilità pratica. Il che riesce invece più che naturale al musica-pratico Monteverdi che, in via diretta o tramite l'aiuto di due valenti " avvocati difensori" della seconda pratica - il fratello Giulio Cesare (musica egli stesso oltre che avvocato di pro­ fessione) e la più misteriosa figura del ferrarese «accademico Ottuso» (cui dà voce lo stesso Artusi, ivi, pp. 14-2 1 ) -, motiverà le sue scelte sulla base di principi classico-umanistici, anche di matrice platonica oltre che aristotelica, con un atteggiamento in parte affine a quello già mostrato dai suoi due poeti prediletti, Tasso e Guarini. L'intera strategia difensiva della seconda pratica ruota attorno ad un'unica argomentazione fondamentale, di ordine empirico assai più che speculativo, sulla quale probabilmente si sarebbero trovati d'ac­ cordo Platone e Aristotele ancor prima di Zarlino e Galilei (presunti " codificatori" della "prima" e della "seconda pratica " ) : se è vero che l'armonia dev'essere serva e non padrona dell' oratione e del suo ritmo (Platone), ne consegue logicamente che ogni scelta compositiva - an­ che la più apparentemente trasgressiva - sarà giustificata in quanto funzionale all'espressione musicale chiara ed efficace di parole, con­ cetti ed affetti rappresentati nel testo poetico; qualora il testo sia ca­ ratterizzato dalla combinazione di concetti e/o affetti di natura non solo diversa ma anche opposta, tali però da succedersi e interagire secondo un nesso logico, e tali dunque da non intaccare l'unità for­ male dell'insieme (Aristotele) , il compositore non dovrà temere di in­ generare " confusione" volendo esprimere in musica tali antitesi e

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mutazioni attraverso una mimetica " commistione " tanto di intervalli melodici o verticali, consonanti/dissonanti, quanto di modi, autenti­ ci/plagali o anche fra loro totalmente estranei. Tanto i fratelli Monte­ verdi quanto il ferrarese "Ottuso " , diversamente dall' Artusi, sono ben consapevoli che in tale approccio esegetico- compositivo non vi è nulla di realmente rivoluzionario. Nell'ambito della tradizione teorica rinascimentale, lo Zarlino delle Istitutioni harmoniche ( 1 5 5 8 ) ha già espresso nel modo più chiaro sia l' esigenza di tornare al mélos plato­ nico - sottoponendo l'armonia alle leggi del l6gos e del suo ryth­ m6s -, sia la necessità aristotelica di conferire "varietà nell'unità" a quella stessa armonia, alternando consonanze perfette ed imperfette a "molte dissonanze " , pur in modo " regolato" e logicamente conse­ quenziale; nell'ultima parte del trattato - come noterà prontamente Giulio Cesare Monteverdi ( [ 1 607] 1 9 6 3 , pp. 403-4) - egli arriva per­ sino ad ammettere, seppure in via eccezionale, la " mistione " di modi diversi e " di opposta natura " nella stessa composizione (Zarlino, 1 5 5 8 , IV, 14, 30, pp. 3 1 5 , 3 3 6- 7 ) . Giulio Cesare, nello stesso passag­ gio della Dichiaratione testé citato, sottolinea anche come, sul piano pratico- compositivo, simili "licenze" siano state ampiamente speri­ mentate già da Cipriano de Rore, e in certa misura (limitatamente alla commistione modale) persino da compositori della prima pratica quali Josquin Desprez e Adrian Willaert . Passando da Zarlino a Bar­ di e a Galilei, e da Willaert a Rore e da questi a Monteverdi, quel che muta - nei rispettivi ambiti teorico e pratico - è semplicemente lo spazio riservato all'elemento diverso, trasgressivo, potenzialmente destabilizzante, la sua effettiva visibilità e udibilità, e dunque la cre­ scente violenza dei contrasti che esso contribuisce a generare nel cor­ so della composizione. Non è certo un caso che tutti i madrigali citati nel corso della polemica siano basati su testi poetici di natura contrastiva, intera­ mente percorsi non solo da antitesi concettuali ma anche da vere e proprie "mutazioni" - di affetto e/o di fortuna - in senso aristoteli­ co: a partire da Cruda Amarilli e O Mirtillo - tratti proprio dal Pa­ stor fido di Guarini - che Artusi ebbe modo di ascoltare a Ferrara, nel 1 5 9 8 , prima che venissero pubblicati nel Quinto libro di Monte­ verdi ( 1 605 ) ; ma la lunga lista include anche cinque madrigali di Ci­ priano de Rore nei quali Giulio Cesare Monteverdi ( [ r 6o7] 1 9 63 ), sviluppando quanto già osservato da Giovanni Bardi ( [ 1 5 7 8-79] 1989) e dallo stesso "Ottuso" (Artusi, r 6o 3 ) , individua la fondazione stessa della seconda pratica. Né Giulio Cesare né l'"Ottuso " , d'altra parte, né qualsiasi altro avvocato della seconda pratica, si spingono a

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giustificare la commistione intervallare, armonica e modale dei ma­ drigali di Rore, Wert e Monteverdi così come avrebbe fatto un criti­ co letterario del tempo, ovvero appellandosi non solo al generico principio aristotelico di "unità nella varietà" , ma anche alle particola­ ri nozioni poetico-drammatiche di metdbasis e peripéteia, ovvero di "mutazione " e " peripezia" . 2 . 3 . 2 . MUTAZIONE E RIVOLGIMENTO DEI CONTRARI:

METABASI VERSUS PERIPEZIA

Fra i letterati cinquecenteschi che mostrano di aver realmente com­ preso ed assorbito nella loro stessa poetica tanto la complessiva con­ cezione aristotelica di favola complessa, quanto i più specifici e quali­ tativi principi che ne caratterizzano la mimesi drammatica - riducibili in sostanza a quello basilare del " rivolgimento dei contrari " o "peri­ pezia" - emerge ancora una volta il Tasso teorico. All'autore dei Di­ scorsi dell'arte poetica preme dimostrare soprattutto come il principio di unità d'azione vada rispettato non solo nel caso delle "favole sem­ plici" - «che col medesimo tenore, senza alterazione alcuna sono condotte al loro fine» - ma anche in quello delle più eterogenee "fa­ vole composte " , caratterizzate da più repentini e sconvolgenti "tra­ passi" affettivi, perlopiù in forma di peripezia e riconoscimento. Il preciso significato di questi termini gli è talmente chiaro - come di­ mostra soprattutto all'atto pratico, in più di un episodio della Gerusa­ lemme liberata - che egli si limita a riassumere in poche parole le originali definizioni aristoteliche, riproponendone anche lo stesso rife­ rimento esemplificativo all' Edipo Re di Sofocle (Tasso, [ 1 5 87] 1 964, pp. 3 7 - 8 ) . Nella sua concisa riformulazione, tuttavia, se anagn6risis è adeguatamente tradotto in " riconoscimento" o "agnizione", il termine "peripezia" (da peripéteia) è considerato sinonimo di " mutazione di fortuna " ; e tale concetto è a sua volta definito ed esemplificato in ter­ mini quantomeno sbrigativi: «È la mutazione di fortuna nella favola quando in essa si vede ch'alcun di felicità caggia in miseria, come d'Edipo avviene, o di miseria passi in felicità, come di Elettra [. . . ] » (ivi, p. 3 7 ) . I n ciò, fra l'altro, il Tasso si mostra perfettamente in linea con la tradizione umanistica cinquecentesca e col suo più autorevole rappresentante, il Castelvetro della Poetica d'Aristotele vulgarizzata et sposta ( 1 5 7 0 ) , secondo il quale la peripezia non sarebbe altro che «la mutazione delle cose che si fanno nel contrario, come di lieto in mi­ sero stato» (così cit. in Bonciani, [ 1 5 74] 1 97 2 , pp. 1 7 1 -2 ) . 43

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L'esigenza di differenziare le due nozioni - semplice metdbasis/ mutazione di fortuna versus peripéteia/peripezia - sembra nascere an­ cora una volta a Firenze, in seno all'Accademia degli Alterati, a pochi anni dalla stampa del commento castelvetriano, e in diretta polemica con esso. Su questo punto si trovano d'accordo persino il platonico Giovanni Bardi - fra i più appassionati sostenitori dell'Ariosto nel di­ battito sul poema eroico - e il suo "Aspro " oppositore Francesco Bonciani. Nel I 5 74, mentre a Ferrara il Tasso si accinge a completare il suo poema e a rielaborare i Discorsi del poema eroico, a Firenze !"'Alterato" Bonciani introduce nella sua Lezione sopra il comporre delle novelle un' ampia digressione che rappresenta a tutt'oggi il più eloquente tentativo di difendere la reale nozione aristotelica di peri­ pezia (Bonciani, [ r 5 74] I 97 2 , pp. I 7 I - Ù Contestando apertamente la superficiale definizione del Castelvetro, l'accademico "Aspro" non ri­ tiene giustamente che «l'intera essenza della peripezia» sia riducibile alla sola «mutazione», «perciò che altre due condizioni di più si ri­ cercano: che la mutazione nasca n'un tratto e che ella derivi da cose a diverso fine operate, come si vede in quella meravigliosa peripezia che Sofocle usò nell'EdzjJO tiranno» (ibid. ) . Per chiarire ancor meglio la differenza fra metabasi e peripezia, Bonciani mette a confronto le rispettive sventure di Didone e Cleopatra con quella di Danao, che già Aristotele aveva citato insieme a quella di Edipo, senza però spie­ garla altrettanto chiaramente: I . le prime due morti rappresentano, sì, due «grandissime mutazioni», eppure «nuove non giungono ma anti­ vedute» (in entrambi i casi un'amante abbandonata pone fine ai suoi lamenti col più prevedibile dei suicidi); 2 . la morte di Danao, invece, «non solo è gran mutazione, ma peripezia ancora» per il fatto di esse­ re inaspettata e causata da intenzioni opposte (nel perduto Linceo di Teodette, Danao viene ucciso con lo stesso strumento con cui egli avrebbe voluto uccidere Linceo ) . In sintesi, una cosa è la commozio­ ne graduale suscitata dall ' " azione semplice" che porta necessariamen­ te e verosimilmente al suicidio di Didone o Cleopatra; altra cosa è lo sconvolgimento emotivo suscitato dall"' azione complessa" di Danao (peripezia) o, ancor più, di Edipo (peripezia e riconoscimento) , !ad­ dove il fattore involontario e sorprendente acuisce a dismisura le pas­ sioni tragiche di pietà e terrore, favorendo così la più violenta e al contempo la più purificatrice ed edificante delle catarsi. Il fatto che distinzioni concettuali di simile acutezza venissero at­ tuate proprio in seno all'Accademia fiorentina degli Alterati è alta­ mente significativo, considerato lo stretto legame esistente - già a par­ tire dal gennaio del I 5 7 3 - fra questa istituzione letteraria e le più 44

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musicali " camerate fiorentine" di Giovanni Bardi (in auge fra il 1 5 70-72 e il 1 5 82-85 ) e di Jacopo Corsi (anni ottanta e novanta), au­ tentici laboratori di riflessione e sperimentazione interdisciplinare, cui partecipano poeti per musica, artefici d'intermedi, futuri librettisti d'opera e persino musici teorici e pratici, quali soprattutto Girolamo Mei, Vincenzo Galilei, i già citati Strozzi il Giovane e Bardi, Ottavio Rinuccini, Gabriella Chiabrera, Giulio Caccini, Pietro Strozzi, J acopo Peri. Sembra difficile immaginare che i musicisti di fine secolo, come i poeti loro collaboratori, non conoscessero perfettamente sia le defi­ nizioni aristoteliche, sia le sofisticate letture proposte dai colleghi let­ terati. Nel caso isolato di Bardi, eclettico umanista prima ancora che musicografo e madrigalista, ciò trova anche un preciso riscontro do­ cumentario, per quanto inconsueto esso possa apparire: nel suo Di­ scorso sopra il calcio egli afferma infatti che la «bellezza maggiore» di questo gioco, come anche «delle commedie, delle tragedie, e d'ogni sorta di poetica composizione», consiste proprio nel suo improvviso e inaspettato «rivoltar di fortuna» (Bardi, [ 1 5 8o] 1 6 1 5 , p. 2 8 ) . Altrettanto significativo, d'altra parte, è il fatto che n é Bardi né altro teorico dell'epoca abbia mai sentito il bisogno d'introdurre simi­ li concetti in una trattazione di argomento musicale. Tan t o l'autore del Discorso [ ] sopra la musica antica e 'l cantar bene ( 1 5 78-79), quanto il Galilei del Dialogo della musica antica et della moderna ( 1 5 8 1 ) , sulla scorta dell'ennesimo teorico puro d'impostazione filolo­ gico-umanista, Girolamo Mei ( 1 5 67 - 7 3 ; [ 1 5 7 2 ] 1 96o), si rivelano in tal senso ancor più conservatori di Zarlino. Per tutti loro, come si è in parte già notato, l' applicazione in discriminata del principio di uni­ tà a qualsiasi parametro musicale costituisce la condizione primaria di una composizione che ambisca a ristabilire il potere espressivo e per­ sino etico della musica antica nella pratica moderna: se tale potere dipendeva soprattutto dall' ethos dei ritmi e dei modi - come ribadito da Platone e da Aristotele - ne deriva logicamente che anche in epo­ ca moderna l'intonazione corale o monofonica di un testo poetico, per risultare tanto intelligibile quanto espressiva, dovrà comunque ba­ sarsi sulla stessa " quantità di tempo" e " qualità di ritmo" oltre che su un unico "tuono" e "aria" , e persino su un ambito melodico il più possibile ristretto - il comune modello classico, a tal proposito, è quello delle " canzoni" di Terpandro e Olimpo, d' ambito non supe­ riore alla terza o alla quarta. Il purista Mei, addirittura, considera la polifonia moderna a priori inespressiva e antietica, proprio in quanto basata sul principio della mescolanza di elementi eterogenei, in senso sia verticale sia orizzonta. . .

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le. La diversa declamazione del testo poetico da parte di pm voci oscura l'intelligibilità stessa di parole e versi, e rende difficile l'impor­ si di un unico " affetto ritmico " ; l'altrettanto inevitabile commistione simultanea e lineare di "più arie e tuoni " neutralizza sin dalle pre­ messe ogni potenzialità espressiva di tipo etico-modale: ne deriva una «disordinata perturbazione e mescuglio e cincistiata de le parole, onde non si lascia penetrare al intelletto di chi ode la virtù del con­ cetto che in esse è perventura efficacemente espresso, [ . . . ] il quale però, quando bene fusse compreso, potrebbe esso da per sé solo esse­ re atto a commovere et generare affetto in altrui» (Mei, [ 1 572] 1 960, p. 99). Simili principi vengono ribaditi da Bardi e da Galilei, che tut­ tavia devono fare i conti anche con il sistema teorico " armonico-con­ trappuntistico " zarliniano - di cui continuano ad essere profonda­ mente imbevuti - e con l'ineludibile realtà pratica della tradizione po­ lifonica, che essi stessi continuano ad alimentare con l'esclusiva pro­ duzione di madrigali a più voci: ecco perché, pur incoraggiando nei loro scritti la nascita di una nuova forma monodico-accompagnata, entrambi individuano il punto di partenza di tale svolta nello stile omofonico e coralmente recitativo - ma pur sempre polifonico e con­ trappuntistico - degli ultimi madrigali di Cipriano de Rore. Ancor più colpisce il fatto che nessuno fra i moderni cultori fio­ rentini, ferraresi e " mantovani" del " divin Cipriano" - dal Bardi del Discorso al Galilei del trattato manos critto di contrappunto ( [ 1 5 88-9 1 ] 1 9 8o), dall'Ercole Bottrigari del Melone secondo ( 1 602) al già citato accademico "Ottuso" (Artusi, 1 60 3 ) , fino ai fratelli Monte­ verdi (C. Monteverdi [ 1 605] 1 9 84; G. C. Monteverdi [ 1 607] 1 9 6 3 ) abbia mai affermato, almeno in termini sufficientemente chiari e pre­ cisi, che proprio nei loro madrigali preferiti è ravvisabile la prima ap­ plicazione poetico-musicale dei principi aristotelici di "unità nella va­ rietà" e " rivolgimento dei contrari" . Prima che una simile consapevo­ lezza possa emergere, non solo implicitamente, sul fronte della prassi compositiva, ma anche su quello dell'esplicita formulazione teorica, bisognerà attendere la nascita e piena affermazione secentesca di due nuovi generi realmente " drammatico-musicali" : il madrigale rappre­ sentativo e l'opera. Come si vedrà fra breve, sarà proprio il loro prin­ cipale artefice, Monteverdi - ancora una volta un musico-poieta­ drammaturgo, non certo un teorico - a sancire questa svolta epocale, rifacendosi esplicitamente alle aristoteliche "passioni contrarie" che il suo più consono e familiare poeta cinquecentesco, il " divin Tasso " , meglio d i chiunque altro, aveva non solo codificato sul piano teorico ma anche vivamente rappresentato nel suo poema.

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Madrigale polifonico, stile rappresentativo e dramma per musica: dall'espressione lirico-musicale della metabasi alla rappresentazione drammatico-musicale della peripezia Distinzioni concettuali come quelle proposteci su basi aristoteliche dal Tasso e dagli Alterati fiorentini - in particolare, tra favola sem­ plice e composta, tra mutazione d'affetto e di fortuna, e tra mutazio­ ne tout court e peripezia - possono aiutarci anche a individuare la precisa linea di confine che separa l'espressività contrastiva del ma­ drigale polifonico, nei suoi esiti più avanzati, da quella realmente drammatica ravvisabile nel madrigale rappresentativo e nelle prime forme di melodramma. A tal fine per ragioni di sintesi ci si limiterà ad offrire solo alcuni esempi pratici, particolarmente emblematici, tratti perlopiù dalla produzione monteverdiana. 2 . 4 . r . MUTAZIONI SEMPLICI NEL MADRIGALE DELLA SECONDA PRATICA

Anzitutto, non bisogna sottovalutare la natura essenzialmente lirica e polifonica di un genere poetico-musicale puro come il madrigale cinquecentesco. Il carattere lirico dei testi poetici, di per sé, com­ porta un relativo restringimento del campo espressivo oltre che for­ male: un componimento poetico di genere lirico, sia esso un epi­ gramma, un sonetto o un'intera canzone - comunque una forma concisa, che si esaurisce nel giro di un limitato numero di versi - è in grado di esprimere tutt'al più concetti, sensazioni, affetti, imma­ gini spesso più astratte e metaforiche che concrete, senza bisogno di rappresentare esplicitamente e in modo diretto le azioni che han­ no originato quelle stesse emozioni, immagini o riflessioni . Il mezzo polifonico non fa che accentuare questa qualità per così dire intro­ spettiva, indiretta e puramente emotiva della poesia, fino al punto da produrre quasi una spersonalizzazione dell'io lirico: nella norma­ le declamazione di una poesia, infatti, l'io lirico ha almeno la possi­ bilità di trasferirsi ed incarnarsi nella singola voce di un lettore, di rivivere in qualche modo nella rappresentazione pur sempre indivi­ duale e soggettiva di un'altra persona recitante; se invece lo stesso testo poetico viene intonato da più voci simultaneamente, non solo sarà più difficile percepirne chiaramente parole e versi, ma sarà an­ che impossibile associare la voce dell'io lirico a quella di una singo­ la persona-interprete: l'espressione soggettiva e diretta della singola voce recitante, in altre parole, sarà sostituita da quella oggettiva, in,

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diretta e artificiosa affidata dal compositore a un più eterogeneo e impersonale insieme di voci cantanti. Proprio in virtù di questa sua duplice natura lirico-polifonica, dunque, anche il più contrastivo dei madrigali ciprianeschi o mon­ teverdiani, ben lungi dal voler rappresentare mutazioni realmente drammatiche - ovvero mutazioni di fortuna se non addirittura peri­ pezie -, ambirà tutt'al più ad esprimere in forma concisa e mediata nient' altro che antitesi concettuali e mutazioni d'affetto, in implicito riferimento alle vicende di una presupposta favola semplice. Come avviene, nella forma più altamente emblematica, nel madrigale Mia benigna fortuna l Crudele acerba di Cipriano de Rore ( [ 1 5 5 7 ] 1 9 69b), uno dei principali modelli del Monteverdi polifonista (non a caso citato dal fratello Giulio Cesare; G. C. Monteverdi, [ 1 607] 1 9 6 3 , p . 3 9 7 ) : le due stanze petrarches che non rappresentano certo il " dramma" della morte di Laura - inteso aristotelicamente come " azione" , "fatto " , " evento drammatico" - quanto semmai la pateti­ ca, traumatica, inesprimibile reazione emotiva che un evento così tragico ha scatenato nell'io lirico (in questo caso precisamente iden­ tificabile con il poeta Francesco Petrarca) ; l'intonazione polifonica di Rore, per quanto profondamente mimetica, e dunque inevitabil­ mente contrastiva e mutevole, può ambire tutt'al più ad imitare fe­ delmente quella mutazione d' affetto, fino al punto di esprimere in musica ciò che è inesprimibile a parole; ma più essa si avvicinerà a tale scopo, più essa si allontanerà dalla voce poetica di Petrarca, tendendo semmai a sovrapporvi la voce del compositore nella sua più oggettivante ed astratta veste polifonica. Anche quando il madrigalista attinge a generi letterari di natura più " drammatica" , quali il poema epico o il dramma teatrale nelle sue più varie forme, egli non potrà fare altro che selezionarne singoli brani, di breve estensione e di carattere lirico-emotivo ancor più che narrativo. In linea di principio, persino un'intera scena tragica come anche un intero episodio epico - nel momento in cui venisse intonata polifonicamente dall'inizio alla fine, a formare un ampio e multisezionale ciclo madrigalistico, finirebbe inevitabilmente per esse­ re liricizzata, ovvero per smarrire ogni originaria componente " dram­ matica " (nel senso di fattuale, legata all'imitazione di eventi) . Non è un caso che a tale improbabile soluzione i madrigalisti della seconda pratica abbiano preferito la messa a fuoco lirico-polifonica di nuclei drammatici tratti soprattutto da poemi epici e tragicommedie pastora­ li di marca aristotelico-ferrarese quali La Gerusalemme liberata e Il

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Pastor fido. E non è un caso che proprio al poema del Tasso, come anche alla pièce del Guarini, polifonisti di ambito ferrarese e manto­ vano quali Wert e Monteverdi abbiano dedicato una parte cospicua delle rispettive produzioni madrigalistiche. Proprio da due scene separate del Pastor fido (Guarini, [ 1 5 90] r 977, Atto I, scena 2 e Atto m , scena 4) - guardacaso - sono tratti i testi poetici dei due madrigali monteverdiani che più di ogni altro destarono le ire dell' Artusi: Cruda Amarilli e O Mirtillo. Nonostante siano stati stampati come due madrigali singoli e autonomi, proprio in apertura del libro v ( r 6o5 ) , a ben vedere essi rappresentano il du­ plice nucleo drammatico-affettivo - di segno mesto - attorno a cui Guarini ha costruito l'intera sua tragicommedia: pur ricambiando con pari ardore l'amore appassionato del pastore arcadico Mirtillo, infatti, la ninfa Amarilli non può manifestare i suoi reali sentimenti, a causa dell'errata interpretazione di un oscuro vaticinio oracolare; convinta che amare apertamente Mirtillo significherebbe condannarlo a morte, Amarilli ne respinge e scoraggia ripetutamente le profferte, ostentan­ do un atteggiamento sempre più impietoso; solo alla fine della vicen­ da, quando Mirtillo si rivela essere il "pastor fido" del vaticinio, pro­ messo sposo di Amarilli, il loro amore potrà trionfare con "allegrez­ za" direttamente proporzionale alle sofferenze patite. Monteverdi deve aver colto in questi pochi versi la sintesi poetica di quella pro­ lungata fase di sospensione tragica che solo nelle ultime battute del dramma verrà risolta nel più entusiastico e intensamente lieto degli scioglimenti. Gli otto versi sciolti di Cruda Amarilli sono quelli con cui si apre il primissimo monologo di Mirtillo (Atto I, scena 2, vv . r - 8 ) ; in essi è racchiuso il succo tanto caratteriale quanto affettivo del personaggio di Mirtillo: amante non corrisposto che si lamenta per la crudeltà del­ l'amata, e che intravede nella morte l'unica via d'uscita. I tredici versi con cui ha inizio il successivo e ancor più esteso monologo di Ama­ rilli, O Mirtillo (Atto m, scena 4, vv . r - 1 3 ) , sono altrettanto cruciali, in quanto per la prima volta il personaggio apparentemente più " cru­ do" del dramma manifesta i suoi reali sentimenti: ad una sorta di dia­ logo ideale con Mirtillo ( vv . r -6) segue un vero e proprio lamento­ sfogo, in cui l'interlocutore non è più l'amato, ma se stessa, gli aman­ ti infelici, il «crudo destino», il «perfido Amore». Così la volontà di comunicare e ricongiungersi nell'amore cede il passo alla rassegnazio­ ne, perdita di ogni residua speranza, definitiva separazione degli sfor­ tunati amanti . 49

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[MIRTILLO: ]

[AMARILLI:]

Cruda Amarilli, che col nome ancora d'amar, ahi lasso, amaramente insegni; Amarilli, del candido ligustro più candida e più bella, ma dell'aspido sordo e più sorda e più fera e più fugace; poi che col dir t'offendo i' mi morrò tacendo.

O Mirtillo, Mirtill'anima mia, se vedessi qui dentro come sta il cor di questa che chiami crudelissima Amarilli, so ben che tu di lei quella pietà che da lei chiedi avresti. Oh anime in amor troppo infelici ! Che giova a te, cor mio, l'essere amato? Che giova a me l'aver sì caro amante? Perché, crudo destino, ne disunisci tu, s'Amor ne stringe? E tu perché ne stringi se ne parte il destin, perfido Amore?

Se l' Artusi avesse letto il Pastor fido, magari con maggiore benevo­ lenza rispetto all'altrettanto inflessibile censore De Nores, avrebbe forse compreso i presupposti estetici di entrambe le scelte poetiche e musicali di Monteverdi. L'evidente legame poetico-drammatico dei due testi, anzitutto, trova pieno riscontro nell' altrettanto palese conti­ nuità musicale esistente fra le due intonazioni, tale da unirle in una sorta di "scena " madrigalistica bipartita (com'è stato illustrato in La Via, 1 999a) . Fra i più evidenti sintomi di continuità vi è la ricorrenza di ben riconoscibili figure ritmico-melodiche, la più importante delle quali getta un ponte anche strutturale oltre che affettivo fra l'invoca­ zione che apre il lamento di Mirtillo - «Cruda Amarilli» - e quella ancor più tragicamente ironica che ci prepara alla chiusura del " dia­ logo ideale" instaurato dalla ninfa: « [che chiami] crudelissima Ama­ rilli». Altrettanto significativo è il fatto che sin qui Amarilli si è espressa non solo nello stesso linguaggio, ma anche entro la stessa area tonale già percorsa da Mirtillo nel suo lamento, incentrata su Sol. Nei due versi successivi, proprio alla fine della sua ideale " rispo­ sta " , la stessa sonorità viene toccata un'ultima volta ma in più debole forma minore, tramite fuggevole cadenza perfetta (a "pietà" ) , e solo per essere definitivamente abbandonata: il passaggio dalla sfera dialo­ gico-comunicativa a quella più rassegnata e disperata del monologo finale porta infatti allo spostamento dell'area di messa a fuoco ton ale da Re > Sol/sol al del tutto nuovo orientamento cadenzale re > La > Re che domina l'intera sezione conclusiva; tale transizione è tal­ mente violenta che Monteverdi non si cura neanche di rispettare la 50

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netta cesura sintattica che separa le due parti di O Mirtillo: quando ancora le tre parti inferiori stanno finendo di intonare la parola «avresti», ben demarcata da punto, nel bel mezzo della svolta caden­ za La > Re, il Canto ha già iniziato a esclamare il suo drammatico «Oh», che le altre voci contribuiranno ad enfatizzare con un esteso melisma. La " commistione modale" di O Mirtillo, la licenza monte­ verdiana che più di ogni altra turbò l'animo di Artusi, risulta dunque ampiamente comprensibile solo se estesa al madrigale precedente, ov­ vero solo se l'affetto patetico di Mirtillo viene posto in diretta relazio­ ne al diverso conflitto interiore di Amarilli, ancor più tragico e mu­ tevole. 2 . 4 . 2 . FAVOLA COMPLESSA, DRAMMA PER MUSICA E RAPPRESENTAZIONE DELLE PASSIONI CONTRARIE: LA FA VOLA DI ORFEO E IL COMBATTIMENTO DI TANCREDI E CLORINDA

Per poter superare i limiti del genere lirico, o tutt'al più lirico-narrati­ vo, e ottenere un genere pienamente drammatico e scenico-rappre­ sentativo, Monteverdi ha dovuto soddisfare due fondamentali esigen­ ze aristoteliche fino ad allora precluse a qualsivoglia contrappuntista della seconda pratica: 1 . anzitutto, imitare non più solo emozioni, concetti, immagini astratte, ma anche eventi, azioni, espressioni non solo verbali, ma anche mimico-gestuali, di "persone che agiscono " ; 2 . imitare, d i conseguenza, non più solo mutazioni d'affetto, che riman­ dino implicitamente ad un'esterna favola semplice, ma anche muta­ zioni di fortuna e peripezie sorgenti all'interno della rappresentazione stessa di una favola preferibilmente complessa. 1 . La prima esigenza ha condotto soprattutto a due soluzioni obbli­ gate, di ordine rispettivamente esegetico-testuale e tecnico-compositi­ vo: la scelta di testi poetici assai più estesi ed eterogenei, di genere non più lirico ma drammatico (come nel caso dei libretti d'opera) op­ pure anche epico-narrativo e dunque potenzialmente drammatico (come in taluni esempi di madrigale rappresentativo) ; l'adozione della tecnica monodica in associazione a singoli personaggi, tale da render­ ne possibile l'effettiva teatralizzazione - il che non significa di certo abbandonare la tecnica polifonica, che continua ad essere necessaria­ mente impiegata in associazione a "personaggi collettivi " talora analo­ ghi ai cori della tragedia classica, spesso impegnati anche nella danza oltre che nel canto. 2. Di natura poetico-testuale e compositiva sono anche le due prin­ cipali condizioni richieste dalla seconda esigenza aristotelica: la più ovvia consiste nella scelta di testi poetici contenenti imitazioni di fa51

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vole non più semplici ma complesse, in cui cioè lo scioglimento sia prodotto attraverso le più estreme forme di mutazione, la peripezia e il riconoscimento; ben più difficile è invece riuscire a tradurre tali ri­ volgimenti dei contrari in soluzioni tecnico-compositive adeguate, ov­ vero in contrapposti ritmici, melodici, armonici, tonali, o più in gene­ rale di scrittura e di sonorità, che producano effetti contrastivi altret­ tanto estremi senza turbare la continuità di eventi e sentimenti, ovve­ ro l'unità d'azione dell'intero organismo drammatico-musicale. Un ruolo cruciale, in tal senso, può essere svolto non solo dalla scrittura vocale, monodica o polifonica che sia, ma anche da quella strumenta­ le adottata nell'accompagnamento sia del canto arioso o corale, sia dell'azione stessa - o anche della danza - degli attori impegnati sulla scena, in forma autonoma di "ritornello" o di " sinfonia" . Entrambe l e esigenze trovano la più compiuta realizzazione mo­ derna nel primo vero melodramma della storia, La favola di Orfeo (rappresentata a Mantova nel r 6oT Striggio, r 6o7; Monteverdi, [ r 6o9] 1 9 54-68), e forse ancor meglio nel più celebre madrigale rap­ presentativo del Seicento, Il combattimento di Tancredi e Clorinda (Venezia, r 624 ca.; Monteverdi, [ r 6 38] 1 962 ) . In questi due capola­ vori il contrappuntista, monodista e sinfonista Monteverdi riuscì a sfruttare tutti i possibili mezzi tecnici disponibili nella sua epoca introducendone anche di nuovi - al fine ultimo di rappresentare quella che Aristotele, e con lui il Tasso, avrebbe senza dubbio defini­ to una "favola tragica complessa " . 2 - 4 - 3 · MUTAZIONE E PERIPEZIA D'ORFEO

Dal punto di vista aristotelico, il libretto di Alessandro Striggio ri­ sulta impeccabile, soprattutto nella versione posta in musica da Mon­ teverdi e stampata a Venezia nel r 6o9, divergente in alcuni punti cru­ ciali - soprattutto nel finale - da quella letteraria stampata a Mantova nel r 6o7 . Anche se il soggetto è lo stesso trattato da Ottavio Rinucci­ ni appena sette anni prima nella fiorentina Euridice (Rinuccini, [ r 6oo] 1 904-05 ) , esso viene interpretato e sviluppato in modo diametralmen­ te opposto, con più diretto riferimento a ben più di un modello lette­ rario: quello tassiano e guariniano della tragicommedia pastorale fer­ rarese (Aminta e Pastor Fido), quelli ancor più obbligati di Dante e del Poliziano (la cui Fabula di Orfeo, anch'essa mantovana, risale for­ se già agli anni sessanta del Quattrocento), e infine quelli tragici, anti­ chi e moderni, di Sofocle (non solo l'Edipo Re, ma anche l'Edipo a Colono), e ancora una volta di aristotelici ferraresi quali Giraldi Cin52

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zio ( Orbecche, rappresentato a Ferrara nel 1 5 4 1 , edito a Venezia nel 1 5 4 3 ) e il Tasso ( Torrismondo, anch'esso stampato a Mantova nel 1 5 87 ) . Per superare i limiti non solo della favola pastorale ma anche della tragicommedia, e rendere così possibile l'effettiva nascita del nuovo genere melodrammatico, lo Striggio - probabilmente con la costante assistenza dell'amico Monteverdi - non ha fatto altro che unire tutti questi modelli classici in una sorta di libretto-centone, ispi­ rato in primis al genere tragico e animato da una logica combinatoria in tutto e per tutto aristotelica. Se il Rinuccini si era servito della "Tragedia" per chiarire sin dalle premesse il carattere antitragico del suo libretto, nel prologo dell' Or­ feo lo Striggio affida all'incarnazione della " Musica" una funzione eti­ ca diametralmente opposta: preparare il pubblico alla rappresentazio­ ne di una favola realmente tragica, perdipiù di tipo " complesso " , ca­ ratterizzata dall'alternanza di «canti hor lieti, h or mesti», in cui la musica svolga una funzione non solo edonistica e tranquillizzante («cantando soglio l mortai orecchia lusingar talora», «so far tranquil­ lo ogni turbato core») , o anche di armonizzazione ed elevazione spiri­ tuale dell'anima umana («de l'armonia sonora l de le rote del ciel più l'alme invoglio»), ma anche di più drammatica animazione delle pas­ sioni («Et or di nobil ira et or d'amore l posso infiammar le più gela­ te menti») . In perfetta coerenza con quanto anticipato dalla Musica, l'intera vicenda del mitico cantore Orfeo è in seguito rappresentata come un continuo susseguirsi di mutazioni di fortuna e di affetto, d'impatto drammatico sempre più forte ed estremo, tali da culminare in quella che il Bonciani avrebbe sicuramente considerato come un'autentica peripezia aristotelica. Ciò che rende tali mutazioni particolarmente energetiche, e dun­ que più efficacemente drammatiche, è proprio la continua reversibili­ tà del loro orientamento affettivo; non si passa solo dal mesto al lieto e viceversa, ma si passa continuamente dal mesto > lieto al lieto > mesto, in modo che ciascun affetto, tanto il lieto quanto il mesto, ri­ sulti ogni volta più drammaticamente motivato e più intensamente vissuto; in tal senso è possibile suddividere l'intera "favola comples­ sa" di Striggio-Monteverdi in cinque fondamentali sovvertimenti drammatico-affettivi, via via sempre più estremi, tali da culminare nel più soddisfacente e catartico degli scioglimenti finali: r . l'intero primo atto, e buona parte del secondo, è interamente per­ vaso di un sentimento quantomai dinamico di " allegrezza" , ovvero di una gioia tanto più intensa in quanto sopravvenuta dopo un lungo periodo di sofferenza amorosa: Euridice, infatti, dopo essersi a lungo sottratta alla corte di Orfeo, ha finalmente corrisposto il suo amore 53

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ed accettato di sposarlo; una mutazione di fortuna pressoché identica a quella che aveva sancito l'epilogo del Pastor Fido costituisce appena l' antefatto dell' Orfeo; all'inizio dell'opera, nell'imminenza delle nozze, Striggio non può fare altro che rievocare tale antefatto, ovvero rap­ presentare in senso retrospettivo la mutazione affettiva, da mestizia ad allegrezza, che esso ha appena messo in moto nell'animo di Orfeo e della comunità pastorale; 2 . nel corso del secondo atto, proprio al culmine della festa pastora­ le, quando Orfeo sta non solo cantando ma anche danzando in ritmo d'ottonari la sua commossa felicità («Vi ricorda, o boschi ombrosi»), l'annuncio dell'improvvisa morte di Euridice da parte della messagge­ ra Silvia («Ahi, caso acerbo ! ») ha l'effetto perturbativo di mutare tan­ to la fortuna quanto l'affetto dei pastori e delle ninfe, provocando in Orfeo un autentico trauma; come nel caso dell'Euridice, si può parla­ re di mutazione, non ancora di peripezia, in quanto la perturbazione - la morte della ninfa - è stata causata dal «caso acerbo», dal «fato empio e crudele», dalle «stelle ingiuriose», dal «cielo avaro» cui sono ripetutamente rivolte le imprecazioni di Silvia e via via di tutti i pa­ stori e delle ninfe, fino all'esplosione corale del lamento finale; diver­ samente da Rinuccini, tuttavia, Striggio dipinge un Orfeo realmente sotto shock, così pietrificato nel dolore da rimanere senza parole: la sua mutazione è più verosimilmente estrema, più drammaticamente "mesta " , proprio in quanto preceduta dalla più entusiastica ed allegra delle mutazioni; 3 · nella fase infernale del nodo (Atti III-Iv) Striggio riprende e ap­ profondisce con ben altri esiti la soluzione artificiosa di Rinuccini: come già il Poliziano, segue realmente Orfeo nelle profondità dell'A­ de (mentre Rinuccini si era fermato alle sue porte), lo accompagna passo dopo passo nelle varie fasi dell'impresa, culminante nell'ennesi­ ma mutazione di fortuna e di affetto di segno " allegro" : per interces­ sione della commossa Proserpina - più che per le sue reali doti di cantore - egli riesce a riprendersi la sua Euridice, per ricondurla alla vita, e ancora una volta questa lieta mutazione di fortuna si traduce almeno inizialmente - nell'allegrezza danzante di un canto d' ottonari («Qual honor di te fia degno») ; 4 · m a ancora una volta il suo entusiasmo s i rivela affrettato e immo­ tivato: durante il viaggio di ritorno, rompendo la "legge" impostagli da Plutone in un attacco di panico che ne rivela tutta la virgiliana dementia amorosa (Georgiche, IV, 488-489) mista ad insicurezza, Or­ feo non riesce a fare a meno di voltarsi per assicurarsi che l'amata lo stia davvero seguendo, con l'effetto terribile di causarne la seconda e definitiva morte; questa nuova perturbazione seguita da mutazione è 54

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ancor più "terribile e pietosa" della prima, in quanto il suo agente primario non è più il fato crudele ma la "persona " stessa di Orfeo il cui "grande errore" - come direbbe Aristotele - è stato causato dal «troppo amor» per Euridice, come ci dice lei stessa nell'ennesima formula polizianesca; questa autentica peripezia - mutazione ancor più estrema in quanto frutto involontario di un'azione mirata a otte­ nere l'effetto contrario -, oltre a rendere il nostro eroe «di grazia in­ degno» (fine Atto IV) , nella prima e più lamentosa sezione dell'Atto v giunge a fargli toccare il punto più basso della sua fallimentare para­ bola esistenziale, così da assimilarlo sempre più distintamente all'eroe tragico per eccellenza, Edipo; 5 · il prolungato lamento con cui si apre l'ultimo atto dell'opera, cul­ minante in un violento sfogo misogino in endecasillabi sdruccioli («Or l'altre donne son superbe e perfide»), costituisce in realtà solo il preambolo all'apoteosi finale di Orfeo: invece di essere assalito dalle vendicative Baccanti (come avviene tanto nella Fabula del Poliziano quanto nell'originario libretto mantovano di Striggio), Orfeo viene salvato dall'intervento pietoso e risolutivo di Apollo, che accorre in suo aiuto in veste non solo di Dio onnipotente ma anche e soprattut­ to di padre e guida spirituale; a lui si era già rivolto il figlio nel primo atto dell'opera, in forma di commossa preghiera di ringraziamento («Rosa del ciel») , ed anche per questo l'avvento finale di Apollo non assume il senso artificioso e forzato - tanto vituperato da Aristotele di deus ex machina, rendendo semmai possibile lo scioglimento tanto verosimile quanto necessario del duplice nodo pastorale ed infernale accumulatosi negli atti precedenti: l'ascensione celeste di Orfeo, volu­ ta dal padre, equivale al distacco definitivo dalle passioni umane, alla conquista dell'armonia, della «virtù verace» (v. 3 1 ) , della vita eterna, di Euridice stessa: la sua duplice perdita, terrena (prima fase del nodo) ed infernale (seconda fase del nodo), viene infine ampiamente controbilanciata dalla sua celeste ed eterna riconquista (scioglimento) ; u n po' come l'eroe sofocleo dell'Edipo a Colono, e i n sintonia con una morale cristiana di stampo platonico prima ancora che aristoteli­ co, proprio per aver "troppo" sofferto dopo aver "troppo " gioito (vv. 1 6- 1 9 del finale) , Orfeo merita la «grazia eterna» (vv. 4 1 , 44) che lo libera per sempre da ogni sofferenza. La musica di Monteverdi non si limita a rispecchiare in modo mi­ metico ed eloquente una simile architettura poetico-drammatica, ma si spinge a potenziarne e metterne ancor più in risalto tanto gli assi portanti quanto le articolazioni interne ( come illustrato in La Via, 2002 ) : in particolare, essa riesce a rappresentare nel modo più effica­ ce ciascuno dei rivolgimenti predisposti dallo Striggio nella favola 55

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complessa del suo libretto, e nel contempo a far sì che tali mutazioni si susseguano nel pieno rispetto delle leggi aristoteliche di connessio­ ne, necessità e verosimiglianza, unità d'azione nella varietà di eventi ed affetti. Sia nel caso della mutazione pastorale di Orfeo, sia in quel­ lo della sua successiva peripezia infernale, Monteverdi traduce fedel­ mente il passaggio repentino dal sempre più "lieto" al sempre più "mesto" in altrettanto immediato e sistematico rivolgimento dei valori musicali di partenza: 1 . l'iniziale stato emotivo di allegrezza, già denotato dal metro otto­ nario che accomuna «Vi ricorda, o boschi ombrosi» (Atto n) all'inizio di «Qual honor di te fia degno» (Atto IV) , corrisponde all'iterazione strofica di una melodia ariosa ed orecchiabile, dal vivace ritmo di danza, e all' affermazione perentoria dell'area tonale di Sol (più inter­ na e dinamica alternativa alla cornice tonale di Re) tramite giri armo­ nici tanto consonanti quanto prevedibili, demarcati da reiterate ca­ denze autentiche (soprattutto Re > Sol); 2 . non appena l'esultanza di Orfeo viene interrotta e tramutata via via in un affetto sempre più contrastante di mestizia (a partire, cioè, dalle rispettive perturbazioni di Silvia e dello stesso Orfeo) , ciascuno di questi valori viene sottoposto ad un processo implacabile di stra­ volgimento e inversione: l' arioso vivace e danzante cede il passo ad una ben più secca declamazione in versi sciolti, ora nervosa e concita­ ta, ora più pateticamente lamentosa, la cui drammaticità dipende an­ che dall'alternanza di note ribattute e salti melodici di varia ampiezza e asprezza (settima e sesta, quinta e quarta diminuite) , in capillare aderenza ai suoni e significati delle singole parole; la precedente coe­ sione armonica e tonale (riducibile all'orientamento cadenzale auten­ tico Re > Sol) viene sconvolta da violenti e sempre più ravvicinati scontri fra opposti sistemi (mollisldurus si-bemolle in chiave/si-be­ quadro), armonie ( consonanti/dissonanti) , blocchi triadico-accordali (maggiore/minore, terza e quinta/terza e sesta) e fronti tonali (Mi-la/ re-Re/sol-Sol); a ciò si aggiunga il sempre più negativo, patetico e so­ spensivo impiego di cadenze frigie, mezzecadenze e cadenze fuggite, la cui ricorrenza contribuisce anche a rendere l'orientamento ton al e dei decorsi armonici sempre più mutevole ed imprevedibile. Nel caso della prima mutazione, il caos musicale provocato dalla perturbazione viene comunque tenuto sotto controllo, soprattutto grazie alla ciclica iterazione poetico-musicale dei primi due versi di Silvia - «Ahi, caso acerbo ! ahi, fat'empio e crudele ! l ahi, stelle in­ giuriose, ahi cielo avaro ! » - che assumono così autentica funzione di ritornello: dapprima solistico e maschile (la reazione del Pastore al tragico racconto di Silvia), in seguito variamente amplificato in forma =

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polifonica (la triplice demarcazione madrigalistica del Coro, subito dopo la partenza di Orfeo e nelle due articolazioni della trenodia fi­ nale) . L'ancor più grave peripezia infernale di Orfeo, viceversa, gene­ ra una ben più estrema e prolungata " confusione" interna, quasi pri­ va di punti di riferimento tonale: perché l'ordine venga ristabilito, bi­ sognerà attendere che il Coro degli Spiriti e il susseguente Ritornello della Musica ripropongano la stessa progressione armonico-tonale che aveva chiuso la fase pastorale del Nodo (da Mi > La a La > Re) . 2 .4 - 4 - PERIPEZIA E RICONOSCIMENTO DI TANCREDI E CLORINDA

Quel che forse manca all' Orfeo per soddisfare in tutto e per tutto l'ideale aristotelico di "favola tragica complessa" è la compresenza di due fattori che tanto l'autore della Poetica quanto i suoi esegeti tar­ dorinascimentali avevano adeguatamente messo in rilievo: in primo luogo, la fusione e compenetrazione qualitativa di peripezia e ricono­ scimento; in secondo luogo, il raggiungimento dell'effetto catartico ovvero di «purgazione dell'animo dalle passioni di terrore e pietà» tramite uno scioglimento realmente tragico, per quanto possibile vici­ no alla realtà umana, i cui valori positivi di purificazione e redenzione emergano non all'interno dell'azione stessa, ma più implicitamente e al di fuori di essa, come in una sorta di " riflesso etico" degli eventi rappresentati. Se la peripezia di Orfeo non ha bisogno di accompa­ gnarsi ad un riconoscimento - a meno che non si consideri tale la paradossale rivelazione edipica della propria cecità, o incapacità di comprendere il senso di ogni azione propria o altrui -, la sua finale redenzione, il suo aprire gli occhi alla realtà e al suo vero significato, viene pienamente rappresentata sulla scena, ovvero tradotta nell'even­ to altamente spetta colare quanto irreale di un'apoteosi celeste: un' as­ sunzione anche più platonizzante e cristiana che aristotelica, forse "necessaria" per togliere ogni dubbio sulla "morale " dell'intera fabu­ la, e "verosimilmente" condotta dal padre di Orfeo, che tuttavia non avrebbe mai potuto realizzarla senza essere un dio, perdipiù sommo e influente, quale Apollo. Ci si aspetterebbe che il passo successivo, in tale direzione, fosse costituito dalla seconda opera di Monteverdi, l'Arianna (Mantova, I 6o8), trattandosi della prima «Tragedia» moderna mai «rappresenta­ ta in musica». In realtà il libretto del Rinuccini costituisce, anche da questa prospettiva, un decisivo passo indietro: a parte la sua eccessiva estensione, la ridondanza di elementi ornamentali e digressivi, la mancanza di sintesi e la complessiva "sconnessione" , il suo stesso 57

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soggetto mitografico - prima ancora del modo in cui viene qui rivisi­ tato - costituisce di per sé una favola semplice, priva di peripezia e riconoscimento, che viene perdipiù lietamente risolta col più inverosi­ mile ed artificioso dei Deus ex machina. Il dramma di Arianna abban­ donata da Teseo - esattamente come quello virgiliano, citato dal teo­ rico Bonciani e ripreso dal Tasso epico, di Didone-Armida abbando­ nata da Enea-Rinaldo (Gerusalemme liberata, canto XVI) - non va ol­ tre i limiti della semplice "mutazione " di fortuna e d'affetto. Non solo, ma a differenza del modello virgiliano-tassiano, dopo essersi a lungo lamentata per la partenza dell'amato - molto più a lungo ri­ spetto non solo alla Didone già intonata polifonicamente da Rare (Dissimulare etiam sperasti, r 5 5 9 ) , ma anche all'Armida dello stesso Monteverdi ( Vattene pur crude!, 1 5 9 2 ) -, Arianna dimentica subito il pur mortale eroe Teseo al sopraggiungere di un dio poderoso ed av­ venente quale Bacco, a cui altrettanto immediatamente si unisce nelle più spettacolari delle nozze. Non è forse un caso che dell'intonazione di Monteverdi sia so­ pravvissuto esclusivamente il lamento di Arianna, unico episodio del libretto che conservi un qualche interesse drammaturgico, tale da sti­ molare l'ulteriore perfezionamento del vocabolario patetico e contra­ stivo del compositore. Gli esiti della sua rappresentazione furono ad­ dirittura catartici, almeno secondo la testimonianza ufficiale del cro­ nachista di corte: «il lamento che fece Arianna sovra lo scoglio, ab­ bandonata da Teseo», infatti, «fu rappresentato con tanto affetto e con sì pietosi modi, che non si trovò ascoltatore alcuno che non s'in­ tenerisse, né fu pur una Dama che non versasse qualche lagrimetta al suo pianto» (Follino, [ r 6o8] 1 9 05 , vol. II, p. 1 45 ) . Altrettanto signifi­ cativo, d'altra parte, è il fatto che il lamento monteverdiano sia so­ pravvissuto in forma polifonica oltre che monodica, e che in tale ver­ sione lirico-madrigalistica i conflitti emotivi di Arianna acquistino ri­ salto e spessore introspettivo ancora maggiori. Che il "lamento del­ l'abbandonata" costituisse ancora in pieno Seicento un sottogenere a sé stante, facilmente estrapolabile dal più vasto contesto epico-narra­ tivo o drammatico di appartenenza, ma ancora legato alla tradizione "lirica " e polivocale del madrigale cinquecentesco, lo dimostra anche il caso altrettanto celebre del monteverdiano Lamento della Ninfa, in­ cluso fra i "madrigali rappresentativi " del libro VIII ( 1 63 8 ) : esso è ca­ ratterizzato proprio dalla patetica " drammatizzazione" non solo mo­ nodica-femminile (lamento centrale della Ninfa, su basso ostinato in forma di tetracordo frigio discendente) ma anche polifonica-maschile (esterna cornice narrativa del lamento, interne interpolazioni corali a

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commento del canto solistico) di un testo originariamente lirico, an­ cora una volta del Rinuccini. La tappa finale di questo lungo e tortuoso percorso sperimentale, quella in cui Monteverdi realizza compiutamente l'ideale aristotelico di favola tragica complessa, è fatalmente rintracciabile al di fuori tan­ to del genere teatrale dell'opera quanto del sottogenere altrettanto rappresentativo ma più semplice del lamento. Rinunciando anche al­ l' apporto dei migliori librettisti del primo Seicento, l'ormai veneziano Monteverdi sembra non avere altra scelta che ritornare ai versi epici del più drammatico e consapevolmente aristotelico fra i poeti del se­ colo passato, il Tasso della Liberata, concentrandosi in particolare sull'episodio centrale del canto xn. Nonostante il carattere narrativo, o platonicamente diegetico, di queste ottave, il compositore vi ricono­ sce la più perfetta delle mimesi drammatiche, mostrando un atteggia­ mento assai simile a quello già assunto dallo stesso Aristotele nei con­ fronti dei poemi omerici: il suo Combattimento di Tancredi e Clorinda (libro VIII , [ 1 63 8 ] 1 962) intende soprattutto rivelare sulla scena - con mezzi in tutto e per tutto rappresentativi - quella favola tragica com­ plessa che le ottave tassiane contengono in nuce, e che, tuttavia, per la loro natura epico-narrativa, esse non sono in grado, per l'appunto, di "rappresentare " . È abbastanza sorprendente constatare come nessun letterato del tempo, e tantomeno alcun musicista prima di Monteverdi, abbia colto la specifica qualità complessa della drammatica vicenda qui narrata dal Tasso: ovvero della "guerra" fra il valoroso crociato Tancredi e un ignoto combattente musulmano, che solo nelle fasi culminanti del­ la «preghiera e morte», attraverso il più peripetico e traumatico dei riconoscimenti, si rivelerà nella persona dell'amata Clorinda. I termini «guerra, cioè, preghiera e morte» sono quelli usati dal compositore stesso, nella prefazione al libro VIII (stampata subito dopo il fronte­ spizio e intitolata Claudio Monteverdi a chi legge) , per definire le due "passioni contrarie" che già il «divin Tasso [ . . ] esprime con ogni pro­ prietà e naturalezza» nella sua «descrittione che fa del combattimento di Tan credi e Clorinda», e che in seguito lui stesso «ritrova» e «mette in canto» nella sua «rappresentazione» drammatico-musicale (ivi) . Poco prima, Monteverdi h a già avuto modo di esporre a chiare lette­ re il principio estetico che è alla base del suo " ritrovamento " poetico­ musicale: «ben sapendo che gli contrarij sono quelli che muovono grandemente l'animo nostro - fine del movere che deve havere la bo­ na musica». Nella seconda prefazione - stampata nella parte del bas­ so continuo (ivi, pp. 1 8 -9) - l'orientamento aristotelico del program.

