Spirito del Novecento. Il secolo di Ugo Spirito dal Fascismo alla contestazione

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Spirito del Novecento. Il secolo di Ugo Spirito dal Fascismo alla contestazione

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Saggi 239 Filosofia

Danilo Breschi

Spirito del Novecento Il secolo di Ugo Spirito dal fascismo alla contestazione

Rubbettino

Volume pubblicato con il contributo della Libera Università “San Pio v” di Roma (luspio)

© 2010 - Rubbettino Editore 88049 Soveria Mannelli Viale Rosario Rubbettino, 10 tel (0968) 6664201 www.rubbettino.it Progetto Grafico: Ettore Festa, HaunagDesign

Indice

Prefazione di Giuseppe Parlato

pag.

Nota dell’Autore 1. Tecnica e rivoluzione. Il fascismo nel pensiero di Ugo Spirito

xi 3 5

2. Spirito e la scienza come religione senza fede

129

3. L’eredità gentiliana e lo Spirito dei tempi nuovi: dal dopoguerra alla Contestazione

191

appendici i. Dopo tre anni di lotta per l’Italia… ii. La crisi dei valori tradizionali Indice dei nomi

271 281 303

ad Annalisa & Miriam

Bisogna vivere come si pensa, se no, prima o poi, si finisce col pensare come si è vissuto. paul bourget, 1914 Bisogna avere forza di carattere per agire sulla base delle proprie idee; e ce ne vuole altrettanta per resistere alla loro seduzione. irving kristol, 1963 Anche se riuscissimo a cambiare la fisionomia di questo secolo al punto che non fosse più un secolo di guerre, resterà senza alcun dubbio un secolo di rivoluzioni. hannah arendt, 1963

Prefazione

Nel 1992, in occasione dell’uscita del terzo volume degli «Annali» della Fondazione Ugo Spirito, Jader Jacobelli, filosofo, giornalista e conduttore indimenticabile delle «Tribune politiche», raccomandava alla Fondazione la realizzazione di una biografia completa di Spirito, di un profilo intellettuale di questo grande filosofo del Novecento italiano. Erano fino ad allora usciti soltanto alcuni studi di Antimo Negri e una ricerca di Antonio Russo1; a questi sarebbe seguito il volume di Giovanni Dessì, più completo e organico, basato sulla documentazione conservata in Fondazione2; come quella di Russo, anche questa opera era stata edita presso la Fondazione, frutto del lavoro di ricerca interno. Oltre a ciò, vi erano stati lavori settoriali su aspetti filosofici ed economici di Spirito, soprattutto legati ai suoi inediti (Guerra rivoluzionaria e Ho trovato Dio3). Dopo il lavoro di Dessì, null’altro di compiutamente organico era uscito fino a questo bel lavoro di Danilo Breschi, contemporaneo agli atti del convegno su «Ugo Spirito a trent’anni dalla morte. Una ricerca oltre i confini»,

1. a. negri, Dal corporativismo comunista all’umanesimo scientifico. Itinerario teoretico di Ugo Spirito, Piero Lacaita, Manduria 1964; a. russo, Positivismo e idealismo in Ugo Spirito, Fondazione Ugo Spirito, Roma 1990. 2. g. dessì, Ugo Spirito. Filosofia e rivoluzione, Fondazione Ugo Spirito, Roma 1999. 3. u. spirito, Guerra rivoluzionaria, a cura di G. Rasi, Fondazione Ugo Spirito, Roma 1989; id., Ho trovato Dio, a cura di A. Russo, Fondazione Ugo Spirito, Roma 1989.

xii

tenutosi a Roma e a Ferrandina, luogo natale della famiglia, nel 20094. Un bilancio di notevole livello qualitativo e scientifico, che testimonia il lavoro svolto in quasi un trentennio dalla Fondazione che ne porta il nome. Il volume di Danilo Breschi, giovane ricercatore universitario che festeggia con questa fatica un quindicennio di studi su Spirito, a cominciare dalla tesi di laurea al «Cesare Alfieri» di Firenze nel 1998, presenta alcune novità sia nell’approccio sia nell’interpretazione globale del personaggio. In primo luogo, l’Autore ha analizzato con meticolosa attenzione l’archivio del filosofo, ricostruendo alcuni aspetti fattuali e interpretativi che diventano di rilevante importanza per un giudizio più maturo e ampio sul percorso intellettuale di Spirito. In secondo luogo, Breschi permette al lettore di vedere con nuova luce l’ultimo Spirito, sia quello che affronta la scienza come il momento centrale dello sviluppo culturale dell’uomo del xx secolo, sia quello che discute dialetticamente il problema della contestazione giovanile; in questo senso a Breschi è stato particolarmente utile l’avere recentemente lavorato sulle idee rivoluzionarie che ispirarono il ’685: anche di queste Spirito fu acuto testimone e tutto il suo percorso intellettuale non lo portò certamente a essere al margine del dibattito sulla contestazione e sullo spirito rivoluzionario di quegli anni. La vicenda scientifica di Ugo Spirito – o, come un tempo si diceva, la sua «fortuna» – ha avuto un curioso percorso. Nonostante tutte le sue disavventure politiche e le sue vicinanze politicamente «pericolose» (o, almeno, ingombranti), Spirito fu, fino alla scomparsa, uno dei filosofi più corteggiati dalla carta stampata e dai media e, sicuramente, uno degli intellettuali che esercitavano un grande fascino fra allievi e semplici studiosi, nonché molta invidia fra i colleghi che non gli per4.

Cfr. «Annali della Fondazione Ugo Spirito», voll. xx-xxi, Roma 2008-2009.

5. d. breschi, Sognando la rivoluzione. La sinistra italiana e le origini del ’68, Mauro Pagliai Editore, Firenze 2008.

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donavano la facilità con la quale faceva parlare di sé, da destra e da sinistra. Dopo la morte, come spesso accade, quasi ci si dimenticò di lui e del suo pensiero: erano gli anni Ottanta e il tramonto delle forti tensioni ideologiche portò a considerare il pensiero di Spirito come qualcosa di totalmente inattuale; i suoi frequenti «innamoramenti» ideologici – che, peraltro, rispondevano a un percorso sostanzialmente coerente – vennero considerati come un retaggio del passato; così anche sembrò superato dai tempi per la sua impermeabilità rispetto a certe scienze umane che allora andavano parecchio di moda (sociologia e psicologia, soprattutto). Neppure aiutò Spirito il ritorno alla vecchia passione corporativa, quando, all’inizio degli anni Settanta, in seguito ai successi elettorali del Msi, si costituì un interessante ambiente culturale attorno al partito che, per qualche anno, fino alla scissione di Democrazia nazionale, riuscì a collegare persone di diversa provenienza culturale e politica attorno a un progetto che il Msi sembrava, allora, volere interpretare con larghezza di prospettive. Spirito non si avvicinò certo alla politica attiva e neppure rientrò in contatto con quel vecchio mondo dei corporativisti i quali, nel frattempo, erano diventati democristiani o comunisti, e che, comunque, non gli erano mai andati completamente a genio. Spirito, come ha raccontato Gaetano Rasi nell’introduzione all’ultimo volume uscito dell’Edizione nazionale delle Opere di Ugo Spirito, si avvicinò all’Istituto di Studi Corporativi e decise di ripubblicare in un volume unico tutti gli scritti sull’economia programmatica e sul corporativismo6. Insomma, più che un «incosciente», secondo il titolo che volle dare alle sue memorie, sostanzialmente un inattuale. Se, quando era in vita, sia da sinistra, sia da destra se ne riconoscevano meriti e intuizione, alla sua morte la situazione 6. u. spirito, Il corporativismo, introd. di G. Rasi, Edizione Nazionale delle Opere di U. Spirito, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, vol. xviii, pp. 13-14.

xiv

cambiò radicalmente. La sinistra continuò a riconoscersi nel famoso giudizio di Togliatti, secondo il quale Spirito non fu mai davvero comunista7. A destra vi erano almeno due atteggiamenti: i corporativisti e i gentiliani ne condivisero essenzialmente quello che aveva scritto durante il regime, ignorando, salvo rare eccezioni, il resto della sua produzione, per cui Spirito rimase sempre il teorico della «corporazione proprietaria»; la destra radicale e tradizionalista ne condannò le ambiguità «rivoluzionarie» di matrice gentiliana e ne rilevò la sostanziale estraneità non solo al termine «destra», ma soprattutto a una certa visione aristocratica e tradizionale che ebbe un ruolo rilevante nella cultura di destra degli anni Settanta e Ottanta8. Irritò poi, sia a destra sia a sinistra, quel suo volersi atteggiare a perseguitato, sia dal fascismo, per ragioni essenzialmente legate al corporativismo, sia dall’antifascismo, per il procedimento di epurazione successivamente rientrato, come in tanti altri casi di intellettuali che operarono durante il regime9. Nello stesso tempo, lo rese anche scomodo, negli anni Sessanta e Settanta, la tendenza a volersi collocare al di sopra degli scontri, quella sua ostentata interpretazione del passato priva dell’antagonismo che allora si dava per scontato: pensiamo alla contrapposizione di fascismo-antifascismo, alla quale sostituiva un discorso di continuità tra il regime e l’Italia democratica, ma anche di comunismo-anticomunismo. In realtà, porsi il problema dell’attualità o dell’inattualità del filosofo, a trent’anni dalla morte, è un falso problema. Se si tenta di proporre Spirito come modello del rapporto attua7. P.T. (P. Togliatti), recensione a U. Spirito, La filosofia del comunismo, in «Rinascita», aprile-maggio 1948. 8. Si veda, a tale proposito, il duro giudizio di Adriano Romualdi in un saggio scritto nel 1965: «Così, non può meravigliare che un gentiliano come Ugo Spirito si atteggi, di volta in volta, ora a “corporativista”, ora a “comunista”, senza bisogno di cambiare un rigo di ciò che ha scritto» (a. romualdi, Una cultura per l’Europa, a cura di G. Malgieri, Settimo Sigillo, Roma 1986, p. 70). 9.

u. spirito, Memorie di un incosciente, Rusconi, Milano 1977, pp. 77 e ss.

prefazione

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le tra filosofia e potere ci si incammina su una strada senza uscita. La filosofia, oggi, non è più quella di Spirito e il contatto con il «potere» segue altre strade, ben diverse dalle impostazioni ideologiche che Spirito avrebbe voluto fare assumere dalla classe dirigente. Spirito va, invece, visto come eccezionale testimone del Novecento; un testimone insieme ingenuo e «incosciente», consapevole del proprio valore e della propria capacità di comprendere, che presenta un dato originale e di enorme vantaggio per gli storici: quello di non essersi mai pentito, di non avere mai voluto prendere in qualche modo le distanze dal proprio passato politico o ideologico. E ciò non perché non fosse persuaso delle differenze tra le epoche e tra le idee, ma per due motivi di fondo. Il primo motivo dipende dal fatto che Spirito è un ideologo che discute e affronta i problemi solo attraverso le idee con le quali vorrebbe costruire la realtà, non già attraverso la realtà stessa; questo spiega perché il filosofo ha scarso interesse per il fascismo «reale», come per il comunismo «reale». Il suo approccio non è mai emozionale, ma sempre legato a un progetto ideologico che deve essere ancora realizzato e, comunque, non dal filosofo. Il secondo motivo dipende dal fatto che per ciascuno dei «sistemi» politici con i quali venne a contatto, tenne sempre ben presente il proprio percorso intellettuale: era quindi il «suo» fascismo, il «suo» comunismo, che in genere non venivano mai realizzati secondo quanto indicato dal filosofo; anche questo lo induceva a non sentirsi responsabile di quanto la realtà aveva disposto a dispetto dell’ideologia. Il volume di Breschi, soprattutto nella sua terza e ultima parte, affronta con molta libertà di giudizio e con molto acume il discorso sul rapporto tra filosofia e ideologia nel percorso del filosofo. Rapporto che prende le mosse dal passaggio di Spirito dal positivismo all’idealismo, quando si rese conto che tale passaggio non era soltanto filosofico, ma soprattutto esistenziale. Il filosofo diventa, così, non solo «militante», ma soprattutto ideologo, nel senso che Spirito inizia, con il discepo-

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lato con Gentile, ad avvertire acuta la necessità di preparare un progetto ideologico e culturale di società da proporre al «demiurgo», al «Principe». Breschi coglie bene questo aspetto che appare centrale per un’approfondita e innovativa interpretazione del filosofo, considerato come il più coerente tra i gentiliani di sinistra. Nel dettaglio, la logica che lo ispira nella preparazione del progetto «fascista» è, in buona sostanza, non dissimile da quella che proporrà, via via, a Berlino, a Mendoza, al Cremlino o a Pechino, in un arco di tempo che va dagli anni Trenta alla fine degli anni Sessanta. Tale progetto ha alcune basi teoriche che non mutano con gli anni: la critica della società dell’Ottocento, la critica dell’individualismo e del positivismo, la convinzione che il filosofo, per potere trasformare la società, deve dedicarsi a una riforma rivoluzionaria del sistema economico, la messa in discussione del principio della proprietà privata dei mezzi di produzione (la corporazione proprietaria), l’identificazione di pubblico e di privato, la preminenza del ruolo dello Stato rispetto a quello dei cittadini, la ricerca di una società organica in grado di annullare dualismi e conflitti. Da questo punto di vista, Spirito è stato il pensatore che più di altri ha interpretato lo spirito (il bisticcio è voluto, fin dal titolo di questo libro) del Novecento e delle sue visioni totalitarie. In un articolo immediatamente successivo al delitto Matteotti, opportunamente richiamato da Breschi, Spirito stabilisce un rapporto fra la libertà dello Stato e quella dei cittadini: lo Stato è effettivamente e pienamente libero perché rappresenta tutti i cittadini, mentre il cittadino è libero nell’ambito della libertà che gli concede lo Stato10. Si tratta di un assunto che lo accompagnerà per tutto il corso della sua vita intellettuale. E questa sua personale visione ideologica gli permette di non essere d’accordo su molti temi cari ai regimi politici con i 10. id., Il concetto di libertà e i diritti dell’opposizione, in «Critica fascista», ii, n. 12, 15 giugno 1924.

prefazione

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quali entrò in contatto. Si pensi, ad esempio, al fascismo e alla sua preponderante idea di nazione. Spirito è del tutto agnostico rispetto alla nazione e in questo è veramente atipico: è probabilmente l’unico intellettuale che si avvicina al fascismo senza passare dal mito della nazione. Non solo, a Spirito sono estranei il Risorgimento, il ruolo de «La Voce», il mito della Prima guerra mondiale e di Fiume, così come i futuristi e le imprese africane. Tutto il bagaglio di miti e di valori, cui il fascismo si richiama dal punto di vista storico, non trova mai nelle sue opere un riferimento specifico, salvo la questione del primato giobertiano, che comunque va inserita nella vicinanza con il suo maestro, Giovanni Gentile. Per Spirito la nazione – oltre che un retaggio della Rivoluzione francese – diventa anche come un ostacolo alla realizzazione di un progetto ideologico transnazionale: in fondo, la nazione costituisce, come la razza e la classe, un elemento di frantumazione dell’«uno» cui occorre mirare. Probabilmente, in queste considerazioni, vale ancora il richiamo al positivismo, un richiamo che certamente non muore del tutto con il suo passaggio all’idealismo. In questo senso, il razzismo nazista o la dittatura del proletariato nel comunismo vengono considerati elementi accessori e non essenziali alla formulazione del «suo» progetto. «Intellettuale ideologo», più che intellettuale militante, lo definisce Breschi. E, a mio avviso, a ragione. Perché di fatto Spirito non ha l’animo del «militante», che ha in sé qualcosa di emotivo, di interventista, che prevede anche una certa partecipazione personale alle sorti del progetto. Nessuno si stupisce più di tanto per il fatto che, nei tragici momenti dell’8 settembre, Spirito non segua Gentile nell’adesione – sofferta e drammatica – alla Repubblica Sociale; ciò perché Spirito non ha mai ritenuto che fosse suo dovere etico seguire il proprio maestro nell’estrema coerenza con il fascismo. Il suo progetto, così, non è mai sottoposto all’usura da parte della realtà e della storia. In questo senso, il suo magistero attraversa indenne i regimi, gli accadimenti, le delusioni e resta intatto, sempre in grado di affascinare soprattutto i giovani, anche per quel tan-

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to di innovativo e di originale che Spirito mette nel trattare la condizione giovanile e l’«avvenire dei giovani», come recita il titolo di una sua opera. Ma, più che altro, il fascino è dato da quel senso di eterna provvisorietà che il suo pensiero emana: è la «vita come ricerca» che lo rende particolarmente vicino ai nostri tempi. La ricerca continua e ossessiva di un assoluto, sapendo di non trovarlo, sperando di non trovarlo, resta il messaggio più attuale e moderno di Ugo Spirito. giuseppe parlato Presidente Fondazione Ugo Spirito

Spirito del Novecento Il secolo di Ugo Spirito dal fascismo alla contestazione

Nota dell’Autore

Questo libro rappresenta l’esito di un lungo incontro-confronto con la vita e l’opera di Ugo Spirito. Un cammino iniziato a metà anni Novanta durante la stesura della tesi di laurea in Storia del pensiero politico moderno e contemporaneo presso la Facoltà di Scienze Politiche «Cesare Alfieri» dell’Università di Firenze, relatore il prof. Sergio Caruso, che ringrazio ancora per aver accettato, a suo tempo, di seguire con interesse una tesi sul fascismo di Ugo Spirito. Ebbi poi modo di discuterne anche con i professori Antonio Zanfarino e Marco Tarchi, in quanto correlatori della tesi. Anche a loro vanno i miei più sentiti ringraziamenti. È da quel lavoro che ricavai un lungo saggio, pubblicato poi sugli «Annali della Fondazione Ugo Spirito» (vol. ix, 1997, pp. 337-410). Il primo capitolo di questo libro è frutto del più recente ripensamento, della conseguente ampia revisione e dell’approfondimento di quel testo. Il secondo capitolo prende, invece, le mosse da un saggio, anch’esso poi pubblicato sugli «Annali» della Fondazione (vol. xi, 1999, pp. 53-88), che costituiva lo sviluppo di una tesina elaborata e discussa con la prof.ssa Lea Campos Boralevi (correlatori i professori Vittorio Conti e Salvo Mastellone), nell’ambito del Corso di Perfezionamento di Storia medievale, moderna e contemporanea organizzato dal Dipartimento di studi sociali della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Firenze. Anche su questo testo si è intervenuti con numerose revisioni e integrazioni. Il terzo capitolo, interamente inedito, è un tentativo di riflessione complessiva sul percorso esistenziale e speculativo compiuto da Spirito, un

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percorso che, cronologicamente e non solo, coincide, quasi perfettamente, con l’intero svolgimento del ventesimo secolo. Più delle altre, queste ultime pagine devono molto ad alcune proficue discussioni avute con Gianni Dessì, Stefano De Luca, Luca Mannori, Roberto Pertici e Marco Zaganella. In particolare, mi hanno aperto nuovi scenari alcune conversazioni avute con l’amico Giuseppe Parlato, al quale ho chiesto di introdurre questo lavoro sia per ringraziarlo dei suoi preziosi suggerimenti sia per avere l’avallo scientifico del Presidente della Fondazione intitolata proprio a Ugo Spirito. Tutte le idee accumulate non avrebbero potuto tradursi in testo scritto senza la consultazione «matta e disperata» dell’immenso carteggio (oltre dodicimila lettere!), dei numerosi manoscritti e della altrettanto vasta biblioteca spiritiana, tutto materiale depositato presso la già evocata Fondazione Ugo Spirito. Al personale, tutto femminile (archiviste, bibliotecarie, segretarie), di questa benemerita istituzione culturale va il mio grazie più affettuoso. Lavorare in un clima di amicizia e allegria è rara fortuna e autentica benedizione per qualsiasi scrutatore di polverose carte e varia documentazione. Nel rimettere mano a quegli scritti e nel rimeditare l’intera opera spiritiana, pensavo di poter chiudere i conti con l’opera del filosofo del corporativismo e del problematicismo. Mi illudevo. Con pensatori del calibro di Ugo Spirito i conti non si chiudono mai, si aprono soltanto per instaurare un dialogo che duri nel tempo, diventando magari fonte di interrogativi fecondi e ancora nuove future ricerche. d.b.

1.

Tecnica e rivoluzione. Il fascismo nel pensiero di Ugo Spirito

I gentiliani, veri e propri allevatori dello Stato autoritario, agitavano idee estremiste di sinistra nell’estrema destra della mentalità sociale del Fascismo. yvon de begnac (1950)1

lo stato fascista. come potrebbe essere Lo Stato fascista. Come potrebbe essere, così recita il titolo di un libro di Giacobbe Manzoni, pubblicato nel 19242 e che qui viene ricordato perché sintetizza bene il contenuto di un dibattito che animerà la vita intellettuale sotto il regime fascista. In particolare, a partire dai mesi successivi alla Marcia su Roma fino alla fine degli anni Venti, il dibattito sarà molto acceso fra le diverse anime del movimento che aveva conquistato il governo della nazione il 28 ottobre del 1922. Così, accanto ai futuristi, ai sindacalisti rivoluzionari e a qualche transfuga dai partiti tradizionali, cioè accanto ai primi componenti dei Fasci di combattimento fondati a Milano il 23 marzo del 1919, si avvicinano al fascismo i nazionalisti, i liberali «di destra», desiderosi del ritorno di uno Stato forte ed efficiente, nonché un nu1. y. de begnac, Palazzo Venezia. Storia di un regime, Editrice La Rocca, Roma 1950, p. 529. 2. g. manzoni, Lo Stato fascista. Come potrebbe essere, Stabilimento Tipografico Romagnolo, Forlì 1924.

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mero consistente di filosofi idealisti, per la precisione gentiliani, con in testa lo stesso maestro, Giovanni Gentile. Qual è l’obiettivo di questo «interventismo della cultura», di questo convergere di una consistente fetta del mondo intellettuale nei pressi, se non all’interno, del regime di Mussolini? Lasciando da parte opportunismi e servilismi, pur presenti in taluni casi, qui preme sottolineare il desiderio di molti intellettuali italiani di assurgere al ruolo di edificatori di un nuovo Stato. Non si tratta, però, di un’esigenza assolutamente inedita, sorta con l’ascesa al potere dei fascisti. I primi dieci-quattordici anni di questo secolo si erano caratterizzati per la nascita e diffusione di un clima particolare, fatto di aspettative crescenti da parte di una giovane classe di letterati e studiosi, giovane per l’età media dei suoi componenti e giovane anche per quanto riguarda la propria comparsa nella società italiana. Come ha osservato Alastair Hamilton, «gli intellettuali italiani erano tormentati dall’insoddisfazione e da quelle ambizioni contraddittorie che tanto spesso logorano i membri di una nazione nuova. L’Italia era stata unificata nel 1870 e gli italiani si domandavano quale sarebbe stato il suo ruolo»3. Cresce al sorgere del nuovo secolo la convinzione che la giovane nazione italiana, ormai giunta alla maggiore età, abbia una missione da compiere; e con ciò l’uomo di cultura si sente chiamato a svolgere il delicato ruolo di colui che deve dare forma e sostanza a questa missione. Si assiste, così, al fiorire di moltissime iniziative editoriali (si pensi solo all’attivismo delle riviste fiorentine, da «Leonardo» a «La Voce»), in cui cultura e politica vanno sempre più confondendosi nella crescente convinzione che pensiero e azione procedano di pari passo, o che debbano assolutamente farlo4. 3. a. hamilton, L’illusione fascista. Gli intellettuali e il fascismo, 1919-1945, trad. it. R. Butazzi, Mursia, Milano 1972 (ediz. inglese 1971), p. 16. 4. Cfr. e. gentile, Il mito dello Stato nuovo dall’antigiolittismo al fascismo, Laterza, Roma-Bari 1982; l. mangoni, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Laterza, Roma-Bari 1974; m. ostenc, Intellettuali e fascismo

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Un tale clima si evolve, accentuandosi all’indomani dello scoppio della Prima guerra mondiale e, soprattutto, dopo la sua conclusione. In tutta Europa, il ritorno dal fronte vede intere schiere di giovani, soprattutto di estrazione piccolo e medio-borghese, reclamare quelle posizioni di comando o comunque di prestigio che la trincea aveva loro conferito. In particolare, tra queste classi sociali e d’età si diffonde la sensazione di essere passati attraverso un’irripetibile prova del fuoco, una vera e propria discesa agli inferi che regala ai sopravvissuti la possibilità di un’assoluta palingenesi, morale e sociale. Secondo un procedimento ricorrente nella psicologia individuale e collettiva, nella guerra «si ravvisa la redenzione della società disgregata. E in ciò stanno la funzione e il significato che si attribuiscono al “grande evento”. L’evento [...] è l’apertura del grande disegno rigenerante, l’apertura di nuove prospettive non solo alla società ma anche al singolo»5. Specie in un’Italia ben presto tormentata dal mito negativo della «vittoria mutilata», le richieste di cambiamento ai vertici dell’amministrazione della cosa pubblica si fanno numerose e pressanti. Ma è sostanzialmente una situazione di confusione, tanto a livello di idee espresse quanto di politiche adottate, quella che prevale nei primissimi anni postbellici. Siamo nel periodo del cosiddetto «biennio rosso» (1919-1920), in cui la società civile piomba nel caos e, secondo molti osservatori dell’epoca, sfiora l’anarchia. Lo Stato latita e anche l’intellettualità antigiolittiana e interventista nel 1914-15 è disorientata e ha momentaneamente perso la mira. in Italia, 1915-1929, trad. it. e cura di E. Dirani, Longo Editore, Ravenna 1989 (ediz. orig. francese, 1983). 5. l. garruccio (pseudonimo di Ludovico Incisa di Camerana), L’industrializzazione tra nazionalismo e rivoluzione: le ideologie politiche dei paesi in via di sviluppo, il Mulino, Bologna 1969, p. 80. Il brano è riportato in e. gentile, Le origini dell’ideologia fascista 1918-1925, il Mulino, Bologna 1996 (i ediz. 1975, cui è stata ora aggiunta un’ampia introduzione), p. 116. Sull’interpretazione del fascismo proposta da Garruccio, cfr. r. de felice, Le interpretazioni del fascismo, Laterza, Roma-Bari 199510 (i ediz. 1969), pp. 152-153.

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Prima della Grande Guerra, «la critica sociale, del costume, delle infrastrutture, della stessa vita politica, così compiuta, aveva due destinatari: la società stessa, che ne era l’oggetto, e lo Stato, che ne era il bersaglio polemico»6. Ma la crisi della classe politica, il «dissolvimento dello Stato» denunciato da Gioacchino Volpe, l’affermazione dei partiti di massa, la crisi dei ceti medi, insomma, l’intera situazione scaturita dalla guerra pone la necessità di ridefinire i contenuti e gli obiettivi della critica intellettuale in un nuovo contesto che, per tanti aspetti, viene vissuto come una tabula rasa e visto come un calderone in cui poter forgiare inedite ipotesi statuali. «In questo senso, le esperienze culturali degli anni immediatamente successivi alla guerra non sono riconducibili a un centro unificante. [...] La mancanza dell’assetto politico e organizzativo statuale rendeva difficoltosa e problematica l’organizzazione della cultura, bisognosa questa imprescindibilmente di quello, come l’esperienza vociana aveva dimostrato»7. Dunque, molteplici sono le ipotesi statuali avanzate in questi anni, dallo Stato operaio sorgente dai consigli di fabbrica, che Antonio Gramsci propugna sulla scia dell’esempio sovietico, alla tecnocrazia eroica agognata da Filippo Tommaso Marinetti e dai suoi seguaci futuristi. Giunto Mussolini al potere, lo Stato italiano comincia a riguadagnare una sua fisionomia agli occhi degli ambienti intellettuali avversi tanto al giolittismo, ossia alla politica del compromesso parlamentare, quanto al socialismo spesso visto come nemico dell’ordine e confuso, perciò, con l’anarchia. Anche se il fascismo dovrà attendere circa quattro anni per poter parlare di consolidamento del proprio regime, sin dal 1922 lo Stato italiano riacquista, almeno a livello di immagine, quella visibilità che riorienta il dibattito culturale intorno all’ipotesi statuale. Semplificando un po’, l’intelligencija italiana degli anni Venti si trova spaccata in due schieramenti contrapposti, al6.

l. mangoni, L’interventismo della cultura, cit., p. 28.

7.

Ibidem.

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quanto diseguali e sproporzionati per dimensione e possibilità di espressione, quello dei sostenitori dello Stato fascista e quello dei suoi avversari. Nell’ambito dei primi si aprì una lunga e ricca controversia circa la natura, le funzioni, le finalità, in una parola il ruolo, che il fascismo aveva assunto o avrebbe dovuto assumere una volta conquistato il potere. Volendo muoverci tra la storia politica e la storia delle elaborazioni intellettuali, occorre innanzitutto tenere presente che il movimento fascista italiano, dopo la sua trasformazione in partito nel novembre 1921, e, dunque, dopo la definitiva adozione di una strategia finalizzata alla presa del potere, acquisisce «i tratti di un’ambiguità che divenne permanente e caratterizzò successivamente tutti i momenti decisivi della sua storia»8. Se è vero che, come ha osservato Emilio Gentile, «tale ambiguità fu una delle ragioni tanto del successo del fascismo, quanto di una sua intrinseca debolezza»9, è altrettanto vero che difficile risulta fornire una definizione esauriente e unanimemente condivisa dell’ideologia fascista. Essa scaturì, molto probabilmente, dall’incontro di molte tradizioni politico-ideologiche preesistenti, profondamente «revisionate» da quell’evento traumatico e sovvertitore che fu, appunto, il primo conflitto mondiale. La stessa biografia politico-intellettuale dei protagonisti del movimento dei Fasci testimonia del confluire di diverse esperienze, di destra come di sinistra. Come afferma ancora Emilio Gentile, le eredità filosofiche e ideologiche sono da rintracciarsi nel «nazionalismo giacobino, nei miti e nelle liturgie laiche dei movimenti di massa dell’Ottocento, nel neoromanticismo, nell’irrazionalismo, nello spiritualismo e nel volontarismo delle varie “filosofie della vita” e “filosofie dell’azione”, nell’attivismo e nell’antiparlamentarismo dei movimenti radicali antiliberali di una nuova destra e di una nuova sinistra rivoluzionarie, che operavano in Italia e in Europa prima della guerra. Nel8.

e. gentile, Le origini dell’ideologia fascista, cit., pp. 294-295.

9.

Ivi, p. 295.

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l’ideologia fascista [...] confluirono idee e miti di movimenti culturali e politici precedenti, come l’avanguardia fiorentina de “La Voce”, il futurismo, il movimento nazionalista, il sindacalismo rivoluzionario. Il fascismo, inoltre, ereditò quel complesso di idee, di miti e di stati d’animo, che abbiamo definito radicalismo nazionale, comune alla cultura dei movimenti intellettuali e politici di avanguardia, sorti in Italia durante il periodo giolittiano»10. Ma dall’incontro di singoli elementi provenienti dalle più distanti collocazioni lungo l’asse destra-sinistra raramente si produssero sintesi dottrinarie originali. Soprattutto fu estremamente difficile, e alla fine si dimostrò impossibile o non conveniente per i vertici del regime, operare una fusione degli aspetti «rivoluzionari» e di quelli «reazionari» o «conservatori», la cui compresenza ha spinto gli storici a parlare di ambiguità ideologica del fascismo. Rivoluzionari e conservatori hanno sostanzialmente convissuto all’interno del regime, con i primi che si sono costantemente dovuti accontentare di teorie e promesse e i secondi che hanno visto trionfare i loro metodi e i loro obiettivi. Così si sono espressi, in tempi differenti e con accenti e finalità diverse, protagonisti e studiosi, da Camillo Pellizzi a Silvio Lanaro11. Due considerazioni sono qui d’obbligo. La prima è suggerita nuovamente da Emilio Gentile e ci ricorda l’importanza che, in sede di ricostruzione storiografica delle idee politiche e 10. Ivi, pp. 24-25. 11. Cfr. c. pellizzi, Una rivoluzione mancata, Longanesi, Milano 1948 (ora, nuova ediz. con introduzione di M. Salvati, il Mulino, Bologna 2009); s. lanaro, Appunti sul fascismo «di sinistra». La dottrina corporativa di Ugo Spirito, in «Belfagor», xxvi, settembre 1971, pp. 577-599; g. santomassimo, Ugo Spirito e il corporativismo, in «Studi Storici», xiv, n. 1, gennaio-marzo 1973, pp. 61-113; d. cantimori, Politica e storia contemporanea. Scritti 1927-1942, a cura di L. Mangoni, Einaudi, Torino 1991, in particolare le parti i e iii; r. zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla storia di una generazione, Feltrinelli, Milano 1964 (i ediz. 1947, poi ampliata nel 1962). Zangrandi, com’è noto, distingue all’interno del regime ruoli e responsabilità della vecchia classe dirigente e degli «adulti» rispetto al ruolo e alle responsabilità delle generazioni più giovani (i ventenni della seconda metà degli anni Trenta).

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del rapporto tra politica e cultura, riveste l’immagine rivoluzionaria che il fascismo seppe trasmettere a strati non marginali della società italiana e della sua classe colta. Questa immagine, condita di teorie, slogan e concrete proposte politiche parzialmente attuate, rappresenta una «componente importante dell’ideologia fascista e fattore non minore del successo del fascismo», tenendo soprattutto conto dell’«efficacia che esso ebbe per richiamare nelle file fasciste numerosi intellettuali, i quali non divennero fascisti con il proposito di un ritorno al passato, e per assicurare al fascismo un consenso di massa esteso al di là dei ceti medi, anche se un consenso da parte delle masse proletarie fu soltanto passivo»12. La seconda considerazione parte dalla constatazione della vastità del tema del rapporto tra intellettuali e regime fascista, e, più in generale, tra mondo della cultura e totalitarismo. Sull’argomento la letteratura è quantomai vasta e in parte è stata utilizzata in questa sede, ma non pretendiamo affatto di averlo esaurito. Semmai l’abbiamo appena sfiorato. Ciò che qui preme sottolineare è l’esistenza di un dibattito, in molti casi ricco e vivace, interno al regime fascista sin dalla presa del potere e che coinvolse nomi affermati e nomi emergenti del panorama intellettuale italiano. In tale dibattito si inserì anche Ugo Spirito in quanto allievo tra i più vicini a Giovanni Gentile. Dunque, l’approccio iniziale del giovane filosofo è chiaramente comprensibile se lo si inserisce nel filone dell’interpretazione idealistica del fascismo. Noteremo ben presto gli elementi di autonomia e di progressiva originalità che l’allievo guadagna nei confronti del maestro anche sul piano delle idee politiche. Anzi, lo sviluppo dell’analisi spiritiana sul fascismo, la sua natura e i suoi compiti, non solo procede parallelamente, ma forse anticipa o motiva evoluzioni sul piano filosofico. Quanto alla natura dell’ideologia fascista, Spirito, a decenni di distanza dalla propria esperienza politica nel Ventennio, 12. e. gentile, Le origini dell’ideologia fascista, cit., p. 295.

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sembrò condividere il giudizio che ne rivela la sostanziale ambiguità di fondo. Ambiguità impressa, innanzitutto, dalle scelte del fondatore del fascismo e dalle condizioni storiche nelle quali questi venne operando nella costruzione del regime. Io credo che la sintesi non fu mai veramente organica – afferma Spirito in un’intervista televisiva rilasciata nei primi anni Settanta –. Cioè, l’ambiguità di Mussolini era generata proprio da questa sua suggestionabilità: ascoltando tante diverse campane, finiva con l’essere suggestionato dal loro contrasto e si trovava nell’impossibilità di trarne una conclusione decisiva. La vita politica di Mussolini ha avuto grandi affermazioni storiche, ma ha avuto soprattutto la caratteristica dell’ambiguità ideale, caratterizzata dall’oscillazione continua tra l’esigenza socialista e l’esigenza reazionaria e conservatrice. Mussolini ha ceduto, a volta a volta, alle due esigenze senza riuscire a trovare un equilibrio. Insomma, in Mussolini è sempre stata presente questa debolezza ideale, e quindi la mancata teorizzazione del fine si è ripercossa in tutta la sua politica13.

Le frasi riportate testimoniano l’impostazione essenzialmente idealistica che Spirito ha costantemente dato alla propria analisi dei fenomeni storico-politici, nei quali il momento dell’elaborazione teorico-dottrinale riveste un’importanza a volte decisiva per deciderne direzione intrapresa e risultati conseguiti. Consci delle peculiarità dell’approccio analitico spiritiano, andiamo adesso a vedere dove Spirito si collocò nel dibattito relativo al futuro assetto statuale fascista. Nel far ciò, passeremo in rassegna le diverse posizioni che caratterizzarono la sua adesione all’esperienza fascista, scandendole in cinque fasi. 13. Si tratta dell’intervista rilasciata nell’ambito della trasmissione curata da Sergio Zavoli, Nascita di una dittatura, poi riportata nell’omonimo libro dallo stesso Zavoli. Cfr. s. zavoli, Nascita di una dittatura, sei, Torino 1973, p. 156. Il brano riportato è anche in u. spirito, Memorie di un incosciente, Rusconi, Milano 1977, pp. 186-187, da cui citiamo.

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1921-1926: una rivoluzione senza contenuti «Io mi sono trovato a essere fascista proprio nell’ambito della mentalità gentiliana», confessa Spirito nell’intervista sopra menzionata14. È dunque necessario esporre, sia pure in termini sintetici, i capisaldi della filosofia politica di Giovanni Gentile. Punto di partenza fondamentale è l’esigenza dell’unità che anima l’intera speculazione gentiliana, per la quale lo spirito è unione e la materia è divisione e a sua volta, sul piano etico, l’unità è bene, la divisione è male. Così, l’individuo consta di un Io empirico, per il quale egli è parte irrelata di una molteplicità disordinata, e di un Io trascendentale, in virtù del quale egli partecipa dello spirito, anzi è «portatore dello spirito» e la sua natura più autentica può emergere15. Nel primo caso, l’altro è per l’individuo solo un oggetto che gli consente la propria soggettivazione, un Gegenstand, cioè un qualcosa che «sta di contro»; nel secondo caso, l’altro è quell’alter costitutivo dell’Io che viene strutturandosi proprio tramite il continuo dialogo interno con esso. Questa concezione dialogica della soggettività umana verrà compiutamente teorizzata da Gentile solo intorno al 1943, poco prima della morte, in Genesi e struttura della società, uscito postumo nel 194616. Ma è vero che sin dagli anni Dieci Gentile avversa l’alterità in quanto im14. Ivi, p. 187. 15. Cfr. g. gentile, I fondamenti della filosofia del diritto (1916), Sansoni, Firenze 1961 (3ª ediz. riveduta e accresciuta), p. 107, citato da a. negri, Dal corporativismo comunista all’umanesimo scientifico. Itinerario teoretico di Ugo Spirito, Lacaita, Manduria 1964, p. 10, il cui primo capitolo offre una stimolante ricostruzione della dottrina gentiliana dello Stato. 16. Cfr. g. gentile, Genesi e struttura della società, Sansoni, Firenze 1946, p. 33; «L’individuo umano non è un atomo. Immanente al concetto di individuo è il concetto di società. Perché non c’è Io, in cui si realizzi individuo, che non abbia, non seco, ma in sé medesimo, un alter, che è il suo essenziale socius: ossia un oggetto, che non è semplice oggetto (cosa) opposto al soggetto, ma è pure soggetto, come lui».

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mediatezza materialistica non componibile, asserendo, invece, che l’attività spirituale testimonia la dimensione originariamente relazionale dell’Io. Questo non fuga ogni dubbio sul fatto che l’approccio gentiliano all’alterità sia tendenzialmente strumentale, cioè non stabilisca una relazione autenticamente intersoggettiva e che l’alter sia in definitiva un aliud 17. Comunque, secondo Antimo Negri, sin dagli anni Dieci l’impostazione gentiliana comporta che, se vogliamo essere portatori dello spirito, gli altri non dobbiamo concepirli oltre di noi, ma dentro di noi. E il noi diventa effettivamente società trascendentale, col risultato che lo Stato, da essa costituito, non è limite per l’individuo e, per ciò, anche, questo resta autenticamente spirito. In partenza l’uomo, ma l’uomo con dentro di sé la società18.

Su questa concezione dell’uomo come naturaliter sociale o, per dirla con Negri, «nativamente comunitario»19, si innesta la teoria gentiliana dello Stato etico. Si tratta, in parte, di una teoria descrittiva, che non fa altro, cioè, che sancire un dato di fatto, la persona come società (societas in interiore homine); ma in parte abbiamo anche a che fare con una teoria normativa che esige preliminarmente un atto volontario teso al supera17. Cfr. g. gentile, Teoria generale dello Spirito come Atto puro, Sansoni, Firenze 1938, pp. 16-17: «L’altro è semplicemente una tappa attraverso di cui noi dobbiamo passare, se dobbiamo obbedire alla natura immanente del nostro spirito. Passare, non fermarci» (il corsivo è nel testo). Cfr. anche s. caruso, L’intersoggettività intrasoggettiva. Note sulla coscienza come dialogo interno, in «Iride», viii, n. 16, settembre-dicembre 1995, pp. 648-671 (in part. 663-664). 18. a. negri, Dal corporativismo comunista all’umanesimo scientifico, cit., p. 11. 19. Ivi, p. 48. Chiaramente, i concetti di società e comunità non sono tranquillamente intercambiabili. Infatti, nelle scienze sociali si è spesso operata una netta distinzione fino alla celebre dicotomia tra Gemeinschaft (comunità) e Gesellschaft (società) elaborata da Ferdinand Tönnies nel 1887 (cfr. id., Comunità e società, trad. it. G. Giordano, Edizioni di Comunità, Milano 1979). Richiamandoci a questa tipologia, il legame sociale descritto e/o auspicato da Gentile (ma il discorso vale anche per Spirito) è di tipo sostanzialmente «comunitario», o meglio, «comunitarista».

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mento del proprio particolare. Nel vocabolario gentiliano, infatti, lo «spirituale» è sinonimo di atteggiamento e, ancor prima, profondo convincimento interiore e «dunque» chiara volontà caratterizzata dalla negazione di ogni forma di egoismo, non chiusa nella difesa di personali interessi materiali, ma piuttosto desiderio e sentimento di comunione e universalità. In quest’ottica, si può comprendere come mai Gentile si proclami al tempo stesso liberale e antiliberale. Egli avversa il liberalismo in quanto dottrina politica fondata su una nozione individualistica dell’uomo, dove per individualismo è da intendersi un’immagine dell’individuo come centro irrelato e sistema di soli bisogni materiali che lo portano a interagire con gli altri in modo strumentale. Dunque, secondo un’impostazione filosofica e ideologica che ritroveremo in Ugo Spirito, individualismo equivale a materialismo, egoismo edonistico e utilitarismo. Ma con questo Gentile non esita a definirsi, a suo modo, liberale, specificando che il suo liberalismo è quello che ha come ispiratore e militante Giuseppe Mazzini, a suo giudizio il più autenticamente (cioè gentilianamente) liberale dei protagonisti del Risorgimento. Come è noto, l’epoca risorgimentale riveste un’importanza fondamentale nel pensiero di Gentile, sia come «categoria filosofica» sia come valore eticopolitico, in virtù del quale egli saluta nel fascismo la prosecuzione e il compimento delle speranze alimentate dalle lotte risorgimentali20. Quali sono queste speranze? Fare dell’Italia, una volta unificata sul piano territoriale, una nazione nel senso mazziniano del termine, cioè una comunità spirituale forgiata da una volontà univoca e da una passione condivisa. Così la società, e quindi lo Stato come articolazione organica di questa, risulta per Mazzini come per Gentile «una conquista attiva, a partire 20. Cfr. a. del noce, L’idea di Risorgimento come categoria filosofica in Giovanni Gentile, in «Giornale critico della filosofia italiana», fasc. ii, 1968, pp. 163-215, ora in id., Giovanni Gentile. Per un’interpretazione filosofica della storia contemporanea, il Mulino, Bologna 1990, pp. 123-194.

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dalla materia, dagli indizi della nazione»21. È necessario, quindi, uno slancio ideale che costantemente, giorno per giorno, fa letteralmente la nazione e, con essa, lo Stato che è «coscienza nazionale in atto»22. Uno Stato «forte» in quanto «etico», cioè capace di vincere ogni tentazione centrifuga e disgregatrice pronta a emergere nell’individuo appena questi viene abbandonato a sé. Così, osserva ancora Negri, la concezione idealistica dello Stato si incontra e si integra con la concezione spiritualistica che dello Stato ha Mazzini. L’esito non può che essere letteralmente totalitario, laddove la totalità sociale politicamente ordinata comprende le singole parti (individui, gruppi, partiti, classi), nel duplice senso che le ingloba e conferisce loro un senso che, separate e irrelate, non avrebbero. Secondo questa logica, l’individuo si ritiene tutelato e promosso nella misura in cui non viene lasciato a se stesso, ma stimolato a sollevarsi a un livello di consapevolezza più elevata, assai prossima alla propria sostanza spirituale23. Per Mazzini questo processo di trasformazione del popolo in nazione è messo in moto dall’azione, nutrita da una dedizione assoluta e totalizzante, a sostegno della causa nazionale. Vale a dire che nella prima metà e oltre dell’Ottocento il fine comune per gli italiani c’è ed è evidente: la libertà dallo straniero che occupa il suolo patrio. Ma agli inizi del Novecento, conclusasi la Prima guerra mondiale e ottenute Trento e Trieste, manca il fine che risulti immediatamente condivisibile dalle masse, pronte a tramutarsi in comunità etica. Emilio Gentile sostiene che il mazzinianesimo, improntando di sé una parte minoritaria ma influente della cultura politica italiana e connotandosi come radicalismo nazionale, aveva creato presso le giovani generazioni approdate al nuovo secolo «il mito del Risorgimento come rivoluzione nazionale 21. a. negri, Dal corporativismo comunista all’umanesimo scientifico, cit., p. 12. 22. Ivi, p. 11. 23. Cfr. g. gentile, I profeti del Risorgimento italiano (1923), Sansoni, Firenze 19443.

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incompiuta», in quanto «non aveva dato al popolo italiano la coscienza del primato e della missione di civiltà nel mondo»24. Da questo punto di vista, la Prima guerra mondiale non era stata, dunque, sufficiente e anzi, con l’insoddisfazione seguita agli insuccessi negli accordi di pace, il ruolo dell’Italia nella competizione internazionale era stato fortemente ridimensionato. L’avversione prebellica nei confronti dello Stato liberale e della prassi parlamentare giolittiana dopo il ’18 si consolidò presso i più disparati ambienti intellettuali e cominciò ad attecchire in profondità presso i ceti medi. Limitando la nostra attenzione all’ambito della cultura politica, possiamo dire che l’avvento del fascismo, ma soprattutto di Mussolini, al potere venne da più parti visto come tappa importante sulla strada del recupero di una missione universale da parte dell’Italia. Non pochi liberali, da Croce a Einaudi, si mostrarono sostanzialmente favorevoli al governo Mussolini, almeno fino al delitto Matteotti25. Ma il moderatismo liberale era altra cosa rispetto al radicalismo nazionale (e, sempre più, nazionalistico) di matrice mazziniana, in cui possiamo far rientrare anche il pensiero politico di Giovanni Gentile. Questi accetta la nomina al Ministero dell’Istruzione ed entra a far parte del primo governo Mussolini all’indomani della «Marcia su Roma», esattamente il 31 ottobre 1922, restandovi fino al 14 giugno 1924, giorno in cui rassegnò le dimissioni a seguito del delitto Matteotti. Fu il periodo della filosofia (attualistica) al potere, e il periodo nel quale gran parte dei gentiliani, tra cui Ugo Spirito, entrarono più o meno direttamente nella vita politica. Quale che fosse il loro grado di coinvolgimento politico, sorse comunque il problema di definire il rapporto tra neoidealismo e fascismo e gli allievi di Gentile dovettero affrontarlo. Si tratta, a questo punto, di esaminare quale fu l’atteggia24. e. gentile, Il mito dello Stato nuovo, cit., p. 5. 25. Cfr. r. de felice, Mussolini il fascista. i. La conquista del potere, 1921-1925, Einaudi, Torino 1966, pp. 452, 477-478.

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mento del giovane Spirito. A distanza di circa cinquant’anni da quegli eventi, l’ormai anziano filosofo rievocava in questi termini la storia di una generazione: Erano i primi anni dopo il 1918 e la confusione dei motivi postbellici non consentiva di avere idee chiare e orientatrici. Ma dappertutto era vivo il bisogno di un rinnovamento generale che fosse illuminato da una fede profonda e costruttrice. E nel bisogno erano unite la vecchia e la nuova generazione, in un’azione concorde che si esprimeva in programmi comuni. [...] In questa atmosfera ebbe inizio la nostra giovinezza. Se volessimo caratterizzarla nella sua espressione dominante, dovremmo appunto sottolineare il fatto della giovinezza. Eravamo, sì, uniti alla vecchia generazione e amavamo i maestri senza distinguerci da loro, ma sentivamo che con loro iniziavamo una nuova vita piena di ideali che si andavano chiarendo su tutti i piani, a cominciare da quello filosofico. Nella generale confusione si andava enucleando una ricchezza eccezionale di germi fecondi, che attendevano di essere condotti a piena maturazione. Sentivamo di cominciare, e, pur nell’ansia della trasformazione, avvertivamo la gioia di un nuovo cammino.

E ancor più significativa risulta la conclusione: Il problema dei giovani, perciò, era per noi il problema stesso della vita nella sua pienezza effettiva. Noi eravamo i giovani e l’avvenire era il nostro avvenire. Tutto il resto era secondario e discutibile, era riassunto appunto nella nostra volontà creatrice. Una volontà in cui potevamo mettere tutto e in cui tutto realmente vedevamo, al di là di ogni teoria e di ogni singola azione. Il fascismo eravamo noi e si esprimeva nella nostra giovinezza26.

La lunga citazione si giustifica con il fatto che queste parole di Spirito non solo confermano l’impressione che un qualsiasi lettore estraneo a quelle vicende può farsi, vagliando i suoi 26. u. spirito, L’avvenire dei giovani (1972), Sansoni, Firenze 19732, pp. 11-12. Il corsivo è nel testo.

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scritti «politici» degli anni Venti, ma sono altresì parole quantomai rivelatrici della temperie spirituale e ideologica di un’epoca. Il mito della giovinezza, presente in molte delle diverse «anime» del fascismo, si combina perfettamente con l’altro mito che alimenta la teoria etico-politica dell’idealismo gentiliano, e cioè il rinnovamento (soprattutto morale) degli italiani. Inoltre, c’era lo stesso nucleo teoretico dell’attualismo a convincere un giovane filosofo dell’importanza storica offerta dal fascismo. Se conoscere è fare e le idee muovono la storia perché con essa si identificano, allora è evidente che l’uomo di cultura può essere protagonista o, meglio, artefice di un cambiamento della concezione del mondo che sottostà alle istituzioni politiche e sociali. Insomma, la filosofia ha la possibilità, oltre che il dovere, di farsi mondo e di trasformarlo27. In parte la storia partorisce nuove idee guida a essa coerenti, in parte le nuove idee devono emergere pienamente e, staccatesi, operare autonomamente sul corso degli eventi per dar loro nuovi impulsi e indirizzarli nel senso prestabilito ma mai pacificamente acquisito. Sulla base di un simile storicismo si colloca la lettura spiritiana del ruolo storico del fascismo chiamato a superare dialetticamente gli estremi in cui si era polarizzata la vita politica e sociale italiana dell’immediato primo dopoguerra. Questo significava oltrepassare la fase del multipartitismo (gli «estremi» sono appunto i partiti), che viene valutata da Spirito quale fattore di instabilità e latente anarchia. Queste sono le prime considerazioni esplicitamente «politiche» che il giovane filosofo dedica al fascismo28. Siamo nel febbraio 1924 e Mussolini è al governo da oltre un anno. Pri27. Si pensi all’undicesima tesi di Marx su Feuerbach: «I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo: si tratta di trasformarlo». Cfr. k. marx, Tesi su Feuerbach (1845), in id., Opere complete, trad. it. e cura di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1972, vol. v, p. 5. 28. Cfr. u. spirito, Il giusto mezzo, in «La nuova scuola italiana», i, n. 21, 17 febbraio 1924, pp. 246-248.

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ma, però, di concentrarsi sulle pagine dichiaratamente fasciste di Spirito ci pare opportuno soffermarci su un articolo pubblicato tre anni prima, nel febbraio 1921, quando ancora non erano state da lui espresse simpatie per il movimento dei Fasci. L’articolo è intitolato Tolleranza o intransigenza? e il suo valore, dal punto di vista della ricostruzione del pensiero politico spiritiano, è testimoniato dal fatto che l’argomento trattato è la «formula tradizionale» del libero pensiero e la sua pretesa di risolvere appunto il problema della scelta fra tolleranza e intransigenza. La questione, come si può notare, è principalmente di natura morale, ma consente di cogliere tutta una serie di convinzioni filosofiche che spiegano il fascismo spiritiano che di lì a poco sarebbe maturato. Innanzitutto, troviamo nello scritto l’elogio di una delle caratteristiche psicologiche che contraddistinguono quella giovinezza con cui Spirito identificherà poco dopo il fascismo, e cioè l’intransigenza29. Questa è definita come l’«attitudine spirituale» che caratterizza la vita concreta, ossia la vita del pensiero che è anche azione, attività pratica. L’impostazione attualistica è qui rigorosamente rispettata: «Io non posso pensare senza, in ultima analisi, dare al mio pensiero un valore assoluto, senza cioè ritenere che quello che penso sia fondamentalmente vero»30. Chi non crede, non pensa, almeno non in modo tale da dare al proprio pensiero forza trasformatrice, cosicché teoria sia pure prassi. L’atto puro gentiliano si incontra, perciò, con un’altra disposizione emotiva propria della giovinezza mitizzata dal fascismo e da Spirito: 29. Lo stesso De Felice ritiene che l’intransigenza sia «la caratteristica prima del vero fascismo», cfr. r. de felice, Mussolini il duce. ii. Lo Stato totalitario, 19361940, Einaudi, Torino 1981, p. 116. A conferma di ciò si vedano alcune affermazioni di Mussolini come, ad esempio, la seguente: «La parola d’ordine, o fascisti, è questa: intransigenza assoluta ideale e pratica» [discorso conclusivo al iv congresso del pnf, 22 giugno 1925, in b. mussolini, Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, La Fenice, Firenze 1956, vol. xxi, pp. 357-364. Il corsivo è nostro]. 30. u. spirito, Tolleranza o intransigenza?, in «Rivista di cultura», ii, n. 2, 15 febbraio 1921, p. 55.

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l’entusiasmo, quell’esaltazione dell’animo che spinge ad agire con intensità e ardore particolari. E, soprattutto, con dedizione totale, come Mazzini chiedeva all’autentico patriota. Allora, se la fede assoluta nel proprio pensiero è la molla dell’azione, ne discende che, in quanto attivi, siamo e dobbiamo essere risolutamente intolleranti? Sì, risponde Spirito, ma a patto che si tenga conto che il pensiero è svolgimento e come tale non è mai vero una volta per tutte, ma è vero nel suo farsi. È dunque la logica intrinseca allo stesso pensiero, che è vita e perciò storia, a negare l’intransigenza cieca, dogmatica e ad affermarne una comprensiva delle ragioni di chi oppone altri pensieri, altre convinzioni. Ma la tolleranza ammessa da Spirito è solo comprensione strumentale, cioè volta a raccogliere le informazioni utili provenienti dall’opposizione. Utili al proprio potenziamento affinché l’opposizione dunque soccomba, ma mai in modo definitivo e irreversibile, altrimenti verrebbe meno l’ostacolo che spinge al miglioramento e all’arricchimento (spirituale, s’intende). E il ragionamento spiritiano prosegue, sempre più ispirato a un realismo politico molto marcato: «Si combatte veramente conoscendo il nemico e non ignorandolo, e dalla conoscenza del nemico si deve trarre la propria forza»31. Perciò, sì al contrasto come occasione di sviluppo, no al contrasto come chiusura e assoluta incomprensione. E tutto questo non per affermare principi di eguaglianza e giustizia, ma per rispettare la logica dialettica che sottostà al processo storico. L’importanza «politica» di questo articolo appare, ora, in modo chiaro. Il passaggio da un’opposizione intesa come termine dialettico negativo a una valutata nella sua veste partitica o sindacale è, in effetti, assai breve. Nello scritto del febbraio 1924, sopra richiamato, Spirito sottolinea il carattere per così dire «storicistico» del fascismo, capace di innovare previa composizione delle fratture politico-ideologiche esistenti nella società italiana del dopoguerra. Ma non si tratta di una soluzione di compro31. Ivi, p. 57.

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messo; la conciliazione è, semmai, frutto di una nuova realtà di cui il fascismo è, sempre storicisticamente, causa ed effetto. Il fascismo non è contro un partito, ma ha lottato e ha vinto contro tutti i partiti: socialisti, conservatori, liberali, popolari e perfino nazionalisti. Ma il fascismo nello stesso tempo non ha disconosciuto nessuna di tutte le esigenze che erano negli stessi partiti32.

In questa prima lettura del fenomeno fascista è evidente la presenza di quell’esigenza sintetica che contraddistinguerà l’intera speculazione filosofico-politica di Spirito. Il fascismo non è, dunque, un mero «contemperamento di partiti»33, il «giusto mezzo» che pacifica gli estremi ma non li supera lasciandoli nella loro opposizione speculare. Già nell’articolo del febbraio 1921 il giovane filosofo esprime la propria necessità di trovare una «terza via», filosofica etica e politica, «la via per liberarci da ogni scetticismo come da ogni dogmatismo, da ogni tiepido liberalismo come da ogni inconsciente reazione»34. Una nuova sintesi originaria e non un ibrido opaco, questo chiede Spirito a una politica che voglia e sappia fare i conti con la realtà attuale, cioè del suo tempo. Una politica tale per cui, se ci si interroga sul futuro, si possa senz’altro affermare che «non ritorneremo mai alla situazione politica anteriore al fascismo», dichiara il filosofo, e che anzi «la nuova vita politica spunterà fuori della stessa unità del fascismo, che per continuare a vivere non potrà restare sempre indifferenziato, ma dovrà cominciare a distinguersi e a formare entro se stesso nuovi estremi che condurranno a nuovi superamenti e a nuove costruzioni»35. 32. id., Il giusto mezzo, in «La nuova scuola italiana», i, n. 21, 17 febbraio 1924, p. 247. 33. Ibidem. 34. id., Tolleranza o intransigenza?, in «Rivista di cultura», ii, n. 2, 15 febbraio 1921, p. 57. 35. id., Il giusto mezzo, , in «La nuova scuola italiana», i, n. 21, 17 febbraio 1924, p. 248.

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In quest’ultima frase c’è spiegato molto di quella che sarà la posizione di Spirito all’interno del regime fascista nei dieci anni successivi, almeno fino a tutto il 1935. Una posizione che sostiene una sorta di «rivoluzione permanente», cioè l’edificazione di un sistema politico e sociale estremamente dinamico e, di conseguenza, capace di plasmare se stesso e le proprie strutture giuridiche ed economiche conformemente ai mutamenti della storia. Questo costante confronto con la storia è aspetto essenziale e da tenere ben presente se si vuole cogliere il nocciolo del pensiero politico spiritiano. Per il momento, il giovane allievo di Gentile ha presente in modo chiaro solo il presupposto, il «contenitore» all’interno del quale edificare una nuova realtà di cui il fascismo del 1924-25 rappresenta soltanto la prima fase. Si tratta della nazione, luogo di ricomposizione di ogni frattura o incrinatura centrifuga, e lo Stato è chiamato a rappresentarne l’articolazione organica sempre all’insegna dell’unità spirituale. A dire il vero, nelle pagine spiritiane il tema della nazione non è mai ampiamente trattato e tende anzi a scomparire negli anni successivi. Eppure, il punto di partenza che consente nuovi discorsi e progetti rivoluzionari è la «marcia su Roma», la presa del potere da parte fascista che ha risposto a un bisogno di guida salda e unitaria. «L’Italia mancava di un governo», scrive lapidario nell’articolo del febbraio ’24, «[...] e si era persa di vista la vera unità della nazione»36. A conferma del valore di anticipazione che dal punto di vista filosofico riveste l’articolo del 1921 su tolleranza e intransigenza, Spirito analizza natura e compiti del fascismo partendo da ciò che l’opposizione contesta e rivendica. L’obiettivo di un esame dettagliato della natura ideologica dell’opposizione è vedere «che valore essa abbia e soprattutto che cosa il fascismo possa ritrovarvi, e utilizzare per il suo ulteriore sviluppo»37. 36. Ivi, p. 247. 37. u. spirito, Il concetto di libertà e i diritti dell’opposizione, in «Critica fascista», ii, n. 12, 15 giugno 1924, p. 502.

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Con queste considerazioni si apre un articolo scritto nel maggio del 1924, ma pubblicato da Giuseppe Bottai sulla sua rivista «Critica fascista» il 15 giugno, cioè cinque giorni dopo il rapimento e l’uccisione di Matteotti38. Il momento è particolarmente critico per Mussolini e il suo governo. Gentile, come detto, rassegna le dimissioni e con lui anche i ministri Oviglio, Federzoni e De Stefani39. Fino al discorso del 3 gennaio del 1925, con cui il fascismo si avviò alla trasformazione in senso totalitario dello Stato liberale, il duce vive un periodo di offuscamento della propria immagine e di indebolimento del prestigio di cui aveva sino ad allora goduto presso vasti strati della borghesia. Dunque, l’articolo di Spirito viene pubblicato da Bottai con chiare intenzioni strettamente politiche, legate, cioè, alle difficili vicende del momento. Lo scritto era però nato in precedenza e rispondeva alla richiesta di Giuseppe Lombardo Radice, direttore de «L’Educazione nazionale», di fornire alcuni chiarimenti circa il «fondamento dottrinale del fascismo»40. Vediamo, allora, quali sono i capisaldi di questa dottrina, secondo Spirito. Così come l’individuo particolare e irrelato è mera astrattezza, mentre l’individuo inteso come socius è concretezza storica, così la libertà concepita come puro diritto, «che si abbia per natura o che possa pretendersi e rivendicarsi da qualcuno o contro qualcuno»41, è puro arbitrio disgregatore, quando invece la libertà è da concepirsi come dovere e ideale. L’obiettivo è trovare quella identità fra Stato e individuo che 38. L’articolo viene poi pubblicato sempre in giugno sul mensile «L’Educazione nazionale», per il quale l’articolo era stato originariamente scritto. Su questo specifico scritto e, più in generale, sul rapporto Spirito-Bottai tra il 1924 e il 1932, cfr. l’Introduzione di Giuseppe Parlato a Il carteggio Bottai-Spirito, 1924-1932, in «Annali della Fondazione Ugo Spirito», vol. vi, 1994, pp. 105-120. 39. Cfr. r. de felice, Mussolini il fascista. i, cit., p. 645. Aldo Oviglio era alla Giustizia, Luigi Federzoni alle Colonie e Alberto De Stefani alle Finanze. 40. Cfr. g. parlato, Introduzione a Il carteggio Bottai-Spirito, cit., p. 105, nota 2. 41. u. spirito, Il concetto di libertà e i diritti dell’opposizione, in «Critica fascista», ii, n. 12, 15 giugno 1924, p. 502.

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produrrebbe l’unità che sola può rivendicare il diritto alla libertà. Perché la libertà è assoluta o non è, ma per essere assoluta deve essere volontà unica. Più volontà si limitano a vicenda e l’azione è bloccata. Ma senza azione, vista l’asserita identità di teoria e pratica, non può esservi concreta libertà. La libertà di pensiero, cioè, sarà effettiva se si tradurrà in libertà di parola, di riunione e di stampa. Ma, per concludere, la sola volontà che può legittimamente aspirare all’unicità e univocità è quella dello Stato, ossia la volontà «per cui gli individui, i cittadini si costituiscono veramente in nazione»42. Se la libertà è un ideale, ciò significa che si tratta di una conquista continua, incessante, cosicché l’identità Stato-individuo si configura più precisamente come identificazione che, per dirla con linguaggio spiritiano, si realizza sempre e non si realizza mai. È qui che prende corpo la critica che Spirito, sulla scia di Gentile, muove al liberalismo democratico di matrice illuministica fondato sulle «ideologie dei diritti dell’uomo, delle cosidette libertà»43. Ed è sempre qui che comincia a prendere forma l’idea, al tempo stesso convinzione e speranza, che il fascismo possa davvero costituire nel xx secolo quella rivoluzione che l’Europa non ha più visto dai tempi del 1789. Dopo la rivoluzione francese, che ha sconvolto il mondo oltre i confini del vecchio continente, avremo una nuova, dialetticamente superiore, rivoluzione internazionale promossa dal fascismo italiano. Di una simile pretesa si sostanzia la vocazione politica di Spirito, il quale da buon storicista riconosce che le ideologie illuministiche «ebbero il grandissimo valore di abbattere le vecchie concezioni dommatiche e di dare all’uomo una maggiore coscienza della propria autonomia»44. Ma, subito dopo, non manca di ricordare la loro incapacità di cogliere e tradurre politicamente «la necessità di una concezione veramente unitaria dello Stato», finendo per fare dello Sta42. Ibidem. 43. Ivi, p. 503. 44. Ibidem.

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to un’appendice del tutto estrinseca di individui riconosciuti, se non addirittura promossi, nei loro interessi particolari e spesso confliggenti45. È su tale concezione individualistica che trova legittimazione teorica lo Stato-guardiano della tradizione liberale, che Spirito denomina «Stato limite». Al contrario, lo Stato fascista è chiamato a realizzare o, forse meglio, a tradursi nella «volontà di un ideale liberamente sorto e sempre più grande in cui tutti i cittadini debbono ritrovare la loro unità, il loro valore e il loro unico dovere»46. Ferma restando questa esigenza di compattezza e unità statuale, si riconosce la necessità della differenziazione interna che, però, si rivela subito essere ben lungi dal riconoscimento del pluralismo. Non si tratta, infatti, di ammettere l’esistenza di più partiti, gruppi e associazioni che esprimono e tutelano interessi diversi ed eventualmente in conflitto tra loro. È soltanto la richiesta dello Stato di potersi sviluppare come unità spirituale che si realizza nello svolgimento della propria vita. Ed essendo reale solo lo Stato, o «gli individui come Stato o nello Stato», l’opposizione è ammessa ma solo in quanto funzionale allo sviluppo dello Stato che, nella logica spiritiana, è la stessa cosa del cittadino. Il quale, però, non deve pensarsi e vivere come singolarità, perché «il cittadino non è nulla se non nello Stato»47. Al di là delle affermazioni filosofiche di principio sull’identità Stato-individuo, risulta di un’evidenza palmare lo statalismo di una tale impostazione48. La possibilità dell’esistenza di un’opposizione al governo (nello specifico, quello fascista) è ne45. Ibidem. 46. Ibidem. 47. Ibidem. 48. Non è casuale che Bottai, in margine all’articolo di Spirito, citasse, quale esempio di concezione avversaria, l’articolo di Augusto Monti, il quale su «La Rivoluzione Liberale» del 20 maggio aveva indicato nell’antistatalismo il «compito positivo» delle opposizioni. Cfr. u. spirito, Il concetto di libertà e i diritti dell’opposizione, in «Critica fascista», ii, n. 12, 15 giugno 1924, p. 505.

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gata alle radici. Se l’opposizione non è portatrice di istanze superiori, più ampie e soddisfacenti, ciò significa che l’ideale è solo «mera ideologia», ossia espressione di istanze esclusivamente egoistiche, antinazionali e, dunque, antistatali49. In questo caso, l’opposizione non è benefica, perché non rinsalda la comunità, ma l’indebolisce diffondendo sfiducia e scetticismo. Se, al contrario, l’opposizione esprime un’istanza realmente, cioè storicamente, superiore, essa non potrà che, infine, trionfare, se non nell’immediato, certamente nei tempi lunghi. La repressione non sarà sufficiente e lo Stato verrà rovesciato. Ma viene allora da chiedersi: perché non si ammettono le libertà politiche, le quali consentono di individuare subito e senza spargimento di sangue le ragioni più convincenti e perciò più degne di rappresentare la nazione? Perché ciò significherebbe conferire legittimità al sistema democratico che, nell’ottica totalitaria di Spirito, equivale solo a «volontà molteplice e non unica, arbitrii e non libertà unica»50. Attaccati frontalmente liberalismo e democrazia, la critica si estende al giusnaturalismo che delle due dottrine ora menzionate costituisce il presupposto filosofico-giuridico. Soprattutto, si contesta il fatto che la libertà sia un diritto naturale e, come tale, rivendicabile sempre e comunque per il solo fatto di esistere quali individui. La libertà è una «conquista spirituale», ribadisce il filosofo gentiliano, un «dovere», ossia un compito che si deve adempiere in una tensione incessante verso l’unità con il resto della comunità nazionale per edificare un 49. Cfr. ivi, p. 504. 50. Ibidem. A proposito della natura incruenta dell’avvicendamento al potere nelle democrazie liberali, Karl Popper ha scritto: «In una democrazia, i poteri dei governanti devono essere limitati e il criterio di una democrazia è questo: in una democrazia i governanti – cioè il governo – possono essere licenziati dai governati senza spargimento di sangue»; cfr. k. popper, La società aperta e i suoi nemici, trad. it. R. Pavetto, Armando, Roma 1974, vol. ii, p. 210 (corsivo nostro). Dunque, per il filosofo austriaco il principale e inequivocabile criterio distintivo di un regime democratico non è la regola della maggioranza, ma la garanzia della possibilità di un’alternanza pacifica al governo ogni volta che questa viene richiesta dal basso (ovviamente, a maggioranza).

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nuovo Stato. È evidente che l’obiettivo sia questo, dato che «l’ideale della libertà non è l’ideale di un’astratta potenza di fare ciò che si vuole, ma è invece quello di realizzare una concezione concreta e ben determinata»51. È altrettanto evidente quale sia la concezione etico-politica che si vuole realizzare: l’assoluta identificazione di individuo e Stato, e, dunque, di libertà e autorità. Così come è chiaro che il nuovo regime che si va costruendo non potrà che essere di massa e tale, però, da non farsi agnostico assecondando il relativismo scettico tipico delle moltitudini, piuttosto da ricompattarsi in nome di quel «contenuto ideale» per la cui realizzazione la libertà acquista senso. Perché, incalza Spirito, «la libertà è proprio nulla se non si concreta in un contenuto ideale da realizzare»52. Ma chiarito qual è l’ideale, come si sostanzia il contenuto? Fuor di metafora, quali sono le caratteristiche del nuovo Stato ancora tutto da costruire? Ammesso che il fascismo abbia completato la propria pars destruens, fugando ogni pericolo anarcoide e ristabilendo ordine e disciplina, resta, adesso, il compito più gravoso, ovvero ripensare e riplasmare dalle fondamenta lo Stato liberale e le sue istituzioni politiche e sociali. È in questa direzione che Spirito si muove nel 1925, in particolare con due articoli. Il primo appare su «Vita Nova», mensile fondato da Leandro Arpinati nel gennaio di quell’anno, e si segnala per l’introduzione, sia pure solo abbozzata, del corporativismo come modello socio-economico in grado di eliminare il «carattere particolaristico e perciò eventualmente antinazionale» del sindacato53. Quest’ultimo ha assunto poteri che esorbitano dalle proprie 51. u. spirito, Il concetto di libertà e i diritti dell’opposizione, in «Critica fascista», ii, n. 12, 15 giugno 1924, p. 502. 52. Ibidem. 53. id., Il pregiudizio antiriformistico, in «Vita Nova», i, n. 7, luglio 1925, p. 22. Il pregiudizio in questione è quello relativo al carattere intangibile assegnato allo Statuto Albertino dai liberali. Il fascismo, al contrario, lo vuole riformare, «vuol far diventare vivo ciò che è morto» (ivi, p. 20).

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competenze, a causa della debolezza ormai cronica del Parlamento. Dunque, il rafforzamento dell’esecutivo, cui il fascismo sta puntando, è giusto e necessario, ma non basta per realizzare sul piano politico e sociale quella comunità organica nella quale ogni individuo è cittadino in quanto tutt’uno con lo Stato. Occorre, perciò, impegnarsi nell’elaborazione di una riforma integrale delle strutture giuridiche, politiche ed economiche, ed è questa esigenza che, una volta giunta a piena maturazione, spingerà Spirito a dar vita con Arnaldo Volpicelli ai «Nuovi studi di diritto, economia e politica». Ma dovranno passare ancora due anni. Per il momento, Spirito è consapevole della necessità sia di abbandonare la retorica trionfalistica che si accontenta della sconfitta social-comunista sia di chiudere la stagione della polemica col passato. È così che si presenta l’altro articolo del 1925: una sorta di richiamo all’ordine, morale ancor prima che ideologico, per una classe politica fascista, locale e nazionale, che sta perdendo di vista i propri fini rivoluzionari54. Nel frattempo era uscito il manifesto degli intellettuali fascisti, promosso da Gentile e di cui Spirito era stato uno dei firmatari55. La lotta al bolscevismo risale a una fase ormai superata, da archiviare come «semplice episodio» di una rivoluzione che deve procedere e accedere a nuovi stadi. Le mete non sono ancora chiare nella mente del giovane filosofo, ma è fin d’ora dichiarato quale sia il vero, acerrimo e potente nemico del fascismo: il liberalismo. Contro di esso si dovrà ingaggiare una «lotta ben più titanica»56. L’antiliberalismo prende dunque 54. Cfr. u. spirito, Lo sviluppo del fascismo, in «L’Assalto», vi, n. 39, 26 settembre 1925, p. 3. L’articolo apparve fra il 27 e il 3 ottobre su altri quattro giornali, tre dei quali (come «L’Assalto», organo della Federazione di Bologna) erano organi ufficiali del pnf. Cfr. g. parlato, Introduzione a Il carteggio Bottai-Spirito, cit., p. 114, nota 28. 55. Cfr. e.r. papa, Storia di due manifesti. Il fascismo e la cultura italiana, con un saggio di F. Flora, Feltrinelli, Milano 1958, p. 47; g. santomassimo, La terza via fascista. Il mito del corporativismo, Carocci, Roma 2006, p. 60. 56. u. spirito, Lo sviluppo del fascismo, in «L’Assalto», vi, n. 39, 26 settembre 1925, p. 3.

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quota nel pensiero politico di Spirito, il quale propone, tanto per cominciare, una riforma della classe politica. Per la precisione, ciò che deve cambiare è la natura del mestiere di politico, con il riconoscimento che il lavoro politico è un lavoro con obblighi e responsabilità analoghi a ogni altra attività umana. Questo significa eliminare la categoria dei politici di professione, cioè coloro che «vivono soltanto di politica». Spirito è categorico: «la classe degli uomini politici [...] deve scomparire dall’Italia»57. Al di là del carattere più o meno velleitario di simili affermazioni, il dato importante da notare è come vengano bersagliati in un colpo solo due istituti dello Stato liberale: il parlamentarismo e la rappresentanza politica. Nell’assimilare l’attività politica a comune lavoro tecnico, sia pure importante, è evidente l’intento di delegittimazione della classe dei deputati, tacciati di arrivismo e pressappochismo, con il che si mette pure in discussione la rappresentanza politica tipica di un sistema rappresentativo democratico. Come ha osservato Norberto Bobbio, una conseguenza di tale sistema è l’affermazione del principio del divieto di mandato imperativo, per cui l’eletto è chiamato a tutelare interessi generali che oltrepassano quelli del gruppo dei suoi elettori58. In una prospettiva monopartitica, quale era quella verso cui si avviava il fascismo, la rappresentanza politica (partitica) finiva per risolversi nella rappresentanza organica, «in cui il rappresentante deve appartenere alla stessa categoria del rappresentato»59. Questo punto non è ancora esplicito nel discorso spiritiano, ma le premesse sono chiaramente poste. La differenza importante rispetto alla tipologia delineata da Bobbio è che qui la rappresentanza organica non implica la tutela di interessi particolari, di singoli gruppi non coordinati con il resto della società. O almeno si vorrebbe che così non fosse. 57. Ibidem. 58. Cfr. n. bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1995 (1ª ediz., 1984), pp. 33-62. 59. Ivi, p. 40.

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Infatti, postulando l’identificazione tra individuo e Stato, le richieste di ogni categoria sono espressione di un’esigenza di mutamento interno allo stesso organismo statale. Come se lo Stato trovasse la propria voce nelle varie parti che lo compongono e che non sono altro da lui. Su queste basi prende pian piano forma l’utopia organicistica che richiede la politicizzazione di ogni ambito della vita individuale e sociale, con la completa eliminazione della sfera privata a vantaggio di quella pubblica. Comunque, tutto questo è solo accennato nelle riflessioni spiritiane del ’25. Siamo ancora nella fase in cui «bisogna, insomma, formarsi e aiutare a formare la coscienza di una nuova vita di lavoro, di disciplina, di serietà»60. Il quadro in cui inserire questa grande opera di costruzione è la nazione; obiettivo finale è fare di questa nazione un impero. Cosa significa questo termine nel vocabolario spiritiano? «Impero deve essere soprattutto, anzi esclusivamente, affermazione spirituale della nazione nel mondo»61. Si tratta, in altre parole, di edificare una civiltà che sia in grado di affermare il proprio primato. Ma anche qui occorre precisare il significato di una simile parola, perché la conclusione da trarre sembrerebbe facile: imperialismo. Spirito, invece, si preoccupa di chiarire i termini della questione. L’imperialismo che egli intende proporre «vuol essere il contrapposto di democraticismo internazionale. [...] Non vuole cioè essere, sia pure una grande potenza, ma una potenza accanto ad altre potenze superiori o eguali, con cui possa confrontarsi o confondersi in funzione di una stessa scala di valori»62. Cosa vuole, allora? «Essa vuole distinguersi, rivendicare la propria individualità di Nazione»63; cioè, l’Italia fascista deve essere in grado di diventare un esempio di civiltà da emulare. «Non eguagliare, 60. u. spirito, Lo sviluppo del fascismo, in «L’Assalto», vi, n. 39, 26 settembre 1925, p. 3. 61. id., Imperialismo italiano, in «Vita Nova», ii, n. 4, aprile 1926, p. 11. 62. Ibidem. 63. Ibidem.

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o imitare, o magari superare le altre nazioni seguendo la stessa via, ma differenziarsi creando una via propria, una volontà e una coscienza autonoma»64. Ma, specificato «che cosa» si vuole raggiungere, manca ancora in questo articolo del 1926 l’individuazione del «come» concretizzare questo desiderio di primato spirituale. La passione della nuova generazione, di cui si parla nell’articolo e di cui il trentenne Spirito ambisce in qualche misura a farsi portavoce, è l’imprescindibile punto di partenza. Occorrerà disciplinare questa esuberanza e questa fiducia nell’avvenire, non lasciare che si attenui e al tempo stesso renderla «più profonda e più seria»65. Quale modello di civiltà consentirà all’Italia di affermare la propria «personalità nazionale nel mondo»? La ricerca dei contenuti ha dunque inizio. 1927-1929: la ricerca dei contenuti Per l’Italia fascista l’ultimo triennio degli anni Venti è caratterizzato da due eventi di particolare importanza sul piano interno, la promulgazione della Carta del Lavoro e i Patti lateranensi, ed è chiuso da un altro avvenimento di enorme portata sul piano internazionale, la «grande crisi» del ’29 prodotta dal crollo della Borsa di New York. Gli effetti di quest’ultima si faranno sentire, in Italia come in Europa, soltanto a partire dai primi mesi del 1930. Sul piano intellettuale, questo terzo evento sarà motivo, per Spirito come per altri, di riflessioni critiche e di studi scientifici soltanto con l’inizio del decennio successivo; è, però, l’avvenimento che pone il proprio suggello al decennio che va a chiudersi, imprimendogli il marchio della crisi. È questa una voce che compare nel vocabolario spiritiano in occasione dei primi scritti dedicati a questioni economiche. Per la precisione, è a partire dal 1926 che troviamo nella pro64. Ibidem. Il corsivo è nostro. 65. Ivi, p. 12.

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duzione scientifica di Spirito pagine di analisi sul significato e i compiti dell’economia politica, pagine in cui il termine di crisi è assunto quale concetto esplicativo della natura di un’epoca particolarmente dinamica e segnata da cambiamenti radicali. Dopo aver coltivato interessi giuridici ed essersi avvicinato alla politica, tanto da diventare uno dei protagonisti del dibattito ideologico intorno a natura e obiettivi del nuovo regime, il giovane filosofo rivolge dunque la propria attenzione all’economia. E si tratta di un interesse crescente che lo accompagnerà per circa un decennio. In questo ampliamento degli studi, Spirito rivela coerenza e lungimiranza. Innanzitutto, lungimiranza, perché coglie già nel 1926 la presenza di profondi mutamenti in atto nella vita economica nazionale e internazionale, fenomeni che precedono la politica e spesso la spiazzano. Ma in questo sguardo profondo e prospettico c’è anche la coerenza di chi attualisticamente coniuga vita e riflessione intellettuale. Vita presa e considerata nei suoi molteplici aspetti, vita come storia che si svolge quale processo autonomo e, perciò, spesso imprevedibile. Degna di nota è, in tal senso, una breve recensione che nel 1926 il giovane filosofo dedica a un libro di Umberto Ricci, economista liberale, sostenitore di una teoria «pura» incentrata sul dogma della concorrenza perfetta66. Con questo scritto prende avvio una polemica crescente nei confronti dell’economia politica classica e neoclassica, accusata di voler fare dell’economia una scienza modellata sulla matematica e sulla fisica, nella pretesa di formulare leggi universali e immutabili circa l’agire economico. È, però, soprattutto in un importante articolo pubblicato nel mese successivo che Spirito affronta di petto la critica della teoria liberal-liberista (egli, infatti, non ritiene sostanziale la differenza da alcuni avanzata tra liberismo e liberalismo). 66. Cfr. u. spirito, recensione a u. ricci, Dal Protezionismo al Sindacalismo, Laterza, Bari 1926, in «L’Educazione politica», iv, n. 6, giugno 1926, pp. 331-333.

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Nella recensione del libro di Ricci è di particolare interesse la presenza di due convinzioni che rappresentano i presupposti filosofici alla base di tutte le future analisi politico-economiche di Spirito. Si tratta, peraltro, di due motivi tra loro strettamente connessi, tali per cui uno implica l’altro. Innanzitutto, la convinzione che l’economia, come del resto ogni altra disciplina scientifica, non può non avere a che fare con la vita, dunque con la storia. Questa valenza storicistica della scienza comporta, ad esempio, il riconoscimento della funzione positiva che il socialismo ha svolto nella vita contemporanea, per il semplice fatto che ha portato alla ribalta della teoria e della prassi politica ciò che di nuovo è cresciuto nella società, mettendo in luce ciò che di deficitario vi era nelle dottrine precedenti. Il senso storico proprio dell’attualista gli fa constatare la validità di quello che, con forza, emerge dalle dinamiche sociali e la valutazione positiva discende dal principio che ciò che è reale, anche se nuovo, è in sé razionale e, come tale, degno di studio e comprensione. Questo non significa affatto, come vedremo, accettare tutto ciò che il processo storico offre cammin facendo, ma solo la consapevolezza che i propri valori devono continuamente fare i conti con la realtà, l’unica fonte di smentite o conferme. Da questa impostazione consegue la seconda convinzione che nasce, appunto, dal confronto diretto con le vicende del proprio tempo. Lungi dal chiudersi nella propria torre d’avorio, la scienza economica, e non solo essa, deve prendere atto dei mutamenti in corso nelle società occidentali uscite dalla Grande Guerra, senza limitarsi a imporre schemi astratti concepiti esclusivamente in laboratorio. La realtà socio-economica degli anni Venti dice che l’economia, intesa come insieme di attività e organizzazioni, risulta «sconvolta» o «disciplinata», comunque profondamente influenzata e modellata, dalla crescente diffusione di forze umane e tecniche messe in moto dal processo di industrializzazione, che è stato enormemente accelerato dal conflitto mondia-

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le. È, dunque, in atto una mobilitazione totale delle società industriali, le quali vanno «spontaneamente inquadrandosi in organizzazioni sempre più vaste e complesse»67. In tal senso, l’esplosione del fenomeno sindacale, che investe l’Italia dell’immediato dopoguerra, conferma la tendenza dilagante all’inserimento «delle diverse categorie sociali in organismi che per la loro potenza, sempre maggiore, tendono necessariamente a opporsi allo Stato e a concentrare in sé prerogative statali per eccellenza»68. Merito del fascismo, regime dotato di «concretezza storicistica», è stato quello di aver compreso le implicazioni politiche del fenomeno e, dunque, la necessità di reinserirlo all’interno delle strutture statali, pena il dissolvimento di queste ultime. Spirito è, dunque, in piena sintonia con il proprio tempo e coglie, forse in anticipo su molti, il carattere epocale e irreversibile delle trasformazioni che l’Europa, in primo luogo, sta subendo a livello di strutture economiche e sociali, scatenate dal convergere dell’industrializzazione con la mobilitazione bellica. Trasformazioni di cui la politica, intesa sia come analisi scientifica che come pratica di governo, non può non tener conto, salvo assecondare la crisi e sprofondare nell’anarchia. Nel mutamento delle forze umane e materiali presenti nelle società industriali è implicito il passaggio dalla democrazia liberale a una nuova forma di Stato, i cui contenuti non sono ancora ben chiari a Spirito. L’unico dato certo è il carattere assolutamente inedito di un regime che va costruito per rispon67. u. spirito, recensione a u. ricci, op. cit., in «L’Educazione politica», iv, n. 6, giugno 1926, p. 332. Lo scrittore tedesco Ernst Jünger, pluridecorato reduce di guerra, svilupperà autonomamente negli anni Trenta queste considerazioni che troviamo abbozzate negli scritti spiritiani degli anni Venti. Sul fenomeno e il concetto della «mobilitazione totale» quali prodotti dell’epoca della politicizzazione delle masse e del peso crescente delle macchine nella produzione, fenomeno e concetto evidenziati e amplificati dalla Prima guerra mondiale, cfr. e. jünger, La mobilitazione totale (1930) in m. decombis, Ernst Jünger, l’ideale nuovo e La mobilitazione totale, trad. it. M. Tarchi, Edizioni del Tridente, La Spezia 1981, pp. 167-193. 68. u. spirito, op. cit., p. 333.

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dere efficacemente a esigenze espresse dalle masse lavoratrici ormai «nazionalizzate» dall’impegno bellico, con tutti i relativi problemi legati ai mutati rapporti tra le classi. La ricerca delle nuove strutture di cui dotare lo Stato (nel caso specifico, fascista), per aderire alla nuova realtà e risolvere crisi latenti, prende le mosse da un’analisi economica rivisitata e corretta alla luce dell’idealismo attuale. A dire la verità, Spirito parte da premesse senza dubbio gentiliane, ma lo fa in nome di un’esigenza che risultava assente in Gentile: restituire dignità alle cosiddette scienze particolari, dimostrandone l’identità con il sapere filosofico. Più precisamente, si vuole dar prova di come le diverse attività conoscitive non solo non siano fra loro in contrasto, ma non vadano nemmeno considerate separate le une dalle altre. Così svolge il suo ragionamento nell’articolo del luglio 1926. Se la filosofia è consapevolezza dell’atto concreto dello spirito, cioè del pensiero come attività, appare evidente la presenza di una dimensione filosofica in ogni indagine scientifica che è determinazione del fatto, individuazione di un aspetto della natura. Il molteplice di cui si occupa la scienza viene sezionato, astratto e delimitato soltanto in riferimento all’universale, mediante un atto di distinzione che è pensiero, quindi, filosofia. È nella dialettica astratto/concreto che si consuma l’attività di ogni scienziato, il quale non può estraniarsi dalla vita che è per lui fonte continua di informazioni. Si chiede, infatti, Spirito: «Se la scienza deve servire alla vita, come può ignorarla?»69 E si risponde sostenendo che per rendere valida la scienza bisogna esser sì filosofi, ma in quanto scienziati, e quando tra filosofo e scienziato si ponesse l’abisso che corre tra

69. u. spirito, La scienza dell’economia, in «Giornale critico della filosofia italiana», vii, n. 3, luglio 1926, poi ripubblicato in id., La critica della economia liberale, Treves, Milano 1930. Ora in id., Il corporativismo. Dall’economia liberale al corporativismo; i fondamenti dell’economia corporativa, capitalismo e corporativismo, Sansoni, Firenze 1970, p. 9, da cui citiamo.

