Spinoza
 9788869442896

Table of contents :
Indice......Page 191
Frontespizio......Page 5
Introduzione di Gianpaolo Bartoli......Page 6
Avvertenza......Page 13
Note......Page 15
SPINOZA......Page 17
I. VITA E OPERE......Page 18
II. FILOSOFIA E VITA PRATICA......Page 25
a) Sostanza, attributo, modo......Page 28
b) Dio......Page 29
c) I due attributi: le domande di Tschirnhaus......Page 37
d) I modi......Page 40
e) Il tempo; la necessità......Page 42
f) Il salto tra Dio e mondo e la questione della loro unità......Page 43
a) I gradi della conoscenza......Page 50
b) Idee......Page 54
c) Relazione a Dio......Page 57
d) L’esposizione spinoziana della sua intuizione secondo il metodo geometrico......Page 58
e) Mistica, razionalismo, pensiero speculativo......Page 61
a) L’uomo non è sostanza, ma modo......Page 67
b) Pensiero umano e divino......Page 68
c) L’uomo è spirito e corpo......Page 69
d) L’uomo, l’animale e la differenza umana......Page 73
e) Immortalità ed eternità......Page 74
a) Scopi e valori sono pregiudizi che sorgono dal rovesciamento dell’idea di Dio......Page 77
b) Il nostro intelletto limitato come un modo (due metafore)......Page 80
c) Realtà e valore......Page 82
d) Lo scambio subitaneo tra i due modi di conoscenza......Page 83
e) L’ethos della libertà dal valore......Page 84
VII. SCHIAVITÙ E LIBERTÀ DELLO SPIRITO......Page 87
a) La dottrina degli affetti......Page 92
b) Descrizione della schiavitù......Page 95
c) L’idea e le possibilità della libertà......Page 96
VIII. RELIGIONE E STATO......Page 107
A) L’idea spinoziana dello Stato......Page 110
a) Princìpi della necessità della vita dello Stato......Page 111
b) Profilo dei modelli di Stato......Page 119
Spinoza e Hobbes......Page 122
B) La religione nello Stato......Page 124
a) Ragione e rivelazione: due domini......Page 129
b) La comprensione della Bibbia......Page 132
c) La libertà di pensiero......Page 135
a) Mancanza di chiarezza nella relazione tra scienza e filosofia......Page 138
Spinoza come scienziato......Page 143
b) Scienza biblica, fede, filosofia......Page 145
c) Obiezioni contro la certezza spinoziana di Dio......Page 150
d) Le decisioni personali di Spinoza e il suo destino......Page 160
e) Spinoza e la questione ebraica......Page 164
a) Sguardo sulla filosofia e l’essenza di Spinoza......Page 174
b) I limiti di Spinoza......Page 180
X. L’INFLUENZA DI SPINOZA......Page 186
Bibliografia......Page 189

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Le Navi

Titolo originale: Spinoza, tratto da Die Großen Philosophen Traduzione dal tedesco di Gianpaolo Bartoli I edizione ebook: maggio 2015 ISBN 9788869442896 © 2015 Lit Edizioni Srl Castelvecchi è un marchio di Lit Edizioni Sede operativa: Via Isonzo, 34 – 00198 Roma www.castelvecchieditore.com [email protected]

Karl Jaspers

SPINOZA A cura di Gianpaolo Bartoli

Introduzione di Gianpaolo Bartoli «Nella situazione del nostro finito essere-umano, noi cerchiamo queste due cose: l’unità che rende liberi, intatta, trascendente, e il linguaggio infinito della finitudine». KARL JASPERS, La fede filosofica Con Kant, Spinoza è l’unico altro pensatore «moderno» che Jaspers accoglie tra i suoi grandi filosofi1 . Chi ritenesse inattuale il pensiero di Spinoza, ovvero già compreso una volta per sempre, trascura che quanto vale per i grandi filosofi è che «non li si comprende né li si considera mai in modo definitivo. È sempre come se il grande debba essere scoperto sempre di nuovo, anche quando sembra esteriormente del tutto conosciuto… I grandi sono comparsi nel mondo per essere ascoltati, ma lungo i secoli possono anche essere scomparsi, fin quando qualcuno non ne percepisca nuovamente il linguaggio»2 , cercando di comunicarlo ancora. Per Jaspers, come Parmenide, Plotino e pochi altri, Spinoza, unico tra i moderni filosofi dell’Occidente, ha pensato attingendo all’originario, all’essere, all’Uno, nominandolo come sostanza: «Intendo per sostanza ciò che è in sé e per sé si concepisce: ossia ciò il cui concetto non ha bisogno di essere formato dal concetto di altro» (E1D3). Unica e necessaria è la sostanza ed eterna – dice Spinoza, superando antinomie del razionalismo cartesiano in ordine all’unicità della sostanza –, infinita e onniabbracciante (Umgreifendes, dirà Jaspers), indivisibile, causa sui: «Per causa di sé intendo ciò la cui essenza involge l’esistenza, ossia ciò la cui natura non può essere concepita se non come esistente» (E1D1). Della sostanza infiniti sono gli attributi, ovvero «ciò che l’intelletto apprende della sostanza come costituente l’essenza della medesima» (E1D4), tra cui, unici a portata dell’uomo, cogitatio ed extensio; infiniti sono anche i modi, «le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro e anche per mezzo di altro si concepisce» (E1D5), tutto quel che appare avere una qualche esistenza nel mondo e che, quindi, sembra affetto dalla finitudine: «Dicesi

finita nel suo genere quella cosa che può essere limitata da un’altra della stessa natura. Ad esempio, qualunque corpo si dice finito perché ne pensiamo sempre uno più grande. Allo stesso modo, un pensiero è limitato da un altro pensiero. Ma il corpo non è limitato dal pensiero, né il pensiero dal corpo» (E1D2). Concependo l’unità della sostanza, Spinoza – per Jaspers l’unico metafisico dell’età moderna – pensa dalla parte dell’infinito e dell’eterno, con ciò sembrando ritenere tutto quel che ha luogo nello spazio e nel tempo come un che di inessenziale, relativo solo alle sue affezioni contingenti, estraneo all’autentica ragione3 . Eppure, non è superbo il pensiero di Spinoza e non è inquieto. Chi pensa nella necessità dell’essere onniabbracciante non prova il brivido del nulla; chi ritiene tutto accadere secondo la ragione immutabile e necessaria del tutto come unica sostanza, non è sfiorato dall’angoscia dell’assurdo, dell’improvviso: dell’esistenza e di quel che incontra. Tuttavia, Spinoza, benché trovi l’essenziale della ragione nella quieta necessità del tutto, della sostanza, della divinità impersonale, non condanna il mondo e l’uomo all’esecutorietà dell’accadere, privo di libertà e di scelta. Benché pensi nella freddezza – è il termine di Jaspers – dell’amor intellectualis dei, Spinoza non lascia senza calore l’esistenza umana, né brucia il suo destino al fuoco dell’amor fati del nichilismo nietzscheano. Certo, ha buon gioco Kojève4 , riprendendo la critica di Platone a Parmenide, ad affermare che l’Eternità spinoziana annulla il Tempo e con questo il Mondo (donde l’accusa di acosmismo, già fatta propria da Hegel5 ). Tuttavia, l’unità eterna di Spinoza non esclude né annulla, bensì comprende i molti e il tempo e li vivifica, non ingiunge l’assoluto silenzio – come scrive ancora Kojève –, ma è capace di alimentare il dialogo: la finitudine umana vige nel tempo come ragione inesauribile di una comunicazione che non ha fine. Poiché, come avverte Jaspers, «nessun testo filosofico si può intendere in modo puramente filologico»6 , si rafforza il convincimento secondo cui, nonostante la lettera, il senso del pensiero di Spinoza può trovare il suo originario orientarsi nella questione della scelta tra il bene e il male. Occorre allora domandarsi perché la filosofia di Spinoza sia generalmente intesa come indifferente alla questione del bene e del male, quindi anche alle forme storiche del giusto e dell’ingiusto. È in quel decidersi originario tra bene e male, vero e falso – proprio, dice Jaspers, di ogni autentico filosofare – che

Spinoza può indicare l’inessenzialità delle caduche forme in cui il bene e il giusto trovano una temporanea oggettivazione, tributaria di superstiziosa e legalistica osservanza. Al di là del bene e del male è Spinoza, non per sovrana indifferenza, che conduce al nulla del se stesso e dell’esistenza, ma per la coscienza che il bene non si lascia oggettivare in un ordinamento positivo, definitivo, posto in un al di qua. Il bene inoggettivabile si trova sempre al di là delle sue molte possibili oggettivazioni, in cui continua a operare come causa immanens, se viene inteso come il senso sovrapersonale di ogni decisione individuale, il senso di «una sovrapersonalità universalmente valida che parla solo tramite la persona»7 , formando i contenuti storici del suo dovere. Qui sorge anche la responsabilità del singolo, in questo suo sottrarsi a una qualche oggettivazione del bene che alimenta l’armonica tensione tra quelli che Jaspers nomina come i due poli dell’eccezione e dell’autorità8 . In tal senso, per Spinoza, porsi al di là dei contenuti storici del bene e del male significa mostrarsi degni della propria libertà, perché «quel che in ogni individuo umano è determinato storicamente dalla libertà della sua esistenza e quel che egli è, nessuno può vederlo oggettivamente e inserirlo in un ordinamento»9 . Chi invece accetta una volta per tutte una qualche formulazione oggettiva del bene può giustificare, in forza di ciò, ogni suo agire; diviene l’irresponsabile esecutore «al servizio di qualsiasi potenza»10 . Per Jaspers il pensiero dei grandi filosofi come Spinoza garantisce contro il nulla della vuota astrazione, perché sa «la saggezza della vita nella polis e che regge il legame tra gli uomini»11 , orientandosi a interpretare e a comprendere le manifestazioni proprie della coesistenza. Può allora dirsi che Spinoza non perde affatto l’uomo e la sua vicenda storica, annullando entrambi alla luce pura dell’eterno, ma li eleva «onticamente», in un piano sovraempirico che, altrettanto, non elide l’esperienza esistenziale12 . Se così non fosse, Spinoza non avrebbe riflettuto su quanto dell’esistenza umana costituisce la trama mondana, la politica, il diritto: non avrebbe preso posizione – a sue spese – per la libertà di pensiero, di fede religiosa, di scelta politica, che si fanno altrettante pretese, che si traducono in altrettanti diritti. In Spinoza non si dissolve alla quiete dell’uno la consapevolezza che, come osserva Bruno Romano, «la molteplicità esige delle regole, affinché non si spenga in una unità assorbente e informe … Nella finitudine dell’io, le regole possono assumere la dimensione prioritaria della gratuità del dono

oppure possono definirsi secondo l’utilità del vantaggio»13 . La questione, per Spinoza, può porsi in questi termini: nel suo pensiero non ne va della difesa dell’ubbidienza dogmatica, ma della libertas philosophandi (TTP16, 1) e, deve aggiungersi, existendi, perché, vista la prima definizione dell’Etica, solo a chi è causa di se stesso conviene l’identità di esistenza ed essenza, non all’uomo, che dall’esistenza è avvolto, in cerca della sua essenza. Non si tratta, per Spinoza, di difendere la ragione suprema della Parola divina – del logos – da quanti ne disconoscano la verità, veicolo di giustizia e amore tra gli uomini che l’accettano per fede14 , ma piuttosto da chi non abbia coscienza che, per gli uomini liberi, la verità non esiste in questa suprema forma, ma solo declinata nel dialogo, nei molti logoi che faticano a coglierne il senso, libertà di parola che è subito diritto di ciascuno e di tutti15 . Le parole umane non sono lo spento riflesso del logos senza carne, della pura ragione, ma – questa è la coscienza alta di Spinoza – devono fare i conti con l’umana finitudine, incapace di giungere alla gratuità del senso senza combattere con quanto Spinoza attribuisce agli affetti (E4). Si tratta, con Spinoza, di sollevare la ragione all’orizzonte aperto della ricerca del senso esistenziale, che si trova frammesso alle lusinghe del senso fallace e alle tentazioni del non-senso. In questa direzione, si può forse interpretare la filosofia di Spinoza come un pensiero che libera le donne e gli uomini dal loro essere dominati dagli scopi, come schiavi-tiranni – secondo l’espressione di Deleuze16 – determinati ad agire per conseguire l’utile, mediato o immediato, radicando il valore più alto dell’umana ragione nel luogo di una gratuità che non si lascia valutare. Forse è alla luce di questa considerazione che la libertà dallo scopo e dal valore – perseguita da Spinoza anche nell’avere presenti gli accadimenti storico-politici – diviene per l’umanità l’orientamento verso una forma di libertà più autentica; questa non coincide, infatti, solo con i comandamenti della devozione religiosa – la cui osservanza, però, è imposta dal sapere teologico in modo dogmatico, anche con la violenza –, convergendo piuttosto con i precetti della stessa ragione liberamente accolti: in primo luogo, l’amore per gli uomini e la ricerca della reciproca comprensione. In Spinoza, dunque, la ragione non è sinonimo di spiegazione o causazione, ma rischiara il senso del fondamento del reciproco relazionarsi:

«“fondamento-ragione” del relazionarsi interpersonale è la reciproca liberazione dell’io e del tu dall’assoggettamento ai calcoli dell’utile»17 . Nel linguaggio di Spinoza è il divino – di cui non ci si può fare immagine né rappresentazione alcuna, né darsene una spiegazione oggettiva – il fondamento-ragione «impersonale» che indica il luogo inoccupabile della verità: si pone come il simbolo di una libertà umana che non consente la preminenza di un sapere personale-individuale su un altro sapere dello stesso genere18 . Come osserva Jaspers, nel senso di una ragione così intesa ne va di una verità distante, propria di una radicale alterità, che, però, nella ragione umana si fa prossima, perché capace di muovere l’agire – e l’agire personale –, capace di far prendere posizione nella Storia e nel mondo; se è vero che omnis determinatio est negatio, è vero nel senso che l’uomo, immesso nel tempo dell’esistenza, non può non determinarsi, con le parole e con le azioni, non può non affermare la sua verità, sempre personale, che si differenzia da quella altrui (quindi, in qualche misura negandola), ma questo proprio perché la verità – perciò impersonale per Spinoza, benché partecipata personalmente – non si lascia negare, né si lascia definire in una qualche determinazione. L’uomo non può evitare di dar forma al proprio agire e al suo stesso dire, non può che rendere oggetto una verità che non si lascia oggettivare19 : vale quindi anche, al contempo, che omnis determinatio est affirmatio, ma mai nel senso di una esplicitazione ultima e assoluta. Va detto che la sostanza spinoziana, interpretata da Jaspers in termini di Umgreifendes, con questo condivide il senso di apertura esistenziale che, come nota Luisa Avitabile, custodisce il singolo dal poter essere ridotto in una identificazione «né con il proprio corpo, né con il tratto sociale o politico, né con una delle dimensioni temporali». Nell’apertura dell’Umgreifendes «anche quando tutte le manifestazioni oggettive dell’io sono determinate dal suo esserci, l’io rimane, dalla sua origine, la possibilità di se-stesso»20 . In tal senso, agire secondo ragione significa determinarsi liberamente, ovvero agire «posseduti dalla verità», non mossi dalla contingenza di uno scopo utile: come scrive Luigi Pareyson, la «conoscenza della verità, quando la verità non si ritiri oscurata da un tradimento che la rinneghi e la neghi, è così fontale, radicale, originaria, che s’ha da dire che non si può possedere la verità se non nella forma d’esserne posseduti»21 , in una direzione in cui, paradossalmente, libertà e necessità convergono.

Nominando l’agire umano e la questione della libertà, si delinea l’ambito del dovere, che ha rilievo nella morale, certo, ma anche, non secondariamente, nel diritto22 . Occorre qui ricordare le espressioni di Schleiermacher – su cui molto ha influito il «santo scomunicato» Spinoza – secondo cui «la morale muove dalla coscienza della libertà, il cui regno essa vuole ampliare all’infinito»23 . Si deve però forse rintracciare in quell’originarietà simbolica e fontale della verità anche il senso delle istituzioni umane – sociali, giuridiche, politiche –, certo affette dalla finitudine umana, ma per Spinoza illuminate dalla verità della sostanza infinita ed eterna. Certo, per Spinoza il diritto coincide con la potenza, un diritto impotente è un non-diritto, ma non si tratta di condividere gli esiti di un potere assoluto, che lascia agli uomini l’unica preoccupazione della sicurezza, del conservare la vita, subordinati a tal fine al dominio del sovrano, come in Hobbes24 . Esiste la ribellione, in Spinoza, proprio per rivendicare il diritto di ognuno e di tutti, per affermare l’unica autorità che sempre sfugge ad attualizzarsi nella Storia, l’autorità della ragione, libera perché non persegue scopi particolari. Molti sono gli ostacoli per questa affermazione della ragione – che si annichilirebbe in modo contraddittorio ricorrendo all’istituzione di un ordine violento, assoluto, negatore della sua stessa genesi –, perché la finitudine propria dell’uomo e delle sue manifestazioni – del mondo dei modi, dice Spinoza – è attraversata dagli affetti, da quanto oscura, nella condotta esistenziale, la luce universale della ragione. Resta però intatto il nucleo di quel che per Spinoza è il diritto naturale, non al livello dell’appetito e dell’impulso immediati, che non fa distinguere l’uomo dagli animali – in cui «il diritto naturale di ogni uomo viene definito, così, non dalla sana ragione, ma dalla cupidigia e dalla potenza» (TTP16, 2) –, ma che piuttosto dalla ragione specificamente umana trae il senso suo e dell’intero ordine giuridico-politico, quindi anche dello Stato. In tal senso, la genesi della coesistenza sociale e dello Stato non sorge solo dal desiderio di vivere in pace e in sicurezza, non si fonda sul principio dell’utile, ma si leva dall’originario dovere di difendere ognuno, come fosse il suo proprio, il diritto dell’altro ad agire liberamente, per condividere la ragione comune come il bene il più alto (TTP16, 5). Un’immaginaria condizione naturalistica, presociale, non fa sorgere nessuna esigenza giuridica, perché ivi ognuno è libero di una libertà assoluta, sovrano fin dove

arriva la sua potenza, destinato però in fondo sempre a soccombere al dominio della forza più forte. Non si rintraccia qui, tuttavia, la ragione dell’ordinamento giuridico, dello Stato di diritto: «Dico che non è fine dello Stato trasformare gli uomini, da esseri ragionevoli, in animali o in macchine, ma, al contrario, di far sì che il loro spirito e il loro corpo possano svolgere in sicurezza le loro funzioni; che possano far uso della libera ragione, e che non contendano con odio, ira, né con frode, né agiscano reciprocamente con animo malvagio. Quindi, il vero fine dello Stato è, soltanto, la libertà» (TTP20, 6). Profondo quindi è lo iato tra lo stato di natura – in cui la potenza e il presunto diritto di natura si confondono con la realtà fattuale – e il senso in cui Spinoza interpreta il diritto naturale propriamente detto, peculiare della dimensione umana. Come osserva Giuseppe Rensi, per Spinoza «lo stato di natura è la negazione del diritto di natura»25 ; si tratta di una condizione, quella giuridica, originaria e non alienabile (come invece è per Rousseau, oltre che per Hobbes), in cui il singolo certo ha coscienza del suo dipendere dagli altri, ma mai può essere disponibile – se segue il suo dovere di essere umano che è anche il compito della sua ragione – a lasciarsi dominare, né a farsi padrone.

Avvertenza Intenzionato a orientare il ritmo della lettura, Jaspers utilizza una grandezza diversa per il carattere dei paragrafi; si è rispettata questa sua intenzione. Invece, quando possibile, a differenza dell’originale, si è scelto di segnalare tra parentesi i luoghi delle citazioni che Jaspers compie dalle opere di Spinoza (sempre, come avverte egli stesso, in modo non filologicamente esatto, cosicché, in alcuni casi, i riferimenti valgono in forma indicativa); ma, per una più avvertita lettura, bisogna essere consapevoli del fatto che la scelta di Jaspers di omettere i luoghi delle citazioni si giustifica con la sua volontà di non affidare il lettore alla «curiosità dello studioso che vorrebbe rivedere un passo citato. L’esame del valore della mia esposizione richiede più che la revisione di un paio di brani, ovvero che ognuno abbia una coscienza autonoma dell’intera opera del filosofo trattato»1 : ora di Spinoza. Per la citazione dei testi di Spinoza, conformemente all’uso invalso, valgono le sigle: 1. Per le opere: TIE (Tractatus de intellectus emendatione – Trattato sull’emendazione dell’intelletto); KV (Korte Verhandeling van God, de Mensch, en deszelvs Welstand – Breve trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità); CM (Cogitata metaphysica – Pensieri metafisici); TTP (Tractatus theologicus-politicus – Trattato teologico-politico); E (Ethica ordine geometrico demonstrata – Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico); TP (Tractatus politicus – Trattato politico); Ep (Epistolae – Lettere); 2. Per le partizioni interne: A (Assioma); Ap (Appendice); C (Corollario); D (Definizione); Dim (Dimostrazione); P (Proposizione); Pref (Prefazione); S (Scolio); Sp (Spiegazione). Le pagine indicate si riferiscono all’edizione italiana di Tutte le opere di Spinoza, citata nelle Note (cui si rinvia anche per ulteriori chiarimenti in merito all’uso delle sigle utilizzate), benché le traduzioni siano sempre modificate per renderle più conformi al testo jaspersiano. *** Per la realtà di questo lavoro sono grato al Dipartimento di Studi giuridici, filosofici ed economici dell’Università «Sapienza» di Roma, diretto da Luisa Avitabile: in particolare, devo ai suoi studi su Jaspers e alla sua ricerca sul «senso esistenziale del diritto», alimentata al magistero di Bruno

Romano, gli orientamenti per questa mia interpretazione. Ringrazio altresì la Karl-Jaspers-Stiftung di Basilea e l’Editore Castelvecchi di Roma, nella persona di Nicola Zippel, per la generosa disponibilità. Dedico queste pagine al ricordo di Alessandro Argiroffi, filosofo del diritto, studioso di Paolo e di Seneca.