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ma monteverdiano, su entrambi i piani performativo ed estetico, di­ viene ancor più evidente. 1 . È essenziale, in particolare, che le «tre ationi» rappresentate ri­ spettivamente dal «Testo», dai protagonisti «Tancredi e Clorinda», e dai musici «istrumentisti», «venghino ad incontrarsi in una imitatione unita». Il Testo è da intendersi non solo come voce narrante ma an­ che come personaggio- cantante emotivamente coinvolto nell'azione (quasi una personifìcazione teatrale dello stesso Tasso), anche se al suo interprete Monteverdi chiede soprattutto di declamare i versi con la massima chiarezza e precisione. I due attori-mimi-cantanti protago­ nisti, a loro volta, dovranno tradurre via via l'azione narrata dal Testo in "passi " , " gesti" e " colpi" prima ancora che in episodici frammenti di recitazione cantata. Un terzo ma non meno importante livello drammatico è infine costituito dai «suoni incitati e molli» degli stru­ mentisti, che dunque non si limitano ad "accompagnare" la vicenda narrata ed agìta dai tre personaggi, contribuendo semmai in modo decisivo alla sua viva rappresentazione. 2. Solo rispettando questa particolare interpretazione del principio di unità nella varietà, sarà infine possibile realizzare un effetto catarti­ co analogo a quello già operato dal Combattimento, ai tempi della prima messa in scena veneziana (Palazzo Mocenigo, 1 624), su «tutta la nobiltà, la quale restò mossa dall'affetto di compassione in maniera che quasi fu per gettar lacrime, e ne diede applauso per essere stato canto di genere non più visto né udito». Per ottenere un effetto catartico di simile portata, in sintesi, Mon­ teverdi ha dovuto "ritrovare" un testo letterario altamente contrastivo - come quello "aristotelico" del Tasso - che gli consentisse di speri­ mentare efficacemente il suo nuovo "stile concitato" , ponendolo in netta contrapposizione con una scrittura più tradizionalmente "mol­ le" o anche "temperata" ; e all'inizio della prima prefazione, fra l'al­ tro, Monteverdi aveva esplicitamente associato questi tre stili musicali alle tre principali «passioni, od affettioni dell'animo»: «ira, temperan­ za e humiltà o supplicatione». L'intero episodio tassiano può essere ricondotto a due fasi netta­ mente contrastanti sul piano tanto dell'azione quanto dell'affetto : 1 . quella che Monteverdi chiama "guerra" corrisponde all'intera fase nodale del duello notturno che oppone il cristiano Tan credi all' anco­ ra irriconoscibile e pagana Clorinda; entrambi sono animati da un sentimento cres cente di "ira " , lievemente "temperata" solo nelle pau­ se di riposo fra uno scontro e l'altro; 2 . la «preghiera e morte», viceversa, ben riassume il drammatico epi­ logo di quel duello, avviato dal ferimento di Clorinda, culminante alle 6o

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prime luci dell'alba nella di lei ben più "h umile o supplichevole" conversione e morte, e tale da produrre lo scioglimento tanto tragico quanto pienamente catartico del nodo guerresco. Proprio come nel­ l' Edipo Re di Sofocle - comune modello tragico di Aristotele e dei suoi esegeti cinquecenteschi, incluso lo stesso Tasso - e diversamente da qualsiasi altro testo poetico mai posto in musica fino ad allora, lo scioglimento del Combattimento è caratterizzato dalla compresenza di tutte le parti qualitative proprie di una favola tragica complessa: non solo perturbazione e mutazione semplice (come nel caso di Didone­ Armida-Arianna, o di Orfeo ed Euridice nella rilettura del Rinuccini) , seguite tutt'al più d a peripezia ( come nel ben più tragico Orfeo dello Striggio) , ma anche riconoscimento, perdipiù intimamente fuso con penpezta. Il momento della perturbazione è identificabile con il ferimento mortale di Clorinda da parte di Tancredi (ottave 64-65 , v. 2 ) , pun­ tualmente annunciato dal Testo (ottava 64, vv. r - 2 ) . Ad essa fanno seguito, nelle prime fasi dello scioglimento, non una ma due peripe­ zie, qualitativamente ben distinte anche se fra loro speculari: r . la pri­ ma coinvolge Clorinda subito dopo il ferimento mortale, generando­ ne l'immediata quanto inattesa conversione religiosa ed affettiva (otta­ ve 65 , v. 3 e 66, v. 4); 2 . le sue parole amichevoli, a loro volta, su­ scitano nel feroce nemico Tan credi una mimetica ma ancor parziale mutazione affettiva: da ira e orgoglio vittorioso al suo contrario, una "mesta" e "lagrimevole" commozione (ottave 66, v. 5 e 67, v. 6 ) . È però solo il riconoscimento della propria vittima (ottava 67, vv. 7-8) a far sì che Tan credi capisca in un lampo la qualità terribile del suo atto, permettendo il compiersi in modo definitivo della propria mol­ teplice trasmutazione: da felicità trionfante a pietosa mestizia, a infeli­ cità totale - come nella migliore delle peripezie e al contempo, da inimicizia a istintiva comprensione, ad ancor più consapevole amicizia - come nel migliore dei riconoscimenti. Ma anche da mobilità a im­ mobilità, come a rispecchiare il trapasso da vita a morte del corpo di Clorinda: quella di Tancredi è infatti una sorpresa estrema, traumati­ ca e pietrificante, simile a quella dell'Orfeo striggiano ma ancor più tragica e priva di speranza, tale da farlo restare assai più a lungo «senza l e voce e moto». Anticipando infine la chiusa dell'episodio tassiano di ben venti versi, Monteverdi mostra di aver compreso che già nell'ottava 68 (senza bisogno di arrivare alla metà dell'ottava 7 r ) è contenuto il definitivo esaurirsi dello scioglimento tragico - ovvero, il battesimo di Clorinda, il realizzarsi della sua "trasmutazione " , persino la descrizione in sé già compiuta della sua morte ed assunzione cele­ ste: «colei di gioia trasmutossi, e rise; l e in atto di morir lieto e viva6r

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ce l dir parea: "s'apre il ciel, io vado in pace"» (vv. 6 - 8 ) . In breve, un'apoteosi/redenzione platonico-cristiana, del tutto simile a quella spettacolarmente rappresentata dallo Striggio nell'articolato epilogo dell' Orfeo, viene qui ottenuta nel giro di pochi versi, con effetto ca­ tartico e moralmente edificante - almeno dal punto di vista degli spettatori veneziani dell'epoca - ancor più intenso ed efficace. La logica mimetico-rappresentativa che anima ciascuna delle scel­ te compositive di Monteverdi è esattamente la stessa già riscontrata nel caso dell' Orfeo. Quel che muta, passando dall'opera a questa sor­ ta di dramma in miniatura, non è solo la qualità della favola tragica su cui sono state operate tali scelte ( da semplice a complessa), ma anche la sua estensione formale, e dunque la durata temporale dell'a­ zione rappresentata, che risulta ora molto più breve e sintetica, molto più lineare e consequenziale. La prima fase del " ritrovamento " mon­ teverdiano è consistita proprio nella riduzione del testo tassiano al suo essenziale nucleo drammatico; nella seconda fase il compositore­ drammaturgo non fa altro che applicare tutti i mezzi espressivi e rap­ presentativi a sua disposizione - alcuni dei quali tradizionali, altri as­ solutamente nuovi, di certo impensabili ai tempi dell'Orfeo - per dare il più estremo risalto possibile alle "passioni contrarie" di Tancredi e Clorinda, e al contempo garantire l'unitaria consequenzialità del loro drammatico fluire (come illustrato in La Via, 1 999b ) . Innovativa, rispetto alle esperienze passate, è soprattutto l a fun­ zione tanto "intrinsecamente espressiva " quanto "mimeticamente con­ trastiva " affidata ai due fattori concomitanti dell'accompagnamento strumentale e del ritmo. Le ormai acquisite relazioni antitetiche di na­ tura sistemica, armonica, ritmico-melodica e tonale-cadenzale - del tipo già riscontrato nei madrigali della seconda pratica o nell'Orfeo risultano qui ancor più accentuate, proprio in quanto inserite in una più vasta e dinamica opposizione di carattere ritmico-agogica, affidata in primis alla musica pura degli strumenti ad arco, e corrispondente alle due principali articolazioni della fabula tassiana. Se il nodo guer­ resco, infatti, è caratterizzato soprattutto da una concitazione veloce e " duramente" assertiva, il suo tragico scioglimento conduce al suo estremo opposto, ovvero ad una tardità sempre più "mollemente" languida e sospesa. In tal senso le quattro «viole da brazzo» svolgono un ruolo determinante ai fini della caratterizzazione tanto ritmico­ agogica quanto timbrica delle due fasi drammatiche, al punto da in­ carnare direttamente, nella loro stessa sonorità via via «incitata» e «molle», le due «passioni contrarie» del Combattimento. Al loro pun­ tuale ricorso si deve la precisa traduzione sonora dapprima delle tre concitate azioni guerresche (i preliminari, il primo combattimento, il

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fatale scontro finale la "guerra " ) , in seguito dei due interventi riso­ lutori, sempre più statici e sospesi, di Clorinda morente ("preghiera e morte" ) . In tal senso, ritornando agli iniziali termini zarliniani, Mon­ teverdi sembra qui dimostrare all'atto pratico - forse per la prima volta nella storia - che l'Harmonia, se unita al Numero, può davvero «pigliare gran forza» e «muovere l'animo», fino ad oltrepassare la barriera verbale dell' Oratione ed agire indipendentemente da essa. Nelle tre opere veneziane, al culmine della sua lunga carriera, Monteverdi sarà costretto ad abbandonare definitivamente le passioni contrarie del suo poeta prediletto per dedicarsi alle più articolate "mutazioni affettive" confezionategli da librettisti non sempre così ri­ spettosi dei canoni aristotelici, quali Giacomo Badoaro (Ritorno di Ulisse in patria), Gianfrancesco Busenello (Coronazione di Poppea) e l'anonimo autore delle Nozze di Enea e Lavinia. Nel corso del Sei­ cento, almeno fino ai tempi della cosiddetta "riforma arcadica" , poeti e compositori di opere sempre più commiste ed eterogenee, sempre più animate da intenti belcantistici e spettacolarizzanti più che dram­ maturgici, pur continuando fino in fondo il percorso avviato da Mon­ teverdi, giungeranno a travalicare ampiamente il delicato confine ari­ stotelico-tassiano che separa il mondo classicistico e rinascimentale della "varietà" da quello ormai secentista e barocco della " confusio­ ne" . In tal senso, i " ritrovamenti " tecnico-compositivi e drammatico­ rappresentativi ottenuti nel laboratorio ancora madrigalistico del Combattimento monteverdiano, pur destinati a divenire parte inte­ grante del vocabolario operistico - dai tempi di Cavalli almeno fino a quelli di Handel - costituiranno ancora per molto tempo, nella loro concezione originaria, un capolavoro ineguagliabile di moderna espressività contrastiva. =

3

Espressione e sensibilità nel Settecento. La riflessione filosofica e musicale in area tedesca di Carlo Benzi

3·I

Influenza dell' arte retorica sulla cultura tedesca La cultura di area tedesca all'inizio del XVIII secolo si caratterizza per la presenza di un'approfondita riflessione sul linguaggio e sulla retori­ ca. Quest'ultima condiziona non soltanto le teorie letterarie ma anche il pensiero filosofico: se alla fine del secolo precedente Gottfried Wil­ helm Leibniz ( [ r 697] 1 9 8 6 ) sosteneva la necessità di favorire la diffu­ sione del sapere attravero l'arte oratoria, Christian Thomasius ( [ r 7 I o] 1 97 I ) e Johann Andreas Fabricius ( [ 1 724] 1 974) sottolineano ora l'u­ tilità della retorica al fine di far coincidere il contenuto delle proposi­ zioni con le conoscenze concettuali elaborate dalle varie discipline. L'arte oratoria influenza tutti i campi del sapere e condiziona l'orga­ nizzazione dei discorsi nella loro formulazione orale e scritta. J ohann Christoph Gottsched ( 1 72 9 ) mette in evidenza come la retorica sia in grado di muovere gli affetti degli ascoltatori e sia finalizzata a diffon­ dere la verità e la morale mediante la convinzione razionale che può essere ottenuta adattando il discorso a seconda dei destinatari cui esso viene rivolto. A superamento della concezione espressa fra gli altri da Christian Weise ( [ I 684] I 97 4), che considerava ancora il pubblico come passivo destinatario di discorsi i quali, rappresentando determinati stati d' animo stereotipati (gli affetti), si pongono il fine di influenzarne l'emotività, viene elaborata a partire dagli anni quaranta del Settecento un'idea di interazione dialogica con gli spettatori, pen­ sati quali potenziali interlocutori dotati di un'autonoma capacità di giudizio; colui che scrive non deve più attingere ad un repertorio ste­ reotipato di immagini letterarie, ma decidere di volta in volta il fine cui orientare il discorso per ottenere la comprensione e l'approvazio­ ne del pubblico. Nel campo della letteratura si sostituisce alla combi­ natoria astratta che aveva dominato nel secolo precedente una nuova

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concezione artistica orientata alla naturalità del risultato. L'arte poeti­ ca acquisisce una propria autonoma espressione (Ausdruck) e fonda la sua efficacia sull' attività del genio, ossia di colui che, dotato rispet­ to ad altri uomini di una più forte capacità di immaginazione (Einbil­ dungskra/t), è in grado di rappresentare con vivida forza le passioni da lui provate. Gli svizzeri Johann Jacob Bodmer e Johann Jacob Breitinger ( [ 1 740] 1 9 66) sostengono apertamente questa tesi, non rin­ negando la concezione imitativa della letteratura, ma orientandola al raggiungimento di una comunicazione emotiva immediata fra l'autore e i destinatari del testo: solo chi è toccato nel cuore (beriihrt) può scrivere in modo efficace e scegliere gli strumenti retorici più oppor­ tuni in funzione dell'emozione che vuole esprimere. Il passaggio indicato in ambito letterario avviene anche in quello musicale. Il presente contributo intende prenderne in esame alcuni aspetti, soffermandosi sul mutamento di considerazione delle compo­ sizioni, non più ritenute (come nel Seicento e nei primi decenni del secolo dei Lumi) mezzi per rappresentare stati d'animo stereotipati atti ad influenzare un pubblico passivo, ma come strumenti di espres­ sione di emozioni individuali dell'autore, da lui provate al momento della stesura del brano. Dalla riflessione elaborata su questo tema da diversi filosofi e musicisti emerge, a partire dalla metà del secolo, l'importanza sempre maggiore di una specifica facoltà dell'animo, la sensibilità (Empfindsamkeit), che permette agli autori di esprimere le proprie emozioni (Ausdruck) in modo immediato. Cambia contestual­ mente anche il rapporto fra la musica e le strutture retoriche che, durante l'epoca barocca e particolarmente in area tedesca, ne avevano regolato l'invenzione (Palisca, 1 9 82 ) . A tale fenomeno non corrispon­ de però l'abbandono della concezione imitativa (Neubauer, 1 986, p. 7 ) che si verificherà verso la fine del secolo con l'accresciuta conside­ razione delle opere strumentali, fino agli anni settanta considerate spesso copie imperfette di quelle vocali e solo in seguito pensate qua­ li possibili congiunzioni fra l'uomo e l'infinito (ivi, p. 1 0; Dahlhaus, [ 1 97 2 ] 1 9 8 8 c, p. 95 ) . Muta intorno alla metà del Settecento anche la figura del destinatario delle composizioni che assume sempre più fre­ quentemente i connotati del Kenner, ovvero di colui che, pur non in possesso di una specifica preparazione musicale, è in grado di apprez­ zare i brani perché possiede un gusto educato, una sensibilità raffina­ ta e una solida preparazione in campo filosofico. La rivoluzione del­ l' estetica, disciplina preposta allo studio del bello resasi progressiva­ mente autonoma, costituisce uno dei presupposti fondamentali per il mutamento di considerazione della musica che, dopo aver acquisito 66

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uno statuto accettato e condiviso, può essere inserita a pieno titolo nel sistema delle belle arti.

3 ·2

La fondazione dell'estetica come disciplina filosofica autonoma e la considerazione della musica nel quadro delle belle arti Nella riflessione filosofica elaborata in Germania all'inizio del xvm secolo, particolarmente rilevante appare l'interesse dimostrato da Leibniz ( [ 1 705 ] 1 9 8 2 ) e da Christian Wolff ( [ 1 73 2 ] 1 9 68) nei con­ fronti delle conoscenze sensibili, ottenute mediante le "facoltà inferio­ ri " dell'animo, oggetto di una parte specifica della gnoseologia detta "estetica " . La forma delle argomentazioni addotte da entrambi i pen­ satori lascia emergere la cultura retorica entro la quale essi si sono formati. Il primo sottolinea come l'uomo possa trarre vantaggio non solo dalle conoscenze certe, fondate sull'attività razionale, ma anche da quelle verosimili, ricavate dalla percezione sensibile. Queste ultime sono differenti dalle prime solo per grado di chiarezza; anch'esse pos­ sono contribuire al raggiungimento di un sapere saldo e sicuro in vir­ tù dell'accordo fra sensi e ragione presente nel mondo grazie al dise­ gno armonico di Dio (Leibniz, [ 1 705] 1 9 8 2 , pp. 3 5 5 - 6 ) . Se Leibniz presuppone strutture logiche innate quali elementi organizzatori di tutte le conoscenze, Wolff sottolinea invece una separazione fra quel­ le razionali e quelle sensibili, affermando che queste ultime dipendo­ no direttamente dalla capacità emotiva ed immaginativa connessa alla fantasia e alla memoria (Wolff, [ r 73 2 ] 1 9 68, p. 3 3 ) . Se l'anima ha la funzione di rappresentare all'uomo la variegata pluralità dell' universo, quest'ultima potrebbe essere percepita e ricordata da ogni soggetto in modo differente, ostacolando lo studio sistematico delle conoscenze sensibili (ivi, p. 1 2 7 ) . La riflessione razionale sui dati percettivi per­ mette però di individuare specifiche forme di organizzazione comuni a tutti gli uomini, aprendo così la strada alla fondazione di un'estetica razionale (ivi, p. 5 0 ) . Il passaggio dello statuto della nuova disciplina d a semplice inda­ gine subordinata alla gnoseologia ad autonoma attività filosofica av­ viene con l'opera di Alexander Gottlieb Baumgarten ( [ 1 75 0- 5 8 ] 1 9 6 1 ) , che l a definisce ars pulchre cogitandi, presupponendo che esi­ sta nell'uomo una specifica attività indirizzata all'identificazione del bello. Quest'ultima, muovendo dalle conoscenze sensoriali proprie delle arti, si armonizza con le conoscenze logiche proprie della filoso­ fia grazie ad un analogon rationis, principio che media fra le varie

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facoltà dell'animo umano e permette di attribuire all'estetica una pro­ pria autonoma validità concettuale. Muovendo da considerazioni spe­ cificamente letterarie ed estendendo successivamente la riflessione a tutte le arti, Baumgarten sviluppa l'idea di una Scientia cognitionis sensitivae che permetta di raggiungere la conoscenza del bello e di offrire aiuto all'artista durante la realizzazione delle opere; il primo compito sarà destinato all' aesthetica theorica, il secondo invece a quel­ la practica . La struttura concettuale utilizzata risente della prospettiva barocca per la quale, a garanzia di un'efficace trasmissione degli Af­ fetti, devono essere attribuiti ruoli guida alla retorica e alla dottrina degli Stili, non solo nel campo letterario, ma anche in tutte le altre arti. La Varietas e l' Omnium rerum satietas, concetti chiave dell'esteti­ ca del secolo precedente, valgono ancora quali cardini fondamentali, funzionalizzati ora ad un nuovo tipo di conoscenza (detta estetico­ logica) in grado di coniugare i principi della ragione con l' elaborazio­ ne dei dati sensoriali. Se l'indagine estetica non permette il grado di certezza ottenuto dai procedimenti logico-deduttivi, essa presenta però il vantaggio di estendere le conoscenze (potenzialmente anche quelle delle scienze esatte) e di condurci a distinguere fra la pulchri­ tudo (per/ectio phaenomenon) e la de/ormitas (imper/ectio phaenome­ non ) . Ciò permette di intuire il legame tra la forma e il contenuto delle percezioni sensibili e indirizza le nostre capacità sensoriali a co­ gliere negli oggetti artistici nessi strutturali che contribuiscono a fon­ dare il giudizio sulla loro validità. Se l'idea di un'estetica generale intesa come stu dio razionale delle conoscenze sensibili perdura in seguito, fra le altre, negli scritti di fi­ losofia di Moses Mendelssohn ( [ 1 7 5 5 ] 1 97 1 ) che identifica la bellezza con la concordanza simmetrica fra le parti di un'opera, lo svizzero Johann Georg Sulzer nell'Allgemeine Theorie der schonen Kunste ( 1 7 9 8 ) propone invece una riflessione sistematica specifica sulle belle arti, fissando i limiti entro i quali ciascuna di esse trova la propria definizione. Viene abbandonata la supremazia della letteratura; le arti plastico-figurative (architettura, scultura, pittura) e la musica ottengo­ no uno statuto autonomo. L'Allgemeine Theorie, modellata sul dizio­ nario enciclopedico francese e frutto della collaborazione di diversi esperti (in campo musicale i compositori Johann Philipp Kirnberger e Johann Abraham Peter Schulz) , propone una visione unificatrice se­ condo la quale le arti sono accomunate dal fatto che risvegliano nel cuore dei fruitori le passioni provate dall'autore durante la generazio­ ne dell'opera. A tal fine quest'ultimo deve essere un uomo di genio, cioè possedere rispetto agli altri «un più elevato grado di chiarezza e di vivacità nella capacità d'immaginazione», provare «calde sensazio68

3 · E S P R E S S I O N E E S E :-J S I B I L I T À N E L S ETTEC E :-J T O

ni» Oett . «un fuoco entusiasmante»; Sulzer, 1 79 8 , II, p. 3 9 ! ) , selezio­ nare queste ultime in base al progetto complessivo dell'opera e tra­ durle secondo le regole proprie dell'arte mediante la quale egli vuole esprimersi. All'autore si richiede ora, a differenza di quanto si pensava nella prima metà del secolo, una partecipazione attiva e personale nel pro­ vare lui stesso le emozioni che intende esprimere attraverso la com­ posizione. Il genio è riconosciuto quale garante della validità della rappresentazione artistica e permette la diffusione presso il pubblico del buon gusto, definito come «facoltà di sentire il bello», ovvero «ciò che piace, anche quando non si sa che cosa sia e a che cosa serva» (ivi, II, p. 3 9 9 ) . La fantasia, l'immaginazione e l'intelletto coo­ perano per dare forma agli oggetti artistici; dalla maggiore o minore consapevolezza con la quale essi possono essere fruiti si determina la duplice connotazione dei destinatari: da un lato i Liebhaber, cioè co­ loro che il cuore soltanto «rende in grado di godere delle belle arti» (ivi, II, p. 4 oo) , dall'altro i Kenner ovvero gli uomini di gusto che «sanno giudicare le opere secondo il loro intimo valore e stimare i diversi gradi della loro perfezione» (i vi, III, p. 5 ) . Sulla decodifica tecnica tende a prevalere quella del giudizio in base all'effetto emotivo e al maggiore o minore accordo rispetto ai requisiti stabiliti dalla teoria generale delle belle arti. I principi orga­ nizzativi della retorica tradizionale (Inventio, Dispositio ed Elaboratio) vengono ora funzionalizzati non più alla mera rappresentazione degli affetti, ma all'espressione dei sentimenti. Come John Neubauer sotto­ linea ( 1 986, p. 74 ) non si tratta dell'abbandono della concezione mi­ metica, quanto piuttosto di un processo in cui l'autore di un'opera imita non più situazioni esterne ma la propria interiore emotività. Per quanto riguarda l'arte dei suoni, gli elementi della teoria degli affetti barocca acquisiscono una nuova funzione: essi permettono al genio di coniugare la sensibilità e la progettualità nella realizzazione dei brani, favorendo l'attiva partecipazione del pubblico. Per cogliere i successivi mutamenti nella riflessione estetico-musi­ cale in area tedesca è opportuno ricordare i differenti orientamenti compositivi che si verificano intorno alla metà del secolo. Nella zona meridionale nascono la sinfonia e la forma sonata, il cui tessuto melo­ dico- contrappuntistico, semplificato rispetto a quello barocco ed im­ prontato alla regolarità fraseologica, origina un nuovo stile, definito "galante " . Finalizzato ad una più agevole comprensibilità, esso anno­ vera fra i suoi rappresentanti Wagenseil, M o nn e J ohann Christian Bach. Nella Germania settentrionale la concezione espressiva sopra descritta dà vita ad un particolare stile detto "sensibile" (empfindsam) ,

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che vede fra i suoi esponenti più importanti Carl Philipp Emanuel Bach e si caratterizza per la notevole irregolarità armonica e per la ricerca di una nuova libertà nella struttura temporale dei brani, mira­ ta all'espressione diretta e dirompente delle emozioni dei compositori (Fox, 1 9 8 8 , p. 1 05 ; Dahlhaus, [ 1 972] 1 9 8 8d, p. 2 8 ; Berg, 1 990) . Dal­ l' esasperazione delle posizioni estetiche sottese a questo stile nascerà negli ultimi decenni del secolo il fenomeno dello Sturm und Drang musicale (Eggebrecht, [ r 9 5 5 ] r 9 87a, p. ro5; Dahlhaus, [ 1 972] r 9 88c, p. 9 1 ) . In tale contesto Christian Friedrich Daniel Schubart nelle Ideen zu einer A sthetik der Tonkunst ( [ 1 8o6, post.] 1 990) propone di ester­ nare nella musica la propria soggettività in modo anche violento. Al compositore viene richiesto di vivere le passioni in prima persona per poterle tradurre in musica e comunicarle vividamente al pubbli­ co . Non importa se le emozioni non sono chiaramente definite; fon­ damentale è che esse siano vivaci e dirompenti. La struttura musicale più adatta a rendere possibile la comunicazione immediata dei senti­ menti rimane la melodia, ma anche le altre componenti del linguag­ gio sonoro devono contribuire a tale processo. Verso la fine del se­ colo, anche Wilhelm Heinse ( [ 1 795 -96] 2002) esalta la musica per la sua capacità di comunicare quanto il linguaggio verbale non è in gra­ do di trasmettere, in particolare le passioni provate dall'io individua­ le del compositore. L'arte dei suoni può rendere udibili i "sentimenti interiori" ed agire pertanto con immediatezza sull'animo degli ascol­ tatori. Diversa risulta invece la posizione di Johann Gottfried Herder ( [ r 7 69] 1 9 8 2 ) , il quale sostiene che la musica lascia risuonare in noi le corde del sentimento universale, secondo il disegno della natura . Egli afferma che l'arte dei suoni può comunicare in modo immediato grazie al linguaggio del cuore cui tutti siamo sensibili. La musica non si fonda pertanto, secondo Herder, sull'espressione individuale ma su un particolare rapporto unificante che l'artista può stabilire con la na­ tura (Wiora, [ 1 95 3 ] 1 97 2 , p. 69). A suo avviso, è in tal modo possibi­ le recuperare, in epoca moderna ed attraverso le peculiarità del lin­ guaggio musicale attuale, l'armonia con l'universo per la quale la mu­ sica è stata in origine creata. A metà fra la prospettiva individuale di Schubart ed Heinse e quella universale di Herder, Christian Gottfried Korner nel saggio Uber Charakterdarstellung in der Musik ( [ 1 795] 1 96o) difende l'arte dei suoni dall' accusa di amorfia e sottolinea come essa possegga, ac­ canto alla forza estetica, anche una dimensione etica. Egli propone un ideale di musica in grado di mediare fra l'espressione del singolo sta-

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to d'animo e quella del vitale «caos di suoni» (Guanti, 1 999, p. 254) che permette all'individuo di essere colpito dalla loro potenza senza perdere le proprie capacità critiche e razionali. Wilhelm Heinrich Wackenroder ( [ 1 799] 1 9 9 3 ) , amico di Ludwig Tieck che collaborò alla stesura di molti dei suoi scritti, afferma che la musica strumentale non deve più imitare quella vocale ma, deter­ minando da sé le proprie regole, divenire autonomo linguaggio del sentimento dell'intera umanità. Muovendo da posizioni quasi mistiche e in parte concordi con la tensione verso l'assoluto professata da Herder, egli sostiene la capacità della musica di far risuonare le corde del cuore degli as coltatori secondo un rapporto di armonia prestabili­ ta fra l'arte dei suoni e l'universo del quale l'animo umano è parte costitutiva. Se la considerazione della musica quale espressione individuale verrà progressivamente abbandonata all'inizio del secolo successivo, le posizioni di Herder e Wackenroder lasciano invece intravedere una prospettiva che per taluni aspetti si potrebbe con Dahlhaus ( r 9 8 5 , p. r 3) definire vorromantisch : quella, successivamente fatta propria e svi­ luppata da Schelling e da Novalis, secondo la quale fine della musica è la ricerca e la creazione di una particolare intonazione (Stimmung) universale, cui il soggetto risponde "intonando" il suo animo (Ge­ stimmtheit) e contribuendo in tal modo a ricomporre l'unità origina­ ria dell'Essere.

3·3

Orientamenti estetici nella trattatistica compositiva La prospettiva barocca della stretta dipendenza della musica dal testo letterario è presente in tutta la trattatistica compositiva dei primi de­ cenni del secolo. Nell'opera più importante a riguardo, Der vollkom­ mene Capellmeister di Johann Mattheson ( [ 1 7 39] 1 9 9 9 ) , la musica vo­ cale viene considerata come efficace amplificazione del testo poetico ad essa sotteso; quella strumentale è ritenuta semplice «imitazione ed accompagnamento del canto» (ivi, p. 1 5 3 ) . Secondo l'autore, le figure retorico-musicali elaborate nei secoli precedenti non indicano soltanto specifici comportamenti melodici e contrappuntistici ma permettono anche di organizzare la struttura di intere sezioni. Il brano, detto «orazione musicale» (Klangrede; ivi, p. 1 2 1 ), viene composto rispet­ tando l'ordine dei procedimenti retorici: alla prima fase dell'Inventio (la quale permette di costruire una melodia che piaccia all'ascolto) seguono la Dispositio (che regola le relazioni tra le figure melodiche),

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l'Elaboratio e la Decoratio (ovvero l'ornamentazione attuata con tutti gli strumenti a disposizione per ottenere la massima efficacia della melodia nella rappresentazione degli affetti). Mediante l'Executio, in­ fine, si rende possibile la fruizione del brano da parte del pubblico. La macrostruttura del discorso musicale appare modellata su quello oratorio secondo la partizione di Quintiliano (Exordium, Narratzò, Propositio, Confirmatio, Con/utatio, Conclusio) e la scelta delle figure è regolata dalla teoria degli stili (da chiesa, da camera e teatrale) che permette un'efficace rappresentazione delle passioni contenute nel te­ sto. Alla puntuale corrispondenza fra le strutture verbali e quelle mu­ sicali è sottesa una concezione meccanicista dell'efficacia della musica riconducibile a Descartes, che Mattheson consiglia di leggere perché insegna a «distinguere correttamente tra i sentimenti degli ascoltatori e come le forze del suono possono avere influenza su di essi» (ivi, p. 66). In questo processo, però, il pubblico non riveste ancora un ruolo attivo, poiché la rigida teoria degli stili non tiene conto delle esigenze degli uditori, considerati ancora passivi destinatari di un messaggio codificato a priori. Sei anni dopo, Johann Adolph Scheibe ( [ 1 745] 1 970) pubblica la raccolta di propri articoli apparsi sul periodico amburghese "Criti­ scher Musikus " . L'efficacia della musica si fonda secondo l'autore sulla comunicazione affettiva, ottenuta mediante l'impiego di ogni mezzo, letterario e musicale. Allievo di Gottsched, famoso professore di eloquenza, Scheibe afferma che fine dell'attività sonora è quello di «muovere e toccare il cuore degli uomini, conquistare ed al tempo stesso incantare gli ascoltatori grazie alla forza» della retorica e della poesia, poiché «queste vere sorelle dell'arte musicale ci mostrano la vera traccia che dobbiamo seguire se vogliamo perseguire con esse un'unica meta, attraverso sensate ed abilmente costruite sequenze di note» (ivi, p. 68 4 ) . È ancora valida in Scheibe la concezione dell' arte come imitazione delle passioni che una composizione può esprimere grazie all'impiego di figure retoriche mutuate dalla poesia. In questo proces so, il compositore non deve lasciarsi coinvolgere dagli affetti del testo, ma piuttosto cercare di rappresentarli nel brano attraverso una buona integrazione fra melodia ed armonia, in modo che l'animo di ciascun uomo ragionevole possa esserne influenzato. Il composito­ re può produrre musica efficace se è portato dalla Natura, qualità che da altri sarà in seguito identificata con il genio e che secondo Scheibe permette di rappresentare ed esprimere con ordine e forza il conte­ nuto affettivo del brano (ivi, p. 1 2 Ù Egli definisce " gusto" questa facoltà che non riguarda gli strumentisti né il pubblico, ma esclusiva­ mente il compositore. Rispetto a Mattheson, l'autore propone una

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più immediata concezione comunicativa e contesta la dottrina degli stili sostenendo la necessità di una maggiore autonomia compositiva ed espressiva nella formulazione delle composizioni. Scheibe sembra intendere il bello quale "perfezionamento della natura" , come anche in Francia l'anno seguente sosterrà Charles Batteux ( [ r 746] 2 002 ) , e sembra così anticipare la teoria winckelmanniana dell'oggetto artistico come frutto della silloge fra le diverse proporzioni, finalizzato al rag­ giungimento del più alto (ma anche del più astratto) grado possibile di perfezione formale. Se Mattheson e Scheibe, attivi entrambi ad Amburgo e quindi nella Germania del Nord, si preoccupano di definire i criteri di effi­ cacia imitativa delle composizioni prevalentemente nel campo della musica vocale, nell'area tedesca meridionale si sviluppa una concezio­ ne armonica affrancata dal basso continuo cui corrisponde un'inven­ zione melodica sempre più libera dall'intreccio contrappuntistico e fondata sulla regolarità fraseologica dei motivi. J oseph Riepel, ad esempio ( r 7 5 2 ) , propone una divisione dei frammenti melodici per incisi di due battute, da collegare mediante figure ritmiche omogenee e terminazioni armoniche che, a seconda delle cadenze utilizzate, conferiscono carattere incoativo o conclusivo ad ogni frammento . L'unione di due incisi produce frasi di quattro battute, la cui connes­ sione permette di ottenere elementi di maggiori dimensioni, i periodi, che costituiscono le parti più estese della composizione. L'espressione del brano, secondo Riepel, non dipende tanto dalla capacità della musica di imitare gli affetti del testo, quanto piuttosto dalla nuova "grammatica" motivico-melodica e ritmico-armonica ovvero dal pro­ getto formale, la cui importanza è testimoniata da una terminologia compositiva non più direttamente mutuata dalla retorica. In campo vocale (Riepel, r n6 ) , egli considera attentamente la disposizione dei piani tonali nei recitativi e nelle arie; nonostante l'importanza struttu­ rale dei testi letterari in questo tipo di composizioni, l'autore attribui­ sce loro una funzione esclusivamente sintattico-organizzativa, privile­ giando l'aspetto più specificamente musicale dell'elaborazione melodi­ ca. Con Riepel ha inizio la progressiva separazione fra i trattati dedi­ cati alla pratica compositiva e le opere riguardanti l'estetica musicale: i primi si concentrano quasi esclusivamente sull'organizzazione forma­ le dei brani, le seconde sui principi cui devono attenersi le opere d'arte per raggiungere la massima efficacia sui loro destinatari. Il teo­ rico bavarese propone una concezione compositiva centrata sui carat­ teri specifici del linguaggio musicale; la sua attenzione verso gli ele­ menti formali, particolarmente nei brani strumentali, sembra aprire una nuova prospettiva secondo la quale la musica si affranca progres73

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sivamente dall'imitazione del linguaggio verbale ed acqms1sce uno statuto autonomo, ponendo le basi per la rivoluzione linguistica ope­ rata successivamente dagli esponenti del classicismo viennese (Dahl­ haus, [ 1 972] 1 9 8 8 c, p. 9 5 ; Neubauer, 1 9 86, p. 2 ) . L e idee di Riepel vengono successivamente recepite nella Germa­ nia settentrionale da Heinrich Christoph Koch ( [ 1 782-93] 1 969) che fonda la propria concezione del linguaggio sonoro sulle cadenze tona­ li e sul collegamento degli incisi, delle frasi e dei periodi in base alle loro terminazioni armoniche. Nonostante l'autore affermi la natura autonoma del linguaggio musicale, la terminologia impiegata appare ancora influenzata dalla retorica. Le note finali di ogni frammento melodico, che indicano se quest'ultimo possiede un carattere stabile (quando termina sulla tonica) o instabile (sulla dominante) , vengono dette melodische Interpunktionen; le cesure sono definite «punti di si­ lenzio dello spirito» (Ruhepiinkte [sic] des Geistes, termine mutuato dal respiro dell'oratore) ed è attribuita la massima importanza alla "pronuncia" del discorso musicale. Koch identifica tre momenti fon­ damentali nella stesura di un'opera nell'A nlage (impianto) , nell'A­ nordnung (disposizione) e nell'Ausarbeitung (elaborazione), ottenendo uno schema modellato sulla tripartizione retorica Inventio, Dispositio, Elocutio. Da un lato emerge una concezione linguistica del fatto so­ noro, dall'altro sembrano vigere autonome regole di composizione della melodia (Dahlhaus , 1 97 8b, pp. 1 5 9-63 ) . L'esame delle forme musicali più frequentemente utilizzate dai compositori del tempo, contenuto nell'ultimo volume dell'opera di Koch, lascia trasparire la compresenza di una concezione trasformativo-evolutiva del materiale musicale (caratteristica di molti tempi lenti di sonate e di sinfonie co­ eve scritte nell'Europa meridionale) e di una modalità assemblativo­ combinatoria diffusa presso i compositori della Germania settentrio­ nale (fra questi anche Carl Philipp Emanuel Bach ) . La musica stru­ mentale viene considerata in questo trattato dotata di uno statuto dif­ ferente rispetto a quella vocale, anche se non ancora completamente autonomo da essa; il punto di riferimento estetico-filosofico, più volte citato, è quello di Sulzer, del quale Koch condivide la concezione dell'attività artistica intesa come prodotto della capacità di immagina­ zione dell'autore che trasmette direttamente al pubblico gli stessi sen­ timenti che gli hanno permesso di dare vita all'opera. Tale capacità, definita Genie, si innesta su un linguaggio musicale nell'Europa set­ tentrionale, dai tratti talvolta ancora tardobarocchi, caratterizzato dal­ l'alternanza solo-tutti nei concerti, dalla presenza del basso continuo e dalla sostanziale preminenza di una pratica compositiva fondata sul­ la combinazione e sull'assemblaggio di frammenti melodici. La retori74

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ca musicale rimane finalizzata alla produzione di strutture motiviche dotate di una loro autonoma grammatica ma dall'effetto sicuro sul piano emotivo, inserite in forme complessive che trovano nell'interna struttura una giustificazione indipendente da principi estranei alla di­ sciplina sonora, votate all'espressione più o meno diretta delle emo­ zioni provate dal compositore al momento della stesura del brano. Attraverso questi esempi è possibile comprendere come il per­ corso di progressiva autonomizzazione della musica dalle altre arti, e in particolare dalla letteratura, emerga, sotto il profilo tecnico- com­ positivo, dalla mutata funzione della retorica. Anche se Johann Ni­ kolaus Forkel nella prefazione all'Allgemeine Geschichte der Musik ( [ 1 7 88- 1 80 1 ] 1 9 67) attribuisce ancora alle figure retorico-musicali una possibile funzione regolati va della forma dei brani, l'arte dei suoni appare ormai indipendente dalla poesia e sembra impiegare determinate strutture mutuate dall'oratoria soltanto per esprimere le emozioni in modo specificamente musicale.

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L'espressione delle emozioni nella trattatistica sull'arte esecutiva Anche la prassi esecutiva e i trattati ad essa inerentt nsentono del mutato quadro estetico intorno alla metà del Settecento. La musica strumentale, caratterizzata da una lunga tradizione in area tedesca, inizia ad essere valorizzata, accanto a quella vocale, a differenza di quanto avviene nel resto d'Europa. La posizione proposta da Johann Joachim Quantz, direttore musi­ cale alla corte berlinese di Federico n di Prussia, è ancora caratte­ rizzata da una concezione imitativa della musica in cui permangono forti retaggi barocchi (Neubauer, 1 9 86, p. 7 2 ) . Nel Versuch einer An­ weisung, die F!ote traversière zu spielen (Quantz, [ ! 75 2 ] 1 99 2 ) egli afferma che il fine della musica è quello di esprimere gli affetti e che il compito dell'esecutore (strumentale nel suo caso) consiste nell'im­ medesimazione nei pensieri espressi dal compositore (ivi, p. 140). Una buona esecuzione sarà caratterizzata dall'esatta riproduzione de­ gli affetti rappresentati attraverso il brano che permette, secondo Quantz, di decidere gli abbellimenti estemporanei dotati di un signifi­ cato emotivo oltre che strutturale. Lo strumentista di gusto è colui che è in grado di armonizzare tali capacità, proponendo al pubblico in modo fedele quanto il compositore di genio ha realizzato all'inter­ no del brano (ibid. ) . 75

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Lo stesso complesso di temi è trattato in maniera diversa da Carl Philipp Emanuel Bach, cembalista di corte presso Federico IL Al ter­ mine del trattato Versuch iiber die wahre Art, das Clavier zu spielen (Bach, [ 1 75 3 -62] 1 97 3 -92 ) , egli afferma la possibilità, mediante la li­ bera improvvisazione della Fantasia, di giungere a realizzare in modo diretto il circuito della comunicazione: il compositore, in questo caso anche interprete ed esecutore, diviene in grado di trasmettere le emo­ zioni che prova agli as coltatori, risvegliandole in loro attraverso la musica (Kunze, 1 9 8 8 , p. 1 8) . La libera Fantasia, definita tale in relazione all'assenza di moduli ritmico-metrici prefissati e quindi delle stanghette delle misure, risulta particolarmente adatta ad una diretta comunicazione sonora a causa della sua ricchezza di «modulazioni [ . . . ] più frequenti che in altri pezzi composti o improvvisati, con divisioni di battuta» (Bach, [ 1 7 5 3 -62] 1 973-92, n, p. 3 63 ) . L'autore sottolinea inoltre l'importan­ za per l'improvvisazione della struttura armonica, «da sviluppare me­ diante ogni sorta di figurazione e di incisi. Vi si deve stabilire una tonalità per l'inizio e per la fine [. . . ] [e] l'orecchio esige un certo rap­ porto nell'alternarsi e nella durata degli accordi» (ibid. ) . Nella Fanta­ sia, massima deve essere la varietà e quasi assente il virtuosismo che può provocare monotonia e stancare l'ascoltatore. A tal fine, la varie­ tà armonica deve essere sostenuta dal mutamento delle altre dimen­ sioni del suono, la dinamica e l'agogica in particolare (Fox, 1 9 8 8 , p. 126). Il testo si conclude con l'incoraggiamento ad inventare nuove possibilità di variazione armonica e di figurazioni ritmiche per ottene­ re sempre la massima espressione. La posizione espressa da Carl Philipp Emanuel Bach rispetto al­ l' esecuzione strumentale non cancella, ma interpreta in modo nuovo la funzione della retorica musicale. Le figure che ricorrevano nei bra­ ni della prima metà del secolo vengono ora adattate al nuovo conte­ sto estetico e utilizzate in composizioni che non rappresentano più affetti codificati a priori, ma che esprimono e comunicano con effica­ cia le mobili emozioni dell'autore. Un analogo processo si verifica nello stesso periodo anche in cam­ po letterario. Gotthold Ephraim Lessing ( [ 1 767-69] 1 975 , p. 8) affer­ ma che l'eloquenza e i gesti dell'attore costituiscono uno strumento prezioso per risvegliare nel pubblico i sentimenti espressi dall'autore del dramma e un mezzo assai efficace per educare gli spettatori ad ideali di tolleranza ed umanità. Allo stesso tempo, Lessing riconosce al pubblico una funzione critica (ivi, p. 6) che esso può esprimere di fronte all'autore e agli attori mediante commenti motivati, contri­ buendo così al raggiungimento di una più efficace drammaturgia.

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Qualche anno prima Friedrich Gottlieb Klopstock ( [ 1 75 8] 1 9 84, pp. 2 3 7 - 8 ) , in opposizione alla rigida poetica normativa di Gottsched, aveva sottolineato la necessità, al momento della generazione dell'o­ pera, di concentrare l'attenzione su un saldo centro tematico, in base al quale scegliere le strutture letterarie e retoriche più opportune per ottenere un efficace e vivido coinvolgimento emotivo del pubblico. La nascita in questo periodo della lirica, genere poetico che, come luogo di espressione dei sentimenti individuali, non era praticamente esistito in area tedesca nei secoli precedenti, sembra ulteriormente te­ stimoniare il sorgere di una comunicazione artistica che mira al rag­ giungimento di una corrispondenza simpatetica fra autore e fruitori assumendo così una dimensione pragmatica: i destinatari, partecipan­ do attivamente e provando essi stessi grazie alla sensibilità (Empfind­ samkeit) le emozioni espresse dall'autore, sono toccati (beruhrt) nel­ l' animo e possono condividere i sentimenti provati durante la rappre­ sentazione. Ciò apre la prospettiva di una comunicazione dialogica tra i fruitori che forma una sorta di «opinione pubblica estetica» (Dahlhaus, 1 9 8 8b, pp. 2 1 -2 ) e può, in determinate condizioni, tradur­ si in una concreta azione sociale. Questa prospettiva appare in linea con l'A u/kliirung, per la quale la cultura e l'arte hanno fra i loro com­ piti principali quello di favorire la presa di coscienza degli individui di fronte alla società, perché essi possano agirvi concordemente al fìne di raggiungere una migliore umanità (Fauser, 1 990).

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L'estetica musicale del romanticismo tra espressione del soggetto e metafisica del sentimento di Alessandro Cecchi

N el corso degli ultimi trent'anni del XVIII secolo si afferma entro l'e­ stetica musicale tedesca un modello teorico omogeneo che, presentan­ dosi nel suo insieme come un'estetica della sensazione (Empfindung) e del sentimento ( Gefiihl), stabilisce la centralità del concetto di espressione (Ausdruck). Gli autori riconducibili alla corrente filosofi­ co-letteraria dello Sturm und Drang conferiscono a questo modello una forma esasperatamente soggettivistica, agitando nei confronti del­ l'Empfindsamkeit un desideratum di autenticità che li conduce al su­ peramento del principio di imitazione - nella forma già interiorizzata della mimesi del sentimento - verso l'opposto principio dello sfogo emotivo: non conta più tanto ciò verso cui l'espressione è diretta, quanto il soggetto che si esprime, trasponendo in musica ciò che pro­ va interiormente al di là di qualsiasi aggettivazione (Eggebrecht, [I 9 5 5 ] I 987a). In questo processo gioca un ruolo essenziale l'enfasi posta dagli stessi autori sulle specificità dell'espressione musicale ri­ spetto a quella linguistica: la sua costitutiva indeterminatezza non vie­ ne più concepita soltanto in termini negativi, come inadeguata a co­ municare concetti determinati, ma anche e soprattutto in termini po­ sitivi, come perfettamente adeguata, per duttilità e immediatezza, a esprimere l'interiorità emotiva in tutte le sue modificazioni. La musi­ ca può candidarsi a linguaggio autonomo, irriducibile a quello con­ cettuale - che raggiunge la determinatezza a prezzo dell'astrazione ma perfettamente funzionale all'espressione della qualità concreta­ mente indeterminata del sentimento (Eggebrecht, [ I 9 6 ! ] I 9 87b, pp. 5 8-63 ) . Le istanze decisive di questa concezione si fissano nella termi­ nologia musicale attraverso opere basilari come la Allgemeine Ge­ schichte der Musik di Johann Nikolaus Forkel ( [ I 7 88- I 8o i ] I 967) e la Allgemeine Theorie der schonen Kiinste di Johann Georg Sulzer ( [ r n i -74] 1 7 9 8 ) , che ne garantiscono una diffusione capillare e a lungo termine. Le voci musicali del lessico di Sulzer, compilate da Johann Philipp Kirnberger e da Johann Abraham Peter Schulz, sa79

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ranno ancora citate con particolare ampiezza da Heinrich Christoph Koch nel Musikalisches Lexikon ( r 80 2 ) e nel Kurzge/afltes Handwor­ terbuch der Musik /iir praktische Tonkiinstler und /iir Dilettanten ( r 8o7 ) . Su questo sfondo teorico, nell'ultimo decennio del XVIII secolo emergono istanze di tipo nuovo, riconducibili agli sviluppi della filo­ sofia a partire da Immanuel Kant e dalla complessa vicenda della sua ricezione, che spingono autori anche molto distanti tra loro a intra­ prendere il tentativo di strappare l'espressione musicale al soggettivi­ smo radicale cui è stata consegnata dai teorici influenzati dallo Sturm und Drang. Si tratta di tentativi che quasi mai si articolano in propo­ ste coerenti di estetica musicale, ma che nella loro frammentarietà sottopongono il concetto di espressione a sollecitazioni che continua­ mente ne ridefiniscono la posizione teorica. Particolarmente interes ­ sante si rivela in questo senso la riflessione condotta, con modalità ed esiti differenti, dagli autori collocabili nell'ambito del primo romanti­ cismo tedesco, che assegnano al concetto di espressione musicale, per lo più senza farne oggetto di trattazione esplicita, un ruolo inedito: determinarne la posizione è possibile soltanto facendo riferimento ai suoi presupposti immediati, a partire dalla riflessione kantiana.

Nella Critik der Urtheilskra/t ( 1 790) Kant dedica al concetto di espressione una trattazione specifica al momento di esporre la sua si­ stematica classificazione delle arti belle (§ 5 r ), suddivise appunto sul­ la base della loro analogia rispetto a «quella specie di espressione di cui si servono gli uomini nel parlare per comunicarsi, quanto perfet­ tamente è possibile, non soltanto i loro concetti, ma anche le sensa­ zioni» (Kant, [ r 790] 1 9 6 3 , p. r 8 r ) . Venendo a parlare della musica, egli la definisce «arte del giuoco delle sensazioni (come impressioni sensibili esterne)» (ibid. ), cercando poi di chiarire in quale misura sia possibile giudicarne, oltre alla piacevolezza, anche la «bellezza», defi­ nita come «espressione di idee estetiche» (ivi, p. r 8o ) . Secondo Kant, dunque, la musica non può " esprimere" che in due modi: veicolando le sensazioni accessorie ai concetti oppure comunicando direttamente alla ragione idee determinate. La successiva discussione conduce però a un esito problematico: egli non riesce a stabilire univocamente se della musica risulti percepibile soltanto l'effetto "sensibile" prodotto delle vibrazioni sonore - cioè la "piacevolezza" del gioco di sensazio­ ni - o se invece siano altrettanto chiaramente percepibili aspetti astrattamente formali quali la «divisione del tempo» e la «proporzio­ ne» delle vibrazioni, determinabili attraverso il giudizio della materna8o

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tica, che permettano di considerare la "piacevolezza" suscitata dalla musica anche come «l'effetto di un giudizio della forma nel giuoco di molte sensazioni» (i vi, p. I 86); solo in quest'ultimo caso la musica potrebbe fregiarsi del titolo di «arte bella». Kant tenta inizialmente di attribuire alla musica una sorta di universalità nella comunicazione delle sensazioni associate a concetti determinati: La sua attrattiva, che si comunica così universalmente, pare che riposi su questo: - ogni espressione del linguaggio ha, nel contesto, un tono appro­ priato al suo significato; - questo tono mostra più o meno un affetto di colui che parla, e reciprocamente lo produce anche in colui che ascolta, suscitando in lui, col processo inverso, l'idea che nella lingua è espressa con tale tono; e siccome la modulazione è quasi una lingua universale delle sensazioni com­ prensibile da ogni uomo, la musica l'usa per sé sola e in tutta la sua energia, cioè come linguaggio degli affetti, e così, secondo la legge dell'associazione, comunica universalmente le idee estetiche che vi sono naturalmente congiun­ te (ivi, p. r 9o). Questa connessione non gli sembra però forte abbastanza da consen­ tire alla musica di esprimere effettivamente «concetti e pensieri de­ terminati» (ibid. ) . L'unico concetto che Kant riesce a supporre nella musica è quello «di una totalità coerente di una quantità inesprimibi­ le di pensieri, conformemente ad un certo tema, il quale costituisce l'affetto dominante del pezzo», precisando che in questo caso ciò che esprime l'idea «è solo la forma della composizione di quelle sensazio­ ni (armonia e melodia) [ . . . ] mediante un accordo proporzionato delle sensazioni stesse»; accordo che, «riposando sul rapporto del numero delle vibrazioni dell'aria nello stesso tempo, in quanto i suoni sono riuniti simultaneamente o successivamente, può esser ridotto matema­ ticamente sotto regole determinate» (ibid. ) . Neanche quest'ultima de­ terminazione però lo convince fino in fondo, perché a suo avviso «la matematica non ha la benché minima parte nell'attrattiva e nella com­ mozione dell'anima prodotte dalla musica: è soltanto la condizione indispensabile [ . . . ] di quella proporzione delle impressioni [ .. .] che permette di abbracciarle tutte insieme» (ivi, p. I 9 r ) . La trattazione kantiana è irrimediabilmente segnata da un concetto di forma musica­ le decisamente troppo astratto, che alla fine dei conti risulta difficil­ mente integrabile con il riconoscimento del valore espressivo della musica. Per questa ragione Kant non poteva andare molto oltre la constatazione di una inesplicabile compresenza, entro il fenomeno musicale, di "matematica" e "sentimento " , che restano determinazio­ ni sostanzialmente irrelate.

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L'esito problematico della discussione kantiana apriva gli occhi di molti sulle aporie insite nell'espressione musicale, e induceva alcuni a sacrificare definitivamente il valore estetico della musica in nome di una più coerente prospettiva formalista, mentre altri acuivano il loro interesse per l'arte dei suoni, esaltandone proprio l'irriducibile e ine­ splicabile contraddittorietà, interpretata in una chiave contenutistica che ne metteva al centro il valore espressivo. Tra i primi va collocato Friedrich Schiller, il cui formalismo trova nella ventiduesima delle let­ tere Uber die iisthetische Erziehung des Menschen ( 1 795 ) formulazioni estreme: «In un'opera d'arte veramente bella il contenuto non deve costituire nulla, la forma invece tutto [. . .] il contenuto agisce sullo spirito sempre in senso restrittivo e soltanto dalla forma è da atten­ dersi vera libertà estetica» (Schiller, [ 1 7 95] 1 99 8 , p. r 87 ) . Una radica­ lità che implica l' estromissione della musica da una considerazione genuinamente estetica, se «anche la musica più spirituale è per la sua materia in un' affinità maggiore coi sensi di quanto tolleri la vera li­ bertà estetica» (ivi, p. r 8 5 ) . Con ciò Schiller compie un passo indie­ tro rispetto alla trattazione kantiana, dal momento che rinuncia a contendere alla soggettività empirica l'espressione musicale, conse­ gnandone irrimediabilmente il concetto a quel soggettivismo estetico che ostinatamente rifiuta. Al contrario, molti romantici, adottando una prospettiva contenutistica che li pone in una certa continuità con l'estetica dello Sturm und Drang, giungono a definire almeno indiret­ tamente un concetto di espressione musicale sottratto al dominio del­ la soggettività empirica, la cui elaborazione può essere ricondotta a due momenti essenziali: l'approfondimento della compresenza, nella musica, di aspetti formali ed espressivi, e la " spiritualizzazione" del­ l'espressione musicale, che sfocia in una vera e propria metafisica del sentimento. Sul peso conferito all'uno o all'altro di questi momenti risultano determinanti le differenze tra le prospettive dei singoli auto­ ri, di cui occorre rendere conto a partire dalla disamina puntuale dei loro scritti. Sulla scorta della riflessione kantiana, alcuni romantici concepi­ scono la musica fondamentalmente come paradosso, esaltandone la contraddizione tra momento formale, visto ancora in termini astratti, che ne esaltano la rigidità, e momento espressivo. Ciò emerge con estrema chiarezza già in quello che può essere considerato il primo documento dell'estetica musicale romantica, il racconto Das merkwiir­ dige musikalische Leben des Tonkiinstlers ]oseph Berglinger, di Wil­ helm Heinrich Wackenroder, posto a conclusione delle Herzenser­ gieflungen eines kunstliebenden Klosterbruders ( r 7 9 7 ) , una raccolta di prose artistiche tutta incentrata sulle arti figurative, con l'unica ecce-

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zione di questo racconto. Wackenroder vi tratteggia, narrando la vita del fittizio compositore Joseph Berglinger, una vera e propria dialetti­ ca dell'espressione musicale. La collocazione Sturm und Drang sco­ pertamente esibita dal titolo della raccolta non viene direttamente smentita dal racconto; ma quella estetica del sentimento che domina tutta la prima parte, dedicata all'infanzia e all'adolescenza del prota­ gonista, sembra sottostare a una suprema ironia. Il puerile sentimen­ talismo del giovane Berglinger, che nel suo ingenuo entusiasmo scri­ veva «parecchie piccole poesie che descrivevano il suo stato d'animo oppure lodavano l'arte dei suoni, e con grande gioia le metteva in musica, ma in una maniera tutta sua, puerile e piena di sentimento, senza conoscere le regole» (Wackenroder, [ 1 797] 1 9 9 3 , p. 9 2 ) , viene infatti letteralmente liquidato dall'arduo apprendistato musicale del futuro Kapellmeister, che deve scoprire, con sua grande delusione, che «tutte le melodie [ . . . ] si fondavano [ . . . ] su un'unica, severa [zwin­ gendJ legge matematica ! » (ivi, p. 9 6 ) . La musica non appare più, agli occhi di Berglinger, come lo sfogo immediato del cuore: anzi, la stes­ sa espressione del sentimento non si caratterizza affatto come un esito scontato . Berglinger confessa esplicitamente: «Come dovetti torturar­ mi a tirar fuori con i comuni mezzi conoscitivi dell'intelligenza un congegno esatto e ben regolato, prima che potessi pensare ad espri­ mere [handhaben] con le note il mio sentimento ! » (ibid. ) . Wackenro­ der drammatizza, sottolineando la lacerazione interiore vissuta dal compositore, la sua intima disperazione, ma proprio questa è destina­ ta a mediare il passaggio verso una più alta tipologia di espressione. Se già il rigore formale poteva assumere un valore ascetico di purifi­ cazione del sentimento, sarà soprattutto la condizione emotiva indotta in Berglinger dal dolore per la morte del padre a trasfigurare ogni infantile sentimentalismo, portando nello stesso tempo il compositore a superare le difficoltà tecniche dell'espressione musicale. Proprio in una condizione di prostrazione estrema, quando il suo «cuore lacera­ to» sembra impedirgli ogni attività artistica, Berglinger compone, «in un'estasi [Begeisterung] meravigliosa, ma sempre sotto i vivi movi­ menti dell'anima, una musica della Passione di Cristo, le cui melodie penetranti e raccoglienti tutti gli spasimi del dolore sulla terra rimar­ ranno per sempre un capolavoro» (ivi, p. r o r ) . Così si compie il pas­ saggio dialettico che mira a riguadagnare una tipologia più spirituale di espressione entro la ferrea legge della forma musicale. Nel racconto di Wackenroder si manifesta in maniera paradigma­ tica un nuovo concetto di espressione musicale, dove le istanze dell'e­ stetica del sentimento, anziché negate, vengono esasperate a tal punto che finiscono per muoversi in direzione contraria al soggettivismo che

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caratterizzava l'estetica dello Sturm und Drang: il raggiungimento del­ l' espressione musicale implica ora una sofferenza dell'artista, il quale deve in qualche modo annullare se stesso - Berglinger muore poco dopo l'esecuzione della sua ultima opera -, abdicare alla propria sog­ gettività per porsi in balìa di una forza misteriosa e sconosciuta di cui diventa strumento inconsapevole (Michelsen, 1 9 8 8 ) . Altrove Wacken­ roder si muove con più cautela. Una visione meno tragica caratterizza i saggi sulla musica pubblicati postumi da Ludwig Tieck nelle Phan­ tasien uber die Kunst /ur Freunde der Kunst ( 1 79 9 ) . In quello intitola­ to Das eigenthUmliche innere Wesen der Tonkunst, und die Seelenleh­ re der heutigen Instrumentalmusik Wackenroder tenta una vera e pro­ pria genealogia: «in origine una materia grezza con la quale i popoli selvaggi cercavano di esprimere i loro informi sentimenti [A//ekte] », la musica è diventata infine un «ingegnoso sistema» di suoni, che an­ cora mantiene tutta la sua «forza sensuale», per quanto mitigata dagli aspetti regolativi (Wackenroder, [ q99] 1 9 9 3 , p. 1 2 3 ) . Da questa pro­ spettiva il progresso artistico della musica ha determinato una condi­ zione di conciliazione tra espressione del sentimento e calcolo mate­ matico: «Tra le relazioni matematiche dei singoli suoni e le singole fibre del cuore umano si è manifestata un'inspiegabile simpatia, attra­ verso la quale l'arte dei suoni è divenuta un meccanismo ricco e doci­ le per la descrizione dei sentimenti umani» (ivi, p. 1 24). Tutto questo è stato portato a perfezione dalla "moderna" musica strumentale, per quanto ciò avvenga unicamente nei casi in cui riesce a fondere «senti­ mento e scienza» (ivi, p. 1 2 5 ) . Un'analoga dialettica tra momento espressivo e momento formale è riscontrabile nell'estetica musicale di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, ma il suo modello per il superamento della contraddizio­ ne tra forma e sentimento è rintracciato in un compositore realmente esistente: Ludwig van Beethoven. A lui soltanto si riferisce Hoffmann in Beethovens Instrumentalmusik - secondo pezzo dei Kreisleriana ( 1 8 1 4 ) , che consiste però nella fusione di due recensioni comparse anonime nella "Allgemeine Musikalische Zeitung" tra il 1 8 1 0 e il r 8 r 3 - quando afferma: «Nei segreti dell'armonia penetra veramente solo quel compositore che con essa sa agire sull'animo umano; le pro­ porzioni numeriche, che per il grammatico privo di genio non sono che morti e rigidi esempi di calcolo, diventano per lui preparati magi­ ci, dai quali egli fa nascere un mondo incantato» (Hoffmann, [ 1 8 1 3 ] 1985 , p. 9 ) . Superare l a problematica compresenza - che resta tale anche in Hoffmann - di calcolo e sentimento è dunque possibile solo eccezionalmente, in quanto riesce unicamente a chi sia dotato di "genio " .

