Stadi sul cammino della vita 881718716X, 9788817187169

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Stadi sul cammino della vita
 881718716X, 9788817187169

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S0REN KIERKEGAARD

STADI SUL CAMMINO DELLA VITA A CURA DI LUDOVICA KOCH

RIZZOLI

IN TR O D U ZIO N E

Proprietà letteraria riservata © 199 3 R C S Rizzoli Libri S.p.A ., Milano I S B N 88 -17 -18 716 'X T itolo originale dell’ opera: Stadier paa Livets V ei Traduzione dal danese di A nna Maria Segala {Lectori benevolo'., In vino veritas, Considerazioni sul matrimonio) e A nna Grazia Calabrese {Colpevole? non colpevole?, Epistola al Lettore, Conclusione) Progetto grafico di Peter G o gel Copertina di Antonella Caldirola con un particolare delle Bianche scogliere di Riigen di Friedrich. W interthur, fondazione Reinhart.

Prima edizione: novembre is>s>3

Ringrazio Jens H0ymp per la frequente, e sapiente, consulenza linguistica.

A scrivere, per conto di Kierkegaard, i suoi libri più belli si avvicenda e si affanna, nel corso frenetico di due anni soli,^ un’intera confraternita di narratori velleitari e di oscuri sag­ gisti: alacri come neanche, nelle fiabe dei Grimm carissime a Kierkegaard, gli gnomi capaci di lavorare tutta la notte di pece e di lesina perché il ciabattino trovi, alla mattina, pronte le scarpe del suo mestiere. La confraternita, a quanto pare, è segreta: una vera e propria massoneria, se bisogna dar retta ai bizzarri nomi latini che i singoli scrittori ostentano e alla loro ostinazione comune a tenere, davanti al lettore, sempre la faccia nell’ombra. Uno dei più amabili fra questi pennaioli a tempo perso - i famosi Pseudonimi - , ma anche il più scono­ sciuto di tutti, è un certo Nicolaus Notabene: che ci raccon­ ta di sé, come gli altri della congrega, il meno possibile, e tuttavia quanto basta per incuriosirci. Nicolaus dichiara, dunque, di essere «felicemente sposato come pochi», cosa rara e invidiabile: eppure di trovarsi in assai serie difficoltà. Che cosa mai gli è accaduto? ' Fra il 20 febbraio 1843 e il 30 aprile 184 5 escono, nell’ordine, A u t aut a cura di Victor Eremita, Timore e tremore a firma di Johannes de Silentio, La ripetizione a firma di Constantin Constantius, le Briciole filosofiche a firma di Johannes Climacus, Il concetto di angoscia a firma di Vigilius Haufniensis, le Prefazioni a firma di N ico ­ laus Notabene e gli Stadi sul cammino della vita a cura di Hilarius il Rilegatore.

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Qualche mese dopo il matrimonio, e chissà, forse proprio stuzzicata dalle avventure del matrimonio, gli si è risvegliata dentro una vecchia voglia letteraria; e lui si è messo d’im­ pegno a soddisfarla, scegliendo l’argomento di cui scrivere, tirando fuori i libri di cui avrà bisogno, altri libri prendendoli in prestito alla Biblioteca Reale. Ha ordinato dunque i suoi appunti, ha preparato carta e penna, e intinge ora, praticamente, già il pennino nel calamaio. Ma sul più bello, piomba a interromperlo la fresca moglie con una scenata di gelosia: gli tira fuori il progetto del libro e, apriti cielo!, se ne dichiara tradita, sì, tradita nel modo più nobile, e per questo più imperdonabile. Non certo a torto, la donna è convinta che un marito scrittore abiti molto più lontano, stelle e stelle più in là, di un marito donnaiolo o frequentatore di taverne. Fi­ nisce, così, che gli strappa a forza di lacrime la promessa, anzi il giuramento, di rinunciare per lei al libro già avviato, ma destinato di nuovo a restare eternamente non scritto. Di più: di abbandonare anche l’ipotesi di ogni libro futuro. Ma Nicolaus, «dialettico scaltrito» anche se per una volta preso di contropiede, riesce a salvare il suo prurito letterario, e allo stesso tempo il suo matrimonio, con la più gesuitica delle riserve mentali. Ha promesso alla moglie di non scri­ vere libri, è vero; ma non si è impegnato neppure con una parola a non scrivere, che so io?, prefazioni. Ci siamo, ha trovato il suo genere, o meglio, ha inventato un genere nuovo: è ora, scopre Nicolaus, che la prefazione si emancipi dal libro che è sempre stata costretta ad accompagnare e servire e con cui, per secoli, ha fatto vistosamente a pugni. A prenderla per sé, la prefazione presenta importanti vantaggi, tematici e formali. Non è obbligata ad affrontare problemi; anzi, deve guardarsene bene, per non rischiare di competere indebitamente con il libro. Deve, invece, fingere di parlare di

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qualche cosa, ma in realtà non parlare di nulla: stabilire uno stato d’animo, avviare un presentimento, definire un filo li­ rico di associazioni, divagare liberamente a suo genio. Perché non pensare, per esempio, a un libro tutto fatto di prefazioni ad altri libri non scritti, libri forse anche in futuro ignoti alle città delle lettere? Quanto più ricchi di promesse, quanto più profondi e generosi di risposte sono i libri possibili rispetto a quelli reali! Prefazioni, si chiamerà appunto - mandando, un secolo dopo, in visibilio Borges^ - il libro clandestino e tutto ipotetico di Nicolaus Notabene.^ E il primo capitolo del libro sarà, naturalmente, una prefazione alle prefazioni, teorica e normativa del genere appena inventato; dove, però, la teoria e più le norme restino accuratamente occultate sotto uno sfolgorante fuoco d’artificio di paragoni, sospesi sul filo di uno stesso, ansioso stato mentale. Scrivere una prefazione è come affilare la falce, accordare la chi­ tarra, chiacchierare con un bambino, sputare dalla finestra... Scri­ vere una prefazione è come suonare alla porta di qualcuno per prenderlo in giro, come passare sotto la finestra di una ragazza fissando invece il selciato, come cercare, col bastone in aria, di colpire il vento, come agitare il cappello senza salutare nessuno,... come mettersi a guardare le anitre selvatiche dalla collina di Valby. Scrivere una prefazione è come essere arrivati con la diligenza alla prima stazione e fermarsi sotto la tettoia buia con un presentimento di quello che accadrà, vedersi aprire la porta e con la porta il cielo, fissare davanti a sé la strada maestra, che nasconde, sempre dell’altra strada dietro di sé, adocchiare l’attesa segreta del bosco, il sentiero che scompare seducente in lontananza; udire il corno del posti^ Prólogos, con un Pròlogo de prólogos, Buenos Aires, Torres Agliero, 19 7 5 . ^ Forord (Prefazioni, 1844), in Samlede Vcerker, iii ed., voi. v, Kobenhavn, G yldendal, 1963 (d’ora in poi abbreviato con SV).

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gliene e il cenno d’invito deU’eco, udire il cocchiere schioccare forte la frusta e il bosco ripetere confusamente quello schiocco ascoltare le chiacchiere allegre dei viaggiatori. Scrivere una prefa zione è come essere arrivati, trovarsi in un soggiorno accogliente salutare una persona molto desiderata, sedersi in una poltrona riempire la pipa, accenderla - e avere infinite cose da raccontarsi Scrivere una prefazione è come accorgersi che ci si sta innamo rando. L ’anima dolcemente inquieta, la rinuncia al segreto, ogni avvenimento un accenno alla dichiarazione. Scrivere una prefazione è come scostare il ramo del pergolato di gelsomini e scoprire che ci si è nascosta dentro il mio amore. Il passo è molto caratteristico; sia come figura di un pensiero che, dirà il triste diarista degli Stadi, non avanza ma «resta fermo, immutato, alla stessa andatura»; sia come esempio di un discorso accumulativo che fila, come il ragno, fuori da se stesso litanie, serie e cataloghi; sia, infine, come esercizio di un particolare modo d’invenzione, allo stesso tempo per «si­ tuazioni» e per concetti, che ritroveremo dappertutto nei libri di Kierkegaard. Certe sospese atmosfere boschive, come, nel prologo agli Stadi, l’abissale solitudine dell’Angolo degli Otto Sentieri in fondo al Bosco di Grib, o all’opposto, come qui, l’eccitante concorso di sensazioni di un viaggio in dili­ genza; certi confortanti interni borghesi che fanno pensare alla pittura di genere contemporanea - l’Epoca d’Oro del­ l’arte danese - sono «correlativi oggettivi», manifestazioni concrete di un’astrattissima, e spesso romanticamente indefi­ nita, riflessione sull’attesa, sulla mancanza, sulla possibilità. Allo stesso modo, ritroveremo dappertutto cataloghi, come questo, visionari e rapsodici, crescendo capricciosamente Forord, S V iii, p. 199.

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aperti all’infinito, veri e propri poèmes en prose condotti per ondate ritmiche e sonore, per stravaganti e suggestive associa­ zioni. Li vedremo, anzi - questi pezzi di bravura - , usati su di noi e contro di noi: per stranire e affinare. Sono una messa alla prova, una tecnica iniziatica al modo di certe buie piogge di metafore nei mistici spagnoli, nei poeti metafisici inglesi. La rincorsa delle anafore e delle allitterazioni, i vortici delle immagini sono in realtà caleidoscopi teorici, prismi che ri­ frangono e disperdono le schegge di un’idea, macchine ipno­ tiche. Abbagliano e frastornano il lettore con intenzione: slo­ gano le sue simmetrie mentali, dissipano le sue sicurezze ar­ gomentative. Attenzione: il modello che Kierkegaard dichiara per le sue tirate è il catalogo delle sedotte nel Don Giovanni. Chi non ha tentato un’inutile resistenza davanti alle suggestioni, ma anche alle insidie di questa scrittura, alle trappole e al con­ tinuo spostamento di prospettiva di questo ragionare? Come Socrate, come i philosophes del Settecento, Kierkegaard con­ cepisce il pensiero come un atto calcolatissimo di seduzione: l’imposizione creativa di una forma sulla cieca materia del fenomeno, sul magma informe del lessico, ma anche sulla molle mente dell’ascoltatore. L ’idea compare, dura e decisa, già sulla prima pagina del suo primo libro: destinato, vale la pena di ricordarlo, ad assicurare a Kierkegaard il titolo di dottore in teologia. «Il fenomeno, come sempre foeminini generis, deve cedere al più forte, al cavaliere filosofo... L ’os­ servatore dev’essere un erotico..., avvertire la sua superiorità, ma usarla solo per assecondare la completa manifestazione del fenomeno . » 5 A «cedere al più forte», aU’«amante giusto Begrebet Ironi {Il concetto di ironia), S V i, p. 69.

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che, da uomo, sappia eccitarne la passione femminile»^ è rassegnata fin dagli esordi anche la lingua. Ma è soprattutto in una pagina bellissima, a conclusione di questi Stadi, che l’immagine dello scrittore e quella del seduttore si sovrap­ pongono fino all’indistinzione, per non tornare più a sepa­ rarsi. Il poeta, vi si dice, attente ragazze, (fìngendo la voce spezzata e lo sguardo acuto della vecchia zia che fa da chaperon al ballo) è quello che senza muoversi vi porta lontano e vi ferisce inguaribilmente di desiderio. Non va a ballare con le ragazze, da questo punto di vista è assai arretrato; ma si cerca un posto in una stanzetta accanto alla sala da ballo, o all’angolo del salotto. Quando le ragazze cominciano a essere stanche di ballare, o quando cade la penombra della sera, e il lavoro posa e vaga il pensiero, ecco, è arrivato il suo momento. Allora si mettono ad ascoltarlo parlare, e con la sua immaginazione egli le trascina dentro ideali seduttivi, e tende sempre di più, par­ lando, l’aspettativa della loro anima ardente e l’esigenza dello spi­ rito. Quanto a lui, nulla chiede... Ma le ragazze lo ascoltano, e a poco a poco sono sedotte, cercano inutilmente le cose che lui ha descritto, le cercano inutilmente da lui, inutilmente dentro di sé, eppure smaniano di sentirlo parlare, e ascoltandolo invecchiano. Da qualsiasi parte abbiamo scelto di avvicinare questo primo, ^ e tuttora massimo, teorico dell’eros - fratello appena maggiore di Baudelaire e di Wagner - non è dunque male renderci subito consapevoli del destino che ci aspetta. Un destino d’epoca: anzi, già all’epoca da decenni irrimediabil­ mente datato. Finire, a forza di parlare d’eterno, bruciati dentro la fiamma che ci ha stanati e attratti potentemente a * Cfr. qui, p. 708. ^ D . de Rougemont, Les mythes de l’amour, Paris, Albin M ichel, 196 1, p. 21.

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sé come la farfalla di Goethe.^ O avvinti e piantati in asso proprio nel punto dove più fitto, più enigmatico è il groviglio del pensiero, e la soluzione di quel groviglio appare una que­ stione personale di vita o di morte - come l’Elvira di Mozart, la Marie Beaumarchais del Clavigo, la Gretchen del Faust,^ la Cordelia del Ma il catalogo non è soltanto una tecnica di seduzione: è anche, e innanzitutto, una figura della conoscenza. Come il catalogo delle navi o la genealogia dei re servivano a censire, nell’epica, teoricamente tutto un popolo e tutto il passato, una lunatica, smodata smania di dominio mentale - «la vo­ glia sofistica della fantasia di tenere tutto il mondo dentro un guscio di noce»“ - trova soddisfazione nel nominare non solo l’esperibile, ma il possibile e il pensabile. C ’è almeno un’idea del suo nemico Hegel in cui Kierkegaard crede cieca­ mente: il pensiero non è che lingua evoluta, e la lingua è fin dal suo primo apparire «veleno», e cioè riflessione e coSelige Sehnsucht (Divano occidentale-orientale, Milano, Rizzoli, 1990, pp. 94-97). ’ A i destini teatrali di «M arie Beaum archais», «D o nn a E lvira» e «M argrethe», cioè Gretchen, sono dedicati i tre paragrafi del «passatempo psicologico» Silhouettes (Skyggerids), nel primo volume di Enten eller {Aut aut). N on sono d ’accordo con la scelta dell’ultimo traduttore italiano (e il primo integrale) di non tradurre il titolo (Enten eller, i-v, a cura di A . Cortese, Milano, Adelphi, 19873-89): scelta prolungata, con bizzarrissimo effetto, nelle citazioni lasciate in danese del Vecchio e del N uovo Testamento, del Don Giovanni, di Aristotele... A ut aut, il titolo che ha in Italia una salda tradizione almeno presso tre generazioni di appassionati lettori, confortato del resto da un passo del Concetto di ironia-, «enten eller, aut aut...» (SV i, pp. 132 e 133), è la formula con cui Mynster introduce in Danimarca la discussione della dialettica hegeliana («A u t aut: si può mediare fra opposti, ma non fra contraddizioni», in «Tidsskrift for Literatur og K ritik», i, 1839) e che, come dimostrano i Diari di Kierkegaard (Pap. 11 A 454, pp. 173-74 ), dà il via a tutta la sua riflessione giovanile sul «dilem m a». II personaggio passivo del celebre Diario del Seduttore (Forf0rerens Dagbog): il pezzo più brillante del primo libro pubblicato da Kierkegaard, e rimasto poi sempre il suo più letto, Enten eller (Aut aut, 1843). '■ Gjentagelsen (La ripetizione), S V v, p. 138.

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scienza. Il vocabolario - come ha imparato Adamo nell’atto di assegnare un nome agli animali e alle cose - scinde e rifrange le percezioni: e mai più ci sarà concesso di vivere quello che accade dentro e fuori di noi, senza lo schermo della nostra osservante, senziente presenza. «Come si can­ cella la realtà? Dandole espressione... Ad annullare l’imme­ diato è la l i n g u a . » ^2 stessa parola che sa cogliere la faccia variegata e casuale dell’esperienza ne distrugge per sempre la qualità storica e concreta, sovrapponendole come un’osses­ sione la faccia, la voce dell’io che, nominandola, le si con­ fronta. Il primo Ottocento romantico, che vede svilupparsi dalla comparatistica la linguistica storica, favorisce anche - sulla linea di Herder e di Humboldt - un’ardita speculazione teo­ rica sul linguaggio: «spirito di un popolo», macchina di co­ noscenza simbolica, specchio della «faccia del mondo» e del­ l’io. Ma Kierkegaard, che addebita, al contrario, alla lingua l’invenzione della riflessione - il ripiegamento dell’io nella contemplazione di se stesso, la barriera alzata per sempre fra soggetto e mondo - , di queste capacità conoscitive e interpre­ tative non vuole neppure sentire parlare. G li avessero chiesto un parere sulla lingua macchina e specchio, avrebbe probabil­ mente risposto: una macchina che gira a vuoto, uno specchio che riflette soltanto se stesso. Due, tre, quattro volte lo ve­ diamo riprendere il bon mot attribuito a Talleyrand sulla N ell’abbozzo giovanile, rimasto incompiuto, Johannes Climacus, eller De om­ nibus dubitandum est (Saren Kierkegaard, Papirer, i-xiii, K abenhavn 196 8-78 - d ’ora in poi abbreviato in Pap. - iv B i). Sulla congiunzione, in Kierkegaard, dell’abitu­ dine alla «riflessione trascendentale» e poi idealistica con un ripiegamento tempera­ mentale, cfr. Synspunktet for min Forfatter-Virksomhed (Il punto di vista della mia attività di scrittore), S V xvili, p. 129 : « N o n ho mai avuto immediatezza, e quindi, nel senso comune della parola, non ho vissuto mai. H o cominciato subito con la rifles­ sione... sono riflessione dall’inizio alla fine».

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lingua «inventata dall’uomo per dissimulare il pensiero», ag­ giungervi una frase nello stesso senso di Young; se ne avesse avuto voglia, l’avremmo visto continuare citando Rousseau, e chissà quanti altri. Eppure, il fenomeno della lingua reale e possibile lo inte­ ressa appassionatamente, come provano idee suggestive e poco più che abbozzate buttate lì continuamente, libro per libro; come prova l’incontentabile lavoro - documentato dai manoscritti - sul ritmo delle frasi, sulla consonanza dei pe­ riodi. Pagine e pagine instancabilmente riscritte, raccontano i Diari, con l’orecchio teso «ai suoni dentro di me, ai gioiosi accenni della musica e alla profonda serietà dell’organo».^^ La resa della «passione del pensiero» affidata quasi inte­ ramente all’andamento sintattico: che sia «meridionale», «parlato», allo stesso tempo affannoso e spezzato, promet­ tente ma sempre non finito e sospeso: «Costruire retoricamente su una frase ipotetica e ridurre a nulla la frase princi­ pale... mettersi alla testa di un’intera cavalleria di predicati, uno più brillante e più ardito dell’altro, caricare e poi scar­ tare: saltare alla modulazione, passare, in una parola sola, al concetto; interrompersi all’improwiso, e così La lingua, evidentemente, interessa Kierkegaard come pro­ cesso e non come prodotto, come gesto e non come inten­ zione, come forma e non come significato. Alla semantica lo scrittore riserva solo qualche sberleffo; e lascia l’etimologia, come se fosse uno strumento rudimentale - il ferro del me­ stiere di Bopp, di Pott! - , in mano al goffo giudice Vilhelm. Pap. IV A 93. Pap. VII A 150. Si veda, per esempio, lo scherzo nei Diapsalmata sulla parola tedesca Schnur (SV II, p . 38). Che si diletta di penosi giochi di parole del genere: «solo un marito (/Egtemand) è un vero uomo (^gte M and)» (SV iii, p. 133).

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Sono le relazioni e le metamorfosi delle parole - la gramma­ tica, la sintassi, la grafia - , e non le parole in quanto tali, a suggerirgli figure brillantissime (al limite del gioco verbale) per i comportamenti della psicologia, dell’etica, della socio­ logia, dell’antropologia. «Sono scoraggiato come uno scheva, debole e muto come un dagesch lene, come una lettera stam­ pata a rovescio sulla riga... riflessivo come un pronome rifles­ sivo. «D a un punto di vista spirituale, la personalità è come la grammatica della f r a s e . « U n marito si può decli­ nare, grazie al destino, in tutti i genera, numeri et casibus.»^"^ « L ’immediatezza è una lingua fatta di vocali, il ripiegamento una lingua fatta di c o n s o n a n t i . « T u t t a la vita umana po­ trebbe concepirsi come un immenso discorso, dove persone diverse vengono a rappresentare differenti parti del di­ scorso... Quante persone non sono che aggettivi, interiezioni, congiunzioni, avverbi, quanto poche sono nomi e verbi attivi, quante sono copule! Della lingua, dunque - e, come vedremo, del pensiero, della letteratura, figli diretti dalla lingua - significano i modi, non i contenuti. L ’insanabile scissione introdotta dal cogito di Descartes^^ fra soggetto e mondo si manifesta, per esempio, nello spostamento della prospettiva verbale. Una volta incar­ cerata nella lingua, appiattita nel pensiero, l’esistenza è di­ ventata, da «indicativa», «ipotetica e c on gi un ti v a» : da reale S V II, p. 26. Lo scheva è un segno che in ebraico si scrive sotto a una conso­ nante per condizionarne la pronuncia in presenza di una vocale; il dagesch lene è un altro segno ebraico, che toglie l’aspirazione alle consonanti aspirate. Cfr. qui, p. 456. Cfr. qui, p. 225. Cfr. qui, p. 629. “ Pap. I A 126. Pap. II A 159. La formula, che ritroveremo in A u t aut e negli Stadi, compare la prima volta in un’annotazione precocissima, autobiografica, dei Diari (Pap. 11 A 171); « L a mia vita, ahimè, è troppo congiuntiva; volesse D io che avessi qualche potere indicativo». Cfr. inoltre, qui, p. 338.

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e oggettiva, cioè, possibile e soggettiva. Il «congiuntivo» è la lingua segreta degli amanti, lo sa bene il triste amante degli Stadi. E lo speciale tono di voce «della passione desiderante, della smania dell’impazienza, dell’emozione dell’anima in at­ tesa». Istituisce un’esistenza rigorosamente privata, poetica, « musicale »:^'^ che inventa e racconta un mondo a misura del suo desiderio, e lo sostituisce alla mortificante realtà a por­ tata di tutti. Esattamente la «libertà negativa» che Kierke­ gaard aveva duramente criticato nei narratori romantici tede­ schi: ^5 l’arbitrio, l’astrazione che «scambia l’io empirico per r io eterno», e per questo si crede «in possesso del potere assoluto di legare e di sciogliere»,^^ di abolire e creare a capriccio. Sono certo figura di quest’esistenza «ipotetica e congiun­ tiva», causata e denunciata dalla lingua, cataloghi (come quello sulla prefazione) capaci, teoricamente, di proliferare su se stessi all’infinito. Eppure - lo attesta proprio lo slancio in crescendo dei cataloghi - il movimento centrifugo e di­ spersivo dell’immaginazione accende, come per attrito contro la realtà abolita, un «entusiasmo» che si condensa nell’idea. Il gusto per il precario, l’incrinato, il variegato, il fuggevole non è che l’altra faccia di un’ansia metafisica di realtà per­ fette ed eterne. Nel senso acutissimo dell’interminabile va­ rietà dei fenomeni brucia il rimpianto dell’Unico e Assoluto. Con eloquente indifferenza, in un’occasione o nell’altra, sono S V VI, p. 217. Pap. II A 159. Il bersaglio principale, ma non l’unico, è la Lucinde di Friedrich Schlegel (Begrebet Ironi, S V i, p. 297). Begrebet Ironi, S V i, p. 287.

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chiamati «cavalieri delFidea» - malinconici Cavalieri della Trista Figura - tutti i simbolici personaggi di Kierkegaard: gli «esteti» come i «religiosi», Johannes il Seduttore come Abramo, il Giovane come Giobbe. «Inforco un’idea» dice il Seduttore «e sparisco dentro la mia voce: perché, più parlo, più in alto salgo.»2^ «Io appartengo all’idea» dice il poeta senza nome della Ripetizione. «Quando mi fa cenno la seguo, quando mi dà appuntamento 1’ aspetto, e per giorni e notti nessuno mi chiama a pranzo o mi aspetta a cena.» Guardiamola meglio, quest’idea kierkegaardiana dell’idea: ciecamente servita, onorata come un idolo. A lei vengono offerti sacrifici sanguinosissimi: le ragioni dell’esistenza, la pace e l’amore delle ragazze, la vita di Isacco. Eppure, è impossibile farla coincidere con un archetipo platonico - il Bello, il Bene - , o con l’io Assoluto di Fichte, o con lo Spirito di Hegel. Ancora più lontano è il tremendo Geova dei profeti. Come la lingua, l’idea non è un contenuto ma una forma, non una meta ma un viaggio, non il Fiore Azzurro ma la sua ricerca, non l’oggetto della smania metafìsica ma la smania stessa. L ’Idea è una disposizione soggettiva: l’attesa, il desiderio, lo sforzo spasmodico a «mantenere l’anima al ver­ tice» che logora tanto gli «esteti» convitati al Banchetto, quanto il diarista «demonico-religioso» di Colpevole? non col­ pevole?. Percepita - non vissuta - per bagliori e frammenti come uno spettacolo eccitante, ma disperso e discontinuo, la «vita poetica» trova tuttavia, nel desiderio, un orientamento unitario. Tende con tutte le sue forze verso apici di improv­ visa concentrazione: verso l’«istante che è la somma degli istanti, come la somma degli istanti è l’i s t a n t e » . E la vita S V II, p. 3 37. Pap. vili I A 610.

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religiosa, raccolta invece davanti all’eterno sull’orlo del ba­ ratro, si protende angosciosamente verso il paradosso, cosa anch’esso dell’istante e dell’improvviso: verso il miracolo «in forza dell’assurdo»^^ che restituirà Isacco ad Abramo. Come ridea, l’istante, luogo dove l’idea si manifesta, è una categoria formale: un buco nel tempo che permette l’epifania di «un atomo di e t e r n i t à » ; u n «passaggio» dal relativo al­ l’assoluto, dal frammentario al tutto. Quando Johannes il Se­ duttore ha «visto e rivisto, contemplato e ricontemplato» la sterminata molteplicità femminile dispersa per tutte le donne reali, possibili e sognate che gli sono passate sotto gli occhi, richiude quella molteplicità come un ventaglio, «e raccoglie il disperso nell’uno, le parti nell’intero».^^ Siamo davanti al religioso o al «demonico»: alla visione beatifica o all’estasi suprema dei sensi? Fatto sta che il senso dell’eterno acco­ muna soltanto i due modi estremi di esistenza: quello che si fa del mondo uno spettacolo privato e quello che al mondo volta le spalle per guardare in alto. Come i teologi medievali, come i mistici barocchi, le opere giovanili di Kierkegaard - i libri pseudonimi - usano coeren­ temente immagini erotiche per l’esperienza del divino, e im­ magini religiose per la beatitudine e la tremenda fragilità del piacere supremo. Non a caso, l’una e l’altra soglia estatica viene segnata da una vertigine improvvisa che somiglia al brivido del sacro. Davanti al mirabile banchetto che sta per aprirsi, e che dovrà subito dopo essere distrutto e dimenti­ cato, i convitati degli Stadi sono sopraffatti, a un tempo, dalla voluttà e dall’angoscia; perché nel transitorio abita una profe­ fryg/ og Bceven {Timore e tremore), S V v, p. 107. Begrebet Angst (Il concetto di angoscia), S V vi, p. 176. S V II, p. 395.

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tica, «piccola eternità». «Tu non manchi certo di capacità mistiche», scrive il giudice Vilhelm all’«esteta» parte sua, il Seduttore è un buon conoscitore del Vecchio Testa­ mento: lo cita anzi assiduamente, senza preoccuparsi delle stonature più di quanto facciano gli «esteti» riuniti a ban­ chetto negli Stadi ricordando più volte le parabole del Nuovo. La tirata con cui Johannes tenta di arrestare - imi­ tando Faust - r«istante perfetto» dell’eros è una vera litania blasfema, condotta nei liberi anapesti di Klopstock, di Ewald, di Novalis, di Stagnelius; Naar Blodet standser, naar Barmen hviler, naar Blikket famler, naar Foden vakler, naar M 0 en skjaelver, naar Frugten modnes; naar Himlen opl0 fter hende, naar Alvoren styrker hende, naar Forjasttelsen baerer hende, naar B 0 nnen velsigner hende, naar Myrthen bekrandser hende; naar Hjertet baever,... naar Barmen b 0 lger, naar Skabningen sukker, naar Stemmen svigter, naar Taaren zittrer, f0r Gaaden forklares, naar Faklen taendes. S V III, p. 225.

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naar Brudgommen venter da er 0 jeblikket der.^^ [Quando il sangue si ferma, quando il seno riposa, quando annaspa lo sguardo, quando il piede vacilla, quando trema la vergine, quando il frutto matura, quando l’eleva il cielo, quando la serietà la rafforza, quando la promessa la sostiene, quando la preghiera la benedice, quando il mirto l’incorona, quando il cuore le trema, quando il seno le ondeggia, quando sospira il creato, quando manca la voce, quando trema una lacrima, prima che l’enigma si sciolga, quando brucia la fiaccola, quando attende lo sposo, è arri­ vato il momento.] Scrivere una prefazione, aveva detto - ricordiamolo - Nicolaus Notabene, somiglia tanto al mettersi in viaggio quanto all’essere già arrivati: all’inizio e alla fine. Il viaggio stesso non conta: è dimenticato, scomparso. Di un’impresa merita soltanto narrare i preparativi e il risultato: meglio, se inatteso e casuale. La strategia abbozzata da Nicolaus è snobistica ed euristica insieme. La sua scelta - di anticipare i temi per accenni e presentimenti e di non discuterli mai per intero; di divagare invece di spiegare, di scantonare per vie traverse piuttosto che approfondire e commentare - è antica e illu­ stre. Ripete il capriccioso procedere per «assaggi» del genere inventato da Montaigne, Vessai, e felicemente continuato da Diderot, Sterne, Addison, Rousseau. Ma Nicolaus ha qui in mente, è chiaro, soprattutto il saggio romantico: che doW!essai sviluppa fino all’arbitrio più imprevedibile l’approccio sog­ gettivo e decentrato. Libero come la lirica, mosso come la conversazione, il saggio romantico (inglese, tedesco, francese) Diario del Seduttore (SV 11, p. 402).

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è un genere polifonico e felicemente impuro, capace di pas­ sare senza preavviso dal tono intimo della confessione a quello alto e ispirato della profezia; condotto tutto per asso­ ciazioni irregolari, espansivo più che progressivo; elastico fino al limite dell’informe, stravagante fino al limite della dissoluzione, eppure tenuto insieme da fili tematici appena visibili che, come un motivo musicale continuamente variato, affiorano appena (una battuta o due) per poi inabissarsi nuo­ vamente a muovere dal basso, come una corrente nascosta, le onde e le anse fluviali del discorso. E appunto un saggio di questo genere, scritto in stato di grazia: sottile, vitale e perfetto, a fare da preludio ai com­ plessi Stadi che abbiamo sott’occhio. I giochi allusivi e le trasgressioni cominciano dal titolo {For-erindring, una sorta di anticipazione dell’anticipazione); perché il pezzo si apre ap­ punto con una meditazione sulla rimembranza, Erindring,^"^ destinata a riportare in vita l’ironico Simposio che nulla si è espressamente proibito come la rimembranza. L ’attacco in sordina finge di parlare di esperienze privatissime, e annuncia invece discretamente il tema guida del Banchetto; la tre­ menda precarietà del piacere, l’angoscia in agguato. «Che bella occupazione prepararsi un segreto, com’è seducente go­ derselo; pure, com’è inquietante, a volte, quel godimento, com’è facile che non faccia bene!» Il segreto della rimem­ branza - contrapposta, in un paio di pagine finissime, al ri­ cordo, meccanico e tutto esteriore - ha un gusto di vino; ma per assaporarlo e rievocare così il «fantastico» Simposio, è necessario cercare, per contrasto, solitudine e silenzio. Quale solitudine maggiore del fondo «chiuso» {indesluttet) del N ei Diari (Pap. vi A 41) Kierkegaard spiega che il convito è cosa del passato - uno stadio superato - e perciò va ricordato e non narrato.

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Bosco di Grib, dove giunge soltanto il cervo colpito a morte dalla pallottola e presto di nuovo immobile; a pomeriggio inoltrato, nel momento in cui ^^il mondo sembra estinto, e il sopravvissuto nell’imbarazzo di pensare che non ci sarà nes­ suno a seppellirlo; dove l’intera umanità dev’essere migrata per gli Otto Sentieri, dimenticandosi un uomo dietro»? Il bosco {Skov) rima con l’amore erotico (Elskov) - l’aveva già fatto notare il Seduttore - per la stessa legge di contrasto; risuona, anzi, già nel coro del Don Giovanni, che si abban­ dona dietro Zeriina; quel Don Giovanni che darà inizio trion­ fale - col minuetto suonato dall’orchestra da camera e con l’elogio ditirambico di Mozart in bocca a Victor Eremita appunto al Simposio. Non sono già affiorati tutti, i temi che gireranno ossessivi, con un effetto di macabra eccitazione re­ ciproca, nei discorsi dei Convitati? La seduzione, il vino, la solitudine, l’eros, la morte? E quell’accenno alla «clausura» (Indesluttethed) non prepara forse la fantasia del lettore per il motivo dominante nella seconda, e maggiore, parte del libro; la malattia, appunto, di malinconia e «clausura» che mutila «come una gamba di legno» l’autore dello straziante Diario ripescato fortuitamente nelle «chiuse» (indesluttet) acque del lago di S0borg? E se, come il suo Nicolaus, anche Kierkegaard si fosse per tutta la vita ripromesso (per eleganza, per arbitrio, per fa­ stidio del pomposo genere tedesco del trattato filosofico) di non scrivere veri libri; ma, a seconda dell’occasione, non­ libri, quasi-libri o pre-libri, non importa se brevi o se farragi­ nosi e lunghissimi; e di inventare a ogni apertura di carte un genere nuovo? Finzioni di diari e di abbandonati quaderni d’appunti, parodie di dissertazioni accademiche e di pre­ diche; saggi, con bizzarra alternanza molto poetici e molto

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tecnici; o, appunto, «introduzioni», prefazioni e « postille a libri inesistenti. Nel Diario del Seduttore, che ha fatto, fin dalla prima edizione, la fortuna di vendite del corposo e complesso Aut aut, compare l’idea stuzzicante di una scrit­ tura condotta - come una lettera d’amore - per parentesi in progressivo avvicinamento. «Cordelia mia, tuo Johannes; possessivi che chiudono come due parentesi il povero conte­ nuto delle mie lettere. Parentesi, l’hai notato? che non smet­ tono di restringersi. Ma che meraviglia, Cordelia! sempre meno contenuto significa sempre più s e n s o . I n Colpevole? non colpevole?, progettato come rovescio polare del Sedut­ tore, torna un’immagine simile: le frasi che il sofferente Qual­ cuno scrive sul suo perduto amore la mattina e a mezzanotte stringono «come in un abbraccio» lei, l’assente, la lontana, il centro vuoto della vuota giornata. Non sarà dunque un caso se nella lunga meditazione su di sé e sul proprio lavoro raccolta nei Diari appare continuamente, come ispiratrice e come simbolo, il fantasma di Sheherazade: la virtuosa per eccellenza della parentesi e dell’inciso, capace di ricominciare sapientemente sempre da capo, intrec­ ciando all’infinito racconti nel racconto senza concludere mai; ché, se la voce narrante si interrompe, se il fiato si perde, è segnata la sua sentenza di morte. «Come è vera la battuta che mi sono sempre ripetuta su di me, che, come Sheherazade si salva la vita raccontando favole, io salvo la mia, o la conservo, a forza di scrivere. »^'^ L ’idea che Kierkegaard si fa della letteratura sta, in realtà. È il titolo della, parodicamente lunghissima, Postilla conclusiva non scientifica {Afsluttende uvidenskahelig Efterskrift, 1846) alle brevi Briciole filosofiche.

SV II, p, 387. ”

Pap. IX A 4 1 1 .

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a metà strada fra la scommessa di Sheherazade sul racconto eternamente riaperto - e quindi in indefinita espansione - e la teoria di Johannes sulla lettera con «sempre meno conte­ nuto e sempre più senso»; che punta invece al movimento opposto, la massima contrazione, e sembra ispirata al genere (assai caro a Kierkegaard^®) dell’epigramma. « L ’esistenza di­ venta un epigramma», medita il Qualcuno - il quidam - di Colpevole? non colpevole?. E l’epigramma, secondo uno degli autori prediletti di Kierkegaard, Lessing, è fatto solo di «un’attesa e di una conclusione», senza niente in m e z z o . I l risultato dell’equilibrio fra le due spinte opposte, l’espansiva e l’introversa - l’apertura indefinita del catalogo e il ripiega­ mento dialettico della riflessione - , è un lento movimento a spirale, che non conduce in nessun luogo, ma continua a nutrirsi di se stesso. Un incastro a perdita d’occhio di tiroirs, una vera, intricatissima selva di parentesi, gonfie ognuna al­ l’interno e ognuna irrisolta, sospesa, improvvisamente sop­ piantata da un’altra. Guardiamo, per esempio, a come sono costruiti questi Stadi: aperti - quasi a prendere tempo - da due prologhi e un motto uno dentro l’altro a firma di diversi “editori”; svilup­ pati poi in una serie aperta, e apparentemente libera come il vino che li ispira, di discorsi sull’amore e sulla donna; discorsi a loro volta bruscamente interrotti, quasi non fossero che il pretesto all’introduzione - con un nuovo motto - di un saggio anch’esso sull’amore e sulla donna, con intenti batta­ glieri e argomenti diametralmente opposti. E tuttavia nepBasta pensare alla passione di Kierkegaard per Lichtenberg, ai motti apposti in epigrafe a quasi tutti i libri, e agli splendidi aforismi di A u t aut (i Diapsalmata). Zerstreute Anmerkungen iiber das Epigramm, Sàmmtliche Schriften, Bd. 2, Berlin 179 2.

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pure questo pomposo saggio è conclusivo: perché, a sorpresa, si smentisce in coda, aprendo una terza prospettiva: parados­ sale e ancora imprecisa, ma sufficiente a determinare una nuova introduzione, ancora un passaggio ad altro. A questo punto - siamo circa a un terzo del libro - si apre un nuovo incastro di parentesi: un terzo prologo, firmato da un “edi­ tore” finora ignoto, introduce due motti in epigrafe, e i motti, a loro volta, introducono un lungo Diario, anonimo e, ci si dice, molto lontano nel tempo: il libro più importante del libro maggiore. Il Diario, poi - inquietante e straordinario -, ha una curiosa architettura decentrata e sdoppiata: fatto com’è di annotazioni che si rispondono, all’inizio e alla fine della giornata, ma, in realtà, si riferiscono a due anni e a due io differenti. E appunto questa drammatica, incessante dialet­ tica interna a incurvare il lento, lentissimo procedere del tempo (l’azione è quasi immobile) sui due piani sfalsati della memoria: è la dolorosa duplicità del soggetto riflesso - Lidende-Handlende, come qui si definisce, e cioè che «agisce patendo» - ad addensare fortemente il movimento dispersivo (della dissipatezza della disperazione) in una spirale che non ritroveremo così evidente in nessun altro libro di Kierke­ gaard: dove il pensiero esausto ritrova la strana, demonica energia di un possibile «salto» in una sfera più alta e ancora ignota, e tuttavia di quell’energia preferisce farsi una gabbia piuttosto che una molla. «Io non sono un’individualità reli­ giosa, ma solo una sua possibilità compiutamente articolata.» Dunque, neppure nel grande Diario sta il cuore delle molte parentesi, il centro del libro, il nocciolo che cercherà inutilmente dentro la «cipolla» della società umana, un Peer Gynt vistosamente ricalcato sul tipo «estetico» di Kierke­ g a a r d . V u o t o è il cilindro d’aria che la spirale definisce. E H . Ibsen, Peer G ynt, v, 4.

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non basta: il Diario si apre dentro altri buchi, altri tiroirs: introduce racconti, parabole, pastiches eterogenei e si inter­ rompe, più che concludersi, apparentemente a caso («ora smetto, per questa volta»). A quest® punto, le parentesi co­ minciano ad aprirsi nel verso contrario: ma queste postille sono tutt’altro che veramente risolutive, questi epiloghi non raggiungono mai una completa chiusura. Quella che l’“editore” chiama Conclusione, infatti - e che segue una Epistola al Lettore dove è smentita, a sorpresa, la storia dall’“editore” stesso raccontata a presentazione del Diario: il romanzesco ritrovamento del manoscritto in fondo al lago - , attacca una nuova divagazione, che nessuna retorica della dispositio pren­ derebbe per buona: «Non c’è ragione di affrettarsi, ho parec­ chio tempo per me, e posso, indisturbato e senza incomodare nessuno, parlare a me stesso di me stesso...». E continua nelle pagine belle e sinistre sulle pericolose seduzioni del poeta: che non un solo accenno nelle quasi cinquecento pagine pre­ cedenti ha l’aria di giustificare. Un tema, questo del poeta la qualifica che Kierkegaard rivendicava per se stesso, in un’epoca di filosofia «dei professori», accademica e sistema­ tica - , che per tutta l’opera continueremo a vedere trattato marginalmente e di scorcio, in qualche inquietante aforisma o nelle spezzate meditazioni dei Diari: «Quegli individui do­ tati, telegrafi viventi fra Dio e l’uomo,... hanno avuto in sorte la follia, l’incomprensione e la perdizione. In una parola, l’annichilimento della loro esistenza personale, troppo sterile per sostenere le emozioni divine». Kierkegaard stesso satireggia, nell’introduzione firmata da Victor Eremita ad Aut aut, «il vecchio artificio narrativo» Pap. Ili A 62.

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della costruzione per innumerevoli incastri successivi, «come le scatole nel gioco cinese». Il paragone - oggi più che lo­ goro, ma allora nuovo come l’altro sul filo rosso intrecciato ai cavi della Marina britannica - è qui particolarmente illumi­ nante: le scatole cinesi sono vuote, come il pensiero mosso a spirale di Colpevole? non colpevole?. Le carte, continuamente riaperte su nuovi fascicoli, «non hanno fine»;^2 {\ dialogo di A e di B - il cosiddetto «esteta» e il cosiddetto «etico» rimane eternamente in sospeso, senza che nessuno dei due arrivi a convincere l’altro. Nel libro nuovo e ancora più com­ plesso, gli Stadi, le molte voci si interrompono una dopo l’altra, senza risposta e senza riprese; e l’effetto polifonico che si manifesta appieno solo a chiusura di libro, nella me­ moria (nella «rimembranza»?) del provatissimo Lettore - so­ miglia a quello di un’orchestra che abbia deciso di combinare una lunga sinfonia con i primi movimenti di innumerevoli altre. Guardiamo, più da vicino, ai protagonisti del libro: tutti anonimi, quali rappresentanti di tipi (il Giovane, il S a r t o , i l Seduttore), quale - il Qualcuno, il quidam del Diario - invece assai caratterizzati, eppure vistosamente costruiti su un’ipo­ tesi di individuo sofferente «qualunque»; quali, ancora, già noti ai lettori di Kierkegaard, ma appunto, come “editori” , introduttori di altri libri; quale, infine (William Afham, il cronista del banchetto) che dichiara apertamente di non es-

S V II, p. 19. D i questo personaggio (che rappresenta «la disperazione dem onica», Pap. vi A 41) Kierkegaard aveva pensato di fare il protagonista di una novella; proprietario di un negozio di mode con un reparto destinato esclusivamente a vestire cadaveri (Pap. X 5 A 152).

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sere che «un segno di addizione», «l’essere puro, e quindi meno che niente». Tutti, cioè, dichiaratamente pensati non come personaggi ma come forme vuote; campi di percezione, prospettive, atteggiamenti, temperamenti, «disposizioni». Portatori, se mai ce ne furono, di «senso» soggettivo, e non di «contenuto» conoscibile e comunicabile: non di sapienza, non di memorie, non di informazioni. Guardiamo infine al­ l’assoluta inesistenza dell’azione: alla costruzione statica per quadri, e soprattutto per Stimmungen\ a certi interni notturni, a certi esterni protetti e singolarmente «chiusi» (il bosco, il lago, il pergolato), a certe parole chiave che ricorrono da un capo all’altro del lungo libro, e che sono l’opposto stesso della rete di relazioni sociali capace di mettere in moto una narrazione di un certo respiro: chiusura, isolamento, silenzio, malinconia... Non è un errore di costruzione; né c’entra il caso, al quale Kierkegaard - come il suo Qualcuno - ha dichiarato guerra senza quartiere. Ma il principio polemico della «soggettività che è v e rità » ,ap p lic ato alla letteratura, sposta una volta per tutte l’attenzione sugli approcci invece che sugli oggetti, sui viaggi invece che sulle mete, sulle quinte invece che sui pal­ coscenici, sulle voci invece che sui temi, sui punti di vista invece che sulle vedute. Apertamente antiaristotelica, si inte­ ressa appassionatamente alla potenza e pochissimo all’atto. Considera la realtà dal solo punto di vista degli accidenti; dubita che esistano sostanze, cause, e perfino regolarità rico-

«Tem peram enti estetici con disposizione etica» sono definiti altrove {Afsluttende uvidenskabelig Efterskrift, S V ix, p. 249) i convitati, e come «temperamento demonico con disposizione religiosa» è catalogato il quidam dal suo analista Frater Taciturnus. Afsluttende uvidenskabelig Efterskrift, S V ix, p. 233.

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noscibili. Personale fino aU’arbitrio, privilegia le intenzioni, i movimenti, i gesti; possibilmente gratuiti/^ Non espugna mai la realtà a forza, ma la pilucca e ne spigola a capriccio. Prag­ matica e mobile, gira intorno al suo oggetto riprendendone una serie di «prospettive a n g o l a r i » , d a davanti, da dietro, di lato, invece che una visione d’insieme. Interseca fittamente «secanti e cosecanti, tangenti e cotangenti»'^® invece di diri­ gersi, come il raggio, al centro delle cose: che, del resto, assai probabilmente è vuoto. Ma come non sospettare che l’acutissima, minutissima at­ tenzione alla periferia dell’esperienza - le sensazioni e le ra­ mificate reazioni del soggetto - non sia anche il sintomo di una spaventosa agorafobia; che il senso appassionato delle sfumature e delle forme si accompagni non solo a un’indiffe­ renza, ma a una repulsione violenta per i contenuti? «Tutta l’esistenza mi dà l’angoscia» confessa una desolata, precoce (1839) annotazione dei Dìari"''^ «dalla minima mosca al mi­ stero dell’incarnazione; ogni cosa mi è inintelligibile, e so­ prattutto me stesso; tutta l’esistenza è per me infetta.» In­ fetta, ma allo stesso tempo oscuramente necessaria a dare peso e concretezza al soggetto: che soffre l’inintelligibilità deUe cose come una spaventosa mutilazione. «La cosa terri­ bile, nella totale incapacità spirituale di cui soffro» dice un Cfr. un passo brillantissimo della Rotazione delle colture (Vexeldriften, S V 11, pp. 275-76): «T u tto il segreto sta nell’arbitrio. Uno si immagina che l’arbitrio non sia un’arte, eppure occorre uno studio profondo per essere arbitrari in modo da non perdercisi e da trarne piacere. N o n bisogna godere l’immediato, ma il che di comple­ tamente diverso aggiuntovi da noi arbitrariamente. Vediam o la metà di una com­ media, leggiamo un terzo di un libro. In questo modo ne ricaviamo un piacere completamente diverso da quello che l’ autore ha avuto la bontà di dedicarci».

SV IX, p. 237. ■'* Cfr. qui, p. 261. Pap. II A 420.

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altro appunto degli stessi anni,^® «è precisamente la sua asso­ ciazione a un desiderio logorante, a una passione dello spi­ rito: ma talmente informe, che non so neppure che cosa sia che mi manca.» Il «cavallo alato» della parola ^inforcato dal Seduttore è dunque salito tanto in alto da ansimare, nell’aria rarefatta. Di lassù, gli s’apre la percezione a volo d’uccello del deserto ontologico che Kierkegaard chiama la Noia, e che solo pochi anni dopo diventerà il grande tema europeo deWEnnui: il disgusto cosmico di Baudelaire, la malattia storica di Nietz­ sche, l’Assurdo delle avanguardie. La Noia è il «panteismo negativo» 5i dell’indifferenza, dove si smussa perfino l’affilato scandaglio - intellettuale e mistico - dell’ossimoro: «eternità senza contenuto, felicità senza contentezza, profondità super­ ficiale, affamata sazietà... unità negativa dove gli opposti scompaiono » . 52 « L ’esistenza mi dà la nausea», dice il giovane poeta della Ripetizione «è insulsa, senza sale e senza senso... Ficchiamo un dito in terra, per capire dall’odore in che paese siamo; io ficco un dito nell’esistenza: non odora di niente.» E nei Diapsalmata, gli aforismi scherzosi e dolenti che aprono Aut aut: «Non ho assolutamente voglia. Non ho voglia di andare a cavallo, è un movimento troppo violento; non ho voglia di andare a piedi, è troppo stancante; non ho voglia di mettermi a letto, perché o dovrei restarci, e non ne ho voglia, o dovrei finire per rialzarmi, e nemmeno di questo ho voglia. Summa summarum-. non ho assolutamente voglia». Pap. Ili A 56. Vexeldriften (SV 11, p. 267). ” ivi. » S V II, p. 24.

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Il motivo è modulato, come si vede, ancora in sordina; il tratto è frivolo, la scrittura guardinga e ironica. Questo spleen non è (apparentemente) che una chiacchiera di moda, una nuova sfebbrata letteraria del «male del secolo», l’ipocondria di René e di Lara. Ma già una delle pagine più brillanti di Aut aut aveva assunto un tono assai diverso, macabro e so­ lenne: «La noia riposa sul Nulla che serpeggia per l’esistenza: infinita è la sua vertigine, come quella che nasce a guardare in fondo a un abisso i n f i n i t o A s c o l t i a m o l a : è la prima teoria che dia nome e ragioni a un malessere del pensiero che durerà molto a lungo. I Diari la ricollegano al peccato instar omnium della teologia scolastica, VaceàiaP 11 concetto di an­ goscia, che segue Aut aut a un anno di distanza (1844) ne dà definizioni grandiose, sotto il nuovo nome di «demonico». È l’esistenza volontariamente vissuta nel deserto deH’inesistenza. E la continuità cercata nel Nulla. È confinamento, incapacità di comunicazione, staticità, tedio, estinzione, morte. «La mia anima» dice un bellissimo aforisma di Aut aut «è come il Mar Morto, su cui nessun uccello può volare, perché a metà strada precipita sfinito nell’abisso mortale.» E se la più straordinaria, la più fertile novità del pensiero di Kierkegaard, rivolta più al nostro che al suo tempo, fosse appunto una strategia, e non un contenuto, della mente e della passione? Se, più ancora che nella scoperta dei domini inesplorati di esperienza - il Singolo, l’Esistente, l’Eccezione, l’Angoscia - dove l’ultimo Ottocento e soprattutto il Nove­ cento hanno pescato quasi tutti i loro temi, la sua lezione Vexeldriften (S V ii, p. 268). Pap. II A 408. Sull’acedia cfr. G . Agam ben, Stanze. L a parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino, Einaudi, 19 7 7 .

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consistesse in uno stile e in un’etica del pensiero? La scelta, cioè - aristocratica e desolata - di voltare le spalle all’esi­ stenza «infetta» e alla realtà «inintelligibile» per abitare uni­ camente quelle che Kierkegaard chiama le categorie del confinium: le silenziose e vuote regioni di nessuno che si sten­ dono «in mezzo» ai domini ben recintati dell’ontologia, ai significati del vocabolario? Nelle regioni «di mezzo» il pensiero è solo con se stesso, a sperimentare l’estraneità alla lingua collettiva e la lontananza dal mondo di tutti. Più che luoghi, queste regioni sono condi­ zioni mentali, crisi, esperienze estreme: dove il soggetto «agisce soffrendo», conosce distaccandosi, negli antichi stati d’animo dell’ironia e della malinconia, nelle nuove avventu­ re psichiche dell’angoscia e della d is pe r az io ne . «I n mezzo» non abitano né fatti, né idee, ma solo «il vortice primigenio»^^ e forme vuote: possibilità e rapporti fra possibilità, istituiti a suo arbitrio dal pensiero, «dieci e venti per volta, in un at­ timo».5» Eppure è lì «in mezzo» che l’esperienza concre­ ta, irripetibile del singolo deve rassegnarsi a dimorare. Che co­ sa capiscono e sanno, infatti, del Singolo, l’ontologia e i signi­ ficati del vocabolario: inventati per interpretare il generale, non il particolare, la norma, non l’eccezione? «La mia vita è un’interiezione» scrive Kierkegaard nei D ia r i.I n t e r et inter, firma l’ultima opera pseudonima.^® Anche l’«interessante»^^ N egli ultimi decenni, si sono moltiplicati gli studi su Kierkegaard come fenomenologo della psicologia (cfr. soprattutto V .A . M cCarthy, The Phenomenology of Moods in Kierkegaard, T h e Hague-Boston, Martinus NijhoflF, 19 7 8 , e K . Nordentoft, Kierkegaard’s Psychology, Pittsburgh, Duquesne U .P ., 1978). ” Cfr. qui, p. 363. ” Cfr. qui, p. 368. ” Pap. II A 382. Krisen og en Krise i en Skuespillerindes L iv , S V x iv, p. 124. Cfr., sulla storia del concetto in Kierkegaard, Aa. Henriksen, Kierkegaards romaner, Kobenhavn, G yldendal, 19 54 , pp. 32 sgg.

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- la ragione stessa dell’estetica romantica e moderna - abita solo le regioni «in mezzo». Ridiventa per etimologia un inter-esse\ una relazione personale a un fenomeno, e non un tema o un oggetto. E necessario «per la salvezza dell’anima», ma è anche una durissima prova, soggiornare a lungo nei confinia. Per la loro stessa minacciosa sconosciutezza, questi monotoni paesaggi àeWacedia richiamano insistentemente immagini di deserti, baratri e voragini marine. Già la paura e l’orrore di contem­ plarli provocano violente sensazioni di nausea, mancamenti, v e r t i g i n i , 6 2 jj malinconico diarista degli Stadi, benché abita­ tore di questi deserti fin dalla nascita, come ci racconta, ha reazioni estreme, contraddittorie, di claustrofobia e di agora­ fobia. «La crisi più terribile somiglia ai sintomi dell’apo­ plessia nell’organismo. Istantaneamente ho le vertigini: e il mio pensiero non riesce a trovare un appiglio in quell’inestricabile confusione.» Soffoca nella «clausura» mutilante cui lo condanna il suo temperamento riflesso; si smarrisce, perde la testa davanti all’«oceano» del possibile e del pensabile, «dove la bussola stessa è dialettica». Evoca continuamente immagini di mari tempestosi dove la sua mente annaspa «come un guscio di noce», dove la sua speranza oscilla «come una scialuppa di salvataggio troppo carica». Eppure tocca al guscio di noce la fatica erculea di trasformare in dinamismo la mortale staticità di questo paesaggio d’acque e d’abissi; muovere i deserti, animare la plumbea immobilità delle distese marine. Il pensiero si esercita così ferocemente tendendosi nello spasimo «ai vertici» di se stesso - al mo-

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vimento spirituale che chiama volta a volta «danzare sugli abissi», «camminare sulla fune», tenersi in equilibrio su un’alta colonna come Simeone lo Stilita, galleggiare su vora­ gini d’acqua «alte settantamila braccia». Si esercita, cioè, alla rischiosissima ginnastica nel vuoto dei mistici: senza sperare di condividerne la visione (perché il pensiero, in fondo a se stesso, troverà solo un altro lato di se stesso) e sapendo, al contrario, che gli costerà la pace dell’anima e l’innamora­ mento, l’unica relazione umana su cui ha concentrato l’im­ pegno etico di una vita. «G li inizi sono il mio forte» diceva il Seduttore: e non solo pensando alla «giovin principiante» di Don Giovanni. Certo è che, nell’immensa, metamorfica opera di Kierkegaard la prefazione^^ e la postilla, l’anticipazione e la ripresa non sono soltanto gli oggetti (la Ripetizione, la Rimembranza), ma i soggetti della riflessione. Con il risultato di uno sdoppiamento insanabile fra il prima e il dopo, fra l’esperienza e il pensiero: di un ossessivo andirivieni fra volontà e pentimento, progetto e ricordo. Dentro ognuno di noi, dirà il Qualcuno di Colpe­ vole? non colpevole?, come nel ventre di Rebecca incinta dove già si combattevano i gemelli, abitano «due esseri che si acca­ pigliano». «La vita va capita all’indietro, ma vissuta in avanti.» « E proprio come se fossi un pensatore doppio, e il mio altro io continuasse ad anticiparmi.»^'‘ «Mentre rifletto, esce Aut aut. Proprio quello che volevo fare io, me lo trovo già f a t t o . » 65 Questi secondi io «dietro le spalle» e «dentro È ancora concepita come una prefazione, per esempio, la tarda Introduzione al

Cfr. J , M. Hoberman, Kierkegaard on Vertigo, in R. L . Perkins (a cura di), International Kierkegaard Commentary, The Sickness unto Death, Macon, Georgia, M ercer U .P ., 198 7, pp. 185-208.

cristianesimo (Ind0velse i Christendom, 1850). Pap. I A 333. Afsluttende uvidenskabelig Efterskrift, S V ix, p. 210.

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lo Stomaco» deU’autore della Postilla, Johannes Climacus, questi scrittori sconosciuti che lo ossessionano «continuando ad anticiparlo» sono sperimentati - a sentire i Diari - come un fenomeno di scissione pauroso e patologico: come allucinazioni spontanee, larve, voci schizofreniche. « C ’è qualcosa di spettrale {geisteragtigt) in me... ho una coscienza troppo spaziosa, abitata da forme di mezzanotte pallide, esangui, dure a morire.»^^ E ancora: «Per molti anni la mia malin­ conia mi ha impedito di accostarmi a me stesso nel senso più profondo. Fra la mia malinconia e me c’è un intero mondo fantastico. E questo che, in parte, ho svuotato negli pseudo­ nimi». Evidentemente, l’etica dell’esperienza «in mezzo» alle ca­ tegorie ha prodotto non solo idee, ma voglie, passioni, stati d’animo, sentimenti. L ’abitudine ostinatamente centrifuga del pensiero a procedere non per proposizioni ma per di­ sposizioni, atteggiamenti, prospettive ha dato corpo al­ le «parentesi» e generato fantasmi con volto e voce umani. Lo sforzo «ipotetico e congiuntivo», il lavoro notturno, «malinconico», con le possibilità pensabili ha proiettato tutto in giro vere e proprie personalità secondarie: le «forme di mezzanotte» degli pseudonimi. Come non pensare che fosse hantée, la bella casa di Kierkegaard in Kongens Nytorv: «troppo spaziosa», come lui dice della sua coscienza, e sempre (per suo ordine) scaldata e illuminata da cima a fondo? Se potessimo guardare ancora dalle finestre, come i passanti attardati dell’epoca, vedremmo lo scrittore, nelle sue giacche viola e gialle da dandy, aggirarsi la sera di stanza in stanza, fermandosi a buttar giù qualche riga ora all’uno, ora Pap. X 2 A 3. Pap. vili I A 27.

all’altro dei suoi molti tavoli di lavoro: uno per stanza, tutti con sopra un candeliere acceso, tutti con carta e calamaio sempre rinnovati. E (supponiamo noi) uno è coperto dai fogli che diventeranno il saggio sul Don Giovanni, attribuito al giovane «esteta» A; uno ha sopra le lettere, destinate invece a salvare (se possibile) l’anima ironica e malinconica di A, del giudice Vilhelm; uno ha l’incompiuta Ripetizione, per la penna di uno scettico, e non meglio noto, «psicologo speri­ mentale» e appassionato di teatro di nome Constantin Constantius. Uno con il saggio su Abramo, che si chiamerà Ti­ more e tremore e uscirà, a contrastarla, lo stesso giorno della Ripetizione a firma di un oscuro Johannes de Silentio (un monaco, forse?). Uno (e non è l’ultimo tavolo; dove sono le Carte segrete di una vita, che diventeranno gli immensi Diari}) con qualcuno dei diciotto Discorsi edificanti: pseu­ donimi come gli altri e più degli altri, anche se porti al pub­ blico «con la mano destra»,^® anche se sulla copertina com­ parirà certo S0ren Kierkegaard, Dottore in Teologia... Co­ me i lettori dell’epoca, abbiamo imparato la lezione; e se un giorno sarà messa in vendita, ancora a firma di Kierke­ gaard, un’operetta che pretende di interpretare l’intero suo lavoro di scrittore e che reca a sottotitolo Una comunicazione diretta, rapporto alla s t o r i a , sapremo già prima di aprirla che la storia sarà falsificata e la comunicazione intricata e am­ bigua. Bisogna anche dire che gli pseudonimi non hanno mai ingan­ nato materialmente nessuno, nella ricca e colta Danimarca S V XIV, p. 127. Synspunktet jor for min rorjaicer-v Forfatter-Virksomhed. n ligefrem Meddelelse, Rapport (il oympun/€i€( irKòumrjcu. E un ___ \ • 0 X7 ___ . / n il i * Historien (1851, ma pubblicata postuma), in S V xviii, p. 79.

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dell’Età d’Oro: nella generazione, cioè, che vede i trionfi della borghesia commerciante e professionista della capitale, della pittura di genere, del teatro, della pedagogia (Grundtvig), della narrativa (Andersen). I lettori dell’epoca, per quanto frastornati sotto la pioggia di libri diversi e diffìcili che Kierkegaard scaricava loro addosso, mese per mese, sia «con la mano destra» che «con la sinistra», almeno su un punto non sono mai stati in dubbio: che, cioè, Climacus e Constantius, Johannes de Silentio e Victor Eremita (e come avrebbe potuto essere diversamente, con quei nomi?) non fossero che capricciose invenzioni, per di più di un genere leggermente passato di moda, del professore di Kongens Nytorv. Ma che cosa possiamo immaginare che capissero nelle solenni dichiarazioni messe ad accompagnare e inter­ pretare il frivolo gioco d’ombre? «Quanto è scritto è mio, ma solo in quanto l’ho messo in bocca all’individualità poeticamente reale che ho prodotto, con la sua visione della vita espressa in frasi udibili. Perché la mia relazione è ancora più esterna di quella di un poeta che inventi dei personaggi, ma nel prologo rimanga l’autore. Perché io sono impersonale o personale solo alla terza persona, come un suggeritore che abbia prodotto poeticamente gli autori, e la loro prefazione è opera loro, come pure i loro nomi. Così, nelle opere pseudonime non c’è una parola sola che sia mia. Su queste opere non ho opinioni, se non come terza persona, non ne conosco il significato se non come lettore, né ho con esse la minima relazione privata: cosa impossibile, nel caso di una comunica­ zione doppiamente riflessa... Centocinquant’anni più tardi, noi non siamo in grado di Afsluttende uvidenskabelig Efterskrift, S V ix, p. 234.

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fornire interpretazioni più sottili dei contemporanei, né ab­ biamo in mano prove più circonstanziate su come sono an­ date le cose. Perché non prendere, allora, alla lettera dichia­ razioni come questa di Kierkegaard e cercare di farcene una ragione? Possiamo sempre appigliarci all’antico precetto che chiede alla letteratura di parlare sempre «con voce e in per­ sona altrui»; alle prediche millenarie della retorica perché tono e lingua si accordino non all’oratore, ma all’argomento. Possiamo ricordare che non c’è scrittore antico o moderno che non abbia ritenuto suo dovere raccontare verità con «faccia» (più o meno ostentata) «di menzogna». Citare, in particolare, il gusto romantico per le maschere, le ombre, i doppi e le contraffazioni. Ricondurre (com’è storicamente corretto) l’idea degli pseudonimi a Schleiermacher^^ e la fin­ zione delle carte di ignoti casualmente raccolte e sistemate al Meister di Goethe. Ridere, con Kierkegaard s t e s s o , d e l l o stereotipo del manoscritto ritrovato, già logoro ai tempi di Cervantes^'* eppure tante volte ancora ripreso da Marivaux, Crébillon, Swift, Defoe, Richardson, Sterne, Chatterton. RiÈ l’espediente usato nella recensione (comparsa anonima) alla Lucinde di Schlegel {Vertraute Briefe ùber die Lucinde). Cfr. Pap. i C 69. Soprattutto i Wilhelm Meisters Wanderjahre (1821-29) - assiduamente citati nei Diari di Kierkegaard a partire dal 18 36 («questo romanzo, più di qualsiasi altro, esercita un’ impressione di totalità perfetta; è veramente tutto il mondo contenuto in uno specchio, un autentico microcosm o», Pap. i C 73) e letti nella Vollstàndige Ausgabe letzter Hand, Stuttgart und Tiibingen 1828-33 - , con la provocatoria libertà della loro costruzione, ricca di novelle inserite, di carteggi, del Diario di Lenardo, di aforismi, sono sicuramente il modello diretto tanto di A u t aut che degli Stadi (F. J. Billeskov Jansen, Studier i Seren Kierkegaards littenere kunst, K0benhavn, Reitzel, I9 8 7S pp. 22 sgg.). N ei 'Wanderjahre, Goethe si chiama più volte «redattore» «getreuer Referent», «Sam m ler und Ordner dieser Papiere» - e non autore di un libro che dichiara «strano ed estraneo». S V II, p. 14. V . Milne, The Eighteenth Century Novel, Manchester, Manchester U .P ., 196 5 e G . C. Roscioni, Sulle tracce dell’«Esploratore turco», Milano, Rizzoli, 1992, p. 163.

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trovare nella battuta di uno scrittore caro a Kierkegaard, Benjamin Constant («Je ne suis pas tout à fait un étre réel»), l’acuta, dolorosa sensibilità del primo Ottocento alla labilità e alla molteplicità dell’io... E finire così per convincersi di un effetto letterario di diffrazione, più ancora che di proiezione: che somigli al distacco - da un narratore arrivato «fino in fondo alla riflessione» (gjennemreflekteret) - di personalità parziali intorno a cui verrà a stringersi l’intreccio. Eppure, non ci siamo ancora. Non solo perché il grande gioco di polifonie congegnato e sostenuto da Kierkegaard per anni, la messinscena di firme false e contraddittorie buttate tutte insieme sul banco del libraio non ha precedenti né veri imitatori. Ma soprattutto perché nessun altro che, nel nostro secolo, Pessoa (e Pessoa sul banco del libraio non ha mai buttato nulla) ha concepito alter ego che fossero «un io, un io personale, non l’io puro fantastico e v e n t r i l o q u o Cioè, che non fossero personaggi ma soggetti: non attori ma scrit­ tori, e tutti idiosincratici e diversi, lontani di temperamento, dotati di conoscenze, storie e intenzioni differenti; messi, per così dire, davanti a carte bianche senza sapere ancora che cosa scriveranno. Nessuno, forse, ha colto la particolarità di quest’inven­ zione come il genialissimo Georg Brandes: che, però, vi vede la prova di un fallimento letterario, dovuto all’impossibile equilibrio tra filosofia e narrazione. Kierkegaard, per Brandes, è in bilico tra due forze opposte, la spinta del pensa­ tore a concentrarsi e «la spinta del poeta a moltiplicarsi; ma non si è raccolto mai con la forza del pensatore puro, né mai si è diviso con la forza del vero poeta». Bisogna arrivare a

Nietzsche e, oltre Nietzsche, all’arte e alla letteratura del­ le avanguardie per scoprire in che direzione vada veramen­ te il progetto di Kierkegaard. Come, cioè, la sua speciale versione della dialettica - che mette ad affrontarsi pro­ spettive e non concetti, movimenti e non oggetti del pensiero - abbia inventato un intero teatro, umano ma non antropo­ morfico, di gesti estremi e assoluti: «vibrazioni, rotazioni, vortici, gravitazioni, danze e salti che tocchino direttamente lo s p i r i t o » . U n teatro che tenta per l’ultima volta di riani­ mare, dal fondo più segreto dell’esperienza soggettiva, un palcoscenico ontologico altrimenti per sempre silenzioso e deserto. Il diarista senza nome degli Stadi ricorda con interesse un suo antico professore di latino, «bizzarro o, se si vuole, di­ stratto. Non che si perdesse nella meditazione o nel silenzio: ma gli capitava all’improvviso di parlare con tutt’altra voce, che sembrava venire da un altro mondo». Come «altre voci da altri mondi» sono appunto concepiti «gli abbozzi, i saggi d’uomo» che sono gli Pseudonimi; come «disposizioni», non come personaggi; come testimoni («spie»), e in nessun modo come attori. Impossibile non riconoscervi l’impronta (ironica­ mente degradata) dell’alta intenzione allegorica che nell’an­ tico genere cristiano itinerarium mentis - in Boezio, nella Divina Commedia, nel Pilgrim’s Progress^^ - aveva toccato i vertici della sua parabola. «Non c’è invenzione dell’immagi­ nazione» dice una frase di Tieck riportata da Kierkegaard nei

Pap. vili 2 B 88. Il libro di G . Brandes iSeren Kierkegaard, Kj0benhavn, G ad, 18 7 7 , poi in Samlede Skrifter, n, Danmark, Kjobenhavn & Kristiania, G yldendal, 1919 , p. 272) è la prima monografia in assoluto dedicata a Kierkegaard.

” G . Deleuze, Différence et répétition (tr. it. Differenza e ripetizione, Bologna, Il Mulino, 19 7 2 , p. 21). Cfr. J . W atkin, Pilgrim on L ife ’s Way - Kierkegaard in thè Light of Bunyan’s Pilgrim’s Progress, in B. Bertung (a cura di), Kierkegaard - Poet of Existence, C o ­ penhagen, Reitzel, 1989.

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DiarP"^ «che, anche se incosciamente, non abbia l’allegoria alla base stessa del suo carattere.» Affabili e quasi giocosi, gli Pseudonimi sono certo anche maschere allegoriche, ma nel senso in cui sono maschere alle­ goriche Cratilo, Fedro, Agatone, Alcibiade. Vestiti elegante­ mente alla moda, ristretti nel formato della miniatura bor­ ghese, appesantiti dallo sfondo degli intérieurs fittamente ar­ redati dove intrecciano i loro dialoghi « operistici conser­ vano indubbiamente un tratto universale e senza tempo. Non per questo le loro idiosincrasie sono meno uniche e capric­ ciose: l’attimo soggettivo non è forse la porta dell’eterno, e Kierkegaard non aveva lavorato per anni a trasporre la sua stessa biografia in una serie di miti personali (Abramo, Giobbe, l’Ebreo Errante, Faust, Amleto);*^ miti che un altro ossessivo autobiografista, Strindberg, prenderà di peso da lui? E non affiora spontaneamente un’allegoria, in ogni biografia giunta a termine? Le allegorie entrano ed escono, come vo­ gliono, dalla letteratura come dall’esistenza concreta: il tor­ mentato Qualcuno degli Stadi combatte, la notte, contro l’amplesso ripugnante della Possibilità, vagheggia la fuggitiva Spensieratezza con le rose nei capelli, si vede svaporare fra le braccia come una nuvola l’ipotesi, si stringe teneramente al Dolore, l’ultimo e il più fedele dei fantasmi erotici venuti nella tenebra a visitarlo. G li Pseudonimi sono scrittori, ma (dato il loro temperamento passivo) solo svogliati scrittori d’occasione: relatori pronti a Pap. I C 95, Th. W . Adorno, Kierkegaard. Konstruktion des Asthetischen, 19 33, Frankfurt, Suhrkamp, 1966^, p. 79. « L a nostra vita personale è più o meno una satira della poesia e di noi stessi» (Pap. x i ‘ A 497). Cfr. N . Lebowitz, Kierkegaard. A L ife of Allegory, Baton Rouge & London, Louisiana State U .P ., 1985.

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deporre definitivamente la penna una volta chiuso il loro protocollo. Sono, soprattutto, grandi e svagati lettori: che citano con disinvoltura e trascuratezza Shakespeare e T e­ renzio, Erodoto e i romantici. Don Chisciotte e la Bibbia. Sono grandi frequentatori di commedie e ascoltatori di mu­ sica: soprattutto esperti, quale più quale meno, di Mozart. Sono inveterati flàneurs, a piedi per il centro elegante di Copenaghen, in carrozza nei suggestivi dintorni, per boschi, laghi e rovine: e preferibilmente di prima mattina o al calare della sera. Hanno anche altri tratti esterni comuni: una vita agiata, colta e senza scosse; domestici e frequentazioni abi­ tuali; qualche imprecisato «affare» in città, ma (con l’ecce­ zione del giudice Vilhelm) non un mestiere, e nessuna fami­ glia. La loro cultura, infatti, come la loro originalità e la loro intelligenza, cresce in proporzione diretta alla loro solitu­ dine. Tocca i vertici nel raffinato e ipocondriaco «psicologo» Constantin Constantius (che vediamo, negli Stadi, comparire a sorpresa come anfitrione del banchetto platonico). Preci­ pita in basso nell’unico artigiano, il rilegatore Hilarius, l’in­ volontario e incomprensivo editore generale degli Stadi: che non vede più in là del suo naso, probabilmente troppo affac­ cendato con il suo carico familiare e il laboratorio; che parla goffamente per frasi fatte. Il caso grottesco di Hilarius, tut­ tavia, suggerisce un’ipotesi: e se anche gli eleganti intellet­ tuali, i disincantati «esteti» che gli fanno compagnia nella parte fossero sostanzialmente pensati, più che come ma­ schere, come parodie? Parodie, stavolta, dedicate al grande tipo ottocentesco del poeta dandy, da Byron a Baudelaire? Come altri strumenti, centrali in Kierkegaard, di duplica­ zione e di distanza - l’ironia, la satira, l’umorismo -, la pa­ rodia è un espediente tutt’altro che comico. Già molto preco­ cemente, nei Diari, costituisce una sorta di «cattivo» riflesso.

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di infelice «ripetizione»: segnala, per esempio, la disperata impossibilità di un’appropriazione piena, continua e diretta delle cose. « Il quadrato è la parodia del circolo: tutta la vita, tutto il pensiero è un circolo, mentre la pietrificazione della vita va esattamente in forma della cristallizzazione... L ’ango­ lare è la tendenza a restare statici: a m o r i r e . Comunque sia, gli Pseudonimi hanno il buon gusto di non narrare, di sé, che casi esemplari o simbolici: il viaggio a Berlino di Constantin alla vana ricerca della Ripetizione, le meditazioni solitarie di William Afham all’Angolo degli Otto Sentieri. Ma innanzitutto raccontano, naturalmente, l’epi­ sodio eccitante e misterioso legato al ritrovamento del mano­ scritto che ora si prendono la responsabilità di pubblicare. Fra le pagine più suggestive di Aut aut, giusto in apertura, c’è la storia di come Victor Eremita - oscuramente attratto per mesi da un certo secrétaire antico - si decida ad acquistarlo e vi trovi poi dentro, quando meno se l’aspetta, un cassetto segreto pieno di carte; di come torni a occultarle, quelle carte, «nella cassetta di mogano dove tiene di solito le pi­ stole» e passi infine Testate a leggersele, nascondendosi in un «angolo romantico» dei boschi di Hiller0d per non venire disturbato e almanaccando sui due (sui tre?) uomini senza nome che le hanno scritte. Non diversamente, in un passo fra i più emozionanti degli Stadi - proprio all’inizio della seconda parte - compare la storia di come un altro e finora mai visto psicologo a tempo perso, Frater Taciturnus, strappi a forza al piccolo, suggestivo e «chiuso» lago di S0borg (pescandovi a caso) un cofanetto sigillato che contiene un lontano diario e qualche gioiello. Pap. I A 3 13-14 (1836).

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Ma dal fondo del lago, nel momento della violazione, sale una bolla che trema un attimo a galla e poi scoppia: «un sospiro dal basso, un sospiro de profundis, un sospiro perché strappavo al mare il suo deposito, un sospiro dal chiuso lago, un sospiro dall’anima chiusa cui stavo strappando il segreto». Ecco un’altra figura, accumulativa come la finzione stessa che fonda Aut aut e gli Stadi-, quel gran fascio di carte in disordine, ritrovate per caso e accostate alla meglio, ma in realtà fatte di frammenti autonomi, interrotti, ambigui, colle­ gati solo dall’incognito in mezzo. Naturalmente, il disordine, il vuoto, il capriccio fanno anch’essi parte della finzione. Ai recensori non ancora malevoli di Aut aut, convinti che nel libro Kierkegaard abbia rovesciato a caso il contenuto di tutti i cassetti della sua scrivania, lo scrittore ribatte: niente af­ fatto, la costruzione è accuratamente studiata in ogni partico­ lare. Studiata, cioè, (dopo aver letto e riletto dovremmo averlo capito) nel senso di un mobile raggruppamento «dialettico» di prospettive, destinato a restituire non conte­ nuti, ma una particolare, irripetibile condizione della mente. Gli Pseudonimi portano, quasi sempre, nomi ispirati alla re­ clusione, al segreto, al silenzio e alla notte. Victor Eremita,®'^ Frater Taciturnus, Johannes de Silentio, Vigilius Haufniensis...*5 Tendono, coerentemente con la negative capability che Keats rivendicava al poeta - ma anche con la discrezione dell’uomo di mondo - , a sottrarsi in tutti i modi all’atten­ zione. Dissimulano al massimo la loro presenza («c’ero, ep-

Pap. IV A 2 14 e 2 15. *■' M olto più tardi, in uno scritto retrospettivo {Synspm ktet for min ForfatterVirksomhed, S V xviii, p. 94) Kierkegaard assicurerà che A u t aut è stato scritto «letteralmente in un convento». Più o meno; « l ’insonne di Copenaghen».

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pure non c’ero», dice il più reticente di tutti, William Afham,*^ e Constantin: «io sono un personaggio che scom­ pare, come l’ostetrica quando il bambino è nato»). Si ten­ gono sempre ai margini del fatto che raccontano, definen­ dosi, al massimo, osservatori, ascoltatori, testimoni; e due di loro (Constantin Constantius e Frater Taciturnus) - con una sfumatura sinistra da vivisettori - «psicologi sperimentali». Non basta: se la loro presenza è imprevista e spesso indebita, il loro sapere è illecito. Tutte le vicende che raccontano sono frutto di confidenze tradite, di intrighi e di segreti violati. Tutte le carte che pubblicano sono rubate, se non, addirit­ tura, rubate due volte: come quel manoscritto che passa furti­ vamente dal tavolo del giudice Vilhelm alle tasche di Victor per finire nelle mani di William (è forse un caso che i tre portino nomi con la stessa iniziale?). Come definirli, se non spie, questi osservatori che si na­ scondono, questi testimoni sotto mentito nome, questi ascol­ tatori di soppiatto, questi intriganti, questi «collezionisti di stati d’animo»,^^ questi ladri di documenti e di segreti? «Spia» è appunto il nome corrente, nell’Ottocento, del carat­ teristico specchio convesso {Reflexions-Spejlet) che Johannes il Seduttore tiene nella sua stanza, e che ha il compito di raccogliere e proiettare, nel chiuso salotto borghese, le linee e i movimenti della strada. Spia è anche la parola che sceglie di usare Kierkegaard: parlando più di sé - dell’intero suo lavoro di scrittore, e forse di quello di ogni scrittore - che della posizione moralmente dubbia dei suoi Pseudonimi.** W illiam , il misterioso narratore del banchetto erotico, è l’unico a non avere un soprannome latino (Afham significa semplicemente: « d i lui»), J.-P . Sartre, Baudelaire, Milano, Mondadori, 1964^, p. 59. ** S V II, p. 328.

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Per imparare a scrivere, dice dunque Kierkegaard, «ho do­ vuto farmi e mi sono fatto osservatore... mi sono esercitato a entrare e a uscire da una persona e a contraffarla... Io sono come una spia al servizio superiore dell’Idea. Non ho niente di nuovo da predicare, nessuna autorità, mi nascondo dietro un inganno e non lavoro direttamente ma insidiosamente e indi­ rettamente..., in breve, come una spia che, mentre spia, si informa delle irregolarità e delle illusioni dei sensi e dei fatti sospetti e sorveglia, si trova a sua volta sotto la più stretta sorveglianza».*^ Che Kierkegaard abbia qui in mente il singolare fenomeno degli scrittori che, come Defoe, tra il Seicento e il Settecento lavorarono in parecchi paesi europei come spie politiche «semplici e doppie»? Uno studio molto bello, recentissimo, su uno di questi bizzarri e tragici personaggi - il genovese Gian Paolo Marana, che inventò con l’immenso romanzo epi­ stolare L ’esploratore turco il genere, reso poi famoso da Mon­ tesquieu, delle lettere pseudo-orientali - segnala con grande finezza come questo fenomeno di confine prenda in realtà alla lettera l’antica, universale vocazione dello scrittore a fare di sé il «coperto esploratore», prima ancora che l’interprete dell’esperienza u m a n a . I n comune con gli «esploratori» della specie di Marana e di Defoe, il tipo del poeta teorizzato da Kierkegaard ha inoltre un pesante risentimento verso l’esi­ stenza, e un desiderio megalomane di rivalsa. «Ingannato dalla vita per non essere stato che un osservatore, il poeta è L a dichiarazione richiama, in un contesto solenne e apologetico (S V xviii, pp. 12 9 e 134), lontani appunti dei Diari sul gusto per la mistificazione di K ierke­ gaard ragazzo, e sul progetto lungamente coltivato di una commedia - poi di un romanzo - intorno a un misterioso Re dei Ladri. G . C . Roscioni, Sulle tracce dell’«Esploratore turco», cit., p. 33.



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diventato non l’ingannatore, ma l’inganno stesso, l’inganno oggettivo, la negazione pura.»^’^ Il suo interesse per «le irregolarità e le illusioni dei sensi e i fatti sospetti» - nessuno per i sensi sani e la vita regolata è dunque, in un certo senso, vendicativo. Per lo scrittore, in realtà, sospetto è ogni fatto, ogni gesto ingannevole, ogni individuo una pericolosa eccezione meritevole di sorve­ glianza. Lo tiene dunque d’occhio, «senza nessuna autorità» e quindi colpevolmente; e mentre sorveglia si sa sorvegliato a sua volta, costantemente a rischio di tradirsi, di cadere lui stesso nella trappola del suo «esperimento». Come Marana, infatti, come Defoe, lo scrittore-spia tratteggiato da Kierke­ gaard soffre di profonde scissioni, di insanabili sensi di colpa. In Colpevole? non colpevole?, i tormentati colloqui notturni del Qualcuno con se stesso gli danno un istante la sicurezza del giudice istruttore che «ha letto i documenti, interrogato i testimoni, collegato gli indizi e perquisito i luoghi, e final­ mente, all’improwiso, vede qualcosa... l’andamento della causa»; e l’istante dopo lo precipitano nella mente piagata di «chi ha commesso un crimine, e lascia errare lo sguardo nella stanza, sospetta di ogni angolo, lo allunga fuori dalla finestra per guardare a casa dei vicini, reso perspicace dall’angoscia della coscienza». Perché è la riflessione stessa - scopre riper­ correndo l’esperienza di Amleto, di Montaigne, dei pittori manieristi il Qualcuno che passa le notti a escogitare «intrighi», «astuzie», piani e tranelli per imprimere una dire­ zione e un senso alle cose - «il transfuga, il disertore di professione, il traditore cui la fedeltà è impossibile».

Cfr. qui, p. 712.

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Guardateli, negli Stadi, gli Pseudonimi usciti per una volta tutti insieme dall’ombra e inondati, invece, dalle sfolgoranti luci del Banchetto, quanta tagliente ironia sfoggiano a vi­ cenda e contro se stessi! Ognuno degli oratori che si alza a turno si sente addosso gli occhi degli altri, che controllano il suo stato di ebbrezza (esiste una metafora più antica per l’i­ spirazione poetica?) e in questo modo glielo guastano irrime­ diabilmente; che commentano la pertinenza dei suoi argo­ menti e la rigida osservanza del tema, portandolo così subito a eccedere o a contraddirsi. Ognuno, a sua volta, alzandosi con la testa che gli gira, ha la percezione di profonde stona­ ture - nonostante l’immensa, decadente raffinatezza del décor - fra se stesso e il suo pubblico: e si sorprende perciò a dire (di nuovo, come ogni vero scrittore) cose non progettate, profetiche o traumatiche. Il Giovane dà fondo ai suoi più brillanti, disperati sarcasmi solo per accorgersi d’improvviso che sono caduti a vuoto, incupendo sensibilmente l’atmosfera («nessuno ride?»). Il Seduttore, appesantito e più cinico ri­ spetto all’aereo Johannes del Diario - quello che dialogava con gli zefiri e aveva piedi che non lasciavano orme - , butta luce sulla faccia macabra dell’estetismo, scoprendo con un gesto brutale la tuta del becchino sotto la redingote del dandy: «Che, vi tormenta Satana? Avete gli occhi rossi di lacrime, e non di vino». E se - dicevamo - , più che scrittori, gli Pseudonimi fossero immaginati come parodie di scrittori: altrettanti, imbolsiti Jean Paul, Tieck e Friedrich Schlegel, gran robivecchi di tutto l’armamentario romantico delle lettere, dei diari e dei manoscritti ritrovati; maestri nell’inventare sfondi e perso­ naggi suggestivi, «doppi», giovani poeti, amanti infelici, ra­ gazze abbandonate; eppure afflitti da una curiosa ottusità nei

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confronti dei loro stessi temi, da una vistosa goffaggine nei confronti dei loro strumenti? Su questo punto, l’ironia della loro invenzione tocca veramente il culmine. Le prefazioni, le postille degli Pseudonimi editori accompagnano libri per loro incomprensibili: illeggibili (è il caso del bravo Hilarius), ininterpretabili o conturbanti. Perfino un «esteta» incallito come A «impallidisce e sta per svenire» quando gli cade l’occhio sul Diario che ha rubato da un cassetto del Sedut­ tore. Se invece gli Pseudonimi si dilettano di «esperimenti psicologici», li vediamo studiare e descrivere fenomeni che non capiscono; sforzarsi di rendere conto di ragioni a loro totalmente estranee. Constantin (nella Ripetizione) com­ menta, con intenzione, «prosaicamente» le lettere esaltate dove il suo giovane amico vaneggia di Giobbe, di tempeste metafisiche e di pericoli mortali al servizio dell’idea. Frater Taciturnus - dall’occhio dialettico così acuto e attento - con­ fessa apertamente che per lui il «religioso», dove (forse) sta per naufragare il Qualcuno, è «una lingua straniera», di cui dovrà perciò limitarsi a ricostruire, dall’esterno, condizioni e comportamenti. Ma il più riflessivo degli Pseudonimi, Constantin Constantius, rivolgendosi «unter uns [fra di noi]» al Lettore - a noi formula, per questa distanza, per quest’ottusità, per questa doppiezza, un’ipotesi diversa. Come Clemente Alessandrino, dice, scriveva in modo da non essere compreso dagli eretici, come Lessing (incalza Vigilius Haufniensis)^^ usa « l’astuzia di mettere addirittura un accento falso sull’indifferente, perché l’iniziato possa cogliere così meglio la chiave dialettica e l’e­ retico non possa tirarne fuori nulla», come Platone (aggiunS V IX, p. 60.

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giamo noi) insegnava allo stesso tempo su un piano essoterico e su uno esoterico, gli Pseudonimi - forse - sanno e dicono più di quanto non scrivano apertamente, nelle loro premesse incastrate una dentro l’altra, nelle loro postille. Perfino il più abbandonato, il più solitario di loro - il Qualcuno degli Stadi - si guarda bene dallo scrivere «quello che veramente pensa»: si preoccupa, invece, di cifrare e travestire k sua storia interiore. Che succederebbe, altrimenti, se i fogli gli volassero dalla finestra, se scoppiasse un incendio rispar­ miando forse il manoscritto, se l’autore morisse, o diventasse cieco, e qualcun altro avesse così modo di mettere le mani sulle sue carte? Altri Pseudonimi dichiarano il metodo (più semplice, ma ancora più paradossale) di scrivere deliberatamente dtWopposto di quanto, al momento, occupa loro la mente e i sensi. L ’«intelligenza erotica della reminiscenza», dice William Afham nel secondo prologo agli Stadi, ha bi­ sogno di contrasti, e tanto meglio se piccanti: «negli stati d’animo, nelle situazioni, negli sfondi». Per essere in grado, così, di rievocare a pieno una scena chiassosa e illuminata come il Banchetto, William si costringe a cercare, nel cuore di un bosco, il luogo più silenzioso e solitario che conosca: l’Angolo degli Otto Sentieri, una contraddizione in termini. Allo stesso modo, per prepararsi degnamente alla fantastica notte d’orgia i convitati devono immergersi nella pace idillica della campagna al crepuscolo, che parla di tutt’altre associa­ zioni; per essere pronti a cogliere le vette ebbre dell’istante, lasciarsi andare a un prolungato «sentore di eternità». Non troppo diversamente, le «disposizioni», i temperamenti, i «punti di vista», i modi di scrivere (quale lirico ed evocativo, quale gonfio, quale asciutto fino all’aridità, quale scintillante e ironico) incarnati negli Pseudonimi assumono risalto e significato solo entrando in relazione gli uni con gli

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altri: opponendosi e rispondendosi. E dunque, chiedersi se la ragione (l’intenzione) stia, nella Ripetizione, dalla parte del disilluso e troppo saggio Constantin Constantius o da quella del romantico giovane che gli si confessa, se in Aut aut sia l’inquieto e poetico A o invece il piatto e filisteo B - il giudice Vilhelm - ad avere più frecce al suo arco non ha più senso che domandarsi se il diarista anonimo di Colpevole? non colpevole? metta più intelligenza e più passione nella serie di appunti che redige ogni mattina o in quella (di tutt’altro tenore) che scrive a mezzanotte, sottraendosi con l’inganno agli occhi e alla nozione di tutti. E dunque - ancora - il significato complessivo degli Stadi, come quello dell’ancora più voluminoso Aut aut, andrà cercato più ancora nei vuoti che nei pieni della costruzione: nella combinazione precaria, asimmetrica, sbilanciata dei libri minori, tutti - anche il di­ scorso del giudice, che per professione e temperamento non dovrebbe lasciare nulla a metà - interrotti e sospesi; nel dubbioso colloquio interno dei generi letterari (la lettera, il saggio, il dialogo platonico, l’arringa, il racconto, il diario) dove a dire «io» sono voci ogni volta diverse, ora giovani, ora mature, arrochite dal vino o asciugate da troppo lunga pratica di carte e di libri. La dialettica con cui lavora Kierke­ gaard è la legge musicale del contrappunto; non è temporale e progressiva come quella di Hegel, ma statica e spaziale: e fatta di situazioni che non si evolvono, di «sfere» esistenziali chiuse,^'’ di immobili polarità intellettuali ed emotive in vertiM anca in particolare ad A u t aut, scrive Kierkegaard ironicamente, «la solu­ zione finale, la follia, il suicidio o roba del genere cui ricorrono soprattutto le scrittrici donne, e con una tale precipitazione da cominciare quasi da quella» (SV ix, p. 210). Il titolo non è l’ultima delle ambiguità del nostro libro; perché il concetto e la parola stessa di «stadi», che presuppongono un movimento di evoluzione (e sono perciò a buon diritto usati in A u t aut per disegnare, attraverso Cherubino, Papageno

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ginoso equilibrio sul Nulla: o, se preferiamo usare la frase di Frater Taciturnus, che pure di mistica si professa ignorante e incomprensivo, a galla su un baratro d’acqua alto settantamila braccia. È tutto quanto ci è possibile cogliere di che cosa veramente pensasse Kierkegaard; esattamente come, per sa­ pere che faccia veramente avesse - non esistendo di lui nessun ritratto, nessuna fotografia: negli anni stessi che ci hanno dato gli indimenticabili dagherrotipi di Balzac, di Scho­ penhauer e soprattutto di Baudelaire - , dobbiamo acconten­ tarci di immaginare una sua mutevole fisionomia capace, volta a volta, di dare materia ai nobili schizzi idealizzati del cugino e alle perfide caricature del giornale scandalistico a lui nemico, «Il Corsaro»: che ce lo fanno vedere camminare gobbo, a grandi passi, col cilindro di sghembo e l’eterno om­ brello stretto orizzontalmente sotto il braccio. « L ’incognito è il mio elemento» dice d’altra parte un’annotazione dei Diari «e anche in questo consiste la stimolante incommensurabilità in cui mi posso muovere.» G li Stadi sul cammino della vita, che presentiamo qui nella prima traduzione italiana, sono l’ultima opera pseudonima di Kierkegaard. L ’ultimo libro, dunque, dello scrittore gio­ vane, e forse in assoluto il suo più inquietante e più bello. A seguirne la storia nei Diari, lo vediamo pensato in origine come due libri indipendenti, tutti e due variamente aggane D on Giovanni, la parabola dell’eros musicale), mancano completamente nel testo; sostituiti da quelli, ben diversi, di «sfere di vita» autonome e reciprocamente imper­ meabili. N on ne è finora apparsa, in Italia, che la breve sezione iniziale. In vino veritas, che risulta talmente straniata dall’isolamento forzato da obbligare il migliore dei prefatori, N icola Abbagnano {In vino veritas, Rapallo, Ipotesi, 1982), a scusare in anticipo la fantasiosa misoginia nei discorsi dei convitati, «zeppi di pregiudizi ma­ schilisti o antifemministi, ispirati da pregiudizi già tramontati o diventati ridicoli nella cultura corrente».

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dati al modello di Au^ aut, ma, a differenza di Aut aut, collegati da un unico tema; lo stesso del Simposio platonico, la natura e gli effetti dell’amore, cui si aggiunge - nella prima parte - uno studio fenomenologico della «categoria» della donna. I due libri sono il lungo e sofferto Colpevole? non colpevole?, progettato in origine come il tassello mancante ad Aut aut: un Diario delVamante infelice in aperto contraltare a quello del Seduttore e con una vicenda di rinuncia erotica simile a quella della Ripetizione, ma scritto, contro le fluviali abitudini di Kierkegaard, lentamente e penosamente in quasi due a n n i . E una nuova versione del dittico su cui è costruito Aut aut, destinato a chiamarsi II dritto e il rovescio e a met­ tere ancora una volta a confronto il mondo «estetico» (rap­ presentato dal voluttuoso banchetto) e la sfera «etica» (rap­ presentata dal giudice Vilhelm, sposato, padre e «pilastro della società»). Contro tutte le apparenze, il numero di richiamo del libro - il brillantissimo In vino veritas, giudicato da Brandes «non inferiore al suo modello, il Simposio di Platone; e non esiste elogio maggiore»^^ - ha dietro di sé una composizione ecce­ zionalmente faticosa, fra secche delFimmaginazione ed ec­ cessi del p e n s i e r o ; e tuttavia ne svapora completamente il ricordo fin dalla felice, dubbiosa sospensione deU’attacco, Il racconto, come il Simposio stesso, si svolge a ritroso, rievo­ cato com’è in un atto di filtrata reminiscenza (o invece, du­ bita William, di filtrata invenzione?) da un testimone che «ha D al maggio 184 3 al marzo 18 4 5, dunque contemporaneamente a tutti gli altri libri pseudonimi. G . Brandes, Seren Kierkegaard, cit., pp. 1^6-57. Pap. V A 109; « In vino veritas non viene bene. L o riscrivo continuamente, ma non mi soddisfa. M i sembra di aver dedicato troppo pensiero all’argomento e di essere arrivato a uno stato d ’animo improduttivo».

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partecipato al banchetto senza prendervi parte», e forse non è personalmente nessuno, «meno che niente, non più del tratto che separa i fattori dell’addizione dal totale». Narra dunque, l’ambiguo osservatore che mette il suo nome in co­ pertina, di come cinque raffinati dandies della Copenaghen dell’epoca, due rappresentanti di una categoria più che di se stessi, e per questo senza nome - il Giovane, il Sarto - e tre al lettore di Kierkegaard già noti come scrittori o editori di altri libri, eppure invecchiati e cambiati - il Victor Eremita che aveva esitato sette anni a pubblicare Aut aut e qui, dice Kierkegaard, rappresenta « l’ironia simpatetica»;^^ il saggio e disincantato Constantin Constantius - «l’indurimento della ragione» - , frustrato una volta nel tentativo di provocarsi la ripetizione di un’esperienza perfetta e attento perciò a evi­ tare, organizzando il Banchetto, ogni ombra di possibile ri­ cordo; e Johannes il Seduttore - «la perdizione» stessa - che col suo diario aveva fatto venir male al pur congeniale e immaginoso amico A - , si mettano a escogitare la possibilità astratta di un banchetto che sia la suprema festa immagina­ bile dei sensi e della conversazione; e proprio per questo impossibile ad attuarsi mai, perché (anche a lasciarne da parte le eccessive esigenze pratiche) basterebbe la prefigurazione dell’attesa per rovinarne irrimediabilmente il piacere. E tut­ tavia uno dei cinque mette a sorpresa in atto il progetto quando già gli altri l’hanno dimenticato, e non risparmia at­ tenzioni per scacciare ogni anticipazione e riservare invece al momento di ingresso nella sala - con un accordo studiatis­ simo di luci, profumi, aria, musica e squisiti sapori - l’espe­ rienza di uno di quegli «istanti» estatici e perfetti capaci di Pap. VI A 41.

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far irrompere l’eterno nel tempo. Le condizioni soggettive dettate da Constantin, l’anfitrione, sono l’abbandono al vino fino all’estremo limite della coscienza, e solo allora - in vino veritas - un giro di discorsi sul tema del convito dov’era invitato Socrate, l’amore. Il modello famoso - il Simposio - è addirittura ostentato: e i suoi effetti durano molto oltre il banchetto, suggerendo alla monografia del giudice i miti di Eros e spingendo il Qual­ cuno della terza parte ad aggrapparsi, come a una tavola di salvezza, all’ultimo tema proposto da Socrate ai convitati che ormai cascano dal sonno, la «sintesi astratta e negativa» di comico e tragico. I discorsi dei cinque compagni di bevute rispondono a quelli dei cinque convitati che parlano prima di Socrate, ne condividono il taglio personale e la lunghezza, ne accentuano la misoginia e si concludono tutti, al modo di quelli, con un breve riassunto. Non basta: nelle parole di tutti affiorano continuamente reminiscenze greche, il mito dell’er­ mafrodito originario è variato in diverse versioni, volteggiano i nomi di Platone, di Aristofane, di Aristotele e indugia so­ prattutto il ricordo costante di Socrate, usato come vene­ rata pierre de touche degli effetti nefasti e grotteschi dell’a­ more. E tuttavia, è proprio il modello vistoso del Simposio a mettere in risalto la natura disperatamente incompiuta - a dispetto delle spese iperboliche e degli sforzi inventivi prodi­ gati da Constantin per una sua riuscita perfetta - di questo supremo tentativo di dare peso e concretezza all’istante este­ tico. Vuoti rimangono, infatti, il posto e il ruolo di Socrate, «nella cui persona l’Amore è reso sensibile, tanto che gli 100 gegrehet Ironi, S V i, p. 107. Com e anche nel saggio del G iudice e nel diario del quidam.

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elogi dell’amore sono in definitiva elogi di Socrate». L ’ar­ gomentazione ha così perduto il suo centro magnetico, e troncata sul nascere è la spinta dialettica che avrebbe dato elasticità e direzione alle contraddizioni reciproche degli ora­ tori. Tace il grande discorso mediatore di Diotima sui poteri di elevazione che possiede solo l’amore, potenza «in mezzo» se mai ve ne furono: demone e filosofo, né immortale né mortale, né povero né ricco, «duro, squallido, scalzo, pere­ grino, uso a dormire nudo e frusto per terra, sulle soglie delle case e per le strade, le notti all’addiaccio... e curiosissimo d’intendere, ricco di trappole... terribile ciurmatore, stregone e sofista». Infine, tutti i discorsi sono, in sé, «coerenti fino alla disperazione»;^®'^ ma a guardare meglio (gli ascoltatori al tavolo colgono subito la nota falsa), appaiono orientati non su un oggetto positivo - l’affermazione trionfale e sprezzante, per esempio, della superiorità dell’uomo sulla donna, della «riflessione» sull’«immediatezza» - , ma su una mancanza, su un fallimento e un rimpianto. Che trionfo impensato per la «categoria» femminile, bersaglio di tanti studiati vituperi, tante galanterie velenose! Frase dopo frase, il Simposio moderno si rivela una ge­ niale, dolorosa parodia dell’antico. A tentare di parlare in termini filosofici è solo il Giovane - «la malinconia del pen­ s ie ro » , bello come Agatone o come Alcibiade - che dell’a­ more si dichiara inesperto e incomprensivo, ma vuole imbar­ carsi ugualmente neU’«esperimento intellettuale» di definire l’amore - platonicamente - dal suo inafferrabile oggetto, l’aBegrebet Ironi, S V i, p. 102. Simposio, 203 d (tr. it. P. Pucci, Bari, Laterza, 1974). S V IX, p. 250. Pap. VI A 41.

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mabile e - aristotelicamente - dagli effetti sul suo strumento, ramante. Tutti gli altri irridono alle definizioni universali e disegnano invece (non sono «pensatori privati»?) una perso­ nale teoria, reattiva e difensiva, dell’occasione d’amore, la donna; chiudendola in una «categoria» dove non faccia danni, prescrivendone un uso «piacevole», pregustandone una raffinata vendetta. «Essere una donna è una cosa così strana, così mista, così composita che nessun predicato lo esprime.» Un’esistenza femminile è cosa «tutta fantastica». La donna è come l’istante: segna l’ingresso dell’idea nella vita, «desta la coscienza dell’immortalità», ma sempre negati­ vamente, sottraendosi. E come l’istante la donna è un nulla, una- vuota astrazione «intercambiabile all’infinito entro la stessa equazione», «un nome collettivo», un sogno, «una nebbia di notti estive»... La donna è «il centro invisibile di un rapporto negativo», capace di creare santi, geni, eroi, poeti solo in forza della perdita e del rimpianto. Perdita, rimpianto, nebbia, negazione... Che desolato con­ trocanto dentro le voci scaldate, esaltate dal vino, e quanti presentimenti sinistri accompagnano il convito fin dall’inizio: la squadra dei demolitori già pronta sulla porta, l’onda del desiderio che irrompe «più terribile di una morte di stenti», l’ossessione non detta di una prossima frattura, di un’inade­ guatezza nascosta, di un disturbo. Il Giovane che intona la nota del ridicolo, Constantin quella dello scherzo sciocco e incomprensibile, Victor che parla di morte fin nell’allocu­ zione d’esordio... «Com ’è facile dare un banchetto, eppure Constantin ha assicurato che non ci si proverà mai più!» Co­ me la coppa che Constantin scaglia contro il muro, l’«istante» supremo della cena, pieno all’inverosimile di sensazioni, di parole, di idee, si rivela all’improvviso una vuota «liba­ gione agli dèi inferi», sacra solo all’annientamento e all’o­

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blio. I convitati fuggono dalle rovine del banchetto «come dalla porta della morte», e si trovano a vagare nell’alba - i voyeurs di tutta una vita! - con l’aria «unheimlich [conturban­ te]» di «sorvegliati dalla polizia». Gli eleganti uomini di mondo somigliano ora a «spettri sorpresi dallo spuntare del giorno, a esseri infernali incapaci di ritrovare il crepaccio dove sparire, perché visibile solo nelle tenebre, a infelici che hanno visto scomparire la differenza tra il giorno e la notte nella uniformità della sofferenza». Come il Serpente della Genesi, si avvicinano allora a un «giardino recintato»: l’Eden borghese di una casa di campagna dove si è isolata una coppia di sposi felici, evidentemente convinti di essere il primo uomo e la prima donna del creato. Il marito felice, in cui riconosciamo il solito giudice Vilhelm di Aut auty un po’ invecchiato e incupito (significherà pure qualcosa, che Kierkegaard non si sia curato di cercare un’altra maschera per il suo «uomo etico»!), ha scritto e la­ sciato sul tavolo - proprio perché gli «esteti» glielo rubassero e ne imparassero qualcosa - un memoriale. Una vera e pro­ pria arringa difensiva in risposta a presunti attacchi contro il matrimonio; un pendant fintamente involontario alle irrisioni di Victor e al tragico peana a più voci dedicato in vino all’i ­ stante. Il matrimonio, aveva dunque detto Victor, somiglia alla carne di tartaruga, che «sa di tutto un po’ »: di divino e di mondano, di borghese e di erotico? Il matrimonio, risponde il Giudice, assomiglia a un viaggio intorno al mondo, allo studio di tutte le lingue, alla conoscenza di tutte le differenze nazionali. «Sposati, e te ne pentirai; non sposarti, e te ne pentirai lo stesso» aveva detto, in apertura di Aut aut e citando Socrate, il brillante (lo chiameremo studente?) A?

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Sposati, sposati comunque: che tu abbia o non abbia il tempo di viaggiare, la capacità di imparare le lingue, Fintelletto di scoprire un nuovo sistema astronomico «che soppianti sia il copernicano che il tolemaico», gli ribatte Vilhelm in apertura della sua arringa. Tutto il discorso del Giudice, così attentamente costruito, così esclamativo, così retoricamente concluso, ha in realtà fuori di sé il suo baricentro: è un discorso di battaglia, di­ ce Kierkegaard altrove, non più, come nelle «carte di B» in Aut auty una cordiale e comprensiva lezione. Sono le «obiezioni» del titolo a dettargli gli argomenti: a cominciare dall’elogio di Eros nel Simposio, cui risponde, qui, l’esalta­ zione della divinità cristiana del matrimonio; a seguire con la contrapposizione - agli ideali «estetici» dell’istante, del desi­ derio e del viaggio - della meta (il telos), della pace dell’a­ nima e della durata nel tempo. I Convitati vengono rimbec­ cati uno per uno: la «scelta negativa» dell’Eremita è scartata per la «positività» della risoluzione; le «categorie» descrit­ tive di Constantin superate nell’unica «categoria» normativa della scelta di sé; sferzato duramente è l’elogio dell’amore in bocca «all’impudente seduttore»; e il Giovane che voleva accertare ragionando, prima di decidersi ad amare, che cosa fosse «l’amabile» («povero ragazzo!»), sinceramente com­ pianto. Eppure, quante gaffes, disseminate astutamente nel di­ scorso del Giudice, rendono quasi parodica la sua apologia del matrimonio (dove «la bellezza della donna non fa che crescere»!); quanti segnali di un pensiero nascostamente doppio e dubbioso! Davvero Vilhelm spera di dare a bere al suo «caro lettore» che Omero aveva torto, e che Ulisse >0* Afsluttende uvidenskabelig Efterskrift, S V ix, p. 247.

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avrebbe visto e capito altrettanto, se non di più, non muoven­ dosi di un passo dal fianco di Penelope? Come dobbiamo interpretare - pensando a quanto caro Bidone abbia pagato l’espediente - la similitudine del matrimonio con la pelle di bue di cui parla Virgilio: dilatata fino ad abbracciare la super­ ficie della futura Cartagine, ma pronta a restringersi l’attimo dopo, aggiunge Kierkegaard, come (l’accostamento è irresisti­ bile) la fatale Peau de chagrin>^^i Dunque la debolezza della donna (qui il Giudice risponde alla tirata di Victor Eremita sul «sesso debole») somiglia al laccio molle e leggero come la seta, eppure capace, nella mitologia nordica, d’imprigionare il lupo Fenrir fino aU’Ultimo Giorno? Ma come dimenticare l’uso della stessa figura in un aforisma non troppo lontano sulla malinconia: «una catena che è fatta di oscure fantasie, di sogni angosciosi, di pensieri inquieti, di paurosi presentimenti, d’inspiegate a n g o s c e » ? E finalmente: come suonano volutamente goffe, le metafore finanziarie e bancarie (siamo in piena età Biedermeier) - lettere di credito, obbligazioni, ipoteche - buttate lì a rappresentare cose dello spirito e va­ lori eterni! «Una moglie è la più importante delle contro­ firme»; «un uomo che per la sua fede nella bontà e sapienza di Dio è milionario e più solvibile della Banca di Londra»! Se a raccontare il Banchetto come un’orgia estatica sotto l’ala della morte, se a cogliere, nell’irridente sfavillio dei di­ scorsi, la nota falsa e addirittura lacrimosa era stata l’ironia (astratta e macabra) di qualcuno che c’è e non c’è, perché non sospettare la stessa doppiezza - rovesciata - nelle ConsiBenché esista uno studio molto ben fatto sui rapporti di Kierkegaard con la letteratura francese (R. Grimsley, S0ren Kierkegaard and French Literature, Cardiff, University of W ales Press, 1966), non mi risulta che qualcuno abbia studiato un suo eventuale, e stuzzicante, debito con Balzac (l’autore, fra tanto altro, della Physiologie du mariagel). S V II, p. 36.

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derazioni attribuite al giudice Vilhelm: che indubbiamente c’è, pesa, getta ombra, e lo documenta aprendo qua e là in quello che dice scorci del suo modo di vivere e di lavorare? Come mai nessuno (l’abbiamo imparato da Aut aut) si in­ tende come il giudice di malinconia, fino a saper leggere unico in tanti secoli - nella crudele maschera di Nerone «un’angoscia che non cessa neppure all’istante del godi­ mento»; che nessuno più di lui capisce il lato astratto, cerebrale della sensualità («la deificazione della carne dimo­ stra che la carne è diventata indifferente all’intelletto»), ma anche che la sensualità è «un serpente», capace a ogni mo­ mento di vendicarsi sui «puri spiriti» come ha già fatto con Faust? E non l’abbiamo visto in precedenza, il giudice, sot­ trarre anche alla moglie le sue ore di cupezza notturna, di insonnia solitaria? Come lo conosciamo, questo motivo della malinconia di mezzanotte, dal Diario e dall’opera pubblicata di Kierkegaard! Invecchiato, qui, di qualche anno, Vilhelm non ha perduto questo rovello nascosto: come non ha smesso di andare a sentire il Don Giovanni, e di leggere Miinchhausen o l’autobiografia «poetica» di Goethe. «Forse, der heitere [il sereno] Goethe era un po’ malinconico, e il saggio Goethe aveva una buona dose di superstizione...» Forse, il concreto Giudice ha una buona dose di astrattezza, dato che si dimostra familiare con « l’angelo sterminatore» della rifles­ sione almeno quanto l’acerbo A, Messi, da tanti ironici segnali, sull’awiso per cogliere sotto l’equilibrio apparentemente filisteo del discorso del Giudice - una vena profonda di scontento e di dubbio, non dovrebbe giungerci del tutto inaspettata la smentita, nella sua conclusione. Eppure, sconvolge ugualmente il pathos di Cfr. A . Cortese (a cura di), Enten eller, Milano, Adelphi, 19873-89, v, p. 57.

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queste pagine profetiche, che si abbandonano dietro tutta la lunga argomentazione dedicata alla celebrazione della norma {det Almene) per prefigurare, invece, l’eccezione che infran­ gerà e supererà quella norma, e «che forse non esiste». Che anche il Giudice, come Constantin, come Frater Taciturnus, si diletti di psicologia sperimentale, studiando comportamen­ ti così singolari da andare «al di là della sua comprensione»? Eccolo disegnare in tutte le tappe, con voce solenne e com­ mossa, il caso di un innamorato, e marito, felice, amante della vita, e che tuttavia un’incurabile malinconia condanni all’«astrazione religiosa» della rinuncia: conduca, cioè, a spezzare il suo legame «come chi abbia curvato fino a terra, nell’inna­ moramento, il ramo della felicità e ora lo tagli, scagliandosi da sé con la sua forza nei tormenti mortali» della solitudine, del rimpianto e della colpa. Fortuna che il Giudice «non capisca» personalmente que­ sto delirio, questo martirio; fortuna che, sentendo la moglie aspettarlo affettuosamente fuori della porta, si affretti a con­ cludere qui - prima che sia troppo tardi - un’arringa che si è già distrutta irrimediabilmente da sola: lasciando «la penna» a qualche «disgraziato scrittore» più notturno e più tremante di lui davanti ai fantasmi del pensiero. Sarà «l’eccezione» stessa (che dunque esiste: ma ha di sé un tale orrore da spro­ fondare quello che ha scritto per oltre un secolo in fondo a un lago) a riprendere quella penna nella terza, e più ampia, sezione del libro. Il lungo diario Colpevole? non colpevole? racconta una breve «storia di passione»: nei due sensi, di trasporto e di patiS V IX, p. 24 1. «Passione» (Lidelse, che in danese significa anche sofferenza), scrive qui Kierkegaard, allude sia al genere romantico dei L ^ d e n , introdotti dai Werther, sia, e soprattutto, alla categoria dell’interiorità religiosa.

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mento. Una vicenda d’amore infelice che - Kierkegaard fa di tutto per ricordarcelo, con una curiosa associazione di reti­ cenza e di esibizione - ripete nelle sue linee esteriori quello che il giovane Lukàcs chiama «il G e s t o » . L ’esperienza, cioè, senza confronti più sconvolgente nella vita dello scrit­ tore, già adombrata nella vicenda di rinuncia erotica della Ripetizione’, la sua unica, e fallita, decisione attiva; il solo tentativo di sfidare l’agorafobia che lo sequestrerà fino alla morte nella bella casa paterna; la prima e l’ultima relazione profonda - molto più duratura dell’effimero legame esterno - con qualcuno che non fosse la Riflessione dei giorni e delle notti. È questa, come tutti sanno, la vicenda del tragico e misterioso fidanzamento fra lo scrittore venticinquenne, in realtà «più vecchio di lei di un’eternità», e la diciassettenne Regine Olsen, appartenente a una buona famiglia borghese della capitale: non solo «una cara ragazza», come dice sprez­ zantemente Frater Taciturnus della fidanzata del Qualcuno, ma intelligente e sensibile. Fu Kierkegaard - dopo aver ten­ tato, anche crudelmente, di stancare e di esasperare la fidan­ zata - a rompere di forza, dopo appena un anno e un mese: nell’ottobre del 1841. Il legame, come i Diari fanno sospettare, era stato quasi subito condannato dalla terribile malinconia (la «spina nella carne») che avrebbe reso sempre impossibili a Kierkegaard - non meno che al Simeone Stilita cui così spesso si paragona - anche gli impegni primari della vita sociale. Ancora i Diari^^^ (che, pure, non sono un docuDie Seele und die Formen, Essays (1911), N euw ied und Berlin, Luchterhand, 19 7 1, p. 44. H. Fenger, Kierkegaard, thè Myths and their Origins. Studies in thè Kierkegaardian Papers and Letters, N e w H aven and London, Yale U .P ., 1980. N . Viallaneix, Kierkegaard et Régine Olsen: le témoignage des Papirer, in A . Cortese (a cura di), Kierkegaard oggi, M ilano, V ita e Pensiero, 1986.

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mento intimo ma il disegno di un itinerario intellettuale)^^'* parlano per anni del lacerante senso di colpa davanti alla disperazione della ragazza, del rimpianto, del dubbio, di ten­ tativi di riconciliazione; e finalmente di un vero e proprio mito personale, che fa di Regine l’educatrice, nella rinuncia, a un più alto rapporto con Dio. Che Colpevole? non colpevole? - pubblicato probabilmente, come la Ripetizione, con un messaggio cifrato alla ragazza sia il più autobiografico dei suoi libri (con episodi reali inse­ riti e la lettera di rottura fedelmente ricopiata) è dunque Kierkegaard stesso a impedirci di dimenticarlo. Proprio per questo motivo è sicuramente, anche, il suo libro più imperso­ nale e il più astratto. Non abbiamo forse imparato a cono­ scere, dagli Pseudonimi, la regola ironica del discorso per contrasto, la legge parodica della comunicazione sempre sviata e indiretta? E non abbiamo scoperto nei Diari, non destinati alla pubblicazione - venti volumi di riflessioni sui fatti della sua vita «senza un solo chiarimento sulle cose che l’hanno essenzialmente riempita» - , la grandiosa tenacia del­ lo scrittore a rifiutare di parlare di sé perfino all’altro se stesso rilettore di questi appunti notturni? È una segretezza perversa ed eroica, su cui Kierkegaard scommette più dell’immagine, più della vita personale. «Tutti quelli che sanno ta­ cere diventano figli degli dèi.» Ma anche (qui è il Qualcuno a parlare): «c’è un che di subdolo nel voler tacere tanto a lungo, di demonico nel saperlo fare». Possiamo contare, qui, non solo sulla stessa eroica segretezza, ma sulla regola dei contrasti e della comunicazione indiretta che avevamo impa-

M. Blanchot, Faux pas, Paris, Gallimard, 1943 (tr. it. Passi falsi, Milano, 'garzanti, 1976, p. 25).

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rato a conoscere dagli Pseudonimi. È probabile, quindi, che siano i libri più altamente teorici a nascondere un segreto rovello personale, e quelli apparentemente autobiografici a trattare i problemi più universali e più astratti. Non si interrompe forse, il diario del Qualcuno, senza poter terminare - ché il suo conflitto non è la storia di una battaglia col destino, ma una «categoria» dell’interiorità, eterna e chiusa - , dichiarando espressamente di «non parlare di nulla», di «non contenere nulla» e proprio per questo di somigliare «alla vita più greve»? Può darsi che arriviamo a vedere con impressionante chiarezza, nella spossante «autoflagellazione» {Selvplageriet) che gli dà voce, non solo il tema diretto - gli orrori e le vertigini della rinuncia erotica ma la forma stessa del pensiero in cui Kierkegaard ingabbia, fingendo altro, l’immensa e varia «materia» (il Nulla?) di tutti i suoi libri. Può darsi che questa forma - la spirale sempre più stretta nata, per una sorta di legge dinamica del­ l’intelletto, dall’equilibrio fra la spinta binaria della dialettica e l’espansione centrifuga delle «possibilità» - si manifesti qui per la prima volta come uno strumento di tortura piuttosto che come un attrezzo per la fabbricazione artigiana di sé. Non evoca forse ossessivamente, la fantasia del Qualcuno, tenaglie, viti e cavalletti: non paragona, da un capo all’altro del libro, se stessa alla farfalla straziata, all’insetto mutilato, al mollusco martoriato dalla crudele incoscienza di un bam­ bino? Impossibile identificare più, come faceva Shakespeare, quel bambino con «gli dèi»: e che altro allora vedervi se non «la spia e il traditore» che è la propria riflessione? La prima e più vistosa figura a spirale è la costruzione stes­ sa del diario: architettato, secondo un’idea forse rubata a

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Swift “ 5 - ma spiegata al lettore solo dopo averlo sconcertato per venti pagine - , come una doppia serie di annotazioni, una mattutina e una condotta da mezzanotte alle due («non un minuto di più»): che sovrappongono pensieri ed emozioni divisi esattamente da un anno. Il rito ha funzione tanto auto­ terapeutica (il diarista non è uno «psicologo sperimentale» meno agguerrito del suo editore: nello stesso corpore vili s’in­ contrano, qui, il confessore e il paziente della Ripetizione) che simbolica e celebrativa. Scrivendo la mattina per sei mesi di seguito, infatti, il Qualcuno sviluppa il suo «lutto». Riper­ corre, cioè, in pellegrinaggio mentale la vicenda del suo tor­ mentoso fidanzamento: avvelenato, prima ancora di comin­ ciare, da dubbi e presentimenti di inadeguatezza («ha diritto di sposarsi, una guardia di frontiera?»), mutilato, come da «una gamba di legno», dalla riflessione con cui il Qualcuno è nato e cresciuto. Poi, appena cominciato, rovinato dallo scontento ipocondriaco che è la familiare malattia del Qual­ cuno, la «tristezza» (Tungsind),^^^ la «clausura» {Indesluttethed), l’irrequietezza, il sospetto: «Tutto qui, il fidanza­ mento?». Come in un famoso frammento di Saffo, il diarista «è inquieto come l’angosciato turbine del bosco prima del temporale»: ma sa bene che non è Eros, stavolta, a «squassare le querce». Già il giorno dopo, lo sorprende un Il Journal to Stella (1710 -13) consiste, abbastanza programmaticamente, di an­ notazioni prese dallo scrittore la mattina a letto - puntellato dai cuscini, con le lettere di Stella sparse sulla coperta e il fluire ancora intorpidito del pensiero - e la sera immediatamente prima di andare a letto: assonnato, rievocativo e fantasticante, owift stesso, in un’ipostasi particolarmente dolorosa, compare in apertura del primo degli intermezzi narrativi mensili: Una tranquilla disperazione. Kierkegaard distingue fra due tipi di malinconia, Melancholi (lo spleen di cm tte re «estetico») e Tungsind (la «malinconia religiosa»), un grado più avanzato e riflesso della stessa malattia del desiderio per l’infinito (V .A . M cCarthy, «Psycho°&ical Fragments»: Kierkegaard’s Religious Psychology, in J. H . Smith, a cura di, terkegaard’s Truth: The Disclosure of thè Self, N ew Haven and London, Y ale U .P .,

1981, pp. 254-58).

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introduzione

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violento senso di estraneità per queirirriflessa natura femmi­ nile che gioca a casaccio «con pietre preziose e fondi di botti­ glia». L ’estraneità sviluppa un’irritazione che confina al di­ sgusto («quella felicità puerile, quella facilità nel mondo che non capisco e per cui non posso provare simpatia»). Dopo qualche settimana, dal disgusto è ormai cresciuta una «sorda collera» contro la ragazza: che invece di sforzarsi di capire la «disposizione religiosa» di lui è tutta presa dal suo amore come una bambina che culla la bambola («perché non è morta subito?»), A questo punto succedono precipitosamente - complicati da sensi di colpa, che mettono in moto intrighi e macchinazioni per liberarsi della ragazza senza distrugger­ la - il pentimento del legame assunto («un terreno dove non mi era permesso avventurarmi»), un’appassionata «nostalgia di se stesso», un segreto desiderio di ritrovarsi («ah, se po­ tessi tenermi le mie fantasie; con loro sono abituato ad avere a che fare»), e la tentazione di fuga nelle regioni eccitanti e ignote del Religioso: dove nessuno, e tanto meno la «cara ragazza», potrà mai venire a stanarlo. Scrivendo, invece, nella tenebra della notte, quando «i morti sorgono dalle tombe» e «tutta la prospettiva della vita è falsata e prende un aspetto fantomatico» - a casa sua dentro quel silenzio (lui «che non ha mai vissuto») dove «nessun rumore e nessuna voce umana limitano l’infinità del pensiero e dei pensieri» - , il Qualcuno si sforza di perfezio­ nare l’«arte di danzare sugli abissi» in cui è maestro, fino a raggiungere la conciliazione e la compensazione della per­ dita. Una volta infranto il fidanzamento nella realtà, un anno prima, ha infatti «preso ad amare perdutamente» nell’eterno, e tenta ora, per salvare quell’amore, una dopo l’altra le tec­ niche deli’eterno: la reminiscenza, la dimenticanza, la «ripresa>^. Impossibile: è colpevole di un delitto, qui e ora.

Di un delitto? Spia la ragazza senza riuscire a decidere se il pallore di lei significa che muore o che vive; intriga «da mattina a sera» - «Dio approva gli intrighi» - per «salvarla» dandole a credere che la loro storia è stata un miraggio e un inganno; per spingerla «come un padre, come un tutore» fra le braccia di un ipotetico primo amore. Inutile: le sue sotti­ gliezze producono soltanto fantasmi che lo stancano e lo con­ fondono, Il suo «virtuosismo si vendica» di lui: le ipotesi, le fantasie e perfino il dolore gli si stringono intorno come con­ turbanti spettri erotici, Com’è contraddittorio, il combattimento danzato del Qualcuno per conciliare - alla scuola di Socrate - comico e tragico, il sé vissuto e il sé riflesso, «la carne e il sangue» e «lo spirito», Tanno del fidanzamento e quello del lutto! Da un lato gli sussurra «il demone del riso» - più suggestivo in chi più soffre - che vuole ridurre la sua sfortunata vicenda amorosa, come tutte le cose umane, a p o c h a d e . Dall’altro, una tristezza che «in tutte le direzioni cerca il terribile» gli fa risuonare all’orecchio l’urlo dei lupi, ma lo attira anche (forse) «a conoscere Dio», Da sempre più congeniale con la malinconia, il Qualcuno si inoltra, la notte, nei tremendi de­ serti del tragico. Inventa exempla, più che vere novelle, dove mette in oscurissima cifra le radici profonde della sua ma­ lattia, Scrive pastiches - della Bibbia e di Erodoto - inÈ necessario ricordare il fortissimo interesse di Kierkegaard per il teatro, e in particolare la commedia - H olberg e Scribe - , durato tutta la vita e attestato da innumerevoli citazioni. Deleuze (Differenza e ripetizione, Bologna, Il Mulino, 19 72, p. 22) fa notare, inoltre, l’inconfondibile tratto registico sia nel trattamento degli Pseudonimi, sia nelle differend sceneggiature abbozzate, una dopo l’altra, in Timore e tremore, per rendere conto della storia di Abram o e di quella di Agnese e il tritone. L ’ ossessione - centrale in tutti gli inserti narrativi del cinque del mese - di misteriose colpe paterne ha fatto naturalmente drizzare le orecchie ai biografi di Kierkegaard, allenati da generazioni a rimuginare sulla natura esatta del «terrem o­ to » che sconvolse l’adolescenza dello scrittore (cfr. H . Fenger, op. cit.).

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torno a grandi figure scisse e colpevoli, Davide, Nabucodonosor, Periandro; si addormenta calandosi eroicamente dentro di loro. E la mattina dopo si condanna a spostarsi di nuovo sul piano contingente del comico, al di qua dell’abisso: della minuta rievocazione della giornata di un anno prima dove ha recitato abilmente due parti per allargare sempre di più l’incomprensione fi:a la sua fidanzata e lui. Spera forse che questa danza in tondo - avvitata progressi­ vamente su se stessa e verso il basso - sul vuoto che corre fi:a l’ora e l’allora: una danza incessante pur nelle intermittenze e possibilmente eterna (a sei mesi di tormento seguono infatti sei di «letargo», fino allo strappo anniversario del dolore) guidi, come quella rituale dei dervisci, all’ultimo stordimento e alla visione estatica? A quanto ce ne dice, la danza ha finora evocato soltanto vertigini e visioni di caduta: il Vortice primi­ genio dei presocratici, il turbine devastante del vento nel bosco, i gorghi del naufragio sul mare in tempesta, l’oscilla­ zione della colonna di Simeone Stilita e la forma stessa che tutte le accomuna: il moto continuo a spirale che punta irresi­ stibile verso il baratro, desiderato e temuto. Lo stesso amore che nel Fedro metteva le ali all’anima, negli Stadi si manifesta dunque come il più grave dei pesi, che sfianca e precipita. La vertigine «semplice» che l’A di Aut aut aveva cono­ sciuto nel confimum della Noia rappresentava, l’abbiamo ca­ pito, una nostalgia di assoluto: lo «smarrirsi nell’infinito» di un’immaginazione troppo a r d e n t e . ^20 vertigine «di se­ N on sarà dunque un caso se Adorno sceglie a motto del suo libro giovanile su Kierkegaard una frase del Maelstròm di Poe. I l libro su A d ler (Bogen om Adler, 1846-47), Pap. v ii B 235. Cfr. anche J. M. Hoberman, Kierkegaard on Vertigo, citato alla nota 62.

INTRODUZIONE

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condo grado» che il Qualcuno sperimenta nella sua «danza» disperata dentro l’ultimo e più drammatico confinium quello fra l’infinito e il finito - è più ambiziosa e più alta. Deriva, infatti, da una sorta di luciferina diplopia cui si giunge dopo un lungo, solitario esercizio spirituale di «dialettica astratta»: la slogata «visione duplice» degli estremi, protesa a un tempo sull’infinito e sul finito e punita - per aver voluto vedere troppo - col «non riuscire a vedere più n u l l a » . ^21 È una figura di vuoto e di cecità, quella rac­ chiusa nel progressivo avvicinamento delle parentesi: nell’in­ castro, sempre «più povero di significato e più ricco di senso» di prefazioni e postille, che imita l’andamento «epigrammatico», enigmatico, dell’esistenza. Nei libri succes­ sivi di Kierkegaard (non più pseudonimi) scompariranno tutti i sintomi di nausee, smarrimenti e vertigini: perché lo sguardo sceglierà di spaziare ormai soltanto nei paesaggi del­ l’infinito. Ludovica Koch

Il libro su Adler, cit.

B IB L IO G R A F IA E SSE N Z IA L E

I.

Edizioni delle opere

s.

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L. AM O R O SO



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STA D I SUL CAM M INO D E L L A V IT A Studi di autori diversi Raccolti, dati alle stampe e pubblicati da Hilarius il Rilegatore^

7. Riviste e serie specializzate Bibliotheca Kierkegaardiana, i-xiv, K0benhavn, Reitzel, 1978-88, Kierkegaardiana, udg. af S0ren Kierkegaard - Selskabet, 1955-.

^ Con Hilarius, artigiano di modesta cultura e goffa espressione, comincia, nel libro, il gioco degli Pseudonimi, che vedrà via via succedersi il misterioso W illiam Afham (che dice di sé: «io sono meno che niente»), il giudice Vilhelm (l’interlocu­ tore «e tico » di A u t aut), lo «psicologo sperimentale» Frater Taciturnus e l’ anonimo diarista che gli serve da cavia, il quidam/Q^t^cxìno di Colpevole? non colpevole?.

L E C T O R I B E N E V 0 L 012

Ci vuole onestà in tutto, e soprattutto nel regno della verità e nel mondo dei libri. Ad evitare che qualche esimio professore o personaggio illustre possa adombrarsi del fatto che un rile­ gatore trascuri il suo lavoro per intromettersi impunemente nel mondo della letteratura, una sfrontatezza capace solo di attirare giudizi severi sul libro e di far sì che molti, in di­ sdegno al rilegatore, non lo leggano affatto, ecco la vera storia di quest’opera. Diversi anni fa un letterato di mia conoscenza mi mandò un bel po’ di libri affinché io li rilegassi, ìtem diversi fascicoli di manoscritti da rilegare in-quarto. Essendo quello un pe­ riodo di intenso lavoro e visto che il signor Literatus,^ da uomo gentile e accomodante qual egli era, non aveva fretta, i fascicoli rimasero da me - mi vergogno a dirlo - per più di tre mesi. E, proprio come succede secondo il proverbio te­ desco Heute roth, morgen e proprio come dice il prete: la morte non guarda né condizione né età, e come pur diceva la mia povera moglie: quella strada dobbiamo farla tutti, ma il Signore sa quando è il momento giusto ed è così che av^ A l benevolo lettore!

^ Letterato, critico, professore di letteratura. ^ «O ggi rosso, domani m orto»: cioè, la morte viene quando meno la si aspetta.

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viene con l’aiuto di Dio, come per l’appunto succede che anche le persone migliori devono andarsene da qui, il signor Literatus nel frattempo morì e ai suoi eredi, che vivevano all’estero, toccarono per diritto di successione i suoi libri, e io, in virtù dello stesso diritto, fui pagato per il mio lavoro. Da onesto lavoratore e buon cittadino che dà a ciascuno il suo, non mi venne mai il dubbio di non aver spedito tutto quello che era del signor Literatus, fin quando un bel giorno trovo un pacchetto di fogli manoscritti. Inutilmente mi scer­ vello per ricordare chi abbia potuto mandarmeli, che cosa se ne debba fare, se si debbano rilegare, penso insomma a tutte quelle cose a cui un rilegatore può pensare in simili circo­ stanze, o se non si tratti invece di un errore. Finalmente alla mia povera moglie, allora ancora in vita e prezioso aiuto e sostegno nella mia attività, viene l’idea che quel pacco si trovasse nella cesta in cui erano stati spediti i libri del signor Literatus. Me ne convinsi anch’io, ma ormai era passato tanto tempo e nessuno aveva pensato a richiedere il pacco, sicché pensai: di certo non ha un grande valore, e lasciai i fogli in un angolo, non senza averli però rilegati in una brossura colo­ rata affinché non si sparpagliassero nel negozio, come diceva sempre la mia povera moglie. Nelle lunghe sere d’inverno, quando non avevo altro da fare, talvolta prendevo il libro e lo leggevo per mio diletto. Ma non posso dire che il diletto fosse grande, poiché non capivo granché, e tuttavia mi divertivo a meditare su che cosa mai volesse dire. E siccome era in gran parte scritto da una mano esperta in calligrafia, di tanto in tanto ne facevo rico­ piare una pagina ai miei figli perché imparassero a condurre bene la penna a forza di riprodurre le belle lettere e gli svolazzi. A volte dicevo loro di leggere ad alta voce per abi­ tuarsi alla lettura di testi manoscritti, cosa a scuola del tutto e

LECTORI BENEVOLO!

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inspiegabilmente trascurata, e che probabilmente verrebbe trascurata ancora a lungo se il signor L Levin,^ letterato eme­ rito di cui parlano i giornali, non avesse cercato di rimediare a questa lacuna e non mi avesse insegnato a scoprire la verità delle parole della mia povera moglie: «la lettura è necessaria in numerose circostanze della vita e non dovrebbe mai essere trascurata a scuola». A che serve scrivere se non si è in grado di leggere ciò che si è scritto, come dice Henrich nella com­ media: «certo che sa scrivere il tedesco, ma non sa leggerlo»?^ Il mio figlio maggiore compiva ormai dieci anni, quando l’estate scorsa pensai di fargli dare un’istruzione più meto­ dica. Da una persona rispettabile mi venne raccomandato come particolarmente adatto un seminarista studente di filo­ sofia, che non mi era sconosciuto, da cui anzi avevo spesso sentito pronunciare parole edificanti durante la funzione ve­ spertina a Vor Frelsers Kirke.^ Sebbene non fosse riuscito a conseguire la laurea e avesse rinunciato definitivamente a ul­ timare gli studi di teologia, avendo scoperto di essere un letterato e un poeta (parole sue), egli era tuttavia molto istruito e faceva delle belle prediche, ma soprattutto aveva una bellissima voce quando parlava dal pulpito. Ci accor­ dammo perché, in cambio della cena, impartisse al ragazzo due ore di lezione al giorno per insegnargli le materie più importanti. Fu una vera fortuna per la mia modesta casa che il sud’ N el febbraio 184 5, Israel Salomon Levin (segretario di Kierkegaard per pa­ recchi anni, e in seguito noto filologo e scrittore) aprì una campagna per sollecitare contributi manoscritti a un suo Album calligrafico di contemporanei danesi, uomini e donne (1846), destinato a esercitare gli scolari nella lettura dei manoscritti. ^ L . Holberg, Jacob von Thyboe, i, 4 (dove a pronunciare la battuta è un perso­ naggio che si chiama Per, non Henrich). ’ Chiesa settecentesca nel sobborgo di Christianshavn, con una guglia a spirale modellata su quella borrominiana di Sant’Ivo a Roma.

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detto seminarista e studente di filosofia divenisse il precettore di mio figlio, poiché non solo Hans fece grandi progressi, ma io stesso divenni debitore di questo brav’uomo per qualcosa di molto più importante, che ora vi racconterò. Un giorno il seminarista nota il libro rilegato in brossura colorata, che io avevo usato per fare studiare i miei figli. Ne legge qualche riga, poi mi chiede di prenderlo in prestito. G li dico, come in effetti penso: «Può tenerlo; ora che mio figlio ha un precet­ tore che gli insegna a scrivere, a me non serve più». Egli, però, era troppo corretto per accettare, come capii in seguito, così lo prese in prestito. Tre giorni dopo, lo ricordo come fosse ieri, era il 5 gennaio di quest’anno, viene a casa nostra e dice di voler parlare con me. Pensai che forse voleva aprire un piccolo prestito; macché! Mi porge il ben noto libro e dice: «Caro signor Hilarius, lei probabilmente non sa che dono magnifico la Provvidenza abbia fatto alla sua casa con quel libro di cui lei stava per disfarsi con tanta facilità. Quel libro vale oro, purché finisca nelle mani giuste. È stampando libri utili come questo che si contribuisce alla diffusione di conoscenze utili e buone tra i ragazzi di oggi, ora che non solo il danaro, ma anche la fede comincia a scarseggiare tra la gente. Non solo, ma lei, signor Hilarius, che ha sempre desi­ derato essere utile ai suoi simili e non solo come rilegatore, oltre che onorare la memoria della sua povera moglie con un’azione qualsiasi di grande rilievo, lei, a cui è capitata la fortuna di poterlo fare, verrà anche a guadagnare, grazie a questa iniziativa, una somma non trascurabile quando il libro si venderà». Rimasi profondamente commosso e lo fui ancora di più quando egli, alzando la voce, continuò: «Da parte mia, non pretendo nulla, o quasi; in considerazione del grande profitto previsto chiedo soltanto 10 talleri subito e un bic­ chiere di vino al pranzo della domenica e dei giorni festivi».

LECTORI BENEVOLO!

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Ecco quindi il consiglio del bravo seminarista e studente di filosofia. Avrei voluto essere sicuro del grande profitto come lui dei I O talleri, che gli diedi del resto volentieri, tanto più in quanto egli mi fece notare che il mio merito veniva accre­ sciuto dal fatto che non un sol libro avrei pubblicato, ma più libri, e probabilmente di diversi autori. Il mio dotto amico ritiene infatti che si sia trattato di una confraternita, una società o un’associazione il cui capo o presidente sia stato il Literatus depositario dei manoscritti. Per quanto mi riguarda, non ho un’opinione in merito. Che un rilegatore pretenda di fare da autore potrebbe es­ sere motivo di viva indignazione nel mondo letterario e far piovere sul libro in questione una quantità di anatemi; ma che un rilegatore rileghi, faccia stampare e pubblichi un libro con il quale egli si prova a far cosa utile ai suoi simili, indi­ pendentemente dal suo essere un rilegatore, non potrà dar fastidio ai lettori equilibrati. Sono questi sentimenti a raccomandare molto rispettosa­ mente il libro, il rilegatore e l’iniziativa. Christianshavn,^ gennaio 1845. Con ossequio

Hilarius il Rilegatore

* Il Rilegatore abita, dunque, non propriamente in città ma nell’antico sobbor­ go di pescatori e artigiani sull’isola di Am ager, collegata a Copenaghen dal ponte Langebro.

IN VIN O V E R IT A S Una rimembranza riferita da William Afham^

' A un ignoto W illiam «d i se stesso» (in un abbozzo compare il sottotitolo «R apporto ad se ipsum », a se stesso) è attribuito il brillante convivio intitolato al proverbio latino «la verità è nel vin o » e modellato sul Simposio di Platone.

PRELUDIO-RIMEMBRANZA^

Solche Werke sind Spiegel: wenn ein Affé hinein guckt, kann kein Apostel heraus sehen. [Opere come queste sono degli specchi: quando una scimmia vi si guarda, non può apparirvi un apostolo.] Lichtenberg^

^ G . Ch. Lichtenberg, tJber Physiognomie wider die Physiognomen, in Vermischte Schriften, i-ix, Gòttingen 1800-1806, in, p. 476.

Che bella occupazione prepararsi un segreto, che tentazione goderselo: eppure come ci rende talvolta pensosi questo go­ dimento e con quanta facilità ci lascia in uno stato di males­ sere! Infatti, se crediamo che un segreto sia facilmente trasfe­ ribile, che appartenga al portatore, cadiamo in errore, perché è questo il caso di dire «dal divoratore viene il cibo»;** ma se pensiamo che godersi un segreto crei solo il problema di non tradirlo, anche qui sbagliamo, poiché in realtà ci assumiamo anche la responsabilità di non dimenticarlo. Ma è ancora più odioso ricordarsene solo la metà e fare della propria anima un deposito provvisorio di merci avariate. Rispetto agli altri, sia allora l’oblio la tenda di seta che viene chiusa, la rimem­ branza la vergine vestale che si ritira dietro la tenda, dove si trova di nuovo l’oblio, a meno che non si tratti di una rimem­ branza autentica, poiché in tal caso l’oblio è escluso. La rimembranza dev’essere non soltanto fedele: occorre anche che sia felice. Come il vino, deve avere immagazzinato ^ Il titolo, propriamente intraducibile, gioca sui due sens, di Erindring, ricordo (ma qui, distinto teoricamente com ’è in tutto il passo - sulla scorta di Platone, cfr. Pilebo, 34 ac - da M inde, ricordo, Reminiscents, reminiscenza, e Hukommelse, me­ moria, tradotto rimembranza), e (editorialmente) avvertenza. Letteralmente sarebbe, dunque, prefazione/avvertenza o meglio (con un ossimoro) pre-rimembranza. “ E il famoso enigma di Sansone {Giudici, 14, 14).

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il profumo deiresperienza prima di essere imbottigliata. Non si pigia l’uva in una stagione qualsiasi, poiché le condizióni atmosferiche influiscono molto sulla qualità del vino; allo stesso modo non è possibile rammemorare l’esperienza, sia pure interiormente, in un momento qualsiasi o in una circo­ stanza qualsiasi. Il rammemorare non è affatto identico al ricordare. Difatti si può benissimo ricordare un avvenimento per filo e per segno senza per questo rammemorarlo. La memoria è solo una condizione transitoria. Alla memoria si presenta l’espe­ rienza per ricevere la consacrazione a rimembranza. Questa differenza si riscontra già nelle diverse età della vita. Il vec­ chio perde la memoria, la facoltà che di solito vien meno per prima. E tuttavia c’è nel vecchio qualcosa del poeta; nella fantasia popolare egli ha il dono della profezia, l’ispirazione divina. Ma la rimembranza è anche la sua forza, la sua conso­ lazione, che lo compensa con la lungimiranza del poeta. Al contrario, il bambino possiede in sommo grado la memoria e la facoltà di apprendere, ma non ha la capacità di rammemo­ rare. Invece di dire: «Ciò che si è imparato da giovani, non lo si dimentica da vecchi», si potrebbe forse dire: «Ciò che il bambino ricorda, il vecchio rammemora». Gli occhiali del vecchio sono fatti per vedere da vicino; il bambino che porta gli occhiali, invece, ha lenti che servono per vedere da lon­ tano, poiché non ha la forza della rimembranza, che consiste nell’allontanare, nel prendere distanza. E tuttavia, tanto la felice capacità di rammemorare del vecchio quanto la felice capacità di apprendere del bambino sono doni benevoli della natura, che accompagnano amorevolmente i due momenti più indifesi, seppure in un certo senso più felici, della vita. Ma è proprio per questo che la rimembranza, al pari della memoria, a volte è solo il portatore di avvenimenti casuali.

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Malgrado che la differenza tra memoria e rimembranza sia grande, le confondiamo spesso. Nella vita, quest’equivoco permette di sondare la profondità dell’individuo. La rimem­ branza, infatti, è idealità, ma, come tale, richiede ben altro impegno e responsabilità che non la memoria, al confronto ben più superficiale. La rimembranza è in grado di assicurare la continuità eterna alla vita di un uomo e di far sì che la sua esistenza terrena si svolga uno tenore,"^ d’un solo respiro, e possa esprimersi nell’unità. Quindi la rimembranza si rifiuta di credere che la lingua debba necessariamente e incessante­ mente farfugliare qualcosa che somigli alle chiacchiere di cui è già piena la vita. La condizione per l’immortalità dell’uomo è che la vita sia uno tenore. Stranamente, per quanto ne so io, Jacobi^ è l’unico a dire chiaramente quanto sia spaventoso ritenersi immortali. C ’erano momenti in cui gli sembrava che il pensiero dell’immortalità, se fermato nel singolo istante, potesse confondergli l’intelletto. È forse perché Jacobi aveva i nervi fragili? Un uomo forte, che si è fatta la pelle dura solo a furia di battere il pugno sul pulpito o sulla cattedra ogni volta che cerca di dimostrare l’immortalità, non prova questa paura; eppure dell’immortalità ne sa qualcosa, poiché, in la­ tino, avere la pelle dura significa conoscere qualcosa a fondo. ^ Se però si confonde la memoria con la rimembranza, il pensiero non incute più tanta paura. Prima di tutto perché si è coraggiosi, virili e robusti; in secondo luogo perché quel pensiero non viene affatto in mente. Indubbiamente sono in molti ad aver scritto le loro memorie senza traccia alcuna di ’ Senza interruzioni. * F. H . Jacobi, W erke, i-vi, Leipzig 18 12-25 , iv, p. 68. ’ Il verbo latino caliere significa, usato transitivamente, capire a fondo e, intran­ sitivamente, avere i calli.

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rimembranza,* eppure le memorie erano il loro prezzo per l’eternità. Nella rimembranza l’uomo firma una cambiale al­ l’eternità. L ’eternità è abbastanza umana da concedere qual­ siasi credito o da ritenere solvibile chiunque; ma non può risparmiare il ridicolo a chi ricorda invece di rammemorare e di conseguenza dimentica invece di rammemorare, giacché quel che si ricorda lo si può anche dimenticare. Ma, dal canto suo, la memoria permette di prendere la vita con disinvoltura e di attraversare con naturalezza le più incredibili metamor­ fosi. Perfino in età avanzata continuiamo a giocare a mosca cieca, e alla lotteria della vita possiamo ancora diventare chissà chi, nonostante gli innumerevoli travestimenti adottati. Un bel giorno moriamo - e, di colpo, diventiamo immortali. Non dovremmo dunque, proprio per aver così vissuto, aver messo da parte una quantità di rimembranze sufficiente per tutta l’eternità? Sì, se il libro mastro della rimembranza non fosse altro che un brogliaccio dove scarabocchiamo la prima cosa che ci viene in mente. Ma il bilancio della rimembranza è uno strano bilancio. Se ne potrebbero ricavare dei problemi esemplari - ma non di contabilità. Prendiamo ad esempio un uomo che giorno dopo giorno parla incessantemente nei con­ sigli d’amministrazione dei bisogni del suo tempo; non si ripete in modo noioso alla maniera di Catone,^ ma, facendo costantemente riferimenti interessanti e arguti, si adegua ai tempi senza dire le stesse cose; in società, si impone amministrando il patrimonio della sua eloquenza ora con stringatezza ora con ridondanza, entrambe salutate da ap­ * Cfr. nota 3. ’ Secondo il racconto di Plutarco, ogni volta che votava in Senato Catone ag­ giungeva «e Cartagine va distrutta» (delenda Carthago). A llo stesso modo.

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plausi. Almeno una volta alla settimana si parla di lui nel giornale, perfino di notte egli si rende utile - per l’esattezza a sua moglie - parlando nel sonno dei problemi del tempo, come se si trovasse in consiglio. Un altro si concentra prima di parlare e tace tanto a lungo da non prendere mai la parola. Tutti e due vivono lo stesso numero di anni - la domanda è: chi dei due avrà di più da rammemorare? O ancora, un uomo insegue un’idea, una sola, e si occupa solo di quella; un altro ha scritto libri in ben sette discipline e «viene interrotto nella sua importante attività (è un giornalista che parla) proprio mentre si accingeva a riformare la scienza veterinaria». I due vivono lo stesso numero di anni. La domanda è: chi avrà di più da rammemorare? In realtà possiamo rammemorare solo ciò che è essenziale, giacché la rimembranza del vecchio è, come si è già detto, affidata al caso; lo stesso vale per le analogie con la sua rimembranza. L ’essenziale non è condizionato solo da se stesso, ma anche dal suo rapporto con la persona interessata. Chi ha rotto con l’idea, non può agire in modo essenziale, non può intraprendere nulla di essenziale; non gli rimane che il pentimento, come unica idealità possibile. Qualsiasi altra cosa egli faccia è inessenziale, malgrado le apparenze. Pren­ dere moglie è qualcosa di essenziale, ma chi per una volta ha preso l’amore alla leggera, potrà anche battersi sulla fronte o sul petto o sul sedere con fare grave e solenne: non farà comunque mai sul serio. Quand’anche il suo matrimonio ri­ guardasse un’intera popolazione, e fosse salutato dalle cam­ pane, e fosse il Papa a celebrare le nozze, per lui non sarebbe comunque qualcosa di essenziale, ma sostanzialmente uno scherzo. I rumori esterni non cambiano nulla, né più e né ineno di quanto la fanfara e il «presentat’arm!» rendano più interessante il sorteggio della lotteria agli occhi del ragazzo

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che estrae i biglietti. Per agire in modo essenziale non è essenziale che squillino le trombe. Ma quel che rammemo­ riamo non possiamo dimenticarlo. La rimembranza non è indifferente al rammemorare come al ricordare lo è il ri­ cordo. Possiamo anche gettar via la rimembranza, e tornerà indietro come il martello di Thor;^^ ^on solo, la rimembranza ha del rammemorare una vera e propria nostalgia, come una colomba, la colomba appunto che, per quanto spesso ven­ duta, non potrà mai appartenere a un altro, perché tornerà sempre a casa. Ma anche il rammemorare ha covato la rimem­ branza, di nascosto e in segreto, in una cova insondabile e quindi inviolabile da parte del sapere profano; allo stesso modo l’uccello non cova l’uovo toccato da un estraneo. La memoria appartiene all’immediato e viene soccorsa nel­ l’immediato, la rimembranza, invece, si avvale solo della ri­ flessione. Ecco perché il rammemorare è un’arte. Anziché ricordare, desidero, come Temistocle, poter dimenticare; ma rammemorare e dimenticare non sono contrari. L ’arte della rimembranza non è semplice, poiché può modificarsi nel suo farsi, mentre la memoria oscilla solo tra un ricordo giusto e un ricordo sbagliato. Per esempio, che cos’è la nostalgia? Un ricordo che diviene rimembranza. E facile provare nostalgia quando siamo lontani. L ’arte consiste nel provare nostalgia pur stando a casa, cosa che richiede l’abilità dell’illusione. Continuare a vivere in un’illusione in cui faccia sempre buio e mai giorno, o tirarsi fuori da ogni illusione attraverso la riflessione, non è così difficile come il crearsi un’illusione a " Secondo un decreto reale del 17 5 3 , all’orfanotrofio reale era riconosciuto il monopolio delle lotterie, dove un orfano, a turno, estraeva i biglietti. Il più popolare degli dèi nordici, Thórr, signore del tuono, aveva come arma micidiale un martello dal breve manico, che, scagliato, gli tornava poi sempre in mano.

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forza di riflessione, e poi lasciarla agire su di sé con tutto il potere dell’illusione, indipendentemente dal fatto di esserne coscienti. Rievocare il passato come per magia non è così difficile come allontanare da sé, per magia, il presente nella rimembranza. In sostanza è questa l’arte della rimembranza e la riflessione alla seconda potenza. Per procurarsi una rimembranza occorre conoscere i con­ trasti tra stati d’animo, situazioni e circostanze diversi. Tal­ volta il luogo migliore per rammemorare e rievocare una situazione erotica dal fascino legato all’intimità della vita di campagna è un teatro, poiché lì l’ambiente e il frastuono fanno emergere il contrasto. Tuttavia, non sempre il con­ trasto più deciso è il più felice. Se non fosse riprovevole usare una persona come mezzo, forse il contrasto migliore per ram­ memorare una relazione erotica potrebbe essere quello di procurarsi una nuova relazione amorosa semplicemente allo scopo di rammemorare la precedente. Il contrasto può essere determinato da un’estrema rifles­ sione. La differenza che, grazie alla riflessione, si stabilisce tra memoria e rimembranza appare in tutta la sua chiarezza quando confrontiamo la memoria con la rimembranza. Due persone potrebbero rifiutare per ragioni opposte di rivedere un luogo che ricorda loro un avvenimento. L ’una non so­ spetta nemmeno che esista qualcosa che si chiama rimem­ branza, ma teme soltanto la memoria. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore - pensa - e basta che non veda per dimen­ ticare. L ’altra, invece, non vuole vedere proprio perché vuole rammemorare. Si serve della memoria solo per scacciare le rimembranze spiacevoli. Chi, pur avendo cognizione della Cfr. nota 3.

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rimembranza, non capisce questo avrà forse l’idealità, ma non l’esperienza per mettere in pratica i consilia evangelica adversus casus c o n s c ie n t ia e Egli prenderà perfino il consi­ glio per un paradosso, e avrà paura di sopportare il primo dolore, che tuttavia, come la prima sconfitta, è pur sempre da preferire. A furia di venir continuamente rinfrescata, la me­ moria arricchisce l’anima di una gran quantità di dettagH che disperdono la rimembranza. Il pentimento è allora una ri­ membranza della colpa. Da un punto di vista strettamente psicologico, credo davvero che la polizia aiuti il criminale a non arrivare a pentirsi, poiché, con la continua stesura e rilet­ tura della sua vita, fa in modo che il criminale sviluppi una tale capacità mnemonica di ricostruire la sua vita da perdere l’idealità della rimembranza. Occorre una grande idealità per pentirsi veramente, e soprattutto per pentirsi subito; la natura può anche essere di aiuto, e il pentimento tardivo, insignifi­ cante se rapportato alla memoria, è spesso il più difficile e il più profondo. La capacità di rammemorare è condizione indi­ spensabile per qualsiasi tipo di produttività. Se vogliamo smettere di essere produttivi, è sufficiente che ricordiamo quello che volevamo produrre sotto l’influsso della rimem­ branza; ogni produttività diverrà impossibile, o la renderemo talmente odiosa che non vedremo l’ora di rinunciarvi. Non esiste, in senso proprio, una rimembranza comune. Vi è però una forma di quasi-comnmtò., ed è l’opposizione a cui ricorriamo nella rimembranza. Il miglior modo per solleci­ tarla consiste talvolta nel fingere di confidarsi con un altro, solo per nascondere dietro questo abbandono una nuova ri­ flessione, in cui si manifesti la rimembranza. Quanto alla meConsigli evangelici contro i casi di coscienza; cioè, tradizionalmente, castità, ubbidienza e povertà.

