Stanley Kubrick. Ediz. illustrata 8880334174, 9788880334170

Stanley Kubrick (New York, 1928 - St. Alban's, Londra, 1999) per molti è il più grande regista mai esistito. Ogni s

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Stanley Kubrick. Ediz. illustrata
 8880334174, 9788880334170

Table of contents :
KUBRICK, PAURA E DESIDERIO
STANLEY KUBRICK
LO SPAZIO DELL’ODISSEA
1. IL CONTROLLO (NAPOLEONE)
2. I NOMI (IL SOGGETTO–SCIMMIA)
3. L’OCCHIO E L’ORECCHIO (LA CURA LUDOVICO)
4. SETTECENTO
IL TEMPO DELLO SPAZIO (WE’LL MEET AGAIN)
PIANI DI INVISIONE (ALL’ OVERLOOK HOTEL)
FULL METAL JACKET
FILMOGRAFIA
VIDEOGRAFIA

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Enrico Ghezzi si occupa di cinema, televisione, immagini passate, presenti e future (o meglio ne è occupato). Ha lavorato al palinsesto di Rai3 ed è autore di Blob, Fuori Orario, La Magnifica Ossessione e Schegge. Ha curato per Bompiani nel 1994 il numero della rivista «Panta» dedicato al cinema. Dirige il festival cinematografico di Taormina dal 1991. Come regista ha realizzato il cortometraggio Gelosi e tranquilli e molti o troppi programmi tv.

© Editrice Il Castoro s.r.l. Via Paisiello, 6 – 20131 Milano

INDICE

KUBRICK, PAURA E DESIDERIO STANLEY KUBRICK LO SPAZIO DELL’ODISSEA 1. IL CONTROLLO (NAPOLEONE) 2. I NOMI (IL SOGGETTO–SCIMMIA) 3. L’OCCHIO E L’ORECCHIO (LA CURA LUDOVICO) 4. SETTECENTO IL TEMPO DELLO SPAZIO (WE’LL MEET AGAIN) PIANI DI INVISIONE (ALL’ OVERLOOK HOTEL) FULL METAL JACKET FILMOGRAFIA VIDEOGRAFIA

KUBRICK, PAURA E DESIDERIO

APPRENDIMENTO E TECNICA. Non imparai assolutamente nulla a scuola. [I] Ho imparato molto di più vedendo film che leggendo pesanti tomi sull’estetica del cinema. La migliore educazione al fare film è fame uno. Consiglierei ogni aspirante regista di cercare di fare un film da solo. Uno short di tre minuti gli insegnerà molto. (Nei primi film) Feci di tutto, dal tenere i conti al doppiare il rumore dei pugni. Dite una qualsiasi cosa: io la feci. Fu un’esperienza inestimabile, acquistai una solida padronanza di tutti gli aspetti tecnici. Per Fear and Desire era la prima volta che usavo una cinepresa Mitchell 35mm. Andai alla Camera Equipment Company, al n. 1600 di Broadway e il proprietario spese un sabato pomeriggio a mostrarmi come funzionava. Fu tutto lì il mio apprendistato nell’uso della cinepresa. In quel periodo imparai anche il montaggio. Una volta che mi fu fatto vedere come si usa una moviola e un sincronizzatore e come si fa una giunta, non ebbi più problemi. I fondamenti tecnici del fare cinema non sono difficili. [F, I]. Mi è naturale interessarmi di qualunque cosa. Scavare a fondo in un soggetto, scoprendo fatti e dettagli, mi fa piacere e mi diverte. [L]

NOMI PREFERENZE INFLUENZE. Amavo moltissimo il cinema di Max Ophuls. Lo metto al primo posto: assommava in sé tutte le qualità. Aveva gran fiuto nello scovare buoni soggetti, dai quali traeva il massimo. Era poi un grande direttore di attori. Mi piacciono moltissimo i suoi inusuali movimenti di macchina che sembrano andare avanti all’infinito in scenari da labirinto. Il dispiegamento di questi grandi movimenti sembra più un magnifico balletto che qualsiasi altra cosa: uno snello cameriere cammina veloce con un vassoio di bibite sulla testa, guidando la m.d.p. fino a una coppia di ballerini che, a loro volta, la fanno piroettare su un ussaro che sale a cavallo le scale... e così via la camera vorrebbe andare, il tutto fino a formare una splendida “musica”. Due dei miei film preferiti sono i suoi Il piacere – che ho visto tante volte –e I gioielli di Madame De..., incantevole anche se su un soggetto più fragile. Vedendo Lola Montès restai invece deluso e depresso. È un film che gli somiglia così poco. Penso che sia dovuto ad altre persone, che l’hanno rovinato durante la produzione. [A, E, P]. Kazan è il migliore regista che abbiamo in America, ed è capace di trarre miracoli dagli attori. Ma l’autore che ammiro di più dopo Ophuls è certamente Bergman, di cui ho visto tutti i film. Amo enormemente Sorrisi di una notte d’estate. Mi piace molto Becker. Si dirà che fa film “minori”, ma Edouard et Caroline è una cosa incantevole; e la reputazione di “leggerezza” non gli ha impedito di fare un eccellente film drammatico, Casco d’oro, che ho visto molte volte. Di Fellini conosco solo (nel 1957, n.d.t.) La

Strada, ma mi è sufficiente per vedere in lui la personalità poetica più interessante del cinema italiano. (...) Mi piace abbastanza quel che fanno Stevens e Huston. Di Aldrich, è buono Il grande coltello, ma non tutti i suoi film mi piacciono. [A] Ricordo La kermesse héroique (di Feyder), con Louis Jouvet, come un film molto piacevole. [E]

CHAPLIN E EJZENSTEJN. Se qualcosa sta realmente accadendo sullo schermo, non è decisivo come sia ripresa. Chaplin aveva uno stile cinematografico semplice e quasi banale, ma si era sempre ipnotizzati da quel che stava succedendo, indipendentemente dallo stile poco filmico. Spesso usava set scadenti, illuminazioni standard e così via, ma ha fatto dei grandi film, che dureranno probabilmente più di quelli di chiunque altro. Si può dire che gli era niente stile e tutto contenuto, o – a seconda ai quanto siete generosi – poco contenuto. Molti dei suoi film sono in effetti un po’ stupidi e banali; ma sono fatti così bene, così brillantemente filmici che, malgrado il semplicismo pesantemente didascalico e propagandistico, diventano importanti. [N]. Chiunque si interessi alla regia dovrebbe studiare insieme, e comparare Chaplin e Eisenstein. Dovendo scegliere tra i due, personalmente preferirei Chaplin.

REGIA: PROGETTO E INTUIZIONE. Preferisco non sapere in precedenza come girerò una scena! Mi piace risolvere i problemi di un film strada facendo. Se realizzassi qualcosa che si trova già in un mio film precedente, tutto sarebbe scontato e non mi divertirei più. Pianifico e cerco di anticipare tutto, nei limiti dell’umano, prima di girare una sequenza, ma quando arriva il momento dell'azione il risultato è sempre diverso da quel che avevo immaginato. Capita che l’ambiente comunichi nuove idee, o che un attore abbia nel frattempo cambiato un aspetto della sua personalità, o che qualcosa finisca per non legare con ciò che della sequenza è già stato concepito. È qui che il film invariabilmente si trova in precario equilibrio, può nascere o abortire. I campioni di scacchi impiegano a volta per una sola mossa metà del tempo totale loro concesso, perché sanno che, se la mossa non è gusta, tutta la partita sarà compromessa. Allo stesso modo, bisogna dedicare quella che sembra un’eccessiva quantità di tempo a quello che io chiamo C.R.P. (Cruciai Rehearsal Period, periodo cruciale di prova). La scena dello stupro in Arancia meccanica, quando Alex canta Singin' in the Rain, era uno di quei momenti : ci vollero tre giorni per girarla. La fase di ripresa di una sequenza, la scelta delle inquadrature, etc., è relativamente semplice, una volta che si sappia come si girerà. Il problema, detto così, è che accada qualcosa che valga la pena di mettere in un film. [M, O]. Non c’è nulla di più assurdo che preparare già in fase di sceneggiatura tutta un’architettura visiva che in realtà non appartiene e non apparterrà alla scena,

che ne sarà limitata e intrappolata. Trovo più utile identificare prima gli elementi più “veri’’ e importanti ai fini della scena, quindi vedere se la si può rendere interessante visualmente con la fotografia. [C]. Cerco di avere un motivo per passare da un piano all’altro. Se una scena va bene da un certo angolo e non c'è motivo di cambiare inquadratura, allora non lo faccio. Quando poi cambierò, farà più effetto. [O]. Tutte le riprese con la camera a mano sono mie. A parte il divertimento di girare personalmente, è praticamente impossibile spiegare –anche al più abile e sensibile operatore –cosa si vuole esattamente in una ripresa a mano. [N]

ATTORI. Un’altra cosa che si ricorda dei film è il modo in cui un attore fa qualcosa: come Emil Jannings tirava fuori il fazzoletto e si soffiava il naso nell’Angelo Azzurro, o il lento meraviglioso girarsi di Nikolai Cerkassov in Ivan il Terribile. [N]. Gli attori sono strumenti per produrre emozioni. Per stabilire delle buone relazioni di lavoro, è importante che l’attore sappia che rispettate il suo talento tanto da volerlo nel film; e certo lo capisce, se è stato il regista a volerlo e non lo studio o la produzione. [F]. Scelgo sempre gli attori senza alcuna prevenzione, pensando al proprio ruolo, non viceversa; per questo cambio spesso da film a film. Cerco di avere i migliori attori disponibili al mondo, come per mettere insieme una splendida orchestra. [F]. Ma spesso il ruolo del regista nella direzione degli attori è sopravvalutato. Il suo compito è sapere quale situazione emozionale vuole che il personaggio porti nella scena o nella battuta, ed esercitare il suo gusto e la sua capacità di giudizio per aiutare l'attore a dare la migliore prestazione possibile. Ma non c'è modo ai dare a un attore ciò che il suo talento non possiede già. Il regista non è uno Svengali. Ha solo il compito di fornire all'attore delle idee, non di insegnargli come recitare o di ingannarlo. [E, F, N]

MONTAGGIO. Credo di amare soprattutto il montaggio. È la cosa più vicina all'idea di un “luogo" in cui fare del lavoro creativo. Il set di un film è forse il peggior posto che sia mai stato approntato, per fare un lavoro creativo. Le riprese sono la parte della realizzazione che amo di meno. Non mi piace tanto lavorare con molte persone. Non sono proprio un estroverso. [N, H]. E c'è il problema di doversi alzare prestissimo la mattina e andare a letto molto tardi la sera. Poi c’è il caos, la confusione, spesso il disagio fisico. Sarebbe come se uno scrittore tentasse di scrivere un libro lavorando al tornio in fabbrica. Oltre a ciò, il montaggio è il solo aspetto specifico della sola arte del film. In fase di montaggio, la mia identità si trasforma in quella di un montatore. Non mi interessa, a quel punto, quanto può essere stato difficile girare una certa cosa, quanto è costata, etc. Lavoro sette giorni alla settimana. All’inizio dieci ore al giorno e poi, avvicinandoci alle

scadenze fissate, di solito aumento fino a quattordici o sedici ore. Celiando, potrei dire che tutto quanto precede il montaggio è semplicemente un modo di produrre una pellicola da montare.

CINEMA MUSICA PITTURA PAROLE. La cosa migliore, in un film, è quando le immagini e la musica creano l’effetto. La lingua, quando è utilizzata, deve certo essere più intelligente e immaginosa che si può, ma mi interesserebbe molto fare un film senza parole. Si potrebbe immaginare un film dove le immagini e la musica fossero utilizzate in modo poetico o musicale, dove si avesse una serie di enunciati visuali impliciti piuttosto delle esplicite dichiarazioni verbali. Nessuno ha mai fatto un film importante dove questi aspetti unici dell’arte cinematografica siano il solo mezzo di comunicazione. Pure, le scene più forti, quelle di cui ci si ricorda, non sono mai scene in cui delle persone si parlano, ma quasi sempre scene di musica e immagini. [O] Oggi il cinema opera su un piano molto più vicino alla musica e alla pittura che alla parola scritta, i film hanno la capacità di convogliare concetti e astrazioni senza il tradizionale ricorso alla parola. [F]

SOGNOREALTA’. Quella di assistere a un film è un’esperienza più che altro onirica. [I]. Stranamore assomiglia più a un sogno che ad altro, e sarebbe stato un limitarsi il costringerci a fare del “documentario”. Dipende anche da che cosa si intende per documentario. Perché, volendo davvero girare qualcosa come un documentario, bisogna rispondere alla domanda: «Le persone nel film sanno che c’è una macchina da presa?», poiché non c'è mai stato un film in cui la gente non se ne rendesse conto. La cosa diventa complicata. Se c'è una scena di dialogo, le persone devono guardare la m.d.p. e parlare ad essa? Il cameraman deve comparire in scena? A esser “cattivi”, si deve esigere che in ogni documentario gli attori parlino all’operatore o gli dicano di andarsene, etc. (...) È meglio che la m.d.p. sia una specie di occhio magico. Nessuno sa come è arrivata lì, non ha importanza. [E]

CINEMA E VITA. Non ci sono prove che la violenza nei film o alla televisione provochi violenza sociale. Cercar di addossare ogni responsabilità all’arte come causa di vita mi sembra uno sviare il problema... ignorandone le cause principali. L’arte rimodella la vita ma non la crea, non la produce. E poi, attribuire grandi capacità di suggestione al cinema urta con l’esperienza scientificamente assodata che, anche dopo ipnosi profonda, in stato post–ipnotico, una persona non può essere spinta a fare cose in contrasto con la propria natura. Quindi, non accetto tale connessione casuale vita–cinema. Anche supponendo che ci fosse, direi che il tipo

di violenza che potrebbe causare un impulso imitativo è quello «divertente» : la violenza che vediamo nei film di James Bond o nei cartoons di Tom e Jerry. Violenza irrealistica, igienizzata, presentata in modo burlesco... ma son convinto che neanche questo ha davvero un effetto. Anzi, ci sarebbe quasi da appoggiare il ragionamento che, in effetti, qualsiasi violenza al cinema assolve a un utile fine sociale, permettendo alla gente di scaricarsi in modo sostitutivo delle emozioni e istinti aggressivi nascosti, che si esprimono meglio nei sogni o nello stato onirico di quando si assiste a un film, che in qualsiasi forma di realtà o di sublimazione. [N]

AMBIGUITÀ DEL SENSO. Odio che mi si chieda di spiegare come “funziona” il film, cosa avevo in mente, e così via. [H]. Dal momento che si muove su un livello non–verbale, l’ambiguità è inevitabile. Ma è l'ambiguità di ogni arte, di un bel pezzo musicale o di un dipinto. «Spiegarli» non ha senso, ha solo un superficiale significato «culturale» buono per i critici e gli insegnanti che devono guadagnarsi da vivere. [F]

ASTRATTO CONCRETO. (Stranamore). Il problema atomico è il solo in cui non c’è la possibilità che qualcuno apprenda qualcosa dall'esperienza. Il giorno che succedesse qualcosa, resterebbe tanto poco del mondo che conosciamo, che l’esperienza non servirebbe a nessuno. Per questo mi è parso un problema da trattare drammaticamente. [C]

DIO. Il concetto di Dio sta al cuore di 2001, ma non quello delle immagini tradizionali e antropomorfiche di Dio. Non credo in nessuna delle religioni monoteistiche terrestri, ma son sicuro che si potrebbe costruire un'affascinante e interessante definizione «scientifica» di Dio, se si accetta il fatto che ci sono circa 100 miliardi di stelle nella sola nostra galassia, che ogni stella può essere un Sole che dà vita e che esistono circa 100 miliardi di galassie nel solo universo visibile. Le qualità che potrebbero avere entità extraterrestri sviluppate fino all’incorporeità, sono molto simili a quelle che si usa attribuire a Dio. In ciò mi ha affascinato il soggetto. [F, D, E]

IL MONOLITO. Si discuteva sui mezzi per tradurre fotograficamente una creatura extraterrestre in modo che fosse sconvolgente come lo sarebbe stata «realmente». Presto fu chiaro che non si può immaginare l’inimmaginabile. Il massimo che si può fare è cercare di rappresentarlo in qualche modo artistico che comunichi

qualcuna delle sue qualità. Così decidemmo per il monolito nero, che ha certo in sé qualcosa dell’archetipo junghiano, ed è anche un simpatico esempio di «arte minimale». [F]

LA MACCHINA (E IL CASO). Il nostro amore per gli strumenti e le armi, siano un'automobile o una pistola, è innegabile. C’è un rapporto molto profondo tra noi e loro. C’è un'estetica della macchina, come un erotismo della macchina. Nell'industria spaziale americana l’aggettivo “sexy” fa ormai parte del gergo tecnico, per definire una bella macchina. L’uomo, in un futuro molto tecnicizzato, dovrà giungere a una maggiore disciplina e controllo di sé. Inversamente, la macchina, per cominciare con l’uomo e allargare il suo orizzonte, deve diventare più umana. La cosa è scientificamente prevista. Molti esperti in ordinatori elettronici pensano che le macchine, divenendo più complesse e perfezionate, saranno probabilmente soggette alle nostre stesse malattie e che potranno avere dei problemi «psicologici» [E, F, G]. L’abbiamo chiamato HAL per dargli un nome umano. In effetti, il suo nome è una sigla composta dalle iniziali dei termini che designano i due metodi di conoscenza e comunicazione: l’euristico e l’algoritmico. Un crittografo ha fatto notare che le lettere H, A, L, precedono rispettivamente I, B, M, (IBM). La probabilità statistica di un rapporto matematico tra queste sei lettere era di una su un milione. E non lo avevamo fatto apposta. [G]. Guardando a un lontano futuro, credo non sia inconcepibile lo sviluppo di una semi cosciente cultura di robot–computer che un giorno potrebbe decidere di non aver più bisogno dell’uomo. [D]

LA MORTE E LA BOMBA. Dato che sempre meno gente trova consolazione nella religione come in un cuscinetto tra sé e il momento finale, temo che inconsciamente si faccia strada una sorta di perverso conforto all’idea che in caso di conflitto nucleare il mondo morirà con noi. Dio è morto ma la bomba c’è ancora; così, le persone non sono sole nella terribile vulnerabilità della loro mortalità. – La morte è più naturale o inevitabile del vaiolo o della difterite. La genetica potrebbe giungere a un qualche modo di rigenerazione delle cellule. Sarei interessato all'ibernazione, se ci fossero facilitazioni e garanzie di sicurezza che oggi purtroppo non abbiamo. –Per me, l’unica vera immoralità è ciò che mette in pericolo la specie; il solo male assoluto, quello che minaccia di annientarla. Credo nelle potenzialità dell’uomo e nella sua capacità di progredire.

FINE (IRONIA). Sfortunatamente, il tasso di mortalità infantile tra le civiltà emergenti e nell’universo potrebbe essere molto alto. Non che la cosa possa preoccupare o

disturbare altri che noi, la distruzione di questo pianeta sarebbe insignificante, in prospettiva cosmica: per un osservatore sito nella nebulosa di Andromeda, il segno della nostra estinzione non sarebbe più appariscente di un fiammifero che si accende per un secondo nel cielo; se quel fiammifero fiammeggerà nel buio, non ci sarà nessuno a piangere una razza che usò il potere che avrebbe potuto mandare un segnale di luce verso le stelle per illuminare la sua pira di morte. [D]

Le dichiarazioni di K. son tratte dalle seguenti fonti: R. Haine, «Cahiers du Cinéma», n. 73, 1957 (A); S.K., Words and Movies, «Sight and Sound», n. 1,1961 (riprodotto in «Cinéma 61», n. 58) (B); S.K., How I leamed to Stop Worrying and love the Cinema, «Films and Filming», giugno 1963 (riprodotto in «Cinéma 64», n. 85), (C); E. Norden, «Playboy», sett. 1968 (D); R. Walter, «Positif», n. 100/101, die. 1968 (riprodotta in: «Nuestro Cine», n. 81,1969; «Kosmorama», n. 92, 1969) (E); J. Gelmins, The Film Director as Superstar, Doubleday, New York 1970 (Penguin Books 1974) (F); Y. Romi, «Midi–Minuit Fantastique», n. 22, estate 1970 (da «Le Nouvel Observateur») (G); «Time», 20/12/71 (H); «Newsweek», 3/1/72 (I); «Time», 15/12/75 (L); P. Houston, «The Times», 8/1/72 (M); P. Houston e J. Strick, «Sight and Sound», primavera 1972 (N); M. Ciment, «Positif», n. 139, 1972 (O); A Walker, S. K. Directs, New York, Harcourt Brace Jovanovich 1971 (ed. inglese Abacus 1973) (P). (Consultabili inoltre: F. Russo, «La Fiera del Cinema», n. 1, 1961; M. Rapf, «Action», VI, genn. –febbr. 1969; H. Alpert, «Saturday Review», 25/12/71; G. Phillips, «Film Comment», VII n. 4, inv. 1971/72; M. Ciment, «L’Express», 17/4/72; M. Ciment, «Express», 30/8/76; infine è stata pubblicata sul «New York Times» del 27/2/72 una lettera di K. in risposta alle accuse di «fascismo» per Arancia meccanica). Ricordiamo che le lettere maiuscole usate qui per indicare le fonti saranno usate anche nel corso del saggio.

STANLEY KUBRICK a Nuvola (Gialla)

«Tutti gli uomini sono protesi per natura alla conoscenza: ne è un segno evidente la gioia che essi provano per le sensazioni, giacché queste, anche se si metta da parte l'utilità che ne deriva, sono amate di per sé, e più di tutte le altre è amata quella che si esercita mediante gli occhi. Infatti noi preferiamo, per così dire, la vista a tutte le altre sensazioni, non solo quando miriamo ad uno scopo pratico, ma anche quando non intendiamo compiere alcuna azione. E il motivo sta nel fatto che questa sensazione, più di ogni altra, ci fa acquistare conoscenza e ci presenta con immediatezza una molteplicità di differenze.» Aristotele

«Così tu sei per me che debbo, simile all’altro piede, obliquamente correre: la tua fermezza chiude giustamente il mio cerchio e al mio principio mi riporta sempre.» John Donne

«Nessuno aveva mai definito poeta un landscape–gardener. » Edgar Allan Poe

Il 1968 fu un anno memorabile. Il primo Giro vinto da Eddy Merckx, Beamon che a Città del Messico salta 8,90 in lungo, il Maggio, Praga. Inoltre, esce 2001: Odissea nello spazio ; l’autore, Stanley Kubrick, ha quarant'anni (è nato il 26 luglio del 1928 a New York, quartiere del Bronx). Oggi verrebbe voglia di proiettare tutta l’opera di Kubrick nello spazio di tempo (passato – presente – futuro) che intercorre tra il 1968 e il 2001. In effetti, 2001 è il film che segnala definitivamente al pubblico internazionale un autore già stimato dalla critica (specie per Orizzonti di gloria) e già «famoso» per il precedente di Stranamore. In più, questo film che si comincia a proiettare in un anno di rottura come il ’68, è considerato dallo stesso K. un salto decisivo nella sua carriera. Ma la tentazione di cominciare un lavoro su K. da 2001 deriva

piuttosto dalla capacità che esso ha di porsi come segno principale dell'opera tutta del regista, e di sembrar contenere il suo cinema precedente e quello posteriore; del resto, il film compie un’operazione simile anche nei confronti di tutta la storia del cinema. Non è quindi un centro artificiale quello che andiamo cercando in 2001, ma se mai mètatesto, un testo che «parli» anche degli altri film di Kubrick. Il che non è più artificioso del tipico procedimento che seguendo l’itinerario cronologico costruisce finalisticamente un comodo progredire della storia di un autore riversando sui suoi film e sulla sua vita dati che solo lo stato presente di morte–vita ci dispone ordinati. Tale procedimento, con K., si risolverebbe in una ripetizione di affermazioni simili e in un continuo ribadirsi di costanti a proposito di film ben diversi, e l’unica via per esporre le differenze sarebbe poi la minuziosa descrizione di ogni singolo film (il che va escluso per mancanza di spazio). Nonostante la flagrante condizione di autore, K. pone infatti gli stessi problemi cui accennava Casetti nel «Castoro» su Bertolucci: ogni film un progetto diverso, «non una battuta ripetuta». Di più: per complicare la situazione (o per chiarirla), K. parte, nella costruzione dei film, da soggetti altrui, romanzi, racconti. Il fatto, ripetendosi costantemente, pare trasgredire le regole dell’autore di tipo europeo (se si eccettua il caso di Resnais, infatti l’autore europeo che più proficuamente –anche per il lavoro sulla musica e il discorso sulla Storia – si potrebbe paragonare a K.) ma lega d’altra parte K. alla vitalissima tradizione degli autori americani (da Hawks a A. Mann, da Ford a Minelli a Ray), spesso all’opera su un insieme di «cose altrui» (soggetto, sceneggiatura, scenografia, fotografia e tutti gli eccetera legati alla divisione del lavoro nelle case di produzione), eppure chiariti in quanto tali – in primis dal geniale Bazin –per le qualità della loro regia filmica. Anche di fronte al modello (europeissimo) dell’autore americano K. è però fortemente atipico. Per quanto dubbia, ideologica e ormai arretrata sia infatti la nozione di autore (cinematografico), essa si basa fondamentalmente sulla possibilità di reperire, all’interno del corpus di opere di uno stesso regista, gli elementi di un sistema o le tracce di un progetto. La convenzione richiede insomma (per entrare a far parte della scelta o trista accademia) che vi sia almeno un’organizzazione tipica di segni che si rinnovi di film in film, oppure che nel susseguirsi delle opere si delinei un complessivo disegno artistico e ideologico: possibilmente ambedue le cose. Si danno casi in cui il sistema esaurisce e sublima il progetto (Lang, in cui ogni inquadratura riproduce tutto il sistema, per cui non vi è evoluzione apparente del progetto) o viceversa Godard, il cui progetto – la provocazione e l’anticonformismo linguistico, l’irrisione politica – si fa rapidamente sistema), ma lo status di autore è comunque legato a questi due concetti, col predominio – volendo generalizzare brutalmente – della nozione di progetto nel cinema «colto» europeo e del sistema in quello americano. Non è quindi facilmente inquadrabile un K., per il quale si potrebbe a ragione parlare di progetti e sistemi diversi ad ogni film che dirige. Perciò, 2001 sarà l’indice di tutto il cinema kubrickiano, permettendoci almeno in parte di sfuggire alla (non difficile) ricerca di analogie spicciole, per puntare se mai l’attenzione sui rapporti e contrasti tra Storia e storie, fra struttura e strutture.

LO SPAZIO DELL’ODISSEA

2001 : Odissea nello spazio ci ripropone proprio la figura dell’itinerario. È anzi il primo film (poi: Barry Lyndon) in cui K. si basi interamente su questa figura, il primo che tramite essa affronti in qualche modo la Storia. Già il titolo, con scelta precisa, incorpora il più famoso e classico degli itinerari nella storia della civiltà: l’Odissea. E i quasi quattro anni di lavorazione (un anno per la preparazione del soggetto, sei mesi per l’organizzazione del film, cinque mesi di riprese con gli attori, un anno e mezzo di lavoro per gli effetti speciali) costituiscono in sé una piccola odissea. Sulla base di un racconto di A.C. Clarke in cui si immaginava un segnale–sentinella posto da entità extraterrestri sulla luna per essere informate dell’eventuale arrivo dell’uomo sul satellite, K. e Clarke stesero insieme un soggetto molto più ampio. L’alba dell’uomo. Il mondo all’epoca del Pleistocene: su un territorio semidesertico, gruppi di scimmie conducono una vita assai contrastata, in eterna combutta con altri animali nella lotta per il cibo, esposti notte e giorno all’insidia delle fiere. Un sibilo le scuote e le terrorizza; sembra provenire da uno strano monolito, parallelepipedo scuro e regolarissimo che nella notte spunta dal terreno. Poco dopo, nel corso della zuffa continua con altre «tribù» e nel tentativo di uscire da uno stato di aggravata carestia, una scimmia, tramite un rudimentale processo intellettivo, si serve come arma – come prima leva – dell’osso di un animale ucciso. L’osso con un grido di trionfo viene lanciato in aria, e si trasforma in un’astronave (che volteggia nello spazio, siamo nel 2000). Essa, facendo scalo su una stazione orbitale, sta trasportando a Clavius – base americana presso un cratere lunare – il dottor Floyd. L’astronave è dotata di ogni comfort, ci sono hostess servizievoli che la percorrono mediante scarpette da antigravità. Sulla stazione lo scienziato americano incontra colleghi russi con cui è in cordiale amicizia. È evasivo però quando gli viene chiesto perché Clavius si è chiusa in quarantena (c’è forse un’epidemia?). Giunto a Clavius, siamo informati del rinvenimento del monolito solito all’interno di un cratere; lo si è trovato scavando, incuriositi da anomalie nei dati sul magnetismo e la radioattività nella zona. È la prima volta che l’uomo incontra la prova dell’esistenza di una civiltà extraterrestre, perché il monolito (perfetto, levigatissimo, impossibile a scalfirsi) non può essere una formazione «naturale». E mentre il gruppo di tecnici e scienziati si mette in posa di fronte ad esso per la fotografia di rito, di nuovo il sibilo violentissimo, di nuovo la congiunzione solare. Ancora un taglio e siamo di nuovo nello spazio. Diciotto mesi dopo : in missione verso Giove. L’astronave «Discovery» scivola verso il pianeta gigante. Da Giove infatti provengono le radiazioni

fortissime (il sibilo) riscontrate sulla Luna, e la nave va verso quella che sembra essere più una meta in sé che l'emittente di un preciso messaggio. In effetti solo il perfetto HAL 9000, il calcolatore che vede parla e pensa, è «informato» su ciò, sullo scopo della missione. Egli guida e aiuta in tutto (quando non li sostituisce) i due astronauti Frank Poole e David Bowman, sorveglia le funzioni vitali dei tre scienziati ibernati al seguito della spedizione. Ed è lui che sembra non fidarsi degli uomini, è lui che ha dei dubbi sul viaggio intrapreso. Provoca i due astronauti con un (falso) errore, prepara un trabocchetto nel quale perde la vita Poole, il cui corpo si allontana per sempre nello spazio. Le funzioni degli ibernati vengono interrotte. Bowman a stento si salva, e procede alla disattivazione di HAL che reagisce alla «morte» in modo «umano» e straziante, con suppliche e lamenti e canzoncine ricordi di «infanzia». L’uomo procede da solo. Giove e oltre l'infinito. A questo punto è l’occhio di Bowman (e il nostro insieme) che diviene protagonista dell’avventura, passando attraverso un fluire spazio–temporale di immagini e visioni (trucchi fotografici) che rompe continuamente con le dimensioni precedenti, e con la precedente unità figurativa. Infine, quando l’occhio può riposarsi, l’astronauta si trova in una stanza settecentesca rococò. I rumori sono amplificati, il volto e la figura dell’uomo mutano, l’astronave scompare, resta questa stanza che può essere la dimora di Luigi XVI come una camera d’albergo: in essa, attraverso poche inquadrature, Bowman passa dalla maturità alla vecchiaia all’agonia. Sta morendo, di fronte a lui si erge ancora una volta il monolito. Si forma il feto astrale, come attraverso una bolla di sapone ne scorgiamo i lineamenti incerti di neonato, lo vediamo guardare verso la sfera terrestre, poi di nuovo lo abbiamo in primo piano: guarda verso di noi ma è sfocato misterioso quasi pauroso. E l’ultima immagine del film.

Anche stando alla trama, risulta evidente un’ironia di fondo, lo scetticismo nei confronti dell’itinerario e del progetto proprio mentre se ne mostra il dipanarsi. Il tragitto della «Discovery» (scoperta), determinato e controllato da una scienza terrestre avanzatissima, non differisce molto da quello dell’osso scagliato dalla scimmia; anch’esso è evidentemente programmato da «altri» e poi indirizzato e provocato dal monolito. E quanto al progetto esclusivamente umano, la missione «Discovery» lo conduce quasi al suicidio: perché la «scoperta» avvenga, l’impresa deve in qualche modo «fallire» (la morte di Hal e degli altri), e il progetto si compie solo in quanto arriva il «non–progettato», al salto. Pur senza intenzione metaforica, il progetto provocato, condizionato e poi «distrutto» dal monolito è la metafora del cinema di K. Rischiando di apparire paradossali nei confronti di un regista che appare razionalissimo in ogni film, diremmo che l'apparente «assenza di progetto» e i salti nella parabola di K. cineasta sono come le successive manifestazioni di un «monolito». Non confessa il cartesianissimo Descartes, terrorizzato dalla possibilità di non riuscire a distinguere il sogno dalla veglia, di avere avuto in sogno la prima idea del suo metodo scientifico? Spesso il

«monolito» di K. è un informazione televisiva, un articolo guardato per caso, una conversazione, una passione, un libro. Un aspetto tipico del lavoro di K. è appunto rappresentato «da» (e non «in») 2001. La particolare attenzione alla narrazione («il vero eroe del film è la storia che vi si racconta» [F]), che potrebbe essere uno dei punti di partenza nell’analisi dell’intera opera kubrickiana, è ciò che invece provoca gli equivoci maggiori. Per 2001 K. ha parlato, più che di fantascienza (SF), di «storia mitica», «documentario mitologico», etc, ed è nota la sua passione fin da piccolo per fiabe (i Grimm) e storie mitologiche europee (dai miti greci ai cicli nibelungici). Ecco, infatti. La fiaba: Il bacio dell’assassino, Lolita . Il mito: Lolita di nuovo (se ancor più dell’aspetto fiabesco contava nel romanzo il piccolo mito – sgretolato infine nella fiction e ridotto a puro delirio letterario – della ninfetta), 2001. L’apologo: Fear and Desire, Orizzonti di gloria, Arancia meccanica. La satira: Il dottor Stranamore. Infine la cronaca «storica»: Spartacus e in parte Barry Lyndon. Uno o più di questi moduli narrativi stanno sempre alla base del suo lavoro filmico. Ciò ha generato l’equivoco del K. narratore all’interno di un cinema tutto sommato abbastanza classico. E l’uso di un sostrato letterario non suo ne diminuirebbe l’originalità, mentre ad una più attenta analisi si rivela essere l’elemento che ne fa un «cineasta totale» nel senso più pieno e moderno. Basta pensare all’impiego della parola «documentario», o al fatto che i tipi di narrazione elencati sono tutti più o meno «strumentali» già nel loro normale uso sociale. Se la scelta iniziale e l’apprezzamento di un testo sono dovuti a fattori ancora romantici, o inspiegabili («Ho sempre trovato che è un processo accidentale, che non può mai svolgersi a mente fredda») come il sentirsi innamorato, K. raffredda subito l’idea–narrazione, compie su di essa un’operazione logico–scientifica. Come l’uso di un attore, l’assunzione di una storia altrui è una mediazione nei confronti del reale, o meglio l’approccio a una realtà extrafilmica che è già mediata e non assunta fideisticamente come «il reale». A sfatare ipotesi di ingenuità di K. a questo riguardo, si ricordi che egli conosce e ammira, p. es., il lavoro pur datato di E. M. Forster (Aspetti del romanzo). «Forse è triste, ma è obbligatorio constatarlo: un romanzo deve raccontare una storia». La coscienza che ha della profonda artificialità di una storia ben congegnata («La trama di Arancia meccanica ha più del racconto di fate o della mitologia che dei racconti di tipo realista. In un’opera realista non si poteva avere questa simmetria di situazioni all’inizio e alla fine della storia») è sufficiente a incrinare anche la sbrigativa definizione di «realista» che gli è stata destinata in passato, specie in relazione a Rapina a mano armata o a Orizzonti di gloria. Del resto i racconti prediletti da K. sono tutt’altro che «realisti». Fino ad oggi l’unica forma narrativa su cui non si è esercitato è il romanzo borghese ottocentesco più o meno «realista» in senso lukàcsiano, il che è ribadito dalla scelta ironica di Barry Lyndon, romanzo ottocentesco e vittoriano che cerca di essere settecentesco. Nella pratica della realizzazione filmica tutto questo si traduce, dopo il fervore della «magica» scoperta, in una freddezza e distanza dal racconto che (pur avendo compiti particolari e fondanti) è utilizzato allo stesso modo di una scenografia o di un’illuminazione o di un’aria musicale o

del gioco recitativo, cioè come (primario certo) elemento di comunicazione e non come «ciò che è da comunicare». K. non si mette al servizio di una storia né si abbandona al piacere di raccontarla, e in tal modo si distacca radicalmente dalla tradizione del cinema americano. Per lui il racconto è solo un primo «schermo» sul quale proiettare il film vero e proprio, e intero;non un mezzo per veicolare un messaggio ma se mai per veicolare l’intero film (che è il messaggio). Ciò va sottolineato perché il K. che dice [F] «cosa può valere un film il cui soggetto è idiota e in cui gli attori sono scarsi?» (a proposito di Il bacio dell’assassino) è lo stesso che sogna il film muto fatto solo di immagini e musica, un film underground ma visibile e comprensibile da molti. La modernità di K., in questo più avanzato di Autori europei come lo stesso colto e ambizioso Bertolucci, risiede proprio nel rifiuto di essere «soggetto produttore di storie», dopo aver già rifiutato di essere «narratore» o confezionatore o servitore di storie (così gli «amori» di K. son repentini e diversi, mentre p. es. Losey da anni si avvicina alla Recherche proustiana e la farà infine magari devotamente la reinventerà – essendo l’autore del geniale Mr. Klein –, ma si tratterà per forza della paura di fronte alla cosa amata, o del rapporto servo–padrone, ecc.). L’ambiguità di K. deriva quindi dalla chiarezza con cui si pone in questa terra di nessuno che è l’utopia di un «cinema solo cinema» di cui per mancanza di oggetti e di segni di riconoscimento si stenta a definire il progetto. Al fondo c’è il mito di una «regia assoluta» molto simile a una pura struttura intellettiva o anche intellettualistica (alla Eisenstein; e K. cerca di esorcizzare il suo «lato Eisenstein» con le robuste storie che rappresenterebbero il «lato Chaplin» – cfr. intervista), ma c’è anche la percezione e la profezia di un cinema tutto «da fare». Si capisce allora che proprio i cinèfili abbiano manifestato spesso incomprensione o avversione per un regista che li priva degli oggetti del loro affetto; si comprende come Godard, cinèfilo critico e già regista acuto, attaccasse ancora nel 1963 K., non riuscendo a capirne il modo totale e (quindi) astratto di essere cinéphile. «S. K. – Ha debuttato nel tape–à–l’oeil copiando freddamente i carrelli di Ophuls e la violenza di Aldrich. Poi si è fatto imbalsamare nel commercio intellettuale seguendo gli orizzonti della gloria di un altro K., un altro Stanley più anziano di lui ma la cui pesante sincerità finirà almeno per trionfare a Norimberga (Kramer, Vincitori e vinti, n.d.t.) mentre l’agile «matuvuisme» di Stanley junior cadrà sotto lo spirito goffo di Spartacus senza arrivare a fare il cartoon desiderato. Lolita autorizzava dunque il peggior pessimismo. Sorpresa: è un film semplice e lucido, che mostra l'America e il suo sesso meglio di Melville e Reichenbach, e prova che K. non deve abbandonare il cinema sia la settima arte»; («Cahiers du Cinéma», n. 150–151). L’onesta e intollerante cinefilia, che da sempre guarda con giusto sospetto letterarietà e artisticità «volute» al cinema, crede dal canto suo di aver scoperto il cinema per sempre (e in gran parte lo ha fatto, con Godard, Chabrol, Truffaut, Rohmer e Rivette) in un’essenza di piccoli gesti inutili e deliranti, di tenerezze e

crudeltà, di movimenti di macchina come frasi d’amore, oppure di storie bellissime raccontate mille volte nell’incantevole astrattezza (spesso scambiata anch’essa per «robusto realismo») irrealistica degli studios americani. Il suo errore è quello di credere – avversando con mille ragioni il «cinema puro» delle false avanguardie – di aver trovato la vera purezza del cinema, magari immune da ogni letterarietà, mentre sarebbe abbastanza facile e interessante una ricerca sulle evidenti basi culturali non solo cinematografiche ma proprio «letterarie» (Cocteau, per es.) di tanta nouvelle vague e di tanto cinema da essa amato. Comunque è evidente come, ancora digiuni di straniamenti brechtiani et similia, alcuni possano essere che esistono». 2001 è l’esempio più lucido ed estremo (Barry Lyndon a parte) del rapporto tra K. e la narrazione. Scimmie. Poi personaggi esclusivamente funzionali che sarebbe troppo facile definire «inesistenti» (i tre attori principali sono quasi inespressivi, come volti visti in mille occasioni nei film dei marines; e K. : «Penso che sia stato vantaggioso utilizzare attori che non erano conosciuti. Ciò mantiene l’equilibrio del film. Se l’attore che interpreta il dr. Floyd fosse stato una star, tutti si sarebbero aspettati una sua ricomparsa nella storia» [F]). Infine Hal 9000, un calcolatore che lui sì sembra un personaggio; e lo spazio del tutto inventato, ancora lontano dalla nostra esperienza. La storia (il «mito») si dimostra per nulla classica quando ci si accorge che non esiste un preciso soggetto dell’itinerario o un protagonista di tutta l’avventura (come storia anzi sarebbe perfettamente incomprensibile se non fosse per la geniale invenzione del «segno puro», il monolito recipiente vuoto di ogni possibile soggetto). Dicendo «storia non classica» si intende d’altra parte rendere la sua «non romanticità» appunto per l’assenza di individualità definite e agenti), dato che nella nostra cultura l’idea di narrazione è invincibilmente legata al romanzo ottocentesco. Una volta scelto il mito come forma di 2001, è la sua struttura nuda che si afferma. Un mito impersonale e addirittura pre–classico, che non ha bisogno di personaggi né di rito (mentre il «mito» per l’antropologia è ciò che si riflette e tramanda nel «rito», il mito di 2001 è già rito), perché è l’astrattezza del mito e il mito dell’astrattezza (si passi il gioco di parole, se sembra tale) dell’intelletto. L’intelletto per i miti e la mitologia non è infatti nuovo nella SF letteraria contemporanea (penso in particolare a Farmer e Delany), ma si risolve di solito in utilizzazione e gioco spesso affascinante e sottilissimo di personaggi e storie e saghe; mentre al cinema lo stesso Zardoz di Boorman, per quanto mirabilmente ironico, vive del mito per rifondarlo in fine. Se quindi il mito è lo sfondo comune di molta fantascienza moderna, K. è l’unico a costruire e smontare il mito suo e nostro. Torniamo al paradosso di K., cioè alla chiarezza con cui egli enuncia un significato ambiguo, all’esattezza con cui un significante senza significati (il monolito) diviene il segno e il senso più chiaro di un film e di un’opera. Ma se K. respinge l’idea (contenuta in uno dei primi trattamenti) di dare una chiara connotazione didattica al monolito affidandogli la funzione di monitor che si

mostra e trasmette immagini atte a provocare l’evoluzione della scimmia–uomo, il nostro lavoro è proprio quello di scoprire (inventare?) immagini su quelle superfici liscie, le «immagini» (libri avvenimenti persone pulsioni) che hanno determinato i mutamenti nell’evoluzione dell’opera di K. Vediamo lo spazio dell’odissea di K., lo spazio del cinema americano, il più potente e diffuso nel mondo. Mentre Stanley si appassiona alle fiabe e agli Argonauti, il padre (medico, ebreo, di madre rumena e padre polacco dell’Impero austro–ungarico) gli regala a tredici anni una macchina fotografica. Nel 1942 la rivista «Look» gli pubblica una foto che ritrae una fila di auto in coda per la benzina razionata (c’è la guerra). K. vende poi altre foto a «Look» (celebre quella – «Positif», n. 100 – «di un venditore di giornali dal volto serio, circondato dai titoloni che annunciano la morte di Rooselvelt»), e un intero réportage sul suo professore di inglese, l’unico che gli è simpatico, per le sue rappresentazioni Shakespeariane in cui interpreta da solo tutti ruoli (chi si vuol sbizzarrire in «premonizioni», pensi al travestitismo di Sellers in Lolita e Stranamore, alle maschere di Streling Hayden e di Malcom McDowell, al trucco O’Neal–Magee in Barry Lyndony alla passione con cui K. ideerà trucco e maschera per le scimmie di 2001). Agisce già in lui la fascinazione della macchina e del meccanismo («C’è un piacere tattile, quasi sensuale, in un bel pezzo di apparecchiatura fotografica» [L]. Viene in mente lo stupito entusiasmo di Orson Welles di fronte al «giocattolo» messogli a disposizione per Quarto Potere), che ritroveremo identica nel suo interesse di sempre per le tecniche più nuove e perfezionate, e ancor più dell’operazione e del procedimento tecnico («ma erano gli ingrandimenti delle foto che scattavo ad affascinarmi veramente e mandarmi su di giri» [L]). Quando si diploma, con una valutazione appena sufficiente, non trova difficoltà nell’avere diciassettenne un posto di aiuto–fotografo proprio a «Look». Anche se in quattro anni diventa un fotografo brillante e stimatissimo, è solo la sua preistoria. Tuttavia, dopo le fiabe e le novelle, sono già molte le immagini e le cose che lo impressionano. Ripetuti suoi futuri atteggiamenti di distacco si spiegano, p. es. con la fondamentale esperienza della guerra (K. non partecipò alla guerra, ma proprio l’averla vissuta tramite le mediazioni dell’informazione –radio, giornali – gli darà la capacità di percepire il fascino, il pericolo e la sostanza di tali meditazioni che allargano l’evento rendendolo insieme più «freddo»: capacità che manca nei tanti registi americani che hanno fatto la guerra e magari poi anche la televisione, e in quelli della generazione appena precedente). Colpito da tale «esperienza» K. lo è di certo, se anche oggi riceve enormi quantità di notizie e informazioni tutte dall’estero mediante i mezzi di comunicazione più disparati (radio, televisione, telex, telefono, il terminale di un computer). Poiché il suo spazio sarà il cinema, sono importanti anche i film che vede: tutto il cinema USA anni 30 e 40 al ritmo di otto film alla settimana nei cinema delle catene RKO e Loew, e il cinema europeo al Museum of Modern Arts, gli Ophuls e i Lang che tanto lo impressionano. Insomma, un cinèfilo anche lui, ma di tipo particolare, se confesserà di essere stato spinto a fare del cinema «per pura ambizione» e non dal desiderio di imitare i bei