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Altri romantici dirigono la loro attenzione verso uno solo dei due "estremi " della musica, nel tentativo di venire a capo dell'aporia. No­ valis (Friedrich von Hardenberg) definisce la matematica astrattezza della musica nei termini di una forte «somiglianza con l'algebra» o con «l'analisi combinatoria», che «insegna l'arte della composizione dei numeri, il basso continuo matematico» e che rende una «fuga [ . . . ] perfettamente logica e scientifica» (Novalis, [ 1 802] 1 996, p. 263 ) . No­ valis può analogamente avvicinare l'astrattezza formale della musica alla pura logica filosofica: «Ogni tesi [Satz: proposizione] generale, in­ determinata, ha un che di musicale» (ivi, p. 5 2 ) . Anche Friedrich Schlegel rileva «una certa tendenza alla filosofia di tutta la musica strumentale pura» (Schlegel, [ 1 797] 1 9 98, p. 8 9 ) , sottolineando però soprattutto il momento formale di questa tendenza: «la musica stru­ mentale pura non deve forse procurarsi un testo? e il tema in essa non viene sviluppato, rafforzato, variato e contrastato come l'oggetto di una meditazione in una serie di idee filosofiche?» (ibid. ) . È interessante confrontare queste proposte con la riflessione di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, che condivide con i romantici l'idea della problematica compresenza, nella musica, di due estremi tenden­ zialmente antitetici, ma che ne affronta l'aporia rimanendo ancorato a una concezione razionalistica dell'espressione musicale. Nelle sue Vor­ lesungen iiber die Asthetik - che nonostante la pubblicazione tarda, ad opera dell'allievo Heinrich Gustav Hotho, in due distinte edizioni ( 1 8 3 6 - 3 8 e 1 842-43) fanno riferimento ai corsi tenuti a Heidelberg ( 1 8 1 7 - 1 8 ) e a Berlino ( r 820-29) - riprende il problema posto da Kant sintetizzandolo in questi termini: «nella musica domina la più pro­ fonda intimità ed anima insieme al più rigoroso intelletto, dimodoché essa unifica in sé due estremi che facilmente si rendono autonomi l'u­ no rispetto all' altro» (Hegel, [ r 836-3 8] 1 997, p. 9 9 8 ) . In particolare, a suo avviso la musica può seguire «le leggi armoniche dei suoni indi­ pendentemente dall'espressione del sentimento» (ivi, p. 997) e acqui­ sire «un carattere architettonico, quando, scioltasi dall'espressione dell'animo, per se stessa costruisce [ . . . ] un edificio musicale basato su regole» (ivi, p. 9 9 8 ) . A differenza di quanto pensano i romantici, se­ condo Hegel la musica non può dunque dare a se stessa un contenu­ to determinato; questo può offrirglielo unicamente la parola: la musica racchiude in sé, fra tutte le arti, la possibilità maggiore di liberarsi [ .. ] dall'espressione di un qualsiasi contenuto determinato, per accontentarsi [ ] di un susseguirsi in sé concluso di combinazioni, mutamenti, opposizioni e media­ zioni che rientrano nel campo puramente strumentale dei suoni. Ma allora la musica resta vuota, senza significato, e non la si può ancora propriamente .

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considerare come arte, giacché le manca uno dei lati principali di ogni arte: il contenuto spirituale e l'espressione (ivi, p. roo6). In sostanza la musica strumentale, rinunciando alla parola, si prive­ rebbe nello stesso tempo della possibilità di comunicare concetti de­ terminati e di esprimere sentimenti. Hegel risolve dunque l'aporia ri­ levata a suo tempo da Kant facendo ricorso alla tradizionale idea del primato della musica vocale. I romantici invece scorgono proprio nel divorzio tra contenuto concettuale e contenuto sentimentale il segreto dell'espressività musicale, ed è anche per questo che possono rivalu­ tare decisamente la musica strumentale.

Il nuovo concetto di espressione musicale segue anche un'altra via, quella che passa per la " spiritualizzazione" del sentimento e che con­ sente ai romantici di superare il soggettivismo che caratterizzava l'e­ stetica dello Sturm un d Drang pur adottando un'analoga prospettiva contenutistica. Anche questa istanza è mutuata da Kant, cioè dalla sua trattazione del " sublime" (das Erhabene) . Nella Critik der Ur­ theilskra/t questo concetto viene determinato in base alle seguenti ca­ ratteristiche: lo status di "sentimento " (Ge/ii.hl) , il carattere non intui­ tivo ma immaginativo e riflessivo, la spinta metafisica che apre alle idee della ragione, l'ambivalenza. Nella descrizione kantiana la dina­ mica del sublime si innesca a partire dall'intuizione sensibile di una grandezza naturale smisurata o della sterminata potenza della natura (non direttamente subìta, ma solo contemplata nell'immaginazione) , che genera nell' animo la rappresentazione d i un'assoluta sproporzione rispetto all'essere umano, il quale si scopre infinitamente piccolo e impotente. Nello stesso istante in cui nell'animo si annulla la conside­ razione "sensibile" dell'essere umano, si sviluppa però, in chi abbia adeguatamente coltivato le "idee" della ragione, la rappresentazione di una "facoltà" dell' animo «superiore ad ogni misura dei sensi», sve­ lando il lato sovrasensibile della natura umana (Kant, [ 1 790] 1 963, pp. 94- 109). Il sentimento del sublime risulta dunque estremamente complesso, e contiene in sé due sentimenti contrari: «un sentimento di dispiacere, che nasce dall'insufficienza dell'immaginazione, nella valutazione estetica delle grandezze, rispetto alla valutazione della ra­ gione» e «un sentimento di piacere suscitato dall'accordo [ . . .] di que­ sto giudizio sulla insufficienza del massimo potere sensibile, con idee della ragione, in quanto il tendere a queste è per noi una legge» (ivi, p. 1 07 ) . Tra questi due sentimenti «L'animo [ . . . ] si sente commosso» nel senso di un «alternarsi rapido di ripulse e attrazioni dell'oggetto

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stesso» (ibid. ) . Kant estromette decisamente il sublime dall'ambito dell'estetica, da una parte perché, per quanto apra alle idee della ra­ gione, resta pur sempre un sentimento, cioè una determinazione sog­ gettiva, e in quanto tale non può fondare adeguatamente un giudizio estetico di bellezza; dall'altra parte perché nella Critik der Urtheils­ kra/t non viene mai presa in considerazione l'ipotesi che un'opera d'arte possa fornire un'intuizione sensibile tale da mettere in moto la dinamica del sublime. Sarà Schiller a trasporre il concetto kantiano sul piano dell'estetica, facendone nel saggio Vom Erhabenen ( 1 793 ) un caposaldo della teoria della tragedia, ed elaborando, nel saggio Uber naive und sentimentalische Dichtung ( 1 795-96), il concetto del "sentimentale" (das Sentimentalische), che accoglie almeno due delle caratteristiche essenziali del sublime kantiano: la riflessività e l'ambi­ valenza. Il poeta sentimentale «riflette sull'impressione che gli oggetti suscitano in lui» e inoltre «si riferisce sempre a due rappresentazioni e a due sentimenti [Empfindungen] contrapposti, avendo la realtà come limite e la sua idea come infinito, e il sentimento [Ge/iihlJ mi­ sto, che egli suscita, sempre darà testimonianza di questa doppia sor­ gente» (Schiller, [ 1 795-96] 1 99 5 , p. 47 ) . A sua volta Friedrich Schle­ gel applica alla musica il concetto schilleriano del "sentimentale" (das Sentimentale, sottolineando l'etimo inglese) in un passaggio del Ge­ sprà'ch iiber die Poesie ( r 7 9 8 ) che lascia intravedere la spiritualizzazio­ ne impressa al concetto del sentimento: «Dimenticate per un attimo il significato usuale e sospetto del termine sentimentale, che si conviene esprima tutto ciò che è piattamente commovente [ . . . ] . La musica mo­ derna [ . . . ] per quanto riguarda la forza umana in essa dominante [ .. .] senza timore oserei definirla un'arte sentimentale. Ma cos'è questo sentimentale, adesso? Ciò che ci parla, ciò in cui domina il sentimen­ to [ G e/uh lJ , non dei sensi, bensì spirituale» (Schlegel, [ 1 798] 2 ooo, pp. 684-5 ) . Altri romantici, più interessati alla musica, partono da questo sentimento " spirituale" per elaborare una "metafisica del sen­ timento" destinata a indurre modificazioni rilevanti nel concetto di espressione musicale. Questa caratterizzazione sembra peraltro più calzante, per quanto riguarda gli autori da noi presi in considerazio­ ne, di quella che definisce l'estetica musicale romantica principalmen­ te come «una metafisica della musica strumentale», almeno quando questa è intesa come perfettamente antitetica a qualsiasi forma di «estetica del sentimento» (Dahlhaus, r 9 8 8a, p. 1 2 ) . Sulla presenza più o meno marcata di queste istanze decidono però, ancora una volta, le peculiarità dei singoli autori, che restano determinanti . Di una particolare valorizzazione della musica strumentale in Wackenroder non c'è che qualche debole traccia: l'entusiasmo per la

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musica del giovane Berglinger ne abbraccia indistintamente tutte le manifestazioni, dalla musica da chiesa alla musica sinfonica, a quella delle bande paesane (Wackenroder, [ 1 799] 1 99 3 , pp. 87-9o); e il suo massimo capolavoro - che giunge alla fìne della sua breve vita - è pur sempre una Passione, dunque musica sacra, non una sinfonia. In una delle Phantasien uber die Kunst /ur Freunde der Kunst, intitolata Von den verschiedenen Gattungen in jeder Kunst, und insbesondre von verschiedenen Arten der Kirchenmusik, Wackenroder mostra proprio nella musica da chiesa la possibilità di una spiritualizzazione del sen­ timento umano, almeno parzialmente in linea con la caratterizzazione del sublime kantiano. Vi viene descritto, accanto a un genere da chie­ sa adatto agli spiriti semplici, «un altro genere, sublime [erhaben ] ; ma non si addice se non a pochi spiriti privilegiati» (ivi, p. I I 8 ) . I com­ positori che si dedicano a questo genere vocale e strumentale non vedono nella loro arte (come i più fanno) un semplice problema di co­ struire con note già esistenti, secondo certe regole, alcuni edifici di suoni, piacevoli e vari; ma impiegano, piuttosto, grandi masse di suoni come mera­ vigliosi colori per rappresentare all'orecchio umano il grande, il sublime e il divino. [ . . ] Questa musica si fa avanti con suoni forti, lenti, orgogliosi, e trasporta perciò la nostra anima in quella tensione grandiosa che è prodotta da pensieri sublimi [erhaben] e che tali pensieri a sua volta produce. Oppure si snoda [rollt umher: rimbomba intorno] anche più focosa e magnifica tra le voci di un grande coro, come un maestoso tuono fra le montagne (ibid. ) . .

Anche quando prende in diretta considerazione l a musica orchestrale, in Das eigenthumliche innere Wesen der Tonkunst, und die Seelenleh­ re der heutigen Instrumentalmusik, Wackenroder ne mette in luce so­ stanzialmente la superiore potenza espressiva: in essa «non è descritto un unico sentimento [Empfindung] » - come si presume avvenga nella musica vocale - ma «sbocca [. . . ] tutto un mondo, tutto il dramma delle passioni [A//ekte] umane» (ivi, p. 1 3 0 ) . Autentica cifra dell'e­ stetica musicale di Wackenroder è tuttavia la trasfìgurazione religiosa del sentimento, messa in connessione con l'espressione musicale tout court in quanto radicalmente opposta all'espressione linguistica: «Quando tutti i moti [Schwingungen : vibrazioni] più intimi [delle fi­ bre] del nostro cuore [Herzensfibern] [ ] spezzano con un grido solo gli involucri delle parole, come se queste fossero la tomba della pro­ fonda passione del cuore, proprio allora quelli risorgono, sotto altri cieli, nelle vibrazioni di corde soavi di arpe, come in una vita dell'al­ dilà, piena di trasfigurata bellezza, e festeggiano come forme d'angeli la loro risurrezione» (ivi, p. 1 2 7 ) . Se il linguaggio, pur con tutte le . . .

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sue risorse, quasi pone un ostacolo all'espressione compiuta del senti­ mento, al contrario la musica - come leggiamo in Die Wunder der Tonkunst - «parla una lingua che noi non conosciamo nella vita or di­ naria, l'abbiamo imparata non sappiamo dove e come, e soltanto si potrebbe credere che essa sia la lingua degli angeli», dal momento che «rappresenta i sentimenti umani in una maniera soprannaturale, ci mostra incorporeamente, al di sopra del nostro capo [ . . . ] tutti i movimenti del nostro animo» (i vi, p. I I 3 ) . Wackenroder non nega dunque affatto l'estetica del sentimento, piuttosto ne spiritualizza le istanze, trasponendole a un livello superiore e compiendole nella di­ mensione metafisica-religiosa evocata dalle sue metafore: in questa di­ mensione egli pone l'intero fenomeno musicale, al di là della distin­ zione tra genere vocale e genere strumentale. Ben diversa è la posizione di Ludwig Tieck, che tende decisamen­ te a risolvere l'incommensurabilità tra espressione linguistica ed espressione musicale nella dicotomia tra musica vocale e musica stru­ mentale. I suoi scritti sulla musica - che pure seguono immediata­ mente quelli di Wackenroder nella seconda parte delle Phantasien iiber die Kunst /iir Freunde der Kunst, che si presenta nel suo insieme come un Anhang einiger muszkalischen Au/si.itze von Joseph Berglinger - sviluppano istanze chiaramente distinte da quelle dell'estetica musi­ cale di Wackenroder. In Die Tane Tieck giunge a fissare con una cer­ ta incisività l'idea di una separatezza antologica della musica stru­ mentale: «i suoni degli strumenti [ .. .] sono di una natura assoluta­ mente particolare: non imitano, non abbelliscono, ma sono un mondo separato, un mondo a sé» (Tieck, [ ! 799] I 99 I , p. 2 3 6 ) . Nel successi­ vo Symphonien precisa il senso di questa separazione, che si caratte­ rizza innanzitutto nei termini di una diversa funzionalità espressiva. Così afferma che «la musica vocale in senso proprio deve forse pog­ giare completamente sulle analogie dell'espressione umana: essa espri­ me infatti idealmente l'umanità, con tutti i suoi desideri e le sue pas­ sioni» (ivi, p. 243 ) . Indubbiamente Tieck pensa a questa specificità espressiva come a un limite: per lui ogni impiego della voce umana per fini musicali più alti si traduce soltanto in «esclamazioni sfilaccia­ te e risonanze provvisorie del lamento fluente o della gioia modera­ ta», trattandosi a suo avviso di una «forma d'arte condizionata» (ibid. ) . Ma all'enunciazione più scopertamente assertoria secondo cui «ogni espressione del sentimento rappresenta il livello più basso della musica» (ibid. ) egli resta fedele solo fino a un certo punto. Tieck non riesce infatti a svincolare come vorrebbe la musica strumentale dall'e­ spressione tout court, bensì ammette implicitamente che la musica sinfonica sopravanza enormemente, quanto a capacità espressive, per-

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fino la poesia: le sinfonie «riescono a rappresentare un dramma tal­ mente variegato e multiforme, intricato e armoniosamente sviluppato, che il poeta mai potrà darcene l'eguale» (ivi, p. 244). Certo, questa superiorità espressiva viene poi riportata allo statuto antologicamente peculiare della musica: le sinfonie «non sono minimamente vincolate alle leggi della verosimiglianza, non hanno bisogno di legarsi né a vi­ cende né a caratteri: permangono nella purezza assoluta del loro mondo poetico [. . ] evitano tutti i mezzi con cui potrebbero trasci­ narci, esaltarci» (ibid. ) . Eppure anche in Tieck la musica continua ad esprimere immagini e sentimenti, per quanto li esprima in una con­ traddittoria compresenza che ricorda ancora un dato caratterizzante del sublime kantiano: il compositore «può parlare la sublime lingua poetica che svela il meraviglioso nascosto in noi», può accostare gli opposti e suscitare insieme «le immagini più nobili e le più grotte­ sche» o suscitare quella ambivalenza del sentimento, quella assoluta indeterminatezza in cui «gioia e dolore, felicità e malinconia procedo­ no affiancate» (ivi, pp. 243-4). Dunque neanche Tieck sviluppa una vera e propria «metafisica della musica strumentale», fermandosi piuttosto all'enunciazione di un criterio pragmatico, che a ben vedere sembra avere come fine ultimo il perfezionamento dell'espressione musicale, il progresso storico della musica. Vorrebbe che i due generi - vocale e strumentale - si sviluppassero il più possibile in modo au­ tonomo, ma a vantaggio di entrambi: .

mi pare che la musica vocale non sia ancora ben distinta da quella strumen­ tale, in modo tale che ognuna delle due possa percorrere fino in fondo la propria strada: le si considera ancora troppo spesso un tutto unico, e da ciò deriva anche la tendenza a considerare la musica spesso soltanto come un complemento della poesia. La musica vocale pura dovrebbe invece muoversi con le sue proprie forze, senza accompagnamento strumentale, dovrebbe re­ spirare nell'elemento ad essa congeniale, così come la musica strumentale percorre il proprio cammino senza richiedere alcun testo, senza il sostegno della poesia: è già in se stessa poesia e commento poetico di se stessa (ivi, p . 242 ) . Viene poi prospettata una più perfetta unione tra musica vocale e strumentale: quando vengono uniti, quando il canto, come una nave sulle onde, viene so­ spinto e innalzato dagli strumenti, il compositore deve essere molto forte nel suo dominio, deve reggere il suo regno con mano ferma, per evitare di su­ bordinare una forma d'arte all'altra [. .. ] . Nelle opere teatrali questo caso si presenta anche troppo spesso: ora ci accorgiamo che tutta la ricchezza

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espressiva degli strumenti serve solo a dar risalto a un pensiero del poeta e ad accompagnare il cantante; ora invece la poesia e il canto vengono repres­ si, e il compositore si compiace soltanto di far ascoltare, dalla voce degli strumenti, le mirabili volute del suo pensiero (ivi, p. 243 ) . Per quanto Hoffmann possa fondarsi s u un'esperienza musicale enor­ memente più sviluppata - le sue recensioni comparse negli anni dieci sulla " Allgemeine Musikalische Zeitung" denotano la sicura cono­ scenza analitica delle partiture -, la sua estetica musicale resta tutto sommato in linea con quella di Wackenroder, e si caratterizza ancora più come una metafisica del sentimento e della sua espressione che come una metafisica della musica strumentale. Hoffmann non svaluta affatto la musica vocale: «Nel canto, dove la poesia accenna per mez­ zo della parola a sentimenti determinati, la magica forza della musica agisce come il meraviglioso elisir di saggezza, poche gocce del quale bastavano a rendere più preziosa e squisita ogni bevanda» (Hoff­ mann, [ r 8 r 3 ] 1 9 8 5 , p. 3 ) . La musica resta per lui funzionale all'e­ spressione di affetti e sentimenti: «Ogni passione - amore, odio, col­ lera, disperazione ecc. - quale ci si presenta nell'opera, è rivestita dal­ la musica dei bagliori purpurei del romanticismo, e perfino ciò che proviamo nella vita ci conduce fuori della vita, nel regno dell'infinito» (ibid. ) . La stessa musica strumentale in quella che Hoffmann conside­ ra la sua manifestazione più alta, che pure «schiude all'uomo un re­ gno ignoto, un mondo che non ha nulla in comune con quello este­ riore dei sensi» (ibid. ) , a ben vedere non rifugge affatto dall' espressio­ ne dei sentimenti: la musica strumentale di Beethoven ci schiude il regno del prodigioso e del­ l'incommensurabile. Raggi ardenti squarciano la notte profonda di questo re­ gno, e noi scorgiamo un agitarsi e un ondeggiare di ombre gigantesche, che ci stringono sempre più da vicino e ci annientano, pur senza distruggere il dolore della nostalgia [Sehnsucht] infinita, nella quale ogni gaudio, levatosi d'un sùbito in note esultanti, sprofonda e scompare: e solo in questo dolore, che - consumando in sé, pur senza annientarli, amore, speranza, gioia - pare voglia schiantarci il petto con una sinfonia a piene voci di tutte le passioni, noi continuiamo a vivere, rapiti visionari ! (ivi, p. 4). Ancora troviamo l'esaltazione del sentimento, la sua drammatizzazio­ ne, in nessun modo la sua liquidazione: un flusso continuo di passio­ ni contraddittorie che - come già il sublime kantiano - si trova a sua volta entro un unico tono sentimentale, quasi un sentimento di senti­ mento, un doloroso anelito (Sehnsucht) all'infinito. La stessa unità formale della musica, la cui articolazione si dovrebbe presentare così

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chiaramente al compositore Hoffmann, è funzionale a questa profon­ da unità "sentimentale" che sembra costituire lo scopo ultimo dell'e­ spressione musicale: in Beethoven, dove «L'intima struttura delle fra­ si, la loro elaborazione e strumentazione, il modo in cui sono dispo­ ste, tutto converge ad un unico punto», lo scopo dell'«intima affinità dei temi» è quello di «produrre quell'unità la quale sola ha il potere di mantenere l'ascoltatore in un unico stato d' animo [Stimmung] » (ivi, p. 7 ) .

L'estetica musicale d i Arthur Schopenhauer risulta particolarmente vicina alla riflessione condotta dai romantici: il paragrafo 5 2 della sua opera fondamentale, Die Welt als Wille und Vorstellung ( 1 8 1 9 ) , sem­ bra quasi riassumere le diverse istanze sollevate dagli autori passati in rassegna, elevandole alla compiutezza del sistema filosofico. Come i romantici, anche Schopenhauer considera la vicinanza della musica alla matematica alla stregua di una determinazione esatta ma del tutto superficiale: la definizione della musica data da Leibniz - exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerarz· animi - gli appare insuf­ ficiente perché «se non fosse nulla di più, dovrebbe la soddisfazione, ch'ella ci arreca, somigliare a quella che noi troviamo nella giusta so­ luzione d'un problema di calcolo; e non sarebbe punto quell'intima gioia, con la quale noi vediamo fatto parlante il più segreto recesso del nostro essere» (Schopenhauer, [ ! 8 1 9] 1 9 9 3 , n , p. 344 ) . Al con­ trario, «dobbiamo riconoscere alla musica un significato ben più gra­ ve e profondo, riferentesi alla più interiore essenza del mondo e del nostro io; rispetto alla quale le relazioni di numeri, in cui quella si lascia scomporre, stanno non già come la cosa significata, ma appena come il segno significante» (ivi, pp. 344-5 ) . Una ripresa puntuale del­ le argomentazioni kantiane, sviluppate però nel senso della metafisica, secondo la definizione emendata della musica come exercitium meta­ physices occultum nescientis se philosophari animi (ivi, p. 3 5 5 ) . Come nessun romantico Schopenhauer sa sottolineare - integrando la meta­ fisica platonica - la peculiarità antologica che pone la musica al di sopra delle altre arti, nonché del «mondo come rappresentazione». Nel suo sistema tutte le arti mirano alla rappresentazione di oggetti che forniscono una conoscenza delle idee platoniche, le quali a suo avviso sono già aggettivazione di quello che è l'autentico fondamento metafisica del mondo: la "volontà " , sotto il cui concetto Schopen­ hauer indica una sorta di "noumeno" energetico in costante movi­ mento. Ebbene la musica «va oltre le idee» e addirittura «dal mondo

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fenomenico è del tutto indipendente, e lo ignora, e potrebbe in certo modo sussistere quand'anche il mondo non fosse [ . . . ] . La musica è dell'intera volontà aggettivazione e immagine, tanto diretta com'è il mondo; o anzi, come sono le idee: il cui fenomeno moltiplicato co­ stituisce il mondo dei singoli oggetti. La musica non è quindi punto, come le altre arti, l'immagine delle idee, bensì immagine della volontà stessa [ . . . ] » (ivi, p. 346). Schopenhauer va poi in cerca di analogie in parziale contraddizione con le sue premesse - tra i fenomeni musi­ cali e i fenomeni del mondo della natura, rappresentati per lo più nella loro fisicità (ivi, pp. 347-5 r ) , per lasciarsi andare a un contenuti­ smo piuttosto superficiale, che ha in ogni caso lo scopo di ricondurre la musica alla sua funzione espressiva: questa arte «narra della vo­ lontà la storia più segreta, ne dipinge ogni emozione, ogni tendenza, ogni moto, tutto ciò che la ragione comprende sotto l'ampio e negati­ vo concetto di sentimento, né può meglio accogliere nelle proprie astrazioni. Perciò fu sempre detto esser la musica il linguaggio del sentimento e della passione, come le parole sono il linguaggio della ragione» (ivi, p. 349 ) . Sono le premesse per la limpida formulazione della "metafisica del sentimento " , che giunge qui a una consapevo­ lezza filosofica mai raggiunta nell'ambito del primo romanticismo te­ desco: la musica Non esprime dunque questa o quella singola e determinata gioia, questo o quel turbamento, o dolore, o terrore, o giubilo, o letizia, o serenità; bensì la gioia, il turbamento, il dolore, il terrore, il giubilo, la letizia, la serenità in se stessi, e, potrebbe dirsi, in abstracto, dandone ciò che è essenziale, senza ac­ cessori, quindi anche senza i loro motivi. Perciò noi comprendiamo la musi­ ca perfettamente, in questa purificata quintessenza. [ . . . ] lmperocché sempre la musica esprime la quintessenza della vita e dei suoi eventi, ma non mai questi medesimi; le cui distinzioni quindi non hanno il minimo influsso sopra di lei (ivi, p. 3 5 1 ) . Tornano, con u n grado di chiarezza incomparabilmente maggiore e in chiave platonica, anche le istanze sollevate nei frammenti di Novalis . La musica quindi è - guardata come espressone del mondo - un linguaggio in altissimo grado universale [ . . . ] . Ma la sua universalità non è punto quella vuota dell'astrazione, bensì ha tutt'altro carattere, ed è congiunta con una perenne, limpida determinatezza. Somiglia in ciò alle figure geometriche ed ai numeri: che, quali forme universali di tutti i possibili oggetti dell'esperien­ za ed a tutti applicabili, non sono tuttavia astratti, ma intuitivi e sempre de­ terminati (ivi, p. 3 5 2 ) . 93

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Di fronte a queste premesse non stupisce che la distinzione tra gene­ re vocale e strumentale debba apparire come una determinazione em­ pirica del tutto secondaria, rispetto alla quale Schopenhauer si com­ porta con la massima libertà, senza mostrare particolare apprezza­ mento per la musica strumentale, anche quando - ricalcando motivi già presenti in Tieck - ribadisce i diritti della musica sulla parola: è la musica che eccita la fantasia e porta a dar forma a quel mondo di spiriti, che direttamente ci parla, invisibile e pur sì vivamente mosso, e di vestirlo con carne e ossa, cioè impersonarlo in un esempio analogo. Questa è l'origine del canto accompagnato da parole, e fi­ nalmente dell'opera - la quale appunto perciò non dovrebbe mai abbando­ nare questa situazione subordinata per salire al primo luogo, e ridurre la mu­ sica a semplice mezzo della propria espressione [. . . ] . Se quindi si vuoi trop­ po adattar la musica alle parole, e modellarla sui fatti, ella si sforza a parlare un linguaggio che non è il suo. Da questo difetto nessuno s'è tenuto lontano come Rossini: perciò la musica di lui parla sì limpido e puro il linguaggio suo proprio, da non aver punto bisogno di parole, ed esercitare quindi tutto il suo effetto, anche se eseguita dai soli strumenti (ivi, pp. 3 5 1 -2 ) . È evidente che l a musica vocale resta u n punto d i riferimento impre­ scindibile dell'esperienza musicale di Schopenhauer. Le sue argomen­ tazioni pro e contro determinati procedimenti musicali derivano però tutte dalle sue premesse filosofiche, senza che sia possibile ricondurle a un giudizio empirico sui generi musicali. Così la stroficità che ca­ ratterizza molta musica vocale viene pienamente giustificata, perché «Al senso universale della melodia, posta ad accompagnare una poe­ sia, potrebbero corrispondere egualmente altri esempi, scelti a piacere, dell'universale in quella espresso, nello stesso grado» (ivi, p. 3 5 3 ) . Schopenhauer tiene piuttosto a precisare l a limitatezza del concetto di "imitazione" , se non viene inteso correttamente: «l'esser possibile un rapporto tra una composizione musicale e una rappresentazione intui­ tiva poggia [ . . .] sul fatto che l'una e l'altra sono espressioni differen­ tissime della stessa intima essenza del mondo» (ivi, pp. 3 5 3 -4) e sol­ tanto quando «il compositore abbia saputo esprimere nell'universale lingua della musica quei moti della volontà, che formano il nocciolo di un evento, allora la melodia della canzone o la musica dell'opera è altamente espressiva» (ivi, p. 3 5 4 ) . L'analogia deve essere però senza consapevolezza della ragione; non dev'essere imitazione fatta consape­ volmente, mediante concetti, ché allora non esprimerebbe la musica l'intima essenza, la volontà medesima, e non farebbe che imitare insufficientemente il fenomeno di quest'ultima come ognor fa la musica imitativa, qual è per 94

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esempio Le stagioni di Haydn e anche la sua Creazione, in molti luoghi ove fenomeni del mondo intuitivo sono direttamente imitati. E così anche in tut­ te le descrizioni di battaglie: tutta roba da gettar via (ibid. ) . Ancora una volta non troviamo testimonianza di una particolare esal­ tazione della musica puramente strumentale.

L'indagine condotta su alcuni dei documenti più rappresentativi del­ l'estetica musicale romantica ha mostrato una volta di più che «la ca­ duta delle teorie degli affetti del barocco e dell'estetica sensualistica dell'Empfindsamkeit, alla fine del XVIII secolo, non ha in alcun modo comportato la fine delle teorie che concepiscono la musica principal­ mente come espressione di affetti, passioni e sentimenti» (Grimm, 1 9 9 3 , p. 1 05 ) . Di fatto la riflessione dei romantici affonda le sue radi­ ci nell'estetica dello Sturm un d Drang, con la quale condivide non soltanto la prospettiva contenutistica, ma soprattutto l'idea che l'e­ spressione musicale sia assolutamente incommensurabile all' espressio­ ne linguistica. Questa idea li porta ad eludere il confronto sistematico tra i due modelli di espressione, l'unica risorsa teorica che in man­ canza di un concetto di forma musicale adeguato - concepito cioè coerentemente come articolazione di nessi sintattici e strutturali anzi­ ché come un insieme di proporzioni tonali astratte e irrelate - poteva consentire loro di svincolare l'espressione musicale da un'estetica del sentimento. Il superamento dell'estetica dello Sturm un d Drang si gio­ ca piuttosto sullo stesso piano contenutistico, attraverso il rifiuto di qualsiasi forma di soggettivismo; un rifiuto fondato su esigenze di spi­ ritualizzazione mutuate dalla filosofia di Kant ed elaborate entro il di­ battito innescato dalla sua ricezione. Nonostante la presenza, in de­ terminati autori, di istanze che tendono a rivalutare decisamente la musica strumentale - ma si tratta più spesso di metafore poetiche che di asserzioni teoriche cogenti (Wiora, 1 965 , p. 1 4 ) - di «metafisica della musica strumentale» (Dahlhaus, 1 97 2 ; 1 9 8 8a) si può parlare solo a patto di sottolineare la connessione con un'estetica del senti­ mento mai veramente superata. I romantici certo si distanziano dall'e­ stetica settecentesca e non possono più concepire i sentimenti come determinazioni empiriche meramente soggettive: ciò che caratterizza diffusamente la loro estetica è l'elaborazione di una metafisica del sentimento, che diventa il correlato essenziale di un concetto di espressione musicale del tutto peculiare.

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L'espressione del servo muto. Mente e mondo dopo Kant di Luca Bagetto

Tra le diverse forme di espressione, che costituiscono altrettanti modi di dare forma al disordine delle impressioni sensibili, Cassirer assegna all'espressione del mito il livello più basso - più compromesso con la materia sensibile. Nel mito, le parole non si distinguono ancora dalle cose, come accade invece nel linguaggio quotidiano e in quello scien­ tifico. La funzione logica nel mito non si distingue dall'esistenza effet­ tiva, e per via di questa solidarietà la parola può agire magicamente sulla cosa. Il mondo mitico è un mondo di cose animate da significa­ ti. Le cose sono cariche di significato affettivo ed emotivo e sono ani­ mate da potenze sostanziali benigne o maligne. L'espressione delle cose è allora il loro parlare in modo muto ed esplicito insieme, come accade quando la parola "espressione" indica l'aspetto muto di un volto, e persino la faccia che le cose fanno di fronte a uno sguardo che le sa guardare. Cassirer fa poi seguire al livello mitico-espressivo, in una progres­ sione teleologica di matrice hegeliana, il livello linguistico-rappresen­ tativo, nel quale emerge l'individualità per così dire prosaica degli og­ getti, quale è percepita nella visione quotidiana e nell'ordinaria mani­ polazione di strumenti. È il livello del linguaggio quotidiano e del ri­ ferimento non equivoco a un insieme di sostanze stabili e durevoli, dotate di proprietà che mutano a seconda del luogo e del tempo. Su questa base, il linguaggio ordinario non dubita della differenza tra apparenza e realtà, e indica la verità della rappresentazione - che si allontana dalla cosa come un'apparenza e un fantasma - nella confor­ mità alla cosa " reale " . Un terzo modo - il più elevato - di dare si­ gnificato alle informi impressioni sensibili consiste per Cassirer nella funzione logica della scienza teoretica, nella quale la realtà non viene messa in ordine secondo la qualità delle cose, ma secondo la relazio­ ne tra di esse - il principio che era già passato dalla matematica alle scienze della cultura negli ultimi lavori di Saussure. La scienza «scio­ glie i rapporti puri dai legami con la "realtà" concreta e individuai97

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mente determinata delle cose, per rappresentarli come tali nella uni­ versalità della loro "forma", nel loro carattere di relazione» (Cassirer, [ 1 929] 2o02b, III, p. 7 ) . Qui, secondo il seduttivo modello leibniziano di una characteristica generalis, l'esperienza viene tradotta in una logi­ ca pura, nella quale il complesso di segni, che permette di abbraccia­ re con un solo sguardo la connessione delle cose, si spoglia di tutto ciò che è meramente espressivo, «anzi, di tutto ciò che è rappresenta­ tivo», i segni essendo diventati puri «segni di significato [Bedeutungs­ zeichen] (ivi, III, pp. 8-9). I n quanto segue s i estende, i n modo provocatorio, l a funzione mi­ tico-espressiva - la più primitiva - alla sfera della rappresentazione e delle relazioni, applicando figure mitico-archetipiche come quella del Signore e del Servo alla questione generale dei simboli che mettono in forma la realtà. La figura mitica del Signore e del Servo interroga il rapporto di dominio del pensiero logico sulla muta sensibilità, e il passaggio dal fattuale empirico (che è una volta sola) al trascendenta­ le (che è la possibilità della ripetizione universale) . L'estensione della figura e dell'immaginazione prelogiche alla sfera della logica pura, at­ traverso il linguaggio, intende illustrare la provocazione politica ed etica che la filosofia del xx secolo ha rivolto a se stessa, formulando il passaggio alla validità intersoggettiva non più nei termini della nega­ zione linguistica del " questo " determinato - non più nei termini he­ geliani di un logos che fagocita la sensibilità - ma nei termini politici e intersoggettivi della possibilità dell'altro. La questione dell'espressione, in questo contesto, sviluppa il pro­ blema kantiano del rapporto tra concetti e intuizioni sensibili, e la domanda fondamentale, che è stata di Kant e di Heidegger, sul darsi di un'intuizione pura, temporale o spaziale, che preceda il logos.

J.I

Il terrore della negazione Il bisogno di esprimersi e di prendere parola ha rappresentato nella filosofia dopo Hegel un'istanza politica di emancipazione, di fronte all'imporsi di una società totalmente organizzata - come si diceva in funzione della produzione e del profitto. Riuscire a esprimersi si­ gnificava in questo contesto aprire la possibilità: uscire dalla chiusura del sistema per liberare l'individuale, con le sue caratteristiche parti­ colari e il suo progetto, dall'oppressione dell'universale. L'espressione dice un ordine altro - dice " non questo " , proprio nel senso di " que­ sto no ! " . La densità di questo gesto, che è ad un tempo indicativo

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( ''vedi questo ? " - cioè, "vedi questa realtà oppressiva per l'indivi­ duo ? " ) e negativo ( "ebbene, non questo " , cioè "immagina un ordine diverso" ) , compendia molte questioni che gravitano intorno all'e­ spressione, e al linguaggio in generale. L'espressione, come il linguaggio in generale, offre un soccorso rispetto al disagio e addirittura alla follia del soggetto che non riesce a connettersi al mondo. Il fatto di esprimersi permette di connettere l'interno del sé con l'esteriorità del mondo - secondo le categorie dell'interno e dell'esterno che segnano la scissione della modernità. Da Cartesio a Kant, l'Occidente si è raccontato nei termini della scis­ sione e della schizofrenia: anima e mondo hanno via via perduto la loro armonica corrispondenza greca, e il cosmo e le leggi della sua conoscenza non sono più reciprocamente assegnati dal principio del­ l' evidenza. Vedere le cose non significa più, come allora, avere imme­ diato accesso al loro nome, come se le parole fossero parte del mon­ do visibile. Era stata questa perduta armonia a delineare l'orizzonte dell'idealismo tedesco, che aveva trattato con intensità la questione kantiana della connessione tra mente e mondo proprio perché aveva vissuto la fase acuta di questa progressiva disarmonia. La lacerazione introdotta dal mondo nuovo nato dalla Rivoluzione giungeva al cul­ mine dell'accresciuta dimensione delle potenze sovraindividuali: lo Stato, il denaro, il concetto e la storia. L'idealismo tedesco sentiva talmente questa lacerazione da viverla nella follia di Holderlin e da teorizzarne la terapia nella filosofia di Hegel e di Schelling. La capacità di connettere - come si dice - segna quindi la que­ stione dell'espressione. Il disagio, la negazione del presente e la ri­ cerca dell'espressione si rinviano gli uni agli altri per riuscire nuova­ mente a connettere mente e mondo. In generale, la filosofia dopo Kant ha scelto di mettere in que­ stione la scissione tra un interno e un esterno, e insieme ad essa l'in­ tero impianto della tradizione. Il percorso della connessione mente­ mondo, da Hegel e Schelling a Nietzsche, e da Husserl a Heidegger e Derrida, ha seguito la direzione di una corrosione dei termini da con­ nettere. La connessione di mente e mondo ha oscurato l'evidenza tanto dell'una quanto dell'altro, perché a ciascuno dei due termini ha sostituito la loro connessione. L'espressione non connette un soggetto a un oggetto, la mente al mondo, ma una connessione mente-mondo a un'altra. Sicché l'oggetto della connessione è divenuto la connessio­ ne medesima - l'oggetto è divenuto il soggetto, e non si è più usciti dal circolo. Per questa circolarità, attraverso un percorso che analizzeremo, l'espressione si è ritrovata a non rivelare propriamente né il sogget99

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to - sulle cui intenzioni di senso la psicologia del profondo ha aperto un discorso infinito - né l'oggetto - che anche nella pratica scientifica ha perso i tratti dell'evidenza presente al di là dei segni. È divenuta problematica la relazione tra un'espressione linguistica e ciò che essa indica, come contenuto di pensiero e come contenuto di realtà. La rappresentazione del mondo si è allora indirizzata verso forme di si­ gnificato non discorsive, che non scorrono dalla mente al mondo e dalle parole alle cose, ma si arrestano in continuazione e sospendono il nostro desiderio di vedere e di riferirsi. I linguaggi dell'arte, a parti­ re da quelle forme che, come la musica e le arti non letterarie, pote­ vano con più agio evitare di far segno verso un oggetto possibile, hanno guidato questa esperienza di sospensione della visione natura­ le. In questo senso l'espressione, nel pensiero del Novecento, condivi­ de col linguaggio la centralità che appartiene ai media: il mezzo attra­ verso cui si doveva passare per raggiungere qualcosa al di là di esso ora non conduce più da nessuna parte, e pone in luce se stesso pro­ prio nel suo carattere di mezzo. Il mezzo, la connessione, la relazione stanno quindi al centro . La centralità del linguaggio nella filosofia del Novecento corrispon­ de alla centralità del mezzo e dello strumento . Corrisponde alla centralità novecentesca della questione del lavoro, cioè dello stru­ mento per produrre, che nel momento in cui si sofferma sul pro­ prio carattere di mezzo sospende la funzionalità al sistema, per di­ segnare un ordine diverso. Heidegger, allorché osserva che il ri­ mando che caratterizza uno strumento si fa esplicito quando esso non serve allo scopo, o quando lo strumento non si trova, o quan­ do ci è d'inciampo (Heidegger, [ 1 92 7 ] 1 969, § 1 6 ) , riprende il me­ desimo tema politico del lavoro e della negazione: il mezzo è tale - rinvio ad altro - solo in virtù della negazione della presenza del presente. In questa applicazione storica delle analisi husserliane Heidegger cerca una risposta a Marx attraverso Hegel e attraverso il tema del lavoro del concetto e della connessione dialettica. È qui, nel pensiero di Hegel, che la connessione e il rimando tra le cose iniziano a prevalere sulla presenza delle cose stesse. La filoso­ fia di Hegel è una filosofia del rimando, cioè del segno che il pensie­ ro imprime sulla realtà consumando la sua naturalità (Derrida, [ I 972] I 997 b, p. r r I): una filosofia politica che lascia un segno riconoscibile. Quel che limita la sua implicita filosofia del linguaggio è la convinzio­ ne che la conoscenza dell'Assoluto non possa essere separata dall' As­ soluto stesso, la cui presenza rende superfluo ogni segno e ogni stru­ mento. Il sapere comprende il cammino verso il sapere, che a ogni passo riconosce se stesso. I segni, invece, vengono riconosciuti solo se I OO

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la presenza dell'Assoluto è tramontata: abbiamo bisogno di segm quando l'orientamento è perduto. Proprio il tema del riconoscimento dei segni mostra la differenza tra il tempo della chiarezza e il tempo dell'oscurità - tra il mondo greco della presente visibilità delle cose e l'Occidente della luce, che ha perduto la fiducia nella trasparenza immediata e si muove ricor­ rendo a segni. Segni di riconoscimento, appunto, per rimediare alla difficoltà di vedere. Invece di vedere nella pienezza della luce, si trat­ ta di distinguere nella penombra i segni di riconoscimento. E distin­ guere significa muoversi tra le differenze, vedere le cose attraverso ciò che esse non sono - porre relazioni che rimandano da una cosa all'al­ tra e avere a che fare con i segni delle cose piuttosto che con le cose stesse. "Vedere " si dice quindi " distinguere" e porre delle differenze. "Vedere" nel tempo dell'Occidente significa distinguere le cose attra­ verso ciò che esse non sono, cioè attraverso le differenze che esse in­ trattengono con il sistema. Si "vede" qualcosa attraverso ciò che quel qualcosa non è, come disegnando il suo contorno in negativo. Qual­ cosa è solo nell'atto di distinguersi da quanto gli è contemporaneo. È questo il tema politico. Per distinguere il mondo bisogna di­ stinguersi da esso. Il distinguere è un distinguersi, un prendere di­ stanza. Ed è il linguaggio ad aprire la possibilità di distinguersi dall'a­ desione immediata all'ambiente, che invece caratterizza l'animale. Nel linguaggio, come rileva Derrida, sono quindi decise tutte le distinzio­ ni della filosofia, che sviluppano la distinzione fondamentale tra l'uo­ mo e l'animale, tra l'anima e il corpo, l'intelligibile e il sensibile, il maschile e il femminile (Derrida, [ 1 967] 1 9 97a, p. 5 I ) . L'uomo ha linguaggio, e non è perciò sottoposto all'immediata pressione della natura e dell'istinto. Essere formato dalla Bildung, come rileva Gada­ mer, significa appunto muoversi in un orizzonte a più dimensioni, e non essere totalmente immerso nel presente urgente del bisogno bio­ logico e delle reazioni immediate (Gadamer, [ 1 96o] 1 9 7 2 , pp. 3 4 s s . ) . È il linguaggio che permette di allontanare l'immediata presenza fat­ tuale, e dire "non " : dire "non questo" - "non c'è solo questo pre­ sente " . Posso muovermi, attraverso il linguaggio, nel mezzo dell'im­ maginazione e dell'assenza fattuale delle cose. L'immaginazione è po­ litica non solo per la sua forza utopica, ma innanzitutto perché intro­ duce la facoltà di dominio, e di autodominio, che è implicita nel di­ stinguersi, nell'emergere da un'immanenza e nel guardare dall'alto. Il linguaggio è immaginazione e capacità di prender distanza in virtù del suo carattere di strumento. Allo strumento corrisponde la prima visione dall'esterno su ciò che è, e gli studi di paleologia di 101

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Leroi-Gourhan hanno rilevato la contemporaneità dell'uso del primo strumento - la pietra di selce - e del sorgere del linguaggio (Leroi­ Gourhan, 1 9 64, pp. 40 ss., 1 62 ss.), in una sorta di coincidenza origi­ naria della storia dei fatti e del loro racconto. La storia della distin­ zione dell'uomo dall'animale - in una parola: la storia - è la storia del linguaggio. Ma il primo strumento, come si sa, è la mano . Grazie alla mano che afferra e alla mano che depone, diviene possibile prendere di­ stanza dall'ambiente immediato e accedere al salto originario della rappresentazione del mondo. "Vedi questo ? " , "ebbene, non questo " , e s i afferra l a cosa e l a s i toglie dalla presenza. L'infinita pressione dell'esserci può essere alleggerita. La presenza del mondo, che per l'animale è sempre potenzialmente mortale, acquista per l'essere uma­ no la risorsa dell'assenza e della negazione simulata, che appartiene alla dimensione dei segni. Invece di uccidere l'altro, grazie alla mano imito nel linguaggio il gesto di togliere dalla presenza, e dico "non " . È ora possibile dire "non questo" - innanzitutto dire "non ti vo­ glio uccidere " , secondo un'espressione che gli animali, non avendo la mano a originare la dimensione dell'assenza, possono comunicare solo a fatica. I mammiferi superiori diversi dall'uomo, scrive Bateson, non hanno linguaggio perché non hanno mani, cioè hanno un lin­ guaggio adatto a chi non ha mani: non possono perciò parlare delle cose che si possono levare, ma solo del tipo di rapporto, di dominio o dipendenza, con l'altro (Bateson, [ 1 972] 1 999, p. 4 1 0 ) . Per gli ani­ mali il gesto della negazione non può essere facilmente simulato e quindi rappresentato, e risulta sempre violento. Per dire " non ti vo­ glio uccidere" devono ricorrere a una complessa messa in scena, che preveda l' effettivo atto dell'aggressione, e poi l'introduzione di una differenza - quella differenza che è la comunicazione - nell'atto di azzannare con meno forza rispetto al caso serio. Ma è una comunica­ zione ad alto rischio di fraintendimento. Si parla per non uccidere e non essere uccisi. Nella questione del pollice apponibile si è vista quindi l'origine della distinzione, che è innanzi tutto la distinzione tra l'umano e l'ani­ male: la differenza introdotta dalla mano e quindi dal linguaggio. È l'origine di una serie di esoneri rispetto alla pressione dell'ambiente (Gehlen, [ ! 940] 1 9 8 3 ) , grazie alla mano che afferra e alla mano che depone. Intorno alla centralità novecentesca dello strumento e del linguag­ gio, e intorno al prevalere, sul vedere naturale, dell'atto di distinguere attraverso uno strumento, è divampata la lotta politica della distinzio­ ne, della capacità di distinguersi. È la lotta inaugurata dal gesto di

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dominio dell'uomo sulla natura - di Adamo che domina sugli animali dopo aver dato loro il nome -, che viene esteso alla generale volontà di sottomissione dell'altro, descritta da Hegel nella lotta per il ricono­ scimento reciproco tra il Signore e il Servo. In questa lotta, si tratta di una filosofia del linguaggio: del confronto tra il potere di negazio­ ne della presenza e l'attaccamento alla presenza. Da una parte sta il Signore che ha il coraggio di mettere in gioco la propria vita ed è in grado di sopportare l'idea di farne a meno, dall'altra il Servo che ha paura di morire e cerca in tutti i modi di restare nella prossimità del­ le sue cose (Hegel, [ 1 807] 1 9 95, pp . 2 8 3 - 9 ) . Da una parte il potere dell'astrazione, di afferrare e di mangiare le cose, dall'altra la povertà delle cose e il gesto di deporle sulla tavola del Signore. Il Signore è la metafora del conceptum, il Servo è l'immagine della sensibile nudità dei fatti concreti. Nel gesto signorile di uccidere, togliere dalla pre­ senza, inghiottire nell'oscurità della gola, Hegel mette in scena il po­ tere del pensiero come si manifesta nel linguaggio: afferrare le cose e mostrare di poter fare a meno della loro presenza, indicandole in loro assenza. Il pensiero le domina conferendo loro un nome, come Ada­ mo e come Noè, i Signori della natura che riducono le cose a un pensato. E infatti solo il Signore ha logos e si esprime, mentre il Ser­ vo, com'è noto, è muto, e serve al massimo a reggere il peso delle cose. Solo il Signore porta un nome, perché solo il suo nome è rico­ nosciuto da tutti, come lo sono i nomi del linguaggio, mentre il nome del Servo rimane l'idioma di un idiota, qualcosa che è riconosciuto solo tra le mura di casa. Se il Servo vuol essere riconosciuto da tutti deve valersi del nome del Signore. Se la nuda fattualità del mondo vuole essere comunicata, deve sottoporsi al potere del linguaggio. Eppure la verità della figura del Signore e del Servo non sta per Hegel dalla parte del Signore, nonostante che il potere del suo pen­ siero di fagocitare il mondo e di sottometterlo gli sia stato sempre rimproverato. La verità della figura del dominio sta dalla parte del Servo. Il Servo che vive nell'oscurità vuole emergere da essa, invece di passare nel silenzio. Questa era la bellezza della Rivoluzione. L'o­ scurità della vita del Servo è l'oscurità del senso, che asservisce tutti, nel tempo del nichilismo. La lotta del Servo contro il Signore è una lotta su due fronti - contro l'assenza di un senso di emancipazione, e contro la presenza di un Senso dominante che ignora la vita dei suoi Servi, e la devasta. Il Servo vince perché costruisce la visibilità e ri­ mane fedele all'essere. E nonostante tutto, accanto a un Hegel dispotico c'è anche un Hegel servizievole, che si manifesta nel programma di un pensiero che conservi la fattualità del reale e la sua dura serietà, invece di fa103

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go citarla nell'astrazione. Il segno del pensiero toglie l'alterità, toglie la vita, ma l'alterità della vita rimane. La negazione operata dal pensiero sul mondo rimanda a qualcosa che rimane, come la vita stessa, che pur negando, con la morte, le singole vite, rimane essa stessa; o come il frutto del lavoro, che risulta da e consiste in una trasformazione della natura attraverso una negazione che non consuma l'oggetto, ma si trattiene e gli dà forma. Il progetto della dialettica nasce da una riflessione sull'amore come vita e come lavoro, che nutre un infinito desiderio di preservare la presenza dell'altro da sé. La formula del ritrovare se stessi nell'essere altro, che compendia lo sporgersi del pensiero sul mondo, esprime questa volontà di tutela dell'oggetto di conquista e di seduzione. Il pensiero vuole, senz' altro, e vuole conqui­ stare il mondo ma vuole anche rimanere fedele a quanto ha con­ quistato. In questo senso, il progetto della proposizione speculativa, nella quale il pensiero passa dal soggetto sull'oggetto, cioè trasforma il suo oggetto in un pensato, è anche un movimento di radicamento del pensiero nella fattualità del mondo, cioè un movimento di realizzazio­ ne e di responsabilità rispetto alle cose (ivi, pp. 1 2 5 - 7 ) . Non sarà di­ verso il progetto husserliano di un pensiero che sappia tornare alle cose stesse, cioè rendere evidente che l'astrazione non ha perso la concreta animazione del mondo della vita (Husserl, [ 1 954] 1 99 7 , pp. 34-6) . Il concetto che connette le cose prevale quindi sulla presenza del­ le cose stesse, ma si preoccupa costantemente di non tradirle, di non fagocitarle e di rimanervi fedele. Inghiottire le cose nell'astrazione dei concetti, come fa il Signore quando divora il frutto del lavoro del Servo, significa scivolare in una nichilistica volontà di distruzione e di autodistruzione, che Hegel descrive come la furia del dileguare del periodo della Terreur durante la Rivoluzione francese. Allora la nega­ zione del mondo non aveva trovato un freno nella responsabilità ver­ so il mondo, e invece di determinare una posizione politica, con la quale poteva rispondere di fatti del pari determinati, aveva acceso una volontà di negazione indeterminata, che non poteva essere politi­ ca, ma solo terroristica. Ed è terroristica, per Hegel, ogni contrappo­ sizione tra l'universalità del pensiero e il particolare empirico che ri­ calchi la relazione tra il Signore fagocitante e il Servo fagocitato. Kierkegaard esemplificherà questo terrore e questa angoscia nella fi­ gura del seduttore, che domina e conquista, e può vivere solo nell'u­ niversalità del possibile perché non riesce ad affrontare la realizzazio­ ne fattuale della scelta. -

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A partire da Hegel, quindi, la questione dell'espressione è un ar­ gomento di democrazia e di liberazione del Servo, che è chiamato a prendere parola e a superare il proprio mutismo. In generale, l'e­ spressione è politica nella misura in cui cerca di oltrepassare la lace­ razione tra il muto particolare empirico e l'universalità signorile del pensiero. Una politica guidata dall'idea della negazione universale e indeterminata, cioè dalla rivoluzione permanente e dal costante supe­ ramento di ciò che è dato, è destinata necessariamente a trasformarsi nella dittatura del Terrore. Nella prospettiva hegeliana l'interpretazio­ ne marxista-leninista della lotta tra il Padrone e il Servo, che rovescia senz' altro le parti, e assegna al Servo l'antico gesto signorile della ne­ gazione, sarebbe parsa prigioniera della frattura dittatoriale tra uni­ versale e particolare, quale si è poi manifestata nel socialismo reale e nel nuovo assolutismo di uno Stato Padrone. Allo stesso modo, l'at­ tualismo gentiliano, che aveva raccolto ante litteram l'esplicita appro­ vazione di Lenin, condivide con il giacobinismo di Fichte e con lo stesso Lenin la tesi della costante negazione, del costante passare ad altro del pensiero - perché la verità non sta in ciò che è già posto, ma nell'atto del porre. E la @osofia di Gentile sarebbe parsa a Hegel, alla luce della dialettica tra il Signore e il Servo, come una figura del dominio signorile e dittatoriale del pensiero sul dato. L'attualità di questa tensione tra l'universale e il fattuale - o, co­ me si dice, il segno dei tempi - consiste nell'espressione femmi­ nile come emancipazione dalla subordinazione. Nella questione fem­ minile si decide la crisi delle distinzioni di potere tradizionali, tra la natura e la cultura e tra il sensibile e l'intelligibile. Anche in questo caso il pensiero della differenza femminile si è allontanato da una teoria femminista del semplice rovesciamento delle parti del Signore e del Servo. Non si tratta, per la donna, di ripetere dalla parte femmi­ nile il gesto padronale e mas chile della negazione, ma si tratta di dif­ ferenza. La distinzione - e quindi la negazione - maschio-femmina segna la nascita del segno, e decide l'impronta maschile dominante del modo di mettere in scena il mondo. La prossimità assegnata alla donna rispetto alla sensibilità e al corpo è la ragione del suo mutismo sulla scena pubblica e del suo dover ricorrere, in essa, a un linguag­ gio che non è il suo. Il sostegno biologico che viene dato alla de­ scrizione di un maschio che accede allo spazio esterno - allo spazio della parola - nel gesto della caccia, o che va all'inquieta ricerca di ciò che perde e non realizza nell'atto sessuale, mentre la femmina sta in casa a curare i figli e coltiva un rapporto più conciliato con le po­ tenze che generano la vita, questa base biologica è una presentazione troppo fattuale per essere una teoria del logos. 1 05

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Il superamento del rapporto di dominio tra concetti signorili e maschili e fatti servili e femminili fa quindi dell'espressione il medium che sta al centro di una densa costellazione, che esprime innanzitutto il nesso pieno di tensione tra la concettualità filosofica e la fattualità politica già annunciato da Marx a proposito della contrapposizione tra l'interpretazione e la trasformazione del mondo. È un nesso che sta al centro di tutte le tensioni e di tutte le tragedie del Novecento. Anche la Shoah rimanda al terrore della schizofrenia tra mente e mondo, e al motivo, per l'occasione rovesciato, della lotta tra il Si­ gnore e il Servo. L'ebraismo è stato identificato con il potere padro­ nale dell'astrazione - il potere dell'intellettualità, dell'attività simboli­ ca e del denaro: tutte le potenze che permettono di fare a meno della presenza fattuale delle cose. Lo spirito di astrazione è anche vocazio­ ne alla relazione - relazione di commercio, fluidità della presenza e del riferimento, elemento di non-identificazione e di alienazione del possesso e dell'identità, a favore dello scambio - cui sono stati con­ trapposti il radicamento identitaria nel suolo e nel sangue, il riferi­ mento stabile dell'appartenenza servizievole alla terra, contro l'esodo costante in mezzo a un mare di relazioni. La dittatura del Signore ha proiettato il proprio senso di colpa nei confronti del mondo sulla fi­ gura dell'ebreo, devastandone la presenza ma incolpando la sua voca­ zione alla non-presenza. Ecco perché la questione della relazione, della connessione, del mezzo sta al centro dell'attualità filosofica e politica: la possibilità di esprimersi, di prendere parola, è anche la possibilità di usare lo stru­ mento per connettere l'universale e il particolare - il linguaggio - per superare il terrore e il terrorismo della scissione. È una questione di linguaggio che deve confrontarsi con la negazione - " questo no ! " - e con lo strumento per connettere: con il lavoro del segno nel suo rin­ viare all'altro da sé.

