Steven Spielberg 8829703060, 9788829703067

Steven Spielberg non è soltanto uno dei più noti registi del cinema contemporaneo ma un personaggio pubblico, un fenomen

150 74 12MB

Italian Pages 183 [139] Year 2019

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Steven Spielberg
 8829703060, 9788829703067

Citation preview

Steven Spielberg non è soltanto uno dei più noti registi del cinema contemporaneo ma un personaggio pubblico, un fenomeno culturale, un’icona del nostro tempo. Nessun altro filmmaker ha avuto un ruolo altrettanto decisivo nel ridefinire il modo di produzione, l’assetto e le strategie di Hollywood, fissando alcune delle regole che sono alla base dell’entertainment contemporaneo. Se il giudizio critico sulla sua opera è stato a lungo condizionato dagli incassi stratosferici dei suoi film, Spielberg incarna oggi la memoria, l’immaginario e la grandezza del cinema e della cultura americani. Da Lo squalo a Munich, da E.T. a Schindler’s List, da Minority Report a Ready Player One, passando per le saghe di Indiana Jones e Jurassic Park, Steven Spielberg ha esplorato generi, forme e mitologie del cinema nella sua dimensione più fantastica, epica e popolare. ANDREA MINUZ insegna Storia del cinema presso l’Università «Sapienza» di Roma. Ha scritto e curato numerosi volumi, tra cui La Shoah e la cultura visuale. Cinema, memoria, spazio pubblico (2010); L’invenzione del Luogo. Spazi dell’immaginario cinematografico (2011); Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico (2012), tradotto in inglese nel 2015 per Berghahn Books (Political Fellini. Journey to the end of Italy). È membro del comitato scientifico della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro e scrive di media e televisione per il quotidiano «Il Foglio».

Steven Spielberg a cura di Andrea Minuz Marsilio

© 2019 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Prima edizione digitale 2019 ISBN 978-88-297-0470-5 www.marsilioeditori.it [email protected] Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Seguici su Facebook

Seguici su Twitter

Iscriviti alla Newsletter

Indice Copertina Abstract - Autore Frontespizio Copyright Presentazione di Paolo Bertetto Spielberg, l’America, il cinema di Andrea Minuz Movie Mogul Spielberg Brand New Hollywood Old Hollywood Spielberg e la politica degli autori Spielberg e Disney Il cinema di Steven Spielberg: epoche, generi, forme di Francesca Cantore I corti, la televisione e gli anni settanta Fantasy, science-fiction, distopia Blockbuster/franchise «American History» Animazione Jaws di Valerio Coladonato Introduzione: «A Perfect Eating Machine» Il secondo attacco dello Squalo: soluzioni tecniche e registri di messa in scena Fuori e dentro l’acqua: rovesciamenti del punto di vista «The Whole Damn Thing»: frammentazione e sutura Ricorrenze dello stile classico: «Wide Reverse» e «Cine-Tableau» E.T. di Nigel Morris Prologo Promozione e pubblicità Intrattenimento reaganiano? Auto-riflessività «vs» identificazione La narrazione Mitologia Conclusioni Jurassic Park di Davide Persico Il problema della tecnica Un realismo senza realtà La lotta per l’egemonia visiva Lo sguardo senza referente

L’immaginario cinematografico e l’ibridazione del genere Schindler’s List di Thomas Elsaesser Storia e memoria «Holocaust»/«Shoah»/«Schindler’s List» «Schindler’s List» e il cinema americano Spielberg e Lanzmann Minority Report di Pietro Masciullo Prevedere/premediare il futuro Interpretare le nuove immagini Il cinema come dispositivo autoriflessivo Munich di Damiano Garofalo Premessa «Inspired by Real Events»: classico, moderno, spielberghiano «It’s Just a Show»: schermi e specchi da Monaco 1972 «Break Bread With Me, Ephraim»: Munich, Auschwitz, New York Ready Player One di Mauro Di Donato Questo (non) È Un Videogioco La prima sequenza Cinema, videogioco, realtà virtuali Note al testo Filmografia a cura di Francesca Cantore Bibliografia a cura di Francesca Cantore

Presentazione I registi-produttori di film di grande budget si chiedono non solo cosa voglia il pubblico ma anche cosa sia il cinema non meno dei cosiddetti autori. E la loro attività è spesso una sperimentazione non incontrollata ma quanto mai determinata non solo sugli interessi e i gusti del pubblico ma anche sulle potenzialità della macchina filmica. L’itinerario di Spielberg è, in questa prospettiva, esemplare. I suoi film sono insieme una ricerca su cosa il cinema possa diventare e un programma di allargamento dei modi di percezione, delineato per un pubblico di massa. Che cosa il grande pubblico può comprendere e amare del cinema? La domanda è assolutamente fondamentale perché investe un potere e un aspetto essenziale del cinema, che è uno dei suoi elementi costitutivi, ma è anche una delle sue funzioni storiche. Il cinema cioè allarga la mente, consente di realizzare a livello di massa una capacità di comprensione della complessità che certo una volta non si sarebbe immaginato. In passato era la letteratura il terreno della sperimentazione e dell’allargamento della mente. Pensiamo alla grande stagione di Proust, Joyce, Broch, Kafka. Poi, dopo la stagione un po’ elitaria delle neoavanguardie, la narrativa è spesso diventata uno spazio di certezze e di ripetizioni. E invece il cinema, dapprima attraverso la sperimentazione del sogno e dell’inconscio, dell’immaginario e della memoria (da Buñuel a Resnais) e poi con la grande ondata del mind game film, si è avventurato anche all’interno di grandi produzioni in un terreno di indubbia complessità. Spielberg in questa direzione è stato fondamentale, dapprima costruendo un cinema di grande intrattenimento e di forti emozioni, che poteva essere visto e letto su due livelli diversi, uno immediato e pienamente soddisfacente e l’altro sottotestuale, caratterizzato da un insieme di rimandi e di citazioni della storia del cinema. In questa prospettiva E.T. e Indiana Jones. I predatori dell’arca perduta sono esemplari. Poi Spielberg ha affrontato la storia e ha fatto del cinema uno strumento di rilettura e di reinterpretazione degli eventi del Novecento (da Schindler’s List a Munich), considerando la storia del popolo ebraico come un confronto ripetuto con il tragico e la morte. E insieme ha proseguito su una linea più difficile e non meno importante portando le dinamiche dell’intelligenza artificiale, le modalità di costruzione delle contraddizioni del senso e delle forme del simulacro direttamente all’interno di un cinema di grande spettacolarità. Sono in particolare i casi di A.I. - Intelligenza artificiale e di Minority Report, che costruiscono esemplarmente lo spettatore di massa come uno spettatore complesso e forzatamente intelligente. Si tratta di una finalità assolutamente eccezionale, che smentisce tutte le critiche supponenti al cinema facendone un vettore essenziale nel processo di trasformazione non solo della percezione, ma anche della mente. Con Spielberg il cinema per il grande pubblico non solo coinvolge ed emoziona, ma potenzia e sviluppa l’intelligenza. PAOLO BERTETTO

Spielberg, l’America, il cinema di Andrea Minuz

A Emma, Alberto e Cecilia che guardano E.T.

MOVIE MOGUL

Steven Spielberg non è soltanto il regista di maggior successo della storia del cinema americano, ma un personaggio pubblico, un fenomeno culturale, un’icona del nostro tempo. Filmmaker, sceneggiatore, scrittore, businessman, produttore di film, documentari, serie tv, animazione, videogame, Spielberg è da oltre trent’anni «una persona ai vertici della piramide hollywoodiana»1. I suoi film più celebri rimandano a un patrimonio di immagini e storie che per varie generazioni di spettatori hanno la statura dei “classici”, ma allo stesso tempo Spielberg è ancora oggi considerato un punto di riferimento nei discorsi sul futuro dell’entertainment, come nel caso del coinvolgimento per il lancio di Apple tv o delle recenti polemiche sulle modalità di partecipazione agli Oscar dei prodotti distribuiti da Netflix. Insieme a Clint Eastwood, Martin Scorsese, Woody Allen, è un simbolo del cinema americano contemporaneo ma il suo nome evoca uno spettro assai ampio di temi e valori che vanno dalla salvaguardia della memoria della Shoah, con l’imponente progetto di archiviazione delle testimonianze dei sopravvissuti coordinato dalla sua USC Shoah Foundation, alla spensierata nostalgia per gli anni ottanta celebrata in chiave spielberghiana da film come Super 8 (Id., 2011) di J.J. Abrams, dalla serie Netflix Stranger Things (Id., 2016), o dalle note di Jump dei Van Halen su cui si apre il suo ultimo film, Ready Player One (Id., 2018). Nel 2014, quando la rivista «Forbes» lo collocò al primo posto di una classifica dei personaggi «più influenti della cultura occidentale», il direttore dell’istituto incaricato della ricerca, Gerry Philpott, commentò con queste parole: «Se qualcuno nutre dei dubbi sul risultato del sondaggio, basti pensare a quante persone quest’estate esiteranno un istante prima di entrare in acqua»2. Il fatto che Philpott citasse gli effetti di Jaws (Lo squalo, 1975), anziché quello che all’epoca era l’ultimo film di Spielberg, Lincoln (Id., 2012), nonostante il clamore suscitato, dodici nomination agli Oscar e oltre trecento milioni di incasso, ribadiva la portata di un cinema saldamente radicato nel nostro immaginario. Un cinema che vede nel coinvolgimento dello spettatore e nell’orchestrazione delle sue emozioni la materia specifica del film. Tuttavia, occuparsi di Steven Spielberg non significa solo analizzare il suo enorme impatto nella cultura popolare. Nessun altro regista negli ultimi decenni ha avuto infatti un ruolo altrettanto decisivo nel ridefinire il modo di produzione, l’assetto e le strategie di Hollywood, fissando alcune delle regole che sono alla base del vasto ecosistema dell’entertainment contemporaneo. Spielberg va quindi inquadrato sia all’interno delle forme del cinema americano, sia in riferimento alla logica espansa della sua produzione e all’attività delle due società, Amblin (fondata da Spielberg, Kathleen Kennedy e Frank Marshall nei primi anni ottanta) e Dreamworks SKG, lanciata da Spielberg, Jeffrey Katzenberg e David Geffen alla metà degli anni novanta, come «la prima impresa su vasta scala dall’epoca dello studio system»3, votata all’integrazione di cinema, televisione, industria musicale, videogame e sperimentazione digitale, grazie anche alla presenza di Paul Allen, cofondatore di Microsoft, tra i principali investitori. Benché Spielberg sia da molti considerato come la quintessenza del cinema, non si può dire che abbia sempre goduto di un’unanime legittimazione culturale. Al contrario, per molto tempo i suoi film sono stati visti con sospetto dalla critica più ideologica e

assertiva, per principio diffidente degli effetti speciali, dell’entertainment e dei grandi incassi. La combinazione di box-office stratosferici, film-franchise, merchandising, nonché i tratti stessi del personaggio Spielberg (più un film fan onnivoro che un sofisticato cinephile, più un appassionato di fumetti e videogiochi che un intellettuale) sono apparsi per molto tempo in contraddizione con i canoni tradizionali dell’autorialità. Nello scarto che separa un cinema artistico, riflessivo e personale dal prodotto hollywoodiano – industriale, collettivo, pensato per un’audience globale e allestito in funzione del profitto degli studios – Spielberg è stato a lungo collocato dalle parti del “mestiere”, più o meno come era successo ad Alfred Hitchcock, prima di essere adottato dalla critica francese. Come ricorda anche Valerio Coladonato nel saggio su Jaws in questo volume, non di rado Spielberg viene ancora oggi archiviato come un astuto filmmaker al servizio dell’entertainment, un formidabile money-maker con vari record di incassi alle spalle, un ottimo regista ma privo di un vero e proprio stile riconoscibile. D’altro canto, il fatto di essere divenuto ben presto tra i più ricchi e potenti uomini di Hollywood stride con alcuni cliché dell’artista, in particolare con l’idea romantica del regista perennemente in lotta con l’industria per affermare le ragioni della propria opera. Nel 2018, presentando il documentario di Susan Lavy dedicato alla vita e all’opera del regista (Spielberg, HBO, 2017), il «New York Times» si domandava non a caso se «Steven Spielberg non sia in fondo troppo popolare per essere considerato anche un artista»4. Secondo Nigel Morris, tra i più importanti studiosi del cinema di Spielberg, i pregiudizi legati alla sua popolarità hanno profondamente condizionato l’accoglienza dei film e, a partire dagli anni ottanta, «la maggior parte dei critici ha preso una posizione più nei confronti del successo dei film, che sui film in sé»5. Dal punto di vista degli studi accademici le cose non sono andate meglio. Fino ai lavori di Buckland, Morris e Wasser, pubblicati tra il 2007 e il 2010, la bibliografia critica su Spielberg era, con le dovute eccezioni (tra cui in Italia un volume di Franco La Polla) composta in gran parte da letture tematiche e biografie che raccontavano il guru dell’entertainment hollywoodiano, l’abile creatore di sogni e successi planetari, il padre di icone della cultura pop, ma lasciavano sullo sfondo l’analisi della regia, le invenzioni visive, la personale rielaborazione del lessico del cinema americano. Occuparsi di Spielberg rappresentava per un accademico, come ha ricordato recentemente Lester Friedman, «l’equivalente di un’apparizione in un film porno»6. Come può constatare il lettore in appendice di questo volume, le pubblicazioni di taglio divulgativo, le interviste, i making of dei film e le biografie su Spielberg superano di gran lunga gli studi e le ricerche di taglio accademico. Sarà quindi utile richiamare più avanti il rapporto tra Spielberg e la critica, sia per comprendere le trasformazioni della sua immagine pubblica, sia le ragioni della messa in crisi di quella contrapposizione tra autorialità e blockbuster che i suoi film hanno reso obsoleta. Steven Spielberg si colloca infatti al di là di una nozione di autore datata, elaborata in un contesto profondamente diverso dal nostro, e che, anche intesa nella sua accezione postmoderna e mediatica (Cronenberg, Lynch, Tarantino), non restituisce appieno la funzione decisiva che egli occupa nell’industria di Hollywood7. SPIELBERG BRAND

Con alle spalle oltre centocinquanta produzioni tra film, serie televisive, documentari, sarebbe difficile ricondurre l’universo di Spielberg soltanto alle sue regie. Al contrario,

per comprendere la costruzione della sua inedita cifra autoriale dobbiamo considerare i film come parte di un vasto sistema produttivo e una rete di relazioni da cui Steven Spielberg emerge anzitutto come brand8. Il suo lavoro di filmmaker andrà quindi letto in un orizzonte che include sia un discorso sullo stile che una riflessione sulla dimensione pubblica e imprenditoriale di Spielberg quale personaggio chiave del sistema hollywoodiano. Si tratta di aspetti che in questo studio – dedicato soprattutto all’analisi del suo modello di regia – non possono essere approfonditi ma che vanno tenuti presente per comprendere meglio la sua opera all’interno delle trasformazioni dell’industria del cinema dopo gli anni settanta. Anzitutto, come ricorda James Russell, «Jaws, Raiders of the Lost Ark (I predatori dell’arca perduta, 1981), E.T. the Extra Terrestrial (E.T. - l’extraterrestre, 1982) e Jurassic Park (Id., 1993) esistono dentro un’estesa rete commerciale che ha generato un numero enorme di spin-off (video game, sequel, serie televisive, colonne sonore, novellizzazioni) e licenze per prodotti ancillari (vestiti, giocattoli, oggetti vari e brandizzazioni di cibo e bevande)»9. Non si tratta di aspetti accessori ma di ciò che ha reso questi film delle imprese commerciali e finanziarie decisive sia per Hollywood che per la carriera di Steven Spielberg, regista associato a una strabiliante capacità di convertire dei fenomeni culturali in merce. Spielberg ha in tal senso giocato un ruolo storico fondamentale nel riconoscimento delle strategie di marketing e della serializzazione quali principi organizzativi imprescindibili dell’industria dell’entertainment. Allo stesso tempo, ha costruito attorno a sé un’identità creativa ben definita in termini registici, ma anche molto ampia ed elastica. Riflettendo sui significati del termine “spielberghiano”, Peter Krämer evoca ad esempio l’esperienza altamente spettacolare del blockbuster, il fantastico, la celebrazione dell’infanzia e dell’adolescenza, la predilezione per l’America suburbana, la nostalgia del cinema del passato, l’idealizzazione della famiglia, la capacità di parlare a un pubblico vasto e trasversale10 (si possono aggiungere, il tema del “volo”, già evidenziato nell’analisi di La Polla e immortalato nel logo della Amblin, la riscrittura della storia americana attraverso l’immaginario del cinema popolare). Spielberg, d’altro canto, porta nelle sue opere «il ricordo dei film che ha amato da bambino»11 e in tal senso può anche essere considerato come l’archetipo del film fan, un fan che celebra il cinema e il suo immaginario in modi non meno sofisticati dei grandi autori della storia del cinema (come ricorda anche Paolo Bertetto nella presentazione di questo volume). Siamo insomma di fronte a un’identità creativa che fa propria una concezione molto estesa di «ciò che Hollywood era e ciò che Hollywood è»12. Tale identità si è definita nel tempo anche dentro la complessa rete di operazioni produttive riconducibili a Spielberg. Negli anni ottanta e novanta, la Amblin produce film di genere avventurosofantastico, orientati anzitutto su adolescenti e famiglie che, da un lato, usufruiscono dell’“effetto Spielberg” ma, allo stesso tempo, rafforzano l’identità del suo cinema: Gremlins (Id., J. Dante, 1984), The Goonies (I Goonies, R. Donner, 1985), Who Framed Roger Rabbit (Chi ha incastrato Roger Rabbit, R. Zemeckis, 1988), Back to the Future (Ritorno al futuro, R. Zemeckis, 1985) non solo ruotano tutti attorno a temi e motivi spielberghiani ma vedono sempre un suo coinvolgimento più o meno evidente. Gremlins ad esempio è un progetto interamente assemblato da Spielberg, qui nelle vesti di produttore esecutivo – così come Poltergeist (Poltergeist - Demoniache presenze, T. Hooper, 1982), che secondo vari critici e studiosi è anche in gran parte da lui diretto nonostante non sia accreditato nella regia; la sceneggiatura di Chris Columbus per The Goonies nasce da una storia scritta da Spielberg, Back to the future fu scartato da varie

società prima di essere acquistato da Spielberg, mentre nel caso di Who Framed Roger Rabbit, la sua mediazione fu decisiva per trovare un accordo con la Warner e utilizzare Bugs Bunny e Daffy Duck nel film di Zemeckis. Allo stesso tempo, un film come Twister (Id., J. De Bont, 1996), prodotto dalla Amblin a partire da un’idea di Michael Crichton, diventa quasi un rifacimento in chiave “tornado” di Jurassic Park. La nascita della Dreamworks incrementa questa logica. Da un lato, Spielberg produce e dirige Saving Private Ryan (Salvate il soldato Ryan, 1998), rilancia il war movie dentro un nuovo modello di regia e trasforma il film in un evento culturale decisivo; dall’altro, il suo nome è usato per promuovere Flags of our Fathers (Id., 2006), diretto da Clint Eastwood, co-prodotto da Amblin e Dreamworks e chiaramente derivato dall’immaginario bellico ridefinito da Saving Private Ryan. Allo stesso tempo, Saving Private Ryan conduce alla mini-serie televisiva Band of Brothers (Id., 2001), prodotta da Steven Spielberg e Tom Hanks in collaborazione con HBO, in cui seguiamo le vicende di una compagnia della 101esima divisione aviotrasportata dell’esercito americano lungo tutta la sua campagna europea tra il 1944 e il 1945; l’“effetto Spielberg” si estende quindi alla serie Netflix, Five come back (Id., 2014), sul coinvolgimento dei registi di Hollywood durante la Seconda guerra mondiale, dove Spielberg ripercorre le orme di William Wyler. Lo stesso discorso vale evidentemente per la relazione tra Schindler’s List (Schindler’s List - La lista di Schindler, 1993) e i documentari sulla Shoah prodotti dal regista. Il brand Spielberg emerge quindi all’incrocio di un sistema di operazioni produttive, regie e in una rete di relazioni, rimandi e collaborazioni che definiscono il complesso di significati e valori che egli incarna agli occhi del pubblico. D’altro canto, anche limitandoci alla cifra artistica del suo lavoro – una regia strutturata attorno a virtuosismi stilistici, una spiccata immaginazione visiva, il gusto per la sperimentazione tecnologica e il racconto classico – non possiamo non inquadrarla dentro un insieme che comprende almeno lo stretto rapporto con l’Industrial Light and Magic, l’azienda che a partire dagli anni settanta ha rivoluzionato il mondo degli effetti speciali, e la collaborazione con John Williams, la più lunga nella storia del cinema tra un regista e un compositore, con cui Spielberg ha ripreso e rinnovato la grande tradizione sinfonica della musica da film della Hollywood classica, non esitando peraltro in varie occasioni ad attribuire a John Williams gran parte della riuscita dei suoi film13. NEW HOLLYWOOD

Spielberg occupa un ruolo ambivalente nel contesto del cinema americano dei primi anni settanta, sia in virtù del suo rapporto con l’establishment di Hollywood, sia per la distanza rispetto alle pose tipiche della controcultura americana del periodo, sia per la sua specifica attitudine a sentirsi più l’erede di Capra, DeMille e Ford che delle rivoluzioni innescate dalla Nouvelle Vague nel corso degli anni sessanta. Mentre gli altri registi americani del periodo – i cosiddetti movie brats, una generazione di filmmaker uniti da una grande passione per il cinema che diede nuovo impulso a Hollywood facendo uscire gli studios dalla lunga crisi in cui versavano dalla metà degli anni cinquanta – facevano propria l’idea europea di auteur e del film come prodotto specifico della creatività individuale del regista, Spielberg sembrava più che altro affascinato dalla possibilità di mettersi al servizio dell’industria e di generi come l’avventura o la fantascienza. Il termine, movie brats, si è diffuso sulla scia del libro di Michael Pye e Linda Myles (The Movie Brats: How the Film Generation Took Over Hollywood)

pubblicato inizialmente in Inghilterra nel 1979. Tra i registi inclusi nella loro analisi, Spielberg era l’unico a non avere frequentato una film school o corsi di cinema all’università. Respinto alla University of Southern California for Film Studies, ripiegò sullo studio della letteratura inglese presso l’università statale. Come ricordano Pye e Myles, divenne uno studente di cinema autodidatta guardando i film alla televisione, ogni genere di film, fino a notte fonda, dai classici di Hollywood ai film europei, «memorizzando nomi, volti, movimenti di macchina, credits»14. Non si tratta solo di un dettaglio biografico, ma di un dato che permette di mettere meglio a fuoco la sua specificità nella New Hollywood. La formazione televisiva (attraverso il fondamentale apprendistato presso gli Universal Studios) diventerà un tassello decisivo nella creazione del mito di Spielberg come regista dell’immaginario popolare e maestro dell’entertainment. Mentre gli altri movie brats provenivano dai circuiti alternativi della cinefilia più intellettuale e affrontavano Hollywood da outsider, Spielberg, che a ventidue anni aveva firmato un contratto con la Universal per dirigere serial televisivi, era a tutti gli effetti una creatura del sistema hollywoodiano. Un filmmaker allevato dagli studios, scoperto, consigliato e protetto da vari mentori d’eccezione, come Sid Sheinberg della Universal, che lo avvierà alla carriera di regista, Steve Ross, CEO della Warner, con cui realizzerà undici lungometraggi e due serie televisive, e Lew Wasserman, l’uomo di gran lunga più potente e influente di Hollywood a partire dagli anni sessanta, responsabile del rilancio dell’industria del cinema americano dopo il crollo dello studio system e tassello decisivo dell’operazione Jaws. «Sono stato influenzato più da dirigenti come Sid Sheinberg e da produttori come Zanuck», dirà Spielberg, «che non dai miei coetanei degli anni settanta. Mi sentivo più un figlio dell’establishment che non un prodotto della University of Southern California o della NYU o della cricca dei protetti di Francis Ford Coppola»15. Se Duel (Id., 1971) e soprattutto The Sugarland Express (Sugarland Express, 1974) rientrano nella logica produttiva della New Hollywood, Jaws è invece uno spartiacque decisivo nella storia del cinema americano, legato anzitutto alla «scoperta – alla fine di quel week-end di giugno del 1975 in cui invase i cinema di tutto il paese – che un film poteva incassare circa quarantotto milioni di dollari in tre giorni»16. Jaws spiana la strada a un nuovo continente chiamato blockbuster: inediti modelli distributivi, marketing aggressivo e possibilità di generare introiti sin lì impensabili attraverso lo sfruttamento dei diritti nei mercati ancillari (con il giro di affari del merchandising del film che superava gli incassi delle sale). D’altro canto, Jaws e Star Wars (Guerre stellari, G. Lucas, 1977) riaffermano la forza del racconto classico e rilanciano la musica d’orchestra nelle colonne sonore, in un momento in cui si utilizzavano soprattutto brani rock per intercettare il pubblico giovanile. Dopo questi due film, e dopo il disastro economico del film di Michael Cimino, Haven’s Gate (I cancelli del cielo, 1980), che porterà la United Artists sull’orlo della bancarotta, le ragioni dell’establishment di Hollywood saranno, com’è noto, rimesse al centro del sistema. Se quindi, insieme a Scorsese, Coppola, Brian De Palma e Robert Altman, Steven Spielberg è associato alla rivoluzione cinematografica dei movie brats, dall’altro, insieme a George Lucas, è considerato l’artefice dell’ideologia dell’entertainment17 che verrà celebrata negli anni ottanta, decennio caratterizzato dal trionfo dei grandi blockbuster e dalla nostalgia per l’America degli anni cinquanta, ben incarnata dalla presidenza Reagan e dal successo di un film come Back to the future. Nel consolidamento dei processi di ibridazione tipici del postmoderno, secondo la lettura che ne ha dato Frederic Jameson18, gli anni ottanta

affermano il definitivo superamento della dicotomia tra arte e industria e la riconversione di ogni settore dello spazio pubblico in spazio mediatico; in tal senso, la logica del cinema di Spielberg e Lucas, il loro euforico riciclo del cinema del passato nella chiave della nostalgia e dell’entertainment, definisce assai bene l’affermazione di questi processi. Quello che William Goldman chiamava «l’ecosistema LucasSpielberg»19 o, in modo più sprezzante, Robin Wood apostrofava come la «sindrome Lucas-Spielberg», cioè il dominio di un cinema fondato sulla «regressione infantile dello spettatore»20, diventerà agli occhi della critica l’antitesi di tutto ciò che aveva caratterizzato la Hollywood renaissance negli anni settanta. Come vedremo meglio più avanti, questa condanna morale peserà a lungo sulla reputazione e sulla valutazione del cinema di Steven Spielberg. OLD HOLLYWOOD

A proposito dei film che hanno influenzato Raiders of the lost Ark, Spielberg cita The Treasure of Sierra Madre (Il tesoro della Sierra Madre, J. Huston, 1948); The Adventures of Don Juan (Le avventure di Don Giovanni, V. Sherman, 1948); Only Angels Have Wings (Avventurieri dell’aria, H. Hawks, 1939) e, ovviamente, Casablanca (Id., M. Curtiz, 1942). Dall’elenco manca almeno Secret of the Incas (Il segreto degli Incas, J. Hopper, 1954) con Charlton Heston modello di riferimento per la costruzione del personaggio di Indiana Jones, interpretato da Harrison Ford. Siamo nel cuore del cinema classico hollywoodiano, dei suoi valori tradizionali, dei suoi eroi maschili, come Humphrey Bogart, Errol Flynn, Cary Grant. La classicità hollywoodiana e la cifra oldfashioned del cinema americano è certo una delle chiavi di lettura più utili per comprendere il lavoro di messa in scena di Steven Spielberg: da un lato, la sua regia si muove nel solco di quella intensified continuity che secondo David Bordwell definisce la portata spettacolare, ipertecnologica e, appunto, intensiva degli sviluppi contemporanei dello stile classico, fondato sulla linearità e la trasparenza; dall’altro, soprattutto nei più recenti film a tema storico – Lincoln, Bridge of Spies (Il ponte delle spie, 2015), The Post (Id., 2017) – emerge invece con forza la dimensione sempre più rarefatta di un linguaggio ridotto ai suoi termini elementari, come in un ritorno alle strutture essenziali del film classico americano. Rivisitando alcuni celebri studi sulla classicità hollywoodiana, a partire dal fondamentale lavoro di Bordwell, Staiger, Thompson21, Veronica Pravadelli ha sottolineato come tale forma classica non sia qualcosa di statico o impermeabile alle trasformazioni socio-culturali, ma al contrario trovi la sua forma più compiuta in un momento storico preciso, vale a dire nella produzione tra la seconda metà degli anni trenta e gli anni quaranta e in generi come la commedia sofisticata e il film di avventura22. Nel caso di Spielberg, i vecchi film di Hollywood funzionano sia come canone di scrittura e regia, sia come orizzonte di dialogo con lo spettatore. Gran parte del fascino del cinema spielberghiano si fonda cioè sulla sua capacità di riattivare nel pubblico la memoria dei classici di Hollywood, ovvero di «ricordare agli spettatori quanto essi amano questi film e quest’epoca della storia del cinema»23. Non si tratta solo della lunga sequela di citazioni e omaggi che costellano la sua filmografia, a volte anche con una complessa costruzione narrativa – come il celebre gioco di specchi tra The Quiet Man (Un uomo tranquillo, J. Ford, 1952) ed E.T. nella scena delle rane – ma di una costante verifica, per così dire, della tenuta della forma classica, della sua capacità di continuare a catturare gli spettatori man mano che il peso e lo spazio occupati dal

cinema nella società diminuiscono. Una verifica particolarmente evidente nel caso dei film a tema storico, che in tal senso si offrono come una riflessione sul profondo intreccio etico, morale e politico che lega i valori della democrazia americana uscita trionfante dalla Seconda guerra mondiale e le forme del cinema hollywoodiano. Anche per questo i riferimenti all’immaginario bellico costruito dal cinema americano sono così frequenti in Spielberg: dai vecchi aeroplani ritrovati nel deserto su cui si apre Close Encounters of the Third Kind (Incontri ravvicinati del terzo tipo, 1977) a Saving Private Ryan, da 1941 (1941 - Allarme a Hollywood, 1979) a Schindler’s List, passando per Raiders of the Lost Ark, Empire of the Sun (L’Impero del sole, 1985), Indiana Jones and the Last Crusade (Indiana Jones e l’ultima crociata, 1989), Always (Id., 1989) e le serie prodotte per HBO e Netflix. La matrice ebraica di Spielberg, emersa con forza nello spazio pubblico a partire dall’operazione Schindler’s List, è anch’essa un’altra chiave di accesso utile per interpretare la dimensione simbolica di alcuni temi specifici (l’assenza della figura paterna, il “ritorno a casa”), ma più in generale un’eco religiosa da Vecchio Testamento riletta lungo lo sconfinamento del fantastico nel trascendente come in Raiders of the Lost Ark, E.T. e, soprattutto, Close Encounters, vero centro di gravità della sua opera, come già notavano alcuni recensori dell’epoca (in particolare, Oliver Eyquel su «Positif»24). Ma il punto essenziale è sempre la comune base cinematografica di tutti questi riferimenti: per Spielberg il monte Sinai del secondo Libro dell’Esodo o la montagna della Paramount su cui si apre Raiders of the Lost Ark, o quella da cui scende Charlton Heston con le tavole delle Legge in The Ten Commandments di DeMille o la Devil’s Tower di Close Encounters si muovono lungo la stessa catena di associazioni simboliche e cinematografiche. Non a caso, come ripeteva spesso ai compagni di scuola, il suo sogno era di diventare il «Cecil B. DeMille della science-fiction»25. Secondo Frederick Wasser, che al cinema di Spielberg ha dedicato un corposo studio di taglio socio-culturale, analizzando la sua parabola artistica in rapporto alle trasformazioni dell’America del dopoguerra, «sin dall’inizio, Spielberg riprende il patrimonio di storie della Hollywood classica (l’avventura, l’uomo accusato ingiustamente, il romance) ma nel corso degli anni ottanta, con le trasformazioni e l’erosione delle istituzioni pubbliche, le sue storie iniziano a prendere una vena via via sempre più realistica, facendo del film storico il luogo di rielaborazione dell’agenda politica americana»26. Allo stesso tempo, film come Minority Report (Id., 2002) o The Terminal (Id., 2004) si offrono sia dentro i codici di genere (la science-fiction, la favola alla Frank Capra), sia come trasparenti allegorie dell’America post 11 settembre, dei confini tra libertà e sicurezza, dei paradossi dei regimi di sorveglianza e dei dilemmi delle società aperte, senza per questo scadere nel “messaggio” e nelle forme del “film a tesi”, anche perché, come ricordava Alfred Hitchcock, «un regista non ha nulla da dire, deve solo mostrare»27, un principio cardine del cinema hollywoodiano, particolarmente valido per Spielberg. Close Encounters of the Third Kind può essere così considerato come la quintessenza del cinema spielberghiano, sia per i temi e l’ambientazione (le persone comuni travolte da circostanze straordinarie, l’America di provincia della classe media), sia per i riferimenti cinefili (citazioni da Hitchcock, John Ford, Walt Disney, la presenza di Truffaut), sia per la centralità della mediatizzazione del reale (l’immagine televisiva della Devil’s Tower che innesca la parte finale del racconto), sia per la capacità di trattare la musica di John Williams come un “personaggio chiave” (l’elemento per

comunicare con gli alieni), sia, infine, per la cifra religiosa, archetipica, che pervade tutto il film, con l’immaginario della science-fiction che sembra scaturire dall’America di Emerson, Whitman, Thoreau e dalla loro concezione della natura come forza benefica. Close Encounters è insomma un film in cui, come notava Franco La Polla, «Spielberg fa dell’irrazionale non tanto il veicolo di un’allegoria o di un apologo, ma la sostanza stessa di una vera e propria visione del mondo»28. Non a caso, Nigel Morris costruisce gran parte della sua analisi attorno al tema della luce partendo proprio da Close Encounters, la cui locandina (la strada sotto un cielo di stelle che sfreccia nel deserto verso la Devil’s Tower in Wyoming) campeggia anche nella copertina del libro di Frederick Wasser. SPIELBERG E LA POLITICA DEGLI AUTORI

Un’indagine sui rapporti tra Spielberg, la critica e i film studies, costruita attorno all’analisi della ricezione dei suoi film, meriterebbe un lavoro a parte (lavoro che è stato fatto su alcuni singoli casi, come Jaws e Schindler’s List)29. Tuttavia, può essere utile provare qui a ricostruirne le tappe principali. Anzitutto, l’ascesa di Steven Spielberg coincide con alcune grandi trasformazioni delle funzioni della critica cinematografica nello spazio pubblico, che in parte proprio il caso Spielberg contribuisce ad accelerare. I suoi film diventano ben presto l’emblema di una nuova autorialità che andrà letta nella doppia chiave della responsabilità artistica “interna” al film e di quella manageriale, “esterna”, legata cioè al controllo del marketing, della distribuzione, degli accordi finanziari principali30. Ancorata a un’idea di autore di taglio romantico, modellata sulla letteratura, la critica più radicale si trova così a ingaggiare un lungo duello ideologico, politico, estetico con i grandi blockbuster degli anni ottanta. Se dopo i primi due film, Duel e Sugarland Express, Spielberg viene salutato come una giovane promessa del nuovo cinema americano degli anni settanta, in seguito al successo di Jaws inizia a essere visto con sospetto, diventando ben presto l’incarnazione di «tutto ciò che c’è di sbagliato nel cinema americano»31 (sentimentalismo, infantilismo, marketing, profitti da capogiro, invasione del mercato internazionale). Di fronte a un evento mediatico della portata di Jaws, la critica dedita a un lavoro di scoperta e valorizzazione di film “marginali” non soltanto perde terreno, ma si trova costretta a ridefinire radicalmente i propri strumenti concettuali. Per comprendere il fenomeno blockbuster – dove il film si trova all’incrocio di una serie estremamente diversificata di investimenti – bisogna dotarsi di nuove competenze e soprattutto fare i conti con l’analisi del box-office; ma più forte appare la logica del rifiuto, dell’indice accusatore puntato contro l’involgarimento del gusto del pubblico degli anni ottanta (decennio ancora largamente incompreso dagli studi sul cinema). Agli occhi della critica di area marxista, Jaws diventa un caso emblematico di «manipolazione ideologica americana», fondato sulla regressione infantile dello spettatore e la riaffermazione della logica industriale di Hollywood dopo la rivoluzione culturale degli anni sessanta. D’altro canto, Jaws è anche uno dei primi blockbuster a essere preso sul serio dalla teoria del cinema. La possibilità di analizzare su prestigiose riviste accademiche l’ideologia di un film campione d’incassi coincide con il clima di iper-politicizzazione dell’epoca, ma anche con la progressiva istituzionalizzazione dei film studies nelle università americane. Jaws diventa così un sintomo esemplare della reificazione della cultura di massa, come recita il titolo di un celebre saggio di Fredric Jameson che, anche attraverso la lettura del film di Spielberg, elabora le prime ipotesi della sua teoria sul postmoderno dove si mette in

crisi l’opposizione schematica tra cultura alta e cultura di massa32. In ogni caso, come abbiamo già avuto modo di vedere, insieme a George Lucas, Spielberg è ritenuto responsabile della fine della New Hollywood, l’artefice dello schiacciante dominio del film blockbuster, il simbolo di un entertainment da adolescenti, basato sul primato della tecnologia, degli effetti speciali e di generi di evasione, come la science-fiction o l’adventure movie poco adatti alla legittimazione culturale. Negli anni ottanta, eroi spielberghiani come Indiana Jones vengono quindi visti quali icone emblematiche dei valori conservatori promossi dall’agenda di Ronald Reagan, eletto quarantesimo presidente degli Stati Uniti il 4 novembre del 1980; Spielberg sarà presto etichettato come regista “di destra”, salvo poi diventare in seguito, almeno a partire dall’amministrazione Clinton (1992-2001), un’icona liberal. La contrapposizione tra film blockbuster e film di taglio più autoriale ha poi funzionato a lungo come una pietra angolare nel quadro delle letture del cinema di Spielberg. Ad esempio, nel volume di Franco La Polla (che pure resta uno dei lavori migliori nella scarna bibliografia italiana), Duel è un film che «permette di qualificare Spielberg come autore», attraverso una serie di temi e motivi specifici del suo cinema, come «il contrasto tra natura e cultura, spesso incarnato in quello tra irrazionale e tecnologia, l’importanza centrale dell’avventura, lo scarto mitologico delle componenti della storia, una forte presenza ironica anche nei momenti più tesi»33; al contrario, Raiders of the Lost Ark, «può anche rivelare alcune tendenze tipicamente spielberghiane ma non per questo ha il diritto di salire al rango di opera», è «impossibile leggerlo in termini estetici» e «non c’è politique des auteurs che possa salvare sul versante estetico un film come questo, perfetta dimostrazione di ciò che divide l’arte dalla tecnica»34; giudizi lapidari che risentono dell’idealizzazione politica ed estetica della New Hollywood degli anni settanta in opposizione al cinema americano degli anni ottanta. La trasformazione dell’immagine pubblica di Spielberg prende forma nel corso degli anni novanta. L’idea che il re dell’entertainment potesse essere preso sul serio iniziò a diffondersi sulla scia di Schindler’s List e Saving Private Ryan, eventi mediatici che collocavano Spielberg dalle parti di un cinema non riconducibile alla logica dell’evasione. Anche The Color Purple (Il colore viola, 1985) e Empire of the Sun, apparentemente distanti dall’impianto classico del cinema spielberghiano, erano andati nella direzione di una sensibilità storica e civile (la segregazione razziale in The Color Purple, gli orrori della guerra e la bomba atomica in Empire of the Sun) ma erano rimasti film privi di risonanza pubblica e ben distanti dalle performance al botteghino legate al nome di Spielberg. Tutto cambia con il successo di Schindler’s List. A uno Spielberg adolescente subentrava uno Spielberg adulto, al campione del box-office, un regista da Oscar che in quel momento metteva in scena la storia americana o il punto di vista americano sulla storia. L’immagine dell’eterno adolescente statunitense, un nerd amante dei videogame e degli effetti speciali, lasciava il posto al regista maturo che a partire da Schindler’s List rivendicava con orgoglio la propria identità ebraica. Molti critici si eserciteranno in un’analisi allo specchio fra la trasformazione del personaggio di Oskar Schindler nel film – un cinico businessman che diventa un benefattore – e quella di Spielberg che abbandona le ragioni dell’entertainment in favore di temi e battaglie etiche e civili. Ma la distinzione tra uno Spielberg “profondo” e un altro da blockbuster, tra film d’evasione e titoli impegnati, è oltremodo fuorviante. Jurassic Park e Schindler’s List escono a pochi mesi di distanza tra il giugno e il novembre del 1993. Media e giornali

diffondono l’immagine di Spielberg che in Polonia gira il film su Oskar Schindler calandosi nei luoghi della vicenda e nella cupa atmosfera di Auschwitz ma, contemporaneamente, cura a distanza il montaggio di Jurassic Park. È un’immagine che definisce assai bene non solo la cifra eclettica del regista e la sua attitudine ad alternare progetti molto diversi tra loro, ma anche la capacità di lavorarci (e promuoverli) più o meno contemporaneamente, secondo uno schema che si ripeterà con The Post e Ready Player One, distribuiti tra dicembre 2017 e marzo 2018. L’idea di una profonda continuità stilistica tra tutti i film di Spielberg, apparentemente così diversi per generi e temi, è ben riassunta nel videoessay di Kevin B. Lee, The Spielberg Face, pubblicato inizialmente su Fandor nel 2011 e ispirato a un saggio fotografico di Matt Patches, The Spielberg Face: A Legacy. Divenuto virale grazie all’eco di testate prestigiose, il saggio di Kevin B. Lee è una formidabile riflessione sulla potenza espressiva del close-up nella regia di Spielberg, sulle valenze metaforiche di quello stupore impresso nello sguardo di personaggi ripresi in primo piano, enfatizzati da un movimento di macchina, raggelati da qualcosa di incredibile o mostruoso che improvvisamente è lì di fronte a loro35. La “Spielberg face” diventa un segno decisivo dello stile di Steven Spielberg, una firma in cui si esprime la sua idea di cinema centrata sull’emozione dello spettatore, un motivo ricorrente capace di tenere insieme gli alieni, i dinosauri, i nazisti o Richard Nixon. Un segno capace di sintetizzare la forza del rapporto “classico” tra il film e il suo spettatore. Non è un caso che attorno al cinema di Spielberg si sia sviluppata negli ultimi anni una corposa produzione di video-essay prodotti in gran parte fuori dal circuito della critica ufficiale e degli studi accademici. Si vedano ad esempio, Magic and Light: The Films of Steven Spielberg, video-essay diviso in cinque parti realizzato da Matt Zoller, Steven Santos e Aaron Aradillas nel 2011; The Passions and Technique of Steven Spielberg, di Steven Benedict (2012); Steven Spielberg Shot By Shot, un’analisi di Jaws di Antonios Papantoniou (2015); The Spielberg Touchscreen di Ken Provencher (2017), tutti visibili su YouTube o Vimeo. Anche per questo si è scelto di inserire nella bibliografia di questo volume una voce dedicata al videographic criticism. Non è azzardato insomma affermare che Spielberg è forse il primo cineasta la cui letteratura critica è stata notevolmente arricchita e innovata dalla prospettiva dei video-essay. Indubbiamente, il fenomeno ha riguardato in molti casi l’inedita possibilità per il fandom del regista di prendere la parola in opposizione agli schemi della critica ufficiale, ma nel complesso gli strumenti del video-essay e il dialogo con le immagini e tra le immagini sembrano ideali per analizzare un cinema così ricco di suggestioni tecniche e stilistiche come quello di Steven Spielberg. SPIELBERG E DISNEY

Quella di Spielberg è una traiettoria esemplare della prima generazione di filmmaker americani cresciuta con la televisione, con i programmi dei tre network, CBS, NBC, ABC e i film degli studios trasmessi in tv. L’immagine televisiva è d’altro canto un ulteriore elemento ricorrente nel cinema di Spielberg e, ad esempio, in Catch Me If You Can (Prova a prendermi, 2002) – film peraltro dalle forti risonanze autobiografiche, nonostante sia ispirato alla vicenda del falsario Frank Abagnale – tutte le identità fittizie del personaggio interpretato da Leonardo Di Caprio sono assunte studiando i personaggi dei vecchi telefilm. Ma la tv americana di quegli anni si caratterizza soprattutto per il rilancio del marchio Disney. A metà degli anni cinquanta, Disney

intensifica l’investimento negli show televisivi già sperimentato in apertura del decennio con uno speciale realizzato su commissione per la NBC (One Hour in Wonderland), producendo varie serie per il network ABC (Disneyland, 1954-1961; The Mickey Mouse Club, 1955-1959; Zorro, 1957-1959) allo scopo di finanziare il progetto del suo primo parco a tema. La strategia messa in atto da Disney rappresenta una delle prime forme di cross-media marketing aggressivo, in cui la tv diventava il mezzo di promozione sia dei lungometraggi Disney che del parco a tema. A loro volta, gli show televisivi, i film e il parco erano utilizzati in funzione del merchandising e dei prodotti ancillari (anticipando quindi la strategia di fondo che verrà utilizzata nella produzione dei grandi blockbuster). Secondo Frederick Wasser, l’ideologia Disney, assimilata attraverso la televisione, è una delle influenze più marcate della formazione di Spielberg, dove anzitutto prende forma la sua specifica ambizione a catturare una audience globale ed eterogenea36. La vastità dell’impresa Disney, che da un lato si colloca nel cuore della storia e dell’identità americana e dall’altro rappresenta un modello insuperato di business ramificato in tutti i settori dell’entertainment, dai giocattoli ai parchi a tema, è certo un ulteriore riferimento assai utile per comprendere l’idea di cinema di Spielberg. L’influenza di Disney funziona infatti a vari livelli e include sia la fascinazione spielberghiana per il sogno, il fantastico, la libertà dell’infanzia, sia la logica di mercato su vasta scala e l’integrazione del prodotto cinematografico in una rete sempre più ampia di operazioni imprenditoriali. Possiamo citare anzitutto il caso della Amblimation, reparto di animazione della Amblin attivo dal 1991 al 1995, poi confluito nella Dreamworks, fortemente voluto da Spielberg, che svilupperà i film della serie Fievel, seguiti al capostipite della saga, An American Tail (Fievel sbarca in America, D. Bluth, 1986). Alla Dreamworks Animation, Spielberg proporrà di rifare, in versione animata, The Ten Commandments di DeMille (I dieci Comandamenti, 1923; 1956); un’idea che sarà poi alla base dello sviluppo di The Prince of Egypt (Il principe d’Egitto, B. Chapman, S. Hickner, S. Wells, 1998). Ma l’animazione rappresenta un riferimento costante in tutto il cinema di Spielberg, qualcosa che va al di là dei film animati prodotti o diretti da lui stesso. Citazioni e omaggi al mondo dei cartoni animati sono sparsi in quasi tutta la filmografia spielberghiana: la sequenza di Road Runner in Sugarland Express; Pinocchio in Close Encounters of the Third Kind, citato anche nella colonna sonora di John Williams che riprende il tema di When You Wish Upon a Star verso la fine del film; la visione tra le lacrime di Dumbo in 1941; E.T. che guarda Tom & Jerry nella televisione in salotto. Persino Duel, il suo lungometraggio d’esordio, un road movie di pura suspense costruito come un thriller a inseguimento, richiama sin dagli scenari western le dinamiche di Wile E. Coyote e Road Runner (“Bee Beep”), il cartone della serie Looney Tunes prodotto dalla Warner Bros. che, in seguito al successo del film di Spielberg, realizzerà una parodia con gli stessi veicoli utilizzati in Duel, ma guidati in questo caso dai cuccioli di Wile E. Coyote e Bee Beep. «Se Walt Disney è stato il primo animatore che mi ha insegnato a volare nei miei sogni, Chuck Jones è stato quello che mi ha permesso di prendermene gioco», scrive Spielberg nella prefazione all’autobiografia del padre dei cortometraggi animati Looney Tunes e Merry Melodies37. Nel 1978, dopo l’uscita di Close Encounters, invitato a un ciclo di seminari dell’American Film Institute, Spielberg confessava tutta la sua profonda ammirazione per Disney e il cinema d’animazione in generale, spiegando non soltanto che tra

l’animazione e il cinema non c’è alcuna differenza ma che proprio nei disegni animati si esprime al meglio l’idea di immaginazione visiva che alimenta il lavoro della regia; come ebbe modo di dire in quell’occasione: «All directors should be animators first»38. Se già William Goldman definiva i film di Spielberg e Lucas degli anni ottanta, «comicbook movies», sottolineando l’influenza del mondo dei fumetti e dell’animazione per la costruzione del loro immaginario, Chris Pallant e Steven Price39 studiano gli storyboard di Spielberg in riferimento sia al modello produttivo di Hitchcock che, ovviamente, al caso Disney. Warren Buckland, d’altro canto, analizza il modello di regia dei blockbuster di Spielberg dando grande enfasi alla sua specifica armonia formale, alla costruzione di rime visive e a una generale concezione grafica dell’inquadratura, tutte caratteristiche che rimandano al mondo dell’animazione, a quell’intreccio di tecnica/tecnologia e magia specifico dell’immaginario spielberghiano. Sono questi d’altronde i tratti dell’opera di Walt Disney che avevano destato l’ammirazione di Ejzenštejn, il quale, com’è noto, la definiva, «il più grande contributo del popolo americano all’arte del XX secolo»40 («sembra che quest’uomo non conosca solo la magia di ogni mezzo tecnico», scriveva il regista russo nei suoi appunti su Disney, «ma sappia anche agire sulle corde più segrete dei pensieri, delle immagini mentali e dei sentimenti umani»)41. Da questo punto di vista, Spielberg può essere considerato come la sintesi più compiuta tra due grandi forme della storia del cinema americano: da un lato l’immaginario del sogno disneyano e la celebrazione dell’infanzia; dall’altro la suspense hitchcockiana, cioè il gusto per l’azione e il controllo assoluto della tensione spettatoriale. Come disse Steve Jobs in una lettera inviata agli azionisti della Pixar nel 1997: «Noi crediamo che ci siano soltanto due veri brand in tutta l’industria del cinema, Disney e Spielberg. Vorremmo che la Pixar fosse il terzo»42.