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moria, essa ammette il concorso dell’assistenza reciproca. In tal senso i pranzi dei giorni di festa e i compleanni, i pegni d’amore e i ricordi preziosi sono di grande utilità, e hanno la funzione delle pagine che pieghiamo in un libro per ricordare dove siamo rimasti e per essere sicuri, grazie al loro succe­ dersi, di avere letto il libro per intero. Per contro, ciascuno deve affrontare da solo la faticosa elaborazione della rimem­ branza. In fondo, questo è tutt’altro che una maledizione. Dal momento che siamo sempre soli nell’atto del rammemo­ rare, ogni rimembranza è un segreto. Sebbene siano in molti a interessarsi di quel che per colui che rammemora è l’og­ getto della rimembranza, egli è tuttavia l’unico a conoscere la sua rimembranza, e il suo carattere apparentemente pubblico è puramente illusorio. Quanto ho finora esposto spinge me stesso a rammemorare pensieri e meditazioni che molte volte e in vari modi hanno occupato la mia anima. Se sono stato indotto a raccontarli è perché ora mi sento disposto a lasciare che un fatto vissuto venga rammemorato, a registrare ciò che da parecchio tempo è chiaro alla memoria e parzialmente anche alla rimem­ branza. Quel che ho da ricordare è, dal punto di vista della quantità, piccola cosa, ed è quindi facile il lavoro della me­ moria; ho invece avuto difficoltà a sbrogliarmela con la ri­ membranza, proprio perché per me queste circostanze sono diventate ben più importanti che per gli altri convitati, che probabilmente sorriderebbero al vedere attribuire un qual­ siasi valore a una cosa così insignificante: «Che idea strana!» direbbero, «Che assurdità!». Quanto poco significativo sia per me il contributo della memoria lo deduco dalla mia im­ pressione di non aver mai vissuto quelle circostanze, ma di averle io stesso inventate. So bene che non dimenticherò così facilmente il banchetto

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a cui ho partecipato senza prendervi p a r t e ; c i 5 nonostante, non riesco a risolvermi a metterlo da parte senza prima assi­ curarmi un accurato à7co|iVT|nóvei)|ia^^ di ciò che per me fu veramente memorabile. Mentre ho cercato di favorire la com­ prensione erotica della rimembranza, non ho fatto nulla per la memoria. La condizione per la rimembranza è determinata dall’opposizione, e già da tempo cerco di intrecciare la cosa rammemorata con un’opposizione nell’ambiente circostante. La sala splendidamente illuminata in cui si tenne il ban­ chetto, l’inebriante oceano di luci che si moltiplicavano nei riflessi producevano un effetto fantastico. Ora, la rimem­ branza richiede un’opposizione che non sia fantastica. L ’esal­ tazione dei partecipanti, la festosità rumorosa, il gioioso spu­ meggiare dello champagne si prestano piuttosto ad essere rammemorati nella calma di un ritiro appartato, così come il ricco sfavillio dello spirito nel turgore delle conversazioni è più facile da rammemorare in un momento di tranquillità appartata. Qualsiasi tentativo di venire direttamente in aiuto della rimembranza andrebbe a vuoto e mi lascerebbe, come punizione, il disgusto che si prova per lo scimmiottamento. Così ho scelto l’ambiente tenendo conto dell’opposizione. Ho cercato la solitudine del bosco, ma non in un momento in cui il bosco sia fantastico di per sé. In quel caso la pace della notte non sarebbe stata propizia, poiché anch’essa è sollevata alla potenza del fantastico. Ho cercato la pace della natura proprio nel momento in cui è meno mossa, e quindi nella luce del pomeriggio. E un momento che ha un lato fanta­ stico, seppure solo come vago presentimento dell’anima; e ” Il gioco di parole sottolinea in W illiam la qualità, comune a tutti gli Pseudo­ nimi, di inventore piuttosto che di personaggio. Reminiscenza.

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tuttavia niente è più dolce, sereno e pacificante della luce opaca del pomeriggio. E come un malato che si riconcilia con la vita predilige questa forma tenue di ricreazione, come una persona spiritualmente provata dalle sofferenze cerca questo tipo di sollievo, così io, per la ragione opposta, l’ho cercato proprio per ottenere il contrario. Nel Bosco di Grib c’è un posto che si chiama Angolo degli Otto Sentieri; lo trova solo chi lo cerca attentamente, poiché nessuna carta lo riporta. Perfino il nome sembra con­ traddittorio, giacché come può l’incrocio di otto sentieri for­ mare un angolo, come può ciò che è pubblico e frequentato conciliarsi con ciò che è appartato e nascosto? E se la trivia­ lità, da cui il solitario rifugge, prende il nome dall’incrocio di appena tre vie, cosa sarà mai quella provocata dall’incrocio di ben otto vie? Eppure è così: vi sono veramente otto sentieri, ma molto solitari; lontani dal mondo, nascosti, dissimulati, si arriva nei pressi di un recinto che si chiama Recinto della Sfortuna. La contraddizione del nome rende il luogo ancora più solitario, proprio come la contraddizione rende sempre solitari. Gli otto sentieri, il continuo via vai sono solo una possibilità, una possibilità per il pensiero, poiché nessuno passa per questo sentiero al di fuori di un insetto, che si affretta ad attraversarlo lente festinans", nessuno lo fre­ quenta, tranne il viaggiatore frettoloso che si guarda intorno, non per cercare un essere umano, bensì per sfuggirli tutti; o il fuggitivo che neppure nel suo nascondiglio avverte nel viag­ giatore il desiderio di ricevere messaggi, il fuggitivo ragIl Bosco di G rib, a nordovest di Copenaghen, è la foresta più grande e più bella dello Sjaelland. «Affrettandosi lentamente»: la battuta festina lente è attribuita da Svetonio ad Augusto.

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giunto solo dalla pallottola mortale, che spiega l’immobilità attuale del cervo, ma non la sua irrequietezza di prima; nes­ suno percorre questo sentiero tranne il vento, di cui non sappiamo da dove venga né dove vada.^^ Perfino chi si è lasciato ingannare dal richiamo seduttore dei luoghi impene­ trabili che catturano il viandante, perfino chi ha percorso l’angusto sentiero che invita nelle segrete del bosco non è così solo come chi si trovi agli Otto Sentieri, dove non passa nessuno. Otto sentieri e nessuno a percorrerli! E come se il mondo si fosse estinto e l’unico sopravvissuto si trovasse nel­ l’imbarazzo di non avere nessuno che possa dargli sepoltura; ovvero come se l’umanità intera avesse trasmigrato per quegli otto sentieri dimenticando uno dei suoi membri! Se sono vere le parole del poeta: bene vixit qui bene latuit,'^^ ho vissuto bene, poiché bene ho scelto il mio nascondiglio. Una cosa è certa, che il mondo e tutto ciò che vi ha dimora non appare mai così chiaro come quando lo si osserva da un luogo appar­ tato, e per di più di soppiatto; è certo anche che tutto quanto si sente e si deve sentire nel mondo produce un suono più soave e incantevole se ascoltato da un luogo appartato, e per di più di nascosto. Così anch’io sono scappato molto spesso nel mio rifugio. Lo conoscevo prima, molto tempo fa, ora ho imparato a fare a meno della notte per trovare il silenzio, poiché qui il silenzio e la bellezza regnano sempre; ma il momento più bello per me è quando il sole d’autunno ri­ schiara la sera e il cielo si tinge d’un azzurro languido; quando il creato respira dopo la calura, quando la frescura estende il suo dominio e le foglie dei prati rabbrividiscono di piacere alla brezza del bosco; quando il sole pensa alla sera G iovanni, 3, 8. « H a vissuto bene chi si è ben nascosto»: Ovidio, Tristia, 111, 4, 25-26.

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per rinfrescarsi nel mare, quando la terra, grata, si accinge al riposo, quando entrambi prima di lasciarsi si scambiano, nel fondersi teneramente, mutua comprensione, mentre il bosco si oscura e i prati diventano più verdi. O spirito gentile, che abiti questi luoghi, grazie per aver sempre protetto la mia quiete, per le ore trascorse inse­ guendo le rimembranze, per il tuo nascondiglio, che io chiamo mio! La quiete si estende come un’ombra man mano che cresce il silenzio: che magico incantesimo! E com’è ine­ briante quella pace! Quale che sia la rapidità con cui l’u­ briaco porta alle labbra il bicchiere, la sua ebbrezza non cresce rapidamente come quella che viene dalla quiete, che aumenta a ogni secondo. Ma il contenuto di quel bicchiere inebriante non è che una goccia a confronto con il mare infinito del silenzio, a cui bevo io.21 E come l’ebollizione di tutti i vini del mondo è una pallida illusione al confronto della fermentazione sempre più effervescente del silenzio! Ma, come con l’ebbrezza, basta che si parli - e come scom­ pare rapidamente! E che sgradevole sensazione è Tesserne improvvisamente strappati - perfino peggiore del risveglio dell’ubriaco - quando il silenzio ci ha fatto dimenticare la favella e al suono delle parole ci sentiamo intimiditi al punto da balbettare come se non ci si fosse sciolta la lingua, indebo­ liti come una donna colta di sorpresa che per la circostanza non trovi l’energia per ingannare a parole! Grazie, allora, spirito gentile, per aver allontanato la sorpresa e l’interru­ zione, ché poco giovano le scuse di chi disturba. Quante volte non ho riflettuto su questo! La folla non ci Secondo un mito nordico (Snorri Sturluson, Edda, Gylfaginning, 45-47), Thórr fu sfidato dal re dell’Altro M ondo a bere da un corno che pescava direttamente in mare.

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rende colpevoli se siamo innocenti; ma la quiete della solitu­ dine è sacra, quindi tutto ciò che la disturba è colpevole, e non v ’è giustificazione che la casta frequentazione del si­ lenzio, una volta violata, possa tollerare; non sa che farsene, come la verecondia delle spiegazioni. Che sofferenza ho pro­ vato quando, in preda a un dolore dell’anima, mi sono vergo­ gnato del crimine commesso: l’aver disturbato un solitario! Invano il pentimento cercherà di indagare sulla colpa, ine­ sprimibile al pari del silenzio. Solo chi ha cercato la solitu­ dine per ragioni indegne può giovarsi della sorpresa, come una coppia di amanti che nemmeno in quelle circostanze riesca a creare un’atmosfera. In casi simili, il nostro arrivo farà un favore sia a Eros che ai due amanti, anche se essi ignorano che nostri sono sia il merito che la colpa del loro confabulare, avvicinati dalla rabbia contro l’importuno come non lo sarebbero mai stati senza di lui. Ma se si tratta di due amanti degni di cercare la solitudine, com’è spiacevole allora il sorprenderli, e come non saremmo portati a maledirci, con l’anatema scagliato contro qualsiasi animale si avvicinasse al Sinai! 22 Chi non lo sente? Chi, vedendo senza essere visto, non desidererebbe essere come un uccello che si culla piace­ volmente sulla testa degli amanti, come un uccello dal canto d’amore, o come l’uccello che si nasconde seducente nei ce­ spugli; o assomigliare alla natura solinga che sollecita l’eros, all’eco che dice che ci siamo allontanati, al lontano brusio che conferma che gli altri se ne vanno lasciando soli gli amanti! E quest’ultimo desiderio è certamente il migliore, poiché solo allora siamo veramente soli, quando sentiamo gli altri allontanarsi. Chi è più solo nel Don Giovanni è ZerEsodo, 19, 12-13.

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lina;2^ non è sola, no, ma rimane sola; sentiamo sfumare le note del coro e, lontano da quei rumori che gradualmente si attenuano, la solitudine diventa un suono e una realtà. Voi, Otto Sentieri, avete allontanato da me tutti gli uomini e non mi avete riportato che i miei pensieri. Dunque, bosco gentile, addio; addio, misconosciuta ora del meriggio, tu che non usurpi niente, che non vuoi essere un simbolo come l’alba, il crepuscolo e la notte, ma senza pre­ tese ti accontenti umilmente di essere te stessa, lieta del tuo sorriso campestre! Il processo della rimembranza, di per sé sempre portatore di benedizione, comporta anche la gioia di diventare esso stesso una rimembranza, che a sua volta ci cattura; poiché una volta capita la natura della rimembranza, se ne rimane prigionieri in eterno; il possesso di una rimem­ branza rende più ricchi che non il possesso del mondo intero; e la benedizione si posa non solo sulla partoriente, ma soprat­ tutto su chi rammemora.

W . A . Mozart, Don Giovanni, i, 18.

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I convitati si riunirono per il banchetto uno degli ultimi giorni di luglio, verso le dieci di sera. Ho dimenticato la data e l’anno; del resto la cosa riguarda solo la memoria e non la rimembranza. L ’atmosfera invece, con tutto quel che le è connesso, può riguardare solo la rimembranza. Il vino nobile migliora oltrepassando la linea, grazie all’evaporazione delle particelle d’acqua; allo stesso modo la rimembranza si affina perdendo le particelle della memoria, senza per questo perdersi in fumo, né più e né meno del buon vino. I convitati erano cinque: Johannes, soprannominato il Se­ duttore, Victor Eremita, Constantin Constantius^^ e altri due, il cui nome non ho per la verità, cosa che sarebbe del tutto insignificante, dimenticato: semplicemente non l’ho mai sa­ puto. Era come se costoro non avessero alcun proprium,^^ poiché venivano sempre chiamati con un epiteto. L ’uno, detto il Giovane, 27 aveva in effetti poco più di vent’anni ed era snello, proporzionato e molto bruno. Aveva un’espres-

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sione pensosa, ma più gradevole ancora era la sua aria ama­ bile e seducente in cui si rifletteva una purezza d’animo in perfetta armonia con la dolcezza vegetativa e la trasparenza quasi femminile di tutta la sua figura. Ma questa bellezza esteriore veniva presto soppiantata, o tenuta solo in mente, dall’impressione che si riceveva nell’osservare in lui un ra­ gazzo che, formato, o - per usare un’espressione ancora più tenera - nutrito al latte del pensiero, alla sostanza stessa della propria anima, era rimasto estraneo al mondo, che non gli aveva destato né passioni ed entusiasmi né turbamenti e in­ quietudini. Come un sonnambulo, egli custodiva in sé le re­ gole del suo agire, e la sua aria dolcemente affabile non era rivolta a nessuno, ma rispecchiava solo la disposizione della sua anima. L ’altro, poi, era chiamato «il Sarto», come in effetti era di professione.28 Di lui era impossibile avere un’impressione d’insieme. Era vestito all’ultima moda, portava i capelli arric­ ciati ed era profumato ^S^eau de Cologne. Nel muoversi, pas­ sava da un certo aplomb a un’andatura festosa e danzante, quasi un dondolio, frenato però, di tanto in tanto, dal suo vigore. Anche nel dire le cose più cattive la sua voce conser­ vava un certo tono gentile da commesso e una sdolcinatezza galante, che lui stesso certo detestava e che serviva solo a soddisfare la sua protervia. A ripensarci, ora lo capisco me­ glio di quella volta che, vedendolo scendere dalla carrozza, scoppiai involontariamente a ridere. Tuttavia v’è in lui qual­ cosa di contraddittorio: è come se fosse stato stregato, come

Passando, cioè, come un famoso madeira, l’Equatore in un lungo trasporto per nave. Rispettivamente, il narratore del Diario del Seduttore, l’editore di A u t aut e l’autore della Ripetizione. N om e proprio. L ’altro protagonista della Ripetizione.

Il personaggio, il solo che non compaia Kierkegaard, appare però nei Diari (Pap. iv A 35) di romanzo. N elle carte preparatorie si prevede infelice della rimembranza». Il settimo convitato che « c ’ è e non c’è».

nella produzione precedente di come protagonista in un abbozzo un sesto personaggio, r«A m an te sarà W illiam Afham , il narratore,

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se, per un incantesimo, la sua volontà lo avesse trasformato in una specie di buffone, cosa che però non lo soddisfa piena­ mente, per cui di tanto in tanto la riflessione riemerge. Quando ci ripenso, trovo quasi assurdo che cinque persone di quel tipo fossero riuscite a organizzare un banchetto. Pro­ babilmente non se ne sarebbe mai fatto nulla se non fosse stato per Constantin Constantius. Se n’era parlato un giorno nel caffè dove di tanto in tanto si riunivano in una saletta appartata;^^ il discorso era poi caduto al momento di deci­ dere chi doveva occuparsene. Il Giovane l’avevano dichiarato inadatto, il Sarto non aveva tempo. Victor Eremita non si trincerò dietro la scusa che aveva appena preso moglie o che doveva provare un paio di buoi appena comprati; ma, anche se disposto per una volta a fare un’eccezione venendo, doveva declinare l’onore di occuparsene lui, «e lo diceva finché era in t e m p o » . A Johannes questa sembrò la parola giusta al momento giusto; a suo parere, c’era uno solo in grado di preparare il banchetto ed era la tovaglia che si stende e apparecchia tutto, solo che le si dica: «Tovaglia, a p p a r e c c h i a ! » . ^ 2 jsjon era sempre giusto godere di una ra­ gazza in fretta, ma per un banchetto non poteva aspettare, e di solito gli veniva a noia prima del tempo. Tuttavia, se dove­ vano fare sul serio, egli poneva la condizione che si facesse in modo auf einmal einzunehmen Su questo, tutti erano d’ac­ cordo. L ’intera cornice doveva essere totalmente nuova, tutto doveva scomparire, anzi bisognava già cogliere i preliminari Probabilmente Kierkegaard ha in mente l’elegante caffè di Madame Fusanée, allora in 0stergade 70. 50 Luca, 14, 19-20. Allusione alla frase che precedeva il rito nuziale: « C h i ha obiezioni da fare, parli finché è in tempo o taccia per sempre». In una nota fiaba dei Grimm. D i consumare tutto in una volta sola.

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di questa scomparsa prima ancora che ci si alzasse da tavola. Non doveva avanzare nulla, neppure tanto quanto rimane, diceva il Sarto, di un vestito quando se ne ricava un cappello; nulla, diceva Johannes, poiché non v ’è niente di più sgrade­ vole di un resto di qualcosa che abbiamo amato, niente di peggio che sapere dell’esistenza di una circostanza che, im­ mediatamente e importunamente, voglia diventare realtà. L ’atmosfera si era scaldata e così pure la conversazione; a questo punto Victor Eremita si alzò improvvisamente: si pianta sul pavimento, muove la mano con fare di comando, tende il braccio come chi alza una coppa e, fingendo di agi­ tare un bicchiere, dice; «Miei cari amici, levo questo bic­ chiere, il cui profumo inebria già i miei sensi e la cui frescura infiamma già il mio sangue, alla vostra salute e per darvi il benvenuto; con lo stesso bicchiere vi auguro che il pranzo sia stato di vostro gradimento,^** certo che ognuno di voi sia già sazio al solo sentir parlare del banchetto, poiché Nostro Si­ gnore sazia lo stomaco prima degli o c c h i , fantasia fa il contrario». Quindi infilò la mano in tasca, estrasse il portasi­ gari, ne prese uno e cominciò a fumare. A Constantin Con­ stantius che protestava contro il suo assoluto potere di ri­ durre il progettato banchetto a un illusorio frammento di vita, Victor Eremita replicò che egli non credeva affatto alla sua realizzazione e che in ogni caso si era commesso l’errore di discuterne prima. Se si vuole che qualcosa riesca, lo si deve fare immediatamente, poiché l’immediatezza è la più divina di tutte le categorie; essa merita di essere onorata come l’e­ spressione latina ex tempio, c h e rappresenta il punto di artiFrase convenzionale della padrona di casa danese dopo un pranzo. Ecclesiaste, i, 8. Immediatamente.

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colazione tra il divino e la vita. Quel che tarda a succedere è del Maligno. Ma non aveva voglia di discutere, per cui se gli altri decidevano di parlare o di agire diversamente egli non avrebbe aperto bocca; se invece volevano che lui si espri­ messe in proposito, dovevano lasciarlo argomentare, poiché egli non riteneva opportuno iniziare una discussione. G li fu concesso, e poiché gli altri lo invitavano a farlo subito, parlò così: «Un banchetto è di per sé una cosa difficile poiché, anche quando sia preparato con ogni cura e con ogni talento, richiede qualcosa di più - il successo. Con ciò non mi riferisco a quello che preoccuperebbe una padrona di casa ansiosa, ma a qualcos’altro, che nessuno può garantire con la massima certezza: una felice concordanza degli umori e delle circostanze minuziose del banchetto, quelle arpe eolie, quella musica interiore che non si può commissionare a nessun mu­ sicista. Vedete dunque che è rischioso cominciare, poiché se qualcosa va male, forse fin dal primo istante, può anche suc­ cedere che il banchetto vada avanti a lungo prima che si riesca a creare un’atmosfera. La maggior parte dei banchetti nasce nel segno dell’abitudine e della superficialità, e solo la mancanza di senso critico fa sì che non ci si renda conto della povertà intellettuale di queste riunioni. Innanzitutto, a un banchetto non dovrebbero mai prender parte delle donne. Sia detto in parenthesi, uso qui la parola “donne” perché non mi è mai piaciuto dire “signore”, e da quando Grundtvig, nei suoi grundtvighiani “Discorsi di Brage” ^^ ha grundtvighianamente usato questa parola... ma lasciamo perdere, questo non Brage, norreno Bragi, è nella mitologia nordica il dio della poesia. Sotto il titolo, appunto, di Discorsi di Brage (dedicati nel frontespizio «alle signore e ai signori»), il teologo, scrittore e pedagogista N . F. S. G rundtvig (uno dei bersagli polemici degli Stadi: cfr. nota 59, p. 408) aveva pubblicato nel 184 4 una raccolta di miti nordici.

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riguarda il nostro discorso. Solo presso i Greci la donna aveva una funzione, nel coro delle danzatrici. Ma siccome a un banchetto l’essenziale è bere e mangiare, la donna non vi può partecipare in quanto non sarebbe in grado di farvi onore, se non a rischio di apparire indecente. Basta che ci sia una donna perché ci si senta in dovere di sminuire il signifi­ cato del mangiare e del bere, che tutt’al più possono diven­ tare un’occupazione tutta femminile, qualcosa che serva a usare le mani. Soprattutto in campagna un piccolo pasto del genere, preferibilmente da consumare in ore diverse da quelle dei pasti principali, può essere estremamente piace­ vole, e, in tal caso, lo è sempre grazie al bel sesso. L ’usanza inglese che vuole che le donne si ritirino quando gli uomini cominciano a bere sul serio è un assurdo compromesso, poiché ogni regola dev’essere un tutto, e perfino il modo di sedermi a tavola e impugnare coltello e forchetta è in rela­ zione alla totalità. Così, un banchetto politico è di una sgra­ devole ambiguità. Il banchetto in sé è ridotto al minimo e i discorsi che si fanno non devono dar l’idea di svolgersi inter pocula.^^ Se siamo d’accordo su questo punto, il numero dei convitati, qualora il banchetto si faccia, va determinato in base a questo criterio: non superiore a quello delle Muse, non inferiore a quello delle G r a z i e . E s i g o poi sovrabbon­ danza di tutto l’immaginabile. Anche quello che non com­ pare in tavola dev’essere sottomano come possibilità, anzi, aleggiare sulla tavola in modo ancor più seducente che se fosse visibile. Un banchetto alla carlona o, come in Olanda, con una zolletta di zucchero che tutti succhiano a turno, questo mai. Le condizioni che io pongo sono difficili da sod-



Fra un bicchiere e l’ altro. Cioè, non più di nove e non meno di tre.

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disfare, poiché il pranzo stesso dev’essere tale da risvegliare e stuzzicare l’ineffabile desiderio che ogni buon convitato porta con sé. Esigo che la fertilità della terra sia al nostro servizio, come se tutto fiorisse nello stesso istante in cui il piacere lo desidera. Esigo un’abbondanza di vino maggiore di quanto Mefistofele non ne ottenesse facendo un buco nel t a v o l o . E s i g o un’illuminazione più voluttuosa di quando i tro lls o lle v a n o la montagna su colonne e ballano in un mare di fiammelle. Esigo quello che più eccita i sensi, esigo il vivo stimolo di profumi più paradisiaci che nelle Mille e una notte. Esigo una freschezza che infiammi voluttuosamente il desi­ derio, e dia sollievo al desiderio soddisfatto. Chiedo l’emo­ zione incessante di una fontana. Se Mecenate non poteva dormire senza udire lo scroscio di una fontana, “*2 io senza questa musica non posso mangiare. Non mi fraintendete, posso farne a meno se mangio baccalà, ma non quando parte­ cipo a un banchetto; posso farne a meno se bevo acqua, ma non se bevo vino a un banchetto. Esigo dei servitori scelti per la loro bellezza, che mi facciano sentire alla mensa degli dèi; esigo poi della musica, ora forte ora lieve, che in ogni istante mi faccia da accompagnamento. Quanto a voi, cari amici, ho delle pretese incredibili. Vedete dunque che, a causa di tutte queste condizioni, contro le quali si possono trovare altret­ tanti argomenti, un banchetto è un pium desiderium, e in tal senso sono così lontano dal parlare di una ripetizione, che non penso nemmeno a una prima realizzazione». L ’unico a non prendere parte alla conversazione, né all’ac­ cantonamento del banchetto, era stato Constantin ConstanJ . W . G oethe, Faust, i, scena nella cantina di Auerbach. G li stupidi orchi delle fiabe nordiche. Seneca, De providentia, iii, io.

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tius. Senza di lui tutto sarebbe rimasto allo stadio di chiac­ chiere, Era giunto a un’altra conclusione e riteneva che, a condizione di avere una carta vincente, l’idea si sarebbe po­ tuta realizzare. Passò un po’ di tempo e nessuno pensava più al banchetto o al discorso, finché un giorno improvvisamente gli amici ricevettero un invito da Constantin a un banchetto per quella sera stessa. Come formula per l’occasione egli aveva scelto in vino veritas, giacché si doveva parlare e non solo conversare; ma non era consentito parlare se non in vino, e tanto meno sentire altre verità che quelle profferite in vino, poiché il vino è garante della verità e la verità è garante del vino. Si decise di tenere il banchetto in una zona boscosa a un paio di miglia da Copenaghen. La sala da pranzo, ridecorata per l’occasione, era irriconoscibile; una stanza più piccola, che un corridoio separava dalla sala, era predisposta per l’or­ chestra, A tutte le finestre erano state messe imposte e tende, e dietro a queste le finestre erano aperte. L ’invito di Con­ stantin prevedeva che tutti si recassero all’appuntamento in carrozza all’imbrunire. Anche se si sa di andare a un ban­ chetto, e la fantasia indugia quindi per un attimo in pensieri sensuali, l’effetto del paesaggio circostante era troppo forte per non sopraffarla. Era questo l’unico timore di Constantin, poiché nulla più della fantasia ha il potere di abbellire le cose, ma nulla più di lei ha il potere di guastarle quando sbaglia mira e non intacca la realtà. Ma una corsa in carrozza in una sera d’estate, lungi dall’orientare l’immaginazione verso il piacere dei sensi, la spinge in senso opposto. Anche se non le vediamo e non le sentiamo, la fantasia la sera invo­ lontariamente evoca nostalgiche immagini familiari; si ve­ dono ragazzi e ragazze rientrare dal lavoro dei campi, si sen­ tono gemere le ruote del carro sotto il peso del raccolto, si

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interpreta perfino un lontano muggito dai campi come un richiamo nostalgico. In questo modo le sere d’estate risve­ gliano sensi idillici, placano con la loro quiete una mente eccitata, fanno sì che perfino il volo della fantasia si posi per nostalgia autoctona sulla nostra terra d’origine, inse­ gnano alla mente insaziabile ad accontentarsi di poco, e appagano, poiché di sera il tempo si ferma e l’eternità è sospesa. I convitati arrivarono dunque sul far della sera, mentre Constantin era partito prima. Victor E., che passava l’estate nelle vicinanze, venne a cavallo, gli altri in carrozza, e, pro­ prio mentre la loro carrozza si accostava, un calesse svoltò nel cortile: era un’allegra brigata di cinque garzoni, ospitati perché poi, al momento opportuno, fungessero da corpo di demolizione: allo stesso modo, ma per la ragione opposta, ci sono i pompieri in teatro per spegnere immediatamente ogni incendio. Da bambini abbiamo abbastanza fantasia, anche se l’attesa nella stanza buia dovesse durare un’ora, da mantenere viva la nostra aspettativa; da grandi, la fantasia può anche farci provare noia per l’albero di Natale prima ancora di averlo visto. I battenti delle porte si aprirono; al loro ingresso, l’illumi­ nazione scintillante, l’aria fresca che venne loro incontro, l’ef­ fetto inebriante degli odori aromatici, la bella vista della sala elegantemente addobbata travolsero per un attimo i convi­ tati. In quello stesso istante l’orchestra attaccò il balletto del Don Giovanni^ al che i volti dei convitati si trasfigurarono e, come in segno di omaggio a uno spirito invisibile che aleg­ giava tra loro, si fermarono per un attiLio, destati e traspor­ tati dall’ammirazione.

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Non si può sapere che cosa sia un momento felice, e capire il suo fascino, senza percepire l’angoscia che improvvisamente possa accadere qualcosa, anche la cosa più insignificante, che abbia il potere di turbare tutto. Non si può tenere in mano la lampada e non sentirsi svenire dalla voluttà che basti espri­ mere un desiderio. Non si può tenere in mano un fazzoletto per salutare e non saper tenere il polso tanto flessibile da lasciare subito la presa. Questo era lo stato d’animo tra di loro. Solo Victor stava un po’ in disparte, sprofondato nei suoi pensieri; un brivido gli percorse l’anima tanto da farlo quasi tremare; allora cercò di riaversi e salutò il suo presagio con queste parole: «Musica invisibile, gioiosa e seducente! Tu mi hai strappato alla solitudine claustrale di una silenziosa giovinezza e mi hai attirato con un richiamo come di rimem­ branza, terribile, come se Elvira non fosse mai stata sedotta e si fosse limitata al desiderio! Oh, Mozart immortale, a te devo tutto; no, ancora non tutto. Ma quando sarò vecchio, se mai lo sarò, o quando avrò dieci anni di più, se mai li avrò, o quando sarò decrepito, se mai lo sarò, o quando morirò, ché questo di certo accadrà, allora dirò: oh, Mozart immortale, a te devo tutto; e lascerò esplodere con tutta la sua forza la mia ammirazione, la prima e l’unica della mia anima, e uccidermi, come spesso ha cercato di fare. Allora avrò disposto della mia casa, fatto testamento alla mia amata, le avrò dichiarato il mio amore, e avrò riconosciuto che ti devo tutto, allora non apparterrò più a te, né al mondo, ma solo al grave pensiero della morte!». Giungevano ora dall’orchestra le note dell’in­ vito, dove il piacere tocca i vertici del trionfo e volteggia sfrenato sul doloroso ringraziamento di Elvira. E Johannes ripetè con voce leggermente teatrale: Viva la lib e r t à - ,- et Don Giovanni, i, 25.

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veritas, disse il Giovane, ma soprattutto in vino, intervenne Constantin, prendendo posto a tavola e invitando gli altri a fare altrettanto. Com’è facile organizzare un banchetto; pure, Constantin ha giurato che non avrà più il coraggio di farlo! Com’è facile ammirare, eppure Victor ha giurato che non esprimerà mai la sua ammirazione, poiché una sconfitta è più tremenda di un’invalidità di guerra! Com’è facile desiderare quando si ha una bacchetta magica, eppure talvolta è peggio che morire di stenti! Presero posto a tavola. In quel preciso istante la piccola com­ pagnia si trovò immersa, come d’un sol balzo, in un immenso oceano di delizie. Ognuno di loro volgeva al banchetto tutti i suoi pensieri e tutti i suoi desideri, s’era messa l’anima in ghingheri per quel tripudio di abbondanza sui cui flutti la­ sciava navigare l’anima. Il cocchiere esperto si riconosce dalla capacità di dare il via d’un sol colpo ai cavalli eccitati e di tenerli poi uniformemente appaiati; il destriero allenato si distingue dal fatto di sapersi inalberare in un unico slancio: e se anche qualcuno degli ospiti non fosse stato all’unisono, Constantin, in ogni caso, era un buon padrone di casa. E così iniziarono a mangiare. A tratti la conversazione in­ trecciava leggiadre ghirlande intorno agli ospiti; poi s’inva­ ghiva ora del cibo, ora del vino, ora di se stessa; un attimo sembrava assumere significato, e l’attimo dopo non lo aveva già più. L ’ispirazione sbocciava ora come un fiore bellissimo che fiorisce una volta sola, ora come un fiore delicato che si chiude subito; se si udiva un’esclamazione di uno dei com­ mensali; «Questi tartufi sono squisiti!», subito dopo gli fa­ ceva eco il padrone di casa: «Questo Chateau Margaux!». A momenti l’orchestra veniva sopraffatta dal vocio, poi d’un

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tratto si sentiva di nuovo. Anche i camerieri, un po’ stavano fermi come in pausa nel momento decisivo in cui arrivava una nuova portata o qualcuno versava un nuovo vino dicendone il nome, un po’ ricominciavano ad affaccendarsi. Se per un attimo scendeva il silenzio, subito tornava la musica a dar vita alla compagnia. Di tanto in tanto qualcuno avanzava un’idea audace che trascinava con sé la conversazione, e gli altri lo seguivano quasi dimenticando di mangiare, mentre la musica sottolineava le loro parole come sottolinea le grida d’assalto; altre volte si udiva solo il tintinnio dei bicchieri e l’acciottolio dei piatti, e si mangiava in un silenzio appena sostenuto dalla musica, che avanzava festosamente e risuscitava la conversa­ zione. Così si svolse la cena. Com’è povera la lingua, confrontata con quel concerto di suoni, sia in battaglia che a un banchetto, che non dicono nulla ma vogliono dire tanto! Neppure a teatro è possibile renderlo e la lingua non ha che poche parole. Eppure com’è più ricca la lingua che si pone al servizio del desiderio, che non quando descrive la realtà! Una sola volta Constantin venne meno alla sua onnipre­ senza, che rendeva inavvertita la sua presenza. Fu all’inizio, quando, «per ricordare i bei tempi in cui uomini e donne partecipavano insieme ai banchetti», invitò tutti a cantare una vecchia canzone conviviale, una proposta che ebbe un effetto addirittura parodistico, forse anche previsto, e che stava quasi per avere la meglio quando il Sarto chiese che si cantasse quella canzone che fa; «Quando sarò nel mio letto di sposa, lari lallero».^^ Dopo le prime due portate, ConN o ta canzone conviviale (A. Seidelin, a cura di, Visebog indeholdende udvalgte danske Selskahssange, Kjobenhavn 18 14 , n. 216).

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Stantii! propose che, a conclusione del banchetto, ognuno facesse un discorso, purché fosse chiaro che gli oratori dove­ vano astenersi da eccessivi svolazzi. Egli pose quindi due con­ dizioni, Innanzitutto, non prendere la parola se non alla fine del pranzo, e poi parlare solo dopo aver bevuto tanto da sentire su di sé l’effetto del vino, o sentirsi almeno nella situazione in cui si dicono cose che altrimenti non si direb­ bero mai, ma senza per questo dover interrompere il filo del discorso e dei pensieri per via dei singulti. Quindi, prima di parlare, bisognava dichiararsi solennemente in quella condi­ zione. La quantità giusta di vino non era possibile determi­ narla, perché la capacità di saturazione varia da persona a persona. Qui si levò la protesta di Johannes: a ubriacarsi non riu­ sciva mai, anzi, una volta arrivato a un certo punto, più be­ veva e più diventava sobrio. Victor Eremita riteneva che la riflessione sperimentale sul proprio grado di ebbrezza avrebbe impedito loro di ubriacarsi. Per ubriacarsi serve l’im­ mediatezza. Parlarono quindi a lungo dei diversi influssi del vino sulla coscienza; e del fatto che in persone molto rifles­ sive gli eccessi del bere potevano non provocare un impetus evidente, ma, all’opposto, reazioni più ponderate del solito. A tema dei discorsi, Constantin propose l’ a m o r e , q il rapporto tra uomo e donna, vietando però il racconto di storie d’amore, se non a supporto di una teoria. Accettarono le condizioni. Esaudirono tutte le giuste e fa­ cili richieste che un anfitrione fa ai suoi ospiti: mangiarono. Appartenendo tutti i convitati alla categoria «estetica», il termine usato per amore in tutto In vino veritas è E lskov, amore erotico; mentre nelle Considerazioni varie sul matrimonio e in Colpevole? non colpevole? si alterneranno - distinti teorica­ mente - Elskov (che tradurremo costantemente con passione amorosa), Forelskelse, innamoramento e Kjcerlighed, amore.

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bevvero, si ubriacarono e, come si dice in ebraico: bevvero validamente. Venne servito il dessert. Se Victor non aveva ancora visto esaudito il suo desiderio di sentire lo scroscio di una fontana, cosa che per fortuna dopo la conversazione preliminare aveva dimenticato, lo champagne scorreva però a fiumi. Scoccò la mezzanotte; allora Constantin pregò di fare silenzio, fece un brindisi al Giovane e, sollevando il bicchiere, pronunciò queste parole; quod felix sit ja u s t u m q u e e lo invitò a parlare per primo. I l ‘ Giovane si alzò e dichiarò di sentirsi sotto l’effetto del vino, cosa anche abbastanza visibile; infatti il sangue gli pul­ sava forte alle tempie, e non aveva più il bell’aspetto dell’i­ nizio del pasto. Ecco quel che disse. «Se i poeti dicono il vero, miei cari amici, il mal d’amore è il più opprimente dei dolori. Chi ne voglia le prove non ha che da ascoltare i discorsi degli innamorati. La prima volta dicono che è la morte, la morte certa, e ci credono per quin­ dici giorni; la seconda volta dicono che è la morte, la terza dicono che è la morte, e alla fine muoiono - di mal d’amore; muoiono d’amore, non c’è dubbio, e l’amore ci mette tre volte per strappar loro la vita, così come il dentista deve provare tre volte prima di strappare il dente del giudizio. Ma se il mal d’amore è morte sicura, come non considerarmi fortunato, io che non ho mai amato, e che probabilmente non riuscirò a morire che una volta sola, e per fortuna non di mal d’amore! Ma forse è proprio questa la maggiore sfortuna; e allora, come sono sfortunato! Il significato dell’amore deve Per esempio, Genesi, 43, 34. Form ula introduttiva latina: «co n l’ augurio di felicità e di fortuna».

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risiedere (parlo come può parlare dei colori un cieco) nella sua felicità; perciò si dice che la fine dell’amore è la morte delFinnamorato. Io ci vedo un esperimento del pensiero per stabilire un rapporto tra la vita e la morte. Ma se l’amore non è che un esperimento del pensiero, è ridicolo che gli innamo­ rati arrivino a innamorarsi. Se invece è qualcosa di reale, la realtà deve poter confermare quel che ne dicono gli innamo­ rati. Ma forse che nella realtà ne vediamo traccia o ne sen­ tiamo l’eco, per quanto ne sentiamo parlare? Già in questo vedo una delle contraddizioni in cui fa cadere l’amore; non so se per gli iniziati sia diverso, ma a me sembra che l’amore non faccia che intrappolare nelle più strane contraddizioni. Nessun altro tipo di rapporto tra persone esige idealità come l’amore, eppure nell’amore di idealità non se ne vede l’ombra. Questo basta a farmi temere l’amore; temo che po­ trebbe indurre anche me a parlare a vanvera di una felicità che non conosco e di un dolore che non ho provato. Lo dico qui poiché sono stato invitato a parlare dell’amore, per quanto inesperto io sia; lo dico qui, in un ambiente che mi è congeniale come un convivio greco; altrimenti non vorrei mai parlarne o turbare la felicità di alcuno, ma mi acconten­ terei dei miei pensieri. Forse, agli occhi di chi l’ha provato questi pensieri sono assurdità e tele di ragno, forse la mia ignoranza si spiega col fatto che non ho mai imparato, né voglio imparare da nessuno ad amare, e non ho mai sfidato una donna con lo sguardo solo perché era segno di pron­ tezza, ma ho sempre abbassato gli occhi, evitando di abban­ donarmi a un’impressione prima di aver compreso il senso delle forze in balìa delle quali mi sarei trovato.» Qui il Giovane fu interrotto da Constantin, che gli fece notare come lui, affermando di non aver mai avuto una storia amorosa, avesse perduto il diritto di parlare. Il Giovane ri­

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spose che in qualsiasi altro momento sarebbe stato lieto di osservare l’ordine di tacere, ma in questo caso voleva difen­ dere il suo diritto. Già il fatto di non aver avuto storie d’a­ more era una storia d’amore, e chi lo dichiarava aveva diritto a parlare di Eros, appunto perché si riferiva nel pensiero a tutto il sesso femminile, e non solo a casi particolari. Gli concessero di parlare, e lui continuò. «Dal momento che è stato or ora messo in dubbio il mio diritto di parola, il dubbio stesso mi mette al riparo dalla vostra ilarità; so bene, infatti, che tra i contadini chi non ha una pipa non è un vero uomo, così tra i signori di città non lo è chi non ha esperienze amorose. Se qualcuno vuol ridere, faccia pure, tanto io rimango dell’idea che la cosa più impor­ tante è il pensiero. Forse che l’amore ha il privilegio di essere l’unica cosa su cui non bisogna riflettere prima, ma solo dopo? Se fosse così, che cosa succederebbe se, una volta inna­ morato, mi accorgessi solo alla fine che sono alla fine? E per questo che ho scelto di riflettere in anticipo sull’amore. Anche se gli innamorati dicono di averci pensato prima, non è vero. Presuppongono che amare sia una qualità essenziale dell’uomo, ma ciò non significa pensare all’amore, bensì darlo per scontato e preoccuparsi di trovare un innamorato. Per quanti sforzi faccia, la mia riflessione non riesce ad afferrare l’amore; mi resta in mano solo la contraddizione. A volte ho l’impressione che mi sia sfuggito qualcosa, ma non so che cosa; per contro, la riflessione non teme di mostrarmi subito la contraddizione. Di conseguenza la mia idea di Eros è che si tratti della più grande contraddizione che si possa immaginare, e per di più comica. L ’una cosa è complemen­ tare all’altra: il comico è sempre presente nella categoria della contraddizione, cosa che non posso mettermi a spiegare ora; ma quel che voglio dimostrare è che l’amore è comico.

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Per amore intendo un rapporto tra uomo e donna, e non penso Eros nel senso dei Greci, quello di cui Platone fa un così elegante elogio;'** ma per lui l’idea di amare le donne è così lontana che vi accenna solo di sfuggita, considerando comunque questa forma d’amore troppo imperfetta al con­ fronto con l’amore per i giovanetti. Io dico che l’amore è comico agli occhi di un terzo, non dico di più. Non so se sia per questo che gli innamorati odiano sempre questo terzo, ma so per certo che la riflessione fa sempre da terzo, quindi io non riesco ad amare senza diventare, con la riflessione, il terzo di me stesso. La cosa non dovrebbe meravigliare nes­ suno; a tutti è capitato di avere dubbi su tutto, mentre io sto solo facendo il tentativo di dubitare di tutto in materia d’a­ more; ma mi stupisce che chi ha dubitato di tutto, e poi ha ritrovato la certezza, non spenda mai una parola sulle diffi­ coltà che mi imbrigliano il pensiero, tanto che a volte ho desiderato di liberarmene con l’aiuto, notate bene, di chi per primo ha riflettuto su questi problemi'^^ e non per questo si è sognato di dubitare o di aver dubitato di tutto o, lo ripeto, si è sognato di spiegarsi e di essersi spiegato tutto. Quindi, cari amici, concedetemi la vostra attenzione e non interrompe­ temi anche se voi siete innamorati, non imponetemi di tacere per non sentire la mia spiegazione; non allontanatevi e non ascoltate con sufficienza quello che ho da dire, e quello che, una volta cominciato, mi vien voglia di dire. Innanzitutto, trovo comico che tutti gli uomini amino e vogliano amare senza essersi mai spiegati di preciso in che ■** N e l Simposio, 9, l ’«A frodite volgare» (l’amore per le donne) è contrapposta all’«Afrodite celeste», l’amore per i giovanetti. Descartes, che nel Discours de la méthode propone, come via propedeutica alla conoscenza, il dubbio sistematico.

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cosa consista l’amabile, ciò che costituisce l’oggetto dell’a­ more. Lascio da parte la parola “amare”, poiché non spiega niente; ma basta cominciare a parlare, e la prima domanda che ci poniamo è che cosa amiamo. A questo non rispon­ diamo se non che si ama ciò che è amabile. Se rispondiamo con Platone^® che l’uomo deve amare il bene, scavalchiamo d’un sol passo tutto l’ambito erotico. Potremmo anche dire che bisogna amare il bello. In quel caso chiederei se amare vuol dire amare un bel paesaggio, un bel quadro, e allora si capirebbe subito che l’eros non costituisce una categoria del­ l’amore, ma qualcosa completamente a sé stante. Se ad esem­ pio un innamorato, per esprimere bene tutto l’amore che alberga in lui, dicesse: “Amo i bei paesaggi, e la mia Lalage,^^ e quel bel ballerino, e un bel cavallo, in breve amo tutto ciò che è bello” , Lalage, anche nel caso in cui fosse altrimenti contenta di lui, pur essendo bella non sarebbe contenta del suo elogio; e supponete ora che lei non fosse bella, e che lui tuttavia l’amasse! Volendo poi stabilire una relazione tra l’eros e la scissione di cui parla A r i s t o f a n e ^ ^ quando racconta che gli dèi hanno diviso gli uomini in due parti come so­ gliole, e che queste due metà separate si cercano, m’imbatto anche qui in qualcosa d’imperscrutabile; non posso allora che rifarmi ad Aristofane, che nel suo discorso, proprio perché il pensiero non ha motivo di arrestarsi, continua a riflettere e ipotizza che agli dèi sarebbe potuto venire in mente, per divertirsi ancora di più, di dividere gli uomini in tre parti.* Per divertirsi ancora di più: non è vero allora quel che dico, che l’amore rende l’uomo ridicolo, se non agli occhi degli Sim po--^. 24. O r a z i o , i , 22. ” Simposio, 15-16.

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altri sicuramente agli occhi degli dèi? Supponiamo tuttavia che la potenza dell’eros stia nel rapporto tra il maschile e il femminile: e allora? Se l’amante dicesse alla sua Lalage: “Ti amo perché sei una donna; potrei amare allo stesso modo qualsiasi altra donna, anche la brutta Zoe” , la bella Lalage si sentirebbe offesa. Che cosa è dunque l’amabile? Questa è la mia domanda, ma il tragico è che nessuno ha mai saputo rispondere. Ogni amante crede sempre di saperlo per quel che lo riguarda, ma non riesce a farsi capire da nessun altro, e quando ascoltiamo i discorsi di molti altri come lui ci accor­ giamo che, pur parlando tutti della stessa cosa, non ve n’è uno che la pensi come l’altro. Tralasciamo le assurde spiega­ zioni che finiscono col lasciarci con un palmo di naso, che vogliono far passare, cioè, per il vero oggetto d’amore i bei piedini dell’amata o i bei baffi dell’amato; anche l’amante che parla in stile elevato non fa che cominciare ad accennare a singole qualità, ma finisce per dire che egli ama tutta l’ama­ bile natura di lei e, quando il discorso ha raggiunto il cul­ mine, conclude; “è qualcosa d’inspiegabile, di cui io stesso non so rendermi conto” . E questo discorso piacerà certo alla bella Lalage, ma non a me, poiché io non ne capisco neppure una parola e trovo che contiene una doppia contraddizione, sia perché finisce con Vinspiegabile, sia perché finisce lì; poiché, se vuole finire con l’inspiegabile, tanto varrebbe co­ minciare da lì e non dire altro, per evitare di suscitare so­ spetti. Se comincia con l’inspiegabile e non aggiunge altro, non è una prova d’impotenza, perché seppure al negativo è comunque una spiegazione; ma se comincia altrove per finire con l’inspiegabile, la sua impotenza è provata. Amare, dunque; e all’amore corrisponde l’amabile, che è l’inspiegabile. Se ne può parlare, ma non lo si può capire, né più e né meno del modo inspiegabile in cui l’amore s’impa­

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dronisce della sua preda. Se di tanto in tanto la gente cadesse improvvisamente a terra morta, o venisse presa dalle convul­ sioni senza che si potesse spiegarne la causa, tutti trovereb­ bero la cosa angosciosa. In effetti è proprio così che l’amore fa irruzione nella vita, solo che la cosa non genera ansia, poiché gli innamorati per primi si considerano fortunati; anzi, finiscono col riderne, giacché il comico e il tragico sono in continua corrispondenza. Oggi parlate con un uomo e riu­ scite a capirlo abbastanza bene, domani lo trovate a parlare una lingua incomprensibile e a gesticolare in modo strano - è innamorato. Se il motto dell’amore fosse: ama il primo che capita, l’incapacità di spiegarsi si capirebbe, ma poiché il motto dell’amore è: ama una sola persona, una sola nel mondo intero, la stessa spietata selezione deve poter compor­ tare una dialettica di ragioni che converrebbe rifiutare di sentire, non tanto per il fatto che non spiega nulla, quanto perché sarebbe troppo prolissa. Invece no, l’amato non sa spiegare niente. Egli ha visto centinaia e centinaia di donne, forse è andato avanti negli anni senza provare niente, e im­ provvisamente la vede, lei, l’unica - Cathrine. Non è comico? Non è comico che ciò che è destinato a dare senso e bellezza alla vita, l’amore, non somigli a un granello di senape che dà vita a un grande a l b e r o , m a sia cosa ancora da meno e, in ultima analisi, non sia nulla; dal momento che non è possibile partire da alcun criterio, ad esempio quello secondo cui il fenomeno si manifesta a una certa età; né fornire una sola ragione per cui lui abbia scelto lei, lei, unica al mondo, e questo proprio al contrario di “Adamo, che scelse Èva perché non aveva alternativa” ?^'^ ”

Matteo, 13, 31-32. J. K . A . Musaus, Volksmàrchen der Deutschen, i-iv, W ien 18 15 , iii, p. 133.

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E non è altrettanto comica la spiegazione che danno gli innamorati, o meglio, non mette proprio in risalto il lato comico? Dicono che l’amore rende ciechi e con ciò spiegano il fenomeno. Se qualcuno che volesse entrare in una stanza buia per prendere qualcosa rispondesse, al mio consiglio di portarsi una candela: “La cosa non è poi così importante, è per questo che non prendo la candela”, oh! allora lo capirei perfettamente. Ma se invece lo stesso uomo mi prendesse in disparte e mi confessasse con la massima segretezza che la cosa che era andato a prendere era di enorme importanza e proprio per questo poteva farlo solo al buio - oh! come potrebbe la mia povera testa mortale seguire il volo sublime di quelle parole? Ammesso che io mi trattenessi dal ridere per non offenderlo, non potrei evitare di farlo una volta che lui avesse girato le spalle. Ma dell’amore non ride nessuno; e sono certo che finirei col provare lo stesso imbarazzo dell’e­ breo che, dopo aver raccontato una storiella, disse: “Ma non ride nessuno?” . Io, però, non ho tralasciato, come l’ebreo, il bello della storia, e finché rido io, il mio riso è lungi dal voler offendere qualcuno. Per contro, disprezzo quei folli che cre­ dono che il loro amore abbia basi così solide da dar loro il diritto di ridere degli altri innamorati; in tema di ridicolo, infatti, essendo l’amore assolutamente inspiegabile, un inna­ morato vale l’altro. Trovo la stessa stoltezza e superbia nel­ l’uomo che si guardi intorno pieno di sé tra le ragazze per trovarne una alla sua altezza, o nella fanciulla che sdegnosa­ mente scuota la testa in segno di rifiuto, poiché entrambi si occupano solo di pensieri finiti che discendono da una pre­ messa inspiegata. No, a me interessa l’amore in quanto tale, perché è quello che mi sembra ridicolo, e perciò lo temo, per paura di diven­ tare ridicolo ai miei stessi occhi o agli occhi degli dèi, che

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hanno fatto gli uomini in tal guisa. Dal momento che l’amore è ridicolo, non fa gran che differenza che mi prenda una principessa o una cameriera; se invece ridicolo non è, non lo è nemmeno il fatto di amare una cameriera, visto che l’ama­ bile è proprio l’inspiegabile. È per questo, capite, che ho paura dell’amore, ma anche qui trovo una riprova del fatto che l’amore è comico, poiché il mio timore acquista un carat­ tere così stranamente tragico, che finisce col richiamare il comico. Quando si demolisce un muro, si mette un cartello, e la gente cambia strada; quando una sbarra è stata pitturata da poco, si mette un segnale, quando un cocchiere è sul punto di investire qualcuno, grida: “ attenzione!” , quando c’è il colera, si mette a sentinella della casa un soldato, e via dicendo. Quel che voglio dire è che il pericolo, quando c’è, bisogna segnalarlo, per evitarlo poi tranquillamente facendo atten­ zione alle indicazioni. Poiché ora il mio timore è di rendermi ridicolo per amore, è chiaro che lo ritengo un pericolo; che cosa debbo fare per evitarlo, o almeno per evitare il pericolo che una donna s’innamori di me? Lungi da me la superbia di essere un Adone di cui tutte le fanciulle si innamorino {relata r e f e r o giacché che significhi non lo so); me ne guardino gli dèi! Ma, visto che non so cos’è mai l’amabile, non posso sapere come comportarmi per evitare questo pericolo. Inoltre, poiché anche il contrario può essere amabile e, in fin dei conti, l’amabile è inspiegabile, vengo a trovarmi nella stessa situazione di quell’uomo di cui parla Jean Paul,^^ che, in piedi su una gamba sola, legge un cartello con la scritta: “trappola per volpi”, e non osa né rimettere giù la gamba né poggiarla a terra. Non voglio innamorarmi di nessuna prima ”

Riferisco cose dette da altri. Citazione non identificata.

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d’aver dato fondo al concetto di amore; ma non ci riesco, anzi, sono pervenuto alla conclusione che sia comico; quindi non voglio amare, ma, ahimè, non per questo ho scampato il pericolo in quanto, non sapendo che cos’è l’amabile, né che cosa possa succedere a me o a una donna nei miei confronti, non posso neanche esser certo di sapere se ho scampato il pericolo. La cosa è tragica, perfino profondamente tragica in un certo senso, anche se nessuno se ne preoccupa o si preoc­ cupa dell’amara contraddizione che vi si scopre a pensarci, constatando l’esistenza di un qualcosa che esercita il suo po­ tere ovunque, eppure sfugge a una formulazione del pen­ siero, anzi, arriva perfino a cogliere di sorpresa chi sta invano cercando di pensarlo. Ma il tragico di questa situazione trova la sua ragione profonda nel comico di cui ho parlato. Forse chiunque altro mi rivolterà tutto questo sottosopra e non riscontrerà il comico là dove lo vedo, ma in quello che trovo tragico; eppure tutto ciò dimostra che ho in parte ragione, e la ragione per cui, se ne cado vittima, sono vittima tragica o comica è evidente: consiste nel voler riflettere su tutto ciò che faccio e nel rifiutare di illudermi che sto riflettendo sulla vita quando, a proposito di una cosa di grande importanza, mi dico: “Lascia perdere” . L ’uomo è fatto di anima e corpo, su questo concordano tutti gli uomini più saggi e più giusti. Se introduciamo la potenza dell’amore nel rapporto tra l’elemento maschile e quello femminile, il lato comico apparirà di nuovo nel capovolgimento che porta la parte più spirituale a esprimersi nella più sensuale. Penso, ad esempio, a tutti gli strani gesti e ai misteriosi segni dell’amore, in breve a tutta quella massoneria che è un effetto di quel primo fatto inspiegabile. La contrad­ dizione in cui in questo caso l’amore intrappola una persona è che il simbolo non significa nulla, oppure - il che è lo

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stesso - che nessuno sa dire che cosa significhi. Due anime innamorate si giurano l’un l’altra che si ameranno per l’eter­ nità; quindi si abbracciano, e con un bacio suggellano questo patto eterno. Chiedo a chiunque ragioni se gli sia mai venuto in mente qualcosa di simile. In amore le cose cambiano conti­ nuamente. Quanto vi è di più spirituale trova espressione nell’estremo opposto, e il sensuale sta per la più alta spiritua­ lità. Posito^'^ che io sia innamorato. Per me sarebbe di enorme importanza che la persona amata mi appartenesse per tutta l’eternità. È una cosa che capisco, perché in realtà sto solo parlando dell’erotismo in senso greco, ossia dell’amore per le anime belle. Una volta che l’amata me lo avesse assicu­ rato, io lo crederei, e se mi rimanesse qualche dubbio cer­ cherei di fugarlo. Ma in realtà? Se io fossi innamorato mi comporterei come tutti gli altri, cercherei un’altra garanzia che non quella della fiducia nella mia amata, che invece, è evidente, è l’unica garanzia. Qui m’imbatto di nuovo nell’ine­ splicabile. Quando Cacatòa,^* da tranquillamente seduto com’è, comincia a pavoneggiarsi come un’anatra che si è in­ gozzata e in quel momento si sente la parola “Marianne!”, tutti ridono, me compreso. Forse il pubblico trova comico che Cacatòa, che non ama affatto Marianne, si trovi con lei in quei rapporti; ma, supponendo invece che Cacatòa amasse Marianne, forse che la cosa non sarebbe comica? A me sembra altrettanto comica, e ciò in quanto l’amore è diven­ tato commensurabile e passa per commensurabile con queste manifestazioni. Che le cose vadano così da che mondo è mondo, non cambia nulla, il comico ha fin dall’eternità il Supponiamo. N ella commedia di T h . Overskou, Capricciosa {Comedier, Kj0benhavn 1850, III, p p . 18 4 sgg.).

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diritto di risiedere nella contraddizione, e questa è una con­ traddizione. Un Gliedermand^'^ non ha niente di comico, poiché non v’è alcuna contraddizione negli strani movimenti che fa quando gli si tira il filo. Ma se diventiamo burattini al servizio di qualcosa d’inesplicabile, questo sì che è comico; la contraddizione sta nella mancanza di una qualsiasi ragione plausibile perché qualcuno ci tiri ora l’una, ora l’altra gamba. Se non posso darmi una spiegazione di ciò che faccio, prefe­ risco non farlo; se non riesco a capire il potere alla cui discre­ zione mi abbandono, preferisco non abbandonarmi. E se l’a­ more è una specie di legge misteriosa che concilia gli estremi opposti, chi mi garantisce che non ne nasca all’improwiso una gran confusione? Di questo, però, mi preoccupo meno. Infatti ho sentito dire che alcuni innamorati trovano ridicolo il comportamento di altri innamorati. In che cosa consista il ridicolo non mi è chiaro, poiché se questa è una legge di natura, essa deve valere per tutti gli innamorati; se invece è una legge liberamente assunta, gli innamorati che ridono do­ vrebbero poter spiegarsi tutto quello che invece non sanno spiegarsi. Al riguardo, capisco meglio che nella normalità dei casi un innamorato rida dell’altro, poiché l’uno vede il ridicolo nel­ l’altro, ma non in se stesso. Se è ridicolo baciare una bruttona, è altrettanto ridicolo baciare una bella, e l’idea che il farlo in un certo modo debba autorizzare a ridere di un altro, che lo fa in maniera diversa, è solo segno di arroganza e di spirito di corpo, una sofisticheria che non salva dal comune ridicolo, che consiste nel fatto che nessuno sa dire che cosa significhi, mentre dà per scontato che debba significare tutto, ”

Burattino.

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significare in particolare che gli innamorati si apparterranno per l’eternità, e, cosa ancora più divertente, rassicurarli che così sarà. Se un tale, da seduto che è, piega la testa da un lato o la scuote o scalcia con la gamba e, alla mia richiesta di una spiegazione, risponde: “non lo so nemmeno io, mi è venuto spontaneo; un’altra volta mi verrà diverso, perché è un movi­ mento involontario”, oh! lo capirei benissimo. Ma se egli dicesse, come di quei gesti dicono gli innamorati, che in essi è riposta tutta la sua felicità, come potrei non trovarlo ridi­ colo al pari dei gesti suddetti, anche se in un altro senso, finché quel tale non m’impedisse di ridere spiegandomi che non avevano alcun significato. Cessa, così, la contraddizione, che è alla base del comico: dire che l’insignificante non signi­ fica niente non è affatto ridicolo; lo è, invece, dire che signi­ fica tutto. La contraddizione fin dall’inizio presente nell’invo­ lontario consiste nel fatto che da un essere ragionevole non ci si aspetta qualcosa di involontario. Pensate, ad esempio, se il Papa avesse avuto un colpo di tosse al momento di pog­ giare la corona sulla testa di Napoleone, o se uno sposo e una sposa si mettessero a starnutire nel momento solenne della benedizione nuziale: ne nascerebbe il comico. Più l’occasione accentua la libertà della ragione, più l’involontario diventa comico. Lo stesso dicasi per i gesti erotici, dove il comico emerge di nuovo non appena si vuole spiegare la contraddi­ zione dando loro un significato assoluto. Si sa che i bambini hanno un forte senso del comico, e che per saperne qualcosa ci si rifà sempre a loro. Di solito i bambini ridono degli innamorati e, se li sollecitiamo a raccontare quel che hanno visto, fanno ridere tutti. Forse la cosa dipende dal fatto che i bambini tralasciano l’essenziale. È strano, ma quando lo fa­ ceva l’ebreo, nessuno rideva; qui è il contrario, se uno tace

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l’essenziale della cosa, ridono tutti; nessuno sa dove stia l’es­ senziale, e perciò nessuno ne parla. Gli innamorati non spie­ gano nulla, e neppure i laudatori deU’amore, preoccupati solo, come prescrive la C os t it uz i on e, di dire tutto ciò che capita di piacevole e amabile. Ma chi pensa deve rendersi conto delle sue categorie, e chi riflette sull’amore riflette anche subito sulle categorie. In amore, tuttavia, questo non si fa, e tuttora manca una teoria pastorale, giacché per quanto un poeta pastorale possa tentare di dar vita all’amore, lo contrabbanda per il tramite di un altro personaggio da cui gli innamorati imparano ad a m a r e . Ho trovato quindi il co­ mico nelle peripezie erotiche, che non portano ciò che vi è di più sublime in una sfera a esprimersi in quella, ma nel suo esatto opposto in un’altra sfera. È comico che l’alto volo dell’amore (il desiderio di appartenersi per l’eternità) finisca sempre, come le conserve di frutta, nella dispensa; ma è an­ cora più comico che questa conclusione ne sia la suprema espressione. Ovunque vi sia contraddizione è presente anche il comico. Continuo a seguire questa pista; se però, miei cari amici, la cosa vi dà fastidio, ascoltatemi girando la testa dall’altro lato, tanto anch’io parlo come se avessi una benda sugli occhi. Vedo solo enigmi, quindi o non ci vedo o non vedo nulla. Che cos’è una conseguenza? Se non è possibile ricondurla in alcun modo a ciò da cui consegue, è ridicolo che continui a passare per conseguenza. Immaginate un uomo che voglia fare il bagno; si tuffa nella vasca, un po’ stordito riemerge. “ Paragrafo 26 della Costituzione danese del 16 65, che stabiliva la monarchia assoluta. Kierkegaard gioca sul doppio senso, ecclesiastico e poetico. Cfr. il finale di Dafni e Cloe.

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cerca di afferrare il corrimano, ma per errore tira il cordone della doccia, che si riversa su di lui con tutte le ragioni e tutta la foga possibile: la conseguenza è pienamente giustificata. Il ridicolo sta nel fatto che si è afferrato alla cosa sbagliata, ma non v ’è nulla di ridicolo nel fatto che la doccia entri in azione quando si tira il cordone, anzi sarebbe ridicolo il contrario, che un uomo, cioè, raccogliesse tutte le sue forze per essere pronto a sopportare il brivido, afferrasse con la fermezza della decisione il cordone e - l’acqua non venisse giù. Vediamo che cosa succede in amore. G li innamorati vo­ gliono appartenersi per l’eternità. Questo lo esprimono in quel bizzarro modo, abbracciandosi con l’intensità del mo­ mento, in cui deve risiedere tutto il piacere e la felicità dell’a­ more. Ma ogni piacere è egoistico. Il piacere dell’innamorato non è egoistico rispetto a quello della persona amata, ma il desiderio di loro due insieme è assolutamente egoistico, poiché insieme, e innamorati, costituiscono un tutt’uno. E tuttavia s’ingannano, poiché in quel preciso momento la specie trionfa sugli individui, la specie vince abbassando gli individui al suo servizio. A mio parere la cosa è più ridicola di quel che trovava ridicolo Aristofane. Il ridicolo di questa bipartizione sta nella contraddizione, cosa che Aristofane non sottolinea abbastanza. A guardare un uomo, dovremmo pen­ sare che egli costituisca un tutt’uno, e così pensiamo, finché, una volta dominato dall’amore, non vediamo in lui che una metà che vaga in cerca della sua altra metà. Non v’è niente di comico in una mezza mela; il comico nascerebbe da una mela intera che facesse la mezza mela; nel primo caso non vi sa­ rebbe alcuna contraddizione, nel secondo sì. Se si prendesse Simposio, 15-16.

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sul serio il modo di dire che la donna è solo una persona a metà, in lei non ci sarebbe niente di comico nell’amore. Per contro, un uomo che è stato pubblicamente stimato come persona intera diventa comico non appena comincia a impaz­ zare, rivelandosi una persona a metà. Più ci si pensa, più la cosa appare ridicola; poiché se l’uomo è veramente un tutt’uno, non lo diventa certo in amore, ma lui e la donna diventano l’uno la metà dell’altro. Come meravigliarsi, allora, che gli dèi ridano, e soprattutto dell’uomo? Voglio però tornare alla mia conseguenza. Una volta che gli innamorati si siano trovati, si dovrebbe credere che costi­ tuiscano un tutt’uno, e la verità dovrebbe attestare che vi­ vano l’uno per l’altra per l’eternità. Ma, cosa curiosa, invece di vivere l’uno per l’altra, cominciano, senza neppure saperlo, a vivere per la specie. Che cos’è una conseguenza? Una con­ seguenza che al suo manifestarsi non permetta di scorgerne la causa non è che una ridicolaggine, e ridicoli sono quelli che coinvolge. Ma se queste metà separate si ritrovano, dovreb­ bero raggiungere una soddisfazione e una pace perfette: in­ vece, il risultato è una nuova vita. Che il ritrovamento degli innamorati diventi per loro una vita nuova è comprensibile, ma non che da ciò derivi la nuova vita di un altro. Eppure la conseguenza che ne risulta è superiore a ciò da cui consegue; eppure, una conclusione come quella del ritrovamento degli innamorati dovrebbe essere un segno dell’impossibilità di qualsiasi altra conseguenza. Esiste un piacere che abbia ana­ logia con questo? Al contrario, il soddisfacimento del desi­ derio comporta sempre un rilassamento, e anche se inter­ viene una tristitia,^^ che ci fa capire come ogni piacere sia *■' Allusione all’antica formula omne animai post coitum triste (ogni essere vivente è triste dopo il coito).

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comico, la tristitia ne sarà una semplice conseguenza, per quanto nessuna tristitia superi quella dell’amore nel testimo­ niare un punto di partenza comico. Ma ben altra cosa è una conseguenza enorme come quella di cui stiamo parlando; una conseguenza di cui nessuno sa da dove venga né se verrà, ma che, se verrà, verrà come conseguenza. Chi ci capisce qualcosa? Eppure, per gli iniziati, il piacere supremo dell’amore ne è anche la cosa più importante; così importante che gli innamorati prendono addirittura nuovi nomi in virtù della conseguenza, che quindi, stranamente, assume un effetto retroattivo. L ’amato si chiama ora padre e l’amata madre, ai loro occhi non ci sono nomi più belli. Tuttavia, per qualcuno questi nomi sono ancora più belli; che cosa, infatti, è bello come la pietà filiale? Per me è la cosa più bella, e fortunatamente riesco a seguirne l’idea. Ci insegnano che il figlio ha il dovere di amare il padre. Lo capisco, non ci vedo nessuna contraddizione, sono felice di sentirmi stretto dal bel vincolo d’amore della pietà filiale. Credo che dovere la propria vita a un altro sia un dono supremo; credo che non vi sia calcolo che possa regolare o estinguere questo debito, perciò trovo giusto che Cicerone dica che il figlio ha sempre torto nei riguardi del padre, ed è proprio la pietà filiale a farmelo credere, a insegnarmi perfino a non cercare di pene­ trare l’occulto, piuttosto a occultarmi come padre. Certo, sono contento di essere il più grande debitore di un altro uomo, ma, per contro, prima di risolvermi a fare di un’altra persona il mio più grande debitore, voglio avere le idee chiare su me stesso; ché, a mio parere, non v’è paragone tra l’essere debitore della propria vita a un altro uomo e il farsi a propria volta creditore di un altro uomo, che non potrà di­ sfarsi del suo debito per l’eternità. Ciò che la pietà filiale proibisce al figlio di esaminare, l’amore comanda al padre di

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soppesare. E qui ritorna la contraddizione. Se il figlio ha come il padre una natura eterna, cosa significa allora essere padre? Immaginarmi come padre mi fa ridere di me stesso, mentre il figlio quando pensa al suo rapporto con il padre è profondamente commosso. Capisco benissimo le belle frasi di P l a t o n e , ^5 che un animale dà vita a un animale della stessa specie, una pianta a una pianta simile e così l’uomo a un altro uomo; ma questo non spiega nulla, il pensiero non se ne appaga, e nasce solo un sentimento indecifrabile, poiché come si fa a generare una natura eterna? Appena il padre contempla il figlio come natura eterna, che è poi la prospet­ tiva fondamentale, non potrà non sorridere di se stesso nel vedere che non riesce a contenere tutta la bellezza e la pie­ nezza spirituale che rallegrano la pietà del figlio. Se invece osserva il figlio come natura sensibile, dovrà ancora una volta sorridere, poiché da quel punto di vista il termine di padre ha un significato eccessivo. Infine, se si pensa che il padre ha un influsso sul figlio, che la natura del padre è un presupposto di cui la natura del figlio non può liberarsi, la contraddizione riappare da un altro lato; perché l’idea diventa così tremenda, che niente al mondo è tremendo come la paternità. Non v’è confronto tra l’uccidere e il dar vita a una persona: la prima azione determina solo un destino temporale, la seconda un destino eterno. Di conseguenza, ecco di nuovo una contrad­ dizione da far ridere e piangere insieme. La paternità è dunque un’illusione, seppure non nel senso delle parole di Magdelone a Jeronimus in Erasmus Montanus,^^ o è invece la cosa più terribile che esista? È il più gran dono che si possa “

In realtà, Aristotele {Etica Eudemia, ii, i6). L . H olberg, Erasmus Montanus, iii, 6.

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fare oppure il supremo godimento del piacere? È un acci­ dente o il più nobile dei compiti? Ecco perché, cari amici, ho rinunciato all’amore, perché per me il pensiero è tutto. Se l’amore è il supremo piacere, io vi rinuncio senza voler per questo offendere o invidiare nes­ suno; se è condizione al dono più grande che si possa fare, rinuncio alla sua possibilità, ma salvo il mio pensiero. Non che io non abbia occhi per la bellezza, o che il mio cuore rimanga insensibile quando leggo i poeti, o che la mia anima sfugga alla malinconia quando mi abbandono alla bella fan­ tasia dell’amore, ma non voglio tradire il mio pensiero, e a che mi servirebbe visto che per me non v’è felicità là dove non ho salvato il mio pensiero, là dove, se io vi fossi, sentirei disperatamente la mancanza del pensiero, che non oso abban­ donare per stare vicino a una moglie, giacché per me esso è la mia natura eterna, e quindi ancora più prezioso del padre e della madre, ancora più prezioso di una moglie. Tuttavia ri­ conosco che, se c’è qualcosa di sacro, quello è l’amore, se vi sono circostanze in cui l’infedeltà è ignobile, quello è l’a­ more, se v ’è un caso in cui l’inganno è atroce, quello è l’a­ more; ma la mia anima è senza macchia, io non ho mai guar­ dato una donna per desiderarla,^^ non ho mai svolazzato, indeciso, per poi precipitare, accecato o stordito, nella più decisiva delle situazioni. Se io sapessi che cos’è l’amabile, saprei con certezza se ho la responsabilità di avere indotto qualcuno in tentazione, ma siccome lo ignoro, posso solo essere certo di non averlo fatto coscientemente. Supponete che io mi fossi arreso, che mi fossi messo a ridere, o che fossi stato sconfitto dalla paura, visto che mi riesce impossibile Matteo, 5, 28.

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trovare la via stretta che gli innamorati percorrono agevol­ mente come se fosse larga, indisturbati da tutti gli accidenti su cui certamente hanno riflettuto; poiché il nostro tempo ha esaminato a fondo tutti i problemi, e di conseguenza com­ prende il mio pensiero: che agire con immediatezza è sciocco e che bisogna valutare tutte le possibili conseguenze prima di passare aH’azione; - supponete che mi fossi arreso. Non avrei offeso irrimediabilmente l’amata col mio riso, o non l’avrei gettata irreparabilmente nella costernazione con la mia scon­ fitta? Poiché mi rendo perfettamente conto che una donna non può avere la stessa profondità di riflessione, e una donna che trovasse comico l’amore (come solo gli dèi e gli uomini possono fare, ed è per questo che la donna è una tentazione che vuole spingerli a coprirsi di ridicolo) rivelerebbe cono­ scenze preoccupanti, e sarebbe la meno adatta a capirmi; ma una donna che concepisse la paura perderebbe la sua amabi­ lità senza per questo capirmi, sarebbe annientata, cosa che io non sarò mai finché il mio pensiero mi salva. Nessuno ride? Quando ho iniziato il mio discorso sul co­ mico in amore, vi aspettavate forse che avreste riso, poiché tutti voi ne avete la disposizione, come anch’io sono amico del riso eppure, forse, non l’avete fatto. L ’effetto del mio discorso è stato diverso, eppure dimostra per l’appunto che ho parlato del comico. Se nessuno ride per il mio discorso, ridete pure un po’ di me, cari amici, non ne sarò stupito; poiché ciò che mi è capitato di sentire da voi sull’amore, io non lo capisco - evidentemente siete degli iniziati!» Quindi il Giovane si sedette: era quasi più bello che non prima del banchetto. Ora guardava davanti a sé senza preoc­ cuparsi degli altri. Johannes il Seduttore stava già per fare delle obiezioni sul discorso del Giovane, ma fu interrotto da

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Constantin, che pregò di evitare discussioni e decretò che bisognava limitarsi ai discorsi. In quel caso, disse Johannes, egli chiedeva di essere l’ultimo a parlare. Anche questo fornì 10 spunto per discutere in quale ordine dovessero parlare, discussione presto interrotta da Constantin, che propose a quel punto di prendere egli stesso la parola purché gli si riconoscesse la competenza di stabilire il turno degli oratori. Così parlò Constantin. «C ’è un tempo per tacere e un tempo per p a r l a r e ; i n questo momento il tempo per parlare sembra essere breve; il nostro giovane amico, infatti, ha parlato a lungo e in modo molto strano. La sua vis comica ci induce a scendere in campo ancipiti proelio, d a t o che il suo discorso è stato ambiguo com’è ambiguo lui, di nuovo seduto lì, da uomo irresoluto, che non sa se ridere o piangere o se innamorarsi. In verità, se avessi conosciuto in anticipo il tema del suo discorso, che egli asserisce essere l’amore, gli avrei impedito di parlare; ma ormai è troppo tardi. Quindi vi invito, cari amici, “a essere contenti e gioiosi” e, se non posso chiedervi tanto, vi invito almeno a dimenticare ogni discorso subito dopo la sua con­ clusione, a mandarlo giù con un sol sorso. E ora vengo alla donna, di cui vi voglio parlare. Anch’io ho riflettuto, analizzato a fondo la sua categoria; anch’io ho cercato, ma ho trovato, e ho fatto una scoperta senza precedenti^i di cui voglio mettervi al corrente. Il solo modo per comprendere la donna è aU’interno della categoria del gioco, 11 compito dell’uomo è di essere assoluto, di agire in modo ^ Ecclesiaste, 3, 7. In una battaglia dall’esito incerto. ™ A . E . Scribe, Brahma et la Bayadère, i, i. Una delie tante battute di scherno dedicate negli Stadi a G rundtvig, che usa frequentemente sottolineare le sue affermazioni come «senza precedenti».

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assoluto, di esprimere l’assoluto; la donna sta tutta nella rela­ zione. Tra due esseri così diversi non può esservi alcuna vera interazione. Il gioco sta proprio in questo scarto; e con la donna è arrivato nel mondo il gioco. E tuttavia è chiaro che l’uomo deve saper rimanere all’interno della categoria dell’assoluto, altrimenti non succede nulla, o meglio succede qualcosa di molto comune: una coppia ben assortita fatta di un uomo a metà e una donna a metà. Il gioco non ha nulla di estetico, ma è una categoria etica imperfetta. Esso influisce sul pensiero come influirebbe sullo spirito sentire un uomo iniziare solennemente un discorso, recitare un paio di frasi con la stessa dizione e poi dire “ehm!”, punti di sospensione e poi silenzio. Lo stesso con la donna. Puntiamo su di lei con la categoria etica, chiudiamo gli occhi, pensiamo all’assoluto in termini etici, pensiamo al­ l’uomo, apriamo gli occhi, posiamo lo sguardo sulla casta donzella, che dai risultati deH’esperimento risponde a quei requisiti; rimaniamo confusi e diciamo a noi stessi: ah! è cer­ tamente un gioco. Il gioco consiste per l’appunto nell’affibbiarle una categoria, nel collocarla al suo interno, con una serietà che non potrà mai prendersi sul serio, e questo è appunto il gioco; se osassimo pretendere serietà, non sarebbe più un gioco. Se la mettete sotto una pompa pneumatica per toglierle aria, fate male e la cosa non ha niente di divertente, mentre se le date aria e la gonfiate fino a farle acquistare una grandezza superiore al naturale, se le fate raggiungere tutta l’idealità che una fanciulla di sedici anni può immaginare di desiderare, comincia la rappresentazione, una rappresenta­ zione estremamente divertente. Nessun ragazzo ha metà del­ l’idealità che una fanciulla immagina di avere, “ma fa lo

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stesso”, come diceva il sarto, poiché quella della ragazza è tutta un’illusione. La donna può causare danni irreparabili se non la si prende così; nel mio modo di vedere, invece, diventa innocua e divertente. Per un uomo non v’è niente di peggio che sor­ prendersi a dire scempiaggini, che distruggono ogni vera idealità. È facile, infatti, pentirsi di qualche infamia, rimpian­ gere di aver detto cose che non si pensavano, ma l’aver detto scempiaggini - e di che genere! - l’aver inteso sul serio tutte queste cose per poi scoprire; scempiaggini! Perfino il penti­ mento ne resta disgustato. Ma non la donna. Ha il privilegio originario di potersi trasformare in meno di ventiquattro ore nell’assurdità più innocente e più perdonabile; poiché il suo animo sincero è lungi dal voler ingannare chicchessia; ella pensava tutto quel che ha detto, ma ora che dice il contrario lo fa con la stessa amabile buona fede, perché ora sarebbe pronta a morire per il contrario. Pertanto, se l’uomo si ab­ bandona all’amore con serietà d’intenti, farà bene a sostenere di essere assicurato, sempre che egli riesca a ottenerla, l’assi­ curazione; ché un materiale infiammabile come la donna do­ vrebbe sempre lasciare perplessi gli assicuratori. Che cosa ha fatto? Si è identificato con lei: se lei abbandona come un fulmine la festa di Capodanno, lui le corre dietro, e anche se questo non succede, si trova ormai in stretta prossimità del pericolo. E che cosa non rischia? Può perdere tutto, poiché l’assoluto ha un solo contrario, le scempiaggini. Egli non deve cercare riparo in circoli per persone viziose, giacché vizioso non è, anzi, è semplicemente ridotto in ahsurdum\ immerso com’è nella felicità dell’assurdità è diventato un pa­ gliaccio. Tra uomo e uomo ciò non accadrebbe mai. Se un uomo si perde in stupidaggini, io lo disprezzo; se si prende gioco di me con la sua furbizia, mi limito a sfoderare contro

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s t a d i su l c a m m i n o d e l l a v it a

di lui la categoria etica, e il pericolo viene neutralizzato. Se poi la cosa sorpassa i limiti, beh, allora gli sparo una pallot­ tola in jEronte. Ma sfidare una donna, chi ignora che cos’è? È un gioco, come quando Serse fece frustare il m a r e . ^2 Quando Otello uccide Desdemona, ammesso che lei fosse veramente colpevole, non ottiene nulla, giacché non solo è già beffato, ma diventa ridicolo poiché uccidendola fa una concessione a una conseguenza che in origine lo ha reso ridicolo, mentre Elvira può essere davvero patetica quando impugna il pu­ gnale per vendicarsi. Che Shakespeare abbia fatto di Otello un personaggio tragico (indipendentemente dalla sfortunata, catastrofica circostanza che Desdemona è innocente) si spiega soltanto, ma si giustifica anche pienamente, con il fatto che Otello è un uomo di colore. Poiché, cari amici, un uomo di colore, che non si può pensare rappresenti la razionalità, un uomo di colore, cari amici, che diventa verde in volto quando si adira (un fatto fisiologico), un uomo di colore può sen­ z’altro volgere al tragico se è ingannato da una donna, così come la donna ha dalla sua tutto il pathos della tragedia quando un uomo la inganna. Un uomo che arrossisca come un gallo potrebbe forse diventare un eroe tragico, ma un uomo da cui ci si aspetta un comportamento razionale, o si sottrae alla gelosia, o diventa comico nel momento in cui vi si abbandona, e soprattutto se avanza brandendo un pugnale. Peccato che Shakespeare non abbia lasciato un dramma in cui la sfida racchiusa nelFinfedeltà di una donna fosse conte­ stata daU’ironia; poiché non tutti quelli che vi vedono il lato comico, e sanno anche svilupparlo, sono in grado di presen­

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tarlo in una veste drammatica. Ma proviamo a immaginare Socrate nell’atto di sorprendere (poiché sarebbe poco socra­ tico immaginarlo notevolmente preoccupato della fedeltà di Santippe o addirittura intento a spiarla) Santippe in flagranti; penso che quel bel sorriso che trasformò il più brutto uomo di Atene nel più bello sarebbe diventato per la prima volta una risata a squarciagola. D ’altro canto, sebbene Aristofane^'^ abbia talvolta cercato di dipingere Socrate come un uomo ridicolo, incomprensibile, non gli è mai venuto in mente di far entrare Socrate di corsa in scena gridando: “dov’è, dov’è, che io possa ucciderla!” : lei. Santippe, l’infedele. Del resto, che Socrate fosse fatto cornuto o meno non fa alcuna diffe­ renza; qualsiasi cosa Santippe faccia al riguardo è fatica spre­ cata, né più e né meno che far schioccare le dita tenendole in tasca: anche con le corna sulla fronte Socrate rimane co­ munque un eroe intellettuale; ma che potesse ingelosirsi, che potesse voler uccidere Santippe - ah, allora Santippe avrebbe avuto su di lui un potere superiore a quello dell’intero Stato greco e della pena di morte, il potere di renderlo ridicolo. Un cornuto è quindi comico di fronte alla moglie, ma si può prendere per tragico di fronte agli altri uomini. Questo punto è molto vicino al concetto spagnolo dell’onore. E tuttavia il tragico consiste soprattutto nel fatto che lui non può ottenere alcuna riparazione, e ciò che più lo addolora nella sua soffe­ renza è la sua mancanza di senso; una cosa terribile. Sparare a una donna, sfidarla, disprezzarla non fa che rendere il pover’uomo ancora più ridicolo, poiché la donna è il sesso de­ bole. E una considerazione che s’intromette dappertutto e genera confusione. Se fa qualcosa di grande, la si ammira più

Quando una tempesta distrusse i ponti da lui gettati sull’Ellesponto (Erodoto, VII,

35 )Don G iova»»!, i, 6.

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N elle Nuvole.

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di un uomo perché da lei non se lo sarebbe aspettato nes­ suno. Se l’ingannano, ha tutto il pathos dalla sua parte; se invece è l’uomo a essere ingannato, si prova appena un po’ di compassione, e lo si sopporta solo finché è presente, per poi ridere non appena gira le spalle. Ecco perché è opportuno, al momento giusto, considerare la donna sotto la categoria del gioco. Il divertimento è impa­ gabile. Bisogna considerarla una grandezza assoluta, facendo di se stessi una grandezza relativa. Bisogna badare bene a non contraddirla, cosa da cui lei trarrebbe solo vantaggi. Proprio perché le riesce impossibile controllarsi, raggiunge gli effetti migliori quando si prende sul serio alla più piccola contraddi­ zione. Non bisogna mai dubitare di ciò che ella dice, anzi, bisogna credere a ogni sua parola. Con lo sguardo perduto in un’ammirazione indicibile e felicemente inebriato bisogna danzarle attorno in adorazione: cadere in ginocchio, sospi­ rare, alzare a lei lo sguardo, sospirare, respirare di nuovo; obbedirle come uno schiavo. Ma qui viene il bello. Che una donna sappia parlare, in­ tendo dire verba facere,^^ è un fatto incontestabile. Sfortuna­ tamente non ha abbastanza riflessione per non esporsi, alla lunga, cioè maximum entro otto giorni, al rischio di contrad­ dirsi, se l’uomo non l’aiuta a stare in regola contraddicen­ dola. Ne deriva che in breve tempo la confusione domina sovrana. A non obbedirle la confusione sarebbe rimasta inos­ servata, giacché ella dimentica con la stessa facilità con cui chiacchiera. Ma quando il suo corteggiatore fa del suo meglio per obbedire e per mostrarsi utile, la confusione è palpabile. Più la donna è intelligente, più è divertente. Più è dotata, più

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ha fantasia. E più ha fantasia, più è forte a un dato momento, più confusione vi sarà nel momento successivo. Nella vita il divertimento appare di rado poiché rara è questa cieca obbe­ dienza ai capricci di una donna. Ammesso che la si trovi in un pastore illanguidito, egli non sarà mai in grado di scorgere il lato divertente della situazione. L ’idealità che una fanciulla possiede nel momento della fantasia non esiste davvero né presso gli dèi né presso gli uomini; tanto più divertente è dunque crederle, farla gonfiare in tal senso. Il divertimento è, come si diceva, impagabile; lo so bene io, che a volte non ho potuto dormire di notte al solo pen­ siero della nuova confusione in cui mi sarei trovato in virtù della mia umile assiduità e per opera dell’amata; poiché neanche chi gioca alla lotteria può provare combinazioni più strane di chi si appassiona a questo gioco. E non v’è dubbio che ogni donna ha la facoltà di sguazzare nelle stupidaggini con la grazia, la disinvoltura e la sicurezza che si conviene al sesso debole. Da bravi innamorati, scopriamo ogni sorta di pregi nell’amata. Una volta individuata questa sua genialità, non lasciamo che rimanga allo stato potenziale, ma la svilup­ piamo invece fino al virtuosismo. Non occorre ch’io dica altro, né in generale v ’è altro da dire, tutti possono capirmi. Come chi si diverte a tenere in equilibrio un bastone sul naso, a far girare un bicchiere senza versarne il contenuto, a ballare tra le uova, e ad esercitarsi in altre attività ugualmente divertenti e utili, così e non altrimenti l’innamorato trova nella compagnia dell’amata il divertimento più inestimabile e lo studio più interessante. Dal punto di vista erotico, le cre­ diamo in> assoluto, e non solo alla sua fedeltà, ché di quel gioco ci stanchiamo presto, ma crediamo in assoluto a tutte quelle esplosioni di puro romanticismo in cui ella finirebbe probabilmente per soffocare se non la soccorresse una valvola

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che lascia uscire i sospiri, il fumo e le arie del romanticismo,^^ rendendo felice l’adoratore. A forza di ammirazione, la te­ niamo ai vertici di una Giulietta, con la sola differenza che a nessuno è mai venuto in mente di torcere un capello sulla testa di Romeo. Dal punto di vista intellettuale, le diamo piena fiducia e se abbiamo avuto la fortuna di incontrare la persona giusta, in men che non si dica ci ritroviamo con una scrittrice in piena cova, e rischiamo di rimanere abbagliati daU’ammirazione per lei, per ciò che è capace di produrre la gallinella nera."^^ Non riesco a capire perché Socrate non abbia fatto questa scelta invece di litigare con Santippe; ma è evidente, voleva esercitarsi come l’allenatore che, pur avendo il meglio addestrato dei cavalli, lo stuzzica tanto da rendere necessario un ulteriore addestramento.^^ Voglio ora essere un po’ più concreto per illustrare un caso particolare, assai interessante. Si parla molto della fedeltà femminile, ma è raro che se ne parli a ragion veduta. Da un punto di vista strettamente estetico, è simile al fantasma di cui narra il poeta, che attraversa la scena per trovare l’amata, il fantasma che sta seduto all’arcolaio e aspetta l’amato bene - e quando poi lei lo ha trovato e lui è venuto, l’estetica non ha più nulla da dire. Se l’infedeltà della donna, da mettere immediatamente in rapporto con quella fedeltà precedente, viene considerata soprattutto da un punto di vista etico, ap­ pare la gelosia, come passione tragica. Rimangono tre casi, e il rapporto è a favore della donna, giacché due di essi sono di fedeltà, e il terzo di infedeltà. Inspiegabilmente grande è la J . H . W essel, Kierlighed uden Str0mper (Amore senza calze), 3, 3. L. Holberg, D e» Stundesl0se (Lo sfaccendato), 11, i. Il gioco si regge sull’ag­ gettivo oeggesyg, che significa tanto «frenetica» che «smaniosa di deporre uova». E l’immagine usata da Socrate (secondo Diogene Laerzio, 11, 37) a proposito del suo rapporto con Santippe.

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fedeltà della donna finché non è sicura dell’amato, e altret­ tanto inspiegabilmente grande quando egli non le chiede di essere fedele. Il terzo caso è l’infedeltà. Basta trovare lo spi­ rito e il disinteresse per pensare, e già in questo è facile trovare la giustificazione della mia categoria, il gioco. Il nostro giovane amico, il cui preambolo mi ha in qualche modo fuorviato, aveva l’aria di voler cominciare a questo punto, ma poi, spaventato, ha sorvolato sulle difficoltà. E tuttavia non è difficile trovare una spiegazione se si mettono sul serio in relazione l’amore infelice e la morte, se ci si sofferma sul serio su questa idea; e la stessa serietà è neces­ saria al mio gioco. Tutto il discorso parte, naturalmente, da una donna o da un uomo effeminato. Lo si riconosce imme­ diatamente, perché è una di quelle esplosioni di assolutezza che, dette lì per lì con grande aplomb, sono certe di ricevere con altrettanta immediatezza un grande applauso; sebbene sia un discorso di vita e di morte, è destinato a essere gustato, come la meringa, sul momento; benché riguardi tutta una vita, non comporta alcun dovere per il morente, mentre ob­ bliga chi lo ascolta a precipitarsi seduta stante in suo aiuto. Se un uomo volesse tenere un discorso simile, non sarebbe asso­ lutamente divertente: sarebbe troppo ignobile perché si possa ridere di lui. La donna, invece, è genio, è amabile nella sua genialità, è divertente dall’inizio alla fine. L ’innamorata, in­ somma, muore d’amore, questo è certo; non l’ha forse detto lei stessa? Qui sta il suo pathos, ché la donna è uomo, tanto almeno da poter dire cose che quasi nessun uomo è abba­ stanza uomo da fare. È un uomo. Nel dir ciò, l’ho vista in prospettiva etica. Fate altrettanto, cari amici, e cercate di capire ora Aristotele. A ragione fa notare che una donna Poetica, 15 .

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non è adatta alla tragedia. Del resto è chiaro, il suo posto è nel divertissement serio e patetico, non in un dramma in cinque atti, ma nelle improvvisazioni drammatiche di mez­ z’ora. Ella muore, dunque. E allora non ama più? Perché no, se si riesce a riportarla in vita. Se torna a vivere, è una per­ sona nuova, e una persona nuova, un’altra persona, comincia, ama per la prima volta; non v’è niente di strano. O morte! Grande è la tua potenza; neppure il vomitivo più energico, né il lassativo più forte purgherebbero con la stessa efficacia. La confusione giunge al grado più alto se si cerca di non dimenticare. Il defunto è una delle figure più divertenti che si possano incontrare nella vita. Strano che sulla scena non venga usato con maggiore frequenza; nella vita, invece, ogni tanto se ne incontra uno. Un ex morto apparente ha già un fondo bizzarramente comico, ma un vero morto offre al co­ mico tutto il contributo che ci si può ragionevolmente aspet­ tare. Basta farci attenzione. Io stesso ho avuto modo di accor­ germene un giorno che camminavo con un conoscente per la strada. Incrociammo una coppia. Dalla sua faccia capii che li conosceva, e gliene chiesi conferma. “Eh! Molto bene” ri­ spose, “e soprattutto la signora, trattandosi della mia de­ funta.” “Che? Defunta?” chiesi. “Eh! Il mio primo amore defunto. Sì, è una storia curiosa. Aveva detto: muoio, e nello stesso istante, com’è naturale, avvenne il suo trapasso, altri­ menti avremmo potuto fare dei versamenti per la pensione vedovile. Ma era troppo tardi; morta era e morta rimase, e ora vago di qua e di là, come dice il poeta, cercando invano la tomba dell’amata su cui versare una lacrima.” Così disse quell’uomo afflitto e rimasto solo al mondo, nonostante che gli fosse stato di conforto trovare che la de­ funta amata aveva già fatto molta strada, se non a ragione di

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un altro, di certo con un altro. Meno male, pensai, che alle ragazze non si dà sepoltura ogni volta che muoiono; sebbene i genitori abbiano sempre ritenuto più costoso avere dei figli maschi, le figlie femmine rischierebbero di costare molto di più. Una semplice infedeltà non è altrettanto divertente; in­ tendo dire, il fatto che una giovane donna s’innamori di un altro e dica al marito: non posso, salvami da me stessa; ma morire di dolore perché non può sopportare che l’amato bene si allontani da lei per un viaggio alle Indie Occidentali, doversi rassegnare alla sua partenza, e poi, al suo ritorno, non solo non essere morta, ma, al contrario, essere legata per sempre a un altro, questo sì che è uno strano destino per un innamorato. Non v ’è quindi da meravigliarsi se quell’uomo addolorato di tanto in tanto si consolava cantando il ritor­ nello di una vecchia canzone: “Evviva io dico per te e per me; mai quel giorno potrò dimenticar!” .®*^ Perdonatemi, cari amici, se ho parlato troppo a lungo; e facciamo ora un brindisi all’amore e alla donna. La donna è bella e affascinante da un punto di vista estetico, questo è innegabile. Ma, visto che lo dicono tutti, lo dirò anch’io: non per questo bisogna fermarsi là, occorre andare oltre. Consi­ deratela da un punto di vista etico, cominciate da lì, e passe­ rete al gioco. Perfino Platone e Aristotele*^ pensano che la donna sia una forma incompleta, una grandezza irrazionale, che forse un giorno, in una vita migliore, si farà ricondurre alla condizione di uomo; in questa vita, però, bisogna prenderla per quel che è. Di che cosa si tratti sarà ben presto chiaro. Cfr., per esempio, Manden og Konen satte dem ned {Il marito e la moglie le misero giù), in A . Caen (a cura di), Folke-Visebog, Kjobenhavn 1849, 11, p. 18. Allusione all’esigenza posta da H egel alla filosofia di «andare oltre» l’imme­ diato. Cfr., per esempio, Timeo, 4 23 b, 90 e; Politica, i259a-i26ob .

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poiché anche lei non si accontenta deU’ordine estetico, vuole essere emancipata, questo è abbastanza uomo per dirlo. E quello che poi succede, e allora il gioco supera ogni limite.» Non appena ebbe finito di parlare, Constantin invitò Victor Eremita a iniziare, e Victor parlò così. «Come sapete, Platone ringrazia gli dèi per quattro cose, la quarta delle quali è di essere contemporaneo di Socrate. Dei tre primi doni di cui egli parla ha già reso grazie agli dèi un filosofo greco precedente,®'* e io aggiungo che ve n’era ben donde. Ma, ahimè! Se io volessi fare altrettanto, non potrei ringraziarli di ciò che mi è negato. Quindi mi racco­ glierò nell’anima per render grazie dell’unica cosa che mi è concessa: di essere un uomo, e non una donna. Essere donna è qualcosa di così strano, di così confuso e di così composito che nessun predicato può esprimerlo, mentre, a volere usare molti predicati, si contraddicono in modo tale che solo una donna riesce a sopportarlo e, quel che è peggio, a sentirvisi felice. Il fatto che lei significhi meno dell’uomo non la rende infelice, neppure se venisse a saperlo, ché questo riesce a sopportarlo; no, la sua sfortuna consiste nel fatto che, nella coscienza romantica, la sua vita è diventata priva di senso, giacché ora ella significa tutto, ora niente, senza che lei venga mai a sapere che cosa in fondo debba significare; e tuttavia non è ancora questa la sua sfortuna, ma soprattutto quella di non saperlo per il fatto di essere donna. Per conto mio, se fossi una donna preferirei esserlo in Le altre tre (Lattanzio, Institutiones, iii, 19, 17) sarebbero state; essere nato uomo e non bestia, uomo e non donna, greco e non barbaro. *■' Talete (Diogene Laerzio, l, 33).

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Oriente, dove sarei una schiava; poiché essere né più né meno che una schiava è pur sempre qualcosa, invece di tutto o niente. Anche se la vita della donna non fosse caratterizzata da tali contrasti, il privilegio di cui ella gode e che a buon diritto si pensa le spetti in quanto donna, privilegio che non divide con l’uomo, è già un indizio di questa mancanza di senso. Il privilegio è quello della galanteria. A ll’uomo si addice essere galante con la donna. La galanteria consiste semplicemente nel fatto che l’uomo colloca in categorie fantastiche la per­ sona con cui è galante. Essere galanti con un uomo è quindi un affronto, poiché egli rifiuta l’uso di categorie fantastiche. Viceversa la galanteria è un tributo al bel sesso, l’omaggio che gli spetta per eccellenza. Ah! Se non ci fosse che un solo cavaliere a mostrarsi galante, la cosa non sarebbe così grave, ma non è così. In fondo, ogni uomo è galante, e lo è incondi­ zionatamente. Ciò significa che è la vita stessa ad aver donato al bel sesso questa p r o v e n n e .D ’altro canto, la donna accetta spontaneamente tali omaggi. È di nuovo una sfortuna, perché se fosse una sola a farlo, la cosa dovrebbe avere un’altra spiegazione. Siamo insomma ancora una volta di fronte all’i­ ronia della vita. Se vi fosse verità nella galanteria, dovrebbe essere una cosa reciproca, e la galanteria dovrebbe essere il tasso di cambio fissato per la differenza rilevata tra la bellezza e il potere, tra l’astuzia e la forza. Ma non è così; la galanteria spetta essenzialmente alla donna, e il fatto che lei la accetti spontaneamente si spiega con la sollecitudine che la natura mostra verso i più deboli e i più negletti, per i quali un’illu­ sione vale più di una compensazione. Ma è proprio quest’illu­ Reddito supplementare.

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sione a essere fatale. Accade non di rado che la natura venga in aiuto di uno storpio dandogli per consolazione l’illusione di essere il più bello di tutti. In tal caso la natura ha offerto una riparazione, e lo storpio possiede perfino di più di quanto ognuno possa ragionevolmente pretendere. Ma un possesso determinato daU’illusione e l’inganno con cui si paga l’affrancamento dall’infelicità sono uno scherno di gran lunga più crudele. In tal senso, la donna è ben lontana dal­ l’essere verwahrloszt^^ come lo è uno storpio, ma lo è in un altro senso, in quanto ella non riesce a uscire dall’illusione con cui la vita l’ha consolata. A riassumere l’esistenza di una donna nella sua totalità per identificarne i momenti decisivi, non ce n’è una che non dia un’impressione assolutamente fantastica. Nella vita di una donna le svolte sono più decisive che nella vita di un uomo, perché le sue svolte ribaltano tutto. Nei drammi romantici di Tieck appare di tanto in tanto un personaggio che, un tempo re di Mesopotamia, fa ora il droghiere a Copenaghen.®^ Al­ trettanto fantastica è ogni esistenza femminile. Se la fanciulla si chiama Juliane, ecco la sua vita: “Già imperatrice dei vasti territori dell’amore e regina di tutti gli eccessi delle svenevo­ lezze, ora signora Petersen, che abita all’angolo di Badstustraede” . Da piccola la ragazza è tenuta in minor considerazione del ragazzo. Quando è un po’ più grande non si sa bene cosa farne; infine viene il momento decisivo in cui ella acquista un potere assoluto. L ’uomo le si avvicina da adoratore; la corTrascurata. L ’esempio è solo indicativo; benché nessun personaggio di Tieck abbia questo destino, non è infrequente la peripezia che fa del contadino un re {Prinz Zeriino) o dell’apprendista sarto un imperatore (Leben des berùhmten Kaisers Abraham Tonelli).

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teggia. Dico da adoratore, perché tale è ogni corteggiatore, non è un’invenzione di un astuto impostore. Perfino il boia, nel deporre i fasces^^ per andare a fare la sua richiesta di matrimonio, flette il ginocchio, probabilmente perché pensa di abbandonarsi al più presto a esecuzioni domestiche, che giudica talmente naturali da non pensare nemmeno di giusti­ ficarle con la rarità di quelle pubbliche. L ’uomo colto si com­ porta allo stesso modo. Egli s’inginocchia, corteggia, colloca l’amata nelle più fantastiche categorie e poi dimentica rapida­ mente la posizione flessa in cui sta; eppure sapeva benissimo, mentre si inginocchiava, che si trattava di una fantasticheria. Se fossi una donna, preferirei essere venduta da mio padre al più alto offerente, come in Oriente, perché almeno un affare ha un senso. Che sfortuna essere donna, e la sfortuna sta proprio nel non rendersene conto, quando si è donne. La donna che si lamenta, non si lamenta della cosa più impor­ tante, ma della meno importante. Se io fossi donna, respin­ gerei per prima cosa qualsiasi forma di corteggiamento e mi contenterei di essere il sesso debole, se lo fossi, ma farei attenzione, cosa essenziale quando si vuole tenere alto l’orgo­ glio, a che non si finisse con l’allontanarsi dalla verità. Questo, però, la preoccupa meno: Juliane è al settimo cielo e la signora Petersen si rassegna al suo destino. Di conseguenza ringrazio gli dèi d’essere nato uomo e non donna. Eppure a quante cose non devo rinunciare per questo! Dai canti conviviali alla tragedia, la poesia è un’apo­ teosi della donna. Peggio per lei e per colui che l’ammira, poiché, se non fa attenzione, improvvisamente e sul più bello farà la faccia lunga. Tutto ciò che è bello, nobile, eroico ** I littori romani portavano, a simbolo del loro potere punitivo, fasci di verghe strettamente intorno a un’ascia.

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l’uomo lo deve alla donna, poiché è lei a ispirarlo. La donna è un’ispiratrice; quanti teneri flautisti non hanno prediletto questo tema e quante pastorelle non lo hanno ascoltato? In verità, la mia anima è priva di invidia ed è anzi grata al dio; ché preferisco essere uomo ed essere un po’ meno grande ma esserlo veramente, che essere donna e in quanto tale una grandezza indefinibile che solo nell’illusione trova la felicità; meglio essere una realtà concreta con un significato preciso, che un’astrazione aperta a tutti i significati. È ben vero, dunque: grazie alla donna l’idealità fa ingresso nella vita; che cosa sarebbe l’uomo senza di lei? Molti uomini grazie a una fanciulla sono diventati geni, molti sono diventati eroi, molti poeti, molti sono diventati santi; - ma il genio non è tale grazie alla fanciulla che gli è toccata, giacché accanto a lei non sarebbe stato che un consigliere di Stato; l’eroe non è tale grazie alla fanciulla che gli è toccata, giacché con lei non sarebbe stato che un generale; il poeta non è tale in virtù della donna che gli è toccata, poiché con lei non sarebbe stato che un padre; il santo non è tale grazie alla fanciulla che gli è toccata, poiché non gliene è toccata nessuna e l’unica che desiderava non l’ha avuta, così come ognuno degli altri è diventato genio, eroe e poeta con l’aiuto della fanciulla che non ha avuto. Se l’idealità della donna fosse fonte d’ispira­ zione in sé e per sé, l’ispiratrice dovrebbe essere quella a cui egli si lega per la vita. La vita, però, dimostra il contrario. Vale a dire: in una relazione negativa la donna rende l’uomo capace di idealità. In tal senso è un’ispiratrice, ma un’affer­ mazione così diretta fa incorrere in un paralogismo, di cui solo una donna non si rende conto. Si è forse mai sentito che qualcuno sia diventato poeta al fianco di sua moglie? La donna ispira l’uomo finché non è sua. Questa è la verità che sta alla base della poesia e delle illusioni che si fa la donna.

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Che non sia sua significa o che egli sta ancora lottando per farla sua - è così che una fanciulla ispira molti uomini e ne fa dei cavalieri; ma si è mai udito che qualcuno sia diventato coraggioso grazie alla moglie? - o che non ci riesce assolutamente. È così che la fanciulla ne ha ispirato più d’uno ride­ stando in lui l’idealità, ammesso che egli ne avesse tanta da sfruttarla. Ma una moglie, che di cose da sfruttare ne ha tante, non suscita nessuna idealità. Oppure, il fatto che non sia sua significa che egli rincorre l’ideale. Forse ne ama molte, ma anche questo è un genere infelice di amore, e tuttavia l’idealità della sua anima risiede proprio in quella lotta e in quella ricerca, e non nei frammenti di amabilità che, insieme, costituiscono la summa summarum del contri­ buto dei singoli. L ’idealità più nobile che la donna possa ridestare nel­ l’uomo consiste proprio nel destare in lui la coscienza del­ l’immortalità. L ’efficacia di questo argomento risiede in quello che si potrebbe chiamare la necessità di una battuta conclusiva. Allo stesso modo in cui si dice di una pièce che non può finire senza che il tale o il tal altro replichino qual­ cosa, così, dice l’idealità, non è possibile che la vita finisca con la morte: esigo una battuta conclusiva. La prova positiva la dà spesso l’“Adresseavisen” .*^ La cosa è perfettamente normale, poiché quello che deve figurare suU’“Adresseavisen”, è bene che sia dato in positivo. La signora Petersen ha vissuto molti anni finché la notte tra il 24 e il 25 la Provvi­ denza ha voluto ecc. Il signor Petersen in quella circostanza viene preso da un attacco di reminiscenze del periodo in cui le faceva la corte e, per dirla con la massima chiarezza, l’unica Quotidiano di Copenaghen, fondato nel 176 8 e specializzato in annunci com­ merciali e privati.

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cosa che lo consola è il pensiero di rivederla. A questo lieto incontro egli si prepara prendendo intanto un’altra moglie, poiché anche se il secondo matrimonio non è altrettanto poe­ tico del primo, tuttavia ne è una buona imitazione. Fin qui la prova positiva. Il signor Petersen non si accontenta di chie­ dere una battuta conclusiva, no, vuole anche l’incontro lassù. Tutti sanno che il metallo vile di tanto in tanto assume il luccichio di quello nobile, un breve balenio d’argento. Per il metallo vile la cosa è tragica, poiché un giorno dovrà pure rassegnarsi a essere vile. Per il signor Petersen la cosa è di­ versa. L ’idealità si addice a giusto titolo a ogni persona; se quindi rido del signor Petersen non è per il fatto che, nell’i­ potesi che lui fosse un metallo vile, non avrebbe che un unico bagliore d’argento, ma perché proprio il bagliore rivela che egli è ormai metallo vile. Parimenti lo spirito piccolo bor­ ghese si copre di ridicolo soprattutto quando, rivestendosi di idealità, offre una buona occasione per dire con Holberg; “Quella grassona non si è messa una adrienneì” Le cose stanno così: se è vero che la donna suscita l’idealità e quindi la consapevolezza dell’immortalità nell’uomo, lo fa comunque al negativo. L ’uomo che è diventato genio, eroe, poeta, santo grazie a una donna tocca in quello stesso istante l’immortale. Se nella donna la facoltà di suscitare l’idealità fosse di segno positivo, sarebbe la moglie, e lei sola, a susci­ tare la consapevolezza dell’immortalità nell’uomo. L ’espe­ rienza dimostra il contrario. Per risvegliare l’idealità nel ma­ rito è necessario che ella muoia. E tuttavia con il signor Pe­ tersen la cosa non funziona. Quando con la sua morte desta l’idealità nell’uomo, ella compie allora tutte le grandi cose L. H olberg, Barselstuen, ii, 2 {ì'adrienne è un abito sciolto alla moda parigina deU’epoca).

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che la poesia le attribuisce; ma, notate bene, quel che in senso positivo ella ha fatto per lui l’idealità non l’ha destata. Tuttavia il suo significato diventa sempre più dubbio quando ella si mette veramente in testa di significare in senso posi­ tivo. Più si insiste a presentare la prova in senso positivo, meno essa risulta probante, giacché a quel punto il rimpianto per lei riguarderà qualcosa di vissuto e certo, una volta vis­ suto, essenzialmente svuotato di contenuto. La prova diventa poi altamente positiva quando l’oggetto del rimpianto è la quotidianità coniugale: la volta che sono stati insieme al Giardino Zoologico. Allo stesso modo si può improvvisa­ mente aver nostalgia di un vecchio paio di comode pantofole, ma questo sentimento non prova affatto l’immortalità dell’a­ nima. Più la prova viene data al negativo e meglio è, poiché il negativo è superiore al positivo: è l’infinito, e quindi l’u­ nico positivo possibile. Il significato globale della donna è negativo e, al con­ fronto, quel che ella rappresenta di positivo non è nulla, anzi è perfino pernicioso. Questa è la verità che la vita le ha nascosto, consolandola con un potere di illusione che supera qualsiasi cosa possa affacciarsi alla mente di un uomo, e con tale materna sollecitudine, che la lingua e ogni altra cosa la rafforzano in questa sua illusione. Anche quando l’idea legata a lei, lungi dal farne un’ispiratrice, ne fa l’origine di ogni sciagura (che si tratti del fatto che con lei è entrato il peccato nel mondo, o della sua infedeltà, che rovina tutto), l’idea, nonostante tutto, rimane galante. A sentire questi discorsi si sarebbe tentati di credere che la donna è veramente in grado di essere infinitamente più colpevole dell’uomo, il che non è un’ammissione da poco. Ma, ahimè! la verità è un’altra. Vi è un’interpretazione segreta che la donna non comprende; il minuto dopo, infatti.

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il mondo intero si dimostra dell’opinione dello Stato, che dà al marito la responsabilità della moglie. Se lei è condannata come mai uomo è stato condannato, poiché lui è soggetto solo a una sentenza reale, non per questo la cosa finisce con una sentenza più mite per lei, perché allora la sua vita non sarebbe tutta un’illusione; ma con l’annullamento della causa e con il pubblico ministero, cioè la vita, a pagare le spese. Un momento si dice che la donna possiede ogni possibile astuzia, e il momento dopo tutti ridono dell’uomo che ella inganna, in piena contraddizione; perfino nel caso della moglie di Putifarre c’era una vaga possibilità di far credere che fosse stata sedotta. Così la donna ha una virtualità che a nessun uomo è data, un’enorme virtualità; ma la sua realtà è in propor­ zione, e la cosa più terribile della sua condizione è la magia dell’illusione in cui ella si sente felice. Ringrazi pure Platone gli dèi di essere un contemporaneo di Socrate: lo invidio; ringrazi pure di essere greco, anche per questo lo invidio; ma quando li ringrazia di essere uomo e non donna, io sono con tutta l’anima dalla sua parte. Terri­ bile, se fossi nato donna e capissi quel che capisco ora! An­ cora più terribile se fossi nato donna, e quindi non lo capissi neppure! Ma, stando così le cose, ne deriva che con una donna è escluso qualsiasi rapporto positivo. Ovunque vi sia una donna, si avverte immediatamente quell’inevitabile iato che rende lei felice poiché non lo nota, e tormenta l’uomo fino a ucciderlo, se lo scopre. Un rapporto negativo con una donna può rendere l’uomo infinito; bisogna dirlo e ridirlo a lode della donna, ed è cosa Genesi, 39, 7-20.

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che si può fare senza riserva alcuna, giacché non riguarda sostanzialmente la particolare natura della donna in que­ stione, il suo fascino o la durata del suo fascino. Dipende piuttosto dal fatto che ella appaia al momento giusto, e agli occhi dell’idealità. È un breve istante; dopo, ella farebbe bene a scomparire. Un rapporto positivo con la donna, in­ vece, risulta per l’uomo di una finitezza senza pari. Quindi la cosa più sublime che una donna possa fare per un uomo è di cadérgli sotto gli occhi al momento giusto, ma di questo ella non è capace, tutto sta alla benevolenza del destino; mentre la cosa più grande che ella possa fare per lui è di tradirlo, quanto prima tanto meglio. La prima idealità lo aiuterà a raggiungere una idealità potenziata, e questo sarà per lui una forza assoluta. È vero che questa seconda idealità viene ac­ quistata col più profondo dolore, ma è anche la più grande delle felicità; è anche vero che egli non può desiderare che accada prima del tempo, ma poi egli è grato alla donna che sia accaduto; e siccome, umanamente parlando, non ha poi tante ragioni per tutta questa gratitudine, tutto è a posto. Ma guai a lui se lei gli è fedele! Ringrazio dunque gli dèi di esser nato uomo e non donna; in secondo luogo, sono loro grato perché nessuna donna mi costringe, in virtù di un impegno per tutta la vita, a ricorrere continuamente al senno di poi. Ma che strana invenzione, il matrimonio! E quel che lo rende ancora più strano è che dev’essere una decisione imme­ diata. Eppure nessun passo è altrettanto decisivo; niente eser­ cita una così ostinata tirannia sulla vita di un uomo come il matrimonio. Una cosa così determinante va fatta, insomma, con immediatezza. E tuttavia il matrimonio non è una cosa semplice, anzi è cosa estremamente complessa e ambigua. Come la carne della tartaruga sa di qualunque tipo di carne,

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il matrimonio sa di un po’ di tutto; e come la tartaruga è un animale lento, altrettanto vale per il matrimonio. Innamo­ rarsi è semplice, ma sposarsi! E cosa pagana, o cristiana, o divina, o mondana, o borghese o un po’ di tutto? È espres­ sione di quell’inesplicabile erotismo, di quella Wahlverwandtschaft'^^ di anime affini, o dovere, o associazione, oppure scopo di vita, o convenzione in alcuni paesi, oppure è un po’ di tutto? Bisogna ordinare la musica al musicista della città o all’organista, o a tutti e due? È il prete o l’ufficiale di stato civile che deve fare il discorso e iscrivere i nomi nel registro dello stato civile o della parrocchia? Il matrimonio va cele­ brato al suono dello z u f o l o o p p u r e nel silenzio in cui si ode il sussurro come di “fate nelle grotte delle notti d’estate”?^'* Eppure, ogni marito ritiene di aver eseguito un pezzo così composito, un passaggio così complesso da superare qualsiasi altro in difficoltà nel momento in cui ha contratto matri­ monio, e di continuare a eseguirlo nella sua vita coniugale. Miei cari amici! Non pensate che dovremmo, invece di regali di nozze e di congratulazioni, dare un ammonimento a ciascuno degli sposi, e due al matrimonio per via della loro ripetuta disattenzione? Esprimere un’idea singola nella pro­ pria vita può già richiedere un notevole sforzo, ma pensare una cosa così complessa cercando di conferirle unità, espri­ mere una cosa così complessa in modo che ogni singolo ele­ mento trovi il suo spazio senza per questo toglierlo agli altri: sì, in verità chi sa far questo è un grand’uomo. Eppure, è quel che fa ogni marito, non c’è dubbio che lo faccia, non C O SÌ

Die Wahlverwandtschaften (Le affinità elettive, 1809) sono il grande romanzo di G oethe ispirato al tema alchimistico delle attrazioni naturali fra le anime. Cioè, nel genere pastorale. A . CEhlenschlager, Aladdin, iii (cfr. nota 21 a p. 208).

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dice forse che lo fa nell’immediato? Se la cosa va fatta nel­ l’immediato, occorre far leva su un’immediatezza di più ele­ vata natura, che abbia permeato l’intera riflessione. Ma di questo non si fa alcun cenno. Quanto a chiederlo a un ma­ rito, non ne vale la pena. Chi ha commesso una sciocchezza una volta non si libera mai delle conseguenze che ne deri­ vano. La sciocchezza consiste nell’essersi impegolati in questo modo; e si vendica su di lui, quando si accorgerà di quel che ha fatto. Talvolta ha fortuna, diventa patetico, e crede, sposandosi, di aver fatto la cosa più saggia di tutte; talaltra batte in ritirata, talaltra ancora, facendo di necessità virtù, fa l’elogio del matrimonio; ma inutile aspettarsi una unità di pensiero che dia coerenza ai disjecta membra'^^ delle più eterogenee concezioni di vita. Essere nient’altro che un marito è una cosa da niente, essere un seduttore lo stesso, fare esperimenti con una donna per puro passatempo è anch’esso uno scherzo. In fondo, gli ultimi due metodi comportano altrettante concessioni da parte dell’uomo alla donna di quante ne faccia il matrimonio. Il seduttore si affermerà con l’inganno, ma il fatto che egli inganni, che voglia farlo, che ne abbia il gusto, è anche espressione della sua dipendenza dalla donna, non meno di quanto lo sia per lo sperimentatore. A volerlo immaginare, un rapporto positivo con la donna dovrebbe essere così meditato che, proprio per questo, nessun rapporto con lei sarebbe possibile. Essere un marito encomiabile per poi sedurre alla chetichella tutte le ragazze, spacciarsi per un seduttore per poi nascondere in sé tutti gli ardori del romanticismo sarebbe almeno qualcosa, ma la conM embra disperse: Orazio, Satire, i, 4, 62.

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cessione al primo grado si vanifica sempre al secondo. L ’uomo trova tuttavia la sua vera idealità solo in una redupli­ cazione,^^ Ogni esistenza immediata deve essere annullata, e l’annullamento dev’essere costantemente assicurato da una formulazione falsa. Questa reduplicazione non è comprensi­ bile per la donna e le rende impossibile definire la natura dell’uomo. Se la donna potesse avere la sua natura in tale reduplicazione, non ci si potrebbe immaginare alcuna rela­ zione erotica con lei, e poiché la sua natura è manifestamente quello che è, il rapporto erotico è turbato dalla disposizione erotica nella natura dell’uomo, che trae costantemente vita dall’annullamento di ciò che è vita per lei. Sto forse predicando il convento e mi chiamo a ragione Eremita? Niente affatto. Del convento non parliamo nep­ pure. Anch’esso non è che un’espressione immediata dello spirito, e lo spirito non si può esprimere nell’immediato.'^^ Usare oro, o argento, o banconote non fa alcuna differenza, ma chi regolarmente non spende un soldo che non sia falso capisce cosa intendo dire. Chi prende ogni espressione imme­ diata per un falso, lui e solo lui è più al sicuro che non se fosse in convento; è un eremita, anche se viaggia in omnibus dalla mattina alla sera.» Victor non aveva neanche finito, che il S a r t o s i alzò di N e ll’uso tecnico di Kierkegaard la reduplicazione è la dialettica, nella rifles­ sione, dell’immediato con la sua rappresentazione intellettuale. N ella dialettica hegeliana, lo spirito trova espressione solo quando la rifles­ sione ha annientato l’immediato. C o m ’è progettato nei Diari (Pap. iv A 35), il Sarto - l’ unico personaggio nuovo di In vino veritas - è «un a natura profondamente umoristica... che usa tutto, denaro, influenza, per rendere le donne ridicole, sempre mostrandosi nei loro con­ fronti più insinuante possibile e stordendole a forza di lusinghe e di chiacchiere; non perché cerchi le loro grazie (è troppo spirituale per questo), ma per riuscire a man­ darle vestite nel modo più ridicolo possibile, e appagare così il suo disprezzo».

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scatto, fece cadere una bottiglia di vino che gli stava davanti, e cominciò così. «Ben detto, cari amici, ben detto. Più vi sento parlare, più mi convinco che siete dei congiurati; vi saluto come tali, vi in­ tendo tali, giacché i congiurati si riconoscono da lontano. E tuttavia, che cosa ne sapete, che cos’è la vostra esile teoria, cui voi date forma di esperienza, o la vostra modesta espe­ rienza, che rivoltate per farne una teoria; voi che un mo­ mento sì e uno no ora credete, ora v ’illudete? No, io conosco la donna - dal suo lato debole, il che vuol dire che la co­ nosco. Nel mio studio non rifuggo da nessun orrore né ri­ fuggo da nessun mezzo per assicurarmi di ciò che ho capito; poiché sono pazzo, e pazzo bisogna essere per capirla; del resto, chi non lo è già, lo diventa dopo averla capita. Come il brigante si fa il suo nascondiglio nei pressi della strada più trafficata, e il formichiere la tana nella sabbia asciutta, e il corsaro il rifugio in prossimità dei mugghianti flutti, così, in mezzo alla folla affaccendata, io rendo il mio negozio di moda seducente e irresistibile per la donna quanto il Monte di V e n e r e p e r l’uomo. È in un negozio di moda che si impara a conoscere la donna, praticamente e da capo a piedi, senza pericolo di irruzioni teoriche. Certo, anche se la moda non significasse altro che la capacità della donna di spogliarsi di tutto nell’ardore della sua smania, sarebbe già qualcosa. Ma così non è, la moda non è voluttà manifesta, non è disso­ lutezza tollerata, ma un contrabbando di indecenza che si fa ^ L a leggenda del soggiorno sul M onte di Venere e del pellegrinaggio a Rom a del poeta duecentesco Tannhauser, diffusa in poemi e Volkslieder dal Quattrocento ^ poi, è ripresa largamente dai romantici tedeschi (Tieck, Arnim, Brentano, i Grimm), per culminare poi neUa famosa opera di W agner.

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passare per decenza. E come nella Prussia pagana la fanciulla in età da marito portava un campanello il cui tintinnio era un segnale per gli uomini, così la dipendenza della donna dalla moda è un perpetuo richiamo sonoro non tanto per dissoluti, quanto per raffinati voluttuosi. Tutti credono che la fortuna sia donna. Oh! Certo, essa è incostante, ma solo per qualche aspetto, poiché può dar molto, e in questo senso non è donna. No, è la moda a esser donna, poiché la moda è l’inco­ stanza dell’insensatezza, e non conosce che un effetto, quello di diventare sempre più stravagante. Se si vuole conoscere la donna, un’ora nel mio negozio vai più di tanti anni e giorni al di fuori; dico il mio negozio, perché è l’unico nella capitale, e non v’è pericolo di concorrenza; chi oserebbe rivaleggiare con chi si è votato senza riserva e si sacrifica come un sommo sacerdote al culto di quest’idolo? No, non v’è cerchia raffi­ nata in cui il mio nome non appaia per primo e ultimo, non v’è salotto borghese in cui sentire il mio nome non ispiri, come quello del re, un sacro timore reverenziale, e non v’è vestito folle uscito dal mio negozio che non sia preceduto dal mormorio quando attraversa il salone; non v ’è dama di no­ bile famiglia che osi passare davanti al mio negozio senza fermarsi, né una fanciulla borghese che passi senza sospirare e pensare; se solo avessi i soldi! Non la imbroglierei certo. Io non imbroglio nessuno; vendo le cose più eleganti e più pre­ ziose ai prezzi più bassi, vendo perfino sotto costo, tanto poco desidero guadagnare, anzi ogni anno ci rimetto grandi somme di tasca mia. Tuttavia voglio vincere, assolutamente, sono pronto a dare il mio ultimo soldo per assoldare, corrom­ pere gli organi della moda, pur di vincere la partita. Provo una voluttà senza eguali nel prendere stoffe preziose, ta­ gliarle, ritagliare dei veri merletti di Bruxelles per farne un

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costume da pagliaccio che poi svendo ai prezzi più bassi, stoffe garantite e alla moda. Forse voi credete che la donna desideri essere alla moda solo in certi momenti. Niente affatto, lo desidera sempre, ed è il suo unico pensiero. Poiché la donna ha spirito, ma lo usa con saggezza pari a quella con cui il figliol prodigo usava il suo danaro, e possiede un’elevatissima capacità di riflessione, poiché non vi è niente di tanto sacro che ella non trovi imme­ diatamente commensurabile ai bei vestiti e alla loro più no­ bile espressione, la moda; niente di strano che lo trovi com­ mensurabile, poiché è la moda, il sacro; e non v’è nulla di tanto insignificante che ella non riesca a rapportare all’abbi­ gliamento e alla sua più sciocca espressione, la moda; e non v’è particolare del suo abbigliamento, neppure il più piccolo nastro, che ella non metta in qualche modo in relazione alla moda, per poi accorgersi in un batter d’occhio se la signora che passa l’ha notata; giacché per chi credete che si faccia bella, se non per le altre donne! Perfino nel mio negozio, dove ella viene per abbigliarsi all’ultima moda, perfino lì è vestita alla moda. Come vi sono costumi da bagno e abiti per l’equitazione, così v’è anche un particolare tipo di abbiglia­ mento con cui si usa andare in boutique. Si tratta di vestiti che non hanno l’indecenza del négligé con cui una signora ama farsi sorprendere la mattina presto. La trovata, in quel caso, è la sua femminilità e la civetteria di farsi sorprendere. Il vestito per la moda, invece, vuole essere disinvolto, un po’ leggero senza per questo voler turbare, poiché un sarto è per lei altra cosa che un cavaliere. La civetteria consiste nel mo­ strarsi a un uomo che, a causa della sua posizione, non osa chiedere alla signora alcun riconoscimento femminile, ma deve accontentarsi degli occasionali vantaggi che gli vengono elargiti senza che ella ne abbia consapevolezza, o senza che le

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venga in mente di fare la civetta con un sarto. Il bello sta dunque nel fatto che la femminilità viene in un certo senso lasciata da parte e la civetteria resa innocua nella raffinata superiorità della signora elegante, che sorriderebbe se qual­ cuno facesse allusioni a questo suo rapporto. Nel ricevere una visita in négligéy ella si copre per poi svelarsi nel suo coprirsi, in negozio ella si scopre con estrema nonchalance perché lì si tratta solo di un sarto - e lei è una donna. Lo scialle scivola leggermente e scopre un pezzetto di nudità: se non capisco che cosa significa, che cosa vuole, la mia reputazione è per­ duta; si contrae a priori, gesticola a posteriori, ondeggia sui fianchi, si specchia e vede nello specchio la mia espressione piena d’ammirazione, farfuglia, trotterella, cammina leggera, trascina il piede in modo impudico, si abbandona su una poltrona mentre io, in umile atteggiamento, le porgo un fla­ cone e con gesto di adorazione porto un po’ di frescura ai suoi ardori, mi colpisce maliziosamente con la mano, lascia cadere il fazzoletto, non fa il più piccolo movimento e lascia ciondolare il braccio mentre io mi chino fino a terra per raccoglierlo, glielo porgo e ricevo in cambio da lei un piccolo cenno benevolo. Così si comporta una signora alla moda quando è nel mio negozio. Se Diogene^®® sia riuscito a tur­ bare quella donna che stava in una posizione di preghiera poco conveniente chiedendole se non pensava che gli dèi potessero vederla da dietro, non lo so; ma sono certo che se io dicessi a Sua Grazia nell’atto di chinarsi: “Le pieghe del suo vestito non cadono secondo la moda” , lei ne sarebbe più paurosa che di un’offesa agli dèi. Guai a chi non lo capisce! E una sguattera, una Cenerentola, Pro dii i m m o r t a l e s che Diogene Laerzio, vi, 37. Per gli dèi immortali.

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cos’è una donna quando non è alla moda, per deos obsecro,^^^ che cos’è quando è alla moda! Se è vero? Fate la prova. Che l’amante, mentre l’amata gli si abbandona al collo sussurrandogli con voce impercettibile: tua per sempre, nascondendo il viso sul suo petto, che l’a­ mante le dica: “Dolce Catinka, la tua pettinatura non è per niente alla moda” . Forse gli uomini non se ne preoccupano, ma chi lo sa e può farsi vanto di saperlo è l’uomo più perico­ loso del regno. Delle ore di felicità trascorse dall’amante con l’amata prima del matrimonio io non so nulla; ma le ore di ebbrezza che ella trascorre nel mio negozio gli sfuggono sotto il naso. Senza la mia autorizzazione e la mia approva­ zione, un matrimonio è un atto privo di validità oppure un’i­ niziativa molto plebea. Che arrivi pure il momento in cui devono incontrarsi davanti all’altare, che ella avanzi con la coscienza più pura di questo mondo, che tutto sia stato pure comprato da me e provato davanti a me, se io mi precipitassi a dire: “Mio Dio, signorina, la coroncina di mirto è tutta storta” - forse la cerimonia verrebbe rimandata. Ma gli uo­ mini ignorano tutto quello che i sarti sanno bene. Per con­ trollare la riflessione della donna occorre una riflessione così enorme che può riuscirvi solo un uomo che si voti a questa occupazione, e ciò a condizione che sia naturalmente dotato. Quindi, felice l’uomo che non intrattiene rapporti con nes­ suna donna; la donna non gli appartiene, benché non appar­ tenga ad alcun altro, ella appartiene al fantasma creato dalla frequentazione contro natura della riflessione femminile con la riflessione femminile: la moda. Ecco perché la donna do­ vrebbe sempre giurare sulla moda, ché allora il suo giura­ vi giuro sugli dèi.

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mento avrebbe senso, giacché la moda è Tunica cosa a cui ella pensi costantemente, l’unica che le sia veramente congeniale e che capisca a fondo. E dal mio negozio che si è propagata nel mondo elegante tra tutte le signore distinte la lieta no­ vella che la moda impone l’uso di un cappello speciale per andare in chiesa, non solo, ma di un cappello diverso a se­ conda che si tratti della messa del mattino o di quella vesper­ tina. Non appena le campane annunciano la messa, davanti alla mia porta si ferma la carrozza. Ne scende Sua Grazia (giacché anche questo è noto, nessuno all’infuori del sarto sa acconciare il cappello come si deve); io mi precipito incontro a lei con un profondo inchino, la conduco nella mia saletta e le aggiusto tutto mentre ella si limita a vegetare languida­ mente. Ora è pronta, si guarda allo specchio; veloce come il messaggero degli dèi, mi affretto a precederla, apro la porta della saletta e m’inchino, corro alla porta del negozio, ap­ poggio il braccio sul petto come uno schiavo orientale, ma poi, incoraggiato da una benevola riverenza, oso perfino mandarle un bacio con la mano in segno di ammirata adora­ zione - sale già in carrozza, guardate! Ha dimenticato il libro dei salmi; mi precipito a porgerglielo dal finestrino, mi per­ metto di ricordarle ancora una volta di tenere la testa un tantino piegata a destra e di aggiustarsi lei stessa il cappello se, scendendo dalla carrozza, dovesse mandarlo un po’ di traverso. E lei parte, pronta a farsi edificare. Forse voi credete che siano solo le signore eleganti a osan­ nare la moda; tutt’altro! Basti guardare le mie sartine, suUe cui toilettes non risparmio nulla, perché il mio negozio possa proclamare con forza i dogmi della moda. Le mie operaie formano un coro di mezze matte; io stesso, sommo sacerdote, le precedo come luminoso esempio e spreco l’inverosimile per il solo gusto di rendere ogni donna ridicola grazie alla

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moda. Non credo infatti al seduttore che si vanta di poter comprare la virtù di qualsiasi donna, ma credo che qualsiasi donna in breve tempo si infatui per la follia contagiosa dell’autoriflessione che è la moda, e che la corrompe in modo ben diverso dalla seduzione. Ci ho provato più di una volta. Se non ci riesco da solo, aizzo contro di lei un paio di schiave della moda al suo rango; poiché, come si ammaestrano i ratti a mordere altri ratti, così il morso della donna infatuata è simile a quello della tarantola. Ed è soprattutto pericoloso per l’uomo che si avvicina per offrirle aiuto. Se io serva Dio o il diavolo non lo so, ma ho ragione, voglio aver ragione anche a costo del mio ultimo centesimo, e finché non mi sprizzerà il sangue dalle dita. Il fisiologo disegna la vita della donna per dimostrare le terribili conseguenze del corsetto; a fianco, disegna la figura normale. Giusto, ma solo una delle due figure è realistica: il corsetto lo portano tutte quante! Rappresentate, dunque, le tristi e deformi stravaganze della patita di moda, descrivete l’insinuante riflessione che la con­ suma, e dipingete il pudore femminile, che conosce tutto fuorché se stesso: e, una volta fatto, avrete anche condannato la donna, e, in realtà, l’avrete condannata orribilmente. Se troverò mai una fanciulla tanto modesta e sottomessa da non essere pei ^ertita dalla sconveniente frequentazione con le donne, di .erto cadrà anche lei. La prendo nella mia rete, ed eccola sui 'altare sacrificale, ossia nel mio negozio. Con lo sguardo p. ù sardonico di cui sappia armarsi una raffinata disinvoltura^ le prendo le misure; lei muore di paura, una risata dalla stanza vicina dove lavorano le mie ben ammaestrate aiutanti la distrugge. Quando ho finito di agghindarla alla moda, quando sembra più matta di un matto, tanto matta che non Faccetterebbero nemmeno in manicomio, se ne va felice;

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nessun essere umano, forse neppure un dio, potrebbe mai farle paura, dal momento che ora è alla moda. Mi capite ora, capite perché vi ho chiamati congiurati, almeno alla lontana? Capite la mia concezione della donna? Tutto nella vita è questione di moda, questione di moda il timor di Dio, e l’amore, e le crinoline, e l’anello al naso. Perciò farò tutto quanto è in mio potere per venire in aiuto del nobile genio che desidera ridere del più ridicolo fra gli animali. Visto che la donna ha ridotto tutto alla moda, voglio prostituirla con l’aiuto della moda, come si merita; nel mio lavoro di sarto non ho pace, la mia anima viene presa dalla frenesia quando penso al mio compito; le manca ancora di giungere a portare un anello al naso. Non cercatevi quindi un’innamorata, rinunciate all’amore come al più pericoloso dei vicini, poiché anche la vostra amata potrebbe arrivare a portare un anello al naso.» Poi Johannes il Seduttore parlò così: «Onoratissimi amici, forse vi tormenta Satana? Parlate con delle facce da funerale, avete gli occhi rossi di lacrime e non di vino. State quasi muovendo alle lacrime anche me, poiché un amante infelice si presta a un ruolo ben triste nella vita. Hinc illae lacrymae. Io sono invece un amante felice, e non desidero altro che rimanerlo. E forse una concessione alla donna, che Victor teme tanto? Perché no? È una concessione. Anche il fatto che io sciolga il nastro di questa bottiglia di champagne è una concessione, e che ne versi il vino spumeggiante nella coppa è anch’esso una concessione, e che porti la coppa alle labbra è di nuovo una concessione - ora la vuoto - concedo. 103 D i

qui le vostre lacrime; Terenzio, Andria, 126.

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Ora, però, la coppa è vuota, quindi non faccio più conces­ sioni. Lo stesso con le fanciulle. Che un amante infelice abbia pagato caro per un bacio, mi dimostra solo che egli non sa né goderne né privarsene. Io non lo pago mai troppo caro; la­ scio che a farlo siano le fanciulle. Che cos’è un bacio? Per me è Vargumentum ad hominem'^^'^ più bello, più piacevole, più convincente e quasi più probante, e poiché ogni donna al­ meno una volta nella vita ricorre spontaneamente a questo argomento, perché non dovrei lasciarmene convincere! Il no­ stro giovane amico preferisce pensarci su. Può comprarsi un “bacio” dal pasticciere e riflettere. Io voglio godere, poche chiacchiere. Lo dice anche la vecchia canzone popolare sul bacio: es ist kaum zu sehn, es ist nur fùr Lippen, die genau sich verstehen,^^^ a tal punto che la riflessione sarebbe una follia e un’indiscrezione. Chi all’età di vent’anni non capisce che esiste l’imperativo categorico di godere è uno sciocco, e chi non sa come metterlo in pratica è come un piagnone di Christiansfeld.^®^ Ma voi volete cambiare la natura della donna poiché siete degli amanti infelici. Gli dèi lo proibi­ scano! La donna mi piace così com’è, proprio così com’è. Perfino il discorso scherzoso di cui parlava Constantin con­ tiene un segreto desiderio. Io, invece, sono galante. E perché no? La galanteria non costa nulla e porta tutto, e condiziona ogni piacere erotico. La galanteria è la massoneria dei sensi e deUa voluttà tra uomo e donna. È una lingua naturale, come del resto la lingua dell’amore. Non consiste di suoni, ma di Prova personale. « S i vede appena, è solo per labbra che s’intendono appieno.» Ballata tedesca non identificata. A Christiansfeld (cittadina dello Jutland meridionale) era stata fondata una confraternita di Fratelli M oravi (herrnhutisti).

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desideri camuffati che cambiano continuamente funzione. Capisco perfettamente che un amante infelice sia così poco galante da voler convertire il suo deficit in una lettera di cre­ dito per l’eternità. Al tempo stesso non lo capisco, perché per me la donna è piena di valuta pregiata. Lo assicuro a ogni donna, e dico la verità, una verità da cui sono certo l’unico a non essere ingannato. Nelle mie quotazioni niente lascia sup­ porre che una donna sedotta valga meno dell’uomo. Io non raccolgo fiori appassiti, li lascio ai mariti perché ne adornino la mazza del lunedì grasso. Se Edvard, per esempio, vo­ lesse ripensarci innamorandosi di nuovo di Cordelia o ripe­ tendo il suo innamoramento da cima a fondo, che lo faccia: perché mai dovrei immischiarmi in cose che non mi riguar­ dano? Le ho già spiegato a suo tempo che cosa pensavo di lei, e in verità mi ha anche convinto, e nel più pieno dei modi, che la mia galanteria era al posto giusto. Concedo. Concessi. Se dovesse venirmi davanti agli occhi una nuova Cordelia, metterei in scena Uanello n. 2.10^ Ma voi siete amanti infelici e pertanto complici; vi fate ingannare più di quanto non accada alle fanciulle, nonostante le vostre notevoli qualità. Ma il senso della vita sta nella risoluzione, nella risoluzione del desiderio. Il nostro giovane amico rimane sempre fuori. Victor è un sognatore; Constantin ha pagato caro il suo buon senso; il Sarto delira: A che serve tutto ciò! Di fronte a una Il ramo di betulla decorato con cui i bambini danesi usavano svegliare i genitori il lunedì di carnevale. Cordelia è la protagonista passiva (la sedotta) del Diario del Seduttore-, Edvard è il suo primo fidanzato. 10’ Il drammaturgo e attore tedesco Franz Ludw ig Schròder aveva scritto due drammi galanti (L ’Anello e la sua continuazione, tradotta in danese come L ’Anello n. 2, ovvero il matrimonio infelice per delicatezza) che ottennero un grande successo al Teatro Reale di Copenaghen, dove vennero recitati quasi senza interruzione dal 1790 al 1830.

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ragazza sola, tutti e quattro non concludereste niente. Ma chi ha abbastanza esaltazione per idealizzare, abbastanza gusto per unirsi agli altri nel momento del piacere, abbastanza buon senso per saper tagliare, definitivamente come taglia la morte, abbastanza delirio per voler tornare a godere - è il prediletto degli dèi e delle fanciulle. Ma a che serve ora parlare? Non voglio fare proseliti, non è il luogo adatto. E vero che assaporo il vino, che godo della dovizia del ban­ chetto, va tutto bene; ma se fossi in compagnia di una ra­ gazza, allora sì che parlerei. Quindi ringrazio Constantin del banchetto, del vino e della magnifica cornice; trovo però piuttosto mediocre l’idea dei discorsi. Ma per non concludere con questa osservazione, farò un elogio della donna. Come per poter parlare dignitosamente della divinità occorre es­ serne ispirati e quindi imparare dalla divinità stessa che cosa dire, così è quando si tiene un discorso sulla donna. Giacché la donna non è, come non lo è Dio, un’idea del cervello dell’uomo, un sogno a occhi aperti, un oggetto della fantasia su cui discutere prò et cantra. No, soltanto da lei s’impara a parlare di lei. E più sono quelle da cui si è imparato, meglio è. La prima volta si è incerti, la seconda si è un po’ più sicuri, come quando nelle dispute erudite si utilizzano le espressioni cortesi dell’ultimo oratore contro il successivo. Tuttavia, nulla è perduto. Poiché, come il bacio non è uno spuntino, e un abbraccio non è uno sforzo fisico, questa non è la prova di un teorema matematico che rimane identico cambiandone le lettere. Quello che può andare per la matematica e i fantasmi non va per l’amore e per la donna, giacché ogni nuova donna costituisce una prova nuova che conferma, in modo diverso, la giustezza del teorema. La mia gioia sta nel fatto che la donna, lungi dall’essere meno perfetta dell’uomo, sia invece l’essere più perfetto. Rivestirò quindi il mio discorso di mito.

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e sarei felice per conto della donna, che avete così ingiusta­ mente offeso, se le mie parole suonassero a condanna delle vostre anime quando vi farò vedere il piacere che, come la frutta a Tantalo, vi scapperà di mano poiché voi l’avete fug­ gito e avete offeso la donna. E questo il solo modo per umi­ liarla, nonostante che la donna sia ben al di sopra dell’offesa e che chiunque osi offenderla venga punito. Io non offendo nessuno. Sono le invenzioni e le calunnie degli uomini spo­ sati, mentre, al contrario, io stimo la donna molto di più del marito. In origine vi era un solo sesso, come narrano i Greci, ed era quello dell’uomo. Egli era splendidamente dotato per fare onore agli dèi; così splendidamente dotato, che agli dèi successe quello che talvolta accade al poeta che ha riversato nella sua creazione artistica ogni energia: divennero invidiosi dell’uomo. E, quel che è peggio, temettero che egli potesse piegarsi malvolentieri al loro giogo, e perfino, seppure senza motivo, che potesse arrivare a far tremare il cielo. Essi ave­ vano dunque creato una forza che non credevano di poter più soggiogare. Nel consiglio degli dèi dominavano così in­ quietudine e preoccupazione. Molto si erano prodigati, con generosità, per creare l’uomo; ora bisognava ricorrere a ogni mezzo, per legittima difesa, poiché, così pensavano gli dèi, ne andava del loro potere; né si poteva abolire l’uomo, come un poeta abolisce un suo pensiero. Con la forza non era possibile costringerlo, perché allora avrebbero potuto costringerlo gli dèi; ma era proprio di questo che disperavano. Bisognava catturarlo e assoggettarlo con una forza inferiore alla sua e tuttavia più efficace, in grado comunque di sottometterlo. È il mito di Pandora, narrato nella Teogonia di Esiodo ( w . 590 sgg.).

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Che poteva mai essere quella forza miracolosa? La necessità però insegna anche agli dèi a superare se stessi in ingegnosità. Cerca cerca, alla fine trovarono. Quella forza era la donna, la meraviglia del creato, una meraviglia che perfino agli occhi degli dèi era più grande dell’uomo, una scoperta di cui gli dèi, ingenui com’erano, non finivano di esaltarsi. Che dire di più in lode della donna, se non che doveva essere in grado di fare cose di cui neppure gli dèi si credevano capaci; che altro aggiungere, se non che ella vi riuscì; e che cosa mirabile dev’essere, per poterlo fare! Ecco lo stratagemma degli dèi. L ’incantatrice fu creata per l’inganno; non appena aveva affa­ scinato l’uomo, cambiava natura e lo imprigionava in tutte le prolissità del finito. Era proprio quel che gli dèi volevano. E jhe cosa ci può essere di più dolce, di più piacevole e di più affascinante di quello che gli dèi, a difesa del loro potere, hanno inventato come unica cosa capace di adescare l’uomo? Ed è veramente così: la donna è in assoluto la cosa più sedu­ cente che esista in cielo e in terra. Al confronto con la donna, l’uomo è un essere di grande imperfezione. E lo stratagemma degli dèi riuscì. Non sempre, però, poiché in tutti i tempi vi sono stati uomini, isolati, che si sono accorti della frode. Certo, vedevano la grazia della donna, e più di qualsiasi altro, ma subodoravano il tranello. Io li chiamo gli erotici, e mi considero uno di loro; gli uomini li chiamano seduttori; le donne non sanno come chiamare una persona per loro indescrivibile. Questi erotici sono esseri for­ tunati. Essi vivono in un fasto maggiore di quello degli dèi, poiché mangiano costantemente un cibo più raffinato del­ l’ambrosia e bevono bevande più dolci del nettare: non si cibano che dell’idea più seducente che abbia concepito il più astuto pensiero degli dèi, non mangiano che l’esca stessa Oh! delizia senza pari, oh! felice modo di vivere! Non man­

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giano che l’esca, ma non vengono mai catturati. G li altri uomini si buttano avidamente sull’esca come i contadini si buttano sull’insalata di cetrioli, e così vengono presi. Solo l’erotico sa apprezzare l’esca, e apprezzarla all’infinito. La donna lo intuisce, e per questo v ’è tra i due una tacita com­ prensione. Ma egli sa anche riconoscere l’esca, e tiene il se­ greto per sé. Che non sia possibile immaginare niente di più meravi­ glioso, di più piacevole e di più seducente di una donna, lo garantiscono gli dèi, e la necessità che li spinse ad aguzzare l’ingegno è anch’essa una prova che ce l’hanno messa tutta e che per creare la natura della donna hanno dato fondo alle forze del cielo e della terra. Lascio ora il mito. La nozione di uomo corrisponde alla sua categoria. Si può dunque concepire l’esistenza di un unico tipo di uomo e basta. L ’idea di donna, invece, è un universale che non si esaurisce in nessuna donna. Ella non è ebenburall’uomo, ma viene dopo; parte dell’uomo, e tuttavia più perfetta di lui. Ammettiamo che gli dèi abbiano preso una piccola parte dell’uomo nel sonno, per paura di sve­ gliarlo prendendone t r o p p o , q che l’abbiano diviso in due, e di una sua metà abbiano fatto la donna; in ogni caso, è stato l’uomo a essere diviso. È dunque solo nella suddivisione che la donna è in un rapporto di parità con lui. È un in­ ganno, ma lo diventa solo in un secondo momento, e per chi si lascia ingannare. E il finito, ma all’inizio appare come fiD i pari grado. Secondo il racconto della Genesi, 2, 21 sgg. Secondo il mito dell’ermafrodito originario, narrato da Aristofane nel Sim ­ posio.

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nito potenziato dall’ingannevole infinito di ogni illusione di­ vina e umana. Non siamo ancora all’inganno, ma basta un attimo e nell’inganno si cade. In quanto finito, la donna è un sostantivo collettivo: la donna è molte donne. Solo l’erotico è in grado di capirlo, ed ecco perché riesce ad amarne molte, mai ingannato, ma pronto ad assorbire tutta la voluttà che l’astuzia degli dèi ha saputo predisporre. Così, la donna non si esaurisce in una formula, ma è un infinito di finiti. A voler pensare la sua categoria, si finisce come chi scruti un oceano di fantasmagorie che si ricompongono continuamente, o chi si perda contemplando la cresta dei flutti, dove fanciulle di schiuma si prendono gioco di lui, poiché la categoria della donna non è che un laboratorio di possibilità, ed è ancora una volta per l’erotico che questa possibilità diviene sorgente inesauribile di fantasticherie. Così, gli dèi la fecero fina ed eterea come la nebbia di una notte d’estate, eppure carnosa come un frutto maturo, leg­ gera come un uccello, benché carica del desiderio del mondo, leggera poiché il gioco delle forze si condensa nel centro invisibile di un rapporto negativo, il rapporto di lei con se stessa; slanciata nella figura, disegnata con un tratto deciso, eppure tondeggiante allo sguardo nelle curve della bel­ lezza, perfetta, eppure continuamente con l’aria di essere stata appena ultimata, fresca, soave, rinfrescante come la neve appena caduta e tuttavia pronta alla quieta trasparenza del rossore, felice come uno scherzo che fa dimenticare tutto, calmante come la meta stessa del desiderio, appagante per il fatto di essere lei ad accenderlo. E gli dèi avevano calcolato che l’uomo, vedendola, ne fosse sorpreso come chi vede se L a famosa teoria della linea curva come linea della bellezza è di W . Hogarth (The Analysis of Beauty, i, 1753).

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stesso, e tuttavia, nel familiarizzarsi con la vista di lei, ne fosse sorpreso come chi vede se stesso nel riflesso della perfe­ zione, ne fosse sorpreso come chi vede qualcosa di assolutamente impensato e vede tuttavia che gli sarebbe dovuto ve­ nire in mente, vede che cosa è necessario nella vita e lo percepisce tuttavia come l’enigma stesso della vita. E proprio questa contraddizione nella sorpresa suscita, con Tamore, il desiderio, mentre la sorpresa lo sospinge sempre più vicino, così che egli non può smettere di guardare, né di sentire una certa familiarità, ma senza osare avvicinarsi, e senza per questo smettere di desiderare. Una volta che gli dèi ebbero concepito la figura di lei, temettero addirittura di non riuscire a darle forma. Ma, più di ogni altra cosa, temevano lei, la donna. Non osavano in­ fatti farle sapere quanto fosse bella, per timore che la confi­ denza rovinasse lo stratagemma. E questo fu il coronamento dell’opera. Gli dèi portarono a compimento la sua creazione, ma le nascosero tutto nell’ignoranza della sua innocenza, e tornarono a nasconderglielo nell’impenetrabile mistero del pudore. Ora la donna era pronta, e la vittoria assicurata. Era invitante, a forza di ritrarsi, indispensabile, a forza di scap­ pare, irresistibile, a forza di opporre continuamente resi­ stenza. Gli dèi esultarono. E non c’è lusinga alcuna al mondo pari alla donna; non c’è lusinga assoluta quanto l’innocenza, non c’è tentazione ammaliante quanto il pudore, non c’è in­ ganno pari alla donna. Non sa nulla, eppure nel suo pudore si cela un presentimento della natura; è separata dall’uomo, e il suo pudore è una barriera più insormontabile della spada messa da Aladino tra lui e Gulnare;!^^ eppure l’erotico, che. A . GEhlenschlàger, Aladdin, il.

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come Piramo,^^^ appoggia il capo a quella barriera del pu­ dore, vi percepisce confusamente da lontano la voluttà di ogni desiderio. Così tenta la donna. G li uomini offrono in pasto agli dèi le cose più squisite che conoscono; allo stesso modo, la donna è per gli dèi un frutto sacrificale senza paragone. Esiste, è lì presente, vicina, eppure infinitamente lontana, nascosta nel suo pudore, finché non rivela ella stessa il suo nascondiglio; senza saperne il perché, non è lei, ma la vita stessa a fare da astuto delatore. E maliziosa come un bimbo che, giocando, fa capolino dal suo nascondiglio, e tuttavia la sua malizia è inspiegabile, lei stessa ne è ignara; è sempre enigmatica, enigmatica quando abbassa gli occhi, enigmatica quando affida allo sguardo messaggi, che né il pensiero, né tanto meno la parola sono in grado di seguire. Eppure lo sguardo è “l’interprete” dell’anima. Dove cercare allora la spiegazione, se lo stesso interprete parla in modo incompren­ sibile? Ella è calma come la quiete della sera quando non si muove foglia, calma come una coscienza ancora inconsape­ vole; i battiti del suo cuore sono così regolari che non li si sente neppure; eppure l’erotico, che ascolta con la precisione di uno stetoscopio, vi scopre a inconsapevole accompagna­ mento il pulsare ditirambico della voluttà. Spensierata come il soffio del vento, appagata come le profondità del mare, eppure nostalgica al pari dell’inspiegabile. Miei cari amici! La mia mente si è indicibilmente placata; capisco, ora, che anche la mia vita esprime un’idea, anche se voi non mi capite. An­ ch’io ho scoperto il segreto dell’esistenza, anch’io sono al servizio di qualcosa di divino, e sono certo di non farlo in­ O vidio, Metamorfosi, iv, vv. 55-70.

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vano. Com’è vero che la donna è un inganno degli dèi, così è vero che vuole essere sedotta; e poiché la donna non è un’idea, la verità che ne segue è che l’erotico ne vuole amare il più gran numero possibile. Quale voluttà sia godere l’inganno senza esserne ingannati lo capisce solo l’erotico. Ma quanto sia bello essere oggetto di seduzione lo sa, in fin dei conti, solo la donna. L ’ho impa­ rato da lei, sebbene io non abbia impiegato molto tempo per darmene una spiegazione, affermandomi piuttosto al servizio dell’idea per mezzo di una rottura improvvisa quanto quella della morte; perché tra fidanzato e rottura c’è lo stesso rapporto che tra maschile e femminile. Solo la donna ne è cosciente, e divide questa coscienza con il suo seduttore. Sono cose che nessun marito capisce. Ella d’altronde non gliene parla mai. Accetta il suo destino, e intuisce che non può essere sedotta che una sola volta. È per questo che non si adira mai col suo seduttore. Intendo dire nel caso in cui egli l’abbia veramente sedotta e abbia dato voce all’idea. Natural­ mente, rompere una promessa di matrimonio o cose del ge­ nere non sono che sciocchezze, lontane dalla seduzione. In tal senso, essere sedotta non è poi per la donna una sfortuna troppo grande, anzi, è una fortuna. Una ragazza sedotta bene può diventare una moglie per bene. Anche se io non fossi capace di fare il seduttore, per quanto io riconosca i miei limiti in questo ruolo, anche se volessi fare il marito, sce­ glierei sempre una ragazza sedotta, a evitare di dover essere il primo a sedurre mia moglie. Anche il matrimonio esprime un’idea, ma a quest’idea è del tutto indifferente quanto, per la mia idea, è l’assoluto. Di conseguenza non si dovrebbe mai

intraprendere il matrimonio con l’inizio adatto invece a una storia di seduzione. Una cosa è certa: per ogni donna c’è un seduttore. La sua fortuna consiste appunto nell’incontrarlo. Nel matrimonio, invece, sono gli dèi a trionfare. In quel caso la già sedotta attraversa la vita a fianco del marito, di tanto in tanto pensa al passato con nostalgia, si rassegna al suo destino, finché non giunge al limitare della vita. Muore, ma non nel senso in cui muore l’uomo; si volatilizza e si dissolve nell’inspiegabile di cui l’hanno fatta gli dèi, svanisce come un sogno, come un’apparizione provvisoria che non serve più. Poiché, che altro è la donna se non sogno, e al tempo stesso la suprema realtà? In tal senso la capisce e la conduce l’erotico, e viene da lei condotto, nell’istante della seduzione, fuori dal tempo, nella patria di lei e dell’illusione. Presso il marito, lei resta nel tempo, e così lui presso di lei. Meravigliosa natura, se io già non ti ammirassi, sarebbe la donna a insegnarmelo, poiché ella è il sacramento stesso della vita. Tu hai fatto di lei un essere splendido, ma ancor più splendido è che tu non abbia mai creato una donna simile a un’altra. Nell’uomo, l’essenziale è l’essenziale, che è quindi sempre lo stesso; nella donna, l’essenziale è l’accidentale, cioè l’inesauribile differenza. Il suo splendore è di breve du­ rata, ma altrettanto breve è il dolore, quasi non lo avessi neanche avvertito, quando mi si offre nuovamente lo stesso splendore. Di certo, anch’io vedo la bruttezza che può so­ praggiungere più tardi, ma non è così che la vede il suo seduttore.»

Cerchiam o di mantenere così il gioco di parole fra et Brud, rottura, ed en Brud, fidanzata.

In latino nel testo: Venerabile, ossia, secondo la terminologia della Chiesa cattolica, il sacramento per eccellenza, l’ Eucarestia.

