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Istituzioni dell'Europa contemporanea

Paolo Colombo

Storia costituzionale della monarchia italiana

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Istituzioni dell'Europa contemporanea

serie diretta da Fabio Rugge La serie «Istituzioni dell'Europa contemporanea» ha lo scopo di ricostruire le vicende di alcuni istituti e di alcune formazioni costituzionali che hanno caratterizzato il continente negli ultimi due secoli, a partire dal nostro paese. Si considereranno non soltanto le istituzioni più visibili e studiate, ma anche quelle la cui incidenza o è scarsamente conosciuta o è nota solo attraverso studi specialistici, poco fruibili da un pubblico ampio. Il contesto geografico di riferimento è l'Europa, perché quasi nessuna istituzione politica degli ultimi duecento anni, per quanto radicata nell’identità individuale dei singoli paesi del continente, si è sottratta ad una ‘storia europea’ fatta di confronti e imitazioni, contrapposizioni e convergenze.

Mettere allo scoperto le radici delle istituzioni vigenti e individuare l’eredità di quelle trascorse, ricostruire i passaggi storici che hanno determinato il modo attuale di pensare la realtà istituzionale, è il sistema più fecondo a nostra disposizione per comprendere il senso dello scenario presente e dei mutamenti in corso.

VOLUMI PUBBLICATI

La giustizia nell’amministrazione dall’Ottocento a oggi di Piero Aimo Stato e Banca Centrale in Italia.

Il governo della moneta e del sistema bancario

dall’Ottocento a oggi di Alessandro Polsi

Storia costituzionale della monarchia italiana di Paolo Colombo

Paolo Colombo

Storia costituzionale della monarchia italiana

zioni Laterza

© 2001, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2001

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’aprile 2001

Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa CL 20-6341-7 ISBN 88-420-6341-X

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ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l'autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l'acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

a Emma Del Rosso Colombo, che mi raccontava le cariche di cavalleria sugli scioperanti in Corso Garibaldi, cioè la Storia

Introduzione

Le monarchie costituzionali europee

Possiamo dire che il ruolo svolto dalle monarchie rispetto all’evoluzione istituzionale dell'Europa contemporanea è stato nell’insieme sottostimato: soprattutto, com'è facile intuire, a partire dal

secondo dopoguerra, quando, con un crescendo che ha toccato i suoi vertici negli ultimi decenni, il fenomeno democratico è esploso sotto gli occhi degli studiosi degli eventi storici e delle dinamiche politiche. Il processo che ha visto le democrazie espandersi dall’area europea su scala mondiale ha finito col limitare la sopravvivenza dei regimi monarchici all’interno di poche ‘oasi protette’ e ha probabilmente contribuito a stemperare la percezione dell'importanza rivestita da questo tipo di assetto politico nella storia costituzionale occidentale. Eppure, appena un secolo fa, il quadro era esattamente rovesciato. Una cartina politica dell'Europa a cavallo tra XIX e XX secolo rimandava l’immagine di un’area a carattere prevalentemente monarchico, all’interno della quale i sistemi repubblicani rappresentavano ancora delle eccezioni, spesso estemporanee. E se andiamo indietro di un altro cinquantennio, alla vigilia dell’epoca costituzionale italiana, il riferimento repubblicano è rappresentato in pratica dalla sola confederazione elvetica: che non per nulla, a rimarcarne il carattere ‘anomalo’, è un caso assimilabile a

quello statunitense, altro grande esempio di sistema federativo ritenuto assolutamente peculiare. È allora possibile ridurre, come spesso si fa, la monarchia alla forma costituzionale della Restaurazione? Cioè all’incarnazione istituzionale del conservatorismo d’antico regime e della resistenza alle innovazioni più radicali portate sulla scena dalla rivoluzio-

ne francese (e, per alcuni aspetti, da Napoleone)? Si direbbe di no. Eppure si finisce spesso per pensare alle monarchie ottocentesche proprio in questi termini; al più le si presenta come le ‘incubatrici’ di sistemi che saranno liberali prima e democratici in senso compiuto poi, ma che comunque saranno definiti dal ruolo dell'elemento rappresentativo. Un elemento, cioè, che via via si identificherà con parlamenti legislatori e sovrani. È appena il caso di precisare che in entrambe queste interpretazioni c'è del vero, ma va anche detto che esse appaiono sempre più lontane dal dimostrarsi esaustive. E ciò per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo, l’idea che i regimi monarchici sviluppatisi tra Ottocento e Novecento siano funzionali alla maturazione dei futuri assetti democratici rischia di relegare in una posizione di subordine la storia istituzionale del XIX secolo rispetto a quella del XX, quasi ne fosse una preparazione in qualche modo ‘obbligata’: una sorta di storia ‘propedeutica’, insomma, e dunque secondaria rispetto a quella più importante delle repubbliche democratiche del dopoguerra, votate per di più a riscattare le degenerazioni totalitarie. In realtà, una simile impostazione appare deficitaria proprio in termini storiografici: un corretto approccio, infatti, non può implicare una gerarchia valoriale tra diverse fasi storiche. Ogni tappa della Storia è per definizione ‘incubatrice’ del futuro, ma nessuna si esaurisce in questo ruolo. Così, è forse ora di rilevare che il periodo delle monarchie costituzionali è autonomamente decisivo per transitare fuori dall’antico regime (e non per restarvi aggrappati quanto più possibile). E si potrebbe addirittura sostenere che questo processo di transizione non sia del tutto concluso: niente autorizza a credere, cioè, che i regimi democrati-

ci che conosciamo oggi ne costituiscano l’atto finale e risolutivo. In secondo luogo, non si può sottovalutare l'originalità dei risultati prodotti dal combinarsi della forma di governo monarchica con le costituzioni scritte. Certo, quella combinazione è in gran parte, e indiscutibilmente, il prodotto di un compromesso imposto dalla Storia: i monarchi che riacquistano il trono al termine dell'avventura napoleonica non sono ormai più in grado di fondare da sé la propria legittimazione, incardinandola come in passato solamente sulle tradizioni dinastiche, sul valore guerriero o sull’investitura sacrale. La costituzione appare un fattore che il

diffondersi di una rinnovata cultura politica, alimentata nel recen-

te passato dall’Illuminismo e dalla rivoluzione, rende ‘ideologicamente’ imprescindibile. Ma il reciproco integrarsi tra sistema monarchico e sistema costituzionale pone in essere un passaggio fon-

damentale per il perfezionarsi di quest’ultimo. Consente — intanto — di moderarlo nei suoi eccessi, come è funzionale agli ideali della Restaurazione ma come la stessa ‘deriva’ rivoluzionaria aveva mostrato necessario. Ancor più, però, obbliga a riflettere su alcune componenti istituzionali che i costituenti della révolution avevano in fondo trascurato e l’epopea imperiale di Bonaparte aveva annullato: prime fra tutte il ruolo da attribuire al capo dello Stato entro un quadro equilibrato di poteri e il rapporto da instaurare fra governo e parlamento. Non è un caso che lo spazio istituzionale indicato da questi due problemi sia continuamente presentato dalla storia costituzionale delle monarchie europee come il fulcro dell’evoluzione verso la forma di governo parlamentare (e poi lasciato in eredità come nodo politico che a tutt'oggi rimane per molti versi da sciogliere). Lo sforzo costituzionale delle monarchie ottocentesche è assai intenso: più di quanto si faccia notare di solito. Gli stessi contorni della storia costituzionale del XIX secolo, d’altro canto, aspettano ancora di ricevere la giusta definizione. Detto altrimenti, le costituzioni che l'Europa produce dopo la ‘indigestione’ costituente del decennio 1789-1799 sono comunque numerosissime e, quasi tutte monarchiche, rappresentano una pista assai poco battuta ma che non si può perdere se si va alla ricerca delle linee forti dello sviluppo contemporaneo della politica occidentale. Limitiamoci a seguire tale pista nel periodo che precede la pubblicazione dello Statuto albertino, sostanziale punto di partenza di questo lavoro, e consideriamone alcune tappe emblematiche. Partiamo dall’area iberica. La storia costituzionale spagnola si ritiene in questa fase per lo più esaurita dalla vicenda di Cadice. La Carta prodotta nel 1812 in opposizione a quella napoleonica di Bayona è già di per sé innegabilmente importante: assurgerà al ruolo di bandiera contro le ‘usurpazioni’ di Bonaparte, preciserà da subito il forte nesso esistente nella cultura latina tra monarchia costituzionale e religione cattolica, verrà ‘adottata’ dai moti insurrezionali del 1820-1821 anche all’estero, soprattutto in Italia.

Ma si dimentica che la Spagna elabora poi altre tre costituzioni: nel 1834 (uno ‘Statuto Reale’ col quale la Corona concede alcune

timide innovazioni, badando a conservare assai forte il potere regio), nel 1837 (un testo prodotto da un’apposita assemblea costituente, ispirato a Cadice ma con evidenti parallelismi rispetto alle Carte francese e belga del 1830 e 1831, inteso come espressione della sovranità nazionale e dunque di stampo contrattualista per quanto riguarda il rapporto tra il monarca e i suoi sudditi) e nel 1845 (una costituzione che si presenta come una revisione di quella del ’37 ma ne revoca il postulato fondante — la sovranità nazionale — ed è in realtà un’opera a sé stante, destinata a durare attraverso varie vicissitudini più di vent'anni). E si riscontrano trascuratezze forse ancor più rilevanti. Scarsissima è infatti l’attenzione solitamente riservata agli svolgimenti costituzionali portoghesi. Il Portogallo si dà una costituzione nel 1822-1823, una nel 1826 (modellata su una Carta brasiliana di due anni prima) e un’altra ancora nel 1838: ma quella del 1826 sarà applicata, per così dire, a intermittenza e attraverso tre successivi periodi di vigenza regolerà la vita politica portoghese fino alla repubblica del 1911. Qui si deve specialmente ricordare che, dal complesso intreccio venutosi a creare tra l’organizzazione costituzionale lusitana e quella delle ex colonie brasiliane, emergono originali e interessantissime soluzioni istituzionali legate all’idea di un imperatore inteso come poder moderador. Un’idea precisata soprattutto nella Carta del 1826. E si pensi che sono state rilevate forti interconnessioni tra questa stessa Carta e quella che verrà adottata in Belgio nel 1831, mentre alcuni richiami alle costituzioni portoghesi si rintracciano pure nei verbali del Consiglio di conferenza impegnato a stendere, nel febbraio del 1848, lo Statuto albertino.

AI confine opposto dell'Europa occidentale, la confederazione dei 38 Stati tedeschi vive nei decenni successivi alla Restaurazione un periodo di notevole fermento costituzionale. Qui la centralità della figura del principe è ancor più forte che altrove e le tradizioni corporative e cetuali più dure a cedere. Anzi: possiamo dire che nella maggior parte dei casi potere monarchico e princìpi costituzionali si trovano alleati contro la resistenza opposta dal sistema dei ceti. Proprio per questo le vicende che in due fasi (in-

dicativamente, il decennio 1814-1824 e gli anni seguenti ai moti

del 1830) portano all’entrata del mondo germanico nell’area del-

le monarchie costituzionali acquistano una rilevanza ancor mag-

giore. Per indicare almeno qualche punto di riferimento entro il

dedalo della frammentata storia costituzionale tedesca di quegli anni, possiamo ricordare, da un lato, le costituzioni degli Stati del-

la Baviera (1818), del Baden (1818) e del Wiirttemberg e, dall’altro, quelle della Sassonia (1831) e del Braunschweig (1832). Ma anche in Germania sarà il 1848 a segnare una svolta decisiva (con l’esperienza dell’ Assemblea Nazionale tedesca e la nascita di una oktroyierte Verfassung prussiana destinata a ‘plasmare’ costituzionalmente gli altri Stati tedeschi). Se guardiamo all’area scandinava, sappiamo di incontrare monarchie di antichissima tradizione: monarchie, va altresì aggiunto, che sono tra le primissime a darsi una identità costituzionale. Naturalmente, questo processo si articola nei limiti di svolgimenti tanto precoci: la storia svedese racconta già nel 1809 di una esperienza costituente, con una marcata anima cetuale, però, e ali-

mentata dalla necessità di risolvere forti scontri sulla successione al trono. Sono infatti gli Stati Generali, appositamente convocati, a legittimare un cambio di linea dinastica. Il nuovo re, Carlo XIII, deve così la sua corona all’accettazione di una Carta costituziona-

le: il carattere per molti aspetti ‘contrattuale’ di tale situazione richiama allora la vicenda del B:// of rights inglese (quando, nel 1689, il parlamento di Londra dichiara abdicatario Giacomo II Stuart e chiama a sostituirlo Guglielmo d'Orange) più che quella delle costituzioni scritte rivoluzionarie. Nel 1814, in Norvegia,

l’introduzione di una costituzione passa invece attraverso la questione dell’autonomia nazionale: la Norvegia, che dal XIV secolo

è unita alla Danimarca, si vede accorpata alla Svezia nel riassetto europeo prodotto dalla Restaurazione. Il regno norvegese tenta allora la strada dell’indipendenza, con la convocazione di un’assemblea nazionale che nel mese di maggio detta una costituzione e individua il futuro monarca nel principe cadetto della casa regnante danese. Basta poco tempo alla Svezia, appoggiata dalle potenze europee, per annullare questo tentativo e imporre l’unione.

Ma la Norvegia otterrà comunque un largo margine di autonomia e istituzioni proprie, fissate in una costituzione (4 novembre 1814) che ricalca ancora quella prodotta solo sei mesi prima. Si noti a questo punto che le Carte monarchiche della fase iniziale della storia delle costituzioni europee (per l'appunto quella svedese del 1809 e quella norvegese del 1814, ma anche quella spagnola e quella siciliana del 1812) non sono il risultato di una

‘libera’ concessione dall'alto operata dal re: non appartengono cioè al gruppo delle numerose costituzioni ‘ottriate’ dal 1814 in poi. Si tratta di una fase, dunque, che rappresenta un anello di congiunzione molto importante per l’evoluzione costituzionale. Qualcosa di molto simile al caso norvegese avviene poi nel regno dei Paesi Bassi, formato, a partire dal 1814, dall’unione di Olanda e Belgio. Il punto di partenza è la costituzione che l’Olanda si è data all’inizio di quell’anno con evidenti rinvii all’antico sistema cetuale degli Stati Generali. Quel testo viene modificato per rendere possibile l’incorporazione del Belgio e non viene mai visto di buon occhio dai belgi che vi oppongono resistenza, percependolo come il primo segnale di un rapporto non paritario con l'Olanda. E infatti, negli anni seguenti, le differenze culturali, economiche e religiose tra i due Paesi vengono acuite da una politica di soffocamento della nazionalità belga. Sull’onda della rivoluzione di luglio, tra 1830 e 1831, il Belgio si stacca dall'unione con l'Olanda e si costituisce in Stato autonomo attraverso una Carta destinata — con alcune modifiche — a restare in vigore fino ad og| gie considerata nel corso dell'Ottocento un punto di riferimento essenziale, anche dai costituenti piemontesi del 1848. Resterebbero da considerare le esperienze inglesi e francesi, vere e proprie stelle polari per i protagonisti ottocenteschi della storia costituzionale. Si tratta di vicende assai note ed è fin superfluo sottolineare che la misura della loro enorme importanza non può certo essere racchiusa entro le poche righe che qui si potrebbero dedicare loro. È utile però accennare alcune considerazioni. Intanto è indispensabile ricordare che la Gran Bretagna vive fuori del grande ciclo delle costituzioni scritte, mantenendosi sempre ancorata a un ordinamento del tutto peculiare, di stampo tradizionalistico e consuetudinario. Dunque, al di là delle apparenze, offre un esempio politico che risulterà sempre difficile correttamente interpretare — o addirittura trasporre — sul continente. Inoltre, nei primi anni del XIX secolo, il suo apparato istituzionale è meno avanzato e democratico di quanto il suo stesso mito (alimentato dall’anglomania settecentesca ma persistente ben oltre il secolo dei Lumi) lasci credere: in particolare, è un apparato che ha ancora della strada da compiere in direzione di una compiuta forma di governo parlamentare e della precisazione del ruolo che il capo dello Stato deve occuparvi. La Corona inglese regna, ma

non ha ancora smesso di governare. Bisognerà non a caso attendere l'importante opera che Walter Bagehot intitola nel 1867 alla English Constitution per trovare una sintomatica sistematizzazio-

ne del ruolo simbolico del re costituzionale e una teoria nitida intorno all’utilità della sua «ben calcolata inazione». Per quanto concerne la Francia, invece, il marchio delle costi-

tuzioni scritte impresso dalla rivoluzione è ormai indelebile. La Restaurazione prende avvio nel 1814 con una Carta octroyée da Luigi XVIII: il nuovo regnante non può fare a meno di una costituzione, per quanto la imponga di propria volontà senza consentirne valutazione, discussione o votazione da parte delle Camere e vi ribadisca quali fonti della propria autorità la «divina Provvidenza» e la secolare tradizione borbonica. La monarchia restaurata cerca ovviamente di rinsaldare le proprie radici di antico regime ma al tempo stesso diventa irrimediabilmente monarchia costituzionale: il passaggio decisivo è compiuto, e non si potrà tornare indietro. Non è casuale, infatti, che sebbene la Charte del

1814 non presenti dei contenuti istituzionali particolarmente all'avanguardia, la pratica politica che origina si avvicini in molti casi alle modalità di funzionamento di un regime parlamentare. In particolare giocherà in questo senso la predisposizione di Luigi XVIII a tenere in conto gli orientamenti della Camera rappresentativa quando si devono assumere le decisioni più importanti, soprattutto quelle concernenti la formazione dei governi. Non si tratta di un processo lineare e univoco, naturalmente, tanto che già il regno del successore Carlo X imprimerà al sistema francese una spinta in direzione opposta, con restrizione delle libertà e forte accentramento dei poteri. Si verifica una sorta di oscillazione del ‘pendolo’ costituito dalla forma di governo: una volta esaurito lo slancio in un senso si ricade in direzione opposta, per ripartire da lì alla ricerca di un sempre più stabile e duraturo equilibrio. La rivoluzione del 1830 si traduce difatti in un nuovo testo costituzionale che però non è altro se non il risultato di una serie di modificazioni apportate al precedente. Qui è sufficiente ricordare che il nuovo monarca, Luigi Filippo d'Orléans, vi è qualificato come «re dei Francesi» e che scompare qualunque rinvio all’origine divina e tradizionale del suo potere così come i riferimenti al carattere di ‘Ìmagnanima concessione’ della costituzione. A differenza di quanto avviene nel 1814, si assiste al realizzarsi di un

compromesso non solo tra le due forme di legittimazione monarchica ed elettiva, ma anche tra i due centri di potere incarnati dal re e dalla Camera rappresentativa. La cosiddetta Monarchia di Luglio sarà definita ‘orleanista’ proprio per indicare questo carattere dualista che la contraddistingue e in conseguenza del quale la figura regia non viene esclusa dal centro del sistema politicoistituzionale, dove continua ad esercitare direttamente prerogative di enorme importanza (direzione dell’attività del governo, scelta dei ministri, intervento diretto nelle crisi di Gabinetto, ecc.). Si

tratta di dinamiche che non si dovranno trascurare quando, tra poco, osserveremo il funzionamento della monarchia sabauda. Se è vero che il cardine dell’evoluzione istituzionale europea degli ultimi due secoli può essere individuato nella tendenza ad organizzare il controllo politico da parte degli organi rappresentativi, già questa brevissima rassegna di eventi avverte che il percorso in quella direzione passa di necessità attraverso la precisazione del ruolo costituzionale del capo dello Stato. Entrano in gioco, al proposito, la questione della doppia responsabilità dei ministri (verso la Corona o verso la Camera?) e la sua trasformazione da responsabilità penale a responsabilità politica, la connessione tra inviolabilità del monarca e ‘copertura’ ministeriale, il grado di discrezionalità del re nel far prevalere il presunto interesse generale su quelli particolari al momento di risolvere le crisi di governo. Da questo punto di vista, guardando al continuo fiorire di costituzioni già nella prima metà dell'Ottocento, sembrerebbe di trovarsi di fronte a uno straordinario ‘laboratorio’ di esperimenti

istituzionali. Sensazione corretta, per molti versi, ma che occorre

non esagerare: l’elaborazione costituente di quegli anni sottostà ad un intricato gioco di rinvii, richiami e ‘copiature’ tra i diversi

testi costituzionali che assume almeno due significati. Da un lato,

ridimensiona la portata creativa di quella stagione costituente (ogni Carta si ispira alle precedenti, non di rado riprendendone testualmente i contenuti, e a propria volta fa da modello alle successive, in un circolo vizioso di reciproca assimilazione). Dall’altro, esalta il valore dell’esperienza monarchico-costituzionale,

perché lega con un filo non sempre immediatamente visibile ma resistente i disseminati avvenimenti dei singoli Paesi in una grande vicenda europea che si rivela così molto più omogenea di quanto appaia a prima vista.

Occorre valutare tale omogeneità di fondo, ma proprio per questo non ci si può ridurre ad un’analisi dei ‘testi’ costituzionali e delle costruzioni teoriche in essi contenuti: sono piuttosto le modalità di applicazione pratica di quei testi e i concreti fatti istituzionali che vi corrispondono a rendere le molteplici sfumature (spesso sottili ma altrettanto di frequente decisive perché sono quelle che effettivamente ‘muovono’ la costante evoluzione dei regimi) esperite nella ricerca di una soluzione per un problema essenziale: l'avvento di una modalità stabile di controllo rappresentativo sui processi decisionali. E questo, d’altra parte, il problema centrale attorno al quale ruota — al di là delle convenzioni storiografiche — l'uscita definitiva dall’assolutismo e dall’antico regime e l'ingresso nell’alveo del costituzionalismo contemporaneo. Saranno probabilmente necessari ancora molti studi, specifici per ogni area europea in diversi casi, per mettere perfettamente a

fuoco i contorni di questo problema: qui è solo possibile fornire un contributo sulle linee fondamentali della storia costituzionale della monarchia italiana.