film. Aveva anzi la coscienza che quasi tutti quelli che vedeva erano «bad films», brutti film, per cui non doveva essere difficile fare di meglio. Insomma, un cinéphile che non parte dall’amore (come più tardi i francesi), che non si prostra di fronte ai suoi amori, che vuol fare, non rifare o «fare su...». Gli amori sono altri: gli scacchi (gioca dall’età di dieci anni, e si guadagna qualche soldo giocando con gli scacchisti bari del Greenwich Village nei club o sulle panchine del Park) e il jazz (quando si dedica al lavoro per «Look» è già un buon batterista). Alla passione per gli scacchi si è fatta risalire – con comodo rapporto di casualità – il gesto per l’intrico matematicamente perfetto e per la costruzione logica dei film. In effetti lo stesso K. ha sottolineato la somiglianza tra le mosse dello scacchista e le decisioni che il regista deve prendere, e gli scacchi sono più volte presenti nei suoi film, dall’affettuosa citazione di Rapina a mano armata al disegno sul pavimento del salone in cui si svolge il processo di Orizzonti di gloria (anche Nabokov è appassionato scacchista, come l'Humbert Humbert di Lolita: «Uno dei quadrati della piccola finestra a battenti coperta di ragnatele, alla curva della scala, era verniciato di rosso rubino, e in quell’aperta ferita tra gli altri quadratini trasparenti e la sua posizione asimmetrica – la mossa di un cavallo dall’alto – mi turbavano sempre in modo assai strano...». E Dumont e Monod, nel loro studio su 2001, hanno visto l’ultima sequenza come una partita a scacchi; del resto, Hal si divertiva a dar matto a Frank Poole). Tuttavia, un’insistenza sul parallelo scacchi–cinema, pur potendo dar luogo ad analisi piacevoli e interessanti, sarebbe fuori luogo. E molto più utile sottolineare come un unico interesse per le strutture logiche accomuni in K. la pratica del cinema e il gioco degli scacchi. Ancora più importante è il fatto musicale, nel quale K. significativamente entra attraverso la batteria, strumento eminentemente ritmico e solitamente ritenuto poco creativo (strumento tipicamente jazz, usato per costruire il «tempo»: ed è il fascino della costruzione temporale che troveremo nei film di K. e nella loro musica, dal ritmo lacerato del Bacio dell’assassino a quello disteso di Barry Lyndon, passando per le molteplici variazioni di Arancia meccanica. Esagerando si potrebbe dire che la stessa carriera di K. sembra avere (o cercare) un suo ritmo particolare, sempre più disteso e dilatato: una «rullata» che rallenta man mano la frequenza del battito, prima sette film in dieci anni, poi tre in dodici, quasi un processo entropico. In ogni caso, dieci film in ventitré anni non sono molti. E non sono molte le mosse di una partita a scacchi quelle che K. ci invita a seguire, ma una serie di problemi scacchistici, situazioni successive di un gioco del quale anche conoscendo le regole (e non è detto che le conosciamo) non è facile disegnare lo svolgimento. Noi tuttavia, quale finzione confortata da 2001, continuiamo a seguire una possibile «evoluzione». L’amore per gli scacchi e batteria non è quindi sconfitto da un altro amore. Solo, nell’operazione cinematografica si chiariscono e mettono a nudo le strutture degli amori giovanili. Ma anche i primissimi film restano preistoria, e K. li ricorda oggi solo per il loro valore emozionale di sverginamento e di esperienza. Il primo (nel ’51), Day of the Fight, è un diretto prolungamento del lavoro di fotografo, basandosi su una fotostoria dello stesso K. dedicata al pugile peso

medio Walter Carrier. Per girare i sedici minuti del documentario, K. spese 3900 dollari e cento di più ne ottenne vendendolo alla RKO che subito gliene finanziò con 1300 dollari un altro, Flying Padre, sul parroco cattolico di una parrocchia di 400 miglia quadrate nel Nuovo Messico, che teneva i contatti con i fedeli spostandosi su un piccolo Piper (curioso notare come anche Werner Herzog, il giovane folle capofila del nuovo cinema tedesco, che con la stessa assoluta tenacia di K. si è assicurato una totale indipendenza, abbia diretto tra i suoi primi film qualcosa di analogo, un cortometraggio sui «medici volanti» dell’Africa Orientale). Con i due filmetti in circolazione nelle serie della RKO («This is America», «Screenliner»), il passaggio al cinema si fa definitivo, pur restando l’atto puramente volontaristico di un giovane newyorkese che si mantiene con gli scacchi, avendo lasciato «Look» subito dopo i primi minuti di cinema. Diecimila dollari racimolati tra parenti e amici (ma il film ne costerà poi quasi 40 mila, per imprevisti nella post–sincronizzazione) servono a finanziare il primo lungometraggio a soggetto, Fear and Destre, nel 1933. Certo anch’esso preistorico (oggi è quasi impossibile vederlo perfino negli Stati Uniti, dato che le poche copie esistenti sono in mano di privati), e odiato dallo stesso regista per le pretenziosità, le carenze drammatiche, l'approssimazione tecnica e la falsa poeticità dei dialoghi («Passiamo le nostre vite a cercare i nostri veri nomi, i nostri indirizzi permanenti.'..»). Eppure –rimasto l’involucro vuoto del titolo – il film permette già parecchie notazioni «esterne» sull’opera del suo autore. Intanto, in una biografia, interverrebbero qui i primi grappoli di nomi. Abbiamo infatti la moglie Toba Metz che collabora alla lavorazione (così come la seconda moglie –Ruth Sobotka – apparirà nel Bacio dell’assassino e firmerà la scenografia di Rapina a mano armata, e la terza – Suzanne Christian – sarà nel finale di Orizzonti di gloria e dipingerà quadri per Arancia meccanica): l’amico jazzista Gerald Fried che compone la musica (già per Day of the Fight e poi fino a Orizzonti di gloria. Fried diventerà uno dei più valenti compositori di scores per polizieschi di serie B: da ricordare la sua ottima colonna sonora per Machine Gun Kelly di Corman); Howard Sackler il giovane poeta autore del soggetto (Sackler diviene noto in seguito scrivendo La grande speranza bianca, da cui Martin Ritt trarrà un buon film); Mark van Doren – critico entusiasta del film –altro poeta e insegnante alla Columbia University dove K. frequenta le sue lezioni insieme con quelle di Lionel Trilling e di Moses Hadas, gente del Greenwich Village insomma; e infine Paul Mazurski (il regista oggi di Il mondo di Alex e di Stop : Greenwich Village) che recita nel film, e Frank Silvera amico e autore, e Alexander Singer amico e futuro regista anche lui. I nomi, però non contano molto: nonostante qualche persistenza o coincidenza, si alternano e cambiano rapidamente, e solo negli ultimi anni in Inghilterra si intravede la possibilità di un gruppo omogeneo di collaboratori. Come non hanno interesse reale le notizie biografiche che potrebbero apparire più o meno disciolte in questo testo; in gran parte, sono più casuali dell’accompagnamento sonoro di un film muto, non servono a integrare film e vita in un’unica pasta coerente, né svelano drammatiche scissioni o contraddizioni tra

vita e opera. Se essa ha un senso, solo i film possono chiarire la notizia di cronaca. Ma K. affida il senso di sé ai soli film, anzi i suoi «sensi» (ci) si comunicano attraverso i film, infatti per niente autobiografici. Non per metafora, né per trascorrere da arte a vita: letteralmente, la storia di K. (la sua «biografia») è quella di 2001, di Barry Lyndon, di Orizzonti di gloria, ecc. Perciò i nomi non contano. L’umanesimo esasperato e inumano di K. li supera e li dimentica, inghiottiti nel buco i cui limiti sono i limiti dell’uomo e dell’opera di Kubrick. Un buco che assorbe e divora notizie ma ne manda poche di sé. Affondato in un «maniero medievale» nella campagna londinese, K. oggi cancella se stesso dalle immagini pubbliche. Vive nascosto e scontroso lasciandosi assai poco intervistare. Conversatore accanito nelle accanite conversazioni ebraico–newyorchesi, vive ora isolato, tutto teso – malignano gli amici – a costruire «una sfilza di capolavori», chiuso nella freddezza scettica e ironica che suggeriva a Leonardo da Vinci le improvvise frasi taglienti, incuranti e distanti dagli uomini. La totalità della cinefilia, ma dove si è con gli altri e con se stessi solo nel cinema, dove si dichiara [L]: «bisogna ricordare che si deve vivere con un film per il resto della propria vita». Capace di lavorare in équipe, K. è comunque un accentratore e un individualista, fin dagli esordi. Il vecchio detto «a Hollywood ognuno vuole essere Dio» (riferito ai tanti che pretendevano – data la produzione standard delle grandi case –di essere i veri autori o l’elemento più importante di un film: dal produttore al regista, dal fotografo allo scenografo, dal divo alla diva allo sceneggiatore) non ha senso per K. Lui evidentemente vuole essere il solo «dio». Proprio un amico di lunga data, Singer, racconta un episodio indicativo, a proposito del trattamento da lui stesso steso per un filmetto ideato insieme con K.: «Alex, tu hai fatto il film. Non c’è nulla da fare per me» gli disse K. – «Allora fu chiaro che lui non si sarebbe messo in un progetto del quale non avesse un totale controllo creativo. Fu un momento molto critico della sua vita, credo. Era la prima volta che diceva a piene lettere “Io sono il capo. Deciderò io”». E, come già nei documentari, in questo primo (corto: 68 minuti) lungometraggio K. fa quasi tutto da solo, dalla fotografia al montaggio alla registrazione del suono. Per uscire dalla preistoria è necessario imparare ad usare gli strumenti. Questa è la principale preoccupazione di K. che infatti, se potesse, si metterebbe anche davanti alla macchina da presa al posto degli attori, come dimostrano certe sue affermazioni sul disinteresse che aveva agli inizi per i problemi di recitazione. La dilettantesca e astratta «originalità» del soggetto non elimina un dato oggettivo di fondo: è un film di guerra. Quattro uomini, soldati di un indeterminato esercito, si ritrovano in una località indeterminata dietro le linee di un indefinito nemico, essendo stato abbattuto il loro aereo. Essendo in una foresta, decidono di costruire una zattera per cercar di riguadagnare le proprie linee discendendo il fiume. Nella foresta hanno uno scontro facilmente vittorioso con una pattuglia nemica: sterminata. Incontrano poi una ragazza, che legano a un albero temendo di esserne traditi.

Uno dei quattro, rimasto solo con lei, la uccide mentre essa tenta di sfuggire ai tentativi di violenza; quindi fugge, in preda a shock. Gli altri decidono di dare comunque un senso alla loro azione uccidendo un generale nemico di cui hanno per caso localizzato il comando. Uno inscena una azione diversiva, gli altri due attaccano: ma prima di sparare si accorgono con stupore, guardando col binocolo, che il generale e il suo aiutante hanno i stessi volti. Sparano. Quello che si avvicina per dare il colpo di grazia al generale, guardando il volto del morto nota che, come da uno specchio, il suo stesso voltò lo sta osservando con la sua stessa espressione. Infine, casualmente, la pattuglia si riunisce: freddi, pensosi, i due protagonisti dell’azione aspettano sulla sponda del fiume la zattera con i compagni che si avvicinano. Contemporaneamente, quindi, un film fantastico («fantastico» come il Bergman più immaturo), nella riproposta ingenua del mito del doppio a esemplificazione della «condizione umana». Dice la voce fuori–campo: «C’è la guerra in questa foresta; non una guerra che è stata già combattuta, né una che lo sarà in futuro, ma una qualsiasi guerra. E i nemici che lottano qui tra loro non esistono a meno che noi non li facciamo esistere... Solo le forme sempre uguali della paura, del dubbio e della morte, provengono dal nostro mondo. I soldati che vedete parlano la nostra lingua e sembrano nostri contemporanei, ma il loro solo paese è la mente». Le prime parole del primo cinema di K. non puramente documentario, quelle del primo tra i molti narratori fuoricampo kubrickiani, introducono pesantemente l’allegoria e i suoi simboli ma segnalano anche che un paese c’è, che vuole essere ben concreto (e anzi ci crescono gli alberi): è la mente umana. Se il film è molto probabilmente maldestro, fu comunque, secondo lo stesso K., «un tentativo serio fatto in modo inetto» [Q]. Il suo soggetto – apparentemente alquanto diverso da quelli che seguiranno – fa pensare all’onirismo di uno dei romanzi che K. più ama e che da tempo sogna di portare sullo schermo, la Traumnovelle di Schnitzler. Come punto di partenza è quindi significativo. Per la scelta del soggetto, nonostante le apparenze, non sarà molto dissimile il meccanismo che produce Orizzonti di gloria. Killers Kiss (Il bacio dell'assassino, 1955) è invece definito «un tentativo frivolo e banale, fatto con un po’ più di perizia» [Q]. Costato 75 mila dollari (soliti prestiti da parenti e amici), K. riuscì poi a venderlo alla United Artists(Fear and Desire era stato invece distribuito da Joseph Burstyn, importatore di film europei). Il soggetto è da «film noir». Un uomo attende nervoso nella sala d’aspetto alla Stazione Centrale di New York. La sua voce fuoricampo introduce in flashback, la propria storia. – Davy, giovane pugile ex–promessa, a poche ore dal match decisivo, guarda dalla finestra della sua camera d’affitto, verso una ragazza sua dirimpettaia. Gloria. I due lasciano più tardi contemporaneamente i loro squallidi alloggi, incrociandosi nell’atrio. Davy si reca sul luogo del match. Gloria viene accompagnata a Pleasureland, sala da ballo e da gioco dove lavora come hostess, dal padrone,

Vince, sgradevole uomo di mezza età. Vince la invita nel suo ufficio a vedere il match di Davy in televisione. Davy viene presentato dal telecronista come un pugile particolare (lo fa per passione, ha studiato) ed elegante, che però ha deluso ormai troppe volte. Gloria lo vede andare k.o., mentre il principale tenta di sedurla. A notte, Davy disteso sul letto nella stanza buia, come in un sogno vede entrare la ragazza nell’appartamento di fronte, cominciare a spogliarsi per andare a letto. Mentre riceve la telefonata da Seattle di uno zio che lo ha visto perdere in TV e che cerca di convincerlo ad andare a vivere lassù lavorando in fattoria, il giovane risponde distrattamente, continuando a guardare di fronte? Quindi si addormenta, ha un incubo, è risvegliato da un urlo. Dalla finestra vede Vince che importuna Gloria. L’uomo fugge impaurito accorgendosi che il pugile arriva in soccorso. Davy veglia il sonno di Gloria per tutta la notte. Al mattino lei gli racconta la sua triste storia, legata alla sorella Iris – un tempo ballerina – che, dopo un litigio con Gloria, si era suicidata (mentre parla, vediamo Iris in tutù, ballare da sola su un palcoscenico vuoto). Davy prega il suo manager di pagargli subito la borsa, in modo da poter partire subito per Seattle con Gloria. L’appuntamento col manager, davanti a Pleasureland dove anche la ragazza si reca per riscuotere l’ultima paga, salta per un seguito di coincidenze: due ubriachi scappano con la sciarpa di Davy, che li insegue; intanto Gloria respinge di nuovo la proposta di divenire l’amante di Vince, che non la paga; Vince manda fuori due scagnozzi a eliminare Davy, ma i due, non conoscendo il giovane, uccidono il suo manager. Incontrata infine la ragazza, e fissato un altro appuntamento a casa sua, Davy vi si reca ma non la trova (e apprende di essere ricercato per l’omicidio del manager). Armato si presenta da Vince facendosi portare al magazzino dove è tenuta prigioniera. Sopraffatto però dagli uomini di Vince, Davy riesce poi a liberarsi ed è inseguito da Vince e i suoi lungo le strade e sui tetti. Lo scontro finale tra i due ha luogo in un ripostiglio pieno di manichini, dove Davy si è rifugiato. Lotta selvaggia, Davy si oppone con i manichini all’ascia di cui si serve Vince; e infine il giovane ha la meglio. Alla stazione, Gloria lo raggiungerà in tempo per prendere il treno per Seattle. Nel film molte cose sono evidenti (è il suo difetto): le raffinatezze fotografiche dell’ex fotografo, i debiti verso l’espressionismo, l’accentuazione a tratti parossistica degli elementi di genere nel tentativo di staccarsene. Colpiscono infatti inquadrature come quella della scala d’ingresso alla sala da gioco, ripresa dall’alto come un tunnel luminoso in fondo al quale si stagliano in profondità di campo le figure umane; o quella ingenuamente inusuale (normale sarebbe in un film giapponese penso a Imamura) in cui vediamo Davy attraverso un vaso di pesciolini: di gusto un po’ facile e naif il simbolo di una situazione assurda e senza via di scampo. Ed è ancora evidente l’abilità con cui la m.d.p. (sempre manovrata da K., che avrebbe utilizzato al montaggio anche brani di Day of the Fight) segue il match di pugilato, alternando riprese dal basso – da dietro le corde del ring – a intrusioni sul ring stesso. Quanto al soggetto, presenta personaggi abbastanza superficiali e caricati nella loro brutalità proprio da una certa indeterminatezza che

li consegna tutti interi al «tipo» generico («nero» + «mélo»). Tuttavia non è ad essi (né agli attori) che va la maggiore attenzione, bensì alle situazioni, fino alla esasperazione nella sequenza della lotta finale tra i manichini (che rammentano un décor della versione di M girata da Losey nel 1951; la scena a sua volta vagamente riecheggia nel Klute (Una squillo per l'ispettore Klute, 1971) di Pakula. Non importa molto nemmeno l’aspetto inedito degli esterni newyorchesi ottimamente fotografati (allora e in successive riproposte il film fu apprezzato per questo), in risalto solo perché il meccanismo kubrickiano non è ancora ben integrato. È certo evidente la ricerca di un ambiente urbano torvo e allucinato, colto soprattutto al crepuscolo o alla luce del neon poco smagliante dei quartieri più squallidi, ma parafrasando Alex in Arancia meccanica si può dire che «è buffo come l’aspetto reale del mondo che si dice vero sembri vero solo quando lo si vede sullo schermo». Il facile riconoscimento di «buon taglio da realismo documentaristico» serve spesso al critico per rinviare il discorso sulla vera struttura spettacolare di un film e separare i due discorsi (cfr. il caso dei French Connection (Il braccio violento della legge), I e II, di Friedkin e di Frankenheimer, o di Scorsese) Del resto non è difficile –dato l’accademismo da teatro di posa imperante per anni – suscitare impressioni di novità uscendo dalle notti o dalle luci esatte degli studi per quelle più incerte delle strade; ancor meno difficile lo era negli anni '50, se si pensa che il successo ottenuto pochi anni prima dai polizieschi prodotti da Louis de Rochemont per la Fox e diretti da Hathaway, (Kiss of death, 1947, e Call Northside 777, 1948; nel filone che seguì, spicca The Naked City di Dassin, 1948) fu dovuto in gran parte alle riprese in esterni e alla generale impostazione semi–documentaristica. Anche se (nota Ciment) l'uso del commento fuoricampo può far pensare a un influsso di tali film su K. (il suo amico Singer lavorava per i documentari della celebre serie di De Rochemont, March of Time), è se mai a un altro film girato «on location» e soprattutto a un altro regista che fa pensare Killers Kiss : Panie in the Streets (Bandiera Gialla, 1950) di Kazan, il regista americano più ammirato da K. In ogni caso, come il primo lungometraggio era un film fantastico che ambiva ad essere un «documentario della mente», questo, al di là del rilievo documentario dell’ambiente, tende ad essere onirico, fiabesco, baiocco (cfr. appunto il film di Kazan, e oggi Scorsese). L’uso frequente di specchi, la sequenza dell’incubo notturno su cui poi si innesta l’azione vera e propria, l’immagine improvvisa e a lungo mantenuta della ballerina, la stessa situazione dominante della finestra attraverso la quale il protagonista si lega alla ragazza come opposto geometrico e (quindi) però suo doppio (suo simile), i due artificiosi décor in cui l’eroe si trova a combattere (il ring, e il magazzino del finale), caratterizzano tutto il film in senso fantastico. Walker parla appunto di fiaba, con la struttura archetipica del cavaliere che salva la fanciulla dall’orco. Sarebbe assurdo mitizzare un’improbabile «coscienza totale» già all’opera, ma è interessante notare come, viste nell’angolatura della fiaba, le spezzature e gli strappi del film si giustifichino. Nella fiaba (è noto, dopo Propp), non son certo i personaggi o le cose in sé a contare, ma le situazioni o meglio le «funzioni». Una volta datane la struttura,

l’eventuale autore può giocare o combinare come vuole. I salti e i mutamenti di tono del film possono così corrispondere al frequente e repentino mutare di décor all’interno di molte fiabe (il tipo di décor non è collegato a una «economia psicologia» del personaggio ma è sottomesso – come gli stessi personaggi – ad un’economia interna cristallizzatasi da tempo): dalla casupola alla reggia del principe, qui c’è un’ovile e dietro la collina il castello del mago; gli stivali delle sette leghe permettono un mutare quasi istantaneo di ambiente come bacchette magiche e fatture provocano continue mutazioni di personaggi; sotto i tetti più piattamente – niente tegole –documentaristici di New York c’è un solaio con dei manichini, e l’ascia antincendi diventa l’arma dell’orco, e l’antro dell’orco si apre su una strada qualsiasi al neon. Nel 1955, tuttavia, un film è costretto a confrontarsi con strutture un po’ più complesse (nel senso dell’ambiguità, più che della ricchezza di elementi da combinare): quelle del genere, a tal data ancora strutturato in modo rigido. Dati i materiali (personaggi compresi) prescelti per la storia, l’astrattezza fiabesca deve fare i conti con la particolare astrattezza del film «nero», che ha nell’insieme della società americana e del suo spettacolo un ruolo concreto, molto più ampio di quello che può avere il fiabesco. Proprio i tentativi di caratterizzazione psicologica dei personaggi esulano dal fiabesco pur senza contraddirlo, e stridono per la loro ingenuità «informe» rispetto alle stilizzate e «consapevoli» ingenuità che il genere si può permettere. Per esempio, la storia lacrimevole raccontata da Gloria (con la bambolina appesa sopra al letto) né introduce elementi melodrammatici che vengano sviluppati in seguito, né è tanto attraente da giustificarsi in sé come escrescenza gratuita e barocca (infatti presto, sulla voce che narra, si presenta l’inserto della sorella che danza). Ha poco senso speculare se il breve intermezzo tenti di dare un passato alla ragazza o sia un semplice omaggio di K. alla moglie: è importante in sé l’inserimento del flashback soggettivo di un personaggio dentro quello di un altro (l’uso sbrigliato e «illogico» del flashback rammenta non per caso l’Ophuls di La signora di tutti). Appare chiaro che, più della fiaba (che ritroveremo in seguito), più del genere interessa a K. il lavoro (si può chiamare anche gioco) sul tempo e sulla struttura della narrazione, intesa come qualcosa di precedente alle cristallizzazioni «fiaba» o «genere». La fiaba (cfr. Propp) è ciò che più si avvicina a una struttura nuda. Il genere è «il cinema» già esistente con cui chi produce un nuovo film deve per forza fare i conti (ripeto: negli anni ’50), e anche un materiale culturale che fornisce oggetti e figure. Ma la cosa più importante resta il «procedimento» sui due elementi base. Lo spazio : la fotografia che espressionisticamente vuol «significare» già coll'inquadratura, specie mediante un lavoro notevole sulle luci; coi primi segni della futura tendenza all’effetto tunnel che cerca di perforare la superficie, nella sequenza dell’incubo che è una strada percorsa in soggettiva tra due file di case, il tutto stampato in negativo come l’avvicinamento al castello di Nosferatu – anche se il riferimento più adatto sarebbe la fuga del Mabuse langhiano. Il tempo: a metà racconto si inserisce di nuovo gratuita – a spezzare, a produrre angoscia e incertezza – un’inquadratura di Davy alla stazione, su cui la la sua stessa voce esprime un dubbio in effetti sensato

a quel punto della storia, ma non da parte di chi narra la storia dall’inizio e ne sa più di «noi» (si noti inoltre che già nei primi film K. tende a chiudere tutto il «mostrato» in un arco di tempo ridotto, o comunque ben scandito e controllabile). Elementi qui ancora slegati: ogni cosa risalta a sé, e infine oggi ci può piacere (e mi piace) solo per il gusto ormai acquisito della follia, del bric–à–brac, del discontinuo. Il progredire di K. appare già in questo periodo totalmente interno al cinema: cinema non come industria produttrice dello spettacolo esistente. ma come proiezione e riproduzione quasi maniacale di strutture e meccanismi della vita, e però da essa quasi astratti. Non si conoscono, di questi suoi anni ’50 (né in seguito), prese di posizione in dibattiti pubblici di qualsiasi tipo (politico–sociali, sul potere, sullo spettacolo su Eisenhower); neppure si conoscono fatti più privati che chiariscono il disegno della sua storia personale. Mogli, amici, nemici, sembrano non esistere, di sicuro non ci restano nell'immagine pubblica che possiamo avere di K.; contano meno di qualunque particolare dei suoi film. E in Killer’s Kiss il pugile riguarda se stesso in cinema attraverso il lungo flashback, si guarda stampato sui manifesti che annunciano l'incontro. Entra in contatto con la ragazza attraverso lo schermo–finestra! Mentre lei gli parla interviene nel modo più astratto il «cinema» e la sovrasta mostrandoci un’altra immagine, e per la prima volta i due stanno «insieme» nell’unione del medium, quando lei lo vede sconfitto in TV. Conosciamo invece i suoi miglioramenti tecnici, che indurranno la United Artistsad acquistare il «prodotto» e distribuirlo (sia pure, data la limitata durata, come seconda pellicola per doppi spettacoli dei circuiti periferici). Sappiamo che K. rifiuta un contratto della stessa casa per produrre filmetti di seconda serie: non gli interessa arrivare in qualche modo a fare comunque del cinema. In parte, proprio la chiarezza con cui dal suo comportarsi si delinea l’esistenza di un progetto di cinema rende oscuro tale suo progetto, che non è chiarito nemmeno in negativo non essendo visibili obiettivi, magari polemici. Il genere p. es., non è per K. una struttura da aggiornare (come il western per Peckinpah) o con cui misurarsi ribaltandola all’interno (è il senso in cui opera Penn, dall’inizio fino agli ottimi Bersaglio di notte e Missouri), o lo è solo secondariamente, risultando in partenza semplicemente il «mondo–cinema» nel quale si deve entrare. Così, è indubbio che se The Killing (Rapina a mano armata, 1956) rientra a tutti gli effetti nel genere «nero» (e nel «gangster film»), non è certo come variazione all’interno di esso che viene progettato e realizzato. Fatto suo il mezzo, lo strumento–arma, la scimmia evoluta può ormai usarlo e lanciarlo in ogni direzione. Grazie al fortuito e decisivo incontro con James B. Harris, che anticipa 130 mila dollari ed esordisce come produttore, K. riesce a farsi finanziare dalla United Artists(il costo finale sarà di 320 mila dollari, basso anche per lo standard delle medie produzioni). Johnny Clay, malvivente da poco uscito di prigione, prepara insieme con quattro complici (tutti poveri diavoli, falliti, nessun criminale di professione; un

cassiere tradito e sbeffeggiato dalla moglie, un barista, un pensionato, perfino un poliziotto nei guai per debiti) il «colpo grosso» della sicurezza economica. Si tratta di svaligiare la cassaforte di un ippodromo prima che vengano pagate le vincite. Per avere il tempo di compiere indisturbato la rapina, Clay assolda due individui esterni alla gang: un immigrato russo giocatore di scacchi e formidabile lottatore, che tenga occupati i poliziotti provocando una rissa e un cecchino che ha il compito di abbattere il favorito della settima corsa, per ritardare le decisioni della giuria e lasciare quindi piena la cassaforte. Compiti meno importanti ma necessari hanno gli altri, compreso il poliziotto, che deve portar via il denaro che Clay gli passerà. Il piano, perfettamente congegnato, sembra riuscire. Per Clay poi le cose sembrano mettersi in modo ideale, perché il resto della banda, a colpo avvenuto, viene sterminato in una sparatoria con amici della moglie del cassiere, che aveva avvertito l’amante sperando di poter abbandonare ricca la magra vita coniugale. Folle di rabbia e già morente, dopo aver provocato la strage, l’ometto prima di spirare uccide anche la moglie. Clay con i soldi e con la sua ragazza si avvia all’aeroporto, e quando già si avvia all’aereo un cagnolino taglia la strada al trenino dei bagagli, la valigia con i dollari cade in mezzo alla pista, i biglietti si sparpagliano nella notte, due agenti appaiono dietro la vetrata. Il raccontino dà solo un’idea pallida del film, non tanto perché in questo vi sia molto di più (come si suol dire) o per scontate supremazie del «come» sul «cosa», quanto perché conta proprio come vi si racconta il racconto . K. ha fatto le cose per bene, e si capisce lo stupore ammirato della critica statunitense di fronte a quello che in Europa poté sembrare al massimo un film interessante e originale (per squarci, per presunti barocchismi figurativi, o per la storia) ma che a chi vivesse lo spettacolo del cinema americano dimostrava chiaramente di essere un confronto totale col «cinema», nei limiti del genere adottato. Asphalt Jungle (Giungla d’asfalto, 1950) di Huston può essere il diretto punto di riferimento per il cinèfilo, i rimandi sembrano numerosi: l’attenzione al décor urbano, la preparazione del grande colpo da parte dell’uomo appena uscito di prigione, la presenza in entrambi i film di Sterling Hayden (Ciment elenca altri omaggi al genere nella scelta di attori come l’Elisha Cook del Grande sonno hawksiano, la Coleen Gray di Kiss of Death, o Ted de Corsia il «cattivo» di tanti film). Scherzando si può dire che il film di K. comincia dove finiva quello di Huston: se in Giungla d’asfalto Hayden moriva «brucato» e annusato dai cavalli, qui le prime inquadrature sono dedicate all’ippodromo. Scherzando, perché i due film sono simili soprattutto nello scrupoloso rispetto dei romanzi polizieschi da cui sono tratti, ottimo quello di Bumett su cui lavora Huston, meno buono ma piacevole il Clean Break di White. Qui finiscono le somiglianze e qui partono le differenze. L’interesse precipuo di Clean Break sta infatti nel lambiccato montaggio temporale dell’azione, seguita a spezzoni con frequenti ritorni indietro, anticipazioni, ripetizioni; proprio questo colpì K., il quale dichiara di non essere stato minimamente interessato al soggetto. Eppure i personaggi non si dimenticano, i dialoghi sono «superbi» (a curarli K. chiamò l’amico Jim

Thompson, autore di buoni romanzi e racconti «neri», tra cui The Getaway da cui Peckinpah trarrà nel 1972 il film omonimo, su un’ottima sceneggiatura di Walter Hill, infatti poi buon esordiente con Il re della strada), pieni di continua e fin troppo sottolineata ironia. (Questa p.es. dopo la sequenza dei titoli dell’ippodromo, è la prima frase detta dalla voce recitante, mentre si passa all’interno della sala–corse: «Alle 3.45 esatte di un sabato pomeriggio di settembre, Marvin Unger si avviò verso gli sportelli dei cassieri dell’ippodromo. Nonostante la sua innata antipatia per il gioco, aveva puntato su tutti i cavalli in una stessa corsa. Sapeva che questo metodo alla lunga lo avrebbe fatto perdere, ma stava mirando a una vincita ben più alta»). Ogni dettaglio è in effetti curato, non per il genere tuttavia, ma per un meccanismo che è in buona parte indipendente da esso. In Giungla d'asfalto, e ancor di più ne Il tesoro della Sierra Madre (altro film di Huston cui riferirsi è d’obbligo per l’immagine finale dei soldi sparsi al vento), il meccanismo della derisione ironica è più umanamente corposo, la spietatezza delle leggi etiche che regolano il mondo del crimine ripropone in ogni caso una socialità e il contrasto doloroso con essa del mito romantico individuale. In essa esplodono le risa e le urla che ritroveremo nel recente magnifico L’uomo che volle farsi re, mentre in K. il riso (come la relazione d’amore) è sempre distorto, ridotto a ghigno o insolenza, più spesso assente, se mai potremmo immaginare qualcosa di vagamente simile all’isterica risata finale di James Mason in Five Fingers (Operazione Cicero, 1952) di Mankiewicz: un altro film con bigliettoni (per lo più falsi) sparpagliati infine, e un altro cineasta restio alle interviste, un altro salutato enfant prodige agli esordi. Qui, il meccanismo ha un aspetto di gioco gratuito. Il film, perciò non «gratuito», è la messa in scena di giochi che si incastrano, un documentario «realistico» sui congegni –gratuiti ma non per questo meno logici – di essi. Vediamo come si realizza questo chiarissimo progetto, che sembra contrastare con la sostanza di genere del film, e con le stesse emozioni della visione. Intanto, K. riprende e accentua il trattamento del tempo già presente nel romanzo, per niente artificioso ai fini dell’introduzione del gioco, delle sue pedine e dei suoi regolamenti. Già la sequenza iniziale mostra la funzionalità del procedimento, che permette di presentare i cari ambienti della vicenda, e la parata dei personaggi, in una successione logica e non affidata al modo disorganico in cui potremmo avere le stesse informazioni se seguissimo l’itinerario di un protagonista. La situazione dello spettatore è quella di Marvin Unger: magari non ama il gioco, ma segue il tutto, anzi punta su tutti i cavalli (seguendo tutti i personaggi). Neanche Clay è «colui che conosce» il gioco intero e come va a finire; è solo l’attore principale, e l’attore più stupendamente impassibile del cinema americano, e quindi il più adatto a passare attraverso uno dei film più romantici della storia del cinema (Johnny Guitar, 1952), contrastante con quello più caratteristico dei meno coscienti operai minori della fiction. La stessa voce narrante è solo un espediente tecnico, non rinvia ad alcun soggetto né ad una conoscenza assoluta: è la voce atona del tempo, e infatti ne annuncia il trascorrere, il tornare indietro, il dislocarsi

nello spazio della storia; niente di più lontano dai cervellotici deliranti flashback che si trovano in altri esempi di «genere» (il più clamoroso: Dead Reckoning, Solo chi cade può risorgere, 1974, di Cromwell). Insieme con le didascalie che scandiscono le ore e i giorni, è il lavoro di K. sul tempo; la voce infatti ha la prima parola, mai l’ultima. Il meccanismo ne è solo innescato, corretto, ma poi procede da solo (cioè: tutti gli elementi concordano). Il segno è già nelle prime inquadrature, che mostrano i preparativi di un gioco (le corse dei cavalli) causa di altri giochi (le scommesse). La rapina conta, per riuscire, sulla provvisoria interruzione traumatica del gioco, ma comincia ad essere narrata essa stessa nella sala–giochi in un esordio minuzioso e rituale in cui tre dei partecipanti al colpo si scambiano furtivi messaggi come per scherzo bambini a scuola. Lo spettatore inizia a seguire i personaggi, cioè il meccano. Visto nel complesso, il gioco è aspramente ironico, quasi sarcastico, in un’interrotta serie interna di volute. La banda è composta da falliti, eppure il piano si svolge alla perfezione, grazie al contributo determinante dei due buoni «tecnici» esterni. Clay l’esperto, il freddo che sembra condurre il gioco, lo vedrà fallire; sarà lui per caso a perdere tutto, dopo esser stato sul punto di ottenere il massimo. Il cecchino, che rischiava meno di tutti («Il peggio che ti potrebbe capitare sarebbe di essere arrestato per aver sparato a un cavallo fuori stagione», gli dice scherzando Clay), per un caso sfortunato viene ucciso dalla pistolettata di un agente, e gli era stato appena regalato un ferro di cavallo; un altro riferimento simmetrico lega la sua morte alla sua prima comparsa nel film, quando lo vedevamo esercitarsi in campagna su sagome di cartone raffiguranti uomini con la pistola puntata. Ma il gioco più vertiginoso è quello in cui si coinvolge lo spettatore. La storia infatti, col perfetto gioco d’incastri, si fa seguire agevolmente, e anche il fatto che una medesima sequenza (lo scatenamento della rissa all’ippodromo) sia ripresa due volte non è artificioso ma avvertito come funzionale. È «divertente» in fondo: si tratta di un puzzle del quale man mano vengono forniti i pezzi; tutto combacia, tutto torna senza bisogno di sforzi. In questa prima visione d’assieme l’acme è la sequenza in cui Clay, calcatasi in testa una bizzarra maschera ghignante, compie la rapina vera e propria: la m.d.p. lo segue con un lungo carrello laterale attraverso diverse stanze (puzzle come ricostruzione di una superficie–fiction: durante tutto il film la m.d.p. si limita a scivolare lungo di essa mediante i carrelli laterali. Altman mostrerà in Images l’utopia e il terrore e i problemi di un puzzle che sia del tutto «filmico», cioè che utilizzi anche la terza dimensione, risultando impossibile a risolversi), lo mostra mentre si fa riempire di soldi un sacco. Poi lo vediamo buttare il sacco dalla finestra –vedremo in altra sequenza il sacco spuntare da essa e cadere vicino all’auto del poliziotto complice –, quindi tornare sui suoi passi. A questo punto il resto, fino alla caduta finale («crime does not pay»), potrebbe essere previsto e accettato da qualsiasi cultore di film del genere. Per un lato infatti il film soddisfa la non troppo nascosta predilezione – da parte di chi guarda in un’ottica di genere per il perfetto combaciare non tanto di un piano quanto delle sequenze nel loro insieme, uno scivolare meccanico di ogni film sui passi del precedente, nel mare degli archetipi e del sempre previsto

imprevisto. Il piacere infantile della «costruzione» e del gioco maniacalmente ripetuti (specchiati in catena lacaniana), della fiaba reiterata. Dall’altra parte, il gangster film «nero» (come ogni altro genere) accoglie al suo interno momenti di dissoluzione o di messa in questione, anche perché, nelle necessarie pur lievi successive variazioni di personaggi, se ne creano di abnormi: isolati romantici eroi, perdenti nati che perdono ancora una volta per una donna, psicopatici (James Cagney nello straordinario White Heat, Furia umana di Walsh), mostri. O almeno, ogni genere ha le sue figure tipiche, l’affetto per le quali occulta spesso il fondo reale del piacere che il film di genere può dare. In The Killing lo spettatore ha pure l’illusione di ritrovare –oltre la struttura affascinante – qualche figuretta nota (gli attori sperimentati nel genere), qualcuno dei miti abusati del genere (specie il più gratificante, quello dell’autodistruzione), un po’ di romanticismo del crimine. Il subplot (l’intreccio secondario), la storia triste e tragica del cassiere Elisha Cook e della moglie Marie Windsor, fornisce tutto questo. Non è un caso che le poche inquadrature espressionistiche, in un ambito fotografico mediamente realistico (la fonte di illuminazione spesso mostrata in campo contribuisce anzi a dare la luce dell'attualità e dell’autentico anche agli interni, tutti in studio), siano dedicate proprio alle scene in casa dell’infelice coppia, con la bionda macchia luminosa della donna indolente tra le ombre della camera e il bianco sfatto delle lenzuola, e dalla radio un improvviso sottofondo di vizioso be-bop (il resto dell’accompagnamento musicale è molto più duro e ritmato), fino alla caduta finale di Cook che muore finendo per terra col volto in primissimo piano, addosso alla gabbietta del canarino (piccole banali simbologie, a volte autoironiche per l’evidenza dello stereotipo estremizzato, che irritavano a ragione Godard, e mandano tuttora in visibilio l’esegesi anglosassone, in un seguito di «simbol of...»). In effetti, la loro vicenda è un momento di scollamento, con l’irrompere del barocco e l’attesa incrinatura del congegno, «piacevole» nella fluidità globale. Non solo. Il titolo del film, un film per tre quarti occupato dai preparativi e dallo svolgimento di una rapina, segnala come apparente oggetto proprio la «storia secondaria», il suo effetto –la strage, «the killing» —; il quale effetto però quasi non si vede, sottolinea Ranieri. La scena della strage è brevissima, un’istantanea violentissima sparatoria, lampeggiano due inquadrature, poi il movimento di macchina sui corpi accatastati. Il titolo indica quindi ciò che in pratica appena si intravede. E se anche la storia del cassiere provoca autentico interesse dando sfogo al «dolore», nascosto nella perfezione di ogni genere, anche se per Clay e per noi l’apparizione dell’ometto ferito che barcollante attraversa la strada è «fantastica» (Ranieri parla apertamente di fantascienza: morti che camminano, l’incredibile precisione necessaria per colpire il cavallo in corsa..., «è il delirio calcolato, la notte di Valpurga a Capo Kennedy»): quello è in realtà il suo ruolo preciso, è lì per questo e basta, «funzione» che interviene al momento stabilito. Trasparente il modo in cui K. ci indica che tutto è già compreso nel meccanismo, anche ciò che sembra corroderlo. Quando, con cenno autobiografico, fa andare Hayden in un club scacchistico a ingaggiare il lottatore (Kola Kwariani, un giocatore del Village, amico di K.), un vecchio amico e i due siedono di fronte a una scacchiera, allora, il

calvo e massiccio immigrato esce nella frase di massima gratificazione romantica in tutto il film («Gangster e artista hanno una cosa in comune. Ammirati e idolatrati da tutti quando le cose vanno bene, sono i primi che poi il mondo vuol distruggere, l’uno per paura, l’altro per invidia»; frase non ironica anche se potrebbe essere l’ironica enunciazione della morale del film «nero», il cui amato eroe lo spettatore vuol veder cadere). La dice e i due sono di fronte alla scacchiera in una stanza dove si gioca a scacchi. Tutto rientra nel gioco che contiene tutte le passioni ma si manifesta nella obbligata rigidità delle traiettorie. E ogni gioco ha le sue traiettorie, diverse ma obbligate, ogni film ha i suoi carrelli e i suoi movimenti. Potrà essere difficile trovare il nascosto itinerario complessivo dell’opera kubrickiana, ma il movimento interno dei singoli film è sempre rintracciabile e definito, come l’esattezza dei suoi movimenti di macchina. Ci si potrà chiedere perché il meccanismo kubrickiano debba prevedere lo scacco, che qui sembra richiesto dalla morale anni ’50 del genere, ma che diverrà regola. Non direi che sia il piccolo particolare non curato per non «offendere gli dei», né un gusto puramente nullista o tetramente o beffardamente ironico per il fallimento che mina gli accurati congegni umani o meccanici (in questa prospettiva cambia poco). Al contrario, è se mai demiurgica riaffermazione del potere assoluto del regista che può far fallire qualsiasi costruzione (figura precisa di questo potere assoluto è il montaggio che K. compie da solo, ma «ferocemente» contro il materiale da lui stesso girato), se vogliamo è l’ultima parola della ragione che si dice contro la circolare auto soddisfazione del chiuso meccanismo intellettuale. E ancora, più è perfetto il meccanismo e ambizioso, più si dimostrerà inadeguato a comprendere la vita che pure in esso sembrava esaurirsi. Che poi resti nel regista la capacità di costruire – lui sì – un congegno che soddisfi il suo progetto, è un altro discorso. Certo qualcosa della sua disperata utopia, del contrasto violento tra la chiusura del dominio e (gli effetti de) la non–totalità di esso, per quanto nascosto nel regista e nel momento della produzione, si comunica, se le lucide costruzioni ottenute – i film che sembrano poter fare a meno dell’uomo – provocano poi passioni ed emozioni e interesse alla storia e ai personaggi, oltre che ragionamenti. Il trucco c’è. Qui p. es. si vede «il nero» mentre si segue un meccanismo puro che ha ragione man mano di tutti i personaggi; non è presa in giro divertita e ripetuta, ma piuttosto (per questo alcuni critici e lo stesso K. parlano di «cinismo») riproposta cosciente dell’inganno che da sempre ci offrono le apparenze del reale. Intanto sul set K. – obbligato dalle leggi sindacali a valersi di un operatore registrato come tale – si era scontrato col grande Lucien Ballard (che ha lavorato con Walsh e Boetticher, diventando poi negli anni 60 collaboratore di Peckinpah) a proposito dell’uso di grandangolari (come il 25) ritenuti da quest’ultimo troppo distorcenti. La giovane scimmia–capo la spunta, filmando come vuole. Rapina a mano armata ha più successo di critica che di pubblico. Dal prudente immobilismo dell’industria cinematografica tardano ad arrivare proposte per K. e Harris ormai soci fissi. L’accoglienza da parte della tribù è freddina. I due acquistano insieme i diritti di un vecchio romanzo antimilitarista (Paths of Glory)

che aveva molto impressionato K. una quindicina d’anni prima, ne traggono una sceneggiatura e cominciano a bussare a diverse porte suscitando però poco interesse. Il «caso» è rappresentato questa volta dall’attore Kirk Douglas che, giunto alla maturità dei quarant'anni (nel 1956 ha fornito una delle sue più complesse prestazioni in Lust for Life, Brama di vivere di Minnelli, interpretando la figura di Van Gogh; e un anno prima ha fondato una sua casa di produzione, la Bryna), ha intenzione di partecipare a qualche impresa originale e si mostra colpito dal soggetto e dal personaggio principale. Col suo nome in cima al cast, il progetto interessa molto di più, e la United Artistslo finanzia per 935 mila dollari, senza più pretendere l’intromissione di una dolciastra storia d’amore. Il film, Orizzonti di gloria (1957), viene girato in Germania, negli studi di Monaco della Bavaria Film, con cast tecnico tedesco. La lavorazione dura due mesi e mezzo (contro i venti giorni del film precedente), gli esterni – la trincea con il campo di battaglia e l’isolato palazzo rococò del quartier generale – sono a una mezz’ora di macchina dagli studi. Trincea e palazzo, abbiamo detto. 1916, fronte franco–tedesco. Un generale dello Stato Maggiore francese Broulard, reca all’amico generale Mireau. il cui comando è installato in un’elegante palazzina barocca, il «consiglio» (in realtà un ordine) di attaccare e prendere un’importante e munitissima posizione nemica il «formicaio». Solleticato abilmente dal collega nelle sue ambizioni di carriera. Mireau rapidamente accetta l’ordine, dopo iniziali proteste in difesa della vita dei suoi uomini. Compie un giro per le trincee al fine di galvanizzare i soldati, e incarica il suo miglior ufficiale, il colonnello Dax, di guidare il giorno dopo l’impossibile attacco. Dax replica ribadendo al generale la follia dell’impresa che causerebbe la morte di almeno la metà dei partecipanti all’attacco, reagisce sarcasticamente anche agli appelli patriottici di Mireau, ma infine è costretto a dire sì, minacciato di trasferimento lontano dai suoi soldati. L’attacco non riesce. Per la violenza del fuoco nemico non tutti i plotoni lasciano le trincee. Mireau, che durante la battaglia ha perfino tentato di far cannoneggiare, per punizione esemplare, le proprie linee, esige dapprima una decimazione poi «si accontenta» (con la mediazione di Broulard) di tre soli uomini, scelti tra i loro soldati dai comandanti delle tre compagnie agli ordini di Dax. Questi, valente avvocato parigino prima della guerra, ottiene d’essere il loro difensore durante il processo per codardia che segue poche ore dopo. I tre, uno tirato a sorte, un altro indicato come «asociale», il terzo scelto dal suo ufficiale in quanto pericoloso testimone di un (vero) atto di vigliaccheria, vengono condannati a morte nonostante l’appassionata difesa di Dax. Il mattino della fucilazione, uno di loro viene addirittura portato al palo in barella, agonizzante per la frattura cranica procuratasi la sera prima in un violento diverbio con i compagni durante la visita del cappellano. A fucilazione avvenuta, Dax (che in un estremo tentativo di salvare i condannati aveva detto a Broulard del folle ordine non eseguito ma impartito da Mireau mentre l’attacco falliva) riceve le congratulazioni di Broulard per il modo intelligente con cui avrebbe mirato a sostituire lo stesso Mireau in un prossimo futuro; Il colonnello reagisce con

violenza e con insulti. Tornando in linea, è attratto dai rumori provenienti da un’osteria piena di soldati. Dai vetri vede l’oste che presenta sul palco, a un branco di militari vocianti e ubriachi, una spaurita giovane tedesca. Dax è disgustato, ma quando la ragazza comincia a cantare, gli schiamazzi cessano quasi di colpo: i soldati, vecchi e giovani, ascoltano il suo canto triste, poi cominciano a ripeterne commossi le parole. Al messaggero che viene a portargli un ordine, Dax dice «lasci ancora qualche minuto agli uomini». Cobb, l’autore del romanzo, si era ispirato ai processi e alle fucilazioni verificatisi in più occasioni sul fronte francese durante la Grande Guerra. K., sempre teso a rafforzare l’effetto di «realtà» e di «verità», ricostruisce con tale cura l’ambiente bellico da meritare gli elogi di Churchill per quanto riguarda la verosimiglianza storica del film: parecchi giorni li passa a «preparare» il paesaggio per l’unica breve sequenza di battaglia. A parte ovviamente Douglas protagonista, anche il resto della distribuzione è ottimo: Menjou è l’astuto e cinico Broulard (ci sono voci –smentite da K.– di violenti contrasti tra attore e regista; e Menjou, che pure paragona K. a Chaplin, si lamentò –dopo aver visto il film – per la violenza antimilitarista dell’ingranaggio in cui lui, Legion d’Onore della repubblica francese, era stato inserito), George Macready (il cui volto sfregiato fu tante volte quello del cattivo contrapposto a Louis Hayward negli espressionistici «montecristi» e «maschere di ferro» del cinema americano anni 30–40) l’ottuso e crudele Mireau, Ralph Meeker (il protagonista di Kiss me Deadly, Un bacio e una pistola di Aldrich), Richard Anderson, Tim Carey (già in The Killing), ecc. Sul set, K. stupisce i tecnici tedeschi per lo scrupolo minuzioso, per le scene ripetute decine di volte, per come si impone all’operatore, infine per la perizia con cui manovra personalmente una delle sei m.d.p. in azione per le riprese dell’assalto. Si può prendere per sintomatica questa sua partecipazione in prima persona alla battaglia (egli anzi entra proprio in essa perché sulla sua macchina è montato lo zoom col quale viene seguito Dax, unico individuato nella massa). «Sono arrivato alla conclusione che la realizzazione di un film è uno dei più difficili problemi organizzativi e amministrativi che si possano dare, a parte le operazioni militari» [Q] dichiarerà anni dopo, portandoci a ricordare le parole che Godard mette in bocca a Fuller all’inizio di Pierrot le Fou : «un film è un campo di battaglia... in una parola, emozione» (per Godard ancora «un film è paragonabile a un’azione di commando»). Per K. il film–battaglia non è però una metafora romantica, anzi non è per nulla metafora ma solo coincidenza strutturale di operazioni. Inoltre: «La guerra produce situazioni molto drammatiche e visivamente interessanti ai fini di una sceneggiatura. – In un breve arco di tempo le persone attraversano un fantastico periodo di tensione, il che, in una storia in tempo di pace, sembrerebbe in realtà artificioso e forzato, perché tutto succederebbe troppo rapidamente per essere credibile. Il film di guerra permette quindi di descrivere con straordinaria concisione l’evoluzione di un atteggiamento o di un personaggio. Così i problemi più velocemente si sviluppano fino alle loro conclusioni logiche» [F].