NOTE INTRODUZIONE

1. Nel presentare quest’opera di Karl Jaspers (Spinoza, in Die Großen Philosophen, 1, München, 1957, pp. 752-897), si è tenuto conto delle esistenti versioni italiana, francese e inglese, rispettivamente a cura di Filippo Costa, Jeanne Hersch, Hannah Arendt. Per i brani di Spinoza, si è fatto riferimento all’edizione Tutte le opere, Milano, 2011, a cura di A. Sangiacomo, sempre modificando la traduzione per incontrare più da vicino le esigenze dello scritto di Jaspers. Per i criteri citazionali si veda l’Avvertenza che segue l’Introduzione. 2. K. Jaspers, Die Großen Philosophen, cit., p. 72. 3. Cfr. la lettera di Goethe, che denuncia questa interpretazione superficiale di Spinoza, in F.H. Jacobi, Scritti e testimonianze, a cura di V. Verra, Torino, 1966, p. 113. 4. Cfr. A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Milano, 1996, p. 439. 5. Cfr. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, Roma-Bari, 2009, p. 489. 6. K. Jaspers, Die Großen Philosophen, cit., p. 58. 7. Ivi, p. 30. 8. K. Jaspers, Esistenza ed autorità, L’Aquila, 1977. 9. K. Jaspers, Die Großen Philosophen, cit., p. 53. 10. Ivi, p. 80. 11. Ivi, p. 36. 12. Cfr. T. Moretti-Costanzi, Spinoza, Roma, 2000, p. 264. 13. B. Romano, Dono del senso e commercio dell’utile. Diritti dell’io e leggi dei mercanti, Torino, 2011, p. 53. 14. Cfr. L. Strauss, La critica della religione in Spinoza, Roma-Bari, 2003. 15. Cfr. A. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, Paris, 1988. 16. G. Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica, Milano, 2012, p. 22; cfr. anche F. Alquié, Servitude et liberté chez Spinoza, Paris, 1971. 17. B. Romano, Forma del senso. Legalità e giustizia, Torino, 2012, p.

16. Cfr. anche C. Vinti, Spinoza. La conoscenza come liberazione, Roma, 1984. 18. Cfr. M. Gueroult, Spinoza, I. Dieu, Paris, 1968; K. Löwith, Spinoza. Deus sive natura, Roma, 1999. 19. Cfr. B. Romano, Forma del senso. Legalità e giustizia, cit., p. 15 ss. 20. L. Avitabile, Lotta e comunicazione: K. Jaspers e l’Umgreifendes del diritto, in AA.VV., Seminari di filosofia del diritto, a cura di B. Romano, Torino, 1997, p. 77. 21. L. Pareyson, Ontologia della libertà, Torino, 2000, p. 115. 22. Cfr. B. Romano, Il dovere nel diritto. Giustizia, uguaglianza, interpretazione, Torino, 2014. 23. F.D.E. Schleiermacher, Sulla religione, in Id., Scritti filosofici, Torino, 1998, p. 113. 24. Cfr. C. Lazzeri, Droit, pouvoir et liberté. Spinoza critique de Hobbes, Paris, 1998. 25. G. Rensi, Spinoza, Milano, 1941, p. 183. AVVERTENZA

1. K. Jaspers, Die Großen Philosophen, cit., p. 101.

SPINOZA

I. VITA E OPERE Spinoza (1632-1677) discendeva dagli ebrei spagnoli, esiliati dal Portogallo; da lì i suoi genitori erano emigrati ad Amsterdam. Egli crebbe nella grande tradizione della cultura giudaico-ispanica, nella sua filosofia, nello studio della Bibbia ebraica, del Talmud, degli esegeti e nella frequentazione della letteratura spagnola. Quando aveva quindici anni era già considerato come la luce a venire della Sinagoga. I conflitti con gli ebrei eruditi e l’abbandono di fatto della Sinagoga finirono per decretarne l’espulsione dalla comunità giudaica quando aveva ventiquattro anni. Vi fu il tentativo di mantenerlo nella retta fede e di consentirgli di percepire uno stipendio annuo, se solo avesse acconsentito a frequentare di tanto in tanto la Sinagoga, ma Spinoza rifiutò l’offerta. Quando un fanatico cercò di assassinarlo, lasciò Amsterdam, trovando ospitalità da un amico; fu allora che venne colpito dal «grande bando» della Sinagoga, un bando che aveva anche effetti civili e al quale Spinoza si oppose. Tuttavia, che fosse già maturo in lui l’intento di lasciare la Sinagoga è testimoniato dalla sua difesa, contenuta in uno scritto oggi perduto, Apologia per giustificarsi dell’abbandono della Sinagoga (Gebhardt). Le sue sorelle, facendosi forti del bando, contestarono a Spinoza l’eredità paterna; pertanto, egli, in quanto cittadino olandese, rivendicò il suo diritto in tribunale, benché alla fine rinunciò a tutto, anche a ricevere un letto. Sui suoi familiari non disse mai nulla, se non quando decise di non contemplarli nel testamento: «Costoro non hanno avuto una condotta conforme». Di fatto, in silenzio, senza lamenti o proteste, aveva rotto con la sua famiglia. Di cosa visse Spinoza? La sua esigenza di libertà imponeva che, anche dal punto di vista economico, egli fosse indipendente. Imparò a molare lenti ottiche, una

novità per l’epoca, molto richiesta, divenendo un maestro in tale attività. Tuttavia, non si manteneva con i relativi guadagni, bensì erano gli amici a sostenerlo. Spesso gli veniva offerto denaro, che quasi sempre rifiutava; lo accettò da Simon de Vries, del quale però non volle essere designato erede al posto del fratello, cui spettava tale diritto, anche secondo natura. Quando questo fratello di Simon, alla morte di questi, volle destinargli una rendita annua di 500 fiorini, Spinoza la ridusse a 300. Jan de Witt, con un atto scritto, gli aveva donato una pensione di 200 fiorini, e quando, successivamente, i suoi eredi sollevarono delle difficoltà al riguardo, Spinoza rinunciò a tutto, restituendo l’atto di donazione: da allora continuarono a onorare i loro impegni. Nella sua condotta di vita Spinoza era libero da particolari necessità: «L’abito non fa l’uomo. Perché dare un rivestimento prezioso ad una cosa senza valore» (Colerus, p. 76). Tuttavia, benché modesto nel vestire e nella sua quotidianità, non era però trasandato, bensì ordinato e sobrio. I soldi di Spinoza finivano tutti in un punto: infatti, lasciò una biblioteca scelta e di valore. Dopo il bando, la vita di Spinoza trascorse serena presso camere prese in affitto in diversi luoghi dell’Olanda: nel periodo 1656-1660 in una casa di campagna tra Amsterdam e Ouwerkerk, dal 1660 a Rijnsburg presso Leida, dal 1663 a Voorburg presso l’Aia, dal 1669 all’Aia, prima a pensione da una vedova e poi, dal 1671, in casa del pittore Heinrich van der Spyk, dove si prese cura dell’andamento domestico. Qui morì di tubercolosi nel 1677, a quarantacinque anni. Spinoza non volle il suo destino, ma lo accolse come inevitabile: questo comportò lo scioglimento da ogni comunità di fede, di origine, di popolo, dalla sua propria famiglia. Cacciato dagli ebrei non divenne cristiano. Però era un cittadino dello Stato olandese ed ebbe la volontà di adempiere i suoi doveri civici come qualcosa che gli apparteneva in proprio, nonché di esercitare i suoi diritti. Lo Stato olandese era sorto nel conflitto contro il dominio spagnolo, giungendo a costituirsi giuridicamente come una entità politica indipendente; questo non avvenne per una esigenza di libertà di origine popolare, ma piuttosto politica, in nome dell’indipendenza religiosa.

Quando lo Stato sorse e si affermò, durante la guerra contro la Spagna, cominciata nel 1568 sotto il comando degli Orange, il suo destino fu deciso dalle armi; ma dopo che lo Stato olandese fu riconosciuto con la pace di Westfalia (1648), ritenendosi al sicuro, fu chiaro che la sua guida non potesse più spettare a un ordinamento militare sotto un comando unitario. Quindi il partito repubblicano (il patriziato olandese, il partito dei reggenti) sconfisse gli Orange. In un ventennio i repubblicani, guidati da Jan de Witt, riuscirono a creare un fiorente e pacifico sviluppo; si limitarono gli oneri militari, assicurando lo Stato attraverso alleanze di politica estera. La vera libertà religiosa venne resa possibile dai repubblicani, contro l’intolleranza perpetrata di fatto dagli orangisti. Quando però Luigi XIV, insieme al re d’Inghilterra, attaccò di sorpresa l’Olanda, questa prospera situazione finì e Jan de Witt, considerato un traditore, fu giustiziato dalla plebe (1672). Il partito degli Orange riprese il potere, ma lo spirito dei repubblicani continuò a esercitare la sua influenza. Spinoza partecipò alla vita politica: il Trattato teologico-politico (1670) non è stato da lui pensato e pubblicato soltanto come una ricerca filosofica, ma anche con lo scopo di rafforzare l’azione politica del suo amico Jan de Witt e dei repubblicani (Gebhardt). Il potere di Jan de Witt, come primus inter pares in un partito aristocratico, dipendeva dall’opinione pubblica. Lo spirito del governo doveva trovare riscontro nello spirito della popolazione. A tale spirito appartenevano la libertà di coscienza e l’indipendenza dello Stato rispetto all’ortodossia della Chiesa. Furono questi i princìpi ispiratori dell’opera di Spinoza. Dopo l’esecuzione di de Witt, il partito dei repubblicani (o partito dei reggenti) ne riprese i princìpi per ristabilire la pace. Con consapevolezza e fermezza, tale partito fece in modo che Spinoza si recasse a Utrecht, presso il quartier generale del principe di Condé, per favorire il processo di pace; ma forse in questo fu manovrato da un faccendiere che voleva soddisfare il presunto desiderio del principe di incontrare il famoso ebreo. Si racconta della serenità e della sicurezza con cui Spinoza si presentò a corte, ma poiché non riuscì a vedere il Condé, tornò in patria senza aver ottenuto nulla. La plebe lo accusò di essere una spia. Il padrone di casa di Spinoza

temette che qualcuno potesse irrompere con la violenza nella sua abitazione. Spinoza rispose: «Non siate preoccupato. Sono innocente e molti uomini importanti conoscono il motivo del mio viaggio a Utrecht. Quando sentirete rumore alla vostra porta, io andrò incontro alla gente, anche se mi fosse riservato il destino del buon signor de Witt. Sono un sincero repubblicano e mi impegno per il bene della repubblica» (Colerus, p. 80). Questa era la condotta di Spinoza come cittadino olandese. Vinse il partito degli Orange, introducendo (in conformità alla vecchia classificazione delle forme di Stato, valida anche per Spinoza) una monarchia che si opponeva all’aristocrazia del partito dei reggenti. In un trattato politico postumo, Spinoza tracciò le linee idealtipiche della monarchia e dell’aristocrazia, tentando, per entrambe queste forme, di enuclearne i migliori aspetti possibili; quando, però, si accingeva a trattare della terza forma, la democrazia, la morte ne interruppe la stesura. Spinoza non era olandese per antica ascendenza, bensì per diritto politico, e in quanto non più appartenente alla comunità ebraica, cosa gli rimaneva oltre alla sicurezza garantita dal diritto di partecipare alla vita politica del suo Stato? Nient’altro che la condizione umana di individuo libero, che dipende dall’altro uomo solo se resta se stesso, secondo i dettami profondi della ragione. Pagando il prezzo della perdita di una posizione stabile in questo mondo, Spinoza si pose sul suolo della verità eterna, nella misura in cui è accessibile all’uomo in quanto tale. Il suo pensiero diede riparo a coloro che possono contare solo su se stessi, orientando chiunque sia in cerca di indipendenza. Egli rintracciò la certezza profonda della ragione nella filosofia che illuminò e guidò la sua vita. Quando gli si proponeva di convertirsi al cattolicesimo, rinunciando a ritenere la sua filosofia come la migliore, rispondeva: «Non ho la pretesa di aver trovato la filosofia migliore, ma so di conoscere quella vera» (Ep76, p. 2189). Solo la sicurezza politica propria di uno Stato di diritto, unitamente alle relazioni interpersonali specificamente umane, che si basano sull’unica condizione dell’appartenere all’umanità, potevano superare la situazione in cui Spinoza si trovava, ovvero la fattuale mancanza di una posizione stabile. E così fu. Spinoza aveva amici, molte relazioni e una fitta corrispondenza epistolare. Fu ben accolto nel circolo dei Collegianti, una società cristiana che

si riuniva nel nome della libertà confessionale, e cercò una comunità filosofica: «Fa parte della mia felicità condividere i frutti della mia fatica, in modo tale che molti altri acquisiscano come me la conoscenza, affinché la conoscenza e la volontà degli altri si trovino in accordo con la mia conoscenza e la mia volontà» (TIE §14, p. 117). Non obbligò nessuno ad accettare il suo insegnamento, ma quello che affermava persuase molti. Nessuno poteva negare l’essenza nobile della sua personalità, e anche chi gli era ostile, nel tentativo di confutarlo, doveva riconoscerlo. Apprezzava la compagnia di uomini semplici, e quando la sua governante gli domandò se la religione da lei professata potesse condurre alla beatitudine, egli rispose: «La vostra religione è buona, non avete bisogno di altre, se improntate la vita alla ricerca della serenità, accettandola come un dono divino» (Colerus, p. 77). Nonostante i buoni amici, Spinoza dovette sopportare anche che altri lo fraintendessero, che se ne servissero, che si allontanassero da lui, fin quando non giunse Leibniz ad accorgersi della straordinaria dignità di questo ebreo, che più tardi rinnegò. Il desiderio di indipendenza di Spinoza non è facile da comprendere; egli vuole solo pensare e vivere il vero, che per lui significa: essere in Dio. Tale indipendenza nutrita dalla certezza di sé ha un carattere impersonale, perché il cammino della saggezza che conduce a se stessi non è pensabile nelle forme della persona individuale. Presso quest’uomo, che è tutto in se stesso, non c’è alcuna preoccupazione individuale, non compare alcuna autoriflessione e neanche orgoglio o sopraffazione. Il suo sé non ha importanza, tanto che l’Etica, dopo la sua morte, si sarebbe dovuta pubblicare in forma anonima. Infatti, la verità è impersonale. Non importa chi sia stato a formularne le proposizioni. Qui non può esserci volontà di possesso, quando si tratta della verità (altro accade per chi compie ricerche in ambito scientifico o matematico, dove la pretesa di rivendicare il raggiungimento di particolari risultati è legittima e prioritaria). Spinoza chiudeva le sue lettere con il sigillo «caute». In effetti, egli fu prudente per poter vivere serenamente. Ebbe cura nella scelta di quanti prendevano parte alla sua dottrina e potevano leggere i suoi manoscritti, differendone la pubblicazione. Molti infatti apparvero postumi. Non volle essere un martire: «Io lascio che ognuno ricerchi il suo senso nella vita, e chi vuole si impegni pure a morire per la sua felicità, se io posso vivere unicamente per la verità» (Ep30, p. 1983). Per questo motivo Spinoza rifiutò

la chiamata all’Università di Heidelberg (1673), nonostante la garanzia di libertà di insegnamento: «Io ho degli scrupoli su quali siano i limiti entro cui possa essere circoscritta la libertà di filosofare… Non esito per la speranza in una sorte migliore, ma per il mio desiderio di una vita serena, che non credo sia possibile se non astenendomi dall’insegnamento pubblico» (Ep48, p. 2067). Così scrisse al ministro del Palatinato. Spinoza non era un solitario eccentrico, né ebbe un ruolo da statista; non abbracciò altra professione se non quella di svolgere con sistematicità il suo pensiero e metterlo sulla carta. Del resto, era un uomo che bastava a se stesso, sempre pronto ad agire con naturalezza secondo i princìpi della ragione, sia come cittadino che come persona disponibile ad aiutare il prossimo, sempre con animo pio. La sua serena dignità appare tanto innata che coltivata tramite la sua filosofia, ma non era certo un apatico, non aveva un carattere distaccato, non aveva un temperamento debole, come dimostrano alcuni aneddoti: pianse per l’esecuzione di Jan de Witt e scrisse un manifesto indirizzato alla folla, che iniziava con le parole: «ultimi barbarorum»; volle uscire e affiggerlo. Solo quando la sua governante lo chiuse in casa affinché non si esponesse a dei rischi, si rese conto della situazione. Dei ritratti pervenuti, quello conservato a Wolfenbüttel lo raffigura come nobile sefardita; tuttavia, anche questa immagine può soltanto fornire un indizio della nobiltà di quest’anima pura, di cui ci rendiamo conto attraverso la sua opera e la sua condotta di vita. Opere: durante la sua vita furono pubblicati soltanto l’esposizione didattica, in forma matematica, dei Princìpi della filosofia cartesiana (1663), apparsi sotto il suo nome, nonché, anonimo, il Trattato teologico-politico (1670). Subito dopo la sua morte comparvero, in unico volume, l’Etica, il Trattato politico, lo scritto Sull’emendazione dell’intelletto, le Lettere e il Compendio di grammatica ebraica. Nel 1852 fu ritrovato il Trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità. Sulla cronologia degli scritti: per quanto riguarda il periodo che precede il bando, non ci è giunto nulla. Il documento più antico è il breve trattato scoperto nel 1852 (risalente a una data precedente al settembre 1661, probabilmente collocabile tra il 1658 e il 1660), che costituisce la prima versione del modo di pensiero spinoziano. Agli

scritti più antichi appartiene il Trattato sull’emendazione dell’intelletto, incompiuto ma importante per comprendere il modo di sentire proprio di Spinoza. Lo scritto sui Princìpi della filosofia cartesiana risale al 1662-1663, mentre il suo capolavoro, l’Etica, vide un primo abbozzo tra il 1662 e il 1665. Gli originari tre libri divennero poi cinque. Spinoza si dedicò alla correzione del manoscritto fino alla fine. Il Trattato teologico-politico fu iniziato nel 1665 e pubblicato nel 1670. A poco prima della morte risale la stesura del Trattato politico, rimasto incompiuto.

II. FILOSOFIA E VITA PRATICA La filosofia crebbe nella vita di Spinoza come un mezzo, l’unico capace di fargli trovare il suo scopo. Attraverso la riflessione che segue, diviene chiara a Spinoza la sua strada, sin dal suo primo scritto sull’emendazione dell’intelletto. Tutto contiene in sé il bene e il male nella misura il cui l’anima ne è mossa. Quanto solitamente la vita offre si rivela vano e senza valore. «Così decisi alla fine di ricercare se ci fosse qualcosa che fosse il vero bene e da cui, solo, l’anima potesse essere affetta, e grazie a cui io potessi godere per sempre di una gioia stabile e piena» (TIE §1, p. 111). Spinoza dice: «decisi alla fine», poiché all’inizio non sembra opportuno sacrificare il certo per l’incerto. Ad apparire certi sono la ricchezza, l’onore, il piacere dei sensi. Tuttavia non è certo che qui possa trovarsi il sommo bene, poiché dal piacere dei sensi derivano confusione e ottundimento dello spirito; la ricchezza esige sempre accrescimento; la ricerca dell’onore comporta il conformarsi all’opinione degli uomini, porta a evitare quello che essi evitano e ad accettare quanto accettano. Se voglio dedicarmi a qualcosa di nuovo, ovvero al bene autentico, devo abbandonare tutte queste cose, la cui pretesa, per lo spirito che le insegue, è quella di rinunciare a un altro bene. La strada della ricerca del vero bene implica pertanto abbandonare un bene per sua natura incerto, per un altro bene, anch’esso ancora incerto, ma che non è tale in sé. Per liberare la vita dai beni opinabili e transitori, che danno solo la certezza di sprofondare nel nulla, occorre scegliere la strada nuova, benché incerta, come mezzo di salvezza. La prima questione è: dove risiedono la felicità e l’infelicità? Risposta: nella qualità degli oggetti che amiamo. Ci sono due categorie di oggetti; quando si amano oggetti transitori e che non tutti possono ottenere nella stessa misura, allora siamo preda dell’invidia, dell’angoscia e dell’odio. «Ma

l’amore per qualcosa di intemporale e inesauribile nutre l’anima di gioia pura ed è libero dal dolore» (TIE §10, p. 115). Fu l’esperienza a insegnare a Spinoza che, in base a questa intuizione, lo spirito può allontanarsi dalle cose finite, ma non può farne a meno. Le pause della liberazione divennero più frequenti e più lunghe, ma non fu questo a indurlo a decidersi, bensì il convincimento ulteriore secondo cui è dannoso ricercare per se stessi il denaro, il piacere dei sensi e l’onore. Finché queste cose vengono intese come mezzi non producono danni, perché si mantengono nella giusta misura. Un tale equilibrio è caratteristico della natura di Spinoza: il sommo bene, che gli si mostra, non annulla tutto il resto e non occorre aspettare la sua realizzazione nell’aldilà, ma coglierla nel mondo. Che cos’è il sommo bene? Spinoza scrive in gioventù questa risposta concisa: la conoscenza dell’unità che unisce lo spirito al tutto della natura e la sua partecipazione alla comunione con gli altri uomini. Se tutte le cose sono intese come mezzi per questo scopo e contribuiscono a raggiungerlo, si danno allora le conclusioni che seguono. Si deve comprendere quanto della natura sia necessario per conseguire la più alta natura dell’uomo. Si deve costruire una società adatta al raggiungimento di quello scopo nel modo più semplice e più sicuro per la maggior parte possibile degli uomini. Si devono concepire una filosofia morale e una dottrina dell’educazione conformi allo scopo. Si deve promuovere la medicina per difendere la salute, che non è un mezzo secondario. Si deve migliorare la meccanica, affinché le attività lavorative siano semplificate, in modo da risparmiare tempo e fatica. Si devono trovare i mezzi utili per purificare l’intelletto, affinché le cose siano conosciute felicemente e senza errori, per quanto possibile. Tutte le scienze hanno il compito di convergere verso un unico scopo, un solo obiettivo, quello del raggiungimento della più alta pienezza umana. Regole provvisorie di vita, lungo questo itinerario, sono: Si discorra in base alle capacità di comprensione della massa e ogni

cosa sia fatta in modo da non costituire intralcio per il raggiungimento dello scopo. È così che si rendono gli uomini pronti ad ascoltare la verità. Si goda del piacere con misura, al fine di preservare la salute. Si cerchi di guadagnare solo il denaro sufficiente a conservare la vita e la salute. Si rispettino i costumi del luogo, nella misura in cui non contrastano con il nostro obiettivo. La nostra presentazione della filosofia di Spinoza avrà il seguente svolgimento: Il sommo bene si ottiene quando, nella sua visione che è eterna, l’intuizione filosofica si fa attuale (visione metafisica totale). Tutto questo si compie attraverso la sapiente consapevolezza di tale intuizione (teoria della conoscenza). Entrambi questi aspetti portano alla consapevolezza di cosa è l’uomo. Dare compimento a tale intuizione è libertà, che, sulla vita pratica, ha l’effetto di renderla libera (chiarificazione etica dell’asservimento agli affetti e libertà attraverso la conoscenza). Non è sufficiente la libertà personale del singolo; noi non viviamo nell’isolamento, ma nel mondo reale dell’essere insieme, in una condizione di relativa dipendenza. L’esistenza sociale è fondata nell’uomo e dall’uomo deve essere governata. Questa vita comunitaria si realizza nello Stato e nella fede nella religione rivelata. Spinoza concepisce il suo pensiero sempre in forma politica e teologica, secondo i canoni conosciuti dalla filosofia.