5 ·2

Linguaggio e negazione La meditazione sul mezzo di connessione si accompagna quindi alla messa tra parentesi del riferimento della mente al mondo. Il mezzo, cioè lo strumento, e la mano come strumento originario sospendono la funzionalità al sistema e non rinviano più al mondo. La sospensio­ ne del rinvio e la nuova centralità del mezzo, del segno e della mano delineano la scena della negazione: il tramonto dell'universo intuitivo, il tempo del nichilismo e la volontà di un ordine altro. ro6

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La questione dell'espressione e della sua centralità deve quindi se­ guire una storia dell'oscuramento dell'evidenza del mondo dai Greci a oggi come se fosse un'anamnesi della negazione, in una sorta di sto­ ria della non-filosofia - se la filosofia greca si è definita nei termini della trasparenza della luce e della presenza evidente del mondo. Una storia dell'oscuramento e della negazione che è infatti una storia del segno e dello strumento. Si possono seguire le tappe di questa storia del nulla: dall'algebra, che sostituisce l'intuitività dell'aritmetica col compito di riconoscere uguaglianze non immediate, a Copernico che introduce una verità controintuitiva del mondo; dalla scoperta della velocità finita della luce - per cui essa non è più garanzia di presenza immediata, e la luce delle stelle può far vedere qualcosa che non è più - alla centralità dell'ottica e quindi della geometrizzazione e idea­ lizzazione dello spazio nel pensiero del Seicento - in Galileo, Cartesio e Spinoza; fino alla riflessione sulla vista stessa e sul nostro modo di guardare, e sui suoi limiti occhialuti, nel pensiero di Kant. Il nichili­ smo, secondo questa storia, nasce già dopo i viaggi di scoperta rina­ scimentali, per l'oscuramento dei confini del mondo e per l'apertura di uno spazio infinito, del quale era impossibile vedere un centro. La devastazione del mondo, cioè quella riduzione dell'essere a nulla che accade quando la luce si spegne, è l'espressione dell'angoscia per la perdita del centro, nell'incontro con un altro mondo e con un altro senso. L'altro viene negato proprio per aver introdotto una corrosiva differenza nel senso - una differenza che sembra uccidere il senso. E lo sviluppo degli strumenti geometrici - innanzitutto, strumenti di orientamento: mappe, bussole e telescopi - ha offerto l'unico soste­ gno possibile in assenza di luce, quando il senso non è più percepibi­ le, le cose non sono più visibili e ci si affida ai loro segni. Al culmine del nichilismo negativo e dell'oscurità dovevano quindi trovarsi il cul­ mine della tecnologia e l'epoca degli strumenti che riportano nella prossimità le evidenze di senso scomparse in distanze abissali: il can­ nocchiale, innanzitutto, e poi ogni forma di visione a distanza - la televisione e la telecomunicazione. Ma che cosa sarebbe questa storia della negazione della luce? Questa storia della negazione - questa storia del non - è una storia dei fatti dell'Occidente, oppure è un'idea e una storia delle idee tra­ mandate dal linguaggio? La negazione della presenza, cioè la negazio­ ne della luce, non è forse la funzione del linguaggio? Quindi la storia dell'Occidente - la storia dell'oscurità - è la storia del linguaggio e della sua facoltà di fare a meno della presenza delle cose? La storia del linguaggio non è forse la possibilità di distinguere tra la presenza attuale e la presenza in ogni tempo, tra l'empirico e il trascendentale? 1 07

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Se adesso non si vede più il senso, sarà il linguaggio che ce lo farà distinguere? Il darsi di una storia, e di una storia della salvezza, non nasce forse da quel "non " che è il linguaggio, cioè dalla possibilità di distinguere e astrarre dai fatti un qualche universale? La negazione è davvero l'essenza del linguaggio? L'espressione è logica, oppure ap­ partiene a un livello che precede il linguaggio? Com'è noto, è stato lo strutturalismo a diffondere il nuovo modo di " des crivere" il mondo in assenza di luce. La descrizione sta tra le virgolette perché non ha propriamente nulla da vedere. Quanto è da descrivere non è una presenza, ma un'assenza. Il modo di descrivere dello strutturalismo decide di fare a meno della presenza delle cose da descrivere per dire la loro assenza, cioè quanto esse non sono, e tracciare di esse un profilo in negativo. Gli elementi del sistema ma­ nifestano non già quello che essi sono, ma quello che ciascuno non è rispetto agli altri: la differenza, la distinzione, il negativo ( Saussure, [ r 9 r 6] 1 968, p. r 64) . La descrizione assume quindi i tratti della mes­ sa in scena, del fittizio e della fiction, e le virgolette indicano il sipa­ rio del palcoscenico. Lo strutturalismo è essenzialmente il pensiero dei media e della fiction. Oggi, con più distanza, possiamo meglio distinguere lo sfondo fi­ losofico dello strutturalismo. Esso rimanda a Husserl e a Cassirer, cioè al pensiero della messa tra parentesi dell'immediata evidenza del mondo - secondo una controintuitiva filosofia dell'algebra e del se­ gno "meno " , invece di una positiva filosofia dell' aritmetica. Fare a meno della presenza, nel tempo del nichilismo come culmine dell'Oc­ cidente, comportava l'emergere della centralità del segno, che sta al posto della presenza. La semiologia di Saussure ereditava il pensiero del mezzo - del lavoro e dei mezzi di produzione delle cose - e arti­ colava nella linguistica la proprietà del linguaggio di dire il non: di far vedere quello che non c'è e di distinguere le cose al buio. Cassirer aveva descritto la storia dell'Occidente, cioè la storia del­ l' oscuramento della luce, come il passaggio dalla sostanza alla funzio­ ne. Era appunto una storia del linguaggio, una storia del logos e della logica - una storia dell'incremento del patrimonio logico dell'umani­ tà. Era stato l'argomento prediletto da Hegel. Nella prefazione alla Phiinomenologie des Geistes Hegel osservava che gli antichi astraeva­ no l'universale del concetto in modo diverso da noi. I ragazzi appren­ devano nel corso della loro formazione scolastica ad astrarre l'univer­ sale dai particolari contenuti empirici della percezione, come riper­ correndo la genesi dei concetti . Oggi a scuola il ragazzo viene invece messo di fronte alla legge logica già bell'e pronta, e il compito sem­ mai è di riportarne la comprensione all'intuizione della concreta si-

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tuazione empirica che ne aveva suscitato l'esigenza. L'allontanamento della concreta animazione dei fenomeni è accaduto per il semplice passare del tempo, perché ogni aspetto del reale è stato via via com­ mentato, rappresentato e mediato in ogni guisa, sicché non c'è più alcun territorio vergine, e guardare il mondo significa guardare il modo in cui un altro l'ha guardato. Invece delle cose, vediamo i segni delle cose. È andata perduta quella freschezza del rapporto con le cose che l'eroe greco possedeva (Hegel, [ 1 807] 1 99 5 , pp. 86-9 ) . Cassirer ( [ 1 9 1 0] 1 999, pp. 1 1 - 7 , 24-7) riprende gli stessi termini del confronto. Il concetto, nella logica greca, viene formato attraverso il confronto delle singole occorrenze empiriche e attraverso l' astrazio­ ne dei loro elementi comuni. Si tratta di riconoscere la somiglianza dei tratti e di isolarli nella nozione universale. Il concetto di "albero" è quindi composto astraendo i tratti riconosciuti simili tra i particola­ ri alberi empirici. La somiglianza greca è un concetto che sta nelle cose stesse, e basta tirarlo fuori. La legge della conoscenza delle cose sta nelle cose stesse, e basta guardarle per vedere anche le parole che le esprimono. Il senso sta nei fatti e negli eventi, e ogni singola forma tende verso di esso come verso la sua forza immanente. Le idee sono appunto il sommamente visibile, e l'armonia del tutto, cioè la legge della sua conoscenza, sta nelle sostanze esistenti: nei movimenti del cielo, nella lunghezza delle corde della cetra o nella misura aurea del tempio. Al centro dell'universo greco stanno quindi le cose, con le loro proprietà visibili. È l'universo della sostanza. La perdita della visione ingenua del mondo ha condotto invece all'universo della funzione, nel quale al centro non stanno più le cose, ma le relazioni tra le cose, e all'intuibilità euclidea dell'universo fisico subentrano nozioni, nella geometria e nella fisica, cui non corrispondono cose reali. La centrali­ tà del processo di conoscenza non sta più nella visione delle cose, ma nell'operazione logica che mette ordine tra di esse. Non si tratta più, quindi, di astrarre la somiglianza dalle cose, ma di porre una somi­ glianza tra le cose, secondo un'operazione che può essere condotta in modi diversi. Il medesimo materiale sensibile può essere ordinato e sintetizzato secondo i punti di vista più diversi, perché la somiglianza è diventata un modo di vedere e una rappresentazione, da una quali­ tà della cosa che era. Così avviene il passaggio dal mondo dell'essere al mondo del significare, dal mondo delle cose al mondo dei segni delle cose - da ciò che una cosa è a ciò che essa significa. L'ugua­ glianza tra due contenuti non è data essa stessa come un contenuto, ma è un'operazione che si tratta di far riconoscere agli altri. D'ora 109

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innanzi si apre la partita del faticoso e sempre contestabile ricono­ scimento dell'uguaglianza. Si tratta della medesima lotta per il riconoscimento dell'uguaglian­ za tra il Signore e il Servo - tra i concetti e i fatti? No, qui i fatti si sono dileguati. I Servi, con la loro povertà, non sono più sempre con noi. La tensione tra il potere dell'astrazione e la fedeltà alla terra si accresce, anche nella forma della tensione tra l'a­ strazione del mercato e il materialismo storico. Non è la " realtà" che dobbiamo scrivere tra virgolette - a modificare la teoria, bensì l' apparizione di un'altra teoria. Sorge in questo contesto l' attualità tormentosa dell'espressione di Nietzsche «il mondo vero è diventato favola» (Nietzsche, [ 1 888] 1 970, p. 8o) : non ci sono fatti, solo inter­ pretazioni. L'universo del segno ha occupato la scena, e non a partire dallo strutturalismo, ma a partire da Kant e dalla sua interpretazione dell'epoca degli strumenti, cioè della rivoluzione copernicana. Un'in­ terpretazione sviluppata da Hegel e da Husserl. Ma prima di chiederci che cosa significano queste espressioni del trionfo dei segni, dobbiamo capire che cosa esse sono. Proprio in Husserl si può meglio seguire il movimento di questa tensione tra l'astrazione e il mondo della vita. Da un lato la fenome­ nologia trascendentale reagisce all'astrazione argomentando proprio come Cassirer: interpretare il processo logico come qualcosa che prende le mosse per astrazione dal mondo esistente significa cadere nello psicologismo, cioè nella confusione tra il modo di esistenza dei concetti e il modo di esistenza delle cose - una confusione che solo i Greci potevano permettersi, visto che i concetti e le cose erano allora fatti della stessa pasta. Lo svuotamento di senso della scienza europea nasce proprio dall'incapacità di vedere che nell'Occidente del senso anche i concetti possiedono una loro forma di esistenza, che consiste nel modo in cui essi si dirigono verso le cose. La scienza europea ha misconosciuto il fatto che gli oggetti appaiono in un orizzonte aperto dalle intenzioni di senso del pensiero (Husserl, [ 1 954] 1 997, pp. 7 5 - 9 ) . Capire con quale intenzione si guarda a un oggetto significa capire che a sguardi diversi corrispondono oggetti diversi, e che pen­ sare una cosa significa investirla del proprio vissuto. Questo accade, per Husserl, non perché noi conosciamo solo le nostre rappresenta­ zioni, come vuole l'idealismo, ma perché ogni oggetto porta con sé il modo in cui vuole essere appreso, e ogni oggetto è accessibile solo a un certo tipo di pensiero. Si tratta di un'inedita composizione di idealismo e realismo - di una teoria dell'oggetto animato: percepire altrimenti significa percepire qualcosa d'altro per il fatto che gli ogIlO

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getti hanno una loro dignità, e si lasciano pensare solo da un pensie­ ro che li rispetti. Era un modo diverso di definire la nozione di esistenza: non più sul modello degli oggetti naturali, secondo le basi del materialismo, ma ampliandola verso l'esistenza del pensiero che pensa gli oggetti. In questo modo anche il pensiero, che è linguaggio, non viene più definito dall'azione di negazione che eserciterebbe sugli oggetti, ma dalla capacità di rivelare il loro essere. Secondo questo nuovo tra­ scendentale, la storia dell'Occidente e la Storia senz' altro non sono storie dell'astrazione - storie signorili dei vincitori - ma storia dell'es­ sere, cioè il pensiero dell'essere nel senso soggettivo del genitivo: il pensiero che sorge dall'essere, nel contesto in cui essere e pensiero sono uniti, cioè nell'esistenza umana. L'impresa di Heidegger in Sein und Zeit intendeva smentire una tradizione millenaria che riteneva il pensare e l'esistere radicalmente eterogenei, secondo l'esempio kan­ tiano dei cento talleri, e che aveva quindi confinato l'ambito dell'esi­ stenza al di là del dicibile, nello spazio della constatazione fattuale e della manipolazione che riguarda le cose utilizzabili. In questa pro­ spettiva, la critica contro la reificazione del mondo operata dalla tec­ nica era per Heidegger anche una lotta contro il marxismo e il mate­ rialismo storico della constatazione fattuale e del valore d'uso. Ma - dicevamo - da un lato Husserl, come Cassirer, reagisce al­ l' astrazione che prende le mosse dall'esistente e che oggi, dopo il tra­ monto della grecità, non fa più vedere i fenomeni del mondo della vita; dall'altro, proprio per preservare il mondo della vita e delle sue intenzioni di senso, deve compiere un gesto di oscuramento della vi­ sibilità immediata, nella epoché trascendentale, che fa a meno della presenza naturale del mondo. È un oscuramento terapeutico, che va a curare la cecità e il nichilismo causati dall'astrazione. Husserl spegne la luce solo per vedere meglio l'esistenza dei concetti.

5 ·3

Dire l'esistenza del linguaggio Il fenomeno dell'espressione conduce quindi alla questione della ne­ gazione e del suo rapporto con l'esistenza. È il tempo del multicultu­ ralismo a imporre la revisione del nesso tra espressione di sé e nega­ zione dell'esistenza dell'altro. Nello stesso tempo, la filosofia della fine del Novecento, seguendo la traccia dell'espressione come nega­ zione della presenza, ha incontrato la questione politica del lavoro e dello strumento nella società che non produce più, innanzitutto, merIII

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ci, ma segni. Una società che produce innanzitutto segni moltiplica le istanze di negazione della presenza e di dominio sull'essente. A un mondo artificiale, definito appunto dal non essere naturale, fa corri­ spondere un'intelligenza problematicamente artificiale, perché l'intel­ ligenza è già sempre naturale e artificiale insieme, ed è proprio il luo­ go critico che mette in crisi la distinzione tra natura e cultura. Che cos'è " artificiale" ? Come si deve esprimere il carattere artifi­ ciale della nostra civiltà, nella sua costante negazione di ciò che è na­ turale? È un destino legato all'essenza del linguaggio? Nel Novecento la filosofia ha cercato di uscire dalla logica avanguardistica e radical­ mente artificiale della rivoluzione permanente, della negazione coatta verso il sempre nuovo. Questo tentativo di uscir fuori dalla logica del moderno ha poi preso le distanze anche dall'alternativa post-moderna di muoversi al chiuso, in modo citazionistico, all'interno dei segni dei rimandi - di quel labirinto che è la tradizione. Attraverso i segni si tratta di dire l'essere - un nuovo essere. Ma l'espressione emanci­ pativa del nuovo rimane il compito più difficile, se il nuovo è definito dalla negazione del vecchio. Occorre un nuovo modo di dire il nuo­ vo, cioè un nuovo modo di dire la negazione. Husserl ha suggerito che il fuori del pensiero è aperto dallo stesso movimento del pensiero. Questo significa forse che il pensiero fa a meno dell'esistenza delle cose? La nozione di intenzionalità pone in dubbio che il rinvio del segno - il suo stare per qualcos' altro - possa fare a meno di ogni "esistenza " , come sembrerebbe caratteristico del­ la rappresentazione. Si deve scrivere "esistenza" tra virgolette perché le vie che ci conducono alle cose esistenti, cioè i modi (le virgolette) attraverso i quali ce le rappresentiamo, sono parte delle cose stesse. Vedere diversamente significa vedere un'altra cosa. Il segno, secondo la nozione di intenzionalità, sta per qualcos' altro, pro aliquo, non nel senso della sostituzione e del fare a meno, "al posto di" , ma nel senso dello stare davanti alla cosa per preservarla e per proteggerla. La sce­ na del delitto che descrive la dinamica del segno non si configura più come una fagocitazione della presenza della cosa, come un afferrare e togliere di mezzo nell'atto di dire "non questo" . Si tratta piuttosto di dire " questo no ! " , di fare in modo che questo sia risparmiato dal di­ leguare. L'intenzionalità husserliana descrive un nuovo tipo di nega­ zione e con esso un nuovo tipo di segno, in virtù di una nuova acce­ zione di " esistenza" . Il segno, in Husserl, non distingue più tra realtà e rappresentazione, perché realtà e rappresentazione non stanno più in un rapporto di opposizione negativa, tale che la presenza dell'una escluda e sostituisca quella dell'altra, come si escludono e si sostitui­ scono verità e finzione. II2

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Ma Husserl non ha descritto questo nuovo segno. Derrida ha ri­ condotto l'intero percorso di Husserl all'impostazione della I Ricerca logica, nella quale, proprio all'inizio del percorso della fenomenologia trascendentale, veniva descritta la distinzione tra il segno come indice e il segno come espressione nei termini della distinzione tra esistenza e spirito (Derrida, [ r 967] 1 997a, pp. 3 1 -2 ) . L'espressione è un segno che porta un'intenzione di significato, mentre l'indice è un puro se­ gno di riconoscimento e di distinzione. L'espressione è un segno pu­ ramente interiore e fa a meno dell'esistenza del mondo perché vive nel suono della voce, che è la dimensione dell'idealità e della riduzio­ ne della materialità. L'indice partecipa dell'esteriorità dello spazio e della visibilità corporea, e fa segno nella spazialità del gesto e della scrittura. L'espressione è sempre presente a sé, mentre l'indice so­ pravvive nell'assenza del testimone vivo. Mentre nell'espressione ci si ascolta parlare, e il mezzo significante è totalmente dominato dall'in­ tenzione di significato - come il Servo è dominato dal Signore -, l'in­ dice invece non è totalmente disponibile all'intenzione di senso, e in­ troduce in essa l'alterità del fuori e l'esteriorità del corpo. Una distinzione siffatta tra l'espressione e l'indice ricade nel dua­ lismo tra il contenuto di pensiero e il contenuto di realtà - tra conno­ tazione e denotazione. Derrida sottolinea come l'espressione goda della massima visibilità e presenza agli occhi delle intenzioni di si­ gnificato, e proprio per questo possa e debba /are a meno della visibi­ lità corporea e spaziale. L'espressione perfetta è quella che ha luogo tra sé e sé, nel monologo interiore, senza che sia necessario far ri­ corso alla materialità del suono delle parole; l'indice invece partecipa della visibilità naturale, e dev'essere allora messo tra parentesi. Del resto, se la visibilità e la presenza dei significati sono garantite, allora i segni possono essere invisibili, e non avere un Dasein . È nell'oscuri­ tà che i segni devono essere visibili. Allora, quando la luce del senso si spegne, non crediamo più alla distinzione tra corpo e anima. Hus­ serl invece oscurava la visione naturale del mondo, ma non era mosso dall'angoscia del nichilismo, che riduce il mondo a nulla. L'oscura­ mento della visione naturale era nelle sue intenzioni terapeutico e promettente. Heidegger, al contrario, si muoveva in uno spazio nel quale la presenza dei significati non era più garantita, ed era subordi­ nata all'azzardo di trovare un nuovo modo di dire l'essere - di atten­ dere una nuova rivelazione dell'essere. È questo oscuramento dei si­ gnificati a inaugurare la svolta linguistica della filosofia. Per la fiducia platonica nella visibilità dei significati, Husserl ha sviluppato la nozione di segno nella direzione delle espressioni di in­ tenzioni di significato, ma ha trascurato la questione del Dasein del 113

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segno, dell'esistenza dello spirito, come hanno mostrato, in direzioni diverse, Heidegger, Merleau-Ponty e Derrida. Quando Husserl, nella I Ricerca logica, scrive che il significato, cioè l'intenzione di dire qual­ cosa, non è l'oggetto che riempie e conferma e illustra quel voler dire (Husserl, [ 1 9oo-o 1 ] 1 968, pp. 3 1 3 , 3 2 2 ), egli intende quel non essere in modo ovvio e non fenomenologico. I segni tracciati dall'attività simbolica umana sono tali proprio perché non sono gli oggetti e si distinguono da essi. Ma il contributo dell'intenzionalità alla teoria del segno consiste proprio nell'intendere quel non essere, quella negazio­ ne, in un modo nuovo. È inevitabile distinguere, in ogni enunciato, il significato dall'oggetto, perché l'enunciato si identifica addirittura col significato, nell'atto di distinguersi dai fatti e prendere distanza da essi. Ma bisogna anche ricordare che la distinzione, nella fenomeno­ logia trascendentale, non equivale a un'alternativa, per la quale o vedo il significato o vedo l'oggetto. L'intenzione di significato, cioè il modo di mirare l'oggetto, è parte dell'oggetto stesso. Certi oggetti, per essere visti, richiedono uno specifico modo di essere guardati. Sarà il tema della VI Ricerca logica, sul rapporto tra intuizioni e con­ cetti e sulla visibilità dei concetti stessi - sull'intuizione categoriale: la questione originaria della filosofia di Heidegger. Se si rimane nella prospettiva della sostituzione dell'oggetto da parte del segno, si rimane all'interno della scissione tra natura e cul­ tura, contenuto di realtà e contenuto di pensiero, spiegazione e com­ prensione, empirico e trascendentale. Come si configura invece un se­ gno che preservi la dignità degli oggetti? Un'espressione universale che sia al contempo capace, come l'indice, di iscriversi sull'individua­ le e di farlo riconoscere, come fanno i segni di riconoscimento? L'unità del segno e della cosa, descritta dalla nozione di intenzio­ nalità, costituisce quell'unità di forma e contenuto che ha avuto largo corso nella filosofia del Novecento. Essa è stata declinata dalla svolta linguistica nella direzione dell'unità della lingua, che è la forma, e del pensiero, che è il contenuto. L'unità di lingua e pensiero ha condotto alla revisione delle due parole fondatrici della filosofia moderna: la parola " essere" e la parola "io " . Sono l'oggetto e il soggetto, o anche il contenuto di realtà e il contenuto di pensiero - la denotazione e la connotazione. Sia per l' " essere " , sia per l'"io " , si tratta dell'unità di segno e "realtà " : in queste due parole viene messo in questione che la lingua rifletta un mondo reale indipendente da essa. La parola "essere" non designa nulla, nessun ente, e ci dice che l'essere non lo si incontra da nessuna parte al di fuori della parola. Allo stesso modo, "io" non ri­ manda né a un concetto generale di tutti gli io, né a un individuo 1 14

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particolare, ma si riferisce all'atto di discorso nel quale è pronunciato. Né l'essere né l'io esistono al di fuori della parola. Solo il linguaggio fa entrare l'io nell'essere - io sono solo quando dico "io " . E solo io come parlante posso dire l'essere: posso indicare ciò che è, cioè indi­ care il tempo a me contemporaneo, solo come il tempo in cui io sto attualmente parlando; e solo nel mio discorso dico il mio essere, per prendere possesso di me stesso. Nella tradizione dell'idealismo post- cartesiano, l'essere è ricondot­ to all'io, dopo che il contenuto oggettivo di realtà è tramontato nel­ l' oscurità: solo i Greci potevano credere all'evidenza di una realtà là fuori che il pensiero dovesse solo registrare. Da Cartesio, tutto il peso della fondazione è ricaduto sul soggetto e sulla sua facoltà di pensie­ ro-parola - sulla sua facoltà di dire "io " , cioè di pensare, cioè di esse­ re. Qui è anche l'origine della possibilità dell'autobiografia, della con­ fessione e della riflessiva voce della coscienza. Nel momento in cui si fonda ciò che è, si descrive la storia di un'anima. Dicendo "io" ci si esprime e ci si fa riconoscere. Un riconoscimento che rischia il narci­ sismo speculativo, il costante ritorno al Medesimo Sé, secondo il cir­ colo economico del rientro a casa. Dire "io " , ancora nelle meditazioni cartesiane di Husserl, è la possibilità di parlare tra sé e sé e di fare a meno dell'impegnativo confronto con l'alterità di ciò che è, nonostan­ te l'apertura verso l'intersoggettività. La possibilità di essere diverso è una mia possibilità - non è la possibilità dell'altro (Husserl, [ r 95o] 1 960, p. 1 3 4 ) . L a parola "essere " è una parola speciale: è l a parola universale, la condizione di tutti i predicati. E ha il singolare potere di scavalcare il sistema dei segni verso l'essere di ciò che viene significato. Ma come avviene questo passaggio, nel quale l'essere si distingue dai segni gra­ zie ai segni? Qual è l'essere né oggettivo né ideale, che non è cioè oggetto del dominio del logos, ma che vuole essere riconosciuto come contenuto di realtà e antidoto contro il narcisismo delle parole? È l'esistenza degli esseri umani? Il primo Heidegger ha già intrapreso questo tentativo di dire l'esistenza, per poi passare alla questione del­ l' esistenza del linguaggio. L'essere è allora qualcosa che è ancora sem­ pre di là da venire, secondo l'indicazione, cioè il Messia, dell'ebrai­ smo? Oppure è qualcosa che si può mostrare col dito, ecce homo? Non certo come qualcosa che sta là fuori. Piuttosto dovrebbe essere la composizione del mezzo che indica e l'oggetto indicato, secondo il principio dell'intenzionalità. Ma è possibile guardare il dito come de­ gli stolti, e vedere anche la luna? L'indice è un puro significante ma­ teriale, spaziale, corporeo, come vuole la dt//érance di Derrida - op­ pure è esso stesso l'unità della rappresentazione e della cosa? L ' " esi115

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stenza" dell'indice è la sua corporeità intransitiva, oppure il suo far vedere qualcosa? La tensione dell'indicare ha il potere di configurare un nuovo essere?

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Lo schema A modo di schema conclusivo, è utile citare un passo delle Grundli­ nien der Philosophie des Rechts nel quale Hegel svolge un piccolo compendio di filosofia del segno - la sua filosofia in potenza - nella descrizione della presa di possesso di una cosa. Si tratta di un bre­ vissimo trattato di ermeneutica antologica, cioè del riconoscimento, attraverso segni, di ciò che è: il possesso di qualcosa in tanto defini­ sce ciò che è - l' ousia - in quanto è un possesso riconosciuto. La presa di possesso - lo ricordiamo - è il gesto della mano, dello stru­ mento e del linguaggio nei confronti dell'essere. «La presa di posses­ so è sia l'immediata apprensione corporea, sia il dar forma, sia la me­ ra apposizione di un segno» (Hegel, [ r 8 2 I ] 1 9 9 1 , § 54). L a apprensione corporea è limitata, perché comporta l o star lì, in presenza della cosa, e dire " questo è mio " . Il dar forma alla cosa e l'incidere una tacca su di essa descrivono invece due modi di atte­ stare un possesso in assenza e quindi, secondo l'essenza del segno, due modi diversi di comporre il segno e la cosa, la mente e il mondo. Il dar forma introduce l'intera sfera della Bildung hegeliana, attraver­ so la quale gli esseri umani prendono possesso di sé e si distinguono dagli animali. Do forma a me stesso, attraverso l'educazione, che mi costruisce sulla spalle una sorta di seconda natura. Rendo più vasto il mio mondo e di fronte a ogni evento faccio risuonare il mio animo secondo onde più ampie. Rivesto la mia naturalità biologica, con le sue capacità naturali che si applicano alle cose, di una natura acquisi­ ta e di capacità apprese che si applicano alle relazioni tra le cose. McDowell assume questo concetto per spiegare il modo in cui mente e mondo si incontrano, cioè per dare ragione sia del senso co­ mune nella sua convinzione che il mondo sia indipendente dal nostro pensiero, sia del potere del pensiero di negare la presenza e di non avere vincoli esterni. «Nel pensiero sono libero, perché non sono in un altro» scriveva Hegel nella Phiinomenologie. L'idea della seconda natura acquisita attraverso la Bildung permetterebbe di comporre la spontaneità dei concetti con la passività delle impressioni sensibili in una regione di mezzo, una ehora, nella quale l'oggetto dell'esperienza proviene sì dall'esterno del pensiero in atto, ma non dall'esterno di II6

5 . L ' ESPRESS ! O r\ E DEL S E R V O M U T O . M E :-I T E E M O N D O DOPO K A :-J T

ciò che è pensabile, cioè dell'insieme di pensieri che si sono deposita­ ti nel linguaggio formato - educato - dalla tradizione. L'oggetto di un'esperienza è quindi compreso come parte di un intero mondo pensabile, il cui contesto di possibilità, come una nebulosa concettua­ le, tiene fermo l'oggetto «mentre ci chiediamo come sarebbero state le cose se quell'oggetto dell'esperienza non si fosse verificato» (McDowell, [ 1 994] 1 999, p. 3 8 ) . Sicché tutto ciò che è natura è, at­ traverso la natura educata dell'uomo, già modellato dal significato. Rispetto a questo andamento hegeliano, Husserl ha introdotto una ancor più stretta dipendenza del pensiero dalla cosa, limitando la sempre risorgente volontà del concetto di dominare come un Pa­ drone. Derrida, più radicalmente, ha messo in guardia circa la stessa pretesa del pensiero di distinguersi dalla cosa per dominarla, come l'uomo domina sulla natura. Ha messo in discussione la facoltà di distinguere ciò che è attraverso le distinzioni (le differenze) introdot­ te nel mondo dal linguaggio - cioè, attraverso la Bildung, che è la distinzione tra l'uomo e l'animale. Solo grazie alla Bildung la parola "essere" può essere detta dal soggetto. Poiché è detto, l'essere è ideale, è nella parola pronunciata dal suono della voce, dalla voce della coscienza che dice "io" - l'elemento dell'idealità. La voce è l'essere perché entrambi sono segni ideali, nei quali l'oggetto può es­ sere ripetuto all'infinito pur restando il medesimo . E questa ripeti­ zione infinita è la Bildung. Derrida ha introdotto allora la questione della differenza e dell'identità tra l'io trascendentale infinitamente ausgebildet, rappresentato dal filosofo quando pensa a nome di tutti, e il suo io empirico e psicologico. Sono lo stesso io, ma sono anche differenti, e l'io trascendentale dev'essere intaccato dall'opacità e dal­ l'alterità dell'io psicologico e mondano (Derrida, [ r 967] 1 997a, p. 42 ) . L'essere non è l'oggetto là fuori, il pensiero non è in una regio­ ne purissima tra me e me. E, insieme alla facoltà di distinguere il mondo distinguendosi da esso, Derrida ha messo in discussione la categoria della presa di pos­ sesso, che chiama al riconoscimento di ciò che è. Nel tempo delle differenze tra le culture e i paradigmi del vero, il riconoscimento del­ la somiglianza non può chiamare al riconoscimento del possesso e quindi dell'essere, come accade nell'espressione narcisistica di sé - e come accade originariamente nella rivendicazione del possesso della mano e della mano che possiede, per distinguersi prima dall'animale e poi dai Servi. L' espressione, nel tempo delle differenze, non è l'e­ spressione di sé, cioè non chiama al riconoscimento dell'essere che si crede di possedere. 1 17

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Perciò, nella prospettiva della decostruzione l'espressione delle differenze culturali non chiama al riconoscimento della somiglianza tra le rappresentazioni di ciascuna cultura. Si tratta dell'espressione dell'altro, che potrà aver luogo solo attraverso la negazione di ogni facoltà di distinguere: di prendere distanza, di dominare, di parlare, di vedere dall'alto, di riconoscere - che sono tutt'uno. Una terza posizione sta in mezzo, al centro della tensione, tra il trionfo, in McDowell, del riconoscimento dei significati e il rifiuto da parte di Derrida della dimensione del riconoscimento. È la tesi di una teoria dell'interpretazione come lotta tra mente e mondo, per il loro riconoscimento reciproco. È un'ermeneutica che interpreta l'e­ spressione non già come la manifestazione di un'interiore intenzione soggettiva, ma come il mezzo che sta tra il particolare e l'universale. Essa intende il compito della comprensione dell'espressione dell'altro come l'interrogativo circa il passaggio pieno di sofferenza dal partico­ lare all'universale, cioè dal particolare alla negazione che esso soppor­ ta in sé. Come diceva Heidegger, la negazione non appartiene al lin­ guaggio. Sono le ferite e le negazioni che l'essere sopporta a costitui­ re un segno di riconoscimento dell'alterità.

II8

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L'istanza espressiva in Schonberg e nell'espressionismo di Anna Maria Morazzoni

Nel primo decennio del Novecento si affermò nell'arte e nella cultura il movimento che, nel definirsi espressionismo, fece dell'espressione il proprio motto. I suoi tratti innovativi portavano all'estremo l'estetica dell'espressione, non più intesa come manifestazione stilizzata delle emozioni, ma come erompere immediato dell'inconscio: l' artista si ri­ trae in se stesso ed esprime la propria interiorità, anche in tutte le sue disgregazioni "vere" anziché "belle" e nelle sue reazioni istintive al disagio della civiltà. L' appellativo di espressionismo non fu applicato ex post a quel movimento, ma risale al periodo di attività degli artisti che ne furo­ no parte; non fu pressoché mai messo in discussione, dunque la sua fortuna attesta un nesso intrinseco e ne conferma la validità. Adot­ tando il suffisso "ismo " , usato per indicare numerosi orientamenti artistici coevi, in letteratura il termine era riferito a tutti gli autori della nuova generazione ( " futuristi " , "progressisti" , "neopatetici " , " attivisti" e d " espressionisti " ) e nelle arti visive era usato prevalente­ mente in contrapposizione a naturalismo e impressionismo, proprio come avvenne nel dopoguerra quando si cominciò a parlare di espressionismo anche in ambito musicale. Tuttavia, una definizione dell' espressionismo in termini stilisti ci ed estetici unitari era ed è problematica. Infatti, gli espressionisti non produssero " manifesti " , diversamente dai coevi futuristi italiani, e non furono accomunati da un programma formale condiviso; si trattò di un "movimento" - Be­ wegung come lo chiamavano i contemporanei - e non di una " cor­ rente" artistica. Se per Kokoschka l'espressionismo «fu un'espressione dei tempi, non una moda artistica» (Kokoschka, [ r 97 I ] 1 9 8 2 , p. 66), al movi­ mento pare confacersi l'abusato termine Zeitgeist: il cosiddetto " spiri­ to del tempo" univa idee e prospettive artistiche differenti nel rifiuto degli ideali classici di bellezza, nei tratti di una passione giovanile (o giovanilistica), nella fiducia in un'arte emancipata dai limiti dell'esteti1 19

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ca tradizionale e capace di insolita intensità emozionale e psicologica. Non mancavano però distinzioni e contrasti, soprattutto tra «la ten­ denza mistico- cosmica degli " eternisti" e quella politico-sociale degli "attivisti "» (Mittner, 1 975 , p. 6), né equivoci e approssimazioni: «Il termine " espressionismo" viene applicato erroneamente anche all'ope­ ra di un'avanguardia tedesca che si riuniva intorno al gruppo del "Blaue Reiter" e che, in realtà, era piuttosto sotto l'influenza dei /au­ ves francesi» (Kokoschka, [ 1 9 7 1 ] 1 9 8 2 , p. 66). Altrettanto arduo e problematico è fornire una collocazione cro­ nologica precisa per tale movimento. Rispettivamente il 1 9 05 e il 1925 possono a buon diritto essere indicati come anni limite, con l'ovvia avvertenza che non tutto quello che produsse l'arte in quei vent'anni convergeva nell'espressionismo: nel 1 905 a Dresda fu fon­ dato il movimento Die Bri.icke ed ebbe la prima rappresentazione Sa­ lame, nel 1 9 2 5 si tenne a Mannheim la prima mostra della Neue Sachlichkeit (che seguì all'espressionismo sia come reazione sia come estensione) e a Berlino andò in scena Wozzeck. Però, pochi esempi bastano a smentire questi margini cronologici: il precursore Eduard Munch dipinse L'urlo (Skrik) nel 1 89 3 , tra il 1 92 1 e il 1 9 2 3 Schon­ berg stava già componendo la Suite, op. 25 (il suo primo lavoro inter­ amente dodecafonico) e i capolavori del cinema espressionistico ap­ parvero soltanto quando il movimento aveva superato l' acme della propria vitalità, pur mantenendosi influente (Metropolis di Lang è del 1927, Der blaue Angel di von Sternberg del 1 930, Die Biichse der Pandora di Pabst del 1 9 3 7 ; soltanto Das Kabinett des Dr. Caligari di Wiene rientra nei margini indicati, sebbene sia post-bellico: 1 9 1 9 ) . Nel maggio 1 9 1 2 , quando apparve nell'almanacco "Der blaue Rei­ ter" (il primo - rimasto unico - Jahrbuch di tale associazione, stacca­ tasi l'anno precedente dalla Neue Ki.instlervereinigung Mi.inchen) , il termine " espressionismo" era di uso comune. In quella raccolta esso non compare, ma nell'ultima pagina l'editore Reinhard Piper pubbli­ cò come segnalazione pubblicitaria alcune frasi da una recensione del libro di Kandinskij Uber das Geistige in der Kunst, uscito pochi mesi prima, che collocava quell'opera nell'espressionismo. Soltanto negli ultimi anni della guerra e nel primo dopoguerra, quando Schonberg stava già percorrendo strade diverse, il movimento dell'espressionismo incontrò le prime formulazioni teoriche. Il termi­ ne fu canonizzato dal libro di Hermann Bahr Expressionismus del 1 9 1 6, un volumetto in realtà prevalentemente dedicato a Goethe e a una rivisitazione del suo pensiero (altri riferimenti frequenti vanno ad Alois Riegl e a Wilhelm Worringer, autore, quest'ultimo, dell'influen­ te Abstraktion und Ein/iihlung, 1 908), nel quale anche l'espressioni120

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smo viene definito attraverso una citazione goethiana: « "La pittura" , dice Goethe, " mostra ciò che l'uomo vorrebbe e dovrebbe vedere, non ciò che vede di solito " . Se si desidera un "programma" dell'e­ spressionismo, eccolo qui» (Bahr, 1 9 1 6, p. 1 1 5 ) . La conferenza Ex­ pressionismus und Dichtung, tenuta da Kasimir Edschmid nel dicem­ bre 1 9 1 7 , ebbe particolare risonanza e, secondo Mittner, vi si incon­ tra «la definizione più esatta, viva e p regnante dell'espressionismo [ . . . ] : l'arte nuova sdegna di osservare la realtà e crede di poterla igno­ rare, perché è sopraffatta da una visione interna e soltanto questa vi­ sione, unica verità dell'anima e anche delle cose, sa e vuole rappre­ sentare» (Mittner, 1 975 , p. 3 7 ) . I n ambito filosofico, il concetto d i espressione fu oggetto d i consi­ derazione sin dall'inizio del Novecento. Basta ricordare che nel 1 900 apparve la prima " ricerca logica" di Edmund Husserl, Ausdruck und Bedeutung (Husserl, [ 1 9oo- o d 1 968, pp. 2 9 1 - 3 74) e nel 1 902 la pri­ ma edizione di Estetica come scienza dell'espressione di Benedetto Croce. Tuttavia, fu soltanto la prima opera importante di Ernst Bloch, Geist der Utopie, pubblicata nel 1 9 1 8, a porsi quasi come una filosofia dell'espressionismo, ad affrontare la questione dell' espressio­ ne in ambito musicale e a conferire connotazioni utopiche allo " spiri­ to del tempo " . Sulla scorta di Schopenhauer e di Nietzsche, Bloch considera l'arte e in particolare la musica come espressione di ciò che non è ancora, come coscienza anticipatrice del futuro, lontana dal mero rispecchiamento dell'esistente, anzi connotata in termini profeti­ co-messianici. La sezione Filosofia della musica contiene numerosi passi in cui il pensiero di Bloch si modella su quello di Schonberg, al di là dei momenti in cui il compositore viene citato esplicitamente. Nella frase di esordio: «Noi ascoltiamo soltanto noi stessi» (Bloch, [ 1 9 1 8] 1 9 80, p. 45 ) riecheggia la «capacità di ascoltare se stessi» for­ mulata da Schonberg nella Harmonielehre (Schonberg, [ 1 9 1 ! ] 1 963, p. 5 1 7 ); nella frase successiva: «Ma da noi divampa il suono come una fiamma, il suono ascoltato, non il suono in sé o le sue forme» (Bloch, [ 1 9 1 8] 1 9 80, p. 45 ) viene riformulata la concezione dell'opera d'arte come " risonanza" del mondo interiore, a cui Schonberg accen­ nava nella frase conclusiva di un aforisma del 1 9 1 0 (Rognoni, 1 974, p. 3 8 1 ) e che fu sostenuta anche da Kandinskij («in ogni cosa co­ minciamo a sentire lo Spirito, la risonanza interiore», Kandinskij, Mare, [ 1 9 1 2 ] 1 967, p . 1 3 5 ) . Sin da questo testo, dunque, la metafisica musicale di Bloch sfocia in quel «primato dell'espressione sulla signi­ ficazione», che fu sottolineato da Adorno ( [ 1 95 8] 1 979, p. 2 3 1 ) . Bloch suggerisce al suo lettore l' Harmonielehre di Schonberg come «eccellente trattato di teoria» (Bloch, [ 1 9 1 8] 1 980, p. qo), si

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sofferma sul Quartetto n. 2, op. r o e mette in rilievo «il dovere inte­ riore che fa esplodere non solo la dissonanza e la tonalità ma anche ogni autonoma relazione espressiva armonica» (ivi, p. 1 4 3 ) ; non ap­ plica però alla musica la denominazione di "espressionista " . Di espressionismo musicale si cominciava a scrivere negli stessi anni (Bekker, 1 9 1 7 ) ; Schonberg ne fu prontamente indicato come il rap­ presentante più autorevole, sebbene in quel momento la sua strada si stesse già allontanando da quella temperie. Nel 1 920 il periodico viennese " Musikblatter des Anbruch" pub­ blicò due contributi che definirono all'unisono Schonberg un musici­ sta espressionista e che inoltre riformularono il rapporto tra impres­ sionismo ed espressionismo, indicando elementi di continuità e di contrapposizione tra i due movimenti . Nel saggio intitolato Musikalischer Expressionismus James Simon coglieva nella consapevole enfatizzazione dell'elemento dello «sfogo personale» (Simon, 1 9 20, p. 408) il carattere distintivo dell'espressio­ nismo rispetto all'impressionismo e indicava Schonberg come l'espo­ nente più coerente dell'espressionismo. Simon esordiva con la banale osservazione che «la musica come espressione esiste sin dall'inizio» e, considerando l'espressionismo come espressione dell'io, affermava come non fosse esistito «espressionista più grande di Beethoven» (ibid. ) . Insomma, la musica come espressione era ancora intesa come un'istanza ottocentesca e, in termini generali, anche Schonberg ebbe occasione di riferire l'espressione a Beethoven («la tendenza, manife­ statasi con la massima intensità in Beethoven, della musica come espressione», Schonberg, 1 974, p. 5 6 ) , come pure a Brahms («in un'epoca in cui tutti credevano nell' " espressione" , Brahms, senza ri­ nunciare alla bellezza e all'emozione, dimostrò di essere un progressi­ vo», Schonberg, [ 1 95 0] 1 960, p. r o2 ) . Il contributo di Adolf Weismann dal titolo Malerische Musik (un saggio evidenziato dalla collocazione in apertura di fascicolo) sostene­ va la continuità tra impressionismo ed espressionismo ma contrappo­ neva la "forza " dell'espressionismo alla " debolezza" dell'impressioni­ smo, definito «borghese e sentimentale» (Weismann, 1920, p. 5 6 6 ) , e vedeva in Schonberg un musicista espressionista, dotato del coraggio di creare senza simmetria e senza tonalità nella direzione sia della lo­ gica sia dell'anima. Riguardo alla questione della contrapposizione o della contiguità tra impressionismo ed espressionismo musicali, mette conto riferirsi alla Harmonielehre, e precisamente al capitolo dedicato agli accordi per quarte, dove Schonberg rileva come un diverso Aus­ drucksbediir/nis («intenzione espressiva», Schonberg, [ r 9 1 r ] 1 96 3 , p. 5 05 ) possa cambiare di segno all'impiego dello stesso mezzo. 122

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Weismann affrontò anche un tema diverso, quello del collegamen­ to tra radicalismo politico e musica radicale (non soltanto quella più o meno direttamente connessa all'espressionismo) e definì uno slogan il cosiddetto «bolscevismo musicale» (Weismann, 1920, p. 5 6 8 ) . Dun­ que, nel 1 920 il collegamento tra arte e politica radicali era già un luogo comune tanto diffuso, quanto illegittimo: esso traeva origine dal ruolo svolto da alcuni artisti nella Novembergruppe, fu poi uti­ lizzato dal nazionalsocialismo pro domo sua (come ha indicato Joan Weinstein, 1 990), ma non rispecchiava le posizioni politiche di Schonberg, che anzi ebbe spesso a soffrirne e a lamentarsene. Il colle­ gamento di Schonberg e della sua cerchia con l'espressionismo degli "attivisti " e le relative implicazioni "rivoluzionarie" è pretestuoso, fu invece il rapporto con Der blaue Reiter e l'espressionismo degli "inti­ misti" a permettere di traslare il termine e definire " espressioniste" le composizioni che fanno epoché della funzionalità armonica. Negli scritti di Schonberg, come in quelli di compositori coevi, si incontra raramente il termine "espressionismo" e, quando ciò avvie­ ne, esso è impiegato con toni che indicano una presa di distanza. Per esempio, nella conferenza letta a Breslavia in occasione della rappre­ sentazione di Die gliickliche Hand nel 1 9 2 8 , Schonberg disse: «Si è chiamato questo tipo di arte [far musica con i mezzi della scena] , non so perché, espressionismo [die expressionistische] : essa non ha in nessun caso espresso nulla di più di quanto era in lei» (Schonberg, 1 974, p. 87); presentando i propri Lieder, op. 22 nel 1 9 3 2 alla radio di Francoforte, affermò: All'inizio [del mio nuovo indirizzo compositivo] sembrava che in questo punto [l'impossibilità di «impostare melodie di ampio respiro»] fosse impos­ sibile rimediare con mezzi musicali. Inconsciamente, e dunque in modo giu­ sto, trovai aiuto là dove sempre la musica lo trova quando giunge a un pun­ to cruciale della sua evoluzione. Cast' e solo cast' è nato il cosiddetto espres­ sionismo: un pezzo di musica non crea la sua forma esterna [Erscheinungs­ /orm] movendo dalla logica del materiale che gli è proprio ma, guidato dall'i­ stinto [Gefuhl] per i processi interni o esterni e dando loro espressione, esso si basa sulla loro logica e costruisce su di essa (ivi, p. 148). La cautela di Schonberg verso il termine " espressionismo" impone di distinguere modi e forme del suo "esprimersi " dal movimento che al­ l' espressione deve il proprio nome. L'assimilazione nell'espressionismo delle composizioni di Schon­ berg e della sua cerchia degli anni intorno al 1 9 1 0 è stata " canonizza­ ta" in base al rapporto con Kandinskij e alla collaborazione con l'al-

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manacco di Der blaue Reiter. Tuttavia, a posteriori Schonberg sosten­ ne di essersi allontanato, «dapprima teoricamente, dalla musica d'e­ spressione [Ausdrucksmusik] » esattamente con il suo contributo a quel volume (ivi, p. 5 6 ) . Questa affermazione, risalente al I 925 e ri­ presa nell'unica conferenza tenuta alla Sorbona (nel I 92 7 ), suggerisce l'opportunità di distinguere, all'interno della sua produzione del co­ siddetto periodo espressionista e fino agli anni venti, le opere anterio­ ri da quelle posteriori al 1 9 1 2 (periodo nel quale le composizioni di rilievo portate a termine sono soltanto l'op. 2 I e l'op. 2 2 , e abbonda­ no quelle lasciate allo stato di frammento), avviando una ricognizione delle formulazioni che Schonberg fornisce riguardo all'espressione e a quello che indicò reiteratamente come Ausdrucksbediir/nis. Il "bisogno di espressione" è indubbiamente un'istanza centrale nella poetica schonberghiana e fu W ebern ad affermarlo per primo già nel I 9 I 2 , nel suo contributo per la prima Festschri/t per Schon­ berg, dove scrisse: «il rapporto di Schonberg con l'arte si radica esclusivamente nel bisogno di espressione» (Berg, Giitersloh, Hor­ witz, I 9 I 2 , p. 2 2 ) . Tuttavia esso non poteva sfociare in una Ausdruck­ smusik nel senso consueto del termine che, come abbiamo visto, an­ che Schonberg riferiva alla musica da Beethoven in poi, così la nuova "musica d' espressione" diventò " musica espressionista" presso i con­ temporanei e presso i posteri. Intesa nella sua genesi, tale denomina­ zione non implicava un riferimento al movimento dell'espressionismo, ma semplicemente soppiantava quella diffusa da un lato per distin­ guersene e dall'altro lato per collocarsi nel dibattito artistico coevo. Il paradosso del ricorrere a un termine dall'etimologia latina per indica­ re il "nuovo" si rivelò influente e venne a qualificare il pensiero com­ positivo che si distaccava palesemente dalle sonorità consuete. La componente paradossale nell'origine della locuzione " espressionismo" in ambito musicale attesta l'approssimazione e l'ambiguità implicite in ogni discorso su questo tema.

6. r

Fino al 1 9 1 r L'iter creativo di Schonberg incontrò il "nuovo" - almeno apparente­ mente tale, in ogni caso quello che valse alla sua musica la denomina­ zione di espressionista - a far data dal I 9o6 con la cosiddetta " eman­ cipazione della dissonanza" negli accordi per quarte della Kammer­ symphonie, op. 9· La prima esecuzione di questo brano, il 7 febbraio I 907 a Vi enna, fu un fiasco clamoroso e la ricerca del riconoscimento 124

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e dell'affermazione determinò la scelta di una forma classica per la composizione che reca il numero d'opera successivo. Il Quartetto n. 2 , op. I O - che per il suo autore «segna la transizione al mio secondo periodo» (Schonberg, I 974, p. 3 2 5 ) - si svolge con libertà sempre maggiore nel succedersi dei quattro movimenti: il primo, composto dal 9 marzo al I0 settembre I 907, è il più tradizionale (anche il pub­ blico della prima esecuzione lo percepì come tale) , il secondo, soltan­ to abbozzato subito dopo il primo, è in forma di Scherzo con un Trio chiaramente contrastante, mentre i due movimenti conclusivi con voce di soprano su testi di Stefan George, composti tra luglio e agosto I 908 (a distanza di quasi un anno dall'avvio della stesura e dopo essersi dedicato alla composizione di alcuni dei George-Lieder, op . I 5 ) , sono segnati da un diverso Ausdrucksbediir/nis. L'intenziona­ lità espressiva declina qui la drammaticità della situazione esistenziale contingente dell'autore, è dettata dalla crisi del suo matrimonio: la musica esprime in maniera criptica e astratta la consapevolezza, il do­ lore e l'elaborazione del tradimento coniugale. Qui l'espressione è espressione di se stesso, del proprio privato, reso pubblico soltanto dalla dedica «A mia moglie». L'intenso abbozzo di testamento, dodici pagine scritte di getto quella stessa estate, con il suo scenario da set­ ting psicoanalitico attesta in forma narrativa i " contenuti " che Schon­ berg sentiva il bisogno di esprimere: Ora però non posso negare di essere estremamente infelice per la sua infe­ deltà. Ho pianto, mi sono comportato da disperato, ho preso decisioni e le ho rigettate, ho avuto idee di suicidio e le ho quasi realizzate, mi sono butta­ to da una follia all'altra - in una parola sono completamente lacerato. Anche questo dato di fatto non dimostra nulla? No, infatti sono disperato soltanto perché non credo a questo dato di fatto. Non posso credervi. Non ritengo possibile che io possa avere una moglie che mi tradisce. Allora non l'ho mai avuta, allora non è mai stata mia moglie e forse io non sono mai stato sposa­ to. Tutto questo è stato soltanto un sogno e contro questa ammissione parla soltanto la successione logica degli avvenimenti. [ . . . ] Se non è un sogno, allo­ ra è un dato di fatto. E io non posso credere ai dati di fatto: per me non esistono. [ . . . ] Non poteva tradirmi. Qualunque altro, ma non me [ . . .] ( Te­ staments-Entwurf, Arnold Schèinberg Center, Wien, T o6.o8) . È arduo condividere l'affermazione di Bryan Simms (2003 , p. 276) che «nei quindici anni successivi [cioè fino alla morte della prima moglie] Schonberg continuò a usare la musica come un mezzo per elaborare i suoi sentimenti di tradimento», ma questa esperienza di stress emotivo, questo Ausdrucksbediir/nis privato, pare precisamente

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corrispondere alle parole scritte (lucidamente) in una lettera a Busoni un anno dopo: E questa varietà, questa multiformità, questa illogicità delle nostre emozioni, questa illogicità evidenziata dalle associazioni provocate da un qualsiasi flus­ so di sangue montante, da una qualsiasi reazione dei sensi o dei nervi, queste le vorrei avere nella mia musica. Essa deve esprimere l'emozione, così come è nella realtà, l'emozione che ci mette in contatto con il nostro inconscio, e non un ibrido mostriciattolo composto di sentimenti e di "logica cosciente" (Busoni, [ 1 987] 1 988, pp. 526-7). Alcune delle considerazioni di Adorno sull'espressione paiono para­ frasare queste parole di Schonberg: L'unico momento veramente sovvertitore in lui [Schonberg] è il mutamento di funzione dell'espressione musicale. Non sono più passioni ad essere simu­ late, ma sono piuttosto moti corporei dell'inconscio, chocs, traumi, nella loro realtà non deformata, che vengono registrati nel medium musicale. Essi ag­ grediscono i tabù della forma, poiché questi sottopongono tali moti alla loro censura, li razionalizzano e li traspongono in immagini. Le innovazioni for­ mali di Schonberg sono strettamente legate al contenuto d'espressione e ser­ vivano a farne erompere la realtà. Le prime opere atonali sono "protocolli" , nel senso dei protocolli onirici psicanalitici (Adorno, [ 1 949] 1 959, p . 46). Tuttavia, questa lettura non può essere estesa tout court a tutte le composizioni del cosiddetto periodo espressionistico. Proprio dall'agosto 1 909, quando scrisse a Busoni la lettera citata, Schonberg componeva Erwartung, il monodramma che fu considerato un exemplum dell' espressionismo musicale, in primo luogo per il sog­ getto. Anche quest'opera pare realizzare le intenzioni indicate in quella lettera: non costruire, ma esprimere l'illogicità delle emozioni e l'inconscio. Schonberg non scrisse un'analisi di questo brano alla qua­ le ricorrere per trovarne conferma, ma lesse attentamente il saggio ampiamente elogiativo - Schanberg: "Erwartung" con il quale Paul Bekker partecipò alla Festschn/t per il suo cinquantesimo complean­ no nel 1 924 e lo corredò di glosse manos critte su una delle copie a stampa presenti nella sua biblioteca privata (Arnold Schonberg Cen­ ter, Wien, Book P I I , copy 2 ) . Schonberg poteva facilmente ricono­ scersi nella concezione unitaria e organicistica che ispira il saggio di Bekker, ma ne contestò l'affermazione che l'elemento critico e quello produttivo fossero intrinsecamente connessi nella sua produzione, scrivendo una glossa che relativizza tale collegamento : «la conoscenza 126

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e la critica intervengono in me sempre soltanto dopo avere portato a termine un'opera e spesso anche molto tardi: I 0-20 anni dopo ! » . Alla pagina successiva Schonberg rifiutò decisamente l'affermazione che Erwartung avesse a che fare con «l'idea della musica della donna», sostenendo invece trattarsi della lenta presentazione di quanto attra­ versa la mente in un momento di estrema tensione: la temporalità musicale dilata l'istantaneità delle immagini angosciose, come osservò anche Adorno senza però riferirsi specificamente a questo brano: «La musica, coagulata nell'attimo, è vera in quanto esito di un'esperienza negativa. Essa riflette il dolore reale» (Adorno, [ I 949] I 959, pp. 44-5 ) . Tuttavia, mentre Bekker poteva parlare di " continuità" dell'o­ pera - con il consenso implicito di Schonberg che non aveva reagito alle sue affermazioni in tal senso -, Adorno escluse questa stessa componente dalla concezione espressiva di Erwartung, per indicare in questo monodramma il paradigma della «dialettica della solitudine», nel quale «la legge tecnica della forma musicale [ . . . ] proibisce ogni continuità e sviluppo» (ivi, p. 49). Prendendo le mosse da questa affermazione di Adorno, Cari Dahlhaus ( [I 97 4] I 97 8a) ha analizzato gli elementi costruttivi che co­ stituiscono il fondamento dell'espressività in Erwartung e ha formula­ to una convincente confutazione del luogo comune che pretende trat­ tarsi di una composizione atematica - come ha affermato tra gli altri Luigi Rognoni ( I 974, p. 5 6 ) : «il più assoluto atematismo caratterizza questa partitura schonberghiana» - e che identifica impropriamente atematismo con espressionismo. Dahlhaus ha indicato motivi e figure caratteristici di una «polifonia espressiva» (Dahlhaus, [ I 97 4] I 97 8a, p. 3 5 ) , determinata da una differenziazione funzionale e gerarchica tra le parti, memore del contrappunto bachiano. In tale particolare «espressività dispiegata polifonicamente», che rappresenta a suo avvi­ so il principio portante dell'opera, Dahlhaus vede mediate tra loro espressione e costruzione. Pare improbabile infatti che Schonberg si fosse davvero tenuto lontano dalla " costruzione" e dalle sue istanze per privilegiare esclusi­ vamente quelle dell'espressione, come scrisse nella citata lettera a Eu­ soni. Più verosimile è cogliere in quelle affermazioni la preoccupazio­ ne di non razionalizzare le emozioni prima di esprimerle, dunque di non domare la potente immediatezza di un'espressività istintiva ricon­ ducendola al flusso di coscienza sotto il controllo dell'io razionale. Il distacco da un pathos "effettistico" , quello dell'espressività romantica e tardo-ottocentesca ma anche di alcuni compositori coevi, è un ele­ mento ulteriore sostenuto da Schonberg in quella stessa lettera e la

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sua importanza è confermata a posteriori da un manoscritto datato 8 aprile 1 9 2 8 (Pathos, Arnold Schonberg Center, Wien, T o r .o5 ) nel quale Schonberg ricordò quello stesso documento epistolare per attri­ buirsi una sorta di primogenitura nel rifiuto del pathos - un orienta­ mento nel quale è stato identificato il nucleo germinale della lettera­ tura espressionistica in Germania. È lontano dal pathos anche il «Wiener Espressivo», per ricordare la definizione coniata da Rudolf Kolisch per scelte interpretative coerenti con le intenzioni sia di Schonberg sia di Berg e determinate dalla testura compositiva. Inoltre, sempre a Busoni, Schonberg aveva scritto il 24 agosto 1 909: «Ma se si scorge come [le mie intenzioni] si sono sviluppate per gradi, come mi stessi accostando da tempo a una forma d' espres­ sione che adotto oggi apertamente e senza riserve, si capirà che non v'è nulla che non sia organico, nulla che abbia a vedere con un'e­ stetica e//ettistica [ Verschmockt-Asthetisches] , e che invece un impera­ tivo interiore mi ha portato a questo risultato» (Busoni, [ 1 987] 1 988, p. 5 34). Qui l' «imperativo interiore» di Schonberg (secondo la locu­ zione con la quale è stato tradotto il Miissen dell'originale) prelude alla "necessità interiore" condivisa con Kandinskij - per entrambi il modello è l'imperativo categorico kantiano con le relative implicazio­ ni morali -, ma l'affermazione di una corruzione dell'estetica e il rela­ tivo rifiuto, insieme con quello verso il pathos, sono da collegare a un altro "faro " al quale Schonberg fece costantemente riferimento: la personalità e le posizioni di Adolf Loos. In particolare, la crociata contro l'ornamento avviata dall'architetto della Haus a m Michaeler­ platz (un edificio che suscitò l'entusiasmo dei viennesi progressisti e l'indignazione dei conservatori) con le sue "parole nel vuoto" trova eco nel rifiuto da parte di Schonberg di quanto è musicalmente va­ cuo, dunque non "vero" (come ogni mera declinazione stilistica) nelle sue istanze sia di brevità (e, conseguentemente, di non-ripetizione) sia di comprensibilità. La solidità del legame tra Schonberg e Loos - che non fu mai definito espressionista - consiglia ulteriore cautela nell'an­ noverare Schonberg tra gli esponenti di tale movimento. Inoltre, il rilievo della " crociata contro l'ornamento" di Schonberg risultava evi­ dente anche a Kandinskij , che lo sottolineò nel suo intervento per la Festschrz/t schonberghiana del 1 9 1 2 : «Come nella sua musica (per ciò che io posso affermare in qualità di profano), anche nella sua pittura Schonberg rinuncia al superfluo (quindi al dannoso) e va per via di­ retta all'essenziale (quindi al necessario) . Tutti gli " abbellimenti" e le finezze pittoriche egli le lascia da parte, senza curarsene» (Schonberg, Kandinskij , [ 1 980] 1 9 8 8 , p. 1 3 2 ) .