Si alzarono da tavola. Era bastato un gesto di Constantin; con

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sincronismo tutto militare, i convitati si trovarono d’accordo al momento di levare le tende. Con l’invisibile bastone del comando, elastico nella mano di Constantin come una bac­ chetta magica, li toccò ancora una volta per sollecitare una fuggevole reminiscenza del banchetto e dei suoi piaceri, par­ zialmente oscurati dall’eccitamento intellettuale provocato dai discorsi, e per far sì che accadesse, come nella risonanza, che quel tono festoso, ormai svanito, tornasse a farsi sentire dai convitati nel breve istante di un’eco. Al momento del commiato, Constantin sollevò il bicchiere colmo, lo vuotò e lo scagliò contro la porta del muro dietro di lui. G li altri seguirono il suo esempio, compiendo quell’azione simbolica con una solennità da iniziati. Così appagarono il piacere del­ l’interruzione, quel piacere imperiale che, più breve di qual­ siasi altro, è però liberatorio come nessun altro. Il piacere dovrebbe cominciare con una libagione, ma la libagione, che getta il bicchiere nella disintegrazione e nell’oblio e ci strappa appassionatamente da ogni rimembranza, quasi che la nostra vita fosse in pericolo, questa libagione è in onore degli dèi inferi. Per rompere e interrompere, ci vuol forza, una forza più grande che per tagliare un nodo, poiché la difficoltà del nodo suscita passione, ma la passione che occorre per interrompere dobbiamo trovarla in noi stessi. Il risultato, al­ l’apparenza, è lo stesso, ma in termini artistici c’è una diffe­ renza abissale tra qualcosa che finisce, che ha termine, e qual­ cosa che si interrompe per un atto di libera decisione: che sia un avvenimento occasionale o una decisione sofferta, che venga dimenticato come la filastrocca del maestro una volta finita la scuola o provocato dal taglio cesareo del piacere, che sia una banalità constatata da molti o il segreto che resta ignoto ai più. Constantin non aveva fatto che un gesto simbolico nel

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gettar via il bicchiere, eppure aveva dato in certo qual modo un colpo decisivo: all’ultimo colpo, infatti, la porta si aprì, e, come chi ha bussato con arroganza alla porta della morte e, al suo aprirsi, vede l’immensità del nulla, tutti videro il corpo dei demolitori pronti a buttar giù tutto - un memento che, istantaneamente, trasformò i convitati in fuggitivi come già aveva, altrettanto istantaneamente, trasformato tutto l’am­ biente circostante in un ammasso di rovine. Davanti alla porta era già pronta una carrozza. Vi presero posto, su invito di Constantin, e partirono spensieratamente, giacché quel quadro di annientamento sullo sfondo aveva dato nuova elasticità all’anima. Si fermarono dopo un miglio; qui Constantin, il loro ospite, si congedò da loro, li informò che c’erano cinque carrozze ai loro ordini; ognuno poteva usarne a suo piacere, andare dove voleva, solo o, se preferiva, in compagnia di una persona di suo gradimento. Non diversamente il fuoco d’artificio, sotto la spinta della polvere da sparo, sale in alto con un solo scoppio, sta fermo un istante ancora, per un attimo tutto raccolto in sé, e poi si disperde in ogni direzione. Mentre si attaccavano i cavalli, gli invitati di quella notte fecero a piedi un pezzetto di strada. L ’aria viva del mattino purificò il loro sangue ardente con una frescura a cui si ab­ bandonarono completamente e con sollievo, mentre le loro sagome, riunite com’erano in gruppo, mi facevano un’impres­ sione fantastica. Poiché se il sole del mattino sfolgora su campi e su prati e su ogni creatura che nella notte ha trovato il riposo e la forza di alzarsi poi felice col sole, c’è nei suoi raggi solo una comprensione reciproca e benefica; ma una comitiva notturna, sorpresa dalla luce del mattino in un’a­ mena cornice naturale, fa quasi un effetto u n h e i m l i c h Si Perturbante; aggettivo tipicamente romantico.

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arriva a pensare a fantasmi sorpresi dall’alba; a creature degli inferi che non sono riuscite a trovare la crepa attraverso cui sparire perché visibile solo al buio; agli infelici che non cono­ scono più la differenza tra il giorno e la notte, inghiottita nelFuniformità della sofferenza. Seguendo un sentiero, attraversarono un campo e giun­ sero a un giardino recintato, al di là del quale appariva sullo sfondo una modesta casa di campagna. In fondo al giardino, dal lato del campo, gli alberi formavano un pergolato. Accor­ gendosi che sotto al pergolato c’era qualcuno, si incuriosi­ rono tutti e, con lo sguardo minuzioso dell’osservatore, cir­ condarono come d’assedio quel piacevole nascondiglio, na­ scosti essi stessi, tesi come poliziotti che stiano spiando qual­ cuno. Come poliziotti: intendiamoci, avevano un aspetto che rovesciava piuttosto le parti, e faceva semmai pensare a ricer­ cati dalla polizia. Ognuno di loro aveva scelto un posto da cui spiare, quando Victor fa un passo indietro e dice al suo vicino: «Mio Dio! E il giudice Vilhelm con sua moglie!». Furono sorpresi - non i due al riparo delle foglie, felici e troppo sprofondati nella gioia domestica per farsi osservatori, troppo tranquilli per ritenersi oggetto di una curiosità che non fosse quella del sole, spintosi piacevolmente fino a loro mentre una brezza gentile faceva ondeggiare i rami, e la pace della campagna e tutte le cose intorno a loro vegliavano sulla quiete del loro rifugio. La coppia felice non fu sorpresa e non notò nulla. Che si trattasse di marito e moglie era chiaro, lo si vedeva subito, bastava essere un po’ osservatori. Anche se nulla al mondo, nulla di aperto o di nascosto mira aperta­ mente o nascostamente a turbare la loro felicità, due amanti non si sentono mai altrettanto sicuri quando stanno insieme; sono felici, eppure sembra che qualche forza voglia separarli.

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tanto si tengono stretti nell’abbraccio, come se ci fosse un nemico da cui difendersi, come se non potessero essere mai rassicurati abbastanza. Non così per gli sposati, né per la coppia del pergolato. Da quanto tempo fossero sposati non si riusciva invece a stabilirlo con sicurezza. I gesti con cui la moglie serviva il tè avevano la sicurezza dell’abitudine, anche se ci metteva un tale impegno, quasi infantile, da sembrare una sposa novella che si trovi nella fase transitoria in cui non sa ancora bene se il matrimonio è uno scherzo o una cosa seria, se fare la pa­ drona di casa è un’occupazione vera o un gioco, un passa­ tempo. Forse era già sposata da tempo, ma non aveva la consuetudine di servire il tè; forse lo faceva solo quando erano in campagna; o forse lo faceva solo quella mattina, che probabilmente aveva un significato particolare per loro. Chi può saperlo? Tutte le ipotesi devono fare i conti con le sin­ gole individualità, ognuna con un’originalità nell’anima che impedisce al tempo di lasciare le sue impronte. Quando il sole d’estate splende in tutto il suo fulgore, si pensa subito o che ci dev’essere una ricorrenza di qualche tipo, poiché non può essere così per un giorno qualsiasi, oppure che splende per la prima volta, tutt’al più una delle prime volte, poiché non è una cosa che si possa ripetere a lungo. Così pensa chi 10 vede una sola volta o lo vede per la prima volta, e io vedevo la moglie del giudice per la prima volta; chi invece lo vede ogni giorno la pensa diversamente, sempre che veda la stessa cosa. Questo, però, è affare del giudice. La nostra ama­ bile padrona di casa era insomma indaffarata: versò l’acqua bollente in un paio di tazze, presumibilmente per riscaldarle, le vuotò, mise le tazze su un vassoio, versò il tè e lo servì con 11 necessario; ecco, aveva finito: era dunque per gioco o sul serio? Non amate il tè? Avreste dovuto trovarvi al posto del

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giudice. A me, in quel momento, la bevanda apparve estre­ mamente invitante e superata solo dall’invitante espressione della gentile signora. Probabilmente fino a quel momento non aveva avuto il tempo di parlare, ma ora, nel porgere il tè al marito, ruppe il silenzio e disse: «Sbrigati a berlo mentre è caldo; l’aria del mattino è piuttosto fresca, e il minimo che io possa fare è di prendermi un po’ cura di te», « Il minimo?» replicò laconico il giudice, «Sì, oppure il massimo, oppure l’unica cosa,» Il giudice la guardò con aria interrogativa mentre già pregustava il tè; ella continuò: «Ieri mi hai inter­ rotta mentre volevo cominciare a parlare, ma ci ho ripensato, ci ho pensato molte volte, e specialmente ora, sai bene a proposito di chi; certamente, se non ti fossi sposato, saresti diventato una persona ben più importante». Il giudice bevve il primo sorso dalla tazza che era ancora sul vassoio, gustan­ dolo appieno, sentendosi ristorato, o era forse la gioia che gli veniva da quell’amabile donna? Credo fosse questo; lei sem­ brava invece rallegrarsi solo all’idea che il tè gli piacesse. Lui poggiò poi la tazza sul tavolo accanto a sé, tirò fuori un sigaro e disse: «Posso accendere al tuo scaldavivande?», «Volentieri», rispose lei e, preso con un cucchiaino un pez­ zetto di brace, glielo portò. Lui accese il sigaro, le cinse la vita con un braccio mentre lei si appoggiava alla sua spalla, e girò la testa dall’altro lato per buttare il fumo; ora i suoi occhi si posavano su di lei con un affetto che parlava con lo sguardo, e inoltre sorrideva, ma quel sorriso gioioso aveva una piega di nostalgia ironica; infine disse: «Lo credi dav­ vero, piccola mia?», «Che vuoi dire?» rispose lei. Lui tacque di nuovo, il sorriso si rischiarò mentre la voce, al contrario, diventava più seria: «Ti perdono la tua stoltezza di poc’anzi, dal momento che tu stessa l’hai dimenticata così in fretta, perché hai fatto un discorso da donna stolta - che cosa mai

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avrei potuto fare di grande al mondo?», A quelle parole, la moglie del giudice ebbe per un istante l’impressione di essere presa in giro, si riprese però immediatamente e mise in moto la sua eloquenza femminile. Il giudice guardava davanti a sé, non la interrompeva, ma siccome lei continuava, cominciò a tamburellare con le dita della mano destra sul tavolo, into­ nando una canzone; le parole un po’ si sentivano, come tessendo s’intravede un disegno che poi scompare, un po’ sfumavano mentre lui canticchiava il motivo della canzone: «Nel bosco andò il marito, e tagliò le bianche verghe». Dopo questo discorso melodrammatico, voglio dire la tirata della signora che il giudice aveva accompagnato canticchiando, la replica non si fece attendere: «Sicuramente non sai» egli dis­ se «che la legge d a n e s e ^ 2 1 permette al marito di picchiare la moglie; peccato, però, che la legge non indichi in quali casi è permesso». La signora sorrise della sua minaccia e continuò: «Ma perché non riesco a farmi prendere sul serio quando parlo di queste cose? Non mi capisci; credimi, sono sincera, a me sembra che sia un’idea bellissima. Certo, se tu non mi avessi sposata, non oserei neanche pensarci, ma ora ci ho per l’appunto pensato, sia nel tuo che nel mio interesse; quindi cerca di prendere la cosa sul serio, fallo per me, e rispondimi con sincerità». «No, non la prenderò sul serio, e non avrai una risposta seria; posso semmai ridere di te, o, come prima, farti dimenticare la cosa, o picchiarti, oppure farti smettere di parlare, oppure cercare un modo per farti tacere. Come vedi, è un gioco, quindi ci sono molte vie d’uscita.» Si alzò, le stampò un bacio sulla fronte, la prese sottobraccio e insieme L a ballata è la stessa citata alla nota 80, e narra di un marito che va nel bosco a tagliare verghe per picchiare la moglie; ma tocca a lui venirne frustato, e ricono­ scere la superiorità di lei. In realtà, l’ antica legge dello Jutland (Jyske L o v, 11, 82).

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scomparvero in un vialetto ombroso che partiva dal pergo­ lato. Ora il pergolato era deserto; non avendo nient’altro da fare, il corpo d’occupazione nemico si ritirò senza bottino. Nessuno di loro sembrava soddisfatto del risultato, tuttavia gli altri si contentarono di fare un’osservazione maliziosa. Tornarono indietro, ma si accorsero che Victor mancava. Era scomparso dietro l’angolo; costeggiando il giardino era giunto alla casa. Le porte del soggiorno che davano sul prato erano aperte; una finestra, che dava sulla strada, era anch’essa aperta. Probabilmente egli aveva visto qualcosa che aveva attirato la sua attenzione. Entra con un salto dalla finestra e poi, non appena saltato fuori si trova faccia a faccia con gli altri che lo cercavano, agitando trionfalmente delle carte, esclama: «Un manoscritto del giudice! Se ho pubblicato gli altri, è niente di più che un mio dovere pubblicare anche questo». Se lo infilò in tasca, o meglio avrebbe voluto infilar­ selo in tasca, giacché, mentre piegava il braccio e aveva già per metà la mano e il manoscritto in tasca, io glielo sfilai. Ma chi sono io, d u n q u e ? Meglio non chiederlo. Se finora non è venuto in mente a nessuno di farlo, sono salvo, visto che ormai il peggio è passato. Del resto, non sono degno della curiosità altrui; sono quanto di più insignificante ci sia al mondo, e chiedendo di me non si fa altro che confon­ dermi. Sono Tessere puro, e quindi press’a poco meno che niente. Sono l’essere puro, che è presente dappertutto senza tuttavia farsi notare, poiché continuamente superato. Sono Finalmente si manifesta, anche se in termini parodicamente misteriosi, il narratore, W illiam Afham . Una serie di scherzi sulla terminologia tecnica della dialettica hegeliana. '2 '' Ophcevet significa sia cancellato sia (nella Aujhebung, la «m ediazione» di Hegel) superato.

IN VINO VERITAS

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come la linea che separa l’addizione dal totale; chi s’interesse­ rebbe di quella linea? Di per me, non sono capace di nulla, ché l’idea stessa di sottrarre a Victor il manoscritto non è farina del mio sacco, ma è proprio l’idea di «prendere in prestito», come dicono i ladri, il manoscritto, che è stata presa in prestito da Victor. Anche ora che pubblico il mano­ scritto non sono nulla, poiché il manoscritto è del giudice e, come editore, non sono, nella mia nullità, che una specie di Nemesi su Viòtor, che indubbiamente pensava di essere auto­ rizzato a pubblicarlo lui.

C O N SID ER A ZIO N I V A R IE SUL M ATRIM O NIO IN RISPO STA A D E L L E O B IE Z IO N I DA P A R T E D I UN M ARITO

Motto: « L ’illuso è più saggio di chi illuso non è».

* La battuta, attribuita a G orgia da Plutarco {De gloria Atheniensium, 5), sarà ripresa e sviluppata a p, 229.

Mio caro lettore! ^ Se non dovessi avere il tempo o l’opportu­ nità di passare una decina d’anni della tua vita a fare il giro del mondo per vedere tutte le cose di cui un esperto viaggia­ tore fa tesoro; se non dovessi avere né la capacità né i mezzi per studiare per anni le lingue straniere e penetrare quindi le caratteristiche specifiche dei vari popoli così come esse appa­ iono allo studioso; se non intendi scoprire un nuovo sistema astronomico che superi sia il sistema copernicano che il si­ stema tolemaico: in questo caso, sposati. E se hai tempo per la prima di queste cose, capacità per la seconda e progetti per la terza, sposati ugualmente. Anche se non riuscissi a vedere l’intero globo terrestre, o se non riuscissi a parlare molte lingue o non riuscissi a scoprire i segreti delFuniverso, non te ne pentirai; poiché il matrimonio è, e sarà sempre, il più importante viaggio di scoperta che un uomo possa intrapren­ dere; qualsiasi altra forma di conoscenza della vita è superfi^ Mentre, in A u t aut, i trattatelli «e tici» del giudice Vilhelm , in forma di lettera personale all’ «esteta» A , cominciavano confidenzialmente con un «A m ico m io!», qui il taglio è quello più distaccato e retoricamente compiuto di una dissertazione. La disposino prevede in primo luogo un’apologia del matrimonio; quindi discute e debella, uno dopo l’altro, gli argomenti dei convitati di In vino veritas; e termina prefigurando una tragica «eccezione» all’equilibrio etico ed estetico del matrimonio, il temperamento «dem onico-religioso» che dominerà Colpevole? non colpevole?.

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ciale se rapportata a quella di un marito, poiché egli è Funico ad aver conosciuto la vita nel modo più giusto e più pro­ fondo. Non c’è dubbio che nessun poeta potrà dire di te ciò che il poeta^ dice dell’astuto Ulisse, ossia che vide città popo­ lose e imparò a conoscere i costumi di quelle genti, ma è lecito chiedersi se, rimanendo a casa con Penelope, egli non avrebbe acquistato conoscenza di altrettanto grandi e piace­ voli cose. Può darsi che nessuno la pensi così, ma mia moglie è certamente di questo parere e, se non vado troppo errato, così è per tutte le mogli. Una maggioranza come questa ha più valore di una maggioranza semplice, tanto più che avere le mogli dalla propria parte significa avere in breve tempo anche i mariti. Vero è che, in questa spedizione, il numero dei viaggiatori è ristretto, che non si fa parte, come nelle spedizioni che durano cinque o dieci anni, di un folto gruppo, che pure, notate bene, rimane sempre lo stesso; ma, in compenso, è un privilegio del matrimonio creare un ge­ nere particolare di conoscenze, che è il più mirabile in asso­ luto, e che fa sì che ogni nuovo arrivato sia sempre il benve­ nuto. Lode dunque al matrimonio e a chiunque parli in suo onore; se a un principiante è concesso azzardare un’osserva­ zione, dirò che la ragione per cui mi appare così meraviglioso è che tutto ruota intorno a piccole cose, che il carattere di­ vino del matrimonio trasforma però miracolosamente, agli occhi del credente, in cose importanti. E tutte queste minuzie hanno inoltre la caratteristica che nessuna di esse si presta alla previsione, né si lascia esaurire da una valutazione ap­ prossimativa; ma, mentre la ragione è interdetta, e la fantasia ' N e ll’attacco AeW'Odissea.

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insegue le sue chimere, e il calcolo fa calcoli sbagliati, e la sagacia si dispera, la vita matrimoniale segue il suo corso passando miracolosamente di delizia in delizia, e quel che era privo di senso ne acquista miracolosamente sempre di più agli occhi di chi crede. Credere è però necessario, poiché un marito che non creda è il più noioso dei compagni, una vera e propria croce. Non c’è niente di peggio, quando capita di uscire in compagnia per divertirsi a osservare esperimenti o tentativi di magia naturale, che l’avere con sé un guastafeste che non fa che manifestare il suo scetticismo senza però riu­ scire a spiegare i trucchi del mestiere. Eppure sono sventure che capitano; vero è che uscite del genere sono rare, e, per giunta, uno spettatore imbronciato di quel tipo può avere il vantaggio di entrare a far parte del gioco. Di solito il profes­ sore di magia naturale lo individua e lo mette a reggere il moccolo, mentre diverte noi altri con le sue trovate geniali, proprio come Arv'* ci diverte con le sue stupidaggini. Ma una marmotta di marito come questo dovrebbe essere messo in un sacco e buttato in acqua^ come un parricida. Che sup­ plizio vedere una donna sprecare tutta la sua amabilità per convincerlo, per poi vederlo, una volta ricevuta la consacra­ zione che lo investe credente, unicamente capace di rovinare tutto, rovinare tutto, poiché, a parte ogni scherzo, il matri­ monio è per molti versi come un esperimento di magia bianca, e il suo esperimento è in verità meraviglioso. E ripu­ gnante ascoltare un prete che non crede in quel che dice, ma lo è ancora di più vedere un marito che non crede nel suo stato, soprattutto perché, mentre i fedeli sono liberi di la­ sciare il prete, una moglie non può lasciare il marito, non Personaggio di diverse commedie di L. H olberg {Jean de France ecc.) ’ La pena prevista dal diritto romano per il parricidio.

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può, non vuole, non lo desidera - e nemmeno questo basta a convincerlo. Di solito si parla delPinfedeltà dei mariti, ma non meno grave è la loro mancanza di fede. La fede è l’unico requisito e la sola cosa che compensa di tutto. Lasciate pure alla ra­ gione, all’intelligenza e alla forbitezza i conti, i calcoli e le descrizioni di come dev’essere un marito: c’è una sola qualità che lo rende amabile, ed è la fede, la fede assoluta nel matri­ monio. Lasciate a chi ha esperienza di vita il compito di dire con esattezza in che cosa consista la fedeltà di un marito: una sola è la fedeltà, una sola l’integrità che lo rende veramente amabile e che racchiude tutto: è l’onestà verso Dio e verso la propria moglie e la capacità di non voler negare il miracolo. Questa è anche la mia consolazione ora che scelgo di scri­ vere sul matrimonio, poiché, se non mi riconosco altri meriti, rivendico almeno quello della convinzione. E una cosa che ho verificato sia con me stesso che con mia moglie, il che è per me di grande importanza, poiché è vero che alla donna si addice di tacere in chiesa^ e di non occuparsi né di scienza né di arte, ma quel che si dice del matrimonio dev’essere essen­ zialmente tale da avere il suo consenso. Ciò non vuol dire che la donna dev’essere in grado di dare valutazioni critiche su tutto, quel genere di riflessione non le si confà; ma deve avere un veto assoluto, e il suo consenso dev’essere ritenuto garanzia sufficiente. Del resto, l’unica cosa che mi autorizzi a parlare è la mia convinzione, convinzione provata dal peso della responsabilità cui sottostà la mia vita, come la vita di tutti i mariti. Vero è che questo peso non mi sembra tanto un fardello 1 Lettera ai Corinzi, 14, 34.

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quanto una benedizione; vero è che il legame non mi sembra vincolante, ma semmai liberatorio, pure il legame esiste - che dico? - innumerevoli legami che mi tengono ben saldo alla vita come l’albero è tenuto saldo dalle tante ramificazioni delle sue radici. Ma immaginiamo che tutto cambi ai miei occhi, ammesso che questo - Dio mio! - fosse possibile; im­ maginiamo che il matrimonio sia per me una catena: che piccola cosa sarebbe allora, al confronto, la pena di Laocoonte! Poiché né una né dieci serpi avrebbero un effetto così angosciante e soffocante nell’annodarsi e snodarsi sul corpo di un uomo, come una vita matrimoniale che mi vincolasse in cento modi diversi e m’incatenasse con cento catene. E vera­ mente, se è una garanzia il fatto che io, pur sentendomi con­ tento e soddisfatto e pur ringraziando senza sosta per la mia felicità terrena, intuisca al tempo stesso l’infelicità che può derivare a un uomo da questa condizione, l’inferno che si costruisce quel marito che, adscriptus glebaeP vuole liberarsi e tuttavia non fa altro che scoprire a ogni piè sospinto quanto gli riesca impossibile, vuole rompere una catena e, nel farlo, ne scopre una ancora più elastica, che lo lega indissolubil­ mente - se questo è una garanzia sufficientemente negativa perché le mie parole non vengano ritenute pensieri futili, concepiti in un momento di ozio, finzioni non geniali, volte a ingannare gli altri, non va respinto allora quel che ho da dire. Sono ben lungi dall’essere colto, non pretendo certo di esserlo, anzi proverei imbarazzo se fossi così matto da spac­ ciarmi per tale; non sono un dialettico, né un filosofo, ma rispetto in tutta modestia la scienza e tutte le ipotesi con cui le persone d’ingegno cercano di spiegare la vita. Sono invece ’ Legato alla terra.

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un marito e, quanto al matrimonio, non temo confronti. Se qualcuno me lo chiedesse, salirei tranquillo e fiducioso in cattedra, anche se quel che ho da dire non si presta affatto a una formulazione eloquente; terrei testa a tutti i dialettici del mondo, perfino a Satana, a cui non permetterei di disto­ gliermi dalla mia convinzione. Lasciate pure che gli spiritosi di professione facciano un’intera lista di obiezioni al matri­ monio: niente di grave. In quattro e quattr’otto si dividono in due gruppi: da una parte, le obiezioni a cui la migliore delle risposte, secondo Hamann,* è: «Bah!»; dall’altra, quelle che possono essere liquidate. D ’altronde, io sono un po’ su­ scettibile: posso anche avermela a male se si ride di me. È una mia debolezza, ma non sono ancora riuscito a vincerla; ma se qualcuno vuole ridere di me perché sono un marito, non temo nulla, poiché su questo punto sono invulnerabile al riso, su questo punto mi sento un coraggio che quasi con­ trasta con lo stile di vita di un povero giudice, che passa da casa a tribunale, da tribunale a casa, e non fa che spulciare documenti. M’introducano pure in una cerchia di begli spiriti che hanno giurato di ridicolizzare il matrimonio e prendersi gioco del suo carattere sacro, li armino di tutta l’arguzia pos­ sibile, appuntiscano le loro frecce sprezzanti con gli aculei affilati da un rapporto ambivalente con l’altro sesso, intin­ gano le frecce nella cattiveria, non quella degli sciocchi, ma quella dell’astuzia diabolica - io non ho paura. Dovunque io sia, perfino nella fornace rovente,^ quando parlo del matri­ monio non noto nulla, c’è un angelo al mio fianco, o meglio. *

In una lettera a Jacobi (Friedrich Heinrich Jacobi, Werke, i-vi, Leipzig 1812-25,

IV, p. 34), Hamann scrive: « V i sono dubbi che vanno accantonati senza argomenti o

risposte, ma semplicemente con un; Bah!». ’ Damele, 3, 20-24.

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non ci sono, sono vicino a lei, lei che amo ancora e con la stessa gioiosa risoluzione della giovinezza, io che, nonostante molti anni di vita coniugale, ho ancora l’onore di combattere sotto le insegne vittoriose del primo amore felice, vicino a lei, con cui sento l’importanza e la ricchezza di valori della mia vita. Poiché quelle che sono catene per il ribelle, quelli che sono doveri gravosi per il vile, sono per me l’uguale di titoli e dignità che non cambierei con quelli del Re, Principe dei Vendi e dei Goti, Arciduca dello Schleswig ecc. Se poi questi titoli e queste dignità conteranno nell’altra vita, se fra cen­ t’anni non saranno dimenticati come molte altre cose, se sia possibile calcolare e stabilire fino a che punto il pensiero di questi onori possa costituire, nella rimembranza, una consa­ pevolezza eterna, tutto questo non lo so. Rispetto il re, al pari di qualsiasi marito, ma non cambierei i miei titoli con i suoi. Per quanto mi riguarda, io sono così; quanto agli altri mariti, mi piace immaginare che ciascuno di loro sia come me e se poi c’è qualcuno che si discosta, poco o molto che sia, gli auguro sinceramente di essere come me. In fondo al cuore porto il nastro dell’Ordine, i legami di rose dell’amore, rose che non sono appassite, rose che non appassiscono; se anche cambiano con gli anni, non per questo perdono la loro freschezza; se la rosa non è proprio rossa, è che è diventata una rosa bianca, ma sbiadita no di certo. Ecco, poi, i miei titoli e le mie dignità: il loro pregio consiste nell’essere così equamente divisi, poiché solo la divina giu­ stizia del matrimonio può costantemente rendere bene per bene. Quel che sono grazie a lei, è lei grazie a me e quello che nessuno di noi è di per sé lo è insieme all’altro. Grazie a lei sono un uomo, poiché solo il marito è un vero uomo,^° G ioco di parole fra /Egtemand, marito, e cegte Mand, vero uomo.

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qualsiasi altro titolo è nulla al confronto, e non ne è sostan­ zialmente che il presupposto; grazie a lei sono padre, e ogni altra dignità non è che una trovata umana, un’invenzione che tra cent’anni sarà dimenticata; grazie a lei sono il capofami­ glia, grazie a lei sono il difensore della casa, il sostentatore della casa, il tutore dei figli. Chi ha tutte queste dignità, non diventa scrittore per con­ quistarne una nuova. Né desidero quel che non oserei chie­ dere, ma scrivo affinché chi è felice come me possa rammen­ tarsi, leggendo quel che scrivo, della sua felicità; e perché lo scettico, leggendo anch’egli quel che scrivo, ne sia convinto; se anche ce ne fosse uno solo, sarei contento, e se mi con­ tento di poco non è in virtù di una mia particolare modestia, ma perché sono indicibilmente soddisfatto. Chi ha tante oc­ cupazioni, e tutte così care, scrive quando può; spera che l’eventuale beneficiario del suo lavoro non sia disturbato dalle imperfezioni della forma, e della critica non sa che far­ sene; poiché un marito che scrive sul matrimonio non scrive certo per essere criticato. Scrive come capita, spesso distratto da più care occupazioni. Anche ammesso che, come scrittore, io possa essere utile a molti, preferisco di gran lunga essere tutto quel che posso per mia moglie. Sono suo marito, lo sono in virtù del matrimonio, ed è quindi il matrimonio che mi ha dato accesso alla pista, all’arena che è la mia Rodi,“ dove dovrò mostrare che so ballare; sono suo amico: potessi esserlo con tutta sincerità d’animo! Potesse ella non aver mai bisogno di qualcuno di più sincero di me! Sono il suo consi­ gliere: potessi esserlo con saggezza pari alla mia volontà! Sono la sua consolazione e la sua gioia, ancora non richieste: "

E l ’H ic Rhodus, hic salta della favola di Esopo, Il viaggiatore fanfarone.

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ma, se un giorno venissi chiamato a questo servizio, possa allora la mia forza essere degna dei miei sentimenti. Sono suo debitore: ho fatto i conti con onestà e già questo è un’azione benedetta; alla fine, lo so, il giorno in cui la morte ci sepa­ rerà, diventerò una rimembranza di lei: possa la mia memoria essere fedele per conservarmi tutto, quando tutto sarà per­ duto, un vitalizio di rimembranze per il resto dei miei giorni; che mi restituisca perfino il particolare più insignificante, af­ finché io, quando mi preoccuperò del presente, possa dire con il poeta: et haec meminisse juvat, e, quando mi preoccu­ però del domani: et haec meminisse 'fuvahitP Ahimè! Un giu­ dice di tribunale è talvolta tenuto a digerire cose pesantis­ sime, come quella di leggere varie versioni della vita ante acta'^^ di un criminale; ma della vita ante acta della propria moglie amata non ci si stanca mai - né si ha bisogno di stamparsela esattamente in mente per essere indotti a ramme­ morare. Vero è che il piacere fa avanzare l’opera, e così dunque l’atto del ricordare; vero è che - è la voce del senti­ mento amoroso - nell’aldilà troveremo l’immagine dell’a­ mata nel cuore dell’innamorato fedele, ma - a ragionare in termini di matrimonio - su quel sentimento veglia la risolu­ tezza della volontà affinché esso non si sperda nell’infinito. Vero è che, per l’innamoramento, un istante vicino all’a­ mato è una felicità celestiale, ma il matrimonio vuole il bene dell’innamoramento e per fortuna ne sa più di lui. SuppoEneide, i, 203: «fa bene ricordare anche questo». Farà bene ricordare anche questo. Vita precedente. In danese Forelskelse: sarà necessario in tutto il corso del libro mantenere la rigida distinzione terminologica e concettuale che Kierkegaard stabilisce fra tre specie diverse d ’amore, Elskov, passione amorosa, Forelskelse, innamoramento, e Kjcerlighed, amore (usato soprattutto in senso religioso).

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niamo che il primo spumeggiante sogno amoroso, per quanto bello, non arrivi a realizzarsi; il matrimonio sa invece come far diventare realtà quanto c’è di meglio nell’innamoramento. Quando un bambino riceve dai genitori il suo libro di scuola e lo fa quasi a pezzi ancor prima che l’anno sia finito, è segno che, come scolaro, egli merita un elogio per l’entusiasmo e lo zelo; allo stesso modo, nel matrimonio, il marito che ha rice­ vuto il suo libro da Dio, bello come solo il dono di un dio può esserlo, e ne ha fatto la sua lettura quotidiana per tutti i giorni di una lunga vita, quando poi lo depone, quando so­ praggiunge la notte e deve smettere di leggere, il suo libro è bello come il giorno in cui lo ricevette: forse che questo rispetto sincero, pari solo all’entusiasmo dell’innamoramento che lo spinge a una rilettura assidua, non è lodevole o non è, dell’innamoramento, un’espressione forte quanto la più forte espressione di cui l’innamoramento dispone? Solo del matrimonio desidero scrivere; convincere una sola persona, è la mia speranza; allontanare i suoi avversari, è il mio intento. Il matrimonio è dunque per me la mia unica corda, ma tanto complessa che, anche senza contare sul vir­ tuosismo che altrimenti si esige da chi ha una sola corda, oso farmi sentire, non tanto come un artista che suoni per un vasto pubblico, ma piuttosto come un musicista ambulante che vada di porta in porta senza distogliere nessuno dalle sue occupazioni, per quanto attraente sia la sua musica nell’ac­ compagnare quelle occupazioni. Con questo non intendo af­ fatto dire che quanto ho da dire sia da ritenersi di poco valore. Devo molto a mia moglie, anche se non le parlo allo stesso modo in cui scrivo qui, ma quel che proviene da lei ha sempre una certa grazia, che è la dote innata di ogni donna. Me ne sono stupito spesso. Chi ha una cattiva grafia deve

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rimanere ben sorpreso nel vedere il suo manoscritto ricopiato da un artista della calligrafia; chi ha mandato in tipografia un ammasso di scarabocchi, a stento lo riconosce come suo quando gli ritorna in forma di bozza chiara e pulita; a me è andata spesso così nella mia vita domestica. Quello che si agita vagamente nell’animo di mia moglie, io lo esprimo come meglio posso, e lei si sorprende che sia proprio quello che voleva dire; lo formulo come meglio posso, e lei se ne appropria; ma, a mia volta, mi accorgo con sorpresa che i miei pensieri, le mie parole hanno acquistato un’ispirazione, un’interiorità e una grazia tali da farmi dire a ragione che non sono più i miei pensieri. Il guaio è che la deliziosa eleganza di quelle parole e di quei pensieri finisce quasi col dissolversi quando cerco di riprodurla, né riesco a esprimerla, come qui sulla carta non riesco a descrivere la sua voce. Tuttavia, ella è in certa misura co-autrice, e una società letteraria di questo tipo non mi sembra fuori luogo quando ci si limita a scrivere del matrimonio. Ella approva, questo lo so, che io utilizzi ciò di cui le sono debitore, mi perdona, lo so, che approfitti dell’occasione per dire di lei cose che non riesco a dire se non in solitudine, poiché direttamente non so dirle che cosa lei sia per me, col timore che le mie lodi possano metterla in imbarazzo e forse perfino turbare la nostra bella intesa. Da anonimo, che per di più intende con ogni cautela mantenere l’anonimato, ho preso le mie precauzioni, o almeno così mi auguro, riguardo a ciò che la discrezione sconsiglia, e cioè trasformare la mia vita domestica in oggetto di curiosità. Lode al matrimonio, lode a chiunque parli in suo onore! Non pretendo di fare scoperte dicendo quel che ho da dire, e d’altronde fare scoperte sull’istituzione più antica del mondo sarebbe curioso. Ogni marito sa quel che io so. Le idee di fondo sono sempre le stesse, come le consonanti radicali, ma

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mentre queste sono immutabili, ci si può divertire ad aggiun­ gere nuove vocali e a procedere a una nuova lettura. Va da sé che questo è da prendere cum grano salis e che, comunque mi comporti, mi guardo bene dal dire, come il burlone male­ volo, che amore e matrimonio hanno le stesse consonanti, ma sono le vocali a fare la differenza, e anche questo fa pensare a un noto passo della Genesi, dove si narra che Esaù baciò Giacobbe, e i dotti ebrei, che non ritenevano Esaù capace di questo buon sentimento, e tuttavia non osavano cambiare le consonanti, si limitarono ad aggiungere dei punti, in modo che si potesse leggere: lo morse. La migliore risposta a un’obiezione simile è: «Bah!»; qualsiasi altra obie­ zione, soprattutto se detta fuori dei denti, è benvenuta, poiché un’osservazione coerente è un mandato di cattura per la verità, ed è oltremodo propizia per chi possiede la spiega­ zione.

Elskov (passione amorosa) e /Egteskab (matrimonio).

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Ma l’amore ha il suo dio; chi non ne conosce il nome? E quanti non credono di guadagnarci chiamando, nel suo nome, la loro relazione una relazione erotica? Eros, l’eros e tutto quel che vi ha a che fare hanno diritto alla poesia. Il matrimonio invece non è così privilegiato, non è di così ele­ vata estrazione; poiché, anche se siamo soliti dire che Dio ha sancito le nozze, in realtà a dirlo è il prete o, se si vuole, la teologia, e l’uno o l’altra parlano di Dio in modo del tutto diverso dall’artista. Ne consegue che tutto quel che di intimo e di profumato c’è in Eros svanisce, poiché, se Eros può concretizzarsi nell’assolutamente individuale, l’idea di Dio invece è, da un canto, così solenne che la voglia di amore sembra dileguarsi quando lo stesso Dio che è il padre degli spiriti si mette ad accoppiare gli amanti; e, d’altro canto, così universale da farci scomparire ai nostri stessi occhi come un nulla, tesi tuttavia a una definizione teleologica che ci per­ metta di essere definiti in relazione all’Essere supremo. Non è facile al Dio dello spirito assumere, nel matrimonio, quella luminosità e quella trasparenza e, d’altro canto, quella ma­ lizia e quell’enigmaticità che caratterizzano il rapporto di Eros con gli innamorati. La presenza di Dio è in un certo senso eccessiva, e proprio per questo la sua vicinanza è meno significativa di quella di Eros, che esiste interamente e inte­

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gralmente solo per gli innamorati. Così anche in relazioni solamente umane: se a una festa di battesimo Sua Altezza reale si fa rappresentare dal suo ciambellano, la cosa servirà forse a raddoppiare l’allegria dei partecipanti, mentre il re in persona finirebbe probabilmente col disturbarli; solo, ricor­ diamolo, nel matrimonio non è una differenza di rango a rendere una classe sociale più vicina a Dio di un’altra. Non è neppure un compito facile pensare Dio come Dio dello spi­ rito e tuttavia presente nel matrimonio senza che il pensiero diventi un’introduzione tanto universale da non introdurci affatto, e che l’immagine diventi tanto spirituale da condurci immediatamente lontano. Se ci contentiamo della definizione sostanzialmente pa­ gana che il poeta dà dell’amore, poiché attribuire l’amore a una divinità non è che la bella e giocosa serietà dell’immedia­ tezza; se ci disinteressiamo del matrimonio o lo conside­ riamo, al massimo, una conseguenza naturale, forse le diffi­ coltà scompaiono, ma questa scomparsa delle difficoltà è una cosa difficile per chi è abituato a pensare. Eros, natural­ mente, non esige fede, né può diventarne oggetto, ed è questo a renderlo così utile al poeta; ma un dio dello spirito, oggetto di una fede spirituale, è in un certo senso infinita­ mente lontano dalla concretezza dell’innamoramento. Il paganesimo aveva un dio per l’amore ma non per il matrimonio; il cristianesimo ha, oserei dire, un dio per il matrimonio ma non per l’amore. Il matrimonio è dunque un’espressione più elevata dell’amore. A non vedere la cosa in questi termini, si rischia di confondere tutto e si finisce In tutto il passo seguente su Eros e sull’eros, traduciamo Elskov (normalmente reso con; passione amorosa) con: amore, per non appesantire inutilmente il discorso in assenza di contrapposizioni con gli altri due tipi d ’amore (cfr. nota 15).

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per diventare, se non ci si sposa, beffardi, seduttori o eremiti, oppure ci si sposa per vivere senza pensare. La difficoltà, non appena si pensa a Dio come spirito, sta nel fatto che il rap­ porto del singolo con lui diventa di natura così spirituale da far scomparire rapidamente la sintesi di sensi e anima in cui Eros manifesta la sua potenza, come a significare che il matri­ monio è un dovere, il fatto di sposarsi un dovere, e tuttavia un’espressione più elevata dell’innamoramento, poiché il do­ vere è un rapporto spirituale con Dio, che è spirito. Il paga­ nesimo e l’immediatezza non vedono Dio come spirito, ma, se invece lo si pensa come tale, la difficoltà consiste nel con­ servare gli attributi dell’eros in modo che la spiritualità non li bruci e non li divori, ma arda in loro senza consumarli. Il matrimonio è quindi insidiato da pericoli su due fronti; se l’individuo non si è disposto a un rapporto di fede in Dio in quanto spirito, il paganesimo gli infesta il cervello come una reminiscenza fantastica, e così non può contrarre matri­ monio; ma neppure può farlo se è diventato assolutamente spirituale, e anche se si sposassero tutti e due, l’innamora­ mento del primo e le nozze del secondo non avrebbero nulla a che vedere col matrimonio. Anche se il paganesimo non aveva un dio del matrimonio come l’aveva per l’amore, anche se il matrimonio è un’idea del cristianesimo, è tuttavia utile tener presente che Zeus ed Era ricevono gli attributi di i 8À8iO(; e come protet­ tori del matrimonio. Spetta ai filologi dare una spiegazione più approfondita del termine; io non faccio mistero della mia ignoranza, e poiché so bene di non avere la necessaria erudi­ zione, non mi sogno di attribuirmi un occhio spirituale di Perfetto e perfetta, che Kierkegaard interpreta però di solito nell’accezione: pienamente maturo (Pap. iv A 234).

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falco che mi autorizzi a disprezzare la cultura e la formazione classica, un nutrimento invece sempre sostanzioso per l’a­ nima, ben più efficace di quel foraggio che sono le risposte dei progettisti al problema di che cosa esiga il nostro tempo. A me preme soltanto ricorrere a queste parole T8^ei0(; e x8À,8ia in riferimento ai coniugi, e lasciare da parte Giove e Giunone, poiché non intendo rendermi ridicolo nel tentativo di risolvere il problema storico e filologico. Considero il matrimonio come il supremo della vita individuale; a tal punto, che colui che lo elude cancella d’un sol colpo tutta la vita terrena e conserva solo l’eternità e gli interessi spirituali, il che non è poco, a prima vista, ma, a lungo andare, è molto faticoso e per di più è in qualche modo espressione di un’esistenza infelice. E facile riconoscere, e non c’è bisogno di dimostrarlo, che, se si vede il matrimonio in tal modo, non è possibile risolvere il xé>.0(; supremo in una serie di “perché” finiti. Il xéXoq supremo comprende sempre determinazioni particolari in cui, come nei suoi attributi, si esaurisce; ma talmente subordinate da avere un senso in quanto immanenti, altrimenti, non appena tentano di fare di testa propria, diventano prive di senso; poiché un’idea isolata che voglia essere indipendente è comica e insensata. Per evi­ tare fraintendimenti, la cosa più importante è questa: il matri­ monio è un xéJioq ma non per il corso della natura, altrimenti arriveremmo al significato che xé>.0(; ha nei misteri, bensì per l’individualità. Ora, se il matrimonio è un xthòq, non è imme­ diato, ma un atto di libertà e, in quanto pertinente alla li­ bertà, il compito può essere portato a termine solo per mezzo di una decisione. Una volta dato il segnale, tutte le obiezioni

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che, come figure solitarie, si aggirano intorno al sociale, si concentrerebbero su questo punto se fossero improntate a un po’ d’intelligenza. So bene che la battaglia sta tutta qui, e non voglio dimenticarlo, anche se per un momento posso fingere di averlo dimenticato per guardarmi un po’ intorno hypothetice La difficoltà è questa; l’amore o l’innamoramento sono totalmente immediati, il matrimonio invece è una decisione; l’innamoramento, però, dev’essere accolto nel matrimonio o nella decisione di sposarsi, ossia la cosa più immediata deve anche essere la decisione più libera, il che, considerata la sua immediatezza, è così inspiegabile da dover essere attribuito a una divinità, e inoltre deve avvenire grazie a una riflessione, una riflessione così profonda da generare una decisione. Per di più, l’una non deve seguire l’altra; la decisione, cioè, non deve venire di soppiatto dopo, ma deve venire d’un sol colpo; entrambe devono accompagnarsi nel momento della risoluzione. Se la riflessione non ha esplorato a fondo l’idea, non prendo alcuna decisione, e agisco quindi o in modo ge­ niale o sulla spinta di un capriccio. Se l’innamorato si fa avanti, vale a dire se il suo innamora­ mento non è solo uno stato d’animo, ma egli si unisce vera­ mente all’amata, senza però tradurre il suo innamoramento in altro dall’innamoramento, se si fa avanti solo perché mosso e felicemente sollecitato da impetus simile a un aliseo che, immutabile, lo guiderà sulla sua via luminosa accanto all’a­ mata - non è affatto detto che un istante dopo ne risulti un matrimonio. Dico un istante dopo perché egli si muove sul piano dell’immediatezza, e prima o poi deve pur venire l’i20 In modo ipotetico. Cfr., per l’ accezione particolare di «ipotetico» come

Scopo.

«soggettivo», l’introduzione, pp. 16 sg.

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Stante dopo. Il matrimonio poggia su una decisione, ma questa decisione non discende direttamente dall’immedia­ tezza dell’amore. O non occorre nient’altro che la sollecita­ zione dell’amore, che indica invariabilmente, come un ago magnetico senza declinazione, lo stesso punto, o la decisione dev’essere presente fin dall’inizio. Se la decisione viene più tardi, può anche darsi che accada qualcos’altro. Che cosa ci garantisce che non succeda? L ’innamoramento, rispondiamo. Giusto, ma è proprio il momento critico dell’innamoramento, quello, cioè, in cui non riesce a cavarsi d’impaccio, poiché il fatto che il vento dell’immediatezza non gonfi le vele dell’in­ namoramento e che questo navighi nella crisi è per l’appunto indice dell’approssimarsi di un cambiamento, mentre l’imme­ diatezza si avvia quasi a immobilizzarsi in bonaccia. L ’altra conseguenza, e non meno minacciosa, dell’innamoramento immediato è la seduzione. Qualcuno dirà che un seduttore è un seduttore fin dal primo momento, e invece no, lo diventa in un secondo momento. Quando si parla sulla spinta dell’in­ namoramento immediato, non è possibile sapere se stia par­ lando un cavaliere o un seduttore; è il momento successivo a farcelo capire. Questo non vale per il matrimonio, poiché la decisione è immediatamente presente fin dall’inizio. Prendiamo il caso di Aladino. Q u a l e giovane con l’animo pieno di desideri e aspirazioni, quale fanciulla col cuore pieno di attese ha letto l’atto iv (in cui Aladino ordina al genio di preparare le sue nozze) senza che l’entusiasmo del poeta e l’ardore delle sue parole l’abbiano infiammato, quasi bruciato? Aladino è un cavaliere, quindi - dicono - la rappreFamoso dramma in versi (1804-1805), ispirato alla celebre fiaba delle M ille e una notte e ammirato fra l’altro da G oethe, del poeta romantico Adam CEhlenschlager. La citazione fa parte, in realtà, dell’atto iii.

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sentazione del suo innamoramento è morale. La mia risposta è: no; è poetica, e il poeta ha dimostrato una volta per tutte con l’ispirazione felice e l’infinita ricchezza della rappresenta­ zione che il suo talento è assoluto. Aladino è assolutamente immediato, il suo desiderio è quindi proprio del tipo che un momento dopo gli permette di farsi poeta. L ’unica cosa che lo preoccupa è quella «sognata notte di nozze così a lungo sospirata», che gli assicurerà il possesso di Gulnare, e poi il palazzo, la sala delle nozze, le nozze: Là, nella grande sala Preparami delle nozze magnifiche, Con fiaccole profumate d’incenso Volgi la notte scura in giorno. Fa’ che un coro di baiadere Intrecci una danza eterea. Mentre altri ci allietano Con dolci canti e suono di cetre. Aladino rimane quasi sopraffatto, va in estasi all’idea del pia­ cere che lo inebrierà; non senza un tremito chiede al genio se può fare tutto ciò, lo supplica di rispondere con sincerità, e in questa parola; sincerità si sente quasi l’ansia che prova l’im­ mediatezza per la sua stessa felicità. La grandezza di Aladino sta nel desiderio, nel fatto che la sua anima ha l’energia di desiderare. Al riguardo, se dovessi esprimere una riserva su questo capolavoro, e non potrebbe essere altro che un’invidia d’amore, riguarderebbe il fatto che esso non evidenzia mai con sufficiente forza e chiarezza che Aladino è un’individualità a pieno diritto, che il fatto di desi­ derare, di poter desiderare, di osare desiderare, di essere te­ merario nel desiderare, risoluto nel prendere, insaziabile nel­

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l’anelare, è di una genialità non inferiore a nessun’altra. Non lo si crederà, ma a ogni generazione nascono tutt’al più dieci giovani dotati di questo coraggio cieco, di questo vigore nello smisurato. Togliete quei dieci e date a chiunque altro i pieni poteri del desiderio: nelle sue mani diventeranno una specie di supplica, egli impallidirà, avrà degli scrupoli, certo vor­ rebbe esprimere un desiderio, ma il problema è desiderare la cosa giusta - in altri termini è un pasticcione e non un genio come Aladino, che quindi è il prediletto dello spirito proprio perché è eccessivo. L ’appagamento non deve allora apparire come un favore accidentale, volto a non dare agli sciocchi il pretesto per abbandonarsi al desiderio solo se l’appagamento è garantito. La menzogna, la menzogna, ecco già una rifles­ sione. No, anche se nessuno dei suoi desideri venisse esau­ dito, Aladino rimarrebbe nella categoria del desiderio, in quell’immensità dell’anelito che in fin dei conti vale più di qualsiasi appagamento. Grande è Aladino. Egli festeggia le nozze, giusto, ma non si sposa. In verità nessuno più di me può augurargli di meglio o essere più sinceramente contento per lui, ma se, come il poeta che gli dà il genio della lampada, avessi il potere di dargli qualcosa di simile, se potessi, con una supplica quoti­ diana, procurargli l’unica cosa che a mio parere gli manca, ossia uno spirito della decisione che eguagliasse in forza e concretezza quel che nel suo desiderio è immensità e astrat­ tezza (poiché le sue brame sono sconfinate e ardenti come la sabbia del deserto) - ah! che marito diventerebbe Aladino! Invece non si può dire niente, mentre i miei nemici, come ladri in agguato per il bottino, si fanno tranquillamente scudo di Aladino. Il seduttore si rafforza l’anima con l’imme­ diatezza di Aladino, e quindi seduce, e quindi può dire: anche Aladino era un seduttore, lo so da fonte molto attendi­

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bile; lo è diventato la mattina dopo le nozze. Che poi non fosse proprio la mattina seguente bensì qualche anno dopo, non cambia essenzialmente nulla; che fosse qualche anno dopo, vuol solo dire che Aladino è diventato, da grande, piccolo. In questo caso il seduttore ha ragione: se l’immedia­ tezza deve finire, meglio rompere subito (ed è proprio per questo che rappresentare un seduttore è un compito morale); se invece così non è, la decisione dev’essere presente fin dal­ l’inizio, ed eccoci con un marito. Solo la decisione potrebbe farsi garante per Aladino; non il poeta, non la poesia, poiché la poesia non sa che farsene di un marito. L ’entusiasmo del poeta sta nell’immediatezza; il poeta è grande in virtù della sua fede nell’immediatezza e nella sua forza di affermazione. Il marito si è permesso di avere un dubbio, un dubbio inno­ cente, benevolo, nobile, amabile, poiché egli è veramente lontano dal voler offendere l’amore o dal volerlo sprecare. Come è vero che l’immediatezza dell’innamoramento non fa un marito, così è vero che un’unione senza amore, quale che ne sia la ragione, non è un matrimonio. L ’innamorato che si arrischia sulla sola spinta della beata e irresistibile sollecitazione dell’innamoramento arriva sicura­ mente tra le braccia dell’amata, forse va anche oltre con lei, ma non arriva al matrimonio; poiché se l’unione degli inna­ morati non è un matrimonio fin dall’inizio, non lo diventerà mai. Se la decisione sopraggiunge più tardi, non si manifesta l’idea. Gli innamorati potranno anche vivere felici, potranno anche non curarsi delle obiezioni, gli avversari però avranno in un certo senso ragione. Tutto dipende dall’idealità. Il ma­ trimonio non deve essere qualcosa di frammentario che viene a tempo debito, qualcosa che succede agli innamorati che hanno vissuto insieme per qualche tempo, altrimenti gli av­ versari avrebbero ragione. Essi rivendicano l’idealità, l’idea­

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lità nel male, un’idealità demonica. Dall’obiezione si potrà anche capire facilmente se chi parla non è che un attacca­ brighe, o se ha invece un’idealità demonica. Si può aver ra­ gione a rifiutare di farsi coinvolgere da quelle obiezioni, a non lasciarsene disturbare, ma in quel caso si deve avere la coscienza a posto e un patto costante con l’idea. Chi si accon­ tenta di star bene, di essere felice e via dicendo è perduto, se quella felicità si basa sulla spensieratezza o sulla vigliaccheria o sulla meschina divinizzazione della vita propria dello spi­ rito mondano. Anche se dovesse diventare infelice, chi salva il proprio patto con l’idea ha pur sempre il paradiso nono­ stante l’infelicità, e questa è anche la mia opinione. Ecco perché oso parlare; come marito, non metto la coda tra le gambe, ma ho il coraggio di parlare coi nemici, e non solo con gli amici. Come marito, so di essere TéA£i0(;, ma so anche che cosa si richiede a una persona simile in relazione all’idea. Niente contrattazioni, niente patteggiamenti; nessun atteggia­ mento consolatorio tra mariti, come se i mariti fossero, al pari delle donne in un serraglio, prigionieri a vita in possesso di un qualcosa che non osano rendere noto al mondo, come se l’amore fosse l’abito dorato di gala che il poeta ha il compito di far vedere in giro e il matrimonio il suo lato consunto che non si deve vedere. No, sia guerra aperta: l’idea del matri­ monio di certo vincerà. Umile verso Dio, sottomesso verso la divina maestà dell’innamoramento, con orgoglio tengo alta la testa al di sopra di tutte le spiritosaggini e non la piego davanti a nessuna obiezione. Diamo ragione ai nostri avversari quando mettono in evi­ denza tutta la difficoltà, ammettiamo che la sintesi di cui è fatto il matrimonio è difficile, ma non siamo d’accordo nel considerare tutto questo come un’obiezione, e tanto meno concordiamo sulla soluzione che essi adottano. Quando un

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oppositore espone trionfante tutta la difficoltà della sua obie­ zione per incutere timore, l’importante è avere il coraggio di dire, con H a m a n n ; 2 2 è proprio così. Questa è la risposta giusta al momento giusto. È la risposta che darò anche qui, e tuttavia chiedo di rimandare la questione di qualche minuto ancora, per far luce su qualche considerazione generale sul matrimonio come supremo xtXoq della vita. N ell’antichità si punivano con un’ammenda gli scapoli e si premiava chi metteva al mondo molti figli; nel Medioevo lo stato di perfezione era il celibato. Sono i punti di vista estremi. Nel primo caso, non è necessario istituire una puni­ zione, poiché la vita si vendica sempre e sa punire chi vuole emanciparsi. Chi vuole emanciparsi, in questo caso, è colui che non vuole sposarsi. Va posto l’accento sul fatto che non vuole farlo. Come il matrimonio è una decisione, allo stesso modo l’opposizione a esso, che può essere oggetto di com­ menti, è anch’essa una decisione, in negativo. Poiché passare la vita alla ricerca dell’ideale (come se una simile ricerca non fosse indice di imbecillità e di impudenza) senza capire il significato dell’amore o del matrimonio, senza neppure im­ maginare l’esaltazione innocente che giocosamente ricorda alla gioventù che il tempo passa inesorabilmente, è un’esi­ stenza a cui manca l’idea; lo stesso quando si rifiuta sdegnosa­ mente questo e quello (come se tutto quel disdegnare non dimostrasse appunto che chi rifiuta non è senza macchia), per poi restare senza nessuno, poiché questa è l’espressione obiet­ tiva che la vita dà all’arroganza soggettiva. Al confronto con tali sciocchezze, è talmente chiaro che il Libera versione di un passo in una lettera di Hamann (Schriften, i-viii, a cura di F. Roth e G . A . W iener, Berlin-Leipzig 1821-4 3, i, p. 406) a proposito delle obiezioni rivolte da Hum e al cristianesimo.

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matrimonio ha una superiorità assoluta, che dirlo è quasi un affronto per il matrimonio. No; se un’obiezione vuole avere un senso, deve rivendicarlo con una decisione negativa. La decisione del matrimonio è una decisione positiva e, in so­ stanza, la più positiva in assoluto; il contrario è anch’esso una decisione, con cui si stabilisce di non voler portare il compito a termine. Chiunque rimanga esterno non solo al matri­ monio, ma anche alla decisione di restarne fuori, riduce la sua vita a una fatica inutile. Ogni esistenza umana che non voglia risolversi in semplici chiacchiere, e questo non deve volerlo nessuno, non osa rinunciare a niente di generale se non in virtù di una decisione, quale che sia la cosa che lo induce a prenderla; i motivi che riguardano la decisione di non sposarsi possono essere i più svariati, ma eviteremo di illustrarli per non allontanarci dal nostro tema. La decisione di non sposarsi dà naturalmente un’idealità, ma un’idealità non paragonabile a quella di prendere la deci­ sione positiva. Solo il tempo e le circostanze possono far sì che l’individuo che ha preso una decisione negativa acquisti coscienza di averla presa, benché nell’opinione comune sia abbastanza facile prendere la decisione positiva. Può quindi succedere, come si suol dire, che ci si sposi senza aver preso una decisione, anche se in realtà una decisione la si è presa; ma tra una decisione e l’altra c’è un’enorme differenza. Una decisione che si affermi autonomamente in continuità con altre, e che s’imponga in virtù del fatto che sia il vicino che il dirimpettaio hanno deciso nello stesso senso, non è una deci­ sione, poiché non so se esista una poesia di seconda mano, ma una decisione di terza mano non è una decisione. In matrimoni del genere, che non si giocano le carte migliori né sull’innamoramento, né sulla decisione, ma continuano a pas­ sare la mano, una decisione negativa ha naturalmente la me­

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glio. Ma questi matrimoni non sono neppure matrimoni, sono semplici contraffazioni. L ’idealità di un uomo risiede tutta nella decisione. Qual­ siasi altra idealità è futile, l’ammirazione che suscita è puerile, e per uno che si capisce a fondo è un’offesa. Quindi si può solo parlare di decisioni positive o negative. Quella positiva ha il grande vantaggio di consolidare l’esistenza e di dare all’individuo una calma interiore, quella negativa lo tiene co­ stantemente in suspense. Una decisione negativa è sempre molto più faticosa di una positiva, e dev’essere coltivata inin­ terrottamente nonostante che possa diventare abituale. Una decisione positiva fida nel suo esito felice poiché l’universale, che ne è l’elemento positivo, assicura la felicità che deve venire e la rassicura quando è venuta. Una decisione negativa è sempre ambivalente, anche di fronte a un esito felice; come la felicità nel p a g a n e s i m o , è deludente, perché la felicità esiste solo dopo essere stata. In altri termini, solo dopo la mia morte posso sapere se sono stato felice. Lo stesso dicasi per la decisione negativa. L ’individuo ha dichiarato guerra alla vita, quindi non può smettere neanche un istante, non può, come chi ha preso una decisione positiva trovandovi sostegno, con­ centrarsi giorno dopo giorno sulla ragione prima della sua decisione. La decisione negativa non gli dà sostegno, mentre è lui a doverla sostenere, e per quanto possa andare lontano, anche se la felicità gli dà coraggio, anche se il risultato è significativo, non osa però negare la possibilità che improvvi­ samente tutto possa assumere un altro significato. La deci­ sione negativa fa sì che egli esista sostanzialmente all’ipote­ tico o al congi unti vo; quanto all’ipotesi, non si esaurisce se Allusione al famoso dialogo fra Solone e Creso (riportato da Erodoto e Plu­ tarco), in cui Solone nega di poter definire Creso felice prima della sua morte. Cfr. rintroduzione, pp. 16 sg.

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non dopo aver spiegato tutti i fenomeni, poiché anche da un’ipotesi errata nascono provvisoriamente molte conclusioni esatte, finché non ci si scontra con un fatto che la capovolge; quanto al “se” della congettura, tutto dipende per l’appunto dal “ se” . Quando è positiva, la decisione comporta un solo rischio, quello di non essere fedele a se stessa; quando è negativa, corre sempre un duplice rischio; il primo, di non essere fedele a se stessa, e in ciò è simile a quella positiva, ma con la differenza che tutta questa fedeltà non ha una ricom­ pensa, è una bellezza avvizzita e sterile come la vita di un vecchio scapolo; il secondo, che tutta la fedeltà che si esercita nell’essere fedeli alla propria decisione negativa sia un errore ricompensato alla fine, a dispetto di tutta la fedeltà, col penti­ mento, Mentre la decisione positiva si fortifica con piacere nel riposo, si leva con piacere col sole, riprende con piacere il lavoro dove l’aveva lasciato, vede con piacere prosperare tutto intorno a sé, come il marito che vede con piacere nel nuovo giorno una nuova prova di quello che non ha bisogno di essere provato (poiché il positivo non è un’ipotesi da di­ mostrare), chi ha optato per la decisione negativa dorme sonni inquieti, si aspetta di essere improvvisamente sopraf­ fatto dalla paura di avere scelto male, si sveglia esausto per vedere intorno a sé una landa deserta e non si conforta mai perché è continuamente nell’incertezza. Lo Stato non ha certo bisogno di stabilire delle pene per gli scapoli, è la vita stessa a punire chi è degno di punizione, poiché chi non prende una decisione è un infelice, di cui si può tristemente dire che «non comparirà in g i u d i z i o » . parlo così per invidia nei confronti di coloro che non vo­ Giovanni, 5, 24.

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gliono sposarsi; sono troppo felice per invidiare chicchessia, ma sono geloso dell’esistenza. Torno a quel che ho detto: la decisione è l’idealità del­ l’uomo, Cercherò ora di spiegare come dev’essere la deci­ sione che più contribuisce a formare l’individualità, e mi ral­ legro intimamente al pensiero che il matrimonio consista per l’appunto in quello che, ripeto, mi appare momentaneamente come una sintesi di amore e decisione. Quando si tratta di prendere una decisione, accade spesso che spunti un fantasma: è la probabilità - un personaggio inconsistente, un buono a nulla, un venditore di fumo, con cui nessuno spirito libero può avere a che fare, un fannul­ lone, che meriterebbe la prigione più dei guaritori e delle guaritrici, poiché scrocca alla gente un valore superiore al denaro e a ciò che il denaro procura. Chiunque non faccia passi avanti nella decisione, non vada al di là di una decisione fondata sulla probabilità, è perduto per l’idealità, per quanto importante egli possa diventare. Se un uomo non s’imbatte in Dio all’atto di decidere, se non ha mai preso neppure una decisione che richiedesse una transazione con Dio, può anche fare a meno di vivere. Ma Dio commercia sempre en gros^^ e la probabilità è una valuta che in cielo non ha mercato. Nella decisione, quindi, c’è un momento che si impone alla proba­ bilità indaffarata e le tappa la bocca. C ’è un miraggio a cui chi è sul punto di prendere una decisione corre dietro come il cane che rincorre un’immagine riflessa neiracqua:^^ è il risultato, un segno della finitezza, una fata morgana della perdizione; guai a chi lo rincorre, è perduto! Come chi, morso dal serpente, guariva guardando la A ll’ingrosso. N ella favola esopica II cane e l’ombra.

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croce^s nel deserto; àllo stesso modo chi fissa l’attenzione sul risultato è morso da un serpente, è ferito dallo spirito ter­ reno, è perduto per l’eternità. Se, al momento della deci­ sione, un uomo non è aureolato dalla luce della divinità a tal punto che tutte le fantasmagorie create dalle brume dell’i­ nerzia si dissipano, la sua decisione è più o meno un falso: si consoli pure con il risultato. Di conseguenza, è estremamente importante che l’oggetto della decisione sia di natura tale che nessun risultato osi alzare i prezzi dell’asta, poiché chi vuol comprare deve comprare à tout p r ix P Quel che ho detto finora vale per qualsiasi decisione in cui a concludere l’affare intervenga l’eterno, e non solo per la decisione del matrimonio, che per la prima volta si stringe l’innamoramento al petto e lo cinge col suo abbraccio fedele. Vale per qualsiasi decisione che abbia in sé l’eterno, e quindi anche per la decisione negativa, purché sia negativa solo nei riguardi del temporale, e positiva, invece, nei riguardi dell’e­ terno. E tuttavia proprio in questo sta la sua indecisione. Nella decisione del matrimonio, invece, l’innamoramento viene depositato come un fedecommesso, e ha addirittura il potere di portare chi ha deciso non già sulla terra, tutt’altro, ma accanto all’amata, nel tempo. La decisione è fatta di etica, di libertà; e così anche la decisione negativa; ma così nuda e cruda la libertà è come muta, difficile da esprimere, e soprat­ tutto ha un carattere di durezza. L ’innamoramento invece introduce subito la musica, anche se nel pezzo c’è un pas­ saggio molto difficile. Poiché la coppia che in quel momento sacro, o più tardi, quando ci riflette, non trova in certo senso stupido il discorso del prete sul dovere degli innamorati di Il serpente di bronzo {Numeri, 21, 8). A qualunque prezzo.

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amarsi reciprocamente, ma d’altro canto non trova lo stesso discorso, per così dire, davvero eccellente, una coppia simile manca di orecchio in materia di vita coniugale. E certo dolce percepire il .mormorio dell’innamoramento, prezioso testi­ mone di nozze, ma non meno gradite sono le parole audaci che dicono: devi amarla. Che cerimonia ditirambica è mai il matrimonio, com’è quasi temeraria nel non accontentarsi del­ l’innamoramento e nel chiamarlo dovere! Come stupirsi che una decisione che corrisponde a una simile ingiunzione sia per alcuni un discorso difficile! E che l’amore non si con­ tenti di essere sicuro di se stesso, ma nella sua temerità si arrischi a quel: devi! E che la decisione del matrimonio sia l’unico desiderio, che il suo dovere eterno sia il piacere del­ l’occhio e il desiderio del cuore! Coraggio, dunque, fino all’audacia, coraggio nel volere il difficile, perché la difficoltà venga a sua volta in aiuto; poiché la difficoltà non è arcigna né attaccabrighe, ma è un’onnipo­ tenza che vuole fare le cose per bene. Chi nella sua decisione eterna ha un rapporto negativo con la temporalità, al mo­ mento della decisione resta solo; per quanto grande possa essere, fosse anche un Prometeo, viene legato non a una montagna ma alla temporalità, imprigionato nelle sue catene; al contrario il marito, nel momento in cui riapre gli occhi, se li ha chiusi neH’eternità della decisione, è di nuovo là dov’era prima, nello stesso identico posto, accanto alla sua amata, il suo luogo preferito; egli non sente affatto la mancanza dell’e­ terno, poiché lo possiede nella temporalità. La decisione negativa riguarda solo l’eterno, quella posi­ tiva riguarda sia il temporale che l’eterno, cosicché l’uomo G ioco di parole fra Tiltale, ingiunzione, e Tale, discorso.

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diventa a un tempo temporale ed eterno. L ’idealità della vera decisione consiste quindi in primo luogo in una decisione sia temporale che eterna, e, se posso dire così, sia firmata che controfirmata: una misura prudenziale adottata per le obbli­ gazioni e usata perfino dalla banca per i biglietti di maggior valore. La vera decisione idealizzante ha però questa qualità: è firmata in cielo, e controfirmata^^ poi nella temporalità. Ma non basta. Di tanto in tanto, a seconda di come va la vita, il marito riceve continuamente nuovi controvalori, l’uno più alto dell’altro. Quel che intendo dire lo capisce qualsiasi ma­ rito; come potrei non prendere per indegno, per ingrato chi accetta controvoglia, come se fossero un onere, le garanzie ulteriori; un marito onesto capisce invece che una moglie è la controfirma più importante, che ogni nuovo arrivato nella cerchia che cresce sotto gli occhi del matrimonio è un’ulte­ riore garanzia. Quale beata sicurezza! Quale ricchezza! Quale tranquillità e quale felicità concentrare tutti i propri beni in un’unica obbligazione che non può scomparire come la deci­ sione eterna di chi ha con la temporalità un rapporto nega­ tivo. Costui è un infelice o un ribelle, che poi è anche un infelice; è un infelice che attraversa il tempo con la sua deci­ sione eterna, che non viene mai controfirmata, anzi, ovunque egli si rivolga va in protesto; la famiglia lo ripudia e, sebbene consolato dall’eterno, resta lontano dalla gioia, nel pianto, forse nello stridore di denti; poiché chi nell’eternità non ha un abito di n o z z e è gettato fuori, ma nella vita terrena l’abito di nozze è proprio l’abito di nozze. In tutto il discorso del G iudice ricorrono continuamente (a segnalare, ironica­ mente, l’ottica apparentemente filistea del personaggio) metafore bancarie e conta­ bili per i più alti fenomeni dello spirito. Matteo, 22, II sgg.

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La vera decisione idealizzante dev’essere in ugual misura simpatetica e autopatica. Ma chi ha un rapporto negativo con la temporalità non ha valvole di scarico per la sua simpatia, così che questa, invece di dargli sollievo ogni volta che rove­ scia la sua piena felice per poi tornare a raccoglierla, diventa un tormento che gli estenua l’anima perché incapace di espri­ mersi. Morire soffocati è terribile, ma altrettanto terribile è provare simpatia e non essere in grado di darle sfogo. Giacché voglio appunto supporre che simpatia ne provi, altri­ menti non vale la pena parlarne. Provare simpatia fa parte essenziale della natura umana; qualsiasi decisione che ne pre­ scinda non è idealizzante in senso lato, né lo è quando la simpatia non riesce a esprimersi adeguatamente. Si renda pure ridicolo lo scapolo prodigando la sua simpatia a cani e gatti e abbandonandosi a stravaganze; faccia l’anima nobile il solitario che ha fatto una scelta negativa e la sua simpatia cerchi pure, e trovi, compiti di gran lunga più gravosi che aver moglie e figli; di gioia non ne ricaverà certo. Non sa­ rebbe terribile se la rugiada del cielo non dovesse cadere sul­ l’erba e gioire di vedere il fiore rianimato dalla sua dolcezza, se dovesse spandersi sull’ampio mare o evaporare prima di giungere al fiore? Se il latte al seno della madre fluisse in abbondanza e non ci fosse il bambino, se si sprecasse un latte prezioso come quello di Giunone, da cui prende il nome la Via Lattea, ah, che tristezza! Lo stesso dicasi per la simpatia di un uomo a cui non è permesso vedere una moglie rinver­ dire come l’albero piantato nel recinto benedetto della sim­ patia, non è permesso vedere l’albero fiorire e fare il frutto che matura grazie alle cure della simpatia! Infelice chi per la N ella mitologia greca, la V ia Lattea aveva preso forma da una goccia di latte caduta dal seno di Era.

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sua simpatia non trovi quest’espressione, né l’espressione an­ cora più bella per tutto quello che la sua simpatia esprime: che è tutto suo dovere. In questa contraddizione consiste il piacere sublime della simpatia, una felicità che dalla gioia le fa quasi perdere la ragione. L ’infelice che non va d’accordo con la temporalità nella decisione del matrimonio curi pure gli ammalati, nutra gli affamati, vesta gli ignudi, visiti i pri­ gionieri, consoli i morenti; io gli rendo lode, la sua ricom­ pensa non è lontana. Ma neppure nella sua divina follia egli è un servo inutile; la sua simpatia cerca costantemente la sua più profonda espressione, ma non la trova, la cerca in lungo e in largo, così come la sua sollecitudine vaga di casa in casa; mentre il marito ne trova l’opportunità nella sua casa, nel suo focolare, dove egli è felice di voler far tutto, e ancora più felice, divino poscimur,^^ di non averne, né di poterne avere, il merito. La decisione veramente idealizzante dev’essere tanto con­ creta quanto astratta. Nella misura in cui una decisione è formulata al negativo, essa è soltanto astratta. Quale che sia l’oggetto della decisione, tra cielo e terra non c’è niente di così concreto come il matrimonio e il rapporto matrimoniale, nulla di altrettanto inesauribile; perfino la cosa più insignifi­ cante ha un suo significato, e il dovere coniugale, che ab­ braccia con elasticità la vita di un uomo (come la pelle di bue^^ che misurò la superficie di Cartagine), abbraccia con altrettanta elasticità l’istante, ogni istante; nulla è così fram­ mentario come un matrimonio, eppure niente meno del maMatteo, 6, 5. Siamo chiamati (Orazio, O di, 1, 32, i). Tagliata in striscioline sottilissime e annodata in una lunghissima correggia: l’espediente usato da Didone per definire il perimetro della città che sarebbe dive­ nuta Cartagine {Eneide, i, w . 36 5 sgg.).

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trimonio sopporta un cuore diviso. Neppure Dio è altrettanto geloso. Approssimativamente qualsiasi obbligo si può esau­ rire in una definizione, qualsiasi lavoro, qualsiasi occupa­ zione, in breve, tutto quello con cui di solito si riempie il tempo ha il suo tempo; ma la vita coniugale si sottrae a ogni definizione di questo tipo. Infelice chi la prende come un peso! Neppure una condanna a vita, che è un’espressione astratta, dà la più pallida idea della crudeltà della pena, ma un simile attentatore al matrimonio prova giorno per giorno l’orrore della sua condanna a vita. Più un uomo diventa con­ creto nell’idealità, più l’idealità è perfetta. Chi non vuole sposarsi disdegna quindi la decisione più idealizzante. Inoltre, se non ci si vuole sposare, è sostanzialmente un’incoerenza volersi prefiggere uno scopo positivo nella tempora­ lità. Quale interesse per l’idea dello Stato, quale amore per la patria, quale spirito civico e patriottico per tutto quel che riguarda il bene e il male della società può avere chi non vuole che il matrimonio diventi realtà? Più l’idealità è astratta, più essa è incompleta. L ’astrazione è la prima espressione dell’idealità, ma la con­ cretezza è la sua espressione essenziale. Questo esprime il matrimonio. Nel momento dell’innamoramento gli innamo­ rati vorrebbero appartenersi per sempre; nel momento della decisione, essi decidono di voler essere tutto l’uno per l’altra, e questa straordinaria astrazione trova espressione concreta in cose talmente insignificanti che nessun estraneo se le so­ gnerebbe. La più alta espressione dell’innamoramento con­ siste nel fatto che l’innamorato si sente un nulla rispetto al­ l’amata, e viceversa, poiché sentirsi qualcosa contrasta con l’innamoramento; la decisione non ha parole, poiché la pa­ rola stessa è fin troppo concreta, la promessa o è muta o si riduce al “sì” immortale - e questa astrazione si esprime in

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modo tale che, se tutti gli stenografi si mettessero insieme, non riuscirebbero a descrivere quel che in otto giorni succede in un matrimonio. - Questa è la felicità coniugale; non nel senso in cui lo si dice di una singola coppia felice; no, questa è la felicità di essere sposati. Poiché quale vita è più felice di quella di un uomo per cui tutto ha un senso, come potrebbe il tempo sembrare lungo a chi trova un senso anche nell’i­ stante? E se questa felicità non è garantita, giacché, come dice un antico adagio, Ehestand è Wehestand,^'' e proprio così si presenta il matrimonio, bisogna davvero che sia sicuro di sé chi incoraggia a provarlo. Forse che nella vita ci sono altre sistemazioni, altri rapporti che cominciano così? Ahimè, qual­ siasi altro inizio è così seducente da tacere le difficoltà. Per giustificare il biglietto che ha mandato al conte, Figaro^® dice alla contessa che lei è l’unica dama del regno nei cui riguardi egli potesse permettersi in tutta sicurezza una cosa simile; allo stesso modo io credo che il matrimonio sia l’unico a poter dire in tutta sicurezza di sé che è un tormento; per tutte le altre cose della vita sarebbe un’imprudenza annunciarsi in tal modo. La vera decisione idealizzante dev’essere dialettica tanto nel senso della libertà quanto nel senso della fatalità. Senza rischio non si prendono decisioni. Ora la decisione è presa; più essa è astratta, meno è dialettica nel senso della fatalità. Di conseguenza, l’idealità della decisione acquista a poco a poco un certo carattere di falsità, inclina facilmente all’orgo­ glio, alla superbia, alla disumanità, insomma, tutte le argo­ mentazioni della fatalità vengono considerate illegittime. Più II matrimonio è un tormento (J. K. A . Musaus, Volksmdrchen der Deutschen, G o th a 1826 , II, p. 70). L e nozze di Figaro, il, 2.

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la decisione è concreta, più va nella direzione della fatalità. Ne nasce l’idealità dell’umiltà, dell’indulgenza e della gratitu­ dine. Ma un marito che sia tale con tutta l’anima è senza dubbio uno che ha osato e osa più di chiunque altro. Egli osa uscire dal nascondiglio dell’innamoramento in cui si trovava con quella che ama, con quelli che ama; che cosa succederà mai? Non lo sa, se si abbandonasse a queste considerazioni gli verrebbero i capelli bianchi in una sola notte; non lo sa, ma sa per certo che può perdere tutto, e sa che non può minimamente tirarsi indietro, poiché la decisione lo tiene fermo laddove l’innamoramento lo imprigiona, ma lo vede anche intrepido laddove l’innamoramento sospira. C ’è un vecchio detto, che forse è caduto un po’ in discredito, ma non fa niente; dice press’a poco così; cosa non si fa per amore della moglie e dei figli! Antwort:^'^ si fa tutto, tutto; - e cosa si fa allora contro la fatalità? Chi indaga il suo segreto? Uno allarga le braccia, lavora, lotta, soffre, ah! non c’è nulla a cui uno non si adatti! Quanto più positiva è la decisione di un uomo, tanto più declinabile egli stesso diventa, e la fatalità può declinare solo un marito in tutti i genera, numeri et casibus.^^ - Da un punto di vista del tutto esterno, ci sono centinaia e centinaia di persone che hanno osato più di quanto osi un marito: hanno messo in gioco regni e province, milioni e milioni di persone hanno perduto troni e ducati, fortuna e prosperità; eppure un marito rischia di più. Poiché chi ama rischia ben più di tutto questo, e chi ama in tutti i modi in cui a un uomo riesce di amare rischia più di tutti. Non serve, non serve affatto che un marito sia re o milio­ nario, poiché sono solo cose che oscurano la chiarezza del ”

Risposta. Generi, numeri e casi.

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calcolo; oserà sicuramente di più se è un mendicante. Che il valoroso si cimenti in danze guerriere sul campo di battaglia, che danzi sul mare infuriato, o superi con un salto gli abissi non serve, non serve affatto, non serve a nulla nella vita quotidiana; forse potrebbe servire a teatro, ma sarebbe un guaio per l’umanità se la vita e Nostro Signore non avessero interi battaglioni di rinforzo che, pur rischiando di più, non vengono applauditi. Un marito rischia ogni giorno, e ogni giorno sul suo capo oscilla la spada del dovere, e il diario procede di pari passo col matrimonio, il protocollo della re­ sponsabilità non viene mai chiuso, e la responsabilità è più entusiasmante del più affascinante poeta epico che canti le gesta di un eroe. Vero è che non è per nulla che il marito rischia; al contrario, tanto per tanto, egli rischia tutto per tutto, e se, per la sua responsabilità, il matrimonio è un’e­ popea, esso è anche, per la sua felicità, un idillio. Il matrimonio è quindi lo splendido punto focale della vita e dell’esistenza, un centro che riflette tanto in profondità quanto è alto ciò che rivela: una rivelazione che, nel suo mistero, manifesta tutti i cieli. E questo vale per ogni matri­ monio, come vale non solo per il mare ma anche per un lago tranquillo, sempre che l’acqua non sia agitata. Essere un ma­ rito è il compito più bello e più significativo; chi non si è sposato è un infelice, a cui la vita non l’ha permesso o che l’amore'’ ^ non ha visitato, oppure è una persona sospetta che prima o poi toccherà arrestare. Il matrimonio è la pienezza dei tempi; chi non si è sposato o è sempre infelice agli occhi altrui, o lo è ai suoi stessi occhi: nella sua eccentricità sentirà il tempo come un fardello. Così è il matrimonio. È divino. Qui, e per tutto l’elogio del matrimonio che segue, traduciamo, per evitare appesantimenti, con amore quello che in danese è Forelskelse, innamoramento.

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poiché l’amore è il miracolo; è terreno, poiché l’amore è il mito più profondo della natura. L ’amore è la ragione inson­ dabile che si nasconde nell’oscurità, ma la decisione è il vinci­ tore che, come Orfeo, porta l’amore alla luce del giorno; poiché la decisione è la forma autentica dell’amore, la sua spiegazione autentica, e per questo il matrimonio è santo e benedetto da Dio. Ha un carattere sociale, poiché è in virtù del matrimonio che gli innamorati appartengono allo Stato, alla patria e partecipano della cosa pubblica. E poetico e ineffabile al pari dell’amore, ma è la decisione il traduttore scrupoloso che volge l’esaltazione in realtà, e questo tradut­ tore agisce con indicibile precisione. La voce dell’amore «somiglia alla voce delle fate che si leva dalle grotte nelle notti d’estate», ma la decisione ha la serietà della perseve­ ranza che risuona anche nel fuggevole e nel caduco. Il passo dell’amore è leggero come quello della danza sui prati, ma la decisione sostiene il danzatore stanco, finché la danza rico­ mincia. Così è il matrimonio; contento come un bambino, e tuttavia austero, perché ha costantemente il miracolo davanti agli occhi; modesto e appartato, e tuttavia abitato dalla solen­ nità. Come rimane chiusa durante il servizio divino la porta del commerciante, quella del matrimonio lo è sempre, poiché lì il servizio divino si celebra costantemente. E preoccupato, ma di una preoccupazione che non è spregevole, giacché poggia sulla comprensione e sull’immedesimazione con tutto il profondo dolore dell’esistenza; chi non conosce questa preoccupazione non è un’anima bella. E serio, e tuttavia ad­ dolcito dal gioco, poiché non voler far tutto è un pessimo gioco, ma fare del proprio meglio e tuttavia capire che è sempre poco, troppo poco, niente rispetto a quel che desi­ dera l’amore e quello a cui la decisione aspira, è un gioco felice. E umile e tuttavia ardito, di un ardimento che si trova

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solo nel matrimonio, poiché fatto della forza deiruomo e della debolezza della donna e ringiovanito dalla spensiera­ tezza del bambino. E fedele, e davvero, se non fosse fedele il matrimonio, dove trovarla, allora, la fedeltà! È tranquillo, pacificato, consolidato nell’esistenza, nessun pericolo è un vero pericolo, ma solo un’inquietudine, È frugale, ma sa anche largheggiare, e sa essere bello in condizioni di ristret­ tezza, così come sa essere non meno bello nell’abbondanza. È appagato, e tuttavia pieno di aspettative; gli innamorati ba­ stano a se stessi, e tuttavia sono al mondo solo per gli altri. È quotidianità, certo, che cosa è più quotidiano del matri­ monio? E cosa assolutamente temporale, e tuttavia la rimem­ branza dell’eternità sta in ascolto e non dimentica nulla. Del matrimonio ho detto abbastanza; in questo momento non mi sembra di voler dire di più; un’altra volta, domani forse, dirò di più, ma «sempre la stessa cosa e sulla stessa cosa»,'*2 poiché solo gli zingari, le canaglie e i truffatori hanno per motto di non tornare mai dove si è già stati. Tut­ tavia mi sembra che basti, e l’unica cosa che voglio aggiun­ gere è che, se il matrimonio non avesse che la metà di questi pregi, sarebbe già attraente ai miei occhi, tanto più in quanto mi sembra di essermi messo sotto processo, più che tessere di me un elogio. Ciò non toglie che si possa essere un marito felice pur senza aver raggiunto la perfezione, purché se ne sia coscienti e si riconosca umilmente la propria imperfezione. Qui ho voluto solo alzare un po’ il prezzo; poiché, quando si ha a che fare con attaccabrighe che sfruttano ogni pretesto per trovare da ridire, con pirati che mettono tutto a ferro e P. A . W o lff, Preciosa (p. 25 della trad. danese di C. I. Boye, K0benhavn 1822), musicata da W eb er e presentata al Teatro Reale di Copenaghen con grande successo nel 18 22 e nel 1843.

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fuoco, con spioni che origliano dietro la porta, con vaga­ bondi pronti a fare irruzione, si impone il rispetto per le cose sacre; inoltre, si gioca un po’ a mosca cieca, poiché si sa bene che costoro si avvicinano a tentoni alla porta di casa, alla porta cieca del matrimonio, ma in quel modo sul matrimonio non si apprende gran che. Veniamo ora alle obiezioni. Può anche darsi che un marito non sappia affilarle con la stessa abilità di un sofista; egli sa però dov’è il nodo della questione e, quando fa il punto sul matrimonio, sa tenerne conto, o almeno ha acquisito un’atti­ tudine generale a capire la solfa. Obiettare per obiettare, anche ad averne il talento, è solo una perdita di tempo. Certo è, comunque, che chiunque muova delle obiezioni è sempre da compiangere, poiché o si è abbandonato al piacere di farle al punto di incallircisi, o ha ceduto al fascino della ragione. Per ogni obiezione che parta da quest’ultima premessa, vale la risposta à la Hamann: Bah! Lasciatelo parlare a suo piaci­ mento, poi chiedetegli se ha finito, e a quel punto ditegli questa parola magica. Una volta così chiusa la porta, rimane un’altra risposta. Pare che il sofista Gorgia"*^ abbia detto che la tragedia è un’illusione, in cui chi illude appare più giusto di chi non illude, e l’illuso più saggio di chi illuso non è. Quest’ultima considerazione è una verità eterna e una ri­ sposta giusta ogni volta che la ragione si perde nei suoi stessi pensieri e, in preda al timore di venire illusa, cede per l’ap­ punto all’illusione. E vero che occorre una saggezza di gran lunga maggiore per rimanere nella felice illusione dell’entu­ siasmo, del mistero, dell’amore, della chimera e del miracolo, piuttosto che scapparsene di casa nudo come un verme e Plutarco, De gloria Atheniensium, 5 .

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mezzo ammattito a forza di buonsenso. Che strana contraddi­ zione. C ’è una distrazione dovuta alla mancanza di memoria, eppure non mancano i casi di distratti per troppa memoria. A spingere a fondo l’obiezione mossa al matrimonio, biso­ gnerebbe muoverla innanzitutto all’innamoramento, giacché è pur sempre dall’inizio che bisogna iniziare. Questo, però, non lo si fa quasi mai. In generale, le obiezioni partono pro­ prio dall’innamoramento, e il loro bacio innamorato è un vero bacio di Giuda, il tradimento del matrimonio. I nemici che attaccano apertamente l’innamoramento sono meno peri­ colosi e non hanno un seguito se non di rado. Non appena la ragione tenta di spiegare o di concepire l’innamoramento, ecco apparire il ridicolo, il che, in altri termini, è come dire che diventa ridicola la ragione. La questione si pone tuttavia diversamente a seconda di chi parla. Se costui è un uomo corrotto, che conclude una vita dissoluta cercando di coprire di ridicolo tutto ciò che fino ad allora è riuscito a sfuggire al suo tocco profanatore, ammesso pure che abbia bazzicato abbastanza quello che si chiama l’innamoramento, ogni ri­ sposta è superflua. E però possibile pensare a una forma più ragionevole di opposizione, così ragionevole da indurre a compiangere e a spiegare l’errore. A sbagliare così dev’essere un ragazzo assolutamente non toccato dall’eros, un ragazzo a cui, come a un bambino precocemente saggio, sia sfuggita una fase dell’anima, e sia capitato di affrontare la vita comin­ ciando dalla riflessione. Nella nostra epoca riflessiva un per­ sonaggio simile è perfettamente concepibile, potremmo per­ fino ritenerlo un’individualità a pieno diritto, perché tutto il parlare che si fa della riflessione, la sua divinizzazione e la tanto reclamata necessità di dubitare di tutto per lui si espri­ mono nel fatto di concepire, più seriamente di molti dog­ matici superficiali che puntano al successo con un libro in cui

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dubitano di tutto, l’idea disperata di pensare l’eros, di volerlo attingere col pensiero, perciò stesso allontanandosene. Un individuo simile è un infelice e, se è veramente puro, non posso rimanere indifferente alla sua infelicità. Somiglia a quella fata che ha perduto la pelle di c i g n o e , abbandonata, si sforza invano di riuscire a volare. Ha perduto quell’imme­ diatezza che sostiene nel corso della vita, quell’immediatezza senza la quale l’innamoramento è impossibile, quell’immedia­ tezza che, costante premessa, lo ha costantemente fatto pro­ gredire; è escluso dal bene dell’immediatezza, un bene di cui non si riesce mai a ringraziare il benefattore, poiché egli si nasconde sempre. Se è triste assistere all’infelicità di quella fata, è anche triste vedere tutti gli sforzi dialettici del nostro personaggio, sia che la sua sofferenza sia muta, sia che, con un demoniaco virtuosismo di riflessione, riesca con abili discorsi a nascon­ dere la sua nudità. L ’innamoramento è sempre un miracolo; come stupirsi al­ lora che la ragione taccia mentre gli innamorati cadono in adorazione davanti ai sacri segni del miracolo? A questo ri­ guardo, come sempre del resto, bisognerebbe fare attenzione ai termini. Una categoria greca che si chiama, leggermente modernizzata, “scegliersi” è la mia categoria preferita"^^ e si applica bene a un’esistenza individuale; ma bisogna guardarsi dall’usarla per l’eros dicendo, per esempio, di volersi sceIl diffuso motivo fiabesco della donna-cigno, noto a Kierkegaard sia dalla Canzone di Vòlundr nclYEdda, sia dal ciclo di Melusina, è ripreso per la principessa greca Elena nel dramma di H . Hertz, Svanehammen {Pelle di cigno, K0benhavn 1841). Kierkegaard pensa a una frase del filosofo stoico Crisippo (Pap. iv A 246). N el saggio Equilibrio fra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità (nella seconda parte di A u t aut, a firma appunto del G iudice Vilhelm ), il G iudice scrive; «T o rn o alla mia categoria... al significato dello scegliere».

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gliere l’innamorato, ché l’innamorato è un dono di Dio; e, come per scegliere, e per scegliersi, la premessa è l’esistere, si deve ritenere che anche l’amato, in quanto è amato, esista, sempre che si possa parlare di scegliere in entrambi i casi. Se per scegliere si intende prendersi l’oggetto del proprio amore invece di riceverlo in dono, basta questo a mettere in moto una riflessione fuorviata. Il Giovane dissolve così l’amore nell’amare l’amabile, perché deve scegliere. Povero ragazzo! Non solo è una cosa impossibile; ma chi ne avrebbe il coraggio, di scegliere nel senso di cui si è detto; con che coraggio ca­ drebbe in un’infatuazione di sé così maschile da non capire che per fare la corte bisogna prima avere ricevuto la corte del dio, e che qualsiasi altro corteggiamento è pura tracotanza? Mi astengo quindi dallo scegliere e preferisco piuttosto rin­ graziare il dio del suo dono: lui sceglie meglio e ringraziare è una sorte più felice. Io non desidero coprirmi di ridicolo dando inizio a una dissertazione critica senza senso sulla donna che amo, come ad esempio che l’amo per questo, per questo e in fin dei conti per questo - perché l’amo. A farne un uso appropriato, una simile dissertazione può essere molto divertente, perfino per gli innamorati, giacché è puro umorismo ricondurre tutta l’essenza dell’amore a un dettaglio insignificante, come se un marito dicesse alla moglie che l’ama, in realtà, per i suoi capelli biondi. Un discorso simile è una battuta umoristica, che ha perduto completamente di vista l’importanza della riflessione. Do al dio quel che è del dio, e tutti dovrebbero fare lo stesso. Ma non lo fanno, giacché gli negano il sacro tributo dell’ammirazione e dello stupore. Proprio quando la ragione tace è il momento di avere il coraggio e l’ardire di affidarsi al miracolo e, nel co­ stante conforto di questa visione, di tornare alla realtà, non di restare immobili nel tentativo di spiegarla. Tuttavia, prefe­

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risco uno sterile tentativo di critica rigorosa e stringente che porti alla disperazione la mente di chi riflette, e magari lo salvi proprio per questo, a una garrula e futile riflessione, un’acconciatrice che voglia abbellire l’amore e pretenda di saperne di più del miracolo. L ’amore è veramente un mira­ colo, e non un pettegolezzo, il suo sacerdote è un adoratore e non una donna di strada. Il paganesimo attribuiva l’innamoramento a Eros. Ma basta che la decisione del matrimonio faccia intervenire l’e­ tica, e la civetteria .dell’attribuzione a una divinità diviene, nel matrimonio, una formula squisitamente religiosa: dalle mani di Dio riceviamo chi amiamo. Non appena Dio si rivela alla coscienza, avviene il miracolo, poiché Dio non può rive­ larsi altrimenti. G li Ebrei esprimevano quest’idea'^^ con le parole: chi vede Dio dovrà morire. Non era che un’imma­ gine, ma la verità è che si perde la ragione, proprio come la perde l’innamorato quando vede la sua amata e, per di più, vede Dio. Sono sposato, è vero, da parecchi anni, e dunque farà forse ridere la mia esaltazione; ridano pure! Un marito è sempre innamorato, altrimenti non arriverà mai a capire l’in­ namoramento. Il triste cavaliere della riflessione va più lontano, vuole studiare la sintesi nascosta nella passione amorosa. Non si accorge di avere un velo davanti agli occhi, e di trovarsi di nuovo di fronte al miracolo. Dio crea dal nulla, ma in questo caso, oso dire, va oltre e ammanta un istinto con la bellezza della passione amorosa affinché gli innamorati vedano solo la bellezza e restino ignari dell’istinto. Chi alzerebbe il velo? Chi oserebbe tanto? La bellezza ideale è quella velata, e non Giudici, 13, 22.

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Splende così bella la luna dietro il velo delle nubi, non sogna con più nostalgia il cielo dietro la tenda di un albero in fiore, non tentano con più forza le trasparenze del mare di quanto faccia la donna amata, la sposa nascosta dal velo del pudore. Mi esalto, forse - proprio io, un povero marito? E che dire di questo mistero, mistero per me allora, e che continua a es­ serlo negli anni? Poiché non mi risulta che ci sia una spiega­ zione; anzi, non capisco l’esecrabile temerarietà di chi dà più valore al velo della natura che a quello della moralità. Così procede dunque quel pover’uomo,'** che, come sempre, la riflessione riduce in miseria; egli procede, e la sua esaltazione lo rende più infelice, la sua ricchezza lo rende più povero. Si ferma a quelle che chiamerebbe, credo, le conseguenze della passione amorosa. E chi non si ferma lì? È come se il ritmo naturale dell’esistenza si fermasse mentre interviene il dio creatore. Oh, felice stupore! Chi non è grato di vedere qui il dio, chi non è grato di non dover sprofondare nella malinconia come il noioso portavoce della riflessione, chi non è lieto e grato della vita, non perché il bambino sia un miracolo di bambino (vanità, vanità!), ma perché è un miracolo che il bambino nasca? Anche chi non vuole vederne la meraviglia, a meno di non essere del tutto insensibile, dovrà dire, come Talete,^® che per amore dei figli non vuole figli: quanta malinconia in queste parole che sottintendono un crimine maggiore, o maggiore disgrazia, nel dare la vita che nel toglierla, e quanta infelicità in questa contraddizione! L ’innamoramento, quindi, è un miracolo, e tutto quel che Il «triste cavaliere» della riflessione. In senso hegeliano: passa dall’immediato alla sfera della riflessione, che è superamento dell’immediato. Diogene Laerzio, i, 36.

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è proprio dell’innamoramento è proprio del miracolo. L ’in­ namoramento va dato per scontato. Qualsiasi tentativo di riflessione, per seducente o rivoltante che sia, per temerario o insipido che possa apparire, va immancabilmente giudicato falso. - Si tratta quindi di stabilire come questa cosa imme­ diata (l’innamoramento) possa trovare corrispondenza in una immediatezza conquistata con la riflessione. E qui che bi­ sogna condurre la battaglia decisiva. Prima, però, vorrei prendere in esame un altro lato della questione. In generale l’innamoramento non manca di elogi. Perfino un seduttore non si fa scrupolo di arrogarsi il desi­ derio di venirne coinvolto. Ma si dice che l’istante e il breve tempo dell’innamoramento siano l’apogeo della donna, per cui è importante saper tagliare la corda. Le obiezioni pren­ dono allora un’altra direzione, e l’adorazione galante e sedu­ cente dell’altro sesso finisce in insulti. D ’altronde, educato come sono stato alla religione cri­ stiana, se non posso approvare tutti i tentativi disdicevoli di emancipare le donne, non mi appaiono però meno assurde tutte le reminiscenze pagane. In breve, la mia opinione è che indubbiamente la donna vale quanto l’uomo, e questo è un fatto. Un’analisi più ampia della differenza tra i sessi, o un’in­ dagine sul primato fra i due sessi, è un problema ozioso per sfaccendati e vecchi scapoli. Un bambino ben educato si rico­ nosce dal fatto che si contenta di quello che riceve; allo stesso modo, un marito ben educato si riconosce dalla gioia e dalla gratitudine che prova per quel che gli è stato dato in sorte, in altri termini l’innamoramento. Di tanto in tanto capita che un marito si lamenti dei pensieri che gli dà il matrimonio; quanti altri se ne cerca invece, se arriva anche all’impudenza di farsi, o soltanto il critico e recensore di sua moglie, affliggendola a ogni ora del giorno con sciocche pre­

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tese come: sorridi così, tieni la schiena così, inchinati così, vestiti così, pronuncia così; o di farsi, di lei, sia il marito, che il critico e il recensore? Come critico coniugale sono un completo non ho al mio attivo la frivola preparazione degli anni passati a fare il damerino, più velenosi a volte di quanto non si creda. La mia storia d’amore è, in un certo senso, breve; mi sono mante­ nuto e ho badato ai miei studi, non ho messo gli occhi sulle fanciulle ai balli, nelle passeggiate, al teatro, ai concerti; l’ho fatto non per superficialità, ma nemmeno per quella vuota serietà di cui si compiace l’uomo che ha in mente di sposarsi e pensa che la fanciulla adatta a lui debba essere eccezionale. Avevo così poca esperienza quando ho conosciuto la donna che ora è mia; non ho mai amato prima e prego Iddio di non dover amare in futuro; ma, se per un istante dovessi pensare quel che per me è impensabile, e cioè che la morte mi pri­ vasse di lei, e io cambiassi a tal punto da essere indotto a seconde nozze, sono sicuro che il mio matrimonio non dimo­ strerebbe di avermi corrotto o incoraggiato a criticare, disde­ gnare e adocchiare. Come stupirsi a sentire tante chiacchiere sciocche sull’innamoramento, se tutte le chiacchiere che si fanno dimostrano, di per sé, che la riflessione si insinua dap­ pertutto a turbare la vita silenziosa e più modesta in cui preferisce albergare l’innamoramento, giacché nella sua mo­ destia questa vita si avvicina al timor di Dio? Eppure mi rendo conto che i signori esteti non ci pense­ rebbero due volte a dichiararmi troppo incompetente per essere all’altezza della loro conversazione, tanto più che non faccio mistero di non sapere ancora con precisione, nonoPrincipiante.

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stante che sia sposato da otto anni, come sia fatta mia moglie da un punto di vista critico. Amare è non criticare, e la fe­ deltà coniugale non consiste in una critica minuziosa. Questa mia ignoranza, però, non dipende in alcun modo da una mancanza di formazione: anch’io sono in grado di analizzare la bellezza, ma esercito questa mia capacità di fronte a un ritratto o a una statua, non nei confronti di mia moglie. Di questo ringrazio in parte lei, poiché, se per vanità avesse provato qualche piacere nell’essere oggetto dell’adorazione critica di un adulatore, chissà che anch’io non sarei diventato tale, e che, come accade in questi casi, non avrei finito col diventare stizzoso, e come critico e come marito. Né mi vedo capace di muovermi con la disinvoltura della routine in molti di quei termini di cui gli esperti si pavoneggiano: non lo pretendo neppure, non vado a cena con gli intenditori. A voler essere generosi, persone come loro fanno l’effetto dei cambiamoneta seduti nell’atrio del tempio e intenti a cambiar denaro; se chi entra nel tempio pieno di pensieri elevati prova disgusto nel sentire il tintinnio delle monete, io non trovo meno ripugnante sentire il frastuono di parole come: snella, rotondetta, florida, e così via. Quando leggo parole si­ mili in un poeta antico, parole che sgorgano con naturalezza dall’ispirazione e dalla lingua madre, ne godo, ma non le profano e, per quanto riguarda mia moglie, nemmeno oggi so dire per certo se ella sia snella o no. La mia gioia e il mio innamoramento non sono quelli di un mercante di cavalli, né sono paragonabili all’ardore malsano di un seduttore incal­ lito. Se volessi esprimermi così nei suoi riguardi, sono certo che finirei col dire delle sciocchezze. E se fino a oggi sono riuscito ad astenermene, probabilmente sarò salvo per il resto della mia vita; poiché basta la presenza di un neonato a ren­ dere l’innamoramento ancora più riservato di quanto esso di

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per sé non sia. È una cosa su cui ho riflettuto spesso, ed è per questo che ho sempre trovato deplorevole che un uomo già maturo e con figli sposi una donna giovanissima. E proprio perché il mio amore è tutto per me, che mi sembra assurdo volerlo sfruttare per fare della critica. Se do­ vessi proprio elogiare il sesso femminile, nel senso estetico che si dà alla parola elogiare, lo farei solo per fare dello spirito, poiché tutta quella snellezza e floridezza, e le soprac­ ciglia e lo sguardo saettante non fondano l’innamoramento, tanto meno il matrimonio, e l’innamoramento trova la sua vera espressione solo nel matrimonio: se ne resta fuori non è che seduzione e galanteria. In un suo libretto. De nobilitate et praecellentia foeminei sexus, eiusàemque supra virilem eminentia Ubellus, Hen. Cornei. Agrippa di Nettesheim^2 dice in modo estremamente ingenuo le cose più curiose in onore della donna. Che poi abbia dimostrato quel che intendeva dimostrare, non lo credo proprio, sebbene egli parli bona fide e bene, e sia anche abbastanza ingenuo da credere di averlo dimostrato; approvo invece appieno i versi a chiusura del libro, che rinunciano a ogni verboso (vaniloquax) elogio del­ l’uomo. Chi legga quell’ingenua argomentazione nella per­ fetta convinzione della felicità dell’innamoramento e del ma­ trimonio, chi a ogni argomento aggiunga un ergo altamente patetico oppure un quod erat demonstrandum, mentre il vero pathos sta nella ricchezza contenuta nella sua convinzione, che non ha bisogno di prove, ha come risultato un effetto veramente comico. Mi spiego un po’ meglio. Nella riunione della Società del Della nobiltà e della qualità del sesso femminile e della sua superiorità sul sesso maschile: il trattatello, qui citato, del famoso umanista tedesco uscì a Colonia nel 1527.

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28 maggio mi è capitato di sentire il discorso di un giovane studioso che, nel suo entusiasmo per le scienze naturali, rite­ neva che ogni scoperta, ivi compresa l’ultima, che consiste nel produrre sapone con la silice, ci avvicinasse a Dio e ci persuadesse della sua bontà, sapienza e via dicendo. Se quel discorso voleva essere un serio tentativo di avvicinarsi a Dio, a mio parere era veramente infelice. Diverso, invece, il caso di un uomo che, quanto a fede nella bontà e nella sapienza di Dio, sia milionario e più “ solvibile” di una banca londinese, e che, se appena la riflessione accenna a voler provare qualcosa in proposito, ne interrompa la dimostrazione dimostrando a sua volta che ormai ci si può perfino lavare le mani col sa­ pone di silice; e concluda poi il discorso press’a poco così; «Guardate! ora mi lavo le mani!». Se questa non è una prova convincente, dubito di averne di migliori. In quel libretto si adduce la prova che in ebraico donna si dice Èva (vita), e uomo Adamo (terra) - ergo. Come battuta in un’altercatio, dove tutto sia assolutamente definito e sigillato in fede col timbro del Notarius publicus e di Dio, è senz’altro eccellente. Lo stesso vale per il fatto, citato come prova ulteriore, che una donna cadendo in acqua galleggia, mentre un uomo ca­ dendo in acqua sprofonda - ergo. Una prova simile può anche essere utilizzata in altro modo, ossia può contribuire a spiegare perché nel Medioevo si bruciavano tante streghe. Sono passati alcuni anni da quando ho letto quel libretto, ma allora mi procurò un enorme divertimento. Vi si trovano, esposti nel modo più ingenuo, i fatti più curiosi delle scienze ” Il 28 maggio 18 3 1 fu annunciata l’istituzione in Danimarca (attuata solo tre anni dopo) di Assemblee consultive provinciali. A ll’insegna di questa data, festeg­ giata per tutto il decennio successivo, si tentò nel 1832 di fondare una società politica, subito soppressa d’autorità.

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naturali e della linguistica. Molti di essi si sono impressi nella mia memoria, e mentre non dico mai a mia moglie se sia snella o meno, cosa che dispiacerebbe a lei e riuscirebbe male a me, a volte me la cavo molto bene, sia detto senza vanità, in quest’altro tipo di argomentazioni e considerazioni che le sono gradite, forse perché non dimostrano alcunché e perciò stesso dimostrano che il nostro matrimonio non ha bisogno di critiche circostanziate e che siamo felici. Al riguardo, mi sono chiesto spesso come mai i poeti non includano mai tra i loro soggetti una conversazione tra ma­ rito e moglie. Se per caso qualcuno lo fa, e se devono essere una coppia felice, parleranno il più delle volte come una coppia di innamorati. In generale i mariti e le mogli sono personaggi secondari e abbastanza avanti negli anni per es­ sere il padre e la madre dell’innamorata, su cui invece si accentra l’attenzione del poeta. Per decidere di rappresen­ tarlo, un matrimonio deve, se non altro, essere infelice: altri­ menti non viene preso in considerazione. Che differenza: l’in­ namoramento dev’essere felice e dev’essere insidiato dall’e­ sterno; il matrimonio, perché possa essere poetico, dev’essere insidiato dall’interno. Secondo me, questa è la triste dimo­ strazione, seppure indiretta, che il matrimonio è ben lungi dal godere del riconoscimento che merita, se, a quanto sembra, due sposi sono meno poetici di due innamorati. Se agli amanti piace parlare con tutta l’effervescenza dell’inna­ moramento, cosa che va a genio sia al giovane sia alla fan­ ciulla, due sposi non sono certo da meno. Secondo me, un marito che col matrimonio non acquista il senso dell’umorismo è un cattivo marito, così come è un cattivo amante chi non diventa poeta; qualsiasi marito, se­ condo me, acquista dell’umorismo, magari solo una sfuma­ tura, e qualsiasi amante diventa un po’ poeta. Mi riferisco a

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me stesso, non tanto pensando alla poesia, quanto a un senso speciale, una speciale venatura di umorismo che devo solo al mio matrimonio. Nell’innamoramento gran parte dell’eros è di un’importanza assoluta, nel matrimonio a quest’impor­ tanza assoluta si sostituisce una concezione umoristica, espressione poetica della serena e appagata sicurezza del ma­ trimonio. Porterò ora un esempio, chiedendo al lettore abbastanza senso dell’umorismo da non prenderlo come un tentativo di dimostrare qualcosa. L ’estate scorsa sono partito con mia mo­ glie per un viaggetto al sud dello Sjaelland. Viaggiavamo con tutto comodo, e siccome mia moglie desiderava sperimentare quel che si dice andarsene a zonzo, ci fermammo in tutte le possibili locande, talvolta pernottandovi, ma soprattutto ce la prendemmo comoda. Nelle locande abbiamo avuto modo di guardarci intorno. Fatto curioso, accadde che in cinque lo­ cande di seguito trovassimo un avviso al muro: una persecu­ zione, impossibile sfuggirle. La comunicazione era del se­ guente tenore: un accorato padre di famiglia ringraziava con le parole più deferenti un esperto di provata bravura e abilità che con mano leggera, da artista, e senza alcun dolore aveva liberato lui e l’intera sua famiglia da certi fastidiosissimi calli, restituendo in tal modo lui stesso e la sua famiglia alla vita di società. Vi si menzionavano i componenti della famiglia e, tra gli altri, anche una figlia che, vera Antigone, appartenendo a una famiglia così sfortunata, non era stata nemmeno lei ri­ sparmiata dal male di famiglia. Dopo aver letto questo avviso in ben tre locande, nulla di strano che la cosa divenisse argo­ mento di conversazione. A me sembrava che questo padre mancasse di tatto parlando della ragazza; anche se lo faceva per rendere pubblica la sua completa guarigione, la cosa po­ teva comunque rendere perplesso un eventuale pretendente.

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e senza nessuna necessità, visto che i calli vanno annoverati tra i piccoli difetti che si possono scoprire dopo il matri­ monio. Chiedo ora a un poeta di dirmi se non sia umoristico il tema di questa conversazione, anche se, certo, non ero io il tipo adatto a farne dell’alto umorismo; e d’altro canto se non sia anche vero che un simile argomento sta bene solo in bocca a un marito, mentre un corteggiatore se ne sentirebbe ferito giacché quello sgradevole callo, anche se tolto, disturba profondamente le fantasie estetiche sulla bellezza. Una bat­ tuta del genere, sulla bocca di un amante, sarebbe assolutamente imperdonabile. Tuttavia, benché la mia povera arguzia riducesse la conversazione a una semplice chiacchierata di tutti i giorni, so che mia moglie ne fu divertita, la divertì vedere una simile circostanza esaminata alla luce dell’assoluto estetico, per esempio ponendo il problema se vedervi o no motivo sufficiente di divorzio, e via dicendo. E quando nel mio salotto accade che qualche intenditore o qualche signo­ rina sapientona si mettano a fare discorsi pomposi sull’inna­ moramento, sulla linea, e sul fatto che gli innamorati devono conoscersi bene per poter essere sicuri della loro scelta, di avere scelto, cioè, un esemplare impeccabile, in qualche caso butto in tavola anch’io la mia opinione, in realtà perché la raccolga mia moglie, dicendo: «Eh già, è difficile, proprio difficile; i calli, per esempio, non si può mai sapere con cer­ tezza se l’altro li ha, li ha avuti o li avrà mai». Ma passiamo oltre. L ’umorismo poggia, per l’appunto, sulla sicurezza del matrimonio che, fondandosi sul vissuto, non ha l’irrequietezza delle prime gioie della passione amo­ rosa, per quanto le sue gioie siano tutt’altro che minori. E quando io come marito, marito da ben otto anni, poggio il capo sulla spalla di lei, non sono un critico che ammiri o

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rimpianga bellezze terrene, né un ragazzo esaltato che celebri il suo seno, eppure provo la stessa profonda commozione della prima volta. Poiché io so, con una certezza antica che non cessa di rafforzarsi in me, che nel petto della donna che è mia moglie batte un cuore umile e tranquillo, ma costante e regolare; so che batte per me, per il mio bene e per il nostro bene comune, so che il suo battito tenero e pacato non co­ nosce pause - oh no! - mentre sono assorbito dai miei affari, né mentre mi disperdo in mille cose diverse; so che in qual­ siasi momento e in qualsiasi circostanza io mi rifugi da lei, non ha mai cessato di battere per me. E sono un credente. Chi ama, crede che l’amata sia la sua vita; così io credo, sul piano spirituale, quello che insegnano, a sentire il famoso libretto, i naturalisti, che cioè il latte materno sia miracoloso per chi è malato mortalmente; credo che questa tenerezza che si sforza incessantemente di trovare un’espressione sempre più profonda, questa tenerezza che era la sua dote di sposa, credo che stia dando frutti cospicui, e credo che si raddoppierà se io non dilapido i suoi averi; credo che, se fossi ammalato, ammalato da morire, e quel suo sguardo affet­ tuoso si posasse su di me, ah! come se il gladiatore morente fosse lei stessa, e non io, credo che mi riporterebbe la vita, se il Dio dei cieli non decidesse di usare la forza; e se invece Dio usasse la forza, credo che quella tenerezza tornerebbe a le­ garmi alla vita, come un’apparizione che faccia visita alla mia amata, come un morto che la morte non riesca a persuadere, finché alla fine non ci ritroveremmo uniti. Ma fino a quel giorno, fino al giorno in cui Dio non userà la forza, credo che da lei attingerò la pace e l’appagamento necessari alla mia vita, e che mi salverà molte volte dalla morte dello scora­ mento e dalla dura fatica in cui si consuma lo spirito. Ecclesiaste, i, 17-18.

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Così parla ogni marito: meglio, se è un marito migliore di me, meglio, se ha dell’ingegno. Non è un ragazzo innamo­ rato, la sua espressione non ha la passionalità dell’istante, e quale offesa, nell’ardore di un istante appassionato, ringra­ ziare per un amore come questo. Somiglia allo scrupoloso contabile su cui a suo tempo stavano per cadere dei sospetti, poiché quando, in seguito a una calunnia, i severi revisori si presentarono alla sua porta chiedendo di vedere i libri conta­ bili, rispose: non li ho, io i conti li faccio a mente. Che cosa sospetta! Eppure, sia detto a onore della mente di quel vec­ chio, i suoi conti erano esatti. Quando lo racconta a sua moglie, un marito si esprime forse con un’ombra di umo­ rismo; ma quell’umorismo, quel ringraziamento spensierato, quella ricevuta non su carta, ma nel libro mastro della rimem­ branza mostra appunto che la sua contabilità è credibile e che il suo matrimonio ha dimostrazioni in abbondanza, come il pane quotidiano. Così, ho già lasciato intendere quale sia per me la dire­ zione in cui ricercare la bellezza femminile. Ahimè! perfino delle persone oneste hanno contribuito a quella spiacevole confusione a cui, cosa ancor più triste, aspira con eccessiva smania una frivola gioventù femminile, senza rendersi conto che è terribile, per una ragazza, avere l’unica bellezza della prima giovinezza;* che fiorisca solo per un istante, la sta­ gione della passione amorosa, e che si ami una volta sola. E vero che si ama una volta sola, ma la donna cresce in * Appunto a proposito della teoria che la bellezza della donna aumenti con gli anni, sarebbe non solo indelicato, ma anche fuorviente citare le prestazioni dell’arte scenica, poiché in questo caso tutto ruota intorno all’esigenza dell’istante, e le diffe­ renze hanno un’importanza fondamentale; proprio per questo mi allieta particolar­ mente vedere felicemente confermata, nel bel mezzo dei veloci cambiamenti di

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bellezza con gli anni, una bellezza così lungi dallo sfiorire che, confrontata con quella più matura, la bellezza della prima giovinezza è piuttosto discutibile. Chi, a meno di non essere un demente, non ha provato una certa malinconia alla vista di una fanciulla? Poiché in lei la fragilità della vita scena, una bella verità, a me tanto cara. L ’attrice che nel nostro teatro rappresenta sostanzialmente la femminilità, senza limitarsi a uno solo dei suoi aspetti, senza essere aiutata né ostacolata in questo dalle circostanze, e neppure legarsi a una certa età della vita, è Madame Nielsen. Il personaggio che rappresenta, ma non nell’imme­ diato, la voce con cui entra nella pièce, l’ispirazione con cui dà vita alla recitazione, la pensosità, così rassicurante per lo spettatore, la sua calma coinvolgente, la fidata profondità d’ animo che disdegna ogni maniera esteriore, la costante padronanza delle emozioni che non imperversano con i loro fremiti, non irritano nascondendosi dietro la civetteria, non si gonfiano di pathos incontrollato, non si fanno attendere con atteggiamenti pretenziosi, non scoppiano in attacchi violenti, non annaspano alla ricerca di qualcosa di indicibile, ma, fedeli a loro stesse, di se stesse sono garanti, sempre pronte e autentiche una volta per tutte: in una parola, tutta la sua arte è racchiusa in quel che si potrebbe chiamare l’essenza della femminilità. M olte attrici hanno conquistato fama e ammirazione per il loro virtuosismo in un qualche aspetto della femminilità, ma questa ammirazione, che peraltro trova facilmente il giusto modo di esprimersi in mille forme passeggere di entusiasmo, è di per sé soggetta al tempo, quando svaniscono le circostanze accidentali su cui poggiava la loro trionfale prestazione. Poiché la forza di Madam e Nielsen è l’essenza della femminilità, U suo ambito è l’ essenziale anche in un personaggio secondario, purché nella pièce ella appaia in un ruolo fondamentale (amante in un vaudeville, madre in un idillio ecc.), e rappresenti l’essenziale di un ruolo sublime, l’essenziale di un ruolo corrotto, che, benché corru­ zione della femminilità, è essenzialmente tipico di questo sesso, così che lo spetta­ tore non provi disgusto alla vista del laido, né rimanga scettico di fronte all’esagera­ zione, né incline a giustificare la corruzione facendo ricorso all’educazione, all’in­ flusso delle circostanze esterne, e via di seguito, poiché è proprio nell’ idealità della rappresentazione che si vede il carattere originario e profondo della corruzione. M a anche il suo successo, al pari del suo repertorio, è essenziale, non il trionfo effimero di un istante, ma la prova che il tempo non ha alcun potere su di lei. In qualsiasi periodo della sua vita le verranno assegnate nuove parti che le permetteranno di esprimere l’essenziale, come se fosse all’ inizio della sua brillante carriera. E anche a sessant’anni continuerà a essere perfetta. N o n conosco successo più nobile per un’at­ trice del fatto che qualcuno, forse l’unico in tutto il regno a preoccuparsi di non riuscire qui offensivo, osi menzionare, con la tranquillità con cui lo faccio io qui, quei sessant’ anni, di solito l’ultima cosa da dire parlando di un’attrice. Sarà una nonna perfetta, con lo stesso effetto di essenzialità con cui, da ragazza, non si distingueva per una straordinaria bellezza che affascinasse i recensori, o per una voce ineguagliabile che incantasse gli intenditori, o per un’abilità nella danza

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appare in tutta la sua contraddizione: la fugacità fuggevole come un sogno e la bellezza, splendida come un sogno. Ma, per quanto splendida sia questa prima bellezza, non è co­ munque la verità, è un involucro, un rivestimento, e solo col passar degli anni se ne libera la vera bellezza per offrirsi allo sguardo riconoscente del marito. Guardala invece, la donna matura. Non fai il gesto invo­ lontario di afferrarla, poiché non è la bellezza fugace che passa veloce come un sogno; ma siediti al suo fianco, osser­ vala meglio; ella appartiene veramente al mondo con la sua materna sollecitudine, e anche se il tempo della maternità, con tutto il suo gran daffare, è passato, rimane la sollecitu­ dine in cui ella spiega le ali come i cherubini sull’Arca deiche suscitasse particolare interesse nel pubblico, o per una certa malizia, di cui ogni spettatore potesse appropriarsi con godimento tutto personale; ma lo sarà con quella sacralità che viene da un semplice patto che lega il femminile puro all’imperituro. M entre a teatro di solito ci si trova spesso a pensare alla vanità della vita e della giovinezza, della bellezza e della seduzione, nel momento in cui ammiriamo lei ci sentiamo sicuri, perché sappiamo che tutto questo non svanisce. Forse altri reagi­ scono diversamente, cosicché l’ammirazione, non essendovi ragione alcuna di affret­ tarsi (e in questo caso c ’è tutto il tempo), a volte viene a mancare, e allora quest’ar­ tista viene considerata un ’attrice di second’ordine, cosa che ella in effetti è, quando si tratta di fare gare di corsa sul momento e di produrre un effetto non tramite l ’immanente, ma tramite l’effimero. Perciò non ha forse ammiratori tra recensori che mettano in risalto la pulsazione dell’istante, o tra gli habitués del teatro, che hanno necessariamente visto questo e quell’altro, o tra i corrieri in cerca di notizie da recapitare, o tra i turiferari che, come altri portatori, si divertono quando hanno qualcuno da portar via, o tra i giovani che, quando non riescono a esaltarsi in un innamoramento immaturo, lo proiettano su un’ attrice, o tra i sopravvissuti, che si tengono in vita con un’eccitazione momentanea, ma soprattutto tra coloro che, di per sé felici e soddisfatti della vita, non sentono la mancanza del teatro, non vi anelano, non precipitano la mano destra sulla sinistra per applaudire sul posto, non si affrettano la sera stessa a far scorrere la penna sulla carta in occasione di una piccola cosa, ma che, lenti a parlare, in modo tanto più giudizioso si compiacciono di vedere il bello quando è anche vero. L N J .A .] A nna Helena D orothea Nielsen (180 7-1856) fu una celebre attrice dell’epoca, stabile al Teatro Reale dal 18 21 fino alla morte, e specializzata in parti di tutte le età, da Donna Elvira a Lady M acbeth, dalla ragazzina alla nonna.

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l’AUeanza. In verità, se non percepisci ora quale sia la realtà della donna, significa che sei e rimarrai un critico, un recen­ sore, un intenditore forse, il che è come dire un disperato che si lascia trasportare dalla rabbia della disperazione e grida: amiamo oggi, perché domani sarà finita - non per noi, che sarebbe seccante, ma per l’amore - una cosa ripugnante. Prendi tempo, siediti accanto a lei; non si tratta del frutto delizioso del desiderio; guardati da ogni pensiero impudente 0 dal voler usare i termini degli intenditori; se il sangue ti ribolle dentro, siediti e ti sentirai più calmo. Non si tratta dell’eccitazione del momento: oseresti abbandonarti a essa in sua presenza, oseresti offrirle il braccio per un valzer? Forse preferisci evitare la sua compagnia? Ah! anche se i giovani che le stanno intorno fossero tanto scortesi (come penserebbe un damerino, convinto che lei abbia bisogno della sua con­ versazione), o addirittura tanto sventati da lasciarla seduta da sola, lei non rimpiangerebbe il piacere della loro compagnia, non sentirebbe il pungiglione del risentimento; è riconciliata con la vita, e se tu dovessi un’altra volta aver bisogno di una parola conciliante, se dovessi aver bisogno di dimenticare le dissonanze della vita, rifugiati presso di lei, siediti con dignità accanto alla dignità di lei - e dimmi se è più bella la giovane madre che genera per forza di natura, o la donna avanti negli anni che ti rigenera con la sua sollecitudine! Oppure, se non ti hanno troppo provato i mali del mondo, siediti semplicemente, con dignità, accanto alla dignità di lei: anche la sua vita non è priva di melodia, anche la sua vecchiaia è non sine cithara;^^ e nulla di quel che ha vissuto ha dimenticato, tutti 1 diversi momenti della vita si armonizzano dolcemente quando quella voce tocca le corde della rimembranza. ”

N on priva di lira (Orazio, O di, i, 31).

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Perché, vedi, è arrivata alla spiegazione della vita, anzi è come se della vita fosse lei stessa la spiegazione in carne e ossa. La vita di un uomo non giunge mai a questa comple­ tezza; la sua contabilità è generalmente più voluminosa, mentre una padrona di casa non ha che piccoli avvenimenti, le gioie e i dolori di tutti i giorni, ma proprio per questo ha anche questa felicità, poiché, se è felice una fanciulla, lo è ancor più una donna matura. Dimmi, allora, che cosa è più bello: la fanciulla con la sua felicità, o la donna che è avan­ ti negli anni e porta a compimento un’opera divina, spiana la via all’afflitto, e, con la sua gioia, costituisce il migliore elogio dell’esistenza, lei che è la splendida spiegazione della vita! Lascio ora la donna matura, ma senza certo fuggire la sua compagnia, e vado indietro nel tempo, contento di avere ancora, con l’aiuto di Dio, un bel po’ da vivere, ma anche senza nozione alcuna di quella viltà che fa temere d’invec­ chiare, o fa temere che a invecchiare sia la moglie, poiché io ritengo che con gli anni la donna diventi più bella. Da madre, a mio modo di vedere, è già molto più bella che da fanciulla. Una fanciulla, invece, è una fantasmagoria ed è difficile sapere se faccia parte della realtà o se sia solo una visione. E questo il sublime? Lo credano pure i visionari. Una volta madre, appartiene invece veramente alla realtà, e l’a­ more materno non ha nulla dei sospiri e delle inquietudini della gioventù, ma è una sorgente inesauribile di tenerezza. Non che tutto ciò fosse già presente nella fanciulla come virtualità. Anche in questo caso, la virtualità sarebbe pur sempre inferiore alla realtà, ma non è così. Come non ha latte materno il seno di una fanciulla, così non racchiude quella tenerezza. E una metamorfosi che non ha riscontro nel­

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l’uomo. Se è consuetudine scherzosa dire che l’uomo non è maturo se non ha messo i denti del giudizio, si può invece dire con tutta serietà che lo sviluppo della donna è completo solo quando è madre; solo allora raggiunge tutta la sua bel­ lezza e la sua magnifica realtà. Lasciate pure che la fanciulla dai piedi leggeri, agile, salti la siepe, scherzosa e felice, per prendersi gioco di chi vuole acchiapparla - ah! che piacere vederla, anche per me - ma che accade? Eccola acchiappata, imprigionata; ad acchiapparla certo non sono stato io (a che scopo queste frivolezze e questi vani divertimenti?), non sono certo io a imprigionarla (prigione ben fragile!), no, si è presa da sé e ora è prigioniera accanto alla culla; prigioniera, ep­ pure con tutta la sua libertà, la libertà illimitata con cui si lega al bambino; sono sicuro che vorrà morire nel suo nido. Una parola sola, di passaggio. Per parlare con tutta l’inno­ cenza possibile, partirò dal presupposto che sia stata la predilezione della madre per il bambino a rendere il marito un po’ geloso; ma, mio Dio, è una gelosia che si supera facilmente. Ho comunque nominato la parola gelosia. E una passione oscura, «un mostro che contamina il cibo di cui si nutre». Anche la rabbia è una passione oscura, ma ciò non vuol dire che non esista anche una rabbia nobile. Lo stesso dicasi per la gelosia; esiste anche la giusta indignazione di un nobile amore, in cui allo sdegno si mescola l’indignazione, e che innanzitutto è uno stato normale dell’anima, se è accaduto il peggio. Non ci trovo niente di criticabile, anzi, esigo che l’anima di un marito renda in questo modo gli ultimi onori alla donna che lo ha umiliato, alla donna a cui attribuisce anche, se si vuole, un’importanza tale da poterlo umiliare. Dal mio punto di vista, questo stato d’animo è come il lutto etico dell’innamoramento per un morto. Per contro, so anche che nella vita esistono forze demoniche; so che esiste una

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temerarietà poco lodevole che, se la tormenta uno spirito malvagio, vuole fare il puro spirito, e per di più pretende, cosa tanto deplorevole quanto l’andare su tutte le jFurie per la gelosia, di rimanere fredda, congelata nella fredda passione dell’arguzia. Poiché, se l’inferno è il luogo in cui il calore inaridisce ogni forma di vita, c’è un inferno anche là dove è il freddo a uccidere ogni forma di vita. Ma della madre non sono nemmeno geloso. La vita di una donna che è madre è una realtà così infinitamente ricca di cambiamenti, che il mio innamoramento non smette di sco­ prire ogni giorno qualcosa di nuovo. Per la donna che è madre non c’è un momento in cui si possa dire che è più bella che in altri; come madre, ella è sempre disponibile e l’amore materno è tenero come l’oro fino, malleabile come si vuole, eppure intero. Per il marito, la gioia si rinnova ogni giorno: come il cibo della Valhalla,^^ non si esaurisce mai, per quanto egli possa nutrirsene; e anche se non vive di questo, è certo che egli non vive di solo pane, ma anche dell’amabile sorpresa che accompagna le attività della madre: panis et circenses'^'^ li ha a casa sua. E quale molteplicità di conflitti si pone all’amore materno; com’è bella la madre, ogni volta che il suo amore trasforma la rinuncia e l’abnegazione in una vittoria! Non intendo con ciò riferirmi al fatto ben noto che la madre sacrifica la vita per il suo bambino. La frase ha qualcosa di troppo elevato, troppo appassionato, e non porta invece l’impronta autentica del matrimonio. È un amore che si può riscontrare altrettanto N el paradiso guerresco della mitologia nordica, la Valhòll o Valhalla di Odino, veniva cucinato tutte le sere lo stesso cinghiale, che tornava poi eternamente a rinascere. Il pane e gli spettacoli: secondo G iovenale {Satire, x, 80-81) le due uniche richieste del popolo romano.

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bene, altrettanto grande e altrettanto amabile nelle piccole cose. Lo ammiro dovunque io lo veda, e non è così raro vederlo, neppure là dove non ci se lo aspetterebbe, come per la strada. L ’altro giorno andavo tranquillamente, per il mio giro professionale, dalla parte opposta della città, verso il Tribunale per emettere delle sentenze, ed era press’a poco l’una e mezza. Involontariamente lo sguardo mi si posa sul­ l’altro lato della strada: c’era una giovane madre che passeg­ giava tenendo per mano il suo bambino: un personaggio, di circa due anni e mezzo. L ’abbigliamento e il portamento della madre facevano pensare che fosse una dama della buona società, eppure mi stupiva di non vedere un servitore o una domestica al suo seguito. Feci subito delle congetture: forse la sua carrozza sostava in un’altra strada, o pochi isolati più in là; forse doveva andare solo a pochi passi dalla sua abitazione, oppure... e via di seguito. Interrompo qui le mie congetture sperando che il lettore mi sia grato della decisione di fare economie drastiche e radicali. In effetti, però, la situa­ zione era abbastanza insolita. Il bambino era delizioso; curio­ sissimo, faceva domande su tutto, si fermava a guardare e poi chiedeva: che cos’è questo? Subito m’infilai gli occhiali per vedere meglio e gustare appieno l’espressione amabile, la ma­ terna tenerezza con cui lei cercava di far fronte a tutto, la gioia incantata con cui contemplava il suo amorino. Le do­ mande del bambino la mettevano in imbarazzo - forse nes­ suno le aveva riferito le parole di un grande pensatore, che parlare con i bambini è un tentamen rìgorosumP forse l’am­ biente cui lei sembrava appartenere non vi vedeva neppure



Hamann (Schriften, cit., 11, p. 424. Cfr., qui, p. 2 13 , nota 22). Esam e severissimo.

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un’arte - che imbarazzo fatale, allora, farsi mettere in diffi­ coltà dalle domande di un bimbetto, oltre che dal suo parlare ad alta voce che invitava i passanti a porgere l’orecchio - e la scena si svolgeva a 0 stergade.^o L ’imbarazzo - non riuscii a scorgerlo; la gioia materna era ben leggibile sul suo viso gen­ tile, senza prendere, per la situazione, una nota falsa. Improvvisamente il piccolo si ferma e pretende di essere preso in braccio. Era evidente che questo non era nei patti nell’uscire di casa, era una violazione degli accordi, altrimenti ci sarebbe stata con loro una bambinaia. Il caso era spinoso, ma non per questa madre. Con l’espressione più dolce del mondo, lo prese in braccio e continuò diritto senza imboc­ care un’altra strada. Ai miei occhi, la cosa era bella e solenne come una processione, e io mi accodai religiosamente. Qual­ cuno si girava, ma lei non si accorgeva di nulla; non affrettava il passo, per niente cambiata e tutta presa dalla sua felicità di madre. Come giudice, ho fatto parte della commissione istruttoria e ho quindi acquisito una certa pratica nell’osservare le fisionomie ma, dovessi rimetterci le mie funzioni, non c’era in lei traccia di imbarazzo, né di ira contenuta, né di scalpitante impazienza; non traspariva alcun tentativo di far esprimere al volto un riflesso del lato quasi ridicolo della situazione. Camminava per 0 stergade proprio come se stesse camminando nel soggiorno di casa col bambino in braccio. Una madre è pronta a sacrificare la vita per amore del suo bambino; ma quest’amore non mi sembra meno bello in questa circostanza. Il bambino aveva torto, avrebbe senz’altro potuto camminare, si era trattato di un capriccio. A casa non ci avrebbe fatto caso nessuno; e che cos’altro avrebbe potuto “

Elegante via del centro di Copenaghen.

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ribaltare la situazione se non una madre che l’avesse riflessa su se stessa? Forse mai come quando si tratta di una piccola manchevolezza cadono facilmente in errore perfino dei geni­ tori amorevoli, ma è proprio allora che si coprono di ridicolo. Prendiamo il caso che il bambino sia un po’ goffo; in fami­ glia, normalmente, se ne ride, e il bambino non sospetta neanche lontanamente che in lui ci sia qualcosa che non va; ma, presente qualcuno, proprio quando la madre vanitosa vorrebbe essere adulata, ecco che il bambino è goffo nel fare la riverenza e la madre si arrabbia - non per quella piccola cosa, ma perché la riflette su se stessa, e rende così di colpo importante una cosa senza importanza. Se quel bimbetto fosse caduto, se si fosse fatto male, e se per caso fosse andato troppo vicino a una carrozza, se si fosse trattato di rischiare la vita per salvare il bambino, avrei certamente visto l’amore materno; ma a me sembra che questa sua manifestazione così tranquilla sia altrettanto bella. L ’amore materno è bello nella vita quotidiana quanto nelle circostanze eccezionali, anzi nella vita quotidiana è partico­ larmente bello perché è nel suo elemento, perché, senza che catastrofi esterne gli diano impulso o ne aumentino la forza, ha una sua vita, si nutre di sé, si sollecita da sé col suo istinto originale, modesto eppure sempre attivo nel suo amabile compito. Disgraziato chi deve girare il mondo per trovare un’altra pratolina, e tornare deluso; disgraziato chi s’imma­ gina, tutt’al più, che cresca dal suo vicino; felice invece quel marito che sa godersela, la sua pratolina. E se poi scorge questo fiore al di là del suo terreno - questo fiore che, come la pianta esotica ^2 che fiorisce una volta ogni cento anni, ha la strana particolarità di fiorire ogni giorno e di non chiudersi



G ioco di parole sul nome danese della pratolina (Tustndfryd, millegioie). L a leggendaria agave americana, importata in Europa a metà del xvi secolo.

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nemmeno la notte - , prova un vero piacere a raccontare a casa quel che ha visto fuori. Ieri ho raccontato a mia moglie un piccolo episodio, che però ha assorbito la mia attenzione a tal punto da rendermi quel che di solito non sono, ossia un fedele distratto e as­ sente. Forse la giovane madre che ha provocato la mia distra­ zione aveva fatto male a portare con sé in chiesa un bimbetto; forse, ma la perdono perché l’avrà fatto per non affidarlo a una bambinaia durante la sua assenza. Penso che sia così, perché era veramente una madre che va in chiesa, e non una signora che fa una breve visita alla francese. Non si pensi con questo che, a mio giudizio, conti solo la quantità di tempo che si passa in chiesa. Lungi da me! Credo proprio che una povera domestica che a mala pena riesce a scappare di casa ma, nonostante la corsa, arriva appena in tempo per sentire il prete dire «Amen», possa, credo, tornarsene a casa dalla sua visita in chiesa con tutte le benedizioni; ma chi invece ha tempo in abbondanza per ogni genere di cose, potrebbe ben trovare il tempo per andare in chiesa con calma. La nostra fedele arrivò dunque per tempo portando con sé il suo diavo­ letto; eppure sono convinto che il sermone e la messa non abbiano avuto ascoltatore più raccolto né più degno fedele di lei. Prese posto in uno stallo, il membro abusivo della comu­ nità fu sistemato sul banco, probabilmente nella speranza che se ne sarebbe stato seduto come un membro a tutti gli effetti. Evidentemente, però, il piccolo non doveva aver colto questa aspettativa. La madre chinò il capo e si coprì gli occhi con un fazzoletto per pregare. Molto prima che rialzasse lo sguardo, il bambino era saltato giù e, carponi, aveva cominciato a fare il giro dello stallo. Lei continuava a essere assorta nella pre­ ghiera, del tutto indisturbata. Non appena ebbe finito di pre­

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gare, lo rimise sul banco, indubbiamente facendogli qualche raccomandazione. Il servizio divino ebbe inizio, ma il gioco s’era iniziato già prima del servizio, e il bambino sembrava provarci gusto, a modo suo, in tutto quel su e giù e giù e su. Fino a quel momento era stato seduto a destra della madre, che era all’estremità dello stallo, e con un’altra signora alla sua destra; a quel punto cambiarono di posto. Innanzitutto la madre si assicurò che lo sportello fosse chiuso, quindi si spostò verso il fondo dividendo lealmente il posto con lui in modo da lasciargli l’angolo dello stallo. Il bambino non fa­ ceva rumore, ma, con l’aria di essere abituato a passare il tempo da solo, si mise a giocare con l’ombrello di sua madre, solo ogni volta che accennava a voler tornare nella parte centrale dello stallo si vedeva sbarrata la strada. La madre, sempre assorta nel suo raccoglimento, guardava teneramente il suo demonietto solo quando il sacerdote faceva una pausa. Poi, col viso illuminato dalla gioia che le dava il bambino, volgeva di nuovo lo sguardo al prete e ascoltava il sermone con tutta l’anima. Come riusciva a dividersi equamente, a gioire del bambino anche quando lui disturbava, o sembrava volesse farlo, o in un certo qual modo era d’impiccio; come riusciva a evitare ogni eccessiva severità col bambino, giacché molti genitori esigono quasi più raccoglimento da un esserino così piccolo che da se stessi, e lo disturbano disturbandosi continuamente a sgridarlo, rimproverarlo e metterlo a posto - come, quindi, riusciva a dividersi con un tale equilibrio da raccogliersi anche con tutta l’anima nella devozione! Anche questa è una bella manifestazione dell’amore materno. Una piccola cosa? Sì, certo, ma è proprio nelle piccole cose che l’amore materno è particolarmente bello. Tuttavia solo un marito ha la giusta sensibilità alle belle dimostrazioni dell’amore materno; e inoltre la simpatia au­

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tentica, fatta della serietà necessaria per cogliere l’infinito significato del suo compito, e della gioia di vivere necessaria per volerlo scoprire, senza per questo doversi effondere in discorsi e grida di gioia. Forse che solo la gelosia e le cattive passioni dovrebbero avere il potere di rendere un marito sa­ gace e vigile? Non dovrebbe forse esserne capace l’amore sincero, e mantenerlo anzi vigile più a lungo? Le vergini sagge^^ non rimasero forse sveglie più a lungo delle vergini folli? Al riguardo, un marito è, in senso buono, come l’impo­ store di cui parla Shakespeare: ein Gelegenheithascher, dessen

Blick Vortheile pràgt und falschmiinzt, wenn selbst kein wirklicher Vortheil sich ihm d a r b ie t e t ossia un marito lo fa con gioia tranquilla, che dimostra come egli non si spacci per un esperto, non batta moneta falsa, e si trovi di rado nella situa­ zione di non trovare vantaggi simili. Da sposa, la donna è più bella che da fanciulla, da madre, più bella che da sposa, e da moglie e madre è la parola giusta al momento giusto, e con gli anni diventa sempre più bella. La bellezza della fanciulla salta agli occhi dei più, è più astratta, più estensiva. Per questo le si accalcano intorno i sognatori, i puri e gli impuri. Dio, allora, le porta quello che sarà il suo innamorato. Egli vede sì la sua bellezza, poiché tutti amiamo il bello, il che va inteso nel senso che quello che amiamo è vedere il bello. È così che il bello sfugge sempre alla riflessione. Da quel momento in poi la sua bellezza di­ venta più intensa e più concreta. Una moglie non ha un codazzo di corteggiatori, non è nemmeno bella, è bella solo Matteo, 25, 1-13. ^ Otello, II, I, 244-47 (citato, come sempre Shakespeare, nella traduzione te­ desca di Schlegel e Tieck): «un cacciatore di occasioni, dallo sguardo che stampa e falsifica vantaggi, anche quando non gli si offre nessun vantaggio reale». Proverbi, 15, 23; 2 5, ri.

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agli occhi del marito. Man mano che la sua bellezza diventa sempre più concreta, lei diventa sempre meno apprezzabile secondo il comune metro di valutazione. È forse meno bella per questo? Forse che uno scrittore è meno profondo perché il lettore comune non vi scopre nulla d’interessante, quando invece chi lo ha scelto come oggetto esclusivo di studio vi trova sempre maggiori tesori? E forse un segno di perfezione che le meraviglie opera dell’uomo si ammirino meglio da lontano? O di imperfezione che il fiore di campo, come qual­ siasi opera di Dio, in un esame al microscopio acquisti sempre più grazia, finezza e delicatezza? Ma, se, come moglie e madre, la donna è bella nei suoi giorni felici ed è una benedizione per le persone a cui appar­ tiene, perfino nella disgrazia e nell’ora del bisogno è sempre più poetica della fanciulla. Basti vedere il lutto della madre per il bambino che le è morto. Nessuno è felice quanto una madre per la nascita di un bambino, ma nessun altro può essere altrettanto addolorato quando la morte glielo porta via. Il lutto più poetico è quello che ha radici nell’idealità non meno che nella realtà. Supponiamo invece che sia un marito a morire; di solito si dice che non lascia nulla, tranne che una moglie in lacrime; a me sembra che egli lasci un patrimonio incalcolabile. E una fanciulla a perdere il suo amato? Il suo lutto sarà certo pro­ fondo e tanti saranno i suoi ricordi, ma il lutto sarà astratto al pari dei ricordi; le mancano l’iniziazione e le premesse epiche per quella messa quotidiana per il defunto che è l’occupa­ zione principale della moglie in lutto. In verità, io non desidero lasciare alla mia morte un nome importante e famoso; se alla mia morte, nella mia ora estrema, dovrò compiere l’atto estremo di separarmi da colei che amo, mia moglie, la mia felicità terrena, se la lascerò in

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lacrime, lascerò la cosa che amo e di cui per nulla al mondo farei a meno; ma lascerò anche la cosa di cui non saprei mai fare a meno: un ricordo che, più del canto di un poeta o dell’immortalità ostinata di un monumento, conserverà la mia rimembranza più volte e in più modi, prendendo dal suo per farne dono a me. Supponiamo infine che una moglie sia provata dal più cru­ dele destino, che abbia fatto un matrimonio infelice: che cos’è la breve sofferenza della fanciulla tradita al confronto di questo tormento quotidiano, che cos’è la forza del suo dolore di fronte alla disperazione dalle mille voci, quella pena che nessuno sopporta di guardare, quel lento supplizio che nes­ suno può perseguire - per questo forse dimentichiamo quanto vi è di più bello, di estremamente più poetico in una moglie che in una fanciulla. Desdemona è grande per la sua “nobile menzogna”, proviamo ammirazione, ammirazione per lei; e tuttavia è ancora più grande per quella sua pazienza angelica che, a descriverla, potrebbe riempire più libri di quanti non ne contenga la più grande biblioteca, anche se non può nulla per colmare l’abisso insondabile della gelosia e come un nonnulla scompare, anzi, quasi stuzzica l’appetito della passione. Ma la donna è il sesso debole. Nella situazione attuale questa considerazione sembra giungere mal à propos, poiché finora non si è mostrata tale. Un filo di seta può anche essere forte come una catena di ferro, e quella che vincolava il lupo Fenrir^^ era invisibile, era qualcosa che non esiste affatto; e se anche per la debolezza della donna si trattasse di un’energia invisibile che manifesta la sua forza nella debolezza? Se chi N ella mitologia nordica, il mostruoso lupo Fenrir era stato incatenato dagli dèi con un laccio sottilissimo fatto di cose che non esistono, capace però di tenerlo avvinto sottoterra fino alla fine del mondo.

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obietta vuole usare l’espressione “il sesso debole” a proposito della donna, libero di farlo, l’uso corrente è dalla sua parte. Tuttavia bisogna guardarsi dall’attribuire a semplici osserva­ zioni il valore di una regola. Con ciò non voglio negare che è ben possibile che una fanciulla si comporti in modo strano e, se si è così perversi da riderne, perfino comico, quando va male, quando la travolge lo sgomento della decisione estrema, in un vortice a cui neppure un uomo riuscirebbe a opporre resistenza. Ma chi dice che lei debba essere travolta in situazioni simili? La stessa fanciulla, trattata con calma, sollecitudine e affetto, sarebbe probabilmente diventata mo­ glie e madre amabilissima. Di questo non si deve certo ridere, poiché c’è qualcosa di tremendamente tragico nel vedere la tempesta sradicare la pacifica siepe accanto a cui, in tutta sicurezza, sarebbe stato piacevole vivere. Né una donna de­ v’essere tanto forte da lasciare all’uomo, chissà, l’iniziativa di una situazione tremenda e angosciosa. Se egli è forte, la donna al suo fianco tornerà forte come lui, e insieme saranno più forti che non singolarmente. Lo svantaggio dell’obiezione risiede, ancora una volta, nel fatto che questi discorsi sulla donna poggiano solo su consi­ derazioni di carattere estetico. Sempre l’eterno ritornello, ga­ lante e impertinente, provocatorio e offensivo: la donna ha nella sua vita un momento solo, o poco più, ed è il primo risveglio della giovinezza. Ma chi vuole parlare sul serio della sua forza o della sua debolezza dovrebbe vederla armata di tutto punto, ossia quando è moglie e madre. E poi, di com­ battere o di fare a braccio di ferro non ha nessun bisogno, per cui parlare di forza significa in fondo parlare dell’unica con­ dizione essenziale e della modalità sostanziale di qualsiasi tipo di forza: della costanza. Su questo piano, l’uomo non è forse all’altezza della donna. Inoltre, quanta forza non oc­

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corre per fingere una mossa qualsiasi? Ma che altro è la dedi­ zione se non una manifestazione segreta di forza, una manife­ stazione di forza che si esprime nel suo contrario, come il gusto e la cura per la propria toletta si esprimono in una sorta di negligenza, che tuttavia non ha niente a che vedere con l’idea di negligenza che ha il garzone del fornaio; allo stesso modo la creazione intellettuale maturata a prezzo di grandi sforzi ha una semplicità che non somiglia affatto alla sempli­ cità elogiata, nella sua ingenuità, dal seminarista. Immaginiamo due attori, uno dei quali interpreti Don Giovanni, l’altro il Commendatore, nella scena in cui il Com­ mendatore, che stringe la mano a Don Giovanni, si divincola disperatamente; la domanda è: chi dei due impiega più forza? Don Giovanni soffre, il Commendatore se ne sta tranquillo, con la mano tesa. Io dico che è Don Giovanni. Se l’attore che impersona Don Giovanni usasse solo la metà della sua forza, farebbe vacillare il Commendatore; se però non si divinco­ lasse, se non si agitasse, guasterebbe l’effetto. Che cosa fa, dunque? Usa metà della sua forza per esprimere il dolore e l’altra metà per sostenere il Commendatore, e mentre dà l’im­ pressione di volersi divincolare con tutte le sue forze dalla violenza del Commendatore, in realtà lo sostiene per impe­ dirgli di vacillare. Così fa, in sostanza, anche se il paragone non è dei mi­ gliori, una moglie. Ama il marito a tal punto da desiderare che sia lui a dominare, e se lui sembra così forte e lei così debole, è perché lei usa la sua forza per sostenerlo, la usa sotto forma di dedizione e di sottomissione. Che meravigliosa debolezza! Se il loggione crede che il più forte sia il Com­ mendatore, se il profano elogia la forza dell’uomo e ne fa cattivo uso umiliando la donna, il marito ha un’altra spiega­

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zione, e l’illuso è più saggio di chi illuso non è, chi illude, più giusto di chi non illude. Inoltre, la forza si misura in tanti modi. Quando Holger il Danese^^ strizza il sudore da un guanto di ferro, quella è forza, ma a mettergli una farfalla sul palmo della mano, temo che non gli basterebbe la forza per acchiapparla nel modo giusto. Prenderò un esempio dalla sfera suprema. L ’onnipo­ tenza divina mostra la sua grandiosità creando l’universo; ma non è forse altrettanto grandiosa l’onnipotente moderazione che lascia a un filo d’erba il tempo di crescere per il tempo che gli è dato? Alla donna sono assegnati i compiti più insi­ gnificanti, che proprio per questo richiedono forza. Si sceglie il suo compito, lo sceglie con gioia e gioisce, inoltre, di arric­ chire continuamente l’uomo della sua forza vistosa. Per quanto mi riguarda, credo che mia moglie sappia fare meravi­ glie; ed è più facile capire le grandi gesta di cui si legge che il minuto ricamo di cui lei riveste la mia esistenza terrena. Se ci si mette in testa che la donna è il sesso debole, cosa che in generale per i nostri cavillosi significa che nel mo­ mento della sua prima giovinezza dà fondo a ogni possibile elogio e va addirittura al di là, e che dopo finisce lì, che la sua forza è un’iUusione e l’unica vera forza che le rimanga è quella degli urli - a quel punto si arriva alle più strane con­ clusioni. Jean Paul dice da qualche parte: solchen Secanten,

Cosecanten, Tangenten, Cotangenten kommt Alles excentrisch vor, besonders das Centrum. Proprio perché la cosa centrale è Eroe nazionale leggendario (l’O gier le Danois della Chanson de Roland). L ’e­ pisodio è narrato neUe Danske Folkesagn raccolte da Thiele, K 0benhavn 18 19 , i, p. 24. “ Flegeljahre, i, 14 (Sàmmtliche W erke, i -l x , Berlin 1826-28, x x vi, p. 113): « a simili secanti, cosecanti, tangenti, cotangenti appare eccentrico tutto, e soprattutto il centro».

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il matrimonio, la donna va vista in relazione a esso, come l’uomo, del resto; quindi qualsiasi discorso, qualsiasi conside­ razione singola su ciascuno dei due sessi è confusa e profanatoria, poiché quelli che Dio ha unito, quelli che la vita ha destinati l’uno all’altra, anche il pensiero deve pensarli in unità. Se a un uomo viene in mente di tenerli separati, se pensa di trarne vantaggio a spese della donna, diventa a sua volta altrettanto ridicolo: un uomo che si crede tanto supe­ riore da prescindere da un rapporto a cui la vita lo lega tanto quanto la donna. In questo caso, lo scapoione (poiché è questo il nome che si usa per i celibi, indipendentemente dal fatto che la persona in questione abbia o no una certa esperienza di quel che si suole chiamare erotismo, sia o non sia una canaglia o, com’è più frequente, una banderuola) si riserva le categorie etiche. La cosa può tutt’al più apparire un capriccio, perché l’uso di categorie etiche per offendere o l’intenzione di offendere co­ munque la donna non sono certo segno di un’individualità etica. Non ho mai visto praticare un’accozzaglia come questa di paganesimo, che, p lato n icam en te,vede nella donna una forma imperfetta, e di cristianesimo, che rivendica per lei la dimensione etica. Del resto, solo in un cervello confuso un’idea del genere assumerebbe tanta importanza da richie­ dere un trattamento più articolato. Per contro, l’obiezione che fa della donna una mera illu­ sione può acquistare un tono di profonda ironia che, se for­ mulata con una certa bonomia, o addirittura con simpatia per il suo destino presumibilmente infelice, non è priva di effetti tragicomici. Fermo restando che sia il sesso debole, il tragico sta nel fatto che glielo nasconda l’illusione e glielo nasconda, Lattanzio, Institutiones, iii, 19, 1 7 (cfr. qui, p. 147).

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dall’esterno, la galanteria dell’uomo. È come se tutta la vita giocasse con lei a mosca cieca. Qui l’ironia ha di che sbizzar­ rirsi. Peccato che sia tutta una finzione! Della donna si di­ cono continuamente le cose più sublimi, nelle forme più lu­ singhiere, andando perfino oltre i confini del fantastico. A lei si deve tutto quel che di grande c’è nella vita, su questo concordano sia la poesia che la galanteria; e l’ironia, che ha la galanteria per lingua materna, ne tocca naturalmente i vertici, e mai è tanto galante come quando considera tutta la fac­ cenda come un falso allarme. L ’esistenza terrena della donna diventa dunque un corteo di pagliacci, con per maestri di cerimonia l’ironia e la galanteria; il corteo stesso fa pensare a un maestro di scuola un po’ matto di cui parla Hoffmann,^® e che, tenendo in mano una riga a mo’ di scettro, saluta amabil­ mente in ogni direzione raccontando che il suo generale ha appena riportato una vittoria sui Longobardi; dopo di che estrae dalla tasca sinistra dei chiodi di garofano e li porge a un vicino con queste parole: «Non disdegnare questo mo­ desto segno della mia grazia». L ’ironia si prostra a terra e adora con la massima soggezione. Il vantaggio di questa obiezione è di avere un carattere così spinto di finzione da non poter offendere neppure il più debole. E nvece brillante, divertente, e ci permette un ab­ bandono ; ;nza riserve, al massimo con un attimo di perples­ sità nel ve lerla proposta in tutta serietà. Se l’obiezione tenta di spiegari qualcosa della vita, si può ridurla in quattro e quattr’otto alla sua forma più elevata, ossia che il matrimonio o qualsiasi relazione positiva con la donna costituisce un im­ Ein Fragment aus àem Leben dreier Freunde, nei Serapionsbriider (Ausgewàhlte Schriften, i-x, Berlin 18 27-28 , i, p. 175).

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paccio; la donna trova la sua più nobile realizzazione nella passione infelice, mentre nel matrimonio il suo significato è così dubbio che finisce per non rappresentare nulla di posi­ tivo, mentre, in negativo, stimola il risveglio dell’idealità nel­ l’amante infelice. L ’obiezione è così ridotta alla sua forma minima, e quindi anche in ahsurdum\ la direzione in cui ha l’aria di voler orientare anche tutta la vita. Ci vuole davvero una fretta diabolica, la fulmineità di un Cesare, non tanto nel conquistare, quanto nel perdere, per voler ridurre il senso di tutta l’esistenza in qualcosa di così compendioso. Lichten­ berg parla, da qualche parte, di recensori che con un sol tratto di penna si collocano al di fuori di qualsiasi confine di ragionevolezza; allo stesso modo, un pensatore così frettoloso ritiene di non avere neppure il tempo di attaccare, dopo la maggiore, la premessa minore. Un siffatto pensatore non prende in considerazione, se non per gioco, le parole di Ago­ stino, secondo cui grazie al celibato multo citius civitas dei compleretur, et acceleraretur termìnus seculvP'^ del resto, non ci si può aspettare che un’obiezione del genere abbia la stessa motivazione religiosa di Agostino. Ma, considerata come con­ cezione secolare della vita, è veramente, come di solito si dice delle lettere delle donne, buttata giù in fretta e furia, e manca delle postille, cosa che costituisce, come di solito si dice, la sostanza delle lettere delle donne. Con Hamann, si può a ragione apostrofare questo festinatorP che ovviamente ri­ tiene che un marito sia una lumaca, con un; «Bah!» - am­ messo che ce ne sia il tempo, e che il nostro uomo non sia già G . Ch. Lichtenberg, Vermischte Schriften, Gottingen 1844, i, p. 284. Libera citazione da D e bono viduitatis, 28: « L a Città di D io si compirebbe assai più in fretta e ne sarebbe affrettata la fine del m ondo». Frettoloso.