III. LA VISIONE METAFISICA Per comprendere la riflessione di Spinoza sulla vita pratica e il suo giudizio sulle questioni dell’etica, della scienza, della politica e della teologia, occorre avere consapevolezza del fondamento costitutivo che tutto precede e che può rivelarsi solo nella visione metafisica dominante nella sua vita, attraversandola fino in fondo. In Spinoza, la visione concettuale totale appare d’un tratto quasi perfetta. Alla domanda su come Spinoza vi sia pervenuto, è possibile dare solo una risposta: attraverso la chiarificazione della sua coscienza di Dio, che, innata in lui e alimentata nell’infanzia dalla frequentazione della tradizione biblica, diventò l’unico oggetto cui tutto si riferisce.

a) Sostanza, attributo, modo Per esprimere questa coscienza di Dio e per farla penetrare nella totalità di quanto è, Spinoza ricorre alle sue parole fondamentali, che al primo colpo d’occhio possono disorientare. Alla domanda: cosa è? Egli risponde: la sostanza, i suoi attributi e i suoi modi. Sostanza: l’origine deve essere ciò che in se stesso non ha più bisogno di fondamento, che quando viene pensato non rinvia a nient’altro oltre a sé. Davanti a questo, ovvero al suo «da dove», il domandare tace. La sostanza è tale da non avere alcun altro fondamento, grazie al quale sarebbe. Questo significa: la sostanza è il fondamento che è il suo stesso fondamento, ovvero causalità originaria (causa sui). Il concetto di sostanza, quindi, non può presupporre il concetto di nient’altro che le sia estraneo. Piuttosto, sostanza è ciò che è in sé e si concepisce solo mediante se stesso. Di ogni cosa che c’è nel mondo è possibile pensare l’inesistenza, ma non dell’origine, della sostanza, per cui, unica tra tutto, vale il seguente principio: la sostanza non è pensabile senza che al contempo sia pensata come esistente. «Per causa sui io intendo quanto nella sua essenza

comprende l’esistenza, ovvero ciò la cui natura non può concepirsi che in quanto esistente» (E1D1, p. 1147). Sarebbe insensato pensare la sostanza come non esistente, perché significherebbe pensare che il niente è. Tra tutti i pensieri, certo, questo è il più semplice: pensare la possibilità che il niente sia. Ma conferire realtà a questo pensiero è impossibile. Che l’essere è – per Spinoza: che la sostanza è – non rappresenta per lui solo un pensiero in generale, bensì incarna lo straordinario, tutto abbracciante, inesauribile e compiuto pensare Dio, che si riscontra in tutto il pensabile ed esperibile, laddove si getti lo sguardo in direzione del loro fondamento. Attributo: quel che sappiamo dell’unica sostanza, lo sappiamo grazie ai suoi attributi, il pensiero e l’estensione (cogitatio ed extensio). Tutto quello che esperiamo consiste nell’uno (dall’interno) o nell’altra (dall’esterno). Pensiero ed estensione si chiamano attributi, da una parte «dal punto di vista dell’intelletto che riconosce alla sostanza una certa natura», dall’altra l’attributo esprime (exprimit) l’essenza della sostanza o la chiarifica (explicat). Nella loro determinazione qualitativa, gli attributi sono molteplici (pensiero ed estensione), ma ognuno di essi è infinito come la sostanza e comprensibile solo in sé. Tuttavia, gli attributi sono infiniti solo nel loro genere, non in senso assoluto come la sostanza, che non ha solo questi due, ma infiniti altri attributi a noi sconosciuti. Modo: si dicono modi le cose individuali, ovvero questi modi di pensiero e questi corpi. Essi «sono quanto ha esistenza in altro, attraverso cui vengono concepiti» (E1D5, p. 1147). La sostanza e gli attributi sono eterni e infiniti, i modi sono temporali e finiti «in modo certo e limitato» (E1P36Dim, p. 1207). Poiché la sostanza si dice Dio, Spinoza afferma: «Le cose particolari altro non sono che le affezioni degli attributi di Dio, ovvero i modi mediante cui essi trovano espressione in modo certo e determinato» (E1P25C, p. 1189). Tutto questo si lascia dire in una frase: esiste solo la sostanza, ovvero i suoi attributi e le affezioni degli attributi. E ancora: «Tutto ciò che è, è in Dio, e senza Dio nulla può essere né essere concepito» (E1P28S p. 1193).

b) Dio

Pensare la sostanza significa conoscere Dio. Più propriamente, il pensiero spinoziano di Dio presenta questi momenti. Primo: Dio esiste. Perché il pensiero della sostanza o di Dio coincide con la conoscenza che questo esiste? Che qualcosa esista è certo come il nostro stesso esserci. Tuttavia, il nostro esserci è transitorio, ed essendo individuale non è necessario, bensì casuale: possiamo pensare che non sia. Se c’è, deve avere il suo fondamento. Il fondamento può trovarsi in un’altra esistenza e il fondamento di questa ancora in un’altra e così via all’infinito, senza individuare un fondamento che sia tale per eccellenza. Quest’ultimo può risiedere solo in una esistenza necessaria, ovvero tale che non esista per caso, rinviando a un altro fondamento, ma che si tenga in se stessa. Tale esistenza, tuttavia, è necessaria soltanto se non è possibile pensare che il niente sia. Se il niente potesse essere, allora l’essere non sarebbe necessario. Ripetiamo il concetto: se cerchiamo di pensare che la mera essenza finita, che noi stessi siamo trovandoci nel mondo, esista necessariamente, allora «le essenze finite sarebbero più capaci di essere rispetto alle essenze assolutamente infinite». Solo le essenze infinite, non finite, possono esistere in modo necessario. Donde la conclusione: «O non esiste nulla in generale, oppure l’essenza assolutamente infinita esiste ed esiste necessariamente» (E1Dim11, p. 1163). Ancora: la mera esistenza del non necessario è impensabile. Ma noi essenze finite e contingenti esistiamo. «Allora non possiamo avere certezza dell’esistenza di nessuna cosa più di quella dell’essenza assoluta, infinita e perfetta, che si chiama Dio» (E1P11S, p. 1165). Questa è per Spinoza la certezza più chiara, più decisiva e più grande che possa darsi in generale. Una volta pensata seriamente la sostanza, il dubbio deve dissolversi. «Se qualcuno volesse affermare di avere una chiara e distinta, dunque vera, idea della sostanza e contemporaneamente dubitare che una tale sostanza esista, sarebbe esattamente come se dicesse che egli ha sì una vera idea, ma ha il dubbio che sia falsa» (E1P8S2, p. 1155). In questo pensiero fondamentale dell’esistenza di Dio, noi dobbiamo distinguere due momenti: il primo, che consiste nell’uscita dall’esserci delle cose finite, il secondo, che riguarda l’idea dell’esistenza assolutamente

necessaria in sé della sostanza infinita. Quell’uscita rappresenta solo una guida poiché, a partire da quanto va da sé per la coscienza quotidiana (per il nostro esserci), sollecitando la domanda sul fondamento di questo esserci (a causa della futilità di una reiterata ricerca senza fine attraverso il mondo), occorre raggiungere il pensiero dell’esistenza necessaria. Tuttavia questo pensiero, l’idea della sostanza o di Dio, per Spinoza non è certo qualcosa di sopraggiunto, bensì risiede in se stesso. L’idea di Dio non ha bisogno di alcuna giustificazione o deduzione, perché precede tutto ed è chiara e certa in se stessa. Questo è il motivo per cui Spinoza rifiuta le prove dell’esistenza di Dio che muovono dall’esserci del mondo. Quando i teologi che utilizzano queste prove accusarono Spinoza di ateismo, egli oppose loro la sua certezza originaria circa l’esistenza di Dio. Da qui la sua meraviglia, ritenendo le cose invertite: chi ha bisogno di dimostrazioni così povere non può avere alcuna certezza di Dio. Secondo: Dio è infinito. La sostanza che esiste necessariamente è infinita. Se non lo fosse, non sarebbe sola in se stessa, perché in rapporto ad altro. Essa non sarebbe neanche la pienezza dell’essere su cui riposa ogni vera realtà. La sostanza o Dio si dice pertanto assolutamente infinita (absolute infinitum); essa ha infiniti attributi: «Quanto più un’essenza ha di realtà o di essere, tanto più ha anche di attributi che esprimono la necessità o l’eternità e l’infinità, donde ne segue che nulla è più chiaro del fatto che l’essenza assolutamente infinita deve essere necessariamente determinata nel suo concetto, come un’essenza costituita da infiniti attributi» (E1P9 e P10S, p. 1159). Anche ogni attributo è infinito, ma non in senso assoluto, bensì nel suo genere (in suo genere infinitum). Noi uomini conosciamo solo due attributi: pensiero ed estensione. Ma se vi fossero unicamente questi due attributi, la sostanza non sarebbe assolutamente infinita. L’infinità di Dio non tollera alcuna costrizione. Lo spirito umano non può giungere a una conoscenza ulteriore degli attributi di Dio, non può elaborarne o comprenderne altri oltre questi due. L’infinità del numero degli attributi, che l’uomo deve pensare necessariamente, segnala la trascendenza del divino. Anche nella più chiara conoscenza di Dio, la conoscenza umana si ferma davanti all’invalicabilità del confine con il divino e la molteplicità infinita dei suoi attributi. Terzo: Dio è indivisibile. Non c’è alcuna separazione in Dio o nella sostanza. Quindi non c’è separazione tra possibilità e realtà. Quello che Dio

poteva creare lo ha creato; nel suo intelletto infinito non si dà niente che non esista nella realtà. In particolare, in Dio libertà e necessità sono una unità indivisibile. «In verità, Dio agisce con la stessa necessità con cui comprende se stesso», che significa: «Come dalla necessità della natura divina procede l’autocomprensione di Dio, con la stessa necessità deriva anche che Dio opera infinitamente in infiniti modi» (E2P3S, pp. 1225-1227). La libertà divina non è l’arbitrio di una libertà del volere, che gli uomini ritengono di possedere, ma consiste in un operare privo di costrizioni esterne, che non dipende da alcuna mancanza, né dal bisogno, né si lascia orientare da scopi o dal conseguimento di un bene cui debba dirigersi: opera soltanto in dipendenza della sua stessa essenza. Questa libertà è identica alla necessità. La concezione di Dio come personalità interpreta la sua libertà come arbitrio e la sua potenza come possibilità di fare quello che vuole. Spinoza obietta: una tale forma di potenza sarebbe esattamente il suo limite, non sarebbe l’infinità del suo operare, libero e necessario a un tempo, bensì la determinazione di una scelta tra diverse possibilità, uno slittamento verso la finitudine. L’operare infinito di Dio, invece, è indivisibile e onnipresente: «Pertanto, è per noi impossibile concepire che Dio non agisca, e tanto meno che non sia» (E2P3S, p. 1227). Quarto: Dio è unico. Qualora si dessero distinte sostanze, ognuna di esse, in quanto distinta, non sarebbe più la sostanza, perché limitata da un’altra. Nella natura delle cose, quindi, non possono darsi due o più sostanze, la sostanza essendo unica. Nemmeno è possibile che la sostanza sia prodotta da un’altra. Dunque: «È perfettamente chiaro che Dio è unico, ovvero che nella natura delle cose si dà soltanto una sostanza assolutamente infinita» (E1P14C1, p. 1167). Tuttavia, l’unità e l’unicità di Dio non ha il senso numerico dell’uno. Quando conosciamo un’essenza, possiamo subito affermarne, riguardo alla sua esistenza, l’unicità o la molteplicità degli esemplari, poiché noi «concepiamo le cose sotto il numero, solo dopo averle già riunite sotto un genere comune» (TIE §76, p. 153). Pertanto, «non è possibile denominare una cosa come una o unica se non dopo averne concepita un’altra che conviene con essa». Poiché però essenza ed esistenza di Dio sono identiche, in tal caso non possiamo parlare di «uno». «Non potendo rappresentarci

un’idea universale della sua essenza, ne consegue che chi afferma Dio come “uno” non ne possiede un’idea vera, ovvero ne parla impropriamente». «Solo in modo molto approssimativo Dio può dirsi uno o unico» (CM1, 6, p. 553). Già in questo primo pensiero che sembra determinare Dio, Spinoza oltrepassa le determinazioni che conducono a concepirlo come unità e unicità, in conformità alle cose del mondo. La contraddittorietà delle formulazioni qui non è evitabile. Spinoza chiama Dio «unico» e subito dichiara l’inappropriatezza di questa dichiarazione. Tuttavia, conviene alla finitudine della condizione umana la forza dell’espressione «Dio è unico». Quinto: Dio è indeterminabile e irrappresentabile. La volontà filosofica di Spinoza è comunque tale da imporre, anche alla sua coscienza, la pura grandezza di Dio e la sua realtà quale unica potenza autenticamente esistente in sé. Da qui deriva la sua costanza nel rifiutare le false idee di Dio. Di Dio si può solo pensare: ogni finitizzazione, determinazione, rappresentazione inquina la nostra coscienza di Dio. Per questo Spinoza critica ogni idea di Dio che lo determini in qualche modo, oscurandone la verità e scambiando una realtà (mondana) finita per l’infinita realtà onniabbracciante di Dio. Tali idee di Dio mettono al suo posto qualcos’altro. Così fa la massa che immagina Dio secondo le capacità umane. Questo è dimostrato dal fatto che «Dio viene compreso dal popolo come uomo o concepito a sua somiglianza» (E2P3S, p. 1227). Se i triangoli e i cerchi avessero coscienza – così Spinoza parafrasa l’antico pensiero di Senofane –, questi rappresenterebbero Dio come un triangolo o un cerchio. In questo errore si può incorrere anche nella rappresentazione della divino-umanità di Gesù: «Se alcune Chiese affermano che Dio ha assunto natura umana, io ho invece esplicitamente dichiarato che non so cosa dicono. Anzi, per quel che si può capire, quanto affermano è insensato come dire che il cerchio ha preso la natura del quadrato» (Ep73, p. 2179). La massa si rappresenta la capacità di Dio come una volontà libera più o meno in questo modo: Dio può fare quel che vuole, poiché ha diritto su tutto l’esistente e deve appartenergli la potenza di annientare ogni cosa e ricondurla nel nulla. Così intendono le facoltà di Dio come le facoltà dei sovrani. Al contrario, la purezza dell’idea spinoziana di Dio comporta che: «Nessuno potrà davvero comprendere quanto intendo dire se non si diffida dal concepire la potenza di Dio come quella umana dei sovrani o come il loro diritto» (E2P3S, p. 1227).

Il fondamento vero dell’errore è che Dio non può essere rappresentato ma solo pensato. È nel pensiero che Spinoza rintraccia le forme più alte della chiarezza e della certezza; ogni rappresentazione, invece, gli pone dei limiti. «Alla tua domanda se io abbia di Dio un’idea così chiara come quella di un triangolo, la mia risposta è: sì. Ma se mi chiedi se io abbia di Dio una rappresentazione chiara come quella di un triangolo, rispondo: no. Infatti noi non possiamo rappresentarci Dio, ma certo possiamo conoscerlo» (Ep56, p. 2105). Quindi la rappresentazione di Dio in termini di personalità significa già determinarlo. Dio non possiede intelletto né volontà, bensì gli attributi del pensiero, da cui primieramente procedono i modi dell’intelletto e della volontà. Non ha movimento né quiete, ma l’attributo dell’estensione da cui quei modi derivano. Intelletto e volontà, movimento e quiete, secondo il procedere della natura, non sono Dio stesso, ma una sua conseguenza. La «personalità» attribuita a Dio è un modo della rappresentazione che lo sminuisce, rendendolo a noi somigliante, anche perché soltanto le essenze finite si trovano davanti all’oggetto esterno, rappresentandoselo così nell’autocoscienza; determinano se stesse e gli scopi di cui si appropriano. Nella sua infinitudine, Dio lascia sorgere tali essenze come sue conseguenze, ma è sciolto da qualunque loro determinazione, sovrastandole tutte. Dio non desidera nulla, non è affetto da mancanza, non ha nessuno scopo da conseguire. «Non si può dire che Dio voglia qualcosa da qualcuno, né che accetti o rifiuti qualcosa. Questi sono tutti attributi umani estranei a Dio» (Ep54, p. 2089). La coscienza che, in conformità ai princìpi biblici e accertata tramite la ragione, riconosce la strapotente presenza della realtà divina in tutto l’esistente, non consente, per Spinoza, che Dio sia toccato da rappresentazioni distanti dalla sua divinità. Nel suo quieto essere-in-Dio, Spinoza rifiuta tutte le comprensioni distorte che implicano realizzazioni corporee del divino, proprie dei culti e delle rivelazioni, auspicando la più chiara e più certa, in quanto assolutamente certa, comprensibilità di Dio nel pensiero, che della sua realtà eternamente presente fa esperienza. Però le rivelazioni, i culti e le Chiese, nonché tutto il mondo delle rappresentazioni del divino, hanno accoglienza presso l’umanità; la grande massa vi si attiene. Spinoza intende anche questo come necessario, in quanto connesso alla nostra essenza finita, e non contesta del tutto la verità di queste

rappresentazioni. Né le combatte se non per l’intolleranza e per la violenza che generano. Questo aspetto sarà discusso più avanti, a proposito della filosofia politica di Spinoza. Sesto: lontananza e prossimità di Dio. Spinoza pensa l’estrema differenza e la prossimità più prossima di Dio e del mondo. La differenza trova espressione in frasi come: «L’intelletto e la volontà che fondano l’essenza di Dio devono distinguersi infinitamente da intelletto e volontà umani, cui sono uguali solo nel nome, come il cane, costellazione astronomica, e l’animale che abbaia» (E1P17S, p. 1179). La prossimità si esprime in queste proposizioni: tutto proviene da Dio, quindi Dio è in tutto. Dio non è separato dal mondo; «non è la sua causa transitiva (causa transiens) ma la sua causa immanente (causa immanens)» (E1P18, p. 1181). La distanza radicale tra la sostanza e i modi compie così l’idea fondamentale secondo cui tutte le cose sono mediante Dio e in Dio, e che Dio è in tutte le cose. Dio, però, è tanto il decisamente Altro che le cose non possono condividere nulla con lui, essendo queste in tutto e per tutto modi e non sostanza. Dio è l’assolutamente Altro nell’infinita regione del suo essere, eppure è presente con le sue conseguenze nel mondo e in noi. La lontananza è tale attraverso l’autosussistenza della sostanza; la prossimità come espressione della sostanza è tale per i suoi due attributi che conosciamo, è la natura in cui ci troviamo. La differenza radicale tra Dio e mondo ha il segno nel fatto che ci sono accessibili solo due tra gli infiniti attributi del divino; e la vicinanza risiede proprio nel fatto che questi ci sono interamente presenti come attributi e modi della sostanza divina. L’infinita molteplicità degli attributi indica la trascendenza di Dio, mentre i due attributi conosciuti la sua immanenza. Il nostro pensiero umano si fonda sul modo infinito delle determinazioni del pensiero che, a loro volta, si radicano sull’attributo della sostanza divina. Il nostro pensiero è radicalmente diverso dal pensiero di Dio, ma, in quanto modo, ne costituisce l’espressione.