Il cinema di Steven Spielberg: epoche, generi, forme di Francesca Cantore I CORTI, LA TELEVISIONE E GLI ANNI SETTANTA

Amblin’ (Id., 1968), il primo cortometraggio professionale realizzato da Steven Spielberg con un finanziamento di circa quindicimila dollari, si apre con l’immagine di un plenilunio in un cielo privo di stelle. È un motivo che preannuncia la celeberrima scena con Elliott ed E.T. che volano in sella alla bicicletta con la luna piena alle loro spalle, un’immagine che diventerà il logo della Amblin Entertainment, la casa di produzione fondata da Spielberg, Kathleen Kennedy e Frank Marshall nel 1981, a ridosso dell’uscita del film. Nel corso degli anni, vari critici, studiosi, biografi si sono esercitati a rintracciare nei primi cortometraggi di Spielberg (venti titoli realizzati tra il 1957 e il 1967) le tracce dello stile e dei temi che diventeranno caratteristici del suo cinema. L’attrazione per la fantascienza o l’immaginario della Seconda guerra mondiale dei primi film amatoriali che Spielberg inizia a girare all’età di undici anni, avalla in effetti una lettura di questo tipo. Il discorso riguarda in modo particolare Firelight, del 1964. Con un’operazione che oggi definiremmo di crowdfunding, Spielberg, all’epoca diciassettenne, mette insieme un budget di cinquecento dollari per realizzare un film di fantascienza, a colori, della durata di 135’, di cui cura anche le musiche. Nel marzo del 1964, anticipato da un’amatoriale ma ben congegnata campagna promozionale, Firelight viene proiettato in esclusiva in un cinema locale, il Phoenix Little Theatre, al prezzo di settantacinque centesimi a biglietto e riesce a chiudere in positivo. Quella serata, per il giovane Spielberg, ha il sapore del debutto: il giorno dopo la première si trasferirà con i genitori in California, con il sogno di entrare alla UCLA e di lavorare alla Universal. Il film è andato perduto (restano solo pochi minuti visibili su YouTube1) ma sarà la base su cui tredici anni dopo costruirà Close Encounters of the Third Kind (Incontri ravvicinati del terzo tipo, 1977), il suo primo blockbuster science-fiction, allestito con la stessa febbrile vocazione autoriale dell’adolescenza: non a caso l’unico progetto in cui sia il soggetto che la sceneggiatura, oltre che la regia, sono interamente attribuiti a Spielberg. Sarà tuttavia solo con il successivo Amblin’, storia di un incontro fugace tra due giovani nel deserto che ricalca le atmosfere hippie del periodo, che entrerà in contatto con gli studios. Lo stesso Spielberg dirà che Amblin’ rappresentava uno «tentativo consapevole di entrare nel giro e avere successo dimostrando alle persone di saper muovere una macchina da presa, comporre bene l’inquadratura e occuparsi di illuminazione e performance»2. E infatti il cortometraggio offre già un quadro della promettente immaginazione visiva di Spielberg (la capacità di costruire un racconto riducendo al minimo i dialoghi, ma anche il ricorso, in fase di montaggio, ai cosiddetti graphic match: uno dei segni distintivi della sua regia3). Dopo aver visto Amblin’, Sid Sheinberg, dirigente della Universal, offre a Spielberg un contratto con la MCA-TV, il reparto televisivo dello studio. Nei suoi anni di apprendistato televisivo, Spielberg si costruisce ben presto la fama di un giovane regista efficiente, finendo non di rado le riprese prima del previsto e seguendone personalmente il montaggio. Nonostante la tv non presentasse all’epoca grandi possibilità di mettersi in mostra da un punto di vista creativo, Spielberg prende molto sul serio il lavoro, esplorando tutti i registri del mezzo, ma sempre muovendosi in funzione dei personaggi e della storia. Il talento, unito alla capacità di passare

rapidamente da un contesto all’altro con grande efficacia (dal medical drama di Marcus Welby4, al poliziesco di Colombo5, dal dramma psicologico di The Psychiatrist6, al legal drama di Owen Marshall7) lo mette subito in buona luce agli occhi dei produttori della Universal. Lo studio vede in lui qualcuno di cui potersi fidare e la padronanza tecnica del mezzo e del set gli assicurano il passaggio al lungometraggio con una serie di film televisivi su commissione, Something Evil (Qualcosa di diabolico, 1972), Savage (La famiglia Savage, 1973) e, soprattutto, Duel (Id., 1971). Tratto da uno script di Richard Matheson, nato come film televisivo della settimana per il network ABC, esteso poi al formato cinematografico e distribuito in sala, Duel è a tutti gli effetti un manifesto programmatico del cinema di Spielberg e del suo modello di regia: ritroviamo infatti il tema dell’uomo comune travolto da circostanze straordinarie, la capacità di costruire un racconto di forte impatto visivo, riducendo i dialoghi al minimo, e la suspense di marca hitchcockiana calata dentro un paesaggio da film western, in omaggio al cinema di John Ford. Negli anni settanta, Spielberg alterna titoli più vicini ai canoni libertari e sperimentali della New Hollywood, come The Sugarland Express (Sugarland Express, 1974) e 1941 (1941 - Allarme a Hollywood, 1979), a film come Jaws (Lo squalo, 1975) e Close Encounters of the Third Kind (Incontri ravvicinati del terzo tipo, 1977) che sono già dentro la logica del blockbuster contemporaneo. Se Sugarland Express riprende la dimensione del road movie già avviata con Duel, ma riletta nel quadro narrativo della fuga di due outsider, dunque dentro un orizzonte tematico più vicino al clima della New Hollywood, 1941 resta ancora oggi una delle opere più anomale all’interno della filmografia di Spielberg. I riferimenti più immediati, già evocati dalla critica dell’epoca, sono National Lampoon’s Animal House (Animal House) di John Landis, uscito l’anno prima, e i film di Robert Altman costruiti su più plot narrativi, privi cioè di un personaggio principale. A questi referenti più contemporanei, Spielberg aggiunge il gusto dell’auto-citazione in forma di parodia (la ragazza che entra in acqua di notte sulle note di Jaws in apertura del film), tra riferimenti a Hellzapoppin’ e Dumbo, entrambi del 1941. Se l’immaginario di riferimento è tipicamente spielberghiano (la Seconda guerra mondiale), il contesto della commedia svitata, con momenti da puro musical hollywoodiano, lascia spiazzati sia la critica che il pubblico. Tuttavia, Duel, Sugarland Express e 1941 sono altrettante tappe della messa a punto del modello di regia di Steven Spielberg e soprattutto del suo gusto per la sperimentazione tecnica: la camera car di Duel, la stessa utilizzata per le funamboliche riprese di Bullit (Id., 1968), di Peter Yates; la cinepresa compatta della Panaflex per Sugarland Express e gli innovativi movimenti di macchina di 1941, realizzati con il louma crane, all’epoca ancora in fase di sperimentazione. FANTASY, SCIENCE-FICTION, DISTOPIA

Tra la fine degli anni settanta e gli inizi degli anni ottanta Steven Spielberg continua a dirigere «film per bambini nel senso migliore del termine» – come scrive a proposito di Close Encounters la famosa critica del «New Yorker» Pauline Kael8 – mettendo consapevolmente tra parentesi buona parte delle tematiche sociali e delle sperimentazioni linguistiche perpetrate nel decennio precedente dai registi della New Hollywood. Gli alieni creati da Carlo Rambaldi per Spielberg, infatti, istituiscono una straniante e favolistica opposizione: presuppongono uno stato della tecnica molto più sofisticato di quello umano, che si traduce però in creature dalle fattezze goffe e gentili

come fossero disegnate dalla fantasia di un bambino. Nei film di Spielberg, pertanto, il contatto con l’alterità aliena scioglie definitivamente ogni tensione della fantascienza anni cinquanta-sessanta che caricava l’extraterrestre di una valenza prevalentemente simbolica (le “invasioni degli ultracorpi” o le “cose da un altro pianeta” interpretabili come i correlativi oggettivi della Guerra fredda). E allora: sia per l’uomo comune posto in situazioni straordinarie (come eredità dei maestri Hitchcock e Capra9), sia per il bambino senza padre che incontra un alieno-amico immaginario (come limite ultimo dell’infanzia10), gli umori e le referenze alla Hollywood classica diventano l’interfaccia privilegiata per un contatto sentimentale da re-instaurare a ogni costo (le parole di François Truffaut a proposito del lavoro di Spielberg sul set sono cristalline in tal senso)11. Pur allontanandosi dal prototipo dell’autore riconoscibile nelle ricorrenti marche enunciative di uno stile registico (dalla caméra-stylo della Nouvelle Vague al nuovo cinema di Arthur Penn e successivamente di Scorsese-Coppola-Altman), Spielberg riesce a disseminare nelle sue narrazioni strutturate molte tracce autobiografiche. Abbiamo già accennato alla prossimità di Elliott con l’infanzia del giovane Spielberg, ma anche Close Encounters, in quest’ottica, ci fornisce un esempio interessante, dal momento che la definitiva comunicazione tra gli alieni e gli umani avviene con il campionamento elettronico di una traccia musicale (evidente omaggio al mestiere dei suoi genitori: ingegnere informatico lui, pianista lei). Ulteriore prerogativa del cinema di Steven Spielberg è una cinefilia non meno raffinata di quella dei suoi colleghi e amici della New Hollywood che trapela costantemente nei suoi film: dal corpo iconico di Truffaut che è l’unico a credere sino alla fine al contatto pacifico con gli alieni, sino a The Quiet Man (Un uomo tranquillo, 1952) di John Ford che diventa il portale del definitivo contatto tra Elliott ed E.T. Lirismo-fanciullesco e cinefilia si rintracciano anche nell’episodio di Twilight Zone: The Movie (Ai confini della realtà, 1983), dal titolo Kick the Can (Il gioco del bussolotto) in cui gli anziani di una casa di riposo, grazie al sortilegio del misterioso Mr. Bloom (Scatman Crothers), tornano per poche ore bambini. Il motivo spielberghiano dell’infanzia e dell’eterna giovinezza che prende forma attraverso la figura del bambino che scappa dalla finestra, richiamo evidente al disneyano Peter Pan, si intreccia qui con la nostalgia del cinema hollywoodiano. Non a caso, infatti, l’unico anziano a restare per sempre un bambino è quello appassionato dei film di cappa e spada di Douglas Fairbanks. Questo approccio adolescenziale al fantasy continuerà anche in film come Always (Always - Per sempre, 1989), remake di A Guy Named Joe (Joe il pilota, V. Fleming, 1943) e Hook (Hook - Capitan Uncino, 1991), trasposizione filmica del famoso personaggio creato da J.M. Barrie, e muterà profondamente alle soglie del XXI secolo confrontandosi da un lato con le fobie prodotte da una nuova tecnocrazia informatica – pensiamo ad esempio al futuro distopico di A.I. Artificial Intelligence (A.I. - Intelligenza artificiale, 2001) e Minority Report (Id., 2002) – e dall’altro con i traumi del post 11 settembre 2001 e con i dubbi etici del Patriot Act, di cui la permanenza forzata al JFK di Viktor Navorski in The Terminal (Id., 2004) è una rappresentazione plastica («America is closed», sentiamo nel film). In A.I. l’ossessione kubrickiana dell’uomo interfacciato con gli abissi perturbanti della tecnica diventa, nelle mani di Spielberg, l’ennesimo percorso di crescita per l’androide-bambino David, reso “umano” dal lacerante dolore dell’abbandono. È evidente, dunque, come nel nuovo millennio la fantascienza spielberghiana inizi a mutare di segno con personaggi che sperimentano la morte

(come appunto il protagonista di A.I.) e i lati oscuri della tecnologia e delle istituzioni (Minority Report). I pacifici incontri con gli extraterrestri lasciano ora il posto a vere e proprie invasioni dal carattere apocalittico, passando dalle creature umanoidi di Close Encounters ai minacciosi e aggressivi tripodi di War of the Worlds (La guerra dei mondi, 2005). C’è però un punto di contatto tra la fantascienza favolistica del pre 11 settembre e quella adulta del post 11 settembre: lo sguardo fanciullo del cinema riesce a sopravvivere anche nel nuovo ordine delle cose. Nella Columbus devastata di Ready Player One (Id., 2018), tra le macerie di un nuovo paradigma esperienziale delegato solo alle dinamiche videoludiche di OASIS (nel quale trovare amicizie, amori e persino ogni memoria privata), sarà nuovamente la “stanza di un bambino” a conservare l’easter egg definitivo per finire il gioco e prendersi una pausa dalla realtà aumentata dei mondi simulati. BLOCKBUSTER/FRANCHISE

All’inizio del 1977 George Lucas invita i dirigenti della Twentieth Century Fox ad assistere al primo montaggio di Star Wars (Guerre stellari, 1977) senza effetti visivi e senza la celeberrima colonna sonora di John Williams. Alla proiezione si aggiungono anche alcuni amici e colleghi come John Milius, Brian De Palma e Steven Spielberg. A film concluso i produttori rimangono silenziosi e perplessi, De Palma non lesina commenti ironici e sprezzanti sul film, mentre l’unico che sembra entusiasta è proprio Spielberg, che prevede più di cento milioni di dollari di incasso al botteghino. Pochi mesi dopo, nel maggio dello stesso anno, George Lucas si rifugia alle Hawaii aspettando con ansia i dati del primo weekend di box-office (che saranno, come noto, trionfali). Spielberg lo raggiunge al Mauna Kea Hotel. Anche lui è sotto pressione per la lunga e complessa lavorazione di Close Encounters, e su quella spiaggia i due amici parlano di possibili progetti futuri. Spielberg gli confida il desiderio di girare prima o poi un film di James Bond e Lucas rilancia con una sua vecchia idea coeva a Star Wars: le avventure di un archeologo giramondo alla ricerca di tesori leggendari. È la prima scintilla di un progetto che si concretizzerà solo quattro anni più tardi con Raiders of the Lost Ark (I predatori dell’arca perduta, 1981). La possibilità di lavorare con Lucas e di potersi affidare alla sua casa di produzione (Lucasfilm) permette a Spielberg di aggirare l’iniziale diffidenza degli studios, preoccupati di essere di fronte a un altro flop dopo il clamoroso insuccesso di 1941. In una fase embrionale, il progetto si presentava come un film fatto in fretta e in economia per dimostrare di non aver perso il tocco magico con il box-office. Ciò che si stava profilando all’orizzonte, però, era un accordo definito dallo stesso regista «senza precedenti» perché destinato a cambiare per sempre la sua carriera. La coppia Spielberg-Lucas propone alla Paramount di coprire i costi di produzione e marketing del progetto, rinunciando alle distribution fees (una delle fonti principali di ricavo per le major). Si trattava di una pretesa piuttosto inusuale da parte dei due registi che in più richiedevano di dividere equamente gli incassi netti del film. È per questo che Raiders of the Lost Ark può essere considerato a tutti gli effetti il film che consacra Spielberg anche come produttore. «L’accordo ottenuto per Raiders of the Lost Ark – scrive Thomas Schatz – ha cambiato definitivamente il modo di Spielberg di intendere gli affari e il suo stesso valore come filmmaker»12. Il successo planetario del film fruttò somme ingentissime ai due amici che, solo considerando la produzione e la regia del film, ottennero un milione di dollari a testa anticipati13.

Strappato il rivoluzionario accordo con la Paramount, Spielberg coinvolge nel progetto Lawrence Kasdan come sceneggiatore e, in un’unica riunione insieme a George Lucas, i tre partoriscono la prima bozza del soggetto di Raiders of the Lost Ark. L’idea di partenza era di rendere omaggio ai movie serial – un formato cinematografico molto in voga negli USA tra gli anni trenta e quaranta, principalmente prodotto dalla Republic Picture e dalla Universal (da Flash Gordon a Zorro) – attraverso un film che rinnovasse gli umori del genere, basandosi su un personaggio principale ispirato a icone della Hollywood classica come Cary Grant o Humphrey Bogart. La ricerca dell’attore principale era quindi di fondamentale importanza: Spielberg propone subito Harrison Ford, ma Lucas avanza molti dubbi temendo di legarsi definitivamente a un attore ormai associato al personaggio di Han Solo in Star Wars (e con cui, oltretutto, aveva già lavorato in American Graffiti nel 1973). Dopo diversi provini si giunge a una decisione condivisa: Indiana Smith (ben presto ribattezzato Jones) avrebbe avuto il volto di Tom Selleck. Un accordo sfumato sul nascere, però, per gli impegni dell’attore con la serie tv Magnum, P.I. A questo punto Spielberg torna all’idea originaria e costruisce, insieme alla costume designer Deborah Nadoolman Landis, la celeberrima icona di Indiana Jones direttamente sul corpo di Harrison Ford14. La ricerca dell’Arca dell’alleanza diventa pertanto un macguffin hitchcockiano che rinnova quella dinamica del «cinema della nostalgia» che lo stesso Lucas aveva inaugurato nel decennio precedente: tesori mitici da ritrovare e percorsi a tappe da intraprendere, trappole naturali da evitare e un impero del male (il nazismo) da combattere solo con le armi dell’immaginario popolare. Il viaggio dell’eroe di matrice campbelliana viene riproposto con fanciullesco entusiasmo dalla penna di Lawrence Kasdan che si mette al servizio della passione per i riti antichi di George Lucas, della musica travolgente di John Williams, del ghigno da classic star di Harrison Ford e soprattutto della trasparenza registica di Steven Spielberg che orchestra un dispositivo ludico di rara efficacia. Ma ogni referenza al cinema classico è arricchita negli anni ottanta da un nuovo immaginario tecnologico (inaugurando la riflessione sul filmconcerto15) ed estetico (la riflessione sul pastiche postmoderno16). Un approccio al cinema-popcorn rinnovato nei due previsti sequel della serie: Indiana Jones and the Temple of Doom (Indiana Jones e il tempio maledetto, 1984) si apre con un omaggio al cinema classico hollywoodiano, che celebra le coreografie di Busby Berkeley e nel contempo il gangster movie di Howard Hawks, facendoci conoscere una nuova protagonista femminile (interpretata dalla futura moglie del regista Kate Capshaw) che si esibisce in un club di Shanghai chiamato proprio “Obi Wan”. Una virgola intertestuale che crea un ponte con la gemella saga lucasiana di Star Wars, svelandone ogni intento ludico. Il film, scritto dagli stessi sceneggiatori di American Graffiti, moltiplica le referenze al cinema classico, come farà del resto il terzo episodio scritto da Jeffrey Boam, Indiana Jones and the Last Crusade (Indiana Jones e l’ultima crociata, 1989). Il punto di partenza, questa volta, è il deserto della Moab Area tanto caro a John Ford, dove un giovane Indy (River Phoenix) è alla ricerca della croce d’oro di Coronado. Inseguito da temibili banditi si rifugia in un treno (l’eterna metafora del cinema, dai Lumière in poi) trasportando attrazioni da circo. Ogni motivo narrativo e ogni oggetto feticcio della saga – la frusta, la cicatrice sul mento, la fobia per i serpenti, il cappello Fedora Stetson – trovano origine proprio su quel treno che porta dritti alla casa del padre: Sean Connery/James Bond. La ricerca del sacro Graal avrebbe dovuto segnare l’ultima avventura di Indiana Jones, ma l’inaspettato ritorno del 2007, Indiana Jones

and the Kingdom of the Crystal Skull (Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo) lo metterà addirittura in contatto con gli alieni17. Agli albori degli anni ottanta il successo planetario di Raiders of the Lost Ark e di E.T. riscrive la geografia produttiva hollywoodiana (la blockbuster era) consentendo a Steven Spielberg di produrre agevolmente successi come The Goonies (I Goonies, R. Donner, 1985) e soprattutto la saga di Back to the Future (Ritorno al futuro, 1985; 1989; 1990) che lancia definitivamente Robert Zemeckis come suo erede diretto. Un interesse per la fantascienza di puro intrattenimento che Spielberg confermerà nell’ultimo decennio producendo personalmente la saga dei Transformers (Id., 2007; 2009; 2011; 2014; 2017) di Michael Bay. Siamo alle soglie del fatidico 1993 (analizzato a fondo da Frederick Wasser come anno mirabilis18). Un anno spartiacque nella carriera di Spielberg dove si incontrano le due direttrici più riconoscibili della sua filmografia: la riscrittura immaginaria della storia occidentale, partendo dal trauma per eccellenza del Novecento (Schindler’s List), e il fantastico che si “rimedia” nei nuovi regimi di sguardo creati dalla tecnica, ripopolando le sale con i blockbuster (Jurassic Park). Per quest’ultimo film Spielberg opziona, ancora in bozze, il libro dell’amico Michael Crichton intuendone un potenziale cinematografico molto simile a quello di Jaws. Ma se il film del 1975 era ormai stato elevato dai cinefili di tutto il mondo alla stregua di film arthouse che imponeva le potenzialità perturbanti della soggettiva, lasciando il “mostro” in fuori campo, Jurassic Park doveva sfruttare proprio l’esaltazione dell’effetto in campo (la CGI pionieristica) per attrarre il nuovo pubblico degli anni novanta (non a caso trasferendo diegeticamente la riflessione sul «parco a tema hollywoodiano» che proprio Jaws aveva inaugurato negli Universal Studios). L’inizio di una nuova era, nonché di un fortunatissimo franchise cinematografico che proseguirà con i sequel: The Lost World: Jurassic Park (Il mondo perduto - Jurassic Park, 1997), Jurassic Park III (Id., J. Johnston, 2001) e il nuovo reboot Jurassic World (Id., C. Trevorrow, 2015), cui è seguito nel 2018 Jurassic World: Fallen Kingdom (Jurassic World - Il regno distrutto, J.A. Bayona)19. «AMERICAN HISTORY»

La fine degli anni ottanta segna l’inizio di un rinnovato interesse di Steven Spielberg per i crocevia della storia americana (e, per estensione, occidentale) che hanno messo a dura prova le società democratiche nel corso del Novecento. Un percorso inaugurato da The Color Purple (Il colore viola, 1985) e soprattutto da Empire of the Sun (L’impero del sole, 1987) come primi tentativi di confrontarsi con tematiche più impegnate (dai diritti civili, alle guerre novecentesche). Un interesse culminato ovviamente in Schindler’s List (Schindler’s List - La lista di Schindler, 1993) che diventa da subito il progetto più rischioso di un’intera carriera: da un lato il film più personale – il confronto con la memoria della Shoah e il delicato confine della spettacolarizzazione dell’orrore, ben presto al centro di un dibattito critico a livello mondiale20 –, dall’altro il definitivo ingresso nella Hollywood adulta per il regista dei film per bambini – sette premi Oscar, tra cui la miglior regia. Il percorso nella storia americana continua con Amistad (Id., 1997) che ripercorre il processo successivo all’ammutinamento dei prigionieri africani sulla nave Amistad nel 1839 e che, allo stesso modo di Schindler’s List, verrà accusato di aver ridotto al minimo la centralità delle vittime in favore di una prospettiva spostata su singole personalità in cerca di redenzione (Oskar Schindler nel primo caso e il presidente Quincy Adams nel secondo). Il filone storico continua e si

alimenta alla fine del decennio con Saving Private Ryan (Salvate il soldato Ryan, 1998), un film che nasce come il sentito omaggio di un figlio alla generazione dei padri che hanno combattuto la Seconda guerra mondiale – tra cui, appunto, Arnold Spielberg, i cui contrasti con il figlio sono durati decenni, trovando una riconciliazione proprio con questo film, che Spielberg gli dedica insieme al suo secondo Oscar come miglior regista. Saving Private Ryan incasserà più di quattrocentottanta milioni di dollari in tutto il mondo, creando un’enorme eco soprattutto per la celeberrima sequenza iniziale del DDay. Lo sbarco in Normandia si offre come liminale esperienza fisica e immersiva attraverso il pedinamento del corpo del capitano Miller (Tom Hanks) da parte della mdp. La sequenza, della durata di circa 25’, girata in Irlanda, nella contea di Wexford (paesaggio molto simile a quello della spiaggia francese), è da tutti i punti di vista un film-nel-film: dodici milioni di dollari di budget, undici settimane di preparazione, quindici giorni di riprese e più di mille cadaveri artificiali per ricreare l’inferno visivo e sonoro di quei pochi minuti. Una sorta di piccolo blockbuster anni novanta innestato in un war movie classico. L’interesse di Spielberg per le vicende legate alla Seconda guerra mondiale travalica i confini della regia e si manifesta anche nella produzione, con il dittico di Clint Eastwood Flags of Our Fathers/Letters from Iwo Jima (2006), ma anche le due mini-serie HBO co-prodotte con Tom Hanks: Band of Brothers (Band of Brothers - Fratelli al fronte, 2001), a tutti gli effetti uno spin-off di Saving Private Ryan; e The Pacific (Id., 2010) ambientata durante la Guerra nel Pacifico. Tutte tappe di una poetica personale (anche come produttore) ormai riconoscibile dal 1993 in poi. La collaborazione con Tom Hanks inizia con Saving Private Ryan – quando Hanks si fa promotore della storia di Robert Rodat, portandola all’attenzione di Spielberg – e continua per altre sei collaborazioni (quattro come attore e due come co-produttore). Da Catch Me If You Can (Prova a prendermi, 2002), per arrivare fino a The Post (Id., 2017), passando per The Terminal (Id., 2004) e Bridge of Spies (Il ponte delle spie, 2015), Tom Hanks è l’attore con cui Spielberg ha lavorato in modo più assiduo, al punto da incarnare oggi – insieme alla musica di John Williams – una delle marche distintive del suo cinema. Dal «comedic-safe everyman» all’«heroic-safe everyman», per dirla con Paul McDonald che ha analizzato la costruzione dell’immagine divistica di Tom Hanks21, la gamma dei suoi personaggi ricalca alcuni aspetti della parabola evolutiva della filmografia spielberghiana. Come Richard Dreyfuss negli anni settanta, Tom Hanks dà corpo, nel cinema di Spielberg più maturo, e soprattutto nei film di taglio storico, a quella componente middle class della società americana incarnata dall’uomo comune travolto da circostanze straordinarie. A partire dai valori della childhood, infatti, veicolati dalle commedie degli anni ottanta come Big (Id., P. Marshall, 1988), ma anche da esperienze più recenti che lo vedono prestare la voce a Woody in Toy Story (Toy Story - Il mondo dei giocattoli, 1995) o interpretare niente meno che Walt Disney in Saving Mr. Banks (Id., 2013), Tom Hanks approda a una nuova fase della sua carriera, con personaggi più maturi (agenti dell’FBI, avvocati, giornalisti), che coincidono con il ritorno di Spielberg al cinema classico. L’11 settembre 2001 impone un riposizionamento nell’agenda americana sui temi politici e sociali più scottanti. Dall’idealismo pragmatico di Lincoln (Id., 2012), ai chiaroscuri noir della Guerra fredda (Bridge of Spies, 2015), dal terrorismo internazionale del Settembre nero (Munich, 2005), ai fantasmi del Vietnam che gettano ombre lunghe sulla politica americana, trovando nuova luce nella libertà di stampa (The

Post, 2017). Ecco che Abraham Lincoln diventa nel film di Spielberg un politico abilissimo che vince le sue battaglie proprio sul terreno della retorica, quindi raccontando storie e opponendo ai suoi avversari la capacità di «stampare la leggenda» come teorizzato da The Man Who Shot Liberty Valance (L’uomo che uccise Liberty Valance, 1962) di John Ford. Allo stesso tempo, il cinema di Spielberg nel nuovo millennio diventa sempre più classico, rivendicando ogni utopia della carta costituzionale americana come luce da opporre ai nuovi virus della storia. Pensiamo alla regia rarefatta e quasi invisibile di film come Bridge of Spies e The Post. Molte delle traiettorie analizzate sin qui nella filmografia di Steven Spielberg possono pertanto essere riassunte in War Horse (Id., 2011). Un film che inizia con l’incontro tra due solitudini: un ragazzo irlandese che ha un difficile rapporto con il padre e un cavallo strappato alle cure materne con cui condividere un reciproco percorso di crescita (un nuovo E.T.?). Ma anche un film che rinnova la passione per la riscrittura immaginaria della storia (la Prima guerra mondiale come culla della modernità) filtrata dalle tracce del cinema amato (dai campi lunghi dei film western di Ford, alle trincee geometriche degli Orizzonti di gloria di Kubrick). Joy – il cavallo miracoloso che attraversa le trincee delle opposte fazioni e obbliga inglesi e tedeschi al contatto pacifico – riporta la luce della speranza nel buio della guerra come ennesima configurazione della «beatitudine» sprigionata dai «film per bambini». ANIMAZIONE

L’ultimo decennio di attività è caratterizzato anche da una ripresa di temi e motivi legati alla dimensione favolistica, tanto cara al regista. Se l’animazione aveva da sempre rappresentato un forte motivo di interesse (pensiamo alla pur rapida esperienza della Amblimation o della DreamWorks Animation), Spielberg non si era mai cimentato personalmente nella direzione di un film animato. L’occasione arriva agli inizi degli anni ottanta, quando è da poco uscito nelle sale Riders of the Lost Ark. Spielberg legge una recensione che paragona le avventure di Indy a quelle di Tintin22, un reporter giramondo con un ciuffo rosso e l’aspetto di un bambino. Non avendo mai sentito parlare del fumetto belga tanto famoso in Europa, recupera il libro e ne rimane folgorato: «Era come un film con degli storyboard meravigliosi»23. Dopo essersi messo in contatto con il fumettista Hergé, all’epoca settantacinquenne, scopre una reciproca ammirazione: sono entrambi risoluti a trasformare Les Aventures de Tintin in un film che, nelle intenzioni di Spielberg, sarebbe stato una sorta di «Indiana Jones per ragazzi»24. Hergé morirà poche settimane prima del loro appuntamento e i due non si incontreranno mai, ma Spielberg acquisterà ugualmente i diritti dalla moglie. A causa di problemi legati allo script, il progetto resta in stallo per oltre vent’anni e solo nel 2011 – grazie al decisivo contributo di Peter Jackson, che Spielberg coinvolge nel progetto per via della sua esperienza con la computer grafica (The Lord of the Ring e King Kong) – arriva The Adventures of Tintin (Le avventure di Tintin - Il segreto dell’Unicorno), film realizzato interamente in digitale, attraverso la tecnica del motion capture. Nelle intenzioni, quello del 2011 dovrebbe essere solo il primo capitolo di una trilogia che, stando a quanto annunciato, vedrà Peter Jackson passare alla regia e Spielberg alla produzione esecutiva. Recentemente Spielberg si è di nuovo confrontato con l’animazione. Il suo penultimo film, The BFG (Il GGG - Il grande gigante gentile, 2016) è un adattamento da una storia di Roald Dahl, altro grande maestro della narrazione per bambini, di cui Spielberg

aveva già curato la produzione esecutiva per Gremlins (Id., J. Dante, 1984). Da un punto di vista tecnico, la principale differenza rispetto al precedente Tintin è l’integrazione del motion capture all’interno della live action, in modo da creare una compenetrazione tra mondo virtuale e mondo digitale. The BFG è un tentativo di realizzare un nuovo classico per l’infanzia, sul modello di E.T. (che curiosamente esce in sala lo stesso anno di pubblicazione del libro di Dahl) di cui però non riesce a eguagliare né incassi né popolarità. Eppure, se non altro da un punto di vista prettamente narrativo, la prossimità con il film del 1982 è sorprendente. D’altronde, entrambe le sceneggiature sono firmate dalla stessa Melissa Mathison, storica collaboratrice di Spielberg, che morirà prima dell’inizio delle riprese. Al centro della storia, edulcorata rispetto alla più cupa versione originale, abbiamo ancora una volta due solitudini che trovano consolazione in un’amicizia straordinaria. Sophia, erede dei vari Elliott, David e di tutta una generazione di lost boys, vive in un orfanotrofio dopo la morte dei suoi genitori. Una notte viene rapita da un grande gigante gentile, che presto si scoprirà vittima, a sua volta, di soprusi da parte dei suoi consimili. Come E.T., anche BFG è una creatura straordinaria, a suo modo estremamente sola, che comunica attraverso un buffo linguaggio e ha un acronimo altrettanto memorabile. Anche se destinato a non cristallizzarsi mai nell’immaginario collettivo al pari della creatura di Rambaldi, The BFG rappresenta un importante ritorno al fantasy da parte di un regista che, come il gigante del suo film, cattura i sogni della gente, soffiando i più belli nel cuore dei bambini addormentati.

Jaws di Valerio Coladonato INTRODUZIONE: «A PERFECT EATING MACHINE»

Una “macchina” di insaziabile voracità. Questa la formula che riassume, allo stesso tempo, il funzionamento e il successo di Jaws (Lo squalo, 1975), terzo lungometraggio diretto da Steven Spielberg. La lavorazione assume i contorni di un’impresa mastodontica: i 55 giorni previsti per girare il film lievitano sino a 159 e così anche il budget iniziale (3,5 milioni di dollari) aumenta di quasi 3 volte. A quel punto Spielberg è un regista in ascesa, ma senza ancora nessun exploit commerciale e teme che la sua carriera hollywoodiana naufraghi assieme a questo audace ma dispendioso tentativo1. In realtà, Jaws totalizza il miglior incasso del 1975 (102,5 milioni di dollari), segnando un passaggio decisivo nella ridefinizione dell’immaginario e degli assetti industriali del cinema statunitense. E dal making of del film emergono una serie di aneddoti destinati ad alimentare il “mito” di Spielberg2. Proprio attorno a una macchina ruotano le maggiori difficoltà operative: si tratta di uno squalo meccanico costruito appositamente ma che, durante la prima fase delle riprese, si rifiuta di funzionare come previsto. Da qui la soluzione messa in atto da Spielberg, ovvero insistere sull’attesa e il desiderio di veder finalmente comparire il mostro sullo schermo. E dunque la necessità di costruire in altri modi la paura, la tensione, la suspense3. Questa, in estrema sintesi, la trama di Jaws: le acque della tranquilla isola di Amity sono prese d’assalto da uno squalo bianco. Lo sceriffo locale (Martin Brody / Roy Scheider) chiede di vietare le attività balneari, ma il sindaco e la popolazione dell’isola si oppongono, temendo di perdere i guadagni della stagione estiva. Solo dopo la quarta vittima viene ingaggiato un cacciatore di squali (Quint/Robert Shaw), a cui si uniscono lo sceriffo e un biologo marino (Matt Hooper/Richard Dreyfuss), in un’ardua spedizione per neutralizzare il feroce predatore. Il film ricalibra così l’impianto dell’omonimo romanzo di Peter Benchley da cui è tratto. Da un lato, vengono enfatizzati i codici generici dell’horror, del thriller e del filone del disaster movie; dall’altro, si sacrificano gli elementi d’introspezione e l’approfondimento sociologico sulla corruzione degli abitanti dell’isola. In un’operazione simile a quella compiuta dalla Paramount con The Godfather (Il padrino, F.F. Coppola, 1972), la Universal aveva acquistato i diritti del romanzo di Benchley ancor prima della sua pubblicazione4; l’agenzia International Creative Management si era poi incaricata di far circolare il libro, come primo ingranaggio di una portentosa “macchina” promozionale. Appena una settimana dopo l’uscita di Jaws (20 giugno 1975) su oltre quattrocento schermi statunitensi, «The Hollywood Reporter» indicava che il film aveva già incassato l’equivalente del suo budget. Nello stesso articolo si dava conto del complesso coordinamento promozionale messo in atto dai produttori Richard Zanuck e David Brown – inclusa la vendita di nove gadget disponibili nelle sale cinematografiche, tra cui: «targhe da appendere, poster, cartoline, asciugamani da mare, magliette, bicchieri di plastica e persino collane di denti di squalo»5. Creando a tavolino un brand riconoscibile e adattabile a diversi media, l’agenzia garantiva l’uniformità visiva dell’operazione, anche attraverso l’ubiquità del celebre logo: una ragazza nuda che nuota sul filo dell’acqua, ignara della presenza di un enorme squalo sotto di lei. Ecco anticipato il gioco di contrasto e sproporzione tra la

figura umana e la bestia, su cui il film gioca a più riprese6. Ma l’immagine taglia anche lo squalo a metà: significativamente, per l’analisi che proporremo, si preannuncia così il meccanismo di frustrazione che impedisce a lungo di vedere l’animale per intero. Un altro livello rispetto al quale Jaws agisce come “macchina” è quello del coinvolgimento spettatoriale (James Monaco, ad esempio, scrisse che il film era «una macchina dell’intrattenimento, calcolata in maniera precisa per ottenere il suo effetto»7). Parte della critica coeva condanna il carattere “manipolatorio” del film o il mancato interesse per l’introspezione e la riflessione sugli aspetti filosofici della vicenda8. Il diffuso pregiudizio negativo nei confronti di Jaws riecheggia ancora oggi in ambito accademico (un importante manuale di storia del cinema lo liquida definendolo «tecnicamente ricercato […] ma prevedibile come un cheeseburger di McDonald’s»9). Argomenti simili non rendono conto dell’effettiva complessità del testo filmico, nelle sue scelte tecnico-linguistiche e nella sua capacità di adattare e rinnovare la scrittura hollywoodiana classica. Come sottolinea Andrea Minuz, la fama di Jaws quale «film “responsabile” della chiusura del ciclo maggiormente creativo e libertario della New Hollywood»10, più che alle intrinseche qualità del film, è legata al suo successo commerciale e al modo in cui ha intercettato e alimentato tendenze più ampie che erano già in atto. I lavori di Thomas Schatz, Geoff King, Steve Neale e Sheldon Hall, tra gli altri, hanno permesso di inquadrare la congiuntura in cui Jaws si è inserito11: erano anni in cui gli studios concentravano progressivamente le loro risorse in pochi film ad alto budget e, per ridurre il rischio finanziario, puntavano a un recupero immediato, attraverso una distribuzione molto estesa sin dal primo periodo (front loading), piuttosto che uno sfruttamento in profondità. Ciò comportava, tra l’altro, esplorare finestre distributive sino ad allora poco redditizie (come, appunto, la stagione estiva); rivolgersi a una fascia di pubblico più giovane; mettere in piedi ingenti campagne pubblicitarie. Con il suo enorme successo, il terzo film di Spielberg ha agito da acceleratore di tutte queste strategie. I primi anni settanta erano anche una fase di riconfigurazione dei rapporti tra il cinema e la televisione: se nei decenni precedenti il piccolo schermo era stato uno dei fattori di declino della frequentazione delle sale, gli studios tentavano ora di usare la tv come cassa di risonanza per i blockbuster hollywoodiani. La saturazione delle reti televisive con gli spot di Jaws dava una dimostrazione concreta di queste nuove possibilità. Nelle prossime pagine, ci concentreremo invece sui modi di funzionamento di Jaws come testo filmico: in particolare, riprendendo alcune delle analisi che ne hanno decostruito i meccanismi della suspense, metteremo a fuoco le strategie di organizzazione dello spazio e del punto di vista. Ci soffermeremo in seguito sui meccanismi di rovesciamento e sulle ricorrenze stilistiche che caratterizzano il film, mostrandone il rapporto con uno dei principi cardine della scrittura cinematografica classica – ovvero l’effetto di sutura. IL SECONDO ATTACCO DELLO SQUALO: SOLUZIONI TECNICHE E REGISTRI DI MESSA IN SCENA

Partiamo da una delle sequenze più note: nelle analisi di Jaws, il “secondo attacco” del pescecane (in cui perde la vita il bambino di nome Alex) è giustamente celebrato come un riuscitissimo sforzo di orchestrazione delle diverse componenti del linguaggio cinematografico, al fine di produrre il massimo effetto di suspense12. Ne ripercorreremo le principali soluzioni di messa in scena, indicando poi come questa

sequenza rimandi ad aspetti più generali del lavoro compiuto dal film sullo sguardo. La lunga inquadratura d’apertura segue, attraverso un unico movimento laterale, diverse figure sulla spiaggia. Come sottolinea Warren Buckland, laddove la sceneggiatura indicava diversi stacchi di montaggio, «Spielberg decide invece di porre in un unico piano tutti i soggetti centrali della scena, attraverso una precisa coreografia delle azioni e un movimento di macchina che passa fra le potenziali vittime dello squalo fino a cogliere il profilo del volto vigile e preoccupato del protagonista»13 (fig. 1). L’unità dell’inquadratura iniziale traduce così la percezione di controllo visivo sull’insieme della spiaggia. Ma quest’illusione è progressivamente infranta da una serie di stacchi, che isolano di volta in volta una porzione limitata del campo visivo. Questa frammentazione dello sguardo assume una duplice valenza: da un lato, segnala l’inadeguatezza del controllo di Brody, dall’altro, sembra quasi che – assieme allo spettatore – lo squalo stia scegliendo la sua prossima vittima. L’effetto è intensificato dalla durata di alcune inquadrature: la montatrice Verna Fields, infatti, le ha volutamente prolungate per qualche istante per suggerire l’imminenza del pericolo14. I dialoghi tra Brody e i bagnanti sulla spiaggia funzionano invece da ostacolo e distrazione alla percezione dello sceriffo15, ma allo stesso tempo rimarcano una contrapposizione fondamentale, quella tra il mare e la terraferma (la moglie Ellen, ad esempio, chiede a Brody se vuole far uscire i figli dal mare; e un anziano bagnante rivela a Brody che sull’isola tutti sono al corrente della sua paura dell’acqua). Concentriamoci allora sulle altre strategie che rafforzano questa opposizione spaziale. Nelle scene che si svolgono sulla spiaggia la musica diegetica proveniente dagli altoparlanti garantisce una continuità di fondo che permette di orientarci nel tempo, nonostante la crescente frammentazione e il ritmo accelerato del montaggio. Tale raccordo sonoro è invece assente nelle inquadrature in acqua, dove il ritmo del montaggio sembra dettato piuttosto dagli effettivi visivi e sonori degli spruzzi d’acqua16. Mancano sia la continuità dell’azione, sia un campo d’insieme che permetta di collocare i personaggi nello spazio. In altri termini, due registri nettamente diversi vengono attivati in questa sequenza: da un lato, un montaggio in continuità che riproduce l’effetto di sutura (su cui torneremo più avanti); dall’altro, un registro percettivo di dispersione e frammentazione. Nella fase culminante della sequenza, la crescente preoccupazione di Brody è tradotta anche dalla tecnica del wipe by cut: uno stacco di montaggio effettuato quando una figura ravvicinata passa di fronte alla mdp. L’effetto è ripetuto per tre volte, (in ciascuna delle quali la mpd stringe sulla figura di Brody «in campo medio, in mezza figura e in primo piano, a simulare una sorta di avvicinamento»17. Anche lo stile recitativo di Scheider contribuisce a intensificare la suspense: in ognuna delle tre inquadrature legate dal wipe by cut egli compie un’azione diversa: inclinando il collo, sporgendosi in avanti, scuotendo la testa. È un esempio di quella che Steven Rybin definisce «recitazione contenuta» («bound performance») nel cinema di Spielberg, suggerendo l’importanza dei micro-gesti (al di là della celebre attenzione rivolta dal regista al volto e al primo piano)18. A questo punto interviene un repentino stravolgimento del punto di vista ottico e narrativo: vediamo e sappiamo qualcosa a cui Brody non ha accesso. Un’inquadratura subacquea in contre-plongée ci mostra il punto di vista dello squalo, diretto verso le gambe di Alex. Subentra inoltre il “tema musicale dello squalo”, il celeberrimo tema di due sole note (mi e fa), reso familiare al pubblico durante la promozione del film e già

introdotto nella sequenza del primo attacco. L’ostinato interviene «solo quando la bestia è fisicamente presente e traccia con estrema aderenza i movimenti della bestia nello spazio» attraverso l’altezza, il ritmo, l’intensità delle note19. Il compositore John Williams fornisce così una brillante soluzione a un problema di messa in scena: far percepire al pubblico la posizione di un “personaggio” in fuori campo. L’uccisione di Alex, infine, è punteggiata dall’ultimo degli espedienti che rendono memorabile la sequenza: il cosiddetto “effetto Vertigo”, un cambio repentino della focale combinato a un movimento di dolly, che permette di mantenere stabile la figura di Brody pur modificando la profondità di campo. La tecnica enfatizza lo sconcerto di Brody e segnala un riallineamento negli equilibri della narrazione: come il pubblico, ora tutti i personaggi sanno della minaccia nelle acque di Amity. In definitiva, il coinvolgimento spettatoriale di questa sequenza si deve alla capacità di Spielberg – anche grazie al contributo dei collaboratori, in primo luogo Williams e Fields – di attivare soluzioni stilistiche specifiche per ogni segmento, pur rimanendo fedele al principio generale della funzionalità del racconto. FUORI E DENTRO L’ACQUA: ROVESCIAMENTI DEL PUNTO DI VISTA

Approfondiamo ora la dialettica tra ciò che è dentro e fuori dall’acqua: i due ambienti contrapposti dalla sequenza del secondo attacco. Tale opposizione è costruita attraverso una serie di rovesciamenti del punto di vista: ciò è particolarmente evidente nell’incipit e nell’epilogo, due momenti in cui il cinema hollywoodiano tende a condensare le chiavi di lettura e gli elementi salienti del suo funzionamento formale e narrativo. Mettiamo a confronto dunque l’inizio e la fine di Jaws. La primissima inquadratura è un’esplorazione del fondale marino, con la mpd che si immerge sempre più in profondità, accompagnata dal “tema dello squalo”. L’ultima inquadratura è invece un campo lunghissimo, con la mdp posizionata sulla spiaggia e rivolta verso l’acqua: si distinguono appena, a grande distanza, le sagome di Brody e Hooper che guadagnano faticosamente la riva. Nell’inquadratura precedente li avevamo lasciati aggrappati a due barili galleggianti, con le spalle rivolte alla mdp e lo sguardo verso l’isola – un richiamo ironico a una delle frasi pronunciate in precedenza da Brody, commentando la sua estraneità alla comunità di Amity: «It’s only an island if you look at it from the water». All’immersione notturna dell’animale si oppone quindi la riemersione diurna dei due eroi “sopravvissuti”. Secondo Michael Walker, il fatto che il finale di Jaws presenti un’esplicita corrispondenza con l’incipit lo rende atipico nel quadro della filmografia di Spielberg. L’opzione suggerita dal regista (ma bocciata dai produttori) consisteva nel chiudere il film su un branco di squali che puntavano verso l’isola20. Questo finale alternativo avrebbe forse potuto funzionare da cliffhanger per il successivo filone dei film sugli squali; ma l’epilogo effettivamente girato aderisce invece ai principi di circolarità della narrazione e specularità tra inizio e fine, rafforzando appunto la contrapposizione acqua/spiaggia e il rovesciamento dello sguardo. Osserviamo anche gli episodi immediatamente successivi e precedenti. Nella prima sequenza, la giovane Chrissie Watkins fa cenno a un ragazzo di seguirla per un bagno notturno, e i due si allontanano da una festa sulla spiaggia. Mentre Chrissie si libera velocemente dei vestiti e inizia a nuotare, il ragazzo – impacciato a causa dello stato di ubriachezza in cui si trova – si ferma sulla riva tentando di spogliarsi. Da questo punto in poi, la sequenza alterna quattro diversi punti di vista:

1. Un campo lungo del mare, con un punto di vista che proviene dalla spiaggia. È un’inquadratura oggettiva, ma può essere ricollegata al desiderio del ragazzo di raggiungere Chrissie. La ragazza nuota verso il centro del fotogramma, poi si immerge a testa in giù, lasciando scivolare sotto il filo dell’acqua, per ultima, una delle due gambe. La boa metallica sullo sfondo permetterà di orientarci nelle inquadrature successive. 2. 2. Una serie di primi e primissimi piani di Chrissie: in uno di questi, il sole all’orizzonte permette di stabilire che si tratta di un controcampo. 3. 3. Tre stacchi sul ragazzo sdraiato sulla spiaggia – prima, durante e dopo l’attacco. Una delle sue battute («I’m coming») favorisce la sovrapposizione tra l’assalto che sta per compiersi e il mancato atto sessuale. 4. 4. Infine, le inquadrature subacquee (accompagnate dal “tema musicale dello squalo”) che riprendono in contre-plongée la silhouette di Chrissie (fig. 2): si tratta di soggettive che appartengono allo squalo, su cui torneremo a breve. Si noti per ora come, di questi quattro diversi punti di vista, nessuno traduca lo sguardo di Chrissie. Nello scontro finale con la bestia, al contrario, l’allineamento visivo e narrativo dello spettatore è con Brody. Lo sceriffo, rimasto ormai solo, imbraccia un fucile e una fiocina e si inerpica sull’albero dell’imbarcazione (l’Orca) che sta ormai affondando. Il resto della sequenza è diviso in due segmenti, che corrispondono ciascuno a un avvicinamento da parte dello squalo e a un’aggressione sferrata da Brody – la prima volta con la fiocina, la seconda (e decisiva) con il fucile. La costruzione dello spazio è molto articolata, con una proliferazione dei punti di vista che permettono di dare risalto a tutti i dettagli dell’azione. Di conseguenza il fuori campo, che nel primo attacco e in molte altre sequenze svolgeva un ruolo decisivo, è qui praticamente assente. Durante il primo scontro le inquadrature che traducono il punto di vista dello squalo includono una parte del suo corpo, adottando dunque la figura della semisoggettiva (fig. 3) (così come avviene per il punto di vista di Brody, che include, nell’inquadratura, una parte della sua gamba e il piede). Ciò rende lo sguardo dello squalo “concreto”, ancorato a un corpo, invece che disincarnato e puramente meccanico. Queste semisoggettive di Brody e dello squalo si alternano ad altre rapide inquadrature delle fauci e del volto: un altro rispecchiamento che, attraverso l’omogeneità delle scelte di messa in scena, sottolinea il raggiunto “allineamento” tra eroe e antagonista. Nel secondo e decisivo scontro, Brody colpisce con una pallottola la bombola d’aria compressa che è riuscito a incastrare nelle fauci dello squalo. Nell’esplosione che ne consegue, l’ultima inquadratura, da un punto di vista subacqueo in contre-plongée, si sofferma sulla massa oscura dello squalo smembrato che affonda lentamente, circondato da riflessi della luce solare. L’effetto suggella ulteriormente il richiamo all’inquadratura in contre-plongée riservata a Chrissie, la cui silhouette nuda era ugualmente circondata da un alone di luce. Tale accostamento ha anche un’altra funzione: disfare l’allineamento tra lo sguardo spettatoriale e quello dello squalo. Nell’incipit, ricordiamolo, siamo “costretti” a vedere attraverso gli occhi dello squalo, in una “soggettiva dell’assassino” tipica dei film horror. Ma Jaws condivide anche un’altra dinamica visiva di questo genere, ovvero l’oscillazione tra un difetto e un eccesso di visione21. A volte, infatti, vediamo “troppo poco”: non riusciamo a scorgere il mostro per intero, lo confondiamo con altri indizi, oppure ce ne accorgiamo troppo tardi. Altre volte vediamo “troppo”: siamo costretti ad

assumere un punto di vista disumano, oppure siamo colti di sorpresa da immagini scioccanti. Nel finale la visione subacquea in contre-plongée del corpo esploso della bestia modifica e “corregge” lo statuto dello sguardo: si ripete il punto di vista e la configurazione visiva della “soggettiva dell’assassino”, ma sostituendola con un’inquadratura oggettiva, che appartiene solo all’enunciazione della mdp. Vediamo dallo stesso punto di vista subacqueo dell’incipit, ma senza più la mediazione dello squalo. «THE WHOLE DAMN THING»: FRAMMENTAZIONE E SUTURA