Appare chiaro che (per quanto casuale possa essere stata la scelta del soggetto) nello spazio del cinema americano il genere di K. è, per elezione, il film bellico, scelto proprio in quanto esaspera i caratteri fondanti di qualsiasi genere (le qualità particolari elencate sopra da K. non sono altro che, potenziati, i vantaggi di sinteticità, formalizzazione tipizzazione delle storie, di caratterizzazione dei personaggi e insomma di «realistica» artificiosità dell’insieme, offerti da ogni genere). Se il genere, che è per quanto riguarda la narrazione il massimo di cultura sedimentata in proprio dal cinema, è in K. figura mediata dell’artificio stesso che è il cinema (e vediamo che viene scelto il genere ritenuto più efficacemente artificioso), la ricerca spinta di «credibilità» non si riduce alla riproduzione minuziosa e naturalistica dei particolari (del resto in tutti i suoi film contraddetta dall’uso costante di obiettivi più o meno sensibilmente distorcenti, e dalla stilizzazione delle inquadrature). K. è prima di tutto cosciente del carattere puramente filmico del verosimile ricercato (non bastando più l’efficacia pur notevole delle situazioni bellico–orrorifiche, sarà logico in questo senso l’approdo al genere SF in cui tutto o quasi può essere accolto), e mira perciò a una credibilità più «logica» che di suggestione, in quanto già all’interno delle suggestioni del genere–cinema. Può sembrare cinico introdurre così freddamente il discorso su un film che tratta di un problema umano come la guerra. Ma il film non è immediatamente antimilitarista né militarista, le sue intenzioni sono diverse dalla violenta ironia cabarettistica di Lester (Come vinsi la guerra), da quella ripetitiva e granguignolesca ma amorfa con cui Nichols mette in scena uno scatenato romanzo di Heller (Comma 22), dalla scelta derisoria altmaniana di mostrare lo «spettacolo» disarticolato delle retrovie (MASH), dall’apologo brechtiano di Losey (Per il Re e per la Patria) dalla visione popolar–marxista di Rosi (Uomini contro), infine dal lirismo umanitario di Milestone (All’Ovest niente di nuovo). K. non affida l’eventuale antimilitarismo dell’opera a un visibile punto di vista interno ad essa, o ad uno spostamento sugli aspetti beffardi del fatto bellico (vedi Lester e Altman), o a un’ambizione didattico–esplicativa sulla realtà (come Rosi), né comunque a un intervento più o meno critico della «regia» sul fatto–guerra raccontato dal film, né alla messa in scena di un soggetto già sufficientemente critico. Orizzonti di gloria è la costruzione della guerra e del suo funzionare. Lo è proprio perché ne ripete i riti glaciali, non perché mostri il nascere e lo svilupparsi del fenomeno. Esso è infatti già dato nella scritta iniziale («1916») e nella voce fuoricampo che brevemente puntualizza la situazione del conflitto, e le cui ultime parole sottolineano la posizione di stallo della guerra di trincea, nella quale «gli attacchi riusciti si misuravano in guadagni di qualche centinaio di metri, pagati con centinaia di migliaia di vite». In seguitola voce tace, e resta solo la situazione di guerra, una guerra storicamente determinata e con tutti i particolari al posto giusto (Churchill dixit), eppure guerra che pare astratta, guerra in cui non si vede un nemico, in cui non è mai questione di un nemico «aggressore» o ideologicamente «diverso». Il tutto non sembra meno astratto della «selva» di Fear and Desire, e il riferimento storico preciso crea solo l’incubo. In fondo K. stesso lo dice: sceglie la

Prima Guerra Mondiale perché è l’esempio immane di un conflitto gratuito, «una guerra scoppiata per caso», il cui senso non è comunque maggiore di quello della guerra dei Sette Anni. A parte la discutibilità del giudizio in questione, che è poi l’affacciarsi di un giudizio profondamente pessimistico su tutta la Storia, la situazione è chiara: anche qui ci troviamo nell’acquario, nella distanza della fiaba, nel gioco. La guerra come il gioco più complesso e crudele, nello stesso tempo forse il più tremendamente attraente. Grazie all’elemento visivo, K. sovrappone al vivido apologo letterario lo schematismo suggestivo della fiaba, specie nel continuo alternarsi dei due ambienti principali, il palazzo del comando e la trincea della truppa, geograficamente vicini e appunto lontani come l’antro della Strega e il palazzo del Principe (può essere anche Dracula principe delle tenebre). In questa direzione va la stessa scelta di Menjou e di un tipico «cattivo e sfregiato». Anche se K. è stato criticato per questa connotazione dei due generali come «cattivi» tipici, che smorzerebbe la portata antimilitaristica della cosa, la patologia tipizzata dei due «deve» contrapporsi simmetricamente alla «nobiltà» di Douglas–Dax. Il gioco rituale era partito subito; sotto la data iniziale, appariva un armonioso castello, un plotone di soldati si schierava in due file di fronte all’ingresso, una macchina arrivava e ne discendeva Menjou che si recava a portare l’amabile ordine–consiglio di attacco al collega. Tutta la sequenza, regolata appunto come un rito immutabile. Se rito è una parola che si può facilmente associare alla guerra, senza troppe vergogne, il «gioco» fatto con vite umane è invece, da circa due millenni, severamente riprovato (lo praticano, in isole «fantastiques», nobili perfidi; The Most Dangerous Game, La pericolosa partita; e viene socializzato solo nella letteratura d’anticipazione tipo La settima vittima di Sheckley). L’opinabile giudizio storico (o astorico) di K. riferito sopra si basa però su quella che fu la realtà bruta del fatto Grande Guerra: per anni, milioni di uomini nelle trincee, e gli insensati attacchi con ventimila morti per volta. La trincea come sanzione fisica di una guerra che si sapeva ormai di posizione, e decidibile non per offensive di soldati ma per potenza di artiglieria e ancor più per decisione di governi (vedi la pace di Brest–Litovsk). A noi è stato insegnato che Cadorna era stupido (o cattivo) per i suoi attacchi a tappeto suicidi, ma la maggior parte dei comandi, sui fronti principali nel 14–18, prese di continuo decisioni che votavano in partenza al massacro fino ai tre quinti degli effettivi in azione. Mireau che snocciola le percentuali di perdite previste nel folle assalto, forse è un sadico, ma soprattutto sta svolgendo un’indispensabile operazione logico–matematica: «metà dei suoi uomini periranno –dice a Dax –ma avranno permesso all’altra metà di prendere il Formicaio». L’ironia di K. sta nel prendere a esempio una guerra storicamente vera che, resa esattamente e «realisticamente», si rivela come puro assurdo. Non ha bisogno di sconvolgere apertamente il genere coll’invenzione fantastica o coll’evidenza della condanna o ancora mediante l’irrisione distorcente. Si capisce perché sia rimasto colpito dalla situazione proposta dal romanzo: il processo e la condanna per codardia, e ancor prima il tentativo di Mireau di far sparare sui propri soldati,

sono la riproposta dell’assurdo meccanismo di previsione e pianificazione della morte all’interno di una sola delle parti in guerra. La frase di Mireau infuriato per il fallimento rassicura lo spettatore del film di guerra; qualcosa si vedrà, «se non hanno voluto affrontare i fucili tedeschi affronteranno quelli francesi». Non c’è scampo; poiché il rito della presa o del tentativo di presa del Formicaio col suo olocausto (rito perché in ogni caso non c’è un fine bellico dichiarato: l’azione serve a calmare il Comando e a saziare una sete di carriera, così come le fucilazioni serviranno a placare l’opinione pubblica) non si è svolto fino in fondo, a ciò si rimedia con un rito più sicuro, più facilmente controllabile (come le riprese di un film), ma che ha la stessa struttura: decimazione o estrazione a sorte o pallottola non firmata del nemico, si ha comunque casualità nello sfoltimento. Nei confronti di tale meccanismo, si ha un atteggiamento kubrickiano ambiguo di fascinazione–repulsione. Da una parte l’interesse (sadico, direbbe Di Giammatteo) per i meccanismi di massacro (per i «trionfi della morte» di cui parla Ranieri) e per quello che resta il gioco più affascinante e complesso (perché vi è coinvolto su vasta scala l’uomo, pedina insolita e affascinante), dall’altra la condanna (logica prima ancora che morale) di un gioco appunto incontrollabile perché utilizza uomini, dalle passioni non del tutto previste, uomini che possono rifiutare all’ultimo momento di uscire dalla trincea per essere magari difesi dal magnifico Dax. Se le trincee testimoniano di uno stallo, se il processo vede muovere protagonisti e comparse sul lucido pavimento a scacchiera, ciò non può che chiarire l’assurdità e l’improponibilità del paragone, ma questo è il paragone e la coincidenza istituita nella guerra: nonostante la mozione umanitaria di Dax, nonostante il suo esplicito criticare quelle che sembrano aberrazioni («Mi vergogno di essere uomo» dice durante il processo, e in precedenza aveva replicato a Mireau che lo pungolava con spregevole retorica all’assalto, con la celebre frase di Samuel Johnson: «Il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie»), il rituale va sino in fondo, senza neanche il minimo ritardo. In pratica non c’è neanche partita, non c’è avversario (o è l’automa che muove e il bianco e il nero), e il matto è dato in partenza. La partita se la gioca se mai proprio K., costruendo il film su una serie quasi infinita di simmetrie e rinchiudendo quindi doppiamente gli uomini nella rete di un gioco in cui le regole sono solo sue. La simpatia evidente di Dax – dovuta alla bravura di Douglas ma anche al modo privilegiato in cui il personaggio è costruito rispetto agli altri – non riesce mai infatti a proporlo come soggetto eroe; egli non può né trasgredire le regole né crearne di nuove, è il «principe» (fallito) della fiaba, schematico come i «cattivi» e come loro (anche se per motivi opposti, e cioè per affezione ai soldati) letteralmente bloccato nel suo ruolo (all’inizio reagisce all’ipotesi di allontanamento dal suo posto, e accetta di guidare a morire quelli da cui non si vuole separare): la sequenza della battaglia (così deludente per chi la attende, spettatore o generale) ce lo mostra apposta, incerto, perplesso incapace di dominare l’azione, impossibilitato ad essere eroe. Gli stessi generali non hanno un vero disegno, a parte il carrierismo meschino, e quello di Menjou (quando nei colloquio finale si congratula con Dax promettendogli la promozione) non è

superiore cinismo di chi conosce le regole e sa che sono solo regole, bensì chiusura monomane nell’universo dell’intrigo (vedi infatti il suo stupore sincero quando Dax reagisce scandalizzato: «Non capisco in che cosa ho sbagliato con voi..., vi compatisco come lo scemo del paese»). E chiaro che in questo ambito si trova poco «umanismo» quale oggetto immediato. Anzi la definizione di uomo è sempre doppia, rovesciata di continuo e senza sentenza definitiva: il luogotenente di Mireau osserva la stupidità dei soldati che quando scoppia una bomba si ammassano come bestie stringendosi tra loro, invece di sparpagliarsi, Dax ribatte che proprio questo li qualifica come uomini; infine Broulard dirà che «non c’è niente di più tonico e stimolante per degli uomini che veder morire dei loro simili», e nessuna delle tre frasi sembra del tutto frisa o vera. La fascinazione–repulsione è già nell’accompagnamento musicale della sequenza dei titoli, una sforzata fanfara che esegue la Marsigliese non tanto una puntata banale sull’inno di libertà che si tramuta in introduzione all’oppressione, quanto l’indicazione lucida e disperata di una possibile contiguità o compresenza di barbarie e civiltà. Ugualmente, lo schematismo esasperato della struttura (ribadito quasi pleonasticamente anche nel «subplot» del soldato scelto tra i morituri per vendetta dal suo ufficiale, che a sua volta verrà sadicamente comandato da Dax a guidare il plotone di esecuzione), lo «schema filmato», il meccanismo da colonia penale, non possono che produrre il rifiuto. È quasi intollerabile infatti l’inevitabilità lungo la quale procede il film. K. lo costruisce in meccano (come The Killing). Le dissolvenze sono tre o quattro (usate come espediente teatrale, da sipario di fine atto, e non in direzione lirico–temporale), mentre domina il passaggio secco, il taglio meccanico e spietato (non convulso, perché il ritmo è sostenuto ma classico) come gli incastri privi di gioco in un macchinario. La musica dopo la Marsigliese sarà solo un ritmo ossessivo, per concludersi in un battito di tamburi sordi che negano sulla parola «Fine» il finale romantico di poco prima apparentemente fiducioso, consolatorio, catartico. Dall’esempio più forte di simmetria «meccanica» in questo film possiamo comprendere perché esso abbia suscitato tanti (non solo «meccanici» o automatici) apprezzamenti e ardori politici. Path, sentiero, traiettoria, orbita. È una parola che può servire per tutto K. fino alle orbite e traiettorie di 2001. È stato notato preziosamente come il titolo indichi già il punto saliente, tecnicamente parlando, del film: il percorso tracciato dalla m.d.p. Essa è in movimento (panoramico) già al principio, ma il percorso cui si allude è quello seguito dal lungo e ininterrotto carrello indietro che segue la visita di Mireau alla trincea («Pronti ad uccidere altri tedeschi?» chiede meccanicamente). La cosa è famosa, K. la lega addirittura (perfido) al fatto che nelle trincee venivano spesso allestite rotaie di scorrimento per i vagoncini dei collegamenti, per cui era «naturale» che la m.d.p. seguisse lo stesso tragitto. Con evidenza fisica quasi esagerata, il movimento integra la trincea in un’unica prospettiva, in una situazione quasi simbolica di monotonia cunicolare da talpe; ponendo inoltre il generale come centro costante dell’inquadratura, mentre i soldati gli «scorrono» ai lati. Puntuale, nella seconda parte del film lo stesso

movimento indietro viene ripetuto sul vialone davanti al Commando. La situazione è esattamente ribaltata, la m.d.p. segue ora (anticipandoli nel percorso) i tre condannati che si avvicinano al luogo dell’esecuzione. Grandeggia nella sequenza (anche per la sua robustezza fisica) la figura di Tim Carey in lacrime, assistito dal cappellano. Il rovesciamento è totale e minuzioso: Carey, che viene a prendere «possesso filmico» del luogo dei generali nello stesso modo in cui Mireau aveva percorso la sua trincea, ripete anche lui ossessivamente una stessa frase «Non voglio morire... perché devo morire? Io non ho fatto niente». Questa volta però, pur all’interno del rito istituito dalla guerra, dai generali e dalla m.d.p., la frase non è fredda e automatica ripetizione, un uomo piange nel pronunciarla. È quasi impossibile non piangere durante questa sequenza, ed è per questo (oltre che per la minore delimitazione fisica del luogo: ci sono però i picchetti schierati ai iati) che la riproposta del movimento non ha qui colpito la critica (che ha in genere scorto un senso politico e quasi di classe nella continua opposizione formale tra mondo dei generali e mondo dei soldati, mentre il contrasto ripropone quello costantemente langhiano – Metropolis, Il sepolcro indiano – e quasi astorico tra alto e basso, suolo e sottosuolo)... Proprio la rigidezza del meccanismo provoca l’emozione, ed è fondamentale che a ribadire il gioco degli scambi sia il movimento indietro, o comunque in profondità, che in seguito avrà tanta parte nel cinema di K. Mentre lo scivolamento laterale della m.d.p., nel carrello laterale o nella panoramica, non provoca traumi nello spettatore, permettendo anzi al soggetto di allargare il suo dominio) sulla scena senza metterne in questione il voyeurismo passivo, il movimento in profondità chiama in causa il soggetto, riproducendo la struttura di una sua entrata nella terza dimensione, chiamandolo a costruire lo spazio. Il voyeurismo viene da esso esasperato e quindi contestato, perché il lungo movimento avanti e indietro ha quasi gli stessi effetti di un’insistita «soggettiva», illudendo il soggetto che guarda di «penetrare» il mondo–schermo con l’identificazione fisica occhio–m.d.p., ma provocandogli anche subito l’ovvio disagio di chi sente di essere solo «finto» dalla macchina come soggetto. Tale movimento è al cinema per definizione il luogo dell’emozione, del desiderio (indietro o avanti, il carrello è decisivo per produrre qualsiasi momento erotico) o della paura (come ha capito bene Herzog). Dalla pura descrizione, dall’oggettivismo spietato del percorso laterale (estremizzato e chiarito nelle sue funzioni da Godard nella lunga fantascientifica scivolata a lato della strada di Week–end) di Rapina a mano armata, la mobilità della camera di K. entra d’impeto in questa nuova dimensione, senza incertezze lirico–erotiche alla Bertolucci, usando anzi «meccanicamente» anche questo procedimento, per di più all’indietro e quindi carico di ineluttabilità e della paura di qualcosa che –come direzione –«rientra in noi» allontanandoci dai luoghi che crediamo di possedere. Il riferimento spesso fatto ai lunghi e celebri carrelli di Lewis Milestone (non solo) in All'Ovest niente di nuovo, ma anche nella versione anni 30 di Prima Pagina) è fuorviarne, essendo troppo importanti le differenze: il momento di Milestone è quasi sempre laterale e funzionale alla descrizione di un percorso nell’ambiente (la

redazione del giornale, il campo di battaglia) da parte di un personaggio, descrizione a volte monotona e statica; nel film tratto dal romanzo di Remarque, p. es., serve a mostrare la contiguità, la vicinanza spaziale degli uomini che si combattono, il loro appartenere a una stessa «terra». Nel film di K., invece, non c’è quest’umanismo, non c’è il tedesco con cui si parla da trincea a trincea scambiando la pagnotta: la situazione è molto più cruda, uomini dello stesso paese che uccidono dei connazionali, e neanche loro sono «fratelli» c’è solo chi ha il potere e chi no. Procedendo per artifici, K. chiarisce qual è l’unico realismo che poi perseguirà in tutta la carriera. Realismo di adeguamento della realizzazione al suo progetto, realismo esatto nella costruzione del meccanismo voluto. Un realismo quasi «solipsistico», rivolto alla struttura del film come riproduzione della macchina logica. Questo va detto proprio per Orizzonti di gloria, il film che causò, specie in Italia, l’imporsi nella maggioranza della critica di un’immagine kubrickiana fatta di mitico realismo umanistico e progressista, immagine poi delusiva in quanto disattesa dallo stesso regista. Non è invece un caso che proprio la situazione bellica e il film di guerra (prima dell’approdo alla fantascienza della storia) costituiscano il corpus kubrickiano più esteso e omogeneo (Fear and Desire, Orizzonti di gloria, Stranamore, un po’ Spartacus) nel quale eventualmente rintracciare i diversi realistici meccanismi che di volta in volta K. produce da una stessa realtà. E la forza di Orizzonti di gloria viene solo da questo: dalla consapevole raffigurazione di una realtà di «gioco». La guerra è veramente il gioco più bello per molti (su questo K. non si fa illusioni), perché – se metafora è – è soprattutto metafora della vita, condensato e concentrazione di essa. «La sola storia di guerra davvero straordinaria, è l’Iliade» [F]. A parte il riferimento omerico che tornerà in 2001, c’è qui la coscienza delle ambiguità enormi della guerra, del fascino che le proviene dall’essere appunto metafora del tutto (come nell'Iliade; cfr. per questo le tesi di E Ferrucci nel suo L’assedio e il ritorno Milano 1974). Se il film «commuove» (e commuove) è per il geometrismo rituale che dà la verità di una situazione che malgrado tutto siamo abituati a considerare come un enorme gioco. La sua violenza è quella del contrasto tra l’aspetto di gioco prevedibile (sempre prevedibile, o quasi, in K.; come gli scacchi, gioco logicissimo eppure non ancora del tutto «risolto») e in fondo confortevole, e che magari vorremmo più sfrenato e selvaggio (come nel Fuller delirante eppur geometrico di L’urlo della battaglia), e il fatto flagrante che in questo gioco «si muore», si muore nelle spire del caso (come in qualsiasi «vita»). Come nel cinema di Lang, il fascino del meccanismo e della composizione figurativa è anche pericolosa fascinazione della morte (che verrà estremizzata in Barry Lyndon), sì che la figura “totale” della morte sarà costante in ogni film di K. La specificità di Orizzonti di gloria non è quindi la guerra, o lo è talmente da divenire struttura del tutto e non solo della guerra. La condanna sorge solo dall’ammirazione inconscia per un “bel” meccanismo che è poi produttore di morte. La paura della situazione è quella del gioco rituale (il gioco eroico e catartico della lotta bellica) che si scopre con orrore essere un sacrificio umano.

L’aspetto del conteggio della morte, della previsione dei suoi modi («preferisci la mitragliatrice o la bomba?» si chiedono i soldati la notte dell’attacco), del suo succedere implacabile (e K. solo dopo molte discussioni riuscì a imporre alla United Artists l’esecuzione finale invece di una grazia salvatrice), del suo avvenire senza eroismi, è il punto nero in cui il meccanismo si rivela non essere limitato alla guerra. La Grande Guerra, la prima guerra nella storia che in larga parte abbia risparmiato – almeno come effetti diretti – la popolazione civile, riducendosi a confronto di soli eserciti su larghissima scala, quindi il primo esempio di guerra in qualche modo depurata e in sé «astratta» (la guerra che giunge alla «coscienza» dello Zeno di Svevo), proprio questa guerra «separata», diventa così immagine perversa, affascinante e odiosa, della vita, di una vita certo separata e in cui i margini di gioco sono inferiori a quelli sperati, in cui alcuni guardano altri uomini nel freddo spettacolo del binocolo (Mireau che scruta le trincee), in cui la vita stessa scorre in tunnel spietati, costruita in «profondità» di campo le due finestre di Killers Kiss). E diverso da Losey, nome che dovremmo richiamare spesso a proposito di K. (Losey ammira K., e il suo Per il re e per la Patria si riferisce à K. nella riproposta del processo per codardia, e il The Criminal–Concrete Jungle, Giungla di cemento 1960, citava la rapina all’ippodromo di cui sappiamo, anticipando – nelle sequenze di «aria» in prigione – analoghe sequenze di Arancia Meccanica. Entrambi, Losey però fuggendo il maccartismo, si sono stabiliti in Inghilterra). In Losey, l’astrazione del teorema si riferisce sempre all’assurdità della guerra, mentre qui l’antimilitarismo nasce proprio dal porsi in assoluto del problema di morire, essere uccisi, non esserci domani, e non tanto dalla sommarietà del processo o dalla patologicità dei personaggi, che anzi il processo è il momento più scacchisticamente «previsto», già concluso prima di essere istruito. Antimilitarismo, quindi, come dubbio generale sul «senso» della situazione, se neanche Dax riesce a far nulla per i suoi uomini; dubbio sulla speranza, se il finale viene definito dallo stesso K. «abbastanza cinicamente romantico». Il successo di pubblico è limitato, e nonostante la grande risonanza (il film fu tra 1’altro proibito in Francia, dove è rimasto tabù fino agli anni 70; in Belgio provocò tafferugli tra associazioni combattentistiche e dimostranti pacifisti), e le molte lodi (si parla apertamente di capolavoro), K. non ha affatto spianati di fronte a sé i sentieri della gloria. I due anni che seguono vedono una sequela di tentativi abortiti, soggetti rifiutati dalle grandi case o dagli attori cui vengono proposti (Gregory Peck, e lo stesso Douglas, per il quale K. scrive inutilmente la storia di uno scassinatore). È il momento critico del «progetto K.». Abbozza una sceneggiatura sulla Guerra di Secessione che per ovvi motivi lo affascina – dopo la paradossale «guerra civile» di Paths of Glory –(e sulla quale Huston ha girato nel 1951 un film che K. ammira molto, La prova del fuoco, Red Badge of Courage), tenta la riduzione di un romanzo di Stephan Zweig (fantasma mitteleuropeo, come Schnitzler). Temuto dalle case di produzione, che paventano fastidi dall’originalità, lui stesso del resto sospettoso verso di esse, cerca di appoggiarsi a grosse figure di attori. Con Marion Brando un’intesa sembra possibile, e per sei mesi K. Calder Willingham (scrittore che ha già partecipato alla sceneggiatura del

film precedente, e con cui sembra potersi avviare un sodalizio) e l’attore si isolano a lavorare su un soggetto western. Potrebbe essere un nuovo capitolo nel confronto K.– generi, cioè della lunga marcia all’interno del cinema americano, ma sorgono contrasti e il solo Willingham resta con Brando, che dirigerà infine nel 1961 I due volti della vendetta (One–eyed Jack), western californiano di grande fascino visivo, in bilico tra mare, Messico e Stati Uniti, tra cinema giapponese e ricordi di Tennessee Williams (l’inconsueta ambientazione è stata ripresa di recente dal clan dei Laughlin per Master Gunfighter, Il pomo del grande massacro), e in cui l’unica cosa che manca è un controllo sicuro. In soccorso di K. torna Kirk Douglas, che sta producendo da solo il kolossal Spartacus (colore, 70 mm.) e che dopo pochi giorni ha licenziato, dopo un violento contrasto, l’ottimo Anthony Mann che aveva già diretto qualche scena. Poco più che trentenne, K. si vede affidare una produzione per la quale è stanziata la somma record di 12 milioni di dollari (c’è chi parla di 15), un «gioco» per manipolare il quale bisogna anche dirigere – nelle scene di guerra – più di diecimila comparse. Il salto è pauroso, ma K. accetta l’invito. Lascia temporaneamente l’amico Harris e si trova a lavorare con un attore protagonista che è anche il produttore del film, e con un'accolita di mostri sacri scelti dallo stesso Douglas col criterio di affidare all’eloquio raffinato di attori inglesi (Olivier, Laughton) l’interpretazione degli aristocratici romani, e alla lingua più libera e viva degli americani l’espressione del mondo degli schiavi e dei gladiatori. È appena uscito il magniloquente rifacimento wyleriano di Ben Hur; e Douglas si prepara a rispondere. Diciamo subito che il progressismo del film non è quello di K. il soggetto segna il ritorno in grande stile di Dalton Trumbo uno dei «dieci di Hollywood» vittime del maccartismo anni ’50, e già il romanzo da cui è tratto è opera dello scrittore ex–comunista (autore infatti, nei soliti '50, di pubblica «abiura») Howard Fast. L’impianto del film è un trattamento «popolare» della famosa rivolta di gladiatori (la più importante sollevazione di schiavi di cui si abbia notizia dall’antichità), che divulga in modo un po’ rozzo lo schema marxista della lotta di classe. Non è il caso di raccontare in dettaglio la lunga storia, che si basa su una decina di personaggi principali spiccanti dalla massa, sull’opposizione tra il Senato romano da una parte e l’universo degli schiavi ribelli dall’altra, sul modo in cui l’evasione e la rivolta dei gladiatori viene usata dagli esponenti del potere in Roma per combattersi tra loro, sulla «fatale» sconfitta finale dell’esercito di schiavi, e sul germe di speranza precristiana presente nella morte da martiri di Spartaco e dei suoi. Mi limito a questo cenno non per inutile rispetto della posizione di K. che vede in Spartacus l’unico suo lavoro maturo di cui non ha potuto avere il controllo completo, e che soprattutto critica il soggetto di Trumbo come «sommario trattamento di un personaggio storico» [F]; né appunto perché è l’unico soggetto su cui K. non poté lavorare liberamente: anzi sarebbe interessante confrontare punto per punto estraneità e concordanze di progetto–soggetto e progetto–regia. Ma il film è molto lungo, denso di storie principali e laterali la cui esposizione richiederebbe troppo spazio non resta che estrarre dalla visione del film alcune

sequenze e delle costanti utili a mostrare come per K. la mancanza di controllo sulla sceneggiatura sia già un «dimezzare» la regia (appunto per la totalità che investe il vocabolo nell’accezione kubrickiana, mentre non c’è dubbio che entro certi limiti un regista hollywoodiano classico – anche dei grandi – poteva mantenere intatti i caratteri del suo lavoro – e perfino della sua poetica – su qualsiasi soggetto gli fosse stato proposto), e come tuttavia il film resti affascinante – per diversi motivi e, sì, per merito di diversi “autori” – al di là della sua disorganicità come «pezzo» kubrickiano. Sarebbe incongruo, p.es., criticare lo schematismo del soggetto, dopo aver elucubrato sui geometrici meccanismi di Paths of Glory. In effetti, le semplificazioni schematiche nella fiction sono numerose e tutte di facile presa, ingegnosamente costruite. Le relazioni dei personaggi tra loro, in ossequio al titolo, passano tutte attraverso la figura di Spartaco, soggetto dello spettacolo cui tutto si rapporta. L’esempio più clamoroso di simmetria è quello dell’amicizia di Spartaco prima con Draba (il gigantesco gladiatore nero –Woody Strade – che dapprima non vuol sapere di stringere legami d’affetto con un altro gladiatore, con cui si troverà magari a dover combattere; e naturalmente i due devono incontrarsi a morte sotto gli occhi del feroce Crasso. Draba vince ma rifiuta di ottemperare al pollice verso, scaglia il tridente in gesto di ribellione, si getta sui patrizi, viene ucciso dalle guardie, e di lì a poco si scatenerà la rivolta), poi con Antonino (Tony Curtis), schiavo che fugge da Crasso il quale ha tentato di ottenerne amicizia particolare, e che nel finale pure si batterà con Spartaco in un’idea sublime e crudele di duello – voluto da Crasso – in cui ciascuno dei due lotta per uccidere l’altro ed evitargli il terribile supplizio della croce. In genere i confronti a due personaggi sono suggestivi (specie quelli shakespeariani tra Crasso –Oliver e Gracco–Laughton, schermaglie di eloquenza e di potere, in cui il secondo – l’unico personaggio che non vede mai il ribelle, puro teorico chiuso nell’elaborazione tattica, privo delle motivazioni crudelmente passionali di un Crasso – uscirà di scena senza un lamento nella sconfitta del suicidio) e precisi, filmati con capacità incredibili di composizione da K. per la prima volta alle prese con lo schermo grande e col colore. Né si può dire che lo schematismo sia estraneo alla tradizione del kolossal, genere atipico in quanto legato a definizioni quantitative esterne (durata, costo, numero di attori e comparse) e anche in quanto se non fondato certamente connotato e sviluppato da quel personale «maestro» che fu Cecil B. De Mille, e tuttavia definibile proprio per le semplificazioni che è costretto ad operare (fin dalla sceneggiatura) sugli ingenti materiali di cui dispone. Pletorico per solito di fatti e personaggi, il kolossal è molto meno formalizzato rispetto ai generi tipici, ha ambizioni «maggiori» (e maggiori sono i fallimenti). Il suo semplificare non si appoggia su una tipizzazione che gli appartenga in quanto «genere» né su modi narrativi già stabiliti, ma deriva soprattutto da necessità produttive esterne. K. vorrebbe estendere alla durata del kolossal (passa dall’ora e mezza di Orizzonti di gloria alle più di tre ore di Spartacus) e alle immense estensioni di paesaggio, e alle ricostruzioni scenografiche, e naturalmente al soggetto, il carattere di elementi di un problema logico da impostare se non da risolvere. Ma si trova una storia già

impostata ad un fine, tesa all’esemplificazione proprio come i film del vecchio De Mille, nel sapiente alternarsi di intimismo e spettacolo di massa. Solo il diverso e più definito progetto politico differenzia il soggetto da quelli demilliani (spesso tutt’altro che banali nei confronti della Storia; si pensi all’icasticità – sia pure un po’ Readersdigestica – di molte sequenze negli Invincibili, nei Crociati, nei Dieci Comandamenti ; si pensi al passaggio in Sansone e Dalila dalla cosmicità iniziale del mondo che ruota nello spazio all’intimismo esasperato), e la cosa può non essere un difetto in assoluto, ma lo è per K., che si vede sottrarre una parte essenziale del lavoro, quella sull’organizzazione complessiva e sulla interazione delle sequenze tra loro. «Ma dato che questi film erano in partenza concepiti a questo fine, la loro sceneggiatura era particolarmente disonesta, Non si poteva davvero credere al modo in cui le cose si svolgevano, perché seguivano un rito convenzionale» [F]. L’osservazione di K. (sul cinema americano anni 30) aiuta a comprendere qual è il suo disappunto per Spartacus (oltre a far intravedere la sua «morale» e la preferenza per una comunicazione indiretta, contro l’idea di film a tesi): non poterlo regolare come congegno complessivo significante solo nella totalità del suo costruirsi come congegno, in quanto già costruito secondo principi classici di progressione drammatica. Non gli piace la storia dei pirati che dovrebbero traghettare fuori d’Italia i ribelli, e che invece pagati da Crasso salpano all’improvviso, perché secondo lui il problema principale della Storia e del film era proprio: perché Spartaco, animato da infinita aspirazione di libertà e pur trovandosi (come stabilito storicamente) più d’una volta in posizione geograficamente utile alla fuga, abbia tergiversato. Cioè, il problema delle eventuali difficoltà o contrasti politici sorti all’interno dell’armata di ribelli, e quello (pensando all’opposta situazione in cui si trovò Annibale) della possibilità di allontanarsi per sempre dal «centro» (Roma), e insieme della paura di questa' possibilità, come una paura di essere liberi ma nel nulla, fuori dalla «civiltà» che sta in Roma per crudele che essa sia. Roma come metafora del mondo da cui non si può uscire, come luogo del dominio nel quale solo ha senso combattere il dominio. E Spartaco starebbe tra il Cartaginese che non conquista Roma già vinta perché non avrebbe una civiltà con cui riempire il buco prodottosi al centro, e Polibio che secoli dopo, colonizzato e antiromano, giunge a Roma e lì si ferma a scriverne la storia perché solo lì si produce la Storia. La convenzionalità di cui si lamenta K. è in questo caso quella delle situazioni che contraddicono la libertà smisurata di Spartaco. Si vede nelle sequenze di battaglia, e in quelle alla scuola dei gladiatori, come K. punti poi sul tema della lotta crudele tra uomini che diviene gioco e spettacolo (per i Romani), e sulla forza in qualche modo ludica dei gladiatori, che esce dai confini del gioco codificato abbattendo i cancelli superando le sbarre della «scuola»; l’attenzione è quindi dedicata all’allenamento dei gladiatori i quali in seguito si valgono delle loro cognizioni per educare gli schiavi alla lotta. Ma il gioco libero dai codici (rivolta pura tesa alla mitica libertà oltremare) non ha chances contro la potenza delle legioni, geometricamente organizzate, espressione a loro volta di potenza pura». L’unica via di salvezza

sarebbe la foga o il vietcong; ecco perché K. vorrebbe una spiegazione logica del fallimento o dell’impossibilità della foga. Anche il problema della schiavitù è trattato molto sommariamente nel soggetto, visto che la solita voce fuoricampo dell’inizio lo introduce con un ingenuo «pure, anche allo zenith della sua potenza, Roma è ancora affetta dal morbo della schiavitù», per cui tutto lo scontro tra i ribelli e il potere romano è impostato spesso come quello tra indiani e giacche blu nel western più semplicistico, dove il più forte vince tautologicamente perché è «il più forte», senza che si sappia perché la sua costituzione lo rende tale, senza che (in questo caso) si chiarisca come la schiavitù fosse uno specifico (e non un «morbo») nella civiltà romana come in quasi tutte quelle dell’antichità. Così, il film procede, fluviale e sempre attraente (K. non si permette di sabotare nessuna sequenza, anzi). Procede per squarci magnifici (il Senato che ricorda il Giulio Cesare di Shakespeare e Mankiewicz; anche se non parlerei –come si è fatto –di Brecht, o ne parlerei solo a patto di citare ancora De Mille, visto che la teoria dello «spettacolo popolare» brechtiano, molto più complessa e importante che la singola questione dello straniamento, non è in netto contrasto con le demilliane ambizioni pedagogiche, ma è se mai diversa la «coscienza» cui lo spettacolo si rivolge o che vuole suscitare, essendo negli Stati Uniti meno comprensibile il concetto, tedesco e europeo, di «coscienza critica»), per invenzioni registiche (il duello iniziale tra Draba e Spartaco, col ritorno espressionista nelle inquadrature attraverso la rete del gladiatore) e idee di sceneggiatura e 70 mm. di colore e musica, verso il carnaio inevitabile e la doverosa speranza che nasce dalla sconfitta sulla croce premonitrice. Solo, in esso K. non ebbe il modo di sfruttare l’occasione anticipata di esercitare anche sul kolossal le sue colossali ambizioni, di cominciare a «costruire paesaggi» e mondi interi. Come produzione, il film (girato tutto su suolo, americano, il che non manca di suscitare italiche proteste), riesce. Diviene rapidamente un «big boffo» (il termine di «Variety» per i campioni d’incasso). La pubblicità ricorda che è uno dei pochi a essere visto in pubblico dal presidente Kennedy: la generosità dell’assunto e insieme la ricchezza della realizzazione possono anche rientrare nella linea della «nuova frontiera», così come K. Douglas (di origine russa, è vero) è l’espressione gioiosa anche se poi nobilmente perdente di un’estroversa libertà «fisica» già magnificamente rappresentata nei Vichinghi di Richard Fleischer. Sono proprio i contrasti con Douglas, che ha l’ultima parola su tutto ed è timoroso di essere sovrastato come «star» del film dal giovane regista, a convincere K. a tornare subito con Harris e a giurare che d’ora in poi la prima clausola di qualsiasi contratto sarà quella della sua libertà di controllare ogni stadio della realizzazione. Malgrado che all’amorfo clima eisenhoweriano siano succedute negli USA le speranze kennedyane, K. si sposta in Inghilterra (per restarvi, fino ad oggi) con la stessa facilità con cui si era spostato da New York a Beverly Hills. Il motivo è ancora una volta casuale; i fondi che la MGM mette a disposizione per Lolita, dopo che K. e Harris si sono assicurati per 150 mila dollari i diritti del romanzo, sono congelati in Gran Bretagna e devono essere spesi lì. Il film, molto atteso

dopo il successo di Spartacus e per la piccante notorietà del romanzo da cui è tratto, viene presentato nel 1962 al Festival di Venezia, con esito mediocre. Rimarrà il film di K. più discusso e meno apprezzato. Principalmente, a causa dell’inevitabile solito confronto che vien fatto tra libro e film, come (senza mai nuovi argomenti) accade ancora oggi per qualsiasi adattamento da un testo di una certa importanza. Per lo stesso motivo, in Italia, dove il romanzo non è neanche stato “letto” ma semplicemente respinto come sottocultura semi–pornografica o al massimo come insignificante esercitazione stilistica (da noi arriva insieme allo Zivago di Pasternak, che monopolizza ogni tipo di nobile attenzione), il film viene trattato con condiscendenza, quale prova di una progrediente commercializzazione di K. (in USA il film ha incassi enormi), o benevolmente rifiutato come si trattasse di un lavoro su commissione. Non si sa o non si tien conto della precisa volontarietà nella scelta del testo. È invece proprio con Lolita che si delinea in modo definitivo il «viaggio nello spazio»: l’artificialità di Lolita (che molto acutamente Marcorelles chiama «clima da serra») è già l’atmosfera di un’astronave. Dato il globale disinteresse filmico di K. per i problemi della sentimentalità amorosa, è abbastanza evidente e significativo il motivo della scelta. Nel romanzo di Nabokov (scacchista, gozzaniano collezionista di farfalle, disegnatore finissimo e ironico di mortali arabeschi linguistici) è sviluppato con chiarezza accecante quello che è il tema dei temi kubrickiano, quello da cui si produce ogni suo film: l’ossessione. Humbert Humbert, professore di letteratura francese e inglese di provenienza mitteleuropea ma trasferito in America per lavoro, sui quarant’anni, va a pensione da una giovane vedova in una cittadina della nuova Inghilterra vicino alla quale ha avuto un breve incarico universitario. Da sempre facile alla passione per le giovanissime, si invaghisce della dodicenne Dolores (Lolita) figlia della padrona di casa. Per mantenersi aperta la possibilità di soddisfare un giorno (ma presto, prima che passi l’età di lei) le sue «insane voglie» Humbert accetta anche di sposare la madre. Dopo la morte casuale ma «provvidenziale» di costei in un incidente, Humbert riesce a dar corpo ai suoi sogni. In una sorta di folle «viaggio di nozze» attraverso i motel degli Stati Uniti, consuma il suo febbrile legame con la ragazzina. Un giorno, ciò che il possessivo geloso e impaurito Humbert sospettava, accade. Lolita gli viene rubata da un bizzarro individuo, maturo commediografo di successo, Gare Quilty. Per mesi Humbert insegue ovunque, invano, la coppia. Rivede lolita solo un anno dopo quando, sposata con un giovane, e incinta, gli scrive chiedendogli soldi. Humbert rivedendola, ormai priva della sua grazia di ninfetta, si accorge di «amarla», ma lei non accetta di seguirlo, e gli racconta la storia del suo rivale, col quale lo aveva tradito già prima di lasciarlo e che l’aveva poi scaricata dopo averla «usata». Conosciuta l’identità del «turpe individuo», Humbert lo va a trovare nella sua barocca dimora e lo uccide. In carcere, prima di morire, scrive la sua storia.