Ogni dottrina che predica l’immanenza di Dio nel mondo si chiama panteismo. Spinoza è panteista? Tali schemi falliscono davanti alla grande filosofia. Spinoza è certo panteista nella misura in cui afferma l’essere del mondo in Dio, ma non in quanto Dio sarebbe compiuto in questo essere nel mondo. Al contrario, questo essere nel mondo si riporta all’essere peculiare di Dio, come l’essere dei due attributi è ricondotto alla loro molteplicità infinita. Sintesi: la divinità secondo Spinoza. Il Dio di Spinoza non ha una storia, né dà vita a una storia sovrasensibile. La Storia esiste solo nel mondo dei modi e questo mondo è in tutto eterno come la sostanza, ovvero sua eterna conseguenza in cui nascono e tramontano le cose particolari, nel perdurante permanere del tutto. L’immutabilità di Dio è così pensata in conformità ai momenti più alti della Bibbia. Il Dio di Spinoza è privo di personalità, perché è privo di determinazione e di rappresentabilità. Egli, nella sua infinitudine, è il più certo per il pensiero chiaro, e l’unico ovunque operante. Egli è anche là dove resta sconosciuto. Il Dio di Spinoza appare come qualcosa di logico, eppure pensato con mezzi che sovrastano la logica finita (perché il pensiero di Spinoza muove da princìpi e definizioni logicamente insostenibili). Tuttavia, questo qualcosa di logico, senza storia e senza personalità, ha la forza potente in grado di sostenere e di fondare tutto il pensiero e l’azione di Spinoza. Se ci chiediamo: quale vita è possibile conformare all’idea di Dio che rifiuta ogni rappresentazione, si sottrae ad ogni determinazione categoriale enunciabile intorno al divino, non conosce alcuna rivelazione ponendo Dio a un’altezza che cancella ogni scopo, al di là di ogni comandamento, del bene e del male, tanto che sembra svanire al di là di tutto? A tale questione Spinoza risponde con la sua stessa vita, il suo modo di giudicare e la sua concreta intuizione. Si è accusato Spinoza di ateismo, poiché la sua sostanza è «inidonea a sostenere predicati degni di Dio». Al contrario, Hegel, che aveva di mira l’idea spinoziana di Dio, talmente onnicomprensiva da oscurare il mondo, ha trovato più pertinente, per una tale filosofia, la definizione di acosmismo, non di ateismo. Il pensiero di Spinoza non si lascia ricondurre a questi schemi, che infrange. Rispondono maggiormente al vero questi giudizi: «Spinoza è un uomo

ebbro di Dio» (Novalis). «Qui forse Dio è stato visto nella prossimità più prossima» (Renan). «Principio e fine fu per lui l’infinito» (Schleiermacher).

c) I due attributi: le domande di Tschirnhaus Se quanto è si esprime attraverso concetti metafisici, allora la costruzione si dispiega da tale origine. In Spinoza questo avviene a partire dai concetti di attributo e di modo. Prendendo tale costruzione come un sapere riferito agli oggetti nel mondo, si conseguono solo dei meri ampliamenti razionali, privi di contenuto metafisico, nonché obiezioni estranee a questo stesso contenuto che si rivolgono contro la costruzione, qui intesa come una conoscenza del mondo. È quanto si è verificato a proposito dei due attributi, pensiero ed estensione. Tschirnhaus chiese a Spinoza: perché non conosciamo più di due attributi? Spinoza non poteva dedurre, ma solo constatare questa realtà. Tschirnhaus proseguì nel domandare: se gli attributi di Dio sono infiniti, si danno perciò anche essenze che non sanno nulla dell’estensione, per cui questa sarebbe così estranea e irrappresentabile quanto lo sono per noi gli attributi divini presenti a quelle essenze? Spinoza non rispose. Tschirnhaus chiese infine: esistono mondi (modi) a noi del tutto sconosciuti, che corrispondono agli infiniti attributi ugualmente ignoti? Spinoza rispose rinviando al suo scolio della VII proposizione del secondo libro dell’Etica. Vediamo: vi si tratta del fatto che l’ordine e la connessione delle idee sono gli stessi di quelli delle cose, in quanto tutti gli attributi pertengono soltanto all’unica sostanza. «Sia che volessimo comprendere la natura dal lato dell’attributo dell’estensione oppure da quello del pensiero, o di qualunque altro attributo, l’ordine trovato sarebbe sempre il medesimo». Dobbiamo spiegare l’ordine dell’intera natura, sotto ciascun aspetto, solo mediante l’attributo del pensiero oppure solo dell’estensione, «e così per tutti gli altri attributi. Pertanto, Dio è causa originaria delle cose, come sono in sé, constando di infiniti attributi. Non so esprimermi al riguardo con più chiarezza» (E2P7S, p. 1231). Non si tratta di una risposta alla domanda di Tschirnhaus. Si può

continuare a insistere, chiedendo a Spinoza: non devono forse tutti gli attributi apparire in tutti i fenomeni, in forza della coincidenza degli ordini dovuta all’unica sostanza? Poiché, tuttavia, per noi ne esistono solo due, gli altri saranno pertanto presenti in altri mondi di modi? Se così non è, perché esiste solo il mondo dei due attributi in cui noi stessi siamo dei modi, e qual è in verità la forma degli infiniti attributi di Dio? Se si desse invece una molteplicità di mondi, che appaiono (si esprimono, si esplicano) nei loro modi in base ad altri attributi diversi per essenza, esistono allora indicazioni della loro esistenza? Esistono forse anche mondi dove è assente l’attributo del pensiero, come il nostro è privo di infiniti attributi oltre a quei due? Spinoza non si è fatto tutte queste domande, che, così formulate, non hanno in lui una risposta, in quanto l’idea degli attributi infiniti gli è utile solo a esprimere in modo adeguato la trascendenza di Dio, non per perdersi dietro fantasie di altri mondi. Per Spinoza, l’infinità degli attributi indica il limite del nostro sapere, non possibilità di indagine. In generale, il pensiero di Spinoza non si rivolge all’ignoto e all’inconoscibile, bensì al presente. Per questo, per Spinoza l’essere di Dio può intendersi sia come il totalmente Altro che sprofonda nelle tenebre dell’infinito, sia come la compiuta chiarezza radicata nel più certo sapere. I due attributi lasciano sollevare la questione sul modo in cui sono reciprocamente rapportati. Esiste una differenza di rango tra pensiero ed estensione? Non per Spinoza, che parla opponendosi a quanti separano la «sostanza estesa» dalla sostanza divina, ritenendola indegna di Dio e quindi sua mera creazione, sostanza creata. Spinoza nega senz’altro la corporeità divina: «Molti immaginano Dio come se avesse un corpo e uno spirito, così come un uomo» (E1P15S, p. 1169). La corporeità non conviene a Dio. Per corpo «si intende qualsiasi grandezza lunga, larga e alta, limitata da una certa figura. Ma non si potrebbe affermare nulla di più assurdo riguardo a Dio, ovvero dell’assoluta essenza infinita» (E1P15S, p. 1169). Invece, del tutto diverso è «tenere completamente distinta la stessa sostanza corporea ed estesa dalla natura divina e ritenerla una creazione di Dio» (E1P15S, p. 1169). Questo è falso. Al di fuori di Dio, infatti, non può esistere né può concepirsi alcuna sostanza; quindi la sostanza estesa deve

piuttosto essere uno degli attributi di Dio. Per comprendere correttamente quanto detto, occorre fissare il senso di attributo; la sostanza è infinita e indivisibile anche nell’attributo dell’estensione. Se si ammette la sua finitudine e la sua divisibilità, scambiandola con i modi, nascono le contraddizioni che impediscono di intenderla come attributo di Dio. Alla stessa maniera, si argomenta senza ragione se si afferma che la sostanza corporea, in quanto suscettibile di divisione, patisce, mentre Dio no. Non è così: solo i modi patiscono, non la sostanza estesa, indivisibile e infinita. Mentre i modi, come affezioni della sostanza, sono finiti, divisibili e particolari, la sostanza corporea (nell’attributo dell’estensione: la materia) può essere ovunque solo la medesima, infinita, indivisibile, unica. È contraddittorio ritenerla formata da parti finite, quindi molteplice. Non è, pertanto, indegna della natura divina. «Tutto è certo in Dio e tutto quel che accade, accade solo grazie alle leggi della natura infinita di Dio e deriva dalla necessità della sua essenza» (E1P15S, p. 1175). Pertanto, se ci si attiene al senso che Spinoza annette all’attributo, è un errore addossargli l’intento di naturalizzare Dio attribuendogli l’estensione. Si potrebbe ulteriormente domandare se l’omogeneità di tutti gli attributi sia messa in crisi da una certa preminenza del pensiero. Infatti, sembra che tutti gli altri attributi debbano essere pur pensati, mentre solo il pensiero pensa se stesso. Quindi, sia l’estensione che gli altri attributi a noi ignoti sembrano doversi contrapporre al pensiero, come un attributo di genere del tutto peculiare. Anche questa non è una questione posta da Spinoza. L’altro attributo a noi noto è l’estensione, che, presso Spinoza, non riceve una dignità inferiore a quella del pensiero. Tutte queste argomentazioni critiche verso Spinoza rendono consapevoli di come non sia possibile che esse ricevano accoglienza presso di lui. Tuttavia, nello stesso tempo, si darà atto a Spinoza di aver dato luogo a tali obiezioni, per il suo metodo della dimostrazione necessitante, poiché questa si muove inevitabilmente nello spazio delle determinazioni finite. Se Spinoza non mostra un giudizio per rispondere a queste obiezioni, quando addirittura non tace, esse sembrano allora giustificate e insuperabili, ma solo perché egli

le ritiene inessenziali, rispetto all’esplicita forza della sua coscienza del divino. L’essenziale risiede unicamente laddove, espressa l’estensione come attributo di Dio, si elimina la possibilità di negare al mondo la sua divinità e la sua santità. Nessun luogo del reale è senza Dio o a lui contrario.

d) I modi Le singole cose prese insieme (omnia) formano il mondo. Si tratta dei modi. È ora opportuno seguire più da vicino come si costituisce il mondo secondo Spinoza, muovendo dalla sostanza e dagli attributi del pensiero e dell’estensione, fino ai modi. Le essenze singole sono finite. L’interconnessione di questa finitudine, in cui uno è mediante l’altro, prosegue senza fine. Le singole essenze finite si legano con le altre in un rinvio, di per sé senza limiti, infinito. Tale infinità è conseguenza di quella di Dio, ma si fonda su un terzo infinito, ovvero sull’infinità dei modi, che non è quella di Dio, né è quella delle cose singole, situandosi piuttosto tra le due. Si dicono modi: l’intelletto infinito (intellectus infinitus), che esprime l’attributo del pensiero; movimento e quiete (motus et quies), che esprimono l’attributo dell’estensione, nonché la totalità del mondo (facies totius universi), una totalità in cui si collocano le singole cose (res particulares). Pertanto, Spinoza pensa la successione della sostanza come dalla natura naturans alla natura naturata, intesa come totalità dei modi, e qui dai modi infiniti alle cose particolari, dove entrambi gli attributi della sostanza si esprimono come idee e corpi. Da una parte, la successione procede dal pensiero (dalla cogitatio come attributo) all’intelletto infinito (come modo infinito) e alle idee come modi finiti del pensiero (modi cogitandi); dall’altra, dallo spazio (extensio come attributo) al movimento e alla quiete (come modo infinito) e ai modi finiti dei corpi. Entrambe le successioni costituiscono quella che va dalla sostanza alla totalità del mondo (modo infinito: facies totius universi), fino alle singole cose a noi visibili, in base al loro aspetto, come idee o come corpi. Il tutto del mondo o della natura è «un singolo individuo le cui parti, ovvero tutti i corpi, mutano in modalità infinite, rimanendo identico come individuo, nella sua totalità» (E2P13S, p. 1251).

La connessione totale nella natura sarebbe conoscibile attraverso la modalità in cui ogni parte si lega al suo tutto, e nella maniera in cui si collega alle altre parti. Ma questa conoscenza «mi rimane ignota, perché, per giungervi, sarebbe necessario conoscere tutta la natura e ognuna delle sue parti» (Ep30, p. 1983). Quindi, quanto può conseguirsi è soltanto il convincimento generale secondo cui «ogni parte della natura conviene con il suo tutto e si connette con il resto» (Ep32, p. 1991). Tuttavia, tale convincimento è possibile solo sul fondamento della visione metafisica, o pensiero di Dio. Il momento fondamentale di questa intuizione del mondo corrisponde ai due attributi della sostanza: noi concepiamo nella natura solo corpi e modi di pensiero (modi cogitandi). E: tutto è estensione e pensiero. Dove c’è pensiero, lì c’è estensione e dove c’è estensione, lì c’è pensiero. Non che pensiero ed estensione operino reciprocamente ma, avendo entrambi radice negli attributi dell’unica sostanza, «l’ordine e la connessione delle idee coincidono con l’ordine e la connessione delle cose» (E5P1Dim, p. 1559). Il corpo e la sua idea, l’idea e il suo corpo sono lo stesso, visto dalla parte dell’uno o dell’altro attributo. Sorgono di nuovo non poche difficoltà, volendo giustificare questa immagine del mondo offerta da Spinoza sulla base dell’oggettività della ricerca conoscitiva. Il pensare e il corpo sono intesi nella relazione tra pensare e pensato, oppure come un parallelismo di due successioni indipendenti di accadimenti? In Spinoza sono presenti entrambe le soluzioni. Ma, benché egli abbia distinto con chiarezza l’infinità della ricerca nel mondo dal sapere metafisico fondamentale circa il senso dell’essere del mondo (poiché lì si ha un’ignoranza fondamentale che permane, mentre qui si offre un convincimento nel complesso definitivo), le sue affermazioni non sono prive di contraddizioni. Quanto, in particolare, resta oscuro, è quello che può conseguirsi indagando il rapporto tra anima e corpo, e in che senso permanga il parallelismo tra due connessioni reciprocamente indipendenti eppure coincidenti. La cosiddetta teoria del parallelismo psicofisico nella psicologia del XIX secolo non si richiama giustificatamente a Spinoza, sebbene sia però resa possibile da alcune sue dichiarazioni. Comunque sia, facendo proprio il pensiero di Spinoza, occorre tenere distinte la

coscienza del mondo, che si esprime nei suoi pensieri come momento della visione dell’essere metafisico, dalle idee, che trovano o meno conferma nella ricerca empirica.

e) Il tempo; la necessità Il mondo è visto sotto gli aspetti dell’estensione spaziale e del pensiero. La coscienza metafisica del mondo qui espressa, tuttavia, può rintracciarsi in modo forse più essenziale in concetti che, nella complessità del sistema, non vengono evidenziati: 1. Le cose nel mondo e noi stessi sono soggetti al tempo. Spinoza ha di mira l’eterno. Il tempo non appartiene all’essere stesso, alla sostanza, ma solo ai modi. Quel che nel tempo è durata, nell’essere stesso è eternità. Quindi, con il concetto di durata noi possiamo spiegare soltanto quanto attiene all’esistenza dei modi; possiamo invece pensare la sostanza solo con il concetto di eternità. La durata dei modi possiamo pensarla minore o maggiore, mentre la sostanza non lo consente. «Nell’eterno non c’è un quando, né un prima né un poi» (E1P33S2, p. 1203). La conoscenza filosofica delle cose riguarda la loro eternità. Ma se «concepiamo in astratto la durata e la grandezza, nel distacco dalla sostanza, e le separiamo dalle maniere in cui provengono dalle cose eterne, ecco che sorgono il tempo e la misura; il tempo, propriamente, per determinare la durata, la misura per determinare la grandezza, così da rappresentarcele nel modo più semplice possibile» (TIE §93, p. 163). Ma ogni rappresentazione e conoscenza delle cose finite può essere penetrata e compresa dalla conoscenza filosofica: «Risiede nella natura della ragione percepire le cose sotto un certo aspetto dell’eternità» (E2P45C2, p. 1295). 2. Se Spinoza vede tutto in Dio e da Dio, conoscendo le cose nella loro eternità, egli raggiunge il suo pieno appagamento dal pensiero della necessità. Con la categoria della «necessità», egli supera le necessità determinate, che riscontriamo nel mondo: la necessità delle leggi di natura, intese come regole del procedente sorgere temporale dei modi singolari e finiti, è la guida per conseguire l’altra necessità nell’eterno provenire di tutte le cose da Dio, ovvero dalla sostanza e dai suoi attributi. La necessità del rapporto causale dei modi diviene conoscibile

inesauribilmente mediante l’esperienza, senza essere mai del tutto conosciuta. La necessità dell’eterno sorgere o dell’essere di tutte le cose è intuitivamente conoscibile e trova certezza ed esprimibilità nel pensiero logico. Le leggi di natura degli infiniti modi possono essere assimilabili alla legge di natura dell’eterna necessità, ma non sono la stessa cosa. Quelle affermano la necessità esterna, o costrizione, questa la necessità interna, o libertà. L’esperienza della necessità è la beatitudine di Spinoza, che può sempre nuovamente esprimere nel riposo del suo pensiero di Dio: da Dio consegue con necessità l’infinito in modo infinito. Tutto ciò che è, sta in questa necessità. Infatti, «tutto è in Dio e tutto quel che accade, accade solo grazie alla legge dell’infinita natura di Dio e deriva dalla necessità della sua essenza» (E1P15S, p. 1175). Questa necessità e queste conseguenze sono intemporali, così «come dalla natura del triangolo segue eternamente che i suoi tre angoli equivalgono a due retti» (E4P57S, p. 1513). Quindi, causa e ratio qui coincidono (poiché, laddove mediante le categorie si pensa al di là di esse, la loro determinatezza si dissolve). Il pensiero di questa necessità scavalca la costrizione logica, la conseguenza causale, la provvidenza e il destino, mantenuti come altrettante labili raffigurazioni metaforiche. La necessità di Dio è libertà, ma non quella limitata dell’arbitrio. Pertanto, affermare che Dio potrebbe fare in modo che dalla natura del triangolo non seguisse l’equivalenza dei suoi angoli a due angoli retti, è un controsenso e una negazione. Nietzsche ha mutuato da Spinoza un tale atteggiarsi verso la necessità e la tranquillità che ne deriva: «Stemma della necessità! Dell’essere costellazione suprema – che nessun desiderio raggiunge, che nessun no contamina, eterno sì dell’essere, eternamente io sono il tuo sì: poiché io ti amo, o eternità».

f) Il salto tra Dio e mondo e la questione della loro unità Il salto maggiore in questo tutto dell’essere è tra la sostanza e i suoi attributi, da una parte, e i modi, dall’altra, cioè, come si dice comunemente, tra Dio e mondo. Il salto si trova tra l’infinito e il finito.

L’infinito è in sé, il finito è sempre mediante un altro finito; quello è causa sui, questo è causato da un altro finito; il che significa: quello ha compiuta in sé la sua esistenza, questo ha esistenza grazie ad altro; quello è concepito per se stesso, questo a partire da altro. L’infinito è senza limiti, il finito ha limite in altro; quello è incondizionato, questo ha condizioni. E tutto ciò che è, o è l’uno o è l’altro, «o è in sé, o è in altro» (E1P4Dim, p. 1151). Essere-di-per-sé ed essere-per-altro mostrano il salto assoluto tra Dio e le cose del mondo. Solo il finito è individualizzato, mentre l’infinito è unico. Dove quindi c’è individualizzazione, lì c’è finitudine. «Tutto ciò della cui natura possono esistere molteplici individui deve necessariamente avere una causa esterna per esistere» (E1P8S2, p. 1157). Infinità e unicità si coappartengono, come finitudine e individualizzazione. Nella sua piena positività, l’infinito esclude ogni determinazione. Le «determinazioni» dell’infinito, gli attributi, sono essi stessi infiniti, e pertanto non sono predicati determinativi, bensì espressioni. Ogni determinazione è limitazione, ovvero negazione (omnis determinatio est negatio) e appartiene al finito. Nell’infinito non c’è negazione, ma solo positività. Attribuirgli predicati è possibile unicamente nella forma della loro negazione (al modo della teologia negativa). È qui la grandezza di un pensiero come quello di Spinoza: noi abbiamo l’abitudine di vedere il positivo e il concreto nel modo determinato in cui ci si fa incontro, con forme finite. L’onniabbracciante minaccia di svuotarci. Non avendo qui niente da cogliere, crediamo che non sia niente. L’essere possiede quanto per noi può presentificarsi in modo determinato e che si lascia cogliere e pensare distintamente. Spinoza, certo, si muove nel nostro stesso ambito del molteplice, ma a cominciare da un Altro, da Dio. Per lui solo Dio è per intero positivo, e tutto il concreto, come modo, si commisura a Dio attraverso una negazione determinativa. Come essenza finita, anche Spinoza deve vivere nella molteplicità finita, ma come essenza razionale, in tutto e per tutto compenetrato da quell’Uno, può vedere il negativo illuminato e trasfigurato dal positivo. Dio e mondo, uno e tutto (en kai pan) fu l’espressione antica che vide uniti i seguaci di Spinoza. Ogni singolo finito è causato da un altro finito, all’infinito

(mediante la causa transiens). Ma nella totalità il finito è causato da Dio (mediante la causa immanens). Poiché tutto ciò che è, è in Dio, nasce la domanda: gli attributi infiniti sono in lui qualcosa di diverso dalle singole cose finite? Anche queste devono essere in Dio, oppure non sarebbero, ma vi sono diversamente, perché il rapporto delle singole cose finite (modi) a Dio non è solo diretto, ma anche indiretto, mediato dalle connessioni finite. Tutto questo viene così espresso da Spinoza: «L’idea di una singola cosa esistente ha di fatto Dio come causa, non perché tale cosa sia infinita, ma perché è considerata affetta da un’altra idea di una singola cosa effettivamente esistente, la cui causa è sempre Dio, in quanto quest’altra cosa è affetta da una terza idea e così via all’infinito» (E2P9, p. 1233). La relazione della sostanza con i modi o di Dio col mondo rappresenta l’antichissima, irrisolvibile questione dei metafisici, i quali, tuttavia, ognuno per la sua strada, sembrano ritenere di aver risolta. Perché dovrebbe in generale esserci il mondo, se la divinità è in sé compiuta? Si può progettare lo schema di un apparato concettuale in cui trovino ordine le possibilità di pensiero: o viene pensato un passaggio da Dio al mondo; oppure entrambi vengono contrapposti, in modo tale che il mondo svanisce nell’apparenza (per cui resta la domanda: da dove viene l’apparenza?); oppure Dio e mondo vengono pensati come uno e lo stesso. Nel primo caso, il mondo è pensato come creazione (mediante la volontaria decisione di Dio) dalla materia o dal nulla. Oppure viene pensato un traboccare dall’Uno verso discendenti gradi di essere. Oppure ancora viene pensato uno sviluppo che si dispiega in forma ascendente. Nel secondo caso, il mondo è fantasmagoria, apparenza, sogno, come un gioco di prestigio di un illusionista davanti alla folla: il mondo esiste nella misura in cui gli esseri lo immaginano sopraffatti dall’illusione, non a causa del divino, ma come frutto dell’errore. Nel terzo caso, il mondo e Dio coincidono. La domanda: «Da dove viene il mondo?» svanisce, perché questo non si mostra più come momento del divino, ma, interamente, come Dio stesso. Non c’è divinità nella trascendenza e il mondo non esiste all’infuori di Dio.