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due categorie il risultato imprescindibile sarebbe di vanificare insieme l’opera dello scienziato, che si esaurirebbe nel gabinetto scientifico, e quella del filosofo, che si spiegherebbe davvero tra le tradizionali nuvole aristofanee70.

La filosofia, in quanto «sistema di tutti i presupposti e individuazione dell’universo intero», è, dunque, lo sfondo in cui opera qualunque scienziato che circoscrive una porzione di realtà sulla base di un certo numero di presupposti e stabilendo alcuni limiti. Presupposti e limiti che riflettono precise concezioni filosofiche del mondo, tanto che, sostiene Spirito, «la scienza si modifica e si sviluppa in relazione costante col modificarsi e con lo svilupparsi» di queste ultime71. Questo è avvenuto e avviene perché la scienza è «sempre figlia della storia» e non può che assecondarla se vuole essere conoscenza viva e feconda, cosicché «ogni volta che [...] ha compiuto un passo decisivo nel suo cammino, lo ha fatto ritornando ai suoi fondamenti speculativi e rivedendoli, modificandoli, sostituendoli»72. A seconda del numero dei presupposti e del livello di chiarezza dei limiti operativi, le scienze possono distinguersi in esatte (o pure), naturali e sociali. Distinzione che, però, vale solo sul piano strettamente empirico, perché dal punto di vista filosofico ogni ricerca scientifica aspira all’esattezza, indaga la natura (l’oggetto) e i fenomeni sociali. A proposito di quest’ultima qualifica, il filosofo si chiede retoricamente quali fenomeni possono dirsi non sociali e però quale scienza può essere non sociale? E d’altra parte, se ci potesse essere una scienza non sociale e cioè avente un contenuto estraneo alla vita della società, chi mai e per quale ragione si occuperebbe di essa e però come mai sarebbe essa nata73? 70. Ibidem. 71. Ivi, p. 11. 72. Ibidem. 73. Ivi, p. 12.

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Pertanto, tutte le scienze hanno a che fare con la società e, dunque, con l’etica e la politica. Il ragionamento ora fatto vale anche per quelle teorie che si ammantano di «purezza», di assoluta imparzialità nella registrazione dei fatti, sulla cui perfetta oggettività lo stesso Spirito, anticipando alcune sue posizioni del secondo dopoguerra, accenna qualche riserva dato che si tratta di «fatti» sociali, in cui l’uomo in generale e quell’uomo particolare che è il ricercatore stesso risultano implicati nell’indagine. Si pensi al carattere chiaramente politico-ideologico (dunque, non scientifico) del principio paretiano di ofelimità, il quale – scrive Spirito qualche mese più tardi – «risponde cioè alle esigenze dell’imperante liberalismo democratico per cui l’unico valore è l’individuo atomisticamente considerato, giudice immediato e insindacabile di se stesso e delle proprie idee»74. Perciò, l’antiliberalismo, che si presentava quale eredità gentiliana nella concezione spiritiana dello Stato fascista, viene ulteriormente nutrito da una critica dell’economia liberale che acquista sempre più peso nella sua teoria politica. Il principale bersaglio degli attacchi del giovane filosofo è costituito dalla fictio dell’homo œconomicus. Si tratta di un’ipotesi da non scartare sempre e comunque, ma che deve essere presa, soltanto, come una semplice astrazione dalla valenza euristica e, dunque, esclusivamente empirica. L’errore consiste nel fare di questa figura ipotetica una categoria filosofica, cosicché l’uomo è esattamente colui che agisce sistematicamente in funzione di un principio, l’utile, cui viene attribuito un valore universale che, in realtà, non possiede. Qui il riferimento esplicito va alle tesi di Maffeo Pantaleoni, «il quale ha attribuito all’homo œconomicus un modo di agire caratterizzato dalla parola egoista»75. Ma questa ipostatizza74. u. spirito, Vilfredo Pareto, in «Nuovi Studi di diritto, economia e politica» (d’ora in poi, «Nuovi Studi»), n. 1, i, novembre 1927 e n. 2, ii, gennaio 1928. Poi ripubblicato in id., La critica dell’economia liberale, cit. Ora in id., Il corporativismo, cit., p. 147, da cui citiamo. 75. u. spirito, La scienza dell’economia, in id., Il corporativismo, cit., p. 17. I corsivi sono nel testo.

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zione di un singolo aspetto della natura umana significa spezzare quella dialettica interna alla coscienza che, nel suo continuo svolgimento, sola può rendere conto della realtà psicologica individuale. La motivazione egoistica è solo uno dei due momenti dell’unica realtà coscienziale, essendo l’altro l’istanza altruistica. Pantaleoni ammette l’esistenza di entrambe, ma nel farlo li considera due momenti separati, tutt’al più sovrapponibili. Ma è la sintesi quella che sempre si verifica e grazie alla quale «l’io si attua realizzando in sé gli altri e cioè vivendo di una vita che non può mai essere egoistica, senza essere altruistica, e mai altruistica, senza essere egoistica»76. Questa sintesi costituisce, per così dire, la struttura più intima della coscienza e conseguentemente della vita etica, almeno quella autentica secondo i canoni idealistici. Il primo confronto diretto di Spirito con la scienza economica si chiude con la richiesta, per quest’ultima, di «una revisione continua delle leggi fondamentali nel senso di una sempre più precisa determinazione dei suoi confini e di maggiori riserve sulla loro assolutezza»77. Inoltre, occorre ribadire ciò che spiega i successivi impegni intellettuali spiritiani, a partire dal lancio, nel novembre 1927, della rivista «Nuovi Studi», e cioè il principio per cui «ogni legge economica è, sì, un’astrazione, ma un’astrazione che vien fuori dalla concretezza della storia»78. È da questa impostazio76. Ibidem. 77. Ivi, p. 19. 78. Ibidem. Bottai, in qualità di sottosegretario del Ministero delle Corporazioni (dal 12 novembre del 1929 sarebbe diventato ministro, restandolo fino al luglio del 1932), scriveva a Spirito il 6 gennaio del 1929: «Ho preso atto del notevole contributo che i “Nuovi Studi”, principalmente attraverso l’opera tua e di Volpicelli, cominciano a portare nell’elaborazione delle nostre concezioni corporative, e sono sicuro che questa elaborazione se ne avvantaggerà non poco» (Carteggio Ugo Spirito, d’ora in poi cus, 452 bis). Sulle vicende della rivista di Spirito e Volpicelli, cfr. l. punzo, L’esperienza di «Nuovi studi di diritto, economia e politica», in aa.vv., Il pensiero di Ugo Spirito, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1988-89, vol. ii, pp. 367-378.

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ne che discende la figura spiritiana dell’intellettuale o, meglio, del filosofo militante, per il quale scienza e azione, cultura e politica sono la medesima cosa o, comunque, l’una implica l’altra. Come detto in apertura del capitolo, gli ultimi tre anni degli anni Venti sono contrassegnati da due eventi di particolare rilevanza per l’Italia fascista. Il primo di questi prende corpo nell’aprile 1927, allorché il Gran Consiglio approva la Carta del Lavoro nella seduta notturna del 21-22 aprile. Questo documento, la cui paternità è stata oggetto di dibattito tra gli storici79, non divenne mai una legge dello Stato, ma rappresentò senz’altro un punto di riferimento, quantomeno teorico, per la regolazione dei rapporti sociali tra capitale e lavoro. Segnava, soprattutto, l’avvio concreto di una lunga stagione di radicali riforme o almeno si sperava che essa ne fosse l’annuncio, anche attraverso la traduzione legislativa delle norme non preesistenti che ebbe inizio nel 1928. Quale fu l’atteggiamento di Spirito al riguardo? Vi sono due giudizi, uno espresso a pochi anni di distanza e l’altro più lontano nel tempo, la cui sostanza non cambia poi molto. Nel 1977, infatti, Spirito ritiene la Carta del Lavoro un documento «a mezza strada tra le varie esigenze in contrasto», in altri termini una chiara manifestazione dell’impasse in cui il fascismo si trovava, incapace com’era di spingere alle estreme conseguenze la propria critica del liberalismo80. Ma questa è 79. I principali contendenti per questa paternità sono Giuseppe Bottai, autore di tre progetti della Carta e di una relazione di presentazione, e Alfredo Rocco, estensore dell’ultima versione votata nella seduta del 21-22 aprile. Per il primo propende Giordano Bruno Guerri (Giuseppe Bottai, fascista, Mondadori, Milano 1996 [Nuova ediz.], pp. 75-76 e pp. 250-51, nota 19), mentre per il secondo si esprime De Felice (Mussolini il fascista. ii. L’organizzazione dello Stato fascista, 1925-1929, Einaudi, Torino 1968, pp. 286-296), il quale ritiene, sulla base del confronto documentale, che «le definitive basi della Carta del Lavoro le gettò Rocco, sia pure utilizzando il lavoro già fatto da Bottai e procedendo in stretto contatto con lui» (ivi, p. 293). Tenuto conto che anche il testo di Rocco subì vari ritocchi prima dell’approvazione definitiva, l’unica cosa certa che si può dire è che, per usare le parole di Guerri, la Carta fu «figlia di tanti padri» (Giuseppe Bottai, fascista, cit., p. 76). 80. u. spirito, Memorie di un incosciente, cit., p. 59. Il testo riporta la data del

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una valutazione formulata troppo col senno di poi, mentre più interessante e veritiero, circa le posizioni dell’epoca, è uno scritto del 1933 sul tema La crisi del capitalismo e il sistema corporativo81. Qui troviamo un passo nel quale Spirito, pur ritenendola «l’inizio del vero corporativismo», non si nasconde la presenza nella Carta del Lavoro di «residui del mondo contro cui si insorge e quindi l’inconsapevole compromesso destinato a segnare la fase transitoria»82. Infatti, il filosofo inserisce la propria valutazione dei contenuti del documento all’interno di una ricostruzione della politica economica intrapresa dal regime fascista, distinguendo tre fasi. La prima, che va dal 1922 al 1925, «accentuatamente liberale»; la seconda, che copre gli anni dal 1926 al 1929 ed è caratterizzata dall’«avvicinamento» al socialismo di Stato; la terza, infine, che si inaugura con gli anni Trenta ed è avviata verso il «corporativismo integrale»83. Dunque, la Carta del Lavoro riflette un momento di compromesso, determinato dalla mancanza di chiarezza e completezza delle «nuove mete». Pertanto, i princìpi affermati sono quello dell’iniziativa privata, il più possibile libera (e cita l’articolo vii: «Lo Stato corporativo considera l’iniziativa nel campo della produzione come lo strumento più efficace e più utile nell’interesse della Nazione»), e quello dello Stato parzialmente interventista e gestore delle eventuali deficienze della libera iniziativa (con il che riporta l’articolo ix: «L’intervento dello Stato nella produzione economica ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata o quando siano in 1926 riferita alla Carta del Lavoro; probabilmente si tratta dei non pochi refusi presenti nel libro di memorie. 81. Cfr. u. spirito, La crisi del capitalismo e il sistema corporativo, in «Nuovi Studi», vi, n. 3, maggio-giugno 1933. Il saggio faceva parte di un volume collettaneo pubblicato a cura della Scuola Superiore di Scienze Corporative dell’Università di Pisa: g. pirou, w. sombart, e.f.m. durbin, e.m. patterson, u. spirito, La crisi del capitalismo, Sansoni, Firenze 1933. Il saggio è stato ristampato in u. spirito, Il corporativismo, cit., pp. 391-403, da cui citiamo. 82. Ivi, p. 398. 83. Ibidem.

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gioco interessi politici dello Stato. Tale intervento può assumere la forma del controllo, dell’incoraggiamento e della gestione diretta»). Come balza immediatamente agli occhi, il comun denominatore di tali princìpi è la tutela della proprietà privata, difesa così strenuamente da convincere Antimo Negri che la Carta del Lavoro «cede molto più al liberismo che non al socialismo», tanto che, «in partenza, il fascismo si preclude la strada per realizzare un regime in cui l’individuo sia strappato all’individualismo materialistico»84. Come a dire che siamo molto distanti dalle posizioni comunisteggianti che Spirito raggiungerà nell’arco dei cinque anni successivi al 1927. L’atteggiamento di Spirito è cauto, ma sostanzialmente fiducioso circa le intenzioni del regime, com’è logico che sia per un pensatore costantemente proiettato in avanti dall’insaziabile desiderio di progettare e, se possibile, costruire il proprio domani. Come esplicitato nel citato articolo del ’33, è probabile che Spirito avvertisse in molte affermazioni della Carta la presenza inconfondibile delle tesi nazionaliste. Dando indirettamente ragione agli storici che hanno sottolineato come l’impronta decisiva sul documento sia stata quella di Rocco e non di Bottai, il filosofo fascista riporta alcuni passaggi significativi della relazione su I principi fondamentali del nazionalismo economico presentata da Filippo Carli e, appunto, da Rocco al iii Congresso dell’Associazione nazionalistica a Milano nel maggio 1914. Anche qui si afferma il diritto dello Stato a intervenire sulle decisioni dell’iniziativa privata in nome del superiore interesse nazionale, ma solo e soltanto se quest’ultimo non risulta effettivamente tutelato e soddisfatto da tale iniziativa. Di regola, si afferma in modo reciso nella relazione, lo Stato lascia fare il privato. «Socialismo di Stato, dunque, con una certa accentuazione della tendenza liberale», commenta Spirito, che rintraccia nel nazionalismo liberal-conservatore la matrice di 84. a. negri, Dal corporativismo comunista all’umanesimo scientifico, cit., p. 54.

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tutto ciò che di residuo del passato può rinvenirsi nella Carta del Lavoro85. Ma è un comprensibile «omaggio» a un’ideologia che ha influenzato il fascismo prima che quest’ultimo prendesse piena coscienza di come il corporativismo rappresenti la propria vera anima. Questo il ragionamento di Spirito che acquista una chiara fisionomia già nel 1929 in un lungo articolo apparso su «Nuovi Studi» e nel quale vengono passati in rassegna alcuni contributi di economisti di varia provenienza e formazione teoricopolitica inerenti la nascente esperienza corporativa86. Gli studiosi più accreditati e le loro relative scuole di pensiero snobbano o, tutt’al più, fraintendono la reale portata innovativa del corporativismo fascista. Anche chi, come Gino Arias, respinge ogni soluzione compromissoria tra individualismo e statalismo (si ricordi l’articolo spiritiano del ’24 su Il giusto mezzo), cade poi nell’errore di ipostatizzare i termini di individuo e di Stato. Secondo l’impostazione sintetica di Spirito, si tratta, invece, di due momenti della stessa unità dialettica che non si risolve mai, una volta per tutte, a favore dell’uno o dell’altro termine, ma vive della loro eterna tensione. Come questo sia traducibile in istituzioni concrete non è ancora affatto chiaro, ma egli è già consapevole della necessità di andare oltre il semplice antiliberalismo. È comunque solo all’inizio di questa elaborazione ulteriore, la quale dovrebbe riuscire nella titanica impresa di fare del corporativismo un modello positivo, autonomo, forte dell’esperienza socio-economica precedente, ma dotato di strumenti e risposte nuove, adeguate a tempi nuovi. Il punto di partenza è, però, chiaro: riformulare «il vero significato del soggetto, che deve essere a fondamento della nuova economia»87. Condividendo in questo le argomentazioni di 85. u. spirito, La crisi del capitalismo, in id., Il corporativismo, cit., pp. 398-399. 86. Cfr. id., Verso l’economia corporativa, in «Nuovi Studi», ii, n. 5, settembreottobre 1929, pp. 233-252. Poi ripubblicato nel 1930 in id., La critica dell’economia liberale, cit. 87. Ivi, p. 249.

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Arrigo Serpieri, Spirito ritiene che il fascismo prenda avvio da una risoluta negazione dell’individualismo del xviii secolo, cioè di una concezione filosofico-politica che postula un individuo anteriore allo Stato e da questo indipendente, tanto da trovare legittimazione ai propri diritti di natura, a partire da quello di proprietà. Qui fa la sua timida comparsa un aspetto del corporativismo spiritiano che andrà sviluppandosi nel giro di pochi anni; un aspetto che risulterà dirompente per certi ambienti conservatori influenti presso il regime, ma un aspetto che già ora ci appare come la conseguenza più logica di quanto pensato e scritto sul finire degli anni Venti. Qui il rapporto tra individuo e Stato è visto in termini molto chiari ed esatti [il riferimento è a un libro di Serpieri, ndr.], e l’affermazione che la proprietà privata della terra ha «carattere esclusivamente sociale» equivale al riconoscimento implicito dell’identità di individuo e Stato88.

Un nuovo concetto, per l’individuo e per lo Stato, che non nasca da arbitrarie astrazioni, ma sorga dalla constatazione della più viva realtà. Questo pretende Spirito e questo ritiene di aver trovato nell’affermazione della natura organica dei due termini, inscindibilmente connessi, tanto da implicarsi a vicenda. Degli individui si deve poter far sistema, organismo in cui ogni singola componente è in (potenziale) relazione con tutte le altre, e deve esserlo perché l’individuo non può essere che così: animale sociale, in cui l’utile si accompagna sempre all’incontro economicamente disinteressato e affettivamente motivato con l’altro. Se questo è il principio che, pur fondato su dati reali, trascende le epoche e si presenta come costante dell’esistenza umana, vi sono anche fattori storicamente determinati e contingenti che spingono ulteriormente in direzione della colla88. Ivi, p. 251. Il libro di Serpieri commentato da Spirito è Problemi della terra nell’economia corporativa, Edizioni del diritto del lavoro, Roma 1929.

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borazione sociale. Nel solito numero di «Nuovi Studi», in una recensione a un paio di testi francesi, Spirito sottolinea con insistenza ancora maggiore come «la vita economica vada rapidamente orientandosi verso forme di economia collettiva e pubblica»89. Ancor prima dello scoppio della crisi economica mondiale, il nostro filosofo è convinto che ormai «i mercati si siano ingranditi fino al punto di diventare un solo grande mercato mondiale» e che «la vita economica internazionale abbia acquistato un’importanza sempre maggiore rispetto a quella nazionale»90. Sempre prima del crollo di Wall Street, egli constata come «le forme industriali e commerciali dei cartelli e dei trusts tendano a dominare la produzione, [...] il capitalismo acquisti natura sociale», tanto da compromettere in modo decisivo il fondamento individualistico della cosiddetta economia pura, ostinatamente cieca di fronte alla «complessità spaventosa del mondo economico contemporaneo»91. Così riecheggia l’appello a una scienza che sappia porsi in ascolto e contatto più diretti con la società. Se quest’ultima è mutevole e «in continua evoluzione verso nuovi regimi e nuove armonie»92, non potrà non esserlo pure la scienza economica (ma anche giuridica e politica). In Italia l’esperienza corporativa, promossa di primo acchito dal mondo politico e in parte da fattori strutturali, pone una sfida alle scienze sociali prese nel loro insieme, e chiede loro di dare un’ulteriore spinta e, soprattutto, una direzione precisa al cammino finora compiuto alla stregua di un timido esperimento. Così si delinea il processo storico inteso dal «nuovo 89. u. spirito, recensione a e. d’eichtal, Économie politique et Politique (saggio apparso in «Revue des Sciences Politiques», aprile-giugno 1929, pp. 161-164) e a gaëtan pirou, Doctrines sociales et Science économique, Recueil Sirey, Paris 1929, in «Nuovi Studi», ii, n. 5, settembre-ottobre 1929, pp. 295-299. 90. Ivi, p. 295. 91. Ibidem. 92. Ivi, p. 297.

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storicismo»: la prassi di forze individuali e collettive genera la teoria che, avvertita della matrice «storica» di teoremi e leggi, produce a sua volta nuova prassi. Il 1929 vede, dunque, Spirito già interamente proiettato verso l’elaborazione del nuovo assetto socio-economico, ma il 1929 è anche l’anno che vede consumarsi il secondo grande evento che segna in maniera indelebile la politica interna italiana nell’ultimo triennio degli anni Venti. Parliamo, ovviamente, dei Patti lateranensi, cioè degli accordi raggiunti fra Stato italiano e Chiesa cattolica l’11 febbraio di quello stesso anno. Gli atti giuridici che sancivano l’avvenuta conciliazione erano costituiti da un trattato e un concordato, più una convenzione finanziaria con cui lo Stato italiano risarciva il Vaticano per la perdita dei proventi dell’ex Stato pontificio93. Al di là dei contenuti specifici dei singoli articoli di questi atti, ciò che conta rilevare in questa sede è la sostanza dello storico accordo con cui si dava una soluzione all’annosa «questione romana». Fin dal 1870 questa aveva costituito un limite per l’unità nazionale, soprattutto dal punto di vista morale. Con gli accordi del Laterano si completava l’unificazione del popolo italiano, con l’inclusione dei cattolici sancita dall’assenso formale del pontefice. Quest’aspetto, oltre a motivi di fedeltà incondizionata, dovette spingere Giovanni Gentile ad accettare ciò che egli, fino ad allora, aveva fortemente avversato94. Accettazione parziale e fatta a malincuore, con una certa riserva mentale si potrebbe dire, dovuta probabilmente al fatto che, come suggerisce Vincenzo Pirro, «Gentile avverte la crisi e corre ai ripari, scegliendo la via del compromesso per arginare gli effetti della conciliazione»95. Così opererà distinzioni un po’ 93. Per una ricostruzione delle vicende che portarono agli accordi di Palazzo del Laterano, cfr. r. de felice, Mussolini il fascista. ii, cit., l’intero cap. v. 94. Cfr. ivi, pp. 387-388, 405-407 e p. 417. In merito alla più generale posizione del filosofo nei confronti della religione e della Chiesa, cfr. v. pirro, Stato e Chiesa in Giovanni Gentile, in «Nuovi studi politici», n. 2, aprile-giugno 1996, pp. 27-40. 95. Ivi, p. 35.

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ardite fra trattato e concordato, salutando nella prima «l’ultimo sigillo dell’opera del Risorgimento» e auspicando, da parte del duce, una vigilanza sul secondo, a difesa «dell’essenza e dei caratteri inalienabili dello Stato moderno»96. La concezione etica dello Stato, inteso come comunità che gli individui scoprono dentro se stessi quale «intima radice vivente della propria personalità e del proprio diritto»97, rende il confronto tra fascismo e Chiesa cattolica un potenziale scontro tra due regimi totalitari, come li definisce lo stesso Gentile in un discorso al Senato dell’aprile 1930. Con ciò, non si sarebbe dovuto eliminare la dimensione religiosa, intrinsecamente connessa all’esistenza umana e inverata dalla filosofia, ma reintrodurla nelle istituzioni statali eticizzandole. Così, la separazione che Gentile reclama prima del 1929 e anche dopo, sia pur blandamente, è altra cosa rispetto alla formula cavouriana «libera Chiesa in libero Stato», ispirata da un liberalismo laico che separa vita morale e vita politica. «Quello che alla superficie è separazione al fondo è unità, perché – ci spiega ancora Pirro – lo Stato si separa dalla Chiesa e celebra la propria indipendenza in quanto cessa di considerarla centro di energia spirituale distinto da sé, e a sé contrapposto»98. In questa ottica si comprendono alcuni punti della riforma scolastica gentiliana approvata nell’aprile 1923, fra i quali l’introduzione dell’insegnamento della religione nelle scuole elementari, dichiarato obbligatorio, ma per il momento non esteso alla scuola media in cui la filosofia resta in posizione predominante99. Questo provvedimento rende ragione dell’im96. g. gentile, La Conciliazione, in «Educazione fascista», vii, febbraio 1929, ripubblicato in id., Origini e dottrina del fascismo, Quaderni dell’Istituto Nazionale Fascista di Cultura, Roma 1934 (ii ediz. riv. e accresciuta), pp. 95-96. 97. v. pirro, Stato e Chiesa in Giovanni Gentile, in «Nuovi studi politici», n. 2, aprile-giugno 1996, p. 33. «Lo Stato etico di cui parla Gentile, anche e soprattutto dopo la Conciliazione, è una sorta di Chiesa laica i cui fedeli sono i cittadini consapevoli di appartenere misticamente a una comunità» (p. 36, corsivo nostro). 98. Ivi, p. 31. 99. Sulla genesi e i contenuti della riforma della scuola, cfr. g. turi, Giovanni

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portanza del momento religioso, ma segna anche la necessità idealistica e immanentistica di passare, come ha poi scritto l’allievo Spirito, dal mito alla possibilità di un sapere critico100. La posizione di quest’ultimo circa i Patti lateranensi la si può ricavare da un articolo pubblicato in aprile su «Vita Nova»101, in cui il punto di vista adottato è, però, squisitamente filosofico. Conforme all’ortodossia attualistica, l’allievo di Gentile ricorda alla Chiesa cattolica, ora trionfante, i tempi cupi, tutt’altro che remoti, in cui la religione era schiacciata in Italia dall’egemonia culturale esercitata dal positivismo. È stato l’idealismo, elemento teorico portante dello Stato fascista, ad aver sgominato l’acerrimo avversario del cattolicesimo. Quello scetticismo che aveva investito la fede religiosa si è, quindi, riversato nel dominio della stessa scienza, la quale pretendeva di essere così razionale da diventare la «verità del buon senso», e così «l’idealismo è riuscito in qualche decennio a far svanire tante presunzioni scientifiche e a far risorgere la coscienza di valori ben altrimenti profondi»102. Sempre in sintonia con i princìpi del maestro, Spirito chiede al cattolicesimo di non dimenticare questo preziosissimo contributo dato alla rinascita religiosa in Italia, culminata con il Concordato, e si augura che i cattolici capiscano la necessità, loro e della società italiana, del permanere di una cultura filoGentile. Una biografia, Giunti, Firenze 1995, pp. 316-337. Nel giugno 1924 l’insegnamento della religione verrà introdotto nell’Istituto magistrale. Dal luglio 1924 al gennaio 1925 il dicastero dell’Istruzione è guidato da Alessandro Casati, il quale si dimette in polemica con il discorso di Mussolini del 3 gennaio. Gli succede il cattolico Pietro Fedele, il quale «nei tre anni e mezzo in cui regge il dicastero procede a quella “controriforma” che tende a imprimere un dichiarato marchio fascista e clericale alla scuola» (ivi, p. 380). Sulla trasformazione che la riforma Gentile subì nei tre, quattro anni successivi alla sua attuazione, cfr. ivi, pp. 380-392. 100. Cfr. u. spirito, Memorie di un incosciente, cit., pp. 50-51. 101. Cfr. id., Il Concordato, in «Vita Nova», v, n. 4, aprile 1929, pp. 279-282 (da cui citiamo). Si trattava di un’anticipazione del fascicolo di marzo-aprile di «Nuovi Studi», ii, nn. 2-3, pp. 81-87. L’articolo venne pubblicato anche in «La Nuova Scuola Italiana», n. 32, 12 maggio 1929, pp. 833-835. 102. Ivi, p. 280.

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sofica idealistica. Solo la presenza di questa può alimentare il contrasto che è garanzia di «una vera vita spirituale, e questa non può certamente realizzarsi e svilupparsi in un’atmosfera, in cui il cattolicesimo sia abito indifferente e supina accettazione»103. Nella sostanza, dunque, non vi sono particolari prese di posizione politiche nei confronti del pur importante evento, le cui ripercussioni si faranno sentire anche sull’assetto statale. C’è, però, ben chiara, la consapevolezza del pericolo che potrebbe costituire una Chiesa riammessa nella vita politica e culturale italiana con un ruolo da protagonista. Ciò che deve essere ribadito con fermezza è che lo Stato fascista, «abbandonata la funzione dello Stato come mera veste estrinseca della Nazione [...] non può non rivendicare a sé, in modo assoluto e perentorio [...] il dovere di formare liberamente e secondo i propri fini l’anima nazionale»104. A parte questa decisa puntualizzazione, Spirito non affonda ulteriori colpi nei confronti dei Patti lateranensi, i quali diventeranno, invece, argomento assai ricorrente nelle riflessioni del dopoguerra, quando serviranno a motivare giudizi, spesso fortemente critici, sulla nascita e lo sviluppo della Repubblica. Saranno il simbolo della vocazione cinica e compromissoria del comunismo togliattiano; spiegheranno anche la natura tendenzialmente conservatrice, se non reazionaria, di un sistema politico che nella propria carta costituzionale ha ammesso implicitamente, con il dettato dell’art. 7, un’ingerenza eccessiva delle autorità ecclesiastiche nella società italiana105. Nel 1929 l’allievo di Gentile è ormai troppo preso dai propri progetti corporativi perché possa turbarlo un accordo che, sul momento, vede solo il consolidamento interno del prestigio di Mussolini e, in particolare, una sua amplificazione a li103. Ivi, p. 282. 104. u. spirito, Educazione nazionale, in «L’ora», 16 novembre 1929, cit. da g. parlato, Introduzione a Il carteggio Bottai-Spirito, cit., p. 119, nota 40. 105. Cfr. u. spirito, Memorie di un incosciente, cit., pp. 199-208.

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vello internazionale. Egli, come scrive De Felice, è più cauto del suo maestro e si astiene dal fare elogi particolari della politica di conciliazione106, anche perché, come dirà quasi cinquant’anni dopo, «non si trattava [...] di una trasformazione di carattere ideale, e tutto continuò come prima»107. Ma ciò che più conta è che «il concetto di Stato continuava a essere quello idealistico», vale a dire che «i Patti lateranensi [...] non avevano ancora la capacità di incidere nella coscienza degli italiani», come invece avverrà nel dopoguerra108. È con questa convinzione che il filosofo idealista si cimenta nella battaglia delle idee corporativiste allo scopo di dare un contributo decisivo all’edificazione dello Stato nuovo. 1930-1935: lo stato fascista come stato corporativo. dall’antiliberalismo al corporativismo integrale Se è vero che, come ha scritto Hannah Arendt, «l’idea politica centrale del fascismo è quella dello stato corporativo»109, allora Ugo Spirito era in perfetta sintonia con le principali frequenze dell’ideologia fascista. Alle soglie di quel decennio che si sarebbe concluso con i primi fuochi del secondo conflitto mondiale, il filosofo attualista è ormai fermamente convinto che il corporativismo rappresenti il contenuto e la concretizzazione storica della rivoluzione fascista. 106. Cfr. r. de felice, Mussolini il fascista. ii, cit., p. 417, nota 1. Ci pare, però, eccessivo il giudizio che lo stesso Spirito dette del suo articolo quarantacinque anni dopo, definendolo uno scritto «in cui la condanna era esplicita e non mancante di violenza»; cfr. u. spirito, Il cattolicesimo fascista. Giudizio storico, in «Il Giornale d’Italia», 9-10 gennaio 1974, p. 3. 107. u. spirito, Memorie di un incosciente, cit., p. 200. 108. Ibidem. 109. h. arendt, Le origini del totalitarismo (19511; 19663), trad. it. A. Guadagnin, Edizioni di Comunità, Milano 1967, p. 360. La traduzione italiana è condotta sull’edizione americana del 1966, tenendo presente anche quella tedesca del 1962.

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Inizia, così, un periodo di circa cinque anni in cui egli profonde tutte le sue energie intellettuali quasi esclusivamente nello sforzo di elaborazione teorica di una dottrina dello Stato che faccia del fascismo l’ideologia del xx secolo. Anzi, qualcosa di più di un’ideologia: la prassi che ha saputo prendere coscienza della teoria che ne costituiva l’essenza e l’elemento propulsivo; la prassi che poi ha riconosciuto alla teoria il ruolo di guida del suo futuro cammino per poter così aderire pienamente al corso della storia e ai suoi profondi mutamenti, tanto da risultare addirittura l’avanguardia nel mondo. Questa è l’ambizione non proprio taciuta che Spirito nutre nel quinquennio che andiamo a esaminare. Nel 1930, a dire il vero, le sue teorie corporative appaiono ancora abbastanza vaghe e generiche. Soprattutto, ben presente e pesante è l’inclinazione statalistica di un fascista che concepisce uno Stato dal potere senza limiti e senza funzioni predefinite, in quanto esso «provvede a tutto perché immanente a tutto»110. Ma altrettanto evidente è la presenza di alcuni concetti che saranno poi alla base dell’evoluzione del corporativismo spiritiano degli anni successivi. Qui siamo ancora al livello di affermazioni di principio, talvolta quasi di slogan, che consentono al giovane filosofo di salire alla ribalta della polemica tra economisti liberali ed economisti corporativisti. È comunque già chiaro che il corporativismo da lui teorizzato ambisce a porsi al di là dei due estremi del liberalismo e del socialismo. Ciò significa, rispetto al primo estremo, rifiuto del predominio assoluto dell’iniziativa privata in campo economico e rigetto dell’individualismo anarchico ed egoistico in campo etico-politico. L’antisocialismo, dal canto suo, si sostanzia nel riconoscimento di un ruolo all’iniziativa individuale e nella critica dello «Stato tiranno» e sopraffattore. Questa è una critica che il fascismo condivide con il liberalismo, 110. u. spirito, La riforma della scienza economica e il concetto dello Stato, in «Nuovi Studi», iii, n. 1, gennaio-febbraio 1930, ripubblicato in id., Il corporativismo, cit., pp. 260-261.

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ma solo nella misura in cui si riconosce il medesimo difetto allo Stato liberale. Quest’ultimo è visto dalla stessa dottrina liberale come un male necessario, un’entità trascendente rispetto agli individui, un ente (o insieme di enti) estraneo e contrapposto ai valori e agli interessi dei singoli cittadini che, però, non possono fare a meno di tale istituzione se vogliono quella sicurezza minima indispensabile per perseguire il proprio tornaconto personale. Tanto il socialismo quanto il liberalismo finiscono pertanto con l’identificare Stato e burocrazia, configurando un organo centrale «relativamente estraneo alla vita della nazione»111. L’unica differenza tra le due ideologie è che la prima alimenta la burocrazia fino al parossismo, mentre la seconda ne diffida e cerca di limitarla il più possibile, ritenendola comunque inevitabile e insostituibile. Spirito, dal canto suo, comincia a parlare della necessità di «sburocratizzare lo Stato, elevando ogni cittadino al grado di funzionario pubblico»112. Lo pone addirittura come compito in cui il fascismo deve impegnarsi, ma il filosofo è consapevole delle difficoltà di un processo di trasformazione che non potrà essere che graduale e sempre suscettibile di involuzioni. Su un piano che fino a questo momento è strettamente filosofico, Spirito si limita a enunciare alcuni princìpi di fondo, affermando, anzitutto, la statualità immanente a ogni aspetto della vita dell’individuo-cittadino e la conseguente consustanzialità di Stato e individuo contrassegnati da un’unica, identica personalità politica, giuridica ed economica. La statualità di cui si parla è probabilmente socialità organizzata, ma la traduzione concreta di simili precetti non risulta ancora tentata. Siamo ai primi passi di un’operazione che era stata annunciata nel 1927, nel Programma di quella rivista «Nuovi studi di diritto, economia e politica» che di questa operazione costi111. Ivi, p. 260. 112. Ivi, p. 261. Il corsivo è nel testo.

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tuirà fino al 1935 il laboratorio e la tribuna principali113. L’intento con il quale Spirito e Arnaldo Volpicelli conducono all’interno del regime fascista la battaglia metapolitica per l’affermazione del corporativismo, e di un certo corporativismo, è quello di fare politica tramite la scienza. Per la precisione, non si tratta di «abbassare la scienza alla politica come comunemente la si intende, bensì nell’opposto di elevare la politica a coscienza storica e critica»114. Ed è proprio su questa linea che l’allievo di Gentile non evita di confrontarsi con il contesto politico e sociale nel quale si muove e al quale non risparmia alcune prime, timide osservazioni critiche, che hanno il solo scopo di spingere il regime sulla strada dell’innovazione radicale. Accennando una valutazione che poi esprimerà in modo compiuto due anni dopo115, egli osserva come la Carta del lavoro non possa e non debba essere considerata come «un limite della scienza, ma solo un punto di partenza»116, ed è ormai chiaro che per scienza intende una politica critica e consapevole degli ideali che la muovono e degli obiettivi pratici che intende raggiungere. 113. Nei suoi «Quaderni» Gramsci giudicherà i «Nuovi Studi di diritto, economia e politica» «il documento più vistoso» di quell’unità/identità tra ideologia e filosofia postulata dall’«idealismo attuale» che nei due «discepoli» di Gentile si rende «visibilissima» quale «degradazione della filosofia tradizionale». Cfr. a. gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. i, Quaderno 1, § 132, p. 119. I giudizi gramsciani su Spirito sono ricorrenti nei Quaderni del carcere e quasi sempre piuttosto sprezzanti. Spirito è dipinto, assieme a Volpicelli, come l’ingenuo, e al contempo presuntuoso, neofita dell’idealismo attualista che ha costruito un’utopia la quale, a differenza di quelle tradizionali, viene presentata come già esistente ma ostacolata dall’ignoranza degli economisti e degli scienziati sociali suoi contemporanei (cfr., ad es., ivi, vol. ii, Quaderno 6, § 82, pp. 752-756). 114. u. spirito, Propaganda politica e scienza, in «Nuovi Studi», iii, n. 1, gennaio-febbraio 1930, ora in id., Il corporativismo, cit., p. 278. 115. Cfr. u. spirito, La nuova economia, saggio che compare per la prima volta come capitolo primo in id., I Fondamenti della economia corporativa, Treves, Milano 1932 (ii ediz. 1935), ora in id., Il corporativismo, cit., pp. 179-194. 116. id., Propaganda politica e scienza, in id., Il corporativismo, cit., p. 279.

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Comincia così, da parte di Spirito, il lento e parziale abbandono del terreno puramente normativo delle dichiarazioni di principio, generiche e confuse, in direzione di una teoria politica che precisi gli ambiti istituzionali con cui confrontarsi proponendo soluzioni pratiche. A ciò contribuì l’esperienza di insegnamento presso la Scuola di perfezionamento in Scienze Corporative dell’Università di Pisa, quale professore incaricato di Economia e politica corporativa (poi, Politica ed economia corporativa) dall’anno accademico 1931-1932 a quello 1934-1935 compreso117. Restando ancora al 1930, è possibile passare in rassegna una serie di articoli scritti in quell’anno e, che potremmo indicare come l’espressione di una fase intermedia tra quella «apologetica» e quella «critica» del fascismo spiritiano. Si tratta di una fase in cui lo studioso non si limita più a ripetere formule già note, soprattutto in ambito gentiliano, come ad esempio l’identificazione fra Stato e individuo; semmai, ne fa oggetto di progressivi approfondimenti e il punto di partenza per precisare i capisaldi della sua ideologia fascista che egli, ovviamente, ambisce a far coincidere con quella ufficiale del regime. Un primo articolo degno di particolare attenzione è Ruralizzazione o industrializzazione?, nel quale Spirito dichiara la propria assoluta propensione a una politica di decisa e ampia 117. La Scuola di perfezionamento in «Legislazione Corporativa» (questa l’originaria denominazione, poi modificata) fu inaugurata il 13 novembre 1928 presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’ateneo pisano. Per il primo anno accademico (19281929), la direzione fu affidata a Carlo Costamagna, ma già dall’anno successivo Giuseppe Bottai diresse personalmente la Scuola e il 1° novembre 1930 fu nominato per chiara fama professore di «Politica ed economia corporativa», e dal 1° dicembre 1931 passò alla cattedra di «Diritto corporativo», lasciando il precedente insegnamento ad Ugo Spirito. A questi sarebbe subentrato Giuseppe Bruguier nell’anno accademico 1935-36. Cfr. p. nello (a cura di), Il campano. Autobiografia politica del fascismo universitario pisano, 1926-1944, Nistri-Lischi, Pisa 1983, pp. 2226, 38, 92-94; f. amore bianco, Un laboratorio per progettare la «nuova economia fascista». Giuseppe Bottai e l’«Archivio di Studi Corporativi», in «Nuova Storia Contemporanea», n. 6, novembre-dicembre 2002, p. 35, nota 2 e pp. 52-53.

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industrializzazione dell’economia italiana118. Egli ritiene che industria sia sinonimo di civiltà e progresso, tanto che occorre trasformare l’agricoltura in senso industriale. Assai lontano da posizioni antimoderne, sostiene l’opportunità di urbanizzare la campagna industrializzandone il modo di produzione e uniformandone gli stili di vita a quelli della città, vero modello di riferimento. A livello produttivo ciò vorrà dire, in un primo momento, sostituire la macchina all’uomo; poi, però, la moltiplicazione e differenziazione dei beni prodotti, dovute alla maggiore efficienza di un sistema automatizzato, dovrebbero riassorbire una disoccupazione che Spirito, evidentemente, intende di natura prevalentemente frizionale. Si tratta, cioè, di manodopera che solo temporaneamente risulterebbe in esubero, a causa della sua scarsa mobilità o qualifica, carenze comunque colmabili con la volontà e con adeguate strutture per la formazione professionale. Come sottolineerà quattro anni più tardi, il problema occupazionale non risiede nella diffusione delle macchine ma nei ritardi del sistema socio-economico a livello redistributivo119. L’uniformità di stili e mentalità dovrebbe, poi, avere il benefico effetto di frenare l’esodo dalle campagne. L’atteggiamento «modernista» di Spirito preannuncia quell’esaltazione della tecnica e della civiltà delle macchine che comparirà di lì a pochi anni120. E sempre nello stesso articolo tor118. Cfr. u. spirito, Ruralizzazione o industrializzazione?, in «Archivio di studi corporativi», i, n. 1, gennaio-aprile 1930, ripubblicato in «Nuovi Studi», iii, nn. 3-4, maggio-agosto 1930, quindi in id., Capitalismo e corporativismo, Sansoni, Firenze 1934. Ora in id., Il corporativismo, cit., pp. 447-461. 119. Cfr. id., La macchina, in «Nuovi Studi», vii, nn. 4-5, luglio-ottobre 1934, pp. 331-332. 120. Gli ultimi due articoli menzionati, come molti altri che verranno in seguito citati, smentiscono la tesi di Fulvio Fazio secondo cui il fascismo spiritiano non sarebbe altro che l’espressione di un’«ideologia agraria»; cfr. f. fazio, Tecnostruttura e tecnofascismo, in «Nuovi studi politici», i, nn. 5-6, settembre-dicembre 1971, pp. 59-72. Il breve saggio offre, però, anche un interessante confronto fra il corporativismo spiritiano e le tesi di John K. Galbraith sul «nuovo Stato industriale» (cfr.

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na a fare capolino quel peculiare nazionalismo spiritiano che già avevamo visto nell’articolo del 1926, inneggiante all’Imperialismo italiano. I due atteggiamenti vengono qui a fondersi in un’unica posizione che sostiene la necessità di fare dell’industrialismo la base materiale e spirituale per una chiara affermazione della nazione italiana nel mondo. Contrariamente a chi identifica la civiltà industriale con gli Stati Uniti, respingendo entrambi in quanto realtà estranee e civiltà decadenti o addirittura «barbarie del comfort» (e nella pubblicistica fascista non sono pochi a farlo)121, Spirito ritiene che americanismo e fabbrica non siano necessariamente sinonimi e, infatti, si fa fautore di una sorta di via italiana alla industrializzazione. L’errore politico, e ancor prima culturale, che mantiene in auge quest’ultima equivalenza (americanismo = civiltà industriale) sta nel fatto che «noi – scrive il filosofo in una sorta di chiamata di correo nazionale – insistiamo nel difendere la nostra tradizione dal processo di industrializzazione, e non cerchiamo di industrializzarci secondo la nostra tradizione»122. Si ha, così, una miscela di filoindustrialismo modernizzatore e nazionalismo produttivista che non era certo nuova nel panorama politico e culturale italiano ed europeo dei primi dej.k. galbraith, Il nuovo Stato industriale, trad. it. P. Ciocca e G. Costa, Einaudi, Torino 1968). Sulla base di questo confronto, si sostiene che in entrambi gli autori l’economia, nella fattispecie l’industria avanzata, subordina la politica, fornendole il modello organizzativo. Se l’impostazione spiritiana pare, in effetti, privilegiare la sfera economica rispetto a quella politica, è però vero che la prima diventa modello per l’edificazione di un diverso Stato solo dopo che questa ha subito alcune profonde modifiche giuridiche, solo dopo, cioè, un preliminare intervento della politica. A nostro avviso, insomma, l’azione politica rappresenta il punto di partenza e quello d’arrivo della rivoluzione corporativa di Spirito. 121. Cfr. m. nacci, L’antiamericanismo in Italia negli anni Trenta, Bollati Boringhieri, Torino 1989. Seppur dedicato specificamente all’ambiente culturale francese, si veda anche della stessa Autrice: La barbarie del comfort. Il modello di vita americano nella cultura francese del ’900, Guerini, Milano 1996. 122. u. spirito, Ruralizzazione o industrializzazione?, in id., Il corporativismo, cit., p. 456. Il corsivo è nel testo.

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cenni del Novecento123, anche se spesso si faceva coincidere l’interesse nazionale con politiche protezionistiche restie a competere sui mercati internazionali. A conferma di quanto ora detto, si può citare un articolo di pochi mesi successivo, e siamo sempre nel 1930, nel quale il filosofo si dichiara a favore dell’adozione di un criterio di preferenza nazionale nei programmi di sostegno statale alle industrie, con l’obiettivo, appunto, di favorire quelle italiane, mentre sono «da trascurarsi quelle più rispondenti ai fini e alle risorse di altri paesi»124. L’espansionismo di cui si parla è per il momento di natura prettamente commerciale, e il filosofo si lancia in consigli di strategia aziendale, suggerendo la necessità di orientare, se non creare, gusti non solo all’interno della propria nazione, ma pure all’estero, nel senso che «soprattutto all’estero conviene far nascere il gusto di ciò che è prodotto dell’industria nazionale»125. Queste strategie, peraltro miranti a superare persistenti forme di esterofilia deprecate dal filosofo, dovrebbero alimentare la domanda interna e conseguentemente consentire il potenziamento dell’apparato produttivo della nazione, rendendolo altamente competitivo. Del resto, Spirito è fermamente convinto che «la vita nazionale oggi non può essere grande se non nel cimento con la vita internazionale»126. Un altro aspetto chiave del pensiero politico spiritiano che emerge da questi articoli del 1930, connotandolo in maniera 123. Per l’Italia, si vedano g. baglioni, L’ideologia della borghesia industriale nell’Italia liberale, Einaudi, Torino 1974; g. are, Alle origini dell’Italia industriale, Guida, Napoli 1974; s. lanaro, Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia, 1870-1925, Marsilio, Venezia 1979; e. belloni, Ideologia dell’industrializzazione e borghesia imprenditoriale dal nazionalismo al fascismo, 1907-1925, Piero Lacaita Editore, Manduria 2008. 124. u. spirito, Benessere individuale e benessere sociale, in «Archivio di studi corporativi», i, n. 3, settembre-dicembre 1930, ripubblicato in id., I Fondamenti della economia corporativa, cit. Ora in id., Il corporativismo, cit., p. 220. 125. Ibidem. 126. u. spirito, Ruralizzazione o industrializzazione?, in id., Il corporativismo, cit., p. 461.

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sempre più marcata negli anni a seguire, è la concezione della tecnica quale fatto eminentemente spirituale. Il dato tecnico è rappresentato dal fattore umano, quello che potremmo anche chiamare «risorse umane», cioè dalla preparazione, competenza e intelligenza del lavoratore addetto a una mansione specifica. Così, la superiorità tecnica dell’Italia fascista diventa il problema e l’obiettivo «veramente spirituale» di ogni politica economica e di ogni piano di produzione. Lo sviluppo tecnologico è solo in parte progresso materiale, è soprattutto fioritura di civiltà. Il bersaglio principale degli attacchi contenuti in questi articoli è sempre di più il liberalismo, inteso sia come dottrina politica che come teoria economica. Partendo dall’assunto secondo il quale ogni scienza sociale presuppone una specifica ideologia, ovvero una concezione dell’uomo e del mondo, Spirito sottolinea il carattere storico e, quindi, transeunte dei concetti utilizzati da una disciplina come l’economia politica. Ritenendo, da buon idealista, che ogni concezione ideale capace di assurgere a paradigma interpretativo di un’epoca non può non nascere dal seno stesso del processo storico, egli non nega che la teoria liberale abbia avuto una sua indubbia validità, tanto in sede politica quanto in sede economica. Il problema è che la storia procede nel suo cammino e dalle proprie dinamiche interne scaturiscono nuovi rapporti e nuove realtà. Così, nozioni come Stato, libertà, concorrenza, individuo e benessere mutano di significato in corrispondenza delle trasformazioni storiche che fanno emergere nuove concezioni ideologiche. È in questo senso che Spirito ritiene di aver individuato nel corporativismo tanto la realtà «strutturale» quanto l’ideologia dei processi economici e sociali del xx secolo. Per un verso la storia precede e produce, per un altro segue un modello ideale che acquisita consapevolezza dello «spirito dei tempi» e la guida con maggiore chiarezza e speditezza verso il proprio compimento. È come se l’ideologia, almeno quella dotata di efficacia rivoluzionaria, fosse la figlia della storia che, giunta a maturità, aiuta nel cammino la madre ormai vecchia. In termini più concreti, si tratta per Spirito di aggiunge-

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re una forma e un ordine a quei processi economici e sociali che caratterizzano in senso collettivistico e pubblicistico il ventesimo secolo. L’obiettivo è reintegrare l’economia nella società, e lo strumento chiamato a compiere l’operazione non può che essere la politica. Tra i concetti che hanno assunto un nuovo significato di cui bisogna tener conto nell’edificazione di una società meglio ordinata e più armonica vi è quello di libertà. Innanzitutto, occorre distinguere due modi di concepire la libertà. Il primo è quello individualistico, proprio dell’uomo selvaggio, cioè di colui «che non ha leggi di sorta e nessun limite oltre quello che gli vien dal cozzo con la natura e con gli altri uomini»127. Il secondo è il modo dell’uomo civile, il quale «esplica la sua attività nella disciplina della legge e nell’organismo unitario della vita sociale»128. Come si può constatare, non siamo poi così lontani da quanto Jean-Jacques Rousseau sosteneva nel suo Contratto sociale. Anche il filosofo ginevrino distingueva tra una libertà naturale, «la quale non ha per limiti che le sole forze dell’individuo», e una libertà civile, «la quale è limitata dalla volontà generale» che si sostanzia nella legge129. Ma le analogie non finiscono qui. A dispetto della vulgata rousseauiana, il passaggio dallo stato di natura alla società civile non è mai stigmatizzato dal filosofo del Contratto sociale, come se si trattasse di una caduta inesorabile nella corruzione130. Al contrario, egli pensa che ta127. u. spirito, recensione a a. lanzillo, Lineamenti di economia politica, Istituto Editoriale Scientifico, Milano 1930, in «Nuovi Studi», ii, n. 2, marzo-aprile 1930, ripubblicata in u. spirito, I Fondamenti della economia corporativa, cit.. Ora in id., Il corporativismo, cit., p. 286. 128. Ibidem. 129. j.-j. rousseau, Il contratto sociale (1762), trad. it. di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, libro i, viii, p. 30. 130. A tale proposito si legga il saggio introduttivo di Robert Derathé contenuto nell’edizione italiana del Contratto sociale citata nella nota precedente (ivi, pp. vii-xxxvi). Già Rousseau si trovò costretto a controbattere quell’interpretazione riduttiva e

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le passaggio produca «nell’uomo un cambiamento molto notevole, sostituendo nella sua condotta la giustizia all’istinto e dando alle sue azioni la moralità che a esse prima mancava»131. D’altronde, «se l’uomo vivesse isolato, avrebbe pochi vantaggi sugli altri animali», perché «solo nel reciproco contatto si sviluppano le più sublimi facoltà e si mostra l’eccellenza della sua natura»132. Non molto distanti sono le argomentazioni di Ugo Spirito, quando questi afferma che «il processo storico consiste appunto nel progressivo trapasso dall’una all’altra forma di libertà»133. Per il filosofo italiano la libertà è, dunque, emancipazione dallo stato di natura, riduzione, o quantomeno attenuazione, della componente animale e intensificazione di quella sociale. Questo connota la libertà come conquista di uno status ideale che coincide con un armonioso disporsi della vita associata. Si tratta di passare, per usare termini rousseauiani che Spirito fa dichiaratamente propri, dall’individuo inteso come «unità intera» all’individuo inteso come «unità frazionaria», cioè parte consapevole e convinta di un organismo sociale. La nozione di libertà riveste un’importanza fondamentale per chiunque intenda tentare un’opera di ricostruzione della teoria politica spiritiana, in quanto ci consente di individuare un aspetto ulteriore e decisivo di tale teoria: il momento fondativo della società e l’istituzione dello Stato. L’individuo è, infuorviante del suo pensiero che è poi divenuta moneta corrente. È sempre Derathé a riportare quanto scrive il filosofo ginevrino nella nota 1 al Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes (1755): «Ma come! bisogna dunque distruggere la società, sopprimere il mio e il tuo, e ritornare a vivere nelle foreste con gli orsi? corollario tipico dei miei avversari, che io preferisco prevenire anziché lasciar loro la vergogna di dedurlo» (pp. viii-ix). Ancora Rousseau nella Lettre à Christophe de Beaumont (scritta nel novembre 1762, pubblicata nel marzo 1763): «L’uomo è... un essere sociale che ha bisogno d’una morale fatta per l’umanità» (p. ix). 131. j.-j. rousseau, Il contratto sociale, cit., libro i, viii, p. 29. 132. id., Fragments politiques (in Œuvres complètes, a cura di B. Gagnebin, M. Raymond, Gallimard, Paris 1959-1995), citati da Derathé nel suo saggio (p. x). 133. u. spirito, recensione a a. lanzillo, op. cit., in id., Il corporativismo, cit., p. 286.

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fatti, chiamato a uno sforzo non indifferente per acquisire uno statuto morale, per diventare ciò che Spirito chiama «una realtà positiva o un valore spirituale»134. Anche qui non siamo lontani dalla figura del cittadino patriota di cui Rousseau parla, ad esempio, nell’Emilio, quando sostiene che «dove non c’è più patria, non si possono più avere cittadini»135. Patria che esiste e ha un senso se fondata su un vincolo volontario che fa della società una comunità di uomini liberi ma anche fortemente coesi. Rousseau ritiene radicalmente alternativi natura e società, cosicché «dovendo combattere la natura o le istituzioni sociali, bisogna scegliere tra il fare un uomo o un cittadino: giacché non si può fare a un tempo l’uno e l’altro»136. E qui la natura di cui parla il ginevrino è simile a una condizione di singolarità irrelata, sostanzialmente arbitraria, e, dunque, presociale se non antisociale. Allo stesso modo, Spirito è certo che «per adeguarsi allo Stato l’individuo deve vincere se stesso, superare la propria particolarità, dominare gli impulsi, rinunciare all’arbitrio, disciplinarsi, insomma, attraverso una serie di sforzi, in cui il dualismo [tra individuo e società strutturata in Stato, ndr.] riaffiora continuamente e non può mai dirsi risolto per intero»137. L’impostazione storico-dialettica del filosofo italiano attenua la perentorietà della frase rousseauiana e lascia un qualche carattere dinamico alla convivenza societaria. 134. u. spirito, L’identificazione di individuo e Stato, in «Nuovi Studi», iii, n. 6, novembre-dicembre 1930, ripubblicato in id., I Fondamenti della economia corporativa, cit., ora in id., Il corporativismo, cit., p. 206. 135. j.-j. rousseau, Emilio (1762), trad. it. e cura di A. Visalberghi, Laterza, Bari 1953, libro i, iii, p. 53. 136. Ivi, libro i, ii, p. 52. Altra cosa sono poi le cosiddette «convenienze» e i «rapporti naturali» di cui lo stesso Rousseau parla con favore nel Contratto sociale, in quanto condizioni che rendono «la costituzione di uno Stato veramente solida e duratura», cfr. j.-j. rousseau, Il contratto sociale, cit., libro ii, xi, p. 73. 137. u. spirito, L’identificazione di individuo e Stato, in id., Il corporativismo, cit., p. 206.

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Siamo, dunque, di fronte a una analoga istanza etico-politica di tipo «olista», secondo cui la più genuina e matura libertà la si raggiunge all’interno di una società disciplinata dalla legge e resa omogenea dalla condivisione di alcuni valori fra cui il bene comune (ovvero il tutto) coincidente con quello del singolo (ossia la parte). Ma qui sorgono le divergenze fondamentali fra le due posizioni, quella di Rousseau e quella di Spirito, che abbiamo posto a confronto per aiutarci nella comprensione delle tesi politiche di quest’ultimo, il quale, peraltro, si era occupato nei primi anni Venti, in qualità di giovane assistente di pedagogia, soprattutto dell’Emilio sottolineando persino la «grandezza» dell’autore138. Negli anni Trenta, invece, quando cita il filosofo ginevrino lo liquida sbrigativamente accomunandolo alla schiera dei fautori dell’ideologia individualistica dei Lumi139. Anzitutto, Rousseau sottolinea un aspetto che invece resterà sempre in ombra nel pensiero dell’italiano. Si tratta del carattere democratico del processo con il quale i futuri cittadini si danno quella legge attraverso cui viene conseguita una li138. Cfr. u. spirito, recensione a f. guex, Storia dell’istruzione e della educazione, trad. it. di G. Vidari, Paravia, Torino 1924, vol. i, in «L’educazione nazionale», serie ii, v, n. 4, aprile 1923, p. 31. Guarda caso, nello stesso numero della rivista, seguono due recensioni di due nuove traduzioni dell’Emilio (una di esse, in realtà, si spaccia per nuova, ma è vecchia, come lo stesso Spirito non manca di rimarcare). A ulteriore conferma della lettura e del confronto diretto almeno con il Rousseau pedagogo, ci sono i non pochi volumi rousseauiani, anche in lingua originale, presenti nella biblioteca personale di Spirito, conservata presso la Fondazione omonima. Numerose le pagine sottolineate e chiosate di due edizioni dell’Emilio (una è del 1923, l’altra è senza data); il dato va segnalato in un autore che raramente annotava le pagine dei libri che stava leggendo. 139. Ancor di più: il filosofo lascia intendere chiaramente di avere anche lui accettato come pacifica e lineare l’interpretazione di Rousseau quale filosofo che vagheggia uno stato precontrattuale dove prospera il «buon selvaggio». Cfr. u. spirito, Liberismo e protezionismo, in «Nuovi Studi», iv, n. 6, novembre-dicembre 1931, ripubblicato in id., I Fondamenti della economia corporativa, cit.. Ora in id., Il corporativismo, cit., p. 246. Nel dopoguerra, invece, non se la sentirà di liquidare così sbrigativamente il filosofo ginevrino riconoscendo piuttosto «la complessità del suo pensiero politico»; cfr. u. spirito, Critica della democrazia, Sansoni, Firenze 1963, p. 17.

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bertà più vera e duratura. Inoltre, se è vero che della triade degli «immortali princìpi» del 1789 Rousseau sottolinea più di altri la fraternità, è altrettanto indubbio che l’uguaglianza costituisce una condizione di partenza ineludibile e indiscutibile. «Se si ricerca in che cosa consiste precisamente il maggiore bene di tutti – necessario fine di ogni sistema di legislazione – si troverà che esso si riduce a due oggetti principali: la libertà e l’uguaglianza; la libertà, perché ogni dipendenza particolare è altrettanta forza tolta al corpo dello Stato; l’uguaglianza, perché la libertà non può sussistere senza di essa»140. L’autore del Contratto sociale terrà sempre a precisare questo punto. Dal canto suo, Spirito presenta una nozione di libertà in buona parte assimilabile a quella rousseauiana, ma la declina in senso organicista, estraneo al pensiero del ginevrino. Come vedremo, il continuo riferimento all’organismo sociale va ben oltre il semplice utilizzo di una metafora. Beninteso, è un organicismo «modernista», cioè plasmato sul modello socio-economico del sistema produttivo occidentale, industrializzato e tecnologizzato. Nessun riferimento neoromantico a società ideali forgiate a immagine e somiglianza di presunti ordini naturali radicati nella terra e nel sangue degli avi, o modelli del genere. Però, certamente, le divisioni e le conflittualità interne, piccole ma permanenti, cioè non componibili e tali da poter essere solo mediate in forma compromissoria, non sono contemplate da Spirito, almeno non nel modello ideale che va costruendo e a cui spera di avvicinarsi il più possibile nella realtà141. 140. j.-j. rousseau, Il contratto sociale, cit., libro ii, xi, p. 71. Corsivi nel testo. 141. Su certe ascendenze «organistiche» della dottrina corporativa, anche prima delle peculiari elaborazioni in epoca fascista e, più in generale, per un’attenta ricognizione storica del ricco e articolato dibattito teorico interno al corporativismo fascista, si veda l’ormai classico studio di Lorenzo Ornaghi, Stato e corporazione. Storia di una dottrina nella crisi del sistema politico contemporaneo, Giuffrè, Milano 1984, p. 6 e passim. Cfr. anche il più recente i. stolzi, L’ordine corporativo. Poteri organizzati e organizzazione del potere nella riflessione giuridica dell’Italia fascista, Giuffrè, Milano 2007.

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Non a caso, Rousseau pretende una monolitica volontà generale al momento della fondazione del patto costitutivo della società, ma concede anche che a un criterio di unanimità subentri quello maggioritario ogni volta che le questioni non coinvolgano direttamente il bene della collettività142. Il filosofo italiano, invece, pretende un coinvolgimento costante e competente dell’intero corpo sociale, differenziato al suo interno per capacità, funzioni e gradi di responsabilità, come fosse un immenso macchinario che si muove all’unisono in ogni sua componente. È questo, in sostanza, il modello sociale e politico che emerge soprattutto negli scritti del triennio 1932-1935. La «fraternità» di illuministica memoria si trasforma in una sorta di «fratellanza», ordinata con precisione e rigore efficientista dalla struttura di un capitalismo trasformato nei suoi fondamenti giuridici e sociali, ma che non può che essere sostenuta da un afflato ideale e un entusiasmo ideologico in cui fascismo e nazione si fondono nel sogno della rivoluzione internazionale. Non altrimenti potrebbe spiegarsi l’insistenza con cui Spirito ricorda la necessità della collaborazione, la quale non ha valore soltanto ai fini del raggiungimento della massima produzione. L’espansione economica è semplicemente il sintomo benigno di una società armonicamente ordinata e funzionante in ogni suo reparto, capace di stimolare persino competitività interna, ma sempre nel rispetto dei ruoli e dei rapporti di forza che la «megamacchina» richiede, pena il suo incepparsi. Collaborare «vuol dire, appunto, tendere a un medesimo fine e cioè avere un medesimo gusto e un medesimo bisogno»143. L’esito totalitario di un simile ragionamento è palese: non solo si smantella ogni struttura che alimenta il pluralismo, ma si pretende mobilitazione totale e permanente. Già nel 142. Cfr. j.-j. rousseau, Il contratto sociale, cit., libro iv, ii, p. 145. 143. u. spirito, Benessere individuale e benessere sociale, in id., Il corporativismo, cit., p. 217.

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1930 si delinea la figura del buon cittadino, il cui motto è: «il mio massimo ideale è quello di esser degno della mia nazione e di fare tutto il possibile per esserne degno»144. La novità, rispetto a quanto lo stesso Spirito sosteneva fino a poco tempo prima, e rispetto alle tradizionali dottrine corporative di marca fascista, sta nel fatto che il filosofo accantona con crescente rapidità la matrice statalistica e cerca di fondare e giustificare «dal basso» la costruzione totalitaria che va elaborando. Forse, proprio con lo scopo di darle un ancoraggio più duraturo, ma anche per una sorta di estrema coerenza e fedeltà all’istanza gentiliana che mira a tradurre in atto ciò che è in potenza: l’identificazione di individuo e Stato come sintesi dialettica, cioè risoluzione in un tertium quid che sia realmente altro e di più rispetto ai due termini antinomici145. Così, se la figura del buon cittadino è paragonabile a un imperativo morale assai categorico, facilmente suscettibile di essere imposto dall’esterno in modo autoritario, non bisogna 144. Ivi, p. 221. 145. A proposito della formula dell’«identificazione» fra individuo e Stato, interessanti appaiono le osservazioni che Giorgio Fano (1885-1963), all’epoca ancora professore di filosofia in vari licei di Trieste (dal 1936 al 1938 sarà assistente volontario di pedagogia presso la Facoltà di Magistero dell’Università di Roma, poi allontanato dall’insegnamento in seguito alla leggi razziali), rivolgeva allo stesso Spirito in una lettera del 4 ottobre 1933: «Come Ella sa io credo filosoficamente sbagliato il condannare una sorta d’istituzione storica (il capitalismo, ad es.) come essenzialmente inadatta a realizzare l’identificazione di individuo e stato. E ritengo che il capitalismo di Ford ha realizzato quell’unità più effettivamente che certe corporazioni. La stessa cosa potrei dire di alcune istituzioni comuniste. Da un punto di vista politico, invece, approvo di cuore i Suoi sforzi per rendere più efficiente il corporativismo italiano e per infondergli una sempre più viva idealità» (cus 787). Come ricorda la moglie Anna, in una lettera indirizzata a Spirito pochi mesi dopo la morte del marito, Giorgio Fano, che si era procurato fama di antifascista con un discorso pubblico del 1930, aveva «nel lontano 1912 [...] rifiutato di collaborare in veste di discepolo col Croce e nel primo dopoguerra non ha accettato l’offerta del Gentile di entrare all’Enciclopedia» (A. Fano a U. Spirito, 28 giugno 1964, cus 8830). Per ulteriori informazioni circa la vita e l’opera di Fano, si veda f. laicini, Fano Giorgio, in «Dizionario Biografico degli Italiani» (d’ora in poi, dbi), Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1994, vol. xliv, pp. 597-599.

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dimenticare che Spirito auspica l’emergere autonomo e spontaneo (o quasi) di una simile figura. Non solo e non tanto quale frutto di un impegno etico, a cui la disciplina fascista dovrebbe educare, ma piuttosto quale risultante quasi naturale della dimensione sociale, intersoggettiva, della coscienza umana. La critica dell’economia liberale, incentrata sul «presupposto irrazionale dell’individualismo»146, ha come obiettivo la dimostrazione che utile sociale e ofelimità (cioè l’utile inteso come sensazione soggettiva di piacere) coincidono, perché Stato e società (qui intesa come insieme di individui) coincidono. Come a dire: il buon cittadino deve essere perché è già, di fatto. Basta compiere gli ultimi sforzi necessari perché siano rimossi i residui egoistici, anche se la rimozione non potrà mai dirsi definitiva, perché è come se l’individuo fosse composto di due poli, uno positivo, il più forte, l’altro negativo, più debole ma sempre presente quale antitesi dialettica, che costituisce l’ostacolo il cui periodico superamento dà corpo alla personalità libera e matura. Il cittadino spiritiano, prima di essere un titolare di diritti, è un socio carico di doveri assolti con la serenità di colui che non può pensarsi altro che come membro indispensabile che contribuisce alla vita di varie collettività, che vanno dalla famiglia al gruppo amicale fino allo Stato che tutti li ricomprende. Già intorno al 1932 è chiaro che quest’ultimo non deve essere inteso quale ente sovraordinato e sganciato dal resto del tessuto sociale, ma piuttosto quale ossatura che tiene in piedi l’organismo. Dunque, sempre più, società e Stato sono chiamati a coincidere nella teoria spiritiana. Ha senz’altro ragione Lorenzo Ornaghi quando, avendo ben presenti le teorizzazioni di personaggi come Mihaïl Manoïlescu147, ma soprattutto Ugo Spirito, sottolinea come il di146. u. spirito, Liberismo e protezionismo, in id., Il corporativismo, cit., p. 246. 147. M. Manoïlescu (1891-1950), ingegnere, economista e giornalista rumeno, che ricoprì l’incarico di ministro degli Esteri durante l’estate del 1940 nella compagine filofascista guidata da Ion Giugurtu e fu poi sostenitore, senza avere incarichi di go-

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battito sul corporativismo sotto il fascismo presentò una «divaricazione» assai più profonda di quella, comunque non priva di gravi attriti, tra fautori di una restaurazione dello Stato, con conseguente totale integrazione della società nell’assetto istituzionale statuale, e sostenitori del primato della società rispetto allo Stato. Entrambe queste posizioni, infatti, davano ancora per valida e pienamente operante l’«equivalenza» fra il «politico» e lo «statuale», vale a dire che concepivano lo Stato moderno come il «luogo» esclusivo ed esaustivo – per titolarità e legittimazione – in cui si consumava il momento della sintesi ordinatrice e motrice della convivenza associata, in cui si dispiegava la politicità come messa in forma razionale, prevedibile e, quindi, riproducibile dell’interazione tra individui o gruppi148. Invece, afferma Ornaghi, «la vera frattura» all’interno dello schieramento di giuristi, economisti e politologi fascisti filocorporativisti si ebbe «lungo la linea in cui, dalle tradizionali concezioni che (pur in forme diverse e con obiettivi apparentemente contrastanti) riaffermavano l’equivalenza dello Stato con il politico, si staccarono concezioni che, mettendo in questione tale equivalenza, cercavano di spiegare il politico “fuori” dallo schema dottrinario-ideologico imposto dalla “centrale” categoria di Stato»149. Coloro che perseguirono questa seconda «linea» finirono per muoversi alla «ricerca di una “diversa” teoria della politica»150, capace di spiegare le possibilità di organizzazione e funzionamento di un aggregato sociale oltre la tradizionale statualità moderna, estrinseca e «trascendente» rispetto a una società oramai avviata sulla strada dell’autorganizzazione degli interessi scaturenti dal suo interno. Lo sforzo teorico di Spirito ci verno, della dittatura di Ion Antonescu (che durò dal 4 settembre 1940 al 23 agosto 1944). Per un quadro generale della storia rumena fra le due guerre, cfr. a. biagini, Storia della Romania contemporanea, Bompiani, Milano 2004, pp. 65-101. 148. Cfr. l. ornaghi, Stato e corporazione, cit., cap. iii. 149. Ivi, pp. 106-107. 150. Ivi, p. 107.

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pare perfettamente riassumibile nel tentativo di confutare «la pretesa dello Stato di rappresentare il progetto di regolazione globale ed esclusiva di ogni forma di convivenza politica»151. La crisi del 1929 sembrava confortare e giustificare a pieno simili confutazioni, ma è nel 1932 che la teoria spiritiana giunge a maturare questa posizione teorica che potremmo azzardare a definire «poststatuale»152. Senz’altro, un corporativismo non statalista. È «infatti» in quell’anno che si presenta con ulteriori elementi di chiarezza la novità di un corporativismo capace di funzionare, almeno nelle intenzioni del suo ideatore, senza l’intervento arbitrale decisivo di uno Stato, ipotizzato super partes ma, comunque, organo estraneo alle dinamiche socioeconomiche che si sviluppano all’interno dei luoghi di lavoro. Il ii Convegno di studi sindacali e corporativi, svoltosi a Ferrara dal 5 all’8 maggio 1932, offre a Spirito l’occasione per lanciare la sua novità ancora in fase di elaborazione e che, per il momento, prende il nome di corporazione proprietaria. Spirito intuisce che una possibile strada per la trasformazione dello Stato in ossatura dell’organismo sociale è data dalla politicizzazione dell’economia e, contemporaneamente, dall’economicizzazione della politica. Non si tratta semplicemente di asservire le logiche produttive ai fini di uno Stato lasciato in piedi con le vecchie vesti di governo, di burocrazia o, peggio ancora, di gruppo oligarchico inevitabilmente estraneo e disinteressato, nonché incompetente, rispetto a problemi di tipo economico. Lo Stato va reso radicalmente immanente alla 151. Ibidem. 152. Per posizioni teorico-politiche come quella di Manoïlescu e Spirito, «alla crisi dell’organizzazione e della legittimazione del potere statale, […] il corporativismo non doveva fornire una risposta del tutto interna alla “ratio” di svolgimento dello Stato moderno. Di fronte all’accelerata trasformazione dello Stato non tanto in “Stato economico” quanto in “Stato sociale” […], il corporativismo doveva invece costituirsi in modello “diverso” di organizzazione e di legittimazione del potere politico, e non già in strumento di riorganizzazione (e in definitiva di rilegittimazione) di un potere statale ormai consunto» (ivi, pp. 213-214).

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vita dei cittadini soci, ma per far questo occorre sciogliere, senza scomporre, la statalità nella società e, in particolare, nelle attività che le danno forma. La fabbrica, più in generale il luogo di lavoro, diventa il laboratorio dove avviare l’esperimento di una comunità organica e razionalizzata153. Ecco che il corporativismo ha così la possibilità di essere qualcosa di più di un semplice «metodo politico-sociale di governo»154, per configurarsi come l’ordinamento economico, politico e sociale la cui introduzione e attuazione consentono il passaggio dallo Stato trascendente di matrice liberale (e socialista) allo Stato inteso come società (o nazione) organizzata. Il fascismo troverebbe, dunque, il suo contenuto e, con esso, una direzione che per Spirito è la direzione stessa del processo storico nel ventesimo secolo. Infatti, così leggiamo: Il regime corporativo è, come tutta la rivoluzione fascista, il frutto di un’evoluzione di pensiero che va dalla più alta specializzazione alla più piccola determinazione pratica, e non rappresenta perciò uno degli infiniti regimi che la scienza può studiare, ma l’unica realtà storica nella più progredita coscienza155.

Le vicende economiche dei primi trent’anni del Novecento, così argomenta Spirito al convegno di Ferrara, ci dicono che la tendenza dominante è rappresentata dal «progressivo allargar153. In una serie di fogli con appunti disordinati, vergati a penna da Spirito, e databili intorno alla prima metà degli anni Trenta, si trova il seguente appunto: «nella fusione economia e politica si identificano e la politica si identifica con tutta la gerarchia che diventa totalitaria. Trionfo della tecnica. Tecnica: carattere veramente distintivo del fascismo; compito: curare le forme istituzionali della gerarchia» [Manoscritti di Ugo Spirito – d’ora in poi, mus –, b. 3, fasc. 4 (1930-1935). I primi due corsivi sono nostri, il terzo è di Spirito]. 154. L’espressione è di Agostino Lanzillo; cfr. U. Spirito, recensione a a. lanzillo, op. cit., in u. spirito, Il corporativismo, cit., p. 282. 155. u. spirito, Politica ed economia corporativa, in «Nuovi Studi», v, n. 1, gennaio-febbraio 1932 (si tratta della Prolusione al corso di Politica ed economia corporativa, tenuta alla R. Università di Pisa il 15 febbraio 1932). Ora in id., Il corporativismo, cit., p. 69.

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si e ingigantirsi delle imprese, e il prevalere degli organismi produttivi collettivi su quelli individuali» è nei fatti, tanto da poter sostenere che «la vita economica si trasforma con ritmo rapidissimo da individualistica e disorganica in collettivistica e organica»156. Dunque, ancora una volta, «la vita ha anticipato la scienza», dove per vita deve intendersi qualcosa di simile a un luogo di produzione di forme, forme mai compiute che occorre raccogliere e coordinare in un disegno unitario e coerente nutrendole di sostanza. È qui che interviene quella scienza politica, le cui caratteristiche abbiamo già considerato, una scienza, cioè, che, essendo capace di confrontarsi con nuove realtà e dinamiche socio-economiche, elabora quei contenuti ideali con cui sostanzia forme altrimenti informi o, quantomeno, suscettibili di «contraddizioni pericolosissime»157. In quanto storia, la vita è un processo dinamico che non tollera di essere irretito a lungo nelle maglie di teorie che, come il liberalismo economico, pretendono di bloccarne l’incessante svolgimento con formule e definizioni ritenute valide per l’eternità. Ma è anche vero che Spirito, in parziale contraddizione con se stesso, pretende a sua volta di avere la teoria in grado di conciliare ideale politico e divenire storico. La supe156. u. spirito, Individuo e Stato nella concezione corporativa, relazione presentata al ii Convegno di studi sindacali e corporativi (Ferrara, maggio 1932-x), in Ministero delle Corporazioni, Atti del secondo convegno di studi sindacali e corporativi, Tipografia del Senato, Roma 1932). Ora in id., Il corporativismo, cit., p. 353 (in questo volume la relazione viene riproposta col titolo Individuo e Stato nell’economia corporativa e sono incluse le Risposte alle obiezioni che gli vennero mosse durante il convegno). 157. Ivi, p. 353. Va precisato che il concetto di «vita» cui Spirito fa sovente riferimento non ha alcun carattere metafisico o vitalistico, in quanto è da identificarsi con la storia, processo dinamico cui prendono parte gli uomini con le loro volontà e i loro progetti. La relativa imprevedibilità del corso storico dipende dall’impossibilità di determinare con assoluta precisione statistica la risultante delle illimitate combinazioni delle azioni umane. Ma le tendenze in atto sono ben individuabili, cosicché la vita non è entità assolutamente indomabile da parte dell’uomo, a maggior ragione se quest’ultimo indossa le vesti del filosofo. Negli ultimi anni Spirito sarà, invece, sempre più incline a identificare la vita con il mistero, improgrammabile per definizione. Si veda in proposito il secondo capitolo, infra.

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riorità della dottrina corporativa, così com’è da lui concepita, risiede, infatti, nella maggiore consapevolezza storicistica rispetto alle ideologie che l’hanno preceduta. Maggiore consapevolezza che le consente di guardare alla rivoluzione bolscevica con gli occhi di chi vi riconosce un tentativo importante, seppure frenato da limiti teorici, di inveramento del socialismo, «questo lievito sociale che colorisce la vita politica da tanti decenni»158. È sempre il senso storicistico che può consentire alla rivoluzione fascista di mantenersi all’avanguardia quale forza inesauribilmente costruttrice. Per riuscire a realizzare questo proposito alquanto ambizioso, il fascismo deve tener fede alle proprie origini ideologiche, che lo vedono nascere dal «confluire delle due forze vive dei primi lustri di questo secolo: socialismo e nazionalismo»159. Quest’ultimo ha saputo infondere al primo il senso di «tutto ciò che è tradizione spirituale»160, spurgandolo, inoltre, del suo «astrattismo antistorico»161. Il socialismo, dal canto suo, ha insegnato al nazionalismo l’importanza di una riforma sociale che sappia riallacciare più intimi rapporti tra il singolo e la collettività di cui fa parte. Questa esigenza di rinnovamento radicale è ciò che di positivo deve essere incamerato come patrimonio di un movimento nuovo che, con il corporativismo, deve respingere le accuse di conservatorismo e reazionarismo filocapitalistico. Il nemico dei primi anni Venti era «un socialismo anarcoide e inconcludente, che negava la Nazione e la guerra, la disciplina e la gerarchia, la tradizione e l’italianità»162, prospettando, sulla scia dell’esempio bolscevico, la dittatura di classe e uno Stato burocrate trascendente la comunità nazionale. 158. Ivi, p. 359. Il corsivo è nostro. 159. Ivi, p. 365. La frase è contenuta nella prima risposta alle obiezioni, che venne pubblicata anche in «Nuovi Studi», v, n. 2, marzo-maggio 1932, pp. 84-89. 160. u. spirito, Individuo e Stato, in id., Il corporativismo, cit., p. 359. 161. Ivi, p. 365. 162. Ivi, p. 364.

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Per rappresentare un’avanguardia duratura, modello per le giovani generazioni desiderose di novità, occorre, innanzitutto, dar vita a un ordinamento socio-economico che non sia il mero «giusto mezzo» tra individualismo e collettivismo. Nella consapevolezza delle trasformazioni in atto nel resto del mondo industrializzato, è necessario operare per la creazione di una «economia sintetica» in cui si concretizzi la fusione (non confusione) tra privato e pubblico, individuo e Stato. Un passo fondamentale in tale direzione può essere compiuto tramite l’avvicinamento progressivo tra capitale e lavoro, fino a una loro completa identificazione. La corporazione di cui ormai parla Spirito nel 1932 è qualcosa di ben diverso da un’associazione di rappresentanza e tutela degli interessi di una determinata categoria professionale, sia pure comprendente datori di lavoro e lavoratori. Una simile struttura rifletterebbe ancora la presenza di un dualismo classista all’interno della società, e, in effetti, la situazione italiana agli inizi degli anni Trenta è ancora questa, ammette il filosofo. L’ambito dell’economia e, più precisamente, quello dell’organizzazione aziendale e delle relazioni industriali, si presenta come il terreno di partenza per una rivoluzione politica tesa a formare «un sistema veramente armonico»163. Però, fino a quando persisterà il sindacalismo, i vari elementi del mondo produttivo tenderanno a dividersi e a contrastarsi, essendo portatori e difensori di interessi di parte. In una situazione del genere, lo Stato fascista non potrà che restare quello che è al momento, un «giudice conciliatore». Ma se in tempi di minacce anarcoidi era giusto e necessario porre al primo posto l’eliminazione dei contrasti e il ripristino dell’ordine, adesso è giunto il momento che il fascismo costruisca il nuovo e che il corporativismo diventi «integrale». Per far ciò, occorre adoperarsi per porre ai margini la questione di classe e mettere in primo piano la questione dell’impresa.

163. Ivi, p. 357.

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La corporazione proprietaria è la proposta concreta con la quale Spirito intende fornire quel «centro sistematico» capace di sintetizzare impresa, sindacato, corporazione e Stato164. Si tratta di rendere i «corporati» azionisti della corporazione, ovviamente intendendo quest’ultima come il nuovo modello di azienda, che può essere anche una catena di imprese omologhe o affini per strutture o beni prodotti, di cui sono proprietari tutti coloro che operano come produttori all’interno dell’azienda medesima. Ovviamente, le quote azionarie possedute da ciascuno variano a seconda del ruolo ricoperto nell’azienda. In questo modo dovrebbe venire rimossa la vecchia figura del detentore di capitali completamente estraneo all’amministrazione della sua proprietà, affidata solitamente a managers, e interessato esclusivamente ai rendiconti e ai bilanci annuali. Eliminando così altri due elementi di divisione all’interno del mondo socio-economico, ci si avvierebbe verso il superamento dell’ordinamento classista. L’unico modo è trasformare in senso pubblicistico l’istituto della proprietà privata e affidare finalità sociali all’iniziativa individuale. Detto in altri termini, si tratta di sprivatizzare proprietà e iniziativa dei singoli, che non vengono formalmente toccate, ma sono trasformate in strumenti dell’interesse collettivo, così come «l’organizzazione della produzione deve diventare funzione dell’interesse nazionale, e il proprietario diventa responsabile della produzione di fronte allo Stato»165. Ciò che muta sono natura e funzioni dell’istituto proprietario, al punto che «il muro che circoscrive il campo del proprietario non limita a rigore una proprietà, ma determina il compito sociale di un in164. Cfr. ibidem. 165. Ivi, p. 366. I corsivi sono nel testo. La frase riportata, come quella della nota successiva, è contenuta nella seconda risposta che Spirito dette ai propri avversari e che venne pubblicata col titolo Dentro e fuori [l’ortodossia corporativistico-fascista, ndr.] nella rivista di Bottai; cfr. «Critica Fascista», x, n. 13, 1° luglio 1932, pp. 243-244.

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dividuo cui lo Stato affida un campo perché lo coltivi a vantaggio della Nazione»166. È inoltre evidente come la figura del cittadino-socio si precisi in quella del cittadino-produttore o, forse meglio, del produttore tout court. Perché è indubbio che, nel passaggio dall’individuo-cittadino al cittadino-socio prima e al cittadinoproduttore poi, il primo termine di queste endiadi progressivamente scompare ed è sempre il secondo termine a farla da padrone, connotando natura e funzioni del soggetto proposto da Spirito. La figura del produttore è senz’altro quella che gli consente di sintetizzare economia, etica e politica. In essa si risolve tanto la dicotomia lavoratore/datore di lavoro quanto quella originaria che investe individuo e Stato167. La corporazione proprietaria viene presentata come un vero e proprio ideale regolativo dell’azione politica empirica e quotidiana, e ciò conformemente all’impostazione storicistica di fondo. L’obiettivo massimo che sta sullo sfondo deve orientare le scelte legislative in materia di lavoro e gestione delle imprese. Spirito suggerisce, perciò, alcuni provvedimenti transitori, atti a favorire «un rapporto più diretto e immediato tra azienda e 166. u. spirito, Individuo e Stato, in id., Il corporativismo, cit., p. 367. Il corsivo è nel testo. 167. Secondo Gramsci, «il concetto di cittadino-funzionario dello Stato [proprio] dello Spirito discende direttamente dalla mancata divisione tra società politica e società civile, tra egemonia politica e governo politico-statale, in realtà quindi dalla antistoricità o astoricità della concezione dello Stato che è implicita nella concezione dello Spirito, nonostante le sue affermazioni perentorie e i suoi sbraitamenti polemici. […] La concezione dello Spirito, concretamente, rappresenta un ritorno alla pura economicità, che egli rimprovera ai suoi contradditori. È interessante notare che in questa concezione è contenuto l’“americanismo”, poiché l’America non ha ancora superato la fase economica-corporativa, attraversata dagli Europei nel Medio Evo, cioè non ha ancora creato una concezione del mondo e un gruppo di grandi intellettuali che dirigano il popolo nell’ambito della società civile […]» (Quaderni del carcere, cit., vol. ii, Quaderno 6, § 10, p. 692). A differenza di quanto ritiene Gramsci, il corporativismo spiritiano non può, però, essere liquidato sbrigativamente come la tipica concezione che gli allievi di Gentile hanno dello Stato, ovvero un «qualcosa di superiore agli individui»(ivi, vol. ii, Quaderno 11, § 31, p. 1447).

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Stato e tra azienda e lavoratore»168. Tra questi, la partecipazione di rappresentanti dei lavoratori nei consigli di amministrazione dell’azienda e, soprattutto, la cointeressenza obbligatoria. Questo significherebbe distribuire anche tra gli operai gli utili dell’impresa, magari sotto forma di azioni nominative vincolate, con lo scopo ultimo di oltrepassare «il concetto di lotta di classe superando lo stesso concetto di classe»169. Come abbiamo visto, l’azienda con opportune e graduali trasformazioni è deputata a diventare il nuovo organismo politico di base, una sorta di Stato in miniatura. Stato inteso come società gerarchizzata, ovviamente. Il momento della definizione degli obiettivi aziendali, che si ripete con rigorosa periodicità, viene, di conseguenza, a configurarsi come il momento in cui prende corpo il processo decisionale. A esso partecipano tutti i diretti interessati, ossia i produttori, ciascuno con le competenze e l’autorità che gli sono proprie, ma tutti egualmente indispensabili nell’elaborazione, ancor prima che nella realizzazione, del piano di produzione. Una volta definito il piano per quel determinato arco di tempo, ognuno svolge diligentemente le proprie mansioni, di base o di vertice che siano, con la consapevolezza del carattere insostituibile del proprio ruolo e, dunque, della responsabilità che su di lui grava. Pertanto, le possibilità di mobilità sociale, cioè di passaggio da un posto a un altro nella gerarchia aziendale (come, più in generale, in quella sociale), non sono negate da Spirito, ma sembrano limitate ai momenti di formulazione del piano. Ciò risulterebbe dal fatto che il programma è, sì, «visione integrale e sistematica di tutte le forze economiche, assegnazione del compito di ognuna nell’organismo, determinazione del fine economico da raggiungere», ma, una volta che è stato stabilito, è «subordinazione della volontà e dei fi-

168. u. spirito, Individuo e Stato, in id., Il corporativismo, cit., p. 359. 169. Ibidem.