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Storia costituzionale della monarchia italiana

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Il passaggio allo Stato costituzionale

Premessa Non è possibile guardare alla storia italiana che segue il 1848 (quella che in maniera schematica e non indenne da certi richiami retorici si è spesso chiamata storia risorgimentale) senza collocarsi dal punto di vista della storia costituzionale. La concessione dello Statuto da parte di Carlo Alberto nel marzo 1848 è infatti, comunque la si voglia intendere, decisiva. I Savoia sono l’unica casa regnante in Italia a non revocare la Carta costituzionale ‘conquistata’ dai moti insurrezionali di quell’anno. Sono gli unici a non precipitarsi sulla comoda strada della Restaurazione. Il ‘re magnanimo’ sceglie cioè di non approfittare della forza repressiva della Santa Alleanza messagli a disposizione dall'accordo tra le grandi potenze europee alla definitiva caduta di Napoleone. Anzi. Quando tutti gli altri Stati della penisola hanno fatto frettolosamente marcia indietro dal fronte bellico, si impegna solitario in una guerra senza successo contro l’Austria, massima esponente proprio tra quelle potenze conservatrici. Que-

sti due fatti — la concessione della costituzione e lo sforzo della pri-

ma guerra d'indipendenza — trasformano radicalmente il Piemonte sabaudo e la storia italiana, al di là di quanto riuscirà a raccontare l’agiografia risorgimentale. Il regno di Sardegna si trova di colpo rivestito di un ruolo simbolico che lo proietta ben oltre la sua condizione di piccolo Stato regionale e viene a disporre di risorse ideologiche fino a quel momento insospettabili. La storia della penisola si indirizza su una via del tutto originale verso l’unificazione e l’instaurazione di un nuovo regime.

Ma non è solo l’immagine esteriore del Piemonte a trasformarsi. Il suo stesso apparato istituzionale interno, dopo il 4 marzo 1848, non potrà mai più essere quello di prima. Lo Statuto è

destinato a restare in vigore per quasi un secolo e a marcare nel bene e nel male l'evoluzione del nostro sistema. La novità più eclatante risiede nel fatto che quella dei Savoia è ormai diventata una monarchia appunto costituzionale, con una evidente anima rappresentativa. Vale a dire che prendono a funzionare due camere legislative: un Senato, i cui membri sono di nomina regia, e una Camera dei deputati, formata da rappresentanti scelti da un corpo elettorale inizialmente molto ristretto ma pian piano allargatosi, fino all’adozione del suffragio universale maschile nel 1913 e alla sua prima applicazione nel 1919. Il passaggio attraverso la monarchia costituzionale rappresenta una tappa pressoché obbligata all’interno della storia costituzionale europea verso l’affermarsi della forma di governo parlamentare: quella, per intendersi, che, nelle sue molteplici e assai evolute varianti, si presume venga applicata ancor oggi dalle democrazie contemporanee. Molto spesso ci si dimentica che, per arrivare a regimi costituzionali come quelli odierni, si transita (e vi si resta per lungo tempo, almeno per tutto l’Ottocento) in una fase in cui il monarca occupa e svolge un importante ruolo costituzionale. Si finisce così per non comprendere appieno alcuni meccanismi istituzionali che pure si hanno ancora quasi quotidianamente sotto gli occhi, soprattutto per quanto concerne il capo dello Stato.

1. Le istituzioni del Piemonte pre-statutario È curioso notare come gli studi di storia istituzionale si siano pressoché totalmente disinteressati di delineare il quadro d’assieme delle istituzioni pre-statutarie!, accontentandosi di ricerche non specialistiche (e spesso ancora influenzate dalla visione risorgimentale di una dinastia sabauda generosamente votatasi a risolle! Fanno eccezione pochi lavori — cui si farà riferimento particolare in nota — che in ogni caso non sono quasi mai frutto del lavoro di specialisti di storia istituzionale.

vare i destini patrii): come se questo bastasse a spiegare l’evolversi in senso costituzionale di un sistema che getterà, nel corso di un intero secolo, le basi della storia politica italiana. Qui non possiamo tracciare altro che poche linee fondamentali di quel quadro, ma vale la pena di farlo, perché solo in tal modo le trasformazioni avviate con la concessione dello Statuto nel 1848 acquistano una più corretta prospettiva storica.

Occorre innanzitutto ricordare che Vittorio Emanuele I era stato costretto dall’occupazione francese a trascorrere il lungo periodo dell'avventura napoleonica, tra il 1800 e il 1814, nei posse-

dimenti sardi. In quel quindicennio, il Piemonte aveva sperimentato le riforme esportate anche altrove in Europa da Bonaparte. Una volta tornato sul trono, tuttavia, Vittorio Emanuele I aveva

imposto, coerentemente con il generale orientamento della Restaurazione, un ritorno alla legislazione pre-napoleonica. Ciò si-

gnificava in sostanza riportare in vigore un ordinamento di matrice settecentesca che al momento della sua nascita poteva anche ritenersi abbastanza avanzato, ma che le accelerazioni costituziona-

li prodotte dalla rivoluzione francese e le innovazioni portate dai codici napoleonici avevano ormai reso sorpassato. Basti pensare che in quell’ordinamento le fonti del diritto erano ancora molteplici, scoordinate e accavallate tra loro: ordinanze ed editti regi, statuti comunali, decisioni dei tribunali supremi e diritto comune?. Il regno sabaudo era pur sempre stato, fino all’invasione francese, un regime assolutistico, a carattere per lo più burocratico e militaristico, fortemente centralizzato, con significative differen-

ze tra i territori piemontesi e quelli sardi?. In particolare, nel 18142 I. Soffietti, Dalla pluralità all'unità degli ordinamenti giuridici nell'età della Restaurazione, in Ombre e luci della Restaurazione. Trasformazioni e continuità istituzionali nei territori del Regno di Sardegna. Atti del Convegno, Torino

21-24 ottobre 1991, Ministero per i Beni culturali e ambientali, Roma 1997, pp. 165-173, specialmente pp. 166-167. 3 G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, Feltrinelli, Milano 1978, vol. I,

pp. 93 e 95-96. La Sardegna era amministrata da un viceré, il quale faceva riferimento ad un ministro per la Sardegna residente a Torino, ed era assistito sia da funzionari piemontesi sia da organi locali, tra i quali un parlamento a carattere cetuale, diviso tradizionalmente in tre ‘stamenti’ (cioè tre assemblee che si

riunivano separatamente per votare i provvedimenti fiscali: una era composta da militari, una da nobili e una da rappresentanti delle città non soggette a giurisdizione feudale).

1815 si richiamava in vita una serie di provvedimenti regi che già nella prima metà del XVIII secolo avevano introdotto notevoli riforme nell’apparato piemontese. Nei primi mesi del 1717 (con l’editto del 17 febbraio e le ‘costituzioni’? dell’11 aprile) si istituisce il Consiglio di Stato, si regola l’attività delle Segreterie di Stato e di Guerra e si detta l'ordinamento delle Aziende di Finanza, Artiglieria, Guerra, Fabbriche, Fortificazioni, Real Casa, si crea

un Consiglio generale delle finanze£. In sostanza si organizza una divisione per competenze che anticipa in certi aspetti le più moderne ripartizioni ministeriali? e i cui obiettivi appaiono dunque essenzialmente quello di accentrare quanto più possibile il potere nelle mani del principe e quello di arrivare a una più razionale ed efficace gestione finanziaria. Lo stesso Consiglio di Stato dipende dal re, che lo dirige e ne può variare la composizione a propria discrezione, come già era avvenuto in Francia per il Consiglio del ‘re 4 Al proposito cfr. G. Quazza, Le riforme in Piemonte nella prima metà del Settecento, Società Tipografica Editrice Modenese, Modena 1957, in particolare vol. I, pp. 56-64. > Il termine non tragga in inganno: non si ha a che fare con nulla di simile alle costituzioni che cominceranno a prodursi con le rivoluzioni americana e francese, progenitrici delle odierne costituzioni democratiche. Si tratta piuttosto di leggi ed editti emanati di propria autorità dal principe regnante e così chiamate a partire dal Medioevo per richiamarsi alle norme statuite dagli imperatori romani (constitutiones). é Secondo Guido Quazza, il Consiglio è «il nucleo motore di tutta l’amministrazione». E composto dai più alti funzionari pubblici: il primo presidente della Camera dei conti, il primo segretario di Guerra, il controllore generale, il generale delle Finanze (capo dell'Azienda delle finanze), il contatore generale (preposto all'Ufficio generale del soldo). Possono intervenire i capi delle altre aziende ed eventuali altri soggetti a discrezione del re. Il Consiglio sovrintende all’attività delle diverse aziende soprattutto grazie al potere di attribuire a ciascuna una quota di bilancio e ricevendone a fine esercizio gli avanzi (che vanno a costituire una voce di fondo ‘straordinario’ in calce a ogni bilancio). Si viene in tal modo a porre in atto il principio fondamentale delle amministrazioni moderne, vale a dire quello della cassa unica. Cfr. Quazza, Le riforme in Piemonte nella prima metà del Settecento, cit., pp. 61-62. ” Fino ad allora era infatti esistito un segretariato generale, in pratica un unico ministero degli affari più importanti, che con il tempo rischia di diventare troppo potente; sotto Vittorio Amedeo II (che regna dal 1684 al 1730) se ne dividono le competenze tra due diverse segreterie, una per gli Esteri e una per gli Interni, a fianco delle quali opereranno in seguito anche una segreteria per la Guerra e un controllore generale delle Finanze, equivalente di un ministro del Tesoro.

Sole’, Luigi XIV. Ma anche in questi termini, le sedute plenarie con veri e propri dibattiti saranno assai rare e praticamente cesseranno dopo il 1723, con il re che si limiterà a consultare di volta in volta i singoli ministri su questioni particolari. Le cose non vanno diversamente nel campo giudiziario. In materia contabile, Vittorio Amedeo fonde le due Camere dei conti di

Chambéry e di Torino in un’unica camera con sede nella capitale e tenuta rigidamente sotto controllo grazie alla nomina di membri di sicura fede monarchica. In generale, la carica di vertice resta quella del gran cancelliere, custode del sigillo reale e primo consulente in materia giudiziaria. I senati di Torino, Nizza e Chambéry — che nel Settecento sono corti di giudicatura — rappresentano le supreme istanze in materia civile e criminale e dispongono sempre del cosiddetto diritto di ‘interinazione’, cioè della facoltà di rifiutare la registrazione degli editti e delle patenti regie, impedendone quindi l’esecuzione. Ma tutte e tre le corti sono di nomina regia e dunque particolarmente accondiscendenti rispetto agli orientamenti del monarca. Questi, a scanso di sorprese, tende a

prevenire eventuali opposizioni consultando i senati prima della promulgazione dei suoi atti e addirittura riesce a far scomparire dalle costituzioni del 1723 l’interinazione degli editti, lasciando sopravvivere solo quella relativa alle lettere della Gran Cancelleria. Continuano comunque a sussistere giurisdizioni separate, ad esempio in campo militare, ecclesiastico, universitario e fin all’interno della stessa Real Casa (ove l’uditore generale giudica le cause attinenti il personale e l’amministrazione dell’azienda della Casa del re). Nonostante tutti questi limiti, le costituzioni settecentesche (che hanno un’ultima coda nel 17708) presentano doti di chiarezza e sintesi che, all’interno di un quadro giuridico fino a quel momento estremamente composito e confuso, marcano un passo avanti di notevole portata. Né, per comprenderle, si può trascurare il fatto che esse rispondono perfettamente alla tendenza assolutistica in atto in quei decenni. E i regni di Carlo Emanuele III 8 Le costituzioni del 1770 rappresentano una riedizione, in diversi punti riveduta e aggiornata, delle costituzioni precedenti: nell’insieme, quindi, non apportano grandissime novità all’interno della struttura istituzionale.

(1730-1773) e di Vittorio Amedeo III (1773-1796) non modificano di molto la situazione: anzi, accentuano, se possibile, l’orientamento militaristico e burocratico, nel tentativo di avvicinarsi al

modello prussiano. Quando la Restaurazione stende la sua mano sul Piemonte, Vittorio Emanuele I ricalca fedelmente il vecchio sistema. Forma il proprio governo con tre ministeri (Interni, Esteri e Guerra), affidati a uomini che si sono tenuti lontani dall'esperienza napoleonica. Lascia le strutture giudiziarie alla dipendenza in parte del ministro degli Interni e in parte della Grande Cancelleria, presieduta dal guardasigilli (il quale può essere convocato alle riunioni ministeriali pur non avendo funzioni di ministro). Ogni ministero viene affiancato da un’azienda economica, che ne cura la con-

tabilità e il bilancio. Vengono ristabiliti i vecchi senati e, naturalmente, non esiste alcun organo legislativo-rappresentativo in senso stretto. Sul piano amministrativo, si aboliscono i prefetti napoleonici e si ricostituiscono le intendenze provinciali. Alcune novità, tuttavia, si manifestano in breve tempo. Vengono creati un ministero per le Finanze, un ministero di Polizia e uno per gli Affari di Sardegna?, per quanto gli ultimi due avranno vita breve e ridotta incidenza politica. Ma soprattutto, già dal 1819, con la nomina di Prospero Balbo a ministro degli Interni, si

prova ad avviare un moderato piano di riforme che avrebbe dovuto modernizzare l'impianto di legislazione. In particolare, si ritorna a parlare della creazione di un nuovo Consiglio di Stato. In proposito vengono elaborati diversi progetti: dallo stesso Balbo, dalla Giunta di legislazione!°, dal Congresso dei ministri!!, dal Congresso dei magistrati!? e dal Consiglio di conferenza (del quale tratteremo in dettaglio più avanti). Segni, questi, di una tendenza abbastanza chiara del sistema sabaudo ad evolversi verso la ? Destinato a ricomparire, ancora per non lungo tempo, nel 1833: cfr. A. Scirocco, L'Italia del Risorgimento, Il Mulino, Bologna 1993?, p. 167.

1° Organo istituito il 25 febbraio 1820 per studiare le innovazioni legislative in materia civile e criminale. 1! Il Congresso dei ministri è attivo tra la fine dell’ottobre e l’inizio di novembre 1820; è composto dai ministri e da tre membri della Giunta di legisla-

zione. 12 Il Congresso dei magistrati tiene le proprie riunioni tra il novembre 1820 e il febbraio 1821 e comprende i titolari delle più alte cariche giudiziarie.

forma della ‘monarchia consultiva”, Ma lo scoppio dei moti del 1821 spinge ad un giro di vite in senso conservatore che arresta il moto di riforma. Né il regno del reazionario Carlo Felice, il quale succede all’abdicatario Vittorio Emanuele I, offrirà grandi opportunità per una ripresa dei progetti riformatori. Bisogna attendere l'avvento al trono di Carlo Alberto per vedere rifiorire l’attività legislativa attorno ai grandi temi politici. Il nuovo re, infatti, pur con molti tentennamenti, finisce per con-

fermare gli orientamenti dei quali aveva dato prova proprio durante i moti del ’21 quando, in un breve periodo di reggenza, aveva concesso agli insorti la costituzione di Cadice!* (anche se in ciò immediatamente sconfessato da Carlo Felice). Tale continuità va sottolineata. La concessione operata nel ’21 dal reggente Carlo Alberto infatti, per quanto ingenua e intempestiva, verrà a rappresentare per i Savoia molto più della mistificazione strategica che serve ai regnanti degli altri Stati italiani per calmare temporaneamente i moti insurrezionali. Proprio il ritorno al potere, dieci anni dopo quell’episodio, del ‘re della Costituzione di Cadice’ (che pure nel frattempo ha fatto ammenda degli sbandamenti giovanili andando a combattere in Spagna con le reazionarie armate monarchiche) offre alla storia costituzionale piemontese una radice molto più salda e credibile che altrove. In questo senso non appare casuale che sia Carlo Alberto e non altri

13 Il modello della ‘monarchia consultiva’ mira a sopperire all'assenza di istituzioni rappresentative attraverso una piramide di organi consultivi (alla base quelli locali, al vertice il Consiglio di Stato) utile ad esprimere le istanze della popolazione e in grado con ciò di indirizzare al meglio l’attività dell’amministrazione. Un simile schema, che pure riflette quello napoleonico, è consono agli

orientamenti della Restaurazione ed è particolarmente diffuso negli ambienti conservatori più moderati. Cfr. C. Ghisalberti, Dall’antico regime al 1848. Le origini costituzionali dell’Italia moderna, Laterza, Roma-Bari 19782, p. 127. 14 La costituzione di Cadice viene elaborata nel 1812 per la parte di Spagna che resiste all'occupazione francese, come risposta al costituzionalismo ‘di facciata’ propugnato da Napoleone. Nei primi anni della Restaurazione diventa una bandiera per chi aspira alla realizzazione di regimi più liberali. In proposito, e in particolare sulla concessione operata nel ’21 da Carlo Alberto, cfr. P. Colombo, La costituzione come ideologia. Le rivoluzioni italiane del 1820-21 e la costituzione di Cadice, commento

a J.M. Portillo, La Nazione cattolica. Cadice

1812: una costituzione per la Spagna, Lacaita, Manduria 1998, pp. 129-157.

a dettare quello Statuto destinato a divenire costituzione italiana per poco meno di un secolo. Si capisce allora quanto sia significativo che il nuovo re proceda da subito a numerose riforme: su due di esse è opportuno qui centrare l’attenzione. In primo luogo si assiste, senza che per questo sia necessaria un’apposita disposizione ufficiale, alla ricomparsa del Consiglio di conferenza (cioè di un organo simile a ciò che 0ggi chiameremmo Consiglio dei ministri), già attivato sotto il regno di Vittorio Emanuele I, dove però aveva funzionato poco e male. Carlo Alberto riprende a riunire con regolarità i propri ministri e più vicini consiglieri! sotto la propria personale direzione, per ascoltarne le opinioni ed esporre loro direttamente le proprie decisioni. Si avvia così un primo abbozzo di collegialità governativa. Pochissimo dopo essere salito al trono, poi, il 18 agosto 1831, il nuovo monarca restaura finalmente il Consiglio di Stato, attribuendogli almeno in teoria funzioni di indirizzo e coordinamento dei programmi generali dello Stato!6. I membri ordinari sono divisi nelle tre sezioni degli Interni, delle Finanze e della Giustizia ed Affari ecclesiastici. Come si vede, rimangono fuori dalle competenze del Consiglio gli affari militari, la politica estera e la gestione della Real Casa, cioè gli ambiti che anche in seguito resteranno di più diretta disponibilità del re. Sono previste però anche adunanze allargate cui dovrebbero partecipare come consiglieri straordinari due rappresentanti per ciascuna riunione di province componenti una Divisione militare, due vescovi, due Cavalieri dell'Ordine dell’ Annunziata e ogni altra personalità che il monarca ritenga utile convocare tra i sudditi distintisi «per cognizioni speciali o per superiorità di talenti». Il Consiglio ‘compiuto’ si dovrebbe convocare annualmente per discutere con tutti imembri le questioni di particolare rilievo e di interesse generale. Che si voglia per tale via arginare le sempre più pressanti richieste in direzione costituzionale o realizzare una vera e propria monarchia consultiva, risulta chiara l'intenzione di dar vita ad un

!5 Il Consiglio, dunque, può essere ‘allargato’ al di fuori della cerchia dei ministri, secondo una tradizione che abbiamo visto risalire molto indietro nel tempo. 16 Cfr. P. Casana Testore, I/ consiglio di Stato, in Ombre e luci della Restau-

razione, cit., pp. 46-80, specialmente pp. 76-77.

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Consiglio almeno indicativamente rappresentativo delle opinioni diffuse nel regno, con un non trascurabile aggancio alla realtà territoriale!?. Nella realtà, il Consiglio sarà limitato, con le regie patenti del 13 settembre 1831, essenzialmente al ruolo di organo consultivo della pubblica amministrazione; il suo parere resterà però decisivo per l'approvazione dei provvedimenti legislativi e alcuni contrasti insorti con il governativo Consiglio di conferenza testimonieranno di una vitalità politica che lo caratterizza rispetto agli altri organi similari istituiti in quel periodo in altre parti d’Italia!8, Riassumendo, alla vigilia della nascita dello Statuto, ci trovia-

mo di fronte ad un regime dalla perdurante e marcata atmosfera assolutistica!?, ma in via di riforma e abbastanza vicino sulla carta

al modello della monarchia ‘consultiva’: un modello che dovrebbe consentire trasformazioni graduali, apparentemente accompagnate dal maggior grado di consenso possibile, evitando che esse appaiano imposte tanto dalla volontà personale del sovrano quanto dalle frange più radicali dell'opinione pubblica. Il posto centrale è occupato dal monarca, capo dello Stato, comandante delle forze armate, fulcro della politica estera e vertice dell’amministrazione. Il sistema giudiziario è articolato su due livelli di giudizio: quello dei Tribunali di Prefettura, organi collegiali di base istituiti in ogni provincia, e quello degli ex Senati, tramutati nel 1847 in corti d’appello. Il re continua comunque a disporre del diritto di grazia. Il governo è costituito da singoli ministri di nomina regia (che pian piano vanno aumentando di numero: nel 1844 viene ri7 E proprio sull’organizzazione del territorio si concentrerà buona parte delle energie riformiste del regno di Carlo Alberto tra gli anni ’30 e ’40, con nuove regole per l’amministrazione dei Comuni e la creazione di consigli e congressi provinciali che riportano nella sostanza in direzione del modello amministrativo di età napoleonica. Nel 1847, addirittura, la carica di consigliere comunale

diverrà elettiva; il sindaco resterà invece di nomina regia. Sulle riforme nell’ambito dell’amministrazione locale, cfr. A. Petracchi, Le origini dell'ordinamento

comunale e provinciale italiano. Storia della legislazione piemontese sugli enti locali dalla fine dell’antico regime al chiudersi dell'età cavouriana (1770-1861), Neri Pozza, Venezia 1962.

18 Ghisalberti, Dall’antico regime al 1848. Le origini costituzionali dell’Italia moderna, cit., p. 136. 19 F, Mazzonis, La monarchia sabauda, in U. Levra (a cura di), Il Piemonte alle soglie del 1848, Carocci, Roma 1999, pp. 149-180.

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stabilito un ministero delle Finanze autonomo rispetto agli Interni, nel 1847 nascono i ministeri dell'Istruzione pubblica e dei Lavori pubblici). I ministri sono però già soliti riunirsi periodicamente in Consiglio di conferenza sotto la presidenza del monarca stesso. Non esistono vere e proprie istituzioni rappresentative-elet-

tive, ma si registrano diversi tentativi di dar voce alle varie istanze presenti all’interno del regno. Questo deficit in materia di rappresentanza, tuttavia, sta ormai per essere colmato, pur tra molte incertezze, proprio dalla concessione dello Statuto albertino.

2. La concessione dello Statuto Carlo Alberto ha cercato fino a questo punto di superare, o forse meglio di aggirare, il problema della costituzione, con la concessione di un ordinamento via via rinnovato e che ritiene un punto di arrivo, non di partenza?°. Ma la situazione dei primi giorni del 1848 non può confortarlo in tale atteggiamento. Le riforme dei mesi precedenti hanno infiammato gli animi invece che calmazrli. Le intemperanze della stampa, i tumulti e le agitazioni, gli attacchi verso i gesuiti, le richieste di istituzione di una guardia civica sono all’ordine del giorno nella stessa Torino. La tensione si avverte in tutta Europa e sui territori sabaudi porta ad una prima esplosione insurrezionale a Genova. Carlo Alberto ne è fortemente contrariato: chiede ai suoi ministri fermezza e repressione, ritenendo il movimento in atto una vera e propria rivoluzione. Teme palesemente l'avvento della repubblica. Non è disposto a concessioni, lui che ha pagato per un decennio il cedimento del ’21 e ha dovuto giurare due anni dopo di impegnarsi a salvaguardare immutate le leggi e le basi fondamentali della monarchia?!, Altri monarchi si rivelano però più malleabili di lui, e Carlo Alberto vede superate le proprie posizioni il 31 gennaio dalla pro-

20 E. Crosa, La concessione dello Statuto. Carlo Alberto e il ministro Borelli «redattore» dello Statuto, Istituto giuridico della Regia Università di Torino; Torino 1936, p. 41.