Non basta determinare in tale schema la posizione dell’uno o dell’altro dei grandi metafisici. All’interno dello schema, le risposte, nel loro complesso, sono relative alla determinatezza possibile e necessaria richiesta dalla conoscenza delle cose finite. Il metafisico dei tempi successivi, però, padroneggia tutto questo apparato, non pensa oggetti finiti, ma in modo trascendente. Pertanto, contro le sue affermazioni si obietta sempre a partire dall’analisi logica, sagomata su concetti definiti, in quanto queste affermazioni, percepite come pensiero esteriore, si mostrano contraddittorie. Anche per Spinoza è così. Spinoza sembra rifiutare tutte le posizioni di quello schema: la creazione, poiché Dio non ha né intelletto né volontà; il traboccamento discendente, poiché il rapporto è eterno e la temporalità esiste solo nella serie dei modi; la continua progressione, poiché l’esistente è presente in eterno, senza sviluppo progressivo. Anche l’opinione che il mondo sia apparenza doveva essere scartata da Spinoza, poiché non lo spiega attraverso modalità umane di rappresentazione, ma come l’eterna necessità del modo dell’esistenza che è. Spinoza contesta esplicitamente l’unità di Dio e mondo intesa come sostanza formata da parti singole. Dio non è fatto della materia del mondo, tale per cui, dividendone le parti, le cose nascono, bensì è indivisibile in quanto sostanza, mentre le singole cose sono modi, non sostanza, quindi divisibili, segnate dal nascere e dal trapassare. Ma allora come pensa Spinoza? Sarebbe vano cercare qui questioni poste con precisione e risposte univoche. Egli evoca nella direzione di un comprendere che tutto ciò che è, è conseguenza di un’unica sorgente, la sostanza. Non ci sono due essenze dell’essere, Dio e mondo, di cui indagare la relazione, ma un solo essere, che si esprime, si esplica con necessarie conseguenze. Per Spinoza tutto segue nell’eternità necessariamente, come dal concetto di triangolo deriva l’equivalenza tra la somma dei suoi angoli a due retti. Non che sia propriamente una conseguenza, piuttosto è un’analogia: «come» è la conseguenza matematica, «così» è la conseguenza metafisica. È impossibile una deduzione che spieghi il mondo a partire dall’origine divina, e anche Spinoza non prende questa strada; poiché egli pensa riferendosi all’originarietà del suo essere-in-Dio, il contenuto del suo pensiero si impegna nell’esprimere il modo dell’induzione verso questa origine. Se iniziare da un’origine è vano, in qualsiasi modo la si voglia

determinare, al fine di ipotizzare la comprensione unitaria delle cose non resta che un pensare volto all’origine. Tuttavia, un tale pensare fallisce, qualora il pensante non si trovi già presso l’origine. Laddove il pensiero, per un autofraintendimento filosofico, deduce il mondo dal suo fondamento, lì questo prende forma dell’ipotizzare diretto alla chiarificazione dei fenomeni. Tale ipotizzare consegue il suo senso metodologico solo quando la possibilità di essere confutato o confermato apre nel mondo la strada all’inesauribile progresso della conoscenza. La metafisica come ipotesi sul mondo nella sua interezza non ha senso. Nel pensiero metafisico la deduzione assume invece un altro significato, ovvero esprime il mistero stesso di essere. È il chiaro volgersi al mistero, per farvi luce, non per sondarlo. Possono allora così intendersi i pensieri di Spinoza? Comunque sia, la forza persuasiva del suo pensiero risalta chiudendo la strada alle contraddizioni, nel superarle. Notare che esistono contraddizioni in quel pensiero e mettersi a discuterle secondo ragione significa andare contro l’intenzione più propria di Spinoza. Invece, occorre corrispondervi con l’esposizione della sua teoria della conoscenza e dei gradi della conoscenza, al fine di comprendere in modo logicamente adeguato la sua visione metafisica, certo frutto del pensare, ma non attraverso la razionalità dell’intelletto. Se ne discuterà nella prossima sezione. Le linee fondamentali dell’essere spinoziano sono davvero semplici: sostanza, attributi, modi; il tutto pensato con sobrietà in tali concetti, anche qualora si sostituisca Dio alla sostanza e il mondo ai modi. Ma è una semplicità ingannevole: non si tratta solo di una costruzione di pensiero ricca delle difficoltà proprie della stessa conoscenza, nonché generate dall’accordo delle diverse proposizioni, ma anche di un pensare notevolmente complicato nella sua struttura e nel suo sviluppo. Anche la sobrietà inganna: non c’è distacco, bensì un pensare temprato, accolto nella vita di Spinoza e trasfigurato in pura fiamma dall’onnipervasiva presenza divina. Sostanza, attributo, modo sono parole provenienti da un’antichissima tradizione filosofica, con un significato molteplice e vario. Sostanza è la traduzione latina del greco hypokeimenon (ciò che

giace dietro, al fondo), ma è anche la traduzione del greco ousia (maniera d’essere, l’essenza), tradotto anche direttamente con essentia. Si aggiunsero poi altre serie di parole, utilizzate con lo stesso senso, oppure con diverso scopo. Eckhart tradusse sostanze con «essenze in sé» e Leibniz sostanza con «per sé stante». Se si seguono tali provenienze nell’uso del linguaggio filosofico, si constata il verificarsi storico di spostamenti di significato, variazioni che non procedono lungo un’unica ramificazione ma che vanno in ogni dove. Se si tiene conto dell’origine etimologica, si riscontra un’iniziale intuizione (come per sostanza, ciò che sta dietro, al fondo del fenomeno immediato), o un’espressione simbolica. Tutto questo è interessante, ma in filosofia, del senso della parola decide l’impronta delle grandi, nuove e originali forme di pensiero, nonché il suo affermarsi, non attraverso definizioni sempre inadeguate, bensì grazie al suo impiego nei movimenti di pensiero. Il linguaggio, presentando il possibile senso delle parole, è il materiale attraverso cui il pensiero si comunica. Può succedere allora che la parola esprima un senso nuovo, mai prima pensato, come nel caso delle idee con Platone, della ragione con Kant, dell’esistenza con Kierkegaard e della sostanza con Spinoza. Quest’ultima non va intesa né come materia, né come fondamento, né come il perdurante, né con i suoi vecchi altri significati: è piuttosto una nuova, originale parola che significa il pensiero filosofico di Dio. Attributo significa quanto pertiene a qualcosa, ovvero la proprietà, e in tal senso questo termine era comunemente usato nel linguaggio per indicare gli attributi divini. Spinoza accettò tale significato, ma lo riempì di un altro contenuto. Modus indica il modo di un essere, o dell’accadere, o anche della coscienza o delle figure del pensiero, oppure ancora significa «stato». Spinoza con modus intende il concetto dell’essenza comune a tutte le cose finite. Per i concetti filosofici, si deve osservare che questi smarriscono il loro senso speculativo nella misura in cui trapassano nell’uso linguistico generale, quando si conformano al riscontro tangibile, oppure riducendosi in rappresentazioni finite e determinate; così la sostanza diventa materia, l’essenza una materialità sublimata, il modus una modalità, una maniera, l’attributo la proprietà come specifico carattere delle cose, etc. Per la comprensione dei pensieri filosofici, quindi,

conviene conoscere chiaramente queste accezioni correnti, senza però confonderle con quanto coglie la speculazione, anche seguendo la guida di una tale intuizione.

IV. TEORIA DELLA CONOSCENZA Come conosce Spinoza quello che dice? Attraverso, egli risponde, la chiarificazione delle forme del nostro sapere, in una teoria dei gradi del conoscere. Solo così si può avere coscienza della certezza con cui Dio è presente nel pensiero, come l’unica e sola realtà percepita nel suo peculiare carattere.

a) I gradi della conoscenza Nel primo trattato i gradi sono tre: il primo è quello dell’illusione propria dell’opinione e della rappresentazione, nutrita dal sentito dire oppure da esperienze isolate. Il secondo consiste nella vera fede. Il terzo è quello della conoscenza chiara e distinta. Un esempio esplicativo. Posto il problema 2 : 3 = 4 : x, posso trovare x avendo appreso da un’autorità in materia che devo moltiplicare il secondo numero per il terzo e poi dividere per il primo, e ho avuto l’esperienza del risultato corretto di un tale procedimento grazie a ripetizioni e verifiche (primo grado); oppure trovo x avendo penetrato la regola della proporzione (secondo grado); oppure ancora perché «vedo» il quarto numero in base all’intuizione della proporzione stessa. Nel primo caso la proposizione aritmetica non è vera per me, ma solo presunta, nel secondo caso è derivata, nel terzo è una verità intuita. «Ma noi nominiamo come chiara quella conoscenza che non procede da un convincimento razionale, ma che proviene dal sentimento e dal possesso della cosa stessa: questa conoscenza precede di molto le altre» (KV2, 2, p. 253). Negli scritti successivi, i tre gradi vengono ulteriormente caratterizzati. Primo grado: noi percepiamo le singole cose attraverso i sensi, in modo parziale e confuso; si tratta di «conoscenze fatte in base a un’esperienza

incerta» (E2P40S2, p. 1287). Noi ricordiamo con segni e parole le cose percepite, rappresentandole in una conoscenza altrettanto incerta. Qui c’è solo opinione e rappresentazione. Secondo grado: noi abbiamo concetti generali (notiones communes) come idee adeguate delle cose, chiare e distinte. Con queste noi operiamo nel secondo genere di conoscenza, la ragione (ratio). Terzo grado: il sapere intuitivo (scientia intuitiva), che va verso «la conoscenza adeguata dell’essenza delle cose» (E2P40S2, p. 1287). In questa teoria della conoscenza occorre fare due distinzioni essenziali: quella della rappresentazione (imaginatio) dall’intelletto, e quella della ragione dall’intelletto. 1. «Ci sono molte cose che in nessun caso possiamo raggiungere con la rappresentazione, ma solo con l’intelletto». La sostanza, l’eternità e tutti i concetti metafisici non sono oggetti rappresentabili. Ci si imbatte allora in concetti erronei e in problemi insolubili, «perché non si è distinto tra quanto possiamo solo comprendere ma non rappresentare, e quello che possiamo anche rappresentare» (Ep12, p 1857). Spinoza, a tal proposito, fa l’esempio della grandezza, che si può concepire in due modi: in astratto e secondo la superficie, nel caso della rappresentazione, per cui essa è finita, divisibile e misurabile; oppure, se la cogliamo con l’intelletto, secondo la sua eterna essenza, e allora essa è infinita, è sostanza ed è indivisibile. L’infinito è rappresentabile come maggiore o minore rispetto a un altro infinito, quindi divisibile, ma nell’intelletto è concepito in modo da non poter essere suddiviso e di per sé incomparabile. «Quando qualcuno si sforza di spiegare una cosa del genere attraverso concetti che altro non sono se non strumenti secondari della rappresentazione, non fa che impegnarsi in un vaniloquio, oltre la sua stessa rappresentazione». L’intervento della rappresentazione oscura la conoscenza dell’intelletto, perché così la nostra idea dell’essere si tramuta in una rappresentazione. Quanto supera le caratteristiche dell’oggettività diviene un oggetto se viene considerato tramite rappresentazioni. Spinoza fa questo esempio: se si pensa la durata come un insieme di istanti, è come ritenere il numero composto da una mera enumerazione di zeri. «Tutti i concetti che la gente utilizza per spiegare la natura non sono che modi della rappresentazione, e non rivelano

niente della natura delle cose, ma solo in che consistono le rappresentazioni stesse» (E1Ap, p. 1217). 2. Con la distinzione tra secondo e terzo genere di conoscenza si colloca nel pensiero medesimo (sempre distinto dalla rappresentazione) una differenza che, tratta dalla tradizione, in Spinoza acquista una forma peculiare: la differenza tra ratio (ragione, Vernunft) e intellectus (intelletto, Verstand). La ratio del secondo genere di conoscenza conosce per vie traverse, in modo combinato. L’intelletto del terzo genere di conoscenza conosce immediatamente. Solo quando intuiamo una cosa ne conseguiamo la presenza, siamo come un tutt’uno con essa. Pertanto, la ratio che implica combinazioni e giustificazioni indica soltanto la strada che raggiunge la sua meta unicamente con l’intuizione immediata. Nell’uso linguistico, intelletto e ragione non indicano cose diverse, mentre al filosofo è essenziale distinguerli, raggiungendo così una certezza sostanzialmente diversa: in conformità o al processo logico-combinatorio, indiretto, discorsivo, oppure a uno sguardo logico-intuitivo, immediato. Questa visione non è di natura sensibile, temporale e spaziale, e nemmeno coincide con l’esperienza interiore dei sentimenti e dei moti dell’animo, bensì è quella immateriale e chiara in un presente intemporale. Noi riteniamo di continuo di aver bisogno di visioni sensibili, non solo per avere davanti (se opportuno) un oggetto reale, ma anche per esperire in generale la realtà, e crediamo svuotato il pensiero se lascia i punti fermi o la pienezza della visione sensibile. Quanto qui il filosofo afferma riguardo a un’altra intuizione, sovrasensibile, è inteso come fantasia, una finzione mistica, un’assurdità. Ora, Spinoza è in accordo con i filosofi che non discutono di una qualche esperienza interiore sovrasensibile e che però, nel pensiero stesso, non ravvisano il vuoto dell’astrazione, bensì si rendono conto di tutta la vera realtà che precede, che di per sé è anche l’origine di ogni realtà, l’unica accessibile attraverso l’esperienza sensibile. Un tale conoscere, tuttavia (il terzo genere di conoscenza) può giungere a chiarificarsi, nel modus dell’umano essere, legato alle rappresentazioni e al pensiero finito, quindi al linguaggio, in maniera mediata e in generale, attraverso le forme della ragione (nel secondo genere di conoscenza). Pertanto la razionalità è il mezzo costante per quello che è oltre la razionalità (ovvero il conoscere intuitivo dell’intelletto). Senza tale «ulteriorità», la mera

razionalità gira a vuoto, senza limiti. La pienezza della razionalità, come meditazione che si svolge nei movimenti razionali, è tale solo in quanto in essa trova espressione la presenzialità di Dio. Essa, libera da ogni esperienza sensibile, dice l’eterna realtà effettiva, non attraverso se stessa, bensì grazie all’esperienza dell’intellectus, come sorgente costante e intemporale del linguaggio della verità. L’esigenza di Spinoza è di non confondere la sorgente delle nostre intuizioni. Nel mondo delle realtà concrete, la nostra esperienza avviene senza limiti, né qui ci fermiamo, ma rimaniamo presso il nostro stesso rapportarci, ovvero nel «relativo». Nella realtà effettiva, sempre presente nella sua interezza, noi facciamo esperienza nella pienezza, rimanendo presso quanto è in se stesso presente, nell’assoluto. Quando quest’ultima forma di esperienza entra nel tempo, essa si esplica nei movimenti del pensiero che hanno il loro senso nell’implicare il ritorno alla loro stessa origine. Questa conoscenza, la più alta, è la conoscenza di Dio, «non ha derivazioni da altro, ma è immediata». Infatti, «Dio è l’origine di ogni conoscenza, che si rivela solo per suo tramite e non per altro»; e «noi siamo così legati a lui dalla natura, che senza di lui non potremmo esistere né comprendere» (KV2, 22, p. 321). La sorgente della conoscenza, donde Spinoza pensa, è laddove Dio è davvero presente. Già nei suoi primi scritti questo è dichiarato con la più grande convinzione. Nel trattato più antico, scritto in olandese, verstand (intellectus) e reeden (logos, ratio) vengono distinti. Lì vengono già affermate anche le decisive conseguenze pratiche di questa distinzione: la liberazione dall’assoggettamento degli affetti resa possibile dal retto uso dell’intelletto e della ragione. «Io dico: il nostro intelletto, poiché non credo che la ragione da sola abbia un tale potere liberante». «In quanto la ragione non ha nessun potere di giovare alla nostra felicità», resta allora l’ultimo e più alto modo della conoscenza, «che sorge dall’immediato rendersi manifesto dell’oggetto all’intelletto». «Se questo oggetto è magnifico e buono, l’anima vi si unisce necessariamente» (KV2, 22, p. 321). C’è un’analogia con la dottrina storica della «luce interiore»; con quella dello «spirito» attraverso cui chi crede nella rivelazione comprende la Bibbia; con quella della contemplazione al grado

supremo, di cui parlano i mistici; ma anche con le idee di Kant e il suo giudizio riflettente, attraverso cui l’intelletto riceve senso e sistematicità per tutte le sue indagini. La differenza tra il secondo e il terzo genere di conoscenza è di grande importanza per il pensiero di Spinoza; ma visto che il secondo è in funzione del terzo, come ambito comunicativo di quanto qui è colto, Spinoza può concludere per la loro riunione, quando dice «l’intelletto o la ragione». (Se pensiamo all’uso linguistico di Kant, vediamo che la situazione è inversa. Nella misura in cui è lecito un paragone, per Kant è ragione ciò che per Spinoza è intelletto e viceversa).