Il modo in cui il mostro viene ucciso (esplodendo davanti ai nostri occhi) suggerisce un’altra chiave di lettura che riguarda il rapporto tra frammentazione e integrità, attivato nel film sia a livello tematico che formale. Come abbiamo visto, Jaws instilla – e poi frustra per buona parte della sua durata – il desiderio di vedere lo squalo per intero (d’altronde, chiedendo una taglia di diecimila dollari, Quint aveva promesso alla comunità di Amity: «For that you get the head, the tail, the whole damn thing»). Allo stesso tempo, però, il film suggerisce costantemente il pericolo della frammentazione del corpo umano. La sceneggiatura intesse un sapiente gioco di anticipi e rimandi tra i dialoghi – spesso attraverso doppi sensi o riferimenti apparentemente casuali – e le numerose, scioccanti immagini di mutilazione. Il motivo ricorrente delle mani ne è un buon esempio. Il primo shock visivo, infatti, riguarda proprio la mano di Chrissie. Il ritrovamento della ragazza è preceduto da un primo piano del viso sconvolto di un poliziotto, che fischia per avvertire lo sceriffo, e dall’avvicinamento esitante di Brody – ma il cadavere è ancora fuori campo. A questo punto un inserto ravvicinato ci sorprende con la mano della vittima, posata su un cumulo di sabbia brulicante di granchi. I dialoghi si occupano di mantenere viva la minaccia anche nei momenti di quiete e quando apparentemente nessuno corre il rischio di essere azzannato. Ancora prima che Brody venga a sapere della morte di Chrissie, suo figlio Michael mostra un taglio sul dito di una mano, annunciando: «Mom, I got a cut, I got bit by a vampire». Anche la già discussa sequenza del secondo attacco contiene un dettaglio importante. La madre di Alex chiama a sé il figlio, invitandolo a uscire dall’acqua e mostrandogli i polpastrelli raggrinziti. Retrospettivamente, possiamo notare che proprio questa sottolineatura delle mani distingue il bambino da tutte le altre potenziali vittime presenti sulla spiaggia. Anche lo scontro tra Quint e Hooper si articola attorno alle mani: quando il biologo marino si vuole unire alla spedizione («You’re gonna need an extra hand»), il cacciatore di squali manifesta il suo disprezzo per l’estrazione sociale privilegiata del giovane («You got city hands, Mr. Hooper»). E ancora, durante l’operazione in barca, è Quint a evocare direttamente il pericolo, dicendo a Hooper di mollare la fune tirata dallo squalo per non farsi staccar via le mani («I’ve seen fingers torn down at the knuckle»). Il montaggio, invece, agisce enfatizzando la violenza inferta alle gambe. Prendiamo lo stacco sulla gamba della quarta vittima dello squalo (l’uomo in barca ucciso il 4 luglio). Dapprima un’inquadratura oggettiva mostra la gamba dilaniata dell’uomo mentre cade verso il fondale marino (fig. 4). Poco dopo, Brody accorre in soccorso del figlio Michael, che è in stato di shock, e lo trascina fuori dall’acqua: quest’inquadratura si conclude proprio sulle gambe del bambino, «sottolineando l’integrità del corpo di Michael contro lo smembramento dell’uomo in barca»22 (fig. 5). In tal modo il montaggio «ripete l’azione di frammentazione del corpo da parte dello squalo» e il film «mette in evidenza

il montaggio come tecnica cinematografica, e insiste sulla sua violenza»23. Questo passaggio pone in risalto proprio l’operazione formale che solitamente resta “invisibile”. La nozione di sutura, di derivazione psicanalitica ma poi adottata dalla teoria del cinema, descrive questo processo. Poiché ogni inquadratura seleziona una porzione del visibile e ne esclude un’altra, il linguaggio cinematografico si incarica di “cucire” assieme questi frammenti, per far aderire lo spettatore alla pienezza illusoria delle immagini. Solitamente il montaggio, attraverso i principi della continuità narrativa, assolve a questo ruolo di “mascheramento” delle fratture. Nella sua analisi di Psycho (Psyco, A. Hitchcock, 1960), Kaja Silverman aveva mostrato l’efficacia e l’intensità delle deviazioni dal sistema di sutura, pur nell’impianto di un film che sostanzialmente lo conferma24. In maniera simile Jaws instilla il desiderio di completezza associato alla concatenazione delle inquadrature attraverso il montaggio in continuità. Ma poi non esita a scartare dalla norma, introducendo delle rotture che amplificano l’effetto di shock. RICORRENZE DELLO STILE CLASSICO: «WIDE REVERSE» E «CINE-TABLEAU»

Il recente libro di James Mairata Steven Spielberg’s Style By Stealth25 contiene un resoconto delle opzioni di messa in scena, montaggio e narrazione attraverso cui, nell’arco della sua intera filmografia, il regista tende a riprodurre l’effetto di sutura. Le costanti stilistiche nel cinema di Spielberg denotano un lavoro di appropriazione, adattamento e intensificazione dei principi della scrittura classica. Mairata individua ad esempio l’utilizzo ricorrente dei wide reverses: si tratta di campi lunghi che rovesciano di 180° la prospettiva precedente, includendo dunque al loro interno anche lo spazio prima occupato dalla macchina da presa (e cancellando così le marche dell’enunciazione). I wide reverses possono presentarsi come stacchi di montaggio a sé stanti, oppure far parte di un articolato movimento della mdp che abbraccia diverse prospettive nella stessa inquadratura. In Jaws troviamo due esempi lampanti di wide reverses del primo tipo: non a caso, si tratta di inquadrature che demarcano l’arrivo e l’abbandono dell’isola. Inoltre, questi due wide reverses accompagnano anche le transizioni dal primo al secondo atto (introducendo la sequenza dell’uccisione di Alex) e dal secondo al terzo (dando inizio alla spedizione sull’Orca). Quando il sindaco di Amity e i suoi collaboratori raggiungono Brody sul piccolo traghetto, per dissuaderlo dal vietare la balneazione sull’isola, la messa in scena attuata da Spielberg è di indubbia efficacia. Si tratta di un long take in cui la coreografia dei movimenti porta il sindaco e Brody a staccarsi dal gruppo e avanzare verso il primo piano. L’inquadratura è ininterrotta, ma lavora su «un montaggio interno attraverso la composizione e il movimento di macchina, stabilendo relazioni produttive tra primo piano e sfondo»26. L’unico stacco di montaggio arriva proprio per introdurre il wide reverse, riprendendo il traghetto dalla prospettiva opposta (quando il sindaco pronuncia la battuta «You can take us back now»)27. Nel secondo caso, mentre il trio di uomini salpa per uscire dal molo di Amity, la mdp posizionata all’interno della casa di Quint stringe sull’imbarcazione attraverso la finestra e le fauci di squalo in primo piano (fig. 6). L’inquadratura successiva è un ribaltamento di prospettiva di 180°, con la mdp sull’Orca alle spalle di Brody, il suo sguardo rivolto alla casa di Quint28. Mairata identifica, come altro elemento ricorrente della messa in scena di Spielberg, il cosiddetto cine-tableau – ovvero la trasposizione di un dispositivo simile ai tableaux

teatrali: momenti in cui una determinata composizione del quadro si “congela” (freezes) e viene ripetuta con una funzione di sottolineatura drammatica. Anche questa è una tecnica che produce un effetto di «enfasi narrativa senza attirare l’attenzione sul dispositivo»29. Prendendo spunto da questa osservazione, vorrei suggerire che una delle ricorrenze più significative in Jaws è rappresentata dalle variazioni del cinetableau consistente nell’affiancamento orizzontale di tre figure maschili. Questa formula demarca tre momenti che sottolineano l’inadeguatezza di Brody nel suo ruolo di sceriffo: nella già citata sequenza del traghetto, egli discute la chiusura delle spiagge con il sindaco e il suo collaboratore; quando Hooper suggerisce di ispezionare lo stomaco del primo squalo catturato, egli è inquadrato accanto a Brody e al sindaco; infine, lo stesso gruppo si ritrova di fronte al poster della città di Amity su cui un vandalo ha disegnato la pinna di uno squalo (fig. 7). Dopo queste ripetizioni, abbiamo motivo di aspettarci che l’affiancamento visivo del trio (Brody e altri due uomini) si verifichi anche con Hooper e Quint, una volta che la squadra è riunita sull’Orca. Ma durante le operazioni di caccia, Brody, Hooper e Quint si dispongono invece su diversi livelli d’altezza o piani di profondità, dividendosi le mansioni sulla barca30. Quando si ritrovano attorno a un tavolo in un momento di relativa quiete notturna, il differimento rende la realizzazione del cine-tableau ancora più carica di significato. Ciò avviene durante il cosiddetto “Indianapolis speech”, il lungo monologo in cui Quint racconta l’episodio che gli ha inculcato l’odio viscerale per gli squali (l’affondamento della nave militare statunitense che aveva trasportato la bomba atomica destinata a Hiroshima e la morte dei suoi commilitoni azzannati dagli squali). La composizione orizzontale a tre, a questo punto, assume un altro senso: se prima il cine-tableau sottolineava l’incapacità di Brody nel proteggere la comunità e il suo conflitto con il sindaco, ora enfatizza l’unione dei tre uomini che cantano assieme in un momento di cameratismo (fig. 8). Hooper e Brody hanno fatto propri alcuni elementi della rude mascolinità di Quint. Ora è possibile il “sacrificio” di quest’ultimo, che rappresentava il modello maschile disfunzionale e antiquato di cui liberarsi – un sacrificio che facilita, secondo la lettura fornita da Fredric Jameson, l’alleanza tra i due superstiti e tra i valori ideologici da loro incarnati31. In altri termini, la ripetizione e variazione lungo tutto il film delle inquadrature che allineano Brody e altre due figure maschili prepara e amplifica l’effetto di quest’ultimo cine-tableau. In perfetto stile classico, un dispositivo formale serve allo stesso tempo alla risoluzione di un nodo narrativo e a produrre il “lavoro ideologico” del film. Un’ulteriore dimostrazione di come la semplicità di alcune formule nel cinema di Spielberg sia solo apparente, e gli effetti ottenuti siano invece complessi e stratificati. Anche quando ciò che più conta rimane invisibile (lo stile) o fuori campo (lo squalo).

1.

2.

3.

4.

5.

6.

7.

8.

E.T. di Nigel Morris PROLOGO

Chiunque fosse stato in grado di prevedere le ragioni del successo di E.T. the ExtraTerrestrial (E.T. l’extra-terrestre, 1982), diventato ben presto uno maggiori incassi nella storia del cinema e nel mercato home-video degli anni ottanta (con tredici milioni di VHS venduti in tutto il mondo), potrebbe ora tranquillamente stare nelle classifiche dei milionari, accanto allo stesso Steven Spielberg1. Infatti il successo planetario del film fu tutt’altro che scontato e il primo a restarne sorpreso fu proprio Spielberg2. Il regista l’aveva presumibilmente considerato come un progetto personale, un lusso permesso dall’inusuale libertà creativa derivata dal suo potere commerciale dopo le quote percentuali e gli introiti del suo accordo con la Paramount per Raiders of the Lost Ark (I predatori dell’arca perduta, 1981). Rispetto ai grandi blockbuster di Spielberg, E.T. può infatti essere considerato un progetto relativamente low-budget – effetti speciali modesti, nessuna star di rilievo – fattore indubbiamente importante in relazione ai suoi incassi sbalorditivi (Spielberg ha guadagnato circa un milione di dollari durante il 19821983, grazie ai suoi contratti, che prevedevano una percentuale di guadagno del 10% sugli incassi, e nel 1988 gli introiti derivati da E.T. sono arrivati a quaranta milioni di dollari)3. Tuttavia, non è certo nella dimensione low-budget del film che risiede la spiegazione del suo successo al box-office, tantomeno della sua enorme popolarità. Il progetto nasce attorno a un vecchio soggetto di Spielberg dal titolo Night Skies che il regista affida a Melissa Mathison per trarne una sceneggiatura. Il copione finale risulterà molto diverso rispetto alla prima bozza stesa da Spielberg. La sceneggiatura di Mathison ruota attorno al rapporto che viene a crearsi tra Elliott ed E.T. Una notte, atterra nei boschi della California un’astronave misteriosa. Alcuni alieni scendono e iniziano a prelevare campioni della vegetazione terrestre; ma qualcuno era a conoscenza del loro arrivo: gli agenti federali iniziano a dare loro la caccia e a quel punto l’astronave è costretta a ripartire, lasciando E.T. sulla Terra. Attirato da misteriosi rumori provenienti dal retro della sua abitazione, Elliott scopre l’alieno. Tra i due inizia a svilupparsi un rapporto di grande amicizia che sfocia nelle forme della telepatia. Elliott dovrà quindi aiutare l’alieno a tornare a casa. E.T. viene “adottato” anche dai fratelli del ragazzo mentre la loro madre resta all’oscuro della sua presenza. Nel frattempo, gli agenti federali continuano a cercare E.T. e rintracciano Elliott. Alla fine i ragazzi riusciranno a salvare l’alieno mettendolo in contatto con l’astronave che arriverà nel bosco a riprenderlo. Così come Close Encounters of the Third Kind (Incontri ravvicinati del terzo tipo, 1977) aveva a suo tempo evitato il fallimento della Columbia, E.T. fu per l’industria dei primi anni ottanta un film decisivo. Il suo successo invertì il declino di presenze in sala che durava da vari anni e riaffermò con forza la fascinazione della sala e della visione collettiva, recuperando anzitutto il target delle famiglie. Ma, come ora cercheremo di mostrare, E.T. non è soltanto un film per famiglie. PROMOZIONE E PUBBLICITÀ

Come era già avvenuto con Jaws (Lo squalo, 1975), E.T. è stato promosso, pubblicizzato e distribuito facendo grande affidamento sul merchandising e sulla vendita di gadget e oggetti che da soli hanno generato un introito di circa un miliardo di dollari

(grossomodo la metà degli incassi in sala). A prima vista potremmo spiegare il successo del film con la capacità di essere riusciti a raggiungere quello che sembrava il suo obiettivo: E.T. era un film per bambini (target principale del mercato del merchandising), vale a dire un film per famiglie programmato anzitutto per le festività (il giorno dell’Indipendenza negli Stati Uniti, Natale in Gran Bretagna e in Europa). Le questioni sono tuttavia meno semplici. Anzitutto, bisogna ricordare che i biglietti per bambini sono più economici, quindi, in termini di numeri, meno lucrativi rispetto a quelli per adulti. Disney se ne rese conto tempo fa (ma ovviamente vanno considerate anche le enormi entrate provenienti da prodotti di franchising che i film stessi pubblicizzano). Allo stesso modo, anche il periodo di vendita al dettaglio nel mercato home-video (all’epoca le videocassette) è limitato nel tempo. In alcuni casi, l’attesa legata alla mancanza di disponibilità fa sì che il film di successo punti ben presto allo status di “classico”, soprattutto grazie a una nuova uscita in sala, momento in cui si possono realizzare grandi profitti con costi aggiuntivi relativamente bassi. In questo caso, la Amblin (casa di produzione fondata da Spielberg nel 1981) emulò la strategia di lungo periodo della Disney: tolto dalla circolazione dopo un anno, E.T. ebbe di nuovo grande successo con la riproposizione nelle sale prima del lancio nel mercato homevideo, avvenuto nel 1988. All’uscita del film, alcuni indizi evidenziarono subito che i bambini non erano l’unico o il principale target di E.T. Sul «New York Times» del 30 dicembre 1982 si racconta di un significativo incremento di pubblico tra gli over 25. Il titolo dell’articolo era inequivocabile: Adults Lured Back to Films by E.T. (Gli adulti sono tornati al cinema grazie a E.T.). Molti appartenevano all’emergente classe di yuppies, i giovani rampanti degli anni ottanta, manifestazione della cultura imprenditoriale e di uno stile di vita edonistico, identificabile nell’uso di un abbigliamento costoso e molto elegante, nello stile di vita dispendioso e alla moda, nell’utilizzo di accessori di design. Ma perché questo tipo di persone, che apparentemente avevano perso, o addirittura mai acquisito, l’abitudine di andare al cinema, partecipavano ora in massa alle proiezioni di E.T.? La prima spiegazione ha a che fare con la struttura narrativa del film di Spielberg. E.T. può essere considerato, soprattutto per i venticinque-trentenni dell’epoca, come un “fantasy regressivo”; ovvero, come ha affermato lo scrittore Martin Amis: «[Guardando E.T.] stavamo tutti piangendo per le nostre identità perdute»4. Presumibilmente gli yuppies trovarono in E.T. una sorta di rifugio dallo stress in cui erano lanciate le loro vite rampanti. Ai loro occhi, il film funzionava come un ricordo di infanzia, innocenza e libertà, una carezzevole alternativa alle loro vite quotidiane, al lavoro, agli svaghi competitivi tutti orientati verso la scalata al successo. D’altro canto, in quegli anni negli Stati Uniti si affermava uno stile di vita più individualistico; le coppie stavano posticipando l’ipotesi di avere dei figli per poter progredire nelle loro carriere e tutto sembrava dover essere sacrificato all’affermazione nel lavoro. Da questo punto di vista, l’impatto emotivo che il film di Spielberg aveva sui giovani trentenni gratificava in un certo senso anche gli istinti genitoriali repressi. Anche la stampa enfatizzava questo aspetto del film: Spielberg e Carlo Rambaldi (il designer creatore dell’extra-terrestre) avevano visitato i reparti di maternità per prendere le misure facciali dei neonati che le infermiere consideravano particolarmente teneri e avevano analizzato vari dati per produrre il prototipo del bambino “fragile e indifeso”. Che questo sia vero o meno, all’inizio del film i pianti di E.T. – che creano un’immediata empatia con lo spettatore attraverso le inquadrature soggettive che ritraggono gli umani come ombre spaventose

– assomigliano senza dubbio a quelli di un neonato. È del tutto evidente d’altronde che l’obiettivo del film è sin dalle prime scene quello di spingerci a vedere l’alieno come una creatura indifesa, bisognosa di protezione, assecondando l’idea di vedere in E.T. un neonato abbandonato (si pensi, in questa chiave, anche alla scena in cui Elliott ed E.T., entrambi in fin di vita, vengono messi in una sorta di incubatrice) (fig. 1). Per quanto riguarda la campagna promozionale del film, se da un lato bambole, puzzlebook, carte delle caramelle e una miriade di altri oggetti e prodotti ancillari – molti dei quali non autorizzati – rendevano le sembianze di E.T. familiari, i trailer, al contrario, mostravano solamente la sua mano intenta a spostare un ramo (attraverso un punto di vista che inscrive la sua presenza nell’immagine mantenendolo tuttavia fuori campo) con la silhouette dell’alieno riflessa contro il portale illuminato della navicella spaziale. Tutto questo ovviamente serviva a costruire l’attesa per una visione incentrata anzitutto sull’interesse per E.T. Gli spettatori sarebbero dovuti andare al cinema per scoprire anzitutto se la “creatura” costruita da Rambaldi e Spielberg era davvero, realmente così convincente. Nel frattempo, la curiosità suscitata dal trailer contribuiva a far montare anche l’attenzione attorno al film, definito ben presto come l’evento mediatico della stagione. Un effetto simile fu innescato e sfruttato anche nel caso del mercato home-video. E.T. fu una delle videocassette più piratate di quegli anni; si trattava ovviamente di copie registrate durante la visione in sala, dunque spesso di pessima qualità, prive di colori e con una colonna audio quasi impercettibile. Tutto questo però contribuì a suo modo a far aumentare il pubblico in sala, visto che a quel punto gli spettatori avevano una grande curiosità di vedere il film, apprezzandolo nel suo formato originale. INTRATTENIMENTO REAGANIANO?

Nei primi anni ottanta, l’amministrazione Reagan negli USA e il governo Thatcher in Gran Bretagna rappresentavano delle correnti conservatrici elette sulla promessa di un ritorno alla tradizione dopo i turbolenti anni settanta. Reagan puntava anche sulla riaffermazione della potenza militare degli Stati Uniti, come nel caso dell’invasione di Grenada, con la cosiddetta operazione “Urgent Fury” (1983). Dal canto suo, Thatcher rovesciò gli indici dei sondaggi d’opinione divenendo, da meno popolare, il più popolare primo ministro della Gran Bretagna, soprattutto dopo aver sconfitto l’Argentina nella guerra per il controllo delle isole Falklands. Considerando il clima di tensione in un momento in cui la Guerra fredda toccava uno dei suoi apici – inasprito dall’instabilità sovietica e dall’iniziativa con cui l’America si sarebbe dotata di uno “scudo stellare”, la cosiddetta operazione SDI (strategic defense initiative), subito ribattezza da Reagan, “operazione Star Wars” – il messaggio d’amore, empatia e accettazione delle differenze portato avanti da E.T. sembrava avere una chiara funzione compensatoria. Da questo punto di vista, E.T. capovolgeva l’immaginario della science-fiction degli anni cinquanta, spesso interpretata com’è noto nella chiave di una proiezione delle paure represse del comunismo e/o della minaccia atomica. L’idea di un effetto compensatorio costruito attraverso la favola di E.T. si distacca in tal senso anche dall’idea diffusa presso la critica che tende a considerare automaticamente la fantasia di Hollywood complici dei suoi discorsi “oppressivi” e della sete di conquista degli Stati Uniti. Può invece essere più interessante adottare qui una prospettiva psicanalitica. E.T. potrebbe aver in parte contribuito al dibattito politico-culturale di quegli anni, ovviamente attraverso la sua dimensione allegorica: se da un lato rappresenta un mondo in cui i bambini si ribellano

contro gli adulti, dall’altro finisce tuttavia con una reintegrazione dentro l’ordine simbolico ristabilito dal finale. La ribellione cede il posto alla restaurazione delle gerarchie. Il film si apre su immagini bucoliche (l’arrivo dell’astronave nel bosco) che presto lasciano il posto alla caccia agli alieni e al tragico abbandono di E.T.: questa prima sequenza ruota attorno a una sorta di “immaginario perduto” della famiglia che resta precluso anche allo spettatore (non intravediamo nulla dell’astronave e del suo equipaggio). D’altro canto, nel film vi sono riferimenti all’assenza della figura paterna (il padre di Elliott, fuggito in Messico con un’altra donna), un tema caratteristico del cinema di Spielberg che E.T. esplora a vari livelli (letterali, allegorici, psicanalitici). La nostalgia per l’integrità perduta della famiglia è certo uno dei motivi e dei sentimenti specifici del film su cui si costruiscono tutte le identificazioni spettatoriali (in tal senso, la figura di Keys – l’agente governativo interpretato da Peter Coyote – funziona anche come sostituto del padre di Elliott). La visione tipicamente reaganiana della famiglia tradizionale come cuore della cultura e dell’identità americana ormai, negli anni ottanta inoltrati, è un’immagine mitica, di certo poco aderente alle trasformazioni della società. Tuttavia, come tutte le costruzioni retoriche, era anche interpretata in modo flessibile. Ad esempio, i tentativi di recuperare all’interno di questo immaginario della famiglia tradizionale americana anche gli yuppies, mediante il riferimento ai loro “naturali” impulsi genitoriali nei confronti di E.T. enfatizzava la flessibilità e la pervasività di questo mito, dal momento che gli yuppies, manifestazione emblematica del reaganismo, erano per definizione legati a uno stile di vita opposto ai valori tradizionali della famiglia; un aspetto che ribadisce la capacità della retorica reaganiana di adattarsi e ridefinirsi in base alle esigenze sociali, culturali e politiche, anche perché negli anni ottanta un bambino che viveva con entrambi i genitori biologici (al loro primo matrimonio) rappresentava ormai qualcosa di eccezionale. Spesso il compito delle narrazioni è proprio questo: cercare di ristabilire attraverso la finzione le fondamenta di un mondo ideale, immaginare il modo in cui una cultura idealizza sé stessa, anziché mettere in scena i suoi conflitti reali, le sue trasformazioni profonde. Ma incolpare l’immaginario e le finzioni narrative (generalmente inconsce o inconsapevoli dell’uso che se ne può fare) di una qualche complicità con le parti politiche è tuttavia fuori luogo. Al contrario, l’interesse principale dovrebbe essere rivolto verso l’uso retorico che i leader politici fanno delle narrazioni e verso la loro capacità di usarle come fossero idee politiche. AUTO-RIFLESSIVITÀ «VS» IDENTIFICAZIONE

Dalla prima scena – che mostra un albero parlante sul modello del film The Wizard of Oz (Il mago di Oz, V. Fleming, 1939) – all’ultima inquadratura sulla silhouette di E.T. sul portale dell’astronave che si chiude a iride come nel finale dei cartoni animati (accompagnato nel sottofondo da un ronzio simile a quello del proiettore), il film mette in primo piano sia la sua dimensione finzionale che il riferimento al cinema, vale a dire la sua dimensione autoriflessiva. Nel cinema di Spielberg è proprio questa costante, più o meno subliminale dimensione meta-cinematografica, a facilitare l’alternanza tra il piano dell’immaginario e quello del simbolico. Questo è uno dei motivi ricorrenti nella costruzione dell’identificazione spettatoriale nei film di Spielberg, il fatto che siamo sempre dentro l’universo del possibile, l’universo del cinema: la nostra fantasia, per essere soddisfatta, richiede che si creda che un ragazzo in bicicletta possa volare attorno alla Luna, e Spielberg mette lo spettatore nelle condizioni di crederci.

L’idea di E.T. come una “fuga nella fantasia” è enfatizzata dalla lettura di Peter Pan che la madre fa a Gertie (Drew Barrymore); sentiamo che Tinker Bell, «starebbe di nuovo bene se i bambini credessero nelle fate» – dettaglio ridondante, immotivato, praticamente impercettibile se il film richiedesse davvero una soggezione incondizionata. Allo stesso modo, la resurrezione di E.T., sebbene logicamente innescata dal ritorno della navicella spaziale, coincide con il momento in cui Elliott e noi spettatori che ci identifichiamo con lui abbiamo fede. Anche la nostra partecipazione emotiva agli eventi è divisa tra il desiderio che E.T. rimanga sulla terra con Elliott (e quindi con noi) e quello che riesca a tornare a “casa”, per riunirsi alla sua “famiglia”. La cruciale riapparizione dell’astronave, circondata da raggi di luce e da un “vento solare” che scompiglia i capelli e i vestiti dei protagonisti che guardano verso l’alto, nella tipica espressione dei personaggi spielberghiani (fuori di sé, colti dalla sorpresa e pieni d’attesa), perfetta allegoria dello spettatore seduto in sala, simbolizza il funzionamento del dispositivo cinematografico (fig. 2). Centrale, nella costruzione della popolarità di E.T., non è solamente l’apertura a una molteplicità di letture – come succede con qualsiasi opera – ma la pluralità di spettatori a cui si rivolge: adulti e bambini, cinefili e spettatori casuali. La narrazione e lo spettacolo forniscono meccanismi di identificazione spettatoriale che conducono a varie esperienze, al di là delle competenze interpretative specifiche di ogni individuo. Possiamo vedere E.T. come una favola o come un film che mette in scena la fascinazione per il dispositivo cinematografico e la finzione. Conseguentemente, come indicato da Umberto Eco5, le reazioni più naïve sono spesso anche quelle che producono le letture più diffuse o originali. Spielberg gioca quindi con il suo spettatore, facendogli riconoscere Fantasia (Id., 1940) di Walt Disney nella scena in cui gli scienziati inseguono gli alieni con le torce nel bosco, o come quando ci diverte con il misconoscimento di E.T. vestito da Yoda – creazione di un collega di Rambaldi per The Empire Strikes Back (L’Impero colpisce ancora, 1981) – nel cosiddetto “dolcetto o scherzetto” della festa di Halloween. L’identità di E(lliot)T – uno diventa ubriaco quando l’altro beve, o agisce spinto da fantasie che l’altro vede in televisione, come nella celebre scena delle rane in cui Spielberg rende omaggio a The Quiet Man (Un uomo tranquillo, J. Ford, 1952) – rappresenta l’immaginaria relazione dello spettatore con l’altro-da-sé sullo schermo. Il rapporto tra Elliott e E.T. funziona cioè come una metafora dei processi di empatia e identificazione che avvolgono spettatore e personaggi di un film. Gli spettatori sono incoraggiati a identificarsi con Elliott nella sua telepatica relazione con E.T., in parte perché il punto di vista offre analogie ottiche con quello di E.T., in parte perché E.T. è esperito attraverso la focalizzazione di Elliott. I punti di vista delle inquadrature si allineano con quelli di E.T. ancor prima che Elliott lo incontri. Sposiamo il punto di vista di E.T. mentre lui se ne va dalla casa coperto da un lenzuolo, attraverso l’uso della soggettiva. Le descrizioni di Elliott della terra ci divertono perché in quel momento osserviamo la nostra cultura e la nostra conoscenza con distacco, proprio come farebbe un alieno. D’altro canto, E.T. mette in scena insieme alla nostalgia per la famiglia perduta anche il sentimento della perdita. Per quanto gli spettatori accettino l’identificazione suggerita dal film, sono costretti nel corso del racconto ad affrontare tre abbandoni6: quando E.T. si separa da Elliott (che si addormenta) nella foresta, quando si separa da Elliott e sembra stia ormai morendo, e quando se ne va con l’astronave alla fine del film. Esaminare E.T. in relazione ad alcuni modelli narrativi – tutti quelli che trattano una

mediazione della perdita – può offrire in tal senso ulteriori indizi circa la popolarità e la portata universale del suo racconto. LA NARRAZIONE

Le narrazioni sono costruzioni trans-storiche e trans-culturali, in grado cioè di attraversare le epoche e i confini specifici delle culture; sono parte della nostra realtà. La dimensione universale dei racconti (miti, favole) ha spesso attirato l’attenzione degli antropologi, così come dei teorici della letteratura, intenzionati a esplorare le funzioni e i meccanismi profondi su cui fanno leva i racconti. Com’è noto, questo ha condotto ben presto alla convinzione che le narrazioni, nonostante le loro differenze di superficie (epoche, culture, temi), condividano delle strutture similari. Se la linguistica mostra come tutte le enunciazioni verbali (potenzialmente infinite) seguono strutture regolari interiorizzate inconsapevolmente, in modo analogo, anche la narratologia e l’antropologia hanno evidenziato come e quanto le narrazioni seguano sempre delle regole di base. Tzvetan Todorov7 propone ad esempio un semplice modello. Le narrazioni iniziano sempre con un equilibrio o un senso di compiutezza: quello che si può definire “il mondo ordinario”. In seguito qualcosa turba questo equilibrio e incrina quel mondo ordinario. Una forza opposta emerge allora per far fronte a questo squilibrio. Il conflitto che ne risulta, condizione necessaria per qualsiasi narrazione (ogni racconto è strutturato attorno a un conflitto) è seguito dal trionfo di una delle due forze contrapposte. Si giunge così a un nuovo equilibrio o al ripristino dell’assetto del mondo ordinario. Il finale differisce dall’inizio – il processo è lineare, non circolare – ma il piacere dello spettatore dipende dalla conclusione atta a ristabilire il mondo finzionale dentro un orizzonte accettabile. Gli episodi nei quali prima una forza e poi l’altra si danno battaglia servono ad accrescere il coinvolgimento, soprattutto nella parte centrale del racconto, per mezzo della suspense, mettendo alla prova il personaggio principale. Il modello è rappresentabile mediante un diagramma: l’equilibrio di E.T. è l’armonia della foresta all’inizio del film (fig. 1); l’arrivo degli scienziati che costringono l’astronave a ripartire, lasciando E.T. sulla Terra, rappresenta il momento di frattura, l’innesco di un racconto (che ne sarà ora di lui?). E.T. resta solo in un mondo che non conosce, senza alcun mezzo per contattare i suoi compagni in viaggio. Tutti i modelli narrativi canonici sono spinti da una mancanza nei confronti di qualcosa, una perdita, spesso simbolizzata da un oggetto smarrito: la principessa nelle favole o la fiducia in sé stessi, l’accendino di Guy in Strangers on a Train (L’altro uomo, A. Hitchcock, 1951), l’arca perduta in Raiders of the Lost Ark (I predatori dell’arca perduta, 1981), il soldato Ryan in Saving Private Ryan (Salvate il soldato Ryan, 1998), i ragazzi perduti in Hook (Hook - Capitan Uncino, 1991), il Paradiso perduto di John Milton (1667), The Lost World: Jurassic Park (Il mondo perduto - Jurassic Park, 1997). E.T., aiutato da Elliott e i suoi amici, incarna così la forza necessaria per sopravvivere nel mondo sconosciuto dove ha luogo l’avventura e per ristabilire una comunicazione con il suo mondo ordinario (casa). Da qui il conflitto tra il mondo dei bambini (che stanno con E.T.) e quello degli adulti, rappresentati dagli scienziati, impegnati a catturare e, secondo Elliott, uccidere l’alieno. Alla fine, un nuovo equilibrio e una nuova risoluzione possono ritrovarsi solo attraverso il ritorno a casa di E.T. In modo simile, la linea narrativa di Elliott è costruita attorno a un mondo e un equilibrio perduto (la famiglia) dopo l’abbandono del padre – una cosa che genera in lui una particolare sfiducia nei confronti degli adulti. Da questo punto di vista, possiamo dire che E.T.

diviene la forza oppositiva che mantiene aperto il conflitto tra Elliott e suo padre assente, cioè tra Elliott e l’ordine costituito del patriarcato e del mondo degli adulti, finché la riconciliazione con Keys non compenserà questa mancanza. MITOLOGIA

Claude Lévi-Strauss8 ha esaminato miti e leggende antiche e contemporanee provenienti da culture di tutto il mondo per studiare come le narrazioni facessero da mediatore della realtà. La sua conclusione è che le strutture narrative creano significati così come li crea la mente umana: in opposizione binaria. Si tratta di sistemi di descrizione e definizione delle esperienze che, in relazione ai fruitori, risultano estremamente efficaci. Spazio Foresta Bambini E.T. Fiori Fantasia Libertà Salute Vita Guarigione Sentimento Saggezza Keys (seconda metà) Madre (presente) Famiglia Meraviglia Premura Fiducia Opposizione binaria in E.T.

Terra Periferia della città Adulti Keys (prima metà) Inquinamento Scienza Legge Malattia Morte Dissezione Pensiero Conoscenza “Le autorità” Padre (assente) Separazione Cinismo Violenza Sfiducia

Lévi-Strauss conclude che l’opposizione generale è rappresentata da natura contro cultura. Nella tabella precedentemente mostrata, gli elementi a sinistra sono in generale allineati con la prima, e quelli a destra con la seconda. Nel pensiero di LéviStrauss, inoltre, la natura è considerata come positiva e la cultura come negativa, sebbene non sia sempre così. Le opposizioni binarie dividono il mondo in due. La narrazione, alla ricerca di un’unità immaginaria, guarisce quella ferita che rimane aperta nelle esperienze reali della nostra esistenza. L’horror e la fantascienza, al contrario, riaffermano spesso distinzioni che si sono confuse: i vampiri e gli zombie richiedono l’espulsione dal regno dei vivi; i dinosauri di Jurassic Park combinano in modo mostruoso natura e tecnologia, un affronto risolto quando la natura si evolve per ristabilire il conflitto tra questi principi. Gli eroi, che spesso abbracciano sia la natura che la cultura, eliminano o ripristinano di conseguenza le opposizioni. Ad esempio, Indiana Jones usa la sua cultura accademica combinandola con gli istinti di sopravvivenza: l’intelletto accanto alla fisicità. Oskar Schindler riconosce l’umanità comune (la natura) per superare la sua alleanza con il nazismo (cultura depravata) e sfrutta la sua prossimità al mondo degli appetiti degradati (la natura) per affermare valori civilizzati di responsabilità (cultura) nei confronti dei “suoi” ebrei. Cambiando le posizioni, sia Keys che E.T., che usa la tecnologia per costruire il suo trasmettitore, oltrepassano il divario – così come fa Elliott, da un punto di vista psicanalitico, muovendosi dall’immaginario (natura) al simbolico (cultura).

CONCLUSIONI

E.T. è conforme a questo e altri modelli narratologici, incluso quello di Branigan9 e quello proposto nel 1975 da Propp per la morfologia della fiaba russa10. Tale aspetto può aiutare a spiegare la sua capacità di suscitare apprezzamento in modo così diffuso. La tipicità di E.T. non traspare in modo chiaro durante una “normale” visione, ma è maggiormente connessa a un processo inconscio. Questo fattore non ne giustifica il successo commerciale – piuttosto che un’unicità, questo fattore sottolinea quello che E.T. condivide con le altre narrazioni (i modelli narrativi ignorano come le storie sono raccontate nel loro specifico) – ma acquista un particolare significato se posto in relazione agli aspetti discussi in precedenza. Infine, come i critici hanno immediatamente evidenziato, E.T. presenta straordinari parallelismi con il Vangelo, osservabile sia nella messa in scena che nella narrazione. Elliott (la cui madre si chiama Mary) durante i primi incontri con E.T. si avvicina al capanno degli attrezzi che emana luce portando con sé un cartone di pizza, come un Magio che porta doni, seguendo le luci di fronte a lui nell’inquadratura (un tipico significante del “desiderio” nei film di Spielberg) (fig. 3); tra queste luci rientra anche la luna crescente visibile sullo sfondo, sopra la testa del personaggio, che ricorda la stella cometa di Betlemme, mentre Elliott si genuflette prima di arrivare al capanno. Più avanti nel film, i rappresentanti delle autorità che seguono il caso indossano elmi simili a quelli dei centurioni romani (fig. 4); E.T. arriva dal cielo, “lascia che i bambini vengano a lui” e compie miracoli: levita, guarisce, fa rivivere i fiori appassiti. Muore e risorge prima di tornare in paradiso, lasciando dietro di sé il messaggio: «Be good», evocando idealmente la figura del Padre. E.T. scappa infine da una “tomba” sigillata – un episodio pieno di simboli di rinascita, come la finestrella ovale sulla navicella, cordone ombelicale/tubo che entra nel retro del furgone separato dalla placenta/copertura che circonda la casa – quindi, avvolto in un mantello bianco, con il cuore rosso pulsante, stende due dita in segno di benedizione. Rappresentando sia una figura paterna, che un bambino bisognoso di attenzione e protezione, ma anche un ispiratore di sensazioni telepatiche positive che annullano le differenze tra individui – E.T. è al contempo Padre, Figlio e Spirito Santo. Spielberg, a quel tempo ebreo non praticante, non ha mai spiegato, durante le interviste, se questi parallelismi fossero consapevoli. Esponendo le similitudini tra la trama di E.T. e il Vangelo non pretendo di affermare che il cinema sappia o possa rispondere a prerogative che competono alla religione – sebbene i suoi aspetti rituali, la somiglianza tra l’architettura dei palazzi e quella dei templi, la travolgente natura dello spettacolo, lo stardom (laddove i poster sui muri sostituiscono quelle che una volta erano icone religiose), il rafforzamento dell’ideologia e l’associazione con le festività costituiscono un’ipotesi molto forte. E non sto nemmeno asserendo che la religione sia soltanto un’altra mera forma di narrazione. È tuttavia evidente come uno dei più fruttuosi intrattenimenti occidentali e la religione più diffusa al mondo mostrino notevoli similitudini. Senza cedere a misticismi offuscanti, sembra ragionevole condividere la posizione di Peter M. Lowentrout secondo la quale quella di E.T. «è la morte necessaria di chi è troppo puro e incorruttibile, in un mondo corrotto»11. Il rapporto “tele-empatico” di E.T. con gli alieni, con Elliott e con la natura, la sua capacità di fare miracoli, individuano un elemento di ampia condivisione che contraddice radicalmente una concezione individualistica dell’esistenza. Piuttosto che una complicità con le essenziali concezioni

di ordine “naturale” e di identità, il film di Spielberg manifesta e celebra, con una certa enfasi, un’attitudine carnevalesca, come è evidente dalla scena dell’ubriacatura di Elliott ed E.T., dalla loro diffidenza per le autorità, dalla perdita di individualità attraverso la telepatia e il travestimento, così come il corpo di E.T. si definisce in una profonda ambiguità sia in termini di età che di gender.

1.

2.

3.

4.

Jurassic Park di Davide Persico Jurassic Park (Id., 1993)1 è un film di grande impatto, che mette in gioco un particolare rapporto con la realtà, ridefinendo lo statuto dell’immagine filmica. È un’esperienza di visione che trasforma il visibile e lo intensifica ulteriormente, creando al contempo immagini in cui reale e artificiale si fondono perfettamente in una sorprendente costruzione illusiva. Dopo i grandi successi di Jaws (Lo squalo, 1975), E.T. the Extra-Terrestrial (E.T. l’extraterrestre, 1982), della serie di Indiana Jones (1981, 1984, 1989), Spielberg e la Universal riescono a ottenere i diritti dell’omonimo romanzo di Michael Crichton un anno prima della sua uscita. Quello che sarà il film sui dinosauri per eccellenza e un vero e proprio fenomeno di massa, costituisce fin dall’inizio, anche a livello produttivo, un’operazione commerciale ambiziosa e di grande portata. Martellante campagna pubblicitaria, grande investimento sul merchandising, il tutto prima che il film venga girato. Ma anche un’innovazione tecnica senza precedenti2 con l’utilizzo del digitale e l’uso dell’animazione, che consente al regista tutta una serie di scelte all’avanguardia per l’epoca, pure a livello produttivo3. IL PROBLEMA DELLA TECNICA

La figura del dinosauro ha sempre stimolato l’immaginario, assumendo caratteri ancestrali dalle molteplici sfaccettature4. Il cinema l’aveva già utilizzata come occasione per sperimentare nuove tecnologie, innovative, ma certamente inferiori rispetto a Jurassic Park, e al grado di verosimiglianza che è riuscito a creare. Il primo esempio degno di nota in cui si mostravano i dinosauri “dal vivo” era stato The Lost World (Il mondo perduto, 1925) di Harry Hoyt (nel 1997 il seguito di Jurassic Park avrà proprio lo stesso titolo). Qualche anno dopo sarà la volta di King Kong (Id., 1933) di Cooper e Schoedsack nel quale il mostro cinematografico per eccellenza dovrà combattere contro un dinosauro. In tutti questi e altri esempi la fusione tra elementi eterogenei reali e immaginari avveniva attraverso movimenti meccanici di modellini inanimati con le fattezze dei personaggi del film, che prendevano vita grazie alla tecnica del passo a uno, detta anche stop motion. Da Jurassic Park in poi questo procedimento viene via via abbandonato in funzione della computer grafica che risulterà molto più efficace dal punto di vista della resa delle immagini. Il film di Spielberg costituirà un vero e proprio spartiacque, chiudendo un periodo e aprendone un altro ricco di sperimentazioni sempre più innovative; e la storia degli effetti speciali sarà da quel momento in poi totalmente diversa e di conseguenza riscritta. Come ricorda Mitchell, il film «ha aperto la strada alla transizione dalle tecniche analogiche basate sulla robotica, l’animatronica e la clay animation, all’animazione digitale, processo che ha permesso di passare senza soluzione di continuità dall’azione dal vivo all’animazione»5. La computer grafica era già stata utilizzata in Westworld (Il mondo dei robot, 1973) di Michael Crichton6 e in parte in Star Wars (Guerre Stellari, 1977) di George Lucas, ma con funzioni differenti e un impiego più basso. Con il passare del tempo, il cinema si interessa sempre di più a questa tecnologia: fu la volta di Tron (Id., 1982) di Steven Lisberg, che ricostruì un mondo intero grazie al computer, rappresentandolo in wireframe7. Ma il decennio successivo vedrà Terminator 2 - Judgment Day (Terminator 2 - Il giorno del giudizio, 1991) di James Cameron dare un impulso sorprendente all’uso

del digitale al cinema. Inoltre, prima del 1993, l’interazione tra esseri reali in carne e ossa ed esseri di fantasia all’interno della medesima inquadratura mostrava una separazione netta a livello strutturale. Anche altre tipologie di film, in cui la divisione tra figure reali e immaginarie risultava molto più netta, mettevano in scena un’interazione credibile tra soggetti dallo statuto di esistenza radicalmente opposto. Who Framed Roger Rabbit (Chi ha incastrato Roger Rabbit, 1988) di Robert Zemeckis rappresenta un esempio innovativo per l’epoca, in cui umani e cartoni interagiscono tra loro con un grado elevato di coerenza. In questo caso si ha una separazione netta delle due entità, affermando la differenza dei due tipi di immagini: la luce, la consistenza e la grana stessa. Le figure contenute nell’immagine hanno dei segni differenti l’una dall’altra, ma coesistono e interagiscono tra loro in maniera armonica. Così come nel videoclip di Opposites attract di Paula Abdul del 1989, o Cool World (Fuga dal mondo dei sogni, 1992) di Ralph Bakshi. In tutti i casi, nonostante la separazione netta tra umani e cartoni, vi è una certa continuità. Quello che manca è la costruzione di figure che si mimetizzano alla perfezione con soggetti in carne e ossa, dando l’impressione che facciano parte dello stesso mondo, anche a livello di statuto. Jurassic Park ribaltata completamente questa logica e costruisce un discorso radicalmente diverso. È un nuovo modo di utilizzare soggetti irreali attraverso una costruzione più efficace del reale. E allo stesso tempo rappresenta un grado di mimetizzazione davvero sorprendente che non ha più dei referenti profilmici da inserire nell’immagine per farli muovere con lo stop motion; nè immagini a cartone animato aggiunte sulla pellicola già impressionata. L’applicazione della computer-generated imagery consente con Jurassic Park anche di lavorare sulla simulazione dei movimenti dei dinosauri con una resa plausibile e veritiera. Prima di addentrarci in questo discorso, bisogna tenere ben presente che l’immagine in generale è qualificata secondo alcuni elementi specifici, che sono: «il supporto su cui è iscritta, il suo carattere di simbolizzazione, o […] di semiosi, e la sua differenza particolare dall’oggetto»8. UN REALISMO SENZA REALTÀ