21 Al momento decisivo, si dovrà convocare in tutta fretta l'arcivescovo di

Vercelli per sciogliere Carlo Alberto da quel giuramento e consentirgli di concedere lo Statuto con la coscienza a posto.

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mulgazione di una costituzione a Napoli, dove Ferdinando II di Borbone ritiene più conveniente cedere alle pressioni liberali. La diga a protezione dello status quo è rotta: bisognerebbe cavalcare l’onda riformista che ne prorompe. Di questo, almeno, sono persuasi i ministri piemontesi, in particolare Giacinto Borelli, ex pri-

mo presidente del Senato di Genova e titolare degli Interni. Molto meno deciso è il re, che tuttavia si lascia convincere dal suo ministro, nel corso di due successivi colloqui, a chiedere lumi in pro-

posito al Consiglio di conferenza. Il 3 febbraio, in una riunione decisiva ristretta ai soli ministri, Borelli si schiera per la concessione di una costituzione, descrivendo l'accelerazione improvvisa degli avvenimenti e lo stato di disordine in cui ci si trova, sottoli-

neando la necessità di non perdere l’occasione di giocare d’anticipo col dettare le condizioni invece di vedersele imposte da altri. Soprattutto preme sul sovrano attraverso un’arma già propria di una logica costituzionale: se Carlo Alberto non riterrà di voler aderire alle loro proposte, i ministri non potranno più coprirlo e si vedranno costretti a rassegnargli le dimissioni. E in effetti i ministri si esprimono, chi con maggiore chi con minore entusiasmo, in favore delle «concessioni»: è questo il termine più spesso impiegato, forse per non urtare subito la suscettibilità del monarca, più probabilmente perché così si lascia aperta la strada a innovazioni diverse da una Carta e si mascherano le divergenze ancora presenti in proposito. Su un punto però tutti so-

no d’accordo: deve trattarsi di «concessioni», vale a dire di provvedimenti magnanimamente emanati dall’alto. La riunione si chiude in sostanza sull’idea, ben riassunta sempre da Borelli, che la co-

stituzione è un male, ma è il minore e serve ad evitarne di peggiori. Un ulteriore passaggio avviene nella riunione seguente, il 7 febbraio, allargata a parecchi dignitari e alti funzionari (i presidenti delle sezioni del Consiglio di Stato, il presidente della Corte di

Cassazione, il comandante generale della divisione militare di Torino...) i quali concordano nell’insieme circa la sconvenienza di una politica repressiva. Farsi promotori della costituzione offre allora due enormi vantaggi: consente di modellarla a piacimento e di aggregare intorno a Casa Savoia un enorme consenso. Detto con le parole del conte Avet, ministro di Grazia e giustizia: occorre «conservare alla Corona la più ampia autonomia compatibile con il sistema rappresentativo». Già in quella occasione si discutono

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sommariamente e si approvano gli articoli base di quello che si chiamerà Statuto?2, Il giorno dopo, l’8 febbraio, un proclama regio annuncia la futura concessione costituzionale. Le cose sono andate assai velocemente. Lo stesso accadrà per i lavori di stesura dello Statuto?3, sempre condotti da un Consiglio allargato, per i quali occorrerà meno di un mese. In questa rapidità, molto vicina alla fretta, sta certo una delle spiegazioni di un testo non molto raffinato e poco dettagliato anche su punti importanti. Si capisce senza fatica che in molti ambienti si resterà delusi alla sua pubblicazione, il 4 marzo. Ma per il momento, leggendo il proclama di Carlo Alberto che lo anticipa, si esulta. E proprio mentre si svolge il corteo di festeggiamento, arriva la notizia della rivoluzione parigina contro Luigi Filippo: l'Europa irrompe sulla scena piemontese.

3. Un'analisi comparata: le altre costituzioni europee L’Europa irrompe sulla scena piemontese. E viceversa. Basterà

anche solo la guerra d’indipendenza a render chiaro che il regno 22 La parola ‘costituzione’ non è in generale molto amata nell'Ottocento (che preferirà quasi sempre chiamare col nome di ‘Carta’ le proprie creazioni costituzionali): rinvia al trauma della rivoluzione francese e alle sue degenerazioni terroristiche e democratiche, evoca lo spettro del potere costituente popolare, implica la frattura con le tradizioni d’ancien régime. Significativamente, e notoriamente, di ‘costituzione’ non vorrà mai sentir parlare un campione del conservatorismo come lo statista austriaco Metternich. Ma anche i membri del Consiglio di conferenza ne escludono l’impiego: proporranno di sostituire a ‘costituzione’ la formula ‘Consulta di Stato’ per poi accordarsi attorno alla denominazione di ‘Statuto’, che evoca la tradizione municipale italiana. E non si dimentichi che, in Piemonte, il termine ‘costituzioni’ era già stato impiegato per riferirsi a tutt'altra realtà normativa: non è da escludere che anche questo fattore abbia giocato nel suo rifiuto. 2 Non è possibile riprodurre qui le diverse sfumature del lavoro costituente, che riguardano tra l’altro più indirettamente la storia della monarchia intesa in senso stretto. Si possono vedere, in proposito, oltre a G. Falco (a cura di), Lo Statuto albertino e la sua preparazione, Capriotti, Roma 1945, i più recenti lavo-

ri di G. Negri, S. Simoni (a cura di), Lo Statuto Albertino e i lavori preparatori, Colombo, Roma 1989 e di L. Ciaurro, Lo Statuto albertino illustrato dai lavori

preparatori, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le riforme istituzionali, Roma 1996.

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sabaudo recita ormai una parte non secondaria anche al di fuori dei propri confini. Ma pur attenendosi allo stretto campo della storia costituzionale, ci si accorge che il contatto con il resto d’Europa è già avvenuto, e proprio grazie al processo di preparazione

e stesura dello Statuto. I costituenti piemontesi (e Borelli in testa), infatti, fanno ciò

che tutti i costituenti di ogni epoca hanno sempre fatto: prendono le mosse dalla lettura delle costituzioni già esistenti?4. Poiché si tratta di un atteggiamento diffuso, come già si è fatto notare nelle pagine introduttive, accade che quasi tutte le Carte costituzionali di quel periodo tendano in più punti ad assomigliarsi. Intendiamoci: gli articoli costituzionali approvati nei diversi paesi europei offrono un quadro in molti casi compatto e omogeneo prima di tutto perché recepiscono una serie di princìpi radicati nella cultura politica loro coeva, ma il pragmatico gioco di traduzioni, ispirazioni, perifrasi, copiature che si verifica tra un testo e

l’altro al momento della stesura esercita un peso non indifferente. Nel caso dello Statuto albertino, come vedremo tra poco, que-

sto gioco di rimandi è abbastanza evidente. Ma altrettanto evidenti — e conviene accennarle subito — sono le ragioni del rifiuto di alcuni tra i modelli costituzionali allora disponibili??. In sintonia con l'orientamento prevalente tra i commentatori giuridico-politici di quegli anni, il Consiglio di conferenza non prende in considerazione ad esempio le costituzioni rivoluzionarie, né quelle napoleoniche, per quanto le prime fossero conosciutissime e le seconde fossero state addirittura applicate fino a pochi decenni prima in territorio italiano. Tuttavia, se ne comprendono bene i motivi: da un lato l’Ottocento tiene a distanza quell’impostazione individualistica del problema costituzionale che la rivoluzione dell’Ottantanove ha indirizzato a un eccessivo esercizio del potere costituente?5; dall’al24 Revel, nel corso della riunione del Consiglio di conferenza tenuta il 7 febbraio, sostiene significativamente che l'eventuale testo costituzionale «ne doit pas se copier, mais que l’on doit en puiser les bases dans d’autres Constitutions»: cfr. Falco (a cura di), Lo Statuto albertino, cit., p. 204.

25 Su questo problema si vedano le annotazioni di C. Ghisalberti, Lo Statuto albertino ed il costituzionalismo europeo della prima metà dell'Ottocento, in «Clio», XXXIV (1998), n. 3, pp. 387-412, specialmente p. 407.

26 Cfr. M. Fioravanti, Stato e costituzione. Materiali per una storia delle dottrine costituzionali, Giappichelli, Torino 1993, p. 222.

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tro, l’epopea bonapartista è il più immediato pericolo contro cui reagisce la Restaurazione e a pochi decenni dalla faticosa sconfitta di Napoleone risulta impensabile metter mano a reinterpretarne l’opera costituzionale. Neanche parlare, poi, della costituzione federale statunitense: le conclamate differenze di contesto ambientale, di sviluppo storico, di struttura sociale la rendono improponibile. Del pari, nel 1848, si è eclissato l’astro della costituzione di Cadice, che aveva invece orientato le rotte dei moti rivo-

luzionari italiani nel biennio 1820-1821. Proprio il fallimento di quell’esperienza, presumibilmente, vizia in maniera irrimediabile il valore ‘mitico’ della Carta spagnola, che presenta tra l’altro contenuti in alcuni casi ormai poco coerenti con le aspettative diffuse negli ultimi anni ‘40. Se infatti la sua forte connotazione monarchica la rende in quel momento ancora attuale, la sua scelta in favore del monocameralismo la allontana dalle preferenze moderate dei nuovi costituenti. E poi, la costituzione di Cadice è di origine straniera (come quella siciliana del 1812, in fondo, frutto di un fortissimo influsso britannico e non a caso anch'essa trascurata dal Consiglio di conferenza) e prodotto di un’assemblea costituente. Il ’48 piemontese, invece, vive due esigenze diverse, e apparentemente fra loro contrastanti: si vuole una Carta che bene identifichi l'entità politica e geografica cui si riferisce?? ma che non rinvii all’autorità di un corpo costituente in qualunguè modo connesso alla incontrollabile sovranità del popolo. In questo senso le costituzioni della Restaurazione forniscono degli eccellenti modelli, anche se proprio la questione ‘costituente’ induce al loro interno dei gradi di preferenza: pesa cioè il fatto che la costituzione belga del 1831 sia creatura di un'assemblea appositamente convocata e la stessa Charte francese del 1830 sia risultato di emendamenti a quella del 1814 votati dalle Camere ed 27 Questo sembra l’orientamento prevalente anche all’interno del Consiglio di conferenza, dove è ben chiaro il problema di tenere il passo con le sempre più incalzanti richieste liberali e patriottiche. Come è agevole comprendere, tutta-

via, non è ancora un orientamento fisso e univoco: i ministri della Guerra Bro-

glia e dei Lavori pubblici Des Ambrois proporranno, ad esempio, l’integrale e sbrigativa adozione della costituzione francese del 1830 (cfr. i verbali delle sedute del Consiglio di conferenza riportati in Falco, a cura di, Lo Statuto alberti:

no, cit., pp. 202-203).

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«accettati» dal «Re dei Francesi» Luigi Filippo (e dunque appaia frutto di una sorta di doppia azione costituente, non esclusivamente monarchica). Già queste osservazioni possono indicarci una prima strada da seguire: si è infatti a lungo accettata l’idea che lo Statuto albertino fosse principalmente debitore verso i suoi predecessori francese e belga del biennio 1830-1831. In realtà, ciò è solo parzialmente vero. Sarebbe bastato guardare a quanto scrivevano molti fra i commentatori coevi allo Statuto, per avvertire il peso avuto dalla Carta del 1814, non per nulla quella di più pura origine monarchica ma soprattutto quella che si trova ‘a monte’ delle altre due?8. Questo non toglie che durante le riunioni del Consiglio di conferenza si prendano in considerazione tutti e tre questi testi costituzionali. Se il conte Borelli sembra volersi rifare proprio alla Charte del 1814 («la plus monarchique»), altri consiglieri del re chiamano direttamente in causa — ed è la scelta più ovvia, perché si orienta su costituzioni in quel momento vigenti e dai contenuti assai familiari — la ‘legge fondamentale’ orleanista e quella belga. Ma non manca chi invita a non trascurare i testi costituzionali germanici?°: non si dispone però di elementi che inducano a pensare che in concreto si sia poi andati oltre questa generica esortazione. Per quanto sia possibile tentare ulteriori parallelismi (addirittura, per esempio, con la costituzione greca, o con quella portoghese), possiamo in sostanza ragionevolmente ritenere che la stesura dello Statuto venga affrontata dai membri del Consiglio di 28 La dipendenza della Charte del 1830 da quella del 1814 è evidente (già avvertono significativamente la necessità di ricordarlo, ad esempio, Francesco Ra-

cioppi e Ignazio Brunelli nel loro Corzzzento allo Statuto del Regno, Utet, Torino 1909, vol. I, p. 22). Ma anche una larga parte degli articoli della costituzione belga (circa il 35%) avrebbe la stessa origine: sul punto — e in generale sul rapporto tra la Carta belga e lo Statuto albertino — cfr. S. Furlani, L'influenza della Costituzione e dell'ordinamento costituzionale belga del 1831 sulla stesura dello Statuto e di altri testi fondamentali del Regno di Sardegna nel 1848, in «Bollettino di informazioni costituzionali e parlamentari», n. 2 (1986), pp. 111-126, spe-

cialmente p. 113. A sottolineare una relativa marginalità dell’apporto delle costituzioni del 1830 e 1831 provvede già Crosa, La concessione dello Statuto, cit., p. 68; in senso analogo, recentemente, R. Martucci, L'invenzione dell’Italia unita 1855-1864, Sansoni, Milano 1999, pp. 344-345.

29 Su tutti questi punti si veda Falco (a cura di), Lo Statuto albertino, cit., pp. 186 e 200.

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conferenza avendo bene in vista sul tavolo attorno al quale siedono i testi delle tre costituzioni allora ritenute fondamentali: quelle francesi del 1814 e del 1830 e quella belga del 1831. Per capire meglio quale tra queste abbia rappresentato il modello prevalente, possiamo fare anche noi la stessa cosa, e tenere contemporaneamente sott’occhio i tre testi in questione?°, Vediamo in parti-

colare quel che accade per gli articoli più strettamente concernenti la Corona. L’art. 2, contenente la peculiare formula «governo monarchico rappresentativo» e il rinvio alla successione per legge salica, appare originale: se un modello è rintracciabile, si trova eventualmente nell’art. 1 della costituzione del Regno delle Due Sicilie del febbraio 184831, mentre un accenno al passaggio del trono per primogenitura maschile si trova nella costituzione del Belgio. L’esercizio collettivo del potere legislativo da parte del re e delle due Camere (art. 3) è contenuto, in forma pressoché identica, nelle tre

costituzioni di riferimento. L’art. 4 sulla inviolabilità e sacralità della persona regia rappresenta la traduzione letterale del corrispondente disposto del 1814, che peraltro non viene modificato nel ’30; lo stesso dicasi per l’art. 5 sulle prerogative del monarca in campo esecutivo (e, anche qui, disposizioni sostanzialmente analoghe si trovano nelle Carte del 1830 e 1831). L’art. 6, relativo alla nomina alle cariche e ai regolamenti necessari per l'esecuzione delle leggi, corrisponde all’art. 12 della costituzione orleanista. Il disposto su sanzione e promulgazione si ripete identico ovunque, mentre quello sul diritto di grazia è formulato in maniera difforme (e più articolata) dal costituente belga. La difformità belga si ripete anche in relazione all'importante art. 9 che attribuisce al re il potere di convocare, aggiornare e sciogliere le Camere. L'iniziativa

legislativa concessa al capo dello Stato e ai due rami del parlamento, così come la riserva d’approvazione in materia finanziaria a favore dei deputati, sembra invece essere il risultato dell’assemblaggio di disposizioni provenienti da tutte e tre le costituzioni as7° Mi sono presenti, al riguardo, i risultati degli incontri seminariali organizzati sull’argomento dal Laboratorio di Storia costituzionale «Antoine Barnave» della Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli studi di Macerata. 31 «Il reame delle Due Sicilie verrà d’oggi innanzi retto da temperata monarchia ereditaria costituzionale sotto forme rappresentative».

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sunte a modello, mentre le norme sulla minorità del re e sulla reggenza sono completamente assenti nei testi d’oltralpe. Discorso a parte merita il corpo di norme relative al patrimonio della Corona. Una sezione dell’art. 19 («la dotazione predetta verrà stabilita per la durata di ogni Regno dalla prima legislatura, dopo l’avvenimento del Re al Trono»), infatti, è traduzione

abbastanza fedele dei corrispondenti articoli francesi (sia del ’14 sia del ’30); ma tutta la restante regolamentazione su dotazione e lista civile non trova corrispettivi di sorta negli altri testi, segno evidente di un’attenzione tutta particolare del costituente statutario verso questo argomento. Per quanto riguarda il giuramento regio, invece, si incontrano sempre prescrizioni: ma poiché la costi-

tuzione belga subordina esplicitamente l’entrata in funzione del monarca all’obbligo di giurare, l'assenza nello Statuto di qualunque chiarimento in proposito fa pensare ad una consapevole opzione in favore della soluzione francese (che lascia appunto in sospeso la questione). Ipotesi rafforzata dal fatto che, viceversa, il vincolo di giurare viene imposto dalla Carta albertina quale condizione per l'assunzione del ruolo di reggente: e l’unico testo che parla di giuramento del reggente è proprio quello belga, l’impostazione del quale viene dunque certamente vagliata con cura in Consiglio di conferenza, per essere rifiutata in un caso (giuramento del re) e accettata nell’altro (giuramento del reggente). Si esce a questo punto dall’iniziale blocco di articoli centrati sul re. Se proseguiamo l’analisi sulle diverse disposizioni relative alla Corona ma sparse all’interno del testo costituzionale, comunque,

il risultato non cambia. Partiamo dall’art. 33, sulla nomina regia dei senatori: in questo caso, ovviamente, un rinvio alla Carta bel-

ga è fuori discussione, perché lì la Camera alta è rappresentativa delle provincie e quindi elettiva. Il collegamento sarà semmai con l’art. 23 della costituzione francese del ’30 (integrato nel 1831?2), 32 È opportuno notare che il nuovo articolo, pubblicato il 29 dicembre del 1831, nasce proprio allo scopo di inserire nel testo costituzionale le ventuno categorie di «notabili» che possono aspirare al rango di senatore; l'originale stesura dell’articolo, infatti, riprendeva esattamente l’art. 27 della Charte del 1814,

che si limitava ad attribuire un libero diritto di nomina al re. L'art. 68 della costituzione orleanista, però, annullava poi tutte le creazioni di Pari avvenute sot-

to il regno di Carlo X e annunciava esplicitamente una revisione dell’art. 23 da operarsi l’anno seguente.

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l’unica a contemplare un elenco di categorie all’interno delle quali deve esercitarsi la facoltà di nomina del monarca. L’attribuzione del titolo di senatore ai principi di sangue e le modalità del suo esercizio (art. 34) sono per parte loro tratte — ma non alla lettera — dalla Charte del 1814; il potere regio di nominare presidente e vicepresidenti del Senato (art. 35) sembra invece essere introdotto autonomamente nello Statuto, poiché le Carte francesi attribuiscono la presidenza al titolare di una carica esterna alla Camera alta (il Cancelliere) e quella belga opta perla nomina da parte dell’assemblea stessa. Allo stesso modo, l’art. 49 — che obbliga deputati e senatori a giurare fedeltà al re — non trova precedenti. La collocazione della sanzione regia nell’iter legislativo (art. 55) è accennata esplicitamente dai testi francesi. Il fondamentale e laconico articolo 65 secondo il quale «il Re nomina e revoca i suoi ministri» è la traduzione letterale del corrispondente articolo belga, mentre l’art. 68 sui poteri regi in materia giudiziaria è palesemente ‘copiato’ dalla costituzione ottriata da Luigi XVIII (che anche su questo punto è ripresa senza modificazioni da quella di Luigi Filippo). Cosa possiamo concludere dopo questa breve:rassegna di confronti? Senza la presunzione di poter tirare le somme definitive sul complessivo processo di filiazione dello Statuto, il risultato sembra abbastanza chiaro. Le coordinate della posizione costituzionale da riconoscere al re vengono tracciate nelle riunioni del Consiglio di conferenza avvalendosi delle indicazioni offerte dalle tre principali costituzioni di quel periodo: appunto, quelle francesi del 1814 e del 1830 e, parzialmente, quella belga del 1831. Talvolta se ne impiega una, talvolta un’altra; in qualche caso si combinano disposizioni tratte da più fonti, in altri si procede a formulazioni originali. Allo storico di buon senso comune, che si immagini ministri e consiglieri di Carlo Alberto indaffarati nella frettolosa stesura del futuro Statuto, una simile soluzione appare naturale e

plausibilissima. Con sotto mano i testi costituzionali che meglio conoscono e più agevolmente possono tradurre perché sono scritti in francese (idioma che nel Piemonte subalpino ancora contende il primato all’italiano), i membri del Consiglio di conferenza procedono rapidamente, prendendo ora qua ora là i ‘mattoni’ per un ‘edificio’ costituzionale che non vogliono troppo dissimile dalla monarchia pre-costituzionale. Manifestano infatti qualche preferenza ideologica (nessuno di loro brilla, in fondo, di ardita luce 20

innovatrice e liberale) per la Charte del 1814, che però di certo non gli impedisce di avvalersi pragmaticamente delle altre. Lo Statuto, come quasi tutti i pezzi della Storia, appare un patchwork di esperienze precedenti assemblate secondo la pressante logica del contingente e cucite tra loro con qualche filo di originalità creativa.