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ni di ciascuno al sistema di cui ciascuno fa parte»170. Tutto ciò è coerente con un’antropologia, quella spiritiana, secondo la quale «l’uomo è uomo in quanto è capace, poco o molto, bene o male, di vivere la vita degli altri»171. L’errore etico e politico alimentato dall’individualismo atomistico liberale è stato proprio quello, ci dice Spirito, di aver scambiato «con l’affermazione privata l’affermazione della personalità che è affermazione pubblica»172. Nei due anni successivi al convegno di Ferrara, Spirito precisa attributi e funzioni della struttura corporativa, passando dalla formula della corporazione proprietaria a quella della corporazione aziendale. La corporazione è ormai identificata completamente con l’organismo produttivo, il quale è chiamato ad assumere anche i connotati dell’organismo politico di base. Si chiariscono, dunque, le procedure che dovrebbero portare alla costruzione dal basso di un sistema totalitario, in cui scompare la distinzione tra governanti e governati, dato che nella gerarchia definita dall’apparato produttivo tutti «dal loro posto esprim[o]no la loro volontà contribuendo al governo dell’intero sistema»173. Com’è possibile una simile partecipazione collettiva? Si tratta di consentire a ogni individuo di procedere dalla periferia verso il centro, senza doversi scontrare con l’alterità di organi burocratici estranei e, perciò, incompetenti nel dare risposte efficaci. Sarà il nuovo istituto della corporazione aziendale a costituire il «centro vitale» verso cui converge tutto il sistema. Per la precisione, avremo tanti centri quante sono le 170. u. spirito, Economia programmatica, in «Nuovi Studi», v, nn. 3-4-5, giugno-ottobre 1932. Ora in id., Il corporativismo, cit., pp. 415-416. 171. u. spirito, L’iniziativa individuale, in «Critica Fascista», x, n. 24, 15 dicembre 1932, pubblicato anche in «Nuovi Studi», v, n. 6, novembre-dicembre 1932. Ora in id., Il corporativismo, cit., p. 408. 172. Ibidem. 173. u. spirito, Il corporativismo come liberalismo assoluto e socialismo assoluto, in «Nuovi Studi», v, n. 6, novembre-dicembre 1932, ripubblicato in «Archivio di studi corporativi», iv, n. 1, gennaio-aprile 1933. Ora in id., Il corporativismo, cit., p. 378.

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corporazioni in corrispondenza dei settori produttivi in cui si articola l’economia della nazione. D’altronde, sono due i modi in cui potrà funzionare il sistema corporativo così congegnato: «o sarà organo dello Stato sopraordinato alle aziende che disciplinerà dal di fuori lasciando loro carattere privato, o sarà Stato come sistema di aziende corporative intrinsecamente collegate»174. Ovviamente, è la seconda ipotesi quella che corrisponde alle attese di Spirito, il quale mira, così, a tramutare il governo burocratico in «autogoverno delle aziende»175. Le unità produttive assurgono al ruolo di assi portanti di uno Stato che finalmente ha la possibilità di tradursi in nazione organizzata attraverso l’integrazione e il coordinamento delle aziende nella «catena dei gruppi implicantisi»176. Gruppi intesi non in senso atomistico come parti irrelate, ma, appunto, quali anelli di una catena che costituisce l’ingranaggio fondamentale della «macchina sociale». Macchina che non deprime l’individualità, ma, al contrario, consente la piena, perché disciplinata, espressione della personalità. Ogni membro del meccanismo sociale, sgravato dall’obbligo di adempiere diverse mansioni ormai assegnate ad altri, può concentrarsi interamente sulla propria attività, magari scelta in base alle proprie aspirazioni e, perciò, svolta con lena ancora maggiore. Tradottosi concretamente in un ordinamento corporativo «integrale», il fascismo, così come concepito da Spirito, ha la possibilità di realizzare la sua essenza di movimento sintetico che ha fatto proprie le «esigenze ineliminabili dell’individualismo (libertà, personalità) e dello statalismo (autorità, organismo sociale)»177. Dalla fusione, che vuole essere sintesi e non compromesso, scaturisce quello che il filosofo chiama «comu174. u. spirito, Residui liberali e socialisti, in «Nuovi Studi», vii, nn. 4-5, luglio-ottobre 1934, p. 324. 175. Ivi, pp. 324-325. 176. u. spirito, Il corporativismo come liberalismo assoluto, in id., Il corporativismo, cit., p. 378. 177. Ivi, p. 375.

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nismo gerarchico», con un’espressione che introduce nel 1932 e adopererà nuovamente nel 1935 in un’intervista rilasciata al giornale francese «Le Figaro» durante il convegno italo-francese di studi corporativi, svoltosi a Roma dal 20 al 23 maggio178. Il comunismo gerarchico spiritiano esclude la presenza di uno Stato livellatore e di un individuo anarchico, respingendo con ciò socialismo e liberalismo così come si sono tradotti storicamente, e nega, al contempo, gestione burocratica e gestione privata facendo di ogni cittadino un funzionario di quella gigantesca burocrazia che è la nazione organizzata secondo i criteri del corporativismo aziendale, con i gruppi economicopolitici inseriti l’uno nell’altro secondo i gradi della gerarchia funzionale. Come spiegato nell’intervista al quotidiano francese, il corporativismo così configurato è la sola garanzia per l’individuo contro uno Stato burocratico sempre più interventista dopo la crisi del ’29. Infatti, precisa il filosofo, le corporatisme conçoit un type d’Etat qui n’est plus extérieur à l’individu, une nation se gouvernant à travers la volonté de tous les citoyens dans un «self-gouvernement» de chaque jour et de toute heure, concrètement déterminé par chacune des sphères de compétence; il abolit la dualité entre le public et le privé, de même qu’il abolit la dualité initiale entre ceux qui naissent riches et ceux qui naissent pauvres179.

Con il che Spirito è convinto che «cet Etat corporatif, l’Etat des producteurs, où la vie politique fusionne la vie économi178. Cfr. g. parlato, Il convegno italo-francese di studi corporativi, 1935: con il testo integrale degli Atti, Fondazione Ugo Spirito, Roma 1990. Per il testo integrale dell’intervista menzionata cfr. m. nöel, A Rome on parle de la Liberté, in «Le Figaro», 31 maggio 1935; si veda ivi, pp. 54-55, nota 130. 179. Ivi, p. 55, nota 130 («Il corporativismo concepisce un tipo di Stato che non è più esterno all’individuo, una nazione che si governa tramite la volontà di tutti i cittadini in un “autogoverno” di ogni giorno e di ogni ora, concretamente determinato da ciascuna delle sfere di competenza; abolisce il dualismo tra il pubblico e il privato, nello stesso modo in cui abolisce il dualismo iniziale tra coloro che nascono ricchi e coloro che nascono poveri»).

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que, peut seul assurer la liberté complète de la personne humaine»180. Si è riportata per intero l’ultima risposta del filosofo all’intervistatore transalpino in quanto riepilogo perfetto di tutto quanto egli era andato elaborando nei precedenti cinque, sei anni e che si è qui cercato di ricostruire nei suoi passaggi chiave. È evidente, ad esempio, il riconoscimento del principio di uguaglianza per quanto concerne le condizioni di partenza degli individui, attraverso l’eliminazione della divisione tra ricchi e poveri che l’abolizione della proprietà privata all’interno dell’azienda dovrebbe determinare. Un punto, quest’ultimo, su cui, peraltro, Spirito glissa dopo le polemiche suscitate dalla relazione di Ferrara, accusata di bolscevismo nonostante le precisazioni preventive del filosofo181. A tale proposito, un aspetto importante da sottolineare è che il filosofo non vuole né vorrà mai la soppressione dell’istituto della proprietà in quanto tale, ma ne chiede e chiederà sempre e soltanto la «sprivatizzazione» o, detto in termini opposti, la trasformazione in senso pubblicistico. L’obiettivo finale è la comproprietà, come ribadirà nel paragrafo conclusivo di uno scritto apparso postumo, pochi mesi dopo la sua scomparsa182. 180. «Questo Stato corporativo, lo Stato dei produttori, in cui la vita politica si fonda con la vita economica, è il solo che può assicurare la libertà completa della persona umana» (ibidem). 181. Sulle polemiche che accompagnarono e seguirono la relazione di Spirito si vedano f. perfetti, Ugo Spirito e la concezione della corporazione proprietaria al convegno di studi sindacali e corporativi di Ferrara del 1932, in «Critica storica», xxv, n. 2, giugno 1988, pp. 202-243; g.b. guerri, Giuseppe Bottai, fascista, cit., pp. 91-97. Per una sintetica ma puntuale panoramica del dibattito sul corporativismo fascista nei primi anni Trenta, compreso il convegno di Ferrara, cfr. r. de felice, Mussolini il duce. i. Gli anni del consenso, 1929-1936, Einaudi, Torino 1974, pp. 11-18. 182. Cfr. u. spirito, Roma nel xx secolo. Filosofia incompiuta sulla terza via, Dino Editori, Roma 1979, pp. 82-103. Francesco Gentile nota appunto come, con la formula della «corporazione proprietaria», «non passa l’idea rivoluzionaria della abolizione della proprietà, poiché la vera proposta è quella di un’estensione della

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Formalmente garantite uguali condizioni di partenza, più difficile dire se, al di là della risoluzione del dualismo classista nell’unicità della categoria del produttore, vi sia, per esempio, eguaglianza sostanziale tra i diversi membri di un’azienda. È assai probabile che non tutti abbiano lo stesso peso al momento di prendere le decisioni, e che i quadri dirigenziali abbiano maggior voce in capitolo. Del resto, è lo stesso Spirito a sottolineare più volte il carattere gerarchico dell’assetto politico e sociale del corporativismo fascista. «Nella gerarchia, in effetti, governano tutti, ma i migliori di più e i peggiori di meno, ciascuno a seconda della sua capacità e nella sua sfera, strettamente collegata a tutte le altre nell’unico organismo»183. È questo il comunismo gerarchico e, aggiungiamo noi, la «democrazia tecnocratica» che Spirito va delineando intorno agli anni 1934-1935. Il filosofo crede, infatti, di aver trovato il criterio sintetico capace di realizzare una società politica in cui tutti partecipino e, a vario titolo, governino, ma senza andare a detrimento della qualità del governo. Il rischio insito nella democrazia è, infatti, quello di penalizzare i migliori e favorire il caos e il livellamento verso il basso. Per costruire un sistema che accolga la legittima esigenza democratica della sovranità popolare e l’altrettanto legittima esigenza aristocratica del governo dei migliori, occorre tener conto delle ineludibili differenze qualitative tra gli individui e assegnare a ciascuno una porzione di sovranità rispondente alle capacità manifestate. Porzione di sovranità che consiste nell’attribuzione di una funzione tecnica. Tra quota di sovranità e livello di funzione vi è, ovviamente, un rapporto direttamente proporzionale. Più elevato il secondo, più consistente la prima. È, dunque, chiaro come la struttura della fabbrica e delle proprietà, di una sua dilatazione, mediante la “comproprietà”, il cui modello è quello della società anonima o per azioni»; cfr. f. gentile, Il problema della proprietà in Ugo Spirito, in aa.vv., Il pensiero di Ugo Spirito, cit., vol. ii, p. 347. 183. u. spirito, Regime gerarchico, in «Civiltà fascista», i, n. 1, gennaio 1934, p. 11 (corsivo nel testo).

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sue relazioni interne forniscano a Spirito il modello empirico a cui uniformare il suo ideale di società. Non prima, e questo è importante, di aver operato una profonda modifica dello stesso mondo della fabbrica con l’introduzione della corporazione proprietaria e l’eliminazione del classismo. Proprio questo voler andar oltre la collaborazione tra le classi per giungere a una loro scomparsa, in quanto parti antinomiche e confliggenti, conferisce carattere rivoluzionario al fascismo spiritiano184. Lo connota, però, anche in senso totalitario, aggettivo che Spirito usa come alternativa positiva a privato, aggettivo che, al contrario, evoca una negatività concepita in termini quasi metafisici. La privatizzazione della vita e delle sue manifestazioni è, difatti, per il filosofo uno degli effetti più gravi della diffusione della «mala pianta dell’individualismo economico»185. Ma non possiamo non notare come, all’estremo opposto, la sprivatizzazione e politicizzazione integrale della società minacci fortemente la personalità umana che si esplica anche, se non soprattutto, negli spazi di autonomia che le vengono riconosciuti e garantiti. Inoltre, resta da chiedersi quale spazio può venire riservato a fenomeni di devianza o trasgressione, anche limitati in intensità ed estensione, all’interno del modello statuale spiritiano. Probabilmente, sono contemplati come termini dialettici negativi che caratterizzano l’esistenza umana e nel cui supera-

184. Secondo un’ottica propriamente marxista, Gramsci riteneva, invece, che quella di Spirito fosse una «concezione tipicamente reazionaria e regressiva» dal momento che la sua teoria politico-giuridica operava una «confusione tra il concetto di Stato-classe e il concetto di società regolata». Gli autentici utopisti, quelli che, a differenza di Spirito, criticavano la società esistente loro coeva, «comprendevano benissimo che lo Stato-classe non poteva essere la società regolata, tanto vero che nei tipi di società rappresentati dalle diverse utopie s’introduce l’uguaglianza economica come base necessaria della riforma progettata: ora in questo gli utopisti non erano utopisti, ma concreti scienziati della politica e critici congruenti». In altre parole, concludeva perentorio Gramsci, «finché esiste lo Stato-classe non può esistere la società regolata» (Quaderni del carcere, cit., vol. ii, Quaderno 6, § 12, p. 693). 185. u. spirito, Economia programmatica, in id., Il corporativismo, cit., p. 414.

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mento la stessa esistenza acquista valore e significato «spirituale». Ma non risulta che siano concepiti come potenziale motivo di innovazione e propulsione sociale. D’altro canto, il conflitto è drasticamente attenuato nel modello spiritiano e il dinamismo è scandito prevalentemente dalle richieste di efficienza e rapidità del sistema produttivo. Resta il fatto che di modello si tratta e che, come suggerisce in conclusione il giornalista francese autore dell’intervista per «Le Figaro», «le réalisme mussolinien n’offre jusqu’à présent aucun acte, si mince soit-il, qui permette de penser que les idées de M. Ugo Spirito doivent être bientôt programme national»186. Siamo nella primavera del 1935 e l’entusiasmo del filosofo comincia a incrinarsi proprio di fronte all’immobilismo del regime in materia corporativa. La Camera dei Fasci e delle Corporazioni deve ancora essere istituita (lo sarà solo nel gennaio 1939) e il sindacalismo, sia pure di Stato, è ben lungi dall’essere superato. Spirito è anche sempre meno convinto che si sia sulla via del superamento, come più volte aveva scritto in passato. Il suo modello rischia di restare eternamente appiccicato alla carta e questo, per un attualista, significa veder indebolito il valore delle idee fino ad allora partorite. Le dichiarazioni rilasciate a «Le Figaro» sul comunismo gerarchico riaccendono malumori e sospetti che Spirito si era già attirato durante il convegno di Ferrara. Il ministro per l’Educazione nazionale, Cesare Maria De Vecchi, lo prende di mira, stando a quanto ci riferisce lo stesso filosofo nelle sue Memorie. E così viene prima escluso da un concorso per gli studi corporativi indetto dall’Accademia dei Lincei, poi è trasferito da Pisa a Messina, passando dalla cattedra di economia corporativa a quella di filosofia187. Il segnale è chiaro: il dibattito 186. m. nöel, A Rome on parle de la Liberté, in «Le Figaro», 31 maggio 1935, p. 55, nota 130; «il realismo mussoliniano non offre fino a oggi alcun atto, sia pure secondario, che consenta di pensare che le idee del signor Ugo Spirito debbano diventare presto programma nazionale». 187. u. spirito, Memorie di un incosciente, cit., pp. 77-84.

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teorico sul corporativismo, se ha da continuare, lo deve fare lungo i binari della pregiudiziale antisocialista e senza accentuare oltre certi limiti i toni antiliberali e anticapitalistici. Il fascismo spiritiano, entrato nella sua fase propriamente «critica», quella, cioè, contraddistinta dal tentativo di fornire un contributo autonomo e originale al dibattito sulla trasformazione dello Stato italiano, comincia a risultare un po’ scomodo. Nello stesso anno 1935 chiude la rivista «Nuovi studi di diritto, economia e politica». Senza più laboratorio, lo scienziato abbandona i progetti. Almeno per il momento. 1936-1940: i primi dubbi Spirito ha sempre sostenuto nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, e specie negli ultimi anni di vita in cui frequenti erano i bilanci, che il 1935 aveva segnato la fine inequivocabile del suo fascismo188. Viene, allora, da chiedersi cosa sia successo nel frattempo per motivare questo abbandono definitivo, dopo tante illusioni e speranze tradottesi in fervida attività intellettuale e, a suo modo, politica. Oltre alle vicende accademiche cui abbiamo accennato e che lo stesso Spirito più volte ricorda, c’era la delusione per un pensiero che non aveva saputo farsi realtà politica. Anzi, quest’ultima aveva dimostrato di rispondere a logiche non sempre mosse da alti ideali e di saper opporre una tenace resistenza a teorie che pure sostenevano di essere scaturite dal processo storico, limitandosi (si fa per dire) a indirizzarlo verso mete, comunque, in esso implicite. Probabilmente, stava solo venendo al pettine il nodo di un pensiero che si presentava, in un certo senso, quale scienza della storia, ma non poteva nascondere la propria matrice ideologica. L’ideologo coltiva la speranza, se non la certezza, di orientare con la forza delle idee il cor188. u. spirito, Memorie di un incosciente, cit., p. 60, «Il mio fascismo, nel 1935, finì per non più risorgere».

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so della storia in una direzione che nemmeno l’idealismo gentiliano, in virtù del suo rigoroso storicismo, ammette prevedibile o, addirittura, influenzabile. Ma nella dichiarazione sulla «svolta» del 1935 forse c’è anche il desiderio di far coincidere a posteriori itinerario speculativo e percorso politico, come se la fine della fede attualistica avesse corrisposto alla cessazione delle speranze rivoluzionarie riposte nel fascismo. Come già faceva notare Renzo De Felice in un intervento del 1987, esistono molte prove che testimoniano quanto sia discutibile quella affermazione189. I documenti che vengono menzionati dallo storico reatino si riferiscono al periodo bellico e sono importanti proprio per attestare la permanenza di una fede fascista nel filosofo che pareva ormai incamminatosi sulla strada di una «problematicistica» filosofia postgentiliana. Nonostante un simile autorevole intervento, si è sostanzialmente continuato a sorvolare su quanto il filosofo italiano pensava e scriveva negli anni che vanno dal 1936 al 1940. Sono anni in cui vede la luce non soltanto una limitata produzione filosofica, segnata dall’uscita nel 1937 della celebre Vita come ricerca, ma pure una serie non esigua di contributi di carattere politico ed economico. Spirito continua, infatti, la collaborazione con l’Enciclopedia Italiana, impresa avviata nel 1925 con il sostegno di Giovanni Treccani e diretta da Gentile. Spirito è sin dall’inizio al fianco del suo maestro nelle vesti di redattore e segretario190. Esce poi dalla redazione nel 1933 e, per spiegarne i motivi, c’è chi sostiene che «il fascismo visto 189. Cfr. r. de felice, Ugo Spirito e la politica fra le due guerre, in aa.vv., Il pensiero di Ugo Spirito, cit., vol. ii, pp. 257-258. Lo storico reatino si avvaleva, nell’occasione, di documenti rinvenuti da Gaetano Rasi nell’Archivio della Fondazione Ugo Spirito. 190. Sul ruolo e le attività svolte da Spirito all’interno dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, cfr. v. cappelletti, Ugo Spirito e l’Enciclopedia Italiana, in aa.vv., Il pensiero di Ugo Spirito, cit., vol. i, pp. 7-12 (e l’Appendice documentaria, pp. 13-20). Si veda anche m. durst, Gentile e la filosofia nell’Enciclopedia italiana: l’idea e la regola, A. Pellicani, Roma 1998, pp. 117-131.

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come “comunismo gerarchico” aveva attirato su Spirito polemiche, dalle quali Gentile volle, verisimilmente, tenere al riparo l’Enciclopedia»191. Fatto sta che, anche dopo aver lasciato la redazione, il teorico del corporativismo continua la collaborazione e scrive diverse voci. Limitandoci al periodo successivo al 1935 e agli argomenti di carattere politico-economico, possiamo citare ScambioEconomia e Smith, Adam (1936), Valore-Economia (1937), Capitalismo-La Crisi del capitalismo ed Economia programmatica (1938). Le voci curate per i volumi del 1936 e del 1937 sono delle sintetiche ricostruzioni della storia di alcuni concetti chiave della teoria economica. Spirito dimostra di conoscere la letteratura classica e cita, fra gli altri, Walras, Jevons, Menger e von Mises. Attenendosi in linea di massima ai criteri «scientifici» di una pubblicazione enciclopedica, il filosofo non manca, però, di lasciar trasparire giudizi di valore sulle dottrine liberali, classiche e neoclassiche. Sottolinea, così, come l’economia liberale «ha fede nell’armonia spontanea e non preordinata delle molteplici attività economiche e si conchiude in una visione fatalisticamente ottimistica della realtà»192. Passa in rassegna anche le revisioni autocritiche compiute all’interno dello stesso paradigma individualistico. Vengono, pertanto, evidenziati i contributi di autori come Macleod e Pareto, i quali hanno cercato di ovviare alle contraddizioni interne cui finiscono per incappare concetti come quelli di valore e di scambio. Entrambe le voci dedicate a questi due concetti si concludono con un ampio riferimento alla realtà politico-economica del tempo. Per quanto riguarda la teoria dello scambio, si dice che la sua versione tradizionale, cioè liberale e utilitaristica, «conduce […] necessariamente allo squili191. v. cappelletti, op. cit., p. 11. Cappelletti adduce quale altro motivo l’inizio dell’insegnamento di Spirito a Messina, ma non pare credibile dal momento che questo data a partire dalla seconda metà dell’anno 1935. 192. u. spirito, Scambio-Economia, voce in Enciclopedia Italiana (d’ora in poi, ei), Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1936, vol. xxx, p. 1004.

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brio generale»193. Nel tentativo di «raggiungere una concezione più sistematica e organica della vita economica e della vita sociale in genere», si sostiene che «il risultato per ora più ragguardevole è quello teorizzato nella cosiddetta economia programmatica»194. Di conseguenza, vengono ripetuti tutti i concetti espressi dal filosofo nei suoi scritti più militanti. Lo stesso procedimento è adottato nella stesura della voce Valore-Economia. Secondo un approccio storico e storicistico, si fa notare il carattere momentaneamente conclusivo e sicuramente rivoluzionario dell’esperienza politico-economica italiana. Spirito non manca neppure di esprimere velate valutazioni sull’esperimento corporativo in corso, laddove ricorda che in Italia, «quando non ci si è arrestati al compromesso, si è tentato di risolvere il dualismo di valore oggettivo e valore soggettivo con la teoria dell’identità di individuo e Stato»195. Le voci dedicate alla Crisi del capitalismo e all’Economia programmatica vengono pubblicate nel 1938 nella prima Appendice dell’Enciclopedia. Siamo nell’anno successivo all’uscita de La vita come ricerca, e in queste pagine si avverte un certo mutamento di accenti. Lo dimostrano le frasi conclusive della prima delle due voci, dove si dichiara irreversibile la crisi dei regimi privatistici ma, nel contempo, si ammette che «quali forme tecniche e politiche assumerà la nuova economia non è dato ancora prevedere in modo sistematico»196. Il criticismo protoproblematicistico, che ha incrinato la certezza at193. Ivi, p. 1005. 194. Ibidem. 195. id., Valore-Economia, voce in ei, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1937, vol. xxxiv, p. 946. 196. id., Capitalismo - La Crisi del capitalismo, voce in ei, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1938, Appendice i, p. 356. Nel manoscritto originale compariva un giudizio di imperfezione del corporativismo fascista e di quello nazionalsocialista, ancora lontani dall’essere «integrali», e semmai assimilabili a un’«economia mista». Tale giudizio non comparve, poi, nella versione pubblicata. Ringraziamo della segnalazione il dott. Marco Zaganella.

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tualistica nella composizione dialettica delle antinomie, si riflette nelle convinzioni politiche del filosofo. Il futuro non è più così certo e chiara è in lui la consapevolezza che quella attuale è una «fase di transizione»197. Il suo disagio è anche quello vissuto da una nazione e addirittura da un’epoca. Con ciò, però, Spirito si guarda bene dallo sconfessare tutto quanto è stato fatto in Italia nella direzione di un superamento rivoluzionario delle deficienze, tanto del capitalismo liberale quanto del collettivismo socialista. Si registrano ancora ritardi e resistenze sul piano dell’elaborazione scientifica, ma sul piano pratico – scrive nella voce Economia programmatica – è indubbio che «i risultati raggiunti siano più considerevoli e organici che altrove»198. La politica economica del fascismo è, dunque, sostanzialmente promossa, almeno in un documento «ufficiale» quale può essere una voce enciclopedica. Toni ancor più militanti Spirito li aveva usati in una conferenza tenuta a Palermo nel 1936, organizzata dal gruppo universitario fascista locale199. Nel testo della conferenza il filosofo parla della necessità di un programma economico. Le argomentazioni addotte sono quelle elaborate nel corso degli anni precedenti. Spirito parte, come di consueto, dalla constatazione del profondo mutamento che sta travolgendo il mondo economico internazionale e le regole che lo governano. Ci sono tre fenomeni nuovi che dimostrano quanto sia urgente l’adozione di piani economici: l’unificazione dei mercati nazionali in un «mercato mondiale unico», la «complicazione» del prodotto e la sua «standardizzazione»200. 197. Ibidem. 198. id., Economia programmatica, voce in ei, Appendice i, cit., p. 537. 199. Il testo della conferenza, intitolato Necessità di un programma economico, è conservato nell’Archivio della Fondazione Ugo Spirito (d’ora in poi, afus) nella forma di un resoconto stenografico inviato a Spirito da Antonino Modica; cfr. mus, b. 23, n. 11. Si veda ora il testo del documento in «Annali della Fondazione Ugo Spirito», ix, 1997, pp. 309-312, da cui citiamo. 200. Ivi, pp. 309-310.

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Tutti e tre questi fattori di trasformazione si traducono nell’affermazione della grande industria, la cui diffusione è testimoniata pure dal processo di meccanizzazione di ogni settore produttivo, agricoltura compresa. Si tratta, però, delle società anonime dal cui sviluppo capillare Spirito intuisce persino l’inizio del graduale passaggio del capitalismo dalla fase industriale a quella finanziaria201. All’interno di queste mastodontiche realtà produttive, l’iniziativa passa progressivamente in mano a finanzieri, «speculatori», «parassiti». «I padroni sono azionisti i quali non lavorano e non capiscono nulla dell’industria di cui hanno la proprietà», cosicché «quelli che dovrebbero essere l’anima dell’iniziativa non hanno la competenza necessaria che invece possiedono i funzionari stipendiati dell’anonima»202. Sul tema dell’autogoverno delle corporazioni, coordinate a livello centrale dal Consiglio già esistente, Spirito mette l’accento negli scritti di questo periodo. L’ideale corporativo è quello di una società organizzata in maniera tale che non ci sia «più un potere burocratico di fronte a una massa livellata, bensì la nazione funzionalmente organizzata nell’autogoverno»203. È un aspetto sottolineato persino nel capitolo «La vita sociale» de La vita come ricerca, ma viene descritto come aspirazione non ancora realizzata. Forse è mancata la volontà politica, la cosa certa è che, scrive Spirito, la filosofia sottostante la dottrina corporativa ha falsato la percezione della realtà. 201. Prendendo a prestito una distinzione proposta da Domenico Fisichella (Lineamenti di scienza politica. Concetti, problemi, teorie, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1988, pp. 137-141), potremmo dire che Spirito coglie in pieno, persino con qualche anticipo, il passaggio che la società e l’economia italiane fra anni Venti e Trenta stavano compiendo dalla prima rivoluzione industriale, fondata sul macchinismo, alla seconda, incentrata sull’organizzazione. Così come nel dopoguerra, a inizio anni ’60, percepirà immediatamente l’avvio della terza rivoluzione industriale, quella determinata dall’informatica, e più in generale dall’«informazione» (la c.d. information revolution). Da notare che con la seconda rivoluzione industriale «è la competenza la nuova fons honorum» all’interno della società (ivi, p. 139). 202. u. spirito, Necessità di un programma economico, cit., p. 311. 203. id., Economia programmatica, in id., Il corporativismo, cit., p. 538.

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La fede idealistica nella coincidenza tra pensiero e prassi, nell’immediata traducibilità dell’uno nell’altra, ha fatto credere che fosse facile trovare l’istituto politico perfettamente adeguato a dar forma concreta alla sintesi dialettica tra individuo e Stato. Il problema è che non solo la realtà ma lo stesso pensiero è intrinsecamente antinomico, aperto alla confutazione di quanto asserito un attimo prima. Poiché «la ragione non conclude», la dialettica idealistica degenera in mito nel momento in cui pretende di «concepire l’antinomia come soluzione e non come problema»204. Una volta recuperato il senso problematico della ricerca intellettuale e dell’azione politica, «il sistema del corporativismo deve spogliarsi della sua veste mitologica e rivelarsi nella sua più modesta realtà di tentativo»205. E, se si tratta di un tentativo, vuol dire che non c’è più certezza metafisica sulla direzione del processo storico, cosicché «tra le infinite vie della ricerca che si profilano dinanzi alla nostra fantasia non può non apparire perfino quella che rappresenta la più radicale e perentoria negazione dell’ideologia alla quale siamo stati educati»206. E in questa radicale alternativa ideologica si può leggere il liberalismo come il comunismo, certamente posizioni antifasciste che devono essere valutate «con la serenità di chi ha raggiunto una più profonda libertà interiore e non ha più paraocchi»207. Questa libertà nella ricerca intellettuale che Spirito reclama per tutti e professa per sé non pare sufficiente ad attestare una piena, indiscutibile «uscita dal fascismo» che, nelle Memorie del 1977, viene poi motivata più per le opposizioni avute da alcuni settori del governo e degli ambienti sindacale e confindustriale che non per un intimo convincimento circa 204. id., La vita come ricerca, Sansoni, Firenze 19432, p. 206. 205. Ibidem (corsivo nostro). 206. Ivi, p. 208. 207. Ivi, pp. 208-209.

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la natura antilibertaria del regime mussoliniano208. Le sue parole sono quelle di un deluso, non di un nuovo, improvviso avversario, e ciò che lo delude è una scarsa vocazione rivoluzionaria del regime. Per lui rivoluzione significa corporativismo integrale, mentre dal 1936 in poi, dopo la guerra d’Etiopia, negli ambienti intellettuali fascisti «non sarà più il corporativismo l’argomento sul quale discutere per delineare le nuove prospettive future, ma il ruolo del sindacato»209. Sarebbe più corretto dire che la fede entusiastica si declina in fiducia mitigata. Però, ciò che un testo come quello della conferenza palermitana ci testimonia è quanto Spirito nel 1936 sia ancora vicino agli ambienti fascisti, almeno quelli giovanili e come non abbia abbandonato gli interessi di natura più strettamente politico-economica. Per cui, quando nel 1977 scriverà che con il 1935 «tutte le mie ricerche si arrestavano e dal punto di vista scientifico e da quello politico», egli indubbiamente calcava la mano, accentuando ciò che, in effetti, mutava sul piano filosofico e attenuando, se non omettendo, ciò che persisteva sul piano politico-ideologico210. Perciò, affermare che con il trasferimento a Messina «la vita cambiava e cambiava in modo totale, in funzione di diversi valori e di un’opposizione fondamentale di principi», tanto che «non c’era più ponte tra il prima e il dopo», pare quantomeno esagerato211. I testi e i documenti esaminati spingono, pertanto, a riconsiderare sotto una diversa luce il pensiero politico spiritiano degli anni 1936-1943, e gli scritti del periodo bellico ci aiutano in tal senso.

208. id., Memorie di un incosciente, cit., p. 92. 209. g. parlato, Il convegno italo-francese di studi corporativi, cit., p. 11. Cfr. anche r. de felice, Mussolini il duce. ii, cit., pp. 202 e ss. 210. u. spirito, Memorie di un incosciente, cit., p. 84. 211. Ivi, p. 85.

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1941-1943: gli ultimi fuochi Poi venne la guerra e la crisi speculativa e politica si ingigantì. Un movimento violento di negazione investì ogni posizione. Il fascismo divenne il simbolo di tutto il recente passato da maledire e da dimenticare. Venti anni perduti, venti anni da cancellare nella storia d’Italia212.

Così scriveva Spirito vent’anni dopo il crollo del fascismo. Si tratta di un’affermazione quantomeno incauta e fuorviante, innanzitutto, per una corretta ricostruzione della sua storia intellettuale. Vengono mescolati, infatti, eventi storici con giudizi espressi a posteriori, che se potevano valere per una schiera non esigua di persone, di certo non furono formulati da Spirito negli anni 1941-1943. Al contrario, i testi che ora esamineremo dimostrano come le spiritiane speranze rivoluzionarie riposte nel fascismo vivono in questo biennio una nuova, breve fase di entusiasmo. Certamente non vi sono tracce di critica nei confronti della decisione di Mussolini di intervenire in guerra; guerra che, anzi, il filosofo vede come esito sostanzialmente ineluttabile di un irriducibile conflitto ideologico tra il neoilluminismo conservatore e un nuovo romanticismo rivoluzionario. In questi termini si esprime in un articolo pubblicato per la rivista di Bottai, «Primato», il 1° luglio del 1941. Usando espressioni tipiche della propaganda bellica e nazionalsocialista, Spirito non esita a definire la guerra in corso una lotta per l’affermazione di un «ordine nuovo», in cui l’Italia avrà un ruolo importante connesso alla sua tradizione culturale e alla sua vocazione universale. Come il primo «dopoguerra è stato caratterizzato fondamentalmente dall’azione italiana, che ha consentito all’Europa di liberarsi di Versaglia e di Ginevra, facendole sentire l’astrattezza di tali soluzioni», così «la stessa funzione non potrà mancare al nostro paese nel prossimo do-

212. u. spirito, Critica della democrazia, cit., p. 37.

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poguerra, quando ci troveremo di fronte alla stessa antinomia esasperata su di un piano intercontinentale»213. L’antinomia a cui si fa riferimento è quella che vede contrapporsi, da un lato, una società organizzata secondo l’astrattismo dogmatico di una metafisica illuministica che impregna di sé il liberalismo e anche il comunismo, in quanto «suo logico derivato»214, e, dall’altro lato, un progetto di società reso avvertito dal senso critico del nuovo romanticismo. Detto in altri termini, la posizione protoproblematicistica che l’allievo di Gentile ha sviluppato a partire dal 1937 non inficia le speranze rivoluzionarie nel fascismo ed è, dunque, da porre in dubbio la sua veridicità teoretica e resta da chiedersi se la sua crisi filosofica non abbia avuto motivazioni politiche più che squisitamente speculative. Una simile posizione gnoseologica impone soltanto una ridefinizione più accorta della pianificazione organica delle masse, e più attenta alla dimensione individuale. Con una preoccupazione che si fa crescente in questi anni, Spirito pone il problema della libertà, nella duplice esigenza di intenderla per un verso come eguaglianza di tutti e per un altro verso come differenziazione od originalità di ciascuno, fino a raggiungere il riconoscimento dell’arbitrio del genio215.

L’obiettivo è raggiungere un’unità organica che non sia livellamento mortifero delle capacità individuali e, dunque, impoverimento di una civiltà, come quella italiana, forgiata dallo spirito artistico del Rinascimento. Per quanto concerne i documenti evocati da De Felice a testimonianza della non lontananza – meglio, del coinvolgimento pieno – di Spirito rispetto al fascismo nel periodo bellico, bisogna ricordare, anzitutto, la stesura di una lettera-re213. id., Romanticismo e ordine nuovo, in «Primato», ii, n. 13, 1° luglio 1941, p. 6. 214. Ibidem. 215. Ibidem. I corsivi sono nostri.

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lazione datata 20 luglio 1940. Nel 1981, nel secondo tomo del suo Mussolini il duce, De Felice attribuiva il documento a Bottai, così come un anno dopo faceva Guerri nell’edizione del diario bottaiano che copriva il periodo 1935-1944216. L’uno aveva rinvenuto il documento presso l’Archivio Centrale dello Stato, l’altro nell’Archivio Bottai. In entrambi i casi, il documento era firmato dall’allora Ministro dell’Educazione Nazionale. In realtà, l’autore è Spirito e l’originale, una lettera dattiloscritta inviata dal filosofo al Ministro, che sarebbe poi stata appena modificata per essere sottoposta all’attenzione del duce, fu rinvenuta negli anni Ottanta da Gaetano Rasi tra le carte dell’Archivio della Fondazione intitolata al teorico del corporativismo217. Bottai, presentandola come sua, il 12 agosto la consegnò a Mussolini, il quale la lesse immediatamente rispondendo già il giorno successivo, «capo per capo», alle questioni da essa sollevate e valutandone pressoché nulla l’utilità immediata ai fini 216. Cfr. r. de felice, Mussolini il duce. ii. cit., (Appendice 13c), pp. 923-928; g. bottai, Diario 1935-1944, a cura di G.B. Guerri, bur, Milano 20014, pp. 506-510. 217. Cfr. g. rasi, La rivoluzione corporativa, saggio introduttivo a u. spirito, Guerra rivoluzionaria, Fondazione Ugo Spirito, Roma 1989, pp. 5-58 (nello specifico, pp. 16-17). Vedi anche r. de felice, Mussolini l’alleato. i. L’Italia in guerra, 1940-1943, Einaudi, Torino 1990, t. ii (Crisi e agonia del regime), p. 851 («la lettera rapporto di Bottai a Mussolini era in realtà di Ugo Spirito. […] Questo non vuol dire che essa non rispecchiasse largamente il suo [di Bottai, ndr.] pensiero e che non fosse in buona misura frutto di precedenti scambi di idee tra i due»). Nelle copie rinvenute da De Felice e Guerri comparivano nove righe illeggibili, che erano quelle cancellate da Bottai perché «riguarda[va]no il riferimento a un colloquio di Spirito con Bottai» (g. rasi, La rivoluzione corporativa, cit., p. 17). Le nove righe mancanti sono le seguenti: «Nel colloquio che avemmo nei primi giorni del settembre scorso [1939, ndr.], quando da pochi giorni avevo fatto ritorno dalla Germania, Ti espressi la mia fede nella vittoria della Germania e nel carattere rivoluzionario dell’asse. Ma quando la stessa opinione esprimevo negli ambienti culturali in cui vivo, nella quasi totalità dei casi il mio atteggiamento era giudicato con indignazione dal punto di vista intellettuale e morale. Contro questa cultura e contro questa coscienza nazionale, l’Italia è stata salvata unicamente dall’intuizione e dalla volontà del suo Capo, ma non si può negare che, se è salva la pelle, l’anima è in un grande e pericoloso disorientamento» (ibidem. I corsivi sono nostri).

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bellici, semmai bisognosi di risorse materiali218. Ancora una volta, insomma, si dimostra lo scarso peso dato dal duce al fattore culturale, ma anche ideologico, ogni volta in cui la politica era chiamata ad affrontare stati d’eccezione. Come è evidente, però, questo episodio dimostra il contatto ancora stretto che Spirito manteneva con i più alti vertici del regime. Non solo. È degna di nota anche una testimonianza di Spirito raccolta da Giordano Bruno Guerri all’epoca delle ricerche condotte per la stesura della prima edizione della biografia dedicata a Bottai, uscita poi nel 1976. Stando a quanto dice Guerri, Spirito nel settembre 1939, a conflitto appena esploso, «proseguiva la sua battaglia contro il capitalismo» e a Bottai avrebbe detto: È il momento di fare la rivoluzione controcapitalistica, e per sconfiggere il capitalismo bisogna entrare in guerra a fianco della Germania219.

Al che Bottai avrebbe risposto: «No, semmai bisogna entrare in guerra a fianco della Francia», a conferma di una vagheggiata politica di neutralità filo-occidentale che lo avrebbe accomunato in quel momento a Balbo, Ciano e Grandi220. La testimonianza raccolta da Guerri appare quanto mai credibile se si pensa al rapporto che Spirito aveva stabilito con la Germania nel corso dell’ultimo decennio, compiendovi ben tre viaggi, rispettivamente nel 1933, 1934 e 1939221. Quindi, 218. Cfr. g. bottai, Diario 1935-1944, cit., pp. 221-222. 219. g.b. guerri, Giuseppe Bottai, fascista, cit., p. 187. 220. Ibidem. 221. Nel suo primo viaggio, che si svolse tra il 1° e il 16 agosto 1933, a pochi mesi dall’avvento di Hitler al potere, Spirito incontrò numerose personalità del mondo politico, economico-finanziario del neonato iii Reich: Wilhelm Keppler, commissario per le questioni economiche presso il Reichskanzlei; Hjalmer Schacht, presidente della Reichsbank; Walther Emanuel Frank, segretario di Stato del Ministero della Propaganda; Paul Körner, membro delle ss e futuro «braccio destro» di Hermann Göring; Rudolph Hess, il «delfino» di Hitler (cfr. cus 773; cus 774). Sul rapporto fra Spirito e la Germania nazionalsocialista, e sul contenuto dei suoi

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proprio in quello stesso anno, 1939, tra luglio a agosto, dunque, solo poche settimane prima dello scoppio della guerra, il filosofo del corporativismo era stato per la sua terza volta in Germania, in visita a Berlino per incontrare Bernhard Rüst, ministro della Cultura del Terzo Reich. Da Bottai, in qualità di ministro dell’Educazione Nazionale, Spirito aveva ottenuto una lettera di presentazione per essere ricevuto dal Ministro tedesco e per poter avere contatti con altri rappresentanti culturali della Germania222. Se ne evince che il terzo viaggio spiritiano in Germania avvenne in collegamento con Bottai, e forse su indicazione dello stesso Ministro fascista, il quale mostrava con questo gesto di coltivare, alla vigilia della guerra, una posizione nient’affatto netta e inequivocabile, tanto meno in favore di una neutralità filo-occidentale. Può anche darsi che su questa inclinazione bottaiana avesse esercitato un certo peso l’influenza spiritiana, se il filosofo, nella lettera-relazione sopra evocata, ricordava a Bottai come nel settembre del 1939, appena rientrato dal suo terzo viaggio in Germania, avesse espresso la propria «fede nella vittoria della Germania e nel carattere rivoluzionario dell’asse»223. tre viaggi, ci siamo avvalsi della recente e ampia ricerca svolta da Marco Zaganella, «Il tempo della grande rivoluzione». Ugo Spirito e il nazionalsocialismo, in «Annali della Fondazione Ugo Spirito», voll. xx-xxi, 2008-2009, pp. 19-64. 222. Lettera di Bottai a Spirito, 15 luglio 1939 (cus 1428/1). In allegato, la copia della lettera di presentazione: «Caro Rüst, Vi presento il camerata Ugo Spirito, ordinario di filosofia nella Facoltà di Magistero della R. Università degli Studi di Roma, giurista, storico ed economista e che fu già professore con me nella Scuola Corporativa di Pisa. Raccomando vivamente lo Spirito alla Vostra benevolenza, anche per facilitargli l’accesso e i rapporti con gli organi culturali del Vostro Paese. Grato in anticipo per l’accoglienza che vorrete fare a questa mia segnalazione, Vi saluto cordialmente» (cus 1428/2). 223. Cfr. nota 217. Guido Calogero ricordava, in una testimonianza edita nel 1973, come Spirito, nonostante l’«intima opposizione» maturata nei confronti del regime mussoliniano, prevedesse «che fascismo e nazismo avrebbero vinto» e riportava questo aneddoto: «Una volta, infine, incontratici tra il 1941 e il 1942, mi venne, dopo lunghi e malinconici dibattiti, l’estro di una conclusione giocosa; e dissi

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Il Ministro dell’Educazione Nazionale individuava ancora una volta in Spirito, come ai tempi della Scuola pisana di Scienze Corporative224, il consigliere del Principe in materia di ideologia rivoluzionaria, che per il fascismo bottaiano era il corporativismo (non meglio precisato, ché l’importante era evocarlo, specie subito prima e durante la guerra). Lo testimonia anche una lettera di Spirito a Bottai, datata 5 agosto 1940, da cui si evince che il Ministro aveva chiesto al filosofo la segnalazione di giovani studiosi validi e «arruolabili» nel piano di mobilitazione del mondo della cultura al fine di dare sostegno e sostanza ideologica alla partecipazione italiana alla guerra225: Caro Bottai, ho pensato in questi giorni a quanto mi hai detto circa eventuali collaboratori per lo studio di un piano corporativo, ma mi sono dovuto cona Spirito: – Mi pare che non abbiamo più motivo ormai di ripeterci i nostri argomenti. Piuttosto facciamo una scommessa. Nel caso che alla fine di questa guerra siamo ancora vivi tu ed io, se Hitler avrà vinto, io pagherò a te una cena. Ma se sarà stato battuto, e quindi con lui anche Mussolini e il fascismo, allora pagherai tu una cena a me. – Spirito fu d’accordo; e fu quella, credo, l’ultima volta che parlammo insieme prima che io fossi arrestato e poi mandato al confino. Quando però, nel 1945, si attuò non la previsione di Spirito ma la previsione mia, le condizioni dell’Europa e dell’Italia erano talmente tristi che non mi sognai neppure per un momento di ricordare a Spirito la scommessa che avevamo fatta» (g. calogero, Una lunga amicizia, in g. calogero, a. capizzi, l. chiusano, v. stella, L’ipotesi di Ugo Spirito, Bulzoni, Roma 1973, p. 29). 224. Sul tema, ancora poco esplorato, si veda ora la tesi di dottorato di f. amore bianco, Giuseppe Bottai e la Scuola di scienze corporative dell’Università di Pisa: (1928-1935) (relatore prof. P. Nello, corso di Dottorato in Storia e Sociologia della Modernità - ciclo 2001, Università degli Studi di Pisa). Dello stesso A. si veda anche Un laboratorio per progettare la «nuova economia fascista», cit., passim. 225. Lettera di Spirito a G. Bottai, 5 agosto 1940 (cus 1500). Giulio Tarroni era stato ispettore centrale al Ministero dell’Educazione Nazionale per la filosofia e la storia, all’epoca era funzionario dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista (Incf ) e responsabile dell’ufficio studi, e di fatto – formalmente redattore capo era Salvatore Valitutti – dirigeva la rivista dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista, «Civiltà fascista» (cfr. g. longo, L’istituto Nazionale Fascista di Cultura: da Giovanni Gentile a Camillo Pellizzi (1925-1943): gli intellettuali tra partito e regime, A. Pellicani, Roma 2000, ad nomen).

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vincere che la scelta è molto limitata. Dopo il 1935, infatti, nessuno ha più scritto di corporativismo con intento veramente scientifico, e tutto il movimento di idee si limita ancor oggi a quello compiutosi con la Scuola di Pisa. Non escludo, anzi sono certo che molte menti si sono andate maturando di poi, ma non si è avuta l’occasione per metterle in luce. Occorre quindi, almeno da principio, accontentarsi degli studiosi di quell’epoca i cui nomi sono indicati nelle collezioni che allora si pubblicavano226. […] Di particolare importanza potrebbe essere l’opera di Cantimori che è il nostro migliore conoscitore del nazionalsocialismo. Si potrebbero aggiungere alcuni giovani come Bassanelli e Tarroni, seri e ben preparati. Per quel che riguarda l’informazione più squisitamente tecnica ci si potrebbe valere dell’Ufficio studi della Banca commerciale di Milano diretta dal dott. Ugo La Malfa, che, in collaborazione con la Banca d’Italia, ha pubblicato i tre grossi volumi sull’Economia italiana nel sessennio dal 1931 al 1937. Io resterò a Bressanone fino ai primi di settembre e poi farò ritorno a Roma. Verrò subito a salutarti. Molti affettuosi saluti dal tuo Ugo Spirito

La lunga lettera-relazione presentata da Bottai a Mussolini il 12 agosto del 1940 era imperniata sul tema del rapporto fra intellettuali e fascismo, e sul contributo che il mondo della cultura avrebbe potuto – e dovuto – apportare all’Italia appena entrata in guerra. A diciott’anni dalla marcia su Roma, il bilancio per quanto riguardava la cultura era nel complesso negativo, poiché si registrava un divario e un «contrasto» crescenti fra politica e intellettuali, sempre più irrigiditi «in uno sterile conservatorismo»227. Interessanti certe affermazioni iniziali contenute nella lettera-relazione e che rivelano come dietro ci sia lo zampino di Spirito, la sua visione del fascismo: 226. Cancellata una frase in cui figurano i nomi: «Con me, Volpicelli, Bruguier, Cantimori, Bruguier [sic!], Pacces e qualche giovane come Bassanelli e Tarroni si potrebbe formare un primo nucleo di studiosi orientati in modo…». 227. r. de felice, Mussolini il duce. ii, cit., p. 924.

98 Col declino del nazionalismo e dell’idealismo il movimento culturale fascista si è orientato poi in senso sempre più corporativistico, sviluppando il lato più propriamente rivoluzionario della nuova concezione sociale. È stato, forse, questo il periodo più fecondo della collaborazione: quella frazione della cultura italiana che vi ha partecipato è riuscita a porsi davvero su un piano rivoluzionario e a costringere la più grande frazione conservatrice a scendere sul terreno della polemica e a collaborare anch’essa indirettamente. Gli anni che vanno dal 1932 al 1935 sono da questo punto di vista i più ricchi di risultati e la nostra ideologia rivoluzionaria ha avuto allora un’influenza notevole anche all’estero, in primo luogo sul nazionalsocialismo, che, giunto al potere nel 1933, si rivolgerà al Fascismo per seguirne l’esempio228.

Questa è proprio la visione spiritiana del fascismo, che sarebbe poi stata riproposta più e più volte, fin quasi alla nausea, dal filosofo del problematicismo in tante pagine scritte e innumerevoli interventi fatti nel secondo dopoguerra. Ma la sintonia con Bottai è assoluta in questo frangente fortemente condizionato dall’ingresso dell’Italia in guerra. In un espresso che Bottai inviava a Spirito il 23 agosto successivo, e in cui ringraziava per la lettera ricevuta e per le «cortesi informazioni favoritemi», si può inoltre leggere: «Il D. è di massima d’accordo con le nostre considerazioni. Bisogna che ci vediamo presto», dove quella D maiuscola puntata stava ovviamente per «Duce». E viene da chiedersi se e quanto Bottai dicesse sul serio, dal momento che nel proprio diario, in data 13 agosto 1940, scriveva che Mussolini aveva sì letto subito la lunga lettera-relazione, aveva sì espresso consenso su certe analisi e valutazioni, ma, in sostanza, aveva anche mostrato una fondamentale indifferenza nei confronti della questione, ritenendo, in fondo, scarsa l’incidenza della cultura sui 228. Ibidem. Altro passaggio che rivela la matrice spiritiana è il seguente: «Sul piano speculativo la critica sempre più rigorosa condotta contro l’idealismo, lo ha estraniato definitivamente dal processo rivoluzionario» (ibidem).

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fatti bellici, per cui il duce aveva a un certo punto tagliato corto e chiuso la faccenda senza un nulla di fatto229. Pertanto, delle due l’una: Bottai o mentiva a Spirito o mentiva a se stesso, scrivendogli sull’accordo di massima espresso dal duce. O meglio, e forse più precisamente: il Ministro cercava di non deludere l’intellettuale Spirito il quale, come avrebbero testimoniato di lì a poco in vari scritti redatti fra il 1941 e il 1943, conobbe una «seconda giovinezza» quale ideologo della rivoluzione fascista sempre intesa come realizzazione di un corporativismo integrale e totalitario. Nell’ottica bottaiana era opportuno continuare in un’opera di mobilitazione generale del mondo della cultura a sostegno della guerra, mobilitazione che avrebbe forse contribuito, sia pure in misura alquanto contenuta, a produrre qualche effetto innovatore e anticonservatore sul fronte interno, spostando in senso antiborghese qualche equilibrio politico dentro la società italiana. Spirito fungeva, qui più che mai, da consigliere del Principe, o meglio da ghost writer di colui che, tra gli uomini del governo fascista, era il più sensibile al dato ideologico e maggiormente convinto dell’importanza di una politica della cultura che servisse a sottrarre i giovani alla «forza della tradizione»230. Certamente, l’interpretazione della posizione di Bottai in politica estera nei termini di una tendenziale neutralità filo-occidentale ritroverebbe plausibilità nel fatto che la lettera-relazione esprime forte preoccupazione circa il possibile espansionismo germanico, inarrestabile se la guerra si concludesse rapidamente e senza un’adeguata partecipazione dell’Italia al comune sforzo bellico. Non solo: una simile impostazione in229. Dice Mussolini, secondo quanto riferisce Bottai: «È naturale. Tuona il cannone, la cultura tace. […] Quale sarà il nuovo assetto economico dell’Europa? […] Che cosa può fare la cultura in attesa?» «Poco, sembra concludere. Né mi dà corda, quando voglio fargli osservare che il silenzio della cultura in una guerra di dottrine è, per lo meno strano […]» (g. bottai, Vent’anni e un giorno: 24 luglio 1943, Garzanti, Milano 1949, pp. 190-191). 230. Espressione usata da Spirito nella sua lettera-relazione, cit. da r. de felice, Mussolini il duce. ii, cit., p. 925.

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durrebbe a ritenere questa lettera come un testo che Spirito ha sostanzialmente scritto su commissione, cioè per conto di un Bottai sempre oscillante fra lo slancio rivoluzionario e il timore nei confronti dell’espansionismo hitleriano. Spirito – come del resto Bottai – mostrava, dunque, un atteggiamento di ambivalenza nei riguardi di un nazionalsocialismo che in Germania sembrava realizzare quel progetto totalitario che in Italia non era mai fino in fondo decollato e che adesso minacciava l’altro fondamentale valore, senz’altro bottaiano – ma anche, in fondo, spiritiano –, quello della indipendenza e del «primato» della nazione italiana. In ogni caso, nel redigere le pagine di questo testo Spirito sembrava tornare a un certo entusiasmo rivoluzionario giovanile. O almeno, concedeva a se stesso e al regime l’ultima chance per costruire un perfetto regime antiliberale e anticapitalistico. A prescindere dalle preferenze originarie, una volta scoppiata la guerra, anche Bottai si gettò anima e corpo in quest’ultimo estremo tentativo. Le ragioni di questo impegno furono, ancora una volta, affidate dal gerarca fascista all’intimità del proprio diario: il silenzio della cultura in una guerra di dottrine è, per lo meno strano; e che, in ogni caso, la cultura tedesca non tace. Se parla essa sola, non avrà l’aria di parlare anche per noi? Inammissibile dimissione da parte nostra231.

La lettera relazione del luglio ’40 anticipava alcuni argomenti portanti dello scritto Guerra rivoluzionaria, uscito postumo nel 1989, dopo essere stato rinvenuto tra le carte dell’Archivio della Fondazione Spirito232. Che anche in questo caso vi fosse la supervisione bottaiana, e che fosse addirittura presente in corso di stesura, lo dimostrerebbe, inoltre, un rapido appunto a lapis vergato sul frontespizio del dattiloscritto relativo al capitolo intitolato «Il ducismo». Proprio sul titolo si appunta231. g. bottai, Vent’anni e un giorno, cit., p. 191. 232. Cfr. u. spirito, Guerra rivoluzionaria, cit.

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no le riserve di colui che – e la grafia ricorda quella di Bottai – a lapis sigla: «Carissimo, cambiare la formula, e specie il titolo»233. Come, del resto, è assai probabile che lo scritto sia stato generato quasi per germinazione a partire da un testo che a Spirito era stato originariamente richiesto da Werner von der Schulenburg, che dall’autunno del 1939 risiedeva a Roma lavorando per gli affari culturali dell’ambasciata tedesca presso l’istituto Kaiser-Wilhelm. Si trattava di un esponente degli ambienti nazionalconservatori tedeschi che dopo lo scoppio della guerra si allontanarono progressivamente dal nazismo simpatizzando, invece, come nel caso di Schulenburg, per il fascismo mussoliniano234.

233. Afus, mus, b. 24, n. 2. Come ha rilevato Rasi, «il termine “ducismo” non era affatto in uso per cui assumeva un significato anticonformista»; inoltre, Spirito accennava a un tema tabù all’interno del regime, assolutamente «riservato» a segrete discussioni tra i suoi vertici: il problema del «dopo Mussolini», della successione al «Capo» (g. rasi, La rivoluzione corporativa, cit., p. 41). Nella versione finale sottoposta a Mussolini il termine rimase, a conferma di certa ostinazione di Spirito, fedele fascista e devoto mussoliniano ma anche ideologo catafratto nelle proprie convinzioni e tentato dal mantenere sempre una vena di eccentricità e autonomia all’interno dell’ortodossia. 234. Come scrive R. De Felice [Mussolini l’alleato. i. cit., t. i (Dalla guerra «breve» alla guerra lunga), p. 381, nota 2]: «Lo Schulenburg era in rapporti con ambienti fascisti vicini a Mussolini all’incirca dal 1933, quando aveva compiuto una missione per conto di von Papen». Aveva tradotto in tedesco l’opera mussoliniana Villafranca, che era stata inscenata col titolo Cavour al teatro statale tedesco di Berlino il 9 maggio 1940. Schulenburg (1881-1958), scrittore, pubblicista e autore teatrale, è da non confondersi con un suo cugino quasi omonimo, il conte Friedrich Werner von der Schulenburg (1875-1944). Quest’ultimo, fra le altre cose, fu ambasciatore a Mosca dal 1934 al 1941 (è perciò fra i protagonisti delle operazioni diplomatiche che porteranno alla sigla del Patto Ribbentrop-Molotov del 23 agosto 1939); arrestato dopo l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944, fu arrestato e impiccato a Plötzensee il 10 novembre 1944 (Cfr. u. von hassell, Diario segreto 19381944. L’opposizione tedesca a Hitler, pref. di S. Romano, Editori Riuniti, Roma 1996, ad vocem). Anche lo Schulenburg, che ebbe contatti con Spirito, partecipò alla resistenza antihitleriana di orientamento nazionalconservatore, guidata da Ulrich von Hassel, ambasciatore tedesco a Roma dal 1932 al 1938 che era poi stato sollevato dall’incarico a seguito delle critiche mosse contro la politica estera di Hitler e Ribbentrop.

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Per conto della casa editrice Wiking Verlag di Berlino, Schulenburg scriveva a Spirito il 20 maggio 1941 chiedendogli un contributo sul tema «La necessità del Fascismo» da includere in un volume «dedicato all’Italia»235. Spirito accetta la proposta236. Consegnato nella prima metà di luglio237, lo scritto La funzione rivoluzionaria dell’Italia – questo il titolo scelto e proposto dal filosofo238 – nacque, dunque, come contributo pensato e redatto nell’ambito della collaborazione con il mondo culturale germanico239.

235. W. von der Schulenburg a U. Spirito, 20 maggio 1941 (cus 1538). Alla lettera si allegava una lista di tredici autori italiani «tra i più rappresentativi» che Schulenburg avrebbe voluto coinvolgere nella realizzazione del volume sugli argomenti da egli stesso selezionati. Questi i nomi pensati dal tedesco: Corrado Alvaro, Antonio Baldini, Massimo Bontempelli, Emilio Cecchi, Guelfo Civinini, Gaetano Fazio, Roberto Longhi, Ugo Ojetti, Alberto Savinio, Alfredo Schiaffini, Ugo Spirito, Adriano Tilgher, Gioacchino Volpe. Il volume si sarebbe dovuto intitolare Italien, stesso titolo della rivista mensile diretta da Schulenburg tra 1941 e 1942 (l’aveva già diretta dal 1927 al 1930). Non risulta che tale volume sia mai stato pubblicato. 236. Cfr. lettera di W. von der Schulenburg a U. Spirito, 28 maggio 1941 (cus 1540): «Vi ringrazio di avere cortesemente aderito alla mia iniziativa per quanto riguarda la pubblicazione del volume “Italien”». 237. «Egregio Professore, Vi ringrazio infinitamente per l’invio del Vostro interessante articolo: “La funzione rivoluzionaria dell’Italia”. Tradurrò io stesso il Vostro capitolo e spero che non ne rimarrete scontento. [….] Senz’altro potrete pubblicare il Vostro articolo su di una rivista italiana, purché sia fatto contemporaneamente al volume e con l’indicazione della fonte» (Renata La Racine, che scrive per conto del barone von der Schulenburg, a U. Spirito, 19 luglio 1941, cus 1544; La Racine tradusse in quello stesso anno il romanzo di Schulenburg, Terra sotto l’arcobaleno, trad. it. R. La Racine, pref. di A. Pavolini, Garzanti, Milano 1941). La rivista italiana cui si fa riferimento è «Primato», per cui si veda la lettera di Bottai a Spirito del 12 luglio 1941 (cus 1543). 238. « Trovo eccellente il tema da Voi scelto: “La funzione rivoluzionaria dell’Italia”» (W. von der Schulenburg a U. Spirito, 28 maggio 1941; cus 1540). 239. Anche se, in questo caso, non propriamente nazionalsocialista, dal momento che Schulenburg non era iscritto al partito nazista (Nsdap) e sarebbe di lì a poco stato un membro attivo della resistenza antihitleriana legata all’ambiente militare e, dunque, di orientamento nazionalconservatore (quella resistenza sfociata nell’attentato compiuto da Claus von Stauffenberg il 20 luglio 1944).

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Ancora una volta, Bottai supervisiona e approva: «Caro Ugo, ti rimando il tuo articolo, che a me è piaciuto molto. Vi ritrovo, e più lucido che mai, il tuo acuto sguardo»240. E non solo: era stato lui stesso a fare il nome di Spirito a Schulenburg241. In questi mesi, e anni, la collaborazione di Spirito con Bottai è strettissima e tutta all’insegna del tentativo di conferire carattere rivoluzionario all’impegno bellico italiano attraverso l’antico sogno – che era stato, in forme diverse, sia della corrente bottiana sia di quella gentiliana – di un’organizzazione del mondo della cultura242. D’altronde, la persistenza in Spirito di una certa «fede» fascista fin quasi al crollo del regime si spiega anche con il fatto che Bottai mantenne il dicastero dell’Educazione Nazionale fino al febbraio del 1943. 240. cus 1543. Renzo De Felice ha scritto di un libro «che Bottai aveva visto nascere, tenuto a battesimo e poi sottoposto a Mussolini». E inoltre: «un libro importante, tanto per la biografia intellettuale del suo autore, quanto per cogliere alcuni dei problemi più dibattuti negli anni della guerra tra gli intellettuali fascisti che sentivano la necessità di dare al conflitto un carattere marcatamente ideologico e di precisare gli obiettivi “rivoluzionari” da raggiungere sia all’interno sia nel consorzio internazionale» (r. de felice, Mussolini l’alleato. i, cit., t. i, p. 360). 241. «A suo tempo, si potranno prendere accordi con von der Schulenburg, cui feci io il tuo nome, per pubblicare il tuo scritto contemporaneamente su “Primato”. A proposito del quale voglio dirti quanto ho gradito il tuo recente articolo sul nuovo romanticismo. Vogliamo vederci? Ti attendo mercoledì alle ore 9,45» (cus 1543). 242. La collaborazione, fra le altre cose, riguarda anche una consulenza su uno schema di circolare relativa ai «principi e metodi» dell’insegnamento universitario, peraltro preparato sulla base del parere espresso dal Comitato per l’Alta Cultura voluto da Bottai e di cui faceva parte lo stesso Spirito. Cfr. lettera di Bottai a U. Spirito, 30 agosto 1941 (cus 1548). Si vedano anche i vari dattiloscritti spiritiani elaborati sul tema, come documento dell’intensa e fattiva consulenza fornita da Spirito a Bottai e al regime negli anni della guerra (Afus, mus, b. 24, n. 4, due testi del 9 dicembre 1940 e uno senza data, ma che è la risposta allo schema di circolare sopra menzionato, e dunque risale plausibilmente al settembre del 1941). Nel tardo ottobre 1941 Bottai chiederà a Spirito per iscritto – con lettera «ufficiale» su carta intestata – anche una ripresa di collaborazione alla rivista «Critica fascista» (G. Bottai a U. Spirito, 20 ottobre 1941, cus 1561). L’esito sarà negativo: nessun articolo a firma di Spirito uscirà su quella rivista, mentre un secondo articolo comparirà nel gennaio del 1943 sull’altra rivista bottaiana, «Primato» (u. spirito, L’esistenzialismo in Italia, iv, n. 2, 15 gennaio 1943, p. 26).

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Consegnato il saggio a Mussolini, questi lo aveva letto nel novembre di quell’anno trovandolo, secondo quanto riferito dallo stesso Bottai nel proprio diario in data 29 novembre 1941, un testo «intelligente, ma contraddittorio», in quanto «fondato su una distinzione “borghesia-proletariato”, che sul terreno economico si rivela insussistente, per l’incoercibile spinta del proletariato a farsi borghesia» e, quindi, classe sociale lontana da quelle aspettative rivoluzionarie che Spirito le attribuiva243. Inoltre, il duce, sempre secondo il resoconto di Bottai, riteneva ormai impossibile per l’Italia assumere un ruolo egemone nell’alleanza con la Germania, come pure affiancarla in un rapporto paritetico. Al di là dell’influenza che la guerra può avere avuto sulla politica del regime, ciò che qui interessa è attestare come lo scoppio del conflitto non abbia trovato Spirito latitante e oramai distaccato rispetto alle vicende che investivano l’Italia e il fascismo. Non solo: egli continua a credere nelle possibilità rivoluzionarie del corporativismo e se è vero che per lui, come scrive nelle Memorie del 1977, «il fascismo è morto quando è morto il suo compito innovatore»244, allora il fascismo spiritiano era sempre vivo negli anni tra il 1940 e il 1942. Lo testimoniano pure due scritti di particolare importanza, più che per l’originalità dei contenuti proprio per il loro riprendere e approfondire idee già espresse intorno agli anni 1934-35. Ma, per procedere con ordine, torniamo un attimo indietro e prendiamo le mosse dallo scritto Guerra rivoluzionaria. Come ha osservato Alastair Hamilton, alla vigilia della seconda guerra mondiale e anche dopo, quantomeno fino al 22 giugno del 1941, data dell’attacco tedesco all’Urss, si prospettavano come possibili tre diverse combinazioni di alleanze in Europa245. La prima, quella che poi prevalse con la rottura del patto nazi-sovietico, prevedeva l’alleanza tra le democrazie eu243. g. bottai, Diario 1935-1944, cit., p. 290. 244. u. spirito, Memorie di un incosciente, cit., p. 61. 245. Cfr. a. hamilton, L’illusione fascista, cit., pp. 4-5.

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ropee e la Russia staliniana contro gli Stati fascisti, in nome della lotta al nazifascismo, recuperando, in parte, l’esperienza dei fronti popolari. La seconda ipotesi vedeva un’alleanza anticomunista tra gli Stati fascisti e le democrazie per combattere e sconfiggere l’Unione Sovietica. La terza ipotesi, definita un’alleanza «antidemocratica», contemplava fascismo e bolscevismo uniti contro le liberaldemocrazie capitalistiche. Su combinazioni del genere si divisero, soprattutto dopo lo scoppio del conflitto, gran parte degli intellettuali europei, ed è intorno alla terza ipotesi che si concentrarono quelli che Hamilton chiama gli «antidemocratici», «ribelli il cui principale nemico era lo status quo, il quieto, pacifico, soddisfatto e un po’ ipocrita stato liberale»246. A parte la vaghezza e genericità di simili denominazioni e definizioni, è possibile collocare Ugo Spirito in questa categoria di intellettuali, con i quali condivideva senz’altro l’anelito rivoluzionario e l’insofferenza per l’ordinamento socio-economico, ma anche etico, di stampo liberale. Nello scritto del 1941 il filosofo non si dichiara favorevole a una alleanza tra potenze fasciste e Russia comunista, la cui rivoluzione si è tradotta in una borghesizzazione del proletariato fermandosi, così, a un livello esclusivamente materialistico dominato dall’«individualismo edonistico». Indiscutibile è il tono fortemente antiborghese e antiliberale dell’intero saggio, incentrato sulla distinzione tra borghesia e proletariato, quella stessa distinzione che non convinse Mussolini. Spirito è invece sicuro di aver trovato il soggetto della sua rivoluzione e, quasi echeggiando il Manifesto di Marx ed Engels, tratteggia un percorso storico destinato a sfociare nella vittoria di una rivoluzione internazionale in cui le nuove esigenze proletarie trionferanno, integrandosi, però, in una perfetta sintesi con quanto di valido resta delle vecchie esigenze borghesi. Il filosofo italiano aveva, infatti, ripetutamente sottolineato sin dai primi anni Trenta la necessità di «fascistizzare» o «corporativiz246. Ivi, p. 5.

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zare» il mondo, perché la rivoluzione corporativa sarà mondiale o non sarà, o quantomeno mai del tutto247. A sostenere tale tesi lo spingevano sia i fenomeni di crescente unificazione dei mercati che egli già vedeva in stato avanzato, sia la vocazione universalistica del suo storicismo idealistico. Una trasformazione radicale dell’assetto economico e dei suoi criteri di gestione e produzione non poteva resistere quale sistema autarchico circondato da imprese e mercati retti da logiche capitalistiche. Non perché inferiore, ma perché il corporativismo si costruisce sulla base della collaborazione e dell’«organicità programmatica» che necessita di pianificazioni che dal livello nazionale non possono non passare a quello internazionale, affinché le previsioni siano il più possibile confermate, poi, dai fatti. Sostenuto da un tono enfatico e a tratti retorico, alimentato forse dall’occasione per la quale è stato scritto, Guerra rivoluzionaria vuole esortare politici e intellettuali a far sì che il binomio del titolo, guerra e rivoluzione, si realizzi veramente imprimendo una svolta decisiva a un momento storico senz’altro epocale, ancora sospeso «fra il mondo che crolla e quello che sorge»248. L’Italia, sia come popolo che come élite dirigente, deve acquisire la consapevolezza di avere questa missione da svolgere, ponendo già durante il conflitto le premesse per una pace duratura all’insegna del nuovo. Fortemente critico nei confronti di molti intellettuali italiani a cui rimprovera una cieca «passione misoneistica»249, Spirito incentra il suo scritto 247. Cfr., a titolo d’esempio, u. spirito, Liberismo e protezionismo (1931), in id., Il corporativismo, cit., p. 248, dove leggiamo: «La vera vittoria del fascismo o del corporativismo si avvererà il giorno in cui avremo fascistizzato o corporativizzato tutto il mondo». Cfr., inoltre, id., Il corporativismo come liberalismo assoluto e socialismo assoluto (1932), in id., Il corporativismo, cit., p. 380; id., La crisi del capitalismo e il sistema corporativo (1933), in id., Il corporativismo, cit., p. 402, dove è scritto che «la rivoluzione corporativa se vuole essere integrale non può accontentarsi della realizzazione in un solo paese, deve essere internazionale». 248. u. spirito, Guerra rivoluzionaria, cit., p. 70. 249. Ivi, p. 104.

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sull’antagonismo tra conservatorismo e rivoluzionarismo, dal cui confliggere è scaturita, di fatto, la nuova guerra. Guerra di cui risulta evidente il carattere ideologico, assolutamente inedito per la storia bellica del continente europeo. Sono in gioco due modelli di regime politico e sociale: la democrazia liberale e il totalitarismo. L’entrata dell’Urss nello schieramento democratico intorbida un po’ le acque e rende non più così netta la contrapposizione ideologica. Ma sappiamo che per Spirito la Russia bolscevica ha tare che risalgono alla sua nascita rivoluzionaria su di un terreno sostanzialmente preliberale. Cosicché una mentalità borghese in crescita ha contaminato le esigenze socialistiche della classe operaia e si è, perciò, determinato l’«incontro non omogeneo di un’ideologia intellettualistica con una coscienza proletaria ancora immatura»250. Quella ideologica è una delle due facce del conflitto in atto, essendo l’altra legata al tradizionale motivo della politica di potenza e della volontà di affermazione dei singoli popoli e, soprattutto, dei loro governi. È ovviamente lo scontro ideologico quello che può giustificare agli occhi di Spirito una nuova guerra. Non solo la giustifica ma ne spiega le cause, connesse alle trasformazioni in atto nelle società europee a partire dall’ultimo scorcio dell’Ottocento. Si tratta, in particolare, del progressivo ingresso delle masse lavoratrici nella scena politica per la quale queste ultime hanno cominciato a rivendicare un posto e un ruolo non più subordinati. Inizialmente queste rivendicazioni non sono andate oltre la pretesa di vedere equiparate le condizioni materiali di borghesia e proletariato. Succube della stessa mentalità edonistica della prima, la seconda ha chiesto solo «il diritto degli stessi godimenti» e, in nome di un ideale puramente quantitativo, ha confuso «la misura della felicità con quella del possesso»251. Ma questo è ciò che è avvenuto nelle democrazie capitalistiche, Inghilterra, Stati Uniti e Francia, e, appunto, nella Russia sovietica. 250. Ivi, p. 102. 251. Ivi, pp. 129 e 131.

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Con le rivoluzioni nazionali fasciste, a partire da quella italiana dell’ottobre 1922, altri Paesi hanno sperimentato le possibilità rivoluzionarie di un proletariato che non si accontenta di estendere la civiltà borghese all’intera popolazione ma «avverte l’esigenza di un mondo diverso e migliore, più libero e più critico, aperto a esperienze e a valori che la borghesia non conosce»252. Parliamo di possibilità rivoluzionarie, perché Spirito non si nasconde le difficoltà e le involuzioni che sono state e continuano a essere in agguato lungo il cammino dell’Italia fascista. È nella storia e nella natura stessa dell’ideologia fascista, conservatrice e rivoluzionaria, antibolscevica e socialisteggiante, che si trova quel carattere ambivalente e compromissorio che frena l’azione trasformatrice del regime mussoliniano. Come abbiamo visto, Spirito ritiene abbondantemente superata la fase conservatrice e antibolscevica sin dalla fine degli anni Venti. Egli spinge perché si esplicitino e potenzino gli altri aspetti del fascismo, e in queste pagine del 1941 dà l’impressione di credere ancora alla rivoluzione fascista, ritenuta pienamente operativa, ma all’ottimismo aggiunge una certa dose di realismo che ci convince ulteriormente della persistenza della sua fede fascista. Nel capitolo dedicato al «ducismo» è vero che egli fa, come scrive Rasi, di un unicum, e cioè il duce, un «genere», ovvero un fenomeno politico-istituzionale che caratterizza tutti i regimi totalitari e persino le democrazie in crisi. In uno Stato in cui la parola «Duce» si scriveva rigorosamente con l’iniziale maiuscola l’uso del termine ducismo ha senz’altro un «significato anticonformista»253. È, però, altrettanto indubbio che Spirito, contro le critiche di chi vi vede la conferma del carattere puramente dittatoriale e personalistico del regime fascista, scorge nel ducismo il sintomo di una crisi profonda, il passaggio necessario di un lungo travaglio che porterà alla nascita di un si252. Ivi, p. 131. 253. Ivi, p. 41.

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stema politico rispondente alle esigenze della nuova «civiltà di masse»254. Così, a giudizio del filosofo, la concentrazione del potere nelle mani di un capo carismatico non è la causa bensì l’effetto della «fine della possibilità di discussione»255. Il luogo dove viene esercitato quello che è il «più sacro, forse, dei diritti di libertà», appunto, la libertà di discussione, è il parlamento, l’istituto costitutivo del regime liberale ed è proprio il parlamento a essere entrato in una crisi irreversibile. Il motivo di questa crisi risiede essenzialmente nella natura classista del concetto liberale di libertà. Libertà come privilegio, lusso della borghesia, cioè, sostanzialmente, di un gruppo sociale minoritario che prospera sulle fatiche e le miserie della massa proletaria. Il Leitmotiv del saggio spiritiano del 1941 torna quasi con ossessione e ricorda gli slogan del discorso con il quale Mussolini aveva annunciato un anno prima l’entrata in guerra dell’Italia: lotta contro le «demoplutocrazie» e riscatto dei paesi giovani e poveri contro quelli vecchi e ricchi. Secondo Spirito, dunque, i diritti borghesi e soprattutto la libertà di discussione funzionano e assicurano stabilità e giustizia fin quando vi è omogeneità di interessi, ovvero identica appartenenza di classe, tra coloro che discutono e decidono all’interno degli organi costituzionali. Una simile concezione della libertà non può, dunque, che entrare in crisi nel momento in cui il movimento operaio si organizza e manda i suoi primi rappresentanti in parlamento. Infatti, scrive il filosofo, col comunismo si giunge ai margini della borghesia o molte volte si entra addirittura nell’ambito del proletariato: gli interessi diventano allora sempre più antitetici e il problema politico è messo a nudo per la prima volta in tutta la sua crudezza256.

254. I capitoli v e vi di Guerra rivoluzionaria si intitolano rispettivamente «Il ducismo» e «Civiltà di masse». 255. Ivi, p. 118. 256. Ivi, p. 119.

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In altri termini, il conflitto di classe si rivela inconciliabile mediante il tradizionale confronto parlamentare in cui gli interessi rappresentati dai diversi partiti risultano sempre, più o meno rapidamente, componibili. Non abbiamo a che fare, scrive Spirito, con la tranquilla dialettica fra whigs e tories o fra democratici e repubblicani, non si tratta cioè di un più e un meno, di un po’ più a destra o un po’ più a sinistra, [...] ma si tratta invece di due mondi affatto eterogenei e con preparazione culturale talmente diversa da rendere estremamente difficile, non che l’accordo, la stessa presa di contatto257.

Il divario sociale e culturale tra borghesia e proletariato cresce, e se la prima si mostra in declino, il secondo «non ha la preparazione politica e soprattutto tecnica» per subentrare alla guida della cosa pubblica258. Il risultato è la caduta nell’anarcoidismo, dice Spirito, ed è qui che nasce storicamente l’esigenza del leader di massa. Il fenomeno del ducismo viene, pertanto, interpretato come risposta al processo di disgregazione della società liberale conseguente alla rottura del timone governo-parlamento. Con ciò, la figura del duce è chiamata a svolgere una «funzione arbitrale», di elemento sopra le parti capace di ristabilire l’ordine e le condizioni per avviare un processo di trasformazione che necessita dell’opera collettiva del popolo. Questo perché lo Stato totalitario che Spirito ha in mente è uno Stato in cui «l’organismo sociale assume il sopravvento sui fini individualistici della minoranza borghese», dove «al principio dell’equilibrio casuale di forze arbitrarie, succede l’altro di costruzione sistematica del bene comune»259. Oltre a questo compito di ricomposizione di un tessuto sociale lacerato dal conflitto di classe, il duce è chiamato pure a svolgere una «funzione istituzionale» quale «centro coordina257. Ibidem. 258. Ivi, p. 120. 259. Ivi, p. 121.

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tore del lavoro nazionale»260. Si tratta, anche in questo caso, di un intervento suppletivo in una fase di transizione dalla società liberale alla società organica e dallo Stato borghese allo Stato del lavoro. Come sette anni prima, ancora nel 1941 Spirito punta sul fascismo e sulla rivoluzione, ribadendo i termini in cui può e deve realizzarsi: «uno stato coincidente con la società produttrice»261. Ma i tempi di attesa si sono prolungati oltre il previsto e ora che la guerra ha reso più pressante l’urgenza di «far vivere l’organismo anche prima che i suoi istituti siano pronti e in efficienza, occorre anticipare la struttura organica con una forza organizzatrice che ne assuma il compito»262. Dunque, il problema che stava a monte di tutto il modello teorico elaborato da Spirito, soprattutto tra il 1932 e il 1935, e cioè l’individuazione di chi abbia il compito di avviare e gestire la trasformazione in senso corporativo di Stato e società, viene risolto nel 1941 nel modo più personalistico e più autoritario. È, di fatto, un passo indietro rispetto alle posizioni eterodosse di chi sosteneva una rivoluzione prevalentemente dal basso, incentrata sull’azienda corporativizzata. Ma è probabilmente una posizione più realistica quella che il filosofo fa propria e che segue, forse, le delusioni per le mancate o tardive realizzazioni legislative e per lo scarso impegno rivoluzionario della burocrazia fascista. Quest’ultima si è dimostrata ben poco permeabile alle istanze ideologiche corporativistiche, e probabilmente non solo essa, se è vero che Spirito ritiene che ci sia ancora da «sviluppare tutta una nuova cultura ideologica e tecnica e... [da] educare a nuove forme civili e politiche»263. Va detto, però, che il filosofo non dichiara di avere trovato la soluzione ideale, ma solo quella che i tempi e le originarie deficienze, dottrinarie e organizzative, del movimento fa260. Ivi, p. 123. 261. Ibidem. 262. Ibidem. 263. Ivi, p. 124.

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scista consentivano. Non si nasconde, infatti, «le conseguenze negative e i limiti insuperabili» di un processo costruttivo che parte e si muove esclusivamente dall’alto. Parzialità, inefficienza e scarso collegamento sono rischi quasi inevitabili. Dunque, lo stesso Spirito, pur senza abbandonare un certo ottimismo di fondo, si mostra sostanzialmente rassegnato a puntare sulle qualità superiori del singolo, secondo un’impostazione filosofica, ancor prima che politica, che non gli si addice. L’unica cosa certa è che «lo stato totalitario comincia a vivere senza che il centro sia perfettamente adeguato alla periferia»264. Queste considerazioni di un realismo un po’ amaro non bastano, comunque, a spegnere le speranze rivoluzionarie del filosofo e a infrangere il suo sogno di dar vita a quella che abbiamo chiamato «democrazia tecnocratica». Ne sono una dimostrazione due articoli della primavera del 1942, pubblicati, non a caso, su due riviste specializzate nelle questioni scolastiche. Spirito, infatti, si dimostra ancora convinto della possibilità di una radicale trasformazione delle strutture statali dal basso, partendo dalla formazione professionale di quella che dovrebbe costituire la classe dirigente di un futuro prossimo venturo. Da qui l’importanza della scuola, definita come il «campo in cui la tecnica si forma, si controlla e si valuta per l’immissione dei singoli nelle diverse gerarchie sociali»265. La tecnica è per Spirito sinonimo di capacità e competenza, ed è in qualche modo l’espressione del valore della personalità che si è formata attraverso studi seri e approfonditi, nonché attraverso esperienze varie e intense di vita vissuta. Ed è dunque consequenziale l’attenzione che egli dedica all’ordinamento scolastico, per il quale avanza, persino, alcune concrete proposte di riforma. Nell’articolo Scuola di aristocrazie si caldeggia l’ipotesi della creazione di una «scuola di eccezione», ricavabile da un liceo classico modificato attraverso alcune integrazioni, come 264. Ivi, p. 123. 265. u. spirito, La tecnica strumento della rivoluzione, in «Scuola fascista», i, n. 6, maggio 1942, p. 2.

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l’insegnamento di tre lingue straniere, il tutorato e l’introduzione di viaggi-studio all’estero da effettuarsi durante le vacanze estive266. La selezione degli studenti avrebbe luogo periodicamente e non si limiterebbe al momento dell’ammissione al primo anno, ma continuerebbe ogni anno per cui chi non si dimostrasse più all’altezza «retrocederebbe» nella scuola comune, mentre i più meritevoli di quest’ultima potrebbero tranquillamente essere accolti nella scuola speciale. Ancora una volta la gerarchia non esclude la mobilità interna e il vertice della piramide non solo necessita della base, ma non è interdetto a nessuno, almeno in linea teorica. Ciò che si precisa in modo netto nei due articoli del 1942 è la funzione svolta dalla struttura gerarchica. Appurato che «il carattere specifico dell’attuale rivoluzione politica è dato dal passaggio dalla società borghese a quella di masse», il compito del corporativismo fascista è quello di articolare una massa altrimenti indifferenziata267. La scuola è chiamata a fornire il criterio in base al quale si costruisce questa struttura gerarchica. Questo criterio è la tecnica ovvero le diverse, singole competenze. L’obiettivo dell’istituzione scolastica, in cui Spirito riversa gran parte delle proprie residue speranze, è riuscire a dare «a ciascuno la coscienza del proprio posto sociale come diritto e come dovere»268. D’altronde, sembra pensare Spirito, il compito può essere meno difficile del previsto e rappresentare una sorta di scorciatoia verso la realizzazione del «comunismo gerarchico», rispetto all’ufficiale iter politico-istituzionale. Senz’altro, è una insostituibile strada parallela che va percorsa, perché è quella che può consentire la partecipazione dal basso all’edificazione del nuovo Stato e rende operativa la periferia. 266. Cfr. u. spirito, Scuola di aristocrazie, in «Tempo di scuola», ii, n. 6, aprile 1942, pp. 387-392. 267. u. spirito, La tecnica strumento della rivoluzione, in «Scuola fascista», i, n. 6, maggio 1942, p. 2. 268. Ibidem.

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Si tratta, in definitiva, di assecondare le richieste di una massa di persone, le quali chiedono due cose: una cosa nuova, e cioè l’eguaglianza sostanziale delle condizioni di partenza, e una vecchia o tradizionale, vale a dire il riconoscimento dei meriti individuali, «sollecitando che i migliori si differenzino lungo una scala di valori, in cui la personalità di ognuno abbia modo di potenziarsi al massimo»269. Identificando capitale e lavoro, la tecnica diventa il nuovo criterio selettivo e organizzativo, consentendo, così, il passaggio da un regime fondato sulla collaborazione a uno basato sulla gerarchia, il cui significato rivoluzionario risiede nel «suo carattere essenzialmente anticlassista»270. Tutto sommato, quindi, l’ottimismo rivoluzionario del filosofo resiste anche alle difficoltà poste dalla guerra e dall’alleanza con la Germania nazista. Quest’ultima, in virtù della propria supremazia in campo militare, rischia di imporre al conflitto in corso un contenuto ideologico che ha poco di rivoluzionario nel senso spiritiano del termine. La politica tedesca è sempre tentata dalle logiche particolaristiche dell’imperialismo e del pangermanesimo, mentre l’Italia ha il potere e il dovere di affermare con la guerra un superiore principio di valore universale, tale da rappresentare un nuovo modello di civiltà al di là dei confini geografici e culturali. Il conflitto deve essere lo strumento mediante il quale diffondere «la parola del domani» che non è altro che «la parola del corporativismo»271. Così si esprime Spirito in occasione del i Convegno dei gruppi scientifici dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista, che si svolge a Roma dal 23 al 26 novembre del 1942 ed è dedicato a due temi, «L’idea di Europa» 269. Ibidem. 270. Ibidem. 271. u. spirito, intervento al i Convegno dei gruppi scientifici dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista dedicato al tema «L’idea di Europa», svoltosi a Roma il 23-24 novembre 1942, in «Annali della Fondazione Ugo Spirito 1994», vi, 1995, p. 186.