Non interessa qui la fedeltà o infedeltà verso Nabokov, il quale firmò la sceneggiatura che fu però da K. ampiamente e liberamente manipolata. Rispetto al problema dell’età di Lolita, che K. avrebbe sensibilmente aumentato scegliendo la quindicenne Sue Lyon per la parte, K. stesso ha ironicamente notato (a proposito di «normalità») che il pubblico americano maschio medio ha evidentemente la tendenza (invero perversa) a raffigurarsi le dodicenni come bambine di nove o dieci anni. K. ovviamente non ha potuto mantenere il fascino «linguistico» del testo originale, ma è stato in grado di conservare l’humour sottile ma dilagante, l’aspetto di «pastiche» tra diversi elementi culturali (popolari e non), e l'ossessionalità. Il romanzo abbonda in accenni alla possibilità che avrebbe la cinepresa di immortalare ora Lolita che gioca a tennis, ora il suo sorriso a metà tra il malizioso e l’incosciente, ora un paesaggio attraversato (Nabokov è un appassionato di cinema), ma l’idea di una semplice traduzione visiva di immagini letterarie sarebbe stata del tutto errata, dato che il fascino del monologante raccontare di Humbert Humbert è proprio nel tentativo continuo di rendere il ricordo, lo struggimento, l’indefinibile incomprensibilità di momenti e visioni in realtà profondamente soggettive, con il vertiginoso e barocco ricorso alla parola («Oh, mia Lolita, io non ho che le parole da far giostrare sulla scena!»). Anche il gioco di K. quindi, dopo le forzose semplificazioni di Spartacus, torna a farsi complesso, come già il soggetto impone, se P. Citati definisce Humbert Humbert «un simbolo collettivo: una “summa” stilistica del nostro tempo». Che K. punti molto di più sull’ossessione in sé che sul suo oggetto (Lolita), è dimostrato già dal principale spostamento operato rispetto al romanzo: l’insediamento all’inizio della sequenza dell’uccisione di Quilty, che vedremo ripetuta in coda (come è nel romanzo). Ciò, oltre a introdurre il suspense che provocherà in seguito ogni apparizione di Peter Sellers (Quilty, mascherato da professore tedesco – Zempf, stranamoresco – o da poliziotto logorroico), incornicia tutto il film in un’atmosfera onirica, di soliloquio onirico (nabokoviano) profondamente soggettivo: e si capisce quindi anche qui in quale senso è ormai orientato il «realismo» kubrickiano. Ancor più, rammentandoci The Killing, l’accorgimento costruisce un tempo particolare e sospeso in attesa di richiudersi, ma comunque tutto incentrato sulle relazioni tra Humbert e i modi temporali della narrazione. Dopo i titoli e la sequenza citata, si ha infatti il lungo flashback (preceduto dalla scritta «Quattro anni prima») introdotto in prima persona da Humbert e da lui diverse volte commentato fuoricampo, quindi la ripetizione dell’omicidio, e infine un’altra scritta finale: «Humbert Humbert morì in prigione di trombosi coronaria in attesa di essere processato per l’assassinio di Clare Quilty». Ma l’idea della «fine» posta in partenza non serve solo a produrre un genuino suspense che rimpiazzi, quale elemento di interesse immediato, la quasi assoluta castrazione (obbligata, data la censura del periodo) degli aspetti visibilmente erotici del rapporto ossessivo tra Humbert e Lolita, ma soprattutto a portare in primo piano un elemento meno accentuato –ma sempre alluso –nel romanzo. Cioè, il carattere di «doppio» che ha Quilty rispetto a Humbert. Nel film, alla maschera un po’ grigia e immota di Humbert (un James Mason che fa ricordare la non minore fissazione ossessiva – là

per il denaro – del suo Cicero nel film di Mankiewicz, e del personaggio di Bigger than Life – Dietro lo specchio – di N. Ray) si contrappone a più riprese, come manifestazione estroversa di uno stesso «vizio» ossessivo, il cinico vivacissimo fregolismo di Quilty–Sellers, che segue passo passo l’itinerario del protagonista per sostituirsi infine a lui e realizzare anzi il suo stesso sogno. Se nel libro Quilty era percepito da Humbert più che altro come «doppio culturale», con il suo stesso gusto per la citazione letteraria e per il calembour («benché più volgare e superficiale»), qui, prima di essere ucciso, Quilty addirittura invita Mason a una partita a ping–pong (scacchi volgarizzati, e «sport» preferito di K.), gioco in cui la medesima pallina è oggetto della stessa maniacale (ma ludica) attenzione da parte di due giocatori vicinissimi che si specchiano l’uno nell’altro: la didascalia ultima, infine, lega nella morte i due nomi, uno all’inizio e l’altro alla fine della frase, in modo inequivocabile, e senza neppure nominare Lolita (di cui invece nel romanzo si annunciava la morte per parto). Il tutto avviene in una dimensione di fiaba (e poi di fiaba–mito, con l’apparizione di Lolita–Jean Harlow, LolitAlice che si muove dentro al cerchio dell’hula–hoop, centro per Humbert irraggiungibile anche quando raggiunto, corpo–centro che lo porta a distruggersi) che darà in seguito un tono étrange anche alle notazioni realistico–satiriche del film (il ritratto ora pietoso ora spietato di Shelley Winters, la madre di Lo, «madre» che tornerà invecchiata e del tutto disillusa nel Bloody Marna, Il Clan dei Barker di Corman; la provincia americana). Humbert scivola all’alba dalla porta socchiusa nel cadente «maniero» incantato di Quilty, si muove allucinato nelle stanze sottosopra per le orge della notte precedente, entra nel luogo della perversione e per non contaminarsi neppure si toglie il cappotto, di fronte a Sellers che lo accoglie in pigiama e si avvolge in lenzuola posando da antico romano (le sue prime parole, «Sono Spartaco. Siete venuto forse a liberare gli schiavi?», giocano col film precedente) provando ancora a giocare la commedia dei travestimenti e delle parole da mago sapiente. Ma se la prima sequenza ha questa fruizione di proporre le chiavi di tutto il film prima ancora dell’apparizione di Lolita, e se propone il gioco temporale come essenziale per una storia che nel romanzo era tutto un mescolarsi di date e ricordi, un procedere e tornare indietro, necessariamente e ironicamente, visto che l’ossessione erotica di Humbert si definisce per la precisa limitazione temporale dell’età del “ninfaggio” (dodici–tredici anni); è solo nella ripetizione finale che si chiarisce il suo senso segreto, il segreto kubrickiano nascosto nella chiarezza. L’ovvio amore di K. per l’ossessione messa in scena da Nabokov è infatti dovuto alla rivelazione (gradualmente preparata ma sorprendente nel libro; più «chiara» –lamenta K. – nel film perché mancando l’occhio erotico della permissività l’infatuazione di Humbert visibilmente casta, ha fin da principio un che d'amourfou) di quale è il cuore di tale ossessione apparentemente fisico–meccanica: l’amore più estremo ed asociale (l’anormalità del desiderio di Humbert è tale solo in relazione ad una «norma» sociale), infine indifferente all’oggetto nonché all’età. Humbert si accorge di amare Lolita pur «invecchiata» e incinta e anche nella stupidità evolutasi fino a ricordare la madre, l’ossessione si

mantiene e si fa pura supera l’oggetto quasi feticistico di sé (la ninfetta transeunte) e l’immobilità del fotogramma, per perpetuarsi in forma vuota dentro la quale torna però la «persona». K. può far intravedere cosa può esserci al cuore dei suoi freddissimi meccanismi e della sua ossessione in (per) essi, nel suo folle perseguire il cinema come astrazione e insieme realizzazione assoluta. Quilty viene ucciso dentro al palese déco cinematografico che è la sua dimora, perché è il cinema–spettacolo cinicamente soddisfatto di sé (le sue parole al primo sparo di Humbert: «Smettiamola di giocare con la vita e con la morte. Io sono uno scrittore di drammi. So tutto su questo genere di tragedie e di commedia e di “fantasy” e di tutto. Ho al mio attivo cinquantadue drammi e sceneggiature di successo...»), colui che è riuscito in quello che sembrava il fine dello stesso Humbert, godere Lolita in pace e scriverci sopra (nel libro, si scopre che il lavoro di maggior successo di Quilty è stato, anni prima, La piccola ninfa). Il maniaco monomane Humbert, che pure è all’interno del cinema, uccide – per amore – la puramente meccanica esplicitazione di sé. Non è possibile negare che la sofisticazione allusiva di questo gioco difficilmente si comunica allo spettatore, e che la critica stessa può trovare il film ora disorganico, ora troppo «freddo», ora incerto: sono in fondo aggettivi che delineano un disagio psicologico reale cui non è estraneo proprio il centro doloroso della struttura grottesca del film. Tuttavia sul popolare e sul comunicabile il film dice qualcosa. È organizzato infatti come una contaminazione di diversi generi, anzi di tutti i principali generi classici cinematografici (meno il western e il musical): dalla commedia (black comedy e delirio verbale alla W.C. Fields) al poliziesco e all’horror, dal dramma sentimentale borghese al melodramma. Una raccolta di diversi «spettacoli» quale si ritroverà in Arancia meccanica. Lolita diviene quindi anch’esso un spettacolo che si proietta su diversi «schermi», tutti quelli dell'universo spettacolistico della comunicazione popolare. (Ancora nel libro: «Lo, a quel tempo, aveva ancora per il cinema una vera e propria passione. Assistemmo, con voluttà e senza discriminazioni, oh, non saprei, a centocinquanta o duecento programmi cinematografici in quel solo anno. I generi che ella preferiva si seguivano in quest’ordine: film musicali, film polizieschi, western»). E c’è nel film una sequenza – esaltata dalle ombre e luci del bianco e nero – in cui la strana futura famiglia assiste dalla macchina, in un drive–in, a un Frankenstein. Si hanno tre diverse reazioni: la vedova ha un sobbalzo di paura (reazione istericamente «vera» alla messa in scena fittizia dell’orrore), la figlia segue invece automaticamente assorta e dentro al gioco più che impaurita, mentre Humbert l’intellettuale approfitta della propria indifferenza per assaporare il contatto delle mani di Lolita, e il suo volto contratto testimonia di un’altra emozione «vera». La coscienza delle diversità nella fruizione permette a K. di mantenere i diversi toni del film a un livello di comunicazione media, senza fuggire nel preziosismo stilistico che poteva essere l’approdo più facile. Troviamo insieme: il solito attento lavoro sulla profondità di campo, importante qui per il ruolo centrale dell’occhio geloso e goloso di Humbert che disloca i vari piani

dell’inquadratura, e gli ammiccamenti ironici, come l’ultima inquadratura (Quilty, – ucciso dietro un ritratto di donna su cui si legge la data, 1776 e oggi che è passato il Bicentenario si capisce bene l’allusione all’America, ai suoi miti sognati, al puritanesimo e alla sessualità sessuofobica). Realismo e onirismo, sentimento e cinismo, si integrano perfettamente in sequenze come quella (memorabile e inventata da K.) di Humbert che apprende della morte improvvisa e «casuale» («A nessun uomo può riuscire un delitto perfetto, solo il caso può farcela») della moglie: si raccoglie nella vasca da bagno a pregustare la gioia che avrà con Lolita, e in preda a lieve ubriachezza risponde alle condoglianze dei vicini. Il romanticismo razionale e la costruzione cosciente del labirinto fanno pensare a Poe; e il libro stesso era pieno di nascosti riferimenti a Poe, già citato in un «jeu de mots» Poe–Poe come H. H.) e (come mette in luce Fiedler nel basilare Amore e morte nel romanzo americano) lontano modello di Nabokov con le sue giovinette le Annabel delle poesie, e Annabel è il nome della causa prima di tutta la ninfolessia di Humbert. Con tutto ciò, il film conserva una fluidità notevole, e ancora quasi la semplicità delle fiabe. E ciò colpisce p. es., Godard (cit.), che scopre K. con Lolita, pur travisato da lui come film critico e demistificante sul sesso americano, mentre altri (Marcorelles) si rendono conto del carattere logico–cinematografico dell’operazione kubrickiana, cui già alludeva M. Bernard quando recensendo Spartacus notava che «l’interesse del film è soprattutto sul piano della concezione» e nel modo «poliziesco» di trattare un soggetto «politico» (sul che Barthes sarebbe d’accordo). In realtà, Godard apprezza Lolita – illuso dalla classicità e dalla minor evidenza del progetto –come un «piccolo film» dalle ambizioni finalmente limitate, e, anche se il suo Pierrot le fou vorrà essere «un film alla Lolita» (come lui stesso dichiara; e lo baserà poi su un romanzo del White di The Killing), K. resta un regista (in termini godardiani) «i cui movimenti di macchina non esprimono una concezione del mondo, come in Ophuls». Il «vuoto» del film è invece proprio sul piano dell’amore, sessuale e non. L’erotismo, oltre che negli occhi vagheggiami di Mason, è tutto chiuso nella sequenza dei titoli, in cui si vede la mano di Humbert toccare un piede di Lolita e cominciare a laccarne con dolcezza e pazienza le unghie. Ma la piana relazione tra uomo e donna è assente nel cinema di K., dove se anche la donna ha un ruolo decisivo o spesso ribaltante (il finale di Orizzonti di gloria, la moglie fedifraga in Rapina a mano armata, la voce alla fine di Stranamore, la firma di Lady Lyndon) ha tuttavia uno spazio limitato, e la famiglia o è completamente esclusa o è una speranza troncata (Spartaco e Varinia) o un penoso sodalizio (Arancia meccanica). Sembra che solo rapporti abnormi o falliti abbiano posto, o lo spazio meta–sessuale di 2001, o la violenza di Arancia meccanica. Per molti versi, il film più «erotico» di K. è Il dr. Stranamore (1963) (girato anch’esso in Inghilterra), che segna la fine della collaborazione con Harris (il quale vuol passare alla regia ed esordirà due anni dopo con Stato d'allarme, film che sembra essere la risposta «realistica» a Stranamore). È il risultato dell’interesse, acutissimo da anni in K. (ottanta libri letti sull'argomento, oltre a tutte le riviste di armamenti e studi strategici), per i problemi derivanti

dall’esistenza e dall’eventuale uso delle armi atomiche. Anni 60. Impazzito, in preda a delirante anticomunismo, il comandante di una base aerea americana manda ai suoi aerei l’ordine cifrato di attacco atomico contro l’Unione Sovietica. Spera in tal modo di spingere il Presidente a sfruttare il vantaggio acquisito coll’ormai inarrestabile prima salva (solo il generale conosce il segnale per richiamare i bombardieri alla base) – che sicuramente provocherà una reazione atomica sovietica –per lanciare un attacco a fondo con buone possibilità di riuscita. Il Presidente rifiuta il folle ricatto, convoca lo Stato Maggiore al Pentagono, invitando anche l’ambasciatore sovietico. All’esercito viene ordinato di prendere a tutti i costi la base, per poter ordinare il rientro agli aerei. Qualche «falco» invece consiglierebbe proprio di sfruttare la situazione determinatasi. Ma dal telefono diretto Mosca–Washington giunge la notizia che i russi hanno già da pochi giorni in funzione l’ordigno «fine del mondo», arma di dissuasione assoluta, che in caso di esplosione atomica su un qualsiasi punto del territorio nazionale provocherebbe una letale pioggia radioattiva infestando per decenni tutta la Terra. La cosa doveva essere annunciata al mondo intero (solo se conosciuta un arma del genere può far valere la sua tremenda efficacia) durante la parata del 1° maggio. Presa la base, ricostruito fortunosamente il cifrario che sembrava perduto per il suicidio del generale pazzo, gli americani riescono in extremis a richiamare tutti i bombardieri: meno uno che, colpito da un missile, con la radio fuori uso. prosegue inesorabile verso un obiettivo secondario, sfuggendo ai radar col volo radente. La bomba precipita sull’obiettivo; comincia la «fine del mondo». Al Pentagono il dottor Stranamore consigliere scientifico di origine tedesca, spiega come si potrà perpetuare la razza (e la nazione) trasferendo nei più profondi pozzi minerari gli appartenenti alle principali scale gerarchiche e individui razzialmente perfetti, un maschio per dieci donne, al fine di permettere un rapido ripopolamento in vista di un futuro riemergere alla luce del sole. Quando Stranamore finisce la sua relazione (mentre il «falco» ricomincia ad accusare di spionaggio l’ambasciatore nemico), come per un miracolo si alza dalla carrozzella su cui sedeva paralizzato, quindi il fungo atomico occupa lo schermo, e una voce di donna canta un motivo degli anni ’40: «Ci incontreremo ancora, in un giorno di sole...».

Lolita dava l’immagine della serra–astronave in cui si produce il cinema di K., Stranamore è il primo film palesemente costruito all’interno di tale spazio inedito. Inedito anche se i primi anni ’60 vedono l’avvio abbastanza fortunato del genere «fantapolitico»: Tempesta su Washington di Preminger, Sette giorni a maggio di Frankenheimer, L'amaro sapore del potere di Schaeffner, A prova di errore di Lumet, film questo prodotto un anno dopo quello di K. e in cui un «errore» atomico – ancora ai danni di una città russa, Mosca – viene riparato dal Presidente USA Henry Fonda ordinando ai missili americani di distruggere senza preavviso New York. Arena di dibattito e spettacolo «nuovo» nato col mito

kennedyano, dalla fine tragica di tale mito trarrà ancora un po’ di linfa per qualche anno, poi il vuoto fino al magistrale Perché un assassinio di Pakula (ma siamo già oltre il 1970). Questo genere è lo schermo popolare su cui è proiettato Stranamore, essendo la popolarità di esso un intrigo politico –poliziesco le cui possibilità di suspence sono allargate dalla scala nazionale o mondiale degli avvenimenti e dal gioco inquietante sul futuro. Simile spazio attrae K. per la libertà e astrattezza che concede. Per K., è la libertà di costruire il più dichiarato e constatabile di tutti i suoi film–congegno, la più visibilmente perfetta delle sue macchine per la storia che narra lo scacco più tragico. I pezzi qui si incastrano come ingranaggi senza giunture, combaciami con secchi rumori di «slam» meccanici, senza nessun bisogno di olio lubrificante. Tutto ciò, è per la prima volta riprodotto da K. nell’immagine delle macchine (computer della base, bombardieri, mezzi di comunicazione), che raddoppia quella (della follia) dell’uomo. La metafora principale, che indica tutto il meccanismo, è quella sessuale. (Ciò rinvia a Lolita, il quale si legava a Spartacus con la battuta di Sellers. Il gioco magari plausibile, ma irrilevante, dei supposti riferimenti al film successivo – o al precedente – in ogni tappa di K., ha intrigato parecchi critici, contenti di poter formare almeno una collana dalle pietre diverse. Vedi anche Ciment: «L’esplosione cosmica alla fine di Stranamore è un preludio a 2001. L’occhio del feto alla fine di questo film annuncia la prima inquadratura di Arancia meccanica sull’occhio del mutante Alex. Le persone in abito vittoriano che applaudono gli exploit sessuali di Alex nell’ultima inquadratura di Arancia meccanica sarebbero forse i futuri lettori di Thackeray, celebrante le traversie e le scappatelle dello scavezzacollo Barry?»). Il nome del titolo (con in più il sottotitolo: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba) è la prima indicazione della presenza della metafora sessuale. Dopo una scritta cautelativa della Columbia (casa distributrice) in cui si afferma che nella realtà il sistema di sicurezza americana rende impossibili certi incidenti (ma alla fine tale scritta rientra agevolmente nell’irrisione generale), il film inizia con la voce fuoricampo che su una distesa di nubi spinte dal vento dalla quale spuntano cime di montagne accenna alle notizie che «da più di un anno» (non ci sono date nel film) correvano sull’arma totale che i russi stavano costruendo tra le nebbie di una località artica. Subito dopo si ha l’inquadratura «fallica» della protuberanza sul muso di un bombardiere, e quindi, al suono di suadente melodia (infatti, Try a little Tenderness), assistiamo al rifornimento in volo di uno dei B–52 sempre pronti a correre verso il proprio obiettivo una specie di siringa scivola dall’aereobotte e si innesta «dolcemente» in musica sul dorso del bombardiere. La sequenza e stata vista sia come coito che allattamento, e le numerosissime allusioni sessuali del film sono state lette sia come riferimenti ironici che come singole metafore (cfr. Walker, Phillips, Ranieri), ma non è un semplice codice di lettura tra gli altri quello che si istituisce dall’inizio, quanto piuttosto la struttura che sostiene il meccanismo di costruzione del film e (cioè) di distruzione del mondo. Il generale che scatena il disastro è un impotente che accusa il complotto comunista di avvelenare i «fluidi vitali» degli

americani, e che ha deciso di negare alle donne corruttrici il suo personale fluido. Dei tre personaggi impersonati dallo scatenato Sellers, due (il Presidente e il Cap. Mandrake, l’ufficiale inglese che alla base aerea cerca di convincere il folle a desistere, e che dopo il suicidio di questi ricostruisce infine il fatidico segnale di ritorno) danno impressione di debolezza e scarsa virilità; il terzo (Stranamore) bloccato sulla sedia a rotelle dà alla fine chiari segni della sua ossessione sessuale quando gli brillano gli occhi nel prevedere gli accoppiamenti sotterranei. Il «falco» stolido tronfio generale Turgidson («figlio del turgido», George C. Scott) è convocato al Pentagono mentre stava per concedersi un distensivo relax con la segretaria–amante (la stessa che abbiamo visto poco prima scrutata dal comandante del bombardiere nel paginone centrale di «Playboy»), e dalle sue telefonate sarà tormentato durante la riunione. Il premier russo è «disturbato» dal collega americano durante un week–end galante nella sua dacia di campagna. Il «pacchetto di sopravvivenza» di cui dispongono i membri dell’equipaggio del bombardiere contiene (oltre a quasi tutti i simboli–oggetti dello scambio capitalista, dal dollaro al rublo alle calze di seta) anche una scorta di preservativi. Infine, tutta la cavalcata del B–52 «protagonista» è ritmata dalla mistura ossessiva di due marcette (la sudista When Johnny comes Marching Home e la westerniana Riders of the Sky ) sottolineata dalle batterie e da pesanti interventi dei fiati in un procedere da inarrestabile stantuffo, e inquadrata spesso in modo da rendere visivamente lo scivolamento irresistibile in avanti (l’aereo – inquadrato da sopra – «slitta» velocissimo lungo la Terra, schiacciato su di essa dalla m.d.p., destinato dalla mancanza di carburante a incontrarsi traumaticamente con essa) e da provocare il coinvolgimento più fisico che emotivo dato dalla rapida «penetrazione» dello spazio dello schermo (operata qui non dalla m.d.p. come in Orizzonti di gloria, ma dallo stesso oggetto ripreso come una diligenza che solca la prateria western). Al termine l’esplosione. Il comandante dell’aereo, maggiore «King» Kong (il caratterista western Slim Pickens), sblocca la macchina danneggiata che non ne vuol sapere di partorire la bomba, e a cavalcioni della bomba stessa precipita sull’obiettivo, urlando e sventolando (come i cowboys nella «partenza» del Fiume rosso) il capellone Stetson con cui fin dall’inizio dell’attacco ha sostituito il casco regolamentare. L’avvicinamento lo schiantarsi a terra del binomio uomo–bomba sono realizzati con uno zoom violentissimo, ingoiarne, fisicamente offensivo e nello stesso tempo attraente e ormai «da compiersi» come un orgasmo irrefrenabile. Mentre al Pentagono si ipotizza la riproduzione sotterranea in serre riscaldate, il fungo si alza, poi – costruzione fallace – si disperde in nubi luminose, puri cerchi di luce, luce che tramonta, e la voce di Vera Lynn canta una vecchia canzone della Seconda Guerra mondiale sulla speranza di rivedere i reduci: «Non so dove, non so quando, ma ci incontreremo di nuovo, in un giorno di sole...» (Well meet again), è anche un appuntamento per il prossimo ma impossibile «accoppiamento», un rifare l’amore dopo che il mondo si distrugge nel gigantesco orgasmo di una copula tra la bomba e la Terra, resa orribilmente «feconda» dalla Bomba totale che vi è stata installata. Se il cerchio si chiude con nubi luminose

che rimandano all’inizio, se ancora una volta K. sembra aver costruito il congegno con cinismo e anzi deridendo un costitutivo atto fisico dell’uomo con la metafora della distruzione che si sostituisce ad esso riproducendolo, tuttavia nell’immane derisione è posto precisamente il problema della responsabilità razionale dell’uomo e delle meccaniche perversioni del potere. L’immagine stupenda e decisiva dell’uomo a cavalcioni della bomba, nell’ineluttabile esplosione provocata dal «caso», è violenta e precisa contestazione dell’apparenza stessa di ineluttabilità; se l’esplosione è cosmica, all’origine di essa v’è ancora l’uomo (come mostra la struttura, denudata nel film, dell’atto sessuale e della procreazione), anche se non molto più cosciente delle sue macchine (il che sarà ironicamente estremizzato in 2001). Quasi inutile analizzare nei dettagli il congegno filmico Stranamore. La strana rigorosa meccanica struttura di questo «amore» è infatti chiara già a una prima visione. Tutta la vicenda è risolta essenzialmente in tre soli ambienti: la base di Burpleson, il bombardiere «Leper Colony» (colonia di lebbrosi), la War Room al Pentagono. Il passaggio da un décor all’altro viene orchestrato in modo «musicale», non nel senso delle dolci melodie udibili alle estremità del film, ma in una sempre più ossessionante progressione ritmica. La m.d.p., passando bruscamente da un décor all’altro, li mette demiurgicamente in relazione e contrasto. La «crisi di comunicazione» (Walker) fra i tre luoghi è il primo ironico segno di debolezza in un apparato gigantesco, quello della comunicazione «totale» e continua nei media. La potenza e comodità di tali mezzi viene elusa ed irrisa da un semplice divieto da parte del comandante della base (infine il suo nome: Ripper, lo squartatore, con riferimento al mitico e storico Jack), che fa bloccare le linee telefoniche con l’esterno e confisca radio e televisioni; Sellers–Mandrake, quando sente per caso da una radiolina confiscata provenire musica leggera, comincia a comprendere che è assai improbabile che sia in corso una guerra nucleare con i russi, e viene a sapere da Ripper la verità: ma la stessa musica leggera che a lui permette di rendersi conto della situazione, per lo spettatore è ironicamente l’accompagnamento trascinante del volo inarrestabile dell’aereo, il ritmo che porta al disastro, mentre negli altri due ambienti non si ha musica e si cerca di impedire la catastrofe. Lo stesso «gioco» si ha nei confronti del cinema come mezzo apparentemente realistico di comunicazione e trasmissione: la camera a mano e la fotografia casuale degli scontri tra il personale della base e l’esercito, vuole accentuare l’illusione di realtà, in senso cine-giornalistico: ma è la realtà assolutamente «indefinita» e priva di senso che si ha dall’immagine filmica (come nel «reale» bruto), secondo il processo che nelle stesse sequenze fa stupire i difensori della base – istruiti e ingannati da Ripper – per le «perfette imitazioni» di armi, autocarri e divise, che gli «sporchi rossi» sono riusciti a procurarsi («saranno nostri residuati bellici», aggiunge un milite, in una delle innumerevoli battute del film). L’immagine in sé non definisce nulla, può essere A o B: solo l’organizzazione di diverse immagini e l’informazione su di esse permettono un discorso. In Lolita il grottesco che toccava tutti i personaggi veniva però assorbito

nella mediazione generale del melodramma, istituito (in una variante un po’ raffreddata) dal gioco dei desideri, dei rivolgimenti improvvisi del racconto, dell’agnizione. In Stranamore la principale mediazione è quella operata dalla farsa, che è insieme satira. Il meccanismo è incredibilmente sorvegliato (i nessi tra una scena e l’altra, tra un’inquadratura e l’altra, sono infiniti e diventano sempre più numerosi ad ogni visione del film). L’uso il più possibile «realistico» dell’illuminazione esalta questa fissità in senso espressionistico. K. adopera le poche luci esterne per evidenziare le fonti luminose visibili in campo. Da qui, per esempio, il taglio violento e allucinato di luci e ombre nelle inquadrature della geometrica War Room in cui il cerchio di lampadine sulla testa dei partecipanti alla tavola rotonda si contrappone alla forma triangolare della struttura della sala e alla sagoma trapezoidale dello schermo; e dello squadrato e funzionale ufficio di Ripper, del volto di questi – Sterling Hayden – illuminato in primissimo piano dalla luce da tavolo, nell’immobilità paurosa e imperscrutabile della follia; e dell’interno dell’aereo, anch'esso in «luce reale» che dà all’ambiente l’aria incerta e irreale di un Flying Dutchman tecnologico in cui gli uomini spiccano come forme astratte tra gli accessori e la strumentazione ripetutamente inquadrata da brevissima distanza. Limitato è l’uso del movimento di macchina, che qui si esercita e si costruisce su personaggi estremamente semplificati, a tratti pure macchiette o puri nomi. Solo poco prima delle riprese K. decise di volgere nel farsesco il documentato realismo del libro da cui traeva la sceneggiatura (cui chiamò a collaborare T. Southern –Candy – proprio perché contribuisse a rendere saporosi i dialoghi), desiderando dare un movimento interno a quella che, nella selezione dello script, poteva ridursi a una ugualmente ridicola ma insipida e piatta apologia dell’ineluttabile. E l’aspetto farsesco–satirico è stato accusato di «cinismo». Aristarco ha parlato di incapacità di sollevarsi dalla farsa alla satira. Nel film, però, l’uso della farsa più scatenata e volgare (interrogato sul perché abbia voluto dare un soprannome ad ogni personaggio, K. risponde: «per essere satirico e ingiurioso, per essere volgare») diviene subito satirico. Infatti, l’accusa sempre rivolta alla farsa, anche alla più geniale, di non riuscire a contestare realmente ciò di cui parla (per la disorganizzazione o l’organizzazione casuale delle sue forme che la fanno restare marginale e subalterna), qui cade non appena il «contenuto» farsesco viene a confronto con la strutturazione accuratissima dell’insieme (della «denuncia»). La definizione–semplificazione ironica è spinta al massimo, spesso all’eccesso di una comicità televisiva di bassa lega (vedi la figura dell’ambasciatore russo De Sadeski, o quella del colonnello Bat Guano –«sterco di pipistrello» –che per non danneggiare una «proprietà privata» non vuol sparare alla macchina della Coca–Cola dei cui spiccioli ha bisogno Mandrake per telefonare al Presidente). Ciò serve alla «popolarità» della comunicazione, ma si riconduce sempre nell’effetto visivo unito al dialogo, a quello che è il fondo di ogni ironia (dr. D. Ball, La définition ironique, «Révue de littérature comparée», 1976, n. 3): la ridefinizione ironica dell’uomo, «est homo animale rationale?». In questo rientrano i nomi derisori dei personaggi, che in genere giocano con espressioni

gergali designanti organi e funzioni sessuali o altre funzioni umane rimosse dal funzionalismo igienico, come la defecazione, oppure si riferiscono a nomi dell’universo della cultura popolare (da Mandrake, che è però anche il nome di una pianta afrodisiaca, a King Kong, a Ripper, Lothar, ai soprannomi di carattere sportivo, ecc.). Da Burpleson (la base), «figlio del rutto» (insieme con Turgidson due nomi cattivissimi a indicare i frutti dell’uomo) a De Sadeski, il turbinio allusivo di nomi fabbricati è nel segno del maestro sommo di satira, Swift, come indica la precisa citazione nel nome di una base russa, Laputa. Kissoff (o Kissev), il premier russo di cui si sente solo la voce telefonica, è in un certo senso il nome più curioso che rimanda allo Stranamore del genialmente cabarettistico Sellers (le cui improvvisazioni sul set K. integra volentieri nel film), l’uomo dai mille volti che doveva impersonare anche il maggiore Kong e che avrebbe potuto «fare» (non necessitando caratteri) tutti i personaggi come in una recita dell’infalicabile Quilty. Oggi appare evidente la rassomiglianza dello scienziato e consigliere strategico tedesco col dottor Henry Kissinger della politica estera americana. K. conosceva le sue opere sul controllo di una strategia nucleare, e pare che Sellers conoscesse personalmente l’allora nascosto personaggio. Questo porta all’aspetto del film che ho finora trascurato in quanto già ribadito nelle occasioni precedenti e qui evidentissimo. Stranamore è infatti soprattutto, nell’oggettivazione suprema del problema atomico (cioè della conservazione o distruzione del mondo), l’ennesimo lavoro su una struttura logico–matematica in questo caso sulla «teoria dei giochi» che tanta parte ha negli studi americani di strategia. Giochi e previsioni basate sul calcolo di milioni di morti, Orizzonti ai gloria in scala massima: le parole di Turgidson sui «soli» 50 milioni di morti che gli USA avrebbero se portassero subito l’attacco a fondo possono colpire per cinismo, ma sono quasi testuali citazioni da testi di Kahn o dello stesso Kissinger. Non dovrebbe sorprendere, ma è impressionante constatare fino che punto è «realistico» il film, leggendo la raccolta di saggi scritti proprio negli anni di Stranamore da A. Rapaport (Strategia e coscienza, Milano 1969), in cui si critica appunto la tendenza a trattare il problema nucleare in termini di «gioco matematico», citando espressamente la teorizzazione fatta da Kahn della Macchina della Fine del Mondo. Si indica di nuovo in K. la disperata coscienza romantica di una presenza costante dell’irragione nella ragione umana, dell’irrazionalità nella ragione progressiva dello spirito hegeliano. Ricordiamo la follia improvvisa di Turgidson che quando già sa tutto anche della Fine possibile, si abbandona nella War Room a un’esaltazione delle capacità del pilota del bombardiere che sta sfuggendo ai russi, e atteggia le braccia a imitarne il volo possente e spettacolare: «dovreste vederlo», e noi spettatori lo vediamo dall’inizio del film, un po’ timorosi ma affascinati, e anzi sempre in attesa di quelle che sono le sequenze più «stimolanti». Ricordiamo ancora lo sciogliersi della paralisi del razionalissimo Stranamore al momento dell’esplosione di irrazionalità pura che è la Bomba: «Mein Fuhrer! Io cammino!» è l'esclamazione gioiosa della razionalità tedesca che smette di macerarsi e autopunirsi (l’arto meccanico di Sellers spesso esplode in autolesionisti uppercut,

oltre che nel saluto nazista per tornare al Nulla. È la coscienza lucida della contemporanea ragione e irragione che aveva Poe, di nuovo citato (le lettere del suo nome formano la sigla–chiave nel cifrario del pazzo Ripper: P.O.E., ragione e irragione, Peace On Earth, Purity Of Essence); la follia di Monsieur Verdoux ; la freddezza disperata e maniacale con cui Svevo analizza le perversioni della coscienza di Zeno. «Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in «confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivi e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie». Il passaggio a 2001: Odissea nello spazio, il ritorno al colore e alla super–produzione (fu il canto del cigno della Metro: il costo lievitò dai 6 milioni di dollari previsti ai 10 finali, 6 e mezzo dei quali per gli effetti speciali), il deciso sbarco da parte di un «autore» nel genere – fino ad allora ritenuto (a parte l'Alphaville di Godard, 1964, e il lontano padre Méliès) poco nobile – della fantascienza, il ritmo lentissimo del film, stupirono molti, dopo quello che era parso un ritorno all’impegno seguente alla parentesi di Lolita. Il film poi stupì tutti. Tutti obbligando, dopo le varie riserve iniziali, a lanciarsi in tavole rotonde e tentativi di spiegazione filosofica, in gare di tiro al bersaglio tese a centrare il significato del famoso monolito. 2001 è in effetti il film degli anni ’60 (e già proiettato nei 70) che segna una data non solo o non tanto nella storia del cinema (in cui come effetti immediati può essere stato fino a oggi più fecondo – anche di aborti – p. es. un Godard) ma nell’evoluzione storica e sociale e (in specie) del costume. 2001 è ormai «trascorso» quasi integralmente nella cultura di oggi, anche per chi non lo ha visto, anche e proprio perché non ha avuto seguito. Lo sviluppo mondiale della letteratura di SF negli anni 70 (che a sua volta non è solo un fenomeno letterario), il rinascere del cinema di SF sino ai fasti d’oggi (alcune delle più grosse produzioni recenti sono di SF, e già abbiamo avuto Solaris e Zardoz, 2002 : i sopravvissuti e Andromeda e 2002 : la seconda odissea e la serie del «pianeta delle scimmie»), una certa diffusione di culture esoteriche in Occidente, la stessa abitudine a ragionare quotidianamente in termini di 2000, di futuro, di futuribile (che poi esploderà nelle preoccupazioni ecologiche, ecc.), sono tutti fenomeni più o meno direttamente o trasversalmente legati all’apparire di 2001. Pure il film ancora oggi resta isolato e solitario, senza eredi, ancorato come pietra centrale nella cultura popolare e come una pietra non più assimilata. Nell’Italia della crisi energetica abbiamo solo la conferma di popolarità e di tracce di influenza dalla pubblicità: «Mixer 2001, il tuttofare d’avanguardia per la cucina moderna», e l’intelligente short realizzato dalla Gamma Film dei Gavioli per la

Vecchia Romagna Buton (1975), in cui con la tecnica del finale di 2001 si squadernano nello spazio – beethovenizzato – etichette di brandy e marchi di fabbrica come filigrane luminose e monoliti. Per i milioni di spettatori che dal ’68 a oggi hanno decretato il trionfo del film a dispetto di chi parlò di «noia abissale», 2001 è stato soprattutto un’esperienza sensoriale (non solo visiva) del tutto nuova, la percezione di uno «spazio»–inedito, con dentro un seguito di eventi straordinariamente semplici contrappuntati dall’apparizione di una forma «semplice» (il monolito) e definita nelle sue funzioni (far compiere un salto alla Storia e quindi alla storia) ma incomprensibile e misteriosa quanto alla provenienza e al senso. Superando il cinema superficiale e delle superfici, 2001 apriva nella superficie dello schermo una profondità assoluta, quella del puro nero spaziale; e in esso ridava allo spettatore il piacere filmico «primigenio» di seguire il muoversi di cose e oggetti, il farsi fisico del meccanismo, più che una storia precisa: o meglio, di vedere la storia costruirsi e svolgersi come fatto fisico, mutamento di immagini e degli oggetti in esse. Sotto l’influenza del ritorno a Griffith (per la narrazione «fisica») e a Méliès (per i trucchi), si è parlato di «estetica del muto», ma la non–verbalità del film di K. (45 minuti di dialogo su 140 di durata) e il ruolo fondamentale della musica hanno senso solo in relazione alla residua «verbalità»; il silenzio è percepito non come mancanza assoluta del sonoro (come nel cinema muto, in cui tale mancanza era «coperta» dai musicisti in sala), ma come assenza di voce umana, come «silenzio» –quindi –anche quando la musica accompagna lo scivolare dell’astronave. In più K. ha aggiunto un’ampia scala di «rumori»; dalle strida degli ominidi ai passi ovattati sulle moquette delle astronavi, dall’insopportabile effetto acustico dell’emissione radio dal monolito all’invenzione straordinaria del respiro umano in tutte le sue variazioni fino all’agonia. L’occhio invece, dopo l’incanto documentaristico e anche musicalistico delle riprese interne ed esterne ai modellini, smarrito il centro nelle nuove traiettorie circolari dentro l’assenza di gravità, viveva l’apice e insieme il momento traumatico della sua avventura nei dieci minuti di ininterrotti effetti fotografici (la «corsa cosmica» dell’occhio di Dave Bowman) prima della «camera» finale. L’affermarsi catartico della magnificenza tecnica «sensibile», il suo carattere di trip allucinatorio (in cui però il soggetto mantiene dell’esperienza un ricordo, solo gradevole di spiazzamento fisico in una dimensione che è quella del piacere) hanno indotto molti a considerare 2001 un film a parte nella Filmografia kubrickiana. Dove «a parte» starebbe per «ottimistico» e «affermativo», in opposizione al preteso pessimismo negativo di tutti gli altri film. Ciment, p. es., afferma che 2001 «vuol essere una risposta utopica agli altri film, pur mantenendo stretti legami con essi» e che «la sua fattura è più poetica e analogica, in opposizione all’ironia e all’analisi che dominano di solito la creazione kubrickiana». L’interpretazione che vede in 2001 quasi un momento «dionisiaco» si appoggia anche a una lettura in chiave di lieto fine del formarsi conclusivo del feto astrale promessa di un eventuale «uomo nuovo» o del nietzschiano superuomo (al quale fa pensare già lo Zarathustra di R. Strauss nella

colonna sonora all’inizio e alla fine del film, e in concomitanza con l’apparizione del monolito!), mentre tutti i film precedenti finivano «male». In realtà, la brevissima inquadratura del volto strano e inquietante (una specie di mummia) del feto che si mostra nello spazio, l’ultima inquadratura del finale, è la maschera enigmatica di una pura e «vuota» possibilità di superamento e cambiamento. Dopo un seguito di situazioni angosciose (la più importante è la «morte» di HAL), sembra che basti il ritorno dei tre accordi ascendenti (con salita dalla quinta all’ottava) e perciò «eroici» dello Zarathustra straussiano a dare segno positivo alla maschera stessa. Ma il film testimonia soprattutto di un prolungato momento di crisi. La crisi di una ragione che già una volta (Stranamore) ha «compreso» la propria distruzione, e tuttavia non può che continuare ad esercitarsi. Nel vuoto (è il caso di dirlo). Che è vuoto di cinema. Lo spazio che K. cerca nella SF non è infatti un codice, un sistema di segni, di valori, di riferimenti culturali o cinematografici, ma è la potenzialità pura, la rarefazione assoluta cui già tende Stranamore come congegno–bomba che si autodistrugge. Nulla lega storicamente 2001 al genere cinematografico della SF. Il quale, sviluppatosi come sistema organico di segni–oggetti negli anni ’50 soprattutto in USA, è stato storicamente una variazione su rigidi temi e strutture poliziesche o western (e in certi casi perfino di commedia): quasi un campo in cui spingere al massimo la formalizzazione del «nero» poliziesco utilizzando personaggi estranei alla sua tradizione (i mostri, gli alieni, gli «altri»). I film, molto simili l’un l’altro, avevano le piccole cose «sublimi» o «ridicole» del piccolo cinema, formando un insieme la cui neutralità espressiva (quasi obbligata dati i mezzi scarsi forniti dai modesti budget) si caricava a volte di maccartismo, più raramente di umanitarismo. Nell’unico vero maestro del genere, Jack Arnold (La vendetta del mostro della laguna nera, Tarantula, Radiazioni BX distruzione uomo), è evidente la preoccupazione di inventare momenti di «fantastico» dentro a convenzioni che, per far dimenticare la perfetta coincidenza con altri generi (per attori, tipi di storia, tecnica di ripresa), costringevano a puntare molto sull’elemento unico differenziarne: la presenza del mostro, del disco volante, della «cosa». Non è un caso che i migliori SF siano quelli più consci e meno vergognosi della loro struttura poliziesca (La cosa da un altro mondo di Nyby–Hawks, Assalto alla terra di Gordon Douglas, L’invasione degli ultracorpi di Siegel), meno legati o solo ironicamente legati a uno specifico di cartapesta. Anche nei film di viaggi nello spazio (a parte Il pianeta proibito di McLeod Wilcox, o Il cittadino dello spazio di J. Newman, non a caso due film a colori) la regola era quella di ogni genere del massimo di invenzione all’interno delle regole convenzionali e non si trattava mai, come forse sarebbe stato possibile, di costruire un genere e uno spazio nuovi. I temi stessi infatti si rifacevano principalmente a quelli dell'intrusione e della perturbazione (ivi comprese le «mutazioni») del già esistente, e i rari voli erano dovuti, specie nel colore, a ricerche scenografiche non lontane da quelle del musical. Nei primi anni ’60, l’affermarsi generalizzato del colore portò a un’evoluzione nel senso del cartoon e dell’avventura (vedi lo splendente S.O.S. Naufragio nello spazio di

Haskin), ma sempre al di fuori di un’autonomia. La classificazione di 2001 nel cinema di SF è quindi puramente «negativa», per mancanza di altre categorie plausibili, anche se il film influirà poi su tutta la SF futura. Nel territorio libero e vuoto che si annette, K. liquida i suoi stessi film. L’approdo alla SF non è la logica conseguenza dell’interesse per l’elemento fantastico o casuale o bizzarro che il montaggio di un meccanismo razionale testimoniava sempre in K., non è il seguito della tendenza horror presente nelle torture di Spartacus o in Lolita e Stranamore. Il «cinema», suo e non suo, K. l’aveva già tutto confinato (e ucciso) nelle ammuffite camere di Clare Quilty. E si capisce l’evoluzione dal progetto iniziale, che prevedeva l’apparizione di esseri extraterrestri, all’assenza totale di essi nel film. Per il massimo di finzione e di meccanica astrattezza che gli interessa, K. ha bisogno del massimo «realismo del possibile». A metà della lavorazione, non sa come riuscire a infilare «gli altri» (di cui son pronti vari modelli: dal mostro verde all’uomo mascherato di gomma, alla sagoma luminosa e diafana), che sono appunto ipotizzabili in mille forme diverse (e quindi non riescono a esistere nell’oggettivazione fotografica), in un contesto di segni assemblati in modo inedito (la stazione spaziale, l’astronave, la base lunare) ma costruibile e prevedibile secondo criteri scientifici (K. ottiene la collaborazione della NASA per alcuni modelli). Se extraterrestri ci sono, è probabile che siano invisibili e da nascondere quindi nel nero. Potendo assumere gli aspetti più diversi, se le loro sembianze sono configurazioni di forme riconoscibili dall’uomo e dalla sua cultura (cerchi, triangoli, parallelepipedi, segni dentro a tali forme), il loro senso viene allora affidato al monolito «forma pura». L’eliminazione di alieni che «fingessero» sullo schermo una vita diversa è decisiva ai fini del senso di 2001 e della sua comprensibilità. La presenza, oggettivata in figure viventi, di una «coscienza superiore», difficilmente sarebbe sfuggita al ridicolo in un film in cui le forme di pensiero e di coscienza note all’uomo sono spinte a una tensione insopportabile e mostrate nelle loro antinomie logicamente insolubili. Lo stesso per quanto riguarda l’assenza (unica in K.) della voce fuori campo: addirittura era previsto (in parte fu girato) un dibattito introduttivo con interviste a vari scienziati sul problema dell’esistenza di vita nell’universo, solo all’ultimo momento fu tolto un lungo inserto parlato che apriva il film spiegando l’evoluzione dell’uomo attraverso le fasi della preistoria. Non è questione di «poesia e analogia». In realtà, anche qui K. si dimostra solo minuziosamente realistico dato che il dramma suggestivamente e «ipoteticamente reale» sarebbe minato e ridotto, dal commento di una voce che sa e introduce, a dimostrazione didattica risibilmente «finta», noiosa e immotivata, più ingenua della voce di Fear and Desire, perché il dramma del dubbio non può essere annunciato dalla voce della sicurezza (diverso il caso di De Mille, nei cui kolossal, che volevano essere spettacolo didattico, l’inquadramento iniziale derivava da quasi boriosa sicurezza su origini e fini della Storia). In 2001 K. non si appoggia più allo schermo trasmittente del genere, si installa direttamente in uno spazio che è solo «cinema», (pur) essendo anche geniale immagine plausibile di un «futuro». Johnny Clay, Dax, Spartaco, Humbert