4. Lo Stato è retto da un governo monarchico rappresentativo: i dettami dello Statuto 4.1. La persona del re È a questo punto indispensabile tratteggiare il quadro, almeno nei suoi punti essenziali, delle prerogative regie dettate dallo Statuto. Lo Stato — viene detto subito, all’articolo 2 — «è retto da un governo monarchico rappresentativo». Tale «formula scheletrica»34, in sé e per sé, non ha un significato ben preciso e codificato; implica però l’esistenza di due pilastri ineliminabili all’interno del nuovo sistema, vale a dire re e Camere. Non per nulla l’articolo successivo, il 3, stabilisce che il potere legislativo dovrà essere «collettivamente esercitato» proprio dal monarca, dal Senato e dalla Camera dei deputati. Dunque lo Statuto dice immediatamente che il regime che si sta ponendo in essere è prima di tutto monarchico, cioè centrato sulla figura e sulle prerogative politiche del re: prerogative che si estendono fino al campo legislativo (il quale perciò non è monopolio esclusivo delle assemblee rappresentative). A ribadire ulteriormente questa impostazione, tutti gli articoli seguenti — i primi del dettato statutario — sono poi dedicati alla figura del capo dello Stato. Si tratta di articoli che si succedono apparentemente senza seguire un ordine logico: disposi3 E si aggiunge che «il trono è ereditario secondo la legge salica», cioè — semplificando — secondo l’insieme di regole tradizionali che assicuravano la successione del più diretto discendente maschio ed escludevano l’attribuzione della corona a un’erede di sesso femminile. Il primo articolo dello Statuto recita invece che «la religione apostolica e romana è la sola religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi». 34 Cfr. S. Trentin, Dallo statuto albertino al regime fascista, Marsilio, Vene-

zia 1983, p. 24 (ed. or. Les transformations récents du droit public italien. De la Charte de Charles-Albert à la création de l’Etat fasciste, Giard, Paris 1929).

ZA,

zioni che ci si aspetterebbe di trovare collegate fra loro perché inerenti una stessa materia sono invece inframmezzate da norme che regolano argomenti diversi. Così, ad esempio, dopo che all’art. 3 si è affermato l’esercizio di alcune funzioni legislative da parte del re, bisogna aspettare l’art. 7 per sentir parlare di sanzione e promulgazione delle leggi o gli artt. 9 e 10 per trovare le attribuzioni monarchiche in termini di organizzazione dell’attività delle Camere (convocazione, proroga, scioglimento) e iniziativa legislati-

va. La principale spiegazione di questa confusione va probabilmente trovata in quella fretta con cui furono condotti i lavori costituenti del Consiglio di conferenza. Proviamo allora a mettere ordine e ad accorpare sinteticamente le disposizioni più omogenee tra loro. L’art. 4 dichiara la persona del re «sacra e inviolabile» e si può collegare agli artt. 1118 che parlano appunto del re come persona, del raggiungimento della maggiore età, ad esempio, o della tutela da parte della madre o ancora della reggenza. Ma prima di tutto occorre notare che l’idea che il monarca possa essere considerato sacro appare a molti già tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento superata, obsoleta, quasi una specie di anacronismo. La pensa infatti così, in quegli anni, la maggior parte dei costituzionalisti, che per lo più presentano l’art. 4 come un «detrito storico»? privo di valore giuridico, traghettato dall’antico regime al nuovo Stato costituzionale per opera del Consiglio di conferenza. In effetti, la sacralità del potere rappresenta per secoli un fondamento imprescindibile della legittimazione dei regimi monarchici, in particolare di quelli assolutistici. Ma non è difficile comprendere che un simile punto di vista è figlio di un approccio fortemente giuridico e formalistico, tendente a sottovalutare o a mostrare diffidenza verso quegli elementi che più risultano difficili da inserire nel sistema razionale del diritto costituzionale. E la sacralità del re è certamente uno di questi.

Concludere che l'affermazione «la persona del re è sacra» è pressoché vuota di significato agli occhi del diritto, quindi, ci aiuta pochissimo. Anzi, ci nasconde due importanti considerazioni. ? A titolo d’esempio si veda G. Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto costituzionale italiano, Bocca, Torino 1913, p. 422.

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In primo luogo, va detto che quando si ha a che fare con la Corona si devono fare i conti anche con un mondo parallelo rispetto a quello del diritto positivo: un mondo fatto di tradizioni e consuetudini e retto da concetti e fenomeni (morale, equità, cerimonia-

le, etichetta, costume) difficilmente compatibili con i dettami costituzionali. E la necessità di adottare questo doppio punto di vista sta già nella duplice natura dell’oggetto che abbiamo di fronte, il quale è inevitabilmente composto di due parti: l'istituzione propriamente intesa (Corona) e la persona (re). In secondo luogo, non bisogna dimenticare che l’art. 4 mette in collegamento la sacralità con l’inviolabilità; è un collegamento assai importante dal punto di vista del sistema costituzionale. Il re è sacro, e in quanto sacro è inviolabile. Se è inviolabile, non può essere mai messo in discussione, né essere considerato responsabile per un qualche atto politico. Ma poiché, di atti politici, il monarca ne deve compiere molti, occorrerà trovare un espediente perché ciò avvenga senza che la sua inviolabilità ne risenta. Nasce qui l’artifizio della cosiddetta ‘copertura ministeriale’ (ogni atto del re viene controfirmato da un ministro che ne diviene automaticamente l’unico responsabile)?©: si tratta di un pezzo fondamentale dell’edificio delle monarchie costituzionali, oltre che un anello essenziale nell’e-

voluzione verso la forma di governo parlamentare. Perché il re entri pienamente nel suo ruolo istituzionale, e possa dunque esercitarne le prerogative, occorre che compia la maggiore età, fissata a diciotto anni (art. 11) in deroga alle norme di diritto privato dell’epoca che la riconoscevano per i comuni cittadini a ventuno. Nel caso in cui il re sia minorenne, lo Statuto im-

piega ben sei articoli al fine di dettare le regole per la reggenza, che di norma spetterà al parente più prossimo nell’ordine di successione. Tanta solerzia è quasi sicuramente motivata dal ricordo

- ancora abbastanza vivo — delle lotte intestine che avevano accompagnato nel XVII secolo i due contrastati casi di reggenza resi necessari dalla minore età di Carlo Emanuele II prima e di Vittorio Amedeo II poi?7. Tra le diverse norme merita di essere ri36 Al proposito, si vedano le lucide osservazioni di S. Labriola, Storia della costituzione italiana, Esi, Napoli 1995, p. 105. 37 In particolare lo scontro generatosi intorno alla reggenza per Carlo Ema-

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cordato l’art. 16, che dichiara reggente il principe ereditario in caso di fisica impossibilità del monarca a regnare e che contempla, in pratica, la possibilità di una sostituzione del regnante prima della sua morte. Ma va anticipato che la prassi istituzionale confinerà invece le situazioni di impedimento derivante da malattia fisica sul terreno di un istituto diverso e non previsto dalla costituzione, la luogotenenza. Occorre allora fare un altro salto all’interno del testo costituzionale per arrivare agli artt. 22 e 23, dove si afferma che sia il re sia il reggente devono prestare giuramento: due articoli, questi, che generano un complesso problema. Perché stabiliscono che il monarca giura «salendo al trono» mentre il reggente lo deve fare «prima di entrare in funzione», cosicché non si capisce se il giuramento rappresenta una condizione all'acquisizione di potere da parte di un nuovo re oppure costituisce una mera formalità. Ma anche su questo punto si tornerà più diffusamente in seguito. 4.2. Le prerogative esecutive

Possiamo poi individuare, a seconda dell'oggetto che regolano, altri tre gruppi di articoli: il primo è essenzialmente rappresentato dalla coppia 5-6, riguardante le attribuzioni che per tradizione sono più tipicamente proprie del monarca. «Al re solo appartiene il potere esecutivo», dice l’art. 5: ancora una formula variamente interpretabile (cosa si intende esattamente per «appartiene»?). Si prosegue dichiarando che il re è «capo supremo dello Stato» e quindi comanda le forze armate, può dichiarare guerra così come decidere la pace e in sostanza tiene i rapporti con l'estero, i quali si traducono in trattati internazionali che egli può liberamente concludere. Di questi trattati deve essere «data notizia» alle Camere?8 e quando comportino onere finanziario o variazioni nel ternuele II fra la duchessa madre Cristina di Francia da un lato e i due cognati (il principe Tommaso di Carignano e il cardinale Maurizio di Savoia) dall’altro avevano portato la dinastia a una vera e propria guerra civile, chiusasi nel 1642 solo grazie all'intervento francese. 38 Anche questa è una formula ambigua. «Dare notizia» significa semplicemente comunicare una decisione già assunta e non modificabile? In tal caso, era necessario scomodare una prescrizione costituzionale per rendere obbligatoria una mera formalità? E, in ogni caso, quando tale comunicazione deve essere ef-

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ritorio statale necessitano dell’approvazione parlamentare per entrare in vigore. Si precisano qui due fondamentali campi d’azione della Corona: quello militare e quello internazionale. È utile notare subito che il legame con l’esercito, di lunga tradizione per una dinastia ‘guerriera’ come i Savoia, resterà forte fino alla fine della vicenda monarchica. È un legame che si manifesta almeno da due punti di vista. Prima di tutto quale fonte di legittimazione (sono l'impegno bellico e le vittorie che ne derivano, vere o presunte, a fondare il potere dei re italiani; è nei ranghi dell’esercito che si ra-

dica un solido filone di consenso e fedeltà verso la famiglia regnante); poi quale fattore istituzionale (il re, almeno fino all’ultima fase del regime fascista, verrà percepito e si presenterà come il capo delle forze armate, esercitando un influsso assai potente nel campo militare, che resterà di sua competenza anche per quanto concerne la nomina alle cariche di vertice, soprattutto quelle ministeriali). Lo stesso si può dire per l’ambito internazionale, dove capiterà raramente che la voce del monarca non si faccia sentire o che resti inascoltata. Così, nei numerosi governi che si susseguono, i ministri della Guerra e degli Esteri saranno quasi sempre scelti dal monarca,

o comunque da lui preventivamente valutati e approva-

ti, e quindi resteranno legati a doppia corda con la Corona, anche nelle decisioni da assumere. Ma a questo punto ci si rende facilmente conto di un problema. Per quanto il successivo art. 6 reciti che il re «nomina a tutte le cariche dello Stato» (e fa i decreti e i regolamenti necessari all'esecuzione delle leggi), ci accorgiamo che nulla di preciso viene detto sullo specifico rapporto tra la Corona e i ministri, cioè sul nodo essenziale dell’intreccio istituzionale monarchico. Occorre andare fino all’art. 65 per scoprire di nuovo, però, una frase che appare oggi di straordinaria laconicità: «il Re nomina e revoca i suoi ministri». Non una parola di più. Nulla sappiamo su ‘come’ deve nominarli o revocarli: in base a quali criteri di valutazione politica, tenendo in quale conto le indicazioni delle Camere o gli orientamenti del corpo elettorale, se le scelte dipendono dalle refettuata? L'assenza di termini temporali finirebbe per lasciare libero il governo ‘del re’ di orientare la politica internazionale senza nessun confronto con i rappresentanti popolari.

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lazioni del re o del Gabinetto stesso con altri organi istituzionali. Rileviamo inoltre che lo Statuto si limita a prevedere la figura dei singoli ministri e non considera per nulla un loro organo collegiale (Consiglio) né un loro coordinatore di vertice (presidente del Consiglio). Per di più, all’art. 67, dice che «i ministri sono responsabili», ma non specifica verso chi: se verso il parlamento?? o verso il monarca che li ha nominati. E l’alternativa non è di poco conto. È molto probabile che disposizioni di questo genere potessero apparire soddisfacenti agli estensori dello Statuto, figli di una monarchia ancora assai vicina nel suo funzionamento al sistema d’antico regime. Ma l’apparato costituzionale che ne deriva finisce con l’essere così incerto nei suoi contorni, che diventa diffici-

lissimo individuare le dinamiche politiche e istituzionali che presiedono all’azione della Corona. 4.3. Le prerogative legislative

Torniamo perciò a registrare almeno quei pochi punti fissi che il testo della Carta albertina mette a disposizione. Abbiamo già visto come l’art. 3 apra al monarca una porta d’ingresso nel potere legislativo4°: una triade di articoli (i17,il9eil 10) si incarica di ulteriori specificazioni. Il re non discute ed elabora concretamente le leggi, ma interviene all’inizio e alla fine del loro iter di formazione: da un lato con l’iniziativa (condivisa con le Camere*!), e dall’altro con sanzione e promulgazione. Naturalmente, stante l’impossibilità per la Corona di assumere in maniera visibile iniziative politiche che possano metterne in gioco la responsabilità, l’origine del testo dei disegni di legge è prevalentemente ministeriale e in ogni caso, dal punto di vista formale, la presenta39 Il diritto della Camera di accusare i ministri sarebbe stato consapevolmente escluso dal testo dello Statuto durante i lavori del Consiglio di conferenza: cfr. A. Manno, La concessione dello Statuto: notizie di fatto documentate, Tip. F. Mariotti, Pisa 1885, p. 19.

40 Per una più dettagliata analisi delle prerogative del re nel campo legislativo, rinvio a P. Colombo, Il «Re in parlamento». Capo dello Stato e Camere nella monarchia costituzionale italiana, in S. Labriola (a cura di), I{ Parlamento repubblicano (1948-1998), Giuffrè, Milano 1999, pp. 919-960.

4 Art. 10: «La proposizione delle leggi apparterrà al Re ed a ciascuna delle due Camere. Però ogni legge d’imposizione di tributi, o di approvazione dei bilanci e dei conti dello Stato sarà presentata alla Camera dei Deputati».

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zione dei progetti deve essere opera esclusivamente dei ministri, proprio per evitare che la maestà regia possa risultare sminuita dalle critiche dell’opposizione. L'iniziativa regia si traduce, allora, essenzialmente in un decreto di autorizzazione a presentare il disegno di legge di fronte alle Camere: decreto con il quale si certifica che il progetto è effettiva espressione della volontà del governo e si esclude che provenga da una iniziativa personale. È come se si assistesse ad una «delegazione regia di una attribuzione sostanziale del potere legislativo al Governo». E va detto che si tratta di un fenomeno istituzionale di grande rilievo, perché i disegni di legge governativi saranno nel corso dell'esperienza statutaria circa

cinque volte più numerosi delle proposte avanzate dai deputati. Sanzione, promulgazione e pubblicazione, invece, ‘integrano’ la volontà legislativa. La sanzione corrisponde all’approvazione regia di una legge, che il capo dello Stato dichiara in questo modo di ritenere corrispondente all’interesse generale. La Corona si trova così potenzialmente in grado di controllare l’attività legislativa. In realtà, si ha notizia di due sole circostanze nelle quali il capo dello Stato rifiuta effettivamente il proprio assenso (nel 1869 su una legge relativa alla cittadinanza da riconoscere agli abitanti dei territori non ancora annessi e nel 1891 su dei trattati commerciali). Sicché la sanzione, in sé e per sé, potrebbe essere considerata per lo più un atto quasi dovuto, di «mera forma». Ma non è questa la prospettiva più iaia de fatti la possibilità di un rifiuto regio (sempre incombente), più ancora che il suo effettivo manifestarsi, a mettere nelle mani del monarca un mezzo di pesante pressione sugli uomini politici e sull’opinione pubblica, un’ottima carta da calare nel gioco parlamentare, una valida moneta di scambio nelle trattative tra governo e Camere, una specie di veto potenziale. Nel 1852 e nel 1855, leggi importantissime come quelle sull’introduzione del matrimonio civile e sulla soppressione degli enti religiosi (con incameramento dei relativi beni ad opera dello Stato) naufragano per la re4 Cfr. I. Santangelo Spoto, Parlamento, in L. Lucchini (a cura di), I{ Digesto Italiano, Utet, Torino 1884-1921, vol. XVIII, parte I, 1906-1910, pp. 117357, in particolare pe222! 4 T. Bruno, Corona, in Lucchini (a cura di), I{ Digesto Italiano, cit., vol. VIII, parte III, 1898-1900, pp. 845-872, in particolare p. 856.

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sistenza monarchica sostenuta dalla minaccia di rifiuto della sanzione. È importante aver chiari tali passaggi per comprendere, al di là del suo contenuto letterale, la rilevanza dell’articolo 7 («il Re

solo sanziona le leggi e le promulga»). i Anche il potere di promulgazione, difatti, è in realtà più esteso di quanto farebbe pensare il testo dell’articolo: ad esso viene infatti associato quello di pubblicazione. La Carta albertina non lo prevede esplicitamente, ma si riscontra totale accordo sul fatto che anch'esso, in quanto collegato alla promulgazione, spetti al re. In sostanza, con la promulgazione (congiunta alla sanzione), si sancirebbe l’esistenza e si darebbe carattere ufficiale e data certa alla legge, la quale diventerebbe poi obbligatoria peri cittadini in conseguenza della pubblicazione. Concretamente, dunque, il monarca constata attraverso la promulgazione l'approvazione della legge da parte delle Camere, dichiara di averla sanzionata, ne notifica il testo, ordina di ‘pubblicarla’ nella Raccolta ufficiale e di osservarla e farla osservare come legge dello Stato. Perché questo insieme di attribuzioni è così importante? Soprattutto perché, in assenza di un termine prestabilito e obbligatorio per l’esercizio dei suoi compiti di promulgazione e pubblicazione, il monarca potrebbe ‘congelare’ indefinitamente l’applicazione di una legge che gli fosse sgradita*4. E pur vero che la Corona dispone di armi ancor più potenti per controllare l’attività della Camera. Da un atto del monarca dipende innanzitutto la convocazione annuale dell'assemblea (un

potere che chiaramente evoca l’antica libertà del sovrano di riunire quando lo ritenga opportuno i rappresentanti delle diverse forze presenti nel regno per averne aiuto e consiglio); l’art. 10 mette inoltre nelle mani del re il potere di scioglierla e di prorogarne le sessioni (cioè di sospenderle temporaneamente). Di queste armi l'esecutivo monarchico si avvarrà ripetutamente per tarpare le ali all'opposizione parlamentare nei casi in cui questa si farà troppo importuna e invadente. Basti pensare che nei primi diciassette an44 Per ben sei anni, all’inizio dell’esperienza statutaria, è questa la situazione che si viene a creare e che suscita in alcuni casi l’apprensione della Camera: solo una legge dell’aprile 1854 renderà la promulgazione obbligatoria entro l’apertura della sessione parlamentare immediatamente successiva a quella in cui la legge è stata votata. >

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ni di vita statutaria—cioè dalla I alla VIII legislatura— il parlamento resta chiuso per circa i 2/3 del tempo: che ècome dire, più meno, 11 anni di inattività contro 6 di lavoro!# È vero che nell’Ottocento si è per lo più lontani dall’aspettarsi un parlamento permanente, ma va ricordato che intere fasi di politica governativa —

ad esempio in coincidenza della cosiddetta ‘dittatura parlamentare’ di Crispi — si svolgeranno a parlamento strategicamente chiuso. E decisioni fondamentali per la storia del nostro paese verranno assunte senza che i deputati possano direttamente influire sul loro orientamento perché quasi mai convocati in assemblea: una per tutte, l’entrata in guerra nel primo conflitto mondiale. Inoltre, la possibilità di sciogliere la Camera rappresenta un mezzo essenziale di intervento della Corona nelle crisi politiche che si verificano tra Gabinetto e parlamento: e, anzi, si può dire che in essa risieda la componente centrale del meccanismo di risoluzione di quelle stesse crisi, fulcro del quale è proprio il re. Ma su questi argomenti torneremo più avanti. A] momento è

invece più importante ricordare che il rapporto con la Camera dei deputati non esaurisce l’area delle relazioni tra Corona e parlamento. All’art. 33, infatti, lo Statuto afferma che «il Senato è com-

posto di membri nominati a vita dal Re, in numero non limitato», entro ventuno categorie di notabili. Si tratta di una prerogativa forte, come denota il numero di tali categorie (che si vuole esplicitamente abbastanza alto da lasciare margine di scelta al monarca”), la generica formulazione di alcune di esse e il rinvio in altri 4 Così secondo l’attenta ricostruzione di Martucci, L'invenzione dell’Italia unita, cit., pp. 388-389.

46 Queste, per quanto possibile in sintesi, le categorie: gli arcivescovi e vescovi dello Stato; i presidenti della Camera dei deputati; i deputati dopo tre legislature o sei anni d’esercizio; i ministri; gli ambasciatori; i presidenti, l’avvo-

cato generale, il procuratore generale e i consiglieri del magistrato di Cassazione della Camera dei conti; i presidenti, i presidenti di classe, i consiglieri e gli avvocati generali o fiscali generali dei magistrati d'appello; gli ufficiali generali di terra e di mare; i consiglieri di Stato; i membri dei Consigli di divisione; gli intendenti generali; imembri della regia Accademia delle scienze; i membri ordinari del Consiglio superiore d'istruzione pubblica; coloro che con servizi o meriti eminenti avranno illustrata la patria; le persone che da tre anni pagano tre

mila lire d’imposizione diretta in ragione dei loro beni o della loro industria. 47 In Consiglio di conferenza, il 17 febbraio 1848, il conte di Revel sostiene la necessità «d’étendre beaucoup ces catégories afin de laisser plus de latitude au choix»: cfr. Falco (a cura di), Lo Statuto albertino, cit., p. 223.

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casi a criteri oggettivi (ad esempio il censo) difficilmente opinabili o contestabili da chi volesse opporsi a una nomina. La libertà d’azione della Corona è in sostanza assai larga. Ne viene una Camera alta a forte vocazione monarchica e ancor più, per molti aspetti, governativa. Il fatto che il numero delle nomine non sia limitato, infatti, darà vita alla discussa pratica delle cosiddette

‘infornate’: gruppi di nuovi membri verranno spesso nominati ad hoc per alterare in favore dell'indirizzo governativo il segno politico della maggioranza senatoriale‘. É una pratica rintracciabile durante l’intero arco di vita statutario (già a partire da Cavour) ma che non deve necessariamente essere interpretata in senso negati-

vo, come elemento di distorsione di un presunto corretto funzionamento del sistema. L’arma che consente al re e ai ministri di modificare la maggioranza senatoriale può anche essere equiparata «al potere di scioglimento della Camera dei deputati, poiché impediva che il Senato si ponesse come corpo separato e incontrollabile»: dunque, un ulteriore fattore di bilanciamento politico e di equilibrio tra le due assemblee, oltre che tra queste e il governo??. Non dimentichiamo poi che il monarca dispone della prerogativa di nominare presidente e vicepresidente del Senato (art. 35): figure delle quali si può cogliere il particolare rilievo se si considera che l’ufficio di presidenza senatoriale non decade al finire della sessione come avviene per la Camera dei deputati, ragion per cui i titolari delle cariche relative restano in funzione per lunghi periodi e diventano interlocutori privilegiati sia della Corona, sia dei ministri?9, Tutto questo non significa, naturalmente, che non sorgano mai contrasti tra la Corona (ma soprattutto il governo) e il Senato. Si danno ad esempio casi nei quali la Camera alta rifiuterà — o mi48 Va altresì detto che la prerogativa regia di nomina dei senatori si traduce spesso, in concreto, nell’abitudine del governo di ‘confinare’ all’interno della Camera alta avversari politici particolarmente fastidiosi o candidati della stessa

maggioranza che, provenienti da collegi reputati ‘sicuri’, liberano per tale via un posto ad un nuovo deputato filogovernativo. 4° Si veda M.E. Lanciotti, La riforma impossibile. Idee, discussioni e progetti sulla modifica del Senato regio e vitalizio (1848-1922), Il Mulino, Bologna 1993, p. 23.