Il film elabora un discorso ontologico sul cinema e l’immagine filmica, rilanciando un nuovo approccio al realismo, e su tutto quello che concerne il cinema stesso. L’operazione che fa Spielberg è quella di conferire un carattere realista attraverso un’immagine completamente costruita e ricreata, ma che rende bene un meccanismo di mimetizzazione/occultamento della finzione, attraverso un’immediatezza trasparente. L’immagine ricostruita non riguarda solo i dinosauri, ma anche gli ambienti. Vi è un ribaltamento del concetto di realismo ontologico tanto caro a Bazin, secondo cui, grazie al cinema «un’immagine del mondo esterno si forma automaticamente senza intervento creativo dell’uomo»9. Quindi l’immagine (fotografica) sarebbe il prodotto formale della luce, indipendente dalle scelte del regista, con buona pace di Deleuze10, secondo cui l’atto di creazione era affidato all’autore, prevedendo così un’esaltazione simbolica e assoluta della sua mano. Secondo questo approccio il cinema sarebbe per eccellenza realistico, visto che si limiterebbe a riprodurre un’immagine del mondo. Come sostengono Elsaesser e Buckland «il cinema è realistico perché l’immagine fotografica produce un’impronta indicizzante della realtà»11; impronta che Bazin stesso definisce digitale, e che «si aggiunge realmente alla creazione naturale»12 senza sostituzioni. Proprio dal versante delle posizioni del teorico francese, quello che fa Jurassic Park è

infrangere questi punti di forza, ricollocandoli in un altro orizzonte. L’atto creativo è tutt’altro che indipendente dall’intervento del regista, o dagli accorgimenti tecnici della stessa macchina produttiva. L’azione del regista – o degli addetti alla computer grafica – nega la possibilità riproduttiva del cinema in maniera automatica. L’inscrizione di elementi non reali (i dinosauri) ridisegna i confini del realismo, anche attraverso una modificazione radicale della realtà largamente intesa. Così facendo, la realtà si piega alle esigenze produttive del film e di conseguenza allo stesso mondo diegetico. È la realtà stessa a cambiare statuto, dal momento che il nonreale (nel nostro caso i dinosauri) viene trasformato in reale, coabitando davvero con i soggetti che sono effettivamente reali già all’interno del profilmico. E i residui del profilmico – i soggetti umani trasformati in immagine filmica – interagiscono con il prodotto della grafica computerizzata senza impaccio ma con grande credibilità, affermando un’illusione di realtà senza precedenti per l’epoca. Diversi sono gli aspetti di questa trasformazione. Innanzitutto, la questione dello spazio. È da esso che emerge la trasformazione della realtà, attraverso la coesistenza tra umani e dinosauri. Cioè, due figure, due entità radicalmente diverse tra loro che trovano in questa dimensione l’ambito per mostrarsi in tutta la loro credibilità. Il terreno privilegiato è quello dell’inquadratura, dalla quale scaturisce un realismo che si fa unità spaziale. L’immagine, pur presentando una struttura stratificata dovuta ai diversi livelli delle componenti eterogenee presenti al proprio interno, configura un grado di omogeneità davvero sorprendente. Il riferimento prima di tutto è alla fotografia, che si basa sull’esistenza fisica di un oggetto o un soggetto che vengono ripresi. Essa «dipende dalla presenza di un oggetto reale preesistente, la cui immagine viene riprodotta autonomamente grazie all’ottica, alla meccanica e alla fotochimica (o elettronica nel caso del video)»13. È quindi un’immagine analogica, che ha un rapporto più o meno diretto con l’orizzonte fenomenico. Lo riproduce, fissandone il momento in cui viene fotografato. Allo stesso modo il cinema riproduce un soggetto precedentemente ripreso, trasformandolo in immagine filmica. Ma in entrambi i casi la riproduzione è anche una produzione di una trasformazione dell’oggetto preesistente, che ne ridefinisce lo spessore, le dimensioni e la sua qualità. Tutto questo discorso va bene nell’ambito analogico. Tuttavia la questione cambia totalmente in quello digitale, e Jurassic Park costituisce proprio un esempio privilegiato. L’immagine digitale non è più il prodotto di una trasformazione ottica, meccanica e foto-chimica di un orizzonte fenomenico preesistente. Essa è «generata da codici digitali numerici»14; che ne trasformano la realtà «raffigurata sulla base di un logaritmo [algoritmo]»15. Il film inaugura una sorta di biopicture: «un’immagine […] a cui sono stati conferiti movimento e apparenza di vita per mezzo delle tecnoscienze della biologia e dell’informatica»16. Essa «fonde la precedente “vita spettrale” delle immagini (l’inquietante, il fantasmatico) con una nuova forma tecnica di vita, che trova la sua incarnazione nei fenomeni contemporanei della clonazione e dello sviluppo dell’immagine e dell’animazione digitale»17. Questo aspetto dello statuto dell’immagine digitale consente un controllo totale dei pixel che apre a possibilità inimmaginabili, tra cui la trasformazione e deformazione dell’immagine stessa. Jurassic Park mette in scena questo controllo dei codici digitali che, soprattutto nei film successivi del brand, andrà sempre più affinandosi per dare possibilità molteplici nella costruzione perfetta e coerente dei dinosauri stessi. L’immagine digitale sopperisce a un limite strutturale di quella analogica. È una

costruzione di una nuova realtà attraverso un inganno sensoriale18. Ma è un inganno inteso come prodotto di una progettazione dell’illusione. Lavora su un controllo totale dei codici digitali e cinematografici per dare un risultato perfetto all’interno della diegesi. Ed è da notare che proprio questo risultato «è rappresentato da un’immagine composita o stratificata, che costruisce in teoria un’unità spazio-temporale, all’interno della quale due eventi distinti sembrano verificarsi in sincrono»19. L’apertura di un’unità spazio-temporale presuppone una trasformazione dell’immagine – e del mondo diegetico – in cui, proprio perché stratificata, ha al suo interno diversi livelli di composizione. Ci sono i residui del profilmico trasformati in immagine filmica e le creazioni del digitale che pongono l’assenza di qualsiasi referente profilmico. Ma ci sono anche gli effetti speciali invisibili inerenti alla costruzione degli ambienti dello spazio diegetico. Uno degli esempi più lampanti del film è l’inquadratura che mostra i due scienziati e Hammond di spalle che guardano i dinosauri nel loro ambiente (fig. 1). Escluso gli umani, tutta l’immagine è completamente ricostruita digitalmente. In questo senso, se come sostiene Deleuze, «un’opera è sempre la creazione di un nuovo spaziotempo»20, il discorso di Jurassic Park è ancora più articolato perché l’immagine digitalmente costruita simula «degli eventi impossibili in un contesto reale (ma plausibili in un mondo alternativo)»21, come se accadessero naturalmente. Vediamo nel dettaglio alcune innovazioni del film. In primo luogo le interazioni. Elementi eterogenei vengono impressi in un’unica inquadratura dove i dinosauri digitalmente costruiti interagiscono all’interno di scene di live action con soggetti umani e ambienti reali o digitali. In secondo luogo i movimenti di macchina. Pur non esistendo nessun referente profilmico dei rettili preistorici, eccetto qualche animatronic, il film integra in maniera perfetta i movimenti della mdp con gli attori, i dinosauri e i vari effetti speciali, amalgamando il tutto a livello compositivo. In questo senso: «Hanno […] lo stesso peso e consistenza dello sfondo fotografico e degli attori»22. In terzo luogo il motion blur. Il film risolve per la prima volta il problema della scia visiva prodotta dal movimento degli attori. Mentre con l’animazione in stop motion venivano registrati movimenti fissi fotogramma per fotogramma, senza mostrare la scia di movimento, Spielberg riesce a integrare la scia ottica degli umani con quella digitale dei dinosauri, facendo credere che entrambi i soggetti agiscano all’interno dello stesso contesto visivo. Tutti e tre i punti si integrano con il tema dello spazio che conferma la verosimiglianza dell’integrazione foto-realistica che diventa sempre più iperrealistica. All’interno di un discorso dialettico tra logica dell’ipermediazione e immediatezza trasparente, quest’ultima risulta problematica. In questo senso, come sostengono Bolter e Grusin: «poiché nessuno ha mai visto un dinosauro vero, lo spettatore è invitato a confrontare la grafica con ciò che egli ritiene plausibile […] da altre opere cinematografiche o narrative»23. Ma oltre a questi aspetti prettamente tecnici, emergono ulteriori questioni che ridisegnano e influenzano la funzione della mdp che segue i dinosauri; e della luce stessa che assume forma omogenea per mostrare gli umani, i dinosauri e l’ambiente. LA LOTTA PER L’EGEMONIA VISIVA

Questo discorso tecnico-filosofico sulle innovazioni visive che introduce Jurassic Park si inserisce nella narrazione e nella stessa messa in scena, aderendovi in maniera uniforme e suscitando interpretazioni interessanti. La coesistenza tra esseri reali che hanno un residuo profilmico evidente ed esseri digitali che fingono di averlo, si realizza

attraverso dinamiche visive diverse. Per esemplificare, si può considerare il film come la lotta di questi due mondi per l’egemonia visiva, per la conquista della posizione (e del ruolo) nell’inquadratura, per il dominio della dimensione spaziale, che non sempre è naturale. Soprattutto nella sequenza di apertura, il rapporto tra umani e dinosauri è legato a una presenza iniziale dei primi, e a un occultamento dei secondi, relegati quasi a merce da spostare. È come se queste inquadrature mostrassero un’evoluzione dell’immagine nel rapporto tra realtà e finzione, tra umani reali e dinosauri artificiali, assegnando a entrambi lo stesso statuto a livello diegetico. All’inizio le due “realtà contrapposte” sono separate. Gli operai trasportano la gabbia con il dinosauro, senza mostrarlo (fig. 2). Il rettile si trova in una situazione di negazione di se stesso come immagine nel mondo. E viene negata la sua immagine sia allo spettatore ma anche ai personaggi addetti al trasporto della gabbia. È la negazione di una visione che non è solo configurazione della traccia ma orizzonte di occultamento potenziale dotato di una fragilità statutaria. Inoltre, la sequenza mette in mostra l’intera precarietà dell’universo di Jurassic Park. Il film inizia proprio con l’illusione di controllare i dinosauri (discorso che Ellie ribadirà in più di un’occasione allo stesso Hammond). Tutta la narrazione scaturisce da una precarietà dei sistemi di sicurezza, dei procedimenti di occultazione e relegamento dei dinosauri predatori nei loro recinti, nel loro habitat, nella loro condizione di esistenza naturale artificialmente costruita. Ma anche nella dimensione spaziale che li configura come tracce, come frammenti, come residui visivi della loro interezza. Già all’inizio, durante l’incidente, l’unica cosa che viene mostrata è l’occhio, quindi una sola parte, un frammento del dinosauro. All’inizio i rettili sono relegati a mera traccia audio, non ancora immagine vera e propria. Proprio per questo, il rapporto tra le due entità avviene attraverso un’evoluzione visiva inscritta nella narrazione che man mano diminuisce la loro distanza. Inizialmente (escludendo il segmento di apertura) il rapporto che si instaura è quello di sola osservazione, come avviene nella sequenza in cui i due paleontologi osservano sbalorditi il brachiosauro da sotto, oppure guardano il loro habitat (completamente ricreato in digitale). Un’altra occasione per avvicinarsi agli animali preistorici è offerta dal ritrovamento, durante il tour, di un triceratopo in pessime condizioni di salute che necessita di assistenza medica (fig. 3). Ellie si avvicina al dinosauro, visitandolo e diagnosticando la possibile causa dei sintomi. In questo caso però, si tratta di un animatronic che funziona senza interventi digitali. Dallo smarrimento iniziale si passa a una sorta di osservazione diretta, dal vero. E questa osservazione diretta avviene, anche se ridimensionata, nella sequenza in cui si assiste alla schiusa dell’uovo di velociraptor (fig. 4). Un po’ per tutto il film, questi rapporti sono supportati da un intento prettamente scientifico. Anche il tour, che illustra i procedimenti grazie ai quali sono stati creati i dinosauri, è basato in parte sull’osservazione: i visitatori sono collocati in una sorta di sala cinematografica che ne afferma la condizione spettatoriale24. Ma a un certo punto, Alan e gli altri, stanchi di non interagire con ciò che vedono, ribaltano la loro situazione di partenza, ed entrano nello schermo che, nel frattempo, si è aperto come una vera e propria porta verso il laboratorio genetico. Il ribaltamento della condizione spettatoriale influisce anche sulla narrazione. Il venir meno della distanza tra lo schermo e il suo spettatore anticipa quella tra umani e dinosauri; e la coesistenza nella stessa inquadratura diventa più che altro una lotta per la conquista visiva di una specie sull’altra. Nella sequenza di

apertura l’azione violenta del dinosauro nascosto e la tragica morte dell’operaio è dettata dalla volontà di mostrarsi, di non essere relegato in una gabbia, e diventare così oggetto di visione e di esibizione esplicita della propria fisicità digitale e artificiale. Essa ha un grado di verosimiglianza alquanto elevato, che convive perfettamente e armonicamente (almeno a livello visivo) con gli esseri umani; portatori di un’istanza di realtà e un grado di verità più forti. Sulla volontà di primeggiare all’interno del visibile, possiamo dire che il desiderio di un’entità che non è al momento né soggetto di sguardo che agisce né oggetto di sguardo che si esibisce va in direzione di una processualità che la trasforma in un vero e proprio soggetto vedente. E questo aspetto è alquanto dirompente, tant’è che è capace di innescare la seconda parte del film e determinare così la fuga dei soggetti umani dal campo visivo dei dinosauri. Dal punto di vista della presenza visiva dei dinosauri, il finale riporta il film alla situazione di partenza. The Lost World: Jurassic Park ribalterà questo aspetto, tanto che il film si aprirà proprio con la sequenza dei compsognati che attaccano la piccola Kathy. In Jurassic Park, nonostante la motivazione, si ritorna all’occultamento iniziale. La supremazia del campo visivo passa anche per la negazione del punto di vista e dello sguardo antropomorfi, compresi quelli dello spettatore. Il desiderio di mostrarsi e di abitare il campo visivo da parte dei dinosauri predatori è un divenire che pone inizialmente una frammentazione degli stessi, fino a che non si mostrano esplicitamente. È un espediente che Spielberg aveva già utilizzato per Jaws, in cui la tensione narrativa era costruita senza quasi mai mostrare lo squalo, configurandolo come un unico frammento: la pinna dorsale. Ma in questo caso la funzione diegetica è diversa. Per Jurassic Park il mostrarsi dei predatori incrementa la tensione in maniera progressiva, assegnando ritmo alla narrazione. La costruzione frammentaria dei dinosauri non fa altro che costruire più una situazione di attesa che di suspense vera e propria. È come un climax ascendente che determina le scelte registiche e influenza i movimenti di macchina, al di là degli aspetti complessi della costruzione dell’immagine “stratificata” visti precedentemente. Almeno all’inizio, il discorso sulla frammentazione si ritrova in diversi segmenti. Anche quando viene mostrata la pecora come pasto del T-Rex, quest’ultimo non viene rivelato nella sua interezza, ma si dà come frammentazione de-soggettivante. Al contrario, la soggettivazione dei dinosauri, a livello narrativo, passa esplicitamente attraverso lo sguardo del dinosauro, del suo occhio ripreso da dentro la Jeep che osserva minaccioso Tim e Lex (fig. 5). Visivamente, anche quando sono mostrati più chiaramente, emergendo nelle loro fattezze, i dinosauri rimangono in parte frammentati. Inizialmente sono solamente i brachiosauri e i parasaurolofi a comparire nella loro interezza, ma attraverso dei campi lunghi che non definiscono abbastanza bene le fattezze e i contorni della loro immagine. Nelle sequenze successive il T-Rex e i velociraptor entrano nell’inquadratura per intero. Il primo quando esce dal recinto, o durante l’inseguimento della Jeep e alla fine quando è ripreso in figura intera nel museo; i secondi nella sequenza al centro visitatori che danno la caccia ai due fratellini. LO SGUARDO SENZA REFERENTE

La logica narrativa del film si allaccia a un discorso che attraversa il cinema americano degli ultimi trent’anni, in relazione al processo di fruizione. Non riguarda solo il pubblico, certamente giovane, attirato dalle creature preistoriche che sembrano riprese dal vero, ma sono proprio i processi identificativi che vengono scardinati e totalmente

messi in discussione. Sebbene il film abbia dei protagonisti umani, in una logica di identificazione i rettili agendo visivamente, seminando il panico e la morte, reclamano la loro presenza nella narrazione. Nel momento in cui viene meno la logica visiva di relegazione dei predatori nei recinti elettrificati – impedendo ai due universi di entrare l’uno nell’altro – cambia radicalmente il regime narrativo e visivo, intensificando in maniera spasmodica l’azione. I dinosauri rivendicano non solo una presenza scenica privilegiata, cioè l’occupazione del visibile, ma anche un ruolo importante, il cambiamento della funzione narrativa. Da mero oggetto di sguardo, posto in un determinato luogo per essere guardato, diventano il soggetto fondamentale dell’azione, ma anche dello sguardo, trasformando la stessa logica narrativa. Paradigmatico anche in questo caso è l’occhio del T-Rex che guarda i due ragazzini intrappolati nel veicolo. L’occhio si apre per mettere a fuoco, e così facendo apre uno squarcio all’interno della narrazione, ma anche della messa in scena. Da quel momento in poi è la logica compositiva dell’immagine a subire il tracollo prepotente da parte dei dinosauri. Essi non fanno altro che occupare la scena. La dimensione spaziale è alterata, e attraverso una logica centripeta irrompono nell’immagine, aprono spazi, varchi simbolici che intaccano la visione. Nel momento in cui i predatori rivendicano la loro presenza visiva, ridisegnano al contempo il terreno di scontro all’interno di un ambiente a loro per niente ostile. È un nuovo ecosistema che vuole prendere il sopravvento e che non può essere controllato dagli umani. Il cambiamento riguarda anche il modo di venire inquadrati e di instaurare il rapporto con la mdp, che diventa spesso frontale. Sono primi piani dei dinosauri che si esibiscono anche nella loro fisiologia, esprimendo istinto e pericolosità. La mdp è collocata in basso, anche per iscrivere lo spettatore nello stesso punto di vista degli umani. Nell’ambito dei predatori troviamo un altro dinosauro che esibisce la propria fisicità e reclama in maniera differente il proprio posto all’interno dello spazio visivo: il dilofosauro (fig. 6). Esso è mostrato nella sua bellezza letale con il collare dalle membrane colorate. In questo caso, a differenza degli altri predatori, il dinosauro e l’uomo (il programmatore Dennis Nedry) partono da una situazione iniziale paritaria. Il rettile è incuriosito dall’uomo, muove il collo come se fosse perplesso nel vederlo nello stesso spazio. L’umano non sembra tanto badare alla pericolosità del dinosauro – che lo tratta come se fosse un cagnolino – ma più interessato a trovare un modo per fuggire dal parco dopo che la sua Jeep è rimasta impantanata in bilico sulle rocce. È un confronto che poco dopo si trasforma in un duello, soprattutto quando i due soggetti si trovano uno di fronte all’altro in attesa di fare la prima mossa. Chi agisce per primo è proprio l’animale che dispiega dal collo due membrane (come se fossero pistole) e “spara” il veleno fatale per l’uomo. In questo caso non vi è solo la lotta per la supremazia dello spazio da parte di due soggetti idiosincratici. L’uomo ha intenzione solo di andarsene dallo spazio del dinosauro e dal parco in generale, per raggiungere il molo con gli embrioni rubati. Quella che attraversa il segmento è una logica di esibizione. Proprio per le sue caratteristiche, per il collare con le membrane colorate e la forma del cranio, questo rettile mostra la propria fisicità a discapito di un’azione più intensa, come avviene per gli altri predatori. È un qualcosa di bello da vedere, un oggetto di sguardo che non sopporta (e supporta) lo sguardo. Non a caso il veleno viene gettato sugli occhi di Nedry, che da quel momento in poi non avrà scampo. Il discorso sulla logica compositiva e sul modo di inquadrare i dinosauri si contrappone,

tuttavia, a quello dei soggetti umani. Alan, Ellie e i due fratellini vengono spesso inquadrati frontalmente, talvolta in semi soggettiva, o con la mdp collocata in modo da assumere un altro punto di vista, che non è quello del dinosauro, ma, identificando lo spettatore attraverso una mdp che non è più oggettiva, si soggettivizza come visione alternativa. È il punto di vista della natura che sovrasta e ingloba l’antropologico, per espellerlo dal suo ambiente nel momento in cui non riesce a iscriverlo totalmente al proprio interno. Non a caso la prima cosa che nota Ellie dentro al parco è proprio una pianta estinta milioni di anni fa. È la natura che si ribella alla presenza dell’essere umano e al suo tentativo di controllarla e di ricrearla, e si ribella anche alle contaminazioni tecnologiche. L’unico personaggio umano che non subisce le logiche visive degli altri è Ian Malcom (fig. 7), un personaggio che si muove in un’ottica diversa. Mentre Alan ed Ellie sono al Jurassic Park per avallare scientificamente l’operazione realizzata da Hammond, il matematico teorico del caos non ha una vera propria ragione per trovarsi lì. Questa anomalia si riversa nella caratterizzazione particolare del personaggio. È infatti scettico, sicuro di sé, spavaldo, eccentrico, misterioso anche nella sua fisionomia discordante. Al contrario, Alan assume nella sua connotazione alcuni stilemi tipici del cow-boy. Ha una certa durezza, rifugge da alcune logiche familiari. Detesta profondamente i bambini, prima di vivere con Lex e Tim l’avventura che lo cambierà nel profondo, prendendosene cura e difendendoli come un padre. L’IMMAGINARIO CINEMATOGRAFICO E L’IBRIDAZIONE DEL GENERE

Jurassic Park è anche un vettore che fa riferimento a generi e modelli cinematografici consolidati, riscrivendone i confini. Lo scontro all’interno del sistema degli umani veicola un modello ideologico molto forte che il film, in più di un’occasione, mette in crisi, senza però mai ribaltarlo completamente. Sia Alan che Ian, al di là del diverso temperamento, del diverso look, e dell’immaginario che sono in grado di produrre, pur portando un modello sociale, antropologico, culturale diverso, veicolano una stessa accettazione positiva di un sistema socio-economico. Alan oscilla tra il cow-boy senza macchia e senza paura, e l’avventuriero alla Indiana Jones. Non a caso il cappello che indossa in poche occasioni ricorda quello del celebre archeologo. Ian, dal canto suo, è l’intellettuale esistenzialista perennemente vestito di scuro, individuale e calmo, che vede il mondo attraverso i filtri di un paio di occhiali scuri che ne determinano la personalità. Anche se tentano di mettersi in salvo nel primo incontro con il T-Rex (fig. 8) attraverso strategie differenti, e dagli esiti nefasti25, in tutti e due i casi il loro sistema è efficace e porta con sé quell’istanza individuale che riguarda la cultura americana, quell’individualismo legato alla comunità, alla collettività, come esempio del sogno americano. Individualismo, immaginario, sogno americano sono tutti fattori che modificano i confini del genere in cui collocare Jurassic Park. È un film d’avventura? Non solo. È un horror? No, ma lavora sulla tensione usando strategie simili, soprattutto nella costruzione di esseri alternativi al nostro mondo inscritti in un contesto temporale diverso. È uno science-fiction? Nella misura in cui utilizza la scienza o aspetti simili collocandoli in un contesto di fantasia che trasgredisce alcune regole. Bisogna anche dire che il film solleva aspetti relativi al cinema drammatico, mostrando una vicenda sentimentale tra Alan ed Ellie in una fase di stallo che problematizza ulteriormente la collocazione di Jurassic Park. Per semplificare, potremmo iscriverlo nel vero e proprio

genere del blockbuster, in quanto «risponde pienamente ai requisiti di spettacolarità […] e al raggiungimento di un nuovo traguardo dell’immaginabile»26, il cui intento è il «superamento dei traguardi raggiunti dalle pellicole precedenti»27. Vi è inoltre un’inversione simbolica delle funzioni tra umani e dinosauri. Essa riguarda soprattutto Alan ed Ellie. A un certo punto sono i due professori a venire osservati, quasi studiati, ribaltando completamente la loro condizione e funzione, la loro connotazione. Il rovesciamento costante della logica narrativa, della funzione dei personaggi e delle dinamiche di sguardo interessa anche la funzione sociale dei due protagonisti. I due professori abituati a studiare le ossa e l’ambiente, i resti fossili di esseri estinti milioni di anni fa, diventano essi stessi l’oggetto di osservazione, attraverso un meccanismo di significazione alquanto particolare. La logica viene ribaltata perché l’incontro tra i due mondi avviene al di fuori di qualsiasi contesto storico e geologico effettivo. Sono due realtà che si scontrano e sono due realtà interpretanti e interpretabili che confliggono tra loro. Si potrebbe dire che il vero e proprio parco è il prodotto di un’interpretazione del mondo dei dinosauri, del loro habitat, dove l’uomo non era ancora comparso. Il Jurassic Park è per l’appunto l’interpretazione di un ecosistema estinto ricreato artificialmente che mette alla prova le teorie scientifiche sui rettili preistorici. Questa conoscenza delle abitudini, del comportamento dei dinosauri diventa anche fonte di salvezza, o comunque una possibilità, nel momento in cui gli umani diventano prede; soprattutto per Alan ed Ellie che conoscono bene gli studi in proposito. Gli umani quindi fuggono dal risultato delle loro interpretazioni, e si salvano perché queste interpretazioni sono corrette. Studiare i dinosauri, oltre a significare la conoscenza del loro habitat, delle abitudini alimentari ecc., ha importanza per trovarne i punti di forza, ma anche i punti di debolezza che determinano l’efficace strategia di salvezza degli studiosi. Da questo punto di vista le poche vittime del film sono dei personaggi avidi come Nedry e Gennaro, o il cacciatore che si trova nella trappola dei Raptor. Al di là di questo, al di là dei generi, quella che pone Jurassic Park è proprio la questione dell’immagine. Se essa è il prodotto di un’assenza, implica per forza la sostituzione dell’oggetto non-presente con qualcosa di diverso. I dinosauri rivendicano il riempimento di questa assenza, colmandola con una presenza ancora più complessa. È l’immagine di un’immagine che non ha referenti nel mondo reale. In altre parole, l’immagine dei dinosauri è una copia differenziale di una copia differenziale che non solo non ha originale, ma ha perso la propria origine: un simulacro.

1.

2.

3.

4.

5.

6.

7.

8.

Schindler’s List di Thomas Elsaesser Schindler’s List (Schindler’s List - La lista di Schindler, 1993) è il sedicesimo lungometraggio di Steven Spielberg1. Il film è tratto dal romanzo di Thomas Keneally, Schindler’s Ark, pubblicato nel 1982, costruito a partire dalle testimonianze di alcuni degli oltre mille sopravvissuti allo sterminio che furono salvati da Oskar Schindler, un imprenditore tedesco che durante la guerra aveva spostato i suoi affari nella Polonia occupata dai nazisti. Thomas Keneally venne per caso a conoscenza della storia di Oskar Schindler, a seguito di un incontro fortuito con Leopold Pfefferberg, uno degli ebrei salvati da Schindler che dopo la guerra era andato a vivere negli Stati Uniti. Fu Pfefferberg a fornirgli la documentazione principale e a spingerlo a scrivere il libro che nel 1982 vincerà il prestigioso Booker Prize. A quell’epoca Spielberg aveva appena girato E.T. the Extra-Terrestrial (E.T. l’extraterrestre, 1982). Si interessò subito al romanzo di Keneally, con cui ebbe alcuni incontri già sul finire di quell’anno. Come Spielberg ribadirà più volte, non si riteneva pronto per affrontare un tema del genere ma era determinato a fare il film. Schindler’s List uscirà negli Stati Uniti nel dicembre del 1993 (in Italia, l’11 marzo del 1994) oltre dieci anni dopo il romanzo. Il film segue la vicenda di Schindler a partire dal suo arrivo a Cracovia, nel 1939. All’inizio Schindler è determinato a fare affari a buon mercato, sfruttando la sua abilità nelle pubbliche relazioni e le opportunità della guerra, avvalendosi della manodopera degli ebrei perseguitati dai nazisti. In seguito, dopo le operazioni di rastrellamento e liquidazione del ghetto di Cracovia, Schindler inizia a cambiare atteggiamento, impegnandosi per salvare quanti più ebrei possibile, utilizzando come copertura la sua fabbrica di vettovaglie per l’esercito nazista. Nonostante il tema trattato, l’uso del bianco e nero e la durata (195’), Schindler’s List diventa subito un evento mediatico e un successo planetario al box-office. Nessun altro film sui temi della Shoah aveva sin lì goduto della stessa, straordinaria attenzione che si generò attorno al fenomeno Schindler’s List. In tal senso, non è solo un film chiave per la carriera di Steven Spielberg, ma anche un’opera fondamentale nella costruzione della memoria pubblica della Shoah. Schindler’s List generò una mole impressionante di dibattiti, discorsi ed esternazioni pubbliche attorno alle modalità di rappresentazione degli eventi storici legati allo sterminio degli ebrei d’Europa e, in particolare, alla possibilità di mostrare in un film la morte per asfissia nelle camere a gas, utilizzando gli strumenti della narrazione hollywoodiana (suspense, empatia, voyeurismo) anziché il pathos della distanza di documentari storici come Notte e nebbia (Nuit et Brouillard, A. Rensais, 1955) o Shoah (Id., C. Lanzmann, 1985)2. È su questi temi, sul rapporto tra documentazione, testimonianza e finzione, e soprattutto sul più ampio confronto tra la cultura europea e americana alle prese con il racconto della Shoah, che il film di Spielberg resta ancora oggi un punto di riferimento decisivo. STORIA E MEMORIA

La storia, in quanto indice affidabile di ciò che è accaduto in passato, sembra essere ormai entrata in un’area concettualmente indefinita. La memoria, al contrario, specialmente quando in contrasto con la storia, ha progressivamente guadagnato valore e importanza nel discorso pubblico. A partire dalla fine degli anni ottanta, e soprattutto nel corso degli anni novanta, la linea attraverso la quale la memoria passa dentro la storia è diventata incerta, facendo etichettare con il termine “postmoderno”

tutti quei casi in cui il confine è stato attraversato e ri-attraversato in entrambe le direzioni. Cosa ne è però della memoria degli eventi che rivivono nella nostra cultura grazie alle immagini e ai racconti che ci hanno lasciato? Ci sono dei momenti in cui raccontare storie non sembra più di grande aiuto. Con il postmoderno più avanzato un altro tipo di pratica ha preso il sopravvento nello spazio pubblico: un impulso ossessivo, un intreccio di fantasia e trauma che si manifestano in atti di ripetizione, ri-narrazione e ri-vissuto. Le guerre civili, i traumi collettivi, le “violenze tribali” suggeriscono ormai una tendenza alla ripetizione – attraverso la memoria religiosa ed etnica, riaccesa dal rancore –, a rimettere in scena ingiustizie subite o a cercare vendetta3. Da questi temi sorgono alcune delle tante questioni sollevate da Schindler’s List. Nella seconda metà del secolo scorso, il nome “Auschwitz” ha incarnato l’insostenibile peso della storia, la sua “fine”, il dovere della memoria e, a partire dagli anni cinquanta, ha trascinato con sé un inesauribile dibattito etico-filosofico riattivato proprio in occasione di Schindler’s List. Una delle questioni più persistenti è legata proprio alle “immagini di Auschwitz”. Ovvero, se Auschwitz possa o meno rappresentare qualcosa in assoluto, al di là di sé stesso, come luogo e caso-limite della cultura e della storia europee, nella sua crudezza e nella sua incomprensibile singolarità. Col tempo, questo luogo e i significati che trascina con sé sono divenuti la pietra di paragone per una serie di dibattiti circa l’idea stessa di rappresentazione, o meglio di quali siano i limiti (etici, morali) del sistema delle rappresentazioni legate ai campi di sterminio. Auschwitz demarca in tal senso il limite stesso dell’idea di rappresentazione4. Il film di Steven Spielberg è diventato subito, sin dalla sua uscita, uno dei maggiori eventi internazionali che hanno occupato la scena pubblica, in parte anche grazie alla coincidenza con l’apertura dell’Holocaust Museum di Washington nel 1993 che, assieme allo Yad Vashem di Gerusalemme, è tra i più importanti musei e centri di ricerca al mondo sulla memoria dell’Olocausto. In tal senso, il film di Spielberg e il museo di Washington rappresentarono all’epoca una marcata appropriazione americana della memoria della Shoah. Subito dopo la sua uscita, Schindler’s List è stato paragonato a Shoah, il documentario di Claude Lanzmann realizzato nel 1985 che ha cambiato profondamente la nostra conoscenza degli eventi legati alla macchina dello sterminio (a cominciare dalla diffusione del termine “Shoah”). I due film sono stati spesso evocati insieme in un lungo dibattito sui limiti della rappresentazione – osservati con religioso distacco dal documentario di Lanzmann che raccoglie le voci e le testimonianze dei sopravvissuti e dei carnefici coinvolti nello sterminio, e invece “oltrepassati” dal film di Spielberg che conduce lo spettatore sin dentro le camere a gas (fig. 1). Ma la polemica che ha investito i due film non è semplicemente legata alla questione del “visibile” e all’idea di mostrare o non mostrare le camere a gas. Data l’enormità e la serietà del tema, sarebbe puramente presuntuoso anche solo chiedere se il cinema abbia un qualche ruolo nel delineare lo spazio morale o concettuale dell’irrappresentabile5. A proposito di Schindler’s List ci sono stati critici che hanno concluso le loro recensioni suggerendo che non dovremmo mai dimenticarci come, durante la sua breve storia, il cinema abbia regolarmente messo in guardia dalle dinamiche del fascismo, ma allo stesso tempo il fascismo è anche stata l’ideologia che ha fatto tesoro della sua potenzialità propagandistica6. Similmente, uno degli studi critici più incisivi sulle dinamiche ideologiche del fascismo (Reflections of Fascism di Saul Friedländer) basa i propri esempi negativi sul cinema, facendo però riferimento anche alla letteratura e alle arti7. Eppure, non soltanto i film di cineasti europei, da

Notte e nebbia di Alain Resnais a Hitler, ein Film aus Deutschland (Hitler, un film dalla Germania, 1977) di Jürgen Syberberg, si sono confrontati con il fascismo e l’Olocausto in uno spirito di impegno e tormento morale. Molti di loro l’hanno fatto proprio per concentrarsi sul problema della rappresentazione. I film Nicht versöhnt oder Es hilft nur Gewalt, wo Gewalt herrscht (Non riconciliati o solo violenza aiuta, dove violenza regna, 1965) di Jean-Marie Straub e La Guerre d’un seul homme (1981) di Edgardo Cozarinsky, per esempio, giustappongono minuziosamente suoni e immagini in modo da sottolineare le differenze che intercorrono tra ciò che è rappresentato, ciò che viene detto e ciò a cui ci si riferisce. Tra i diversi film apertamente commerciali o popolari degli ultimi vent’anni che hanno avvicinato le rappresentazioni dell’orrore del nazismo, non tutti si sono appoggiati su modelli spettacolari. Schindler’s List può definirsi un raro esempio di drammatizzazione della vita nel ghetto, o della “realtà” dei campi, ma non è l’unico. Film cechi (Transport z ráje, Z. Brynych, 1962), polacchi (Pasaz˙erka, A.j Munk, 1963), della Germania Est (Sterne, K. Wolf, 1966) e Ovest (David, P. Lilienthal, 1979) vengono alla mente8 e, come molti commentatori hanno notato, se Schindler’s List fosse stato prodotto in uno dei paesi dell’Est Europa, da chiunque all’infuori di Spielberg, sarebbe probabilmente passato inosservato9. Più precisamente, forse, la questione è se e quanto gli effetti della “melodrammatizzazione, sentimentalizzazione e lubricità”, costituiscano il limite con cui ogni tema legato alla rappresentazione deve confrontarsi, incluso quello che prende Auschwitz come punto di partenza. Per quanto caratterizzati in senso negativo da giudizi sul decoro e sul gusto, questi effetti evocano un’affettività e dunque un rapporto con la soggettività, cruciale non soltanto nel cinema. Si può sostenere che le emozioni appartengano a qualsiasi discorso relativo alla vita e alla morte, sia per quelli cui la storia ha riservato un posto da spettatori, ma anche per coloro incaricati di trasmettere la compassione e preservare la memoria. Schindler’s List ha avuto tra i propri sostenitori esperti non appartenenti al mondo del cinema, i quali hanno argomentato la necessità di includere tali sentimenti nel costruire la storia, sostenendo che le risorse cinematografiche quali il dramma, il melodramma, la suspense e la violenza sono legittimate quando schierate per questi fini: In quanto contributo per la cultura popolare, può solo che fare un buon servizio. La negazione dell’Olocausto potrebbe o potrebbe non essere uno dei maggiori problemi in futuro, ma l’ignoranza, la noncuranza e l’indifferenza nei confronti dell’Olocausto sono destinati a manifestarsi, e Schindler’s List è probabile che faccia qualcosa, così come qualsiasi opera può, per contrastare tali atteggiamenti e mancanze10.

Bryan Cheyette ha sostenuto come Shoah e Schindler’s List siano rappresentazioni diametralmente opposte e tuttavia anche intimamente in relazione l’una con l’altra11. Quello che Lanzmann giustamente trova impossibile da rappresentare sullo schermo, Spielberg fa del suo meglio per farlo comparire. Molta dell’irritazione di Lanzmann deriva dal fatto che le testimonianze contenute in Shoah diventano immagini in Schindler’s List. Per questa ragione, il realismo e sentimentalismo popolare di Schindler’s List fanno l’ennesimo sberleffo all’implacabile scetticismo modernista, intellettualmente incontestabile di Lanzmann. L’esperienza del film è, per eccellenza, composta da emozioni empatiche e mimetiche. Il suo ambiguo gioco d’identificazioni risponde dunque a un’interpretazione di tipo “melodrammatico” in modo più ovvio che a un’estetica e a un’ermeneutica “modernista”. A questo proposito, il cinema, soprattutto il cinema popolare, sta sul versante dell’eccesso, del perverso o del compulsivo, piuttosto che essere caratterizzato

da un’estetica del distaccamento e della distanza12. Anche il caso limite di Shoah è vincolato a una retorica fatta di pathos, ironia ed effetto13. «HOLOCAUST»/«SHOAH»/«SCHINDLER’S LIST»

È facile notare come un’argomentazione di questo tipo possa essere applicata anche a Schindler’s List. L’eroe di Spielberg – come si può evincere ben prima dei titoli di coda che dedicano il film a Steve Ross (compianto Chief Executive Officer della Time-Warner) – è un giocatore d’azzardo, uno che prende rischi, uno showman il cui momento di gloria e coraggio morale è intimamente connesso a una circostanza di guerra, vista come un periodo in cui “l’economia reale” è coperta o sospesa da una specie di “economia simbolica” della politica del rischio calcolato, del bluff e della spacconeria: a noi ben nota per la tendenza (delle ultime decadi) ai mega-trattati, alle fusioni tra grosse aziende e alla circolazione di titoli spazzatura. Nella sua prima scena importante con Itzhak Stern, Schindler si definisce come un uomo in grado di avere la meglio negli affari grazie al proprio fascino e alla capacità di convinzione; questo permette al pubblico di “riconoscerlo”, e da lì in avanti rende la sua motivazione psicologicamente coerente, proprio come richiesto da una narrazione hollywoodiana (fig. 2). Ancora una volta, il parallelismo con il dibattito Schindler’s List-Shoah è inevitabile. Prima di tutto, gran parte delle reazioni critiche mosse a Schindler’s List sono passate attraverso lo stesso terreno del dibattito che la serie televisiva americana Holocaust sollevò più di una decade prima in Germania. Holocaust è una miniserie prodotta dalla NBC, andata in onda nel 1978, che affronta le vicende della persecuzione nazista degli ebrei dal punto di vista di due famiglie, una tedesca e una ebrea. La sua ricezione fu un evento mediatico che spinse tra l’altro i filmmaker tedeschi a riflettere sulle modalità di rappresentazione cinematografica della Shoah. La serie combinava bene la rappresentazione del Terzo Reich con quella dell’Olocausto: ne aveva fatto una storia. In secondo luogo, Holocaust è stata in grado di suscitare sentimenti forti, attraverso la personalizzazione della storia, concentrandosi su due casi individuali, giustapponendo, contrapponendo e – grazie alle strategie drammaturgiche hollywoodiane screditate dalla teoria del cinema anni settanta – manipolando l’empatia e l’identificazione dello spettatore. Quindi ancora non ha né “storicizzato” il fascismo (da una visione della “sinistra”), né l’ha “relativizzato” (nella visione della “destra”). Non ha trattato l’Olocausto come evento “unico” ma, al contrario, scegliendo il genere melodrammatico familiare ha offerto un’identificazione a ogni spettatore. Per dirla diversamente, Holocaust ha presentato una coerente situazione del soggetto, ma al prezzo della completa de-storicizzazione del fascismo, universalizzandolo sotto forma di soap opera, contrapposta alla catastrofe che avveniva sullo sfondo. Tuttavia Schindler’s List è un film più serio e sofisticato di Holocaust sotto ogni aspetto; almeno superficialmente, c’è un parallelismo solo nella misura in cui entrambi utilizzano il modello del melodramma, creando una rappresentazione e facendo identificare gli spettatori. Anche Spielberg presenta la vita nei campi e in una scena controversa mostra le donne che si spogliano ed entrano nella stanza delle docce. Ma in questa sequenza presta anche attenzione a direzionare lo sguardo sullo sfondo, dove una lunga fila di persone scompare giù per le scale di un bunker che rappresenta le camere a gas. La suspense e il melodramma sono qui al servizio della “tragica ironia” da cui lo spettatore è obbligato a dedurre ciò che non può essere mostrato, mentre la manipolazione dell’aspettativa, della suspense e del sollievo per il salvataggio delle

donne da Auschwitz crea un adeguato ed estremo contrappunto. A differenza di Holocaust, Spielberg si confronta con il problema di come dare voce agli individui e al contempo di rappresentare la collettività. La nozione stessa di “lista” è un potente dispositivo per tenere in considerazione una collettività, un gruppo, sebbene la continua esternazione di nomi dà a ogni individuo una dignità e un proprio destino. Allo stesso tempo, come alcuni critici hanno evidenziato, Spielberg ha la rara capacità di conferire una portata drammatica e una risonanza emozionale alla rappresentazione di una folla, specialmente nella scena «in cui i bambini vengono portati via in camion verso qualcosa di peggiore, e le madri corrono verso di loro urlando»14 (fig. 3). Ciononostante, la critica più ricorrente a Schindler’s List è rivolta al focus che Spielberg fa sugli individui, spostando la narrazione lontano dal destino e dalla distruzione di un popolo verso la storia di Schindler, un uomo che Lanzmann ha definito «niente di più di un gangster tedesco di poco conto»15. Tuttavia si può anche sostenere che una versione che raggruppa tutto ciò che è taciuto, insieme all’orrore esplicito, necessita anche di una storia alternativa rispetto a tutte le narrazioni sull’Olocausto che abbiamo in mente. Spielberg, sebbene rimanga dentro i termini narrativi del racconto hollywoodiano, si affida ad alcuni dispositivi del romanzo storico classico, filtrando gli eventi attraverso un eroe capace di creare un vasto consenso, il cui coinvolgimento lo colloca in un certo senso al di fuori del palcoscenico della storia16. Allo stesso modo ci si può chiedere se il finale ottimistico sia un dispositivo necessario perché la storia raggiunga una vasta audience globale e dunque sia una “concessione ad Hollywood”, o se, al contrario, sia un imperdonabile insulto ai sei milioni di morti durante i trasferimenti e nei campi. Certo, bisogna anzitutto ricordare che avrebbe poco senso accusare Spielberg di aver operato una concessione al gusto popolare (cos’è Spielberg se non l’incarnazione dell’entertainment di massa?). Cheyette, per esempio, conclude il suo pezzo in modo emblematico: «Sicuramente è possibile provare a comprendere sia Lanzmann che Spielberg senza essere accusati di essere dei negazionisti dell’Olocausto»17. D’altro canto, Spielberg ha optato per il cinema e per la storia: in contrasto con Holocaust, Schindler’s List è sia altamente “intertestuale” che consapevole del suo essere cinema. Spielberg, dunque, non solo è a conoscenza dei film e dei prodotti televisivi hollywoodiani e americani che hanno affrontato storie legate all’Olocausto, ma conosce anche il cinema europeo che dagli anni settanta ha tratto soggetti dal fascismo. Ha inoltre visto alcuni dei film tedeschi presi in discussione: la breve trasformazione dal bianco e nero al colore era stata utilizzata per la prima volta, con un effetto simile, da Reitz in Heimat, ed è evidente anche un parallelismo con i film di Fassbinder. Mettendo insieme un imprenditore (Schindler), il cui unico talento è la capacità di intrattenere, e uno psicopatico tormentato che si tortura sadicamente (Goeth), Spielberg delinea quello che qualcuno potrebbe certamente chiamare un’analisi postmoderna del fascismo: attorno al cliché del potere assoluto e alla soppressione di tutti i valori morali in una situazione storica ed esistenziale di estrema crisi. La discussione di taglio quasi dostoevskiano tra i due uomini, secondo la quale, in accordo con Schindler, il vero potere risiede nel perdonare una presunta trasgressione, piuttosto che nel punirla, pone una cruciale questione metafisica nella quale Goeth conferma meramente la casuale arbitrarietà di tutta la vita e delle azioni umane, mentre sottolinea che il potere di Schindler a questo punto deriva dal fatto che un sistema economico e morale sia stato cancellato. Il baratto tra domanda e offerta, vita umana e lavoro umano, cupidigia e vanità rende efficace “l’imbroglio” di Schindler,

secondo la logica del mercato nero, in cui la valuta e il valore sono stati bruscamente sospesi. «SCHINDLER’S LIST» E IL CINEMA AMERICANO

Esprimendo lo specifico punto di vista degli ebrei, Schindler’s List ha tra i suoi temi l’annullamento delle capacità delle vittime, la distruzione di oggetti sacri e di artefatti culturali. I carrelli che seguono i bagagli degli abitanti del ghetto dentro gli angoli nascosti della stazione (dove gli oggetti vengono, con un’efficienza da catena di montaggio, organizzati, vagliati, pesati e smontati) sono strazianti immagini di profanazione e distruzione di un’intera cultura. Spielberg vede qui il destino del ghetto di Cracovia anche nel contesto di generale svalutazione della cultura materiale che va di pari passo con la produzione industriale e la guerra, il trasferimento, lo sfruttamento e la disumanizzazione del lavoro, per i quali le condizioni del mercato nero sono prerequisiti necessari e manifestazioni sintomatiche. Questi temi, tuttavia, sono anche molto vicini a Shoah. Non a caso, Spielberg cita un numero di scene specifiche di questo film18, ma in un modo così differente che il “modernismo” di Lanzmann è messo tra parentesi dall’omaggio che Spielberg gli rende. Il film di Spielberg, con metodi che questo saggio può solo accennare, è quindi intimamente legato con la storia del cinema e con i filmmaker europei. Il fatto che Spielberg abbia deciso di effettuare le riprese in un paese come la Polonia (passato attraverso la Guerra fredda), che lo stile scelto rimandi non soltanto a quello di Wim Wenders o Andrzej Wajda e che a un certo punto abbia chiesto a Roman Polanski di dirigerlo, permette di inserire il film all’interno di un più ampio dialogo tra il cosiddetto cinema americano post classico e quello autoriale europeo19, con un particolare tributo al cinema polacco. Allo stesso tempo, Spielberg, non meno di altri registi della sua generazione come Coppola e Scorsese (ma anche Spike Lee), è un regista consapevolmente americano ma anche, a partire da questo film, un regista che rivendica la propria identità ebraica. In tal senso, Schindler’s List è una sorta di Godfather (Il padrino, F.F. Coppola, 1972) o Mean Streets (Domenica in chiesa, lunedì all’inferno, M. Scorsese, 1973). Un film cioè che segna la presa di coscienza di Spielberg come ebreo americano. In più, la dedica a Steven Ross sottolinea la connessione con i magnati del cinema (e con gli ebrei che hanno inventato Hollywood) e non c’è dubbio che Spielberg stesso s’identifichi con gli ebrei tanto quanto con Schindler (il cui alter ego è, chiaramente, Goeth). Il che equivale a dire che a un certo livello i suoi protagonisti, Schindler, Stern e Goeth, figurano in un dramma che allegorizza, tutt’altro che indirettamente, la fisicità e la metafisicità del potere. Più concretamente, Spielberg situa anche sé stesso all’interno della tradizione del cinema classico americano. Secondo Armond White, il riferimento è chiaramente a Griffith: Come per la separazione delle sorelle di Orphans of The Storm in The Color Purple [la scena della donna separata dai suoi bambini] richiama la familiarità di Griffith con le emozioni primordiali e il vigore narrativo. La svolta di Spielberg arriva con il tipico principio di “proporzione” hollywoodiano. Una madre single separata dal bambino è usuale […]. Ma 200 donne che inseguono i figli rapiti è un’immagine che appartiene a una visione artistica più potente. È un momento in cui Spielberg ha efficacemente re-immaginato il terrore dell’Olocausto in modo originale20.

Come ha sottolineato Leon Wieseltier, Schindler’s List «prova ancora una volta che, per Spielberg, c’è una forza nel mondo che è più grande del bene e più grande del male, questa forza è rappresentata dal cinema. E lui non è del tutto solo in questa “teodicea

cinematografica”»21. SPIELBERG E LANZMANN

Sono stati prodotti centinaia di documentari sul fascismo e l’Olocausto, nessuno dei quali, date le inequivocabili posizioni, ha provocato reazioni come quelle seguite alla distribuzione di Holocaust o causato dibattiti come Schindler’s List. Questo ci ricorda la portata dell’“inconscio politico” di un’opera popolare, che per definizione eccede il controllo dell’autore e diviene un fatto storico-culturale anche grazie a questo eccesso. Qualsiasi cosa si possa pensare sia di Schindler’s List che di Shoah, il trattamento del soggetto che entrambi i film offrono allo spettatore da una parte è determinato dai rispettivi generi di riferimento (il racconto hollywoodiano e il documentario) e dall’altra è legato al fatto che nei due casi si lavora con mezzi dichiaratamente differenti, sul confine di ciò che ho chiamato il loro essere “unito” e “frantumato”. Queste posizioni, tuttavia, sono in netto contrasto con i loro risultati economici e di conseguenza con il posto che occupano nella sfera pubblica. Laddove Shoah, sebbene distribuito in molti paesi, si è dovuto confrontare con piccole emittenti televisive e festival di cinema d’autore, Schindler’s List è stato uno dei maggiori successi internazionali di Hollywood nella stagione 1993-1994. Questa differenza di fruizione del pubblico significa che, in assenza di una parità di condizioni, non possono essere semplicemente comparate in quanto opere, ma competono tra di loro nel contesto discorsivo della costruzione della memoria europea e americana della Shoah, contesto che il film di Spielberg ha sollevato in modo specifico. Sia Lanzmann che Spielberg usufruiscono dell’interesse mediatico alimentato da Schindler’s List per costruirsi le loro rispettive posizioni. E mentre Lanzmann ha volontariamente commentato il film di Spielberg all’interno di articoli e durante talk-show, Spielberg non ha preso posizione nei confronti di Shoah ma si è limitato a rilasciare interviste e dichiarazioni sul suo film. Con un tale intervento mediatico atto a stabilire il suo diritto – biografico ed etnico – di pronunciarsi sulla questione Olocausto, il timoroso (nei confronti dei media) Spielberg sembrava ansioso di definire i termini per una lettura del suo film22. Nel complesso è stato un successo: il film, ancor prima di essere premiato con sette Oscar, ricevette un ampio appoggio principalmente dalla stampa. Pertanto, nonostante sia possibile imputare Lanzmann di ripicca professionale (ma a che proposito?), o ricondurre la questione alla differenza tra un’estetica modernista (europea) e una realista (hollywoodiana), i conseguenti scambi unidirezionali potrebbero indicare altre, equivalenti, differenze. In un’intervista della BBC, per esempio, Lanzmann ha argomentato che Spielberg ha fatto un film «tipico degli ebrei americani, desiderosi di appropriarsi dell’Olocausto»23. Per quanto questa affermazione possa sembrare sorprendente, risulta ancora più interessante se si considerano le osservazioni di Reitz che risalgono a una quindicina d’anni prima, secondo le quali «con Holocaust gli americani ci hanno portato via la nostra storia». Entrambe le asserzioni sono unite da un anti-americanismo in cui la dicotomia Hollywood/Europa autorizza altri ordini identitari a intromettersi nelle questioni morali in gioco. Per Lanzmann questo potrebbe, nel dar sfogo al risentimento, aver suggerito incompatibilità più profonde, ponendo in risalto il fatto che Spielberg ha effettivamente “interpretato” l’Olocausto. Non ha infatti raccontato la storia di Schindler e dei suoi ebrei come una doppia, se non tripla allegoria, che in ogni caso, promette salvezza? Decidendo di chiudere il film con gli ebrei di Schindler che si recano sulla sua tomba, Schindler può essere visto come un Mosè che guida il suo

popolo fuori dalla persecuzione egiziana, mentre a lui, come a tutti i veri profeti, è proibito raggiungere la terra promessa. Ma dove gli israeliti danzarono attorno al vitello d’oro, gli ebrei di Schindler fondono l’oro per farne l’anello che gli regalano come dimostrazione della loro gratitudine. Ciò conferisce, in cambio, quasi un valore mitico alla loro ricomparsa all’orizzonte nel finale del film, in un’immagine in cui i loro sacrifici del passato si intrecciano al futuro della costruzione della nazione di Israele. Spielberg si è appropriato – e questo forse Lanzmann l’ha riconosciuto correttamente – di una particolare versione, non tanto dell’Olocausto, quanto di un riscatto ebreo sovrapposto a una retorica americana di immigrati, colonizzatori e padri fondatori (fig. 4).