b) Idee Per idea Spinoza intende «un concetto che lo spirito forma in quanto cosa pensante» (E2D3, p. 1121). Ma le idee sono anche essenze obiettive (che sono in Dio): le idee «sono e saranno le medesime anche se né io né alcun altro uomo ha mai pensato ad esse» (KV1, 1, p. 195). Qualcosa di quanto più lontano possibile dal pensiero quotidiano viene qui presentato da Spinoza. Le idee sono di per sé adeguate o inadeguate, sin dall’inizio unità di idea e volontà, agiscono se adeguate, patiscono se inadeguate e, se adeguate, sono piene di una certezza che supera ogni dubbio. Idee adeguate e inadeguate: per Spinoza l’idea è adeguata «in quanto considerata in sé, senza riferimento all’oggetto»; ha quindi «tutte le proprietà dell’idea vera». Si tratta di «note interne», mentre restano escluse «le note esterne, ovvero la concordanza dell’idea con il suo oggetto (dell’idea con il suo ideato)» (E2Sp4, p. 1121). Tuttavia, una conseguenza della verità è: «Una vera idea deve concordare con il suo oggetto» (E1A6, p. 1149). Per idee inadeguate Spinoza intende quelle mutile (incomplete) e confuse. Il nostro spirito racchiude in sé, come modi del pensiero, anche amore, desiderio, affetti, che però esistono solo se corrispondono, nello stesso individuo, alle idee di una cosa desiderata, amata, etc. Al contrario, un’idea pura può darsi anche in assenza di altri modi del pensiero: ci sono idee prive di affetti dell’animo. Quando lo spirito umano, immesso nel comune ordine naturale, percepisce le cose come esteriori, le incontra dall’esterno ed è da esse determinato, e quando si lascia concepire a partire dalle affezioni corporee, sorgono idee inadeguate e confuse. Solo quando lo spirito viene

determinato dall’interno, come nel considerare insieme una molteplicità di oggetti, nel comprendere la loro concordanza, le loro distinzioni e le loro opposizioni, può avere allora idee adeguate. Quel che risiede nel contenuto del pensiero puro delle idee si chiarisce con la distinzione spinoziana di concetto comune (notio communis) e concetto universale (notio universalis). I concetti universali sono concetti di genere, come cavallo, uomo, cane. Noi li pensiamo come concetti incompleti, che trovano in chi pensa ulteriori rappresentazioni, e la loro universalità si limita alle cose. Anche essenza, cosa, qualcosa, sono concetti universali, che sorgono perché i limiti propri della corporeità umana consentono la formazione solo di un numero limitato di immagini rappresentative. Oltre quei limiti le immagini si confondono e allora occorre riunirle sotto un unico attributo, appunto essenza, cosa, qualcosa: «Tali espressioni indicano idee confuse al massimo grado» (E2P40S1, p. 1285). I concetti comuni, invece, sono tali perché sono comuni a tutti gli uomini, i veri concetti della comunità compiuti in se stessi, alla base del pensiero puro, e perché colgono il tratto comune del contenuto delle cose, di contro all’astrazione mutilante dell’universale. Vi si trovano l’estensione e il pensiero e, nella misura più alta, Dio: «Lo spirito umano ha una conoscenza adeguata dell’essenza eterna e infinita di Dio» (E2P47, p. 1297). Idea e volontà: idea e volontà per Spinoza coincidono. La volontà non è il desiderio, bensì la capacità di affermare e di negare. Affermazione e negazione, però, appartengono alle idee. «Nello spirito non c’è volizione, affermazione o negazione se non quella che l’idea contiene in quanto idea» (E2P49, p. 1301). L’idea non è un’immagine ferma, «come un quadro muto» (E2P43S, p. 1291), ma opera come affermazione o negazione. L’idea adeguata non patisce, ma esprime un agire dello spirito. La distinzione comune tra intelletto e volontà (da cui proviene la contrapposizione tra intellettualismo e volontarismo nelle intuizioni fondamentali) manca in Spinoza. La volontà pura risiede nel pensiero puro e viceversa. Il pensiero non operante non è pensiero, la volontà che non si illumina nel più puro pensiero non è volontà. Solo nei pensieri confusi,

passivi e negli impulsi, l’Uno in cui coincidono pensiero e volontà resta occultato. Per questo alla volontà e al pensiero si addice la necessità, come accade al massimo grado in Dio, libero da ogni turbamento. Quindi, «Dio opera e comprende se stesso con la stessa necessità» (E2P3S, p. 1225), non agisce con l’arbitrio di un despota, dotato della potenza di distruggere tutto e ricondurlo nel nulla, ma ha la libertà della necessità. Contro Bacone e Descartes, che affermano la libertà del volere, estesa al di là dell’intelletto, per Spinoza la volontà non esiste, nel senso che non è causa dell’atto volontario. Sono i singoli atti volontari, piuttosto, ad avere ciascuno la sua causa. Non è la volontà, come pensa Descartes, la causa dell’errore, bensì è l’idea inadeguata che in quanto falsa vuole solo passivamente. Certezza: l’idea vera contiene la certezza; chi possiede una vera idea sa anche che è vera. Infatti, chi ha un’idea adeguata ne possiede anche il sapere, cioè: «Chi conosce una cosa con verità, al contempo possiede un’idea adeguata della sua conoscenza» (E2P43, p. 1289). L’idea, quindi, non consiste nel possesso di una muta immagine, ma è l’atto stesso del comprendere. «Come potrebbe, infatti, qualcuno saper di comprendere se non ha una precedente comprensione?». Questo sapere-che-precede è l’idea vera e nulla può darsi di più chiaro e più certo di tale idea che è la norma della verità. «Come la luce rivela al contempo se stessa e il buio, così la verità è norma a se stessa e al falso» (E2P43S, p. 1291). La verità illumina se stessa e l’errore, come la veglia il sogno. L’idea falsa, al contrario, è priva di certezza, contenendo, al più, mancanza di dubbio: «Ammesso che un uomo aderisca al falso, non diremo mai, però, che ne è certo. Infatti, per certezza intendiamo qualcosa di positivo, non la privazione del dubbio» (E2P49S p. 1303). Le idee che Spinoza concepisce come modi del pensiero, oggetti per se stanti, ovvero parti dell’infinito intelletto divino (del modus infinitus), non devono ritenersi identiche a quel che di solito intendiamo per concetto o rappresentazione. «L’idea non risiede nell’immagine rappresentativa di una cosa, né nelle parole. L’essenza delle parole e delle immagini rappresentative, in effetti, consiste in meri movimenti corporei che non contengono in sé in

nessun grado il concetto del pensiero» (E2P49S, p. 1305).

c) Relazione a Dio La guida per la conoscenza delle cose è nell’esperienza oppure nel pensiero puro delle idee adeguate. L’esperienza è determinante nella conoscenza dei modi individuali, una conoscenza infinita, perché l’esistenza dei modi individuali rinvia sempre a un’altra esistenza. Nella conoscenza fondata sulla ragione pura, invece, solo il pensiero è determinante. Si tratta di una conoscenza che coglie l’essere stesso, senza servirsi dell’esperienza del mondo. La necessità del pensiero include l’esistenza del pensato, ovvero, quanto si deve pensare con necessità anche è, ovvero ancora: pensare ed essere sono identici. Questo però vale solo per la sostanza, per l’essere eterno di Dio e quel che eternamente ne consegue. Le singole cose in quanto tali non mostrano, quindi, la necessità dell’idea. Tuttavia, è vero che l’esserci dei modi, complessivamente, si concepisce a sua volta come necessario, e così è di ogni cosa singola vista sotto un certo modo dell’eternità (sub quadam specie aeternitatis). L’esperienza conosce le cose come reali «in rapporto a un certo tempo e a un certo luogo», ma quando lo spirito concepisce tali cose sotto la specie dell’eternità, allora le conosce come necessarie. Senza Dio le cose singole non possono esistere, né essere concepite. Tuttavia, Dio non appartiene alla loro essenza. Da qui deriva il duplice aspetto delle cose singole: la loro verificabilità oggettiva illimitata e incompiuta e la conoscenza sostanziale del loro modo di essere come compiuta intuizione. Spinoza concepisce le cose «in quanto contenute in Dio e derivanti dalla necessità della natura divina» (E1P16, p. 1175). Poiché essere, eternità, necessità, verità sono lo stesso con Dio, Spinoza afferma: «Tutte le idee sono vere in quanto si riferiscono a Dio» (E2P32, p. 1275); quando lo spirito conosce le cose sotto il profilo dell’eternità «esso sa di essere in Dio e di concepire attraverso Dio» (E5P30, p. 1589), e: «Il nostro spirito, nella misura in cui concepisce le cose con verità, è parte dell’infinito intelletto di Dio» (E2P11C, p. 1239). Se tutto è in Dio e in Dio concepito, allora si deve «seguire l’ordine del

filosofare» (E2P10S, p. 1237), che, avendo in precedenza rivolto ogni conoscenza a Dio, nega la vera conoscibilità delle singole cose senza la conoscenza di Dio. Dio è il primo, l’originario. Nella loro precisione infinita, le scienze delle cose mondane non hanno meta, né senso, essendo tutte strade per la conoscenza di Dio, da cui traggono il loro senso. Ecco perché Spinoza controbatte a quanti sovvertono l’ordine del conoscere: «La natura divina, che è prima per conoscenza e per natura, è stata ritenuta da costoro come la cosa ultima nell’ordine della conoscenza, mentre i cosiddetti oggetti dei sensi sono stati presi per la cosa prima. È avvenuto così che essi, considerando le cose della natura, non hanno pensato alla natura divina e quando vi hanno posto attenzione, hanno saputo pensare solo alle loro prime immaginazioni, attraverso le quali costruirono la loro conoscenza delle cose naturali in generale. Non meraviglia, quindi, che si contraddicano continuamente» (E2P10S, p. 1237).

d) L’esposizione spinoziana della sua intuizione secondo il metodo geometrico Spinoza ha esposto la sua filosofia nell’Etica «more geometrico». A partire dal modello euclideo, inizia con definizioni e assiomi, per poi proseguire con la definizione dei teoremi e concludendo con le sue annotazioni (scholia). Inoltre ci sono le introduzioni e le appendici. Spinoza era convinto della certezza razionale e necessaria delle sue idee, potendo parlare, al riguardo, di «certezza filosofica o matematica» (TTP14, 12, p. 983). Muovendo dalla confutazione delle false rappresentazioni di Dio, afferma: «La verità sarebbe in eterno rimasta nascosta all’umanità, se la matematica, che non ha scopi, ma prende in considerazione essenze e proprietà delle figure, non avesse mostrato agli uomini un’altra norma di verità» (E1Ap, p. 1211). Tuttavia, una critica quasi unanime sta nell’addossare a Spinoza la colpa di aver scelto la forma matematica per l’esposizione. Si può sostenere che l’intera filosofia di Spinoza sia chiaramente contenuta nelle definizioni e negli assiomi indimostrati, che hanno la pretesa di porsi come immediatamente evidenti. Quindi, l’esposizione geometrica è

come un grande circolo che evidenzia e riempie di contenuto intuitivo quanto deve essere già dato originariamente, dimostrando unicamente quel che già presuppone. In secondo luogo, gli stessi concetti fondamentali non hanno il chiaro e univoco carattere che è pensabile nelle definizioni e negli assiomi geometrici (né si può dire che siano costruiti secondo le moderne regole di un sistema matematico di assiomi), bensì sono marcati dall’ambiguità oppure dall’impensabilità razionale o dalla polivalenza propria dei concetti metafisici di ogni tempo. Con il loro carattere speculativo, i concetti fondamentali di Spinoza, includendo di fatto il razionalmente impensabile, non hanno il tratto necessitante delle operazioni concettuali idonee a operare in modo univoco, ma piuttosto recano in sé contraddizioni per l’accertamento metafisico. Se si concepiscono come prove stringenti per l’intelletto comune, le dimostrazioni di Spinoza lasciano indifferenti, e quindi di fatto non danno l’esperienza della certezza necessaria, avendo, piuttosto, la loro forza come forma di presentificazione. Spinoza dimostra entro il secondo genere di conoscenza (da lui chiamato, nonostante le sue specifiche differenziazioni, anche intelletto o ragione), ovvero non si basa sulla percezione della verità e sulla rappresentazione, né sul sapere intuitivo del terzo genere di conoscenza. Solo quando quest’ultima forma del sapere si offre come guida, le dimostrazioni acquistano però un senso. Le dimostrazioni hanno a che fare con oggetti, obiezioni, contraddizioni, ma è qui che si compie il ricordo o la preparazione del sapere intuitivo, l’intemporale conoscenza di Dio che trascende il mondo, l’appello ai motivi della giusta costituzione per la vita. Non basta compiere le operazioni dell’intelletto attraverso semplici concetti definiti, poiché per comprendere occorre esser presi dai contenuti di cui quelle sono portatrici. Si può giudicare come inadeguato un tale metodo per la filosofia, come ha fatto Descartes, che lo ha espressamente rifiutato. Per lui, nella matematica, i princìpi sono semplici e intellegibili, come punti di partenza, mentre per la filosofia costituiscono lo scopo che si deve avere di mira nel pensiero (solo per un consapevole gioco, Descartes una volta utilizzò il metodo matematico come forma espositiva). Di fatto, si deve ammettere l’inadeguatezza nel voler seguire Spinoza in questa forma di esposizione (come una volta, da giovane, fece Schelling, senza risultati).

Resta, tuttavia, la grande impressione di quest’opera inimitabile, perché in Spinoza l’analogia della matematica con la conoscenza delle cose eterne (la forza razionale della stringenza necessitante come strada e modello per l’intuizione del terzo genere di conoscenza) divenne la forma efficace della meditazione. Spinoza ha certezza di Dio, non lo cerca. Egli non indaga più, ma mostra l’eterno, le relazioni solide e permanenti. Pertanto conviene al senso di questa filosofia il comparire come dispiegamento del sapere fondamentale, capace di far emergere quel che giace nei concetti fondamentali, originaria espressione dell’intuizione. Non si tratta più di scoprire, ma di chiarire, non di avanzare, ma di penetrare continuamente. Quanto segue alle dimostrazioni ha il carattere di un chiarimento meditativo di quanto all’inizio si presentava non fondabile. Ci si ribella senza ragione contro la lettura delle dimostrazioni, perché il pensiero che le penetra coglie la presentificazione meditativa dell’interno legame dell’edificio concettuale, che, nella sua interezza, non consegue un risultato, ma la chiarificazione della coscienza dell’essere e del modo costitutivo della vita. È invece giusto ribellarvisi nella misura in cui i continui rinvii interni alle proposizioni precedenti distolgono da una lettura progressiva e costante (nella sua traduzione, Gebhardt ha tralasciato la forma geometrica, inserendo le proposizioni a cui rimanda Spinoza, e così ha reso possibile una lettura continuativa, ma non ha operato in modo soddisfacente, poiché per far questo ha dovuto omettere molte dimostrazioni e sminuire la potenza espressiva della forma geometrica di Spinoza). Indicando i tre generi di conoscenza, Spinoza era pienamente cosciente dei modi del suo pensiero. Anche quando sembra di continuo ricadere nella razionalità di tipo logico astringente, resta comunque operante il pensiero fondamentale: l’essenza dell’uomo è la conoscenza, in cui Dio stesso si fa presente; la forma più pura di conoscenza, per eccellenza la più chiara, è quella matematica. Anche quando parla di «metodo filosofico o matematico», Spinoza non identifica filosofia e matematica, bensì ha scelto la forma matematica per comunicare adeguatamente la sua visione, in conformità alla sua essenza. Ha scelto come riferimento analogico la matematica perché capace di far valere la più forte pretesa verso la verità unica e universale propria del suo sapere filosofico. Per lui l’intemporalità delle relazioni logiche e matematiche è il più bel simbolo dell’intemporalità della verità e della realtà vera, che

ovunque può mostrarsi solo sub specie aeternitatis. Il pensiero delle proposizioni valide senza tempo è allora il modello capace di indicare le esperienze metafisiche fondamentali, grazie a cui si comprendono le cose «dal punto di vista dell’eternità». All’interno della razionalità, il pensatore si fa certo di quello che questa stessa razionalità, in quanto tale, non potrebbe conseguire.

e) Mistica, razionalismo, pensiero speculativo Riguardo alla descrizione dei gradi della conoscenza e di quello più alto, l’intellectus, che nel pensiero stesso (la ratio) si rende certo della realtà vera e infinita e ne fa esperienza, nasce la domanda: esistono in generale questi gradi, oppure sono finzioni, nient’altro che illusioni dovute alle analogie con una intuizione matematica immediata? Ma qui si tratta di altro, ovvero dei modi del pensiero in cui non si dà un cogliere oggettivamente, e in cui, inoltre, il pensiero, non il sentimento, deve essere pienamente certo, unendosi con l’oggetto. Possiamo essere tanto arditi da affermare la nostra esperienza di pensiero e la sua peculiare certezza in un tale accertamento che sorpassa razionalmente ogni razionalità? I molti che ci hanno provato hanno rinunciato. Infatti, trasformare erroneamente questa certezza nel possesso di un sapere oggettivo, sia riguardo agli oggetti del mondo, cose sensibili oppure oggetti del pensiero coglibili in modo logicamente determinato, falsifica tutto: non è questo il piano in cui ha validità e svanisce quanto poteva costituire una presenzialità esistenziale del pensiero, avvenuta tramite l’accertamento filosofico. Ricordandoci di Kant, vediamo che il neokantismo rifiuta lo spinozismo come dogmatismo acritico. Lo stesso Kant non ha nessuna relazione con Spinoza, quasi non lo ha studiato. Ma la critica di Kant si mantiene proprio sul rifiuto di quelle deviazioni del sapere che, comunque sia, hanno già smarrito quel che di filosofico si compie nel pensiero di Spinoza. Certo, Spinoza, estraneo al pensiero critico kantiano, con le sue formulazioni ha alimentato i fraintendimenti, ma non si giunge così a mettere in questione l’essenziale del suo filosofare. Ci si può tirare indietro rispetto a questo, ma allora si deve rinunciare alla comprensione di Spinoza (e di tutti i metafisici originari). A chi rinuncia rimane la questione del senso della sua vita. Infatti, solo con l’esperienza sensibile e la razionalità, non può

raggiungere nessun senso che alimenta la vita, dovendo basarsi sul mero fatto vitale, come ogni essere vivente, e dovendo così anche smarrire le possibilità proprie dell’essere uomo. Oppure ne trova il significato con la rivelazione; senza, contro o al di là della ragione. Questa fede nella rivelazione è la contrapposizione peculiare rispetto al piano che Spinoza percorre, ed è un problema suo proprio (su questo si dirà in seguito). Né mistica né razionalismo: a torto la filosofia di Spinoza è stata definita mistica, intendendo per mistica l’esperienza interiore dell’unione con il divino (nel dissolvimento dell’io e dell’oggetto), oppure quella di visioni corporee ultrasensibili. Per Spinoza queste esperienze, che non conosce, non sono veritiere. Con la mistica è possibile solo un’analogia, che indica il suo puro pensare, proprio del terzo genere di conoscenza, come unione con il divino nel medio del pensare stesso. Si è classificato Spinoza come razionalista. In nessuno quanto in lui il pensiero ha elevato una pretesa tanto potente, e il pensiero filosofico ha raggiunto felicemente una tale altezza: «Benedetto per intelletto», ha detto Nietzsche. Ma in Spinoza non c’è la beatitudine del razionalista che si appaga spiegando tutto con l’intelletto e vedendo sempre «nient’altro che…», bensì quella del pensatore che, in un continuo andirivieni sulla scala dei gradi, si fa luce da sé sul mondo e su se stesso, e nel mondo cerca il modo per comunicare la sua intuizione, una beatitudine che ha pienezza e fondamento nell’amor intellectualis dei. Qualificare Spinoza come razionalista è dimenticare che la sua filosofia è pensata nel terzo genere della conoscenza, quello dell’intuizione, esprimendosi con i mezzi del secondo (la ratio), senza esaurirsi in tali generi, né rinvenendovi il suo ultimo, decisivo fondamento. Descartes e Malebranche, rievocati in molte posizioni concettuali di Spinoza (Descartes: cogitatio ed extensio; Malebranche: conoscenza di tutte le cose in Dio), hanno al fondo della loro conoscenza la fede confessionale, affermata come autorità illimitata. Il loro pensiero non poteva raggiungere il rigore filosofico di Spinoza, perché era un filosofare non comprensivo dell’interezza del questionare umano. Invece, Pascal sospinse l’autorità della fede fino a conseguenze inaspettate, in genere occultate da altri, giungendo a svalutare il pensiero. Spinoza si discosta da costoro, non trattenendo nulla al fondo della sua coscienza ed elevando il pensiero a vertice della forza umana,

il pensiero del divino. Ogni respiro di quel pensiero doveva differire da quello dei pensatori che credevano nell’autorità della fede. Il rigore pieno che serbava rese possibile la serenità perfetta e la purezza dell’esserci personale, estranea a una filosofia che già si ritiene in possesso di un credo, conseguito per altra via, e conduce al suo stesso naufragio perché si priva del suo nucleo filosofico, tralasciando il terreno delle considerazioni di cose scientificamente dubbie e prive di importanza per la fede. Cosa fa Spinoza pensando: quel che si presenta nel pensiero puro di Spinoza non è un operare con concetti astratti o confusi. L’esperienza di pensiero di Spinoza che si mostra nella sua opera, consiste piuttosto nella sua luminosità, che porta alla presenza e lascia operare la sostanza di ogni essere. Il pensiero quotidiano si perde nel buio delle astrazioni, degli schemi, dei tipi, delle parole. Già la percezione ne è dominata. Si tratta di un pensiero cieco, che non vede né comprende, perché è soggiogato da pregresse impressioni e dai pregiudizi. Spinoza vuole rendere libero l’uomo per l’autentico e pieno pensiero, fondando la vita intera e ogni visione sulla raggiunta libertà della conoscenza. Ogni grande filosofia vuole superare l’occultamento, il fraintendimento, l’oblio, il pensiero che vaga infinitamente senza senso, perché privo di scopo e di contenuto, saltando continuamente verso qualcos’altro, così da smarrirsi, e quando se ne accorge se ne dispera. Non è sufficiente imparare in negativo a fare a meno dei pregiudizi e delle impressioni pregresse per vedere la «cosa stessa»: si riesce così solo a distruggere e a non vedere nulla che importi per il suo valore. Occorre raggiungere in positivo un pensare pieno, ove è pensato quanto si alimenta della sostanza dell’essere. Le dottrine dei gradi della conoscenza hanno parlato di questo nella storia della filosofia. La speculazione ha dato attuazione a tale pensiero sul fondamento dell’agire interiore. Cosa afferma Platone nelle variazioni della sua idea delle idee, cosa dice Kant delle idee e del giudizio riflettente, cosa nel Medioevo si intende come passaggio graduale della ratio verso l’intellectus rinvia a tale questione. Come venga fatto è un’altra questione.