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tanto lontano «da lasciarsi dietro, nella vita, solo le falde del suo vestito». Torno all’innamoramento. È inviolato, irraggiungibile dal pensiero, è miracoloso. La decisione del matrimonio è così lontana dal volerlo cancellare che, al contrario, lo presup­ pone. Ma l’innamoramento non è il matrimonio, e una deci­ sione isolata non è neanch’essa il matrimonio. Qualcuno pen­ serà forse che sono le difficoltà della vita e dell’esistenza a impedire all’innamoramento di farcela da solo, per cui si trova a dover mettersi a rimorchio del matrimonio. Niente affatto. L ’innamoramento permea per l’appunto tutta l’esi­ stenza e lo fa nel matrimonio. Le cose stanno alla rovescia. È un’offesa per l’innamoramento non permettere al matri­ monio di intervenire, come se l’innamoramento fosse qual­ cosa di così immediato da non poter essere agganciato da una decisione. Al contrario, non è affatto offensivo dire a un genio che la sua capacità di decisione non è meno elevata della sua geniale immediatezza, e che garantisce, con il suo genio, un’obbligazione a se stesso. E offensivo, invece, dirgli che non ha capacità di decisione, o, se ce l’ha, che non ugua­ glia la sua genialità. Non certo nel senso che la decisione debba gradualmente prendere il posto della genialità che scompare, sicché alla fine, nelle vesti della decisione, il genio non sarebbe più lo stesso di quando era geniale. Ma nel senso, splendido, che la decisione nasce insieme alla genia­ lità ed è, a suo modo, altrettanto grande, cosicché chi ha ricevuto la grazia dell’immediatezza nella decisione accetta di consacrarlesi: e questo è anche lo splendido senso del matri­ monio. La dimostrazione è più facile riguardo al matrimonio che non riguardo alla genialità, poiché l’innamoramento è già

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un’immediatezza ulteriore, un fulmine a d el sereno che in­ terviene nel momento in cui la volontà può aver raggiunto uno sviluppo sufficiente a comprendere una decisione così determinante. In questo senso, il matrimonio è l’espressione più profonda, più elevata e più bella dell’innamoramento. L ’innamoramento è un dono del dio, ma nella decisione del matrimonio gli innamorati si rendono degni di riceverlo. Fare a meno della decisione, anche ammesso che la vita sia un paradiso, non è bello; non è bello, nel senso dello spirito, così come, nel senso opposto, non è bello che degli adole­ scenti vogliano sposarsi. Tornerò su questo punto per trattarlo più a fondo; qui è forse più opportuno guardarsi un po’ intorno e fermarsi un attimo a considerare l’innamoramento nel suo momento cri­ tico. Beninteso, le constatazioni che qui adduciamo come frutto di esperienza non devono né possono servire a svalu­ tare il matrimonio, bensì solo a dare un chiarimento. L ’inna­ moramento è stato sempre oggetto di contesa, e come «la capra non si stanca di brucare i germogli verdi», così certuni non si stancano di cercare {sit venia verbo^'^) e di desiderare il miracolo dell’innamoramento. Ma è proprio qui la difficoltà, è qui che il diavolo semina zizzania senza che gli innamorati se ne rendano conto. Perfino per il seduttore l’innamora­ mento è qualcosa che non si può dare (perciò sono solo i principianti giovanissimi o i tipi alla Mùnchhausen a parlare di far conquiste), ma il demonico in lui fa sì che, con deci­ sione demonica, decida di rendere il piacere più breve e, secondo le sue intenzioni, più intenso possibile. Grazie a questa decisione demonica, il seduttore è effettivamente

grande nel senso del male, ma senza questa decisione non è un vero seduttore. Ciò non toglie, tuttavia, che egli possa essere abbastanza pericoloso e la sua vita abbastanza ingarbu­ gliata, anche se più innocente di quella di un vero seduttore e con una parvenza meno colpevole perché il tempo frap­ pone un velo di oblio. Anche se un uomo simile prova l’inna­ moramento, non è abbastanza malvagio per concepire una decisione demonica, né abbastanza buono per concepire la decisione giusta; non è, per dirla con chiarezza, abbastanza integro per diventare un marito nel senso più nobile del ter­ mine, e quando dico nel senso più nobile intendo dire che un uomo è un marito solo quando è degno del dono del dio. Se dovessi dare un esempio delle deviazioni dell’innamora­ mento, parlerei di Goethe, ossia del Goethe^^ come si è di­ pinto da sé in Aus meinem Leben. La sua vita privata non c’entra, e mi astengo da qualsiasi giudizio; per quanto ri­ guarda la sua produzione poetica, non credo di avere una formazione estetica abbastanza approfondita per giudicarla; ma ci sono cose che riesco a capire come le capirebbe un bambino, mentre c’è una cosa che il matrimonio non capisce; per quanto, come dicevo, mitigata dallo scherzo: non capisce lo scherzo, senza dire che, oltre a quella del seduttore, c’è un’altra contrapposizione alla decisione giusta: i sotterfugi. In Aus meinem Leben si descrive dunque un’esistenza che non è quella di un seduttore; è troppo cavalleresca, sebbene questa qualità, cavalleresca, nel senso dello spirito (etica­ mente inteso) sia inferiore a quella di un seduttore in quanto le manca la decisione risolutiva; ma una decisione demonica è anch’essa etica, ossia eticamente cattiva. Tuttavia un’esistenza

Kornmoden («lampo di calore» estivo) è qui forse inteso nell’accezione più antica di «maturazione del grano». M i si perdoni il termine.

A us meinem Leben (Dalla mia vita), o Dichtung und Wahrheit {Poesia e verità) è la celebre autobiografia - personale e letteraria insieme - di Goethe (1811). Qui Kierkegaard pensa al racconto dell’episodio erotico con Friederike, nel Libro xi.

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di questo tipo trova più facilmente il perdono del mondo, anzi troppo facilmente; poiché il soggetto di quell’esistenza è veramente innamorato, ma poi, beh... poi quegli ardori si sono raffreddati, si era sbagliato, si allontana «con le buone m a n i e r e e sei mesi dopo riesce perfino a trovare mille buone ragioni per presentare la rottura e l’interruzione come una decisione ragionevole e addirittura lodevole: sì, una bel­ lezza paesana, davvero troppo poco; troppa passione alla lunga non dura, eccetera, eccetera, giacché questo discorso può continuare all’infinito. Con l’aiuto di sei mesi e della teoria della prospettiva, il fatto dell’innamoramento è diven­ tato un caso (il che è al tempo stesso un’empietà verso la passione amorosa, un tradimento dell’etica e una satira di se stessi); è una fortuna essersene liberati. Mi viene una gran confusione quando penso che un’esistenza così è considerata una vita poetica. Mi sento come se fossi alla Commissione di conciliazione,^* lontano dall’audacia dell’immediatezza e dal coraggio della decisione, lontano dal paradiso dell’innamora­ mento e dal giudizio universale della decisione, proprio come se fossi alla Commissione di conciliazione, circondato da per­ sone frettolose, e stessi ascoltando un avvocato di talento che difende quattro banalità con una certa fantasia poetica. Poiché, da un punto di vista etico, si potrebbe anche perdere la pazienza se fosse l’avvocato stesso l’eroe di queste storie sentimentali da fiera di paese. Che le storie siano da fiera di paese non è affatto colpa dei personaggi femminili (di ciò al racconto di Goethe va dato merito, sia esso Dichtung o Wahrheit) poiché, per quel che ricordo, non v ’è ragione di ” C h ristian W in th e r, Hjertesorg, in Haandtegninger, K 0 b e n h a v n 1840, p. 28 (uno d ei cin q u e lib ri di cui si co n serva un esem p lare co n la firm a di K ie rk eg a ard ). Una sorta di pretura civile, istituita dalla fine del Settecento.

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supporre che una sola delle eroine sia retrocessa dalla tra­ gedia al vaudeville. Se quindi una bellezza paesana, che ha avuto la sfortuna di fraintendere Sua Eccellenza, rimane fe­ dele a se stessa, so, per conoscenze che risalgono alla mia infanzia, e a tutt’oggi non ne so di più, che lei farà un passo avanti: dall’idillio alla tragedia. Per contro, se Sua Eccellenza ha avuto la sfortuna di sbagliarsi, e l’altra sfortuna di cercare di rimediare nel modo sbagliato, so dalla mia infanzia, e a tutt’oggi non ne so di più, che è uscito dalla tragedia e dal dramma e dimora ormai nel vaudeville. Il tempo ha uno strano potere. Se il protagonista poetico di Aus meinem Leben avesse confessato a se stesso che la sua fine sarebbe giunta abbastanza presto, o se, non avendone coscienza e visto che non ci sono altri modi per riparare, fosse stato almeno abbastanza etico da ritenersi uno scelle­ rato, sarebbe stato dichiarato seduttore, e al suo approssi­ marsi avrebbero suonato in ogni villaggio le campane a stormo; ma eccolo invece cavaliere, forse non proprio cava­ liere, del resto non siamo al tempo della cavalleria, ma co­ munque con qualche tratto del cavaliere - una dignità di cui si può dire a ragione aut Caesar, aut nihil.'^^^ Passa un po’ di tempo, anche a lui dispiace della relazione interrotta, ma le impedisce con la massima cautela di assu­ mere il carattere di una più seria rottura; gli dispiace per la povera fanciulla, non è una finta, gli dispiace veramente - sul serio! Solo che si spingono troppo lontano le buone maniere, diventano una partecipazione e una condoglianza che non fa altro che aumentare il dolore. La cosa più offensiva è la rottura in sé, o per dirla con più chiarezza e precisione, l’in”

« O Cesare, o nulla»: il motto di Cesare Borgia.

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tesa garbata e amichevole con cui uno decide di allontanarsi; appunto l’ultimo falso che rifiuta di vedere un creditore irre­ cusabile in qualunque fanciulla con cui un uomo ha preso un impegno; il falso del bancarottiere che si rifiuta di denunciare tutto il suo deficit: niente di più rivoltante, eppure, con questa compitezza, ecco comprato il perdono del mondo. Ah! l’amante addolorato! Non della sua incoscienza si addolora, di questo fuoco di paglia, di questa lettera di cambio valida nel mondo dello spirito, dei suoi peccati; per questo poetico personaggio un dolore simile sarebbe probabilmente quel che egli chiama tristezza, poiché di fatto deplora che la lettura di autori inglesi, come per esempio Young, sprofondi il suo tempo, e lui stesso, nella tristezza. E perché no? Quando si è fatti così, si può diventare tristi anche ascoltando un ser­ mone, ammesso che sia vibrante al pari di Young: ma certo Young è tutt’altro che triste. Un’esistenza del genere, essenzialmente tutt’altro che un paradigma, può tuttavia assumere impropriamente un carat­ tere paradigmatico o essere paradigmatica per il fatto acci­ dentale di essere una declinazione irregolare: lo schema, tut­ tavia, per costruirsi la vita in molti. Non si può dire che la costruzione sia voluta, al riguardo sono troppo innocenti, e questa è per l’appunto la loro scusa: gli accade, non sanno nemmeno come. Talvolta sono perfino dei sognatori che in­ seguono l’ideale. Chi gioca alla lotteria non impara molto perdendo; allo stesso modo costoro imparano molto poco dal loro innamoramento. L ’ultima osservazione non vale, natu­ ralmente, per il poeta di Aus meinem Leben-, è troppo grande per non imparare, troppo superiore per non assicurarsi dei vantaggi; ma se avesse avuto senso etico pari al suo magnifico talento, si sarebbe posto prima di ogni altro, e l’avrebbe ri­

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solto, il problema di un’esistenza spirituale talmente elevata da non potersi, nel senso più profondo, commisurare all’eros; poiché rispondere che non si ama una volta sola, che la supe­ riorità si fraziona, non fa che disorientare e non soddisfa, né dal punto di vista estetico né da quello etico, quel che si potrebbe chiamare l’ipoteca più seria che un uomo onesto ponga alla vita. Quel poeta ha sicuramente imparato molto e, come per la nuova filosofia è diventato ingiurioso parlare della via onesta*® di Kant, così Goethe prende un atteggia­ mento di superiorità nei riguardi di Klopstock,*! troppo an­ sioso di sapere se Meta, il suo primo amore, che si era rispo­ sata, gli sarebbe appartenuta nell’altra vita. Che cosa accade in un’esistenza come la sua? Non si ri­ mane fermi all’innamoramento, ma non si arriva neanche alla decisione. La riflessione, da cui scaturisce la decisione che s’impadronirà dell’innamoramento, manca il segno e diventa una riflessione sull’innamoramento stesso. Mi sono quindi soffermato su questo punto proprio per mettere in evidenza, cosa che farò anche in seguito, che la riflessione della deci­ sione deve necessariamente lasciare da parte l’innamora­ mento e occuparsi di tutt’altre cose. Il poeta che si lascia esistere in Aus meinem Leben non prende decisioni, non è un seduttore, e non diventa un marito; diventa: un intenditore. Non avrò l’ardimento di stabilire se l’esistenza di un poeta debba essere anch’essa poesia, e, se sì, in che angolo di rifra­ zione dovrebbero porsi la sua vita e la sua poesia. Ma una cosa è certa, un’esistenza come quella di Aus meinem Leben Il riconoscimento, da parte di Kant, deU’ impossibilità per la mente umana di conoscere das Ding an sich - « la cosa in sé», il noumeno - era duramente avversato dall’hegelismo («la nuova filosofìa»). A u s meinem Leben, Libro x.

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deve influire sulla produzione poetica. Se si tratta della vita stessa di Goethe, ci si spiega come la cosa che più manca in lui sia il pathos. Il pathos dell’immediatezza non ce l’ha, ha troppo buon senso per questo, ma non si è sforzato nemmeno di farsi strada per conquistare il pathos più sublime. Ogni volta che, per il poeta di quell’esistenza, si annuncia una crisi, prende la fuga: in tutte le direzioni possibili. Racconta di aver ricevuto una severa educazione religiosa. Si tratta di un’im­ pronta infantile, e non di una di quelle bambinate che ci si lascia alle spalle con gli anni, poiché in materia religiosa ciò che conta di più è imparare il meglio da bambini e acquisire così una formazione che mai e poi mai lascerà il posto ad altro. Viene poi una fase più tarda della sua vita in cui l’im­ pronta di questa religiosità quasi lo travolge. E la crisi, cosa del tutto naturale; più un individuo è spiritualmente dotato, più gli riesce arduo il compito di conservare e riacquistare la fede innocente dell’infanzia. Che fa allora lo stesso poeta che, come racconta di sé, si è assegnato ogni sorta di esercizi per allenarsi a vincere la paura del buio, l’angoscia alla vista di un cadavere o il terrore di trovarsi solo di notte tra le tombe? Scappa via, allontana tutto e se ne allontana, evita il contatto. Dio mio! Che un uomo abbia un po’ paura di cam­ minare da solo al buio non è poi così terribile; ma tirarsi indietro quando invece è il momento di conservarsi fedele all’impronta dell’infanzia, il momento, a costo della dispera­ zione e della rinuncia a ogni ipoteca di vita o di un’esistenza significativa, di lottare per conservare la preziosa rimem­ branza dei genitori (come può, infatti, un poeta che torna continuamente col pensiero a sua madre credere che la madre e il padre abbiano lasciato per puro caso all’elemento reli­ gioso tanto potere sul bambino?), per la comunanza di fede coi defunti, per quel che essi hanno stimato l’unica cosa ne-

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cessarla, quel che un giorno da bambini innocenti tutti ab­ biamo ricevuto col raccoglimento di un’anima indivisa - sono cose che, a sfuggirle, non possono non vendicarsi, allonta­ nando ogni pathos dalla poesia. Se poi il poeta è Goethe in persona, non si può non spiegarsi come l’eroe divinizzato, che si vede raccolte, lette, venerate come sante reliquie le uscite e le affermazioni più occasionali, quest’eroe divinizzato e chiamato re nel regno del pensiero, nel regno eterno della religiosità sia, a dir poco, un usurpatore. A quanto pare, la sana saggezza di Goethe ha un rimedio®^ per l’aberrazione dello spirito, e soprattutto per la tristezza, che, per conto suo, ha saputo fuggire. Strano! Fin dall’infanzia, tutti sanno che la disperazione è la cosa più pericolosa per chi ha una predispo­ sizione alla tristezza, e lo è anche per chi la predisposizione non l’ha; strano, ma chi è ormai un po’ più anziano e più maturo (ammesso poi che creda che la diversità fra il più saggio e il più semplice consista nel fatto che il saggio capisce quello che capisce il semplice, ma lo capisce meglio, e capisce di più; e non creda invece che il saggio debba essere così perfetto da non concepire solo quello che capisce il sem­ plice), costui - dico - sa che tralasciare un compito equivale a cedere presto o tardi alla tristezza se stessi e la propria anima; ma Goethe è riuscito a evitarlo in un altro modo. Questo solo per far luce sull’eros. Forse anche persone più competenti di me concorderanno sul fatto che i suoi personaggi femminili sono le più magi­ strali tra le sue creazioni. Ma, a osservarli più da vicino, i meglio riusciti non sono visti nell’idealità femminile auten­ tica, ma nella luce in cui li vede un personaggio ambiguo, che J. L. Heiberg, Det astronomiske A ar, in «U ran ia», 1844 (Prosaiske Skrifter, ix, PP-

75 sgg.).

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sa riconoscere la grazia e accendere il rossore, ma sa anche guardare a questa sorta di incendio con un senso di aristocra­ tica superiorità. Sono figure assolutamente adorabili, super­ bamente disegnate, eppure a essere calpestate non sono tanto loro, quanto la femminilità nella loro persona, perché di fronte a loro si vede, quasi giustificata o comunque perdona­ bile, un’intelligenza superiore che sa godere e gustare, ma sa anche allontanarle e allontanarsi quando il divertimento è finito. Il poeta di Aus meinem Leben è un maestro di questa teoria della distanza. Egli stesso ha avuto cura di spiegare*^ in che modo perseguirla. Bisogna però tener presente che questo poeta non vuole essere istruttivo, tutt’altro, è consapevole che ci sono cose che non vengono date a tutti; è questa una peculiarità della sua natura, che ne fa un’individualità privile­ giata. Indubbiamente è un eroe, e io, che sono tanto teme­ rario da parlare di lui, sono un borghesuccio, ma fortunata­ mente ci sono cose che anche i bambini capiscono e, a un dato momento, che uno sia eroe, giudice o mendicante non fa alcuna differenza. Insomma, ogni volta che una circostanza della vita tende a sopraffarlo, egli deve allontanarsene facen­ done l’oggetto di una finzione poetica. Che differenza tra una natura e l’altra! O forse la differenza non è poi così grande. Che cosa vuol dire fare di una circostanza della vita una finzione poetica? Che il risultato sia un capolavoro poetico o meno, non è determinante per la nostra questione; ahimè, da questo punto di vista c’è una differenza abissale tra l’eroe e il povero giudice o il mendicante. Fare di una realtà di vita un’opera poetica tramite la distanza (la garanzia, badate A u s meinem Leben, Libro xxvi.

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bene, dell’obbligazione firmata a se stessi) equivale né più né meno a snaturarne il lato etico, e a travestirlo da caso o da occupazione intellettuale. Certo, quando uno ha in tasca un parafulmini del genere, non c’è da stupirsi che possa restare tranquillo durante i temporali. Quanti poveri diavoli, quanti imbrattacarte di passaggio non si sono curvati ossequiosi in ammirazione di questa capacità naturale? Eppure, chi più, chi meno, ce l’hanno tutti, per una ragione molto semplice: è la mossa di difesa contro l’etica dell’uomo naturale e sensuale. Nei criminali si riscontra spesso questa capacità di tradurre la realtà in finzione, ossia di eliminare le circostanze reali della vita con ghirigori fantastici; la si trova anche nei malinconici, con la differenza che il malinconico estetico vi trova un sol­ lievo, e il malinconico etico una più aspra sofferenza. Proba­ bilmente der heitere^‘^ Goethe un po’ di malinconia ce l’aveva, così come il saggio Goethe aveva una buona dose di supersti­ zione. Dunque, tradurre in finzione una circostanza di vita reale non è poi una capacità naturale tanto rara né tanto sospetta. Ovviamente, non tutti quelli che “creano” creano, per questo, dei capolavori; chi sarebbe tanto stupido da dire una cosa del genere? Dal punto di vista etico, però, la diffe­ renza che fa dell’uno un eroe, forse perfino l’unico, dell’altro un imbecille non è determinante. L ’etica è così incorruttibile che se perfino Nostro Signore avesse dovuto permettersi qualche piccola libertà per creare il mondo, l’etica non se ne sarebbe lasciata intenerire, benché cielo e terra, con tutto quel che vi si trova, siano un capolavoro di tutto rispetto. Ora, se l’esistenza di poeta descritta in Aus meinem Leben è poetica, buona notte al matrimonio, che tutt’al più diventa Il sereno.

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un rifugio per la vecchiaia. Se questa esistenza è poetica, che ne è della donna? A quel punto deve cercare di diventare poetica anche lei. Già è disdicevole che un uomo molto esperto dell’eros, addirittura un suo veterano, prenda sfronta­ tamente in moglie una fanciulla per ringiovanire un po’ e per farsi accudire quando comincia a invecchiare; ma è addirit­ tura disgustoso che una signora d’una certa età e non priva di esperienze prenda in marito un giovanotto per garantirsi un tetto e l’eccitamento della raffinatezza quando il profumo della poesia comincia a svanire. Il matrimonio è tanto intollerante con chi vuol servire due padroni quanto sfavorevole ai disertori. È bello quel che dice Salomone:*^ chi prende moglie ha da Dio un grande dono o, per modernizzare un po’ l’espressione: a chi s’innamora il dio fa del bene; se poi si sposa con chi ama, fa una grande azione e fa bene, come l’ha iniziata, a portarla a compimento. Quel che si è detto finora non vuole essere naturalmente un incoraggiamento patetico alla decisione del matrimonio. La decisione si raccomanda meglio da sola, poiché, come ho detto prima, è l’unica forma d’innamoramento adeguata. Si tratta ora di vedere in che modo possa intervenire la decisione, in che modo la riflessione, che è alla base della decisione, possa raggiungere un punto in cui coincidere con l’immediatezza dell’innamoramento. Se si elimina l’innamo­ ramento, diventa ridicolo mettersi a riflettere se ci si debba sposare o meno. Verissimo, ma ciò non vuol dire che si abbia il diritto di eliminare l’innamoramento, come succede ogni volta che si tenta di allontanare dall’innamoramento la deci­ sione, e di rendere quindi ridicola quella riflessione. Proverbi, 19, 22.

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Il ridicolo di una riflessione del genere, sull’opportunità di sposarsi quando non si è innamorati, è già stato capito e formulato in modo penetrante da alcuni saggi dell’antichità, ma non, come si vedrà, per fornire armi ai derisori. Si narra che, a un tale che lo interrogava sul matrimonio, Socrate abbia risposto:*^ «Che ti sposi o no, te ne pentirai co­ munque». Socrate era un ironista, che ironicamente nascon­ deva la sua saggezza e la verità, forse per evitare che si tra­ sformassero in pettegolezzi di strada e andassero suUa bocca di tutti, ma non era un burlone. L ’ironia è grande. L ’ottusità della domanda consiste appunto nel domandare a una terza persona quello che mai una terza persona potrà dire. Ma non tutti sono saggi come Socrate, e spesso molti si mettono a fare discorsi molto seri provocati da domande sciocche. Se l’innamoramento manca, la riflessione va avanti all’infinito; se si è innamorati, una domanda simile è impossibile. Quando un burlone vuole usare la battuta socratica, la tra­ sforma in un discorso e ne fa qualcosa di diverso da quello che è: una risposta profondamente ironica e infinitamente saggia a una domanda molto sciocca. Rispondere a una do­ manda con un discorso, provocherà sì un certo effetto di folle comicità, ma perderà la saggezza socratica e farà violenza alla fedeltà della testimonianza, che introduce espressamente il racconto così: un tale gli chiese (a Socrate) se ci si dovesse sposare oppure no. Al che egli rispose: «Qualsiasi cosa tu faccia, te ne pentirai». Se Socrate non fosse stato tanto iro­ nico, si sarebbe espresso così: «Per quanto riguarda te, puoi fare quel che vuoi, tanto sei e rimarrai un imbecille». Poiché non basta che qualcuno si penta per dimostrare che, nel mo­ mento del pentimento, la sua individualità è migliore e più Diogene Laerzio, 11, 33.

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forte che non nel momento dell’azione sconsiderata; talvolta è proprio il pentimento la migliore dimostrazione che chi si pente è un attaccabrighe. Di Talete*^ si racconta che, quando sua madre lo esortava a sposarsi, all’inizio rispondesse che era troppo giovane, che non era ancora il momento; e, quando lei qualche tempo dopo tornò a esortarlo, rispondesse che ormai era troppo tardi. Anche in questa risposta c’è un lato ironico, un attacco al buon senso mondano, che vuole ridurre il matrimonio a un’impresa simile all’acquisto di una casa. Infatti c’è una sola età in cui è opportuno sposarsi, ed è quando si è innamorati; in qualsiasi altra età si è o troppo giovani o troppo vecchi. E sempre un piacere riflettere su cose del genere, poiché, se nell’ambito dell’eros è fatale la leggerezza, ancora più fa­ tale è un certo tipo di saggezza. Ma solo la battuta di Socrate, se intesa correttamente, è in grado di tagliare corto, come la morte con la sua falce, sull’intera messe di discorsi di buon senso che vogliono intromettersi in un matrimonio. Mi fermo dunque qui, al punto decisivo: all’innamora­ mento occorre aggiungere la decisione. Ma una decisione presuppone una riflessione, e la riflessione è, per l’immedia­ tezza, l’angelo sterminatore.** Così stanno le cose, e se la riflessione dovesse veramente buttarsi sull’innamoramento, al matrimonio non si arriverebbe mai. Ma è proprio quello che non deve fare, anzi, già prima dell’operazione che, attraverso la riflessione, perviene alla decisione e, contemporaneamente a essa, interviene la decisione negativa che respinge, co­ me fosse una tentazione, qualsiasi riflessione in quel senso. Mentre poi l’angelo sterminatore della riflessione va griDiogene Laerzio, i, 22. ** Esodo, 12, 12.

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dando morte all’immediatezza, c’è tuttavia ««'immediatezza che lascia in vita: quella dell’innamoramento, che è un mira­ colo. Se la riflessione si butta sull’innamoramento, significa che serve a verificare se la persona amata risponda all’astratta rappresentazione ideale dell’ideale. Qualsiasi riflessione in tal senso, anche la più leggera, è un’infrazione non meno che una sciocchezza. Anche se nell’innamorata suscitasse, appa­ rentemente, l’entusiasmo più puro la scoperta di tante cose affascinanti, come per esempio che egli ha una voce «così dolce, così dolce!», anche a concedergli la leggerezza del desiderio, anche a concedergli tutta l’eloquenza di un poeta e un così sottile ragionare che neppure l’animo femminile più delicato sentirebbe altro che l’armonia e percepirebbe altro dal dolce profumo del sacrificio senza scoprire l’infrazione si tratterebbe comunque di un tentativo di dar fondo alla passione amorosa. Ma, dal momento che il dio dell’amore è cieco e l’innamoramento stesso un miracolo, cosa che sia l’in­ namorato sia la riflessione più disperata riconoscono o de­ vono riconoscere, è necessario che l’innamorato si mantenga in questa chiaroveggenza. Esiste un pudore capace di sentirsi offeso perfino dall’am­ mirazione più devota, come da una specie d’infedeltà verso l’amato; anche se questa ammirazione, come è nelle inten­ zioni dell’amato, lo legasse a lei con vincoli ancora più inscin­ dibili, in realtà lo avrebbe già slegato; è una specie d’infe­ deltà, poiché in questa ammirazione si cela una critica. Inoltre la bellezza è caduca e il fascino può scomparire. E quindi un’offesa nei riguardi dell’amata voler ridurre tutta la sua amabilità alla sintesi che fonda il pudore dell’innamora­ mento. Per contro esiste un’amabilità della donna, ancora una volta, sostanzialmente tipica della moglie e della madre, che non esige questa modestia, ma che rende l’ammirazione

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di questa bellezza, anche se ella avesse la parvenza di un angelo, un peccato tale da segnalare un equilibrio dell’inna­ moramento ormai sbilanciato. Ma, mi sento rispondere dall’innamorato: «proprio in questa ammirazione io avverto la sublimità dell’amata, e la profonda mancanza di reciprocità nel fatto di essere ria­ mato». Ah, sì! Anche calcolare in termini di grandezze infi­ nite è comunque calcolare. Quindi, che l’amata sia la più incantevole delle donne o che sia un po’ meno dotata, l’unica espressione giusta, concisa, efficace e adeguata alla sostanza dell’innamoramento è: io l’amo, e di certo è più fedele all’a­ mata chi la prima volta non trovi null’altro da dire e, anche in seguito, con lo stesso laconismo, contimd ad attenere l’a­ nima all’espressione autentica dell’innamoramento di chi sia capace di invitare a banchetto intere stirpi d’uomini e di dèi con la descrizione delle delizie dell’amata, e di farlo con tale ricchezza espressiva da mandare via, storditi e pieni d’invidia, tutti gli invitati, nessuno escluso. Ma l’amabile sostanza della natura della donna possiamo pure vederla e ammirarla. In questo caso ammirare non è un’offesa, ammesso che l’ammirazione voglia imparare dal­ l’innamoramento non a fare di sé un insulso declamatore, o un poeta da feste di compleanno, ma a canticchiare il motivo inalterabile di una gioia tranquilla. Questa sostanza spirituale non trova modo di manifestarsi se non nel matrimonio, pa­ drone della cornucopia degli impegni, il miglior regalo che si possa ricevere nel giorno delle nozze. Anche se l’amata, uni­ camente per rallegrare la persona per cui darebbe la vita, in mancanza di occasioni più impegnative, si contenta di dimo­ strarla in piccole cose, anche se si facesse bella solo per far piacere a lui, e così bella, così deliziosamente adorna, attra­ versasse il salone con tanta grazia da attirare lo sguardo no­

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stalgico dei vecchi come un’Elena,*^ e lui fosse tanto miope da ammirarla, invece di cogliervi la manifestazione di un in­ namoramento autentico, unicamente volto a compiacerlo, sa­ rebbe fuori strada e sul punto di diventare un intenditore di donne. Di conseguenza, a immaginarsi il periodo dell’innamora­ mento soprattutto nel fidanzamento, quindi al di fuori del matrimonio, si rischia forse spesso di sbagliare strada, proprio perché la passione amorosa non trova ancora i suoi compiti essenziali, e arriva quindi a volte a fare, dei due innamorati, due critici. Quel che Bedreddin^® dice dello sguardo di Gulnare: Dolcemente, come quando si apre una tomba perché in Paradiso ascenda l’anima beata, così, innalzando lo sguardo al cielo, lei dischiude le palpebre gentili si potrebbe applicare alla visione piena, nell’immediatezza dell’innamoramento, dell’amabilità di un’anima. È un’imme­ diatezza di tenebra ma, con la dolcezza con cui si apre una tomba, si libera, trasfigurata, dal nascondiglio dell’innamora­ mento una bellezza spirituale, ed è questo l’innamoramento che dà la sposa al marito. In quale direzione si muoverà quindi la riflessione per per­ venire alla decisione, se non osa calpestare né la sacra dimora dell’innamoramento né il suolo benedetto dell’immedia­ tezza? La riflessione si volge al rapporto dell’innamoramento con la realtà. Innamorato, lui lo è senza ombra di dubbio, e non c’è pensiero affaccendato, o agente di cambio, a far la Iliade, III, w . 146-60. A . CEhlenschlager, Aladdin, 11.

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Spola tra l’innamoramento e un cosiddetto ideale: è una strada proibita. Non glielo chiede neppure, la riflessione, se sposarsi o no: non dimentica Socrate. Ma sposarsi significa entrare in una realtà che è in rapporto a una realtà data; sposarsi comporta una concretezza straordinaria. È questa concretezza, il compito della riflessione. Troppo concreta, forse (in termini di tempo, spazio, ambiente, ora, e altri mille particolari), per lasciare spazio alla riflessione? Chi lo am­ mette, ammetterà anche che prendere una decisione è assolu­ tamente impossibile. Una decisione è pur sempre un’idealità; la mia decisione esiste prima ancora di spingermi all’azione. Ma come sono giunto alla decisione? Una decisione è sempre riflessa; chi non ne tiene conto, parla a vanvera e identifica la decisione con un impulso immediato; cosicché tutto quel che dice della decisione non porta a maggiori evoluzioni di un viaggio durato tutta la notte che all’alba ci fa ritrovare, per il semplice fatto di aver preso la strada sbagliata, al punto di partenza. In una riflessione puramente ideale, la decisione svuota idealmente la realtà, e la conclusione di questa rifles­ sione ideale - qualcosa di più di una summa summarum e di un enfiti - è per l’appunto la decisione: la decisione è l’idea­ lità raggiunta grazie a una riflessione puramente ideale, un’i­ dealità che costituisce, per l’azione, l’aumento del capitale d’esercizio. «Sì, va bene,» dirà qualcuno «ma ci vuole molto tempo, e campa cavallo... Forse un marito del genere non diventerà un vecchio scapolo, ma un vecchio capobottega. Niente affatto. Intanto, l’obiezione vale per qualsiasi decisione; e tuttavia la decisione è il primo vero passo verso la libertà. Ma da un primo passo ci si aspetta che arrivi al momento giusto, che sia G ioco di parole su Pebersvend, scapolo, che significa letteralmente: appren­ dista droghiere.

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adeguato all’azione da compiere, che non finisca per somi­ gliare a un’introduzione che anticipi tutto il libro, o a un’in­ terpellanza che non lasci più parlare l’Assemblea. Ma ogni lavoro è mosso dal piacere, e il piacere dell’innamorato, im­ mutato tutto il tempo, lo sollecita dall’alba al tramonto, lo tiene sveglio e sempre in moto come un cavaliere errante; poiché veramente questa spedizione dell’innamorato alla ri­ cerca della decisione è più cavalleresca di una crociata contro i Turchi o di un pellegrinaggio, più attraente agli occhi della passione amorosa di qualsiasi altra impresa, poiché è concen­ trica alla passione stessa. Così se ne va il garzoncello felice (non c’è neanche bisogno di dirlo, che un giovane innamorato è felice) con la mano nella mano del suo spirito tutelare, abbracciando con lo sguardo il riflesso ideale della realtà che si mostra ai suoi occhi, mentre l’amata rimane in attesa, tranquilla e beata; poiché ogni volta che è tornato da lei (per poi, dopo aver riposato in viaggio, riprendere il cammino in cerca del tesoro, del regalo di nozze, della decisione, del dono più bello e più degno), ella non l’ha mai trovato cambiato, allo stesso modo in cui il suo innamoramento non è cambiato, neppure per abbandonarsi all’ammirazione. E il garzoncello non ha molto tempo da perdere; ogni istante perduto, lo sa bene, è felicità perduta: a quanto pare, ecco un sistema infallibile per far lezione di prontezza. Ma il dono supremo della decisione è anche la conquista più alta, l’abito nuziale che lo toglie alla sua indegnità: a quanto pare, un sistema eccellente per evitare la precipitazione, la troppa fretta che, invece di avvicinarlo, lo allontana dalla decisione. È proprio per questa natura della decisione, o di chi de­ cide, chfe la riflessione diventa ideale, e taglia alla svelta per una meravigliosa scorciatoia. E perché non tagliare, poi,

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quando si sa che la scorciatoia conduce dritta alla meta, più dritta di qualsiasi altra strada, ma anche sicura, più sicura di qualsiasi altra strada? Qualcuno ha giustamente osservato che la riflessione non si esaurisce mai, che è infinita. Esatto, la riflessione non si esaurisce a forza di riflettere, come chi, pur avendo fame, non può mangiarsi lo stomaco; e chi dice di averlo fatto, non esitiamo a ritenerlo un Munchhausen,^^ egli l’eroe del Sistema^^ o uno strillone di giornale. La rifles­ sione si esaurisce invece nella fede, che è appunto l’anticipa­ zione dell’infinità ideale nella decisione. La decisione, quindi, è una nuova immediatezza, conquistata grazie alla riflessione esauritasi nel puro ideale; corrisponde esattamente all’immediatezza dell’innamoramento, È una visione religiosa della vita fondata su premesse etiche, che servono a spianare la via all’innamoramento e a proteggerlo da ogni pericolo, sia esterno che interno. Li vedete? N ell’innamoramento gli inna­ morati si sono come strappati alla realtà per immergersi nel paradiso di una lontana Asia, di taciti laghi, o di una foresta vergine dove regna il silenzio e non si scorgono tracce umane. Ma la decisione sa ritrovare la strada della società umana e tracciare un cammino sicuro, mentre a queste cose non bada l’innamoramento, felice come un bambino che af­ fidi ai genitori la soluzione di tutti i problemi. La decisione non è né forza virile, né coraggio virile, né ingegno virile (qualità proprie delle decisioni immediate: che non corri­ spondono esattamente all’immediatezza dell’innamoramento poiché appartengono alla sua stessa sfera e non sono un’im-

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mediatezza nuova), ma un punto di partenza religioso. Se così non fosse, chi la prende non farebbe, nella sua riflessione, che chiudersi nel finito; non prenderebbe la scorciatoia ve­ loce dell’innamoramento, ma rimarrebbe a metà strada. Una decisione del genere è' troppo meschina per sottrarsi allo scherno dell’innamoramento, che preferisce contare su se stesso, piuttosto che affidarsi alla guida di un simile princi­ piante. L ’immediatezza dell’innamoramento non riconosce che un’immediatezza a sé ebenburtig)"^^ quella religiosa; troppo verginale è l’innamoramento per riconoscere un confidente che non sia Dio. Ma il religioso è un’immediatezza nuova: contiene in sé la riflessione; diversamente a essere sostanzial­ mente religioso sarebbe il paganesimo, e non il cristianesimo. Che il religioso sia un’immediatezza nuova lo capisce facil­ mente chiunque si contenti di percorrere la retta via del buon senso. E confesso che, per pochi che siano i miei lettori, è tra persone del genere che mi aspetto di averne, poiché sono lungi dal voler istruire chi suscita ammirazione con le sue scoperte sistematiche à la Niels Klim,^^ chi si è spogliato della sua vera pelle per rivestirsi del suo «vero aspetto». Non è poi tanto difficile conquistare così vittoriosamente la decisione per la via della riflessione, soprattutto quando si è spinti dalla passione dell’innamoramento; senza passione, non si arriva mai alla decisione, ma ci si attarda a chiacchiePari. Eroe del romanzo satirico e utopico di L . Holberg, Nicolai Klim ii iter subterra-

K arl Friedrich Hieronymus von Mùnchhausen (1720 -1797), leggendario narra­ tore di spacconate e di storie fantastiche, è l’eroe del fortunatissimo romanzo d ’av­ venture di R. E . Raspe, The Surprising Adventures of Baron Munchhausen, uscito a Londra nel 17 8 5 e presto tradotto in tutte le lingue. Com e sempre in Kierkegaard, Sistema è sprezzante sinonimo di filosofia hege­ liana, e sistematico di hegeliano.

neum, Leipzig-K0benhavn 174 1. G ioco di parole fra Skindy pelle, e ^kin, apparenza, che si pronunciano quasi allo stesso modo. Virkelig Skin «vera apparenza» è una citazione polemica (nel Perseus di H olberg, n. i, 18 37) dall’influente teologo danese Martensen, bersaglio (insieme al vescovo Mynster), come rappresentante esemplare dell’ipocrita cristiane­ simo ufficiale, degli attacchi deU’ultimo Kierkegaard.

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rare con il tale e il talaltro, con i filosofi e con i venditori di chincaglierie, si vedono tante cose e si trovano tante cose da dire, come l’uomo che, per essersi dimenticato di scendere dalla nave, finì col fare il giro del mondo; ovvero, per dirla con tono meno faceto: senza passione, nessuno vedrà mai la terra promessa, ma soccomberà nel deserto. In primo luogo, la decisione vuole conservare l’innamora­ mento. In questa nuova immediatezza, che va molto al di là di ogni riflessione, l’innamorato si risparmia di trasformarsi in un intenditore; si piega all’imperativo del dovere per risol­ levarsi nell’ottativo della decisione. Per quanto riguarda l’in­ namoramento, egli punta all’essenziale e rinuncia al gioco della riflessione critica. In secondo luogo, la decisione vuole trionfare su qualsiasi pericolo e qualsiasi tentazione. Proprio perché la riflessione, che è anteriore alla decisione, è del tutto ideale, basta il pensiero di un solo pericolo a spingere chi decide alla deci­ sione religiosa. Il pensiero di qualsiasi pericolo, foss’anche solo quello di non poter anticipare il futuro col pensiero. Fino a quando lo immagina con la forza del pensiero o l’ap­ prensione dell’innamoramento, lo immagina eo ipso così tre­ mendo che non riuscirà a superarlo con le sue forze. Così, si è arenato: deve lasciar perdere l’innamoramento - o affidarsi a Dio. Il miracolo dell’innamoramento è così trasformato in miracolo della fede, il miracolo dell’innamoramento è ac­ colto in un miracolo squisitamente religioso, e l’assurdità del­ l’innamoramento si trova in intesa divina con l’assurdità della religiosità. Coraggio! A capire che l’assurdo esiste e sfugge a ogni comprensione arriva una persona semplice e dabbene, che tiene in considerazione il buon senso; e, fortunatamente, per i pensatori sistematici la cosa resta un mistero. Per ultimo, nella decisione l’innamorato entrerà, grazie al­

l’universale, in rapporto con Dio. Quando deve avventurarsi nel mondo col suo innamoramento, non ha il coraggio di reggersi in piedi da solo. La sua consolazione è appunto quella di essere un uomo come gli altri e, in quest’umanità generale, di essere in rapporto con Dio in virtù della fede e della decisione. Ecco il bagno purificatore della decisione, bello come quello che i Greci facevano prima del banchetto o quello desiderato da A l a d i n o p r i m a delle nozze. Cade tutto ciò che è vanità terrena, egoismo, meschinità, sfogo critico e così via e, nella decisione, il marito è degno del dono divino dell’innamoramento. Se poi, nel perseguire la decisione, l’innamorato s’imbatte a volte in anomalie; in una sua nuova singolarità, non nel senso di una singolarità subito cancellata dal lavacro della decisione, ma nel senso di un’esitazione a riconoscersi più una persona come tutte; in altre parole, se a questo punto egli s’imbatte nel pentimento, la cosa può aprire molte pro­ spettive, e se è veramente innamorato, come è scontato che sia, gli può capitare di sentirsi messo sotto esame dalla vita; e se l’innamoramento a destra e il pentimento a manca gli fanno le stesse domande, l’esame rischia di diventare troppo difficile. Non voglio però continuare con questo argomento: la ri­ flessione corrente non conosce questo tipo di difficoltà, e chi decide non s’imbatte in questi dubbi, ma torna dalla sua spe­ dizione come il cavaliere torna da un’avventura e così: Se ritorna con le piume sul cappello Trallallero! la notte sarà allegra. N el poema drammatico Aladdin di CEhlenschlàger, iii atto. A . C E hlensch làger, Hugo von Rheinberg, K 0 b e n h a v n 18 13 , p. lo i.

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Così il nostro garzoncello felice (e che un giovincello inna­ morato sia felice non occorre neanche dirlo) ha trovato quel che cercava, ha venduto tutto, come l’uomo del Vangelo, per comprare il campo dove c’era la perla, con la sola diffe­ renza che lui, in un certo senso, il campo lo possedeva già prima di vendere tutto per comprarlo; poiché nel campo del­ l’innamoramento ha trovato anche la perla della decisione. Torna dal suo santo pellegrinaggio; appartiene alla donna che ama; è pronto - pronto a incontrarla ai piedi dell’altare, dove la chiesa lo proclamerà un vero marito. Siamo giunti così al matrimonio. Il nostro garzoncello non è diventato adulto, tutt’altro; per maturare così non bastano gli anni e i giorni. Di più, se non è veramente innamorato, e non ha esigenze etiche, né sentimenti religiosi nell’anima, maturo non lo diventerà comunque. Ma l’eterno non ha bi­ sogno di provare molte volte per trovare il momento giusto e opportuno, ed è allora che egli matura. Questa maturità lo rende in qualche modo più adulto, ma in cambio gli dà la giovinezza dell’eterno, ed è così che l’innamoramento ci rende più adulti. Non c’è bisogno di dirlo, è bello vedere un giovane inna­ morato, ma bisogna ammettere che vedere un marito fa an­ cora meglio, a meno che l’altare non sia, invece, di scan­ dalo; poiché è sbagliato volervi accedere quando uno non è che un giovane innamorato. Ma il marito è il giovane inna­ morato in tutto e per tutto, il suo innamoramento non è cambiato, ha solo la sacra bellezza della decisione, cosa che quello del giovane non ha. Non è forse altrettanto ricco e felice del giovincello? Forse che la mia ricchezza è inferiore Matteo, 13, 44.

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poiché la posseggo nell’unica malleveria sicura, e vale meno, l’obbligazione che la vita ha con me, perché è su carta bol­ lata? La mia felicità è forse minore se se ne fa garante il Dio del cielo, e non per scherzo, come se ne farebbe garante Eros, ma in tutta serietà e sincerità: tanto fa presa su di lui la decisione? O forse che la lingua che parla il giovincello do­ vrebbe essere più celestiale di quella che capisce il marito? Il matrimonio non è forse in sé un discorso tanto oscuro che non basta un poeta per capirlo, una così audace parola che, a capirla solo a metà, se ne può perdere il filo e il segno? Parlare di dovere a una coppia di innamorati - capirlo e tuttavia rimanere innamorati, legati all’amata dai più stretti vincoli dell’immediatezza! Parlare della maledizione che in­ combe sul genere umano, delle difficoltà del matrimonio, del dolore della donna e dell’acre sudore dell’uomo - e rimanere innamorati e certi, nell’immediatezza dell’innamoramento, di non avere che la felicità ad attenderci! Sentire queste cose, vedere la decisione, concentrarsi su di essa e al tempo stesso vedere la corona di mirto sul capo dell’amata - ecco, davvero un marito, un marito vero, è di per sé un miracolo! Riuscire a sentire la voce dell’amata dentro al suono dell’organo! Saper conservare il desiderio della passione amorosa mentre la vita raduna sulla testa di lui e dell’amata tutti i poteri della serietà! Ma passiamo a lei, poiché senza decisione non v’è matri­ monio. L ’animo femminile non ha, e non deve avere, la ri­ flessione dell’uomo. Così, alla decisione lei non deve giun­ gere. Ma, veloce come un uccello, passerà dall’immediatezza estetica all’immediatezza religiosa; è ben diverso dire di una donna, invece che di un uomo, che è corrotta se l’innamora­ mento non le ispira il timor di Dio. N ell’immediatezza reli-

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giosa l’uomo e la donna s’incontrano come sposi. Ma l’uomo vi perviene attraverso una formazione etica. Un filosofo gre­ co ha detto che bisogna sposare le figlie quando sono ado­ lescenti per età, ma, per ragione, donne. Ben detto, a patto di ricordare che la ragione di una donna non è quella di un uomo. La ragione più elevata di una donna, a suo onore e accanto alla bellezza, è un’immediatezza religiosa. Più di una volta mi sono piacevolmente soffermato a im­ maginare in che senso una fanciulla e un giovane debbano corrispondere l’uno all’altra per essere veramente marito e moglie. E, sinceramente, chi non si diletta di congetture si­ mili sarà forse sensibile alla cosa più bella che esista in na­ tura: una coppia di innamorati; ma non è certo sensibile alle cose dello spirito, e allo spirito non crede. Mi obietterete che è raro vedere un matrimonio che sia l’espressione dell’idea; d’accordo, ma altrettanto raro è il caso di un individuo che, pur credendo come tutti noi all’immortalità e all’esistenza di Dio, nella sua vita esprima veramente l’idea. Nella sua immediatezza, la donna è sostanzialmente di na­ tura estetica, ma è proprio per questo che il passaggio all’am­ bito religioso le riesce semplicissimo. Il romanticismo della donna trapassa, in un istante, nella sfera religiosa. Se non lo fa, è solo esaltazione sensuale e l’ispirazione demonica della sensualità. La sacra trasparenza del pudore si trasforma in un’oscurità che tenta ed eccita. Nella donna, dunque, l’innamoramento è immediato; fin qui, come nell’uomo. Ma il passaggio alla sfera religiosa av­ viene senza riflessione. Appena, infatti, si affaccia alla sua consapevolezza il pensiero, che nella riflessione dell’uomo Cleobulo, uno dei Sette Savi (Diogene Laerzio, i, 91).

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esaurisce idealmente il suo contenuto, ella sviene; mentre il marito accorre e, pur altrettanto turbato, non si lascia sopraf­ fare, ma sta ben saldo e sostiene l’amata finché ella non riapre gli occhi. In quello svenimento ella compie il pas­ saggio dall’immediatezza della passione amorosa a quella reli­ giosa; ed è qui che gli innamorati si ritrovano. Ora ella è pronta alla benedizione nuziale, poiché senza decisione non v’è matrimonio. Qualcosa è andato perduto? La felicità dell’innamora­ mento è forse diminuita, ora che la dolcezza della passione amorosa riflette in sé la benedizione del cielo? Forse che la determinazione degli innamorati di appartenersi per sempre è diventata temporale per il solo fatto di essere diventata seria? La consonanza della serietà sublime e dello scherzo più amabile è forse meno bella di tutte le voglie immediate del­ l’innamoramento? Chi parla solo il linguaggio dell’immedia­ tezza fa l’effetto, in realtà, di non parlare che per scherzo. Quando l’innamorato è disposto a rischiare la vita per la sua passione amorosa e lei vi acconsente, l’amata, magari la ri­ schia sul serio, e il suo è un gesto nobile, commuoverebbe anche le pietre, e guai a chi ride; ma in un certo senso è soltanto uno scherzo; poiché chi perde e rischia nell’imme­ diato non conosce ancora se stesso. C ’è un quadro che rappresenta Romeo e Giulietta - un quadro eterno. Non dirò se sia artisticamente pregevole, né esprimerò un giudizio sulla bellezza delle forme, giacché non ho la sensibilità e le capacità per farlo. Ciò che rende il quadro eterno è il fatto di rappresentare una coppia di amanti e di rappresentarli in un’espressione essenziale. Non Kierkegaard pensa a un quadro del pittore tedesco Pitoly (1786-1844), che rappresenta il momento prima dell’addio fra i due amanti.

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c’è bisogno di commenti, si capisce subito, e d’altronde nessun commento rende la quiete che spira dalla bella situa­ zione amorosa. Giulietta è in adorazione ai piedi dell’amato, ma l’abbandono la solleva da questo atteggiamento adorante in uno sguardo pieno di beatitudine celeste; Romeo ferma però questo sguardo e, in un bacio, si placa per sempre tutto lo struggimento della passione amorosa; poiché il riflesso del­ l’eternità illumina l’istante e, di fronte al quadro, nessuno pensa, né più e né meno di Romeo e Giulietta, che ne verrà un altro, di istante, non fosse che per ripetere il santo sug­ gello del bacio. Non chiederlo a loro due, poiché non senti­ rebbero la tua voce, ma chiedi in giro il secolo, il paese, il punto del giorno, l’ora di quell’incontro: nessuno lo sa, perché il quadro è eterno. Una coppia di amanti è per l’arte un compito eterno, ma non così una coppia di sposi. E allora, non dovrei osare no­ minarla, una coppia di sposi, e l’altra coppia sarebbe più affascinante perché le manca qualcosa del fascino invisibile del matrimonio? Se così fosse, perché sarei allora un marito? Come nessuna coppia di amanti è un Romeo e una Giulietta, ma ogni coppia di amanti è felice di averli per modello, così nessuna coppia di sposi è perfetta, finché restiamo nei ter­ mini del modello, così come è la sovranità che, per così dire, definisce il rango dei suoi sudditi. Non s’inginocchia, dunque, in atteggiamento di adora­ zione Giulietta, poiché si capisce che la differenza posta dal­ l’immediatezza della passione amorosa, la forza virile fonte di supremazia, si cancella in un’unità superiore, nella divina pa­ rità del momento religioso. Si prostra, sì, con l’intenzione d’inginocchiarsi nell’esaltazione dell’innamoramento, ma il braccio vigoroso di lui la tiene dritta. Si prosterna, ma da­

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vanti a qualcosa che non è visibile, è invisibile, è l’enormità dell’impressione; e a quel punto si aggrappa a lui, che già la sostiene. Anch’egli è turbato nello stringerla e, se il bacio non fosse un sostenersi reciproco, vacillerebbero entrambi. Non è un quadro, questo, la situazione è pittoresca ma manca di quiete perché, nel vederla quasi accasciarsi in adorazione, si finisce con l’immaginare, al di fuori di questo gesto inter­ rotto, la necessità di un’altra posizione che la veda in piedi al fianco di lui; si intravvede un nuovo modello, quello proprio del matrimonio, che fa degli sposi angoli adiacenti sulla stessa base. Da dove viene l’incompletezza del primo quadro, e quel vacillamento che cosa cerca? E la parità della decisione, è la più alta immediatezza del momento religioso. Al diavolo quindi tutte le obiezioni, che non fanno altro che escludersi tra loro. Anche quando l’obiezione dice sprez­ zante: habeat vivai cum non fa che ripetere le parole del marito, poiché è proprio questo che egli vuole, e l’obie­ zione non può mirare a impedire all’uomo di sposarsi, perché altrimenti non avrebbe nulla di cui beffarsi e saremmo tutti gente distinta come l’obiettore. Il matrimonio mi sembra quindi la cosa più sicura. L ’innamoramento dice: Tuo per sempre; il matrimonio dice: Devi lasciare tutto per apparte­ nere a lei; l’obiezione dice: Tienitela. Ma dov’è allora l’obie­ zione? Anche se, a parere dell’obiezione, un marito diventa ridicolo, la cosa non gli impedisce di lasciare tutto (ivi com­ preso lo scherno) per stare con lei. E perfino se la volesse lo schernitore, e l’obiezione gli fosse occasione per farsi avanti durante le pubblicazioni - ma è impossibile, le pubblicazioni « Se la prenda e viva con lei»; Genesi, 38, 23. Genesi, 2, 24.

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valgono solo per una moglie legittima, e se la moglie legit­ tima dovesse «tacere da quel momento per s e m p r e » , n e s ­ suno si metterà mai a cercare una moglie illegittima. Tuttavia, visto che finora, compatibilmente con le circostanze e in modo confacente al mio ruolo di marito, ho scambiato in fretta un paio di colpi in aria con obiezioni fatte quasi sempre d’aria, voglio ora esaminare la questione da un altro punto di vista. Con ciò non voglio dire che il matrimonio sia la più nobile forma di vita; ne conosco una più elevata, ma guai a chi vuole scavalcare indebitamente il matrimonio. È in questa strettoia che ho scelto di stare, per poter - diciamo - controllare col pensiero quelli che vogliono intrufolarsi. È facile vedere in che senso possa orientarsi la svolta appena postulata di un’e­ sistenza: nel senso del religioso, dello spirito, tanto da far dimenticare all’uomo, che apprende di essere spirito, di es­ sere anche una persona e non solo spirito, come Dio. Il disprezzo del Medioevo per il matrimonio potrebbe ri­ tornare sotto un’altra veste, quella dell’intellettualità, che alla rinuncia per ragioni dogmatiche o moralistiche contrappone il disdegno per una stravaganza dello spirito. Di questo estremo ci sono già i segni; infatti, proprio perché l’intellet­ tualità sopravvalutata non coglie il punto di vista etico, può predicare la divinizzazione della carne; ma la divinizzazione della carne è indice che la carne stessa è diventata indiffe­ rente all’intellettualità. Le posizioni si rovesciano e la carne viene ignorata totalmente; la spiritualità non vuole ricono­ scere dignità al corpo corruttibile in cui alberga, questa tem­ Form ula del rito luterano per le pubblicazioni nuziali.

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poralità in cui ha dimora, il suo transitorio soggiorno, questa frammentarietà da cui deve comporsi. Esistono vari tipi di eccentricità; quella teocentrica ha la giusta pretesa di vedersi assegnare il posto che le compete. Ma teocentrica è la specu­ la z io n e , teocentrico lo speculatore e teocentrica la teoria. Finché le cose stanno così e l’assertore del teocentrismo si limita a essere teocentrico in cattedra, tre volte alla settimana dalle quattro alle cinque, e contemporaneamente è cittadino, marito e campione nel tiro al piccione come uno di noi, non si può dire che la temporalità sia stata lesa; una deviazione del genere, una siffatta digressione teorica tre volte alla setti­ mana può passare per una cosa priva di conseguenze. Se invece si prende sul serio la divinizzazione dell’intellet­ tualità, e se l’individuo ha abbastanza idealità demonica per riorganizzarsi tutta la vita nel senso della sua decisione speri­ mentale, così come fa il marito nel senso della sua decisione positiva, considerando come una tentazione qualsiasi obie­ zione, qualsiasi contro-argomentazione della vita, ha fatto al­ lora il possibile per porsi come un’eccezione. D ’altronde è innegabile che un individuo, almeno per un certo periodo, è capace di rischiare tutto per la sua decisione sperimentale; ed è altrettanto innegabile che egli è perfino capace di rischiare la vita per essa, ma non gli serve a conquistarsi giustificazioni, più di quanto sia possibile acquistare il diritto di proprietà su beni rubati. Un individuo siffatto è veramente, in un certo senso, un’eccezione, e lo è anche nel senso che, da demone qual è, ha una maggiore forza di volontà della media degli uomini, che, per dirla da un punto di vista demonico, non arrivano neppure a essere cattivi. Attacco al pensiero di Martensen (cfr. nota 96).

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Per contro, un individuo siffatto non lia il minimo appiglio per corrompere un giudice e impedirgli di dichiararlo senza giustificazioni; non ha il minimo appiglio per commuovere i viscera della compassione, quando lo si vede precipitare nel baratro che si è preparato. L ’intellettualità pura è per l’ap­ punto una tremenda astrazione, e al di là dell’astrazione non s’intravvede assolutamente nulla, neppure il più lontano ac­ cenno a un’idea religiosa. L ’eccezione è un emigrante, ma di tipo particolare, poiché non emigra in America o in un altro continente, o al di là della tomba; semplicemente, scompare. Abbiamo lasciato che la sua riflessione negativa s’indirizzasse soprattutto contro il matrimonio, finché dava l’impressione di avere molti altri interessi nella temporalità. Ma non è così. Il matrimonio è, in realtà, l’elemento centrale della tempora­ lità, e il soggetto individuale non può mettersi, nell’imme­ diato, in relazione con l’idea dello Stato. A meno che egli non voglia sacrificarsi per lo Stato e rinunci quindi a sposarsi. Ma questa contraddizione è vana, e non gli fa tenere conto della coerenza della sua idea, cui l’obbedienza è più cara^°^ del grasso dell’ariete sull’olocausto. Se la sua idea lo auto­ rizza a saltare il matrimonio, la sua idea dev’essere indiffe­ rente anche all’idea dello Stato. Qui come dappertutto bi­ sogna ricordare che non è affatto un caso se un individuo non si sposa: la verità è che non vuole sposarsi. Qualsiasi soggetto che abbia, diciamo così, un rango nel mondo dello spirito ha capacità di decisione e il rango che occupa è proporzionato alla decisione. L ’astrazione infinita si trova dietro un punto d’appoggio, l’entusiasmo dell’annientamento diventa un piccolo azzardo a 1 Samuele, 15, 22.

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confronto della posta da vincere, quando a rinunciare al mondo e a fare votum castitatis sarà chi ha una formazione religiosa. Un uomo simile, se compie il passo che gli fa oltre­ passare la vita, non lo fa certo per niente. Non guarderà magari fisso alla ricompensa, ma s’impegnerà fiducioso a rag­ giungerla: come il rematore che punta a un traguardo e a quel traguardo volge tuttavia continuamente le spalle, così egli s’impegna e, nel farlo, si allontana dalla vita. Che una condotta simile sia un’astrazione religiosa è veris­ simo, ma meno vero è che si tratti di cosa tanto desueta da non poter ricomparire, in una ripetizione. È evidente che il religioso è già da tempo in stato di abbandono; quando co­ mincia a muoversi con energia ideale, non c’è da meravi­ gliarsi che si sbagli di nuovo. Non è facile, per il religioso, trovare la vera concretezza, poiché ha sempre come premessa l’astrazione infinita, e non è semplice immediatezza. Talvolta si dicono magari sul religioso parole molto belle e molto vere, ritrattando poi tutto con una sola parola senza neppure accorgersene, quando appare chiaro che si sta parlando del­ l’immediato puro e semplice. Io continuo a puntare sul matri­ monio. Trovare una formula effettivamente religiosa per il matrimonio, definire con precisione categorica ciò di cui il Medioevo disperava, ciò a cui gli ultimi secoli (benché piut­ tosto orgogliosi dei progressi compiuti rispetto al Medioevo, ma nella sfera dei valori terreni, non in quelli religiosi) han­ no contribuito così poco, lo considero ancora un pium desiderium. Credo che un marito faccia bene a riflettere su que­ ste cose, e anche a scriverne, se vuole cimentarsi come scrittore; d’altronde, qualsiasi altro argomento è già preso, perfino l’astronomia. L a battuta è diretta contro Heiberg, che, in un articolo dal titolo L ’anno astronomico (cfr., qui, nota 82, p. 273), aveva recensito, e radicalmente frainteso. La ripetizione.

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È innegabile che, da un punto di vista strettamente reli­ gioso, non fa alcuna differenza che un uomo sia stato sposato o meno. Qui il religioso apre l’abisso infinito dell’astrazione. La duplicità, d’altronde, non è di alcun aiuto. A voler cer­ care, preoccupati, una guida nel discorso religioso, vi si tro­ verà forse più ambiguità di quanto non si creda e di quanto non sappia l’oratore stesso. Quando capita di parlarne, si fa l’elogio del matrimonio; se uno invece muore senza essere stato mai sposato, allora, certo, il discorso non verte sul ma­ trimonio, ma, con un’intensità quasi umoristica, si conviene che, sposato o meno, non avrebbe fatto una gran differenza. Ma che ne è di chi si trova a sentire sia l’uno che l’altro discorso? Giacché, a voler parlare in questo modo, è infinita­ mente più difficile essere un buon ascoltatore in cerca di consigli e d’insegnamenti che non un oratore, a disposizione di tutti i punti di vista. Si sottolinea l’importanza della tem­ poralità, quella dell’etica, la si definisce tempo della grazia, spazio della conversione, termine della decisione che decide per l’eternità; ma capita poi che a morire sia un bambino. Si tiene allora un’orazione funebre, o si accenna durante la pre­ dica ai genitori afflitti per aver perduto il loro piccino, e si finisce in un umorismo che oltrepassa ogni vanità temporale, parlando dei settant’anni come di una fatica inutile che con­ suma lo spirito e di tutti i fiumi che sfociano in mare senza che per questo il mare trabocchi. Non erano più coerenti i Romanico* che facevano piangere i bambini negli Elisi per la vita che non era loro concesso di vivere? E tuttavia si lavora al Sistema; santo cielo, da una prestazione del genere sarebbe troppo pretendere anche una visione della vita! E, non v’è 108 Eneide, vi, w . 426 sgg.

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dubbio, è inammissibile che ci siano tanti bei discorsi tutti pieni di senso, ma non un senso che valga per tutti. Tuttavia, anche se fosse così, anche se l’astrazione religiosa fosse qualcosa di scomparso, di antiquato, di sorpassato (quest’ultima formula la dobbiamo alla collaborazione del Si­ stema, che si degna di confondere, diciamo così, uno svi­ luppo generazionale eterno con le ripetizioni che ogni gene­ razione fa dell’esperienza); fosse pure così, essa potrebbe be­ nissimo entrare qui a fare l’oggetto di un dibattito. Se non è cosa di tutti i giorni vedere un vero innamoramento, ancora più raro, naturalmente, è vedere un vero matrimonio. Mer­ canteggiare non serve a nulla, se non a mettere la vittoria in mano agli attaccabrighe, capaci di distillare anche dal reli­ gioso una sostanza corrosiva. Infischiarsene delle obiezioni, anche delle più fastidiose, è sempre una difesa mediocre, a meno che uno abbia la coscienza pulita e sappia di aver ra­ gione. In realtà l’astrazione religiosa vuole appartenere solo a Dio; per quest’amore è pronta a disdegnare tutto, a rinun­ ciare a tutto, a sacrificare tutto (sono sfumature); da quest’a­ more non vuole che l’allontani nessun disturbo, nessuna di­ strazione, nessuna attrazione; con quest’amore non vuole conti equivoci, ogni transazione deve avvenire sempre in rap­ porto solo a Dio, che solo in questo modo entra in relazione con l’individuo. La superbia di questa astrazione la può tem­ perare di fronte a Dio un’umiltà profondamente religiosa, ma l’astrazione in sé va considerata finora ingiustificata, poiché ha una relazione con la sua rinuncia totalmente astratta. Me­ glio non cercare di farsi un’idea più concreta (tanto per rima­ nere in argomento) della bella realtà dell’innamoramento, della realtà autentica del matrimonio: un’occupazione del ge­ nere è una tentazione. Tale è, infatti, la disumanità di questa

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astrazione: che tuttavia va giudicata con prudenza, evitando soprattutto di far troppo conto di speculazioni ferroviarie, chiacchiere di comitati o altro gran daffare del genere, neanche in quel fracasso o in quello scompiglio stesse il con­ tenuto autentico della temporalità. Inoltre, la disumanità verso gli esseri umani è una forma d’invadenza nei riguardi di Dio. Come dicevo, la disumanità non consiste nel volere il bene supremo, cosa tutt’altro che disumana; né hanno alcun senso proclami e anatemi che venga­ no da un mondo materialmente ricco, ma spiritualmente un ospizio, dove il più alto obiettivo consiste nell’essere come i più, e dove tuttora ci si serve dell’arma dell’ostracismo e delle ragioni della proscrizione contro chiunque sia migliore degli altri. La disumanità non consiste nemmeno nel basare la propria visione della vita su fatti casuali, capaci di escludere tutti gli altri, poiché l’eccezione non impedisce che chiunque possa imitarla; e tutte le chiacchiere del tipo; certo, è una cosa grandiosa, ma non da tutti (che ne sarebbe del mondo altrimenti?) sono appunto roba da ospizio, dove nessuno può o vuole capire che, quando una cosa è giusta, è meglio la­ sciare il resto a Dio, che ne ha i mezzi e non è certo ridotto al punto da mendicare l’assistenza dell’ospizio. No, la disu­ manità sta nel fatto che l’uomo eccezionale non vuole farsi un’idea concreta di che cosa sia, per la maggior parte della gente, la realtà della vita. Ma quest’idea concreta è e ri­ mane la condizione per dargli anche un’ombra di ragione. L ’indiscrezione nei riguardi di Dio è una specie di irrispet­ toso cameratismo, anche se chi la commette non la intende in questo senso. Magari è sinceramente umile, ma al modo di un Letteralmente: un Pjaltenborg (ospizio per i poveri di Copenaghen).

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suddito che, umanamente parlando, nutra il più leale entu­ siasmo per il suo re e sorpassi di gran lunga quanti non sono né caldi né freddi, ma numerus et pecus,^^^ e tuttavia reclami il diritto, quando chiede udienza, di entrare da un ingresso diverso da quello riservato a tutti gli altri sudditi. Dev’essere terribile, a questo punto, vedersi respinti con queste parole: dall’altra parte, vedremo quel che si può fare. Se la sua inte­ riorità basta, infatti, a fargli capire che il religioso è l’amore più sublime, come deve apparirgli umiliante e avvilente sco­ prire di essersi spinto troppo in là, di essersi presa troppa libertà, di aver contristato lo spirito e offeso il suo innamora­ mento: cosa tanto più grave in quanto, in realtà, intendeva dare al suo vincolo l’espressione suprema. Un’eccezione religiosa di questo tipo vuole dunque igno­ rare il generale e alzare il prezzo sulla realtà. Basta questo a far capire che non ne ha il diritto. E quando ribassa quel prezzo, le cose diventano ancora più difficili. La realtà della temporalità, ovvero, per restare in argomento, la realtà del fatto di sposarsi, la riconosce solo in ahstracto\ ma è infelice, inadatto a quella gioia, a quella sicurezza di vita, è triste, un peso per se stesso, e sente che può diventarlo anche per altri. Non affrettiamoci a giudicare; anche il più debole ha le sue ragioni, anche la tristezza è qualcosa di reale, che non si cancella con un colpo di penna. Quindi, dopo essersi così chiarite le idee sull’esistenza, egli trova conforto in un’astra­ zione religiosa. Quando chi chiede udienza per vie insolite arriva quasi a suscitare compassione, la cosa assume un altro aspetto e sembra giusto che egli riceva ascolto. Sorge però la nuova anomalia dell’assoluta astrattezza con «N um ero e bestiame»: Orazio, Epistole, i, 2, 2 7 e i, 19, 19.

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cui parla della sua rinuncia. Proprio perché è triste, si è fatto l’idea astratta che la vita per gli altri sia piena di gioia e di felicità. Ma non possiamo sapere in abstracto come sono le cose a noi estranee. Ne deriva anche una duplicità che è inscindibile dalla tristezza. Quale che sia la disgrazia contro cui lotta il malinconico, e per quanto concreta essa sia, per lui avrà sempre un pizzico di fantasia, e quindi di astrazione. Se però al malinconico capita di abbassarsi agli espedienti della vita, la faccenda si riduce a un piccolo falso, che però non gli impedisce di partecipare pienamente agli affari comuni e di essere come tutti gli altri, sebbene in ogni sua minima im­ presa o sofferenza gli arrivi, a^:/ usus privatoSy un piccolo aiuto dal fondo inesauribile dell’immaginazione. Se invece gli si permette di prendere tutta la vita in abstracto, non verrà mai a sapere a che cosa ha rinunciato. La gioia di vivere che, secondo lui, si godono gli altri per lui diventa un fardello, un doppio peso, visto che ne ha già uno da portare. Questo è l’aspetto comico della malinconia; spesso, infatti, nella vita accade al malinconico quel che accadde, nel racconto di Hebel,!^^ all’aiutante del sarto. Costui voleva prendere posto su un battello a rimorchio lungo il Reno, e si accordò sul prezzo; a quel punto il barcaiolo gli offrì di fare il viaggio a metà prezzo se fosse stato disposto ad aiutarlo a rimorchiare. Ahimè! Ecco cosa succede al malinconico: a furia di rappor­ tarsi astrattamente alla vita, egli crede di farcela a metà prezzo, e non si accorge che sta rimorchiando al pari dei barcaioli, e che paga, per di più. Quel che manca a queste due forme di eccezioni, è evi­ dente: l’esperienza. E facile dedurne che nessuno può deci­ dere da sé di diventare un’eccezione fondata. Deve, innanzi­ J. P. Hebel, Sdmmtliche W erke, Karlsruhe 1832, iii, p. 40^.

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tutto, accadere qualcosa. Ma, lo ripeto, parlo per ipotesi, giacché non so se un’eccezione fondata esista o sia mai esi­ stita; cercherò però di awicinarmici il più possibile. Non è così, dunque, che devono andare le cose; bisogna che qual­ cuno che è andato pienamente d’accordo con la vita ora venga improvvisamente bloccato. Si deve trattare di un inna­ moramento, un vero innamoramento. Vero è che, secondo un vecchio detto, al dio dell’amore non si può resistere, ma, a opporsi decisamente dall’inizio alla realtà, si riesce sempre ad allontanare l’ispirazione della passione amorosa o a ucciderla sul nascere. Se si scontra con un’esistenza nell’im­ mediato, la passione amorosa ha la meglio, ma non se si scontra con una decisione che già da tempo si è armata contro di lei. In primo luogo esigo dunque che il nostro uomo sia vera­ mente innamorato. Ne basta uno per chiunque, di innamora­ menti interrotti, ma se a interromperlo è lo stesso innamo­ rato, la rottura diventa in mano sua una spada a doppio taglio da impugnare senza elsa; e l’operazione fa profondamente male, sia in senso autopatico che simpatetico. Qualcuno dirà: «Se c’è l’innamoramento, l’eccezione di qua non passa; poiché nell’innamoramento la posta in gioco è alta, ci si ri­ schia tutto; e nell’innamoramento si rischia tutto per la per­ sona amata, raddoppiando, cioè, la posta più alta; impossi­ bile, quindi, lasciare e decidere di perdere tutto, anche l’o­ nore! Impossibile, a chi ama veramente». Certo, è impossibile che chi non ama veramente divenga l’eccezione, ammesso che ne esista una; ma il resto non è impossibile. Terribile, un vero orrore; ma è così che dev’esOmnia vincit amor. Virgilio, Bucoliche, x, v. 69.

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sere. Chi rompe con la realtà deve per lo meno sapere con che cosa rompe. Lungi da me la crudeltà: come non sono crudele quando svolgo tranquillamente le mie funzioni di inquirente ed evoco tutti gli orrori perché la paura serva a far ritrovare i tranquilli confini del diritto e della giustizia, così non sono crudele adesso. E possibile che qualcuno, nell’inna­ moramento, pieghi fino a terra il ramo della felicità, e poi lo tagli e si faccia scagliare dalla forza di quel ramo nei supplizi della morte, come gli infelici sottoposti a questo tipo di scempio, e che soffra ancora di più per aver oltretutto dilace­ rato la persona amata; è possibile che, mentre naviga tran­ quillamente con la sua felicità, scenda ad aprire una falla nella nave e metta se stesso e qualcun altro in pericolo, è possibile che lo faccia, se è veramente innamorato; ma se non lo è, non può essere l’eccezione, ammesso che l’eccezione esi­ sta. E terribile dare una spada in mano a un folle, ma altret­ tanto terribile aver messo la felicità nelle mani di una persona in questo stato, anche senza dover arrivare alla pazzia. Che cosa la muove, non voglio qui indagarlo, mi limiterò a descri­ vere i presupposti psicologici e gli stati d’animo indispensa­ bili perché si possa parlare di un’eccezione fondata. In secondo luogo, esigo che sia un marito. Ci sono perdite più terribili di quella dell’onore, e il pianto dei figli senza padre sale più in alto della vergogna di qualsiasi disonore, e più terribile della solitudine della fanciulla ingannata è quella inconsolabile della moglie, della madre abbandonata. «Non si può» dice qualcuno, «non si può troncare quando si è così legati all’esistenza.» Certo, chi non si sente così legato non può diventare un’eccezione, sempre che ce ne sia una; il resto non è invece impossibile, anche se così terribile da gelare l’anima e fermare il respiro del sentimento. Eppure, chi svolge le funzioni di inquirente non deve farsi sviare dalla

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verità da nessuna paura, né ingannare di un centesimo la giustizia; e l’eccezione non deve comprarsi la sua ragione d’essere con una grossa somma, ma pagando fino all’ultimo centesimo. Se è dubbio che l’innamoramento provenga da Dio, se l’innamoramento può fare ancora a meno di fondarsi su una concezione religiosa, il matrimonio, invece, è assolutamente di origine religiosa. Pertanto chi lo rompe non solo causa infelicità a se stesso e a coloro che ama, ma mette la vita in contraddizione con se stessa, mette Dio in contraddi­ zione con se stesso. Impossibile la cosa non è per chi sia fuori di sé, senza essere necessariamente pazzo. Che cosa lo muova, non lo spiegherò qui, non cercherò neppure di spie­ garlo, mi limito a svolgere i suoi presupposti psicologici; se questi non appaiono in tutto il loro orrore, egli non sarà mai l’eccezione fondata. Ora che la rottura è avvenuta, vado oltre. Esigo che, anche in seguito, quest’uomo ami la vita; se diventa ostile verso la vita, gli viene a mancare il suo fondamento, poiché il fatto che egli sia un’eccezione non toglie bellezza alle cose da cui si eccettua. Con un’esaltazione superiore a quella di chiunque altro, deve amare quello che ha rotto, e in questa esaltazione scoprirne tutte le bellezze, trovarvi perfino più grazia e più fascino di chi gode della sua felicità; poiché chi volta le spalle al generale deve pur saperne di più di chi ci vive con tutta sicurezza. Invero, se un uomo simile, ammesso che ve ne sia uno, volesse parlare del matrimonio, lo farebbe con un ar­ dore che un marito ha a stento; io, per lo meno, gli cederei il posto: ne citerebbe tutte le tranquille gioie con una cono­ scenza che nessun marito possiede; poiché il tormento della Matteo, 5, 26.

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responsabilità spezzata deve tenergli l’anima ben desta e in costante contemplazione di quel che ha distrutto, e la sua nuova responsabilità esige innanzitutto che egli sappia quello che ha fatto. Se un uomo siffatto, ammesso che egli esista, vuol parlare della fondatezza delle eccezioni, il mio posto è quello di un subalterno in confronto a lui, che ha il grado di ispettore generale; perché lui conosce ogni piccolo nascondi­ glio, ogni angolino, ogni deviazione, dove nessuno sospetta neppure che possa esserci una strada; egli saprà certo scor­ gere le anomalie al buio, dove un altro non riesce a veder nulla che le distingua dal fondamento. La rottura, poi, deve percepirla come una sventura e un orrore; la sofferenza, in realtà, viene dal fatto che si è fer­ mato, e non che rinuncia per l’avventura, come fa un avven­ turiero, al contenuto concreto della vita. Egli ne ha capito e ne capisce veramente tutto il valore, benché sia un fallito non fraudolento, rovinato dall’esistenza stessa. D ’altro canto, egli deve cogliere nelle conseguenze della rottura la pena che gli spetta, poiché, per quanto la ragione disperi di trovarlo in colpa, dal momento che è veramente innamorato e appar­ tiene veramente, con tutta l’anima, alla sua vita matrimoniale (anche se per lui il dolore del distacco raggiunge e, anzi, supera il dolore dell’annientamento negli amanti), all’esalta­ zione della sua disperazione deve restare tuttavia la gioia di rendere a Dio lo stesso solenne giuramento, nel firmargli lo stesso impegno dell’uomo felice a riconoscere nelle vie della provvidenza solo saggezza e giustizia. Deve percepire, nella rottura, il suo precipitare in un nuovo pericolo, il più atroce di tutti, proprio ora che aveva trovato la sicurezza nella vita; poiché l’educazione più amore­ vole è il frutto dell’umile soggezione di una moglie, e l’inse­ gnamento più adatto a ringiovanire è l’educazione dei propri

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figli, e il rifugio migliore è dietro il sacro muro del matri­ monio. Anche se è un fatto che non può fare altrimenti, pure, con questo passo, egli si è spinto nei deserti dello spazio infinito dove, quando alza lo sguardo al cielo, la spada di Damocle gli pende sulla testa, e, quando abbassa lo sguardo a terra, le trappole di tentazioni sconosciute gli minacciano il piede; dove non giunge soccorso umano, dove non si spinge, neppure a rischio della vita, il pilota più ardito, perché qui c’è da perdere più della vita; dove non gli si offre compas­ sione, e neppure la più tenera simpatia riesce a scorgerlo, poiché si è lanciato in un vuoto che fa indietreggiare tutti terrorizzati. È un ribelle contro l’ordine terreno, e si è inimi­ cata la sensualità che, se contemperata con la spiritualità, è un valido bastone, così come il tempo; la sensualità, infatti, è diventata per lui una serpe e il tempo il momento della co­ scienza sporca. Sembra così facile sconfiggere la sensualità; e magari è così, a patto di non aizzarla col volerla annientare. Non sono cose da dire agli innamorati, poiché l’innamora­ mento li tiene ignari dei pericoli che solo il ribelle sa indivi­ duare; l’innamoramento non sa perché sia stato istituito il matrimonio, ma un discorso serio sa, invece, che è stato isti­ tuito ob adjutorium, ob propagationem, ob evitandam fornicae le esperienze dei conventi potrebbero aggiungere a questo testo terribili glosse. È in questo modo che si giustifica, da un punto di vista psicologico, la catastrofe che col­ pisce Faust che, proprio per il fatto di voler essere puro spirito, finisce per soccombere alla ribellione selvaggia della sensualità. Guai a chi è così solo! Tutta l’esistenza l’ha abban­ donato, ma non privo di scorta, poiché a ogni istante una Per aiuto, per la riproduzione, per evitare la dissolutezza (nell’ antica dogm a­ tica luterana, le ragioni fondanti del matrimonio).

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rimembranza angosciosa, dove brucia divoratrice la fiamma di ogni appassionata simpatia, gli evoca per immagini l’infeli­ cità di coloro che ha annientati, e a ogni minuto può sorpren­ derlo l’improvviso con tutto il suo orrore. Deve rendersi conto che nessuno può capirlo, e deve avere il sangue freddo di accettare che il linguaggio degli uomini non abbia per lui che maledizioni, e che il cuore degli uomini non abbia per le sue sofferenze altro sentimento che quello della sua colpevolezza. E tuttavia non deve indurirsi, o per­ derà immediatamente il suo fondamento. Deve sentire il sup­ plizio dell’incomprensione, come gli asceti sentivano a ogni istante la puntura del cilicio sulla loro viva carne - e appunto come un cilicio egli ha indossato l’incomprensione, terribile da portare, come la veste che Ercole ricevette da Onfale^^^ e in cui bruciò vivo. Per ribadire i punti essenziali, non deve sentirsi più in alto, ma più in basso del generale, deve cercare di rimanerci à tout prix poiché è veramente innamorato e, cosa più importante, perché è un marito; deve desiderare di rimanerci per amor di se stesso e per amore di quelli per cui è pronto a sacrificare la vita, mentre ora, al contrario, la loro infelicità la vede come se avesse mani e gambe amputate, e la lingua strappata dalla bocca, ossia privo di qualsiasi mezzo di comunicazione. Egli deve sentirsi il più infelice degli uomini, un rifiuto dell’uma­ nità, e doppiamente tale, proprio perché sa, non in abstracto^ ma in concreto, che cos’è il bello. Allora soccombe, nella disperazione della sua infelicità, quando gli viene a mancare quell’unica parola, l’ultima, l’estrema, così estrema da troIn realtà, è la moglie Deianira che dà a Ercole la tunica avvelenata dal sangue di Nesso in cui brucerà vivo (Onfale è la regina di Lidia servita dal giovane Ercole in abiti femminili).

varsi al di là del linguaggio umano; quando non lo abita la testimonianza, quando non può forzare il dispaccio sigillato da aprire solo in alto mare e che contiene l’ordine di Dio. E così che si comincia a diventare un’eccezione, se pure l’ecce­ zione esiste; in mancanza di tutte queste condizioni, non trova fondamento. Se, da un’infelicità che certamente è la più profonda, la più tormentosa di tutte, dove il dolore non lascia tregua se non per farsi brandire contro la frusta del pentimento, dove ogni sofferenza umana è presente in persona per torturarlo, dove la sofferenza non dà pace, come l’assedio a una città non cessa solo perché a una guardia se ne sostituisce un’altra, o perché la nuova guardia appartiene a un altro contingente nemico, in modo da darsi il cambio: se si assopisce il dolore soggettivo, si desta quello della simpatia, se si assopisce quello della simpatia, si desta il dolore soggettivo, e a ogni istante può arrivare la ronda del pentimento per controllare che la guardia sia sveglia - se, dico, da questa infelicità possa nascere una felicità, se in questo pauroso nulla possa celarsi un significato divino, e quanta fede non occorra per credere alla possibilità di un simile intervento di Dio nell’esistenza, o almeno che questa è l’impressione di chi agisce soffrendo, poiché, anche se a intervenire è davvero Dio, è certo che si preoccupa di salvare gli annientati, solo che l’uomo preso da lui, l’eletto nell’istante decisivo, non può saperne nulla sono cose che vanno oltre la mia capacità di comprensione. Non so se esista un’eccezione fondata, e se anche esiste, non lo sa neppure l’interessato, neanche nel momento in cui soc­ combe, poiché basterebbe un presentimento anche minimo per togliergli ogni fondamento. Non ho voluto mettermi a indagare le cause che possono spingere un uomo a disperarsi in tal modo, a voler rubare alla

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divinità lo spirito e a non accettare la distribuzione che alla divinità è piaciuto farne; o a capire come potrebbe mai l’uomo essere oggetto di una predilezione divina che, gelosa di se stessa, si serve fin dal suo primo manifestarsi della terri­ bile tentazione dell’invidia; ho solo voluto abbozzarne i pre­ supposti psicologici. Ecco un novizio che non si fida delle lusinghe in suo favore del Medioevo ma che, estraneo alla coscienza contemporanea, compra la sofferenza più cara al prezzo più alto. La mia descrizione somiglia a un vestito già confezionato, ma è il cilicio delle sofferenze che l’eccezione deve portare - e mi sembra improbabile che qualcuno s’inna­ mori di questo vestito per qualche voglia malintesa. Ma non sono crudele, no! Quando uno è felice come può esserlo un marito, quando ama l’esistenza, e l’ama ripetendo il suo giuramento, al punto di sentire ogni giuramento come sempre più prezioso, poiché in quest’amore per l’esistenza resta stretto alla donna che tuttora abbraccio con la decisione trionfante del primo amore e della sua felicità, alla moglie per cui bisogna lasciare il padre e la madre; quando resta stretto a quel che ripaga della perdita, a quel che abbellisce e ringiovanisce la mia vita matrimoniale, ai miei cari figli, che con la loro gioia, la loro allegria e la loro innocenza, che con il loro progresso nel bene trasformano il semplice pane quoti­ diano in un’abbondanza inestimabile, e danno al ringrazia­ mento per il mio benessere e la mia intercessione, ai miei occhi, la solennità di quello di un re per il suo paese - è troppo felice per essere crudele. Ma chi svolge funzioni da inquirente non ha paura di nulla che possa far piegare la via della giustizia, di nulla che possa portare la verità su una cattiva strada. Non vado in giro a cercare e a trovare qual­ Genesi, 2, 24.

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cuno pronto a indossare quel cilicio; al contrario, avverto a gran voce ogni sprovveduto, ammesso che voglia starmi a sentire, di non arrischiarsi su questo cammino: chi vi si arri­ schia di sua iniziativa è perduto. Ma è per me una nuova prova della bellezza dell’esistenza il fatto di vederla così ben cintata da non tentare nessuno ad avventurarsene lontano, così fondata che dovrebbe bastare l’idea di quell’orrore per annientare ogni proposito sciocco, frivolo, gonfiato, malsano e nevrastenico di fare di sé l’eccezione; poiché, anche se si verificassero tutte le condizioni che ho chiesto, continuo a non sapere se esista un’eccezione fondata, anzi, per dire la cosa più terribile di tutte, aggiungerò che neppure chi si pro­ ponga di essere l’eccezione potrà mai sapere con certezza, in questa vita, se c’è riuscito. Pensate, non potersene comprare la certezza neppure a costo di perdere tutto, di soffrire oltre ogni misura! Per contro, quello che so con certezza, quello che né lo scherno, né le arguzie, né l’orrore di questa riflessione po­ tranno togliermi, è la felicità del mio matrimonio, o meglio la mia convinzione della felicità del matrimonio. Ormai quel­ l’orrore è molto lontano, non faccio più l’inquirente, ma sono nel mio studio, e come, dopo il temporale, il paesaggio torna a sorridere, così la mia anima è di nuovo di buon umore all’idea di scrivere del matrimonio; e di scrivere, in un certo senso, non finirò mai. Infatti, come un marito non è una testa calda, così il matrimonio ron è una cosa che si possa spiegare in un batter d’occhio. Vengo da una faccenda spinosa, ma sono di nuovo a casa, dalla donna che tutte le potenze della vita si sono accordate a concedermi in legittimo possesso; che abbrevia i miei giorni bui, e aggiunge un’eter­ nità alla nostra felice comprensione; che diminuisce le mie sofferenze, condivide le mie preoccupazioni e aumenta le mie

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gioie. Eccola passare, proprio in questo momento, davanti alla mia porta; capisco che mi sta aspettando, ma non vuole entrare per non disturbarmi. Un minuto solo, amor mio, un minuto solo, la mia anima è così ricca, in questo momento sono così eloquente che voglio proprio metterlo su carta un elogio per te, mia sposa adorata, e convincere il mondo in­ tero della validità del matrimonio. E comunque domattina presto, dopodomani, fra otto giorni, ti butterò via, penna odiosa; ho fatto la mia scelta, risponderò al richiamo e all’in­ vito. Frema pure, il povero scrittore che si vede offrire l’ispi­ razione in un momento fortunato, frema pure all’idea che qualcuno venga a disturbarlo: io non temo nulla, ma conosco anche cose che superano la più felice delle idee che possano affacciarsi alla mente di un uomo, che vanno oltre la più felice delle espressioni in cui quell’idea possa tradursi sulla carta; cose infinitamente più preziose di qualsiasi segreto si nasconda nella penna di un povero scrittore.

C O LPEV O LE? NON C O LPEV O LE? Una storia di passione Esperimento psicologico di Frater Taciturnus

ANNUNCIO DI RITROVAMENTO Anche un bambino sa che il castello di S0borg è un rudere che si erge a nord dell’isola di Sjaelland, a circa mezzo miglio dalla costa, nei pressi di una cittadina che porta lo stesso nome. Sebbene il castello sia distrutto da tempo, si è però conservato e continuerà a conservarsi nella memoria della gente perché attinge a un ricco passato storico, e di storia poetica. Lo stesso discorso vale, in un certo senso, per il lago di S0borg, che appartiene al castello. In origine si estendeva per una lunghezza di alcune miglia, ed era profondo parec­ chie braccia; questa è la ragione per cui non è scomparso e probabilmente, nonostante che la terra ferma gli rubi pian piano una formazione intermedia dopo l’altra, restringendolo così sempre più, affermerà per lungo tempo ancora la sua esistenza di lago. L ’estate scorsa, a Helsing0r, mi capitò di incontrare un mio vecchio amico, un naturalista che aveva percorso la costa da Copenaghen verso nord per studiare la flora marina. Perciò decise di visitare la zona intorno a Soborg, che in base alle sue supposizioni doveva dare ottimi risultati. Mi propose di accompagnarlo nel suo viaggio, e io acconsentii. Il lago non invita ad accostarglisi, poiché per una super­ ficie abbastanza estesa è circondato da paludi. Qui il mare e la terra ferma si contendono i confini, di giorno e di notte.

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C ’è un che di malinconico in questo conflitto, che tuttavia non reca tracce di distruzione, poiché quanto la terra riesce un po’ alla volta a strappare al lago si trasforma in prato fertile e sorridente. Il povero lago, invece, in questo modo va svanendo! Nessuno ne ha compassione, nessuno è solidale con lui, poiché né il prete, che possiede i terreni confinanti da un lato, né i contadini dall’altro lato hanno qualcosa in contrario a conquistare un pezzo di prato dopo l’altro. Po­ vero lago, abbandonato da una parte e dall’altra! A dare al lago un’impronta ancora più reclusa ^ è il rigo­ gliosissimo canneto che cresce sulle paludi; in Danimarca non se ne trova uno uguale, stando almeno a quello che afferma il mio amico naturalista. In un solo punto si apre uno stretto canale; qui c’è un battello dal fondo piatto, sul quale noi due, io seguendo la strada della curiosità e dell’amicizia, lui quella della scienza, partimmo spingendoci con una pertica. A fatica riuscimmo ad avviare il battello, poiché l’acqua del canale non raggiunge neppure la profondità di un piede. Al con­ trario, il canneto è copioso e fitto come una foresta, e cresce fino a un’altezza di almeno quattro cubiti; a nascondercisi dentro, si scompare come per sempre agli occhi del mondo, dimenticati nel silenzio interrotto solo dai nostri sforzi con il battello o dal tarabuso, una voce familiare nella solitudine, quando per tre volte ripete il suo grido e poi torna a ripe­ terlo. Bizzarro uccello, perché sospiri e gemi così, se non desideri altro che restare in solitudine? Finalmente ci aprimmo un varco dalle canne, e ci apparve ' Com pare qui per la prima volta in questa sezione una delle parole chiave del libro, indesluttet, che traduciamo, a seconda del contesto, «recluso» e «ch iu so» (e il sostantivo, Indesluttethed - applicato soprattutto alla malattia dell’introversione con­ genita all’anonimo diarista - , «clausura» e «chiusura»).

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davanti il lago chiaro e scintillante nella luce pomeridiana. Tutto era calmo, sull’acqua regnava il silenzio. Mentre ci facevamo strada attraverso il canneto, mi sentivo come trasfe­ rito nella lussureggiante vegetazione delle Indie; ora mi pa­ reva di trovarmi al largo dell’Oceano Pacifico. Avevo quasi paura: ero così infinitamente lontano dall’umanità, racchiuso in un guscio di noce in pieno oceano! Ora si udiva un cla­ more confuso, un grido misto d’uccelli di tutte le specie; ma subito il silenzio ristabiliva il suo dominio e si imponeva fin quasi all’angoscia, quando il suono si interrompeva all’improwiso, e l’orecchio cercava invano un appiglio nell’infi­ nito. Il mio amico naturalista prese lo strumento che gli serviva per recidere le piante acquatiche; lo lanciò e cominciò a lavo­ rare. Io, nel frattempo, me ne stavo all’altra estremità del battello, immerso come in sogno nella natura. Il mio amico aveva già tirato su una notevole quantità di materiale, e co­ minciava a occuparsene; gli chiesi di prestarmi lo strumento. Tornai al mio posto e lo lanciai. Cadde nelle viscere del lago con un rumore sordo. Sarà che non ero pratico, ma accadde che al momento di tirarlo su dall’acqua, lo strumento mi sembrò trattenuto da qualcosa di talmente forte che temevo quasi di risultare io il più debole. Tirai con forza, e una bolla si sollevò dal fondo del lago. Indugiò un istante in superficie, esplose, e a questo punto io ce la feci. Provai una sensazione strana; tuttavia non avevo assolutamente idea della natura del mio reperto. Quando ora ripenso a quello che è successo, ora che so tutto, ecco che capisco; capisco che era un sospiro dell’abisso, un sospiro de profundis, un sospiro perché avevo strappato all’acqua il suo deposito, un sospiro del lago chiuso, un sospiro dell’anima chiusa a cui ho rubato il se­

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greto. L ’avessi immaginato un attimo prima, non avrei certo osato tirare. Il naturalista era tutto sprofondato nel suo lavoro; a mala­ pena mi buttò lì una domanda, se avessi preso qualcosa; era un’esclamazione che non aspettava risposta, poiché egli rite­ neva, a ragione, che la mia pesca non fosse di gran conto per la scienza. Ora, io non avevo neppure trovato quello che cercava lui, bensì qualcosa di completamente diverso. E così ognuno dei due sedeva alla propria estremità del battello, ognuno si occupava dei suoi reperti; lui per conto della scienza, io per conto della curiosità e dell’amicizia. Avvolto in tela cerata e munito di diversi sigilli, ecco lì uno scrigno di palissandro. Lo scrigno era chiuso, e quando ne forzai la serratura, aprendolo, apparve la chiave; tanto intro­ versa è sempre la clausura. Lo scrigno conteneva un qua­ derno dalle pagine di finissima carta da lettere, scritte con un tratto particolarmente grazioso e accurato. L ’insieme deno­ tava un ordine, un’eleganza e tuttavia una solennità da farlo pensare scritto al cospetto di Dio. Portare scompiglio con la mia intromissione negli archivi della giustizia divina! Ma solo ora, troppo tardi, chiedo perdono al cielo e all’ignoto. Certa­ mente il nascondiglio era stato scelto bene, il lago di S0borg è più fidato della più solenne promessa di assoluto silenzio; perché non la dà neppure, la promessa. È curioso come, per quanto diverse siano la fortuna e la sfortuna, pure talvolta desiderino la medesima cosa; il silenzio. Il banditore che di­ stribuisce i premi di una lotteria viene apprezzato se tace il nome del vincitore, affinché la sua fortuna non si tramuti in un tormento; ma anche il disgraziato che abbia dissipato il suo patrimonio desidera che il suo nome venga taciuto. Lo scrigno conteneva anche diversi oggetti di valore, al­ cuni persino di notevole valore: gioielli, pietre preziose - ah.

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preziose! Costose, direbbe piuttosto il possessore, comprate a caro prezzo: sebbene abbia poi finito per serbarle per sé. E questo prezioso reperto che mi sento obbligato a rendere pubblico. C ’erano un anello d’oro, piatto, con la data incisa, e una collana composta da una croce di brillanti e da un nastro di seta azzurro. Il resto era roba del tutto priva di valore: un frammento della locandina di una commedia, pa­ gine strappate al Nuovo Testamento, l’uno e le altre riposti con cura in una busta di carta velina, una rosa appassita rac­ chiusa in un medaglione di argento dorato, che solo per il possessore può aver avuto il valore di brillanti da due carati. Si invita così il possessore dello scrigno trovato nell’estate 1844 lago S0borg a rivolgersi a me attraverso la libreria Reitzel,2 con un biglietto sigillato dalle iniziali F.T. In ogni caso, per tagliare corto fin dall’inizio a ogni discussione, mi permetto di far notare che la calligrafia segnalerà subito il vero possessore, e che chiunque mi dovesse rendere l’onore di scrivermi, può concludere con certezza, se non otterrà ri­ sposta, che la calligrafia non era quella giusta, l’unica che può esigere una risposta. A consolazione del proprietario, invece, vorrei dire che se mi sono permesso di pubblicare il mano­ scritto, incapace per sua natura, a differenza della calligrafia, di tradire, non mi sono però permesso di mostrare ad anima viva né la calligrafia, né la croce di brillanti e il resto. Il dottor Bonfils ha pubblicato una tabella dalla quale, dati il mese e il giorno, è possibile ricavare l’anno. I suoi meriti in questo campo si sono rivelati utili anche a me; e così, con­ tando e ricontando, ho scoperto che a quel giorno e a quel Libraio famoso ed editore di molti libri di Kierkegaard.

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mese corrisponde il 17 51, altrimenti noto come Fanno in cui Gregor Rothfischer si convertì al Luteranesimo; Tanno che, per coloro che con lo sguardo profondo del Ciclope scrutano gli avvenimenti prodigiosi della storia universale, ha un’altra caratteristica particolare; precede di cinque la Guerra dei Sette Anni. Così siamo costretti ad andare molto a ritroso nel tempo, a meno di ammettere che si sia verificato un errore o nelle indicazioni o nei miei calcoli. Se invece non vogliamo vederci costretti a niente del genere, si può forse supporre, mir nichts dir nichts,^ che qualche povero psicologo, senza la possibilità di sperare in una gran comprensione per i suoi esperimenti e per le sue costruzioni irreali, ha tentato di se­ durre qualche lettore con un taglio romanzesco. Un ritratto psicologico corretto, infatti, ma che non si chieda se il suo modello sia realmente esistito, non incontra forse molto inte­ resse nella nostra epoca, quando persino la poesia ricorre all’espediente di spacciarsi per realtà. Un po’ di psicologia, un po’ di osservazione della gente cosiddetta reale Faccet­ tano, ma quando questa scienza, o quest’arte, lavora a suo genio, quando trascura le forme difettose di stati d’animo offerte dalla realtà, quando si ritira nella solitudine per creare un’individualità sulla base delle sue conoscenze, e in quell’in­ dividualità trovare l’oggetto delle sue osservazioni, la gente si stanca. Nella realtà, infatti, le passioni, gli stati d’animo e così via esistono solo fino a una certa misura. Anche questo fa piacere alla psicologia, che però prova tutt’altro piacere quando vede la passione spinta al limite estremo. Quanto ai critici, vorrei che la mia preghiera fosse intesa semplicemente e alla lettera, come il mio pensiero sincero, e Senz’altro.

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che si compisse il mio desiderio che il libro non diventi og­ getto di dibattiti critici, siano questi elogiativi, dispregiativi o resoconti formali. Se è così facile ottenere la gratitudine di qualcuno, si può ben accontentarlo. F.T.

Il ricco contadino norvegese appende un nuovo paiolo di rame sopra la sua porta per ogni mille scudi guadagnati; e l’albergatore fa un segno sulla trave ogni volta che il debitore gli deve qualcosa in più; allo stesso modo, anch’io aggiungo una parola nuova ogni volta che penso alla mia ricchezza e alla mia povertà.

3 gennaio. Mattino

Periissem nisi periissem^

^ «Sarei perito, se non fossi perito» (citazione da una lettera di Hamann).

Oggi, un anno fa, l’ho vista per la prima volta, la prima volta, intendo dire, con animo determinato. Non ero incline a fan­ tasie romanzesche, non ero abituato a perdermi in parole altisonanti ed effimeri sogni; perciò la mia determinazione non significava affatto che sarei morto se lei non fosse stata mia. Né pensavo che mi si sarebbe lacerata l’anima, che la mia vita non avrebbe avuto più significato se lei non fosse stata mia; per questo, avevo troppi presupposti religiosi. La mia determinazione aveva per me questo significato; o con lei, o non ti sposi affatto. Ecco qual era la posta in gioco. Che io l’amassi, l’anima mia non ne dubitava; ma ero anche ben consapevole che, per un passo così decisivo, la quantità di incertezze era tale da farne per me il più rischioso dei com­ piti. Una personalità come la mia non prende tali questioni alla leggera: non riesco a dire: se non va bene con questa donna, prenderò quell’altra; non oso concedermi il presup­ posto, cui pure molti aderiscono facilmente, che vali sempre qualcosa, purché anche l’altro sia degno di te. Per quanto mi riguardava, il punto era un altro: vale a dire, se sarei stato in grado anch’io di dare alla mia vita il taglio che esige il matri­ monio. Innamorato, lo ero quanto si può esserlo, benché pochi capirebbero come, nel caso che le mie valutazioni non

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mi avessero permesso di affrontare questo passo, mi sarei tenuto il mio amore per me. O sposo lei, o non mi sposo affatto. Può sposarsi, un soldato di frontiera? Può, spiritualmente parlando, permettersi di sposarsi, un soldato di frontiera, un avamposto che lotta giorno e notte non solo contro i Tartari e gli Sciiti, ma anche contro le orde selvagge di un’innata tristezza; un avamposto che, anche quando non combatte giorno e notte, anche quando riesce a vivere in pace per lungo tempo, non sa mai tuttavia quando ricomincerà la guerra, dato che neppure osa chiamare «armistizio» quella pausa? La mia natura è tristezza, è vero; ma sia ringraziata quella forza che, pur tenendomi così vincolato, mi ha dato un con­ forto. Esistono animali quasi privi di difese contro i loro nemici; la natura, però, li ha dotati di un’astuzia che è la loro salvezza. Anche a me è stata concessa quest’astuzia, la capa­ cità di un’astuzia che mi rende forte quanto chiunque abbia fatto con me a gara. La mia astuzia consiste nel saperla occul­ tare, la mia tristezza; anzi, quanto più profonda è la mia tristezza, tanto più astuta è la mia dissimulazione. Non è un’idea a casaccio, ma un’arte che ho studiato e continuo a praticare ogni giorno. Spesso penso a un ragaz­ zino che vidi una volta all’Esplanade. Camminava sulle stam­ pelle, ma su quelle stampelle riusciva a saltellare, a fare pi­ roette, a correre come il più sano dei suoi coetanei. Mi sono allenato fin da giovanissimo; dal giorno che l’ho vista e me ne sono innamorato, mi sono sottoposto a esercitazioni duris­ sime, prima che potesse affacciarsi l’ipotesi di una decisione da prendere. In qualsiasi momento della giornata posso spo­ gliarmi dei panni della tristezza, o meglio, posso indossare quelli della dissimulazione; quando resto solo, infatti, mi

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aspetta al varco la tristezza. In presenza di qualcuno, chiunque sia, non sono mai veramente me stesso. Anche se vengo sorpreso mentre non mi sorveglio, posso, in una chiac­ chierata di meno di mezz’ora, strappare quest’impressione a chiunque mi incroci nella pratica di quest’arte. La mia dissi­ mulazione non è fatta di gaiezza. Nella tristezza, la gaiezza è la dissimulazione stessa della natura; ma proprio per questa ragione ti rende subito sospetto, persino agli occhi di un osservatore mediocre. La dissimulazione più sicura consiste nella ragionevolezza, nella riflessione spassionata e soprat­ tutto in uno sguardo aperto e in una natura schietta. Ma dietro questa sicurezza fittizia e questa fiducia nella vita, si cela una riflessione insonne dalle mille lingue; una riflessione che, se vacilla l’illusione di sicurezza, suscita una tale confu­ sione generale che il suo antagonista non sa più che pesci pigliare; e così, finalmente, riconquisti la tua sicurezza. E, negli abissi più profondi dell’anima, la tristezza. E vero, resta, resiste e diventa la mia miseria. Ma non desidero riversare questa miseria su un altro essere umano. Non è certo per questo che voglio sposarmi. Devo forse usare sofismi con me stesso? Sono innamorato: e se fosse il fascino dell’innamoramento che mi ha fatto im­ maginare di esserne capace? Eppure mi sono esercitato per tanto tempo, e non m’è mai accaduto d’essermi sbagliato. Mio padre era sposato, ed era l’essere più malinconico che abbia mai conosciuto. Tuttavia sapeva essere allegro e sereno per tutto il giorno; era in un’ora della notte che, come la moglie di Loki ,5 vuotava il calice dell’amarezza. E stava bene ’ N ella mitologia nordica, il dio traditore Loki viene incatenato dagli altri dèi a tre rocce e il veleno di un serpente gli sgocciola continuamente sulla faccia. Sua moglie Sigyn raccoglie il veleno in una coppa che è, tuttavia, costretta ogni tanto a vuotare. Allora Loki, per il dolore, si agita tanto da provocare il terremoto.

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di nuovo. Io non ho bisogno di tutto questo tempo. Mi basta l’attimo concesso dal momento e dall’occasione, e tutto va a posto. L ’amarezza della tristezza distilla una gioia di vivere, una simpatia, un’intimità che certo non possono ama­ reggiare la vita a nessuno. Ma la gioia che talvolta mi tra­ bocca dal cuore appartiene a lei sola; mi sforzo onestamente di procurarle la felicità di cui ha bisogno la vita quotidiana; i momenti bui dell’esistenza li riservo a me solo, lei non deve soffrirne. Così stanno le cose. Tutti gli eroi che sfilano nella mia immaginazione si portano dentro, più o meno a ragione, una sofferenza profonda, inespressa; e non possono e non vo­ gliono iniziarvi nessuno. Non mi sposo per schiacciare un’altra persona sotto il peso della mia tristezza. Il mio amore, il mio orgoglio, il mio entusiasmo consistono, per me, nel tener chiuso tutto ciò che dev’essere chiuso, nel sotto­ porlo alla più dura disciplina possibile; la mia gioia, la mia felicità, il mio primo e unico desiderio consistono nell’ap­ partenere a lei, alla donna che vorrei conquistare a qual­ siasi prezzo, al prezzo del mio sangue e della mia vita; ma che non voglio stremare e annientare iniziandola alle mie sof­ ferenze. Lei, o non mi sposerò mai. Un uomo non può sottoporsi più di una volta nella vita a queste fatiche, che solo l’innamo­ ramento può rivestire dello splendore di un incantesimo. Una cosa mi è chiara: il matrimonio è per me la più ardua delle imprese, un problema difficile, sebbene sia anche il mio su­ premo desiderio.

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329 3 gennaio. Mezzanotte^

Quando un disperato si precipita per una strada laterale del­ l’esistenza a trovare la pace in un chiostro, farebbe bene a domandarsi innanzitutto se non ci sia qualcosa nella storia della sua vita che lo vincoli ancora e gli imponga di lavorare innanzitutto per riportare a galla qualcun altro, se questo qualcun altro è da salvare. Se ha fatto in questo senso tutto il possibile, può sperare, anche se non lo faranno mai cavaliere in vita sua, di ricevere l’onore che il Medioevo accordava, alla sua morte, allo scolastico: quello di essere sepolto da cavaliere. Calma, dunque. Bisogna conservarsi, fin quando è possibile, apatici e indecisi. Certo, sono un assassino; ho una vita umana sulla coscienza. Ma è questa una buona ragione per rifugiarsi nel chiostro? No. Un assassino non ha che da attendere la sua sentenza: io attendo la sentenza che deciderà se sono stato un assassino, poiché lei è ancora viva. Quale orrore se, a mettere quella parola sulle sue labbra e su quelle dei suoi familiari, sono stati un momento d’esasperazione, uno stato d’animo effimero, una sfida lanciata dall’impo­ tenza! Ah! Quale atroce insulto alla vita, se nessun altro al mondo, all’infuori di me, ha preso quella parola sul serio! La ragione mi scova un sospetto dopo l’altro; il demone del riso bussa continuamente alla mia porta; so che cosa vuole, vuole farla sparire in un vortice, come in un Abracadabra. Via, spirito impuro! Il mio onore, il mio orgoglio mi intimano di crederle; la mia tristezza mi stana dentro il mio più segreto pensiero: che non posso sottrarmi a nuUa. A lei, e a chi è ^ Com e si vedrà presto, le annotazioni della mattina si riferiscono alle vicende del fidanzamento progettato, allacciato e poi rotto un anno prima; quelle di mezza­ notte alle tormentate riflessioni del presente, un anno dopo.

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intervenuto in suo favore, va la responsabilità di aver pronun­ ciato la terribile parola; a me la responsabilità di attenermi fedelmente a quella parola. Non sono un osservatore, né un direttore spirituale; sono il protagonista, dunque il colpevole. L ’immaginazione si consente così di dipingermi l’immagine di lei nell’afflizione, e la tristezza di emettere la sentenza; sei un assassino. Potranno mai avverarsi le parole che ho detto a me stesso al momento dell’addio: lei sceglie l’urlo, io scelgo il dolore? Potranno mai avverarsi? Se si avvereranno, non vo­ glio, ora, e non posso saperlo. Ah! Se solo ella potesse non morire, se solo potesse non avvizzire! Se fosse possibile, tu lo sai, Dio del cielo, questo era ed è ancora il mio unico desiderio. Se solo fosse possibile, se solo non fosse troppo tardi! Ieri pomeriggio l’ho incontrata in strada. Com’era pallida, e sofferente, come assomigliava a una moribonda in procinto di darmi un appuntamento nell’eternità! Quello sguardo quasi spento, quel brivido della mia anima al passaggio della morte sulla mia tomba! Ma non c’è nulla ch’io voglia dimen­ ticare, nulla; solo nella fedeltà di una immaginazione ango­ sciata, che mi restituisce, ancora più temibile, quanto le ho affidato, solo nella memoria d’una coscienza tormentata, che paga gli interessi del suo debito a tasso elevato, solo in questa sincerità voglio e oso confidare! - Ella muore. E io, che per un attimo ho creduto alla saggezza della ragione, io che sono stato sul punto di prestare orecchio al demone del riso, ah, che disgusto! Ma forse è stato solo l’avermi visto a provocare il suo pallore. Forse! Quale infame spirito si cela in questa parola? Mi fa pensare al gioco crudele d’un bimbo che si diverte a martoriare una farfalla; quando sembra sul punto di morire, il

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bimbo la stuzzica, ed essa torna per un secondo a tendere le ali verso la vita, verso la libertà. Ma se ella muore, io non posso sopravviverle, non posso. Morirò anch’io. Ma non un minuto prima di lei, affinché la mia morte non le offra una spiegazione; darei la vita, ap­ punto, pur di tenergliela lontana. Dunque; freddezza, calma, circospezione, imperturbabilità. Fatto curioso; quando l’ho chiesta in sposa avevo tanta paura di essere intrigante, e ora ci sono costretto.

5 gennaio. Mezzanotte^ LA TRANQUILLA DISPERAZIONE Divenuto vecchio, Jonathan Swift fu rinchiuso nel mani­ comio che egli stesso aveva fondato da giovane. Si racconta che si mettesse spesso davanti allo specchio, con l’atteggia­ mento di una donna vanitosa e sensuale, se non proprio con le stesse intenzioni. Si studiava e diceva; Povero vecchio! C ’erano una volta un padre e un figlio. Un figlio è una sorta di specchio dove il padre rivede se stesso; e allo stesso modo il padre è, per il figlio, lo specchio che riflette la sua immagine nel tempo a venire. Era per loro raro, tuttavia, considerarsi da questo punto di vista, perché il loro rapporto quotidiano si basava sul brio di una gioiosa e vivace conversa­ zione. Solo di rado era successo che il padre si fermasse da­ vanti al figlio con volto rattristato, lo osservasse e dicesse; povero ragazzo, vivi in una tranquilla disperazione. Non ag^ Ogni cinque del mese, negli appunti di mezzanotte, comparirà un apologo o una novella.

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giungeva mai altro; come andasse intesa la frase e quanta veri­ tà d fosse. E il padre si riteneva colpevole della tristezza del figlio, e il figlio credeva d’esser lui la causa della sofferenza del padre. Ma non scambiarono mai una parola sull’argomento. Poi il padre morì. Il figlio vide e udì molte cose, fece tante esperienze, fu allettato da diverse tentazioni, ma uno solo era il suo desiderio, una sola la cosa che lo muoveva: il ricordo di quelle parole misteriose, e la voce di suo padre nel pronunciarle. Poi anche il figlio invecchiò; ma, così come l’amore ha mille trovate, la nostalgia e il rimpianto gli insegnarono non a strappare un messaggio al silenzio dell’eternità, ma a imitare la voce del padre, fino al punto che la somiglianza smise di essere un’illusione. Egli non si studiava allo specchio, come il vecchio Swift, perché lo specchio non c’era più, ma si consolava in solitudine udendo la voce di suo padre; povero ragazzo, vivi in una tranquilla disperazione. Il padre era l’unico ad averlo capito, eppure non sapeva se l’avesse veramente capito; il padre era stato il suo unico confidente, ma alla confidenza con lui era indifferente se il padre fosse vivo o morto.

8 gennaio. Mattino Oggi, un anno fa, l’ho vista a casa di suo zio, dove mi trovavo in visita insieme a lei. Con quanto mistero covo il mio inna­ moramento, con quanta circospezione ne succhio il nettare! Ma perché tanto mistero? L ’innamoramento non ha certo bisogno degli stimoli della mistificazione: ma da un lato io v’ero abituato da molti anni, e soprattutto dai tempi in cui mi preparavo a questo tentamen rigorosum',^ dall’altro sentivo di Esam e rigoroso.

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doverle questo riserbo. E tuttavia è imperdonabile che un uomo abusi della maggiore libertà permessa dalla nostra rela­ zione ai contatti con l’altro sesso, per farle, come si dice, la corte. Quanto e come il corteggiamento possa turbare la fan­ ciulla, e turbare l’uomo a cui un giorno lei apparterrà, è assolutamente imprevedibile. So bene che l’innamoramento può allontanare crucci senza importanza; pure, se fossi inna­ morato di una ragazza, sarebbe certo per me doloroso, sgra­ devole, sapere che è stata oggetto delle attenzioni di un cor­ teggiatore. Preferirei di gran lunga saperla, un tempo, dav­ vero fidanzata o sposata, perché le manifestazioni serie del­ l’eros non provocano tanto turbamento quanto il lato inaffer­ rabile delle galanterie. Così vorrei che un altro mi riservasse gli stessi pensieri che io formulo per lui; sono ben lungi, in realtà, dal possedere la temerarietà necessaria a dare sen­ z’altro per scontato che un giorno ella apparterrà a me. Ma sia che lei diventi mia, sia che non lo diventi (che potere ha la lingua di tagliar corto; la lingua che, in altri momenti, asseconda amabilmente gli sfoghi interminabili della tri­ stezza), il mio giudizio non muta. Se ella dovesse appartenere a un altro, vorrei che il mio pensiero, così repentinamente reciso, tornasse a rifugiarsi dentro di me, senza lasciare traccia alcuna nella vita esteriore. Ma non sono poi così chiuso, dato che desidero sorpren­ derla con le mie mistificazioni. A che m’è servito? Avrei do­ vuto partire dal presupposto di essere un uomo straordinario, capacissimo di renderla felice, se solo lei ne valeva la pena. Non so se un simile pensiero possa affacciarsi al cervello di un innamorato; nel mio, non trova dimora. Sento fin troppo la mia responsabilità, e che cosa significherebbe sorprenderla con l’astuzia, un’astuzia che mi graverebbe del peso della responsabilità.

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Se mai lei fosse mia, e io dovessi confessarmi che, sì, ho usato Fastuzia alle sue spalle, tutta la mia felicità ne reste­ rebbe in qualche modo annientata: poiché il passato non si potrebbe mutare, né ricostruire a propria fantasia, dal mo­ mento che neppure la spiegazione di lei sarebbe mai capace di dire come sarebbero andate le cose, se tutto ciò non fosse successo. Non so se l’astuzia sia mai compatibile con l’eros, ma so che, a combattere con Dio e con se stessi per trovare il corallo di seguire il richiamo dell’innamoramento, per avere il coraggio di prendere al volo il desiderio, gioia degli occhi e bramosia del cuore, si può stare al sicuro da questo genere di smarrimento. Ma per questo sono così prudente, prudente fino all’estremo istante; ah, se mi venisse da dentro un con­ trordine, possa io non avermi da rimproverare di averla tur­ bata con un passo temerario, e dovermi tenere non solo il dolore di un innamoramento infelice, ma anche di battere in ritirata pentito. Se esistesse una parola magica, una runa ca­ pace di portarla a me, non so se avrei abbastanza serietà davanti all’eros, abbastanza lucidità da vedere la bruttezza di qualunque espediente, abbastanza forza da respingerlo; so però che, quando si è legati come lo sono io, vien meno ogni tentazione del genere. Tuttavia, si avvicina la pienezza dei tempi. Ora è trascorso un anno da quando l’ho vista da innamorato (poiché prima d’allora l’avevo già incontrata), e mi sono abbandonato in segreto e di nascosto a questo innamoramento. L ’ho veduta in compagnia, l’ho veduta a casa sua, ho seguito, inosservato, i suoi passi. Quest’ultima cosa mi è stata, in qualche modo, la più cara, in parte perché appagava la segretezza dell’innamo­ ramento, in parte perché non mi tormentava con il timore che qualcuno potesse scoprirmi, offendendo forse lei e strap­

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pandomi temporaneamente, ancora indeciso com’ero, alla di­ sciplina dei miei esercizi. Quest’anno, un anno di esercizi, ha per me un fascino tutto suo. Qualsiasi cosa intraprendessi, restava presa nel laccio di seta della passione amorosa come nel cavo dell’ancora degli Americani; ^ e qualsiasi cosa intra­ prendessi era in stretto rapporto con la mia passione. Se il cavo dell’ancora non può immaginare quante tempeste lo metteranno alla prova, io ho invece provato a figurarmi molte situazioni terrificanti, e mi ci sono allenato, mentre il piacere dell’innamoramento allietava le mie fatiche con le sue melodie. Uno studente innamorato studia per il suo es^me di gran lena: a quanta maggior ragione non dovevo infiam­ marmi io nell’intraprendere quelle esercitazioni che, in tutt’altro senso, erano la mia conàitio sine qua non.'^^ Quanto io sia progredito, può capirlo solo chi sa che signi­ fichi non intraprendere nulla, neppure la benché minima cosa, senza appellarsi alla riflessione; una situazione che ras­ somiglia un po’ a quella di un uomo che per camminare sia costretto a usare una gamba artificiale, non possa fare un passo senza di essa, e per di più voglia nascondere alla gente (impresa, per la riflessione, di probabile successo) che si tratta di una gamba artificiale. Basta sapere quante cose facciamo d’istinto, per capire che significa non fare nulla senza calcolo. Conosceremmo allora la differenza che corre fra entrare di­ rettamente, allegramente, a far parte di un circolo gioioso, e arrivare, invece, dalle tenebre della tristezza: presentandosi, tuttavia, all’ora precisa dell’appuntamento e vestendo il tipo

’ Il cavo usato dalla Marina britannica (e non americana) portava intrecciato un filo rosso, per essere sempre riconoscibile. Condizione indispensabile.

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di gaiezza richiesta dalla compagnia e dalle circostanze. Se uno non è innamorato, si estenua strada facendo. Sapevo che una volta alla settimana lei prendeva lezioni di canto. E sapevo dove abitava il professore. Lungi dal fare qualsiasi tentativo per insinuarmi in questo giro, desideravo soltanto poterla vedere di nascosto. Ora, il caso voleva che si trovasse in quella stessa strada un caffè, e che lei ci passasse davanti sia all’andata che al ritorno. Ne avevo fatto il mio santuario. Me ne stavo lì seduto ad aspettare; la guardavo, non visto; lì cresceva e si dispiegava davanti ai miei occhi incantati il fiore segreto dell’amore. Si trattava di un caffè di seconda categoria, potevo star certo di non esservi sorpreso. Pure, qualche mio amico cominciò a notare la cosa. Feci loro credere che il caffè che si poteva gustare in quel locale era senza alcun dubbio il migliore di tutta la città, e li invitai calorosamente a provarlo. Uno o due andarono ad assag­ giarlo, e trovarono il caffè mediocre, come d’altronde era. Protestai vigorosamente. Così, un giorno che i miei amici e altre persone si trovarono a discutere sul perché io andassi sempre in quella pasticceria, uno di loro rispose: «Ah, è sol­ tanto la sua solita ostinazione. Per un improvviso ghiribizzo, ha affermato una volta che il caffè, lì, era superbo; quindi ora, solo per dimostrare di aver ragione, si costringe a ingur­ gitare queirabominevole decotto. D ’altra parte è fatto così: intelligente, ma testardo come pochi, e di lui ci si vendica come di Diogene: inutile contraddirlo, basta non curarsene e, in casu,^'^ non curarsi delle sue visite dal pasticciere». Un al­ tro ancora era dell’opinione che io fossi particolarmente in­ cline alle idee fisse, e trovava divertente che potessi credere sul serio che il caffè era buono. In realtà avevano tutti torto, poiché "

In questo caso.

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anche per i miei gusti quel caffè era pessimo. Invece, non avevano torto a volersi vendicare di me, esaudendo così il mio desiderio di essere lasciato in pace col mio pasticciere e il suo caffè. Se glielo avessi chiesto esplicitamente, non sarei riuscito ad avere la stessa tranquillità. Bevevo il caffè senza pensarci troppo; ma lì io aspettavo, lì nutrivo di desiderio il mio inna­ moramento e lo risvegliavo con la vista di lei, da lì, una volta persala di vista, me ne tornavo a casa carico di molte cose. Non osavo sedermi accanto alla vetrina, ma se prendevo posto in mezzo alla sala, il mio sguardo dominava la strada e il marcia­ piede opposto, dove passava lei; lei, però, non poteva scor­ germi. Che splendido periodo, che amabile memoria, che dolce inquietudine, che felice visione, quando la mia esistenza na­ scosta s’adornava della magia dell’innamoramento! Da ragazzo, al collegio, avevo un professore di latino che mi torna spesso in mente. Era molto bravo, e con lui non si correva certo il rischio di perdere tempo, ma talvolta era un tantino bizzarro, o, se vogliamo, un tantino distratto. Non che si inabissasse in profonde riflessioni, o in momenti di silenzio, non era questa la sua distrazione; semplicemente, all’improvviso, si metteva a parlare con una voce compietamente diversa, che pareva venisse da un altro mondo. Fra l’altro, studiavamo con lui anche il Formione di Terenzio. Vi si narra la storia di Fedria, il quale, innamorato di una suonatrice di cetra, si era ridotto a seguirla quando andava e tor­ nava dalla scuola. Ecco cosa dice il poeta:

ex aàvorsum et loco tonstrina erat quaeàam; hic solebamus fere plerumque eam opperiri, àum inde reàiret àomum. Phormio, i, 88-90: «d i fronte / c’era una bottega di barbiere; qui avevo l’ abitu­ dine / di aspettarla quasi sempre, che tornasse a casa».

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Il professore di latino, con l’autorevolezza dell’insegnante, domandò all’allievo di turno perché in questo caso dum reg­ gesse il congiuntivo. L ’allievo rispose: perché qui ha il signifi­ cato di dummodo. Giusto, replicò il professore; ma poi co­ minciò a spiegare che tuttavia non bisognava considerare la frase al congiuntivo solo dall’esterno, quasi fosse la particella in sé a reggere il congiuntivo. Al contrario, a determinare il modo era una disposizione interna dello spirito: nel caso in questione il desiderio appassionato, l’impazienza, l’irrequie­ tezza dell’anima in attesa. Da quel momento la sua voce cambiò totalmente e riprese: infatti, l’uomo che sta ad aspet­ tare in questa tonstrina, neanche fosse in un caffè o in un luogo pubblico, non è indifferente: è un innamorato che aspetta il suo amore. Se si fosse trattato dell’attesa di un facchino, d’uno scaricatore o d’un vetturino, bisognerebbe invero concepire tale attesa come l’occupazione simultanea del tempo che la ragazza trascorre alla sua lezione di musica e di canto; e quindi pensarla non al congiuntivo, bensì all’in­ dicativo; vale a significare che quei signori aspettano d’essere pagati, cosa che indica una ben mediocre passione. La lingua, in realtà, dovrebbe formalmente impedire di esprimere una simile attesa al congiuntivo. Ma è Fedria che attende, ed egli attende soltanto lei, il momento che lei ritorni, presto, più presto possibile; e questo è puro congiuntivo. Nella sua voce vibravano una solennità e una passione tali che gli studenti credevano di sentir parlare uno spirito. Tacque, tossicchiò, e disse con la consueta gravità dell’insegnante: «Il prossimo». E un ricordo dei tempi di scuola; e ora vedo chiaramente che il mio indimenticabile insegnante di latino, benché non insegnasse nient’altro che il latino, avrebbe potuto incaricarsi d’altre discipline.

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Una sera di un anno fa, io l’ho riaccompagnata a casa. Ero il solo a cui potesse chiedere questa cortesia. Camminavo felice al suo fianco, in compagnia di molti altri. Eppure mi sentivo ancora più lieto nel mio io segreto; accostarsi così dappresso alla realtà, senza essere in realtà più vicini, allon­ tana, mentre la distanza della segretezza avvicina a sé l’og­ getto. E se tutto ciò fosse un’illusione? Impossibile. Perché dunque mi sento più felice alla distanza della possibilità? Per la ragione che ho già indicato; tutto il resto è un’oscura chi­ mera; lei è l’unica che io ami, che abbia amato, e mai amerò un’altra. Ma non voglio neppure degradare l’animo mio a fare, come si dice, la sua conoscenza, saggiando e scrutando la natura di lei. Lei è la mia diletta, e l’effetto segreto del mio innamoramento mi fa pensare di lei tutte le ragioni d’amare, fino a farmi morire quasi d’impazienza. Venga pure l’ora e il momento: l’animo mio è risoluto.

9 gennaio. Mattino Oggi, un anno fa. Conto gli istanti; basta concedermi l’occa­ sione di parlarle, e il dado è tratto. Ho nuovamente ponde­ rato tutta la storia: o lei, o nessuna. Gran Dio! Se potesse riuscire. Pregare di darmela non oserei, se non con l’infinita riserva di pregare non per avere lei, ma quanto concorre al mio bene. Mai ho osato pregare Dio in altro modo, mai ho desiderato di pregare in altro modo; certo, la scorciatoia della rassegnazione conduce vicinissimi a Dio, ma quella scorcia­ toia è tutto un viaggio attorno alla vita. In un certo senso, temo quasi di più il suo sì che il suo no. Familiare come sono con il silenzio e con i pensieri cupi, un rifiuto mi si addirebbe

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di più. E tuttavia un suo sì è il mio solo desiderio. Questo sì non ha niente a che fare con tutto il resto; deve significare per me che, come ho nell’anima un oscuro recesso dove vivo avvolto nella tristezza, così deve abitare ora in me anche la gioia; le apparterrò, saprò raccogliere tutta l’anima per ren­ derla più felice che posso. Di più non chiedo a questo mondo; ma che il mio animo abbia un rifugio dove è di casa la gioia, un oggetto su cui concentrarmi per dare gioia e darmi gioia. Di metterla alla prova, o, come si dice, di fare la sua cono­ scenza, non mi sono affatto preoccupato. Senza tregua mi ritornano alla mente quelle parole: «Marta, Marta, ti preoc­ cupi per molte cose, ma una sola è necessaria». E questa necessità è che lei sia il mio amore. In questo senso, credo, siamo fatti l’uno per l’altra: che se io valgo qualcosa, per me lei varrà sempre. Non temo né i pericoli, né i sacrifici, al contrario, tanto che provo quasi gioia all’assurdo desiderio di vederla infelice. In verità, il mio solo timore è ch’ella possa essere di gran lunga più felice senza di me. In compenso, il suo ambiente e il suo modo di vivere li ho indagati quasi come una spia. Per fortuna l’inchiesta è favore­ vole. La sua famiglia vive in una pace quasi idilliaca. Suo padre è un uomo austero; la morte di sua moglie ne ha addol­ cito la natura e ha sviluppato un’amabilità, certo, soffusa di malinconia, ma anche aperta e attraente. L ’allegria non è bandita da questo ambiente, ma la gioia della vita non la cercano all’esterno, né nella compagnia chiacchierona di Tizio e Caio. La morte della madre ha aiutato i figli a riavvi­ cinarsi fra loro più seriamente, e a concentrarsi sul loro foco­ Luca, IO, 41-42.

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lare, sotto la tutela, non senza malinconia, ma proprio per questo più attenta del padre, che si lascia di buon grado ringiovanire dalle giuste pretese alla vita dei giovani. E quanto mi auguro. Il suo ambiente è tale da poter favorire il mio progetto e la mia felicità futura meglio di quanto una governante favorisca l’intesa di un cavaliere e della sua dama. Non oserei mai sradicare una ragazza dal suo ambiente per trapiantarla in un genere di vita a lei estraneo. Vieni, dunque, momento propizio. Voglio parlarle e non scrivere o rivolgermi a un terzo. Io sono sicuro che un amore sincero, un sentimento profondo e convinto, una scelta riso­ luta, abbiano bisogno di poche parole, e diano alla voce stessa un accento di verità più efficace e persuasivo, per l’in­ teressato, del frutto delle valutazioni di genitori e amici, che, dopo tutto, non ti conoscono. Ciò che voglio, poche parole sono sufficienti per dirlo, e più sarò breve, meglio varrà, a condizione di parlarci occhi negli occhi. Se avessi eloquenza e forza seduttiva, quanto m’angoscerebbe doverle usare; e se le usassi, finirei per pagarla molto cara. Ma io non temo nessuno come temo me stesso; guai a me, se mi accorgessi che è uscita dalla mia bocca una parola capziosa, una parola che cerchi di persuaderla.

II gennaio. Mattino Oggi, un anno fa. È faticoso, pressoché al di là delle mie forze tenere l’anima ai vertici della mia risoluzione. A questo modo il boscaiolo brandisce l’ascia alta suUa testa, e questa posizione decuplica l’effetto dei suoi colpi; sembra che si avventi contro se stesso, al massimo della forza, e ogni mu-

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scolo gli vibra nello sforzo. Non dura che un istante. Ah, se questi istanti potessero essere abbreviati! E che io non sbagli il colpo! Perché se, in questo stato quasi soprannaturale, non colgo in una realtà, se questo potenziamento al servizio di una riflessione nuova si volge contro di me, sarò ridotto al­ l’impotenza e forse annientato per sempre. O tempo, tempo, com’è terribile lottare con te! O uomo, che curioso miscuglio sei; capace di tanta forza, ma anche di cadere per un niente! Poiché se adesso mi sento forte, forte quasi come un dio greco, capisco anche che, se nulla accade, io sono finito. Mi sono dunque trovato con lei, in visita alla famiglia di Kronprindsessegade. La padrona di casa stava al secondo piano, dai nonni. Poiché dovevo parlarle, sua figlia ebbe la gentilezza di andarla a chiamare. Così siamo rimasti soli. Un’occasione più favorevole, un istante così propizio non si sarebbero ripresentati tanto presto. La nonna è un po’ dura d’orecchi ma, come gran parte delle persone anziane, molto curiosa; c’era dunque la possibilità che si facesse spiegare tutto nei minimi particolari, parlando forte, cosa che richiede un po’ di tempo; in più, nella sua uscita precipitosa, Juliane aveva richiuso dietro di sé la porta d’entrata, mettendo così sua madre in condizione di non poter rientrare. D ’altra parte la situazione non si prestava alle lunghe dichiarazioni o alle naturali bugie di un sentimento ardente, ma obbligava la ra­ gazza a ricorrere a tutta la sua forza perché nessuno s’accor­ gesse di nulla, e, se la nuova venuta l’avesse trovata un po’ diversa dal solito, l’avrebbe naturalmente addebitato alla mancanza di tatto di Juliane, che ci aveva lasciati soli, tanto più che il mio obbligo d’andare ad aprire avrebbe dato pre­ testo a qualche scherzo. Ma l’azione, il dramma va molto più in fretta; mi bastò mezzo minuto per capire cose lunghissime a raccontare, ora che voglio rievocarle alla memoria.

COLPEVOLE? NON COLPEVOLE?

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Ma non sono perfido, non c’è un po’ di calcolo in tutto ciò che faccio? Ma, Signore! Che cosa posso fare se non ricorrere alla mia saggezza, appunto per sollecitudine verso di lei? La parola pronunciata poteva restare un segreto fra lei e me, a nessuno, neppure al demonio, poteva venire in mente come avevamo impiegato quell’istante; bastava che a lei piacesse, e la parola pronunciata poteva restare lettera morta e priva di forza, quasi non fosse stata detta mai. La situazione era di tale natura che impediva alla ragazza di confidarsi con qual­ cuno, come altrimenti avrebbe fatto nel suo turbamento, ri­ schiando poi di rimpiangerlo amaramente. Non so che ho detto; mi sentivo dentro un fremito; la mia voce, benché calma, era commossa; come ho parlato, non posso descriverlo; ma provavo un indescrivibile sollievo in quello sfogo. Sono sicuro che le mie parole abbiano espresso tutta la profonda verità della mia passione. Lei rimase pietri­ ficata, tremò visibilmente e non rispose una parola. Sentii dei passi lungo la scala, suonarono, aprii, le risate alleggerirono la cosa, cominciò la conversazione e tutto andò bene. Ora desideravo che lei uscisse per prima, per evitare di trovarci ancora insieme in strada, cosa che avrebbe potuto prestarsi a equivoci; ritirandosi per prima, si metteva al riparo da qual­ siasi domanda. Lei pensò senza dubbio la stessa cosa, e prese congedo. Io restai un’altra ora a parlare del più e del meno. Poi rientrai a casa e spedii a suo padre una richiesta di matrimonio. Ebbi allora a cuore di abbandonarmi a tutte le questioni di ordine mondano, a tutte le considerazioni che detta un’attenta sollecitudine in un passo di tale importanza, e che sembravano opportune. Non desidero schivare queste questioni, lungi da ciò, al contrario desidero dar voce risoluta a ogni difficoltà, a ogni dubbio, far apparire chiaro ogni ri­ schio ai suoi occhi. Ma le mie prime parole, la mia dichiara­

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zione d’amore, le rivendico; non vanno gettate in mezzo a quelle considerazioni come un documento supplementare. Se ho potuto mantenere il silenzio così a lungo, ho anche il diritto di pronunciarle, quelle parole senz’arte, senza in­ ganno, venute come le ispira la mia disposizione d’animo, dove si concentra la pienezza e la forza di una silenziosa passione in termini decisivi al momento decisivo. Ecco l’im­ pressione che voglio darle e che voglio avere io stesso; il resto, lo raccomando a Dio; come gli raccomando anche l’im­ pressione, ma con un altro sentimento. L ’ho oppressa? Ho fatto su di lei troppo forte impressione? Forse una ragazza non può sopportare, insieme, l’inatteso e un’esplosione appassionata? Perché non ha detto niente? Perché tremava? Perché l’ho quasi atterrita? Quando il por­ tone di un castello è rimasto chiuso per lunghi anni, non si apre senza rumore, come fa una porta interna che gira sulle molle. Quando la porta del silenzio è stata a lungo serrata, non ne vengono parole che assomigliano al saluto di una lingua sciolta; quando dobbiamo mettere in gioco tutto con una parola sola, quando abbiamo passato giorni e anni a non desiderare che una sola cosa e il momento di dirla è venuto, non a un amico, ma alla prima persona che ne tiene in mano il compimento, la nostra voce non ha l’accento indifferente del guardiano notturno che urla Fora, e tradisce un interesse diverso da chi conta le zolle di torba. Perché dunque questo timore, perché sono inquieto, perché la riflessione vuole già ferirmi, come se ci fosse un lato subdolo nel tacere per tanto tempo, un lato demoniaco nel riuscirci, un lato astuto nel cogliere l’istante, un lato imperdonabile nel ricorrere al mezzo più semplice e al metodo più onesto, perché è forse il più efficace?

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12 gennaio. Mattino Oggi, un anno fa. È deciso. Non sono stato sottomesso a una lunga prova: avevo veramente bisogno di questa soluzione rapida, poiché sono esausto. Possibilità, che sei un atleta agile e nerboruto, invano cerchiamo di sollevarti da terra per toglierti le forze, perché ti fai stirare come l’eternità restando tuttavia a piè fermo; invano ci sforziamo di allontanarti, giacché tu sei quello che siamo noi. Sì, lo so, sei tu che un giorno mi priverai della vita, ma non questa volta. Lasciami, strega scheletrita, il tuo abbraccio mi riempie di disgusto, come nella foresta ripugnò ai compagni di Rolando^'* l’ab­ braccio della maga; rattrappisciti fino al nulla che sei, restaci come un serpente disseccato aU’aria, in attesa di una nuova vita che ti renda la tua saldezza, l’elasticità e la capacità di spegnermi la vita nell’anima. In questo momento la tua po­ tenza è finita. Il tempo della prova è passato: purché non sia stato troppo breve, purché nessuno l’abbia spinta a una deci­ sione precipitosa, purché le abbiano reso le cose abbastanza difficili. Rallegrati, anima mia! Lei m’appartiene. Dio del cielo, io ti rendo grazie! Ora un breve giorno di respiro per rallegrarmi vicino a lei, poiché, io lo so, non posso affrontare nulla, assolutamente nulla senza vederla e pensare a lei. Quale delizia, il mio primo bacio! Una ragazza dalla mente lieta, felice della sua giovinezza! Ed è mia. Tutti i pensieri oscuri e le chimere non sono più che ragnatele; la tristezza è una nebbia che si dissipa davanti a questa realtà, una malattia guarita e che continua a guarire alla vista di questa salute, la Riferimento alla fiaba tedesca Rolands K m ppen (J. K . A . Musaus, Volksmdrchen der Deutschen, i-iv, W ien 18 15 , i, pp. 105-106).

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mia salute, perché è la sua salute, la mia vita e il mio avve­ nire. Lei non è ricca, senza dubbio, lo so, e non ne ha bi­ sogno; ma può dire come l’Apostolo aU’invalido: «Non ho né argento, né oro, ma ciò che ho, te lo regalo; alzati, sei gua­ rito». Ieri ero più vecchio di dieci anni, oggi sono ringiovanito di dieci anni; anzi, sono più giovane di quanto non lo sia mai stato. E una crisi? È la titubanza della decisione? Estne adhuc sub judice lis?^^ Sono invecchiato di dieci anni, io che ero quasi un vecchio? - povera bambina, a fare l’infermiera a un moribondo! O sono diventato giovane come non lo sono mai stato - che destino invidiabile, poter significare tanto per qualcuno!

12 gennaio. Mezzanotte Tutto tace. Solo i morti risorgono dalle loro tombe e ripren­ dono vita. E io non posso, perché, non essendo morto, non posso rivivere; e se fossi morto, non potrei ugualmente, perché non ho mai vissuto. Per tenere segrete il più possibile le mie attività notturne, prendo la precauzione di coricarmi alle nove. A mezzanotte, mi alzo. A questo non pensa nessuno, nemmeno le anime tanto premurose da stupirsi che io vada a riposare così di buon’ora. E stato il caso ad avvicinarci così? Se no, che potenza mi perseguita servendosi di lei, da cui fuggo senza però rifug­ girla? Vederla mi causa il terrore che deve provare un reo alla A n i degli Apostoli, 3, 6. « O forse la causa è ancora davanti al giudice?»: Orazio, Ars poetica, 78.

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lettura della sua sentenza di morte; tuttavia non oso né evi­ tare, né cercare di vederla; l’uno e l’altro potrebbero in egual misura turbarla. Se mi accorgessi d’essermi scostato d’un passo dal mio percorso abituale, o d’aver tralasciato d’andare al solito posto al fine di evitarla, credo che ne perderei la ragione. Solo a condizione di soffrire e di tollerare, di inchi­ narmi a tutti gli argomenti che attaccano il mio animo lace­ rato, conservo un senso alla mia esistenza. Se percorressi una strada, se facessi un passo per incontrarla, credo che diven­ terei pazzo, per la preoccupazione di averle impedito di ca­ varsela da sé. Non oso intraprendere nulla, né trascurare nulla; il mio stato somiglia all’eterno tormento del reprobo. E sì che oggi è stato il giorno del nostro fidanzamento! Dalla strada lei ha cercato di salire sul marciapiede di sbieco; io, sul marciapiede, tenevo la destra, dalla parte lastricata; ma lei non riuscì a mettere piede sull’orlo del marciapiede prima che fossi passato io, perché una carrozza che sopraggiungeva le rese impossibile la ritirata sulla strada. Se avessi voluto parlarle, non avrei avuto occasione più favorevole. Ma no, non una parola, non un suono, non un movimento di labbra, non un’occhiata equivoca, niente, niente da parte mia. Gran Dio, se lei avesse la febbre, se una parola dalla mia bocca fosse il bicchiere d’acqua fresca che lei desidera, dovrei forse rifiutarglielo? Sono dunque un mostro! No, ragazzina mia, no! Ci siamo detti anche troppo. Ah, come posso parlare così di lei nei miei pensieri, se per lei sono pronto a rischiare tutto, non appena ne vedessi l’utilità per lei! Ma perché mi perseguita? Ho torto, è vero, è innegabile, un torto che grida vendetta al cielo. Ma non sono punito, non ho un crimine sulla coscienza? Non ho dunque alcun diritto? E lei, non riesce a capire proprio nulla di quello che patisco? Una ra­ gazza che ama agisce così? E perché questo sguardo su di me?

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Perché crede che in fondo m’impressioni. Dunque crede che in me ci sia del buono. Ma allora, perché voler ferire un torturato? Feci durare quell’istante il più possibile. Un tale incontro causa sempre una sosta, poiché uno dei due deve attendere che l’altro sia passato. Approfittai dunque di quel vantaggio per giudicare il suo aspetto e, se possibile, il suo stato d’a­ nimo. Avevo tirato fuori il fazzoletto, con l’aria di uno che in tutta comodità lo spiega per studiare da che angolo usarlo; e me ne restai lì flemmatico, senza dare l’idea di conoscerla, sebbene la osservassi con l’attenzione della disperazione. Ma nemmeno una parola, e ogni mia espressione inespressiva fino al nulla totale. Ma sì, ruggisci pure dentro di te, anch’io ho il sangue caldo, troppo, forse; scoppia, cuore mio, che io cada fulminato; succede, dicono, e lo danno per buono; fai tremare con le tue pulsazioni le punte delle mie dita, se pro­ prio devi; batti con colpi terribili le pareti del mio cervello, ma che nelle tempie, nelle labbra, negli occhi non si veda niente: no, non voglio. Perché mi hanno eccitato, perché mi hanno costretto a scoprire la potenza della mia finzione quando si tratta di una buona causa! Lei era meno pallida, ma forse era dovuto all’aria fresca, o forse camminava da più tempo di me. Tentò di giudicarmi con un’occhiata, ma abbassò lo sguardo e prese un’aria quasi supplichevole. Le preghiere di una donna! Che dono imper­ donabile, quest’arma in mano loro; chi darebbe una spada a un pazzo? E tuttavia, quanto è impotente un pazzo rispetto alla preghiera di chi è impotente per natura! Svoltato l’angolo, ho dovuto aggrapparmi al muro. Se avessi avuto allora un confidente per dirgli: «Così stanno le cose; posso avere un’aria calma e impassibile, ma quando giro l’angolo, sono sul punto di svenire», e se anche questo confi­

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dente fosse stato un curioso e una spia, che importa? Ci starei solo attento, perché, come Kaspar Hauser riusciva a sentire il metallo attraverso infiniti strati di stoffa, io fiuto l’astuzia e l’inganno sotto qualsiasi maschera; che importa? Non avrei avuto le vertigini girando l’angolo, ma una volta attraversata la strada, senza che il curioso avesse visto nulla, avrei cercato la prima traversa per crollare a terra. Dormi, o mia diletta, dormi in pace! Dio voglia che il sonno scacci tutto il suo dolore e che lei si risvegli domattina rosea e allegra! I funamboli non hanno forse amore paterno e materno, quando mettono i loro figli sulla corda sottile e li seguono dal basso in un’angoscia mortale? Se non hanno pronunciato la sentenza che mi dichiara assassino, che cosa può succedere di peggio della morte di lei, anche se per ora improbabilissima? O lei è una ragazza unica, e in questo caso, appunto, il mio metodo contribuirà a darle un’eccellenza in­ discussa, a fare di lei una ragazza dall’apoteosi che non co­ mincia dalla morte ma dal dolore - oppure è,., ma non voglio dirlo, lei si è messa in testa eccetera. Ma poi diventa ragione­ vole eccetera, ovvero: si mette in testa di essere diventata ragionevole eccetera. Alt! Non possiedo dati di fatto che mi autorizzino a una conclusione. Così, io resto nella mia mi­ seria, e tengo alto l’onore di lei. Ma è la mia ragione, la mia ragione che me lo dice; certo, me lo dice per offendermi, poiché non era certo il mio desiderio che lei mostrasse di valere meno di quello che sembrava; e certo non potevo né per lei, né per me, augurarmi di salvarmi a questo modo, cioè: rendendomi ridicolo. Il famoso caso di cronaca di Kaspar Hauser (il trovatello di Norim berga mai identificato e assassinato in circostanze mai chiarite, 1828) ha ispirato diversi scrittori dell’Ottocento tedesco, fino al romanzo più noto, quello di J. W assermann (1908).

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Ma non v’è nulla, nulla che possa portarmi un raggio di luce. Invano, nella mia impazienza, mi rivolto ora da una parte, ora dall’altra; sul tavolo di tortura, ti fa male dapper­ tutto. Potrebbe disprezzarmi. Gran Dio, è quello che io vo­ glio e per questo mi adopero; pure, fremo al pensiero di questo martirio a vita. Non so se potrò sopportarlo senza disperare completamente, ma so, e con me lo sa la Potenza che per sua natura penetra i più segreti pensieri, che ho tirato il cordone e dato il via alla doccia. Se mi schiaccerà, lo ignoro. Lei può esercitarsi l’anima alla pazienza e, con la coscienza pulita, portare il velo a lutto; ma io che cosa posso fare? Dove nascondermi a me stesso, dove trovare il rifugio dove, se sei stanco, ritrovi nuove forze, dov’è preparato il giaciglio che mi darà un benefico riposo? Nella tomba? No, perché è falso ciò che dicono le Scritture, che la tomba non conosce memorie,^® e io la sua memoria voglio conoscerla. Per l’eternità? Ci sarà tempo per dormire? Per l’eternità! Come la rivedrò? Mi verrà incontro per accusare e giudicare? Orrore! Avrà dimenticato tutto come una ragazzata? Disgu­ stoso! Disgustoso? Peggio ancora, giacché forse non è stata colpa del mio silenzio la sua metamorfosi. E io che ho temuto appunto che una parola dalla mia bocca la rendesse insulsa e la confortasse di chiacchiere!

15 gennaio. Mattino Oggi, un anno fa. Questo, dunque, significa essere fidanzati? Che cosa significasse essere innamorati, lo sapevo, ma è una Salmi, 6, 6.

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novità sapersi sicuri dell’oggetto del proprio amore, sapere che lei è mia e mi appartiene per sempre. Questo è dunque essere madre? piangeva Rachele quando i gemelli cominciarono ad azzuffarsi nel suo grembo; e quanti si sono detti lo stesso, dopo aver ottenuto l’oggetto dei loro desideri: questo significa? Non sembra che ci siano anche in me due persone in con­ flitto: sono invecchiato di dieci anni o ringiovanito di dieci anni? Dev’essere curioso essere una ragazza, immergersi nella vita con tanta vivezza. Credevo che mi sarei visto liberato, trasformato; credevo di essermi visto innamorato, e che, a forza di guardarla innamorato, mi sarei visto salvo, cambiato come lei in un uccello sul ramo, nel canto gioioso della giovi­ nezza; credevo che noi saremmo cresciuti insieme, e che la nostra vita all’unisono sarebbe stata fatta di felicità, e per gli altri facile da capire come il saluto di chi felice ci passa ac­ canto di corsa e ci butta un bacio. Capisco molte cose, e ogni riflessione che ascolto o leggo mi è familiare come se fosse mia. Ma questa vita non la capisco. Non pensare a nulla e restare tanto amabile, vivere a metà fra saggezza e follia, senza distinguere bene l’una dal­ l’altra. Se un gioielliere, che avesse sviluppato la sua cono­ scenza delle pietre preziose fino a fare del suo discernimento una ragione di vita, vedesse un bambino giocare con tante pietre, vere e false, combinandole alla rinfusa e trovandovi un uguale piacere, immagino che fremerebbe davanti a questo modo d’abolire il suo discernimento assoluto; ma se vedesse la felicità del bambino, la sua gioia in quel gioco. Si tratta, invece, di Rebecca (Genesi, 25, 22).

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forse si umilierebbe e si lascerebbe attrarre dallo spettacolo che lo fa fremere. Ugualmente, per chi vive neU’immediato non esiste distinzione assoluta tra il punto dove l’idea si ri­ frange nel pensiero e nella lingua, come fa la pietra preziosa nello splendore dei suoi riflessi, e il punto dove la rifrazione scompare; non esiste discernimento assoluto capace di deci­ dere che la tal cosa è più importante di tutte, e la tal altra priva d’ogni valore, che la prima costituisce un principio di determinazione universale, e la seconda è incapace perfino di determinazione secondo quel principio. Nulla deve interporsi fra gli amanti! Ahimè, noi siamo uniti da troppo poco tempo, per le intromissioni: nulla s’in­ terpone fra noi, e ciò nonostante un mondo ci separa, esatta­ mente, un mondo. Ci sono momenti in cui sono felice, pienamente felice, più felice di quanto non abbia mai sognato; è una generosa com­ pensazione al mio dolore; purché lei non sospetti niente, andrà tutto bene. È taciturna, o almeno più silenziosa del solito, ma soltanto a tu per tu. Pensa? Purché non cominci a riflettere!

17 gennaio. Mattino Oggi, un anno fa. Che cosa succede? Che cosa significa? Sono agitato come le foglie che turbinano angosciate nel bosco all’avvicinarsi della tempesta. Che presentimento mi op­ prime? Non mi riconosco più. È l’innamoramento? Oh no! Fin qui arrivo a capire: non è con lei, non è con Eros che sono in conflitto. Crisi religiose mi si addensano nella testa, la mia concezione della vita è diventata equivoca a me stesso,

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in che senso, non lo posso ancora dire. E la mia vita appar­ tiene a lei, ma lei non se ne accorge neppure.

17 gennaio. Mezzanotte Le righe che scrivo al mattino si riferiscono al passato e ap­ partengono all’anno scorso; quelle che scrivo ora, questi «pensieri notturni»,20 sono il diario dell’anno corrente. L ’anno corrente! Che terribile beffa nei miei confronti in questa parola. Se a inventare la lingua fosse stato un uomo, crederei che avesse inventato questa espressione per offen­ dermi. Anticamente, nell’esercito si praticava il barbaro ca­ stigo del cavallo di legno. G li sfortunati, con dei pesi ai piedi, erano costretti a montare su un cavalletto dallo spigolo affila­ tissimo. Un giorno che un reo si trovava a subire questo supplizio e lanciava urla di dolore, passò sui bastioni un con­ tadino, e si fermò per guardare in basso nella piana delle esercitazioni dove il disgraziato scontava la sua pena. Lo sfor­ tunato, pazzo per la sofferenza, e irritato alla vista del cu­ rioso, gli gridò: «Si può sapere che hai da spalancare gli occhi?». «Se non sopporti che ti si guardi», disse l’altro «visto che sei a cavallo, non hai che da prendere un’altra strada.» E nel senso in cui stava a cavallo quel disgraziato, corre l’anno corrente per me. Bisogna fare qualcosa per lei. Il mio cervello non trama che intrighi dalla mattina alla sera. Se, prima che lei fosse

Allusione ai celebri Night Thoug/jts (1742-46) di Ed w ard Y oun g, uno dei ver­ tici del preromanticismo europeo.

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mia, la mia condotta era di una perfetta lealtà, al punto che evitavo con la massima ansia ogni parvenza di strategia, tanto più intrigante mi sono fatto ora. Chi non mi crederebbe pazzo, se gli dicessi che in quest’anno corrente lei mi im­ pegna più che mai? Ma la difficoltà deriva dal fatto che non oso intraprendere nulla, poiché il minimo sospetto del modo in cui mi impegna sarebbe la cosa in assoluto più pericolosa: rischierebbe forse di attrarla con qualche speranza nei terri­ tori dell’indefinito, per cercarvi la salvezza, cioè la sua ro­ vina, la perdita nell’incompletezza. Ah! essere pronti a pagare a peso d’oro il più piccolo chia­ rimento, la più piccola parola, e non osare perché il pericolo è mortale, perché potrebbe risvegliare i suoi sospetti e tur­ bare il suo sforzo di cavarsela da sola! Essere ridotti a mille sotterfugi per ottenere di sfuggita un indizio, quando po­ tremmo avere una ridda di informazioni; ma non averne il coraggio, non averne il coraggio per lei! Se io mantenessi un silenzio assoluto con quelli che si dicono i miei intimi, anche questo rischierebbe di risvegliare i sospetti. Perciò ho stabi­ lito per loro una serie di frasi fatte. Solo, non le pronuncio come frasi fatte, ma le declamo, così la gente non si rende conto che si tratta di frasi fatte. Un buon esempio ce lo dà il sacerdote. Sa benissimo di ripetere sempre lo stesso sermone stantio, ma quando lo declama e s’asciuga la fronte, l’uditorio crede di sentire un vero discorso. Le persone che mi stanno intorno s’immaginano ugualmente che io parli, quando in­ vece recito frasi fatte, stereotipi dove ho soppesato lunga­ mente ogni parola. Si può anche usare un procedimento in­ verso e parlare ad modum'^^ con questo tono: «Ho ricevuto la Secondo l’uso.

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stimata vostra del 25, styli novi»P- Nulla rende la passione più impenetrabile dello stile da ufficio, da contabilità, da affari. Quest’ultimo è il procedimento migliore. L ’ho studiato durante le mie pratiche su un carattere chiuso, perciò lo conosco. Non bisogna mai forzare un carat­ tere chiuso, o si perde la partita; ma, come un reumatico ha paura delle correnti d’aria, si arriva a toccarlo con un’allu­ sione casuale, subito troncata. O ancora, ci si mette in ag­ guato per quando, una volta tanto, si concede un po’ di sfogo. La misura della sua chiusura la dà subito la difficoltà che prova a rompere il silenzio. Rimpiange di aver parlato, vuole cancellare l’impressione che ha prodotto: tu non pro­ nunci una parola; lui diffida di se stesso, crede di aver fallito, tenta di passare alla conversazione; tu non pronunci una pa­ rola, lui si innervosisce per il momento di vuoto, si tradisce sempre più, se non altro per la smania di dissimulare. Ma una volta che sappiamo come fare, ci esercitiamo in anticipo, E l’abilità consiste nel parlare un po’ di ciò che si ha a cuore, perché un silenzio totale è un’imprudenza, e poi nel tener a freno, docile nelle redini della conversazione, una passione divorante: tanto da saperla manovrare, come fa un abile cava­ liere, con un filo di seta, e da farle disegnare un otto, come fa un buon cocchiere. Intrigare è poi una distrazione; ascoltare testimoni, rice­ vere notizie, comparare e controllare, fare il giro del mondo, attendere il momento favorevole, tutto ciò almeno è una oc­ cupazione, anche se non se ne ricava alcun profitto; ma è insopportabile restare fermi e partorire vento, escogitare un Cioè secondo il calendario gregoriano, in vigore dal 158 2. haia, 26, 18.