1.

2.

3.

4.

Minority Report di Pietro Masciullo

Con gli occhi fissi nel vuoto, contemplava un mondo che non esisteva ancora, cieco alla realtà fisica che lo circondava. PHILIP K. DICK, Rapporto di Minoranza

PREVEDERE/PREMEDIARE IL FUTURO

Minority Report (Id., 2002) segna una svolta importante nella filmografia di Steven Spielberg. Realizzato subito dopo un film controverso e particolarmente sentito come A.I. Artificial Intelligence (A.I. - Intelligenza artificiale, 2001) – che ha aperto il nuovo millennio con il definitivo ingresso del fanciullo spielberghiano negli abissi perturbanti della fantascienza adulta kubrickiana –, l’adattamento dell’omonimo racconto di Philip K. Dick sembra portare a termine una tendenziale ibridazione tra l’ottimistica “beatitudine” di film come Close Encounters of the Third Kind (Incontri ravvicinati del terzo tipo, 1977) o E.T. the Extra-Terrestrial (E.T. l’extra-terrestre, 1982) e gli sviluppi socio-tecnologici del XXI secolo che prefigurano le “tenebre” di un’imminente War of the Worlds (La guerra dei mondi, 2005)1. Nel 2004, a proposito di questa nuova fase della sua carriera, lo stesso Spielberg dichiara: «Guardo il mondo in cui stanno crescendo i miei figli e ciò che vedo è oscurità. Non posso fare film divertenti al riguardo»2. La lunga produzione di Minority Report3, pertanto, inizia nel 1998 inserendosi in una stagione ormai storicizzata della fantascienza apocalittica hollywoodiana che spazia dai disaster movie come Indipendence Day (Id., R. Emmerich, 1996), Armageddon (Id., M. Bay, 1998) o Deep Impact (Id., M. Leder, 1998, prodotto dallo stesso Spielberg), per arrivare agli incubi distopici di Dark City (Id., A. Proyas, 1998), The Matrix (Matrix, A. e L. Wachowski, 1999) o The Thirteenth Floor (Il tredicesimo piano, J. Rusnak, 1999). Tutti blockbuster spettacolari che riconfigurano le fobie per il radicale salto di paradigma esperienziale che i nuovi media a base informatica stavano generando su larga scala proprio in quegli anni. Il film, pertanto, porta avanti un coerente discorso sul genere classico attualizzandone i motivi: dal pericolo di un totalitarismo tecnocratico alla pervasività dei nuovi dispositivi di controllo; dalla scoperta di dimensioni temporali alternative alla difesa del libero arbitrio; dall’esternalizzazione dei fantasmi interiori al ruolo dei media digitali nella formazione dell’opinione pubblica. Ecco che il progetto nato dalla suggestiva ipotesi di riunire in un blockbuster fantascientifico due tra le personalità più influenti della Hollywood contemporanea – Steven Spielberg e Tom Cruise – viene quasi unanimamente recepito alla sua uscita in sala (nel giugno del 2002) come un’urgente riflessione sul post 11 settembre4. Innanzitutto in relazione al pastiche mediale che ha caratterizzato il tragico attacco al World Trade Center5 e poi alle discusse questioni etiche poste dall’immediata reazione dell’amministrazione Bush: la promulgazione dell’USA Patriot Act nell’ottobre del 20016 e la successiva “Guerra al terrore” annunciata preventivamente contro i cosiddetti “Stati canaglia”. Pertanto, proprio come Fredric Jameson interpretava la fantascienza di Philip K. Dick – in particolare il romanzo Time Out of Joint del 1959 – «in relazione alle questioni della storia e della storicità in generale»7, Frederick Wasser – nel suo studio dedicato alle riscritture immaginarie delle principali questioni politico-culturali della storia recente americana nei film di Spielberg – interpreta Minority Report come un film storico: «anche se è stato scritto prima che gli eventi storici avvenissero, il film ha

inavvertitamente anticipato la risposta preventiva del governo americano all’attacco subito»8. Del resto lo sforzo maggiore in fase di pre-produzione è stato proprio quello di progettare gli spazi urbani di Washington DC e lo stato della tecnica nell’anno 2054. Spielberg riunisce pertanto un team di scienziati, architetti, scrittori e informatici – tra cui John Underkoffler del MIT Media Lab che ha elaborato la seminale interfaccia gesture control con display trasparenti – per immaginare un panorama architettonico e mediale come credibile estensione del presente. Un potenziale predittivo che anche Richard Grusin coglie nel film portando avanti la sua importante riflessione sulla “rimediazione”9 operata sul finire del secolo scorso: Minority Report viene analizzato come testo paradigmatico per comprendere la nuova logica della “premediazione”10. Con la diffusa tendenza a configurare scenari futuri come possibile evoluzione del presente – dal terrorismo internazionale alle crisi economiche, dalle catastrofi naturali ai fluidi scenari politici costantemente monitorati da sondaggi d’opinione – i nuovi media digitali anestetizzano le paure globali della nostra epoca presupponendo un necessario controllo degli eventi futuri. Allo stesso modo la capacità di immaginare l’impatto sociale di tecnologie ancora in fase di progettazione – pensiamo agli schermi interattivi e alla gesture recognition, ai retina scanner e alla realtà virtuale, tutti elementi presenti nel film – mitiga le ansie provocate dallo stato di innovazione tecnologica permanente tipico della cultura digitale. Ma questo desiderio di rimediare eventi e tecnologie del futuro11 implica un’ambigua colonizzazione dello stesso ad opera di dispositivi di controllo sempre più pervasivi che ripropongono pressanti questioni etiche legate alle libertà fondamentali dell’individuo. Insomma se nella diegesi del film le facoltà divinatorie dei Precog12 vengono certificate dal sistema giudiziario bypassando il libero arbitrio dei presunti colpevoli e ogni ragionevole dubbio sull’autenticità di quelle previsioni, extradiegeticamente Minority Report coglie molte delle questioni più rilevanti in termini geopolitici – una su tutte: la legittimità della guerra preventiva – contribuendo come nessun altro film di inizio millennio al serrato dibattito sui confini democratici della nuova società del controllo13. Iniziamo pertanto l’analisi di Minority Report indagando le profonde mutazioni sull’esperienza della tecnica che il film presuppone, per poi operare un ragionamento sul cinema – e sulle tracce immaginarie della sua storia disseminate strategicamente da Spielberg – come dispositivo autoriflessivo in grado di produrre pensiero anche nel nuovo panorama mediale14. INTERPRETARE LE NUOVE IMMAGINI

La prima sequenza del film ha un valore paradigmatico per molte delle questioni sin qui affrontate. I loghi della 20th Century Fox e della Dreamworks Pictures vengono subito ibridati nelle loro configurazioni di paratesti introduttivi con distorsioni in computer grafica (che simulano la superficie ondulata di un liquido opaco) e poi con colori desaturati tendenti al bianco e nero (che si uniformano alle tonalità noir scelte dal direttore della fotografia Janusz Kamiński). Questo scivolamento dei paratesti nella diegesi del film, del resto, è una dinamica che Spielberg ha già adottato nell’incipit di Raiders of the Lost Ark (I predatori dell’arca perduta, 1981), con la montagna disegnata nel logo Paramount che in dissolvenza incrociata sfuma nel paesaggio montuoso della prima sequenza. Partono i titoli di testa. Macchie di luce bianca attraversano un frame nero; pian piano

si iniziano a intravedere due figure umane; un bacio tra un uomo e una donna si distingue in primo piano, mentre una dissolvenza incrociata fa comparire il dettaglio di un paio di forbici insanguinate introdotte dagli acuti della colonna sonora di John Williams. Pochi frame su una vasca da bagno piena di sangue fanno presupporre un omicidio; poi un uomo sale le scale stringendo nella mano destra le forbici appuntite – il semi-plongée dall’alto è molto simile a quello scelto da Hitchcock in Suspicion (Il sospetto, 1941), quando Cary Grant percorre una rampa di scale raggiungendo Joan Fontaine con in mano il celeberrimo bicchiere di latte (presumibilmente) avvelenato. L’uomo scopre quindi i due amanti nel letto, si avventa prima su di lui, inquadrato ancora in plongée, sferrando una pugnalata alla schiena; la penetrazione della lama, però, è sostituita da uno stacco di montaggio su quelle stesse forbici che ora trapassano l’occhio destro di una maschera di cartone in dettaglio (che ritrae Abraham Lincoln). Nello stacco successivo l’uomo inforca i suoi occhiali e dice alla donna: «Sai quanto sono cieco senza metterli». La prima frase che ascoltiamo in Minority Report allude pertanto alla visione annebbiata e alla necessaria mediazione di superfici riflettenti per interpretare i fenomeni – ricordiamo un altro dettaglio importante: tutte le piccole memorie esterne presenti nel film avranno forma e consistenza simile a lenti trasparenti attraverso cui immagazzinare immagini. L’uomo si dirige infine contro la donna e la pugnala più volte; le inquadrature continuano a deformare spazi e volumi sino a quando un’iride oculare inizia ad apparire in dissolvenza incrociata come la matrice di questa insistita deformazione del visibile. Lo stacco successivo avviene non a caso sul dettaglio stretto dell’occhio della vittima – ulteriore riferimento a Hitchcock e a Janet Leigh riversa sul pavimento in Psycho (Psyco, 1960) –, per poi staccare infine sull’occhio spalancato e vivo della Precog Agatha in un dettaglio molto simile all’iride di Keir Dullea nel tunnel spaziotemporale di 2001: A Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio, S. Kubrick, 1968). Pertanto: le frammentarie previsioni dei tre Precog ci vengono restituite dal film con una palese mediazione estetica che origina una fuga di significanti da analizzare attentamente. Il dispositivo della Pre-crime si mette ora in moto: una pallina di legno viene incisa col nome delle due vittime (gli amanti Sara e Donald). Perché? Il legno ha increspature che non possono essere riprodotte o falsificate e produce sempre pezzi unici, quindi l’interfaccia digitale ha ancora bisogno della prova ulteriore di un supporto analogico. Stacco. Una porta a vetri su cui si distingue il logo della Pre-crime si apre lasciando passare il capitano John Anderton (interpretato da Tom Cruise); il suo primo contatto umano avviene con un’impiegata del dipartimento, evidentemente incinta, che lo saluta con affetto. Il tema della paternità (quindi del senso di colpa per il figlio scomparso in circostanze misteriose sei anni prima) è uno dei più importanti innesti narrativi che i due sceneggiatori del film Scott Frank e Jon Cohen aggiungono al racconto di Philip K. Dick. Un tema, non a caso, profondamente spielberghiano: dopo Close Encounters of the Third Kind, E.T., Hook (Hook - Capitan Uncino, 1991), A.I. Artificial Intelligence e nello stesso anno di Catch Me If You Can, (Prova a prendermi, 2002), anche in questo caso ci troviamo di fronte a una famiglia dolorosamente disgregata e a figli separati dai padri. L’entrata in campo del protagonista accolto da una donna incinta, pertanto, anticipa ogni motivo del suo conflitto interiore che si risolverà in una speculare inquadratura nel finale del film (con John che guarda l’orizzonte da una finestra a vetri ed è raggiunto da sua moglie Lara anch’essa incinta, ma analizzeremo in seguito le varie implicazioni di questa inquadratura). Suona

l’allarme. Un’altra pallina di legno scivola sul lato opposto del dispositivo e indica il nome dell’assassino: Howard Marks, il marito di Sara. John entra nella sala di investigazione, indossa i suoi guanti interattivi e si affaccia dalla finestra interna che dà sul “Tempio” – termine utilizzato per indicare la piscina dove vivono i Precog immersi in un lattice fotonico e collegati a un dispositivo neuro-elettrico per l’immagazzinamento di immagini – che secondo Nigel Morris può essere interpretato come una sofisticata metafora del dispositivo cinematografico novecentesco15. Guardando quella finestra, però, la star Tom Cruise inizia la sua performance interattiva che inaugura un nuovo paradigma nel rapporto con le immagini in movimento agli albori del XXI secolo (fig. 1): «Il display mostra, ma solo nel senso che mette a disposizione, che rende accessibile. Esso esibisce, non scopre. […] Esso semplicemente “rende presenti” delle immagini. Ce le pone di fronte, nel caso intendessimo utilizzarle, ce le mette in mano»16. Chiediamoci allora: che statuto hanno le immagini previsualizzate dai Precog? Innanzitutto sono esternalizzazioni di spettri interiori che aprono le configurazioni del film ad articolazioni formali di tipo espressionista17 (del resto i tre veggenti sono tenuti sempre in una condizione di dormiveglia perché solo nella fase onirica riescono ad avere le loro visioni). Successivamente la registrazione tecnica di quelle stesse immagini le “rende disponibili” nei display touch di John che inizia il suo lavoro di investigatore: ingrandisce i dettagli, taglia e scarta inquadrature, rallenta e accelera i movimenti, insomma costruisce un nuovo montaggio che gli consenta di scoprire il luogo esatto dell’omicidio: «Howard Marks, dove sei?». Per raggiungere il suo scopo, infine, John porta con sé un piccolo dischetto musicale (una personale colonna sonora) che inserisce prima di ogni indagine muovendosi come fosse un direttore d’orchestra: si tratta della Sinfonia n. 8 di Franz Schubert, soprannominata l’Incompiuta, proprio come incompiute sono tutte le visioni dei Precog che forniscono informazioni parziali da completare «spazzolando le immagini» con il gesto delle mani. La mdp di Spielberg asseconda l’interazione del suo protagonista con questa futuribile realtà aumentata attraverso fluidi movimenti semicircolari che attraversano il set «in una combinazione di macchina a mano e steadicam. […] I movimenti di macchina sono potenziati dall’uso di lenti grandangolari e da occasionali inquadrature angolari dal basso»18. È opportuno ora aprire un terzo piano di riflessione su questa sequenza e precisamente sulle inquadrature del presente diegetico di Howard Marks (ventiquattro minuti prima dell’omicidio, come scandisce il timer della Pre-crime). L’uomo esce di casa, prende il giornale e scruta con sospetto un passante dall’altra parte della strada (riconosciamo la futura vittima Donald, l’amante di sua moglie Sara). Il montaggio di questa sezione temporale procede per classici establishing shot, raccordi di movimento e campicontrocampi. Uno stacco ci porta all’interno della casa, con le forbici tenute in mano dal figlio di Howard e Sara che perforano nuovamente la maschera di cartone di Abraham Lincoln – l’icona dei principi costituzionali di libertà contenuti nel XIII emendamento, il protagonista di un successivo film di Spielberg (Lincoln, 2012) – mentre il ragazzino ripete a memoria il discorso di Gettysburg come mito di fondazione da recitare a scuola. Quest’inquadratura presenta i segni di un’inscrizione eidetica, per dirla con Paolo Bertetto19, perché coagula in un’unica immagine (fig. 2) l’universo distopico mutuato dal racconto di Dick e ogni urgente referenza all’attualità del post 11 settembre: la democrazia americana rischia la “cecità”? Ecco che se le premonizioni dei Precog nel racconto del 1956 venivano catturate da una macchina calcolatrice

campionando e immagazzinando dati in dossier potenzialmente manipolabili dall’esercito o dal senato – l’attività di dossieraggio e spionaggio politico come riscrittura immaginaria del maccartismo e di altre fobie nate dalla Guerra fredda –, nel film di Spielberg del 2002 ogni informazione sui presunti omicidi va invece rivelata interpretando immagini e tracce sonore frammentate – proprio come in Blow Up (Id., M. Antonioni, 1966) e The Conversation (La conversazione, F.F. Coppola, 1974) – attraverso costanti inscrizioni «nel testo filmico di segmenti realizzati in funzione dell’esplicita produzione di una intenzionale configurazione metacinematografica o metafilmica»20. Fermiamoci qui. Perché in questa prima sequenza il film allude a ben tre paradigmi di visione (e a tre stili storicizzati) messi in fertile dialettica intermediale: 1) le configurazioni e il montaggio alternato del linguaggio classico con Howard Marks che esce di casa, ha un sospetto, diventa psycho per gelosia e alla fine viene fermato e incarcerato da John in una gestione della suspense hitchcockiana che presuppone uno spettatore più informato del personaggio; 2) le distorsioni visive espressioniste e le successive marche enunciative dello stile moderno associate allo sforzo veritativo di John che interpreta le immagini e i suoni “mancanti”; 3) l’interazione con immagini tridimensionali nei nuovi ambienti mediali immersivi che tendono alla virtual reality e a quella che Thomas Elsaesser definisce «una re-impostazione emergente di parecchie norme, che stanno cambiando la nostra idea sul significato dell’immagine, del nostro senso di orientamento spazio-temporale e della nostra relazione fisica con complicati ambienti simulati»21. La sequenza iniziale di Minority Report dura circa 14’, è totalmente assente nel racconto di Philip K. Dick ed è sostanzialmente autonoma anche dal plot principale del film. Una sequenza in grado però di anticipare molti nodi estetici e molti enigmi concettuali ricorrenti nel cinema hollywoodiano del XXI secolo. Queste considerazioni sono poi avvalorate dalla piccola sequenza successiva introdotta da una dissolvenza in nero e da una frase: «Immaginate un mondo senza omicidi». Si tratta di uno spot della Pre-crime che funziona come raddoppio autoriflessivo (un “intervallo pubblicitario”) rispetto alla lunga sequenza appena vista instradando lo spettatore verso il plot principale del film. Uno stacco ci porta infatti all’estrema periferia della città, chiamata “il letamaio”, dove John Anderton corre incappucciato in cerca di stupefacenti che leniscano il suo senso di colpa. La netta demarcazione tra quartieri ricchi e poveri è quindi estremizzata sia a livello scenografico – i futuristici palazzi trasparenti collegati da sistemi stradali che si espandono verticalmente vs le schiere di palazzi fatiscenti con mura in putrefazione per le continue infiltrazioni d’acqua –, sia nelle radicali scelte fotografiche – le luci accecanti del potere sottolineate da costanti sovraesposizioni vs i toni noir dei bassifondi tendenti all’oscurità totale. Ma in entrambe queste dimensioni urbane l’esperienza di visione allude a un unico sistema integrato che ibrida gli spazi fisici di Washington22 con le icone infografiche tridimensionali: spot pubblicitari personalizzati e video informativi fluttuano su enormi urban screen nascondendo parte del paesaggio fisico della città. La smart city del futuro presuppone quindi dispositivi di sorveglianza dislocati in maniera reticolare dove ogni soggetto viene costantemente identificato tramite scansioni retiniche – più capillari nelle zone del centro, gestite da piccoli droni-ragno nel “letamaio” – creando enormi database che ridiscutono nel profondo il concetto di privacy novecentesco23. L’occhio, pertanto, è sempre più messo in dubbio come organo percettivo: Agatha non

può vedere se non nel futuro; Howard è cieco senza occhiali; l’occhio di Lincoln è perforato; gli occhi dello spacciatore di John sono cavati; infine lo stesso Anderton sarà costretto a sostituire i suoi occhi clandestinamente per evitare i dispositivi di controllo. L’organo di senso dell’apparato visivo diventa pertanto un portale/database di informazioni proprio come nell’universo di Blade Runner (Id., R. Scott, 1982) dove solo la scansione retinica del test Voight-Kampff può certificare l’identità umana o replicante. Insomma: pur non operando un discorso esplicito sul totalitarismo e sulle derive della tecno-scienza come fa il racconto di Philip K. Dick (anticipando buona parte dell’immaginario cyberpunk), il film di Steven Spielberg configura problematiche molto più vicine ai nostri mediascapes (pensiamo solo al dibattito sui modelli comportamentali personalizzati che le multinazionali desumono dai big data sul web)24 in una verosimile proiezione del 2054. IL CINEMA COME DISPOSITIVO AUTORIFLESSIVO

Chi è Danny Witwer? Nel racconto di Dick è un assistente della Pre-crime che sostituirà Anderton dopo l’accusa di omicidio, mentre nel film di Spielberg diventa un ispettore federale (interpretato da Colin Farrell) che indaga sul funzionamento dell’istituzione in vista di un probabile allargamento a livello nazionale. Witwer, pertanto, funge costantemente da spettatore passivo novecentesco che osserva il comportamento di uno spettatore attivo del 2054 immerso nei display touch. Sarà proprio Witwer, infatti, che costringerà Anderton a oltrepassare la soglia del Tempio interagendo direttamente con i Precog: «È meglio non considerarli umani» gli dice John. «Sono molto di più», risponde Danny guardando il grande schermo posto sul soffitto, perché «la scienza ci ha rubato la maggior parte dei miracoli. Loro ci danno una qualche speranza che esista il divino». Danny fa poi riferimento alle intime motivazioni che hanno spinto entrambi a diventare poliziotti: la morte del padre per lui e la morte del figlio per John. Quest’ultimo si avvicina allora alla piscina, ma qualcosa di imprevisto accade: Agatha lo afferra piangendo e indirizza il suo sguardo verso il grande schermo che sta proiettando le immagini dell’annegamento di una donna chiamata Anne Lively. «Riesci a vedere?», gli dice. Pertanto: il richiamo al figlio scomparso come latente dilemma interiore e la successiva scoperta di un ricordo perturbante che ossessiona Agatha innescano un ragionevole dubbio in John Anderton che si reca subito nell’istituto di detenzione per indagare su quel vecchio caso di omicidio. La previsione di Agatha, però, è scomparsa dai database e John informa immediatamente il suo superiore Lamar Burgess dell’anomalia25. Eccoci a un altro personaggio centrale del film. Lo statuto iconico di Max Von Sydow viene qui consapevolmente ribaltato di segno: il nobile cavaliere di Det sjunde inseglet (Il settimo sigillo, I. Bergman, 1957) incarna questa volta “la morte” che al di sopra di ogni controllo uccide prima Anne Lively (la madre di Agatha) e poi Danny Witver (che minaccia l’esistenza della Pre-crime). La partita a scacchi con la morte, pertanto, viene giocata questa volta da John Anderton che è circondato costantemente dalle simulazioni inscenate da Lamar. Ci sarà infatti un nuovo omicidio a Washington: quello di un uomo chiamato Leo Crow. John indossa i suoi guanti interattivi e si appresta a «spazzolare» le immagini sui display, ma ben presto si accorge che l’assassino del futuro questa volta è proprio lui. Il dispositivo della Pre-crime entra inevitabilmente in cortocircuito inaugurando la lunga fuga del protagonista (la sezione del film più delegata al genere action) che occupa

tutto il secondo atto del film. I riferimenti alla storia del cinema si moltiplicano in una ipersemiotizzazione delle immagini che, rimandando ad altre immagini, assumono sempre nuove significanze. Analizziamone alcune. La prima sequenza di inseguimento termina in una fabbrica di automobili senza operai – sottintendendo la totale automazione dei processi che prescindono ormai dal personale umano – dove gli agenti della Pre-crime braccano John. Questa sequenza omaggia esplicitamente un’idea mai portata a termine da Alfred Hitchcock in North by Northwest (Intrigo internazionale, 1959) e raccontata poi a François Truffaut nel celebre libro intervista26: la costruzione in tempo reale di un’automobile che doveva scoprire un misterioso cadavere sotto gli occhi di Cary Grant diventa questa volta provvidenziale per John che fugge via proprio con quel veicolo appena terminato. John torna quindi nel “letamaio”, entra in casa del bizzarro dottor Solomon Eddie (interpretato da Peter Stormare, altro attore preso a prestito dall’universo bergmaniano) e si appresta a subire il trapianto di globi oculari per potersi sottrarre agli scanner. Sulla parete di quell’abitazione, come fosse un grande schermo, è proiettato un film del 1955: House of Bamboo (La casa di Bambù) di Samuel Fuller. Ambientato subito dopo la Seconda guerra mondiale in Giappone (ancora occupato dalle forze statunitensi), il film ha per protagonista un poliziotto americano infiltrato in una gang giapponese. Dettaglio interessante perché successivamente John entrerà in un negozio di abbigliamento e la scansione sui suoi nuovi occhi lo farà identificare come «il signor Yakamoto», un’identità fittizia giapponese, reiterando la situazione del film di Fuller e del suo investigatore in incognito in un uno Stato occupato. La grottesca operazione agli occhi condotta dal dottor Eddie avviene con un dispositivo di allargamento del bulbo oculare molto simile a quello della cura Ludovico di A Clockwork Orange (Arancia Meccanica, S. Kubrick, 1971). Ma il dispositivo pavloviano che induce sensazioni sgradevoli in Alex guidandone le percezioni future è qui ribaltato di segno in un bendaggio/mascheramento sottolineato dagli inserti di The Mark of Zorro (Il segno di Zorro, R. Mamoulian, 1940) che aprono il film a una nuova configurazione del visibile. Privato della vista per le dodici ore di degenza, infatti, John ripensa al trauma del rapimento di suo figlio Sean in piscina, avvenuto subito dopo l’immersione del bambino nell’acqua. Warren Buckand nota questa ricorrenza in Minority Report e isola molte di queste «immagini significanti»27: dalle costanti immersioni in piscina di Agatha (fig. 3) a quella di Sean, dal volto sott’acqua di Anne Lively a quello di John che tenta di fuggire dai ragni drone. L’acqua, pertanto, diventa uno schermo nella doppia accezione etimologica: «all’idea di una superficie che protegge, copre e nasconde si aggiunge quella di una superficie che fa intravedere ciò che sta dietro, poi che accoglie rappresentazioni di nuovi mondi, e infine che può contenere figure che riflettono la nostra personalità»28. Successivamente John rapisce Agatha violando il palazzo della Pre-crime con l’intento di “scaricare” i preziosi dati essenziali per la sua assoluzione: «Tu contieni informazioni, devo scoprire come arrivarci». Nella grande hall di un centro commerciale i due vengono inseguiti dagli agenti speciali proprio mentre si diffonde la celebre melodia di Moon River: canzone premio Oscar scritta per il film Breakfast at Tiffany’s (Colazione da Tiffany, B. Edwards, 1961). Agatha chiede allora a John di fermarsi e di aspettare che un venditore di palloncini si avvicini e impalli la visuale dei poliziotti. L’insieme di quei palloncini colorati e la messa in forma dell’inquadratura “composta” diegeticamente da Agatha aprono un link con la speculare situazione di

Funny Face (Cenerentola a Parigi, S. Donen, 1957). Il riferimento a questi due film in particolare richiama quindi lo statuto iconico di Audrey Hepburn che ha terminato la sua carriera proprio in un film di Steven Spielberg. In Always (Always - Per sempre, 1989), infatti, la grande diva interpreta Hap: l’angelo custode che accoglie il protagonista Pete insegnandogli ad amare anche dopo la morte. Sono quindi le tracce immaginarie di Hap/Audrey Hepburn che proteggono nuovamente John e Agatha consentendo loro di fuggire. Eccoci arrivati nell’albergo dove avverrà l’omicidio di Leo Crow. Un evento preceduto dall’abbraccio tra John e Agatha in primo piano che riconfigura una delle posture più celebri di Persona (Id., I. Bergman, 1966), il film della definitiva messa in crisi dell’identità privata e pubblica nell’universo bergmaniano. In quella stanza d’albergo John scopre finalmente la ragione del suo stato d’accusa: Leo Crow potrebbe essere l’omicida di suo figlio Sean, quindi la previsione dei Precog era esatta. «Io ucciderò quest’uomo», dice. «Tu puoi ancora scegliere», gli sussurra Agatha abbracciandolo: John desisterà dal premere il grilletto dimostrando l’imponderabilità del libero arbitrio, ma la morte di Leo Crow sarà comunque inevitabile perché parte integrante della diabolica messa in scena di Lamar Burgess. Fermiamoci qui. L’ultima tappa di questo viaggio (nel cinema) inaugura il terzo atto di Minority Report: analizziamo pertanto una scena cardine per concludere la nostra riflessione. Ci troviamo nella casa di Lara, ex moglie di John, lì dove la famiglia Anderton si è disgregata sei anni prima. Agatha si dirige proprio nella stanza del figlio scomparso, mentre John e Lara la raggiungono sedendosi a distanza; il primissimo piano della ragazza a occhi chiusi fa partire un racconto sul possibile futuro del piccolo Sean se fosse vissuto: le gite al mare, le risate in famiglia, il desiderio di diventare veterinario, l’università, i primi amori ecc. Spielberg per la prima volta non ci fa vedere le immagini mentali della Precog, ma la inquadra seduta di spalle a una finestra che irradia un fascio di luce solare puntato verso i due “spettatori”. I successivi dieci stacchi di montaggio in campo-controcampo tra Agatha e i genitori di Sean reiterano infatti una delle configurazioni più studiate nella filmografia del regista: la cosiddetta “Spielberg face” (fig. 4), ossia il primo piano di un volto in estasi per qualcosa di imponderabile che sta accadendo in fuori campo29. Insomma: tutte le tracce della storia del cinema presenti in Minority Report si sono coagulate in questa inquadratura autoriflessiva che riconfigura la posizione dello spettatore cinematografico e la sua identificazione con uno schermo30. «Scappa!», urla ora Agatha a John. Gli agenti della Pre-crime irrompono nella stanza di Sean e catturano i due fuggitivi: lei viene riportata nella piscina con gli altri Precog, lui viene criogenizzato nel reparto di contenimento. Il custode della prigione Gideon, però, gli dice questa frase sibillina prima di immagazzinarlo definitivamente: «È una specie di grosso sballo, dicono che hai le visioni, che ti passa la tua vita davanti e che tutti i tuoi sogni si avverano». Una frase su cui si sono soffermati due studiosi americani – Jason Vest31 e Nigel Morris – interpretandola come una possibile chiave di lettura per l’improvvisa accelerazione narrativa degli ultimi sedici minuti del film che ci porta spediti verso un happy ending: Lara riesce a liberare John dal carcere utilizzando un suo vecchio bulbo oculare e gli consente di mettere fine alla carriera di Lamar Burgess. Come? Durante una cerimonia pubblica di premiazione John riesce a far proiettare su un grande schermo la previsione di Agatha (sino ad allora occultata) dove si vede Lamar32 intento ad affogare Anne Lively. Una sequenza che sembra speculare a quella

che ha aperto il film: dallo spettatore attivo che interagisce con le immagini dei piccoli display, alla ricostituzione di un’ampia comunità di visione davanti a un grande schermo che allude all’esperienza cinematografica. L’affascinate ipotesi di Vest e Morris – stiamo assistendo al bel sogno di John criogenizzato? – apre quindi questo finale a una doppia interpretazione: quella più delegata alla fantascienza distopica d’autore che riecheggia Brazil (Id., T. Gilliam, 1985) o The Matrix (con la realtà fenomenica ormai simulata da un software) e quella delegata all’happy ending hollywoodiano con la ricomposizione della famiglia Anderton (la nuova maternità di Lara e il tramonto33 come finale ricorrente nei film di Spielberg). Esattamente come nella perturbante sequenza iniziale, pertanto, anche questa elegiaca sequenza finale semina fondati dubbi sullo statuto di ogni inquadratura pur salvaguardando l’efficacia di un dispositivo formale che preordina il rapporto con lo spettatore nell’era del blockbuster34. Minority Report dimostra ancora una volta l’eccezionale capacità di Steven Spielberg di “affabulare” il suo pubblico con le potenze del cinema classico facendo “riflettere” ogni singola immagine sui destini futuri del nostro sguardo.

1.

2.

3.

4.

Munich di Damiano Garofalo PREMESSA

Nel settembre 1970 migliaia di palestinesi vengono uccisi o espulsi dalla Giordania nel tentativo di re Husayn I di ripristinare il controllo sul paese. L’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), da alcuni mesi, era infatti diventata sempre più influente in Giordania, e alcuni gruppi armati al suo interno si erano distinti per una serie di attentati, tra cui dei tentativi falliti di uccidere il re. L’intervento militare di Husayn porta a una repressione durissima che, secondo alcuni osservatori, assume i caratteri di un vero e proprio genocidio: in base alle stime giornalistiche, tra i 3 e i 5 mila palestinesi vengono uccisi in Giordania nel corso di quello che passerà alla storia come “settembre nero”1. Nei mesi successivi, una cellula fuoriuscita da al-Fatah, formazione para-militare parte dell’OLP, fonda l’organizzazione terroristica Settembre nero, con l’obiettivo di rivalersi con le armi dei torti subiti e radicalizzare il conflitto mediorientale2. Tra le numerose azioni terroristiche compiute dal gruppo armato palestinese, sia contro Israele che contro le fazioni più moderate interne al mondo arabo, si annovera quella delle Olimpiadi di Monaco 1972. Si tratta del primo atto terroristico della storia che assume i caratteri di un evento mediatico globale, seguito in diretta dalle televisioni di tutto il mondo. La notte tra il 4 e il 5 settembre, undici atleti israeliani vengono rapiti da un commando composto da otto fedayyin di Settembre nero, entrati abusivamente nel villaggio olimpico. Due degli ostaggi vengono uccisi immediatamente, mentre gli altri nove saranno assassinati il giorno successivo, in aeroporto, a seguito di una serie di fallite negoziazioni con la polizia tedesca. Cinque dei terroristi palestinesi muoiono anche loro nello scontro a fuoco, mentre altri tre vengono arrestati e rilasciati alcune settimane dopo a seguito di uno scambio di prigionieri tra Settembre nero e la Germania Ovest, disperdendosi latitanti in giro per l’Europa. Nei giorni successivi, il primo ministro dello Stato d’Israele Golda Meir e il ministro della Difesa Moshe Dayan organizzano un’operazione segreta volta a eliminare chiunque fosse coinvolto, direttamente o indirettamente, nel massacro di Monaco. Quella che sarà poi nota con il nome “Operazione ira di Dio” prevede la partecipazione di membri del Mossad, i servizi segreti israeliani, coadiuvati da una serie di squadre speciali delle Forze di difesa (IDF), con l’obiettivo di vendicare senza condizioni gli undici israeliani assassinati in territorio tedesco3. È da questa operazione che prende le mosse Munich, film di Steven Spielberg del 2004, a sua volta “liberamente ispirato” al romanzo del 1984 del giornalista canadese George Jonas, intitolato Vengeance: The True Story of an Israeli Counter-Terrorist Team4. Senza entrare nello specifico delle differenze e delle analogie tra film, romanzo e vicenda storica5, in questo saggio ci si limiterà ad analizzare il film di Spielberg a partire da una triplice prospettiva: in primo luogo, una ridefinizione del genere storico all’interno delle dinamiche tra messa in scena e drammaturgia, tra cinema classico e modernità; successivamente, il rapporto con la rappresentazione della storia in un’ottica intermediale, simbolica, immaginaria (dunque non necessariamente filologica); infine, la funzione auto-riflessiva dell’identità ebraica, della memoria del conflitto israelo-palestinese, e di rimando della Shoah, e il loro ri-funzionamento nella cultura israeliana ed europea da una prospettiva apertamente spielberghiana.

«INSPIRED BY REAL EVENTS»: CLASSICO, MODERNO, SPIELBERGHIANO

Quando Steven Spielberg decide di girare Munich, il progetto del film è sulla sua scrivania da alcuni anni. Soltanto dopo l’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001, i produttori Kathleen Kennedy e Barry Mendel riescono a convincerlo a seguire lo sviluppo di una sceneggiatura firmata da Tony Kushner ed Eric Roth basata sull’adattamento del libro di George Jonas. Il progetto è rischioso, il libro è stato molto discusso in Israele, nonché oggetto di polemiche storiografiche piuttosto conflittuali6. Alla fine, Spielberg decide di «prendersi il rischio»: come osserva in un’intervista, «non potevo continuare a vivere rimanendo in silenzio, per mantenere la mia popolarità», perdendo però «il rispetto nei confronti di me stesso»7. Il progetto di Munich si configura, da subito, come un uno dei più personali di Spielberg: un film che non solo lo costringe a ridiscutere la sua problematica identità di ebreo della diaspora, emersa e problematizzata dieci anni prima con Schindler’s List (1993), ma anche a questionare il suo essere americano in relazione al tema sempre più emergente del terrorismo internazionale. Per questo, Spielberg si limita a trarre un’ispirazione molto libera dal libro di Jonas: sta qui lo scarto dell’inspired by real events (e non based on), con cui Spielberg decide di aprire Munich. La storia del film ruota attorno a un agente del Mossad, dal nome immaginario Avner Kaufmann, incaricato da Golda Meir di coordinare una squadra speciale al di sopra dei servizi di intelligence israeliani, con il compito di individuare e assassinare undici terroristi ritenuti responsabili dell’attentato di Monaco. In giro per il mondo, tra Roma, Parigi, Cipro, Beirut, Atene, Londra e New York, i cinque agenti speciali danno vita a una spietata caccia all’uomo, dalla quale emergeranno presto dubbi etici, conflitti irrisolti e zone d’ombra attorno ai quali è costruita l’intera operazione. Il tema principale è quello del rapporto tra etica della vendetta e giustizia della storia, riprendendo la tradizione delle riflessioni sul passato del cinema storico hollywoodiano in una messa in scena cinematograficamente più “moderna”. La riflessione sul genere proposta da Spielberg viene ridiscussa in una duplice biforcazione: da un lato, Munich lavora in un gioco di rimandi sulle forme del cinema di genere degli anni settanta, in particolare sul ritorno stilistico alla modernità operato dalla New Hollywood8; dall’altro, nella ricostruzione drammaturgica della vicenda la sceneggiatura sembra adottare un punto di vista pienamente classico, proponendo tuttavia una parziale revisione del percorso archetipico del viaggio dell’eroe9. La frequenza dell’utilizzo dello zoom in avanti e indietro, l’utilizzo della macchina a mano, il lavoro di sottrazione compiuto sulla colonna sonora e di sottolineatura del sonoro ambientale, oltre a essere funzionali alla narrazione di scene di azione e movimento sono un esplicito omaggio alla tradizione del thriller politico americano: si pensi soltanto a film esplicitamente citati come Z (Z - L’orgia del potere, C. Gavras, 1969), The Day of the Jackal (Il giorno dello sciacallo, F. Zinneman, 1973), The Conversation (La conversazione, F.F. Coppola, 1974) o Three Days of the Condor (I tre giorni del Condor, S. Pollack, 1975). Queste e altre referenze ricollocano lo stile in cui il film è girato all’interno dello spirito del tempo del racconto, ovvero gli anni settanta. Il montaggio parallelo, più volte utilizzato nel corso del film in sequenze di contrappunto tra vittime e carnefici, è invece un chiaro significante spielberghiano, in cui il bene e il male, la vita e la morte, si configurano come due facce allegoriche della stessa medaglia10. Tuttavia, il dispositivo narrativo complica quella che può apparentemente sembrare una

visione manichea della storia, allontanando il film dai tradizionali paradigmi spielberghiani di rappresentazione11. Come già in Schindler’s List, Spielberg appare ben consapevole dell’impossibilità di rappresentare questa storia, schematicamente, attraverso un cinema bianco o nero, armonico e semplificato. Lo stesso viaggio dell’eroe-Avner, che riprende apparentemente gli stilemi del cinema classico hollywoodiano, viene ridiscusso nel finale del film, tra i pochissimi unhappy ending di tutta la filmografia spielberghiana: se fino alla fine Avner sembra seguire fedelmente i passi del viaggio dell’eroe individuati da Chris Vogler, l’impresa non riesce a essere completata perché il protagonista non supera la prova centrale (supreme ordeal) e di conseguenza non riceve nessuna ricompensa (reward), la via del suo ritorno a casa (road back) viene interrotta da una scelta precisa e non compie, dunque, nessuna resurrezione (resurrection)12. Sulle implicazioni etiche della scelta di Avner (e di Spielberg) torneremo nell’ultimo paragrafo, ma conviene qui almeno anticipare la totale rimozione di qualsiasi componente mitologica dal racconto storico della vicenda, che invece irrompe in tutta la sua epica nel finale di Schindler’s List. Di contro, in Munich Spielberg decide di mediare costantemente i fatti storici con le inscrizioni mediali e l’assunzione dei punti di vista delle diverse soggettività spettatoriali, configurando un’opera di rottura fin dalla lunghissima sequenza che segue il preambolo immaginario dell’attacco. «IT’S JUST A SHOW»: SCHERMI E SPECCHI DA MONACO 1972

Un televisore a colori, ripreso in dettaglio e senza contesto circostante, è sintonizzato sul telegiornale del network statunitense ABC, dove il giornalista americano Jim McKay sta dando la notizia (in inglese) del rapimento degli atleti israeliani. Dietro di lui campeggia la scritta «Munich 1972», riferimento alle Olimpiadi in corso, ma anche elemento di contesto geografico e temporale che l’autore fornisce allo spettatore. Subito dopo siamo in Israele: con un movimento panoramico a mano il regista segue una folla che entra di corsa in un bar per assistere, ancora una volta tramite uno schermo televisivo, agli eventi appena accaduti a Monaco. Il televisore, collocato in alto al centro del locale e circondato da pubblicità della Coca Cola in lingua ebraica, trasmette un notiziario in inglese, con sottotitoli in israeliano, che mostra per la prima volta le immagini, in bianco e nero, girate in diretta dal villaggio olimpico di Monaco, in cui i terroristi con gli ostaggi sono assediati dalle forze dell’ordine. Dopo aver insistito sui dettagli dei volti degli avventori del bar (sempre in mdp a mano) il regista torna con un altro dettaglio sullo schermo televisivo. Con un montaggio alternato passiamo poi al terzo setting, ovvero la Palestina. Spielberg riproduce il movimento di macchina precedente, stavolta indirizzato dentro l’abitazione di una famiglia araba, dove un terzo schermo televisivo mostra le stesse immagini, con un commento ancora in inglese, ma sottotitolato in arabo. Qui, decine di persone osservano la televisione in silenzio, mentre poche altre esultano con dei cori celebrativi. Arriviamo al quarto schermo, stavolta ripreso con un’inquadratura fissa che mostra, invece, avvenire in profondità ciò che vediamo in TV, in tempo reale e ancora in bianco e nero. Siamo nella stanza del villaggio olimpico di Monaco dove i terroristi tengono in ostaggio gli atleti israeliani, e assistiamo, sia in televisione che sullo sfondo (in un ideale controcampo nella stessa inquadratura), a un militante di Settembre nero che esce sul balcone con una calzamaglia sul viso (fig. 1). Si tratta dell’immagine iconica del massacro di Monaco, ripresa, fotografata e riprodotta dalle televisioni e dai quotidiani di tutto mondo,

presentata qui sul piccolo schermo con un innesto di repertorio e, simultaneamente, rappresentata sullo sfondo dell’inquadratura tramite una messa in scena di finzione. Un quinto schermo, infine, mostra delle immagini a colori della diretta televisiva, ancora ripreso in camera fissa, dove vengono mostrati dei tentativi di negoziazione operati dal governo tedesco per far rilasciare gli ostaggi. Una lenta panoramica di pochi gradi verso sinistra rivela la sagoma di una donna di fronte a una finestra – forse Golda Meir? – che osserva la TV preoccupata e pensierosa. In appena un minuto, Spielberg colloca lo spettatore all’interno della ricezione internazionale dell’evento, filtrato attraverso cinque schermi televisivi provenienti da altrettante parti del mondo. L’evento che precede l’operazione contro-terroristica israeliana, che sarà poi oggetto principale del film, viene raccontato dal regista attraverso la sua versione televisiva, ovvero nel modo in cui a venticinque anni, assieme al padre da migliaia di chilometri di distanza, lo seguì in diretta nel 197213. Il regista invita lo spettatore a trarre da qui le informazioni necessarie alla comprensione drammaturgica di quanto accadrà nel film, lasciandogli comporre, a trent’anni di distanza, i frammenti archivistici del primo evento traumatico della storia occidentale globalizzato e mediatizzato in diretta dalla televisione14. In questa operazione di sguardo retroattivo sul passato irrompe, in una rilettura del presente dalle forti venature politiche, la trappola dello «specchietto retrovisore» di cui parla Marshall McLuhan, in cui ogni “vecchio” medium finisce per essere contenuto nel “nuovo”: il futuro, per dirla in altri termini, è già nel presente, ma bisogna staccare gli occhi dallo specchietto retrovisore della macchina in corsa per accorgersene15. Quando McKay, l’anchorman del notiziario ABC, osserva come con l’azione di Monaco si siano avverate per la prima volta le «grandi paure» del mondo occidentale, appaiono in tutta la loro vicinanza le modalità di ricezione globale dell’attacco terroristico alle Twin Towers, di appena quattro anni precedente alla produzione del film – torri che, come vedremo nel paragrafo successivo, torneranno dirompenti nell’inquadratura finale. La sequenza continua per diversi minuti, seguendo quattro direttrici intermediali: a) viene palesato il meccanismo di costruzione e trasmissione delle immagini dentro uno studio televisivo, re-installato per l’occasione nell’Olympiastadion di Monaco, con gli inviati dei network di tutto il mondo che si accalcano prima fuori dal villaggio olimpico, poi di fronte all’aeroporto di Monaco; b) continua il montaggio alternato che connette idealmente analoghe modalità di consumo mediale dell’evento in diversi contesti, introducendo anche i parenti delle vittime e dei terroristi che seguono preoccupati la sorte dei propri cari; c) entrano in gioco, ancora in chiave spersonalizzata, i servizi segreti israeliani che osservano inermi e cercano di intervenire nelle negoziazioni; d) gli stessi membri di Settembre nero, infine, assistono all’organizzarsi dell’operazione contro-terroristica in televisione, osservando come essa si stia trasformando, loro malgrado, «soltanto in uno show». Come ha osservato Thomas Nachreiner, le interfacce degli schermi di Munich «estendono lo spazio locale dell’evento nello spazio più ampio dell’esposizione televisiva»16. Il massacro di Monaco 1972 viene dunque ri-mediato dalla televisione senza che vengano introdotti, nei primi dieci minuti, personaggi o situazioni drammaturgiche che saranno poi oggetto del resto del film17. La tecnica del montaggio alternato sperimentata da Michael Kahn, storico montatore di Spielberg, agisce sia fuori che dentro la dimensione testuale: da un lato amplifica il realismo percettivo introdotto dagli schermi e dalla macchina a mano, velocizzando e “televisizzando” le connessioni tra immagini di repertorio e finzione; dall’altro finisce

per incrementare la suspense narrativa, rendendo lo spettatore parte dell’universo del consumo mediale dell’epoca. L’assenza totale della colonna sonora di John Williams, molto invadente nelle due brevi porzioni in cui è divisa la primissima sequenza del film, agisce nella medesima direzione: sottrarre la componente finzionale al racconto storico e lasciare ai soli raccordi ambientali il compito di restituire autenticamente lo spirito del tempo. La riflessione di Munich sui media è senz’altro preponderante nella prima parte del film, ma continua almeno in tre altre occasioni specifiche in cui la squadra speciale di Avner assiste, in televisione, alle operazioni di rappresaglia che Settembre nero dissemina in tutto il mondo. Ecco, in tutta evidenza, quella tipica messa in scena in forma auto-riflessiva della pervasività degli schermi (e dei media) nel mondo contemporaneo, caratteristiche di alcuni tratti del cinema moderno, così come di molto cinema americano degli anni settanta – da Nashville (Id., R. Altman, 1975) a Network (Quinto Potere, S. Lumet, 1976). Alla fine della lunga sequenza, dopo quasi dieci minuti dall’inizio, viene introdotto il primo personaggio del film, che assiste dal divano di casa alle immagini televisive della partenza dall’aeroporto di Monaco verso Israele delle salme degli undici ebrei assassinati. Avner non è uno dei tanti spettatori che abbiamo visto consumare, nella sequenza precedente, quelle immagini di fronte al televisore: è l’unico, infatti, presentato con un movimento di macchina circolare di 180°, che passa da una semisoggettiva introduttiva, nella quale identifichiamo da subito il nostro sguardo (fig. 2), a un classico primissimo piano di presentazione. Di fronte al dolore provocato dalla visione di quelle immagini, Avner spegne il televisore. Solo dopo questo atto di cesura, la narrazione drammaturgica del film può avere inizio. Un ulteriore elemento che contribuisce all’identificazione del punto di vista con quello del personaggio principale è fornito dalla sequenza del viaggio da Tel Aviv a Ginevra, che introduce un’altra dimensione di intermedialità ai vari livelli in cui si sviluppa il racconto. Seduto sul sedile dell’aereo che lo conduce in Svizzera per iniziare l’operazione, Avner guarda fuori dal finestrino e immagina, e allo stesso tempo assiste a, ciò che non è stato mostrato dalle immagini televisive, ma che abbiamo parzialmente visto nel preambolo. Uno zoom si avvicina verso la superficie del vetro del finestrino che, più che mostrare ciò che c’è fuori, finisce per riflettere, come fosse un ulteriore schermo, ciò che immagina Avner, ovvero l’ingresso dei terroristi negli alloggi israeliani del villaggio olimpico (fig. 3). Immediatamente, l’immagine riflessa sul finestrino invade la totalità dello schermo: la fotografia livida, l’utilizzo del ralenti, la forte presenza della colonna sonora e dell’eco del sonoro ambientale, conferiscono a queste immagini una dimensione onirica che contrasta con le icone “televisizzate” della sequenza precedente. Si tratta della trasposizione di un sogno, dell’immaginazione di Avner riflessa su un vetro, in cui assistiamo al brutale omicidio dei due atleti israeliani che avevano tentato di ribellarsi. Dopo aver visto assieme ad Avner le immagini da lui proiettate sul finestrino, uno zoom all’indietro ci riporta nel mondo “reale”, nella cabina dell’aereo dove il protagonista bacia la fede nuziale prima di rimuoverla dal dito. Questa breve sequenza anticipa altre due scene oniriche che, nel corso del film, completeranno ai nostri occhi il quadro delle immagini dell’accaduto: a) la messa in scena di un vero e proprio sogno di Avner, in cui la narrazione del massacro passa dal villaggio olimpico all’aeroporto; b) il montaggio alternato in cui Avner immagina e visualizza, durante l’amplesso con la moglie, le fasi finali degli omicidi. Le immagini-mentali di Avner si configurano come «immagini eidetiche», ovvero proiezioni di oggetti ideali che non dipendono dall’esperienza

sensibile del protagonista, ma unicamente dalla sua immaginazione18. In aperto contrasto con la storia pubblica del massacro, inquadrata dalla televisione nella sequenza precedente, l’immaginazione di Avner proietta fuori da sé lo scarto delle immagini mancanti19. In questo modo, Spielberg propone sia una ri-mediazione che una ri-figurazione dell’immaginario storico dell’accaduto attraverso gli occhi di Avner, una ri-locazione della storia sul vetro di un finestrino che, assumendo una duplice funzione intermediale e perimetrale, si fa schermo riflettente e visibile di paure, sogni e immaginazioni fino a quel momento irrappresentabili20. Si tratta, tuttavia, di un vetrospecchio che, come osserva Paolo Bertetto in relazione a Orphée (Orfeo, J. Cocteau, 1949), rappresenta da un lato una «soglia di separazione e di divisione tra due mondi», una «misteriosa superficie d’accesso all’alterità di un altro mondo», dall’altro è invece «una superficie che consente l’intensificazione del rapporto con se stesso e la produzione di un’avventura narcisistica»21. Dopo aver presentato la cronaca dei fatti tramite la loro assunzione pubblica, e adottato l’utilizzo degli inserti documentari attraverso la riconfigurazione del repertorio su decine di schermi, il percorso delle “nuove” immagini di Munich passa attraverso un processo di allucinazione traumatica articolato in tre falsi flashback. Le immagini del massacro, «ispirate a eventi reali» e rifigurate dalla mente di Avner, sono dunque frutto dell’immaginazione del protagonista e agiscono, internamente, nella graduale mutazione della sua identità. «BREAK BREAD WITH ME, EPHRAIM»: MUNICH, AUSCHWITZ, NEW YORK