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In ogni caso, Harmonielehre è la fonte teorica più autorevole, tra quelle anteriori al I 9 I 2 , per cogliere l'orientamento di Schéinberg ver­ so l'espressione, il cui rilievo è palese per esempio nella frase: «per me nell'arte l' afinalità rappresenta insieme all'espressione il massimo» (Schéinberg, [ I 9 I I ] I 96 3 , p. 5 I 4 ) . Le categorie ricorrenti sono quelle della verità («l'orecchio e il senso della verità saranno guida più sicu­ ra di qualsiasi legge artistica», ivi, p. 5 I 8) , della necessità («l'artista non fa nulla che gli altri ritengano bello, ma solo ciò che per lui è necessario», ivi, p. 5 I 9 ) e dell'istinto, assimilato all'inconscio («L'atti­ vità dell'artista è istintiva: poca influenza vi prende la coscienza ed egli ha la sensazione che ciò che fa gli sia dettato da dentro, che egli lo faccia solo obbedendo alla volontà di qualche forza che è in lui e di cui ignora le leggi. Egli non è che l'esecutore di una volontà a lui celata, dell'istinto, dell'inconscio che è in lui, di cui non sa se è nuo­ vo o vecchio, buono o cattivo, bello o brutto», ivi, pp. 52 I - 2 ) . Sono categorie vaghe, genericamente ispirate a Schopenhauer (citato nelle stesse pagine) e alla poetica del genio, nella quale Schéinberg confidò per tutta la vita. Tuttavia, nello stesso contesto e proprio in relazione al " bisogno di espressione" si incontra il primo collegamento con l'ambito della logica, dunque un primo cenno a quella distinzione tra la concezione di un pensiero - chiamato Ein/all, non (ancora) Ge­ danke nella Harmonielehre - e la (logica, tecnica e arte della) sua rap­ presentazione, temi che occuparono in maniera feconda molta parte della successiva elaborazione teorica di Schéinberg: il lavoro sul «pen­ siero musicale» (Schéinberg, [ I 9 1 7] I 994; I 99 5 ) ambisce a decrittare nel comporre una «logica inesorabile» e a portarne alla coscienza, per quanto possibile, la parte «inconscia», secondo una consapevolezza già chiaramente acquisita nel I 9 I I ed espressa per esempio nella fra­ se seguente: «Ogni accordo che scrivo obbedisce a un'impellente co­ strizione, alla spinta della mia costrizione espressiva [Ausdrucksbe­ diir/nis] , ma forse anche a quella di una logica inesorabile, ma incon­ scia, insita nella costruzione armonica» (Schéinberg, [ I 9 I I] I 963, p. 523). Il contatto tra Schéinberg e Kandinskij avvenne soltanto all'inizio del I 9 I I e fu determinato dall'entusiasmo del pittore all'ascolto del Quartetto n. 2 , op. Io. Nel corso di quell'anno Schéinberg portò a termine due opere diverse, come ricordò nel I 9 5 I : «mentre di matti­ na scrivevo il Manuale di armonia, i pomeriggi bastarono per ultimare l'orchestrazione [dei Gurrelieder] » (Far the Cincinnati Performance o/ the "Gurre-Lieder", Arnold Schéinberg Center, Wien, T 54. 1 2 ) . Har­ monielehre e Ober das Geistige in der Kunst furono scritti del tutto autonomamente ma giunsero insieme alla prima edizione nel dicem-

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bre I 9 I I (sebbene l'editore del libro di Kandinskij avesse stampato la data del I 9 I 2 per ragioni commerciali) . Le palesi affinità nella conce­ zione dell'arte e in particolare dell'istanza espressiva sono state am­ piamente indagate, come pure i termini e i sussulti della relazione amicale. La sintonia tra Schonberg e Kandinskij si basava sul comune orientamento verso il principio della necessità interiore che guida per intero la trattazione mistico-teosofica di Kandinskij ; una soltanto tra le molte citazioni possibili: «la pittura si porrà come arte pura a servi­ zio del divino. Ed è sempre la medesima infallibile guida che condu­ ce a questa vertiginosa altezza: il principio della necessità interiore ! » (Kandinskij , [ r 9 r 2 ] 1 9 6 8 , p. 9 9 ) . Nella prima lettera che Schonberg inviò a Kandinskij il 24 gennaio I 9 I I troviamo indicati insieme l'ur­ genza e l'obiettivo della propria istanza espressiva: Ogni attività creativa che voglia raggiungere gli effetti tradizionali non è del tutto priva di atti coscienti. Ma l'arte appartiene all'inconscio ! Bisogna espri­ mere se stessi! Esprimersi con immediatezza ! Non si deve però esprimere il proprio gusto, la propria educazione, la propria intelligenza, il proprio sape­ re o la propria abilità. Nessuna di queste qualità acquisite, bensì quelle inna­ te, istintive [ . ] . Solo la creazione inconscia, che si traduce nell'equazione: "forma-manifestazione " , crea forme vere (Schonberg, Kandinskij, [I 98o] I988, p. 8). .

.

Qui l'espressione è immediatamente e consapevolmente autoespres­ sione, guidata dall'istinto o dall'inconscio. Non si tratta di affermazio­ ni isolate oppure estemporanee nel contesto di una lettera privata a un ammiratore stimato e autorevole, ma di una convinzione espressa reiteratamente da Schonberg negli stessi anni e condivisa da numerosi artisti. Per esempio, anche Kokoschka sosteneva la supremazia della "voce interiore" sugli stimoli esteriori, come risulta dal testo di una sua conferenza letta a Vienna il 26 gennaio I 9 I 2 (Smith, I 9 86, p. 5 5 ) . Le frasi di Schonberg a Kandinskij attestano una ricerca inarrestabile nella propria interiorità: «La strada si trova in noi stessi», recita un passo del " racconto filosofico" Séraphita di Balzac, un'opera che gli stava tanto a cuore (Balzac, [ I 834- 3 5 ] I 9 86, p. I45 ) . Anche nel sag­ gio concluso esattamente un mese prima della lettera appena citata Probleme des Kunstunterrichts, con il suo famoso esordio di impronta kantiana «lch glaube: Kunst kommt nicht von Konnen, sondern von Miissen» («Credo che l'arte non derivi dal potere bensì dal dovere», Schonberg, 1 974, p. I 3 ) - Schonberg attribuì all'artista (quello dotato di genio, non soltanto di talento) il compito di esprimere se stesso; e in un manos critto non datato, ma verosimilmente dei primi anni tren-

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ta, tornando una volta di più sulla propria evoluzione, aggiunse il co­ lore della «soddisfazione» al proprio esprimere se stesso (Sachgemiif!,, Arnold Schonberg Center, Wien, T 27 .07 ) . Tuttavia, nel 1 9 1 r Schonberg non intendeva più tale istanza in termini individuali o autobiografici come nel 1 9o8-o9, ma in senso "universale " , come presagio del futuro collettivo: il genio dell'artista esprime «in modo nuovo ciò che è nuovo, cioè un uomo nuovo» (Schonberg, [ r 9 r r ] 1 9 6 3 , p. 5oo), dunque precorre l'umanità futura («le leggi della natura dell'uomo geniale sono le leggi dell'umanità fu­ tura», ivi, p. 4 r o) . L'artista geniale coglie in se stesso una verità che oltrepassa la soggettività singolare ed è a essa che dà espressione: «La bellezza si dà all'artista, che non l'ha voluta perché ha aspirato solo alla veridicità: solo a essa. [ . . .] L'artista la raggiunge perché essa è in lui, ed egli non fa che esprimerla, esprimerla da se stesso» (ivi, p. 41 r). La costante interrogazione s u s e stesso alla ricerca della propria identità, che trova espressione anche negli innumerevoli autoritratti, non va dunque intesa come meramente autoreferenziale. Piuttosto, siamo dinanzi alla congiunzione tra il piano dell'arte e quello dello spirito in una sorta di " chiamata" dell'artista che deve " annunciare" come Mosè - un altro orientamento che Kandinskij condivideva (Mo­ razzoni, 2 003 ) . Echeggia in queste posizioni un riferimento filosofico tanto importante quanto quello a Schopenhauer (che giunse a en­ trambi gli artisti mediato da Wagner) cioè il Nietzsche della Geburt der Tragodie, con la sua fiducia nell'espressione istintiva dell' artista­ profeta, capace di "redenzione" attraverso l'attività creativa, e di Ecce Homo, sin dal sottotitolo Come si diventa ciò che si è ( Wie man wird was man ist) . Inoltre, al di là dell'irrazionale " ufficiale " , gli artisti del periodo erano sensibili a quelle filosofie esoteriche che ispiravano gli autori ai quali si sentivano legati da un"' affinità interiore" , in partico­ lare Strindberg e Balzac sulla scorta di Swedenborg, ed essi conosce­ vano - se non frequentavano - la Società Teosofica e Rudolf Steiner (citato esplicitamente da Kandinskij in Ober das Geistige in der Kunst) . Quanto a Schonberg e al suo orientamento verso la spirituali­ tà, mette conto ricordare la fiducia in un nesso tra uomo e cosmo, tra ciò che è inferiore e ciò che è superiore, che ispira il Kriegs- Wolken­ tagebuch del 1 9 1 4- r 5 (Schonberg, 1 999, pp. 9 1 - r o4) e l'intero testo di Die Jakobsleiter. Tale convincimento è un preludio per la dedizione a tematiche ebraiche, declinata a partire dagli anni venti e non soltanto nel comporre, che lo accompagnò attraverso il grandioso torso di Mo­ ses und Aron fino ai Moderne Psalmen (Morazzoni, 2oor l .

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6.2 A cavallo tra r 9 r r e 1 9 1 2

La collaborazione di Schonberg all'almanacco di Mare e Kandinskij si articolò da un lato nella stesura del saggio Das Verhiiltnis zum Text, dall'altro lato nella composizione del Lied Herzgewiichse, op. 20, che fu pubblicato in facsimile. Schonberg coinvolse nell'iniziativa Berg e Webern, anche dei quali fu pubblicato un Lied: op. 2 , n. 4 su testo di Alfred Mombert per Berg e «lhr tratet zu dem herde» - poi op. 4, n. 5 - su testo di Stefan George, per Webern . Per la loro presenza nell'almanacco anch'essi vennero annoverati tout court tra gli espo­ nenti dell'espressionismo musicale. Herzgewà'chse fu composto tra il 5 e il 9 dicembre 1 9 1 r , quando Schonberg stava leggendo Uber das Geistige in der Kunst di Kandin­ skij , come scrisse all' amico il 14 dicembre, e l'apprezzamento per Maeterlinck manifestato dal pittore può forse avere influenzato la scelta di quel testo, nella versione tedesca pubblicata nel 1 906. Si tratta di un Lied affine a quelli dell'op. 1 5 , quasi la loro continuazio­ ne, dal punto di vista dell'ambientazione in un ipotetico giardino ( Wasserrose, Palmen, Blumen, Lilie, Bliitter) , che però se ne distacca negli ultimi versi, con l'immagine del bianco splendore lunare e del cristallo blu (secondo Kandinskij «il colore tipicamente celestiale», [ 1 9 1 2 ] I 967, p. I I I ) , ma soprattutto con la preghiera mistica nel fi­ nale. Al Fa sovracuto sulla sillaba «my» del «mystisches Gebet» con­ clusivo Webern diede immediatamente rilievo in una lettera a Berg, e a J alowetz scrisse entusiasta: «Il nuovo Lied è straordinario» (We­ bern, I 999, p. I 9 3 ) . Si può considerare l'op. 20 come una composi­ zione di transizione tra i brani dei cinque anni precedenti e quelli successivi, fino agli anni venti. Dopo avere composto il Lied, alla fine del I 9 I I Schonberg scrisse il contributo che aveva promesso a Kandinskij . Das Verhà'ltnis zum Text è un saggio dall'avvio lento: Schonberg cita Schopenhauer, passa per Wagner, ripresenta il tema ricorrente dell'impotenza della critica musicale, un argomento costante nei suoi scritti e nelle sue lettere, e mette in discussione il facile parallelismo tra la creazione poetica e quella musicale, tornando nuovamente a Wagner per difenderlo da una critica sciocca. Soltanto dopo avere superato la metà del testo, Schonberg introduce la propria esperienza personale rispetto ad alcu­ ni Lieder di Schubert, per i quali sostiene di avere colto «il vero au­ tentico contenuto [wirklicher Inhalt] » (Kandinskij, Mare, [ r 9 r 2] I988, pp. 5 6-67) senza avere letto preliminarmente il testo poetico, e di avere a propria volta composto molti Lieder «inebriato dal suono

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iniziale delle prime parole del testo», per rendersi conto soltanto in seguito del relativo contenuto poetico. Sulla base di queste considera­ zioni Schonberg definisce l'opera d'arte come un «organismo com­ piuto», nel quale ogni singola parte racchiude la totalità, in linea con la concezione organicistica diffusa anche grazie all'autorità di Goethe e dei suoi scritti scientifici, apparsi negli stessi anni a cura di Rudolf Steiner: «Se ascoltiamo un verso di una poesia o un tempo di un pez­ zo musicale, siamo in grado di capire tutta la composizione [das Gan­ ze zu er/assen] [ . . . ] con una pienezza [Vollkommenheit] a stento rag­ giungibile e in ogni caso non superabile con il ricorso alle vie dell'a­ nalisi e della sintesi» (ivi, p. 66). La fiducia nella reazione istintiva viene qui fatta valere come auspicio del superamento della «fede nel­ l' onnipotenza della ragione e della coscienza» in tutte le arti. Tutta­ via, in uno scritto del r 9 3 r Schonberg smentì l'affermazione formula­ ta in questo saggio riguardo all'autonomia della composizione dalla lettura del testo, sostenendo invece di cercare «testi per una musica che mi aleggia in mente»; tornò però a sottolineare il ruolo dell'ispi­ razione e dell'intuizione e confermò la sua concezione unitaria dell'o­ pera d' arte. Riguardo alla questione dell'espressione, in questo inedi­ to scrisse: «Pensieri, atmosfere e sentimenti della poesia, proprio come le figure sonore, non sono altro che espressione di una qualche causa fondamentale [ Grundursache] che si trova dietro l'insieme e che potrebbe essere presentata anche con materiale diverso, come con parole, rime, suoni anche con colori, forme e con il marmo» (Beantwortung wissenschaftlicher Fragen, Arnold Schonberg Center, Wien, T o4. r 8 ) . Carl Dahlhaus h a giustamente definito Das Verhiiltnis zum Text «una difesa inequivocabile dell'idea della musica assoluta ed esatta­ mente della sua versione metafisica, originata da Schopenhauer e co­ municata ai compositori di fine secolo dalla Festschrz/t di Wagner per Beethoven del r 87o» (Dahlhaus , 1 9 86, p. 2 9 1 ) e ha messo in rilievo come Schonberg incorra in una contraddizione con se stesso nel for­ nire ai curatori dell'almanacco una composizione vocale da inserire nella pubblicazione (come fecero pure Berg e Webern); inoltre, nei suoi numerosi brani vocali degli anni immediatamente precedenti questo saggio, il testo pare surrogare la mancanza del sostegno armo­ nico e la messa in discussione dell'elaborazione motivico-tematica consuete, quando addirittura non commenta la musica e non vicever­ sa (per esempio, nei momenti illustrativi dei George-Lieder) . N el suo insieme l'almanacco di Kandinskij e Mare è un volume eterogeneo e, in quanto tale, emblematico per l'espressionismo; la presenza in esso di saggi sulla musica - oltre allo scritto di Schon-

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berg, i contributi di Thomas von Hartmann ( Uber die Anarchie in der Musik), di Leonid Sabaneev (Il "Prometeo" di Skrjabin ) , di Nikolaj Kulbin (La musica libera) e di brani musicali è stata addotta a te­ stimoniare una convergenza tra espressionismo visivo ed espressioni­ smo musicale. Un elemento ulteriore, citato spesso a conforto di que­ sta tesi, è indicato nella presenza di quadri di Schonberg nella prima mostra organizzata a Monaco da Der blaue Reiter (presso la Galerie Thannhauser, r 8 dicembre r 9 r r - r 0 gennaio 1 9 1 2 ) ; i suoi quadri erano tre (un autoritratto e due "Visioni" ; Gollek, 1 9 8 2 , p. 405 ) e nessuno vi fu venduto. Invece, opere pittoriche di Schonberg non furono esposte nella seconda mostra a Monaco dal titolo Der blaue Reiter. Schwarz- Weiss (allestita presso la Kunsthandlung Hans Goltz, 1 2 feb­ braio- r 8 marzo 1 9 1 2 ) ; la ragione del mancato coinvolgimento di Schonberg non sta nell'assenza di disegni in bianco e nero nella sua produzione (nella quale mancano invece incisioni e litografie) , dunque va ricercata altrove e verosimilmente in prese di distanza più o meno esplicite dalla sua posizione e dalla sua opera pittorica. Infatti, dopo aver visitato la prima mostra, August Macke scrisse lapidario a Franz Mare: «Lo Schonberg mi è antipatico» (ivi, p. 5 r ) . Dunque, mentre le lettere di Macke dell'inizio del I 9 r I segnalavano entusiasmo e sinto­ nia, un anno dopo Macke non si collocava più tra i sostenitori di Schonberg, come conferma la lettera successiva, con la sua critica im­ plicita alle implicazioni teosofiche nell'opera visiva del musicista: «E adesso ancora quello Schonberg ! Mi ha proprio fatto infuriare con questi panini all'acqua dagli occhi verdi e lo sguardo astrale. Non vo­ glio dire nulla contro l'autoritratto da dietro . Ma questo paio di pani­ ni vale davvero il clamore su Schonberg "pittore" ?» (Macke, Mare, 1 9 64, p. 9 9 ) . Nell'almanacco fu pubblicato proprio l'autoritratto " da dietro" insieme con uno dei tanti quadri intitolati Vision (secondo il titolo attribuito loro da Kandinskij , anziché Blick come voleva il loro autore) , anch'esso esposto nella prima mostra dell'Associazione. L'attività pittorica, come quella poetica, di Schonberg, la stesura di testi teatrali da parte di Kokoschka (Morder, Ho/lnung der Frauen, rappresentato nel 1 907, reca la dedica a Loos) e di composizioni sce­ niche da parte di Kandinskij sono spesso indicate a testimoniare au­ torevolmente l'orientamento sinestesico dell'espressionismo, ma van­ no ricordati anche i misteri drammatici del teosofo-artista Rudolf Steiner, rappresentati a Monaco dal 1 9 I 0 al 1 9 I 3 , come pure il testo teatrale di Webern Tot, quello di Berg Das Bergwerk-Drama e gli ac­ querelli e i disegni di Berg. Da un lato queste attività artistiche pluri­ me sono coerenti con una concezione che relativizza l'importanza della maestria tecnica specifica di ciascun ambito, dall'altro lato si -

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collegano all'idea wagneriana di Gesamtkunstwerk, divenuta quasi uno slogan per qualunque intersezione tra le arti intorno al I 9oo, in­ tesa però con qualche "fraintendimento creativo" . Infatti, se la lettura di Schopenhauer aveva convinto Wagner dell'intrinseca supremazia della musica rispetto a ogni altra forma artistica ed egli stesso a Bay­ reuth aveva demandato a professionisti gli aspetti visivi dell'allesti­ mento del Ring, l'autorità del suo nome fu invece spesso citata per sostenere la radice comune di tutte le arti, distinte soltanto nei mezzi della loro manifestazione contingente, considerata di scarso rilievo come ogni esteriorità. Al di là delle discutibili affermazioni su Wagner formulate da Kan­ dinskij nel saggio Uber Biihnenkomposition (Kandinskij , Mare, [ I 9 I2] I988, pp. I 77-96), l'affinità con il Gesamtkunstwerk riguarda piuttosto - e prevalentemente - le didascalie sceniche iperdettagliate che costel­ lano sia Der gelbe Klang di Kandinskij sia Die gliickliche Hand, compo­ sizione per la quale Schonberg creò testo, musica, luci, scene e co­ stumi, in linea con quanto riteneva corrispondere all'ideale wagneriano. La mancanza di autentiche trame narrative e di una chiara definizione dei personaggi è invece un segno di distanza dalle scelte di Wagner.

6. 3

Dal I 9 I 2 alla fine della guerra Nei mesi di stasi compositiva tra il IO dicembre I 9 I I e il I2 marzo I 9 I 2 Schonberg si dedicò intensamente alla scrittura, dal lato privato con il «tentativo di un diario» (Schonberg, I999, pp. 27-89), dal lato pubblico con vari saggi e aforismi e con la prima stesura dell'impo­ nente conferenza su Gustav Mahler. Leggendola a Praga il 25 marzo (come poi nella seconda stesura presentata a Berlino e a Vienna) , Schonberg ribadiva nell' autoespressione l'obiettivo del fare artistico: «> grazie alle quali i concerti di Corelli « [sembravano] aver sopportato tutti gli attacchi del tempo e della moda» (Burney, [ I 7 8 2 ] I 9 5 7 , n, p. 442 ) . Ma, so­ prattutto, divenne sempre più salda la convinzione che, per salvare in parte dall'oblio un'opera, sarebbe stato indispensabile fissarla in un testo. L'aver voluto stabilire un testo inequivocabile, sebbene non anco­ ra del tutto al riparo da inevitabili rielaborazioni, rivelerebbe quindi il tentativo di Corelli di salvaguardare la propria volontà compositiva e il proposito di consegnare il suo nome a capolavori atemporali che, quasi certamente, gli avrebbero garantito immortalità. La certezza del

1 4 . L ' OPERA

' o ARTE M U S I C A L E TRA S E T T E C E N T O E OTTOC E N T O

valore delle composizioni di Corelli era viva ancora quarant'anni dopo la sua morte: nel 1 7 5 2 Joachim Quantz parlò di «universale plauso [ . . . ] che Corelli ottenne meritevolmente in virtù dei suoi dodi­ ci Soli», riconoscimento che spettava di diritto anche a Vivaldi e ad Albinoni per l'esemplarità dei loro modelli (Quantz, [ 1 7 89] 1 9 5 3 , p. 3 09 ) . Le raccolte corelliane, in particolare l'opera m , uno dei suoi la­ vori più eccellenti (Hawkins, [ 1 776] 1 96 3 , n, p. 677 ), e la v, diffi­ cilmente eguagliabile da altre raccolte dello stesso autore (Arteaga, [ q 8 3 ] 1 969, I , p. 3 1 2 ) , continuarono ad essere eseguite ed apprezza­ te anche dopo la morte di Corelli, il cui nome inevitabilmente in­ fluenzava i giudizi dei critici. Quantz conferma come un simile condi­ zionamento nella valutazione di un'opera fosse ancora predominante durante gli anni cinquanta del Settecento : [Quando si vuole giudicare una composizione] si domanda subito da chi è stato composto il brano, per poter calibrare il parere che si intende esprime­ re. Se è stato composto da un compositore per il quale si nutre molta stima, e al quale sono stati attribuiti elogi, il brano è giudicato bello senza bisogno di aggiungere ulteriori spiegazioni. Ma se al contrario non si apprezza molto l'autore, si conclude che il brano non è pregevole (Quantz, [ r 789] 1 9 5 3 , p. 277). Tra opera e autore si instaurava un rapporto vicendevole: le autenti­ che opere erano tali per la perfezione ineguagliabile che il composito­ re era riuscito a raggiungere, e il compositore, di riflesso, cessava di essere semplicemente l'individuo che fisicamente aveva vergato le par­ titure e si tramutava in autore, la cui fama era direttamente propor­ zionale al prestigio che le opere avevano guadagnato (Foucault , 1 97 1 , p. I I ) . Sebbene sia indiscutibile che il pieno affermarsi dell'opera come concetto regolativo sia stato agevolato dalla convergenza dei cambia­ menti estetici, compositivi ed esecutivi che si verificarono in modo graduale dai primi anni dell'Ottocento, i prodromi di una simile con­ cezione possono essere individuati nel secolo precedente (e, per talu­ ni aspetti, addirittura nel Rinascimento) . La sopravvivenza all'oblio dei brani, elogiati ed emulati anni dopo la data di composizione, il loro valore imperituro riconosciuto da teorici e compositori, e le rare pretese di ascolto silenzioso, contemplativo, nei primi anni del Sette­ cento (Goehr, 1 992, p. 2 37 ), dimostrerebbero che la quasi abusata definizione di capolavoro (Meisterstiick), sinonimo di perfezione com­ positiva, già agli occhi dei pensatori settecenteschi risultava insuffi­ ciente per individuare un'opera. 273

E S P R E S S I O I': E , FORM A , O P E R A

Alla fine del XVIII secolo si perverrà gradualmente ad una straor­ dinaria innovazione estetica: il guardare alla musica come ad un mo­ dello cui le altre arti si sarebbero dovute conformare. Affermerà Schiller nel 1 795 : Senza spostamento dei loro oggettivi confini, le diverse arti nella loro azione diventano sempre più l'una simile all'altra. La musica, nel suo più sublime raffinamento, deve diventare forma e, con la serena potenza dell'arte antica, agire su di noi; l'arte plastica, nella sua suprema perfezione, deve di­ ventare musica e, con l'immediatezza della presenza sensibile, commuoverci; la poesia, nel suo più compiuto sviluppo, deve potentemente conquistarci con la musica (Schiller, [ 1 795] 200 1 , p. 205 ) . sull'animo

U n simile capovolgimento di prospettiva s i carica di un significato an­ cor più eccezionale se pronunciato da Mengs, che negli anni settanta del Settecento confessò di aver dipinto la sua ultima opera tentando di rendere pittoricamente la soavità di una sonata di Corelli (Mengs, [ q 62 ] 1 948, p . 3 5 ; Morelli, 1 982a, p. 1 2 8 ) : era l'Annunciazione del fatto che una creazione musicale fosse già potenzialmente concepibile come opera perfetta, assoluta e paradigmatica anche per le altre arti.

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Gesamtkunstwerk,

sinestesia e convergenza delle arti di Michela Garda

15 . !

Dalle arti sorelle all'opera d' arte totale L'estetica moderna eredita l'idea di una gerarchia delle arti sorelle co­ stituitasi a partire dai paragoni cinquecenteschi tra le arti (Kristeller, 1 9 7 7 ) , e ricondotta da Batteux ( [ 1 746] 1 9 8 3 ) a metà Settecento ad un unico principio, in seguito oggetto di un'attenta ridefinizione (Les­ sing, [ 1 766] 1 99 1 ; Diderot, 1 9 84 ) . Appare dunque evidente che, qua­ lora un'opera risulti dall'unione di più arti, come nel caso della poe­ sia e della musica, della musica con la danza, del canto con la musica e con la scenografia, l'assetto gerarchico delle arti si ripercuote nella struttura dei livelli testuali, musica, libretto, danza, arti figurative. Questo affermava con chiarezza Batteaux nel dire che: «Per le arti unite deve essere come per gli eroi. Una sola deve eccellere e le altre restare in secondo rango» (Batteux, [ 1 746] 1 9 8 3 , p. 1 69 ) . Benché la storia delle polemiche intorno all'opera in musica testimoni, non da ultimo, la difficoltà di concepire un'opera d'arte alla cui produzione cooperano vari mezzi in concorrenza fra loro, il sistema di Batteux schivava quelle polemiche grazie ad un galateo di precedenze che sot­ tintendeva il principio della convenienza di ciascuna arte ad un og­ getto determinato: Se la poesia offre il suo spettacolo, la musica e la danza appariranno con essa, ma ciò sarà unicamente per farla valere, per aiutarla a sottolineare più fortemente le idee e i sentimenti contenuti nei versi. [. .. ] Se è la musica che si pone in mostra, essa sola ha il diritto di esibire tutte le sue attrattive. Il teatro è per essa. La poesia non ha che il secondo rango e la danza il terzo. [ . ] Le parole, in simili casi, sebbene fatte prima della musica, non sono che come dei colpi di forza che si danno all'espressione musicale per renderla di un senso più netto e intelligibile. [ . . . ] Infine, se è la danza che dà festa, non bisogna che la musica vi brilli a suo svantaggio, ma soltanto che essa le dia . .

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una mano per sottolineare con più precisione i suoi movimenti e il suo ca­ rattere (ivi, pp. 1 69-70) . Questo sistema equilibrato, cui veniva in soccorso la gerarchia dei ge­ neri, appariva saldo grazie anche alla genealogia dell'unione delle arti in un'origine comune, la natura . Esse quindi «non hanno mai mag­ giore incanto di quando sono riunite» (ivi, p. I 6 8 ) . A partire dalla seconda metà del Settecento s i afferma l'esigenza di definire tanto le finalità quanto le specificità delle varie arti secon­ do una sorta di " divisione del lavoro " ; ciò avviene facendo riferimen­ to a diversi principi: il mezzo di cui è costituita ciascuna arte, a quale dei cinque sensi è correlata e la sua maggiore o minore congruità con il principio estetico fondante. È una distinzione che fa riferimento questa volta ad un altro tipo di unità rispetto a quella basata sulla natura: nel loro aspetto particolare le opere d'arte riverberano un bel­ lo unico e sono colte da un unico indiviso soggetto percipiente. Dide­ rot manifestò questa esigenza fra i primi: Paragonare la bellezza di un poeta con quella di un altro poeta è una cosa che si è fatta mille volte. Ma paragonare la bellezza comune della poesia, della pittura e della musica, mostrarne le analogie, spiegare come il poeta, il pittore e il musicista rendano la stessa immagine, cogliere gli emblemi sfug­ genti della loro espressione, esaminare se non vi sia qualche similitudine fra questi emblemi ecc. è quanto bisogna ancora fare (Diderot, [ 1 75 1 ] 1 984, pp. 48-9). Per definire un nuovo principio estetico che si contrapponga al crite­ rio dell'imitazione si rende necessaria un'accurata distinzione tra le arti. L'opera prodotta dalla cooperazione di arti diverse rappresenta a questo punto una difficoltà per la riflessione estetica. Questo imba­ razzo si manifesta, fra l'altro, in un passo kantiano dedicato proprio all'unione delle belle arti in un unico prodotto in osservanza alla tra­ dizionale distinzione tra le arti: In questo legame l'arte bella è ancora più artistica; ma se sia anche più bella (per il fatto che vi si incrociano così molteplici e diversi tipi di compiaci­ mento) può essere messo in dubbio in alcuni di questi casi. Ma in ogni arte bella l'essenziale è nella forma che è conforme a scopi per l'osservazione e il giudizio, dove il piacere è insieme cultura e dispone lo spirito alle idee e quindi lo rende ricettivo a parecchi di quei piaceri e intrattenimenti (Kant, [ 1 790] 1 999, p. I 6 I ) .

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Anche Hegel, nelle sue Vorlesungen uber die A sthetik, sottolinea la prevalenza di un'arte rispetto all'altra quando esse si trovano unite nell'opera in musica Se il lato musicale, però, di una tale opera d'arte deve restare l'elemento es­ senziale e di rilievo, la poesia come poema, dramma ecc., non deve presen­ tarsi per sé pretendendo validità peculiare. In generale, in questa associazio­ ne di musica e poesia la prevalenza di un'arte avviene a spese dell'altra. Se perciò il testo come opera poetica possiede per sé un valore del tutto auto­ nomo, esso testo deve aspettarsi dalla musica soltanto un appoggio minimo; così per esempio nei cori drammatici dell'antichità la musica era un accom­ pagnamento meramente subordinato. Viceversa se la musica acquista il posto di una peculiarità di per sé più indipendente, il testo a sua volta, nella sua esecuzione poetica, può essere solo più superficiale e deve accontentarsi per sé di sentimenti generali e di rappresentazioni tenute sul generale (Hegel, [ 1 836-38] 1 972, pp. 1 004-5 ) . A differenza di Kant, Hegel accenna alla capacità delle singole arti di superare i confini espressivi in cui sono costrette dal mezzo attraverso cui operano: Ciò può accadere anche in un'opera musicale, non appena i sentimenti che essa suscita in noi secondo la sua natura e la sua animazione artistica si svi­ luppano in noi in intuizioni e rappresentazioni più precise, portando così a coscienza la determinatezza dell'espressione dell'animo in intuizioni più salde e in rappresentazioni più generali. Ma tutto ciò è allora rappresentazione ed intuizione nostra, a cui l'opera musicale ha dato certamente l'avvio, ma che però il suono non ha prodotto immediatamente con il suo trattamento musi­ cale stesso. La poesia invece esprime i sentimenti, le intuizioni e le rappre­ sentazioni stesse e può anche delinearci un'immagine di oggetti esterni, pur non potendo da parte sua raggiungere la plasticità chiara della scultura e del­ la pittura, né l'intimità interiore della musica, per cui deve fare appello alla restante nostra intuizione sensibile e alla muta ricezione del nostro animo per completare l'immagine (ivi, p. 1 004) . Sebbene tanto il sistema delle arti quanto i loro prodotti, le opere, almeno fino a Wagner, vengano concepiti secondo le tradizionali divi­ sioni, a partire da Herder si manifesta una tendenza a individuare un ambito in cui gli aspetti peculiari delle singole arti sono integrati dal sistema percettivo o superati in un'ideale estetico che ne travalica i confini. Per Herder la molteplicità dei dati sensoriali fa capo ad un'unica centrale: «Che nesso c'è fra vista e udito, colore e parola, odore e suono? Negli oggetti, nessuno. Ma allora cosa sono queste proprietà

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negli oggetti? Esse non sono altro che percezioni sensibili in noi e, in quanto tali, confluiscono tutte assieme. Noi siamo un sensorio comu­ ne pensante, che viene però sollecitato da più parti: ecco dove sta la spiegazione» (Herder, [ 1 7 72] 1 99 5 , p. 8 ! ) . Anche Hegel sarà indotto a supporre una capacità dell'animo umano in grado di integrare in un'immagine più generale sentimenti, intuizioni e rappresentazioni suscitate dalla cooperazione di singoli mezzi artistici, come succede nelle opere del teatro musicale, o addirittura di completare un'imma­ gine inevitabilmente unilaterale prodotta da una singola arte come la poesia. Nell'idea di una «muta ricezione del nostro animo» pur mar­ ginale nell'impianto sistematico hegeliano, si trova la traccia di un tema ampiamente sondato dai romantici: quello della tendenza dell'a­ nimo a integrare le impressioni sensoriali in maniera reciproca. All'u­ nione dei dati percettivi a livello antropologico fa riscontro un'accu­ rata distinzione e specializzazione tra le arti a partire dai loro sensi specifici. Si tratta di un tema che sta alla base dei saggi estetici di Herder ( Viertes kritische Wiildchen, 1 769; Plastik, 1 778; Kalligone, 1 8 oo) e che si trova espresso in una formulazione particolarmente sintetica e pregnante in Plastik: Noi possediamo un senso che coglie le parti fuori di sé l'una accanto all'altra, uno che le apprende l'una dopo l'altra, un terzo che le accoglie l'una nell'al­ tra: vista, udito e tatto. Parti l'una accanto all'altra compongono una superfi­ cie. Parti una dopo l'altra nel modo più semplice e puro sono i suoni. Parti contemporaneamente accanto e l'una nell'altra, sono corpi o forme. Esiste in noi allora un senso rispettivamente per le superfici, i suoni e le forme, e quando ne va del bello, tre sensi per tre generi della bellezza che devono essere distinti l'uno dall'altro, come superficie, suono, corpo. Se esistono del­ le arti che operano in uno di questi generi, noi conosciamo anche il loro campo dall'esterno e dall'interno: superficie, suono, corpo, come vista, udito, tatto. Questi sono limiti stabiliti dalla natura, non da un accordo, e che quin­ di nessun accordo può mutare, pena la vendetta della natura. Un'arte musi­ cale che vuoi dipingere, una pittura suonare, una scultura colorire, come una poesia descrittiva che vuoi scolpire in pietra, non sono altro che degenerazio­ ni, che abbiano esse o no un effetto sbagliato. E tutte e tre si rapportano l'una all'altra come superficie, suono, corpo oppure come spazio, tempo e forza, i tre grandi media della creazione onnipresente, mediante i quali essa tutto accoglie e abbraccia (Herder, [ r n8] 1 994, pp. 48-9). Nel labirintico " sistema di frammenti" , lasciato incompiuto da Frie­ drich Schlegel, emergono tracce che conducono tanto ad una ridefìni­ zione del sistema delle singole arti quanto ad un superamento delle distinzioni sullo sfondo del concetto di Universalpoesie. In un fram-

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mento degli anni 1 794- 95, dedicato al progetto di una «Teoria del bello nella poesia», Schlegel aderisce al tradizionale paradigma retori­ co e definisce compito della poetica occuparsi della dottrina della differenza tra le arti in generale, del carattere peculiare della poesia, dei suoi tipi, drammatica, lirica ed epica. Del tragico e del co­ mico. Della sua materia; dei costumi e delle passioni. Dei suoi organi, della fantasia [e] della lingua. Della sua unione con le altre arti, con la musica e con l'orchestri ca ovvero con la mimica. Delle condizioni della sua formazio­ ne ovvero della @osofia della storia dell'arte della poesia (Schlegel, 1 9 89, pp. 45-6). Le riflessioni che scaturiscono da questi progetti conducono ad ap­ prodi diversi. In due frammenti, in particolare, Schlegel fissa la fulmi­ nazione che lo porta sia a scindere il concetto generale di arte in for­ me antitetiche, sia a presentire l'esigenza dell'unificazione di tutte le arti: «Leggi antitetiche della pura dottrina dell'arte sono: 1 . Ogni arte deve essere necessaria cioè determinata, delimitata, classica. 2 . Ogni arte deve essere illimitata: non una mera differenza individuale, ma un genere conseguente. < Dalla tesi: non vi devono essere arti parti­ colari, si deduce l'unificazione di tutte le arti > » (Schlegel, [ 1 797] 1 998a, fr. v [35 ] , p . 1 1 7 ) . In un altro frammento relativo anch'esso al fondamento della dottrina dell'arte si legge: «Deve contenere i princi­ pi dell'arte progressiva e classica - Tesi. Deve dare modelli. Antitesi. Non ne deve dare; l'arte deve progredire eternamente. Antinomia del classico e del progressivo. Non vi è anche un'antinomia del patetico o musicale e del plastico dell' arte?» (ivi, fr. v [ r 86] , p. 1 3 4 ) . L'ultima frase trova conferma e sviluppo in un altro breve frammento: «L'inte­ ra Jt [poesia] classica ha un tono plastico, quella sentimentale uno [tOU CJ [musicale] e quella progressiva uno Jt [poetico] » (ivi, fr. v [23 r ] , p. 1 3 8 ) . Tono plastico, musicale e poetico sono dunque princi­ pi trasversali tanto alla distinzione dei mezzi materiali di cui le arti si servono (superficie, suono, corpo), dei sensi che coinvolgono (udito, vista e tatto) e dei rapporti tra esterno e interno (spazio, tempo e forza) in parte riconducibili alla distinzione tra arti plastiche e arti temporali. Nella selva dei frammenti di Schlegel le arti si confondo­ no, essendo al contempo intese in senso proprio e in senso traslato come principi estetici. Il seguente frammento, fra gli innumerevoli in­ torno a questi temi, offre una traccia più decifrabile per intuire in quale complessa trama si stemperi l'affermazione perentoria del fram­ mento v [3 5 ] , citato sopra sulla deduzione dell'unificazione di tutte le arti: «Cultura e invenzione sono l'essenza dell'arte figurativa, e la bel279

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lezza ( armonia) è l'essenza della musica delle più alte fra le arti. Essa è la più universale. Ogni arte ha dei principi f!OUO [musicali] e viene perfezionata, perfino la musica. Questo vale persino per la cpo [filoso­ fia] e dunque certamente per la 1t [poesia] forse anche per la vita. L'amore è musica - esso è qualcosa di più alto dell'arte» (Schlegel, [ 1 798-9 9] 1 9 89, fr. VII [ I 2 o] , p. 2 7 8 ) . Infine in un frammento parti­ colarmente ermetico, sgorgato da uno stato d'animo concitato e visio­ nario, si legge un breve appunto che sembra aprire uno squarcio pro­ fetico sui futuri sviluppi del Gesamtkunstwerk: «Spirito e parola sono l'essenza dell'arte; la parola è plastica, lo spirito musicale» ( Schlegel, [ 1 797- 1 8oo] 1 998a, fr. VI [54] , pp. 262-3 ) . Infine nel Gespriich iiber die Poesie si legge: «Ogni m usa cerca e trova l'altra e tutti i fiumi della poesia vanno a confondersi nel mare universale» ( Schlegel, [ 1 8ooJ 1 99 1 , p. 3 ) . Nella prospettiva di Schlegel, il superamento della divisione tra le arti avviene ad un livello che non coinvolge la costituzione dell'opera d'arte e l'impiego di tecniche e mezzi specifici, bensì i principi esteti­ ci che la informano. In quel singolare documento che è il cosiddetto A ltestes Systemprogramm (attribuito alternativamente a Schelling, Holderlin o Hegel) il superamento della divisione delle arti è un pro­ cesso utopico e combustivo che conduce ad una palingenesi interiore e sociale dell'uomo con la conseguente abolizione di ogni differenza: la poesia riceverà così una dignità superiore e diventerà infine ciò che fu in origine - maestra della (storia) dell'umanità; allora non ci sarà più filosofia, storia, soltanto la poesia sopravviverà a tutte le scienze e le arti [ . . . ] soltanto allora regnerà fra noi unità eterna. Mai più lo sguardo sprezzante, non più il tremito cieco del popolo al cospetto dei saggi e dei sacerdoti. Soltanto al­ lora ci spetterà una identica educazione. Ogni capacità, sia del singolo sia di tutti gli individui [ .. ] verrà repressa e regnerà ovunque libertà e uguaglian­ za tra gli individui. Uno spirito superiore inviato dal cielo dovrà fondare fra di noi questa nuova religione e questa sarà l'ultima suprema opera dell'u­ manità (cit. in Frank, Kurz, 1 9 7 5 , pp. r r o-2 ) . .

15 .2

L'opera d' arte dell' avvenire Tra le pieghe degli scritti sulle arti tra fine Settecento e inizio Otto­ cento non sono mancati gli appelli generici alla fusione delle arti. Chi ha studiato le fonti del pensiero wagneriano rispetto al tema del rap­ porto tra le arti (Nattiez, [ 1 990] 1 997, pp. 1 3 0 r ) ne ha compilato una lista che annovera Schiller, Hoffmann, Tieck, Schelling e Herder. -

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Questi appelli sono tutti nel segno della nostalgia per una totalità ori­ ginaria, manifestata nel dramma antico, una nostalgia inscritta nel co­ dice genetico stesso dell'opera in musica. Essi appaiono eccentrici nel contesto filosofico e letterario dei loro stessi autori, ma si coagulano con una forza e un'efficacia inaudite nel progetto estetico e musicale wagneriano, insieme ad altri elementi che fanno da catalizzatori, quali il mito platonico dell'androgino e la filosofia di Feuerbach. Sotto il profilo di una storia del concetto di opera d'arte musicale è interessante rilevare come Wagner prenda le mosse dall'unità origi­ naria tra le arti nella tragedia antica, per approdare all'idea di una fusione di carattere erotico tra musica e poesia in Oper und Drama. Il concetto di opera d'arte totale risulta così radicato in una prospettiva storico-filosofica (non va sottovalutato il fatto che nel 1 949 Wagner avesse letto le Vorlesungen iiber die Philosophie der Geschichte di He­ gel) nella quale la civiltà greca assolve la funzione di origine e al con­ tempo di punto di riferimento esemplare per l'epoca attuale (Wagner, [ r 85o] 1 9 8 3 , pp. r 3 r - 2 ) . Negli scritti compresi tra il r 84o e il r 85 r Wagner indaga da molteplici punti di vista il processo di decadenza che si snoda tra l'origine e l'avvenire dell'opera d'arte, di cui egli si ritiene, implicitamente, profeta e realizzatore. In Die Kunst und die Revolution e in Das Kunstwerk der Zukun/t 1' attenzione è rivolta so­ prattutto al processo di disgregazione dell'unità delle arti nella trage­ dia greca, parallelo alla separazione dell'uomo dall'unità e dall'armo­ nia della natura. In Oper un d Drama, invece, è la storia dell'opera come momento di falsa collaborazione tra le arti ad essere al centro della trattazione. Già in Die Kunst und die Revolution, ma soprattutto in Das Kunst­ werk der Zukun/t, la definizione di un modello di opera d'arte totale comporta un'enfatizzazione del concetto di opera d'arte di una porta­ ta assai maggiore di quello operato dai romantici. In Schiller, Hoff­ mann, Tieck, Schelling e Herder la prospettiva di una fusione fra le arti era vista come un traguardo che si intravedeva al di là della situa­ zione presente, un ideale evocato, auspicato, ma tutt'altro che radica­ to in una precisa situazione storica; per Wagner esso rappresenta, in­ vece, l'unica alternativa storica non soltanto possibile, ma anche ne­ cessaria tanto dal punto di vista delle esigenze dell'arte quanto da quello delle esigenze umane. In Das Kunstwerk der Zukun/t Wagner definisce in due mosse la necessità che determina tanto il cammino storico dell'uomo quanto quello dell'arte: nell'osservazione della ne­ cessità naturale l'uomo si svincolerebbe dalle leggi arbitrarie dello Stato e dalle particolarità nazionali e religiose, raggiungendo l'a utenti­ ca libertà e realizzando la vera natura umana; l'arte, dal canto suo,

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seguendo le leggi della natura si affrancherebbe dalle leggi della moda che la riducono a merce e ne minano l'autentico potenziale estetico (ivi, pp. r oo- r ) . L'opera d'arte totale non è dunque soltanto la meta finale della poetica di Wagner compositore e poeta, ma l'ap­ prodo inevitabile e autentico del processo storico . La categoria di ne­ cessità risulta così assai potente in quanto incardinata in due catego­ rie superiori e fondanti: quella di natura e quella di storia. L'opera d'arte dell'avvenire è chiamata a ripristinare ad un livello superiore, ossia universale, un'unità originaria che ha conosciuto nella civiltà greca una realizzazione storica parziale, in quanto limitata ad un con­ testo particolare, nazionale ed etnico. L'appello alla necessità rivolu­ ziona radicalmente il concetto di opera d'arte e con essa quello del suo creatore; esso dota artista e opera d'arte di un singolare carisma storico-filosofico: l'artista compie l'impresa, ossia l'opera, per cui è scoccata l'ora e secondo una necessità garantita ancora una volta dal luminoso esempio degli Elleni: Che l'arte non è un prodotto artificiale, che il bisogno dell'arte non è stato creato arbitrariamente, ma che è proprio, fin dall'origine, dell'uomo naturale, vero e non ancora degenerato, chi ce lo prova meglio di quegli stessi popoli? [ . . ] Davanti a quale manifestazione artistica abbiamo una sensazione netta e umiliante dell'incapacità della nostra cultura frivola, più che davanti all'arte degli ellenici? (ivi, pp. 1 3 2 · 3 ) . .

Dunque, secondo Wagner, vt è opera d'arte solo quando l a scelta dell'artista è necessaria: L'artista, nessuno può negarlo, non procede direttamente: la sua creazione, inoltre, è mediatrice, eclettica, arbitraria; ma proprio là dove è mediatore ed eclettico, quel che egli compie non è ancora opera d'arte. [. .. ] Invece là dove la scelta è già stata fatta, dove questa scelta fu necessaria e fu scelto quello che era necessario - e in tale situazione l'artista s'è trovato dinanzi al sogget­ to come l'uomo perfetto dinanzi alla natura -, là solo l'opera d'arte aderisce alla vita, è essa stessa una realtà che si autodetermina, è qualcosa di imme­ diato. La vera opera d'arte [... ] costituisce la redenzione dell'artista, la spari­ zione delle ultime tracce della volontà creatrice, la certezza evidente di ciò che fino allora non era che immaginazione, la liberazione del pensiero nell'a­ zione sensibile, l'appagamento del bisogno di vivere nella vita (ivi, p. 1 0 3 , corsivo nostro) . Per la prima volta il valore dell'opera d'arte appare radicato in una dimensione storica e al contempo metafisica che Wagner preferisce chiamare religiosa: «L'opera d'arte è la rappresentazione vivente della

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religione; ma la religione non l'inventa l'artista: essa deve le sue origi­ ni al popolo» (ivi, p. 1 3 3 ) e ancora «Solo quando la regnante religione dell'egoismo sarà cacciata ed estirpata senza pietà perché rea di aver frantumato l'arte integrale in tante scuole, in tante correnti egoiste e meschine, la nuova religione farà il suo spontaneo ingresso nella vita e sarà la più valida conferma dell'opera d'arte dell'avvenire» (ivi, p. 2 3 7 ) . Sia in Die Kunst un d die Revolution sia in Das Kunstwerk der Zukun/t l'unità della tragedia equivale, dunque, all'unità tra uomo e natura, tra divinità, popolo, poeta e teatro. All'enfatizzazione del concetto di opera corrisponde un'analoga enfatizzazione della figura del creatore. Wagner modifica infatti la ti­ pologia del " genio romantico" , esemplarmente compendiato da Scho­ penhauer nel paragrafo 36 di Die Welt als Wille und Vorstellung, in­ troducendo l'idea dell'artista interprete della collettività. Secondo i presupposti di Das Kunstwerk der Zukun/t, la grande opera d'arte to­ tale non può essere che il risultato dell'azione collettiva degli uomini dell'avvenire, così come, secondo Wagner, la tragedia greca non era che creazione di tutto quanto il popolo. Nel presente però «Il deside­ rio sente di non poter essere appagato che nella comunità: rinuncia però alla comunità moderna, aggregato d'egoismi arbitrari, per soddi­ sfarsi nella solitaria comunità di se stesso con l'umanità dell'avvenire, per quanto, naturalmente, può fare un solitario» (ivi, pp. 1 2 8- 9 ) . L'i­ solamento dell'artista è una condizione temporanea, causata dalla po­ vertà dei tempi: «L'impresa gloriosa che rese un uomo isolato come Shakespeare un uomo universale, un dio, non è diversa dall'impresa di un altro isolato, Beethoven, che scoprì il linguaggio dell'uomo arti­ sta dell'avvenire» (ivi, p. 2 1 4 ) . Uno dei fili della complessa trama alle­ gorica dei Meistersinger - val la pena di ricordare - sarà proprio un'ulteriore riflessione sui rapporti tra l'artista e la comunità. L'idea di opera d'arte totale comporta anche una ridefinizione dello statuto d'autore dell'opera in musica, uno statuto controverso in quanto questo genere implica la concorrenza di più " creatori" o "autori " . Per Wagner la questione è soprattutto teorica; fin dalle sue prime opere, infatti, egli si assunse il ruolo di poeta e compositore. In Das Kunstwerk der Zukun/t la prospettiva è ancora utopica; sol­ tanto quando i due Prometei, ossia Shakespeare e Beethoven, «si da­ ranno la mano, quando le creature che Fidia scolpì nel marmo si muoveranno in carne ed ossa [ . . ] solo allora, in compagnia di tutti i suoi compagni d'arte, anche il poeta troverà la redenzione» (ivi, p. 2 1 5 ) . Nell'ultima parte di Oper und Drama la questione è posta in termini più concreti; immaginare il poeta e il musicista come due persone distinte o riunite in una sola persona significa infatti ripro.