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piano più ingegnoso dell’altro e non osare metterli in opera, perché ancora più saggio è rinunciarvi per non tradirsi; insop­ portabile vedere, come Tantalo, quei frutti appetitosi, che ti tentano la simpatia promettendo tutto! Insopportabile avere la passione di un giocatore, senza osare muoversi, benché legati solo a se stessi! Insopportabile avere Fanimo pieno di coraggio intrepido e il cervello pieno di progetti, avere le parole sottomano; ma anche avere una penna che non scrive, se non con grande fatica, più di una lettera ogni due ore! Insopportabile avere la passione di un pescatore, conoscere un punto pescoso, e non osare lanciare la lenza, o guardare il sughero che affonda senza tirare, per paura che il movimento sia rivelatore! Insopportabile avere alla propria mercé chi potrebbe andare a raccontare tutto, mettergli il coltello alla gola per impedirgli di tradire, e tuttavia non osare servirsi di lui, poiché non ci sono rapporti ai miei occhi tra la vendetta che io traggo da lui e il male che lui potrebbe fare a lei! Dover accontentarsi, invece di queste informazioni sostan­ ziali, d’una parola lanciata per caso da una serva, da un do­ mestico, da un cocchiere, da un passante, e doverne tirar fuori qualcosa, poiché ne va della propria felicità! Fare il brodo con l’acqua fresca,2“* un brodo sostanzioso, per neces­ sità, perché la cosa è per noi della massima importanza! Pas­ sare qui la notte a ripetermi che ha detto Tizio e che ha detto Caio, per scoprire se la voce non ha tradito nulla, se ha retto il tono della conversazione! E non potersi fidare di nessuno! Perché che senso avrebbe fidarsi di qualcuno, per chi non ha avuto il coraggio di fidarsi di una ragazza che amava e che Letteralmente; «fare il brodo con una bacchetta da salsicce», espressione pro­ verbiale per: far fruttare molto il pochissimo. Esiste anche una fiaba di Andersen con questo titolo,

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avrebbe potuto stringere, a forza di spiarla, nella rete di mille osservazioni! Per fidarsi di qualcuno, non c’è che scegliere uno di cui non ci si può fidare, cioè fidarsi di lui sotto forma d’inganno. Il solo veramente capace di informarmi un po’ è lontanis­ simo dall’essere dalla mia parte. C ’è pertanto, tra noi, un’in­ tesa segreta. Lui è al corrente di tutto: forse è tra noi tutti il più degno di fiducia. Per fortuna mi odia. Se appena può, cerca di tormentarmi, lo vedo bene. Non dice mai nulla fran­ camente, non pronuncia mai un nome, ma mi racconta storie singolari. Dapprima, non avevo capito niente, ma ora so che parla di lei usando falsi nomi. Mi attribuisce abbastanza im­ maginazione per afferrare le allusioni; il che è vero, ma ho anche abbastanza intendimento per fare il sordo. Nondi­ meno, devo tener conto della sua perfidia. Se solo fosse morta, morta subito, caduta morta sotto i miei occhi al momento decisivo; se la famiglia fosse accorsa, se fossi stato arrestato poiché sospettato d’un crimine! Ah, se solo fosse vero! Avrei chiesto subito di essere giustiziato, e la dispensa dalle procedure vane. La giustizia umana non è altro che una buffonata e le sue tre istanze non fanno altro che guastare lo scherzo. Procuratore e difensore sono una specie di Arlecchino e di Pierrot, e la giustizia è simile a Jeronymus 0 a Cassander,25 sempre menati per il naso. Tutto, qui, è risibile, compresa la parata delle guardie per l’esecuzione. Il boia è l’unico personaggio passabile. Se la mia richiesta non fosse respinta, dal momento che sono io a voler regolare tutti 1 conti, cercherei con quel mio confidente un luogo propizio al mio stato d’animo, e lì gli chiederei il servizio che il cavaPersonaggi piìi o meno fissi nelle commedie di Ludvig Holberg.

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liere reclama al suo fedele scudiero: di affondargli la spada nel petto; d’altronde, scudiero o boia, poco importa; quest’ul­ timo ha almeno il vantaggio di non lasciarsi impacciare da casi di coscienza. Così, perlomeno, la cosa avrebbe un senso. Ma in tutto questo non c’è alcun senso. Io sono uno scelle­ rato. Giusto, se fossi quello che dicono; ma io sono esatta­ mente il contrario. Che cosa sono dunque? Un buffone, uno spirito chimerico, un cavaliere esaltato a prendere tanto sul serio la parola di una ragazza. Come! È un metodo “teolo­ gico”, contro di me come lo prescrive Aristotele?^^ Non esiste un terzo termine? È stata una parola al vento? Morte e dannazione; quando raccolgo una deposizione, lo faccio perché mi serve. Ho passato due mesi a provare tutti i senti­ menti; e lei questa parola l’ha detta, categoricamente come più non si può. L ’ha detta al vento? Bisogna allora ammet­ tere che una ragazza, secondo la sua natura, si rinnovi anche in senso spirituale e ricominci. Eccomi ora pronto ad andare a dormire, ben disposto al sonno, io, l’infedele. Non voglio pensare a nulla, e soprat­ tutto ho orrore di chiunque abbia una concezione della vita tale da offendere una ragazza, cercando di prenderne le di­ fese, più profondamente di quanto non abbia fatto io. E per finire, il mio pensiero va verso di te, Shakespeare immortale, che sai parlare il linguaggio della passione; va verso le parole dell’amabile Imogene nel Cymbeline quando dice, atto iii. scena 4 .27 Essergli infedele? Che cos’è dunque essere infedele? Languire a letto nell’attesa, pensando a lui? L a legge logica (non teologica) del terzo escluso. Kierkegaard cita Shakespeare, qui e altrove, nella traduzione tedesca di A . W . Schlegel e L. Tieck (1839-41).

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Piangere d’ora in ora? Se il sonno s’impone alla natura, romperlo con un sogno spaventoso di lui, e svegliarmi al mio stesso grido? Qui si fermerebbe perfino un poeta d’alto rango; ma Shake­ speare sa parlare correntemente la lingua della passione, una lingua che sensu eminentfl^ ha la particolarità di non poter essere parlata, sarebbe a dire di non esistere affatto, se non per chi la parla correntemente. Così Imogene dice: È questo, dunque, essere infedele al suo letto? Questo? Concediamo a Imogene che «i giuramenti degli uomini sono i traditori delle d o n n e » ; 2 9 ma maledetta sia la miserabile con­ solazione che una donna non può ingannare nessuno con i suoi giuramenti, poiché non può né prestare giuramento, né giurare.

20 gennaio. Mattino Oggi, un anno fa. Non posso mantenere la mia anima nell’im­ mediatezza dell’innamoramento. Vedo bene quanto lei sia affascinante, di una grazia indescrivibile ai miei occhi, ma io non me la sento di buttare in quella direzione la passione della mia anima. Ahimè! La grazia è effimera, ed è un peccato lasciarsene subito avvincere. Lei non potrà lamentarsi, a questo proposito, che io la fuorvii eroticamente. Un’altra ra­ gione contribuisce alla mia riservatezza: quanto più lei è bella, tanto più io sono infelice. Inoltre lei ha, mi sembra, un A l massimo grado. Cymbeline, iii, 4, 56.

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credito indescrivibile verso la vita; come, a quanto capisco, ha un credito verso la vita ognuno, eccetto me. Potrei augu­ rarmi che lei fosse brutta, e tutto andrebbe meglio. Non com­ prenderebbe, Socrate, questa ragione per amare le brutte? E pertanto, così è, il simile non ama che il suo simile. Se ella fosse infelice, sarebbe un vantaggio. Ma questa felicità infan­ tile, questa levità nel mondo, che io non riesco a compren­ dere e con la quale non riesco a simpatizzare in maniera profonda ed essenziale (in quanto la mia simpatia per il mondo passa per la tristezza e fa quindi esplodere la contrad­ dizione): la mia lotta, il mio coraggio, per dire un po’ di bene su di me, la mia leggerezza a danzare sugli abissi, che lei neppure si immagina e con i quali non può simpatizzare che in maniera inessenziale, come alla lettura di un racconto an­ gosciante che non crediamo reale, cioè attraverso la fantasia: che cosa accadrà di tutto questo? Ho dunque scelto il religioso. È la cosa più vicina alla mia natura, e ha la mia fiducia. Lasciamo dunque stare la grazia, che il cielo gliela conservi. Se per quella via conquistassi un punto di partenza comune a me e a lei, vieni, ridente spensie­ ratezza, mi allieterò di te più sinceramente che potrò; intrec­ ciati rose giovani tra i capelli, io ti accoglierò con tutta la leggerezza di cui sono capace, di cui è capace chi è abituato dalla passione del pensiero a inseguire quello che è decisivo a rischio della vita. Ieri le ho letto un sermone ad alta voce. Quale emozione; mai la mia anima è stata tanto scossa; le lacrime mi premono sulle palpebre; un vago terrore s’impossessa di me; le nuvole oscure dell’ansia si accumulano e si addensano sempre più sulla mia testa; lei è vicina a me, ma riesco appena a vederla. Povera bambina, che cosa pensa? Succeda pure per questa via quello che vuole. Che cosa pensa? È muta, silenziosa, ma

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molto calma. Attribuirà questo effetto all’innamoramento che io mi senta dominato da lei fino a questo punto? Im possibile, io non riesco a immaginare niente di più brutto Se mi umilio davanti a Dio, come può credere che lo fac eia davanti a lei? No, lei non esercita su di me un tale potere Ho potuto, posso ancora sopportare la vita senza di lei, a patto di conservare il religioso. Ma ho il presentimento che occorra la crisi del religioso, per introdurlo in quanto ora ho iniziato. Sarebbe possibile, sarebbe sbagliata tutta la mia conce­ zione della vita, urterei qui a qualcosa dove la segretezza è proibita? Non capisco. Io, maestro nella mia arte, io che, sì, lo confesso, mi sono inserito con fierezza nel novero degli eroi di cui narrano i poeti, poiché mi sapevo capace delle loro imprese, io che ho portato quest’arte alla sua perfezione appunto per lei e per questa relazione! Se un pellegrino, dopo dieci anni di marcia a due passi avanti e uno indietro, vedesse infine all’orizzonte la città santa e gli si dicesse: quella non è la città santa, continuerebbe; ma se gli si dicesse: è la città che tu cerchi, ma il tuo metodo è completamente sbagliato, devi perdere l’abitudine di camminare così se vuoi che il tuo viaggio sia gradito al cielo! Uno che per dieci anni ha camminato in quel modo, sottoponendosi ai più grandi sforzi!

20 gennaio. Mezzanotte Non c’è dunque nessuno qui a fare il terzo? No, tutto è buio, le luci sono spente dappertutto. Ben inteso, è meglio trovar­ si in una stanza oscura, nel caso che un curioso mi sospet­ tasse. Ah, vale la pena di essere un carattere chiuso, in ve-

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rità non posso dire che la mia ricompensa sia lontana.^® Se un terzo meditasse sulla storia del mio amore, o meglio, un secondo, poiché in fin dei conti forse sono il solo a riflet­ terci, senza neppure sdoppiarmi per l’occasione in un altro me stesso? E questo, ora, l’oggetto del mio desiderio e lo scopo della mia lotta. Ma è angosciante rifletterci così nel silenzio della notte, tutta l’esistenza ne risulta falsata, inver­ tita, e perciò fantomatica. Quando verrà il momento che mi permetterà di capire più da vicino come stanno le cose e quanto ho patito? Comincerò dunque come se fosse un terzo a esaminare la mia situazione, e poco importa il mio punto di partenza; l’unica cosa impossibile sarà concludere. Tutto il mio sforzo disperato contiene una contraddizione; mi faccio l’effetto di un laureando che abbia studiato in lungo e in largo per sette, ma che abbia trascurato il programma, e si veda quindi respinto. Un terzo, si tratti di un parrucchiere di teatro, di un venditore di seta, di lana e di lino, di una pic­ cola collegiale, per non parlare dei signori che scrivono no­ velle e romanzi, un terzo saprebbe immediatamente come fare. La faccenda dunque è in questi termini. Sono un uomo corrotto che, nell’ebbrezza di nuovi peccati, ha subito dimen­ ticato fidanzata e fidanzamento. Questo è certo, e se solo tutto fosse certo in egual misura, ne saremmo subito fuori. Certo lo è, questa appunto è la mia consolazione. Senza dubbio, mi conoscono in pochi; ma se lei si rivolgesse a uno qualunque tra loro, non ce ne sarebbe uno che non glielo confermerebbe. Se si tratta del garzone del droghiere di fronte, ora vestito a festa e fidanzato, penserà con orrore a un uomo come me; se si tratta di uno di quei volgari dongio­ M atteo, 6, 2, 5, 16.

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vanni di 0stergade, si prenderà per un cavaliere, a con­ siderare una bassezza come la mia; se si tratta di uno spo­ so che tormenta la moglie a morte a forza di fedeltà coniu­ gale, si rivolterà all’idea di una falsità come la mia. Ma, vi dirà il mio terzo, la ragazza sta lì a disperarsi, si gingilla con ogni piccolo ricordo, tende l’orecchio al rumore dei passi. Ma se la premessa è falsa, lo è anche la conclusione. Magari questa conclusione fosse esatta; ma che ne direbbe Aristotele? 3i Ricordo ognuna delle parole di lei, ognuna delle sue espressioni, precisamente come se fosse stato ieri, ognuno dei suoi cenni più insignificanti entra subito nel gioco dei miei pensieri. Un dato infinitesimo diviene l’oggetto degli sforzi più enormi. Certi filosofi dell’antichità vedevano nel vortice il principio delle cose.^^ Tale è la mia vita. A causare l’effer­ vescenza del vortice è talvolta un atomo invisibile a occhio nudo, un nulla. Il mio orgoglio mi impedisce di trascurare il minimo dettaglio, il mio onore obbedisce; e quando uno è solo a farlo come me, dev’essere rigoroso. Parole che, in altre circostanze, entrerebbero da un orecchio e uscirebbero dal­ l’altro debbono ora acquistare importanza assoluta. Se un fanatico religioso non potesse richiamarsi che a un solo passo dubbio della Bibbia, quali non sarebbero i suoi sforzi per provarne l’autenticità, per edificare il suo sistema su solide basi! E un passo della Bibbia, almeno è qualcosa; ma una parola dalla sua bocca, un’osservazione fatta da lei senza pen­ sarci sull’acqua del tè, è poco. Eppure potrebbe nasconderLe regole del sillogismo (per esempio: «se la conclusione è falsa, almeno una delle premesse deve essere falsa») sono formulate da Aristotele soprattutto negli Analitici. Fra i presocratici, Anassimene, Dem ocrito e Leucippo. Aristofane, nelle N u ­ vole, chiama Vortice il dio supremo della filosofia naturale.

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visi un segreto, non è impossibile. Chi, se non io, lo com­ prende? Ma ho comunque un aiuto in me stesso: perché a chi mai verrebbe in mente che io possa essere come sono? Ergo, è esatto, esattissimo: è possibile. E possibile che lei fosse esperta di riflessione almeno quanto me. Certo, se la mia tristezza, il mio onore e il mio orgoglio non mi avessero messo sotto tortura, non avrei sentito la forza del sillogismo. Ma non voglio una situazione diversa. Se potessi tornare in­ dietro, ah!, se fosse possibile, se fosse possibile, saprei in coscienza di aver agito come meglio potevo, di aver messo in opera tutte le risorse della ragione e della follia; saprei che rifare tutto quello che ho fatto non nasce da un capriccio, ma da un potenziamento della mia coerenza, saprei in coscienza d’aver fatto di tutto per allontanarla da me nella speranza di salvarla, di aver fatto di tutto per mantenere la mia anima ai vertici del desiderio, e per rimanere lo stesso. Sono ancora lo stesso in questo momento, Dio sia lodato, e spero di resistere fino alla fine, per il tempo che sarà necessario. Nulla fortifica come la coerenza, e nulla è coerente come la coerenza stessa. Non ho ancora consultato la carne e il sangue; la passione del mio animo continua, esattamente la stessa, a tendere al vento la vela della risoluzione. La nave, dice il marinaio, procede sulla sua rotta alla stessa velocità; così anch’io posso dire di restare fermo sulla mia rotta alla stessa velocità. Lei mi ha rivolto una preghiera, ed è la sua preghiera che mi riduce alla disperazione. La mia sofferenza è un castigo. L ’accetto dalla mano di Dio, l’ho meritata. Nella mia gioventù, ho spesso sorriso a mente leggera dell’amore. Non l’ho né dileggiato, né ho cer­ cato di renderlo ridicolo con le mie azioni e le mie parole; troppo poco me ne curavo. Solo sul piano intellettuale ho vissuto. Quando leggevo nei poeti i discorsi degli amanti,

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sorridevo; non riuscivo a comprendere che si dessero tanta pena per un rapporto come quello. Le cose eterne, il rap­ porto con Dio, il rapporto con l’idea, ecco che cosa muoveva la mia anima; ma non potevo concepire niente di così inter­ medio. Adesso, sì, adesso faccio penitenza: anche se, di nuovo, la mia sofferenza non è strettamente erotica.

25 gennaio. Mattino Oggi, un anno fa. Lei non sembra avere il minimo presup­ posto religioso. Ma una metamorfosi è sempre possibile. E p ­ pure, che cosa potrà essere la mia debole influenza rispetto alla spontaneità dell’infanzia? A condizione che io non ac­ quisti troppa autorità su di lei. A condizione che io eviti il triste risultato, così facile da ottenere per questa strada, di diventare per lei il maestro di religione invece dell’uomo che lei ama, uno padrone di sé invece dell’uomo che lei ama, uno spirito superiore a lei che annienta l’eros, un barbaro che cancella la sua amabilità femminile per affermare se stesso. Se riuscissi a elevarla, o meglio, se lei potesse elevarsi al di sopra di se stessa nella libertà religiosa dove proverà la potenza dello spirito e si sentirà religiosamente rassicurata e sicura, tutto andrebbe bene. Purché lei non pensi, cosa imperdona­ bile, di essermi debitrice, che non se l’immagini neppure; sarebbe assurdo. Se anche, allora, la mia tristezza non sapesse soddisfare al punto giusto la bella obbligazione sulla vita che ha la sua giovinezza (e Dio sa se non è la mia tristezza a torturare, con le sue esagerazioni, la mia simpatia), bene, considererei il suo amore come un sacrificio da parte sua. Come valutare, o pagare l’amore a più caro prezzo? Dal punto di vista spirituale, potrei sempre esserle di qualche

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aiuto. Invecchieremo tutti e due, verrà il tempo in cui la giovinezza non avrà più la stessa smania, e allora, in un certo senso, il nostro innamoramento avrà anni davanti a sé. Che c’è da invidiare in un innamoramento che ha per suo mo­ mento supremo quello in cui gli amanti spazzavano il pavi­ mento in un valzer? Lei è riservata, silenziosa, molto calma; in presenza di qualcuno è allegra come d’abitudine.

26 gennaio. Mezzanotte Ah! Se fosse possibile, se fosse possibile! Gran Dio, ogni mio nervo si cimenta, per così dire, nella vita, e cerca oscura­ mente di dimostrare se in fin dei conti non siamo adatti l’uno all’altra, se io non abbia conservato per quel momento la forza di mantenere il mio animo e il mio amore all’altezza del desiderio per tot d is c r im i n a se lei non abbia visto giusto di primo acchito, senza guardare a destra, né a sinistra. Ah, che ricompensa per tutta la mia miseria; se tutto non fosse che l’affare di un giorno, se il giorno del matrimonio fosse anche quello della morte, che immensa ricompensa per tutta la mia pena, per quanto, pensato come commedia, lascio intera­ mente al suo destino, e per quanto, sofferto come tragedia, chiamo i lavori forzati del prigioniero! Indicibile felicità! Che cosa sono dunque Romeo e Giulietta di fronte a un’intesa raggiunta attraverso tante tribolazioni, a una vittoria raggiun­ ta attraverso tanti pericoli, di fronte all’esito più felice della più profonda disperazione! Grande, ah, sarebbe veramente Attraverso tanti pericoli.

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grande! Se avvenisse d’inverno, mi sembra che sboccerebbero i fiori dalla gioia, se d’estate, mi sembra che il sole danze­ rebbe di gioia; e in ogni stagione, l’umanità sarebbe fiera della felicità che ci riempie di troppa beatitudine per esserne fieri, della nostra felicità. Eppure, eppure, se nondimeno mi stancassi e perdessi la forza e vedessi morire il mio desiderio; se lei soccombesse, ma no, non se ne parla neppure, se s’am­ malasse e deperisse, se s’ammala e deperisce! Oppure, se non sapesse sopportare con me il deserto dell’attesa, se sospirasse per la vita più sicura in E g i t t o ; o se sposasse un altro! Dio la benedica se lo fa; a questo, in un certo senso, tendono la mia volontà e i miei sforzi. Eppure, ora non la penso più così. Ho dunque più di un intendimento; è un segno di saggezza o di follia? O se lei fosse esattamente la stessa, e non avesse sof­ ferto né nell’anima, né nel corpo, ma non mi comprendesse, non mi comprendesse assolutamente; se nel suo petto di fan­ ciulla il cuore non battesse forte quanto nel petto dell’infe­ dele, se il sangue della giovinezza non le salisse alla testa come sale alla mia, se circolasse tranquillo nell’anima fredda dell’inesperta, a differenza di quanto fa in quella dell’intendi­ tore, se lei non concepisse il grado della mia sofferenza, la mia calma glaciale e la sua necessità; se tra noi la parola perdono dovesse avere la serietà del giudizio e non essere la palla che noi ci rilanciamo nel gioco della passione amorosa, permettendo così alla fedeltà di celebrare il suo trionfo; se lei non concepisse assolutamente che ai nostri giorni, in questo XIX secolo di risibile buon senso, il solo modo d’essere entu­ siasti e di salvare il romanticismo dell’anima è di essere tanto freddi fuori quanto ardenti dentro; se lei non concepisse, se Esodo, 16, 3.

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lei non comprendesse assolutamente che è infame soccorrere a metà, e che la fedeltà consiste nel rifiutare un illusorio sollievo; se a un segnale del cielo, all’annuncio della nostra felicità, lei non fosse più all’unisono e non potesse assecon­ darlo: allora, domando, allora, allora? Ma non ne posso più, torno a sprofondare all’indietro. Purché lei fosse salva, mi accontenterei del mio destino. Faccia quello che vuole, a condizione di star fuori dalla mia vita, realmente fuori di me, di appartenere a un altro, di essere stanca di tutta la storia, di non avermi mai capito; se solo fossi sicuro che lei lo desidera, o almeno che è possibile (cosa che non temo, perché, se solo allento le briglie alla mia passione, mi trova, posto dapper­ tutto), che sofismi non troverei allora per provarle che ha fatto la scelta più alta. Le auguro quindi tutto il bene possibile. In questo istante, posso pensare dieci possibilità alla volta, anche venti, mal­ grado la mia triste unilateralità, sensibile solamente a quelle della malasorte; posso pensare a una spiegazione per cia­ scuna, e poi ancora a una spiegazione che le dimostri di aver agito nel modo più superbo. Poniamo che lei sia così superba da non avere il coraggio di riconoscere il suo amore per me, pur essendo pronta a morirne, poniamo che si difendesse da me con la derisione; se solo ne avessi il coraggio, non mi vergognerei davanti a lei e direi tranquillamente: ho perso molto, immensamente; o piuttosto: ho dovuto negarmi il mio desiderio più caro. Dovrei dunque temere di ammettere un amore sfortunato, dovrei cambiare io e giudicarla diversamente, col pretesto che è cambiata lei nei miei riguardi? Che cosa è la vita umana? Somiglia all’erba che domani sarà ap­ passita e forse domani sarò morto anch’io! Se un pazzo ride ”

Isaia, 40, 6-8; Salmi, 90, 5-6.

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di me, che altro prova se non che ho agito con saggezza? Se un dissoluto alza le spalle per pietà nei miei confronti, che altro prova se non che oso ancora sperare nella mia salvezza lassù davanti a Dio? Ma per me e per noi due desidero ancora una volta il mio desiderio più caro, che supera ogni misura e ogni intendi­ mento.^^ Dormi, o mia diletta, dormi in pace; resta vicina a me nei miei sogni, vicina al solitario, celeste “forse” di inde­ scrivibile felicità. Zu Bett, zu Bett wer einen Liebsten hdt; Wer keinen hàt muss auch zu Bett}'^

1° febbraio. Mattino Oggi, un anno fa. Dal punto di vista erotico non le faccio assolutamente alcun male, sto con lei pieno di riserbo, come se lei fosse affidata alle mie cure e non fosse la mia fidanzata. Questa attitudine, tuttavia, non dovrebbe turbarla, non do­ vrebbe fare l’effetto di un eccitamento indiretto? Infedele riflessione, infedele che sei: quando ti tengo ferma con gli occhi, hai l’aria fidata di un guerriero provato che risponde della vittoria; ma appena giro la testa, vedo chi sei vera­ mente: un transfuga, un disertore di professione, un traditore incapace di fedeltà a chicchessia. Di trovarsi presa in questa riflessione, lei non se ne accorge affatto. Lettera ai Filippesi, 4, 7. Testo aggiunto al segnale della ritirata serale negli accampamenti militari tedeschi (Pap. v B 97, 6): « A letto, a letto chi ha un’innamorata; / chi non ce l’ha, vada lo stesso a letto».

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È tranquilla e riservata davanti a qualsiasi impressione reli­ giosa; se cerco di interessarla un po’ alla poesia, o a una conversazione teggera, sembra trovarvi piacere. Purché non sia superba: o è fatale che lei s’inganni total­ mente sul mio conto. Per il momento, non lo nego, certi indizi tenderebbero per un istante a farlo credere; davanti a terze persone, sono anche stato l’oggetto di frasi che potreb­ bero forse spiegarsi in questo senso.

2 febbraio. Mezzanotte Dio ha fatto l’uomo a sua immagine; in compenso, dice L ic h te n b e r g , l’uomo si fa di Dio un’immagine simile alla sua, e vero è che il proprio modo d’essere esercita un’in­ fluenza capitale sull’idea che ci si fa di Dio. Io me lo raffi­ guro quindi approvare un calcolo fondato sulla sollecitudine, preoccupato del bene altrui, ma non del proprio; penso che approvi gli intrighi, e le mie letture dei libri sacri dell’Antico Testamento non sembrano infirmare la mia opinione. Non posso raffigurarmi Dio senza vederlo chino come un poeta sulle oneste trovate di una passione partecipe. Se fosse altri­ menti, avrei paura e angoscia di me stesso. La Bibbia sta sempre sul mio tavolo, è il libro che leggo di più; l’altra mia guida è un austero trattato di edificazione del primo Lutera­ nesimo;^^ e malgrado ciò, nulla ho trovato che s’opponga a comportarmi con lei nel modo più saggio possibile, a fare

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piani più saggi possibile, pensando non al mio bene, ma al suo. Questo conflitto tra la saggezza e gli obblighi, intesi in astratto, strettamente etici e religiosi offre molte difficoltà. I grandi pensatori, i decantati poeti che si vedono raccolti e pubblicati anche in versi d’occasione a un b a n c h e t t o ,o g ­ getto di venerazione quanto le elucubrazioni del Dalai Lama, ci insegnano che il diavolo non si rivela totalmente, e che quindi la stessa chiusura in sé è il demonico. Trascurano così la tesi contraria: che tutto l’Antico Testamento fornisce una quantità di esempi di saggezza gradita a Dio; che Cristo dice ai suoi discepoli, negli ultimi tempi: Non vi ho detto questo fin dall’inizio;'*^ ha ancora molte cose da dir loro, ma non possono ancora sopportarle (si tratta dunque di una sospen­ sione teleologica della consegna etica di dire tutta la verità). Se capita quindi che una personalità resa grande dalla sua chiusura in sé si offra come oggetto di trattamento poetico, o se la incontriamo nel corso della storia universale, che la speculazione ha il compito di ricostruire, ci adattiamo per vie traverse ad ammirarla, sicuri, dal risultato, che arriveremo a comprenderla. Bella consolazione per chi cerca una guida nel bisogno! La chiusura, il silenzio (la sospensione teleologica del do­ vere di dire tutta la verità), è una definizione tutta formale, e quindi può essere egualmente una forma di bene e di male. Risolvere il conflitto annullando la saggezza significa non porlo neppure, il conflitto, al pensiero, poiché c’è anche un dovere che ci impone di usare la saggezza. Ma nel momento stesso in cui lo riconosciamo, conquistiamo eo ipso Dio dalla

G . Ch. Lichtenberg, Fragmente, in Vermischte Schriften, G òttingen i8oo-i8o6, Qui Kierkegaard pensa probabilmente a G oethe, uno dei bersagli preferiti del

I, p. 162.

” Probabilmente J . Arndt, Sàmtliche geistreiche Biicher vom wahren Chrìstenthum, Tùbingen s.d.

libro. Giovanni, i6, 4.

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parte dell’intrigo (nel senso buono). In questo modo il diritto della soggettività è ristabilito, così che arriva a farsene un’idea chiunque abbia agito, e non si sia limitato a parlare degli altri, a fantasticare e a speculare partendo dal risultato. La maggior parte degli uomini non si eleva mai a queste sfere, poiché sono sempre molto pochi gli uomini d’azione per eccellenza. A voler dare un nome che li distingua a chi fa l’esperienza a tutti accessibile dell’azione, a volerli distin­ guere, possiamo annoverarli nella categoria generale del de­ monico, così suddivisa: è demonica ogni individualità che affronta l’idea da sola, per proprio mezzo e senza alcun inter­ mediario (ecco la ragione del silenzio con tutti). Se l’idea è Dio, l’individualità è religiosa; se l’idea è il male, è demonica in senso stretto. Così l’ho intesa io, e me ne sono trovato bene. In fondo è facile, salvo per chi una volta si sia trovato sollevato alla ricchezza piratesca del Sistema e precipitato poi di nuovo nella mendicità. Ecco dove conduce la pru­ denza di costruire un sistema senza comprendervi l’etica; a un sistema che comprende tutto, tutto il superfluo, ed esclude la sola cosa necessaria. Forse non l’ho mai amata, forse sono, in definitiva, troppo riflessivo per saper amare? Vediamo, allora. Non l’avrei amata affatto? Ma, Dio mio, da dove vengono allora tutte queste sofferenze? Non è forse amore pensare a lei giorno e notte, consumare la vita unicamente per salvarla? Che non mi venga neppure in mente se il fatto di pensare unicamente a lei non mi riserverà un esito terribile? Eppure ho contro di me la lingua, lei stessa, l’umanità, ogni prova esteriore; non posso invocare nulla, non ho alcun punto d’appoggio. Così, L a scuola hegeliana.

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non l’amerei? Ma, mi risponde lei d’accordo con la lingua e con la specie umana: è forse amare abbandonare? Ah! Non posso, non ho mai potuto sopportare questo scambio di bat­ tute. Così ricorro a Te che sai tutto: se sono colpevole come si dice, distruggimi. Ah no, chi avrebbe il coraggio di pregare così? Illumina piuttosto la mia ragione, che io veda il mio smarrimento e la mia corruzione! Non credere che io desideri sfuggire le sofferenze: non di questo ti prego. Annientami, cancellami dal novero dei viventi, revocami come un pen­ siero sbagliato, come un tentativo fallito; ma non permet­ termi mai di guarire al punto di interrompere prima del tempo la mia afflizione; non affievolire il mio ardore, non spegnere la fiamma che vi si nasconde; è pur sempre qualcosa di buono, qualunque purificazione richieda. Fa’ che io non impari mai a mercanteggiare; bisogna che io riesca, anche se il modo differisce infinitamente da quello che mi ero immagi­ nato. Che consolazione avere dalla propria parte la lingua, poter dire come fa lei: l’ho amato! Se invece la mia prima tesi è sbagliata, non comporta conclusione. Ma non si tratta, qui, di due miserabili premesse da collegare in una conclusione; bensì del terrore supremo, di un tormento eterno, di un’esi­ stenza personale incapace di riassumersi in una conclusione. Ora voglio dormire. A un amante può accadere di non riu­ scire a dormire per l’inquietudine dell’amore; io, forse, non potrò dormire perché non riesco a sapere se amo oppure no.

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5 febbraio. Mezzanotte M ED ITAZIO N E D’UN LEBBROSO SU SE STESSO

(La scena si svolge tra le tombe, all’alba; Simone il lebbroso è seduto su una pietra, addormentato; si risveglia e grida:) Simone! - Sì - Simone! - Sì, chi mi chiama? - Dove sei, Simone? - Qui; con chi parli? - Con me stesso. - Con te? Quanto sei ripugnante, coperto di ulcere, vera peste per tutto ciò che vive; stammi lontano, essere abominevole, vattene tra le tombe. - Perché sono il solo a non poter usare questo linguaggio e a non poterlo mettere in pratica? Se non mi allontano io da loro, si allontanano loro da me e mi lasciano solo. Un artista non si nasconde forse per essere segretamente testimone dell’ammirazione sollevata dalla sua opera? Perché 10 non posso spogliarmi di questa ripugnante figura umana e, semplicemente nascosto, assistere al disgusto degli uomini? Perché sono condannato a esporla agli sguardi, come se fossi un artista vanitoso che raccatta personalmente l’ammira­ zione? Perché bisogna che riempia il deserto con le grida, che le bestie selvatiche siano la mia compagnia, e far passare loro 11 tempo con il mio lamento? Non è un richiamo, è una domanda, che rivolgo a Chi ha detto che non è bene per l’uomo essere fuori dalla società. È questa la mia società, gli uguali che devo cercare: questi mostri affamati, o questi morti che non temono di essere contagiati? (Si siede nuovamente, si guarda attorno, e dice, come a se stesso:) Che n’è stato di Manasse? (Ad alta voce:) Manasse! (Tace Genesi, 2, 18. Il frammento su Simone il lebbroso (Pap. iv A iio -iii) era stato in origine progettato per Timore e tremore.

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un attimo.) Deve essere andato in città. Sì, lo so, ho scoperto un unguento che ad applicarlo fa rientrare le ulcere sotto la pelle, così bene che nessuno le vede più e il prete deve di­ chiararci guariti. G li ho consigliato di usarlo; gli ho detto che la malattia non ne scompare, ma diventa interiore, e che l’alito può ancora contagiare e rendere lebbrosi di una lebbra visibile. Ne è stato felice; lui odia l’esistenza, maledice gli uomini, vuole vendicarsi; corre in città ad alitare su tutti il veleno. Manasse, Manasse, perché hai ospitato il diavolo nel­ l’anima, non era sufficiente che fosse lebbroso il tuo corpo? Voglio buttar via il resto dell’unguento per non essere mai tentato; Dio del padre Abramo, fammi dimenticare come si prepara! Abramo, o padre! Quando sarò morto, mi risveglierò nel tuo grembo; mangerò alla tavola del puro tra i puri, perché tu non temi di stare coi lebbrosi. Isacco e Gia­ cobbe! Non temerete d’essere i commensali di chi fu leb­ broso, aborrito dagli uomini; e voi, morti che dormite in­ torno a me, risvegliatevi, un istante solamente, ascoltate una parola, una sola parola: salutate Abramo da parte mia e rin­ graziatelo di aver preparato tra i beati un posto a chi se lo vide rifiutare tra gli uomini. Che cosa è dunque la compassione umana? A chi spetta di diritto, se non allo sfortunato? E lui come la ripaga? L ’uomo rovinato cade nelle mani dell’usuraio, che finisce per ridurlo schiavo, in prigionia: così i fortunati praticano l’usura, ve­ dono nello sfortunato una vittima e credono di poter com­ prare l’amicizia dell’Eterno a buon mercato, se non in ma­ niera illecita. Un’elemosina, un soldo da chi vive nell’abbon­ danza, una visita quando non c’è pericolo, un po’ di parteci­ pazione, utile per contrasto a speziare la loro prodigalità: ecco l’elemosina della compassione! Ma appena c’è un ri­ schio, scacciano lo sfortunato nel deserto per non sentire le

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sue urla che potrebbero disturbare il canto delle arpe, le danze e i piaceri voluttuosi, e giudicare la loro compassione: questa compassione umana che vuole ingannare Dio e lo sfor­ tunato. Non cercare invano compassione nella città e presso il for­ tunato, cercala qui, nel deserto. Io ti rendo grazie, Dio d’Abramo, per avermi fatto inventare questo balsamo, io ti rendo grazie per avermi aiutato a rinunciare a usarlo; capisco la tua misericordia nel farmi subire volontariamente il mio destino, soffrire liberamente quello che devo soffrire. Se nessuno ha avuto compassione di me, che meraviglia che la compassione sia scappata come me tra le tombe dove dimoro, consolato come chi sacrifica la vita per la salvezza degli altri, come chi sceglie liberamente l’esilio per la salvezza degli altri, conso­ lato come chi ha pietà del fortunato? Eterno, Dio del padre Abramo, dona loro pane e vino in abbondanza e giorni felici, che ingrandiscano i loro granai: e dona loro un’abbondanza più grande dei loro granai; dona ai padri la saggezza, alle madri la fecondità e ai bambini le tue benedizioni; dona loro la vittoria nei combattimenti, affinché siano il tuo popolo. Ascolta la preghiera di chi ha il corpo impuro e insozzato, detestato dal sacerdote, spavento per la gente, trappola per l’uomo felice; ascoltala; perché almeno il suo cuore non è stato contagiato. Simone il lebbroso era giudeo; se fosse vissuto al tempo del Cristianesimo, avrebbe trovato ben altra simpatia. Ogni vol­ ta che nel corso dell’anno si predica sui dieci le b b r o s i,i l

Luca, 17 , 12 (lettura della quattordicesima domenica dopo la Trinità).

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sacerdote assicura di essersi sentito anche lui lebbroso: ma appena capita il tifo...

7 febbraio. Mattino Oggi, un anno fa. Lei mi ha visto sopraffatto dall’impero del religioso, ma non ha occhi per il religioso; lei mi conosce da molto tempo prima del nostro fidanzamento, è stata abba­ stanza spesso testimone della mia condotta ordinaria da uomo freddo e razionale, quasi beffardo; crede che io mi prenda bèffe di tutti, lei esclusa; che sia superba? Rabbrivi­ disco: sarebbero un alimento seducente, per la superbia, questi omaggi d’un uomo che si fa beffe di tutto il resto, in questo senso rischia di fraintendere la mia emozione reli­ giosa. La sua superbia si rivela più evidente in presenza degli altri; forse è stato così fin dal principio, io non ho avuto il tempo di accorgermene. G li effetti ricadono così su di me, e l’altro giorno le cose sono andate in modo così sgradevole che i presenti ne sono rimasti stupefatti. In sé, si tratta di un’inezia. Una giovane donna può certo permettersi molte libertà, e non si tratta senza dubbio che d’una ragazzata. Se solamente mi sentissi sicuro dentro di me; ma è su questo terreno che temo le lotte peggiori. Se non è una semplice ragazzata, prevedo abissi d’incomprensione. Basta che non creda, soprattutto, che questi sintomi, singolari senza dubbio ai suoi occhi, siano semplici effetti erotici^ e che io sia un amante tutto proteso all’adorazione di una dea. Prenderebbe, così, vanamente, la mia religiosità per eros. Ci si umilia vera­ mente davanti a Dio e a un rapporto etico, ma non davanti a una persona. Lo ammetto, la mia personalità esterna è tut-

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t’altra da quella interna, ma non mi sono mai, per religiosità, preso beffe di nessuno. Il religioso è il mio principio di ugua­ glianza, e la mia anima non è disposta alle dispute erotiche su chi di noi due abbia qualche tratto straordinario. Non desidero esagerate tenerezze amorose, lungi da me; ma vorrei indurla a esporsi un po’ di più, per vedere che cosa succede dentro di lei. Malgrado tutti i miei sforzi, credo deci­ samente che lei mi consideri come un critico molto severo, e la sua libertà d’espressione si trovi di conseguenza imbri­ gliata.

7 febbraio. Mezzanotte La balena ferita cerca il fondo del mare, schizzando zampilli di sangue; il suo momento di terribilità maggiore è mentre sta morendo. L ’aringa muore d’un colpo, e una volta morta, ec­ cola secca come un’aringa. Ma talvolta la balena resta immo­ bile, sebbene non sia ancora spirata. Se a volte sprizzo sangue, al colmo della passione, se mi sembra che si rompa un’arteria quando irrompe la parola, sono anche capace di conservare l’immobilità senza per questo essere morto. Che potenza enigmatica, il pathos! Riesco in qualche modo a im­ pacchettare tutta la storia e a mettermela in una tasca del panciotto, ma quando la passione accende l’incendio, quell’i­ nezia si rivela un oceano di fiamme. Ora voglio cominciare in un altro modo; valuterò la nostra relazione come se fossi un semplice osservatore che fornisce un rapporto. Questa obiettività, lo so, non mi è utile, e non deve esserlo; provo semplicemente il bisogno di esaurire l’a­ spetto quasi comico della storia. Quando l’avrò fatto, e avrò buttato via il costume del buffone, sarò pronto a ricominciare

COLPEVOLE? NON COLPEVOLE?

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a trascinarla e a sollevarla tragicamente, la stessa storia, come un fardello. Ecco il mio rapporto. A una ragazza, felicemente dotata di amabilità femminile, manca una qualità: la disposizione reli­ giosa. Da un punto di vista religioso, si è fermata allo stadio seguente (uno stadio che il pastore segnala ben raramente nei suoi verbali, perché lei il catechismo lo sa benissimo): per lei, Dio è una specie di vecchio zio bonario che un bambino induce con dolci parole a fare tutto quello che vuole. Quindi l’ama infinitamente, questo zio. Nello stesso tempo ha per Dio una venerazione inesplicabile, che non si evolve in altro. In chiesa, al suo banco, mostra un raccoglimento amabile, se 10 si giudica esteticamente. Ma di rassegnazione, dell’infinita rassegnazione di una relazione dello spirito, della relazione assoluta dello spirito con lo spirito, non si parla neanche. Questa fanciulla mette le mani sul religioso e, forte di questo, ne parla e ne sparla come capita. Come fa la presunzione giovanile che dice la prima cosa che le viene in mente, un tratto, appunto, amabilmente femminile, così fa lei in reli­ gione. Ama un uomo più di quanto ami Dio; giura per Dio, spergiura per Dio, e tuttavia ella non è, dal punto di vista religioso, che alle tabelline del suo romanticismo e, dal punto di vista religioso, valore intrinseco^^ non vale un soldo bucato. Ora, se l’uomo che sta dall’altra parte del tavolo fosse tutto razionalità, risponderebbe probabilmente a questo modo di invocare Dio ricordandole gli scolari che si dicono a vicenda: «Hai il coraggio di dire “per Dio” ?». Ma lui è tutto 11 contrario: ha un temperamento religioso, il suo romantiPer valore intrinseco.

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cismo è una grandezza infinita dove Dio è un Dio potente, dove settant’anni sono un tratto di penna, tutta la vita terre­ stre un tempo di prova, e la perdita di ciò che ha di più caro un incidente che si deve aspettare se vuole entrare in rela­ zione con lui; poiché lui è l’Eterno e, in quanto tale, ha del tempo un’idea in grande e dice, a chi lo cerca: «Il momento non è ancora venuto, aspetta un po’ ». «Quanto tempo?» «Mah! Settant’anni!». «Gran Dio! Ma un uomo rischia di morire dieci volte nell’attesa». «Questo rimettilo a me; senza la mia volontà neanche un passero cade al suolo; diciamo dunque domani, domattina». Cioè fra settant’anni; poiché se mille anni sono ai suoi occhi come un g io rn o ,se tta n t’anni fanno esattamente un’ora, cinquantasei minuti e tre secondi. Così è fatto l’uomo al di là del tavolo; il suo compito, nel rapporto, non è quello di irritarsi contro Dio perché è grande, ma di considerare la propria piccolezza; non di bistic­ ciare con Dio perché è eterno, poiché non essere niente non è mai stato una tara, ma una delle miserie del temporale; il suo compito è di resistere senza rovinarsi l’unico amore che sia felice, senza sciupare la sola ammirazione che sia piena di beatitudine, senza privarsi della sola speranza capace di resi­ stere, dato che il suo compito è, appunto, di resistere. Quando l’altro è fatto così, ne risulta che, se un uomo riesce a mettere il rapporto con lui al di sotto del rapporto con Dio, il «per Dio» dello scolaretto prende un valore assoluto, che lo lega per il tempo e per l’eternità. Ha il buon senso di non prendere la parola alla lettera dalla bocca del primo passante; me è legato a quella ragazza, e lei non si fa scrupolo di ricorrere a quello scongiuro. Ammettendo che sulle sue II Lettera di Pietro,

3, 8.

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labbra si tratti di una semplice interiezione, che non la lega minimamente dal punto di vista religioso, perché lei pratica soltanto la dialettica del desiderio, del gradevole e dello sgra­ devole, e ammettendo che lui lo sappia, la cosa non è per lui di alcun aiuto; in virtù del suo rapporto con Dio, deve ono­ rare l’obbligazione fino all’ultimo soldo. C ’è in questa sproporzione una comicità profonda. Ogni uomo ha il diritto di giurare per Dio. È costume generale invocare categorie etiche per giudicare la condotta di chi giura: se dice la verità o se è un ipocrita. Ma il metodo non basta, e può risultare grandemente ingiusto, perché il perso­ naggio in questione potrebbe anche non essere che comico. Altrimenti non ne esco più. Neppure se prendo un esempio più importante, il metodo basta. Quando il Vangelo mostra il fariseo come un ipocrita,'*^ la cosa non è vera se non in quanto egli si sente migliore degli altri; per il resto, quello che lui dice è comico, appena ci si riflette. Si immagini una persona in preghiera che parla con Dio in questi termini: «Digiuno tre volte la settimana; pago la decima della menta e del cumino».'’^ Queste parole sono comiche esattamente quanto quelle dell’uomo che, nel fossato, si credeva a cavallo. Il fariseo crede infatti d’intrattenersi con Dio, ma dalle sue parole risulta chiaramente che parla a se stesso, o a un altro fariseo. Ugualmente, se un taverniere volesse fermarsi in una chiesa per intrattenersi con Dio in preghiera, dicendo: «Io non sono come gli altri tavernieri che danno solo il peso giusto; io do il peso abbondante e anche la giunta», non sarebbe ipocrita, ma comico; è chiaro, in effetti, che non parla a Dio, ma a se stesso qua taverniere, oppure a uno dei Luca, 18, To sgg. Matteo, 23, 23.

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suoi colleghi. Perciò non si dovrebbe mai invocare Dio per qualcosa che si desidera, poiché, agendo così, ci si lega in modo assoluto. Se in effetti il desiderio non è esaudito, non per questo io e Dio siamo pari, cosa, comunque, da rimettere a lui, ma io devo attenermi alla mia parola, devo cioè conti­ nuare a sostenere in ogni istante che era ed è il mio solo desiderio, così serio ed eterno da darmi il coraggio di dargli espressione religiosa. Infatti, se dopo qualche tempo me ne vengo fuori con un desiderio nuovo, e di nuovo mando su­ bito a chiamare Dio, come i genitori in lacrime mandano a chiamare il dottore per nulla, che cosa vuol dire? Che mi sono beffato di Dio, e che mi sono mostrato nello stesso tempo un personaggio da commedia; ben lungi dall’essere ipocrita, ho creduto che pregare Dio fosse la stessa cosa che carezzare la guancia di papà, dicendogli; ^ìtte, bitte. Qui finisce il rapporto; la mia ragione ha ricevuto il suo tributo e non le devo più nulla. Vieni dunque e resta con me, mio diletto dolore! Esteriormente lei non può essere mia (o, se fosse possibile, ah! se fosse possibile!); ma che lei non sia spiritualmente dove sono io, è un’idea che confonde ogni mio intendimento. Non può dunque un essere umano com­ prenderne un altro, non c’è dunque uguaglianza nel reli­ gioso? Perché l’ho trascinata nella corrente, perché, per causa mia, una ragazza si è vista imporre all’esistenza un metro capace solo di turbarci entrambi? Ma ora, ora è troppo tardi. Anche se la cosa si concludesse felicemente, se realmente lei riuscisse a cavarsela da questa miseria, o non ci fosse mai sprofondata oltre un tanto, per me, almeno, è il religioso che dà alla vita il suo senso autentico, al punto che mi terrorizza Per favore, per favore.

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il pensiero di lei risanata solo nelle categorie del temporale. Quando si è liberi da questa preoccupazione, è molto facile ritirarsi in una gloria splendida e assurda, come un eletto; ma se il mio metro grande, per dirla così, le ha turbato l’esi­ stenza, lei mi tiene legato, per dirla così, con il suo metro piccolo; con il suo breve metro, esercita su di me un potere enorme; io non posso senza di lei definirmi una concezione della vita, perché attraverso lei simpatizzo con ogni essere umano. Pur senza conoscere in modo particolare i miei simili, mi ha consolato e riposato dalle vicissitudini della vita, mi ha, per così dire, fatto trionfare sulla vita l’idea che si dovrebbe esigere da ogni individualità il religioso. Ma ecco che mi imbatto in una individualità dalla quale non so se posso esi­ gerlo, o se esigendolo non sono ingiusto verso di lei. D ’altra parte, se esiste anche una sola individualità del genere, se, dunque, la religiosità deve andare di pari passo col genio e col talento, io sono impotente, perché quest’idea è in realtà l’idea centrale della mia vita, quella che mi dà il coraggio di non invidiare chi è eminente e favorito dal destino, e la tran­ quillità d’animo necessaria a non angosciarmi fino allo smar­ rimento davanti alla miseria di qualcuno esteriormente molto più misero di me. Continuiamo. Supponiamo che lei in fin dei conti mi abbia forse più ammirato che amato, supponiamo che lei nutra la sciagurata idea di una mia grandezza. Quanta difficoltà avrà allora, inebriata forse un tempo dal sogno della mia immagi­ naria adorazione, a rimettersi da una simile impressione? Anche questa nuova umiliazione è colpa mia! Senza questa preoccupazione, capisco bene la tentazione di entrare nel no­ vero degli eccelsi, sui quali molti fissano lo sguardo; per me la tentazione non esiste, ho sempre desiderato essere un sol­ dato semplice che non si distingua dagli altri.

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Un carattere propriamente religioso, non oso neppure darlo alla mia esistenza esteriore, per paura che lei lo frain­ tenda e s’arrischi nelle cose delFinfinito. Non ne è ancora capace; non ancora. A salvarla, è stato il mio primo pensiero, e non è cambiato, sarà una certa salutare temporalità. Sono sicuro che anche nel momento decisivo, quando ho inter­ posto fra noi la separazione, non ha concepito rassegnazione. Ha pensato: ora muoio ed è finita: ma questa non è rassegna­ zione; oppure ha avuto speranze tutte dell’immediato, ma questa non è rassegnazione; oppure è insorta dentro di sé, forte della sua naturale integrità, e si è infiammata fino a cercare, in quello stesso momento, di afferrare la temporalità, ma questa non è rassegnazione. Calma, dunque. Bisogna farsi più insignificanti possibile. Basterebbe il minimo cenno da parte mia per portare confu­ sione, o, pericolo peggiore di tutto, un aiuto momentaneo. Ma bisogna anche stimolarla, affinché questo stato di pena non le diventi abituale. Questo stato di pena? Non so nep­ pure con certezza se lei stia penando. Ma la riflessione non si esaurisce mai; fa esattamente co­ me Tordenskjold:^® usa sempre le stesse truppe, e le fa sfi­ lare, poi prendere una strada traversa, indossare un altro equipaggiamento, e riprendere la parata: un’armata innume­ revole.

50 Peter W essel (1690-1720), soprannominato Tordenskjold (Scudo di tuono), fu un leggendario e popolarissimo eroe navale danese-norvegese. Il suo genio strate­ gico e la sua capacità carismatica di infiammare i soldati sono diventati proverbiali.

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12 febbraio. Mattino Oggi, un anno fa. Lei non ascolta senza attenzione quando le tengo letture religiose; e anch’io assisto al mio sviluppo cre­ scente in senso religioso. Non trovo ancora la spensieratezza necessaria a dare al mio innamoramento un volto più erotico; non ne ho neppure il coraggio. Prima la fatica: il piacere dell’innamoramento verrà in seguito. Purché io non abbia mirato troppo in alto, purché la se­ rietà dell’impresa non sia per lei eccessiva, sebbene sia estranea alla mia natura ogni rudezza, ogni asprezza religiosa, soprattutto con lei, la cui presenza mi rende dolce come non mai! Le parlo anche di cose più leggere; conversiamo. Questa conversazione ha veramente per me un incanto che non avrei mai sospettato. Che gioia pensare all’awenire, ché queste conversazioni conserveranno sempre ai miei occhi un tale fascino, un tale ristoro per la mia anima da non farmi deside­ rare altri diversivi. Anche se ignora o quasi la riflessione, non per questo le sue sono chiacchiere; dice ciò che le passa per la testa. La mia riflessione s’impadronisce subito delle sue pa­ role; una leggera modifica, e le trasferisco nella mia sfera; e la conversazione prosegue con questa alternanza. Se lei si esprime con l’immediatezza che le è propria, un piccolo ag­ giustamento, a volte soltanto un cambiamento di tono, e la sua osservazione mi soddisfa e mi diverte. Lei non riesce a concepire che una sua parola possa divertirmi tanto, tuttavia sembra felicissima della spensieratezza che presiede alla con­ versazione. Prova soddisfazione a esprimersi, poi si sorprende di vedere le sue parole divenire l’oggetto di tanta attenzione; se vi colgo sotto un po’ di riflessione, ne aggiungo ancora, sono contento di lei - e ci divertiamo entrambi. Ho reai-

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mente l’impressione di scoprirmi qualità adatte a fare di me un eccellente marito: ho il senso delle inezie, la memoria delle piccole cose, una certa attitudine a infondere loro im­ portanza, cose tutte alla lunga utilissime. Se solamente sa­ pessi come diventare un marito modello, non risparmierei tempo, o sforzi. Ma la sfortuna è che la mia chiusura in me è un vizio fondamentale, e mi è amaro d’essere qualcosa a metà.

13 febbraio. Mezzanotte Se soltanto succedesse qualcosa. Mantenersi l’anima “in estasi” settimana dopo settimana, tenere all’erta innumerevoli riflessioni, essere pronto di tutto punto e in qualsiasi mo­ mento, perché non posso sapere se, quando, e che cosa serve! L ’ho vista oggi. Era pallida. Ah! Quando l’angoscia riempie l’anima e l’apre ai presentimenti, questo pallore può avere un significato. Macbeth va su tutte le furie semplicemente vedendo il pallore di un messaggero, latore di una cattiva notizia; ma qui, la cattiva notizia è appunto il pallore. Ciò nonostante, le notizie mediche lasciano intendere che lo stato generale è soddisfacente; almeno queste sono le parole che ho sentito dagli Hansen; c’era il medico e parlavano di lei; perché, viste le relazioni tra le famiglie e la presenza del medico, quando ho avuto un sospetto e ho ripetuto con tono interrogativo: «Chi è che sta così bene?», le parole che il medico aveva pronunciato al mio ingresso, c’è stato imba­ razzo generale. Allora ho aggiunto, non senza una punta di sarcasmo, che non ero sorpreso di vedere un medico stupito egli stesso da parole così rare sulle sue labbra: sta bene, ma chi, allora? Egli si riprese e rispose: «Ah! la signora Fre-

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driksen». «Gran Dio!» feci io «la signora Fredriksen! È stata malata? La moglie del podestà di Skanderborg, poi nominato qui, in Sjaelland? Curioso» e via di seguito. M ’intrattenni per un buon quarto d’ora con la brava famiglia e col medico a proposito della signora in questione. Li vedevo sulle spine. Poi il dottore si congedò; parlai di lui e delle numerose fami­ glie che curava, aggiungendo che non avevo mai sentito dire che andasse anche dalla signora Fredriksen. Non avevo arri­ schiato questa riflessione in sua presenza, perché poteva be­ nissimo aver detto la verità; ma mentre gli Hansen, forse, non lo sapevano neppure loro, sapevano perfettamente che era ricorso a un sotterfugio. Così, gli argomenti di conversazione non mancano mai. Ma, ne sono sicuro, parlavano di lei quando sono arrivato, perché sapevo che il dottore era stato da lei non meno di mezz’ora prima e non c’è da dubitare che venisse direttamente da là. Queste dunque le notizie del me­ dico. D ’altra parte, l’ho vista molto pallida. Che tormento dover osservare un fenomeno, quando il fenomeno stesso si trasforma continuamente agli occhi dell’osservatore. Una volta, lei ha espresso il desiderio di essere qualcuno, artista, scrittrice, virtuosa, in breve, di brillare nel mondo. Potrebbe essere che - almeno, psicologicamente è esatto una sfortuna serva da impulso decisivo in questo senso. Certo non ho mai compreso come le sia venuta quest’idea, come abbia potuto farsi una simile illusione. Per quanto amabile sia, non aveva nessun talento speciale. Se ne avesse avuto, me ne sarei accorto: la mia tristezza vi avrebbe subito scoperto un nuovo motivo di sofferenza, perché avrei capito che aveva crediti enormi verso la vita. Ma una catastrofe può trasfor­ mare una persona, e questo desiderio, questa aspirazione del­ l’anima, erano forse un presentimento fondato. Strano come non l’abbia capito: proprio io che sono vissuto fin dall’in­

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fanzia nella perpetua contraddizione tra il desiderio di dare a tutti l’impressione di esser dotato, e la mia intima convin­ zione di non essere buono a nulla. Sono libero, senza legami, indipendente da tutti, da ogni altra donna, da ogni condizione esteriore; di vedetta sulla mia barca, scruto al largo possibili fenomeni. Se lei, così, diven­ tasse un oggetto d’ammirazione, vi troverei soddisfazione e la più felice esistenza concepibile: io stesso nell’ombra, a ve­ derla ammirare da tutti, nell’ombra, a rischiare l’ultima idea e l’ultimo centesimo per raddoppiare l’entusiasmo e l’ammira­ zione. Già l’impazienza mi brucia dentro! Sono capace di circuire la gente con belle parole, di mentire, di dimostrare qualsiasi cosa, di adulare, di stringere la mano a un giorna­ lista, di scrivere io stesso articoli giorno e notte - e poi, l’ammirazione si può sempre comprare, a forza di denaro e di astuzia. Rinuncio a tutto; il mio fortunato destino diventerebbe lavorare per lei nell’ombra, E a questo punto, quando il do­ lore le avrà reso l’anima grande, quando il successo, la voga e le adulazioni avranno a gara coperto di fiori l’oggetto dei loro favori, quando le si gonfierà l’anima fino alla superbia, e lei mi passerà davanti trionfante, potrò posare in pace lo sguardo su di lei; il mio sguardo non potrà più turbarla, perché la vita l’avrà messa al di sopra di me. Ma bisogna pur basarsi su qualcosa di preciso. Non voglio correre una seconda volta dietro a favole anonime; l’ultima volta mi ha fatto avvertire il ridicolo della mia fantasticheria. Se non altro, ho almeno imparato cosa accade ai critici dei giornali. Non ho mai preso sul serio le funzioni di un critico; ma mi è bastato il vago sospetto che potesse essere stata lei a scrivere l’articolo (secondo le voci, si trattava di una signora).

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e ho mosso mari e monti per dimostrare alla gente che si trattava di qualcosa di straordinario.

20 febbraio. Mattino Oggi, un anno fa. No, tutto ciò che arrivo a capire è che la rendo infelice. Un abisso si è aperto e s’allarga tra noi, lei non mi capisce e io non la capisco, lei non sa rallegrarsi di ciò che dà gioia a me, né rattristarsi per ciò che mi dà pena. Ho cominciato, e andrò fino in fondo, ma sarò sincero. Rico­ nosco, con lei, che considero la sua relazione con me un sacrificio da parte sua; le ho chiesto perdono per averla tra­ scinata nel pieno della corrente. Non posso far di più. Invero, non avrei mai immaginato di dovermi umiliare così davanti a qualcuno. Non è davanti a lei, lo capisco, che mi umilio, ma davanti al nostro rapporto e all’obbligo etico che comporta; e tuttavia devo farmi forza per dire cose del genere, e, se le dico, non sono certo dell’umore di dirle per scherzo. In fondo, non serve a granché: dato che non ne sa nulla, non potrà capire: e rieccoci al malinteso.

20 febbraio. Mezzanotte L ’ho vista oggi in Hauserplads. Tutto come al solito. È una fortuna che lei mi veda così spesso. In coscienza so che non mi scosto mai d’un passo dal mio cammino per incontrarla; non oso farlo, la mia esistenza deve esprimere un’assoluta indifferenza. Se osassi, e se la mia perspicacia di ipocondriaco non mi tenesse d’occhio e non me ne mostrasse i possibili pericoli, mi sarei da molto tempo trasferito nei suoi paraggi.

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al solo scopo di imporle la mia vista. Nulla è più pericoloso per una fanciulla nel suo stato d’animo dell’evitare la vista dell’amato, dando così all’immaginazione tutto l’agio di fan­ tasticare. Bisogna stimolarla per prevenire il languore e il tedio, e impedirle i due eccessi, cadere nella tristezza o elevarsi nel trionfo. Ci riuscirò. La mia corrispondenza con un uomo che vive in campagna, cioè con un uomo di cui non mi fido, arriva in copia al mio confidente, che mi tormenta. Il mio amico naturalmente esige il più profondo silenzio da parte dell’altro, il quale ne scrive alla sua fidanzata a Holbask, esi­ gendo a sua volta il massimo silenzio: così la storia va in giro, e molto velocemente. A volte ci lamentiamo della lentezza delle poste; ma ad avere per postino l’amico di un amico, le notizie viaggiano alla massima velocità; m’immagino che lei corra a piedi fino alla capitale per farsi tirar fuori il segreto dal conoscente cui lo destina. Nulla di più sicuro al mondo che un amico, di cui sappiamo senza ombra di dubbio che tradisce tutto ciò che gli confidiamo; nulla di più sicuro, a condizione di scegliere bene il segreto da affidargli. Impossibile contare su un amico, se lo preghiamo di riferire questo o quello; ma se gli confidiamo sotto il sigillo del se­ greto una cosa che desideriamo vedere divulgata, la certezza è assoluta, e la cosa viene fuori necessariamente. E poi una rara fortuna che questo amico abbia un amico, e che quest’ul­ timo abbia un’amica - allora, la posta va come il lampo. Così, affido la mia corrispondenza alle attenzioni dell’amicizia. Più soffriamo, più acquistiamo, a mio avviso, il senso del comico. Solo nella più profonda sofferenza scopriamo la reale autorità del comico, capace di trasformare con una pa­ rola, come con un colpo di bacchetta magica, quell’essere dotato di ragione che è l’uomo in un Pulcinella. E un’auto­

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rità simile a quella dell’agente di polizia, che al primo in­ gombro del traffico ricorre subito al manganello, sordo a ogni discussione. La vittima si ribella, solleva obiezioni, vuole fare osservare i suoi diritti di cittadino, minaccia una de­ nuncia, solo per prendersi subito un nuovo colpo di manga­ nello e sentirsi dire: «Circolare, non resti piantato lì». Resi­ stere, protestare, minacciare denunce sono solo patetici tenta­ tivi del povero diavolo di prendere le cose sul serio; ma il comico lo fa vedere alla rovescia, come l’agente che, senza spiegazioni, gli fa girare i tacchi a forza di manganello e lo riprende di schiena, rendendolo comico. Tuttavia, questa comicità si guadagna a prezzo di una tale sofferenza da non augurarla a nessuno. Ma s’impone a me particolarmente ogni volta che la mia sofferenza mi mette in contatto con gli altri. La mia corrispondenza contiene un’informazione confi­ denziale che riguarda la mia storia d’amore. Tutto esatto, soprattutto i nomi e le date; ma il resto è in massima parte immaginario. Sono assolutamente convinto di avere reso im­ possibile farsi un’idea giusta di me e della nostra relazione; poiché ho ingarbugliato troppo la situazione ai suoi occhi: ne ho fatto un rompicapo, suscettibile di tutte le interpretazioni. Ne deve trovare lei stessa la spiegazione, senza ricevere a nessun costo l’interpretazione autentica da me, altrimenti non guarirà mai. Che torni in tutto quella che era, è l’augurio supremo che le faccio, e per questo metterò in gioco tutto. Basterebbe un solo indizio credibile a farle conservare in si­ lenzio un’impressione di me che non deve avere. I miei due mesi di perorazione, la mia scomparsa certa­ mente poco brillante, ma conforme al mio personaggio, ave­ vano per scopo di farmi passare per un uomo corrotto. Tale è l’idea di base. Funziona dando istantaneamente alla sua soffe­

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renza un carattere “autopatico”, libero da ogni simpatia; im­ pedisce alla sua pena di farsi in qualche modo dialettica, come se lei avesse un torto qualunque, un rimprovero da rivolgersi. Si tratta ora di continuare su questa via. Quale metodo è il più stimolante? Quello, immagino, di uno scelle­ rato come me che conservi una certa compassione per la povera ragazza. Uno scellerato, di per sé, si pone fuori dal bene: ma se ha l’insolenza di tenercisi in contatto attraverso una compassione quasi cavalleresca... non conosco nulla di più rivoltante. Le mie bugie raccontate in confidenza hanno appunto l’impronta di questo genere di compassione: e, pri­ ve di passione, conservano la forma della cortesia. Per resta­ re nel mio ruolo, io mi sono costantemente rappresentato, scrivendo, una persona che abbia sofferto o soffra di un vio­ lento mal di denti, e alla quale non si pensa senza compas­ sione. D ’altronde, tutto quello che ho scritto mi ripugna, non per via di lei, ma per via di tutte le mani per cui passa, e per un’altra ragione tutta particolare. Ne sono sicuro, ci scom­ metto cento contro uno; tutti e tre diranno dopo la lettura: «Ah, non è dunque malvagio quanto lo ritenevo, non è privo di compassione». Incredibile, la stupidità della gente in ma­ teria etica. Se uno ha l’impudenza di rendersi sovranamente spregevole, diventa un gran brav’uomo, onesto più o meno come tutti; poiché, Dio mio, quanti non hanno avuto una storia d’amore e hanno lasciato una fanciulla ad aspettare? Ma uno che conosca un po’ di compassione, è una brava persona. E poi, un furfante non è del tutto senza speranza; può sempre redimersi; ma la capacità di manifestare una com­ passione di tal genere dimostra senza dubbio un’anima marcia. E ora, al riposo. Dallo sforzo del mio intrigo, tiro fuori

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uno per uno i pensieri, e li riporto unicamente su di lei, sulla mia tristezza e sul mio desiderio. Non voglio essere distur­ bato da nulla, ma voglio anche compiere quanto credo mio dovere. Se, per amore di una buona causa, può essere giusto fare il pazzo nel mondo, anche intrigare può certo giustifi­ carsi; all’opposto, io temo un’angoscia e un rimorso tardivi, se non tento tutto. Non credo molto agli intrighi, non perché non calcoli tutto con cura estrema, ma perché la cosa è per me di tanta importanza. Oh! complesso dolore! Ci allontaniamo sempre più l’uno dall’altra; una vita ci separa, e mi sembra che, se lei si stacca veramente da me, un’eternità si interporrà tra noi. E come se servissi due padroni: faccio di tutto per liberarla e distrug­ gere ogni legame tra di noi; nello stesso tempo, tengo sotto disciplina la mia anima affinché si mantenga al culmine del desiderio e affinché il desiderio, se mai fosse possibile esau­ dirlo, possa essere, al momento di perderla per sempre, ar­ dente quanto lo era quando tutto favoriva la nostra relazione, quando la sua forza era al pieno come il giorno che lei si è messa a supplicarmi ai miei piedi. È facile desiderare quando si è giovani, ma difficile mantenere l’anima nel desiderio quando consumano le forze il rimorso segreto e l’angoscia della morte. È facile al giovane e impetuoso destriero far capriole, le froge frementi, difficile sarebbe piuttosto astener­ sene; ma quando, consumato dall’età, avanza malsicuro e ri­ schia di cadere a ogni passo, il destriero non può più fare le capriole. Ma lo spirito v i v i f i c a ; u n re può morire, ma non può ammalarsi, ha detto un vecchio monarca; così mi consolo pensando che, se posso morire, non saprei stancarmi. ” ”

Matteo, 6, 24. I I Lettera ai Corinzi, 3, 6.

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Perché, che cosa significa avere lo spirito, senza avere vo­ lontà, e avere volontà senza averla al di là di ogni misura? Chi non ce l’ha al di là di ogni misura, ma solamente fino a un certo punto, non Tha affatto.

28 febbraio. Mattino Oggi, un anno fa. Coraggio e perseveranza, solamente. Vo­ glio raggiungere il religioso con lei: questa garanzia è un’assi­ curazione sulla vita, a meno che, ahimè!, non sia che una semplice precauzione, come un versamento sul fondo pen­ sioni delle vedove. Per il resto, posso fare tutto e sviluppare sempre maggiore abilità. La sua giovinezza mi obbliga a una perpetua tensione di spirito, e io mi mostro più giovanile che posso. Credo di riuscirci. Qualche giorno fa, un uomo ha detto che noi siamo una vera coppia di giovani fidanzati. Si capisce, lo siamo davvero: lei, grazie alle sue diciassette pri­ mavere, e io grazie alla mia gamba artificiale. L ’inganno fun­ ziona, come sempre. Giacché, se mi esprimo senza perifrasi, ho raramente successo, mentre, al contrario, se uso un lin­ guaggio indiretto e fallace, ne ottengo in abbondanza. È per me una sorta di disposizione naturale, una riflessività innata. Ma apprendo nello stesso tempo un’altra cosa; m’istruisco a fondo sul comico: un fidanzato giovane con una gamba artifi­ ciale! Faccio a me stesso l’effetto del capitano Gribskopf.^^ Ma questa comicità, che è il mio segreto, non si presta alla canzonatura. Non ho paura della fatica, poiché mi rallegro pensando a lei, ma temo l’incomprensione. ” Più esattamente G ribskov, capitano invalido con una gamba di legno e una benda su un occhio; personaggio dell’opera di G . Stephanie, I l farmacista e il dottore, tradotta in danese nel 1799.

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28 febbraio. Mezzanotte Ci mancava anche questo: mi cerca, è evidente. Ho dunque lottato invano; deve avere un residuo di simpatia e conser­ vare un nervo dove la tocco ancora dolorosamente per sim­ patia. Non può aver già ricevuto il famoso messaggio confi­ denziale; mi felicito dunque per aver pensato a inviarlo. Dal mio viso non deve scoprire nulla. Il mio viso non è un gior­ nale d’annunci, o, se anche lo fosse, porta comunicazioni di natura così diversa e complessa che nessuno le può sbro­ gliare. Fin da mercoledì scorso, rimasi sorpreso nel vederla per la seconda volta, e un mercoledì, in Hauserplads. Lei sa da molto tempo che io passo tutti i mercoledì alle quattro pre­ cise per quella strada, sa che è per affari con un tale che abita lì. Se lei mi cerca, io posso giurare per conto mio di non aver fatto un passo fuori dalla mia strada per incontrarla. C ’è da diventare pazzi, dalla paura di fare un gesto capace di risve­ gliare i suoi sospetti, e la mia ansietà mi porta a supporla ricettiva quanto me al minimo indizio. Ho dovuto controllare. Alle quattro meno cinque ero in Hauserplads ed entravo dal gioielliere. Come previsto, arriva lei due minuti più tardi. Camminava lentamente, si guardava attorno, e si girava nella direzione di Tornebuskegade da dove sono solito arrivare. In sé, è eccellente l’idea di mo­ strarsi nella strada dove si possono sempre invocare le ragioni del caso. Ma dopo la nostra separazione, ho dichiarato una guerra senza quartiere alla potenza che si chiama caso, per annientarlo, se possibile; nessun bisogno di ricorrere alle armi, basta la memoria, una memoria minuziosa quanto il caso stesso. Di corsa, sono uscito dal negozio; ho girato cor­

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rendo Sumhusgade e sono arrivato da Tornebuskegade alle quattro precise, come d’abitudine. Ci siamo incrociati; lei era un po’ imbarazzata, forse anche a causa del disagio che si prova nel seguire un cammino obbligato, oppure dalla leggera ansietà dell’essere in vedetta; ha girato gli occhi per evitare il mio sguardo. Una cosa è certa: le mie macchinazioni sono abbastanza vane, ma è ugualmente chiaro che lei ha forza. Per me, non c’è nulla da fare. Ogni mercoledì, alle quattro precise, sarò in Hauserplads. Sarebbe imprudente rinunciarvi. Mai, credo, sono stato tanto puntuale a questo tocco di cam­ pana, per evitare che un anticipo o un’assenza risvegli i suoi sospetti, le faccia credere che io l’aspetti, o che la eviti; il risultato sarebbe lo stesso: vedrebbe che mi preoccupo di lei.

5 marzo. Mattino Oggi, un anno fa. Nessun sintomo nuovo. Quando l’oriz­ zonte si schiarisce ai miei occhi, quando mi sembra che tutto debba riuscire, quando un pensiero gioioso mi visita l’anima, mi affretto verso di lei; sono veramente giovane, giovane come si dev’essere ai giorni della giovinezza. In quei mo­ menti non cerco perifrasi: rapido come il desiderio, mi preci­ pito per rallegrarmi con lei. Se fosse sempre così, se potessi essere io sempre così, qualunque cosa mi costasse, certo che potremmo sposarci. Quanto al suo intendimento più profondo, non lo co­ nosco, né voglio apprenderlo. Non voglio più forzarla o prenderla alla sprovvista; ma mi sorprende la sua riservatezza prudente, mescolata di impaccio; si direbbe che lei tema la

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mia critica, che le sue battute non siano per me abbastanza spiritose. A tal punto quello che sono all’esterno ci ha reso difficile l’intesa.

5 marzo. Mezzanotte IL SOGNO DI SALOMONE^-^

Ben noto è il giudizio di Salomone, capace di discernere la verità dal falso e di dare così al giudice la fama di principe pieno di saggezza; meno noto è il suo sogno. Se esiste un tormento della simpatia, è dover vergognarsi del proprio padre, di chi si ama più di tutti e a cui più si deve; è quando bisogna avvicinarlo a ritroso, il viso girato per non vedere il suo obbrobrio. Ma quale felicità più grande per la simpatia che poter amare come desidera un figlio, e vedersi aggiungere la felicità di poter essere fieri del proprio padre, perché è il solo eletto, il solo grande uomo, la forza del suo popolo, l’orgoglio del suo paese, l’amico di Dio, la promessa dell’avvenire, onorato in vita, glorioso nella memoria! Fortu­ nato Salomone, tale fu il suo destino. Nel popolo eletto (quale gloria già Tesservi nato!), era figlio di re (cuale sorte invidiabile), figlio dell’eletto tra i re! Salomone visse questa felicità vicino al profeta Nathan. La potenza e le grandi imprese di suo padre non lo incitavano alle grandi imprese, poiché non ne restavano da compiere, ma gli davano l’entusiasmo dell’ammirazione, che fece di lui un poeta. Ma se il poeta era quasi invidioso del suo eroe, il II passo dei Diari (Pap. iv A 114), dove compare il racconto, allude oscura­ mente a una colpa di famiglia che ne costituisce il nucleo segreto.

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figlio era pieno di gioia nella fiduciosa devozione che portava a Davide. Un giorno il giovane andò a trovare il suo augusto padre. La notte, lo risveglia un rumore proveniente dalla camera del re. Preso dallo spavento, crede che uno scellerato voglia as­ sassinare Davide. S’introduce nella camera, e vede Davide col cuore straziato dal pentimento, ode la sua anima emettere urla di disperazione. Abbattuto, ritorna al suo letto e si assopisce; ma non ri­ posa; sogna; sogna che Davide è un empio, respinto da Dio, che la maestà regale è la collera di Dio su di lui; deve portare la porpora come castigo, è condannato a regnare, condannato a sentire la benedizione del suo popolo, mentre all’insaputa di tutti la giustizia del Signore giudica le sue colpe; nel sogno, il giovane percepisce confiisamente che Dio non è il Dio dei devoti, ma degli empi, e che bisogna essere empi per diventare eletti da Dio; e questa contraddizione fa del suo sogno un incubo. Davide era prostrato a terra col cuore straziato mentre Salomone si alzò dal letto, con la ragione spezzata. Fu preso dal terrore pensando a che significasse essere l’eletto di Dio. Sospettò che l’intimità del santo con Dio, la dirittura del giusto davanti all’Eterno non fossero la spiegazione, ma che il segreto che spiegava tutto fosse una colpa nascosta. E Salomone divenne un saggio, ma non un eroe; divenne un pensatore, ma non un uomo di preghiera; predicò, ma senza essere credente; aiutò molti, ma non potè soccorrere se stesso; fu voluttuoso, ma non penitente; fu abbattuto, ma non risollevato, giacché la sua forza di volontà si era spezzata tendendosi al di sopra delle forze del giovane. E fu sballot­ tato nella vita, e sballottato dalla vita, forte di una forza

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soprannaturale, cioè debole come una donna negli audaci incantesimi e nelle meravigliose scoperte dell’immaginazione, abile a spiegare le cose del pensiero. Ma la sua natura era scissa, e Salomone somigliava all’invalido incapace di sorreg­ gere il proprio corpo. Sedeva nel suo harem come un vecchio decrepito, e, quando si svegliava il desiderio della voluttà, urlava: «Donne, suonate il tamburello, danzate davanti a me». Ma quando venne a trovarlo la regina d’Oriente, atti­ rata dalla sua fama, la sua anima era ricca e le sagge risposte fluivano dalla sua bocca come la mirra preziosa fluisce dagli alberi d’Arabia.

7 marzo. Mezzanotte Non l’ho vista mercoledì. Ora ha senza dubbio ricevuto il giro confidenziale di notizie: confidenziale veramente, giacché affidato alla debolezza e alla slealtà. O forse è venuta un po’ più presto o un po’ più tardi, non saprei dirlo, giacché io sono arrivato come sempre all’ora precisa, non un minuto prima, né un minuto dopo, e non oso camminare più veloce­ mente una volta o l’altra. Solo chi abbia un’idea dell’astuzia e della prudenza necessarie all’impiego dell’ultimo insignifi­ cante può afferrare il significato di una rinuncia così ascetica all’ultimo insignificante. La mia testa è stanca. Ah! se avessi il coraggio di darmi al riposo e di immergermi nel rammemorare proprio della tri­ stezza. Se avessi il coraggio di cancellare il dolore, come fa un morto, e di rammemorare le cose belle. Ma non oso; in quello stesso istante la ingannerei; non oso, poiché sono vivo, sono in piena azione, l’opera è lungi dall’esser finita. Non è finita? Per me no, certo, poiché il seguito è stato tanto lon­

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tano dalFessere un epilogo quanto il fidanzamento lo è stato daU’essere un prologo, e il dramma è cominciato appena si è interrotto. Ma non c’è azione, non accade nulla, nulla di visibile e di esteriore, e ogni mio sforzo consiste nel tratte­ nermi dall’agire, e tuttavia mantenermi attivo K axà 5 ijvap.iv.55 A che serve tutto questo? Perché questa mia condotta? Perché non posso fare altrimenti; agisco per l’idea, per il senso della mia vita; giacché non posso vivere senza idea, né sopporto che la mia vita non abbia senso. Il niente che faccio serve tuttavia a darle un po’ di senso; tutti gli altri tentativi, di dimenticare, di ricominciare, di bere alla salute di un amico o di farmi una bevuta con un compagno, mi sono impossibili, anche se capisco che in questo modo gli altri troverebbero un senso profondo alla mia vita. Forse l’errore sta nei miei occhi; ma non ho mai visto un’amicizia dove l’uno trascini l’altro a rischiare tutto per un’idea che riguardi l’esistenza personale; ho visto, invece, siccome l’altro (ó èxepog^é) non prova il rispetto che nutriamo tutti, in fondo, almeno temporaneamente, per noi stessi, che il rapporto tra due amici insegna a tutti e due a mercanteggiare senza curarsi troppo del mondo. Solo il rapporto con Dio è veramente un’amicizia idealizzante; giacché l’idea di Dio interviene a separare radicalmente cuore e ragione, e non conclude ac­ cordi fatti a chiacchiere. Faccio questo mio nulla e questo mio tutto per obbedire alla passione suprema della mia libertà e alla più profonda

” Secondo potenza; formula aristotelica. Il concetto di potenza, nella doppia accezione aristotelica (possibilità) e matematica (elevamento a potenza), costituisce, come si vedrà, uno dei motivi portanti del libro. “ L ’altro” , categoria aristotelica.

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necessità della mia natura. Se Simone lo Stilita^^ è giunto a stabilire una relazione tra la sua idea di Dio e il fatto di stare in piedi su di un’alta colonna, di piegarsi nelle posizioni più penose, di tenere lontano il sonno con la paura e di inseguire il terrore nelle sue crisi di equilibrio, credo che abbia fatto bene ad agire così. Il suo errore è di averlo fatto agli occhi del mondo e di aver cercato gli applausi del pubblico come una ballerina inarcata sul pavimento nella più difficile delle posizioni. Io non l’ho fatto mai, pure, come lui, scaccio il sonno con la paura e mi torco l’anima. Non è malata, la mia riflessione, giacché, in tutta questa situazione, il mio pensiero guida mi appare chiaro come il giorno: voglio fare di tutto per liberarla e per tenere me stesso ai vertici del desiderio. Non mi faccio venire in mente ogni giorno un nuovo progetto, ma alla mia riflessione può capitare di farsi venire in mente qualche novità utile al mio progetto. Forse è morbosa, la riflessione di un uomo che vuole essere ricco nel mondo nel mantenere incrollabilmente quest’idea eppure sottomettere tutto al calcolo, senza per questo cambiare progetto; è morbosa la sua riflessione se, mantenendo ferma la sua risoluzione, utilizza un altro me­ todo in caso di insuccesso? Se fossi stato morbosamente rifles­ sivo, avrei da molto tempo operato all’esterno e rotto con il mio progetto di restare immobile e, nondimeno, compietamente vigile. Certo, se mi limitassi, come una delle vergini della parabola, a custodire la mia lampada accesa e a sgom­ brare l’anima di ogni altra passione, il mio compito sarebbe più facile; ma non oso, giacché subirei allora un cambiamento insensibile e non resterei quello che sono, ai vertici del mio Santo eremita siriaco del v secolo, che visse, per scelta ascetica, trentacinque anni senza scendere da una piattaforma sollevata su un’alta colonna.

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desiderio e forte deU’elasticità della passione. Ecco ciò che voglio; se cambio, sarà malgrado la mia volontà; grazie a Dio, finora non è successo.

9 marzo. Mattino Oggi, un anno fa. Nessun nuovo sintomo. Non so dove siamo; non voglio darmi a un esame prematuro della situa­ zione.

15 marzo. Mezzanotte Neanche ieri l’ho vista. Forse quell’incontro in Hauserplads è stato un caso, o forse un tentativo che lei ha rischiato per interesse per me. Forse ha ricevuto il mio giro di confidenze, forse non ha avuto su di lei effetti eccitanti, ma solo depri­ menti; forse ella sceglierà alla fine di lasciarsi ammalare, di assopirsi nel balsamo anestetico di un silenzioso dolore. Po­ niamo che si trasferisca in campagna, poniamo che non voglia vivere nel solito ambiente; che non lo tolleri, ma preferisca sottolineare con forza e decisione che ha subito un’offesa, poniamo che diventi dama di compagnia o governante presso una famiglia di alto lignaggio. Gran Dio! Avere un creditore di tal portata, che tiene in mano la mia vita! E non osare pagare il debito, e dovere appunto subire l’umiliazione di non osar pagare! Senza dubbio ella neppure immagina che forza potente rappresenti per me, neppure immagina di deci­ dere il corso della mia vita, e che, se fa il passo che temo, può precipitarmi nella più profonda disperazione. La faccenda è in questi termini: se arrivo con i miei sforzi a liberarla, o se

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lei riesce a liberarsi con i suoi, in breve, se torna se stessa, io sarò giunto al punto di poter lavorare per me stesso e preoc­ cuparmi del mio dolore. La mia vita, prima che io mi unissi a lei, era un penoso interrogatorio su me stesso; ne sono stato interrotto per essere chiamato a prendere le più terribili deci­ sioni, e solo quando avrò terminato, se mai questo accadrà, potrò ricominciare a occuparmi di me, compito al quale sono sfuggito. Si capisce, ho imparato che ci sono cose ancora più dolorose. E se non accade, se lei non si muove, io sono un mendicante, un pezzente, anzi uno schiavo immerso nel buio più profondo. Pure, ha lasciato intendere che avrebbe il desiderio di sta­ bilirsi in campagna. E queste parole, parole sue, un’idea, un’osservazione, di cui forse ella non è cosciente più di quanto lo siamo noi di quello che diciamo durante il sonno, queste parole sono per me sufficienti. Mi par d’essere uno scolaretto, alle prese con i primi compiti per l’esercizio della lingua madre: data una parola, riuscire a formare una frase. Oggi ho udito per caso da un cocchiere che suo padre ha ordinato una carrozza per un maniero, in campagna, a una decina di miglia da qua. Che cosa ci va a fare, lui che altri­ menti non esce mai dai bastioni della capitale se non per una cavalcata di un miglio al massimo, lui che non ha nessun legame con la campagna? Poniamo che... Mi torna in mente la parola, incomincia il tema. Il tema! Poniamo che si sia decisa sul serio, poniamo che voglia fare l’offesa, voglia farlo apertamente, disperarsi, assumere il tipico aspetto della di­ sperazione. Gran Dio! Che questo non accada; qualsiasi altra cosa, ma non questo! Maledetti siano i fasti e gli splendori terreni, l’essere o l’apparire grandi agli occhi del mondo! Fossi io un

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garzone di stalla, un miserabile, il malinteso sarebbe diverso. E ben vero, agli occhi del mondo io sono un mascalzone. Agli occhi del mondo... cosa sono gli occhi del mondo se non uno sguardo cieco, e cos’è il suo giudizio? Non ho incontrato dieci uomini con la forza di dare un giudizio severo. Non sono forse stimato e onorato come prima, non godo di rico­ noscimenti maggiori di prima, e non è forse una capacità necessaria agli occhi del mondo, la giustificazione dell’essere un mascalzone, o perlomeno del possedere un non comune ingenium a diventarlo? Date al mondo da scegliere fra una fanciulla abbandonata, che reclina il capo innocente nel do­ lore e cerca rifugio in campagna per poter abbandonarsi al pianto, e un attore nel teatro della vita, un insolente che tiene alta la testa sfidando tutti col suo sguardo orgoglioso; la scelta è presto fatta. Per aver causato un incidente, un uomo viene condannato a un risarcimento a vita, ma io, io non ho condanne sospese sul capo. Condannato! Mi istigo la gente contro, e mi osannano; m’aspetto che mi facciano a pezzi, ma mi portano in trionfo; tremo, dubito di possedere il coraggio e la forza di sopportare il giudizio del mondo, penso di do­ vere a me stesso di mettermi in una luce più favorevole; ma non vacillo, tiro il cordone della doccia... e il giudizio del mondo è oltremodo favorevole. Ma fa’ che questo non accada, Dio misericordioso! fa’ che non accada. Mi dispero, lotto con te, mi precipito laggiù, la riconquisto un’altra volta, spendo tutto quello che ho per sfidare con l’oro la magnificenza del maniero, celebro le nozze; e il giorno del matrimonio mi sparo. Ma devo andare laggiù, vedere che ci va a fare. Ahimè! Non oso chiedere niente a nessuno, e questo meno di tutto. È facile votarsi al silenzio, quando uno non ha più voglia di

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avere a che fare col mondo; ma dover tacere quando uno è così angosciato!

17 marzo. Mezzanotte Falso allarme. Ho percorso 20 miglia in 16 ore, sono quasi morto d’angoscia e d’impazienza... e per niente. La mia vita è stata messa ridicolmente in pericolo... per niente. Un posti­ glione rimbambito si addormenta, e i cavalli con lui. Furente balzo dalla vettura, colpisco l’uomo senza riflettere sul fatto che è un gigante al mio confronto. Che cosa non si fa in questo stato d’animo! E la gente loda la posta e la posta espresso! Che squallore. Se Riccardo IIP * voleva regalare il suo regno per un cavallo, credo che io avrei regalato metà del mio patrimonio in cambio di un paio di veloci destrieri. Il postiglione mi scaraventa a terra. A piedi, comunque, non potevo andare; dovetti elargire buone parole e un’enorme mancia... e così ripartimmo. Ma era una questione privata. C’è una mezzadria disponi­ bile, e il figlio di un signore che abita nello Jutland gradi­ rebbe entrarne in possesso. Il genitore è un vecchio amico del padre di lei, che è andato ora a informarsi sulle condi­ zioni. Come può una mente sopportare questo! E un maroso come non se ne trova neppure Sull’Atlantico, perché fluttua fra il nulla e la cosa più spaventosa di tutte.

Shakespeare, Riccardo III, v, 4.

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20 marzo. Mattino Oggi, un anno fa. Nessun nuovo sintomo. Non so se questa calma e questo silenzio siano di buon augurio. Non so che cosa si prepari nell’aria, in senso spirituale, se una bella fiori­ tura nascosta, o se l’aria è gravida di tempeste; non oso an­ cora studiarlo, per non essere troppo frettoloso e creare con­ fusione.

20 marzo. Mezzanotte Non mi resta il tempo di pensare a me stesso, e tuttavia la mia vita interiore è di natura tale da offrire materia suffi­ ciente di riflessione. Non sono per la verità una personalità religiosa, non ne sono che la possibilità organizzata e messa a punto. Con la spada sospesa sulla testa, in pericolo di vita, scopro le crisi religiose con una primordialità tale che non mi sembra di averle mai conosciute prima, una primordialità tale che, se nessuno le avesse scoperte prima, spetterebbe a me scoprirle. Ma non ce n’è bisogno; posso, quanto a questo, umiliarmi e correggermi, come quando un giorno ho conso­ lato un pover’uomo che, diceva un beffeggiatore, non aveva inventato la polvere da sparo: sarebbe inutile, replicai, l’hanno già inventata. Ma una cosa è imparare a memoria le lezioni del manuale, recitare il catechismo davanti al pastore o persino davanti al vescovo in visita, predicare come un pastore, e un’altra è appropriarsene originalmente. Ho la for­ tuna di non dover insegnare. Do volentieri alla questua, pago con gioia l’imposta del culto; fortunato chi è abbastanza si­ curo di sé da farsi pagare per il proprio insegnamento. Come possibilità, sono passabile; ma quando voglio appro­

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priarmi, nella catastrofe, dei modelli religiosi, urto contro un dubbio filosofico che non voglio esprimere, come tale, a nessuno. L ’essenziale è il momento dell’appropriazione. Per mia di­ sposizione alla catastrofe religiosa, ricorro al paradigma, ma, ahimè!, il paradigma sono incapace di comprenderlo, benché lo veneri con una devozione di bambino che non vuole ri­ nunciarvi. Un paradigma si fonda sulle visioni, un altro sulle rivelazioni, un terzo sui sogni. Discorrerne, infiammare il proprio discorso di ardente immaginazione, e allo stesso tempo tenersi stretti al presupposto, il presupposto, appunto, che riguarda il momento dell’appropriazione da parte del­ l’immaginazione, è molto facile; ma comprenderlo è un’altra cosa! Quando uno ha, del bisogno religioso, un’idea abbastanza profonda da poter far lezione al pastore, ma ha anche uno scetticismo filosofico che va di pari passo, le prospettive non sono le migliori. Se solo arrivo alla fine di quest’anno di lutto, il mio lutto per lei (e il mio anno non è quello del calendario; può durare cinque, dieci anni o tutta una vita, perché è lei che ne determina la durata), potrò gettarmi a capofitto in queste lotte, e tutto andrà bene. Voglio resistere fino alla fine; non voglio sfuggirvi né darmi a scappatoie astute per ingannare gli altri, come fanno gli scolari quando scrivono all’inizio del quaderno: «vedi al centro», e là: «vedi alla fine», per burlarsi della vittima di turno. E mia convin­ zione che la volontà sia la cosa essenziale anche nell’ambito del pensiero, e che qualità dieci volte maggiori senza una volontà energica fanno un pensatore peggiore di quanto non facciano qualità dieci volte più mediocri con una volontà energica; i magnifici doni dello spirito permettono di com­ prendere il molteplice; una volontà energica permette di

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comprendere l’unico, la sola cosa necessaria. Ma non perché uno vuole, e vuole perseverare, diventa per forza un santo cantore di yodel,^^ che contempla il corso della vita, delle cose e della storia e si accorge che lo spettacolo è meravi­ glioso. Si lustri pure gli occhi, e trovi l’esistenza e la storia mirabili; per quanto mi riguarda, mi basta guardarlo per giu­ dicarlo un somaro, come chi sul pulpito si mette a fare ca­ priole in onore del cristianesimo, o assume un’aria così seria che vi diverte come il pastore che salta fuori dalla tabac­ chiera. Questo modo tutto animalesco di spalancare gli occhi non costituisce la religiosità più di quanto la stupidità o il sudore e il rossore del viso non costituiscano la serietà, dal momento che l’ispirato in sudorazione è bestia al punto da essere incapace di ridere. Se non altro, so almeno che uno dovrebbe ricorrere alla comicità per far giustizia in campo religioso. Nelle deviazioni, non bisogna vedere ipocrisia, ma stupidità. Non aiutiamo il cosiddetto ipocrita riconoscendogli un rapporto con Dio. Se, colmi di una patetica indignazione, ci arrabbiamo contro le malversazioni della speculazione, contro le frodi del Sistema che, al modo dei proconsoli ro­ mani, s’arricchisce con la spoliazione delle province, non fac­ ciamo altro che arricchire il Sistema e svuotare la vita; qui occorre soprattutto una buona caricatura del neo-convertito. Il padrone di una barca può bestemmiare da mattina a sera senza pensarci minimamente; allo stesso modo, un neo-con­ vertito può ostentare tutto il giorno un’aria solenne senza aver dentro neppure un’idea sana o completa. Il re dei Goti^*^ Allusione sprezzante (come, sotto, l’altra battuta sulle capriole sul pulpito) al­ l’influentissimo riformatore religioso e politico, poeta e pedagogista N . F. S. Grundtvig (178 3-18 72 ), fondatore di istituzioni determinanti nella storia della cultura da­ nese, come la Chiesa Libera e le Università popolari. “ In realtà, il re dei Frisi R adbodo (morto nel 719 ); l’episodio è citato nella Almindelig Kirke-Historie di L . H olberg, Kjebenhavn 1740 , i, pp. 295-96.

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rifiutò il battesimo quando gli dissero che in cielo non si sarebbe riunito coi suoi antenati; gli indigeni d’America te­ mono il paradiso più dell’inferno e preferiscono restare pa­ gani per non ritrovare in cielo gli Spagnoli, i veri credenti; così per molti dei nostri neo-convertiti: se non altro, vi fanno venire la nausea del religioso. Di questa lotta che si svolge in fondo a me stesso, non ho ancora il coraggio di dire: «oggi»,^^ ma sento che il coraggio lo devo soprattutto a lei. Chi ha reso qualcuno infelice, è adattissimo a sostenere simili lotte: il condannato all’erga­ stolo si vede messo alla raspa; è un lavoro pericoloso, ma tanto, è un condannato. Mi rendo anche ben conto che il celibe può avere più coraggio nel mondo dello spirito dell’uomo sposato; comple­ tamente al servizio dell’idea, può mettere in gioco tutto, ed è molto più adatto a trovarsi sul discrimen^^ della decisione, dove non può neppure fermarsi, per non dire stabilirsi. Ma non è certamente per questo che non ho voluto sposarmi. Anch’io avrei voluto un po’ di gioia serena nella vita, e la preghiera che lei mi ha rivolto ha fatto, del mio desiderio, il mio unico desiderio; e se anche non l’avessi desiderato, l’a­ vrei fatto lo stesso, perché continuo a credere che l’obbe­ dienza sia più gradita a Dio dei sacrifici cosmopoliti, filantro­ pici e patriottici sugli altari dell’umanità; che il silenzio nel compimento di un modesto dovere valga infinitamente di più e si addica meglio a chiunque del lusso spirituale, e dell’e­ nergia sprecata a preoccuparsi della specie intera, neanche uno fosse Dio onnipotente. Parlate pure con termini infiam-



Lettera agli Ebrei, 12, 9. Momento decisivo, pericolo.

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mati della collera di Dio e del suo fuoco divoratore; c’è un’altra cosa che temo, almeno altrettanto: obbligare Dio a mostrarmi la sua distanza, a dissolvermi come una menzogna davanti alla distanza della sua maestà. Che mancanza di se­ rietà, direbbe uno dei nostri neo-convertiti: preferirebbe ve­ dermi bestemmiare con pietà, esattamente come il padrone della barca bestemmia con empietà. Per me, la serietà c’è, eccome: e racchiude più terrore che non le immagini sensibili che si fa un’immaginazione sovreccitata. Appena disprezzo il dovere, Dio mi si fa distante, perché soltanto nel dovere mi trovo nell’armonia di un suddito con la sua supremazia, ed è per questo motivo che la sua maestà non è distanza. Così non è Dio a rendersi distante, non lo fa mai (sarebbe pagane­ simo); sono io a renderlo tale, per il mio castigo. Profonda conseguenza: chi disdegna le cose semplici per avvicinarsi a Dio, lo allontana appunto da sé, e lo relega nella sua di­ stanza, una distanza superiore a quella che prova il più mise­ rabile degli uomini. Anche a questo riguardo ho l’orecchio molto fino, e anche se molti filosofi che gridano al mondo Sóq [ioi TcoC 0X0)6^ non la sentono, per conto mio, sento una voce che dice: «Ve lo darò io il dosmoi,^'^ mucchio d’imbe­ cilli!». No, se non avessi creduto di obbedire a un contrordine divino non mi sarei mai tirato indietro, e appena il contror­ dine sarà revocato io tornerò a scegliere il mio desiderio. Dio non voglia che lo sforzo e la tensione snervino il mio desi­ derio prima del tempo. Posso comprendere il mio contror­ dine, perché passa per il rammarico. Un uomo che si ramma«D atem i un punto d’appoggio (e vi solleverò il m ondo)»; è la famosa battuta attribuita tradizionalmente, da Plutarco in poi, ad Archimede. ^ G ioco di parole fra dos moi e Dosmere (imbecilli).

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richi può pure passare la vita a rimpiangere: ma non fa un passo avanti, È una protesta assai elementare contro il matri­ monio. Io non mi oriento né con le visioni, né con i sogni: il mio conflitto è, in modo molto elementare, quello che il pentimento ha con la vita, il conflitto della sospensione con la realtà presente. Finché non si risolve, io sono in suspense; appena si risolve, sarò libero di nuovo. Così mi tengo con ogni sforzo ai vertici dell’innamoramento. Dal momento in cui lei sarà libera, il mio compito saranno le crisi religiose. Supponiamo, a titolo di pura ipotesi, che lei sia di nuovo resa a se stessa, supponiamo che lei abbia esagerato a parlare di morte, e che non l’abbia intesa come una battuta patetica, ma nel senso in cui si usa dire discorrendo: «muoio di caldo in queste stanze anguste»; oppure supponiamo che lei abbia voluto dire proprio questo, ma senza comprendersi, o che abbia sofferto da morire, ma trionfato; ammettiamo che io abbia contribuito più o meno a questa vittoria; ammettiamo che lei abbia detto per difendersi che non si è mai curata di me - e allora? Allora, io mi sono curato di lei ancora di più. Gran Dio! Se fosse possibile! La mia anima si slancia a inse­ guire ogni spiegazione in quel senso. Anche se in qualche caso mi dispiacerebbe per lei, non chiedo altro: così sarei io ad aver sofferto di più. Non chiedo altro. Avrei preso le partes della ragazza; avrei osservato il lutto con altrettanto, se non maggiore, rigore di lei; non chiedo altro. Non l’ho ab­ bandonata per diventare primo ballerino alla balera, o primo amante in un’eterna Società dell’amicizia. Ciò che per lei non ha avuto alcuna importanza, se non forse come decisione di ordine temporale, ha avuto per me un valore eterno. “ Circolo sociale di Copenaghen, fondato nel 17 8 3 con funzioni culturali e mondane.

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Non rimpiango niente, nemmeno una sola lacrima versata per lei; non ne arrossisco, perché non è indegno di un uomo piangere, ma è effeminato non saperlo nascondere in pub­ blico. Se un beffeggiatore avesse contato tutte le mie lacrime (ah, che azione spregevole! ah, povero illuso, a contare le lacrime che mi fanno bene all’anima!), e, trovando il loro numero imponente, me lo avesse riferito per schernirmi, un uomo che piange! - perfino allora, no, non le rimpiangerei. Se muoio domani, la mia esistenza sarà stata almeno un epi­ gramma che rende superflua qualsiasi iscrizione sulla mia tomba. Non rimpiango di aver pianto; lei mi ha fatto un favore, un grande favore, e proprio con una parola avventata, con un’espressione esagerata. Ecco, se fosse così, la mia situazione diventerebbe in un certo senso difficile. Dovrei avere sulla coscienza una vita umana per risvegliarmi e uscire dal torpore della malinconia. Mi umilio davanti alla gravità di questo pensiero. Ma la mia ragione interviene; no, mi dice, non è vero; hai visto bene che non si tratta di una vita umana; la tua immaginazione ha forgiato questa chimera e l’ha sottoposta alla tua tristezza; e l’una e l’altra sono state d’accordo sulla sua possibilità. Dunque, non è questione di una vita umana, ma di una pa­ rola che, forse, sulle labbra di molti altri ti avrebbe fatto sorridere. Sì, in un certo senso è proprio così. E tuttavia, non rimpiango affatto di aver patito tutta questa sofferenza, che, tuttavia, non mi ha ancora paralizzato, come farebbe certo se ne parlassi. L ’ho provata nella solitudine e nell’insonnia quando, in un secondo, vengono allo stesso tempo alla mente più cose di quante non saprei scriverne per mesi, quando l’immaginazione evoca angosce che nessuna penna oserebbe affrontare, quando la coscienza sussulta angosciata e si spa­ venta dei suoi miraggi.

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Ma ahimè! Tutto questo non è che un’ipotesi.

25 marzo. Mattino Oggi, un anno fa. Qual è l’esistenza più felice? Quella di una fanciulla di sedici anni, pura e innocente, che non possiede niente, nem­ meno un cassettone o una mensola, e che, nel cassetto infe­ riore dello stipo di sua madre, nasconde tutti i suoi tesori, il vestito della cresima e una raccolta di cantici. Felice chi non possiede più di quanto possa contenere il cassetto suc­ cessivo. Qual è l’esistenza più felice? Quella di una fanciulla di sedici anni che, pura e innocente, sa ballare, ma non va al ballo più di due volte l’anno. Qual è l’esistenza più felice? Quella di una fanciulla di sedici primavere, pura e innocente, che si applica al suo la­ voro e che trova il tempo di buttare un’occhiata verso chi non possiede niente, né cassettone, né mensola, ma condivide l’armadio comune, e che tuttavia interpreta le cose in tutt’altro modo, dato che egli possiede il mondo intero in lei, benché lei non possieda niente. E chi è questo sventurato? È il ragazzo ricco, di venti­ cinque inverni, che abita di fronte. Quando uno ha sedici primavere e l’altro sedici inverni, non hanno la stessa età? Ahimè, no! E per quale ragione? Lo stesso tempo non dura lo stesso? Ahimè, no! Il tempo non dura lo stesso. Ah! Perché nove mesi nel seno di mia madre non sono bastati a fare di me un vecchio; perché non mi hanno avvolto subito nella gioia; perché sono nato non solo con dolore, ma

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per il dolore, perché i miei occhi si sono aperti non per guardare la felicità, ma unicamente per affondare nel regno dei sospiri, senza potermene più sottrarre!

27 marzo. Mezzanotte Abbracciare un’ipotesi è come abbracciare una nuvola, invece di Giunone;^^ allo stesso modo, è un’infedeltà a Giunone. Ma servirsi dell’ipotesi come mezzo d’esercizio, allenarvi l’anima per dare all’energia un’elasticità nuova, non è proibito, anzi, è proprio ciò che si dovrebbe fare. Così fortificato, sono di nuovo suo, interamente. Se non la stringo più fra le braccia, tuttavia l’abbraccio, perché l’opera del ricordo al mattino e il tentativo di salvataggio a mezzanotte costituiscono pure una sorta di abbraccio in cui la stringo. Un tentativo di salva­ taggio: il termine è appropriato? Quand’anche disponessi di tutti i mezzi, a che scopo, se non posso usarli; quand’anche fossi in condizioni di agire, a che scopo, se sono vincolato, e i vincoli che m’impongo sono forse l’unico mezzo per soccor­ rerla un po’? Se solo potessi risalire a galla, risalirei subito nella mia barca, a condizione che lei ne tragga beneficio, perché anche questo sarebbe possibile: che le cose che un tempo l’avrebbero salvata, non abbiano ora più importanza per lei. E incredibile quante risorse conosce la possibilità, soprattutto per chi non osa adottarne una sola; perché se ne troverebbe sempre un’altra, e forse numerose altre secon­ darie. Eppure, si tratta di un tentativo di salvataggio. “ Allusione al mito del re tessalo Issione che cercò sull’Olim po di abbracciare Era, ma se la trovò sostituita nelle braccia da una nuvola in figura di lei, per opera di Zeus. D all’amplesso nacque il mostro Centauro.

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Quale sorprendente potere possiede una singola parola, quando non è inserita nella trama della frase e del discorso, dove non desta che un’attenzione di passaggio, ma quando, staccata da ogni legame linguistico, vi guarda fisso con l’ecci­ tazione dell’enigma e l’attenzione dell’angoscia! Sono de­ presso come se la parola contenesse un’altra specie di verità reale; come se fossi steso, in una sera tranquilla, sulle rive di quel lago circondato di giunchi; come se la sentissi gridare, e poi un colpo di remo: le ho salvato la vita, ma non è mai più tornata umana. Così, l’angoscia, il dolore e lo smarrimento avevano lentamente forzato il catenaccio della coscienza, finché la disperazione aveva disperso tutta la grazia di questa amabile femminilità. Terribile! Non posso invitare questo pensiero ad allontanarsi, non posso pregare che questo pen­ siero passi da me? No. In fondo, è una possibilità. E tuttavia, quando ero da lei, il semplice fatto che osassi essere là, che osassi fare tutto, per nulla che fosse, era un sollievo, un sol­ lievo simile al bruciore, che non è tanto sofferenza, quanto dolore sordo e continuo. Dunque lei vorrebbe confondere ogni cosa, adesso, e credere che siamo in barca come una volta, su questo lago dove facevamo vela insieme; vorrebbe che ci scambiassimo, se non parole alate, le espressioni della follia, per capirci nella demenza e parlare del nostro amore come Lear, quando cerca di parlare a Cordelia della corte e ne chiede notizie. Ma essere separato da lei; e, se lei mo­ risse, che l’essere a lei più vicino, l’unico forse a disporre di tutta una vita, breve o lunga, per portare il lutto di lei, fosse anche il solo che non si sia visto in lutto, o piuttosto il solo che non avesse il diritto di seguire il corteo funebre che " Shakespeare, Re Lear, v, 3, 11-18.

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l’accompagnava alla tomba, pur sapendo meglio di chiunque altro che un morto è il più potente di tutti! Ah! Un mezzo qualunque per esprimere il lutto, persino il più doloroso, è tuttavia un sollievo in confronto a una priva­ zione totale. Vivere come un muto, e tuttavia avere l’anima piena di tormenti e, dentro, la lingua: non quella di un ma­ nuale di conversazione, ma l’invenzione del cuore; essere come un muto, anzi, come un mutilato, mentre si provano sofferenze che esigono l’eloquenza di un mimo! Essere ri­ dotto a diffidare della voce; che non tremi se si parla di lei, cosa che potrebbe rovinarla; a diffidare dei piedi, che non si allontanino dal cammino abituale per mettersi su una pista traditrice; a diffidare della mano, che non ritrovi improvvisa­ mente il suo posto sul petto, svelando tutto il segreto, e delle braccia, che non si tendano verso di lei! Starsene a casa, coperti di saio e di cenere, o meglio, nudi nella propria mi­ seria, e, al momento di vestirsi, non avere, per nascondersi, altro abito che quello della gioia e della gaiezza. «Dove le fa male esattamente?» chiede il medico al ma­ lato. «Dappertutto, dottore» risponde quello. «Ma che soffe­ renza è la sua?» prosegue il medico, per poter fare la dia­ gnosi. Me, nessuno mi interroga, del resto non servirebbe a niente. Conosco bene la natura della mia sofferenza, una sof­ ferenza simpatetica. Esattamente la sofferenza che mi può sconvolgere. Ho un bell’avere, nella mia malinconia, la con­ vinzione profonda di non essere adatto a niente: non appena si manifesta il pericolo, ho dentro di me la forza di un leone. Quando la mia sofferenza è autopatica, posso far intervenire tutta la mia volontà e, triste come sono, educato come sono alla tristezza, una situazione terribile mi vede subito pronto ad affrontarne una ancora più terribile. Ma quando soffro per

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simpatia, mi è necessario allora usare tutta la mia forza e mettere subito tutto il mio ingegno al servizio del terrore per evocare il dolore dell’altro, e in questo modo perdo tutte le mie energie. Nella mia sofferenza, la ragione cerca dei moti­ vi di consolazione; ma non oso prenderne uno solo sul serio, quando soffro per simpatia, perché non posso conosce­ re l’altro al punto da sapere se ci sono le condizioni neces­ sarie perché abbia effetto. Nella mia sofferenza autopatica, so dove mi trovo, metto dei picchetti sulla mia via dolorosa, per avere punti di riferimento; ma nella mia sofferenza simpate­ tica, mi perdo, perché ignoro dove sia realmente l’altro; così mi occorre ricominciare a ogni istante e tenermi pronto a considerare nel momento seguente una possibilità ancora più terribile, a sopportare l’orrore se non voglio sottrarmi a niente. Appena lei sarà libera, certo, il mio lutto non sparirà, ma io sarò, allora, al punto in cui lei senza dubbio mi credeva, quando mi ha pregato di ricordarmi talvolta di lei. Mi ricor­ derò di lei, certo; ma quando avrò trovato consolazione an­ ch’io, quella della malinconia, e ripeterò con Ossian:^* dolce è la tristezza della malinconia; allora avrò pace, perché chi rammemora nella malinconia è anche benedetto, addolcito e felice come il salice piangente agitato dal vento della sera. Ma non ora. Il mondo intero non mi fa paura; almeno, non credo; ma temo questa fanciulla. Se solo la scorgo di sfuggita, ecco il mio destino segnato fino al prossimo incontro. Così, lei è essenzialmente tutto, tutto, assolutamente tutto; ritro­ vata la sua libertà, lei non sarà essenzialmente più niente. Lei è l’amabilità stessa, è vero, ma su un piano essenziale non “ N ella traduzione del poeta S. Steensen Blicher, Ossians Digte, Kjabenhavn 1807-1809, I, p. 38.

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significa niente. Se lei avesse più grazia di un angelo, poco mi importerebbe; il fascino di una fanciulla non mi tocca su un piano essenziale. Sono stato innamorato; ma la mia anima è troppo portata all’eterno per disperare di un amore infelice; al contrario, posso ben disperare di una responsabilità infe­ lice, di una comprensione infelice del senso eterno della vita. Comprenderà la difficoltà dialettica della mia situazione solo chi l’ha vissuta personalmente. Quando un inesperto legge un documento giuridico da capo a piedi, forse lo comprende, ma solo il giurista esperto può ricostruirne la genesi; solo lui è in grado di leggere il testo invisibile delle difficoltà superate; lui solo è al corrente del contributo portato da generazioni scomparse alla sua redazione; egli conosce i conflitti di fron­ tiera fra acutezza e acutezza, l’acutezza al servizio della giu­ stizia e l’acutezza al servizio dell’inganno; perciò, per lui, ciascun termine non ha un valore relativo, ma assoluto, e il documento è ai suoi occhi anche un contributo alla storia dell’umanità. L ’inesperto può anche comprenderlo, ma non lo saprà mai ricostruire, ed è tanto se riesce a ricopiarlo esat­ tamente.

2 aprile. Mattino Oggi, un anno fa. Il primo o il due di questo mese ho voluto verificare a che punto eravamo. Ho cercato un pretesto e posto una domanda di circostanza per darle l’occasione di esprimersi. Che succede? Senza il minimo riguardo, anzi con una violenza sgradevole, molto vicina all’astio, lei dichiara che «non le importava affatto di me, che mi aveva preso per compassione, e che non riusciva a capire che cosa volevo da

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lei». In breve, una piccola improvvisazione ad modum Bea­ trice in Tanto rumore per nulla. O tristezza, tu sì che sai farti beffe di chi è triste! Il poeta ha ragione: Quem deus perdere vult, primum dementatJ^ Ormai ho percorso l’oscura valle dell’afflizione cercando di fare del mio meglio in ogni circostanza; mi sono umiliato a tal punto che non oserei confessarlo a nessuno; ho indugiato nelle tenebre della morte, profondamente ferito dal pensiero di non poterla rendere felice - e non mi è neppure venuta in mente l’idea più a portata di mano, quella che, ora che lei me lo dice, mi si impone con l’evidenza: che non le importi niente di me. Ma forse non si tratta che di una frase inconsulta, di un’e­ splosione violenta; forse lei è irritata senza che io ne veda la causa. Ma non voglio adirarmi; se soltanto fossi ben sicuro della mia concezione della vita, avrei il coraggio di usare la forza, e tutta questa storia non sarebbe più che una buffo­ nata. D ’altra parte, lei mi apre una luminosa prospettiva. In ogni caso, una cosa è certa: il matrimonio è e resta per me il più difficile dei compiti; comprendo ora tante cose che, se mi fossi compreso così prima, non mi sarei mai imbarcato su questa strada. E lei sembra ormai avere molta più forza nei miei confronti di quanta ne abbia io nei suoi. La mia esplorazione è terminata con un’esplosione: ne ho ricevuto la scarica in pieno viso. Come chi è rimasto a lungo nelle tenebre è accecato all’improvviso da una forte luce, così è accaduto a me: lei mi era vicina, e io la vedevo a stento. Questa figura ideale, che ho abbracciato con la sollecitudine e la responsabilità di un dovere eterno, si è improvvisamente Shakespeare, Tanto rumore per nulla, cfr., per esempio, v, 4, 73-83. Glossa latina aHÌ'Antigone di Sofocle, w . 620-23: « G li dèi cominciano col fare impazzire chi vogliono perdere».

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offuscata e ridotta a una tale insignificanza che facevo fatica a distinguerla. La mia tristezza si è come dissipata e vedo con chi ho a che fare: morte e pestilenza, che razza di ra­ gazza! Ma devo ripetere l’esperimento e vedere se è fondato o meno. Mi manca, cioè, la logica della sua azione: tiri le somme, e mi congedi. Ma sembra non pensarci in nessun modo. Che significa, allora? Vedremo.

2 aprile. Mezzanotte Ma se realmente impazzisse? Non è certo mai stata questione di pericolo di morte, che ora sembra evitato (benché per me sia sempre angosciante la logica che prende un cum hoc per un propter hoc^^), ma potrebbe trattarsi di follia. Ricapito­ liamo. Innanzitutto, se mi ritiro come un mascalzone, ne risulterà un cambiamento essenziale che la metterà in un processo patologico di tutt’altro ordine, indirizzerà contro di me la sua collera, la sua amarezza, la sua sfida, e il suo orgoglio la inciterà soprattutto a rischiare tutto per non sprofondare. Se le fossi stato fedele, soddisferebbe l’amore e tutti gli altri lati dell’anima possedere tutto e perciò perdere tutto nell’essere amato; ma poiché io mi sono mostrato indegno del suo amore, occorrerebbe un eroismo poco comune per disde­ gnare la consolazione che viene da sé: rendere l’indegno il più insignificante possibile. In questo senso, l’ho sostenuta Celebre errore denunciato - con l ’altro post hoc ergo propter hoc - dalla logica classica: il «co n questo» scambiato con il «per via di questo», la circostanza con la causa.

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con tutte le mie forze e credo che, se non avessi usato questa precauzione, allo stesso tempo rispettando il giudizio gene­ rale su di me, l’avrei direttamente condotta alla follia; perché pretendere di essere un oggetto degno del suo amore e agire di conseguenza vuol dire porle un compito dialettico tal­ mente dipendente da un rapporto individuale con Dio che solo con l’aiuto di Dio si può sostenere il problema. Perciò è doveroso anche accettare di passare, anzi di contribuire a passare per un essere corrotto agli occhi di tutti gli interes­ sati, e di conseguenza soprattutto a quelli della fanciulla. Quanto agli estranei, meglio osservare il silenzio. E quello che ho fatto. Psicologicamente, un’anima femminile può impazzire in due modi. Uno dei due è un passaggio dell’improvviso, in cui la ragione è presa alla sprovvista. Si può restare accecati pas­ sando bruscamente dall’oscurità alla luce; il cuore può ces­ sare di battere per un brusco cambiamento di temperatura, perché l’espirazione è inibita dalla pressione dell’aria che fa irruzione. Lo stesso accade alla ragione, al passaggio dell’im­ provviso: la riflessione non può espirare, e la ragione si ferma. La follia diventa così pietrificante. Non c’è propor­ zione, o piuttosto, c’è una totale sproporzione tra le capacità della ragione e il compito che le si presenta. E questa spro­ porzione che manifesta la follia. Un istante decide tutto; un istante in più e non sarebbe successo. Il secondo modo si verifica quando una passione segreta sfinisce la volontà, a forza di riflessione; il soggetto di quella passione sprofonda allora lentamente nella follia. Invece di pietrificarsi, perde il discernimento in un complesso di rap­ presentazioni che si sostituiscono le une alle altre per neces­ sità di natura, ma senza far ricorso alla libertà che una volta

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ha liberamente suscitato le stesse rappresentazioni, così che ora queste si suscitano da sé, senza libertà. Per lei, non potrebbe assolutamente trattarsi del primo caso, perché il passaggio è stato il più graduale possibile; del resto, avrei ben visto che cosa succedeva. Sembrerebbe piut­ tosto il secondo caso, il più temibile. In un certo senso, le ho reso il nostro rapporto tanto dialettico quanto ha potuto la mia riflessione; non credo di aver trascurato di suscitare una sola possibilità per metterla poi da parte, ogni volta, in ma­ niera talmente ipotetica da lasciare a lei di trovarne la spiega­ zione. E quello che ho fatto tenacemente; credo che dal punto di vista umano sia Tunica cosa giusta. Che pesante incombenza, ahimè! Avrei creduto piuttosto di perdervi la ragione io stesso. Lei non era molto riflessiva per natura; anzi, per meglio dire, non lo era affatto; ma si può mai sapere l’effetto di un evento? Bastava la decima parte soltanto delle possibilità che ha posto in opera la mia riflessione, se l’avesse trovata da sé, a turbare la mente di una donna. Ma le possibi­ lità che vengono dalla riflessione possono aver perduto la loro attrattiva ai suoi occhi. E quello che volevo e, dal punto di vista umano, è giusto. Il lutto segreto deve scoprire e produrre da sé la possibilità della riflessione; poi si lascia sedurre a sostenerla: è la caparra della demenza. Ma non è questo il suo caso. Qualunque possibilità della riflessione lei susciti, non avrà la freschezza rianimante della novità, né l’attrattiva della sorpresa; non avrà virtù segrete e abba­ glianti, perché lei la conosce. E poi, non ho evocato io stesso tutte le possibilità della riflessione, più completamente, al­ meno, che ho potuto? Ho voluto darle l’impressione di una riflessione superiore. Uno fa del proprio meglio. Quando lei si metterà a riflettere, le verrà in mente: «A che scopo riflet­ tere, anche se potessi farlo come lui; a lui, a che cosa è

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servito?». La riflessione è per un’anima femminile quello che sono le caramelle per un bambino. In piccola quantità hanno la loro attrattiva; en masse, la perdono. Inoltre, se talvolta lei mi pensa, se spera in una possibilità di ripristinare il nostro rapporto, potrebbe insinuarsi in lei un nuovo genere di riflessione. Per questo scopo ho lavorato e lavoro con tutte le mie forze, preservando come faccio la mia esistenza da qualsiasi cambiamento. Tuttavia, da qualche no­ tizia sentita sul mio conto, o da qualche indizio che lei crede di scoprire nel mio comportamento esteriore, lei trarrà forse una conclusione. Benissimo; ma nello stesso istante dirà a se stessa che la mia riflessione le ha mostrato tante possibilità che non saprebbe seguirmi. Questa osservazione non ha per lei niente di umiliante né di offensivo, perché è normale che una persona abituata a pensare rifletta di più, molto di più di una fanciulla. Se dunque, cosa che spero, lei non avesse avuto fino al disgusto la nozione completa di quanto può la rifles­ sione, forse vi avrebbe trovato una tentazione. Adesso, non credo. Ho fatto di tutto per disgustarla dalla riflessione (perché l’onnipotenza della riflessione, quando poggia su un’idea sola, si trasforma naturalmente, a sottrarre quell’unica idea, nell’onnipotenza dello sproloquio dialettico); ho fatto di tutto affinché ciascuno dei suoi tentativi di riflessione le sembrasse sterile ancor prima di cominciare. Ne ho sof­ ferto e continuo a soffrirne; si può succhiare il veleno della ferita di un altro e morirne; nello stesso modo, per estirpare da un altro la facoltà di riflessione, diventare eccessivamente riflessivi. Ma se la riflessione le ripugna, è perché è prossima a una decisione, e lontana dall’awiarsi sulla strada scivolosa che può condurre alla follia. Se si libera, si libera per mezzo di una risoluzione personale, e non in seguito a tale o talaltra

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considerazione o concezione che abbia potuto metterle dentro io. Secondo ogni umana probabilità, lei non potrebbe dunque impazzire per amore. Proprio data la sua natura poco rifles­ siva, il passaggio dell’improvviso avrebbe rappresentato per lei il massimo pericolo. Ma è scongiurato, e, per prevenire il traviamento della sua riflessione, io ho fatto del mio meglio. Se dunque sopraggiungesse la follia, sarebbe a causa dell’orgoglio femminile, ferito per essere stato disprezzato e che, disperando di vendicarsi, si chiuderebbe su di sé fino allo smarrimento. Ahimè! Conosco bene il giudizio del mondo: forse ho provato più di lei il tormento del dolore; fremo al pensiero che qualcuno potrebbe, con uno sguardo sprez­ zante, o, cosa altrettanto terribile, pieno di pietà, farle inten­ dere che è stata offesa, coltivando così l’offesa. Un tempo, si dice, vi era l’usanza di allevare talvolta un principe insieme a un fanciullo di più umili condizioni, destinato a subire tutti i castighi meritati dal principe. Si è parlato di crudeltà di cui era vittima lo sventurato ragazzo che doveva prendersi le botte: per me, trovo ben più grande quella che si esercitava contro il povero principe che, se aveva il sentimento dell’o­ nore, risentiva i colpi con molta più forza, molto più dolore, molta più prostrazione che se li avesse subiti in realtà. So anche quanto mi addolorava esporla a questo dolore; so che ero pronto a tutto per prevenirlo, dando alla nostra separa­ zione una falsa apparenza in modo da prendere io, agli occhi del mondo, le sembianze di vittima; perché quando si tratta semplicemente di me, so che cosa costa e come difender­ mene: ma era irrealizzabile. A volte, durante i nostri colloqui, ho cercato di metterla in guardia, ho insinuato qualche ac­ cenno nel tono brioso della conversazione; ma invano. Ba­ stava una parola da parte sua ed era fatta, malgrado tutta la

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mia prudenza nell’affrontare col tono scherzoso della conver­ sazione quello che era per me un indicibile sollievo. Di più non osavo fare. Ah! Se avessi lasciato parlare tutta la mia passione, lei avrebbe visto eo ipso^^ dal mio ardore il mio interesse per lei; di nuovo, tutto si sarebbe trascinato per le lunghe; di nuovo, lei si sarebbe permessa tutti i mezzi per commuovermi, cioè per tormentarmi, perché intenerirmi non dovevo. Esiste una contraddizione comica, che consiste nel parlare con tono patetico o sistematico di cose di cui non si è con­ vinti o che non si comprendono; ma esiste una contraddi­ zione tragica, e profondamente tragica, dell’essere obbligati a esprimersi in termini vaghi, in allusioni sciocche, in formule di conversazione a proposito di cose che preoccupano e an­ gosciano fino alla morte. Esiste la contraddizione comica di puntare quattro soldi quando si ha la possibilità di vincere infinitamente di più, ma esiste la contraddizione tragica, e profondamente tragica, di essere obbligati a puntare formal­ mente, come giocando a gettoni, quando si sa fin troppo bene quali sono gli interessi in causa. Il conflitto, credo, sa­ rebbe uno dei più terribili; forse il più terribile, se proviamo a immaginare una situazione in cui, per sollecitudine verso un altro, un apostolo si trovi nella necessità di parlare della verità del cristianesimo in termini ambigui, col tono scher­ zoso della conversazione. Ma veniamo al sodo. Che la follia si affermi in questo modo, faccio fatica a crederlo; non perché la cosa sia terri­ bile, giacché il mio onore esige che sottoponga al mio pen­ siero anche simili possibilità, ma perché la sua condotta verso ”

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di me apparirebbe sotto una luce meno favorevole. Ognuna di quelle sue esplosioni di passione che mi hanno messo un omicidio sulla coscienza, ogni esplosione appassionata del ge­ nere, che il mio onore, in mancanza d’altri lumi, mi ordina di prendere per autentica malgrado le proteste della ragione, ogni esplosione di questo genere che, anche a spiegarsene l’esagerazione, resta compatibile tuttavia con la purezza e l’amabilità femminili; ma, a presupporvi dentro la molla del­ l’orgoglio, ogni esplosione di questa natura diventerebbe una falsità egoista e brutta contro di me. Senza dubbio, anch’io mi sono permesso molte falsità verso di lei; ma l’ho fatto veramente per salvarla e con intenzione simpatetica. È per questo che faccio tanta fatica a credere a questa terribile conclusione. Del resto, ho fatto anche in questo caso tutto il possibile, e continuo a farlo senza sosta. Se la mia esistenza ha messo in luce qualche lato positivo, si potrebbe pensare che il suo orgoglio ne sia stato eccitato. Se potessi sostenere un’esistenza maschile, caratterizzata appunto dal suo rap­ porto con l’altro sesso, cioè dalla bellezza, dalla prestanza, dal fascino, dalla distinzione eccetera, la mia preferenza po­ trebbe realmente esserle di pregiudizio; potrebbe eccitarla vedersi giudicata in questo senso da un uomo al quale il suo sesso conferisce competenza in materia di giudizio. Ma fortu­ natamente, niente mi è più lontano. Se fossi un artista esperto di bellezza e di femminilità, se fossi un poeta, il prediletto dal suo sesso, potrebbe darsi che il suo orgoglio s’infiammerebbe a questo giudizio espresso su di lei da un tale arbitro. Se fossi un pensatore, uno studioso, sarebbe già più difficile conce­ pire un’esistenza di questo genere, tentare ancora una donna ferita nel suo orgoglio. Ma anche un’esistenza di questo ge­ nere sarebbe sempre qualcosa. Invece, quel qualcosa che sono io è esattamente un niente. Tenerla sempre in mente mi

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basta, e basta al mio genio per mantenere la mia esistenza sullo zero, al punto critico tra il caldo e il freddo, tra l’essere qualcosa e l’essere niente, l’essere forse un saggio e l’essere forse un imbecille. Una tale esistenza differisce essenzial­ mente da un’esistenza femminile; non saprebbe rendersi inte­ ressante a una donna, né tantomeno stimolarla. Non sono tanto demente da suscitare la sua compassione: la mia mezza follia è appunto tale che lei può dirne con distacco: «Ah, è pazzo!». E se un orgoglio ferito s’interessa a me, non farà poi fatica a levarsi al di sopra di un originale come me. Ci vuole già abbastanza dialettica per concepire l’esistenza al punto zero e per reggerla; ma per vedere in quell’esistenza, inoltre, una polemica contro se stessi, bisognerebbe essere un dialet­ tico fuori dell’ordinario. È raro che una donna abbia grande capacità dialettica; quanto a lei, ne era sprovvista; se poi è diventata una dialettica senza pari, buon per lei; se non lo è diventata, il mio metodo è giusto e calcolato bene. Tale è la mia diagnosi. Disgraziatamente, non mi consola affatto, malgrado la mia costante necessità di chiarirmi ogni cosa. Se fossi stato consultato e se avessi dovuto dichiarare qual era la condizione del paziente, sarei stato tranquillo quanto alla possibilità di uno smarrimento mentale. Poiché non sono il medico, ma il colpevole, la diagnosi mi è inutile. Su di me agisce il veleno; il veleno della riflessione che mi sono coltivato dentro allo scopo di riuscire a purgare lei da ogni riflessione. Una volta, mi ricordo, lei mi ha detto: «Come dev’essere terribile, potersi come te spiegare tutto». Allora lei ha potuto farsi un’idea di quanto poco compren­ desse la fnia riflessione, giacché non si accorgeva neppure di quanto ^,in qual senso la sua frase mi piacesse. Tuttavia, ho compreso e sentito anche questa possibilità; me l’ha impressa in mente la mia tristezza. Se l’infelice stor­

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dito dalla demenza non prova sofferenza, dover vivere per simpatia la follia di un altro, con gli occhi sempre fissi alla dubbia lettura che ne dà una responsabilità eterna, ah, basta pensarci per stremare un uomo. E tuttavia, se la cosa dovesse capitare, avrei di nuovo il coraggio di andarla a trovare e vi troverei consolazione; ma se così la salvassi e vedessi porsi di nuovo il mio problema, toccherebbe a me impazzire. Posso vegliare accanto a lei notte e giorno, ma non dormire, e il mio tormento non scomparirebbe «riposando ogni notte ac­ canto a mia moglie dal momento che resta incerto che lei possa mai essere mia moglie. Ora spengo le candele; mi sento più a mio agio nell’oscu­ rità completa, e nel mio stesso silenzio. A che scopo ho par­ lato? Chiunque vi vedrebbe delle menzogne. Sta bene. Non ho più intenzione di difendere la mia tesi contro degli avver­ sari: neque thesin meam publico colloquio dejendere conabor. E qual è la causa che sto discutendo con Dio? Se si trattasse della barba dell’imperatore, se lei avesse cambiato opinione e revocasse di buon grado ogni parola che concorre con la mia tristezza a provocare questo orrore, che cosa ne seguirebbe? Semplicemente, che lei si sarebbe attirata una nemesi sulla testa; dimostrerebbe di aver confuso la sua persona con il dovere di responsabilità che comporta l’eterno rapporto con Dio, e mostrerebbe così tutta la sua insignificanza. La causa è stata portata davanti a un tribunale superiore; a lei, ho dato tutta l’idealità possibile; né per lei, né per me potrei augu­ rarmi di trovarmi mai più vicino al comico. U n verso dalla ballata medievale Ser Stig e Findal, ovvero la magia delle rune (Ridder Stig og Findal, eller Runernes Magi). « E non tenterò di difendere la mia tesi in un dibattito pubblico»: leggermente modificata, è la formula che usava comparire sulla copertina di una dissertazione accademica.

COLPEVOLE? NON COLPEVOLE?

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Oggi, un anno fa. Ma sì, esatto: proprio oggi ho ricevuto la dichiarazione e, categoricamente confermate, le ultime vo­ lontà della mia piccola cresimanda - giacché mi fa l’impres­ sione di una cresimanda, questa ragazzina. Ma lei non vuole agire; sembra piuttosto volermi stuzzicare per farsi adorare. Di un’altra, direi che è un inizio di civetteria; di lei, non posso né voglio dirlo, e neanche pensarlo. Ma è una delle cose più ridicole che io abbia vissuto. Non l’ho che sentito troppo profondamente, sono troppo vecchio per lei; ma lei mi invecchia tanto sproporzionatamente con la sua condotta che mi fa pensare, mio malgrado, a un vecchio maestro di scuola che diceva ex cathedra a un allievo: «Se ti presenti così la prossima volta, avrai certamente un ceffone... e credo pro­ prio che l’avrai subito». Tale è la conseguenza della mia nozione ideale di dovere. Se dovessi capire di avere, nel senso stretto, doveri verso tutti, sarei l’uomo più straziato del paese. Ho una nozione ideale di ogni rapporto di dovere; poiché la mia indipen­ denza materiale mi ha permesso di non provarne alcuno, questa nozione mantiene ancora l’originalità dell’infanzia, l’entusiasmo della gioventù, la gravità della tristezza; tutto ciò ne fa forse quello che ho di meglio, ma mi obbliga anche allo sforzo più spietato. Che senso ha, allora, che lei introduca il comico nel nostro rapporto? Se davvero non si cura di me, va bene, me ne vado subito; religiosamente sono stato annientato e lo sarò forse ancora nel momento in cui mi assumerò la responsabilità; ma eroticamente non mi anniento. Se lei fa sul serio, lo dica francamente; un modo si trova sempre, ogni iniziativa in questo senso è dignitosa; ma non mettere il broncio, non

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battere i piedi per terra, che serve solo a coprire ogni cosa di ridicolo. Anche nella sua condotta c’è forse, contro la sua volontà, il riconoscimento della mia influenza; perché ha tutta l’aria di una ribellione. Eppure dovrebbe sapere che il suo potere è pari al mio, e che chi ha il potere non agisce così.

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di una grande città. La terra non fa qui l’effetto di scuotersi o tremare sotto i passi; ha tutta la stabilità che possono augu­ rarsi l’astronomo o lo scienziato. Si presta vanamente l’orec­ chio al poscimuf^ sociale della capitale, in cui è così facile lasciarsi trasportare, in cui si può in ogni istante sbarazzarsi di se stessi, a ogni ora trovare posto in un omnibus, circondati dappertutto da diversivi; qui, ci si sente abbandonati, prigio­ nieri di un silenzio che isola e rende impossibile sbarazzarsi di sé, dove ci circondano dappertutto dei non-diversivi. In 5 aprile. Mezzanotte certi quartieri, le strade sono così deserte che sentiamo i no­ stri passi. I grandi magazzini non contengono niente e non UNA PO SSIBILITÀ 75 rendono niente; giacché Eco, certo, è un’inquilina tranquilla, ma in materia economica e finanziaria nessun proprietario vi Langebro prende nome dalla sua lunghezza; è lungo come ha mai trovato il suo tornaconto. Nei quartieri abitati pro­ ponte, ma come tratto di strada è insignificante, basta attra­ priamente detti, la vita è lontana dall’essere spenta, ma ben versarlo per accorgersene. Ma giunti dall’altro lato, a Chrilontana anche dall’essere rumorosa; si direbbe un quieto stianshavn, torniamo a trovare il ponte lunghissimo, giacché brusio di folla che, almeno a mio avviso, fa pensare al silenzio si ha l’impressione di essere lontani, molto lontani da Cope­ popolato di ronzii sui campi d’estate. naghen. Notiamo subito che non ci troviamo in una capitale Una certa malinconia s’impadronisce di noi entrando a o in una residenza reale, arriviamo a rimpiangere il rumore e Christianshavn, giacché è malinconico rammemorare in l’animazione delle strade; ci troviamo fuori dal nostro ele­ mezzo a depositi deserti, e la vista delle strade affollate su­ mento, dagli andirivieni, dalla calca in cui vengono a con­ scita tristezza quando l’occhio non scopre che un idillio di tatto senza distinzione tutte le condizioni, sottratti alla ressa miseria e di povertà. Abbiamo passato il mare per arrivare rumorosa in cui ciascuno contribuisce al tumulto generale. A laggiù e ci troviamo lontani, ben lontani, relegati in un Christianshavn regnano invece la calma e la pace. La gente mondo in cui il macellaio spaccia carne di cavallo; sull’unica sembra ignorare le ragioni e le preoccupazioni che gettano gli piazza non si erge altro che una rovina a ricordo dell’in­ abitanti della capitale in un’attività così ronzante e febbrile, e cendio che, al contrario di quello che raccontano le supersti­ le diversità degli uomini e delle cose che fanno l’animazione zioni, non ha bruciato la città intera risparmiando la chiesa, ma ha bruciato la chiesa lasciando in piedi la prigione. Siamo Il racconto, che compare abbozzato nei Diari (Pap. iv A 65), prende spunto da in una povera borgata dove solo certi personaggi loschi, paruna vicenda probabilmente autobiografica (P. A . Heiberg, E n Episode i S0ren Kierkegaards Ungdomsliv, K obenhavn 19 12), ma soprattutto sviluppa la categoria filosofica di possibilità (cfr. capitolo v del Concetto di angoscia), che verrà a incrociarsi, nelle pagine che seguono, con quella di potenza.

Siamo convocati; cfr. Orazio, Odi, i, 32, i.

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ticolarmente sorvegliati dalla polizia, ricordano la vicinanza della capitale; per il resto ci crediamo in una cittadina di gente tranquilla al lavoro; tutti si conoscono, e c’è pure un povero diavolo ubriaco che ha il cervello offuscato almeno un giorno sì e un giorno no, o un ritardato di mente che tutti conoscono e che se la cava da sé. Così, alcuni anni fa si poteva vedere, sul lato meridionale di Overgaden over Vandet, un uomo alto e magro misurare a grandi passi regolari il marciapiede, ogni giorno alla stessa ora. La singolarità dei suoi andirivieni non sfuggiva ai pas­ santi; il tragitto che percorreva era così breve che anche un estraneo doveva accorgersi che egli non entrava nei negozi e che non passeggiava come tutti gli altri. Un osservatore abi­ tuale avrebbe visto nella sua andatura un esempio della forza dell’abitudine. Un marinaio abituato a misurare a grandi passi il ponte della nave si concede a terra uno spazio della stessa lunghezza, dove va e viene con passo meccanico; così faceva questo passante: il contabile, come lo chiamavano. Giunto alla fine della strada, manifestava l’opposto di una scossa elettrica, lo strappo dell’abitudine; segnava un tempo d’arresto, quasi come un soldato; immobile sollevava la testa al vento, si girava, abbassava di nuovo gli occhi verso il suolo, riprendeva in senso inverso eccetera. Tutto il quartiere lo conosceva; benché fosse debole di mente, nessuno si era mai burlato di lui, al contrario, la gente del vicinato gli portava un certo rispetto a causa del suo patrimonio, della sua generosità e del suo fisico attraente. Certo, il suo viso aveva quell’espressione irrigidita così carat­ teristica di una certa demenza, ma i tratti erano belli; aveva la corporatura dritta e ben fatta; il suo abbigliamento era perfet­ tamente curato e persino elegante. Del resto, la sua debolezza mentale non si rivelava chiaramente che al mattino, tra le

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undici e mezzogiorno, quando seguiva il marciapiede da Bornehusbro fino all’estremità meridionale della strada. Per il resto del giorno, certo, restava ben legato alla sua triste preoc­ cupazione, ma lo testimoniava diversamente. Parlava con la gente, faceva passeggiate molto lunghe, s’interessava a mille cose; ma dalle undici alle dodici nessuno, a nessun costo, sarebbe riuscito a trattenerlo dal suo giro, a fargli fare un giro più lungo, a ottenere da lui una risposta e neppure un saluto: da lui, che era la cortesia in persona. Se quell’ora avesse per lui un’importanza particolare, o si fosse trattato di una condi­ zione fisica che tornava a intervalli regolari, cosa non del tutto senza precedenti, non l’ho mai saputo quando lui era vivo e, dopo la sua morte, nessuno ha potuto ragguagliarmi. Per la considerazione che aveva di lui, la gente del quar­ tiere ricordava la condotta degli indiani verso il demente, che considerano un saggio; ma faceva, senza dubbio, molte ipo­ tesi in segreto sulla causa della sua disgrazia. Non di rado, abbandonandosi in un caso simile alle supposizioni, le menti sedicenti avvedute tradiscono altrettanta tendenza alla follia, se non ancora più imbecillità di qualunque debole di mente. Non di rado, i sedicenti avveduti sono tanto stupidi da pre­ stare fede a tutto ciò che dice un pazzo, e non di rado tanto stupidi da considerare priva di ogni senso ognuna delle sue parole, benché spesso nessuno sia più abile a nascondere quello che vuole nascondere di un debole di mente, e benché, per giunta, parecchie frasi di un pazzo racchiudano una saggezza che farebbe onore alla mente più saggia. Così si spiega l’applicazione alla psicologia dell’osservazione, dettata dalla pratica dell’esistenza, che un granello di sabbia e il caso decidono il corso del destino; giacché la stessa osservazione, quando non scopre nessuna ragione profonda per la follia, la spiega facilmente con un nonnulla; allo stesso modo, l’attore

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mediocre crede che niente sia più facile che recitare la parte dell’ubriaco: cosa vera soltanto quando è certo di recitare davanti a un pubblico mediocre. Per ritornare al nostro contabile, gli risparmiavano le prese in giro perché gli volevano bene; e circondavano così bene di silenzio le congetture al suo riguardo che non ne ho mai sentita che una. Forse anche tacitamente non ne avevano nutrite altre; non ho niente in contrario ad ammetterlo, se non altro per impedire che la mia ostinazione a sospettare un gran numero di spiegazioni segrete tradisca una mia inclina­ zione all’imbecillità. Secondo la congettura corrente, era stato innamorato di una regina di Spagna: una congettura che era un tentativo infelice, e non teneva neppure conto di un indizio molto notevole in lui: una decisa preferenza per i bambini. A loro faceva spesso del bene; ci spendeva, a dire il vero, il suo patrimonio; così che la povera gente lo amava sinceramente, e molte povere donne imponevano tra l’altro ai loro figli di salutare rispettosamente il contabile. Ma il mattino, tra le undici e le dodici, non rispondeva mai al saluto. Ho visto spesso qualche povera donna passargli da­ vanti e indirizzargli insieme ai suoi bambini un saluto cor­ diale e deferente allo stesso tempo; ma lui non alzava nep­ pure gli occhi. Così, dopo essergli passata accanto, la donna scuoteva la testa allontanandosi. La situazione era commo­ vente perché, in un certo senso e in modo curioso, egli eserci­ tava la beneficenza gratis. Il monte di pietà prende il sei per cento d’interesse, e molti ricchi, molti fortunati, molti po­ tenti, e molti loro intermediari con i poveri si riprendono a volte il loro dono con l’usura; ma rispetto al contabile, diffi­ cilmente la povera donna sarebbe stata tentata all’invidia, o all’awilimento per la propria miseria, o all’umiliazione per la tassa per poveri che il povero non paga in denaro, ma salda

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piegando la schiena, con l’anima ferita; perché lei sentiva bene che il suo alto e nobile benefattore (come dicono i poveri) era da compatire più di lei; lei che riceveva dal conta­ bile i soldi di cui aveva bisogno. Tuttavia, i bambini non erano per lui unicamente un’occa­ sione per fare del bene; lo interessavano in modo tutto parti­ colare. Fuori della sua ora dalle undici alle dodici, appena ne scorgeva uno, il suo viso irrigidito si animava e rifletteva i sentimenti più disparati. Lo abbordava e gli parlava osservan­ dolo con l’attenzione di un artista che non dipinga altro che volti infantili. Ecco quello che si vedeva nella strada; ma chi penetrava nel suo appartamento si stupiva molto di più. Non è raro avere di un uomo tutta un’altra impressione a casa sua o nel suo studio di quella che si ha nella vita al di fuori; non è certo solo il caso degli alchimisti e di altri amatori di arti e scienze occulte, o degli astrologi che, come Dapsul von Zabelthau,^'^ simili a tutti gli altri in società, nel loro osserva­ torio si conciano con un cappello appuntito, un mantello grigio, una lunga barba bianca e contraffanno la voce così bene, che la figlia è tratta in inganno e li scambia per Babbo Natale. Ahimè! Troppo spesso si scopre tutto un altro genere di trasformazione, quando vediamo un uomo a casa sua o nelle sue stanze e lo confrontiamo col personaggio che è nella vita. Non era questo il caso del contabile, e non si poteva non guardare con sorpresa alla serietà del suo inte­ resse per i bambini. Aveva raccolto un’imponente biblioteca, ma tutti i libri trattavano unicamente di fisiologia. Possedeva le acqueforti più rare, e intere serie di disegni di sua mano. ”

Personaggio di E . T . A . Hoffm ann {Die Kónigsbraut, in Die Serapionsbrtider).

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C’erano volti trattati con la somiglianza dei ritratti, una serie di altri volti che si riferivano a uno stesso tipo in cui la somiglianza, pur rimanendovi, si attenuava progressivamente; c’erano volti eseguiti secondo proporzioni matematiche, dove ogni modifica causata all’insieme da un cambiamento di rap­ porti era messa in risalto da contorni marcati; c’erano volti costruiti in base a osservazioni fisiologiche, controllate a loro volta su altri volti abbozzati con l’aiuto di ipotesi. L ’aria di famiglia e le regolarità dei rapporti fra generazioni lo interes­ savano in modo particolare, dal punto di vista della fisiologia, della fisionomia e della patologia. Forse bisogna rammari­ carsi che i suoi scritti non siano stati pubblicati; certo, aveva la mente turbata, me ne sono reso ben conto da vicino: ma una mente turbata non è la peggiore osservatrice quando la sua idea fissa diventa istinto di scoperta. Un osservatore spinto dalla curiosità vede molte cose; un osservatore spinto dall’interesse scientifico merita rispetto; un osservatore spinto dall’ansia scopre cose che sfuggono agli altri; ma un osserva­ tore dalla mente turbata ha forse gli occhi migliori di tutti: le sue notazioni sono più precise e più sostenute, come i sensi di certi animali sono più sviluppati di quelli degli uomini. Ma va da sé che le sue osservazioni hanno bisogno di essere con­ trollate. Dal momento in cui si dedicava alla sua ricerca appassio­ nata, in tutt’altro momento cioè che dalle undici alle dodici, molti non vedevano più in lui un matto, benché la sua follia lo dominasse allora al massimo grado. E, come ogni ricerca scientifica verte su una X da determinare o, da un altro punto di vista, come a muovere l’entusiasmo della ricerca scientifica è un postulato generale, di una certezza che richiede la con­ ferma dell’osservazione, così anche la sua passione ansiosa aveva una X da ricercare: una legge che definisse esattamente

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il rapporto di somiglianza nella discendenza familiare, e ser­ visse poi a trarre conclusioni più concrete: che partisse così da un postulato, cui la sua immaginazione attribuiva la cer­ tezza, per lui penosa, che questa scoperta gli avrebbe confer­ mato qualche fatto penoso che lo riguardava. Figlio di un funzionario modesto e quasi povero, era stato iniziato ben presto al commercio presso uno dei più ricchi negozianti della città. Calmo, riservato, un po’ timido, adem­ piva al suo lavoro con un’intelligenza e una puntualità che presto portarono il direttore della ditta a vedere in lui un aiuto prezioso. Dedicava i suoi momenti liberi alla lettura, allo studio delle lingue straniere, alla coltivazione di un ta­ lento spiccato per il disegno e alla visita quotidiana ai suoi genitori, di cui era l’unico figlio. Viveva così nell’ignoranza del mondo. La sua condizione di impiegato era buona e gli apportò ben presto stipendi abbastanza considerevoli. Se è vero, come dicono gli inglesi, che i soldi fanno la virtù, non è meno vero che fanno anche il vizio. Tuttavia, il giovanotto ignorava le tentazioni e diveniva con gli anni sempre più estraneo al mondo. Non se ne accorgeva affatto, giacché era sempre occupato tutto il tempo. Un’unica volta gli si levò neH’anima un vago presentimento: si stava estraniando a se stesso, oppure si faceva l’effetto di un uomo che si ferma all’improwiso perché gli viene in mente di aver dimenticato qualcosa, senza neppure riuscire a immaginare che cosa - ma qualcosa dev’essere. Qualcosa l’aveva dimenticato davvero: aveva dimenticato di essere giovane, di abbandonare il cuore alle gioie della gioventù mentre c’era ancora tempo. Fece allora la conoscenza di altri due impiegati, gente di mondo. Scoprirono ben presto il suo lato disarmato, ma d’altra parte le sue conoscenze e le sue capacità ispiravano loro un tale rispetto che non gli fecero mai notare davvero

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che gli mancava qualcosa. Talvolta lo invitavano anche a unirsi a loro per una seratina, una gita, una serata a teatro; egli accettava e lo trovava piacevole. Del resto, i suoi com­ pagni non avevano certo da rammaricarsi della sua compa­ gnia, giacché il suo disagio metteva un freno salutare aU’allegria degli altri, impedendole di degenerare, e la sua schiet­ tezza dava al piacere un carattere più elevato di quello al quale erano forse abituati. Ma la timidezza non è una forza in sé, capace di affermarsi e di farsi rispettare; e fosse stata la malinconia che si impadroniva a volte di questo ragazzo ignaro del mondo a rivoltarsi contro di lui, o fosse stata un’altra ragione, finì che una passeggiata nel bosco si con­ cluse con una cena di straordinaria magnificenza. Petulanti come già erano, gli altri due non videro nel suo disagio che una ragione di eccitazione; lui ne provò un sentimento ango­ scioso, che ebbe come effetto, a sua volta, un’eccitazione cre­ scente man mano che il vino li infiammava. Poi gli altri lo portarono via con loro - l’esaltazione aveva fatto di lui un uomo totalmente diverso, e si trovava in cattiva compagnia. Visitarono anche uno di quei luoghi in cui, cosa strana, si compra per denaro il disonore di una donna. Che cosa ac­ cadde, non lo seppe nemmeno lui. L ’indomani, fu di cattivo umore, scontento di sé; il sonno aveva cancellato le sue impressioni, ma ne conservò un ri­ cordo sufficiente a impedirgli di cercare mai più quegli amici né per la compagnia onesta, né, tanto meno, per quella cat­ tiva. Raddoppiò l’ardore con cui lavorava, e il dolore di es­ sere stato traviato così dai suoi amici, o di avere avuto amici simili, lo rese ancora più riservato; a questo contribuì anche la morte dei suoi genitori. In compenso, il direttore della ditta per cui lavorava gli accordava più stima man mano che la sua capacità cresceva.

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Aveva incarichi di grande fiducia, e già pensavano di farlo entrare nella ditta, quando si ammalò e fu sul punto di mo­ rire. Nel momento in cui era più prossimo alla morte, quando aveva già imboccato il «grave ponte dell’eternità», si destò improvvisamente il ricordo dell’evento che, fino a quel mo­ mento, non aveva contato molto per lui. Nel ricordo, quell’e­ vento assunse una forma precisa, che gli fermava la vita alla perdita della sua purezza. Guarì, ma quando, ristabilito, si alzò, si portava dietro una possibilità, e quella possibilità lo perseguitava, e lui perseguitava quella possibilità nella sua ricerca appassionata; covava quella possibilità nel suo mu­ tismo, e quella possibilità animava i tratti del suo viso con ogni sorta di emozioni alla vista di un fanciullo - la possibi­ lità che un altro essere gli dovesse la vita. E quello che cer­ cava nella sua ansia, quello che faceva di lui un vecchio, benché fosse appena in età matura, era quel figlio sventurato, se pure esisteva; e quello che lo rese demente fu che ogni via per trovare un’indicazione era tagliata, giacché i due che lo avevano rovinato con la loro compagnia erano da tempo par­ titi per l’America, facendo perdere le proprie tracce; e a ren­ dere la sua follia così dialettica era il fatto che egli neppure sapeva se fosse una conseguenza della malattia, un miraggio della febbre o se davvero la morte gli fosse venuta in aiuto alla memoria con una rimembranza della realtà. Ecco perché la storia finì con il giro breve, la silenziosa passeggiata che faceva tra le undici e le dodici, a testa bassa, e con il giro immensamente lungo che percorreva il resto del giorno per mille disperate sinuosità, per tutte le possibilità, per trovare una certezza, se possibile, e con quella ciò che cercava. A ll’inizio riusciva a svolgere convenientemente il suo la­ voro d’ufficio. Era preciso e puntuale come sempre. Si im­ mergeva nei libri contabili, ma a sprazzi queste occupazioni

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gli sembravano una fatica inutile, e che in ben altro avrebbe dovuto immergersi; chiudeva il bilancio dell’anno, ma a sprazzi questo lavoro gli sembrava uno scherzo, quando lo paragonava al suo terribile bilancio personale. Il direttore della ditta morì lasciandogli molti beni; senza figli, aveva provato per il contabile un affetto paterno; così gli lasciò una fortuna come se fosse stato suo figlio. Allora il contabile chiuse il bilancio per davvero: divenne uno stu­ dioso. Ora ce l’aveva, Votium. Il suo triste ricordo forse non sa­ rebbe ancora diventato un’idea fissa, se la vita non ci avesse aggiunto una di quelle circostanze secondarie che sono a volte decisive. Il solo parente che gli restava era un uomo anziano, cugino della defunta madre, il Cugino, come lo chia­ mavano KttT’ è^o%f|v;7* uno scapolo presso cui il contabile si era stabilito alla morte dei suoi genitori e di cui divideva la tavola; anche dopo aver lasciato la ditta, restò presso di lui. Il cugino si compiaceva di certi giochi di parole di sapore am­ biguo, più frequenti sulla bocca deUe persone anziane che dei giovani, cosa che si spiega psicologicamente senza fatica. Se è vero che una banalità, quando tutto è stato sentito e quasi tutto dimenticato, può assumere sulla bocca di un vecchio un’importanza che altrimenti non avrà mai, è anche certo che una parola sconveniente, a doppio senso, sulla bocca di un uomo anziano può facilmente urtare, soprattutto quando si è in uno stato d’animo come quello del contabile. Tra le bat­ tute alle quali il cugino ricorreva senza tregua, c’era un au­ tentico ritornello: nessun uomo, nemmeno sposato, può sa­ pere esattamente il numero dei suoi figli. Così era il cugino. Per eccellenza. Ecclesiaste, 12, 13.