Questo filosofare si è realizzato ed espresso in Spinoza con semplicità e sicurezza magnifiche. Infatti, senza autocoscienza del fare, la verità della speculazione non riesce ad affermarsi. Spesso, chi legge Spinoza è come se dapprima non capisse, o come se tutto fosse privo di senso. Questo è l’atteggiamento imprigionato nel buio della quotidianità di chi, forse ostinatamente, non vuole liberarsi. Altri volano nell’esaltazione mistica, lasciando il suolo del mondo senza possibilità di tornarvi e così, però, vivono altrove, privi di mondo, mentre quanti conducono il loro esserci nel mondo sopravvivono senza meta. Spinoza è tra quelli che, nel pensare, non lascia il mondo. Il suo pensare conduce al di là del mondo, ma lo conserva. Come in Kant l’idea non è priva dell’intelletto che essa dirige, così in Spinoza il pensiero che guida non è senza quello guidato, benché la guida si ottenga su di un fondamento che si rivela del tutto al pensiero puro. Infatti, «non abbiamo bisogno di fare esperienza dell’esistenza non separata dalla sua essenza. Sì, nessuna esperienza potrà mai insegnarci qualcosa su questo» (Ep10, p. 1849). Ma noi, in quanto modi finiti, siamo essenze fatte di spirito e di corpo, immessi nella connessione della natura e pertanto legati al luogo e al tempo, che oltrepassiamo nella visione pura ma che mai abbandoniamo. Sul trascendente mediante le categorie: se alla divinità si disconoscono tutte le determinazioni, se essa è intesa operante senza scopi ma solo attraverso cause, se coincide con la necessità, con tali asserzioni la si sta comunque di nuovo determinando. Io penso, e così è inevitabile anche che determino attraverso le categorie. Con Spinoza penso la necessità, il fondamento, la causa, l’effetto e così ho anche pensato mediante categorie, così come penso le categorie dello scopo, del valore, dell’arbitrio, scartate da Spinoza. Sono molti i metodi per pensare le categorie al di là delle categorie: 1. Spinoza pensa la necessità e così compara. La necessità comparata è determinata in modo tale da dover essere colta, nella comparazione, come indeterminatamente onniabbracciante. Nella comparazione con la necessità matematica della conseguenza intemporale, la necessità eterna è, però, solo come la necessità matematica, non identica a questa. Nella comparazione con la necessità della causa nella forza temporale dell’operare, la necessità eterna è

sempre, però, la potenza onniabbracciante come la forza causale, non ad essa identica. Per pensare l’assoluto in categorie determinate, cioè mediante distinzioni, occorre averlo davanti agli occhi come fosse a rovescio, come accade con le rappresentazioni. Quindi la determinazione categoriale può intendersi solo come paragone. 2. Un altro metodo compie l’identificazione di categorie distinte o contrapposte. Spinoza dice: causa sive ratio, intelligere sive agere, deus sive natura, etc. In tali casi, occorre pensare le cause efficienti come identiche alle ragioni logiche, il pensare identico all’agire, Dio identico alla natura. È facile dimostrare che tali identificazioni sono «errori». Ad esempio in Descartes, che impiega quel sive in modo più ampio, per superare molte distinzioni scolastiche (come notiones sive ideae, intellectus sive ratio, est sive existit, etc.), nelle identificazioni si consegue solo una equiparazione che prepara concetti nuovi, laddove la perdita di una veduta essenziale dev’essere intesa come un momento negativo del pensiero cartesiano. In Spinoza, in queste identificazioni risiede una forza trascendente (tranne nei casi in cui, per negligenza, nel suo uso linguistico lasci confondere quanto egli stesso ritiene di dover tenere essenzialmente distinto, come ratio e intellectus). Questo metodo di porre come identiche categorie distinte o opposte, procede così: esse sono pensabili nella loro distinzione o contrapposizione, mentre nella loro identificazione il senso si fa indeterminato a causa dell’impensabilità razionale, e tuttavia non resta vuoto grazie alla sua provenienza dalla distinzione. Piuttosto, il senso punta l’indice verso il fondamento comune, così che sia stabilito un sostituto per la determinazione dell’indeterminabile. Le proposizioni sono false (perché in sé contraddittorie) come asserzioni di un essercosì, ma sono vere come ciò che trascende le determinazioni. Spinoza ha certo attuato il metodo del trascendimento categoriale, ma senza costruirlo con chiara coscienza. Sarebbe assurdo obiettargli di non aver distinto causa e ratio, con la conseguenza di essere incorso in errori; egli ha colto chiaramente questa differenza. Se, nonostante tale chiarezza, compie l’identificazione, è da imputare alla sua ingenuità nella creatività filosofica. Ciò è possibile perché egli non pensa in modo trascendente, ma nell’originarietà della trascendenza. Egli non si volge a Dio pensando, ma

piuttosto giunge pensando alla conoscenza delle cose a partire da Dio. Spinoza è consapevole che ogni determinazione è finitizzazione (omnis determinatio est negatio) e che il pensiero procede direttamente per determinazioni, ma ogni determinazione è una guida attraverso il cui oltrepassamento è possibile giungere dove il pensiero che si esprime con il linguaggio (che appartiene ai modi) è risolto nel pensiero autentico di ciò che è privo di determinazioni. Ma perché Spinoza ha preferito categorie come sostanza, necessità, fondamento, eternità, rifiutandone altre come scopo, arbitrio? Se il trascendimento avviene nelle categorie, allora doveva essere possibile in tutte. Anche questo possiamo comprenderlo con la magnifica ingenuità di Spinoza, che in un gruppo di categorie trova la conferma della sua autocoscienza, della sua costituzione di vita, della sua volontà, turbate nell’altro gruppo. Al di là dei metodi del trascendimento, per lui le categorie stesse non rimangono come simboli nel pensiero, ma sono autentiche realtà. In lui accade quel che è proprio di tutti i metafisici originari. Se noi attuiamo con coscienza metodica il trascendimento mediante le categorie e dopo troviamo di fatto una tale possibilità in tutte le categorie, ci stiamo allontanando dal metodo per compiere un gioco privo di riscontri reali, oppure acquistiamo un’abilità nel pensare che potremo usare all’occorrenza. Nel trascendere effettivo c’è anche il contenuto dell’effettività della trascendenza che parla prima di ogni metodo. Allora il pensare non è più un gioco, ma, nella situazione reale, è un mezzo per la chiarificazione della stessa realtà. L’impressionante in Spinoza non sta allora nei metodi che rintraccia, ma nella realtà di Dio presente nel suo pensare.

V. L’UOMO Quel che segue necessariamente da Dio: ovvero l’infinito che in modalità infinite deriva dall’infinito, interessa a Spinoza nella misura in cui vuole chiarire «cos’è che prendendoci per mano ci conduce alla conoscenza dello spirito umano (mens) e alla sua più alta beatitudine» (E2, p. 1221). Cosa egli stesso sia, l’uomo lo pensa in quanto è cosciente del suo dover essere condotto, nel suo fare e nel suo vivere, nel vero, cioè in Dio.

a) L’uomo non è sostanza, ma modo La sostanza o Dio è l’essenza che racchiude in sé l’esistenza necessaria. L’essenza umana, tuttavia, non ha in sé la necessarietà della sua esistenza. Piuttosto, può accadere, in ragione dell’ordine naturale, «sia che questo o quell’uomo esista, sia che non esista» (E2A, p. 1223). Ne consegue che «l’essere sostanziale non appartiene all’essenza dell’uomo» (E2P10, p. 1235). E poi la sostanza può essere solo una, mentre gli uomini sono molti: quindi l’uomo non è sostanza. Che gli uomini non siano sostanza si dimostra anche perché «essi non sono creati ma solo generati, e perché i loro corpi già esistevano in precedenza, benché conformati diversamente». Il senso di Spinoza consiste nel sapere circa l’infinita distanza degli uomini da Dio e la loro prossimità più prossima a lui. Nulla tra le cose create può essere senza Dio, né si può concepire, ma la natura di Dio non appartiene all’essenza delle cose create, e questo vale anche per gli uomini. La sostanza o Dio è infinitamente superiore o più potente di tutti i modi, quindi anche dell’uomo. Ma sono reali entrambi: Dio è il totalmente Altro, è la distanza infinita mediante i suoi infiniti attributi, ma anche presente in noi, prossimo, benché solo con due dei suoi attributi. Questa tensione tra distanza e presenza di Dio, che nel pensiero di Spinoza è quiete (che proviene dall’essere-in-Dio a infinita distanza da

Dio), cade se si vuole rendere la dottrina spinoziana in un’argomentazione oggettiva, fissandola in uno o in un altro dei suoi aspetti. 1. Una volta si intende Spinoza alla lettera, relegandolo nelle sue conseguenze: è vero che nell’uomo ci sono solo due attributi, ma già per questo egli è una parte di Dio. Poiché però nel Dio di Spinoza tutti gli attributi operano in reciproco collegamento, nell’uomo devono esistere allora anche tutti gli altri infiniti attributi di Dio, oltre ai due noti, senza che possiamo conoscerli. Secondo tale dottrina, l’uomo partecipa della sostanza divina, e la prossimità di Dio segna la sua identità con noi. 2. Un’altra volta, però, si fa notare che Spinoza rifiuta alla radice sia l’essere-sostanza dell’uomo che quella di tutti i modi, interpretando questa nostra modalità di essere-non-sostanziale come assoluta distanza da Dio. Entrambe queste posizioni appaiono in contraddizione tra loro. Una volta Spinoza elimina la differenza infinita tra Dio e uomo, un’altra volta lascia sprofondare gli uomini nel modus privo di sostanza, cui non si addice più l’originalità creata di un essere in sé sussistente. Tali obiezioni, modificabili a piacere, rendono i concetti di Spinoza un apparato utile a una determinazione oggettiva, come un modello concretizzato. Così si smarrisce il senso di quei concetti, da intendere piuttosto come una visione intuitiva espressa sì nel medio della razionalità, ma per trovarne la ricchezza di contenuto e quindi la padronanza nel genere più alto di conoscenza.

b) Pensiero umano e divino Il più grande distacco tra pensiero divino e umano consiste nel fatto che quello umano, trovando la sua origine in questo suo modus determinato, può giungere solo a due degli attributi di Dio. «Se ci fosse qualcuno in possesso di un altro mezzo di percezione e di altri fondamenti della conoscenza, costui davvero oltrepasserebbe i limiti dell’umana natura» (TTP1, 26n, p. 675). Anche la nostra conoscenza dei modi nel mondo è certo riferita a Dio, ma non è divina. Dio pensa l’infinito in modalità infinita. L’uomo pensa il finito in maniera finita. Ma lo spirito umano, benché non partecipe della sostanza di

Dio, è tuttavia una parte del suo intelletto infinito, come modus infinito. Quando concepiamo qualcosa, affermiamo che Dio ha quell’idea, ma «come Dio, non in quanto è infinito, bensì in quanto è spiegato attraverso la natura dello spirito umano» (E2P11C, p. 1239). Noi affermiamo inoltre che Dio ha quell’idea, in quanto, unitamente allo spirito umano, ha insieme l’idea di un’altra cosa. Questo tuttavia significa che lo spirito umano concepisce quest’altra cosa solo parzialmente o in modo inadeguato.

c) L’uomo è spirito e corpo Come tutte le cose, anche «l’essenza dell’uomo è fondata in certe modificazioni degli attributi di Dio» (E2P10C, p. 1237). Cogitatio ed extensio, pensiero ed estensione (termini derivati da Descartes, ma intesi non come sostanze, bensì come attributi della sostanza) costituiscono l’evidente differenza tra interiorità ed esteriorità. Non si tratta di due essenze: spirito (o anima) e corpo. Piuttosto sono una unità nei suoi due aspetti, che non si danno se non nella loro contemporaneità. Così è per tutte le cose: tutti i corpi sono spirituali, tutti gli spiriti sono corporei. La nostra conoscenza, però, può solo rivolgersi, volta per volta, a uno dei due aspetti, allo spirito oppure al corpo, ma, attraverso il legame di un aspetto con l’altro, ne conosce la connessione corrispondente e necessariamente coincidente. Spinoza afferma con la più grande decisione l’unità di spirito e corpo. L’essere effettivo dello spirito umano, dice Spinoza, è fondato sull’idea di una cosa singolare effettivamente esistente. E l’oggetto di questa idea, che fonda lo spirito umano, è il corpo, o un certo modo dell’estensione effettivamente esistente. «Lo spirito racchiude in sé l’esistenza reale del corpo» («lo spirito umano o l’idea del corpo umano» non esprime però, al di fuori dei due attributi, del pensiero e dell’estensione, nessun altro attributo divino). Quindi, spirito e corpo sono «un’identica cosa, concepita ora sotto l’attributo del pensiero, ora dell’estensione» (E2P13, p. 1241). Come è decisamente affermata l’unità di spirito e di corpo, così è anche della differenza incolmabile tra i due aspetti, in modo che spirito e corpo non

possono agire reciprocamente: la connessione causale del corporeo e quella dello spirituale stanno ognuna per sé, ma entrambe le connessioni causali coincidono. «Il corpo non può determinare lo spirito a pensare, né lo spirito può determinare il corpo al moto o alla quiete» (E3P2, p. 1319). Tuttavia, siamo sempre convinti, grazie al nostro immediato agire, che il corpo ora si muova e ora stia in quiete a un semplice cenno dello spirito. Obietta Spinoza: «Nessuno sa in che senso né attraverso quale mezzo lo spirito muova il corpo» (E3P2S, p. 1321). In ogni momento, noi ignoriamo il modo in cui tutto questo accade. Però, in accordo al sapere fondamentale di Spinoza, ciò che nel corpo ci appare causato dallo spirito può e deve avere il suo fondamento nel corpo stesso. Quell’esperienza immediata in cui crediamo di muovere il corpo grazie al nostro spirito, non ci fa andare avanti nella nostra conoscenza. Nel ricercare cosa siamo, in quanto modi, dobbiamo considerare l’aspetto spirituale oppure quello corporeo. Mescolare entrambi gli aspetti è improduttivo e disorientante per la conoscenza. Quando ricerchiamo i modi, dobbiamo quindi anche spiegare dal punto di vista corporeo ogni manifestazione corporale e dal punto di vista spirituale ciò che concerne lo spirito. Quando si obietta che la realtà corporea di fenomeni che possono immediatamente essere ricondotti allo spirito non si possa di fatto spiegare attraverso cause corporee, la risposta di Spinoza è che nessuno ha potuto fino ad ora stabilire ciò di cui il corpo è capace, ovvero quello che può fare secondo le leggi della natura considerata unicamente sotto il profilo corporeo. Nessuno, finora, conosce il corpo in modo così preciso da poterne spiegare tutte le funzioni. «L’edificio del corpo umano supera in artificiosità tutto quel che mai abbia costruito l’arte umana» (E3P2S, p. 1323). Concludendo: «Presso gli animali si osservano molte cose che hanno un potere di gran lunga superiore all’acutezza dei sensi umani» (E3P2S, p. 1321). In verità, quindi, quando gli uomini affermano che questa o quell’azione del corpo deriva dallo spirito, non sanno quello che dicono. In effetti essi ammettono, con belle parole, di non conoscere la vera causa dell’azione, né se ne meravigliano. Ma il corpo, grazie alle sue sole leggi naturali, è capace di tante cose che lo spirito, vedendole, non può che meravigliarsi. Una ricerca concepita in modo tale da voler spiegare mediante la corporeità tutte le manifestazioni corporee dell’uomo, fino a

ricomprendere ogni movimento, il linguaggio, il prodursi di opere che compaiono in forma corporea e fino alla reazione contro una notizia che scuote la vita, si trova di fronte a un compito infinito. Voltiamoci ancora a guardare le infinità che vengono incontro a Spinoza. Spinoza pensa l’estensione della totalità comprensiva in tre domini: alla sommità è posta l’idea degli infiniti attributi di Dio (certezza filosofica di Dio); segue quindi il mondo infinito in cui l’uomo è un essere naturale insignificante tra infiniti altri e, in quanto uomo, non è uno scopo, concependo tutto questo al di fuori della rappresentazione ingannevole del pensiero propria dei modi finiti (coscienza filosofica del mondo); in terzo luogo, infine, è la connessione dei modi finiti che nel loro tutto sono accessibili solo all’intelletto infinito di Dio, non a quello finito dell’uomo per il quale restano da ricercare all’infinito (la ricerca delle cose del mondo). In tale ambito deve affermarsi, riguardo all’infinità relativa al nostro conoscere e alla coincidenza sostanziale di estensione e pensiero (quindi, nell’uomo, di corpo e spirito), che non si sa fin dove sia possibile giungere nella spiegazione organica dei fenomeni della vita al fine di comprendere, secondo tale aspetto corporeo, quanto ora si intende solo in apparenza come azione dello spirito. Appare assurdo voler spiegare in termini corporei quanto è comprensibile come senso significativo, ma che, per essere davvero reale, deve apparire nella realtà corporea. Tuttavia Spinoza risponderebbe: ogni comprensione di un senso non è che spiegazione sotto l’aspetto dello spirito, non del corpo. Rimane sempre impossibile concepire il corporeo stesso per il fatto di intenderlo come un segno nella connessione dei significati. Noi possiamo indagare soltanto sotto l’uno o l’altro aspetto, sotto l’uno o l’altro attributo. Quando la nostra ricerca fa la spola da un dominio all’altro, ecco che naufraga. A tal proposito, capita questo concetto: se spirito e corpo sono due aspetti di una unità, allora quest’ultima, che li unisce, dovrebbe potersi indagare anche direttamente, come un terzo elemento. Tuttavia tale unità non è separata, né precedente o conseguente, come se fosse costitutiva di un oggetto a sé per la ricerca dei modi. L’unità-corpo-anima è vera solo come sapere filosofico fondamentale, ma è un’illusione se si pretende che sia un

oggetto diretto di ricerca. Spinoza presentifica la coscienza della nostra unitàspirito-corpo come modo esistente in Dio, ma proprio per questo non prepara la via a un sostanziale sostegno dei due aspetti come oggetto di ricerca antropologica. Non è qui nostro compito presentare i metodi scientifici della psicologia moderna e, a partire da questo, rivolgere domande critiche a Spinoza, come: fino a che punto è corretta la separazione dei due aspetti e feconda per la ricerca? In che punto essi cessano di essere fili conduttori per la ricerca psicologica? Quali metodi esistono che non ricorrono a quella distinzione, non in quanto colgano una unità sostanziale di anima e corpo, di fatto irraggiungibile, bensì perché presentano allo sguardo molte cose comprensibili che sono, al contempo, nel fenomeno, sia corporee che spirituali (espressione, linguaggio, etc.), ovvero in quanto fissano stati di fatto in cui la distinzione si mostra labile (enumerazione delle azioni)? È venuto alla luce un mondo di metodi molteplici che contengono oggetti psicologici che nel significato spinoziano sono dei modi. Occorrerebbe allora ampliare Spinoza. Ma per una indagine scientifica critica si richiede la consapevolezza dei suoi metodi e dei suoi limiti. Questo significa che una tale ricerca resta aperta nel punto in cui non può giungere e da cui Spinoza ci parla. La speculazione di Spinoza, quando, nella loro unità, distingue spirito e corpo, ha un senso pratico. Egli respinge ogni denigrazione del corpo. In primo luogo afferma che «il corpo umano, così come noi lo avvertiamo, esiste» (E2P13C, p. 1241). Poi non lo lascia disprezzare né esaltare. Non accoglie né un atteggiamento ascetico contro il corpo né l’abbandono alla corporeità come se fosse l’unica vera realtà. Non conosce una verità spirituale incorporea né un corpo privo di spirito, piuttosto egli si pone al fondamento di quella reciproca unità, fondata sulla unità della sostanza di Dio. Riassumiamo: filosoficamente l’unità-corpo-anima è da noi conosciuta solo entro la totalità dell’essere. L’uomo non è una parte sostanziale di Dio e non è in generale una sostanza. L’uomo, infatti, non è originario; originario è solo Dio. Quando il pensatore volge lo sguardo allo spirito e al corpo dell’uomo è attento unicamente al loro fondamento in Dio e non a una

sostanza nell’uomo. Spinoza va al di là dell’uomo per concepirlo in modo fondamentale. Restiamo modi e siamo in Dio per tanto che, come modi finiti, siamo negli infiniti modi, ovvero nell’intelletto infinito (che corrisponde all’attributo del pensiero) e nel «moto e quiete» (che corrisponde all’attributo dell’estensione). Certo sappiamo filosoficamente che l’ordine e la connessione delle cose corporee coincidono con l’ordine e la connessione delle idee. Tuttavia la nostra effettiva conoscenza dei modi è rivolta sempre ai modi dell’attributo dell’estensione (al moto e alla quiete dei corpi) oppure ai modi dell’attributo del pensiero (all’intelletto e alla volontà). Non conosciamo l’una cosa mediante l’altra, né l’azione dell’una sull’altra e in fondo non conosciamo neanche un accadimento in cui entrambi gli aspetti siano suddivisi in esteriorità da una parte e interiorità dall’altra.

d) L’uomo, l’animale e la differenza umana Poiché per Spinoza tutte le cose di questo mondo dei modi sono a un tempo spirito e corpo, l’uomo si trova immesso nella serie degli esseri naturali. La differenza tra questi esseri all’interno della serie dipende da questo: «Quanto più un corpo è capace di fare o subire più cose insieme e quanto più le azioni di un corpo dipendono soltanto da questo, e quanto meno altri corpi cooperano con questo nell’azione, tanto più il suo spirito è capace di intendere distintamente» (E2P13S, p. 1243). Quindi non c’è una differenza sostanziale tra i modi, bensì solo una di grado, e così anche fra gli uomini e gli altri essenti. Tuttavia, per Spinoza, la distinzione tra l’animale e l’uomo è radicale perché l’uomo è capace di pensare e ha quindi affetti di una specie fondata sul pensiero. La conseguenza di tale differenza è che l’uomo si comporta in modo radicalmente diverso verso gli uomini o verso gli animali. «Il comandamento della ragione insegna che dobbiamo legarci agli uomini, ma non agli animali o alle cose, la cui natura differisce dalla natura umana» (E4P37S1, p. 1485). Il diritto che noi abbiamo sugli animali è lo stesso che essi hanno su di noi. Spinoza non nega che gli animali sentano. Tuttavia noi abbiamo il diritto «di usarne a nostro piacimento e di trattarli come meglio ci conviene, poiché essi per natura non sono uguali a noi e i loro affetti differiscono per natura dagli affetti umani» (E4P37S1, p. 1487). Il segno caratteristico dell’uomo è questo: egli sa di sapere, ha la ragione.