Spielberg costruisce l’intero racconto delle varie operazioni della missione attorno allo sguardo di Avner22. La sequenza dell’omicidio di Kamāl Adwān, uno dei principali organizzatori di al-Fatah a Parigi, è in questo senso paradigmatica. La scena è anticipata da una discussione tra Avner, Robert e Carl (due membri della squadra), in cui il primo cerca di convincere gli altri che è inutile cercare prove che giustifichino gli omicidi che stanno compiendo, perché «in una guerra non puoi permetterti di pensare». Avner è automatizzato sull’operazione da compiere: pensa a eseguire gli ordini, disposto a tutto pur di raggiungere lo scopo per cui è stato ingaggiato. La sequenza dell’omicidio di Parigi, il secondo in ordine cronologico, ha inizio con uno zoom all’indietro su Carl che attende un segnale all’interno di una cabina telefonica. La squadra coordinata da Avner, infatti, ha installato un esplosivo nell’apparecchio telefonico dell’abitazione di Kamāl. Senza alcuno stacco, il movimento di macchina si trasforma prima in una panoramica verso destra, che segue l’arrivo di un’automobile dall’altro lato del palazzo dove vive il politico palestinese, poi ancora in uno zoom out, grazie al quale vediamo Avner accanto a un’edicola che, mentre finge di leggere un giornale, lancia uno sguardo alla finestra di Kamāl. Spielberg segue ogni movimento, in piano sequenza, con la mdp, enfatizzando con l’uso di dettagli, ma soprattutto grazie al sonoro ambientale, la suspense del racconto. Dal portone di casa, intanto, escono la moglie e la figlia del politico: entrano in una Mercedes che si allontana. Avner manda un messaggio in codice a Carl, che dalla cabina telefonica fa partire la chiamata. «Ora aspetteremo la luce rossa», osserva Robert seduto in macchina, pronto ad azionare il dispositivo. A un tratto, un camion bianco si parcheggia accanto all’automobile dove Robert e il resto della squadra attendono la luce rossa sul dispositivo di controllo remoto. Mentre Avner avvisa Carl di sospendere l’operazione, assicurandosi che il camion non blocchi il segnale, una carrellata da sinistra verso destra si allontana dall’automobile, passa davanti al retro del camion, e mostra dall’altro lato della strada

la Mercedes che fa retromarcia e si ferma nuovamente di fronte al palazzo di Kamāl. Dalla macchina scende la figlia del politico palestinese, che rientra a casa correndo (fig. 4). Spielberg la segue prima mentre esce dalla Mercedes, continuando la carrellata, poi, dopo uno stacco, mentre sale le scale del palazzo, con una panoramica di pochi gradi in contre-plongée. La bambina indossa un maglioncino rosso, colore che, in tutta evidenza, non richiama soltanto la «luce rossa» attesa dalla squadra. La bambina palestinese dal maglioncino rosso è, infatti, la bambina ebrea dal cappottino rosso di Schindler’s List, simbolo del sangue e del terrore della Shoah, oltre che dell’innocenza e della discontinuità dello sguardo “a colori” di Oskar Schindler (che coincide, in quel caso, con quello dello spettatore)23. In questa sequenza, tuttavia, lo sguardo di Avner è impallato dal camion bianco e, a differenza di Schindler (e degli spettatori), non riesce a vedere la bambina che risale dentro casa (fig. 5). Avner, infatti, dopo il primo omicidio ha già perso la sua innocenza, e il suo cinismo («in una guerra non puoi permetterti di pensare») non gli consente di accorgersi della bambina dal maglioncino rosso. Soltanto quando, tornato alla sua postazione, si rende conto della Mercedes ferma nuovamente di fronte al palazzo di Kamāl, capisce insieme a Carl (che ha ascoltato la voce della bambina rispondere al telefono) di dover di nuovo abortire l’operazione. A quel punto, irrompe nella scena un sonoro extra-diegetico in flash forward: in sottofondo si sente un rumore ovattato di un’esplosione, seguita dalla sirena di un’ambulanza che anticipa di pochi secondi l’audio della conclusione della sequenza – e richiama una tecnica già utilizzata da Spielberg, ad esempio, in Saving Private Ryan (Salvate il soldato Ryan, 1998). Il pericolo di uccidere un innocente sembra scampato: la bambina dal maglioncino rosso è salva, esce di nuovo di casa, rientra in macchina e si allontana. Contestualmente, il camion che oscurava la visuale se ne va. La missione riprende da dove era stata abortita e Kamāl può essere fatto saltare in aria. Se anche negli altri omicidi compiuti nel corso dell’operazione contro-terroristica assisteremo ad analoghi meccanismi di costruzione della suspense, nella sequenza di Parigi avviene però uno scarto simbolico. Per la prima volta, viene introdotta la possibilità che in un’operazione di questo tipo possa rimanere ucciso un innocente, nella fattispecie una bambina. Non a caso il regista alterna l’utilizzo di situazioni di suspense e colpi di scena a momenti di discussione morale ed etica che rallentano il ritmo forsennato della prima parte. Spielberg inizia a integrare parzialmente lo sguardo israeliano con un punto di vista “arabo”, perseguendo due obiettivi principali: da un lato, arricchire e complicare la drammaturgia del racconto eroico di Avner, creando indirettamente un “dialogo” con l’altro mondo (il personaggio di Eli, il guerrigliero palestinese che Avner incontrerà ad Atene, ha questa precisa funzione24) e alimentando una presunta superiorità morale israeliana sui palestinesi25; dall’altro, ridiscutere eticamente la giustezza della azioni compiute dal Mossad, inserendole in un meccanismo di promiscuità ideologica dove “cane mangia cane” e, di conseguenza, nessuna violenza, da una parte e dall’altra, appare più giustificabile26. Dopo l’azione di Parigi, Avner inizia a dubitare della sua identità israeliana, di far crescere sua figlia (appena nata) in Israele, di volere essere un eroe nazionale come suo padre27. È proprio l’assenza del padre, refrain del cinema spielberghiano, ad assumere qui una portata metaforica, soprattutto sul piano etico della costruzione identitaria. James Schamus ha notato come tutte le vittime di Avner siano maschi che, prima di essere uccisi, assumono caratteristiche paterne28; ma ancor di più, il personaggio di Papà, leader della misteriosa organizzazione francese Le Group, con cui Avner inizia a

collaborare, ha una funzione riempitiva dello scarto tra l’identità israeliana (il padrefantasma) e la sua nuova identità di ebreo diasporico (il papà dislocato cui si affida)29. Il richiamo continuo all’esistenza di un padre mai rappresentato viene traslata sul rapporto problematico che Avner inizia a vivere con il suo paese, Israele, e che lo porterà nel finale a fare yerida (la contro-migrazione degli ebrei israeliani verso l’Europa e l’America, che si contrappone all’aliyah, compiuta invece verso Israele dagli ebrei della diaspora). È una relazione costantemente mediata dalla memoria, diretta o indiretta, della Shoah, rappresentata dalla madre di Avner, ebrea tedesca sopravvissuta allo sterminio, che tenta di convincerlo fino alla fine a rimanere in Israele, «perché finalmente abbiamo un posto sulla terra […] dove essere ebrei tra gli ebrei, senza essere sottomessi a nessuno». Avner, tuttavia, si distingue in quanto portatore di una nuova identità di ebreo «dissociato»30, sia dalla memoria della Shoah (la madre), sia dalle radici territoriali (il padre). Il rapporto problematico tra Avner e Israele richiama, implicitamente, quello tra Spielberg e la sua identità di ebreo americano31. Per approfondire ulteriormente questa relazione, ripartiamo dalla porzione conclusiva della lunga sequenza “intermediale” di Munich, in particolare dall’utilizzo della musica diegetica. In sottofondo alle immagini televisive che trasmettono il trasporto dalla Germania in Israele delle salme degli atleti assassinati, ascoltiamo una versione strumentale dell’Hatikvah, canzone ufficiale del movimento sionista dal 1897 e inno nazionale israeliano, che nelle parole richiama la speranza del popolo ebraico disperso nel mondo di tornare, un giorno, a casa: «Finché dentro il cuore / l’anima ebraica anela / e verso l’oriente lontano / un occhio guarda a Sion / non è ancora persa la nostra speranza / la speranza due volte millenaria / di essere un popolo libero nella nostra terra / la terra di Sion e Gerusalemme». Spielberg utilizza l’Hatikvah in una duplice funzione: una che agisce sul testo in una forma esplicativa/metaforica – gli atleti israeliani che, nelle bare, tornano a casa dalla Germania, teatro principale della Shoah in Europa, momento originario di una delle più corpose migrazioni sioniste dopo la Seconda guerra mondiale; l’altra che serve da contrappunto predittivo – Avner, che parte da Israele per la sua missione e che, alla fine del film, deciderà di non tornare a casa, facendo yerida. Inoltre, l’uso della musica si configura come uno dei tanti riferimenti auto-riflessivi e di contrappunto al film di Spielberg del 1993. Nella sequenza finale di Schindler’s List, gli ebrei polacchi appena liberati dal campo di Auschwitz chiedono a un ufficiale dell’Armata rossa: «Dove dobbiamo andare?». Dopo averli avvisati di non andare né a est né ad ovest, il militare sovietico indica loro «una città laggiù». Il chiaro riferimento è alla «terra di Sion», la “città di David” della “terra promessa” biblica, più semplicemente Israele, dove gli ebrei europei sopravvissuti alla Shoah si trasferirono in massa con l’aliyah bet (la migrazione sionista clandestina che inizia già durante le persecuzioni) per costruire «un proprio posto sulla terra», per dirla con le parole della madre di Avner, nel 1948. Mentre i sopravvissuti si avviano in campo lungo verso Israele, parte il brano Yerushalayim shel zahav (Gerusalemme d’oro), canzone popolare del 1967, utilizzata come canto di battaglia dai soldati israeliani durante la Guerra dei sei giorni contro i paesi arabi uniti. Spielberg decide di chiudere Schindler’s List con l’utilizzo extra-diegetico di un brano, scritto vent’anni dopo la fine della Shoah e che richiama politicamente il conflitto arabo-israeliano, per commentare una scena di aliyah. Allo stesso tempo, l’operazione contro-terroristica di Munich, che porterà Avner a non credere più nel suo paese e decidere di fare yerida, inizia diegeticamente con una canzone sionista per sottolineare un altro ritorno a casa: quello

delle salme degli ebrei, assassinati ancora una volta su territorio tedesco, dirette verso Gerusalemme. Come osservato da Yosefa Loshitzky, «se Schindler’s List termina su una nota di trionfante sionismo, Munich solleva dei dubbi se non sull’essenza del sionismo stesso, quantomeno sulle strategie e le operazioni condotte dalla sua incarnazione politica, ovvero lo Stato d’Israele»32. Cosa è cambiato nei dieci anni che separano i due film? Per rispondere a questa domanda, procediamo a un’analisi incrociata tra l’incipit del film del 1993 e l’explicit di quello del 2004. Non soltanto la fine (aliyah vs yerida), infatti, ma anche la scena iniziale di Schindler’s list viene esplicitamente ripresa dal finale di Munich. Dopo che la moglie annuncia ad Avner la telefonata di «un israeliano», una panoramica con un lentissimo zoom segue il protagonista, da sinistra verso destra, mentre passeggia e parla con Ephraim, un agente del Mossad, sopra una passerella sull’East River. Alle loro spalle, sullo fondo, sti stagliano i grattacieli di Manhattan. Nella discussione, Avner esplicita i dubbi etici sugli esiti e le modalità di conduzione dell’operazione, mentre Ephraim vuole semplicemente convincerlo a tornare a lavorare per il Mossad. «Ogni uomo che abbiamo ucciso è stato sostituito da qualcun altro» osserva Avner dubbioso, ed Ephraim commenta: «Perché tagliarsi le unghie se ricrescono?». Con l’intensificazione emotiva della conversazione, Spielberg passa definitivamente a un campo/controcampo sui primi piani dei due. Ephraim: «Sei un sabra (ebreo d’Israele, n.d.a.), come tua moglie e tua figlia. Sono venuto solo a dirti di tornare a casa». Dopo qualche secondo di silenzio ed esitazione, Avner lo invita a cena a casa sua «a spezzare il pane», ma Ephraim rifiuta e si allontana (fig. 6)33. Ecco l’ennesimo rimando a Schindler’s List, in particolare alla prima sequenza a colori, in cui una famiglia di ebrei polacchi, in piedi attorno a un tavolo mentre prega e benedice il pane, si dissolve dall’inquadratura prima di riuscire a spezzarlo. Avner esorta Ephraim a compiere insieme, lontani da casa, quell’atto mancante, mai concluso a causa della Shoah. Uno davanti all’altro, i due personaggi si confrontano con due diversi modi di concepire la casa, la famiglia, l’ebraismo: un ebreo dislocato, cui aderisce il punto di vista dell’autore, e un ebreo israeliano, che non immagina altra famiglia all’infuori di Israele. Come ha scritto Raja Halwani, nel rappresentare Avner e la moglie come ebrei sabra che decidono di emigrare, Spielberg intende mettere in discussione il ruolo d’Israele come il migliore Stato possibile in cui gli ebrei possano vivere nel mondo34. Avner rimane fermo, al centro dell’inquadratura in campo lungo, e dopo pochi secondi se ne va. La mdp prima lo segue con un movimento panoramico verso sinistra, che si sposta leggermente verso l’alto, finché il protagonista non esce dall’inquadratura in basso. Nel frame finale, in lontananza, dallo skyline di Manhattan svetta un elemento del contesto prima nascosto, adesso al centro dell’inquadratura: le Torri gemelle del World Trade Center, finite di costruire durante l’operazione “ira di Dio” (fig. 7). Da Settembre nero all’11 settembre il cerchio di Munich si chiude: le immagini del conflitto globalizzate e «clonate» dagli schermi all’inizio del film si trasformano in un’allegoria della “guerra al terrore” occidentale35, rimediata sia dalla memoria del trauma per eccellenza dell’identità ebraica (la Shoah) sia da quello più recente dell’identità americana (le Torri gemelle)36. Non si tratta solo dei rimandi tra la Shoah, il conflitto arabo-israeliano e l’11 settembre di cui si è detto, ma anche della mediazione continua dello sguardo “americano”: il titolo del film (fig. 8), la lingua in cui è girato, l’uso della colonna sonora diegetica e dei personaggi di nazionalità americana. Se il massacro di Monaco prima, e l’operazione contro-terroristica poi, spostano i confini del conflitto

israelo-palestinese in Europa, Spielberg trasforma dunque una storia locale e continentale in un dilemma etico ebraico, occidentale, ma prima di tutto americano37.

1.

2.

3.

4.

5.

6.

7.

8.

Ready Player One di Mauro Di Donato QUESTO (NON) È UN VIDEOGIOCO

Ready Player One (Id.), distribuito nel 2018, è il trentaduesimo lungometraggio di Steven Spielberg. L’avventura produttiva del film inizia nel 2010, anno in cui la Warner Bros. acquista i diritti del romanzo omonimo, scritto da Ernest Cline, prima ancora della sua pubblicazione. Il progetto passa di mano in mano (tra i registi inizialmente interpellati ci sono anche Christopher Nolan e Peter Jackson), fino al coinvolgimento di Spielberg. La sceneggiatura, scritta da Zak Penn, vede il contributo dello stesso Cline. La vicenda ruota attorno al mondo virtuale di OASIS, un gioco creato da James Hallyday, eccentrico e schivo genio del computer. Il giorno della sua morte, viene comunicato il suo stravagante testamento: chiunque riuscirà a superare una serie di prove, scovando tutti gli easter eggs disseminati nel gioco, riceverà in premio la proprietà di OASIS, valutata miliardi di dollari. La “caccia al tesoro” prevede la risoluzione di vari enigmi, predisposti dallo stesso Hallyday, che hanno a oggetto i suoi interessi, le sue passioni e la sua stessa storia personale. Per questa ragione i giocatori devono analizzare ogni dettaglio della sua biografia, studiando le videoregistrazioni che ritraggono i momenti salienti della sua vita, messe a disposizione dallo stesso Hallyday e custodite in un’immensa mediateca virtuale. L’intreccio segue le vicende di un gruppo di “gunter” (abbreviazione di eggs hunters) risoluti a portare a termine le sfide e a battere sul tempo la multinazionale IOI (Innovative Online Industries) che, nel frattempo, ha assoldato un esercito di giocatori allo scopo di impossessarsi della creazione di Hallyday. I nostri protagonisti (Parzival, Art3mis, Aech, Daito e Sho) sono animati dal desiderio di proteggere l’utopia di OASIS, in linea con i desideri e la visione del suo creatore, insidiata dalla IOI e dai suoi torbidi interessi aziendali. Rispetto al romanzo, il film presenta numerose variazioni, introdotte, con il benestare di Cline, allo scopo di rendere più interessanti visivamente alcuni passaggi del racconto e di semplificarne l’intreccio, con l’eliminazione di alcune sottotrame e il ridimensionamento di diversi personaggi. In particolare, le sfide di Hallyday sono state quasi completamente riscritte, con l’eccezione dell’ultima, che vede i protagonisti impegnati a risolvere un enigma che ruota attorno ad Adventure (Atari, 1979), il primo videogioco della storia che nasconde al suo interno un easter egg1. Nonostante i cambiamenti, il film conserva la struttura portante del romanzo, mantenendone lo spirito originario, soprattutto per quanto riguarda un tema centrale dell’opera: ovvero la trasposizione in chiave mitica e celebrativa dell’immaginario pop degli anni ottanta, che dà luogo a una sterminata rete di riferimenti. Questo vasto e composito mosaico di citazioni poggia su una precisa motivazione narrativa: James Hallyday, estimatore e profondo conoscitore degli anni ottanta, ha creato OASIS a sua immagine e somiglianza. In particolare, gli enigmi che egli dissemina nel gioco hanno, per lo più, a che fare con film e videogiochi di quell’epoca. Spielberg, sia pure patendo alcune limitazioni dovute a vincoli di copyright, traduce sul piano visivo questo articolato tessuto citazionistico infarcendo il film di immagini che richiamano, a vario titolo, videogiochi, film, fumetti e, in generale, l’universo della cultura giovanile di quegli anni. Sotto questo profilo Ready Player One si inserisce in un nutrito filone di film e serie televisive che rievocano e rielaborano l’immaginario degli

anni ottanta, da Super 8 (Id., J.J. Abrams, 2011), fino al recente Stranger Things (Id., M. e R. Duffer, 2016 - in corso); una moda che, in questi anni, investe anche il mondo dei videogiochi (esemplare, a tale proposito, la pratica del retrogaming, che consiste nel giocare vecchi videogiochi fuori mercato usando hardware obsoleti o emulatori al fine di eseguire i software dell’epoca). Dunque, in queste rievocazioni, si riflette anche il fenomeno della «technostalgia»2, che si esprime attraverso il “culto del revival”, il repêchage e la riattualizzazione, in chiave nostalgica e commemorativa, di esperienze e pratiche tecnologiche del passato3. Si pensi, a tal proposito, al successo conseguito, in questi ultimi tempi, dalle riedizioni delle console degli anni ottanta (Nintendo Classic mini, Atari Flashback ecc.). Questo tema si manifesta in Ready Player One non solo con le centinaia di citazioni che richiamano vecchi titoli videoludici, ma anche attraverso una visione tecnologica che, per alcuni versi, ci riporta al passato e al presente della realtà virtuale. Se, infatti, un presupposto ricorrente della letteratura e del cinema cyberpunk è l’esistenza di tecnologie che consentono di collegare direttamente il cervello umano al computer, nel romanzo di Cline, così come nel film di Spielberg, c’è ancora bisogno di hardware ingombranti, come caschi, tute, guanti, pedane interattive ecc. Per quanto la realtà virtuale di OASIS si presenti come un’esperienza estremamente sofisticata e futuribile, si riallaccia, sotto questo aspetto, a un immaginario tecnologico “pre-Matrix” – si pensi, ad esempio alle tute interattive del film The Lawnmower Man (Il Tagliaerbe, B. Leonard, 1992), ma anche agli attuali tentativi di rilancio dei caschi per la realtà virtuale, con i computer e le console di ultima generazione (Playstation VR, Oculus Rift ecc.) – riportando gli scenari della virtualità digitale a un orizzonte a noi più vicino e accessibile. Come si evince da questo primo inquadramento, Ready Player One presenta un’articolazione di temi e suggestioni particolarmente ampia. In queste pagine ci concentreremo su un aspetto particolare del film, che riguarda le strategie rappresentative attraverso cui Spielberg restituisce filmicamente il mondo digitale del videogioco e della realtà virtuale, mettendo in luce, allo stesso tempo, quegli elementi dell’opera che sviluppano un discorso autoriflessivo sul cinema e sui rapporti che esso intrattiene con le altre forme dell’audiovisivo nell’orizzonte mediale della contemporaneità. Ready Player One, infatti, è, prima di tutto, un film che narrativizza e mette in scena l’esperienza del videogioco. I rapporti tra cinema e videogame si sviluppano nell’ambito di una filmografia alquanto eterogenea. D’altra parte tra i film che, più specificamente, sono ambientati all’interno di mondi videoludici – si pensi, ad esempio, a eXistenZ (Id., D. Cronenberg, 1999), Avalon (Id., M. Oshii, 2001) ecc. – o nelle realtà virtuali – come The Matrix (Matrix, L. e A. Wachowski, 1999) – si può evidenziare un tratto largamente ricorrente: ovvero la prevalenza di realizzazioni in live action, sia pure arricchite da buone dosi di effettistica digitale. Del resto un’altro elemento immancabile, nella cinematografia incentrata su tali tematiche, è la presenza di mondi virtuali talmente sofisticati da poter replicare con straordinaria precisione le fattezze della realtà fenomenica (il che legittima, sul piano narrativo, l’impiego di attori reali e riprese dal vero). Il cinema, insomma, quando mette in scena il mondo del videogame tende, per lo più, a operare una pesante trasposizione estetica riportando la dimensione del virtuale alle forme visive del cinema tradizionale. Ready Player One, invece, sfrutta l’estetica digitale della CGI per contrapporre il mondo di OASIS alla dimensione della realtà fisica dei personaggi. I due piani diegetici, infatti, sono caratterizzati da una configurazione visiva chiaramente diversificata: i segmenti

ambientati nel mondo fisico sono girati in live action e, per quanto l’effettistica digitale sia largamente presente anche in queste sezioni, la CGI tende a un’estetica sostanzialmente “fotorealistica”; i segmenti ambientati nel mondo virtuale, invece, si manifestano esplicitamente come artefatti digitali. OASIS e i personaggi che lo popolano ricalcano le configurazioni visive del videogame, non solo sul piano puramente estetico e della qualità grafica, ma anche perché presentano numerosi elementi caratteristici degli ambienti videoludici: interfacce visive che raffigurano lo stato di salute del giocatore, display virtuali che mostrano il punteggio e i progressi nel gioco ecc. L’estetica digitale che caratterizza l’impianto visivo delle sezioni ambientate in OASIS possiede, dunque, una precisa qualità referenziale. In questo senso, Ready Player One offre un’esperienza di visione che, per molti versi, è «simile al guardare qualcun altro giocare»4. OASIS richiama, sia pure in forma iperbolica, le caratteristiche dei videogiochi attuali, con particolare riferimento al genere MMORPG (massively multiplayer online role-playing game). Si pensi ai giochi di ruolo online, come World of Warcraft (Blizzard, 2004), la serie di Guild Wars (ArenaNet, 2005-2012), Tera (Bluehole Studio, 2011), Neverwinter Online (Cryptic Studio, 2013), solo per fare qualche esempio, che offrono la possibilità di praticare scenari particolarmente complessi ed estremamente dettagliati: mondi «che contengono foreste, praterie, oceani, spiagge, montagne, città e migliaia di giocatori simultanei. Nei regni MMORPG gli esseri umani non solo creano nuove versioni di se stessi ma, anche, evolvono collettivamente nuove società»5. Il film di Spielberg evoca, appunto, questo genere di pratiche mediali, entrate ormai nella quotidianità di milioni di videogiocatori per i quali lo spazio virtuale è diventato un luogo familiare di incontro e di esperienze collettive. Ready Player One, dunque, non è semplicemente un film sui videogiochi e neanche un film “ibrido” che incorpora le forme visive e le logiche del videogioco; più precisamente è un film che traspone in forma narrativa, avventurosa e spettacolare l’esperienza del virtuale già oggi praticabile attraverso i dispositivi domestici di intrattenimento elettronico interattivo. LA PRIMA SEQUENZA

Il film si apre con una bizzarra veduta urbana: uno sterminato agglomerato di roulotte e caravan impilati gli uni sugli altri a formare torri di lamiera, tenute assieme da un ingarbugliato reticolo di impalcature metalliche. Si tratta di un quartiere popolare – chiamato “le cataste” (stacks) – nel quale vivono stipate migliaia di persone. Una breve carrellata aerea ci avvicina a uno dei caravan, posto sulla sommità di una delle torri, dal quale esce un ragazzo che, con passo sicuro, si incammina lungo le impalcature. Per raggiungere il livello stradale, il protagonista si cala da un piano all’altro della struttura attraverso un sistema di corde e carrucole. Nel corso della sua discesa passa accanto alle finestre di altri caravan, dalle quali scorgiamo alcune scene di ordinaria routine domestica. All’interno dei piccoli alloggi tutti indossano un casco elettronico e sono intenti alle più disparate attività virtuali. Una bambina suona un pianoforte inesistente, un uomo sembra impegnato a cavalcare onde invisibili su un surf improvvisato, un altro gioca una partita a tennis virtuale nel chiuso del suo cubicolo. Al termine della sua discesa, un rapido scambio di battute con una vicina ci informa che il nome del ragazzo è Wade. Mentre il protagonista si avventura in una distesa di lamiere all’interno di un cimitero di automobili arrugginite, la sua voice over ci introduce agli scenari che fanno da sfondo alle vicende dei protagonisti. Nel 2045 il

pianeta è al collasso. La gran parte della popolazione vive in una condizione di miseria e precarietà, trovando rifugio nel più popolare e sofisticato gioco virtuale online di massa: OASIS (ontologically anthropocentric sensory immersive simulation). Wade si introduce all’interno di un furgone in disuso dove sono custoditi i suoi dispositivi di connessione: visiera, guanti e una pedana mobile. Dopo aver effettuato i collegamenti accosta la visiera al volto. La macchina da presa, con un movimento fluido e in continuità, si avvicina agli occhi di Wade per poi proiettarsi all’interno del visore schiudendo alla vista, nostra e del protagonista, gli incredibili scenari di OASIS. Un vorticoso movimento in profondità cattura il nostro sguardo come in un gorgo digitale attraversando una molteplicità di stupefacenti panorami virtuali. L’elaborato travelling termina stringendo sull’immagine del portale di accesso a OASIS dove vediamo materializzarsi centinaia di avatar che corrispondono ad altrettanti giocatori appena connessi. In questo segmento di apertura il film stabilisce una prima dialettica tra la dimensione di realtà e quella virtuale in cui si svolgerà buona parte del racconto: come si è già osservato, al mondo fisico corrisponde una messa in scena live action, mentre le scene ambientate in OASIS sono totalmente realizzate in CGI. Le due dimensioni, inoltre, appaiono marcatamente diversificate anche sul piano cromatico. Mentre il mondo reale è contrassegnato da una tavolozza di colori notevolmente ridotta, e schiacciata sui toni del grigio, OASIS presenta una gamma cromatica assai più variegata, dai toni accesi e brillanti. I due segmenti sono anche caratterizzati da strutture visive che presentano motivi dinamici e grafici differenziati: la sezione iniziale, nella quale osserviamo Wade che si cala in strada dall’alto della sua roulotte, presenta una serie di movimenti di macchina discendenti che esaltano la dimensione della verticalità (valorizzata anche dalla configurazione delle stesse scenografie). L’ingresso in OASIS, invece è descritto da un unico e articolato travelling che percorre lo spazio in profondità. A tale proposito si osserva come nella versione in 3D del film, la prima sezione in live action sia caratterizzata da un impiego molto moderato della stereoscopia, mentre l’ingresso in OASIS presenta una particolare enfasi dei segnali di profondità. L’opposizione tra verticalità e profondità stabilisce i caratteri peculiari delle due dimensioni, la prima che riflette l’idea di uno spazio dominato dalla gravità, un ambiente materiale e concreto (quanto le articolate strutture sceniche che rendono accidentato il percorso del protagonista), la seconda svincolata dalle limitazioni fisiche, che consente movimenti liberi e fluttuanti. Tale opposizione richiama, evidentemente, una dialettica tra costrizione e libertà. Come dice Wade nel monologo di apertura: «di questi tempi la realtà è una fregatura, tutti cercano un modo per evadere». In OASIS «si può fare tutto, andare ovunque». L’allontanamento dalla realtà e dal mondo materiale assume dunque un tono esplicitamente consolatorio ed escapista. In questo senso Ready Player One si riallaccia ad una ricca filmografia – che va da The Matrix fino a OtherLife (Id., B.C. Lucas, 2017) – in cui il virtuale si configura come una forma illusoria che ostacola un accesso autentico alla realtà. D’altra parte, in questo caso, la realtà virtuale non presenta una connotazione apertamente negativa: OASIS è un mondo ideale creato da un genio benevolo e disinteressato e i milioni di utenti che lo popolano scelgono liberamente di abbandonarsi all’illusione elettronica. Sin dalla prima sequenza, dunque, il racconto si incarica di stabilire una dialettica chiara ed esplicita tra reale e virtuale, improntata a una serie di opposizioni binarie, visive e concettuali (live action/CGI, monocromatismo/policromatismo,

verticalità/profondità, costrizione/libertà, realtà/illusione), ulteriormente sottolineata da un particolare impiego dei codici filmici che stabiliscono, anche sotto questo aspetto, una partitura diversificata tra le due ambientazioni. Vale la pena, a tale proposito, soffermarsi ancora sul segmento di apertura del film che pone una particolare insistenza sul tema figurativo della finestra. Come si è osservato, il percorso di Wade lungo “le cataste” costeggia diversi caravan consentendoci di osservare cosa accade all’interno delle abitazioni proprio attraverso le finestre. La configurazione scenica e le dinamiche dello sguardo presenti all’interno del segmento richiamano l’incipit di Rear Window (La finestra sul cortile, A. Hitchcock, 1954). Anche in quel caso, infatti, un elaborato movimento di macchina ci consente di osservare la vita che scorre dietro le finestre, disposte lungo le facciate di un’articolata struttura scenica. L’immagine della finestra come metafora dello spazio schermico è, com’è noto, assai radicata e corroborata da una ricca tradizione critica6. La finestra, infatti, stabilisce una struttura precisamente delimitata, che consente di esercitare la visione ponendo, al tempo stesso, un diaframma tra osservatore e osservato e, per questo, definisce una configurazione visiva che presenta evidenti caratteri di analogia con l’inquadratura e lo schermo cinematografico. Come osserva Paolo Bertetto, relativamente al film di Hitchcock, la finestra si configura «come struttura attiva di selezione del visibile dei singoli appartamenti. La finestra è una struttura che presenta omologie essenziali con la configurazione dell’obiettivo, dell’inquadratura e dello schermo»7. Il tema figurativo della finestra, anche nel caso dell’incipit di Ready Player One, allude a un elemento costitutivo del linguaggio e dell’estetica del cinema manifestando un’evidente specificità autoreferenziale e, significativamente, è abbandonato nel segmento successivo che ci conduce nel mondo virtuale di OASIS. Se la finestra richiama l’inquadratura e lo schermo cinematografico, implicando una distanza invalicabile tra osservatore e osservato, il travelling che ci proietta nel mondo di OASIS si presenta come un movimento penetrativo esente da barriere e limitazioni fisiche, che imprime alle immagini una peculiare qualità dinamica suggerendo un rapporto interattivo e mutevole con l’ambiente virtuale e, per queste ragioni, evidenzia una significativa differenza rispetto ai caratteri voyeristici dell’esperienza cinematografica tradizionale. A tale proposito, un’ulteriore differenza tra i due segmenti riguarda il montaggio. La sezione iniziale in live action si compone di diciassette inquadrature (nell’arco di due minuti e mezzo circa); quella successiva, che ci proietta nel mondo virtuale, consiste, come si è già osservato, in un unico segmento senza stacchi (un minuto e mezzo circa). Lo sguardo si libra negli sconfinati spazi virtuali attraverso un travelling che percorre uno spazio cangiante e multiforme: il passaggio da un’ambientazione all’altra si verifica attraverso modulazioni visive che producono marcati cambiamenti scenici pur senza interrompere la continuità. Un simile procedimento visivo evidenzia, ancora una volta, un allontanamento dai codici cinematografici, superando il concetto tradizionale di inquadratura (come segmento delimitato dai tagli di montaggio) e richiamando forme visive chiaramente alternative al cinema8. Del resto, come osserva Mark Grimshaw, «in un videogame le nozioni di “inquadratura” o di scena non hanno un significato analogo a quello del cinema, anzi, l’applicazione di tale terminologia a un videogame è priva di senso»9. La prima sezione del film, dunque, stabilendo confini precisi tra reale e virtuale, evidenzia uno scarto tra i codici tradizionali del cinema e l’estetica e il linguaggio dei

nuovi media (richiamando in particolare le forme fluide e interattive del videogame). Una dialettica che si esprime anche attraverso un gioco di rimandi e citazioni: se infatti, come si è osservato, la prima sezione richiama, sia pure implicitamente, un modello cinematografico “classico”, come Rear Window, la seconda sezione, che ci introduce al mondo di OASIS, si apre con un aperto riferimento a Minecraft (Mojang, 2011), un videogame sandbox10 che consente agli utenti di modellare a piacimento il proprio ambiente virtuale. La sequenza di apertura, quindi, oltre a dispiegare le informazioni narrative che stabiliscono le premesse del racconto, predispone i termini di una riflessione che costituisce un nodo centrale del film: la relazione complessa tra cinema, videogioco e culture digitali nel quadro di un panorama mediale fluido e vibrante che ridefinisce incessantemente i confini tra i media, favorendo l’emergere di nuove e imprevedibili pratiche di consumo. CINEMA, VIDEOGIOCO, REALTÀ VIRTUALI

Nel corso del film, il racconto si sposta continuamente tra la dimensione di OASIS e quella reale. Due mondi distinti ma comunicanti, poiché le azioni compiute su un livello si riverberano sull’altro. L’azione si snoda freneticamente in un vortice di citazioni che, sulle orme del romanzo di Cline, mescolano con disinvoltura riferimenti culturali eterogenei. In particolare cinema e videogioco si incrociano continuamente: si pensi, ad esempio, alla spettacolare sequenza della corsa automobilistica (una delle prove allestite da Hallyday), in cui gli sfidanti devono percorrere una pista disseminata di insidie letali. Tra le minacce che ostacolano i giocatori ci sono due celebri icone cinematografiche: un T-Rex, che rievoca i dinosauri di Jurassic Park (una delle poche autocitazioni che Spielberg si concede nel film), e King Kong che, alla stregua di un “boss” di fine livello, protegge il traguardo, impedendo ai giocatori di attraversare la linea di arrivo. Ready Player One, dunque, produce un’articolazione visivo-narrativa particolarmente complessa (e altamente spettacolare), che accoglie e rimescola incessantemente estetiche, linguaggi e immaginari provenienti da diversi media. C’è però un momento del film in cui il tema della relazione tra cinema e videogioco, già centrale nella prima sequenza, riaffiora in modo esplicito, con un ulteriore grado di complessità, assumendo, per questo, una particolare rilevanza. Si tratta di una sequenza che riprende e rielabora alcuni celebri passaggi del film The Shining (Shining, S. Kubrick, 1980), che diventano lo scenario dell’ennesima sfida predisposta da Hallyday. A tal proposito va segnalato che il riferimento al film di Kubrick, assente nel libro di Cline, è stato interamente sviluppato in fase di sceneggiatura e fortemente voluto da Spielberg. Non a caso la sequenza in oggetto si rivela un momento chiave del film, soprattutto in relazione ai temi affrontati in questa sede. Per coglierne la complessa articolazione è opportuno tracciare brevemente un inquadramento narrativo. La scena si apre su OASIS, nella mediateca in cui sono custoditi i ricordi di Hallyday. Parzival (alter ego virtuale di Wade) intuisce che uno degli easter egg disseminati in OASIS dal suo creatore riguarda una giornata da questi trascorsa con Kira, la donna di cui era segretamente innamorato. Il luogo dell’appuntamento è un cinema. Risolto questo primo enigma si materializzano una miriade di videocassette che fluttuano nell’aria. Resta da indovinare quale film abbiano visto i due. Parzival passa in rassegna gli indizi a disposizione e compie la sua scelta. Agguanta il VHS di The Shining e,

improvvisamente, si apre una botola che lo trasporta, assieme ai suoi compagni, all’esterno di un cinema dall’aspetto antiquato. Il nome della sala è eloquente: “The Overlook” (come l’albergo del film). Le insegne al neon recano la scritta “Showing on the big screen”. Al centro campeggia il titolo del film e il nome di Stanley Kubrick. La strada è deserta e silenziosa. Cautamente il gruppo varca le soglie del cinema. L’atrio è austero, ben illuminato e rivestito da un’elegante tappezzeria cremisi. Anch’esso completamente vuoto. L’immagine della sala di proiezione costituisce, com’è noto, un topos ricorrente nella storia del cinema, che rimanda ai caratteri peculiari dell’«esperienza dello schermo che il cinema propone»11. In particolare, nei film contemporanei si ritrovano frequentemente immagini di sale deserte, fatiscenti, in disuso o addirittura diroccate. Come osserva Pietro Masciullo, il “trauma della sala chiusa” riflette la condizione attuale di de-istituzionalizzazione del cinema e la perdita di centralità della sala di proiezione con l’emergere di nuovi ambienti mediali che ridefiniscono spazi e modi della visione12. Anche in questo caso l’immagine di un cinema deserto definisce la sala come uno spazio abbandonato che rievoca un passato forse irrecuperabile, preludendo ai cambiamenti tecnologici e culturali della contemporaneità. Il prosieguo della sequenza appare, a questo proposito, particolarmente eloquente: Parzival, seguito dai suoi compagni, apre le porte della sala, ma invece di entrare nella platea, si ritrova catapultato direttamente all’interno del film, sulle scalinate che sovrastano la hall dell’Overlook Hotel, mentre risuonano le lugubri note della colonna sonora di The Shining. Il film, dunque, diviene, per i personaggi, un’esperienza interattiva che abolisce lo schermo, promuovendo “letteralmente” un’immersione nel flusso audiovisivo. Riprendendo una felice immagine di David Rodowick, potremmo dire che Spielberg riassume il processo di trasformazione del dispositivo cinematografico degli ultimi decenni, trasportandoci, in una manciata di minuti, dall’“età dell’argento” del cinema (la pellicola, la proiezione in sala, il grande schermo), attraverso “l’età del ferro” (la videocassetta, la fruizione individuale e domestica del film), fino all’“età del silicio” dei computer (la softwarizzazione del cinema nei nuovi ambienti mediali)13. La sequenza, dunque, si configura al tempo stesso come un omaggio al cinema del passato (e a un autore cui Spielberg è particolarmente legato) e, soprattutto, come una riflessione sulle nuove forme di circolazione e consumo del film. Se, come abbiamo osservato, l’incipit del film giustappone l’esperienza percettiva del cinema e del videogioco, in questa sequenza i due mondi si mescolano in modo inaspettato. I “pupazzi” di Ready Player One vengono “inscritti” all’interno di un ambiente scenico che ricalca l’estetica analogica del cinema tradizionale e poco importa se i set sono stati ricostruiti ricorrendo abbondantemente a procedimenti di elaborazione digitale. Il risultato è una composizione che integra configurazioni visive diversificate: alla qualità “realistica” delle ambientazioni si contrappone la natura dichiaratamente artificiale e digitale dei personaggi. D’altra parte questa dialettica visiva suggerisce anche il superamento della tradizionale dicotomia analogico/digitale. Il gioco di Hallyday, infatti, è capace di incorporare, rimodellare o simulare qualsiasi immagine a prescindere dalla sua matrice originale. In questo senso OASIS evidenzia, in forma tecnologicamente avanzata, le caratteristiche di un metamedium in grado di replicare e di inglobare gli attributi di tutti i media precedenti, cinema compreso14. Come sottolinea Lev Manovich, lo sviluppo del computer come metamedium comporta

un’ulteriore conseguenza: «la rappresentazione numerica trasforma i media in dati informatici e quindi li rende programmabili»15. La sequenza esplora in vari modi l’idea del film come oggetto fluido, manipolabile e, appunto, “ri-programmabile”. I set del film originale sono perfettamente ricreati, con la differenza che la macchina da presa e i personaggi si muovono liberamente al loro interno esplorando scorci assenti nell’opera di Kubrick. Spielberg, in questo modo, utilizza The Shining come punto di partenza per una riflessione complessa sul processo di softwarizzazione che investe l’orizzonte mediale e cinematografico della contemporaneità. È doveroso, a questo punto, soffermarsi approfonditamente sull’analisi di uno dei segmenti più significativi della sequenza. Il personaggio di Aech (uno dei compagni di Parzival) si ritrova davanti all’ascensore dell’hotel, da cui inizia a sgorgare un’impetuosa cascata di sangue. L’inquadratura replica perfettamente la scena del film di Kubrick. La variazione più rilevante è rappresentata dalla presenza in campo di Aech (la scena originale è priva di personaggi). La sequenza di The Shining si conclude con il fiume di sangue che raggiunge l’obiettivo oscurando l’immagine. Ready Player One, invece, lascia proseguire l’azione. La cascata investe il protagonista assieme alla macchina da presa che pare essere trascinata anch’essa nel gorgo. Un elaborato travelling ci offre una visuale che prolunga la scena originale mostrandoci il corridoio antistante all’ascensore (una porzione di spazio che nel film di Kubrick non appare). Mentre il fiume di sangue scorre impetuoso, Aech si aggrappa alla parete del corridoio per sottrarsi alla corrente riuscendo a infilarsi in una stanza contrassegnata dal numero 237. Chiude la porta e si ritrova all’interno di un’ampia sala da bagno. Lo sguardo di Aech introduce il controcampo in soggettiva che ci mostra il lato opposto dell’ambiente. Al centro dell’inquadratura è disposta una vasca. Una sagoma si intravede dietro le tendine della doccia. La misteriosa figura inizia a tirare lentamente la tenda palesandosi ad Aech. È una donna giovane e attraente. Con fare seducente esce dalla vasca e si avvicina al protagonista. La scena rievoca un altro celebre passaggio di The Shining. Al fine di cogliere le esigenze e le finalità della trasposizione sarà utile condurre un confronto accurato tra le due versioni. Una differenza fondamentale riguarda la posizione del personaggio nello spazio scenico. In The Shining il protagonista (Jack Torrance, interpretato da Jack Nicholson) si introduce nella stanza 237, percorre un ampio salone e si avvicina alla porta del bagno. La apre ma non entra, arrestandosi sulla soglia. In Ready Player One, invece, la porta della stanza conduce direttamente all’interno del bagno. Tale variazione nella configurazione spaziale degli ambienti produce un cambiamento rilevante nella costruzione visiva della scena. Le soggettive di Torrance e di Aech (fig. 1 e fig. 2) presentano una configurazione del tutto analoga. L’inquadratura di Ready Player One anche in questo caso rispetta la simmetria dell’immagine originale, replicandone minuziosamente i dettagli scenici. Il differente posizionamento dei personaggi introduce però una variazione significativa. Come si è osservato, in The Shining, Torrence rimane sulla soglia del bagno senza varcarla (fig. 3) per cui la scena che si intravede alle sue spalle corrisponde a un ambiente diverso (l’atrio della camera). In Ready Player One, Aech si trova all’interno del bagno e ciò consente di visualizzare anche il lato opposto della stanza (che in The Shining non ci viene mai mostrato). L’articolazione tra campo e controcampo, infatti, completa la topografia dell’ambiente, mostrandolo integralmente (fig. 4). Un’altra differenza rilevante riguarda il taglio dell’immagine che ritrae i due

personaggi e la dialettica visiva che intercorre tra i rispettivi campi/controcampi. Torrance viene mostrato con un’inquadratura ravvicinata che lascia intravedere uno spazio limitato e leggermente sfuocato (fig. 3). Il successivo controcampo presenta una variazione scalare significativa, con un’ampia inquadratura che mostra l’interno del bagno (fig. 1). In Ready Player One, invece, Aech è ripreso a figura intera (fig. 4); la scena presenta una composizione nitida e il taglio dell’inquadratura è pienamente corrispondente alla soggettiva seguente, determinando un’alternanza visivamente omogenea tra le due sezioni di spazio inquadrate (fig. 2). La scelta di mostrare Aech a figura intera e di stabilire una piena corrispondenza scalare tra campo e controcampo, pone una particolare enfasi sulla configurazione spaziale dell’ambiente. I due segmenti presi in esame (quello dell’ascensore e quello della stanza 237), seguono dunque uno schema analogo. Il fulcro della costruzione scenica è rappresentato da inquadrature che replicano fedelmente l’immagine originale: citazioni pressoché “letterali” che richiamano passaggi particolarmente celebri del film di Kubrick. In entrambi i casi le inquadrature si “prolungano” in un controcampo, assente nella versione originale, che mostra la porzione corrispondente del profilmico offrendo, così, una rappresentazione completa dell’ambiente. In entrambi i casi, infine, il decoupage si sviluppa in modo indipendente dall’originale, presentando punti di vista del tutto inediti. Il materiale visivo di The Shining, insomma, diventa la base per la realizzazione in grafica tridimensionale di uno spazio virtuale. Spielberg non si limita a “estendere” il profilmico oltre i limiti dell’inquadratura originale, ma configura l’ambiente scenico di The Shining come un luogo agibile, praticabile ed esplorabile (dai personaggi e dalla macchina da presa). Il senso dell’operazione, dunque, al di là della vocazione citazionista del film, consiste essenzialmente nella conversione di uno spazio filmico in uno spazio virtuale, evidenziando lo scarto tra i diversi regimi della visione. E, così, gli ambienti austeri e inquietanti dell’Overlook Hotel diventano il set per un “altro” film che sviluppa logiche sceniche e narrative differenti. A questo proposito va anche sottolineato come il materiale di partenza venga rielaborato in modo da produrre un imprevedibile e drastico allontanamento dalle atmosfere del film originale. Si prenda ancora in esame il segmento della stanza 237. Come si è già osservato, il decoupage si sviluppa in modo indipendente rispetto alla sequenza corrispondente di The Shining, tuttavia, per buona parte del segmento, l’azione ricalca fedelmente l’originale. Sebbene Spielberg depuri la scena dagli elementi più scabrosi (non c’è esibizione della nudità, l’approccio della donna è meno esplicito) la partitura gestuale dei personaggi risulta molto simile. La misteriosa figura esce dalla vasca da bagno e si avvicina lentamente al protagonista. I due si abbracciano e Aech vede riflesso nello specchio il corpo decomposto della donna. Da qui in poi la scena subisce una violenta accelerazione. La donna imputridisce a vista d’occhio mentre si slancia con un coltello verso il protagonista. La macchina da presa segue l’azione con movimenti rapidi e convulsi. La scena assume allora un tono apertamente spettacolare che richiama un immaginario da zombie movie, allontanandosi pesantemente dai registri espressivi della pellicola originale, improntati a una rigida e statica geometria visiva. La rievocazione di The Shining da citazione si trasforma all’improvviso in un eccentrico mashup che, a partire da un materiale preesistente, mescola con disinvoltura elementi visivi e tematici eterogenei producendo un radicale slittamento drammatico ed espressivo. La riproposizione del testo kubrickiano, in questo modo, si fa veicolo di un’operazione estetica e linguistica che richiama

apertamente le pratiche di rielaborazione e riciclo creativo dell’audiovisivo, tipiche della cultura digitale16. Il film diventa un oggetto fluido, manipolabile e perfino “abitabile”. La sequenza, insomma, sviluppa una riflessione complessa sulla trasformazione dell’esperienza filmica nell’era digitale e sul processo di “rilocazione” del cinema al di fuori della sala di proiezione, che favorisce la migrazione dell’audiovisivo verso nuovi e imprevedibili ambienti mediali17. Una trasformazione che coinvolge, conseguentemente, le pratiche di consumo e l’esperienza spettatoriale, incoraggiando forme inedite di relazione e interazione con l’immagine filmica. Inoltre, la disinvoltura con cui Spielberg si presta a “giocare” con un’opera che chiama in causa la tradizione “alta” del film d’autore, pare voler legittimare il processo di scivolamento del cinema – della sua storia, della sua tradizione e del suo immaginario – nella cultura globale e non gerarchizzata della rete. Esemplificativa, a tale proposito, una delle ultime e più spettacolari sequenze del film, in cui la popolazione di OASIS si mobilita contro la multinazionale IOI. Parzival chiama a raccolta tutti i giocatori per proteggere l’utopia di OASIS. Uno sterminato esercito di avatar si materializza, pronto a dare battaglia. Nell’immane scontro che segue si riconoscono figure provenienti da tutti gli ambiti mediali – cinema, fumetto, cartoon, videogioco – in un turbinio di citazioni e riferimenti che abbracciano la cultura popolare degli ultimi quarant’anni e oltre: i gremlins, Bumblebee e Optimus Prime dei Transformers, Chucky di Child’s Play (La bambola assassina, T. Holland, 1988), il ciclope di Ray Harryhausen da The 7th Voyage of Sinbad (Il 7º viaggio di Sinbad, N.H. Juran, 1958), gli scheletri di Army of Darkness (L’armata delle tenebre, S. Raimi, 1992), c’è Gundam, Mechagodzilla, il gigante di ferro, accanto a icone dei videogiochi come Lara Croft, i soldati di Halo (Microsoft Game Studios, 2001-2017), personaggi di Battletoads (Rare, 1991) e Street Fighter (Capcom, 1987), e poi gli eroi dei fumetti, Spawn, Catwoman, Aquaman, Joker (solo per citarne alcuni). È la celebrazione di un immaginario globale e fluido nel quale i confini tra i media si stemperano fino a dissolversi. «Benvenuti nella Cultura Convergente», scrive Henry Jenkins in un passaggio del suo celebre libro, «dove i vecchi e i nuovi media collidono, dove si incrociano i media grassroots e quelli delle corporation, dove il potere dei produttori e quello dei consumatori interagiscono in modi imprevedibili»18. È questo il territorio in cui anche il cinema deve oggi riposizionarsi e riformulare la propria identità. Ready Player One, insomma, tocca una pluralità di questioni cruciali nell’epoca dei nuovi media, elaborando con piglio ludico, ma non per questo ingenuo o superficiale, strategie narrative e rappresentative capaci di evocare in modo particolarmente efficace il processo di mutazione del cinema nell’orizzonte mediale della contemporaneità.