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e «Il piano economico». Il secondo tema verrà ulteriormente affrontato in una seconda sessione che si terrà sempre a Roma nella primavera dell’anno successivo, e precisamente il 5 e 6 aprile. Spirito interviene a tutte e due le sessioni e su entrambi gli argomenti trattati. Si tratta delle ultime considerazioni politiche pubbliche che il filosofo esprime sotto il fascismo e da fascista. Il 25 luglio 1943 viene, infatti, arrestato Mussolini e così cade il suo regime. Spirito non prende poi parte all’esperienza della Repubblica sociale italiana, e per un certo periodo non si pronuncerà su corporativismo e fascismo. Ma non saranno le ultime in assoluto, come vedremo. Gli ultimi due interventi, quello del 25 novembre 1942 e quello del 6 aprile 1943, relativi al «piano economico», rivestono un particolare interesse perché ci mostrano come Spirito abbia preso atto di alcune lacune presenti nel suo modello teorico. Commentando la relazione dello studioso di statistica Paolo Fortunati, si dichiara contento di aver ascoltato tesi e ragionamenti che lui stesso aveva sostenuto circa un decennio prima: corporazione come «sprivatizzazione delle realtà economiche», come alternativa integrale al sindacato e tessuto connettivo di una società pianificata272. Ma subito dopo ammette che quelle tesi sono superate, e non perché ormai non più valide o inattuabili, ma perché l’economia programmatica è per lui realtà ormai certa, ancora incompleta ma senz’altro in cammino, tanto che «nessuna forza al mondo potrà fermarla»273. La rivoluzione è, dunque, in atto; però, sostiene il filosofo, occorre porsi un interrogativo che era stato eluso in passato e che ancora oggi necessita di una risposta. «Un piano realizzato al cento per cento sapete voi a che cosa condurrà?», chiede Spirito ai convegnisti presenti il 25 novembre 1942, esprimendo un dubbio che si è insinuato nelle sue certezze rivoluzionarie. È lui stesso ad ammettere che, dieci anni prima, simili do272. g. melis (a cura e con introduzione di), Fascismo e pianificazione. Il convegno sul piano economico (1942-1943), Fondazione Ugo Spirito, Roma 1997, p. 99. 273. Ivi, p. 100.

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mande e problemi erano al margine delle sue preoccupazioni scientifiche, «perché la passione rivoluzionaria era più forte e il bisogno di guardare fino al fondo questo problema non era così vivo»274. Il problema in questione è capire se e come sia possibile tutelare e promuovere la personalità e, in ultima istanza, la libertà del singolo all’interno di quella «logica fatale» che è la logica del piano. Tale problema va affrontato e, possibilmente, risolto, perché solo risolvendolo si potrà dire in che cosa la concezione corporativa si distingue da quella comunista. Esistono due modi di intendere la libertà: anzitutto, la libertà come eguaglianza, e da questo punto di vista il corporativismo dovrebbe assicurarne l’attuazione mediante l’attribuzione garantita di identiche posizioni socio-economiche di partenza; poi, c’è la libertà come «diritto alla contemplazione», possibilità riconosciuta a tutti di esprimere a pieno la propria personalità, la propria originalità di individuo. Quest’ultimo tipo di libertà è ciò che l’economia programmatica e lo stesso assetto corporativo teorizzato da Spirito mettono a repentaglio. E qui lo stesso filosofo è molto onesto nel riconoscerlo, come onesto è nel sostenere che già in passato si era posto il problema, magari tenendolo ai margini e non assegnando a esso quella priorità che meritava ma che forse, aggiungiamo noi, non veniva nemmeno riconosciuta da chi, come Spirito nella prima metà degli anni Trenta, era un fascista interamente preso dal suo entusiasmo rivoluzionario e pienamente fiducioso nelle intenzioni e capacità del regime mussoliniano. Comunque, anche se in modo marginale e semiconsapevole, è vero che certe soluzioni prospettate tra il 1932 e il 1935 esprimevano l’esigenza di ritagliare spazi all’autonomia individuale, come l’insistere, afferma il filosofo sulla fluidità del programma; sulla concorrenza di tutti nel programma; sull’abolizione perentoria della burocrazia, burocratizzando tutti i pro274. Ivi, p. 101.

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duttori, sulla negazione dello Stato trascendente l’individuo; soprattutto su un concetto: la contrapposizione di un regime gerarchico, come tramezzante il regime aristocratico e il regime democratico cioè un regime in cui la personalità, l’individualità potesse via via affermarsi nell’ambito di una eguaglianza sostanziale di posizioni iniziali275.

Il punto debole di quanto Spirito dice nel 1942 sta, però, probabilmente, nel modo di concepire l’autonomia individuale. Il singolo non è libero in quanto sovrano indiscusso delle proprie scelte, fra cui c’è pure quella di non operare nel gruppo come componente attivo ed entusiasta del ruolo che occupa all’interno della totalità sociale che lo comprende. L’autonomia non è certo autodeterminazione nel pensiero di Ugo Spirito. Anche se il filosofo ha la consapevolezza di quanto la macchina del sistema corporativo pianificato comporti una sempre più soffocante «cronometrizzazione della vita umana», non si ammette la possibilità di stare fuori dal sistema, rifiutando il ruolo di ingranaggio. Il «vagabondo», di cui si parla nell’intervento come di una figura romantica tollerata dai regimi liberali, non è eticamente accettabile né razionalmente ammissibile. Se si ha da salvare l’originalità e gli otia dei singoli, conclude Spirito, lo si deve fare elaborando un programma economico che consenta di «inserire l’esigenza dell’otium nel lavoro» in modo che «la libertà sia costitutiva dello stesso lavoro umano»276. Si tratta di un punto che Spirito mantiene fermo anche nel dopoguerra e che costituisce un topos del pensiero corporativo: la convinzione che l’uomo «reale», cioè l’uomo preso nella totalità dei suoi aspetti e della sue manifestazioni, sia il produttore, ovvero colui che lavora, dando al concetto di lavoro il significato più ampio di attività trasformatrice della materia esterna come dello spirito interno all’uomo medesimo. «Adulto è l’uomo che si inserisce nella società conferendo a essa il frutto del suo lavo275. Ivi, p. 102. 276. Ivi, p. 113.

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ro», scriverà Spirito circa dieci anni dopo, affermando che adulto, cioè uomo maturo e tendenzialmente completo, è il produttore277. D’altronde, la soppressione della distinzione tra pubblico e privato comporta l’eliminazione della distinzione, all’interno della giornata di un uomo, tra vita lavorativa e tempo libero. La radice dell’utopia totalitaria spiritiana risiede proprio nella concezione del rapporto tra vita privata e vita pubblica inteso come una divisione insanabile, una ferita aperta nell’uomo moderno e contemporaneo, sempre più lacerato da un sistema sociale ed economico che mina l’armonia del singolo con se stesso e con gli altri. Come ha osservato Salvatore Valitutti confrontandosi con lo stesso Spirito nei primi anni Settanta, il corporativismo sottintende una «specie di armonia naturale che fu teorizzata dall’originario liberalismo economico, trasferendola dagli individui ai gruppi»278. Una convivenza armoniosa: ciò che è astratto e fasullo se è asserito per i singoli diventa praticabile e autentico se riferito ai gruppi, addirittura all’intera collettività sociale. Ciò che il filosofo fascista cerca nel 1942-43 e, senza più fascismo ma in nome delle esigenze poste dall’unificazione scientifico-tecnologica del mondo, continuerà a cercare pure nel dopoguerra è «un piano che concili la necessità dell’organizzazione con la libertà dell’individuo»279. In conclusione, è evidente che la figura del produttore, etica ancor prima che socio-economica, rappresenta l’asse portante della nuova società organica e postborghese che Spirito auspica sia prima che durante che dopo la Seconda guerra 277. u. spirito, Uomo e lavoro, in «Il Montaigne», n. 1, gennaio 1953, p. 6. 278. s. valitutti, Principio parlamentare e principio corporativo, in «Nuovi studi politici», i, n. 2, marzo-aprile 1971, p. 30. Poi ripubblicato in u. spirito, s. valitutti, a. negri, Corporativismo e parlamentarismo, Cadmo, Roma 1976, p. 44. Tutti gli scritti contenuti nel volume erano già apparsi in «Nuovi studi politici» (nn. 1, 2, 4, 5-6, 1971), rivista diretta dallo stesso Valitutti. 279. Così si esprime il filosofo nella seconda sessione del convegno sul «piano economico» (6 aprile 1943); cfr. g. melis, op. cit., p. 259.

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mondiale. L’opera educativa assume, perciò, un’importanza fondamentale e l’attenzione che il filosofo mostrerà sempre nei confronti della scuola lo testimonia chiaramente. La dimensione del produttore è vista come quella che riassume tutte le espressioni dell’essere uomo; l’alternativa negativa è, invece, data dalla figura illuministica del puro cittadino, considerato come l’appendice politica asportata da un soggetto che ha tanti altri interessi e tante altre esigenze che lo definiscono. Probabilmente è vero il contrario, specie se consideriamo l’accezione più ampia di cui gode il termine di cittadino nelle società democratiche contemporanee, almeno in linea di principio: l’uomo socio-professionale rappresenta solo una parte di ciò che è, invece, un cittadino titolare ormai di diritti (e doveri) civili, politici, sociali e morali.

brevi considerazioni finali sul fascismo spiritiano Nel corso di queste pagine abbiamo, dunque, tentato di ricostruire il pensiero politico fascista di Ugo Spirito, esaminandone l’origine e lo sviluppo lungo i vent’anni del regime mussoliniano e individuandone quattro diverse fasi. C’è una prima fase che possiamo definire complessivamente «apologetica», nel senso che non porta alcun contributo personale alla dottrina ufficiale del regime che si va progressivamente costituendo fra il 1924 e il 1929. Nel solco del filofascismo espresso dall’idealismo gentiliano, Spirito inizialmente si limita a celebrare l’avvento al potere del movimento di Mussolini. Anzi, passando in rassegna gli elementi fondanti della posizione politica che il giovane filosofo manifesta intorno agli anni 1924-1926, possiamo addirittura concludere che il primo fascismo spiritiano è nettamente mussoliniano. Il suo fascismo, cioè, rispecchia fedelmente i precetti che il duce va enunciando in quegli stessi anni sia nei discorsi pubblici che negli scritti.

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Abbiamo visto l’elogio dell’intransigenza, cardine della «psicologia» fascista. Significativa è pure la nozione di libertà che Spirito fa propria negli anni Venti. È Mussolini ad affermare nel marzo del 1924, in occasione del v anniversario della fondazione dei Fasci di combattimento, che «la libertà non è un diritto: è un dovere. Non è un’elargizione: è una conquista; non è un’eguaglianza: è un privilegio»280. La concordanza con quanto sostenuto da Spirito in quegli stessi mesi nell’articolo Il concetto di libertà e i diritti dell’opposizione è lampante. La stessa celebre formula mussoliniana del «tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato»281 trova un’eco in molti passaggi di quell’articolo spiritiano, laddove si afferma che «il cittadino non è nulla se non nello Stato» e che «al di sopra o al di fuori dello Stato non c’è nessuna realtà»282. Dalla lettura dei testi e dalla loro analisi, l’impressione che si ricava è che la primissima fase dell’adesione di Spirito al fascismo sia all’insegna di una sostanziale uniformità alla dottrina ufficiale, o meglio: al mussolinismo. La seconda fase è caratterizzata dalla ricerca dei contenuti con cui dare sostanza politica e sociale alla rivoluzione fascista. La data di inizio è il 1927, cioè l’anno di nascita della rivista «Nuovi studi di diritto, economia e politica», anche se già l’uscita nel 1926 del saggio su La scienza dell’economia segnala l’intenzione spiritiana di dare traduzione politico-istituzionale al principio dell’identificazione tra Stato e individuo. Il confronto con le scienze sociali produce modifiche rilevanti nella teoria politica del giovane filosofo. La terza fase matura nei primi anni Trenta e sboccia nel 1932 con la relazione di Ferrara e con articoli e saggi come Eco280. b. mussolini, Opera omnia, cit., vol. xx, p. 214. 281. La formula viene enunciata nel discorso al Teatro della Scala di Milano, in occasione del iii anniversario della marcia su Roma. Cfr. b. mussolini, Opera omnia, cit., vol. xxi, p. 425. 282. u. spirito, Il concetto di libertà e i diritti dell’opposizione, in «Critica fascista», ii, n. 12, 15 giugno 1924, p. 503.

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nomia programmatica e Il corporativismo come liberalismo assoluto e socialismo assoluto283. Questa fase può essere definita «critica», in quanto caratterizzata da un contributo personale e oggettivamente originale all’obiettivo ambizioso della costruzione di una nuova società, storicamente ulteriore rispetto sia a quella borghese-capitalistica sia a quella bolscevica. Una fase critica che nasce dall’accentuazione delle tematiche anticapitalistiche e antiliberali, portando il fascismo spiritiano a concentrarsi sulla rivoluzione corporativa e facendo attirare sul filosofo sospetti di eresia e alcune ostilità in alto loco284. La quarta fase, che abbraccia gli anni che vanno dal 1936 al 1943, segna un certo approfondimento della posizione critica che investe i presupposti filosofici della stessa teoria corporativa. È una fase di relativo disincanto che non produce, però, un distacco integrale e definitivo. Il momento di maggiore incertezza e, per così dire, disaffezione nei confronti del 283. Apparsi rispettivamente nei numeri di giugno-ottobre e di novembre-dicembre della rivista «Nuovi studi». 284. A conferma di come venivano considerate le tesi spiritiane di quegli anni da parte delle maggiori autorità del regime fascista, si legga la seguente lettera di Bottai scritta al filosofo il 27 maggio 1934: «Caro Spirito, debbo, purtroppo, partire per la Grecia, per quanto il mio braccio non si sia del tutto rimesso. Sarò di ritorno il 6 giugno. Ti restituisco le bozze staliniane: il discorso mi pare molto bello; dovrebbe interessare. Ma non è escluso, [sic] che si trovi qualche ostacolo, in sede d’autorizzazione alla pubblicazione. Speriamo bene» (cus 864; i corsivi sono nostri). Seppure contraddistinte da un tono sicuramente amichevole e benevolmente ironico, certe definizioni e dichiarazioni sono, comunque, indicative di una preoccupazione di fondo. Il «discorso» di cui Spirito parla, anche per un’eventuale pubblicazione, potrebbe essere il testo della comunicazione che il filosofo avrebbe poi tenuto presso l’Istituto Nazionale Fascista di Cultura (incf) il 16 giugno 1934. Il testo, intitolato Il corporativismo come negazione dell’economia, non venne poi pubblicato dalla rivista dell’infc («Civiltà fascista») e comparve allora sulla rivista di Spirito e Volpicelli, «Nuovi studi». Potrebbe confermare questa supposizione ciò che scrive Spirito in una precisazione del novembre del 1944, redatta per la commissione per l’epurazione: «Il primo [cioè il testo in questione, ndr.] è una conferenza tenuta all’Istituto Nazionale Fascista di Cultura, e lo scandalo da essa suscitato fu tanto grande che l’istituto si rifiutò poi di pubblicarla nella sua rivista, come era stato fatto per le altre conferenze del ciclo e come si sarebbe dovuto fare per esplicito impegno» (u. spirito, Memorie di un incosciente, cit., p. 100).

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regime si avverte intorno al 1937-1940. Con la pubblicazione de La vita come ricerca si esplicita la revisione critica dell’attualismo e, con essa, si palesano i primi dubbi circa la validità pratica della tesi dell’identità tra individuo e Stato. Si fa strada la preoccupazione per il singolo membro della società corporativa, minacciato nella libera esplicazione delle sue inclinazioni. Rilevata la natura dogmatica della dialettica idealistica, Spirito non può non problematizzare quella capacità sintetica dell’ordinamento corporativo che egli aveva asserito negli anni immediatamente precedenti. In altri termini, viene messa in discussione la capacità della pianificazione produttiva nazionale di conciliare libertà ed eguaglianza in un equilibrio dinamico tra le esigenze dell’individuo e quelle della collettività. Solo nella seconda si trova il primo, ma senza riconoscere un’adeguata libertà di espressione al singolo non sarà mai possibile selezionare i migliori e avere una «democrazia tecnocratica». Quest’ultima espressione costituisce un vero e proprio ossimoro dal momento che il secondo termine pare confutare il primo, ma è proprio questo che Spirito cerca nella costruzione della propria utopia politica. La partecipazione di tutti non dovrebbe comprimere, ma anzi potenziare, la selezione dei migliori, cioè dei più competenti. Siccome, sottintende Spirito, nessuno è onnisciente, la competenza è sempre relativa a un settore specifico di attività (intellettuali e manuali). Di qui la necessità di una strutturazione gerarchica dell’assetto produttivo e, più in generale, dell’ordine sociale, con l’obiettivo di dare forma giuridica e funzionalità alla naturale differenziazione della società. Resta assolutamente inevaso il problema dell’insorgere di tendenze oligarchiche in senso al processo decisionale che ogni pianificazione, come ogni attività di governo, impone. L’ostacolo su cui va a incagliarsi il progetto spiritiano è la pretesa di pensare e attuare la volontà generale prescindendo dal meccanismo di selezione delle opzioni esistenti. Queste non possono che essere molteplici, se, come Spirito pare col tempo auspicare, si vuole il riconoscimento e la promozione della libertà individuale. Respinta la regola della maggioranza perché forie-

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ra di ulteriori divaricazioni tra governanti e governati, rimane sul tappeto l’interrogativo su chi decide e come decide. E nella società corporativa ideale di Spirito la tecnocrazia è assai più presente della democrazia285. Se, dunque, questi dubbi incrinano la solidità dell’edificio teorico che Spirito aveva costruito tra il 1927 e il 1935, possiamo dire che la loro natura è appunto prevalentemente dottrinale. Ciò che egli dice (si pensi alla conferenza palermitana) e scrive negli anni successivi, fino alla tarda primavera del 1943, depone a favore della tesi secondo cui i dubbi filosofici non cancellano il suo impegno intellettuale all’interno del regime fascista. Tutt’al più la fede si stempera in fiducia, che però resta e vive una nuova, breve e intensa stagione nei primi due anni del conflitto mondiale. Sicuramente, dopo il 1935 Spirito non ricopre più un ruolo centrale nel dibattito culturale interno al regime, ma questo perché dopo l’impresa etiopica emergono altre priorità rispetto all’instaurazione dell’ordinamento corporativo. In ogni caso, quando Bottai dovrà elaborare un progetto ideologico sulla cui base mobilitare l’intellettualità fascista, sarà a Spirito che farà ricorso sistematico, trovando, peraltro, in questi una sicura sponda. La legge del 5 febbraio 1934, n. 163, che istituiva e riconosceva giuridicamente le 22 corporazioni, sembrava al momento conquista (o concessione) sufficiente. Forse non per Spirito. Quello che resta assolutamente certo è che parlare di una sorta di antifascismo maturato sul piano teorico, nell’ambito di un’evoluzione comunistica del proprio corporativismo, tesi che Spirito ha spesso cercato di accreditare nel dopoguerra, sa un po’ troppo di ragionamento fatto col senno di poi286. E infine, 285. Antonio Lombardo ha parlato, con riferimento allo scritto spiritiano del 1963 Critica della democrazia, di una «tecnocrazia comunista postulata, con logica a mio avviso impeccabile nell’ambito di un razionalismo esasperato» (a. lombardo, Teorie del potere politico. Mosca e Pareto, in appendice lettere inedite di M. Minghetti, G. Salvemini, M. Pantaleoni, G. Ferrero, Boni Editore, Bologna 1976, pp. 24-25). 286. Va detto che quando parla di un suo «antifascismo» successivo al 1935, Spirito usa il termine nel senso di un superamento dei limiti (sul piano rivoluzionario) del

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va aggiunto, a motivare e alimentare la critica spiritiana del fascismo poté, assai più della teoria, la dura realtà storica di un regime che confermava nel tempo la propria originaria natura compromissoria con parte del vecchio establishment politico ed economico, tra monarchia e Confindustria. Ancora una volta, in una rilettura del tutto peculiare del principio vichiano, il factum spiegava il verum, e questo doveva al primo «convertirsi». Ma, detto questo, resta testimonianza della perdurante «fede» fascista un appunto dattiloscritto che Spirito presumibilmente redasse per Camillo Pellizzi, all’epoca (fino ai primi di giugno del 1943) presidente dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista (incf)287. Nel testo in questione il filosofo esordiva così: Dopo tre anni di lotta per l’Italia e quasi quattro dall’origine del conflitto mondiale, si fa sempre più profondo il bisogno di riproporsi il problema di questa guerra e delle sue più remote finalità288.

Da questa premessa si evince in modo inequivocabile che la data di stesura dell’appunto non può che risalire alla tarda primavera del 1943. fascismo, e non di una sua negazione. Cfr. u. spirito, Memorie di un incosciente, cit., p. 62: «Ma il vero antifascismo noi l’abbiamo fatto durante il fascismo, come ricerca di ciò che andasse al di là e rappresentasse un valore superiore». Il superamento è in ogni caso qualcosa di ben diverso dall’opposizione e persino dalla «fronda». 287. Possibile ambito di questa ulteriore collaborazione di Spirito alle iniziative dell’Incf presieduto da Pellizzi, una lettera di quest’ultimo al filosofo aretino datata 18 gennaio 1943, con cui lo si invita a prendere parte a «una serie di conversazioni da tenersi nella Sede Centrale dell’incf in Roma, dal gennaio al giugno del corrente anno 1943-xxi» all’interno di «un Piano organico per lo studio comparato delle Civiltà italiana e germanica», «un’opera che […] dovrà costituire la base spirituale per la nuova continentalità europea». Nella lettera qui menzionata si suggerisce, però, a Spirito di trattare come tema «La filosofia contemporanea in Italia» (cfr. cus 1629) 288. Si cita dalla pagina 1 del dattiloscritto (il corsivo è mio), cfr. mus, b. 22 (1932/43), fasc. 6. L’appunto, che consta di sedici pagine, è rimasto inedito – probabilmente per la rimozione di Pellizzi dalla presidenza dell’incf – ed è ora conservato presso l’Archivio della Fondazione Ugo Spirito. Si ringrazia Giuseppe Parlato per la segnalazione del documento. Vedi infra, Appendice i.

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Nel testo, che riprende non poche delle tesi contenute in Guerra rivoluzionaria, si legge, fra l’altro: la distruzione del fascismo è un’utopia, il cui vano perseguimento può soltanto disseminare il cammino di inutili rovine. Quand’anche i nemici riescissero [sic] a imporre all’Italia un diverso regime politico, non perciò il fascismo sarebbe morto, ché anzi il suo problema risorgerebbe più drastico, in un ben più feroce scontro di liberalismo e comunismo. L’unico risultato che si potrebbe ottenere sarebbe quello di rinunciare a un’esperienza di venti anni e di tutti i problemi che in questi venti anni si son venuti faticosamente elaborando289.

Secondo l’impostazione ideologica e una preoccupazione politica tipica di un Bottai290, Spirito sottolinea, inoltre, il ruolo della cultura nazionale nell’evoluzione del conflitto e nella transizione postbellica. È, di fatto, anche un estremo, disperato tentativo di dare agli ambienti intellettuali argomentazioni e motivazioni sufficienti a mantenere serrate le file e a non abbandonare un regime in evidente grave difficoltà: La cultura italiana è più libera perché arricchita di questa insostituibile esperienza ed è in grado di comprendere le opposte esigenze altrui. Essa continua a lavorare e attende la fine della guerra per dare al fascismo 289. Ivi, p. 15. 290. Del resto, come conferma un ricordo contenuto nelle sue Memorie, Spirito era rimasto molto favorevolmente colpito da un articolo di Bottai apparso su «Primato» nel novembre del 1942 (Vent’anni di Fascismo, iii, n. 21, 1° novembre 1942, p. 387), in cui, fra l’altro, si affermava che «se oggi il mondo vuol battere vie nuove, il merito non è certo delle democrazie […]. Che cosa chiediamo allora noi, oggi, dopo vent’anni di fascismo? Noi chiediamo che questa intelligenza rivoluzionaria non si arresti […]» (citato in u. spirito, Memorie di un incosciente, cit., p. 192). A commento dei brani riportati Spirito scriveva nel 1977: «Questo era Bottai in cui avevo creduto e che non solo non aveva smentito la mia fede, ma mi aveva reso possibile la manifestazione e la difesa delle mie idee, almeno fino al 1935» (ivi, pp. 192-193). A indebolirsi nel 1935 fu, dunque, la «protezione» politica che Bottai poté esercitare a favore di Spirito sulle questioni corporative, non certo la «fede» spiritiana nel fascismo, ancora ben lungi dallo spegnersi.

126 un nuovo grande impulso rivoluzionario. Ma intanto oggi, mentre il conflitto si aggrava, si complica, e si fa sempre più oscuro, l’Italia sente di essere la nazione più serena per poter dire una parola che non sia soltanto di parte. […] Il fascismo vuole avere anch’oggi questo carattere di universalità e se combatte a oriente e a occidente, è soltanto in vista di un domani in cui possa realizzarsi una superiore collaborazione di questi due mondi ancora tra di loro molto estranei spiritualmente. […] Se chi guarda dall’esterno e superficialmente può notare l’intima insoddisfazione di un processo rivoluzionario che tende al meglio, stia pur sicuro che, sotto questa veste critica caratteristica dell’intelligenza italiana, si cela oggi come non mai la profonda coscienza di difendere una superiore realtà ideale291.

Di lì a poche settimane, il 25 luglio, il ventennale regime mussoliniano sarebbe crollato, apparentemente come un castello di carte, e la gran parte dell’«intelligenza» nazionale avrebbe rinnegato la precedente militanza e sarebbe migrata verso altri lidi ideologici. Spirito, dal canto suo, inviò un telegramma di augurio a Leonardo Severi, ministro dell’Educazione Nazionale nel neonato governo Badoglio, subentrato al duce per volontà del re. Il telegramma è andato perduto, ma dalla lettera di risposta del Ministro se ne può facilmente evincere il contenuto. Il 3 agosto 1943 Severi rispondeva, infatti, nei seguenti termini: Caro Spirito, La ringrazio del Suo gentilissimo telegramma. I propositi sono ben chiari e saldi ma sarà faticosissimo attuarli. Conto sulla collaborazione delle persone serie che hanno odiato la morta tirannia. Spero non mi manchi la Sua. Mi creda Suo dev.mo Leonardo Severi292. 291. Ivi, pp. 15-16. 292. Lettera (su carta intestata del Ministero dell’Educazione Nazionale) di L. Severi a U. Spirito, 3 agosto 1943 (cus 1660). Analoga lettera di augurio Spirito ave-

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Ben altra risposta avrebbe dato Severi a un’analoga lettera beneaugurante inviatagli da Giovanni Gentile, con il quale il neoministro aveva collaborato nel biennio 1923-1924 ai tempi della riforma della scuola. Il diverso trattamento è segno evidente che il nome dell’allievo Spirito già all’epoca non procurava lo stesso imbarazzo suscitato dal maestro del neoidealismo italiano, il quale, oltre a essere personalità di rilievo politicoculturale assai maggiore, aveva, fra l’altro, tenuto il 24 giugno precedente in Campidoglio un discorso pubblico agli italiani, impegnati in una terribile guerra che durava ormai da tre anni, esortando a mantenere e se possibile rafforzare l’unità e la solidarietà nazionali nonché l’orgoglio e la dignità morale propri di ogni popolo fattosi autentica nazione. Gentile ribadiva, così, il proprio ruolo di filosofo-militante fedele al regime293. In ogni caso, Spirito non rispose affermativamente all’invito rivoltogli dal Ministro, anche perché il governo durò ben poco e venne l’8 settembre e tutto quanto ne seguì. «Né rinnegatore, né restauratore», Spirito nel dopoguerra non sarebbe, però, nemmeno stato un missino, un neofascista o postfascista, ma qualcosa di originale e in fondo coerente con quanto teorizzato durante il ventennio. Avrebbe cercato di ritagliarsi una nuova veste per confermarsi inveterato predicatore di soluzioni rivoluzionarie per un presente perennemente in crisi. va inviato a Carlo Alberto Biggini, nominato il 6 febbraio del 1943 ministro dell’Educazione Nazionale in sostituzione di Bottai (cfr. lettera di C.A. Biggini, 11 febbraio 1943, cus 1632). Il 6 febbraio ’43 furono ben nove su dodici i Ministri sostituiti; cfr. r. de felice, Mussolini l’alleato. i, cit., t. ii, pp. 1047-1048: «una “rotazione ministeriale” così radicale e che coinvolgeva nomi di tanto spicco non si era in vent’anni mai avuta e nessuno se l’attendeva. Né, anche questo va notato, nessuno dei Ministri rimossi passò da un ministero all’altro: sotto il profilo governativo tutti indistintamente furono liquidati; e ex abrupto […]». 293. Cfr. g. gentile, Discorso agli italiani, in b. gentile, Giovanni Gentile. Dal discorso agli italiani alla morte, 24 giugno 1943-15 aprile 1944, Sansoni, Firenze 1954, pp. 67-81. Per un’analisi del discorso del 24 giugno e sulle amare e tristi vicende che videro scontrarsi Gentile e Severi nell’estate del ’43, cfr. s. romano, Giovanni Gentile. Un filosofo al potere negli anni del Regime, Rizzoli, Milano 2004, pp. 404-411, 415 e 436.

2.

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Quando credevo, aspettavo il trionfo dei miei ideali, ora, invece, aspetto soltanto quello che avverrà e come avverrà. ugo spirito (1977)1

l’imprinting positivista Fuori dalla cerchia degli esperti, Ugo Spirito è per lo più noto come allievo di Giovanni Gentile, e nella manualistica lo si trova spesso menzionato accanto a Guido Calogero quale esponente di spicco del cosiddetto «attualismo di sinistra». Con riferimento alle vicende dell’hegelismo, si suole distinguere tra una «destra» e una «sinistra» gentiliane, a seconda degli esiti teoretici e politico-ideologici che sono stati dati all’insegnamento del maestro comune. Così, Armando Carlini o Mario Casotti risolvevano l’istanza monistica presente nel gentilianesimo approdando alla fede cattolica, traducendo l’idealismo assoluto nello spiritualismo cristiano. La loro posizione viene definita «di destra», perché in qualche modo «conservatrice» rispetto alle problematiche, anzitutto ontologiche e gnoseologiche, che l’immanentismo gentiliano portava con sé. Si tornava ad affermare un Assoluto di natura trascendente rispetto a chi, come Calogero e lo stesso Spirito, radicalizzava l’idea di un prius che, ammes1.

u. spirito, Che cosa sarà il futuro, Cadmo, Roma 1977, p. 15.

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so e non concesso che si fosse rivelato come tale, non poteva che essere integralmente intramondano. Di qui gli esiti potevano essere il rigoroso laicismo calogeriano, proprio di chi, coerente all’assunto gentiliano dell’identità di conoscere e fare, finiva per risolvere la verità nell’etica; oppure, il risultato poteva essere una posizione simile a un radicale scetticismo, proprio di chi cercava l’Assoluto, ma voleva trovarlo senza il salto pre-logico della fede. Questo, in estrema sintesi, è il cosiddetto «problematicismo» spiritiano. Ugo Spirito è uno dei filosofi che più hanno caratterizzato la vita intellettuale, accademica e non, dell’Italia nel periodo compreso fra gli anni Trenta e gli anni Settanta2. Il suo peso accademico si fece addirittura ancora più centrale e strategico sul finire della sua carriera, fra 1960 e 1970, e si estese anche ad ambiti limitrofi, come giurie di premi e commissioni di valutazione nazionali e internazionali3. Nell’estate del 1969 sa2. Per il più aggiornato profilo biografico-intellettuale di Spirito, cfr. g. dessì, Ugo Spirito. Filosofia e rivoluzione, Fondazione Ugo Spirito, Roma 1999, ma si veda anche h.a. cavallera, Ugo Spirito: la ricerca dell’incontrovertibile, seam, Formello 2000. 3. Cfr., a titolo di esempio, le lettere a Spirito di Gennaro Sasso (29 ottobre 1968, cus 10468), di Emanuele Severino (13 novembre 1968, cus 10472; 21 novembre 1968, cus 10475; 27 marzo 1969, cus 10529), di Antimo Negri (1° ottobre 1969, cus 10665), di Armando Plebe (20 gennaio 1970, cus 10735), di Felice Battaglia (20 gennaio 1970, cus 10733), di Raffaello Franchini (23 gennaio 1970, cus 10739), di Vittore Branca (24 gennaio 1970, cus 10741), di Camillo Pellizzi (24 gennaio 1970, cus 10744), di Giorgio Melchiori (24 gennaio 1970, cus 10743), di Massimiliano Pavan (25 gennaio 1970, cus 10747); di Claudio Cesa (12 febbraio 1972, cus 11219). Questa crescente importanza, specie in termini di politica concorsuale, non significa che non esistessero ostilità o quantomeno riserve ideologiche e antipatie personali nei confronti di Spirito, dentro e fuori il mondo accademico. Si veda, ad esempio, la seguente lettera di Carlo Antoni a Benedetto Croce, datata 13 giugno 1950: «Una questione assai importante per me è ora quella delle due cattedre di filosofia rimaste scoperte. Quest’anno le feci affidare per incarico a Bruno Nardi e a Scaravelli, ma tra poco ci saranno i concorsi. Corro il rischio di avere come collega per la filosofia teoretica Ugo Spirito e per la storia della filosofia qualche altro tipo del genere. Mi sto adoperando per farmi eleggere commissario nei due concorsi». b. croce, Carteggio Croce-Antoni, a cura di M. Mustè, introduzione di G. Sasso, Istituto Italiano per gli Studi Storici, il Mulino,

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rebbe stato eletto socio nazionale dell’Accademia Nazionale dei Lincei4. Solo tra gli studiosi e gli esegeti del suo pensiero è ben presente il ruolo giocato dall’iniziale formazione positivistica che Bologna 1996, pp. 110-111; il corsivo è mio; ma si vedano anche le lettere, di tenore assai cordiale e franco, che Antoni invia a Spirito il 18 agosto 1950, cus 3192; e il 1° dicembre 1950, cus 3309). Spirito era stato professore incaricato di Economia e politica corporativa a Pisa (1932-35), quindi era stato trasferito al Regio Istituto Superiore di Magistero di Messina (1935-36), soprattutto per volontà dell’allora ministro dell’Educazione Nazionale Cesare Maria De Vecchi. A Messina egli era titolare della cattedra di Filosofia e storia della filosofia, ma gli sarà assegnato l’incarico di Pedagogia per l’anno accademico 1935-1936 (cfr. comunicato dell’on. Gaetano Vinci, regio commissario, a U. Spirito, 13 dicembre 1935, cus 1068; ma anche la lettera del Rettore dell’Università di Pisa, datata 2 ottobre 1935, cus 1026, in cui comunica a Spirito come egli «non possa continuare a tenere il suo insegnamento presso la nostra Università», dal momento che lo stesso Rettore aveva ricevuto una lettera dal ministro De Vecchi in cui si stabiliva la cessazione dall’incarico pisano in corrispondenza dell’entrata in servizio a Messina a partire dal 29 ottobre 1935). Nel successivo anno accademico avrebbe, invece, dovuto ricoprire la cattedra di Filosofia (cfr. lettera di G. Vinci a U. Spirito, 3 luglio 1936, cus 1156), ma nell’autunno del 1936 fu trasferito – grazie all’intervento di Bottai, divenuto nel frattempo ministro dell’Educazione Nazionale, – alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova (1936-37), quale professore ordinario di Filosofia teoretica e, infine, dal 1° dicembre del 1937, alla Facoltà di Magistero dell’Università di Roma (con decreto ministeriale dell’8 novembre 1937; cfr. la lettera del Rettore dell’Università di Genova a U. Spirito, 15 novembre 1937). In effetti, Spirito otterrà, come paventato da Antoni nella lettera a Croce, la cattedra di Filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, sempre dell’Università di Roma, alla fine di quello stesso anno, 1950 (Guido Calogero risultò secondo nel relativo concorso). 4. Si vedano la lettera a Spirito di Beniamo Segre, presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei, del 24 luglio 1969 (cus 10597), e la lettera di congratulazioni inviatagli da Sergio Steve (28 luglio 1969, cus 10599). Fra l’altro, nel 1973 Spirito riceverà un prestigioso riconoscimento quale il Premio «Penna d’Oro» – assieme al «Libro d’Oro» il massimo riconoscimento attribuito dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri agli scrittori e agli editori che abbiano più di altri contribuito con la loro opera al progresso culturale del Paese – quale migliore autore del 1969. La Commissione giudicatrice, presieduta da Eugenio Montale, senatore a vita, aveva nella riunione del 15 maggio 1973 assegnato la «Penna d’Oro» per il quinquennio 1968-1972: per il 1968 il riconoscimento era stato assegnato a Marino Moretti, per il 1970 a Carlo Emilio Gadda, per il 1971 a Ignazio Silone e per il 1972 a Carlo Arturo Jemolo. Si veda anche il telegramma di ringraziamenti che Spirito invia il 12 maggio 1973 all’allora presidente del Consiglio, on. Giulio Andreotti (cus 11400).

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il giovane Spirito riceve tra gli studi superiori compiuti a Chieti e i primi studi universitari presso la facoltà di Giurisprudenza di Roma, frequentata tra il 1914 e il 19185. La manualistica filosofica ha preso soprattutto in considerazione gli «effetti» di questa incisiva e, forse decisiva, giovanile formazione positivistica: l’attenzione per la scienza. Molto netto e critico il giudizio che Ludovico Geymonat ha dato di questa presunta sensibilità scientifica spiritiana. Viene, innanzitutto, riconosciuto il fatto che, «mentre Croce e Gentile avevano negato valore alla ricerca scientifica, Ugo Spirito è stato il primo idealista italiano che abbia sostenuto [...] la sostanziale identità di scienza e filosofia»6. Questo, però, non toglie la natura metafisica delle argomentazioni spiritiane e la convinzione «che il nostro autore è pervenuto a riconoscere l’importanza della scienza non attraverso un serio esame delle reali procedure metodologiche messe in atto dalla ricerca scientifica moderna»7. L’esito finale sarebbe, pertanto, la semplice sostituzione di una «retorica dell’atto» con «una retorica della scienza»8. Se quindi i neopositivisti, come Geymonat, hanno in genere sottinteso l’irrilevanza dell’originaria formazione positivi5. Cfr. u. spirito, Memorie di un incosciente, Rusconi, Milano 1977, p. 9 e id., Cattolicesimo e comunismo: metafisica delle masse tv e compromesso storico, Armando, Roma 1975, pp. 16 e ss. Cfr., inoltre, a. russo, Positivismo e idealismo in Ugo Spirito, Fondazione Ugo Spirito, Roma 1990, pp. 29-30. 6. l. geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti, Milano 1977, vol. iii (Il Novecento), p. 57. 7. Ibidem. Il giudizio che Geymonat dà di Calogero riassume la critica neopositivistica nei confronti dell’interesse per le scienze manifestato dai due più importanti attualisti «di sinistra»: «Questa posizione – come quella di Spirito – di apparente apertura verso la razionalità scientifica, lo induce però a negare qualsiasi autentico valore filosofico alla logica moderna e alle ricerche di metodologia della scienza perché entrambi partono dal presupposto che l’idealismo è l’ultimo e più conseguente risultato della filosofia occidentale, onde la critica alla metafisica non è condotta prendendo l’avvio dalla critica logica del discorso metafisico (come hanno tentato i neopositivisti), ma piuttosto da un rifiuto della filosofia come teoria» (ivi, p. 58. Il corsivo è nostro). 8.

Ibidem.

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stica, sostenendo l’inestirpabile eredità idealistica dello «scientismo» spiritiano, altri studiosi, non filosofi della scienza, hanno rimproverato al positivismo di Spirito la sua natura ottocentesca e, pertanto, arretrata rispetto agli sviluppi scientificometodologici novecenteschi9. L’idealismo, sia nella versione ortodossa gentiliana sia in quella eretica postgentiliana, resta l’indirizzo filosofico sotto il cui segno viene prevalentemente letto e interpretato il pensiero spiritiano. Alcuni autori, tra cui con maggiore efficacia e persuasione Augusto Del Noce, hanno proposto di avvicinarsi alla filosofia di Spirito nell’ottica di un’influenza decisiva dell’iniziale positivismo, soprattutto di certe sue istanze, che il neofita gentiliano avrebbe poi cercato di conciliare con l’idealismo assoluto10. Secondo l’interpretazione delnociana, l’immanentismo integrale sarebbe stato il terreno comune su cui compiere questa operazione di conciliazione e integrazione.

«la prima fede» Spirito mostra un precoce interesse per le scienze, anche a seguito della sua formazione iniziale che è all’insegna del positivismo giuridico predominante nella Facoltà romana di Giurisprudenza. È qui che Spirito ottiene la sua prima laurea: nel dicembre 1918 con una tesi in Diritto civile11. La votazione finale riportata è piuttosto bassa (due punti sopra il minimo), ma 99. Cfr. a. negri, Corporativismo e parlamentarismo, in u. spirito, s. valitutti, a. negri, Corporativismo e parlamentarismo, Cadmo, Roma 1976, pp. 5186 (in part., pp. 53-59). Cfr. anche s. valitutti, Nota conclusiva sul principio parlamentare e sul principio corporativo, in ivi, pp. 92-93. 10. Cfr. a. del noce, Il “positivismo” di Ugo Spirito e il «soggetto come male», in aa.vv., Il pensiero di Ugo Spirito, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 198889, vol. i, pp. 21-28. Il volume contiene gli Atti del Convegno internazionale tenutosi a Roma dal 6 al 9 ottobre 1987. 11. a. russo, Positivismo e idealismo in Ugo Spirito, cit., p. 150, nota 120, dove è riportato l’Indice della tesi di laurea.

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ciò non toglie che egli avesse compiuto studi appassionati, seguendo con entusiasmo i corsi di Enrico Ferri e Maffeo Pantaleoni. A quei tempi, «dall’antropologia criminale alla sociologia criminale e all’economia pura, il mio orizzonte era soprattutto l’orizzonte delle tradizionali scienze sociali», ricorda lo stesso filosofo nel dicembre 1978, pochi mesi prima di morire12. Ciò che sperimenta il giovane studente è qualcosa di più di un semplice interesse o di una curiosità intellettuale. Scrive, infatti, nel 1977 nella propria autobiografia: «Fu la prima fede della mia vita, sperimentata con l’assolutezza di una certezza indiscutibile, dalla seconda media fino alla laurea in giurisprudenza»13. Sotto il profilo dei rapporti di forza tra i diversi indirizzi filosofici, l’Italia del secondo decennio del Novecento vede già l’affermarsi dell’idealismo neohegeliano, che trova in Giovanni Gentile il grande punto di riferimento in ambito accademico-istituzionale e in Benedetto Croce il grande punto di riferimento extra mœnia14. Il pragmatismo di Giovanni Vailati e Mario Calderoni è ormai «una posizione filosofica uscita di scena», almeno a partire dal 191015. Il positivismo è in fase di arretramento, anche se mantiene alcune roccaforti, come appunto la Facoltà romana di Giurisprudenza, e soprattutto informa di sé ancora gran parte dell’insegnamento impartito nelle scuole superiori, tra cui il liceo di Chieti frequentato dal giovane Spirito.

12. u. spirito, Il positivismo non è finito, in «La voce della scuola libera», s. ii, xxi, n. 6, 31 dicembre 1978, p. 5. I corsivi sono nostri. 13. u. spirito, Memorie di un incosciente, cit., p. 14. 14. v. mathieu, Il «posto» di Ugo Spirito nella filosofia italiana del ’900, in aa.vv., Ugo Spirito: filosofo, giurista, economista e la recezione dell’attualismo a Trieste: Trieste 27-29 novembre 1995, a cura di A. Russo, P. Gregoretti, Edizioni Università di Trieste, Trieste 1999, p. 7. Cfr. anche e. garin, Cronache di filosofia italiana 19001960, Laterza, Roma-Bari 1997 [1ª edizione 1955] vol. ii, capp. viii e ix. 15. f. restaino, Ugo Spirito e il pragmatismo in Italia, in aa.vv., Ugo Spirito: filosofo, giurista, cit., p. 331.

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Lo studio delle discipline impartite alla Facoltà di giurisprudenza, e soprattutto del diritto penale, sotto la guida di Enrico Ferri, allievo di Roberto Ardigò e fondatore della sociologia criminale, spinge Spirito a interrogarsi su questioni che investono la natura umana, in particolare la questione del «libero arbitrio» e del rapporto tra l’individuo (nella fattispecie del delinquente) e la collettività in cui vive16. Informato alla cosiddetta «scuola positiva del diritto penale», il giovane Spirito si trova ad apprendere una dottrina secondo la quale occorre effettuare un cambiamento a centottanta gradi dell’oggetto di analisi. L’indagine deve essere, infatti, trasferita dal «delitto», astrattamente considerato, al «delinquente», dal reato a chi commette il reato. L’antropologia criminale inaugurata da Cesare Lombroso affermava l’unità di fenomeni fisici e fenomeni psichici per la valutazione degli atti criminali, ma soprattutto sottolineava, con un determinismo rigoroso, la dipendenza pressoché esclusiva di tali atti da tare e anomalie somatiche (in particolare, a livello del cranio)17. Al di là del carattere estremistico delle posizioni lombrosiane, è certo che sorgeva inevitabile, insopprimibile, la domanda su cosa fosse la «libertà» e se, innanzitutto, ci fosse qualcosa definibile come libertà. La sociologia criminale, iniziata da Ferri, poneva a sua volta il problema del rapporto tra l’azione del singolo e il contesto sociale in cui questa azione (specificamente criminale) ve16. Su Enrico Ferri e la cosiddetta «scuola positiva del diritto penale», vedi g. neppi modona, Diritto penale e positivismo, in aa.vv., Il positivismo e la cultura italiana, a cura di E.R. Papa, pref. di N. Bobbio, Franco Angeli, Milano 1985, pp. 47-61; m. portigliatti-barbos, Medicina ed antropologia criminale nella cultura positivista, ivi, in part. pp. 440-443. Si veda, inoltre, sulla «sociologia criminale»: m.m. burgalassi, Itinerari di una scienza. La sociologia in Italia tra Otto e Novecento, pref. di F. Barbano, Franco Angeli, Milano 1996, pp. 59-71. 17. Su Lombroso e l’antropologia criminale in un’ottica comparatistica, vedi e.r. papa, Criminologia e scienze sociali nel dibattito europeo sulla «scuola italiana» di antroplogia criminale (1876-1900), in aa.vv., Il positivismo e la cultura italiana, cit., pp. 15-45.

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niva compiuta. Come affermerà lo stesso Spirito nel 1972, l’antropologia criminale gli aveva trasmesso quantomeno il dubbio, se non proprio la convinzione, che «l’azione non è più prodotto autonomo della volontà di un individuo concepito come principio assoluto, ma è il frutto di una collaborazione di due forze distinte il cui incontro risponde a leggi che non siamo capaci di definire»18. Le due forze in questione sono l’anima e il corpo. Da tali premesse scaturisce il tentativo di stabilire «come può continuare a sussistere la libertà di pensiero e di azione dell’anima che deve fare i conti con ciò che anima non è»19. E ciò che non è anima non è soltanto il corpo, inteso come organismo biologico, con la sua fisiologia e i suoi impulsi, ma è pure l’ambiente, inteso quale «totalità» che ricomprende in sé non solo la natura comunemente concepita, ma anche l’insieme degli individui che interagiscono con il singolo. Allora la domanda che obbligatoriamente ne discende è la seguente: chi risulta imputabile per un eventuale reato? Ecco, pertanto, che il concetto di pena deve essere radicalmente ridiscusso. Secondo il ventiduenne Spirito era in atto una vera e propria «rivoluzione morale»20 ed egli avvertiva l’urgenza di «risolvere il problema dei fondamenti speculativi del diritto penale e dell’economia politica»21, perché risultava chiaro che una precisa concezione dell’uomo e della natura veniva coinvolta, letteralmente investita, da quegli studi scientifici. Una concezione generale c’era già, ed era il positivismo, ma evidentemente ciò non bastava a Spirito che pure, in vecchiaia, dirà di aver aderito a quell’indirizzo filosofico con fervore e persi18. u. spirito, Il problema dell’Io, in «Annali della Fondazione Ugo Spirito», vol. ii, 1990, p. 282. Il saggio venne scritto come voce per un’enciclopedia nell’agosto del 1972 (è datato 1-14 agosto), ma è rimasto inedito sino al 1990. 19. Ibidem. 20. Ivi, p. 284. 21. u. spirito, Come ho fatto storia della filosofia, in id., Dall’attualismo al problematicismo, Sansoni, Firenze 1976, p. 165.

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no dogmatismo. Ma la fede cieca viene meno in quel periodo, e ai suoi occhi il vero non coincide più con la natura immediatamente ed empiricamente sperimentabile. I nuovi interrogativi portano Spirito ad abbracciare gli studi filosofici, anche e forse, soprattutto, sulla scia dell’emozione in lui suscitata dall’ascolto della prolusione che Gentile tenne presso l’Ateneo romano nel gennaio 1918, anno in cui inizia l’insegnamento del filosofo siciliano nella capitale. «Nella facoltà di filosofia – dopo la laurea in giurisprudenza – ero entrato perché avevo esigenze speculative alle quali non potevo rinunziare», dirà molti anni più tardi22. Non poco peso deve avere avuto nelle personali vicende intellettuali di Spirito e nella maturazione di nuovi interessi di studio il mutato clima culturale nell’Italia reduce dalla Prima guerra mondiale. La mobilitazione ideologica ed emotiva che lo sforzo bellico aveva richiesto e alimentato portava in primo piano esigenze vitalistiche e volontaristiche che la cultura «positiva», imperniata sull’oggettività e la meditata valutazione dei fattori condizionanti esterni, non era in grado di soddisfare. Almeno così pareva a molti intellettuali, troppo giovani per aver partecipato a esperienze culturali prebelliche come quella «vociana» o quella futurista23, ma agitati dalle medesime istanze. A questo punto è importante ricostruire il percorso compiuto da Spirito successivamente all’abbandono delle scienze 22. Ivi, p. 163. 23. Sulla temperie culturale che attraversa il quindicennio italiano antecedente la Grande guerra si vedano almeno e. gentile, La Voce e l’età giolittiana, Pan, Milano 1972; id., Il mito dello Stato nuovo dall’antigiolittismo al fascismo, Laterza, Roma-Bari 1982; a. asor rosa, La cultura, in Storia d’Italia, Einaudi, Torino 1975, vol. iv, tomo ii (Dall’Unità a oggi), in part. pp. 1099-1311; g. are, La scoperta dell’imperialismo. Il dibattito nella cultura italiana del primo Novecento, Lavoro, Roma 1985; a. cardini, La cultura economica italiana e l’età dell’imperialismo: 19001914, Giuffrè, Milano 1981; l. mangoni, Gli intellettuali alla prova dell’Italia unita, in Storia d’Italia, a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari 1995, vol. iii (Liberalismo e democrazia, 1887-1914), pp. 443-527. Si veda anche un classico come g. volpe, Italia moderna,Le Lettere, Firenze 2002, vol. ii (18981910) e vol. iii (1910-1914).

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positive, abbandono deciso allo scopo di capire i fondamenti speculativi di queste ultime. Avviene così l’incontro con la filosofia, che, però, non va nel senso di un approfondimento, ad esempio, di Comte o di Bacone, ma si traduce nell’abbraccio con l’idealismo neohegeliano di Gentile, che delle scienze ha scarsa considerazione, in ogni caso un interesse secondario. Eppure, il passaggio viene compiuto con una convinzione tale da diventare ben presto, sono parole dello stesso Spirito, «difensore e apostolo» della fede appena scoperta24. Si tratta, a questo punto, di comprendere se siamo di fronte a una rottura sul piano speculativo, cioè occorre chiedersi se Spirito improvvisamente devii e prenda un’altra direzione speculativa, in virtù anche di un incontro casuale ma determinante, quello appunto con Gentile. L’altra ipotesi da vagliare è che ci sia una sottile, sotterranea e non ben esplicitata continuità tra la forma mentis dell’Ugo Spirito «positivista» e quella dell’Ugo Spirito «idealista». Crediamo che una risposta, ancora parziale ma sufficientemente convincente, risieda nell’analisi del tipo di positivismo a cui ha attinto il giovane Spirito. Il principale riferimento intellettuale del giovane studioso di diritto era Enrico Ferri. Quest’ultimo era stato allievo (addirittura si definiva «scolaro») di Roberto Ardigò, il maggiore rappresentante del positivismo italiano, particolarmente letto e apprezzato anche dal giovane Spirito25. 24. u. spirito, Come ho fatto storia della filosofia, cit., p. 163. 25. Per le testimonianze in merito, cfr. a. russo, La formazione positivistica di Ugo Spirito, in aa.vv., Il pensiero di Ugo Spirito, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1988-89, vol. 1, in part. pp. 234 e 237-239. Sulla base di una serie di dati (lettere, testimonianze di ex professori di liceo e il rapporto con Ferri), Russo può concludere sostenendo che «la figura del positivista italiano Ardigò emerge quindi ripetutamente negli anni della formazione giovanile di Ugo Spirito»(p. 239). Su Ardigò (1828-1920), vedi a. saloni, Il positivismo e Roberto Ardigò, Armando, Roma 1969; a. santucci, Eredi del positivismo. Ricerche sulla filosofia italiana fra ’800 e ’900, il Mulino, Bologna 1996, pp. 229-269. Su Ardigò e Lombroso, vedi anche f. ferrarotti, Scienze sociali e politiche, in aa.vv., La cultura italiana del Novecento, a cura di C. Stajano, Laterza, Roma-Bari 1996, in part. pp. 615-630.

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La filosofia «positiva» di Ardigò, ex prete cattolico (vestì, infatti, l’abito talare fino ai 43 anni), presenta alcune significative analogie con la dottrina di Herbert Spencer, soprattutto circa la convinzione che la filosofia si riduca all’organizzazione logica dei dati scientifici, un’organizzazione compiuta in virtù del principio dell’evoluzione. Certamente, come è stato osservato, i presupposti da cui prendono le mosse i due filosofi sono ben diversi: l’italiano parte dal problema gnoseologico, mentre l’inglese anteponeva a ogni altra forma di sapere la biologia e la cosmologia26. L’analogia con Spencer riserva, però, sviluppi interessanti e comporta, in particolare, un confronto con la nozione di «Inconoscibile», a cui si riferisce la religione, e che il filosofo inglese riconosce come legittima e indispensabile per dare conto di ciò che va al di là della ragione, di cui si riconoscono i limiti di comprensione. L’assoluto non viene negato, anche se questo è un risultato dell’evoluzione piuttosto che un a priori27. Per Ardigò, che preferisce parlare di «indistinto», la ragione non ha però in sé limiti invalicabili e, di fronte a sé, ha la possibilità di accrescere gradualmente ma enormemente la propria comprensione della realtà. Scrive Ardigò in un saggio del 1900: «Hanno quelle due denominazioni di indistinto e di distinto un valore solo relativo: e qui, e da per tutto dove occorra di adoperarle analogamente. [...] Indistinta poi è la rappresentazione della catena di montagne, perché è rapportata a quella del picco, che essa comprende, come il tutto comprende la parte; ma non perché, anch’essa la rappresentazione medesima della catena di montagne, non sia poi un distinto verso la rappresentazione del cielo, nel quale si proietta, e nel campo del quale si distingue per l’atto percettivo speciale, che in esso la rileva»28. 26. Vedi a. santucci, op. cit., p. 257. Santucci, peraltro, non manca di ricordare i momenti in cui Ardigò «s’addentrava e si perdeva nella cosmologia» (p. 264). 27. Sul pensiero di Spencer, vedi h. spencer, Antologia di scritti, a cura di M.A. Toscano, il Mulino, Bologna 1982. 28. r. ardigò, L’indistinto e il distinto nella formazione naturale, Stab. Tip. Lit. Zamorani e Albertazzi, Bologna 1900, pp. 10-11.

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Come osserva Nicola Abbagnano, per Ardigò «l’inconoscibile non è l’assoluto o l’incondizionato che è al di là della conoscenza umana e la sorregge, ma è piuttosto l’ignoto, vale a dire ciò che non è ancora diventato conoscenza distinta»29. Ora, è proprio il passaggio dall’indistinto al distinto che costituisce l’evoluzione o, come dice il filosofo positivista, la «formazione naturale» di ogni tipo o forma della realtà (dal sistema solare alla psiche umana)30. Sul piano della conoscenza questo passaggio si compie attraverso l’incessante lavoro di analisi scientifica, che consiste nel distinguere e articolare la massa confusa dei dati dell’esperienza. Per dirla in altri termini, la «totalità» è afferrabile per Ardigò, almeno in linea di principio. L’unico vero ostacolo non è costituito dalla ragione umana e dai suoi limiti, ma dalla natura mutevole, instancabilmente diveniente e, in ultima istanza, infinita del reale. Si tratta di un infinito che non apre alla trascendenza, ma è tutto nell’al di qua. È il fondo e la ragione del finito, sostiene Ardigò, necessario non «solo per la natura ma anche per il pensiero»31. 29. n. abbagnano, Storia della filosofia, Utet, Torino 1963, vol. iii, p. 344. 30. Vedi r. ardigò, op. cit., pp. 6-7: «Per me il distinto e l’indistinto sono tali per sé, sia che vi veda dentro o che non vi veda. Il mio aver concepito i due opposti così denominati significa solamente, che, mentre nella teoria dello Spencer, in forza dell’analogia da lui seguita, sono considerati solamente i fatti della natura esterna, nella mia sono considerati anche quelli della psiche, riuscendo essa quindi ad abbracciare tutta la natura, tanto quella del di fuori quanto quella del pensiero umano, che è natura anch’esso». 31. Brano di Ardigò tratto dalle Opere filosofiche, Draghi, Padova 1884, vol. ii, p. 129, citato in n. abbagnano, op. cit., p. 345. Questa lettura che Abbagnano compie del pensiero ardigoiano trova un’analogia nella comparazione critica di Spencer e Ardigò che lo stesso Spirito abbozza in una breve nota del 1956. Scrive infatti: «Appare chiara la differenza tra i due positivismi. Per Spencer la conoscenza, pur progredendo, presuppone sempre un ignoramus che concerne la natura intima delle cose conosciute. Non riusciremo mai a esperire che cos’è la materia, che cosa la forza e così via [...]. Ardigò oppone che l’inconoscibile è un’ipostasi del non ancora conosciuto e che la conoscenza, pur essendo sempre determinata e limitata o distinta, lascia fuori di sé un’ulteriore possibilità di atti conoscitivi, ma nulla di metafisicamente staccato dalla capacità dell’esperienza» [u. spirito (a

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L’infinito ardigoiano, scrive ancora Abbagnano, «è quello di un incessante sviluppo progressivo» che egli vuole difendere «contro tutte le negazioni che vorrebbero interromperlo col ricorso a una causa o a un fine ultimo trascendente»32, ovvero fare quel che Gentile avrebbe chiamato un’operazione intellettualistica. Il rapporto con l’infinito, o meglio il rapporto tra finito e infinito, è un rapporto che si vuole includere tutto sul piano dell’immanenza; ne consegue il rifiuto della trascendenza e l’affermazione perentoria del divenire delle cose secondo una modalità dialettica tra indistinto e distinto, dove l’indistinto sempre risorgente è l’infinito, mentre il distinto è il finito. Soprattutto, occorre notare che il positivismo ardigoiano è una filosofia che disegna uno svolgimento dei processi fisici e spirituali che appare assai poco modellato sulla metodologia di specifiche scienze naturali o logico-matematiche. Ha molto più del grande affresco metafisico, seppure di una metafisica che rivendica l’assoluta, integrale immanenza. Quello che vogliamo sostenere è che il positivismo al quale si abbevera il giovane Spirito non è una ricerca analitica sui procedimenti delle scienze, ma denota quella pretesa diffusa tra i positivisti (Comte per primo) di affidare alla scienza la scoperta di «ipotetiche strutture ultime e definitive della realtà»33. Orientamenti filosofici successivi al positivismo comtiano, come l’empiriocriticismo, hanno ritenuto di rinvenire in una simile pretesa onniesplicativa «il germe della degenerazione metafisica, sia che essa si orienti verso il materialismo oppure verso lo spiritualismo»34. cura di), Il pensiero pedagogico del positivismo, Giuntine e Sansoni, Firenze 1956, p. 46, nota 1]. 32. n. abbagnano, op. cit., p. 345. 33. r. torzini, Empiriocriticismo, in aa.vv., Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Garzanti, Milano 1988, p. 246. 34. Ibidem.

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Più precisamente, abbiamo qui a che fare con quella tentazione monistica la quale intende ricondurre la spiegazione di ogni fenomeno a un unico principio o causa. Una simile tentazione accomuna l’idealismo a un certo modo di intendere il positivismo, per il quale tale tentazione prende solitamente la forma di un materialismo naturalistico.

spencer, ardigò, scienza e metafisica Augusto Del Noce, autore che più di altri ha sottolineato la persistente radice «positivistica» dell’itinerario teoretico spiritiano, ha evidenziato «la posizione relativamente isolata del positivismo di Spirito rispetto agli altri positivisti»35. Da questa peculiarità e singolarità deriverebbero le virgolette tra cui Del Noce mette la parola positivismo riferita al filosofo suo amico. Tra queste peculiarità distintive vi sarebbe l’assenza di un «sostanziale rapporto col positivismo inglese di Stuart Mill o di Spencer, ossia col positivismo figlio dell’empirismo e dell’evoluzionismo»36. Dalle indagini condotte nell’archivio e nella biblioteca personale del filosofo si ricavano, invece, elementi per una parziale smentita e una breve riflessione. In primo luogo, tra i «classici» del positivismo ottocentesco non risultano presenti libri di Auguste Comte, se non letteratura critica sul filosofo francese, peraltro risalente al secondo dopoguerra37. Del resto, 35. a. del noce, Il “positivismo” di Ugo Spirito, cit., p. 27. 36. Ibidem. 37. Tra questi, il libro dell’allievo Antimo Negri: Augusto Comte e l’umanesimo positivistico, Armando, Roma 1971. Si veda la lettera di A. Negri a U. Spirito, datata 27 dicembre 1969: «Carissimo bon Ugo, restituisco le bozze debitamente corrette. […] Attendiamo con ansia la nuova edizione degli scritti corporativistici: c’è qui una vera e propria centuria di giovani, con i quali, intanto, faccio esercitazioni sul Il comunismo. Lo scritto pubblicato su “I futuribili” è esemplare in proposito: il superamento dell’ideologia è un tema che, in questi giorni, mi assilla: lo vedrai anche nel mio Comte, scrivendo il quale ho continuato a scoprirti» (cus 10706; corsivi nostri).

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quando Del Noce parla di un «comtismo compiuto», a proposito del pensiero di Spirito, intende dire che «il significato di Comte è stato ritrovato, più che attraverso una lettura delle sue opere, attraverso un processo personale di pensiero», mentre un confronto diretto con i testi veniva svolto soltanto a cavallo tra anni Sessanta e Settanta da un discepolo di Spirito, Antimo Negri38. Nella biblioteca spiritiana compaiono, invece, due volumi di Herbert Spencer. Si tratta di un’edizione inglese del 1915 del primo volume, dedicato ai First Principles, di A System of Synthetic Philosophy39, e di una traduzione italiana pubblicata nel 1881. Quest’ultimo volume è l’Introduzione allo studio della sociologia, edito dai Fratelli Dumolard di Milano, casa editrice che, assieme ai fratelli Bocca di Torino, fu la maggiore divulgatrice del pensiero positivistico a cavallo fra Ottocento e Novecento40. A tal proposito, è interessante notare che la presenza di traduzioni italiane degli scritti di Spencer risalga a qualche anno prima rispetto a quanto asserito da Filippo Barbano41. Questi scrive che la prima opera di Spencer tradotta in italiano risale al 1888 ed è i First Principles del 186242, mentre il libro che abbiamo esaminato, Introduzione allo studio della sociologia, porta la data del 1881. Certamente non esistono dati inequivocabili che possano garantire il fatto che Spirito abbia letto questi scritti spenceriani in epoca giovanile, però ci sono ulteriori considerazioni da 38. Il giudizio di Del Noce è espresso in u. spirito, a. del noce, Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?, Rusconi, Milano 1971, p. 75. Per il primo esito delle ricerche condotte da Antimo Negri vedi supra. 39. h. spencer, A System of Synthetic Philosophy, Williams & Norgate, London 1915, vol. i. 40. id., Introduzione allo studio della sociologia (1874), con prefazione del prof. G. Sergi, F.lli Dumolard Edit., Milano 1887. La traduzione italiana si basava sulla 9ª edizione inglese, «ricorretta e aumentata», del 1880. 41. Cfr. f. barbano, Sociologia e positivismo in Italia: 1850-1910. Un capitolo di sociologia storica, in aa.vv., Il positivismo e la cultura italiana, cit., p. 198. 42. Ibidem.

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fare e che possono avallare quella che resta un’ipotesi interpretativa, limitata dal fatto che manca la certezza assoluta del «quando» sono stati letti. Il testo in inglese non reca tracce di segnature, mentre il secondo, cioè l’Introduzione allo studio della sociologia, ne presenta molte a fianco del testo scritto, con qualche sottolineatura e un paio di commenti. Se teniamo conto del fatto che Spirito non era solito annotare i propri libri, la presenza di tante segnature ci dice che Spencer non solo è stato letto, ma è stato compulsato con particolare attenzione. Esaminando i manoscritti del periodo giovanile, ci siamo imbattuti in un quaderno di appunti bibliografici sul pragmatismo. Queste pagine risalgono con ogni probabilità al periodo 1918-1920, cioè agli anni in cui Spirito prepara, oltre agli esami, la tesi di laurea in filosofia dedicata proprio al pragmatismo, «suggerita in modo autonomo e mal sopportata da Gentile e Varisco»43. Tra i testi di John Dewey annotati troviamo un saggio dal titolo The Philosophical Work of Herbert Spencer, apparso su una rivista statunitense nel marzo 190444. Il fatto che questo saggio, pur non essendo certamente uno dei testi più noti di Dewey né immediatamente utile ai fini della tesi sul pragmatismo, compaia negli appunti bibliografici del giovane laureando è testimonianza quantomeno di un preciso interesse per il pensiero di Spencer. Sicuramente il giovane Spirito conosce bene il filosofo inglese, come ci conferma la pagina di un altro quaderno di appunti bibliografici dello stesso periodo e sempre contenente testi sul pragmatismo. Annotando le pagine 334-337 del libro di William James, La volontà di credere, così scrive nel suo quaderno: «critica dell’evoluzionismo di Spencer – L’evoluzionismo è metafisica, non scienza»45. 43. u. spirito, Memorie di un incosciente, cit., p. 34. 44. j. dewey, The Philosophical Work of Herbert Spencer, in «The Philosophical Review», March 1904, vol. xiii, pp. 159-175. Cfr. afus, mus, b. 1, Quaderno n. 1. 45. Cfr. mus, b. 1, Quaderno n. 2.

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L’impressione che si ricava dalla consultazione di questi appunti manoscritti è che molti autori e studiosi del pragmatismo46 citano Spencer quando parlano del positivismo. È indubbio che dallo studio di filosofi come Étienne-Émile Boutroux, oggetto del secondo capitolo della seconda parte della tesi di laurea, Spirito tragga la convinzione che il positivismo attinga o, comunque, conduca inevitabilmente al meccanicismo e al determinismo. La lettura spiritiana di Spencer, diretta e indiretta, pare proprio esserci già in età giovanile e svolgersi all’insegna di una critica di tipo antideterministico. Ma torniamo all’analisi del volume spenceriano del 1881 conservato nella biblioteca spiritiana. Vediamo, dunque, quali sono i passaggi del libro evidenziati, sottolineati o annotati. In primo luogo, ricca di segnature è la prefazione di Giuseppe Sergi, intitolata La sociologia e l’organismo delle società umane. Il testo è all’insegna del più esplicito organicismo evoluzionistico, basato sulla comparazione tra il funzionamento di un organismo animale e quello della società, frutto di un’evoluzione dai più semplici organismi individuali ai più complessi. Spirito ha segnato a margine molti passaggi in cui si espone questa teoria che si muove chiaramente sul solco delle tesi spenceriane, ma con una maggiore accentuazione della dimensione collettiva rispetto a quella individuale. Il testo di Spencer, infatti, pone maggiore attenzione alla relazione dinamica, per non dire dialettica, che si instaura tra i singoli individui e l’insieme sociale, riconoscendo all’individuo un ruolo quale fattore relativamente autonomo che condiziona la struttura della società in cui vive47. In Sergi la comparazione con 46. Si veda, ad esempio, d. parodi, La philosophie contemporaine en France, Alcan, Paris 1919, che compare nel secondo quaderno spiritiano di appunti sul pragmatismo. Cfr. mus, b. 1, Quaderno n. 2. 47. Tra le frasi segnate a margine da Spirito troviamo, ad esempio, questa: «Quello stesso che vediamo accadere nelle creature inferiori si verifica fra gli aggregati sociali. Il vivere in semplice riunione, o il vivere in una specie di società organizzata, fra i membri della quale esista la divisione del lavoro, come accade in molti casi, è indubitamente determinato dalle proprietà delle unità. Se troviamo negli individui una data strut-

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l’organismo biologico va oltre la metafora, e il suo organicismo non si differenzia molto da quello romantico d’inizio Ottocento se non per un più forte richiamo, com’è ovvio, alle scienze biologiche quale avallo scientifico alle proprie tesi. Dalla lettura della prefazione di Sergi e del testo di Spencer e, soprattutto, dei brani oggetto di segnature, è possibile abbozzare un’inedita interpretazione delle posizioni politicoideologiche che Spirito assumerà tra anni Venti e Trenta. Pur non essendo riducibile a un classico organicismo statolatrico e sociolatrico, il corporativismo fascista di Spirito avrà una connotazione «organica» e «funzionalista», per la quale frasi spenceriane come quella che segue stimolano comparazioni e ipotesi di influenze culturali, sia pure mediate da altre fondamentali letture48. Scrive Spencer: «Parlando genericamente, la vita del cittadino è resa possibile solo dal compimento della sua funzione nel posto che occupa, ed egli non può interamente spogliarsi delle convinzioni e dei sentimenti che derivano dai legami vitali sorti necessariamente fra lui e la sua nazione»49. tura e certi istinti, la comunità che formeranno presenterà inevitabilmente certi tratti, e nessuna comunità che abbia quei tratti potrà esser formata da individui con struttura e istinti diversi» (h. spencer, Introduzione allo studio della sociologia, cit., p. 67). 48. Di una «ineliminabile valenza “organicistica” contenuta nel termine concetto di corporazione» ha parlato Lorenzo Ornaghi, richiamandosi a un’ampia letteratura, soprattutto di scuola tedesca, che annovera studiosi del calibro di E.W. Böckenförde, in Stato e corporazione. Storia di una dottrina nella crisi del sistema politico contemporaneo, Giuffrè, Milano 1984, p. 35, nota 8. Dal canto suo, Arduino Agnelli ha messo in luce le analogie e le differenze tra il corporativismo di Spirito e quello di Arnaldo Volpicelli, rinvenendo proprio nell’organicismo di quest’ultimo la maggiore dissonanza tra le tesi in materia di Stato e società formulate dai due studiosi. Infatti, «anche quando può sembrare che ci sia un avvicinamento, Volpicelli mette l’accento sull’organismo statale, mentre Spirito ha sempre cura di avvertire che l’identità di individuo e Stato si deve sempre vedere anche come identità di Stato e individuo» (a. agnelli, Le implicazioni politiche dell’identità di filosofia e scienza in Ugo Spirito, in aa.vv., Ugo Spirito: filosofo, giurista, cit., p. 27). Resta il fatto che, con particolare riguardo al saggio L’identificazione di individuo e Stato (1930), Agnelli ammette, infine, che «anche Spirito parla di vita organica» (p. 31), anche se lo fa con riferimenti agli assetti economico-sociali e all’istituto della proprietà. 49. h. spencer, Introduzione allo studio della sociologia, p. 96.

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Comunque, i riferimenti spenceriani sono troppo limitati e generici per poter stabilire l’esistenza di nessi causali forti tra l’«organicismo» del filosofo inglese, e soprattutto della sua vulgata italiana tardo-ottocentesca, e le future teorie politico-sociali di Spirito. Resta, tuttavia, l’interesse che il positivismo evoluzionistico riveste quale possibile chiave esplicativa per render ragione della genesi di un modello corporativo che esula, in gran parte, dalle influenze gentiliane – e, tramite Gentile, mazziniane – come da quelle nazionaliste o, ancor di più, cattoliche. Il corporativismo spiritiano, pur nell’ambito di un inquadramento fortemente gerarchizzato e decisamente totalitario dei «cittadini produttori», si configura come un modello politico-sociale più dinamico rispetto a quello solitamente delineato dal tradizionale organicismo di ascendenza romantica. L’unità base a partire dalla quale si intende costruire una società corporativa «integrale» è l’azienda e non la famiglia o la piccola comunità, resa coesa dai legami di parentela e vicinato o, comunque, da fattori di ordine etnico-linguistico e culturale. La realtà produttiva della grande industria è il riferimento principale delle teorie corporative di Spirito. Tornando alla questione di quali siano i problemi suscitati nel giovane Spirito dagli studi giuridico-criminologici, c’è da segnalare un ultimo brano del libro di Spencer. È di notevole importanza ai fini della nostra analisi, perché Spirito ha scritto a fianco del testo spenceriano la seguente esclamazione: «Contro il libero arbitrio!», come a sottolineare un tema che gli stava particolarmente a cuore. Dopo aver elencato innumerevoli esempi di condizionamento esterno cui è sottoposta la volontà umana, Spencer commenta: «Se da queste cause remote volgete lo sguardo alle cause più prossime, vedrete che le vostre azioni sono dirette da un complesso d’influenze talmente avviluppate che riesce difficile il districare appena le prime fila della matassa»50. 50. Ivi, p. 22.

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L’ampia letteratura esistente sul ruolo svolto dal positivismo nella cultura italiana a cavallo fra Ottocento e Novecento offre numerose conferme a quanto finora affermato. In primo luogo, la presenza di Spencer e l’assenza di Comte nella biblioteca spiritiana sono in perfetta sintonia con le vicende culturali ed editoriali che caratterizzarono la ricezione dei due filosofi in Italia. Come ha rilevato Filippo Barbano, le indagini finora condotte danno la netta impressione che, per quasi tutto il xix secolo, «Comte sia stato più nominato che letto e citato, e che solo con il passare degli anni sia stato più letto e conosciuto»51. Di tale marginalità sono testimonianza le scarse e incomplete traduzioni dell’opera del filosofo francese, durante tutto l’Ottocento e per buona parte del Novecento. Diversa sorte toccò a Spencer, cui in Italia arrise subito una particolare fortuna editoriale, come dimostrano le numerose traduzioni a partire proprio da quel volume posseduto da Spirito52. La fortuna di Spencer in Italia venne agevolata dalla diffusione del darwinismo intorno al 1865 e dal successo che ben presto questo riscosse negli ambienti scientifici e intellettuali della penisola. La vulgata spenceriana ebbe luogo grazie alla commistione che si fece tra l’evoluzionismo biologico darwiniano e quello filosofico di Spencer53. Al di là delle mistifica51. f. barbano, op. cit., p. 180. Sulla ricezione del pensiero di Comte in Italia, vedi anche m. larizza lolli, Comte e l’Italia (1849-1857), in aa.vv., Il positivismo e la cultura italiana, pp. 63-110. Più di Comte pare fosse letto, in quello stesso periodo, John Stuart Mill, di cui si tradusse nel 1896 il saggio su Comte e il positivismo (si veda ora j. stuart mill, Comte e il positivismo, intr. di A. Pacchi, unicopli, Milano 1986). 52. Vedi supra. 53. Cfr. m.a. toscano, Introduzione a h. spencer, Antologia di scritti, cit., pp. 35-36, «Darwin [...] era più temibile di Spencer; anche la dottrina spenceriana subisce infatti la prepotenza dell’ombra di Darwin e, a dispetto di tutte le delucidazioni di Spencer, è trattata comunemente sotto la rubrica di “darwinismo sociale”». Al contrario, oggi è data per appurata e acquisita l’autonomia di Spencer dall’autore dell’Origine delle specie. Cfr. m.a. toscano, Malgrado la storia. Per una lettura critica di Herbert Spencer, Feltrinelli, Milano 1980 (sulla ricezione di Spencer in Italia e nel mondo, pp. 33-59).

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zioni compiute, l’evoluzionismo spenceriano si caratterizza per un’inclinazione metafisica che, sempre a detta di Barbano, non è esente dall’aver favorito il cosiddetto «risveglio idealistico» nell’Italia del primo Novecento54. Altro legame certo, seppure oggetto di critiche da parte del diretto interessato, è quello tra lo spencerismo e Roberto Ardigò, il quale «protestava un suo primato personale, rispetto a Comte e Spencer, non solo in termini di filosofia positiva, ma anche in termini di sociologia, della quale usò almeno il nome»55. Il confronto con il pensatore inglese, nonché col filosofo francese, prese forma nel volume ardigoiano del 1908, intitolato A. Comte, H. Spencer e un positivista italiano56. L’asse Spencer-Ardigò-Ferri pare, a questo punto, essere una sicura fonte di formazione del giovane Spirito e spiega bene la natura del suo positivismo, delle esigenze teoriche ed etiche maturate. Ci fornisce, inoltre, un ulteriore elemento per rendere teoreticamente più coerente e comprensibile il passaggio all’idealismo gentiliano.

54. «Comte aveva, in fondo, escluso la metafisica, per via storica, più che epistemologica; ma Spencer reintroduceva la metafisica per via evoluzionistica» (f. barbano, op. cit., p. 198). «Il segnale al “risveglio idealistico”, non fu dato dal problema comtiano della “conoscibilità” dei fatti storico sociali, ma da assunzioni spenceriane, come, per esempio, quella sull’“inconoscibile”» (ivi, p. 199). 55. f. barbano, op. cit., p. 192. 56. Del ruolo centrale, anche in termini di confronto critico, svolto dallo spencerismo nel pensiero di Ardigò si mostra ben consapevole anche Spirito, almeno quello che redige nel 1956 un’antologia di testi dei positivisti italiani, concernenti, soprattutto, questioni di pedagogia. L’interpretazione che viene fornita del positivismo ardigoiano non pare distante da quella fin qui esposta. Non è casuale, infatti, che nella prima parte, dedicata alle Premesse filosofiche del positivismo italiano, il primo capitolo sia intitolato Metafisica del fatto e che questo capitolo sia aperto da un brano ardigoiano (l’unico della prima parte) Sull’inconoscibile di Spencer. Cfr. u. spirito (a cura di), Il pensiero pedagogico del positivismo, cit., pp. 39-49.

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de libero arbitrio o de servo arbitrio? Conseguita la laurea in giurisprudenza, ciò che pare non soddisfare il giovane Spirito, appassionato studioso di diritto, è la subordinazione totale del soggetto al contesto interpersonale nel quale questi si trova ad agire e col quale interagisce. Che l’autonomia della volontà del singolo fosse un problema presente e pressante da tempo nei pensieri di Spirito, sin quasi dagli esordi universitari, lo dimostra una lettera scrittagli nel gennaio del 1916 da Emilio La Rocca, suo ex professore al Liceo ginnasio di Chieti. Si legge, infatti, a un certo punto: «Che dirti poi circa il problema che ti travaglia del “libero arbitrio”? Sarebbe molto grato all’animo mio averti vicino a discorrere e studiare insieme intorno all’arduo, tanto arduo problema»57. La Rocca consiglia, poi, alcune letture, in particolare il Croce della Filosofia della pratica, per alimentare nel giovane ex allievo la convinzione della libertà del volere58. Appare meno casuale, perciò, la scelta del tema della tesi per la seconda laurea, questa volta in filosofia, che conseguirà il 10 luglio 1920. Si tratta, come accennato, di uno studio su Il pragmatismo nella filosofia contemporanea, pubblicato l’anno dopo per i tipi della Vallecchi59. Come scrive lo stesso Spirito, il pragmatismo è quell’indirizzo filosofico, originariamente statunitense, che cercava di riaffermare «i diritti dell’indivi57. La lettera è riportata per intero in a. russo, Positivismo e idealismo in Ugo Spirito, cit., pp. 246-249. Il brano citato è a p. 247. 58. Cfr. ivi, p. 248. Anche nel più recente lavoro di Giovanni Dessì si sottolinea la rilevanza del tema nel periodo giovanile: «Durante gli anni dell’università egli inizia ad avvertire come problema questa radicale eliminazione della libertà, che pure era in qualche modo un esito della sua fede positivistica» (g. dessì, Ugo Spirito, cit., p. 22). Nei primi due decenni del Novecento il clima filosofico italiano è agitato dal problema della praxis, a partire dagli scritti giovanili di Gentile dedicati a La filosofia di Marx, pubblicati nel 1899. Seguono poi, tra gli altri, i nomi di Antonio Gramsci e Rodolfo Mondolfo, nei quali il marxismo viene rivisitato alla luce di questa nozione. 59. u. spirito, Il pragmatismo nella filosofia contemporanea, Vallecchi, Firenze 1921.

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dualità, della libertà e della volontà del soggetto»60. Soprattutto, ciò che lo attrae è l’anti-intellettualismo, «l’affermazione della libertà umana e quindi del valore morale dell’uomo»61, ma ciò che non lo soddisfaceva del pragmatismo scaturiva dalla constatazione che il suo tentativo anti-intellettualistico era fallito nel momento in cui la sua filosofia dell’azione presupponeva «una realtà in cui operare, una realtà quindi già fatta» e, al tempo stesso, doveva riconoscere che «la realtà non può essere fatta perché appunto si fa in virtù della soggettività»62. Dalla conclusione della sua tesi di laurea emergeva, quindi, chiaramente la coerenza dell’attualismo che era riuscito a operare una radicale immanentizzazione del processo conoscitivo, per cui tutto era come principio e come fine nel pensiero in quanto atto, cioè attività pensante. Ci sono tanti io empirici, una molteplicità di pensanti, ma un unico pensiero, un solo Io trascendentale. La realtà, nella migliore tradizione idealistica, era interamente ricondotta a contenuto di coscienza e niente al di fuori dello «spirito come atto puro» poteva avere diritto di cittadinanza. Così Gentile scriveva sulla rivista da lui fondata nel 1920, «Giornale critico della filosofia italiana», in un articolo del 1931 che, peraltro, rispondeva alle tesi spiritiane sull’identità di filosofia e scienza, che esamineremo tra poco: che la scienza sia filosofia è evidente che non può esser messo in dubbio da me che sostengo tutto essere filosofia; poiché tutto è pensiero, e il pensiero è autocoscienza, e questa coscienza di sé è per l’appunto l’essenza della filosofia63.

Se noi prendiamo sul serio, radicalmente sul serio, queste affermazioni, non possiamo che concepire una filosofia che si ri60. Ivi, p. 28. 61. Ivi, p. 150. 62. Ivi, p. 71. 63. g. gentile, Filosofia e scienza, in «Giornale critico della filosofia italiana», fasc. ii, 1931, p. 84.

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solve, letteralmente si diluisce, come sostanza che si diffonde senza alterarsi, nelle varie pratiche conoscitive. La filosofia interpretata nell’ottica gentiliana non è «più teoria e contemplazione del mondo, ma solo azione e creazione del mondo stesso. Azione che non è, tuttavia, un immediato agire, bensì coscienza di agire»64. Spirito prende sul serio l’intenzione gentiliana di attualizzare la filosofia, il cui «valore teoretico è assolutamente nulla (intellettualismo) se non diventa etico (attualismo)»65. Allora, se l’assoluto è il pensiero in quanto atto, attività che definisce e non può essere definita, noi finiremo per ritrovare la filosofia nelle diverse forme conoscitive che sondano il particolare, senza, però, poter mai asserire di aver perso il contatto, la fondamentale, intima unità con il tutto che è come lo sfondo sul quale immancabilmente, inevitabilmente si opera. Il vero «scienziato», perciò, non può non essere filosofo, ma anche il vero filosofo sarà colui che si cimenterà nelle singole discipline scientifiche. Ed è così che Spirito matura, attorno al 1925-1927, la convinzione che per fare opera di autentico, genuino attualismo occorre dare fondo alla ricerca nei singoli campi del sapere, uniti dal principio dell’autocoscienza e di un pensiero che è prassi, svolgimento che accompagna ogni singola attività conoscitiva. Il primo documento che testimonia questa decisione è un articolo del 1926 dedicato a La scienza dell’economia. Siamo, però, anche all’inizio di un’evidente evoluzione verso qualcosa che supera o, quantomeno, si differenzia dall’idealismo gentiliano. Il terreno su cui matura questa evoluzione è il rapporto tra scienza e filosofia, appunto. La prima o, meglio, le prime, cioè le scienze, non sono più subordinate alla seconda in una scala gerarchica dei saperi, grazie alla quale il vertice può dichiarare di avere il possesso certo della verità ultima e defi64. u. spirito, L’idealismo italiano e i suoi critici (1930), Bulzoni, Roma 1974 (2ª ediz.), p. 59. 65. Ivi, p. 115.

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nitiva. Così non può essere se non si vuole fare dell’attualismo ciò che tale filosofia sostiene di aver sconfitto, ossia un rigido sistema che pretende di fornire una definizione esaustiva della realtà. L’attualismo, preso sul serio, non può sclerotizzarsi in una teoria dello spirito come atto puro, incasellandosi nella storia degli intellettualismi filosofici, ma deve restare una teoria diveniente del divenire. L’instabilità, come ben si comprende, è la conseguenza ineludibile di una simile posizione che porta alle estreme conseguenze l’immanentismo gentiliano per cui essere e divenire coincidono. Il laboratorio nel quale viene incubato questo passaggio teoretico e pratico fondamentale è la rivista bimestrale «Nuovi studi di diritto, economia e politica», fondata assieme ad Arnaldo Volpicelli nel novembre 1927 e che continuerà le sue pubblicazioni fino al 193566. A questo punto, si tratta di vedere cosa succede se si tenta di trovare conferma a una filosofia monistica, per la quale tutto è coscienza e tra conoscere e fare vi è assoluta identità o, meglio, identificazione, dato che si tratta sempre e soltanto di un processo costantemente rinnovantesi. Andare sul piano del fare, cioè calare l’atto spirituale nella concreta realtà storica, vuol dire studiare diritto, economia, politica, e pure fisica, pedagogia e altre discipline che perlustrano ambiti specifici e delimitati della realtà. Vuol dire confrontarsi con un reale che cangia incessantemente al punto da arrivare a dissolvere ogni certezza che vada al di là della semplice evidenza dell’autocoscienza. Vedremo in seguito come certe discipline scientifiche, nel settore delle scienze umane e sociali, metteranno in discussione pure il principio dell’autocoscienza. Quel che è certo è che il reale mostra antinomie a mano a mano che lo si indaga con sempre maggiore profondità analitica. Nel fare, dunque, nell’esperienza, dal 1937 Spirito cerca con incertezza «protoproblematicistica» il supera66. Cfr. l. punzo, L’esperienza di «Nuovi Studi di diritto, economia e politica», in aa.vv., Il pensiero di Ugo Spirito, cit., vol. ii, pp. 367-378.

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mento del rigido dualismo di soggetto e oggetto. Fino ad allora si era invece mosso con sicurezza attualistica, ritenendo di aver trovato la chiave risolutiva di tale dualismo in un fare inteso come atto puro, tensione spirituale creatrice. L’anelito monistico appare come la costante di fondo. A questo punto, possiamo affermare che è proprio sulla base dell’esperienza come condizione di immanentismo assoluto che Spirito ritiene indubitabile una sostanziale continuità tra positivismo e idealismo. Rispetto al vecchio positivismo, egli non considera la filosofia come la disciplina che raccoglie e organizza i risultati delle singole scienze. Dal suo punto di vista, osserva Antonio Capizzi, «non ci sono due attività da conciliare, ma solo dei malintesi da rimuovere: [...] scienza e filosofia sono i due momenti necessari di ogni sapere, e come tali inseparabili»67. Sotto questo profilo, la filosofia risulta come «la coscienza critica della scienza stessa nel suo processo storico», una «scienza inserita nel vivo della storia, cosciente della storicità (dunque, del carattere provvisorio e rivedibile, aggiungiamo noi) dei propri postulati e delle proprie teorizzazioni»68. Operando sul terreno della scienza, Spirito fa propria una concezione speculativa per la quale il sapere non è mai dato una volta e per sempre. Può restare la certezza dell’autocoscienza, almeno per il momento, ma ci si abitua a evitare ogni definizione che vada al di là dell’ipotesi, ed è questo un tema che crescerà nel periodo successivo al secondo dopoguerra, in specie nel corso degli anni Cinquanta. Ma è già negli scritti elaborati tra il 1929 e il 1933, e poi raccolti nel volume Scienza e filosofia (1933), che, a nostro avviso, Spirito si abitua a uno «stile di pensiero», come lo ha definito Salvatore Natoli, «in cui l’andare prevale sullo stare e l’indagare sul trovare, poiché quel che si attinge può ogni volta essere superato»69. 67. a. capizzi, La filosofia della scienza, p. 204. Il corsivo è mio. 68. Ibidem. 69. s. natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Bollati Boringhieri, Torino 1989, pp. 116-117.