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porre da un altro punto di vista la questione della gerarchia tra i li­ velli dell'opera: l'idea di rendere possibile il dramma perfetto in comune attualmente non potrebbe venire in mente a due persone dal momento che, nell'istante in cui manifestassero questa idea davanti al pubblico, sarebbero obbligate tutte e due ad ammettere necessariamente e francamente l'impossibilità di questa realizzazione e di conseguenza questa ammissione ucciderebbe la loro impre­ sa sul nascere. Solo un individuo isolato è capace, nel suo intimo impulso, di trasformare in lui l'amarezza di questa ammissione in un godimento ine­ briante che lo sollecita, con il coraggio dell'ebbrezza, a intraprendere la rea­ lizzazione dell'impossibile; in quanto lui solo è sospinto da due forze artisti­ che alle quali non può resistere, e dalle quali si lascia condurre volentieri al sacrificio di se stesso» (Wagner, [ r 85 2 ] r 894, pp. 224- 5 ) . L'ideale d i opera d'arte totale comporta, come s i è visto, u n potenzia­ mento del concetto di opera e un'apparente messa in scacco delle se­ colari controversie intorno al teatro musicale, volte a mettere in dub­ bio il suo statuto di opera, svalutandolo a spettacolo, ossia evento ef­ fimero e caduco, privo di quella sostanzialità che sembrava fondare l'opera letteraria ancor più di quella musicale. La questione della ge­ rarchia dei livelli testuali, tuttavia, non risulta affatto liquidata negli scritti teorici wagneriani, nonostante sia tenuta sotto controllo e al si­ curo intra moenia. Il problema della definizione del rapporto tra le arti, e in particolare tra musica e poesia, persiste in tutta la specula­ zione teorica di Wagner, parallela alle diverse declinazioni che assu­ me nella produzione operistica vera e propria. Essa è stata oggetto di controverse analisi critiche che non si possono qui riassumere (cfr. in particolare Stein, r 9 6o; Glass, r 9 8 r ) , ripercorse e discusse da Nattiez sotto la felice definizione di «querelle degli intrecci» (Nattiez, [ 1 990] 1997, pp. ro5 - 9 6 ) : «gli esegeti della relazione poesia-musica in Wa­ gner si dividono in tre famiglie: quelli [sic] per cui Wagner ha sem­ pre dato la preminenza alla musica anche quando diceva il contrario; quelli [sic] per cui il vero Wagner è in Opera e dramma [Glass] ; quelli, infine, che ammettono l'esistenza, in tutto il corso della carrie­ ra di Wagner di cambiamenti di punti di vista [Stein; Dahlhaus] » (i vi, p. r 87 ) . Nattiez si annovera nella terza categoria convinto tutta­ via, e a ragione, di essere in grado di introdurre elementi nuovi nel dibattito. La novità consiste appunto nella scoperta della natura an­ drogina della relazione tra il poeta e la musica e nel riportare le di­ verse posizioni gerarchiche tra musica e poesia a un ripensamento profondo della natura dei rapporti tra il maschile e il femminile (ivi,

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pp. 1 9 2 - 3 ) . Rilevanti per la storia del concetto di opera non sono tut­ tavia le declinazioni del rapporto poesia-musica negli scritti teorici wagneriani, quanto la natura metaforica del discorso che all'interno della categoria "opera" riserva una zona flessibile di natura non argo­ mentativa. Questa zona ha estensioni e articolazioni diverse anche al­ l'interno dei saggi stesi tra il 1 849 e il 1 85 1 . Das Kunstwerk der Zu­ kun/t si muove ancora nell'ottica della sorellanza delle arti e le meta­ fore scelte da Wagner ricordano marmorei bassorilievi neoclassici: Danza, musica e poesia: ecco le tre sorelle che sbocciarono insieme quando si furono verificate le condizioni necessarie al loro apparire. Per loro natura esse non possono essere separate senza che sia distrutto il cerchio dell'arte, perché nel cerchio, che è il movimento dell'arte medesima sono legate tra loro in un'unione materiale e morale così mirabilmente solida e feconda, che ciascuna di esse, fuori dal cerchio, priva di vita e di movimento, non può che vivere una vita infusa artificialmente, fittizia, che non detta leggi piacevo­ li, come la loro trinità, ma subisce regole tiranniche per i suoi movimenti meccanici. Se consideriamo la splendida danza delle muse più nobili e vere dell'uomo-artista, vediamo subito tutte e tre le sorelle tenersi teneramente awinte; il braccio dell'una cinge il collo delle altre. Poi sia l'una che l'altra, sole, come per mostrarsi a vicenda la bellezza del proprio corpo in piena libertà, si staccano dall'abbraccio; l'una tocca appena le punte delle dita del­ la mano dell'altra. Le altre due allora, prese dal fascino della terza, la saluta­ no e le rendono omaggio per unirsi infine tutte e tre abbracciate, seno con­ tro seno, corpo a corpo in un ardente bacio d'amore, in una sola forma di vita voluttuosa. Ecco l'amore e la vita, la gioia e la seduzione dell'arte che è sempre se stessa e sempre diversa, che si divide all'infinito per riunirsi nella beatitudine (Wagner, [ r 85o] 1 9 8 3 , pp. 142 - 3 ) .

All'insinuante erotismo d i questa metafora fa d a contraltare l a pretesa giustificazione etimologica della trinità delle arti esposta in un altro passo e ripresa in forma allegorica nel nome delle tre figlie del Reno: «Se la moda o l'uso ci consentissero di tornare alla vera e autentica maniera di scrivere e di pronunciare tichten invece di dichten negli appellativi riuniti delle tre arti umane primigenie, Tanz-kunst, Ton­ kunst e Ticht-kunst, troveremmo uno splendido gruppo dal significato sorprendente: le tre sorelle riunite in una trinità, cioè in un'allittera­ zione perfetta, proprio come si manifestò all'origine particolare della nostra lingua» (ivi, pp. 2 0 1 - 2 ; cfr. anche Nattiez, [ 1 990] 1 9 97, pp. 62-8; Kneif, 1 969, pp. 2 9 8 - 3 04 ) . A questa altezza cronologica molte idee herderiane fanno da catalizzatore al progetto di opera d'arte to­ tale. W agner possedeva un volume di scritti scelti di Herder nella sua biblioteca di Dresda (Nattiez, [ 1 990] 1 9 97, p. 145 ; Oesterlein, 1 970)

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e nel tratteggiare la metafora della trinità delle arti sente ancora il bisogno di ancorarla ai principi dell'antropologia herderiana, pur rivi­ sitati in chiave personale: «Ogni facoltà umana è limitata, ma tali fa­ coltà riunite, in accordo tra loro, si soccorrono a vicenda; in altri ter­ mini, le facoltà umane, amandosi reciprocamente costituiscono la fa­ coltà universale umana che è senza limiti, che basta a se stessa. Pari­ menti tutte le facoltà artistiche dell'uomo hanno i loro limiti naturali perché l'uomo non ha un senso solo, ma dei sensi in generale. Ogni facoltà deriva solo da un determinato senso e ha i propri limiti nel senso che le dà origine. I limiti dei sensi particolari sono anche i pun­ ti di contatto tra loro, i punti in cui si confondono e si comprendo­ no. Allo stesso modo le facoltà da loro derivate si toccano e si com­ prendono: i loro limiti si aboliscono nel loro accordo» (Wagner, [ r 85o] 1 9 8 3 , pp. 1 44-5 ) . La metafora della trinità danzante delle arti descrive dunque una situazione di equilibrio all'interno dell'opera, equilibrio amoroso che corrisponde a quello delle facoltà umane. Questa situazione di quiete risulta però dal moto di un atto creativo che risulta essere "necessa­ rio" all'interno dell'ottica storico-filosofica dell'autore. Necessità crea­ tiva e «intenzione del dramma» sono le due nozioni attraverso le qua­ li Wagner descrive intenzione dell'autore e intenzione dell'opera come fondazione unitaria dell'opera d'arte totale nelle ultime pagine di Das Kunstwerk der Zukun/t. Ecco i passi cruciali: Così, completandosi reciprocamente nel loro giro alternato, le arti sorelle si metteranno in evidenza ora tutte insieme, ora a due a due, ora isolatamente, secondo la necessità dell'azione drammatica che è unica legge e misura. Ora la pantomima plastica ascolta la logica non appassionata del pensiero, ora la volontà del pensiero si apre decisa nell'espressione immediata del gesto, ora la musica da sola esprime il volgersi dei sentimenti, il brivido dell'emozione; ogni tanto però tutt'e tre, in uno slancio comune, elevano la volontà del dramma all'atto diretto, possente. C'è infatti una cosa per i tre generi d'arte riuniti; una cosa che debbono volere per essere liberi nella loro potenza, e questa cosa è proprio il dramma. L'importante, per loro, è cogliere l'inten­ zione. Se sono consapevoli di questa intenzione, se il loro sforzo si concentra tutto nel realizzare quest'intenzione, saranno capaci di spezzare in ogni senso i resti egoistici della loro natura particolare, li poteranno via dal loro tronco, affinché l'albero informe non si sviluppi in tutte le direzioni, ma drizzi fiera­ mente verso l'alto la sua corona di rami, di virgulti e di foglie. [ . . . ] Ma se l'individuo riconosce in sé un desiderio possente, un istinto che soffoca in lui ogni altro desiderio, cioè un desiderio interiore, necessario, che costituisce la sua anima, il suo essere, se fa ogni sforzo per dar loro soddisfazione, allora 286

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innalza la sua forza, come le sue facoltà più particolari, a tutta l'intensità, a tutta l'altezza che gli è possibile raggiungere (ivi, pp. 294-7) . Nella visione utopica d i Das Kunstwerk der Zukun/t, tutte l e arti che collaborano alla realizzazione dell'opera sono coinvolte, comprese ar­ chitettura e pittura. Poiché nell'ottica di Wagner il dramma è «la massima opera d'arte comune», volta all' «esaltazione dell'uomo gene­ rale nell'arte», anche il fine delle arti figurative deve convergere inevi­ tabilmente in esso. Questo disegno complessivo e totalizzante, però, in realtà è il frutto dell'attenzione al momento della realizzazione del­ l' opera: «Ma il poeta non diventa realmente uomo se non passa attra­ verso la carne e il sangue dell'attore; se in ogni manifestazione arti­ stica la sua intenzione è unire le tre arti insieme e volgerle ad un fine comune, quest'intenzione si realizza soltanto perché la volontà poetica sparisce nel potere dell'interpretazione» (ivi, pp. 2 92 - 3 ) . Nell'estrema coerenza dell'ideale di opera d'arte dell'avvenire si cela la volontà di controllo da parte dell'autore sulla realizzazione dell'opera. Nell'Ot­ tocento, a partire pressappoco da Beethoven (Goehr, 1 99 2 ) , si osser­ va una progressiva separazione fisica e temporale tra compositore ed esecutore resa possibile dalla condivisione del principio di intangibili­ tà del testo musicale stampato e licenziato dall'autore. L'attenzione per le condizioni migliori per l'esecuzione musicale manifestate da Wagner a livello teorico e pratico, culminata nel monumentale pro­ getto di Bayreuth, documentano un estremo potenziamento della no­ zione di Werktreue che investe e garantisce la sua efficacia sociale e culturale. Proprio nella concezione wagneriana la fedeltà è dovuta in­ nanzitutto all'opera, intesa come missione artistica, sociale, umana e religiosa, e non soltanto al testo come partitura depositaria dell'inten­ zione dell'autore . Da questo snodo teorico in poi, Wagner non tratte­ rà più il problema delle corrette condizioni della rappresentazione, e con esse le arti figurative, all'interno del discorso sull'equilibrio delle arti. Esse troveranno continuazione in altri scritti - il più importante dei quali, Schauspieler und Siinger, è del r 872 - redatti ormai nel vor­ tice del progetto bayreuthiano. In Oper un d Drama la danza viene assorbita dal ritmo dell' orche­ stra e la metafora della trinità delle arti viene sostituita da una meta­ fora sessuale in cui musica e poesia assumono la funzione del ma­ schile e del femminile. Il passo in cui Wagner enuncia l'equivalenza tra maschile e poesia, musica e femminile, è notissimo: Ciò che in questa attività della poesia eccita necessariamente l'intelligenza poetica è l'amore - e precisamente l'amore che l'uomo sente per la donna:

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ma non è quell'amore frivolo, sensuale e lascivo, col quale l'uomo non cerca che di soddisfare sé medesimo con un godimento sensuale, sebbene è il pro­ fondo, l'intenso desiderio di sapersi redento dal suo egoismo nella felicità condivisa dalla donna che ama; e questo desiderio intenso è il momento in cui l'intelligenza poetica è attiva. Ciò che deve necessariamente trasmettersi da sé è il seme il quale, raccolte le sue più nobili forze, non si condensa che nel momento della più ardente eccitazione d'amore; il seme che non si pro­ duce nell'uomo se non per il bisogno che egli ha di comunicarlo come cosa propria, cioè collo scopo della fecondazione, la quale anzi non è in sé che questo bisogno medesimo come chi dicesse materializzato. Or questo seme -

generatore è l'intento del poeta, che alla donna felice di amare, alla musica adduce la materia atta alla procreazione (Wagner, [ r 852] r 894, n, pp.

69-70) . La metafora sessuale riconduce il progetto di opera d' arte totale ai termini in cui era tradizionalmente impostata la questione intorno al­ l' opera in musica, ossia al confronto tra le due arti maggiori, poesia e musica; essa offre però l'opportunità di neutralizzare l'opposizione tra i due generi e di ripensare l'opposizione in termini di sintesi funzio­ nali grazie alla metafora androgina, modula bile, fra l'altro, secondo diverse gerarchie interne: a predominanza maschile o femminile. Sol­ tanto per mezzo di questo modello metaforico si può pensare il dramma musicale come opera in senso forte e sottrarlo così alle osti­ nate polemiche intorno alla sua legittimità. In Capriccio, ironico e sofisticato epicedio in memoria dell'opera in musica intonato dall'ultimo Strauss, la questione è posta in termini affatto analoghi, anche se le metafore sono confezionate a misura borghese. Due giovanotti, il poeta Olivier e il compositore Flamand, incarnano poesia e musica e si contendono i favori della contessa (l'intenzione del dramma? ) . Ebbene nell'ultima scena, dopo un incan­ tevole intermezzo di silenzio sonoro, la contessa si trova di fronte alla scelta tra i due spasimanti per stabilire così il finale dell'opera: «Ed io? Lo scioglimento . . . Dovrei sceglierlo, deciderlo, disporlo? È la pa­ rola che commuove il cuore o la musica che con più vigore parla? [. .. ] Ozioso tentar di divederli in due. In uno fusi son musica e versi in una entità nuova. Mistero dell'ora. L'arte un'altra arte riscattò ! » (Strauss, Krauss, [ 1 942] 2 002 , p. 1 43 ) . La morale della pièce - non esiste u n finale che non sia banale riconduce l'opera ad un'illusione amaramente distaccata dalla vita. Nell'arte, parole e suoni si uniscono in un'unità originale e superiore; nella vita «Se scegli l'uno, tu perdi l'altro ! Ché sempre si perde quan­ do s'acquista» (ibid. ) . La missione dell'opera d'arte totale annunciata da Wagner è giunta ad un melanconico ed autoironico tramonto. 288

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15·3

Opera e sinestesia Nel corso dell'Ottocento si snoda un filo sotterraneo che unisce i romantici ai prodromi della modernità: quello della sinestesia. Que­ sto fenomeno è interpretabile da entrambi i lati della linea sottile che separa la fruizione estetica da percezioni alterate e patologiche. Tra le prime riflessioni sui fenomeni sinestetici si leggono alcuni passi herderiani dall'Abhandlung iiber den Ursprung der Sprache che riporta i casi riscontrati di doppia percezione a situazioni bizzarre che fanno uscire da se stessi, a malattie della fantasia o a situazioni straordinarie (Herder, [ r 77 2 ] 1 9 95 , p. 8Ù Descrizioni di fenomeni sinestetici fanno parte inoltre della retorica visionaria di Wackenro­ der, della poesia di Novalis e di Eichendorff, della sensibilità so­ vreccitata al limite del patologico del compositore Johannes Kreisler descritto da Hoffmann che sfoceranno nelle corrispondenze miste­ riose, ingrediente immancabile della poesia simbolista da Rimbaud, Baudelaire, Mallarmé e Huysman . Mentre le percezioni sinestetiche diventano moneta corrente nella poesia e ben presto anche nella musica, anche la scienza si interessa ai fenomeni di audition colorée (Serravezza, I 9 96, pp. 2 2 -4) . Rilevante per la storia del concetto di opera è la circostanza che la sensibilità sin estetica di alcuni artisti nei primi decenni del N ave­ cento apre la strada ad una ricezione produttiva della nozione wa­ gneriana di opera d' arte totale. Il progetto di possibili sintesi tra le arti diventa un orizzonte comune tanto alle arti figurative e al teatro quanto alla musica (il regista, scrittore e promotore del teatro espressionista Hugo Ball, gli architetti Peter Behrens e Georg Fuchs, il pittore Vasilij Kandinskij sono i nomi citati in Kropfinger, I 99 5 , vasto studio sulla ricezione dell' estetica wagneriana nelle arti figurative; cfr. inoltre gli innovativi esperimenti di partiture teatrali di Lothar Schreyer commentati in Gunther, 1 994, pp. 1 7 5 -85 e le considerazioni su sinestesia e multimedialità in Cook, I 998, pp. 24-5 6 ) . Questo interesse per la fusione dell'arte travalica di gran lunga la moda per i cosiddetti fotismi (ossia immagini visive suscita­ te da un brano musicale) usciti dal pennello di Walter Behm e Hu­ go Meier Thur (Welleck, 1 9 6 3 , pp. r 66-8o) . L'emancipazione della dissonanza in musica e l' abbandono dell'oggettività nelle arti figura­ tive tra il r 9 I o e il I 9 I 5 segnano una svolta che lascia presagire una futura integrazione tra musica e pittura. In musica, in particolare, si riaccende la speranza di far cadere l'ultima barriera che ostacola la libertà creativa: quella della distinzione tra le arti. I fenomeni sine-

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stetici las ciano presagire un livello profondo della creazione artistica in cui le distinzioni sensoriali risultano neutralizzate. È indubbio che alle spalle di molti esperimenti di fusione tra le arti agiscano convinzioni teosofiche diffuse in Europa alla svolta di secolo. La scoperta delle misteriose corrispondenze tra i sensi sembra infatti accordarsi in maniera sorprendente alle ricerche teosofiche volte a svelare e risvegliare capacità latenti nell'uomo. Nel I 9 I O Skrjabin realizzò una partitura innovativa per Prométhée. Le Poème du /eu, op. 6o. Essa comprende infatti una parte scritta in notazione musi­ cale per un clavecin à lumière, uno strumento ideato da Alexander Mozer che lasciò comunque insoddisfatto il compositore (Collisani, I 97 7 , pp. 5 8- 9 ) . L'unione di luce e suono ha come obiettivo il di­ svelamento della sostanza simbolica e teosofica del poema sinfonico dedicato alla figura mitologica di Prometeo. Negli ultimi anni della sua vita Skrjabin lavorò ad un ultimo progetto, Mysterium, inteso alla realizzazione di un'opera d'arte superiore ( Uberkunstwerk) in cui avrebbero dovuto convergere suoni, colori, profumi e danza. N egli stessi anni l'almanacco " Der blaue Reiter" , uscito nel I 9 I 2, e l'epistolario Schonberg-Kandinskij testimoniano un periodo di fer­ menti in cui musica e pittura di scambiano reciproche sollecitazioni. Pochi anni dopo, tra il I 9 I 8 e il I 9 I 9 , il compositore austriaco Jo­ sef Hauer, ispirato dal pittore Johannes Itten, intraprese un idiosin­ cratico cammino alla ricerca di corrispondenze simboliche tra inter­ valli e colori, animato dal sogno di trovare la chiave musicale per leggere la teoria dei colori di Goethe (Garda, I 9 99; 2ooz b ) . L'ideale wagneriano d i opera d'arte totale agisce nel clima cultu­ rale del primo Novecento come catalizzatore di esperimenti estetici volti a saggiare possibilità concrete di fusione tra le arti rese concepi­ bili da una nuova sensibilità spirituale e psichica e dalla trasformazio­ ne dei mezzi espressivi cui si è fatto cenno sopra: l'emancipazione della dissonanza e l' abbandono dell'oggettività nelle arti figurative. Questo orientamento è documentato già in uno dei primi esperimenti volti ad ampliare le capacità sensoriali nell'ambito del timbro (in te­ desco Klang/arbe, ossia colore del suono), esperimento che lascia pre­ sagire un orizzonte nuovo della percezione e della creazione musicale nel quale la logica musicale e quella figurativa possono rivelare punti di contatto insospettati. Nel I 909 Schonberg aveva dedicato a queste ricerche il terzo dei cinque pezzi per orchestra op. I 6, intitolato Der wechselnde Akkord nella prima edizione, titolo poi mutato in Farben (Sommermorgen am See) su richiesta della casa editrice, nella successi­ va edizione del 1 920. L'idea di una Klang/arbenmelodie, ossia di una scrittura basata su una successione di timbri, trova una formulazione

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teorica nell'ultima pagina della Harmonielehre, a conclusione della ri­ cognizione dei nuovi mezzi che si aprono all'arte: Ora se è possibile produrre, servendosi di timbri diversi per altezza, dei se­ gni musicali che si chiamano melodie, vale a dire successioni di suoni che con i loro rapporti determinano la sensazione di un discorso logico, deve essere anche possibile ricavare dai timbri l'altra dimensione - da ciò che chiamiamo solo timbri, - successioni che col loro rapporto generino una lo­ gica equivalente a quella che soddisfa nella melodia costituita dalle altezze. Tutto ciò può sembrare una fantasia avveniristica, e forse lo è: ma credo fer­ mamente si realizzerà, che essa è in grado di accrescere enormemente i godi­ menti dei sensi, della mente e dello spirito offerti dall'arte, che essa si avvici­ nerà all'oggetto dei nostri sogni, che amplierà infine i nostri rapporti con ciò che oggi ci pare inanimato. Questo ci sarà possibile, ridando vita con la no­ stra stessa vita a ciò che ora è per noi momentaneamente morto, solo perché troppo debole è il vincolo che ad esso ci lega. Melodie di timbri ! Quali sa­ ranno mai i sensi raffinati capaci di percepire queste differenze, quale lo spi­ rito tanto evoluto da trovar piacere in una materia così raffinata? E chi ardi­ rà mai di pretender qui una teoria! (Schi:inberg, [ r 9 r r ] 1 9 84, pp. 5 2 8-9). Nella prefazione a Der gelbe Klang, scritto tra il I 9 I I e il I 9 I 2 e pubblicato nell'almanacco " Der blaue Reiter" , Kandinskij presentava a sua volta come una rivoluzione il passaggio da una concezione este­ riore dell'opera, alla quale sarebbe stato legato lo stesso Wagner, ad una concezione interiore. La necessità interiore (un concetto di evi­ dente paternità wagneriana) diventa per Kandinskij l'unica fonte del­ l' arte. Sul terreno dell'interiorità, afferma il pittore, la situazione muta radicalmente, perché «s compare di colpo l'aspetto esteriore di ogni elemento», si affermano «la risonanza interiore» e «l'unità interiore» che addirittura viene formata dalla «non-unità esteriore»; in questo caso - concludeva l'artista - il dramma consiste in definitiva «nel complesso delle esperienze interiori (vibrazioni dell'anima) dello spet­ tatore» (Schonberg, Kandinskij, [ I 98o] 1 9 8 8 , pp. I I I , r r 5 - 6 ) . L'ope­ ra d'arte risulta così spiritualizzata e individuata in una sorta di con­ cretizzazione psichi ca nella mente dell'ascoltatore. In una lettera rela­ tiva ad un'ipotetica realizzazione cinematografica del dramma Die gliickliche Hand, Schonberg manifesta una convinzione analoga a quella di Kandinskij ; la fusione delle arti sembra risultare da uno sta­ to sinestetico generale dello spettatore, più che da una reale sintesi dei materiali: li mio più grande desiderio è esattamente il contrario di ciò a cui normal­ mente tende il cinema. lo voglio la massima irrealtà. L'effetto generale non

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deve essere quello di un sogno, ma qualcosa di simile agli accordi, alla musi­ ca. L'effetto generale non deve suggerire simboli, significati o pensieri, ma soltanto un gioco fantasmagorico di colori e di forme. La musica, almeno nella sua forma esteriore, non veicola mai un significato, benché per sua na­ tura lo abbia; dunque questo spettacolo deve risuonare soltanto per l'occhio e, in ogni spettatore, dovrebbero nascere pensieri e sensazioni simili a quelli che si hanno ascoltando la musica (ivi, p. I Oo) . Anche per Schonberg, almeno nella fase creativa da cui scaturis cono Erwartung e Die gliickliche Han d, l'opera trova la sua realizzazione più propria nella «visione sonora», ossia nella riuscita concretizzazio­ ne attraverso la stimolazione incrociata dei sensi dello spettatore, resa possibile da un accurato impiego di tutti mezzi (sonori, visivi e ge­ stuali) , controllati da un unico autore. Nelle note di regia stese per il sovrintendente della Kroll-Oper di Berlino relative alla messa in sce­ na di Die gliickliche Hand, il compositore si dilunga su dettagli del­ l' allestimento scenico e sottolinea l'equiparazione di elementi sonori e visivi che stanno alla base del suo teatro: «Nelle mie opere luoghi e cose recitano anch'essi, e perciò bisogna poterli distinguere chiara­ mente, al pari delle altezze dei suoni» (ivi, p. 9 8 ) .

1 5 -4

Assimilazione e convergenza delle arti Per Adorno, contemporaneo e postero di Schonberg, i tentativi di far convergere musica e pittura praticati da Schonberg, Kandinskij , Skrjabin e in generale tutti gli innumerevoli vezzi riconducibili a cor­ rispondenze tra le due arti così consueti nelle arti figurative degli anni dieci-venti (soprattutto - va ricordato - nelle allusioni musicali contenute nei titoli di autori come Kandinskij , Kupka, van Doesburg, Mondrian, Giacometti, Stella, Mare, Delaunay; cfr. Kropfinger, 1 999) sono, in fondo, delle piccole imposture o tutt'al più abili giochi di prestigio: L'aspetto problematico della sinestesia è rappresentato dalla mancanza di concretezza e cade sotto il verdetto di Loos. Chi la erige a principio finisce per dire una seconda volta ciò che è già stato detto, coniugando media di­ versi e sfruttando analogie discutibili tra alcuni dei loro fenomeni [ . . . ] . Tut­ tavia la "musica di suoni e colori" , superflua e settaria, comunicò un' espe­ rienza genuinamente nuova in forma distorta, come spesso avviene in tentati­ vi apocrifi. Anche il programma schonberghiano della melodia di timbri [Klangfarbenmelodie] , sulla cui autenticità non vi sono dubbi, non è del tut-

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to scevra da quell'elemento apocrifo. Il rapporto immanente tra un medium e l'altro è separato da un'unione sincretistica nello stile del Prometeo di Skrjabin mediante un confine che si confonde a posteriori, come awenne per quello tra Jugendstil ed espressionismo. L'opera d'arte totale vagheggiata da Wagner e i suoi derivati rappresentavano il sogno di quella convergenza come utopia astratta, prima che i media stessi lo permettessero. Il progetto naufragò perché i media si mescolarono, anziché convertirsi uno nell'altro in un passaggio attraverso i loro estremi (Adorno, [ r 965 ] 20o4c, pp. 3 09-ro). Il verdetto adorniano nei confronti dei progetti di Schi::i n berg e Kan­ dinskij appare parziale alla luce di una più recente disamina critica. Gli analoghi procedimenti costruttivi messi in atto dai due artisti se­ gnalano proprio il tentativo di far convergere le due arti convertendo­ ne gli estremi. Nel periodo della cosiddetta "libera atonalità" Schi::in ­ berg avrebbe sperimentato la contrazione del tempo musicale attra­ verso la differenziazione timbrica. A questo procedimento avrebbe fatto da pendant l'irruzione del tempo in pittura (Kropfinger, 1 999, p. 84) . Il punto di Adorno, tuttavia, non è la critica alle illusioni sine­ stetiche del primo Novecento quanto la teorizzazione di progetti este­ tici mirati alla neutralizzazione dei confini tra le arti scaturiti tra gli anni cinquanta e sessanta nell'ambito del movimento dell'arte infor­ male (Borio, 1 993 , pp. 77-9 ! ) . L'idea dominante del filosofo è di co­ gliere il movimento attraverso il quale le arti tendono a convergere senza abdicare al «proprio principio immanente», ossia senza trasfor­ marsi nell'altro medium per pseudomorfosi, ma rovesciando dialetti­ camente il principio che le informa. Soltanto così la natura temporale della musica consente a quest'arte di consolidarsi in un oggetto stabi­ le e al tempo di spazializzarsi in una forma; viceversa la riuscita di un quadro si misura nella temporalità che riesce a coagularsi in esso. «Nella loro contrapposizione le arti si compenetrano a vicenda» (Adorno, [ 1 9 65] 2004c, p. 3 02 ) . Vi è un altro cruciale punto di con­ vergenza tra musica e pittura. Esse si incontrano, secondo Adorno, in un terzo ambito: quello del linguaggio. Questo termine conduce ad uno dei momenti più tesi dell'estetica adorniana, sviluppata a partire dallo spunto benjaminiano di lingue «innominali, inacustiche, lingue del materiale» e apparentato al termine scrittura écriture. Musica e pittura, ma in Asthetische Theorie saranno comprese anche le arti del­ la parola (Adorno, [ 1 970] 1 975 , pp. 1 79-8o), si configurano in opere proprio attraverso la dialettica di costruzione ed espressione, dove il primo termine comporta la negazione del processo di significazione e il secondo di quello di soggettività. La costellazione di concetti di cui si compone l'opera d'arte nell'estetica adorniana (ivi, pp. 250-82) 293

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comporta l'abrasione del plurale nella concezione dell'arte. Esistono media diversi, ma l'opera d'arte, indipendentemente dai mezzi co­ struttivi, si rivela unica e del tutto smaterializzata. Enigma, tour de force, écriture, trascendenza interrotta sono ossimori che manifestano la tensione estrema a cui è sottoposto il concetto di opera d'arte in Adorno, reso possibile anche dal ripensamento della nozione post­ wagneriana di sintesi delle arti in una concezione dialettica di conver­ sione attraverso gli estremi.

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Le teorie dell'opera d'arte musicale nel Novecento di Michela Garda

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Pratica musicale e teoria estetica Vi è un'innegabile incongruenza tra l'impiego consapevole del con­ cetto di opera d'arte musicale nei discorsi intorno alla musica e la diffidenza con cui lo affronta l'estetica filosofica. Nel mondo occiden­ tale coesistono due modi di concepire la musica non sempre attestati nella riflessione filosofica: come testo scritto e come pratica sonora. Il primo è un prodotto stabile che si può conservare e tramandare gra­ zie alla notazione; la seconda dà luogo a eventi effimeri. La pratica esecutiva o esiste in funzione della riproduzione di un'opera stabile, e in questo caso è un'attività secondaria rispetto a quella della creazio­ ne, oppure si muove in un ambito che non è quello artistico. È vero che nel pensiero romantico il concetto di opera musicale è enfatizza­ to, soprattutto in Hoffmann, in quanto la concezione metafisica del­ l' arte (e della musica in particolare) contribuisce a mettere in secondo piano il carattere di cosa, di prodotto stabile e permanente che fin dall'antichità era considerato proprietà distintiva dell'arte e dell'arti­ gianato. Nell'estetica hegeliana, tuttavia, il concetto di opera musicale è notevolmente indebolito su due versanti: quello della stabilità og­ gettiva dell'opera e quello del significato. La fugacità del suono sotto­ lineata da Hegel comporta l'interiorizzazione immediata delle impres­ sioni, aspetto che descrive il lato formale dell'arte dei suoni; all'in­ stabilità del suono fa riscontro una ben più profonda debolezza che risiede nell'impossibilità di dare luogo a rappresentazioni spirituali (Hegel, [ r 8 3 6 - 3 8 ] 1 97 2 , pp. 992-5 ) . Nondimeno Hegel mette in luce per la prima volta un terzo momento che contribuisce alla definizione dell'opera d'arte musicale e che, in termini moderni, si direbbe il suo aspetto performativo: per durare essa ha bisogno «di un'esecuzione sempre ripetuta» (ivi, p. r o r 5 ) . Questa particolare natura dell'opera 295

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d'arte musicale presuppone, dunque, l'intervento di una figura media­ trice che è quella dell'esecutore. Per Hegel, il quale pensa che la mu­ sica si rivolga soltanto alla dimensione dell'interiorità e non a quella superiore dello spirito, la funzione dell'esecutore è un po' diversa da quella che oggi si riconosce all'interprete: egli è piuttosto un "vivifica­ tore" dell'opera; la sua azione, in quanto soggetto vivente, consiste nel trasferire la propria interiorità nella musica. Nell'ottica del con­ fronto tra le arti - embricato in Hegel con le tappe della storia del­ l' arte - sopravvive la riserva, propria dell'estetica moderna, nei con­ fronti di un tipo di opera d'arte che non è prodotto immediato del­ l' attività del genio, ma ha bisogno di delegare ad altri fasi di lavoro subordinato (Pudelek, 2ooo, p. 5 4 6 ) . Sebbene dal punto d i vista della definizione dell'opera d'arte mu­ sicale Hegel sembri avere sottolineato forse eccessivamente la man­ canza di una sussistenza oggettiva e duratura delle opere musicali ri­ spetto agli edifici, alle statue e ai quadri, queste osservazioni partico­ lari non devono fare perdere di vista il fatto che la nozione hegeliana di opera d'arte, come apparenza sensibile dell'idea, è in gran parte svincolata dall'idea della presenza concreta dell'artefatto/prodotto. Quantunque l'arte sia un oggetto fra gli oggetti e, nel linguaggio del­ l' estetica settecentesca, un oggetto naturale bello non differisca a tut­ ta prima da un bell'oggetto d'arte, ciò che distingue il primo, per esempio le piume variopinte degli uccelli o il loro canto, da un'opera d'arte è il riferimento al fruitore: «Ma l'opera d'arte non è per sé così naturale: è invece essenzialmente una domanda, un'apostrofe rivolta ad un cuore che vi risponde, un appello indirizzato all'animo e allo spirito» (Hegel, [ 1 8 3 6 - 3 8 ] 1 9 7 2 , p. 84). Il modello dell'opera è dun­ que la rappresentazione. L'opera è un mondo chiuso, come manife­ stazione dell'ideale, ma per quanto possa formare «un mondo in sé concordante e conchiuso, essa tuttavia, come oggetto reale, singolo, non è per sé, ma per noi, per un pubblico che guarda e gode l'opera d'arte» (ivi, p. 2 9 6 ) .

r6.2

Autore, opera, interprete nel Novecento L'enigmaticità dell'opera d'arte che si tende in un arco disteso tra do­ mini opposti e lontanissimi, quello delle nude cose e quello della ve­ rità e del senso, coglie l'orizzonte in cui si articolano le riflessioni di due eminenti allievi di Husserl intorno al concetto di opera d'arte in generale, di opera poetica e musicale in particolare: Martin Heideg-

r 6 . LE T E O R I E D E L L ' O P E R A

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ger e Roman Ingarden. Entrambi iniziarono le loro ricerche intorno a questo tema negli anni trenta per poi giungere molto più tardi ad una formulazione definitiva (Heidegger, [ ! 93 5 -36] 1 9 6 8 ; Ingarden, [ 1 95 8] 1 9 89b) . La riflessione di Heidegger sull'origine dell'opera d'arte muo­ ve proprio dalla concretezza delle opere, dal loro carattere di " cose", anzi di merce, carattere, questo, che rende possibile la loro disponibi­ lità (almeno potenziale) ovunque e per tutti. Da questo punto di vista tutte le opere si equivalgono: «Un quadro, ad esempio quello di Van Gogh che rappresenta un paio di scarpe da contadino, passa da un'e­ sposizione all'altra. Le opere sono spedite come il carbone della Ruhr e il legname della Selva Nera. Durante la guerra gli inni di Holderlin erano impacchettati negli zaini accanto agli oggetti da pulizia. I quar­ tetti di Beethoven sono disposti nei magazzini della casa editrice come le patate in cantina» (Heidegger, [ 1 93 5 - 3 6] 1 9 68, p. 5 ) . Si po­ trebbe aggiungere che ciò che nella vita economica e sociale è merce, per gli storici dell'arte, della musica e della letteratura è documento, identificabile, attribuibile, analizzabile, interpretabile, conservabile. Indubbiamente la prima domanda dell'estetica novecentesca di fronte alla massa incombente delle " cose" artistiche ha comportato un dop­ pio movimento: in primo luogo riconoscere la cosa in quanto cosa, prodotto, merce, nell'ordine degli oggetti mondani, in secondo luogo cogliere la dimensione estetica nel comune riferimento delle opere d'arte ad un senso. Heidegger ha individuato quel qualcos' altro «al di sopra e al di là della cosalità» nella messa in opera della verità e ha descritto l'opera come luogo dell"' apertura" , dello " svelamento " della verità dell'ente (cfr. CAP. 1 2 ) . L'evento avviene in una peculiare rela­ zione triangolare che per la prima volta nella storia della Werkiisthe­ tik (se si vuol trascurare il fugace accenno di Hegel al carattere di appello dell'opera) lega il creatore e il fruitore in un nesso indissolu­ bile con l'opera: «All'esser opera dell'opera appartengono coessen­ zialmente tanto coloro che la fanno quanto coloro che la salvaguarda­ no. Ma è l'opera stessa a rendere possibili coloro che la fanno e a richiedere, quanto alla sua stessa essenza, coloro che la salvaguarda­ no. Che l'arte sia l'origine dell'opera significa che essa fa sorgere nella loro essenza quelli che sono ad essa coessenziali: i facenti e i salva­ guardanti» (ivi, p. 5 5 ) . La necessità di salvaguardare l'opera o, nella terminologia di Gadamer, di interpretarla è un assunto che sembra appianare l'alterità apparente dell'opera musicale rispetto alle altre arti, la quale sola - come osservava già Hegel - avrebbe bisogno di «essere vivificata». La dimensione che trascende la cosalità dell'arte neutralizza il discorso sulla differenza tra il grado di presenza oggetti­ va e sui modi di presentarsi ai nostri sensi che si manifesta nei pro297

E S P R E SS I O I': E , FO R M A , O P E R A

dotti delle diverse arti. In realtà il tema della differenza tra le arti torna a riaffermarsi in maniera assai più insidiosa, perché ribadisce il verdetto nei confronti dell'incapacità della musica di articolare com­ piutamente un senso, ovvero di costituire un "mondo " . Per Heideg­ ger l'opera poetica ha una posizione eminente rispetto all'architettura, alla scultura e alla musica. Questo dipende dalla sua consustanzialità con il linguaggio, inteso non tanto nel senso di «interpretante uni­ versale» riconosciutogli dalla linguistica, bensì nel senso eminente di mezzo attraverso il quale la verità si rivela: «Esso non si limita a tra­ smettere in parole e frasi ciò che è già rivelato o nascosto, ma, per prima cosa, porta all'Aperto l'ente in quanto ente [ . . . ] . Il linguaggio, nominando l'ente, per la prima volta lo fa accedere alla parola e al­ l' apparizione» (ivi, p. 5 7 ) . Anche Gadamer ribadisce l a primarietà del linguaggio verbale quando afferma che la comprensione di ciò che viene tramandato nel linguaggio possiede, rispet­ to a ogni altro tipo di trasmissione storica, una peculiare posizione di privile­ gio. Ciò che è trasmesso nel linguaggio può bensì essere inferiore, in imme­ diatezza intuitiva, ad altre cose, come per esempio ai monumenti delle arti figurative. Ma la sua mancanza di immediatezza non è un difetto; in questa apparente mancanza, nella astratta estraneità di ogni testo, si esprime la pre­ liminare appartenenza di ogni fatto linguistico alla comprensione (Gadamer, [ r 96o] 1 9 8 3 , p. 448 ) . Sebbene l a musica rimanga nell'orizzonte gadameriano sotto il livello del linguaggio (in tarda età egli dirà che la musica esemplifica un aspetto del comprendere che è «l'andare insieme, seguire l'altro», Ga­ damer, [2 ooo] 2002 , p. 6 r ) , Gadamer ha approfondito l'analisi delle arti performative come la poesia e la musica. Non soltanto infatti ha legittimato l'esecuzione come interpretazione riproduttiva (Gadamer, [ r 96o] 1 9 8 3 , p. 3 6 r ) , ma ha anche individuato un'operazione della coscienza estetica che definisce «differenziazione estetica» ovvero «quell'astrazione che sceglie solo in riferimento alla qualità estetica come tale». Grazie a questa operazione è possibile distinguere l' origi­ nale, sia esso una poesia o una composizione musicale, dalla sua ri­ produzione «e ciò in modo che sia l'originale in rapporto alla ripro­ duzione, sia la riproduzione presa per sé, distinta dall'originale o da altre possibili esecuzioni, possono essere intesi come il momento este­ tico essenziale. La coscienza estetica ha un carattere sovrano, costitui­ to da questa sua facoltà di operare la differenziazione e di poter ve­ dere tutto " esteticamente"» (ivi, p. r r 5 ) .

r 6 . LE T E O R I E D E L L ' O P E R A

o ' ARTE M U S I C A L E 1\: E L 1\: 0 V E C E N T O

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Dall'antologia dell'opera d'arte alla storia della ricezione Chiedersi che cosa sia un'opera d'arte e in che cosa differisca, per esempio, un'opera d'arte musicale da una poesia, da una statua, da un dipinto o da un edificio definisce un ambito, l'antologia dell'opera d'arte, distinto da quello che privilegia l'indagine della dimensione estetica come evento e come esperienza. Le questioni antologiche in­ teressano tanto chi si occupa di arte, quanto chi si occupa di antolo­ gia in senso più ampio, perché le opere d'arte sono " cose" di difficile definizione. In particolare le opere d'arte musicali sembrano porre più problemi rispetto alle opere di altri generi artistici. L'opera musi­ cale infatti non coincide né con la partitura né con le singole esecu­ zioni. Qual è dunque la sua natura? Come si concilia la molteplicità delle esecuzioni con le caratteristiche di singolarità e identità che sembrano invece proprie delle opere visive e letterarie? La musica sembra fornire un modello concreto della questione intorno alla mol­ teplicità delle interpretazioni, problema che ha tormentato la cultura filosofica a partire dagli anni sessanta circa. Roman Ingarden, filosofo polacco allievo di Husserl, ha elaborato un'analisi accurata del problema dell'identità dell'opera musicale a partire dalla definizione di oggetti puramente intenzionali. Essi esi­ stono e sono dotati di attributi grazie ad un atto di coscienza inten­ zionale. Le opere d'arte sono create da un artista; non esistono in maniera autonoma come gli altri enti, sono eteronomi dal punto di vista antico . A parte la terminologia, fin qui non v'è nulla che con­ traddica o aggiunga qualcosa all'idea che le opere d'arte sono pro­ dotte e dipendono da un autore. Tuttavia l'intenzionalità artistica non dà luogo a oggetti perfettamente determinati come nel caso degli og­ getti reali. L'opera d' arte musicale, afferma Ingarden, nasce da atti psicofisici creativi dell'autore che si realizzano sotto forma di istruzio­ ni scritte per l'esecutore che si chiamano partitura: «> possiede, secondo l'argomentazione di Currie, tre elementi distintivi che vengono specificati dal tempo in cui è avvenuto l' evento compositivo : r . Beethoven; 2. la struttura sonora dell'opera; 3· il cam­ mino euristico intrapreso da Beethoven che lo porta a scoprire la struttura sonora dell'opera. Senza addentrarsi nella complessa e meti­ colosa argomentazione di Currie va rilevato qui che essa mira a de­ stituire di fondamento la teoria della intentional /allacy sostenuta da Wimsatt e Beardsley, ovvero l' errore di credere che vi sia qualcosa di rilevante nelle intenzioni dell'autore. Si profila così un tratto emer­ gente nell'antologia dell' arte definito generalmente come contestuali­ smo, che mira a individuare nell'intenzione dell' autore, variamente definito (oltre a Currie, r 9 89, r 9 9 r ; cfr. anche Levinson, r 99o; Da­ vies, r 9 99) e comunque nella storia e genesi dell'opera il criterio del­ l'identità dell'opera e l'origine delle proprietà estetiche. Si tratta di teorie che lasciano trapelare una netta reazione alle derive interpreta­ rive della cultura degli anni settanta-ottanta e tentano di offrire un solido fondamento antologico a posizioni tradizionali sostenute nel­ l' ambito della storia e della teoria delle arti . A partire dalla fine degli anni ottanta ritorna al centro della di­ scussione la distinzione tra arti allografiche e arti autografiche propo­ sta da Goodman alla fine degli anni sessanta. In ambito antologico la distinzione tra arti "singolari " , quelle che non ammettono repliche, e "multiple " , che invece prevedono diversi esemplari (per esempio le statue in bronzo) , testi (nel caso della letteratura) o esecuzioni (nel caso della musica), ripropone in una mutata prospettiva il problema presentatosi nella teoria delle belle arti della distinzione fra i suoi ge­ neri . Le arti venivano classificate di volta in volta a seconda del mate­ riale impiegato, per la maggiore o minore capacità di imitare la natu­ ra, per la maggiore o minore capacità espressiva o per le qualità lin­ guistiche. Se si paragonano invece le opere in quanto fenomeni con­ creti, l' aspetto della singolarità e della molteplicità risulta decisivo perché, se accortamente indagato e des critto, promette di rivelare aspetti decisivi del rapporto tra la dimensione concreta dell'opera e quella estetica, ovvero tra proprietà fenomeniche e proprietà interpre­ tative o estetiche. La musica sembrerebbe dunque in primo luogo l'e­ semplificazione concreta del quesito centrale dell'antologia dell'opera:

ESPRESSIOI':E, FORMA, OPERA

abbiamo partiture e abbiamo esecuzioni, ma che cos'è l'opera e come possiamo identificare le esecuzioni corrette da quelle che non lo sono? Nel mondo musicale, tuttavia, il problema non è rappresentato dall'identità dell'opera, bensì dalla decodificazione storicamente fede­ le della partitura e/o dalla valutazione estetica delle interpretazioni. Invece, nel caso delle opere pittoriche, quale sia la differenza tra un originale e un falso ( dal momento che una copia, se non dichiarata come tale, rappresenta appunto un falso) è cruciale. Come diceva Goodman, è un problema pratico e teorico, rilevante tanto per il so­ vrintendente di un museo quanto per il filosofo. Tuttavia è difficile dimostrare in termini rigorosamente logici la singolarità delle opere pittoriche e la relazione tra originale, copia e falso se non si fa riferimento ad una pratica storica, come concederà lo stesso autore riflettendo a posteriori sul problema della singolarità della pittura (Goodman, 1 97 2 , p. 1 3 6) . Goodman ha risolto brillante­ mente (nonostante la ridda di conseguenze controintuitive che sono state tratte da questo argomento, fra cui Webster, 1 9 7 1 ; Boretz, 1 970; Currie, 1 98 9 , p . 1 1 0) il problema di definire in termini logici l'identi­ tà tra edizione e opera letteraria e quella tra partitura e opera: la pri­ ma risulta dall'identità di compitazione tra manoscritto ed edizione; la seconda dalla congruenza tra spartito ed esecuzione sulla base del sistema notazionale proprio della scrittura musicale tradizionale. Gli argomenti per dimostrare la natura autografica di molti aspetti delle arti figurative, invece, sono assi più deboli e convincono soltanto co­ loro che sono già persuasi in partenza. L'argomento, in sostanza, è il seguente: anche se non riesco a distinguere l'originale da una copia, in futuro forse potrò acquisire la capacità di farlo; quindi tra due quadri, il fatto che uno sia un originale e l'altro una copia costituisce già una differenza estetica (Goodman, [ 1 9 6 8 ] 1 9 9 8 , p. 9 6 ) . La di­ stinzione tra opere singole e opere multiple è stato messo in que­ stione in particolare da Currie ( 1 9 8 9 ; cfr. inoltre Zemach, 1 9 9 2 ) sulla base d i un argomento controfattuale: ammettiamo che esista una macchina capace di duplicare esattamente la Manna Lisa di Leonardo nella struttura molecolare stessa; la copia risulterebbe in­ distinguibile dall'originale. Ciò conduce alla conclusione che tutte le opere d' arte sono multiple, perlomeno in linea di principio . Currie è perfettamente consapevole che la sua tesi ignora la pratica di con­ siderare la pittura come un' arte singolare ( Currie, 1 9 8 9 , pp. 8 6 - 9 7 ) ; egli concede tuttavia che esista u n a fondamentale differenza fra le arti visive e le altre . Nella valutazione estetica, decisiva è per Currie la via attraverso cui l'artista produce l'opera, sia essa una tela di­ pinta, un testo o una partitura. Nel caso del dipinto ciò che conta è

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' LE TEORIE DELL OPERA o' ARTE MUSICALE 1\:EL 1\:0VECENTO

il modo in cui l'artista riesce a interagire in maniera concreta con il mezzo impiegato che decide del valore dell'opera. Nel caso della letteratura o della musica, invece, il modo in cui l'artista arriva a scrivere il testo o a notare la partitura non incide sulla valutazione; anche una correzione dell'ortografia o della scrittura musicale risul­ ta del tutto legittima (nei limiti - specifica Currie - della presunta intenzione dell' autore; ivi , p. 9 ! ) . Tuttavia - ed è questo il punto rilevante - Currie sostiene che non vi è nulla di esteticamente rile­ vante nell'originale che non sia riconoscibile in una copia corretta (ivi, pp. 9 7 - 8 ) . L'argomentazione di Currie è molto affilata, m a altrettanto poco convincente di quella di Goodman . L'abitudine a considerare la pit­ tura un' arte singolare si rivela molto resistente ai tentativi di spiega­ zione razionale. Possiamo pensare che quello che gli ontologi cercano di definire in termini logici sia quello che Benjamin chiamava aura (Benjamin, [ 1 9 3 6] 1 96 6 ) , ovvero il bagliore del valore unico di un'o­ pera realizzabile grazie a eccezionali e singolari capacità tecniche e artistiche. Sebbene anche Benjamin avesse in mente soprattutto la tra­ sformazione delle arti figurative sotto la spinta delle nuove tecniche della fotografia e del cinema, egli aveva osservato che il "valore espo­ sitivo " dell'arte era condiviso anche dalla musica. Tuttavia la perdita dell'aura viene analizzata da Benjamin in una prospettiva sociologica e storica e messa in relazione con la nascita dell'arte di massa. La riproducibilità tecnica dell'arte ha indebolito il primato dell'origina­ le, anche se è rimasto intatto all'interno di quel circuito di valori so­ ciali che Dickie ha chiamato il mondo dell'arte . Paradossalmente Curde ha colto, senza avvedersene, la superfluità del concetto di ori­ ginale al di fuori delle pratiche sociali e culturali correnti . La discus­ sione successiva ha lasciato non a caso in secondo piano la disputa sulla legittimità della concezione asimmetrica delle arti per dedicarsi ad un compito meno ardito intellettualmente, ossia catalogare e defi­ nire da un lato le diverse forme in cui si manifestano le cosiddette opere d'arte molteplici e tra queste quelle cosiddette performative, soprattutto la musica, e aprendo l'indagine alla natura antologica dell'arte di massa ( S . Davies, 2 00 1 , 2 002 ; Thom, 1 99 3 ; Carrai, 1 99 8 ; Fisher, 1 99 8 ; Godlovitch, 1 9 9 8 ) . I n molti d i questi contributi la pe­ culiarità e il rigore argomentativi della terminologia analitica e della tecnica risultano indeboliti a favore di terminologia e problemi pro­ pri della teoria della letteratura e della musicologia. Il problema del­ l'identità delle opere d' arte musicali, per fare soltanto un esempio, lascia il posto ad una più vaga esigenza di "presentazione fedele" dell'opera che si caratterizza soprattutto in termini di competenza

ESPRESSIOI':E, FORMA, OPERA

storica ed esecutiva, ammettendo per la prima volta che «ambiguità e incompletezza non costituiscono aspetti sovversivi dell'opera d' ar­ te» (Davies, 2 002 , p. 1 6 3 ) .