Humbert e Lolita e Stranamore sono chiusi tra parentesi, nella serie infinita di fotogrammi che possiamo immaginare inserita nel momento in cui l’osso–arma lanciato dalla scimmia nel trucco si trasforma in astronave. La Storia, e la storia del cinema, stanno tutte in quella parentesi. Il confronto tra uomo e uomo, tra società e società, la lotta e l’assassinio sempre al centro degli altri film di K., sembrano esaurirsi nel prologo preistorico della sanguinosa lotta tra scimmie che hanno scoperto l’arma come primo utensile. Continua solo la storia del cinema di Kubrick. L’immagine del cinema utilizzata da K. è quella della più bella metafora che di esso sia mai stata realizzata (e sì che son molte le raffigurazioni, dalla Lanterna magica di Méliès ai giochi nouvelle vague): il cielo stellato del planetario in cui il James Dean di Gioventù bruciata si interroga da ignorante ragazzo americano sul mondo e sulla crudeltà degli «altri». Nel buio del cielo, il nulla–tutto che è lo specifico del cinema, ovvero il puro vuoto dell’obiettivo cinematografico (così l’autore che ama il cinema e vuol fare il solo cinema non potrà che fare film tutti diversi nell’apparenza delle cose narrate e delle storie fotografate), K. mette in scena per la prima volta la messa in scena del meccanismo, che si vede produrre nella sua nudità, ritagliato nel nero che pure del meccanismo fa parte. In Stranamore il congegno–bomba si costruiva ed esplodeva travolgendo i buffoneschi soggetti umani. Qui sembrano porsi (finzioni, ma finzioni di «totalità», come il monolito) dei veri «soggetti» agli estremi del meccanismo. Tutto il film si svolge tra due apparizioni del monolito, anche la partenza della missione Discovery è provocata da esso. Ma la struttura del viaggio nel dopo–Storia si indica ancora chiaramente come gioco. La circolarità, il ripetersi casuale da roulette: se preso come soggetto, il monolito stesso rimanda a un soggetto prima di lui (di qui le domande sulla sua natura), dato che, pur dislocandosi in luoghi diversi, le sue apparizioni si rinviano l’un l’altra in un gioco cosmico la cui logica non è definibile nel film fatto dall’uomo. Il tornare ultimo della sua forma squadrata, di fronte all’uomo che sta per morire nella stanza rococò, è la delusione dello spettatore (che dopo il coinvolgimento fisico resta intellettualmente interdetto dalla visione del film) per un segno che si palesa segno di se stesso invece che immediatamente di «altro». Per cui la circolarità del congegno comincia ad apparire sospetta ai fini di una costruzione del senso. Il fascio di radiazioni che si trasmettono da un monolito all’altro forma un circuito di comunicazione limitato a tali forme pure. L’uomo ne percorre le linee, i canali, i relais; potrebbe anche tornare indietro, e il film potrebbe essere percorso a ritroso. Ma dentro questo primo circuito meccanico se ne impianta un altro, quello della decisione «umana» di percorrerlo (di andare verso Giove). Anche il progetto umano produce un suo meccanismo, la missione Discovery. Anche la civiltà umana che appronta tecnicamente la spedizione e il meraviglioso «infallibile» computer istituisce un circuito di comunicazione chiuso. La verità sui motivi della missione viene taciuta agli astronauti che ne fanno parte, e nascosta nel «cuore» di HAL. Il processo di crisi che porta Bowman a conoscenza della situazione è molto simile a quello che collegherà tra loro alla fine i monoliti. Il volto di Floyd, lo scienziato che ha assistito all’emissione del segnale sulla Luna, appare sul monitor

dopo la «morte» di HAL a spiegare la missione: si mostra il soggetto (strumento tecnico–politico di chi detiene il potere) del progetto quando questo sta per finire, come mentre muore Bowman il monolito si ripresenta a chiudere il circuito. L’accesso alla comunicazione da parte degli uomini dell’equipaggio è molto più banale: registrazioni televisive, colloqui tecnici, collegamento con la famiglia per assistere alla celebrazione del proprio compleanno. L’uomo dell’avventura più importante nella storia del genere umano (il contatto con un’altra forma di intelligenza), l’attore del mito più grandioso, non ha riti; o meglio, il rito che gli arriva è in costante ritardo rispetto alla realtà del mito che sta vivendo. Così Floyd, uno dei massimi scienziati terrestri, usa dallo spazio il videotelefono per salutare la figlioletta (anche qui, per il compleanno), e fa discorsi banalissimi e inetti salutati con entusiasmo dai sottoposti. E i due astronauti sono –si vede anche dalla scarsa caratterizzazione somatica –due «prodotti di serie» in cui si esprime però il modello più selezionato e «avanzato» di uomo; e, immersi nel mito in sintomatico sonno d’incoscienza, «abitano» la «Discovery» tre scienziati ibernati (la vita non vive). Sembra HAL l’unico a vivere il mito con coscienza di serietà. Sarà infatti il primo a entrare in crisi. Molto si è detto su questo computer nel nome dal suono biblico (come quello di Bowman) è nascosta la cifra della somma delle capacità conoscitive e dei processi umani di classificazione interpretazione e dominio del reale: Heuristyc Algorythmic, unione di analisi interpretativa e formalizzazione simbolico–matematica. L’unione è ribadita anche nel suo unico occhio, tipico dell’immagine del Dio sapienziale. Ma anche: occhio del Ciclope, occhio di Polifemo. All’interno delle due ironiche scatole cinesi, come centro temporale e fisico del film si pone il confronto tra HAL e l’uomo. L’uomo è spesso al centro dell’inquadratura. Anzi, ossessivamente, K. cerca di porlo in tale centro, ma è una centralità che situa l’uomo in posizioni spaziali inedite, con la testa in giù e i piedi in su, oppure trasversalmente con la testa a destra e i piedi a sinistra, o in prospettive strane di inquadrature che operano all’interno della «Discovery» sezioni apparentemente casuali. La figura interna dominante è il cerchio, come forma perfetta di cui pare impossibile superare i limiti fisici e logici; l’astronauta corre (in una delle più belle sequenze) in un corridoio per tenersi in forma fisica, corre in linea retta e il corridoio non finisce, benché sia dentro lo spazio limitato dell’astronave, sta percorrendo un camminamento circolare, la corsa può essere infinita e apparentemente retta – come sulla terra – mentre in realtà resta chiusa in esso. Dalla forma chiusa ed equidistante dal centro, del resto, per quale tangente si può scegliere di uscire? Può esserci un’indicazione di direzione? L’indicazione «vettoriale» viene dalle riprese esterne che mostrano l’assetto longitudinale della nave, una linea che muove «verso», anche se nel nero non si vedono segni del «dove». Fuori, nello spazio, c’è quindi un punto di vista demiurgico; potrebbe essere il monolito, ma ora è la m.d.p. che ha inquadrato il monolito stesso, è K. che si prende la responsabilità di filmare dal vuoto della mèta– Storia. All’interno, tuttavia, il dominio della circolarità è ribadito proprio dall'unico occhio di HAL (una specie di «fish–eye») che si annette la realtà distorcendone le linee. Gli

astronauti hanno certo due occhi, ma Bowman (uomo–arco, nota Aprà) ci appare la prima volta addirittura come un prodotto ottico di HAL, inquadrato da esso. Tenuto conto del fatto che HAL resta un prodotto della tecnica umana, ciò complica di molto le relazioni tra i due. Infatti HAL stesso più volte prende il posto dell’uomo al centro dell’immagine–fotogramma. E finché non c’è contrasto, tra uomo e computer si svolgono normali conversazioni, in cui dei due forse il più freddo è proprio Bowman. L'errore di HAL precipita la situazione. Il calcolatore, monumento dell’intelletto formalizzato, della «ragion pura», che in un ambito di rivoluzione copernicana kantiana occupa il centro con ugual diritto del corpo umano, all’uomo assomiglia anche in questo suo errore che paradossalmente è l’indicazione di un guasto che non c’è. In realtà, anche in questo momento HAL ha ragione : il guasto di cui parla starebbe nel sistema di comunicazione con il controllo a Terra. E ci si accorgerà più tardi che proprio quello è il settore che ci tiene in crisi nascondendoci la realtà del viaggio (lo spettatore, con gli astronauti, viene a conoscerla solo dopo la morte di HAL). HAL è in errore solo perché riproduce nella programmazione la mancanza di fondo che l’intelletto avverte in sé (mancanza di chi lo ha programmato). HAL sa di non sapere ; il suo timore per il futuro della missione, per l’ignoto, è quello di chi sa che si troverà fuori dal suo spazio, fuori dalle sue possibilità di comprensione, fuori dai sistemi di comunicazione conosciuti (non molto diversa la situazione dello spettatore alla fine del film). A questo punto la «Discovery» si identifica nella «ragione» di HAL. Il corpo di HAL diviene tutta l’astronave. Il tutto che si muove nel nero–nulla si rivela il tutto della ragione, che «comprende» anche i due uomini. Non c’è bisogno di parole. Così quando gli astronauti, per discutere dell’eventuale decisione di «escluderlo» («Non so però cosa potrà succedere, –dice Bowman –un computer della serie 9000 non è mai stato escluso fino a oggi»), si chiudono in una capsula isolata dal sistema ufficiale di comunicazione con HAL, «lui» legge i movimenti delle labbra, e la nostra identificazione è doppia: con la specie degli astronauti (la nostra specie) e con HAL che è il massimo «conoscere» della nostra specie. La m.d.p. inquadra prima l’occhio rosso del computer, poi le labbra umane che si muovono in silenzio (una sorta di «soggettiva» da parte di HAL), e si ha infine una stupenda inquadratura «sintetica», composta in assoluta simmetria: in primo piano i due uomini che si parlano fronteggiandosi (uno sulla destra l’altro sulla sinistra della composizione), al centro il perfetto ovale dell’oblò e incorniciato in esso, in profondità di campo, l’occhio del Ciclope nel «centro del centro». Sulla figurazione della sostanziale identità uomo–macchina proprio mentre nasce il contrasto, si conclude (è l’unica interruzione nel tempo del film) la lunga prima parte. L’avventura si rivela di colpo viaggio mitico, confronto nella Caverna tra Ulisse e il Ciclope e Circe e i Lestrigoni, «tra l’eroe e il drago» (Ferrini). La «Discovery» diventa momentaneamente la haunted house del mito horror, e torna appunto l’impianto kubrickiano di fiaba–mito. Ma questa volta i personaggi astratto–concreti son davvero pure funzioni, il mito e la fiaba si svolgono davvero dentro a un meccanismo: il meccanismo primario che permette all’uomo di

costruirne altri, la mente, cioè a sua volta un mito, il mito dell’intelligenza che K. tenta qui di far essere intelligenza del mito (cfr. Fear and Desire). La lotta si scatena di nuovo, nella struttura nuda del mito assoluto (della vita cosciente di sé), ed è metafora di ogni altra struttura (nella prima sequenza di spazio si assiste a un coito stranamoresco tra un’astronave e la stazione spaziale; e la «Discovery» può benissimo essere l’ovulo che si feconda, o lo sperma che punta alla «riproduzione» finale). L’illusione di Poole e Bowman è di poter curare il blocco totale «macchina–ragione» intervenendo dall’esterno per dominare il meccanismo. Solo la m.d.p., per creare il cinema, può stare fuori nel nero assoluto; ma il cinema dell’uomo è dentro. Il meccanismo creato dall’uomo è ormai superiore all’uomo perché lo contiene ed è a sua immagine e somiglianza, riuscita beffarda del tentativo dell’uomo di riprodursi al di fuori della riproduzione sessuale: è il capolavoro di Frankenstein. L’insieme Discovery–HAL respinge Poole nello spazio recidendone il cordone ombelicale. Solo dentro c’è aria, Storia, cinema. La fuga assoluta della morta figura umana (la forma dell’uomo) nella tuta di Poole, che si allontana nello spazio riproducendo al centro dell’immagine nera il movimento dell’osso e della macchina, rotatorio circolare, è la figura utopica nichilista. Il lascino agghiacciante della sequenza è il cupio dissolvi della foga nello spazio nero di un’avanguardia totale e priva d’aria, nella notte nera in cui tutto è nero. Per ciò Bowman, che esce per recuperare il corpo ma non può raggiungerlo vuole tornare dentro al Mondo, dentro all’unico oggetto che scorge nel vuoto (il corpo è ormai scomparso nella profondità); anche se ora gli appare minaccioso per la ribellione di HAL, è quello il suo spazio, in cui si raddoppia lo spazio dell’odissea. E solo in quel décor limitato può affrontare la traversata dello spazio–mare (décor assoluto), puntare ancora in una direzione e non al puro sperdersi nel vuoto. Per affrontare il futuro «altro da sé», Bowman sceglie di riproiettarsi traumaticamente – con un’esplosione – all’interno di sé, nella nave–cultura–mondo (in altra metafora: per fecondare, il seme ha bisogno almeno di una «camera»). Il Ciclope si scatena nella strage–killing. Dopo Poole tocca agli ibernati: la loro morte è la sequenza dell’horror puro, mentre nulla muta nell’impassibilità dei loro volti, una serie di spie luminose e di scritte indica il progressivo estinguersi delle funzioni vitali. Ma Ulisse «deve» ripercorrere l’entrata della caverna invece di uscirne verso il mondo perché anche il mondo è nella caverna, e qui Polifemo non è la bruta incultura ma il massimo di «cultura». Qui, le due grandi figure–strutture che Ferrucci (cit.) legge nei poemi omerici, l’assedio e il ritorno sono unite. Iliade è Odissea. Achille è Ulisse. E Achille che uccide il «doppio» Ettore prepara la sua morte. Al centro del film «ottimista» di K. si annida una delle più crudeli e angosciose sequenze della storia del cinema. In riproduzione vertiginosa della dialettica Servo–Padrone, l’astronauta della specie che ha prodotto HAL, e che pure ci è apparso all’inizio come visione–proiezione dello stesso computer, disattiva («uccide») HAL. Non solo non può farlo da fuori dell’astronave, ma deve entrare in lui come un cancro del cervello. L’immagine è perfettamente ambigua,

introdotta infatti nello sbandamento e incertezza della m.d.p. (la sequenza si apre con la macchina a mano) per l’unica volta nel film. David (nome biblico ma anche del personaggio schizofrenico interpretato da Keir Dullea nel famoso David e Lisa; i suoi occhi freddi possono anche essere gli occhi della fredda follia) opta per il proseguimento dell’avventura, escludendo la parte intellettuale di sé che potrebbe censurare l’avventura valutandone i pericoli, o che nell’esperienza «nuova» potrebbe impazzire. L’umanità di HAL non è fittizia ma reale come quella di David; e l’umanità si ha e si rivela per tutti e due solo quando uno entra nell’altro per ucciderlo, e i due sono un’unica immagine e il respiro affannoso di David doppia la voce di HAL che si spegne nella paura dell’agonia, del non poter più esistere. L’uomo gelido come il computer uccide la machina che lo implora. Giustamente si è visto nella sequenza il tentativo di superare la formalità dell’intelletto da parte della ragione stessa. Ma ciò che si supera in essa è anche il «sentimento», concentrato lì, nella memoria meccanica (fatta di pannelli riproducenti in piccolo la forma del monolito) del cervello (di) HAL, nella sua domanda di vivere ancora, in una luce rossastra più allucinante di tutto il pur gradevole «viaggio allucinante» (all’interno del corpo umano) del film di Fleischen Bowman sembra eliminare il controllo di sé che gli impedisce di «viaggiare» ancora senza più remore e freni; cerca di uccidere la circolarità razionale per una direzionalità (del piacere?), per una profondità, ma al termine di essa trionferà di nuovo proprio il circolo. Le «ultime parole» di HAL (e del film) son quelle di una canzoncina che gli era stata insegnata «da piccolo»: «Daisy, Daisy, give me your answer do, give me your answer true» («Daisy, rispondimi, dammi la risposta vera». Con casuale intelligenza, la versione italiana fa canticchiare ad HAL Giro girotondo, il che è meno preciso ma dà il senso perfetto della circolarità di domanda e risposta nel film). E la domanda sul senso dell’uomo espressa in filastrocca ironica, domanda cui il finale del film risponderà solo riproponendo la struttura stessa di un circuito infinito di domanda–risposta (se si vuole: del nietzschiano eterno ritorno). Ulisse–Bowman acquista la coscienza del progetto (negatogli dal controllo a terra) e vuol «vedere» la bellezza delle Sirene e sentire il loro canto; saziare i sensi legando però il corpo che verrebbe spostato e fatto impazzire dall’esperienza. E arduo qui vedere solo l’ottimistica nascita di un sapere e di un vivere nuovo. Si ha prima di tutto un dato di morte, una soppressione, in fondo un «legare il corpo» (della mente): infatti poi il corpo di Bowman è non libero, soggetto ad «altro», che decide il suo percorso. All’ultima domanda verbale si risponde coll’esperienza visiva dell’occhio: lo sbattere di un solo occhio (come quello di HAL) apre e chiude i quasi dieci minuti di trucchi. Tale esperienza riproduce l’ambiguità di ogni sensazione, l’impasto di attività e passività. Il movimento è finalmente in avanti, sprofondato in un tunnel di colori e di sagome, a volte puro caleidoscopio, a tratti linee riconoscibili di paesaggi che si formano in modo imprevisto. Il ragionamento, che in precedenza si accompagnava al predominio già evidente della figuratività, è qui escluso nella pura sensazione che sembra non abbia un termine. Sensazione che varia per ogni

spettatore, dal disagio fisico all’esaltazione, in ogni caso indotta dal veloce movimento in profondità, mentre nelle due ore precedenti si aveva la contemplazione quasi apollinea di uno spazio pur inedito. La fuga in avanti nel tunnel di sensazioni visivo–sonore (le Atmospheres di Ligeti si sovrappongono alle immagini) è quindi insieme nuova esperienza (da cui gli entusiasmi della cultura psichedelica) e crisi totale delle precedenti esperienze della ragione (a partire da Killers Kiss – come nota Walker – l’effetto tunnel in K. denota sempre situazioni di «crisi»). Si rivela infine solo un punto di passaggio; la sua «novità» si blocca per dar luogo all’approdo nella celebre camera settecentescamente arredata. Anche di essa si è detto molto; Clarke ha spiegato che è stata arredata così dalle entità extraterrestri che si sono documentate sulla civiltà umana, perché il viaggiatore si trovasse a proprio agio. Sul Settecento torneremo con Barry Lyndon. Per ora, oltre alla qualità (ovvio) fiabesca del décor di quest’ultima scena, va sottolineato come nella camera si riproduce tutto il cinema dell’uomo e solo il cinema e solo dell’uomo. La stessa esperienza appena fatta svela retrospettivamente il suo carattere di «puro cinema», illusione pura che induce sensazioni e reazioni anche fisicamente «vere» (una definizione di «cinema»). Nel ritorno a una sicurezza scenografica, si ricompie la vita–morte dell’uomo, in una fissità che deride la precedente euforia fisica. Il tono verdastro della sequenza è il colore appunto della sicurezza, del conforto e del riposo dell’occhio. Ulisse ha ritrovato nella casa il suo letto saldamente piantato al suo posto. Il suo girovagare torna al centro–mondo, alla situazione dell’assedio che può ricominciare; lo sforzo di narrare, di superare, di narrare il nuovo, si rivela funzionale al riaffermarsi di una realtà inesorabile. Il processo si supera solo ricompiendosi all’infinito, la morte si vince morendo di nuovo e più rapidamente rinascendo, in un’istantaneità einsteiniana che concentra il tempo nell’unico spazio della camera. L’uomo è lì solo, solo il respiro sempre più affannoso (già udito «dentro» HAL) rompe il silenzio dell’assenza di dialogo. La mutazione avviene in un décor che proprio per la sua stranezza rétro si svela décor che succede al nulla pure ricostruito in studio. Il gioco di parole imperversa (imperversa il gioco in K.): la riproduzione del mito dà luogo al mito della riproduzione, il mito del cambiamento ripete le tappe dell’età umana. Poco cambia se all’uomo morente si ripresenta il monolito. Suggestivamente Ferrini vede nel monolito un puro effetto di scrittura cinematografica, la dissolvenza sul nero, appoggiandosi al fatto che, nell’ultima visione che di esso ha David morente a letto, la m.d.p. si avvicina alla superficie nera del monolito fino a che l’inquadratura coincide concesso, in un rettangolo di nero che diviene cielo stellato sul quale si staglia il nuovo feto. Senza bisogno di razionalizzare la dissolvenza, direi che essa non esiste, dimostra l’inesistenza dello specifico filmico. È addirittura tutto il cinema (come il monolito è il senso del cinema di K.) nella sua assenza nera di specificità, nel suo essere pura possibilità. È il segno concreto dello spazio mostrato fino ad allora come vuoto. Il Demiurgo svela infine il suo progetto, chiudendo la costruzione di cui aveva fornito in

partenza gli elementi. L’edificazione di 2001 è quella di tutto il cinema (i cui due elementi, sdoppiati, sono appunto il vuoto e l’oggettualità che si produce in esso, qui data in principio come «mattone» della coscienza cosmica nella forma del parallelepipedo) e questa si rivela la finzione della creazione del mondo, della vita, della Storia. Il brevissimo sguardo finale del feto verso di noi non fa in tempo a essere definito, resta il puro enigma. Pure, su ciò si è costruita la mitologia dell’ottimismo e dell’uomo che riesce a trasformarsi in superuomo. La trasformazione avviene, ma è «ciò di cui non si può parlare» (Wittgenstein). Dopo aver costruito un’ipotesi «fisica» in un’area che si è abituati a chiamare «metafisica», K. tornato al metafisico si arresta e tace. L’uomo non ha coscienza della mutazione anche se la ipotizza e l’accetta, il feto può benissimo essere il malefico Baby di Polanski (1968: Rosemary's Baby), o una figura immobile all’interno di un circolo (così ci appare), segno senza storia al pari del monolito, puro produttore di storie, forse DIO. L’arbitrarietà dell’interpretazione finalistico–ottimistica del film è dimostrata dal fatto che lo spettatore chiede lumi sul monolito (su ciò che saremmo tentati di chiamare l’astratto puro e che infatti è la concretezza dell’astrazione) e non sul feto, immagine arrischiata e insostenibile, fuggevolissima sullo schermo. 2001 contesta radicalmente la lettura del film e dello svolgersi comune delle cose come processo necessario da un punto (l’inizio, l’alba dell’umanità, e la fine, il superuomo) all’altro. Ciò che detestava K. nel racconto cinematografico classico era appunto questo illusorio e «disonesto» orientarsi verso una fine da compiersi, verso il sacrificio rituale o l’affermazione sicura sul reale. La domanda sul monolito è segno che il film viene compreso nel suo essere un intero meccanismo significante (o anche, una «macchina inutile») e non la dimostrazione di un assioma. «Che cos’è la significanza? È il senso in quanto prodotto sensualmente» (Barthes). Per il cinema di K. si può parlare sempre di «significanza» più che di «significati». 2001 è solo l’esempio più flagrante e macroscopico e «assurdo»; il senso che vi si produce «sensualmente» è infatti quello di ciò che tendiamo a considerare «non sensuale» per eccellenza: la mente, il ragionamento razionale. E la sensualità inedita dell’astratto che si fa fisico. E il tipo di comunicazione su cui riposano tutti i film di K. Per 2001 si è parlato molto di McLuhan, del suo «medium–messaggio» (è stata fetta anche la battuta cattiva: «tedium is the message»); ma la rigorosa chiusura dei meccanismi kubrickiani è sempre stata prima di tutto (già in Rapina a mano armata) il senso di se stessa. In 2001 il messaggio è la struttura del film, il mito che mostra le sue stesse figure. Tutto, nell’incredibile chiarezza delle singole sequenze. Per cui, posta nel monolito la zona d’ombra che rende intelligibile lo svolgersi del meccanismo (la mente–HAL può essere uccisa, purché resti la garanzia logica della forma pura che nulla spiega ma accoglie tutte le spiegazioni), il meccanismo stesso della complessa ragione umana si apre a se stesso, alla ragione dello spettatore, nella cartesiana evidenza delle idee «chiare e semplici». Il che non è affermativo: si ripropone la domanda sul soggetto, sul nero nitidissimo in cui si staglia il dramma.

Dopo questa prova pazzesca (per la sequenza della corsa rettilineo circolare di Poole, K. fa costruire una vera enorme centrifuga, risuscitando il folle realismo di Stroheim), se cinema doveva esserci ancora, se film potevano seguire, essi erano già annunciati nello stesso 2001 : la «storia dell’occhio» che si condensava nella sequenza di effetti speciali, Arancia meccanica, e il cinema che cerca di rinascere diverso ma «settecentesco» nella camera, Barry Lyndon. Anch’essi, una volta aperta da 2001 la via del metalinguaggio, parlano di tutto il cinema di K.

1. IL CONTROLLO (NAPOLEONE)

È facile capire perché K. non riconosce veri suoi film i primi due lungometraggi, benché girati in assoluta indipendenza. Il fatto di averne scritto il soggetto diventa per K. un’aggravante, perché non ha potuto esercitare il suo «controllo» su qualcosa di determinato: il lavoro è stato approssimativo perché tecnicamente inesperto, e la storia ha imposto il suo rozzo finalismo. A K. non interessa l’indipendenza in sé. L’ossessione principe di K. è il controllo, il dominio sui materiali. Il film che dopo 2001 per anni ha tentato di fare (giungendo a una fase avanzata della preparazione), e che ancora inseguiva dopo Arancia Meccanica, è Napoleone. Nella figura dell’Imperatore è chiaro il sogno del dominio, del controllo assoluto. K. era affascinato dall’uomo che seduto al tavolino genialmente conduceva le battaglie, mutando con esse non solo la geografia politica ma anche le linee dei paesaggi. Avrebbe dovuto ricostruire e controllare il meccanismo di un uomo che tentò di controllare la Storia, e il cui progetto fu interrotto da una battaglia persa per un caso. Già pensava, lui stesso come un generale, ai problemi logistici per l’alloggio e la spostamento di cinquantamila comparse; e naturalmente aveva letto tutto su Napoleone, attento alle questioni storiografiche irrisolte, ai momenti in cui i suoi progetti di stratega e di imperatore e di riformatore avevano subito ritardi o scacchi. Con Napoleone, entrando in campo la Storia, si sarebbe posta la questione della «totalità» del controllo. K. avrebbe fatto finalmente il suo Citizen Kane. E naturale che Welles lo ammiri, i due sono simili per la smisuratezza delle ambizioni: anche se in Welles il problema è molto più di espressione che di costruzione. Citizen Kane è già un film su K., e il suo soggetto lo avrebbe affascinato: Kane, napoleone della stampa, uomo gigantesco che nel solitario impero di Kandalu cerca di «riprodurre» tutto il mondo e tutta la vita in un insieme caotico di zoo esotici e di ammassi di cimeli statue greche e ornamenti orientali, rammenta la vasta cultura kubrickiana da autodidatta e il maniero in cui K. con l’ausilio di ogni tipo di media cerca pure di far confluire tutto il mondo sotto forma di notizie e informazioni. Il sogno di Kane è sogno di totalità; ma l’uomo che ricostruisce in parodia kitsch il mondo non è capace di controllare i suoi affetti, il suo rapporto con gli altri, la sua vita. Welles, dominando il giocattolo–cinema, esordisce con un film sull’uomo che vuole controllate tutto (tramite la stampa) ma il cui tutto è ancora una volta solo il tutto–cinema (o un’altra mediazione del tutto la stampa): così facendo, compie un’operazione kubrickiana. E K. cita (direi) apertamente Welles nel suo film più chiaro e assoluto: mentre si avvicina alla morte, Bowman per sbaglio fa cadere un bicchiere che si rompe sul pavimento della stanza, con amplificazione e distorsione del rumore. La scena rammenta con forza l’inizio di Citizen Kane, la morte di Kane incanutito, dalla cui mano scivola

a terra la boccia di vetro in cui è contenuta la riproduzione della casa che fu il suo primo décor. Alla rinessione sul dominio totale si contrappone la realtà totale della morte. Il controllo non è quindi in K. solo un «modo» di fare cinema, particolarmente sorvegliato, che si ritrova in ogni film. Il suo esercitarsi ossessivo, il suo mostrarsi nudo (indifeso) in 2001 e prima in Stranamore, è soprattutto un costruire meccanismi che sembrano solo mandare una domanda, un «perché?» totale. L’ossessione del controllo (il controllo dell’ossessione non si dà) è terrore della morte, della perdita totale di controllo. La morte è al centro o comunque nel luogo privilegiato di ogni film di K. (come in Welles, cfr. R. Estève, Notes sur la function de la mort dans l'univers de Welles, «Etudes Cinématographiques», nn. 24 – 25, 1963), sempre come momento di supremo orrore e terrore, mai riassorbito nella convenzione di genere. Se il controllo, anche il controllo tecnico dei materiali filmici, si rovescia nella morte (vedi poi Barry Lyndon, nella cui controllatissima levigatezza formale di superficie la morte è contenuta ad ogni momento, nascosta in ogni «quadro» come il teschio negli Ambasciatori di Holbein), è comprensibile che proprio la perfetta chiusura dei meccanismi kubrickiani li faccia poi apparire «aperti» agli spettatori. L’esempio è stato visto in 2001, che si comunica «aperto» nella significanza solo in quanto alla fine si chiude circolarmente. Nell’ebreo (d’origine) K. sembrano –secondo lo stesso procedimento – scontrarsi e unirsi la chiusura della morale religiosa calvinista (la sua ineluttabilità di predestinazione) e l’incertezza (speranza di fede) della morale cattolica, per non parlare di pessimismi della ragione e ottimismi del cuore. È la dialettica che le opere di K. agitano non al loro interno, ma esternamente, nella comunicazione e visione pubblica. L’assoluto rigore con cui il meccanismo è chiuso e controllato, essendo poi in ogni caso solo un meccanismo filmico, rimanda a ciò che non vi è rinchiuso, provoca a una dialettica col «mondo», a volte scandalizzando per la precisione con cui il congegno si oppone a quel che gli è esterno. Si torna al problema della narrazione come un materiale (sia pure il più importante) da far «lavorare» insieme con altri materiali; e si capisce come le suggestioni visive e musicali ben evidenti nei film di K. vogliano produrre una continua attenzione dello spettatore. Il rigore anche didattico di K., nascosto dalla maggior ricchezza di materiali, non è minore di quello di uno Straub. Ed è molto diverso dal tipo di controllo che certo altri registi esercitano; diverso dal tendere di Ejzenstejn a una precisa dimostrazione logico–politica attraverso la costruzione pittorica e il montaggio intellettuale; diverso dai giochi raffinatamente controllati da Losey, dalla perfetta metafora in vitro (Mr. Klein, Il Servo, L'incidente) all’artificio allegorico (Il ragazzo dai capelli verdi, Caccia sadica), dalla storia di passioni esplose o frustrate (Giungla di cemento, Messaggero d’amore) alla realizzazione politica della metafora (Linciaggio, Per il Re e per la Patria), ma in ogni caso all’interno di un controllo soft che non pone la questione del soggetto fuori del gioco; diverso anche dalla selezione che Altman effettua come «per caso» tra materiali eterogenei, producendo film (Nashville certo, ma soprattutto il geniale California Poker) che non è necessario vedere per intero o con attenzione

particolare (per «goderli»), perché il loro senso è quello di un gioco insensato che si ripete – anche fuori del film – nel variare di superfici banali e depotenziate. Lo si può avvicinare maggiormente (anche per le componenti visive) allo scrupolo di Lang, cineasta pure ossessionato dal tema del controllo (da Mabuse e Metropolis fino al Sepolcro Indiano), e le cui figure di scienziati o architetti o capibanda o uomini «semplici» che cercano di realizzare un progetto rammentano figure kubrickiane analoghe (HAL è stato paragonato a uno scienziato pazzo; e certe inquadrature sull’astronave di 2001 erano state anticipate dal Lang di La donna nella luna). Del resto, una frase detta da Lang a Ciment «parla» anche di K.: «Si parla del genio degli artisti. Per quel che mi riguarda, tutto quello che posso dire è che io sono un maniaco». Forse si potrebbe adottare con K. lo stesso metodo di analisi dell’opera come specchio freudiano di patologie psicologiche personali che (la) Bonaparte ha molto discutibilmente usato per Poe. Si raccontano fobie e fissazioni kubrickiane (p. es., la paura della velocità), e si son viste certe caratteristiche dell’opera, ma in ogni caso il problema del «soggetto» che i suoi film pongono non ha nulla a che vedere con Stanley Kubrick soggetto produttore di tali film. Anzi. «Il giovane Brahms, il cui genio fino ad oggi non è stato visto granché, contiene luoghi di tale travolgente tenerezza quale riesce ad esprimere di certo solo colui cui essa restò interdetta» (Adorno, Teoria Estetica). È possibile che gli spietati congegni testimonino amore per l’uomo e per la sua libertà, come l’assenza quasi assoluta di «amore» nel cinema di K. non è solo il razionalismo dei trattatisti del ’400 che consideravano l’amore una malattia da cui guarire, non è solo l’assenza di ciò che non si può controllare, ma l’indicazione che forse qualcosa può sfuggire al dominio. Il controllo logico e materiale, e la morte come suo rovescio, e il meccanismo lucido come il monolito) provocano comunque la domanda violenta sul soggetto. L’assolutezza della logica chiede da chi è praticata: se dalla classe, dal mondo, da Dio, da S. K. Chi muore, chi controlla: queste le domande poste dalla freddezza di Stranamore e di 2001. Intanto, la chiamata in causa dello spettatore stesso come soggetto che deve operare la mediazione del meccanismo non avendo questo il suo sbocco finale (del che sembra lamentarsi F. Dorigo quando a proposito di Stranamore osserva: «Manca in definitiva un’omogeneità nei diversi passaggi, spesso un po’ bruschi e messi in relazione solo mediante uno sforzo mentale cui è costretto lo spettatore»). Inoltre, anche sul piano visuale, K. cerca sempre con ostinazione un centro nell’inquadratura, un «soggetto interno» che produca l’immagine (ma è più spesso un punto di fuga nella prospettiva del grandangolo), o intorno al quale costruirla. Pure, tanto più l’uomo è al centro (2001) tanto meno sembra soggetto dell’immagine e del film; anzi soggetto è il monolito, e 2001 è il suicidio del soggetto (in HAL), e il primo film d’avventure all’interno dell’uomo e della ragione umana come oggetto e come spazio. Se in 2001 l’enormità del controllo mostra il ritagliarsi assoluto del meccanismo, se Lolita è il film più «segreto» di K. perché mostra l’ossessione ma non il suo contenuto (il controllo), in Arancia meccanica (1971) e Barry Lyndon (1975), i due film girati al posto di Napoleone, si torna a mostrare un personaggio

centrale, e il controllo viene riprodotto internamente all’opera come tema principale e riconoscibile. In Arancia meccanica si cerca addirittura, da parte di uomini (il Governo) di «controllare» e modificare il protagonista Alex; in Barry Lyndon il protagonista tenta inutilmente di controllare il suo passaggio attraverso la Storia e i casi della vita. Sono i due film di K. più diversi tra loro, ma nello stesso tempo l’uno è il «doppio» dell’altro, formando insieme il requiem o l’inno kubrickiano all’individuo: sono gli unici di K. a proporre la «storia» di un singolo personaggio, intorno a cui si dispongono gli altri personaggi e le situazioni. Arancia meccanica. «La scena è in Inghilterra, in un futuro abbastanza prossimo. L’eroe/narratore Alex è il capo di una banda di adolescenti (composta da altri tre «Droogs» – Drughi –) i cui interessi sono poco vari: ultra–violenza e stupro. Si vede la gang in azione in diverse circostanze propizie. In più, Alex ha una passione per Beethoven, che gli serve da potente stimolante. Scontenti di lui, i suoi accoliti lo consegnano alla polizia. In prigione, viene a sapere che il Governo sta sperimentando la liberazione di criminali dopo trattamento medico (la «cura Ludovico»). Si offre volontario e diventa virtuoso per riflesso condizionato. Tornato in libertà, cade vittima di una serie di vendette e finisce nelle mani dell’opposizione, che vuole servirsi di lui a fini politici; sfugge di poco alla morte, viene «guarito» dal Governo, e torna ad essere vizioso» (riassunto a cura di J. L. Bourget, «Positif», n. 136). Barry Lyndon. «Parte Prima: con quali mezzi Redmond Barry acquisì io stile e il titolo di Barry Lyndon». – «Parte Seconda: contenente un resoconto delle sventure e calamità che colpirono Barry Lyndon» (didascalie originali del film). – Peripezie di un giovane irlandese nell’Europa della seconda metà del Settecento, di duello in duello, attraverso il gioco d’azzardo e i travestimenti, da un amore deluso a un matrimonio fatto per passare dall’anonimato alla nobiltà. In ambedue i film c’è la figura stranamoresca di un uomo sulla sedia a rotelle, immagine del soggetto impotente che fa corpo con la macchina. Uniti dalla passione kubrickiana, i due film sono realizzati in modo opposto. Arancia meccanica costa relativamente poco, è girato con una piccola troupe, un ritorno alle origini, quasi tutto in ambienti reali, e c’è più camera a mano del solito. Barry Lyndon costa tra gli 11 e i 12 milioni di dollari, più o meno come 2001.

2. I NOMI (IL SOGGETTO–SCIMMIA)

Non è difficile constatare che i soggetti individuali messi in scena da K. collezionano una serie incredibile di scacchi, da Johnny Clay a Barry Lyndon (e in 2001 muoiono i due personaggi che soli promuovono un’identificazione, HAL e Bowman, mentre resta il monolito). L’unico soggetto che ha successo nel cinema di K. è quello assolutamente fuoricampo, il regista stesso. Se anche i meccanismi filmici hanno un centro geometrico, il loro centro è fuori dallo schermo, non rintracciabile, presente solo come domanda. Walker racconta dell’entusiasmo di K. nel girare la sequenza di Arancia Meccanica in cui Alex uccide la «signora dei gatti» nella bizzarra casa–palestra. Per realizzarla, K. si munì di camera a mano (come aveva già fatto dentro al cervello– HAL...), si chiuse nella stanza, e per ore riprese gli attori che si muovevano intorno a lui nell’azione; lui perno, lui centro, muoveva la macchina in tutto l’arco dei 360 gradi. «Voglio fare dei film visti dal centro dell’uomo. Se volete vedere qualcosa d’altro, andate al museo delle cere» (M. Ophuls). Queste parole del cineasta più amato da K. chiariscono la situazione. Ophuls (La signora di tutti, Il piacere, I gioielli di Madame De..., Lola Montès) è rimasto celebre per la prodigiosa mobilità della sua m.d.p. per la fluidità mai solo descrittiva dei suoi carrelli, per l’uso insieme psicologico e analitico del movimento. Con i personaggi dei suoi film, c’era in più la camera, personaggio soggettivo, occhio del regista–soggetto, centro mobile che si aggirava nella «storia» e nelle scenografie, per raccordare il pianto e il sorriso, il buio e la luce, i tendaggi e i personaggi, il passato e il presente. La mobilità kubrickiana si scontra invece con l’evidenza quasi espressionistica dell’inquadratura, con l’imponenza dei materiali, con l’oggettività del meccanismo. Il movimento della m.d.p. è meno libero, meno «arbitrario», meno visibilmente inventato, in una parola meno soggettivo; non è continuo, si alterna con lunghe inquadrature fisse. Lo sguardo può fermarsi sull’immagine, lo spettatore può essere momentaneamente soggetto della visione prima di essere spiazzato dal movimento, mentre con Ophuls il moto perpetuo accentua la presenza registica ed è quindi meno ambiguo, dà se non altro allo spettatore la certezza di non esser lui il soggetto che costruisce la storia. La reclamizzata ed esasperata indipendenza di K., il suo accanimento nel difendere il proprio lavoro (insoddisfatto dei primi risultati, stampò personalmente, curando ogni dettaglio del colore, le prime quindici copie di Arancia meccanica), sono correlati al mutare dei suoi film–meccanismi (filmeccanismi), alla necessità di dare una firma esterna a film che, prodotti da una soggettività sviluppatissima, la nascondono completamente col loro corpo. Siamo costretti a tornare, come segno del film kubrickiano, al monolito che non confessa i suoi autori perché forse non ne ha. K. non è Fellini. Solo a uno studio attento e «negativo» (snaturante quasi) i suoi film possono essere

riconosciuti. Solo istituita in partenza (nel titolo del saggio) l’unità all’interno del nome dell’autore possiamo parlare insieme di Arancia meccanica e di Barry Lyndon. Il cinema di K. è talmente «soggettivo» da distruggere irrimediabilmente il suo soggetto nell’oggettività del meccanismo; esso ha quindi bisogno del nome, per sfuggire al gioco di massacro in cui indiscriminatamente vengono coinvolti i soggetti dal congegno–bomba. «Come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba» («ad amare il cinema», celia ma non tanto K. su «Films and Filming»). In Stranamore sono molti gli individui che perseguono uno scopo: da chi vuole interrompere l’attacco, a chi vuole sfruttarlo, ma chi vince è solo la bomba fine del mondo, la pura negazione distruttiva (anche se, fuori dal film, sta la domanda: chi costruisce la bomba?). La derisione dei soggetti è evidente anche e particolarmente nei film che portano il nome nel titolo: Spartacus, Lolita, Stranamore, Barry Lyndon (quest’ultimo è già nel romanzo segno di beffarda finzione, poiché Redmond Barry non riuscirà ad essere veramente il nobile Barry Lyndon), il nome è già la sconfitta di sé, come in Rapina a mano armata l’introduzione dei personaggi uno per volta, nome e cognome, non può che preludere alla loro bassa statura e alla strage. Ma l’immagine più radicalmente ironica del «soggetto» resta quella dell’inizio di 2001. Dopo la breve inquadratura estremamente simbolizzata che apre il film (l’allineamento mistico, la congiunzione figurativa di sole terra e luna in un’unica linea verticale: tre punti successivi che annunciano il progresso, ribaditi dalle straussiane note ascendenti e che alla fine si trasformeranno in croce con l’inserimento, al centro, della sagoma del monolito posta orizzontalmente, o meglio in bilancia, in livella massonica: il «mattone» monolito è il simbolo chiave del progresso massonico), appaiono le scimmie. Proprio la scimmia sarà il «motore fisico», il soggetto effettivo del processo di sviluppo che segue: la scimmia semi–razionale che, lanciando l’osso trasformato poi in astronave, mette fisicamente in moto (nell’immagine filmica) Storia e mètaStoria, come lo scimmione di Poe compiva il delitto della Rue Morgue (e la scimmia– filmmaker del Cameraman keatoniano? E Il magnifico scherzo hawksiano?). Se in pratica, quindi, il problema del soggetto si pone e non si risolve, quasi apparentandosi a quello di Dio (come richiesta di «causa» da parte di un mondo–film), esiste tuttavia un film di K. in cui il soggetto alla fine trionfa e non viene sconfitto. Si tratta di Arancia meccanica, il cui «nome» (espressione cockney per definire un tipo bizzarro) pure porrebbe nel modo più preciso la riduzione della persona a cosa, a macchina (anche se in K. tale riduzione non è di per sé negativa). Alex il cattivissimo costruito da K. come «un’incarnazione del male puro» [O], Alex l’ultraviolento che non ha progetti, che a suo modo è come «gli uccelli del cielo» (e i Drughi lo tradiscono non solo per la sua prepotenza, ma anche perché vogliono capitalizzare il loro modo di vita, accumulare, fare grossi bottini; Alex invece dice: «se avete bisogno di una macchina la staccate da un albero, se volete una ragazza ve la prendete, a cosa vi serve tanto denaro, di cosa avete bisogno che già non possiamo avere?»), non può fallire perché è l’immobilità circolare (le spire del serpente nel suo cassetto) del male e del piacere assoluto, di una vita bruta ma soddisfatta del suo essere. Il personaggio più vitale

del film è lui, Alex, forse l’unico in tutto il cinema recente di K.; saranno gli altri a essere frustrati nel tentativo di controllarlo. Il controllo fallisce appena vuole esercitarsi a danno del «personaggio negativo». Si è rimproverata a K. la simpatia con cui si è portati a seguire visceralmente tale personaggio. Notano bene H. e I. Deer che «la vitalità è ancora possibile, ma solo se è dedicata alla distruzione» (come Slim Pickens a cavalcioni della bomba). Alex è vitale, non può che essere il personaggio più «attraente», confrontato con lo scrittore represso cui violenta la moglie con i genitori spenti e inebetiti, con il guardiano della prigione lui sì pateticamente «meccanico» nei movimenti e nel ragionamento, col cinico Ministro degli interni, col dottor Brodsky che conduce la castratoria «cura Ludovico», con la scheletrica «cat–lady», con i Drughi semi–deficienti, col cappellano (cui pure K. affida il suo «punto di vista morale») retorico e molle, ecc. Alex è la musica, la suggestione. Alex ci guarda fissi negli occhi nel «primo piano» del film. I suoi occhi ruffiani ci vogliono ammaliare (come fanno nel film con le ragazzine e col Ministro e con tutti): sotto uno di essi porta appiccicato un sopracciglio finto, la maschera è pronta e il gioco va a incominciare. Del tutto diverso il caso di Barry Lyndon. Il personaggio, rispetto al romanzo di Thackeray, viene depotenziato, spogliato, privato dei vivi caratteri di rogue settecentesco che dall’ottocentesco e moralistico romanziere vittoriano erano stati messi in mostra. L’avventuriero alto e grosso, dagli irsuti capelli neri, diventa il biondo e quasi efebico Ryan O’Neal. Le ire e i profondi contrasti col mondo che nascevano dai progetti di Barry sono qui appianati in un carattere le cui capacità razionali appaiono puramente adeguative, lo portano cioè a scegliere rapidamente e inesorabilmente quello che il destino ha già scelto per lui. La voce fuoricampo che torna oggettiva (dopo Alex che si rivolgeva agli spettatori) spegne ulteriormente ogni speranza di uscire dal tracciato distillato della narrazione, che è poi tracciato della Storia stessa. Come l’uomo in 2001, Barry appare freddo, incapace di determinare il proprio destino. Come tutti i personaggi kubrickiani, è senza padre. («La morte del Padre toglierà alla letteratura molti suoi piaceri. Se non c’è più un Padre, a che raccontare delle storie?» Barthes). Il padre muore infatti in campo lungo nella prima inquadratura, in un rapido duello, senza che ne vediamo il volto (intravediamo da lontano la silhouette in una bellissima alba o tramonto), decisamente in secondo piano rispetto alla voce narrante che ne puntualizza la morte. Segue una breve scena in cui è presentata la madre. Dati i due elementi della generazione, Redmond Barry resta con i suoi nomi poco nobili, che più volte nel corso della storia rinnegherà e cambierà nel tentativo di nobilitarsi. Il problema del nome è fondamentale (come, per altro verso, nel primo film nouvelle vague che abbia superato la nouvelle vague: Adele H). Per il protagonista, la ricerca di un nome che sia anche un titolo si acquieta davvero solo nel «titolo»: Barry Lyndon, in realtà due cognomi che tagliano il suo nome personale (e nella scena con la ragazza tedesca c’è precisa distinzione tra nome e cognome) formando un nome–titolo puramente finto e inutile, poiché la firma valida sarà sempre e solo quella di Lady Lyndon. Nomi, volti, figure esangui, silhouettes preziose, in un film che – come 2001 – comincia

con un esterno e finisce dentro una stanza. Barry Lyndon è il film di K. che più chiaramente realizza, nell’assolutezza della descrizione «pittorica» (che subito palesa l’insufficienza della descrizione stessa), il proposito di Godard in Pierrot le Fou : «non bisognerebbe descrivere le persone, ma descrivere quel che c’è tra loro» (come Velazquez che negli ultimi anni della sua vita «non dipingeva cose definite, ma ciò che era tra le cose definite»). A ciò K. arriva tramite un controllo assoluto dei personaggi, la loro subordinazione all’insieme, un far di loro strutture, figure, azioni. Raramente batte la strada della penetrazione psicologico–letteraria, se non in brevi battute. Più spesso, si è visto, preferisce la semplificazione satirica o quella «di genere», per costruire un cinema che (dominate le varie forme, come dice Quilty: «so tutto sulla tragedia, la commedia e la fantasia...») è – in senso aristotelico – tragedia dentro la quale si forma l’epica grazie alle possibilità di gioco temporale del cinema stesso. «La tragedia non è imitazione di uomini, ma di azione e di vita. E la felicità e l’infelicità sorgono in conseguenza dell’azione, e il fine stesso della vita è un’azione e non una qualità. Ora gli uomini hanno questa o quell’altra qualità in dipendenza del carattere, ma sono infelici o felici per le azioni che compiono. – Se non è possibile che si diano tragedie prive di azione, ce ne possono essere invece senza caratteri. –La tragedia dunque è imitazione di azione, e soltanto subordinatamente all’azione è imitazione di personaggi che agiscono». (Aristotele, Poetica, VI, 1450). In quest’uso del personaggio non come «soggetto uomo» (a parte il caso Spartacus) ma come puro «motore di azioni», si può avvicinare il lavoratissimo cinema di K. a quello seccamente brutale di Corman, dove domina solo la nuda struttura (però più pulsionale e selvaggia che controllata). E in ciò K. si distacca da molto cinema col quale potremmo paragonarlo. La «fisicità» p.es. di Boorman (Senza un attimo di tregua), quando in Zardoz si confronta col mito – rovesciato – di 2001, il superamento dell’immortalità, il salto di qualità nell’evoluzione umana (l’ex–bruto Zed che diventa la perfetta mediazione tra natura e cultura); infine la «riproduzione», nella morte, del mito e della possibilità di cominciare all’infinito altre storie saghe racconti vite, si addolcisce e ci mostra proprio le possibilità del «soggetto». 2002 : la seconda odissea (Silent Running), diretto nel 1973 da D. Trumbull (autore degli effetti speciali nel finale di 2001), utilizza lo stesso spazio del film di K., e la presenza delle macchine, in senso opposto a 2001 : l’umanismo del sogno ecologico del protagonista è mostrato internamente allo schermo, e non sono gli uomini «hallizzati» come in K., ma i piccoli robot sono come bambini: né space–opera né lo space–ballet kubrickiano, quindi, bensì una toccante «space–comedy» in chiave di ballata (Joan Baez). Umanismo oggettivato anche nel deludente (rispetto ad American Graffiti, del resto posteriore) THX1138 di Lucas, che ancora si rifà esplicitamente a 2001, rovesciandone la situazione cromatica e fisica in un trionfo del bianco dentro una storia banale e basata solo sul fascino figurativo di un mondo senza cielo, chiuso in un sottosuolo post–stranamoresco. Quanto al grande Solaris di A. Tarkovsky (contrapposto a 2001, in una lettera a «Cinema Nuovo», n. 230, dal presidente dell’associazione dei cineasti sovietici: «Quando i protagonisti di simili film si slanciano verso le

lontananze cosmiche essi vi portano, a differenza dei protagonisti di Solaris, i loro vizi terrestri, indistruttibili e insradicabili, contaminandone perfino le meravigliose macchine elettroniche, come succede, p. es., nel 2001 di K.»), si vede bene che vorrebbe opporsi a 2001 rappresentando più l’uomo che la macchina, ma giunge tuttavia – attraverso il lirismo e la produzione onirico–mentale – alla stessa «misteriosa» riproduzione, all’eterno ritorno ecc. (Forse l’unico film che, in direzione certo più limitata, anticipa il rigore del meccanismo kubrickiano suscitando pure l’attenzione del pubblico, è un film italiano del 1941, Uomini sul fondo di F. De Robertis). Ma l’umanismo estremo di K. non può più oggettivarsi in un umanismo immediatamente riconoscibile sullo schermo. E in Arancia meccanica la vita e l’uomo si affermano appunto solo nella barbarie, non ipotizzano un quadro sia pur utopico di «vita felice». L’utopia è totale, fuori dal mondo oggettivato in cui – non a caso – si muovono Alex e i suoi, che nelle maschere e nei costumi (tuta bianca, bombetta nera) rammentano i clowneschi personaggi beckettiani di Aspettando Godot.