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del resto piacevole, quello che si dice un amico delle allegre brigate, un buontempone: ma di discorsi equivoci, come della tabacchiera, non poteva fare a meno, E così fuori di dubbio che il contabile aveva parecchie volte subito il repertorio del cugino, ivi compreso quel dubbio ritornello, ma senza com­ prenderlo, e senza veramente ascoltarlo. Ora, invece, toccava direttamente il suo punto debole, sembrava fatto per ferirlo nella sua debolezza e nella sua sofferenza. Si tuffava nelle sue fantasticherie, e quando le battute del cugino pretendevano di speziare la conversazione, questo contatto accidentale svi­ luppava l’elasticità della sua idea fissa, che così prendeva sempre più corpo. Il mutismo del carattere chiuso e le bat­ tute del chiacchierone lavorarono così a lungo, di concerto, 10 sventurato, che la sua ragione finì per pensare seriamente di traslocare, poiché non poteva sopportare il servizio in una casa simile; e il contabile sostituì alla ragione la demenza. La capitale è piena di traffico e di baccano, a Christianshavn al contrario regnano la calma e la tranquillità, A quanto sembra, tutti ignorano i disegni e i fini che mettono gli abi­ tanti della capitale in un’agitazione febbrile e rumorosa, e la diversità causa dell’agitazione rumorosa della capitale. Il po­ vero contabile abitava a Christianshavn, è là che in termini realistici aveva la sua casa, là che in linguaggio poetico aveva 11 suo focolare. Ma sia che tentasse di risalire all’origine della sua rimembranza attraverso speciali ricerche storiche, sia che si sforzasse di trasformare quella X incognita in grandezza conosciuta per le sterminate deviazioni delle ordinarie osser­ vazioni umane, appoggiandosi penosamente soltanto a ipo­ tesi fallaci, non trovava l’oggetto delle sue ricerche, A volte, l’oggetto delle sue ricerche gli sembrava dover essere molto lontano, e a volte così vicino che non percepiva che il suo strazio, quando una povera donna lo ringraziava della sua

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generosità a nome dei bambini. G li pareva, allora, di riscat­ tarsi dal più sacro dei doveri, ai suoi occhi, e che un padre desse l’elemosina al proprio figlio gli appariva l’orrore più profondo. Così non voleva ringraziamenti, affinché quel rin­ graziamento non divenisse una maledizione; ma non poteva neppure sottrarsi dal dare. E i poveri trovavano raramente un benefattore così onorato e così nobile, un aiuto accordato a così favorevoli condizioni. Un medico comprensivo avrebbe naturalmente potuto fare molto per allontanare, grazie a considerazioni più generali, la prima possibilità, la condizione di tutto; e anche se, in via d’accomodamento, per fare un tentativo in un altro senso, gliene avesse concesso la triste certezza, la sua scienza medica gli avrebbe ancora permesso di allontanare la conseguenza di questa certezza, ripercorrendo tante possibilità e spingendosi così lontano che sarebbe scomparsa agli occhi di tutti - salvo che del folle, che un simile trattamento sarebbe forse servito solo a sconvolgere. Così, la possibilità ha effetti molto vari. Si può usarla come una lima: se l’oggetto è duro, se ne limano le asperità, ma se è molle come una sega, i denti della sega non diventano che più aguzzi. Ogni nuova possibilità che scopriva il povero contabile aguzzava la sega dell’ansia che era il solo a maneggiare, per torturarsi sotto i suoi denti. Non l’avrebbe aiutato neanche qualcuno che avesse voluto aiutarlo. L ’ho visto spesso laggiù passeggiare per Overgaden over Vandet; l’ho visto anche altrove; e una volta, l’ho incontrato in un caffè della città. Seppi ben presto che ci veniva ogni quindici giorni, la sera. Leggeva i giornali, beveva un bic­ chiere di punch e conversava con un vecchio capitano di marina, che veniva regolarmente ogni sera. Era un settuage­ nario con i capelli bianchi, ben conservato e vigoroso; non

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c’era traccia nella sua persona che facesse pensare a ciò che d’altronde non era, che fosse stato molto sballottato nella vita, se non come marinaio. Non so come questi due uomini si fossero conosciuti; erano compagni di caffè, li si vedeva assieme soltanto là, parlando ora inglese, ora danese, ora me­ scolando entrambe le lingue. Il contabile era allora tutto un altro uomo; attraversava la soglia, salutava in inglese il vec­ chio marinaio che ne era ringalluzzito; assumeva un’aria così maliziosa che si faceva fatica a riconoscerlo. Il capitano aveva una vista mediocre; con gli anni aveva perduto la capacità di giudicare le persone dall’aspetto. Si capisce così perché il contabile, appena quarantenne e apparentemente, qui, molto più giovane che altrove, potè far credere all’altro di avere sessant’anni: un’invenzione che continuò a sostenere. Il capi­ tano era stato, in tutta onestà, un allegro compagnone in gioventù, come può esserlo stato un marinaio, ma in tutta onestà, poiché il suo viso rifletteva tanta dignità e tutta la sua natura tanta amabilità che uno si sentiva di garantire della sua vita come della sua bravura di marinaio. Raccontava in­ stancabilmente storielle divertenti sulle sale da ballo di Londra, e su faccende di ragazze: e poi passava alle Indie. Dopodiché, sempre conversando, brindavano e il capitano diceva: «Eh già, quand’eravamo giovani, eccoci vecchi ora, ma sbaglio a dire noi: quanti anni ha lei?». «Sessanta», ri­ spondeva il contabile, e brindavano nuovamente. Povero contabile, ecco il suo solo compenso di una giovinezza per­ duta; e perfino questo compenso era una specie di compensa­ zione per la serietà troppo opprimente della sua follia. Tutta la situazione era di un tale umorismo, la finzione dei sessan­ t’anni sostenuta dall’uso dell’inglese era uno spunto umori­ stico così profondo, che io mi resi conto di quanto si può imparare da un folle.

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Alla fine il contabile morì. Si era ammalato da qualche giorno, quando la morte venne sul serio; e quando sul serio dovette varcare il terribile ponte dell’eternità, la possibilità si cancellò; non era stata che uno smarrimento; ma le sue opere lo seguirono con la benedizione dei poveri, e i bambini con­ servarono la memoria di quanto egli aveva fatto per loro. Io lo accompagnai alla sua ultima dimora e tornai dal cimitero in vettura col cugino. Sapevo che il contabile aveva fatto testamento, e che il cugino era lungi dall’essere interessato al denaro; così mi presi la libertà di dire che era un po’ malinco­ nico pensare che, celibe e senza figli, non avesse una famiglia a cui lasciare la sua fortuna. Benché questa morte l ’avesse realmente toccato, più di quanto non avessi creduto e, tutto considerato, mi facesse un’impressione migliore di quanto non mi fossi atteso, ciò nonostante non potè fare a meno di dire: «Già, mio caro amico, nessun uomo, anche sposato, può sapere esattamente quanti figli lascia». Gliela perdonai pen­ sando che era un luogo comune, e che forse lui ignorava la tristezza di aver quello, per luogo comune. Ho conosciuto certi criminali che erano veramente migliorati in detenzione: erano realmente arrivati a cogliere realtà superiori; la loro vita ne testimoniava; e ciò nonostante, nel bel mezzo di frasi religiose piene di serietà, capitava loro di mischiare le più ignobili reminiscenze, in modo tale che non se ne accorge­ vano affatto. Langebro deve il nome alla sua lunghezza, è lungo come ponte, ma la lunghezza del ponte in termini di distanza è insignificante, è sufficiente varcarlo per accorgersene. Ma giunti dall’altra parte, a Christianshavn, torniamo a trovarlo lungo, anche come distanza, perché ci troviamo lontani, molto lontani da Copenaghen,

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6 aprile. Mezzanotte Quando non ci preoccupiamo che di una sola cosa, che deso­ lazione non veder succedere niente che vi si riferisca. La strada è piena di vita, le case di avvenimenti, di rumore e di baccano; ma del mio caso, neanche una parola. Mi sembra di essere un mereiaio che, nella sua botteghina di una strada fuori mano, aspetta i clienti e non sente neppure un rumore di passi; ma a 0 stergade i negozi sono pieni di gente, E anche vero che il mereiaio paga un affitto minore del ricco commerciante di 0 stergade. Senza dubbio; ma io pago im­ poste e contributi pesanti quanto qualsiasi uomo sposato, e ciò nonostante nulla me ne viene. Se un attore sapesse la sua parte e l’avesse ben impressa nella memoria; avesse preso ispirazione dalle sue battute e dal suo personaggio; e non attendesse che l’imbeccata del suggeritore; ma il suggeritore si fosse addormentato e non riuscisse quindi a dargli il via? Se vedessimo accendersi il telegrafo installato al di là dello Stretto; e la prima parola fosse leggibile, ma poi calasse la nebbia, e non potessimo avere notizie se non tramite il tele­ grafo, e le notizie che desideriamo fossero importanti quanto la salvezza dell’anima? Se il nobile destriero capisse perché l’hanno sellato, che sta arrivando l’amazzone, la giovane principessa, l’orgoglio del destriero; se quindi soffiasse, alitasse, scalpitasse, mettesse a prova la sua forza, per darle un fremito di piacere nel domi­ nare questa impetuosità; e lo scudiero si allontanasse, non ritornasse, riapparisse infine, ma senza l’amazzone; ma non togliesse i finimenti, e il focoso destriero temesse di perdere il fuoco dalle narici, il suo impeto e la sua gioia di saltare, e la soddisfazione di obbedire al comando dell’amazzone reale?

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Se Sheherazade^o avesse inventato una fiaba nuova più ac­ cattivante di tutte le precedenti; e avesse riposto ogni spe­ ranza in questo suo racconto, che deve salvarle la vita e non semplicemente ritardare la pena di morte; se fosse pronta a raccontarlo con tutta l’arte di cui è capace in questo mo­ mento preciso; ma nessuno viene a prenderla a mezzanotte e presto sarà l’una; e lei temesse di aver dimenticato la fiaba o dimenticato come raccontarla? Ieri sera ho avuto la fortuna di parlare con due donne di spirito. E stata una conversazione molto intellettuale e credo senza esagerare che la mia presenza le abbia entusiasmate. Erano donne di qualità, e io, in fondo, sono un uomo di mondo, cioè una bella mente, ma un corrotto. Non fa meravi­ glia, che persone col nostro spirito arrivino a simpatizzare. Che voluttà cimentarsi nella fatuità, questa mistura di viltà e di spirito; e che favorevole auspicio sarebbe portarsi in una spedizione qualcuno da cui prendere le distanze, al bisogno, dicendo: «Dio ne guardi! Lungi da noi approvare la sua mise­ rabile condotta, ma ha tanto spirito!». Così ho imparato molto sulle condizioni necessarie di una felice intesa erotica; finché un uomo non ha abbastanza spirito per seguire gli alti voli, o piuttosto i vagabondaggi, di un cervello femminile emancipato, gli è estremamente penoso, una croce, sentirsi legato; anzi, a dire il vero, il legame non vale più. Altro non si è detto, ma non dubito che le mie eroine, così sicure del loro spirito, sarebbero prontissime a ribaltare la frase e a mostrare la loro simpatia a chi è legato a una ragazza come lei, o meglio, a pretendere che tronchi con lei e se ne cerchi Della regina minacciata di morte, che è la voce narrante nelle M ille e una notte, Kierkegaard fa a più riprese un simbolo della propria attività “ poetica” .

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un’altra più spiritosa. Hanno proprio lasciato cadere un’allu­ sione, evidentemente al mio indirizzo, molto cortese. Ah! silenzio, silenzio, come sai mettere un uomo in contraddi­ zione con se stesso! Era un’assoluzione, quella che mi annunciavano: un tenta­ tivo di rivalutare la mia condotta. Come può una donna osare offenderne un’altra, in questo caso una ragazza alla quale non sono degne di allacciare le scarpe! Fossi stato l’impera­ tore, le avrei esiliate entrambe in un’isola deserta. C ’è dunque una nemesi sopra di me, e la mia esistenza esteriore, sebbene non conosciuta da molti, contribuisce a confermare la gente in quel genere di spirito, ripugnante quanto distinto. Se soltanto fossi libero, se non mi facessi scrupolo del perico­ loso precedente che potrebbe costituire per lei un’esatta valu­ tazione del rapporto con me, davvero, se la ragazza che si affligge o mi induce ad affliggermi desidera mettere un uomo in campo come suo contingente per la buona causa dell’inna­ moramento, mi renda allora la mia libertà, e io terrò alto lo stendardo prò virili. Venite dunque a me, begli spiriti con le vostre spiritosag­ gini da quattro soldi: nulla tende l’arco così forte e colpisce meglio nel segno di una buona causa. Che l’innamoramento non debba ricevere ben altri onori! Certo, lo sento bene, potrei mettere a profitto una storia d’amore sfortunata, sta­ rebbe bene nella mia esistenza. Se soltanto fossi libero di esprimermi sul mio innamoramento e di dire che sono stato congedato, ma sono pur sempre in possesso del mio innamo­ ramento, se soltanto non temessi, riconoscendone l’impor­ tanza, di mettere in improvviso imbarazzo lei, che deve ap­ Per quanto posso.

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punto farsi forza del contrario, io direi: Sì, sono un uomo effeminato (giacché non oserei dirmi in tutto un uomo), sono il povero burattino incapace d’amare più di una volta, l’imbe­ cille tanto limitato da prendere sul serio la bella frase sul primo amore, incapace a vedervi non altro che una massima galante, che si scambiano ridacchiando nelle cene le signore più o meno navigate. Dunque, un po’ di pietà per me, me ne accorgo da me che penosa figura faccio di questi tempi, quando anche le ragazze muoiono d’amore nello stesso modo patetico in cui Falstaff soccombe nella battaglia contro Percy,*2 per risorgere poi in piena forza, abbastanza interes­ sate agli uomini per ricominciare. Peteheia!^^ Con questo di­ scorso, o piuttosto: con una vita che mi autorizza a parlare così, sono convinto, se mai si può parlare di rendere un ser­ vizio al prossimo, di rendere un miglior servizio ai miei ono­ ratissimi contemporanei che aggiungendo un paragrafo al Si­ stema. Ciò che m’importa è dare ai momenti patologici della vita un’assolutezza, una chiarezza, una leggibilità e una forza; perché la vita non diventi, come il Sistema, una bottega di robivecchi, dove si trova un po’ di tutto, sicché si fa di tutto fino a un certo punto, compresa la stoltezza suprema di cre­ dere fino a un certo punto; sicché nessuno mente, ma arros­ sisce di vergogna, nessuno mente, ma, per dirla eroticamente, muore romanticamente d’amore, e diventa un eroe: dopo­ diché non si contenta di star lì in piedi o in terra, ma resu­ scita e va oltre, eroe del melodramma quotidiano, va oltre ancora, e diventa frivolo e spiritoso, un eroe alla Scribe. Im­ maginiamoci l’eternità che interviene in una simile confuShakespeare, Enrico I V , parte i, v, 4. Ritornello di una canzone conviviale nella più famosa commedia di L. Holberg, Jeppe della Montagna, i, 6.

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sione, immaginiamoci uno come lui nel giorno del giudizio; sentiamo la voce di Dio: «Sei stato un credente?» - e sen­ tiamo la risposta: «La fede è l’immediato, e nell’immediato non bisogna attardarsi come facevano nel Medioevo; da Hegel*'^ in poi, andiamo oltre: pur ammettendo che la fede sia l’immediato e che l’immediato sia, aspettiamo una nuova Scrittura». Il mio vecchio maestro di scuola era un eroe, un uomo di ferro: guai, guai, guai allo scolaro incapace di ri­ spondere con un sì o con un no a una domanda diretta. E anche se nel giorno del giudizio un uomo non è più uno scolaro, Dio in cielo, invece, può passare per un maestro di scuola. Immaginiamoci che questa frenesia di paragrafi, questa follia accademica, questa valanga sistematica s’impon­ gano a tal punto che si finirà per inserire il Signore in quattro e quattr’otto nella filosofia ultimo grido. - Ma se Dio non è d’accordo, immagino che l’angelo del giudizio prenderà la sua tromba e assesterà un tal colpo sul muso al libero docente di turno da non farlo tornare più uomo. Ma chi rovina una cosa rovina tutto, chi pecca in una cosa pecca in tutto. Se solo sapeste, spiritosi, quanto è comico il genere di spirito che voi ammirate! Se solo sapeste, non quant’è malvagio un seduttore, ma che ridicolo personaggio è! Se solo sapeste quanto è odioso, ma anche quant’è ridicolo pensare che l’amore, la cosa più sublime della vita terrestre, non sia che un’invenzione della sensualità, una foia come quella delle bestie, o un gioco di spirito e un’associazione di begli spiriti! Ma voi ignorate che sono tutti temi da vaudeville, e che la vostra società è quella di Pryssing e Klatterup.*5 Supponete che una donna bella come l’amante di Cfr. par. 63 della Logica e par. 7 2 della Propedeutica filosofica di Hegel. Rispettivamente, un rilegatore e un tipografo, personaggi della commedia di J- L . Heiberg 11 recensore e la bestia (in Skuespil, 1833-41, 1, pp. 185-288).

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Giove e spiritosa come la regina di Saba voglia sperperare la summa summarum delle sue grazie visibili e segrete sul mio indegno spirito; e supponete che un mio coetaneo m’inviti, la stessa sera, a bere una bottiglia di vino con lui, a fumare stuàenticos^^ e a goderci qualche classico: non esiterei a lungo. Che spirito limitato, esclamate voi. Limitato? Non trovo. Suppongo che, nell’innamoramento e nel suo signifi­ cato, l’eterno, tutta questa bellezza e i doni deU’intelligenza siano infinitamente preziosi; ma al di fuori di essi, ogni rap­ porto tra l’uomo e la donna che pure voglia esserne espres­ sione non vale il tabacco per una pipa. Suppongo che, a separarne l’innamoramento, e, notate bene, a separare dal­ l’innamoramento l ’eterno, non possiamo parlare, in senso proprio, che di quello che avanza: tanto vale allora parlare come una levatrice, senza circonlocuzioni; o come un morto che, ridotto allo stato di “puro spirito”,®^ non coglie gli sti­ moli. È comico vedere girare tutta l’azione di un vaudeville attorno a quattro marchi e otto scellini, e lo stesso vale qui. Se togliamo l’innamoramento, cioè il lato eterno dell’inna­ moramento, l’erotismo, con tutti i suoi sfoggi di spirito, gira intorno ad ancor meno di quattro marchi e otto scellini, e a cose rese ripugnanti dal fatto che lo spirito, qua spirito, ci vuol fare sopra degli equivoci. E comico che un pazzo raccolga i ciottoli uno per uno e se ne carichi perché li prende per monete; sono anche comiche le 1003 amanti di Don Giovanni, poiché proprio il numero dimostra che non hanno alcun valore. Così bisogna andar cauti con la parola “amare” . La lingua ha solo questa, e nesA lla moda studentesca (L. H olberg, Erasmus Montanus, 11, i). Citazione da una poesia di J . Baggesen {M in Gjenganger-Speg, in Danske Vcerker, K]0benhavn 184 5, vi, p. 135).

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suna più sacra. Non bisognerebbe esitare a impiegare, quando è necessario, i termini propri di cui si serve la Bibbia come Holberg; ma non bisognerebbe neppure essere tanto esageratamente spiritosi da vedere nello spirito l’elemento costitutivo dell’amore, poiché non costituisce nient’altro che un rapporto erotico. Ma difendere una storia d’amore sfortunata; essere felice nel senso più alto, grazie a essa; dare significato a una cosa che mi è sembrata assurda: l’introduzione, in Prussia,*® di un ordine per chi aveva partecipato alla guerra d’indipendenza, e di un altro ordine per chi era rimasto a casa, dando così un senso magnifico al fatto che chi è rimasto a casa sia felice della sua decorazione, felice del suo amore, anche se, certo, nella stella sul suo petto si vede più nettamente la croce che su quella riservata all’altro, anche se porta l’ordine, come si chiama in Prussia questo secondo, della «Buona Volontà»; in questo vedo un compito capace di entusiasmare chi sa accon­ tentarsi dell’idea, di se stesso, e del cielo per testimone. Alla sua destra cadono i singoli abbattuti nel corso della lotta per un amore sfortunato; riposano nell’onore e meritano un mo­ numento e un’iscrizione; ma lui, non deve mettersi a sep­ pellire i morti*^ per non farsene turbare. Risorgano, poi, questi morti apparenti, richiamati alla vita dall’applicazione dei rimedi abituali; tornino a divertirsi senza tregua al gioco dell’anello, considerino pure tutto superato: ora sono grasse matrone; e si considerino fortunati, ganz vòllig hergestellte di entrare a pensione in un terzo matrimonio, mastichino ** Probabile riferimento aU’ Ordine della Croce di ferro, istituito da Federico II I di Prussia nel 18 13 per premiare il coraggio e la capacità di decisione tanto sui campi di battaglia che in patria. Matteo, 8, 22. ^ Completamente ristabiliti.

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pure in comune i mozziconi di un innamoramento, e si sbri­ ciolino la vita nella convivenza coniugale; ma lui, non deve concedersi il tempo di stare a guardare, se non vuole esserne ritardato. Il mio voto di silenzio ha fatto dei monologhi la mia forza: ma anche una digressione come questa mi conduce sempre, e solo con maggiore decisione, a lei. Quando la guerra porterà la patria alla miseria, e una donna potrà permettersi di ar­ mare un battello, mi sembrerà una cosa magnifica. Non sarà mai il mio destino, ma lei, lei può anche lanciare in mare una nave da guerra; combatterà per una buona causa.

7 aprile. Mattino Oggi, un anno fa. Lei è ingovernabile. Vuole troncare, vuole troncare, tuttavia non tronca. Morte e dannazione, se la par­ tita deve continuare così, ci batteremo; sia, cominceremo da domani.

7 aprile. Mezzanotte Che fa il mio desiderio? Non dovrei desiderare un’altra, spe­ rare nell’indennizzo di un nuovo innamoramento? Se chi tiene un bastone in mano fosse tanto sicuro di tenerlo real­ mente in mano quanto lo sono io che non mi passa per l ’anima alcuna idea del genere, avrebbe una certezza suffi­ ciente. Ma la passione del desiderio è assolutamente la stessa? E difficile mettersi alla prova nella possibilità: è come se uno, senza aprire bocca, volesse mettere alla prova la forza della

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sua voce. Finora ho meditato spesso, ma invano, per trovare un mezzo per controllare se stessi nella possibilità. Ma credo che la passione sia la stessa; e se fosse cambiata, sono sicuro che un segno, il minimo segno di una possibilità più prossima, sarebbe sufficiente a rendere il desiderio più ardente che mai; poiché, in realtà, è solo a partire dalla rot­ tura che io posso dire di me, in un senso o neH’altro, nel senso proprio e in quello figurato, quello che si dice di Fedria: amare coepit perdite. In un certo senso, tutto è pronto; mancano solo l’approva­ zione dell’idea e il consenso del contesto intellettuale, quan­ tunque io le abbia tutte, le battute, e le abbia provate in gran silenzio. Nessun regista può sapere, con più sicurezza di quanto lo sappia io, che quando suonerà il campanello il cambio di scena sarà a posto. Tengo da un rigattiere il mo­ bilio più completo, il mio appartamento è preparato, tutto è progettato per un matrimonio - se solo viene il momento; allora, io suonerò, e il cambio di scena si opererà nel tempo di girare la mano. Sospettoso di me stesso, ho organizzato, in tutto, la mia esistenza personale come quella di un uomo sposato. L ’or­ dine e la puntualità regnano dappertutto. Dario o S e r s e , poco importa chi dei due, teneva uno schiavo per ricordargli di fare la guerra ai Greci. Siccome non oso confidarmi con nessuno, devo contentarmi di ricordarlo io a me stesso. In tutto il mio modo di vivere, opero uno sdoppiamento che mi serve da promemoria. Acquisto tutto doppio; alla mia tavola, il coperto è per due; il caffè è servito per due; e quando vado

Prese ad amare perdutamente. Fedria è l’innamorato del già citato Phormio di Terenzio (v. 82). Dario: cfr. Erodoto, v, 105.

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a cavallo, cavalco sempre come se avessi una donna al mio fianco. Anche se in queste ore notturne conduco una vita un po’ differente, non è precisamente perché questa vita abbia per me un grande fascino. E anche se ora da tutto questo non venisse nulla, non ne avrò alcun rimpianto. Non ho voluto omettere il minimo dettaglio; è per me una questione di onestà, della più alta serietà, che se mai la cosa potesse attuarsi, i miei conti tor­ nino fino all’ultimo soldo.

8 aprile. Mattino Oggi, un anno fa. La guerra è dichiarata. Quando si deve combattere, è importante trattenersi, e, soprattutto, niente furie. L ’entrata in un serraglio comincia col costare tre marchi, poi il prezzo cala a uno solamente. Un volume rile­ gato costa sei talleri; se non ho fretta, attendo l’edizione economica, e il libro è sempre lo stesso. Quando si deve combattere, si deve fare attenzione a usare l’occasione e sa­ perla scoprire. Da un antiquario e sottobanco, si compra a metà prezzo. Quando una ballerina scende dalla vettura, na­ sconde accuratamente i piedi nel mantello, affinché nessuno possa ammirare quei piedi così preziosi. Non cambierebbe metodo per dieci talleri; e nondimeno tutti sanno che per soli tre marchi, o otto, per le persone importanti, lei danza per te in scarpette di raso eccetera. Il mio stato d’animo ripugna a me stesso, lei ha costretto tutto il mio gelido buonsenso a intervenire in questo rap­ porto, da dove l’avevo per sempre bandito. Ma non durerà a lungo. Di slancio, oggi sono entrato da lei, vestito con cura, e

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sono rimasto in piedi, il cappello in mano, in un atteggia­ mento disinvolto di conversazione; con una cortesia premu­ rosa e riservata, le ho baciato la mano di sfuggita e mi sono rapidamente diretto verso il salone dove sapevo che c’erano degli invitati, dato che era una festa di famiglia. Mi veniva a pennello. I sarcasmi, la satira e la freddezza vengono male a tu per tu, ci vuole un po’ di compagnia affinché facciano il loro effetto. Una signora del gruppo ebbe la bontà di invitarci per il giorno dopo. Generalmente, mi rimetto a lei per questo ge­ nere di cose; questa volta, mi affrettai a ringraziare da parte di entrambi per l’invito, nei termini più calorosi. Fu presto deciso, e le mie parole erano state così adulatorie che, se la mia cresimanda avesse voluto obiettare una parola sola, si sarebbe prostituita. Se ne guardò bene. Stavo per lasciarla; le avevo già detto addio ed ero a metà fuori della porta, quando mi girai all’improvviso e le dissi: «Ecco, è vero, sai una cosa: non dovremmo troncare?». Do­ podiché, feci un giro su me stesso e la salutai con la mano.

IO aprile. Mattino Oggi, un anno fa; ieri sera, mi sono mortalmente annoiato; ma che cosa non si fa per la propria fidanzata, per presentarla in società - e farle apprendere un po’ le buone maniere. Lei mi comprende a meraviglia, lo vedo bene. Se la rottura si presentasse senza equivoco, io l’avrei in optima forma. Oggi, dobbiamo andare a passeggio, poi all’Esposizione, poi a fare delle visite. Tutto va per il meglio; l’allontano da me con estrema cortesia, malgrado i nostri incontri più fre­ quenti. Bisogna utilizzare il vantaggio di passare per mal-

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vagio. Posso essere abbastanza sicuro del fatto che, quando usciamo insieme, non passo inosservato, mentre lei diventa facilmente di troppo. Perché mi ha provocato! Si capisce, nessun altro nota il suo atteggiamento impacciato, poiché io la introduco costantemente nel discorso: «Come dice la mia fidanzata, Tha detto proprio ieri». Se appena fa la faccia me­ ravigliata, ecco che cosa le dico: «Ma Dio, bambina cara, non ricordi, è stato ieri, no, aspetta un attimo, non voglio insi­ stere troppo, è stato quattro giorni fa, proprio quattro giorni fa, non ricordi» e così via. Il motivo per cui faccio cenno a quattro giorni fa lo comprende assai bene. Ma in spirito sono lontano, c’è un che di ominoso in tutta la faccenda. Un vecchio ha detto che non è mai bello mo­ strare quello che deve essere sacro con le sembianze del ridi­ colo. E vero, naturalmente, che il sacro non è una fanciulla, eppure lei, per me, ci si avvicinava molto. Tuttavia, non la tormentavo certo con la pretesa che diventasse l’incarnazione dell’ideale; desideravo solo che se ne stesse tranquilla, la­ sciando a me d’occuparmi anche troppo seriamente della no­ stra relazione. Spero, comunque, che questa malattia infantile sia presto vinta, e che fra noi resti ancora tanta intesa da permettermi la confidenza di leggerle ad alta voce un’opera edificante. Ciò rende l’intera questione ancora più singolare. Un esterno tro­ verebbe forse preoccupante che io, con questi atteggiamenti, voglia anche essere un’individualità religiosa. E facile scher­ nire la saggezza e ogni atteggiamento diverso dalla serietà solenne pura e semplice, quando uno non ha altro. Ma questi giudizi m’aiutano ben poco. Sul piano spirituale l’individua­ lità si comporta nello stesso modo in cui, sul piano grammati­ cale, si comporta la frase: una frase composta unicamente dal soggetto e dal predicato è più semplice da costruire di un

periodo composto da frasi subordinate e incisi. Dunque, che qualcuno sia incapace di comportarsi così con la ragazza che ama non significa niente: significherebbe, invece, che qual­ cuno ne fosse capace e, in circostanze analoghe alle mie, non volesse farlo per valide ragioni. Io insisto con l’idea che lei sia comica: esattamente la mia espressione, E credo di ren­ derle così maggior giustizia che se fossi così presuntuoso da pretendere d’esortarla, in una relazione erotica. Mi serve co­ stantemente l’eguaglianza salvifica; qui, fra me e lei, è l’idea estetica a giudicare. Ma se questa condotta sviluppasse, in lei, un desiderio di sfida, la pagherei cara, E tuttavia, non so comportarmi altri­ menti.

IO aprile. Mezzanotte

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Una volta, un uomo mi ha detto: «Ho sofferto cose talmente atroci che non ho mai osato parlarne a nessuno». E probabile che molti liquiderebbero la frase, un po’ troppo precipitosa­ mente, dicendo: che esagerazione! Certo, avrebbero ragione nel dire che era un’esagerazione, ma, in un altro senso, anche l’uomo aveva ragione. Giunti a un chiarimento, risultò che l’oggetto del suo terrore era una vera e propria inezia; ma il fatto che tale inezia l’avesse aggredito con tanta forza da impedirgli di parlarne a chiunque può aver senz’altro provo­ cato la sua terribile sofferenza. Ieri ho appreso dal giornale la notizia di una «fanciulla di buona famiglia», che aveva posto fine alla sua vita suicidan­ dosi, Se solo quella fanciulla avesse riflettuto sull’angoscia mortale che poteva provocare ad altri, credo che avrebbe abbandonato la sua intenzione. Ma a chi può venire in mente

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di usare verso di me tante attenzioni, tanta prudenza? E non poter interrogare nessuno; dover accontentarsi di inseguire una spiegazione attraverso il linguaggio incurante della con­ versazione, con i suoi ripetuti esordi, le ellissi, i giri di parole! Se tutta la mia strada è interamente disseminata di spine, questi contatti occasionali sono veri e propri roveti dove resto preso. Vedo spettri in continuazione: nelle frasi casuali, nella poesia, nelle mistificazioni. Una nemesi si abbatte sui miei stessi virtuosismi. Da più di quattordici giorni ha ricevuto il mio messaggio confidenziale. Da allora non l’ho più veduta in Hauserplads. - Per quanto il mare sia agitato, e in qualunque punto del mondo uno si trovi, la bussola indica sempre la direzione del nord. Ma sul mare della possibilità anche la bussola è dialet­ tica, e non è possibile distinguere quando l’ago magnetico devia e quando indica la direzione giusta.

12 aprile. Mattino Oggi, un anno fa. E un po’ a stecchetto, non senza un certo smarrimento, lo vedo bene. Non era troppo restia alla resa; ma non è riuscita a dominarsi. Proprio così: ha giocato la sua ultima carta troppo presto, e al momento sbagliato. Le cose che, in base alla mia condotta di questi ultimi giorni, avreb­ bero potuto costituire un’accusa abbastanza giustificata sono giunte come un acquazzone del tutto immotivato. - Certo, faccio la guerra per ottenere la pace; e tuttavia mi duole pensare all’obiettivo di questa guerra, la crisi, una volta che lei sarà stata vinta. Ne soffrirò, perché non è la vittoria su di lei che desidero. Fintanto che siamo in lotta, non è detto chi dei due sia il più forte; ma quando lei si arrenderà, mo­

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strando d’essere la più debole, io non vorrei essere presente. Sono orgoglioso anch’io, e nella nostra relazione sono più orgoglioso per conto di lei che per conto mio. 4 13 aprile. Mattino Oggi, un anno fa. È andata nel migliore dei modi; di questo devo ringraziare il suo buon genio, ma è anche vero che ho agito con la massima calma. Ieri pomeriggio, durante la mia ora di scherma, mi è caduta la maschera proprio mentre ero sul punto di attaccare; il mio avversario non ce la fa a fermare il fioretto, che così mi colpisce alla testa. Tutto si è risolto in un’inezia: un po’ di sangue, un cerotto applicato sulla ferita, poi subito a casa. Ma che succede? Ieri sera, sul tardi, le capita di ascoltare un resoconto esagerato dell’incidente, e poiché io non mi sono fatto vivo, nonostante che avessi pro­ messo di arrivare, lei si è impensierita. Il sangue perduto, la tensione, o l’antagonismo, che regna fra noi e forse anche l’amore hanno contribuito a farle perdere il sonno. Come ho sempre sostenuto, durante una notte insonne si possono veri­ ficare cambiamenti incredibili. Oggi è venuta da me con suo padre. Il suo stato era talmente penoso che avrebbe com­ mosso il cuore più duro. - Poi tutto è andato bene. Abbiamo tralasciato la mia vittoria, e il pericolo della morte ci ha aiu­ tati a comprenderci.

Che amabilità, che fanciulla deliziosa, che dolce ragazzina! Eppure darò con gioia centinaia di talleri ai poveri, per aver scampato con tanto successo la trappola della capitolazione. Di tanto in tanto mi guardava in un modo tale da farmi intuire che aveva qualcosa nel cuore; ma a quel punto io prendevo a parlare della pericolosità della mia ferita, e di

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quanto fosse strano il fatto che la maschera fosse caduta, Lei sorride, sebbene con le lacrime agli occhi; allora le dico: «Sì, puoi ben ridere di come sono stato smascherato!». Lei re­ plica: «Ma che sciocchezze dici, sai bene cosa intendo», «Certo, dovrei tornare a sfidarlo dicendogli: Se cade la ma­ schera, non vale,» Quindi parliamo di altri argomenti. Poi lei si avvia verso casa; io la seguo con lo sguardo, come quando tornava dalle lezioni di canto, e tuttavia non si muove nello stesso modo; c’è una temeraria felicità nella sua andatura, O morte, io credo che l’umanità sia ingiusta verso di te; quale immenso significato sei capace di conferire alla vita, quando già un tuo monito così lieve produce un effetto di tal portata.

14 aprile. Mezzanotte Bisogna cambiare metodo. Un giudice istruttore che voglia andare a fondo delle sue indagini colloca l’imputato nell’am­ biente più inquisitivo possibile. Mette l’assassino a fianco della vittima, sveglia al canto del gallo chi trascorre la notte in preda al terrore. Per quanto mi riguarda, c’è un ambiente dove il mio giudice istruttore potrebbe condurmi sull’orlo della confessione, o almeno arrivarci più vicino di quanto io creda possibile; una chiesa. Ieri, contrariamente alle mie abi­ tudini, sono entrato nella Chiesa della Trinità. Lei possiede la vista acuta di un’aquila, e per di più è ben consapevole del mio spirito d’osservazione. G li occhi le caddero su di me e si rese ben conto che io l’avevo vista. Ero in piedi nella stretta navata a destra; lei arrivò dalla porta centrale, passò davanti al coro per andare a sedersi su una sedia dalla parte opposta.

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Mi vide, quindi mi fece un cenno col capo. Immediatamente ritrassi lo sguardo, presi a sfogliare il libro dei salmi come se avessi perso il segno, e aggiunsi a questo movimento una scrollata di testa. Ah! Temetti che in quel saluto si celasse una speranza. Nell’attimo in cui alzai lo sguardo, vi fu ancora uno scambio di occhiate, sembrava che lei avesse compreso il significato dei cenni che avevo fatto col capo, e rispose nello stesso modo. Ah! L ’espressione era del tutto diversa; mi sembrò che non mi chiedesse che un’ammissione, e abbando­ nasse la speranza. Avevo trovato il salmo e seguivo il canto, e come talvolta succede a chi canta in chiesa, con la voce sol­ levai il capo, per poi riabbassarlo; un movimento, questo, che somiglia anche al gesto di chi fa un’offerta a un’asta dicendo: sì. Poi è arrivato il pastore a separarci; non l’ho seguita con lo sguardo, ho ripercorso il cammino attraverso cui ero giunto, senza deviare d’un passo. Un Pitagorico*^^ non potrebbe cal­ pestare la terra con più angoscia della mia, nella paura, come si dice, di fare anche un passo. Dunque ho parlato! No, parlato non ho; non ho fatto an­ cora nulla che non possa ritrattare. Non sarebbe dovuto suc­ cedere in una chiesa, lei non avrebbe dovuto distogliermi da quello che malgrado tutto devo considerare il mio dovere. Ma in una chiesa sono così facilmente tentato d’osservare la questione dal punto di vista dell’infinito; e dal punto di vista dell’infinito posso ben dire la verità, ma non nel tempo, o meglio, non ancora. Forse lei ha ancora una possibilità di salvarsi per tutta la vita, non deve darle l’addio perché glielo do io. Non credo che sul piano religioso lei sia ancora così matura da comprendere davvero il significato di questa rotAllusione alla dottrina pitagorica della metempsicosi.

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tura con l’esistenza, una rottura che per una donna è ancora più decisiva che per un uomo. Voler percorrere insieme questa strada significa proseguire nel terribile malinteso che ho già temuto in questi due mesi atroci: quello di soffrire, insieme, per una storia d’amore infelice. Non conviene. Quale somiglianza esiste fra la mia sofferenza e la sua, quale comunanza fra la colpa e l’innocenza, quale rapporto fra il pentimento e un’estetica afflizione per l’esistenza, quando a destare il pentimento è la stessa cosa che desta la sua affli­ zione? Posso soffrire a modo mio; se lei deve soffrire, deve poterlo fare anche lei per suo conto. Una fanciulla può sotto­ mettersi a un uomo in molte cose, ma non in etica; ed è anti-etico che lei e io soffriamo insieme. Come può lei, per questa via, arrivare comunque a una sofferenza religiosa, se deve lasciare irrisolto il problema etico della mia condotta nei suoi confronti; se deve soffrire proprio in conseguenza di questo problema? Se solo avessi la possibilità di essere donna per sei mesi, per capire in che cosa lei sia fatta diversamente da un uomo! So bene che vi sono casi in cui una donna si è comportata in questo modo, li spiego psicologicamente be­ nissimo, ma ai miei occhi erano tutte individualità fallite. Non trovo alcun significato nella mia concezione della vita, se io stesso devo sperimentare lo spreco di un individuo per un altro; e sprecata è lei, se le cose vanno in questo modo. Appena comincerà ad arrischiarsi sull’angusto sentiero che conduce a un movimento religioso, ecco che l’avrò perduta. Una donna può vivere passioni intense quanto e forse più di quelle che vive un uomo, ma la contraddizione insita nella passione non è compito per lei, come lo è invece il compito di rinunciare al desiderio e insieme di conservarlo. Se lei lavora in senso strettamente religioso per rinunciare al desi­

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derio, ecco che si trasforma; e se mai giungesse il momento di compierlo, il desiderio, non riuscirebbe più a comprenderlo. Ma può anche essere che io parli senza ragionare; può essere che mi sia fatto di lei un concetto troppo alto. Il movi­ mento religioso verso l’infinito, forse, non appartiene affatto a un’individualità come la sua. La sua fierezza non avrebbe l’energia necessaria a salvarla, in una temporalità potenziata. Se la sua fierezza fosse stata assoluta, l’avrebbe salvata, dal punto di vista umano. Forse è per questa ragione che il reli­ gioso non entra neppure nel rovesciamento operato dall’infi­ nito, L ’eternità religiosa, probabilmente, non diviene deci­ sione eterna, bensì temporalità protratta nello spazio. Così, l’eternità avrà dimorato presso di lei e l’avrà consolata, come quando, in Omero, il dio o la dea si affretta a soccorrere il proprio eroe. Lei aveva creduto che fosse in gioco la deci­ sione dell’eternità, si era già vista morta, e aveva dato tutto per perduto, ma, fatto curioso, mentre, senza tentare neppure di destarsi a questa decisione eterna, stanca di uno sterile desiderio e stanca dell’opera sterile della rinuncia, si era asso­ pita nell’infinito, il tempo aveva compiuto il suo corso, e lei si era svegliata, ritornando alla vita. Capace, allora, addirit­ tura di pensare a un nuovo legame, a un innamoramento nuovo. Era proprio quello che volevo: così sarebbe stata libera. Ho pensato a tre possibilità: che con la sua fierezza lei arri­ vasse a un potenziamento dell’esistenza temporale; che con una rassegnazione illusoria giungesse a un nuovo amore; che diventasse mia. Non ho neppure voluto pensare ad altre pos­ sibilità indegne, che, pur dandole la libertà, l’avrebbero smi­ nuita ai miei occhi. La prima possibilità bisogna abbando­ narla; se non è progredita ancora, dal momento del mio mes­ saggio confidenziale, vuol dire che non possiede la fierezza

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necessaria a costruire su questa base lo straordinario. L ’ul­ tima possibilità è solo un desiderio, che presenta anch’esso un inconveniente: lei si sarebbe conservata, in questo caso, nel giusto, solo se non avesse neppure intravisto la scelta religiosa, e si fosse fermata alla sua ingenuità femminile. Basta che lei cominci a conoscere la tristezza religiosa, e il desiderio svanisce come la luce del tramonto davanti ai primi raggi della luna, o come il chiaro di luna davanti all’alba. A una doppia illuminazione, a una doppia riflessione, una donna non saprebbe esporsi; la sua riflessione segue un unico percorso. Se vuole rinunciare al desiderio, la. sua riflessione diventa il conflitto fra la vita del desiderio e la morte della rassegnazione; ma volere le due cose allo stesso tempo le è impossibile, impossibile forse già solo capirle. Rimane dunque la possibilità intermedia; quella del sopore di una rassegnazione illusoria che la trasporti in un’eternità; di un lungo riposo che faccia passare il tempo, fino all’attimo di riaprire gli occhi e ridestarsi a una vita nuova. Se questo accade, non avrà sprecato la sua vita per me. La fanciulla, che forse una volta aveva avuto, nell’illusione della sua tristezza, la sensazione di essere come un fiore non necessario alla vita, la sensazione di assomigliare a un povero uccello che scom­ pare addirittura messo a confronto con uno più vigoroso, si accorge in tal modo di acquistare veramente significato. I naturalisti possono tenerci lezioni sui grandi sprechi dell’esi­ stenza, e chi vuole sui sacrifici che esige l’amore: nella chiu­ sura di bilancio che immagino io, la fanciulla diventa capita­ lista, e la Provvidenza compie una conversione economica estremamente vantaggiosa. Della Danimarca si è detto che è l’unico Stato che gode di un patrimonio privato, grazie ai diritti doganali dell’0resund; a me sembra che, per analogia, nel campo più limitato del mondo individuale, lei diventi in

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tal modo un’eccezione fra le donne. Il matrimonio assomiglia alle entrate statali, ma lei possiede in più una lettera di cre­ dito, che la mia vita le ripaga con gli interessi. Ma è bene comunque che lei non abbia agito così per causa mia o perché io gliene abbia fatto richiesta. - Questa possibilità mi sembra molto seducente, poiché dà alla sua esistenza più va­ lore che alla mia. Molta importanza non posso aver avuto per lei, altrimenti avrei visto accadere uno dei casi che ho imma­ ginato en gros, e l’avrei pagata cara. Eppure, anche quando rifletto sulla situazione a titolo pu­ ramente ipotetico, rimane un punto spinoso. Che cosa farà lei in realtà, che cosa accadrà? Io so che lei farà quello che viene predicato, forse, in più d’una chiesa. Forse, non predicano sempre la religiosità dell’infinito, o almeno non la predica chi fa un uso rigoroso delle categorie. Né predica sempre il cri­ stianesimo chi fa uso, senz’ombra di ipocrisia, della termino­ logia sacra e delle espressioni bibliche, poiché il corso del pensiero può alle volte essere interamente pagano. Non è nella religiosità propriamente detta che lei troverà la sua con­ solazione. Osservato da questo punto di vista, io sparirei ai suoi occhi come un atomo, come un’evenienza fortuita al pari della vendita di Giuseppe, che le permetta di acquistare l’e­ terno: ma di un nuovo innamoramento non si parlerebbe neanche. No, a guarirla dev’essere una sapienza di vita impre­ gnata di una certa religiosità, una mistura, non priva di bel­ lezza, di ingredienti estetici, religiosi e di filosofia della vita. La mia concezione della vita è diversa, e io mi adopero con tutte le mie forze a conservare la mia vita nella categoria. Possiamo morire, lo so, ed essere sottoposti alla tortura, so anche questo; ma possiamo anche attenerci alla categoria e restarle fedeli. Quello che voglio, quello che esigo da chiunque formi per me un oggetto d’ammirazione, da

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chiunque debba raccogliere sul serio il mio riconoscimento, è che pensi, di giorno, unicamente alla categoria che governa la sua vita, e che di notte ne sogni. Non giudico nessuno; ad affannarci ad applicare agli altri un giudizio in concreto, siamo raramente fedeli alla categoria; come quando, a cercare nella testimonianza degli altri la dimostrazione della propria serietà, eo ipso uno non è serio, poiché la serietà è innanzi­ tutto sicurezza di se stessi. Ma qualunque esistenza tesa a uno scopo giudica indirettamente a seconda di questo scopo, e chi tende alla categoria giudica indirettamente chi non vi tende. So anche che, anche a non avere più di un passo da fare, si rischia di inciampare e di perdere d’occhio la categoria; ma non per questo credo di poterle sfuggire e di salvarmi poi a forza di chiacchiere. Credo che la categoria mi tratterrebbe e mi giudicherebbe, e che in questo giudizio tornerebbe la ca­ tegoria. Ma quale potere esercita questa ragazza su di me? Inchi­ narmi di fronte a tutti i suoi desideri, passare la giornata a divertirla, se mi fosse stato permesso, sarebbe anche un pia­ cere; ma vedermi togliere il mio pensiero, che è per me la mia vita, e la cui perdita è la mia morte spirituale! Le diffe­ renze le ho cancellate da tempo, ma quello che a mio avviso sostiene la vita è l’uguaglianza nella volontà fra tutti gli uo­ mini; e su questo punto, si può esigere da tutti la stessa cosa. E malgrado ciò, fino a che punto lei non ha saputo inse­ gnarmi solo con un vago accenno a comportarmi bene, come direbbe certo un estraneo, a confronto con questa ambigua rassegnazione! E come mai? Perché, di nuovo, io non posso esistere spiritualmente, senza che debba subito potervi esi­ stere anche lei. Da ciò si capisce quanto sia pericoloso per un pensatore l’essere innamorato; per non parlare dell’essere sposato e avere ogni giorno discussioni con una donna. Do­

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vrebbe forse evitare l’una e l’altra cosa, o, al contrario, farsi coinvolgere in entrambe? - Certo! Bisognerebbe essere un vero uomo, e imporre una concezione della vita che spinga alla rinuncia fino a un certo punto, e a consolarsi fino a un certo punto. Ma no! Taci, passione che vuoi sconvolgermi la mente, anche se puoi avere le tue ragioni; poiché quello che esigo da me fino alla disperazione, non come un’impresa straordinaria, ma per semplice giustizia, non posso tollerare di vederlo scambiato con qualcos’altro. Mercanteggiare non posso. Ma non ho lo stesso contribuito a provocare qualcosa del genere? Ma se mi ingegno perché lei sia libera! Giusto; ma ho sottoposto la questione alla sua decisione, dialetticamente, in modo che lei possa fare quello che vuole. Ho creduto di dovere a me stesso l’assunzione di tutte le responsabilità. Forse, in quel periodo terribile, sarei riuscito a provocare una decisione più amichevole, ma se avessi fatto qualcosa in quel senso, avrei mirato al mio vantaggio, non al suo. Lei stessa, forse, non avrebbe compreso in che dipendenza da me si sarebbe trovata, e lungi dal rispettarla, l’avrei buttata via. Ho impostato allora la questione in modo da darle la forza e l’autonomia di agire alla potenza dell’infinito religioso. Se lo facesse, rimarrei legato per sempre e non avrei mai più la possibilità di riacquistare me stesso. Se scegliesse invece l’altra strada, avrei perso. Ciò che mi consola è che la riflessione senza fine non è essenziale per una donna. Perciò l’altro tipo di rassegnazione, più dubbia, le permette di mantenere tutta la sua bellezza. Se lei riesce a innamorarsi di un altro, sarà per me il massimo aiuto possibile, ma qualunque cosa lei faccia, non posso im­ pedirmi di vederne la bellezza. Ah, che crudele consolazione per me, se sia io che lei riuscissimo a cavarcela, ma fra me e

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me dovessi ammettere, parlando di lei: questa esistenza ha rinunciato all’idea! A che cosa servirebbero allora tutte le mie preoccupazioni, i mei progetti, i miei sforzi? Che cosa faccio di concreto? Niente. Ma non per questo cedo, proprio per questo non voglio cedere: perché, nel momento in cui uno fa di tutto e non serve a niente, può avere la certezza di agire per entu­ siasmo. E per questo che non disdegno questo “niente” , come la vedova non ha sdegnato di mettere tre centesimi nella cassa del tempio; quello che è “niente” come materia concreta, come passione ha enorme valore, e lo capisce un solitario. Poiché nel momento in cui il tormento scuote le viscere e fa tremare il corpo, se a soffrire è un uomo, c’è sempre una mano amica a sorreggergli il capo, finché quel­ l’accesso non è passato; o, se a soffrire è una donna, quando dai sospiri nasce l’angoscia e il dolore le schiaccia il cuore, c’è sempre un’altra donna compassionevole a slacciarle il cor­ setto in modo che possa tornare a respirare; ma il solitario non osa neppure abbandonarsi al sollievo fìsico che la nausea è per la passione. Ma non è ancora il momento di rattristarmi per conto mio, perché anche questo fatto dimostra la difficoltà dialettica della mia posizione, ché sono due cose completamente di­ verse rattristarsi per conto proprio e rattristarsi per conto della famiglia. Tuttavia proverò a scoprire quella che, ai miei occhi, è la forma più bella di un nuovo legame. La cosa più bella sarebbe che lei, prima di legarsi a me, fosse stata inna­ morata di un altro, che questo innamoramento potesse ora risvegliarsi, magari sostenuto dal rimprovero che lei si fa­ Marco, 12, 42; Luca, 21, 2.

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rebbe per aver preferito me. La sua relazione con me si ridur­ rebbe in questo modo a un semplice episodio; non dovrebbe amare ancora una volta, ma tornare al primo amore, e il rapporto con me le insegnerebbe forse a trovarlo bello più che mai. Brava, brava, così va bene! Peccato che la mia penna non sia un essere vivente, ma solo un cannello d’acciaio; ma se fosse stato un uccello a recare nel becco questa notizia, e potesse provare qualche gioia dalla mia riconoscenza, quanto lo ringrazierei! Per sfortuna, di tutto ciò non so nulla. E tuttavia non posso immaginarmi nessuno più addentro di me, a cui rivolgermi. Ma perché, allora, tacerlo; perché tanto ac­ canimento nell’aggrapparsi a me? La risposta a questa do­ manda le indicherebbe una responsabilità nei riguardi di me stesso o di codesto sconosciuto. L ’ho dunque colta alla sprov­ vista? Al contrario; me ne sono reso conto chiaramente una volta. Se l’ho sorpresa, dev’essere proprio a causa dell’accura­ tezza con cui ho cercato di evitare di sorprenderla. Se lo ammetto, tutto torna di nuovo a posto. Allora m’avrebbe temuto più di quanto non m’avrebbe amato. Ora che si sono aperte le discussioni sulla nostra separazione, lei ritrova il dimenticato, e questa evocazione dolorosa ha spronato la sua disperazione. Proprio così. Se questa è la situazione, lei è salva: cioè, si è salvata da sé, e io sono salvo, perché lei è libera, senza aver perso la sua bellezza. Lei non mi deve nulla, perché non ha seguito i consigli che non le ho dato, né potevo darle in questo senso. Se mi deve qualcosa, un com­ penso minimo per tutta la mia sofferenza, è per non essermi messo in testa di darle consigli. Io non le devo nulla direttamente, perché nulla le ho chiesto di fare per me, e nulla posso supporre che faccia per me; indirettamente le devo molto, ma per un debito essenzialmente fondato sulla mia per-

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sonalità, che desidera riconoscerlo proprio a questa condi­ zione. Tutto ciò sarebbe splendido, se solo non fosse un’ipotesi; e sarebbe una splendida ipotesi se solo, come ipotesi, non fosse così fragile. Mancano cinque minuti alle due, il mio orario di lavoro è terminato. DaH’inizio della mezzanotte penso a lei con tutta la passione possibile, ma non devo oltrepassare d’un minuto quest’ora. Bisogna resistere: e dopo le due ogni pensiero che la riguardi è una tentazione, un inganno ai suoi danni, poiché un po’ di sonno è necessario per far durare la passione a lungo, come certo voglio. La differenza fra una birra leggera e la birra più forte che produce l’Inghilterra non è tanto che quest’ultima produce schiuma, poiché schiuma anche la birra leggera e nella stessa misura, quanto che, nella birra leggera, la schiuma scompare immediatamente; la schiuma della birra più forte, al contrario, resiste.

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poco febbrili sono ora come dimenticate. Oso credere di es­ sere amato. Non mi è certo passato per la mente che lei potesse amare un altro, ma ho l’impressione che le manchi quella fermezza che abbellisce e che impregna l’anima della sua bellezza. A vederla, dà un istante di gioia che somiglia al terrore, in chi ha ingerito del veleno, di constatare che il veleno sta funzionando, E il dolore all’idea di aver potuto comportarsi in modo tanto sbagliato le dona una dolcezza che non avevo immagi­ nato; e il fatto che lei avverta questo dolore, ah, che cosa non dimostra! Quale fortuna, che la morte sia intervenuta a sepa­ rarci! Se fossimo arrivati, da noi stessi, a un accordo, per amichevole che fosse, di separarci, sarebbe stato sempre molto difficile. Temo solo che lei prenda tutta la questione troppo a cuore. Lasciarla completamente nell’oblio potrebbe farla soffrire in silenzio, e se mi succede di alludervi, si com­ muove all’istante, nonostante che io adoperi il tono più bo­ nario e lieve di cui sono capace: o forse è proprio questo a causare la sua emozione?

15 aprile. Mattino Oggi, un anno fa. Dunque, il tempo era bello e prometteva bene. Se uno esce nelle prime ore mattutine in cerca di li­ bertà e di bellezza, ma il tempo è incerto; se uno monta in vettura facendo castelli in aria sulla possibilità che il tempo variabile finisca per tirar fuori un lato più bello di cui essere grati; e se perfino il sole ora si stanca dei bizzarri capricci delle nuvole, dell’instabilità degli acquazzoni, e spunta fuori in tutto il suo splendore, stabilendo così che il tempo sarà bellissimo - come non riconoscerei, dunque, che l’ha deciso lei, il mio sole, che è finito il tempo degli acquazzoni! QueU’immaturità femminile, quelle manifestazioni un

17 aprile. Mattino Oggi, un anno fa. Per disgrazia, lei non possiede alcuna di­ sposizione religiosa. Da questo punto di vista mi sono battuto a vuoto. Certo, lei ha voluto misurarsi con me, non si è lasciata travolgere da me, ma l’angoscia di questa notte le ha insegnato a comprendere se stessa. La prende per una scon­ fitta, benché si consideri più felice di prima. Il problema era trovare di fronte a me la libertà dell’infinito. In questo mo­ mento ha fatto di me un ideale, e ritorce questo piccolo sbaglio di rotta contro se stessa. Purché non ne derivi una

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debolezza, una cedevolezza a me che non posso e non voglio capire; non voglio essere pregato, non credo che la sua infe­ deltà potrebbe ferirmi tanto dolorosamente quanto la vista di un simile annientamento davanti a me. Io stesso sono orgo­ glioso, come dev’esserlo ogni uomo di fronte agli altri; di fronte a Dio, invece, dev’essere umile, umile in qualsiasi cir­ costanza, ma non umiliato dalla personalità di un altro uomo. Sicuramente, per quanto terribile sia, esiste una sorta di devo­ zione che, proprio quando si avvinghia a me, m’obbliga a respingerla. Se è spiacevole che due innamorati litighino, esiste pure una devozione che, sul piano religioso, comporta una tremenda responsabilità.

i8 aprile. Mezzanotte Non devo fare altro che restare tranquillo, poiché prendere qualsiasi iniziativa che abbia a che fare con una passione precedente, di cui neppure so nulla, è impossibile. Quello che ho fatto fin qui, dunque, è vano, e così pure una parte delle aspettative che avevo nutrito per simpatia su di lei, e il tremito che avevo provato per me stesso. A che serve dunque l’intelligenza? Ma io non sono nep­ pure intelligente. Se da un lato sono il più intelligente dei miei pari, dall’altro sono, forse, anche il più sciocco di tutti. Di tutto ciò che ho letto o sentito, niente mi ha colpito più di una espressione usata a proposito d i P e r i a n d r o . ^ ^ dice che parlasse come un saggio e si comportasse come un folle. Che l’espressione mi si addica perfettamente, lo dimoUno dei Sette Savi: cfr. Diogene Laerzio, i, 98. La fonte di Kierkegaard è qui Fénelon, Abrégé des t ies des anciens philosophes, 172 1.

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stra il fatto che io Faccetti con la più appassionata simpatia, senza tuttavia che abbia il minimo potere di cambiarmi. Questo mio modo di appropriarmene è appunto “alla Periandro” . Entro il mio presupposto sono intelligente, ma il pre­ supposto di quello che faccio è talmente ideale da trasfor­ mare tutta la mia intelligenza in follia. Se potessi imparare a moderare il mio presupposto, la mia intelligenza uscirebbe allo scoperto. Se riuscissi ad agire con questa intelligenza, mi sarei sposato da tempo. Esaudire il proprio desiderio, esserne ringraziato come d’un beneficio, e poi organizzarsi la vita come conservandosi essenzialmente in possesso della propria libertà, sarebbe stato intelligente, e io sarei stato un uomo rispettabile, che non viene meno alla parola data, un marito modello, fedele alla moglie, rispettoso di una fanciulla; perché il mio presupposto, probabilmente, non la rispetta affatto, e la mia scelta di mettere a soqquadro cielo e terra piuttosto che scantonare dall’entrare in una condizione gra­ dita a Dio e passare la vita a scantonare dimostra, probabil­ mente, che di onore non ne ho. Il mio desiderio, superiore a quello di vederla libera, il mio desiderio, dove culmina la demenza divina nel mio cuore, devo ora senz’altro accantonarlo. E tuttavia non voglio. Una volta libero e in grado di agire, sarebbe possibile che la mia natura accendesse in lei il desiderio. Ammettiamo pure che questa possibilità sia lontana, infinitamente lontana: non vorrei comunque trascurarla, né rinunciarvi. Solo la certezza ufficiale che lei è libera e appartiene a un altro potrebbe far morire il mio desiderio, ma fino a quel momento non voglio che il mio desiderio mi si presenti da miserabile, di tanto in tanto, come un’idea peregrina; voglio invece tenerlo in gran­ de onore, come la passione suprema della mia sintesi. E ben vero che la malinconia è la Grazia del lutto, così

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come la disperazione ne è la Furia, ma si può cedere alla malinconia solo dopo aver urlato di dolore. Cedere subito alla malinconia è talvolta segno di un’anima mediocre. Dunque dormi bene, ragazza mia, chi t’ha giurato fedeltà non può fare più di quanto faccia, dormi bene, potrei quasi dirti, mia cara bambina, giacché la mia sollecitudine è simile a quella di un padre, che desidera vedere la sua figliola inna­ morata. Vedi, questa è la malinconia, ma non voglio, resisto con te, resisto, e dovessi pure diventare vecchio senza che nulla succeda, non revocherò la ronda notturna che ho man­ dato in vedetta della speranza.

20 aprile. Mattino Oggi, un anno fa. Quando un giudice istruttore, forse a lungo, ha esaminato documenti, ascoltato testimoni, raccolto indizi, controllato luoghi, all’improvviso, seduto com’è nel suo ufficio, arriva a vedere, a vedere qualcosa. Non si tratta di un uomo, d’un nuovo testimone; non è il corpus delictv, è qualcosa che lui definisce l’andamento della causa. Non ap­ pena ha visto l’andamento della causa, lui, cioè il giudice istruttore, ce l’ha fatta. Esaminando me stesso, ho notato che l’inquietudine attra­ versava tutto il mio essere, che qualcosa di terribile stava fermentando, sono rimasto sveglio tutta la notte, e ora vedo l’andamento, ahimè!, vedo l’andamento non già della causa, ma dell’annientamento. Mi è devota a un grado tale da ango­ sciare tutto il mio essere, e tuttavia ai miei occhi è amabile, e mi commuove profondamente, ma la sua devozione e la mia commozione mi tormentano. Anche se fossi diverso da quello che sono, non potrei comprendere questa devozione, né sot­

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tomettermi io in egual misura. E poi, chiuso come sono: lei mi conosce ben poco, che incompatibilità! Su di lei io ho un potere totale, su di me lei non ne ha alcuno. Una relazione simile è un matrimonio? Sembra piuttosto una storia di sedu­ zione. Voglio dunque sedurla? Abominevole. E tuttavia non esiste una forma più elevata di seduzione, peggiore di quella voluttuosa? Lei afferma di non essersi mai sentita più felice di quanto sia adesso; non le importa di null’altro che della sua estasi. Da parte mia, è amore la vista di una simile incompati­ bilità? E so, nel profondo del mio cuore, di essere chiuso. Certo, ho potuto constatare che, grazie all’esercizio, riesco a occultare la mia chiusura. Ma la sua devozione equivale a una richiesta, che sconvolge il mio essere. Vero, lei non lo com­ prende affatto; ma io lo so, e che cosa faccio? Questo malinteso ha prodotto un danno irreparabile. Può essere che dentro di sé lei abbia inteso di lottare seriamente. E non c’è alcun limite alle manifestazioni della sua devo­ zione, se comincia a esprimersi in maniera diretta. La situa­ zione è simile a quella di chi cominci a lamentarsi delle sue sofferenze: presto la verità non basta più a commuovere l’a­ scoltatore, e così, a sua insaputa, si insinua nelle parole la falsità. Questo malinteso produce danni irreparabili. Se ho un’espressione seria, lei crede che sia dovuta a questo motivo. Ma se non è affatto così; è la mia chiusura ad adombrarmi in tal modo! Ah, c’è da perderci la ragione! Oggi mi ha pregato di mettermi a sedere su una sedia. L ’ho fatto, senza sospettare nulla. Allora lei è indietreggiata di due o tre passi, si è avvicinata e si è gettata in ginocchio. Probabilmente in quel gesto c’era un pizzico di malizia, ma alla base c’era malinconia, oltre a una sorta di felicità, sì, è così che devo chiamarla, una pazza felicità per aver trovato la giusta espressione della sua passione. Un attimo e l’ho affer­

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rata, sollevandola da terra. Chi ha commesso un misfatto, lascia vagare lo sguardo per la stanza, sospettoso d’ogni an­ golo, lo lancia fuori dalla finestra per curiosare nelle case dei dirimpettai, e l’angoscia della sua colpevolezza lo rende per­ spicace; non so quanto avrei pagato per esser sicuro che nes­ suno avesse visto la scena, o quanto avrei pagato per non vederla io! Come se fosse questo che desidero! In realtà, lei non mi ha mai capito. Personalmente, non mi sono mai ingi­ nocchiato davanti a nessuno, forse potrei davanti a lei, se le circostanze lo richiedessero, ma per rispetto della mia e della sua persona non dovrebbe accadere mai. Cose come queste non sono, ai miei occhi, pagliacciate, non sono gesti esage­ rati; e se lo facessi, la mia opinione in proposito è che non tollererei un’ingiuria come quella di veder preso il mio gesto per tale. Su questo punto, ritrovo il mio orgoglio. So bene che una giovane donna è diversa da un uomo, ma non dimenticherò mai quel gesto; mi ha portato furore nel sangue, confusione nel cervello, angoscia nella mia chiusura in me, sconforto nella risoluzione, e soprattutto un sussurro, all’orecchio del presentimento, che è per me foriero e mes­ saggero del peggio.

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di pensarci all’improvviso, e all’improwiso significa, qui, che è passata una mezza giornata dall’ultima volta che ho ripas­ sato la lezione, ecco che si produce la crisi più atroce. Sul piano dell’organismo, essa ricorda i sintomi del colpo apo­ plettico. Immediatamente ho le vertigini, il mio pensiero non riesce ad afferrare con sufficiente rapidità un appiglio in questo intrico, e mi sembra d’essere un assassino. In questo caso non c’è null’altro da fare se non respingerne il pensiero con la massima energia, come se fosse un dubbio religioso; così l’attimo passa, e io comprendo di nuovo ciò che mi sono ripetuto centinaia e centinaia di volte. - Oppure mi capita improvvisamente di pensare a quanto ho sofferto, e il pen­ siero giunge con tale istantaneità che i meccanismi di con­ trollo della riflessione non ce la fanno ad affrettarsi nella sua direzione, e io sono completamente sopraffatto. E quello che mi è accaduto ieri. Ero seduto in un caffè a leggere il gior­ nale, quando all’improvviso quest’immagine mi si desta nel­ l’anima, così all’improwiso da farmi scoppiare in lacrime. Fortunatamente non c’era nessuno; ma ho appreso una nuova forma di prudenza.

24 aprile. Mattino 22 aprile. Mezzanotte Come l’ammalato abituato a prendere una certa medicina deve avere sempre con sé, dovunque vada, le gocce che gli leniscono il dolore, così io, ahimè, devo portarmi dietro do­ vunque un breve riassunto della storia della mia passione, affinché possa orientarmi subito in generale - orientarmi in cose che mille volte mi sono ripetuto, e ben diversamente da come l’allievo ripassa col professore la lezione. Se m’accade

Oggi, un anno fa. Ho perduto la strada, proprio come il viaggiatore giunto in una terra straniera dove si parla un’altra lingua e si praticano altri costumi. Se a causarmi sofferenza fosse il fatto che gli stranieri mi trattano con orgoglio nazio­ nale, non sarebbe stato nulla. Ma non è questo il mio caso. Lei è ben lungi daU’avanzare pretese su di me, vede semplicemente, nella sua illusione, la sua illusione, e in essa si perde, E felice, afferma, e in un certo senso io la credo felice. E

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amabile, e si trastulla col suo innamoramento come un bam­ bino lasciato a se stesso, ma felice e contento del suo passa­ tempo. Potrei restare a guardarla, e invecchiare, e continuare a guardarla; c’è solo una nota stonata, ed è il fatto che sia io l’oggetto del suo innamoramento. Tutto quello che ha prece­ duto questa piccola altercatio, e che ai miei occhi aveva tanta importanza: l’impressione dell’idea sulla quale io, che dal­ l’idea mi faccio dominare, ho voluto attirare la sua atten­ zione, non l’ha neppure sfiorata. A questo riguardo è come impenetrabile. Ma la lotta, il mutamento della mia condotta, l’intervento della morte trasformano la sua natura; e lei di­ spiega un’amabilità che io ammiro con malinconia, e che mi fa spasimare per lei. E dunque, che significa questo? Significa che lei non è per nulla ricettiva alle motivazioni che io consi­ dero più elevate. Ci separa una differenza di linguaggio; ci separa un mondo, e la distanza si mostra ora in tutta la sua pena.

25 aprile. Mezzanotte Pazienza!

26 aprile. Mattino Oggi, un anno fa. Su questo scoglio dovevo dunque naufra­ gare! Non mi sono mai umiliato davanti a nessuno, e neppure ho mai desiderato d’inorgoglirmi. L ’idea che mi facevo dei miei rapporti con gli uomini era di rendere giustizia a cia­ scuno, punto. Non ho avuto mai granché da spartire con gli altri, in senso stretto. La mia vita spirituale mi ha sempre im­

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pegnato troppo. Qui, sì, sono stato umiliato. E chi è che mi umilia? È una giovane donna, e non lo fa con la sua fierezza, ché in tal caso la difficoltà sarebbe presto risolta, bensì con la sua devozione. Felice, con me, non lo sarà mai, no, mai! E possibile che se lo sia messo in testa, ma io non lo capisco, e tuttavia questa fantasia rientra senz’altro nella sua felicità. Se ci uniamo in matrimonio, la cosa finirà per andare così lontano che ella un giorno con terrore sospetterà quello che io avrei dovuto pre­ venire. Mantenere la mia chiusura davanti a lei è facile, forse è per questo che, proprio ora, avverto l’umiliazione. Ciò che rappresenta la forza vitale della mia esistenza spiri­ tuale: l’uguaglianza sul piano umano, lei l’annienta. Non le importa nulla dell’infinita passione della libertà; si è costruita un’illusione, non cerca altro. Capisco anche che si possa amare e sacrificare tutto per il proprio amore, ma sia che mi aspettino giorni felici o ch’io debba rischiare la vita, non posso fare a meno del più profondo respiro della mia vita spirituale, non posso sacrificarlo; sarebbe una contraddizione, perché senza di esso io non sono. E per questo respiro lei non prova la minima attrazione. Ma proprio in questa circostanza m’accorgo di amarla, di amarla più che mai; e però non ne ho il coraggio, io che a ben guardare, essendo il suo fidanzato, devo persino amarla.

27 aprile. Mezzanotte Non ho voglia di scrivere nulla, né ho nulla da scrivere. Ma sono tuttora vigile. In questa città le guardie della ronda notturna segnalano di essere in servizio con un grido; a chi è

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diretto questo grido? In Inghilterra vanno in silenzio a depo­ sitare una pallina in una cassetta, in modo che, il mattino seguente, l’ispettore veda che erano in servizio, e che non dormivano.

28 aprile. Mattino Oggi, un anno fa. Se solo mi opponesse resistenza. Quando sono in lotta, mi sento sollevato; e anche se devo vivere in pace, desidero di stare in pace con qualcuno forte quanto me, o persino più forte. Più lei cede, più responsabilità devo assumermi. E io temo la responsabilità; e per quale motivo? Perché in tal caso devo affrontare me stesso, una lotta che sempre mi terrorizza. Se Dio stesso fosse quello che si dice un uomo, con cui parlare a viso aperto e dirgli; facci sentire che cosa hai da dire, poi vedrai che cosa troverò da obiettare, si po­ trebbe scamparla. Ma egli è il più forte di tutti, il solo forte, appunto perché non parla affatto in tal modo con gli uomini. Se vuole scambiare due parole con qualcuno, lo sequestra in modo tale da parlargli passando attraverso di lui. La loro conversazione non è un prò e contro reciproco; per parlare Dio usa l’uomo stesso col quale sta parlando, parla all’uomo tramite l’uomo stesso. Perciò ha tanto potere e può, in qual­ siasi momento lo voglia, schiacciare un uomo. Nel caso in­ vece che Dio, per esempio, avesse parlato una volta per tutte, magari attraverso le Scritture, Egli, ben lontano dall’essere il più potente, sarebbe al contrario il più privo di risorse di tutti, poiché le Scritture è sempre possibile contestarle, po­ tendo contrapporvi la nostra stessa persona. Ma questa ipo­ tesi è una fantasia inconsistente, che non sta né in cielo né in

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terra, poiché non è in tal modo che Dio parla. Lui parla a ciascun individuo, e nel momento in cui gli si rivolge, usa l’individuo stesso per dirgli per suo tramite quello che ha da dirgli. Perciò, il punto debole nell’impianto della storia di Giobbe sta in quel Dio che si mostra fra le nuvole e in quel suo discorso da abilissimo dialettico; poiché a rendere Dio un così temibile dialettico è appunto il fatto di trovarselo ad­ dosso in tutt’altro modo, tanto che il suo più lieve sussurro diventa più dolce, o più terribile, che a vederlo sul suo trono fra le nuvole, o ad ascoltarlo dentro al tuono che scuote la terra. Perciò non si può entrare in rapporto dialettico con lui, poiché la forza dialettica che è nell’anima dell’uomo in que­ stione Dio la utilizza, appunto, contro quest’uomo. Quando un individuo teme Dio, teme qualcosa che gli è superiore, e a questo timore segue il timore per se stesso; e le angustiae di questo timore non sono che la responsabilità. Più lei cede, più io sono infelice. È felice, questo legame? E che cos’è, alla fine, la sua felicità? Dal mio punto di vista è la felicità dell’accecamento, la felicità dcU’illusione. Ma, dice Socrate, la più grande infelicità è quella di restare nell’illu­ sione.

29 aprile. Mezzanotte Mi domando se per caso non potrei suggerirle una più favo­ revole immagine di me. Se mai lei pensasse talvolta a me, cosa tristemente probabile, vedo bene di che potrebbe aver bisogno, secondo la probabilità umana. La spiegazione sa­ rebbe press’a poco la seguente: «Fino a un certo punto sono stato un uomo perduto, ma non del tutto malvagio, avevo anche dei lati positivi; io l’ho amata, certo, ma ho mancato di

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serietà, poi è intervenuta la mia incostanza, incapace di man­ tenere una decisione; ho visto in lei una fanciulla amabile, certo, ma non ho trovato in lei la tensione spirituale che m’avrebbe reso felice; è bello da parte sua, perciò, che si rassegni al suo destino, è nobile da parte sua accettare che un’altra possa un giorno attrarmi con più forza, poiché al­ meno questo è certo, che se anche lui trovasse una fanciulla più brillante, non ne troverebbe tuttavia nessun’altra che lo ami a tal punto. Lo riconoscerà lui stesso, e, se è per questo, si sarà certo anche pentito della sua condotta, malgrado che l’orgoglio gli impedisca di riparare». Un’individualità che si pente, ma è troppo orgogliosa per riparare dove ha sbagliato, anche dove riparare è possibile: Dio sa che pentimento è questo! A che serve una simile spiegazione, dove ogni frase è in­ sensata e al tempo stesso falsa nei miei confronti! E dunque io sarei o estremamente corrotto, addirittura un ipocrita, o invischiato fino alla nausea nell’autoinganno, oppure, infine, sarei un’anima cavalleresca nonostante l’opinione di qual­ cuno. Neppure mi manca la costanza di mantenere una riso­ luzione, a meno che a giudicare sia una fanciulla che non sa neppure bene che cosa sia una risoluzione. L ’ho sempre con­ siderata amabile, il mio giudizio non è mutato d’una virgola. Non ne ho trovata nessuna più brillante, poiché non la cerco; non so che farmene dello spirito femminile. La sua magnani­ mità costituisce un atout di tutt’altra specie, non ho inten­ zione di mettere in piedi una «storia di tutti i giorni»^^ e mettermi a fare baratti. Che io sia pentito è vero, ma è altret­ tanto sicuro che desidero riparare in tutto. N el romanzo di Thomasine G yllem bourg, Una storia di tutti i giorni (1828), il personaggio principale scambia la fidanzata con un amico.

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Con l’aiuto di questa spiegazione vado avanti. Esco da tutte le definizioni dell’infinito - e divento comico. Se non proprio agli occhi di tutti, sono certo un eroe agli occhi di diversi poeti. Davvero, bisognerebbe smettere di credere che l’etica sia l’invenzione di un Dio eterno e giusto: è stato invece un sartucolo di teatro a mettere insieme alla rinfusa tanti brandelli disparati. E questo è il metro degli eroi anche per i poeti - affinché risulti evidente che di eroi si tratta; ma Scribe è il più abile di tutti. A leggere e ad ascoltare le sue battute, si scompiglia l’intera esistenza, come se la commedia fosse messa in scena non per la gente, non per i pazzi, ma per «maggiolini s t u p e f a t t i » , e tuttavia queste battute cadono con un tono di conversazione così lieve, che si capisce come sia una cosa da niente. L ’autore introduce una brava sposa, piena di buon senso, addirittura in lotta per la buona causa: cioè, una vera passione fra una fanciulla sotto la sua influenza e un giovanotto, che per tale questione a lei si rivolge.^* Non ricordo il nome della signora, poniamo che si chiami Ma­ dame Scribe. A l giovane pretendente la signora dice: «Avete riflettuto sul fatto che la ragazza non possiede patrimonio?». «Sì, ci ho riflettuto.» «Non ha che ventimila franchi di do­ te.» «Lo so.» « E tuttavia insistete?» «Sì.» «In verità, un co­ raggio tanto eroico mi conquista interamente alla vostra cau­ sa.» Che scrittore satirico è Scribe, senza saperlo; mi pareva di essere da mastro Jakel.^^ Il giovane viene presentato sotto una luce positiva: accetta la fanciulla con i suoi ventimila Espressione probabilmente proverbiale. Si tratta della commedia di Scribe, Oscar, rappresentata al Teatro Reale di Copenaghen nel 1844. Cioè; al teatro di Pulcinella. Le marionette di mastro Jakel, con canovacci comici ispirati alla lontana dalla Comm edia dell’Arte, erano famose nella Copena­ ghen dell’ ottocento.

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franchi, e diventa un eroe. Ma un eroe del genere è comico allo stesso modo di un figlio di sarto che si chiami CesareAlessandro-Bonaparte /Ebeltofte; e un poeta che proclami eroi gente di questo genere mi pare ridicolo come il sarto e sua moglie che hanno fatto battezzare il figlio con quel nome. Tuttavia è mio dovere fare qualsiasi cosa, possa giovarle o meno sul piano pratico, qualsiasi cosa abbia una parvenza di utilità. Tutti i tentativi fatti finora in tal senso si sono rivelati vani. E se lei fosse divenuta un’individualità religiosa in senso stretto? Sarebbe stato terribile per me. Ma non ho consultato la carne e il sangue. La mia ragione s’è infuriata: freme davanti ai costumi da pagliaccio: cioè davanti all’idea di diventare un eroe alla Scribe. Lasciamo perdere. Penso a lei, la vedo sulla via della guarigione, vedo la possibilità d’una felice via d’uscita. Bene, mi piego alla disciplina. In verità questa fanciulla è stata messa sul mio cammino per umiliarmi. Se nessuno è in grado di notarlo, se solo pochi riuscirebbero a capirlo, nel caso io volessi parlarne, io invece lo capisco, lo capisco benissimo. Quando Pericle aveva ancora tutti i figli in vita, promulgò una legge in base alla quale nessuno che non fosse nato da genitori ateniesi potesse considerarsi cittadino di Atene. Molti soffrirono a causa di quella legge. Poi ci fu la peste, e tutti i figli di Pericle morirono; il suo dolore era così im­ menso che, quando avanzò per incoronare la testa dell’ultimo figlio, 100 scoppiò in lacrime davanti a tutti, cosa che mai s’era vista prima d’allora. Ora gli restavano solo figli illegittimi; a quel punto Pericle propose di abolire la sua legge. È sconvol­ gente; Pericle piange, Pericle fa un giorno una cosa, un altro 100 jsjgj corso delle onoranze funebri.

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giorno il contrario. Ma è commovente la lettura di Plu­ tarco; gli Ateniesi, afferma, accettarono la proposta; crede­ vano che gli dèi si fossero vendicati di lui, e che gli uomini dovessero per questa ragione risparmiarlo. Pericle era un grand’uomo, sapeva mantenere una deci­ sione; non frequentò più la società, da quando decise di sacri­ ficarsi per servire lo Stato. È facile per me, a questo punto, sentire la mia pochezza; ma se potessi avvertire, come lei, la misericordia di risparmiarmi facendomi capire che dovrei for­ zare la mia esistenza! Ma non l’ho io forse costantemente forzata? Certo, la forzatura di prima speravo che servisse, se lei se ne fosse accorta, a produrre nell’anima di lei qualcosa di grande; ma quest’altra forzatura, se pure è di qualche uti­ lità, alla grandezza non serve. E il primo metodo le ha reso onore ben diversamente dal secondo.

30 aprile. Mattino Oggi, un anno fa. Lei non ha pivi quelle manifestazioni tra­ boccanti. Forse era solo un fatto passeggero. Ma una volta che ho visto quella scena angosciante, non la dimenticherò mai più. Dunque, ha trionfato la mia tristezza.

1° maggio. Mattino Oggi, un anno fa. È possibile! S’è risentita per una mia man­ canza di riguardo. Non lo nego, era certo una mancanza di Vita di Pericle, 36-37.

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riguardo. Mi risponde per le rime. Ora o mai più. Ottimo che la parola “separazione” sia stata scagliata fra noi nel corso di questa lieve altercatio. Sarà più facile riprenderla. Sfuggire al problema non voglio; non è per darmi alla bella vita che mi separo da lei: è solo che non posso agire diversamente. Se sono io la causa del suo dolore, non devo né posso evitarne la vista. Desidero abbreviare il più possibile questa situazione, credo che possa servirle. D ’altra parte sono anche disposto ad agire diversamente, e devo rispettare ogni ra­ gione. In questo momento è lei la più forte. Dunque, la cosa ora è ben avviata. Il mio giudizio nei suoi riguardi è conciso; io l’amo, non ho mai amato nessun’altra, né mai l’amerò. Vorrei fermarmi a questo, senza andare oltre: certo, ho il coraggio di dirlo, ma ho anche la forza di cercarmi un nuovo amore. Il mio errore è stato arrischiarmi in un territorio a me estraneo. Mi sono educato, con tutta la mia passione, per quanto m’appare ora un miraggio; ma ora non mi è più possibile rieducarmi. Lei non capisce me, io non capisco lei. Dal primo momento che l’ho vista, in tutto il periodo di tempo in cui è stata il mio obiettivo sotto forma di speranza, sono riuscito a immaginare la sua morte senza perdere la testa. Ne sarei stato addolorato, forse per tutta la vita, ma sarebbe subito intervenuto l’eterno, e l’eterno è per me il valore più elevato. Solo così riesco a comprendere l’amore reciproco. Nella consapevolezza dell’e­ ternità, neU’infinito, ciascuna delle due parti è libera, e questa libertà resta a entrambi, fin quando si amano recipro­ camente. Questa esistenza superiore non le interessa affatto. E dunque, la nostra relazione ha le basi per un matrimonio? E dunque, un marito è un pascià a tre code di cavallo? Un legame siffatto mi renderebbe infelice: me ne angoscio pen­

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sando alla mia esistenza più profonda. Ammettiamo che io potessi, che dovessi tollerare tutto questo; ebbene, che acca­ drebbe in seguito, in che cosa consiste la sua felicità, perché dovrei correre tutti questi rischi? Devo mettere tutto in gioco per una fantasia? Se qualcuno potesse garantirmi che lei ne sarebbe felice: ma questo vivere nell’illusione, è la felicità? Ma una volta che lei s’è arresa in quel modo, la responsabilità e mia. Che queste siano le premesse per una condanna a vita, è chiaro. Se riguardi una o due persone, non sono in grado di dirlo; la condanna che pesa sul mio capo è comunque certa. Ma non è sconsiderato rendere infelici due persone, quando ci si può accontentare di una sola? Sicuramente, se solo po­ tessi capire in che senso va intesa la mia capacità di renderla felice.

2 maggio. Mezzanotte Non sarà che la mia anima nasconde un’ira segreta contro di lei? Non lo nego, non mi piace che i sentimenti si manifestino in modo così diretto; bisogna tacere e agire dentro di sé. Non mi piace che si parli di morire d’amore, quando chi ne parla senz’ombra di rassegnazione femminile non si tira neppure indietro dal buttare la propria vita, come un omicidio, sulla coscienza di un temperamento chiuso, come se questa fosse fedeltà, la vera fedeltà: una Charlotte Stieglitz^^^ esaltata, non per aver messo fine ai suoi giorni, come ha fatto, ma per essersi sentita un fardello e aver compreso la situazione da un L a giovane moglie del poeta romantico tedesco Heinrich Stieglitz, che si uccise (1834) nella speranza che il trauma desse nuovo slancio all’ispirazione del marito.

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punto di vista femminile; non lo nego, se si trattasse di un’altra, esigerei dall’esistenza che mettesse la questione in chiaro, come un falso allarme. Se si trattasse di un’altra, la mia ira s’acquieterebbe a sentir dire ufficialmente che queste grandi parole e questi nobili scongiuri non sono né più e né meno che, con rispetto parlando, rutti disgustosi, singulti provocati forse da un’indigestione di letture romantiche; che questi pensieri di morte non sono i sogni della Giulietta di Shakespeare dopo aver ingerito il veleno, ma quelli della Grete di WesseP^^ dopo aver mangiato i piselli. Questo esi­ gerei dalla vita, perché cose che per conto mio rispetterò in eterno non vanno messe in ridicolo, e non va reso ridicolo chi in tutta verità e serietà le rispetta, solo perché una fan­ ciulla usa le medesime parole a torto e traverso. Nessun giuramento mi vincola, al contrario: mi libera, a condizioni insolite, il fatto di diventare un farabutto, un ge­ nere di persone che di solito stanno sotto chiave; non ho pronunciato una parola sulla morte, quando la paura della morte m’ha attraversato l’anima, e continuo a pensarla allo stesso modo: se muoio davvero, è inutile parlarne; non ho invitato nessuno a vedere in me un eroe di parata. Ma questo poco importa, purché io sappia dentro di me trovarmi fedele; poiché, sia che uno abbia le apparenze prò o contro di sé, il tempo è e rimane un nemico pericoloso. Gli impulsi dall’e­ sterno possono aiutare per breve tempo, ma è pur sempre un’illusione; se un uomo deve sostenere una lotta, non può che farlo con i propri sforzi, e ciò non è possibile se la sua religiosità non assorbe, giorno dopo giorno, l’eternità nella decisione della temporalità. Chiunque resti veramente fedele N ella commedia settecentesca di J. H . W essel, Am ore senza calze (Kierlighed uden Str0mper, 1787).

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può esserne grato a Dio. Questa è forse la distinzione più aspra, più difficile, ma anche più entusiasmante: quella, cioè, che riguarda cose per cui un uomo può dire di dover rendere grazie a Dio e a nessun altro. Avere le apparenze contro è sempre utile a chiarire questa distinzione; ma lo fanno tutti, anche la lingua, il punto è solo nel come. E questo “come” , non nuove circonlocuzioni, espressioni o termini tecnici, a far luce sul problema. - Ieri ho visto per la strada una donna ubriaca; a un certo punto è caduta, e dei ragazzi l’hanno schernita; allora si è alzata, senza l’aiuto di nessuno, e ha detto: «Sono ancora in grado di alzarmi da sola, ma di questo devo ringraziare unicamente Dio, nessun altro, no! nessun altro». Quando un uomo è interamente preso da questa di­ stinzione, è umiliante per lui constatare di non aver inventato nulla di nuovo, constatare che anche una donna ubriaca può pronunciare le medesime parole. Eppure vi è un che di inde­ scrivibilmente gioioso, e toccante, ed entusiasmante nel fatto che persino una donna ubriaca possa pronunciare le mede­ sime parole. Come dirle, è affare di ciascuno di noi, ma il mio desiderio è solo quello di trovare la mia vita là dove può trovarla chiunque - quando vuole. Una vita che voglia lavorare per l’idea, posso capirla; fuori dell’idea, mi è impossibile simpatizzare fino in fondo con qualcuno, sia egli felice o infelice. Questo non vale rispetto a lei. Non è ancora intervenuta una sua rinuncia all’idea, e perciò aborrisco qualunque pen­ siero sull’argomento in relazione a lei, quasi fosse un affronto nei suoi riguardi. Se interviene la rinuncia all’idea, imploro un’unica grazia: la possibilità di non pensarci. Che cos’è la morte? Solo un breve arresto sul sentiero percorso già da tempo, se si è rimasti fedeli all’idea. Ma una rottura con l’idea significa imboccare una direzione sbagliata.

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5 maggio. Mezzanotte

4 maggio. Mattino Oggi, un anno fa. È accaduto. Già due volte in due giorni ho introdotto questa tremenda parola nel corso della conversa­ zione. C ’è una notevole differenza fra il dislocamento in mare di una nave da guerra e di un guscio di noce, e la differenza è ben visibile all’esterno. Ma la parola è tutt’altra cosa. La stessa identica parola può segnalare una differenza persino maggiore; e tuttavia la parola è la stessa. La parola non è ancora risuonata pateticamente fra noi, ma ricorre in­ cessantemente, inframmezzata agli argomenti più disparati, a esplorare il nostro stato d’animo. - Da tutto quello che ho finora osservato, potrei quasi esser tentato di credere che la faccenda andrà più liscia di quanto osassi sperare. Per quanto mi riguarda, mi sono assunto la responsabilità di questo passo. Per come la vedo io, significa che rendo qualcuno infelice. Non ne esco a minor prezzo, se sono io a trattare con me stesso. Ciò che la realtà potrebbe dimo­ strarmi è che probabilmente ho valutato la mia responsabilità a un prezzo troppo alto. Ma in tal modo sono deciso a agire; mi sono figurato il peggio, e la realtà non può spaventarmi. Ciò che soffro dentro di me, dove tutto è confuso e scombus­ solato, ciò che soffro al pensiero del suo dolore, al pensiero che mai supererò quest’impressione, perché tutta la mia co­ struzione è portata a vacillare, bocciata la mia visione della vita, di me stesso, del mio rapporto con l’idea, e mai potrò erigere una nuova struttura senza ricordarmi di lei e della mia responsabilità: questa è la mia parte nella storia. È la parte del leone; o meglio il dolore è tanto che ne avanza a suffi­ cienza per entrambi.

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LETTURAio^

Periandro Periandro era figlio di Cipselo, della stirpe degli Eraclidi, e dopo la morte del padre divenne lui stesso tiranno di Co­ rinto. Di lui si racconta che parlava sempre come un saggio e agiva costantemente come un pazzo. E singolare, e in un certo senso una continuazione della follia di Periandro, che chi lo ha caratterizzato con questa frase arguta non abbia compreso neppure lui quanto fosse significativa. L ’autore della frase, anche se limitato, introduce nella sua semplicità la saggia osservazione nel modo seguente; è straordinario che i Greci abbiano potuto contare, fra i Sette Savi, un pazzo della specie di Periandro. Ma un pazzo, un fat - tale è la defini­ zione del moralista - Periandro non lo era. Sarebbe stato diverso, se egli avesse detto che esisteva un altro Periandro, Periandro di Ambracia,^®^ col quale probabilmente il nostro è stato confuso, o che esistevano solo cinque savi, o che gli storici avevano al riguardo opinioni discordanti eccetera. Ma gli dèi hanno compreso meglio il detto su Periandro, poiché nel loro furore lo condussero attraverso la vita in modo tale da stravolgere le sagge parole a scherno del tiranno che cÒn i suoi atti aveva trasformato le sue sagge parole in ignominia. Divenuto tiranno, Periandro si distinse per clemenza, per giustizia nei confronti dei deboli, per saggezza fra gli uomini La “ lettura” cui qui si allude è quella che nel servizio religioso luterano precede e motiva il sermone. L a storia di Periandro è tratta da Diogene Laerzio e da Erodoto. Diogene Laerzio, i, 98.

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di giudizio. Mantenne la sua parola, e regalò così agli dèi la colonna che aveva promesso loro, xnsi la pagò con i gioielli delle donne. Audaci erano le sue imprese, e questo il suo motto: la diligenza compie ogni cosa. Lo spiegava con l’altro suo impegno, la decisione di scavare il canale; poiché la dili­ genza compie ogni cosa. Ma sotto la clemenza covava il fuoco della passione; le parole piene di saggezza celavano, finché non giunse il mo­ mento, la follia delle sue azioni; e le audaci imprese davano prova di forze che rimasero immutate anche nell’uomo tra­ sformato. Perché Periandro si trasformò. Non divenne un’altra persona, divenne due persone, che non potevano essere contenute in un solo uomo, il saggio e il tiranno: il che vuol dire che divenne un mostro. L ’occasione della sua tra­ sformazione viene riportata in modi diversi. Ma è certo che ne fosse solo l’occasione, tanto per non lasciare inspiegabile che egli potesse cambiare a tal punto. Si racconta, comunque, che avesse avuto relazioni riprovevoli con sua madre. Grazia, certo prima di udirsi dire questo bel motto: non fare cose che bisogna tacere. Ed ecco un altro dei motti di Periandro: è preferibile es­ sere temuto, piuttosto che compianto. E agiva secondo questo motto. Fu il primo ad assumere dei mercenari, e mo­ dificò il governo come esigeva la tirannia, e dominò da ti­ ranno sui servi, schiavo a sua volta di un potere di cui non poteva liberarsi, poiché, come lui stesso affermava, rinunciare al potere è, per un tiranno, pericoloso quanto vederselo strappare. Inoltre evitava le difficoltà con uno stratagemma Come voto se avesse vinto nella corsa coi carri ai G iochi Olimpici (Diogene Laerzio, i, 96). Diogene Laerzio, i, 99.

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ingegnoso, di cui si parlerà in seguito, e neppure la morte riuscì a vendicarsi di lui: l’epigrafe resta iscritta sulla cripta vuota. Che questo dovesse accadere, Periandro lo comprese meglio di chiunque altro, poiché disse: «Da uno sporco af­ fare nasce un brutto affare». «I tiranni che vogliono essere sicuri» diceva «devono avere come guardia del corpo la be­ nevolenza, non soldati armati.» Perciò il tiranno Periandro sicuro non era mai, e l’unico rifugio abbastanza sicuro che trovò, persino nella morte, era una tomba dove lui non stesse. Un altro modo, più vistoso, di esprimere la stessa idea sarebbe stato incidere sulla volta della tomba vuota l’epigrafe seguente: qui riposa un tiranno. Tuttavia non è quello che fecero i Greci; più concilianti, lo lasciarono, una volta morto, trovare pace nel grembo materno della sua patria, e scrivere sulla tomba vuota cose che in versi suonano più attraenti, ma il cui significato è più o meno questo: qui conserva Corinto, sua terra natia, nascosto nel proprio seno Periandro, il ricco, il saggio. Ma è falso, in quanto non è qui che lui giace. Uno scrittore greco compose per lui un’altra epigrafe, intesa piut­ tosto a ricordare all’osservatore «di non affliggersi, se non compie il suo desiderio, ma di rallegrarsi delle traversie di­ sposte dagli dèi», pensando «allo spirito del saggio Periandro inghiottito dall’abbattimento per non aver potuto attuare quello che voleva». Questo può bastare riguardo alla sua fine, che insegna ai posteri, sull’ira degli dèi, quello che Periandro non imparò. La storia torna quindi a narrare della circostanza che provocò la follia di Periandro, che da quel momento aumentò anno dopo anno a tal punto da permettergli di applicare in tutta verità a se stesso le parole che, così si dice, migliaia di anni

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dopo un uomo disperato appose sul suo stemma: «Mag­ giore l’annientamento, minore il pentimento». Per quanto riguarda la circostanza fatidica, non tenteremo di decidere fino a che punto coincidesse con le voci sulla sua relazione scabrosa con la madre, e con l’oltraggio che era per lui il fatto che la gente sapesse che «aveva fatto cose che nessuno osa nominare»; o se la circostanza fosse una risposta enigmatica del suo amico Trasibulo, tiranno di Mileto, la cui indicazione, muta ed espressa coi gesti, risultò incompren­ sibile al messaggero, ma certo fu capita molto bene da Periandro, al modo in cui la stessa risposta fu intesa dal figlio di Tarquinio il Superbo; come un cenno ammonitore, cioè, per il tiranno; o infine, se la circostanza fosse la disperazione per aver ucciso con un calcio, in un accesso di gelosia, l’amata moglie Liside, cui egli aveva dato il nome di Melissa: impossi­ bile stabilirlo. Ognuno di questi eventi sarebbe da solo suffi­ ciente: l’ignominia del disonore, per un principe orgoglioso; la tentazione dell’enigma denso di significato, per un uomo avido di potere; il tormento della colpa, per un innamorato infelice. Insieme, contribuirebbero progressivamente a sop­ piantare con la malvagità la ragione del saggio, e a ingannare con l’amarezza l’anima del sovrano. Ma come Periandro si andava mutando, così cambiava anche il suo destino. L ’orgoglioso motto secondo cui era pre­ feribile esser temuto che compianto s’impossessò di lui, della sua vita disperata, e s’impossessò di lui nella morte. Poiché egli fu compianto, compianto anche per aver pronunciato quel motto, compianto perché gli dèi, che sono più forti, gli Il conte spagnolo Juan de Tassis y Peralta de Villamediana (morto nel 1622), innamorato senza speranza della moglie di Filippo IV , portò a un torneo, come divisa sul suo scudo, il motto citato. Abbattendo con il bastone le spighe più alte (Diogene Laerzio, i, 100), come Tarquinio il Superbo farà con i papaveri.

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erano contro, mentre lui, sempre più annientato, sempre meno capiva, nel pentimento, il loro furore. Melissa era figlia d i Prode, tiranno d i E p i d a u r o . “ o Quando fu uccisa, i suoi due figli, Cipselo e Licofrone, l’uno di 17 anni, l’altro di i8, fuggirono dal nonno materno a Epidauro. Qui si trattennero per qualche tempo, e quando sta­ vano per tornare a Corinto Prode prese congedo da loro dicendo: «Sapete, figlioli, chi è che ha ucciso vostra madre?». Su Cipselo la domanda non sortì alcun effetto, ma Licofrone rimase zitto. Al ritorno nella casa paterna, non degnò mai il padre d’una risposta. Periandro, amareggiato, lo cacciò via; ma solo quando alla fine riuscì, con molte domande, a for­ zare la memoria di Cipselo apprese che cosa Licofrone na­ scondesse sotto il suo silenzio. La sua ira ora perseguitò il figlio che aveva scacciato: nessuno avrebbe dovuto dare ospi­ talità a lui, al fuggiasco perseguitato, che peregrinò di casa in casa, finché alcuni amici, finalmente, lo accolsero presso di loro. Allora Periandro fece proclamare che chi dava ospitalità a Licofrone, o semplicemente gli rivolgeva la parola, sarebbe stato messo a morte. Ora nessuno osò più entrare in relazione con lui, che così fu destinato a morire di fame e miseria. Periandro stesso si commosse e andò da lui, una volta che il figlio per quattro giorni non aveva né mangiato, né bevuto. Gli propose di diventare sovrano di Corinto e signore di tutte le sue ricchezze, ora che aveva imparato che cosa significa sfidare il proprio padre. Ma Licofrone non rispose nulla, disse soltanto, alla fine: «Hai meritato la morte, poiché hai disobbedito ai tuoi stessi ordini, parlando con me». Esaspe­ rato da queste parole, Periandro lo mandò in esilio a Corcira, D a questo punto il racconto segue Erodoto, iii, 50-53.

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e la sua rabbia si ritorse contro Prode, che egli sgominò, fece prigioniero e privò di Epidauro. Periandro era ormai diventato vecchio; stanco del potere, avrebbe voluto deporlo. Tuttavia «deporre la tirannia è al­ trettanto pericoloso che vedersela strappare», aveva detto il saggio, e dal tiranno si apprende che altrettanto difficile è liberarsene. Cipselo non era adatto a governare; su di lui le parole di Prode non avevano prodotto alcuna impressione. Dunque toccava a Licofrone succedergli nel governo della città. E mandò da lui un messaggero, ma non se ne fece niente; infine mandò la figlia obbediente a convincere il fi­ glio ribelle e a condurre lo smarrito, col suo atteggiamento, al rispetto per il genitore; ma Licofrone restò a Corcira. Fi­ nalmente decisero di trattare Tuno con l’altro, ma non come padre e figlio trattano in un rapporto di affetto, bensì come nemici mortali; e decisero di scambiarsi le residenze. Pe­ riandro sarebbe andato ad abitare a Corcira, e Licofrone sa­ rebbe diventato il sovrano di Corinto. Periandro era già pronto per la partenza, ma gli abitanti di Corcira lo temevano a tal punto, e compresero così bene la ferocia del padre e del figlio, che stabilirono di uccidere Licofrone per far restare Periandro lontano. E così fecero. Ma non bastò a salvarli da Periandro, che mandò a rapire e violentare trecento dei loro figli. Ma gli dèi impedirono che la cosa riuscisse, e Periandro fu così amareggiato per non aver potuto vendicare suo figlio che decise di togliersi la vita. Per l’ultima volta, il tiranno e il saggio si accordarono. La sua decisione disperata e il terrore di essere, nella morte, sorpreso dal disonore, fecero sì che la sua saggezza trovasse un modo ingegnoso per uscire dalla vita. Mandò a chiamare due giovani, e mostrò loro un passaggio segreto. Ordinò quindi di incontrarsi in quel luogo il giorno seguente, di

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uccidere il primo uomo che avessero visto, e di seppellirlo subito dopo. Quando i due si allontanarono, mandò a chia­ mare altri quattro uomini, e impartì loro il medesimo ordine: di aspettare nel passaggio, e quando avessero incontrato due giovanotti, di ucciderli e seppellirli subito dopo. Dopodiché mandò a chiamare un numero doppio di uomini e allo stesso modo impartì loro lo stesso ordine: di uccidere i quattro giovani che avrebbero incontrato e di seppellirli subito dopo sul luogo dove erano stati colpiti. Infine Periandro si recò all’appuntamento fissato, e venne ucciso.

6 maggio. Mattino Oggi, un anno fa. Va sempre meglio. La parola acquista un significato sempre più patetico fra noi. Lei sembra tranquilla. Voglia Iddio che sia proprio così! Se solo avessi compreso un po’ prima me stesso come mi comprendo adesso! Quando è esplosa quella piccola altercatio, sarebbe stato il momento giusto. Se fosse stata provocata, lei stessa, forse, avrebbe in­ terrotto la relazione, e non ne avrebbe punto sofferto. La mia anima è oppressa, il mio pensiero in affanno, la mia speranza somiglia a una scialuppa di salvataggio sul mare in tempesta, carica di troppe persone. Tuttavia, chi ha un’altra persona per cui preoccuparsi non ha tempo di assecondare il proprio dolore; e i tremendi or­ rori della fantasia eccedono di gran lunga quelli della realtà. L ’incompatibilità che esiste fra noi si manifesta qui ancora una volta, e commette, per così dire, una nuova ingiustizia contro di lei. Il suo vero dolore, per quanto intensamente l’assalga, il suo urlo lamentoso, per violento che sia, sono

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nondimeno deboli cose contro la capacità inventiva della mia fantasia, che non ha ancora visto nulla.

7 maggio. Mattino Oggi, un anno fa. Non le giunge repentina, la decisione. E la repentinità è forse la cosa più pericolosa per lei. L ’esercizio è arrivato così lontano da essere quasi una prova generale. Do­ vesse riuscire così bene anche nella realtà, non desidererei nulla di più, malgrado che da un altro punto di vista mi risulterebbe alquanto inesplicabile. Per quanto mi concerne, provo nostalgia di me stesso, di potermene stare con me stesso. E devastante trovarsi fantasia e realtà a tal punto l’una contro l’altra. La mia fantasia tor­ mentata è terribile; tornerei ora a trovare, in modo tanto tragico quanto comico, ancora una volta la realtà più lieve. Ah, che mi sia concesso di conservarmi le mie fantasie; con loro sono abituato a trastullarmi. Tuttavia mi conforta Tesser testimone oculare di tutto; anche se lei morisse, vorrei esserne testimone oculare. La realtà non è un tormento pari alla possibilità.

8 maggio. Mattino Oggi, un anno fa. La situazione si ripete, la decisione è vicina come può esserlo in una prova, sebbene non senza passione da parte sua. Ma lei sembra capire che cose troppo grevi per essere materia di scherzo vanno prese sul serio. Non le manca la veemenza: benissimo. Deve succedere oggi stesso. Quando il mercante sta in piedi sulla punta estrema del

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porto, e vede la sua nave e il suo ricco carico messi in peri­ colo dal mare, e si rassegna l’anima alla perdita, e se ne va, dicendo a se stesso: è colpa tua, che non l’hai assicurata non si rallegrerebbe forse se alla fine arrivasse un marinaio correndogli dietro, e gli dicesse: «la nave si vede di nuovo, non è affondata», e lui si girasse, e il marinaio prendesse il cannocchiale per guardare laggiù, e dicesse: «Oh, è scom­ parsa un’altra volta!». E vero, lei significa ben altro che una nave mercantile e un ricco carico. Che tutta la faccenda possa significare per lei il meno possibile, è il mio desiderio più intimo; ma anche se lei ricevesse la lettera che oggi riceverà con un sorriso, anche se considerasse come un messaggio gioioso vedersi liberata di un fardello, ah, magari fosse! ma anche se fosse, non mi sarebbe di alcun aiuto. Ciò che ho vissuto nel profondo del mio cuore, il fatto d’esser rimasto ritto sulla punta estrema della possibilità e aver visto l’estremo orrore, la conseguenza dell’esser rimasto e dell’aver visto, è quello che mi persegui­ terà. Ferirla, se per lei significo tanto da essere in grado di farlo, non voglio; mi umilio sotto la relazione e sotto la mia colpa, e in tal modo voglio congedarmi da lei. Quanto alle prove, credo d’averne viste abbastanza da sapere che l’orrore della realtà non diverrà mai tale ch’io possa evitarlo in parte girandomi per non vederlo. Le ho scritto una lettera così concepita: «Per non sotto­ porci più a provare quello che comunque deve accadere, quello che, una volta accaduto, apporterà le energie neces­ sarie: ebbene, lasciamo che accada. Dimentica, prima d’ogni altra cosa, chi ha scritto questa lettera; perdona un uomo che. È il testo della lettera di rottura mandata, nella realtà, da Kierkegaard alla sua giovane fidanzata Regine Olsen (Pap. x i A 667).

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se pure mai è stato capace di qualcosa, non è capace di ren­ dere felice una fanciulla. Mandare un cordone di seta significa, in Oriente, pena capitale per il ricevente; mandare un anello significa certo pena capitale per il mittente». Ora è accaduto, mi muovo barcollando come un ubriaco, a malapena cammino, non riesco a concentrarmi. E d’altra parte non c’è nulla su cui concentrarmi. Questi momenti sono come un trattino d’unione fra due parole. Che cosa succede? Gran Dio, lei è stata nella mia stanza, mentre ero fuori. Trovo una nota, redatta con disperata pas­ sione: lei non può vivere senza di me, se la abbandono sarà la sua morte; mi scongiura per amor di Dio e della mia salvezza eterna, per ogni ricordo che mi tiene legato, per il sacro nome cui solo di rado faccio appello, poiché il mio dubbio m’ha impedito di appropriarmene; sebbene, appunto per questo motivo, abbia una reverenza per esso che non ho per nient’altro. Dunque con lei sono sposato! Che cosa significa un matri­ monio, se non conferire all’innamoramento un’espressione religiosa e un vincolo religioso? E successo. Ci sono due forze, che mi tengono legato, e mi tengono legato indissolu­ bilmente: quella di Dio e quella di un defunto con cui argo­ mentare non si può; c’è un nome che vuole mantenermi per sempre nell’obbligo, malgrado che tutto il mio pensare non arrivi a scorgerlo che alla lontana; tutte cose, ora, messe da lei sotto sequestro. Cancellate queste forze, non esisto più; e se esisto, sono vincolato, e in questi pensieri la mia mente ininterrottamente si rivolgerà a chi le ha messe sotto seque­ stro. Dal punto di vista erotico lei si sbaglia, questo è certo. A una fanciulla non è concesso d’usare questi espedienti. Il

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fatto che lei li utilizzi mostra, in fondo, la scarsa considera­ zione ch’ella ne ha. Io, in verità, questi mezzi non ardirei d’usarli. Chi se ne serve contro un’altra persona, si lega con la stessa forza con cui intende legare l’altro: a meno che non si debba dire, un giorno, che abbia usato quei sacri mezzi invano. Ma il mio capitale di torti rende il suo credito illimi­ tato. Ma che avventatezza, salire nella mia stanza! Qualcuno potrebbe venire a sapere che quel giorno lei era nella mia stanza; e che io non ci fossi, forse lo ignora. Dunque, ora, è forse compromesso anche il suo onore. E io, che ho vigilato con tanta accortezza affinché nessuna indegnità di tal sorta potesse ardire d’avvicinarsi! È ben crudele che io debba dare l’impressione di averla respinta. Io ho visto solo, più che felice, che in realtà è stata lei a respingere me. Il terrore della responsabilità abbassa notevolmente il prezzo dei tormenti amorosi diretti. E dove s’è diretta, quando è andata via di qui? Forse è fuggita in preda al delirio, disperata al pensiero di non valere abbastanza. Che non valga abbastanza, è l’unica cosa, io credo, da non mettere assolutamente in discussione. O Morte, chi t’ha permesso di esercitare l’usura? Non sei tu, forse, un usuraio peggiore del più sanguisuga dei giudei, peg­ giore del più esangue degli avari, ogni qualvolta minacci e torturi qualcuno con l’angoscia della morte? Il termine della nostra separazione è dunque posticipato, se non per altre ragioni, per l’onore di lei e perché l’intera questione ha assunto una configurazione paurosa: ho otte­ nuto d’avere sulla coscienza una vita umana e una responsabi­ lità senza fine. Ma che specie di relazione devo ora instaurare con lei? Un punto d’incontro religioso è un nonsenso; che io e lei soffriamo insieme, è follia, dal momento che io sono il

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colpevole e lei la vittima. Che assurdità dover fare allo stesso tempo il confessore e l’assassino, il colpevole che schiaccia e il compassionevole che rialza! No! Lei deve vedere che non ho intenzione di sfuggire a nulla; se ha avuto l’avventatezza di legarmi a vita a questa relazione, di legarmi con un vincolo che lei è certo in grado di stringere, ma non di sciogliere, tanto peggio per lei; io saprò tenere duro. Non ne consegue, però, che lei sarà mia, o che io sarò suo; ma se crede di poter fare qualche impres­ sione su di me, se ha un’argomentazione su cui, forse, io non ho riflettuto, bene, non scantonerò davanti a nulla. Siamo separati, ma io devo fare tutto ciò di cui un uomo è capace per aiutarla. E dunque afferrami con tutta la tua po­ tenza, potente passione, contraffattrice, figlia supposita^^^ della verità, ma nell’inganno indistinguibile da lei. Sostienimi per due mesi, questo è il periodo, non un giorno di più; ma fino ad allora, sostienimi con coscienza e precisione. Tra­ sforma tutta la pena che strazia il mio cuore in celie sulle mie labbra, tutto il pathos interiore in chiacchiere, una volta espresso. Cancella, cancella e nascondi ogni tratto, ogni espressione, ogni sentimento, ogni avvisaglia di sentimento che potrebbe farle piacere, con tale sicurezza che nessuna verità baleni attraverso l’inganno. Rieducami, fammi sedere accanto a lei come un idolo cinese che tentenna il capo, con un sorriso spensierato sulle labbra, avvolto nei fumi della stupidità. Sono stato da lei. Era relativamente più tranquilla di quanto mi fossi aspettato. - Una coppia di amanti clandestini ha bisogno di cautela, per nascondere la loro intesa. Noi ci Letteralmente: «scambiata in culla» dalle fate, secondo una diffusa supersti­ zione nordica (cfr. The Changeling di Th, Middleton).

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amiamo alla luce del sole, eppure anche in questo caso c’è bisogno di cautela, per nascondere la nostra intesa. Da domani prenderà il via anche l’ultima battaglia, il pe­ riodo dell’orrore. Di lei non ho nessuna impressione. Il reli­ gioso che sempre m’ha occupato, che occupa il mio pensiero fino alla disperazione, e l’occuperà finché sarò capace di pen­ sare, se l’è portato via lei dalla sua parte. Forse si tratta di una schermaglia selvaggia, in cui lei non ha saputo quali mezzi escogitare per usarli contro di me, e dunque ha usato quello. Se così è, benissimo, devo rispettarlo. Ciò che ora voglio tentare di fare, se possibile, è strapparle quello che sono, confondere l’immagine di me in puro nonsenso e diso­ rientarla da capo a piedi. Qualunque contro-argomentazione dev’essere rispettata. E io so bene di quali argomentazioni si tratterà. Ogni simpatia nei miei confronti va distrutta, e per di più lei va spossata a forza di correre dietro alla riflessione. In base a ogni umana probabilità, lei supererà le più atroci sofferenze per colpa mia e, umanamente parlando, non sarà disposta a ricominciare dall’inizio, nell’attimo in cui l’abban­ donerò. - Uno diventa quasi tranquillo, quando arriva il mo­ mento di agire, sia pure questo l’atto più disperato che si possa compiere, e nella forma più difficile, vale a dire nella forma del tempo e della durata. Ma se non riesco a tenermi tranquillo, tanto vale che rinunci a quest’impresa.

8 maggio. Mezzanotte Ora tutto è calmo, ma non nel senso di ritenere che la calma sia la conquista di una passione più forte delle più rumorose esplosioni. No, è calmo nel senso in cui il mercante dice: in questo periodo il mercato del grano è calmo, non c’è do­

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manda; calmo nel senso in cui si dice, di un paese, che è calmo poiché non accade, né ci si aspetta che accada nessun evento, mentre continuano a succedere le cose di tutti i giorni: i galli cantano nel letamaio, le anatre sguazzano nel­ l’acqua, i fumi del mezzogiorno si levano dai camini, Morten Frandsen si affretta a casa, e tutto è in movimento, fino a quando il contadino chiude la sua porta e immerge lo sguardo nella notte calma, perché un momento prima calma non era. Calmo, non nel senso romantico di una casa dal chiuso raccoglimento che cela le cose presentite, ma nel senso borghese di una casa dove i membri della famiglia ba­ dano tranquillamente ciascuno alle proprie faccende, e tutto avviene come è solito avvenire; calmo, nel senso in cui si parla di “calma” per gente che per tutta la settimana attende alle proprie attività, tiene la contabilità, chiude la bottega e la domenica va in chiesa. Più penso a questa calma, più il mio essere si va trasfor­ mando. La speranza di una qualsiasi decisione passionale è abbandonata, tutto accadrà con calma. Ma questa calma, questa sicurezza m’appaiono come il più insidioso tranello dell’esistenza. Anzi, quando la calma si riduce a un nulla infinito e, proprio in quanto tale, a forma spaziosa di un contenuto infinito, allora io l’amo, perché è l’elemento stesso dello spirito, più ricco di contenuto dei mutamenti dinastici o degli eventi del mondo. Per questo io t’amo, calma che regni fra le tombe, poiché i morti dormono e tuttavia questa quiete è la forma dell’infinita coscienza delle loro opere. Per questo io t’amo, quiete della notte, quando l’intima essenza della natura si tradisce nel presentimento più chiaramente di quando si proclama ad alta voce, nella vita e nel moto del tutto. Per questo io t’amo, quiete della mia ora spirituale, qui nella mia stanza, dove nessun suono e nessuna voce umana

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pongono limiti all’infinito del pensiero e dei pensieri, cui ben si adattano le parole di Petrarca: «Non cela il mare tante creature nelle sue onde, nessuna notte ha mai veduto tante stelle nella volta del cielo, non dimorano tanti uccelli nel bosco, non hanno i campi e i prati tanti fili d’erba quanti pensieri ha il mio cuore ogni sera».“ ^ Per questo io t’amo, solenne quiete che precede la battaglia: che sia fatta di pre­ ghiere inespresse, o di grida di battaglia sussurrate, la tua quiete significa più del tumulto della battaglia. Per questo, anche se con un brivido, t’amo, quiete del deserto, più terri­ bile d’ogni altra cosa che accada o che mai sia accaduta. Per questo io t’amo, quiete della solitudine, al di sopra di tutto il molteplice, perché tu sei infinita. Ma questa calma vegetativa, dove la vita umana è catturata da un incantesimo, dove il tempo viene e il tempo va, riem­ piendosi di qualcosa e senza lasciare sensi di vuoto, poiché tutti i fiumi corrono al mare senza tuttavia arrivare a riempire il mare infinito, mentre le piccole cose possono riempire, per gli uomini, il tempo - questa quiete è straniera alla mia anima. Eppure è proprio con essa che devo ora cercare di entrare in confidenza. Giù nel villaggio abita la bella Marie. Anche lei aveva una storia d’amore; della pena ora non v’è più traccia, il suonatore strimpella il violino, e Marie entra ora nelle danze con un nuovo amore. No! No! E una cosa che mi turba in tutto me stesso! Che l’infinito ci separi pure: la mia speranza era che l’eternità ci avrebbe anche uniti. Vieni, morte, a preservarla dall’eternità; vieni, follia, a tenere tutto F. Petrarca, Rim e, ì y j \ « N o n ha tanti animali il mar fra Tonde, / né lassù sopra il cerchio della Luna / vide mai tante stelle alcuna notte, / né tanti augelli albergano per li boschi, / né tant’erbe ebbe mai campo né piaggia, / quant’ha ’l mio cor pensier ciascuna sera».

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in sospeso fino a quando l’eternità rimuoverà i sigilli del tribunale fallimentare; vieni, odio, con la tua infinita pas­ sione; vieni, orgogliosa distinzione, con la tua corona d’alloro avvizzita; vieni, timor di Dio, con la tua incorruttibile beati­ tudine; venga a prendersela uno di voi, se non posso prender­ mela io: ma non questo, non il ciarpame della finitezza, Altrimenti, ah, io la inganno, devo ingannarla. Le rubo l’im­ magine, come l’ama la mia fantasia, per contemplarla; ma l’immagine non mi deve rammentare lei, come ha fatto fi­ nora, dal momento che ho respinto la consolazione anestetica della rimembranza, perché, così, solo di rimembranza si tratta. Ahimè! Quando ci separammo, la ragione mi insegnò che dovevo esservi preparato, anzi, che potevo aspettarmelo. Adesso, adesso mi sembra così difficile, se dovesse accadere, E tuttavia, se accadrà davvero non lo so. Ma so che le devo di adattarmi a tutto ciò che m’è possibile. E mi è possibile darle, o cercare di presentarle, una spiegazione più clemente (e per me, il dubbio se in base all’umana probabilità io con­ cluda qualcosa non è la cosa decisiva) del mio comporta­ mento, una spiegazione ripugnante persino ai miei occhi, più ripugnante della più baldanzosa bugia di cui mi sono servito quando speravo che le sarebbe stata utile nel senso dell’infi­ nito.

12 maggio. Mezzanotte Oggi l’ho vista, A mezzogiorno, proprio davanti al parco di Kongenshave, Lei ne stava uscendo, io camminavo dall’altra parte della strada, proprio di fronte. Era davvero mia inten­ zione, quando sono uscito di casa, entrare nel parco; se non

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fosse stata mia intenzione, non avrei deviato di un passo dalla mia strada. Pure, questo mio rigore è soltanto una remini­ scenza di un metodo superato, in cui con l’astinenza ascetica persino dalla più remota interferenza, al prezzo di crudeli tormenti su me stesso, riconoscevo in lei l’infinito. Fin qui, non avevo avuto bisogno neppure del favore del destino. Dunque ci incontrammo. Lei m’aveva scorto un attimo prima e quindi era preparata, ma forse anche in una certa agita­ zione, Quale compito per un osservatore! Avere mezzo mi­ nuto per vedere, per vedere cose che diventano poi oggetto di molte ore d’osservazione! E poi doversi controllare, e stare attenti a mettere in conto l’impressione che può farle la mia vista. Un movimento le ha attraversato il viso, fosse il segno di una pena repressa, o della transizione al sorriso. Non ho mai conosciuto una fanciulla, o una persona, in cui il pre­ ludio al pianto o al riso si manifestassero in maniera così simile, come succede a lei. Né, in questo caso, si trattava di contrasti troppo pronunciati; giacché una risata soffocata la si nota dal movimento dei muscoli del collo, e un pianto re­ presso dal sollevarsi del seno; ma in questo caso la situazione restava ambigua per contrasti più lievi, e inoltre non c’era tempo per vedere. La ragione del movimento poteva anche essere un momentaneo annaspare, dove non ho potuto ve­ dere l’istante in cui lei ha aperto la bocca, ma quello in cui l’ha chiusa. C ’è da perdere la ragione, a voler tirar fuori con le tenaglie qualcosa di preciso da un’impressione del genere, e tuttavia voglio farlo. Quando udiamo battere l’orologio di una chiesa e contiamo i colpi, non ne consegue necessariamente che sappiamo l’ora esatta, poiché la propagazione del suono in rapporto alla distanza nello spazio può far percepire solo gli

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ultimi colpi e farci commettere un errore, se cominciamo a contare. Lei sembrava persino in buona salute, un po’ pallida, ma a quel pallore non oso mai attribuire un significato essenziale, giacché potrebbe ben esserne la causa l’avermi visto. Ma del suo stato di salute oso rallegrarmi; a meno che sia un’illu­ sione, e che sia stata l’aria aperta a conferirle un aspetto sano. Che cosa non può dire un dottore precipitoso! Un dottore precipitoso certo non sono, poiché non sono io ad attraver­ sare in fretta la stanza del paziente: è il paziente che mi sorpassa correndo a gran velocità; e neppure un dottore sono, quanto piuttosto un paziente.

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se la scena si svolgesse nel Tartaro: dovermene restare così a fare la caricatura di me stesso. Ma così dev’essere. Con questo modo di procedere, spero che l’intera nostra relazione, quando si presenterà ancora il momento della rottura, non avrà più nulla che possa attrarre il pensiero di lei, neppure il fascino perverso del terrore, che, anzi, ella ne sia tediata ed esausta e disgustata, come si disgusta delle arance chi le ha dovute mangiare insieme a una medicina. Se lei potesse più tardi, per conto suo, dotare la relazione di idealità, sarebbe una persona diversa da quella che avevo creduto, e ben lungi dall’aver bisogno di me.

16 maggio. Mezzanotte 15 maggio. Mattino Oggi, un anno fa. Spesso ho sorriso di un innamorato che, come mi hanno raccontato, a casa della sua fidanzata teneva appeso un altro vestito, che indossava per non consumare il vestito nuovo. Adesso non sorrido più di questo aneddoto; anch’io possiedo un altro vestito, che non è appeso a casa sua, ma fuori nell’andito. Lì lo indosso, e scaccio così ogni manifestazione del mio amore, ogni cenno della mia sim­ patia, ogni breve tentazione di desiderio che, se la nostra relazione fosse sicura, non smanierebbe che di rallegrarla con qualche sciocchezza. Quando indosso quel vestito, ecco che comincia il mio eterno sproloquiare, un menare il can per l’aia che costantemente mischia fisico e morale, che confonde una cosa con l’altra, che costantemente chiacchiera del nostro innamoramento, e ancora il nostro innamoramento, e cose del genere. E una pena straziante quella che subisco, straziante come

Come ho detto, è probabile che l’intera questione si assesti in maniera tranquilla. Ieri e ieri l’altro ho parlato con il mio amico, che è assai ben informato, e che mi tortura con vero spirito d’amicizia, sebbene nel contempo mi favorisca infor­ mazioni di ogni genere sotto nomi fittizi. E andato avanti con le sue storie e i suoi nomi fittizi. La sua amicizia non è mu­ tata. Prima mi ha angustiato con l’idea di un pericolo mortale per lei, ora cambia musica; è possibile che voglia stuzzicarmi stimolando la mia gelosia - e allora, lei deve godere di ottima salute. È un vantaggio incalcolabile, quello che io ricavo da quest’uomo. Di lui devo ora servirmi; oggi è incominciata la commedia. Mentre era in pieno racconto, mi sono alzato, l’ho abbracciato affettuosamente e gli ho detto con passione: «Ora la capisco, oh! che pazzo sono stato a non riconoscere in lei un amico! non neghi, sta parlando di lei, di colei che ho reso infelice, e che tuttavia ho amato, la donna dalla quale mille volte ho desiderato tornare, ma non posso farlo, no.

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non posso, onestamente parlando, il mio orgoglio ha troppo potere su di me». Il mio amico rimase alquanto sconcertato; dev’essere certo piuttosto imbarazzante, quando uno se ne sta amichevolmente a tormentare un uomo con onesta malvagità cristiana, trovarsi poi stretto in un abbraccio da amico. Come se un bandito, che avesse incontrato un viandante su un sen­ tiero fuori mano, nell’attimo in cui si accingeva a balzare sulla sua preda si fosse sentito abbracciare teneramente e avesse udito queste parole commosse: «Oh, sorte benevola, che m’invii una guida ora che mi sono smarrito; oh, mio benefattore, prezioso rappresentante della specie umana in questi luoghi solitari» eccetera. Molto probabilmente, il ban­ dito si sarebbe sentito in imbarazzo. O almeno così si sentì il mio amico. So benissimo che lei, occasionalmente, deve chie­ dere informazioni sul mio conto. Non lo so da lui, lo so perché c’è un altro che è stato tanto abile da sottrarmi qualche notizia da spifferare in giro; e il mio amico è molto più vicino a lei. In un certo qual modo, adesso lui è amico mio. Va da sé, comunque, che non mi fido di lui oltre una certa soglia. D ’altra parte conviene senz’altro al suo gioco credere di avermi in suo potere, ancora tanto preoccupato per lei da potersi divertire a tormentarmi. A ll’inizio, col suo aiuto, vo­ levo aprire una corrispondenza con lei. Col tono più decla­ matorio possibile gli ho assicurato che non osavo vederla, e dunque dovevo scriverle. Che io l’abbia vista, non lo sa nes­ suno, e ben difficilmente a lei verrebbe in mente di dirlo. Questo piano, tuttavia, è stato respinto. Ora ha promesso che avrebbe provveduto a recapitarle lettere scritte da me a una terza persona. Per precauzione mi sono servito di tre tipi d’inchiostro, cosicché ci potesse essere una certa differenza di colorazione, visto che le date sono diverse.

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Insomma, la cosa ora va avanti grazie a forze combina­ te. Lui non ha nulla da ridire sul fatto che lei si innamori di un altro, poiché crede che la cosa mi irriterebbe, e si rende conto dell’aiuto che forse potrei dargli in questa dire­ zione. Uno scrittore, non ricordo quale, ha detto che l’onestà è quanto di più durevole ci sia, tranne che per compiacere le donne. In realtà credo anch’io che la verità non renda una donna felice; e neppure la menzogna, neanche alla lontana; ma piuttosto una lieve dose di non-verità. Della gelosia proiettata non mi preoccupo affatto. Non enim est in carendo difficultas, nisi quam est in habendo cupiditas,^^'^ sostiene Agostino. Ed è ben vero che io l’ho deside­ rata, anzi, che la desidero; ma il fatto che nulla mi ostacolasse dall’esterno dimostra che c’era qualcosa di più elevato a vin­ colare il mio desiderio. Questa cosa più elevata è l’idea. Con l’idea, io la desidero, la desidero infinitamente; senza l’idea, mi aggrappo a qualcosa di più elevato di lei e di me. La mia preoccupazione è dunque un’altra: che, dal punto di vista dell’essenziale (poiché da quello della realtà e del caso può ben succedere ch’io nulla porti a termine), io, con queste lettere, le scriva una lettera di separazione che ponga l’infi­ nito fra noi; che con queste lettere, dal punto di vista dell’es­ senziale, io abbia contribuito del mio (e, in verità, non è questo il desiderio della mia simpatia) ad acquisire, nella vita, una certa leggerezza che m’affligge.

Agostino, De àoctrina christiana, ili, 27: «Infatti non c’ è difficoltà nel man­ care di qualcosa, a meno che nel possedere ci sia cupidigia».

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19 maggio. Mezzanotte Le mie lettere, ormai, le ha certamente ricevute. La mia idea di tutta la faccenda non è scevra di rimpianto e di penti­ mento. Questo accomodamento mi rattrista più d’ogni altra cosa. In ogni altro inganno, almeno, ero pieno d’ardore nello spirito, poiché la mia ragione e la mia spinta, allora, erano la speranza che la ragazza raccogliesse le sue energie nel senso dell’infinito. Stavolta mi sento stonato, e tuttavia, forse, eser­ citerò stavolta su di lei un’influenza completamente diversa da tutta quella che mi sono sforzato d’avere quand’ero le­ gato, e da quella che ho avuto quando, liberandomi, mi sono legato a lei ancora più strettamente. Il mio rimpianto e il mio pentimento si diffondono in una quantità di parole, e l’esito di questa quantità di parole diventa, naturalmente, che non vi si può più porre rimedio; rimpiango il passato, desidero porvi rimedio, ma non posso, no, non posso, ma lo voglio; se non fosse per il mio orgoglio, altrimenti lo vorrei eccetera. Il pentimento si riconosce di solito da una cosa, dal fatto che agisce. Ai giorni nostri, è forse meno esposto a essere così misconosciuto. Non credo che Young, Talleyrand o un au­ tore più recente abbiano ragione, quando spiegano qual è secondo loro la finalità del l i n g u a g g i o ; sono infatti dell’o­ pinione che la sua finalità sia quella di confermare e soste­ nere la gente nella rinuncia ad agire. Ciò che ai miei occhi è un nonsenso produrrà forse un grande effetto, e forse la mag­ gior parte dei miei conoscenti, se leggesse queste lettere, di­ rebbe: «Ah, ora sì che l’abbiamo compreso». E . Y o un g, Love of Fame, n, 208; «and men talk only to conceal their mind» («e gli uomini parlano solo per nascondere i loro pensieri»). Il bon mot attribuito a Talleyrand (che l’avrebbe pronunciato nel 1808 davanti a un ambasciatore spagnolo) è citato da Kierkegaard anche altrove.

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È dura; uno vorrebbe sempre godere della stima borghese, che non ti fa passare per l’ospite di un manicomio. Se è per questo, ci riesco: credo davvero che qualunque cosa io dica, purché non sia la verità o la mia vera opinione, sarò co­ munque preso per intelligente; se invece facessi il contrario, provocherei indubbiamente la mia deportazione. Se dicessi: «Ho fatto questo passo decisivo perché mi sentivo legato, perché devo conservare la mia libertà, giacché nel suo appe­ tito la mia bramosia abbraccia un mondo, e non può conten­ tarsi di una ragazza sola», il coro risponderebbe: «C ’è del senso in ciò che dici; salve, uomo illuminato». Se invece di­ cessi: «Lei era la sola che io abbia amato; se non ne fossi stato certo lasciandola, non avrei mai osato abbandonarla», sen­ tirei la replica: «Rinchiudetelo in manicomio!». Se dicessi: «Mi sono stancato di lei», il coro risponderebbe: «Succede, si capisce». Ma se dicessi: «Io, invece, non lo capisco, giacché non si deve comunque rompere un rapporto doveroso col pretesto della stanchezza», il commento sarebbe: «E pazzo». Se dicessi, secondo l’ultima moda: «Mi pento, vorrei rime­ diare, ma non posso, no, non posso, il mio orgoglio non me lo permette, non posso», il giudizio sarebbe: «E fatto come tutti, e come gli eroi della poesia francese». Ma se dicessi al contrario che niente, assolutamente niente potrebbe soddi­ sfare il mio orgoglio come avere il coraggio di riparare, che niente, assolutamente niente potrebbe placare meglio il fuoco ghiacciato della vendetta che esige soddisfazione, esclamereb­ bero: «Sta delirando, non ascoltatelo, rinchiudetelo». Mundus vult decipi;^^^ non c’è espressione più decisa di questa per le mie relazioni con l’ambiente che devo chiamare È appunto la battuta di Talleyrand: « I l mondo vuole essere ingannato», completata da; decipiatur ergo, «dunque inganniamolo».

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il mio mondo. Credo anche che, in senso lato, sia la cosa migliore che si sia mai detta sul mondo. Gli speculativi non dovrebbero perciò rompersi la testa a studiare che cosa esi­ gono i tempi, giacché l’esigenza è sempre stata essenzial­ mente la stessa: essere presi per il naso. Basta recitare qualche scemenza, brindare fraternamente coi propri simili presi en masse per diventare, come Peer Degn,“ ^ oggetto dell’amore e della stima di tutta la comunità. Diversamente non va, oggigiorno, e chiunque, dando segni di preoccupazione, si metta a meditare davanti a tutti per scoprire l’esigenza dei tempi, in fondo l’ha già trovata. In questo campo ognuno può fare un servizio al suo tempo; sia che per tempo si intenda tutto un popolo, o la specie umana in generale, o una cerchia più ristretta di contemporanei. Il mio servizio a chi la compas­ siona è quello di fare la parte del farabutto. Non c’è ombra di dubbio che io risponda alle loro esigenze. Ne traggo van­ taggio io stesso, e trovo, in un certo senso, molto desiderabile questa funzione sociale. Essere un modello di virtù, un uomo normale e pieno di buon senso è da un lato molto imbaraz­ zante, e dall’altro molto problematico. Ma d’altro canto, nep­ pure mi perseguitano. Devo anche augurarmi di non com­ mettere l’errore di farmi un buon concetto di me, perché il mondo mi perseguita. Davanti agli uomini, non ho mai esitato a seguire il mio genio custode, a cedere a un certo innato pudore della mia parte migliore e a una diffidenza un po’ malinconica per me stesso, in altre parole, a camuffarmi in modo tale da essere sempre, forse, un po’ migliore di quanto non sembrassi. Il mio modo di intenderla è sempre stato che ognuno è affidato essenzialmente a se stesso; per il resto, o siamo di fronte a Personaggio di una commedia di L. H olberg, Erasmus Montanus, i, 4.

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una delega del tipo di quella degli apostoli, dalla definizione dialettica che non riesco ad afferrare, benché, per rispetto delle cose che mi sono state trasmesse come sacre, io mi astenga dal trarre conclusioni partendo dalla mia incompren­ sione; oppure siamo di fronte al puro sproloquio. E ben vero che uno che non sa radersi da sé può benissimo mettersi lui a servire altri di barba e capelli; ma nel mondo dello spirito questo procedimento è assurdo. Tuttavia, tutti pensano che un elemento costitutivo della serietà sia la disponibilità immediata a esercitare un’influenza sugli altri, senza per questo pretendere di essere un apostolo (che umiltà!). Ma anche senza saper definire in che cosa uno rassomigli o si differenzi da un apostolo (che assurdità!). Tutti vogliono fare qualcosa per gli altri. Rientra nelle regole della predicazione borghese, dove, se non altro, la cosa si conce­ pisce più facilmente; ma rientra anche nelle regole retoriche della predicazione religiosa. La ritroviamo, non ne dubito, nelle tracce di predica stampate, e ce la sentiamo ripetere in continuazione, salvo quando ascoltiamo un singolo che, dopo essere stato messo alla prova, sa parlare, e sa di che cosa parlare. Se la predica riguarda la preparazione delle vie del Si­ gnore, il primo punto sarà: ognuno faccia il possibile per la propagazione del Cristianesimo, non soltanto noi preti, ma tutti eccetera. Davvero charmant\ «Non soltanto noi preti.» Qui si nota subito l’assenza di definizioni dialettiche inter­ medie; è un apostolo il prete? E se non lo è, in che cosa se ne differenzia, in che cosa gli rassomiglia? I punti di differenza stabiliti dalla dogmatica per l’ordinazione aumentano le diffi­ Matteo, 3, 3.

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coltà, e la definizione intermedia principale viene respinta, a forza di determinazioni, nell’indeterminato. Dunque, «non soltanto noi preti». Dicevamo: fin dall’inizio il passo sembra molto promettente. «Non soltanto»: di chi si parla? Non viene indicato affatto. Ed ecco l’apodosi, con tutta la serietà dell’esortazione: «Miei cari ascoltatori, fate attenzione alle mie parole: non siamo soltanto io e noialtri preti a dover operare così, ma dovete operare anche voi allo stesso mo­ do!», Come? E la sola cosa non chiarita nella serietà di que­ sto discorso; una serietà che non si limita alla sua sostanza intellettuale. Il primo punto, dunque, è liquidato; il prete si asciuga il sudore dalla fronte, e gli ascoltatori fanno lo stesso al solo pensiero di essere, in questo modo, diventati altrettan­ ti missionari. L ’oratore riprende il suo discorso. Uno spera di arrivare a qualche chiarimento; e invece, ecco il secondo punto: «Ciascuno prepari in se stesso le vie del Signore». Natural­ mente, è così che si deve parlare: su questo punto si può fondare tutta una visione della vita. Si capisce che il singolo ha a che fare essenzialmente con se stesso, e che Fazione pratica è un accidente che non bisogna prefigurarsi, né ascri­ vere essenzialmente a se stessi; solo nella visione retrospettiva deU’eternità vediamo l’azione pratica com’è veramente, fon­ damentalmente un sovrappiù da parte di Dio, e accidental­ mente opera dell’individuo. L ’esistenza, e in essa la Provvi­ denza, sono infatti qualcosa di più della semplice somma di tutte le azioni dei singoli. Bisogna perciò sempre tenere in mente il pensiero del proprio assoluto, nel viaggio della vita. Se questo viene a mancare, ci inganniamo in due modi: sedu­ ciamo la gente a forza di sogni, e commettiamo un’ingiustizia verso chi soffre. In realtà il primo punto della predica esige da chiunque il successo. E troppo facile discorrere di cose

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che amano ascoltare le persone senza esperienza e le nature pigre; è assurdo pretenderlo, poiché il successo è un sovrappiù concesso non dalla libertà, ma dalla Provvidenza; e poi, pro­ viamo a supporre che uno abbia avuto un insuccesso! Ma intendendola, al contrario, nel senso che il singolo ha essen­ zialmente a che fare con se stesso, si comprende anche che egli esista in maniera tale che la sua vita, le sue parole e così via possano forse acquistare significato agli occhi di altri; for­ se, in parte perché la cosa riguarda la Provvidenza, in parte perché l’effetto dell’esempio e della dottrina non è diretto. Un oratore potrebbe cominciare da qui a capovolgere il pri­ mo punto, pressappoco nel modo seguente: «Neppure io, malgrado le apparenze, posso fare essenzialmente più che badare a me stesso. Non lasciatevi conquistare da un’illusione dei sensi». Invece, il discorso è impostato esattamente al con­ trario. Si fa riferimento all’esempio di Giovanni Battista; ma Giovanni non è paradigma diretto, egli è à(pcùpia)xévo(;i^9 d’eccezione; occorrono, dunque, definizioni intermedie. Inol­ tre, bisogna essere sempre prudenti quando si ricorre alle figure storiche; perché la loro compiutezza conforta la con­ templazione, ma anche il malinteso. Bisogna usare figure che diventino reali per il pensiero, e chiare nella loro struttura dialettica; altrimenti è una beffa proporle a paradigmi. Su questa questione ho molto meditato, poiché io stesso sono una persona esistente, e pertanto devo applicare, sul piano etico, ciò che mi dicono. A scegliere altre vie, a sceglie­ re, cioè, di insegnare o di ascoltare, ma escludendo le crisi della realizzazione, è facile avere molto da dire, molte indica­ zioni da dare, e facile trovare la tranquillità. Riflettendo su Escluso (dalla Sinagoga).

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questi argomenti, sono giunto al risultato che io rendo a qualcuno un servizio soprattutto ingannandolo. Il più alto grado di verità nella mia relazione con lui è questo: nell’es­ senziale io non posso essergli utile (e questa è l’espressione del più profondo dolore del desiderio e della simpatia; un’e­ sperienza a cui ci sottrae solo l’insipienza; ma anche l’espres­ sione del più nobile entusiasmo per l’uguaglianza di tutti); e la forma più adeguata di questa verità è che io lo inganni, poiché altrimenti potrebbe cadere in errore e apprendere la verità da me, ingannandosi, appunto perché crede di averla appresa da me. So bene che la maggioranza di coloro che dovessi iniziare al mio dubitoso pensiero sorriderebbero di me e biasimerebbero la mia leggerezza, giacché per loro è serietà il miraggio. La cosa non può turbarmi senza rendermi colpevole di un’incoerenza: cosa impossibile, poiché non de­ sidero confidarmi con nessuno per non cadere anch’io nel­ l’errore e convincermi di dover andare in giro a predicare questa avarizia, invece di tenermela per me. Meglio, infatti, che ogni uomo sia avaro, sì che solo Dio diventi prodigo di doni. Tutto questo l’ho appreso, nel modo più proficuo, ma anche più penoso, dalla mia relazione con lei, dove la sim­ patia e il desiderio cercavano costantemente di fare un’ecce­ zione; dove io ho desiderato, fino alla disperazione, di poter essere tutto per lei, fino al giorno in cui ho appreso, nel dolore, che è infinitamente più nobile non essere, per lei, assolutamente niente. Mi consola il pensiero che, nella mia relazione con lei, non mi sono mai messo in testa di farle da maestro, né mi sono sentito chiamato a dirle qualche parola di esortazione. Anche se il più saggio degli uomini impiegasse sei ore al giorno per un altro, ne impiegasse altre sei a medi­ tare sul modo migliore di farlo, e andasse avanti in questo

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procedimento per sei anni, sarebbe un imbroglione se osasse dire di essergli stato essenzialmente utile. E per me questo pensiero è, a dir poco, la più profonda fonte di entusiasmo. Le lingue, le arti, le abilità manuali eccetera, un uomo può insegnarle a un altro, ma sul piano etico-religioso nessuno può essere essenzialmente utile a nessun altro. Perciò è bello ed esaltante tradurre l’idea nello sforzo estremo dell’inganno, giacché un inganno sotto responsabilità etica non è uno scherzo, e può sempre misurarsi con le parole di esortazione. Adesso mi consola, dopo tutti gli ultimi avvenimenti, che lei non abbia con me un rapporto di allieva, fonte possibile di turbamento. Ciò che ho detto l’ho detto come se parlassi a me stesso, senza gesticolare, senza fare delle allusioni. E se lei se ne appropria, lo farà per volontà sua, senza contare «sulla sua parola e sul suo abito». È facile saltare su un omnibus e fare un giro a dispensare parole di esortazione, ci può anche essere del bello nell’intenzione, ma è da stupidi mettersi a insegnare che un uomo non è assolutamente in grado di fare nulla, e mettersi poi ad attribuire un così immenso effetto a due parole di esortazione. Spetta a Dio il grazie dettato dalla meraviglia e dall’ammirazione davanti al risultato. Perciò, ognuno vegli su se stesso, nella vita; nell’eternità ci sarà il tempo di vedere che cosa ne ha tratto Dio. E questo non vale solo per i risultati spettacolari di questo o quel singolo, ma anche per la più piccola frazione di effetto dovuta all’azione del più insignificante degli uomini. Così ho cercato di comprendere l’esistenza. Chi l’ha com­ presa nello stesso modo, nello stesso modo si comporterà; soprattutto si esprimerà sempre con circospezione e sotto forma d’inganno, sì da evitare il pericolo al quale deve fare attenzione chiunque, fino al più insignificante cronista del nostro tempo: che esistano cioè una persona o due a cui è

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venuta in mente l’idea assurda che la verità stia in quello che è detto espressamente, e che il loro compito sia quello di andare per il mondo eccetera. Ma lasciamo che ad andare per il mondo siano i cavalieri erranti; la serietà autentica è attenta a ogni pericolo, compreso quello di diventare, bona fide, un discepolo sventato; pericolo che si previene nel modo mi­ gliore utilizzando la contraddizione come forma di esposi­ zione. A mente mia, ad eccezione di individualità delegate dall’alto come gli apostoli, dalla posizione dialettica che mi sfugge, nessuno è più serio di chi camuffa il proprio pensiero sotto le spoglie della burla, nessuno ama i propri simili con altrettanta simpatia, nessuno ammira così profondamente la divinità. Lasciamo dunque agli storici il compito di parlare dei re che hanno introdotto il Cristianesimo; io la penso così, che un re possa introdurre la pianificazione dell’allevamento ovino, le ferrovie eccetera, ma il Cristianesimo e lo spirito in senso etico non deve incomodarsi a introdurli neppure un imperatore, voglio dire dal punto di vista dell’essenziale. Nel mio rapporto con lei è ora in atto un cambiamento. Finora mi sono mantenuto assolutamente tranquillo e ho ri­ spettato in lei l’infinito. Adduco ora una spiegazione. E la considero un inganno. Prima, l’inganno stava nella forma, e il contenuto era l’interesse per l’infinito in lei. Così la mia calma, il mio silenzio, il mio annientamento erano la forma ingannevole di un interesse infinito nei suoi confronti. Ora è tutto diverso. Quello che dico, non lo penso; ma neppure penso che la forma dell’inganno sia il costume o il travesti­ mento del mio pensiero autentico. Il punto della questione non è se la cosa abbia in realtà qualche influenza su di lei. Io mi occupo solo dell’essenziale; e l’essenziale consiste nel fatto che questo è il mio intendimento e il mio proposito. Spiegare che mi pento, ma che non posso riparare il mio debito, è un

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nonsenso. Se io, infatti, non posso addurre il motivo per cui non posso rimediare, non devo mai parlare di pentimento, e tanto meno posso invocare l’orgoglio (sarebbe a dire: che non voglio), giacché significa veramente burlarsi di lei. Perciò non mi sono mai presentato in veste di pentito prima d’ora, benché rimpianga, e abbia rimpianto, di essere entrato in questo rapporto, e trovi la mia umiliazione nel non potervi porre rimedio: come vorrebbe invece il mio orgoglio, fiaccato ora perché io, che ho nutrito un’idea quasi temeraria di tutta questa storia del volere, devo rifarmi piccolo constatando che si tratta di qualcosa che voglio, che voglio con tutta la mia passione, ma che non posso. Perché non posso (e la ragione sta nel mio rapporto con l’idea, fino a che non cambiamo, o l’idea o io), non posso dirglielo in modo da farglielo com­ prendere: ma proprio per questo non le ho neanche mai detto che mi pentivo. Tale era il senso della mia condotta. Ma pentirsi e invocare l’orgoglio come ostacolo alla manife­ stazione del pentimento, mentre invece dovrebbe esserne l’oggetto, è un crimine di lesa maestà contro Dio. Come qual­ cuno possa comprenderlo e trovarlo plausibile, non lo conce­ pisco; ma, in compenso, la maggioranza dice la stessa cosa del mio modo di vedere. Per la prima volta nella mia vita, forse, faccio qualcosa che io stesso considero un’assurdità. Molte cose ho fatto che la maggior parte della gente giudicherebbe forse in questo senso; la cosa non mi ha turbato, dal momento che potrebbe anche essere dovuta alla mancanza, nella maggioranza, del­ l’intelligenza di spingersi col pensiero neUe situazioni estreme in cui si dibatte la mia vita, e del coraggio di avventurarvisi. Ho fatto anche molte cose che ho riconosciuto poi da me come stupide, e benché il pentimento, quando si mette ad analizzare, non rispetti nessuna scusa, è tuttavia una sorta

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di consolazione pensare che, quando quelle cose le ho fatte, non le trovavo prive di significato. Inadatto a concepire com­ piti come l’avvenire dell’umanità o le esigenze del nostro tempo, mi sono concentrato assolutamente su me stesso. Quando mi diventa dubbio dove stia il giusto, ho preso l’abi­ tudine di pronunciare il mio nome ad alta voce, aggiun­ gendo; si può morire, cadere nell’infelicità, eppure mante­ nere tuttavia il senso della vita e la fedeltà all’idea. Adesso è finita. E di chi è la colpa? Un altro direbbe forse: di lei, che ti mette i piedi in testa. Io invece non lo direi, giacché mi astengo volentieri da un’assurdità come questa: che la colpa degli sbagli che ho commesso io sia di un altro. Direi piut­ tosto che la colpa è mia. La colpa è mia, sta nella mia debo­ lezza; e il problema è che la mia ragione mi garantisce che, per lei, la cosa può essere vantaggiosa in senso finito; mentre la mia simpatia tende piuttosto ad amarla in un senso infi­ nito. Mi ha umiliato, questa relazione; e ora, che lei legga le mie lettere o meno, che producano o no un effetto su di lei, lei trionfa su di me in una misura che mi getta nello scorag­ giamento.

21 maggio. Mezzanotte Niente di nuovo sotto il sole, ha detto Salomone, Va bene, vada pure; è ben peggio quando non succede assolutamente niente. Questa sola considerazione mi rende certo di quanto assurda fosse la mia ricerca di un confidente. Certo, se il mio dolore fosse ricco di eventi spettacolari, colpi di scena e cam­

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biamenti di scenografie sarebbe d’un qualche interesse. Ma la mia sofferenza è noiosa. È vero, sono sempre fermo all’espo­ sizione di questo niente, e la scena è immutabilmente la stessa. Se partissi per un viaggio per far passare il tempo, per mare tristitiam fugiens, per saxa, per ignesl^^^ Non è possibile. Devo restare ancora immobile. Un viaggio, di cui lei sarebbe subito informata, potrebbe forse turbarla e indurla in un’illusione: che dopo un periodo di tempo piuttosto lungo io sia cam­ biato. Ma devo misurarle il tempo nel modo più stringato possibile; e desidero soltanto che una provvidenza faccia in­ crociare spesso le nostre strade, giacché lei trae beneficio dal vedermi, così ha occasione di assicurarsi che io sono sempre lo stesso e vivo sempre allo stesso modo, e che non sono in una terra straniera - forse a pensare a lei, forse a provare nostalgia. Se fossi dovuto partire, avrei dovuto farlo da molto tempo; avrei dovuto lasciare false indicazioni sulla durata del viaggio, e tornare all’improwiso. Forse le sarebbe balenata l’idea che questo improvviso ritorno la riguardasse e, fino a che non avesse visto che non la riguardava, la cosa le avreb­ be probabilmente giovato. Il tempo per questo progetto è passato. L ’orologio batte l’una. Che segnale d’ora sconsolante! Giacché dodici colpi sono tanti; si nota che è il tempo, a essere segnato, e persino due colpi si possono contare; ma un solo colpo sembra il segnale dell’eternità. Se esiste qualcosa come l’eternità della punizione, e un disgraziato volesse la­ mentarsene, non gli volteremmo forse le spalle? Perché non Orazio, Epistole, i, i, 46; «fuggendo la tristezza [Orazio: la povertà] per

Ecclesiaste, i, 9.

mare, per pietre, per fuoco».

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solo è un disgraziato, ma la sua sofferenza è noiosa - se non fosse noiosa, si potrebbe anche dimostrargli una certa com­ passione. Per quanto mi riguarda, non desidero la compassione di nessuno. Iddio nei cieli non ha la nausea del noioso. Dev’es­ sere un dovere pregare, dev’essere utile pregare, ci devono essere tre motivi per farlo, forse persino quattro. Non in­ tendo privare nessuno delle proprie ragioni, ognuno è più che benvenuto a difenderle, purché lasci me difendere l’idea che osare pregare sia qualcosa di talmente ispirato da poter dire, in un senso assai più profondo di quanto possano dire Platone o A r i s t o t e l e , ^^2 ^he la meraviglia è i l punto di par­ tenza della conoscenza. A questo riguardo non ho alcuna fiducia nei loro molti argomenti e nelle loro sedici ragioni; forse sarebbe meglio, soprattutto per gli spiriti colti (giacché i poveri, gli sventurati e i semplici hanno meno difficoltà a pregare), se si stabilisse un prezzo per avere la facoltà di pregare; forse la mercanzia andrebbe a ruba. Se è vero dell’amore terrestre, che cerca la segretezza, è ancora più vero, della preghiera, che ama so­ prattutto la solitudine e il restare nascosta il più possibile, per non essere disturbata e per non infastidire gli altri con la propria emozione; d’altronde non c’è bisogno, e serve ben poco, di avere dei testimoni. Un principe che viaggia in inco­ gnito può deporre l’incognito in qualunque momento; allo stesso modo, mi sembra che l’aspetto esterno di chi prega sia un incognito che sicuramente egli non può deporre per dive­ nire l’oggetto dell’ammirazione mondana, ma che può to­ gliersi quando si abbandona all’infinito alla preghiera, per Teeteto, i i ; Metafisica, i,

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stupirsi ancora nel vedere che Dio in cielo è il solo che non si stanca di ascoltare l’uomo. E questo sacro stupore, a sua volta, impedirà a chi prega di preoccuparsi se la riceve anche o no, la cosa per cui sta pregando. Non è un bell’amore quello di chi verifica se ne vale la pena, e persino a constatare che ne vale magnificamente la pena, non è un amore felice. Né la preghiera è stata inventata per fare i conti con Dio; è un favore benevolmente concesso a ogni uomo, e che fa di lui più di un aristocratico. Ma a comprenderne la natura di con­ cessione fino al punto della meraviglia, anzi, fino a un punto tale di meraviglia da provocare il naufragio della passione, non sembrano più neppure necessarie le argomentazioni, poiché solo le cose incerte hanno bisogno di argomentazione. Ogni riflessione di ordine esteriore sopprime eo ipso la pre­ ghiera, sia che la riflessione adocchi un vantaggio temporale, sia che essa si concentri sull’individuo stesso e sui suoi rap­ porti con gli altri, come se la serietà di un uomo arrivasse al punto da non poter pregare fra sé e per sé, ma dovesse far­ si avanti a rendersi utile a tutta la comunità con la sua inter­ cessione e con il suo esempio di uomo di preghiera: allo stesso modo esistono anche persone incapaci di parlare al di fuori delle assemblee di condominio, e Madame Voltisu­ b i t o ^23 non è capace di andare a cavallo senza sentire schioc­ care la frusta. Ma lei, lei! Se ancora non vuole comprendere dentro di sé, ma cerca piuttosto la consolazione del finito! Penoso, per chi non ha disperso la sua anima nella preoccupazione intermina­ bile per Tizio e Caio e per l’umanità intera, è l’osare espri­ mere a se stesso la propria preoccupazione solo in solitudine, come se combattesse nel vuoto, e il non osare fare tutto Personaggio della commedia di Heiberg, Il recensore e la bestia (cfr. nota 85).

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quello che, da un punto di vista più elevato, non è niente, ma che tuttavia dà un sollievo di simpatia.

22 maggio. Mattino Oggi, un anno fa. Ridere è e rimane il miglior mezzo di esplorazione. Ride anche lei, ma poi non ce la fa più, e la sua risata si infrange. Dunque lei non ha passioni infinite, ma solo fino a un certo grado. Tremo dentro di me, perché so che cosa seguirà, seguiranno preghiere e lacrime, finché lei non si stanchi anche di quelle; ma le mie chiacchiere non si stancano, proseguono incessantemente. Essere punti nella più sottile ramificazione dei nervi è atroce, ma è ancora più atroce non osare neppure mutare espressione, mentre ciò si verifica, e continuare a dire scioc­ chezze. Solo dieci minuti sono stato serio, oggi. Ho intenzione di comportarmi così ogni otto giorni. Con calma le ho detto: «Finiscila, lasciami, non mi sopporterai più alla lunga». Ma la passione s’infiamma, allora, al massimo; lei dichiara che preferisce tutto questo piuttosto che non vedermi più. È solo un’esplosione passionale, e la sua veemenza mi dimostra ap­ punto che il mio metodo contribuirà a rimetterla in sesto.

25 maggio. Mezzanotte Rammemorarla, non oso. Se fosse stata la morte a separarci, come separa gli amanti, se fosse stata lei a lasciarmi, allora potrei rammemorare le cose belle e amabili, e ogni momento del passato felice per noi. Quando la primavera butta ger­

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mogli nella giovinezza, me la ricorderei; all’ombra del fo­ gliame riposerei nella rimembranza di lei; nella bruma dei crepuscoli estivi vedrei la sua immagine; rammenterei presso il lago tranquillo, dove mormorano i giunchi; sulla riva del mare, all’avvicinarsi della nave, immaginerei di venirle in­ contro, finché il dondolio monotono dei flutti non mi asso­ pisse nella rimembranza, una rimembranza di cui cercherei le tracce nella mia antica pasticceria; e spesso, assai spesso, avrei l’illusione di camminarle accanto. Ma non oso; per me non c’è cambiamento nelle stagioni, così come non c’è cambia­ mento in me, non fiorisce nella mia mano la rimembranza, ma pesa come una condanna sulla mia testa, o come un segno enigmatico di cui ignoro il senso esatto. Osava forse Adamo rammemorare l’Eden, osava, quando si vedeva sotto i passi le spine e i rovi, dire a Èva: «no!, non era così nell’Eden, nell’Eden, ah!, ti ricordi?», forse Adamo l’osava? Io ancor meno.