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Come dire: il confronto con la scienza, o meglio, con le scienze, compiuto in nome di una fedeltà e di una piena coerenza con gli assunti attualistici, produce il sorgere di una sempre più viva coscienza dell’antinomicità del reale. Più chiaramente e al fondo della questione: nasce la convinzione che la filosofia, tradizionalmente intesa, si riveli inadeguata a dare conto di una realtà che può essere imbalsamata con qualche definizione, magari sofisticata, ma al prezzo di non coglierla mai. E mai la si potrà cogliere interamente, perché la realtà sguscia tra le maglie di un sapere che pretende di avere il possesso della verità. Dalla seconda metà degli anni Trenta compare a chiare lettere in Spirito la percezione della finitudine come problema, dato che l’infinità se ha da essere riconosciuta non può che esserlo come un divenire che mi può dare solo la certezza del momento, ma mai il senso della totalità delle cose. Il divenire preso radicalmente sul serio distrugge ogni immutabile, direbbe Emanuele Severino, e pare di poter dire che sotto quest’aspetto abbia senz’altro ragione70. Abbiamo così, di fronte a noi, le premesse problematiciste, a partire dalle quali «Spirito è nelle condizioni di ridare centralità alla scienza come esperienza positiva del problema, come contrassegno dell’incertezza del mondo, ma anche come una modalità adatta a percorrerlo»71. Conoscenza del particolare e conoscenza dell’universale non possono più essere affermate come sincroniche, perché resta un residuo di inconoscibile. Ogni singola scienza ha ben presto consapevolezza di ciò, e non basta a colmare le lacune di ogni singola disciplina l’unione delle conoscenze e dei risultati di ciascuna di esse. La somma dei saperi e dei punti di vista non mi darà mai il possesso della verità. Insomma, l’avvento di quella posizione speculativa che Spirito battezzerà nel 1947-48 col nome di pro70. Cfr. e. severino, Attualismo e problematicismo, in aa.vv., Il pensiero di Ugo Spirito, cit., pp. 29-39. Tra i primi studi di un giovanissimo Severino figura Note sul problematicismo italiano, Vannini, Brescia 1950. 71. s. natoli, op. cit., p. 117.

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blematicismo scaturisce da due assunti, al tempo stesso tra loro connessi e contraddittori. Il primo assunto, propriamente gentiliano, è la fede nel divenire e, perciò, la convinzione che ogni principio che io pretendo assoluto ed esaustivo di ogni conoscenza possibile deve fare i conti con esso, dunque, deve essere diveniente, dinamico, ma, come tale, mai effettivamente posseduto, a meno che non approdi a un’altra dimensione: quella religiosa, ad esempio. Tuttavia, l’immanentismo laico di Spirito non consente un tale esito. Il secondo assunto prevede che il ripristino dell’esperienza come terreno su cui realizzare compiutamente l’immanentismo ontologico – per cui l’essere è divenendo nella realtà intramondana – produce il suo opposto, l’apertura alla trascendenza. Secondo l’impostazione gentiliana l’esperienza è un presupposto naturalistico e intellettualistico. Nell’ottica spiritiana, invece, ciò che soprattutto conta è che l’esperienza mi mostra tutti i limiti della ragione umana, l’arbitrio di alcune sue asserzioni, compresa quella che sostiene la mia capacità, più o meno innata e, dunque, di facile apprendimento, di avere piena coscienza e conoscenza di me. Il pluralismo dei punti di vista, la fallibilità potenziale di ogni teoria che si impegni nello sforzo di spiegare il reale, tutto della concreta pratica scientifica porta a distinguere tra verità cercata e verità posseduta. La prima è la verità quale si presenta a noi – e sempre si presenterà all’uomo di scienza, sottintende Spirito –, la seconda è quell’incontrovertibile che presenta, né più né meno, gli attributi propri del principio divino. Pietro Prini, amico e collega di Spirito, ha sostenuto che l’idea della «totalità», ossia dell’Assoluto, ossia di Dio, è per Ugo Spirito l’irrinunciabile della filosofia come scienza e la sua eterna aporia. Parlando una volta con lui – è sempre Prini a ricordare – e chiedendogli se poteva dare un nome all’oggetto irraggiungibile e inesauribile della vita come ricerca, mi rispose con semplicità: «Sì. È Dio»72. 72. p. prini, L’umanesimo scientifico di Ugo Spirito e la critica delle «false scienze», in aa.vv., Il pensiero di Ugo Spirito, cit., p. 222.

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Come si intuisce immediatamente, in questa perentoria affermazione finale troviamo una chiara anticipazione del perché un’epistemologia, quale quella spiritiana, tendenzialmente aperta al pluralismo metodologico e alla relativizzazione di tutti i criteri (salvo l’ancoraggio positivistico all’esperienza e al fatto nudo e crudo) finisca poi, però, per sostenere che la scienza è la nuova metafisica (e la nuova morale) dell’umanità contemporanea. In primo luogo, ciò avviene appunto per questa esigenza monistica di riconquista di una verità che sia unica e immutabile. Contraddizione suprema, dunque: fede nel divenire e desiderio di stasi, di un equilibrio costante, per quanto dinamico. La sfida è (quasi) sovrumana. C’è poi un’esigenza, che è difficile dire se sia di origine politico-ideologica piuttosto che «cristiana», comunque religiosa, ed è quella del superamento dell’individualismo, dell’egocentrismo. L’Io è male: è questo che con crescente insistenza afferma lo Spirito del secondo dopoguerra, entrando in apparente contraddizione con l’impostazione attualistica, ma in realtà riprendendola nella sua più genuina e profonda interpretazione che vede la realtà tutta, il mondo, esprimersi ogni volta in ogni «atto» (spirituale) di ogni individuo, che come tale si illude di essere centro esclusivo, isolato e isolante, della fenomenicità circostante. Difficile districarsi tra i pensieri spiritiani per capire quale sia l’origine di una simile esigenza antindividualistica, intellettualmente prepotente e prorompente. Il fatto è che il filosofo usa e mescola termini e concetti politico-ideologici, come «comunismo», con altri, come «amore», che più si addicono a una religione quale quella cristiana. Scrive Spirito nel 1968, in un articolo significativamente intitolato Comunismo e felicità: Occorre […] giungere alle più profonde radici e domandarci in quale senso si trasformi la situazione spirituale dell’uomo, quando si passi dall’ideale che ha caratterizzato tutto il pensiero moderno a quello che si instaura attraverso il socialismo e il comunismo. L’attuale crisi […] è, appunto, crisi della concezione individualistica della vita e cioè di una

158 visione dell’individuo come individuo privato: individuo soggetto di diritti e principalmente del diritto di proprietà che consacra la sfera del mondo privato. […] L’esigenza comunista è rivolta contro la proprietà e contro i diritti, ed è diretta, cioè, a sprivatizzare il mondo privato e a concepire l’individuo come appartenente sempre meno a se stesso e sempre più alla società, fino a raggiungere l’identificazione di individuo e società73.

Queste pagine datate 1968, come d’altro canto molte altre scritte da Spirito nei vari decenni fra 1920 e 1979, indirizzano l’interprete a ritenere che la matrice prima e ultima dell’antindividualismo spiritiano sia sociale e politica, in definitiva di tipo ideologico, e la commistione terminologica cui accennavamo ne è, in fondo, soltanto una conferma. L’antindividualismo è anche e soprattutto antiborghesismo e anticapitalismo: Incomunicabilità, vuoto, indifferenza, angoscia, impoverimento progressivo di tutto e di tutti, fino alle forme più drastiche della negazione, fino alla disperazione e al suicidio. Questo l’epilogo della concezione individualistica propria della borghesia moderna. Fallito l’ideale individualistico, la via verso una forma di vita migliore non può essere segnata se non in senso inverso: risalendo cioè la china dall’individuo alla comunità e anzi ponendo come ideale dell’avvenire l’ideale di una comunità sociale in cui l’individuo riconoscerà la propria ragione di essere74.

Ciò che Spirito negli anni Venti e Trenta aveva pensato di trovare nella volontà politica fattasi regime «rivoluzionario», almeno nelle dichiarazioni ufficiali e nella propaganda di partito, adesso, fine anni Sessanta, ritiene di poter rinvenire nella forza oggettiva del processo storico di radicale trasformazione tecnologica delle società umane. Una forza ancor più volitiva e travolgente perché impersonale. Pensata finora dalla filosofia occidentale come mezzo, la scienza reca in sé una metafisi73. u. spirito, Comunismo e felicità, in «Giustizia e Società», n. 1, 1968, p. 3. 74. Ivi, p. 4.

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ca che non può che essere antindividualistica «o comunistica che dir si voglia»75. Perché la scienza è intimamente legata ai presupposti del comunismo, anche se di un comunismo non più marxistico o ideologico, bensì del comunismo scientifico? […] La risposta va cercata nella rivoluzione che la scienza ha compiuto e compie nel modo di concepire l’uomo e quindi il rapporto tra individuo e società. La rivoluzione, si sa, consiste nel considerare l’uomo non più come soggetto, ma come oggetto da indagare e da comprendere. […] Il comunismo scientifico consiste appunto in questo unirsi agli altri, alle cose, alla realtà, e sollevarsi dalla finitezza e dalla contingenza dell’individualità singola all’infinità e all’assolutezza dell’essere. […] Questo ci insegna a fare la scienza, che è, appunto, sforzo di comprensione dell’oggetto e processo di unificazione con ogni alterità. E proprio perciò la vita deve essere concepita come amore76.

C’è, dunque, un nuovo comunismo che scaturisce dalla metafisica che sta dentro ciò che la scienza contemporanea rivela della natura, umana e non. Un comunismo che è quasi sinonimo di «comunione» spirituale, fra soggetti indeboliti dalle continue scoperte anche delle scienze umane, «dalla psicologia sperimentale alla psicanalisi e dall’antropologia alla sociologia», per cui anima e corpo non sono più scindibili77. Da cui consegue che quella comunione non può nemmeno essere definita «spirituale», almeno in senso stretto, e certa dottrina cattolica si mostra, dunque, in affanno con i nuovi tempi. La «vittoria sul finito», e, dunque, il problema della morte, tanto cruciale nelle religioni tradizionali e assillo di credenti e aspiranti tali, acquista significato «nell’opposizione all’individualismo»: Fin quando rimango attaccato ai limiti del mio corpo, visto nel suo distacco e nella sua autonomia rispetto alla società di cui faccio parte e al75. Ivi, p. 6. 76. Ivi, pp. 6-8. I corsivi sono nostri. 77. Ivi, pp. 6-7.

160 la natura in cui sono inserito, è evidente che la visione della morte vanificherà ogni mio tentativo di essere felice. […] Occorre, dunque, che io riesca a vedermi nell’effettiva mia realtà che è quella per cui mi identifico col cosmo e mi riconosco nella sua totalità78.

La commistione tra discorso religioso e discorso politico ingenera una confusione di linguaggi e consente di sottrarsi all’onere della prova, secondo un modo di argomentare – e talora una tecnica di persuasione oratoria – che è tipico dell’intellettuale rivoluzionario novecentesco, come aveva ben colto Raymond Aron sin dal 1955 nel suo ormai classico Opium des intellectuels79. Qualche anno prima del «comunismo scientifico», Spirito aveva, però, introdotto l’idea di un «umanesimo», anch’esso «scientifico».

l’umanesimo scientifico Può essere utile, a questo punto, fare un passo indietro e considerare più diffusamente la posizione che Spirito assume nei confronti del concetto generale di scienza a partire dal secondo dopoguerra, per la precisione dai primi anni Cinquanta. Tra gli anni Sessanta e Settanta, egli si confronterà poi con le cosiddette «scienze sociali», e in particolare con la sociologia e la psicoanalisi. Muovendoci all’interno del corpus teoretico spiritiano, ne riprodurremo l’andamento oscillante, simile alla marea, che rende difficile trovare un ubi consistam definitivo di quel suo viaggio – durato una vita intera – alla ricerca dell’«incontrovertibile»80. 78. Ivi, p. 7. 79. Cfr. r. aron, L’oppio degli intellettuali, trad. it. P. Casini, Cappelli, Bologna 1958. 80. Si leggano i seguenti passi tratti da u. spirito, Storia della mia ricerca, Sansoni, Firenze 1971: «Credo che la ragione principale dei mutamenti vada cercata so-

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Dunque, ricapitolando brevemente, possiamo elencare i seguenti passaggi nel percorso filosofico-scientifico spiritiano: a) positivismo iniziale, ben presto accompagnato dall’insoddisfazione per la mancata consapevolezza, da parte dei primi pionieristici studi di sociologia scientifica (sperimentale), circa le implicazioni speculative e antropologiche a cui proprio tali studi conducevano; b) studi filosofici e adesione completa all’attualismo, per cui inizialmente la scienza è, come scrive il giovane neofita nel 1921, soltanto «lo studio del mondo considerato come meccanismo, è visione essenzialmente naturalistica della realtà»81. Successivamente, sviluppando coerentemente principi attualistici, Spirito giunge alla tesi dell’identificazione di scienza e filosofia, dal momento che l’universale si esplica individuandosi nel particolare, e il particolare presuppone l’universale. Siamo nel periodo 1929-1933. c) fase problematicistica, che inizia nel 1937 e vede, per così dire, il «degradarsi» della filosofia da soluzione a problema, ormai apertura e non più conclusione. Ma la consapevolezza della necessità di questa trasformazione la filosofia non la possiede, dato che per quest’ultima si tratterebbe solo di una degradazione, appunto. Eppure, l’ennesimo fallimento di un sistema speculativo, l’attualismo, che pretendeva di aver colto la chiave esplicativa di ogni possibile ente, dimostra come la scienza sia ben più attrezzata della prattutto nella forma mentis che caratterizza il mio modo di filosofare. Penso che essa consista in una radicale coscienza dell’antinomicità del pensiero [...]» (p. 14); «[...] non ho mai dubitato della necessità di riconoscere come essenziale e imprescindibile la domanda metafisica. Pensare, per me, ha voluto sempre dire ricondurre il molteplice all’unità e perciò cercare il significato dell’unità o del principio del reale» (p. 15); «La domanda metafisica è stata da me sempre posta come domanda dell’incontrovertibilità. [...] Ora è proprio la domanda dell’incontrovertibilità quello che ha reso mutevole il mio pensiero e sempre bisognoso di un rinnovamento continuo. Per quanto radicale sia il dubbio non può non alternarsi con pause di certezza più o meno convinte» (p. 16). 81. u. spirito, Le interpretazioni idealistiche delle teorie di Einstein, in «Giornale critico della filosofia italiana», ii, n. 2, giugno 1921, p. 63.

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filosofia a descrivere e comprendere la condizione esistenziale e gnoseologica dell’uomo. Dunque, scienza e filosofia non si identificano più. La seconda è relegata al rango di metafisica, nell’accezione negativa che Spirito dà in certi casi a questo termine, intendendo, dunque, dire «dogma», «mito», favola astratta e insignificante; la prima – la scienza – è, invece, l’antimetafisica in quanto sapere provvisorio, ricerca continua, che non nega la metafisica nell’accezione positiva che Spirito conferisce in altri casi al termine, ovvero quella di aspirazione e tensione verso l’assoluto. La scienza ha, dunque, coscienza storica, è cioè consapevole del mutare spaziale e temporale dei principi e delle teorie. A dimostrare l’unità e la continuità tematica della filosofia spiritiana della scienza nel periodo compreso tra il 1937 e i primi anni Cinquanta, vi è un capitolo de La vita come ricerca («Scienza e filosofia») incluso nella seconda edizione, riveduta e ampliata, di Scienza e filosofia, datata 1950. In un passaggio di questo capitolo possiamo leggere quella che è, per lo Spirito problematicista, la distinzione fondamentale tra filosofia e scienza o, meglio, tra il filosofo e lo scienziato: il primo pretende di sapere, mentre il secondo crede di non sapere, «il primo è al termine del processo e si compiace di illustrarlo e il secondo muove faticosamente verso un’unità che tuttavia gli sfugge»82. L’ipercriticismo e l’antidogmatismo intransigente sono, a detta dello stesso Spirito, i cardini dell’epistemologia problematicistica. I criteri che consentono di distinguere i giudizi propriamente scientifici dai giudizi di opinione caratteristici delle costruzioni metafisiche o religiose, come pure dalle valutazioni di carattere etico, sono pertanto: 1) l’ipotetismo: ogni asserzione scientifica nasce come ipotesi consapevole del proprio carattere parziale e provvisorio, sebbene aneli alla conferma che ne garantisca una validità universale; 82. u. spirito, Scienza e filosofia, Sansoni, Firenze 1933, p. 207.

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2) il principio di non esclusione: l’ipotesi scientifica ammette altre ipotesi, compresa quella che ne rappresenta la perfetta antitesi e la completa confutazione; 3) e, per finire, il rifiuto dell’atteggiamento giudicante: con quest’ultimo criterio si rivela in pieno il significato anche morale della pratica scientifica (il termine pratica può essere qui inteso nel senso tradizionale di etica/morale) che mette capo a una nuova forma di umanesimo, l’«umanesimo scientifico». Quando nel 1950 Spirito si interessa nuovamente del problema scienza-filosofia, lo fa partendo dalla concezione che della scienza aveva formulato Leonardo da Vinci83. Questi aveva distinto tra le «bugiarde scienze mentali», filosofiche e artisticoletterarie, da una parte, e la scienza «figliuola dell’esperienza», dall’altra, dove per esperienza si intende il «passaggio attraverso i sensi e le matematiche dimostrazioni»84. Leonardo non dava, però, valore radicalmente avversativo e oppositivo a questa distinzione, vale a dire: non sosteneva che o si fa scienza e si conosce veramente, oppure ci si dedica alla filosofia, alla religione, all’arte e si sposa un semplice dogma che, però, impedisce di attingere una qualsivoglia conoscenza, profonda e proficua. E su questa falsariga si muove pure Spirito fino alla fine degli anni Cinquanta. Poi, però, qualcosa cambia. Forse è l’incapacità di sopportare un’inquietudine crescente, un’ansia non più gestibile da chi era naturalmente incline al monismo e alla totalità (secondo quanto sostiene, ad esem83. Il pensiero di Leonardo era stato oggetto di studio anche di Gentile, cfr. Leonardo, in g. gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento (1920), Sansoni, Firenze 1940 (3ª ediz. accr. e riordinata), pp. 117-149. Anche Cesare Luporini, ex gentiliano, si occupò nel secondo dopoguerra di Leonardo, a conferma del ruolo giocato dal pensiero del grande artista rinascimentale nell’ambito della speculazione filosofica attualistica e postattualistica (c. luporini, La mente di Leonardo, Sansoni, Firenze 1953). 84. u. spirito, Nuovo umanesimo, Armando, Roma 1968 (2ª ediz. riveduta e ampliata), p. 18. Si veda anche a. negri, Dal corporativismo comunista all’umanesimo scientifico. Itinerario teoretico di Ugo Spirito, Piero Lacaita, Manduria 1964, pp. 139-159 e pp. 161-166.

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pio, Antimo Negri). Fatto sta che Spirito riformula la distinzione leonardesca, che è, tutt’al più, indice di una differenza qualitativa, e lo fa nel senso di un primato indiscusso e indiscutibile della scienza rispetto alla filosofia. Se adottiamo la distinzione neokantiana, introdotta da Dilthey nel 1883 e ripresa e precisata da Windelband nel 1894, tra scienze della natura (Naturwissenschaften) e «scienze dello spirito» (Geisteswissenschaften), potremmo dire che le prime assicurano la cessazione di ogni «litigio» e di ogni «gridare» (espressioni leonardesche) generando, grazie all’evidenza dei fatti, consenso unanime. Due più due fa quattro, la somma degli angoli interni a un triangolo è pari a due angoli retti, ecc. Come a dire: la matematica non è un’opinione; ma il ragionamento potrebbe essere esteso a tutte le scienze empiriche. Se questo aspetto, già ricordato nel 1950, non aveva allora prodotto l’affermazione del primato della scienza, adesso – e siamo a cavallo tra anni ’50 e anni ’60 – l’esigenza (hegeliana?) dell’unificazione e la rimozione di ogni dissenso che lacera la condizione umana sfocia nella metafisicizzazione della scienza. Ma cosa si intende col termine «scienza», questa scienza che con la tecnica85, col suo braccio secolare e «armato», fonda la morale e la metafisica del nuovo umanesimo? A nostro avviso, la scienza di cui ci parla Spirito in questo periodo è un criterio di indagine conoscitiva, piuttosto che uno specifico ambito disciplinare, si tratta, insomma, di una metodologia informata ai princìpi della ricerca e dell’ipoteticità del vero. È, in sostanza, un tipo di approccio alla studio della realtà, ma è anche un abito mentale, critico e antidogmatico, aperto a sempre nuove ipotesi che possono rimettere in discussione le precedenti. Si tratta, pure, di un abito morale, informato al principio di origine evangelica del «non giudicare» e tendente a praticare una «vita come amore» (titolo, com’è noto, di un’opera del 1953), amore «che è sforzo di compren85. Cfr. u. spirito, L’avvenire della scienza (1959), in id., Inizio di una nuova epoca, Sansoni, Firenze 1961, pp. 119-158.

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sione, di unificazione, e che concepisco destinato a esaurirsi con la comprensione e l’unificazione effettiva»86. L’obiettivo è già chiaro ed esplicito, solo che l’incertezza e il criticismo problematicistico sono ancora forti, e soltanto di lì a sei, sette anni matura la convinzione che sia possibile ricreare una visione unica e onnicomprensiva della realtà, tendenzialmente (solo tendenzialmente) monistica, perché la consapevolezza dell’impossibilità dell’autopossesso è ben viva e, dunque, il residuo problematicistico c’è, resiste e, come vedremo, riemergerà, riacquistando consistenza. Di conseguenza, in nome della scienza, intesa nel senso sopra precisato, è possibile unificare le metafisiche che albergano nella mente e nell’animo dello scienziato e di ogni specialista, il quale fuori del laboratorio continua magari a professarsi cattolico o marxista o altro ancora. Dalla doppia verità occorre passare all’unica concezione della vita che ricomprende in sé le istanze proprie della religione prima e della filosofia poi, ovvero l’assoluto, l’infinito, Dio. Pertanto, «non si può sperare di unificare, nella scienza, scienza e filosofia, senza ritrovare nella scienza la soddisfazione delle esigenze della filosofia e della religione: l’assoluto, l’infinito, Dio. O la scienza ha immanente in sé una metafisica o il superamento del dualismo è destinato a fallire»87. Ecco, qui è la svolta, e nemmeno troppo tra le righe. Nella scienza è implicita una metafisica, e fin qui niente di nuovo rispetto a quanto sostenuto nel corso di gran parte degli anni Cinquanta. La differenza è nel contenuto di questa metafisica: prima, si trattava di un ipotetismo così (auto)critico da limitarsi a fare della scienza un esempio di «umiltà» per la filosofia, che avrebbe dovuto pertanto vestirsi dei medesimi panni dimessi indossati dalla ricerca scientifica. L’esperienza insegnava che definitivo ed esaustivo sono parole che non esistono nel vocabolario della conoscenza umana. Il filosofo doveva imparare, 86. u. spirito, La speranza, in «Giornale critico della filosofia italiana», vi, n. 2, aprile-giugno 1953, p. 172. 87. id., Nuovo umanesimo, cit., p. 28.

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socraticamente (dunque, imparare di nuovo?), a sapere di non sapere, mettendo in discussione pure quest’ultima consapevolezza. Lo scienziato docet, sia pure involontariamente. Adesso – siamo nel 1964 – Spirito, invece, afferma: la verità scientifica sollecita [...] il consenso generale, e la verità filosofica, al contrario, non riesce a persuadere tutti e anzi divide in prospettive inconciliabili. La risposta è stata trovata, al di là di ogni esperienza empiristica riconosciuta fin da Hume sempre di carattere soggettivo, nel principio vichiano della conversione del vero col fatto (verum et factum convertuntur). La scienza può dividere soltanto allo stato di ipotesi, non mai nel risultato verificato dal fatto88.

Lo Spirito della fine anni Cinquanta – e pure quello della seconda metà anni Sessanta – avrebbe «indebolito» questa affermazione perentoria, precisando che la verifica è, a sua volta, ipotetica, cioè parziale e non definitiva. Ma in quel momento – anno 1964 – non è così; anzi, un’autentica visione della vita come amore, intesa quale comprensione e unificazione universali, può scaturire dall’adozione di un atteggiamento scientifico nei confronti del mondo: Lo scienziato, in altri termini, crede nell’assoluta armonia del mondo, nella sua divinità e muove dalla fede nella razionalità del reale. La metafisica immanentistica hegeliana trova nella scienza la sua formulazione e la sua realizzazione effettiva, consentendo allo scienziato un atteggiamento speculativo che non può non tradursi anche in un atteggiamento morale89.

Siamo di fronte al recupero di un vero e proprio panlogismo di ascendenza hegeliana. La metafisica della scienza rintraccia e accerta, ma, in fondo, presuppone una logica razionale, intrinseca e necessaria, in ogni manifestazione del reale. Ecco che, ap88. Ivi, p. 29. 89. Ibidem. Il corsivo è nel testo.

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purato ciò, ogni «scienza dello spirito», dalla morale alla politica, dall’arte alla filosofia, deve convertirsi in scienza, cioè in studio particolare avente «l’unico scopo di esplicitare quel che è implicito in ogni altra scienza e cioè la conoscenza del tutto nella conoscenza di qualsiasi parte»90. Il tutto non si può trascendere, si può conoscere soltanto nella vita della parte. Sintetizzando: prima, nella fase problematicistica, potevamo, in fondo, parlare di una metafisica costruita come la scienza, secondo il suo abito critico e ipotetico; adesso, nella fase maggiormente «scientista», dobbiamo parlare di una metafisica della scienza, cioè implicita nella scienza, la metafisica – forse neohegeliana, forse neoattualistica – dell’onnicentrismo.

le due «false scienze» Secondo l’onnicentrismo, ogni elemento dell’universo, dall’uomo al granello di sabbia, è, al tempo stesso, il centro e la periferia, il tutto e la parte. L’uomo è un microcosmo, ma certamente non l’unico e lo è solo parzialmente. Per la precisione, lo è quando, ad esempio, proferisce parola, nel momento in cui lo fa è individuazione dell’assoluto, stante il fatto che non si può non assolutizzare ciò che si dice nel momento in cui lo si dice, anche se, magari, ciò che dico un attimo dopo è divenuto relativo e superato da altre verità, che sono, sì, assolute, ma di una assolutezza provvisoria nel tempo e nello spazio. Ciò che la visione onnicentrica comporta è un’idea dell’universo quale immensa rete di relazioni strettissime, per cui non è possibile pensare la parte prescindendo dall’insieme di cui essa è una componente. Questa singola parte posso considerarla nella sua specificità, osservarla e studiarla evidenziandone attributi ed effetti, ma non posso mai dimenticarne l’intrinseco legame con la totalità dal cui fondo si erge.

90. Ivi, pp. 30-31.

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Da queste considerazioni è già possibile intuire l’atteggiamento tenuto da Spirito sul tema del rapporto tra le singole scienze. Il vecchio umanesimo filosofico-letterario poggiava su una concezione enciclopedica del sapere. Così, da Aristotele a Leonardo, il prototipo del vero sapiente era colui che accumulava e sintetizzava in sé le conoscenze più disparate. A partire dalla rivoluzione industriale si è fatta, invece, strada il principio della divisione del lavoro, ben presto estesosi dal mondo dell’industria e della produzione materiale al mondo della cultura e della produzione spirituale. Dalla cultura, intesa come «esperienza conoscitiva e pratica di tante espressioni del mondo, nell’infinita serie delle sue manifestazioni»91, cioè da un sapere che si arricchisce senza alcun ordine codificato e nessuna finalità pratica immediata, si passa rapidamente alla competenza, insieme di cognizioni specifiche inerenti un preciso ambito produttivo o conoscitivo. La nuova figura emergente, destinata a emarginare l’uomo di cultura – sostanzialmente un opinionista –, è, dunque, il produttore, dotato di una competenza sempre più settoriale e parcellizzata. Ora Spirito non accetta passivamente, né tanto meno esalta acriticamente, il fenomeno della divisione del lavoro, ma è senz’altro deciso a fare i conti con un dato di fatto incontrovertibile che ci dice che noi abbiamo ormai a che fare con una diversa idea – oltre che realtà – di uomo e di soggettività. Le trasformazioni imposte all’organizzazione sociale occidentale dalla rivoluzione industriale hanno fatto emergere, in misura crescente, la natura interdipendente, «organicamente ed essenzialmente sociale» dell’uomo92. Ciò che ha originariamente trovato impulso e giustificazione teorica nell’individualismo illuminista, e cioè la rivoluzione industriale, produce, dunque, a distanza di tempo, una vera e propria mutazione antropologica. Si tratta di una mutazione in cui prassi e teoria pro91. u. spirito, Due false scienze: la sociologia, la psicanalisi, Bulzoni, Roma 1973, p. 79. 92. id., Nuovo umanesimo, cit., p. 7.

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cedono di pari passo, anche se, nell’ottica spiritiana, la prima ha un ritmo ben più sostenuto e la seconda è la solita, vecchia «nottola di Minerva» che giunge quando ormai les jeux sont faits. Ma è bene che comunque arrivi, seppure in ritardo, tenendo conto di quelle scoperte e di quelle intuizioni che hanno avvertito il compiersi di questa rivoluzione antropologica. Ecco, dunque, spiegato il motivo principale per il quale Spirito, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, dedica particolare attenzione a due scienze che studiano l’uomo da punti di vista diversi ma complementari. Queste due scienze sono la sociologia e la psicanalisi. La sociologia ha avuto il merito di voler costruire una scienza partendo proprio «dalla consapevolezza della complessità dei rapporti che occorre aver presenti per comprendere davvero»93. Dunque, è opportuno distinguere la sociologia come discorso scientifico generale dalle singole discipline sociologiche, i cui insegnamenti imperversano nelle facoltà universitarie dove si insegnano le cosiddette «scienze sociali». Spirito sostiene che non può esistere la sociologia generale come insegnamento specifico, così come non esiste la storia generale o la filosofia generale. Esisterà ed esiste di fatto, anche se non di nome, la storia della sociologia, dei suoi fondatori, prosecutori e innovatori così come delle varie teorie e dei vari metodi che si sono succeduti da Comte ai nostri giorni. Allo stesso modo abbiamo la storia della storiografia e la storia della filosofia, e questo perché «solo la concezione storica di una disciplina può riuscire a sparticolarizzarla e a farle perdere ogni aspetto e ogni pretesa di carattere dogmatico»94. Così, esistono le scienze particolari, che per Spirito corrispondono a quelle che si suole chiamare «scienze empiriche» (fisica, chimica, diritto, economia, ecc.), discipline che studiano un ambito ristretto, un carattere specifico del reale. La socio-

93. u. spirito, Due false scienze, cit., p. 18. 94. id., Nuovo umanesimo, Armando, Roma 1973 (3ª ediz. ampliata), p. 84.

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logia, nell’accezione generale del termine, al contrario, «tende sempre più ad abbracciare tutte le scienze particolari»95. In altri termini, Spirito sembrerebbe recuperare qui una specie di comtismo, per cui la sociologia è innalzata al rango di scientia scientiarum, al pari della storia e della filosofia, unificandosi alle quali può dar luogo a quella concezione scientifica del mondo che rivela l’intrinseca e necessaria razionalità del reale. Infatti, scrive Spirito, «non si può fare chimica di tutto, e si può invece fare sociologia di tutto». E aggiunge: «Se su questo si riflettesse, i sociologi dovrebbero convenire che il posto della sociologia non è accanto alle scienze particolari irriducibili l’una all’altra, bensì accanto a quelle scienze o forme del sapere che hanno appunto la capacità di comprendere tutte le altre scienze»96. L’importante, a questo punto, è non cadere in equivoci. Spirito ha sempre presente «la camicia di Nesso» della divisione del lavoro e della conseguente specializzazione dei saperi. Egli sa bene che non esiste una disciplina, né un cultore di essa, capaci di «soddisfare il bisogno di conoscere tutto, in una sintesi che vada al di là della specializzazione»97. Storia, filosofia, sociologia: sono scienze interdisciplinari, ma nessuna di esse può porsi al vertice di un’ideale gerarchia dei saperi, e così il comtismo di Spirito, di cui parla ad esempio Antimo Negri98, a nostro avviso, scompare. Non scompare il suo positivismo, così come era stato appreso negli anni giovanili. Questo positivismo si esprime nell’am95. id., Due false scienze, cit., pp. 64-65. 96. Ivi, p. 65. 97. Ivi, p. 85. 98. Vedi a. negri, Corporativismo e parlamentarismo, in u. spirito, s. valitutti, a. negri, op. cit., pp. 58-59 e 72-74. Negri osserva come il concetto spiritiano di scienza «è un concetto positivistico, comtiano e che, proprio perché tale, esso trova il suo modello fondamentale nella fisica classica: per questo, soprattutto per questo [...], quella che Spirito chiama “scienza contemporanea”, io, con più esattezza o senz’altro con esattezza storica, la chiamerei “moderna”» (p. 73).

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bizione di praticare una scienza che, fattasi metafisica, sappia diventare luogo del consenso unanime circa la distinzione tra ciò che è vero e ciò che è falso. Dopo il 1937, anno della pubblicazione de La vita come ricerca, quest’ambizione poggia, però, sulle fragili basi di un’irrequietezza intellettuale di fondo. Si tratta, pertanto, di una pretesa che solo per brevi tratti acquista i contorni della certezza, anche se resta un’esigenza costantemente presente nel «sottosuolo» del pensiero di Spirito. Si comprende, allora, come nell’epistemologia spiritiana la sociologia (cioè la dimensione sociale, intersoggettiva), la storia (cioè la dimensione temporale e relativa), la filosofia (cioè la dimensione concettuale e teorica), la stessa scienza nella sua accezione più generale (la dimensione sperimentale) siano gli attributi specifici e universali del sapere, o meglio della conoscenza umana. Ogni indagine conoscitiva, insomma, non potrà che essere di taglio insieme sociologico, storico, filosofico e scientifico-sperimentale. La storia, la filosofia e la sociologia non sono altro che modalità della conoscenza, «forme del sapere»99 dalla cui unione scaturisce la nuova metafisica, quella della scienza. Quest’ultima si fonda sul presupposto che, davanti all’osservatore, c’è qualcosa che si chiama realtà e che è possibile conoscere100. 999. u. spirito, Due false scienze, cit., p. 65. 100. «Se la sociologia si può fare di tutto, il suo contenuto sarà il reale, allo stesso modo come il reale è il contenuto della storia o della scienza o della filosofia» (ivi, p. 65. Corsivi nostri). Come si vede, Spirito dà per scontato cosa sia il reale, senza porsi il problema del suo contenuto e se, ad esempio, il punto di vista dell’osservatore non incida sulla determinazione di quest’ultimo. È, però, consapevole del relativismo metodologico, quando afferma: «Ormai la fede nella metodologia è profondamente scossa nell’ambito di ogni disciplina scientifica. Ogni ricerca crea il proprio metodo e continuamente lo rinnova. Credere che si possa determinare una metodologia condizionante la ricerca, val quanto limitare arbitrariamente la ricerca stessa e inibirsi la libertà inventiva del vero scienziato. Si possono studiare retrospettivamente i metodi usati (storia della sociologia), ma non teorizzare il metodo da usare. La metodologia può essere storia, ma non precettistica» (ivi, p. 58. Il primo corsivo è nostro). Ancora una volta, l’epistemologia spiritiana si colloca al confine tra le certezze della scienza moderna (le cosiddette «scienze esatte»)

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Questa pretesa onniesplicativa che è poi una «fede», e che in Spirito è di origine sia positivistica sia idealistica, non è granitica, come abbiamo già potuto constatare. La fede nel reale (nel fatto) deve convivere con la fede nel divenire e l’onnicentrismo pare a Spirito, almeno in certe fasi del suo pensiero, il «luogo» della riconciliazione, lo sfondo su cui edificare la nuova metafisica. Stabilita l’oggettività del fatto, l’onnicentrismo mi garantisce sul «carattere cosmico di ogni evento o fenomeno, sì che esso non può essere concepito che in una serie infinita di rapporti che va dalla parte al tutto»101. È su questa base che Spirito recupera le tesi di quella criminologia positivistica, appresa dalla scuola di Ferri negli anni giovanili dei suoi studi di giurisprudenza. Precisando il contenuto di quella metafisica di cui la sociologia esprime «un’esigenza», la pagina spiritiana riecheggia suggestioni assorbite in gioventù e rielaborate alla luce di un attualismo ampiamente meditato. Leggiamo, infatti: «la ricerca sociologica, in altri termini, muove dalla consapevolezza dell’organicità del reale e rifiuta di considerare il suo oggetto come isolato e autonomo»102. Pertanto, prosegue Spirito, «l’individuo è ricondotto alla realtà di cui è individuazione ed è compreso unicamente in funzione di tale realtà che infinitamente lo trascende»103. Quel riduzionismo sociologico da cui il ventenne Spirito si era allontanato, per far proprio il soggettivismo assoluto di Gentile, torna come conseguenza finale di un pensiero che ha dichiarato la «fine dell’autocoscienza» e che comincia già a fare i conti con l’impatto della rivoluzione scientifico-tecnologica del secondo dopoguerra. Vacillano le certezze antropocentriche della cultura occidentale. Spirito avverte che la crisi è in e la problematicità propria della scienza contemporanea (relativismo, falsificazionismo, ecc.). 101. Ivi, pp. 32-33. 102. Ivi, p. 33. 103. Ibidem.

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atto e che questa è di natura metafisica. Cerca, così, nella scienza le basi per una nuova metafisica, cioè una nuova spiegazione che renda conto della realtà trasformata in cui l’uomo occidentale comincia a vivere a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. La possibilità di una comprensione della totalità non è esclusa a priori da Spirito, anzi è senz’altro ricercata, come si è visto, ma la sintesi generalizzante e onnicomprensiva non potrà più essere l’espressione della volontà conoscitiva di una singola scienza o di un singolo scienziato. Sarà, bensì, il risultato dell’attività dell’intera comunità scientifica, cioè delle singole scienze coordinate tra loro. La collaborazione è, come osserva Negri, «una forma attiva del litigio cessato»104. I risultati di essa sono i risultati di una soggettività collettiva, di un «noi» che scaturisce dall’interazione delle varie competenze e specializzazioni. Come tali, i risultati sono imprevedibili e non possono essere determinati se non in modo assai parziale. «La sintesi, dunque, non c’è, ma si fa», cosicché il creatore, l’inventore non è il «genio» romanticamente inteso, ma, piuttosto, quell’«io sociale» che nasce da una collettività razionalmente articolata e pianificata105. L’attenzione rivolta alla sempre più predominante dimensione collettiva e collaborativa delle attività umane non deve far dimenticare che, come osserva Hervé A. Cavallera, in Spirito è pure presente «il timore non solo del primato di un divenire fine a se stesso, ma anche di una realtà che standardizzi e soffochi la personalità»106. Potremmo, pertanto, sostenere che l’ex allievo di Gentile tiene conto del singolo, a patto che questi non si riduca a entità irrelata e chiusa in se stessa, ma trovi nell’acquisizione di una competenza la possibile immissione della propria individualità nella necessaria omogeneità di 104. a. negri, Dal corporativismo comunista all’umanesimo scientifico, cit., p. 151. 105. u. spirito, Due false scienze, cit., pp. 95-96. 106. h.a. cavallera, La filosofia come pedagogia. La fondazione del nuovo umanesimo in Ugo Spirito, in aa.vv., Ugo Spirito: filosofo, giurista, cit., p. 106.

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una megamacchina sociale planetaria, articolata da una divisione del lavoro che da nazionale va facendosi sempre più internazionale. Le tesi positivistiche che Spirito riesuma nel campo della criminologia, innestandole nella cornice onnicentrica, connotano in senso «organicistico» la sua personale nozione di «personalità». Scrive Spirito nel 1967: «Il fenomeno delinquenziale, in altri termini, deve essere studiato riportandolo all’organismo del tutto, senza che possa trascurarsi la ricerca in una qualsiasi direzione. A fondamento della ricerca», ribadisce Spirito, «deve sussistere la consapevolezza del rapporto del fatto che si studia col tutto di cui è espressione»107. Da qui la riproposizione dell’idea, propria della «scuola positiva» del diritto penale, secondo cui la colpa coinvolge l’intero ambiente sociale in cui il delinquente è cresciuto e ha agito. La responsabilità è collettiva e la pena dovrà tramutarsi in «cura»108. Ricostruendo l’itinerario teoretico del secondo dopoguerra, constatiamo, pertanto, che Spirito ambisce a una «sintesi scientifica», a una comprensione globale ed esaustiva della realtà. D’altronde, questo è il Leitmotiv del suo pensiero. Tale ambizione cerca di conciliare con i limiti della ragione umana e, dunque, con il concreto modo di procedere della ricerca scientifica, o meglio, delle ricerche scientifiche. La scienza come religione senza fede, per dirla con una formula. Poste queste premesse, il giudizio negativo che Spirito ha dato della sociologia, definendola «falsa scienza», è da attri107. u. spirito, Due false scienze, cit., p. 33 (i corsivi sono nostri). Il primo saggio del volume pubblicato nel 1973 era già comparso nel 1967 sulla rivista fondata e diretta da Camillo Pellizzi, «Rassegna Italiana di Sociologia» (a. viii, n. 1, gennaio-marzo 1967, pp. 3-34). 108. «In particolare non si guarderà più al fenomeno delinquenziale come opera esclusiva di un individuo, ma lo si attribuirà all’intera società di cui quell’individuo è componente. Dalla responsabilità individuale si passerà a quella sociale e si supererà il carattere moralistico del giudizio penale. Anzi lo stesso concetto di pena si svuoterà di contenuto e sarà sostituito da quello di cura» (id., Due false scienze, cit., p. 33).

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buirsi alla pretesa di autonomia disciplinare che essa dimostra presso molti suoi cultori. La «onniestensività del carattere sociale nel fenomeno umano»109 taglia alle radici una simile pretesa, riconoscendo, però, la legittima esistenza delle singole ricerche sociologiche. Come disciplina generalizzante, a sé stante, la sociologia non sussiste, è, semmai, una modalità conoscitiva preliminare. L’altra scienza accusata di «falsità» è la psicanalisi. Per Freud, la psicanalisi è un metodo di indagine e una forma di psicoterapia, ovvero di cura di alcune forme di malattie psichiche. È pure un articolato sistema di teorie, al cui interno una proposta di interpretazione complessiva dell’uomo e della società è senz’altro inclusa, ma quest’aspetto viene in secondo luogo per Freud e i suoi discepoli. Per questi la psicanalisi è, senza dubbio, una scienza, libera da quell’«illusione che sia possibile dare un quadro dell’universo coerente e privo di lacune», illusione che è propria della filosofia110. Spirito, invece, sostiene che «la psicanalisi è una scienza che ha raggiunto la filosofia e si è identificata con essa», tanto da arrivare a scrivere che «la scienza della psicanalisi è la filosofia del secolo xx»111. Egli considera «geniale» l’intuizione di Freud, il quale, però, non essendo un filosofo, non avrebbe colto e sviluppato a pieno tutte le conseguenze implicite nella scoperta dell’inconscio. Forse, sarebbe stato più corretto dire che lo studioso austriaco non volle giungere alle conclusioni cui lo portava l’affermazione secondo cui l’Io «non è padrone in casa propria»112. In realtà, Freud intendeva recuperare all’Io i territori della psiche momentaneamente sequestrati dall’Es, al quale, peraltro, veniva riconosciuta una logica, certamente 109. p. prini, op. cit., p. 219. 110. s. freud, Introduzione alla psicoanalisi. Prima e seconda serie di lezioni, trad. it. M. Tonin Dogana, E. Sagittario, Boringhieri, Torino 1972; lezione 35 (Una «concezione del mondo»), p. 555. 111. u. spirito, Due false scienze, cit., p. 113. 112. s. freud, op. cit., lezione 18 (La fissazione al trauma; l’inconscio), p. 258.

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oscura ma che bisogna assolutamente tentare di sondare e definire nelle sue caratteristiche, per quanto è possibile. Pertanto, la centralità dell’Io è dichiarata essere minacciata, ma viene rivendicata in una lotta che la psicanalisi ingaggia con l’irrazionale. Al contrario, per Spirito la psicanalisi ha messo in luce, ancor prima che dimostrato scientificamente (anche se il filosofo italiano ammette che, almeno in parte, lo abbia fatto), la natura eteronoma del soggetto. Ognuno di noi, cioè, è sostanzialmente agito da qualcosa che sfugge al controllo della coscienza. Sappiamo che non potremo mai sapere chi davvero siamo, e qui si riscontrano analogie con le affermazioni di Jacques Lacan circa la «rivoluzione copernicana» avviata dalla psicanalisi. Si è compiuta una «dislocazione» della coscienza in alternativa alla tradizione egologica e logocentrica della filosofia occidentale. Tramite una rilettura in chiave linguistica delle nozioni fondamentali della teoria freudiana, lo psicanalista francese sostiene che l’inconscio è il significante e la libido è «un sapere, ma un sapere che non comporta la pur minima conoscenza, essendo iscritto in un discorso di cui il soggetto, al pari dello schiavo messaggero dell’uso antico, che ne porta sotto la capigliatura il codicillo che lo condanna a morte, non sa né il senso né il testo né in che lingua è scritto, e nemmeno che è stato tatuato sulla sua pelle rasata mentre dormiva»113. Più precisamente, secondo Lacan dobbiamo convenire sul fatto che «l’inconscio è ciò che diciamo, se vogliamo intendere quel che Freud presenta nelle sue tesi»114 La posizione di Lacan è radi113. j. lacan, Scritti (1966), a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 1974, vol. ii, pp. 805-806. 114. Ivi, p. 833. Altrove si legge: «L’effetto di linguaggio è la causa introdotta nel soggetto. Grazie a tale effetto egli non è causa di se stesso, ma porta in sé il verme della causa che lo scinde. Perché la sua causa è il significante senza il quale non ci sarebbe alcun soggetto nel reale. Ma questo soggetto è ciò che il significante rappresenta [...]. Dunque, al soggetto non si parla. C’è chi parla, ça parle, di lui, ed è lì che egli si apprende, e tanto più in quanto, prima di sparire come soggetto sotto il

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calmente anticartesiana e in essa, come scrive Giovanni Fornero, «l’individuo risulta vissuto e abitato da una x loquente (= l’Es), nei cui confronti si trova in una situazione di radicale assoggettamento»115. Un’analoga impostazione si trova in Spirito, il quale scrive nel 1972: Parla in noi una voce che trascende la nostra persona e di cui non possiamo essere responsabili116.

Le argomentazioni spiritiane sulla fine dell’autocoscienza, quale portato rivoluzionario della psicanalisi, trovano, dunque, riscontro nelle tesi sostenute da Lacan, e questo sottolinea la profondità di certe intuizioni del filosofo italiano. Persino la sua affermazione, estrema e paradossale, secondo cui «se c’è l’inconscio, tutto è inconscio»117, può trovare agganci e giustificazioni in riflessioni più accreditate sul piano degli studi psicanalitici. Però, a differenza di Spirito, Lacan è sostenitore del dualismo tra soggetto conscio e soggetto inconscio, così come è convinto che caratteristica essenziale della psicanalisi sia il fatto che «essa allarga il campo del razionale»118. Questa effettiva fedeltà al dettato freudiano non impedisce, comunque, allo psicanalista francese di ritenere l’Io soltanto una «finzione», più precisignificante che diviene per il solo fatto che c’è, ça, chi si rivolge a lui, egli non era assolutamente niente» (ivi, pp. 838-839). E ancora: «Accordare al significante questa priorità sul soggetto, per noi è tener conto dell’esperienza apertaci da Freud, e cioè che il significante gioca e vince, se così possiamo dire, prima che il soggetto ne sia avvertito, a tal punto che nel gioco del Witz, il motto di spirito, ad esempio, esso sorprende il soggetto» (p. 843). 115. g. fornero, Filosofia e scienze umane: lo strutturalismo, in n. abbagnano, op. cit., vol. iv (La filosofia contemporanea), cap. iv, p. 421. Il corsivo è nel testo. 116. u. spirito, Il problema dell’Io, in «Annali della Fondazione Ugo Spirito», vol. ii, 1990, p. 286. 117. id., Due false scienze, cit., p. 135. 118. p. caruso (a cura di), Conversazioni con Claud Lévi-Strauss, Michel Foucault, Jacques Lacan, Mursia, Milano 1969, p. 180.

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samente «un sintomo privilegiato all’interno del soggetto», addirittura «la malattia mentale dell’uomo»119. In modo non dissimile dagli strutturalisti francesi, tra cui si è soliti annoverare lo stesso Lacan, il filosofo italiano sviluppa un antiumanismo di fondo ed evidenzia il limite teorico della filosofia della coscienza con la sua ipostasi dell’io, vale a dire l’incapacità di comprendere l’esistenza di «un ordine necessario e razionale del mondo umano completamente indipendente dalla coscienza che gli uomini possono averne»120. Siamo, dunque, agli antipodi del coscienzialismo soggettivistico e antropocentrico proprio dell’idealismo gentiliano. La psicanalisi, diffondendosi in ogni ambito della cultura e della vita sociale, ha prodotto «una rivoluzione senza precedenti della concezione del mondo»121. Questo aspetto Spirito non si stanca mai di ripeterlo. In che cosa, allora, la psicanalisi è una scienza «falsa»? Nel fatto che, tenendo in piedi la realtà generica e imprecisata del soggetto conscio, gli psicanalisti pretendono di poter recuperare alla coscienza gran parte del controllo sul mondo delle pulsioni inconsce, mondo che per Spirito resta essenzialmente, irrimediabilmente «mistero», dato che il sogno è fondamentalmente indecifrabile122. L’unica conseguenza certa è che non è più ammissibile parlare di responsabilità individuale, perché ormai «la verità è un fatto colletti119. j. lacan, Il seminario. Libro 1: gli scritti tecnici di Freud (1953-1954), a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 1978, p. 20. L’edizione originale francese è del 1975. 120. s. nannini, Il pensiero simbolico. Saggio su Lévi-Strauss, il Mulino, Bologna 1981, p. 395. Secondo Michel Foucault, grazie all’affermarsi delle scienze umane «si scopre che quel che rende l’uomo possibile è in fondo un insieme di strutture, strutture che egli, certo, può pensare, può descrivere, ma di cui non è il soggetto, la coscienza sovrana. Questa riduzione dell’uomo alle strutture che lo circondano – conclude il filosofo francese – mi sembra caratteristica del pensiero contemporaneo [...]» [p. caruso (a cura di), Conversazioni con Claud Lévi-Strauss, cit., p. 108]. 121. u. spirito, Due false scienze, cit., p. 133. 122. «Nel sogno, ancora del tutto precluso ai tentativi della scienza, non può non essere il contenuto di qualcosa che trascende per intero i nostri sforzi di intendimento e di dominio», cfr. ivi, p. 117.

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vo»123, dato per appurato che non ci facciamo, ma siamo fatti. Nessuno può reclamare di essere un centro autosussistente di attività e di libertà. Inoltre, «la psicanalisi instaura una forma di vita sottratta a ogni atteggiamento di carattere negativo»124, persino all’odio, proprio perché ci ha fatto capire, e questa dovrebbe essere un’acquisizione di tutti, che ognuno di noi, coincidendo col proprio corpo (cioè l’inconscio), coincide col tutto. La molteplicità irrelata di volontà particolari, egoistiche e confliggenti, perde fondamento teorico e si assiste anche nella prassi sociale quotidiana alla progressiva spersonalizzazione e sprivatizzazione del soggetto. Con la fine dell’autocoscienza si registra il fallimento storico «della pretesa di tutto il pensiero occidentale di poter possedere e controllare un potere individuale autonomo di verità»125. È, in particolare, il fallimento dell’individualismo di matrice rinascimentale e illuminista, il quale aveva proclamato la piena autonomia del soggetto. Questa autonomia «lo rendeva padrone del proprio pensiero e della propria azione in modo totale ed esclusivo»126. Sconfitta sotto il profilo teorico, una volta dimostratane l’infondatezza, l’autocoscienza resta viva come esigenza in chi non riesce a riconoscersi come trasparente a se stesso, ma desidera e spera di poter tornare a farlo (ammesso e non concesso che, in passato, ciò sia mai stato possibile). È sul persistere di questa esigenza che prospera la pratica psicoterapeutica, la quale costituisce il vero bersaglio polemico di Spirito. La «falsità» della psicanalisi, a suo avviso, sta tutta qui: nel rifiuto di ammettere la propria natura filosofica, per cui essa dovrebbe scolorare nel principio onnicentrico della «cosmicità» del pensiero e dell’azione umana. La sua «falsità» sta anche nella pretesa contraddittoria di negare in pratica ciò che si era affermato come principio, e cioè la sostanziale insondabi123. Ivi, p. 133. 124. Ivi, p. 134. 125. Ivi, p. 133. 126. Ivi, p. 94.

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lità e incontrollabilità della zona più profonda della psiche. Soprattutto nella psicanalisi permarrebbe una commistione di scienza e filosofia, laddove si afferma la contemporanea presenza di inconscio e conscio. Il secondo termine, impreciso e arbitrario, è soltanto un residuo della filosofia soggettivistica e, data la sua indeterminatezza e astrazione, è qualcosa di molto simile alla vecchia nozione di anima, è cioè un «mito gratuito»127. Per Spirito, infatti, la psicanalisi ci ha detto che «Io sono il mio corpo»128, dove per corpo è da intendersi il luogo di pulsioni indipendenti dalla nostra volontà, arginabili solo in minima parte. Psyché e bíos sono un’unica cosa, e di questa realtà unitaria tutte le scienze umane ci hanno avvertito nel corso di quest’ultimo secolo. Ridefinite nei termini sopra precisati, sociologia e psicanalisi possono e anzi debbono fornire il loro prezioso e insostituibile contributo all’edificazione di un nuovo umanesimo scientifico. Resta nei confronti di questa proposta neoumanistica un’obiezione di fondo ineludibile: com’è possibile, infatti, fondare una morale, tanto più se ispirata all’amore-comprensione universale, partendo dal punto di vista del positivismo? Max Horkheimer osservava, in quegli stessi anni, che «se guardiamo dal punto di vista strettamente scientifico, l’odio, nonostante tutte le differenze di funzione sociale, non è peggiore dell’amore. Non c’è nessuna motivazione logica stringente, se a me non viene nessun svantaggio nella vita sociale»129. Spirito avrebbe replicato asserendo la natura antidiscriminante dell’oggettività scientifica, il superamento del giudizio di valore, e del conseguente conflitto tra punti di vista assolutizzati e non comunicanti, tramite la forza del fatto e del dato nonché la scoperta dell’infondatezza di ogni egocentrismo 127. Ivi, p. 136. 128. Ivi, p. 107. Il corsivo è nel testo. 129. m. horkheimer, La nostalgia del totalmente altro, trad. it. e pref. di R. Gibellini, introd. di H. Gumnior, Queriniana, Brescia 1982 (3ª ediz. aumentata; 1ª ediz. 1972), p. 73.

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che si presume costruttore della realtà. Ma l’obiezione di un Horkheimer, secondo cui «il positivismo non trova nessuna istanza che trascenda l’uomo»130, non pare annullata definitivamente dalla tesi di una metafisica insita nella scienza, che rimane, sempre e comunque, un prodotto della ragione umana con intenzione costitutivamente «strumentale». Pertanto, il sospetto circa la presenza di una grave deficienza morale all’interno di un umanesimo integralmente scientifico e intramondano permane intatto.

il pensiero pendolare e la sehnsucht spiritiana Le obiezioni che Spirito muove alle due «false» scienze presentano una sicura validità nell’ambito del suo discorso più generale sulle trasformazioni in atto nella natura individuale e sociale dell’uomo. Va, certo, considerato il fatto che le sue critiche, seppure acute e penetranti, non entrano nel merito delle discipline che sono appunto oggetto di critica. Nelle numerose pagine che il filosofo ha dedicato alla sociologia e alla psicanalisi non compaiono riferimenti precisi alle teorie e ai metodi con cui le due discipline si sono venute costruendo e ridefinendo nel corso di molti decenni. Egli sa cogliere molti punti deboli di queste discipline, denunciando, ad esempio, l’ambiguità della sociologia. Il fatto che, come gli riconobbe il filosofo e sociologo Gianfranco Morra, «fra le molte scienze dell’uomo, la sociologia sia quella più esposta ai pericoli del dilettantismo e dell’assolutismo, proprio per la vastità e quasi inafferrabilità del suo oggetto (il “sociale”), che è presente in ogni manifestazione umana», rende ragione di alcune delle critiche mosse all’epoca da Spirito131. Forse il limite di queste critiche è che, a loro 130. Ivi, p. 74. 131. g. morra, Critica della sociologia e sociologia critica, in «Rassegna Italiana di Sociologia», viii, n. 3, luglio-settembre 1967, pp. 335-336. Interessanti le consi-

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volta, esse risolvono la sociologia nell’attenzione al «sociale», facendo della disciplina una semplice dimensione dell’indagine conoscitiva, «un’esigenza metafisica» dai contorni altrettanto incerti132. Eccezione fatta per un’analisi del pensiero economico e sociologico di Vilfredo Pareto133, non si trovano pagine in cui Spirito si confronta direttamente con i classici della sociologia, con le loro teorie e la loro metodologia. Tanto meno risultano confronti diretti, magari supportati da citazioni testuali, con le pagine di Freud, né con quelle di Alfred Adler o di Carl Gustav Jung, anche se pare che il filosofo italiano avesse presente alcune evoluzioni e alcuni passaggi importanti compiuti da Freud nell’elaborazione della propria teoria psicanalitica134. D’altronde, Spirito non intendeva svolgere opera di storico della sociologia o della psicoanalisi. Ciò che gli premeva, in quanto filosofo, era osservare e meditare sugli effetti, non sempre compresi dagli stessi cultori di tali discipline, delle scoperte compiute o delle tesi formulate dalle scienze umane che si derazioni che da Lugano Giuseppe Prezzolini invia per lettera a Spirito nell’estate del 1972: «Caro Spirito, grazie per i suoi opuscoli. Trovo giustissimo l’attacco agli psicoanalisti, ma bisognerebbe andar più a fondo, non soltanto alla loro pratica ma alla loro teoria, che è una mitologia. […] Mi permetto di farle osservare che l’inquinamento del passato era un fatto naturale (malattie ecc.) e quello d’oggi fu provocato dall’uomo, ma siam d’accordo che soltanto la scienza può scientificamente liberarci dai malanni che l’uso di essa ha provocato» (G. Prezzolini a U. Spirito, 21 agosto 1972, cus 11270). 132. u. spirito, Due false scienze, cit., p. 20. 133. Cfr. id., Vilfredo Pareto, Cadmo, Roma 1978. Il volume comprende uno scritto, originariamente pubblicato in due parti in «Nuovi studi di diritto, economia e politica» (novembre-dicembre 1927 e gennaio-febbraio 1928), nonché due saggi più recenti, rispettivamente del 1973 e del 1976. 134. Spirito ha ben presente il fatto che Freud, a un certo punto, introduce il concetto di preconscio come «vano» intermedio tra inconscio e coscienza, vano in cui si giunge solo se si è superata la censura e la conseguente rimozione. Un tale accenno, sia pur fugace, potrebbe essere indizio di una lettura spiritiana di Freud non proprio superficiale, cfr. u. spirito, Due false scienze, cit., p. 135 e s. freud, op. cit., lezione 19 (Resistenza e rimozione), pp. 267-268.

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erano affermate nel corso del Novecento. Dagli esiti delle proprie osservazioni e meditazioni scaturivano, poi, concrete proposte in diversi ambiti, come la scuola o il mondo del lavoro. Fatte queste precisazioni, risulta notevole la capacità intuitiva del filosofo italiano che colse le implicazioni rivoluzionarie di molte scoperte intellettuali e, adottatele nella loro interpretazione più radicale, le inserì nel contesto di altre scoperte e realizzazioni pratiche, tratteggiando, così, i contorni di nuovi scenari di cui amava azzardare le future evoluzioni storiche. Sotto questo profilo, Spirito comprese pienamente ciò che Morra, invece, rimproverava a lui e all’idealismo di non aver correttamente inteso. Non gli sfuggiva, insomma, «la necessità di tenere conto dei risultati della sociologia e delle altre scienze umane per la fondazione di un’antropologia integrale»135. Spirito era già oltre quella «certezza irremovibile che tutto è spirito», in cui Morra faceva consistere tutto l’idealismo136. Questo perché l’ex allievo di Gentile aveva saputo portare alle estreme conseguenze l’attualismo non dimenticando l’iniziale formazione positivistica. L’uomo spiritiano era descritto nella completezza e compattezza delle sue componenti biologiche, psichiche, spirituali e sociali. Anzi, forse il dato scientifico (biologico e sociale, in particolare) finiva per prevalere in quella descrizione. La ricognizione, per linee essenziali, dell’atteggiamento tenuto, di volta in volta, da Spirito nei confronti della scienza e l’analisi della natura del suo positivismo ne mettono in luce il particolare rapporto con il problema del fondamento speculativo da assegnare all’indagine del reale. Lo studio del ruolo assegnato alla scienza ci offre un punto di vista meno frequentato da cui esaminare il pensiero di Spirito. Si conferma l’«andatura» oscillante, quasi pendolare, di una vita intellettuale concepita e vissuta come ricerca. I due estremi dell’arco disegnato da questo moto pendolare sono, a partire dal secondo dopoguerra, l’onnicentrismo e il problematicismo. Da una 135. g. morra, Critica della sociologia e sociologia critica, cit., p. 337. 136. Ibidem.

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metafisica come scienza a una metafisica della scienza il passo è apparentemente breve, ma le due posizioni sono in realtà molto distanti; e Spirito non le assumerà mai come definitive. Nessuna delle due. Il fondamento da lui cercato ha i caratteri dell’assoluto e coincide con l’onniscienza divina137. Un Dio trascendente, come quello della tradizione ebraico-cristiana, creatore non creato di tutte le cose, non riesce a essere creduto dal filosofo aretino e non soddisfa il suo anelito di adesione integrale dell’io (di ogni io) al tutto. Ma, al tempo stesso, la trascendenza in quanto inconoscibilità immediata e profondo «mistero» è ciò che, a suo avviso, connota davvero la dimensione divina. Dal secondo dopoguerra la trascendenza non è, come tale, negata, o lo è sempre meno, a patto, però, che l’ignoto non sia l’alibi per adagiarsi nel dogma e nel pregiudizio, paralizzando, così, la ricerca, ma sia, al contrario, la spinta ad agire secondo i ritmi di una ricerca tanto incessante quanto aderente alla realtà, che non potrà che risultare trasformata da una simile immersione nel mondo. Sul finire degli anni Sessanta Spirito parla di una «teologia negativa» come quella che più si addice all’uomo di scienza e a chiunque voglia trovare nella realtà finita risposte alla propria percezione dell’infinito. Così si esprime Spirito in una conferenza tenuta nel settembre del 1968 a Venezia: 137. Ne sono inequivocabile conferma le affermazioni fatte dal filosofo in un’intervista rilasciata al giornalista Giuseppe Grieco per il settimanale «Gente» (11 novembre 1978): «La mia filosofia alla quale ho dato il nome di problematicismo, è l’unica filosofia che aspira a rinnegarsi, ad annullarsi. Ma perché questo avvenga è necessario che io trovi Dio: quel Dio che inseguo dal 1937, quando pubblicai il libro La vita come ricerca. È da allora, infatti, che Dio mi manca, nel senso che non riesco a dargli un “volto” che possa soddisfarmi. [...] Che Dio esista è certo perché è il principio di tutto, l’assoluto. Il solo fatto di ricercarlo, del resto, è una prova della sua esistenza. Ma a me uomo, non basta avere questa certezza. Io ho bisogno di dare un “volto” a Dio, di sapere che cosa egli è realmente. Ecco perché lo inseguo, interrogando me stesso e il mondo. C’è una domanda che urge dentro di me e alla quale sento di dover dare una risposta: chi è Dio? Proprio l’urgenza di tale domanda mi ha spinto a girare Paesi e Continenti per cercare una risposta che mi appagasse» (cit. in a. russo, Il problema di Dio in Ugo Spirito alla luce di un inedito, saggio introduttivo a u. spirito, Ho trovato Dio, a cura di A. Russo, Fondazione Ugo Spirito, Roma 1989, p. 10, nota 20).

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Il religioso di una religione positiva ha la rivelazione del mondo dell’al di là e la rivelazione gli dice che cosa possiamo aspettare, come possiamo salvarci, e quindi come dobbiamo agire in questo mondo. Quando sappiamo questo, sappiamo tutto. Rimarrà il mistero, ma sarà il mistero della cornice, sarà il mistero del singolo dogma, non è il mistero vero, quello di fronte a cui si trova lo scienziato che non sa nulla di Dio, dell’Assoluto. Il Dio si cela nel mistero, nell’ignoto ed egli guarda al di là con una trascendenza di carattere radicale. Lo scienziato è veramente religioso! E la sua teologia? È chiaro: la sua teologia è l’opposto della teologia delle religioni positive. Queste hanno una teologia che ha come contenuto la rivelazione, la religione dello scienziato ha una teologia che questo contenuto non ha, che a Dio non riesce a dare nessun attributo, di nessun genere; perciò una teologia negativa che è veramente la teologia della trascendenza. Questo vuol dire essere religiosi, non c’è anima più religiosa dello scienziato che sa sollevarsi alla ricerca pura e disinteressata138.

L’impressione che si ricava da simili affermazioni è che la sensibilità religiosa di Ugo Spirito sia piuttosto un sentimento religioso, nel senso che ricorda quell’atteggiamento emotivospirituale che il Romanticismo tedesco aveva riassunto nel termine concetto di Sehnsucht139. Nonostante le possibili varie sfumature, la parola ha fondamentalmente due significati: nostalgia e desiderio ardente, struggente. L’uno e l’altro significato sono evidentemente fra loro connessi, e così lo sono in Spirito e nel tipo di rapporto che egli instaura con quel «totalmente altro» di cui Horkheimer parlava, più o meno in quegli stessi anni, e di cui il filosofo tedesco avvertiva in tarda età una profonda «nostalgia»140, al pari del coetaneo Spirito. 138. Sul testo della conferenza, rimasto fino a oggi inedito e ora qui riprodotto in Appendice ii, si veda infra, cap. 3. I corsivi sono nostri. 139. Sehnsucht è «la più caratteristica parola del romanticismo tedesco» (l. mittner, Storia della letteratua tedesca. ii. Dal pietismo al romanticismo (1700-1820), Einaudi, Torino 1971, t. iii, p. 699). 140. Cfr. m. horkheimer, La nostalgia del totalmente altro, cit., passim. Peraltro, il titolo originale tedesco è Die Sehnsucht nach dem ganz Anderen (1970). Sul

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La peculiarità della Sehnsucht, termine che non ha corrispondenti nelle altre lingue europee, specialmente in quelle latine, è che non si tratta propriamente di «nostalgia», poiché quest’ultima è sì desiderio, ma di riappropriarsi del passato. Ancora più precisamente, la nostalgia è il senso di dolore (álgos) provocato dal desiderio del «ritorno» (nóstos) verso qualcosa o qualcuno dai contorni definiti. La Sehnsucht, invece, è la ricerca di qualcosa che resta indefinito nel futuro. Può essere tradotta in modo più pertinente come «un desiderare il desiderare», ma anche un «male del desiderio»141 provocato dal fatto che di questo desiderio si diventa totalmente dipendenti: una dipendenza dal desiderio, quasi smaniosa, viziosa e ossessiva142. Designa, insomma, uno stato d’animo, una tonalità emotiva (Stimmung) che può deviare nella morbosità, altro tratto distintivo della spiritualità romantica. In ogni caso, appare evidente come il sentimento giochi in questa attitudine psicologico-esistenziale un ruolo cruciale, perché in fondo il desiderio romantico non ha un oggetto, è pura forma. Di fatto, la meta anelata è l’Assoluto; e a tenere costantemente accesa la sua ricerca è il compiacimento, anche a livello emozionale e di godimento estetico, di cui il sentimento si alimenta. Con ciò Spirito può essere senza dubbio definito un «orfano dell’Assoluto», un pensatore che ha tentato l’impresa faupensiero di Horkheimer (1895-1973), con particolare attenzione al tema della Sehnsucht e del suo rapporto con la dialettica, si veda almeno r. buttiglione, Dialettica e nostalgia, Jaca Book, Milano 1978, in part. pp. 13-82. 141. l. mittner, Storia della letteratura tedesca. ii, cit., pp. 699-700 (ma anche, pp. 803-804). Per un inquadramento generale e un confronto tra romanticismo tedesco e romanticismo latino, si veda anche m. puppo, Il romanticismo, Studium, Roma 19756. 142. Alla lettera, das Sehnen è il «desiderio ardente» e die Sucht è la «dipendenza» (da qualcosa o qualcuno), ma anche la «mania», il «vizio», l’«ossessione». Scrive a proposito di Sehnsucht Renato Di Benedetto nel vii volume della Storia della Musica (a cura della Società Italiana di Musicologia), dedicato alla nascita della musica romantica: «desiderio che di se stesso si nutre, su se stesso si ripiega, e s’appaga dell’impossibilità stessa dell’appagamento» (r. di benedetto, L’Ottocento. i, edt, Torino 1982, p. 6).

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stiana di conciliare ragione umana e verità totale e definitiva, possibilmente senza dover approdare alla consueta conclusione che la ragione ha dei limiti che solo la fede può colmare. Solitamente, infatti, l’alternativa è tra coloro i quali accettano la persistenza dell’incertezza e coloro che, invece, si abbandonano al credo religioso. Spirito ha argomentato a favore di una terza possibile opzione, quella per la quale si resta nell’inquietudine, sospesi tra due negazioni. Una condizione filosofica ed esistenziale che, però, va oltre il puro negativo nel momento stesso in cui corteggia il nulla senza mai abbracciarlo143; una condizione magnificamente espressa dal protagonista del romanzo Lucinde, scritto da colui che, assieme al fratello August Wilhelm, ha introdotto il termine Sehnsucht, così come lo stesso concetto chiave di «Romanticismo». Stiamo parlando del critico e filosofo tedesco Friedrich Schlegel. Sul finale del romanzo, i due amanti, dopo una notte d’amore, sono appoggiati alla finestra per respirare la lieve brezza mattutina e contemplare il sorgere del sole; Julius risponde così all’amata Lucinde: Solo nel desiderio troviamo la pace. Infatti la pace esiste quando il nostro spirito non è turbato da cosa alcuna e può quindi desiderare e cercare se stesso là dove nulla può trovare di più alto del suo desiderio medesimo144. 143. «L’intellettuale romantico sembra piuttosto saggiare e corteggiare il nulla che non subirlo alla stregua di un destino storico. […] questo intellettuale ha nel nulla la sua stella polare: quasi soltanto la negatività e il non essere fossero in grado di indirizzare e salvaguardare le prospettive della sua ricerca» [s. givone, Storia del nulla, Laterza, Roma-Bari 2003 (1ª ediz. 1995), p. 99, ma si veda l’intero cap. 5, Romanticismo e nichilismo, pubblicato come saggio a sé, con il titolo L’intellettuale, in aa.vv., L’uomo romantico, a cura di F. Furet, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 239273]. A proposito di «uomo romantico», Ladislao Mittner ha scritto: «è soprattutto l’uomo dei dilemmi che non cerca mai di risolvere i propri dilemmi o, risolti che li abbia, crea dilemmi nuovi, perché il dilemma irresolubile è la forma stessa della sua esistenza» (l. mittner, Storia della letteratura tedesca. ii, cit., p. 700. Corsivi nostri). 144. f. schlegel, Lucinde, trad. it. M.E. D’Agostini, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1985, p. 109. A introdurre il romanzo, pubblicato nel 1799, questa edi-

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Potrebbe altresì nascondersi una saggezza tragica nella scelta compiuta da Spirito in direzione di una ricerca infinita che presenta alcuni tratti analoghi alla Sehnsucht romantica. Il desiderio così inteso, infatti, non è «mancanza, rinuncia o semplicemente rimpianto o nostalgia, ma accettazione del proprio destino che tramuta in forza la debolezza», secondo quanto suggerito dal poeta e filosofo Roberto Carifi145. Una vita impostata, pensata e vissuta come ricerca saprebbe, dunque, cogliere nel termine concetto di desiderio il suo antico significato che affonda nella notte dei tempi in cui mito, poesia e sacralità erano un tutt’uno: quello di un’autentica «energia» che consente il costituirsi della «tensione che lega il singolo soggetto ai grandi destini del cosmo»146. L’onnicentrismo spiritiano troverebbe, in questo modo, la sua possibile traduzione zione italiana premette una bella presentazione di Ferruccio Masini (Alle radici del desiderio, ivi, pp. ix-xxxi), il quale fra l’altro riporta, traendole dal saggio Über die Philosophie, un paio di considerazioni di Schlegel che non suonano così distanti da certe professioni di Amor Mundi e onnicentrismo care all’Ugo Spirito del secondo dopoguerra: «Ma indubbiamente l’Universum è e rimane la mia parola d’ordine. Forse che tu ami, se non trovi nell’amato il mondo?»; «Solo nella risposta del Tu l’Io sente la sua intera unità – prima è caos – Io e Mondo» (ivi, p. x). Sulla teoria romantica di Schlegel e sulla genesi e il significato del romanzo Lucinde, cfr. l. mittner, Ambivalenze romantiche. Studi sul Romanticismo tedesco, D’Anna, Messina-Firenze 1954, pp. 207-220. Scrive Mittner a proposito di Schlegel: «Avido di tutto comprendere, s’impossessa del molteplice, non lo domina; lo assorbe, non lo rielabora. Sogna di realizzare l’uno tutto, perché avverte in sé il pericolo di un tutto nulla» (ivi, p. 193). Sono parole che, per molti versi, potrebbero adattarsi assai bene all’attitudine filosofica di Spirito. 145. r. carifi, Le parole del pensiero, Le Lettere, Firenze 1995, p. 44. Curioso come nel 1935 il giovane filosofo Giorgio De Santillana, in un Dialogue sur l’État fasciste intrattenuto sulle pagine della rivista «Esprit» con il suo direttore Emmanuel Mounier, osservasse come «il sistema di Ugo Spirito non ha niente a che fare con la realtà sociale. […] Insomma è uno sforzo teologico. Gli si può attribuire solo un valore poetico, quello della fuga verso un concreto inattingibile: ma è evidente che esso tende a creare la nuova Chiesa trinitaria della sintesi dialettica» (citazione in f.s. festa, Ugo Spirito tra personalismo e ipotesi corporativo-problematicistica, in h.a. cavallera, f.s. festa (a cura di), Ugo Spirito tra attualismo e postmoderno, Fondazione Ugo Spirito, Roma 2007, p. 66. Corsivi nostri). 146. r. carifi, Le parole del pensiero, cit., p. 44.

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occidentale147, riannodando i fili con una tradizione misterica e sapienziale che, paradosso dei paradossi, l’era della tecnica riporterebbe a galla e renderebbe nuovamente pensabile.

147. Si è soliti fare riferimento a concezioni orientali ogniqualvolta si tratti di render conto di certi accenti mistici della posizione postattualista di Spirito, specie quando egli parla di onnicentrismo. Già diverso è accennare a quella «filosofia perenne» su cui in Italia ha meditato a lungo uno studioso come Elémire Zolla. Cfr. h.a. cavallera, La transizione al postmoderno in Ugo Spirito, in h.a. cavallera, f.s. festa (a cura di), op. cit., pp. 44 e sgg.

3.

L’eredità gentiliana e lo Spirito dei tempi nuovi: dal dopoguerra alla Contestazione

Il secolo era cominciato molto bene, ma, per ora almeno, finisce male. ugo spirito (1977)1

un filosofo per il «secolo occidentale» Se ci fermassimo alle conclusioni cui siamo giunti alla fine del secondo capitolo, non renderemmo, però, conto a pieno dell’iter filosofico e umano di Spirito. In quell’oscillazione, infatti, che pur appare di così lampante evidenza all’osservatore attento e al filologo scrupoloso della pagina spiritiana, il filosofo aretino non ritenne di ritrovarsi mai. Un’intima coerenza teoretica avrebbe, invece, contraddistinto la sua riflessione filosofica, e di questo era assolutamente persuaso anche Augusto Del Noce, uno dei pensatori con cui Spirito ebbe maggiore confidenza intellettuale negli ultimi quindici anni della sua vita2; e con cui più amò confrontarsi, rimarcando quanto fossero distanti l’uno dall’altro, in termini di atteggiamento e di valutazione nei confronti dell’epocale processo di secolarizza1. u. spirito, Il Duemila è ancora lontano, in «Intervento», n. 27, maggio-agosto 1977, p. 16. 2. Analoga convinzione circa la sostanziale unità e coerenza teoretica delle molteplici posizioni spiritiane nutre Vittorio Mathieu, di cui si veda Unità d’ispirazione del pensiero di Ugo Spirito, in «Annali della Fondazione Ugo Spirito», 1, 1989, pp. 13-47.

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zione in atto nella società occidentale, e in quella italiana in particolare3. È nel confronto con Del Noce, culminato nel volume Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?, peraltro coronato da un ottimo successo di vendite4, che più chiaramente emergono alcuni punti fermi, non oscillanti, della posizione dell’ultimo Spirito. Un confronto che prosegue tacitamente, anche a distanza, nel corso degli anni Settanta, e che trova la propria origine contingente nell’esplosione della contestazione studentesca del 1968. È più che mai in questa occasione che emerge l’enorme distanza esistente tra un’impostazione filosofica che poggia sulla fede nella trascendenza e sull’immutabilità e permanenza di alcuni valori, come nel caso di Del Noce, e una posizione – quella di Spirito – che, invece, si contraddistingue per un immanentismo che è, sì, radicale ma restando pur sempre storicistico, e di conseguenza portato a far coincidere reale e razionale, storia (umana) e verità. Il confronto diretto, e tradotto in un volume a quattro mani, nasce da un breve saggio spiritiano pubblicato sulla rivista «Futuribili» nel gennaio del 1969, il cui titolo è inequivocabile: Ideali che tramontano e ideali che sorgono. A questo risponde Del Noce con un articolo, pubblicato nell’agosto del 1969 sul settimanale «L’Europa», dal titolo Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?. 3. In una lettera dell’8 maggio 1970 Del Noce scrive a Spirito: «mentalmente converso sempre con te, e sai quanta importanza abbia avuto nella mia decisione per Roma la speranza che queste conversazioni possano diventare più impegnate e frequenti» (riportata in g. dessì, Augusto Del Noce e Ugo Spirito. Un rapporto intellettuale attraverso l’epistolario (1954-1973), Fondazione Ugo Spirito, Roma 1994, p. 63). In quello stesso anno Del Noce otteneva, infatti, il trasferimento dall’Università di Trieste a quella di Roma, dove dall’ottobre avrebbe ricoperto la cattedra di Storia delle dottrine politiche nella Facoltà di Scienze Politiche. 4. Nei soli primi sei mesi il volume ebbe ben quattro edizioni. Nello stesso anno, 1971, il volume fu tradotto anche in spagnolo: ¿Ocaso o Eclipse de los Valores Tradicionales?, Unión Editorial, Madrid 1971 (trad. di J.P.M. Bai). Secondo una fattura inviata – il 9 aprile 1976 – dalla casa editrice Rusconi a Spirito, il volume aveva avuto una tiratura di 11.500 copie, di cui erano state vendute 9.519 in data 31 dicembre 1975 (cfr. cus 11829).

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Come testimonia una lettera datata 16 gennaio 1970, Spirito è colpito da questo articolo e scrive a Del Noce chiedendo che cosa possa mai significare il termine «eclissi» «dal punto di vista speculativo»5, testimoniando, così, il proprio irriducibile storicismo che non può concepire verità che si diano al di fuori della storia, che non siano divenienti con lo svolgersi del processo storico, perché in esso maturano ed è esso a incubarle e partorirle. Da questo scambio di idee a distanza nasce l’idea, probabilmente di Spirito6, e di cui è mentore un amico di Del Noce, Alfredo Cattabiani, appena approdato all’editore Rusconi per dirigere la neonata Rusconi Libri7: l’idea, cioè, di dare vita a un volume che raccolga il saggio di Spirito e la risposta di Del Noce, che però verrà ampliata al punto tale da divenire quasi un libro a sé, con tanto di note talora assai lunghe e corpose. A questi scritti si aggiunge un ulteriore botta e risposta di poche pagine, due capitoletti a testa che completano il ricco volume. L’idea di fondo che anima l’intervento spiritiano è la constatazione del processo di unificazione del mondo prodotto dallo sviluppo scientifico e tecnologico, innescato in modo definitivo dalla seconda guerra mondiale. L’idea è che 5. La lettera è ora riportata in g. dessì, Augusto Del Noce e Ugo Spirito, cit., p. 62. 6. Così parrebbe da una lettura del carteggio con Del Noce, specialmente la lettera dell’8 e ancor più quella del 12 maggio 1970; cfr. ivi, pp. 63-64. Nella lettera del 12 maggio, infatti, scrive: «Mio caro Del Noce, grazie della tua lettera e della tua accettazione. Ti sarei grato se volessi rinviare all’editore il tuo articolo con le correzioni che credi, nel più breve tempo possibile» (ivi, p. 64). In una lettera del 4 novembre 1970, Del Noce avvisa di avere inviato il proprio dattiloscritto soltanto ai primi di ottobre, e che «le ragioni del ritardo stanno nell’importanza del tuo pensiero, che in quel tuo scritto c’era tutto contratto». Spiega, così, di aver redatto circa trecento pagine che poi, per ragioni editoriali, ha riassunto in centocinquanta cartelle, affidando alle note «gli sviluppi che sarebbero necessari» (ivi, pp. 64-65). 7. Cfr. r. pertici, L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti progressista degli anni Sessanta, in aa.vv., 40 anni dopo: il Sessantotto in Italia fra storia, società e cultura, a cura di B. Coccia, Apes, Roma 2008, p. 245.

194 i valori destinati a tramontare siano quelli religiosi, metafisici e ideologico-politici, e i valori dell’avvenire siano invece quelli scientifici e tecnici, destinati – s’intende – ad assorbire le esigenze dei valori al tramonto, sollevandole al piano dell’universalità che loro manca8.

Sono così destinati a non avere più né fascino né seguito ideali come quello di patria e perdono sempre più peso persino religioni istituzionalizzate da secoli in strutture ampie e ramificate ma, sempre e comunque, circoscritte dalla rivendicazione di specifiche origini geoculturali, nonostante l’afflato ecumenico che può animare, ad esempio, il cristianesimo cattolico. Per non parlare della morale, della famiglia e della scuola. Ma la stessa fede politica che sembrava a metà anni Sessanta convergere nel riconoscimento comune dell’ideale democratico deve cedere il passo a una crescente ondata di «antipolitica», da intendersi come «critica consapevole del concetto moderno di democrazia»9. La democrazia è un’ideologia al pari del socialismo, del liberalismo, del comunismo. A fine anni ’60 essa mostra ormai di poggiare su un’idea di individuo e di sovranità che sono monche, in quanto sganciate dall’idea di capacità. Dire che tutti sono sovrani lascia le cose come stanno, dal momento che per deliberare, ossia decidere scegliendo, è necessario, infine, adottare un criterio come quello maggioritario che riproduce il problema delle origini e che nell’istituto parlamentare trova la propria incarnazione: affidare, cioè, il governo della collettività a un consesso di «incompetenti scelti da incompetenti»10. Il difetto di un sistema che esclude la competenza e le capacità nella gestione della vita sociale risiede nell’inefficacia e nell’inefficienza, i mali sempre più visibili delle democrazie occidentali contemporanee, come avrebbero evidenziato a metà 88. u. spirito, Ideali che tramontano e ideali che sorgono, in u. spirito, a. del noce, Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?,Rusconi, Milano 1971, p. 19. 89. Ivi, p. 32 e passim. 10. Ivi, p. 31.

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anni Settanta Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki nel loro rapporto sulla «governabilità delle democrazie» elaborato per la Trilateral Commission11. Di fronte a una politica che, per incapacità di rispondere con cognizione di causa alle sfide della contemporaneità, si riduceva «in alterco e in rissa»12, i giovani – scriveva Spirito nel 1969 – «si ritraggono nauseati, anche se non hanno ancora la persuasione di trovarsi di fronte a istituti senza più ragione di essere e che debbono venire sostituiti al più presto possibile»13. Di qui, ad avviso di Spirito, una delle ragioni della contestazione giovanile che a fine anni Sessanta stava investendo le società occidentali e le loro classi dirigenti. Un conflitto tra vecchio e nuovo, ideali del passato e ideali del futuro, tra certezze che sfumano e speranze che nascono. Si approfondiva il distacco «tra la generazione dei padri e dei maestri e quella dei figli e degli scolari»14. Spirito spera di essere insieme l’eterno maestro e l’eterno giovane, e quindi scrive e interviene con frequenza e veemenza a suggerire quale contenuto debbano assumere i nuovi valori sostitutivi dei vecchi. Nemmeno lui sa indicare con precisione alle nuove generazioni i contorni di quella società futura che si intravede appena nei loro slogans e nelle loro proteste. Talora Spirito sembra quasi aspettare da essi una risposta alle proprie mai sopite ansie rivoluzionarie. Ma riceverà 11. Cfr. m. crozier, s.p. huntington, j. watanuki, La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale (1975), trad. it. V. Messana, pref. di G. Agnelli, intr. di Z. Brzezinski, Franco Angeli, Milano 1977. La Commissione Trilaterale era stata istituita nel 1973 quale «gruppo di privati cittadini, studiosi, imprenditori, politici, sindacalisti, delle tre aree del mondo industrializzato (America Settentrionale, Europa Occidentale, Giappone) che si riuniscono per studiare e proporre soluzioni equilibrate a problemi di scottante attualità internazionale e di comune interesse» (ivi, p. 11). Il rapporto, l’ottavo della serie, era stato presentato nel corso della riunione plenaria di Kyoto nel maggio 1975. Zbigniew Brzezinski era, all’epoca, il direttore della Commissione trilaterale. 12. u. spirito, Ideali che tramontano, cit. p. 31. 13. Ibidem. 14. Ivi, p. 32.

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ben presto delusioni su ambo i fronti. Né egli saprà porsi come anziano maestro e faro ideologico dei contestatori – non sarà, insomma, il Marcuse d’Italia –, né i sessantottini saranno in grado di sottrarsi al richiamo delle attempate sirene dell’ideologia marxista-leninista, variamente declinata nelle eresie ora maoista, ora guevarista, ora operaista. Inascoltato, anzi, pressoché ignorato, Spirito potrà, però, di lì a poco biasimare una Contestazione che ha saputo solo distruggere, aggravando una crisi che data da lungo tempo, e di cui egli continuerà, così, a denunciare l’esistenza e a perorare il superamento in nome del suo insegnamento filosofico. Ma di fronte a una realtà politica e sociale che si mostra sempre più refrattaria alla completa palingenesi, il filosofo riscopre la propria originaria formazione positivistica. «Non sono più un rivoluzionario, ma soltanto uno storico», dirà con rammarico frammisto a civetteria in un breve scritto del 197715. Al fondo del positivismo spiritiano riposa un’idea di oggettività quale ricerca e affermazione del dato incontrovertibile, indiscutibile, indubitabile, che la scienza, genericamente intesa, persegue come il suo statuto prevede. La scienza di cui Spirito parla è «la ricerca di una verità che abbia valore universale e in cui si attui la collaborazione di tutti»16. Ciò di cui ormai egli parla a fine anni Sessanta non è tanto una disciplina piuttosto che un’altra, la fisica piuttosto che la biologia, ma è il risultato di quanto lo sviluppo scientifico e tecnologico sta producendo, anzitutto nell’attitudine cognitiva e nel modo con cui i discorsi degli scienziati stanno diffondendosi tra il pubblico dei non addetti ai lavori. La scienza è una nuova forma di sapere, ecumenica in un modo pieno e indiscutibile come nemmeno la religione (ogni religione) riesce a essere, e neppure la metafisica classica (quindi, la tradizione filosofica) e tanto meno l’ideologia politica (ogni ideologia, dal liberali-

15. u. spirito, Che cosa sarà il futuro, Cadmo, Roma 1977, p. 14. 16. id., Tre equivoci, in u. spirito, a. del noce, op. cit., p. 298.