16.5

Il concetto di opera nel canone disciplinare musicologico Una delle conseguenze della cosiddetta crisi dell'opera d' arte è stata un incremento della riflessione intorno alla nozione stessa di opera e di opera d' arte musicale in particolare, nozione alla quale non si era dedicata attenzione nell' estetica musicale dell' Ottocento e della prima metà del Novecento . Verso la fine degli anni settanta del secolo scor­ so il concetto di opera d' arte è al centro di moltissime discussioni mosse dalla necessità di legittimare, definire e delimitare una nozione che appariva messa in questione in maniera radicale dalla sperimenta­ zione artistica. In particolare due trattazioni sistematiche degli anni ottanta si presentano come un baluardo alle concezioni relativistiche dell'opera musicale dei decenni precedenti (Wiora, 1 9 8 3 ; Seidel, 1 9 87; Wiora, 2 ooo ) . Ben lungi dall'essere una risposta ai problemi estetico-filosofici e compositivi sollevati dalla crisi dell'opera, queste ampie trattazioni rappresentano un'immagine fedele della concezione di opera d'arte musicale sulla quale si fonda la disciplina musicologi­ ca a partire dall' Ottocento. Wiora prende le mosse in primo luogo dalla contraddizione che si manifesta tra l'efficacia raggiunta dalle tecniche di riproducibilità del suono e le tendenze compositive che privilegiano l'improvvisazione collettiva. Egli considera però questa tendenza storicamente conclusa e liquidata. La sua ridefinizione del concetto di opera d'arte, dunque, consiste in una descrizione dei modi di esistenza delle opere d' arte musicali e dei suoi possibili con­ tenuti (Wiora, 1 9 8 3 ) . Sebbene Seidel parta dagli stessi presupposti, la sua posizione risulta più articolata (Seidel, 1 9 8 7 ) . Egli ricorre a una definizione storicizzata del concetto di opera d'arte, limitando la sua rilevanza ad un periodo relativamente breve - gli ultimi duecento anni di storia. Inoltre considera l'opera d'arte musicale come una del­ le possibili forme di creatività musicale: l' alternativa è quella di consi­ derare la musica come energheia e non come ergon, ossia come forza, energia, potenza che si manifesta negli effetti di quest'arte tanto sul corpo quanto sull' animo dell'uomo. I requisiti dell'opera d' arte musi­ cale evidenziati da Seidel si possono ridurre ad un semplice schema. Un'opera d'arte musicale, per essere considerata tale, deve: 310

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essere scritta, avere un autore, essere caratterizzata dalla duplicità di notazione e interpretazione, avere una struttura polivocale, essere unica e irripetibile, avere un inizio e una fine: essere dunque chiusa e intangibile, presupporre una cultura dell'ascolto (è esclusiva), essere suscettibile di edizione, analisi e interpretazione. È abbastanza interessante notare che i criteri indicati da Seidel non differiscono in maniera sostanziale da quelli individuati senza dubbio in maniera più sintetica da Lydia Goehr ( 1 99 2 ) , ossia origina­ lità, intangibilità e separabilità . Criteri di tal genere, tuttavia, sono di carattere esclusivo, perché mirano a definire attentamente ciò che non va considerato opera d' arte musicale e quindi va escluso dai con­ fini della disciplina. Non ci vuole molta perspicacia infatti per accor­ gersi che gran parte della produzione delle avanguardie musicali e della musica sperimentale a partire dagli anni settanta non soddisfa questi requisiti. La definizione di Seidel è quindi normativa e implici­ tamente prescrittiva. La storicità dell'opera d' arte, inoltre, è ammessa per quanto concerne la sua origine (è un concetto "emergente " , di­ rebbero i filosofi analitici) ma, una volta attestata culturalmente, non ammette più trasformazioni o declino . I requisiti riguardano natural­ mente la definizione di opera musicale, perché la sua qualità estetica è tacitamente presupposta nella specificazione "d' arte" . Che si am­ metta o meno la vitalità di questo concetto, oppure con Dahlhaus ( 1 9 7 ! ) lo si limiti ad un fossile del passato impiegabile al massimo in un'accezione regolativa, i criteri elencati sopra mettono in evidenza soltanto quegli aspetti dell'opera d' arte musicale che nel corso dei se­ coli hanno reso possibile una sorta di aggettivazione analoga soprat­ tutto alla letteratura, ma anche alle altre arti che hanno reso para­ digmatico il concetto di opus, ovvero l' architettura, la pittura. Il concetto di opera costituisce anche un elemento chiave nella ricostruzione della musicologia sistematica in prospettiva semiologica proposta da Nattiez grazie alla contaminazione dell'antologia di In­ garden e del modello semiologico tripartito di Molino ( 1 97 5 ) . In que­ sta versione l'opera appare una rete di relazioni semiologiche tra au­ tore e fruitore, garantite dall' esistenza di un "livello neutro " che Nat­ tiez definisce e rifinisce a varie riprese (Nattiez, 1 9 7 5 , pp . 5 0- 1 , 5 4-5 , 7 5 ; 1 97 7 , p. 4; in questo passo viene chiamato «oggetto materiale, la traccia sulla carta dell'opera letteraria o musicale» [ ! 9 8 7 ] 1 9 89, p. 5 6 ) , ma che in sostanza coincide con l' ambito in cui si esercita l'anali­ si musicale. La neutralità di questo ambito immanente all' opera ri311

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sulta definita soltanto in negativo, in quanto comprende la dimensio­ ne dell' analisi che non è di pertinenza poi etica o estesica. Per quanto indefinito possa apparire il dominio del livello neutro, sia che si ap­ plichino i criteri rigorosi dell'antologia analitica, sia che si tenga con­ to del principio del circolo ermeneutico, esso appare un elemento della teoria dell'opera ormai imprescindibile in ambito musicologico.

r6.6 L'opera tra arte e anti-arte

Al centro di ogni teoria dell'opera d'arte vi è la necessità di connette­ re due elementi eterogenei, ovvero un fenomeno concreto (nelle arti plastiche) oppure un testo verbale o notazionale e un'eccedenza (chiamiamola di senso, di espressione, di effetto) . Nella differenza tra il che cosa è un oggetto e come appare sembra essere racchiuso l'e­ nigma dell'opera d' arte, enigma che il progetto antologico ha cercato di forzare senza impiegare la categoria di apparenza. Nella trentina di pagine dedicate alla teoria dell'opera d' arte nella sua Asthetische Theorie, Adorno ( [ r 97o] r 97 5 , pp. 2 5 0 - 8 3 ) ha compiuto un ardito tour de force: privare l'opera d'arte del suo attributo più potente, la durata; salvarne altri, tradizionali quanto irrinunciabili, come l'intensi­ tà, la riuscita e la profondità; accogliere come elemento costitutivo dell'opera d' arte il suo opposto ovvero la disartizzazione dell'arte. Stabilità, ossia identità, e permanenza nel tempo, ossia durevolez­ za, sono due proprietà fondamentali dell'opera d' arte che la teoria dell'opera spesso ha dato per scontate. L'idea di durata delle opere appare ad Adorno «modellata su categorie di possesso ed è borghese­ mente effimera; a vari periodi e a grosse produzioni fu estranea» (ivi, p. 2 5 2 ) . La negazione della durata comporta per il filosofo franco­ fortese tanto l'idea dell'emergenza (principio che, come si è visto, è condiviso sia dagli ontologi sia dai musicologi) quanto quella della ca­ ducità. Quest'ultimo attributo viene inteso non tanto nel senso dell'i­ nevitabile degrado del suo aspetto fenomenico quanto in quello della natura intimamente temporale dell'opera d' arte: all'interno di essa il tempo si manifesta come carattere processuale, come ricerca dell'uni­ tà di identico e del non identico, come posizione polemica a priori nei confronti dell'esistente; al suo esterno il tempo si incide nell' ope­ ra, come avevano intuito Baudelaire e Rimbaud, attraverso la forza penetrante della moda: «La moda è una delle figure attraverso le qua­ li il movimento storico incide sul "sensorium" e attraverso di esso sulle opere d' arte, e precisamente in tratti minimi, per lo più celati a 3I2

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se stessi» (ivi, p. 2 5 3 ) . L'insistenza sul carattere effimero dell'opera, sulla sua inevitabile esposizione al tempo, comporta l'accoglimento nella Werkiisthetik di tutte quelle espressioni artistiche che le resisto­ no, negando la configurazione stabile dell'opera. « È pensabile che oggi forse sono necessarie opere che brucino se stesse tramite il loro nucleo temporale, che abbandonino la propria vita all' attimo della manifestazione della verità e scompaiano senza lasciar traccia, senza che ciò le sminuisca in un modo qualunque. La "noblesse" di un tale comportamento non sarebbe indegna dell' arte dopo che il suo lato nobile decadde a posa e ideologia» (ivi, p. 2 5 2 ) . Le opere elettroni­ che di Stockhausen, che non sono notate ma vengono realizzate una volta per tutte in un materiale degradabile, appaiono ad Adorno un gesto grandioso, l' esito di una «concezione di un'arte di grandi prete­ se che tuttavia sarebbe pronta a buttarsi via» (ivi, p. 2 5 3 ) . L'accento sulla configurazione temporale delle opere mette a fuo­ co la peculiarità della posizione di Adorno nei confronti tanto dell' er­ meneutica quanto della teoria della ricezione: ciò che muta nel tempo infatti non sono né le interpretazioni storiche di un senso eminente né i diversi orizzonti della ricezione. L'elemento temporale è imma­ nente alle opere e dipende dalla loro legge formale: «l' avvicendamen­ to dei loro strati uno dopo l'altro, imprevedibile nell' attimo in cui le opere si manifestano; la determinazione di tale mutamento attraverso la loro legge formale, che viene allo scoperto e così si frammentizza; l'indurirsi delle opere divenute trasparenti, il loro invecchiare, il loro ammutolire. Alla fine il loro sviluppo è tutt'uno col loro decadimen­ to» (ivi, p. 2 5 4 , ma cfr . anche pp. 2 7 5 - 6 ) . La storia - dice Adorno (ivi, pp. 2 7 2 - 3 ) - è immanente alle opere, non è un destino esterno e neppure una valutazione mutevole. Il rapporto dell'opera d' arte con la storia è piuttosto di natura dialettica. Le opere non si adeguano alla storia, arrivando al momento giusto secondo un intramontabile modello storiografico. Esse rappresentano l' obiettivazione di una retta coscienza e in questo consiste il loro contenuto di verità. Ora, per «retta coscienza» Adorno intende «la più progredita coscienza che si possa avere delle contraddizioni entro l'orizzonte della loro possibile conciliazione» (ivi, p. 2 7 2 ) . Il concetto di emergenza assume qui un'accezione più definita, poiché aggiunge all'idea della nascita stori­ ca di una pratica precisa quella di una sua interdipendenza dal pro­ getto storico della modernità inteso come progetto di emancipazione. Al contempo, proprio la nozione di materiale musicale, maturata nel confronto con le opere d'arte musicali, consente di cogliere il rappor­ to tra l'opera e la situazione storico-sociale. Ma la critica produttiva della «più progredita coscienza», quella che rende conto del "pro-

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gresso" rappresentato da un'opera, non è un atto consapevole e in­ tenzionale: «il contenuto di verità delle opere d' arte è storiografia in­ cons cia, solidale con quel che fino ad oggi è sempre di nuovo soc­ combente» (ibid. ) . Quale sia il ruolo dell' autore nella teoria dell' opera rimane dun­ que una questione senza risposta univoca. La concezione dialettica di Adorno indebolisce in parte il concetto di opera - lo si è visto - ne­ gandone la durata, la permanenza, la stessa sostanzialità; tuttavia esso risulta enormemente enfatizzato dal nesso che lo lega alla storia e alla dimensione sociale, un nesso potente perché interpretato come istan­ za critica e non soltanto come ineliminabile a priori. Sebbene l'opera sia descritta in termini precari, sempre sul punto di ammutolire, essa assume qui un'autonomia inaudita. La dualità che ha impegnato gli ontologi per un trentennio, ovvero la coesistenza di una dimensione fenomenica e di una ad essa tras cendente, è pienamente accettata da Adorno e concettualizzata in termini di energia : «N eli' arte la distin­ zione tra la cosa fatta e la sua genesi, il fare, è energica: le opere d'arte sono ciò che è fatto, e che è divenuto più che semplicemente fatto . [. .. ] Il risultato del processo, così come lo stesso processo in stasi, è l'opera d' arte», essa «è monade e contemporaneamente centro di forza, "res "» (ivi, pp . 254-5 ) . L'opera è il risultato di un processo prevalentemente inconscio e l' esperienza estetica a buon diritto tra­ scura la genesi dell'opera. Tuttavia l'intenzionalità dell'autore rispun­ ta nei saggi critici adorniani dedicati alla musica in maniera che sa­ rebbe più corretto definire ambigua piuttosto che dialettica. Un qua­ dro lo si vede diversamente se si conosce il nome dell'autore, osserva Adorno, e anche se l' arte non è la conseguenza necessaria della sua genesi, i suoi presupposti sono ineliminabili. Questa ambiguità con­ cettuale si riflette nei giudizi storici: se le opere "riuscite" appaiono spesso il frutto di una complessa dialettica che si articola al livello dell'immanenza ( come le opere di Bruckner che possono aver mirato alla restaurazione teologica, ma partecipano del contenuto di verità perché, facendo proprie le scoperte armoniche e di strumentazione del proprio tempo, hanno rovesciato la pretesa di eternità in un' affer­ mazione di modernità), agli artisti vengono invece ascritte le colpe della mancanza di una coscienza progredita; è il caso di Strauss e di Monet che «hanno perso in qualità allorché, apparentemente contenti di se stessi e del conquistato, persero la forza di dare innervazione storica e di appropriarsi di materiali più progrediti» (ivi, p. 2 7 3 ) . Questa ambiguità s i scioglie tuttavia proprio in un ambito cruciale che è quello dell'esecuzione e dell'interpretazione. Rispetto alla resa di un'opera musicale o drammatica Adorno riconosce che si tratta di

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un compito infinito per principio, ma blocca la deriva interpretativa e la potenziale conflittualità tra l'intenzione dell'autore e quella del­ l'interprete. Il compito di quest'ultimo consisterebbe piuttosto nel restituire l'opera nella sua dimensione irrisolta: «Eseguire corretta­ mente un dramma o un brano musicale significa formularlo corret­ tamente come problema, in modo tale che vengano riconosciute le esigenze inconciliabili che esso pone all'interprete» (ivi, p. 2 6 4 ) . Il ca­ rattere processuale delle opere d'arte, che si definisce come mediazio­ ne inconscia tra particolare e universale, trascende dunque le sogget­ tività dell'autore e dell'esecutore. L'oggettività immanente del proces­ so ha tuttavia bisogno di essere portata alla coscienza e in questo consiste il compito dell'estetica: «L'interazione di universale e parti­ colare, che nelle opere d'arte avviene inconsciamente e che l' estetica deve innalzare alla coscienza, è ciò che veramente costringe ad una concezione dialettica dell'arte» (ivi, p. 2 5 7 ) . Il compito dell'estetica dunque è liberare i concetti che nell'opera sono prigionieri di un'e­ steriorità: «Le opere d' arte organizzano il non organizzato. Esse par­ lano per lui e gli fanno violenza; seguendo la loro costituzione di ar­ tefatto, collidono con essa» (ivi, p. 2 6 1 ) . L'intenzionalità dell' opera non coincide dunque con l'intenzione dell'autore, che ne costituisce soltanto un presupposto, l'innesco di un processo autonomo e so­ vraindividuale. Neppure è dotata di una sorta di intenzionalità pro­ pria. Essa sembra caratterizzata piuttosto da una sorta di cecità e di mutismo, da un meno piuttosto che da un più - il che la accomuna alle manifestazioni "basse" estranee alla pretese dello spirito del cir­ co, del fuoco d'artificio, del feticcio . Il lavoro dell'estetica consiste­ rebbe proprio nel mettere in movimento il concetto bloccato nel co­ gliere lo spirito che nelle opere d'arte non è aggiuntivo, «bensì è po­ sto dalla loro struttura» (ibid. ). A differenza dei vari progetti antologici che mirano a separare l' antologia dall'estetica, per Adorno la teoria dell'opera è innervata profondamente nella teoria estetica. L'opera d' arte è per antonomasia opera di rango ed implica il concetto di riuscita, di intensità e di pro­ fondità, proprietà, queste, che vanno intese alla luce dei concetti cen­ trali dell' estetica: contenuto di verità, carattere di enigma, apparenza. Vi è infine ancora una caratteristica che sta a cavallo tra l'ambito del­ la teoria dell'opera e quello dell' estetica: l'articolazione. Questo con­ cetto, che legittima il diritto di cittadinanza della tecnica nell'ambito estetico, ha una funzione chiave nella teoria adorniana. L' articolazio­ ne, dice Adorno, è la salvezza del molteplice nell'uno (ivi, p. 2 7 1 ) e garantisce le opere dal divenire indifferenziate, monotone, sempre la stessa cosa. Il grande tentativo adorniano di articolare un'estetica in

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sintonia con il pensiero filosofico della modernità, giungendo a iscri­ vere in essa anche tutte le forme di arte d'avanguardia che tendono a saggiarne e talvolta a superarne i confini, si dispiega con particola­ re efficacia proprio nella teoria dell'opera. Grazie alla sua ardita struttura dialettica essa "salva" l'eredità più pesante e tradizionale dell'estetica classica, ovvero il rango, l' eminenza, la qualità dell' ope­ ra. Al contempo la tutela da ogni pretesa di possesso. La sua esposi­ zione al tempo e il carattere di enigma negano la possibilità che essa divenga quel "possesso interiore" celebrato da Hegel . La resistenza al possesso e alla definizione sono proprietà che definiscono l'opera come irriducibilità al dominio.

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Opera aperta: teoria e prassi di Angela Ida De Benedictis

Alcuni aspetti rilevanti delle vicende musicali intervenute tra gli ini­ zi degli anni cinquanta e la fine degli anni settanta del Novecento appaiono quali risposte, talora estreme, alle tensioni che in forme e modi diversi attraversano nel tempo i rapporti tra l' arte e le con­ temporanee vicende socio-politiche e tecnologiche. Nel caso delle avanguardie musicali sorte verso la metà del secolo, così come per altri settori artistici, le sperimentazioni muovono da due direzioni sostanzialmente differenti, delle quali l'una - di area europea - si confronta, all'indomani della fine del secondo conflitto mondiale, con le inquietu dini e gli ideali tipici di una ricostruzione, laddove l'altra - quella americana - affonda le sue radici in presupposti po­ litico- culturali affatto diversi e nella ricerca di una propria indivi­ dualità non debitrice a un codice culturale esterno. Lontane nelle premesse, tali esperienze giunsero nondimeno con il tempo a colma­ re l'iniziale divergenza e a risultare contigue - se non parallele nell' approfondimento di alcune tendenze complesse ed estremamen­ te articolate. Tra queste, l'introduzione del caso o di fattori di inde­ terminazione nell'opera e/o nel processo creativo. Limitando il discorso all' ambito novecentesco, e tacendo di quella particolare apertura performativa-interpretativa implicita in ogni costrutto artistico (lngarden, [ 1 9 6 2 ] 1 9 89a), principi di inde­ terminazione potrebbero già intravedersi in alcune composizioni della prima metà del secolo (si pensi, in area europea, al Lehr­ stiick di Hindemith del 1 9 2 9 o, in area americana, ad alcune pagi­ ne di Ives e Cowell) . Eppure, soprattutto in ambito europeo, par­ lare in questi casi di prodromi della poetica dell' ambiguità signifi­ cherebbe falsificare gli intenti dell'una come dell' altra esperienza, la prima dettata dalla volontà di affrancare l' arte dal concetto ot­ tocentesco di autonomia (a favore soprattutto di una dimensione funzionale) ; la seconda provocata invece da un mutamento nei pa-

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radigmi estet1c1 e poetici della creazione artistica, finalizzata ora alla comunicazione di un messaggio volutamente polivalente e ambiguo . I n u n momento i n cui la riflessione teorica era compiuta presso­ ché di pari passo con il divenire delle singole tendenze - e a distan­ za di qualche anno dalle più note e opinabili letture di Umberto Eco ( 1 9 5 9 ; 1 9 60; 1 9 6 2 ) - Konrad Boehmer apriva la sua critica e approfondita dissertazione sul fenomeno rilevando l' «attuale impos­ sibilità» di produrre una teoria organica dell'apertura in musica do­ vuta da un lato all'eterogeneità delle produzioni, dall 'altro a una confusione terminologica e concettuale generata dagli stessi scritti dei compositori (Boehmer, 1 9 67, pp. 5 - 6 ) . Ancora oggi, e sebbene nella pratica il fenomeno sia stato da tempo archiviato, interiorizza­ to, rifiutato o ignorato a seconda dei casi, una tale teoria continua a confermarsi "impossibile " : una definizione sistematica dell'indeter­ minazione nell' arte musicale dimora incompiuta e, per di più, la sua analisi retrospettiva presenta a volte margini di interpretazione am­ bigui (Blumréider, 1 9 84; Frobenius , 1 97 6 ) quando non parziali (Zie­ rolf, 1 9 8 3 ) , che las ciano invero aperte più problematiche di quante non ne risolvano. Di certo, quanto di comune c'è nel multiforme orizzonte dell'indeterminazione risiede in quella transizione epocale (legata a un clima culturale comune ad arti e s cienze) determinatasi intorno alla prima metà del Novecento da una visione riferita all'or­ dine e al controllo degli elementi a una visione condizionata dal caso o dall'indisciplina locale. Si scorge, in questo passaggio, una possibile risposta in campo artistico ai nuovi rapporti che andavano creandosi tra soggetto e contemporaneità, oltre ad una nuova mani­ festazione storicamente determinata dal ricorrente tema della crisi o della morte dell'arte, amplificato ora dalle profonde trasformazioni dovute all'impatto della tecnologia. In quest' ottica, dietro il concet­ to di «opera aperta» si cela il mutamento (per alcuni, la dissoluzio­ ne) del concetto di opera, nonché un " trapasso " insito nella pro­ gressiva abolizione dei confini tra diversi generi artistici: apertura, mobilità, informale, musica aleatoria, caso, indeterminazione, im­ provvisazione controllata, forma statistica, a percorso variabile ecc. si pongono tutti come sinonimi di una musica che «ha rifiutato tut­ te le forme che le stavano di fronte esternamente, astrattamente e rigidamente», di una musica che non si costituisce in schemi preco­ stituiti, «leggi di facciata» e concetti quali «tensione, risoluzione, prosecuzione, sviluppo, contrasto e riconferma» (Adorno, [ 1 9 6 I ] 2 004d, pp. 2 3 8 , 245 ) .

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Opera aperta tra continuità e innovazione Nella scelta dell'aggettivo " aperto" - formula divenuta slogan in rela­ zione all'opera grazie al titolo imposto dall' editore Bompiani al volu­ me di Eco ( 1 962 , VI), laddove, attribuito alla forma, il suo uso è atte­ stato fin dalla fine dell'Ottocento (Blumroder, 1 9 84) - si cela una contrapposizione tacita e affatto neutrale: aperto rispetto a qualcosa che, in precedenza, era da intendersi come " chiuso " . Il riferimento va a un ideale di opera intesa quale oggetto assoluto e imperituro, con­ chiuso e fisso nel suo sviluppo drammatico o narrativo, da contem­ plare dall' esterno nella sua perfezione e intima immutabilità. Di que­ sto ideale d'opera, che aveva guidato la pratica e l'estetica musicale per circa due secoli, la poetica dell'indeterminazione mina gradual­ mente le fondamenta arrivando a intaccare - talvolta a negare - il principio di consequenzialità/direzionalità temporale e, a questo stret­ tamente connesso, il canone dell'impianto drammatico sviluppato in­ torno a un'idea centrale o, altrimenti detto, quel principio dell'unità nella diversità interpreta bile quale retaggio dell'estetica ottocentesca dell'organicismo (Granat, 2 002 , p. q). Nel professato riorientamento estetico implicito nelle dichiarazioni di alcuni compositori (Boulez, Stockhausen, Pousseur così come Cage o Feldman) , questo rifiuto della ripetizione e del principio di causalità coinvolge anche fenomeni propriamente novecenteschi - quali, per esempio, il sistema schon­ berghiano o «dodecafonico- cromatico» ( Stockhausen, [ 1 9 5 2 ] 1 9 63d, p. 22) - non affrancati, secondo la nuova prospettiva, da una nozione di forma e di sviluppo ancorata alla tonalità. Ed è proprio in queste contrapposizioni passato/presente che la formula " opera aperta " , on­ nicomprensiva e vaga quanto basta per annoverare al suo interno tut­ te le possibili sfumature dell'ambiguità, nel sancire la fine di un'era che, per analogia, si potrebbe definire dell"'opera chiusa " , mostra al contempo il suo debito e la sua diretta relazione con tematiche e pro­ blematiche precedenti. Spesso in conseguenza di una lettura ambigua di alcune asserzioni di Eco ( di cui deve essere incidentalmente sottolineato da un lato l'apporto insussistente alla coeva evoluzione di un pensiero informale, dall'altro l'approccio puramente teorico al fenomeno dell'indetermi­ nazione; Borio, 1 9 97a, pp. 46 1 , 463 ) , tra le interpretazioni dell'opera aperta gode di ampia diffusione la visione che accomuna la sua affer­ mazione a una volontà di relativizzare tutti gli aspetti dell'estetica tra­ dizionale, se non a un irriverente atteggiamento nei confronti di un passato musicale recente o remoto . Di fronte a valutazioni del feno-

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meno come «contropartita» al rigore seriale (Rivest, 2 00 1 , p. 3 1 2 ) o come evento senza alcun precedente storico, filosofico o concettuale (Zierolf, 1 9 8 3 ) , appare più fondata una lettura che pone l'indetermi­ nazione in prospettiva dialettica con le precedenti tendenze dell'avan­ guardia musicale del primo e secondo Novecento (Boehmer, 1 967; Decroupet, 1 99 7 ; Granat, 2002 ) . L'intervento intenzionale di " fessu­ re" nell'ordine lineare o nella costruzione dell'opera, lontano dal por­ si semplicemente quale elemento oppositivo di una presunta diade se­ rialismo/indeterminazione (o, con le parole di Eco, Ordine/Disordi­ ne, 1 9 62, p. 2 ) , si inquadra infatti quale approdo logico e inevitabile di un pensiero seriale piuttosto che come deflagrazione o improvvisa deviazione del progresso musicale intese l'una come l'altra nell'ottica di una bloomiana " angoscia dell'influenza " . Per quanto differenti nelle premesse e negli effetti, sia l e speri­ mentazioni europee sia quelle americane sembrano trovare un comu ­ ne denominatore nella musica di Anton Webern più che in quella di Schonberg o di Berg. Il debito, se dichiarato o altrimenti desumibile per i compositori della cerchia di Darmstadt (Borio, 1 997b), è forse meno scontato oltreoceano, dove (restando sempre in campo musica­ le) può peraltro essere tematizzata una linea Ives-Cowell-Varèse, non­ ché un influsso indiretto del jazz. Secondo Cage, la produzione di Webern avrebbe suggerito sia l' applicazione del metodo seriale agli altri parametri del suono, sia l' autonomia del suono nel tempo-spazio e la conseguente possibilità di realizzare una musica non dipendente dai «mezzi di una continuità lineare», ponendosi al contempo come punto di partenza sia del serialismo rigoroso di uno Stockhausen, sia delle libere sperimentazioni compiute nei primi anni cinquanta dai compositori della cosiddetta New York School (Cage, [ 1 95 9 ] 1 99 3 b , p. 8 ! ) . Compiendo un ulteriore passo indietro nelle fasi storiche del No­ vecento, e abbozzando una linea che procede da Wagner a Schon­ berg all'alea, per altri l'apertura si inquadra come sviluppo logico del­ l'idea di variazione, estesa ora alla forma globale dell'opera (Evangeli­ sti, [ 1 9 6o] 1 9 9 ! ) . Ripresa altrimenti da Boehmer, quest' ultima visione è sviluppata a partire dal presupposto che i germi dell'apertura erano impliciti nella tecnica seriale (Boehmer, 1 9 67, pp. 49-5 3 ) , ossia in una tecnica basata sulla legge della permutazione e concepita come «un universo in perpetua espansione» (Boulez, [ 1 9 6 1 ] 1 968d, p. 2 6 3 ) . Il punto di connessione tra le due esperienze compositive apparente­ mente opposte è da vedersi nell' estensione del principio seriale dai singoli parametri all'organizzazione della forma globale, passaggio av­ venuto non senza difficoltà e contraddizioni. Investendo categorie 3 20

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OPERA APERTA: TEORIA E PRASSI

sempre più articolate, le procedure seriali si estendono alle umta complesse (gruppi, fasce, strutture sonore ecc . ) che, nell'economia ge­ nerale del lavoro, sostituiscono per importanza i fenomeni di orga­ nizzazione locale. Alcune forme di indeterminazione formale potreb­ bero per esempio essere intese come evoluzione di quella che Ligeti ( [ r 9 5 8 ] 1 9 8 5 , p. 2 2 8 ) chiama «composizione per strati», ossia una composizione formata da strutture differenti che vengono sovrappo­ ste con criteri e tecniche che proiettano nella macroforma i procedi­ menti adoperati nella microforma. Data dunque un'opera (e la sua forma) come somma di singole strutture, il passaggio dalla loro orga­ nizzazione e sincronizzazione alla loro permutazione fino alla poten­ ziale fungibilità delle stesse è operativamente e concettualmente bre­ ve. Dal piano della grammatica la coordinazione si sposta su quello della sintassi musicale: comporre non implica più la sola organizzazio­ ne delle strutture, ma anche la loro permutazione. In questo modo, nel processo di costituzione di un'opera, le aree formali mutano la propria funzione da qualitativa a quantitativa e la «sostituibilità, l'im­ prevedibilità e la flessibilità» arrivano a essere in rapporto con la complessità delle strutture seriali (Boehmer, 1 967, p . 6 6 ) .

q.2 Di alcuni malintesi. Pluralità dell'opera aperta

Sebbene sia talvolta affiorata la tendenza ad assimilare il concetto di "opera aperta " a una sorta di genere specifico manifestatosi negli anni cinquanta, è ormai chiaro che, al contrario, esso rimanda generi­ camente a opere e manifestazioni molto diverse che, al di là di analo­ gie di superficie, presentano caratteristiche ben distinte. Come notava già Eugenio Montale nel r 962 recensendo Opera Aperta di Eco, per queste produzioni artistiche sarebbe più corretto utilizzare il plurale e parlare di opere aperte (Montale, in Eco, 1 96 2 , p. xvn). La nozione di apertura, applicata in generale all'opera come toto pro pars, può essere estesa in particolare alle singole dimensioni di un costrutto musicale: dalla fonte acustica che produce il suono ai parametri o "materiali " (altezze, timbro, dinamica, durata) , dalla disposizione di strutture locali potenzialmente fungibili all' espressione, fino alla ma­ crostruttura formale. Nel caso di procedimenti aleatori - intervento di operazioni arbitrarie e/o casuali comunque circoscritte in un cam­ po di possibilità -, essa può investire il processo compositivo o quello performativo. Nel primo caso, data una griglia di eventi o la selezione di varie procedure generative, l'atto creativo e la mise en page sono 32 1

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volontariamente aperti a procedure non-intenzionali, variamente ge­ nerate, che permettono di «essere liberi rispetto alla propria volontà» (Cage, [ 1 976] 1 9 99, p. 8 5 ; si veda l'uso dell'I Ching per Music o/ Changes, 1 95 1 , e Water Music, 1 9 5 2 , o la derivazione delle altezze dall'osservazione delle imperfezioni della carta in Music /or Carillon n. r , 1 9 5 2 , e in Music /or Piano [ r-84] , 1 95 2 - 5 6 ) . L' articolazione for­ male dell'opera è qui solitamente definita e la veste grafica può pre­ sentarsi come " chius a " , notata in modo più o meno convenzionale. Nel secondo caso, i procedimenti random competono all'esecutore e conseguono a prescrizioni (verbali o grafiche) della partitura; talvolta essi possono essere impliciti in una forma di " notazione" che, nel sancire una volontaria riduzione del controllo sull'evento sonoro da parte del compositore, richiede all'interprete una sorta di "pre- ridu­ zione" propedeutica per l'esecuzione (Cage, Variation I, 1 95 8 o Cart­ ridge Music, 1 9 6o; Donatoni, Black and White, 1 964 ) . Sul piano meramente grafico dell ' " oggetto " partitura, il cui ufficio prioritario dovrebbe essere quello di «identificare un'opera» (Good­ man, [ 1 968] 1 99 8 , p. 1 1 5 ) , l'apertura può evidenziarsi quale prescri­ zione autoriale in un contesto di assoluta definitività grafica o grazie all'impiego di sistemi notazionali volutamente ambigui in cui sono implicite molteplici risposte - compatibili o contraddittorie - alle do­ mande interpretative poste dalle peculiarità segniche del testo . In en­ trambi i casi la pagina non restituisce alla lettura l'immagine sonora di un'opera non più congruente o acusticamente equivalente con il suo segno grafico . Il sistema di simboli in essa codificato, a prescinde­ re dal grado di parentela con la semiografia tradizionale, restituisce ad ogni esecuzione una delle prospettive sonore coesistenti nell' oriz­ zonte grafico dell'opera. Ma, anche laddove l'indefinitezza testuale sia massima, il testo consegnato all'interprete (partitura, guida operativa, progetto ecc . ) corrisponde - pur nella sua ambiguità - a un disegno autoriale compiuto, che solo incorrendo in un errore di prospettiva può essere paragonato a uno schizzo o a un prodotto " non finito " . Fraintendimento, quest'ultimo, invero radicato nella pubblicistica de­ dicata all'opera aperta nella quale, sulla scia di alcune affermazioni di Eco, si evidenzia uno slittamento di senso tra " chiuso" e "finito" («è chiaro che opere come quelle di Berio o di Stockhausen [. .. ] , detto volgarmente, sono opere "non finite" , che l' autore pare consegnare all'interprete più o meno come i mezzi di un meccano, apparente­ mente disinteressandosi di come andranno a finire le cose»; Eco, 1 95 9 , p. 34 e 1 962 , p. 3 5 ; «L'autore offre insomma al fruitore un'o­ pera da finire»; 1 95 9 , p . 4 9 e 1 96 2 , p . 5 8 ; «vitalità strutturale che l'opera possiede anche se non è finita»; 1 95 9 , p. 5 0 e 1 96 2 , p. 6o) . 3 22

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L'ambiguità teorica nasconde in questo caso un'equivoca confusione tra opera in quanto progetto estetico - sempre compiuto (o "finito " , secondo l a terminologia d i Eco) anche nelle poetiche dell'indetermi­ nazione - e opera in quanto processo o prodotto artistico che, solita­ mente ora da combinare ( realtà differente dal " finire " ) , usa spesso l' interprete come strumento o veicolo di " chiusura " . In quest'ottica, l'opera aperta si definisce quale risultato di un progetto estetico con­ chiuso che assume deliberatamente contorni mobili e/o ambigui (aperti) che proiettano la sua identità verso l'indefinito. Che l'inten­ zione finale dell' autore si esprima volontariamente nell'indetermina­ zione non è d'altronde sempre sinonimo di un ideale di " definitività imperfetta" o " parziale" che porterebbe a evitare e/o liquidare gli ul­ timi gradini della scala del processo creativo tradizionalmente inteso. L'osservazione di alcuni comportamenti compositivi ha al contrario dimostrato come talora l'apertura di un testo corrisponda all"'esplo­ sione" di un'unità completamente strutturata ( " chiusa" ) e sottoposta solo a posteriori a una pratica di taglio e montaggio debitrice verso una tecnologia di scrittura elettronica (De Benedictis, 2 004 ) . Tale esperienza viene a coincidere con un'altra prospettiva estetica, quella del frammento, propria di alcune procedure di indeterminazione for­ temente orientate verso la deflagrazione dei modelli lineari di rappre­ sentazione del pensiero musicale. Il concetto di apertura in musica - arte che si sviluppa nel tem­ po - investe soprattutto problematiche relative alla forma, conseguen­ ti alla rottura degli " s chemi temporali" tradizionali nei quali essa si dispiega. È stato d'altronde giustamente rimarcato come nelle tratta­ zioni teoriche sull'indeterminazione si arrivi spesso ad assimilare o a confondere il concetto di opera con quello di forma (Schmidt, 1 99 2 , p . I O ) . L a ripercussione dell'indeterminazione sul dato grafico, sulla partitura, evidenzia la centralità della problematica temporale: nelle diverse manifestazioni grafiche aleatorie e/o indeterminate, è soprat­ tutto la partitura in quanto oggetto temporale a essere rifiutata a fa­ vore di un progetto artistico che, molto spesso, enuclea gli eventi sen­ za stabilirne la durata. Per orientarsi nella molteplicità e nell' eteroge­ neità delle creazioni " aperte " , vari studiosi si sono cimentati in classi­ ficazioni basate sull'individuazione di caratteristiche qualitative e quantitative dell'indeterminazione. Tra queste (Dahlhaus , 1 9 66, p. 7 4 ; Boehmer, 1 967, p. 1 2 8 ; Gieseler, 1 97 5 , p. 1 3 9 ) l a più esaustiva può considerarsi quella proposta da Pascal Decroupet che, a partire da un sistema di classificazione basato su tre livelli costitutivi dell'opera fonte strumentale, struttura degli eventi sonori e forma (intesa come

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rapporto tra sezioni e strutture) -, individua otto differenti tipologie di apertura; la capacità tassonomica di tale griglia è sufficientemente flessibile per permettere di annoverare alcune opere in differenti tipo­ logie (Decroupet, 1 99 7 , pp. 1 9 1 - 8 ) . Definendo a nostra volta le variabili i n S strumento (voci tim­ briche), P parametri delle strutture (eventi sonori) e F forma, nella realtà binaria chiusa (c) o mobile (m), tali tipologie possono es­ sere così enumerate: r . S c-P c F c: partiture in cui il testo è interamente fissato ( come nella già citata Music o/ Changes di Cage); 2. S c-P c- F m : partiture modulari in cui è contemplata la fungibilità di strutture e/o sezioni del tutto definite (Boulez, Troisième Sonata, 1 95 5 - 5 7 ; Stockhausen, Klavierstiick XI, 1 95 6 ; Pousseur, Scambi, 1 95 7 , Caractères I , 1 9 6 1 ; Evangelisti, Aleatorio, 1 9 64; Lutoslawski, Preludes and Fugue, 1 97 2 ) ; 3 · S c-P m-F c: partiture i n cui l e decisioni locali sulla realizzazione di alcuni parametri sono lasciate all'interprete (Berio, Sequenza I, 1 9 5 8 , Circles, 1 9 60-6 1 ; Cerha, Spiegel II, 1 9 6 1 - 6 3 ; Ligeti, Volumina, 1961 -62); 4 · S c-P m-F m : partiture i n cui l e decisioni locali per l a definizione delle singole strutture così come la loro organizzazione formale sono lasciate agli interpreti (Pousseur, Mobile, 1 9 5 8 ; Brown, Available Forms I e II, 1 9 6 1 - 6 2 ; Haubenstock-Ramati, Mobile /or Shakespeare, 1 9 6 1 ; Maderna, Ausstrahlung, 1 970-7 1 ; Bussotti, Five Piano Pieces /or David Tudor, 1 95 9 , in realtà "adozione pianistica" di disegni realizzati nel 1 94 9 ) ; 5 · S m-Pc-F c : partiture notate precisamente m a non destinate ad al­ cuno strumento specifico (Maderna, Dialodia, 1 9 7 2 ) ; 6 . S m-Pc-F m : partiture modulari composte da strutture definite per le quali non è specificata alcuna strumentazione ( Stockhausen, Mikro­ phonie I, 1 964); 7 · S m-P m-F c : partiture dal tracciato formale chiuso che prevedono un margine di libertà nell' articolazione parametrica delle strutture e nella destinazione strumentale (Brown, Hodograph I, 1 95 9 ) ; 8 . Sm-Pm-Fm: partiture in cui tutti i dati risultano mobili, talora presentate in forma grafica e/o ridotte alla consegna di indicazioni verbali per " elaborare " un testo (Cage, Variation I, 1 9 5 8 ; Schnebel, Glossolalie, 1 95 9 ; Stockhausen, Plus-Minus, 1 9 6 3 ) . In quest'ultima tipologia potrebbero essere anche annoverate ope­ re che, per qualità e quantità di indeterminazione, evidenziano de­ clinazioni del tutto particolari del concetto di apertura e, conseguen=

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temente, un'implicita refrattarietà ad essere inserite in classificazioni di sorta. Le prime tra queste sono alcune opere basate su un peculia­ re processo compositivo che potremmo chiamare " additivo " (mutuan­ do intenzionalmente il termine dalla composizione elettronica) . Si tratta di composizioni realizzate di volta in volta con materiali nuovi e/o già composti (ready-made), le cui singole componenti possono fungere a loro volta da tasselli modulari per nuove opere o come bra­ ni potenzialmente autonomi (si pensi a varie pagine di Maderna degli anni sessanta- settanta, tra le quali il complesso che va sotto il nome di Hyperion, o al cageano Atlas Eclipticalis, r 9 6 r - 62 ) . In questi casi il concetto di permutabilità è ulteriormente esteso all'intera composizio­ ne che, per senso e funzione, equivale al ruolo di struttura e/o di materiale; l' attività creativa volge alla produzione di un repertorio di brani autonomi che, nello stesso momento, sono potenzialmente fun­ zionali alla costituzione - per assemblage o innesto - di una totalità sempre diversa intesa come costellazione di strutture mobili. Lo slit­ tamento di destinazione e la potenziale ibridazione con altri brani non rendono incongruo lo statuto di questi "materiali" bensì, nel ca­ rattere composito dell' aggregazione, lo rinnovano . Inseribili nelle precedenti otto tipologie solo a costo d i evidenti forzature sono invece alcune opere intese come action per/orming, dove la ricerca dell'assoluta spontaneità porta a far convergere inten­ zione e risultato in un atto simultaneo. L' utopia dell'irripetibilità del­ l'opera, della sua natura di " evento " transeunte, tocca qui punti estremi rivelatisi quasi sempre insoddisfacenti o inadeguati. Rientrano in questa categoria i cosiddetti people processes (Nyman , [ r 974] 1 999, p. 5) e la musica "intuitiva " , in cui la prescrizione dell'evento sonoro diviene esclusivamente verbale ( Stockhausen, Aus den sieben Tagen, r 9 6 8 ; Cardew, Schooltime Special, r 9 6 8 ; Wolff, Play, r 9 6 8 ) . Un di­ scorso a parte meritano invece le manifestazioni note sotto i termini di improvvisazione e happening, o alcune esperienze debitrici all'arte concettuale (Kagel, Schnebel), dove si rasenta il punto di massima !a­ bilità nei confini tra arte e arte, per le quali il concetto di apertura risulta inadeguato tanto quanto quello di opera diviene improprio (si accenna solo qui alla problematica dello scacco procurato da situazio­ ni performative che, nel ricercare la massima spontaneità, hanno visto fallire i propri scopi inibendo proprio ciò che si proponevano di libe­ rare, la fantasia dell'interprete. Non è del resto un caso che i più noti gruppi di improvvisazione fossero composti esclusivamente da com­ positori - Nuova Consonanza - o guidati dallo stesso compositore gruppo di improvvisazione di Stockhausen ) .

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Stati Uniti versus Europa : libertà di controllo - controllo della libertà Dalle prime prove indeterminate o aleatorie degli anni cinquanta ri­ sulta con evidenza quanto le problematiche sentite dai compositori americani ed europei fossero inizialmente differenti . Negli Stati Uniti, dove il fenomeno emerse tra il I 9 5o e il I 9 5 I con un certo anticipo rispetto al continente europeo, le prime composizioni proiettate verso nuove frontiere creativo-interpretative (svincolate o meno da una se­ miografìa tradizionale) appaiono in un momento in cui in Europa i compositori più impegnati cominciavano a cimentarsi con la serialità integrale. Per una singolare analogia tra fatti storici e fatti artistici, per compositori quali John Cage, Morton Feldman, Christian Wolff, La Monte Young o Earle Brown la decostruzione del linguaggio e/o della sintassi musicale (o, se si vuole, la ricerca di un nuovo modo per veicolare il messaggio artistico) non presupponeva una necessaria " ricostruzione" o una volontà di " riordinamento " , esigenza, quest'ul­ tima, sottesa alla sperimentazione seriale. Quello che per gli uni era vissuto come ineluttabile, era per gli altri estraneo o percepito come tale, muovendo gli interessi non dalla ricerca di un linguaggio rigoro­ so e oggettivo atto a ricucire una lacerazione nella sperimentazione musicale causata dagli eventi bellici quanto, piuttosto, dalla volontà di liberare il suono dalle sedimentazioni di senso proprie della tradi­ zione, nonché da una propensione verso la non-intenzionalità o l'in­ consapevolezza dell'atto creativo. La differenza si inscrive nel quadro di una dialettica tra natura e artigianato, tra libertà dal controllo e controllo della libertà. Cosicché, il punto di partenza di quel tragitto che in entrambi i casi ha portato a un progressivo annullamento (o riconnotazione) dei parametri musicali muove in un caso ( Stati Uniti) dal suono, nell' altro (Europa) dal tempo, ossia dalla prima dimensio­ ne " s ovraordinatrice" dell'artefatto musicale anche qui, per estensio­ ne, fatta deflagrare in nome di una sperimentazione condotta solo ap­ parentemente via negationis. Nel processo di liberazione del suono, di progressivo de-control­ ling degli elementi sonori (Feldman, [ ! 966] I 9 85 c, p . 4 8 ) o di «libe­ razione di tutti i suoni udibili dalle limitazioni del pregiudizio musi­ cale» (Cage, [ I 94 8 ] I 99 3 a , p. v ) , il primo parametro sottratto alla convenzione (creativa e performativa) è l'altezza. Proprio l'indifferen­ za verso il concetto di altezza è, in area americana, visibile fìn dai brani che a buon diritto possono essere considerati i primi riusciti tentativi di affrancamento da una notazione tradizionale a favore di

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un sistema di rappresentazione grafica: le Projections di Morton Feld­ man ( I, per violoncello solo, 1 9 50; n- v per strumenti vari, 1 95 1 ) . Ar­ chiviati in un colpo il pentagramma e il codice semiografico classico («questa musica non poteva essere notata nel vecchio modo. Ogni nuovo pensiero [ . . .] suggerisce la propria notazione»; Feldman, [ r 966] r 9 85 c , p. 4 8 ) , il compositore "intavola" i suoni in un sistema grafico che suddivide genericamente i registri in tre aree (grave, me­ dio e acuto ) . Indeterminato in quanto ad altezza e dinamica, il suono è definito solo per la sua qualità timbrica (ad esempio: pizzicato, ar­ monico o arco nel caso delle Projections I e IV) ed è «proiettato nel tempo, libero da ogni retorica compositiva» (Feldman, [ r 967] 1 985b, p . 3 8 ) all'interno di unità temporali scandite regolarmente. Affrancato dalle maglie di una rigida rappresentazione frequenziale, esso diviene parte flessibile di un insieme le cui singole componenti si equivalgo­ no: decise le sole " altezze frontiera" che separano le tre regioni regi­ striche, ogni suono compreso al loro interno può comparire al pari di un altro. Tale sistema, applicato in seguito anche ad alcune composi­ zioni orchestrali (Intersections I, 1 95 1 ; Atlantis, 1 95 8 ; Out o/ Last Pie­ ces, 1 9 6o) , cominciò a rivelare con il tempo dei limiti di scarsa duttili­ tà performativa che portarono a un suo graduale abbandono a favore di "tele temporali" dotate di una maggiore plasticità (Feldman, [ 1 967] 1 9 85b, p. 3 9 ) . Sebbene nuovamente disposte in pentagramma, le altezze assolvono comunque una funzione più temporale che regi­ strica, tanto da poter interpretare le sue pagine notate convenzional­ mente come «lo stesso Feldman che suona la sua musica grafica» (Cage, in Feldman, 1 9 85a, p. 2 8 ) . I suoni, indeterminati ritmicamen­ te, colorano queste tele e ne esperiscono la superficie con la durata fisiologica del riverbero (Durations I-V, De Kooning, 1 9 64) o con una "polifonia" di riverberi delle medesime altezze suonate a velocità dif­ ferenti (Piece /or Four Pianos, 1 95 7 ) . Anche per John Cage il grado di disinteresse per il concetto di altezza (o, più in generale, verso l'armonia e/o i rapporti armonici) è direttamente proporzionale all'attenzione riposta nella dimensione rit­ mico-temporale, evidente nell'uso delle strutture ritmiche adoperate fin dagli anni trenta ( Trio, 1 9 3 6 ; First Construction (in Meta!), 1 9 3 9 ; Three Dances, 1 945 ; Music /or Marcel Duchamp, 1 947; Music o/ Chan­ ges, 1 95 1 ) così come nella predilezione per gli strumenti a percussio­ ne, elettronici e per tutte quelle realtà musicali in cui «l'armonia non è essenziale» (Cage, [ r 946] 1 99 3 c, p. 2 5 ) . Sancita in varie composi­ zioni degli anni quaranta - Living Room Music, 1 940; Credo in Us, 1 942 ; nei vari Imaginary Landscapes ecc. -, l'approdo estremo di que­ sta indifferenza verso il materiale sonoro si celebra in 4 '3 3 " ( realizza-

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ta nel 1 95 2 sebbene già concepita nel 1 94 8 ) , dove l'unico dato che resta è la sola componente che accomuna suono e silenzio: il tempo. L'indifferenza nei confronti di qualsiasi parametro musicale - il bra­ no è destinato a qualunque strumento o gruppi di strumenti - è bi­ lanciata (o, se si vuole, potenziata) dall' attenzione per la dimensione temporale, articolata in questo caso in una sorta di " paradosso tri­ partito " composto da tre singole sezioni di «Tacet», i cui tempi par­ ziali - prescritti in partitura - sommano per l' appunto 4 minuti e 3 3 secondi. L' affermazione di Earle Brown, secondo cui nella sua musica la «liberazione del suono» coincide con quella «del tempo» (Brown, 1 966, p. 5 8 ) , potrebbe condurre a una diversa interpretazione delle sue prime esperienze indeterminate; ma, anche in questo caso, il tem­ po è inteso, alla pari di Feldman, come una «"tela" sulla quale la forma musicale diviene osservabile» mediante una libera «disposizione di elementi» al suo interno . Il dato temporale, inteso olisticamente come " tempo-spazio " ed esaltato quale risultato " soggettivo " dell'in­ terprete, è pur nella sua apparente negazione l' «elemento strutturale (come lo spazio nelle arti visive) » (ivi, p. 64) sia che al suo interno gli elementi siano completamente indeterminati - si pensi all'insieme di pezzi chiamati Folio, scritti tra il 1 9 5 2 e il 1 9 5 3 , in cui spicca De­ cember r 9 5 2 , composta esclusivamente da 3 1 differenti rettangoli ver­ ticali e orizzontali collocati nello spazio -, sia che esso sia invece l'u­ nico elemento libero in cui risuonano altezze, timbri e intensità con­ trollate ( Twenty-Five Pages, 1 9 5 3 ; Available Forms, 1 9 6 1 ; Corroboree per 3 o 2 pianoforti, 1 9 64 ; Quartetto, 1 9 65 ) . È importante sottolinea­ re come per le proprie poetiche dell'indeterminazione i compositori si siano dichiaratamente ispirati alle coeve sperimentazioni condotte nelle arti figurative: per Feldman il debito va alla produzione e alla poetica di Guston, Pollock, Rothko, Rauschenberg ecc. (Feldman, [ 1 967] 1 9 85b, pp. 3 8-4o) ; per Brown l'influsso principale è quello di Calder e dei suoi mobilès (Brown, 1 9 66, p. 62 ) , mentre per Cage l'in­ flusso si estende fino alle avanguardie figurative continentali: «A chiunque possa interessare: I quadri bianchi vennero per primi; il mio pezzo silenzioso venne più tardi» (Cage, 1 9 7 1 b, p . 1 2 ! ) . In questa concezione del tempo come «cornice da riempire» (Wolff e Cage, in Nyman, [ 1 974] 1 9 99, p. w), in cui il controllo del­ le altezze è ininfluente e il concetto di irreversibilità indiscusso, si mi­ sura l'iniziale distanza con le prime sperimentazioni indeterminate eu­ ropee dove, al contrario, strutture più o meno definite ( campi sonori, gruppi, blocchi ecc . ) si svolgono in un tempo sempre più minato nel­ la sua funzione di vettore direzionale degli eventi sonori. Ancorati al

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concetto di altezza - parametro " aperto " solo verso la fine degli anni cinquanta -, per i compositori europei è il dispiegamento dell' opera nel tempo d'as colto, con il susseguirsi di parti che trovano senso e completezza in un tutto, a divenire il primo «compito da ponderare e risolvere» (Adorno, [ 1 9 6 1 ] 2 0o4d, p. 2 3 6 ) . Eloquenti, in proposito, gli esempi forniti dalle prime opere aperte realizzate da due tra i maggiori esponenti dell' avanguardia europea, Stockhausen e Boulez, entrambi accomunati dall'esperienza dei Ferienkurse /iir Neue Muszk di Darmstadt, teatro privilegiato delle diverse tendenze dell' avanguar­ dia musicale post-bellica e, con la partecipazione di Cage nel 1 9 5 8 , catalizzatore delle sue idee sull' alea (Decroupet, 1 99 7 , p p . 2 3 1 -40). L'approdo alle strutture mobili per Boulez scaturisce direttamente da problematiche proprie alla serialità integrale, del tutto estranee a qualsiasi tipo di apertura o a quel caso già respinto con decisione nel corso della corrispondenza intrattenuta con Cage tra il 1 949 e la pri­ ma metà degli anni cinquanta (così in una delle ultime lettere del 1 95 4 : «io non ammetto - e dubito che mai l'ammetterò - il caso come componente di un'opera finita. Posso accettare la possibilità di musica stretta o libera [. .. ] . Ma del caso no, non posso assolutamente sopportarne il pensiero ! » ; Boulez, Cage, 2 002 , p. 2 42 ) . La domanda alla quale Boulez sembra rispondere con i due formanti editi della III Sonate ( Trope e Constellation-Miroir) muove dalla constatazione del­ l'illusoria capacità di variazione consentita dall'organizzazione globale e rigorosa di tutti i parametri musicali, denunciata dal compositore francese fin dal 1 9 5 4 . L' alternativa all'assenza di variazione fu vista nel ricorso a una pratica che, conciliando il rigore con momentanee concessioni al libero arbitrio, permettesse di articolare sviluppi in modo dinamico e non omogeneo in un " circuito aperto " consono a quel rifiuto tematico implicito nelle procedure seriali. Dai singoli ele­ menti e/o parametri musicali il principio della permutazione si esten­ de a intere sezioni costitutive dei brani, evoluzione logica e «piena­ mente giustificata poiché lo stesso principio organizzatore governa tanto la morfologia quanto la retorica» ( Boulez, [ 1 95 7 ] 1 9 68b, p. 5 I ) . La concessione al caso nasce dunque dalla ricerca di una " rivoluzione permanente" , di un universo ambiguo e relativo (Boulez, [ r 964] 1 9 84c, p . 1 2 6 ) . Da qui l'idea di opera "labirinto " (Boulez, [ 1 957] 1 9 68b, p . 44; [ 1 964] 1 9 84c, pp. 1 2 8 - 9 ) che, ispirata apertamente alle sperimentazioni condotte in campo letterario da scrittori quali Mal­ larmé o Joyce (ma anche Kafka e Butor) , rivendica «il diritto alla pa­ rentesi e al corsivo» (Boulez, [ 1 954] 1 9 68c, p. 3 3 ) e rigetta i tracciati formali corrispondenti a una «semplice traiettoria da percorrere tra un punto di partenza e uno di arrivo» (Boulez, [ 1 9 64] 1 9 84c, p .

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1 2 8 ) . I due modelli letterari si celano d'altronde dietro una disposi­ zione grafica che si vuole adeguata al contenuto musicale; cosicché in Constellation-Miroir ( "mallarmeiano " ) la funzione assunta dall'assetto tipografico del testo letterario è trasferita ai segni di concatenazione che corredano le sequenze del brano, mentre in Trope ( "joyciano " ) Boulez integra nel testo fisso commentari supplementari tra parentesi (Pereira, 1 9 9 6 ) . Ma, benché labirintico, il tracciato formale dei due brani è del tutto controllato e coerente; i percorsi suggeriti dalla pagi­ na sono precisamente organizzati dal compositore che lascia all'inter­ prete esclusivamente una "libertà guidata" che consenta di esperire l'opera quale rete di possibilità non esauribili in una singola esecuzio­ ne (Boulez, [ ! 9 64] 1 9 84c, p. 1 3 7 ) . L a volontà di permutare l' elemento temporale è altrimenti decli­ nata da Stockhausen nella cui pratica - utopicamente mirata alla con­ quista di un tempo reversibile e svincolato da un decorso empirico si esplicitano maggiormente gli influssi della sperimentazione elettro­ nica (ricerca che «ha sviluppato il pensiero di una nuova morfologia del tempo musicale»; Stockhausen, [ ! 95 6] 1 96 3 f, p. 1 2 4 ) . Se discu­ tibile rimane la visione di un diretto condizionamento derivato dal­ l'ascolto di Cage nel 1 954 (Charles , in Cage [ 1 976] 1 9 99, p. 1 2 7 ; si leggano al contrario le critiche mosse al suo trattamento del tempo in Stockhausen, [ 1 95 6] 1 9 63 f, p. 1 3 0 ) , esplicite risultano le suggestioni procurate nello stesso anno dalle teorie sui processi statistici di Wer­ ner Meyer-Eppler, docente di scienze della comunicazione legato allo Studio di musica elettronica della Radio di Colonia. Da alcuni punti di vista, nella disposizione sparsa dei 1 9 frammenti musicali che com­ pongono la " costellazione sonora" di Klavierstiick XI ( 1 95 6 ) , e nella loro libera combinazione da parte dell'interprete, può intravedersi una traduzione sonora degli esperimenti condotti nei seminari con Meyer-Eppler, in cui testi artificiali erano prodotti a partire da parole o sillabe ritagliate da giornali ( Stockhausen, in Cott, 1 9 7 3 , p. 6 8 ) . In entrambi i casi il risultato è statisticamente incluso nel materiale di partenza, che può dare vita a «un numero di differenti soluzioni, tut­ te ugualmente valide» (Stockhausen, [ 1 9 6 ! ] 1 9 63b, p. 24 1 ; ma cfr. la critica di Boehmer, 1 9 67, p. 202, che vede in questo tipo di forme combinatorie un regresso) . Secondo la stessa classificazione di Stoc­ khausen, ripresa in modo aproblematico da alcuni studiosi (Blumrèi­ der, 1 9 84) - questa caratteristica, condivisa da Klavierstiick XI e dalle successive Zyklus e Re/rain ( 1 95 9 ) , è propria delle «forme polivalen­ ti>> (vieldeutige Formen ) alle quali, nel suo cammino verso l'indetermi­ nazione totale, segue la tappa della Moment/orm sperimentata in Car­ ré, del 1 95 9-60, Kontakte del 1 960, e Momente del 1 9 6 1 -62 ( Stock330

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hausen, [ 1 96 ! ] 1 963b, pp. 2 4 1 - 5 1 ) . Il problema posto dal rifiuto di una forma basata sul principio drammatico è qui affrontato nuova­ mente con l'approdo a una composizione di singoli momenti visti ognuno come centro indipendente e autosufficiente sebbene collegato con gli altri ( Stockhausen, [ 1 96o] 1 963 c, p. 1 9 0 ) . Nei suoi presuppo­ sti teorici, l' autore sembra voler sfidare le leggi percettive e di scorri­ mento temporale intendendo ogni momento (o evento sonoro) come uno spaccato temporale "verticale " , un nunc senza né fine né inizio, potenzialmente isolabile dal flusso d'ascolto "orizzontale" e manife­ stazione di un'«eternità che è presente in ogni momento» (ivi, p. 1 99 ) . Paradossalmente, per il compositore è proprio grazie a questa apparente perdita di ogni coordinata temporale che il fruitore può giungere a percepire il tempo in modo più intenso ( Stockhausen, [ 1 95 5 ] 1 963e, p. 9 8 ) . Sorvolando sulle successive prove stockhause­ niane nel mondo dell'indeterminazione - sempre più estranee a istan­ ze musicali e dettate da una mistica qui non in discussione - non si può tacere della critica rivolta da Adorno alla Moment/orm e alla sua chimerica idea di mutare sia il corso del tempo sia le modalità di per­ cezione. Premesso che «l'articolazione sensata della musica, la sua lo­ gicità interna, è stata sempre legata a ripetizioni esplicite o latenti», il filosofo sottolinea come anche il «postulato della non ripetizione, del­ la dissomiglianza assoluta, richiede un momento di uguaglianza in rapporto al quale il dissimile possa essere definito come tale. [ . . . ] Se il bisogno di articolazione musicale non viene soddisfatto, persino l'incessante mutamento scivola in monotonia e staticità» (Adorno, [ 1 96 5 ] 2 004b, p. 2 8 7 ) .

17 - 4 Percezione, ascolto e meccanismi di fruizione dell'opera aperta

Spostato così l'asse di osservazione dalla creazione dell'opera alla sua fruizione, si evidenziano altre problematiche e nuove ambiguità. Dalle pagine dedicate da Eco a forma e indeterminazione (Eco, 1 95 9 ; 1 96o; 1 9 62 ) alle più recenti trattazioni (Rivest, 2 00 1 ) si perpetua un frain­ tendimento dovuto a una sbrigativa equiparazione tra i ruoli del com­ positore, dell'interprete e dell'as coltatore che - sulla scia di poetiche "aperte" proprie alle arti visive e spazio-temporali - si vogliono acco­ munati nella condivisione di «uno stesso atteggiamento interpretati­ va» (Eco, 1 9 62 , p. 3 3 nota ) . Nell'equiparare i ruoli (e le conseguenti funzioni) degli " attori " dell' evento musicale si ingenera una confusio33 1

ESPRESSIOI':E, FORMA, OPERA

ne tra cause ed effetti dimentica della sostanziale invariabilità dei meccanismi d'as colto anche nei fenomeni più estremi di indetermina­ zione. Detto altrimenti: ai fini dell'esecuzione, della performance, il pubblico non interpreta e, laddove accidentalmente o volontariamen­ te sia portato a farlo, il suo statuto diviene simile a quello dell'inter­ prete e come tale va analizzato. Similmente, è del tutto fuorviante l'immagine di un interprete che, al pari dell'ascoltatore, realizzi opere aperte portandole a termine «nello stesso momento in cui le fruisce esteticamente» (ivi, p. 3 3 ) . Nell'atto musicale i momenti della decodi­ fica e dell'interpretazione sono sempre distinti da quelli della fruizio­ ne estetica; la convergenza interprete/fruitore (in una sorta di fittizia ubiquità dei ruoli) è condizione estranea al processo performativo se non nei processi di riproduzione meccanica del suono . L' auspicato e celebrato «nuovo rapporto tra contemplazione e uso dell'opera d'arte» (Eco, r 9 5 9 , p. 5 2 , quindi in r 96 2 , p. 6 3 ) è assunto inficiato dall'evi­ dente realtà che anche nella fruizione di opere aperte il pubblico continua a " contemplare" e l' esecutore a "usare" la pagina fornita dal compositore e a porsi come intermediario (potenziato nella sua fun­ zione di decodifica) tra quest'ultimo e chi ascolta. Che l'opera aperta voglia sfidare «deliberatamente la linearità del processo comunicativo delle opere chiuse» (Granar, 2 002 , p. 2 5 ) è asserto confutato dalla considerazione che, al di là del progetto creativo, la percezione esteti­ ca dell'opera aperta si pone in assoluta continuità storica con le for­ me precedenti . Sempre nel dominio dell'ascolto, resiste a tutt'oggi l' equivoca con­ cezione dell'opera aperta come offerta di «approcci multipli» per l'a­ scoltatore (Rivest, 2 oo r , p. 3 r 2 ) . In quanto esperienza unica e irre­ versibile, nell'ascolto - o meglio, in un ascolto - non può riflettersi la molteplicità delle realizzazioni possibili di una partitura aleatoria. Quanto proposto in una esecuzione - per quanto generato da un'o­ pera completamente indeterminata o del tutto improvvisata - giunge comunque all'ascoltatore come unità comunicativa chiusa e in sé compiuta ( cfr. anche Boehmer, r 9 6 7 , p. 9 9 ) , a conferma che una cosa è l'intenzionalità estetica, un'altra la fruibilità estetica. Come arguiva Dahlhaus già nel r 966, per l'ascoltatore il concetto di variabilità non esiste: nel dominio aurale essa è una «finzione estetica» (Dahlhaus, r 9 66, p. 74). A tale constatazione è stato replicato che più audizioni o un propedeutico studio analitico possono comunque rendere l'inde­ terminazione " riconoscibile" all'ascolto (Karkos chka, r 9 67, p. 5 r ) . Ri­ sposta che proietta la problematica all'interno di un circolo vizioso in cui, oltre a evidenziarsi un'intrinseca confusione tra i piani sostanzial­ mente differenti dello studio (attività di analisi) e dell'ascolto ( attività 332

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di sintesi), si palesa una contraddizione che rafforza e avvalora la po­ sizione di Dahlhaus : nel momento in cui più ascolti rendono ricono­ scibile l' apertura, il riferimento va a un'immagine dell'opera che, per­ mettendo il confronto in quanto modello, si rivela un "prototipo " la cui "finzione estetica" è difficilmente discutibile. Se nei spesso citati mobilès di Calder è possibile osservare al con­ tempo la struttura e le sue variazioni in movimento in un campo per­ cettivo dato, in musica si può fruire invece una sola variazione della struttura (ossia una sola versione per volta) , realtà che esclude la pos­ sibilità di percepire il suo "movimento" in quanto tale. La sola au­ tentica differenza che sul piano della fruizione sembra dimorare tra opere aperte e chiuse risiede nel progressivo attenuarsi del concetto di adeguatezza - o inadeguatezza - interpretativa: per statuto, ogni esecuzione di un'opera aperta è plausibile (Schmidt, 1 99 2 , pp. 14-5 ) . Ma, in definitiva, la problematica della percezione dell'indetermina­ zione - lontana dal compromettere il valore o lo «scopo» dell'opera aperta (come affermato in Stockhausen, [ r 9 75] I 97 8 , p. 5 7 3 e in N attiez, [ I 987] I 9 8 9 , p. 6 5 ) - conduce a problematiche che toccano solo tangenzialmente l'essenza del fenomeno. Più che la capacità di riconoscere la mobilità, è infatti la potenzialità di trasformazione del­ l' opera, la volontà di rendere unica ogni sua esecuzione, ad essere ve­ rosimilmente il fine primo di un fenomeno che nel suo evolversi (e nel suo languire) ha sempre avuto come prius l'aggettivazione di un messaggio artistico. Un ultimo accenno merita un ulteriore luogo comune della pub­ blicistica sull'opera aperta riservato alla celebrazione delle nuove frontiere creativo-interpretative raggiunte dall'esecutore. Le riserve nei confronti di questa visione sovradimensionata del ruolo dell'inter­ prete - che, se si vuole, aveva visto accrescere la sua importanza già con il serialismo (Mosch, I 994) - si basano sul suo carattere astorico, apparentemente ignaro delle differenti problematiche e dei " conflitti " che nelle diverse epoche hanno contraddistinto il rapporto tra esecu­ tore e testo scritto . Ad esclusione dei casi in cui i ruoli del composi­ tore e dell'interprete convergano nella medesima persona, nella realiz­ zazione di pagine indeterminate il ruolo dell' esecutore - di cui si è già menzionata la sua funzione di " strumento " , di mezzo nel processo costitutivo di un'opera aperta - solo in rari casi coincide con il ruolo di co- creatore postulato da alcuni (da Eco, 1 962 a Rivest, 2 00 I ) . Sommando tutte le precedenti osservazioni, si può plausibilmente affermare che, nel campo della fruizione più che in quello della crea­ zione di opere indeterminate, Adorno ( [ r 9 6 I ] 2 oo4d p. 240) aveva visto giusto allorché, citando Cocteau, si stupiva «di quanto poco ol,

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ESPRESSIOI':E, FORMA, OPERA

tre il limite si è andati superando il limite» . Sull'opera aperta, di cui non sono in discussione il valore e l'ineluttabilità nel quadro di un processo storico di evoluzione del linguaggio musicale, gravano anco­ ra alcune problematiche non risolte da un dibattito rimasto invero sempre a uno stadio embrionale . Tra queste, la riflessione sul muta­ mento o sulla validità del concetto di identità dell'opera nelle forme più audaci di apertura, problematica per la quale appare insufficiente l'equiparazione che assimila l'opera al progetto d' autore.