27 maggio. Mezzanotte Dimenticarla? È impossibile. L ’edificio su cui ho costruito la mia vita è crollato. Ero triste, ma in questa tristezza ero un entusiasta, e quel pensiero sconsolato della mia gioventù, che non fossi buono a nulla, era forse solo una forma dell’entu­ siasmo, giacché io pretendevo un’idealità che mi ha fatto cadere sotto il suo peso. Questo segreto desideravo nascon­ derlo dentro di me, e col segreto un ardore che certamente mi rendeva infelice, ma anche indescrivibilmente felice. Presto, troppo presto, credetti d’aver capito che l’entusiasmo che si trova sulle strade e nei vicoli è d’una specie tale che non vorrei averci niente da spartire. E dunque ho voluto

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darmi sembianze fredde e spietate, per evitare ogni comu­ nione con l’artefatto o con l’illusorio. Era un’idea orgogliosa, quale può balenare a un malinconico. Ma benché la gente m’urlasse contro che ero un egoista, non volevo che nessuno avesse ragione di me. Tutto questo è andato all’aria, e io sono disarmato. L ’apparenza che volevo evocare m’ha fatto prigio­ niero. Ho agito in modo infame nei confronti di una persona. E malgrado che io l’intenda diversamente, e malgrado sia certo, com’è certo che il sole sorge sempre a est, che avrò sempre dalla mia parte l’entusiasmo, qualunque cosa io faccia, non riesco a farmi capire da nessuno. La Provvidenza m’ha fatto prigioniero. L ’idea della mia esistenza era orgogliosa; ora sono a pezzi. So bene che posso celarlo agli occhi altrui, ma ho perduto il vero nocciolo della mia esistenza, la roccaforte sicura dietro l’ingannevole appa­ renza, ho perduto una cosa che mai più riconquisterò, e che devo impedirmi io stesso di riconquistare, poiché m’è ancora rimasto l’orgoglio, ma ha dovuto referre pedem,^^'^ e fra le altre incombenze ha quella di non perdonarmi mai più. Sol­ tanto religiosamente posso ora farmi comprendere da Dio; con la gente parlo la lingua straniera del malinteso. Vorrei averla in mio potere, per essere in grado di esprimermi nel linguaggio di tutti in qualunque istante io lo desideri; ora non posso. Ah, beata è l’intesa con Dio! Ma il fatto che la Provvi­ denza, o le mie stesse azioni, mi abbiano circondato di malin­ tesi, al punto che sono costantemente costretto a tornare a quell’intesa solitaria, comporta pure il suo dolore. Chi esite­ rebbe a scegliere la confidenza? Ma la mia scelta non è libera; '2'' Ritirare il piede.

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la libertà di scelta l’avverto solo nell’attimo in cui m’arrendo alla necessità, e nella resa me ne dimentico. Non saprei dire a chi dovrei rivolgermi se non a Te; non posso rivolgermi a nessuno, poiché non ci si può certo affidare alla confidenza con il malinteso; non posso rivolgermi a nessuno, poiché sono prigioniero, e un malinteso, e un altro malinteso, e un altro ancora sono rigide sbarre di ferro davanti alla mia fine­ stra; e io non scelgo di rivolgermi a Dio, se vi sono costretto. Ma poi arriva il momento dell’intesa, e allora è di nuovo una benedizione che ci siano le sbarre di ferro davanti alle fine­ stre, perché impedisce che l’intesa diventi un’illusione, un’af­ fettazione, un beneficio di seconda mano, che si trasformi in un verboso chiacchierio; poiché, con chi dovrei parlare? La mia idea era di impiantarmi la vita eticamente nel mio intimo, e di celare questa intimità sotto le spoglie dell’in­ ganno. Ma ora sono rientrato più profondamente in me stesso, la mia vita si impianta religiosamente e sprofonda tal­ mente neU’interiorità, che io a fatica sfioro la realtà. A chi mai verrebbe in mente di assumere un’aria di impor­ tanza al diretto cospetto di Dio? Pure, questo è il mio rap­ porto con lui, quasi fosse stato Dio a scegliere me, non io a scegliere Dio. Non m’è rimasta neppure l’ombra di quella prova negativa del mio essere qualcosa, che consiste nell’es­ sere stato io a venire da lui. Se non mi adatterò a sopportare la pena della necessità, sarò annientato, né avrò un luogo dove stare, se non fra la gente, nel malinteso. Se sopporto la pena della necessità, avverrà la metamorfosi. La mia perdita non la supererò mai, per quanto tempo possa passare, prima di avere imparato a sopportarla. Nel momento in cui più mi mescolo alla gente ho come la sensa­ zione che il mio orgoglio perduto mi passi accanto, la sensa­ zione di leggere, nella faccia di un altro, lo stesso giudizio.

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Allora sarei capace di precipitarmi, come un disperato, nella folla, per afferrare la mia ombra perduta, ^^5 per reclamarne il possesso, per vendicarmi, e consolarmi nella vendetta fino a caderne esausto. Ah, guai alla donna che mi avrà guardato in quel modo! Di una donna ci si può ben vendicare. So che esistono pensieri terribili, capaci di ossessionare chi si scanda­ lizza per dei rapporti naturali. Com’è accaduto che Riccar­ do I II potesse soggiogare la d o n n a ^^6 ^he era sua nemica giurata, fino a trasformarla in amante? E, mi chiedo, perché mai l’ha fatto? Si trattava di una strategia di potere? Ed era pure strategia di potere lo scherno con cui egli rifletté sulla facilità della vittoria; o l’esame a cui si sottopose e che gli permise di comprendere la sua attitudine a essere re, quando, con la voluttà della disperazione, indugiava sulla propria de­ formità? No, era odio per l’esistenza; col potere dello spirito egli voleva prendersi gioco della natura che si era presa gioco di lui, voleva farne oggetto di ridicolo insieme alle sue inven­ zioni, l’amore e l’amore del bello, poiché lui, il bersaglio della sorte, lo storpio, il disperato, il demonio, voleva dimo­ strare, a dispetto della lingua e delle leggi dell’esistenza, di poter essere amato. E allora egli imparò, scoprì che esiste un potere che produce suUe donne un effetto infallibile, vale a dire la falsità e la menzogna pronunciate con la fiamma di un entusiasmo selvaggio, con l’eccitazione corrotta della lus­ suria, e tuttavia con la gelida freddezza della ragione, al modo in cui si serve ghiacciato il vino più generoso. Con il suo odio generò amore, benché una donna non ami un uomo Allusione al Peter Schlemihl di A . von Chamisso, il protagonista della famo­ sissima fiaba L ’uomo senz’ombra. Anna, che nel Riccardo I II di Shakespeare cede alla corte di Riccardo mentre segue il funerale del marito.

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di tal fatta, ne provi anzi disgusto, e solo perché è stordita e confusa cada in suo potere. Esiste uno spirito malvagio di tal sorta, e offre caparre notevoli, facendo pregustare energie sovrumane: quasi che una vendetta folle fosse, con i suoi miraggi, la strada giusta per salvare l’orgoglio e vendicare l’onore. E arduo, se pure è possibile, dev’essere il cammino a ritroso attraverso l’abisso profondo che, anche nel tempo, separa il bene e il male, la transizione dalla grandezza sovru­ mana che dà il potere del male all’essere nulla, assolutamente nulla, meno che nulla, nel pentimento. «Che cos’è l’onore?» chiede Falstaff. «Può forse riattac­ care una gamba? No. Può forse riattaccare un braccio? No, Ergo è una fantasia, una parola, uno stemma dipinto.» No, quest’ergo è sbagliato; giacché, sebbene l’onore non possa fare nessuna di queste cose quando lo conquistiamo, può tuttavia, quando lo perdiamo, fare l’opposto; può amputare una gamba o un braccio, anzi può maltrattare un uomo peggio di quanto non facciano in Russia, e spedirlo in Si­ beria. Se può far questo, non è certo una fantasia. Perché avrai un bell’andare sul campo di battaglia, a considerare i caduti; un bel visitare l’ospedale degli invalidi a studiare i feriti: non troverai mai un morto, o un mutilato, maltrattati come chi è stato spacciato dall’onore. Poi arriva l’intesa, al di qua delle sbarre di ferro. D ov’è, allora, il campo dell’onore? Dovunque un uomo cada con onore. Ma l’uomo che, piuttosto che sgattaiolare onorevol­ mente attraverso la vita, ha preferito perdere l’onore e farne omaggio a Dio cade lui pure sul campo dell’onore. Se dob­ biamo aspettarci un cielo nuovo e una terra nuova, esisterà

Shakespeare, Enrico IV, parte ii, ni, 4.

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anche un onore nuovo. Se anche cadrò dove nessuno an­ drebbe a immaginarsi il campo deU’onore, se anche mi sep­ pelliranno nel cimitero dei disonorati, e tuttavia un singolo individuo, che forse sarà passato accanto alla mia tomba con altri pensieri, d’un tratto si fermerà e reciterà per me quest’o­ razione funebre; «Come può essere, che riposi qui que­ st’uomo, come riposare senza infamia fra i disonorati? E p­ pure, lui riposa qui con onore», non desidererò nulla di più. Voglio figurarmelo con chiarezza, e in modo più determi­ nante della crisi della mia vita. Poniamo che Maria Madda­ lena non avesse avuto complici nella sua onta, che fosse riu­ scita a procedere furtivamente nella vita con onore, e che, morendo, uscisse furtivamente dal mondo con la corona di mirto sulla fronte; a me sembra che, col suo coraggio, si sia conquistata una nuova forma di onore; a me sembra che, una volta morta, sia più onorata senza che con la corona di mirto. Così mi sembra pure che non abbia perduto l’onore chi ha ammesso di aver iniziato un’impresa che non è riuscito a portare a termine; che l’abbia anzi conservato meglio che se avesse acquistato a buon mercato le cose che avrebbe dato tutto per possedere, che se fosse sgattaiolato attraverso la vita come benefattore di una fanciulla, quando neppure con se stesso osava ammettere di recitare una parte più modesta di quella che avrebbe desiderato lui solo, invece di apprezzare la ragazza quand’ella, nel suo spirito giovanile, si sopravvalu­ tava; di apprezzarla quando, preoccupata, si sottovalutava di gran lunga; e di apprezzarla al massimo per averla ingannata, quando poteva diventare suo sposo a un minimo prezzo; a me sembra che la benedizione della gratitudine indirizzata a lui sia una beffa, e un abominio il venerabile nome dato alla sua relazione con lei; ma che sarebbe una rivincita del suo

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onore la più severa condanna della sua condotta da parte della lingua e dell’ira.

30 maggio. Mattino Oggi, un anno fa. Non potrebbe essere che lei riesca a vin­ cere e a realizzare il suo desiderio? Vediamo. Il punto su cui mi sono arenato è che tutta la mia visione della vita, che non era campata in aria, ma, appunto, era essenziale per la mia individualità, è stata bocciata. Io non posso essere felice, lei non può essere felice, il nostro rapporto non può evolversi in un matrimonio. Lei non può essere felice? Che cosa significa, visto che lei stessa lo desidera con tanta passione? Ma a cosa può servire la passione, quando il problema è se lei sia in grado di comprendere se stessa? La sua passionalità mostra precisamente che lei non ha neppure la libertà di pensiero, davanti a una concezione differente. Se ci separiamo, e io faccio uso del mio potere per spezzare questo legame, sarà infelice. Ma non ci sono neppure prove che lei sia felice, mentre c’è un senso nella sua infelicità e nella mia colpa. E davvero un nonsenso, restare al mio fianco per essere infe­ lice; e quando svanisce la passionalità, perché viene a man­ care lo stimolo della resistenza, che succede? - Il nostro rap­ porto non può diventare un matrimonio. Perché no? Perché io sono chiuso nella mia tristezza. Lo sapevo dall’inizio, e credevo che il mio compito fosse nasconderlo, così l’avevo intesa; ma un matrimonio non è fatto così. E se lei si rasse­ gnasse a un matrimonio, per così dire, morganatico? Ma non voglio rassegnarmici io, sarebbe un affronto a lei, per come io la vedo. E poi, è possibile porsi solo il problema di rasse­ gnarsi o no a qualcosa, e non di che cosa sia questo qualcosa.

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se sia vero, se sia bello, se sia conforme all’idea? Su questi punti lei non chiede nulla, lei che un tempo era così orgo­ gliosa. Il che dimostra che è talmente passionale da non pos­ sedere alcuna capacità di giudizio. Un matrimonio esige le nozze. In che cosa consistono le nozze? Consistono nel prestarsi giuramento di impegni reci­ proci. Ma un impegno reciproco esige senz’altro una reci­ proca intesa. E lei non mi comprende affatto. Che ne è, allora, del mio giuramento? Un’assurdità. Sono nozze, queste? No, sono una profanazione. Se pure ci sposassimo dieci volte, non diventerei mai il suo sposo, mentre lei, mia sposa lo diventerebbe certo. Ma se a lei la cosa non importa nulla? Dunque il problema è solo l’attuazione di un appassio­ nato desiderio, e non l’idea? Bisogna dunque credere solo alla propria passionalità, e non avere la minima fede o fiducia nel fatto che le opinioni della persona amata, come si suol dire, possano essere valide, pur non essendo le nostre stesse? Non dimostra, questo, la passionalità di lei e la contraddi­ zione in essa insita? Proprio in quello che deve legarci inti­ mamente avverto una protesta divina contro l’intera que­ stione. Il momento delle nozze non ci unisce, ma mi rende consapevole di qualcosa che sapevo già da prima: che siamo separati. Sono nozze, queste? Oppure io sarei sposato con lei per il solo fatto che abiterebbe nella mia stessa casa, per il fatto che non desidererei nessun’altra donna? Dunque in so­ stanza sono sposato con lei, perché dopo tutto vive con me, e io saprò ben onorare me stesso e lei, evitando di cercarmi un altro amore, come se l’avessi respinta; cosa che probabil­ mente lei si figurerà, e che dimostra ancora una volta che lei non mi comprende, che nella sua passionalità cova un segreto orgoglio. Che essere bizzarro è mai la donna, che strana forza è

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l’amore! D ’amarla non posso smettere, eppure la sua fedeltà è di una specie ambigua. Amare come lei ama in questo mo­ mento, è un’arte? No, è debolezza. È bello? No, perché non è libero. E potere? No, è impotenza. E simpatia? No, è egoismo. È fedeltà? No, è un’astuzia della natura. E tuttavia, quando si tratta di una donna, ecco che... No, non credo che la cosa mi piacerebbe in un’altra, ma quando a farlo è lei, lo fa in modo tale, o lo vedo io in modo tale, che non perde nulla ai miei occhi. Lei usa contro di me qualsiasi espediente, e mai le viene in mente di accennare, con una sola parola, al fatto di potermi credere, e dunque a decidersi a cedere, a rassegnarsi e a rendermi, con la sua rassegnazione, la libertà, a disprezzarmi e, a queste condizioni, a lasciarmi andare. Ci siamo in qualche modo scambiati i ruoli, poiché, in un certo senso, lei è la forte e io, che temo costantemente per lei, il debole. E se realmente fossimo uno contro uno, non riuscirei a tenerle testa; ma la sfortuna è che io sono più di uno, finché ho la categoria e l’idea dalla mia parte. Non sono dunque adatto al ruolo dell’eroe, poiché non cerco il mio trionfo, ma il trionfo dell’idea, e sono disposto a rimanerne annientato. Così, quando avrò vinto e la cosa sarà definitiva, non dirò come Pirro: «Un’altra vittoria come questa, ed è f i n i t a » , ^ ^ 8 poiché questa vittoria è sufficiente.

3 giugno. Mezzanotte Dunque sono di nuovo in vedetta. A raccontarlo a un’altra persona, richiederebbe senza dubbio un chiarimento; si caFamosa battuta tramandata (Plutarco, Vita di Pirro, 21) come pronunciata dopo la sanguinosa vittoria sui Rom ani nel 2 7 9 a.C.

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pisce infatti facilmente come stiano in vedetta il timoniere che costeggia la spiaggia, il guardiano notturno sul pinnacolo della torre, la spia dalla prua, il ladro dal suo nascondiglio, giacché hanno qualcosa da tener d’occhio. Ma uno che se ne sta da solo nella sua stanza, che cos’ha da tener d’occhio? E chi si aspetta che tutto, vale a dire cose insignificanti cui probabilmente nessun altro porrebbe attenzione, accada in silenzio, tiene d’occhio il nulla. Quale meraviglia, allora, che gli affatichi l’anima e la testa, giacché avere un oggetto da osservare è un buon esercizio per l’occhio, ma osservare il nulla è estenuante. E quando l’occhio ha a lungo scrutato il nulla, finisce per vedere se stesso o il proprio vedere: allo stesso modo, il vuoto che mi circonda costringe il mio pen­ siero a tornare dentro di me. Così ricomincio a esaminare le difficoltà dialettiche delle mie aspettative. L ’apice della mia esistenza, questo desiderio quasi folle, lo sforzo estremo e l’ultima voglia dell’entu­ siasmo sta nel riuscire a rimediare all’intera faccenda. Su questa vetta suprema ho trattenuto la mia anima; e invero ora sento che il peso del finito a volte mi trascina giù da quella vetta. E allora, nuovi esercizi. Da questo desiderio le strade si dividono, il desiderio assume un certo significato per lei, e un altro per me. Per autopatia, devo desiderare che lei sia di un altro; ciò costituirebbe, per l’egoismo della mia personalità, la più facile via di scampo. Per simpatia, non lo desidero, a meno che non avvenga, in un modo che è inconcepibile, nella forma di un ritorno al primo amore: poiché altrimenti sarebbe una guarigione nel finito, e non la più elevata di tutte. Nel secondo caso, la cosa più elevata sarebbe, ed è, un’apertura all’infinito in senso religioso, e questa dunque devo augurarmi, sebbene, da un punto di vista autopatico.

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un’esistenza così concepita diventerebbe per me un pesante fardello. Per lei non sarebbe difficile trovare una via d’uscita religiosa. Non ha nulla da rimproverarsi, può vivere in un gioioso rapporto d’amicizia con l’Eterno, può spirare quieta­ mente e dolcemente in Dio vote das Wiegenkind mit seiner Mutter Brusi im Munde sterbendA^^ Un’esistenza così conce­ pita sarebbe per me una condanna alla penitenza in perpetuum. Subito dopo l’apertura a un infinito religioso, l’augurio della mia simpatia sarebbe quello di un potenziamento nell’e­ sistenza temporale; che lei diventasse qualcosa di grandioso e non comune. Se ciò accadesse, la mia vita sarebbe posta nuo­ vamente sotto sequestro. - Non ho più bisogno di evocare le catastrofi dell’orrore; posso ormai considerarle fatti del pas­ sato. A dispetto di questa lunga graduatoria, c’è un senso nella mia esistenza. Ciò che ho fatto finora, fino a queste ultime lettere, è coerente. Mi sono mantenuto impassibile, muto, come se nulla fosse accaduto. Quale sforzo mi sia costato, può comprenderlo solo chi comprende le mie passioni, non altri. Com’è vero ciò che dice Heiberg nella sua magistrale novella II silenzio pericoloso:^^^ «Per quante ragioni consi­ stenti abbiamo per considerare un uomo infelice e lacerato nell’intimo, se egli si mostra composto, animato e allegro, tutte le nostre ragioni vengono messe in fuga, e noi incli­ niamo a credere a ciò che vediamo, piuttosto che a ciò che sappiamo». Abbiamo tanto riso dell’orso che massacrava il suo padrone per dare la caccia a una mosca. Il fatto in sé è comico, ma la situazione può essere con facilità resa profon« C o m e il bambino in culla che muore attaccato al seno di sua madre» (Shake­ speare, Enrico I V , parte ii, in, 2, citato nella traduzione di Schlegel e Tieck). J. L. Heiberg, Poetiske Skrifter, v i i , p. 109.

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damente tragica. Poniamo che l’orso fosse conscio di quali sarebbero state le conseguenze, se avesse fatto uso della sua forza come può farne uso lui solo, e poniamo, quindi, che vedesse il suo padrone tormentato dalla mosca, e che si trat­ tenesse, obbligandosi così a non rendere la situazione più pericolosa. Dovrebbe essere una lotta dura e molto diffi­ cile, sapendo come sa con che facilità potrebbe uccidere la mosca. L ’arte di un attore consiste nella sua capacità di apparire turbato, quando invece è calmo (un’inquietudine reale è un errore); l’arte del carattere chiuso consiste nell’apparire calmo, malgrado che sia turbato. Se non è turbato, o scon­ volto, la sua arte è uguale a zero, e lui certo non è un carat­ tere chiuso.

un nuovo amore. Ma prescindere dal vincolo matrimoniale, che lei sia disposta a tollerarlo o meno, che lei possa contare sulla mia fedeltà o meno, è, dal punto di vista dell’idea, un’i­ gnominia. E lei può pure morire, buttandomi un assassinio sulla coscienza, può maledirmi, può respingermi, può scrivere un epigramma sulla mia tristezza, una volta acquietatasi in un nuovo legame d’amore, e rimasto io, immutato, là dove lei s’immagina che io sia: ma non dev’essere umiliata, e tanto meno in una maniera tale che faccia di me invece un cava­ liere. Se ci fosse qualcuno a cui potermi rivolgere, andrei da lui e gli direi: «Bitte, bitte, trovami un po’ di senso nel mio disorientamento». Il più atroce dei significati non è per me atroce quanto l’insensatezza, e questa è tanto più terribile quanto più sventatamente sorride.

5 giugno. Mattino

Il riso indaga in tutte le direzioni, e col suo aiuto e sotto la sua falsa bandiera io introduco qualsiasi cosa nella conversa­ zione, affinché la mia riflessione possa esplorare le vie del pensiero nella sua anima e nelle sue energie. Percepisco con molta chiarezza che lei ignora una concezione veramente ideale del dolore. In senso finito, lei è sana, ed è appunto nel finito che va salvata. Va condotta al punto di provare di­ sgusto per tutta la questione; e allora ci separiamo, lei si mette a dormire, ci dorme su, e finisce per tornare salva nel tempo. Non sono le energie dell’idealità quelle con cui com­ batte, è una speranza finita quella a cui si aggrappa, e la mia vicinanza l’aiuta. Il fatto che io sia presente a osservare le dà, ai suoi stessi occhi, un’importanza che non avrebbe in mia assenza. Se non fossi sicuro di me stesso, di soffrire più di lei, e che altra sofferenza si aggiungerà, giacché il peggio mi attende al

Oggi, un anno fa. Potrei anche evitare lo sposalizio e impian­ tare una relazione erotica; ne abbiamo tanti esempi. Lei è disposta a tollerare tutto - ma è giusto non chiedersi affatto che cos’è che si è disposti a tollerare? La situazione è così disperatamente sottosopra che potrei con facilità tirarle fuori il consenso alla seduzione. Ma se lei ora, nel suo dolore, ahimè!, si mette anche a credere che io possa trovarmi facil­ mente una ragazza più bella; o si mette a credere, ahimè!, nel suo smarrimento, che io possa così facilmente dimenticarla, e trovarmi nuove fonti di gioia al mondo per altre vie, do­ vrebbe credere pure che metto il mio onore talmente in basso da essere disposto, per una mera fantasia, a perdere quello che non si può piìi riguadagnare; poiché mai più riavrò l’o­ nore, se non come ultima cosa; piuttosto, sarà lei a trovarsi

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varco quando avrò a che fare con me stesso in solitudine, non potrei sopportarlo, E tuttavia le cose procedono, e ci si può abituare a ogni sofferenza. A quello che prima mi faceva tremare, come all’idea di entrare in una fornace ardente, mi sto abituando. Le chiacchiere e tutto questo sbavare mi rie­ scono così straordinariamente, che a casa devo eseguire i mo­ vimenti opposti affinché l’intera questione non si dissolva in una stupidaggine. Se lei avesse l’infinito nell’anima, sarebbe per lei un facile compito esser magnanima nei miei confronti (ah, che situazione invidiabile!), rendermi la mia libertà, assu­ mere il dolore con trasporto religioso e fare di me il suo debitore, un debitore della sua magnanimità. Sono le condi­ zioni che le ho offerto, non ho osato negargliele; ma in verità sarebbe stata una terribile punizione per me. Che cosa sono il suo furore e il suo disprezzo, a paragone della sua magnani­ mità?

5 giugno. Mezzanotte NABUCODONOSOR151 (Daniele) 1. Ricordi della mia vita, quand’ero una bestia nei campi e mangiavo erba, io, Nabucodonosor per tutti i popoli e in tutte le lingue. 2. Non era Babele la grande città, la più grande fra tutte le città delle nazioni? L ’ho costruita io, io, Nabucodonosor. Il pastiche biblico (basato su Daniele, 2 e 4, ed Eusebio, Praeparatio Evange­ lica, IX, 41) sviluppa il mito di N abucodonosor su cui Kierkegaard, come dimostrano i Diari, riflette a più riprese fin dal 1843.

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3. Nessuna città aveva la rinomanza di Babele, e nessun re aveva la mia, grazie a Babele, gloria della mia maestà, 4. La mia dimora reale era visibile fino all’estremità della terra intera, e la mia saggezza somigliava a un discorso oscuro, che nessun saggio riusciva a spiegare, 5. Così non seppero dirmi che cosa avessi sognato. 6. E mi giunse l’annuncio ch’io sarei stato tramutato in una bestia che si nutre dell’erba dei campi, mentre sette stagioni si sarebbero alternate sul mio capo. 7. Allora chiamai a raccolta tutti i miei condottieri con le loro milizie, e disposi messaggeri per essere avvertito dell’arrivo del nemico, annunciato da quelle parole. 8. Ma nessuno osava avvicinarsi alla prode Babele, e io dissi: «Non è questa la superba Babele, che ho costruito io, io N abucodonosor? ». 9. E allora, improvvisamente, si udì una voce, e io fui trasfor­ mato con la stessa rapidità con cui una donna cambia colore. 10. L ’erba fu il mio cibo, la rugiada mi ricoprì, e nessuno sapeva chi fossi, 11. Ma io conoscevo Babele, e gridavo: «Non è questa Ba­ bele?»; ma nessuno afferrava le mie parole, poiché era un mugghiare di belva, il suono che s’udiva. 12. I miei pensieri mi terrorizzavano, i pensieri nella mia mente, giacché la mia bocca era imbavagliata, e nessuno po­ teva percepire altro che una voce simile a quella di una be­ stia. 13. E pensavo: “Chi è quell’essere potente, il Signore, il Si­ gnore, dalla saggezza insondabile come l’oscurità della notte e come gli abissi dei mare?” . 14. Anzi, come un sogno che lui solo governa, e dall’interpre­ tazione da lui non rimessa al potere di nessun essere umano,

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e che d’un tratto piomba su di te e ti tiene fermo con le sue braccia possenti. 15. Nessuno sa dove codesto potente abiti, nessuno può pun­ tare il dito e dire: guardate, quello è il suo trono, sì che uno possa intraprendere un viaggio attraverso il paese fino a sen­ tirsi dire: «Ecco, questi sono i confini del suo regno». 16. Poiché egli non abita, come il mio vicino, ai confini del mio regno, e neppure dal mare più lontano fino ai confini del mio regno, come un bastione tutt’intorno. 17. E neppure abita nel suo tempio, poiché io, io Nabucodonosor, ho preso i suoi vasi d’oro e d’argento e ho devastato il suo tempio. 18. E nessuno sa nulla di lui, chi fosse suo padre e come abbia preso il potere, o chi gli abbia insegnato i segreti della sua potenza. 19. E non ha consiglieri, sì che si possano comprare i suoi segreti con l’oro, non ha nessuno a cui dica: «Che cosa devo fare?», nessuno che dica a lui: «Che cosa fai?». 20. Non ha spie, sì che si possa spiare l’occasione per cattu­ rarle, poiché egli non dice: «domani», ma dice: «oggi». 21. Poiché egli non fa preparativi come gli uomini, e i suoi preparativi non offrono scampo al nemico, poiché egli dice: «Così dev’essere», e così è. 22. Sta e parla con se stesso in silenzio, e non si avverte la sua esistenza, fino a che non accade. 23. Questo lui ha fatto contro di me. Egli non prende la mira come un arciere, sì che si possa sfuggire alla sua freccia, egli parla con se stesso, e la cosa si compie. 24. Nella sua mano, il cervello dei re è come cera nella fu­ cina, e la loro potenza come una piuma, quando egli la sop­ pesa.

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25. E tuttavia sulla terra non abita la sua potenza, sì che possa

togliermi Babele e non lasciarmi quasi nulla, o sì che mi possa prendere tutto e diventare il signore di Babele. 26. Così pensavo nella segretezza della mia mente, quando nessuno mi conosceva, e i pensieri nel mio cervello mi terro­ rizzavano, che il Signore, il Signore, fosse fatto così. 27. Ma quando furono trascorsi i sette anni, divenni di nuovo Nabucodonosor. 28. E chiamai a raccolta tutti i saggi, affinché mi spiegassero il segreto di questa potenza, e come io fossi diventato una bestia nei campi. 29. Ma essi si prostrarono tutti e dissero: «Grande Nabuco­ donosor! È una fantasia, un brutto sogno, chi mai potrebbe farti questo?». 30. Ma la mia ira divampò sui saggi di tutto il paese, così li ho fatti mettere a morte per la loro follia. 31. Poiché il Signore, il Signore ha tutto il potere come non l’ha nessun uomo, e io non voglio invidiargli la sua potenza, ma lodarla e sottomettermi a lui, poiché gli ho sottratto i suoi vasi d’oro e d’argento. 32. Babele non è più la rinomata Babele, io, io Nabucodo­ nosor, non sono più Nabucodonosor, e le mie milizie non mi proteggono più, poiché nessuno può vedere il Signore, il Signore, nessuno sarebbe in grado di riconoscerlo, 33. se dovesse arrivare, le sentinelle griderebbero invano, perché io sarei già divenuto come un uccello fra gli alberi, o come un pesce nell’acqua, riconosciuto solo dagli altri pesci. 34. Perciò non voglio più essere famoso per Babele, ma ogni sette anni sarà celebrata una festa nel paese, 35. una grande festa tra la gente, e verrà chiamata Festa dell’Awicendamento. 36. E un astrologo sarà condotto per le strade, travestito da

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bestia, e dovrà condurre con sé i suoi calcoli, strappati come un mucchietto di fieno. 37. E tutti dovranno gridare: il Signore, il Signore, il Signore è il potente, e la sua azione è veloce come il guizzo del gran­ de pesce nell’acqua. 38. Poiché i miei giorni saranno presto contati, e il mio do­ minio sarà passato come una sentinella di notte, e io non so dove andrò, 39. se raggiungerò la lontana terra invisibile dove dimora il Potente, sì che io possa trovare grazia ai suoi occhi; 40. se sarà lui a togliermi il respiro vitale, sì che di me resti come un abito usato, com’è avvenuto ai miei predecessori, e che egli possa compiacersi in me. 41. Questo ho fatto conoscere io, io Nabucodonosor, a tutti i popoli e in tutte le lingue, e la grande Babele farà quello che voglio.

7 giugno. Mezzanotte Quand’ero bambino, una piccola torbiera era tutto per me: le scure radici che qua e là emergevano nel buio profondo rap­ presentavano regni e terre scomparse, dove ogni scoperta aveva ai miei occhi la stessa importanza di resti antidiluviani per il naturalista. I fatti abbondavano: poiché, se lanciavo una pietra, quali prodigiosi movimenti non produceva, un cerchio più ampio delFaltro, finché l’acqua tornava ad ac­ quietarsi; se poi lanciavo la pietra in un altro modo, ecco che il movimento era diverso dal primo, e ricco in se stesso di nuove diversità. Allora mi stendevo sul bordo e ne attraver­ savo con lo sguardo la superficie, notando come il vento cominciasse a increspare l’acqua appena nel mezzo, fino a

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quando Fondata decisiva scompariva fra i giunchi dalla parte opposta; a quel punto mi arrampicavo sul salice che si pro­ tendeva sul fossato, mettendomi a sedere sul ramo più lon­ tano possibile, e col peso esercitavo su di esso una lieve pres­ sione, sì da poter fissare dentro l’oscurità. Allora arrivavano le anatre, nuotando verso lidi estranei, e risalivano la lingua sottile di terra che si protendeva per formare con i giunchi un’ansa, un posto per la mia barchetta. Ma se solo un’anatra selvatica si alzava in volo dal bosco sopra il fossato, il suo grido destava oscure memorie nella mente delle anatre addo­ mesticate, e cominciavano a sbattere le ali, a volare selvaggia­ mente lungo la superficie: anche nel mio petto si destava uno struggimento, finché di nuovo non mi appagavo a fissare la mia piccola torbiera. Così accade sempre, così misericordiosa, così ricca è l’esi­ stenza: meno un uomo possiede, più riesce a vedere. Prendi per esempio un libro, il più mediocre che sia stato scritto, ma leggilo con passione, come se fosse l’unico libro che mai leggerai: in quel libro alla fine sarai arrivato a leggere tutto, ovvero tutto ciò che era in te, e a leggere di più non arrive­ resti mai, neppure a leggere tutti i libri migliori. La fanciullezza è ormai passata da tempo, forse è per questo che non mi rimane più molta fantasia da spiegare, tanto sono cambiato. Ma l’oggetto della mia contemplazione non si è dilatato troppo, in proporzione a quello che ha di solito un adulto. C ’è una persona, una sola, intorno a cui tutto gira. Con­ tinuo a fissare ostinatamente questa fanciulla finché non pro­ duco, tirandole fuori da me stesso, cose che forse non sarei mai riuscito a vedere, per quante ne avessi vedute; poiché non ne conseguiva che la mia interiorità mi fosse diventata trasparente. Se lei fosse stata dotata di una spiritualità non

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comune non avrebbe mai esercitato una simile influenza su di me. Mi è più che sufficiente come responsabilità; e la respon­ sabilità, a sua volta, è mia, e tuttavia è lei, con questa respon­ sabilità, a portarmi l’interiorità alla coscienza. Io ero troppo evoluto, e troppo decisamente, perché lei fosse in grado di influenzarmi trasmettendomi qualcosa, né era attrezzata per arricchirmi, sul piano spirituale, di nuovi contenuti. Ma per potersi comprendere, in ultima istanza, bisogna essere nella situazione giusta. E questa situazione m’ha aiutato lei a rag­ giungerla, nella responsabilità. Da questo punto di vista, tutta la mia sofferenza è addirittura una concessione. Sotto­ mettersi al silenzio della responsabilità insegna a sostenersi in virtù dello spirito; è facile che l’impresa, l’azione, l’attività, così spesso, e meritatamente, apprezzate, contengano tuttavia un’aggiunta di distrazione, tale da non permetterci di sapere di che cosa si sia capaci in virtù dello spirito, e che possibilità ci aprano i molteplici impulsi esterni; scampa magari a molti orrori, che non fanno in tempo a raggiungerlo, ma il fatto di scamparvi non vuol dire averli superati o aver compreso se stessi. Nella responsabilità, lei continuerà a sostenermi, poiché io non mi fermerò dove si fermerà lei. Poniamo che lei apparte­ nesse a un altro, e che io riacquistassi la mia libertà: non avrei comunque finito, avrei lasciato aperta la possibilità che al­ l’improvviso possa sorgermi in mente - forse con l’occasio­ nale guida di un pensatore, forse per una parola fortuita, di quelle che talvolta hanno il più grande potere - che possa sorgermi in mente, all’improvviso, che sul nostro rapporto si sarebbe potuto edificare un matrimonio. Appunto perché in questo caso non vorrei avere per lei il terrore della simpatia, il dolore mi agguanterà di nuovo, ma per autopatia. Cosa diventerà, dunque, per me la responsabilità? Appunto, sarà la

mia consolazione; e appunto, attraverso la responsabilità, io arriverò a comprendere me stesso. Visto dall’angolatura di questa autocomprensione, capisco bene che come persona sono lungi dall’essere paradigmatico: piuttosto sono una sorta di cavia umana. Indico con ragione­ vole precisione la temperatura di ogni stato d’animo e di ogni passione; e nell’istante in cui produco da me la mia interio­ rità, comprendo queste parole: homo sum, nil humani a me alienum putoP^ Ma, sul piano umano, nessuno può model­ larsi su di me, e ancor meno, sul piano storico, sono un prototipo per chiunque. Io sono piuttosto un uomo di quelli di cui si può aver bisogno in tempi di crisi, un porcellino d’india di cui si serve l’esistenza per i suoi esperimenti. Un uomo riflessivo la metà di quanto lo sono io sarebbe in grado di acquisire significato per molti; ma proprio perché io sono trapassato da parte a parte dalla riflessione non ne acquisisco alcuno. Non appena mi trovo al di fuori della mia intesa religiosa mi sento come deve sentirsi un insetto con cui si mettano a giocare dei bambini, giacché con la stessa implacabilità mi sembra che l’esistenza abbia agito nei miei confronti; non appena mi trovo all’interno della mia intesa religiosa, capisco che precisamente questo assume per me un significato asso­ luto. Quello che nel primo caso è uno scherzo crudele è, nel secondo aspetto, qualcosa della massima serietà. In fondo la serietà non è elementare, non è un semplicey bensì un composto, poiché l’autentica serietà è rappresentata dall’unione fra il serio e il faceto. Di questo mi convinco al massimo grado, prendendo in considerazione Socrate. Se, con «Son o un uomo, penso che nulla d ’umano mi sia estraneo» (Terenzio, Heautontìmorumenos, 77).

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molta arguzia e in accordo con una delle interpretazioni di Platone, vediamo in Socrate la congiunzione fra il comico e il tragico, siamo nel giusto; ma rimane la questione del luogo di tale congiunzione. Di un nuovo genere poetico o altro simile non di può assolutamente parlare: no, la congiun­ zione sta nella serietà, Socrate, dunque, era Tuomo più serio della Grecia. La sua intellettualità era in un rapporto assoluto con la sua etica (altrimenti uno può affrontare seriamente delle inezie); il suo senso comico era grande quanto il suo pathos etico, perciò era assicurato contro la possibilità di diventare lui ridicolo nel suo pathos; la sua serietà si nascon­ deva sotto le spoglie dello scherzo, perciò nello scherzo era libero, e non aveva bisogno del minimo supporto esterno per essere serio, cosa che depone sempre contro il valore speci­ fico della serietà. Nel caso di un’esistenza immediata, non bisogna arrivare a vedere la contraddizione, poiché in tal modo l’immediato andrebbe perduto; nell’esistenza spirituale, è importante sop­ portare la contraddizione, ma al tempo stesso allontanarla da sé nella libertà. La serietà ottusa, perciò, teme costantemente il comico, e a ragion veduta; la serietà autentica il comico lo inventa da sé. Se le cose non stessero in questo modo, la casta privilegiata per serietà sarebbe la stupidità. Ma la serietà non è mediazione, cioè uno scherzo mediocre e un nuovo motivo di comicità. La mediazione non trova posto nella sfera esi­ stenziale della libertà, e può soltanto, in modo ridicolo, ten­ tare di intromettervisi venendo dalla metafisica, laddove la libertà è costantemente in divenire. La serietà mette a nudo il comico, e più profondamente scende per tornare alla luce, S ’;m pr,sio, 3 9 ,

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tanto meglio; ma non media. Ciò che essa vuole sul serio, proprio in quanto lo vuole non lo ritiene comico; ma, per questo motivo, le è facile scorgervi il comico. Così il comico purifica il patetico, e, viceversa, il patetico arricchisce di vi­ gore il comico. Sarebbe, così, la più distruttiva di tutte la concezione comica fatta in maniera tale da contenere in se stessa, latente, l’indignazione, ma senza che nessuno la scopra per via del riso. La vis comica è l’arma responsabile per eccellenza e sta perciò, essenzialmente, solo in mano a chi possiede un pathos a essa corrispondente. Chi riesca così a rendere un ipocrita realmente ridicolo sarà anche in grado di schiacciarlo con l’indignazione. Chi, al contrario, voglia fare uso dell’indigna­ zione senza possedere la corrispondente vis comica cadrà fa­ cilmente nella declamazione, e diventerà comico egli stesso. Ma continuo a parlare, e mi dimentico di lei! No, certa­ mente no; perché l’unione fra comico e tragico mi riguarda moltissimo. La mia ragione ribelle molto spesso ha cercato di travolgere ai miei occhi l’intera questione nei gorghi del riso, ma da quei gorghi la mia passione tragica, appunto, si è svi­ luppata con più forza. Così capisco meglio me stesso, e ca­ pisco che nella mia relazione con lei mi sono attenuto ap­ punto alla serietà. Se così non fosse stato dall’inizio, se non avessi, passo dopo passo, veduto il comico e sotto il suo controllo preservato il tragico, probabilmente, se le dovesse accadere di appartenere a un altro, sarei caduto in balìa di una certa passionalità (che, nonostante tutta la sua veemenza, non è serietà) oppure del riso (separato così senza ragione dal patetico). Comico è, per l’appunto, che io sia un farabutto e che lei sia la condannata a morte, mentre la realtà dimostra il contrario. Ma un colpo simile posso incassarlo, poiché il mio pathos è salvo fin dall’inizio. Il mio pathos non ha origine da

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lei o dai suoi scatti veementi; è l’interiorità della mia anima. Perciò le vicissitudini non possono prendersi gioco di me: io mi aggrappo all’idea, e il comico esterno non esercita su di me alcun potere. Che io abbia creduto a qualsiasi cosa, a ogni parola da lei pronunciata, con tutta la serietà possibile per un uomo, che io me ne senta legato per quanto sia possibile a un uomo, non è affatto comico. Che lei abbia avuto altre idee, non c’entra per nulla; e se anche lei, come Jacob von Thyboe, dirà: Wir haben uns gedacht,^^‘^ non fa alcuna differenza in positivo o in negativo. Certo, se le avessi creduto solo in virtù di lei e delle sue parole, se le avessi creduto per fiducia nella sua buona fede, sarei comico, e in un certo senso lo sarei già stato. Ma io le ho creduto perché lei era in relazione etica con me, così che era mio dovere crederle; sono stato io a dare alle sue parole il peso dell’eternità poiché rispettavo la nostra relazione, e non sulle «sue parole e sul suo abito» ho proget­ tato la mia vita. Perciò ho visto il comico fin dall’inizio; e appunto perciò non posso diventare comico per tutta l’eternità. Posso pro­ durre il comico in qualunque istante io voglia; ma non vo­ glio, e questa volontà controlla il mio pathos, per impedirgli di essere veemente e cieco - e dunque comico. In questi termini sta la questione, anche nel caso in cui si verificasse questo “se”; io sono e resto immutato.

II giugno. Mezzanotte Ieri l’ho vista. Ma tale vista non mi giova un granché, poiché io non oso credere a ciò che altrimenti consideriamo la cosa « C i abbiamo ripensato» (L. H olberg, Jacob von Thyboe, iii, 5).

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più sicura: i miei stessi occhi. Tuttavia quest’oggi le circo­ stanze mi hanno favorito. Camminavo con un amico, quando l’abbiamo incontrata; io sapevo che lui non la conosceva. Mentre ci stavamo avvicinando, dissi che quella ragazza aveva proprio un aspetto sofferente. Il che era falso, ma cosa non si fa per andare a fondo in una faccenda? Lui rispose, in tono assolutamente indifferente: «Non mi sembra davvero». È piuttosto singolare parlare con qualcuno in questo modo; dubito che gli capiti mai più, in vita sua, di venirmi a dire una frase così significativa, sebbene per lui non avesse alcun peso. Comunque, le cose non finirono lì; avevamo da parlare, quindi camminavamo avanti e indietro per la strada; dopo una mezz’ora, uscendo da un negozio, lei ritorna facendo lo stesso percorso. Nel momento in cui ci passò accanto, cosa che non potè evitare, perché non c’erano traverse e ci aveva visti troppo tardi, richiamai di nuovo l’attenzione su di lei, e quando fu passata, dissi: «Avevi proprio ragione, ha un aspetto persino fiorente». Lui rispose con una certa flemma: «Già, è appunto quello che ho detto, ma mi sfugge la ragione per cui te ne preoccupi». E singolare parlare con un uomo in questo modo; dubito che egli possa mai fare un’altra osserva­ zione che mi punisca fino a questo punto, anche senza riflet­ terci. Io gli ho spiegato che uno dei miei passatempi consi­ steva nell’ sservare l’aspetto esteriore della gente, per infe­ rire, da e: o, che cosa a/esse dentro. Ero quindi pronto a concederg i che l’ultima volta lei aveva un aspetto sano e contento, na ero convinto che, nel frattempo, doveva essere accaduto ( aalcosa che aveva prodotto quell’effetto, giacché la prima volta aveva un’aria sofferente. Lui si seccò un poco, e sostenne che capiva l’espressione di un viso altrettanto bene quanto la capivo io, e che l’aspetto di lei era uguale la prima e la seconda volta. Io stavo sui carboni ardenti, temendo

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d’essermi compromesso; ma, per salvarmi dalle trappole del­ l’immaginazione che, una volta solo, mi avrebbe angosciato con l’idea che lui potesse averle prestato un’attenzione parti­ colare, per venire a sapere in seguito chi fosse lei, azzardai un estremo: «Bene, definiamo subito la questione; se tu credi di poterla riconoscere, perché io non ne sono sicuro, sebbene l’abbia osservata più attentamente di quanto non abbia fatto tu, andiamo insieme allora a informarci sul suo conto». «Scappatoie» rispose lui «scappatoie prese solo per avere ragione; come farei a riconoscerla, dal momento che l’ho vista una sola volta di sfuggita, benché abbia visto abbastanza da sostenere quello che ho affermato.» E singolare parlare con un uomo in questo modo; dubito che egli pronuncerà mai un’altra frase capace di dissolvere la mia preoccupazione come la frase che, pure, ha detto per sostenere le sue ragioni contro di me. E stata dunque una sorta di verifica; e il mio compagno di strada era davvero maldisposto. Quindi, oso credergli. Quando bisogna prendere queste vie traverse, la valutazione poi è giusta. Prendersi per vie traverse un piacere, lo fanno tutti, ma non osare neppure essere preoccupati, e percorrere le vie della preoccupazione come chi percorra vie proibite - e se ora il risultato fosse stato che lei aveva l’aria sofferente, ci sarei sempre arrivato per vie traverse.

12 giugno. Mattino Oggi, un anno fa. Se dunque si può pensare a un matrimonio nonostante la mia chiusura in me, certo che desidero questo vincolo. Certamente; sebbene al momento io non possa nep­ pure decidere fino a che punto sia un desiderio solo erotico,

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o vi si aggiunga un’ombra di emozione per il suo dolore e per il mio orgoglio, che in certo senso ha lei dalla sua parte. Così, potrei anche cercare di mettermi in mente che la mia rottura con l’idea sarebbe lodevole, perché fatta per amor suo; e, senza preoccuparmi di lei, prendere la sua passionalità in parola, prendermi così quanto più è possibile della gioia che mi auguravo, e che lei ha sempre in mano, e liberarmi dal pentimento e da ogni difficoltà e terrore. A trascurare l’idea, mi troverei molto bene. E dal momento che lei non solo è disposta a tollerare qualsiasi cosa, ma mi ringrazia per questo come per una buona azione... Non posso sopportare questa confusione. Dove può trovare riposo il mio pensiero affati­ cato? Le condizioni cambiano, e tutto mi gira attorno. Era mio desiderio che lei m’appartenesse, e diventa un dolore rinunciarvi; era mio dovere restare in questa relazione, ed è devastante spezzare l’impegno di una relazione - ma, Dio del cielo, salva la mia ragione, salvami da una sola cosa: fa’ che non diventi il suo benefattore. Senza senso non posso vivere; me ne basta poco, pochissimo. Fa’ che io sia il suo assassino, se così dev’essere; capirò, allora, che mi sono spinto dove non avrei dovuto arrischiarmi, e, se faccio uno sforzo, capirò che dura punizione mi è stata inflitta, senza soffocare per questo in me la vita del pensiero e della coscienza - ma essere il suo benefattore! No, è impossibile. Indietro, folle insensatezza dalla grinta sorridente, rendimi miserabile, ma in modo che vi sia un significato, e non farmi felice nel non­ senso. Se non lo posso fare, malgrado che sia mio deside­ rio, se non lo posso fare, malgrado che sia mio dovere, nulla è più necessario; tutto il resto non viene dal male, ma dalla follia. Accada quel che deve accadere; se dovessi cadere morto oggi stesso, andarsene portandomi un probabile tentato orni-

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cidio sulla coscienza non sarebbe dopo tutto tanto terribile quanto vivere nel ruolo di suo benefattore. Ci dev’essere un errore da parte sua; non bisognerebbe mai offrirmi una sif­ fatta condizione. Implica un’ingiuria per entrambi, perché è come se dicesse: «T u non mi ami, tu non rispetti il tuo im­ pegno, eppure sei abbastanza miserabile da lasciarti commuo­ vere, e io abbastanza debole da desiderarlo». E se lei soffre, forse, perché le gravano il petto singhioz­ zi repressi, perché non riesce a piangere, per la stessa ragio­ ne soffre la mia coscienza; perché non riesce a prendere re­ spiro, ma geme fra i pensieri repressi, e soffoca nell’insensa­ tezza. Come il pesce arenato invano annaspa in cerca del mare dove può respirare, cosi annaspo io invano, in cerca del senso. Lei soffre, è evidente, e chi lo nota, sono io! Nessun altro ha idea di che cosa stia succedendo fra noi. Non appena sono in presenza di qualcuno, la mia natura è quella di sempre. Lei, allora, rimane in silenzio, e io vigilo con cento occhi su ogni parola che viene pronunciata, per tema che d’un tratto avvenga un’esplosione. Parlando con qualcuno, lei trove­ rebbe sollievo, ma produrrebbe solo un raffreddamento, e i sintomi peggiori l’assalirebbero forse nella solitudine; le fa molto meglio sopportarmi ancora. Una frase fortuita può produrre il massimo turbamento. A voler stringere ogni cosa nella rete dei propri calcoli, può cadere improvvisamente un’osservazione in grado di urtare la sensibilità di qualcuno, sia pure senza averne l’intento. Ieri eravamo in compagnia. A tavola si parlava di fidanzamenti. Una signora rilevò che «i fidanzati dimagriscono sempre». Quanto SeiKTiKwq! Per me e per lei si trattava certo di una Indicativamente, significativamente.

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straziante verità. Stavo già cercando di deviare l’attenzione da quel soggetto, affinché nessuno tornasse ad applicare questa affermazione dettata dall’esperienza, quando la riprese un uomo: «M a in compenso, generalmente si ingrassa una volta sposati». Povera ragazza. Comunque mantenni suffi­ ciente contegno da aggiungere, con la leggerezza di un sol­ dato pesantemente armato: «C i sono esempi del fatto op­ posto», e accennando al nome di un uomo, che bastava a provocare il riso, dissi: « È stato sposato tre volte, eppure è più magro di me». La gente ebbe la cortesia di ridere; e lei ebbe il tempo di ricomporsi. Ma una simile tortura distrugge l’anima e il corpo. Inoltre, lei è e resta estranea alla rassegnazione. Continua ad abbassare l’offerta, ma l’idea di poter concepire il pro­ blema dal punto di vista della simpatia non la sfiora neppure. Quando è disposta a prostrarsi come una schiava, come una nullità, come un fardello, le sembra di spingere la rassegna­ zione al limite estremo. Dio sa che per questa via si può spingerla all’infinito, molto oltre i limiti che potrei soppor­ tare di vedere. Invece, o lei non può, oppure non vuole capire che cosa dovrebbe fare, e che mi sta tormentando ingiustamente; in parte perché nessuno ha messo in dubbio la sua amabilità, in parte perché una simile condotta mi rafforza nella mia decisione, proprio per sollecitudine nei suoi con­ fronti. Ciò che temo più d’ogni altra cosa è che lei, nella sua fantasia, abbia fatto di me un grand’uomo. Se è così, questa umiliazione è la peggiore di tutte le sciagure. Qui trovo un limite al mio inganno. Se mi mettessi, a forza di fandonie, a parlare di quanto sono insignificante, non farei che rafforzare questa fantasia, se esiste. Come, ogni otto giorni, la invito

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seriamente a rompere il fidanzamento, così ho anche aperto una piccola via di comunicazione con la mia interiorità a proposito di quest’ultimo pasticcio. Subito sotto al fatto di diventare il suo benefattore, sì annovera l’assurdità che fa di me un grand’uomo che la disprezza. È solo un attimo, poi­ ché, non appena dico quanto vale lei sempre, ricominciano le fandonie. Me ne consolo pensando che, una volta che io l’abbia abbandonata, da chiunque lei si vedrà confermare l’o­ pinione di non aver subito una grande perdita. Anche quan­ to alla mia spietatezza nel trattarla in tal modo, c’è da spe­ rare che ne trovi conferma nel giudizio di tutti nei miei con­ fronti. Sarebbe splendido se fosse condotta a rompere lei la rela­ zione, o se le venisse in mente di farlo: in tal caso quest’umi­ liazione le sarebbe risparmiata. Io lancio allusioni, perché a piena voce e con tutta la mia passione non oso parlarne, altrimenti scoprirebbe fino a che punto lei occupa i miei pensieri, e ritenterebbe con tutti i suoi espedienti; perciò mi tocca parlare a mezza voce e con passione simulata.

14 giugno. Mezzanotte Nel Medioevo ci si salvava l’anima recitando il rosario un certo numero di volte; se potessi salvarmi anch’io l’anima ripetendomi la storia delle mie sofferenze sarei salvo da un pezzo. Se la mia ripetizione non è, forse, sempre in forma di preghiera, ah! essa termina tuttavia quasi sempre con quest’ultima consolazione. A tal fine lei mi aiuta in maniera sin­ golare. Se non dovessi trattenermi, nella passione dell’azione, se la passione fosse spenta e io, in silenzio, cioè nella calma, osassi riflettere su tutta la questione, direi che lei mi ha gio­

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vato, in quanto, umiliato nel vederla prostrarsi davanti a me, provo tanto più piacere nel prostrarmi io stesso davanti a un potere superiore. La sua sfortuna è stata non avere niente di superiore a un uomo a cui riferirsi. Come dicono le Scritture che un idolo non è nulla nel mondo, così può ben darsi che io finisca col non essere nulla affatto, appunto perché ai suoi occhi ero un idolo. Ma che storia strana è stata questa; di una dialettica così illusoria che sembra potermi sfuggire a ogni istante; quasi che io non l’avessi lasciata perché l’amavo, ma perché amavo me stesso! Tutto è dunque come lo desideravo, tutto l’ambiente di lei è come me l’ero immaginato da un primo assaggio. Mi si addice come nessun altro ambiente, potrei girare il mondo in lungo e in largo senza forse trovare condizioni a me così propizie. Se bisogna fare un passo preliminare al matrimonio, una riflessione ragionevole, oso dire di essermi messo conve­ nientemente alla prova. È solo lei che non desidero offendere con i sondaggi. La trovo lievemente diversa da come me l’ero immaginata; ci viene in aiuto una piccola scena, e ai miei occhi lei diventa più amabile che mai - e allora, guarda un po’, tutte le difficoltà vengono da parte mia. Ma allora, sono un uomo frivolo? Tutta la mia riflessione, prima di fare quel passo, sulla relazione con lei e sulla personalità della famiglia dimostra esattamente il contrario; e io oso testimoniare, per conto mio, di essere entrato nel rapporto con la massima onestà, convinto di sapere in che cosa consistesse il mio com­ pito, forse un pochino fiero di potervi assolvere: dominare la mia chiusura in me e tenermela dentro - e, guarda un po’, è proprio qui che mi areno, non perché non lo so più fare, ma perché il problema non è più quello. La sua devozione, dopo questo piccolo incidente, si manifesta in modo sempre più irriguardoso, e mi dimostra appunto che la mia chiusura in

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me è assolutamente incompatibile, e che il suo rapporto con me si risolverebbe, per lei, in una mésalliance, sebbene lei non lo comprenda neppure. Il collegamento di questi fatti costituisce la mia pena, e tuttavia non per questo posso ab­ bandonare la mia chiusura. Ho impiegato quindici anni per formarmi una visione della vita e per perfezionarmici, una visione della vita che allo stesso tempo mi infiammasse d’en­ tusiasmo e fosse in pieno accordo con la mia natura; quindi non posso mutarla all’improwiso. Anzi, neppure posso dirle che lo desideravo, perché questo desiderio è una determina­ zione totalmente indeterminata, e sarebbe una grande legge­ rezza disporre della sua vita in base ad essa. Nel combattere con tutte le sue facoltà per dimostrare la sua devozione, lei ha per l’appunto rivolto tutte le sue forze vitali contro se stessa. E ora capisco chiaramente che la mia tristezza mi rende impossibile avere un confidente, e so bene che quello che mi richiedono le nozze è appunto che sia lei a rivestire questo ruolo. Ma non sarebbe stata mai la mia confidente, neppure se io mi fossi aperto quanto potevo, perché non ci compren­ diamo. Il fatto è che la mia coscienza ha un’ottava in più. Nell’istanza intermedia, che è propriamente la sfera della vita quotidiana e della realtà, nell’istanza intermedia, dove si svolge essenzialmente la sua vita e quella di quasi tutti, io impazzisco. Solo dopo una lunga deviazione ritrovo, in un senso più elevato, la sicurezza e la serenità degli altri. Proprio pazzo non sono, dal momento che me la cavo da solo, non ho bisogno di confidenti, non scarico su nessuno la mia infeli­ cità; né trovo impedimenti nel mio lavoro. Ma in ogni dire­ zione la mia tristezza va a scovare il terrore. Ora mi afferra con tutto il suo orrore. Sfuggirgli non voglio, devo soste­ nerne il pensiero; trovo così un acquietamento religioso, e

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finalmente, in quanto spirito, sono libero e felice. Malgrado che io abbia la più entusiastica idea dell’amore di Dio, ho nello stesso tempo anche l’idea che egli non sia esattamente un vecchio zio bonario, che abita in cielo e accondiscende ai nostri capricci, ma che nel tempo e nella temporalità si debba essere preparati a qualsiasi dolore. E mia convinzione che sia solo una reminiscenza ebraizzante, un particolarismo ridut­ tivo del Cristianesimo, oppure l’indolenza e la codardia che conosciamo, a convincerci di essere in rapporto con Dio e, quindi, esonerati dal dolore. Gli intraprendenti consigli ec­ clesiastici o laici di allontanare da me questo terrore mi pro­ vocano solo disgusto, poiché non capiscono neppure che cosa sia, il terrore. Certo, chi si è affannato per qualche scopo, o è diventato grande per qualche scopo nel mondo temporale fa bene a farlo, è costretto, anzi, a tenere lontano il terrore, per non vedersene trasformare il suo obiettivo in un nulla, o impedire di raggiungere la grandezza che si è messo in testa. Ma chi ha volontà in senso religioso deve essere ricettivo nei riguardi del terrore, deve aprirglisi, e badare unicamente a non fermarsi a metà strada, ma a farsene condurre nella cer­ tezza dell’infinito. È quello che si verifica un po’ alla volta, terrore dopo terrore. Vi prende confidenza, prende confi­ denza con l’idea che gli accadrà ciò che maggiormente teme, ma anche che acquisterà esperienza nell’esercizio di questo pensiero, convinto com’è dell’amore di Dio. Allora il pen­ siero gli si affaccerà, forse, di tanto in tanto; ma durerà ap­ pena un minuto, e, in quello stesso istante, egli vi trova un orientamento in senso religioso, e niente più lo turba. Ma poi arriva un altro terrore, e lui non ne fa oggetto di chiacchiere con altra gente, ma attende alle sue faccende, e anche in questo caso ci riesce, e così via. Se lei fosse diventata mia, sono convinto che il giorno

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delle nozze le sarei stato accanto col pensiero che uno di noi due sarebbe morto prima di sera, o con una fantasia ugual­ mente macabra. Posso garantire che né lei, né nessun altro se ne sarebbe accorto dalla mia espressione. Sarei stato tran­ quillo anche dentro di ine, ma tranquillo in senso religioso; il pensiero, tuttavia, sarebbe rimasto lo stesso. Ma no, è un’illu­ sione. Se avessi un confidente, gli porrei questa domanda: «N on è una vergogna che un uomo afflitto dalla tristezza tormenti la moglie con le sue tristi idee?». Ed egli risponde­ rebbe, e con lui probabilmente tutti; «Sì, un uomo deve re­ primersi e mostrare così di essere uomo». «Bene» rispon­ derei «è ciò che posso fare, posso assumere l’aspetto di una speranza sorridente; e tuttavia è proprio qui che mi areno, poiché si tratta di un inganno che il matrimonio non tollera, che la moglie lo capisca o meno.» E la sfortuna sta nel fatto che io stesso credevo che il mio compito fosse questo, fino a quando ho imparato a capire che le nozze sono una protesta divina contro di esso. Parlare con un confidente non mi è possibile. Un confi­ dente non penserebbe la mia idea malinconica con la stessa passione con cui la penso io, e neppure capirebbe che per me essa diventa un punto di partenza religioso. Per vivere in un rapporto di confidenza con un’altra persona, è necessario o non formulare neppure pensieri tali da chiudere il mondo della coscienza di un individuo dentro allo steccato del si­ stema, che non è greco e ancor meno cristiano: « l’esterno è l’interno e l’interno è l ’ e s t e r n o » ; oppure formularli di di­ mensioni tali da non cedere a quelli che si definiscono motivi ragionevoli. La maggior parte degli uomini ha appunto una Cfr. H egel, E n c y c lo p à d ie, Berlin 1840, i, p. 2 7 5 e W issenschaft der L o g ik , in W erke, iv.

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concezione spezzettata delle doppiezze della vita; ma poi ar­ rivano l’esperienza, la probabilità e così via, a incastrare i pezzi fra loro, e a questo punto si sentono sicuri, per buone ragioni. Sono cose che so benissimo. A una donna anziana era una volta venuta l’idea che l’avrebbero sepolta viva. Si confidò con me. Assai saggiamente, aveva pensato a tre prov­ vedimenti precauzionali; ma poiché era afflitta dalla tristezza, l’afflizione glieli aveva naturalmente ritolti tutti e tre; cioè, si figurava la possibilità che essi non bastassero. Ora, se lei non fosse stata una natura triste, se ne sarebbe rimasta beatamente nella convinzione che esistono regole di saggezza e verità inestimabili, capaci di rassicurare nel finito. A quel punto dovevo aiutarla a ritrovare la beatitudine in queste fandonie; giacché, avendo avvertito che l’infinito l’avrebbe forse scon­ volta, optai per il finito. Anch’io, una volta, ero stato tormen­ tato da quella stessa idea, e mi ero allora munito abbondante­ mente di regole precauzionali. Quell’abbondanza non mi aveva aiutato, poiché la mia tristezza me l’aveva sottratta, finché avevo trovato conforto neH’infinito. Le suggerii dun­ que un quarto e un quinto provvedimento precauzionale, a cui lei non aveva pensato; ne ebbe giovamento e me ne è stata sempre grata; ma non ho mai saputo bene se ridere o piangere di questa storia. Ora, se fossi sposato e mia moglie fosse la mia confidente che accadrebbe? Mi immagino tormentato dalla triste idea di quella vecchia signora, nel periodo della sofferenza, prima che avessi imparato a perfezionarmi. Dunque, le parlerei e la inizierei alla mia angoscia. In realtà, è probabile che lei si metterebbe a ridere, poiché non riuscirebbe a comprendere da dove possano venire idee del genere. Se la mia tristezza non fosse per me punto di partenza costante per una soddisfa­ zione religiosa, se fosse un vuoto ghiribizzo, e non ne venisse

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nulla, forse proprio quella risata innocente sarebbe il rimedio migliore; poiché anche l’amabilità giovanile ha grande po­ tere. Ma l’appagamento religioso è per me più prezioso di ogni giovinezza, perciò la cosa non mi aiuterebbe, se non per il fatto che mi rallegrerei tristemente per la sua felicità, cui tuttavia io non anelo. Ma parlare mi è d’obbligo, poiché la cosa più facile, per me, sarebbe tacere. Allora lei si impensie­ rirebbe, e poi dovrebbe mettersi a cercare dei motivi ragione­ voli. Poniamo che escogiti cinque provvedimenti precauzio­ nali, e che sia ora la sua dialettica a mettere nell’ombra la mia. Vedo tutta la scena con tale chiarezza, che vorrei udire la sua voce per convincermi che ho fatto bene a impedirmi di ascoltarla. A quel punto lei enumererebbe i quattro provvedi­ menti precauzionali e direbbe: « E infine hai me, che farei per te qualsiasi cosa, fidati di me, se può scacciarti i pensieri tenebrosi, fidati di me, ti prometto che non accadrà, che farò di tutto come se dipendesse da questa faccenda la salvezza dell’anima mia - e ora ridi di nuovo». Mi sembra che questa situazione potrebbe indurre alle lacrime persino le pietre. Povera moglie! ha suggerito tutto quello che le è venuto in mente; se la contraddicessi, crederebbe che non ho in lei la fiducia di vederla come vuole apparire, e questo le reche­ rebbe un dolore; e d’altra parte: questa è dunque la dialettica che dovrà legarmi. Persino la più semplice obiezione, evi­ dente a chiunque, che lei potrebbe morire prima di me le sarebbe impossibile comprenderla; infatti, proprio perché è una sua caratteristica essenziale aspettarsi ogni felicità, e in questa speranza e fiducia e confidenza nell’immediato ripone la sua certezza nella vita, mi parlerebbe dal profondo del cuore, dicendomi: «Come puoi credere, ora che so quanto conta per te, che io possa morire prima di te» eccetera. Di nuovo, lei muoverebbe al pianto anche le pietre, con la sua

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sincera e profonda emozione; ma, d’altra parte, questa è anche la dialettica capace di vincolare un uomo che per quin­ dici anni, giorno e notte, si è perfezionato a lottare dialetticamente con le idee, con l’abilità dell’arabo che addestra il corsiero fremente, o del giocoliere che fa volteggiare i coltelli acuminati. Quale sarebbe, dunque, il risultato? Che io non posso tol­ lerare di vederla in pena, che non ho il coraggio di lasciarla nel pensiero mortificante che io non ho fiducia in lei. E allora? Allora ho fatto in modo che fra noi si interponesse un giorno, poi ho assunto le sembianze dell’inganno, mi sono mostrato il più possibile gentile, e le ho detto: «Sì, mia cara, è come hai detto tu, certo che ho te; e mi hai convinto, se non con le tue ragioni, con ciò che hai detto di te». Ed eccola tornare allegra e felice, lei, la luce dei miei occhi; e io l’ho ingannata. E questo non posso sopportarlo, perché al posto suo non lo sopporterei, e perché voglio e devo rispet­ tarla amandola sommamente come amo me stesso, cosa che posso fare solo lasciandola. Ingannare gli altri è ammissibile; poiché non sono legati a me, non hanno ricevuto l’investitura divina a essere miei confidenti e, se si stancano di me, pos­ sono senz’altro andarsene; cosa che invece lei non può fare, se pure un giorno dovesse oscuramente comprendere la no­ stra incompatibilità. Se poi io fossi effettivamente tranquillo mentre parlavo così con lei, importa poco; poiché, se fossi stato tranquillo, lo sarei stato dentro di me. In questo caso riappare l’incompati­ bilità. Un’idea malinconica non può, ai suoi occhi, assumere un tale significato da diventare il punto di partenza per una soddisfazione religiosa. Se lei, di un’opera teatrale, ha un’opi­ nione e io un’altra, e se magari la differenza d’opinioni met-

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tesse in rilievo che io sono un esteta e lei tutt’altro, la cosa non costituirebbe in alcun modo un’incompatibilità, e se do­ vesse rendersi necessario, ben volentieri rinuncerei alla mia opinione per amor suo. Ma alle strane idee della tristezza io non rinuncio, poiché, anche se un estraneo le definirebbe forse capricci, e lei le definirebbe forse, compatendomi, lu­ gubri fantasie, io le definisco i miei creditori; e se appena le seguo, e riesco a sostenerle, mi conducono verso l’eterna cer­ tezza deH’infinito. Perciò nella mia solitudine queste idee mi sono care, anche se mi spaventano; esse sono per me di estrema importanza, e mi insegnano, piuttosto che a complimentarmi con me stesso e a dare all’umanità la benedizione di impareggiabili scoperte in campo religioso, mi insegnano per mia stessa umilia­ zione a scoprire le cose più semplici, e a esserne infinita­ mente contento. Nel concetto di timor di Dio è certo impli­ cito che bisogna temerlo, e se è pericoloso per l’anima del­ l’uomo trasformare Dio in un despota, è altrettanto perico­ loso, per la sua religiosità, farne speculativamente un sog­ getto ridotto; e se può essere allarmante, per l’anima di un uomo, che Dio resti chiuso in un silenzio eterno, è altrettanto pericoloso verificare speculativamente i conti di Dio e pavo­ neggiarsi profeticamente nella storia del mondo. A che si de­ ve che, nei luoghi remoti dove le capanne sono separate l’una dall’altra da una distanza di mezzo miglio, ci sia più timor di Dio che nella rumorosa città, che i marinai abbiano più timor di Dio di coloro che abitano nella città mercantile - se non al fatto che quelli fanno esperienze tali da non lasciare scampo? Quando di notte infuria la tempesta, e vi risuona Sprezzante allusione agli atteggiamenti ispirati e profetici di G rundtvig (cfr. nota 59 , p. 408).

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sinistro l’ululato del lupo famelico, quando, nel naufragio in mare aperto, un uomo si è salvato su un rottame, scampando così per un pelo a distruzione certa, quando è impossibile inviare messaggi alla capanna accanto perché nessuno osa avventurarsi nella notte, e ci si può risparmiare il disturbo di gridare, l’anima si rassegna a fare affidamento su qualco­ s’altro dai guardiani notturni, dalla polizia e dall’efficacia di un allarme. Nelle grandi città, uomini ed edifici sono troppo vicini gli uni agli altri. Per ricevere un’impressione davvero elementare c’è bisogno di un evento straordinario, oppure di prendere un’altra strada, come faccio io nella mia tristezza. Se no, si rischia il risultato di una vita come questa: di uno che sia stato giovane, e ancora rammenti molte piacevoli esperienze di quel tempo, molti giorni felici; che poi si sia sposato, e tutto sia andato per il meglio. Che una volta soltanto si am­ mali seriamente, e subito si mandi a chiamare un dottore, in fretta e furia, il primo che capita, e così arrivi il professor D., e si scopra in lui un medico molto scrupoloso, e se ne faccia quindi il medico di famiglia; inoltre, che trovi una seria guida spirituale nel pastore P., più convinto della profonda religio­ sità di lui che della religiosità propria, e per tale ragione lo stimi sempre di più, anno dopo anno; che poi abbia modo di conoscere molte famiglie simpatiche e stringa rapporti con loro; e che infine giunga la morte. E perché non dovrebbe essere bello aver vissuto una giovinezza felice, e ricordarsene, perché non dovrebbe essere una gioia aver fatto la cono­ scenza del professor D. e del pastore P. - ma se questo de­ v’essere il massimo risultato, quando ogni cosa è stata detta e compiuta, preferirei non aver incomodato né il professore, Ecclesiaste, 12, 13.

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né il pastore, ma essere rimasto ad ascoltare l’ululato dei lupi e aver fatto la conoscenza di Dio. Nelle storie d’amore il messaggero impiegato dall’amante è spesso un nano, un essere deforme, una vecchia incartapcco­ rita. Chi potrebbe vedervi un messaggero d’amore? Così, per me, le mie tristi idee sono messaggere di quello che è stato il mio primo e resterà sempre il mio unico amore. Mi sconvol­ gono, ma chi le manda non permetterà mai loro di distrug­ germi, di infiacchire il mio spirito, di fare di me un peso per gli altri. Se un giorno succederà, non so se accadrà subito o fra poco, non lo so, altrimenti non sarei triste; ma so questo, che mi hanno condotto alla più beata certezza - e indiffe­ rente mi è dunque il modo in cui arrivano «zoppican­ do o incespicando, senza la pompa attraente di apparen­ z e » . Persino in questo istante, è più forte di me il pensiero di essere stato capace di resistere. Ah, in solitudine non anelo mai alla morte. Non capisco come gli uomini possano diven­ tare airimprovviso così apatici da anelare alla morte. Al con­ trario, più si fa buio intorno a me, maggiore è il mio desi­ derio di vivere per sopportare me stesso, per vedere se il mio entusiasmo è una parola vuota o una forza, se assomigli alla birra di qualità, dalla schiuma naturale, o alla birra da due soldi, che certo fa schiuma, ma solo grazie ad additivi estranei, E se si comprende quanto terribile possa essere, per chi lotta per diventare re, pensare all’inopportuno arrivo della morte proprio quando sta per avvicinarsi alla meta, comprendo anche che chi ha una vita tormentata fin nel pro­ fondo, chi non ha confidenti del cuore, né davanti a sé im­ Citazione da un verso del poeta romantico J. Baggesen (TU Danfanas Detre, in Vcerker, Kjobenhavn 18 16 -17 , iii, p. 60).

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pressa vestigia}^^ consideri della massima importanza, per lui, che non giunga la morte a rendergli impossibile di sapere mai se può continuare per la sua strada, o se si sia fatto illudere da un miraggio: se la sua decisione di rinunciare a ogni decla­ mazione non sia stata che una chiacchiera come quelle dei declamatori.

18 giugno. Mezzanotte Sono colpevole? Sì. Come? Per il fatto di aver cominciato cose che non sono stato in grado di portare a termine. Come può essere che tu lo capisca ora? Lo capisco ora più chiara­ mente per via di questa impossibilità. Qual è, allora, la tua colpa? Di non averlo capito prima. Qual è la tua responsabi­ lità? Qualsiasi possibile conseguenza per la vita di lei. Perché qualunque conseguenza “possibile” non è forse un’esagera­ zione? Perché qui non è questione di un incidente, ma di un’azione e di una responsabilità etica; e non oso armarmi contro le sue conseguenze facendo il coraggioso, giacché il coraggio consiste proprio nell’aprirsi a loro. A cosa può ser­ vire la tua scusa? A questo: tutta la mia individualità mi ha orientato a riconoscere una verità di cui ovunque ho trovato conferma, e che, se mi cercassi un confidente, mi conferme­ rebbe anche lui: «che una natura triste non deve tormentare la moglie con le sue sofferenze, bensì racchiuderle in se stesso, da uomo». Qual è la tua consolazione? Che io, nell’at­ timo stesso in cui riconosco questa colpa, avverta anche una Provvidenza che governa tutto. Proprio perché ho studiato la « L e orme dei passi»: Cicerone, Orator, 12.

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questione al meglio delle mie capacità, e agito con tutta l’o­ nestà che mi era possibile in virtù di quanto ho capito, pro­ prio per questa ragione intravvedo una cooperazione che mi ha condotto a uno stadio in cui ho compreso me stesso come forse non ero mai arrivato a fare; ma, in qualche modo, ho pure appreso a non farmene un vanto. Qual è la tua spe­ ranza? Un perdono possibile, se non qui, almeno nell’eternità. Non è dubbio, un perdono del genere? Certo, perché non ho il perdono di lei e perché lei è, e rimane, un’istanza intermedia, legittima e impossibile a ignorarsi. Certo, il suo perdono non può giustificarmi in eterno, né l’implacabilità può danneggiare altri che l’implacabile stesso; ma il perdono di lei rientra nell’ordine della giustizia divina. Perché, dunque, non l’ottieni? Perché non riesco a rendermi com­ prensibile ai suoi occhi; sarebbe stato di gran lunga più sem­ plice limitarmi a procurarmelo, ed essere così esentato dall’a­ troce stato di sospensione dove non trovo un appiglio se non assumendomi La possibilità estrema della responsabilità. Nes­ suno ti chiede che cosa è più facile e che cosa è più difficile, poiché si può fare una scelta sbagliata pur scegliendo la via più difficile; perché, dunque, non ce l’hai? Perché non sono riuscito ad averlo. Quando ho spezzato il mio legame con lei, per lettera, gliel’ho domandato formalmente. Ma lei non ha voluto capirlo, il che mi ha costretto a fare uso del solo mezzo rimasto per salvarla: interporre fra noi il malinteso dell’inganno. Il mio procedimento mi ha mostrato che per­ fino l’inganno manifesta effettivamente la verità; che lei non mi capiva affatto. La sua opinione su di me era che io avessi più inclinazione per il mondo, e che rivolessi la mia libertà poiché la nostra relazione mi stava troppo stretta. Appunto perché questa era la sua opinione, la cosa offendeva il suo orgoglio, per cui lei non ha avuto riguardi nell’utilizzare

qualsiasi espediente. La mia riconquista, dalla sua prospet­ tiva, doveva dunque essenzialmente dipendere dalla possibi­ lità che io fossi ricondotto al dovere, e fossi commosso per simpatia. Se lei avesse parlato chiaro dicendo: «Mantenere questa relazione è il mio unico desiderio», io non avrei avuto il diritto di aggiungere altro, ma lei avrebbe esultato pressap­ poco così; «Oh, caro, tu non sai quanto mi rendi felice. Sei tu a desiderarlo; ahimè!, io avevo smesso di crederci, avevo im­ parato ad accontentarmi di qualcosa di meno finché non fossi tornato tu a desiderarlo, ma ora tutto va bene, anzi più che bene, magnificamente: lo desideri tu e Io desidero io, dunque ogni ostacolo è rimosso». Che significa? Significa che lei non mi comprende affatto. Dunque non ho scelto di farmi com­ prendere, ma di farle comprendere: che ero stanco di lei, che ero un imbroglione, un fanfarone. La sua salvezza dipendeva dalla mia fermezza. E allora, che significa chiedere all’improvviso il suo perdono? Suona quasi come prenderla in giro. Questa parola, “ perdono” , in mezzo a noi sposta tutto su un piano religioso. Strapparle con l’astuzia un perdono non è certo quello che si esige da me. Se parlassi dovrei ricono­ scere il mio errore, ma allo stesso modo, se la cosa dovesse essere seria, lei dovrebbe poter capire la mia giustificazione. Non appena incominciato il discorso, lei si limiterebbe a comprenderne la prima metà; e non capirebbe poi nulla di tutto il resto, il che in definitiva significherebbe fraintendere anche la prima parte. Se fossi riuscito a diventare comprensi­ bile per lei in tutta la mia macchinazione, e se anche il suo perdono, dunque, fosse stato altro da una situazione da com­ media, il suo comportamento nei miei riguardi sarebbe stato così rivoltante che avrebbe avuto bisogno lei del mio per­ dono; dunque, con quel biglietto ho fatto anche troppo. Ma per come stava la questione, ogni asserzione in direzione

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della verità avrebbe solo contribuito a rendere quei due mesi ancora più lunghi, poiché l’avrebbe indotta a diventare sempre più veemente nei suoi attacchi - senza tuttavia otte­ nere nulla. Per cui sono le parole serie che ho furtivamente inserito nella confusione, quelle che massimamente ho da rimproverarmi. Il perdono, dunque, non ce l’ho. Un perdono formale fra due persone che non si capiscono è una cerimonia vuota, equivoca quanto un contratto stipulato per iscritto fra due persone, una delle quali non sa né scrivere, né leggere. La maggiore sicurezza reciproca che dà un accordo scritto rispetto a uno verbale scompare così doppiamente: chi non sa leggere, può attenersi solo a ciò che ha udito; se quanto è scritto corrisponda al testo letto ad alta voce, egli lo ignora, e la sua firma perde ogni valore; l’altro ha l’onere di dover garantire per entrambi, nonostante che il documento debba essere reciproco. Perché io possa ottenere un perdono auten­ tico, lei deve potersi calare nella mia situazione, altrimenti il suo perdono è come la dichiarazione scritta redatta da chi non sa leggere, anzi, il suo perdono vale ancor meno, perché chi non sa leggere conosce tuttavia perfettamente la materia in questione; ma un perdono da parte di chi non sa né vuole capire la materia in questione è inutile come una domanda formale presentata da chi non sa neppure per che cosa fa domanda. Ecco perché il perdono non ce l’ho. Io ho creduto di rispettarla maggiormente rinunciando a estorcerglielo; ho fatto ciò che credevo di doverle, o meglio, tutto è successo per conto suo: il perdono mi è stato reso più duro possibile. La mia rottura con la realtà era di natura tale che ne è una semplice conseguenza l’inconcepibilità di un vero perdono da parte di lei, proprio perché determinerebbe una mia conti­ nuità con la realtà. Così stanno le cose, al momento. Sul piano dell’eternità, è

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mia speranza che ci comprenderemo, e che lei mi accordi il suo perdono. Nel tempo, rimane nel mio dolore una punta dialettica che mi ferisce in molti modi, poiché disturba la mia visione della vita, sia nella direzione della simpatia, sia nella direzione dell’inganno. C’è qualcosa di inquietante nel pen­ siero che un inganno, per quanto inteso a fin di bene, abbia questo potere; e rimane sempre aperta la possibilità che l’in­ ganno possa acquisire l’energia epigrammatica della satira. L ’atto più poetico è anche il più etico. Da parte sua, som­ mamente poetico sarebbe rimanere devota a me, o rima­ nere fedele a se stessa nel suo amore; e questa sarebbe anche la più atroce vendetta su di me. Qualsiasi vendetta prosaica rende eo'ipso la mia responsabilità più lieve, poiché meno etica. Quanto è coerente l’esistenza! Non c’è niente di vero in una sfera, che non sia vero anche nell’altra. Quale profonda gravità nel fatto che le leggi dell’esistenza siano quelle che sono, che ognuno debba onorarle, che lo voglia o no. La Provvidenza, che da ciascuno esige uno spirito conciliante, sa anche vendicarsi, perché proprio quando il singolo vuole vendicarsi rende le cose più semplici per il colpevole; dal­ l’altro lato, quando l’offeso sceglie la riconciliazione, la Prov­ videnza pone su questa mitezza l’enfasi della vendetta. Ce­ sare ha compiuto molte imprese gloriose, ma se anche di lui non fosse rimasto altro che l’unica frase che gli attribuiscono, lo ammirerei. Quando Catone si tolse la vita, pare che Cesare abbia detto: «Catone mi ha privato della mia vittoria più brillante, poiché io l’avrei perdonato». Ciò che io chiedo all’esistenza è di chiarirmi se io fossi intrappolato nell’illusione o se amassi fedelmente, più fedel­ mente, forse, di lei. Per quanto tempo dovrò resistere, non si sa. Se l’età degli oracoli è scomparsa da secoli, c’è tuttavia

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ancora qualcosa di cui il più semplice e il più profondo degli esseri umani devono parlare, quando ne parlano, per enigmi, e questa cosa è il tempo, È indubbiamente l’enigma più diffi­ cile, così come, a quanto si dice, la saggezza più profonda consiste nel regolare la propria vita come se quest’oggi fosse l’ultimo giorno da vivere, e al tempo stesso il primo di una serie di anni.

19 giugno- Mattino Oggi, un anno fa. Eppure, il dolore che le spreme dagli occhi queste lacrime spreme dal mio cervello la possibilità delle impossibilità. Per quanto sia una cerimonia superflua, non posso impedirla. Così vado gridando per il mondo, nel caso che qualcuno dovesse udirmi: faccio un’offerta, vi offro metà della mia vita in cambio di un mezzo anno felice al suo fianco, la offro per 14 giorni, la offro per il giorno delle nozze... e non cade il martello del banditore? No! Ma devo lavorare. Il condannato a vita viene impie­ gato in lavori che mettono la vita in pericolo; lo stesso suc­ cede a me e al mio lavoro. Oggi è sfuggita dalle sue labbra la risposta più notevole che io abbia mai udito. In un certo senso ha colpito dritto al cuore. Quando, nel tiro al bersaglio, un colpo fa centro al­ l’improvviso, il segnapunti usa la precauzione di informarsi innanzitutto se non si sia trattato di un colpo accidentale, un colpo all’aria, un colpo senza obiettivo, forse un colpo di fucile partito da sé. Mi ha detto che credeva sul serio che io fossi pazzo. Ma a guardare da vicino, la frase risulta un colpo a caso; e forse nessun’altra parola uscita dalle sue labbra mi

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ha mai mostrato con più chiarezza la nostra diversità. Certo, un malinconico è per determinati versi un pazzo, ma occor­ rono molta dialettica e molto pathos per farsi un’idea di questa pazzia. Una persona che faccia quest’osservazione più o meno come potrebbe farla di chi vada in giro abbigliato in modo un po’ ridicolo: «ah, è pazzo», dimostra eo ipso che non immagina neanche da lontano che cosa realmente sia la pazzia. È stato tutto un falso allarme. Un’esplosione di col­ lera, che nel trasporto non trovava di meglio da dire. E un po’ collerica lei lo è, di tanto in tanto. Dice che sono mal­ vagio, che non sono buono. L ’ha ripetuto ieri. E la provoca­ zione che aspettavano le mie chiacchiere; e subito hanno preso il sopravvento. Ora vedo che ci capiamo. La questione è semplicissima. Basta rilasciare una dichiarazione press’a poco in questi termini: Nel nome della vita e della morte, il sottoscritto dichiara che prova stima, esprime stima, mette per iscritto stima... ma che sto dicendo, è proprio la stima che non provi, mi si confonde la testa, è nei romanzi che la gente ha stima; dunque: dichiaro che non ho stima, e poiché il vero amore, l’autentico amore non è concepibile senza stima, ecce­ tera... Come vedi, va bene sia un modo che l’altro. Se infatti la stima e l’amore si associano contro una persona, buona notte; mentre con l’aiuto della sola stima o con l’aiuto dell amore se ne esce brillantemente. Infatti, se si riflette su che cosa sia realmente la stima... A questo punto sono stato inter­ rotto. Lei non riesce a trattenersi dal ridere, quando mi lancio a capo basso nelle mie sciocchezze. Questo mi consola. In fondo lei ne soffre meno di me, che devo sforzarmi di liberarla in modo tanto disperato.

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24 giugno. Mezzanotte Neppure ciò che ho scritto in queste pagine esprime il mio pensiero più profondo. A questo punto non posso affidarmi alla carta, sebbene sia nella scrittura che vedo il mio pensiero. Che cosa potrebbe mai succedere? Il foglio potrebbe volar via, potrebbe scoppiare un incendio nella mia casa, e io vi­ vere nell’inquietudine di non sapere se il manoscritto sia bru­ ciato o se esista ancora, potrei morire e lasciarmelo alle spalle, potrei uscir di senno e far cadere i miei pensieri più profondi in balìa di un estraneo, potrei diventare cieco, e non ritrovarlo neppure, e non sapere se ce l’ho in mano finché non lo chieda a qualcun altro, non sapere se l’altro mi ha mentito, se ha letto quello che c’è scritto o qualcos’altro per spiarmi. Rammemorarlo posso senz’altro, e più rapidamente della più piccola frazione di un momento. Dopo tutto Lessing ha torto quando afferma che la cosa più veloce, più veloce per­ sino del suono e della luce, è il passaggio dal bene al male; poiché ancora più veloce è das Zugleich, il “subito” . Il pas­ saggio in sé prende infatti tempo, ma ciò che avviene “su­ bito” è più veloce di qualsiasi passaggio. Certo, il passaggio è una categoria del tempo; ma la precipitazione in cui è pre­ sente ciò che è stato e che non è mai dimenticato, pur es­ sendo già stato presente una volta, questa precipitazione è quanto di più veloce esista; è infatti talmente veloce, che quella scomparsa è stata solo un’illusione.

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26 giugno. Mattino Oggi, un anno fa. Offro tutta la mia vita per il giorno delle nozze; e siamo invero in due a farlo. No! non siamo in due, poiché lei non offre in questo modo, lei vuole lottare, ma anche avere un futuro. Si capisce, non deve neppure mettere a repentaglio il suo onore e la sua dignità. E il martello non cade. Ieri l’altro la nostra chiacchierata è andata avanti incessante­ mente, come di consueto. Abbiamo parlato del mio congedo da parte sua, la cosa più saggia che lei potrebbe fare, se dovessi darle un consiglio. Ne verrebbe di conseguenza che me ne pentirei immediatamente, e tornerei sui miei passi come un cane bastonato. Questo consiglio lei lo ha accolto con un laconico; «Sì, certo», e con l’aggiunta di un: «No, non mi fido affatto di te». Ho capito da queste parole quanto misera, in fondo, sia la sua opinione sul mio conto, e quale malintesa superstizione lei nutra nel significato della sua pre­ senza personale. È una fortuna. Ma poi, mentre le chiac­ chiere raggiungono il loro culmine, lei scoppia in lacrime. Chi si trova alle strette della disperazione possiede sempre energie soprannaturali; quindi, non ho mutato espressione. Poi lei ha detto: «Lasciami piangere, mi dà sollievo». La legge proibisce qualsiasi tortura; questa in verità è una tor­ tura atroce. Ma devo rispettare le sue ragioni; non al punto, però, da farmene turbare. E v’è pure una consolazione nel fatto che non mi sono sottratto al vederla piangere, cosa a cui altrimenti un uomo nella mia posizione, vedendosi costretto a far marcia indietro come un disgraziato, cerca di solito di scampare. Poi sono ricominciate le chiacchiere, che non si­ gnificano certo per lei quello che significano per me.

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Non avere il coraggio di dire una parola seria, perché sa­ rebbe certo folle se io, il colpevole, volessi ammonire o con­ solare; ma non è altrettanto folle starmene qui a osser\^are la situazione? Ma l’elemento positivo in tutto questo è che la mia presenza la incita, sebbene contro la sua volontà, a espri­ mersi in tal modo. Quando non ci sono, non lo fa e non ne sente forse neppure il bisogno. Supponiamo che una terza persona sia stata testimone di questa situazione. Supponiamo che uno che non abbia mai fatto altro che scrivere indovinelli e un altro che a furia di risolvere indovinelli sia invecchiato si unissero per indovinare chi dei due soffra di più, chi dei due riceva l’impressione più profonda. Parlaci dunque, uomo provato, di un vortice che ha confuso l’esistenza; io l’ho ben vista, una confusione dove pareva che il tumulto selvaggio non obbedisse al timone di un’onesta volontà! Parlaci della bonaccia, che ha portato ogni sforzo alla disperazione; io l’ho ben vista, una bonaccia dove un innamorato, con tutti i suoi sforzi, arrivò quasi a farsi assassino di quella che amava, non per malvagità, non per disgrazia, ma in accordo con la sua più onesta convin­ zione.

30 giugno. Mezzanotte Che cos’è esistenza è me stesso. libererò, sì

la mia vita, se non una crudele fatica? La mia fatta solo di molìmina\'^^^ io non posso ritornare a Se mai un giorno succederà, non lo so. E se mi che io possa recuperare tutto me stesso, avrò forse

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parecchie difficoltà a separare da me quanto m’è estraneo, che tuttavia non voglio realmente separare. Se mi libero, ri­ marrà comunque la preoccupazione, nella mia chiusura in me, che lei si sia trasformata. Così, un mollusco sulla spiaggia dischiude il guscio per cercare nutrimento, ma un bimbo vi infila un ramoscello, impedendogli di richiudersi. Alla fine il bimbo si stanca del gioco e vuole tirar fuori il ramoscello, ma ne rimane dentro una scheggia. E il mollusco si chiude; ma nella profondità del suo guscio continua a soffrire, e non può espellere la scheggia. Che ci sia una scheggia, nessuno riesce a vederlo, poiché il mollusco si è richiuso, ma che ci sia, lo sa il mollusco. Ma basta con lo scoramento, è un inganno contro di lei, ed essenzialmente estraneo alla mia anima. Se al sommo sacer­ dote ebraico era proibito strapparsi le vesti in segno di do­ lore, perché si trattava di una manifestazione troppo passio­ nale e troppo intensa, anche a me è proibito immalinconirmi, perché è una manifestazione di apatia e debolezza. Ma il fatto che io mi sia immalinconito per un istante mi dimostra che, per la prima volta nella mia vita, mi sono fidato della mia ragione contro di lei. Che cosa la ragione potesse dirmi, l’ho sempre saputo, ma non l’ho voluto. L ’impressione di questo incontro ha dato la meglio alla mia ragione. La mia simpatia finirà per ridurmi alla mendicità. Sono come quell’inglese che si trovò in ristrettezze economiche pur essendo in possesso di un biglietto di cinquecento ster­ line: nessuno riusciva a cambiarglielo, nel villaggio in cui si trovava. Ma l’espressione della simpatia può essere parago­ nata al cambio di una grossa banconota? Credevo che la sim­ patia fosse come lo scellino nella borsa di Fortunato, che Il protagonista della novella di Lud w ig Tieck, Fortunat, in SUmmtliche Werke,

Sforzi a vuoto.

Paris 18 3 7, I, p. 234.

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lui continuava a regalare intero e continuava a ritrovarsi in­ tero nella borsa; a cercare di cambiarlo, la magia scompare. Ecco, questo mi consola.

2 luglio. Mattino Oggi, un anno fa. Un testimone oculare della mia situazione mi direbbe certamente: «Tu non sai cosa sia l’amore, se è questo il tuo modo d’agire». Possibile; ma so senza alcun dubbio che conosco il dolore dell’amore. Conosco forse anche il suo piacere, sebbene a distanza, a grande distanza. Se fosse possibile, se fosse possibile... nello stesso istante dovrei soffiarle sugli occhi per asciugarle ogni lacrima, come agli scolaretti, affinché nessuno veda, ahimè, che hanno pianto poi il dolore è dimenticato, più che dimenticato. Veloce mente, grazie alla forza dell’amore, velocemente, come ere scono le piante curate dalle fate, lei si schiude, più affasci nante che mai, con la sua energia, con la forza germinante dell’amore, col mio respiro e con le parole che le sussurro nelle orecchie; poi me la prendo in braccio e mi precipito per il mondo con lei: fino a questo punto, almeno, dell’amore me ne intendo. Ma proprio questa comprensione che ho dell’a­ more potrebbe facilmente farmi perdere la ragione. Mai in vita mia ho provato la tentazione di suicidarmi, prima d’ora. Ma sentire l’angoscia della compassione, ed essere allo stesso tempo il colpevole: questa contraddizione sortisce sulla mia anima lo stesso effetto di quando, dal punto di vista fisico, a qualcuno vengono distorte braccia e gambe dalla loro posi­ zione naturale. Ma a che servirebbe un suicidio? Certo, po­ trebbe risparmiarle l’umiliazione, poiché così potrebbe conti­

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nuare a vivere e restare mia, se volesse. Ma supponiamo che un giorno venga a saperlo - sarebbe terribile. Se avesse la capacità di comprendere, si renderebbe conto che non avrebbe mai dovuto trascinarmi fino a questo estremo, e in tal modo sarei stato io a fare di lei la colpevole. E con un passo del genere avrei forse determinato tutta la sua vita, impedendole di cercare la guarigione nel finito, dove invece dovrebbe cercarla. Spiritualmente parlando, lei non soffre granché. Non è nep­ pure tanto esausta, quanto ha un principio di stanchezza, a cui si aggiunge una punta di noia. Umanamente parlando, la cosa non mi stupisce affatto, poiché non ha confidenti, e io sono instancabile nel nonsenso. I giorni sono contati. Poniamo che ora lei si ammalasse prima dell’ultimo giorno, poniamo che nel delirio della febbre tra­ disse ciò che succede fra noi. I suoi congiunti più stretti crederebbero a fantasie, ma io saprei che sarebbe la realtà! E poi, quando si fosse ristabilita e avessimo ricominciato dac­ capo?

3 luglio. Mezzanotte Dove ci rivedremo? Nell’eternità. Là c’è tempo a sufficienza per raggiungere un’intesa. Dove si trova l’eternità? Quando comincia l’eternità? Quale lingua vi si parla? Oppure non vi si parla affatto? Non ci potrebbe essere un breve intermezzo? Splende costantemente la luce del giorno, nell’eternità? Non ci potrebbe essere un crepuscolo mattutino, dove trovare l’in­ tesa della confidenza? Qual è la sentenza dell’eternità? E una

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sentenza già fissata prima delFinizio deH’eternità, e l’eternità solo la sua esecuzione? Come rappresentarsi l’eternità? Come il vasto orizzonte dove non si vede nulla. Così è rappresen­ tata nelle immagini tombali: qualcuno, a lutto e in primo piano, dice: «E gli è andato nell’aldilà». Ma nel vasto oriz­ zonte non vedo assolutamente nulla, solo il passante vede la figura a lutto in primo piano; oltre, neppure lui vede nulla. Dunque, non vedo neanche lei. È impossibile. Io devo ve­ derla. Non è un argomento: è forse un argomento migliore dire che, lo voglia io o no, devo vederla? Supponiamo che mi avesse dimenticato. Potremmo vederci, allora? Supponiamo che non mi avesse perdonato. In tal caso, però, non mi avrebbe dimenticato. E allora, potremmo vederci? Suppo­ niamo che lei stesse al fianco di un altro. Quando lei si pone, in questo modo, nel tempo, io le sono di ostacolo, e per questo voglio allontanarmi. Ma se le fossi di ostacolo nell’eternità, dove dovrei andarmene? Fra il tempo e l’eternità, è il tempo il più forte? Il tempo ha il potere di separarci per sempre? Credevo che avesse solo il potere di rendermi infe­ lice nel tempo, ma che potesse lasciarmi in pace nell’attimo in cui commuto il tempo finito con l’eternità, e sono dov’è lei, poiché nell’eternità lei è sempre con me. Se è così, che cosa significherebbe, dunque, il tempo? Significherebbe che noi due ieri sera non siamo riusciti a vederci, e se lei cono­ scesse un altro uomo, significherebbe che ieri sera non siamo riusciti a vederci perché lei era altrove. E di chi sarebbe stata la colpa? Certo, la colpa sarebbe stata mia. Ma dovrei, o potrei, ora, agire diversamente da come ho agito, se si fosse verificato il mio primo progetto? No! Mi pento di quel pro­ getto. Da quel momento ho agito con la più onesta ragion veduta e con tutte le mie forze, come avevo fatto per il primo progetto, fino a quando non ho capito il mio errore.

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Ma è possibile che l’eternità parli con tanta leggerezza di colpa? Almeno, il tempo non lo fa; continuerà a insegnare ciò che ha insegnato a me, che una vita è qualcosa di più di un ieri sera. Ma certo, se l’eternità guarirà tutte le malattie, se darà l’udito al sordo, la vista al cieco, e la bellezza fisica allo storpio, guarirà senz’altro anche me. Qual è la mia malattia? La tristezza. Dove risiede questa malattia? Nella forza del­ l’immaginazione, e la possibilità è il suo nutrimento. Ma l’e­ ternità elimina la possibilità. E non è stata, per me, questa malattia tanto grave nel tempo da farmene non solo soffrire, ma anche assumere la colpa? Lo storpio, almeno, deve sop­ portare solo il dolore di essere storpio, ma quanto sarebbe atroce se il fatto di essere storpio costituisse per lui motivo di colpevolezza! E allora, quando il tempo per me giungerà alla fine, sia il mio ultimo sospiro per te. Signore, in nome della salvezza della mia anima, e il penultimo per lei; altrimenti, fammi unire per la prima volta a lei nel medesimo, ultimo respiro.

6 luglio. Mezzanotte Oggi l’ho vista. Che strano! Un temporale mi ha costretto a rifugiarmi dal mio vecchio amico pasticciere, dove non ero più andato da quei giorni di attesa: erat in eo vicinio tonstrina quaedam.^^^ Un esercizio di barbiere di tal genere corri­ sponde più o meno, aveva detto il professore, a quello che è per noi un pasticciere, Eo sedebamus plerumque, dum illa rediret.'^^^ La pioggia passò in fretta, l’aria si fece dolce e invi« C ’era nelle vicinanze una bottega di barbiere» (la stessa citazione dal Phormio di Terenzio della nota 12). « L ì dentro avevo l’abitudine di aspettare che tornasse a casa» (idem).

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tante, tutto sembrava rinfrescato e ringiovanito. Se non fos­ si stato assorto nei ricordi, dubito che vi sarei rimasto tan­ to a lungo. Il vecchio pasticciere venne a salutarmi, conver­ sò con me, tutto contribuiva a stordirmi i sensi. Ero seduto al mio solito posto e di tanto in tanto lanciavo un’occhia­ ta fuori della finestra - quand’ecco, arriva lei. Passeggia­ va accanto a un’altra giovane donna, conversando entrambe animatamente; era allegra, florida, di buon umore. Veniva forse dalla lezione di canto, la mia amata cantante, ha ripreso le lezioni di canto? Forse, la canzone è solo diventata un’altra. Se solo potessi, per sei mesi, trasformarmi in donna, per capire la sua natura! Il mio metro, forse, resta sempre ec­ cessivo. Tutto sembra come ai vecchi tempi. Lei va alla lezione di canto, torna dalla lezione di canto, felice come una volta. Ma non c’è nessuno ad aspettarla. Qui dal pasticciere in un certo senso non c’è nessuno, ma forse altrove sì. Si sente dire spesso che una donna supera il dolore e si innamora un’altra volta. E qui la situazione spingeva esattamente in questo senso, poiché io non ero più il suo innamorato, ma un impo­ store. Si sente anche dire spesso che una donna non potrebbe vivere senza un uomo; era vero, solo che l’uomo non era più quello, ma un altro. Così siamo tornati ai vecchi tempi, grazie al mutamento, un mutamento che mi ha lasciato immutato. Posso dire dav­ vero: mi ha lasciato eccetera, ma come mi ha lasciato non è facile dire. Presumo che lei apparterrà a un altro, e allora che ne sarà di me? E tuttavia, non in questo modo, non voglio lasciarmela sfuggire in questo modo! Questo desiderio quasi folle di vedere la relazione ripristinata lascia ora spazio a un altro dello stesso genere: che, cioè, se lei apparterrà a un

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altro, quest’altro possa essere il suo primo amore. Così lei non avrà rotto con l’idea, né perso nulla ai miei occhi. In verità, che cosa le importa di perdere ai miei occhi? Eppure non dovrebbe pensarla così, poiché il mio modo di vedere è più attento a lei di quello di chiunque altro. Così, non dovrò lasciarmi turbare da lei la mia visione della vita; sarebbe per me, ahimè!, un dolore e una paralisi. Se anche il resto del mondo ne ha un’altra opinione, non è che un segnale di battaglia. Ma la sfortuna è che io di questo amore precedente non so assolutamente nulla. Tuttavia bisogna tener presente che sono stato troppo immerso in me stesso e troppo impe­ gnato eticamente per poterne sapere qualcosa. Quanto a questo, sarebbe possibile. Sarebbe una beffa per me, se questo fosse il caso e io ne fossi restato all’oscuro. Lei non si è sentita sollecitata a parlarne, forse la mia chiusura ha sortito quest’effetto su di lei. Quanto a questo, sarebbe possibile. Ma che fosse anche vero! E se è vero, se resta vero, che fortuna che io non lo sapessi! Forse sarei arrivato a prendere la que­ stione troppo alla leggera, e la situazione non avrebbe as­ sunto ai miei occhi il significato che ha assunto. Che cosa rimane di me? Mah, non è facile dirlo. Ma se non avessi vissuto questa storia in prima persona, e me l’avesse raccontata un altro, crederei che lui stesse parlando di me, tanto la storia si accorda con me. Meno che mai potrei parlare con lei, se apparterrà a un altro. Dovrei cercare un’intesa reale, come quella che lei ha finto di mercanteggiare? Dovrei parlare con la passione della verità ed essere satirico contro la mia volontà? E lei che ha la colpa di una parte della confusione, poiché ha turbato l’eros barando sul religioso. Non si contentava dell’eros, dell’essere amata o no, e di quel che per lei ne consegue; ma è ricorsa al

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religioso ed è diventata per me, nella responsabilità, una fi­ gura gigantesca. Certo, se è bastato a provocare una guerra fra grandi potenze il fatto che un principe abbia respinto la figlia di un re, altrettanto terribile è stata per me la mia lotta quando l’ho rifiutata, poiché era stato Dio a darmela in sposa. Così ho visto la questione. Ma questa tremenda serietà trasforma l’eros in un che di comico; giacché, dal punto di vista del pathos devo dire che se lei fosse stata brutta come il peccato originale, iraconda per tutta la giornata, avrebbe avuto per me la stessa importanza, ma da un punto di vista completamente non-erotico. E la colpevole del fatto che ora io parli in questo modo è lei, che ha trasformato una rela­ zione erotica in un rapporto religioso. Solo nel silenzio posso custodire il pathos della mia anima dietro l’inganno del comico, o dietro lo schermo di aver da tempo dimenticato tutta la storia.

7 luglio. Mattino Oggi, un anno fa. Vediamo. La mia visione della vita preve­ deva che nella mia chiusura celassi la tristezza. Era il mio orgoglio a suggerirmi di poterlo fare, la mia determinazione a spingermi con tutte le mie forze a proseguire su questa strada. Mi sono arenato. Su che cosa? Sull’incompatibilità personale e sulle nozze, che in virtù di questa incompatibilità mi mandano in protesto. In che cosa consiste la confusione della mia vita? Nel fatto che m’è diventata priva di significato la frase: ultra posse nemo obligatur. In che cosa consiste la Form ula del diritto romano: «nessuno è obbligato al di là delle sue possibi­ lità».

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mia colpa? Nell’essermi avventurato in un’impresa che non potevo realizzare- In che cosa consiste la mia colpa? Nell’aver reso una persona infelice. In che modo infelice? Nella possi­ bilità, fino al punto di portarmi un assassinio sulla coscienza, a detta sua e in virtù della possibilità. In che cosa consiste la mia punizione? Nel sopportare il peso di questa consapevo­ lezza. In che cosa consiste la mia speranza? Che una Provvi­ denza misericordiosa voglia, nella realtà, rendere la puni­ zione più lieve aiutandola. Che cosa dice di lei la mia ra­ gione? Che il peggio non è proprio probabile. Che cosa ne consegue per me? Assolutamente nulla. Un impegno etico non può essere liquidato da calcoli delle probabilità, bensì solo assumendosi l’estrema possibilità della responsabilità. Sono andato da lei. Con insolita felicità le sono andato incontro, ho dichiarato che sarebbe stato possibile fare come lei desiderava. Non è difficile spiegare come, finché uno lotta, se pure è in grado di capire che cosa offre la simpatia, possa anche dimenticarsene, appunto perché sta lottando. Una volta ottenuta la vittoria, la simpatia solitamente si risve­ glia col massimo vigore. Io pensavo che avrei dovuto sondare questo limite estremo; se cioè lei, commossa per aver otte­ nuto la sua vittoria, si sarebbe decisa a rendermi la libertà. No! Lei ha accettato questa dichiarazione, ma senza una pa­ rola nel senso della simpatia; l’ha accolta, anzi, persino fred­ damente, il che mi fa felice: significa che è stanca. Me ne sono andato. Verso mezzogiorno sono ritornato. Una decisione drastica dà tranquillità, una decisione passata attraverso la dialettica del terrore rende impavidi. Con fred­ dezza e determinazione le ho annunciato che era finita. Lei voleva abbandonarsi alle più veementi espressioni di pas­ sione, ma per la prima volta nella mia vita ho parlato con tono di comando. E terribile dover osare tanto, e tuttavia era

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l’unica cosa da fare. Anche se fosse stata vicina a morire davanti ai miei occhi, non avrei potuto mutare la mia deci­ sione. La mia inflessibilità Tha aiutata; e quella che era l’im­ presa più temeraria s’è compiuta nel modo più giusto. Un tentativo ulteriore di commuovermi per simpatia non ha sor­ tito effetti. Alla fine mi ha pregato di pensare a lei, qualche volta; gliel’ho promesso, con noncuranza; forse lei non l’ha intesa come una cosa di particolare importanza, in compenso io l’ho intesa sul serio. Dunque è finita. Se lei sceglie il grido, io scelgo il dolore; ma di gridare ci si stanca, e forse stanca lei lo è già; mentre il dolore, per me, arriverà e tornerà all’infinito. Che cosa mi insegna la ragione, sul modo in cui ho impie­ gato per lei questi due mesi? Lei non soffrirà al punto di mettere la sua vita in pericolo; da un lato, la sua passione non ha un’interiorità molto dialettica; dall’altro, nessuno po­ trebbe crearle una situazione favorevole come quella che ha avuto: spaventare me, il colpevole, commuovermi con la sua sofferenza. La sollecitudine della compassione non potrebbe dare più enfasi della mia presenza all’esplosione del dolore. La riflessione non farà facilmente presa su di lei, giacché ella ha ormai percorso un tratto considerevole. Ciò che lei può scoprire di persona non sarà granché in confronto a ciò in cui l’ho perfezionata anche troppo, o meglio, fino alla nausea. Non sarà in grado di risvegliare in se stessa simpatia per me, e se gliene è rimasta un poco, sarà soffocata immediatamente. Non le verrà mai in mente di poter avere qualche piccola cosa da rimproverarsi, e che magari avrebbe potuto agire diversamente nei miei confronti. Forse si ammalerà come chi, dopo aver studiato per l’esame fino all’esaurimento, si am­ mala quando l’esame è superato. Di una malattia del genere si può anche morire, e tuttavia non ne conseguono conclu­

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sioni certe sul propter hoc}^^ - Per quanto mi riguarda, spin­ gendomi fino al limite estremo lei mi ha aiutato a staccare da lei la mia personalità il più possibile. Se lei dovesse, stanca di tutta la storia, trovarsi un nuovo amore, in tal caso non solo ne resterò fuori io, ma persino qualsiasi immagine di me, poiché ella non ne possiede nessuna; nessuna, almeno, che contenga una traccia di verità.

7 luglio. Mezzanotte Ecco! Ora smetto, per questa volta. Il mio periodo di letargo nei suoi confronti comincia ora; mi ritiro. Il 3 gennaio ripren­ derà l’inquietudine. Per la ritirata il comando è: destr’, sinistr’, marsc’ . Una satira: giacché la mia sfortuna è che io non posso né girare a destra, né a sinistra, né marciare. Il tempo dell’inquietudine corrisponde a quei sei mesi, a quei sei mesi di realtà che continueranno a tornare incessan­ temente, finché non conquisterò la libertà. E un bene che non fosse un anno intero, perché altrimenti avrei dovuto pas­ sare un anno di lutto nel senso di un anno ecclesiastico: nel­ l’attimo in cui mi fossi liberato del vecchio, avrei dovuto ricominciare col nuovo. Una vecchietta soleva dire del guardiano di ronda, quando lanciava il suo grido: «Ecco, si è perso di nuovo», E infatti, così grida chi si perde. Allo stesso modo, durante il tempo deU’inquietudine io sono uno che grida e che ha smarrito la sua strada. La mia decisione sulla fedeltà a lei, alle mie idee e alla mia esistenza spirituale è di restare fedele con tutte le mie forze; Sul perché, sulla causa. Cfr. nota 71.

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è di convincermi, con l’esperienza, che è lo spirito a vivifi­ care, che l’uomo esteriore può perire e lo spirito trionfare, sospirare la creazione ed esultare lo spirito: di consolarmi e rallegrarmi in spirito, rifiutando i motivi di consolazione del mondo finito; di perseverare, non lasciare che la magnifi­ cenza delle parole finisca nella meschinità degli atti, e non rendere testimonianza con discorsi altisonanti per poi con­ traddirmi con gli atti del mondo finito. Sarei stato più per­ fetto se fossi riuscito a restarle fedele; se la mia esistenza spirituale si fosse accompagnata alla vita quotidiana in un matrimonio sarebbe stata più grande, e io avrei compreso l’esistenza con maggiore certezza e facilità. Questa è la gerar­ chia delle cose. Poi viene ciò che faccio io. Se lei dovesse dissanguarsi in un’inutile passione, se non dovesse essere sal­ vata da un soccorso forse più vicino di quanto io sappia, o almeno abbastanza vicino da arrivare quando ce n’è bisogno, io dovrei operare in modo che la mia esistenza possa valere per due. Se lei viene in soccorso a se stessa in altro modo, il mio lavoro è superfluo. Supponiamo che esista un libro, stampato una volta per tutte e che non può essere ristampato, senza lo spazio per apportarvi delle correzioni; ma che fra gli errori di stampa ci sia una lezione che superi in pienezza di significato il passo corrispondente del testo: dovrà contentarsi di restare fra gli errori di stampa, ma di restarvi con tutta la sua pienezza di significato. Supponiamo un’erbaccia, strappata dalla semenza utile: tolta di mezzo, certo, un’erbaccia, certo, mortificata, certo, ma supponiamo che fosse l’erba di Enrico il Su­ perbo.!'^® Lettera ai Romani, 8, 22. Il Chenopodium bonus henricus, un tipo di spinacio selvatico.

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Qui termina il diario, per questa volta. Non parla di nulla, sebbene non nel senso in cui non parla di nulla il diario di Luigi XVI, che, a quanto pare, riporta, alternativamente, un giorno: A caccia, il secondo; Rien, il terzo: A caccia. Non riporta nulla, dunque; ma se le lettere più leggere, come dice Cicerone, sono quelle che non si occupano di nulla, talvolta la vita più pesante è quella che non parla di nulla.

EPISTOLA AL LETTO RE di Frater Taciturnus

Mio caro lettore! Se in qualche modo sei della materia, no­ terai immediatamente che il personaggio qui evocato^ è de­ monico in direzione del religioso, ovvero che vi si avvicina. Per quanta onestà, per quanta copiosità egli metta nel par­ lare, facendo tutto il possibile per farsi vedere da te {loquere ut videam^), nessuno sa meglio di me (che, spesso affaticato, spesso annoiato, sono stato tentato di lasciarlo andare e di perdere la pazienza, che è lo stesso) la ragione per cui, a forza di osservare le stelle e di leggere il futuro nei fondi di caffè in virtù del mio sguardo di poeta e del mio occhio di falco, rendo anch’io pubblica questa sensazionale profezia: che, cioè, due terzi dei pochi lettori del libro cadranno a metà strada, il che si può anche tradurre in questi termini: che si bloccheranno a quel punto e butteranno via il libro dalla noia. Fino a quando il nostro personaggio si mantiene sul più alto pinnacolo dialettico, bisogna calcolare per quantità infi‘ A sorpresa, e contraddicendo il suggestivo racconto dell’«Annuncio di ritrova­ m ento», il Qualcuno protagonista e autore di Colpevole? non colpevole? viene dunque dichiarato un’ipotesi elaborata a tavolino dallo “psicologo sperimentale” che si firma Frater Taciturnus; dunque, una creazione tutta mentale come, nelle ultime pagine della Ripetizione, il G iovane innamorato e poeta che Constantin Constantius aveva fin lì presentato come suo amico e confidente. ^ «P arla, perché io ti veda»; frase attribuita da Erasm o (Apophthegmata, iii, 70) a Socrate, e ripresa da Hamann nella sua Msthetica in nuce (Schriften, 11, pp. 261-62).

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nitesimali, se lo si vuole osservare. Per una somma tonda (non è necessario che sia consistente, purché sia tonda), non è possibile aggiudicarsi l’ingresso ai suoi equilibrismi dialet­ tici; e faremmo meglio a risparmiarci la pena di osservare un simile fantoccio. Tuttavia può essere importante prestargli attenzione, poiché nell’aberrazione si può studiare la norma e, se non altro, apprendere che il religioso non va disprezzato come cosa facilissima, adatta per gli stupidi o per imbecilli dalla barba lunga; è, invece, la più difficile di tutte le im­ prese, malgrado che sia accessibile assolutamente a tutti; fatto che in sé è già arduo comprendere, così come è arduo com­ prendere la contraddizione di un fiume, nello stesso punto, così basso che una pecora può passarlo a guado, e così pro­ fondo da farvi nuotare un elefante. La ragazza l’ho rappresentata in termini piuttosto generici (l’unica caratteristica specifica che le ho dato è la mancanza di presupposti religiosi), e con intenzione, per meglio illumi­ narlo e insegnargli a sforzarsi. Richiederebbe sforzi terribili, forse sarebbe persino impossibile sollevare un oggetto picco­ lissimo con un argano, o pesare mezza libbra su una stadera da due quintali: allo stesso modo ho immaginato che, se ci dev’essere un malinteso, meglio che serva a qualcosa. L ’eros e la relazione erotica mi interessano meno. Li im­ piego essenzialmente per orientare nel religioso e impedire l’errore di credere che il religioso sia la prima immediatezza, un po’ di questo e un po’ di quello, impulsi e istinti naturali e trasporto giovanile entrati leggermente in fermentazione, con l’aggiunta di un pizzico di spirito. La ragazza è quella che si può definire a ragione «una brava ragazza».* In un * La figura femminile è naturalmente solo accennata a grandi linee; una fanciulla giovane e amabile airinterno della dimensione estetica dell’ingenuità. In questa sede

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romanzo o in un dramma, e non prima del quinto atto, «una ragazza come lei» rende un uomo felice; nei cinque atti della realtà, lei fa del suo meglio; nell’esperimento psicologico non può rendere l’uomo felice, non perché non ne abbia la capa­ cità (poiché ce l’ha), ma perché non ne ha la possibilità: proprio per questo si rendono infelici a vicenda. Dandole

ne traccerò uno schizzo, poiché altrimenti manca l’occasione di parlare di lei nella sua interezza. Io ho costantemente la figura maschile in mente, pur rispettando, è chiaro, la possibilità psicologica che lei non esca dall’ambito estetico deH’ingenuità. N el periodo del fidanzamento, lei si mostra dapprima ritrosa. La singolarità di lui e i suoi atteggiamenti privi di eros devono certo produrre uno strano effetto su una fanciulla giovane. Lei non lo sopporta, si annoia, si tira i riccioli sul naso, gli mette la sedia davanti alla porta. Poi si verifica un evento di non grande importanza, e lei si addolcisce; gli offre la sedia e lo prega di accomodarsi, mentre esegue il più leggiadro, il piìi malizioso inchino con fare estremamente affascinante. Lui, che come eroe innamorato è pietoso, lui solo non riesce a capirlo, e in nessuna situa­ zione egli somiglia di più, qua innamorato, all’immortale Cavaliere della Trista Figura di quando si installa così a sedere. O ra vuole lasciarla. Lei lo scongiura nel nome di D io e di ogni cosa sacra che riesce a pensare nella sua disperazione, gli porta un messaggio di persona, e non sospetta che possa esservi qualcosa di sba­ gliato. O ra comincia l’ultima lotta per la separazione. Lei dispiega tutta la sua amorevole simpatia, pronta ad accontentarsi di qualsiasi condizione; e questa è l’ amabile rassegnazione simpatetica dell’ingenuità. Diversamente lei non potrebbe esprimersi, e se pure pretendessimo, illogicamente, da lei un’ombra della rassegna­ zione della riflessione, l’inganno di lui e i suoi atteggiamenti, nell’inganno, disperati impediscono nel modo più assoluto la nascita o l’ espressione di una simpatia riflessa. Così, lei è amabile in tutto e per tutto, e ha solo l’elasticità sufficiente, se si volesse misurarla, a porre la possibilità psicologica di un nuovo innamoramento; sebbene da un punto di vista psicologico possa differenziarsi dal modello. Dopo il fidanzamento lei non fa assolutamente nulla. Persino laddove la possibi­ lità psicologica prende lui più pericolosamente di mira, cioè durante l ’incontro in chiesa, non è neppure detto che sia una realtà (ma è ugualmente lontana dall’ essere una impossibilità psicologica) poiché la passione di lui vede tutto presente, a di­ spetto della distanza. M a anche se lui avesse visto giusto, l’intera faccenda sarebbe stata un ghiribizzo da parte di lei, forse una piccola gentilezza: o forse le era venuto in mente di essere stata troppo severa con lui, un piccolo ghiribizzo, ad modum di quell’inchino. M a lui, che nei suoi confronti si è impegnato a «cancellare il fato e il destino», si è naturalmente candidato a essere costantemente preso per il naso, come era accaduto con i diversi pronunciamenti sul futuro di lei che lui, per sua stessa sfortuna, le ha strappato cU bocca, e ai quali lei, invece, non intendeva dare un valore così grande quando li aveva espressi, mentre lui si sente eternamente in dovere di ripeterseli per ricavarne tutte le idee del mondo. i N - d A - ì

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altre doti, avrei solo impedito al mio protagonista di venire adeguatamente in luce. Con la sua amabilità lei gli ha reso un servizio notevole, più di una tuttofare che pensi a tutto, ed è già molto, per una ragazza normale, nel contesto di un esperi­ mento psicologico; poiché non vi si trova nel suo elemento. Come innamorato, il personaggio maschile non ricorre certo nel mondo reale. I suoi atteggiamenti e la sua fedeltà sono così grandiosi, così campati in aria e così impacciati che si potrebbe esser tentati dal chiedere, come fa uno scrittore, credo, francese,^ se per caso egli non fosse diventato pazzo perché era fedele alla ragazza, o se le fosse restato fedele perché era pazzo; poiché come innamorato è certo pazzo. Se fosse realmente esistito, se fossi stato in grado di creare una figura sperimentale in carne e ossa, se vivesse nel nostro tempo e nella sua interiorità in maniera tale che il suo aspetto esteriore non fosse un’illusione, ne verrebbe fuori tutta una commedia. Che cosa grottesca sarebbe vedere un simile ener­ gumeno, troglodita o cavernicolo che sia, sbucare fuori, dopo aver ascoltato in silenzio i discorsi romantici della gente, per pretendersi un innamorato infelice con le carte in regola! Si troverebbe una folla di monellacci a schernirlo, questo è si­ curo. Un anacronismo di tale portata nel diciannovesimo se­ colo!, dove tutti sanno che gli innamorati infelici sono come quei serpenti con sette teste che Linneo ha dimostrato inesi­ stenti, pure chim ere.Prendere sul serio il compendio che tutti sanno: dell’amare una sola volta, del fare l’uno la felicità dell’altro, e via dicendo; agire, in virtù di questo compendio, ^ A un «parigino» non meglio identificato attribuisce la frase lo scrittore tedesco K. L. Bòrne (Die Leichtthurm, in Gesammelte Schriften, H am burg 1835-40, i, p. 77), citato assiduamente anche più oltre. C . von Linné,

Systema Naturae,

Stockholm 176 6 , l, p. 358.

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con un supremo dispendio di energie, perdonabile solo in uno molto giovane, che agisca così una sola volta nella vita e al massimo per una mezza giornata; ammazzarsi di lavoro in un cerimoniale così vuoto, che mira a introdurre usanze e costumi del tutto antiquati, sarebbe davvero cospicuo mate­ riale di riso. Ne consegue automaticamente che, così come uno impara la lingua nell’infanzia, provvede, in gioventù, anche a far provviste per tutta la vita, includendovi fra l’altro una piccola dose di belle frasi e circonlocuzioni esaltate, per attingervi e farvi attingere gli altri tutta la vita, e mostrarsi così socievole nell’amicizia e amichevole in società e in tutte le occasioni. Che le belle frasi resistano per tutta la vita rientra perfettamente nell’ordine delle cose, tanto più che rendono parecchi servizi: abbelliscono di romanticismo la gioventù nel suo giorno più felice, diventano un motto di spirito quando le pronuncia la mamma, una facezia sulla bocca del vecchio; ma che l’amore, per non dire un amore infelice, debba avere la stessa indistruttibilità tradisce un’edu­ cazione negligente; io, almeno, direi con Perniile:^ «Rin­ grazio, nella tomba, i miei genitori per essere stata educata diversamente». Ma chi comprerebbe al giorno d’oggi, come si soleva fare un tempo, un ombrello per tutta la vita, o un abito di seta, il “vestito buono”, da indossare finché uno campa, o una pellegrina per l’eternità? Ammettiamo pure che la qualità non sia, probabilmente, dello stesso livello del fa­ moso raso cinese, ammettiamo pure che il proprietario non tratti i suoi abiti con lo stesso riguardo con cui andava trat­ tato il famoso raso cinese; ma il vantaggio di poterseli rifare una, tre, quattro volte e il vantaggio di poter trattare i propri Personaggio della commedia di H olberg Jacoh von Thyboe.

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abiti con negligenza sono più che evidenti. Questa saggezza non dev’essere considerata come una prerogativa di pochi eletti; fortunatamente (lode al nostro secolo!) è merce cor­ rente. Perciò, se è raro vedere un mantello di raso cinese, è altrettanto raro vedere un innamorato infelice. E che un uomo voglia essere oggi un innamorato infelice, senza magari esserlo neppure, anzi, impegnarvi l’onore, significa semplicemente pura follia e volontà di beffarsi del mondo; l’unica follia superiore a questa sarebbe presupporre di non essere l’unico, ma che esistesse un popolo intero di gente come lui. Com’è noto, Don Chisciotte credeva di essere un cavaliere errante. Non è in questa idea che culmina la sua follia; Cer­ vantes è più profondo. Quando Don Chisciotte è guarito dalla sua malattia, il dottore già comincia a sperare nella sua ragione, ma vuole metterlo un po’ alla prova. Parla con lui di varie cose, e all’improvviso infila nel discorso la notizia che i Mori hanno invaso la Spagna. «Allora c’è solo un mezzo per la salvezza della Spagna» commenta Don Chisciotte. «Qua­ le?» chiede il dottore. Don Chisciotte non vuole dirlo, rive­ lerà il suo segreto solo davanti a Sua Maestà Cattolica il re di Spagna. Alla fine, però, egli cede alle preghiere del dottore, il quale, con la promessa del silenzio e la gravità di un pa­ dre spirituale, riceve la confessione del famoso cavaliere: «L ’unico mezzo è che Sua Maestà Cattolica emani un pro­ clama a tutti i cavalieri erranti». Convincersi di essere lui un cavaliere errante è, volendo, l’idea di un mezzo pazzo; ma popolare tutta la Spagna di cavalieri erranti è davvero un delirium furibundum. In questo senso il mio eroe è stato più ragionevole, poiché ha capito i tempi a tal punto da restare l’unico cavaliere dell’amore infelice. Tuttavia, come ho già detto, l’eros è per me di minore interesse. L ’ho utilizzato come ha fatto un tentativo di utiliz­

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zarlo Constantin Constantius, nell’operetta La ripetizione (Copenaghen 1844);^ un tentativo che peraltro non è riuscito, giacché egli è rimasto confinato nella sfera dell’estetica. Il conflitto per cui un uomo diventa poeta in virtù dell’amore per una fanciulla, e quindi non può sposarla, rientra nell’este­ tica. Il conflitto, in sé, può non destare la preoccupazione di un giovane, e io non capisco perché Constantin gli abbia tenuto nascosto quello che vede facilmente un esperto, che, cioè, il conflitto si risolve senza difficoltà. La sposa, e quindi non diventa poeta. È proprio questo che teme, fa tutto il contrario, e forse poeta lo diventa. Sebbene non tutte le fan­ ciulle possano trasformare un uomo in poeta, tuttavia è in potere di ogni donna impedirglielo, sposandolo; glielo garan­ tisco io, e soprattutto, e in particolar modo, la fanciulla che è stata sul punto di farne un poeta, poiché la frequentazione del poeta con la Musa è del tutto diversa dalla relazione matrimoniale, e le Muse, al pari di tutte le altre creature della fantasia, fanno benissimo a tenersi a distanza. E poiché niente è imbarazzante, per un essere in carne e ossa, come il dover fare la Musa, naturalmente l’oggetto della sua adora­ zione farà di tutto per impedirgli di diventare poeta, e asse­ conderà qualunque suo tentativo di diventare un marito come si deve. Tutto il conflitto potrebbe essere un’inven­ zione del mio eroe, una sua trovata per fare un complimento alla ragazza. Con questo non vorrei tuttavia offendere il gio­ vane, che nel suo trasporto di gioventù può avere le migliori intenzioni. Al mio eroe, al contrario, non potrebbe accadere di mettersi in testa un’idea del genere, è troppo avanzato per ^ Con Colpevole? non colpevole? la Ripetizione ha in comune le grandi linee della vicenda e il carattere di “ esperimento psicologico” .

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questo. Tanto meglio, vale a dire: tanto più forte è l’evidenza del malinteso. Per fortuna il mio eroe non esiste, al di fuori del mio esperimento psicologico. Nella realtà egli non può essere esposto al ridicolo. E una fortuna, ma una fortuna ancora maggiore per me che non possa essere mio compito dover discutere con lui, doverlo tirar fuori a forza di dialettica dalle sue dialettiche difficoltà. Un personaggio simile, se esistesse realmente, potrebbe dare parecchio da fare a un Doctor Seraphicus^ e a un Magìster contradìctionum^ messi insieme; e, in ultima analisi, forse non verrebbero a capo di nulla. Qualsiasi cosa escogitassero, egli replicherebbe: «Ci ho pensato an­ ch’io, ma state un po’ a sentire». E qui si metterebbe a far lezione sull’obiezione dialettica, fino a ottenere, passo dopo passo, di modificarla completamente a suo vantaggio. Spa­ ventarlo col pathos neppure servirebbe; poiché è anche ca­ pace di dar voce patetica all’esatto contrario. Perciò non è affatto mio proposito, scrivendo qui, di vo­ lerlo convincere, bensì rilevare, in lui e in gran parte di quello che dice, un po’ di verità. Lo faccio passare per quello che è, un esaltato e un esaltato di una specie particolare, non solo perché è arrivato con due secoli di ritardo. Bòrne^ ha detto, con felice espressione: «I rapporti reciproci fra esaltati sono come quelli fra i soci di una tontina;^® man mano che muoiono, aumenta la percentuale a favore dei sopravvissuti». Quale meraviglia, allora, che, essendo un esaltato, si esalti in ’ Soprannom e attribuito già in vita al teorico e mistico francescano san Bonaven­ tura (morto nel 1274). * Soprannome (Maestro di dialettica) del riformatore Johan W essel di G roningen (morto nel 1489).

^ Gesammelte Schriften,

iii, pp. 241 sgg.

L a tontina (dal nome dell’inventore Lorenzo Tonti) era un sistema di rendita a vita basato su un capitale collettivo, dagli interessi divisi, volta a volta, fra i membri dell’ associazione ancora in vita.

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modo insolito, dal momento che gli è toccato l’intero capitale con gli interessi semplici e composti? Tuttavia, è un esaltato di una specie particolare non solo per grado, ma anche perché la sua esaltazione non è immediata, ma passa sotto forma di inganno, e sotto questa forma vive in piena libertà nella sua esaltazione. Questa è una nuova manifestazione del suo grado di esaltazione, ed è evidente che ne è la forma più alta. Un esaltato dell’immediatezza (e a questa classe appar­ tengono essenzialmente tutti gli esemplari conosciuti) o tra­ volgerà festosamente tutti gli ostacoli del mondo, per pian­ tare la bandiera della vittoria, oppure appesantirà l’esistenza del suo tormento; ovvero, nonostante tutta la sua esaltazione, l’esaltato non potrà fare a meno del mondo. Questo, il mio eroe non lo desidera affatto, al contrario vuole celare la sua esaltazione sotto apparenze del tutto opposte; così sicuro della sua causa che neppure ha voglia, o meglio, come ritiene anche lui, neppure ha il coraggio di dirlo. Prendiamolo per quello che è, e passiamo alla materia che mi sta a cuore. La tratterò percorrendo col pensiero deter­ minati punti, ed elaborandoli con la sua figura sempre in mente. I.

CHE COS’È L ’AMORE INFELICE, E QUAL È LA SUA VARIANTE IN QUESTO ESPERIMENTO.? Nell'amore infelice la poesia ha trovato, da tempo imme­ more, l’oggetto del suo felice amore. Come qualcuno ha detto che è stata una madre al capezzale del tiglio ammalato a inventare la preghiera, la preghiera adatta, appunto, a chi soffre in quel modo, così si dovrebbe quasi credere che l’a­

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more infelice abbia inventato la poesia. Ma in tal caso è il minimo pretendere che la poesia contraccambi e venga in soccorso all’amore infelice, e non è troppo chiederle di farlo più che volentieri. L ’amore infelice prevede quindi che si dia un amore, e che ci sia un potere a impedirgli di esprimersi felicemente nell’u­ nione degli innamorati. Niente è più facile a dirsi; ma da questa asserzione triviale si allontana di una distanza pari al diametro dell’orbita terrestre il fatto di essere il poeta che col suo pathos divino e col soffio del suo spirito creativo riempie questo niente. Senza pathos non c’è poeta. Il pathos è l’elemento primario, ma il successivo, che sta col primo in un rapporto assoluto ed essenziale, consiste nello scandagliare una profonda contraddizione. A voler dunque enumerare tutti gli ostacoli alla felicità della passione amorosa, questa scala, come quella del termometro, avrebbe una serie di gradi positivi e una di gradi negativi. Incomin­ ciando dagli ostacoli minimi, si raggiungerebbe un punto in cui avviene un cambiamento e tutto assume un altro carat­ tere. È possibile concepire ostacoli di una portata tale da dover dire: il compito della passione amorosa è di superarli. Se un poeta sceglie un ostacolo di questo tipo come elemento costitutivo di un amore infelice, non è affatto un poeta ma uno scrittore satirico, pur senza volerlo. Dunque, superare l’ostacolo può non essere in potere dell’amore. In questi termini sta la questione, o meglio, a questo punto si è arrestata molti anni fa. L ’epoca successiva è accomunata dal difetto di zoppicare da una parte e dall’altra: di non cre­ dere nell’amore come passione assoluta, e di non scegliere ostacoli di prim’ordine; si fa un accordo con i creditori e questi aderiscono; l’articolo “amore infelice” sparisce dalla circolazione, e al suo posto rimane un solo articolo: l’amore

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ragionevolmente felice; eguaglianza ed eens bier^^ per tutti. La poesia ha a che fare con l’immediatezza, pertanto non può immaginare una duplicità. Basta mettere per un solo istante in dubbio che gli innamorati siano assolutamente solventi qua innamorati, che siano assolutamente pronti, dentro di sé, all’unione della passione amorosa, basta un solo dubbio, e la poesia si allontana dal colpevole dicendo: «Questo, per me, è un segno del fatto che tu non ami, dunque io non posso mettermi con te». E fa anche bene, per non diventare anch’essa un potere ridicolo, come è diventata anche troppo spesso negli ultimi tempi, fraintendendo la scelta dei suoi compiti. Senza passione non c’è poeta, e senza passione non c’è poesia. Se dunque bisogna spingersi al di là della poesia e della pienezza dove la duplicità non ha spazio, se questo esodo non deve diventare perdizione nel buon senso e nel finito, questo deve accadere in virtù di una passione più no­ bile. Staccare la passione dalla poesia e sostituire questa per­ dita con le decorazioni, i paesaggi ameni, le popolari feste nel bosco, l’incantevole chiaro di luna del teatro, è perdizione, proprio come voler compensare la mancanza di valore di certi libri con l’eleganza della legatura, cosa di nessun inte­ resse per i lettori ma, al massimo, per i rilegatori. Eliminare la passione dalla battuta e in cambio lasciare che l’orchestra si limiti a giocare con gli archi, significa prostituire la poesia e produrre un effetto comico, come se nella realtà l’innamo­ rato, invece di un cuore gonfio di pathos, avesse in tasca un carillon per il momento decisivo. Solo quando nella poesia fa il suo ingresso una passione più elevata, solo allora inizia la duplicità di cui qui si parla. Il compito diventa ora in se stesso dialettico, cosa che il poeta "

L o stesso tipo di birra.

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non può e non deve mai essere. È ben vero che, per esempio, l’amore infelice ha una sua dialettica, ma fuori, non dentro di sé. Ciò che è dialettico in se stesso contiene in se stesso una contraddizione. Il compito del poeta è, al contrario, sem­ plice, poiché la contraddizione giunge dall’esterno. Lasciato a se stesso, l’amore infelice potrebbe diventare felice, questa è la certezza del poeta; ma la sfortuna vuole che alFesterno esista un potere che lo impedirà. Nella poesia, dunque, l’a­ more non si pone in relazione con se stesso, ma si pone in relazione col mondo, ed è questa relazione a determinare il suo esito infelice. Basta dunque che cessi di colpo la pienezza timbrica della passione, basta che nella passione stessa si pre­ senti un conflitto, anzi, che in una nuova pienezza di timbro si annunci una passione più elevata, basta che vi si percepisca dentro la consonanza dell’ambiguità, e il poeta non può più mettervi mano. Se la passione è amore, è necessario che sia in sé non-dialettico, affinché la poesia possa vedere nell’uomo l’innamorato infelice. Se la passione è patriottismo, è neces­ sario che sia in sé non-dialettico, e se l’eroe sacrifica una relazione erotica in forza della sua passione, non viene chia­ mato innamorato infelice ma prende nome dalla passione che è in lui non-dialettica. Così il patriota, nel suo entusiasmo per la terra natale, non si pone in relazione con se stesso, ovvero l’entusiasmo non si pone in relazione con se stesso, ma col mondo circostante e, nel mondo, con un rapporto d’amore, con un rapporto di pietà; è così che la poesia deve intenderlo. L ’eroe estetico deve trovare i suoi ostacoli fuori di sé, non dentro di sé. Che ciò non accada in Amleto, è forse appunto un’eccezione alla regola; ne riparleremo. Torniamo all’amore infelice. Se si considerano le figure che primeggiano fra questi infelici, coloro cui «il canto e la leggenda» hanno reso gli onori della fama, si vedrà subito

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che la passione è immediata e la contraddizione esterna, all’incirca come nel caso di un prete che faccia le pubblicazioni per conto dei fidanzati, poiché, anche lui, non pensa che nella passione stessa di un innamorato ci sia una contraddi­ zione, altrimenti potrebbe, come il poeta, sentirsi spinto da una vocazione poetica a dire del colpevole; «egli non ama». Petrarca vede Laura unita a un altro, Abelardo non si sente separato da Eloisa dal suo ordine clericale (poiché l’amore è la passione assoluta); ma lo separano da lei, ahimè. Tira di Fulbert^^ e la sua crudeltà; Romeo non avverte nell’odio delle famiglie il fattore di divisione, poiché esso si agita anche in lui attraverso la sua relazione di pietà filiale col padre; è il conflitto fra le famiglie che in effetti lo separa da Giulietta. Axel^^ non prova scrupoli di coscienza verso i pa­ renti più stretti, e Valborg capisce solo che lei e lui si amano, e che è la chiesa col suo potere esterno a separarli: basta rimuovere gli ostacoli, e codesti infelici diventano i più felici di tutti gli innamorati. Ai nostri giorni l’amore infelice non fa una bella figura. Andiamo a vedere Romeo e Giulietta, ma senza sapere esatta­ mente che farcene; nel momento culminante del dramma la platea piange sul serio, del resto meglio sacrificare una la­ crima a Shakespeare che a Giulietta, e a teatro ci si sente in una situazione quasi penosa. Ciò è semplicemente dovuto al fatto che l’amore, come ogni altra passione, è diventato, per le attuali generazioni, dialettico. Non è possibile compren­ dere una passione così immediata, e persino un garzone di droghiere potrebbe, nella nostra epoca, raccontare a Romeo L o zio di Eloisa, che fece castrare Abelardo per punirlo di avere sedotto Eloisa.

” L ’eroe di una ballata medievale {A x e l og V a lb o r g , poi ripresa in una tragedia dal poeta romantico CEhlenschlager.

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e Giulietta stupefacenti verità. A questo punto, potrebbe sembrare che a tale inconveniente si possa ovviare portan­ dolo aU’interno del dramma e facendolo lì emergere alla co­ scienza, in modo che il pubblico non si senta totalmente estraneo al teatro, potendosi riconoscere almeno nel garzone di droghiere. La sfortuna, però, è che questo non servirebbe, poiché in tal modo il garzone di droghiere, un filosofo posi­ tivo, un direttore dell’assistenza pubblica, qualsiasi altro rap­ presentante del buon senso si volesse impiegare dovrebbe uscirne con una vittoria; giacché il rovescio della medaglia sta appunto nella verità. Se ciò non succedesse, non solo Romeo e Giulietta rimarrebbero estranei al pubblico, ma ci perdereb­ bero ai suoi occhi; diventerebbero personaggi ostinati, dalla morte non tragica, ma ben meritata ob contumaciam^^ contro ogni ragione. Shakespeare, questo è vero, rappresenta nel suo dramma anche punti di vista opposti, ma il suo pathos asso­ luto rende anche lui tanto sicuro quanto Romeo e Giulietta sono non-dialettici nella loro passione. Quando dunque gli uomini disdegnano la poesia e tuttavia non hanno passioni più elevate, quale conseguenza ne de­ riva? Naturalmente, quella di smarrirsi in mezzi-pensieri, di bearsi di fantasie e di illusioni, e di diventare la generazione più sbrigativa ma non la più giudiziosa, la generazione delle promesse e delle bugie come nessun’altra, cosa che può es­ sere facilmente dimostrata a priori. Mentre quasi mai si sente parlare di un innamorato infelice, a maggior ragione si fa a gara nel pretendere di esserlo stato, di aver magari sofferto più di una volta quello che hanno sofferto codesti infelici, ma anche di aver superato queste pene eccetera, eccetera, ecceP er contumacia, cioè per l ’impossibilità di comparire in giudizio.

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tera. La poesia non sa che farsene di questa gente; quello che vuole è l’espressione essenziale di quello che uno ha essen­ zialmente sofferto, e non si accontenta del fatto che un paio di amiche assicurino di aver assistito alle sue pene, né della testimonianza di un direttore di coscienza, neppure se dotato di uno sguardo speculativo e capace di vedere come andrà necessariamente a finire. Ah, frutti tentatori per un poeta comico! E quando questi un giorno verrà, la mia sola preoc­ cupazione è che muoia dal ridere lui stesso, incantato dalla vista della inesaustività della materia, e sia così impedito dal combinare alcunché. Proprio un poeta diventerebbe una figura da utilizzare come personaggio principale in una commedia del genere; proprio Scribe, per esempio, è comico, nonostante il suo forse impareggiabile talento, è comico perché non ha com­ preso se stesso, perché vuole essere “poeta” e tuttavia ha dimenticato che la poesia e la passione sono inseparabili, è comico per aver soddisfatto la sua epoca in qualità di “poe­ ta” : il tutto è comico nel senso di Aristofane. Tutta l’esistenza di Scribe è una contraddizione, simile a quella che spesso troviamo nelle sue opere. Prenderò ad esempio La Camaraderie,^^ la commedia che lo fece entrare all’Accademia, con effetti da maestro che non ammiriamo mai abbastanza. Vi descrive una sciagurata congrega di soggetti mediocri, capaci per le strade più spregevoli di farsi avanti con la loro sfronta­ tezza; ma un giovane avvocato disprezza queste strade; e di­ venta perciò l’oggetto delle loro persecuzioni a forza di men­ zogne e di maldicenze. Che succede? Una giovane donna gli fa la cortesia di interessarsi a lui, non è inesperta di intrighi. ” Com media di Scribe del 1836.

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tutto le va sempre a buon fine, e l’avvocato raggiunge onore e benessere. Il risultato è dunque il seguente: che una con­ grega trionfa sull’altra, che un intrigo ha la meglio sull’altro. Come la rubrica “l’amore infelice”, uscita di scena, è stata sostituita non da due specie opposte, ma da una sola: “l’a­ more relativamente felice”, così escono qui di scena tutti gli opposti: onestà, disonestà, virtù, malvagità, sostituiti da un’u­ nica specie: l’onestà relativa, vale a dire che serve qualcosa di più dell’onestà. Ora che l’amore stesso è diventato dialettico, la poesia può abbandonarlo, perché il fatto che sia diventato dialettico im­ plica, in primo luogo, che il poeta non può adempiere al suo compito, non può neppure incominciare, perché è sopravve­ nuta un’introduzione con esito critico; in secondo luogo, che non v’è alcuna certezza che l’esito sia felice, una volta che tutti gli ostacoli esterni siano stati rimossi; infine, che in caso di morte non v’è alcuna certezza che l’eroe sia morto per amore o per passione, dal momento che può essere una febbre da raffreddamento il motivo per cui uno muore. Se si porta alla coscienza il fatto che l’amore ha cessato di esistere come passione assoluta, la poesia deve abbandonarlo; e dov’è la carcassa, là si riuniscono i corvi, che in questo contesto assumono le sembianze di romanzieri, scrittori di feuilletons, ermafroditi di poeti tragicomici, che non sanno con precisione se vogliano essere tragici o comici, e dunque non sono né l’uno, né l’altro, poiché senza passione non c’è poeta, ma neppure poeta comico. Se la poesia deve conti­ nuare a esistere, è necessario che inventi un’altra passione che abbia come soggetto poetico la stessa legittimità dell’a­ more. Non sarebbe diffìcile dimostrare che non esiste nes­ suna passione del genere, proprio a causa della strana sintesi che è l’eros. Comunque non ho intenzione di sviluppare il

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tema in questa sede, e neppure di pretendere che mi si creda sulla parola, poiché non ne faccio parola. Tuttavia esistono agli occhi della poesia altre passioni autorevoli. Lo stesso fattore che affievolisce la fede nell’amore, la mancanza di senso dell’infìnito, affievolirà anche la fede in altre passioni. Abbandonati dunque dalla poesia, cercheremo di discendere nel finito, fino ad arrivare alla politica, in senso deteriore. Se la politica è concepita con la passione dell’infinito, potrà na­ turalmente produrre eroi, come succedeva ai vecchi tempi, quando la gente credeva anche nell’amore. Nel mondo del­ l’infinito vige la regola che chi contravviene a un punto, contravviene a tutto; poiché chi ha il senso dell’infinito ha il senso di ogni infinito. La stessa riflessione che ha logorato l’amore logorerà anche la passione infinita della politica. Un eroe, in un’epoca come questa, diventa un uomo che vuole lavorare per rag­ giungere uno scopo finito, pronto, secondo quello che af­ ferma, a sacrificarvi la vita; forse è arrivato a questo punto anche grazie a un errore, e per via di un ulteriore errore viene canonizzato eroe. Una figura simile è in ogni caso inuti­ lizzabile in poesia (a meno di impiegarlo come salumaio in una commedia di Aristofane); è impoetica e si contraddice. In questo senso è cosa assai coerente che la politica, nella nostra epoca, non infiammi d’entusiasmo i suoi cultori fino al sacri­ ficio; anzi, non entusiasma affatto, altrimenti i sacrifici ver­ rebbero da sé. È una contraddizione voler sacrificare la vita per uno scopo finito, e agli occhi della poesia una condotta del genere è comica, come sfinirsi nella danza fino a morirne, o come voler camminare con gli speroni quando si hanno le gambe storte, inciamparvi e perdere la vita - piuttosto che rinunciare a camminare con gli speroni. Ah, che compiti sti­ molanti per un poeta comico! Ma senza passione non c è

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poeta, e neppure poeta comico. Materiale non deve mancar­ gliene, poiché alla politica non mancano i servitori. Un’utile figura è quella del politico, che nonostante tutta la sua jFurbizia vuole fare l’entusiasta, vuole fare la vittima, ma non vuole sacrificarsi, vuole cadere, ma essere egli stesso testi­ mone dell’applauso, e perciò non arriva mai a cadere e forse, in ultima istanza, trova in se stesso l’unica persona che osta­ cola la sua strada: un entusiasta che non ha idea di che cosa sia l’entusiasmo. Il suo pathos culminerebbe in questa for­ mula, inspiegabilmente non ancora logorata dal tempo: «Io la vita la sacrificherei, nessuno deve dire che non ho un co­ raggio da eroe; ma questo coraggio cieco non è quello più nobile, per cui mi domino - e continuo a vivere; per cui mi domino, e lascio che sia un altro a cadere al posto mio. Plaudite»}^ Certo è naturale che un politico intelligente sia anche abbastanza intelligente da capire, cosa che rimane nascosta alle menti più semplici, quanto valga la sua vita per lo stato, e che, se vive a lungo, nessuno si troverà più nel bisogno; ma entusiasmo questo non è. Tutto l’entusiasmo è contenuto nella passione dell’infinito, dove Tizio e Caio, con tutta la loro intelligenza, scompaiono come un niente. Dio aiuti la poesia, ché con l’aiuto della politica l’hanno messa a pane e acqua! Già Aristotele aveva suddiviso gli uomini in: 08O>LÓyoi, (pi^óaocpoi, TEOÀITIKOI. I politici vengono per ultimi, per non dire dei politici del mondo finito, che rinunciano alla pas­ sione deH’infinito; questi vengono per ultimi, o meglio, «A pplaudite», la battuta tradizionale di chiusura nelle commedie latine. T eologi, filosofi, politici. In realtà, n c ìì’H ticj a N icom aco si parla di tre forme di vita: edonistica, politica (pratica) e teoretica (filosofica). Teologo, per Aristotele, è chi spiega l’origine del mondo con categorie mitico-poetiche.

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dietro tutti gli altri, come fa sempre la birra leggera. Nella fede in se stessi non v ’è entusiasmo, e meno ancora nella propria meschina furbizia da droghiere; tutto l’entusiasmo si fonda o sulla fede nella propria passione, oppure, più profon­ damente, nella fede in una Provvidenza capace di insegnare che anche la morte dell’uomo più grande è uno scherzo per una Provvidenza che possiede riserve di legioni di angeli: e che bisogna quindi risolutamente andare incontro alla morte e lasciare alla Provvidenza la propria buona causa, e al poeta la sua fama postuma. Così come si vede di rado un innamo­ rato infelice nella nostra epoca, altrettanto di rado si vede un martire nel mondo della politica, ma al contrario c’è una gara generale a dire: «Che il diavolo mi porti se non ero pronto, certo, prontissimo a essere un martire, se non fosse che ho capito che era più grande eccetera»; e i politici possiedono innumerevoli schiere di eroi titolari e di martiri volontari, non nelle armi, ma inter pocula.^^ Tutti possiedono questa disponibilità magnanima verso la morte eroica, ma con una saggezza altrettanto eroica hanno anche capito «che sarebbe meglio da ogni punto di vista, meglio per la società, che si sentono in dovere verso l’umanità di vivere - e di continuare a brindare». Rimane ancora un passo, ed è un autentico non plus ultra: si ha quando una simile generazione di assicuratori sulla vita considera un’ingiustizia da parte della poesia di non scegliere i suoi eroi fra i valorosi contemporanei. Ma si fa torto alla poesia, o piuttosto non bisogna provocarla per troppo tempo, affinché non finisca per prendere, alla maniera di Aristofane, il primo salumaio che le capita e ne faccia un eroe. Altra ispirazione la poesia non trova nelle bestemmie e nelle briscole sul tavolo. Tra i hicchieri.

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Il tempo della poesia sembra così passato, di quella tragica in particolare. A un poeta comico mancherà il pubblico, dal momento che neppure il pubblico può essere in due luoghi contemporaneamente: sul palcoscenico e in sala. Inoltre, un poeta comico si rifugia anche lui in un pathos che sta al di fuori della commedia, e dimostra, con la sua esistenza, che il tempo della poesia è passato. Chi ripone la sua speranza in un dramma speculativo serve la poesia solo nella misura in cui serve il comico. Se un mago o uno stregone riuscissero a realizzarne uno, e se questo dramma dovesse, con il sostegno di un taumaturgo speculativo (giacché un drammaturgo non basterebbe), soddisfare l ’esigenza dell’epoca in quanto opera poetica, l’evento sarebbe certamente un buon pretesto per una commedia, anche se questa raggiungerebbe l’effetto co­ mico attraverso un numero tale di presupposti che non po­ trebbe diventare popolare. Che il tempo della poesia sia passato vuol dire, in sostanza, che è passata l’immediatezza. Totalmente priva di riflessione l’immediatezza non è; come la concepisce la poesia, trova una riflessione relativa nell’avere il suo opposto al di fuori di sé. Ma l’immediatezza scomparirà realmente solo quando l’infi­ nito immediato sarà compreso da una riflessione altrettanto infinita. Nello stesso istante tutti i compiti si trasformeranno e saranno resi dialettici in se stessi; a nessuna immediatezza è concesso di attenersi a se stessa o di esporsi solo per contrap­ porsi ad altro, giacché il suo compito è contrapporsi a se stessa. Torniamo all’amore. Quando l’amore non si attiene a se stesso significa che, una volta dato, non trova, come la poesia, i suoi ostacoli fuori, ma incontra i suoi ostacoli dentro di sé. Nasce così un compito che ogni poeta deve scartare, ma che tuttavia ha un suo significato, un compito che può essere

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variato in molti modi; e uno di questi l ’ho scelto per il mio esperimento psicologico. L ’amore è dato, non si vedono osta­ coli, al contrario: solo pace e sicurezza, e il favore della bo­ naccia. Ma nell’istante in cui deve introdursi nella riflessione infinita, urta contro le difficoltà. Le difficoltà, dunque, non si presentano quando l’amore si scontra col mondo, ma quando si deve riflettere nella personalità. Il problema è talmente dialettico che il fatto che l’amore urti contro queste difficoltà può portare alla tentazione della formula contraria: ma allora è dato, l’amore? Ora, se non si tratta di un conflitto religioso, il problema non esiste, se non a chiacchiere; poiché la poesia è splendida, il religioso più splendido ancora, ma fra questo e quello stanno pure chiacchiere, per quanto talento si sprechi nel farle. L ’amore, insomma, provoca risentimento, o almeno così sembra all’individuo, e così egli afferma di avere un amore infelice. Io mi esprimo in maniera del tutto dubitativa e non ho la passione del mio cavaliere, tuttavia cerco di capirlo. Il poeta a questo punto gli chiederebbe: « L ’ostacolo qual è? Ci sono genitori crudeli da addolcire, un odio di famiglia da placare, una dispensa papale da ottenere, un rivale da allonta­ nare, oppure... Ahimè, devo pensare a me stesso e alla mia posizione; se devo lanciarti qualche soldo, se hai bisogno di denaro per esser felice, molto bene - a meno che tu non preferisca rientrare in uno dei primi quattro casi; e allora ti renderò infelice, ma eroe». L ’uomo in questione risponde di no. Allora il poeta si volta dall’altra parte e dice: «Va bene, caro amico, vuol dire che non ami». La poesia è disposta a fare tutto per la passione amorosa, disposta a rivestire di bellezza chi è felice, disposta a cantare le lodi dell’infelice, ma nella sua amorevole ingenuità deve essere assolutamente certa di una cosa: della passione amorosa, affinché, dopo aver

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fatto di tutto, airimprovviso non scopra di aver fatto tutto invano, perché c’erano altri ostacoli. Per attenersi al compito, bisogna costantemente eseguire un doppio movimento. Chi non sappia eseguirlo, o non sappia eseguirlo con levità, il compito non lo vede neppure, ed è già una fortuna per lui se non ha perso il piacere della poesia. Ma se è in grado di farlo, sa anche che la riflessione infinita non gli è estranea, ma è la trasparenza delFimmediatezza a se stessa. Supponendo che l’amore abbia attraversato con successo la riflessione infinita, diventa qualcos’altro, religioso; se si arena strada facendo, si arena nel religioso. Forse non si vede su­ bito, perché spesso sotto il nome di “riflessione infinita” si pensa alla riflessione finita. Rispetto a ogni forma di rifles­ sione finita, l’immediatezza è di natura più elevata, e consi­ dera un’offesa il doversene occupare. I poeti lo capiscono benissimo, ed è per questo che gli ostacoli vengono dall’e­ sterno, e la tragedia sta appunto nel fatto che tali ostacoli hanno in un certo senso il potere di trionfare sull’infinito dell’immediatezza; solo borghesucci e poeti ermafroditi l’in­ tendono diversamente. Ma una riflessione infinita è infinita­ mente più elevata dell’immediatezza, e in essa l’immediatezza si pone in relazione a se stessa nell’idea. Ma l’espressione “nell’idea” denota un rapporto con Dio nella più ampia delle accezioni, un’accezione che ha in sé una molteplicità di deter­ minazioni più precise. Anche nell’immediatezza c’è l’idea, e il poeta la vede, ma per il suo eroe l’idea non esiste, oppure, nel suo rapporto con l’idea, egli non è in rapporto con se stesso. Proprio per questo non è libero nella sua passione. La libertà infatti non significa in alcun modo che egli debba abbandonarla; la li­ bertà significa che la passione dell’infinito, che potrebbe far­

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gliela abbandonare, egli la usa invece per trattenerla. Un pen­ siero simile non lo può concepire l’eroe poetico, e il poeta non osa neppure lasciarglielo pensare, poiché in quello stesso istante cessa di essere una figura poetica. Nella riflessione infinita la libertà si conquista in questo modo, tanto l’affermativa che la negativa. Nel mio esperi­ mento ho scelto la protesta, in modo che il doppio movi­ mento risultasse più chiaramente possibile. Egli si aggrappa, allo stesso tempo, al suo amore; non trova ostacoli esterni, al contrario ogni cosa sorride incoraggiante e minaccia di tra­ sformarsi in orrore se egli non segue il suo desiderio; lo mi­ naccia con la perdita certa del proprio onore, con la morte dell’amata: e dunque, egli si aggrappa allo stesso tempo al suo amore e al fatto che, nonostante tutto, egli non vuole, non può realizzarlo. La situazione è talmente dialettica che non bisogna aver fretta, perché produrrebbe solo confusione. Ma se è vero che il tempo dell’immediatezza è passato, si tratta di raggiungere il religioso, e tutto ciò che è intermedio non è di alcuna utilità. E per chi riconosce che il tempo dell’immediatezza è passato, anche il più difficile movimento dialettico diverrà popolare; altrimenti, sarei più che disposto ad ammettere che il mio esperimento è molto lontano dall’essere popolare. G e­ neralmente si crede che ciò che rende impopolare l’esposi­ zione di un pensiero siano i molti termini tecnici della fraseo­ logia scientifica. Ma questa è una sorta di impopolarità del tutto fortuita, che gli oratori scientifici hanno in comune, per esempio, con i marinai, altrettanto impopolari perché si esprimono in gergo, e non certo perché parlano con profon­ dità. Col tempo, anche la terminologia di un filosofo può far breccia nell’uomo comune, e quel tipo di impopolarità diven­ terebbe fortuita. È il pensiero, non la casualità dell’espres­

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sione, a rendere un’esposizione essenzialmente impopola­ re. Un fabbricante di passamaneria e di bottoni sistematico può diventare impopolare, ma essenzialmente non lo è af­ fatto, perché non c’è gran pensiero nelle cose stranissime che dice (e questa, ahimè, è un’arte popolare): Socrate, al con­ trario, era l’uomo più impopolare della Grecia appunto perché diceva le stesse cose del più semplice degli uomini, ma le caricava infinitamente di pensiero. Saper perseverare in un’idea, perseverare con passione etica e spirito intrepido, vedere la duplicità in se stessa di quest’unica idea, con la stessa equanimità, e nel contempo vedervi la più profonda serietà e la burla più elevata, la più profonda tragicità e la più alta comicità, è impopolare in tutte le epoche, per tutti quelli che non hanno capito che l’immediatezza è passata. Ma d’altra parte le cose essenzialmente impopolari non si pos­ sono imparare a memoria. Approfondiremo l’argomento in altra sede. Dunque, questo è il compito con cui mi sono cimentato: una storia d’amore infelice, dove l’amore sia dialettico in se stesso, e nella crisi infinita della riflessione acquisti un tocco religioso. Si nota facilmente come il compito sia diverso da ogni altra storia d’amore infelice; lo si nota facilmente, guar­ dando contemporaneamente all’uno e all’altra; altrimenti, forse, non guardiamo né all’uno né all’altra.