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smo al fascismo, al comunismo). L’oggettivo è anche l’universale, in quanto verificato e convalidato da un riconoscimento intersoggettivo che oltrepassa il giudizio individuale e, infine, si afferma per quello che è. Il positivismo di Spirito sembra, dunque, fondarsi sull’oggettivismo, piuttosto che sull’oggettività, ovvero sopra l’ideologia dell’oggettività, l’assolutizzazione e cristallizzazione del fatto per come esso è o si manifesta. Solitamente si pensa e si definisce l’ideale come una sorta di «reazione al reale», un vero proprio «contro-reale»17. Nel caso di Spirito, invece, ideale e reale coincidono, secondo la mai dimenticata lezione attualista, o meglio: devono coincidere. Ed è nella torsione inevitabile che si produce su una realtà costretta nelle strette e rigide maglie dell’ideale che si finisce in quel perfezionismo la cui sostanza Giovanni Sartori riassume in «un uso cattivo degli ideali»18. È chiaro che fino a quando ci si muove soltanto sul piano delle teorie e dei grandi affreschi filosofici le conseguenze del perfezionismo sono relativamente innocue, specie se formulate in un contesto di tolleranza e di reciproco riconoscimento degli interlocutori. Diverso è il discorso se ci spostiamo sul piano della prassi politica e della volontà di realizzazione di un mondo di perfetta comunione tra gli esseri umani, e tra questi e la natura. Per ottenere un simile risultato è necessario dispiegare un sistema di dominio capillare e globale, alfine totalitario come non altri mai. Certo è che, se si resta sul piano delle idee e delle argomentazioni puramente teoriche, la rappresentazione spiritiana della contemporaneità ha il sapore della messa in scena di qualcosa che non c’è, e che tanto meno dà l’impressione di poterci essere in futuro. Sa troppo di improbabile eden questo mondo della positività, sia nel senso di ciò che ha valore affermativo e costruttivo, sia nel senso di 17. g. sartori, La democrazia in trenta lezioni, a cura di L. Foschini, Mondadori, Milano 2008, p. 14; ma, più diffusamente, si veda id., Democrazia. Cosa è, Rizzoli, Milano 1993, pp. 44-58. 18. id., La democrazia in trenta lezioni, cit., p. 14.

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ciò che è dato e non può non darsi (manifestarsi) come tale per l’intrinseca necessità e razionalità del reale, svelato dall’inarrestabile progresso scientifico e tecnologico. In tal senso, aveva buon gioco lo studioso sovietico S.A. Efirov che in un libro edito in Italia nel 1970 irrideva all’onnicentrismo spiritiano, ennesima riproposizione dell’antica, «ingenua utopia» dell’amore universale19. Il problema di fondo sta nel fatto che, come rivelava opportunamente Efirov, il principio dell’amore universale, della comprensione e della collaborazione «può servire come uno scopo da raggiungere in una società perfetta, non può certo servire come mezzo per il suo raggiungimento»20. Il mondo contemporaneo era ben lungi dal dirsi unificato, o anche solo ben avviato sulla strada dell’unificazione e, quindi, della condivisione e della collaborazione mondiale. Se questo poteva essere un ideale condiviso dal sovietico Efirov e da tanta parte della cultura politica e filosofica comunista, nelle sue numerose varianti ideologiche, non accettabile, però, gli pareva il metodo, confuso com’era con il fine. Il mezzo per la società perfetta, ossia pacificata e armoniosamente efficiente, non poteva che essere la lotta di classe, l’abbattimento del sistema economico e sociale fomentatore delle divisioni e dei conflitti, in altre parole il capitalismo. La risposta di Spirito a simili obiezioni è facilmente intuibile: esiste da tempo un agente potentissimo di trasformazione che continuamente nasce dalle menti di alcuni uomini, ma continuamente si emancipa quale forza e volontà autonoma, e questa è la tecnica.

19. s.a. efirov, La filosofia borghese italiana del xx secolo, trad. it. M.T. Veggetti, Sansoni, Firenze 1970, p. 97. L’autore era, all’epoca, collaboratore scientifico dell’Istituto di Filosofia dell’Accademia delle Scienze dell’Urss e cattedratico di filosofia presso l’Istituto Pedagogico di Stato a Mosca. 20. Ibidem. Sempre Efirov ci offre un’interpretazione del nucleo concettuale della filosofia politica spiritiana tanto sintetica quanto puntuale ed esauriente: «In sostanza le concezioni politico-sociali di Spirito sono una varietà di utopia tecnocratica che a tratti assume carattere aristocratico» (ivi, p. 96).

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Al dunque, Spirito mostra una certa ritrosia ad acquietarsi in una condizione «pendolare», nonostante la non rara ostentazione di quel marchio «problematicista» di cui si vanta in molti scritti e prese di posizione pubbliche dal secondo dopoguerra in poi. A ben vedere, nel suo pensiero il «dubbio» è accettato suo malgrado, come una situazione provvisoria che periodicamente viene riconosciuta come ineludibile, ma sempre si intende superare. Il dubbio in Spirito resta una diminutio capitis, un arretramento, una condizione che si accetta in mancanza di meglio e in attesa dell’optimum, della definitiva risoluzione di ogni divisione, conflitto, «antinomia». È come se Spirito vivesse dentro sé le contraddizioni del proprio secolo, il Novecento, che è il «secolo occidentale» per definizione. Nel corso dei decenni del ventesimo secolo il mondo si è fatto sempre più globale e sempre meno universale. Di questa fondamentale, intima contraddizione Spirito pare non rendersi conto, o forse non vuole rendersi conto. La fase finale della globalizzazione, che egli constata sin dalla fine degli anni Cinquanta, non ha corrisposto affatto ad una universalizzazione, per come la intendeva il filosofo aretino, ovvero un’unificazione di valori di condivisione e comprensione tra gli esseri umani. Occorre dire che Spirito registrava il fenomeno all’avvio della sua fase finale di compimento. Bisogna, però, anche ribadire che di una trasfigurazione utopica si tratta. Il discorso spiritiano fila via brillante e fascinoso grazie all’abilità oratoria di colui che la espone. Della capacità di seduzione intellettuale, e non solo, che la parola di Spirito esercitava sono testimonianza centinaia di lettere di studenti e, soprattutto, studentesse, comunque anche uomini e donne di età più matura, uditori delle sue lezioni e conferenze tenute a giro per l’Italia e per il mondo con una frequenza e intensità formidabili21. 21. Sin dai primi anni Trenta Spirito compirà molti viaggi all’estero, da quelli in Germania e Austria, spinto dall’interesse per i primi esperimenti nazionalsocialisti di economia programmatica, ai viaggi del secondo dopoguerra in Argentina, Cile e altri paesi del continente latino-americano per congressi internazionali di filoso-

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Queste, ad esempio, le parole con cui il 1° gennaio 1938 Enza Iraggi, una studentessa che aveva seguito le lezioni spiritiane a Messina, scriveva al suo antico maestro: Illustre Professore, fino a pochi giorni fa La ricordavo come si ricorda un bene per sempre perduto. Speravo, come in una cosa impossibile, di potere qualche altra volta ascoltare una Sua lezione, per la quale sarei sempre disposta a rinunziare a qualunque altro godimento ritenuto comunemente preferibile. Non Le scrissi da Messina, nella primavera scorsa, come al Magistero avvertivano la Sua assenza e non sapevano piegarsi ad accettarla senza soffrirne. Tuttavia, malgrado quel vuoto, io sentivo il Suo spirito prepotentemente presente, perché Ella era il mago della parola e ancora, a distanza, ne sentivamo il fascino22.

Ma proprio dall’immenso carteggio emerge un altro aspetto del magistero spiritiano: la sua dimensione sospesa tra il sofistico e il romantico23. E l’enorme capacità di suscitare entusiasmo, spefia, per non parlare poi dei più noti viaggi in Russia e Cina alla scoperta del comunismo realizzato. 22. cus 133 (i corsivi sono nostri); si veda anche una precedente lettera di E. Iraggi a U. Spirito (10 dicembre 1936, cus 1225: «Le Sue lezioni erano il nostro godimento: Ella ci nutriva del migliore miele e noi, per quanto non idonei, ben vedevamo scoprirci orizzonti nuovi»). Curiosa analogia, sia pur rovesciata di segno in termini valutativi, con una delle critiche che Gramsci, sulla scia di Luigi Einaudi, rivolge a Spirito, filosofo «nel quale molto spesso la novità delle idee, dei metodi, dell’impostazione dei problemi, è puramente e semplicemente una quistione [sic] di terminologia, di parole» (Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. i, Quaderno 4, § 42, p. 468; ma si veda anche, ivi, vol. ii, Quaderno 11, § 48, p. 1470: «la filosofia gentiliana è oggi quella che fa più quistioni [sic] di “parole”, di “terminologia”, di “gergo”, che dà per “creazioni” nuove [quelle che sono] espressioni verbali nuove non sempre molto felici e adeguate»). 23. Si può citare, ad esempio di un’infinità di documenti similari, la lettera di Giovanna Abete, datata 17 dicembre xx-1941: «Caro Professore, ho passato la notte dell’Innominato, mi è parso di essermi trasferita con Dante nel mondo delle ombre. È un effetto della mia fantasia accesa dalla lettura dei poeti? o siete Voi a muo-

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cialmente nei giovani, come si evince bene da questa lettera inviatagli da un’ex allieva, divenuta nel frattempo insegnante: Vi ringrazio di tutto. […] può farVi anche piacere il sentire che un bravo ragazzo di iii – temperamento romantico – mentre uscivo di classe mi si è avvicinato: «Signora, ho un libro di Ugo Spirito, La vita come arte; ho letto un capitolo che mi ha veramente impressionato». E mi parlava del libro come se vi avesse trovato la rivelazione di sé. Se l’era fatto regalare dalla mamma per il suo compleanno24.

Spirito è il «grande seduttore», ed è difficile pensare che non si sia in più occasioni compiaciuto di questa sua abilità. Lo testimoniano un paio di lettere di una studentessa che segue il corso del filosofo aretino sul finire degli anni Trenta. Nella prima, datata 12 gennaio 1939, leggiamo: Da queste poche lezioni e dallo sguardo che scruta dentro con rapidità impressionante ho compreso che Lei ama possedere, o almeno si affatica nel cercarle, le verità essenziali. Mi sia Professore e Guida e avrà la certezza di farmi tanto, tanto bene25.

Nella seconda, scritta un paio di mesi dopo, si ricava con ancor maggior chiarezza il tenore di certe lezioni tenute da Spirito sul finire del ventennio fascista, fatta la tara alla naturale fascinazione di una studentessa per la seducente e coltissima ver il mio Volere, Voi, Il Dio che mi trascende? Sento la necessità di saperlo» (cus 1570). 24. Biglietto di Nella Piemonti Cattaruzza (da Gorizia), 5 settembre 1943, cus 1669. All’indomani del trasferimento da Messina a Genova, il collega Ettore Paratore scrive a Spirito il 22 dicembre del 1936: «Dirti quale rimpianto abbia lasciato in tutti la tua partenza, e non solo a Messina, è superfluo: Ugo Spirito non è il solito bravo docente che potrebbe esser su per giù rimpiazzato da uno studioso di forza eguale; è un animatore di molteplici attività, che è rara ventura aver vicino, e che è iattura irreparabile perdere. Specie fra i giovani […] il rimpianto è vivo e profondo» (cus 1230). 25. Lettera di M. Palmisano a U. Spirito, 12 gennaio 1939 (cus 1396).

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affabulazione del professore guida spirituale. Una fascinazione che su giovani poco più che adolescenti favorisce non di rado derive mistico-teosofiche e quasi forme di deliquio pseudoerotico; ed è solo un caso fra i tanti come testimonia il carteggio spiritiano. In questa seconda lettera, recante la data del 3 marzo 1939, c’è pure la citazione di un frase che il professore Spirito avrebbe pronunciato a lezione: «Il nostro destino è di essere posseduti». Queste parole mi sono nel cuore e nella mente. Non siamo noi i padroni, no! Forse questo Amore che sentiremmo per un unico Uomo, che vogliamo sentire per tutte le creature non è l’Amore di Dio, la «charitas» che non potremo placare se non nel Suo possesso? E quale nome ha l’altra oscura forza che mi fa sentire il vuoto e precipitare nel nulla? Soffro, soffro! Solo nel lavoro e nello studio trovo una ragione di vita. Ma non mi dichiaro ancora vinta26.

Ma Spirito è anche – in certi momenti – il «sofista», colui che fa della parola – e della sua scelta, del modo di pronunciarla o di scriverla – poco più di un fine in sé: al massimo, punta a suscitare entusiasmo in chi lo ascolta o in chi lo legge27. Una sensazione del genere si fa più forte in chi ne legga gli scritti prodotti dal secondo dopoguerra in poi. Certamente è rinvenibile nell’intera produzione intellettuale spiritiana un fil rouge, una coerenza interna, ma questa pare essere l’afflato romantico, a tratti misticheggiante, tipico del filosofo storicista ottocentesco. E l’intonazione romantica sconfina facilmente nell’utopia, che mai, però, ammette di esser diventata tale, pena la perdita di quell’aderenza fra verità e storia su cui più evidente e forte pesa l’eredità gentiliana. 26. Lettera di M. Palmisano a U. Spirito, 3 marzo 1939 (cus 1403). 27. Si veda il contenuto della seguente lettera, anonima (ma proveniente da Roma), datata 27 maggio 1943: «Ho letto. Scrivete come parlate, ma pensate diversamente da come scrivete e parlate. Siete inafferrabile: nell’attimo stesso in cui si ha [sic] la sensazione di avervi completamente capito, presentate il più enigmatico interrogativo. Né teologo né filoso[fo]: un tormentato e un tormentone» (cus 1645).

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dopo gentile e dopo bottai Abbiamo parlato in precedenza di una condizione da orfano, a proposito della posizione speculativa di Spirito. Ciò di cui resta orbato con la fine della Seconda guerra mondiale, e con l’esito che essa ha avuto, è quell’«effettiva volontà di redenzione»28 che egli, con Gentile, aveva rinvenuto in Vincenzo Gioberti e che lo aveva condotto a intervenire, quale intellettuale militante della causa fascista, in tutti gli ambiti della vita pubblica – scuola, giustizia ed economia –, attraverso gli strumenti forniti dalla pedagogia, dal diritto penale e dalla scienza economica. Quel Gioberti che nel 1929, nell’introduzione a un’antologia di scritti pedagogici e politici, Spirito aveva indicato come colui in cui più forte si ravvisava «l’ideale dell’uomo moderno, unità profonda di pensiero e di azione»29, secondo l’accezione mazziniana di ciò che era e doveva essere l’essenza del Risorgimento italiano, impresa da portare a compimento con Mussolini e il fascismo. L’antologia di scritti giobertiani curata da Spirito recava il significativo titolo L’educazione degli italiani e la filosofia giobertiana era elogiata in quanto «non più l’astratta e passiva contemplazione del mondo, quale si presume che sia da chi non lo crea, bensì la consapevolezza della stessa vita in azione […]»30. Con il secondo dopoguerra e l’approssimarsi del Novecento alla sua conclusione, è come se nel pensiero di Spirito si consumasse lentamente una resa senza condizioni al divenire sto28. u. spirito, Introduzione a v. gioberti, L’educazione degli italiani, Sandron, Palermo 1929, p. 8. Si veda anche u. spirito, L’insegnamento di Gioberti, in «Educazione Politica», iii, fasc. viii, 1925, pp. 420-433. 29. id., Introduzione a v. gioberti, op. cit., p. 11. 30. Ibidem. Sull’interpretazione gentiliana di Gioberti, si veda l’ampio saggio di a. del noce, Gentile e la poligonia giobertiana, originariamente uscito nel 1969 sul «Giornale critico della filosofia italiana», la rivista fondata da Gentile nell’ottobre del 1919 (e uscita a partire dal 1920) e diretta dal 1947 (terza serie) da Ugo Spirito, ora, rielaborato sul piano formale, in id., Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, il Mulino, Bologna 1990, pp. 195-282.

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rico. Privo del richiamo alla volontà creatrice, l’uomo spiritiano è colui che «viene fatto» dalla storia, e oramai non può né sa farla. Di qui uno scetticismo a tratti radicale, assoluto. Un disincanto che sa di resa totale a tutto ciò che è altro rispetto all’autodeterminazione del singolo e/o della collettività organizzata. Un abbandono quasi mistico a forze esterne, all’eterodirezione che la scienza scopre e traduce nella tecnica, la cui essenza è una volontà di potenza autoreferenziale cui l’uomo soggiace per quel bisogno di espandere e sentire espandere la vitalità, apparentemente la propria, ma che poi, di fatto, è quella della stessa macchina produttiva. L’uomo spiritiano si spersonalizza e se è chiaro ciò che lascia, l’antropocentrismo e l’egocentrismo della modernità occidentale, non è affatto chiaro ciò che trova. Il problema è che il primo a non saperlo è lo stesso Spirito, il quale, in misura crescente dal secondo dopoguerra fino alla morte nel 1979, criticherà su più fronti l’esistente, senza saper fornire altra via d’uscita che quella dell’attesa di un «assoluto» tanto evocato e così poco chiarito. Ripudiando anche il sé stesso del periodo fascista, volitivo intellettuale demiurgo della società corporativa, non resta che invocare la volontà di una scienza-tecnica cui abbandonarsi come a una divinità salvatrice. E anche redentrice; ma di cosa? Dell’egocentrismo moderno culminato con l’idealismo assoluto di Gentile, cui egli stesso ha creduto fin quando ha potuto illudersi di trasformare la storia e il mondo secondo quell’undicesima tesi su Feuerbach tanto cara al giovane Gentile e tante volte ricordata dall’allievo Spirito, soprattutto in età avanzata, quando più acuta si fa sentire la condizione di orfano del maestro. Forte è, dunque, il sospetto che il problematicismo spiritiano sia l’esito di uno scacco del divino immanente provocato dalle «dure repliche» della storia che ha condotto popoli e nazioni in tutt’altra direzione rispetto a quelle che erano le sue attese e i suoi ideali e, soprattutto, rispetto alla propria volontà di creazione e affermazione. In altri termini, filosofia ed esistenza personale convergono, come peraltro testimoniato dalla scelta, certo non casuale,

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della formula «Vita come…» per tre titoli, tra i più celebri, della produzione intellettuale spiritiana. Come abbiamo visto nel primo capitolo, il fatto che la Vita come ricerca rechi la data del 1937 non significa affatto che lo scoramento fosse già sopraggiunto in pieno regime fascista. Ci sono delle concause esistenziali. Anzitutto, la posizione relativamente marginale in cui il pensiero e l’opera di Gentile sono risospinte all’interno del regime e della cultura ufficiale nel corso degli anni Trenta31. Niente di così drastico e tanto meno irreversibile, ma è certo che dai tempi del delitto Matteotti, quando il filosofo di Castelvetrano aveva lasciato il dicastero della Pubblica Istruzione, fino al 1929, anno dei Patti Lateranensi e del relativo accordo con la Chiesa cattolica, l’edificazione del regime fascista aveva preso una direzione sempre meno consonante con alcuni dei più intimi convincimenti di Gentile, rimasto pur sempre intellettuale fedele e devoto alla causa mussoliniana, tanto da produrre nella seconda metà degli anni Venti alcuni testi base della costituenda ideologia fascista di Stato. Illuminanti brani si trovano, a tal proposito, in una lettera che il professore Leonardo Grassi, che era stato durante la guerra direttore dell’Istituto Studia Humanitatis32, indirizza a Spirito nel febbraio 1948: Il nome di G. Gentile – scrive Grassi in risposta alla richiesta di Spirito di collaborare a un numero commemorativo del risorto «Giornale

31. Cfr. g. calandra, Gentile e il fascismo, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 165 e ss. Calandra osserva come, a fine anni Venti, «il regime che ha definitivamente vinto e trionfato, non richiede più alcuna legittimazione filosofica né alcuna mediazione tra cultura e potere che non sia la cultura delle istituzioni» (ivi, p. 168). Si vedano anche g. turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Giunti, Firenze 1995, in part. pp. 465 e ss.; s. romano, Giovanni Gentile. Un filosofo al potere negli anni del Regime, Rizzoli, Milano 2004, in part. pp. 354 e ss. 32. L’Istituto era stato inaugurato nel 1942 da Bottai per sviluppare rapporti scientifico-culturali con gli italianisti tedeschi Cfr. r. de felice, Mussolini l’alleato. i. L’Italia in guerra, 1940-1943, Einaudi, Torino 1990, t. ii (Crisi e agonia del regime), pp. 860-861, nota 2.

206 critico della filosofia italiana» dedicato al comune maestro – suscita nel mio animo, non solo un mondo di ricordi, affettuosissimi e dolcissimi, ma il vero mondo, il mondo dello spirito di cui io vivo e muoio […] Ed ecco, mio carissimo Amico, come mi punge l’anima, sempre che vi pensi, a costatare che l’uso personale che il nostro amico fece del suo divino pensiero non fu quello che doveva farne. […] fu la volontà di porre l’atto divino a servizio dello Stato che si andava fabbricando ad accecarlo o traviarlo.

Ancora più interessante dell’analisi è la testimonianza che illumina sul ruolo che ebbero una filosofia e una generazione di giovani intellettuali che all’indomani della Grande guerra vi scommise sopra come si trattasse di una scelta esistenziale definitiva: Debbo dire che anche io, come tu e tanti altri gentiliani pensammo che si potesse sperare in un rinnovamento dello spirito italiano in quello Stato; ma fu un’illusione che in me durò fino ai primi del Gennaio 1925. Allora ci si poté accorgere e tremare dell’enormità di quella speranza. Ricordo come già io fossi desolato della persistenza del Gentile al posto di filosofo di quello Stato, che già andava trescando con la Curia; mentre il suo e mio fraterno amico G. Lombardo-Radice aveva avuto il coraggio di lasciare il suo posto e proclamare che il credere a una volontà di bene di quel mondo politico era stata una pretta illusione. Il Gentile rimase; ma io qui di fronte a Dio che ci scruta dentro son qui a rivelare che egli, in un periodo di mio soggiorno romano verso il ’37, mi confidava giornalmente il suo disgusto, anzi la sua nausea dell’andazzo di quello Stato, invitandomi a deplorare che per un tale risultato avessimo combattuto insieme la lotta contro il corrodente, nefasto microbo massonico. Benissimo; ma il tempo scorreva ed egli non si allontanava. Ed ogni giorno sempre più enorme agli spiriti liberati appariva l’enormità di rifare, non le forme della vita umana, ma il contenuto, l’uomo, il carattere, la fede: rifar ciò in sostanza con la violenza: lo Stato totalitario33! 33. L. Grassi a U. Spirito, 13 febbraio 1948 (cus 2266; corsivi nel testo).

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A tal riguardo, la posizione di Spirito risulta di non facile collocazione, almeno non immediatamente. A ripercorrerla passo dopo passo si può cogliere, però, con nettezza l’intenzione dell’allievo di superare il maestro scegliendo la nuova strada che il regime fascista, dunque la storia in atto, prospettava sul cammino della «rivoluzione», ovvero quel progetto corporativo tanto vago nei suoi contorni quanto più che mai attraente e disponibile per l’utopista di turno, proprio grazie a quella stessa indeterminatezza e flessibilità di contenuti con cui poteva essere riempito. D’altro canto, l’uso frequente del termine «fede», anche e forse ancor più dopo la fine della guerra, da parte sia di Spirito sia di molti suoi studenti/studentesse – come si evince dal carteggio successivo al 1945 – potrebbe segnalare un’eredità tipica del fascismo e dell’adesione a esso. Questo, come ha ribadito di recente Roberto Vivarelli, «non ebbe, intenzionalmente, una definita identità ideologica»; il disegno politico di certo non mancava, ma «quella che Mussolini chiedeva era una devozione personale, la fede, poco importa quanto convinta, nell’infallibilità del suo intuito»34. Una fede che Spirito mostrò di nutrire nei confronti delle capacità di leadership rivoluzionaria del duce, e del resto confermò di avere coltivato questa sua specie di personale «devozione» anche nelle pur «revisioniste» Memorie del 197735. Se i due colloqui avuti con Mussolini, rispettivamente il 25 marzo 1932 e il 17 maggio 1933, lo illusero di poter divenire qualcosa di simile all’ideologo ufficiale di un regime definitivamente orientato a completare la rivoluzione – che coincideva con la corporativizzazione della società italiana – la brusca interruzione di ogni ulteriore possibilità di contatto con il duce lo raffreddarono un poco sotto il profilo dell’entusiasmo filofascista36, 34. r. vivarelli, La cultura italiana e il fascismo, in id., Fascismo e storia d’Italia, il Mulino, Bologna 2008, pp. 106-107. 35. Cfr. u. spirito, Memorie di un incosciente, Rusconi, Milano 1977, pp. 173 e sgg. 36. Per una ricostruzione del contenuto dei due colloqui è possibile leggere i resoconti che Spirito redasse in entrambe le occasioni, subito dopo essere stato ricevu-

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anche se nell’estate del 1935 gli restava ancora Bottai quale suo vero e unico referente politico nonché tramite per un eventuale, auspicabile nuovo incontro col duce. Ma proprio fra 1935 e 1936 anche su questo versante qualcosa mutò, e peggiorò, sia pure temporaneamente. Un altro fattore concomitante che spiega certo sbandamento e scoramento spiritiano a metà anni Trenta deve essere, infatti, rinvenuto nella temporanea assenza dalla scena politica nazionale di Bottai. Tra l’autunno del 1935 e la tarda primavera del 1936 Bottai è, infatti, in Africa orientale per partecipare da volontario alla guerra d’Etiopia. Anche nell’allora governatore di Roma, e subito dopo Ministro dell’Educazione Nazionale, era ben vivo lo stesso problema che assillava la «covata» gentiliana: dare sbocco a quell’irrefrenabile aspirazione ad agire che rendeva irrequieti molti giovani cresciuti con la propaganda iperattivistica e «guerriera» del regime37. Inoltre, Bottai to a Palazzo Venezia: Appunti dei colloqui con Mussolini, pubblicati per la cura di Giuseppe Parlato in «Annali della Fondazione Ugo Spirito», vol. ix, 1997, pp. 301307. Questi appunti sono rimasti inediti fino ai tardi anni Novanta, ma Spirito ne aveva riassunto il contenuto nelle sue Memorie del 1977, nel capitolo dedicato alla figura di Mussolini (in particolare, pp. 174-182). In queste pagine si ricorda anche come, per tentare di difendersi dall’offensiva che il neoministro dell’Educazione Nazionale De Vecchi aveva da poco avviato nei suoi confronti (esclusione dal premio per gli studi corporativi bandito nell’estate del ’35 dall’Accademia dei Lincei; trasferimento da Pisa a Messina), egli avesse scritto a Mussolini il 6 novembre di quello stesso anno pregandolo di fargli riottenere la cattedra di Politica ed economia corporativa a Pisa nonché fargli assegnare il premio dell’Accademia dei Lincei di cui si riteneva ingiustamente defraudato, essendo egli ormai da anni il più degno rappresentante degli studi corporativi (ivi, pp. 184-186). La risposta che giunse il 14 novembre 1935 per mano di Osvaldo Sebastiani, segretario particolare del duce, fu lapidaria e inequivocabile: «Egregio Professore, il Duce ha ricevuto la sua lettera del 6 c.m. Non ravvisando ragioni di intervenire per una determinazione in senso diverso, Sua Eccellenza ha espresso che v.s. attenda all’insegnamento nella sede assegnatale. Distinti saluti» (ivi, p. 186; tuttavia, tale lettera non risulta nel carteggio di Spirito). Il filosofo calca poi la mano quando commenta a mo’ di chiusura: «Così finiva il mio fascismo e così finiva il mio rapporto con Mussolini» (ibidem). 37. «Quei giovani che ieri sembravano destinati a essere i mal rassegnati epigoni di un eroismo già consegnato alla storia, ne divengono oggi invece i continuatori», così Bottai in un articolo intitolato Collaudo delle generazioni giovani, apparso su «Cri-

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era il gerarca che più di ogni altro riteneva che dietro una qualsivoglia linea politica ci fosse e non potesse non esserci una linea culturale, o meglio ideologica. Una convinzione che si sarebbe fatta ancora più forte con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, «guerra di dottrine» come altre mai38. E non a caso sarà un ritorno di fiamma per il fascismo di Spirito, richiamato da Bottai a tentare l’ultima mobilitazione ideologica della cultura italiana perché si fascistizzasse davvero. La lontananza di Bottai da Roma durante la parentesi etiopica aveva, dunque, indebolito il fronte interno degli intellettuali che ancora cullavano sogni di seconde o terze ondate rivoluzionarie a beneficio di un regime che si era arenato anche sul piano della trasformazione in senso corporativo delle istituzioni politiche e sociali della nazione. In più, ad approfondire il solco erano intervenuti alcuni screzi personali, specie con Arnaldo Volpicelli, il cofondatore dei «Nuovi Studi di diritto, economia e politica», suscitati proprio dal diverso modo di intendere il progetto corporativista39. D’altro canto, a ditica fascista» il 1° gennaio 1936, ora cit. in g.b. guerri, Giuseppe Bottai, fascista, Mondadori, Milano 1996 [Nuova ediz.], p. 127. Sei mesi prima, sulla stessa rivista, aveva solennemente affermato che «la guerra coloniale che l’Italia s’accinge a compiere, è la prima guerra del corporativismo fascista, … il primo atto di potenza di quella rivoluzione moderna ch’è il Fascismo-Corporativismo» (cit. in ivi, p. 128). 38. g. bottai, Vent’anni e un giorno: 24 luglio 1943, Garzanti, Milano 1949, p. 191 [da una nota di diario del 13 agosto 1940, in cui poco sopra si legge anche: «Mussolini ha letto la lettera di ieri. Riconosce che tra il ’30 e il ’34 gli uomini di cultura italiani s’avvicinarono alla rivoluzione sotto la spinta rinnovatrice del corporativismo. Ma le guerre hanno interrotto il moto d’accostamento […]» (ivi, p. 190). La lettera in questione è proprio quella redatta da Spirito il 20 luglio 1940, su cui vedi infra cap. i]. 39. «Caro Spirito, ricevo la tua del 12, qui, mentre son dietro a dar le consegne. La tua parola mi fa piacere, per l’affetto e la stima ch’io ho sempre riposte in te. La ombra c’è; un’ombra, che ha tanto rattristato il mio pensiero durante la guerra d’Africa, quando mi lasciavo andare a ricordi e a propositi. Ma non io ho provocato quell’ombra; non io, che ho servita la nostra (e, intendo: mia, tua e di Volpicelli) amicizia con assoluta lealtà e schiettezza di sentimenti e di giudizii [sic! ]. In un periodo, nel quale, per il totale distacco dalla mia vita a cui mi accingevo con la mia partenza per l’Africa, io avrei avuto bisogno di caldi contatti umani, ho sentita da parte vostra diffidenza e quasi ostilità di valutazione morale. Tu, è vero, ti ricorda-

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spetto delle dichiarazioni con cui l’allora governatore di Roma aveva annunciato il proprio arruolamento come volontario (sarà inizialmente inserito con il grado di maggiore nella divisione di fanteria Sila40), la guerra in Etiopia e il suo stesso esito vittorioso per il fascismo dettero «il colpo di grazia al moribondo sistema corporativo come lo pensava Bottai»41. Il regime beneficiò, infatti, dell’aumento di produzione indotto dall’impegno bellico, ma con quell’aumento riemerse pure con forza il ruolo strategico degli industriali, del cui coinvolgimento si ebbe bisogno a prezzo di mandare definitivamente in soffitta ogni sogno di «terza via» corporativista; e inoltre, con la fine della guerra d’Etiopia, l’antibolscevismo tornò prepotentemente in auge a livello di ideologia ufficiale e di relativa propaganda42. E questa sconfitta politica interna fu probabilmente il terzo fattore che contribuì allo scoramento di Spirito e del suo engagément fascista. Scacco filosofico e scacco esistenziale parrebbero, così, coincidere, ma si tratta soltanto di un equivoco che può essere ingenerato da chi si fermi a un’analisi squisitamente testuale e tutta interna al percorso speculativo complessivamente sti a me con un biglietto; ma di Volpicelli mi arrivò l’eco d’uno spregio delle ragioni ideali, che mi ispiravano e che lui (e di ciò assai lo compiansi e lo compiango) non sentiva. Mi si disse, che facevate valere contro di me il giudizio ch’io detti delle vostre teorie al Congresso palermitano degl’Istituti di Cultura. Ma quando mai nel riconoscimento e nella difesa (spesso, anche incomode per me) delle vostre posizioni ideali, io ho mancato di fare le riserve, che il mio criterio mi suggeriva? Ma non vale parlare di coteste cose. Io seguito a stimarvi sempre come studiosi; dolente solo di non poter più credere alla schiettezza umana della vostra amicizia.[…]» (Bottai a Spirito, 16 novembre 1936, cus 1201). 40. Cfr. g.b. guerri, op. cit., pp. 128-129. 41. Ivi, p. 128. 42. Scrive Bottai nel suo diario in data 12 aprile 1937: «Sono tre mesi che non scrivo su queste pagine. […] è il timore d’annotare, perfino per noi stessi, la delusa aspettativa, dopo l’unanime sforzo per l’Africa [sic], d’una politica “nuova”?» (g. bottai, Vent’anni e un giorno, cit., p. 109). Sul ritorno in auge dell’antibolscevismo dopo la guerra d’Etiopia, cfr. r. de felice, Mussolini il duce. ii. Lo Stato totalitario 1936-1940, Einaudi, Torino 1981, p. 302 e ss.

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compiuto da Spirito. Ed è qui che corre in aiuto dell’esegeta spiritiano la ricchissima messe di lettere che fornisce forse il più genuino resoconto sulla vita e le più intime convinzioni del filosofo, in misura probabilmente più completa e veritiera della, per molti versi, fuorviante autobiografia, pubblicata in vita e ironicamente intitolata Memorie di un incosciente.

percorsi del dopoguerra Una cosa, comunque, è certa: intorno al 1937 comincia sì a venir meno la corrispondenza fra vita pubblica e vita privata, ma la presenza di Bottai alla guida del Ministero dell’Educazione Nazionale per oltre sei anni, dal novembre 1936 al febbraio 1943, rallentò il consumarsi di questa scissione che diventò, quindi, un lento distacco. Quasi un disamoramento, di cui è difficile valutare se e quanto fu scelto o subìto. In ogni caso, la fine del fascismo segna inequivocabilmente la fine della possibilità concreta di un disegno demiurgico, della traducibilità pratica di un’aspirazione a una vita da «intellettuale legislatore». Con la marginalizzazione di Gentile prima, con la fine della carriera politica di Bottai (che coincide con la fine del fascismo) poi, Spirito non ha più alcun tramite fra sé e la propria «azione» filosofica, da una parte, e la politica e il governo delle cose, dall’altra. Con il crollo del fascismo si riproduce quella scissione tra filosofia e politica che l’idealismo gentiliano aveva inteso (e preteso) sanare attraverso un’opera pedagogica e politico-culturale che prendeva le mosse da una peculiare lettura del Risorgimento nazionale. Fatto sta che l’attualismo riuscì effettivamente a coinvolgere numerose schiere di giovani intellettuali maturati tra la fine della Grande guerra e i primi anni Venti43. Dopo il 25 luglio 43. «C’è un punto che occorre dunque tener presente e che forse non ci è facile rivivere attraverso la lettura delle sue [di Gentile, ndr.] opere strettamente filosofi-

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del 1943, e la confusa parentesi della guerra civile che non lo tocca se non marginalmente, al pari di quel che accadde a chiunque trascorse quel periodo a Roma e nel Meridione, allo Spirito del dopoguerra rimane quel tanto di scena che può offrire una posizione accademica che non è minimamente scalfita dal breve provvedimento di sospensione intercorso tra l’agosto del 1944 e il maggio del 194544. Al contrario, tale posizione si consoliderà sia nell’Università, che dall’estate del 1946 non sarà più regia ma repubblicana, sia fuori da essa. Nel 1949 la prestigiosa rivista britannica «Life and Letters (and The London Mercury)» pubblica un numero speciale intitolato Italian Writers, dedicato interamente all’Italia e ai suoi artisti, scrittori, intellettuali45. Vengono chiamati a dare un contributo alcuni tra i più rappresentativi esponenti della cultura italiana del tempo. Figurano, così, i nomi di Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Leonardo Sinisgalli, Cesare Zavattini, Dino Buzzati, Carlo Levi, Massimo Mila e molti altri ancora. Tra essi, pure Spirito, che offre una panoramica sul pensiero filosofico italiano contemporaneo, dà molto spazio all’importante ruolo svolto dall’idealismo, ma afferma che, con l’avvento del fascismo, iniziò il declino di questa filosofia, acuito anche dalla firma nel 1929 del Concordato fra Stato e Chiesa cattolica46. che, così lontane nel linguaggio dalle abitudini intellettuali di oggi: l’enorme successo, oscurante completamente quello di Croce, che Gentile ebbe presso i giovani che si affacciavano alla vita in quegli anni. Non era limitato alle città dove aveva insegnato, né agli studiosi di pura filosofia.. […] Riguardo poi al successo delle sue lezioni romane, dalla fine del ’17, si deve parlare di un’analogia con quelle di Hegel a Berlino; l’attualismo sembrava segnare il culmine del processo storico del pensiero dei primordi dalla filosofia greca in poi» (a. del noce, Il suicidio della rivoluzione, Rusconi, Milano 1992, p. 96). 44. Si veda la lettera di Stefano Bottari a Ugo Spirito, 7 settembre 1945 (cus 1756). Vedi anche le Memorie di un incosciente, cit., pp. 93 e ss. 45. Cfr. Italian Writers, edited by R. Herring, in «Life and Letters (and the London Mercury)», vol. 62, No. 144, August 1949. 46. «But with the coming of Fascism the decline of the Italian philosophy of idealism began, and one saw even among its most ardent supporters, the first critici-

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Comunque, già nell’autunno del 1945, a procedimento di epurazione ancora in corso, Spirito è al crocevia di una serie di cortesi e impellenti richieste di intervento per sostenere ora questo ora quel candidato, essendo egli membro anche nelle commissioni esaminatrici di abilitazione magistrale (in cui è spesso nominato presidente) e in quelle giudicatrici dei concorsi universitari a cattedra in filosofia teoretica47. Gli si rivolgono anche antifascisti come Wolf Giusti, che aveva partecipato già dal 1940 all’attività cospirativa nelle file del piccolo e combattivo movimento liberalsocialista, ma che con Spirito collaborava sin dai tardi anni Trenta, specie tramite l’Enciclopedia italiana e la casa editrice Sansoni – di proprietà della famiglia Gentile – presso cui pubblicò nel 194348. sms, the first signs of hesitation, of discomfort, of doubt and of an approaching crisis» (u. spirito, Contemporary Italian Thought, ivi, p. 114). Introducendo la cultura filosofica dominante nell’Italia del primo Novecento, Spirito parla diffusamente dell’idealismo gentiliano (ma anche crociano) e ricorda come molti giovani intellettuali italiani si entusiasmarono per la nuova dottrina che sottolineava come la forza dello «spirito» fosse costruttrice e vivificante, capace di sormontare ogni ostacolo, ogni difficoltà, e ciò favorì un risveglio di orgoglio nazionale, un vero e proprio «nuovo Rinascimento» («Young men were attracted by the new doctrine and became enthusiastic, almost fanatical adherents. They were inspired by the conception of a creative and revivifying spiritual force which was to find its outlet in action and constructive effort, a force sufficiently powerful to overcome every obstacle. There followed a reawakening of national pride, of the ability to express it both in thought and action, and an awareness of a tradition inherited from humanism and the Renaissance», ivi, pp. 112-113). Il testo spiritiano era stato tradotto in inglese da Muriel Currey. 47. Si vedano, tra le moltissime, le lettere di Carlo Antoni del 2 agosto 1946 (cus 1864); di Romano Galeffi del 26 dicembre 1946 (cus 1931); di Carmelo Ottaviano del 17 marzo 1947 (cus 1990); oppure il comunicato di nomina del Provveditorato agli Studi di Roma del 4 febbraio 1947 (cus 1969); e i comunicati ministeriali del 23 agosto e 30 settembre 1948 relativi alla nomina della commissione esaminatrice per un concorso a cattedra presso l’Università di Cagliari (cus 2406 e 2437). 48. Cfr. g. de luna, Storia del Partito d’Azione, utet, Torino 2006, p. 43. Per un breve profilo biografico, cfr. E. Sgambati, Giusti, Wolfango (Wolf ), in dbi, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2001, vol. lvii, pp. 200-202. Il libro di W. Giusti edito da Sansoni nel 1943 è Due secoli di pensiero politico russo. Le corren-

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Scrivendo nel giugno 1945 al famoso ideologo propugnatore della forma più integrale, ma, quindi, anche eretica e «bolscevica», del corporativismo fascista, Giusti condivideva gioie personali e private come le imminenti nozze; chiedeva, inoltre, al professore universitario, titolare della cattedra di Filosofia presso la Facoltà di Magistero dell’Università di Roma, di mettere una buona parola perché lui, giovane slavista, potesse ottenere «un incarico di russo o di letterature slave in genere»49. Un altro antifascista di orientamento liberal-azionista, Luigi Russo, all’epoca direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, scrive in data 8 luglio 1946 per sostenere la candidatura di Guido Calogero per un posto a cattedra presso il Magistero di Roma50. Insomma, nell’estate del 1945, a reintegro pienamente avvenuto, «Ugo Spirito è ormai un pezzo grosso ritornato», come ebbe a scrivergli l’amico filosofo Arturo Massolo, docente presso la Facoltà di Magistero dell’Università di Urbiti “progressiste”. In precedenza, seconda metà anni Trenta, Giusti aveva pubblicato per i tipi dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi), fondato nel 1934 per iniziativa dell’imprenditore Alberto Pirelli. 49. W. Giusti a U. Spirito, 25 giugno 1945: «Caro Spirito, dunque domani l’altro sposo: facciamo le cose alla buona, come puoi immaginare, senza “manifestazioni”, quindi non ti mando annunci ufficiali. Giacché ti scrivo, vorrei tuttavia chiederti due piccoli favori: il primo sarebbe di metterti d’accordo con Federico per la seconda ediz.[ione] del mio libro. Come ben sai, la prima edizione è stata per me una vera e propria fregatura. Per la seconda edizione farei una prefazione nuova. Vorrei tuttavia che Federico si rendesse conto della fregatura che ho avuto con la prima edizione e mostrasse – come dire – un po’ di… comprensione. Ti dispiacerebbe di interessarti della cosa? L’altra cosa è la seguente: Bonav.[entura] Tecchi, mi disse parecchio tempo fa che avrebbe visto con piacere se io potessi ottenere al Magistero un incarico di russo o di letterature slave in genere. L’idea, come facilmente capirai, dato che tu mi conosci, non è partita da me. Naturalmente la cosa mi piacerebbe. Credi che sia tra le cose realizzabili? Io non m’intendo affatto di queste cose, ma se tu mi scrivessi due parole in proposito, mi faresti molto piacere. Scusa la scocciatura e abbiti tanti saluti e ringraziamenti anticipati dal tuo aff.mo Wolf Giusti» (cus 1741). Il libro di Wolf [Wolfango] Giusti menzionato è, con ogni probabilità: Due secoli di pensiero politico russo: le correnti “progressiste”, cit., p. 342 (posseduto da Spirito nella sua biblioteca, ora depositata presso la Fondazione omonima, cfr. s. 21.a.45) 50. Lettera di L. Russo, 8 luglio 1946 (cus 1844).

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no51. Sotto questo profilo, la biografia accademica di Spirito è la riprova del forte tasso di continuità tra fascismo e post-fascismo in non pochi settori della vita istituzionale italiana52. Nell’Università italiana, ancora luogo elitario e animato da forte spirito corporativo, la continuità è più evidente che mai. In certi casi, non si tratta solo di continuità, ma addirittura si affaccia talvolta e in taluni persino l’idea che Spirito sia uno degli homines novi della nascente Repubblica italiana. Sembra un’assurdità, eppure il professor Arturo Codignola53 dell’Università di Genova gli scriveva il 10 ottobre 1946 annunciandogli che il suo nome e la sua biografia sarebbero state inserite in un volume di prossima pubblicazione avente per titolo L’Italia e gli Italiani di oggi e finalizzato a far conoscere dentro e fuori l’Italia coloro che stavano contribuendo a ché la nazione risorgesse «con un animo nuovo e un volto nuovo»: Infatti, con la scomparsa quasi totale della vecchia classe dirigente e con l’affermarsi nella vita nostra di nuove forze sino a ora compresse, si sente la necessità di conoscere chi sono e che cosa rappresentano coloro cui incombe la grave responsabilità della direzione della cosa pubblica nel senso più lato.

51. Lettera di A. Massolo, 14 luglio 1945 (cus 1743). 52. Sul tema si vedano gli scritti di Claudio Pavone, La continuità dello Stato. Istituzioni e uomini (1974) e Ancora sulla «continuità dello Stato» (1982), ora in id., Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 70-184. Si vedano anche i saggi dedicati a La pubblica amministrazione dal fascismo alla democrazia, sezione monografica in «Ventunesimo Secolo», ii, n. 4, ottobre 2003, pp. 9-178. Si veda anche la lettera di Giulio Preti, allievo di Antonio Banfi e all’epoca docente di storia e filosofia ai Licei, che chiede a Spirito di interessarsi al suo caso e di intervenire in modo da fargli ottenere il trasferimento da Pavia a Milano, per poter, fra l’altro, collaborare con Banfi e le case editrici presso cui pubblica. Preti chiede anche di intervenire perché la moglie, insegnante nelle scuole medie con Voghera quale sede di assegnazione, possa seguirlo nell’eventuale trasferimento (25 luglio 1946, cus 1855). 53. Su Arturo Codignola (1893-1971), cfr. la voce relativa, a cura di Bruno Di Porto in dbi, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1978, vol. xxvi, pp. 585-587.

216 […] Da parte mia considero quest’opera un doveroso atto di gratitudine per tutti coloro che hanno contribuito e contribuiscono alla ricostruzione del Paese, fra le biografie desidero che vi sia la Sua […]. Graditissimo sarebbe un Suo ritratto54.

Tornando al percorso speculativo di Spirito nel delicato passaggio tra fascismo e repubblica, risultano chiarificatrici alcune parole scritte in risposta ad Angelo Magliano, il quale gli chiede di collaborare come editorialista al nuovo quotidiano di cui è direttore, il «Corriere Lombardo»: Perché ella possa regolarsi, le dico subito che la mia collaborazione sarebbe fondata sui seguenti criteri: 1°) analisi dei problemi nazionali e internazionali diretta a porne in luce le interne contraddizioni; 2°) nessuna presa di posizione ma sincerità assoluta nel mettere a nudo i veri termini delle questioni; 3°) formulazione di interrogativi perentori diretti a spogliare la polemica politica dei veli tattici che la isteriliscono55.

Siccome ciò che dice non può più aderire alle cose, nel senso che non le può far accompagnare da una volontà creatrice e trasformatrice, allora il filosofo post-attualista o attualistasconfitto cerca di far aderire le parole alle cose, nel senso di agganciare quelle a queste, e di lasciarle trascinare dal divenire storico. Le cose sono la matassa della storia che si dipana per una forza endogena che è la scienza tecnica, e al pensiero non resta che adeguarvisi nella speranza di mantenere, così, un pri54. Lettera di A. Codignola a U. Spirito, 10 ottobre 1946, cus 1902. 55. Lettera di U. Spirito ad A. Magliano, s.d. (ma fine settembre-inizio ottobre 1946) [cus 1897; il primo corsivo è nostro, il secondo di Spirito], in risposta alla lettera di A. Magliano del 10 settembre 1946 (cus 1887). Vedi anche la lettera di Carlo Candida a Spirito, del 1° ottobre 1946, probabilmente in risposta a richieste di informazioni da parte del filosofo sulla natura del «Corriere Lombardo» (cus 1898). Spirito accetterà poi la collaborazione (cfr. lettera di A. Magliano, 8 ottobre 1946, cus 1901).

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mato filosofico rispetto alle altre correnti di pensiero illuse di poter piegare il reale all’ideale. Spirito si convince che la volontà ultima, autentica e onnipotente, non sta nell’uomo, ma al di fuori. O meglio: ne è forse una figlia, ma da tempo si è emancipata quale forza agente totalmente autonoma, ed è quella porzione di sapere umano che è stata in grado di svelare la forza autodiretta della natura. Di qui lo spinozismo di cui vari esegeti spiritiani hanno parlato, e si avverte, infatti, un’eco del principio spinoziano Deus sive natura56. Questa è la scienza di cui parla con sempre maggiore insistenza dal secondo dopoguerra in poi. È con questa convinzione che Spirito salva se stesso come filosofo, nel senso che può evitare l’ammissione di una impasse mortale per l’immanentismo idealistico su cui il suo pensiero si è costruito. Ed è in questa operazione che può avvenire il recupero dell’originario positivismo giovanile, ora più comtiano che spenceriano. L’ideale adesso si muove a rimorchio del reale, ed è per questo motivo che sconta una certa incapacità previsionale di fondo. Se la storia non risponde più al mio volere, non vi è più quella coincidenza tra volere e potere – che poi sa molto di «volontà di potenza» – che faceva vergare pagine alate al trentatreenne Spirito nell’introduzione agli scritti pedagogico-politici giobertiani: il Gioberti lanciava il grido della libertà creatrice dello spirito, che deve attingere il divino in se stesso e da se stesso realizzarlo. L’uomo non solo non è un meccanismo determinato necessariamente dalla natura di cui fa parte, ma non può trovare fuori di sé nessuno ostacolo che lo li56. Scriveva Spirito nel 1923: «Io credo che, per una comprensione esatta del pensiero del Gentile, si debba approfondire soprattutto il significato che nella storia della filosofia acquista il sistema di Spinoza. Si vedrà allora come l’idealismo gentiliano sia, da una parte, il potenziamento massimo dell’esigenza spinoziana, e dall’altra la liquidazione più completa della posizione intellettualistica in cui quell’esigenza veniva soffocata» (il saggio, intitolato Giovanni Gentile, comparve originariamente nel libro Il nuovo idealismo italiano, C. De Alberti Editore, Roma 1923, e fu poi ripubblicato nel volume Giovanni Gentile, Sansoni, Firenze 1969, da cui citiamo: p. 14).

218 miti in modo assoluto: egli è veramente creatore e in lui il mondo è tutto immanente57.

L’uomo spiritiano, prima maniera, trionfa, dunque, sulla natura, semplice creta plasmabile dalla sua volontà, e questo primato è sia filosofico sia politico, anzi, non può essere l’uno senza essere l’altro, stante l’esigenza antintellettualistica dell’immanentismo attualistico. Ne consegue che il Risorgimento dell’Ottocento diventa la prima tappa di un percorso di formazione dell’identità nazionale che forgi cittadini animati da fede patriottica e spirito di abnegazione alle ragioni della comunità nazionale. Il fascismo dovrebbe costituire la seconda, conclusiva tappa del percorso di Nation-building, aggiungendovi una rimessa in forma del processo di State-building: E oggi noi non avremmo nulla da aggiungere alla parola del Gioberti, che sentiamo più che mai contemporaneo e quasi della stessa nostra generazione, che è la generazione la quale può veramente riconoscerlo maestro, comprenderlo e seguirlo: […] dobbiamo tuttavia approfondire ancor più quella coscienza immanentistica che si rivela nella sua parola, ed eliminare in conseguenza ciò che in lui resta tuttavia della vecchia mentalità […]58.

Per molti gentiliani, e per Spirito innanzitutto, la data dell’11 febbraio 1929, con la sigla dei Patti Lateranensi, segna un’involuzione insanabile in senso confessionale e conservatore della politica fascista59. Eppure, non tutto è ancora perso, e Spirito è ben lungi dal ritirarsi dal suo progetto di interventismo intellettuale militante. Frenata drasticamente la riforma pedagogica, resta in piedi a fine anni ’20 la battaglia economica e il corporativismo comincia a prendere forma e la sua consistenza di possibile solu57. u. spirito, Introduzione a V. Gioberti, op. cit., p. 14. 58. Ibidem. 59. Cfr. u. spirito, Il Concordato, in «Vita Nova», v, n. 4, aprile 1929, pp. 279-282.

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zione si avvantaggia della grande crisi che il capitalismo liberale vive dopo il crollo di Wall Street con una gravità di portata mai prima sperimentata. Il 1929 è anno fatidico per la storia sia mondiale sia italiana. Il progetto per cui erano sorti i «Nuovi studi» continua, anche se con il 1930 cede un altro fronte della battaglia attualistica: entra in vigore il codice penale elaborato da Alfredo Rocco. Spirito si era impegnato sin dal 1925, e dalla prima presentazione del progetto di riforma della legislazione penale, nel contestare la natura ibrida e l’«eclettismo costituzionale» del nuovo codice, sospeso com’era fra principi ispirati alla scuola classica e altri desunti dalla scuola positivistica. In altre parole, della lezione neoidealista in materia di reato e pena, delinquente e colpa, niente era stato recepito e tutto restava inscritto all’interno di metafisiche individualistiche e naturalistiche60.

le metamorfosi di un’eredità gentiliana Con la fine del fascismo, Spirito non lo ammette, ma «si ripristina in qualche modo il divorzio delle cose dalle parole»61, così come capitava a un Gioberti incapace di liberarsi dell’«esigenza tradizionalistica» di un Dio trascendente e creatore 60. Cfr. u. spirito, La riforma del diritto penale, C. De Alberti Editore, Roma 1926, testo poi inserito come prima parte in id., Il nuovo diritto penale, La Nuova Italia, Venezia 1929. Rispetto alle due scuole che distinguevano fra pene giuridiche e misure di sicurezza, già nel 1926 Spirito rivendicava al neoidealismo gentiliano «una soluzione completa del problema» grazie all’introduzione di «un concetto di libertà che super[a] insieme la teoria classicista del libero arbitrio e quella positivistica del determinismo assoluto», nonché «un’assoluta rivendicazione della responsabilità umana come responsabilità morale, e per un altro verso l’immanenza nell’azione umana di tutto il mondo naturale e sociale e, quindi, l’elevazione del concetto di responsabilità morale a quello di responsabilità universale» (La riforma del diritto penale, cit., pp. 34-35). Per una recente ricostruzione critica della riflessione spiritiana in materia di diritto penale e teoria criminologica, si veda l. zavatta, La pena tra espiare e redimere nella filosofia giuridica di Ugo Spirito, pref. di G. Capozzi, Esi, Napoli 2005 (sull’analisi spiritiana del Codice Rocco, cfr. pp. 153 e ss.). 61. u. spirito, Introduzione a v. gioberti, op. cit., p. 18.

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non creato dell’universo. Quel che può serbare della precedente esperienza e fede filosofica e politica è la convinzione di cui si nutriva nel 1929 e ancora molti anni dopo, e cioè «che il creare non è atto di arbitrio, ma proprio un far “rampollare il nuovo dall’antico”»62. Si può serbare, quindi, l’idea della trasformazione come superamento assorbimento, e la scienza spiritianamente intesa non è altro che il frutto dell’egocentrismo moderno, il quale, per un’eterogenesi dei fini, rivela la natura niente affatto autonoma e irrelata dell’«io», che semmai è un «noi» particolarizzato. È evidente come, a questo punto, le aporie si accumulino all’interno dell’operazione di salvataggio filosofico che tenta l’immanentismo radicale spiritiano. Il rischio è tornare a quella metafisica naturalistica con cui l’attualismo aveva ingaggiato la lotta e speso tanta energia speculativa63. Sarebbe, però, ingeneroso, ma soprattutto poco perspicace e intellettualmente sprovveduto, non considerare che l’opera di Spirito nasce anche da un’effettiva dimensione erratica e cosmopolitica del suo pensiero, che si acuì nel secondo dopoguerra64. Come suggerisce la più aggiornata psicologia sociale, la narrazione biografica (e autobiografica) deve trattenersi, per quanto possibile, dal costringere ogni singolo percorso esistenziale in un unico principio ordinatore, come se la storia del singolo possedesse necessariamente una forma e una direzione 62. Ivi, p. 16. 63. Cfr. v.a. bellezza, Dal problematicismo alla metafisica naturalistica. Saggio sul pensiero di Ugo Spirito, Bulzoni, Roma 1979. 64. «Dire uomo europeo significa dire uomo mutilato che restringe il campo della propria azione in funzione di preconcetti ingiustificati e pericolosi. Noi dobbiamo, come sempre, rivendicare il nostro compito di universalità, il nostro ideale cosmopolita, al di là di ogni confine e di ogni continente. […] La nostra cultura deve aprire più di ogni altra le porte a tutte le voci del mondo di oggi ed essere all’avanguardia nel processo verso un’unità di tutte le culture e di tutte le tradizioni» (u. spirito, Critica dell’educazione dell’uomo europeo, in g.p. orsello (a cura di), L’Italia e l’Europa, pref. di G. Gronchi, Centro italiano di studi europei Luigi Einaudi, Edizione Abete, Roma 1966, p. 151).

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coerenti, pena la caduta nel disordine mentale e nella disgregazione dell’identità personale. Senza cadere nell’eccesso opposto, per cui la vita di una persona è solo e soltanto un puzzle di tessere non combacianti ma casuali, la teoria biografica deve considerare la possibilità, assai frequente, specie in personaggi così complessi e longevi, di zone d’ombra, confuse o indistinte. Cosicché la narrazione di una vita deve procedere semmai come tessitura di una rete, a maglie abbastanza larghe, fra momenti e periodi non sempre perfettamente coerenti65. La biografia spiritiana, in cui pensiero e vita si intrecciano con reciproche contaminazioni frequenti e fortissime, pare prestarsi bene ad accogliere simili cautele metodologiche. Il fascino persistente di Spirito presso le generazioni di studenti che si susseguirono nell’ascoltarlo dagli anni Trenta fino a tutti gli anni Sessanta risiedette anche nella sua mentalità «giovanile», nella capacità cioè di restare in sintonia con il proprio tempo coerentemente con un’attitudine antitradizionalista e anticonformista che sicuramente ne contraddistinse l’intero percorso intellettuale. In un intervento tenuto nel 1966 a Venezia, presso la Fondazione Giorgio Cini, Spirito, esaminando i mali della città occidentale contemporanea, rinveniva la ragione principale dell’assenza di soluzioni e cure efficaci in una psicologia umana naturalmente «tendente al tradizionalismo e al conformismo»66. La crisi della civiltà contemporanea, di cui la questione urbanistica era solo uno dei molteplici aspetti, affondava le proprie radici, anzitutto, in un’incapacità di innovazione e ammodernamento delle classi dirigenti, sia nelle loro idee sia nelle loro scelte pratiche, incapacità che, a sua volta, era ed è spesso do65. Per queste considerazioni siamo debitori di p. birindelli, Sé. Concetti e pratiche, Aracne, Roma 2008, pp. 135 e ss. Si vedano anche le indicazioni bibliografiche ivi contenute. 66. u. spirito, Caratteri e sviluppi dell’urbanesimo, in p. nardi (a cura di), Il fenomeno “città” nella vita e nella cultura d’oggi, (Quaderni di San Giorgio; 31/32), Sansoni, Firenze 1971, p. 57.

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vuta al fatto che «l’uomo non riesce che molto a stento a staccarsi dal passato»67. Il filosofo – per come lo intende Spirito – dovrebbe superare questo limite e aiutare gli altri a superarlo. E ancora una volta l’eredità gentiliana manifesta tutto il proprio peso, e l’intima fedeltà all’esigenza immanentistica espressa dall’attualismo conduce al modernismo filosofico colui che resta senz’altro uno dei suoi discepoli più coerenti sul piano teoretico. Con modernismo filosofico si intende qui una posizione teorica estremamente attenta a ogni evoluzione dei tempi e a denunciare qualsiasi idea o atteggiamento appena si dimostri anacronistico, vale a dire non più al passo con i tempi. Di qui quell’irrequietezza che contraddistingue il pensiero spiritiano. Di qui, anche, quella crescente attenzione alla dimensione della velocità correttamente e immediatamente colta quale cifra essenziale della contemporaneità e forma e sostanza della globalizzazione. La velocità non è, infatti, solo la modalità con cui i fenomeni contemporanei si manifestano e trasformano, ma è anche l’affermazione di un corto circuito tra spazio e tempo che modifica repentinamente e profondamente le mentalità, gli usi e i costumi, i parametri morali di giudizio, individuale e collettivo. Sopra ogni cosa, la velocità ingenera la convinzione che nulla possa durare, tanto meno i valori tradizionali, modellati da secoli sul ritmo di società statiche o dal dinamismo lento e graduale. Anche la vecchia idea di «piano» e di programmazione si scontra con il rarefarsi delle capacità previsionali di strutture e ceti dirigenti che rischiano sovente di restare spiazzati dall’imprevedibilità dei mutamenti. Questa sua attitudine antitradizionalista e anticonformista contribuì anche a mantenere Spirito in una duplice, paradossale posizione nel panorama filosofico italiano: essere, al contempo, vieppiù isolato e sempre al centro del sistema accademico e del dibattito. Una spiegazione è data dal fatto che il mondo universitario si mantenne sostanzialmente intatto all’indomani della caduta del fascismo e dell’avvento della Re67. Ibidem.

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pubblica. Assassinato Gentile, che funse da efficace capro espiatorio; collocati a riposo alcuni professori universitari più noti e autorevoli, come Gioacchino Volpe o Armando Carlini68; fatte scontare con brevi sospensioni le appartenenze ideologiche più palesi e imbarazzanti (Spirito compreso), l’ambiente universitario poté riprodursi pressoché inalterato nell’immediato secondo dopoguerra. La transizione fu ancora più indolore per una realtà come quella romana e di tutta l’Italia meridionale, ma il sistema universitario si ripresentò quasi del tutto invariato anche nelle zone travolte dalla prosecuzione della guerra fra settembre 1943 e aprile 1945. Nemmeno la militanza antifascista e resistenziale, o la stessa appartenenza al Pci, poté sovente essere spesa ai fini di un accelerato avanzamento di carriera. Non nell’immediato, almeno. Si pensi ai casi del già citato Wolf Giusti e a quello dell’ancor più noto Guido Calogero. Questi aveva scontato confino e carcere per attività antifascista. Assieme ad altri, infatti, tra cui lo stesso Giusti, aveva costituito il movimento liberalsocialista69. 68. Volpe era stato inizialmente sottoposto a procedimento di epurazione con d.m. del 31 luglio 1944, ma il 29 gennaio 1945 il decreto del presidente del Consiglio Bonomi ne aveva disposto il collocamento a riposo con il trattamento di quiescenza. Archiviato il procedimento di epurazione il 14 aprile 1945, il provvedimento di collocamento a riposo fu confermato con decreto del presidente del Consiglio di allora, Alcide De Gasperi, il 18 dicembre 1947. Per queste informazioni e l’analisi del memoriale di difesa presentato dallo stesso Volpe, cfr. i. valentini, Le interferenze politiche nell’epurazione universitaria. L’«esame di coscienza» di Gioacchino Volpe e la «carriera» di Luigi Salvatorelli, in «Nuova storia contemporanea», vii, n. 2, marzo-aprile 2003, pp. 123-128 (Memoriale in appendice, pp. 129-134) . Sulla questione, e più in generale sull’intero percorso biografico e intellettuale di Volpe, si veda ora e. di rienzo, La storia e l’azione. Vita politica di Gioacchino Volpe, Le Lettere, Firenze 2008, pp. 601 e ss. e passim. Su Carlini, collocato a riposo il 29 gennaio 1945, si veda la relativa voce biografica curata da C. Del Bello in dbi, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1977, vol. xx, pp. 179-184. 69. Per una testimonianza di Calogero circa il suo rapporto con Spirito, si veda g. calogero, Una lunga amicizia, in g. calogero, a. capizzi, l. chiusano, v. stella, L’ipotesi di Ugo Spirito, Bulzoni, Roma 1973, pp. 9-35. Per un sintetico profilo biografico-intellettuale di Calogero sia consentito rimandare a d. breschi, Dal liberalsocialismo alla liberaldemocrazia. Il pensiero politico di Guido Calogero, in «Il pensiero politico», xxxv, n. 2, maggio-agosto 2002, pp. 212-233.

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Spirito è colui al quale Calogero si rivolge nel luglio del 1946 scrivendogli una lettera – dopo averlo inutilmente cercato più volte per telefono – perché assuma una posizione favorevole nei confronti di una sua sistemazione alla Facoltà di Magistero dell’Università di Roma, magari in attesa di ulteriori spostamenti verso la Facoltà di Lettere70. In ogni caso, Calogero l’antifascista è colui che deve rivolgersi a Ugo Spirito, «il fascista», per chiedere benevolenza e riguardo nei confronti della sua posizione accademica. I tempi della politica, ma ancor più quelli dell’ideologia, e i tempi della burocrazia erano, quindi, ancora assai sfasati nell’immediato secondo dopoguerra. Per quanto si continui a scavare tra testi e biografia, e la combinazione delle due dimensioni, speculativa ed esistenziale, risulti euristicamente utile e necessaria, la figura umana e intellettuale di Ugo Spirito resta sfuggente e, per questo, talora, persino irritante per qualsiasi studioso che sia chiamato a occuparsene a lungo. Una certa ambiguità, o ambivalenza, connota il personaggio e le stesse sue memorie ne sono il documento estremo più eloquente. Nelle Memorie di un incosciente si trovano sia le pagine di chi trasfigura, e in fondo falsa, il racconto di sé e della propria posizione politico-intellettuale tra fascismo e repubblica sia di chi cerca di annodare i fili della propria memoria ricavandone una trama unica e infine coerente. In qualche misura, questa autobiografia induce anche a sospettare che il filosofo ami prendersi gioco del lettore, o comunque faccia uso di un’ironia a metà fra il socratico e il sofistico, fondendo, così, due posizioni filosofiche ed etiche originariamente contrapposte (il Socrate di Platone si propone, infatti, come l’avversario principe dei sofisti). In un altro libro più o meno coevo alle memorie, La fine del comunismo (1978), Spirito dichiara con assoluta disinvoltura che la sua «origine è essenzialmente di carattere comunista»71, in altre parole, di essere sem70. G. Calogero a U. Spirito, 13 luglio 1946 (cus 1846). 71. u. spirito, La fine del comunismo, Volpe, Roma 1978, p. 9. In un’intervista di un paio di anni prima rilasciata a Federico Orlando, redattore de «Il Giornale

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pre stato comunista, ma guarda caso non aggiunge una virgola a una simile affermazione perentoria. Nel senso che non specifica che il comunismo di cui parla e che rivendica a sé è ben lungi dall’essere minimamente accostabile a quello marxistaleninista, tanto meno staliniano, tanto meno simpatizzante con l’Urss e con il Partito comunista italiano72. nuovo» di Indro Montanelli, Spirito aveva addirittura dichiarato: «chi parla era allora un entusiasta e un “attivista” del comunismo» [f. orlando (a cura di), La cultura della resa, Edizioni dello Scorpione, Milano 1976, p. 108]. 72. A onor del vero, va anche detto che Spirito aggiungeva subito dopo questa parziale precisazione: «dal punto di vista più propriamente speculativo, posso dire che la mia fede, prima positivistica e poi neoidealistica, mi aveva condotto a esigenze comunistiche di vario genere» (id., La fine del comunismo, cit., p. 9). Ma subito dopo proponeva un’analogia fra il 1917, anno della vittoria del bolscevismo con la rivoluzione in Russia, e il 1927, anno di fondazione della rivista, diretta con Arnaldo Volpicelli, «Nuovi studi di diritto, economia e politica». L’attualismo sarebbe stato, dunque, declinato da Spirito in sintonia diretta e consapevole con il movimento storico e politico «esplicitamente conosciuto come bolscevismo» (ibidem). E, non contento, proseguiva nei seguenti termini: «Ero, dunque, comunista. E come tale ero in vario modo riconosciuto dal partito comunista italiano, che mi consentì di recarmi nel 1956 nell’Unione Sovietica e, nel 1961, nella Cina Popolare» (ibidem; il viaggio in Cina è, in realtà, del settembre-ottobre 1960). In realtà, la possibilità di compiere viaggi in Russia e in Cina non fu determinata affatto dalla riconosciuta e comprovata fede e militanza comunista di Spirito da parte del Pci, partito che semmai aveva interesse, con organizzazioni a esso non sempre direttamente riconducibili, al fatto che esponenti del mondo della cultura, non ascrivibili al comunismo, visitassero con interesse e presunta imparzialità i luoghi del socialismo realizzato. Nel caso del viaggio di Spirito, a organizzarlo è il Comitato italiano del Movimento Mondiale della Pace, espressione delle attività antiamericane del Cominform durante gli anni più duri della «Guerra fredda» (cfr. a. guiso, La colomba e la spada. “Lotta per la pace” e antiamericanismo nella politica del partito comunista italiano (1949-1954), Rubbettino, Soveria Mannelli 2007). Segretario generale del Comitato italiano era il senatore comunista Celeste Negarville. Il viaggio, di tre settimane fra settembre e ottobre del 1956, nacque, però, come l’idea di inviare in Urss una delegazione che fosse «rappresentativa delle più varie correnti culturali e politiche», secondo quanto specificato nella lettera di invito firmata appunto dal senatore Negarville, un invito che – si precisava – «non comporta[va] alcun impegno da parte Sua se non quello del dibattito delle idee e dell’indagine spassionata» (Cfr. lettera di C. Negarville, 30 agosto 1956, cus 6076). In effetti, la delegazione sarà composta da personalità politiche e intellettuali di varia estrazione culturale e ideologica, anche se ovviamente non figurano anticomunisti dichiarati, a conferma di un intento propagandistico extra moenia, sia pur muovendosi in aree politico-culturali limitrofe. In sostanza, si

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tra filosofia e biografia A dire il vero, nelle Memorie di un incosciente Spirito aggettiva e personalizza il comunismo professato, e diventa, così, il «suo» comunismo, al pari del «suo» fascismo. E qui si coglie l’altro aspetto, veritiero e intellettualmente onesto, che contraddistingue la sua autobiografia e il suo testamento spirituale, dato che le Memorie di un incosciente uscivano nell’ottobre 1977, un anno e mezzo prima della morte. È il modo in cui Spirito presenta il proprio cammino speculativo e umano a suscitare perplessità sulla trasparenza e la sincerità della sua riflessione, ossia il fatto che vi mescoli enormità del tipo: «il vero antifascismo noi l’abbiamo fatto durante il fascismo», ad affermazioni più oblique ma al fondo vere come: «quando il fascismo finì, mi ritrovai solo con il mio comunismo. Non avevo fatto un passo diverso, ma continuavo lungo la stessa strada»73. È indubbio vi sia un tratto narcisistico nel suo stile filosofico, riscontrabile anche nell’attitudine a identificare la propria vita e il proprio pensiero con l’intero andamento dello sviluppo storico e spirituale mondiale. Anche nella ricostruzione del proprio rapporto con Mussolini, Spirito dà l’impressione di valutare l’uomo e il politico esclusivamente in funzione di sé e delle proprie teorie, per cui cercano nuovi «compagni di strada». Nella delegazione anche Giovanni Pirelli, figlio dell’illustre famiglia di industriali (cfr. cus 6118). Nello stesso periodo, Spirito ha frequenti contatti con l’Associazione italiana per i rapporti culturali con l’Unione Sovietica, nel cui Comitato di Presidenza figuravano i nomi di Antonio Banfi, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Piero Calamandrei, Francesco Flora, Massimo S. Giannini e Beniamino Segre. Aderirà, fra l’altro, al comitato per le celebrazioni di Dostoevskij, costituito agli inizi del 1956 dalla suddetta Associazione (cfr. cus 5899; cus 5923). In contemporanea Spirito aderisce al Centro studi per lo sviluppo delle relazioni economiche e culturali con la Cina, il cui segretario è Sergio Segre, e che in quello stesso 1956 stava organizzando la visita in Italia di una delegazione culturale cinese (cfr. cus 5904; cus 5922). Cfr. v. meliadò, Ugo Spirito il rivoluzionario: dall’attualismo al comunismo, in «Annali della Fondazione Ugo Spirito», xx-xxi, 2008-2009, pp. 95-134; d. rettura, Ugo Spirito in Cina, ivi, pp. 135-147. 73. u. spirito, Memorie di un incosciente, cit., pp. 62-63. Il corsivo è nel testo.

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il duce è elogiato nella misura in cui, e fino a quando, parve condividere l’idea di un’equazione tra fascismo e corporativismo, intendendo quest’ultimo – beninteso – nella versione «superbolscevica» che egli andava proponendo nei primi anni Trenta e che propose allo stesso duce nel primo colloquio del marzo 193274. Il filosofo non esita a scrivere nelle sue memorie che Mussolini «fino all’ottobre del 1933» conservò «la fede nella rivoluzione fascista come fede nell’attualismo» e che il duce «è stato, nella sua più profonda personalità, rappresentante dell’esigenza rivoluzionaria dell’attualismo»75. Ma il riferimento all’ottobre del 1933 non è casuale, bensì corrisponde all’ultima presa di posizione ufficiale a favore delle tesi corporative spiritiane. Usciva, infatti, il 3 ottobre di quell’anno sulle colonne del «Popolo d’Italia» un lungo articolo scritto da Spirito (La Nuova Economia. La crisi del capitalismo e il sistema corporativo) seguito da un commento dello stesso Mussolini, che esprimeva «un atteggiamento perentorio senza riserve» a sostegno del teorico della «corporazione proprietaria»76. Ma non appena la situazione politica e sociale, nazionale e internazionale, suggerì o spinse in direzione di altre scelte, il duce tolse il proprio appoggio – che comunque era sempre stato parziale e mai esclusivo – a favore di tesi che potevano suona74. Cfr. u. spirito, Appunti dei colloqui con Mussolini, cit., p. 302: «E io credo che oggi in Italia bisognerebbe meglio studiare il rapporto tra fascismo e socialismo in genere (bolscevismo in particolare). Si crede che queste due forme politiche siano soltanto antitetiche e non si vede quanto esse siano vicine. […] La rivoluzione fascista è stata la rivoluzione più storicista che esista, in quanto ha saputo aderire alla realtà storica con il minimo spargimento di sangue. La rivoluzione russa è invece più radicale e sorge dalla distruzione e dall’astrattismo: questa è la sua debolezza, ma è anche la sua forza in quanto potendo liberarsi da tutto il vecchio ha mano più libera nel costruire. […] Dobbiamo, insomma, non accentuare l’antitesi, ma proclamare il fascismo, super bolscevismo [sic]». Dal primo colloquio, così come risulta dal resoconto spiritiano, emerge chiaramente come Mussolini si limitasse ad assecondare l’interlocutore, facendogli credere di essere in perfetta sintonia di vedute e intenti. In realtà, lasciava solo sfogare l’ego tipico dell’intellettuale, specie se aspirante «filosofo legislatore». 75. u. spirito, Memorie di un incosciente, cit., p. 182. 76. Ivi, p. 178.

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re troppo estremiste ad ambienti che, come quelli industriali ma anche sindacali, risultavano assai più utili ed efficaci in chiave politica di quanto non potessero esserlo ristretti cenacoli intellettuali agitanti astratte formule rivoluzionarie, che amavano épater le bourgeois, flirtando con il vocabolario e certe parole d’ordine del «barbaro» bolscevico. Spirito afferma che, a questo punto, Mussolini aveva abdicato non solo alla propria funzione storica di leader rivoluzionario, italiano ma anche mondiale, ma aveva persino tradito se stesso, rinnegata la propria più intima natura e le proprie convinzioni più profonde. Nel 1977 il filosofo pretende di essere il solo che può «esprimere un giudizio veramente obiettivo» sulla reale natura dei convincimenti ideologici mussoliniani, se cioè egli sia stato un socialista oppure un antisocialista, e tale pretesa può accampare «perché soltanto con me – scrive Spirito – Mussolini si era confessato in maniera trasparente»77. Il narcisismo spiritiano è rivenibile anche in quell’atteggiare la propria figura e la propria riflessione filosofica in modo anticonformista, lasciando intendere all’interlocutore e al lettore di essere pensatore non sempre compreso perché sempre avanti e superiore rispetto alla capacità media di comprensione di dove sia e dove vada lo «spirito del mondo». E allora ecco che Spirito va letto e riletto fra le righe, tra le pieghe del suo ragionamento sempre sottile e profondo ma adornato di quella perentorietà che contraddistingue l’uomo sicuro di sé, anche della propria incertezza, perché lo salva e lo gratifica la capacità di persuasione che sa dispiegare, il potere intellettuale che sa esercitare sull’interlocutore o il lettore. Una fermezza e sicurezza che si accompagnano a modi affabili e a generosità che dal carteggio e dai ricordi di amici e colleghi emergono con chiarezza, senza equivoci. Spirito è l’uomo generoso che per anni – siamo intorno al 1955-56 – sostiene economicamente, e con somme non indifferenti per l’epoca, una giovane ragazza che vive in una famiglia disagiata, stravolta da 77. Ivi, p. 180.

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un padre alcolizzato e prepotente. Tramite un insegnante di Siena, la ragazza arriva a diplomarsi brillantemente e a iscriversi all’Università di Pisa. Alla fine, dopo nemmeno un anno, la ragazza, pur entusiasta della sua nuova vita, si vede costretta a interrompere gli studi per le resistenze insistite della madre che ha bisogno di aiuto in casa, dovendo portare avanti una famiglia numerosa in assenza o in contrasto con un padre alcolizzato. Spirito è anche il professore, anzi il Maestro, che ascolta e sprona tantissimi giovani che si avvicinano a lui per la fama e il prestigio che lo circonda, accolti e ascoltati con attenzione, oppure perché ne seguono i corsi a Roma, prima al Magistero poi alla Facoltà di Lettere e Filosofia. Lo stesso era accaduto precedentemente, negli anni di insegnamento a Pisa, Messina e Genova. Spirito, degno del suo cognome, non si lascia, non vuole lasciarsi incasellare in alcuna classificazione, se non quella di un allievo di Gentile, ma che ha saputo emanciparsi dal Maestro, talora sottintendendo di averlo superato, ma solo sul piano della coerenza speculativa e mai venendo meno al rispetto che si deve a una figura tanto coraggiosa e tragica. Che in fondo Spirito abbia coltivato un «suo» fascismo, così come un «suo» comunismo, è affermazione veritiera. Meno vero il fatto che non si sia accomodato dentro al regime, nonostante l’indubbia posizione da intellettuale che può parlare con accenti di relativo dissenso e autonomia rispetto al dettato ufficiale. Può e forse deve parlare in modo «alternativo», ma può perché, in fondo, a quasi nessuno importa più di tanto, data la sostanziale ininfluenza sulle concrete vicende politiche del suo discorso filosofico. E per un certo periodo, in auge prima Gentile e poi Bottai, i suoi due punti di riferimento, umano e politico sotto il regime, Spirito crede anche alla possibilità di essere ascoltato e di essere, secondo la lezione platonica, il filosofo legislatore. Ecco perché un’altra affermazione contenuta nelle sue Memorie di un incosciente appare tanto perentoria quanto poco corrispondente al vero: «Sono stato

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fatto dalla realtà e non mi sono mai illuso di poterla fare»78. Il suo periodo fascista, che coincide con la durata del regime mussoliniano, suggerisce che il filosofo abbia nutrito ben altre aspettative e tenuto ben altro contegno che quello umile e passivo dello spettatore «incosciente». Poi, a regime quasi esaurito, non perde tempo ad assicurarsi immunità con una posizione da agnostico e indipendente, accentuando quella che era la sua effettiva condizione negli anni Trenta, dai tempi del convegno di Ferrara (1932). E così, a quasi cinquant’anni, inizia la seconda parte della sua vita, ritagliandosi il ruolo, che in fondo gli è congeniale, di grande saggio, un po’ «grillo parlante», profeta inascoltato ma anche venerato, perché si sa che dice cose vere e profonde, assai poco in sintonia con i rapporti di forza presenti e le autorità costituite. E si permette il lusso di entrare in casa altrui e mostrare quanto il «re sia nudo». Così procede nei confronti del comunismo italiano, e la sua disamina di quale sia la condizione, teorica e pratica, del marxismo ai tempi di Stalin e Togliatti è di una lucidità formidabile. Le osservazioni contenute sia nel volume del 1944 (in seconda edizione nel 1945) dedicato a Machiavelli e Guicciardini sia nella relazione presentata nel novembre 1946 al primo congresso internazionale di filosofia a Roma, promosso dall’Istituto di studi filosofici diretto da Enrico Castelli79, sono sferzate violentissime all’ideologia, il marxismo-leninismo in versione staliniana, e alla forze politico-sociali, il Pci e il Pcus, cui sembrano in quel momento arridere il successo più grande e inarrestabile, in Italia come nel mondo. Scriveva, infatti, Spirito nel 1944 a proposito dell’eredità contemporanea del machiavellismo:

78. u. spirito, Memorie di un incosciente, cit., p. 28. Corsivo nostro. 79. Cfr. lettera di E. Castelli a U. Spirito, 1 agosto 1946, cus 1862. La carta da lettera su cui scrive Castelli l’invito ufficiale al Congresso reca ancora l’intestazione «R.[egio] Istituto di Studi Filosofici, Roma - R.[egia] Università».

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Machiavellici, soprattutto, stanno diventando i partiti di estrema sinistra, i più spregiudicati, che diffidano ormai dell’astrattismo del loro ideale rivoluzionario e reagiscono alla tradizione utopistica con il più raffinato degli storicismi. Pronti a stendere la mano agli avversari più irriducibili, essi sono divenuti i maestri del compromesso, in cui esplicitamente ravvisano l’unità immanentistica di politica ed etica. […] L’esempio tipico di tale machiavellismo si ha nel comunismo russo. […] sopra ogni altra cosa, il bolscevismo ha appreso che il fine giustifica i mezzi, […]. Nel nuovo machiavellismo il principio è diventato dogma e l’istanza critica è soffocata dall’atteggiamento fideistico80.

E qui emerge un’altra ambiguità, almeno apparente, della posizione spiritiana. Egli si professa comunista, o almeno filocomunista; disprezza quanto di «destra» vi è stato nel regime fascista e intende ripresentarsi nel neofascismo81, eppure mena 80. u. spirito, Machiavelli e Guicciardini (1944), Sansoni, Firenze 1970 (4ª ediz. accresciuta), pp. 71-72. Si veda anche id., Machiavellismo e comunismo, in «Il socialista moderno», maggio 1949; id., Il pensiero italiano di fronte al materialismo storico, in e. castelli (a cura di), Atti del Congresso Internazionale di Filosofia promosso dall’Istituto di Studi Filosofici: Roma, 15-20 novembre 1946. i. Il materialismo storico, Ed. Castellani e C., Milano 1947, pp. 333-341, ora in u. spirito, Il comunismo, Sansoni, Firenze 1979, pp. 15-30. 81. Che questa sia la sua posizione si deduce chiaramente dalle lettere inviategli da Giovanni Volpe sin dall’immediato dopoguerra e tornate fitte a metà anni ’70: cfr. G. Volpe a Spirito, 26 gennaio 1946 (cus 1795) e 5 marzo 1946 (cus 1803); 24 giugno 1976 (cus 11850) e 8 luglio 1976 (cus 11853). Questo non toglie che mantenga, specie sul finire degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, ottimi rapporti personali con personalità del mondo della destra missina e ambienti non lontani da quell’area: Spirito procura una pagina di pubblicità della Casa Editrice Sansoni sulla rivista l’«Orologio»; cfr. la lettera di Luciano Lucci Chiarissi del 23 dicembre 1969 (cus 10704). Si veda anche la lettera di G. Rasi (21 novembre 1968, cus 10688). Nel 1977 accetterà poi di pubblicare un saggio sulla rivista «Intervento», edita dallo stesso Volpe e diretta da Enzo Erra, intellettuale che aveva militato nelle file del movimento giovanile missino su posizioni evoliane e si era da poco riavvicinato al Msi: cfr. u. spirito, Il Duemila è ancora lontano, cit., pp. 7-16. Già negli anni ’50 aveva partecipato a iniziative culturali dell’intellettualità di destra vicina al Msi, come il volume collettaneo dedicato al decennale della morte di Gentile e curato da Vittorio Vettori: v. vettori (a cura di), Giovanni Gentile. Scritti di Armando Carlini, Ugo Spirito, Luigi Volpicelli..., sotto gli auspici del centro Na-

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formidabili fendenti intellettuali – che non hanno pari nella cultura italiana dell’epoca – al marxismo-leninismo e a Stalin negli anni di massima esaltazione del culto della sua personalità. È segnale inequivocabile il fatto che Palmiro Togliatti si scomodi per attaccare con inaudita (ma consueta con i nemici più insidiosi) virulenza il volumetto spiritiano uscito nel 1948, La filosofia del comunismo82. È segno, appunto, che Spirito ha colto nel segno, e rischia di far male, dati il seguito e la presa che ancora ha su molti giovani, non pochi dei quali con lui si sono laureati o di lui hanno, dalla seconda metà anni Trenta, apprezzato l’atteggiamento di fronda e la «posa» da rivoluzionario all’interno del fascismo e che adesso si stanno orientando verso i nuovi lidi «rivoluzionari», quelli comunisti appunto83. zionale gentiliano, La Fenice, Firenze 1954. Fra i contributi quelli di «alcuni dei principali allievi del filosofo», come Armando Carlini, Luigi Volpicelli, Antonio Pigliaru, nonché quelli di «alcuni giovani politicamente impegnati a destra», come Carlo Fettarappa Sandri, Gianni M. Pozzo, Daniele Gaudenzi. Su questo e sulla cultura della destra neo e/o post fascista del dopoguerra, si veda g. tassani, Le culture della destra italiana tra dopoguerra e centrosinistra. Gentilianesimo, cattolicesimo ed evolismo a confronto e in concorrenza, in «Nuova Storia Contemporanea», vii, n. 2, marzo-aprile 2003, pp. 135-148. Spirito parteciperà poi il 30 novembre 1972 all’inaugurazione a Roma dell’Istituto di Studi Corporativi (Isc), organismo di area missina, invitato da Ernesto Massi e Gaetano Rasi, il quale ricordava così, nella primavera del 1979 all’indomani della morte del filosofo, quell’incontro: «Gli proponemmo la presidenza, ma egli, fedele al principio “non presiedere e non presentare”, declinò l’offerta. Tuttavia assicurò che sarebbe venuto all’inaugurazione» (g. rasi, Spirito: la vita come ricerca, in «Rivista di Studi Corporativi», ix, n. 1-2, gennaio-aprile 1979, p. 3). Si veda anche il testo dell’intervento che il filosofo aretino tenne all’inaugurazione dell’Isc: u. spirito, Attualità del corporativismo, in «Rivista di Studi Corporativi», ii, n. 6, novembre-dicembre 1972, pp. 23-27. 82. Cfr. P. Togliatti, recensione a u. spirito, La filosofia del comunismo, in «Rinascita», aprile-maggio 1948, ora riportato integralmente in u. spirito, Memorie di un incosciente, cit., pp. 203-205. 83. Scriveva Giorgio Fano in una replica all’attacco di Togliatti: «[…] Togliatti sa anche che […] gli scritti di Ugo Spirito vanno facendo presa su alcuni giovani comunisti; ed ecco la necessità di combatterlo» [Togliatti e la filosofia (nel n. 4-5 di «Rinascita»), in «Stoa», settembre-ottobre 1948, riportato in u. spirito, Memorie di un incosciente, cit., p. 206, da cui citiamo]. Nel carteggio spiritiano compaiono numerose lettere che testimoniano come ancora fra tardi anni ’30 e primi anni ’40 i Guf, i Fasci provinciali e le sezioni locali dell’Istituto di cultura fascista invi-

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Spirito, specialmente nel corso di tutti gli anni Trenta, non ha mai mancato di suscitare nei propri allievi, e in altri giovani che lo ascoltavano ammirati, speranze di palingenesi politico-sociale84. Con meno seguito e qualche incertezza in più e, soprattutto, una maggiore discontinuità nelle proprie convinzioni rivoluzionarie, che si accenderanno a intermittenza, il filosofo del corporativismo integrale manterrà la propria propensione maieutica prorivoluzionaria ben oltre il crollo del fascismo. tino calorosamente il teorico della «corporazione proprietaria» a tenere conferenze in lungo e in largo per l’Italia, e non soltanto sul corporativismo; si vedano, ad esempio, le lettere indirizzate a Spirito da Lorenzo Bianchi, presidente dell’Istituto Fascista di Cultura di Bologna (28 dicembre 1936, cus 1235), da Oscar Caroselli, presidente della sezione di Parma del medesimo Istituto (5 gennaio 1937, cus 1240), e poi ancora quelle inviate da Angelo Ippolito, presidente della sezione di Cosenza dell’Incf (13 febbraio 1942, cus 1582) e da Dante Dini (commissario del Circolo Filologico Milanese, ente fondato nel 1872 e inserito nella locale sezione dell’Istituto di Cultura Fascista), quest’ultima risalente addirittura al 12 aprile 1943 (cus 1635). Come si evince da una lettera indirizzata a Spirito da Alessandro Pavolini, allora presidente dell’Istituto Nazionale per le Relazioni Culturali con l’Estero, il teorico del corporativismo integrale e «bolscevico» partecipava nel 1938 alle riunioni della Commissione di studio per la «Rivista di questioni corporative» (nella medesima lettera si stabiliva pure, da parte dell’Istituto suddetto, un compenso di lire mille per ogni collaboratore, «per l’opera che essi vorranno svolgere sia in seno alle riunioni sia privatamente»; cfr. A. Pavolini a U. Spirito, 24 marzo 1938; cus 1353). Si veda anche la lettera, datata 6 aprile 1938, di Luciano De Feo, direttore della «Rivista di questioni corporative», a U. Spirito (cus 1354). 84. Si veda la lettera di Vincenzo Pinna, ex studente a Messina e in quel momento frequentante il Corso Allievi Ufficiali di Palermo, indirizzata a U. Spirito, 12 aprile 1936 (cus 1121): «Cerco in questo periodo un piano d’azione che mi consenta di realizzare qualche cosa di buono. […] In questo momento, che prelude ad avvenimenti decisivi per l’affermarsi oppure il non affermarsi delle più grandi realizzazioni sociali, mi sento spiritualmente vicino a Lei più che mai. Forse perché la sua personalità è più sentita di prima tra i giovani, un po’ anche per reazione a questo ritorno cattolico (anche se se ne riconosce la necessità), mortificante per il mondo culturale italiano. Nell’ultima conversazione Lei mi ha detto che ora bisogna saper aspettare ossia prepararsi culturalmente e praticamente per un sicuro domani, che dovrà segnare nel modo più decisivo la vittoria e l’affermarsi delle idee che Lei agita. Bisogna preparare forti individualità che incanalino le future generazioni nel movimento che Lei va elaborando. Pur non avendo quella cultura necessaria per poter fare delle valutazioni, muovendomi solo nel mio intuito, sento la Sua certezza e partecipo della Sua forza» (corsivi nostri).