20 Cfr. N. Antonetti, Gli invalidi della costituzione. Il Senato del Regno 18481924, Laterza, Roma-Bari 1992, in particolare pp. 93-94.

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naccerà di rifiutare — la convalida di nuovi membri scelti per assecondare la volontà ministeriale. È quello che accade a ben sei senatori tra i moltissimi ‘infornati’ sul finire del 1892 dal Gabinetto Giolitti: in quell’occasione sembra che il diritto vantato dal Senato di escludere coloro che non gli appaiano accettabili venga a confliggere con le prerogative regie?!. Se sarebbe infatti un difetto di vigilanza da parte del re sulla qualità delle nomine a generare contrasti, è pur vero che quegli stessi contrasti, nelle loro manifestazioni più evidenti, si esplicheranno comunque nei confronti del governo, a conferma della inattaccabilità della Corona e della continua e oscillante doppia titolarità — regia e governativa — delle prerogative monarchiche. Anche il legame tra Corona e Senato viene così tenuto quanto

più possibile al di fuori delle contese politiche, e l’originaria ‘vicinanza'’ tra i due organi costituzionali, voluta dallo Statuto, viene

conservata. C’è una sorta di simbiosi tra dinastia regnante e Camera alta, il cui simbolo supremo (quasi un legame di sangue) è fissato nell’art. 34 dello Statuto, secondo il quale «i principi della famiglia reale fanno parte di diritto del Senato»: la stirpe reale entra nel ramo vitalizio del parlamento già al raggiungimento della maggiore età. È un segno di contiguità che non può essere tra-

scurato: contiguità che si esprime, come si è accennato, in molte forme e che nella sostanza non sembra venire mai meno. Il fatto che il Senato sabaudo, all’inizio del XX secolo, sarà ormai «l’uni-

co ancora di nomina regia tra quelli dei paesi più avanzati politicamente»?? è in proposito abbastanza eloquente. 4.4. Le prerogative giudiziarie

Restiamo ai dettami dello Statuto circa la Corona. L’art. 8 fa corpo a sé stante. Stabilisce che «il Re può far grazia e commutare le pene» e non è seguito da alcun’altra disposizione concernente l’ordine giudiziario. Solo sessanta articoli dopo il legislatore sta51 Sulla vicenda si veda Lanciotti, La riforma impossibile, cit., p. 234. Va no-

tato che anche all’inizio di quello stesso anno, sotto la presidenza di Antonio di Rudinì, si era verificato un problema analogo: segno che l’atteggiamento del Senato restava invariato al modificarsi delle compagini parlamentari.

52 Ivi, p. 222.

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tutario torna sull’argomento, per dichiarare che «la giustizia emana dal Re, ed è amministrata in suo nome dai giudici che egli istituisce»: giudici che diventano inamovibili dopo tre anni di servizio (artt. 68 e 69). Come abbiamo già visto in tema di sacralità della figura regia, l’idea che la giustizia «emani» dal re è evidentemente ereditata dai regimi assoluti e perciò appare a molti commentatori dell’epoca

poco coerente con i nuovi princìpi liberali. Ma all’interno di un sistema costituzionale questa idea assume un significato soprattutto simbolico, utile a ribadire l’unità della sovranità che il re personifica. Valore simbolico ribadito nel divieto fatto al capo dello Stato di giudicare in prima persona (seconda parte dell’art. 68), sottraendo cause alla magistratura (art. 71), e di influenzare i giudici,

che sono appunto inamovibili. Il re avrebbe concretamente poco a che fare, da questo punto di vista, con il potere giudiziario”. Le cose non paiono andar diversamente per quanto concerne l'art. 8. La facoltà di esercitare clemenza rinvia all'antica consuetudine dello ius dispensandi, il principio che nel passato consentiva al monarca assoluto appunto di dispensare alcuni soggetti dal rispetto della legge, addirittura retroattivamente. Ma questa consuetudine non è ovviamente recepita dall’ordinamento statutario, cosicché già i costituzionalisti di quei tempi ritengono che non se ne debba cercare un fondamento storico-giuridico: la giustificazione starebbe semmai nella necessità di rispondere al trasformarsi delle opinioni e dei costumi in conseguenza del quale non si accettasse più una pena pur fissata dalla legge. Tuttavia, come è facile immaginare, la soluzione non è così semplice. L’istituto della grazia può anche apparire come un elemento perturbatore nell'organismo processuale e da diverse par? Si tenga naturalmente presente come nei fatti l’inamovibilità e l’indipendenza dei giudici potesse essere vanificata: attraverso l’accentuazione della composizione ‘piemontese’ della magistratura, per mezzo dei trasferimenti ‘per l’utilità del servizio’, con l’influsso diretto del potere esecutivo sul pubblico ministero. Si pensi che un Consiglio superiore della magistratura viene ad essere istituito solo con leggi del 1907 e 1908. Su questi temi, cfr. A. Gustapane, L’autonomia e l'indipendenza della magistratura ordinaria nel sistema costituzionale italiano. Dagli albori dello Statuto Albertino al crepuscolo della Bicamerale, Giuffrè, Milano 1999; P. Saraceno, Storia della magistratura italiana, 1. Le origini. La magistratura del Regno di Sardegna, Università di Roma «La Sapienza», Roma 1993.

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ti si mette in dubbio l'opportunità di conservarlo in vita. E il fatto stesso che ci si interroghi sulla compatibilità del diritto di grazia con il resto dell'ordinamento sembra segno di un suo valore concreto, e non solamente teorico: difatti viene esercitato molto

frequentemente e presenta ricadute (sia in generale politiche sia in particolare ‘di immagine’) notevolissime per la Corona. Si pensi che, di fronte alle numerose critiche che l’istituto già suscita in avvio dell’età statutaria, il 27 giugno 1856, il ministro guardasigilli arriverà a dover consultare la sezione di Grazia e giustizia del Consiglio di Stato per ottenere un parere sulla compatibilità della grazia e dell’amnistia proprio con il dettame dell’art. 6 dello Statuto (che vieta al re di «sospendere l'osservanza delle leggi o dispensarne»). Il Consiglio risponderà riconoscendo l’opportunità di una eccezione ai princìpi di divisione dei poteri e di indipendenza del giudiziario sanciti da quell’articolo?4. Va ricordato, comunque, che non è per niente assodato che i provvedimenti di grazia siano parte effettiva del potere giudiziario: essi intervengono infatti, solo dopo che la giustizia ha fatto il suo pieno corso, a modificare una sentenza passata in giudicato e altrimenti irrevocabile. Dunque la grazia regia produce effetti di carattere eccezionale. Eccezionalità che può essere intesa in due diversi modi: nel contrapporre un interesse particolare al principio che vuole la legge uguale per tutti, oppure nella possibilità di correggere gli esiti dell'iter giudiziario attivando un più alto grado di giustizia per salvaguardare con il senso di equità un interesse superiore, non contingente. In questo ultimo senso, il

potere regio servirebbe a sottrarre gli atti di clemenza (che sono ad altissimo valore propagandistico) alle discussioni partigiane e alle lotte faziose tra i partiti: ecco allora che il monarca sarà chiamato in causa nei momenti di ‘passe del sistema giudiziario, specie se generati dalle pressioni del potere politico, come nel caso del processo a Bernardo Tanlongo per lo scandalo della Banca Romana??. 54 Il parere del Consiglio di Stato è riportato da A. Levi, Amnistia - indulto, in Lucchini (a cura di), I/ Digesto Italiano, cit., vol. III, parte I, 1895, pp. 73-162,

in particolare pp. 93-94. 55 Si veda in proposito l’articolo I/ processo Tanlongo, in «Corriere della Sera», 8-9 giugno 1894, p. 1.

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Vediamo allora più concretamente le forme e i casi in cui si manifesta questo potere del re. La generica espressione adottata dallo Statuto secondo cui «il re può far grazia» è infatti applicata a tre diversi provvedimenti: la grazia propriamente intesa, l’indulto e l’amnistia?0, Nessuno di questi atti, sul piano costituzionale, dovrebbe sfuggire al principio della responsabilità ministeriale: i provvedimenti di clemenza andrebbero cioè concertati tra re e ministri, in particolare con quello di Grazia e giustizia. Ma è significativo che alcuni commentatori dell’epoca sostengano che i provvedimenti di grazia, per loro stessa essenza, dovrebbero invece provenire dal re in persona. In questo senso, i meccanismi istituzionali del regime

parlamentare snaturerebbero l’istituto, facendolo dipendere attraverso l’intermediazione ministeriale dalle pressioni di parte: i ministri potrebbero cioè trovarsi vincolati dall'opinione formatasi in seno alla maggioranza parlamentare cui sanno di dover rispondere. Queste incertezze interpretative trovano ancor più ragione d’essere nel fatto che solo alla fine del 1865, con il nuovo codice

di procedura civile, si arriverà a regolare per legge l'esercizio del diritto di grazia coinvolgendo per l'appunto la figura ministeriale. Gli atti regi di clemenza sono quindi privi di un profilo legislativo per quasi vent'anni. Ma in quanti casi si domanda e si concede grazia? I dati sono sorprendenti: negli anni dal 1880 al 1897, prima dei quali le statistiche sono assai poco affidabili, vengono presentate 228.346 domande di grazia, con un picco di 37.695 nel 1896! Di queste, 21.050 vengono accolte: vale a dire circa il 9,2% del totale. Ma in alcuni casi si arriverà anche a percentuali superiori al 30%, come nel biennio 1905-1907 o nel primo dopoguerra. Non è molto diverso il caso delle amnistie. Si è soliti pensarle come provvedimenti d’eccezione, legati alla celebrazione di avvenimenti di particolare rilievo per la Casa regnante: un matrimo2° La grazia è rivolta a un singolo condannato cui si vuole condonare in tutto o in parte una pena già inflitta a titolo definitivo, l’indulto è diretto invece a rimettere la pena ad una categoria generale di condannati, l’amnistia viene concessa per categorie generali di reati e può comportare anche l’assoluzione prima o durante il processo, agendo dunque a titolo preventivo.

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nio, la nascita di un erede, la successione al trono. Ma se ci si li-

mitasse a questi casi, ci si farebbe un’idea riduttiva del fenomeno. Nei primi quarant'anni del periodo statutario, dal 1849 al 1888, vengono concesse 107 amnistie, di cui ben 15 nel 1862, dopo la dichiarazione dell'Unità, per sanare irregolarità soprattutto in materia militare efiscale all’interno dei tertitori annessi. È evidente che non può essere direttamente il monarca a gestire una simile mole di provvedimenti. Ma pensiamo a quale ricaduta propagandistica sono comunque capaci di produrre centinaia di migliaia di atti di clemenza che nella forma costituzionale e nell’immaginario collettivo sono comunque emanati dal re in persona. Non è un caso che ci si lamenti da più parti dell’abuso di tali provvedimenti, in particolare quando è chiaramente legato proprio alle mire propagandistiche della famiglia reale. Il diritto di grazia rappresenta quindi nella realtà, al di là della sua natura di strumento d’eccezione, un mezzo di governo abbastanza consueto, e al quale comunque si ricorre — o si progetta di ricorrere — con una notevole frequenza. E la fonte di tale diritto, in qualunque modo si voglia osservare la questione, finisce con l'essere individuata nel re. 4.5. Le prerogative in campo onorifico

Qualcosa di molto simile avviene per quanto riguarda le attribuzioni riservate al re da un gruppo compatto di tre articoli, che regolano molto succintamente il campo delle onorificenze e dei titoli nobiliari: il 78 («Gli Ordini cavallereschi ora esistenti sono mantenuti con le loro dotazioni. Queste non possono essere impiegate in altro uso fuorché quello prefisso dalla propria istituzione. Il Re può creare altri Ordini, e prescriverne gli statuti»), il 79 («I titoli di nobiltà sono mantenuti a coloro che vi hanno diritto. Il Re può conferirne di nuovi») e 1°80 («Niuno può ricevere decorazioni, titoli o pensioni da una potenza estera senza l’autorizzazione del Re»). Potrebbe a prima vista sembrare di avere a che fare con una materia marginale per la ricostruzione della storia costituzionale di un regime. Ma tale sensazione non è del tutto corretta. Basti pensare che gli Ordini cavallereschi vantano una tradizione secolare, intrecciata con quella dinastica. I cavalieri della SS. Annunziata, ad esempio, costituivano nel passato per il principe 35

una sorta di «Consiglio di Stato e di guerra» che capitava si occupasse dei maggiori affari politici”. I cordoni cavallereschi sono poi significativamente raffigurati nello stemma sabaudo, il quale compare a propria volta sulla bandiera nazionale e poi nello stemma di Stato: e lo stemma è un formidabile mezzo di ‘comunicazione pubblica”8, Per quanto riguarda la nostra analisi, gli Ordini cavallereschi da tenere presente sono innanzitutto i quattro provenienti dalla storia sabauda precedente lo Statuto: due più antichi (il mauriziano e quello della SS. Annunziata) e due più recenti (l'Ordine militare di Savoia, istituito nel 1815, e il Reale Ordine civile di Savoia,

creato nel 1831). Gli Ordini esistenti negli altri Stati italiani, infatti, vengono aboliti con l’unificazione (fatta eccezione per quelli pontifici che sopravvivono di fatto anche dopo il 1870). Si aggiungono invece in seguito, per volontà di Casa Savoia e sulla base dell’art. 78, l'Ordine della Corona d’Italia (nel 1868, per celebra-

re «l'annessione della Venezia, l’indipendenza e l’unità d’Italia», come recita il decreto istitutivo), l'Ordine al merito agrario, indu-

striale e commerciale (nel 1901, segno della sempre maggiore sensibilità verso i valori dell’inirapresa borghese), e l'Ordine coloniale della stella d’Italia (nel 1914, alla conquista della Libia). Entro questo quadro, il monarca non solo attribuisce i titoli, ma è anche capo degli Ordini, con la qualifica di Generale Gran Maestro, e dispone circa l’organizzazione e le finalità degli Ordini stessi. Quindi il re dispone di due generi di funzioni: una ‘politica’ (creare gli Ordini) e una ‘amministrativa’ (gestirne le dotazioni secondo quanto prescritto dai relativi statuti): in ciò incontra il solo limite di non indirizzare a fini non previsti le dotazioni degli Or?7 L'Ordine supremo della SS. Annunziata viene istituito nel 1362: nel 1434

nasce l'Ordine di S. Maurizio, fuso più tardi con quello di S. Lazzaro nell’uni-

co Ordine, per l'appunto, dei SS. Maurizio e Lazzaro. Per gli elementi essenziali della storia degli Ordini sabaudi cfr. L. Alberti, Ordini cavallereschi, in Enciclo-

pedia Giuridica Italiana, Società Editrice Libraria-Vallardi, Milano 1884-1939,

vol. XII, parte II, 1915, pp. 986-1016, in particolare p. 1005. ?* Lo mostra bene il saggio di F. Rugge, Dallo stemma sabaudo al capo del littorio: episodi di comunicazione amministrativa (1 890-1933), in «Storia Amministrazione Costituzione», III (1995), pp. 269-295. °° Va ricordato che il re assegna pure i titoli ereditari di principe, duca, marchese, conte, barone e nobile.

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dini stessi. Tale funzione ‘amministrativa’ tende facilmente a tradursi in provvedimenti ‘interni’ all’Ordine, relativi alla sua normale gestione e quindi di sapore più privatistico che pubblico. Su questi provvedimenti, analogamente a quanto vedremo accadere circa la Real Casa, il parlamento tenta però continuamente di esercitare una qualche forma di controllo®: sui bilanci finanziari degli Ordini (che si vorrebbero sottoposti all’autorità del ministro delle Finanze), sui loro possedimenti, sull’organizzazione del loro

personale impiegatizio, sulla distribuzione dei sussidi e delle onorificenze. Segni, questi, della presenza di un’area solo apparentemente privatistica ed invece politica, sottratta attraverso le prerogative regie alle normali modalità di funzionamento di un regime parlamentare. In sostanza, gli Ordini cavallereschi non sono pienamente pubblici (il ricorso a sovvenzioni statali, ad esempio, non

è per nulla scontato: se il re chiede denaro pubblico in casi in cui le dotazioni degli Ordini stessi non consentono di far fronte alle spese, deve ottenere una speciale legge di autorizzazione parlamentare), ma non sono neppure del tutto privati (sono comandati dal capo dello Stato, sono in parte regolati da disposizioni costituzionali, consentono di perseguire obiettivi politici): essi sono dunque un esempio eccellente della doppia natura — pubblica e privata, appunto — della Corona. Aggiungiamo solo alcune importanti osservazioni utili a dare un'idea dell’estensione del fenomeno. Intanto, la maggior parte degli uomini politici è titolare di cariche onorifiche di diverso genere e grado: sono in vario modo decorati pressoché tutti i ministri, il presidente e i presidenti di sezione tanto del Consiglio di Stato quanto della Corte dei Conti, i presidenti e i procuratori generali delle corti di cassazione e delle corti d’appello. La tradizionale immagine di una ristrettissima élite aristocratica legittimata a fregiarsi di rari titoli non va quindi troppo assecondata®!, E se in questo come in altri casi sorge ripetutamente il 60 Una ricostruzione più dettagliata dei dibattiti parlamentari sull’argomento in P. Colombo, I/ re d’Italia. Prerogative costituzionali e potere politico della Corona (1848-1922), Franco Angeli, Milano 1999, pp. 86-88. 61 Se i cavalieri dell'Annunziata non possono superare il numero di venti (esclusi però re, principe ereditario, ecclesiastici e stranieri), le cinque classi di onorificenze dell'Ordine della Corona d’Italia (tra Cavalieri di Gran Croce, Grandi Ufficiali, Commendatori, Ufficiali e Cavalieri) consentono ad esempio

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dubbio se alla fine le attribuzioni onorifiche avvengano ad opera direttamente del monarca oppure dei ministri e del loro organo collegiale, non si deve dimenticare che si assiste in molti casi alla concessione motu proprio da parte del capo dello Stato®2. E per quanto le onorificenze dei vari Ordini possano essere effettivamente proposte da diversi ministri, bisogna considerare che in tale materia si manifesta sempre una notevole indipendenza degli ambienti di Casa Reale. I re sabaudi guardano ovviamente con maggior benevolenza là dove percepiscono devozione e attaccamento verso di loro. Privilegiati sono allora soprattutto gli ambienti aristocratici (almeno fino all’unificazione) e la cerchia militare. Ma di quali privilegi si tratta? Innanzitutto di status: il titolo o l’onorificenza rappresentano visibilmente il raggiungimento dei più alti livelli della piramide sociale, e in particolare una posizione di favore presso il vertice, cioè la Corona (testimoniata anche dall'eventuale inserimento nelle precedenze dettate dal cerimoniale di Corte). Da una simile posizione è naturalmente possibile usufruire indirettamente di una serie di contatti e rapporti vantaggiosi, a livello tanto politico quanto economico. Si gode poi di benefici diretti più concreti: da vitalizi e pensioni fino alla più banale ma assai ambìta gratuità dei servizi ferroviari. Ciò che occorre notare, quindi, è che attraverso titoli, onorifi-

cenze e decorazioni, la Corona dispone della possibilità di somdi insignire più di 3000 persone, senza contare i conferimenti mot proprio (il numero delle onorificenze è continuamente oggetto di revisione: i dati numerici qui riferiti sono indicativamente tratti dalle disposizioni contenute nel RD. 26 gennaio 1908, n. 32: si veda Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia [1908], vol. I, pp. 177-178). Si ricordi inoltre che i conferimenti a personaggi stranieri possono essere illimitati, e giocano sicuramente un ruolo importante nelle relazioni fra dinastie: gli insigniti sono quasi tutti membri di famiglie regnanti estere. 6 Il conferimento di decorazioni motu proprio è previsto esplicitamente dagli statuti degli Ordini cavallereschi; l’Ordine della SS. Annunziata, addirittura, è sempre conferito con un atto di libera iniziativa regia, senza la collaborazione ministeriale. ® Concessioni anche di notevole peso perché dirette a personaggi di grandissimo rilievo vengono effettuate senza neppur chiedere il parere del Consiglio dell'Ordine. È il caso della Croce di Ufficiale dell'Ordine militare di Savoia assegnata a Crispi. L'Ordine stesso della Corona d’Italia è creato con un decreto motu proprio.

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ministrare favori a centinaia di persone, quasi sempre politicamente o economicamente influenti. Se si considera il numero di

Ordini che hanno a disposizione i regnanti di Casa Savoia, ci si rende conto di quale strumento di propaganda e di influsso politico costituisca la prerogativa di concessione degli ‘onori’. Uno strumento paragonabile per capillarità e immediatezza forse solo alla beneficenza regia. Non per niente, anche questo ambito di azione regia è contraddistinto da grande indipendenza e finisce per svolgersi al di fuori dello spazio delimitato dallo Statuto: allo stesso modo, non è casuale che la beneficenza sia gestita per lo più attraverso quella struttura anomala dal punto di vista costituzionale e ‘nascosta’ dal punto di vista del sindacato parlamentare che è la Real Casa.

4.6. Dotazione e lista civile: la Real Casa piemontese Proprio con la Real Casa si chiude questo rapido percorso all’in-

terno delle disposizioni statutarie concernenti la Corona. Per quanto, ad essere precisi, nella Carta albertina non si faccia testualmente cenno alla Real Casa: tre importanti e lunghi articoli (il 19, 20 e 21), però, trattano della «dotazione» e della «lista civile», cioè

delle essenziali componenti materiali della casa del re. La dotazione è infatti il complesso dei beni mobili e immobili pertinenti alla Casa Reale (l’uso dei quali il costituente statutario si preoccupa all’art. 19 di continuare a garantire al re anche con l’avvento dell’era costituzionale), mentre la lista civile è una somma di denaro —

una sorta di ‘stipendio’ — riconosciuta annualmente al monarca”. 64 I] settore della beneficenza è tradizionalmente proprio della Corona, alla quale è unito da un legame simbolico e propagandistico destinato a restare molto saldo fino all'ultimo. Come per la concessione di onorificenze, si vengono a impiegare somme cospicue: almeno seicentomila lire annue, secondo una ricostruzione di Saverio Scolari (La riforma della Lista civile, in «L’Economista», V [1878], n. 5-9, parteI [1° settembre 1878], pp. 546-549). Ma la beneficenza regia si disperde per definizione in flussi così numerosi e spesso minuti che ogni calcolo è destinato a conservare un alto margine di inaffidabilità. 65 Un «assegnamento annuo» viene riconosciuto anche al principe ereditario una volta maggiorenne mentre altri sono previsti in occasione del suo matrimonio, per i principi di sangue reale, per le doti delle principesse e per il dovario, cioè il dono che il re suole fare alla futura regina nell'occasione del matrimonio in previsione di una eventuale vedovanza (art. 21).