3. L’OCCHIO E L’ORECCHIO (LA CURA LUDOVICO)

Sembra che lo sforzo fatto qui per mostrare la radice comune dei film di K. si sia ridotto a dimostrare come tutti sono usciti dalla stessa fabbrica (per il che basta invero il titolo unificante il saggio), a ricostruire il processo (le varie catene di montaggio), mentre le opere restano diverse l’una dall’altra come diversi modelli di una stessa casa automobilistica, oggetti in cui non c’è traccia del processo. «Ogni opera d’arte riuscita è una partita pari, un momentaneo intera rompersi di ciò che all’occhio che la scruta con tenacia l’opera rivela di essere: processo.» (Adorno, cit.). Sembrerebbe il momento dei giudizi di valore. Ma il giudizio di valore non può che nascere (se deve nascere), per i film di K., da un viaggio all’interno del controllato meccanismo che essi sono, e poi da un’uscita verso il centro esterno. I film di K. non si addicono alle liste di belle opere, alla composizione di «palmares» cinematografici. Sono così accanitamente «cinema» da divenire «altro», semplicemente «opera». Opere non paragonabili con le altre serie di film che amiamo (i western, i film di Truffaut e Chabrol, ecc.) e che restano sempre (nel) «cinema», opere che non si classificano perché ogni volta K. vuole essere nuovo nella tecnica e nella concezione, e davvero ogni film vuole superate (eliminare) il precedente. Così, dopo lo sfruttamento totale che del cinema faceva 2001, Arancia meccanica – che sembra tornare a preoccupazioni più «umane» (la violenza, la libertà individuale) – ci mostra tutti i modi in cui lo spettacolo cinematografico agisce: sull’occhio, sull’orecchio. «La Corte non è interessata alle vostre esperienze visive» rispondeva arrogante il Pubblico Ministero di Orizzonti di gloria a un soldato che voleva giustificare l’interruzione dell’attacco («perché a quel punto vidi che...»). K., interessato alle esperienze visive dello spettatore, costruiva intanto una magistrale sequenza, giocata sui movimenti di Dax in mezzo al pavimento–scacchiera mentre in primo piano stavano sagome oscure e immobili, ora delle guardie, ora dei processati. Arancia meccanica è infine un concentrato di esperienze visive, un festival, un prontuario di procedimenti e trucchi cinematografici, che ricorda la complessità dei primi 15 minuti di Citizen Kane (dissolvenze, movimenti in verticale e in avanti, inquadrature espressioniste in profondità di campo falsi inserti documentaristici, una sorta di zoom perfino – nel 1941 – ecc.): dall'accelerato al ralenti, dai lunghi e ossessivi carrelli indietro all’immagine fissa, dal balletto al montaggio ritmico e violentissimo di marca eisensteiniana. Il film, nella varietà di provocazioni «spettacolari» imposte allo spettatore (che si tratti di spettacolo è più volte ribadito; dai décor stilizzati e teatrali in cui agiscono i Droogs, dal teatro abbandonato in cui si svolge la prima zuffa–balletto, al palcoscenico sul quale Alex deve mostrare in diverse «scenette» di essere stato reso inoffensivo dalla «cura», alla «scena» musical–cinematografica

dentro cui alla fine Alex tornato «normale» si dedica applaudito come su un ring ai suoi exploit sessuali), ci fa subire la stessa «cura Ludovico» che occupa la parte centrale. Tale cura è un trattamento che tende (behavioristicamente) a condizionare il comportamento dell’individuo inducendo in lui reazioni pavloviane di autocensura a ogni situazione in cui si trovasse a poter assumere atteggiamenti di violenza (o di aggressione sessuale). Una vera e propria «lobotomia degli istinti», tramite il controllo repressivo dei meccanismi psichici. Il pessimismo razionalista kubrickiano è qui spinto al massimo, come dubbio sul senso di qualsiasi educazione, poiché l’induzione di reazioni di rigetto o di accettazione verso diverse situazioni o manifestazioni reali è il principio cui alla lontana si riconduce ogni teoria dell’educazione (da Platone e Aristotele che parlano di «abituare l’individuo a provare piacere solo nelle cose buone», a Rousseau e a tutta la pedagogia moderna). La cura consiste nel proiettare al soggetto, fino alla nausea, pellicole su atti di violenza sessuale e non, sulle stragi naziste, e insomma su ogni forma di atrocità. Ma la nausea non deriva dall’accumularsi delle proiezioni, dal ripetersi incessante dell’immagine della violenza. In molti critici si trova quel «fino alla nausea» come conclusione di una cura che col bombardamento massiccio e violento sortirebbe l’effetto opposto, mansuetudine mitezza; mentre al contrario Alex nota con stupore che, mentre si proiettano le immagini «cine-brivido» che sempre lo deliziavano, sta male fisicamente: e giustamente si stupisce, perché il suo star male non è causato dalle immagini ma da una sostanza chimica (che produce in lui conati di vomito, spasmi, dolori alla testa) che gli viene iniettata prima di ogni seduta filmica. Non è l’ossessione a generare un rigetto «morale» del male–violenza, ma è il corpo che viene allenato, del tutto artificialmente, a collegare la visione del male con il male fisico, come i cani di Pavlov l’accensione di una lampadina con l’arrivo del cibo. Quando, durante la «cura Ludovico», vengono proiettati ad Alex nazi–documentari accompagnati dalla musica del suo amato «Ludwig van», anch’essa gli diverrà fisicamente repellente. Per lo spettatore, Beethoven si rivela inglobato nella «barbarie totale» di cui parla Adorno, Beethoven come, «stimolante fisico» adorato da Alex nella prima parte del film, Beethoven come colonna sonora della barbarie nazista, Beethoven infine come il non–udibile che porta alla morte (per sfuggire alla tortura dell’ascolto della Nona impostogli dallo scrittore che ha riconosciuto in lui lo stupratore della moglie, Alex si getta dalla finestra). È sintomatico e ironico che, anche dopo la cura, Alex non provi nessun disagio fisico a canticchiare Singin in the Rain, che pure aveva accompagnato e permesso la «sequenza–balletto» delle violenze e dello stupro in casa dello scrittore: la canzone appartiene al passato di Alex, quando la violenza era solo «piacere» e gioco (Alex si tradisce con lo scrittore proprio zufolando il vecchio motivo). Alex, mentre vien fatto star male è costretto a vedere e sentire ciò che in condizioni normali gli farebbe piacere, sperimenta la natura di montaggio audiovisivo del cinema: l’immagine dell’orrore – i suoi occhi in primo piano, tenuti aperti da apposite pinzette per obbligarlo a vedere – riproduce distorcendola

l’immagine dello spettatore in sala, dello spettatore di 2001 che non può distogliere l’occhio dallo schermo grande, e fa eco al battito di palpebra che annunciava e chiudeva la nuova «liberante» esperienza sensoriale dell’occhio durante la «corsa cosmica». Se Arancia meccanica è «storia dell’occhio» –dall’occhio «truccato» che Alex usa per il suo teatro di violenza con naso finto maschere e costumi, all’occhio «nudo» tenuto aperto per tortura —, il senso del film è nell’essere contemporaneamente «storia dell’orecchio». Vista e udito, i due sensi più importanti nel formarsi della conoscenza, (ma) quindi anche nel formarsi delle illusioni (vedi il troncone umano cieco e sordo in Johnny prese il fucile– di Trumbo – che, non potendo toccare, si riduce a una situazione puramente mentale e sonnambolica in cui la distinzione tra sogno e realtà non ha più senso e la coscienza cartesiana può solo chiedere di morire), sono quelli cui là appello ogni film, e K. mostra il loro collaborare e interagire. Di norma salvo che nel ghetto del film musicale, la musica viene occultata e fatta emergere solo di rado pur costituendo (cfr. Adorno e Eisler, La musica per film) il fondo amalgamante dei film, l’elemento che dà unità psicologica al seguito di immagini in movimento nella percezione del pubblico. K. si oppone risoluto a quest’uso della musica con funzioni di «quinta sonora», e sulla musica lavora con estrema attenzione, costruendo il film sui due piani, sonoro e visivo. Già Orizzonti di gloria mostrava la volontà di utilizzare come «segno razionale» la musica, comunemente portata a svanire nell’irrazionale; in Lolita il tema omonimo si inseriva di frequente nella partitura a dare il ritmo dell’ossessione; in 2001 resistendo alla tentazione di usare musica contemporanea elettronica o concreta per accompagnare il viaggio nella SF, K. compone una serie di sequenze–balletto (non opera, puntualizza il regista): balletti, ossia composizioni stilizzate dove figura e musica cercano un difficile equilibrio dove il senso non è prodotto da uno dei due elementi, ma solo dalla loro costellazione. I balletti spaziali di 2001 (p. es. l’allunaggio sul Danubio Blu), e i momenti in cui la musica come unico fattore sonoro determina l’atmosfera psicologica del lento scivolare nello spazio (nel nero la massima velocità è lentezza, finché non si arriva al tunnel di colorate immagini cosmiche) o dà (i cori di Ligeti) un vertiginoso senso di attesa e di inadeguatezza alla voce umana, sono compresi in una partitura che inizia e si conclude con il salto zarathustriano di R. Strauss. Ma, finite le immagini, sui lunghi titoli di coda torna la ricostruzione di una promessa d’armonia col valzer di Johann S. In Arancia meccanica anche la musica appare in tutte le sue forme. Ora classica ma «metallizzata» elettronicamente (straniata, un po’ distorta): e si ha la sequenza di apertura nell’ambiente pop costellato di nudi alla Alien Jones, in cui in un contrasto di blu–neri e bianchi, e su uno smagliante carrello all’indietro dentro al décor, la musica (un lamento funebre di Purcell) pone subito il film sotto il segno della morte. Ora puramente classica (classico–leggera): ed è il Rossini della Gazza Ladra che troviamo nel balletto di violenza con la banda rivale (lucidità che si fa rituale); oppure è il Beethoven della Nona, in originale o elettronico, che ironicamente è usato per un montaggio velocissimo di immagini di una statua del Cristo in camera di Alex, o in un rifacimento dell’inno alla gioia. In

un collage di brani molto diversi l’uno dall’altro, è comunque sempre la suggestione e seduzione della musica in primo piano (con la figuratività pop), specie nella prima parte. Fisicamente, si è trascinati dalla violenza dei balletti, quasi a condividere lo scatenamento di Alex. Ci son due sequenze chiave in questo senso: una è il balletto in casa dello scrittore, durante il saccheggio e lo stupro della donna, regolato da Alex–McDowell al ritmo della celebre vecchia canzone (una delle più belle della storia del «musical», ripresa nel memorabile film di Kelly e Donen) Singin in the Rain, in una perfetta interazione di immagini e musica, che non può non piacerci, anche se i Drughi picchiano, imbavagliano, umiliano, stuprando la donna sotto gli occhi del marito; l’altra, – che spiega il fascino della precedente, mostrando le connessioni tra piacere e distruzione, tra pura e astratta razionalità musicale e violenza cieca e irrazionale – vede Alex avanzare con i suoi Drughi costeggiando un bacino urbano, pensando assorto come riassicurarsi il dominio sui compagni che lo contestano, («di colpo, la bella musica che veniva da una finestra mi venne in aiuto») e al suono ancora della gazza rossiniana scopre fulmineamente Alex gettare in acqua un Drugo e ferirne un altro, mentre il rallentatore evidenzia il tempismo del giovane e anche la bellezza meccanica della scena. La musica, sia la più classica e nobile o siano le canzonette – come «stimolante somatico» appunto – è quasi una fonte d’azione, in una unica maniacale livellata cultura pop il cui volto si svela nella crudeltà che sembra nascosta al fondo della simpatica piacevole e ottimistica Singin in the Rain con tanta naturalezza coniugata alla rappresentazione visiva della violenza. L’operazione che compie la musica dando un senso ai materiali ripete il funzionamento della «cura Ludovico». La violenza che ci pareva «bella» nella prima parte, diventa anche per noi «insopportabile» dopo la cura, perché è musica distorta e angosciosa quella che accompagna la puntuale violenta vendetta che Alex deve subire dalle sue ex–vittime dopo il rilascio. Lo spettatore si accorge di un divario fisico tra la risposta istintiva dei sensi alle immagini e l’eventuale condanna morale della violenza; perché anche noi siamo colpiti solo dal fatto di star male (sul piano della percezione) per la musica lancinante e per le riprese in camera a mano ondeggiante o in soggettiva spiazzante (Barthes: «Nessun oggetto sta in un rapporto costante col piacere [Lacan a proposito di Sade]»). Sempre, in K., ambiguità del piacere e della fascinazione: vedi lo scrittore sadico e sadiano – infatti Patrick Magee, Sade nel Marat–Sade di Brook – che gode nell’infliggere la Nona. E la tematica cattolica di Burgess (e qui di K.) del libero arbitrio viene portata a un punto di rottura, resta irrisolta come di fronte al problema del «male metafisico». Se Alex torna senza danni (dopo la cura contro la cura) all’amato Beethoven di un tempo sentito nello stereo regalatogli dal Governo, e al sesso vissuto come puro spettacolo (cfr. nella prima parte, la sequenza acceleratissima dell’orgetta accompagnata da un frenetico Guglielmo Tell elettronico), è il lieto fine nell’amoralità dello spettacolo, del cinema appunto. L’inquadratura finale (Alex che fa all’amore con una bionda, tra due ali di folla plaudente in costume vittoriano, in un letto di falsa neve «da film») è in qualche modo utopica: molto

breve e ambigua, se quasi tutti l’hanno moralisticamente vista come il ritorno di Alex all’abbrutimento (è vero però che la ragazza non è violentata, anzi lei sta sopra e lui certo sta provando piacere), ma ha sempre l’aspetto artefatto e «filmico–hollywoodiano» di tutti i sogni e gli incubi di Alex. Anche la vitalità di Alex è puramente «sintetica» (come la musica), automatica. Il suo stesso inconscio è l’inconscio della cultura popolare di massa: quando sogna appaiono sullo schermo esplosioni tratte da film «preistorici» della Hammer, o il fungo di Stranamore, o lui stesso con i denti da Dracula; quando in prigione fantastica sui libri più violenti e scabrosi della Bibbia, si immagina nelle vesti di personaggi da film in costume e kolossal hollywoodiani. Su questa cultura popolare dell’occhio si costruisce la doppia metafora di Arancia meccanica, così come sulla circolazione mass-mediale di ogni tipo di musica. La confessione che si tratta di un meccanismo che questa volta chiama direttamente in causa le nostre percezioni e associazioni audiovisive inconsce, e la subliminalità del cinema, si ha anche nei titoli di coda, con i nomi che spiccano su fondali alternati riproducenti sempre gli stessi colori, dopo il solo arancione dell’inizio (blu, violetto, verde, rosso, arancione). (C’è una politica o linea morale dei colori?). Intanto, dopo lo strano silenzio sospeso dell’ultima succitata inquadratura, torna sui titoli Singin in the Rain, torna la gioiosità della barbarie, ironica conclusione di un percorso musicale che si era iniziato con un lamento funebre. L’aspetto disarmonico (su una struttura narrativa ancora una volta calcolatissima e perfetta) del film, il meno unitario apparentemente di K., è proprio dato dal carattere di summa spettacolare che K. ha voluto dargli. Così, è solo ipocrisia condannare in quanto brutti i trucchi troppo evidenti e meccanici (la sexy–sequenza accelerata), i colori orribili (verdi violetti arancioni: ad essi si oppone la divisa bianca di Alex, contraddittoria immagine di purezza nel male) in casa della famiglia di Alex, ecc. Ribellarsi, dopo il fascino ballettistico della prima parte, alla monotonia della prigione (scandita dalle marce ufficiali britanniche di Elgar), o al sarcastico accelerato che mostra il facile rovesciamento dell’armonia in automatica barbarie, o ai colori brutti non assorbiti dal «bello», è come volere che i genitori di Alex siano «umani» e vivi invece che spenti e meschini. Nel «montaggio totale» che è Arancia meccanica, il «brutto» sociale impedisce la pura apologia della tecnica cinematografica, la disperazione beckettiana impedisce la facile identificazione con il personaggio che difende il libero arbitrio o col moralismo Quanto alla violenza, non è inserita in un processo magari assurdo ma in ogni caso «necessario» come nel Peckinpah di Cane di paglia (i due film uscirono insieme, insieme furono anche accusati di fascismo latente). Con la solita riduzione ironica, è la violenza come totale concreta astrattezza che si manifesta qui, puro piacere di distruzione; e il problema è ripresentato nell’aspetto di «costruzione assoluta» (violenta e suggestiva) che ha il film. Anche K., infatti, per costruire le sue «arance», si affida infine al montaggio. Anzi, è questa (in quanto ultima e decisiva, quella che chiude) l’operazione che preferisce: il momento del controllo finale.

4. SETTECENTO

Barry Lyndon non ha bisogno di chiamarsi Settecento. Se il titolo in Bertolucci indica l’intenzione astratta di definire storicamente quello che – dalla schematica situazione iniziale – si è riproposto come un film dai personaggi classici e «umani»; un film in cui della grandezza e casualità della Storia c’è solo la fluvialità del tempo e l’ampiezza della produzione (la storia economica del film), in K. il nome – come si accennava –deve definire lo sparuto soggetto che è protagonista. Ma, pur essendo Redmond Barry (Lyndon) il personaggio riassuntivo del cinema di K., il film non è tanto su di lui, quanto proprio sul Settecento, sul Barocco, sulla Storia. Dopo la vaga utopia mèta–storica (o Storia di qualcosa che non sarà più «uomo») di 2001, dopo la disperata sarabanda di vitalità spettacolare di Arancia meccanica, dopo aver mostrato i segreti agghiaccianti delle avventure dell’occhio, K. affronta la storia a partire dalla camera rococò di 2001, precipitando il pubblico in una nuova avventura visiva. E dando forse la dimensione di tutto il suo cinema, e insieme una nuova ipotesi di cinema. In perfetta chiarezza, Barry Lyndon ripete raffreddandola l’operazione di 2001. Sul cinema del passato fa come scivolare una pietra tombale (quella della scritta in bianco su fondo nero che chiude il film. «Fu durante il regno di Giorgio III che i suddetti personaggi vissero e disputarono; belli o brutti, ricchi o poveri, buoni o cattivi, ora sono tutti uguali») forse difficile da accettare. «Resistibile ascesa di un avventuriero irlandese, che difatti tornerà indietro a precipizio. Ambientato nel settecento, agghindato da una splendida fotografia e da uno squisito commento musicale, il film è soprattutto un esercizio di alta calligrafia». Questa mini–critica di «Paese Sera» può bene essere assunta come sintesi dei fraintendimenti suscitati e della paura provocata da un film che risolutamente si presenta e si confessa come quel che ogni film è, fotografia (in movimento) e sonoro, «audiovisivo». I due esperimenti fondamentali che K. effettua in Barry Lyndon sono: sulla possibilità di rappresentare la Storia col cinema e con la musica, sul senso del Cinema e della Storia. Porre tali problemi equivale ad affrontare in un film le maggiori questioni nella storia del pensiero moderno, visto che il materiale su cui è costruita l’opera risulta essere il Settecento, il secolo chiave per la storia del mondo contemporaneo. Il grande «giardino» settecentesco mostra finalmente un meccanismo i cui stessi «pezzi» sono i problemi e le domande ossessionanti che normalmente – decisivi nel produrlo – sono esterni al meccanismo kubrickiano. Cominciamo pure dal «figurativismo masturbatorio» che è stato rimproverato al film, definito «un libro fotografico da 11 milioni di dollari». In effetti il film è anche, più precisamente, la fotografia di 11 milioni di dollari. In un racconto in cui si parla tanto di soldi, di rendite, di crediti e di debiti, di promozione sociale chiaramente intesa come disponibilità economica («tutti i gentiluomini al di sopra di una certa rendita dovrebbero essere fatti Lord»,

proclama un Lord), è importante che la ricchezza della produzione sia «spalmata» sullo schermo. Ma l’accusa vuol essere un’altra. Sembra infatti che K. sia andato indietro, che sia arrivato al «museo delle cere» di cui parlava Ophuls. Predomina una visione frontale, una prospettiva sicura. K. si prodiga nella riproduzione perfetta, ai limiti del naturalismo, cura tutto personalmente, dalla fotografia alla preparazione dei costumi che non sono costumi ma veri e propri abiti, provvisti di sottabiti e biancheria d’epoca, perché gli attori possano avere un portamento il più possibile simile a quello che doveva essere nel Settecento. Non è follia questa? Chi nota questi particolari? E soprattutto, dove sta l’invenzione «artistica»? (queste le domande idealistiche di gran parte della critica). Forse che nel 1935 – e proprio dal capolavoro di Thackeray, La fiera delle vanità – Mamoulian non aveva già fatto un film (Becky Sharp) trionfalmente pittorico e a colori, di tecnica perfetta, e avanzatissima, come poi il remake di Sangue e arena ? E i carrelli dello stesso Mamoulian in La Regina Cristina con la Garbo, non avevano lo stesso freddo rigore degli analoghi movimenti kubrickiani? Non si tiene conto di come in Mamoulian (per mantenere lo stesso esempio) si avesse solo il trionfo soddisfatto della finzione, di come la perfezione pittorica del gioco formalistico (il colore stupendo di Sangue e arena) fosse al servizio di un intreccio del tutto tradizionale e di personaggi privilegiati, spesso senza riuscirci e producendo così in fondo film «dimezzati» e scissi, magnifiche cadaveriche illustrazioni da museo Grévin. In K. la riproduzione di «quadri» non è l’azione del fare e rifare dipinti celebri o poco noti, ma di ricostruirli come «immagini della Storia» per far scivolare su di essi uno sguardo freddo. Quella di K. è una paradossale esasperazione della posizione ophiulsiana. Il «centro dell’uomo» si occupa della Storia, Storia come ricordo, racconto, riflessione del passato. Quindi l’uomo 1975 non può essere nel centro di quella Storia, ma inevitabilmente decentrato, spettatore di uno spettacolo intangibile. Il primo dato «storico» che si offre al cinema è «la tradizione pittorica» del periodo, la «cultura visiva» settecentesca. L’aspetto immediato del film di K. è proprio quello del libro di illustrazioni, non a caso forma di espressione tipicamente settecentesca (e inglese). La Storia comincia dai quadri, in alcuni casi la storia stessa è prodotta da essi: Ryan O’Neal ha il volto di un «marito libertino» di Hogarth, la Berenson è identica alla moglie di Gainsborough in un quadro alla Tate Gallery, e gran parte delle inquadrature sono riconoscibili in opere pittoriche del settecento inglese e non (i paesaggi di Gainsborough e Constable, i ritratti di Hogarth, Reynolds, Gainsborough, le conversation pieces di Devis e Zoffany, e ancora Joseph Wright, Stubbs, Chardin, Chodowiecki, La Tour, Longhi). K. prende ironicamente sul serio l’utopia di un cinema che voglia essere «storico» e quella del cinema «in costume», portandole alle estreme conseguenze. Da ciò, a scelta, accuse di estetismo barocco o di volgare realismo, mentre K. ha operato scopertamente e «realisticamente» là prima fondamentale mossa di ogni «discorso sul reale», dichiarare (o tacere) attraverso quale mediazione il reale viene definito tale. Ma non direi che è il «naturalismo» a dare fastidio alla critica riduttrice, quanto l’impossibilità di percepirlo come tale, il fatto che tutto – così «vero» –

rimanga così a distante». Dà fastidio in definitiva l’aspetto da film di Fantascienza che Barry Lyndon si permette di avere. K. costruisce e utilizza «modellini» perfetti della vita che è stata, come in 2001 modellini di ciò che potrebbe essere. Il «realismo» di Barry Lyndon è fantastico come quello di 2001, è ugualmente una proiezione nel tempo–spazio, e risulta étrange come uno scorcio di autentica Babilonia (con annessi babilonesi) in una piazza di Roma o New York. Il richiamo all’archeologia non è errato. Le perfezionatissime lenti Zeiss, portato tecnico della tecnologia spaziale, servono (come Carbonio 14 fotografico) per riprodurre la luce di un’epoca passata, nei numerosi interni fotografati alla sola luce delle candele. Una luce «magica», inedita (è la prima volta al cinema che viene compiuto tale exploit, sognato e avvicinato per anni da K.), una novità tecnica percepita sensibilmente dal pubblico. Nello stesso tempo, un’operazione più che mimetica, o mimetica due volte, oggettivamente e soggettivamente, perché K. riproduce anche il tentativo (fino a oggi riuscito molto più alla pittura che al cinema) tipico dei pittori inglesi citati, di «ridare» esattamente la sfumatura luminosa, il dettaglio luministico del reale. «Accenno al fatto (che solo gli ignoranti contestano) che nella natura non esiste alcuna scenografia che un pittore di genio non possa produrre» (Poe). Per Moravia, «K. poteva scegliere tra due strade: quella realistica cioè degli ambienti come erano realmente; oppure quella degli ambienti come il Settecento, attraverso la sua arte, ci fa capire che avrebbe voluto che fossero. Ha scelto quest’ultima strada e ne è venuta fuori una galleria di dipinti di autori inglesi dell’epoca... cioè di pittori che hanno espresso il sogno di razionalità, di ordine, di grazia, di nitore, di sensibilità e di compostezza di un secolo demoniaco, sudicio, cinico, empio, insensibile e turbolento». Poco importa che tutti gli ambienti e le scenografie del film siano originali, poco importa che molti esempi di architettura (non solo inglese) del Settecento siano ancora ben visibili, per quanto onirici. Loro, gli ingenui, sognavano, e noi oggi con la fede della coscienza storicista sappiamo come andavano le cose. L’intellettuale di oggi, primo cosciente e critico dopo secoli di critica incoscienza, sa certo «come erano realmente gli ambienti». È evidente qui da che parte sia l'idealismo più ingenuo e deteriore, visto che se mai il sogno dei pittori inglesi (come di quelli fiamminghi) era ancora quello della riproduzione assoluta e perfetta e baroccamente «totale», che porterà più tardi un Turner alla follia – che ci sembra astratta – degli ultimi quadri di incredibili nebbie. Certo, si può dire che l’arte figurativa del periodo preferì soggetti nobili o borghesi (vedi però l’acido realismo di Hogarth) alla rappresentazione di una realtà di classi che andava mutando, ma ipotizzare una separazione astratta di arte e vita (o storia) per poi comodamente e in pantofole assumere il ruolo dei moralisti che esigono perentoriamente un’arte che sia «in relazione col reale», vuol dire non aver minimamente compreso p.es. la lezione dell’estetica hegeliana che vide perfettamente come «il sogno romantico» di una pittura assolutamente «soggettiva» fosse l’estremizzazione del sogno classico della riproduzione perfetta, dove la perfezione diventa capacità soggettiva di ridare gli oggetti e non più rispetto di misure «classiche» nell’opera. Il discorso è se mai quello – kubrickiano – dell’ambiguità dell’immagine (e

del piacere), per cui, nel quadro come nel film, la figura del reggimento in movimento è suggestiva e «bella», anche se il volto del soldato è triste stupido o angosciato. Quanto alla riproduzione dell’illuminazione d’epoca, non si può più pensare che la ricostruzione degli aspetti visivo–percettivi di un passato sia meno importante, per averne la storia e l’interpretazione, del racconto delle azioni di un personaggio o di un gruppo sociale. Nelle prime reazioni a Barry Lyndon l’unico accenno non meramente tecnico alle «candele» del film è stato di Ripellino che ha affermato di non capire perché i critici di cinema non avessero già dedicato pagine alle importantissime fiammelle. Non è certo K. a ignorare le brutture fasciste che possono essere nel «bello» (vedi Arancia meccanica) e magari viceversa, e lo stesso per il «suggestivo». Ma la luce, sia quella atmosferica trovata nell’aria limpidissima d’Irlanda (il rapido e sorprendente mutare di luce per cambiamenti atmosferici avvicina tra loro certe sequenze di Barry Lyndon e del pure irlandese Images di Altman), sia – specialmente – quella dei candelabri negli interni, è l’elemento base di un film incentrato sul «secolo dei lumi», sull’età dell’Illuminismo. Quando il piccolo Bryan prima di addormentarsi si fa raccontare dal padre Barry la cronaca falsa fiabesca e irreale di sue gesta guerresche, finita la storia chiede per piacere che non gli vengano spente le «luci»: il mito che si diffonde nel cadere del giorno, e la luce della ragione. E neppure una scena, in tutto il film, si svolge nella notte, nella sua oscurità. L’immagine del Settecento nella luce del film scorre chiara in tutte le sue ambiguità, come il dubbio del futuro nella luce fredda dello spazio. La passione kubrickiana per il meccanismo come modello visibile di intellettualità ha modo di esercitarsi sui meccanismi di un secolo (il secolo degli «automi») che ha visto definirsi i concetti di razionalità e intelletto quali vengono intesi ancora oggi. Il secolo dei lumi si palesa come la lontana matrice e il contenitore di molti interrogativi di K.: settecentesca è la camera dove si muore e si rinasce, dove una cultura finisce all’interno della sua scenografia più tipica (2001; K. ammette che l’arredamento della stanza è anche espressione di nostalgia), settecentesco è il décor dove si «gioca» la vita dei soldati in Orizzonti di gloria, datato in tal senso è il quadro dietro cui muore Quilty in Lolita. Barocco era il teatro abbandonato in cui aveva luogo il primo balletto «violento ma bello» di Arancia meccanica, settecentesca è la vena ironico–satirica che K. mostra in quasi tutti i suoi film (bastano i nomi di Swift è Sterne; cfr. D. Ball, cit.: «La semplificazione ironica, così diffusa nel XVIII secolo, certamente non è estranea alla natura specifica della filosofia dei Lumi»). Il Settecento è sempre stato il luogo segreto o indicato dove nascono le opposizioni o si risolvono nell’astoricità dolorosa della logica, da dove muovono la vita o (più spesso) la morte, verso dove tornano le incertezze finali dei meccanismi kubrickiani. «Les coeurs l’un par l'autre attirés / se communiquent leur substance / tels deux miroirs ardents / lun à l’autre opposés / concentrent la lumière et se la riflechissent / les rayons tour à tour recueillis / divisés / en se multipliant /s'accroissent, s'embellissent / et d’autant plus actifs / quils se sont plus croisés / au memepoint se réunissent / Quel spectacleje vois...». I versi francesi in cui «si

mescolano scientificità e metafisica» (Ciment), il trattato di ottica e quello sulla natura umana e sulle passioni, sono un esempio preciso del modo in cui sentimento e ragione, struttura e soggetto, vengon posti in relazione quasi di coincidenza, come unico problema scientifico e umano nel pensiero settecentesco. Subito dopo la lettura di questo brano ha luogo nel film l'incontro più tenero tra Barry e Lady Lyndon, in un quadro tuttavia di glaciale perfezione e immobilità, in cui perfino la superficie dell’acqua nella quale sta facendo il bagno la Berenson resta immota. Per K. il Settecento è l’immagine cristallizzata – con le sue antinomie poste e non risolte – del «mondo», figura chiara eppure ambigua, periodo storico ma già contemporaneo per la storia del pensiero e delle idee, serra senz’aria (solo luce passa dai vetri del cinema) in cui far reagire fantasmi di personaggi e scheletri di fiction, e sulla quale tentare una forse impossibile operazione di allontanamento e di giudizio con i suoi stessi strumenti, simile all’immagine kantiana della «ragione al tribunale di se stessa». A maggior ragione il Settecento si propone come figura di tutto il cinema di K., e K. solo all’interno del Settecento decide di affrontare il problema del controllo più difficile, quello dell’intera vita di un uomo come meccanismo che vuole autoregolarsi. Per la prima volta, nel suo cinema, seguiamo un lungo arco del tempo nella vita di un personaggio, lo vediamo lentamente invecchiare da un capo all’altro del film. Sul piano della fiction, K. raffredda due volte la partecipazione, opera una doppia mediazione culturale: il cineasta (del Novecento per forza) del film del 2000 fa un film dal romanzo di uno scrittore dell’ottocento che voleva riprodurre la narrativa settecentesca. Con Barry Lyndon Thackeray (1811–1863), agli inizi della carriera, proclamava la volontà di opporsi all’esuberanza linguistica torrenziale di Dickens, per tornare alla lucidità «realistica» (e insieme alla vena internamente «morale» e alla artificiosa astrattezza dell’intreccio) e anti–retorica dei romanzi di Defoe, Richardson, Fielding, Smollet, Sterne. Ma mentre nei romanzieri settecenteschi la «morale» (borghese) era proprio la struttura del racconto ed appariva liberante (per quanto volta a volta cinica, o puritana, o ottimistica) nella narrazione delle peripezie dei protagonisti in una catena di scritture che mantiene fino ad oggi intatto il suo «piacere» spregiudicato, Thackeray si vale p.es. della struttura picaresca (cfr. il Tom Jones o il Jonathan Will di Fielding, vedi anche le Roxane e le Moli Flanders di Defoe) per esercitare su di essa più che in essa il suo moralismo amaro, frutto ambiguo del clima chiuso vittoriano. «Il sarcasmo dà alle pagine del T. una qualità gelida che ci fa sospettare di trovarci in presenza d’un genio creativo singolarmente distorto da una repressione. Il continuo sorvegliarsi la mano nel muovere i personaggi attira troppo l’attenzione del lettore sui fili di questo ingegnoso teatro di marionette: il corso degli eventi è continuamente inceppato da digressioni il cui solo scopo sembra quello di provare che l’autore è troppo intelligente per lasciarsi prendere la mano e mettere in mezzo dalle sue creature». (Praz). K., giunto alla maturità, prende l’opera di uno scrittore che potremmo definire di testa e contrapporre a Dickens (modello conclamato del «romanzo cinematografico», studiato da Ejzenstejn in rapporto a Griffith) anche proprio per

il suo apparire «poco cinematografico», e ulteriormente la riduce all’osso, eliminando le digressioni, ordinando e raggelando il racconto secondo un seguito di luoghi deputati che – dice giusto Arbasino – fan pensare alla Teoria della Letteratura, lungo una unica progressione temporale, senza ritorni indietro, senza alternarsi di sequenze parallele. Con ritmo lento e inesorabile: il film – il più lungo di K. – ha un numero relativamente basso di inquadrature. Neanche i cavalli corrono o galoppano, non esistono le corse sfrenate di Tom Jones, il quadrupede è un abituale mezzo di locomozione che non va sforzato in inutili exploit (anche le «fughe» sono rallentate): l’unico cavallo «rampante» sarà quello cadendo dal quale muore il figlio di Barry. Se non c’è la peripezia romanzesca ma solo la struttura del romanzo, anche il moralismo esterno viene eliminato, o meglio sublimato nei pacati interventi della voce del narratore (che si sostituisce alla prima persona di Barry in Thackeray), ombra smorzata del regista, pronta però soprattutto a censurare, appianare, limitare il suspense della fiction. Così la Vita, nel film, in quanto vita del passato sembra essere già a ogni istante presagio della Morte che sarà. L’armonia e la perfezione dei giardini che Redmond Barry e Lady Lyndon sembrano dominare come immagine di una finalmente raggiunta unione di sensi e di ragione (infatti: lei lo ama, lui no), manifestazione sensibile della ragione, è anche costruzione che si svela come costrizione (già dei personaggi dentro le inquadrature), composizione «artistica» dello spazio della vita che coincide con Io spazio della bara (su cui scivola la scritta–coperchio indicata prima). «Uno dei modelli dell’arte sarebbe il cadavere nella immobilità della sua forma incorruttibile». (Adorno, cit.). La Sarabanda è una forma musicale in origine di danza sfrenata, raffreddatasi in forma «nobile» e compassata per uno degli ambigui rovesciamenti anglo–settecenteschi: «Come l’inno famoso, God Save the King, scritto da un ignoto in commemorazione di una sconfitta... e trasfigurato nel corso degli anni in un canto di trionfo e di vittoria» (Praz). Qui la Sarabanda di Handel, che apre chiude e sigla più volte il film (in occorrenza dei duelli chiave), riproduce lo stesso movimento di ascesa che è una caduta: «Due gruppi di note, il secondo riproducente la struttura del primo (salita in seconda e discesa in terza), evocano una volontà d’ascensione che la pesantezza riconduce impietosamente verso il basso, a dispetto della pompa da essa dispiegata. Prefigurano il destino di Barry» (Sineux). L’ottimismo non kubrickiano di Spartacus (già doppiato ironicamente nel derisorio libertarismo di quello Spartaco stornato che è l’Alex di Arancia meccanica), è qui totalmente rovesciato. Spartaco muore ma costituendosi in segno di speranza, Barry vive e sopravvive ma scompare dal film prima della fine (e – a differenza di Alex e Spartaco – non era comparso fin dalla prima sequenza, ma era stato preceduto dall’assenza del padre e dalla presenza della madre), bloccato in un’immagine fissa nell’atto di essere inghiottito dal centro dello schermo, mentre – mutilato – sale sulla carrozza che lo porta fuori dalla fiction. Essere protagonista qui vuol dire anche «sparire prima», come i personaggi più «umani», i «padri buoni» di Barry: il capitano Grogan amico e protettore che muore alla prima battaglia, il cavaliere di Balibari (nel libro ancor più chiaramente

«padre», essendo lo zio di Barry, come rivela il nome: Belly Barry) che sparisce letteralmente dalla storia subito dopo aver presenziato al culmine della carriera di Redmond Barry,il momento in cui diviene Barry Lyndon nel matrimonio. E le tre scritte illustrano il medesimo processo, introducendo all’inizio le peripezie «ascendenti» di Redmond Barry, annunciando dopo un’ora e 53 minuti le disgrazie che stanno per colpire Barry Lyndon, e senza minimamente nominare il personaggio principale nell’epitaffio finale. Il carattere illusorio del soggetto agente nel film è ben definito da tale movimento; l’ultima sequenza, spostandosi su Lady Lyndon, elimina ogni residuo di identificazione col protagonista. Se è un personaggio preciso (benché fittizio e anodino) ad incontrarsi con una serie di situazioni tipiche (che pure sono la sua vita particolare: il primo amore e il suo fallimento amaro, il primo duello, la rapina di cui è vittima, l’arruolamento, la prima battaglia e il primo saccheggio, l’atto di eroismo, l’intrigo spionistico, il gioco di azzardo, etc.), alla fine tutti i personaggi sono davvero uguali dopo la fine, nella «situazione totale» che è la morte. Il soggetto Barry Lyndon ha successo solo finché si limita a seguire diligentemente i casi e le occasioni che il meccanismo del romanzo (del «capitale») gli mette a disposizione; tutto o quasi «gli capita», lui non è mai l’inventore o lo scopritore della situazione (non ha mai l’esuberanza del Tom Jones filmato da Richardson in modo abbastanza passivamente vivace, né la vitalità di Davey Haggart nel meno noto ma notevole e più equilibrato La forca può attendere di Huston). La situazione, l’avvenimento, vengono presentati sempre come qualcosa che gli si para davanti, una scena teatrale già pronta per il suo ingresso e per le sue determinate battute. Non c’è foga o incertezza, il suo movimento tipico è il caracollare lento verso gli appuntamenti già predisposti (da un secolo), che siano la rapina nel bosco annunciata nella scena precedente con gli «attori» che lo aspettano quasi annoiati fuori dall’osteria vedendolo arrivare, o l’incontro col cavaliere compatriota, cui si presenta comparendo da una porta in fondo alla stanza, l’ingresso del palcoscenico che coincide col centro dello schermo. Tuttavia si avverte il dolore dei personaggi costretti a entrare nel quadro per morirci. Il dolore di un percorso che non è neppure razionalmente necessario. Una delle chiavi del film (si dovrebbe dire: del cinema) è proprio il nodo perfetto, nel mondo settecentesco, di causalità e casualità. Nel secolo in cui si critica a fondo il concetto di causalità – Hume poi ripreso da Kant –, i Lumi cercano invece di trovare le cause di un tutto meccanicistico, e lo stesso Hume indaga i motivi che producono la morale. L’esercito prussiano dell’illuminato Federico è (viene fatto notare nel film) quello in cui vigono le regole più crudeli. Le battaglie erano violentissime e sanguinose (come mostra, nel telefilm sulla battaglia di Culloden, Peter Watkins, un nome avvicinabile a K. per i suoi studi sui war games), ma nello stesso tempo inconcepibilmente rituali e «vette figurative dell’arte Rococò» (Arbasino), in cui il casuale massacro alla Orizzonti di gloria sembra regola codificata nella linearità obbligata del movimento verso il fuoco nemico (così muore Grogan). La causa prima e razionalmente identificabile delle peripezie di Redmond Barry è il caso fortuito della morte del padre in duello. Il duello, forma

stilizzata e riconoscibile socialmente della lotta fra uomo e uomo che si ritrova in tutto K., è la situazione in cui più spesso (sette volte) si ritrova Barry. È forse il nodo più meccanico dell’intero complesso narrativo, ma anche quello in cui il protagonista, grazie alla sua bravura, si trova meglio in quanto soggetto. A parte il primo, quello archetipico in cui è coinvolto e sconfitto il padre, Redmond Barry Lyndon partecipa a diversi tipi di duello e di lotta: da quello ludico (il match di boxe a pugni nudi con cui si conquista l’ammirazione dei compagni d’armi, filmato camera a mano, torso nudo e pantaloni rossi sotto un cielo freddamente azzurro con sole e nuvolette alla Spartacus; il duello per gioco con il piccolo Bryan che deve imparare, ma si sente sotto un accenno di Sarabanda, si annuncia la morte vera) a quello economico (Redmond che si fa pagare i crediti di gioco dai nobili battendoli nella scherma; non è il piacere, il suo volto è freddo, l’avversario gioca e fa le piroette, lui punta solo a riscuotete portando la lama verso la gola dell’avversario), dal falso duello per amore (il rivale viene da lui colpito ma solo con un tampone di stoppa, e gli vien fatto credere di averlo ucciso) allo scontro prima per odio (la selvaggia lotta in salotto sotto gli occhi degli ospiti) e poi per onore col figliastro Bullingdon. Quest’ultimo duello, per cui Barry perderà la gamba, è uno dei momenti sintetici più importanti. Sfidato pubblicamente dal figliastro, un Barry ormai spento per la morte del figlioletto affronta il rischio di un confronto alla pistola, il più assurdo e casuale; una monetina per aria, la sorte che decide chi spara per primo, l’attesa del colpo che può uccidere. Si ripropone la situazione dell’azzardo, il gioco che “stranamente” domina tutto il film, dove non compaiono mai, nonostante il Settecento degli automi che giocano, gli scacchi. Proprio questa sequenza però (totalmente inventata rispetto al libro, dove i due non si affrontano) è costruita da K. con una scansione logica e meccanica e scacchistica delle inquadrature, un montaggio molto “filmico” e poco pittorico. Lo sviluppo del duello non è infatti qui quello del puro azzardo e delle capacità automatiche del corpo nel portare i colpi; interviene un momento di scelta logico–morale, perché Bullingdon per errore spara anticipatamente il primo colpo (che gli era toccato) mandandolo a vuoto. Barry ha per regolamento la possibilità di sparare, di chiudere per sempre la disputa, il ragazzo vomita mentre attende impaurito il colpo. L’alternarsi delle inquadrature in montaggio drammatico crea suspense, ma infine Barry spara per terra, il volto sorridente e buono di chi ha fritto la scelta «romantica» della generosità e del bene. Il tentativo di uscire –per una «ragione» meno angusta e più umana – dalla logica fino ad allora seguita, è ciò che perde Barry, perché il figliastro non si ritiene soddisfatto, vuole a tutti i costi la vendetta e soprattutto la rendita della madre, e – come è suo diritto – spara, ferisce con un urlo di gioia. Questo duello, il meno «bello» e spettacolare a vedersi, ma il più drammatico e veristico (il vomito), è in realtà la contorta «verità» di Barry Lyndon. Aggiunge una dimensione di profondità alla frontalità pittorica e al gioco ludico degli altri combattimenti (compresa la battaglia). Barry decide di uscire dallo schema obbligato della decisione che logica impone, ma viene sconfitto e definitivamente irriso, come le altre rare volte che aveva giocato sinceramente la

carta del sentimento: in occasione dell’impuntatura sull’amore per la cugina già calcolatrice, e quando aveva giocato tutto se stesso nell’amore e nell’educazione (nel ruolo impossibile di Padre) del figlioletto, che gli muore per caso (e il ralenti sull’immagine del cavallo che disarciona il bambino – unico flash temporale del film – è esattamente la fotografia del caso che è nella Struttura ma non. può essere assorbito dalla struttura dell’uomo). Ma non si tratta solo di una schematica «sconfitta del sentimento)». Anche quest’illusione di “discorso” si dissolve nell’artificio razionale settecentesco, si mostra ancor più baroccamente cinema che il resto del film (il ralenti come flagranza della tecnica, il montaggio come segno–cinema opposto alla pittura). La gigantesca Finzione meccanica si riafferma, e la verità del duello finale è anche la sua possibilità di non essere vero, se all’inizio si è vista la lunga e rituale pittorica sequenza del duello col cap. Quin e della di lui morte, rivelatasi poi pura messa in scena del “falso”. Dopo lo scontro con Bullingdon si ripropone anzi il massimo della finzione, il trucco – che sembra vero – dell’assenza di una parte del “corpo”: Ryan O’Neal che si avvicina alla carrozza appoggiato alle stampelle, con la gamba sinistra amputata sotto il ginocchio, è inquadrato davanti e di dietro, col gesto cinico del prestigiatore che chiede di verificare (se n’era visto uno prima, nella sequenza del compleanno di Barry, sul palco davanti a un fondale dipinto con i colori di William Blake). All’incapacità del protagonista di controllare e determinare programmaticamente la sua vita si contrappone di nuovo con violenza la capacità di controllo del regista. La meschinità o la generosa impotenza dei personaggi sulla scena urta con la scandalosa presenza del soggetto fuoricampo, che «mette in scena» e mette a morte, permettendosi di trattare Storia e Mondo insieme come un meccanismo di Realtà Scena e Finzione. Storia e Fiction si confrontano all’interno di un’unica grande Finzione. Barry Lyndon è la «scrittura» del Settecento, ma anche un film sulla Storia come vista da 20 chilometri d’altezza, sul Mondo come doloroso «giardino» più ancora che «fiera delle vanità». Il discorso sulla «finzione» si compie per forza insieme a quello sulla «verità», cercata appassionatamente sia come verità razionale che intuitiva e trovata solo come verità (mai garantita e sempre falsa) della riproduzione tecnica. La ricerca di una verità storica che sia anche una «verità di materiali» si confonde con la ricerca tecnica del cinema, che compie la «morte dell’arte» hegeliana realizzando il sogno barocco di riproduzione del reale (per districarsi tra gli equivoci che avvolgono la relazione tra cinema e barocco, utili i saggi di Collin e Mitry in Baroque et cinéma, «Etudes Cinématographiques» n. 1). Ecco quindi, più numerose del solito, le auto–citazioni (tra i pezzi di proprio cinema rivisto e rifatto: la sequenza di battaglia in cui Barry salva il capitano Potzdorf, quasi tutta riecheggiarne Orizzonti di gloria, sia per il carrello lungo il camminamento, sia per la feritoia–finestra che viene a coincidere con lo schermo, in movimento opposto a quello con cui dall’esterno delle linee trincerate la m.d.p. entra nella stanza di Dax). E ciò dopo la memorabile sequenza nel negozio di dischi di Arancia meccanica in cui però la citazione (la copertina della colonna sonora di 2001, i gelati loliteschi delle due ragazzette) sta a integrare il cinema di K. nella mistura di cultura popolare rappresentata nella sequenza

stessa dal solito accompagnamento beethoveniano elettronico sotto il quale le ragazze cercano la peggior musicaccia. Ecco ancora un uso amplissimo, e ancor più articolato che in passato, della musica. M. Sineux espone alcuni esempi di interazione ironica tra immagini e musica, o di «accrescimento del senso» dell’elemento visivo grazie all’utilizzazione di brani musicali. Ma più interessante è notare come la musica stessa, presente nel sonoro in modo preponderante rispetto alla voce umana (usata con la stessa parsimonia di 2001), racconti l’ambigua storia di Barry Lyndon, chiudendo all’interno della Sarabanda un movimento netto dal ritmo delle marce e dalla grazia delle danze fino al Trio di Schubert che intromettendosi in una gamma di musiche rigorosamente settecentesche annuncia in qualche modo lo struggimento romantico in cui sbocca l’armonia barocca. Ormai non si tratta neanche di balletto, ma di musica ascoltata in un acquario, e insieme musica come materiale significante d’epoca, da lavorare come tale. La colonna sonora procede automaticamente, con una serie di ritocchi e arrangiamenti successivi (curati da Léonard Rosenman, lo schivo musicista dei film di Kazan e Ray con James Dean) su alcuni pezzi che ora integrano l’immagine, ora la commentano ironicamente, ora ne formano il primo piano sensibile, ora lo sfondo sonoro (vedi le due marce principali, inglese e prussiana, usate per sequenze di manovre militari, ma anche cantate da cori di soldati in secondo piano nella scena in cui Potzdorf smaschera Barry come disertore e in quella del bordello), ora scivolano sullo schermo per unire l’un l’altra sequenze diverse come sempre susseguentisi in modo puramente meccanico, con tagli netti. La sequenza finale, priva di parole, coniuga tutti gli elementi del film di K. e della sua utopia storicizzante: si è ritornati nella «camera» e la pallida Lady Lyndon firma – assistita da Bullingdon già maturo – le ricevute e gli ordini di pagamento. Su questo rito economico sottolineato in tutto il film (si vedano anche le sequenze di contrattazione, specie quella chiave – inventata – in cui Barry contempla da ignorante i quadri di una pinacoteca privata parlando del colore e chiedendone i prezzi) si innesta il momento «privato» della donna che deve firmare la rendita annuale concessa a Barry dal figliastro in cambio di perpetuo esilio volontario. Il Trio schubertiano si dilata, si estenua sbriciolandosi e chopinizzandosi, mentre la Berenson dagli occhi tristi si accinge a firmare sbirciata dal figliastro. Si fa in tempo a leggere la data, 1789, quindi c’è un’inquadratura (su cui terminano le immagini) frontale della donna al tavolo con il segretario e Bullingdon, in campo d’insieme nella grande sala di Castle Hackton. Da sinistra filtra la luce dal finestrone, in fondo alla stanza spicca nel centro dell’inquadratura un dipinto di Van Dyck, il grande maestro anglo–fiammingo del ’600 cui si rifecero tutti gli inglesi citati prima; in primo piano, emozionante, romantica sull’immobilità della scena, la musica di Schubert. Scaglionati in profondità, un attimo prima della «rivoluzione», tre secoli di Storia con la loro cultura. In mezzo il «cinema Barry Lyndon», la vita bloccata nella luce pittorica fine–settecento, «dietro» l’immagine già fissata e immutabile di una Storia già passata, «davanti» la forma ancora libera del nuovo. In questa sintesi perfetta è l’ambiguità del Settecento, epoca di automi e di spiriti liberi, dove convivono Rousseau e Sade, dove troviamo ancora pienezza

classica e già ironia romantica, dove si passa dalla Favola delle Api di Mandeville («Così ogni parte era pieno di vizio, e tuttavia l’insieme era un paradiso») e dalla morale abitudinaria di Hume all’imperativo categorico kantiano di assoluta astrattezza, dove vige ancora l’estetica del bello naturale e dell’arte come piacere sensibile, dove si sviluppa un’arte che secondo Hegel era già «romantica» nei fiamminghi del ’600, dove si affermano nuovi modi di comunicare («Per la storia degli schemi dell’attuale industria culturale si può risalire alla letteratura popolare inglese nelle sue prime fasi intorno al 1700: qui sono già presenti la maggior parte degli stereotipi che oggi ci presentano il ghigno sugli schermi cinematografici e televisivi». (Adorno–Horkheimer, Lezioni di sociologia). Qui nel Settecento andrebbero cercate le radici delle coppie di termini opposti spesso ambiguamente applicate a K. (ottimistico–pessimistico, romantico–classico, cinico–utopico, razionalista–irrazionalista, hegeliano–nietzschiano). Il suo Illuminismo spietato parte da un centro immaginario e si prolunga infatti sempre verso entrambi i termini opposti del problema; la stessa sintesi di tipo hegeliano non è di K., perché in lui il processo della storia dello spirito non ha segno positivo, ma è pura struttura fisico–temporale, ambigua e aperta a qualsiasi giudizio. Illuminismo come una gran luce che rischiara tutto, anche la bruttura e la barbarie, e l’unione è lì, nella «luce» del tutto astratta, non nelle differenze messe in chiaro. Così, dalla distanza della sua luce archeologica, Barry Lyndon chiama l’attenzione dell’occhio e dell’orecchio di un pubblico abituato alla fruizione distratta della televisione e ai segnali macroscopici con cui gran parte del cinema corrente si impone e incoraggia tale fruizione. Il film, sino ad ora, non ha il successo sperato da K. Il porsi come «oggetto altro», il suo rigore straubiano, in assenza di povertà (di mezzi) possono apparire immorali (o calvinisti, al nostro fondo cattolico). Mentre si scusava il costo per la «novità» dei modellini di 2001, si biasima lo sperpero per un semplice arazzo (come se il primo arazzo nella storia della cultura non fosse la straordinaria raffigurazione del mondo nello scudo di Achille). La separazione va mantenuta, a Straub o Jancsó le piccole produzioni, le grosse ai Coppola e agli Spielberg (che poi sarà bello – direi piuttosto grottesco – attaccare sui giornali come tanti piccoli Davidi che sfidano il Golia del capitale USA in nome dell’arte). Gli arazzi poi... Non è cinema, non è cultura nazionale né popolare, resta difficilmente egemonizzabile. Mentre si discute delle insignificanti inesattezze «storiche» del film che Bertolucci ha girato per liberarsi di tutto il suo “cinema–vita”, mentre si ha il coraggio di parlare di Storia per il nuovo incubo felliniano, il Casanova per cui vengono riesumati i soliti mostri in un Settecento che è solo nell’affascinante in–cultura di Fellini, l’unica grossa produzione cinematografica sulla Storia dai tempi di Birth of a Nation vien fatta trascorrere come patinata realizzazione che può incantare gli ingenui che credono al «film d’arte» o che si accontentano del «piacere sensibile» dell’occhio e dell'orecchio. A parte il fatto che K. quale elemento di cultura popolare e di comunicazione in questo film punta proprio – settecentescamente, da ammiratore di Samuel Johnson (1709–1784) – su tale piacere primario, non è difficile comprendere come anche in