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Nel secondo dopoguerra la critica teorica dello stalinismo e del togliattismo, intesi nei termini di una degenerazione ipermachiavellica del marxismo (un realismo che si riduce a cinismo nichilista e terrificante), convive, però, con una valutazione ingenua, a tratti idilliaca, del sistema sovietico e poi, anche, di quello cinese.

il «nostro candido nazionale» Compiuto un viaggio in Urss fra il settembre e l’ottobre del 1956, invitato dal Comitato italiano del Movimento Mondiale della Pace, Spirito non riesce a cogliere il lato dispotico e disumanizzante del regime sovietico, anche se poststaliniano. E non si può certo giustificare la cecità con il fatto che egli prenda parte a una visita guidata e organizzata da un’associazione filocomunista, perché la storia dei viaggi e pellegrinaggi politici in Urss è ricca di visitatori partiti entusiasti e tornati delusi, o almeno incrinati nella fede85. La risposta sta, forse, nel fatto che Spirito cerca altro, rispetto a una società di liberi ed eguali, secondo un’idea di comunismo che resti, dunque, filtrata attraverso parametri neoilluministici. Egli cerca una società macchina, fondata sull’unità e la collaborazione di tutti al progresso e alla modernizzazione della convivenza, ma cerca, soprattutto, l’euforia collettiva e il pathos partecipativo di un «cittadino totale»86. In proposito, è illuminante, pur nel perfido e un po’ greve sarcasmo, il giudizio che di Spirito dà Enrico Fulchignoni in 85. Cfr. p. hollander, Pellegrini politici. Intellettuali occidentali in Unione Sovietica, Cina e Cuba (1981), trad. di L. Di Nucci, il Mulino, Bologna 1988. Sui «pellegrinaggi politici degli intellettuali italiani», si veda in particolare il saggio di L. Di Nucci in appendice, ivi, pp. 621-677, in cui, però, non si fa menzione di Spirito. 86. Cfr. r. dahrendorf, Cittadini e partecipazione: al di là della democrazia rappresentativa?, in g. sartori, r. dahrendorf, Il cittadino totale. Partecipazione eguaglianza e libertà nelle democrazie d’oggi, in «Quaderni di Biblioteca della libertà», Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi, Torino 1977, pp. 33-59 (in particolare pp. 52-56).

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una lettera a Camillo Pellizzi, nella quale commenta il resoconto spiritiano sul viaggio in Cina pubblicato sulla pellizziana «Rivista italiana di sociologia»87. Spirito è definito il «nostro Candido nazionale» e il commento che segue, pur esteso, merita di essere riportato quasi per intero: Laddove sono caduto addirittura col culo sul pavimento è alla lettura dell’articolo di Spirito. Tu sai quanto bene io voglia a Ugo e come, da trent’anni abbia la più grande stima dell’uomo. Ma debbo dire che da un articolo come quello che ha scritto «retour de Chine», si può davvero misurare il pericolo rappresentato dagli intellettuali nel mondo moderno. Non voglio addentrarmi in una analisi puntuale delle sue argomentazioni e preferisco tenermi alla tecnica psichiatrica dei «sintomi impercettibili». Io credo che la chiave di tutto il suo esposto la si possa reperire nell’elogio della lotta contro le mosche che l’ha tanto commosso durante il suo itinerario cinese. Leggendo quel passaggio […] confusamente riappariva anche il lato surrealista di un certo fascismo, quello appunto della lotta contro le mosche, della festa dell’uva e del passo romano. Una mitologia futile e bambinesca. La scelta dei segni esteriori nell’universo emozionale perfettamente insignificante del rituale politico. […]

87. Cfr. u. spirito, Il comunismo cinese, in «Rassegna Italiana di Sociologia», ii, n. 1, gennaio-marzo 1961, pp. 11-42, ora in id., Il comunismo, cit., pp. 225-267 (da cui, d’ora in poi, citeremo). Pellizzi, direttore della rivista, pur avendo sollecitato l’amico a intervenire con un contributo, ritiene doveroso precisare, nell’editoriale di apertura al primo numero del secondo anno, la natura non squisitamente sociologica dello scritto spiritiano, senz’altro distante da quella Wertfreiheit weberiana cui il direttore della «Rassegna» intendeva altresì ispirarsi: «Non ci sembra che un articolo come quello sul Comunismo cinese, di Ugo Spirito, che pubblichiamo in questo numero della Rassegna, sia un servizio reso agli spiriti della reazione; ma ci affrettiamo ad aggiungere che, per l’appunto, tutto ciò che in esso può esaltare o deprimere gli spiriti, sia della rivoluzione che della reazione, non è sociologia, ma è bensì la testimonianza personale e filosofica di un ingegno lucido e appassionato. Viceversa, l’articolo è denso di osservazioni dirette, di confronti, di analisi, che potranno e dovranno venire ampiamente discusse, ma che noi giudichiamo dotate di un grande interesse sociologico» (ivi, p. 6; corsivi nel testo).

236 Ora, questa passione per il rituale traduce a mio avviso il suo completo distacco dalla realtà. […] Anche Rousseau e Robespierre […] avrebbero amato follemente le sfilate cinesi, i diecimila fiori, e la sorridente folla di Sciangai [sic]. Ma questo amore della umanità (in astratto) non impedì a Massimiliano (il giorno in cui ebbe in mano il coltello dalla parte del manico) di mutarsi nel più sanguinario carnefice che la storia ricordi. Così sono sicuro che l’adorabil Spirito non esiterebbe, in nome del sorriso, a far cadere le migliaia di teste che s’opporrebbero alla realizzazione del paradiso comunista. Poveri noi! Povera vita88!

Il giudizio di Fulchignoni, anche lui un ex intellettuale fascista, assai più giovane dell’amico, individua lucidamente alcuni tratti di Spirito che emergono inequivocabilmente laddove si leggano le numerose pagine dedicate dal 1956 in poi alle esperienze di comunismo realizzato, in Russia e in Cina. È soprattutto l’esperimento cinese a entusiasmare il filosofo, ex teorico della corporazione proprietaria; una breve sequenza di brani tratti dal saggio che costituiva il resoconto del viaggio compiuto nel settembre-ottobre del 1960 fornisce una testimonianza inequivocabile: La fede che il popolo cinese dimostra nella possibilità di trasformare il mondo in virtù della scienza è davvero impressionante. […] conviene richiamare l’attenzione sull’improvvisa importanza che ha assunto nella coscienza del Cinese il problema dell’igiene. […] La distruzione delle mosche, soprattutto, che appare subito evidente a chiunque giunga in Cina e percorra città e campagne, è un miracolo che si è potuto com88. E. Fulchignoni a C. Pellizzi, 24 maggio 1961, in Archivio Camillo Pellizzi, b. 40, fasc. 66 (Serie Corrispondenza). Abbiamo reso in corsivi le sottolineature nel testo. Fulchignoni (1913-1988), studioso di fisiologia umana e nel dopoguerra di pedagogia e psicologia delle comunicazioni di massa, aveva preso in tarda epoca fascista a occuparsi anche di teatro sperimentale e cinematografia, sia come regista sia come autore di vari atti unici. Dal 1949 assunse la direzione della «Film Section» dell’Unesco, con sede a Parigi. Svolse un ruolo chiave anche all’interno della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Su tutto questo, e altre notizie, cfr. g. moneti, Fulchignoni, Enrico, in dbi, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1998, vol. l, pp. 692-694.

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piere, certamente, con disinfettanti e altre misure igieniche, ma anche e forse in misura decisiva con l’opera diretta di settecento milioni di Cinesi, impegnati da una stessa parola d’ordine, dietro la quale si celava una comune fede89.

Spirito, per un momento, ritenne o, piuttosto, sperò, di aver trovato una nuova via alla società antiborghese e anticapitalistica vagheggiata durante il ventennio fascista, un nuovo regime capace di instaurare finalmente un comunismo all’altezza di tempi iperindustrializzati, segnati dal dominio della scienza e della tecnica. Una scienza e una tecnica che devono essere trasformate nel loro contenuto, passando dalla dimensione di mezzi a quella di fini, nel senso che, «frutto di quella civiltà borghese che caratterizza l’occidente»90, le due forme di sapere, teorico e pratico, dovevano essere sottratte «alla necessità di utilizzar[le] in funzione di una metafisica borghese» a favore di una «metafisica del comunismo»91. Un comunismo figlio della scienza e, dunque, olistico e tecnocratico al tempo stesso, un sistema di convivenza e produzione insieme democratico e aristocratico. A tal proposito, scrive il filosofo a caccia di rivoluzioni o, più precisamente, di quella che un giorno possa finalmente mostrarsi come la rivoluzione decisiva realizzata su questa terra: Pensare insieme, agire insieme, vivere insieme. Questo l’ideale del Cinese. […] se per comunismo si intende un ideale che vada al di là dell’illuminismo e rappresenti, non l’eguaglianza, ma la vita in comune, è chiaro che nessuno più del Cinese è vicino a tale ideale. Ma è vicino in quanto ignora un umanesimo che pone al centro della realtà un io, che ha l’orgoglio di credersi sovrano ed è sovrano soltanto del proprio vuoto92. 89. u. spirito, Il comunismo cinese, in id., Il comunismo, cit., pp. 254-255. 90. Ivi, p. 228. 91. Ivi, pp. 228-229. 92. Ivi, p. 249.

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Cos’è borghesia? Cos’è capitalismo? Nient’altro che individualismo, egoismo dissolutore, morbo ideologico. Se il comunismo cinese non è marxismo, è tanto meno borghesismo e individualismo. Borghesismo e individualismo sono termini pressoché ignoti in Cina, dove rappresentano soltanto il ricordo di malattie introdotte dall’esempio occidentale93.

Il comunismo messo in pratica dai cinesi era qualcosa che ancora nel 1960 non presentava contaminazioni con l’umanesimo occidentale, intrinsecamente egocentrico, poiché, intriso di confucianesimo com’era, sembrava prospettare l’avvento di quella metafisica della scienza che il filosofo aveva pronosticato come «inizio di una nuova epoca»94. Nella Cina maoista: questa scienza e questa tecnica sono fede perché sono umanità, perché in esse è immanente la fede nella vita e nell’uomo, perché esse uniscono e hanno bisogno dell’unione per raggiungere i risultati voluti. E il risultato massimo è nella gioia comune, che si esprime in tutte le forme morali ed estetiche di una vita sana ed euforica. Dappertutto piante e fiori e fiori. Dappertutto forme e colori in molteplici armonie. Dappertutto gentilezza, comprensione, amore della natura, dedizione ai fanciulli: questi uomini privilegiati dell’avvenire95.

L’entusiasmo al ritorno dal viaggio in Cina è tale che Spirito, nonostante l’abito problematicistico oramai indossato da diversi anni, non esita a farsi volenteroso portavoce della propaganda di regime, come si è visto con quell’esaltazione della campagna d’igiene stigmatizzata, invece, da Fulchignoni come esempio di «surrealismo fascista». In tal senso, altri passaggi del saggio scritto per la rivista pellizziana meritano di essere riportati:

93. Ivi, p. 248. Il corsivo è nostro. 94. Cfr. u. spirito, Inizio di una nuova epoca, Sansoni, Firenze 1961. 95. id., Il comunismo cinese, cit., p. 255.

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Che cosa era la Cina prima della rivoluzione? Era un paese disgraziato, caratterizzato dalla fame e dalle epidemie, che falciavano milioni di uomini ogni anno. […] Oggi i Cinesi non muoiono più di fame, hanno vinto nella massima parte le epidemie, contengono le inondazioni, forniscono viveri alle zone sottoposte ancora a inondazioni o bruciate dalle siccità, hanno aperto scuole fino all’inverosimile, hanno il culto dei bambini anteposti a tutti nell’alimentazione e nella cura dei vestiti, hanno eliminato la prostituzione e la corruzione dei bassifondi, hanno immesso nella società, a parità di salari e di diritti, centinaia di milioni di donne. Ma oggi, soprattutto, in Cina si legge in tutti i visi la gioia di un mondo nuovo, l’orgoglio della liberazione96.

La Cina secondo Spirito è, dunque, questo: un paradiso prossimo a realizzarsi una volta per tutte su questa terra. La propaganda offuscava la verità storica, ma in questo il filosofo italiano seguiva e, per certi versi, anticipava una schiera di apologeti e cantori delle meraviglie maoiste che sarebbe stata ancora lunga e sarebbe divenuta persino debordante per numeri, ingenuità e miopia storica e politica, segnando uno degli abbagli più grandi dell’intelligencija europea e americana97. Si pensi solo al fatto che Spirito si reca in Cina nel bel mezzo dei quattro anni, dal 1958 al 1961, in cui si stava compiendo l’operazione detta «il Grande balzo in avanti» – avviata nel maggio del ’58 per trasformare la Cina in una superpotenza – e in cui, però, esplose anche una terribile carestia, iniziata nel ’58 e terminata nel ’61. Sono, insomma, gli anni in cui morirono di fame e di lavoro (forzato) circa 38 milioni di persone98. In visita a Mosca nel 1957, Mao aveva dichiarato: «Siamo disposti a sacrificare fino a trecento milioni di cinesi per la vittoria della rivoluzione mondiale»99. 96. Ivi, pp. 258-259. Il corsivo è nel testo. 97. Cfr. p. hollander, Pellegrini politici, cit., cap. vii (Il pellegrinaggio in Cina: vecchi sogni in un nuovo scenario). 98. Cfr. j. chang, j. halliday, Mao. La storia sconosciuta (2003), trad. it. E. Valdrè, Longanesi, Milano 2006, pp. 515 e ss. 99. Riportato in ivi, p. 517. Su Mao e il maoismo si vedano anche le relative vo-

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Ancora nel 1977, nelle sue Memorie, Spirito non esita a esaltare l’esperimento sovietico e quello maoista. A proposito del «Grande Timoniere» cinese egli non prova alcun imbarazzo nel confessare che, quando lo incontrò e gli parlò in un colloquio che ebbe «un’importanza fondamentale» nella propria vita, «la sua grandezza» gli apparve «nella sua genuina profondità»: Mao aveva dimensioni eccezionali. Guardandolo negli occhi, se ne aveva la sicurezza assoluta. […] Negli occhi di Kruscev e in quelli di Mao ho visto la luce del vero comunismo100.

Tanto nel viaggio in Urss quanto in quello nella Cina maoista, di poco precedente la cosiddetta «rivoluzione culturale», il filosofo del corporativismo integrale fascista parla di «fede nell’avvenire» che coinvolge le masse. Nel caso della Cina del 1960 parla di un «pathos che aveva ben altra consistenza e ben altra certezza» in un sistema in cui «la rivoluzione non aveva eccezioni»101. Vi è nei ricordi che a distanza di sedici anni Spirito dedicava alla propria esperienza cinese molto di quello che Fulchignoni denunciava a Pellizzi, a cominciare da un afflato misticheggiante incantato dall’unisono mobilitarsi di masse oceaniche: «si tratta di un miliardo di uomini che hanno creduto alla nascita della verità»102. Il tempo – al passato – del verci, rispettivamente di Timothy Cheek e Robert J. Alexander, in s. pons, r. service (a cura di), Dizionario del comunismo nel xx secolo, Einaudi, Torino 2007, vol. ii (m-z), pp. 12-20. Sul “Grande Balzo in avanti”, cfr. la voce, curata da Maurizio Marinelli, in s. pons, r. service (a cura di), Dizionario del comunismo nel xx secolo, Einaudi, Torino 2006, vol. i (a-l), pp. 352-355. Sul nesso fra la grande carestia di fine anni ’50 e la natura totalitaria del regime cinese, cfr. le osservazioni di Amartya K. Sen, intervistato da Giancarlo Bosetti, in g. bosetti, Il legno storto e altre cinque idee per ripensare la sinistra. Hirschman, Walzer, Sen, Dahl, Sabel, Unger, con una postfazione di N. Bobbio, Marsilio, Venezia 1991, pp. 80-81. 100. Per questa frase, come per le precedenti, u. spirito, Memorie di un incosciente, cit., pp. 67 e 69. 101. Ivi, p. 67. 102. Ivi, p. 68.

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bo utilizzato nella frase segnala la constatazione, amara e disincantata al tempo stesso, che «quel comunismo fu il solo comunismo che il mondo ha visto, e che non vedrà mai più» perché «è lo spettacolo di una conquista assoluta che non potrà più ripetersi»103. Spirito considera «uno dei tanti privilegi che la fortuna»104 gli ha riservato nella vita quello di aver visto una simile realtà di fede collettiva e mobilitante, rivelando, così, un’insopprimibile fascinazione per il totalitarismo, inteso quale religione politica secolarizzata e ateizzata (o meglio, nel suo caso, una religione la cui divinità è stata immanentizzata e quindi «demitizzata»). E infatti cos’è che rende esaurito e irripetibile quel momento dell’esperimento politico e sociale, sia in Russia che in Cina? La perdita della fede nell’avvenire, a sua volta provocata dalla constatazione che la rivoluzione tanto attesa non si è inverata, anche perché superata e resa ormai anacronistica e palesemente utopistica da un’altra rivoluzione ben diversamente attrezzata a tradursi in realtà, producendo quell’ideale comunistico che Spirito confonde o volutamente risolve nell’unificazione e nella collaborazione di tutti con tutti su tutto. È questo una sorta di pandemocraticismo organicistico e tecnocraticamente differenziato per ruoli e funzioni. Niente di così lontano dai sogni coltivati in gioventù. Le sue stesse parole non lasciano alcuna ombra di dubbio: Finita o in via di esaurimento la fede, i regimi comunisti vanno rivelando la loro natura dominante di carattere istituzionale. Si sono cristallizzati in sistemi ecclesiastici di carattere poliziesco, che mantengono il potere in funzione di dogmi imposti alla massa. La rivoluzione appartiene al passato e può essere soltanto difesa. […] Una rivoluzione che si difende è, evidentemente, una rivoluzione morta105.

103. Ibidem. 104. Ibidem. 105. Ibidem.

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La domanda sorge spontanea: ma la Russia nel 1956 o la Cina nel 1960 non erano già a sufficienza e in bella evidenza regimi polizieschi e sorta di «Chiese» dogmatiche con tanto di gerarchia «ecclesiastica» di partito? Certo che, a rileggerlo con coscienza storica e non ideologica, Spirito fa proprio la figura del Candide di volteriana memoria. Qualcosa di più ingenuo dei coniugi Webb al ritorno dalla Russia di Stalin106, perché stiamo parlando di un’epoca che aveva visto l’Europa sbranarsi, bruciarsi e poi spaccarsi in due tra 1939 e 1961. L’epoca delle attenuanti era passata da un pezzo. Che ci sia allora una certa proiezione dell’innegabile narcisismo spiritiano nel constatare una rivoluzione finita, anzi morta e sepolta, dopo che egli stesso vi è stato e non più tornato? Come a dire: après moi le déluge. Un dubbio così malizioso è indotto dalla lettura di pagine tanto spudoratamente ingenue. E non si può dire nemmeno che si tratti di una fede comunista così intensa da annebbiare il lucido sguardo di un filosofo militante. Infatti, è sempre Spirito, e sempre nel 1977, colui il quale non teme di affermare che «con il fascismo è finito un momento essenziale della storia d’Italia» e che «l’ultima espressione valida della nostra cultura ha avuto il suo epilogo nel ven-

106. Sidney e Beatrice Webb, tra i più attivi propagandisti della Fabian Society e militanti del Partito laburista inglese (Sidney partecipò anche ai primi due governi laburisti, nel 1924 come responsabile del dicastero del Commercio, e nel 1929-31 come ministro delle Colonie), «disillusi dalla incapacità del laburismo di affrontare la crisi» capitalistica del 1929, «cominciarono a guardare con crescente interesse e simpatia al comunismo» sovietico (l. marrocu, Webb, Beatrice; Webb, Sidney, in Enciclopedia della sinistra europea nel xx secolo, diretta da A. Agosti, con la collaborazione di L. Marrocu, C. Natoli, L. Rapone, Editori Riuniti, Roma 2000, p. 339). Dopo una visita in Urss, pubblicarono nel novembre 1935 il libro Soviet Communism: a New Civilisation? (nella seconda edizione del 1937 il punto interrogativo sarebbe sparito, tramutando così il sottotitolo in una asserzione); cfr. S. e B. Webb, Il comunismo sovietico. Una nuova civiltà, trad. it. E. Manacorda e G. Olivetti, 2 voll., Einaudi, Torino 1950. L’entusiasmo dei coniugi Webb per le «realizzazioni» del comunismo sovietico «non sarebbe mai venuto meno (almeno pubblicamente) anche di fronte ai processi staliniani del 1936-1938» (l. marrocu, op. cit., p. 339).

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tennio», e il riferimento è evidentemente a Gentile e, in qualche misura, a se stesso. Non solo; il giudizio sul dopoguerra è senza appello: «dopo non vi è stato che il disordine mentale che sa autodefinirsi unicamente come antifascismo»107. Contemporaneamente, Spirito è colui che subito dopo aggiunge questa frase: «il vero antifascismo noi l’abbiamo fatto durante il fascismo, come ricerca di ciò che andasse al di là e rappresentasse un valore superiore»108. E qui a molti sarà parso e tuttora parrà che si rischi il ridicolo o quantomeno si voglia provocare una certa irritazione nel lettore. Come? Ugo Spirito antifascista, addirittura durante il ventennio? Anche qui, ancora una volta, è il linguaggio del filosofo a trarre (a mio avviso, volutamente) in inganno, reticente e allusivo, ellittico e opaco com’è. Il fatto è che Spirito parla su di un piano squisitamente filosofico, e non lo precisa, lasciando intendere al lettore sprovveduto, di ieri come di oggi, chissà quale dissidenza e opposizione da parte del filosofo sotto il regime e contro alcune sue degenerazioni. Così non è, come si è visto nel primo capitolo di questo libro, ma due capitoli di quell’agile autobiografia che costituisce la prima parte delle Memorie di un incosciente (la seconda è dedicata a una serie di «incontri e scontri» con personaggi celebri del Novecento italiano) sono intitolati «la persecuzione fascista» e «la persecuzione comunista». Dunque, Ugo Spirito perseguitato durante e dopo il fascismo. È un po’ troppo, in effetti, specie per lo storico di oggi che può consultare tutte le carte d’archivio, comprese quelle spiritiane. Eppure, non è che il filosofo non dica il vero, lo dice solo a metà e in modo tale che giganteggi la sua figura di solitario pensatore – anzi cercatore di verità – sopra tutto e tutti e contro tutto e tutti. Ma allora proviamo a seguirlo nel suo percorso filosofico. Ci si renderà conto che, in effetti, una certa coerenza di posizioni Spirito l’ha sempre avuta e che questa 107. u. spirito, Memorie di un incosciente, cit., p. 62. 108. Ibidem.

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consiste nel cercare una filosofia che si inveri nel mondo, trasformandolo e non più contemplandolo, secondo l’insegnamento che Marx aveva espresso nell’undicesima tesi su Feuerbach e che il giovanissimo Gentile tra il 1897 e il 1899 aveva ripreso trasmutandolo in termini idealistici post-hegeliani per cui il reale è razionale se si sintetizza con l’ideale; e non come in Hegel, per il quale il reale era «razionale in quanto soltanto reale», secondo un’opzione ideologica conservatrice denunciata dallo stesso Spirito nell’aprile del 1933, in occasione del iii Congresso internazionale hegeliano109.

fascismo, antifascismo e attualismo di sinistra Per rendere l’idea della posizione filosofica di Spirito, potremmo azzardare, e neanche troppo, un’equiparazione di questo tipo: come Marx nacque filosoficamente quale hegeliano di sinistra, così Spirito raggiunse la propria maturità teoretica quale gentiliano di sinistra. La differenza, fondamentale, sta nel fatto che Spirito aveva incorporato il Marx di Gentile. Il «sinistrismo» spiritiano non consiste tanto in un rovesciamento della dialettica gentiliana, difficile dopo che della dialettica Gentile aveva già operato una «riforma»110, quanto piuttosto in una ripresa, compiuta in anticipo rispetto allo stesso suo Maestro, delle giovanili intuizioni gentiliane sulla «filosofia della pras109. u. spirito, La proprietà privata nella concezione di Hegel, in id., La filosofia del comunismo, Sansoni, Firenze 1948 e, infine, in id., Il comunismo, cit., p. 119. Il testo della comunicazione al iii Congresso internazionale hegeliano era originariamente apparso col titolo Economia ed etica nel pensiero di Hegel, in «Nuovi Studi di diritto, economia e politica», i-ii, gennaio-aprile 1933, prima di essere pubblicati nel volume di atti a cura del Veröffentlichungen des internationales Hegelbundes: u. spirito, Economia ed etica nel pensiero di Hegel, in Verhandlungen des Dritten Hegelkongresses vom 19. Bis 23. April 1933 in Rom, a cura di B. Wigersma, J.C.B Mohr (Paul Siebeck) – N/V H.D. Tjeenk Willink & Zn., Haarlem, Tübinge 1934, pp. 214-223. 110. Cfr. g. gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Principato, Messina 1913.

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si»111 e su una critica rigorosa delle incongruenze presenti in Hegel, filosoficamente un antiborghese e politicamente un conservatore. È sul concetto di proprietà privata e di individuo determinato solo nella dimensione comunitaria – famiglia, società e Stato – che si costruisce il neohegelismo, o gentilianesimo, di sinistra di Ugo Spirito. Quel che non quadra al discepolo di Gentile nel pensiero di Hegel è chiaramente precisato nel già citato congresso hegeliano del 1933: Nella famiglia la proprietà raggiunge in qualche modo il concetto della comunità e la filosofia ne dimostra la necessità dialettica; nello Stato il principio della proprietà privata è dominante e la dialettica si piega a questa constatazione di fatto112.

Detto in estrema sintesi, Spirito ha identificato il fascismo con l’attualismo, anche perché è dal discepolato gentiliano che discende la sua adesione al regime mussoliniano. Egli è nel gruppo di collaboratori che, pur restando nell’università, assiste Gentile nel periodo in cui è ministro della Pubblica Istruzione e, come il maestro, non abbandona la causa fascista nemmeno dopo il delitto Matteotti, a differenza di quanto fece Giuseppe Lombardo-Radice (questi, insieme a Leonardo Severi ed Ernesto Codignola, era stato uno dei collaboratori direttamente operanti all’interno del Ministero durante il periodo della riforma della scuola113). Come il maestro, Spirito può 111. Su cui si veda lo scritto (originariamente pubblicato nel 1947) Gentile e Marx in u. spirito, Giovanni Gentile, cit., pp. 39-74. Il saggio è compreso anche in id., Il comunismo, cit., pp. 77-105. 112. u. spirito, La proprietà privata nella concezione di Hegel, cit., p. 119. 113. Lombardo-Radice, chiamato da Gentile a ricoprire la carica di direttore generale per l’istruzione elementare, avrebbe il 6 giugno 1924 (dunque, quattro giorni prima del delitto Matteotti) rassegnato le dimissioni, facendo una scelta antifascista che ne impedì la nomina a membro del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione patrocinata da Gentile. Su Lombardo-Radice, si veda la relativa voce biografica curata da F. Cambi, in dbi, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2005, vol. lxv, pp. 539-544. Ernesto Codignola fu chiamato da Gentile nel 1923

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dissentire su singole scelte e mosse politiche, ma sempre nella fedeltà al progetto dittatoriale mussoliniano. Tutto ciò che non rientra nella riforma/rivoluzione idealistica è considerato elemento spurio e inquinante la più autentica natura del fascismo. Di qui il tentativo di inglobamento del comunismo, ovvero di una certa idea di comunismo, inteso come corporativismo integrale, «sprivatizzazione» dell’economia e fusione di statale e sociale, di pubblico e privato. Un disegno alfine totalitario che poco riscontro e soddisfazione trovò nella quotidiana prassi della dittatura mussoliniana, troppo conservatrice e borghese agli occhi del teorico della «corporazione proprietaria» ma sempre suscettibile di evoluzione nel senso da egli auspicato, almeno fino al 1941-42, e più stancamente financo alla tarda primavera 1943. Dunque, non è soltanto per certe furbe reticenze ed esagerazioni autobiografiche che Spirito sconcerta e suscita sospetti circa la sua buonafede. È anche, e direi soprattutto, perché egli è politicamente una strana figura di progressista antidemocratico, laico e comunista antiegualitario. Quanto a originalità, la sua posizione filosofico-politica è indiscutibile. Una posizione che ci suggerisce non poco sulle affinità sotterranee tra comunismo e fascismo, o almeno su certo comunismo e certo fascismo; soprattutto, sul piano dei presupposti filosofici e anche, a far parte della prima commissione del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, incarico che, con qualche interruzione, avrebbe conservato fino al 1932 (per questa e altre informazioni sulla vita e l’opera di Codignola, si veda l. ambrosoli, Codignola, Ernesto, in dbi, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1982, vol. xxvi, pp. 585-591). Severi, un magistrato che aveva lavorato con Croce, sarà ministro dell’Educazione Nazionale nel primo governo Badoglio, dopo il 25 luglio 1943. Su Severi, inizialmente confuso con l’omonimo Francesco Severi, scrive anche Gaetano Salvemini nel suo diario, in data 30 dicembre 1922, valutando molto positivamente la presenza di Gentile alla guida del Ministero: «A ogni modo, occorrerà aiutare Gentile nel suo tentativo. E se sarò invitato a collaborare darò la mia opera; ufficiosamente, amichevolmente, a patto di non essere considerato mai da nessuno come aderente al regime mussoliniano» (Memorie e soliloqui. Diario 1922-1923, a cura di R. Pertici, intr. di R. Vivarelli, il Mulino, Bologna 2001, p. 130).

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come aveva ben intuito Fulchignoni, delle predisposizioni di tipo psicologico. C’è una dichiarazione contenuta nelle Memorie di un incosciente che merita particolare attenzione: Al comunismo non potevo rinunciare [anche dopo l’esaurimento della rivoluzione sovietica e di quella maoista, ndr.], dopo avere impostato tutta la mia vita nella ricerca di un ideale di vita illuminato dal superamento dell’individualismo114.

Forse in queste righe è racchiusa l’essenza della posizione politica spiritiana, il segreto del suo fascio-comunismo. Dunque, nella biografia spiritiana un motivo conduttore esisterebbe, parzialmente e periodicamente offuscato da momenti di incertezza e divagazione. Non è così pacifico stabilire se si tratti o meno di variazioni sul tema, oppure di ricorrenti deragliamenti da una strada maestra. L’ipotesi di un’ininterrotta linea di continuità rimane, a mio avviso, la più valida per spiegare una biografia assai poco «postmoderna» e grandemente immersa nello spirito della prima metà del Novecento. Frantumatisi i riferimenti ultimi a una qualche metafisica – da lui paradossalmente intesa come rigorosamente immanentistica – capace di fondare un’ideologia che si faccia mondo, Spirito avverte al termine della propria vita che il ventesimo secolo «sta determinando un processo sempre più distruttivo»115. Ciò non lo conduce ad abbracciare alcuna teologia negativa o una qualche forma di pessimismo radicale, semmai qualcosa di simile a un nichilismo rassegnato, cosicché, scrive sempre nelle sue memorie, «il mio comunismo, non potendo essere più metafisico», vale a dire fondato sulla verità, «si dissolve nel nulla»116. Di fe114. u. spirito, Memorie di un incosciente, cit., p. 69. Il corsivo è nostro. 115. Ivi, p. 75. 116. Ivi, p. 76. A questo punto risalta in tutta la sua capacità diagnostica la riflessione delnociana sull’attualismo gentiliano: «è il punto conclusivo dell’immanentismo, inteso nel senso letterale del Deus manet in nobis, come filosofia negante insieme la trascendenza religiosa e il materialismo; […]. Quel che caratterizza l’attuali-

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di radicate nella storia non resta, insomma, che polvere di sogni infranti. Alla luce di un inedito pubblicato dieci anni dopo la morte, si è parlato molto di uno Spirito avvicinatosi fortemente alla dimensione di credente sul finire della sua vita. Il titolo scelto dal curatore per questo inedito rischia, però, di essere fuorviante, anche perché Ho trovato Dio figura come titolazione di una delle due versioni di indice rinvenute tra le carte spiritiane, mentre nell’altra il titolo generale è Ho trovato Dio (punto di partenza) e per gli ultimi due possibili capitoli compaiono le seguenti titolazioni: Ho trovato Dio? come punto di arrivo e Ho trovato Dio117?. Ma, al di là del titolo che certo inganna, è il contenuto del testo che, scandagliato in lungo e in largo, non consente di affermare che Spirito nell’estate del 1978 – periodo di stesura dell’inedito – avesse compiuto significativi passi in avanti rispetto alla consueta posizione problematicistica di chi cerca l’assoluto, perché al tempo stesso sa e non sa che il principio primo e ultimo c’è e non può non esserci. Il problema consiste nel fatto che la conoscenza che dell’assoluto si può avere, o almeno Spirito ritiene di avere, si presenta nella sola forma della «domanda» che urge e chiede una risposta. Ma è questa che continua a mancare: Posso dubitare di Dio? Sì, ne dubito. Ne ho dubitato da tanto tempo. Ma, se dubito di Dio, di che cosa mi sento sicuro? Posso essere sicuro che Dio non esiste? No, neppure questo, perché Dio non mi ha detto né sì, né no. […] La verità è che dubito, che non so, che non credo, non posso scegliere una strada che abbia un significato. Già dubito. smo, che pur si presentava in termini di filosofia positiva come poche altre, è invece il più eccezionale potere di negatività» (a. del noce, Giovanni Gentile, cit., p. 10). 117. Cfr. a. russo, Il Problema di Dio in Ugo Spirito alla luce di un inedito, saggio introduttivo a u. spirito, Ho trovato Dio, a cura di A. Russo, Fondazione Ugo Spirito, Roma 1989, p. 12 e passim. Dubita, invece, di un approdo risolutivo in chiave di fede religiosa Hervé A. Cavallera (cfr., La transizione al postmoderno in Ugo Spirito, in h.a. cavallera, f.s. festa (a cura di), Ugo Spirito tra attualismo e postmoderno, Fondazione Ugo Spirito, Roma 2007, pp. 39 e ss.).

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Non so. Posso fermarmi? […] fermarmi proprio del tutto non posso. O forse non ci riesco. Continuiamo a pensare118.

In altre parole, siamo di fronte alla classica posizione speculativa dell’agnostico. Ma non solo. Se andiamo a vedere bene come si chiude l’inedito pubblicato nel 1989, scopriamo che Spirito non conclude il suo peregrinante interrogarsi né sul piano della religione, tanto meno quella cattolica, vittima di una Chiesa che riduce il credo in mito, né sul piano della filosofia. Dov’è allora che il filosofo rinviene un tentativo serio di risposta alla domanda «teologica», che poi è la questione filosofica di sempre, della metafisica di ogni tempo: esiste l’assoluto, l’uno, il motore – immobile o in perenne movimento – del tutto? Lo rinviene sul piano della politica, ovvero dell’azione nella società. L’ottavo e ultimo capitolo dell’inedito spiritiano, per come si presenta a noi oggi nelle vesti di pubblicazione postuma, è significativamente intitolato Il programma. Si parte dalla constatazione che il Novecento è stato, e per Spirito nel 1978 ancora è, «il secolo delle rivoluzioni», di quella scientifica, ma anche di quella della «trasformazione sociale, della realtà dei popoli», in altre parole: del comunismo119. Non solo: «il secolo ventesimo ha finalmente raggiunto l’ideale di una nuova civiltà», che con l’esperimento sovietico è fallito, ma solo temporaneamente si è interrotto il sogno di un «regime realizzato storicamente» che traduca in realtà di convivenza e organizzazione collettiva i programmi filosofici che sapranno registrare i cambiamenti e adeguare a essi le sempiterne esigenze umane120. Ma se la ricerca approda, infine, alla sponda politica, la soluzione risulta ben lungi dall’essere trovata, e con essa la risposta alla domanda «teologica»: chi è Dio? quale il suo «volto»? 118. u. spirito, Ho trovato Dio, cit., p. 57. 119. Ivi, p. 77. 120. Ibidem.

250 Il programma, dunque. Chi farà i programmi del domani? Si è detto che è questo il grande problema del nostro tempo. […] L’unica cosa che oggi si può già dire con convinzione è che il processo di unificazione del mondo non potrà avere che connotati confusi e non riducibili a unità. […] La molteplicità non potrà essere ricondotta a unità […] perché la crisi di fronte alla quale siamo oggi è di carattere radicale. Per superarla davvero sarebbe necessario non una soluzione qualunque ma una soluzione che fosse fondata su di un valore assoluto. Dovrebbe, in altri termini, esserci una nuova religione o una nuova metafisica, capace di fondare una nuova scienza. Nulla di questo appare ora all’orizzonte e nulla può fare sperare nelle condizioni attuali il miracolo che si vorrebbe aspettare121.

In altri termini, è sul piano pratico che Spirito cerca, infine, possibili risposte e ritiene che è in quell’ambito che se ne possano trovare, una volta che «religioni, filosofia, scienza, ideologie politiche, si sono avvicendate per millenni e sono fallite e con esse sono falliti i programmi di felicità»122. Non tragga in inganno l’inserimento delle «ideologie politiche» nell’elenco dei miti falliti del Novecento. Quando Spirito parla di «programma» intende muoversi sul piano di una politica che sia «scientifica», né più né meno di quella che egli ritenne di aver elaborato e proposto ai tempi del fascismo come «corporativismo integrale». In ogni caso, la risposta non c’è, e tanto meno sul piano della religione, che non sia quella socratica di chi sente la ricerca della verità come condotta di vita. Il «Dio» di cui Spirito parla sa troppo di sinonimo di «assoluto», e il ragionamento ricorda troppo quello di una laicissima filosofia occidentale. Rispetto ad altri scritti coevi, questo inedito contiene un minor tasso di sconforto e un briciolo di fiducia in più, una voglia maggiore di continuare nella ricerca. Ma niente più di questo123. 121. Ivi, p. 79. 122. Ivi, p. 83. 123. Anche la più volte ricordata – sia da Antonio Russo sia da Cornelio Fabro – intervista rilasciata a Giuseppe Grieco e pubblicata sul settimanale «Gente» dell’11

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Sempre a proposito dell’ipotetica «scoperta» di Dio dell’ultimo Spirito, da parte di amici nonché interpreti autorevoli di Spirito, come padre Cornelio Fabro, si è ricordato l’episodio della lettera di invito rivolta al filosofo nel dicembre del 1967 dal Secretariatus pro non credentibus ad aderire alla «Giornata Mondiale della Pace» promossa da Paolo vi e che si sarebbe celebrata il primo giorno del successivo anno, 1968. Fu la qualifica del mittente, e di conseguenza quella che veniva indebitamente affibbiata al destinatario, cioè l’essere «non credente», in definitiva ateo – secondo il metro cattolico –, a provocare la forte irritazione di Spirito che, secondo quanto riferisce sempre l’amico Fabro, reagì «indignato e fremente perché giudicava quella qualifica […] un’intromissione illecita e insultante»124. Ma è, a nostro avviso, questa la chiave di lettura da dare all’episodio: Spirito reagiva all’intento altrui, in questo caso di un’istituzione così autorevole e influente, di incasellarlo in una definizione che ne avrebbe pregiudicato la libertà di ricerca ed espressione del pensiero. Anche in questo degno del suo cognome, il filosofo non amò mai, specie dal dopoguerra in poi, venire classificato e ingabbiato in una categoria, teologica o politica che fosse, tale da condizionarne una ricerca che voleva per sé illimitatamente libera e impregiudicata. In questo senso, la reazione alla lettera del Secretariatus125 – e l’episodio è riportato pressoché innovembre 1978 (Il filosofo Ugo Spirito risponde all’inchiesta sul problema di Dio. So che Dio esiste, non so chi è) non mostra novità eclatanti in tal senso, e non induce a pensare che in Spirito si fosse prodotta una «svolta» in senso religioso né tanto meno in termini di fede ritrovata. Siamo ancora sullo stesso tenore di argomentazioni addotte dal filosofo in un suo intervento presso il Centro Romano di Studi e pubblicato nel 1949: cfr. u. spirito, L’esigenza dell’assoluto e la crisi della civiltà, in aa.vv., Il problema di Dio, a cura di G. Savio e T. Gregory, Editrice “Universale di Roma”, Roma 1949, pp. 233-259. 124. c. fabro, L’apertura al problema di Dio in Ugo Spirito, testimonianza riportata in u. spirito, Ho trovato Dio, cit., p. 25. 125. Reazione che, peraltro, stando alla lettera di risposta riprodotta nelle stesse Memorie, non consisteva tanto nel respingere la qualifica di «non credente» con una

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tegralmente nelle Memorie del 1977, con tanto di epistolario intercorso tra il filosofo e la Santa Sede – ricorda la stessa che Spirito ebbe quando il settimanale «Panorama» pubblicò un articolo, a firma di Pino Buongiorno, in cui gli si attribuiva l’etichetta di «filosofo di destra» e lo si associava ad Armando Plebe, promotore di convegni impegnati in una battaglia culturale anticomunista126. A esaminare, pertanto, natura e ruolo della questione religiosa nel pensiero di Spirito, tornano alla mente alcune osservazioni che Piero Gobetti svolgeva nell’estate del 1922 a proposito dell’attualismo, con evidente riferimento al magistero gentiliano: Se la filosofia è storia, perché la filosofia? È la domanda con cui gli immanentisti hanno liquidato la trascendenza: se il mondo è Dio, perché Dio? Perché il sistema, quando crediamo solo più al problema? Se la ficontrapposta dichiarazione di fede, sia pure sui generis, ma nel temere che l’uso di una simile qualifica – evidentemente adoperata per «un numero più o meno grande» di altri individui – implicasse «l’esistenza di uno schedario dei non credenti compilato con regole procedurali, che – aggiungeva Spirito nella lettera di risposta indirizzata a monsignor Giovanni Benelli, Sostituto della Segreteria di Stato – non riesco a concepire se non come arbitrarie e temerarie» (Memorie di un incosciente, cit, p. 213). Commentava poi nelle sue Memorie: «Avevo trovato in portineria un grosso plico diretto, con il vistoso bollo del Segretariato per i non credenti, al professor Ugo Spirito. Della mia qualifica di non credente non si poteva più dubitare. Lo affermava la Chiesa con tutta l’autorità di un suo organo ufficiale. E come lo sapete? Domandavo io. Avete dunque uno schedario dei non credenti? E avete una procedura con la quale discriminare le persone dividendole in due categorie?» (ivi, pp. 217-218; vedi anche la risposta alla lettera di Spirito da parte della Segreteria di Stato di Sua Santità, nella persona di Mons. Benelli, 14 febbraio 1968, cus 10270). Insomma, la reazione di Spirito andava in direzione di un attacco all’indebita ingerenza ecclesiastica nella vita e nella coscienza del singolo individuo, secondo un’impostazione laica – non laicista – più che religiosa, almeno in senso stretto di adesione a una confessione teologicamente e storicamente determinata. 126. Si vedano l’articolo di p. buongiorno, Internazionale nera. Colpi a catena, in «Panorama», 9 novembre 1976, pp. 72-74, e la lettera, indignata, di Spirito all’allora direttore del settimanale, Lamberto Sechi, in cui si legge, fra l’altro: «sa il Buongiorno che il mio rapporto con Plebe è, politicamente e speculativamente, di una totale e irriducibile opposizione?» (22 novembre 1976, cus 11898).

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losofia si identifica con la storia, non c’è più filosofia fuor dello svolgimento e della risoluzione dei problemi dell’esperienza attuale127.

La nostra convinzione è che il giovane intellettuale torinese avesse colto, proprio all’indomani dell’avvento del fascismo al potere, il cuore dell’impostazione teorica e pratica – ché l’una implicava necessariamente e immediatamente l’altra – insita nell’attualismo e nella stagione d’oro di molti giovani intellettuali italiani, desiderosi di contare per il loro dire, il loro pensare. Spirito fu uno di quelli. Un’impostazione che si trasforma facilmente in quel «cerchio magico» da cui – così scriveva Luigi Scaravelli a Spirito nel novembre del 1941 – molti di quei giovani stavano tentando di uscire «a qualunque costo», e ciò era conseguenza anche dello scoppio della guerra e delle prime gravi incrinature nel consenso al regime. Un «cerchio magico», proseguiva Scaravelli, in cui «l’idealismo (il gentiliano soprattutto) li [aveva] rinchiusi»128. Dunque, un’impostazione da cui non è facile liberarsi riavviando un nuovo, diverso modo di considerare il rapporto fra l’io e la realtà, fra lo spirito e la materia, e qualsivoglia altra dicotomia che connota la storia del pensiero occidentale. L’itinerario teoretico ed esistenziale di Spirito è senz’altro uno dei più originali fra quelli che da quel cerchio magico ten127. Si tratta di un brano, originariamente apparso sull’«Ordine Nuovo» del 17 agosto 1922, inserito poi in una lettera a Giuseppe Lombardo-Radice, in cui Gobetti voleva presentare certe riflessioni come «documenti di una generazione e come cronaca di una formazione spirituale» (p. 441). La lettera aperta, divenuta articolo, fu pubblicata con il titolo I miei conti con l’idealismo attuale sulla «Rivoluzione liberale» il 18 gennaio 1923 (ii, n. 2, 18 gennaio 1923, p. 5). Ora in p. gobetti, Opere complete di Piero Gobetti, Einaudi, Torino 19692 (la prima edizione è del 1960), vol. i (Scritti politici), a cura di P. Spriano, pp. 442-448 (cit. da p. 447). 128. Lettera di L. Scaravelli a U. Spirito, 16 novembre 1941, cus 1565. Luigi Scaravelli (1894-1957), filosofo di formazione idealista, ma costantemente teso a un confronto critico con Croce e Gentile, fu tra i primi, con un denso saggio del 1935, a introdurre in Italia Martin Heidegger, di cui aveva tradotto lo scritto Was ist Metaphysik (1929). Per un’analisi del pensiero di Scaravelli, si veda almeno l. zanetti, La filosofia di Luigi Scaravelli, con saggio introduttivo di G. Gembillo, Armando Siciliano Editore, Messina 2003.

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tarono di uscire. E, per certi aspetti, anche il più coerente rispetto all’originario magistero gentiliano. Non è certo questa la sede in cui poter svolgere un simile tema, ma non è certo privo di significato il coinvolgimento «politico» – peraltro dall’epilogo tragico – della vita di Giovanni Gentile e il fatto che il suo ultimo scritto Genesi e struttura della società, uscito postumo nel 1946, sia di altrettanto tenore «pratico-politico». E si può assegnare alla seguente affermazione spiritiana un valore che va oltre la mera opportunità di motivare la propria richiesta di trasferimento alla cattedra di filosofia morale: la mia attività scientifica e didattica è stata sempre rivolta ai problemi di filosofia della pratica (problemi pedagogici, giuridici, penalistici, economici, politici)129.

L’ultimo scorcio della lunga vita di Spirito proseguirà imperterrito sulla strada di una filosofia pratico-attiva, che pretende farsi storia o meglio: essere storia che parla a chi la sa ascoltare e auscultare. E l’ultimo decennio della parabola esistenziale spiritiana, dal 1968 al 1979, avrà di che fornire materiale perché storia e filosofia si cerchino, si compenetrino, si respingano reciprocamente insoddisfatte. Come sempre, Spirito vorrà essere dentro al suo tempo.

lo spirito della «contestazione» e l’ombra di guicciardini Un atteggiamento di indipendenza e originalità intellettuale Spirito terrà nei confronti del movimento studentesco e della contestazione esplosa nel 1968. Il filosofo, ormai settantenne, cerca di capire cosa stia succedendo e spera anche – forse – che un rovesciamento dell’ordine esistente si produca di lì a breve. Forse 129. Lettera di U. Spirito a G. Cardinali (preside della Facoltà di Lettere dell’Università di Roma), 23 settembre 1946 (cus 1894).

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non disdegnerebbe ritrovarsi fra i mentori spirituali di una autentica rivoluzione delle coscienze e della convivenza fra uomini e donne nell’Italia e nell’Occidente della fine anni Sessanta. Una rivoluzione scientifica che oltrepassi e superi, nei limiti e nelle contraddizioni, le ormai obsolete rivoluzioni politiche, secondo quanto già previsto/auspicato e messo nero su bianco pochi anni prima in un importante saggio del 1965130. Si noti il titolo di quello scritto: Dalle rivoluzioni politiche alla rivoluzione scientifica; come a dire: un passaggio non solo dal vecchio al nuovo, ma dal plurale al singolare, secondo un’impostazione mentale cruciale nel filosofo, per come intende esserlo Spirito, ovvero colui che riduce il molteplice all’uno, il difforme all’uniforme, l’opinione (doxa) alla verità (epistème), ossia alla scienza esatta e incontrovertibile. In un saggio, fino ad oggi inedito e riprodotto ora in Appendice, Spirito tratta della contestazione studentesca a ridosso della primavera del 1968, del momento cioè della definitiva esplosione di un fenomeno sociale e politico che non si sarebbe esaurito se non molti anni dopo. È il settembre successivo, e il filosofo tiene due lezioni a Venezia in occasione del decimo Corso di Alta Cultura organizzato dalla Fondazione Giorgio Cini. Il tema generale di quell’edizione è incentrato su «innovazione, tradizione e contestazione» e Spirito affronta il problema della «crisi dei valori tradizionali». Così si intitolano le pagine dattiloscritte dalla segreteria della Fondazione Cini, trascrizione della registrazione effettuata durante le due lezioni tenute dal filosofo all’isola di San Giorgio a Venezia. In questi interventi il filosofo del problematicismo scorgeva barlumi di nuova speranza e motivi perché si potessero accendere inediti entusiasmi che giustificassero rinnovati impegni nel mondo e per un mondo diverso. L’antico e mai del tutto sopito anelito utopico e rivoluzionario trovava per un attimo modo di abbozzare una scommessa sui giovani contestatori, per130. Cfr. u. spirito, Dalle rivoluzioni politiche alla rivoluzione scientifica (1965), ora in id., Il comunismo, cit., pp. 271-304.

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ché nella loro carica negativa dell’esistente potessero farsi portatori di un modus vivendi e di un modus operandi che fosse di radicale e totale superamento delle ideologie e delle strutture politiche di un passato che non passava. Come si legge nella trascrizione dei due interventi, Spirito riteneva che la politica, così come la morale e ogni altro aspetto della vita individuale e collettiva in Occidente, ma nel mondo tutto – vista la sua progressiva occidentalizzazione –, stessero attraversando una crisi che stentava a essere assunta e compresa nei suoi reali termini dalle classi dirigenti mondiali. I fenomeni trasformativi in atto si stavano muovendo sotto il segno della sprivatizzazione, della spersonalizzazione, dell’interconnessione sempre più profonda tra gli individui al di qua e al di là dei confini nazionali-statuali. In altre parole: la globalizzazione. Le scoperte scientifiche e le applicazioni tecnologiche continuavano (e continuano) a rivoluzionare incessantemente forme e strutture della vita sulla terra, sia dei singoli sia delle collettività. Ma la speranza, a distanza di pochi anni, era già svanita nel cuore di Spirito. In un’intervista rilasciata a metà anni Settanta al giornalista Federico Orlando, redattore del montanelliano «Giornale Nuovo», e pubblicata poi in un volume di interventi assai critici nei confronti della cultura partorita dal ’68, il filosofo non esitava a definire vuota la testa dei giovani, privi di idee e sempre più stanchi dopo anni di rivoluzioni annunciate e mai realizzate. Il mondo è in mano dei vecchi, sono i vecchi che dicono «Mettiamo i giovani nelle liste», non sono i giovani che, per dire, si fanno le liste: e ciò perché essi non hanno idee chiare sulla conquista del potere. Sperammo nella contestazione del 1968, ma oggi non c’è un giovane che annunci un nuovo programma. I gruppuscoli hanno i giovani ma non hanno le idee, e lo dimostrano i loro giornali. I miei migliori studenti di filosofia non mostrano altra fiducia che in un posto di lavoro sicuro. La conclusione è che non possiamo sperare131. 131. u. spirito, Non c’è più alcuna cultura, in f. orlando (a cura di), La cultura della resa, cit., p. 111.

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Ma anche qui sorge il dubbio che, al di là dell’indubbia lucidità nell’analisi del fallimento della «cultura della contestazione», ci fosse sempre il tarlo dell’ipersoggettivismo nello sguardo del filosofo. Confessava, infatti, un anno dopo, nel 1977: «Vengo da un remoto positivismo e credo ancora nei fatti. Attendo il futuro perché non so costruirlo con la mia fede. E non ho più alcuna intenzione di fondarlo come lo vorrei»132. Spirito si era dunque arreso, dopo aver inseguito il Novecento nella sua lunga scia di rivoluzioni? Difficile dirlo con certezza. Di indubbio vi era per lui la vittoria del neocapitalismo, oramai in fase di espansione mondiale e omogeneizzazione dell’intero pianeta. Se ancora nel 1961, di ritorno dalla Cina maoista, poteva scrivere quanto segue, adottando una forma ipotetica: Si può tuttavia affermare ragionevolmente che soltanto il comunismo cinese può far pensare a una svolta storica decisiva in senso antiborghese. Che se ciò non dovesse accadere, vorrebbe dire che la fase individualistica e borghese della civiltà è imprescindibile, anche là dove non si è realizzata nessuna rivoluzione illuministica e liberale. Nel qual caso il superamento di essa si potrebbe attendere unicamente da un processo di reazione interno alla stessa borghesia133.

nel 1977 l’ipotesi si era tradotta in realtà tanto granitica quanto amara: Se ci guardiamo intorno ci accorgiamo che oggi le filosofie sono in crisi dappertutto. Dopo le illusioni di questo secolo, il nostro occhio non può posarsi in alcun Paese del mondo nel quale appagare il suo bisogno di assoluto. Non c’è l’ideale al quale adeguarsi, non c’è il sistema che preluda all’avvenire. La fede di tutti vacilla e si spegne134.

132. id., Che cosa sarà il futuro, cit., p. 13. 133. id., Il comunismo cinese, in id., Il comunismo, cit., p. 263. 134. id., Che cosa sarà il futuro, cit., p. 41.

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Il 1968, con la sua ondata di contestazione globale dei giovani contro gli adulti, aveva per un secondo illuso il filosofo circa la possibilità di trasformare per via endogena la borghesia occidentale, innescando quell’auspicato «processo di reazione interno» alla classe dirigente di regimi e società dai valori oramai tramontati135. Una «rivoluzione culturale», in senso antropologico, nei costumi e nelle mentalità, poteva essere il primo passo in direzione di un nuovo umanesimo scientifico136. Nel 1968 Spirito confermava la radice ultima del suo essere intellettuale pubblico al servizio delle rivoluzioni del Novecento: l’antioccidentalismo. Un virus aveva infettato la civiltà europea e occidentale sin quasi dalle sue origini: l’individualismo. La democrazia ne era figlia legittima, ma portatrice sana dello stesso male137. Forte è il sospetto che la resa spiritiana fosse solo dovuta al progressivo venir meno, con l’avanzare dell’età, di quelle forze intellettuali e risorse emotive che gli avrebbero consentito di porsi ancora come mentore, ostetrico, o an135. Così, la lettera di un giovane studente romano, Stefano Cochetti, inviata a Spirito il 10 ottobre 1969: «Caro professore, ho letto il suo libro. Mi ricordo della nostra conversazione, della sua prima diagnosi sulla mia condizione culturale – giudicata conformistica – e dell’esortazione a liberarmi dai condizionamenti dei valori tramontati e del mio ambiente. […]» (cus 10668). 136. Cfr. u. spirito, Nuovo umanesimo, Armando, Roma 1973 (3ª ediz. ampliata). Il libro, originariamente pubblicato nel 1964, aveva avuto una seconda edizione riveduta e ampliata nel 1968. 137. «Dire individualismo significa dire ipostasi dell’individuo nella sua immediatezza naturale. L’uomo ha valore in quanto uomo, indipendentemente dalle sue capacità e dal contributo che porta alla vita sociale. È valore perché è realtà autonoma, fine a se stessa, in un mondo privato nel quale attua la propria volontà e il proprio programma. È valore in quanto è indipendente, non propriamente suddito, ma sovrano. E allora democrazia diventa sinonimo di sovranità dell’individuo. Tutti sovrani e, in quanto sovrani, tutti uguali: tutti dotati dello stesso potere di governo» (u. spirito, Ideali che tramontano e ideali che sorgono, cit., pp. 27-28; corsivo nel testo). La definizione che Spirito dà di individualismo è la stessa che legittima una teoria dei diritti umani. La differenza sta nel fatto che Spirito dà a quella concezione una valutazione di segno negativo, come qualcosa di restrittivo, corruttore e dissolvente il legame sociale. L’uomo ha per lui valore solo in base alle capacità e al contributo che porta alla vita sociale.

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che semplice commentatore, di una nuova rivoluzione antiborghese, anticapitalistica, antiliberale138. Ma la resa fu dovuta anche al diradarsi, con gli anni Settanta, di occasioni rivoluzionarie degne di tal nome. La tarda infatuazione per il progetto modernizzatore dello Scià di Persia sarebbe da valutare come una dimostrazione in tal senso139. Lo scritto sulla Rivoluzione dell’Iran è un testo estemporaneo redatto su commissione e una vera e propria apologia dello Scià e della sua opera. Costituisce l’ultimo grande abbaglio dell’utopista Spirito, un autentico travisamento ideologico di quanto stava maturando nella società iraniana. Nel 1978, an138. «Devo dire che la mia fede comunista fu accompagnata fin da principio dalla certezza di combattere il capitalismo» (u. spirito, Che cosa sarà il futuro, cit., p. 19). Al di là del fatto che volesse far passare per «comunista» anche la sua salda fede (e lunga fase) fascista, Spirito indicava con sincerità la scaturigine teorica ed emotiva della sua filosofia politica: l’anticapitalismo. Ancora una volta e fino all’ultimo verità e ipocrisia sono amalgamate nel discorso spiritiano. 139. Cfr. u. spirito, La rivoluzione dell’Iran, Dino Editore, Roma 1992. Questo testo, pubblicato postumo, è di fatto l’ultimo libro di Spirito, la cui stesura definitiva risale al 1978. Giuseppe Grieco ricorda come «di esso, a cura della “Dino Editore”, e col titolo The Philosophy of the Great Civilization, fece appena in tempo a uscire una versione inglese destinata a essere distribuita (un milione di copie) nelle scuole dell’Iran, dove era in atto, per volere dello Scià, un gigantesco processo di alfabetizzazione del popolo» (ivi, p. 7). Dopo poco meno di un anno scoppiò la rivoluzione khomeinista e il libro di Spirito fu bruciato pubblicamente sulle piazze, perché era stato scritto per dare un fondamento teorico alla politica di modernizzazione che lo Scià Mohammad Reza Pahlavi aveva intrapreso dal 1963. Tramite fra questi e il filosofo del corporativismo fascista era stato l’editore Salvatore Dino. Come scrive ancora Grieco: «L’impatto con Dino, in un certo senso, costrinse Ugo Spirito a riattivare tutti i circuiti del suo pensiero. A mano a mano che prendeva conoscenza del materiale che lo stesso Dino gli portava, si accendeva in lui una sorta di “innamoramento” per lo Scià e per la “Rivoluzione Bianca” a cui questi aveva dato inizio. La cosa che più intrigava il filosofo del “problematicismo” era il fatto, mai prima verificatosi nella Storia, di un monarca assoluto, di un dittatore che si “inventava” addirittura “rivoluzionario” per far compiere al suo popolo il trapasso […] dal “medioevo” del sottosviluppo sociale al benessere del più avanzato mondo moderno» (ivi, pp. 10-11). Cfr. anche l’edizione in lingua inglese: u. spirito, The Philosophy of the Great Civilization, Dino Editore, Roma 1979 (nel cui risvolto di copertina si legge, fra l’altro: «Ugo Spirito is this century’s greatest living European philosopher»).

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no in cui scoppiarono sommosse e manifestazioni anti Scià duramente represse dalla polizia, Spirito scriveva che in Persia «siamo in una nuova fase storica, che segna un salto essenziale di fronte al passato» e che, grazie alla rivoluzione voluta e condotta dallo Scià, «stiamo uscendo da un mondo per entrare in un altro totalmente diverso»140. Si trattava, insomma, di una rivoluzione modernizzatrice, in cui «civiltà antica e civiltà moderna, civiltà persiana e civiltà occidentale, non possono rimanere in una posizione dualistica e antitetica, avendo l’Iran, secondo lo Scià, tutti i presupposti e le condizioni per la loro unificazione»141. Di lì a pochi mesi, tra il gennaio e il febbraio del 1979, sarebbe, invece, scoppiata la rivoluzione khomeinista e una serie di imponenti manifestazioni di protesta, animate dall’integralismo dei mujaheddin e del clero sciita, invocanti il ritorno in patria dell’ayatollah Khomeini, avrebbe rovesciato il regime di Reza Palhavi e instaurato una repubblica islamica la cui costituzione si ispira(va) alla legge coranica, la sharia. In altre parole, nasceva una teocrazia. Già con i primi provvedimenti del nuovo governo islamico la struttura economico-produttiva dell’Iran venne radicalmente stravolta142. Detto ciò, però, dopo la contestazione studentesca fu cocente la delusione nei confronti delle nuove generazioni, di quella categoria di persone, i giovani, con cui Spirito aveva sempre instaurato un dialogo proficuo, specie nei termini del rapporto maestro-allievo, se non del mentore o talora, persino, del pigmalione, in ogni caso nelle vesti di colui che nutre di slanci ideali il giovane e ne assorbe a sua volta l’entusiasmo della verde età143. L’ultima generazione di giovani faceva dire 140. u. spirito, La rivoluzione dell’Iran, cit., p. 22. 141. Ivi, p. 31. 142. Cfr. f.s. sabahi, Storia dell’Iran, Mondadori, Milano 2003. Si veda anche r. khosrovi, g. leuzzi, L’Iran dopo la rivoluzione, Lerici, Cosenza 1979. 143. Nel 1977 la delusione nei confronti delle nuove generazioni è conclamata: «Le aspirazioni calano di tono e di idealità. Le grandi spinte spirituali si acquietano e si smorzano. Le nuove generazioni sono ormai distratte. Non hanno più i mae-

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al filosofo nel 1977 che «il secolo era cominciato molto bene, ma, per ora almeno, finisce male»144. Una vita come sogno della rivoluzione andava, dunque, consumando i suoi ultimi giorni ridotta a vita come ricerca senza speranza. O si segue la strada indicata dal filosofo, o si va per l’errata via. E se il filosofo deve proprio morire, che muoiano allora tutti i filistei. Questo il ragionamento più intimo che la parte essoterica dell’insegnamento spiritiano, dell’ultimo decennio almeno, indurrebbe ad attribuire alla coscienza del filosofo che pur si dichiara ormai «incosciente». Ma ci pare opportuno aggiungere qualche considerazione ulteriore. Anzitutto, proviamo ad avanzare un’ipotesi di interpretazione complessiva del personaggio Spirito, uomo e filosofo. Un interrogativo finisce, infatti, per assillare inevitabilmente chi abbia a lungo frequentato – pur solo come studioso e aspirante esegeta – la vita e l’opera spiritiane: chi è Ugo Spirito? È senz’altro una domanda ineludibile a proposito di un pensatore in cui vita e opera sono volutamente allacciate sin da subito e strette assieme, anno dopo anno, sempre più fino a che filosofia e autobiografia non finiscono per coincidere. L’impressione di chi scrive è che tanto del personaggio Ugo Spirito, sia sul piano psicologico e caratteriale sia su quello speculativo, possa essere contenuto nell’ampio e acuto profilo di Francesco Guicciardini che il filosofo ritrasse nei primi anni ’40, affiancando a Machiavelli colui che considerava il più originale e coerente «scolaro e critico» del Segretario fiorentino145. Fortissima l’impressione che, scrivendo di Guicciardini, Spirito scrivesse di sé, anche «incoscientemente», se si vuole. Alla luce di quanto abbiamo evidenziato della personalità spiritiastri di una volta, ma non hanno neppure la capacità e la volontà di fare da loro» (u. spirito, Il Duemila è ancora lontano, cit., p. 16; corsivo nel testo); «I giovani sono assenti e non sanno farsi avanti. È una gioventù “fermata”, senza capacità di autoaffermazione» (id., Il «sessantotto», in «Roma», 11 maggio 1977). 144. id., Il Duemila è ancora lontano, cit., p. 16. 145. Cfr. id., Machiavelli e Guicciardini, cit., pp. 85 e ss.

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na, alcuni brani del ritratto spiritiano di Guicciardini ci paiono illuminanti e rivelatori altresì dell’identità del ritrattista. Abbiamo detto del suo forte egocentrismo, di un fiero individualismo praticato a fronte di un forte «comunitarismo» teoreticamente invocato, di un radicato agnosticismo che lo rendeva un laico in cerca di assoluto e, come tale, sempre rispettoso, curioso e dialogante con uomini di fede – anche se spesso per dimostrare socraticamente contraddizioni e incongruenze dell’interlocutore di turno –; abbiamo, infine, detto della ricerca ricorrente di una risoluzione sempre e comunque pratico-politica delle antinomie che increspavano la realtà, tanto della società quanto della sua anima. Di Guicciardini, nel 1944 – a fascismo definitivamente crollato e svanito come concreto esperimento politico-istituzionale – Spirito scriveva, e la citazione deve essere necessariamente estesa: Fallito il calcolo politico, Guicciardini tenta così di ritirarsi nella propria coscienza innocente e senza errore, tornando al concetto di una virtù etica che non coincide più con la virtù politica. […] L’individualismo empirico è abbandonato e si riafferma la necessità di un valore assoluto di carattere religioso e filosofico. […] Che poi il Guicciardini non sentisse con tutta la forza di una fede religiosa o filosofica la conclusione da lui propugnata e che continuasse a essere disposto a dimenticarla non appena l’orizzonte della vita fosse tornato meno oscuro, significa che quella conclusione vuole soltanto indicare un’esigenza spirituale alla quale non è dato venir meno146.

E conclude così il capitolo quinto, dedicato a L’individualismo di Guicciardini, allargando il discorso oltre l’analisi biografica e sconfinando in qualcosa che sa anche un po’ di autobiografia: Per salvare davvero il valore della nostra persona c’è una sola medicina ed è quella, sia pure troppo potente, dell’assoluto. Essa tuttavia non ha la possibilità di valere sul serio per Guicciardini, né per chiunque altro 146. Ivi, p. 134. Corsivi nel testo.

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si senta nella stessa posizione speculativa radicalmente problematica: per guarire, infatti, non basta il bisogno della medicina, ma occorre conoscerla e possederla. Guicciardini, e con lui il pensiero critico moderno, ha percorso la strada dell’immanentismo fino a riaffermare l’esigenza della trascendenza, ma rifiutandosi di ricadere nelle forme dogmatiche che presumono di poterla soddisfare. In tal senso, egli può considerarsi ancor oggi un contemporaneo147.

«Problematico» Guicciardini, «problematicista» Spirito in misura crescente dopo il 1937; frenato nella propria deriva iperscettica solo dall’éngagement fascista sollecitato dal Bottai ministro dell’Educazione Nazionale. Rispetto a Bottai, però, Spirito mostrava negli anni Venti e Trenta di essere assai meno dotato di uno «spirito politico», meno anche del maestro Gentile. È questa un’acuta osservazione di Antonio Gramsci, che individua il «torto scientifico» di Spirito nel fatto di «non esaminare in concreto» i problemi cruciali di cui pur intuiva la natura e le prospettive, come ad esempio la necessità di superare il sindacalismo se si voleva davvero rimuovere dalle istituzioni politiche pubbliche ogni residuo di classismo e di individualismo proprietario148. Il limite di Spirito consisteva, però, sempre secondo Gramsci, nel «presentare le quistioni [sic] nel loro aspetto formale e apodittico, senza le necessarie distinzioni e le indispensabili fasi di transizione»149 e ciò spiegava il contrasto con personaggi come Edmondo Rossoni, segretario del147. Ivi, p. 135. Corsivi nel testo. 148. a. gramsci, Quaderni del carcere, cit., vol. iii, Quaderno 15, § 39, pp. 1796-1797. Gramsci giudicava altresì «la costruzione» filosofica di Spirito «una non molto brillante e feconda utopia libresca», non priva, però, di qualche felice intuizione (ivi, p. 1796). Inoltre, considerava il filosofo fascista uno dei pochi corporativisti dotati di «nuova mentalità», e almeno in questo poteva essere accomunato a Bottai, su cui Gramsci pronuncia giudizi meno liquidatori (ivi, p. 1794). Sull’interpretazione gramsciana del corporativismo spiritiano ha richiamato l’attenzione in tempi più recenti Antimo Negri nel suo Discorso sopra lo stato presente degli italiani, Spirali, Milano 2000, pp. 70 e ss. 149. a. gramsci, Quaderni del carcere, cit., vol. iii, Quaderno 15, § 39, p. 1797.

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la Confederazione dei sindacati fascisti tra il 1922 e il 1928, o lo stesso Bottai. In definitiva, il filosofo neoattualista intendeva parlare e insegnare a proposito di ciò che non conosceva affatto dal momento che non si era mai concretamente interessato delle «quistioni [sic] di fabbrica e di azienda»150. Questa la liquidatoria sentenza gramsciana. Resta il fatto che il modo in cui Spirito recupera la figura e l’opera di Guicciardini segnala forse il punto di rottura con il magistero gentiliano, per cui l’eredità attualistica resterà nel secondo dopoguerra intaccata proprio dalle conseguenze insite in questa diversa interpretazione dello «scolaro e critico» di Machiavelli. Gentile aveva, in sostanza, adottato una lettura desanctisiana di Guicciardini, di cui veniva ripresa e stigmatizzata la descrizione di un’Italia – all’epoca dilaniata dalle contese fra i grandi Stati europei – popolata di individui meschini tesi solo a coltivare e difendere il proprio «particulare». In altre parole, l’italiano medio aveva assunto in troppi secoli di servaggio allo straniero le sembianze dell’«uomo del Guicciardini», gretto, individualista, egoista e materialista, senza ideali e pronto a ogni compromesso e umiliazione di sé e, soprattutto, delle pubbliche istituzioni e del «bene comune» pur di conservare la propria vita151. Francesco De Sanctis aveva operato questa sua lettura in un saggio appunto intitolato L’uomo del Guicciardini, pubblicato nel 1869 e finalizzato a sostenere quel processo di nation building sotteso al programma postunitario di «fare gli italiani», 150. Così Gramsci: «Finora lo Spirito non si è mai interessato delle quistioni di fabbrica e di azienda: eppure non è possibile parlare con competenza dei sindacati e dei problemi che essi rappresentano, senza occuparsi della fabbrica o dell’azienda amministrativa, delle sue esigenze tecniche, dei rapporti reali che vi si annodano e dei diversi atteggiamenti vitali che gli addetti vi assumono. Per l’assenza di questi interessi vivi, tutta la costruzione dello Spirito è puramente intellettualistica e, se attuata, darebbe luogo solamente a schemi burocratici senza impulso e senza possibilità di sviluppo» (ivi, p. 1798. Il corsivo è nostro). 151. Per queste riflessioni siamo debitori dell’analisi svolta da a. negri, Discorso sopra lo stato presente degli italiani, cit., pp. 36 e ss.

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una volta conseguita la definitiva unificazione politico-territoriale (lo State Building). Dalla lezione desanctisiana era nata in Gentile la convinzione che occorresse continuare un’opera pedagogico-politica rimasta nel secondo decennio del Novecento ancora incompiuta. La Grande guerra pareva aver costituito un’occasione grandiosa per riprendere e completare l’opera di distruzione di quell’«uomo del Guicciardini» annidato tra le pieghe dell’antropologia italica. Sempre da De Sanctis Gentile riprendeva in quegli anni postbellici l’idea che un recupero critico dell’opera e del pensiero di Mazzini fosse necessario per portare a compimento il Risorgimento. Il peculiare liberalismo gentiliano maturava proprio dall’intento di combinare Cavour, Mazzini e Gioberti, e connotandosi – in virtù di questi innesti – come antimaterialista e antindividualista152. Ma se il corporativismo di Spirito risulta sostanzialmente conforme a questo programma del neorisorgimentalismo gentiliano, e l’uccisione dell’«uomo del Guicciardini» l’obiettivo che si ritiene il fascismo si sia assegnato, o che gli si possa facilmente assegnare, va detto che i primi vagiti del problematicismo, dopo il 1937, conducono l’allievo di Gentile a prediligere un’analisi approfondita del «Guicciardini uomo». È, dunque, in questo passaggio da una sostanziale svalutazione dell’opera di Guicciardini a una sua più attenta e simpatetica rilettura che potremmo anche rinvenire sotto traccia ele152. «Ora, il vangelo mazziniano sopravvive alla meraviglia del Risorgimento, poiché è la fede dell’Italia che ne è sorta; di quella giovane Italia che il Mazzini evocò. È il vangelo fascista, è la fede della gioventù del 1919, del ’22, d’oggi: della gioventù ideale di quest’Italia, che è fatta e dev’essere ancora fatta; […]. Sono pochi gli articoli di questa fede; […]. Il primo articolo era ed è: combattere il materialismo. […] Era infatti la prima radice di tutte le debolezze e magagne di cui si dovevano liberare gl’italiani per sentire veramente la patria e fare quindi un’Italia. […] per il materialista non c’è altro che l’individuo particolare, co’ suoi istinti, col suo attaccamento alla sua vita particolare, come a bene supremo e assoluto, […] il particolare, di cui parlava il vecchio Guicciardini, l’uomo “savio” del Rinascimento, l’italiano vecchio stampo» (g. gentile, Che cosa è il fascismo, conferenza tenuta a Firenze, nel Salone dei Cinquecento, l’8 marzo 1925, ora in id., Che cosa è il fascismo, Vallecchi, Firenze 1925, pp. 23-24).

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menti sparsi della transizione di Spirito dal «suo» fascismo al «suo» postfascismo. Che non sarà mai antifascismo, beninteso, ma che non sarà neanche un superamento sul piano politico-ideologico dell’esperienza culturale compiuta nel ventennio mussoliniano. Lo testimonieranno, fra l’altro, il tipo di atteggiamento assunto nei confronti dei comunismi russo e cinese e la ripubblicazione nel 1970, in un unico corposo volume, dei principali scritti sul corporativismo, in una versione tesa a conferire ulteriore omogeneità e sistematicità nonché precocità alle proprie idee in materia153. È come se Spirito si rendesse conto in pieno conflitto mondiale di non poter del tutto assecondare il fascismo, specie quello gentiliano ma anche bottaiano, che mira a sradicare l’homo oeconomicus – versione ultima e più «scientifica» dell’uomo guicciardiniano – che alberga in ogni italiano. Una parte di sé lo desidererebbe ardentemente, e continuerà a desiderarlo a corrente alternata anche in seguito, come confermano le infatuazioni sovietiche e maoiste ma anche le speranze inizialmente riposte nella «rivoluzione culturale» sessantottina e il sostegno esplicito alla «Rivoluzione Bianca» dello Scià Reza Pahlavi. Potrebbe, dunque, esser questa un’altra ipotesi suggestiva per spiegare l’abbandono della parte più «politica» dell’eredità gentiliana, cioè della fedeltà, condotta fino all’atto estremo, nei confronti di Mussolini; un’ipotesi che non sia quella della crisi teoretica – avvallata dallo stesso Spirito in più occasioni nel dopoguerra – né quella dell’opportunistico defilarsi, smentita, fra l’altro, dal grande impegno postbellico nel sottrarre Gentile alla damnatio memoriae a cui la cultura dell’Italia repubblicana avrebbe inteso consegnarlo. Oltre a ciò, le pagine redatte nel 1944 acquistano ai nostri occhi il sapore di un bilancio che, partendo dalla Consolatoria di Guicciardini, in un comune sentire con lo scrittore cinquecentesco per un’altrettanto comune condizione di fallimento ed «esilio» politico, Spirito compie sul suo primo cinquanten153. Cfr. g. santomassimo, La terza via fascista. Il mito del corporativismo, Carocci, Roma 2006, pp. 59 e 259, nota 19.

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nio di vita. Ma non manca, nel far ciò, di anticipare non pochi dei connotati, psicologici e teoretici, che animeranno i suoi successivi trentacinque anni di vita, di uomo e di studioso, snodatisi lungo gli eventi, le speranze e le delusioni che avrebbero caratterizzato la seconda metà del Novecento, confermatosi «secolo di rivoluzioni». Vi è nel Guicciardini spiritiano la stessa oscillazione fra l’io narcisistico e l’assoluto come «totalmente altro» in cui annullare se stessi e ogni altra singolare individualità, l’idea di una crisi che investe le certezze dell’io solo e soltanto quando la scommessa di sé nel mondo, l’investimento del proprio io dentro al flusso della realtà storicamente determinata non produce i frutti sperati, non si traduce, infine, in qualcosa di molto simile all’indiarsi. Per non parlare del comune crescente ricorso allo strumento dell’introspezione in genere, e della scrittura autobiografica in particolare, per affrontare e tentare di sciogliere i nodi più stretti e soffocanti delle proprie ricorrenti fasi di crisi ideale, sovente coincidenti con momenti di fallimento della propria «figura pubblica». Scrive Spirito nell’estate del 1978, in quel manoscritto che sarebbe poi uscito postumo undici anni dopo col titolo Ho trovato Dio: Ho sempre creduto e ho sempre avuto la fede necessaria per continuare a percorrere una strada faticosa e impervia. Ho sempre pensato che la vita acquista significato dalla sua capacità di assolutezza. Ho sempre creduto nella libertà e anzi nella mia libertà. La mia è stata, perciò, la manifestazione massima di un immanentismo assoluto, nel quale il divino e l’umano si sono congiunti in un’unica realtà. Tutto questo chiarisce il mio pensiero, le sue conquiste, le sue certezze e le sue debolezze154.

Scriveva oltre trent’anni prima, al termine della seconda conflagrazione bellica mondiale: Guicciardini è soltanto scienziato, freddo intellettualista, e tuttavia anch’egli artista che crea i suoi fantasmi. La sua arte si chiama autobiogra154. u. spirito, Ho trovato Dio, cit., p. 33. I corsivi sono nostri.

268 fia e ciò ch’egli sogna è un divino se stesso. Attraverso l’autobiografia, la storia diventa lirica ed egli guarda a se stesso come alla sua opera d’arte. […] Guicciardini si obiettiva a se stesso, si assolutizza e cerca la liberazione nella diagnosi di se stesso. Si rivela in lui il bisogno catartico della lirica, dell’arte che libera facendo trascendere l’empirico. […] È l’individuo che, dopo aver sognato di ridurre il mondo a sé, si esprime nell’insoddisfatto desiderio dell’assoluto. Il culmine e la crisi dell’individualismo moderno sono già raggiunti155.

Se la modernità segna il tempo in cui si consumano sia il culmine che la crisi dell’individualismo, Ugo Spirito è il filosofo moderno. Se il Novecento è il secolo in cui la crisi e il culmine dell’individualismo moderno sono stati raggiunti tra una prima metà dominata brutalmente dai totalitarismi e una seconda metà conquistata pacificamente dal «neocapitalismo», welfarista e poi liberista, Ugo Spirito è senz’altro il filosofo del Novecento.

155. id., Machiavelli e Guicciardini, cit., p. 147.

appendici

i.

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Dopo tre anni di lotta per l’Italia e quasi quattro dall’origine del conflitto mondiale, si fa sempre più profondo il bisogno di riproporsi il problema di questa guerra e delle sue più remote finalità. Ché, infatti, l’attuale conflitto si differenzia da ogni [sic]che la storia ricorda non soltanto per l’estensione a tutto il globo terraqueo, ma anche, e soprattutto, per due nuovi fattori politici e ideologici che ne segnano la caratteristica fondamentale: il rapporto tra occidente e oriente e quello tra democrazia, bolscevismo e fascismo. Quando il conflitto scoppiò, nell’estate del 1939, ci si poteva illudere ch’esso sarebbe rimasto nei limiti di una guerra europea, per la supremazia dell’Inghilterra o della Germania; e si poteva guardare a esso da questo ristretto punto di vista, schierandosi dall’una o dall’altra parte. Vero è che fin da allora i presupposti ideologici dei contendenti valevano a dare una particolare fisionomia alla guerra, inducendo a proclamare il contrasto dei regimi politici come il motivo determinante di essa, ma si poteva tuttavia continuare a pensare che, dietro l’apparente veste ideologica, il problema fosse rimasto essenzialmente nei termini del 1914. Ora non più: ora questo problema, se anche continua a sussistere in quei termini, è affatto trasvalutato dai più grandi problemi tra i quali si è trovato inserito e sol-

*. mus, b. 22, fasc. 6. Il dattiloscritto è senza titolo. Abbiamo perciò riportato a mo’ di titolo le prime parole con cui inizia il testo, che viene qui riprodotto nella sua versione dattiloscritta originale con un minimo di intervento sulla punteggiatura là dove strettamente necessario. Sono state rese in corsivo alcune parole che nel dattiloscritto originale compaiono sottolineate. Si è, invece, mantenuta una divisione in paragrafi, anch’essi senza titolo, ma indicata da spazio e segni grafici. Sulla possibile genesi di queste pagine, databili intorno alla tarda primavera del 1943 e mai pubblicate da Spirito, vedi infra, cap. 1.