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Per comprendere meglio l’importante legame tra questi elementi e la Real Casa va notato che quest’ultima nasce storica-

mente per prendersi cura della persona del re e dunque per amministrare il suo patrimonio: un’amministrazione che per diversi secoli — in assenza di distinzione tra finanze regie e finanze pubbliche — coincide quindi con il centro stesso dello Stato. Il quadro comincerà a precisarsi con la separazione tra patrimonio pubblico statale e patrimonio privato del Re: nasce proprio in quella fase l’istituto della lista civile, la cui prima comparsa giuridica si verificherebbe nell’Inghilterra del XVII secolo. Pure in questo caso occorre tuttavia anticipare una osservazione: pressoché ovunque

nelle monarchie costituzionali europee, e in quella italiana in particolare, la separazione non si realizzerà mai in maniera del tutto soddisfacente. Molto raramente sarà infatti possibile dire con certezza se le spese legate alla gestione della Real Casa abbiano carattere pubblico oppure privato e se debbano essere sostenute con denari provenienti dalle casse dell’erario o dalle tasche del monarca. Nel primo caso, ovviamente, il parlamento avrebbe titolo a intervenire, sorvegliare, sindacare; nel secondo, il re opere-

rebbe al di fuori di ogni controllo. Ecco allora che anche qui la Camera dei deputati cerca durante l’intero periodo di vigenza dello Statuto di arrivare a mettere le mani tanto sulla gestione diretta della dotazione e della lista civile quanto sull'apparato amministrativo a ciò collegato, senza tuttavia riuscire mai appieno nell’in-

tento, Né si arriverà a sciogliere definitivamente il nodo attraverso le speculazioni di alcuni fra i maggiori giuristi dell’epoca, come Santi Romano (con le sue teorie sull’autarchia e sul ‘diritto di casa’) o Giorgio Arcoleo®. Ma uno scontro politico tanto lungo attorno ad un tema apparentemente così poco centrale aveva senso? Sicuramente sì, per

almeno due motivi. Il primo risiede nella questione di principio, 6 I possibili rinvii a dibattiti parlamentari sull'argomento sarebbero numerosissimi e in questa sede poco opportuni: mi si consenta ancora il richiamo al mio I/ re d’Italia, cit., pp. 173-194. & Si vedano S. Romano, Corso di diritto costituzionale, Cedam, Padova 1926, p. 154 e L'ordinamento giuridico, qui consultato nella ristampa della pri-

ma edizione (1918), Sansoni, Firenze 1967, soprattutto pp. 74-77; G. Arcoleo,

Brevi annotazioni intorno al carattere pubblico dell'amministrazione della casa reale, in «Giurisprudenza Italiana», LVII (1906), parte I, sez. I, coll. 731-736.

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o per meglio dire ‘teorica’, che esso nasconde. È ammissibile che un organo costituzionale, il capo dello Stato, possa agire del tutto svincolato da ogni forma di controllo da parte dei rappresentanti popolari? E per di più utilizzando denaro di origine pubblica? Lo scontro cui si assiste intorno alla gestione della lista civile è in questo senso solo una battaglia della guerra ben più estesa e impegnativa combattuta per l'affermazione di una nuova forma di governo regolata al massimo grado dalle norme costituzionali e avente al centro l’organo legislativo-elettivo. Il secondo motivo, che in fondo risulta più marginale, concer-

ne l'ammontare non indifferente dei beni in questione. Beni che dovrebbero garantire il decoro e il fasto della massima istituzione statale, assicurandone al tempo stesso l'indipendenza rispetto alle pressioni delle diverse forze politiche. Riguardo al patrimonio immobiliare, va detto che esso si estende in misura quasi incontrollabile con le continue acquisizioni (delle dotazioni di altre case regnanti) innescate dal progressivo processo di unificazione®8: al punto che la visibile tendenza dei Savoia sarà quella di cedere questi costosissimi beni al demanio nel tentativo di non gravare eccessivamente il bilancio della Real Casa. Palazzi, residenze e

possedimenti reali disseminati su tutto il territorio nazionale rimarranno comunque numerosi. Anche la somma in denaro messa a disposizione della Corona è ragguardevole, per quanto inizialmente più ridotta che in seguito (quattro milioni di lire nel 1850). Ma nonostante l’articolo 19 dello Statuto affermi che il suo ammontare dovrebbe esser fissato all’inizio di ogni regno e ne derivi dunque che discuterne il valore sia a rigore incostituzionale, la lista civile subisce ripetute modificazioni in corrispondenza con le vicissitudini politiche della Casa Savoia e dello Stato sabaudo. Ad Unità avvenuta, nel 1860,

la si porta a dieci milioni e mezzo; nel 1862 a sedici milioni e duecentocinquantamila lire. Le ristrettezze finanziarie della fine degli anni ’60, tuttavia, finiscono col premere sulla Corona. Vittorio Emanuele, nel 1867, si dichiara disposto a veder ridotto il proprio assegno annuo di circa quattro milioni. In cambio non trova di68 Nel 1850 l’elenco dei beni immobili assegnati alla lista civile è costituito da una dozzina di voci; nel 1868 ci vorranno cinque pagine per enumerarli tutti.

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sdicevole chiedere la concessione una tantum di sei milioni destinati a coprire le passività accumulate. La lista civile scende quindi a dodici milioni e mezzo. Alla fine del maggio 1877 peraltro si tornerà ad aumentarla di circa due milioni. Così, sotto il regno di Umberto I, la lista civile italiana si trova al quarto posto tra quelle europee, dietro Russia, Germania e Austria, ma davanti a monarchie

di antichissima tradizione e di grande potere come quella spagnola o quella inglese: la giovane dinastia sabauda controlla dopo l’Unità un flusso finanziario ricchissimo comparativamente al quadro dell’epoca (si pensi che la lista civile del re di Svezia e Norvegia è circa un decimo di quella di Umberto I) e per nulla indifferente anche se tradotto in termini monetari attuali9?, Solo nel 1919,

a prima guerra mondiale terminata, si assiste ad una riduzione di tre milioni, accompagnata però dal passaggio al demanio di onerose proprietà regie (tra le quali il Palazzo Reale di Milano, il Castello di Moncalieri, la Villa Reale di Monza, palazzo Pitti e i Giar-

dini di Boboli a Firenze). É questo un esempio lampante di come, parallelamente alle variazioni più strettamente finanziarie si svolga tra demanio e dotazione, lungo tutto l’arco di vita dello Statuto, un singolare balletto di reciproche restituzioni di beni immobili la cui gravosa manutenzione nessuno vorrebbe in fondo accollarsi. Le cose vanno un po’ diversamente per la lista civile. Si accendono infatti perenni polemiche circa la necessità di un suo ridimensionamento: sui giornali, tra gli uomini politici, in parlamento. Ma anche in questo caso l’impianto costituzionale previsto nello Statuto avrà il suo peso. Intanto, solo quando la Corona troverà in ciò qualche interesse sarà possibile aggirare il dettame dell’art. 19 secondo il quale l'ammontare della lista civile non può essere ritoccato se non all'avvento di un nuovo re. E poi, l'impossibilità di discutere e di chiamare in qualunque modo politicamente in causa la Corona impedisce costantemente lo svolgersi di un dibattito aperto e costruttivo su questi come su tutti gli altri temi concernenti il ruolo del monarca. Nell’evoluzione del sistema politico italiano, e nel formarsi dei suoi tratti più tipici, tale impossi5° Secondo i coefficienti monetari di fine Novecento, si può calcolare la lista civile di quegli anni intorno ai 70/75 miliardi di lire: ma anche tale valore è del tutto relativo, perché occorre quantomeno considerare che i budget statali di spesa erano allora assai più ridotti di quelli odierni.

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bilità risulterà decisiva. Appare allora opportuno cercare di capire qualcosa di più attorno alla storia istituzionale della Casa del re nei primi anni dello Statuto. Alla vigilia delle trasformazioni del 1848 la Casa Reale si componeva, al suo vertice, di un grande elemosiniere, un gran ciambellano, un gran mastro della Casa, un intendente generale (per le attribuzioni economiche), un gran scudiere, un gran cacciatore,

un gran mastro delle cerimonie, un gran mastro del guardaroba. A queste figure occorre poi aggiungere quella dell’uditore generale, giudice speciale istituito nel 1717 e competente per il personale e i titolari di cariche della Corte oltre che in generale per le infrazioni avvenute in quest’ambito”0, La Casa Reale continua ad occuparsi del decoro della Corona e assolve a compiti onorifici, politici, amministrativi, finanziari.

Fondamentali assestamenti della sua struttura avvengono in concomitanza con il 1848 e, più tardi, con la realizzazione dell'Unità. La Carta albertina, tuttavia, si limita come abbiamo appena visto

a trattare della dotazione della Corona, vale a dire dell’aspetto economico dell’amministrazione della Casa di Sua Maestà. Ma gli stessi princìpi generali contenuti nella nuova costituzione influiscono sulla Casa Reale. Tre regi decreti (quello del 12 agosto 1848, quello del 24 gennaio 1849 e quello del 24 febbraio 1849) vengono emanati proprio col fine di «coordinare l’amministrazione della Real Casa colle istituzioni costituzionali che reggono lo Stato». Attraverso di essi si separa l’amministrazione della lista civile da quella centrale dello Stato e, in ossequio per l’appunto al principio dell’irresponsabilità regia sancito dal testo costituzionale, si attribuisce al sovrintendente generale la controfirma dei provvedimenti relativi alla gestione della lista civile. Vengono delineate quattro centrali figure istituzionali: il prefetto di palazzo (organizzazione e cerimoniale), il sovrintendente generale della lista civile (economia e amministrazione), il primo elemosiniere (servizi religiosi) e il primo aiutante di campo (funzioni militari)?!. 70 L'istituto dell’uditore compie però un percorso assai travagliato: nato nel 1717, viene abolito nel 1796, poi è ricostituito nel 1816 e soppresso definitivamente nel 1847, appena prima che si apra la fase costituzionale. 71 Sulla struttura istituzionale della Real Casa, cfr. P. Colombo, La Corona

nell'esperienza costituzionale italiana: contributo per la storia di un'istituzione, in «Storia Amministrazione Costituzione», III (1995), n. 3, pp. 151-189.

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Abbiamo a questo punto a che fare con una Corte di dimensioni piuttosto rilevanti: poco meno di cinquecento persone, se si

tiene conto anche degli organici delle Case della regina e dei prìncipi. La posizione di vertice è, all’inizio dell’era costituzionale, riconosciuta al prefetto di palazzo (art. 1 del decreto 24 febbraio 1849: «Tutti gli ufficiali della Casa sono subordinati al Prefetto del Palazzo...»), ma prende da subito avvio una progressiva ascesa del sovrintendente della Lista civile che si accentua con la salita al trono di Vittorio Emanuele e viene sancita da un decreto del 10 novembre 1856 con il quale il sovrintendente generale della lista civile assume il titolo di ministro della Casa del re. In ciò si vede il prevalere della funzione di carattere economico su quella, a carattere più spiccatamente tradizionale, di tipo cerimoniale. Ma non solo. La stessa nuova denominazione del sovrintendente rappresenta un importante segnale: il termine ‘ministro’ richiama immediatamente l'associazione con i membri del Gabinetto governativo e suggerisce il dubbio che in tale carica onorifica e amministrativa si celi almeno in parte una funzione politica. Va anche notato che nel ’56 la carica di sovrintendente generale è già da due anni nelle mani di Giovanni Nigra. Ex ministro delle Finanze, Nigra rappresenta una delle personalità di maggior spicco nel panorama della Corte di Vittorio Emanuele. Lo stesso dicasi di Enrico Morozzo della Rocca, amico personale del re, che in quegli anni occupa il posto di primo aiutante di campo. Dall’incontro di queste due figure nasce una vera e propria «diarchia»?? che governa la Real Casa nel primo periodo unitario, trovandosi a gestire un fenomeno di allargamento e arricchimento per molti aspetti non previsto.

E utile, per il momento, fermarsi a questo punto e osservare cosa accade nello Stato piemontese con l’applicazione dello Statuto, almeno in alcuni passaggi emblematici. Quando il re di Sardegna diventerà re d’Italia, infatti, si aprirà una fase di storia cui

dovremo dedicare una specifica attenzione e una parte a sé stante di questo lavoro.

__?? R. Antonelli, Il Ministero della Real Casa nel primo quarantennio dopo l'Unità, in «Cheiron», XIII (1996), n. 25-26, pp. 59-77, in particolare p. 65.

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di

Dal Piemonte all’Italia

1. L’abdicazione di Carlo Alberto e il giuramento di Vittorio Emanuele II: due problemi storici e costituzionali Se ci vogliamo chiedere quali ricadute concrete si producano nella sfera diretta d’azione del re con l’entrata in vigore dello Statuto, non possiamo trascurare un dato all'apparenza paradossale, e cioè che al primo adempimento costituzionale richiesto al monarca non viene data esecuzione. L'articolo 22 infatti dichiara che «il re, salendo al trono, presta in presenza delle camere riunite il giuramento di osservare lealmente lo Statuto». Avviene però che Carlo Alberto, autore della concessione della Carta ed ovviamen-

te già regnante al momento della sua entrata in vigore, non giura. Il primo dei Savoia a prestare giuramento è dunque Vittorio Emanuele, che il 29 marzo 1849 legge davanti alle Camere riunite la seguente, sintetica, dichiarazione: In presenza d’Iddio, io giuro di osservare lealmente lo Statuto, di

non esercitare l'Autorità Reale che in virtù delle leggi ed in conformità di esse; di far rendere ad ognuno secondo le sue ragioni piena ed esatta giustizia, e di condurmi in ogni cosa nella sola vista dell’interesse, della prosperità, e dell'amore della nazione.

Il giuramento che sarà pronunciato nel 1878 da Umberto I e nel 1900 da Vittorio Emanuele III differirà da questo solo per pochi particolari. La formula da impiegare non pare dunque costituire un problema: ma lo stesso non si può dire a proposito del va45

lore costituzionale dell’atto. Il «salendo al trono» usato dall’art. 22, infatti, non è per nulla esplicito. Il re giura prima o dopo esser salito al trono? Vale a dire: è già re — e dunque in possesso di tutte le sue prerogative — quando giura oppure lo diventa con il giuramento stesso?!

La questione presenta notevoli conseguenze pratiche. Vittorio Emanuele II, prima di giurare, forma un nuovo Gabinetto (affidandolo il 27 marzo a Gabriele De Launay), emana proclami, ri-

ceve il giuramento delle truppe, incontra Radetzky che ha appena sconfitto i piemontesi e costretto suo padre all’abdicazione. Si tratta di atti legittimi? E qui si apre una questione di storia costituzionale e istituzio-

nale interessante e piuttosto curiosa: addirittura, secondo alcuni, una sorta di «mistero»?. Dell’abdicazione di Carlo Alberto, infat-

ti, non si sa a quel punto ancora con certezza se sia realmente avvenuta: non se ne hanno le prove neppure quando il nuovo re si presenta davanti alle Camere per giurare. È successo infatti che il re, preso dallo sconforto di fronte alla sconfitta militare di Novara, ha accettato l'armistizio e lasciato la

corona a Vittorio Emanuele. Ma lo ha fatto, vuoi per mancanza di tempo, vuoi per la concitazione delle circostanze o per superficialità o ancora per assenza di precedenti costituzionali, senza os! Il punto è reso ancor più equivoco dal seguente art. 23 che precisa per il reggente la necessità di giurare «prima d’entrare in funzione». Sorge il dubbio di dover interpretare estensivamente l’art. 22 alla luce del 23 risultandone che «ogni atto del re o del reggente, prima di tale giuramento, sarebbe nullo». O forse il costituente statutario ha volutamente introdotto una differenza tra i due casi? Quel che è certo è che l’art. 22 non pone esplicitamente al re la condizione del giuramento come la pone il 23 per il reggente: sul punto, cfr. P. Castiglioni, Della monarchia parlamentare e dei diritti e doveri del cittadino secondo lo Statuto e le leggi del Piemonte. Trattato popolare con una appendice, Tipografia Guglielmini, Milano 1860, vol. II, p. 113. Si noti comunque che la dottrina tende in generale a considerare il giuramento del monarca una formalità non influente sull’assunzione effettiva dei poteri regi. ? Così l'articolo di L.C. Bollea, I/ mistero dell’abdicazione di Carlo Alberto, in «Il Risorgimento italiano», VIII (1915), n. 1, pp. 188-201. Sulla vicenda, e in

generale su molti aspetti costituzionalmente rilevanti del regno di Carlo Alberto, si veda A. Omodeo, La leggenda di Carlo Alberto nella recente storiografia, Einaudi, Torino 1940, specialmente p. 138; più recentemente, cfr. N. Nada, Dal-

lo Stato assoluto allo Stato costituzionale. Storia del Regno di Carlo Alberto dal 1831 al 1848, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Torino 1980.

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servare alcuna formalità. È il 23 marzo 1849. Tre giorni dopo Rattazzi, ministro dell'Interno ancora del governo di Carlo Alberto,

si presenta alle Camere per comunicare la sottoscrizione di un armistizio, la sospensione delle ostilità e la rinuncia al trono da parte del monarca. Esistono però chiare prove del fatto che egli dispone di notizie niente più che sommarie su tutti questi punti. La Camera si schiera da subito contro l’armistizio, aprendo un contrasto destinato a condurre fino alla prova di forza di Moncalieri, della quale parleremo più avanti. Ma mentre si dibatte su questo delicato argomento, una maggior attenzione finisce per centrarsi anche sull’abdicazione e quando viene chiesto di produrre l’atto con cui il monarca ha abdicato, il nuovo ministro dell’Inter-

no Pier Dionigi Pinelli evita imbarazzato di rispondere. Non ci vuole molto a capire che l’atto non esiste. E al governo non bastano le testimonianze, fornite per lettera, di chi ha assistito di perso-

na all’abdicazione. Il dibattito si fa allora più tecnicamente costituzionale: i deputati pretendono un atto scritto. Inutilmente viene fatto notare che le truppe hanno già giurato fedeltà a Vittorio Emanuele. Anzi: lo stesso atto di creazione del nuovo governo viene tacciato di nullità, perché il vecchio re non ha ufficialmente abdicato e quello nuovo non ha ancora giurato. La questione si trascina fino a che si decide di temporeggiare e si invia una delegazione all'inseguimento di Carlo Alberto sulla strada dell’esilio. Raggiunto a Tolosa, questi può finalmente firmare l’atto di abdicazione, che porta data 3 aprile. Sono passati ben undici giorni dall’abdicazione ‘orale’. Un periodo non breve, nel quale il regime piemontese vive una situazione a dir poco singolare. Formalmente, lo si potrebbe ritenere privo del capo dello Stato. Vittorio Emanuele è un re che nasce quindi come un assurdo costituzionale, perché regna prima di giurare e giura prima di poter salire su un trono da cui il suo predecessore non è ancora ufficialmente sceso pur avendolo lasciato vuoto?. La laconicità dello Statuto mostra in questo caso i suoi difetti. 3 Una situazione analoga si verificherà pure con Umberto I, il 10 gennaio 1878, che firmerà il decreto di convocazione del parlamento prima di prestare giuramento; ma in questo caso non si vede come potesse fare diversamente, non essendo operative le Camere davanti alle quali avrebbe dovuto giurare.

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Importa qui notare, in ogni caso, che solo affiancando giuramento e abdicazione si comprende appieno il loro valore. Guardare alla Corona significa avere sempre a che fare con il sottile discrimine tra le sue due componenti: l’uomo e l’istituzione. Giuramento e abdicazione rappresentano allora le due soglie superando le quali l’uomo/re entra od esce, per così dire, dall’istituzione/Co-

rona. Situazione perfettamente rappresentata dalla percezione che il rifiuto di prestare giuramento equivalga a «una implicita abdicazione del re»4. Per secoli la teoria monarchica si è impegnata ad affermare l’idea per la quale «il re non muore mai». Dunque anche prima del giuramento non si può negare che il re sia già re: ma non è ancora

pienamente ‘Corona’. Non si spiegherebbe altrimenti la confusione politica che si verifica all'ascesa al trono di Vittorio Emanuele II. Procedendo in senso inverso, quando il re abdica non cessa naturalmente di esistere: cessa piuttosto di incarnare l'organo costituzionale regio. Giuramento e abdicazione marcano una sottile linea di confine tra re e Corona. Nella storia di un regno segnano il limite passato il quale l’uomo non è più tale e diventa istituzione.

2. Moncalieri Con Vittorio Emanuele II l’istituzione Corona si mostra da subito assai attiva. Ciò che si vuol dire è che il re fa sentire il proprio influsso e la propria voce non solo e non tanto in qualità di persona, (sebbene tale modalità di azione non venga mai del tutto meno), quanto piuttosto avvalendosi delle prerogative costituzionali che lo Statuto riconosce alla Corona come istituzione politica fra le altre. L'esempio più eclatante in proposito è rappresentato dalla vicenda che ruota attorno al noto proclama di Moncalieri, nella quale il monarca impiega pesantemente il potere di scioglimento della Camera che la recente costituzione gli mette a disposizione e si espone in prima persona per influire sui risultati delle conseguenti votazioni elettorali. 4 D. Zanichelli, La questione del giuramento, in «Rivista di diritto pubblico», I (1890), fasc. 4, pp. 280-297 (I parte), in particolare p. 290.

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E una vicenda che, come si è visto, prende avvio dalla conclusione dell’armistizio con l’Austria seguito alla sconfitta riportata da Carlo Alberto a Novara. La Camera elettiva si mostra palesemente contraria ad accettare la conclusione della guerra e a ratificare il trattato di pace, così come sarebbe imposto dall’art. 5 dello Statuto. L'assemblea rappresentativa si oppone in sostanza alla politica governativa (in questo periodo è Massimo d’Azeglio a presiedere il Consiglio). Il contrasto — alimentato anche dal desiderio degli ambienti più conservatori, compresi quelli di Corte, di ‘raffreddare’ gli ardori di rinnovamento accesisi nel ‘48? — porta ad un primo scioglimento della Camera e ad elezioni tenute il 15 luglio del 1849. Già poco prima di quella data, la Corona aveva rivolto agli elettori un proclama che poteva lasciar presagire ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. Il 3 luglio i cittadini trovano affissi ai muri manifesti dove Vittorio Emanuele avverte che «gli ordini politici, le costituzioni, gli statuti non li stabilisce né li rende adat-

ti ai veri bisogni di un popolo il decreto che li promulga, bensì il senno che li corregge ed il tempo che li matura». I sistemi costituzionali, lascia intendere il nuovo re, si possono ‘forzare’ (e tal-

volta si ‘deve’ farlo per consentirgli di funzionare). Bisogna tener presente che i proclami sono in quegli anni mezzi piuttosto diffusi di comunicazione e particolarmente impiegati dalla Corona per assicurarsi un contatto diretto e privilegiato con i sudditi. La tecnologia non ha ancora approntato soluzioni per la necessità di rivolgersi ad un pubblico numeroso o disperso sul territorio. Fino agli anni ’20 del Novecento, dunque, i proclami sono in primo luogo una efficace via per dare notizia di eventi, spesso a carattere celebrativo, che hanno al centro la dinastia regnante: il passaggio della Corona, la nascita di un primogenito, la nomina di un luogotenente. Ma costituiscono anche un flessibile strumento di strategia politica: consentono di manifestare senza intermediari e con tempestività gli orientamenti regi circa i più immediati avvenimenti, senza richiedere formalità particolari a parte la controfirma ministeriale (e si danno anche casi in cui questa manca). Per quanto nella maggior parte dei casi siano scritti da un 5 Si vedano in proposito le osservazioni di C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia 1848-1948, Laterza, Roma-Bari 1974, p. 57.