1.

2.

3.

4.

Note al testo Andrea Minuz Spielberg, l’America, il cinema A. Thompson, Helping to make the dream work, in «Variety», October 2008, p. 16. D. Pomerantz, Steven Spielberg Top of Our List Of The Most Influencial Celebrities, in «Forbes», 15 gennaio 2014. 3 T. Schatz, Spielberg as Director, Producer, and Movie Mogul, in N. Morris (a cura di), A Companion to Steven Spielberg, Malden-Oxford, Wiley-Blackwell, 2017, p. 37. 4 J. Poniewozik, Review: Spielberg is a Close Encounter with Genius, in «New York Times», 5 ottobre 2017. 5 N. Morris, The cinema of Steven Spielberg: Empire of Light, London-New York, Wallflower, 2007, p. 13. 6 N. Morris, Introduction, in Id., A Companion to Steven Speilberg, cit., p. 2. 7 Su questi temi si veda in particolare, W. Buckland, The Role of the Auteur in the Age of the Blockbuster: Steven Spielberg and Dreamworks, in J. Stringer (a cura di), Movie Blockbuster, London-New York, Routledge, 2003, pp. 84-98. 8 Cfr. J. Russell, Producing the Spielberg “Brand”, in Morris, A Companion to Steven Spielberg, cit., pp. 45-57. Sulle trasformazioni dell’idea di autore nel cinema contemporaneo si rimanda in sintesi a G. Pescatore, L’ombra dell’autore. Teoria e storia dell’autore cinematografico, Roma, Carocci, 2006. 9 Russell, Producing the Spielberg “Brand”, cit., p. 47. 10 P. Krämer, Steven Spielberg, in Y. Tasker, Fifty contemporary filmmakers, London-New York, Routledge, 2002, pp. 319-327. 11 L. Geraghty, Spielberg, Fandom, and the Popular Appeal of His Blockbuster Movies, in Morris, A Companion to Steven Spielberg, cit., p. 455. 12 Russell, Producing the Spielberg “Brand”, cit., p. 48. 13 Su John Williams si veda E. Audissino, John William’s Film Music, Madison, University of Wisconsin Press, 2014. 14 M. Pye, L. Myles, The Movie Brats: How the Film Generation Took Over Hollywood, New York, Henry Holt, 1984, p. 222. 15 Cit. in P. Buskind, Easy Riders, Raging Bulls: How the Sex-Drugs-and Rock ‘N’ Roll Generation Saved Hollywood, New York, Simon & Schuster, 1999; tr. it. Easy Riders, Raging Bulls: Come la generazione sessodroga-rock’n’roll ha salvato Hollywood, Roma, Editoria&Spettacolo, 2007, p. 253. 16 D. Denby, Can the Movies be Saved, in «New York Magazine», 19, 1986, p. 30, cit. in T. Elsaesser, A. Horwath, N. King (a cura di), The Last Great American Picture Shows. New Hollywood Cinema in the 1970s, Amsterdam, Amsterdam University Press, 2004, p. 23. 17 Cfr. A. Britton, Blessing Out: The politcs of Reaganite Hollywood, in B.K. Grant (a cura di), Britton on Film: The Complete Film Criticism of Andrew Britton, Detroit, Wayne State University, 2009, pp. 97-154. 18 F. Jameson, Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism, New York, Verso, 1991; tr. it. Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Roma, Fazi, 2007. 19 Cfr. W. Goldman, Adventures in the Screen Trade (1984), London, Abacus, 1996. 20 Cfr. R. Wood, Hollywood from Vietnam to Reagan, New York, Columbia University Press, 1984. 21 D. Bordwell, J. Staiger, K. Thompson, The Classical Hollywood Cinema: Film Style and Mode of Production to 1960, London, Routledge, 1988. 22 Cfr. V. Pravadelli, La Grande Hollywood, in particolare il capitolo III, Ordine, parola, razionalità. L’apogeo del modello classico, Venezia, Marsilio, 2007, pp. 79-119. 23 F. Wasser, Steven Spielberg’s America, Cambridge-Malden, Polity Press, 2010, p. 14. 24 Citato anche in F. La Polla, Steven Spielberg, Milano, Il Castoro, 1995, p. 60. 25 J. McBride, Steven Spielberg: A Biography, Jackson, University Press of Mississipi, 2010 (1997), p. 547. 26 Wasser, Steven Spielberg’s America, cit., p. 15. 27 Cfr. F. Truffaut, Hitchcock: Editions définitive (1993), Paris, Gallimard, 1993; tr. it. Il cinema secondo Hitchcock, Milano, Il Saggiatore, 2008. 28 La Polla, Steven Spielberg, cit., p. 58. 29 Una buona sintesi, ma con esclusivo riferimento alla critica americana, si trova in R.J. Haberski, Sharks, Aliens, and Nazis: The Crisis of Film Criticism and the Rise of Steven Spielberg, in Morris, A Companion to Steven Spielberg, cit., pp. 435-451. 30 Cfr. Buckland, The Role of the Auteur in the Age of the Blockbuster: Steven Spielberg and Dreamworks, cit. 31 N. Morris, Introduction, in Id., A Companion to Steven Spielberg, cit., p. 1. 32 Cfr. F. Jameson, Reification and Utopia in Mass Culture, in «Social Text», 1, 1976, pp. 130-148; tr. it. in Id., Firme del visibile. Hitchcock, Kubrick, Antonioni, Roma, Donzelli, 2003; Jameson, Postmodernism, Or the Cultural Logic of Late Capitalism, cit. 1 2

La Polla, Steven Spielberg, cit., p. 32. Ibid., p. 86. 35 Si veda anche S. Rybin, The Spielberg Gesture: Performance and Intensified Continuity, in Morris, A Companion to Steven Spielberg, cit., pp. 159-171. 36 Cfr. Wasser, Steven Spielberg’s America, cit. 37 S. Spielberg, Foreword, in C. Jones, Chuck Amuck: The Life and Times of an Animated Cartoonist, New York, Farrar, Straus and Giroux, 1989, p. 8. 38 È possibile vedere un estratto della conferenza su YouTube cfr. Steven Spielberg Admires Animators (1978), reperibile al link https://www.youtube.com/… (data di ultima consultazione 17 aprile 2019) 39 Cfr. C. Pallant, S. Price, Storyboarding: A Critical History, London, Palgrave McMillan, 2015. 40 S.M. Ejzenštejn, Walt Disney, Milano, SE, 2004, p. 1. 41 Ibid., p. 15. 42 Cit. in Schatz, Spielberg as Director, Producer, and Movie Mogul, cit., p. 38. 33 34

Francesca Cantore  Il cinema di Steven Spielberg: epoche, generi, forme

1 Firelight (1964) - Early Steven Spielberg Film (The Most Complete Version), https://www.youtube.com/… (ultima consultazione il 9 aprile 2019). 2 J. McBride, Steven Spielberg: A Biography, New York, Simon & Schuster, 2010, seconda edizione, p. 157 (trad. mia, così come tutte le successive). 3 Si veda a tal proposito N. Morris, Magisterial Juvenilia: Amblin’ and Spielberg Early Television Work, in Id. (a cura di), A Companion to Steven Spielberg, Malden-Oxford, Wiley Blackwell, 2017, pp. 59-102. In riferimento all’uso del graphic match nel cinema di Spielberg si rimanda ad A. Minuz, Graphic Spaces. Film Transitions in Steven Spielberg’s Filmmaking, in «Cinergie», 13, 2018. 4 Marcus Welby, M.D. (Marcus Welby), serie televisiva (8 stagioni, 169 episodi), trasmessa tra il 1969 e il 1976 sulla rete televisiva ABC. L’episodio diretto da Spielberg si intitola The Daredevil Gesture (st. 1, ep. 24, 1970). 5 Columbo (Colombo), serie televisiva (11 stagioni, 69 episodi), trasmessa tra il 1968 e il 2003, per le reti televisive NBC e ABC. L’episodio diretto da Spielberg si intitola Murder by the Book (st. 1, ep. 1, 1971). 6 The Psychiatrist (Id.), serie televisiva (6 episodi, 1 stagione più un film pilota), trasmessa tra il 1970 e il 1971 sulla rete televisiva NBC. Gli episodi diretti da Spielberg si intitolano The Private World of Martin Dalton (st. 1, ep. 2, 1971) e Par for the Course (st. 1, ep. 6, 1971). 7 Owen Marshall: Counselor at Law (Difesa a oltranza), serie televisiva (3 stagioni, 70 episodi) trasmessa tra il 1971 e il 1974 sulla rete televisiva ABC. L’episodio diretto da Spielberg si intitola Eulogy for a Wide Receiver (st. 1, ep. 3, 1971). 8 Fonte citata in McBride, Steven Spielberg, cit., p. 17. 9 «La glorificazione dell’uomo comune è sempre stato uno dei miei temi preferiti […]. Un tipico ragazzo – a cui non è mai accaduto nulla. Poi, all’improvviso, incontra qualcosa di straordinario e deve cambiare tutta la sua vita per essere all’altezza del compito di sconfiggerlo o comprenderlo. Questo era il tema di partenza in Close Encounters». Ibid., p. 267. 10 «E.T. è un film che è stato dentro di me per molti anni e che è potuto emergere solo dopo un sacco di “psicodramma suburbano” […]. E.T. parlava del divorzio dei miei genitori, di come mi sentivo quando i miei genitori si separarono. Ho reagito rifugiandomi nella mia immaginazione per soffocare il pianto che avevo dentro. […] La mia lista dei desideri includeva avere un amico che fosse sia il fratello che non ho mai avuto, che un padre che non sentivo più di avere. Ed è così che è nato E.T.». Ibid., p. 72. 11 «È stato un vero piacere veder lavorare Steven Spielberg per tutta la durata delle riprese, che avrebbero messo k.o. più di un regista. […] Ho sempre avvertito in Steven questo coraggio e questa determinazione. Non l’ho mai visto cedere allo sconforto, neanche quando la produttrice del film lo assillava, neanche quando i banchieri di Wall Street arrivavano sul set in Alabama, per valutare se valeva la pena metterci ancora tre o quattro milioni supplementari. […] Nel settembre 1976 la Columbia decise che bisognava chiudere il capannone ma Steven, all’improvviso un po’ triste, disse che era un peccato e che gli sarebbe piaciuto, per esempio, provare a far volare in aria i bambini di sette anni che interpretavano gli extraterrestri», F. Truffaut, Truffaut. Il piacere degli occhi, J. Narboni, S. Toubiana (a cura di), Roma, Minimum Fax, 2010, p. 57. 12 T. Schatz, Steven Spielberg, Spielberg as Director, Producer, and Movie Mogul, in Morris, A Companion to Steven Spielberg, cit., p. 29. 13 Sull’analisi degli incassi cfr. J. Kendrick, Darkness in the Bliss-Out: A Reconsideration of the Films of Steven Spielberg, New York-London, Bloomsbury, 2014, pp. 101-102. 14 Per un’analisi della costruzione dell’immagine divistica di Harrison Ford si veda A. Minuz, Hollywood Ending: Harrison Ford e la nostalgia del cinema classico, in A. Scandola (a cura di), Hollywood Men. Immagine, mascolinità e performance nel cinema americano contemporaneo, Torino, Kaplan, 2017, pp. 146-159. 15 Cfr. L. Jullier, Il cinema postmoderno, Torino, Kaplan, 2006.

Cfr. F. Jameson, Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Roma, Fazi, 2007. Per l’analisi di queste due sequenze iniziali cfr. P. Masciullo, Dossier Steven Spielberg 21/Raiders of the lost cinema: la tetralogia di Indiana Jones, in «PointBlank», 1 febbraio 2016. 18 Cfr. F. Wasser, Steven Spielberg’s America, Cambridge-Malden, Polity Press, 2010. 19 Per un’analisi comparata di Jurassic Park e Jurassic World si veda ancora P. Masciullo, Road to Nowhere. Il cinema contemporaneo come laboratorio autoriflessivo, Roma, Bulzoni, 2017, pp. 63-70. 20 Cfr. fra tutti Y. Loshitzky (a cura di), Spielberg’s Holocaust: Critical Perspectives on Schindler’s List, Bloomington-Indianapolis, Indiana University Press, 1997. 21 P. McDonald, The Extraordinary Ordinariness of Tom Hanks, in Id., Hollywood Stardom, Malden, WileyBlackwell, 2013, p. 76. 22 Cfr. su questo L. Grossman, It’s Tintin Time!, in «Time International», 23 ottobre 2011, pp. 32-38; già citato in L. Geraghty, Spielberg, Fandom, and the Popular Appeal of His Blockbuster Movies, in Morris, A Companion to Steven Spielberg, cit, pp. 452-465. 23 Ibid. 24 M. Dargis, Intrepid Boy on the Trail of Mysteries, in «The New York Times», 20 dicembre 2011. 16 17

Valerio Coladonato  Jaws

Cfr. L.D. Friedman, Citizen Spielberg, Champaign, University of Illinois Press, 2006, p. 162. Cfr. C. Gottlieb, The Jaws Log: Expanded Edition (1975), New York, Newmarket Press, 2012. 3 Per un approfondimento sulle vicende di lavorazione e promozione, oltre che sull’impatto culturale e la ricezione di Jaws, si veda il numero monografico di «Cinergie» a cura di Andrea Minuz, che combina approcci culturalisti e di analisi del film. Di seguito, faremo riferimento a diversi interventi in questo numero, in particolare quelli relativi ai meccanismi di suspense e all’analisi della messa in scena. A. Minuz (a cura di), Jaws Experiences (1975-2015), in «Cinergie», 7, 2015, pp. 5-104; https://cinergie.unibo.it/… 4 Sulle strategie di distribuzione de Il padrino, che in parte anticipano quelle di Jaws, cfr. S. Hall, S. Neale, Epics, Spectacles, and Blockbusters, Detroit, Wayne State University Press, pp. 197-200. 5 J. Charnay, D. Mirell, Ripping Response to Jaws, in «The Hollywood Reporter», 26 giugno, 1975, ora consultabile al sito https://www.hollywoodreporter.com/… La traduzione, qui e nelle altre citazioni dall’inglese, è mia. 6 Ad esempio, nella parte finale del film, Hooper chiede a Brody di posare in una fotografia, così da restituire la taglia abnorme dello squalo. Per un approfondimento sulla campagna promozionale del film, cfr. E. Castaldo Lundén, Lo squalo, le strategie di marketing della Universal e la costruzione della “jawsmania”, in «Cinergie», 7, marzo 2015, pp. 27-35. 7 J. Monaco, American Film Now: The People, The Power, The Money, The Movies, New York, Oxford University Press, p. 50. Sulle potenzialità ermeneutiche della nozione di “macchina” rispetto al coinvolgimento spettatoriale, si veda P. Bertetto, Cinema e sensazione. Le macchine sinestetiche, in Id. (a cura di), Cinema e sensazione, Milano-Udine, Mimesis, 2015, pp. 11-45. 8 Cfr. A. Minuz, “Bruce”, Marx e la cultura popolare. Un’analisi della ricezione di Jaws (1975-1980), in «Cinergie», 7, marzo 2015, pp. 86-95. 9 D.A. Cook, A History of Narrative Film. Fifth Edition, London-New York, W.W. Norton & Company, 2016, p. 682. 10 Minuz, Jaws Experience (1975-2015), cit., p. 9. 11 Rispettivamente, T. Schatz, The New Hollywood, in J. Collins, H. Radner, A. Preacher Collins (a cura di), Film Theory Goes to the Movies, New York, Routledge, 1993, pp. 8-26; G. King, La nuova Hollywood: dalla rinascita degli anni sessanta all’era del blockbuster, Torino, Einaudi, 2004; e il volume di Hall e Neale, Epics, Spectacles, and Blockbusters, cit. 12 Per varie prospettive analitiche su questa sequenza, rimando ai contributi nel già citato numero di «Cinergie» su Jaws, e in particolare W. Buckland, “Duel with a Shark”: Un’analisi della regia di Jaws, pp. 12-26; E. Becattini, “What would Hitchcock do? Analisi e meccanismi della suspense hitchcockiana in Jaws, pp. 55-64; A. D’Aloia, Gli agguati dello sguardo. Enunciazione della suspense in Jaws, pp. 74-85. 13 Becattini, “What would Hitchcock do?”, cit., p. 59. 14 Ibid., pp. 60-61. 15 Cfr. J. Mairata, Steven Spielberg’s Style By Stealth, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2018, p. 164. 16 Sugli aspetti percettivi delle inquadrature “acquatiche” cfr. D’Aloia, Gli agguati dello sguardo, cit. 17 Ibid., p. 77. 18 S. Rybin, The Spielberg Gesture: Performance and Intensified Continuity, in N. Morris (a cura di), A Companion to Steven Spielberg, Malden-Oxford, Wiley-Blackwell, 2017, pp. 159-171. 19 E. Audissino, Due note di credibilità. John Williams e Lo squalo, in «Cinergie», 7, marzo 2015, pp. 39-40. 20 Walker, Steven Spielberg and the Rhetoric of an Ending, cit., p. 138. 21 Cfr. M. Fuchs, Looking through the Beast’s Eyes?, in «Mise en Scène», 3, 2, inverno 2018, pp. 1-17. Il saggio 1 2

riprende le considerazioni di C.J. Clover in Men, Women, and Chain Saws: Gender in the Modern Horror Film, Princeton, Princeton University Press, 1992. 22 S. Desilets, Pedal Pushers: Spielberg, De Sica, and Dismemberment, in «Film Criticism», 37, 1, autunno 2012, p. 28. 23 Ibid. 24 Cfr. K. Silverman, The Subject of Semiotics, New York, Oxford University Press, 1983, pp. 201-215. 25 Mairata, Steven Spielberg’s Style By Stealth, cit. 26 Buckland, “Duel with a Shark”, cit., p. 17. 27 Mairata, Steven Spielberg’s Style By Stealth, cit., pp. 173-176. 28 Ibid., p. 196. 29 Ibid., p. 186. 30 Friedman, Citizen Spielberg, cit., pp. 168-169. 31 Cfr. F. Jameson, Reification and Utopia in Mass Culture, in «Social Text», 1, Winter 1979, pp. 130-148.

Nigel Morris  E.T.

1 Traduzione di Louis Samuel Andreotta. Il saggio che segue è una versione ridotta di N. Morris, E.T. The ExtraTerrestrial: Turn on Your Love Light, in Id., The Cinema of Steven Spielberg: Empire of Light, London, Wallflower Press, 2007, pp. 276-310. Si ringraziano l’autore e la casa editrice per aver concesso la pubblicazione di questo saggio in italiano. 2 Cfr. Anon., Article on E.T. The Extra-Terrestrial, in «Hollywood Reporter», 274, 17, 9 novembre 1982; Id., Article on E.T. The Extra-Terrestrial, in «Hollywood Reporter», 304, 11, 16 settembre 1988; Id., Article on E.T. The Extra-Terrestrial, in «Hollywood Reporter», 304, 43, 28 ottobre 1988. 3 G. Adair, E.T. cetera, in «Sight and Sound», 52, 1, 1982/83, p. 63; F. Sanello, Spielberg -The Man, the Movies, the Mythology, Dallas, Taylor, 1996, p. 110. 4 J. Baxter, Steven Spielberg: The Unauthorized Biography, London, Harper Collins, 1996, p. 245. 5 U. Eco, Casablanca: Cult Movies and Intertextual Collage, in Id., Travels in Hyperreality: Essays, London, Picador, 1987, pp. 197-211. 6 S. Harwood, Family Fictions in E.T., in «Changing English», 2, 2, 1995, p. 153. 7 T. Todorov, The Poetics of Prose, Oxford, Blackwell, 1977. 8 Cfr. C. Lévi-Strauss, The Structural Study of Myth, in «Journal of American Folklore», 78, 270, 1955, pp. 428444 e Id., The Savage Mind, London, Weidenfeld and Nicolson, 1966. 9 E. Branigan, Narrative Comprehension and Film, London-New York, Routledge, 1992. 10 V. Propp, The Morphology of the Folk Tale, Austin, University of Texas Press, 1975. 11 P.M. Lowentrout, The Meta-Aesthetic of Popular Science Fiction Film, in «Extrapolation: A Journal of Science Fiction and Fantasy», 29, 4, 1988, pp. 349-364.

Davide Persico  Jurassic Park

1 Il ricchissimo John Hammond ha costruito su un’isola vicino al Costa Rica un parco con veri dinosauri ricreati attraverso l’ingegneria genetica. Per ottenere i finanziamenti necessari contatta i paleontologi Alan Grant ed Ellie Sattler, e il matematico Ian Malcom affinché possano dargli un parere positivo. La struttura è interamente governata da una rete di computer, ma Nedry, il responsabile della gestione informatica, corrotto da un’industria concorrente, ruba alcuni embrioni di dinosauro e fa andare il sistema in tilt proprio mentre gli scienziati sono in visita al parco in compagnia dei due nipoti di Hammond, Tim e Lex. I recinti elettrificati si aprono e i dinosauri riescono a liberarsi. 2 D.N. Rodowick, The Virtual Life of Film, Cambridge, Harward University, 2007; tr. it. Il cinema nell’era del virtuale, Milano, Olivares, 2008. 3 Nonostante gli eccessivi costi dovuti alle animazioni digitali affidati alla Industrial Light and Magic (ILM) di George Lucas, e alla costruzione degli animatronic da parte degli Stan Winston Studios, il costo stimato di 63 milioni di dollari risulta essere inferiore a quello del precedente Hook (70 milioni). 4 W.J.T. Mitchell, The Last Dinosaur Book. The Life and Times of a Cultural Icon, Chicago, University of Chicago, 1998. 5 W.J.T. Mitchell, Cloning Terror, Chicago, University of Chicago, 2011; tr. it. Cloning Terror, Lucca, La casa Usher, 2012, p. 89. 6 Crichton stesso sarà ingaggiato come co-sceneggiatore proprio per Jurassic Park. 7 Il wireframe è un tipo di rappresentazione tridimensionale di oggetti in computer grafica. Attraverso questo procedimento vengono costruiti solo gli spigoli dell’oggetto che internamente rimane trasparente, sembrando costruito con il fil di ferro. 8 P. Bertetto, Lo specchio e il simulacro, Milano, Bompiani, 2007, p. 101. 9 A. Bazin, Qu’est ce que le cinéma?, Éditions du Cerf, Paris 1962, tr. it. Che cos’è il cinema? (1973), Milano, Garzanti, 1999, p. 7.

10 G. Deleuze, Qu’est ce que l’acte de création, in «Trafic», 27, 1998; tr. it. Che cos’è l’atto di creazione?, Napoli, Cronopio, 2003. 11 T. Elsaesser, W. Buckland, Studying Contemporary American Films: A Guide to Movie Analysis, London, Bloomsbury, 2002; tr. it. Teoria e analisi del film americano contemporaneo, Milano, Bietti, 2010, p. 233. 12 Bazin, Che cos’è il cinema?, cit., p. 9. 13 Elsaesser, Buckland, Teoria e analisi del film americano contemporaneo, cit., p. 243. 14 Ibid., p. 243. 15 F. Casetti, La galassia Lumière, Milano, Bompiani, 2015, p. 171. 16 Mitchell, Cloning Terror, cit., p. 86. 17 Ibid., p. 91. 18 R. Allen, Projecting Illusion, Cambridge, Cambridge University Press, 1995. 19 Elsaesser, Buckland, Teoria e analisi del film americano contemporaneo, cit., p. 245. 20 Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?, cit., pp. 34-35. 21 Elsaesser, Buckland, Teoria e analisi del film americano contemporaneo, cit., p. 244. 22 Ibid., p. 249. 23 P.D. Bolter, R. Grusin, Remediation, Understanding New Media, Cambridge, The MIT Press, 1999; tr. it. Remediation. Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano, Guerini, 202, p. 185. 24 P. Bertetto, La macchina del cinema, Roma -Bari, Laterza, 2010. 25 L’incoscienza di Malcom che lancia la torcia in tutt’altra direzione da quella di Alan, non fa altro che provocare la morte dell’avvocato Gennaro e fargli rischiare la vita. 26 M. Cucco, Il film blockbuster, Roma, Carocci, 2010, p. 41. 27 Ibid., p. 40.

Thomas Elsaesser  Schindler’s List

1 Traduzione di Louis Samuel Andreotta. Una prima versione italiana del saggio è apparsa con il titolo Rappresentare l’irrappresentabile: “Olocausto” vs “Heimat”. “Shoah” vs “Schindler’s list”, in «Drammaturgia», 4, 1997. Si ringrazia l’autore per averci fornito la versione rivista di quel saggio. 2 Sulla ricezione critica di Schindler’s List si vedano Y. Loshitzky (a cura di) Spielberg’s Holocaust: Critical Perspectives on Schindler’s List, Bloomington-Indianapolis, Indiana University Press, 1997; A. Mintz, Popular Culture and the Shaping of Holocaust Memory in America, Seattle, University of Washington Press, 2001; E. Perra, Politica, memoria, identità. La ricezione italiana di Holocaust e Schindler’s List, in A. Minuz, G. Vitiello, La Shoah nel cinema italiano, in «Cinema e storia», 2, 2013, pp. 49-67. 3 La nozione di narrativa senza chiusura, che esige un certo grado di attenzione e partecipazione solitamente associata alle informazioni che potrebbero riguardare la nostra vita, richiama quelli che Hayden White ha definito “eventi modernisti”. Cfr. H. White, Auerbach’s Literary History. Figural Causation and Modernist Historicism, in S. Lerer (a cura di), Literary History and the Challenge of Philology, Stanford, Stanford University Press, 1996, pp. 123-143; trad. it. L’evento modernista, in D. Carpi (a cura di), Storia e narrazione, Ravenna, Longo, 1999. 4 Cfr. S. Friedländer (a cura di), Probing the Limits of Representation, Cambridge, Harvard University Press, 1992. 5 Cfr. I. Avisar, Screening the Holocaust: Cinema’s Images of the Unimaginable, Bloomington, Indiana University Press, 1988. 6 D. Thomson, Presenting Enamelware, in «Film Comment», March/April 1994, p. 50. 7 S. Friedländer, Reflections of Fascism. An Essay on Kitsch and Death, New York, Harper & Row, 1983. 8 Per una lista di titoli completa, vedi R.C. Reimer, C.J. Reimer, Nazi-Retro Film: How German Narrative Film Remembers the Past, Boston, Twayne, 1992. 9 Vedi ad esempio Wim Wenders, in un dibattito pubblico con l’autore, al Desmet Cinema, Amsterdam, 8 luglio 1994. 10 J. Gross, Hollywood and the Holocaust, in «The New York Review of Books», 16, 3, 3 febbraio 1994, p. 16. 11 B. Cheyette, Schindler’s List, in «The Times Literary Supplement», 1 aprile 1994, p. 15. 12 Per un approfondimento sul “melodrammatico” come metodo autonomo di rappresentazione, vedi C. Gledhill, The Melodramatic Field. An Investigation, in Id. (a cura di), Home is where the Heart is, London, BFI Publishing, 1987, pp. 5-41. 13 Si veda la mia analisi su Shoah in T. Elsaesser, New German Cinema: A History, London, Macmillan, 1989, p. 258. 14 Thomson, Presenting Enamelware, cit., p 44. 15 Claude Lanzmann, in un dibattito mandato in onda su TV 5, il 12 gennaio, 1994. 16 Per un’analisi della caratterizzazione e delle strutture dei plot in Walter Scott, Stendhal e Lev Tolstoj si veda G. Lukacs, The Historical Novel, London, Merlin Press, 1962. 17 Cheyette, Schindler’s List, cit., p. 15.

18 Ad esempio la scena della sedia vuota o il gesto del taglio della gola con cui i contadini polacchi sono segnalati per aver fatto passare il carro bestiame diretto ad Auschwitz. 19 Molte delle scene epiche, come anche nei film di Spielberg precedenti, mostrano la (indiscussa) influenza di David Lean. 20 A. White, Toward a Theory of Spielberg History, in «Film Comment», marzo/aprile, 1994, p. 55. 21 L. Wieseltier in «The New Republic», 24 gennaio 1994, già citato in Thompson, Presenting Enamelware, cit., p. 44. 22 Vedi, tra gli altri, J. Isaacs, Face to Face: Steven Spielberg, BBC2 Television, 24 marzo 1994. In questa occasione Spielberg racconta i dettagli sulla sua educazione all’interno di una famiglia ebrea e accenna alla sua storia di ragazzo deriso e bullizzato a scuola. 23 Claude Lanzmann, intervista su Moving Pictures, BBC2 Television, 4 dicembre 1993.

Pietro Masciullo  Minority Report

1 Dicotomia studiata a fondo da James Kendrick in un saggio dal titolo ossimorico: J. Kendrick, Darkness in the Bliss-Out: A Reconsideration of the Films of Steven Spielberg, New York-London, Bloomsbury, 2014. 2 Dichiarazione riportata in J. McBride, Steven Spielberg: A Biography, New York, Simon & Schuster, 2010, seconda edizione, p. 488. 3 Riassumiamo brevemente la trama del film: siamo a Washington DC nel 2054. Una città ormai totalmente bonificata dai reati di sangue grazie alla nascita della Pre-crime: dispositivo legale che sfrutta i poteri di tre ragazzi chiamati Precognitives (o Precog), nati da madri tossicodipendenti e afflitti da una rara sindrome che li condanna a sognare eventi traumatici del futuro (in particolare gli omicidi). Un sofisticato dispositivo neuronale riesce infine a visualizzare quei sogni consentendo di arrestare gli assassini prima che i delitti avvengano. Ma quando l’accusato diventa il capitano John Anderton il dispositivo legale entra in cortocircuito svelando inquietanti circostanze che coinvolgono il direttore della Pre-crime Lamar Burgess e un misterioso omicidio del passato. 4 In diverse interviste dell’epoca Spielberg tenta di smorzare il potenziale provocatorio del suo film: «Io sono dalla parte del Presidente in questo caso. Sono disposto a rinunciare ad alcune delle mie libertà personali per impedire che l’11 settembre si ripeta. Ma la domanda è: dove si traccia la linea di confine?». Dichiarazione riportata in McBride, Steven Spielberg: A Biography, cit., p. 490. 5 Per un’attenta ricognizione sulle conseguenze etiche ed estetiche di quell’evento storico filtrato dai media in diretta mondiale: Cfr. M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Firenze, Le Lettere, 2008; M. Carbone, Essere morti insieme. L’evento dell’11 settembre 2001, Torino, Bollati Boringhieri, 2007; J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo, Milano, Raffaello Cortina, 2002. 6 Legge federale composta da sedici disposizioni (di cui quattordici permanenti) che sancisce alcune restrizioni del diritto di privacy dei cittadini e un rafforzamento dei poteri dei corpi di polizia e di spionaggio sull’altare di un superiore interesse nazionale. 7 F. Jameson, Postmodernism, or, The Cultural Logic of Late Capitalism, Durham, Duke University Press, 1991; tr. it. Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Roma, Fazi, 2007, p. 286. 8 F. Wasser, Steven Spielberg’s America, Cambridge-Malden, Polity Press, 2010, p. 186. 9 Cfr. J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Understanding New Media, Cambridge, The MIT Press, 1999; tr. it. Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano, Guerini Studio, 2002. 10 Cfr. R. Grusin, Premediation. Affect and Mediality After 9/11, London, Palgrave Macmillan, 2010; trad. it. Premediazione, in A. Maiello (a cura di), Radical Mediation. Cinema, estetica e tecnologie digitali, Cosenza, Pellegrini, 2017, pp. 91-136. 11 Pensiamo per esempio al dispositivo neuronale chiamato “squid” in un film come Strange Days (Id., K. Bigelow, 1995) che rende «possibile immergersi in una varietà inesauribile di scenari percettivi»: M. Di Donato, “Strange Days”: Viaggio ai confini del cinema, in P. Bertetto (a cura di), L’ interpretazione dei film. Undici capolavori della storia del cinema, Venezia, Marsilio, 2018, p. 252. 12 Chiamati Agatha, Arthur e Dashiell in omaggio a tre scrittori seminali per i generi mystery e hard boiled come Agatha Christie, Arthur Conan Doyle e Dashiell Hammett. 13 «Il linguaggio numerico del controllo è fatto di cifre che contrassegnano l’accesso all’informazione o il diniego. Non si ha più a che fare con la coppia massa-individuo. Gli individui diventano dunque “dividuali”, le masse diventano dati campioni per i mercati o “banche”». G. Deleuze, Post-scriptum sur les sociétés de contrôle, in «L’autre journal», maggio 1990; tr. it. G. Deleuze, Poscritto sulla società del controllo, in Id., Pourparler, Macerata, Quodlibet, 2000, p. 237. 14 Cfr. R. Eugeni, La condizione postmediale, Brescia, La Scuola, 2015. 15 Cfr. N. Morris, The Cinema of Steven Spielberg: Empire of Light, London, Wallflower Press, 2007. 16 F. Casetti, Che cosa è uno schermo, oggi?, in «Rivista di estetica», LIV, 55, gennaio 2014, p. 113. 17 Cfr. P. Bertetto, S. Toffetti (a cura di), Incontro ai fantasmi. Il cinema espressionista, Roma, Centro sperimentale di cinematografia, 2008.

18 W. Buckland, Directed By Steven Spielberg: Poetics of the Contemporary Hollywood Blockbuster, New YorkLondon, Continuum, 2006, p. 201. 19 Cfr. P. Bertetto, Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Milano, Bompiani, 2007. 20 Ibid., p. 172 21 T. Elsaesser, Il ritorno del 3D, logica e genealogie dell’immagine del XXI secolo, in «Imago», 3, 2011, pp. 49-68, p. 51. 22 Nei vari spostamenti di John, in profondità di campo, si notano spesso i monumenti più iconici della città di Washington DC tra cui il Washington Monument (in onore del primo Presidente) e il Capitol Building (sede del Congresso degli Stai Uniti) accentuando la portata della riflessione sulle radici della democrazia americana. 23 Cfr. M. Hildebrandt, K. De Vries (a cura di), Privacy, Due Process and the Computational Turn. The Philosophy of Law Meets the Philosophy of Technology, London, Routledge, 2013. 24 Per un’attenta analisi sul salto di paradigma tra società disciplinare (in termini foucaultiani) e nuova società del controllo (all’interno di Minority Report), cfr. V. Tauriello, Cinema e cultura visuale nell’epoca del pictorial turn digitale, Roma, Aracne, 2017. 25 Ci sono due ordini di anomalie che possono mettere in dubbio l’infallibilità della Pre-crime: l’esistenza di un possibile “rapporto di minoranza” (ossia la difformità di previsione tra i tre Precog) che comporta l’eliminazione automatica della visione discordante insieme al “ragionevole dubbio” di innocenza dell’imputato. E poi i cosiddetti “echi”: i Precog tendono ad avere costanti déjà-vu degli stessi omicidi. Ma se qualcuno rimettesse in scena un omicidio identico per farla franca, si potrebbe distinguere l’eco dalla pre-visione? La presenza occulta di queste due anomalie (che Lamar Burgess sfrutta a suo vantaggio) rende il dispositivo della Pre-crime l’elemento di una distopia. 26 F. Truffaut, Le cinéma selon Hitchcock, Paris, Laffont, 1966; trad. it. Il cinema secondo Hitchcock, Milano, Il saggiatore, 2009. 27 Buckland, Directed By Steven Spielberg, cit., p. 206. 28 F. Casetti, La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Milano, Bompiani, 2015, p. 244. 29 S. Rybin, The Spielberg Gesture: Performance and Intensified Continuity, in N. Morris (a cura di), A Companion to Steven Spielberg, Malden-Oxford, Wiley-Blackwell, 2017, pp. 159-171. 30 Cfr. C. Metz, Le Signifiant imaginaire: psychanalyse et cinéma, Paris, UGE, 1977; trad. it. Cinema e psicanalisi, Venezia, Marsilio, 1980. 31 J. Vest, Minority Report, in «Film & History: An Interdisciplinary Journal», 32, 2, 2002, pp. 108-109. 32 Lamar sceglierà infine il suicidio utilizzando una pistola datagli in dono dalla comunità di Washington: un’arma simbolica risalente alla Guerra Civile, quindi l’ennesimo riferimento alla nascita della nazione americana in Minority Report. 33 Cfr. M. Walker, Steven Spielberg and the Rhetoric of an Ending, in Morris, A Companion to Steven Spielberg, cit., pp. 137-158. 34 Per una dettagliata analisi sull’ideazione, la produzione, la ricezione e la storicizzazione di Jaws come prototipo del film blockbuster cfr. A. Minuz (a cura di), Jaws Experiences (1975-2015), in «Cinergie», 7, 2015.

Damiano Garofalo  Munich

1 Sul “settembre nero” giordano, si veda D. Raab, Terror in Black September, New York, Palgrave Macmillan, 2007. 2 Per le origini e gli sviluppi dell’organizzazione terroristica si veda S.M. Katz, Jerusalem or Death. Palestinian Terrorism, Minneapolis, Lerner, 2004, pp. 31-36. Per una più ampia contestualizzazione del fenomeno nell’ambito del terrorismo mediorientale, cfr. M. Ensalaco, Middle Eastern Terrorism. From Black September to September 11, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2008. 3 Per questa breve ricostruzione mi rifaccio a S. Reeve, Olympics Massacre: Munich - The Real Story, in «The Independent», 22 gennaio 2006. 4 La versione italiana più recente è G. Jonas, Vendetta. La vera storia della caccia ai terroristi delle Olimpiadi di Monaco 1972, Milano, Rizzoli, 2006. 5 Il film di Spielberg, pur dichiarandosi «ispirato a eventi reali», si basa per lo più sul libro di Jonas, che però non rispetta lo svolgersi effettivo degli eventi, né l’organizzazione specifica della vendetta. Per una ricostruzione maggiormente accurata dei fatti, segnalo S. Reeve, One Day in September: The Story of the 1972 Munich Olympics Massacre, a Government Cover-up and a Covert Revenge Mission, London, Faber & Faber, 2001. Ringrazio Paolo Bertetto per la gentile segnalazione. 6 Sulle relazioni tra il romanzo, la storia e il film, si veda L.D. Friedman, You Must Remember This: History as Film/Film as History, in N. Morris (a cura di), A Companion to Steven Spielberg, Malden-Oxford, Wiley Blackwell, 2017, pp. 353-373. 7 J. McBride, Steven Spielberg: A Biography, Oxford, University Press of Mississippi, 2010, p. 140 (trad. mia, così come tutte le successive). 8 Sul rapporto tra New Hollywood, modernità e cinema classico, cfr. The Last Great American Picture Show:

New Hollywood Cinema in the 1970s, a cura di A. Horwath, T. Elsaesser, N. King, Amsterdam, Amsterdam University Press, 2004. 9 Da un punto di vista stilistico, l’utilizzo degli effetti digitali della Industrial Light and Magic richiamano direttamente l’estetica fotografica del cinema degli anni settanta, cfr. J. Turnock, The ILM Version: Recent Digital Effects and the Aesthetics of 1970s Cinematography, in «Film History», 24, 2012, pp. 158-168. 10 Su questa riflessione si veda M. Resmini, Steven Spielberg, Milano, Il Castoro, 2014, p. 143. 11 La rappresentazione in forma epica e mitologica della storia è uno dei tratti più ricorrenti nel cinema di Spielberg. Si citano, a solo titolo di esempio, film paradigmatici come Amistad, Saving Private Ryan, Lincoln, War Horse, Bridge of Spies e The Post, da cui sia Schindler’s List che Munich si distanziano parzialmente. 12 Per un’analisi accurata di questi passaggi, cfr. Chris Vogler, Il viaggio dell’eroe. La struttura del mito ad uso di scrittori di narrativa e di cinema, Roma, Dino Audino, 1992. 13 Cfr. M. Haskell, Steven Spielberg. A Life in Films, New Haven-London, Yale University Press, 2017, p. 189. 14 Nel caso della mediatizzazione degli eventi di Monaco 1972, si configura ciò che Dayan e Katz hanno individuato con la categoria di «media event», cfr. D. Dayan ed E. Katz, Media Events. The Live Broadcasting of History, Cambridge-London, Harvard University Press, 1992. 15 Cfr. M. McLuhan, Intervista a Playboy, Milano, Franco Angeli, 2013, p. 17. 16 T. Nachreiner, “Inspired by real events”: Media and Memory in Steven Spielberg’s Munich, in «Imaginations», 5, 2, 2014, p. 74. 17 Sull’intento riflessivo di questa operazione intellettuale sulla storia, cfr. F. Wasser, Steven Spielberg’s America, Cambridge, Polity, pp. 208-210. 18 Paolo Bertetto riprende il concetto psicologico di “eidetico” già discusso da Rudolph Arnheim, per applicarlo alle diverse articolazioni che può assumere l’immagine filmica, cfr. P. Bertetto, Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Milano, Bompiani, 2007, pp. 156-181. 19 Come ha osservato Nachreiner, «se la televisione è in grado di mostrare soltanto alcuni sprazzi di vittime e sequestratori durante l’evento, quando questi sono morti li trasmette soltanto se è in grado di trasformarli in stelle del prossimo evento mediale». Nachreiner, “Inspired by real events”, cit., p. 83. 20 Per l’elaborazione concettuale di questa pratica si rimanda a P. Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Roma-Bari, Laterza, 2014. 21 Bertetto, Lo specchio e il simulacro, cit., pp. 148-149. 22 Sulla costruzione del punto di vista sull’asse Spielberg-Avner-spettatore, cfr. J.F. Foy, Terrorism, Counterterrorism, and The Story of What Happens Next in Munich, in D.A. Kowalski (a cura di), Steven Spielberg and Philosophy, Lexington, University Press of Kentucky, 2008, pp. 1701-1787. 23 Per un’analisi della sequenza del cappottino rosso di Schindler’s List, si rimanda ad A. Minuz, La Shoah e la cultura visuale. Cinema, memoria, spazio pubblico, Roma, Bulzoni, 2010, pp. 104-111. 24 A proposito della scena in cui Avner e Eli discutono di politica, Molly Haskell ha parlato di «ultimate Spielberghian touch», Haskell, Steven Spielberg, cit., p. 191. 25 Cfr. S. Barrow, Morality Tales? Visions of the Past in Spielberg’s History Plays, in Morris, A Companion to Steven Spielberg, cit., pp. 307-319. 26 Per una discussione sull’etica dei “cicli” della violenza in Munich, si veda A. Plaw, Film As Ethical Argument. Evaluating Munich’s Case Against Targeted Killing, in «Film and Philosophy», 11, 2007, pp. 121-138. 27 Sulla costruzione dell’identità “complessa” di Avner, cfr. R. Brand, Identification with Victimhood in Recent Cinema, in «Culture, Theory & Critique», 49, 2, 2008, pp. 165-181. 28 Cfr. J. Schamus, Next Year in Munich: Zionism, Masculinity, and Diaspora in Spielberg’s Epic, in «Representations», 100, 2007, p. 59. 29 Sul rapporto tra Avner e i suoi diversi “padri”, cfr. N. Morris, The Cinema of Steven Spielberg. Empire of Light, London, Wallflower, 2007, pp. 361-362. 30 A questo proposito Yosefa Loshitzky ha parlato di Avner come di un «post-Holocaust Jew», cfr. Y. Loshitzky, The Post-Holocaust Jew in The Age of “The War of Terror”: Steven Spielberg’s Munich, in «Journal of Palestine Studies», XI, 2, 2011, p. 81. 31 La questione è stata oggetto di diverse critiche in Israele, sia da parte della stampa generalista, sia di organizzazioni sioniste che si sono schierate apertamente contro il film. Per una ricostruzione della vicenda, cfr. J. Szaluta, Steven Spielberg’s Munich, a Film for Our Time: A Psychohistorical Perspective, in «Journal of Psychohistory», 43, 1, 2015, pp. 37-38; A.C. Brownfeld, Spielberg’s Munich Continues to Stir Debate, SoulSearching About Israeli Policies, in «The Washington Report on Middle East Affairs», 25, 4, 2006, pp. 56-57. 32 Loshitzky, The Post-Holocaust Jew in The Age of “The War of Terror”, cit., p. 77. 33 Per un collegamento tra questa scena e le varie referenze simboliche nel film alla cucina e al cibo, cfr. N. Abrams, G. Owen, The (M)orality of Murder: Jews, Food, and Steven Spielberg’s Munich, in Morris, A Companion to Steven Spielberg, cit., pp. 336-352. 34 R. Halwani, Ethicism, Interpretation and Munich, in «Journal of Applied Philosophy», 26, 1, 2009, p. 78. 35 Sul rapporto tra clonazione delle immagini e guerra al terrore nel post-11 settembre, cfr. W.J.T. Mitchell, Cloning Terror. The War of Images, 9/11 to the Present, Chicago, University of Chicago Press, 2012.

36 A proposito del messaggio politico della scelta finale di Avner, Nigel Morris ha parlato di «post 9/11 engagement with real uncertainties», Morris, The Cinema of Steven Spielberg, cit., p. 371. 37 L’autore desidera ringraziare Paolo Bertetto, Valerio Coladonato e Pietro Masciullo per i preziosi suggerimenti durante la fase di stesura del saggio.

Mauro Di Donato  Ready Player One

1 L’easter egg in questione consiste nella scritta “Created by Warren Robinett”, nascosta in una delle stanze del gioco. In un’epoca in cui i programmatori erano semplici impiegati delle software house, questa è una delle prime rivendicazioni di autorialità nel mondo dei videogiochi, inserita nel programma all’insaputa della casa produttrice. 2 T. Van Der Heijden, Technostalgia of the Present: From Technologies of Memory to a Memory of Technologies, in «European Journal of Media Studies», 4, 2, 2015, pp. 103-121. 3 Su questi temi vedi anche: G. Bolin, Media Generations: Experience, identity and mediatised social change, London-New York, Routledge, 2016; T. Elsaesser, Film History as Media Archaeology. Tracking Digital Cinema, Amsterdam, Amsterdam University Press, 2016. 4 O. Gleiberman, Film Review: “Ready Player One”, in «Variety», 12 Marzo 2018. 5 R.V. Kelly 2, Massively Multiplayer Online Role-Playing Games: The People, the Addiction and the Playing Experience, Jefferson and London, McFarland, 2014, p. 13. 6 Su questo tema vedi T. Elsaesser, M. Hagener, Teoria del film. Un’introduzione, Torino, Einaudi, 2009, pp. 330. 7 P. Bertetto (a cura di), L’interpretazione dei film. Undici capolavori della storia del cinema, Venezia, Marsilio, 2018, p. 148. 8 Le animazioni in CGI producono un flusso visivo manipolabile a piacere. Dunque la scelta di articolare le immagini attraverso una successione di inquadrature è un’opzione stilistica e linguistica che non deriva dalle proprietà tecniche del dispositivo (come accade invece nel cinema tradizionale in cui il cambiamento istantaneo del punto di vista comporta necessariamente la presenza di un “taglio” e, dunque, una discontinuità visiva chiaramente percepibile). Osserva Lev Manovich a tale proposito: «le forme generate dal computer consentono un effetto che in precedenza si poteva ottenere solo attraverso la dissolvenza o il taglio. Molti videogiochi obbediscono all’estetica della continuità in quanto, per usare un termine cinematografico, sono delle riprese ininterrotte, senza cesure». L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Milano, Olivares, 2002, p. 184. 9 M. Grimshaw, Cinema e videogiochi: alcune considerazioni acustiche, in M. Bittanti (a cura di), Schermi interattivi. Il cinema nei videogiochi, Roma, Meltemi, 2008, p. 117 10 Sono detti sandbox videogiochi che consentono una interazione libera con gli ambienti di gioco (open world), senza vincolare il giocatore ad obiettivi specifici. 11 M. Carbone, Filosofia-schermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale, Milano, Raffaello Cortina, 2016, p. 120. 12 Cfr. P. Masciullo, Road to Nowhere. Il cinema contemporaneo come laboratorio autoriflessivo, Roma, Bulzoni, 2017. Nello stesso testo l’autore analizza varie forme visive, narrative e stilistiche attraverso cui il “trauma della sala chiusa” prende corpo nel cinema contemporaneo (pp. 227-238). 13 D.N. Rodowick, Il cinema nell’era del virtuale, Milano, Olivares, 2008, p. 152. 14 Sul concetto di metamedium in relazione al computer vedi L. Manovich, Software Takes Command, New York, Bloomsbury, 2013. 15 Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, cit., p. 76. 16 The Shining, peraltro, è stato oggetto di numerose rivisitazioni (mashup, recut trailer ecc.) che godono tuttora di una larga popolarità sul web. 17 Sul concetto di “rilocazione del cinema” vedi F. Casetti, La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Milano, Bompiani, 2015. 18 H. Jenkins, Cultura convergente, Milano, Apogeo, 2007, p. XXV.