272 lecita un nuovo e più profondo esame. Il 1941 ha segnato una svolta decisiva nella storia di questo conflitto e ancora si stenta ad avere coscienza della trasformazione radicale di tutte le premesse e di tutte le finalità. Ma, via via che la coscienza della trasformazione si afferma, ci si accorge del pericolo segnato dalla forza d’inerzia che induce a continuare nella via intrapresa, senza avere la sufficiente elasticità mentale per adeguarsi alla nuova situazione e per comprenderne il nuovo significato. E in contrasto tra il vecchio e il nuovo, tra le finalità di partenza e quelle attuali, tra i conflitti parziali e il sistema di essi, ha ormai assunto tali proporzioni da poter apparire il conflitto come un gigantesco evento che trascina i popoli al di là di ogni previsione e di ogni effettiva consapevolezza. Ora, è in questo profondo sentimento del significato del conflitto mondiale che gli uomini di cultura italiani sentono il bisogno di concentrare tutta la loro attenzione, con la spregiudicatezza e la serenità necessarie per capire di più e meglio lottare. Ed è anche chiaro come essi, a causa del ben più ampio punto di vista dal quale vogliono porsi, non possono non augurarsi un atteggiamento simile da parte degli uomini di cultura di tutto il mondo, con la speranza di eguale spregiudicatezza e serenità. § Dei due nuovi fattori che sono stati indicati come caratteristici del conflitto e cioè il rapporto tra occidente e oriente e quello tra democrazia, bolscevismo e fascismo, la prima revisione che occorre fare per facilitare l’ulteriore cammino riguarda proprio il fascismo e cioè l’ideologia politica in nome della quale si son prese le armi. Oggi il fascismo, dopo più di venti anni di vita, si trova ancora di fronte al bolscevismo, ma si trova inoltre e più direttamente impegnato contro la democrazia. Vorremmo dire tra oriente e occidente. Ed è proprio questa situazione di fatto nel conflitto che vale a chiarire l’intima natura del fascismo e della rivoluzione politica e sociale ch’esso rappresenta. Il fascismo ha avuto sempre questo volto bifronte e tutta la sua storia si comprende davvero solo quando si approfondisca la duplice esigenza informatrice e il conseguente bisogno di sintesi. Nella sua

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storia, il fascismo, sorto dalla lotta contro il disordine, fu sostenuto dalla borghesia e apparve movimento di reazione borghese. E da questo punto di vista è stato giudicato e continua a essere giudicato da tanti, non senza fondamento di realtà. Ma il movimento assunse ben presto una diversa fisionomia e, se di reazione si volle continuare a parlare, bisognò pure riconoscere l’affermarsi di una tecnica di governo, la cui caratteristica fondamentale è il così detto totalitarismo. Cominciò, in altri termini, un processo di statalizzazione, che a poco a poco ha investito tutta la vita politica e sociale, preparando l’inevitabile processo di unificazione delle classi sociali. Sì che, a poco a poco, se si è voluto continuare nell’opposizione contro il fascismo e contro il corporativismo, l’opposizione stessa si è venuta scindendo in due estremi significativi. Da una parte, infatti, è continuata l’accusa di borghesia e di capitalismo, e nella fine della lotta di classe si è visto il raffrenamento del proletariato; da un’altra parte, invece, è esploso il vecchio liberalismo borghese denunciando lo statalismo del fascismo e riconoscendo in esso un’affinità sostanziale con il bolscevismo. Significativi estremi che inducono ormai, ogni volta che ci si trovi di fronte a un antifascista, a chiedere un’ulteriore precisazione: liberale o comunista? Volete dunque voi, antifascisti, un regime politico in cui si smonti la macchina statale, che ha disciplinato tutta la vita economica, e ha disciplinato tutta la vita politica gerarchizzandola? Volete la fine del gerarchismo e della sua suprema espressione nel gerarca massimo, per riportare la lotta politica sul piano dell’egualitarismo economico? O volete, invece, la fine di ogni residuo borghese, uno statalismo di ferro atto a frantumare ogni ulteriore velleità del privato, la subordinazione assoluta dell’individuo all’organismo politico, la dittatura a oltranza e la minaccia continua dell’esecuzione capitale? Liberali o comunisti? Ma alla domanda gli antifascisti rispondono ponendosi a destra e a sinistra, e dimostrando per ciò stesso, con palmare evidenza, che il problema politico dell’oggi è appunto quello del rapporto tra liberalismo e comunismo, vale a dire quello di cui il fascismo rappresenta il primo tentativo di soluzione. Eguale destino ha avuto il fascismo nella sua storia esterna. Da una parte, le democrazie, scandalizzate dall’autoritarismo, dalla fine dalla libertà, dallo statalismo, dell’autarchia; dall’altra, il bolscevismo che nel

274 fascismo ha ravvisato un regime borghese e capitalistico, anzi il più borghese e il più capitalistico di tutti i regimi. E, come all’interno liberali e comunisti hanno di comune soltanto l’antifascismo, così all’esterno democrazia e bolscevismo si sono trovati insieme soltanto in funzione di antifascismo. Ma, se sul piano interno e su quello internazionale il fascismo fosse abbattuto, quale sarebbe il domani? La risposta a questa domanda comincia ormai a diventare evidente, perché alla fine del fascismo non potrebbe succedere che il rinnovato scontro di liberalismo e comunismo, e quindi un nuovo fatale fascismo. § Questa la ragione per cui i tempi sono parsi maturi a una revisione del problema del fascismo. La necessità del suo avvento è già sentita nel piano mondiale e il processo della guerra accelera il movimento della conversione ideologica e politica. La stessa alleanza delle democrazie e del bolscevismo conduce fatalmente al ravvicinamento dei due estremi in una qualche forma di fascismo. Ecco l’autoritarismo e la dittatura affermarsi sempre più in Inghilterra e in America, ecco la macchina statale stringere progressivamente l’iniziativa privata, ecco il problema sociale imporsi e i vari piani Beveridge echeggiare i motivi della legislazione fascista. E, insieme a questa trasformazione, il bisogno di attribuire ai Russi un’evoluzione in senso opposto, verso una maggiore libertà e verso un ritorno a esigenze individuali, finora compresse o soffocate. Ancora contro il fascismo, dunque, ma assumendone sempre più il problema e avvicinandosi alle sue soluzioni. Ancora contro il fascismo, ma, nonostante tutto, per il fascismo. Il fascismo ha già vinto la guerra perché ha vinto sul piano rivoluzionario. Gli è che il fascismo, prima di ogni altra ideologia politica, ha compreso che il problema veramente rivoluzionario era quello della sintesi di liberalismo e socialismo, e che vano è ormai ogni altro tentativo politico che voglia affermarsi trascurando uno dei due bisogni essenziali dell’attuale vita politica: il riconoscimento della personalità dell’individuo e un’effettiva soluzione del problema sociale. Democrazie e bolscevismo hanno finora compreso uno solo dei due bisogni e non ne hanno perciò compreso sul serio nessuno.

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§ Ma se principio informatore del fascismo è già divenuto esigenza più o meno consapevole di ogni altro regime politico, sì da consentire la facile previsione del suo prossimo generalizzarsi, un’obiezione fondamentale però può ancora muoversi contro di esso, ed è quella che concerne il modo col quale il principio è stato tradotto nella realtà. Allora non si nega più l’esigenza del fascismo espresso, ma si continua a negare che il fascismo abbia saputo assolvere il compito propostosi e si insiste nella necessità di perseguire lo stesso intento per altra via, e in maniera ben altrimenti efficace. Allora nel fascismo si vede non la sintesi ma il misconoscimento di liberalismo e socialismo, un ibrido connubio, cioè, in cui sono mortificate le esigenze dell’uno e dell’altro ideale, senza alcun risultato di carattere positivo. E allora, a suggerire qua e là la ricetta di una più vera e comprensiva sintesi, in cui si salvi il meglio dei due regimi opposti e se ne rinneghino i difetti e i limiti. Non più fascismo, dunque, né corporativismo, ma un altro nome qualunque, che sia esso a designare quel principio politico e sociale che il fascismo non ha saputo attuare. Ora, a nessun fascista sincero può venire in mente di negare un qualche fondamento a questa obiezione, e anzi l’obiezione stessa è nata e continua a nascere prima che in altri proprio nei fascisti più consapevoli. Essa costituisce, infatti, per quel tanto che è giustificata, l’interna forza di propulsione del movimento rivoluzionario, lo stimolo per la continua revisione di se stesso, l’insoddisfazione feconda di miglioramenti anche radicali. Il fascismo non è che all’inizio del suo cammino e ben altri passi dovrà compiere prima che il suo ideale possa dirsi purificato dalle scorie che continuamente lo compromettono. E il fascismo perciò rivendica a se stesso il diritto e il dovere di farsi lui questa obiezione fondamentale, e di poggiare su di essa le speranze e la volontà dell’avvenire. Il fascismo conosce le sue colpe, le sue insufficienze, i pericoli che incombono su di esso, la distanza che ancora lo separa dal fine proposto; conosce gli speculatori di destra e di sinistra, gli approfittatori, le forze che ne rendono faticoso o ambiguo il cammino; conosce soprattutto la resistenza attiva e passiva, interna e esterna, che continuamente lo intorbida, lo altera, lo sfibra, lo mortifica. Tutto questo

276 conosce e si confessa il fascismo, ma appunto per questo nega con tutte le sue forze che l’obiezione possa essere pronunciata da altri che fascisti non siano. Perché il fascismo non è un’astratta ideologia, che possa giudicarsi sul piano delle astrazioni, non è un’utopia, che possa aspirare alla perfezione di una logica formale, ma è un movimento politico che si inserisce e opera in una determinata realtà storica e non può prescindere da essa. Sicché autorizzati all’obiezione potrebbero essere soltanto i partecipi di un altro movimento politico che avesse saputo tradurre nella realtà lo stesso principio ideale evitando gli inconvenienti, gli errori e le deviazioni del fascismo. È troppo facile stabilire in una carta o nella formulazione di alcuni punti un ideale politico proiettato nel futuro, di cui si rinvia al dopoguerra il concreto inizio. Troppo facile contrapporre a una difficile prassi una superiorità soltanto tecnica. A una siffatta pretesa il fascismo risponde denunciando gli attuali catoni come i veri responsabili degli aspetti negativi del fascismo. E non soltanto, si comprenda bene, i catoni interni che, rifugiandosi nel passato, hanno creduto di poter straniarsi dal fascismo, depauperandolo della propria esperienza e contribuendo direttamente o indirettamente alle sue deviazioni; ma anche, e soprattutto, i catoni esterni che con la loro ventennale incomprensione hanno costretto il fascismo a irrigidimenti e reazioni di cui ora si pagano le conseguenze. Sono state le forze reazionarie di dentro e di fuori che nell’asprezza della polemica, nel sordo ostruzionismo, nell’alterazione più o meno cosciente dei fatti, hanno giorno per giorno attentato alla vita del fascismo e hanno cercato di logorarlo intellettualmente e moralmente. Ma ora costoro invano rivendicano il diritto di contrapporre al fascismo un altro ipotetico regime del futuro, che del fascismo abbia la stessa ragion d’essere pur non avendone le imperfezioni. Essi non possono contrapporre realtà a realtà e non possono quindi garantire la bontà di un futuro di cui si sono mostrati radicalmente incapaci per il passato. § Quando dalla parola i nostri censori vorranno passare ai fatti, si accorgeranno che la purezza dei loro ideali dovrà intorbidarsi alla stessa maniera e per le stesse ragioni che caratterizzano il cammino del fascismo.

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Sicché alla facile previsione di un estendersi del fascismo nel dopoguerra possiamo aggiungere l’altrettanto facile previsione di un fascismo con la negatività del nostro e anche addirittura peggiore del nostro. E peggiore, si comprende, proprio perché venuto in ritardo e cioè là dove le forze reazionarie sono più potenti e più radicate che non da noi e dove gli ostacoli e le deviazioni saranno più gravi. Peggiore, soprattutto, perché più grave che non da noi è il fenomeno del capitalismo e perché più grave sarà lo scontro tra borghesia e proletariato dopo un altro ventennio di maturazione politica delle masse. Ma maggior negatività del fascismo straniero di fronte a quello italiano riguarderà naturalmente il principio fondamentale di ogni vita politica: il principio della libertà. Ora, è proprio in rapporto all’idea di libertà che il fascismo viene più frequentemente osteggiato ed è proprio guardando a essa che si auspica un regime politico che vada oltre il fascismo. Sennonché, anche sotto questo riguardo, il fascismo non può accettare la lezione che si pretende di impartirgli contrapponendogli la difesa di alcune libertà fondamentali o di alcuni diritti di libertà. Non può accettarla perché essa proviene da chi ha dato prova di non saper comprendere tempestivamente il più grande dei diritti di libertà: il diritto al lavoro. E questo semplice diritto vale a porre in termini essenzialmente nuovi il problema della libertà, che i non fascisti si illudono di poter conservare nei termini tradizionali, sia pure con qualche aggiunta e qualche concessione al proletariato. La borghesia deve ormai comprendere il significato della rivoluzione sociale e politica in atto e deve riconoscere che unificare le classi significa unificare le libertà delle classi. Ma, fino a quando essa insisterà a non prendere atto della libertà cui tende il proletariato, non avrà la possibilità di comprendere la differenza che corre tra libertà e privilegio, tra diritto e arbitrio. Due classi vogliono dire due gradi di libertà e cioè propriamente privilegio e schiavitù: voler difendere oggi la libertà mantenendo la distinzione delle classi sociali significa soltanto retorica e malafede. Ma come si unificano le classi e i loro diritti di libertà? Evidentemente, se si tratta di due gradi distinti quantitativamente e qualitativamente, occorre una rinunzia e una trasformazione più o meno grande di una classe a favore dell’altra. La classe borghese, cioè, deve perdere

278 quel tanto della sua libertà che costituisce il suo privilegio e deve attendersi un mutamento della vita in funzione dei bisogni di massa. Se di questa necessità riesce a convincersi, collabora all’unificazione col minimo sacrificio possibile, se, invece, non riesce, non può non piagnucolare impotente sulle libertà conculcate e non rendere più grave e più distruttivo il periodo di transizione. Ora, tutte le proteste che all’interno e all’estero si levano contro l’offesa alla libertà segnata dal fascismo sono fondamentalmente dovute all’incomprensione del suo significato, e, quanto più grande è l’incomprensione, tanto più forte diventa il bisogno rivoluzionario di reagire e di accentuare il contrasto. Ne viene di conseguenza che lo sforzo del fascismo di unificare le classi è costretto a svolgersi sempre più nel senso di sacrificare i valori tradizionali alla necessità delle nuove esigenze. È di questa necessità storica che il liberalismo deve convincersi di fronte al fascismo. Andare incontro alla libertà delle masse non significa, come crede o finge di credere il vecchio liberale, concedere alle masse i diritti di libertà della borghesia, bensì concedere, in via preliminare e come presupposto di ogni altra libertà, il diritto al lavoro e la parità delle posizioni iniziali per la lotta della vita. Il quale presupposto implica tutta un’altra serie di presupposti che si chiamano economia programmatica, indipendenza economica della nazione, vincoli dell’iniziativa privata, trasformazione del diritto di proprietà e, sul piano internazionale, redistribuzione delle ricchezze del mondo. Se di fronte a queste necessità la borghesia nazionale e internazionale dà prova di intelligenza e di collaborazione, il processo rivoluzionario può compiersi con relativa tranquillità; se, al contrario, la borghesia reagisce irrigidendosi nella propria posizione di privilegio, diviene fatale l’urto, la violenza, la mediazione autoritaria dell’arbitro. Così è nato l’autoritarismo fascista, e, se di esso volesse indicarsi il vero responsabile, non si potrebbe che individuarlo nella mentalità anacronistica del liberale. Ma l’autoritarismo, poi, ha anche un’altra funzione tecnica transitoriamente insostituibile. Per comprenderla, basta guardare alle necessità del tempo di guerra, della così detta bardatura bellica. Allora tutti avvertono il bisogno dei pieni poteri, la mano forte che unifichi gli sforzi per il raggiungimento del fine comune, allora nessuno sente di dover protestare contro le limitazioni imposte dall’organismo statale. Ebbe-

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ne, una rivoluzione ha le stesse esigenze di una guerra e non può compiersi sul serio senza un’eccezionale forma di disciplina. Il nuovo regime politico non può sorgere d’un tratto, immediatamente adagiandosi nella forma di un’ordinaria amministrazione. Esso ha bisogno di un centro unificatore che caratterizzi il periodo di transizione, durante il quale la scienza e la vita andranno costruendo i nuovi istituti politici atti a rendere organica quell’unificazione delle classi, che non può materialmente e spiritualmente instaurarsi senza un adeguato processo di maturazione. Ecco perché l’autoritarismo ha caratterizzato, sia pure in forme diverse per la diversità delle singole condizioni storiche, tutti i nuovi regimi rivoluzionari, dal bolscevismo al fascismo, al nazismo, al falangismo, dai paesi grandi a quelli minori, fino alla Turchia, alla Romania, al Portogallo. Ma ecco soprattutto perché l’autoritarismo è alle porte, e più che alle porte, delle grandi democrazie che fino a ieri irridevano alle forme politiche del fascismo. Il problema sociale non può più essere trascurato o lasciato in secondo piano e la stessa necessità storica deve imporsi a tutti i paesi. § Queste, per sommi capi, sono le ragioni per le quali gli uomini di cultura italiana sentono il bisogno di rivolgersi agli uomini di cultura amici, nemici e neutrali e invitarli a una revisione di quel giudizio sulla realtà del fascismo. Dopo venti anni di fascismo essi sentono di avere una concezione essenzialmente più libera di quella dei loro giudici e di essersi posti concretamente dei problemi che altri riescono soltanto oggi a intravedere. Perciò essi sanno che la distruzione del fascismo è un’utopia, il cui vano perseguimento può soltanto disseminare il cammino di inutili rovine. Quand’anche i nemici riescissero [sic] a imporre all’Italia un diverso regime politico, non perciò il fascismo sarebbe morto, ché anzi il suo problema risorgerebbe più drastico, in un ben più feroce scontro di liberalismo e comunismo. L’unico risultato che si potrebbe ottenere sarebbe quello di rinunciare a un’esperienza di venti anni e di tutti i problemi che in questi venti anni si son venuti faticosamente elaborando. La cultura italiana è più libera perché arricchita di questa

280 insostituibile esperienza ed è in grado di comprendere le opposte esigenze altrui. Essa continua a lavorare e attende la fine della guerra per dare al fascismo un nuovo grande impulso rivoluzionario. Ma intanto oggi, mentre il conflitto si aggrava, si complica, e si fa sempre più oscuro, l’Italia sente di essere la nazione più serena per poter dire una parola che non sia soltanto di parte. E gli altri popoli possono ascoltare senza prevenzioni questa voce che non inganna. Non può ingannare, perché, se l’Italia odia il nemico, tutti sanno che l’odio è soltanto per il male e aspira a tramutarsi in un sentimento di fratellanza; non può ingannare perché, se essa parla d’impero, ha dato prova di intendere l’impero soltanto come ragione di lavoro fecondo e beneficatore. Non può ingannare, infine, perché tutta la storia d’Italia è là a dimostrare che una sola aspirazione è stata sempre alla radice della nostra coscienza ed è quella di una visione della vita che abbia carattere di universalità. Il fascismo vuole avere anch’oggi questo carattere di universalità e se combatte a oriente e a occidente, è soltanto in vista di un domani in cui possa realizzarsi una superiore collaborazione di questi due mondi ancora tra di loro molto estranei spiritualmente. Ma, appunto perché italiana in quanto universale è la fede per la quale l’Italia combatte, nessuno s’illuda di poterla facilmente piegare. Se chi guarda dall’esterno e superficialmente può notare l’intima insoddisfazione di un processo rivoluzionario che tende al meglio, stia pur sicuro che, sotto questa veste critica caratteristica dell’intelligenza italiana, si cela oggi come non mai la profonda coscienza di difendere una superiore realtà ideale.

ii. La crisi dei valori tradizionali*

Oggi il problema della contestazione, il problema che trova nel movimento studentesco la sua espressione più drastica è un problema di fondo al quale occorre avvicinarsi con mente serena e con la decisa volontà di comprendere. E allora noi cercheremo appunto di metterci in questo stato d’animo con volontà di comprendere, comprendere senza giudicare, perché il giudizio non è di nostra competenza.

*. Il testo, che consta di 26 pagine dattiloscritte, è articolato in due parti corrispondenti a due lezioni tenute a un giorno di distanza l’una dall’altra. È stato rinvenuto all’interno del carteggio di Ugo Spirito, depositato presso la Fondazione omonima. Si tratta di un allegato alla lettera inviata da Giuliana Keller, segretaria dei Corsi di Alta Cultura della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, e datata 14 maggio 1969 (cus 10559). Questo il contenuto della lettera: «Gentile Professore, qui uniti Le invio i dattiloscritti – tratti dal nastro – delle Sue due lezioni al corso “Innovazione, tradizione e contestazione” del settembre 1968. Le sarei molto grata se Lei volesse mettere a punto ed eventualmente completarli, corredandoli di note, per la pubblicazione nel volume che raccoglierà tutte le lezioni del x corso. È nostra intenzione inviare tutto il materiale al più presto possibile in tipografia. Voglia gradire, insieme ai più vivi ringraziamenti, i migliori saluti». Come confermatoci dall’attuale segretaria generale della Fondazione Cini, Anna Lombardi (che ha sostituito la Keller nel 1982), il volume degli Atti del x Corso non ha mai visto la luce, e l’intervento di Spirito è, dunque, rimasto inedito, probabilmente mai riveduto e corretto dallo stesso autore (questo testo è senz’altro rimasto privo di intervento da parte del filosofo, come si evince dall’assenza di correzioni e annotazioni). Il titolo scelto è quello riportato sul dattiloscritto originale. Trattandosi di una sbobinatura, si spiega il tono colloquiale del testo, certe ripetizioni e una sintassi meno controllata, fluida ed elegante di quella consueta negli scritti spiritiani. Salvo minimi interventi di correzione, specialmente su refusi e punteggiatura, e l’eliminazione di qualche ripetizione eccessiva, si riproduce qui la trascrizione originale, anche perché esemplare testimonianza del modo di argomentare di Spirito e di quella sua oratoria che tanto affascinò i contemporanei.

282 Contrasto di generazioni: la generazione dei genitori e dei maestri da una parte e la generazione dei figli e degli alunni dall’altra. Contrasto fra anziani, vecchi e giovani. Ma una prima considerazione che rappresenta il passato e la generazione che rappresenta il futuro, che si avvia verso il futuro. E questo contrasto è fisiologico, legittimo, è necessariamente storico. Esso sta a dimostrare che il mondo cammina, si svolge e, svolgendosi, procede. Vogliamo parlare di progresso, di evoluzione. Procede, e procedono, va oltre i valori del passato e si protende verso un rinnovamento, verso un’instaurazione dei nuovi valori. Di modo che il contrasto, ripeto, è legittimo, e fisiologico. I genitori rappresentano il conservatorismo, la difesa del passato; e i figli rappresentano la volontà di trasformare il mondo, di renderlo migliore. Laudatores temporis acti: questa è un’affermazione di carattere antico, antichissimo. L’umanità ha sempre constatato questo. E tuttavia questo contrasto è un contrasto che si è sempre risolto, anche questa volta, storicamente a vantaggio delle nuove generazioni rispetto alle vecchie, cioè la storia ha sempre dato ragione ai giovani di fronte agli anziani. È logico che sia così: se i giovani rappresentano l’ulteriore cammino, è chiaro che devono vedere la loro opera consacrata, storicamente, al di là di quella dei loro genitori. Fin qui il problema appare chiaro, direi, incontrovertibile. E allora dobbiamo domandarci: il contrasto attuale, fra le due generazioni è un contrasto che si può riportare agli esempi dei contrasti storicamente affermatisi sempre? O si tratta di un contrasto che, pur rientrando nella regola generale, fa eccezione a questa regola, cioè giunge a un grado tale per cui non è comparabile al passato? Questo è il primo quesito che ci dobbiamo porre. E a questo quesito non c’è che da rispondere in una sola maniera: il contrasto di oggi è un contrasto di altro tipo. È un contrasto ben più radicale, è un contrasto che non ha avuto e che non poteva avere precedenti, perché? Che cosa ha di peculiare il contrasto di oggi? Perché oggi questa regola storica non è più paragonabile agli esempi antichi. E per rispondere è necessario guardare alla trasformazione del mondo che si è verificata in questi ultimi decenni di un secolo che fin da principio ha visto accentuarsi questo contrasto di generazioni. Il secondo dopoguerra ha segnato una trasformazione del mondo senza precedenti sto-

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rici. La trasformazione cui abbiamo assistito nel periodo di venticinque anni è una trasformazione incomparabile con la trasformazione che la civiltà ci ha mostrato attraverso i millenni. In che cosa consiste l’eccezionalità di questa trasformazione? La trasformazione è dovuta al fatto che per la prima volta nella storia dell’umanità, la storia dei popoli è diventata storia unica, cioè che il mondo è diventato uno solo. Prima di venticinque anni fa, il mondo era diviso in spazi storici diversi, gli avvenimenti della Cina solo indirettamente ci riguardavano. La Cina anzi era un territorio così remoto, di cui quasi nessuno conosceva i problemi, quasi nessuno conosceva la fisionomia. Ma non solo la Cina, anche l’Africa, e così via. Erano mondi separati, erano mondi diversi, ché ognuno aveva la sua storia. La storia della Cina era diversa dalla storia dell’Occidente, dalla storia di Roma; e quando si andava a scuola si studiava la storia d’Europa o la storia addirittura d’Italia, ma in nessuna scuola si insegnava, per esempio, la storia della Cina. La storia della Cina era un altro mondo che apparteneva a questo mondo ma non incideva nella storia nostra, nella storia che interessava noi direttamente, la nostra civiltà, la necessità di orientarsi per procedere, per conoscere il mondo. La Cina era un altro mondo. Bene, dopo la Seconda guerra mondiale, che, si badi bene, è la prima guerra mondiale, perché la precedente, anche se porta il nome di Prima guerra mondiale non era in effetti mondiale, dopo questa guerra mondiale, il mondo è diventato uno, ed è diventato uno perché è diventato compresente attraverso i rapidi mezzi di comunicazione, di trasporto, ma soprattutto per mezzo dei mezzi audiovisivi che ci hanno condotto alla contemporaneità dell’informazione di tutto il mondo, sicché noi possiamo vedere e ascoltare agli antipodi quello che avviene in questo momento; questa trasformazione è diventata tale che ormai il mondo è diventato uno. E la sua storia è diventata una. C’è la guerra nel Vietnam. La guerra nel Vietnam non appartiene più al Vietnam e neppure all’Oriente. La guerra nel Vietnam è una guerra che incide in ogni paese del mondo, appartiene alla storia di tutto il mondo. E non si può fare la storia d’Italia senza inserire nella storia d’Italia il problema del Vietnam. È evidente! Dunque la storia è diventata unica. Unica è diventata perché il mondo lo han fatto diventa-

284 re unico, e questo mondo è diventato unico in virtù, come abbiamo detto, di una scienza e di una tecnica che lo ha rimpicciolito, ha fatto sì che esso potesse essere visto, percorso, ascoltato con una enorme facilità. Mondo unico. Ebbene la trasformazione di questo venticinquennio del mondo, che da plurale è diventato unico, ebbene la trasformazione è una trasformazione che ha inciso nelle generazioni. La generazione dei genitori è la generazione abituata alle storie multiple, la generazione dei figli, e ormai anche dei nipoti, è legata invece alla realtà di un mondo unico, di una storia unica. Questa è la posizione psicologica sulla quale bisogna insistere per capire quello che sta avvenendo. Una generazione abituata a molte storie, una generazione che si avvia a comprendere il mondo attraverso un’unica storia. Ebbene, se è così noi ci domandiamo: questa trasformazione conduce o non conduce a una trasformazione dei valori? I valori nei quali credono i genitori, la generazione degli anziani, e i valori in cui credono questi giovani che oggi si trovano di fronte a questo mondo unificato sono gli stessi valori o sono dei valori diversi? E allora dobbiamo riconoscere che effettivamente si tratta di una trasformazione che ha trasformato tutti i valori della civiltà; il passaggio da una realtà mondiale a un’altra realtà mondiale è un passaggio che ha trasformato non soltanto di fatto la faccia della terra, ma spiritualmente i valori dell’umanità. Ci sono dei valori che tramontano, che sono tramontati, che stanno tramontando, e ci sono dei valori nuovi che si vengono affermando; il nostro compito è quello di chiarire quali sono i valori che tramontano e quelli di nuova formazione. Incominciamo da quelli che tramontano: se è vera la diagnosi che abbiamo fatto della trasformazione del mondo in funzione di pluralità e unità storica, dobbiamo riconoscere che i valori che tramontano sono quelli che riguardano i paesi visti nella loro particolarità, in quanto soggetto di più storie e non riguardano invece i valori che appartengono a tutta l’umanità. Ci sono cioè dei valori che sono estesi a tutto il pianeta, e ci sono dei valori regionali, locali. I valori regionali, locali sono sempre più sminuiti e addirittura rinnegati. I valori invece che riguardano tutti i paesi e continenti che diventano i valori della storia unica sono quei valori che, non soltanto si rafforzano, ma si moltipli-

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cano. Valori regionali, locali che tramontano. Io direi che per distinguerli sia necessario guardare alla ragione per cui il mondo si è unificato; il mondo si è unificato – abbiamo detto – in funzione di scienze e di tecniche, di modo che i valori che appartengono alla scienza e alla tecnica, e che sono stati capaci appunto di rappresentare il processo di unificazione del mondo, questi non tramontano e si rafforzano; tramontano invece i valori che hanno rappresentato valori di parte, cioè valori che avevano e hanno ancora un significato in un paese e non hanno significato in un paese diverso. Questi valori stanno tramontando, e quali sono? Sono i valori che non rientrano nell’ambito della scienza, della tecnica e invece rientrano nel campo delle religioni, delle filosofie, delle ideologie, i valori di parte, i valori che dividono. Incominciamo dal primo, dal più grande di questi valori: il valore religioso. Oggi la religione è in crisi, non è un’affermazione che si possa mettere in discussione; che la religione è in crisi è riconosciuto nelle stesse chiese, nelle espressioni maggiori delle diverse religioni. Vale a dire: tutti riconoscono che c’è una crisi religiosa che del resto rientra nel più grande concetto di crisi sociale; c’è una crisi religiosa, e perché c’è questa crisi religiosa? Appunto perché le religioni sono morte; se fosse una sola la religione, questa religione sarebbe il valore del mondo unificato, ma unificandosi il mondo, si vede che nel mondo esistono più religioni e queste religioni nella loro molteplicità si escludono a vicenda; escludendosi a vicenda chi crede nell’una non può credere nell’altra e, dividendosi gli uomini fra credenti di varie religioni, il processo di unificazione trova nella religione un ostacolo. Si tratta di rimuovere questo ostacolo. Questa crisi, proprio perché avvertita all’interno stesso delle chiese, preoccupa le chiese, e le chiese cercano di rimuoverlo, ma come si fa a rimuovere questo ostacolo? Come si fa a trovarsi di fronte alla molteplicità delle religioni e sostenere che una è vera e le altre sono false? O per lo meno che una è più vera delle altre? Come si fa a sostenere questo? La nostra esperienza di italiani ci dice che la religione è una, perché nel nostro paese c’è la religione cattolica e oltre la religione cattolica ci sono piccole minoranze protestanti, ebraiche, e così via. Quindi il problema dell’unità religiosa si avverte poco perché di fatto è realizzata, ma provate a spostarvi in giro per il mondo; vi accorgerete che le re-

286 ligioni sono tante e che sono vive, stando gomito a gomito. Se entrate, poniamo, nella Moschea di Omar di Gerusalemme, voi al centro della Moschea trovate una grande roccia e domandate «che cos’è quella roccia?» e vi dicono che quella roccia è quella sulla quale stava avvenendo il sacrificio di Isacco da parte di Abramo, dunque una roccia sacra, sacra agli ebrei, sacra ai cristiani, in quanto i cristiani riconoscono il libro sacro della Bibbia e poi domandate: e perché questa roccia sacra agli ebrei e ai cristiani sta qui nella Moschea? E vi rispondono perché da questa roccia è salito in cielo Maometto, così come a distanza di pochi centinaia di metri c’è il sepolcro da cui è salito in cielo Cristo e di fronte a questa constatazione di fatto della fede profonda, profondissima di musulmani, di cristiani, ebrei, sentite che le religioni devono cedere il passo alla religione, all’unica religione. Il mondo si unifica e si devono unificare le religioni. All’interno della Chiesa questo si avverte e per la prima volta nella storia cristiani, cattolici e protestanti e ortodossi, fanno il tentativo di tornare all’unificazione perché avvertono che non si può continuare con la molteplicità e d’altra parte i pontefici sanno bene che cosa vuol dire esistere nella molteplicità, sanno che la loro voce deve essere voce di carattere universale e allora vedete nelle ultime encicliche il Pontefice non si rivolge più ai cattolici soltanto e neppure ai cristiani soltanto, si rivolge agli uomini di buona volontà, perché gli uomini di buona volontà possono essere tutti e tutti possono essere salvati. Al di là delle religioni singole, c’è la religione, c’è questo senso del divino, questa aspirazione all’assoluto che dà vita a tutte e per cui il discorso non può essere che uno solo. Quindi all’interno stesso delle chiese si procede verso l’unificazione; la crisi religiosa è questa crisi e come si risolve? C’è il tentativo, ripeto, dell’avvicinamento delle chiese cristiane, c’è anche il tentativo di una parola che si estenda a tutti, ma poi ci deve essere un tentativo ancora più particolare, più specifico, che è il tentativo di chi vuole vedere a fondo nei libri sacri e rendersi conto di quello che è accettabile come voce universale e di quello che è da accantonarsi, da respingersi al margine come affermazione di carattere transeunte. Ed è avvenuto proprio in questi ultimi anni, coevo a questa trasformazione, è avvenuto che nell’interno delle chiese cristiane, prima nella Chiesa protestante, adesso anche nella Chiesa cattolica si è iniziato il

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cosiddetto processo di demitizzazione o di storicizzazione; e che cosa vuole dire? Vuol dire solo questo: che c’è al fondo di ogni religione qualche cosa di assoluto che deve essere rispettato e riconosciuto come la verità e c’è invece una parte che deve essere interpretata storicamente in relazione agli usi, ai costumi, alle concezioni dei diversi popoli nelle diverse epoche e bisogna reinterpretare i libri sacri, non perché essi non siano veri, ma perché essi sono nati in funzione di questa differenziazione storica e vanno ricondotti alla loro origine storica per essere spogliati di tutto ciò che in essi vi è di mistico. E dove arriviamo con questo processo di demitizzazione? Il mondo cammina rapidamente, il mondo postconciliare ci fa credere che su questa strada si fanno passi da gigante e la sensazione che si avverte ogni giorno di più è che attraverso il processo di demitizzazione le strutture della religione, delle singole religioni, le strutture della religione cattolica in particolare, vanno consumandosi e nell’ambito stesso del cattolicesimo affiorano tanti movimenti teologici che si avviano alla negazione pura e semplice o alla trasformazione radicale dei precetti fondamentali della religione cattolica. E d’altra parte questo bisogno di trasformare, di aggiornare è così forte, così potente che la stessa Chiesa non ha il coraggio di fermare il movimento o di condannare. La vecchia congregazione del Santo Uffizio non c’è più, adesso c’è la Congregazione per la dottrina della fede, c’è, cioè, una congregazione molto più indulgente che è disposta ad accettare le innovazioni possibili senza condannare, e, a un certo punto, tutto il contesto strutturale della religione cattolica è compromesso. Dal che, a un certo punto, lo stesso Pontefice rimane smarrito di fronte alla constatazione di questo rapido dissolvimento e cerca di correre ai ripari. Chi di voi ha letto il credo del Pontefice del 30 giugno di quest’anno [1968, ndr.]1 sa con quanta energia egli ha riaffermato problemi fondamentali della tradizione cattolica, anche quelli più discussi, per esempio quello dell’inferno a cui il Pontefice è tornato a dare un significato controriformistico, parlando dell’inestinguibile fuoco, ba1. Si tratta del Credo del Popolo di Dio, solenne professione di fede pronunciata dal Papa Paolo vi davanti alla Basilica di San Pietro il 30 giugno 1968 alla chiusura dell’«Anno della fede» e nel diciannovesimo centenario del martirio dei santi Apostoli Pietro e Paolo. Autore del documento fu il filosofo Jacques Maritain, amico personale del Pontefice.

288 date bene! Si ricorre di nuovo alle immagini che sembravano rivolte alle masse e che adesso devono tornare ad avere un significato per tutti: inestinguibile fuoco, le pene dell’inferno. Ora, questa è un’espressione della preoccupazione del Pontefice, di questo scivolare delle Chiese verso il processo ulteriore di demitizzazione, ma è anche l’espressione di qualche cosa che difficilmente può arrestarsi; cioè, è vero, possiamo riaffermare, con la giusta parola del Sommo Pontefice, la tradizione cattolica nelle sue forme più rigide, ma potremmo riaffermarne i risultati? Questo è ciò di cui si dubita; perché il risultato riguarda un mondo a cui non si può parlare alla stessa maniera di venticinque anni fa. Oggi il mondo deve ascoltare una parola che sia univoca, che venga dalla bocca di chiunque, dal rappresentante di qualunque Chiesa, ma che abbia una portata di carattere internazionale, che possa essere veramente che richiami al divino nella coscienza di tutti. Così si pone il problema del valore religioso, un valore che la gioventù avverte, più che la generazione degli anziani; avverte come in crisi profonda e allora l’abito critico che ne consegue, finisce coll’allontanare la gioventù dalla religione; sempre più la gioventù atea, la gioventù miscredente, questa gioventù che, tra i primi valori che fa cadere, è proprio questo valore che riguarda niente di meno che l’Assoluto, il Divino. Ma se questo è il primo dei valori che tramontano nella coscienza delle giovani generazioni, non è l’unico, altri valori cadono e, in particolare, i valori legati alla particolarità dei singoli paesi, cioè alle patrie. Noi, della nostra generazione, siamo stati educati all’amore di patria. Nella patria era il valore supremo, per lo meno il valore supremo del carattere laico; era bello morire per la patria, ma oggi la patria nella coscienza della nuova generazione che cos’è? È una ripartizione più o meno artificiosa del suolo della terra attraverso confini più o meno arbitrari, più o meno storicamente tradizionali o assolutamente frutto di compromessi contingenti. La patria, ma la patria, nella migliore delle ipotesi, vale come la regione: c’è la regione toscana, c’è la romana e uno è attaccato alla regione, a questo valore particolare; ma poi c’è la patria Italia, sì, c’è la patria Italia, ma questa patria Italia non ha più il senso, il sapore, l’idealità di una volta. La patria Italia è una patria che deve cedere in qualche modo il posto alla patria Europa, il movimento europeo, la fede europea, la confederazione europea. Poi ci si accorge che

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anche l’Europa è un mito, perché l’Europa è formata di tante nazioni le quali non si sa bene in che senso appartengano all’Europa, non si sa bene cioè se l’Italia sia più vicina al Sud-America o alla Germania, non si sa bene se l’Inghilterra sia più Europa o più Commonwealth, non si sa bene se la Russia sia più occidentale che asiatica, e quindi Europa, anche quello, è un ideale, ma un ideale in via di liquidazione. Quello che la gioventù, che la nuova generazione sente è il cosmopolitismo, la patria di tutta la terra, essere il cittadino del mondo, questo è l’ideale che comincia ad albeggiare nella coscienza della gioventù. Quindi religione, quindi patria e poi politica, la politica si raccoglie intorno a determinati partiti i quali sono gli antesignani di concezioni del mondo, concezioni della realtà; c’è il partito democratico cristiano che ha una concezione del mondo, quello marxista, socialista, comunista che hanno altre concezioni del mondo e così via; e poi a un certo punto la nuova generazione si accorge che queste differenze sono di lana caprina e che tuttavia continuano a essere ipostatizzate senza serio fondamento e poi questi programmi di partiti si avvicinano sempre di più. Quelli di sinistra vanno verso destra, quelli di destra vanno verso sinistra, si determina una specie di social-democrazia di carattere generale in cui tutti i partiti tendono a fondersi e la nuova generazione comincia a diffidare dei partiti, comincia a diffidare della politica, comincia a diffidare delle possibilità di raccogliere in statuti particolari la concezione del mondo, e c’è, comincia a sorgere una specie di nausea per la politica, anche perché questa politica degenera sempre di più, è sempre più affidata a uomini che non sono sul serio impegnati, in cui l’interesse particolare privato finisce col dominare su quello pubblico. Tutto questo il giovane comincia ad avvertire e sente che questi valori sono anch’essi in crisi. Dunque valori che tramontano; i valori del passato e poi i valori dell’avvenire che si vengono costituendo e tutti questi valori così distinti vivono all’interno della famiglia, perché nella famiglia appunto si distinguono i genitori e i figli proprio per questo contrasto di valori; comincia a determinarsi uno iato, una separazione, un’incomprensione, un’incapacità di discussione, di comunicazione. E allora la crisi della famiglia, cioè la famiglia comincia a spezzarsi fra vecchie e nuove generazioni, i figli vanno per conto loro, i genitori rimangono nella loro solitudine. Figli da una parte e genitori dall’altra; incomprensione reci-

290 proca e con reciproca condanna, la famiglia si spezza, i valori fra vecchie e nuove generazioni non consentono più l’unità familiare. I valori hanno portato alla crisi di questo istituto, ma poi c’è un altro istituto come la famiglia e che è composto appunto di due parti: una degli anziani e una dei giovani, una della vecchia e una della nuova generazione. E quest’altro istituto è la scuola, quella scuola in cui i maestri e gli scolari non si intendono più. Sì, ci sono le eccezioni; ci sono ancora delle scuole in cui il maestro ha ancora tanta giovinezza da capire, e da discutere e colloquiare con gli alunni, ma in generale no; in generale sono i professori che non comprendono gli alunni e gli alunni che non sanno che farsene dei professori. Sì, li devono subire, devono avere la promozione, devono superare l’esame, fanno il minimo possibile per superarlo, ma poi no, non c’è questa comunione spirituale. Ai tempi nostri i maestri, pur appartenendo a un’altra generazione che volevamo superare e che ci provavamo a superare, ai tempi nostri dico, questi maestri erano tuttavia nel nostro cuore, erano quelli che accendevano in noi la fiamma del sapere, della volontà di affermarsi ecc., ecc., noi li rispettavamo, li veneravamo come maestri e oggi no, oggi gli alunni non sentono più questa reverenza per i maestri, i maestri non rappresentano più per loro se non un contingente strumento tecnico per apprendere alcune metodologie e basta; sono dei tecnici che possono impartire la conoscenza di certi strumenti tecnici, ma non sono più i maestri, non sono più le anime, proprio perché non sono più i portatori di quei valori in cui possono credere i figli, gli alunni. E allora fra maestri e scolari avviene quello stesso iato che tra i genitori e i figli e l’istituto della scuola raggiunge il massimo della crisi. E se noi guardiamo al movimento studentesco di oggi, questo movimento studentesco che ha i suoi limiti nell’immaturità della gioventù, dobbiamo riconoscere che tuttavia è espressione di uno iato che non si può colmare con dei provvedimenti di emergenza; lo iato è sostanziale, la differenza è di carattere spirituale, fondamentale. Non possiamo più guardare al movimento studentesco senza renderci conto dell’ineliminabilità del suo significato e del suo valore. Gli studenti di oggi sono disorientati, l’attuale generazione è destinata a bruciarsi ed è destinata a bruciarsi perché non è ancora matura per la costruzione e tuttavia questa generazione che si brucia, non si brucia invano; apre la por-

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ta alla generazione di domani, a quella che sarà capace di instaurare i nuovi valori. Oggi assistiamo alla crisi da una parte e dall’altra: la crisi dei giovani immaturi che si bruciano, ma più ancora la crisi della generazione degli anziani che, di fronte all’incomprensione della nuova generazione, è destinata a soffrire, non nella propria fede, ma nella propria incredulità. Perché, badate bene, gli anziani di oggi se rappresentano i valori di ieri, rappresentano i valori di ieri senza fede, cioè questi anziani sono incapaci di procedere oltre e quindi sembrano che tengano fede ai valori di ieri, ma quei valori di ieri, attraverso la constatazione del credito che non hanno più presso i giovani, cominciano a essere scossi anche in loro; gli anziani sono ancora credenti in quei valori, ma nel loro animo si insinua il dubbio e quindi credenti ma anche scettici, anche indifferenti, anche in crisi. Sono anziani che appartengono a quel mondo, ma vi appartengono con animo sbiadito; sono veramente infelici, infelici e ipocriti; ipocriti perché? Ma perché vanno considerati in quanto classe dirigente. Si badi bene, le classi dirigenti del mondo di oggi sono classi di vecchi; chi governa oggi il mondo è una generazione anziana. I giovani immaturi non hanno ancora la capacità di farsi avanti e di conquistare il potere; il potere rimane ai vecchi o addirittura ai vecchissimi, vecchi e vecchissimi che naturalmente ostentano i valori di ieri, ma questi valori non sono più nei loro cuori con la forza di ieri. Il mondo è in crisi; essi non sanno passare oltre ma non hanno più quella fede di ieri e allora questa classe dirigente vive, lasciamo stare l’ipocrisia, ma per lo meno di retorica. Voi vedete i discorsi politici di oggi, vedete i manifesti che si affiggono sui muri, che parlano di Dio, di patria, di famiglia, di religione, di giustizia, di libertà, ma voi sentite che è un tono falso, un esercizio letterario. Essi non credono più, vorrebbero credere, ma non hanno più la capacità di credere e non hanno la capacità di credere. Perché? Perché hanno dei figli che non ci credono più, e allora loro rimproverano i figli, li respingono, li giudicano male e tuttavia sono un po’ contagiati dalla loro crisi; difendono il vecchio ma lo difendono così a metà e quando incomincia a esservi contrasto tra la fede dei valori e l’interesse particolare, è questo interesse che prende il sopravvento sui manifesti; nei discorsi si parla di quei valori del passato, ma nella prassi

292 questi uomini politici, la classe dirigente di oggi è una classe che ripiega sul particolare, guicciardinianamente inteso, quel particolare che, in mancanza di altro, è quello che conviene difendere pur di affermare ancora il diritto di comandare. Vedremo domani l’instaurazione dei nuovi valori. § Abbiamo cercato ieri di porre il problema del contrasto delle generazioni: anziani e giovani. Abbiamo soprattutto cercato di mostrare come il mondo degli anziani finisca coll’attenuarsi, falsificarsi, e come nuove esigenze si affaccino, che sono le esigenze del futuro, esigenze ancora molto vaghe, molto indeterminate e tuttavia da scuotere la gioventù. Il compito che si impone ulteriormente è di vedere quali nuovi valori si possono già intravedere per il domani, se i vecchi valori tramontano quali sono i valori che debbano sostituirli. Evidentemente non si può fare il profeta e tuttavia ci sono dei motivi che giustificano delle anticipazioni. Hanno cercato di mostrare come la trasformazione del mondo avvenuta in quest’ultimo venticinquennio è una trasformazione determinata dall’unificazione del nostro pianeta, unificazione di carattere materiale ma anche di carattere spirituale, unificazione modesta che è determinata dallo sviluppo della scienza e della tecnica. Sono la scienza e la tecnica che hanno unificato il mondo o stanno unificando il mondo nel senso che tutto il mondo diventa paese; usi, costumi, modi di vita, modi di pensare cominciano a diventare comuni per tutti. Se questo è vero, e credo che non si possa dubitare del fatto che la scienza e la tecnica stiano unificando il mondo, è chiaro che i nuovi valori debbano trovare il loro fondamento proprio nella scienza e nella tecnica che hanno operato questa trasformazione, di modo che, se volessimo dire in sintesi quali debbano essere i valori nuovi, quali saranno i valori del futuro, possiamo dire soltanto questo: che sono e saranno i valori informati dalla scienza e dalla tecnica. Ecco, su questo principio di carattere fondamentale cerchiamo di analizzare i valori che ne derivano. Che cosa ci apportano la scienza e la tecnica? Che cosa già può dirsi il risultato di questa trasformazione? Se noi ci guardiamo intorno, ci accorgiamo che il valore primo, quello più diffuso è quello del benes-

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sere. Oggi il mondo vede nel benessere la meta principale della sua vita: il benessere, il comfort, e questo benessere cresce proprio in virtù della trasformazione scientifica, cresce e si atteggia, si trasforma in tante conseguenze che sono, sì, di carattere materiale (e il concetto di materiale è un concetto molto problematico), ma sono anche necessariamente di carattere spirituale. Perché? Perché il benessere si trasforma in modi di vita in cui l’umanità si svolge in funzione di interessi che sono di tutti i generi, per esempio anche l’interesse artistico; l’arte, il gusto estetico comincia a diventare fattore essenziale del benessere. Noi non possiamo concepire oggi il benessere se non in una casa confortevole, esteticamente attrezzata, non possiamo concepire la nostra giornata se non accompagnata dalla radio, dalla televisione, dal cinema, cioè da tutta un’esperienza di carattere estetico che fa sì che la vita appaia migliore. Dico appaia e non dico diventa, perché poi questo benessere è discutibile ed è discusso. Tuttavia è certo che il benessere è già il valore più diffuso e più comune della nuova generazione, e si badi bene che il benessere ha un carattere positivo ma ha anche un carattere negativo nel senso che è benessere la cessazione della sofferenza. Il benessere al quale si sta avviando il mondo di oggi è un benessere che si risolve, sì, in questi beni di carattere comune, ma che accentua un altro carattere fondamentale della nostra vita, cioè la diminuzione della fatica. Il benessere è propriamente una liberazione progressiva dalla fatica. Oggi l’uomo fatica di meno, fatica di meno perché la scienza e la tecnica gli danno gli strumenti per liberarlo progressivamente da ciò che è penoso. Se volessimo dire in modo più perentorio che cosa significa il lavoro penoso, potremmo dire che è il lavoro manuale. Oggi la scienza e la tecnica stanno liberando l’uomo dal lavoro manuale; non c’è più lo zappatore, non c’è più lo spaccalegna, non c’è più lo spaccapietre, cioè non c’è più colui il quale vive soltanto con la forza delle braccia. Oggi i campi sono coltivati con i trattori, oggi ci sono le lavanderie, le segherie, ci sono i bulldozer, ci sono tutti gli elementi per eliminare progressivamente il lavoro manuale; ed eliminare il lavoro manuale significa a poco a poco costringere gli uomini che prima si servivano delle braccia a servirsi progressivamente della mente. Lo zappatore era analfabeta, non solo era analfabeta, ma era bene che fosse anal-

294 fabeta perché l’alfabeto non gli serviva, non aveva significato per lui; per zappare bene è meglio essere analfabeti che alfabeti. Ma oggi invece per portare il trattore ci vuole un minimo di educazione intellettuale, ci vuole soprattutto la conoscenza di dati che non appartengono alla mente e quindi l’automazione finisce a poco a poco col liberare l’uomo dal lavoro manuale; in via di svolgimento credo che nel giro di qualche decennio di lavoro manuale non si parlerà più. Del resto lo stiamo vedendo nelle fabbriche, negli opifici, negli stessi lavori domestici alleggeriti dagli elettrodomestici. Bene, che cosa significa liberazione dal lavoro manuale? Significa eliminazione di quel fattore decisivo per la divisione delle classi: borghesia e proletariato, che sono state le due classi verso le quali si è rivolto il pensiero moderno dal manifesto del 1848 fino a oggi. Le due classi erano soprattutto divise dal lavoro manuale, e l’orgoglio del contadino era quello di avere il figlio che potesse essere impiegato, «impiegatucolo», ma tale da dover vivere con la penna, con la mente e non più con il braccio. Proletario e borghese si distinguevano proprio per questo: che il borghese era il signore, signore in quanto si serviva della mente e della penna, il proletario, invece, era uomo di fatica, l’uomo che adoperava le braccia, dallo zappatore al manovale. Ebbene, l’automazione elimina queste differenze, eliminando il lavoro manuale; e presto sarà eliminato del tutto. Le mani e il braccio serviranno al proletario, come al borghese, soltanto per manovrare nelle fabbriche quei bottoni, quelle ruote, quegli aggeggi che sono necessari per la conduzione del lavoro della fabbrica. Questa è una conquista ideale – vogliamo dire la parola – di carattere politico. Che cosa ci dicevano i socialisti e i comunisti alla fine del secolo scorso, al principio di questo? Ci dicevano che il lavoro manuale ha la stessa dignità di qualsiasi altro lavoro e che quindi non si doveva avere, di fronte al lavoro intellettuale, alcun senso di inferiorità. Perché? Perché credevano nell’impossibilità di eliminare il lavoro manuale; ma oggi la scienza e la tecnica hanno fatto quel salto politico che le ideologie non potevano fare. Eliminando o avvicinandoci a eliminare il lavoro manuale, noi eliminiamo la ragione massima di distinzione tra proletariato e borghesia. Come si vede, il concetto di benessere è un concetto che incide profondamente nella stessa realtà dell’uomo, del lavoratore e quindi è un coefficiente di cui non si può parlare superficialmente attribuendogli il ca-

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rattere di materialismo. Il benessere è un benessere che trasforma la vita dell’uomo e la trasforma in vita spirituale; ma questa liberazione è una liberazione che si estende progressivamente a tutta la vita del lavoratore in quanto, oltre a rendere più facile e più agevole il lavoro, è tale da ridurlo progressivamente, riducendo le ore di lavoro. È la macchina che libera, quella macchina che si teme da molte parti ed è invece quella realtà attraverso cui l’uomo si libera. Tempo libero! Otto ore al giorno, ma poi anche meno; la domenica, poi anche il sabato. In Russia siamo già arrivati a cinque giorni e un po’ dappertutto questo procedere verso la riduzione delle ore e dei giorni di lavoro; per ottenere che cosa? Per ottenere il tempo libero. Ebbene, il tempo libero è la più grande affermazione del futuro. Il tempo libero è ciò che trasforma radicalmente l’uomo, questo uomo che era abituato a lavorare continuamente per molte e molte ore al giorno, adesso guarda alle parentesi del tempo libero che diventano sempre maggiori e che gli consentono un’esperienza di altro genere. Ma l’uomo saprà approfittare del tempo libero? Ecco l’interrogativo che nasce, cioè il tempo libero che si pone come problema, ma il tempo libero proprio perché scaturito dalla macchina è trasformato in tempo sociale da una vita che è vita di collaborazione, perché la macchina accomuna nella collaborazione e, attraverso la collaborazione, si viene determinando uno standard di vita, un modo di vita, in cui il tempo libero diventa problema di carattere sociale e problema di carattere spirituale. Che cosa faranno i lavoratori di domani del tempo libero? Ma lo sappiamo già, lo vediamo già. Queste manifestazioni che si diffondono, le manifestazioni dello spettacolo, le manifestazioni dello sport, le manifestazioni del turismo e le manifestazioni della lettura. Il rapido aumento della lettura, la fine – rapida anch’essa – dell’analfabetismo stanno là a dimostrare che il tempo libero è veramente la trasformazione, costituisce il fattore principale della trasformazione della società di domani. Su quanto finora detto risulta ovvio, evidente come i nuovi valori si instaurino attraverso i valori della scienza e della tecnica, sennonché a questo punto nasce sempre quell’interrogativo: ma potrà poi la scienza e la tecnica avere anche il risultato di incidere sui valori fondamentali della vita? Abbiamo visto come i valori tradizionali tramontino e

296 quali sono questi valori spirituali che, al di là del benessere, al di là della minore fatica, al di là del tempo libero, potranno veramente informare la vita di domani. Quali sono questi nuovi valori? Beh, quando si parla di nuovi valori, di valori supremi si ha l’occhio sempre a tre valori di carattere fondamentale: al valore politico, al valore morale, al valore religioso. Politica, morale, religione, in che senso riceveranno dalla scienza e dalla tecnica un miglioramento, una trasformazione tale da confrontarla positivamente con la vecchia tradizione? La politica. Come si trasforma la politica attraverso la scienza e la tecnica? Ma basta guardarsi intorno per accorgersi che il potere politico oggi non può svolgersi sul piano tradizionale delle scelte ideologiche. Per risolvere i problemi del mondo di oggi sono necessari appunto la scienza e la tecnica. Quindi il potere politico deve necessariamente passare dai cosiddetti politici ai tecnici, agli scienziati. Noi andiamo sempre più verso una politica affidata ai competenti. Naturalmente, questa affermazione della politica come competenza non è chiara oggi agli occhi delle nuove generazioni e perciò la nuova generazione non riesce a orientarsi fra ideologia e scienza ma, se si guarda bene in fondo, ci si accorge che ormai i problemi del mondo sociale sono sempre più complessi, sempre più tecnici e abbisognano di competenze specifiche per essere risolti. E, del resto, quando noi, al di là della prassi interna di una nazione, guardiamo alla programmazione di carattere internazionale, ci accorgiamo che, a quel livello, soltanto la competenza scientifica e tecnica può risolvere il problema. Se noi guardiamo al mec2, ci accorgiamo che, affinché si possa arrivare a conclusione, bisogna sempre più che il politico ceda il posto agli esperti. E, d’altra parte, se i politici rimanessero politici, e non si trasformassero e non si facessero aiutare dagli esperti, è chiaro che essi non potrebbero mettersi d’accordo per la differenza delle ideologie che rappresentano. E, viceversa, sul piano tecnico e scientifico l’accordo si fa, è ancora un accordo ibrido in cui l’ideologia politica interferisce e produce delle conseguenze negative e tuttavia è chiaro che, per quanto illogico, l’accordo si risolve sempre più in termini di tecniche e di scienza. 2.

Il Mercato Europeo Comune (nell’uso corrente: Mercato Comune Europeo).

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Ora noi dobbiamo guardare proprio a questo mondo internazionale per capire la trasformazione della politica, perché all’interno di un singolo paese la politica può essere la politica di partito, di molti partiti, ma quando diversi Stati devono raggiungere un programma di carattere comune, proprio per quell’unificazione del mondo prodotta dalla scienza e dalla tecnica, non possono che incontrarsi. La politica, che non può che essere sempre più internazionale, sempre più si identifica con la tecnica. La politica quindi passerà, sta passando, dalle forme ideologiche alle forme scientifiche; e le forme ideologiche? Sono il residuo difficile a scalzarsi e tuttavia questa necessità di sostituirla diventa sempre più evidente e le nuove generazioni guardano alla politica di oggi e si accorgono di questo anacronismo sostanziale. Non hanno più fiducia nelle possibilità delle strutture politiche del passato e, in particolare, non hanno fiducia negli istituti dei regimi parlamentari. I regimi parlamentari sono appunto i regimi ideologici, quei regimi in cui il criterio della decisione è affidato non alla competenza, ma alla maggioranza e la maggioranza, si sa, è più degli incompetenti che dei competenti. Ora le nuove generazioni avvertono la crisi delle democrazie, avvertono la crisi delle strutture parlamentari e si avviano verso istituti diversi, istituti nuovi; si avviano soprattutto verso quell’istituto dell’avvenire che è il piano o programma non solo nazionale, ma di carattere internazionale. Il piano e il programma non possono essere fatti che da tutti (non dalle maggioranze), in funzione della singola competenza di ognuno. Dunque la politica si trasforma in funzione scientifica, si trasforma sollevandosi a un livello superiore e soprattutto a un accordo sostanziale, a una volontà di collaborazione dei popoli. E la morale? Si può pensare che la morale è un’altra cosa, ossia che non abbia nulla a che vedere con la scienza, ma questo si poteva e si può dire di chi della scienza ha un concetto angusto, limitato a determinate scienze: fisiche, matematiche, scienze naturali. Chi si accorge però che il concetto di scienza è un concetto che si universalizza, che diventa sinonimo dell’unico sapere, come ricerca della verità e non come presunzione del possesso della verità, chi questa riflessione compie, si accorge che la morale si va trasformando scientificamente; e come? La morale prescientifica è la morale per cui un individuo è atomisticamente concepito, l’individuo è autonomo, padrone di se stesso, libero, e co-

298 me tale giudicabile da una società che pretende da lui un determinato tipo di condotta. La scienza dimostra che questo tipo di individuo non esiste, che l’individuo è un’espressione sociale, che non esiste l’individuo autonomo, che non esiste l’individuo come individuazione di un ambiente, di un gruppo, ma semmai di un mondo psicologico, spirituale, fisico, cosmico, di tutto un mondo che è il mondo da cui proviene ogni oggetto, ogni realtà umana e non umana. Non esiste l’individuo autonomo, esiste appunto l’individuo portatore di una volontà che è la volontà sociale, esiste un individuo non responsabile delle proprie azioni, ma corresponsabile delle proprie azioni. Qualunque cosa faccia l’individuo, in lui agisce la societas, in lui agisce un mondo che infinitamente lo trascende e poi basta guardare alle scienze umane, quelle scienze che oggi sono sempre più approfondite, quelle scienze le quali vanno dalla psicologia alla psichiatria, alla psicanalisi e anche alla fisiologia e alla biologia, alla medicina ecc. Basta guardare queste scienze per accorgersi che ogni uomo è fatto socialmente: quel povero bambino non sa andare avanti negli studi? Ma se è individuo bisogna costringerlo ad andare avanti; la scienza interviene e dice: no! Quello non può andare avanti, perché? Perché ha questi limiti, bisogna rimuovere questi limiti e se questi limiti non si possono rimuovere bisogna che il bambino cambi via. La scuola che indirizza e che tormenta la gioventù, quando la gioventù non è adatta a essa, questo strumento di costrizione dell’incapace si trasforma in funzione scientifica perché interviene il giudice-scienziato e dice: «questo ragazzo non è fatto per questi studi o per questi altri», e il concetto di ripetente, di bocciatura, non ha più significato perché la società boccia se stessa e il ripetente è manifestazione dell’impotenza di una società non tecnicizzata. Bisogna appunto che il ragazzo sia visto non nella sua presunta autonomia, ma in questa sua natura sociale, in cui appunto agisce ed è corresponsabile tutta la società, così come al di là della scuola, poi, è corresponsabile tutta la società per il delitto del delinquente, altra forma di immoralità che può essere vinta soltanto in funzione di una trasformazione del giudizio penale, che è quel giudizio in funzione del quale il giudice non può giudicare che scientificamente, appoggiato dalla constatazione dei limiti del delinquente come limiti della società da cui esso sorge. Lo vediamo adesso, lo vedia-

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mo ogni giorno attraverso la cronaca dei giornali che cosa significa il delinquente. Se voi cercate di analizzare la vita del delinquente, del peggiore delinquente, vi accorgete che egli è quasi sempre recidivo. E che vuol dire recidivo? Recidivo vuol dire che la società non lo sa educare, non lo sa guarire, non lo sa curare; è recidivo perché? Perché è uscito dal carcere e buttato sul lastrico senza che nessuno se ne occupi più. È respinto dalla società perché ha la fedina penale sporca e che cosa rimane da fare al delinquente se non costruire un’altra società, la società dei delinquenti, e procedere nuovamente al delitto in funzione di recidiva? Ora la scienza in questo campo è evidentemente tale da trasformare completamente la morale del delinquente, del reo. La recidività, il carattere recidivo del delinquente è la responsabilità massima di una società. In una società che fosse scientificamente ordinata, il carattere recidivo non si potrebbe più verificare, perché? Perché, evidentemente, il delinquente uscito dal carcere sarebbe seguito, innanzitutto, inserito nella società, sorvegliato, curato, trasformato. E di fronte a questo spettacolo della recidiva la vecchia società tradizionalista, tutta legata al concetto di pena come retribuzione giuridica, è impotente, aspetta che il delinquente uscito dal carcere torni a delinquere. Questa è la verità, questa è la morale tradizionale contro cui la scienza si oppone. La scienza si accorge che questo individuo non può essere più concepito individualisticamente ma deve essere inserito nella società come individuo sociale, come tale compreso, giudicato, trasformato: la trasformazione morale dell’uomo. Una trasformazione morale, si badi bene, che comincia a operare nella coscienza comune, in quanto questa coscienza comune di fronte al delinquente ogni tanto ha il sospetto che la responsabilità non sia propriamente sua e dice: «chissà, forse ci sono dei rapporti che non conosciamo e che giustificano l’agire di quel delinquente, anzi il rapporto tra reato e delinquente è un rapporto che si dovrebbe impostare in questa maniera: di fronte a colui che delinque il giudice dovrebbe comprendere, capire, ricostruire la vita sociale dell’individuo e, a un certo punto, convincersi che in quelle condizioni avrebbe fatto lo stesso». Quando il giudice fosse veramente convinto dell’impossibilità di fare diversamente in quelle condizioni è chiaro che il concetto di condanna diventa appunto un concetto prescientifico e anacro-

300 nistico. La religione cristiana l’aveva già intuito: non giudicate! E, viceversa, tutti i codici penali sono fatti sul piano del giudizio, si badi bene, non sul piano del giudizio scientifico e tecnico, quello che porta alle misure di sicurezza, ma sul piano del giudizio morale. C’è poi il valore supremo, il valore religioso. Questa è una realtà in cui sembra ovvio che la scienza non debba intervenire in nessuna maniera. Cosa c’entra la scienza con la religione? Ebbene, la verità è che la scienza e la religione rappresentano un binomio sempre più stretto e talmente stretto da dimostrare che non è possibile ormai concepire la religione, la vera religione al di fuori della realtà scientifica. Se noi volessimo in qualche modo guardare alla religione nel suo significato più profondo, nel suo motivo più essenziale, noi dovremmo cercare il motivo religioso nel modo in cui lo vedeva Galileo. Egli era un credente, un credente che arriva fino all’abiura delle proprie verità scientifiche; perché? Perché appunto nella religione positiva credeva e quella religione positiva era la religione cattolica. Quando nasceva contrasto fra la sua scienza e la sua religione, la scienza cedeva alla religione. Ma Galileo era poi colui che credeva in due rivelazioni, non in una rivelazione. Credeva nella rivelazione dei libri sacri e credeva nella rivelazione del libro della natura; e il libro della natura era per lui sacro quanto i libri religiosi, quanto le scritture sacre. Perché? Perché evidentemente lo scienziato non può vedere nel mondo della natura se non la rivelazione; lo scienziato che sia veramente scienziato non può non avere una convinzione del carattere sacro e divino della natura. E quindi Galileo era religioso quando faceva abiura, ma era religioso anche e soprattutto quando prospettava le nuove verità scientifiche. Ebbene, guardiamo questa religione dello scienziato, questa religione che non è una confessione specifica, ma è la religione che si celebra nel laboratorio, nel laboratorio dello scienziato, là dove lo scienziato di fronte alla natura assume l’atteggiamento di chi è di fronte all’ignoto e al mistero e cerca di svelarlo. Egli cerca, che cosa cerca? Cerca la soluzione di un problema particolare, ma è chiaro che questo problema particolare gli si illumini alla luce di un problema più vasto; la ricerca scientifica assume questo significato sacro della scoperta progressiva, del mistero dell’ignoto e allora è chiaro che lo scienziato di fronte

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alla natura, di fronte all’universo, è profondamente religioso, di quella religione che accomuna tutti gli uomini e in particolare accomuna tutti gli scienziati. Quell’ignoto, quel mistero cela l’assoluto, cela soprattutto la trascendenza. Oggi si accusa il pensiero umano, il pensiero filosofico, lo stesso pensiero scientifico di immanentismo, di mancato riconoscimento della trascendenza, dei valori della trascendenza. Invece, no! Lo scienziato è colui che veramente cede alla trascendenza, una trascendenza vera nel senso che è proprio preclusa al ricercatore fino a quando il ricercatore non riuscirà, e forse non riuscirà mai, a scoprire il mistero. Questo è l’atteggiamento religioso dello scienziato e lo scienziato in questo atteggiamento religioso è più religioso del seguace di una religione positiva. Lo scienziato è il vero religioso, perché il seguace di una religione positiva si appoggia a una rivelazione e la rivelazione, si sa, è proprio quella che rende trasparente, più o meno, rende cioè noto il mondo dell’al di là, lo accompagna ancora col mistero, ma lo rende noto almeno in parte, cioè lo immanentizza, lo fisicizza, sottraendolo all’esigenza metafisica che pure respira. Il religioso di una religione positiva ha la rivelazione del mondo dell’al di là e la rivelazione gli dice che cosa possiamo aspettare, come possiamo salvarci, e quindi come dobbiamo agire in questo mondo. Quando sappiamo questo, sappiamo tutto. Rimarrà il mistero, ma sarà il mistero della cornice, sarà il mistero del singolo dogma, non è il mistero vero, quello di fronte a cui si trova lo scienziato che non sa nulla di Dio, dell’Assoluto. Il Dio si cela nel mistero, nell’ignoto ed egli guarda al di là con una trascendenza di carattere radicale. Lo scienziato è veramente religioso! E la sua teologia? È chiaro: la sua teologia è l’opposto della teologia delle religioni positive. Queste hanno una teologia che ha come contenuto la rivelazione, la religione dello scienziato ha una teologia che questo contenuto non ha, che a Dio non riesce a dare nessun attributo, di nessun genere; perciò una teologia negativa che è veramente la teologia della trascendenza. Questo vuol dire essere religiosi, non c’è anima più religiosa dello scienziato che sa sollevarsi alla ricerca pura e disinteressata. Come vedete il mondo della scienza e della tecnica, se è destinato a essere il mondo dell’avvenire, è il mondo che instaura questi nuovi valori. Ma chi crede in questi nuovi valori? Ci credono veramente tutti?

302 Ci crede soprattutto la nuova generazione che affiora e che protesta? Sì e no; la nuova generazione è, nella sua protesta, indecisa, indeterminata, confusa, disorientata, non riesce a veder chiaro proprio perché si trova di fronte a un mondo diverso, nuovo: il mondo della scienza e della tecnica; ma si trova anche di fronte al mondo degli anziani: il mondo delle ideologie, delle religioni, il mondo delle metafisiche. Per quanto voglia inalberarsi e per quanto voglia protestare, la sua protesta si arresta a metà e confonde scienza e ideologia e rivendica a volta a volta il partito politico e l’antipolitica, la scienza e l’antiscienza, il benessere e l’antibenessere. C’è insomma una problematicità della nuova generazione che non consente un orientamento, non consente la determinazione di nuovi valori, quelli che abbiamo cercato di mostrare come scaturenti dall’unificazione mondiale operata dalla scienza e dalla tecnica e che, tuttavia, è così intralciata nel suo cammino dal peso del passato che la nuova generazione non riesce a scrollare di dosso e non ha ancora la forza metafisica di affrontare con il rigore che è necessario. Forza metafisica, perché la metafisica è passata anch’essa dalla metafisica concreta del sistema all’esigenza metafisica della scienza. Non è vero che la scienza sia contro la metafisica, la scienza è portatrice proprio dell’esigenza metafisica più profonda, di quell’esigenza che non si traduce in sistema, come presunzione della verità conquistata, ma si traduce nell’esigenza metafisica di una ricerca della verità incessante. È una ricerca penosa, fastidiosa, tormentatrice dello scienziato e questo tormento dello scienziato è propriamente la più alta nota della sua religiosità.

Indice dei nomi

Abbagnano, Nicola 140 e n, 141 e n, 177n Abete, Giovanna 200n Adler, Alfred 182 Agnelli, Arduino 146n Agosti, Aldo 242n Alexander, Robert J. 240n Alvaro, Corrado 102n Ambrosoli, Luigi 246n Amore Bianco, Fabrizio 54n, 96n Andreotti, Giulio 131n Antonescu, Ion 67n Antoni, Carlo 130n, 131n, 213n Ardigò, Roberto 135, 138 e n, 139 e n, 140 e n, 149 e n Are, Giuseppe 57n, 137n Arendt, Hannah ix, 50 e n Arias, Gino 43 Aristotele 168 Aron, Raymond 160 e n Arpinati, Leandro 28 Asor Rosa, Alberto 137n Bacone, Francesco 138 Badoglio, Pietro 126, 246n Baglioni, Guido 57n Balbo, Italo 94 Baldini, Antonio 102n Banfi, Antonio 215n, 226n Barbano, Filippo 143 e n, 148 e n, 149 en Bassanelli, Ernesto 97 e n Battaglia, Felice 130n Bellezza, Vito A. 220n

Belloni, Eleonora 57n Benelli, Giovanni (Mons.) 252n Beveridge, William Henry 274 Biagini, Antonello 67n Bianchi, Lorenzo 233n Bianchi Bandinelli, Ranuccio 226n Biggini, Carlo Alberto 127n Birindelli, Pierluca 221n Bobbio, Norberto 30 e n Böckenförde, Ernst-Wolfgang 146n Bonomi, Ivanoe 223n Bontempelli, Massimo 102n Bosetti, Giancarlo 240n Bottai, Giuseppe 24 e n, 26n, 39n, 40n, 42, 54n, 73n, 91, 93 e n, 94 e n, 95 e n, 96 e n, 97, 98, 99 e n, 100 e n, 101, 102n, 103 e n, 104 e n, 121n, 123, 125 e n, 127n, 131n, 203, 205n, 208 e n, 209 e n, 210 e n, 211, 229, 263 e n, 264 Bottari, Stefano 212n Bourget, Paul ix Boutroux, Étienne-Émile 145 Branca, Vittore 130n Breschi, Danilo xi, xii e n, xv, xvi, xvii, 223n Bruguier, Giuseppe 54n, 97n Brzezinski, Zbigniew 195n Buongiorno, Pino 252 e n Burgalassi, Marco M. 135n Buttiglione, Rocco 186n Buzzati, Dino 212 Calamandrei, Piero 226n

304 Calandra, Giuseppe 205n Calderoni, Mario 134 Calogero, Guido 95n, 96n, 129, 131n, 132n, 214, 223 e n, 224 e n Cambi, Franco 245n Campos Boralevi, Lea 3 Candida, Carlo 216n Cantimori, Delio 10n, 97 e n Capizzi, Antonio 96n, 154 e n, 223n Cappelletti, Vincenzo 84n, 85n Cardinali, Giuseppe 254n Cardini, Antonio 137n Carifi, Roberto 188 e n Carli, Filippo 42 Carlini, Armando 129, 223 e n, 232n Caroselli, Oscar 233n Caruso, Paolo 177n, 178n Caruso, Sergio 3, 14n Casati, Alessandro 48n Casotti, Mario 129 Castelli, Enrico 230 e n, 231n Cattabiani, Alfredo 193 Cattaruzza, Nella Piemonti 201n Cavallera, Hervé A. 130n, 173 e n, 188n, 189n, 248n Cavour, Camillo Benso (conte di) 265 Cecchi, Emilio 102n Cesa, Claudio 130n Chang, Jung 239n Cheek, Timothy 240n Chiusano, Lido 96n, 223n Ciano, Galeazzo 94 Cini, Giorgio 221, 255, 281n Civinini, Guelfo 102n Cochetti, Stefano 258n Codignola, Arturo 215 e n, 216n Codignola, Ernesto 245 e n, 246n Comte, Auguste 138, 141-143, 148 e n, 149 e n, 169 Conti, Vittorio 3 Costamagna, Carlo 54n Croce, Benedetto 17, 65n, 130n, 131n, 132, 134, 150, 212n, 246n, 253n Crozier, Michel 195 e n Currey, Muriel 213n

Dahrendorf, Ralf 234n Darwin, Charles 148n d’Eichtal, Eugène 45n De Begnac, Yvon 5 e n Decombis, Marcel 35n De Felice, Renzo 7n, 17n, 20n, 24n, 40n, 46n, 50 e n, 79n, 84 e n, 90n, 92, 93 e n, 97n, 99n, 101n, 103n, 127n, 205n, 210n De Feo, Luciano 233n De Gasperi, Alcide 223n De Luca, Stefano 4 De Luna, Giovanni 213n Del Bello, Claudio 223n Del Noce, Augusto 15n, 133 e n, 142 e n, 143 e n, 191, 192 e n, 193 e n, 194n, 196n, 203n, 212n, 248n Derathé, Robert 59n, 60n De Sanctis, Francesco 264, 265 De Santillana, Giorgio 188n Dessì, Giovanni xi e n, 4, 130n, 150n, 192n, 193n De Stefani, Alberto 24 e n De Vecchi, Cesare Maria 82, 131n, 208n Dewey, John 144 e n Di Benedetto, Renato 186n Dilthey, Wilhelm 164 Dini, Dante 233n Dino, Salvatore 259n Di Nucci, Loreto 234n Di Porto, Bruno 215n Di Rienzo, Eugenio 223n Dostoevskij, Fëdor M. 226n Durbin, Evan F.M. 41n Durst, Margarete 84n Efirov, Svetozar A. 198 e n Einaudi, Luigi 17, 200n Engels, Friedrich 105 Erra, Enzo 231n Fabro, Cornelio 250n, 251 e n Fano, Anna 65n Fano, Giorgio 65n, 232n

305

indice dei nomi Fazio, Fulvio 55n Fazio, Gaetano 102n Fedele, Pietro 48n Federzoni, Luigi 24 e n Ferrarotti, Franco 138n Ferrero, Guglielmo 123n Ferri, Enrico 134, 135 e n, 138 e n, 149, 172 Festa, Francesco Saverio 188n, 189n, 248n Fettarappa Sandri, Carlo 232n Feuerbach, Ludwig 19n, 204, 244 Fisichella, Domenico 88n Flora, Francesco 226n Fornero, Giovanni 177 e n Fortunati, Paolo 115 Foucault, Michel 178n Franchini, Raffaello 130n Frank, Walther Emanuel 94n Freud, Sigmund 175 e n, 176, 177n, 182 e n Fulchignoni, Enrico 234, 236 e n, 238, 240, 247

253n, 254, 256, 263, 264, 265 e n, 266 Geymonat, Ludovico 132 e n Giannini, Massimo S. 226n Gioberti, Vincenzo 203 e n, 217, 218 e n, 219 e n, 265 Giugurtu, Ion 66n Giusti, Wolf 213 e n, 214 e n, 223 Givone, Sergio 187n Gobetti, Piero 252, 253n Göring, Hermann 94n Gramsci, Antonio 8, 53n, 74n, 81n, 150n, 200n, 263 e n, 264n Grandi, Dino 94 Grassi, Leonardo 205, 206n Gregory, Tullio 251n Grieco, Giuseppe 184n, 250n, 259n Guerri, Giordano Bruno 40n, 79n, 93 e n, 94 e n, 209n, 210n Guex, François 62n Guicciardini, Francesco 261-264, 265 e n, 266-268 Guiso, Andrea 225n

Gadda, Carlo Emilio 131n Galbraith, John K. 55n, 56n Galeffi, Romano 213n Galilei, Galileo 300 Garin, Eugenio 134n Garruccio, Ludovico (Ludovico Incisa di Camerana) 7n Gaudenzi, Daniele 232n Gentile, Benedetto 127n Gentile, Emilio 6n, 7n, 9 e n, 10, 11n, 16, 17n, 137n Gentile, Francesco 79n, 80n Gentile, Giovanni xvi, xvii, 6, 11, 13 e n, 14n, 15, 16n, 17, 23-25, 29, 36, 46, 47 e n, 48 e n, 49, 53 e n, 65n, 74n, 84, 85, 92, 127 e n, 129, 132, 134, 137, 138, 141, 144, 147, 150n, 151 e n, 163n, 172, 173, 183, 203 e n, 204-206, 211 e n, 212n , 217n, 223, 229, 231n, 243, 244 e n, 245 e n, 246n,

Halliday, Jon 239n Hamilton, Alastair 6 e n, 104 e n, 105 Hassel, Ulrich von 101n Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 212n, 244, 245 Heidegger, Martin 253n Hess, Rudolph 94n Hitler, Adolf 94n, 96n, 101n Hollander, Paul 234n, 239n Horkheimer, Max 180 e n, 181, 185 e n, 186n Hume, David 166 Huntington, Samuel P. 195 e n Ippolito, Angelo 233n Iraggi, Enza 200 e n Jacobelli, Jader xi James, William 144 Jemolo, Carlo Arturo 131n Jevons, William Stanley 85

306 Jung, Carl Gustav 182 Jünger, Ernst 35n Keller, Giuliana 281n Keppler, Wilhelm 94n Khomeini, Ruholl¯ah M.M. 260 Khosrovi, Rahmat 260n Körner, Paul 94n Kristol, Irving xi Kruscev, Nikita 240 Lacan, Jacques 176 e n, 177, 178 e n Laicini, Franco 65n La Malfa, Ugo 97 Lanaro, Silvio 10 e n, 57n Lanzillo, Agostino 59n, 60n, 69n La Racine, Renata 102n Larizza Lolli, Mirella 148n La Rocca, Emilio 150 Leonardo (da Vinci) 163 e n, 168 Leuzzi, Giuseppe 260n Levi, Carlo 212 Lombardi, Anna 281n Lombardo, Antonio 123n Lombardo Radice, Giuseppe 24, 206, 245 e n, 253n Lombroso, Cesare 135 e n, 138n Longhi, Roberto 102n Longo, Gisella 96n Lucci Chiarissi, Luciano 231n Luporini, Cesare 163n Machiavelli, Niccolò 261, 264 Macleod, Henry Dunning 85 Magliano, Angelo 216 e n Mangoni, Luisa 6n, 8n, 137n Mannori, Luca 4 Manoïlescu, Mihaïl 66 e n, 68n Manzoni, Giacobbe 5 e n Marcuse, Herbert 196 Marinelli, Maurizio 240n Marinetti, Filippo Tommaso 8 Maritain, Jacques 287n Marrocu, Luciano 242n Marx, Karl 19n, 105, 244

Masini, Ferruccio 188n Massi, Ernesto 232n Massolo, Arturo 214, 215n Mastellone, Salvo 3 Mathieu, Vittorio 134n, 191n Matteotti, Giacomo xvi, 17, 24, 205, 245 e n Mazzini, Giuseppe 15, 16, 21, 265 e n Melchiori, Giorgio 130n Meliadò, Valentina 226n Melis, Guido 115n, 118n Menger, Carl 85 Mila, Massimo 212 Mill, John Stuart 142, 148n Minghetti, Marco 123n Mises, Ludwig von 85 Mittner, Ladislao 185n, 186n, 187n, 188n Modica, Antonino 87n Mondolfo, Rodolfo 150n Moneti, Guglielmo 236n Montale, Eugenio 131n, 212 Montanelli, Indro 225n Monti, Augusto 26n Moretti, Marino 131n Morra, Gianfranco 181 e n, 183 e n Mounier, Emmanuel 188n Mussolini, Benito 6, 8, 12, 17, 19, 20n, 24, 48n, 49, 91, 93 e n, 96n, 97, 98, 99n, 101n, 103n, 104, 105, 109, 115, 119, 120 e n, 203, 207, 208n, 209n, 226, 227 e n, 228, 266 Nacci, Michela 56n Nannini, Sandro 178n Nardi, Bruno 130n Nardi, Piero 221n Natoli, Claudio 242n Natoli, Salvatore 154 e n, 155n Negarville, Celeste 225n Negri, Antimo xi e n, 13n, 14 e n, 16 e n, 42 e n, 118n, 130n, 133n, 142n, 143 e n, 163n, 164, 170 e n, 173 e n, 263n, 264n

307

indice dei nomi Nello, Paolo 54n, 96n Neppi Modona, Guido 135n Nöel, Maurice 78n, 82n Ojetti, Ugo 102n Orlando, Federico 224n, 225n, 256 e n Ornaghi, Lorenzo 63n, 66, 67 e n, 146n Orsello, Gian Piero 220n Ostenc, Michel 6n Ottaviano, Carmelo 213n Oviglio, Aldo 24 e n Pacces, Federico Maria 97n Palmisano, Maria 201n, 202n Pantaleoni, Maffeo 38, 39, 123n, 134 Paolo vi (Giovanni Battista Montini) 251, 287n Papa, Emilio R. 29n, 135n Papen, Franz von 101n Paratore, Ettore 201n Pareto, Vilfredo 85, 182 Parlato, Giuseppe xviii, 4, 24n, 29n, 49n, 78n, 90n, 124n, 208n Parodi, Dominique 145n Patterson, Ernest M. 41n Pavan, Massimiliano 130n Pavolini, Alessandro 233n Pavone, Claudio 215n Pellizzi, Camillo 10 e n, 124 e n, 130n, 174n, 235 e n, 236n, 240 Perfetti, Francesco 79n Pertici, Roberto 4, 193n Pigliaru, Antonio 232n Pinna, Vincenzo 233n Pirelli, Alberto 214n Pirelli, Giovanni 226n Pirou, Gaëtan 41n, 45n Pirro, Vincenzo 46 e n, 47 e n Platone 224 Plebe, Armando 130n, 252 e n Pons, Silvio 240n Popper, Karl 27n Portigliatti Barbos, Mario 135n Pozzo, Gianni M. 232n

Preti, Giulio 215n Prezzolini, Giuseppe 182n Prini, Pietro 156 e n, 175n Punzo, Luigi 39n, 153n Puppo, Mario 186n Quasimondo, Salvatore 212 Rapone, Leonardo 242n Rasi, Gaetano xin, xiii e n, 84n, 93 e n, 101n, 108, 231n, 232n Restaino, Franco 134n Rettura, David 226n Reza Palhavi, Mohammad 259n, 260, 266 Ribbentrop, Joachim 101n Ricci, Umberto 33 e n, 34, 35n Robespierre, Maximilien-Marie-Isidore (de) 236 Rocco, Alfredo 40n, 42, 219 Romano, Sergio 127n, 205n Romualdi, Adriano xivn Rossoni, Edmondo 263 Rousseau, Jean-Jacques 59 e n, 60n, 61 e n, 62 e n, 63 e n, 64 e n, 236 Russo, Antonio xi e n, 132n, 133, 138n, 150n, 184n, 248n, 250n Russo, Luigi 214 e n Rüst, Bernhard 95 e n Sabahi, Farian S. 260n Saloni, Alfredo 138n Salvemini, Gaetano 123n, 246n Santomassimo, Gianpasquale 10n, 29n, 266n Santucci, Antonio 138n, 139n Sartori, Giovanni 197 e n, 234n Sasso, Gennaro 130n Savinio, Alberto 102n Savio, Giulio 251n Scaravelli, Luigi 130n, 253 e n Schacht, Hjalmer 94n Schiaffini, Alfredo 102n Schlegel, August Wilhelm 187 Schlegel, Friedrich 187 e n, 188n

308 Schulenburg, Werner-Friedrich von der 101n Schulenburg, Werner von der 101 e n, 102n, 103 e n Sebastiani, Osvaldo 208n Sechi, Lamberto 252n Segre, Beniamino 131n, 226n Segre, Sergio 226n Sen, Amartya K. 240n Sergi, Giuseppe 145, 146 Serpieri, Arrigo 44 e n Service, Robert 240n Severi, Francesco 246n Severi, Leonardo 126 e n, 127 e n, 245, 246n Severino, Emanuele 130n, 155 e n Sgambati, Emanuela 213n Silone, Ignazio 131n Sinisgalli, Leonardo 212 Sombart, Werner 41n Spencer, Herbert 139 e n, 140n, 142, 143 e n, 144, 145, 146 e n, 147, 148 e n, 149 e n Spinoza, Baruch 217n Stalin, Iosif Vissarionoviˇc 230, 232, 242 Stauffenberg, Claus von 102n Stella, Vittorio 96n, 223n Steve, Sergio 131n Stolzi, Irene 63n Tarchi, Marco 3 Tarroni, Giulio 96n, 97 e n Tassani, Giovanni 232n Tecchi, Bonaventura 214n Tilgher, Adriano 102n Togliatti, Palmiro xiv e n, 230, 232 e n

Tönnies, Ferdinand 14n Torzini, Roberto 141n Toscano, Mario Aldo 148n Treccani, Giovanni 84 Tse-tung, Mao 239 e n, 240 Turi, Gabriele 47n, 205n Vailati, Giovanni 134 Valentini, Isabella 223n Valitutti, Salvatore 96n, 118 e n, 133n, 170n Varisco, Bernardino 144 Vettori, Vittorio 231n Vinci, Gaetano 131n Vivarelli, Roberto 207 e n Volpe, Gioacchino 8, 102n, 137n, 223 en Volpe, Giovanni 231n Volpicelli, Arnaldo 29, 39n, 53 e n, 97n, 121n, 146n, 153, 209 e n, 210n, 225n Volpicelli, Luigi 232n Walras, Léon 85 Watanuki, Joji 195 e n Webb, Beatrice 242 e n Webb, Sidney 242 e n Windelband, Wilhelm 164 Zaganella, Marco 4, 86n, 95n Zanetti, Laura 253n Zanfarino, Antonio 3 Zangrandi, Ruggero 10n Zavatta, Laura 219n Zavattini, Cesare 212 Zavoli, Sergio 12n Zolla, Elémire 189n

Finito di stampare nel mese di marzo 2010 da Rubbettino Industrie Grafiche ed Editoriali per conto di Rubbettino Editore Srl 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro)

Filosofia Giuseppe Cacciatore, Antonio Labriola in un altro secolo. Saggi Leo Strauss, Le «Leggi» di Platone. Trama e argomentazione. A cura di Carlo Altini Benjamin Constant, Principi di politica applicabili a tutte le forme di governo. A cura di Stefano De Luca Hermann Lübbe, La politica dopo l’Illuminismo Vincenzo Costa, Il cerchio e l’ellisse. Husserl e il darsi delle cose Edmund Husserl, Filosofia prima. Teoria della riduzione fenomenologica Mary Ann Glendon, Tradizioni in subbuglio Roberto de Mattei (a cura di ), Finis Vitae. La morte cerebrale è ancora vita? Paolo Heritier (a cura di), Problemi di libertà nella società complessa e nel Cristianesimo Mariano Fazio, Cristianesimo e laicità Giovanni Maddalena, Metafisica per assurdo. Peirce e i problemi dell’epistemologia contemporanea Edmund Husserl, La cosa e lo spazio. Lineamenti fondamentali di fenomenologia e teoria della ragione Paola Bernardini, Uomo naturale o uomo politico? Il fondamento dei diritti in Martha C. Nussbaum E.J. Lowe, La possibilità della metafisica. Sostanza, identità, tempo. A cura di S. Galvan, A. Corradini e C.L. De Florio Sergio Belardinelli, L’altro Illuminismo. Politica, religione e funzione pubblica della verità Luisella Battaglia, Bioetica senza dogmi Vittorio Possenti (a cura di), Diritti umani e libertà religiosa Danilo Breschi, Spirito del Novecento. Il secolo di Ugo Spirito dal fascismo alla contestazione