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Multimedialità e metamorfosi del concetto di opera di Sara Gennaro

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Gianmario Borio

1 8 . 1 Che il suono sia al centro del concetto di opera d' arte musica­ le e che ne costituisca in qualche modo l' essenza è un' affermazione che ha dell'ovvio. L'opera musicale così come è venuta a configurarsi nel corso di alcuni secoli, fino alla definizione di un vero e proprio paradigma dell'opera tra XVIII e XIX secolo, si costruisce sulla cen­ tralità del suono e sulla conseguente esclusione di tutto ciò che non è suono. L'idea di musica assoluta, consolidatasi più o meno parallela­ mente a quella di opera d'arte musicale, fa riferimento a una musica sciolta da ogni legame con tutto ciò che appartiene ad altre sfere del­ l'esperienza (Dahlhaus, [ 1 97 8 ] 1 9 8 8 ) . Quello della musica assoluta rappresenta un ideale che non ha mai trovato un perfetto riscontro nella concreta pratica musicale, che ha sempre contemplato anche esperienze per loro natura ibride, in primo luogo il teatro musicale. Nella storia dei concetti musicali essa ha però rappresentato un mo­ mento fondamentale che a tutt'oggi informa gran parte del nostro immaginario musicale e della nostra esperienza della musica. Per esempio le modalità di esecuzione e di fruizione della musica d' arte occidentale e la struttura degli spazi in cui essa avviene, le sale da concerto, si basano su un ideale di produzione e as colto rivolto prin­ cipalmente all' aspetto sonoro e formale dell'opera. Nella nostra epo­ ca si tende a " confezionare" e a fruire e dunque a sussumere sotto il concetto di opera anche produzioni musicali che sono nate con tut­ t' altre finalità, come la musica improvvisata o quella delle tradizioni orali, per mezzo degli strumenti di registrazione e riproduzione del suono (Goehr, 1 9 9 2 ) . Molte esperienze novecentesche si sono tutta­ via mosse in direzione opposta, verso una commistione tra gli ambiti percettivi. In primo luogo, le avanguardie storiche e quelle post-belli­ che hanno posto al centro dei loro interessi proprio l' erosione o lo scontro diretto con l'idea romantica e borghese dell'opera d' arte, mi­ rando a stravolgere le tassonomie e le delimitazioni su cui essa si ba­ sava. In secondo luogo, la tecnologia elettronica, che nel corso del 335

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xx secolo ha trasformato in modo radicale la vita sociale e culturale, ha dato un impulso fondamentale a questa tendenza alla convergenza tra musica e altre arti. L'invenzione del cinematografo nel r 895 può essere considerata una svolta epocale non solo perché introdusse un nuovo membro nel pantheon delle arti, ma anche perché a questo nuovo genere era con­ naturata la tecnologia elettronica. In altre parole: le particolari forme di pensiero e l'apertura strutturale che si è imposta con l' " era elet­ tronica " , lasciandosi alle spalle la chiusura e la logica formale della "galassia Gutenberg" (McLuhan, Ong), sono iscritte nel codice gene­ tico dell' arte cinematografica. La registrazione su pellicola consente non solo di realizzare una sorta di temporalizzazione della pittura (ciò che un tempo era il sogno delle immagini in movimento) , ma contiene il potenziale dell'elaborazione parallela di immagini e suono . La classificazione dei generi artistici a seconda degli a priori "tempo" e " spazio " risulta obsoleta per il cinema, che può essere considerato la prima arte dello spazio-tempo. Nel corso del xx secolo le tecnolo­ gie elettroniche compiono progressi sempre più significativi nella di­ rezione di una gestione unificata dei dati - siano essi numeri, parole dette o scritte, immagini statiche o in movimento, suoni ambientali o musicali; di conseguenza le dimensioni visive e acustiche appaiono sempre meno come ambiti distinti nell' esperienza del mondo e sem­ pre più come componenti di una struttura universale della comuni­ cazione. Questo doppio movimento tra tecnologia e arte ha coinvolto la musica e il suono fin dai primi esperimenti sinestesici che furono compiuti da pittori e cineasti (Vasilij Kandinskij , Hans Richter, Oskar Fischinger, Walter Ruttmann, Norman McLaren e molti altri) . Verso la metà degli anni sessanta, constatando l'esistenza di una propensio­ ne complementare dalla musica verso la rappresentazione visiva, Adorno ha concluso che le arti sono interessate da un processo di «sfrangiamento» (Adorno, [ r 967] 1 9 79, p . r 69 ) , di dissoluzione dei confini e di reciproca confluenza, il cui significato e le cui implicazio­ ni vanno ben al di là dei progetti sinestesici di inizio secolo. Il feno­ meno ha assunto infatti, dopo il secondo conflitto mondiale, una di­ mensione nuova: dagli esperimenti basati su simultaneità, analogie e corrispondenze tra gli ambiti sensoriali o su sconfinamenti tra i generi in cui spesso prevaleva il gusto della novità e della trasgressione, si è passati ad una pratica dello sconfinamento ben più radicale, che è diventata espressione e strumento di un movimento di trasformazione profondo dell'ordine interno del sistema dell'arte e dell'insieme dei suoi valori, dell'idea dell'arte come qualcosa di distinto dalla realtà

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della vita quotidiana e dello stesso concetto di opera. Si tratta di un processo in cui l'evoluzione della tecnologia ha avuto un ruolo decisi­ vo, accelerando e amplificando tensioni che già attraversavano il mondo dell'arte. Nelle produzioni multimediali di fine Novecento il processo di integrazione dei media iniziato con il film sonoro culmina nel trattamento simultaneo e nella reciproca convertibilità delle di­ mensioni percettive. L'ibridazione e la mescolanza degli ambiti per­ cettivi e dei materiali sono tali da lasciar presagire una profonda me­ tamorfosi se non proprio l' eclissi del concetto di opera: i sistemi digi­ tali non solo operano sintesi sempre mutevoli, ma sono generatori di possibilità tendenzialmente infinite; l'oggetto (o la situazione) multidi­ mensionale che viene proposto al godimento estetico non ha contorni precisi - un inizio e una fine, una struttura, un luogo specifico - e in alcuni casi non è neppure una realtà afferrabile nella sua interezza. I nomi di John Cage, Nam }une Paik e Joseph Beuys sono rap­ presentativi per una pratica intermediale che diventa autoriflessiva; essi percepirono che l'introduzione di nuove prospettive, dovute al lavoro simultaneo con diversi media (apertura formale, mobilità del senso, autorialità plurima, smaterializzazione, simulazione, interattivi­ tà) , finiva per minare alle radici il concetto di opera d'arte. Quel con­ cetto, la cui storia aveva conosciuto una fase di grande addensamento tra illuminismo e romanticismo, poggiava sulla netta distinzione dei materiali con i quali venivano realizzate le opere, presupponeva la se­ parazione dei campi di azione e delle competenze. Le arti del tempo seguivano principi costruttivi diversi da quelli che presiedevano alle arti dello spazio; le arti performative possedevano una dinamica sco­ nosciuta nella pittura e nel romanzo; le arti " autografiche" prevedeva­ no un modo di fruizione differente da quello delle arti " allografiche" . Nel pensiero di Cage è possibile rintracciare presupposti e implica­ zioni teoriche della metamorfosi del concetto d' opera e del reciproco confluire tra le arti nella seconda metà del Novecento . Le sue partitu­ re di azione o quelle che si limitano a porre le condizioni di un even­ to hanno svolto un ruolo emblematico per i successivi sviluppi; il suo pensiero ha esercitato un influsso diretto su molti dei protagonisti di quella che si potrebbe definire la multimedialità contemporanea. Su­ birono sicuramente un influsso diretto di Cage coloro che partecipa­ rono alle lezioni che egli tenne presso la New School far Social Re­ search di N ew York alla fine degli anni cinquanta. Quel gruppo di studenti, uno dei nuclei originari del movimento Fluxus, comprende­ va tra gli altri Allan Kaprow, che nel r 9 5 9 avrebbe "inventato " l'hap­ pening, Dick Higgins, che avrà un ruolo importante per la riflessione 337

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sul concetto di "intermedia " , George Brecht, che tra i primi esplora con i suoi events i territori tra musica, teatro e poesia. Uno dei fondamenti della poetica cageana è l'idea che l' arte deve rispecchiare in sé la realtà esterna, assumerne il carattere processuale e la complessità. Per C age l' arte non deve fornire al fruitore un og­ getto da contemplare, quanto piuttosto un'esperienza diretta che lo coinvolga personalmente: «la funzione della musica è quella di cam­ biare la mente, aprendola così all'esperienza» (Cage, [ 1 9 8 8 ] 1 9 96, p. 8z). Se si considera che nella vita quotidiana si è immersi costante­ mente in processi e si ricevono stimoli sensoriali eterogenei - che vanno a costituire un'esperienza percettiva globale, unitaria, in cui «l'udito è sempre presente e anche la vista, se uno tiene gli occhi aperti» (Cage, [ 1 965] 1 998b, p. 1 7 1 ) -, allora per Cage è questa idea di una percezione globale e multisensoriale che l' arte deve accogliere in sé. Molte creazioni di Cage spostano l' attenzione dalla forma del­ l' opera come prodotto, come oggetto " ben costruito " , come " capola­ voro " , all'opera come processo, come esperienza; il criterio della coe­ renza strutturale dell'artefatto cede pertanto il passo a quello dell' effi­ cacia della situazione performativa. In una delle celebri conferenze che tenne a Darmstadt nel 1 9 5 8 , Cage affermava, a proposito della serie delle sue Variations basate sulla poetica dell'indeterminazione: «Non sono oggetti precostituiti, e l'avvicinarsi a loro come a oggetti significa perdere completamente l'essenziale. Sono altrettante occasio­ ni di esperienza e questa esperienza non si riceve solo con le orecchie ma anche con gli occhi» (Cage, [ 1 95 8 ] 1 998a, p. 6 9 ) . Partendo d a questi presupposti, Cage produsse innumerevoli la­ vori che richiedono al fruitore un'attenzione audiovisiva. Essi si pos­ sono suddividere in due principali categorie. In primo luogo vi sono i pezzi che si pongono in un' area intermedia tra musica e teatro, grazie ad una presa di coscienza della dimensione visiva da sempre presente nelle produzioni musicali . La musica sconfina nel teatro dal momento che, per Cage, il teatro è semplicemente «qualcosa che impegna sia l'occhio che l'orecchio» (Cage, [ 1 9 6 5 ] 1 9 9 8b, p. 1 7 1 ) , e in questo senso «non è che un'altra parola per designare la vita» (Cage, [ 1 976] 1 9 99, p . 177 ). Su queste premesse si basano per esempio Water Mu­ sic ( 1 9 5 2 ) , considerato generalmente il primo esempio di musica "ge­ stuale " , e Music Walk ( 1 9 5 8 ) . La "teatralizzazione " della musica messa in moto da Cage e poi condivisa da compositori come Dieter Schnebel, Mauricio Kagel, Franco Evangelisti e Sylvano Bussotti nasce dunque da una presa di coscienza e da una conseguente enfa­ tizzazione dei caratteri visivi da sempre presenti nell'esecuzione della musica: «l'azione importante è teatrale (la musica [separazione imma-

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ginaria dell'udito rispetto agli altri sensi] non esiste)» (Cage, [ 1 95 5 ] 1 97 r a, p . 3 3 ) . I n secondo luogo, la poetica della processualità e dell'indetermi­ nazione ( cfr. CAP. 1 7 ) portò Cage ad elaborare un nuovo tipo di spet­ tacolo " audiovisivo" che differisce radicalmente dalla tradizionale for­ ma del teatro musicale, basata su premesse di organicità e coordina­ zione tra le sfere artistiche. La processualità e l'indeterminazione, che regolano i rapporti tra i materiali di una composizione (suoni, azioni), disciplinano anche i rapporti tra le arti, quando queste si trovano a cooperare o semplicemente a convivere in un'unica situazione. Le di­ verse arti possono procedere in modo indipendente e dunque sovrap­ porsi in modo casuale, senza che vi sia una gerarchia o una relazione prestabilita: «non credo molto in una " corrispondenza " . Mi sembra che sia piuttosto un dialogo . Vale a dire che le arti, lungi dal comuni­ care, conversano fra di loro . Più esse sono estranee l'una all'altra, più il dialogo è utile» (Cage, [ 1 976] 1 9 9 9 , p. 1 7 3 ) . Un dialogo di questo genere sta alla base dell' Untitled Event che si tenne al Black Moun­ tain College nel 1 95 2 con la partecipazione di Merce Cunningham, David Tudor, Robert Rauschenberg, Mary Caroline Richards e Char­ les Olsen, oltre a Cage stesso. Questo, che più tardi è stato conside­ rato come il primo spettacolo multimediale o anche il primo happe­ ning, inaugurò un tipo di produzione artistica del tutto nuova, che si vale della collaborazione di diversi soggetti e dell'integrazione di ge­ neri artistici che hanno una loro storia individuale e normalmente conducono vita separata. Il risultato di queste interazioni è in parte imprevedibile: gli artisti coinvolti si limitano a predisporre i materiali che verranno impiegati, mentre la loro successione e la loro combina­ zione sono un fatto contingente; la performance è dunque priva di sviluppi drammatici o narrativi e persino di un contenuto unitario. Per questa nozione di «teatro a molteplici dimensioni» (ivi, p. 1 7 6) Cage ha ammesso di essere stato influenzato dalla lettura di Le théd­ tre et san double di Artaud, che teorizzava un teatro libero dalla sog­ gezione al testo : un teatro «che non consiste in nulla, ma che si serve di tutti i linguaggi - gesti, suoni, parole, luce, grida», in modo patita­ rio e non gerarchizzato, per riuscire ad avvolgere lo spettatore in «uno spettacolo che si rivolge all'intero organismo» (Artaud, [ 1 9 3 8 ] 2 000, pp. 1 3 2 , 202 ) . Gli happenings sono riconducibili a d alcuni fondamentali principi della poetica di Cage, le cui origini si possono rintracciare nell' espe­ rienza dadaista e che risultano fondamentali per tutto il processo di " sfrangiamento" delle arti : l'idea di arte come attivazione di una per­ cezione globale, l'accento sull'esperienza del fruitore piuttosto che 33 9

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sulla forma del prodotto, l' avvicinamento tra mondo dell' arte e vita quotidiana, il carattere effimero degli eventi che tendono ad innes care processi o situazioni più che a costruire opere, il rifiuto degli a priori estetici e delle forme tradizionali dei vari generi, la tensione verso la " democratizzazione" dell'arte. Analoghi presupposti guidano le ricer­ che di quel settore dell' avanguardia che Michael Nyman ha descritto in Experimental Music: Cage and Beyond (Nyman, [ 1 974] 1 9 9 9 ) , che ruota attorno alla definizione cageana di azione sperimentale, «un'a­ zione il cui esito non è previsto» (Cage, [ 1 95 8 ] 1 998a, p. 78, trad . rettificata) . Partendo da questo concetto di azione sperimentale, il movimento Fluxus, i cui rappresentanti ebbero rapporti più o meno stretti con Cage, cercò di misurare la distanza tra il suono e la musi­ ca. Molti eventi allestiti dagli artisti Fluxus prevedono una partitura, richiedono l'uso di strumenti musicali, vengono presentati in una si­ tuazione di tipo concertistico; tuttavia spesso il suono non è presente o, se c'è, scaturisce da un'azione non musicale, un'azione semplice la cui valenza visiva è pari a quella sonora così come avviene nella realtà extra-artistica. Gli strumenti musicali sono trattati «come oggetti oltre e al di sopra (o al di sotto) del loro uso normale come produttori di suono» (Nymann, [ 1 974] 1 9 99, p. n ) , come in Piano Piece 1 9 6 2 di George Brecht, in cui il pianoforte è utilizzato semplicemente come un mobile, su cui appoggiare un vaso di fiori. Tutti gli elementi che fanno parte della pratica della musica, dalla parti tura all'esecuzione, dai luoghi istituzionali agli strumenti, vengono coinvolti in un esperi­ mento con intento provocatorio (Dick Higgins, Danger Music, 1 9 6 1 - 6 3 ; Paik, One /or Violin Solo, 1 9 62 ) o con atteggiamento poeti­ co e contemplativo (La Monte Young, Composition 1 9 6 0 n. 2 ). Que­ sta poetica può portare alla conclusione che l'essenza della musica è fatta di tempo e di persone, ma non necessariamente di suono (ivi, p . I I ) . I n questo s i possono percepire anche l e ripercussioni del pezzo " silenzioso" di Cage: dopo 4 '3 3 " ( 1 9 5 2 ) , con il suo theatrical focus, diventa evidente per gli artisti Fluxus quanto sia «insensato provare a separare l'ascoltare dal vedere» (ivi, p. 7 2 ) . Dell'influenza di Cage risente anche il lavoro d i Dieter Schnebel, che, nel 1 9 66, coglie pienamente l' emergere del fenomeno di sconfi­ namento oltre il medium sonoro - visto come una relazione tra " acu­ stico " e " ottico " - proponendo il concetto di «musica visibile» (sicht­ bare Musik), un concetto di vasto raggio che include ogni forma di musica gestuale, le notazioni grafiche e le esperienze di " spazializza­ zione" delle fonti sonore. Sotto di esso si possono sussumere i lavori di Cage, ma anche di Stockhausen, Bussotti, Riedl, Helms, Evangeli­ sti e soprattutto quelli di Mauricio Kagel e di Schnebel stesso. Kagel 340

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è sicuramente uno dei maggiori protagonisti dell'apertura agli aspetti visivo-gestuali della musica. Secondo Schnebel, la particolarità del «teatro strumentale» (instrumentales Theater) di Kagel è quella di non fornire una duplicazione visiva dell' aspetto acustico, bensì di esaltare la drammaticità e la gestualità proprie dell'esecuzione musica­ le ( Schnebel, I 97 2 , p. 3 2 4 ) , così come accade in Match di Kagel ma anche in Nostalgie (Visible Music n) per direttore d'orchestra dello stesso Schnebel. Il lato ottico e quello acustico si possono mescolare, come in questi casi, oppure scorrere paralleli, ognuno nel proprio ambito, instaurando un rapporto di «contrappunto» (ivi, p. 3 2 8 ) , aspetto, questo, che Kagel h a approfondito nella sua produzione fil­ mica. La metamorfosi o eclisse del concetto di opera d' arte musicale è dunque strettamente connessa con la meditazione degli artisti su che cosa sia l'arte e, in specifico, che cosa sia la musica. Una diversa via verso la multimedialità, in maggior continuità con le esperienze sinestesiche dei primi del Novecento, e allo stesso tem­ po strettamente legata all'uso della tecnologia più avanzata, è quella di Xenakis. Nell'opera di Xenakis il suono si mescola ad elementi eterogenei non tanto a partire dalle forze teatrali e gestuali racchiuse nel momento esecutivo della musica, quanto a partire dalla composi­ zione, dal momento costruttivo in cui si impiegano strutture d'ordine regolate da principi logici. Fondamentale fu l' esperienza del Padiglio­ ne Philips , allestito presso l'Esposizione Universale di Bruxelles nel I 9 5 8 grazie alla sinergia di Le Corbusier, Edgard Varèse e Xenakis. A ridosso di questa esperienza, Xenakis spiega come «l'integrazione delle arti visive e uditive» sia tanto più possibile quanto più ogni arte va «verso l'astrazione intesa nel senso di manipolazioni consapevoli di leggi e di nozioni pure e non di oggetti concreti» (Xenakis, [ I 976] I 9 8 2 , p . I I 3 ) . Riducendo ogni disciplina ai suoi elementi puri, che, secondo la poetica di Xenakis, instaurano relazioni reciproche guidate dai principi della matematica e della logica, diventa possibile coordi­ nare le diverse arti secondo strutture e leggi d'ordine comuni. Sono in effetti nozioni pure quelle indicate da Le Corbusier nella fase ini­ ziale di elaborazione del progetto del Padiglione Philips : « I 0 luce, 2° colore, 3 ° immagine, 4° ritmo, 5° suono riuniti in una sintesi organica accessibile al pubblico» (ivi, p. 9 9 ) . Secondo Xenakis, la pittura ha già compiuto gran parte del suo cammino verso l'astrazione e tende inevitabilmente ad abbandonare la dimensione dello spazio a favore di quella del tempo, procedendo sulla strada prefigurata dal cinema: «la pittura, in quanto si è innalzata al livello dell'astrazione, è spinta dalla sua stessa natura ad annettersi il concetto di tempo. Una " pittu­ ra cinematica" deve logicamente immergere nell'avventura temporale 34 1

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l'espressione più avanzata della pittura contemporanea» (ivi, p. I I 4 ) . D i riflesso, l a musica cerca una dimensione spaziale, resa finalmente possibile dalle tecnologie elettroniche: «è notevole che queste due arti cerchino attualmente lungo strade diverse di integrare le loro fisiono­ mie logiche, la pittura annettendosi la categoria temporale e la musica quella dello spazio» (ivi, p. 1 1 6 ) . Si tratta di un'integrazione in nome di quelli che Adorno, riferendosi soprattutto alle reciproche influenze tra musica e pittura nel primo Novecento, definisce «principi costrut­ tivi» (Adorno, [ I 967] I 97 9 , p. I 69 ) o «procedimenti formativi»: «la convergenza di musica e pittura avviene a spese delle differenze natu­ rali, in virtù della supremazia dei procedimenti formativi che si mani­ festano come principio identico nei confronti dei rispettivi materiali» (Adorno, [ I 965] 2 004c, p. 3 I 2 ) . In Xenakis l'istanza che può presie­ dere all'integrazione delle diverse arti sulla base di principi costruttivi condivisi è la tecnologia elettronica: «possiamo constatare che questi magnifici prolungamenti delle arti visive e uditive sono resi possibili e in parte creati solo attraverso tecniche elettroniche. Esse consentono una vasta sintesi audiovisiva in un " gesto elettronico totale" finora mai raggiunto, gesto che si situa inoltre nel campo dell'astrazione, ambiente naturale e indispensabile della sua esistenza» (Xenakis, [ I 976] I 9 8 2 , p . I I ? ) . Sfruttando le tecnologie di volta in volta di­ sponibili, Xenakis realizza i Polytopes di Montreal ( I 967) e di Cluny ( I 97 2 ) e il Diatope di Parigi ( I 9? 8 ) , grandi spettacoli di luci e suoni, in cui le proiezioni di luce sono organizzate nello spazio, inserite e disinserite in modo da creare la sensazione di una «scultura cinetico­ luminosa» (Fleuret, I 9 8 8 , p. I ? 8 ) , concepita secondo criteri analoghi a quelli utilizzati per organizzare i suoni nelle composizioni musicali che l'accompagnano. I 8.2 Il fiorire di esperienze di sfrangiamento e di collaborazione tra le arti è stato accompagnato, fin dagli anni sessanta del Novecento, dal tentativo di elaborare una teoria che comprendesse e definisse tali fenomeni. Il dibattito sulle nuove esperienze si concentra inizialmente sui rapporti tra i media, mostrando significativi momenti di tangenza con le teorie di Marshall McLuhan ( [ I 964] 2 oo2 ) . Il concetto di me­ dium viene impiegato su un vasto campo semantico . Alle volte è sino­ nimo di " tecnologia" (ibid. ) ; altre volte viene inteso come " mezzo " di produzione e, per analogia, come "tecnica" artistica (per esempio pit­ torica) , come "materiale" delle arti (suono, immagine, testo, movi­ mento del corpo), oppure addirittura come indicatore percettivo (me­ dium visivo o acustico) . Questa oscillazione segna l'intero dibattito 342

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sul reciproco confluire delle arti. Nel I 966 Dick Higgins propone il termine «intermedia» per indicare i lavori che si situano nello spazio «tra i media» (Higgins , [ I 966] 200 I , p. 2 8 ) . Nel suo breve scritto ap­ pare in modo evidente fino a che punto la discussione sui confini tra i generi sia espressione di una critica più generale al mondo dell' arte accademica, concentrata sulle forme più che sui contenuti, autorefe­ renziale e svenduta al mercato, lontana dal mondo concreto, incapace di comunicare. La tendenza alla trasgressione dei confini tra le arti è in questi anni collegata al costituirsi di una "sottocultura" o " con­ trocultura" , nella quale la critica alle istituzioni e ai modi di comuni­ cazione dell' arte si può convertire in critica della società e delle sue strutture di potere. Higgins considera il teatro e le arti visive tradizio­ nali, suoi referenti principali in questo discorso, come lo specchio di una società organizzata in compartimenti rigidamente separati che non ha futuro. Il mondo del teatro, istituzionalizzato e quasi musea­ lizzato , propone spettacoli nei quali pubblico e attori si fronteggiano a livello spaziale e anche intellettuale, uno spettacolo pilotato da un testo scritto a cui bisogna sottomettersi e che non permette interazio­ ni, un processo tanto freddo e meccanico da ricordare «il mostro di F rankenstein» (ivi, p. 3 I ) . Higgins inoltre critica il mondo delle arti visive perché i suoi prodotti hanno un valore puramente ornamentale oppure sono simbolo di potere, e «non ammettono nessun tipo di dialogo», al contrario di quanto avviene nell'happening, che è in real­ tà il vero modello del concetto di intermedium. L'happening sorge in «un territorio inesplorato che giace tra il collage, la musica e il teatro. Non è governato da regole; ogni opera determina il suo proprio me­ dium e la sua forma a seconda dei propri bisogni» (ibid. ) . A margine, vale la pena di segnalare come la metafora di F rankenstein fosse già stata utilizzata da Cage qualche anno prima per descrivere il control­ lo che una partitura completamente determinata esercita sull' esecuto­ re, rispetto alla libertà implicita in una partitura indeterminata ed aperta alle scelte dell'esecutore (Cage, [ I 95 8 ] I 9 98a, p. 7 3 ) . Questa coincidenza segnala una parentela importante, emergente sia nella poetica di Cage che in quella di Fluxus, tra la critica alla chiusura formale delle opere e il desiderio di rompere le barriere tra arte e arte nonché tra arte e vita. Il termine "intermedia" coniato da Higgins - egli in realtà lo at­ tribuiva a Coleridge, che lo avrebbe utilizzato già nel I 8 1 2 (Higgins, I 9 84) - era destinato a notevole fortuna e a tutt' oggi ricorre con una certa frequenza nella letteratura critica per indicare genericamente forme artistiche dalla natura ibrida. Nel frattempo venivano proposte altre definizioni e altri termini che abbracciano il campo di problemi 343

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che stiamo affrontando; in una lettura storica, essi s1 possono inter­ pretare come sintomi del fatto che il campo semantico del concetto di opera è entrato in fibrillazione. In particolare, tre anni dopo il bre­ ve saggio di Higgins, il critico americano Richard Kostelanetz pub­ blicava The Theatre o/ Mixed-Means ( 1 968), un' analisi ben più appro­ fondita del fenomeno di sconfinamento tra le arti, visto dal punto di vista del teatro. Parlando di mixed-media o mixed-means, l'autore pone l'accento sulla mescolanza dei media anziché sulla difficile clas­ sificazione dei nuovi spettacoli. I modelli su cui si costruisce la teoria di Kostelanetz sono lavori di compositori come J ohn C age, La Monte Young e Terry Riley, di artisti visivi dediti alla performance e all' hap­ pening come Robert Rauschenberg, Claes Oldenburg, Ken Dewey, Robert Whitman, Allan Kaprow, di danzatori come Merce Cunnin­ gham e Ann Halprin. Le esperienze di questi artisti americani sono accomunate dal fatto di stare a metà tra le categorie tradizionali, se non addirittura di trascenderle completamente, nonché di distaccarsi in modo netto dal teatro tradizionale che, per Kostelanetz come per Higgins, rappresenta il termine di confronto principale. Secondo Ko­ stelanetz nel teatro tradizionale, così come nell'opera in musica, c'è un linguaggio artistico predominante, quello verbale o musicale, che viene accompagnato e integrato dagli altri, mentre nel nuovo teatro «le componenti generalmente funzionano asincronicamente, o indi­ pendentemente l'una dall'altra, e ogni medium è usato secondo le proprie possibilità» (ivi, p. 4 ) . Il Theatre o/ Mixed-Means è un ma­ crogenere che comprende quattro tipi di spettacolo: pure happenings, kinetic environments, staged happenings e staged performances (ibid. ) ; essi s i distinguono per i diversi gradi di libertà modulabili all'interno delle categorie aristoteliche di spazio, tempo e azione. Lavori come Variations v, Variations VII, Theatre Piece di Cage, The Tortoise, His Dreams and ]ourneys di La Monte Young o Sames di Riley possono rientrare nel nuovo genere, distinguendosi dai lavori di altri artisti non tanto per la maggiore rilevanza del suono rispetto agli altri mezzi impiegati quanto in base alla libertà che anch' essi adottano nei con­ fronti di pubblico, testo, spazio e tempo. La differenza tra il concetto di intermedia e di mixed-media, che oggi spesso vengono usati come sinonimi, viene chiarita da Higgins nel 1 9 8 1 , in una postilla al suo saggio del 1 9 66. Il termine intermedia, dice Higgins , era stato scelto per sottolineare l'inafferrabilità dei nuo­ vi fenomeni che cadevano in una sorta di terra di nessuno tra i me­ dia, essendo il risultato di una fusione inedita; invece mixed-media che letteralmente significa "tecnica mista " , nel linguaggio della critica d'arte - metteva più che altro in evidenza l'aspetto della compresenza 344

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di diversi media in una stessa opera o in uno stesso evento (Higgins, 1 9 8 4 ) . Di fatto, Higgins e Kostelanetz avevano in mente aspetti di­ versi dello sconfinamento e della fusione delle arti: Higgins si riferiva ad opere come i combine-paintings di Rauschenberg, che uniscono in sé il concetto di pittura e di scultura, integrando elementi tridimen­ sionali, per lo più oggetti tratti dal mondo reale, e tecniche pittoriche tradizionali: i media si fondono in maniera inedita in un nuovo tipo di prodotto artistico. Egli chiamò anche in causa gli strumenti realiz­ zati da Joe Jones, che «cadono nell'intermedium tra musica e scultu­ ra» (Higgins , [ 1 966] 2 00 1 , p. 3 2 ) , che sono cioè - secondo la catego­ ria che è venuta definendosi nel frattempo - sculture sonore. Kostela­ netz è invece interessato alle nuove forme di performance, in cui di­ versi linguaggi artistici interagiscono pur senza perdere la loro identi­ tà: è il caso della prima esecuzione di Variations v ( 1 965 ), in cui si combinavano liberamente la musica di Cage, i movimenti dei ballerini della compagnia di Cunningham e le immagini di Nam June Paik. In merito alle metamorfosi del concetto di opera, è interessante notare che la partitura di questo pezzo (recante il significativo sottotitolo 3 7 Remarks r e an Audio-Visual Performance) fu realizzata da Cage a po­ steriori, alcuni mesi dopo la prima esecuzione; il capovolgimento del consueto rapporto temporale tra testo ed esecuzione è sintomatico per la disarticolazione del concetto di opera musicale; d'altra parte la presenza di una partitura richiama l'insieme delle sfere artistiche ai presupposti notazionali delle arti che proprio in musica trovano la configurazione più appropriata (Goodman, [ ! 968] 1 9 9 8 ) . L'ultimo concetto, in ordine d i tempo, introdotto per descrivere esperienze che uniscono in vario modo più linguaggi artistici è quello di multimedia. Sorto in ambito informatico negli anni ottanta per in­ dicare le tecnologie digitali in grado di integrare dati video, audio e testi in una «mescolanza di bit» (Negroponte, 1 995 , p. 8 ) , di ricreare pertanto un'esperienza sensoriale completa, spesso con possibilità in­ terattive, il termine è poi gradualmente passato al vocabolario della critica d'arte, accogliendo in sé i significati dei suoi predecessori in­ termedia e mixed-media. In campo artistico il termine viene oggi uti­ lizzato in due accezioni: in senso lato, "multimediale" è tutto ciò che unisce o implica una pluralità di media, ovvero di materiali e stru­ menti provenienti da diversi generi artistici; in senso più ristretto, "multimediale" è quel prodotto che unifica diverse dimensioni artisti­ che utilizzando tecnologie digitali. Tuttavia, nella pratica e nella sag­ gistica non di rado i due usi si confondono e i tre termini - interme­ dia, mixed-media e multimedia - vengono spesso considerati sinonimi (Corgnati, Poli, 2 00 1 , p. 4 1 5 ) . Generalmente multimedia conserva un 345

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riferimento implicito alla tecnologia, per cui in alcuni casi - di solito senza porre esplicitamente il problema terminologico - se ne evita l'uso preferendogli mixed-media (Kramer, 2 002 ) o intermedia (Bos­ seur, 1 9 9 3 ; Gazzano, 2 004; Galante, Sani, 2 ooo); altri autori lo uti­ lizzano invece proprio per enfatizzare l'apporto tecnologico (Cook, 1 99 8 ; Balzola, Monteverdi, 2 004; Kloppenburg, 2 ooo) . Vagliando la letteratura critica si riscontra comunque una scarsa coscienza delle implicazioni dei diversi termini e una notevole disomogeneità. La confusione terminologica, ulteriormente complicata dall' emergere di nuove proposte (transmedialità, ipermedialità, sinmedialità), è supera­ bile forse solo con una decisione di tipo pragmatico, convergendo cioè sul termine multimediale che, «pur nella consapevolezza dei suoi limiti e della probabile necessità di un suo superamento, mantiene una riconoscibilità collettiva e una sedimentazione storica che costi­ tuiscono ancora un utile "luogo comune" di riferimento» (Balzola, Monteverdi, 2 004, p. 9 ) . 1 8 . 3 La tecnologia ha rappresentato, nel corso di tutto il Novecen­ to, il confine mobile tra l'illusione e la realtà del pensiero multime­ diale . Il sogno dell' audiovisione, di un' unione dei linguaggi che non si riducesse a simultaneità, ma fosse una vera e propria fusione di immagini e musica, attraverso un' «unità espressiva e non reciproca­ mente descrittiva delle sue componenti» (Gazzano, 2004, p. 1 5 1 ) , segna la nascita del cinema e sembra realizzarsi in particolare nell'e­ sperienza del cinema astratto e sperimentale degli anni venti. La musica svolge un ruolo determinante in questo processo anche per­ ché offre il modello di una temporalità sganciata dal racconto e libe­ ra dallo svolgimento drammatico . Il cinema diventa lo spazio per re­ alizzare antiche utopie sinestesiche come la musica visualizzata, la pittura di suoni, la sinfonia di luci e colori (Kloppenburg, 2 ooo ) . Nel suo complesso il cinema muto, anche quello non astratto, riser­ va alla musica un ruolo fondamentale accanto alle immagini in mo­ vimento, mentre il ruolo del linguaggio verbale è notevolmente ri­ dotto, limitato all'uso delle didas calie. L' avvento del sonoro alla fine degli anni venti, che reintroduce il linguaggio parlato nel film , è vi­ sto quindi da molti come uno snaturamento dell'essenza stessa del cinema, così come si era sviluppata nel periodo del muto. La narra­ zione realistica resa pos sibile dal parlato, che riportava il cinema ad una dimensione più popolare e di intrattenimento, più vicina al tea­ tro, sembrava limitare il ruolo della musica alla dimensione del sot­ tofondo e dell'accompagnamento. A questa situazione si oppose ad esempio Luigi Pirandello, tra i primi a riflettere sul nuovo " cinema

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sonoro " . Nel I 9 2 9 Pirandello si esp rimeva a favore dell'emancipa­ zione del cinema dalla parola: «Bisogna che la cinematografia si li­ beri dalla letteratura. [ . . . ] La letteratura non è il suo proprio ele­ mento; il suo proprio elemento è la musica [ . . .] che s' esprime coi suoni e di cui essa, la cinematografia, potrà essere il linguaggio visi­ vo . Ecco: pura musica e pura visione» ( cit. in Miceli, 2 ooo, p. 1 9 8 ) . Tuttavia il cinema non è destinato a svilupparsi nella direzione indi­ cata da Pirandello, e il cinema narrativo sembra definitivamente tra­ volgere l'utopia di un'integrazione paritaria dei diversi media attra­ verso la tecnologia. All'utopia si sostituisce quella che Michel Chion ha definito «l'illusione audiovisiva», che la musica - come disciplina autonoma - e l'immagine ricostituiscono combinandosi secondo va­ rie modalità, in un cinema che rimane comunque narrativo e «ver­ bo- centrico» (Chion, [ I 99o] 2 00 I , p. I 5 ) . Malgrado lo scetticismo di Chion sia condivisibile, non bisogna dimenticare alcuni importanti lavori nel campo del cinema che mira­ no a una piena compenetrazione di visivo e sonoro. Va innanzitto se­ gnalata una precoce sollecitazione, proveniente da uno dei maggiori rappresentanti della composizione novecentesca, Edgard Varèse. In uno scritto del r 94 I , il compositore francese trasferitosi negli Stati Uniti riflette sulla possibilità di mettere in relazione suono e immagi­ ne mediante i nuovi strumenti sviluppati negli studi cinematografici; la musica per il cinema dovrebbe avere caratteristiche peculiari che Varèse giudica lungi dall'essere realizzate nei film della sua epoca, dovrebbe cioè evitare di duplicare mimeticamente l'immagine aggiun­ gendo uno strato espressivo il cui emergere è ostacolato dall'univocità della parola e dalla fissità dell'immagine (Varèse, [ r 9 8 3 ] 1 9 8 5 , pp. I I 7-2 I ) . Un decennio dopo, per la sua opera orchestrale Déserts, Va­ rèse aveva previsto di realizzare un film senza azione e storia, fatto di «fenomeni puramente luminosi», di «immagini astratte» ed eventual­ mente «rappresentative» ( cit. in Vivier, I 9 8 3 , p. I 3 I ) come visi uma­ ni, fenomeni che avrebbero dovuto essere governati da una logica analoga a quella della composizione di suoni. Una simile attenzione per l' affinità tra la pellicola cinematografica e il nastro magnetico vie­ ne prestata da Mauricio Kagel il quale, a differenza di Varèse, si ci­ mentò nella realizzazione di cortometraggi a partire da composizioni proprie o di Schnebel. Nella prima di queste creazioni, Antithèse, «film per un attore con suoni elettronici e pubblici» ( I 965 ) , il com­ positore trasferisce sul piano visivo procedimenti che egli aveva adot­ tato sul nastro magnetico (tagli, montaggi, dissolvenze, amplificazioni, sovrapposizioni). A prima vista, questa può apparire semplicemente come la versione cinematografica di un'opera musicale concepita in 3 47

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precedenza, che prevedeva già una forte componente gestuale; tutta­ via essa aggiunge qualcosa di importante, rendendo esplicite le molte­ plici relazioni tra le sfere dell'acustico e del visivo: l' attore agisce come ascoltatore, il fruitore è osservatore più che as coltatore, in certi punti si ascolta il pubblico di un concerto, le dimensioni del diegeti­ co e dell'extradiegetico si mescolano e spesso non sono più distingui­ bili, le azioni dell' attore sono organizzate secondo principi musicali e non narrativi, talvolta si svolgono su due piani distinti ma imparentati grazie all'uso di uno schermo nello schermo . Il trattamento parallelo di suoni e immagini con l'ausilio di stru­ menti elettronici non è rimasto una prerogativa di compositori di avanguardia interessati al mondo del cinema. La tecnica per così dire strutturale con cui Stanley Kubrick impiega la musica nei suoi film a partire da 2 0 0 1 : odissea nello spazio ( 1 9 68) costituisce uno stabile punto di riferimento per gli studi in questo ambito. Il film appena citato è di particolare interesse per il nostro contesto, giacché fram­ menti di composizioni di Richard e Johann Strauss, di Aram Khaca­ turjan e Gyorgy Ligeti vengono ri- composti sull'immagine dando ori­ gine a un prodotto multimediale del tutto nuovo . Svolgendosi per lunghi tratti senza parole, 2 0 0 1 poggia su una struttura narrativa e istituisce una rete semantica che non sarebbero pienamente afferrabili senza il montaggio musicale. Qui non si può più parlare di colonna sonora bensì della musica come componente paritaria di un decorso temporale audiovisivo; la musica funge da strumento espressivo che precisa e affina contenuti evocati dalle immagini, crea associazioni combinandosi con immagini diverse in momenti diversi, conferisce nuove connotazioni ai dialoghi. Un ulteriore passo in questa direzio­ ne si compie nelle tre pellicole che scaturirono dalla collobarazione tra Godfrey Reggio e Philip Glass : Koyaanisqatsi ( 1 9 8 3 ) , Powaqqatsi ( 1 9 87) e Naqoyqatsi ( 2 002 ) . Regista e compositore lavorano a un uni­ co progetto, caratterizzato da un racconto e un messaggio specifico; essi operano in primis sul minimo comun denominatore tra cinema e musica: il tempo. Tecniche che le due arti condividono in accezioni peculiari - accelerazioni, rallentamenti, stratificazioni temporali, inter­ polazioni di eventi - vengono potenziate nell'elaborazione simultanea di suono e immagine. L'indagine dei molteplici rapporti tra acustico e visivo si basa sul­ la convinzione dell'intima coappartenenza delle due sfere, convinzio­ ne che può essersi rafforzata per la cres cente influenza della televisio­ ne nella vita quotidiana. La televisione non è solo il mezzo di infor­ mazione più perfezionato di quella che Marshall McLuhan ha chia­ mato l' «era elettronica», poiché mette lo spettatore in diretta relazio-

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ne con l' evento al di là del tempo e dello spazio; essa ha anche un interesse specifico per gli artisti perché presenta una situazione mista di testo, immagine e suono, nella quale il messaggio scaturisce dall'in­ terazione di queste dimensioni e non è riducibile ad alcuna di esse. Il modo di percezione che caratterizza la televisione è per McLuhan quello tattile: « È totale, sinestetico e tale da coinvolgere tutti i sensi» (McLuhan, [ 1 964] 2 00 2 , p. 3 5 7 ) . Vi è dunque un nesso tra l'affer­ marsi della televisione come mezzo di informazione per eccellenza e l' emergere di progetti artistici misti che, impiegando diversi media contemporaneamente, non si lasciano più classificare in nessun gene­ re. Può essere rivelatore il fatto che, come vent'anni prima l' apparec­ chio radiofonico era stato usato ( da Cage) come un nuovo strumento musicale, ora il televisore diventa materiale di un nuovo tipo di scul­ tura. Nam June Paik, un compositore della cerchia di Stockhausen che poi divenne uno dei protagonisti del movimento Fluxus, preparò nel 1 9 63 presso la Galerie Parnass a Wuppertal un'esecuzione con 1 3 televisori intitolata Exposition o/ Music - Electronic Television . Il suo intento era quello di trasferire alla dimensione visiva i principi messi in pratica sul piano acustico nello studio di musica elettronica di Co­ lonia. Si può dunque affermare che la videoarte sia figlia della musica o comunque scaturisca da un incontro tra la musica e la pittura. Ol­ tre a Paik anche Robert Cahen, Steina Vasulka e Bill Viola ricevette­ ro una formazione musicale o iniziarono le loro ricerche lavorando sul suono. Accanto alla musica, vanno menzionate le esperienze artistiche ibride degli anni sessanta come origini della videoarte, che nasce «coagulandosi in quell' area di azzeramento degli specifici linguaggi che è stata la Performance Art» (Valentini, 2 003, p. 6 6 ) . Il legame tra corpo, suono e spazio è esplorato ad esempio nei video Body Music I e 2 ( 1 97 3 -74) del compositore e per/ormer Charlemagne Palestine: «l'azione del performer è di emettere un canto monodico che inizia lento e poi man mano aumenta di intensità, coinvolge tutto il corpo che vibra ritmicamente e si propaga anche allo spazio della stanza contro le cui pareti Palestine, esausto, va a sbattere più volte, fino a cadere, alla fine, a terra sfinito» (ivi, p. 6 8 ) . La tecnologia elettronica viene vista come il mezzo che finalmente rende possibile una relazio­ ne diretta tra suono e immagine, che possono determinarsi a partire da un unico segnale di partenza. Woody e Steina Vasulka studiano le potenzialità estetiche dell'elettronica, nei confronti sia del suono che dell'immagine: «la loro più affascinante intuizione è stata - intorno al 1 970 - quella di rendere esteticamente produttivo il fatto che in elet­ tronica una stessa frequenza elettromagnetica, se commutata in un 349

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modo origina un suono, se commutata in un altro origina una imma­ gine, e se adeguatamente distorta rende visibile la linea di confine che i nostri sensi percepiscono tra suono e immagine» (Gazzano, 2 004, p. 158). Tuttavia è stata la " rivoluzione digitale" a segnare il vero punto di svolta per il pensiero e la pratica della multimedialità. La possibilità di unire mezzi espressivi diversi è connaturata ai sistemi digitali, che permettono sia una perfetta coordinazione di elementi già formati che una " sintesi" integrale di elementi che nascono così già intrinseca­ mente connessi. La natura multimediale dei nuovi strumenti digitali ha favorito una rilettura dei fenomeni di sconfinamento tra le arti . Le esperienze del passato tendono oggi ad essere riconsiderate in funzio­ ne di quella che, nel contesto di uno studio recente sulle «arti multi­ mediali digitali», viene definita «sintesi digitale» o «genesi multime­ diale delle arti» (Balzola, Monteverdi, 2004 ) . La tecnologia digitale sembra perciò realizzare finalmente la sintesi delle arti a lungo cercata e teorizzata: «l'idea di multimedialità precede l'innovazione tecnologi­ ca che la concretizza: il digitale. Il digitale diventa quindi lo specifico della multimedialità contemporanea» (ivi, p. 1 0 ) . La multimedialità come possibilità tecnica ha «come premessa storica e teorica l'inte­ grazione creativa dei linguaggi profetizzata dagli artisti» (ivi, p. 7 ) . Per u n verso, quindi, l a multimedialità contemporanea viene vista in continuità con l'utopia della sintesi delle arti che procede dall'epoca preromantica fino ad oggi. Allo stesso tempo, la tecnologia digitale, rendendo concreta quell'idea, viene considerata elemento capace di produrre un'effettiva discontinuità che porta ad una ridefinizione del­ lo «statuto stesso delle arti e della figura dell'artista» (ivi, p. 1 3 ) . L'ar­ te si ridefinisce secondo i canoni di una cultura trasformata radical­ mente dai nuovi media e segnata dalla globalità delle reti informati­ che, la «cybercultura» (Levy, r 9 9 9 ) , tra le cui caratteristiche si anno­ vera "l'integrazione temo-espressiva" , poiché «la combinazione di forme artistiche e tecnologia produce forme espressive ibride e in co­ stante trasformazione» (Balzola, Monteverdi, 2 004, p. 1 3 ) . U n punto di vista simile è stato proposto d a Packer e J ordan ( 2 o o r ) , che provano a narrare «la storia segreta» della multimedialità «da Wagner alla realtà virtuale» attraverso una miscellanea di testi d'autore . La ricerca dei precedenti storici in questo caso non si spin­ ge oltre il Gesamtkunstwerk wagneriano, considerato il primo tentati­ vo di «integrazione delle arti» (ivi, p. xx) ; mentre, se si guarda all' og­ gi, la realtà virtuale può essere considerata l' «estensione logica» di quell'idea (ivi, p. xxn) . La multimedialità, resa finalmente possibile dal digitale, è destinata per Packer e Jordan a segnare gli sviluppi 350

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futuri dell' arte e della cultura, poiché «il multimedia sta emergendo come il medium peculiare del ventunesimo secolo» (ivi, p. xv) , in contrasto con i media del xx secolo, «che sono gerarchici, basati sulla trasmissione, e centrati sull'autore», mentre i nuovi media sono «rizo­ matici, paritari e interattivi» (ivi, p. xxxiv) . Per Packer e Jordan, in linea con il pensiero " cyber " , le caratteristiche principali del nuovo medium sono: - «integrazione: la combinazione di forme artistiche e tecnologia in una forma ibrida di espressione; - interattività: l' abilità dell'utente di manipolare e modificare la pro­ pria esperienza dei media direttamente, e di comunicare con altri at­ traverso i media; - hypermedia: il collegamento di elementi separati dei media con al­ tri per creare una catena di associazioni personali; - immersione: l'esperienza di entrare nella simulazione o illusione di un ambiente tridimensionale; - narratività: strategie formali ed estetiche che derivano dai concetti suddetti, che risultano in forme di racconto e presentazioni mediali non lineari» (ivi, p. xxxv) . L'impatto delle tecnologie digitali ha dunque in molti casi modi­ ficato la percezione di tutta la storia delle interazioni tra le arti . L'u­ so oggi comune del termine "multimediale" per riferirsi a tutto ciò che unisce linguaggi artistici differenti (ad esempio l ' Untitled Event di Cage) porta dunque in sé una stratificazione di significati; in parti­ colare sottintende una visione del fenomeno che vede culminare i tentativi storici di sintesi delle arti nella " sintesi digitale" resa possi­ bile dalle tecnologie informatiche attuali. Andando a ritroso nella storia, l'applicazione del concetto di multimedialità alle esperienze più varie, compreso il Gesamtkunstwerk wagneriano, è da conside­ rarsi dunque non tanto, o non solo, come il frutto di una scelta di ordine pratico, quanto di una rilettura del fenomeno attraverso l'otti­ ca del presente. 1 8 .4 La riflessione sulla multimedialità si è compiuta per lo più al di fuori dell'ambito musicale; ma in tempi recenti ha avuto importanti ripercussioni sugli studi musicologici, soprattutto nelle indagini sui meccanismi della significazione musicale. Analysing Musical Multime­ dia di Nicholas Cook è il primo studio sistematico sulla funzione del­ la musica nei prodotti multimediali; musical multimedia è un concetto di vasto raggio in cui l' autore fa confluire sia i «generi tradizionali di multimedia come la canzone e l'opera» (Cook, 1 9 9 8 , p. v) , sia quelli più recenti come film, videoclip e pubblicità televisiva. L' intenzione 35 1

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di Cook è quella di tracciare i lineamenti di una "teoria generale del multimedia" che allarghi gli orizzonti della teoria musicale, fornendo strumenti di analisi validi per tutti quei casi in cui la musica interagi­ sce con altri media, che siano parole, immagini, movimenti del corpo o altro. Queste interazioni vengono considerate dall'autore non come casi di deviazione dall'originaria orbita chiusa in cui gravita la musica bensì come situazioni particolarmente propizie all'indagine del signifi­ cato così come esso viene veicolato dalla musica. Musical multimedia diventa dunque una categoria priva di connotazioni storiche o esteti­ che, un modello generale di interpretazione. Questo modello viene formulato soprattutto a partire dall'analisi della pubblicità televisiva, in cui sono più espliciti i meccanismi di costruzione del significato attraverso l'interazione di differenti media, e poi esteso all'analisi di tutti gli altri generi di multimedia musicali. Cook individua tre «mo­ delli di multimedia», di origine linguistica e semiotica: con/ormance, contest e complementation; il contest, un " conflitto " tra i media che nella percezione si risolve in un significato unitario, appare come «il modello paradigmatico di multimedia» (ivi, p. r o6 ) , mentre i casi in cui c'è eccessiva somiglianza (con/ormance) o eccessiva distanza (com­ plementation ) rappresentano piuttosto delle eccezioni . La parte di Analysing Musical Multimedia che fornisce il contribu­ to forse più interessante nel contesto di una storia del concetto di multimedia è quella in cui Cook rivolge il suo sguardo "multimedia­ le" all'intero campo della musica. Per Cook il vero antagonista del concetto di multimedia è quello di " musica assoluta " , formulato da Dahlhaus ( [ 1 97 8 ] 1 9 8 8 ) e ripreso da Peter Kivy come music alone, che fa riferimento all'idea della musica come un mondo isolato, nel quale «le parole, le immagini, o altri contenuti extramusicali non han­ no un ruolo evidente» (ivi, pp. 2 64-5 ) . Invece Cook ( 1 99 8 , p. 2 65 ) ritiene che, «a parte che nell'immaginazione degli studiosi di estetica e degli analisti, la musica non è mai " da sola "», il suono è sempre accompagnato da elementi eterogenei, da una dimensione visiva (no­ tazione, palcoscenico, immagini associate) oppure dalla parola che la spiega e la commenta. L'idea di musica assoluta va contro la natura stessa della musica: se il concerto pubblico diede inizio a quella che può essere definita come la chiusura delle porte della percezione musicale, il processo è stato completato dalla riproduzione meccanica: la tecnologia della radio, dei dischi, e dei CD esclude tutto dalla musica, eccetto il suono. La pratica sociale, comunque, ha sempre lavorato per fare rientrare ciò che la tecnologia ha estromesso: le co-

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I8 .

MULTIMEDIALITÀ E METAMORFOSI DEL CONCETTO DI OPERA

pertine dei dischi e dei co, in particolare, sono diventate il luogo di ciò che [ . . . ] potremmo definire come una musicologia dell'immagine (ivi, p. 2 6 6 ) .

Analysing Musical Multimedia sembra quindi raccogliere gli effetti di mezzo secolo di pratiche e teorie della multimedialità, assumendo il concetto al di là della sua storicità, e facendolo reagire nell'ambito della teoria della musica, tanto da arrivare alla conclusione che tutta la musica è sempre e ovunque inserita in strutture multimediali. Se, nel caso di Cook, la scelta del termine "multimedia" è da ve­ dersi in relazione al fatto che la sua riflessione si dedica principalmente a prodotti intrinsecamente "tecnologici" come il videoclip e lo spot televisivo, secondo quanto detto prima sulle implicazioni del termine, non casuale è anche la scelta terminologica di Lawrence Kramer che, in Musical Meaning ( 2 002 ) , impiega il concetto di mixed-media per de­ scrivere la mescolanza (mixture) di musica con testi e immagini (uniti nel concetto globale di imagetext) . Secondo Kramer ( 2 002 , pp. q6-7), il mixed-media «è di fatto la forma principale della musica sia storica­ mente che epistemologicamente; la musica puramente strumentale è l' eccezione». Egli sembra dunque intendere la situazione multimediale come appello e correttivo nei confronti dell'idea di musica assoluta, come una forza opposta al processo di " scrematura" , dovuto ad «un impulso a purificare i media» per cui si è «isolata la musica dal si­ gnificato e dalle situazioni del mondo reale in cui risiede il significato» (ivi, p. q6). L' analisi di Kramer, che non ha dunque a che fare diretta­ mente con il fenomeno storico dei mixed-media, dimostra però chiara­ mente come i concetti elaborati in relazione allo sconfinamento delle arti siano stati fecondi anche nello stimolare nuove letture dell' espe­ rienza musicale nel suo complesso. Essa mette anche in luce che una teoria delle creazioni multimediali non potrà fare a meno di tematizza­ re il concetto di opera d' arte rispetto al quale tali creazioni rappre­ sentano un distanziamento. Fenomeni emersi nelle zone intermedie tra le arti e spesso connotati dall'uso delle tecnologie, quali l'installazione e la performance, rendono spesso difficile la loro definizione in quanto "opere" in senso tradizionale. Queste nuove tipologie di prodotto arti­ stico contribuiscono a sbilanciare il concetto di opera come oggetto di contemplazione estetica nella direzione di un'opera da vivere come si­ tuazione ed esperienza. L'impiego odierno del concetto di opera d'arte implica necessariamente una sua metamorfosi profonda, di cui ancora non si possono indicare gli esiti, e di cui l' ambiguità terminologica non è che un riflesso. La situazione aperta del dibattito sull'opera nell' epo­ ca del multimediale corrisponde d'altra parte alla fluidità che contras­ segna la produzione artistica del presente.

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