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ministro, e valutati in seno al Consiglio di Gabinetto, questi comunicati possono addirittura essere voluti e predisposti direttamente dal monarca*. Com'è intuibile, quindi, possono servire a

far udire la voce del re ma anche ad esporre il pensiero del governo. Vittorio Emanuele e il presidente del Consiglio Menabrea, nell'ottobre 1867, impiegheranno ad esempio un proclama per sconfessare pubblicamente Garibaldi poco prima che le truppe franco-pontificie vincano i suoi volontari a Mentana. In simili eventualità è come se i ministri si trincerassero dietro una manifestazione di volontà della Corona. Il proclama, inoltre, può essere indirizzato ai soggetti più diversi: ai cittadini, agli elettori, alla Guardia Nazionale, all'esercito. E sono proprio quelli militari i proclami più ricorrenti. Ma, come insegna Moncalieri, non sono gli unici. Né i più rilevanti politicamente. Difatti, il proclama del 20 novembre 1849 anticipa e motiva un provvedimento di notevole gravità: l'ulteriore scioglimento di una Camera dei deputati eletta appena quattro mesi prima (sempre per volontà regia). Nella sostanza siamo in presenza di un doppio scioglimento, in sé — al fondo — non incostituzionale, giacché non

esistono disposizioni statutarie che lo vietino espressamente, ma sicuramente assai ardito in termini di ‘esposizione’ politica della Corona. Il capo dello Stato, cioè, si dichiara insoddisfatto degli orientamenti prevalenti tra i rappresentanti e rifiuta di addivenire a un compromesso con loro mettendo in discussione le scelte del ‘suo’ governo. Per quanto abbia già proceduto una volta a rimandare a casa i deputati e a farne eleggere di nuovi, non esita a

impiegare pesantemente la propria prerogativa e a sciogliere nuovamente l’assemblea. Nel far ciò, con il proclama di Moncalieri,

Vittorio Emanuele minaccia neppur troppo velatamente gli elettori: se il responso delle urne non risponderà alle attese, non «su Me ricadranno le responsabilità del futuro; e ne’ disordini che potessero avvenirne, non avranno a dolersi di Me, ma avranno a do-

lersi di loro». Si ventila il colpo di Stato, ma forse si teme la ne-

‘Il primo proclama di Vittorio Emanuele, datato 27 marzo 1849, in parti-

colare, non è controfirmato e secondo Francesco Cognasso (I Savoia, dall’Oglio,

Milano 1971, p. 614) viene scritto personalmente dal re: in ogni caso, secondo Giuseppe Massari (La vita e il Regno di Vittorio Emanuele II, Treves, Milano 1878, p. 31), è preparato su suo espresso ordine.

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cessità di revocare lo Statuto, e dunque per certi aspetti si difende il giovane ordinamento costituzionale; per altri aspetti, tuttavia, già lo si incrina, influenzando la libertà di scelta dei votanti

(ad ogni modo si ricorre ad una sorta di ‘appello al popolo”). E un'influenza che produce effetti. La percentuale di elettori che si recano a dare il proprio voto aumenta e la linea moderata del governo risulta vincente. Il trattato di pace con l’Austria può essere ratificato, le nubi del colpo di Stato abbandonano l’orizzonte, la Corona ha fatto sentire che il trono non è «una poltrona vuota».

Va detto che lo scioglimento della Camera non è arma che la Corona impiega solo nell'occasione di Moncalieri: nel corso dell’intera esperienza liberale, fino all'avvento del fascismo, sarà

usato come mezzo di pressione politica e per lo più come sostegno agli orientamenti governativi. Nell’insieme, occorre notare che le prerogative di cui il re dispone in ordine al funzionamento dell'assemblea operano in molti casi congiuntamente. Di solito, lo scioglimento è preceduto e facilitato da proroga o chiusura della Camera stessa; bisogna aspettare il 1904 per trovare un caso in cui

la Camera viene sciolta a sessione aperta. La teoria costituzionalistica ottocentesca mostra di aver ben chiari i motivi che giustificano lo scioglimento da parte del re: contrasti insanabili tra le due Camere, necessità di sondare il parere del corpo elettorale (ad esempio prima di legiferare su questioni di particolare gravità, specialmente in materia costituzionale), incapacità dei rappresentanti di incarnare l’opinione pubblica, mancanza di una maggioranza parlamentare affidabile in favore del Gabinetto”. Ma non sempre, nella pratica, è facile verificare se ci si trovi di fronte esattamente ad una di queste situazioni e il margine di valutazione discrezionale del re diventa spesso assai ampio. Gioca in tal senso soprattutto l’assenza di un esplicito sistema di attribuzione preventiva della fiducia parlamentare al governo. In epoca statutaria è diffuso il convincimento che le compagini ministeriali debbano poggiare su una maggioranza di deputati e di senatori loro favorevole, ma non si instaura mai del ? Lo scioglimento della Camera sarebbe poi consuetudine al momento del passaggio della Corona.

DA:

tutto e irrevocabilmente la prassi che contraddistingue una forma compiuta di ‘governo parlamentare’, vale a dire l’esplicita ed ufficiale dichiarazione di fiducia da parte delle Camere al Gabinetto nel momento della sua formazione (con la conseguente possibilità di revocare tale fiducia e di provocare la ‘caduta’ del governo)8. Sembra piuttosto prevalere per lungo tempo la dottrina — che genera situazioni politiche quasi sempre poco nitide — del cosiddetto ‘sincero esperimento’ (secondo la quale la fiducia è accordata al governo implicitamente, ‘in sospeso’, in attesa cioè che i deputati possano verificare la qualità, le modalità e le finalità dell’azione politica ministeriale)?. Entro questo quadro, dove i punti ben definiti sono pochissimi, lo spazio lasciato all’azione della Corona si allarga e la discrezionalità è tanto maggiore quanto meno la situazione politica del momento appare chiara. Per quanto sia il governo a proporre al re lo scioglimento, infatti, può accadere che il monarca rinvii il governo alle Camere (nel giugno 1898, per esempio, Umberto I esercita «un vero e proprio potere di refusal of dissolution» nei confronti del governo di Rudinì!°) o si può arrivare allo scioglimento della Camera sulla base di contrasti interni alla stessa maggioranza. E non si dimentichi che un eventuale rifiuto regio a una richiesta governativa di scioglimento finisce con l’implicare per il Gabinetto l'obbligo di dimissioni: se ne ha un esempio proprio con il governo di Rudinì del giugno 1898. Si vede abbastanza nitidamente come, da questo punto di vista, il capo dello Stato venga messo dalle monarchie costituzionali instauratesi a cavallo tra Ottocento e Novecento in condizione di controllare, almeno potenzialmen* I rapporti tra ministri e deputati finiscono spesso con l’articolarsi per vie intermedie, come quelle dell’interpellanza e delle interrogazioni, attraverso le quali i membri delle Camere chiedono conto in aula delle decisioni assunte o di certi comportamenti politici tenuti dai componenti del Gabinetto e approfitta no del dibattito che ne deriva per manifestare l’eventuale dissenso verso la linea

governativa. ? Sulla dottrina del ‘sincero esperimento’ nella storia parlamentare italiana si veda F. Rossi, La fiducia preventiva nel sistema statutario, in «Storia Amministrazione Costituzione», VI (1998), pp. 51-97. 1° P. Costanzo, Lo scioglimento delle assemblee parlamentari. I. Teoria e pratica dello scioglimento dalle origini del parlamentarismo razionalizzato, Giuffrè,

Milano 1984, p. 339.

Da

te, il ‘flusso politico’ intercorrente tra parlamento e governo: come sia cioè in grado, sulla base delle prerogative assegnategli dallo Statuto, di incarnare non tanto l’armonizzatore dell’astratto si-

stema costituzionale quanto il moderatore dei concreti rapporti partitici e il coordinatore del processo di legittimazione a decidere.

3. Il luogotenente del re I primi anni della monarchia costituzionale sono marcati dall’impegno bellico contro l’Austria: tra il marzo 1848 e il marzo 1849, dalla primavera all'estate del 1859 e ancora dall’aprile all'agosto del 1866. Questo fatto non è rilevante solo per quanto concerne il quadro dei rapporti internazionali e i destini unitari dello Stato italiano, ma anche per alcuni importanti risvolti istituzionali legati alla Corona. Lo Statuto, infatti, dichiara il monarca capo delle forze armate e una radicata (anche se piuttosto lontana) tradizio-

ne guerresca dei Savoia esclude che i re sabaudi possano rifiutarsi di seguire le truppe al fronte in caso di conflitto. Anzi. Tanto Carlo Alberto quanto Vittorio Emanuele II e Vittorio Emanuele III pretendono di avere ruolo attivo nella direzione del loro esercito impegnato in combattimento. Tuttavia gli storici sono abbastanza concordi — al di là delle poco oggettive ricostruzioni fornite dalla agiografia risorgimentale — sulle non proprio brillanti capacità degli ultimi Savoia quali condottieri. Già da tale modestia consegue la necessità di affiancare al re altre figure investite di alto potere militare. Ma è ancora una volta lo stesso carattere costituzionale del sistema piemontese prima e italiano poi a porre dei problemi dai quali non è possibile prescindere. In un sistema costituzionale, infatti, il re non può mai es-

sere considerato responsabile di alcuna azione o decisione. Se a dirigere le operazioni belliche è il monarca in persona, chi risponderà di una eventuale sconfitta? Ecco così che, nel marzo 1849, al-

la ripresa della prima guerra d’indipendenza, dietro costante pressione di un parlamento che desidera individuare un responsabile delle decisioni militari, un regio decreto provvede a nominare un «luogotenente generale» (il generale Wojciech Chrzanowski)!!. 11 Sul ‘doppio comando’ militare tra 1848 e 1849, cfr. M. De Leonardis, Mo-

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La scelta deve comunque cadere su persona gradita al re e questo fatto contribuisce a confermare la sensazione che il capo dello Stato non riconosca come un vero e proprio dovere costituzionale la cessione ad altri del comando responsabile!?. A maggior ragione, viene affiancato a Carlo Alberto anche un ‘ministro al campo’, cioè un membro del governo destinato a coprire politicamente le decisioni del re (il ministro di Guerra e marina, generale Franzini). La medesima soluzione viene riproposta per il conflitto del 18591, e nel 1860 possiamo già vedere teorizzata, in materia di comando delle forze armate, la separazione tra «l’ufficio di rappresentanza» che spetta al re e quello «di esecuzione», riservato a un ministro responsabile!4. Si tenga presente che un nuovo decreto del 1866 distinguerà infine due figure: il ‘comandante in capo’ e il ‘capo di Stato maggiore’: i loro compiti verranno in varie occasioni variati e precisati!?, ma è comunque al primo che il re affida il comando quando non lo esercita personalmente. Ulteriori trasformazioni si verificheranno prima del conflitto 1915-1918, con la comparsa del ‘comandante supremo”. La responsabilità ultima del comando si trova quindi divisa tra

governo, vertici militari e Corona, senza che si artivi mai a una più

chiara determinazione: sussiste così sempre un margine di incertezza entro il quale si sviluppano situazioni tutt'altro che limpide.

narchia, famiglia reale e forze armate nell'Italia unita, in «Rassegna storica del Ri-

sorgimento», LXXXVI (1999), fasc. II, pp. 177-202, specialmente p. 183 e, più

in generale, R. Martucci, L'invenzione dell’Italia unita 1855-1864, Sansoni, Mi-

lano 1999, pp. 54-59. 12 P. Pieri, L'esercito piemontese e la campagna del 1849, Museo del Risorgimento, Torino 1949, p. 19.

13 Sempre con notevoli problemi di compatibilità tra le cariche militari di vertice e il monarca: «Vittorio Emanuele non aveva simpatia per Lamarmora, ed era quasi antipatia, dacché Lamarmora, nella campagna del 1859, avvece di sta-

re come ministro della Guerra nella capitale, non solo seguì sempre l’esercito, ma, ciò che urtava maggiormente Vittorio Emanuele, egli si dava l’aria di sorvegliare l'andamento delle cose, emettere critiche, e sospendere movimenti di truppa ordinati...» (G. di Revel, Sette mesi al ministero. Ricordi ministeriali. Con una appendice contenente i cenni biografici del Conte Ottavio Thaon di Revel, Dumolard, Milano 1895, p. 2, ma anche pp. 8 e 10). 14 Castiglioni, Della monarchia parlamentare, cit., vol. II, p. 140. !° J. Gooch, Esercito, Stato e società in Italia 1870-1915, Franco Angeli, Milano 1994, p. 76 (ed. or. Army, State and Society in Italy, 1870-1915, Macmillan, London 1989).

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La storia militare ha più volte messo in luce i continui contrasti, le divergenze di opinione, non di rado addirittura le antipatie personali esistenti tra i vari responsabili e l’influsso negativo che ne è più volte derivato sulla organizzazione delle campagne belliche sabaude. Ma l'impegno del re al fronte non comporta conseguenze nell’articolazione delle alte gerarchie militari. Si rende infatti necessaria la nomina di un suo ‘sostituto’ che si dedichi al disbrigo della ordinaria amministrazione, per lo più nella capitale, quando il monarca la abbandona per mettersi alla testa delle sue truppe. Trova origine soprattutto in questa esigenza la figura del ‘Luogotenente del re’, ricorrente con frequenza nel periodo della conquista dell’Unità nazionale, cioè tra 1849 e 1870. Va detto subito che si tratta di una figura non contemplata dallo Statuto e che dunque si afferma per via consuetudinaria!‘. Allo stesso modo si deve notare che essa tende ad essere spesso confusa o sovrapposta a un’altra figura, quella del reggente, forse perché entrambe si basano sulla individuazione di un alter ego temporaneo del monarca. Ma possiamo sgombrare il campo dagli equivoci. Come abbiamo già visto, la reggenza è prevista e minuziosamente disciplinata dalla Carta albertina: condizione essenziale per istituire un reggente è la mancanza del monarca o la sua impossibilità fisica a regnare, mentre per la luogotenenza non solo è richiesta la piena capacità del re, ma è anzi proprio un suo atto che la pone in essere e ne fissa i limiti. Infatti, mentre il reggente dispone dei pieni poteri della Corona, il luogotenente ne esercita solo alcuni, transitoriamente. Dunque la competenza del luogotenente può essere limitata in senso temporale, in senso territoriale (come avverrà al momento di istituire dei luogotenenti per le provincie annesse), o per materia. Ci si trova così in presenza di un esercizio simultaneo delle funzioni regie da parte del re e del luogotenente. Non si verifica, 16 Alcuni costituzionalisti avanzano addirittura dubbi sulla legittimità della luogotenenza (cfr., ad esempio, G. Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto costituzionale italiano, Bocca, Torino 1913, p. 421), anche perché dipende integralmente dalla discrezionalità del capo dello Stato e deroga al principio di diritto secondo il quale non è possibile delegare ad altri l'esercizio delle funzioni pubbliche quando non espressamente previsto dalla legge.

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per questo, una sorta di ‘sdoppiamento’ della Corona, ma piuttosto una delega di potere: vale a dire che gli atti posti in essere dal luogotenente delegato dovrebbero essere coerenti con quelli del monarca. Non a caso, il luogotenente è scelto tra personaggi assai vicini al re, quasi sempre tra i parenti prossimi. Quando Carlo Alberto assume il comando dell’esercito nella prima guerra d’indipendenza, e gli stessi suoi figli partecipano direttamente alle operazioni belliche, viene designato luogotenente il cugino del re, Eugenio principe di Carignano. Questi opera fino al settembre 1848, quando si viene ad un primo armistizio, il giorno 9. Solamente il 14, però, quando il re torna a Torino, Eugenio decade effettivamente dal suo incarico. La stessa situazione si ripropone alla ripresa del conflitto, nel marzo 1849. Nonostante al re sia stato affiancato — come abbiamo visto — un comandante in capo dell’esercito, si ritiene comunque opportuno ricorrere a un luogotenente.

La scelta cade ancora su Eugenio di Carignano. La luogotenenza del 1849 costituisce un caso in sé peculiare perché le sue vicende vanno a sovrapporsi alla complicata questione dell’abdicazione di Carlo Alberto. Il luogotenente, infatti,

non abbandona il suo incarico quando il re che lo ha prescelto lascia il trono. Prende così corpo una situazione abbastanza anomala. Continua infatti ad operare il delegato di un monarca che non è più tale: o che, meglio ancora, non si sa se sia più tale, perché — come detto — per molti giorni non si dispone dell’atto ufficiale di abdicazione. E neppure esiste un nuovo atto di delega da parte di Vittorio Emanuele in favore di Eugenio. In questo contesto ambiguo, tra il 23 e il 29 marzo il luogotenente rimane comunque attivo, quasi a testimoniare che la luogotenenza garantisce continuità alla Corona e non al singolo capo dello Stato. Dunque la sua natura si rivela qui per alcuni aspetti fortemente e modernamente istituzionale piuttosto che legata ad un’antica concezione personale del potere monarchico. Nel 1859 si torna alla luogotenenza: il conflitto con l’Austria infatti riprende. È ancora Eugenio di Carignano ad essere chiamato a sostituire Vittorio Emanuele, che si deve recare al fronte.

La novità sta nel fatto che questa volta si precisa esplicitamente il grado di discrezionalità del luogotenente: si dichiara infatti che dovrà disporre «perché siano rassegnati al Re gli affari di grave 56

importanza». Analoga formula limitativa sarà ripetuta negli altri tre casi di impegno del re in guerra!”?: nel 1860, nel 1866 e nel 191518 (ma non dimentichiamo l’ultimo caso, del tutto particolare e sul quale si avrà modo di tornare, rappresentato dalla nomina nel 1944 del principe Umberto a luogotenente ‘del Regno”). Tale riserva in favore del monarca non vuol dire che il luogotenente si riduca a operare in campi di scarsa rilevanza. In un cer-

to senso si finisce anzi per rafforzarne il carattere discrezionale, mettendolo in condizione di valutare l’eccezionalità delle situazioni che via via si verificano attraverso la facoltà di decidere se riservare una questione al re o agire personalmente. Quindi non bisogna pensare al luogotenente come ad una figura minore. Se guardiamo ai provvedimenti che adotta, ne troviamo — oltre a quelli più scontati, anche se non meno importanti, di carattere militare — molti di notevole rilevanza: proclamazione della leva di massa, limitazione della libertà di stampa, convocazione

dei collegi elettorali, proroghe parlamentari, spostamento della data fissata per le elezioni e per la convocazione delle Camere, riunione del Senato in Alta Corte di giustizia, concessione di grazia e assegnazione di onorificenze, solo per fare alcuni esempi!?, E ancora, Eugenio di Carignano nel 1848 assegna temporaneamente ad Ottavio Thaon di Revel il dicastero dei lavori pubblici, agricoltura e commercio, nomina Gioberti ministro senza portafoglio, ri-

ceve la nomina di Casati a nuovo presidente del Consiglio. Nel 1859, subito dopo i preliminari di pace, accoglie le dimissioni del governo Cavour. E addirittura si trovano ripetute tracce del fatto che il luogotenente presiede il Consiglio dei ministri. Il momento topico dell’azione luogotenenziale deve tuttavia essere individuato ai suoi albori, nel giorno 8 maggio 1848, quan17 Si registrano anche casi in cui il monarca si fa sostituire perché malato o lontano dalla capitale per viaggi o visite diplomatiche. 18 Allo scoppio della prima guerra mondiale verrà scelto come luogotenente lo zio di Vittorio Emanuele III, Tommaso duca di Genova, che svolgerà tale

compito per ben quattro anni. 19 Se si considera la difficoltà tipica dell’epoca di porre in essere comunicazioni rapide tra soggetti distanti fra loro, appare assai improbabile che tutte queste decisioni vengano preventivamente concordate nei dettagli con il re: quindi si deve ritenere che il luogotenente disponga di un notevole grado di autonomia relativamente a poteri di notevole estensione.

b3;

do Eugenio di Carignano sostituisce Carlo Alberto addirittura all'apertura della prima sessione della prima legislatura del parlamento subalpino e legge in luogo del re il primo discorso della Corona (e può essere utile segnalare che in questo caso si assiste ad

una sovrapposizione con la figura istituzionale del commissario regio?9). Il regime rappresentativo piemontese, dal quale si svilupperà quello italiano, è inaugurato quindi dal luogotenente. Ma su questa prassi, quella del discorso della Corona, occorre soffermarsi con particolare attenzione perché dalla sua analisi emergono molte considerazioni interessanti sul ruolo del monarca nella dinamica istituzionale e nella forma statutaria.

4. Il «grido di dolore» Quando il capo dello Stato si reca in persona di fronte alle due Camere riunite per aprire ufficialmente la sessione legislativa e leggere il discorso della Corona, si assiste ad un evento di notevole valore istituzionale e di altissimo potenziale simbolico per quanto concerne i collegamenti tra re e parlamento. Si tratta infatti dell'unico momento comunicativo tra questi due soggetti istituzionali che non preveda formalmente intermediari. La prassi statutaria non conosce infatti diverse vie di contatto, come ad esem-

pio i messaggi scritti o verbali del re che esistono in altri ordinamenti europei dell’epoca. Il discorso della Corona ha comunque origine in Inghilterra, dove nasce con lo scopo di illustrare i motivi della convocazione, non ancora periodica, del parlamento. Abbastanza rapidamente, però, tale consuetudine si trasforma e si trova davanti due possi2° I commissari regi sono rappresentanti ministeriali autorizzati con decre-

to del re alla discussione di determinati progetti di legge che richiedono nella maggior parte dei casi specifiche competenze tecniche. Ciò non toglie che commissario ‘regio’ sia più specificamente detto anche colui che viene deputato a sostituire direttamente il monarca, nelle eventualità eccezionali in cui Sua Maestà

agisce in prima persona. In particolare, nel novembre 1869, si ripropone la necessità di sostituire Vittorio Emanuele II, malato, nella lettura del discorso del-

la Corona alla seduta di apertura del parlamento. Viene in quel caso delegato il guardasigilli Paolo Onorato Vigliani: Vigliani, però, non è qualificato come luogotenente, ma appunto come semplice ‘commissario regio’.