America e in Gran Bretagna – dove l’autore di Arancia meccanica era stato consacrato dal generale entusiasmo di critica e di pubblico – l’atteggiamento di pubblico e critica sia di rispettosa e contenuta freddezza. Dopo la varietà tecnica di Arancia meccanica e il suo agitare un «grande problema», Barry Lyndon appare singolarmente monotono nel procedimento tecnico esterno, limitato al sensibile e quindi deprezzato da critico e pubblico mid–cult, che non hanno né emozione violenta e catastrofica, né sollecitazioni politico–sociali immediate, né la soddisfazione di artisticità bergmaniane o problematiche à la page che diano il pizzicorino della provocazione intellettuale. 2001 non ha avuto figli, e la rinascita notevole del cinema americano (per merito di registi come Coppola e Scorsese, oltre che per i nuovi sottogeneri revival–catastrofici) si appoggia su un rilancio del racconto e del personaggio. La «teoria della letteratura» di Barry Lyndon, la ripetizione in terra dell’esperienza sensoriale «spaziale», son più isolate che otto anni fa. L’arazzo figurativo, per quanto inedito, non viene visto ma a malapena percepito. (Renoir parlando della Carosse d'or : «L’idea di attirare artificialmente l’attenzione del pubblico su certi elementi, p.es. su una vedette, è un’idea puramente romantica; perfino nella pittura, nei disegni, l’uomo moderno, abituato alla semplificazione romantica, ci si perde, quando vede delle opere classiche, per esempio degli arazzi: trova ciò un po’ confuso; in realtà non è confuso, c’è semplicemente nel classicismo un sentimento di parità e uguaglianza che non esiste più nel romanticismo»). K. ha giocato tutto (troppo?) sull’evoluzione verso una civiltà audiovisiva Il discorso sulla Storia, al cinema, è stato anche negli ultimi anni quasi sempre affidato alla rielaborazione o de–mistificazione dell’avvenimento storico (tipico, Piccolo grande uomo di Penn), o comunque basato su un personaggio (in questa chiave, il tentativo più moderno è lo Stavisky di Resnais, oltre ai recenti film di Herzog) anche nei casi di maggiore attenzione ai volti e alle maschere filmiche della Storia. Oppure si è attraversato il tempo della Storia per ricostruirne astrattamente i riti col movimento (l’esempio più lucido è Jancsó), o infine si è avuto il caso di Rocha che con Historia do Brazil si è negato come produttore di immagini proprie per fare un film di montaggio che ricostruisce una storia precisa (quella del Brasile) utilizzando brani di film a soggetto brasiliani senza indicarne i titoli, come estrema dimostrazione dell’impossibilità di fare sulle immagini e con esse una storia che non sia in qualche modo falsa e tendenziosa, e di come l’immagine in sé sia solo ambigua. È disperato quindi il tentativo kubrickiano di comunicare il suo discorso sulla Storia e sui suoi materiali, attraverso un movimento che, coerentemente e onestamente, è falso: il procedimento tipico di Barry Lyndon è infatti lo zoom, quasi sempre indietro, a volte in avanti. La profondità che il movimento sembra istituire, e lungo la quale quindi si attraverserebbe la Storia per giudicarla, è falsa perché il movimento stesso è puramente fittizio, lenti che si muovono modificando lo spazio e non percorso in esso. Lo zoom indietro crea nell’immagine un centro illusorio (spesso il protagonista; vedi comunque il primo ironico zoom del film, quando dal p.p. dell’amorino si passa a Barry che gioca a carte con la cugina

adolescente – mente amata che lo invita al corteggiamento con la freddezza del gioco, senza più vita di una statuetta), e riproduce di continuo il tentativo impotente di perforare la superficie dei «quadri» (della Storia), mentre assomiglia proprio al procedimento di lettura dell’opera pittorica in genere impiegato nei documentari d’arte. Tutto resta chiuso dentro tale superficie, compresi i rari momenti in cui la camera a mano rompe i quadri (solo come si agita la superficie dello stagno) nei casi in cui l’istinto di morte prende il sopravvento in modo violento e anomalo (zuffa tra Bullingdon e Barry, tentativo di suicidio da parte di Lady Lyndon) sulla calma vita–morte delle inquadrature. L’amore ancora una volta è frustrato, o meglio esiste solo come cosa invisibile che passa tra le persone; scompare l’amore, nella storia di Barry che insieme con mille altre storie si perde nella Storia, ma resta il dolore della sua assenza, della non fotografabilità del suo momento «sensibile», del suo sparire appunto nell’oblio della cronaca storica: il fondo di dolore che è nella storia, come sottrazione di amore uguale a mancanza economica, lo si ha nei lunghissimi sguardi di Redmond e della cugina e del borioso insulso Quin, a tavola, prima dell’annuncio del fidanzamento di questi ultimi. Qualcosa muore, lo sguardo passa, e il gesto (la sfida) e il rito che seguiranno (il duello infatti falso) avranno solo la rigidezza automatica della meccanicità. Lo stesso, nel lungo sguardo silenzioso e pieno di malizia dolorosa con cui la Berenson guarda O’Neal al tavolo da gioco e lui risponde, e non l’ama, e lei l’aspetta nella luce bianca e freddissima di un salotto male illuminato. E la Storia resta come negazione assoluta nella ricostruzione perfetta. Pur nell’assoluta «neutralità», Barry Lyndon può fare paura, può far nascere la paura (ideal–umanistica) di un nulla nella Storia (qui non c’è il monolito ma la pietra tombale). «Il pericolo sta in ciò che, per cercar di rappresentare il normale, si finisce col rappresentare il nulla, e con lo scrivere il romanzo della società anziché il romanzo dell’uomo». (R. L. Stevenson). Nel film, è ancora a un’invisibile «utopia tecnica» che K. si affida. In tutto il mondo il film è accompagnato da un libretto di minuziose istruzioni per la proiezione; sul formato (1x1,66), sulla luminosità, su quanto devono durare gli intervalli in sala e le code, etc. (cfr. P. Pruzzo «Il Secolo XIX», 28–9–76). Alla fragilità dei dati tecnici della proiezione, K. affida la sua morale come il morente, prescrive le dimensioni della bara. L’immagine vuole comunicarsi esatta (anche se queste particolarità tecniche il pubblico – beatamente manipolato, in Italia abituato a vedere qualsiasi film di qualsiasi formato proiettato col mascherino panoramico – non le vede pur vedendo l’immagine da esse determinata: ecco perché parlo di utopia), con le giuste tonalità di morte sui volti imbellettati dal funereo trucco settecentesco, col volto del feto–Bryan avvolto nelle bende che muore bambino mentre gli si racconta la solita storia. «Chi odia il distruttivo, deve odiare insieme la vita: solo il morto è l’immagine del vivente non sfigurato.» (Adorno, Minima Mondia). Il giudizio. La Storia diventa forse o è anche una questione di tramonti e di paesaggi? Come si forma sul piano del non–verbale il giudizio morale o politico? – O in realtà si torna al sogno più romantico e pazzo, quello del «costruttore di paesaggi» di Poe, del soggetto assoluto e Demiurgo blasfemo, o a Napoleone, o all’idea di Dio. «In ogni

caso, quando si agisce sul piano del non–verbale, l’ambiguità è inevitabile» (S. K.). L’ideale di K. in quanto regista: fare film «con la massima economia, e con più bellezza e grazia che sia possibile».

IL TEMPO DELLO SPAZIO (WE’LL MEET AGAIN)

«Tutto quello che si può fare è porre delle domande o fare osservazioni vere sul comportamento dell’uomo. L’unica moralità è non essere disonesti». Dubbi restano di fronte alla morale e alla speranza «negative» di un cineasta che si affida all’ambiguità del non–verbale rifiutando spiegazioni precise sui film cui affida tutto se stesso. Un regista abnorme, di cui si conosce solo il vago progressismo radicale e insieme scettico (il Vietnam «è stato assurdo»), liberalismo americano misto a coscienza «tedesca» proiettata verso il futuro. Né americano né inglese, l’isolamento in cui vive fa pensare all’uomo «invisibile» del capitalismo (e del cinema) americano, Howard Hughes. Sembra prescindere dalla Storia, ma i suoi film segnano (e vogliono segnare) date nella storia del cinema e a volte hanno anticipato gli avvenimenti (2001 un anno prima dell’uomo sulla Luna) o si sono mescolati ad essi (del Dr. Stranamore, già pronto, venne ritardata l’uscita per non aggravare il clima di sfiducia negli USA dopo l’assassinio di Kennedy). Mostra l’assurdità del potere, ma i suoi film un po’ cinici piacciono all’establishment kennedyano (il Presidente apprezzò molto anche l’humour nero di Lolita) che proclama la Nuova Frontiera e prepara la Baia dei Porci. «Può fare ciò che vuole», ma senza il Capitale non riesce a fare il suo Napoleone. Produce le sue più o meno costose macchine filmiche in forma di inumano “gioco” logico anche quando al centro c’è la Storia dell’uomo. (Adorno, citando Huizinga: «Nel concetto stesso di gioco è espressa meglio che ovunque l’unità e indivisibilità del credere e non credere, l’unione di sacrosanta serietà con ostentazione e scherzo». Ciò che così si predica del gioco vale certo per qualsiasi arte». – Id.: «L’umanità dell’arte è inconciliabile con qualunque ideologia del servizio a favore dell’uomo. Essa mantiene fedeltà agli uomini solo mediante inumanità nei loro confronti.»). Pratica le tecniche più nuove, i suoi film sono celebrati per l’audacia del progetto: non gli si conoscono allievi o imitatori. Fa il suo film più “ultimo” e tecnicamente avanzato partendo dalla pittura e dalla musica di duecento anni fa (e il mancinismo dilagante in Barry Lyndon è forse il tema antichissimo della superficie glaciale e ossessionante dello specchio?). (Adorno, cit., sul «nuovo» nell’arte: «L’astrattezza del nuovo è necessaria; solo nel nuovo la mimesi si accoppia, senza ricadute, alla razionalità: la «ratio» stessa, nel brivido del nuovo, si fa mimetica; il nuovo è il fratello della morte»). Ha forse il mito dell’arte, ma nessuna fiducia nella possibilità di azione e di influenza dell’opera d’arte o dei suoi film. Adora la «ragione», ma afferma da filosofo settecentesco che «la verità di una cosa si trova nella sensazione di essa e non nella sua concettualizzazione» e sembra dedicare la sua vita a qualcosa di cui riconosce l’inutilità di fondo e la gratuità (il cinema, la ragione stessa), perseguendo la verità disperatamente, magari col «senso in più » della tecnica, facendo entrare a forza nella ragione cartesiana anche l’immaginazione e i sensi di

cui Cartesio diffidava. «È la felicità dell’arte mostrare come qualcosa diventi significante, non per allusione a idee già formate e acquisite, ma grazie alla disposizione temporale e spaziale degli elementi.» (Mérleau–Ponty) Nei suoi film non hanno molto spazio le donne, poco e negativo ne ha la famiglia. Vive con moglie e tre figlie che dipingono (e sette gatti, e tre cani) in una sorta di atelier permanente di arti figurative. Crede che si possa vincere la morte (si è interessato all’ibernazione) e che possa presto giungere per l’uomo il tempo di un nuovo spazio, ma è giunto nell’ibernato Barry Lyndon a dare l’immagine assoluta della Storia come «morte che è stata», distruggendo nell’immobilità di una entropia sempre più diffusa la pur utopica e ironica speranza che scaturiva in fine dall’esplosione dei suoi congegni. («Nelle opere d’arte ciò che non è è una costellazione di quel che è» – Adorno). Crede nell’espansione della vita dell’uomo, ma la sua vita è nella pellicola dei film. Ci comunica un entusiasmo freddo. Riesce a controllare i film in ogni particolare come un democratico despota; non è mai riuscito a controllare le sue capacità di elaborazione per costruire da solo un soggetto che lo soddisfacesse. La fase che più apprezza nella lavorazione è il montaggio finale: dopo l’ansia delle scelte da prendere ogni momento sul set, dopo la paura di non dominare la realizzazione, è il potere di dare all’oggetto la forma definitiva. In più di un’occasione ha modificato i suoi film dopo l’anteprima. Il primo finale dello Stranamore era costituito da una battaglia a torte in faccia tra russi e americani nella War Room dopo l’esplosione della Bomba. (Forse dopo non ci saranno più uomini; forse lo stesso uomo dietro la m.d.p. è un mito dell’industria culturale sul quale è inutile baroccamente interrogarci; forse il prossimo film di K. sarà sugli animali?). Lo cambiò, sostituendolo con le immagini di un fungo atomico che si disperde in una gran luce mentre una voce di donna canta: «We’ll meet again». (Al cinema? O in un giorno di sole? La speranza e i progetti di K. non soddisfano i meccanismi della previsione).

PIANI DI INVISIONE (ALL’ OVERLOOK HOTEL)

To overlook (Dizionario Garzanti–Hazont 1961 – 1980 –, e cfr. anche Oxford Dictionary): 1) guardare dall’alto; dominare dall’alto; 2) trascurare, lasciarsi sfuggire; 3) tollerare, chiudere gli occhi; 4) ispezionare, sorvegliare; 5) stregare, gettare il malocchio su.

Shining. Jack Torrance, ex insegnante, ha accettato di fare il guardiano di un grande albergo – l’Overlook Hotel, sulle Montagne Rocciose del Colorado – che durante la stagione invernale resta chiuso e totalmente isolato dal mondo: conta così di approfittare dell’assoluta tranquillità del luogo per scrivere un romanzo. Raggiunto l’albergo, insieme alla moglie Wendy e al figlioletto Danny, viene a sapere che anni prima un guardiano di nome Grady, sconvolto dalla claustrofobia, aveva ammazzato la moglie e le due figlie e si era poi suicidato. Il piccolo Danny – che ha lo «shining», cioè dei poteri extrasensoriali che gli permettono di vedere ciò che altri non vedono e di comunicare telepaticamente – è a sua volta messo in guardia dal capocuoco Hallorann contro i pericoli che gli avvenimenti del passato rappresentano per lui: in particolare gli viene consigliato di non mettere piede nella stanza 237. Nell’albergo deserto e bloccato dalla neve, Jack entra a poco a poco in uno stato di estrema tensione, "incontrandosi” con il defunto Grady e con altri personaggi del passato, mentre tutto il suo lavoro si riduce ad accumulare fogli su fogli, nei quali scrive sempre la stessa frase: «All work and no play make Jack a dull boy» (letteralmente «Molto lavoro e nessun svago hanno fatto di Jack un ragazzo ottuso»; nell’edizione italiana «Il mattino ha l’oro in bocca»). Anche Danny ha visioni sempre più frequenti, in particolare delle due figlie di Grady, che lo rendono consapevole della minacciosità della situazione. Wendy, a sua volta, pur non afferrando alcuna "presenza” estranea si rende conto del crescente sconvolgimento del marito e tenta di chiedere aiuto per radio, ma Jack distrugge l’apparecchio.

Solo i poteri di Danny possono stabilire una comunicazione con l’esterno: Hallorann ne percepisce i segnali e accorre all'Overlook Hotel, ma viene ucciso da Jack, che tenta poi di ammazzare la moglie e il figliolo. Inseguendo Danny nel giardino–labirinto vicino all’albergo, però viene ingannato dal bambino e non riesce più a trovare l’uscita, finendo per morire congelato. (Da «Cineforum» 202, 1981). Vedere, rivedere, stravedere. Sarà possibile inventare uno «stravedere» come possibile ulteriore significato di to overlook. In ogni caso, Shining è un film da vedere rivedere stravedere, portando la «stravisione» oltre l’intransitività dello «stravedere (per – qualcuno o qualcosa – )». Ed è un film che stravede il cinema e nel cinema, il futuro negli anni ’80. Anche su di esso sono possibili le diverse operazioni cui si può riferire il gesto dell'over–look. Se overlook vuol dire «ispezionare» e «sorvegliare», in pratica «aguzzare gli occhi», e insieme anche «trascurare», «lasciarsi sfuggire», chiudere un occhio o gli occhi, appare chiaro che rispetto al cinema degli anni ’80 Shining si pone all'interno di un paradosso del tutto simile: il film più lavorato e complesso che sia dato di vedere, e che richiede espressamente un «over», un «di più» di sguardo attento, è anche tra i più trascurati, anzi è un film (vedi molta critica, italiana e non) che quasi viene lasciato sfuggir via, o che si ritiene di poter guardare dall’alto tollerandolo e chiudendo un occhio sull’incursione d’autore in un territorio proibito come quello dell’orrore. Destino che rammenta, in grande e amplificandolo, quello di Images di Altman. Shining rilancia la scommessa di Images oltre ogni limite; quello era un puzzle, o meglio l’utopia del puzzle in uno spazio solo ambiguamente bidimensionale e superficiale come quello cinematografico, un gioco privato a sfidare e «giocare» la molteplicità dei punti di vista. Kubrick, invece, lancia spesso nelle interviste – e nel film stesso – l’immagine del puzzle, ma è come lanciare da giocare allo spettatore solo una palla di stracci. In ogni immagine del suo film si incrociano (come appunto avviene fisicamente in ogni punto dello spazio) mille infinite immagini–puzzle. Ovvero, il puzzle viene dichiarato impossibile, poiché esistono il tempo e il cinema – che apre nello spazio la possibilità di innumerevoli sguardi. Shining irride apertamente alla possibilità di comporre e chiudere il puzzle: i buchi restano sempre aperti, assolutamente non curanti della precisione diegetica e logica con cui si svolge il modesto libro di Stephen King da cui è tratto il soggetto. Kubrick sembra infine suggerire che la ricerca del senso è vana; esso non è «nelle soluzioni», nelle chiavi di volta in volta reperibili, nei singoli puzzle che ne possono derivare; se si dà un senso in Shining è solo nella figura dell'enigma enigma, e nel modo in cui si pone. Come in 2001: Odissea nello spazio, di cui Shining è precisamente il rarefatto e allucinato remake). Così per una volta, è solo nella generalità del film che si può trovare il suo segreto, nella descrizione più semplice del suo apparire evidente; molto più che nelle varie ipotesi interpretative prodotte dal gioco ottuso o acuto del critico/intellettuale, peraltro tutte «vere»: quella sociologico–familistica, quella

politica (il rosso bianco e blu dominanti che sono i colori della bandiera USA...), quella «esistenziale» (la crisi dello scrittore...), quella psicoanalitica (...), quella antropologica (il cimitero indiano su cui è costruito l’Overlook Hotel, il cannibalismo – narrato – della spedizione Donner...), quella infine che legge il film come concentrato e summa citazionale del genere horror o – più ovviamente – come catalogo di rimandi kubrickiani... Quanto alla cinefilia, non può essere distante per definizione da un film che per definizione si pone nella distanza assoluta, nella lontananza zarathustriana, nel freddo di un procedimento cinematografico che va ben oltre gli oggetti e i corpi d’affezione (dove il secretum è appunto – non si può ripetere – inarrivabilmente lì, inchiodato in ogni punto dell’inquadratura, visibile ma quasi inattingibile, anche perché c’è poca speranza di cercarlo in un altrove – fuoricampo? nei brividi soliti? negli aloni? – che non c’è). Lo stesso vago livore degli appassionati di horror–fantastique (vedi riviste come «CinéFantastique») è una reazione al gelo con cui K. opera radicalmente all’interno di un genere cinematograficamente molto delimitato e per di più codificato come «genere basso» (a tutt’oggi K è il solo «autore», con Murnau, ad aver agito coscientemente in quest’ambito, visto che il Vampyr di Dreyer – come decine di altri film d’autore – voleva essere programmaticamente un «divertimento» sperimentale. Questa apparente difficoltà di comunicazione, in un film di larghissimo impegno produttivo e dichiaratamente inteso per una platea di massa, non è accidentale, e riassume sul piano contestuale il paradosso in cui è preso il testo–Shining (e più in generale tutto il cinema–Kubrick recente da 2001 in poi). Che è prima di tutto il paradosso del testo nel cinema contemporaneo dei testi slabbrati, smangiati, rinviati, rimontati; perfette macchine da spettacolo (Lucas, Spielberg, Coppola) in cui però la superficie testuale (curatissima e splendente, affascinante e colorata) è ammessa in partenza come deperibile, transeunte, la parte meno importante della macchina–showbusiness, la meno difendibile e la meno difesa. Lo stesso K., come già fece con 2001, ha rimontato e sensibilmente accorciato il film che si stava commercialmente afflosciando dopo il boom dei primissimi giorni; ma ciò indica semplicemente che esiste un procedimento di montaggio kubrickiano che può anche diventare smontaggio: la solita maniacalità e l’ansia di controllare tutto (per esempio una per una la stampa delle settecento copie delle prime USA del film) si coniugano infatti con una coscienza strutturale del meccanismo che, mentre produce il testo, si assume la responsabilità di mutarlo fino al magico e vertiginoso momento del montaggio «ultimo e definitivo». (In questo senso, è interessante quello che ci ha detto Milena Canonero, la costumista di K., a proposito del continuo e accurato cambiare abito di Danny nel film, che indubbiamente lo connota – insieme con la madre – più «vivo» del padre). La varietà degli abiti di Dany è dovuta prima di tutto a scrupolo realistico (la madre, trascurata dal marito, e senza nulla da fare, riversa sul bambino, vestendolo e rivestendolo, le sue capacità di lavoro, di attenzione, di invenzione e «produzione»; e poi secondo uno schema predisposto, K. aveva chiesto parecchi vestiti diversi per poter montare una scena, indifferentemente

«prima» o «dopo» nel procedere del film, grazie alla regola che a ogni scansione temporale il bambino cambiava abito. Quindi, scansione rigorosa, e singoli «atomi di film» regolati uno per uno alla perfezione, ma possibilità fino all’ultimo di mutare la concatenazione e la successione delle immagini e degli eventi). È comunque proprio questa sacralità e complessità del testo tirato a lucido a risultare desueta e inizialmente impopolare e perdente nel marasma delle visioni distratte e sovrapposte. A essa il cinema «vincente» di oggi ha sostituito negli anni ’70 la potenza delle immagini e l’aura della macchina che le produce. Per sopravvivere come oggetti, come manufatti costosi, cioè per essere visibili e individuabili, i film puntano a distinguersi in ogni momento con forza dalle altre visioni possibili che li circondano, e dai suoni che li sovrastano. Il cinema degli anni '70 è stato un grande laboratorio in cui si è costruita l’immagine sintetica e potente, assolutamente artificiale, capace di imporsi e di sorprendere, in un calcolato trionfo di barocchismo seicentesco. Punte, volute, coloraggi, esclamazioni, insomma momenti capaci di emergere dal ronzio della macchina, o diretta esibizione della stessa. Possibilmente, le due cose insieme: quindi il meraviglioso e il trucco. L’era dell’effetto speciale moderno è nata nel 1968 (del resto è tutta l’annata, e il nome stesso, che oggi si tende a far passare per un «trucco»; forse davvero fu solo un effetto, un po’ speciale), con 2001. Ma delle possibilità mostrate e bruciate in una volta sola da K. nel buio nero dello spazio/studio cinematografico, come sintesi astratto/concreta del luogo in cui filmare, è stata raccolta e sviluppata – nella seconda metà degli anni 70 – solo quella di una riduzione unidimensionale e senza scarti allo studio cinematografico come cosmo, ambiente di produzione infinita di immagini. Al contrario, per K. la «facilità» casuale della produzione di immagini è il primo dato da oltrepassare. La comunicazione sensazionale e immediata (che sia poi soft o hard poco importa) cui puntano le immagini totalmente artificiose degli effetti speciali è lontanissima dall’operazione kubrickiana, in cui il totalmente artificiale del cinema punta sempre a un confronto obliquo con quell’altra finzione che è la realtà. Alla suggestione della forzai comunicazionale, K. preferisce da sempre indagare la crisi o l’evoluzione dei sistemi di comunicazione, dei media (lenti o veloci che siano), drammatizzandone i corto–circuiti, inventando la morte di Hal, e raffigurando ogni volta l’implacabilità del circolo in cui il soggetto è preso, destinatario di comunicazioni indecifrabili o decifrabili in due o più modi opposti e divaricati. Lo stesso far cinema di K. mima un percorso attento ai modi di produrre immagini e di comunicarle almeno quanto alle immagini stesse. Mentre all’ambiguità del computer Hal succedeva, nel mondo–cinema, il dominio del computer (a tutti i livelli; dalla preparazione dei budget al controllo delle sceneggiature alla produzione delle immagini mediante video–sintetizzatore) Kubrick insisteva in un lavoro dalla parte del soggetto supposto essere la macchina da presa. All’oggettività dei modellini e a quella dei vari visual effects, alla produzione diretta di figure e immagini e alla diretta condensazione dei fantasmi sullo schermo, K. contrappone la follia di un discorso apparentemente «arretrato» sul vero, addirittura sui gradi di verità del mondo, sulle possibilità di confrontarli e

sull’impossibilità di verificarli (Arancia meccanica). Barry Lindon è l’intrapresa più temeraria: unico «effetto speciale» diventa quasi la «realtà» stessa, sotto la specie della «luce naturale» e delle riprese nei locali illuminati solo dalle luci «d’epoca». Il paesaggio si fa direttamente sul set, il mondo (la sua Storia) è come una stanza da illuminare e riprendere. Pochissimi si accorsero che Barry Lindon prolungava direttamente il trip visivo e la sperimentalità di 2001, ma con Shining la smisurata ambizione kubrickiana si rivela definitivamente. Ancora una volta, alla magnifica oggettivazione radio–sinfonica dell’apocalisse di Coppola, scriabiniana e fracassone, Kubrick risponde con la soggetività di un procedimento logico. All’euforia illusoria di una produzione diretta del mondo in uno spettacolo continuo e gigantesco dove il soggetto non è neanche finzione, corrisponde in K., accanitamente, una fedeltà al metodo desueto della rappresentazione. Contrapposizione netta. Apocalypse Now è il tripudio dell’oggettivazione visiva, addirittura in un tentativo di non buttar via nulla delle immagini, proponendo ripetutamente la dissolvenza e la sovrimpressione come timore di non riuscire a far vedere tutto e abbastanza nello stesso momento filmico, nello stesso tempo. Lo spreco è quello dei materiali usati e distrutti, dell’enorme troupe esposta per mesi ai tifoni, del tournage che diventa lui (al posto del film) il «campo di battaglia» fulleriano; non certo spreco di tempo, che anzi la durata è rimpinzata, subissata, affogata di immagini. In un tempo (la durata del film) e in una Storia (il Vietnam...) Coppola tenta di far entrare più tempi e più storie, cercando di far riesplodere (con l’aiuto della «partitura sonora» scaglionata anch’essa – il Dolby... – in diverse «profondità») il Mito dell’opera d’arte totale. Shining propone, in modo meno diretto, ma sicuramente più avanzato e più completo, lo stesso problema di totale modernità. In un certo senso, Shining contiene Apocalypse, o meglio: Shining rappresenta Apocalypse, «mette in scena» quella che era l’istantanea di un fotografo immaginoso e smanioso, produce nuovi «feti cosmici» con la smisurata eiaculazione coppoliana. Tutto ciò, non sovrapponendo e stratificando ingenuamente le immagini, ma caricandole ancora una volta di segni fino a una tensione estrema (cadendo perciò se mai nell’opposta ingenuità, che una tale concentrazione semantica possa essere letta – nel cinema di – oggi e fino a mettere in scena quella stessa stratificazione). La semplificazione/rarefazione compiuta da Shining fin dall’inizio appare simile a quella di 2001; là lo spazio nero, e messa in scena nuda dall’avventura–uomo, figura che in esso si ritaglia; qui lo spazio si è di nuovo incurvato in una forma, in un reticolo spazio–temporale che è l’albergo isolato dal resto del mondo, diretto prolungamento dell’astronave e della camera d’albergo finale, unici spazi formati e riconoscibili in 2001. In questa situazione, si può immaginare il divertimento di K. nel riproporre (questa volta senza pathos) il break comunicazionale della morte di Hal, con Jack che sabota tutti i mezzi di comunicazione e trasmissione esistenti nell’albergo. Ma subito dopo si nota una differenza molto precisa: la «morte» di Hal era condizione dialettica per «saltare» in un tipo ulteriore di conoscenza e comunicazione, mentre la disattivazione dei sistemi dell’albergo ha effetti puramente passivi e di «chiusura». Resterebbe lo shining questo particolarissimo

modo di comunicare che (sulla linea del luminismo di Barry Lindon) sarà certo piaciuto molto a Kubrick; invece, proprio la luccicanza, o luminanza o brillio che dir si voglia, insomma la strana telepatia di Danny e del cuoco negro, pur funzionando risulta del tutto derisoria, sembra essere un piccolo circuito chiuso, un canale di comunicazione che infine serve solo a far morire il negro... Il ridimensionamento dello shiningh certo un fatto fondamentale nell’operazione filmica che pure mantiene il suo nome. Lontanissimo da un De Palma (Carrie, da un altro romanzo di King o anche Fury), K. usa il materiale parapsicologico come un dato puramente realistico, quasi una macchinetta per vedere e prevedere visioni, un fatto che non ha di per sé effetti strani. Ancora una volta, ben più generale è la stranezza, l’estraneità che si diffonde nel film come una nebbia. I soggetti in campo (Jack, il figlio, la moglie, il negro) falliscono tutti, non sono assolutamente padroni di se stessi, non possono fare affidamento neppure sulle loro qualità e capacità. Lo scrittore non riesce a scrivere, la moglie non riesce a comunicare né con lui né con il mondo esterno, il negro dotato di luccicanza si fa ammazzare e soprattutto – in quanto cuoco, personaggio domestico per eccellenza – è clamorosamente e beffardamente assente dal luogo cui è assegnato (al punto di venirci a morire, già…). Il bimbo stesso, se si vuole salvare, non è al miracolismo irrazionale e comunque étrange dello shining che deve ricorrere, né ai caldi maglioncini della mamma; il gesto con cui si salva è il trucco generato da una logica elementare, un massimo di razionalismo, e la fuga deve avvenire nel freddo del labirinto innevato... Anche la fuga della madre e del figlio è un puro scomparire (K. ha tolto subito dopo la prima una sequenza conclusiva che li vedeva ricoverati in una clinica), un venir meno, due soggetti puramente negativi che si cancellano; nulla di soggettivamente programmato. Pochissimi personaggi, forzatamente ricorrenti e campeggiami; nessuna azione, nessun progetto reale, nessun vero «soggetto». In particolare il protagonista Jack, colui che fa più cose e più si agita e strepita, il capofamiglia, lo scrittore e quindi elettivamente colui che mena il gioco, l’orditore, è in realtà la prima preda del labirinto, una marionetta in balia della curvatura spazio–temporale del luogo. Palesemente è scritto, e non scrive. L’intelligentissima interpretazione di Nicholson, che giustamente fa quasi ridere con i suoi modi da cartoon, con la sua isteria alla Tex Avery e la violenza alla Chuck Berry (il riferimento ai fumetti è ricorrente nel film, fin dal soprannome «Doc» del bambino), costruisce un personaggio di cartone, un corpo totalmente assoggettato a una forza che lo fa muovere per i corridoi scompostamente, che lo fa giocare a palla con violenza, che ne tende la pelle sopra i muscoli. Qualcosa che, nella realtà fisica del film, è la forza del cinema, non tanto un soggetto ma la fuggevolissima ombra di una macchina–oggetto (l’elicottero) che si intravede all’inizio. Ma neanche questo è «il soggetto». I soggetti sembrano anzi diversi, nella continua e spossante «battaglia di visioni» che scandisce il film. Nessuno ne ha il bandolo. Luccicanza o meno, tutti «subiscono» le visioni. Jack, che per un attimo K. in un’inquadratura livida puro horror pareva far identificare con lo sguardo definitivo, con l'overlook dominante nel labirinto dove passeggiano

la moglie e il figlio, è invece poco dopo costretto a subire urlando un sogno terribile. Lo sguardo sul modellino non è paragonabile allo sguardo sul «vero» labirinto (costruito negli studi di Borehamwood dove fu girato nel 1963 La stirpe dei dannati, film di super–bambini telepatici guidati da un biondino...). O meglio è solo paragonabile. Ma lo sguardo è lì, si vede e non si vede. È l’invenzione e la sperimentazione geniale di un nuovo uso della steady–cam, cinepresa con meccanismi idraulici capace di movimenti anche molto veloci a mano paragonabili per esattezza e dolcezza a quelli fotti con un carrello. L’ambiguità di un’inquadratura che sembra quasi sempre fissa e infine mostra di non esserlo. Un occhio che galleggia nell’aria, si bagna in essa, accarezza gli specchi, è in movimento, sempre decentrato ma sempre ricollegato a un centro (mobile e fluido). Questa oscillazione continua marca profondamente il film; quanto più è impercettibile, tanto più lo sospinge verso uno sbandamento generalizzato, una perdita di centro che non viene mai riscattata dalla centralità dei personaggi o dai punti di fuga rigorosamente geometrici e «reali» dell’immagine/décor (K. non usa nessun trucco tipo «pareti semoventi», gira sempre dentro uno spazio precisamente costruito e definito come Overlook Hotel). Qualcuno ha parlato di supremazia dello sguardo infantile, per lo shining e – per esempio – per le lunghe inquadrature in cui sembra di seguire il percorso del bambino sul suo stesso go–kart. Ma è la solita steady–cam a seguire il go–kart, a darci inquadrature ravvicinatissime del bambino al volante, a porsi dietro le sue ruote; la stessa «presenza», lo stesso fantasma che lo seguirà nell’incredibile corsa dentro il labirinto. Difficile a dirsi: è come se il soggetto fosse già sdoppiato e diviso, incerto, dietro l’unico sguardo (unificante per definizione produttiva, e per continuità temporale) della macchina da presa, mimato e triplicato dall’inquietante e inspiegabile presenza, della musica. Sembrerebbe la più radicale esemplificazione dell'esitare che Todorov (Introduzione alla letteratura fantastica) indica quale istanza fondamentale del «fantastico». Esitazione spostata dalle stranezze psicologiche (vere o false? ...) a tutto il film, allo sguardo stesso che lo produce. È la solita capacità kubrickiana di lavorare e produrre la figura prima già dietro la m.d.p. Di fronte a essa, poi, nell’ampiezza dell'overlook (hotel) e con tutte le variabili e le varianti di significato (tutte presenti) ricordate sopra, il discorso si dispiega e si riapre all’infinito. La questione del mondo come compresenza di immagini, anzi come sedimento di immagini (che creano il volume stesso dei corpi? come suggerirebbe lo sfogliarsi delle diverse età nella scena del bagno...) intersecatesi e intersecantisi nel tempo, stratificate in modi diversi, viene posta con una precisione mai avvenuta sullo schermo (soli paragoni possibili: l’analogo ma meno sottile e meno controllato tentativo di Tarkovskji, con Solaris, Lo Specchio, Stalker, e l’itinerario di Boorman da Zardoz allo straordinario Esorcista II: l'eretico, anche se in modo molto più indiretto, «confuso», «avventuroso»). Non sono scatole cinesi. Per una volta, la scatola stessa si fa contenuto mentre è contenente: la forma dell’overlook è la casa, home, il luogo in cui tutto si verifica tra gli uomini. Il set–mondo si è di

nuovo condensato in una sola immagine che è a sua volta una macchina (l’hotel) che alberga e mantiene e riproduce e acquisisce immagini. In tale spazio onnivoro e assoluto il tempo subisce uno spappolamento definitivo, una contrazione simile a quella di 2001. I cartelli che indicano l’evolversi tecnologico, suddividendo il film in blocchi, sono in realtà pure funzioni strutturali che nulla chiariscono; vaghissimi, indeterminati, il loro unico effetto è quello di «segnare il tempo» al tempo scandendo un progressivo annullamento di esso, verso un punto morto (o, dato il freddo, la neve, il gelo: uno zero assoluto) in cui non c’è più intervallo, in cui tutte le immagini sono bloccate in una raccolta di fotografie scattate in tempi diversi ma presenti ora nello stesso tempo, nello stesso luogo che è il tempo. Il cinema/ragionamento di K., spettacolo grazie al solito ingresso nel genere (l’inizio è proprio la classica salita al castello maligno e incantato) si produce qui con una freddezza e esattezza che non esistevano neanche nello spazio siderale. L’Overlook Hotel nella neve è anche la locanda in cui Cartesio per inventare il metodo cominciò a scrutare nei propri sogni, durante le giornate di un lungo inverno. Ma soprattutto è la scena assoluta, quella cui non si può evadere: cioè la pura estensione in cui si è costretti a essere in quanto (finzioni di) soggetti. Gli straordinari incontri col barista e cameriere nella sala dorata delle «ore che non scorrono» e nel bagno rosso segnano pure derive del soggetto, lo scontrarsi attonito con un Padrone assente che produce e paga tutto ciò. Il tema shakespeariano dell’oro e il dominio del colore rosso disegnano una rete spaziale che è l’albergo, l'abitazione, ma anche ciò che abita, l’interno rossastro di un corpo, il pulsare nei suoi condotti delle cellule (sane o impazzite), il fluire e l’erompere del sangue. Una meccanica, una geografia, una topologia (il labirinto come unico esterno, ma che racchiude in sé l’ennesima immagine all''interno), che si fanno narrazione, meccanismo implacabile che non salva nessuna sicurezza. Quando alla fine anche la moglie, la donna così regolare e piena di buonsenso, vede anche lei le misteriose visioni, allora tutto sembra crollare, nessuna possibilità di comprendere secondo un punto di vista razionale sembra preservarsi. In realtà, è l’ultimo scherzo giocato ai tentativi di identificarsi con un personaggio, la disturbante conferma di una realtà circolare e già consolidata che vediamo muoversi di fronte a noi e svolgersi come un racconto imprevedibile mentre è sempre stata lì, immutabile, ambigua ma definita per sempre come un nastro di Moebus. Tutte vere per questo le interpretazioni, come tutti veri i sensi dell’Overlook. Ma non in un allacciarsi giocoso, in un intrecciarsi fantasy di anelli diversi. Tutte le chiavi e tutte le piste possono risultare definitive e totali, ciascuna sufficiente a contenere tutte le altre (da quella sociologica à quella psicoanalitica a quella della situazione dell’artista moderno). Discorso assurdo, contrario all’impenetrabilità dei corpi, si direbbe. Ma le immagini, senza spessore, permettono questo assurdo inghiottirsi a vicenda. Proprio questo resta e consiste, nel film. La forma stessa generale del contenere, dell’albergare, del generare immagini. L’Overlook come gigantesca provetta; laboratorio del mondo/inferno. Ciò che in 2001 era il monolito (puro segno ambiguo definitissimo e lucido) è qui

tutto il film, la forma complessa di Shining: la casa, la camera in cui si produce un mondo di immagini, in cui le immagini si fanno vivete e si mettono a morte. Senza contare che a questa esplosione di senso in direzione «cosmologica» corrisponde un’implosione verso il profondo, il nascosto, l’interno... Già Corman nel ciclo di film da Poe (e non solo, ovviamente, nel paradigmatico Fall of the House of Usher – I vivi e i morti –) aveva scelto con notevole rigore (unito al calcolo economico) di restare quasi esclusivamente in interni: casa, castello, o comunque studio cinematografico. L’onore e il terrore erano visti come avvenimento mentale, e l’interno diventava cervello, sul modello di Roderick Usher la cui casa in rovina si identifica (anche mediante dissolvenza!) colla sua sostanza cerebrale. Nel frattempo, la casa (castello, albergo...) è divenuta anche socialmente e politicamente un luogo ancor più centrale e decisivo. L'intemizzazione del mondo mediante i media domestici (radio, tv, videoregistratore, e gli ultimi oggetti «telematici», dal teletext in là...) è ormai un fatto, e Variety, la bibbia settimanale dello spettacolo, ha ormai un’intera sezione dedicata all’home–video. K. (che tra l’altro nel suo maniero tecnologico d’abitazione da anni sperimenta tale situazione) produce un’intensissima immagine di home e di video (nel senso etimologico del termine, non necessariamente televisiva, anzi la tv è in parte beffata dallo shining che solo permette al negro di porsi in contatto con Danny, quando il telefono viene staccato e la televisione si limita a diffondere, più che comunicare personalmente), ed è quindi un overlook cosmologico e riassuntivo, appunto «totale» (i suoi strati storico–antropologici: l’hotel, si dice nel film, è costruito sul luogo di un antico cimitero indiano...) quello che si propone violentemente anche come immagine della mente. Non della mente del protagonista Jack, naturalmente, ma della mente dello spettatore, di ogni spettatore (ricordare Fear and Desire, il primo film di K. ...). Il finto esterno che è il labirinto designa ancor più chiaramente in tal senso l’albergo stesso. Casa e labirinto sono come le due facce aperte e contigue di uno stesso libro, che si definiscono l’un l’altra. Contraddicendo ogni schematicità del tipo «casa confortevole» / «labirinto ostile», visto che la casa deborda di sangue (che sembra percorrere le sue «tubature») e di fantasmi, mentre nel gelo del labirinto, in fondo, ci si salva. E «labirinto» è un termine eminentemente, fisiologicamente, anatomicamente cerebrale. Doppi e opposti, casa e labirinto di Shining formano insieme, oltre che la più precisa e straordinaria immagine del mondo/cinema (fino all’inchiodamento finale nel grado–zero della fotografia gelata di Nicholson, che vale da sola tutto un trattatello barthesiano sulla fotografia), un gioco perverso che si dichiara apertamente e precisamente «cervello», il cervello con i suoi relais, i suoi magazzini di immagini/informazioni, i suoi lapsus, magari contenuti nelle camere/cellule numerate. Non è solo «un’ipotesi» tra le altre. Una spaventosa puntualità di riscontri riapre infatti a questo punto, coerentemente, la possibilità di un senso che emerge tra gli altri, di una lettura più direttamente legata a un referente. In questo caso è però il referente stesso a rimandare un’eco senza fine. Non si tratta infatti semplicemente di cervello, di questo o di quel cervello, ma di un territorio senza

confini che li attraversa e costituisce tutti: l'inconscio. Non tanto il «triangolo edipico» e le relazioni analitiche oggettivate nel plot e facilmente rintracciabili all’occorrenza. Ma l’inconscio come struttura e come linguaggio. (Così, si pensi, solo a proposito del labirinto, al fatto che nel suo nome è contenuta – sua origine etimologica greca – la labrys/ascia con cui Nicholson inseguirà e minaccerà la donna e il bambino. E si valuti il lapsus che parecchi spettatori – non potendo godere di moviola né, fortunatamente?, dell’attenzione obbligata del critico – mi hanno raccontato e confermato: di esser stati sicuri che, alla fine, il corpo congelato di Nicholson si trovasse al centro del labirinto. Cosa forse possibile, per quanto improbabile, ma sicuramente non mostrata, non visibile né deducibile nel film. Il che fa supporre che, al centro di qualcosa, nella spettatore, quel corpo resti pur conficcato, alla fine della visione...). Nel Disagio della civiltà (ed. Boringhieri, Torino, voi. 10 delle Opere, pp. 558–565) Freud, per ridare un’immagine plausibile all’inconscio, e in particolare per spiegare la compresenza nell’inconscio di tracce mnestiche appartenenti a diversi periodi (dall’infanzia all’età adulta), ricorre a una sorprendente immagine urbanistica. Abbandonandosi a un'ipotesi fantastica, configura una Roma in cui, sulla stessa pianta, fossero visibili nello stesso momento, da diversi punti di vista o semplicemente fissando in modo di volta in volta diverso lo sguardo, le diverse immagini di Roma via via succedutesi nei secoli. È la descrizione molto precisa di una fantasmagorica sovrimpressione cinematografica. Freud la tronca così: «Non ha evidentemente senso sviluppare ulteriormente questa fantasia; conduce all’inimmaginabile, anzi all’assurdo». L’assurdo cui eravamo giunti parlando di Shining. Ancora, e più. «Se vogliamo raffigurare il succedersi storico in termini spaziali, la cosa è possibile solo tramite una giustapposizione nello spazio; il medesimo spazio non può venir riempito in due modi diversi. Il nostro tentativo sembra un giuoco ozioso; ha un’unica giustificazione: ci mostra quanto siamo lontani dal padroneggiare le peculiarità della vita psichica attraverso una raffigurazione intuitiva». Ma la conturbante precisione di riscontri si ha, nel film di Kubrick, con un altro testo di Freud, del resto citato da K. nell’intervista ai «Cahiers du Cinéma». Si tratta dello studio sul «perturbante» (pp. 82–118 ed. it., voi. X), Dos Unheimlidhe. Scritto metodologico, e infatti da K. citato proprio come testo «teorico», non come referente diretto. Pure, questo testo teorico di Freud (più che il libro di King) è il vero referente di Shining. Come dire che – se si vuol parlare di film dell’orrore – K. ha preso come modello stesso del suo film il discorso più avanzato fatto dalla cultura occidentale a proposito dello spavento, dell’orrore, del terrore. Si, il tutto è molto testuale, in questo film strutturato come un inconscio, in questa casa/albergo in cui il gioco di parole imperversa dall’inizio (Overlook...) alla fine («redroom»–«murder» ) e in cui la materia è fatta di elementi astratti (colori, linee...), in cui lampeggiano corpi fatti a pezzi... Casa. Home (è la canzone dei titoli di coda sulla foto fissa). Il tempo non esiste o non conta, nell’inconscio. 1980, 1929.