Filmografia a cura di Francesca Cantore CORTOMETRAGGI E FILM AMATORIALI 1957 The Last Train Wreck - 8 mm; 3’. 1959 The Last Gunfight (The Last Gun, The Last Shootout, Gunsmog) - 8 mm; 9’. 1960 Fighter Squad - 8 mm; 15’. 1962 Escape to Nowhere - 8 mm; 40’. 1964 Firelight - 8 mm; 135’. 1965-1966 Encounter - 16 mm; 20’. 1968 Amblin’ - 35 mm; 26’. FILM PER LA TELEVISIONE 1969 Night Gallery (Mistero in galleria) - film TV a episodi, episodio Eyes; 26’. 1971 Duel (Id.) - film TV - 73’ (versione originale); 91’ (versione estesa). 1972 Something Evil (Qualcosa di diabolico) - film TV; 72’. 1973 Savage - film TV; 76’. 1999 The Unfinished Journey - documentario TV; 20’. 2008 A Timeless Call - documentario TV; 7’. LUNGOMETRAGGI 1974 The Sugarland Express (Sugarland Express) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Hal Barwood, Matthew Robbins; fotografia: Vilmos Zsigmond; montaggio: Edward M. Abroms, Verna Fields; musica: John Williams; interpreti principali: Goldie Hawn (Lou Jean Poplin), Ben Johnson (capitano Harlin Tanner), Michael Sacks (Maxwell Slide), William Atherton (Clovis Michael Poplin), Gregory Walcott (Ernie Mashburn), Steve Kanaly (Ernie Jessup), Louise Latham (Mrs. Looby); produzione: David Brown, Richard D. Zanuck per Universal Pictures; origine: USA; durata: 110’. 1975 Jaws (Lo squalo) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Peter Benchley, Carl Gottlieb (dall’omonimo romanzo di Peter Benchley); fotografia: Bill Butler; montaggio: Verna Fields; musica: John Williams; interpreti principali: Roy Scheider (Martin Brody), Robert Shaw (Quint), Richard Dreyfuss (Matt Hooper), Lorraine Gary (Ellen Brody), Murray Hamilton (Larry Vaughn), Carl Gottlieb (Ben Meadows), Jeffrey Kramer (Leonard Hendricks); produzione: David Brown, Richard D. Zanuck per Universal Pictures; origine: USA; durata: 124’ (versione originale), 130’ (versione estesa). 1977 Close Encounters of the Third Kind (Incontri ravvicinati del terzo tipo) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Steven Spielberg; fotografia: Vilmos Zsigmond; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti principali: Richard Dreyfuss (Roy Neary), Melinda Dillon (Jillian Guiler), François Truffaut (Claude Lacombe), Teri Garr (Ronnie Neary), Cary Guffey (Barry Guiler), Bob Balaban (David Laughlin), Lance Henriksen (Robert); produzione: Clark Paylow, Julia Phillips, Michael Phillips per EMI Films;

origine: USA; durata: 135’ (versione originale), 133’ (Special Edition), 138’ (Director’s Cut). 1979 1941 (1941 - Allarme a Hollywood) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Robert Zemeckis, Bob Gale; fotografia: William A. Fraker; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti principali: Dan Aykroyd (Sergente Frank Tree), Ned Beatty (Ward Erbert Douglas), John Belushi (Capitano Wild Bill Kelso), Lorraine Gary (Joan Douglas), Murray Hamilton (Claude Crumn), Christopher Lee (Capitano Wolfgang von Kleinschmidt), Tim Matheson (Capitano Loomis Birkhead); produzione: A-Team Productions, Universal Pictures, Columbia Pictures; origine: USA; durata: 118’ (versione originale), 146’ (Director’s Cut). 1981 Raiders of the Lost Ark (I predatori dell’arca perduta) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Lawrence Kasdan; fotografia: Douglas Slocombe; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti principali: Harrison Ford (Indiana Jones), Karen Allen (Marion Ravenwood), Paul Freeman (René Belloq), Ronald Lacey (Arnold Ernst Toth), John Rhys-Davies (Sallah), Denholm Elliott (Marcus Brody), Alfred Molina (Satipo); produzione: Frank Marshall per Lucasfilm; origine: USA; durata: 115’. 1982 E.T. the Extra-Terrestrial (E.T. l’extra-terrestre) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Melissa Mathison; fotografia: Allen Daviau; montaggio: Carol Littleton; musica: John Williams; interpreti principali: Henry Thomas (Elliot), Dee Wallace (Mary), Robert MacNaughton (Michael), Drew Barrymore (Gertie), Peter Coyote (Keys), C. Thomas Howell (Tyler), Sean Frye (Steve); produzione: Steven Spielberg e Kathleen Kennedy per Amblin Entertainment, Universal Pictures; origine: USA; durata: 115’ (versione originale); 120’ (versione estesa). 1983 Twilight Zone: The Movie (Ai confini della realtà) - episodio Kick the Can (Il gioco del bussolotto) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Richard Matheson, George Clayton Johnson, Melissa Mathison; fotografia: Allen Daviau, John Hora, Stevan Larner; montaggio: Malcolm Campbell, Tina Hirsch, Michael Kahn, Howard E. Smith; musica: Jerry Goldsmith; interpreti principali: Scatman Crothers (Signor Bloom), Martin Garner (Signor Weinstein), Selma Diamond (signora Weinstein), Helen Shaw (signora Dempsey), Murray Matheson (signor Agee), Priscilla Pointer (Miss Cox); produzione: Steven Spielberg, John Landis; origine: USA; durata: 102’ (Twilight Zone: The Movie); 23’ (Kick the Can). 1984 Indiana Jones and the Temple of Doom (Indiana Jones e il tempio maledetto) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Willard Huyck, Gloria Katz; fotografia: Douglas Slocombe; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti principali: Harrison Ford (Indiana Jones), Kate Capshaw (Wilhelmina “Willie” Scott), Jonathan Ke Quan (Short “Shorty” Round), Amrish Puri (Mola Ram), Roshan Seth (Chattar Lal), Philip Stone (capitano Phillip Blumburtt), Roy Chiao (Lao Che); produzione: Robert Watts per Lucasfilm; origine: USA; durata: 118’. 1985 The Color Purple (Il colore viola) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Menno Meyjes (dal romanzo omonimo di Alice Walker); fotografia: Allen Daviau; montaggio: Michael Kahn; musica: Quincy Jones; interpreti principali: Whoopi Goldberg (Celie Harris), Danny Glover (Albert Johnson), Margaret Avery (Shug Avery), Oprah Winfrey (Sofia), Willard E. Pugh (Harpo Johnson), Akosua Busia (Nettie Harris), Desreta Jackson (giovane Celie); produzione: Steven Spielberg, Kathleen Kennedy, Frank Marshall, Quincy Jones; origine: USA; durata: 154’. 1987 Empire of the Sun (L’impero del sole) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Tom Stoppard (dall’omonimo romanzo di J.G. Ballard); fotografia: Allen Daviau; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti principali: Christian Bale (Jamie “Jim” Graham), John Malkovich (Basie), Miranda Richardson (signora Victor), Joe Pantoliano (Frank Demarest), Nigel Havers (dottor Rewlins), Leslie Phillips (Maxton), Masatoˉ Ibu (sergente Nagata); produzione: Steven Spielberg, Kathleen Kennedy, Frank Marshall per Amblin Entertainment; origine: USA; durata: 153’. 1989 Always (Always - Per sempre) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Jerry Belson [remake di A Guy Named Joe (Joe il pilota), Victor Fleming, 1943]; fotografia: Mikael Salomon; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti principali: Richard Dreyfuss (Pete Sandrich), Holly Hunter (Dorinda Durston), Brad Johnson (Ted Baker), John Goodman (Al Yackey), Audrey Hepburn (Hap), Roberts Blossom (Dave), Keith David (Powerhouse); produzione: Steven

Spielberg, Kathleen Kennedy, Frank Marshall per Amblin Entertainment; origine: USA; durata: 122’. Indiana Jones and the Last Crusade (Indiana Jones e l’ultima crociata) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Jeffrey Boam; fotografia: Douglas Slocombe; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti principali: Harrison Ford (dottor Henry Jones Jr./Indiana Jones), Sean Connery (professor Henry Jones Sr.), Alison Doody (dottoressa Elsa Schneider), Julian Glover (Walter Donovan), John Rhys-Davies (Sallah), Denholm Elliott (professor Marcus Brody), Michael Byrne (colonnello Voge), River Phoenix (Indiana Jones da ragazzo); produzione: Robert Watts per Lucasfilm; origine: USA; durata: 127’. 1991 Hook (Hook - Capitan Uncino) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: James V. Hart, Malia Scotch Marmo; fotografia: Dean Cundey; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti principali: Robin Williams (Peter Banning/Peter Pan), Dustin Hoffman (capitano Giacomo Uncino), Julia Roberts (Trilli/Campanellino), Bob Hoskins (Spugna), Maggie Smith (Wendy Moira Angela), Charlie Korsmo (Jack Banning), Caroline Goodall (Moira Darling Banning), Dante Basco (Rufio); produzione: Kathleen Kennedy, Frank Marshall, Gerald R. Molen per Amblin Entertainment; origine: USA; durata: 142’. 1993 Jurassic Park (Id.) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Michael Crichton, David Koepp (dall’omonimo romanzo di Michael Crichton); fotografia: Dean Cundey; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti principali: Sam Neill (Alan Grant), Laura Dern (Ellie Sattler), Jeff Goldblum (Ian Malcolm), Richard Attenborough (John Hammond), Bob Peck (Robert Muldoon), Samuel L. Jackson (Ray Arnold), Ariana Richards (Alexis Murphy), BD Wong (Henry Wu); produzione: Kathleen Kennedy, Gerald R. Molen per Amblin Entertainment; origine: USA; durata: 127’. Schindler’s List (Schindler’s List - La lista di Schindler) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Steven Zaillian (dal romanzo Schindler’s Ark di Thomas Keneally); fotografia: Janusz Kamiński; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti principali: Liam Neeson (Oskar Schindler), Ben Kingsley (Itzhak Stern), Ralph Fiennes (Amon Goeth), Caroline Goodall (Emilie Schindler), Jonathan Sagall (Poldek Pfefferberg), Embeth Davidtz (Helene Hirsch), Mark Ivanir (Marcel Goldberg), Beatrice Macola (Ingrid); produzione: Steven Spielberg, Gerald R. Molen, Branko Lustig per Amblin Entertainment; origine: USA; durata: 195’. 1997 Amistad (Id.) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: David Franzoni (dal romanzo Echo of Lions di Barbara Chase-Riboud); fotografia: Janusz Kamiński; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti principali: Anthony Hopkins: (John Quincy Adams), Morgan Freeman (Theodore Joadson), Nigel Hawthorne (Martin Van Buren), Djimon Hounsou (Joseph Cinque), Matthew McConaughey (Roger S. Baldwin), David Paymer (segretario John Forsyth), Pete Postlethwaite (Holabird), Stellan Skarsgård (Lewis Tappan); produzione: Debbie Allen, Steven Spielberg, Colin Wilson per HBO Pictures; origine: USA; durata: 152’. The Lost World: Jurassic Park (Il mondo perduto - Jurassic Park) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: David Koepp (dal romanzo The Lost World di Michael Crichton); fotografia: Janusz Kamiński; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti principali: Jeff Goldblum (Ian Malcolm), Julianne Moore (Sarah Harding), Vanessa Lee Chester (Kelly Curtis Malcolm), Vince Vaughn (Nick Van Owen), Arliss Howard (Peter Ludlow), Richard Attenborough (John Hammond), Pete Postlethwaite (Roland Tembo), Peter Stormare (Dieter Stark); produzione: Gerald R. Molen, Colin Wilson per Amblin Entertainment e Universal Pictures; origine: USA; durata: 129’. 1998 Saving Private Ryan (Salvate il soldato Ryan) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Robert Rodat (dal libro D-Day June 6, 1944: The Climactic Battle of World War II di Stephen Ambrose); fotografia: Janusz Kamiński; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti principali: Tom Hanks (John H. Miller), Matt Damon (James Francis Ryan), Edward Burns (Richard Reiben), Jeremy Davies (Timothy E. Upham), Tom Sizemore (Michael Horvath), Barry Pepper (Daniel Jackson), Adam Goldberg (Stanley Mellish), Giovanni Ribisi (Irwin Wade), Vin Diesel (Adrian Caparzo); produzione: Ian Bryce, Mark Gordon, Gary Levinsohn, Steven Spielberg per Amblin Entertainment; origine: USA; durata: 169’. 2001 A.I. Artificial Intelligence (A.I. - Intelligenza artificiale) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Steven Spielberg; fotografia: Janusz Kamiński; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti principali: Haley Joel Osment (David), Jude Law (Gigolò Joe), Frances

O’Connor (Monica Swinton), Brendan Gleeson (Lord Johnson-Johnson), Sam Robards (Henry Swinton), William Hurt (professor Hobby il visionario), Jake Thomas (Martin Swinton), Ken Leung (Syatyoo-Sam); produzione: Kathleen Kennedy, Steven Spielberg, Bonnie Curtis per Amblin Entertainment e Stanley Kubrick Productions; origine: USA; durata: 146’. 2002 Catch Me If You Can (Prova a prendermi) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Jeff Nathanson (dall’omonimo romanzo autobiografico di Frank Abagnale Jr.); fotografia: Janusz Kamiński; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti principali: Leonardo DiCaprio (Frank Abagnale Jr.), Tom Hanks (Carl Hanratty), Christopher Walken (Frank Abagnale Sr.), Martin Sheen (Roger Strong), Nathalie Baye (Paula Abagnale), Amy Adams (Brenda Strong), James Brolin (Jack Barnes), Brian Howe (Earl Amdursky); produzione: Steven Spielberg, Walter F. Parkes per Kemp Company, Splendid Pictures; origine: USA; durata: 141’. Minority Report (Id.) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Scott Frank, Jon Cohen (dall’omonimo racconto di Philip K. Dick); fotografia: Janusz Kamiński; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti principali: Tom Cruise (John Anderton), Colin Farrell (Danny Witwer), Samantha Morton (Agatha), Max von Sydow (Lamar Burgess), Patrick Kilpatrick (Knott), Lois Smith (Iris Hineman), Peter Stormare (Solomon Eddie), Tim Blake Nelson (Gideon); produzione: Gerald R. Molen, Bonnie Curtis, Walter F. Parkes, Jan de Bont per Twentieth Century Fox, DreamWorks Pictures e Cruise/Wagner Productions; origine: USA; durata: 145’. 2004 The Terminal (Id.) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Sacha Gervasi, Jeff Nathanson; fotografia: Janusz Kamiński; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti principali: Tom Hanks (Viktor Navorski), Catherine Zeta Jones (Amelia Warren), Diego Luna (Enrique Cruz), Barry Shabaka Henley (Ray Thurman), Stanley Tucci (Frank Dixon), Chi McBride (Joe Mulroy), Kumar Pallana (Gupta Rajan), Zoe Saldana (agente Torres); produzione: Steven Spielberg, Walter F. Parkes, Laurie MacDonald per Amblin Entertainment; origine: USA; durata: 128’. 2005 Munich (Id.) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Tony Kushner, Eric Roth (dal libro-inchiesta Vengeance: The True Story of an Israeli Counter-Terrorist Team di George Jonas); fotografia: Janusz Kamiński; montaggio: Michael Kahn; interpreti principali: Eric Bana (Avner Kaufmann), Daniel Craig (Steve), Ayelet Zurer (Daphna), Ciarán Hinds (Carl), Mathieu Kassovitz (Robert), Hanns Zischler (Hans), Geoffrey Rush (Ephraim), Michael Lonsdale (Papa), Mathieu Amalric (Louis); produzione: Steven Spielberg, Kathleen Kennedy, Barry Mendel, Colin Wilson per Amblin Entertainment e The Kennedy/Marshall Company; origine: USA; durata: 164’ (versione originale), 163’ (versione ridotta). War of the Worlds (La guerra dei mondi) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Josh Friedman, David Koepp (dall’omonimo romanzo di H.G. Wells); fotografia: Janusz Kamiński; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti principali: Tom Cruise (Ray Ferrier), Dakota Fanning (Rachel Ferrier), Justin Chatwin (Robbie Ferrier), Miranda Otto (Mary Ann Ferrier), Tim Robbins (Harlan Ogilvy), Rick Gonzalez (Vincent), Yul Vazquez (Julio), Lenny Venito (Manny il meccanico); produzione: Kathleen Kennedy, Colin Wilson per Amblin Entertainment e Cruise/Wagner Productions; origine: USA; durata: 116’. 2008 Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull (Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: David Koepp; fotografia: Janusz Kamiński; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti principali: Harrison Ford (Indiana Jones), Shia LaBeouf (Mutt Williams/Henry Jones III), Cate Blanchett (dottoressa colonnello Irina Spalko), Ray Winstone (“Mac” George McHale), Karen Allen (Marion Ravenwood), John Hurt (Harold Oxley), Jim Broadbent (Charles Stanforth); produzione: Frank Marshall per Paramount Pictures, Lucasfilm e The Kennedy/Marshall Company; origine: USA; durata: 122’. 2011 The Adventures of Tintin: The Secret of the Unicorn (Le avventure di Tintin - Il segreto dell’Unicorno) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Steven Moffat, Edgar Wright, Joe Cornish (dalla serie a fumetti Les Aventures de Tintin di Hergé); fotografia: Janusz Kamiński; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti principali: Jamie Bell (Tintin), Andy Serkis (Capitano Haddock), Daniel Craig (Ivanovitch Sakharine), Simon Pegg (Dupond), Nick Frost (Dupont), Toby Jones (Aristide Filaticcio), Mackenzie Crook (Tom); produzione: Steven Spielberg, Peter Jackson, Kathleen Kennedy per Amblin Entertainment e WingNut Films; origine: USA, NZ; durata: 107’. War Horse (Id.)

Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Lee Hall, Richard Curtis (dall’omonimo romanzo di Michael Morpurgo); fotografia: Janusz Kamiński; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti principali: Jeremy Irvine (Albert Narracott), Emily Watson (Rose Narracott), Peter Mullan (Ted Narracott), Niels Arestrup (Nonno), David Thewlis (Lyons), Tom Hiddleston (Capitano James Nicholls), Benedict Cumberbatch (Maggiore Jamie Stewart); produzione: Kathleen Kennedy, Steven Spielberg per Amblin Entertainment; origine: USA, UK; durata: 146’. 2012 Lincoln (Id.) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Tony Kushner (dal libro Team of Rivals: The Political Genius of Abraham Lincoln di Doris Kearns Goodwin.); fotografia: Janusz Kamiński; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti principali: Daniel Day-Lewis (Abraham Lincoln), Sally Field (Mary Todd Lincoln), Tommy Lee Jones (Thaddeus Stevens), Joseph Gordon-Levitt (Robert Todd Lincoln), David Strathairn (William H. Seward), Hal Holbrook (Francis Preston Blair), James Spader (William N. Bilbo); produzione: Steven Spielberg, Kathleen Kennedy per Amblin Entertainment, The Kennedy/Marshall Company e Walt Disney Pictures; origine: USA, India; durata: 150’. 2015 Bridge of Spies (Il ponte delle spie) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Matt Charman, Joel ed Ethan Coen; fotografia: Janusz Kamiński; montaggio: Michael Kahn; musica: Thomas Newman; interpreti principali: Tom Hanks (James Donovan), Mark Rylance (Rudolf Abel), Amy Ryan (Mary McKenna Donovan), Alan Alda (Thomas Watters), Austin Stowell (Francis Gary Powers); produzione: Steven Spielberg, Marc Platt, Kristie Macosko Krieger per Amblin Entertainment e Marc Platt Productions; origine: USA; durata: 142’. 2016 The BFG (Il GGG - Il grande gigante gentile) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Melissa Mathison (dal romanzo The BFG di Roald Dahl); fotografia: Janusz Kamiński; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti principali: Mark Rylance (GGG), Ruby Barnhill (Sofia), Penelope Wilton (Regina Elisabetta II), Jemaine Clement (InghiottiCiccia), Rebecca Hall (Mary), Rafe Spall (Mr. Tibbs), Bill Hader (SangueSucchia); produzione: Steven Spielberg, Frank Marshall, Sam Mercer per Walt Disney Pictures, Amblin Entertainment, Reliance Entertainment, The Kennedy/Marshall Company; origine: USA; durata: 117’. 2017 The Post (Id.) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Liz Hannah, Josh Singer; fotografia: Janusz Kamiński; montaggio: Michael Kahn, Sarah Broshar; musica: John Williams; interpreti principali: Meryl Streep (Katharine “Kay” Graham), Tom Hanks (Benjamin “Ben” Bradlee), Sarah Paulson (Anthony “Tony” Bradlee), Bob Odenkirk (Benjamin “Ben” Bagdikian), Tracy Letts (Fritz Beebe), Bradley Whitford (Arthur Parsons), Bruce Greenwood (Robert McNamara); produzione: Kristie Macosko Krieger, Amy Pascal, Steven Spielberg per Amblin Entertainment, DreamWorks, Participant Media; origine: USA; durata: 116’. 2018 Ready Player One (Id.) Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Zak Penn, Ernest Cline (dall’omonimo romanzo di Ernest Cline); fotografia: Janusz Kamiński; montaggio: Michael Kahn, Sarah Broshar; musica: Alan Silvestri; interpreti principali: Tye Sheridan (Wade Watts/Parzival), Olivia Cooke (Samantha Cook/Art3mis), Ben Mendelsohn (Nolan Sorrento), T.J. Miller (i-R0k), Simon Pegg (Ogden Morrow), Mark Rylance (James Halliday/Anorak l’Onnisciente); produzione: Steven Spielberg, Donald De Line, Dan Farah, Kristie Macosko Krieger per Amblin Entertainment, De Line Pictures, Village Roadshow Pictures, Warner Bros.; origine: USA; durata: 140’.

Bibliografia a cura di Francesca Cantore STUDI SUL CINEMA DI STEVEN SPIELBERG E SU SINGOLI FILM (MONOGRAFIE E CURATELE) E. Alberione (a cura di), Incubi e meraviglie. Il cinema di Steven Spielberg, Milano, Unicopli, 2003. S. Antonelli, G. Fabbri, L’omicidio è una vecchia storia. Minority Report: la favola noir da Philip Dick a Steven Spielberg, Roma, Arcana, 2002. W. Buckland, Directed by Steven Spielberg: Poetics of the Contemporary Hollywood Blockbuster, New YorkLondon, Continuum, 2006. M.T. Cavina, F. La Polla (a cura di), Spielberg su Spielberg, Torino, Lindau, 1995. R. DeSalle, D. Lindley, The Science of Jurassic Park and the Lost World: Or, How to Build a Dinosaur, New York, Basic Books, 1997; tr. it. P.D. Napolitani (a cura di), Come costruire un dinosauro. La scienza di Jurassic Park e del Mondo perduto, Milano, Raffaello Cortina, 1997. M.C. Fernandez, Steven Spielberg, Madrid, Ediciones Catedra, 1993. G. Francesca, S. Isola, L. Lardieri, Steven Spielberg: Cineland Express, Roma, Sovera, 2008. I. Freer, The Complete Spielberg, London, Virgin, 2001. L.D. Friedman, Citizen Spielberg, Champaign, University of Illinois Press, 2006. J.-P. Godard, Spielberg, Paris, Rivages, 1987. A.M. Gordon, Empire of Dreams: The Science Fiction and Fantasy Films of Steven Spielberg, Lanham, Rowman & Littlefield, 2008. B.P. Johnson, S.L. Grogg Jr., A. Bagley, Steven Spielberg Study Guide, American Film Institute, 1979. J. Kendrick, Darkness in the Bliss-Out: A Reconsideration of the Films of Steven Spielberg, New York-London, Bloomsbury, 2014. D.A. Kowalski (a cura di), Steven Spielberg and Philosophy, Lexington, University Press of Kentucky, 2008, F. La Polla (1982), Steven Spielberg, Milano, Il Castoro, 1995. Y. Loshitzky (a cura di), Spielberg’s Holocaust: Critical Perspectives on Schindler’s List, BloomingtonIndianapolis, Indiana University Press, 1997. J. Mairata, Steven Spielberg’s Style By Stealth, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2018. A. Minuz (a cura di), Jaws Experiences (1975-2015), in «Cinergie», 7, 2015. N. Morris, The Cinema of Steven Spielberg: Empire of Light, London, Wallflower Press, 2007. N. Morris (a cura di), A Companion to Steven Spielberg, Malden-Oxford, Wiley Blackwell, 2017. A. Quirke, Jaws, London, BFI, 2002. M. Resmini, Steven Spielberg, Milano, Il Castoro, 2014. D. Roche (a cura di), Steven Spielberg: Hollywood Wunderkind & Humanist, Montpellier, Presses Universitaires de la Méditerranée, 2018. A. Schober, D. Olson (a cura di), Children in the Films of Steven Spielberg, Lanham, Lexington Books, 2016. C.L.P. Silet (a cura di), The Films of Steven Spielberg: Critical Essays, Lanham, The Scarecrow Press, 2002. A. Spadafora, In cielo, in terra. Terrence Malick e Steven Spielberg, Milano, Bietti, 2012. F. Wasser, Steven Spielberg’s America, Cambridge-Malden, Polity Press, 2010. SAGGI IN VOLUME E RIVISTE ACCADEMICHE A. Auster, Saving Private Ryan and American Triumphalism, in «Journal of Popular Film and Television», 30, 2, 2002, pp. 99-104. R. Baird, Animalizing Jurassic Park’s Dinosaurs: Blockbuster Schemata and Cross-Cultural Cognition in the Threat Scene, in «Cinema Journal», 37, 4, 1998, pp. 82-103. C. Balides, Jurassic Post-Fordism: Tall Tales of Economics in the Theme Park, in «Screen», 41, 2, 2000, pp. 139160.

P. Biskind, Jaws: Between the Teeth, in «Jump Cut», 9, ottobre-dicembre 1975, pp. 1-26. J. Bobo, The Color Purple: Black Women as Cultural Readers, in E. Diedre Pribram (a cura di), Female Spectators: Looking at Film and Television, London, Verso, 1988, pp. 90-109. J. Bobo, The Color Purple: Black Women’s Responses, in «Jump Cut», 33, febbraio 1988, pp. 43-52. J. Bobo, Watching The Color Purple: Two Interviews, in G. Turner (a cura di), The Film Cultures Reader, London, Routledge, 2002, pp. 444-468. J. Breen, Amistad Colloquium Raises Questions of Critical Dialogue, in «Black Camera», 14, 1, 1999, pp. 5-6. A.C. Brownfeld, Spielberg’s Munich Continues to Stir Debate, Soul-Searching About Israeli Policies, in «The Washington Report on Middle East Affairs», 25, 4, 2006, pp. 56-57. W. Buckland, Between Science Fact and Science Fiction: Spielberg’s Digital Dinosaurs, Possible Worlds, and the New Aesthetic Realism, in «Screen», 40, 2, 1999, pp. 177-192. W. Buckland, The Role of the Auteur in the Age of the Blockbuster: Steven Spielberg and DreamWorks, in J. Stringer (a cura di), Movie Blockbusters, London-New York, Routledge, 2003, pp. 84-98. C. Burnetts, Steven Spielberg’s ‘Feelgood’ Endings and Sentimentality, in «New Review of Film and Television Studies», 7, 1, marzo 2009, pp. 79-92. R. Burgoyne, The War Film: Save Private Ryan; The Biographical Film: Schindler’s List, in Id., The Hollywood Historical Film, Hoboken, Wiley-Blackwell, 2008, pp. 50-73; 100-124. C.B. Butler, The Color Purple Controversy: Black Women Spectatorship, in «Wide Angle», 13, 3-4, luglio-ottobre 1991, pp. 62-69. J. Cabrera, Bacon, los fisiólogos griegos, Spielberg y los filmescatástrofe, in Id., Cine: 100 años de filosofía: Una introducción a la filosofía, Barcelona, Editorial Gedisa, 1999; tr. it. M. Di Sario (a cura di), Il rapporto dell’uomo con la natura: Bacone, Steven Spielberg e il genere catastrofico, in Id., Da Aristotele a Spielberg. Capire la filosofia attraverso i film, Milano, Mondadori, 2007. E. Cassini, L’irruzione del tempo nel gioco fantastico. Steven Spielberg e l’“invenzione” degli anni Ottanta, in Id., La superficie e l’abisso. Percorsi culturali e politici nel cinema americano degli anni Ottanta, Roma, Aracne, 2010, pp. 123-144. S. Desilets, Pedal Pushers: Spielberg, De Sica, and Dismemberment, in «Film Criticism», 37, 1, 2012, pp. 19-34. J. Digby, From Walker to Spielberg: Transformations of The Color Purple, in P. Reynolds (a cura di), Novel Images: Literature in Performance, London, Routledge, 1993, pp. 166-168. L. Ditmann, Made You Look: Towards a Critical Evaluation of Steven Spielberg’s Saving Private Ryan, in «Film and History», 28, 1998, pp. 3-4, 64-9. C.M. Dole, The Return of the Father in Spielberg’s The Color Purple, in «Literature/Film Quarterly», 24, 1, 1996, pp. 12-16. P. Ehrenhaus, Why We Fought: Holocaust Memory in Spielberg’s Saving Private Ryan, in «Critical Studies in Media Communication», 18, 3, settembre 2001, pp. 321-337. T. Elsaesser, W. Buckland, Realism in the Photographic and Digital Image (Jurassic Park and The Lost World), in Id. Studying Contemporary American Films: A Guide to Movie Analysis, London, Bloomsbury, 2002, pp. 195219; tr. it. D. Pedrazzani (a cura di), Teoria e analisi del film americano contemporaneo, Milano, Bietti, 2010. T.S. Frentz, J. Hocker Rushing, Integrating Ideology and Archetype in Rhetorical Criticism, Part II: A Case Study of Jaws, in «Quarterly Journal of Speech», 79, 1, febbraio 1993, pp. 61-81. K. Gabbard, Saving Private Ryan Too Late, in J. Lewis (a cura di), The End of Cinema as We Know It: American Film in the Nineties, New York, New York University Press, 2001, pp. 131-138. A. Gordon, Close Encounters: The Gospel According to Steven Spielberg, in «Literature/Film Quarterly», 8, 3, 1980, pp. 156-164. A. Gordon, Raiders of the Lost Ark: Totem and Taboo, in «Extrapolation», 32, 3, 1991, pp. 256-267. A. Gordon, Steven Spielberg’s Empire of the Sun: A Boy’s Dream of War, in «Literature/Film Quarterly», 19, 4, 1991, pp. 210-221. H.R. Greenberg, Raiders of the Lost Text: Remaking as Contested Homage in Always, in «Journal of Popular Film and Television», 18, 4, 1991, pp. 164-171. J. Gross, Hollywood and the Holocaust, in «The New York Review of Books», 16, 3, 3 febbraio 1994.

L. Grossman, It’s Tintin Time!, in «Time International», 23 ottobre 2011, pp. 32-38. E. Guerrero, The Slavery Motif in Recent Popular Cinema: The Color Purple and Brother from Another Planet, in «Jump Cut», 33, febbraio 1988, pp. 52-59. S. Halprin, Community of Women: The Color Purple, in «Jump Cut», 31, 1, 1986, p. 28. M.B. Hansen, Schindler’s list is not Shoah: The Second Commandment, popular modernism, and public memory, in M. Landy (a cura di), The Historical Film: History and Memory in Media, New Brunswick, Rutgers University Press, 2000, pp. 201-217. S. Harwood, Family Fictions in E.T., in «Changing English», 2, 2, 1995, pp. 149-170. S. Heath, Jaws, Ideology and Film Theory, in «Framework», 1976, pp. 25-27. M. Heung, Why E.T. Must Go Home: The New Family in American Cinema, in «The Journal of Popular Film and Television», 11, 2, 1983, pp. 79-85. C.G. Kodat, Saving Private Property: Spielberg’s American DreamWorks, in «Representations», 71, 2000, pp. 77-105. R.P. Kolker, Steven Spielberg, War, Superheroes, and Digital Mise-en-Scène, in Id., A Cinema of Loneliness: Penn, Kubrick, Scorsese, Spielberg, Altman (1980), New York, Oxford University Press, 2011, pp. 262-348. P. Krämer, Steven Spielberg, in Y. Tasker, Fifty contemporary filmmakers, London-New York, Routledge, 2002, pp. 319-327. P. Landon, Realism, Genre and Saving Private Ryan, in «Film and History», 28, 1998, pp. 3-4, 58-69. Y. Loshitzky, The Post-Holocaust Jew in The Age of “The War of Terror”: Steven Spielberg’s Munich, in «Journal of Palestine Studies», XI, 2, 2011, p. 81. K. Maio, The Color Purple: Fading to White, in Ead., Feminist in the Dark: Reviewing the Movies, Freedom, Crossing Press, 1988, pp. 35-44. F. Manchel, A Reel Witness: Steven Spielberg’s Representation of the Holocaust in Schindler’s List, in «The Journal of Modern History», 67, 1, 1995, pp. 83-100. P. Masciullo, Dossier Steven Spielberg 21/Raiders of the lost cinema: la tetralogia di Indiana Jones, in «PointBlank», 1 febbraio 2016. P. Masciullo, Road to Nowhere. Il cinema contemporaneo come laboratorio autoriflessivo, Roma, Bulzoni, 2017. A. Minuz, Trauma vs. Melodramma. “Schindler’s List”, “Shoah” e le politiche della memoria, in Id. La Shoah e la cultura visuale. Cinema, memoria, spazio pubblico, Roma, Bulzoni, 2010, pp. 145-170. A. Minuz, Graphic Spaces. Film Transitions in Steven Spielberg’s Filmmaking, in «Cinergie», 13, 2018. J. Monaco, The Whiz Kids, in Id., American Film Now: The People, the Power, the Money, the Movie, New York, New York University Press, 1979, pp. 139-184. T. Nachreiner, “Inspired by real events”: Media and Memory in Steven Spielberg’s Munich, in «Imaginations», 5, 2, 2014, p. 74. J. Naremore, Love and Death in A.I. Artificial Intelligence, in «Michigan Quarterly Review», 44, 2, 2005, pp. 256284. B. Nichols, The 10 Stations of Spielberg’s Passion: Saving Private Ryan, Amistad, Schindler’s List, in «Jump Cut», 43, 2000, pp. 9-11. A.S. Owen, Memory, War and American Identity: Saving Private Ryan as Cinematic Jeremiad, in «Critical Studies in Communication», 19, 3, settembre 2002, pp. 249-282. C. Pallant, S. Price, Constructing the Spielberg-Lucas-Coppola Cinema of Effects, in Iid., Storyboarding. A Critical History, London, Palgrave Macmillan, 2015, pp. 128-150. E. Perra, Politica, memoria, identità. La ricezione italiana di Holocaust e Schindler’s List, in A. Minuz, G. Vitiello, La Shoah nel cinema italiano, in «Cinema e storia», 2, 2013, pp. 49-67. A. Plaw, Film As Ethical Argument. Evaluating Munich’s Case Against Targeted Killing, in «Film and Philosophy», 11, 2007, pp. 121-138. C. Robinson, Indiana Jones, the Third World and American Foreign Policy: A Review Article, in «Race and Class», 16, 2, 1984, pp. 83-92. D. Robnik, Saving One Life: Spielberg’s Artificial Intelligence as Redemptive Memory of Things, in «Jump Cut»,

45, 2002. D. Rubey, The Jaws in the Mirror, in «Jump Cut», 10/11, 1976, pp. 20-23. J. Russell, Steven Spielberg, the Holocaust and Schindler’s List (1993); The Baby Boomers, Remembrance and Saving Private Ryan (1998), in Id., The Historical Epic and Contemporary Hollywood: from Dances with Wolves to Gladiator, New York, Continuum, 2007, pp. 77-105; 106-130. R. Schubart, Storytelling for a Nation: Spielberg, Memory, and the Narration of War, in K. Regent (a cura di), Politicotainment: Television’s Take on the Real, New York, Peter Lang, 2007, pp. 267-284. J. Staiger, The Significance of Steven Spielberg’s Old Mr. Lincoln: Political Emotions and Intertextual Knowledge, in «Jump Cut», 55, 2013. A.A. Stone, Hollywood and Holocaust. Schindler’s List, in Movies and the Moral Adventure of Life, Cambridge, The MIT Press, 2007, pp. 19-36. A. Stuart, The Color Purple: in Defence of Happy Endings, in L. Gamman, M. Marchment (a cura di), The Female Gaze: Women as Viewers of Popular Culture, London, The Women’s Press, 1988, pp. 60-75. J. Szaluta, Steven Spielberg’s Munich, a Film for Our Time: A Psychohistorical Perspective, in «Journal of Psychohistory», 43, 1, 2015, pp. 37-38. C.S. Tashiro, The Twilight Zone of Contemporary Hollywood Production, in «Cinema Journal», 41, 3, 2002, pp. 27-37. F.P. Tomasulo, Empire of the Gun: Steven Spielberg’s Saving Private Ryan and American Chauvinism, in J. Lewis (a cura di), The End of Cinema As We Know It: American Film in the Nineties, New York, New York University Press, 2001, pp. 115-130. R. Torry, Therapeutic Narrative: The Wild Bunch, Jaws and Vietnam, in «The Velvet Light Trap», 31, 1993, pp. 2738. J. Vest, Minority Report, in «Film & History: An Interdisciplinary Journal», 32, 2, 2002, pp. 108-109. G. Vitiello, Spielberg’s List. La Shoah e la questione dei generi, in Id., Il testimone immaginario. Auschwitz, il cinema e la cultura pop, Santamaria Capua Vetere, Ipermedium Libri, 2011, pp. 67-84. A. White, Toward a Theory of Spielberg History, in «Film Comment», marzo-aprile, 1994, pp. 51-56. N. Zemon Davis, Witnesses of Trauma: Amistad and Beloved, in Ead. Slaves on Screen: Film and Historical Vision, Toronto, Vintage Canada, 2000; tr. it. N. Pizzolato (a cura di), Testimoni di un trauma: Amistad e Beloved, in Ead., La storia al cinema. La schiavitù sullo schermo da Kubrick a Spielberg, Roma, Viella, 2007. INTERVISTE, TESTIMONIANZE E BIOGRAFIE (MONOGRAFIE E ARTICOLI) G. Adair, E.T. cetera, in «Sight and Sound», 52, 1, 1982/83. J. Alward, An Interview with Steven Spielberg, in «The Filmex Flash», settembre 1976. D. Ansen, Spielberg’s Obsession, in «Newsweek», 20 dicembre 1993. B. Askari, Jaws: Beyond Action, in «Creative Screenwriting», 3, 1, 1996, pp. 31-36. C. Auty, The Complete Spielberg?, in «Sight and Sound», 51, 4, 1982, pp. 275-279. B. Balaban, Close Encounters of the Third Kind Diary, New York, Paradise Press, 1978. B. Balaban, Spielberg, Truffaut & Me: An Actor’s Diary, London, Titan Books, 2002. J. Baxter, Steven Spielberg: The Unauthorised Biography, London, Harper Collins, 1996. E. Bell, A Dream Works Out for Spielberg at Last, in «Observer», 8 novembre 1998. L. Beyer, The Myths and Reality of Munich, in «Time», 12 dicembre, 2005, pp. 68-69. E. Blake, On Location on Martha’s Vineyard. The Making of the Movie Jaws, New York, Ballantine, 1975. D. Blum, Steven Spielberg and the Dread Hollywood Backlash, in «New York Magazine», 24 marzo 1986, pp. 5264. D. Breskin, Steven Spielberg. Rolling Stone Interview, in «Rolling Stone», 459, 24 ottobre 1985, pp. 22-24, 7076. D. Brode, The Films of Steven Spielberg, New York, Citadel Press, 1995. A.M. Busch, “Jurassic” is box-office king, licensing prince, in «The Hollywood Reporter», 31 maggio 1994. V. Caprara, Steven Spielberg, Roma, Gremese, 1996.

T. Carson, And the Leni Riefenstahl Award for Rabid Nationalism Goes to: Saving Private Ryan, in «Esquire», 131, 3 marzo 1999, pp. 70-75. M. Carzaniga, Il cinema civico morale di Spielberg, in «IL Magazine», 20 novembre 2015. C. Champlin, Spielberg’s escape from escapism, in «Los Angeles Times», 2 febbraio 1986, pp. 12-18. J. Charnay, D. Mirell, Ripping Response to Jaws, in «The Hollywood Reporter», 26 giugno, 1975. C. Cohen, Steven Spielberg, Paris, Cahiers du Cinema, 2007. E. Cohen, What Combat Does to Man: Private Ryan and its Critics, in «The National Interest», 54, 1998-1999, pp. 82-88. R. Combs, Primal Scream: An Interview with Steven Spielberg, in «Sight and Sound», 1977. R. Combs, Master Steven’s Search for the Sun, in «The Listener», 119, 3050, 18 febbraio 1988. R. Combs, Plastic People with Sex Appeal (su Jurassic Park), in «The Guardian», 5 agosto 1993. B. Cook, Close Encounters with Steven Spielberg, in «American Film», novembre 1977. R. Corliss, Steve’s Summer Magic, in «Time», 31 maggio 1982. D. Corn, A Post-9/11 Cautionary Tale? (su Munich), in «The Nation», 15 dicembre 2005. T. Crawley, The Steven Spielberg Story, London, Zomba Books, 1983. B. Davidson, Will 1941 Make Spielberg a Billion-Dollar Baby?, in «New York Times», 9 dicembre 1979. M. DiBattista, Saving Private Ryan, in «Rethinking History», 4, 2, 2000, pp. 223-228. C. DiOrio, A.I. Stirs Ad Men’s Angst: Even Crix Scuffle over Spielberg Souffle, in «Variety», 9, 9-15 luglio 2001. P. Duke, D’Works: What Lies Beneath?, in «Variety», 24 luglio 2000. P. Duke, C. Diorio, Dream Quirks: Biz Plan Seems Iffy, in «Variety», 26 luglio 2000. G. Dyer, On With the War (su Saving Private Ryan), in «The Guardian», 20 agosto 1998, pp. 6-7. R. Ebert, G. Siskel, The Future of the Movies: Interviews with Martin Scorsese, Steven Spielberg, and George Lucas, Kansas City, Andrews and McMeel, 1991. M. Ellison, Pentagon Award for Private Ryan, in «The Guardian», 12 agosto 1999. Empire - The Directors Collection, Steven Spielberg: The Life. The Films. The Amazing Stories, 2001. G. Erickson, M.E. Trainor, The Making of 1941, New York, Ballantine, 1980. S. Farber, M. Green, Outrageous Conduct: Art, Ego and the Twilight Zone Case, New York, Arbor House, 1988. M. Farrar, Zygmunt and Janina Bauman on Schindler’s List and The Holocaust for Beginners, in «Red Pepper», 2, luglio 1994, pp. 38-39. E. Favaron, M. Saraga, F. Tadolini, Bruce il terribile. Guida alla saga de Lo Squalo, Roma, EUS, 2016. G. Fiorini Rosa, M. Sesti (a cura di), Steven Spielberg, Roma, Dino Audino, 1994. I. Freer, The Feat of Steven: Empire’s Tribute to Steven Spielberg, in «Empire», 105, marzo 1998, pp. 96-112. L.D. Friedman, B. Notbohm, Steven Spielberg Interviews, Jackson, University of Mississippi Press, 2000. R. Gallacher, The Beginner’s Guide: Steven Spielberg, Director, in «Film Inquiry», 30 giugno 2016. R. Gilbey, Spielberg Chained to Mediocrity, in «The Independent», 27 febbraio 1998. R. Gilbey, It Don’t Worry Me: Nashville, Jaws, Star Wars and Beyond, London, Faber & Faber, 2004. M. Goodridge, DreamWorks, Universal Extended Distribution Pact, in «Screen International», 20 aprile 2001. C. Gottlieb, The Jaws Log: Expanded Edition (1975), New York, Newmarket Press, 2012. L. Grunwald, Steven Spielberg Gets Real, in «Life», dicembre 1993. A. Gumbel, How Spielberg’s D-Day Hit Movie Was Secretly Hyped, in «Independent on Sunday», 2 agosto 1998. P. Harris, Spielberg’s Take on Terrorism Outrages the Critics, in «Observer», 10 luglio 2005. M. Haskell, Steven Spielberg. A Life in Films, New Haven and London, Yale University Press, 2017. H. Havrilesky, Stop Blaming Jaws!, in «New York Times», 1 agosto 2013. E. Helmore, Saving Private Ryan… and Private Borgstrom… and Sergeant Niland, in «The Guardian», 7 luglio

1998, pp. 8-9. A. Hindes, ‘Antz Colony’ Cranks It Up: DreamWorks Becoming a Success, in «Variety», 19 ottobre 1998. C. Hitchens, Spielberg on the Blacks, in «The Spectator», 29 marzo 1986, pp. 11-12. L. Holson, Can Katzenberg Redeem DreamWorks?, in «The New York Times», 25 luglio 2005, pp. C1-C2. K. Jackson, Steven Spielberg: A Biography, Westport, Greenwood Publishing Group, 2007. D. Jacobs, Interview with Steven Spielberg, in «Millimeter», novembre 1977. B. Jagger, A. Warhol, Steven Spielberg, in «Interview», giugno 1982. M. Kakutani, The Two Faces of Spielberg - Horror vs. Hope, in «New York Time», 30 maggio 1982. J. Karp, Minority Report Inspires Technology Aimed at Military, in «Wall Street Journal», 12 aprile 2005, pp. B1B7. R. Lasagna, Manuale di sopravvivenza nel cinema di Spielberg, Salerno, Ripostes, 1994. R. Lasagna, I film di Steven Spielberg, Alessandria, Falsopiano, 2006. J. Lucerno, Indiana Jones. La vita, la storia e le avventure di un mito, Legnano, Edicart, 2008. S. Louvish, Witness (su Schindler’s List), in «Sight and Sound», 4, 3, marzo 1994, pp. 13-15. R. Lyman, E.T.’s Scarier Half-Brother (su A.I.), in «Observer», 1 luglio 2001. D.L. Mabery, Steven Spielberg, Minneapolis, Lerner Publishing, 1986. R. Magid, Jurassic Park: Making Effects History, in «Cinefantastique», 24, 5, dicembre 1993, pp. 54-58. J. McBride, Steven Spielberg: A Biography, I edizione: New York, Simon & Schuster, 1997, II edizione: Jackson, University Press of Mississippi, 2010. T. McCarthy, “Catch Me If You Can”, in «Daily Variety», 16 dicembre 2002, p. 6. D.R. Mott, C. McAllister Saunders, Steven Spielberg, Woodbridge, Twayne Publishers, 1986. G. Perry, Steven Spielberg: The Making of His Movies, London, Orion, 1998. J. Poniewozik, Review: Spielberg is a Close Encounter with Genius, in «New York Times», 5 ottobre 2017. C. Roux, Planet of the Drapes (su A.I.), in «The Guardian», 15-21 settembre 2001, pp. 4-7. S. Royal, Always: An Interview with Steven Spielberg, in «American Premiere», dicembre 1989. S. Royal, An Interview with Steven Spielberg, in «American Premiere», dicembre-gennaio 1993-1994. F. Sanello, Spielberg - The Man, the Movies, the Mythology (1996), Lanham, Taylor, 2002. R. Schickel, His “Prayer for Peace” (intervista a Steven Spielberg), in «Time», 12 dicembre 2005, pp. 70-71. D. Shay, J. Duncan, The Making of Jurassic Park, New York, Ballantine, 1993. J. Sheila, Beyond the Superbrat: An Interview with Steven Spielberg, in «The Independent», 23 marzo 1988. N. Sinyard, The Films of Steven Spielberg, London, Hamlyn, 1987. H. Skimpole, Article on Always critical reception, in «Sunday Telegraph», 1 aprile 1990. C. Somazzi, Steven Spielberg: Dreaming the Movies, E/K/S Group, s.l., 1994. S. Spielberg, Why I Had to Make this Film (su Schindler’s List), in «The Guardian», 16 dicembre 1993, pp. 2-3. M. Sragow, A Conversation with Steven Spielberg, in «Rolling Stone», 22 luglio 1984. G. Stewart, “Close Encounters of the Fourth Kind”, in «Sight and Sound», 47, 3, 1978, pp. 167-174. D. Taylor, The Making of Raiders of the Lost Ark, New York, Ballantine, 1981. P. Taylor, Steven Spielberg: The Man, His Movies and Their Meaning (1994), London, Batsford, 1999. J. Towlson, “Close Encounters of the Third Kind”, Leighton Buzzard, Auteur, 2016. D. Usborne, Spielberg Builds Huge Holocaust Database, in «The Independent on Sunday», 7 gennaio 1996. E. Vulliamy, Spielberg Weaves Cryptic Web in Cyberspace to Promote Movie, in «Observer», 6 maggio 2001. A. Yule, Steven Spielberg: Father to the Man, London, Little Brown, 1996. J. Ziesmer, Ready When You Are, Mr. Coppola, Mr. Spielberg, Mr. Crowe, Lanham, Scarecrow Press, 2003.

VIDEOESSAY SUL CINEMA DI STEVEN SPIELBERG S. Benedict, The Passions and Technique of Steven Spielberg, 2012, https://vimeo.com/… Every Frame a Painting, The Spielberg Oner, 2014, https://www.youtube.com/… K.B. Lee, The Spielberg Face, 2011, https://vimeo.com/… A. Minuz, Graphic spaces/Graphic matches, 2018, https://vimeo.com/… The Nerdwriter, See With Your Ears: Spielberg And Sound Design, 2018, https://www.youtube.com/… A. Papantoniou, Steven Spielberg Shot By Shot, 2015, https://vimeo.com/… K. Provencher, The Spielberg Touchscreen, 2017, https://vimeo.com/… M. Zoller, S. Santos, A. Aradillas, Magic and Light: The Films of Steven Spielberg - Father Figures Part 1, 2011, https://vimeo.com/… M. Zoller, S. Santos, A. Aradillas, Magic and Light: The Films of Steven Spielberg - Father Figures Part 2, 2011, https://vimeo.com/…