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bilità evolutive: o si converte in esposizione del programma di governo e imbocca una strada che porta verso il regime parlamentare, o si riduce ad intervento di circostanza, pura allocuzione for-

male priva di contenuti politici sostanziali. Questa seconda strada sembra a prima vista quella principale. Alla superficie, infatti, ciò che si vede è poco più che uno schema retorico praticamente fisso: il discorso prende quasi sempre avvio con espressioni di riconoscenza e di augurio dirette alla presente e alla passata legislatura, si espongono sommariamente i provvedimenti o le riforme che il re spera vengano adottate, sono genericamente descritte la situazione militare e quella finanziaria, si disegna un tranquillizzante quadro internazionale, si pronunciano auspici per il futuro?!. Quali reazioni suscitavano discorsi così fatti? Per lo più, cri-

tiche e freddezza”. Un curioso aneddoto ci dice anche di più, al proposito. Il 3 dicembre 1894 Umberto I sta commentando con il presidente del Senato Domenico Farini l’apertura della sessione parlamentare. Il re chiede, con formulazione un po’ generica, quale sia l’impressione del suo interlocutore. Farini risponde seccamente e con scarsa diplomazia che il discorso gli è parsa «poca cosa». E Umberto, che in realtà chiedeva un parere sul clima politico, replica con nonchalance: «Lo sapevamo prima, io le domando della situazione generale». Questo buffo malinteso ci rivela che spesso lo stesso monarca ‘snobbava’ i propri discorsi di fronte alle assemblee?3. Occorre tuttavia considerare che l'assenza di picchi di polemica politica rappresenta spesso il risultato di una specifica e consapevole strategia tesa a salvaguardare la figura del ‘re costituzionale’ e a lasciare ampio spazio di manovra al governo. E non si deve neppure dimenticare che per decifrare i discorsi regi oc21 Sono naturalmente frequenti anche i rinvii ad eventi o problemi storici contingenti, come la guerra di Crimea, la questione romana, l'aspirazione

all’unità nazionale o il suo raggiungimento. Per il testo dei diversi discorsi della Corona si veda la raccolta a cura di A. Monti, I discorsi della Corona con i proclami alla Nazione dal 1848 al 1936, Cedai, Milano 1938, cui d’ora in avanti si

rinvia per ogni riferimento diretto alla parole pronunciate dai Savoia di fronte alle Camere.

22 Si veda, per degli esempi in tal senso, A. Guiccioli, Diario di un conservatore, Edizioni del Borghese, Milano 1973, pp. 34, 62, 172, 225. 2 Cfr. D. Farini, Diario di fine secolo, Bardi Editore, Roma 1962, p. 574.

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correva ricorrere ad un delicato lavoro di interpretazione dei particolari, delle sfumature, delle più minute scelte lessicali (né più né meno, d’altro canto, di ciò che vediamo accadere oggi con le

interviste degli uomini politici più in vista). Quindi, all’interno di un intervento per di più assai breve, era l’impiego di un verbo o di un altro, l'aggiunta o la soppressione di un aggettivo ad offrire - dietro al paravento di un’apparenza conformista e uniforme — la più autentica chiave di lettura. Se si guarda con attenzione, in profondità, si individuano in

ogni caso tra le parole del re passaggi di notevole rilevanza politica, nei quali lo svolgersi della storia istituzionale italiana si riflette con particolare nitidezza. Innanzitutto si coglie con forza il legame che unisce la triade Casa Savoia-Statuto-istituzioni costituzionali: è quasi ossessivo il rinvio alla «vigile custodia degli ordini costituzionali»?4 quale tratto distintivo della dinastia (la quale si viene ad identificare quasi con le istituzioni che ha prodotto). In quest'ottica, è evidente che il primo discorso dell’era statutaria non può mancare di sottolineare la «inaugurazione» del regime rappresentativo sancita dall'ingresso in parlamento della Corona, nella persona del principe di Carignano, commissario regio e (come abbiamo già visto) rappresentante del monarca in quel supremo momento. All’apertura della sessione successiva poi (1 febbraio 1849), l’unica che verrà effettuata da Carlo Alberto in persona, questi già si preoccupa di ribadire che «il Governo costituzionale si aggira sopra due cardini, il Re e il Popolo», legando dichiaratamente i propri destini a quelli statutari. È in questa occasione che il discorso della Corona si spinge fino ad un esplicito accenno alla possibilità di riunire un’assemblea costituente che decida degli sviluppi costituzionali futuri pei le regioni che si pensa di dover a breve annettere come frutto di una guerra vittoriosa??, E una idealistica ‘fuga in avanti’ che nella realtà non porterà da nessuna parte e che appare oggi comprensibile soprattutto in 24 «La vigile custodia degli ordini costituzionali è la fortuna d’Italia, è l’orgoglio della mia Casa!» (Discorso della Corona del 5 aprile 1897). 2 «Riguardo agli ordini interni, dovrà essere nostra cura di svolgere le istituzioni che possediamo, metterle in armonia col genio, coi bisogni del secolo, e proseguire alacremente quell’assunto che verrà compiuto dall’ Assemblea Costituente del Regno d’Italia».

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relazione al clima particolare instauratosi in quei momenti di fervore ed attesa ma che nel corso dei decenni futuri verrà più volte rimproverata ai Savoia come una promessa non mantenuta. A partire dal 1849 i discorsi della Corona mostrano un continuo susseguirsi di richiami, più che alle vie di trasformazione del regime, ai compiti di tutela, rafforzamento e promozione delle istituzioni statutarie. In questa chiave viene presentato, nel discorso tenuto

il 20 novembre 1849 da un Vittorio Emanuele da poco salito al trono, lo stesso proclama di Moncalieri?6. Eppure, si può affermare senza paura di sbagliare che il discorso della Corona più famoso si centra su una promessa di cambiamento: il 10 gennaio 1859, nelle parole pronunciate da Vittorio Emanuele fa sentire la propria eco il celebre «grido di dolore»? che aprirà la strada alla seconda guerra d’indipendenza e al primo avanzamento verso l’unificazione. Si tratta di un passaggio che mostra come il discorso della Corona non si risolva sempre nel vuoto adempimento formale di un obbligo costituzionale. In quell’occasione il valore politico del discorso regio è elevato, e ancor maggiore è quello simbolico. L'immagine del re che, davanti ai rappresentanti riuniti, si dichiara sensibile ai destini delle popolazioni ancora ‘oppresse’ diventerà una vera e propria bandiera del Risorgimento. E dobbiamo subito sottolineare che, se si trascurano le componenti simboliche, ci si confina in una visione molto riduttiva del discorso della Corona. La solennità del cerimoniale, d’altra parte, esalta proprio tali componenti. Il discorso si tiene infatti nel corso di una seduta congiunta di Camera e Senato, detta per l’appunto ‘reale’, alla presenza dell’intera regia famiglia. I compiti direttivi e di polizia dell'adunanza sono eccezionalmente affidati al ministro dell’Interno e un trono appositamente eretto sostituisce nella sala il banco della presidenza. Da lì, in piedi al cospetto di senatori e deputati che restano seduti, il re 26 «Gli elettori udirono la mia voce [...] onde rafforzare quegli ordini politici che istituiva Re Carlo Alberto, mio Padre d’augusta memoria, io feci quant’era in poter mio».

27 «Il nostro Paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei Consigli dell'Europa, perché grande per le idee che rappresenta, per le simpatie ch’esso ispira. Questa condizione non è scevra di pericoli, giacché, nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi».

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legge il discorso. Si coglie così, nel rispetto rigoroso delle forme, il tipico uso politico del rituale, che serve a comunicare un senso di solidità istituzionale e di sicurezza ad ascoltatori e sudditi. La presenza della famiglia reale, ed in special modo dell’erede, richiama l’attenzione sul durevole carattere istituzionale della Corona (che in quel momento fa sentire la propria voce) piuttosto che sul singolo individuo che provvisoriamente la incarna e porta in evidenza la continuità del potere monarchico. Le parole scelte dal re servono poi a confermare e rafforzare i ‘miti’ personali con i quali si circonda la figura di ogni singolo regnante: quello del ‘Padre della Patria’ per Vittorio Emanuele II, quello del ‘Re Borghese’ e ‘Re Buono’ per Umberto I, quello del ‘Re Soldato’ (e ‘Vittorioso’) per Vittorio Emanuele III L'allestimento momentaneo del trono all’interno dell’aula parlamentare evoca poi l’antica cerimonia del lit de justice?8 e suggerisce che chi parla non lo fa in semplice veste di capo dell’esecutivo e che dunque il suo discorso non può essere ridotto a semplice programma ministeriale. Il forte legame tra il re e i ‘suoi’ ministri è infine marcato dalla prassi che vuole i fogli con il testo del discorso passati al re in modo visibile dal presidente del Consiglio??. A questo proposito occorre svolgere due considerazioni. In primo luogo, il gesto del presidente del Consiglio vorrebbe avere un significato istituzionale di carattere simbolico: comunica infatti l’idea che il re non esprima proprie opinioni personali, ma si ap28 Il lit de justice è una delle grandi cerimonie dello Stato francese d’antico regime: il re si reca personalmente presso il parlamento, ove siede sotto un baldacchino circondato da nobili e alti funzionari, per rievocare attraverso un rigido cerimoniale l’epoca in cui era il principe stesso ad amministrare in prima persona la giustizia. Iparlamenti restano infatti formalmente, fino allo scoppio della rivoluzione del 1789, Corti di giudicatura che esercitano la loro attività grazie

a una delega del re (giustizia delegata); con il lit de justice il monarca riafferma il principio secondo il quale ogni potere (quello giudiziario come quello legislativo) emana dalla sua persona e appunto con la sua presenza sospende automaticamente la delega che rende i parlamentari dei giudici, riportandoli al semplice rango di suoi consiglieri. Il /i de justice viene particolarmente usato per vanificare la facoltà dei parlamenti di opporsi alla registrazione di una legge che trovano inopportuna: in presenza del re si potrà difatti solo constatare che la sua volontà è legge e che deve essere immediatamente registrata in quanto tale. 2° Si veda C. Lessona, I/ re nelle leggi italiane, L. Roux e C. Editori, Torino

1891, p. 54.

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presti a rivestire di valore regale gli orientamenti dei ministri. In questo modo egli resta al riparo della copertura ministeriale e conserva la propria irresponsabilità. Tale obiettivo spiegherebbe anche la ‘neutralizzazione’ dei contenuti del discorso che, quanto più è privo di messaggi politici ‘forti’ tanto meno espone il re. In secondo luogo, si apre un problema. La consegna del testo del discorso operata ritualmente e in modo ben visibile dal presidente del Consiglio ci autorizza a ritenere che il monarca sia completamente estraneo alla sua stesura? Gli stessi osservatori dell’epoca propendono in linea di massima per questa ipotesi (reputando il discorso della Corona «atto essenzialmente ministeriale»?°), ma sono probabilmente un po’ affrettati e superficiali nel farlo. Esistono infatti chiare tracce del fatto che i re sabaudi intervengono ripetutamente, talvolta più pesantemente altre volte in forma più blanda, sulle bozze dei discorsi, quando non arrivano a scriverli di proprio pugno?!. Sappiamo comunque con certezza che le parole pronun-

ciate dal monarca di fronte alle Camere vengono regolarmente valutate in Consiglio dei ministri e possiamo in sostanza ritenere che quasi sempre siano il frutto dell’azione e dei suggerimenti congiunti, oltre che del monarca, di più persone: del capo del governo, ovviamente, ma anche dei singoli ministri più importanti (Interni ed Esteri, ad esempio) o dei funzionari della Real Casa??. Ma forse non è così importante precisare chi sia esattamente a

predisporre ciascun discorso, perché esso è e resta, in ultima ana30 Ivi, p. 50; M. Mancini, U. Galeotti, Norzze ed usi del Parlamento italiano.

Trattato pratico di diritto e procedura parlamentare, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1887, p. 619. 31 Indicazioni in questo senso anche in Guiccioli, Diario di un conservatore,

cit., p. 172 e nel recente studio di F. Luciani, La «Monarchia popolare». Immagine del re e nazionalizzazione delle masse negli anni della Sinistra al potere (187691), in «Cheiron», XIII (1996), n. 25-26, pp. 141-188, in particolare p. 159.

32 Significativo, in particolare, è comunque il caso dell’elaborazione del già citato discorso del gennaio 1859 che avrebbe visto l'intervento di Vittorio Emanuele, di Cavour, di Napoleone III (con l’intermediazione, e può darsi l’in-

fluenza, del suo capo di Gabinetto privato) e di Giuseppe Massari, allora direttore della «Gazzetta Ufficiale» (Massari, La vita e il regno di Vittorio Emanuele II, cit., p. 240; S. Cilibrizzi, Storia Parlamentare Politica e Diplomatica d'Italia. Da Novara a Vittorio Veneto, voll. I, II, III e IV, Società Editrice Dante Alighieri, Milano-Roma-Napoli 1925-1934; voll. V, VI e VII, Tosi Editore, Roma s.d.; su

questo punto particolare, vol. I, p. 223).

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lisi, ‘della Corona’: cioè lo si sente e vede proferito dal re nel preciso momento in cui incarna di fronte alla rappresentanza nazionale l’organo costituzionale regio, ed è questo che rileva, dal punto di vista politico, istituzionale e simbolico. In ogni caso, quasi mai è possibile valutare il peso preciso dell’influenza ministeriale su un qualunque atto della Corona (ed è perfettamente nell’ordi-

ne delle ‘cose statutarie’ che sia così). È invece importante che, in corrispondenza con una faticosa evoluzione del sistema sabaudo verso la forma di governo parlamentare, si cerchi di individuare una via per aprire un dibattito assembleare sul programma ministeriale al momento in cui ogni nuovo governo viene a formarsi. Si tratterebbe di un passaggio decisivo per affermare l’idea che l'esecutivo deve godere della preventiva ‘fiducia’ dei rappresentanti per poter operare. L’intervento presso le Camere da parte del re (che, ricordiamolo, secondo la costituzione è proprio capo dell’esecutivo) sembra allora l'occasione più opportuna, quella in cui il discorso della Corona si presterebbe a diventare ‘programma del Gabinetto’. Ma nonostante tale idea venga ufficialmente ripresa addirittura nel R.D. n. 3629 del 27 marzo 1867 sulle attribuzioni del Consiglio dei ministri?? e varie volte echeggiata dai dibattiti tra i deputati, non si afferma mai definitivamente. La ragione sta soprattutto nella logica costituzionale che vuole il re non responsabile e non sottoponibile ad alcuna forma di sindacato politico; e proprio in quanto, come detto, il discorso rimane pur sempre della Corona, si finisce ogni volta col reputare impossibile avviare una vera discussione sulle parole pronunciate da Sua Maestà. È per tentare di aggirare questo ostacolo che l’attenzione si sposta sul cosiddetto ‘indirizzo di risposta’, vale a dire sulla replica di cortesia che per prassi deputati e senatori preparano nei giorni seguenti il discorso affinché una deputazione la presenti al re in udienze appositamente concordate. ?? Art. 5: «Il Presidente del Consiglio dei Ministri rappresenta il Gabinetto, mantiene l'uniformità dell’indirizzo politico e amministrativo di tutti i ministri, e cura l'adempimento degli impegni presi dal Governo nel discorso della Corona, nelle sue relazioni col Parlamento e nelle manifestazioni fatte al paese» (Rac-

colta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia [1867], vol. XVIII, pp. 395-400, in particolare p. 398).

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Quando si tratta di decidere forme e contenuti dell’indirizzo

sembra ad alcuni possibile sviluppare un dibattito sui programmi esposti nell’intervento regio, perché ciò che verrebbe in tal modo in discussione, almeno formalmente, sarebbe la replica parlamentare e non le parole del monarca. Ma la storia costituzionale italiana non coglie questa opportunità e, differenziandosi da quella tradizione anglosassone cui allora si guardava come ad un modello, sviluppa in pochi anni un originale ‘sistema piemontese’. Infatti, si adotta inizialmente la prassi che il testo degli indirizzi di replica sia preparato da una commissione o dagli stessi uffici di presidenza delle Camere, e nei primi tempi di vita statutaria (fin verso la metà degli anni ’50) esso venga stampato e distribuito ai deputati, che lo discutono (spesso in maniera assai articolata) e lo votano. L’indirizzo viene trattato in sostanza come un program-

ma politico?4. Si fa però al tempo stesso strada l’idea che l’indirizzo di risposta possa costituire un atto di ‘complimento’, contenente cioè una semplice e rispettosa perifrasi del discorso della Corona, con l’aggiunta di qualche scontata dichiarazione di buona volontà politica del parlamento e di fiducia verso il monarca. A quel punto non esistono più seri motivi per discuterlo, ma anche a volerlo fare ci si troverebbe a vagliare politicamente una perifrasi del discorso regio, finendo comunque col portare in discussione le parole del re e ciò non è costituzionalmente concesso. L’indirizzo dovrebbe quindi venire votato senza essere sottoposto a discussione. Non si decide subito e senza incertezze quale impostazione far prevalere; la storia parlamentare ci mostra la comparsa ora dell’uno ora dell’altro orientamento, spesso accavallati tra loro. Periodicamente, cioè, si fa sentire la voce di chi sollecita una discussione politica sui contenuti del discorso della Corona: nel 1886, 34 Ma anche qui i dibattiti parlamentari mostrano che c’è poca chiarezza. Il dibattito è sul programma del governo o su quello della Camera? Presi entro questo dilemma, del quale tra l’altro si mostrano spesso anche poco consapevoli, i deputati finiscono per non cogliere appieno l'opportunità che si trova loro di fronte (realizzare una dialettica costruttiva tra una maggioranza legata al Gabinetto e una minoranza di opposizione) e contribuiscono a generare uno dei difetti maggiori del sistema politico italiano fino ai giorni nostri. Cfr. ad esempio Atti del Parlamento subalpino - Camera dei deputati - Discussioni, leg. I, sess. unica, p. 68 (seduta del 29 maggio 1848).

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ad esempio, quella di due personaggi di grande rilievo come Francesco Crispi e Alessandro Fortis?5. Ma possiamo dire che in

linea di massima prevale quel «sistema piemontese» descritto con efficacia già nel 1857 da Cavour: avvi un punto sul quale noi dobbiamo mostrarci perfettamente uniti e all’interno e all’esterno, ed è sui rapporti del Parlamento colla Corona. Non togliamo a quest’accordo l’espressione che finora ha sempre esistito, il voto unanime dell’indirizzo. Perduriamo nell’antico sistema,

nel principio finora praticato; nessuno ci scapiterà, poiché tutti conoscono che quest’indirizzo non contiene né approvazione, né censura

della politica del Ministero, né censura, né approvazione della politica dell’opposizione?5.

Si può accettare l’idea che questo sistema continui poi a prevalere almeno fino al 1901, quando il regio decreto n. 466 sulle attribuzioni del Consiglio dei ministri stabilirà che «il Presidente del Consiglio [...] cura l'adempimento degli impegni presi dal Governo nel discorso della Corona, nelle sue relazioni col Parlamen-

to e nelle manifestazioni fatte al paese», cioè tratta il discorso della Corona alla stregua di un programma governativo. Da quel momento in poi si trovano tracce più forti e frequenti della volontà di aprire una discussione generale sull’indirizzo del governo attraverso una valutazione dei contenuti del discorso della Corona (nel dicembre 1904, nel dicembre 1913, nel giugno 1921); e tale

questione viene a legarsi esplicitamente a quella del voto di fiducia che il parlamento dovrebbe attribuire ai governi di nuova formazione?”. Studi che si sono occupati specificamente di questo argomento sostengono che a partire dal marzo 1909 le discussioni sull’indirizzo di risposta tendono a confluire proprio in qualcosa > Cfr. Atti Parlamentari - Camera dei deputati - Discussioni, leg. XVI, sess. I, vol. I, rispettivamente pp. 46-47 e 56-63. 3° Atti del Parlamento subalpino - Camera dei deputati - Discussioni, leg. V, sess. III, p. 20 (per le parole di Cavour). È in quella stessa seduta del 12 gennaio 1857 che il deputato Buffa parla esplicitamente di nascita di un originale «sistema piemontese» (p. 21). 27 Il 16 dicembre 1913 Giolitti dichiara che alla deliberazione sull'ordine del giorno relativo al discorso della Corona attribuisce «il significato di un voto esplicito di fiducia sull’opera del Ministero». Si veda Atti parlamentari - Camera dei deputati - Discussioni, leg. XXIV, sess. unica, pp. 475 e 572.

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di simile a un voto di fiducia ad appello nominale, ma la questione è ancora ben lontana dal potersi considerare risolta. Infatti questa prassi non si afferma mai del tutto, né tanto meno viene ufficialmente riconosciuta come valida. Anzi: è tutto un susseguirsi di segnali contraddittori. Cosa possiamo concludere, allora? Innanzitutto che la necessità di un terreno di incontro e di verifica tra maggioranza governativa e opposizione compare già all'avvio dell’esperienza statutaria e non sparisce mai completamente: si acuisce, piuttosto, sul

finire della fase liberale. Si può supporre che il regime statutario fosse a quel punto assai vicino a un passaggio decisivo verso la forma di governo parlamentare (che ancora, certo, non era compiuta). Ma la possibilità di compiere tale passaggio viene annullata dalla svolta fascista. Si forma così una ‘cisti’ destinata a non essere mai riassorbita dal corpo politico italiano. L'assenza di una dialettica maggioranza/opposizione, cioè uno dei maggiori ostacoli incontrati fino ad oggi dal nostro paese nel raggiungimento di una piena maturità democratica in campo istituzionale, sta in stretta relazione con il «sistema piemontese» adottato dalle Camere verso il discorso della Corona. Da lì discenderebbe la «quasi totale assenza di un costante, programmato confronto tra maggioranza e opposizione sugli indirizzi di governo. Il che spiega, fra gli altri motivi, due delle caratteristiche storiche del parlamentarismo italiano: la difficoltà di distinguere attraverso i programmi la maggioranza dall’opposizione»?* e il ‘trasformismo’ ad essa collegato. Caratteristiche che renderanno quasi perennemente instabili e incerte le italiche coalizioni di governo. 38 S. Merlini, I/ governo costituzionale, in R. Romanelli (a cura di), Storia dello Stato italiano dall'Unità a oggi, Donzelli, Roma 1995, pp. 3-72, in particolare p. 18.

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