«La parola tedesca unheimlich (perturbante, inquietante, sinistro, lugubre...) è evidentemente l’antitesi di heimlich (confortevole, tranquillo, da Heim, casa), heimisch (patrio, nativo), e quindi familiare, abituale, ed è ovvio dedurre che se qualcosa suscita spavento è proprio perché non è noto e familiare» (p.82). (Dopo una lunga serie di esempi e di citazioni). «In questa lunga citazione, la cosa più interessante per noi è che la parolina heimlich, tra le molteplici sfumature del suo significato, ne mostra anche una in cui coincide col suo contrario, unheimlich. Ciò che è heimlich diventa allora unheimlich, confronta l’esempio di Gutzkow: “Noi lo chiamiamo unheimlich, lei lo chiama heimlich”» (p.86). Altre citazioni più precise si possono trovare e confrontare passo passo alla forma di Shining. Di un film per alcuni ridicolo, mentre altri lo chiamano «terribile». Di un film in cui le relazioni familiari sembrano oscillare continuamente e senza motivo (fin dal viaggio iniziale in macchina) in un pendolo tra amore e odio, familiarità e terrore, tenerezza e aggressione. Un testo lucido e smaltato, pieno di elementi che si potrebbe convenire di chiamare «linguistici» (dal carrello in giù). Una fiducia d’altri tempi, pareva, nel senso, nella lettura, nella lettura universale delle immagini (doppiata ovviamente – ma questo è un altro e decisivo... soggetto – dalla musica): ma poi, nella lingua, una parola vuol dire cose diverse. Anche opposte. E nel cinema, in un film, ci sono infinite «lingue»; ci possono essere infinite «cose opposte». Shining è allora anche, vertiginosamente, interpretazione delle interpretazioni, discorso dell’interpretazione. Ma a questo punto è opportuno fermarsi, lasciare a Shining il suo aspetto di impresa folle e meravigliosa, impossibile. Di sfida perduta forse con la possibilità di lettura, ma vinta per il solo fatto di essere stata osata. Di film spettacolare e di genere che è anche virtualmente illeggibile tanto compatto e inesauribile è il suo spessore filosofico. «Longfellow In the elder days of art, Builders wrought with greatest care Each minute and unseen part, For the gods are everywhere».

Ludwig Wittgenstein (Pensieri diversi, Milano, Adelphi, 1980, p. 70) cita da The Builders, «I costruttori», di Longfellow. «Ai tempi antichi dell’arte / i costruttori cesellavano con la massima cura / ogni particolare minuto e invisibile / perché gli dei sono dappertutto». Ma il curatore dell’edizione italiana fa notare che il verso è mal citato, suonando nell’originale: «For the gods see everywhere»,

«Perché gli dei vedono dappertutto»).

FULL METAL JACKET

a cura di Fernaldo Di Giammatteo Cadono i capelli dei coscritti, bianchi e neri, una lunga teoria di teste rasate, e di volti seri, cupi. Titoli di testa. Camminando marziale nella camerata della caserma di Parris Island, South Carolina, dove si addestrano i marines, il sergente istruttore Hartman passa in rassegna le reclute. Urla improperi, si fa rispondere a urli. A uno, grasso, cambia il nome, lo chiama Palla di lardo. Aggredisce Joker, che gli tiene testa. Cominciano le esercitazioni, corse, canti, percorso di guerra, arrampicate. La notte le reclute dovranno dormire con il fucile, cui sarà dato un nome di donna. Al mattino, si canta in camerata in onore del fucile, la mano sui testicoli («Con lui ammazziam, con questi chiaviam»). Preso di mira Palla di lardo, Hartman lo insulta quando non riesce a superare la sbarra sulla scala. Di esercizio in esercizio, le reclute si trasformano. Il sergente li provoca. Un mattino, alla sveglia, attacca Joker, cui chiede se ama la vergine Maria. E lui risponde di no, spavaldamente. Andrà a pulire le latrine. Come può, Joker cerca di aiutare Pyle (è il nome di Palla di lardo). Durante una ispezione – in camerata, tutti in piedi, in mutande, nelle cassette di ordinanza – il sergente Hartman scopre che Pyle non ha chiuso la cassetta col lucchetto. La apre, butta tutto all’aria e vede saltar fuori una ciambella. D’ora in poi, dice a tutti, punirò voi se Palla di lardo sgarrerà. Una notte tutto il plotone dà una lezione al grassone, picchiandolo con gli asciugamani arrotolati. La scena penosa lascia interdetto Joker che ha organizzato l’aggressione. Un mattino, sul campo, Hartman chiede ai coscritti se sanno perché due assassini come Charles Whitman e Lee Oswald seppero uccidere–colpendo con tanta precisione da grande distanza: perché erano marines. A Natale le reclute con il sergente cantano in coro «Tanti auguri Gesù Cristo». Hartman li incita a combattere il comunismo, e a credere in Dio. Joker vede Pyle che parla affettuosamente al suo fucile, si preoccupa. Di fatto, il grassone, che comincia a dare segni di instabilità, è bravo ai tiri, e riscuote l’elogio del sergente. Il corso è alla fine. Sfilano orgogliosi i marines davanti alle autorità e ai parenti, mentre fuori campo la voce del sergente spiega come ogni marine sia immortale perché mai morrà il corpo dei marines. L’ultima notte al campo tocca a Joker il turno di guardia. Gira con la torcia elettrica per la camerata, arriva alla latrine. Trova Pyle seduto sulla tazza, il fucile in mano, carico. Gli chiede se sa che sta facendo. Certo, il fucile è caricato con i proiettili blindati – full metal Jacket – calibro 7,62.

Grida. Si svegliano tutti. Anche Hartman, che sopraggiunge in mutande, il cappello in testa. Palla di lardo si alza, risponde ai suoi improperi sparandogli a bruciapelo. Poi, si risiede sulla tazza, s’infila la canna in bocca, e fa fuoco. Un fondo chiude la lunga sequenza (quasi metà del film) a Parris Island. Saigon. Una piazza. Joker e Rafterman, un fotografo di guerra, sono abbordati da una prostituta che vanta le proprie doti. Contrattano sul prezzo. Joker sta per andarci, mentre Rafterman fotografa la scena. Alle sue spalle sbuca un vietnamita che gli strappa la macchina e fugge su una motoretta guidata da un complice. Questa è l’amichevole accoglienza che ricevono i marines. Un elicottero porta i due a Da Nang, alla redazione di «Stars and Stripes» (Joker è corrispondente di guerra). Il direttore impartisce istruzioni, che si riassumono nel dovere di nascondere la verità, di alternare i fatti e di inventare storie edificanti sulla generosità americana e sull’impegno di sterminare i rossi. Si parla del Capodanno vietnamita del Tet. Tutti sono convinti che, come sempre, i viet festeggeranno e sospenderanno le ostilità. È notte, nel cielo si vedono brillare i fuochi artificiali. A un tratto, l’attacco. È l’offensiva più dura di tutta la guerra. Il mattino seguente il direttore dei giornale spiega quel che è accaduto. Joker lo sfotte. E si trova di colpo sbattuto al fronte, insieme a Rafterman che chiede di seguirlo. Durante il volo di trasferimento, i due assistono (Rafterman reprime a stento conati di vomito) alle micidiali sparatorie di un marine che tira al bersaglio contro i contadini. A terra, Joker ritrova amici del corso. Assiste al diseppellimento di venti cadaveri di vietnamiti che i rossi hanno ucciso perché collaboravano con gli Americani. Sopraggiunge un colonnello che ingiunge, invano, a Joker di togliersi il distintivo pacifista fissato al bavero, lui che sull’elmetto ha scritto «Born to Kill». Spiega Joker al furente e allocco ufficiale che la contraddizione fa parte, come ha insegnato Jung, dell’ambiguità umana. Arrivano in uno spiazzo fra case distrutte. Joker ritrova l’amico Cowboy, si scontra con un bruto che lo sfida, manifestando chiarì segni di alterazione mentale. Accanto a loro, il comandante della squadra tiene, seduto su una poltrona sfondata, come dormisse, il cadavere di un vietcong. Durante un’azione cui partecipano alcuni carri armati, il pilota avanza verso un gruppo di edifici distrutti. Accolti da un improvviso, intenso fuoco, sparano tutti, istericamente, e mettono a tacere i viet, che friggono dietro i palazzi diroccati. Al campo di Hue una troupe televisiva, dopo aver ripreso le scene del combattimento, intervista i marines. Ognuno ha la sua risposta, assurda, stupita o inferocita. C’è chi dice di odiare il Vietnam perché non ci sono cavalli. «Volevo –dice Joker – essere il primo a fare centro dentro qualcuno». Arriva una prostituta condotta da un prosseneta astuto, a bordo di una vespa. Si discute sul pene di un negro, la prostituta, diffidente, guarda, si compiace e ci sta. Ma un

bianco brucia il tempo al negro, come sempre. Partono per un’altra azione di pattuglia. Un marine salta su una mina. Era il comandante. Ora tocca a Cowboy prendere in mano la squadra. Chiede istruzioni per radio al comando. Temono di aver sbagliato strada, consultano la carta. Cowboy manda il negro, come si usa, in avanscoperta. E il negro, giunto allo scoperto, è colpito dai proiettili di un cecchino appostato chissà dove. Cowboy chiede al comando di inviare i carri, ma non ci sono carri in zona. Che fare con il negro, rimasto ferito? Nonostante Cowboy ordini di non muoversi, un coraggioso esce, corre. E il cecchino colpisce anche lui. Il bruto che aveva affrontato Joker corre fuori, perlustra la zona, capisce che si tratta di un cecchino isolato, lo urla ai suoi. Esce un gruppo per stanarlo. Cowboy dà notizia al comando. Il cecchino lo centra mentre parla. Gli altri ora si scatenano. Lanciano fumogeni nello spiazzo e vanno. Entrano in un capannone, tra le fiamme. È Joker che scopre il cecchino, una ragazza giovanissima, che fa fuoco rabbiosamente, mentre a lui s’inceppa il fucile. Si ripara dietro una colonna, estrae la pistola, spara. La ragazza cade. Arrivano gli altri. Che fare di questa ragazzina che geme, prega, invoca (ora in inglese) di essere uccisa. Gli altri la lascerebbero lì, a marcire, in pasto ai topi. Joker, esitando, accetta l’invito di un compagno: Ammazzala. Lo fa, superando l’orrore. Fuori, fra le fiamme e il fumo, in uno scenario infernale, il plotone riprende la marcia. La voce di Joker, che pensa a quando tornerà a casa e farà l’amore con le ragazze. Per ora, «Sono contento di essere vivo. Vivo in un mondo di merda, ma sono vivo. E non ho più paura». Cantano in coro l’inno di Topolino. Sui titoli di coda, bianchi su nero, i Rolling Stones cantano «Paint It, Black» di Mick Jagger.

La critica americana accoglie il film con grande favore. Opera «audace e potente» la definisce su «Films and Filming» (n. 397, ottobre 1987) Brian Baxter, che sintetizza così le sue osservazioni: «Che cosa fa di Full Metal Jacket il miglior film del 1987, insieme al suo diversissimo Sous le soleil de Satan di Pialat? Le virtù di cui ho parlato sembrano negative: asprezza, implacabilità, assenza (apparente) di passione, pessimismo, sgradevole realismo. Vi si parla del Vietnam, dei rapporti fra gli esseri umani, di singolari forme di pazzia, dei maltrattamenti alle donne (considerate oggetti sessuali), della guerra: delle sue idiozie, delle sue atrocità. Ci si occupa meno delle ragioni e della condotta della guerra che delle sue spaventose incongruenze. È un’opera che richiede concentrazione e una forma di resistenza estranee ai pubblici odierni che consumano sciocchezze e spazzatura. Lo dimostra il fatto – triste – che abbiamo aspettato sette anni dopo l’ultimo film di Kubrick, più altri cinque per risalire a Barry Lyndon. Speriamo che la prossima

volta l’attesa sia più breve. Non fosse altro per l’ottima fattura dell’opera (fotografia, uso del suono, musica superba, interpretazione), è una vergogna non poter vedere Kubrick più spesso. L’effervescenza che introduce in tutti i generi che affronta rende la sua mancanza doppiamente triste». A proposito della fattura, la rivista tecnica «American Cinematographer» (settembre 1987) analizza con abbondanza di esempi – preziosi e illuminanti – il fondamentale lavoro fotografico di Douglas Milsome e ne ricava un giudizio globale sul film: «Il finale di Full Metal Jacket è il più sconvolgente, disperante e cinico di tutti i film di Kubrick. Nei trent’anni che lo separano da Paths of Glory, il brillante ma ingenuo cineasta di allora ha perduto ogni fiducia, se mai la ebbe, nella umanità della razza umana. Alla fine di Paths of Glory i soldati di Kubrick ritrovano la propria anima, ma in Full Metal Jacket l’hanno irreparabilmente perduta. Quando Joker dice che ha affrontato il nemico «senza aver paura», noi sappiamo che la pallottola che ha tolto la vita alla ragazza vietnamita ha anche ucciso quel Joker che ha saputo reggere lungamente ai metodi del corpo dei marines. Mentre gli americani marciano nel fiammeggiante inferno che hanno provocato, cantando una scomposta versione del Mickey Mouse Club Song, l’immagine s’incupisce e i Rolling Stones ci pregiano di Paint It, Black. Non c’è film più nero di Full Metal Jacket». L’immagine rollingstoniana del «Paint It, Black» è ripresa da Michael Henry sul francese «Positif» (n. 320). «Più che mai – commenta Henry – Kubrick agisce in piena solitudine. Lo stile dell’opera lo dimostra a iosa. Il suo iperrealismo clinico non deve nulla ai tentativi dei suoi predecessori, si tratti dei sostenitori del realismo documentario (Oliver Stone, John Irvin) o di chi propende per il surrealismo visionario (Michael Cimino, Francis Coppola). In The Deer Hunter come in Platoon, in Apocalypse Now o in Hamburger Hill lo spettatore è invitato a condividere gli stati d’animo dei combattenti, magari attraverso lettere, o diari o il monologo interiore. Non è il caso di Full Metal Jacket dove la narrazione atonale di Matthew Modine fornisce soltanto dati cronologici o geografici. S’impone un unico punto di vista, implacabile, ed è quello di chi conduce il gioco. Non mancano i riferimenti al cinema hollywoodiano dell’epoca d’oro, ma sono messi in bocca ai protagonisti, e servono soltanto per mostrare quanto certi archetipi abbiano condizionato il comportamento dei combattenti». A differenza di altri (praticamente di tutti gli altri), Kubrick non mitizza l’impatto dei media – della televisione specialmente – sul conflitto. Sottolinea, invece – spiega Henry – la «desolante banalità della pazzia ordinaria. Ciò gli altri descrivono come un’aberrazione per lui è la norma. In Full Metal Jacket il Vietnam funge al massimo da rivelatore, da catalizzatore di una psicosi diffusa dall’esercito stesso. Il cancro diagnosticato dal nostro chirurgo–cineasta nasce nel cuore del sistema: è lì che si trova quella violenza istituzionalizzata ch’egli aveva già analizzato in Paths of Glory o denunciato in Spartacus o sbeffeggiato in Dr. Strangelove. Stavolta non si tratta più di capi (la classe dirigente, la casta aristocratica, gli ufficiali di stato maggiore) ma di semplici reclute senza passato e senza futuro, coloro che forniscono la carne da cannone. Queste vittime non sono

innocenti. Che cosa distingue il soldato dal criminale? Non accettano la vita com’è, risponde Kubrick, affascinato e orripilato dal sottilissimo margine che separa l’uno dall’altro. Tanto da riservare i primi quarantacinque minuti del film al laboratorio dove si contrae il virus, per l’occasione il centro di addestramento di Parris Island». Alla fine il regista, lasciando lo spettatore libero d’interpretare il gesto di Joker che dà il colpo di grazia alla ragazza cecchino mortalmente ferita (stupro estremo o distruzione di quanto resta di umano in lei), apre un ventaglio di possibilità. Per il marine può essere –conclude Henry – «un riflesso umano, un rito si passaggio, l’incontro di Joker con il suo doppio femminile... La sequenza finale sembra suggerire tuttavia un battesimo della morte, un passaggio dello Stige, un punto di non ritorno. Poiché, invece di gettare il suo M 16, Joker si aggrega alla comunità dei dannati che scompare nell’oscurità cantando Mickey Mouse. Le sue ultime parole sono: Vivo in un mondo di merda, ma sono vivo o non ho più paura. Con tutto il suo bagaglio d’innocenza, ha compiuto per intero la regressione: il soldato Joker è diventato l’assassino Joker». Riassumendo il significato profondo, sparsamente commentato dai critici stranieri, di un film così compatto come Full Metal Jacket, Sergio Frosali («Segnocinema», n. 31) scrive: «Kubrick appare consapevole del fatto che oggi la tragedia suprema su cui si gioca l’avvenire stesso del mondo è quello della stupidità. La tragedia della banalità di massa e dell’assenza di direzione che si volge verso la ripetitività come esorcismo della nullità. Una tragedia di nuovo tipo. Non svettano più eroi come Edipo e Antignone ma si muore è si uccide in quanto portatori di midcult. Tali sono i sergenti di Kubrick, i suoi coscritti e perfino i suoi “eroi” in Vietnam. La tragedia di massa, per venir contemplata appieno, non può mutuare i modi cari a Sofocle, né quelli codificati della Poetica di Aristotele (questo abbecedario della costruzione drammatica). Nel momento in cui gli uomini non sono più parlati dagli dei, neppure da dei soltanto simbolici, la tragedia ritorna alla polvere da cui era nata. E non appare più tragedia ma soltanto un horror della serialità, che postula moduli stilistici seriali. Questo, appunto, pare dica Full Metal Jacket benissimo, come solitamente in Kubrick».

FILMOGRAFIA

(Fonti principali: Olivier Eyquem «Positif» n. 98; Alexander Valker, Stanley Kubrick directs, «Monthly Film Bullerin», integrate dalla lettura dei titoli di testa. Ringrazio Marco Giusti per l’aiuto nella revisione dei dati). 1949 DAY OF THE FIGHT (t.l.: Il giorno del combattimento) Regia: Stanley Kubrick; assistenza alla regia: Alexander Singer; soggetto: da un réportage fotografico di S. K pubblicato su «Look»; sceneggiatura: Robert Rein; fotografia: Stanley Kubrick; musica: Gerald Fried; montaggio: Stanley Kubrick; suono: Stanley Kubrick; commento: Douglas Edwards; interpreti: Walter Carrier (il pugile protagonista del documentario); distribuzione: RKO; origine:USA; durata: 16'. 1951 FLYING PADRE (t.l.: Il padre volante) Regia: Stanley Kubrick; sceneggiatura: Stanley Kubrick; fotografia:Stanley Kubrick; musica: Nathaniel Shilkret; montaggio: Stanley Kubrick; suono: Stanley Kubrick; interpreti: Reverendo Fred Stadtmueller; produttore: Burton Benjamin; distribuzione: RKO Radio; origine: USA; durata: 9'.. 1953 THE SEAFARERS (t.l.; I marinai) Regia: Stanley Kubrick; soggetto: Will Chasan; fotografia (colore): Stanley Kubrick; narratore: Don Hollenbeck; produttore: Lester Cooper per la «Seafarers International Union, Atlantic and Gulf Coast District, American Federation of Labour (AFL)». FEAR AND DESIRE (d.: Paura e desiderio) Regia: Stanley Kubrick; sceneggiatura: Howard O. Sackler e S. K.,da un soggetto di Sackler; fotografia: Stanley Kubrick; musica: Gerald Fried; montaggio: Stanley Kubrick; interpreti: Frank Silvera (Mac), Kenneth Harp (Corby), Virginia Leith (la Ragazza), Paul Mazursky (Sidney), Steve Coit (Fletcher), David Alien (narratore); produttore: Stanley Kubrick e Martin Perveler per la Stanley Kubrick Productions; distribuzione: Joseph Burstyni; origine: USA; durata: 68’. 1955 KILLER’S KISS (IL BACIO DELL’ASSASSINO) Regia: Stanley Kubrick; soggetto: Stanley Kubrick e Howard Sackler; sceneggiatura: Stanley Kubrick; fotografia: Stanley Kubrick; musica: Gerald Fried; montaggio: Stanley Kubrick; coreografia: David Vaughan; interpreti: Frank Silvera (Vincent Rapallo), Jamie Smith (Davy Gordon), Irene Kane (Gloria Price), Jerry Jarrett (Albert), Ruth Sobotka (Iris, la ballerina), Mike Dana, Felice Orlandi,

Ralph Roberts, Phil Stevenson (teppisti), Julius Adelman (proprietario della fabbrica di manichini), David Vaughan, Alee Rubin; produttore: Stanley Kubrick e Morris Bousel per la Minotaur; distribuzione: United Artists; origine: USA; durata: 67’ (girato in 20 giorni). 1956 THE KILLING(RAPINA A MANO ARMATA) Regia: Stanley Kubrick; sceneggiatura: Stanley Kubrick dal romanzo Clean Break di Uonel White; collaboratore ai dialoghi: Jim Thompson; fotografia: Lucien Ballard; scenografia: Ruth Sobotka Kubrick; musica: Gerald Fried; montaggio Betty Steinberg; suono: Earl Snyder ; costumi: Rudy Harrington; effetti di laboratorio e fotografici: Paul Eayler, Jack Rabin, Louis Dewitt; interpreti: Sterling Hayden (Johnny Clay), Jay C. Flippen (Marvin Unger), Marie Windsor (Sherry Peatty), Elisha Cook (George Peatty), Coleen Gray (Fay), Vince Edwards (Val Cannon), Ted de Corsia (Randy Kennan), Joe Sawyer (Pike O’Reilly), Timothy Carey (Nikki Arane), Jay Adler (Leo), Joe Turkel (Tiny), James Edwards (il guardiano del parcheggio), Kola Kwariani (Maurice Oboukhoff), Tito Vuolo, Cecil Elliott, Dorothy Adams, Herbert Ellis, James Griffith, Steve Mitchell, Pary Carroll, William Benedia, Charles R. Cane, Robert B. Walling; pro– duttore: James B. Harris per la Harris–Kubrick Productions; produttore associato: Alexander Singer; distribuzione: United Artists; origine: USA; durata: 83’. 1957 PATHS OF GLORY (ORIZZONTI DI GLORIA) Regia: Stanley Kubrick; sceneggiatura: Stanley Kubrick, Calder Willingham, Jim Thompson, dall’omonimo romanzo di Humphrey Cobb; fotografia: Geoide Krause; scenografia: Ludwig Reiber; musica: Gerald Fried; montaggio: Eva Kroll; suono: Martin Mueher; interpreti: Kirk Douglas (Colonnello Dax) Ralph Meeker (Caporale Paris), Adolphe Menjou (Generale Broulard), George Macready (Generale Mireau) Wayne Morris (Tenente Roget), Richard Anderson (Maggiore Saint–Auban), Joseph Turkel (soldato Amaud), Timothy Carey (soldato Ferol), Peter Capell (il colonnello della Corte Marziale), Suzanne Christian (la giovane tedesca), Bert Freed (Sergente Boulanger), Emile Meyer (il cappellano), John Stein (Capitano Rousseau), Kem Dibbs (Lejeune), Jerry Hausner (Meyer), Frederic Bell (soldato ferito), Harold Benedici (Capitano Nichols); produttore: James B. Harris per Harris–Kubrick Productions e Bryna Productions; distribuzione: United Artists; origine: USA; durata: 86’ (girato in Germania, a Monaco di Baviera). 1960 SPARTACUS (SPARTACUS) Regia: Stanley Kubrick; sceneggiatura: Dalton Trumbo dal romanzo di Howard Fast; fotografia (Super Technirama 70 mm. – Technicolor): Russel Metty (per la fotografia delle sequenze aggiunte: Clifford Siine); supervisione alla scenografia: Alexander Golitzen assistito da Roger Furse; scenografia: Eric Orbom; arredamento: Russell A. Gausman, Julia Heron; costumi: Bill Thomas,

Valles, Peruzzi; titoli e grafica: Saul Bass; musica: Alex North (diretta da Alex North e Joseph Gershenson); suono: Waldon O. Watson, Joe Lapis, Murray Spivack, Ronald Pierce; montaggio: Robert Lawrence, Robert Schultz, Fred Chulack; regista della seconda unità: Irving Lerner; interpreti: Kirk Douglas (Spartaco), Laurence Olivier (Marco Crasso), Jean Simmons (Varinia), Charles Laughton (Gracco), Peter Usrinov (Lentulo Badato), John Gavin (Giulio Cesare), Tony Curtis (Antonino), Nina Foch (Elena), Herbert Lom (Tigrane), John Ireland (Crisso), John Dall (Glabro), Charles McGraw (Marcello), Joarma Barnes (Claudia), Harold J. Stone (David), Woody Strode (Draba), Peter Brocco (Ramon), Paul Lambert (Giannico), Robert J. Wilke (capitano della guardia), Nick Dennis (Dionisio), John Hoyt (ufficiale romano), Fred Worlock (Lelio), Dayton Lummis (Simmaco), Jill Jarmin (Giulia), Jo Summers (schiava), Lily Valenti (vecchio Crono), James Griffith (Ottone), Joe Haworth (Mario), Dale Van Sickel (allenatore), Vinton Hayworth (Metallio), Carleton Young (araldo), Herlene Hill (mendicante), Leo Penn (ufficiale della guarnigione), Harry Harvey jr, Eddie Parker, Harold Goodwin, Chuck Roberson (schiavi), Saul Gorss, Charles Horvath, Gii Perkins (capi degli schiavi), Bob Morgan, Reg Parton, Tom Steele (gladiatori), Dick Crockett, Harvey Party, Carey Loftin (guardie), Bob Burns, Seaman Glass, George Robotham, Stubby Kruger (pirati), Chuck Courtney, Russ Saunders, Valley Keene, Tap Canutt, Joe Canutt, Chuck Hayward, Buff Brady, Vliff Lyons, Rube Schaffer (soldati), Ted de Corsia, Arthur Batanides, Robert Stevenson (legionari), Terence de Marney (servitore capo), Ken Terrell, «Boyd» Red Morgan; produttore: Edward Lewis; produttore esecutivo: Kirk Douglas per la Bryna Productions; distribuzione: Universal Pictures; origine: USA; durata: 198 minuti (nella versione originale iniziale; in seguito il film è circolato in tutto il mondo, Italia compresa in una versione di 183m. Secondo A. Walker, «le scene eliminate concernevano soprattutto un tentativo appena accennato da parte di Marco Crasso per sedurre il suo schiavo Antonino»). Premi Oscar: per il miglior attore non protagonista (Ustinov), per la miglior scenografia di film a colori (Golitzen, Orbom), per i migliori costumi di film a colori (Valles, Thomas), per la miglior fotografia a colori (Metty). 1962 LOLITA (LOLITA) Regia: Stanley Kubrick; sceneggiatura: Vladimir Nabokov, dal suo romanzo; fotografia: Oswald Morris (operatore Denys Coop); scenografia: William Andrews, Sid Cain; arredamento: Andrew Low; musica: Nelson Riddle; tema musicale: Bob Harris; suono: H.L. Bird, Len Shilton; montaggio: Anthony Harvey; interpreti: James Mason (Humbert Humbert), Sue Lyon (Lolita, ovvero Dolores Haze), Shelley Winters (Charlotte Haze), Peter Sellers (Gare Quilty), Diana Decker (Jean Farlow), Jerry Stovin (John Farlow), Suzanne Gibbs (Mona Farlow), Gary Cockrell (Dick), Marianne Stone (Vivian Darkbloom), Roberta Shore (Lorna), Cec Linder (il medico), Lois Maxwell (la Nurse Mary Lore), William Greene (Swine), C. Denier Warren (Potts), Isobel Lucas (Louise), Maxine

Holden (addetto alla réception), James Dyrenforth (Beale), Eric Lane (Roy), Shirley Douglas (signora Starch), Roland Brand (Bill), Colin Maitland (Charlie), Irvin Alien (assistente in ospedale), Marion Mathie (Miss Lebone), Craig Sams (Rex), John Harryson (Tom), Terence Kilburn; produttore: James B. Harris per Seven Arts/Anya/Transworld; distribuzione: MGM; origine: Gran Bretagna; durata: 153'. 1963 DR STRANGELOVE, OR HOW I LEARNED TO STOP WORRYING AND LOVE THE BOMB (IL DOTTOR STRANAMORE, OVVERO COME IMPARAI A NON PREOCCUPARMI E AD AMARE LA BOMBA) Regia: Stanley Kubrick; sceneggiatura: Stanley Kubrick, Terry Southern, Peter George, dal romanzo Red Alert di Peter George; fotografia: Gilbert Taylor; scenografia: Ken Adam; arredamento: Peter Murton; effetti speciali: Wally Veevers; titoli: Pablo Ferro; costumi: Bridget–Sellers; consulente per le sequenze aeree: Capitano John Crewdson; musica: Laurie Johnson (la canzone anni ’40 We‘Il meet again è cantata da Vera Lynn); suono: John Cox; montaggio: Anthony Harvey; interpreti: Peter Sellers (Capitano Lionel Mandrake – Presidente Muffley – Dottor Stranamore), George C Scott (Generale «Buck» Turgidson), Sterling Hayden (Generale Jack D. Ripper), Keenan Wynn (Colonnello «Bat» Guano), Slim Pickens (Maggiore T.J. «King» Kong), Peter Bull (l'ambasciatore russo De Sadesky), Tracy Reed (Miss Scott), James Earl Jones (Tenente Lothar Zogg, bombardiere), Jack Creley (Staines), Frank Berry (Tenente H.R Dietrich, D.S.Ó.)» Glenn Beck (Tenente W.D. Kivel ufficiale di rotta), Shane Rimmer (Capitano GA. «Ace» Owens, co–pilota) Paul Tamar in (Tenente B. Goldberg, marconista), Gordon Tanner (Generale Faceman), Robert O’Neil (Ammiraglio Randoiph), Roy Stephens (Frank), Laurence Herder, John McCarthy, Hal Galili (membri del Corpo di Difesa della base di Burpelson); produttore: Stanley Kubrick (produttore associato Victor Lyndon) per la Hawk Films; distribuzione: Columbia Pictures; origine: Gran Bretagna; durata: 94’. 1968 2001: A SPACE ODYSSEY (2001 : ODISSEA NELLO SPÀZIO) Regia: Stanley Kubrick; soggetto e sceneggiatura: Stanley Kubrick e Arthur C. Clarke, da un’idea contenuta nel racconto The Sentinel di A.C. Clarke; fotografia (SuperPanavision–Cinerama, Metrocolor): Geoffrey Unsworth (aiuto–fotografo John Alcott); scenografia: Tony Masters, Harry Lange, Ernie Archer; arredamento: John Hoesli; costumi: Hardy Amies; effetti speciali e fotografici: Stanley Kubrick (ideazione e direzione), Wally Veevers (supervisione generale), Douglas Trumbuli, Con Pederson, Tom Howard (supervisione), Colin J. Cantwell, Bryan Loftus, Frederick Martin, Bruce Logan, David Osborn, John Jark Malick; musica: Richard Strauss, Johann Strauss, Aram Katchàturian, Gyòrgy Ligeti (brani scelti da Kubrick); suono: Winston Ryder; montaggio: Ray Lovejoy; consulente scientifico: Frederick I. Ordway III; interpreti: Keir Dullea (David Bowman), Gary Lockwood (Frank Poole), William Sylvester (Dottor Heywood

Floyd), Daniel Richter (la scimmia «Guarda la Luna»), Douglas Rain (la voce di HAL 9000), Léonard Rossiter (lo scienziato russo Smyslov), Margaret Tyzack (la scienziata russa Elena), Robert Beatty (Halvorsen) Sean Sullivan (Michaels), Frank Miller (addetto al controllo missione), Penny Brahms (la hostess), Alan Gifford (il padre di Poole), Vivian Kubrick (la figlia del dottor Floyd), Glenn Beck, Edwina Carroll, Bill Weston, Ann Gillis, Mike Lowell, Edward Bishop, Heather Downham, Peter Delman, Dany Grover, Brian Hawley, John Ashley, Jimmy Bell, David Charkham, Simon Davis, Jonathan Daw, Terry Duggan, David Fleetwood, David Hines, Tony Jackson, John Jordan, Scott Mackee, Laurence Marchant, Darryl Paes, Joe Refalo, Andy Wallace, Bob Wilyman, Richard Wood (molti di questi si celano sotto le vesti di «scimmie»); produttore: Stanley Kubrick (produttore associato Victor Lyndon) per la MGM; distribuzione: MGM; origine:Gran Bretagna; durata: 141'. (Altre filmografie indicano 160 mn., p. es. quella di Eyquem. K. è spesso intervenuto, dopo le anteprime, per togliere qualche minuto alle proprie opere, si spiegano così, p. es., le differenti indicazioni di durata per Orizzonti di gloria e Il dottor Stranamore. Secondo Walker, «la durata originale di 2001, quando fu mostrata in anteprima a New York il primo Aprile 1968, era di 161 minuti. K. stesso decise di limarne circa 20 minuti»). Premio Oscar per gli effetti speciali. (Afferma di aver collaborato all’ideazione di alcuni effetti anche il regista italiano Antonio Margheriti, noto come Anthony Dawson; vedi in proposito l’intervista riportata da Bouyxou). 1971 A CLOCKWORK ORANGE (ARANCIA MECCANICA) Regia: Stanley Kubrick; sceneggiatura: Stanley Kubrick dal romanzo omonimo di Anthony Burgess; fotografia (colore): John Alcott; scenografia; John «Jonathan» Barry; arredamento: Russell Hagg, Peter Sheilds, costumi: Milena Canonero; dipinti e sculture speciali (utilizzati in particolare nella sequenza della «sfiora dei gatti»): Herman Makkink, Cornelius Makkink, Liz Mooie, Christiane Kubrick; titoli: Jimmy Liggat; musica: Walter Carlos (brani elettronici originali e arrangiamenti elettronici di classici), Ludwig van Beethoven, Gioacchino Rossini, Edward Elgar (brani scelti da K.); Terry Tucker, Erika Eigen I want to Marry a Lighthouse Keeper); suono: Brian Blamey (montaggio), John Jordan (registrazione), Bill Rowe e Eddie Haben (miraggio); montaggio: Bill Buder (assistenti Gary Shepherd, Peter Burgess, David Beesley); trucco e capelli: Léonard di Londra; interpreti: Malcolm McDowell (Alex), Patrick Magee (il signor Alexander, lo scrittore), Michael Bates (guardiano capo), Warren Clark (Dim), John Clive (attore della prova di guarigione), Adrienne Corri (la signora Alexander), Cari Duering (dottor Brodsky), Paul Farteli (il vagabondo), Clive Francis (il giovane a pensione dai genitori di Alex), Michael Gover (governatore della prigione), Miriam Karlin (la signora dei gatti), James Marcus (Geòrgie), Aubrey Morris (P.R. Deltoid), Gòdfrey Quigley (il cappellano della prigione), Sheila Raynor (la madre di Alex), Madge Ryan (dottor Branom), John Savident

(un oppositore del governo), Anthony Sharp (il Ministro), Philip Storie (U padre di Alex), PaulineTaylor (la psichiatra), Margaret Tyzack (una oppositrice del governo), Steven Berkoff (poliziotto), Luidsay Campbell (Ispettore), Michael Tam (Pete), David Prowse (Julian), Richard Connaught (Billyboy), Gillian Mills e Barbara Scott (Sonietta e Marty, le ragazzine incontrate da Alex al negozio di dischi), Cheryl Grunwald (la ragazza seviziata dalla gang di Billyboy), Katya Weith (una ragazza), Virginia Wetherell (la ragazza della prova di guarigione), John J. Carney (l’uomo del CID), Carol Drinkwater (l’infermiera Feeley), Jan Adair, Vivienne Chandler, Prudence Drage (le odalische del sogno), Barrie Cookson, Gaye Brown, Peter Burton, Lee Fox, Craig Hunter, Shirley Jaffe, Neil Wilson; produttore: Stanley Kubrick per Warner Brothers/Hawk Films/Polaris Productions; produttore associato: Bernard Williams; distribuzione: Warner Brothers/Columbia Pictures; origine: Gran Bretagna; durata: 137’; girato in Gran Bretagna (studios di Pinewood a Londra, studi EMI– MGM a Borehamwood, ed esterni). 1975 BARRY LYNDON (BARRY LYNDON) Regia: Stanley Kubrick; sceneggiatura: Stanley Kubrick, dal romanzo Le memorie di Barry Lyndon di William Makepeace Thackeary; fotografia (Eastmancolor, 1,53:1 ): John Alcott (fotografia della 2a unità: Paddy Carey); scenografia: Ken Adam (assistente Roy Walker, assistente in Germania: Jan Schlubach); arredatore: Vernon Dixon; costumi: Milena Canonero, Ulla Britt Soderlund; acconciature e parrucche: Léonard di Londra; trucco: Ann Brodie, Alan Boyle, Barbara Daly, Jill Carpenter, Yvonne Coppard; coreografie: Geraldine Stephenson; musica: brani da composizioni di Bach, Federico il Grande, Handel, Mozart, Paisiello. Schubert, Vivaldi; adattamento e direzione delle musiche: Léonard Rosenman (musiche tradizionali irlandesi eseguite dagli Chieftains); suono: Rodney Holland (montaggio), Robin Gregory (registrazione), Bill Rowe (mixaggio); montaggio: Tony Lawson; consulente storico: John Mollo; voce del narratore: Michael Hordem (doppiato nell'edizione italiana da Romolo Valli); interpreti: Ryan O’Neal (Barry Lyndon), Marisa Berenson (Lady Lyndon), Patrick Magee (Chevalier de Balibari), Hardy Kruger (Capitano Potzdorf), Steven Berkoff (Lord Ludd), Gay Hamilton (Nora Brady), Marie Kean (la madre di Barry), Diana Koerner (la ragazza tedesca), Murray Melvin (Reverendo Samuel Runt), Frank Middlemass (Sir Charles Lyndon), André Morell (Lord Wendover), Arthur O’Sullivan (il bandito), Godfrey Quigley (Capitano Grogan), Léonard Rossiter (Capitano Quin), Philip Stone (Graham), Leon Vitali (Lord Bullingdon), Dominio Savage (Lord Bullingdon bambino), David Morley (il piccolo Brian), Anthony Sharp (Lord Harlan), Ferdy Maine (l’arbitro del duello finale), John Bindon, Roger Booth, Billy Boyle, Jonathan Cecil, Peter Cellier, Geoffrey Chater, Anthony Wawes, Patrick Dawson, Bernard Hepton, Andiony Herrick, Barry Jackson, Wolf Kahler, Patrick Laffan, Hans Meyer, Liam Redomond, Pat Roach, Frederick Schiller, George Sewell, John Sharp, Roy Spencer, John Sullivan, Harry Towb; produttore: Stanley Kubrick (produttore associato Bernard Williams); casa

di produzione: Hawk Films/Peregrine per la Warner Bros; origine: Gran Bretagna; distribuzione: Columbia/Warner; durata: 184’ (girato in Gran Bretagna, Irlanda e Germania). 4 Premi Oscar: per la miglior scenografia (Adam), per i migliori costumi (Canonero, Sòderlund), per la miglior direzione musicale (Rosenman), per la miglior composizione originale (The Chiefiains). 1980 THE SHINING (SHINING) Regia: Stanley Kubrick; sceneggiatura: Stanley Kubrick e Diane Johnson, dal romanzo omonimo di Stephen King; fotografia (colore): John Alcott (operatore alla Steadycam: Garrett Brown, e – non accreditato – Ray Andrew; fotografia della seconda unità per le riprese dall’elicottero: Greg Mac Gillivray); scenografia: Roy Walker (scene: Les Tomkins); costumi: Milena Canonero; trucco:Tom Smith; musica: Wendy Carlos (è lo stesso Walter Carlos che collaborò alle musiche di Arancia meccanica, che ha cambiato nome dopo aver cambiato sesso) e Rachel Elkind, Béla Bartok, Gyòrgy Ligeti, Krzystof Penderecki, Henry Hall e la Gleneagles Hotel Band (per la canzone finale); suono: Ivan Sharrock, Richard Daniel; montaggio: Ray Lovejoy; assistente alla regia: Brian Cook (non accreditato nei titoli di testa né ufficialmente citato, ha collaborato al film Saul Bass, geniale autore di alcuni tra i più bei titoli di testa e tra le più belle sequenze di effetti visivi speciali della storia del cinema, collaboratore tra l’altro di Preminger e di Hitchcock. In particolare Bass ha contribuito alla realizzazione del kart di Danny e del sistema di ripresa del veicolo stesso. Ringrazio dell’informazione Manuel De Sica); interpreti: Jack Nicholson (Jack Torrance), Shelley Duvall (Wendy Torrance), Danny Lloyd (Danny), Scatman Crpthers (Hallorann), Barry Nelson (Ullman), Philip Stone (Grady), Jòe Turkel (Lloyd), Anne Jackson (pediatra), Tony Burton (Durkin), Lia Beldam (giovane donna nel bagno), Billie Gibson (vecchia nel bagno), Barry Dennen (Watson), David Baxt (prima guardia forestale), Manning Redwoods (seconda guardia forestale), Lisa Bums (gemella Grady), Louise Burns (gemella Grady), Alison Coleridge (segretaria), Burnell Tucker (agente di polizia), Jana Sheldon (hostess), Kate Phelps (addetta alla réception), Norman Gay (cliente ferito; N.B.: questo e altri personaggi – in particolare quello della pediatra – sono assenti nell’edizione attuale del film); produzione: Stanley Kubrick, in associazione con The Producer Chele Company; origine: Gran Bretagna (girato agli studi ENI–EL– STREE di Borehamwood, GB, e gli esterni dell’albergo dall’elicottero nell’Oregon, USA, al Timberline Hodge Hotel nella Mt. Food National Forest, e nel Colorado); distribuzione: Warner (PIC); durata: 130’ (146’ all’anteprima; 144’ in una seconda versione provvisoria che ha circolato per alcune settimane). 1987 FULL METAL JACKET (FULL METAL JACKET) Regia: Stanley Kubrick; soggetto: ispirato al romanzo “The Short–timers” di Gustav Hasford; sceneggiatura: S. Kubrick, Michael Herr, G. Hasford; fotografia (Kodak colore): Douglas Milsome; musica: Abigail Mead, e canzoni

dell’epoca (Teli Me Goodbye, This Boots Are Made for Walking, Paint It, Black); scenografia: Antono Furst; costumi: Keith Denny; montaggio: Maritn Hunter; effetti speciali: John Evans; suono: Edward Tise; interpreti: Matthew Modine (soldato Joker), Adam Baldwin (Anomai), Vincerto D’Onofrio (soldato Pyle), Lee Ermey (seigente istruttore Hartman), Dorian Harewood (Eightball), Arlise Howard (Cowboy), Kevyn Major Howard (Rafterman), Ed O’Ross (tenente Touchdown), John Terry (tenente Lockhart), Kirk Taylor (Payback), Ian Tayler (tenente Cleves), Papillon Soo Soo (prima prostituta), Tan Hung Francione (il mezzano), Costas Dino Chimino (Chili), Peter Merrill (giornalista tv), Kierson Jecchinis (Crazy Earl), John Stafford (Docjay), Gay London Mills (Donlon), Ngoc Lee (la ragazza cecchino), Leanne Hong (seconda prostituta), Gil Kopel (Stork), Herbert Norville (Daytona Dave), Bruce Boa (colonnello Poge), Tim Colceri (il mitragliere dell’elicottero), Sai Lopez (T.H.E. Rock), Peter Edmund (Snowball), Marcus D’Amico (Hand Job), Nguyen Hue Phong (il ladro); produzione: Stanley Kubrick per Warner Bros; distribuzione: Warner Bros; origine: Gran Bretagna–USA; durata: 116’ Le riprese sono state effettuate a nord di Londra, in una officina del gas abbandonata, negli Studi di Shepperton.

VIDEOGRAFIA

Supina a mano armata, b/n, v.m.14, MGM/UA HOME VIDEO Orizzonti di gloria, b/n, v.m.14, WARNER HOME VIDEO Lolita, b/n, MGM/UA HOME VIDEO, CLUB DEL VIDEO Il dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi..., b/n, COLUMBIA TRISTAR HOME VIDEO 2001: Odissea nello spazio, MGM/UA HOME VIDEO, CLUB DEL VIDEO, LOGOSTV Arancia meccanica, v.m.18, WARNER HOME VIDEO, CLUB DEL VIDEO Barry Lindon, WARNER HOME VIDEO Shining v.m.14, WARNER HOME VIDEO, CLUB DEL VIDEO, LASERDISC WARNER HOME VIDEO FullMetalJacket, v.ml4, WARNER HOME VIDEO Post–Scriptum Ringrazio la Cineteca Griffith di Genova per l’uso concessomi della moviola e per l’accesso alla biblioteca. Ringrazio il cineclub Filmstory, sempre di Genova, che mi ha messo a disposizione la sala di proiezione.