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2.

IL M ALINTESO COME PRIN CIPIO TRAGICO E COMICO-TRAGICO UTILIZZATO N E L L ’ESPERIM ENTO

Quando C l a u d i u s ^ ^ di^e che il malinteso deriva fondamental­ mente dal non capirsi a vicenda, nel suo umorismo ingenuo sono nascoste, sotto le spoglie dell’immediatezza, le diffe­ renze che, una volta portate alla luce, definiscono il comico e il tragico; e quindi anche questa ingenua asserzione si diversifica in relazione alla passione opposta, che può darle il timbro. La tautologia dell’asserzione può allo stesso modo costituire uno stimolo per la passione comica e per la pas­ sione tragica, il detto in sé appartiene all’umorismo. Così, con ironia Socrate potrebbe benissimo dire, nella situazione minata della conversazione: «Strano, per gli dèi, che noi, caro P o l o , n o n ci comprendiamo a vicenda: ci dev’essere un malinteso». Con atteggiamento tragico, un entusiasta di­ rebbe: «Ah, che malinteso, che non possiamo compren­ derci!», Dal punto di vista unitario del comico e del tragico, l’asserzione non sarebbe umoristica, ma profonda. Infatti, non appena fra due persone si insinua il malinteso, finché si fraintendono l’un l’altra non se ne potrà indicare altro mo­ tivo che il malinteso. Se si può indicare il motivo del malin­ teso, ecco che il dmnm en del malinteso viene risolto, I due possono perciò benissimo continuare a fraintendersi, e tut­ tavia a capirsi in profondità. Il malinteso è presente dovunque si incontri l’eterogeneo, tuttavia, si noti bene, dev’essere un’eterogeneità tale da ren­

M. Claudius, D ie A u d ie n z , in Sàm m tlich e W erke, Ham burg 1838, 11, p. 91. Personaggio del G orgia di Platone.

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dere possibile una relazione, altrimenti non c’è malinteso. Alla base del malinteso si può dunque dire che c’è un’intesa, ovvero una possibilità d’intesa. In caso di impossibilità, non c’è malinteso. Ma la possibilità implica il malinteso, che dal punto di vista dialettico è tanto comico che tragico. Di questa duplicità del malinteso la poesia non può però occuparsi; deve usarlo, il malinteso, o sul piano comico o su quello tragico. In quanto a questo agisce giustamente nel porre le ragioni del malinteso in un fattore esterno; basta rimuoverlo, e coloro che si fraintendono arrivano a capirsi. Se infatti il malinteso è implicito nel reciproco rapporto di eterogeneità, il rapporto è dialettico, e il malinteso sia co­ mico che tragico. Quando, al contrario, è un fattore esterno a dividere nel malinteso le due parti, allora i due, dal punto di vista essenziale, non si fraintendono, ma si intendono, come si vede appena viene rimosso questo fattore esterno. Per non andare troppo lontano negli esempi e nei para­ goni, quando la poesia impiega il malinteso in una storia d’amore infelice, pone il malinteso in un evento fatale, in un avvenimento misterioso, in un individuo malvagio o stolto che col suo intervento inserisce fra le due parti il malinteso. La poesia deve sapersi sicura della reale possibilità di un’in­ tesa, altrimenti non può neppure cominciare. Rimuoviamo dunque quell’evento, queU’avvenimento, quell’individuo, ed ecco che i due si intendono, poiché gli ostacoli soltanto gli hanno impedito di giungervi. Un malinteso simile non è co­ mico e tragico al tempo stesso. La relazione del malinteso è semplice, e a renderla tragica nel contesto di un amore infe­ lice è il fatto che nella passione degli innamorati è riposta la sostanza dell’amore. Eliminiamo la sostanza dal malinteso, ed ecco che il malinteso è comico, e i due che si fraintendono si rivelano, proprio nel malinteso, nella loro vacuità, e la risata

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che risuona su di loro è il giudizio che riconcilia e appaga l’esistenza. Che questi due opposti esistano contemporaneamente è una considerazione troppo dialettica per la poesia. Anche se la poesia romantica associa comico e tragico, lo fa nella forma della contrapposizione, e soprattutto nella sintesi negativa di una concezione della vita che in poesia non è data, ma si fa in qualche modo presentire. Ma non è Io stesso dell’essere nel contempo tragica e comica; al contrario, la contrapposizione serve da fattore di separazione, e con la stessa pressione con cui reprime l’elemento burlesco innalza l’elemento lirico, N ell’immediatezza è costantemente presente solo uno dei due, e la forma suprema della loro connessione consiste nella successione dell’uno all’altro. Nel Fedone, Socrate elabora questa successione magnifica­ mente e in una situazione concreta (poiché lo vediamo se­ duto a sfregarsi con piacere la gamba ora libera dalla catena, che, rimossa, ora gli fa provare piacere, mentre quando an­ cora era al suo posto lo faceva soffrire), con riferimento a un’impressione sensoriale: piacere e dolore; e sostiene che sarebbe stato compito di Esopo inventare una favola su come gli dèi, non essendo in grado di unire questi poteri in con­ trasto in nessun altro modo, li avessero legati insieme per le estremità. Socrate, è vero, ammette così che piacere e dolore non si avvertono contemporaneamente; ma nella sua ironica coscienza entrano in una sintesi negativa. Così i contrasti della poesia non fanno che succedersi reci­ procamente, La morte di Socrate, perciò, la poesia non potrà mai concepirla. Qui culmina tutto, e tuttavia la poesia non potrebbe vederne che un lato, in questo caso, naturalmente, il tragico. Al massimo produrrebbe un contrasto comico, seb­ bene, forse, con difficoltà. Non si può negare che Santippe

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faccia una figura comica, con le sue urla e il suo baccano, che il suo comportamento richiami alla mente i contriti elogi fu­ nebri di molte vedove iraconde sul marito defunto; non si può neppure negare che Socrate, con una certa ironia, lasci cadere una luce comica sulla scena, quando si vede portare fuori dalla porta Santippe, con tutta la sua tenerezza e la stridula emozione in tanti anni messa da parte e nascosta per questo momento solenne; ma questo contrasto sarebbe un tantino ingiusto, e non sufficiente. Sarebbe forse meglio for­ mare, in stile romantico, un coro composto da una certa classe di filologi, che con le loro osservazioni “strappala­ crime” su questo modello di virtù e sulla sua morte da mar­ tire formerebbero un eccellente contrasto con tutta la filo­ sofia di Socrate. Ma in tal caso tornerebbe a scomparire la storia. Persino gli amici di Socrate sono fuori della portata della poesia; poiché Fedone stesso afferma di essersi trovato come testimone di questo evento, in una situazione curiosa, in un insolito miscuglio di gioia e dolore, tanto è vero che i presenti ora piangevano, ora ridevano, in particolare Apollodoro. Per non parlare di Socrate; giacché il fatto che i pre­ senti ora piangessero, ora ridessero mostra solo che non lo avevano compreso completamente. Socrate pone appunto una duplicità che la poesia non può esprimere. Se la poesia vuole impossessarsi del pathos della tragedia per descrivere la sofferenza da martire di Socrate, farebbe meglio a guardar­ sene: giacché egli non soffre affatto, ha già intravisto la burla nel fatto che un tale aTOKÓq finisca i suoi giorni giusti­ ziato. Sul piano comico la poesia non lo può concepire, poiché il fatto che tutta l’invenzione comica sia di Socrate Un originale; definizione di Socrate n d V A lc ib ia d e

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dimostra precisamente che Socrate non è comico; e se mai è esistito un uomo che non fosse comico, quello era Socrate. Una tragica morte da eroe è cosa semplice, come le ama la poesia; ma se nello stesso tempo le balena l’idea che l’eroe stesso supponga nella situazione un lato comico, la poesia deve darsi per vinta. In ogni caso, prima che io prenda congedo dalla poesia, devo fare ancora un’osservazione sull’impiego estetico del malinteso. La poesia può fare anche uso del malinteso nel modo in cui esiste per il singolo individuo, proprio perché non vede nessun punto di connessione fra lui e quello, o quelli, che lo fraintendono. La cosa può diventare sia comica che tragica a seconda della sua qualità e della sua passione, ma non può diventare insieme comica e tragica, perché manca il punto di connessione che associ in una unità le parti che si fraintendono, o dove le parti stesse si associno in modo da restare allo stesso tempo unite e tuttavia allontanarsi nel malinteso; ma senza mai potersi separare, poiché il punto di connessione esiste, e nel fatto che esista sta la relazione nel contempo comica e tragica. - E tragica, quando un entusiasta parla a una generazione di apatici e non viene compreso; ma è tragica solo perché non esiste alcun punto di unità fra loro, giacché agli apatici non importa proprio nulla dell’entusiasta. I viaggi di Gulliver sono comici per via di una forma di fan­ tasia vicina alla follia, ma l’effetto è solo comico, e comico perché nel malinteso manca la sostanza della passione quali­ tativa, per quanta passione ci sia nello scrittore, poiché senza passione non c’è poeta, e neppure poeta comico. Se il malin­ teso riguarda unicamente delle inezie, diventa una sorta di allegra burla. La vita è ricca di esempi. Un sordo entra in una sala di riunioni mentre è ancora in corso il dibattito; non vuole disturbare, e quindi apre la porta a due battenti con

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molta cautela. Sfortunatamente, la porta ha la caratteristica di cigolare. Lui non può sentirlo, crede di far bene, e aprendo la porta lentamente produce un prolungato cigolio. Nella sala diventano impazienti, uno si gira e gli fa cenno di fare si­ lenzio, lui crede di aver forse mosso troppo bruscamente la porta, e così il cigolio continua. Questa situazione è una burla, quindi né il comico né il tragico possono farvi davvero presa. Tuttavia un punto di unità s’intravede; lui non vuole disturbare, la riunione non vuole essere disturbata, e lui di­ sturba. Con l’aggiunta di un po’ più di emozione e di altri elementi del genere, eccoci nelle molte situazioni dove non si sa se ridere o piangere. Questo è il tragi-comico, dove, non essendovi passioni essenzialmente coinvolte, mancano essen­ zialmente sia il comico che il tragico. Nel comi-tragico sono coinvolti entrambi, e lo spirito reso dialetticamente infinito vede nella stessa cosa entrambi gli aspetti in una volta sola. Ora passiamo al mio esperimento. Ho messo insieme due personalità eterogenee, una maschile e una femminile. A lui ho messo lo spirito alla potenza che tende al religioso, lei l’ho tenuta nelle categorie estetiche. Il malinteso ha buone possibilità di sorgere, non appena stabilisco un punto di con­ tatto. Questo è rappresentato dal fatto che si amano. Qui il malinteso non risiede in un fattore esterno, come se i due si comprendessero e intervenisse un potere estraneo a dividerli, no; l’ironia è che tutto favorisce il loro malinteso, non c’è niente che impedisca loro di sposarsi e di parlarsi, ma allora incomincia appunto il malinteso. Se ora rimuovo la passione, tutta la storia si trasforma in una situazione ironica con una Heiterkeifi^ greca; se inserisco la passione, la situazione è Serenità,

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essenzialmente tragica; se la sto a guardare, dico che è in­ sieme comica e tragica. L ’eroina naturalmente non può consi­ derare la situazione in questo modo; è troppo immediata. Se ne vede il lato comico, secondo la legge della successione non potrebbe farlo che in seguito, quando la sua risata torne­ rebbe a rendere comica lei stessa, giacché ridere di un errore essenziale dimostra che uno è caduto in un nuovo errore, e chi ride così non è più guarito di chi «è libero, perché ride delle sue c a t e n e » . L ’eroe si rende conto immediatamente della presenza dell’elemento comico, il che lo salva dal diveni tare lui stesso comico; tuttavia non è certo in grado di vedere la relazione come la vedo io, che, in quanto autore dell’espe­ rimento, ho predisposto tutta la faccenda. Il fatto è che egli si trova in uno stato di passione, e l’alto grado della sua pas­ sione si vede al meglio nel fatto che egli si fortifica nel suo pathos vedendo il comico. E in uno stato di passione. Se gli dicessi: «Cerca di eliminarla, la passione», la sostituirebbe immediatamente con un’altra e direbbe che è un’infamia contro la ragazza. Così, certo, riesce a vedere il comico nel­ l’incompatibilità e nel malinteso, ma vede questa concezione come un’istanza subordinata, e la sua passione se ne sviluppa con pathos sempre maggiore. Il punto di congiunzione nel loro malinteso è che si amano, ma nella loro eterogeneità questa passione non può che esprimersi in modi essenzial­ mente diversi, e quindi non è necessario che arrivi a dividerli un malinteso dall’esterno; il malinteso si sviluppa dalla stessa relazione fra di loro. Il tragico sta nel fatto che i due innamo­ rati non si comprendono, mentre il comico sta nel fatto che due che non si comprendono si amino. Che un caso simile G . E. Lessing, N alhan der W cisc, iv, 4.

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possa verificarsi non è impensabile, poiché anche l’amore ha sicuramente la sua dialettica; e anche se fosse inaudito, un esperimento ha tutto il diritto di sperimentare. Quando si presenta l’eterogeneità come l’ho presentata io, le due parti hanno pure ragione di dire che amano. Anche l’amore ha un momento etico e un momento estetico. Lei afferma di amare, ma sta nell’estetico e lo intende esteticamente; lui afferma di amare, e intende l’amore eticamente. In tal modo amano e si amano entrambi, e tuttavia esiste un malinteso. L ’eteroge­ neità reciproca è un fatto di categorie separate, e il malinteso si distingue così dal baratto e dai ripensamenti romanzeschi nell’ambito di categorie puramente estetiche. La figura maschile dell’esperimento vede, sì, il comico, ma non come lo vede un osservatore incallito. Egli vede il co­ mico e, per suo tramite, si rafforza in direzione del tragico. E precisamente quanto soprattutto mi interessa, poiché serve a mettere in luce il religioso. Nella forza d’animo di vedere contemporaneamente il comico e il tragico della stessa cosa culmina il paganesimo. Nella suprema passione che, entro questa sintesi, sceglie il tragico incomincia la religiosità, in­ tendo la religiosità per cui l’immediatezza è cosa passata - e passata, a quanto pare, è per tutti, nella nostra epoca, o così si dice. Come creatura animale, l’uomo possiede due gambe (le estremità); allo stesso modo, il comico e il tragico sono le estremità necessarie al movimento di chi voglia esistere in virtù dello spirito, e dopo aver rinunciato all’immediatezza. Chiunque abbia una sola gamba, e voglia essere ciò nono­ stante spirito in virtù dello spirito, è ridicolo, fosse egli pure un grande genio. N ell’equilibrio del rapporto fra il comico e il tragico risiede la condizione per l’andatura giusta; e anche l’incompatibilità si può definire qui come uno zoppicare, un avere le gambe arcuate, il piede equino eccetera. - La sfor­

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tuna del mio cavaliere è che lui, nell’attimo in cui deve racco­ gliersi nella sua religiosità, diventa dialettico fino all’estremo, cosa di cui parleremo più diffusamente nel prossimo para­ grafo. Qui dico soltanto che egli non diventa dialettico per il fatto di estrarre, dal tragico e dal comico, la passione tragica più alta, poiché in tal caso di lui non saprei che farmene; ma diventa dialettico anche nell’espressione ultima di quella pas­ sione. Altrimenti non saprei che farmene di lui; poiché preci­ samente in questo punto sta l’orientamento religioso di un’approssimazione demonica. Per far luce sull’esperimento, ne analizzerò la struttura. La forma del progetto ne manifesta la duplicità. Di mattina gli viene in mente la realtà, di notte si misura con la stessa storia, ora tuttavia permeata dell’idealità di lui. Questa idea­ lità non è affatto un’anticipazione illusoria, che non ha an­ cora visto la realtà, ma è un atto della libertà che viene dopo la realtà. In questo consiste la differenza fra l’idealità estetica e quella religiosa. L ’estetica è superiore alla realtà prima della realtà, cioè nell’illusione; la religiosa è superiore alla realtà dopo la realtà, cioè in virtù di una relazione con Dio. La duplicità è manifesta. Un poeta o un innamorato possono avere dell’oggetto d’amore un’immagine ideale, ma non pos­ sono, nello stesso tempo, avere la coscienza di quanto la realtà sia vera, e la coscienza di quanto non sia vera. Questa contraddizione può sostenerla solo la nuova idealità che viene dopo la realtà. La storia inizia così due volte. Ho permesso che intercor­ resse un periodo di sei mesi; e presumo che lui, durante questo tempo, abbia vissuto in una sorta di letargo, fino a quando la passione gli si desta all’improvviso il 3 gennaio. Si potrebbero avanzare anche altre interpretazioni; io la mia scelta l’ho fatta secondo il mio progetto.

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Le due idealità sono in rapporto di opposizione reciproca. Il punto critico per lei si presenta nella realtà, ma lui, che è sostanzialmente privo di esperienza pratica in rapporto al­ l’altro sesso, non percepisce con chiarezza questa difficoltà, e solo per sforzi teorici riesce ad averne sentore. Shakespeare ha detto da qualche p a r t e , n o n ricordo dove e dunque non posso citare, ma il concetto è questo: è nell’istante che pre­ cede la guarigione da una violenta malattia, nell’istante del miglioramento, che un attacco è più violento; e ogni male si manifesta sempre nella maniera peggiore quando sta per an­ darsene. Il punto critico per lei, quando finalmente inco­ mincia la guarigione, è il momento in cui ha rischiato qual­ siasi cosa per tenerselo stretto, e ora lui, in maniera del tutto coerente dal suo punto di vista, rischia all’estremo per sbaraz­ zarsi a forza di lei. Da questo momento, dal momento in cui lei ha sofferto il dolore più profondo, ha inizio, dal punto di vista psicologico, il suo miglioramento. L ’immagine di lui scompare, perciò, mentre lui è ancora presente e, una volta messa in atto la separazione, si confonde sempre più col ri­ cordo; la realtà deve aiutarla. Per lui, le cose vanno all’in­ verso. Nel tempo della realtà è il più forte, poiché come realtà possiede solo lei. Al contrario, nel momento in cui lui, la seconda volta, non dovrà vederla nella realtà, ma alla luce della sua idealità, lei verrà trasformata in una figura gigan­ tesca. Ciò che lui ha messo in atto nella realtà, ovvero l’in­ ganno tramite il quale le è realmente stato d’aiuto (giacché la relazione è talmente dialettica che in fondo l’inganno è per lei verità, cioè quello che comprende meglio), non può soste­ nerlo di fronte a lei, appena è lui stesso a evocarla. Per cre­ dere al significato dell’inganno egli deve avere una relazione Re Giovanni, iii, 4, vv. 116 -17.

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con lei nella realtà, e realmente deve vederla. Il suo mo­ mento critico, quindi, incomincia il 3 gennaio dell’anno suc­ cessivo; giacché deve guarire sul piano religioso, e a questo riguardo la realtà di lei lo disturba; lui deve possederla ideal­ mente. Essendosi fraintesi fin dal principio, il malinteso con­ tinua anche dopo la separazione, e si manifesta, proprio ora, con la massima chiarezza. Nel preciso istante in cui lei è sul punto di dimenticarlo, poiché non lo vede ed è già avanti nel processo di guarigione, e lui non è più per lei così impor­ tante, in quel preciso istante lei assume per lui la massima importanza, proprio perché non la vede. Non appena la vede, le è vicino, le parla, è nel pieno possesso della sua ragione, ed è forte; non appena è lui a darle forma, perde la ragione, non osa crederle, e il religioso deve manifestarsi con maggiore determinazione. Uno spettro è sempre terribile, ed è proprio ciò che lei diventa per lui. Ma quale differenza fra una giovane donna, a cui la ragione di lui tiene testa, e una figura ideale che gli viene spaventosamente incontro, e contro cui la sua ragione non può assolutamente nulla! La personalità di lui tendeva all’etico-religioso. E questo deve diventare. Lei lo aiuta, in un certo senso, ma non con la sua realtà. Qui sta pure il significato della tristezza di lui. E la condensazione della possibilità. Ma se ha un significato di questa portata, è sbagliato mettersi a parlare della gaiezza di una giovane donna e della tendenza del matrimonio a disper­ dere la tristezza; giacché la tristezza non va dispersa. Al con­ trario deve farsi ancora più buio nell’anima di lui; allora gua­ rirà. Questo, lei non può comprenderlo, e si comporta in modo del tutto coerente. Neppure lui è in grado di vederlo, altrimenti il terrore non gli darebbe il colpo di grazia; che va a segno invece, con la più assoluta certezza, per via della sua colpa e dell’infelicità di lei.

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L ’idea esige clie egli la riveda, ma, si noti bene, non deve vedere una realtà, poiché sarebbe un aiuto. Quindi gliel’ho fatta rivedere parecchie volte. Ma questi incontri hanno un carattere particolare. Dal suo punto di vista, in piena coe­ renza, lui ritiene di dovere aH’infinito in lei di non turbarlo con l’intervento di mezze misure. Si vede subito che lui ha a che fare solo con se stesso, non con lei in quanto realtà esterna, poiché in tal caso riapparirebbe l’inganno. Per non turbare l’infinito in lei, dunque, si chiude come stregato in uno stato spaventoso di estinzione o di agonia. Questa, dal punto di vista di lui, è un’espressione del suo amore, violenta quanto lo era per lei l’esplosione veemente del suo, di amore. Da entrambe le parti, è questo naturalmente il modo più errato di comportarsi l’uno nei confronti dell’altra. Dunque lui la rivede. Ma proprio perché, per renderle un favore, si comporta alla stregua di un defunto, si impedisce di avere anche una sola impressione diretta. In questo, lui si avvia a essere normale; l’aberrazione sta nel fatto di ango­ sciarsene con tutta la sua passione. Non entra mai in rela­ zione diretta con un avvenimento che abbia a che fare con lei, non ha mai nessuna certezza; ma continuando ad ango­ sciarsene con tutta la sua passione, si impadronisce di tutto, anche delle cose più insignificanti; né i suoi sforzi dialettici potrebbero dargli molto di più.* Il che vuol dire che finirà per affondare sempre di più in se stesso. * Quanto possa essere estenuante una simile esistenza, lo vedo da quanto este­ nuante sia il solo costruirla nella mente, senza dimenticare in un solo punto, in un solo comma, le difficoltà dialettiche di lui. In un passo datato 13 febbraio, avrei potuto benissimo sostituire la prolissità dialettica con le seguenti parole: « L a dia­ gnosi del medico lascia intendere che lei sta bene». D ei pochi lettori del libro, i più frettolosi certamente non avranno notato nulla, e anche dei pochi più attenti, uno solo si sarà forse domandato; «Com e ha ottenuto un resoconto così immediato? D eve averlo per forza chiesto a qualcuno!». L a sua tesa passionalità gli ha tuttavia

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Quanto agli incontri, non gli dimostrano nulla di fatto. Alle conclusioni che trae, nessun altro all’infuori di lui arrive­ rebbe; al pallore che lui vede, io non credo affatto, o posso spiegarlo in molti altri modi. Che l’avesse vista per la terza volta, un mercoledì, in Hauserplads, è un fatto che nessun altro al posto suo avrebbe scoperto, e tanto meno avrebbe inferito da un caso fortuito ciò che ne inferisce lui. Persino l’incontro in chiesa non è una circostanza su cui fare affida­ mento; e, in fondo, lui non sa nulla. Se ne rende conto lui stesso, ma, coerentemente col suo punto di vista, mette al bando la ragione. Lo fa per renderle onore, lo fa per orgoglio per conto di lei, ma nello stesso tempo gli succede qualco­ s’altro: affonda sempre più in se stesso, religiosamente. Se si rimettesse con lei, recupererebbe la ragione, e il progresso religioso verrebbe ostacolato. Ma lui questo non lo vede; agisce così per affermare lei. Questi incontri corrispondono perciò al suo stato psichico, e il contatto con la realtà, che lui sfiora appena mentre le gira le spalle, lo mantiene nello stato di sospensione che serve al religioso. Egli ha ora di lei un’immagine poetica, ma in virtù di un’idealità religiosa che viene dopo la realtà. Come un innamorato, in virtù di un’idealità che precede la realtà, vede nell’amata bellezze che non ci sono, allo stesso modo lui, con l’intensa passione del pentimento, vede terrori che non esi­ stono. - Qui agiscono in lui, allo stesso tempo, le sue qualità buone e non comuni ma anche il demonico, l’incapacità di arrivare al riposo e acquietarsi nell’estrema soluzione reli­ giosa, e l’obbligo di una costante tensione. È lei a decidere il impedito di fare quello che, nella forma della possibilità, doveva considerare come la cosa più terribile. [N .d.A .]

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destino di lui, lui dice, ed è vero; ma è falso che sia lei a deciderlo, poiché è già deciso. Il fatto che lui rimanga in suspense è al tempo stesso un’espressione appassionata della sua simpatia per lei, ma anche del demonico.* A sentir lui, rimarrebbe in suspense, o all’apice del desiderio; ma allo stesso tempo, in virtù del fatto che la decisione è stata presa, si terrebbe in pace la sua soluzione religiosa, e non permette­ rebbe che la decisione diventasse dialettica a causa di lei. Ma appunto perché non è questo il suo caso, lui mette in luce, nel suo stato di sospensione e nella sua aberrazione, una quantità di problemi religiosi; e dobbiamo poi ricordare che le sue parole sono le battute di una passione individuale. Aveva energie sufficienti per sostenere il suo inganno, energie sufficienti per scegliere il sentimento, e proprio nel­ l’attimo estremo, o nel punto culminante della sua passione religiosa, si mette a fare il dialettico. E come se ci fosse la possibilità di un impianto diverso della sua vita, una volta che lei fosse uscita bene da tutta la storia. Proprio qui si mani­ festa il demonico: nel fatto che per una remota possibilità egli non voglia porsi in relazione con se stesso nella sua idea religiosa, ma voglia cogliere lei nelle categorie estetiche e imbrogliare un attimo l’etica, quasi fosse meno colpevole, se pure è colpevole, per il fatto che lei sia uscita indenne dalla situazione; meno colpevole, sebbene lei avesse torto nei suoi confronti. Ma di questo parleremo più diffusamente in altra sede.

* Così bisogna considerare tutti i passi da lui fatti per aiutarla. M a neU’ultimo, che lui stesso giudica una debolezza, è sublime nella sua sofferenza, poiché nei momento in cui la ragione deve dirgli che tutto andrà per il meglio egli crolla, per autentica simpatia, al pensiero che lei sia guarita solo in senso finito. [N.^f./l.]

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Dimostreremo ora l’eterogeneità delle due personalità nei suoi aspetti decisivi. L ’eterogeneità opererà un continuo ro­ vesciamento dialettico della relazione, come il lettore avrà già notato nel libro.

(i) Lui è chiuso in sé - lei non ci riesce neppure E perché lei non ci riesce? La chiusura in sé è dovuta a una reduplicazione dialettica, che è assolutamente impossibile per l’immediatezza. La lingua dell’immediatezza è, come le lingue ricche di vocali, facile da pronunciare; la lingua della chiusura diventa lingua solo nel silenzio, e al massimo può essere assimilata a certe lingue che pongono quattro, sei con­ sonanti prima di una vocale. Essendo lei così immediata, la devozione diventa, giustamente del resto, il mezzo con cui, dopo essere stata per lungo tempo sopraffatta da lui e aver subito dei torti, incitata da un piccolo evento lei esprime la sua passione. Su questa devozione si arena la chiusura del­ l’uomo, ovvero lui è dialettico a un livello talmente superiore da vedere l’incompatibilità. La chiusura, tuttavia, può avere diversi significati. La chiu­ sura di lui è essenzialmente la forma della tristezza, e la tri­ stezza in lui è a sua volta possibilità condensata, da attraver­ sare, in una crisi, per comprendere se stesso nel religioso. Di quanto racchiude la sua chiusura, egli non parla da nessuna parte. Sono stato attento a conservarlo così, in parte perché avevo bisogno della chiusura solo in quanto limite, il limite all’intesa che pone il malinteso; in parte perché nemmeno lui è capace di dire che cosa racchiuda. La sua chiusura è infatti né più né meno che anticipazione concentrata della soggetti­ vità religiosa. La soggettività religiosa ha un momento dialet­

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tico più di quanto non l’abbia ogni altra realtà, non in quanto anteriore alla realtà, bensì in quanto alla realtà posteriore. Egli perciò può benissimo esistere nella realtà, e così si pre­ sume che abbia fatto, ma la chiusura è e rimane il presagio di una vita più elevata. Ne segue perciò automaticamente che categorie della realtà quali «l’esteriorità è interiorità, e l’inte­ riorità è esteriorità» davanti al religioso sono invenzioni di gente alla Mùnchhausen,^^ che non si intendono affatto di religioso (cosa invece possibilissima a un entusiasta della ra­ gione come, senza essere religioso, sono io). In questa sfera, queste categorie sono utili quanto, per richiamare un vecchio detto, «cacciare la lingua fuori della finestra e prenderci sopra uno schiaffo». La sua chiusura in sé, dunque, per ora non contiene nulla, ma esiste in quanto limite, lo trattiene, e per ora lui è triste dentro questa sua chiusura. La forma più astratta della chiu­ sura è quella che racchiude se stessa. Lo psicologo sa bene che mentre il temperamento chiuso può dire molto, e senza sforzo, sulle ragioni passate della sua chiusura, non dice e non può dire nulla sulle ragioni attuali. La chiusura, perciò, è ben difficile da eliminare, in un temperamento chiuso; in realtà, egli deve guarire dentro di sé religiosamente. Questa è la forma più astratta della chiusura; quella, cioè, di una più elevata anticipazione di vita nella condensazione della possi­ bilità. Ecco perché egli non dice che cosa racchiuda la sua chiusura; dice solo che essa esiste. Dal punto di partenza di questa possibilità, si può progredire fino alla trasparenza reli­ giosa; e questo è ciò che lui dovrebbe fare. Ma non lo sa, e L ’eroe del celebre romanzo fantastico di R . E. Raspe, L e a vven tu re d e l barone d i M iin chhau sen, pubblicato la prima volta in inglese nel 1785 e presto tradotto in tutte le lingue. Qui si allude, naturalmente, agli hegeliani.

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tanto meno sospetta che questo percorso passi attraverso l’or­ rore di troncare la sua relazione con lei, poiché rappresenta un’incompatibilità. Se non avesse trovato in se stesso l’e­ nergia per la decisione della disperazione, se non avesse agito senza comprenderne il significato per se stesso, o piuttosto senza comprendere altro se non che sarebbe stata la sua ro­ vina, se non avesse trovato la forza per arrivare a questa decisione nell’entusiasmo della simpatia per lei, che lei lo capisse o meno, se avesse vinto lei: lui sarebbe stato perduto. Il processo evolutivo della chiusura in sé sarebbe stato bloc­ cato, lui avrebbe reagito alla sua chiusura, l’avrebbe repressa, nascosta dentro di sé come un’idea fissa, forse nella forma quieta della follia, forse persino nella forma di una colpa, poiché queste sono le due forme essenziali della chiusura in sé consolidata. Lui aveva la vita di lei sulla coscienza, il che lo ha aiutato e lo aiuterà: lei aveva tutta l’esistenza spirituale di lui sulla coscienza, senza sognarselo neppure. Per far luce sulla sua chiusura in sé, ho introdotto nel diario passaggi in cui egli sembra brancolare alla ricerca di un’espressione della sua chiusura. Direttamente non si esprime mai, non ne è capace; ma indirettamente sì. Sono passaggi da capire dunque anch’essi indirettamente. Uno di essi si chiama: «una possibilità», categoria per lui decisiva, e perciò da perseguire fino al limite estremo. Il passo si con­ clude stabilendo che si trattava di una fantasia, di un sogno febbricitante di colpa. Qui brancola in cerca delle colpe. Se avesse avuto una colpa sulla coscienza, se me lo fossi figurato in questo modo, sarebbe stato di gran lunga più facile trarlo d’impaccio; ma in tal caso l’intero progetto non avrebbe di­ mostrato quello che volevo io.

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(2) Lui è malinconico - lei piena di gioia di vivere Se la tristezza di lui è di una specie tale da dover essere bloccata, si lasci a lei questa incombenza; poiché in tal modo lo aiuta, come lui stesso dichiara commosso. Ma non è così. Egli non si rende conto che quella tristezza ha un altro signi­ ficato; sebbene lui stesso sia annientato, trionfa ancora il do­ lore della simpatia per lei, e lui decide di abbandonarla senza sospettare che precisamente questo può essergli di aiuto. Nel complesso la sua preoccupazione per la ragazza è esaltazione, ridicola in se stessa, tragica per via della sua sofferenza, co­ mica per il fatto che gli fa fare le cose più pazze. Esiste una differenza fra tristezza e tristezza. C ’è una tri­ stezza che, nei poeti, negli artisti, nei pensatori, assume la forma della crisi, e che per le donne può essere una crisi amorosa. Così, la tristezza del mio personaggio è la crisi da­ vanti al religioso. Se prendo a esempio un artista, questa tristezza critica non si esprime immediatamente nel lamento di lui per non saper essere un artista. Lungi da questo; tal­ volta è dubbio che chi ne soffre sappia così bene di che si tratti, che forse la sua sofferenza non sia che sovreccitazione. No, questa tristezza si può scagliare su tutto, sulle cose più insignificanti, e solo una volta stabilita la definizione essen­ ziale dell’uomo vi scopriamo il segreto della sua tristezza. Ma la crisi può sopraggiungere in seguito, in un uomo religioso; vale a dire in quella sorta di religiosità che fa soccombere l’immediatezza. Il motivo risiede nei molti presupposti neces­ sari: l’uomo dev’essere evoluto esteticamente nella fantasia, dev’essere capace di concepire l’etica con passione primitiva per contravvenire sul serio, affinché in questa catastrofe emerga la possibilità originaria del religioso. La tristezza deve perciò averlo guidato attraverso gli stadi precedenti.

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Così è con la personalità del mio esperimento. Ciò che potrà aiutarlo è precisamente il terrore. Lui neppure se lo sogna, pensa solo a lei e alla propria sofferenza nella colpa. La sua simpatia per lei lo spinge entusiasticamente a fare attenzione a rischiare il massimo possibile. Lui la abbandona; non per rinunciare a lei, ma per sopportare, sperando che ciò possa esserle d’aiuto. Non ne farà parola con lei giacché, trattandosi di una speranza incerta e malsicura, è recarle of­ fesa tenervela legata. E del tutto coerente che sia questo a poterla aiutare, ma lui ignora come. Una sola parola fra loro, e l’evoluzione di lui sarebbe stata compromessa. La conseguenza, naturalmente, sarà che lei nel frattempo rifletterà sul fatto che non riesce a stare da sola. Così dev’es­ sere; il cammino dell’uomo non avrebbe dovuto andare in quella direzione, e tutto è predisposto in modo che lui possa diventare una persona normale. Così ho progettato l’esperimento; lo stesso fatto è allo stesso tempo comico e tragico. Se avesse vinto lei, lui sarebbe stato perduto. Anche nel caso che la gioia di vivere di lei, che tuttavia è un capitale passibile di svalutazione, fosse stata in grado di fare di lui un marito felice, non era tuttavia questo che lui doveva essere. Ma lui non se l’immagina neppure lontanamente; sente uni­ camente la sua miseria con tale profondità, che è incapace di ciò di cui è capace chiunque - di fare il marito. Egli ha la vita di lei sulla coscienza, lei ha avuto sulla coscienza l’intera personalità di lui, e naturalmente senza neppure immaginarselo.

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(3) Lui è essenzialmente un pensatore - lei, tutt’altro La parola “pensatore” getta su di lui una luce comica; poiché il solo fatto che egli si dedichi unicamente alle idee serve a spiegare, cosa che l’esperimento presume, come sia riuscito a vivere senza la minima esperienza del mondo, e specialmente dell’altro sesso. Se avesse avuto questa esperienza, particolar­ mente in relazione al secondo punto, l’esperimento non si sarebbe potuto assolutamente condurre; non c’è bisogno in­ fatti di guardare lontano per vedere che cosa dovesse fare lui, e soprattutto che cosa fare per affrontare i terrori di una giovane donna, cui si rende onore nel modo migliore facendo di un’antica strofa una regola di vita; cantantur haec, laudantur haec, dicuntur, audiuntur; scribuntur haec, leguntur haec - et leda n e g lig u n t u r N ell’esperimento dunque cade su di lui, come riflesso della conoscenza del mondo che gli manca, una luce ridicola; al tempo stesso, però, la sua candida vene­ razione per l’altro sesso ha un che di commovente, oltre a un certo vigore epigrammatico che va oltre la conoscenza del mondo. Il fatto che lui sia un pensatore non implica che legga una quantità di libri e che intenda salire in cattedra come libero docente. Pensatori di questa sorta sono capacissimi di conci­ liare gli opposti, e dispongono anche della m e d iaz io n e.L u i, invece, pensa essenzialmente per conto suo, e nel senso che deve avere l’idea sempre con sé per poter esistere. Ciò lo impegna con la passione di chi pensa per conto suo, non certo con l’affettata autorevolezza, piena di sicumera, di un libero docente. «Son o cose che si cantano, si lodano, si dicono, si sentono; si scrivono, si leggono - e una volta lette si trascurano» (Pap. iv A 22). V A u fh e b tm g hegeliana.

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La ragazza ha dalla sua, in armonia con la sua immedia­ tezza, la vita e la luce, cui tiene più che a ogni altra cosa. Non farebbe obiezioni neppure se lui volesse studiare l’assiro-caldeo; se ne infischia di discipline erudite e curiose, fatto che in lei diventa amabile e non privo di un certo fascino. Ma lui non si occupa di assiro-caldeo o di eiamitico, ma dell’esi­ stenza stessa nella quale egli vive. Di conseguenza, i due non hanno nessuna possibilità di comprendersi. La materia che per lui è di assoluto interesse, lei non sa neppure che esiste, e se lui ne parlasse, lei non se ne curerebbe più che se parlasse di Sennacherib e Salmanassar.28 E d’altra parte lei non lo desidera; cosa amabile da parte sua, soprattutto se il suo compito fosse l’opposto, cioè di non occuparsene per rendergli un favore. Naturalmente, lei non comprende neppure che la sua richiesta e la sua di­ spensa non reggono il paragone con le idee, e che non solo il fatto di non dare voce all’idea lo irrita, ma lui la considera un’offesa nei riguardi di lei. Ecco, dunque, quello che pensa lui. E può persino soste­ nere il pensiero di avere un delitto sulla coscienza, ma non quello di non esprimere l’idea. Lo stesso valore che per una fanciulla ha l’onore, hanno per il pensatore la coerenza e l’idea, e per il pensatore solitario l’attenervisi per tutta la vita. Se lui porta l’onore di lei sulla coscienza, certamente lei ha avuto sulla sua l’esistenza mentale di lui. Naturalmente, lei non ne ha mai avuto il sospetto.

Re assiri del

v ii

e delib ili secolo a.C. Cfr. 11 Re, 17 , 3 e 18, 13.

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(4) Lui è etico-dialettico - lei estetica e immediata Da ciascuno di questi punti di vista, il concetto di sofferenza è completamente diverso. Lui non è capace di comprendere in che cosa consista essenzialmente la sofferenza di lei (se pure ne tira fuori qualcosa), ovvero perdere il possesso di un’altra persona; lei non è assolutamente capace di compren­ dere in che cosa consista essenzialmente la sofferenza di lui, la responsabilità e la colpa. Così entrambi sono infelici, e hanno fatto del loro meglio per rendersi infelici l’un l’altra: lui interrompendo la rela­ zione, lei addossandogli un delitto sulla coscienza. Lui se lo sarebbe probabilmente addossato in ogni caso; ciò nono­ stante, è quello che fa lei.

(5) Lui è simpatetico - lei innocentemente egoista nel senso dell’immediatezza L ’egoismo sgradevole è sempre riconoscibile alla riflessione. Niente di questa sorta si trova in lei, bensì, piuttosto, l’istinto di conservazione, che molti filosofi greci hanno posto a prin­ cipio della m o r a l e . I l loro errore stava nell’impossibilità di porlo senza riflessione; lei invece è priva di riflessione, quindi il suo tipo di egoismo non è sgradevole, ed è sintomo di naturale salute. Malgrado la parzialità che lui in genere adotta nel cercare di capirla, commette in un certo senso un’ingiustizia nei suoi confronti dicendo che non c’è in lei traccia di rassegnazione. Crisippo e altri stoici (Diogene Laerzio, vii, 85).

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Non nell’asserzione in sé è ingiusto, poiché è vera, ma dovuta al fatto che lei non ha la minima idea di che cosa significhi rassegnarsi; questo fatto può contemporaneamente indicare la sua sanità, ma anche, probabilmente, un erotismo mo­ desto. Lui si serve dell’inganno per celare le sue sofferenze, affinché lei non abbia a commuoversene per simpatia. Ma poi dimentica di mettere in conto l’inganno, che di fatto le impe­ disce di avvertire gli impulsi della simpatia. Ma dal momento che qui c’è una contraddizione, anche la posizione dialettica di lui è su questo punto talmente difficile, talmente ambigua, che potremmo supporlo altrettanto restio per amore di lei a farla commuovere per simpatia, quanto restio, per amor pro­ prio, ad accogliere un segno vigoroso della magnanimità di lei. Questo, comunque, lo ha capito lui stesso, dal momento che afferma di averle offerto l’occasione di rendergli la sua libertà; cosa che ha anche fatto, ma non ne consegue che su questo punto si muova per pura simpatia, quanto piuttosto che egli si è piegato davanti a ciò che considera un dovere. Dato che ha fatto quest’offerta, si è salvato dal diventare demonico nella direzione del male, e su questo punto avrebbe potuto diventarlo; ma non è neppure strettamente religioso, significa solo che potrebbe esserlo. La sfortuna è che lei non vuole comprenderlo, ma solo sfruttare ogni nuova scoperta sui suoi sentimenti per buttarglisi addosso nella sua devozione. E la simpatia per lei, si noti bene, con la coscienza che può avere nella sua personalità (perché la simpatia di lui, è chiaro, non può esprimersi nell’idioma di lei), che lo incita entusia­ sticamente a passi che altrimenti non avrebbe arrischiato. A questo punto avrei anche potuto lasciar perdere, ma per far luce su di lui faccio in modo che l’idea si apra un varco nella sua mente, e che anche la realtà sembri favorirlo, affinché la

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cosa si concluda in modo del tutto naturale, con lei di nuovo libera grazie a una restìtutio in integrum.^^ A questo punto diverrà chiaro se lui agisca per simpatia o se piuttosto, es­ sendo naturalmente disposto alla simpatia, non soffra quasi più di prima, giacché pensa che lei ci perda, nell’esistenza secondo l’idea. La sua simpatia si manifesta qui al massimo dell’intensità, e nella forma propria a un pensatore per cui l’esistenza secondo l’idea è l’unico valore - se avesse avuto conoscenza del mondo e dell’altro sesso ne sarebbe uscito con più facilità, ammesso, cioè, che a questa conoscenza si interessasse. Dunque lui interrompe la relazione, e le nozze svolgono la singolare mansione di diventare il fattore di divisione. Il ma­ linteso ricompare successivamente. Lei, come ho detto in pre­ cedenza, è già sulla via della guarigione, quando lui la lascia, e guarisce un po’ alla volta; dopo, lui soffre di più. Lui è la parte attiva, lei la vittima, sembra; invece è il contrario; lui è la vittima che non avrebbe osato fare ciò che ha osato lei, ovvero affidare una responsabilità di questa portata a un’altra persona, Lei crede che lui l’abbia offesa e mortificata con la rottura della relazione, mentre invece l’aveva offesa inizian­ dola, L ’interruzione avviene in un impeto di entusiasmo sim­ patetico per lei. La colpa di lui consiste, oltre che nell’aver incominciato la storia, nell’aver misurato lei su un metro troppo elevato; ma proprio questo gli fa onore. Lui è colpe­ vole, pensa lui, lei completamente innocente. In effetti, però, non è così: se lui è colpevole per aver incominciato, lei è colpevole per aver approfittato dell’aspetto etico della rela­ zione per legarlo a sé e per aver rischiato passi di cui non Restituzione alla condizione originaria.

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poteva né immaginare, né calcolare le conseguenze. Lui vede il comico, ma nella passione, così ne estrae il tragico (è questo il religioso che io non riesco a comprendere, dato che vedo i due fattori in equilibrio); lei vede il tragico, e con tanta chiarezza da renderlo comico. Lui non produce all’e­ sterno altri effetti da quelli che produrrebbe altrettanto bene qualsiasi uomo, cioè far venire a una ragazza voglia di morire, eccetera. Non è neanche capace di rendere una donna infe­ lice; è lei, a produrre effetti immensi, A questo lei non pensa affatto, giacché crede che, se le fosse stato concesso di ren­ derlo felice, sarebbe già stato qualcosa. Al fatto di non pro­ durre effetti all’esterno lui non pensa, convinto com’è di averla fatta a pezzi. Egli è convinto di una sola cosa: che sarà una rovina, per la ragazza, unirsi a lui; forse è più intelligente la ragazza a pensare di poterlo usare, Lei è sicura di poterlo rendere facilmente felice; e tuttavia, come si è visto, questa sarebbe stata senza alcun dubbio la sua rovina. Lui diventa ridicolo con la sua umile venerazione, lei diventa ridicola con le sue grandi parole. Ma come ha fatto, lui, a incominciare? Credo di averlo esposto chiaramente. Incomincia con tutta la visione della vita che ha elaborato. Devo fare di lui un’approssimazione della personalità religiosa, per cui la sua visione della vita deve caratterizzarsi come estetico-etica, nell’illusione. E così è, ed è logico che debba aver soddisfatto la sua personalità. Lui vede la ragazza, ne ricava un’impressione erotica, ma niente di più. Lei entra nella sua esistenza, e lui non vuole, afferma, offenderla approfondendo la sua conoscenza. Si nota subito l’atteggiamento dell’esaltato; e un esaltato egli è desti­ nato a essere, ma in un’altra sfera. Così il tempo scivola via; lui è determinato, ma l’eros non riceve l’attenzione che me­ rita, Poi lui vi si coinvolge, e affronta la situazione sul piano

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etico, mentre la possibilità religiosa rimane costantemente nelle pieghe profonde della sua anima, dov’era già, senza che lui ne fosse consapevole, nella sua prima visione della vita. L ’etica gli appare chiaramente nella realtà, e qui si arena. L ’offesa di lui non sta nell’aver interrotto la relazione, bensì nell’aver preteso di innamorarsi con una simile visione della vita. In questo modo sono predisposti gli stadi: una visione della vita estetico-etica nell’illusione, dove albeggia la possi­ bilità del religioso; una visione etica della vita, che lo con­ danna; ed eccolo riaffondare in se stesso, proprio dove lo voglio io. Ho compiuto ora un breve giro attorno al mio esperi­ mento. Attorno ad esso mi muovo costantemente; giacché ben comprendo l’unità del comico e del tragico, ma mi sfugge da dove egli riceva la nuova, più nobile passione che è il religioso. Forse è stata l’etica, che con la sua pressione negativa lo aiuta a superare la metafisica (dove mi sono fer­ mato io) fino ad arrivare al religioso? Non lo so. Il risultato dell’intero processo del malinteso, alla fine, è che in fin dei conti non si amano. Ma questo non si può assolutamente affermare all’inizio, e rimane sempre il fatto che ognuno dei due ha la sua parte dei momenti d’amore. Lui non arriva ad amare, poiché manca di immediatezza, luogo dove l’eros ha la sua prima base. Se lui avesse potuto apparte­ nerle, sarebbe diventato un genio, di quelli che fanno qual­ siasi cosa per esaudire i suoi desideri, ma non un amante. Ma se lui non possiede l’immediatezza, nondimeno possiede il senso etico, di cui lei non s’intende e non s’interessa, Lei non ama; ha infatti gli impulsi e la perseveranza dell’immedia­ tezza, ma per amare deve avere anche la rassegnazione, af­ finché appaia chiaro che non è se stessa che ama. Detto questo, l’esperimento è finito; ma, in un altro senso,

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non è finito né condotto a termine neppure nel suo più pro­ lisso svolgimento, (Quanto alle cause, se ne discuterà più diffusamente in seguito.) Se dovessi presumere che è real­ mente accaduto ciò che lui sospetta e che è in sé piuttosto probabile, che lei cioè si innamori di nuovo - ebbene? In tal caso, forse, lui uscirebbe dal suo stato di aberrazione. Mi metto costantemente nei suoi panni e capisco benissimo che nessuno può aiutarlo, al modo in cui, al suo posto, io mi sarei aiutato da un pezzo. Su questo non voglio discutere: mi limi­ terò a sperimentare. La sua aberrazione consiste nel permet­ tere che la realtà di lei lo disturbi nel suo raccogliersi in pentimento, sicché gli è impossibile raggiungere la pace nel pentimento, perché lei glielo rende dialettico. (Approfondi­ remo l’argomento in seguito.) Non appena lei si allontana, dunque, lui dovrà misurarsi solo e unicamente con se stesso; il pentimento, non ostacolato, acquisterà l’idealità di cui egli ha bisogno, senza essere disturbato da una passione patetica che lo inciti all’azione, o da una visione comica che non produce lui stesso. Concludere una personalità e mettere per iscritto i risultati dei propri calcoli è compito dei grandi pen­ satori sistematici, che hanno davanti un percorso così lungo; ma lasciarla esistere in tutta la sua possibilità è ciò che inte­ ressa allo sperimentatore. Potrei dunque benissimo immagi­ nare che, quand’anche vi rinunciassi io, lui potrebbe ritor­ nare dialettico. Se succede, continuerà sulla strada del demo­ nico, Non è il processo dialettico che rende demonici, tutt’altro, ma il persistervi. Il lettore che conosca il libretto di Constantin Constantius,^i vedrà che ho una certa somiglianza con questo scrit­

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tore, ma egli al tempo stesso è molto diverso, e chi speri­ menta dovrebbe adattarsi al suo esperimento.

SUL MAGGIORE BISOGNO DI REALTÀ STORICA DEL TRAGICO RISPETTO AL COMICO; LA SCOMPARSA DI QUESTA DISTINZIONE NELL’ESPERIMENTO Mi sono spesso soffermato sul fatto che il poeta tragico, per assicurarsi di fare impressione sugli spettatori, per far sì che il dramma ne conquisti la confidenza e la fiducia, e la messin­ scena le lacrime, si basa sulla realtà storica, sul fatto che il suo eroe abbia realmente compiuto imprese grandiose, benché il poeta non si limiti a rendere la storia. Che sia così nessuno certo vorrà negarlo, né contro di me appellarsi a Lessing, giacché Emilia Galotti, l’eccezione che conferma la regola, e molte prese di posizione del suo a u t o r e ^2 mostrano come anche lui la veda precisamente in questo modo. La pratica di gran lunga più comune consiste nel fare uso della realtà sto­ rica e nell’intendere, con una significativa riserva, la frase di Aristotele: che il poeta è filosofo più grande dello storico, poiché mostra le cose per come dovrebbero essere, non come sono. Il poeta comico, invece, non ha bisogno di tale so­ stegno storico. Egli dà ai suoi personaggi il nome che vuole, lascia che la scena si svolga dove vuole, basta che sia presente l’idealità comica, può star sicuro che la gente ride; e d’altra N ella sua Hamburgische Dramaturgie (1767), Lessing discute più volte (capp. 14, 19, 23, 88, 91) il rapporto della tragedia con la storia. Poetica, 9.

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parte, egli non ha nessun vantaggio a usare le figure di Arlec­ chino e Pierrot, quando non sa come usarle se non come nomi. È perché gli uomini sono più inclini a scoprire le debo­ lezze della gente che a vederne i lati positivi? E perché vai meglio ridere di qualcosa senza il conforto di una garanzia piuttosto che piangerne, come se non avesse il suo valore il fatto che un pazzo rida di niente? O forse è questo il motivo, che il comico, dall’armatura leggera, scavalca l’etica per rag­ giungere la serenità della metafisica, e solo rendendo la con­ traddizione manifesta vuole destare il riso; il tragico, invece, pesantemente armato com’è, rimane impantanato in una dif­ ficoltà etica; ovvero che l’idea certamente trionfa, ma l’eroe va in malora, cosa per lo spettatore piuttosto sconcertante, nel caso in cui volesse mettersi anche lui a fare l’eroe, e piuttosto sarcastica, appena riflette che non ha nulla da te­ mere per la propria vita, poiché sono solo gli eroi che muo­ iono? In ogni caso, quale che sia il motivo, ciò che mi interessa non è il motivo in sé, ma il fatto che il tragico cerchi sostegno nella realtà storica. Ciò vuol dire che la poesia non si ritiene, da sola, capace di destare l’idealità nello spettatore, né ritiene che lo spettatore l’abbia già, ed è convinta che invece la storia, ovvero la storicità della vicenda, debba aiutarlo ad acquisirla. Riguardo al comico, invece, mai che venga in mente al poeta di volersi appellare alla storia, o di sostenere il personaggio comico ricorrendo alla storia, giacché lo spet­ tatore direbbe giustamente; facci vedere che è comico, la storia te la regaliamo. Ma serve ad acquistare fiducia nella grandezza sapere che qualcosa è basato sulla storia? No, niente affatto. Saperlo aiuta soltanto a entrare in un’illusione dei sensi, che si lascia

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incantare dai dati materiali. Che cosa mi fa conoscere, la storia? Il dato materiale. L ’idealità la conosco da me; se non la conosco da me non la conosco affatto, e tutta la cono­ scenza storica possibile non mi è di alcun aiuto. L ’idealità non è denaro contante che possa essere trasferito da una persona all’altra, o un omaggio incluso nella spesa quando si acquistano grosse partite di merce. Se so che Cesare era grande, so in che cosa consiste la grandezza e a quella guardo, altrimenti non lo so, che Cesare era grande. Che la storia, basata sull’assicurazione di persone credibili, ci rac­ conti che non corriamo nessun rischio a sostenere questa opinione, dato che a quanto pare è certo che egli fosse un grand’uomo, e che il suo successo ne è la prova, non ci è di alcun aiuto. Credere all’idealità sulla parola di un altro è come ridere di una spiritosaggine, non perché uno l’abbia capita, ma perché un altro ha detto che era divertente. Se è così, tanto vale, in fin dei conti, per chi ride in virtù della fiducia e del rispetto che ha per un altro, non raccontarla neppure, la spiritosaggine, dato che egli può ridere con la stessa enfasi. Il lettore può facilmente vedere, dal titolo di questo para­ grafo, che non è mia intenzione indugiare nell’estetica, ma che vorrei proseguire nel religioso. Ciò che è l’eroe tragico per l’estetica, è il modello religioso per la coscienza religiosa (sto ora pensando naturalmente solo a persone devote ecce­ tera). Il poeta, in questo caso, diventa un oratore. Ricorriamo qui nuovamente alla storia. Viene presentato il modello, e poi l’oratore dice che è certo, poiché è un dato storico; e l’assemblea dei fedeli crede a tutto, anche che l’oratore sap­ pia di che sta parlando. Per comprendere l’idealità devo dissolvere la storia nell’i­ dealità, oppure fare quello che, con un’espressione devota.

diciamo che fa Dio per un moribondo: «illuminarlo della sua luce». Al contrario, non entro nell’idealità ripetendo le fila­ strocche della storia. Pertanto, chi nello stesso caso non con­ cepisce altrettanto bene la conclusione ab posse ad esse e la conclusione ab esse ad posse, n o n concepisce, in quello stesso caso, l’idealità. Si nutre solo di fantasie. L ’idealità, in quanto principio animatore, non diventa senz’altro storica. Quello che mi può essere trasmesso è una molteplicità di dati, che non costituiscono l’idealità; e quindi la storia è sempre materiale grezzo, che chi se ne appropria sa risolvere in un posse, e assimilare a sé come un esse. Non c’è perciò niente di più insensato, in campo religioso, che prestare ascolto alla domanda che pone il buon senso, ogni volta che apprendiamo qualcosa: è andata realmente in questo modo, la faccenda? Se è così, ci si può credere. Se la faccenda sia realmente andata in quel modo, se sia ideale come viene presentata, si può controllare solo attraverso l’idealità, e all’i­ dealità non si può dare la stura con la storia. Di questo sono diventato consapevole componendo la storia di sofferenza che ho condotto come esperimento. Ahimè, se fossi uno scrittore famoso, l’universo dei miei let­ tori, di fede attiva, instancabilmente attivo nel credere, sa­ rebbe in una situazione penosa, giacché si prenderebbe il libro a cuore, e domanderebbe: ma allora è proprio vero? perché in tal caso ci crediamo. A che cosa devono credere? Al fatto che sia vero. Ma per quella strada non si va oltre. Se un oratore non ne tiene conto, certo, potrà fare una profonda impressione sui suoi ascoltatori, ma anche trasformare in ve­ rità satirica su se stesso quello che Socrate diceva dell’eloD alla possibilità alla realtà e dalla realtà alla possibilità.

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quenza: che è un’arte ingannevole.^^ Quanto più sottolinea che si tratta di un fatto storico e quindi eccetera, tanto più egli inganna; e se il suo è un mestierucolo, tanto che non vale neppure la pena di parlare dei soldi che guadagna, è altret­ tanto certo che elargisce chiacchiere, una gran quantità di chiacchiere - ahimè, per un misero compenso. Un oratore che storicizza in questo modo fa quello che può per rendere i suoi discepoli privi di spirito. E infatti prova di spirito chie­ dere due cose: i) è possibile quello che si dice? 2) io, posso farlo? Ma è mancanza di spirito chiedere due cose; i) è suc­ cesso davvero? 2) il mio vicino, Christophersen, l’ha fatto, l’ha fatto davvero? E la fede è quell’idealità che risolve un esse nel suo posse, per poi trarre le conclusioni opposte nella passione. Se l’oggetto della fede è l’assurdo, non è alla storia che crediamo: ma la fede è l’idealità che risolve un esse in un non posse, per poi crederci. Per assicurare ulteriormente il paradigma religioso, mante­ niamo il religioso nelle sole categorie patetiche dell’immedia­ tezza. Qui succede all’oratore ciò che succede al poeta col suo eroe tragico. Non ci si può assolutamente azzardare a far apparire il comico. Perciò l’ascoltatore sa con sicurezza che è una cosa seria, e se è una cosa seria, può pure credervi. Ma supponiamo per un momento che questa cosa seria fosse uno scherzo. La serietà religiosa è, come il religioso, la passione più elevata che deriva dalla sintesi del comico e del tragico. Lo so appunto perché io non sono religioso, e sono arrivato a questo punto di vista (quello della sintesi), senza saltare nessun passaggio, e senza trovare in me il religioso. - Se la cosa è in questi termini, la storia non deve incomodarsi, ”

Platone, Gorgia, 57.

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giacché, se non potrà mai essere di aiuto nella ricerca di un’idealità, tanto meno potrà esserlo nella ricerca di un’idea­ lità dialettica. Se fossi un uomo credibile, la prospettiva sa­ rebbe sgradevole per il mondo dei miei lettori, che non riu­ scirebbero a sapere in anticipo se si tratti di scherzo o di serietà. Mi vedrei costretto a una spiegazione: - dopo tutto serve sempre a qualcosa non essere credibili. Il religioso va confortato, come l’estetica, da un risultato e il mio esperimento non è certo concluso. Non c’è dunque nessun risultato - «prego l’onorevolissimo pubblico, gente riflessiva, di considerare che cosa significhi pubblicare un libro senza risultato. Per fortuna non lo leggerà nessuno, poiché è opera di uno scrittore oscuro», così parlerebbe un recensore, benché io l’abbia supplicato e pregato di astener­ sene - non di astenersi dal dire questo, giacché, se proprio deve parlarne, non importa molto quello che ne dice. Dunque, il risultato, come ogni lettore affaccendato potrebbe a buon diritto reclamare di sapere in anticipo, non arriva affatto. Se almeno queste considerazioni potessero porvi un minimo rimedio! La poesia si situa nella commensurabilità dell’esteriorità e dell’interiorità, e manifesta perciò il risultato nel visibile. Il risultato esiste proprio per essere afferrato. Tuttavia un po’ di cautela non guasterebbe, giacché il risultato ha la stessa dia­ lettica dell’idealità. Il religioso si situa nell’interiorità. In questo caso il risultato non si può manifestare nell’esteriorità. Ma cosa fa l’oratore? Garantisce lui il risultato. Una cauzione di tal genere dev’essere in ogni modo ritenuta rassicurante agli occhi di una persona seria e positiva. Il risultato estetico sta nell’esteriorità, e può essere dimo­ strato. Si può dimostrare, e lo può vedere persino un miope con l’ausilio di un binocolo da teatro, che l’eroe trionfa, che

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il magnanimo cade in battaglia e viene trasportato in scena morto (naturalmente non subito) eccetera. Precisamente in questo consiste l’imperfezione dell’estetica. - Il risultato etico è già meno visibile, o piuttosto, la gente lo pretende così in fretta che uno non ha il tempo di guardarsi intorno, ed eccolo già lì. Così, se astraggo da qualunque altra cosa e penso unicamente all’etica, esigo, giustamente dal punto di vista etico, di vedere trionfare il bene con rapidità infinita, di vedere la punizione con rapidità infinita colpire il male. Ora questo non si può rappresentare, almeno non in cinque atti, e perciò siamo arrivati alla combinazione di estetica ed etica. L ’idea etica globale è stata conservata, rallentandone la rapi­ dità infinita con categorie estetiche (il destino, il caso); e poi, alla fine, nell’idea etica globale si vede un ordine dell’uni­ verso, un governo divino, la Provvidenza. È un risultato di carattere estetico-etico, dunque si può manifestare all’esterno fino ad un certo punto. Tuttavia, in questo risultato c’è uno squilibrio; giacché l ’etica non può rispettare l’estetica se non considerando come una mésalliance un’unione diretta con essa, (E certamente per questa ragione che Boezio^^ ce l’ha tanto con le rappresentazioni poetiche [libro primo, capitolo 9]; è certamente per questa ragione che S o l o n e h a proibito gli spettacoli come imbrogli; è certamente per questa ragione che Platone^® voleva escludere i poeti dalla sua repubblica,) L ’etica chiede solo se uno è colpevole o non è colpevole; ha forze sufficienti per misurarsi con la gente; non ha bisogno dell’esterno e del visibile, per non parlare di categorie tanto De consolatione philosophiae, i. Secondo il racconto di Plutarco {Vita di Solone, 29), Solone condannò, senza però proibirli, gli spettacoli come ingannevoli e moralmente pericolosi. Repubblica, x, 1 sgg.

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ambiguamente dialettiche come il destino e il caso, o dell’evi­ denza di una sentenza legale. L ’etica è orgogliosa, e dice: «Quando ho condannato io, di null’altro c’è bisogno». Ciò vuol dire che l’etica anela a essere separata dall’estetica e dall’apparenza che ne costituisce l’imperfezione; anela a en­ trare in un legame più superbo, quello col religioso. Il religioso recita ora, benché in senso più elevato, lo stesso ruolo dell’estetica, contiene l’infinita rapidità dell’etica nello spazio e l’evoluzione può aver luogo; ma la scena si svolge all’interno, nei pensieri e nella mente, che non si può vedere neppure con l’ausilio di un telescopio. Il principio dello spirito è che l’esterno e il visibile (la gloria del mondo o la sua miseria per chi esiste; un risultato all’esterno o la sua mancanza per chi agisce) esistano per tentare la fede; non per ingannarla, bensì affinché lo spirito possa essere messo alla prova collocandoli nell’indifferenza e ritraendosene. L ’e­ sterno non cambia nulla; - e il risultato in primo luogo av­ viene all’interno, e in secondo luogo viene costantemente rimesso in questione. L ’esito estetico sta all’esterno, ed è l’esterno a garantire che l’esito ci sia; vediamo che l’eroe ha trionfato, che ha conquistato quel certo paese, e con questo abbiamo concluso. L ’esito religioso, indifferente all’esterno, è assicurato solo al­ l’interno, ovvero nella fede. Indifferente aH’esteriorità di cui l’estetica ha invece bisogno (le servono grandi uomini, grandi oggetti, grandi eventi; per cui si scivola nel comico a trattare di personaggi mediocri o di somme da due marchi c otto scellini), il religioso è commensurabile per l’uomo più grande che sia vissuto come per il più miserabile, e commensurabile allo stesso modo; commensurabile per il benessere delle na­ zioni come per una quisquilia, e commensurabile allo stesso modo. Il religioso è solo e unicamente dialettico sul piano

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qualitativo, e disdegna la quantità, nella quale l’estetica trova il suo compito. Indifferente aU’esteriorità, di cui l’estetica ha bisogno per il suo risultato, il religioso disdegna queste cose, e proclama a uno per tutti, e a tutti per uno, che chi crede di essere giunto alla conclusione (cioè, chi si immagina di esser­ vi giunto, giacché queste non sono cose da credere, essendo la fede, appunto, l’infinito) - ha perduto. E allora l’oratore, che lavora con i risultati, cosa fa? Fa, appunto, tutto il possibile per ingannare gli ascoltatori. Ma l ’oratore è positivo. Più che giustamente, è persino pagato per ciò che dice, e già questo ispira ad avere in lui una certa fiducia; giacché a rimetterci del denaro, o a perdere la pro­ pria reputazione per dire la verità, che fiducia si potrebbe averne? Di più, si confuterebbe da sé, poiché come fa a essere verità quella che non procura denaro, reputazione, e simili vantaggi? Se uno dicesse che nuotare vuol dire sdraiarsi e sguazzare sul suolo, certamente tutti lo prenderebbero per pazzo. Ma credere è precisamente come nuotare, e invece di aiutare qualcuno a prendere terra l’oratore deve aiutarlo ad avventu­ rarsi al largo; se dunque uno dicesse che credere vuol dire sdraiarsi e sguazzare sul suolo, sicuro del risultato, dice la stessa cosa, ma probabilmente nessuno ci fa caso. Ciò che qui ho detto sull’assenza di risultati nel religioso lo posso tradurre anche in questi termini; la negatività è più elevata della positività. Che fortuna essere uno scrittore sco­ nosciuto, quando si conducono esperimenti con queste idee; uno scrittore di fama si troverebbe in imbarazzo, poiché, data la sua reputazione, le persone positive probabilmente capi­ rebbero subito che ha ottenuto un risultato positivo e la sua reputazione positiva diventerebbe ancora più grande. Per­ sone positive, o meglio, per determinare più precisamente.

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con l’articolo determinativo, ciò che intendo; le persone posi­ tive possiedono un senso positivo dell’infinito. E giustissimo, un fatto positivo è finito, e basta ascoltarlo una volta per avere anche finito subito. In questo caso il risultato abbonda. Se uno vuole cercare dei lumi nella filosofia del Maestro HegeP^ riguardo a che cosa si debba intendere per infinito positivo, apprende molto, a fare lo sforzo di capirlo; l’unica cosa che un ritardatario forse non capisce è in che modo un uomo vivo, o immerso nella vita, diventi un essere tale da potersi acquietare in questo infinito positivo altrimenti riser­ vato alla divinità, e aU’eternità, e ai defunti. Di conseguenza, non riesco a capire se non che qui manca un risultato, che i negativi, quelli che non sono giunti alla conclusione, non vedrebbero l’ora, en passant, di avere; il successo o meno, cioè, dell’astrologia, una volta che il Sistema è da tempo concluso, nello scoprire su quegli astri lontani esseri più ele­ vati, capaci di utilizzarlo. Il resto, quindi, se lo sbroglierebbero quegli esseri superiori; ma per gli uomini sarebbe pru­ dente non diventare troppo positivi, giacché ciò significhe­ rebbe, in realtà, farsi prendere in giro dall’esistenza. L ’esi­ stenza è insidiosa, e possiede molti trucchi per catturare gli avventurieri; e da chi viene catturato, certo, da chi viene catturato non si ricava certo un essere superiore. Per un essere finito, quale è appunto l’uomo finché vive nella temporalità (cfr. il trattato di Balle),'’® l’infinito negativo rappresenta l’entità più elevata, e il positivo un misero ac­ quietamento. L ’esistenza spirituale, in particolare quella reli­ giosa, non è facile; il credente sta costantemente al largo, con 70.000 braccia d’acqua sotto di sé. Anche se vi resta a lungo, ”

Wissenschaft der Logik, i; D ie objektive Logik, i, i, 2. N . E. Balle, Lxrebog i den Evangeliske-christlige Reltgion ìndrettet til Brug ì de

danske Skoler, K)0benhavn 1824, 8, i.

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non significa affatto che un po’ alla volta arriverà a disten­ dersi e stirarsi a terra. Potrà diventare più tranquillo, più esperto, trovare una serenità che ami lo scherzo e l’allegria ma resterà fino all’ultimo istante a una profondità di 70.000 braccia d’acqua. Una volta allontanata l’immediatezza, cosa che chiedono tutti a gran voce, è quanto si verifica. Ci sa­ ranno difficoltà sufficienti per tutti, nella vita. Se i poveri avvertono la dura morsa della miseria e della preoccupazione per il sostentamento, chi sceglie l’esistenza dello spirito in virtù del religioso avrà la consolazione, e capisco bene che ne abbia bisogno, di sapere che soffre anche lui nell’esistenza, e che davanti a Dio non esistono reputazioni personali. Poiché diventare positivi non procura reputazione personale agli occhi di Dio, sebbene la positività sia diventata la saggezza stessa da quando è la speculazione a occuparsi del religioso, privandolo della vita. Questo l’ho capito benissimo, malgrado che io non sia religioso; ma neppure mi arrogo il diritto di appropriarmene con la violenza, bensì solo con il desiderio dell’osservatore di capire il senso dell’esperimento. Il religioso non cerca so­ stegno nella storia; ancor meno, e per un motivo più nobile di quanto non lo faccia il comico, presuppone la sintesi del comico e del tragico nella passione; e in ogni nuova passione, o nella stessa, sceglie il tragico, fatto che torna a rendere ogni appiglio storico privo di significato; il religioso non è mai concluso, almeno non nel tempo, ed è dunque solo un in­ ganno rappresentarlo come tale. Quindi, se chi avesse inces­ santemente ascoltato un oratore parlare di questioni religiose andasse da lui a dirgli; «Ma lei crede forse che ora io abbia la fede, dopo averla incessantemente ascoltata?», l’oratore pro­ babilmente, in un accesso di quella che si chiama bonarietà, o della sentita partecipazione (per la quale ci si vede ringraziare

neir«Adresseavisen»'’^), replicherebbe: «Certo, è quello che penso, stia tranquillo, solo non trascuri i miei discorsi, e torni liberamente da me, nel caso avesse ancora dei dubbi ecce­ tera». La mia osservazione sperimentale è del parere che l’o­ ratore, senza tutta quella bonarietà e quella sentita partecipa­ zione, avrebbe fatto meglio a rispondere: «Mio caro, vuoi beffarti di me? Neppure per mia moglie oso garantire, anzi, neppure per me stesso, poiché mi trovo a una profondità di 70.000 braccia d’acqua». Basta che ora nessuno voglia tentarmi, promettendomi ma­ gari oro e verdi f o r e s t e , “^2 { favori delle fanciulle e il plauso dei critici in cambio di una risposta alla domanda se il mio esperimento sia una storia vera, se ci sia alla sua base qual­ cosa di vero. Sì, certo, alla base c’è qualcosa di vero: le cate­ gorie. Tuttavia per uno scrittore sconosciuto la tentazione è minore; chiunque vedrebbe facilmente che è tutta una buffo­ nata, eppure allo stesso tempo non lo è, giacché si tratta di un esperimento. Il tragico ha l’interesse della realtà, il co­ mico il disinteresse metafisico, ma l’esperimento si situa nel­ l’invisibile sintesi di scherzo e serietà. La tensione dialettica tra forma e contenuto e contenuto e forma impedisce qual­ siasi approccio immediato: e in questa tensione, l’esperi­ mento si sottrae alla schietta stretta di mano della serietà e all’allegra compagnoneria dello scherzo; al lettore, l’esperi­ mento si indirizza costantemente con il “lei” . L ’eroe poetico desidera entusiasmare con la sua vittoria, o deprimere con la sua sofferenza (e attirarsi l’interesse della realtà), l’eroe co­ mico desidera provocare il riso; ma il quiàam^''^ dell’esperiD iffuso giornale di annunci nella Copenaghen del tempo. Form ula (in danese allitterante) delle ballate medievali. Qualcuno come, più avanti, quaedam, Qualcuna, per indicare i due protago­ nisti (sem p re an o n im i in Colpevole? non colpevole?) d e ir“ esperimento” .

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mento non desidera assolutamente nulla; senza chiedere niente in cambio, egli è in tutti i modi a disposizione; non crea imbarazzo, giacché anche da questo punto di vista è a disposizione; può essere ignorato senza il benché minimo ri­ schio, tanto più che non si può assolutamente stabilire se chi gli ha fatto attenzione ne abbia ricavato vantaggio o danno.

IL PENTIMENTO IMPEDITO DIALETTICAMENTE A COSTITUIRSI; L’ULTIMO CONFINIUM FRA L’ESTETICA E IL RELIGIOSO SI SITUA NEL PSICOLOGICO Del pentimento, la poesia non sa che farsene; basta porlo, e la scena si sposta airinterno. E neppure il Sistema, natural­ mente, sa che farsene; giacché deve concludere, quanto prima tanto meglio, e appena ha concluso non ha più ragione di pentirsi e provvede, per concludere, a liberarsi dal penti­ mento. L ’abbreviazione sistematica dei momenti patologici della vita, se pretende di avere un significato altro che metafi­ sico, è semplicemente ridicola. Il sistema, dunque, è solo me­ tafisica, e fin qui tutto bene; ma non è un sistema che ab­ bracci l’esistenza, poiché in tal caso dovrebbe includere l’e­ tica; e abbreviare l’etica significa beffarsene. SuUe montagne russe del sistema, come le definisce il quidam deU’esperimento, si procede in questo modo: para­ grafo 17, Il pentimento; paragrafo 18, La riconciliazione; pa­ ragrafo..., Conclusione del Sistema; finendo con suggerimenti al rilegatore riguardo alla rilegatura; ossia, la metafisica va in similpelle, ma il Sistema in c u o i o . P e r c i ò non si finisce L. H olberg, Erasmus Montanus, i, 4.

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con il pentimento. Come si farebbe a dirlo? Un paragrafo non dura un’eternità, neppure per chi abbia affari della mas­ sima urgenza. Io, invece, intendo soffermarmi un istante sul pentimento; uno sperimentatore dispone di più tempo. Il demonico nel quidam dell’esperimento è sostanzial­ mente la sua impossibilità a ritirarsi in pentimento, la sua sospensione, nel punto più estremo, in un rapporto dialetti­ co di fronte alla realtà (vedere sopra). Giunone mandò, com’è risaputo, un tafano a perseguitare L a t o n a , ' * ^ affinché non potesse arrivare a partorire: allo stesso modo, la real­ tà della ragazza è un tafano, un “forse” che lo stuzzica, una nemesi della realtà, un’invidia dell’esistenza, che cerca di non lasciargli lo scampo di immergersi assolutamente nel religioso. Anche quando il pentimento si sviluppa in maniera meno sistematica, ovvero con maggiore efficacia, si tengono in ge­ nere gli occhi particolarmente aperti per mettere in risalto la riconciliazione. Questo può essere un fatto molto positivo; ma anche altrove sorgono difficoltà esistenziali. Una volta introdotto il pentimento, la colpa si deve dare per evidente e accertata. Ma la difficoltà si presenta proprio quando la cosa diventa dialettica. Perciò ho affermato prima che se il quidam dell’esperimento avesse commesso una colpa vera se la sa­ rebbe cavata più facilmente, poiché in tal caso si sarebbe evitata la dialettica. Se un caso simile capiti nella realtà di rado, o mai, non fa differenza ai fini dell’esperimento. Tuttavia potrebbe darsi che la dialettica si verifichi con la massima frequenza, ma che vada a finire nel nulla; giacché la normalità pura è forse di casa solo e unicamente nei libri di testo e nelle conferenze di In realtà, Io (cfr. O vidio, Metamorfosi, i, vv. 7 22 sgg.).

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chi non esiste assolutamente dentro di sé, né sa spiare la vita e gli altri. L ’esperimento ha reso all’esistente la situazione più dialet­ tica possibile. Uno può avere un omicidio sulla coscienza, ma tutta la faccenda può essere solo fumo; lui ce l’ha in quanto glielo ha addossato la ragazza, e se non si tratta che di chiac­ chiere, l’omicidio non c’è. Che cosa deve deciderlo? La realtà. Ma la realtà richiede tempo, e quando eseguo un espe­ rimento, non mi piace raffazzonare a colpi di paragrafo. In che modo, dunque, lui esiste nel frattempo? Per il penti­ mento, c’è da disperarsene. Nel mio caso è un altro discorso, poiché mi immergo animatamente nei miei qalcoli e osservo al tempo stesso il comico e il tragico. La ragazza tragica che muore e il comico peccatore che diventa un assassino; il tra­ gico peccatore che soffre e la ragazza comica che sopravvive. Una parola è una parola e un uomo è un uomo, ma il detto vale solo per gli uomini, che perciò dovrebbero andar cauti nel parlare della morte. Sarà ben vero quello che un defunto ha detto della morte; che non conosce né rango né età; ma non ne consegue nulla in anticipo. Il lettore dialettico noterà subito che esiste una difficoltà, cui il quidam dell’esperimento non fa caso, o almeno non a sufficienza. Per mezzo di un inganno vuole sottrarre alla ra­ gazza qualsiasi impressione possa avere di lui. L ’inganno lo mette in atto, ma dimentica di calcolarne le conseguenze. Possiede forza a sufficienza per sfidare gli orrori della realtà, ma di fronte a se stesso non ha l’energia di sostenerlo. E superiore alla realtà, e lo dimostra nell’inganno, poiché non sfugge a nessuna accusa, ma le sopporta. A causa dell’in­ ganno, tuttavia, l’accusa si modifica rispetto a quella che sa­ rebbe stata altrimenti. Nel momento in cui l’inganno si attua con certezza, egli mette la ragazza fuori strada, la incita a

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esprimersi senza simpatia; lei non sospetta minimamente che anche lui soffra, deve supporre che lui intenda soltanto porre fine alla relazione, in modo da prendere su di lei il soprav­ vento. Non c’è nulla, quindi, che possa trattenere le uscite di lei. Fin qui è solo colpa di lui, se la situazione diventa tanto orribile. Solo, bisogna ricordarsi che lui aveva fatto un tenta­ tivo più blando prima di ricorrere all’inganno. Ma il fatto che lui stesso, attraverso quest’inganno, contribuisca a rendersi tutto più terribile, per cui non si ottiene con l’inganno un vantaggio, bensì una sconfitta, è per me molto importante nell’ambito dell’esperimento. In senso esterno, egli ha vinto; la potenza con cui la realtà gli fa fronte non può niente contro di lui - però, passati sei mesi, ricomincia dentro di sé e, ferito com’è da questa esperienza, ora deve cedere. E pre­ cisamente questo che mette in luce il religioso. La religiosità che deriva direttamente dalla realtà è una religiosità dubbia; potrebbero intervenire benissimo le categorie estetiche e la saggezza dell’esperienza acquisita; ma una volta che la realtà non è riuscita a farlo a pezzi, e l’individuo cade da solo, il religioso è più evidente. Io vedo ora in questo fatto, su cui lui non riflette troppo, una sintesi del comico e del tragico; e il comico non sta nel fatto che lui sia un millantatore, poiché in tal caso sarebbe stata la realtà a levarlo di mezzo, ma nel fatto che lui resiste alla crisi della realtà, per poi cadere da sé. E compito dell’e­ stetica portare chi si fa delle idee su se stesso a rivelarsi in tutta la sua nullità di fronte alla realtà, ma, una volta che l’estetica gli ha concesso d’essere grande nella realtà, non esercita più su di lui nessun potere, e deve dichiararlo eroe. Ma a questo punto interviene il religioso e dice; «Ah sì? Guardiamo un po’ più da vicino per capire come gli vanno le cose dentro». La cosa mi interessa in puro senso greco. Mi

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immagino che gli dèi beati abbiano creato un essere con queste caratteristiche per goderselo nel piacere dialettico. Lo hanno dotato delle energie per affrontare la realtà, e quindi egli vi trionfa, ma anche di una interiorità dove egli si perde. E davvero capace di atti grandiosi, ma non appena li ha compiuti Tevento si ripete dentro di lui, e lui crolla. E mi immagino gli dèi commentare fra di loro: «Dopo tutto, dob­ biamo pur riservarci qualcosa per noi; e questa non è cosa neppure per le dee, che non la capirebbero, e se la capissero non lo farebbero senza compassione. Non è una situazione di cui ridere come le invenzioni di un poeta, che ripaghiamo con l’onore della nostra risata, né una di cui piangere, cosa che pure facciamo, se il caso lo merita; questo è il solenne piacere dialettico dell’equilibrio. Lui non può lamentarsi di noi, poiché l’abbiamo reso grande, e siamo in realtà solo noi, gli dèi, a vedere nello stesso momento la sua nullità». Il quidam dell’esperimento non la vede in questo modo, giacché nella sua passione si aggrappa a Dio nella fede e non percepisce nel proprio annientamento, come faccio io, la sin­ tesi negativa del comico col tragico e nient’altro; ma vede il proprio risollevamento, si vede cadere non davanti alla realtà, ma per mano di Dio, e quindi risollevato. Parlando in senso religioso, dovrei esprimermi diversamente, benché parli qui una lingua a me straniera: la Provvidenza, che si preoccupa infinitamente di ognuno, arma l’individuo di energie non comuni davanti alla realtà; «ma» dice la Provvi­ denza «affinché egli non provochi troppi danni lego questa forza nella tristezza, nascondendola ai suoi stessi occhi. Di che cosa è capace, egli non dovrà mai saperlo, tuttavia io mi servirò di lui; non sarà umiliato dalla realtà, e in questo senso sarà più viziato di altri, ma dentro di sé percepirà l’annienta­ mento come altri non lo percepiscono. Solo allora mi com­

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prenderà, e unicamente allora; ma sarà anche sicuro che sarà me a comprendere». In quanto sperimentatore posso capirlo, ma non in altra veste, poiché io non ho trovato pace nella passione, ma nell’assenza di passioni. Il pentimento è a quel punto diventato per lui dialettico, e tale rimane, perché deve aspettare che la realtà lo informi su quale colpa esattamente abbia commesso. Il lettore dialettico potrebbe certamente formulare parecchi esempi di un simile pentimento dialettico. Io ne suggerisco uno soltanto. Davide ha deciso di sbarazzarsi di Uria col noto metodo ingegnoso, in modo da prendersi Betsabea, Presumo che abbia spedito un messaggero con un ordine segreto al comandante; pre­ sumo che questo messaggero impieghi tre giorni per raggiun­ gere l’accampamento. La realtà storica non conta nulla, in questo caso. Che cosa succede? Quando, la notte stessa della partenza del messaggero, Davide cerca riposo nel sonno, non lo trova, ma rimane sveglio in preda al terrore e si accascia nel pentimento. Ma il paragrafo seguente descrive la riconci­ liazione. No, aspetta! Nello stesso istante Davide si rende conto che sarebbe ancora possibile impedire l’assassinio. Viene spedito un messaggero veloce, e Davide rimane. Pre­ sumo che ci vogliano cinque giorni, prima del ritorno del messaggero. Cinque giorni - quanto fa? Neppure il comma di un paragrafo, al massimo una particella: un “nel frattempo” che dia solo inizio a una frase col punto; ma cinque giorni sono sufficienti per far venire i capelli bianchi a un uomo. In fondo, c’è una bella differenza fra l’aver desiderato di com­ mettere un assassinio e l’averlo commesso realmente. Davide si trova adesso in uno stato di sospensione dialettica, e lo speIl

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rimentatore che voglia descrivere la sua condizione psicolo­ gica può dover fare uso di moltissimi paragrafi. Tuttavia, chiunque può capire facilmente che questo caso è assai più semplice del mio esperimento. In definitiva Davide voleva rendersi colpevole di un assassinio, mentre il quidam dell’e­ sperimento voleva, appunto, salvare; ispirato da pura sim­ patia, rischia il massimo e, ahimè, si trova con un delitto sulla coscienza, o piuttosto si imbatte in questo disagio dialettico. Il disagio è qui ancora più dialettico che nella situazione di Davide, poiché il comico, per Davide, non può in alcun modo emergere. Per Davide avrebbe potuto essere un sol­ lievo, se fosse riuscito a impedire la morte effettiva di Uria, ma uno scherzo non sarebbe diventato mai. Il quidam dell’e­ sperimento, invece, rischia quasi di diventare ridicolo, se non para il colpo con l’aiuto dell’idea. La forma dialettica del pentimento è qui la seguente: egli non può arrivare a pentirsi, perché non è ancora stabilito di che cosa dovrebbe pentirsi; e non può trovare riposo nel pentimento, perché è come se dovesse costantemente fare qualcosa, disfare tutto, se fosse possibile. - Nel fatto che lui ceda, perciò, sta il demonico; dovrebbe concentrarsi unica­ mente sulla possibilità e ricavarne il pentimento. In quanto tenuto in suspense dal primo motivo (il non essere ancora stabilito di che cosa debba pentirsi), è ironico; in quanto al secondo motivo (il dover, cioè, costantemente agire), è pura­ mente simpatetico. - Esiste ancora un terzo momento, nella sua situazione di penitenza. AH’interno del Sistema ci si pen­ te una volta per tutte nel paragrafo 17, e poi si procede al paragrafo 18. Ma se, per chi esiste, deve verificarsi la guari­ gione, deve arrivare il momento di liberarsi dall’azione del pentimento. Ciò presenta un’ingannevole somiglianza, giusto un solo istante, con l’oblio. Ma dimenticare la colpa significa

commettere un ulteriore peccato. In questo sta la difficoltà. A tenersi stretta la colpa è la passione del pentimento che, orgogliosa, entusiasta, disdegna le sciocchezze che l’oblio rac­ conta sul sollievo e, angosciata, sospetta di se stessa, E il quidam dell’esperimento crede persino di rendere onore alla ragazza in questo modo (un’idea seducente, appunto perché è bella); ma sfuggirle, allontanare quest’idea in modo da non ritrovarsela accanto a ogni istante, è necessario per la guari­ gione, Questa sorta di galleggiamento interiore, veramente dialettico, non si nota quando tutto scorre lìscio come nel caso in cui il paragrafo i8 segue il paragrafo 17,

Appendice UNO SGUARDO FUGGEVOLE ALVAMLETO DI SHAKESPEARE

Bòrne'*^ ha scritto una breve nota sulVAmlefo. E solo una sua osservazione conclusiva, cui neppure so se egli accordi lo stesso valore che io vi accordo, è solo un’osservazione, dunque, a interessarmi. In generale Bòrne, Heine, Feuerbach e scrittori del genere sono personaggi di grande interesse per uno sperimentatore. Sanno quasi sempre tutto riguardo al religioso, o meglio, sanno con assoluta certezza che non vo­ gliono avervi nulla a che fare. Questo rappresenta un grande vantaggio rispetto ai filosofi sistematici, i quali, senza sapere in che cosa consista davvero il religioso, a volte con defe­ renza, a volte con arroganza, ma sempre inopportunamente si incaricano di darne una spiegazione. Un innamorato infelice, K . L. B orne, 1828, II, pp. 179-82.

Hamlet, von Shakespeare, in Cesammelte Schriften, Hamburg

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geloso, può saperne sull’eros tanto quanto l’innamorato fe­ lice, e allo stesso modo uno che si scandalizzi di fronte al religioso a suo modo può saperne tanto quanto un credente. Poiché dunque la nostra epoca solo raramente ci fornisce esempi di credenti nel senso profondo della parola, bisogna sempre rallegrarsi del fatto che ci sia qualche brava persona che si scandalizza. Se uno è così fortunato da trovare, deside­ rando una spiegazione definitiva, un credente di ferro nel senso del diciassettesimo secolo e uno scandalizzato del di­ ciannovesimo secolo che dicano entrambi la stessa cosa, sicché il primo dica: «è così e così, lo so bene, perciò non voglio saperne»; e l’altro: «è così e così, perciò io credo», e questi due “così” coincidano; può allora portare a termine le proprie osservazioni con fiducia. Due testimoni in così pieno accordo fra loro garantiscono una credibilità che gli avvocati ignorano. Bòrne dice deWAmleto: « È un dramma cristiano». Questa, secondo la mia opinione, è un’osservazione assai appropriata. Ne sostituirei solo una parola: « E un dramma religioso», e aggiungerei che il suo difetto non sta nell’esserlo, ma nel non esserci arrivato, o piuttosto nel fatto che non avrebbe dovuto proprio essere un dramma. Dal momento che Shakespeare non vuole dotare Amleto di presupposti religiosi che cospi­ rino contro di lui nel dubbio religioso (punto in cui cessa il dramma), Amleto resta essenzialmente un indeciso, e l’este­ tica esige una concezione comica. Il suo grande progetto di diventare il vendicatore a cui appartiene la vendetta, dice Amleto, lui l’ha concepito; se non lo vediamo crollare religio­ samente all’istante sotto il peso di questo progetto (nel qual caso la scena diventa introspettiva, e gli scrupoli impoetici di lui vengono a rappresentare, dal punto di vista psicologico, una forma notevole di pentimento dialettico, in quanto il pentimento arriva quasi troppo presto), esigiamo allora un’a­

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zione rapida, giacché in tal caso deve affrontare solo e unica­ mente l’esterno, un ambito dove il poeta non gli pone diffi­ coltà. Se il progetto tiene, Amleto è un temporeggiatore, incapace d’agire; se il progetto non tiene, diventa una specie di autolesionista che si tormenta per e con la volontà di es­ sere qualcosa di grande: nessuna di queste due alternative riguarda il tragico. Ròtscher"** lo ha a giusta ragione conside­ rato malato di riflessione. La spiegazione che ne dà Ròtscher è eccellente, e contiene al tempo stesso un ulteriore interesse per chi voglia vedere in che modo gli scrittori sistematici siano obbligati a impiegare categorie esistenziali. Se Amleto viene trattenuto nell’ambito di categorie pura­ mente estetiche, l’interesse si accentra sul problema: se, cioè, egli possieda la forza demonica per mettere in atto una riso­ luzione simile. I suoi scrupoli non sono di alcun interesse; il suo procrastinare e indugiare, il suo rimandare e il piacere illusorio nel rinnovare il suo proposito anche al momento in cui non si presentano ostacoli esterni non fanno che smi­ nuirlo, sicché egli non diventa un eroe estetico, e dunque si riduce a non essere nulla. Se viene trattato dal punto di vista religioso, i suoi scrupoli assumono invece grande interesse, perché assicurano che egli è un eroe religioso. Spesso la gente ha dell’eroe religioso un concetto del tutto superficiale. Nel cattolicesimo, per esempio, e in particolare nel Medioevo, sono probabilmente stati in molti a essere entusiasti della Chiesa quanto un Romano lo era della sua patria; sono diven­ tati eroi tragici per amore della Chiesa, come i Romani lo erano diventati per amore della patria, e ora vengono consi­ derati eroi religiosi, ovvero, entro categorie puramente este­ tiche, hanno superato il loro esame religioso. No, il religioso ■*** H . T h , Rotscher, PP- 99 sgg-

Die Kunst der dramatischen

Darstellmg, Berlin 1844, 11,

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è di natura interiore, e quindi gli scrupoli hanno qui un’im­ portanza essenziale. Se uno volesse dare di Amleto un’interpretazione religiosa, bisognerebbe o permettergli di concepire il suo piano, e la­ sciare poi che i dubbi religiosi lo sventino; oppure, cosa che a mio parere meglio mette in luce il religioso (giacché il primo caso potrebbe anche essere viziato dal dubbio che egli, in realtà, non sia capace di mettere in atto il suo progetto), bisognerebbe dotarlo di una forza demonica che lo metta in grado di eseguire il progetto con forza e decisione, e poi lasciarlo precipitare in se stesso e nel religioso, finché non abbia trovato pace. Un dramma, naturalmente, non ne verrà mai fuori; un poeta non può fare uso di un tema come questo, che cominci dalla fine e ne faccia tralucere l’inizio. Si può nutrire un dubbio riguardo a un singolo punto, avere un’altra opinione; e tuttavia concordare con se stessi su un’unica opinione, consolidata attraverso uno, due, tre secoli, che cioè Shakespeare rimane irraggiungibile, malgrado il pro­ gresso che si dice che il mondo abbia fatto; e che si può sempre imparare da lui e imparare sempre di più, quanto più lo si legge.

L ’EROE. LÀ PASSIONE. LA TRAGEDIA, COL TERRORE E LA COMPASSIONE, VUOLE PURIFICARE LE PASSIONI. LA SIMPATIA DELLO SPETTATORE VARIA A SECONDA DELLE DIVERSE VISIONI DEL MONDO L ’eroe estetico è grande nel trionfo, l’eroe religioso è grande nella sofferenza. E vero che soffre anche l’eroe estetico, ma

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in maniera tale che contemporaneamente all’esterno trionfa. È questo che eleva lo spettatore, mentre riserva le sue la­ crime-al morente. Se il quidam deU’esperimento fosse stato una sorta di eroe estetico, avrebbe dovuto esserlo in un senso demonico (in direzione del male), e in tal modo poteva anche riuscirci; giacché l’estetica non è così materiale da prestare attenzione solo allo spargimento di sangue o al numero dei delitti per determinare se uno sia un eroe. Essa considera soprattutto la passione; solo che, non essendosi emancipata dall’esteriorità, non è capace di spingersi fino alla determinazione puramente qualitativia riservata al religioso, in cui un centesimo ha lo stesso valore di terre e reami. Per poter diventare un eroe, dunque, egli avrebbe dovuto agire in virtù di questa conside­ razione: vedo che l’idea della mia esistenza si arena su questa ragazza, ergo dev’essere allontanata; la sua rovina mi apre la strada a uno scopo supremo. Non è neppure difficile co­ struirgli qualche splendida idea da realizzare. Bisognerebbe allora vederlo raggiungere lo scopo; e che l’ordine del mondo, a sua volta, gli scaraventasse addosso una nemesi. Lui dovrebbe innanzitutto essere egoisticamente sicuro di se stesso, e noi vedremmo la sua intrepidezza e il suo modo di diventare soprannaturale, non come lo diventa il religioso, offrendo sacrifici, ma come lo diventa il demonico in dire­ zione del male, reclamando sacrifici. Ma soprattutto egli non deve essere la natura simpatetica che è nell’esperimento, giacché in tal caso l’estetica non concepisce il suo conflitto; e soprattutto non deve, come nell’esperimento, considerare, alla rovescia, come punto chiave il fatto di finire per soffrire più di lei, ed essere sicuro, come desidera, che il passo in sé porterà non alla rovina della ragazza, ma alla propria. La quaedam deH’esperimento si situa essenzialmente nella

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sfera estetica. La qualità non comune che costituisce un’e­ roina estetica sarebbe, in questo caso, il possedere in se stessa un livello di idealità tale da tenersi saldamente all’innamora­ mento; e, in questa forza che preserva l’innamoramento, po­ tenziarsi in qualcosa di straordinario, in modo da costituire lei stessa una nemesi per lui. Una ragazza così fatta non po­ trebbe essere utilizzata nell’esperimento, dal momento che in quest’ultimo la cosa importante è mettere in luce lui e mante­ nere la sintesi fra il comico e il tragico come legge della sua costruzione. Ho scelto perciò una ragazza di specie più ordi­ naria. La natura simpatetica di lui deve essere visibile da ogni angolo, pertanto mi serviva una figura femminile che potesse rendergli la situazione più dialettica possibile, e che per giunta fosse in grado di sottoporlo alla tortura di vederla rompere con l’idea, come lui si esprime, benché lei non faccia altro, se pure lo fa, che procurarsi sìne ira et s t u d i o e senza perdere la sua amabilità femminile, un nuovo cavaliere nel ballo della vita; quando, infatti, non si può avere uno, se ne prende un altro, senza farsi mettere in imbarazzo da tutte le tirate sull’idea, e proprio perciò amabilmente. Sono cose che chiunque avrebbe potuto anticipargli, ma non gli sarebbe stato di nessun aiuto. Naturalmente, come qualsiasi ragazza, lei ha avuto una possibilità di grandezza, e ci sono dei mo­ menti, nella loro relazione, in cui ero lì lì per inchinarmi davanti a lei; poiché io, che sono un osservatore e in quapto tale poetìce et eleganter"^^ un vigile di piazza, a fare riverenze provo sempre grande gioia, e non ho mai invidiato a Napo­ leone la sua grandezza, bensì ai due ciambellani che gli apri­ vano la porta la fortuna di essere gli unici a spalancare i bat«Senza rancore e senza partigianeria» (Tacito, Annali, i, i). Poeticamente e con gusto.

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tenti, a fare un profondo inchino e ad annunciare: l’impera­ tore. Ma la relazione non l’ha permesso, ed è dalla relazione che io ricavo la mia soddisfazione dialettica. Come sia loro successo di incominciare, e il loro destino ognuno per conto suo, non mi interessa. Mi influenzerebbe all’istante la pas­ sione di lui, e l’equilibrio sparirebbe. Appena aggiungo la passione e osservo ognuno di loro separatamente e il destino di lui, devo dire che è lui quello che soffrirà di più. Ha incominciato lui, e incominciando l’ha offesa, poiché non ha compreso la natura specifica dell’esistenza femminile; ha in­ cominciato lui, perciò si merita la sua sofferenza. Di lei, devo dire che è quella a cui l’esistenza ha inflitto l’ingiustizia mag­ giore nell^esperimento, quella che per essersi messa con lui finisce sempre per apparire in una luce sbagliata, fin dal mo­ mento in cui lui, con l’inganno, le impedisce di esprimere qualunque simpatia lei potesse avere in serbo. Qualunque cosa lei faccia, anche se scegliesse di restargli fedele, le cade addosso una luce comica, poiché lui esiste solo nell’illusione. L ’ingiustizia nei confronti di lei, lui l’avverte profondamente; e tuttavia agisce, dal suo punto di vista, con la passione della simpatia, e una delle molle della sua sofferenza consiste nel fatto di fare, dal suo punto di vista, tutto quanto possibile, che è tuttavia tutto quanto ci sia di più folle; poiché i due non hanno alcun punto di vista in comune, lui non forma con lei un angolo complementare. Né dal punto di vista di lei, né dal punto di vista di lui sono pari; l’amabilità femminile, il fascino - e un’esistenza spirituale in virtù della dialettica. Gli sforzi più disperati di lui non servono a nulla, non colmano l’incompatibilità, perché l’amabilità femminile esige esattamente ciò che a lui manca. In ciò consiste la sofferenza di lui. D ’altra parte vale anche il punto di vista opposto; ovvero che un’esistenza spiri­

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tuale in virtù della dialettica deve chiedersi, come il matema­ tico, di fronte all’amabilità femminile: che cosa dimostra? Tuttavia egli non lo fa, poiché non è posseduto dall’equilibrio dello spirito ma dalla passione; si preoccupa perciò del primo lato della questione, e sceglie così la propria sofferenza. Di sofferenza egli ne trova finché vuole; ma sulla soffe­ renza, l’estetica ha le sue opinioni, a causa della sua sfera, quella esteriore. L ’estetica sostiene, giustamente, che la soffe­ renza in sé non significa nulla e non interessa; solo quando si pone in relazione all’idea dà da pensare. Questa è una verità incontrovertibile, ed è perciò giusto che l’estetica rifiuti soffe­ renze quali il mal di denti e la gotta. Ma quando l’estetica deve precisare a se stessa che cosa significhi mettersi in rela­ zione con l’idea, deve tornare in evidenza quanto dimostrato nel paragrafo i: che unicamente a un rapporto immediato l’estetica si interessa; in altre parole, la sofferenza deve deri­ vare dall’esterno, ed essere visibile, cioè non avere origine nell’individuo stesso. Questa considerazione, sviluppata am­ piamente da filosofi estetici di valore, è diventata poco per volta patrimonio comune, persino per il più umile scribac­ chino: che non tutte le sofferenze hanno interesse estetico, la malattia, per esempio, ne è priva. Questo è giustissimo, e il risultato di tali riflessioni è che l’eroe estetico deve emergere per la sua differenza quantita­ tiva, essere in possesso dei requisiti personali per trionfare, godere di buona salute, essere in forze eccetera; le difficoltà arrivano poi dall’esterno. Mi viene in mente una piccola po­ lemica che si è svolta in Germania;^! in quell’occasione, una

Fra L . Bòrne e il «T ùbinger Litteraturblatt», a proposito della tragedia di E. von H ouw ald Das Bild (cfr. Borne, Gesammelte Schriften, Hamburg 1828, li, pp. 132 sg., 161 sgg.).

delle due parti faceva appello ai Greci e all’estetica greca contro un dramma che si serviva della cecità come motivo tragico. L ’altra parte replicava facendo appello Edipo di Sofocle. Forse avrebbe fatto meglio ad appellarsi al Filottete, che in un certo senso costituisce un’eccezione alla regola este­ tica generale; ma un’eccezione tale da non poter in nessun modo rovesciare la regola a costo di cadere essa stessa. Questo è dunque un caposaldo estetico. Se ora metto da parte l’estetica, rimuovo la sua esteriorità e ripeto il principio corretto; ha interesse soltanto la sofferenza che sta in rapporto con l’idea. Questo rimarrà vero per tutta l’eternità; quando nella sofferenza non è visibile un rapporto con l’idea, la soffe­ renza va rifiutata sul piano estetico, e condannata su quello religioso. Ma siccome la dialettica del religioso è solo qualita­ tiva e commensurabile, ugualmente commensurabile con tutto, ogni sofferenza può eo ipso acquistare interesse, precisamente perché ognuna può acquisire un rapporto con l’idea. Si è detto molto riguardo al fatto che la poesia riconcili con l’esistenza; si dovrebbe invece dire che essa incita alla rivolta contro l’esistenza; poiché, nella sua stima quantitativa, la poesia è ingiusta verso gli uomini; può utilizzare solo gli eletti, ma è una ben misera conciliazione. Prendo in esame il caso della malattia. L ’estetica replica con orgoglio e coe­ renza: non so che farmene, la poesia non può diventare un ospedale. È giusto, così dev’essere, conduce a un pasticcio voler trattare cose del genere sul piano estetico. Ma se uno non possiede il religioso, si trova in imbarazzo. L ’estetica culmina infine nel principio enunciato da F. Schlegel sulla malattia; Nur die Gesundheit ist liebenswurdig?^ Lo stesso 5^ «So lo la salute è am abile»; nella discussa da Kierkegaard nel Concetto di ironia.

(Stuttgart 1835, p. 27), ampiamente

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vale per la povertà: la poesia deve decretare (quando vie­ ne obbligata a fornire una risposta alla gente; obbligo, tut­ tavia, che la gente sbaglia a porre, come verrà dimostrato in seguito), per non degenerare in piagnistei e drammi weinerliche,^^ che solo la ricchezza è amabile, ovvero conàitio sine qua non'^^ perché io possa usare i miei personaggi; certo, potrei farne un idillio, ma anche in questo caso, niente po­ vertà. E vero che la poesia, ospitale e amichevole com’è, invita tutti a perdervisi, e quindi a riconciliarsi; tuttavia fa anche delle distinzioni, dal momento che si occupa solo di soffe­ renze privilegiate, e dunque esige da chi è provato da soffe­ renze non privilegiate maggiore forza per potersi perdere nella poesia. E a questo punto la poesia si è minata da sola, poiché non si può negare che chi, pur sotto l’oppressione non privilegiata della vita, è capace di perdersi nella poesia è più grande di chi fa la stessa cosa, ma senza soffrire in quel modo; e malgrado ciò la poesia deve sostenere che non può trovare in lui l’oggetto della sua concezione, anche se è più grande. Non appena abbandoniamo la poesia, potenza amica di origine divina che, lungi dal voler offendere chicchessia, fa del suo meglio per riconciliare, non appena trasporto il prin­ cipio estetico dai prati recintati della poesia nel campo della realtà, un principio come quello che solo la salute è amabile diventa il principio di una persona spregevole. Spregevole perché manca di simpatia, e perché nel suo egoismo è vi­ gliacca. In quest’angustia, quando la lezione della poesia non sa ” Lacrimosi. Condizione indispensabile.

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riconciliare con la realtà, si manifesta il religioso e dice; ogni sofferenza è commensurabile con l’idea, e appena c’è una relazione con l’idea la sofferenza acquista interesse; altri­ menti è condannabile, per sua stessa colpa. Che la sofferenza derivi dal fatto di non vedere realizzati i propri progetti, o dal fatto di essere gobbi, non ha alcuna importanza per la questione; che derivi dal tradimento dell’amante infedele, o dalla sfortuna di essere così deforme che persino un animo gentile non può trattenersi dal ridere di te e che rende im­ pensabile innamorarsi di te, non ha alcuna importanza per la questione. In questo senso io, in quanto sperimentatore, ho inteso il religioso. Ma di che rapporto con l’idea stiamo parlando? Naturalmente, di un rapporto con Dio, La sofferenza sta nel­ l’individuo stesso, che non è un eroe estetico; e il rapporto è con Dio. Tuttavia bisogna trattenersi, altrimenti il religioso diventa così impetuoso che va dritto all’estremo opposto, e dice: «Storpi, sciancati, p o v e r i,s o n o questi i miei eroi, non i privilegiati», il che indicherebbe una mancanza di miseri­ cordia da parte del religioso, che pure è la misericordia stessa. Che sia questa la situazione della sofferenza, vista dall’ot­ tica religiosa, lo so dal fatto che posso mettere a confronto due uomini che dicono la medesima cosa. Feuerbach, che rende omaggio al principio della salute, dice che l’esistenza religiosa (in particolare quella cristiana) è una costante storia di sofferenza, e invita anche solo a considerare la vita di Pascal: basta questo. Pascal dice esattamente la stessa cosa: la sofferenza è la condizione naturale del cristiano (come la Matteo, I I , 5. Das Wcsen des Christenthums, Leipzig 1843, p. 91.

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salute quella dell’uomo carnale); si era fatto cristiano, e par­ lava della sua esperienza cristiana. Una «storia di passione» ha anche un rapporto col lettore (purché si considerino le difficoltà dialettiche sottolineate nel paragrafo 3, e portate alla coscienza nella forma d eir“esperimento”), allo stesso modo in cui ce l’ha un prodotto estetico. Sul rapporto fra tr-agedia e spettatore, ecco le parole del ca­ postipite Aristotele: 5 i èXéov) Kaì (pópou TiepaivoDaa xfiv xwv xoiouTWV 7ca0Ti|aàx(ov KàGapaiv.^^ Allo stesso modo in cui, rimuovendo qui sopra l’esteriorità dall’estetica, ne ho conser­ vato il principio nel religioso, così possiamo ritenere anche queste parole, interpretandole con maggiore precisione. L ’idea di Aristotele è abbastanza chiara. Presuppone da parte dello spettatore una commozione, che la tragedia stimola de­ stando (pój3o(; e eÀEog,^*^ ma eliminando poi, nello spettatore così commosso, l’egoismo; sicché egli si perda nella soffe­ renza dell’eroe, dimenticandosi in lui. Senza il timore e la compassione, starebbe a teatro come un troncone di legno, non raccogliendo in sé altro che un timore egoistico: ci sta­ rebbe come uno spettatore indegno. Questo non è difficile da capire, ma certo si dà già a inten­ dere che il timore e la compassione possono avere caratteri­ stiche ben precise, e che non tutti coloro che temono e com­ patiscono sappiano, per questo, vedere una tragedia. L ’uomo solo carnale non prova timore di ciò che interessa al poeta, perciò non prova né timore, né simpatia. Ha paura, se vede un uomo arrampicarsi su per il castello di Rosenborg lungo una corda tesa, e di un uomo che debba essere impiccato ha compassione. Lo spettatore della tragedia deve avere occhio Poetica, passioni».

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per l’idea; allora vede la poesia, e il suo timore e la sua compassione vengono purificati da ogni bassa componente egoistica. Ma l’uomo religioso ha un altro concetto di ciò che desta il timore, e la sua compassione risiede dunque altrove. Malattia e miseria non interessano l’uomo estetico, che non sente al­ cuna simpatia per questo tipo di sofferenze e non prova soli­ darietà per chi le subisce; come Bòrne dice da qualche parte, «per conto suo, si sente in buona salute, e quindi non ha voglia di sentirne p a r l a r e » . M a tutta la medicina sia della poesia, sia della religione è destinata solo agli ammalati,^® poiché passa solo attraverso timore e compassione. L ’ultima frase Bòrne non avrebbe dovuto dirla; poiché l’estetica vi è già definita in relazione alla realtà, e il non volerne sapere diventa ottusità od ostinazione. Quando l’estetica rimane confinata nella sua idealità pura, gli effetti non sono questi, è vero, e il poeta non reca offesa a nessuno. Perciò è un errore da parte del religioso prendersela con la poesia, poiché la poesia è e rimane amabile. Per lo spettatore il discorso cambia, se è consapevole che queste cose esistono. E natural­ mente stupidità o vile ostinazione voler ignorare che malattia e miseria esistono perché personalmente uno gode di buona salute; giacché, sebbene il poeta non lo mostri, chiunque abbia formulato un paio di sani pensieri sull’esistenza sa che un attimo dopo potrebbe trovarsi lui in quelle situazioni. Non è sbagliato da parte dello spettatore volersi perdere nella poesia, è una gioia che ha la sua ricompensa; ma lo spettatore non deve confondere il teatro con la realtà, e non deve confondere se stesso con uno spettatore che non guardi nient’altro che commedie.

«operando con la compassione e il terrore la purificazione di tali

Terrore e compassione.

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Gesammelte Schriften, cit., ii, pp. 144 sgg.

'■o Matteo, 9, 12.

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Nel religioso, sempre attraverso il timore e la compassione, bisogna operare per purificare queste passioni. Ma il timore è cambiato, e così pure la compassione. Il poeta non desidera che lo spettatore debba temere ciò che temono gli incolti, e gli insegna a temere il destino e ad avere compassione per chi soffre sotto il suo peso; per un oggetto, tuttavia, che dev’es­ sere grandioso e vistoso quantitativamente. L ’uomo religioso parte da un altro presupposto; vorrebbe insegnare a chi lo ascolta a non temere il destino, e a non farsi rallentare dalla compassione per chi lo subisce. Tutte queste cose hanno assunto per lui un’importanza minore, per cui vede anche, a differenza dall’estetico, tutti gli uomini esposti allo stesso modo ai colpi del destino: i grandi e i mediocri. Ma a questo punto dice: «Ciò che devi temere è la colpa, e la tua compassione deve essere riservata a chi cade per questo motivo, giacché qui sta l’unico pericolo». Inse­ gnerà all’ascoltatore a dolersi, come dice a comando il sagre­ stano, l’umile servitore, e con intima emozione, umilmente e con orgoglio, un venerabile prelato che «dobbiamo dolerci dei nostri peccati»;^^ cosa, questa, che naturalmente il sagre­ stano non osa dire ai suoi riveriti superiori: i professori del pulpito. Il timore e la compassione dovrebbero essere destati dalla rappresentazione, e queste passioni dovrebbero anche purificarsi dall’egoismo, ma non perdendosi nella contempla­ zione, bensì trovando un rapporto interiore con Dio. « È per l’appunto egoismo» dice il poeta «se non riesci a dimenticare i colpi del destino, come se fossero inflitti a te, quando vedi l’eroe tragico; è egoismo che tu, vedendo l’eroe, diventi un vigliacco che torna a casa impaurito.» «Ma indulgere alla Pap.

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B

IO .

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propria colpa» dice l’uomo religioso «temere per la propria colpa non è egoismo, perché precisamente in questo modo ci si trova in rapporto con Dio.» Per l’uomo religioso, il timore e la compassione sono altra cosa, e si purificano non manife­ standosi all’esterno, ma ripiegandosi in se stessi. La guari­ gione estetica consiste nel fatto che l’individuo, a forza di guardarsi dentro nella vertigine estetica, scompare ai suoi stessi occhi come un atomo, come un granello di polvere che pure entra a far parte della partita, della sorte comune a tutti gli uomini, all’umanità in generale; scompare come un’infini­ tesima frazione tonale nell’armonia delle sfere che è l’esi­ stenza. La guarigione religiosa consiste, al contrario, nel tra­ sformare il mondo e i secoli e le generazioni e i milioni di contemporanei in una parvenza che scompare, il giubilo, l’ac­ clamazione e il culto dell’estetico in una distrazione contur­ bante, e la pretesa di aver finito in un trucco da baraccone; tanto che a rimanere sia solo l’individuo stesso, il singolo individuo che il suo rapporto con Dio pone sotto la defini­ zione: colpevole - non colpevole. Così agisce il religioso, secondo quanto ho accertato nel mio esperimento: quanto a me, non la vedo in questo modo, poiché scorgo di nuovo nel rapporto fra l’estetica e il reli­ gioso la sintesi che formano il comico e il tragico, quando sono messi in contatto. Così anche di fronte alla povertà scorgo il tragico nel fatto che a soffrire sia uno spirito immor­ tale, e il comico nel fatto che si tratti di una faccenda da due lire. Non proseguo al di là della sintesi fra comico e tragico nell’equilibrio dello spirito. Ho l’idea che, se continuassi a inoltrarmi e attaccassi col religioso, non mi troverei nella difficoltà del dubbio se io sia colpevole o no; perciò me ne tengo fuori. Non sono uno che si scandalizza, tutt’altro, ma neppure sono uno spirito religioso. Il religioso mi interessa

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come fenomeno, anzi, come il fenomeno che mi interessa di più. Non è perciò per gli uomini in generale, ma per me stesso che mi dispiace la scomparsa della religiosità, perché desidero avere materiale di osservazione. Questo non ho esi­ tazione a dirlo, e ne ho pure tutto il tempo; giacché un osser­ vatore ha sempre tempo. Diverso è il caso dell’uomo reli­ gioso. Quando parla, è solo in forma di monologo; occupan­ dosi unicamente di se stesso, parla ad alta voce, ed è quello che si dice predicare; se ci sono ascoltatori, egli non sa nulla del suo rapporto con loro, se non che non gli devono nulla, giacché lui lavora a salvare se stesso. Questo tipo di venera­ bile monologo, che è testimone di cristianesimo, quando, nella sua commozione, commuove l’oratore, il testimone stesso, perché sta parlando di sé, viene chiamato predica. I compendi di storia universale, i risultati del sistema, il gesti­ colare e l’asciugarsi il sudore dalla fronte, la potenza della voce e il vigore del pugno, nonché l’uso riflesso del pugno stesso a scopi pratici sono reminiscenze estetiche, che nep­ pure in senso strettamente aristotelico sanno accentuare il timore e la compassione. Giacché i compendi di storia uni­ versale non destano più timore dei risultati del Sistema, e la potenza della voce non scuote l’anima, ma al massimo i tim­ pani, e l’asciugarsi il sudore provoca tutt’al più la compas­ sione sensoriale per quel sudore. Un oratore religioso che non parli intimamente commosso di sé, ma di tutto il resto, si ricordi di Geert di Westfalia.^^ Geert, infatti, sapeva parlare di tutto, sapeva molto ed era molto perfettibile, tanto che sarebbe forse arrivato a sapere tutto; non fosse per l’unica cosa che non sapeva, di essere fra l’altro uno Schwatzer.^^ Ma Protagonista ci una commedia di H olberg intitolata al suo nome. Chiacchierone.

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Geert non ha rimorsi, poiché non si è mai spacciato per un oratore religioso. L ’oratore religioso, che attraverso il timore e la compas­ sione purifica queste passioni, non compie il gesto strabi­ liante di tirare via le nuvole, nel corso del suo parlare, per spalancare il firmamento, o il giorno del giudizio in anticipo, l’inferno sullo sfondo e se stesso fra gli eletti in trionfo; sce­ glie invece un trucco più rudimentale, più ingenuo, più po­ vero, il più facile di tutti: lascia che il firmamento rimanga chiuso, riconosce, in timore e tremore, di non aver concluso neanche lui, piega il capo, mentre il giudizio del discorso gli si posa sul pensiero e sul cuore. Non compie il gesto strabi­ liante che potrebbe valergli di essere richiamato alla ribalta dalle acclamazioni; non tuona per tenere desta l’assemblea e salvarla col suo discorso; sceglie il trucco più rudimentale, più ingenuo, più povero, il più facile di tutti: lascia in mano a Dio il tuono e il potere e la gloria, parla in modo tale da poter essere sicuro che, anche a mancare completamente il segno, ci sarà almeno un ascoltatore commosso sul serio: l’o­ ratore stesso; sicuro che, anche a mancare completamente il segno, ci sarà almeno un ascoltatore che tornerà a casa rinvigo­ rito: l’oratore stesso; sicuro che, anche a mancare compietamente il segno, anche se tutti se ne andassero, ci sarà almeno uno ad aspettare con ansia, in mezzo alle difficili complicazioni della vita, il momento edificante del discorso: l’oratore stesso. Egli non è prodigo dell’abbondanza di parola e di sapere; anzi, è avaro dei proventi dell’edificazione; scrupoloso, si assicura che gli ammonimenti vincolino lui, prima di dirigersi su qualcun altro, e che il conforto e la verità non l’abbandonino - per comunicarli con tanto maggiore prodigiilità. Se perciò, dice l’uomo religioso, lo vedessi appartato in un luogo soli­ tario, abbandonato da tutti e convinto di non aver ottenuto

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nessun risultato col suo discorso, se lo vedessi in quello stato, lo vedresti ugualmente commosso come non mai; se tu do­ vessi ascoltare il suo discorso, lo troveresti potente come sempre, senza inganni, senza calcoli, senza agitazione pratica, e ti accorgeresti che una sola persona era destinato a edifi­ care: l’oratore stesso. Egli non si stancherà mai di parlare; giacché sono gli avvocati e gli oratori che hanno intenti mon­ dani, o danno importanza mondana a intenti interni, a stan­ carsi quando non possono contare sulle dita tutte le cose pratiche che fanno, quando l’insidiosa esistenza non li in­ ganna con l’illusione di star facendo qualcosa; ma l’oratore religioso ha sempre il suo intento primario; l’oratore stesso. In questo modo, secondo ciò di cui mi sono convinto nel corso dell’esperimento, opera il religioso, attraverso il timore e la compassione, per nobilitare queste passioni. Qualunque altro modo di operare porterà confusione, proponendo cate­ gorie semi-estetiche, dando all’oratore un’importanza estetica e contribuendo alla vertigine che precipita l’ascoltatore nella perdizione estetica del generale.

Appendice LE SO FFEREN ZE AUTO INFLITTE - L ’AUTOLESIONISMO

In un’ottica estetica, qualsiasi heautontimorumenos^‘^ è ridi­ colo. Del fenomeno, le diverse epoche hanno dato alla luce tipologie diverse. La nostra epoca non è la peggiore, poiché è come se l’intera generazione si tormentasse con l’idea fissa di una propria vocazione allo straordinario, come se in qua­ Il castigatore di se stesso, la più famosa commedia di Terenzio.

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lunque istante potesse arrivare dal consiglio degli dèi una delegazione a convocarla perché prenda posto nell’assemblea divina: giacché almeno questo è certo; che, da grande esperta del suo compito (il futuro della specie umana) si sente, come Hermann von B r e m e n f e l d t , ^ ^ ^ ogni istante sul punto di par­ tire per bisbigliare nell’orecchio di Dio la cosa più giusta da fare. E che peccato, poi, che Hermann von Bremenfeldt non sia riuscito a parlare con l’elettore di Sassonia! Inoltre, come tutti quelli che soffrono di idee fisse, ha una forte tendenza a vedere spionaggio e persecuzione dovunque, e, allo stesso modo in cui chi soffre di reumatismi nota correnti dapper­ tutto, lei nota dappertutto oppressioni, abusi di potere, e riesce a spiegare in maniera soddisfacente le deboli manife­ stazioni di vita dello spirito collettivo non adducendo la mo­ tivazione che la sua forza è solo sintomatica e illusoria, bensì col fatto che la schiacciano i governi; più o meno come quando lo Sfaccendato^^ spiega che non riesce a combinare nulla durante la giornata, non perché egli sia inconcludente, bensì a causa dei molti affari che gli si rovesciano addosso. Ma basta con questo argomento. Precisamente perché è esteticamente corretto dire che ogni forma di autolesionismo è comica, è psicologicamente giusto, in una situazione reale, utilizzare la sonda comica, prima di trattare l’autolesionismo con altri metodi. Naturalmente non è possibile indurre all’istante il paziente a ridere della propria idea fissa; ma attraverso l’uso di analogie lo si tira sempre più in questa direzione. Se egli ride facilmente e di cuore delle analogie, è possibile riuscire a coglierlo di sorpresa con un coup de mairi. Tuttavia sono cose da eseguire nei dettagli solo



Personaggio di Deti politiske Kandest0ber di Holberg. Altra famosa commedia di H olberg (De» Stundeslese, i, 6).

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nella pratica; ma proprio nella pratica niente è più ridicolo che vedere applicare, con profonda e ottusa serietà, categorie religiose quando invece si dovrebbero utilizzare, con spirito e brio, categorie estetiche. Il quidam dell’esperimento, senza saperlo, si è comportato molto correttamente. Con passione sconfinata, egli conce­ pisce il piano di trasformare il suo rapporto d’amore in una buffonata agli occhi della ragazza. Quello di cui, dal mio punto di vista, posso permettermi di ridere è la sua sconfinata passione; a parte questo, egli è nel giusto. Non sempre c’è pericolo di vita, quando una persona invoca soccorso. Se la quaedam dell’esperimento avesse sofferto tragicamente, gli avrebbe impedito di cogliere l’occasione per servirsi dell’in­ ganno. Si sarebbe raccolta in se stessa e si sarebbe tirata in­ dietro. Questi sono sempre fenomeni pericolosi. Invece lei è finita esattamente all’estremo opposto, riempiendosi la bocca il più possibile, tormentandosi col voler essere un’innamorata al massimo grado infelice. Ma è precisamente questo che in­ dica come sia appropriato, per lei, un trattamento comico; giacché un’innamorata infelice al massimo grado tace. Se si fosse attenuta alle categorie religiose, non avrebbe agito in quel modo; avrebbe invece temuto per se stessa, e di conse­ guenza avrebbe temuto ancor di più la responsabilità che avrebbe potuto assumersi rendendo a lui la cosa più difficile possibile, non solo con la sua personalità, ma in virtù di una falsificazione erotica che assorbe interamente l’etica e il senso del dovere. Se il quidam dell’esperimento avesse avuto l’equilibrio spirituaie per capire che cosa stava facendo, sarebbe stato una persona completamente diversa. Ma la sua passione tormen­ tata lo rende tragico nell’uso dell’inganno; e io vedo la sintesi de] coioictj e del tragico appunto nel fatto che egli fa la cosa

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giusta, ma non per il motivo che egli presume; la speranza, cioè, di trovare nel suo entusiasmo simpatetico la forza di strappare a lei un innamoramento autentico. No; il comico consiste proprio nel fatto che il motivo per cui trionfa la tragica temerarietà di lui è che l’innamoramento di lei non pesca molto a fondo. La ragione per cui l’estetica tratta, in piena coerenza, qual­ siasi forma di autolesionismo in chiave comica è facile da capire, proprio perché è coerente. L ’estetica mantiene l’eroe in uno stato di integrità a causa del rapporto immediato fra forza e sofferenza (la prima interna, la seconda esterna). Con­ sidera quindi qualsiasi orientamento verso l’interno come una diserzione, e non potendo permettere che il disertore sia fuci­ lato lo rende ridicolo. Ora abbandono l’estetica e passo al religioso. In quanto sperimentatore metto semplicemente in moto le categorie, per poter osservare in tutta comodità le loro condizioni, senza curarmi di sapere se la storia è reale o possibile, se Tizio abbia lasciato perdere perché era troppo debole, Caio perché era troppo furbo e Sempronio perché ha visto lasciar perdere gli altri due; e dunque potrebbe, senza rischio, agire nello stesso modo ed essere amato e stimato, visto che non era sua intenzione essere migliore degli altri: in breve, senza far caso a una saggezza da assicuratori sulla vita, che ha, come risultato, che quando una pecora entra in acqua, le altre de­ vono fare lo stesso; quello che fa una bestia, devono farlo anche le altre. Il religioso non consiste nel rapporto immediato fra forza e sofferenza, ma nell’interiorità, quando essa si pone in rap­ porto a se stessa. Il fatto che il “ sé” venga qui accentuato è sempre sufficiente a dimostrare che l’autolesionismo va consi­ derato diversamente; ma non è sufficiente, dice l’uomo reli­

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gioso, a giustificare che individui ciie passano l’esistenza nel­ l’estetica si mettano a raffazzonare qualche cosa, e che gli oratori religiosi, nonostante tutti i loro discorsi e le loro pa­ role sante, non dispongano di categorie pure. Se l’autolesionismo, dal punto di vista estetico, è comico, dal punto di vista religioso è colpevole. Una guarigione reli­ giosa non si raggiunge attraverso il riso, ma attraverso il pen­ timento; ché l’autolesionismo è un peccato come tanti altri. Ma mentre l’estetica, appunto perché non ha nulla a che vedere con l’interiorità, liquida generalmente l’autolesio­ nismo in quanto comico, il religioso non può comportarsi in questo stesso modo. Il timore dell’individuo religioso è ti­ more per se stesso; la guarigione religiosa consiste in primo luogo e principalmente nello svegliare questo timore, ed è facile perciò vedere come la situazione si complichi. Ma com’è che l’individuo può temere per se stesso, se non sco­ prendo da solo il pericolo che corre? Una religiosità scaltra si comporta in maniera del tutto diversa. Dice: «I pericoli non bisogna provocarli, nostro Signore può sempre mandarli, se è necessario». Si fa presto a dirlo, ma non basta dire «amen» e finirla qui, giacché il discorso è ambiguo. Nonostante l’e­ spressione religiosa: «nostro Signore», al posto della quale, per parlare in senso ancora più religioso (come se il religioso consistesse in certe parole e certe formule), uno dovrebbe forse dire: «nostro Salvatore», nonostante tutto questo, le categorie sono semi-estetiche. Benché il discorso sia religioso, l’individuo viene visto solo in un rapporto esterno con Dio, non in un rapporto interiore con se stesso. Il discorso si sviluppa all’incirca in questo modo: «Nostro Signore può ben portare pericolo e miseria in casa tua, può toglierti il patri­ monio, la tua innamorata, i tuoi figli, e certo lo farà quando ti sarà utile - ergo, dato che non l’ha fatto, non c’è alcun

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pericolo». Questa è estetica rivestita di una doratura religiosa spuria. Dal punto di vista religioso, il pericolo più grande è che uno non scopra, o non scopra sempre, di essere in peri­ colo, anche se avesse soldi e la più bella delle fanciulle e figli adorabili, e fosse il sovrano del paese o un pacifico cittadino libero da ogni preoccupazione. Come ho affermato, è facile parlare in questo modo, ma non si può dire «amen» e finirla qui, altrimenti si cade nel­ l’inganno. La cosa risulta evidente quando si consideri il di­ scorso più da vicino. Ecco dunque un uomo, un vero Panfi­ lio della fortuna (queste parole si prestano perfettamente a un discorso religioso come questo), protetto e favorito, e senza conoscere il pericolo, edificato con la considerazione che nostro Signore, certamente... se... Com’è fortunato il filo­ sofo estetico che, in aggiunta a tutta la Heiterkeit dell’este­ tica, ottenga una polizza di sicurezza religiosa! Tuttavia cia­ scuno dispone in primo luogo di una cosa chiamata fantasia; dunque, il nostro fortunato sente parlare dell’esistenza della miseria e della sofferenza nel mondo. Ora, lui vorrebbe dare, e ricevere lodi per questo. Ma la fantasia non si accontenta di così poco. G li dipinge la sofferenza nelle sue forme più terri­ bili, e nell’attimo in cui l’immagine culmina nel terrore, lo colpisce un pensiero e una voce gli dice: «Potrebbe capitare anche a te». Se c’è sangue di cavaliere in lui, risponderà: «Perché dovrei esserne esonerato rispetto agli altri?». (Questo tema lo ha trattato Tieck in una novella,^® dove un giovanotto benestante si dispera a causa della sua ricchezza, non per spleen, ma per simpatia per gli altri.) Nessuno gliel’ha detto, eppure qui corre il discrimine tra l’induriPrediletto. Forse Der Alte vom Berge {Schriften, xx iv, pp. 17 3 sgg.).

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mento estetico, che non vuole neanche sapere che la soffe­ renza esiste, e l’edificazione religiosa attraverso la sofferenza. Che ci fosse un bivio del genere, che la libertà non si compri pagando la tassa dei poveri, magari con un’aggiunta, nessuno glielo dice: il nostro Panfilio dovrebbe essere felice finché nostro Signore, nel caso in cui ce ne fosse bisogno, gli man­ derà un pericolo. Che cosa fa l’oratore a questo punto? Mette in atto un inganno. Invece di condurlo nel pieno del pericolo lo aiuta, per mezzo di una fantasia religiosa, a marinare la vita. Ogni tentativo di ostruire la percezione di trovarsi in pericolo è una deviazione estetica in direzione non della poesia, ma di quell’indurimento che è l’effetto dell’estetica con la realtà messale a confronto. Se a parlare è un oratore più decisamente religioso, si de­ streggerà facilmente in mezzo a questa difficoltà, e aiuterà chi ascolta ad addentrarvisi. Parlerà, con il tono leggero della religiosità, del destino e delle avversità della sorte: il nostro fortunato Panfilio s’impensierisce un poco, e l’oratore non l’ha ingannato, A quel punto si sente edificare nella serenità della fede, e l’oratore, infiammato d’ardore religioso, grida a se stesso e a lui: un uomo religioso è sempre allegro. Questa è la frase più orgogliosa mai pronunciata al mondo, proprio perché nessuno, nessuno in cielo o in terra, sa che cosa sia il pericolo, e che cosa significhi essere in pericolo come lo sa l’uomo religioso, che sa di essere sempre in pericolo. Perciò, chi dice, senza mentire, di essere a un tempo sempre in peri­ colo e sempre allegro, pronuncia, a un tempo, le parole più sconsolate e più superbe mai dette. E io, che sono solo un osservatore, poetice et eleganter^'^ un vigile di piazza, mi con­ Poeticamente e con gusto (cfr. nota 50).

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sidero già fortunato ad avere l’opportunità di inchinarmi di fronte a un tale uomo; ma per parlare di me stesso nell’am­ bito delle mie categorie, se gli dèi mi hanno negato la cosa più grande, infinitamente al di sopra delle mie capacità, in compenso mi hanno dotato di un’abilità non comune di os­ servare la gente, sicché non mi tolgo il cappello prima di vedere davanti a chi, né me lo tolgo davanti alla persona sbagliata. Molti sono stati immer lustig,'^^ e tuttavia su un piano così basso, che persino l’estetica li considera comici. Si tratta dunque di capire se uno non sia stato allegro nella situazione sbagliata; e dov’è la situazione giusta? Nel pericolo. A una profondità di 70.000 braccia d’acqua, lontani migliaia di mi­ glia da ogni conforto umano, essere allegri in questa situa­ zione: davvero grandioso! Nuotare nell’acqua bassa, in mezzo ai bagnanti, non è il religioso. Si vede facilmente, adesso, che cosa si debba intendere, in senso religioso, per autolesionismo. Si tratta di scoprire da sé tutte le possibilità del pericolo e scoprirne da sé, in ogni istante, la realtà (è questo che il filosofo estetico chiamerebbe autolesionismo, e che la conferenza estetica indorata di reli­ giosità spuria impedirebbe di provare), ma anche di essere, al tempo stesso, allegri. In che cosa consiste allora l’autolesio­ nismo? Consiste nel fermarsi a metà strada. Non consiste dunque nel primo punto, giacché in tal caso parlerei da esteta, ma consiste nel non riuscire ad arrivare alla gioia, E questo non è comico, dice l’uomo religioso, né è tale da provocare lacrime estetiche, cosa condannabile da lasciarsi dietro; chiunque non se la lasci dietro deve incolpare se stesSempre allegri.

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SO, giacché qui non si tratta dei padri crudeli contrapposti a innamorati infelici nella tragedia, qui non si tratta del nemico più forte davanti a cui cade l’eroe della tragedia, qui non si tratta del tradimento del più fidato, per cui il protagonista viene preso in trappola; qui uno solo può essere il traditore; noi stessi, e dopo di noi, ma assai più lontano, l’oratore, che ci indurrebbe a lasciar perdere quando invece l’unica cosa che potrebbe fare è aiutarci ad avventurarci alla profondità di 70,000 braccia d’acqua. E quando ciò è accaduto, e noi ci accorgiamo di non poter fare più nulla, di non poter aiutare chi amiamo più della vita (per quanto è possibile nell’in­ treccio di un dramma), ma scopriamo, solo in questa ango­ scia, di trovarci noi stessi sotto una profondità di 140.000 braccia d’acqua, c’è nonostante tutto ancora una cosa che possiamo fare: possiamo gridare alla persona amata: «Se non puoi stare allegra, sappi almeno che è solo colpa tua». Sebbene sia opinione di molti, ammesso che prestino at­ tenzione a ciò che ho qui esposto, che un simile oratore potrebbe essere considerato un flagello nazionale, e che sa­ rebbe la cosa più sciocca di tutte pagarlo per aver reso qual­ cuno infelice, non è questa la mia opinione. Io lo pagherei volentieri; e senza imbarazzo, se potessi diventare come lui, accetterei per questo del denaro, ma non per questo penserei di ricompensarlo o di essere ricompensato, poiché non c’è prezzo che il denaro possa pagare per un simile insegna­ mento, e non merita neppure che uno debba polemicamente (come ha fatto Socrate) metterci l’accento sopra rifiutando di accettarlo. Questo per ciò che riguarda l’autolesionismo, E estremamente semplice, lo sanno tutti, ed è precisamente qui che io vedo di nuovo la sintesi del comico e del tragico, quando penso: ognuno sa che cosa sia un uomo, e l’osservatore sa che

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cosa ognuno è, * Estetico-comico non è, perché c’è più che un rapporto immediato (giacché il comico risiede nell’incompati­ bilità tra una possibilità immaginaria e la realtà), Diedrich Menschenschreck^^ è comico, perché il suo coraggio è una possibilità immaginaria, e quindi la sua realtà si dissolve nel vuoto. Ma quest’altra possibilità che riguarda ciascuno di noi non è affatto una possibilità immaginaria, ma una possibilità reale: possiamo, così dice l’uomo religioso, diventare sublimi, giacché siamo progettati per il sublime. È tragico che non lo siamo, ma comico che lo siamo in ogni caso, poiché quella possibilità, progettata da Dio in persona, non possiamo can­ cellarla. Ognuno sa così che un uomo è immortale, e l’osser­ vatore sa che cosa è ognuno, eppure ciascuno è e resta im­ mortale, L ’immortalità dell’uomo, dunque, non è una possi­ bilità immaginaria come il coraggio di D, Menschenschreck; e d’altro canto, chi conserva la fede neU’immortalità in tutti gli orrori della vita e nonostante l’insidia dei costumi e dei tempi, non diventa più immortale di chiunque altro. Il quidam dell’esperimento è in qualche modo un autole­ sionista. Il suo primo movimento è giusto e corretto, ma poi riposa sugli allori, non riesce a tornare tanto rapidamente * Benché io di solito non mi auguri il commento dei critici, in questo caso potrei quasi augurarmelo se, lungi dal lusingarmi, si proponesse di dire la brutale verità: «quello che sto dicendo io Io sanno tutti, qualsiasi bambino, e le persone colte ne sanno infinitamente di più». Una volta stabilito, infatti, che lo sanno tutti, io sono nella posizione giusta, sicuro anche di venire a capo della sintesi fra comico e tragico. Se invece ci fosse qualcuno che non lo sa, mi toccherebbe strapparmi al mio equilibrio, all’ idea di potergli forse insegnare le nozioni preliminari necessarie. A coinvolgermi tanto è proprio quello che dicono le persone colte della nostra epoca; che lo sanno tutti, che cos’è il sublime. N on era questo il caso del paganesimo, né dell’ebraismo, né del secolo diciassettesimo dell’era cristiana. Fortunato secolo di­ ciannovesimo! Lo sanno tutti. Che progresso, dai tempi in cui a saperlo erano pochissimi! E se invece, per esigenze di equilibrio, dovessimo supporre che a saperlo non c ’è nessuno? IN .d .A .Ì Protagonista della commedia di H olberg dallo stesso nome.

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nella gioia da poter di nuovo ripetere quel movimento. Tut­ tavia, il momento in cui io l’ho concepito è anche quello della sua crisi; è possibile che sarebbe più facile per lui, se fosse abbastanza ragionevole da capire che serve tutta una vita per mettere in pratica un corso come quello che ha se­ guito, accettando di essere un indeciso in mezzo a quanti finiscono in fretta, un ritardato fra quanti vanno infinita­ mente oltre. Che la ragazza gli sia di aiuto nello spingerlo al largo, non v’è alcun dubbio, e, dal mio punto di vista, devo dire che il suo rapporto con lei è un rapporto fortunato; giacché è sempre fortunato in amore un uomo che trova una ragazza calcolata apposta per permettergli di evolversi. Così Socrate era felicemente sposato con Santippe; in tutta la Grecia non avrebbe trovato una donna simile, giacché il gran maestro antico dell’ironia aveva bisogno di quel tipo di donna per evolversi. E se Santippe, dunque, ha dovuto sen­ tirsi calunniata nel mondo, credo che d’altra parte abbia il trionfo di vedere il maestro dell’ironia, superiore di tutta la testa al grosso degli uomini, in debito come verso nessuno verso Santippe, la casalinga: e su questo Socrate ha sostenuto ironicamente la docenza prò summis in ironia honoribus,^^ conquistando così l’abilità ironica e l’equilibrio con cui ha vinto il mondo. Similmente, questa ragazza è proprio adatta a lui, come richiede l’esperimento. E abbastanza amabile da commuo­ verlo, ma anche abbastanza debole da abusare del suo potere su di lui. La prima di queste qualità lo lega, e la seconda lo aiuta a spingersi al largo, ma anche lo redime. Se la ragazza fosse stata più caratterizzata sul piano spirituale, e meno su « P e r il grado più alto in ironia» (formula, modificata, della dissertazione di dottorato danese).

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quello dell’amabilità femminile, se fosse stata molto più gene­ rosa, se nel bel mezzo del suo inganno gli avesse detto: «Mio caro, i tuoi imbrogli mi affliggono; non ti capisco, e non so se tu sia così frivolo da volermi abbandonare per avventurarti nel mondo, o se mi nascondi qualcosa e sei migliore di quanto non sembri; ma sia quel che sia, capisco che devi riavere la tua libertà; avrei timore per me stessa se non te la restituissi, e d’altra parte ti amo troppo per negartela. Allora prenditela, senza recriminazioni, senza rancore tra noi, senza che tu ti senta in obbligo di ringraziarmi, ma con la consape­ volezza, per quanto mi riguarda, di aver fatto del mio me­ glio», se fosse successo tutto questo, lo avrebbe schiacciato; egli si sarebbe accasciato al suolo dalla vergogna, giacché con la sua passione può sopportare splendidamente qualsiasi mal­ vagità, sapendo di essere migliore, ma non potrebbe dimenti­ care il suo debito verso tanta generosità, di una grandezza che lui avrebbe scoperto appunto per la sua demonica perspi­ cacia. Sarebbe stata un’ingiustizia nei confronti di lui, giacché, dal suo punto di vista, era anche lui in buona fede. N ell’esperimento a umiliarlo non è un essere umano, ma Dio. Chi abbia la voglia e la capacità di misurarsi sperimental­ mente con le categorie, senza aver bisogno di parate, di pae­ saggi, di una quantità di personaggi, «e poi di mucche», vedrà quanti nuovi intrecci si potrebbero creare a partire da questo punto, modificando in piccola misura lui o lei per vedere cosa ne sarebbe seguito per lui o per lei; come sarebbe dovuto essere lui per schiacciare lei (se, per esempio, l’avesse crudelmente resa responsabile della propria vita, terrorizzan­ dola al punto da impedirle di riaversi mai), cosa di cui lui non è affatto capace, o come avrebbero dovuto essere fatti tutti e due per schiacciarsi a vicenda (se per esempio lui non avesse avuto presupposti religiosi e, spinto alla disperazione dal suo

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orgoglio, avesse finito col celebrare la loro unione col sui­ cidio), invece di tirarsene fuori, qui, tutti e due. I lettori di romanzi hanno certo altre e maggiori esigenze, e pensano che, dal momento che tutto l’intreccio si basa su due persone, debba trattarsi di una faccenda noiosa, il che sarebbe anche vero, se nello stesso tempo non entrassero in gioco le categorie. Se entrano in gioco, può essere divertente già con un solo personaggio, e 6 miliardi e 447.378.785 perso­ naggi non potrebbero tirare in ballo di più. Un lettore di romanzi, naturalmente, si muove solo se si muove qualcosa, come si dice quando si vede un assembramento. Ma se po­ niamo che l’assembramento non avesse ragioni di essere, non riguardasse niente, ecco che non si sarebbe mosso niente.

6. NON PEN TIRSI DI NULLA È LA SUPREMA SAGGEZZA. LA REM ISSIONE D EI PECCATI

In accordo con principi negativi come: non ammirare nulla, non aspettarsi nulla eccetera, si pone il principio negativo: non pentirsi di nulla, oppure, volendo usare un’altra espres­ sione che non risulti forse così conturbante sul piano etico: non rimpiangere nulla. Il segreto di questa saggezza sta pro­ priamente nell’aver imbellettato un principio estetico, confe­ rendogli l’aspetto di un principio etico. Inteso in senso este­ tico, è assolutamente vero dal punto di vista etico, giacché lo spirito libero non dovrebbe tenere in così gran conto tutta la dimensione estetica da rimpiangere qualcosa. Così, se uno è diventato povero, si dice giustamente: non rimpiangere nulla N ihil admirari-, Orazio, Epistole, i, 6, i.

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è la suprema saggezza, il che vuol dire: agisci in virtù dell’e­ tica. Il principio significa dunque tagliare continuamente i ponti con il passato, per poter continuamente agire nell’i­ stante, Se hai concepito un piano con la più ponderata deli­ berazione, e l’esito sembra poi dimostrare che il tuo piano era sbagliato, l’importante è non rimpiangere nulla, ma agire in virtù dell’etica. È innegabile che al mondo si perda una gran quantità di tempo a guardare così all’indietro, perciò il principio va considerato lodevole. Ma se il piano non fosse stato concepito in seguito a una ponderata deliberazione, se contenesse un’insidia, che cosa succederebbe? Vale anche in tal caso il principio; non pen­ tirsi di nulla, per non farsene ritardare? Dipende da che ri­ tardo si debba temere. Se è il ritardo e l’impedimento nell’af­ fondare sempre più in profondità che si teme, sarebbe meglio esclamare: «Non rimpiangere nulla!», e capire le parole del poeta: nulla pallescere culpa''^ come riferite all’impudenza di non impallidire per la colpa; ma in questo caso il principio è non etico al massimo grado. C ’è comunque molta gente che, con la furia dell’angoscia, si precipita a capo basso nella vita. Non temono nulla più della dialettica, e quando dicono: «Non rimpiangere nulla» del passato, potrebbero con altret­ tanta ragione dire: «Non deliberare nulla» del futuro. Non privo di spirito è dunque ciò che dice un mattacchione in una pièce di Scribe: che non avendo egli mai fatto un progetto, non aveva mai neppure sofferto la pena di vederlo fallire. Le donne agiscono sovente con questa stessa mancanza di deli­ berazione, e si traggono d’impaccio benissimo. In un altro senso, talvolta anche un uomo molto saggio agisce senza deli­ berazione, o in virtù della disperazione di trovarsi un metro. «N o n impallidire per nessuna colpa»: Orazio, Epistole, 1, i, 61.

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Quando uno si è impastoiato in qualcosa e non sa se entrarne o se uscirne, quando tutto è diventato relativo in maniera così micidiale che sembra quasi di essere sul punto di soffo­ care, può essere opportuno agire di scatto su un singolo punto, giusto perché ne venga movimento e vita in quella massa di carne morta. Un magistrato incaricato di un’inda­ gine, per esempio, quando la sua ragione si ferma e tutto appare ugualmente probabile, improvvisamente decide di im­ postare l’interrogatorio di un certo individuo (non perché la maggior parte dei sospetti siano contro di lui, giacché un sospetto preciso è esattamente ciò che gli manca) e segue quella traccia arbitraria con la massima passione: talvolta si accende allora una luce, ma illumina un altro luogo. Quando uno non sa se sia malato o sano, quando questa condizione comincia a stabilirsi in disturbo, si fa bene a tentare all’improvviso un’azione disperata. Ma sebbene si agisca senza deli­ berazione, c’è pur sempre una sorta di deliberazione. Diversamente quando, con la deliberazione come antece­ dente e col pentimento come conseguenza, bisogna mante­ nere la tensione dialettica. Solo chi abbia esaurito la dialet­ tica nella deliberazione, solo lui agisce, e solo chi esaurisca la dialettica nel pentimento, solo lui si pente. Per cui sembra inspiegabile che un grande pensatore come F i c h t e p o t e s s e asserire che un uomo d’azione non ha tempo di pentirsi; ed è tanto più strano in quanto questo filosofo energico e, nel nobile senso greco del termine, sincero aveva una concezione elevata dell’azione umana come unicamente interiore. Forse si può spiegare col fatto che egli, proprio nella sua energia, non si fosse reso conto (almeno non in un primo periodo) del 'umg (Ics Memchen, in Sàmmtliche \verke, Berlin 1845, 11, p. 3 11.

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fatto che questa azione interiore è essenzialmente un soffrire; e che perciò la più elevata azione interiore dell’uomo è il pentirsi. Pentirsi, però, non è un movimento positivo verso o fino a una meta, bensì un movimento negativo introverso; non un fare, ma un lasciarsi accadere dentro qualcosa. Esistono tre sfere di esistenza; quella estetica, quella etica e quella religiosa. La metafisica è astrazione, e non esiste nessuno che esista metafisicamente. La metafìsica, l’onto­ logia, è, ma non esiste: perché quando esiste, esiste nell’este­ tica, nell’etica, nel religioso, e quando è, è l’astrazione dell’e­ stetica, dell’etica, del religioso, o un loro prius. La sfera etica è solo una sfera di transizione, e perciò la sua espressione più elevata, il pentimento, è una sorta di azione negativa. La sfera estetica è quella dell’immediatezza, l’etica quella del cre­ dito (e questo credito è così infinito che l’individuo fa sempre bancarotta), la sfera religiosa quella dell’appagamento, ma, si noti, non quel tipo di appagamento che si prova riempiendo d’oro una cassetta delle elemosine o un sacchetto, giacché il pentimento, appunto, ha creato uno spazio infinito, e da qui deriva la contraddizione religiosa; stare sospesi su 70.000 braccia d’acqua, e ciò nonostante allegri. Dal momento che la sfera etica è una sfera di transizione, che tuttavia non viene attraversata una volta per tutte, e il pentimento è la sua espressione, il pentimento è il culmine della dialettica. Non è meraviglia, dunque, se fa paura, giacché, se al pentimento si concede un dito, si prende tutta la mano. Come Geova nell’Antico Testamento persegue le iniquità dei padri nei figli fino alle ultime generazioni, allo stesso modo il pentimento si volta indietro, continuamente presupponendo l’oggetto della sua indagine. Nel pentimento avviene la scossa del movimento, per cui tutto viene capo-

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volto. Questa scossa segna precisamente la differenza fra l’e­ stetica e il religioso, nonché quella fra interno ed esterno. Il potere di annientamento infinito del pentimento si vede nel modo migliore nel fatto che è anch’esso dialettico in senso simpatetico. Raramente ci si fa attenzione. Non desi­ dero parlare qui di miserie, quali pretendere di pentirsi di un singolo atto per poi ricominciare da capo, o pretendere di essersi pentiti e lasciarlo credere alla gente, sebbene ogni dichiarazione di questo genere provi a sufficienza che non ha la più vaga idea di che cosa significhi pentimento quell’uomo risoluto che fa tante assicurazioni, quel credente; ma neppure le analisi più competenti sul pentimento ne considerano il lato dialettico in direzione simpatetica. Un esempio per illu­ strare questo concetto. Un giocatore d’azzardo si ferma, lo afferra il pentimento, egli rinuncia del tutto al gioco; sebbene sia stato sull’orlo dell’abisso, il pentimento lo trattiene, e sembra riuscirci. E mentre ora vive ritirato, forse in salvo, un giorno vede che è stato pescato un cadavere dalla Senna: il suicidio di un giocatore come era stato lui un tempo; anche questo giocatore, lui lo sapeva, aveva lottato, combattuto una battaglia disperata per resistere al suo vizio. Il mio giocatore aveva amato quest’uomo, non perché fosse un giocatore, ma perché era migliore di lui. E allora? Non c’è bisogno di con­ sultare romanzi e novelle, ma forse anche un oratore reli­ gioso avrebbe interrotto il mio racconto un po’ prima e l’a­ vrebbe fatto terminare nel punto in cui il mio giocatore, sconvolto da quella vista, andava a casa a ringraziare Dio per la sua salvezza. Un momento! Prima di tutto, una spiegazione minima, un giudizio sull’altro uomo; ogni esistenza non irri­ flessiva è eo ipso indirettamente un giudizio. Se l’altro fosse stato un peccatore incallito, avrei concluso dicendo: non si voleva salvare. Ma non era così. Ora, il mio giocatore è un

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uomo che ha capito il vecchio detto: de te narratur fabula, non è un buffone moderno, convinto che tutti dovrebbero aspirare al compito oggettivamente immane di recitare una filastrocca di regole che riguardano l’intera specie umana, fuorché loro stessi. Dunque, che giudizio deve pronunciare? Non può astenersene, questo de te è per lui la legge più sacra dell’esistenza, perché è il patto umanitario stesso. Se un ora­ tore religioso, incapace di pensare ma capacissimo di chiac­ chierare, volesse aiutarlo con simpatia filantropica e profonda commozione per mezzo di semi-categorie, il mio giocatore sarebbe abbastanza maturo da vederne il miraggio; dunque, deve andare oltre. Si trova al momento di giudicare secondo l’umile formula della dottrina della predestinazione (la for­ mula superba sta invece nell’estetica, dalla doratura religiosa spuria), se spera nella propria salvezza. Chi non prova sim­ patia, ma idrofobia, trova naturalmente assurdo prendersi tanto a cuore il destino di un altro; ma non farlo è mancare di simpatia, cosa scusabile solo se motivata dalla stupidità. L ’esi­ stenza deve pure avere delle leggi, e l’ordine etico del mondo non è una gazzarra dove uno esce vincitore dall’impresa più sbagliata, l’altro perdente dall’impresa migliore. Ora, il giu­ dizio. Non intendo qui, ovviamente, che a renderlo così sma­ nioso sia i’ piacere di condannare. Ma neanche lui può sal­ varsi per 1 n imprevisto, sarebbe irriflessione; e se dice del­ l’altro che è andato a fondo nonostante la sua buona vo­ lontà, va ; fondo anche lui, e se dice: l’altro, dunque, non ha voluto rabbrividisce, perché aveva pur sempre visto il lato buono dell’altro e perché così gli sembra di farsi mi­ gliore di lui.