Quanto più è ragionevole tanto più è libero, veramente reale, perfetto. Alla questione «perché Dio non ha creato tutti gli uomini tali da essere governati dalla sola guida della ragione?», la risposta è questa: «Perché a Dio non mancava la materia per creare ogni cosa dal sommo grado della perfezione fino all’ultimo, o per meglio dire, perché le leggi della sua natura erano tanto estese da bastare a produrre ogni cosa che potesse essere concepita da un intelletto infinito» (E1Ap, p. 1219). Ogni cosa scaturisce necessariamente secondo le leggi eterne di Dio: l’azione degli uomini pii, ovvero di quanti hanno un’idea chiara di Dio, secondo cui si determina ogni loro azione e ogni loro pensiero, nonché degli atei, ovvero di quanti non possiedono un’idea di Dio ma soltanto idee delle cose terrene, secondo cui si determina la loro azione e il loro pensiero. L’agire dei primi differisce dall’agire degli ultimi non per grado ma per essenza. Nelle conseguenze necessarie della sostanza divina, nel tutto infinito della natura, esiste anche come necessità naturale quella della vita secondo ragione. Ma le varie differenze tra gli uomini e i popoli attengono unicamente all’esperienza. Questa insegna che sono rari gli uomini che possiedono una ragione autentica, i filosofi. Inoltre, insegna che ci sono popoli amanti della libertà e popoli servili. L’osservazione di tali diversità rappresenta un momento essenziale per il pensiero politico di Spinoza. Ci si può chiedere: dal momento che deve esistere tutto ciò che è possibile, deve esserci anche l’imperfetto? Ci saranno quindi delle esistenze determinate dalla ricchezza del molteplice e non dall’essere del bene? Oppure dalla graduale successione che scende fino al pessimo e si innalza all’ottimo, in cui non v’è nessun posto vuoto, ma dove tutto ha luogo e si compie? Una sola è la risposta di Spinoza: ogni cosa consegue necessariamente da Dio. Tuttavia le valutazioni derivano unicamente dallo spirito dell’uomo. La necessità eterna è al di là del bene e del male, del bello e del brutto.

e) Immortalità ed eternità L’anima – come si dice nel primo trattato – ha la scelta di unirsi al corpo di cui è rappresentazione, oppure a Dio, senza il quale essa non sussiste né può essere concepita. Quando si unisce soltanto al corpo, con questo deve perire. Invece, quando si unisce con qualcosa di immutabile e permanente, allora con ciò anch’essa dovrà permanere immutabile. È quel che accade

quando l’anima si unisce a Dio, venendo rigenerata nell’amore conoscitivo verso Dio. Infatti, la sua prima nascita si ebbe nell’essere unita al corpo; nella seconda nascita, noi non subiamo più l’azione del corpo, bensì quella dell’amore che corrisponde alla conoscenza di quell’oggetto incorporeo. Questo concetto si fa più chiaro nell’Etica, con la distinzione dell’immortalità intesa come durata, dall’eternità come esistenza intemporale: l’unità-corpo-anima è totalmente mortale. Solo finché il corpo dura, l’anima può rappresentarsi qualcosa e ricordarsi delle cose passate. Quindi è impossibile ricordarci di essere esistiti prima del corpo: «Lo spirito può dirsi durevole ed essere definito per un certo tratto di tempo solo perché include in sé l’esistenza reale del corpo; e solo per questo ha la capacità di determinare l’esistenza delle cose secondo il tempo e di concepirle in una durata» (E5P23S, p. 1585). Dunque, Spinoza non poteva non affermare: «L’esistenza presente dello spirito e la sua forza rappresentativa vengono annullate appena lo spirito cessa di affermare l’esistenza presente del corpo» (E5P23Dim, p. 1583). Eppure noi sentiamo di essere eterni; in effetti «gli occhi dello spirito grazie a cui vede le cose lo attestano» (E5P23S, p. 1585). Benché non ci ricordiamo dell’esistenza prima del corpo, tuttavia avvertiamo che il nostro spirito, poiché conosce e comprende in sé l’essenza del corpo sotto una specie di eternità, è sottratto al tempo. Quindi «lo spirito umano non può essere interamente distrutto insieme al corpo, ma continua a sussistere qualcosa di eterno» (E5P23, p. 1583). Tuttavia «questa eternità non può essere definita mediante il tempo né in generale può avere con esso alcun rapporto» (E5P23S, p. 1583). La vera immortalità non si può comprendere attraverso il tempo e la durata. L’opinione degli uomini, che a ragione avvertono l’eternità di questo spirito, la confonde con la durata. «Essi congiungono l’eternità alla facoltà rappresentativa oppure al ricordo che credono debba continuare a esistere dopo la morte» (E5P34S, p. 1595). L’immortalità, che non è durata temporale bensì eternità, non può contenere in sé qualcosa che sia unicamente temporale. Quindi essa conviene solo a quanto è «concepito sotto una specie di eternità» e di cui nel pensiero stesso si ha esperienza come partecipazione all’eternità. La conoscenza del terzo genere sa l’eterno ed è essa stessa eterna. «Nessun altro amore è eterno al di fuori di quello spirituale» (E5P34C, p. 1595). Ma l’unità-spirito-corpo

indica che il corpo non muore perché è insignificante, ma solo in quanto è mutevole. «In Dio esiste necessariamente un’idea che esprime l’essenza di questo o di quel corpo umano sotto una specie di eternità» (E5P23Dim, p. 1583), e allo stesso modo Dio fa sussistere intemporalmente nell’eternità anche le figure temporali che si succedono nelle età della vita. Con la medesima fermezza Spinoza ha affermato la transitorietà dell’esserci corporeo dello spirito e l’eternità della sua essenza. Nell’esserci corporeo siamo soggetti agli affetti e quindi all’angoscia della morte. Ma in quanto esseri razionali per natura, attraverso la conoscenza ci emancipiamo dagli affetti e così dalla paura di morire, fino a giungere alla serenità dell’essere eterno cui sempre apparteniamo. E tanto più questo si verifica, quanto più è luminosa la visione razionale e, con questa, la forza dell’amore. Nel nostro esserci come modo rimaniamo imprigionati in rappresentazioni inadeguate e nei limiti propri della nostra capacità di sapere. Ma noi, come essenze razionali, anche in questo stesso esserci, acquisiamo idee adeguate, benché sempre limitate. Grazie a tali idee partecipiamo di quell’essere di cui ci accertiamo pensando immediatamente a Dio, in Dio, nella sostanza. Attraverso il pensiero usciamo dall’esistenza come modo per giungere all’essere della sostanza. Apparteniamo alla sostanza come modo dei suoi attributi senza trasformarci in essa. In sé questo fatto vale anche per tutte le cose, ma solo nelle essenze razionali ha luogo grazie al loro sapere e alla costituzione interna che vi corrisponde. Il desiderio che tutte le cose hanno di affermarsi nell’essere, per l’esserci corporeo temporale consiste nel voler vivere oltre e sempre oltre. Ma al fondo di questo esserci parla la certezza, che si fa chiara nel pensiero, dell’essere eterno che non ha alcun rapporto con la durata, il ricordo, la rappresentazione.

VI. LIBERTÀ DALLO SCOPO E DAL VALORE

a) Scopi e valori sono pregiudizi che sorgono dal rovesciamento dell’idea di Dio «Noi non possiamo essere più certi dell’esistenza di nessuna cosa che di quella dell’essenza assolutamente infinita o perfetta, cioè di Dio» (E1P11S, p. 1165). La preoccupazione costante è, in Spinoza, quella di non invertire quest’idea di Dio, per non degradarlo nella sua dignità, né contaminarlo con le nostre rappresentazioni. Falsificando l’idea di Dio, falsi divengono altresì tutti i nostri giudizi. Il pensiero puro dice: Dio esiste necessariamente. Egli è e agisce unicamente in virtù della necessità della sua natura. È la causa libera di tutte le cose. Tutto è in Dio, nulla può essere, né può essere concepito senza di lui. Tutto è predeterminato da Dio, ma non attraverso una discrezionalità arbitraria, bensì attraverso la sua incondizionata natura o potenza infinita. Tale idea di Dio viene distorta dai pregiudizi umani. Pregiudizi che però dipendono tutti da uno solo, ovvero dall’ammissione generale secondo cui tutte le cose agiscono, come gli uomini, per uno scopo. È questo il motivo per cui gli uomini ritengono che Dio conduca ogni cosa verso un determinato scopo. Dio avrebbe fatto tutto a vantaggio dell’uomo e avrebbe fatto l’uomo allo scopo di riceverne onori. L’origine di tale pregiudizio umano sta nel fatto che tutti gli uomini nascono senza alcuna conoscenza delle cause delle cose del mondo,

cercando tutti il proprio utile e agendo pertanto in vista di uno scopo, pur essendo consapevoli di questo loro impulso. Così, ogni cosa che è in natura viene vista come un mezzo per soddisfare l’utile degli uomini; quindi nella misura in cui sanno di non essere stati loro a procurarsi quanto gli è utile, credono che a farlo sia stata un’altra essenza del loro genere. Per gli uomini le cose sono concepibili in base all’utilità che se ne può trarre. Per questo non si domandano quali siano le cause finali. Quando gli uomini incontrano cose dannose, come le tempeste, i terremoti, le malattie, etc., tale pregiudizio si trasforma in superstizione. Infatti essi credono che gli dèi, che hanno disposto le cose per l’utilità umana, si adirino perché gli uomini li hanno offesi. Cercano allora un procedimento per placarli. Poiché gli dèi, apprestando le cose utili, volevano obbligare gli uomini per godere della loro suprema venerazione, allora essi cercano, in base al loro pregiudizio, di rendere al dio onore in molti e diversi modi, affinché questi li ami al di sopra di tutti gli altri. Si rappresentano gli dèi e la natura come insensati, così come sono loro stessi. Quindi, questa loro rappresentazione non viene corretta neanche dall’esperienza quotidiana, che mostra come le cose utili e quelle dannose capitino ugualmente, sia a quanti praticano questo culto superstizioso, che a quanti non lo praticano. Stanno fermi nel loro radicato pregiudizio, affermando che i giudizi degli dèi superano di gran lunga la capacità di comprensione umana. Spinoza, contro questa opinione, stabilisce la proposizione sostenuta e chiarificata da tutta la sua filosofia: tutte le cause finali altro non sono che invenzioni umane. In natura ogni cosa procede con una necessità eterna e con perfezione suprema: Dio agisce ma non ha scopo. Infatti, egli non ha bisogno di altro. Non c’è nulla di cui manchi. Se Spinoza nega lo «scopo» nell’essere stesso, tuttavia concepisce l’idea di scopo nell’esserci dell’uomo, come una rappresentazione che si presenta nella sua situazione finita e indigente. Nella sostanza dell’essere, in Dio, non c’è alcun bisogno, quindi neanche alcuno scopo. Le rappresentazioni di scopo e perciò la condizione di bisogno propria dell’uomo non devono pertanto trasferirsi alla sostanza o a Dio. Anche la natura non conosce scopi. Ogni realtà naturale, essendo

libera dallo scopo, è anche libera dal valore. Spinoza chiarisce il modo in cui avviene il passaggio delle nostre valutazioni e dei nostri apprezzamenti alla natura, come se in essa vi fosse un’oggettività del valore, nei termini seguenti: quando si ha di mira la costruzione di una casa, il costruttore dirà che è imperfetta quando non è ancora pronta. Dopo aver ideato modelli generali di case, gli edifici costruiti vengono giudicati più o meno perfetti in base alla loro corrispondenza a tali modelli. Allo stesso modo, gli uomini sono soliti formarsi idee generali anche delle cose naturali, idee che ritengono quasi essere modelli delle cose; quando queste cose non corrispondono a tali idee, gli uomini dicono che la natura ha mancato o ha commesso un errore. Il buono e il cattivo non sono niente di positivo nelle cose: sono soltanto modi del pensiero. Trasferendo la valutazione delle cose all’essere delle cose stesse, il mondo viene immesso in una colorazione di valori che gli è essenzialmente estranea. Ma Spinoza, negando i valori come qualcosa di sussistente di per sé, li riconosce però come la realtà di fatto dei modi di pensiero propri del nostro limitato esserci. La deformazione di Dio nella rappresentazione di un essere che pone scopi, essendo quindi bisognoso, che obbliga a sé gli uomini con il giovargli e con l’adirarsi, di un essere che si lascia determinare dalle azioni e dagli atti di culto degli uomini, ha per conseguenza una concezione di fondo errata di tutte le cose. Infatti, ora, le valutazioni compiute dal punto di vista di un essere che vive, come modo, nei limiti temporali e spaziali, desiderando il suo utile, vengono tramutate in cose oggettive esistenti in sé e in maniera assoluta, attraverso i concetti di bene e di male, di ordine e di confusione, di bellezza e di bruttezza, di profitto e di perdita. Una simile prospettiva, però, è estranea a Dio. Se in lui si trasferisce quanto in essa appare, allora la ragione perde di vista l’altezza di Dio. Unicamente dalla nostra prospettiva limitata possiamo ritenere di trovare un ordine nelle cose stesse. In effetti, preferiamo l’ordine alla confusione in quanto ci piace, risparmiandoci fatica, come se esistesse un ordine nella natura indipendentemente dal rapporto con la nostra capacità rappresentativa. Questo pregiudizio non scompare con

l’esperienza che ci mostra infinite cose che superano di gran lunga la nostra capacità rappresentativa e molte che la confondono perché essa è troppo debole. Spinoza vede che esistono anche filosofi fermamente convinti che i moti dei corpi celesti formino un’armonia. Dal suo punto di vista, ognuno dimostrerebbe di valutare le cose secondo il modo in cui è fatto il suo cervello. Per questo esistono così tanti contrasti fra gli uomini e infine nasce lo scetticismo. Tutto mostra che gli uomini preferiscono rappresentare le cose anziché conoscerle. Ma i modi di rappresentare non indicano la natura di nessuna cosa, bensì soltanto lo stato della facoltà rappresentativa. Il problema della teodicea (della presunta giustificazione di Dio a causa del male fisico e morale e delle sventure del mondo) non è che il portato della corruzione dell’idea di Dio. La questione è: «Donde è derivata alla natura tanta imperfezione, la marcescenza delle cose tale da renderle maleodoranti, la loro deformità che suscita nausea, la confusione, la bruttezza, il delitto e così via?» (E1Ap, p. 1219). Spinoza risponde negando che la situazione di fatto presupposta come disastrosa sia tale in senso assoluto. Lo è solo nella rappresentazione delle essenze modali, che tendono ad affermare il proprio esserci, misurando con l’intelletto finito quanto può risultar loro utile. Tuttavia tale modo di rappresentare, che conviene all’essere finito come modo, è in sé necessario e comprensibile. In questo senso, Spinoza ha descritto tale stato dell’esserci come modo nella sua finitudine, limitazione, confusione.

b) Il nostro intelletto limitato come un modo (due metafore) Il nostro stato di limitazione nell’esserci non ci condiziona costrittivamente in tutto e per tutto, nella misura in cui noi, come essenze pensanti, lo conosciamo e lo comprendiamo, potendoci pertanto elevare al di sopra di esso. Spinoza ci chiarisce, attraverso alcuni paragoni, quanto ha intuito nel pensiero puro circa la nostra condizione. Il paragone è con un vermicello immaginario nel sangue, in grado di vederne e distinguerne le parti, e dotato di una ragione capace di osservare il modo in cui queste varie parti collidono tra loro. «Questo

vermicello vivrebbe ora nel sangue come noi viviamo in questa parte dell’universo» (Ep32, p. 1989). Esso terrebbe in considerazione il sangue, senza però osservare gli altri movimenti e le variazioni che lo colpiscono dall’esterno. Dobbiamo considerare tutti i corpi naturali così come il vermicello del sangue. Poiché però la natura dell’universo non è limitata come quella del sangue, bensì è assolutamente infinita, accade che una particella sia dominata in modi infiniti e costretta a subire infinite variazioni. Allo stesso modo, il corpo umano è una parte della natura infinita e così lo spirito umano, parte del modo infinito del pensiero. La facoltà infinita di pensare (l’intellectus infinitus) contiene oggettivamente in sé l’intera natura. Lo spirito umano è questa stessa facoltà, ma solo in quanto parte finita dello spirito infinito. Non comprende pertanto la natura finita, poiché esso stesso non è infinito. Certo, possiamo convincerci che ogni parte della natura concordi con il tutto; resta però per noi sconosciuto il modo in cui, in verità, il tutto e ogni parte concordino con il tutto. In effetti «per tale conoscenza sarebbe necessario conoscere la natura intera e tutte le sue parti» (TP2, 8, p. 1641). Spinoza fa un altro paragone circa i modi in cui perseguiamo i nostri scopi. «Come le api si procurano le provviste per l’inverno, così l’uomo, posto al di sopra di esse, le alleva e le custodisce, ma con un fine del tutto diverso, quello di ricavare per sé il miele. In quanto essenza particolare, quindi, anche l’uomo è attento soltanto a quanto può raggiungere la sua limitata essenza; ma, essendo anch’egli parte e strumento della natura intera, ogni suo scopo non può coincidere con lo scopo ultimo della natura, essendo questa infinita e servendosi al contempo di lui e di tutti gli altri come suo strumento» (KV2, 24, p. 327). Il paragone dell’uomo con l’immaginario vermicello del sangue mostra come egli abbia una capacità limitata di sapere entro questa parte del mondo e dell’universo infinito. Il paragone dell’uomo con le api mostra uno «scopo ultimo della natura» che poi non è più scopo, per Spinoza, ma si nomina come necessità priva di scopo. Tuttavia, il suo paragone contiene questa intuizione: se penso gli scopi della natura, allora l’uomo non può che essere uno strumento subordinato e, a loro volta, i suoi scopi sono solo mezzi per la

potente totalità comprensiva che, servendosene, li annienta. Così l’effimero esserci dell’uomo rimane sottoposto al cosmo e non lo domina. Intendendo tutti gli scopi come mezzi per scopi superiori all’infinito, Spinoza compie, con tale pensiero, il salto verso la completa libertà da ogni scopo, trascendendo la prospettiva finalistica che proviene dalle rappresentazioni finite. I due paragoni intendono superare la concezione antropocentrica delle cose tramite la comprensione della situazione del nostro esserci come modo. La grande intuizione dell’infinità del mondo, come modo infinito della sostanza, ci evidenzia due cose: l’uomo, stretto nel suo esserci modale, è piccolo tanto da annullarsi, ma è grande per la sua ragione che lo fa capace di tale intuizione. Il sapere circa la limitazione è già un momento della beatitudine donata dall’essere-in-Dio reso possibile da questo sapere.

c) Realtà e valore Per Spinoza il giudizio che valuta la realtà, da una parte glorificandola e deplorandola oppure, dall’altra, respingendola con sdegno, è segno dei pregiudizi situati nell’esserci del modo. Tuttavia, lo stesso Spinoza, nella sua concezione delle cose, non smette mai di giudicare (soprattutto riguardo all’uomo) in maniera, altresì, più o meno completa. Questa contraddizione si elimina tramite la seguente uguaglianza: «Per realtà e perfezione intendo la stessa cosa» (E2P1Sp, p. 1223), nonché attraverso la tesi secondo cui esistono gradi di realtà intesi come perfezione maggiore o minore. Il valore è realtà divisa in gradi. Concependo le distinzioni di realtà come distinzioni di valore, dunque come gradi di realtà, Spinoza accoglie, riguardo a quest’ultima, un concetto antichissimo. Mentre il concetto della realtà empirica delle cose immesse nello spazio e nel tempo è tale che la realtà di una cosa è o non è, così che le varie realtà non possono avere alcun grado, la vera realtà della sostanzialità si gradua nei modi. Dunque è da diverse prospettive che si dice: «Ogni cosa in natura consegue con suprema necessità» (TTP6, 4, p. 787). Ma poi: «L’azione più perfetta è quella che Dio esercita immediatamente; in generale l’azione è tanto più imperfetta quanto maggiore è il suo bisogno di cause intermedie per

potersi realizzare» (E1Ap, p. 1211). Il fondamento della perfezione delle cose non consiste nel fatto che «dilettano o offendono i sensi degli uomini ovvero assentono oppure contraddicono la natura umana» (E1Ap, p. 1219), bensì unicamente nella loro «natura e forza». «In verità, perfezione e imperfezione non sono che modi del pensiero, poiché noi paragoniamo tra loro individui dello stesso tipo» (E4, Pref, p. 1437). Non è che questo paragone consegua dal riferire le cose ai nostri scopi, ma mostra che «alcuni individui hanno un contenuto d’essere o una realtà maggiore di altri» (E5P40Dim, p. 1601). Per questo si dicono più perfetti. «E in quanto attribuiamo loro qualcosa che contiene una negazione, ovvero un limite, una fine, un’impotenza, pertanto li diciamo imperfetti». La distinzione di valore è sempre una differenza di grado di realtà, di ambito di potenza, di vicinanza a Dio, e risiede in noi stessi e nelle nostre idee: «Un’idea vale più di un’altra e contiene più realtà a condizione che il suo oggetto sia di maggior valore e contenga più realtà rispetto all’altra idea». «Quanto più ciascuno si è inoltrato in questo genere di conoscenza, tanto più è diventato cosciente di sé e di Dio, così facendosi più perfetto» (E5P31S, p. 1591). La concezione spinoziana dell’identità di realtà e valore ha, pertanto, due conseguenze: da una parte non esistono valori, ma dall’altra si trovano continuamente espresse nell’opinione delle valutazioni, per cogliere i diversi gradi di realtà.

d) Lo scambio subitaneo tra i due modi di conoscenza Sono due i modi di conoscenza in noi avvinti: la conoscenza immediata di Dio data dalla ragione e la conoscenza mediata, ottenuta attraverso il riferimento agli altri modi. La conoscenza filosofica nella sua immediatezza è liberamente volta verso l’infinità di Dio e da questa riempita; nel suo riferimento mediato ai modi, la conoscenza finita è sottoposta a condizioni e limiti. In quanto conoscenza finita, infatti, è incapace di comprendere l’infinità dei modi, non potendo, pertanto, che procedere all’infinito, e rimanendo avvolta nel non sapere. Essendo il nostro esserci un modo finito che vive nella connessione delle

affezioni corporee, ma essendo anche un’essenza razionale che, pensando, ama Dio, nelle affermazioni di Spinoza nasce una contraddizione costante (che si può superare soltanto distinguendo il terzo genere di conoscenza dal secondo). Il senso che alimenta le idee fondamentali di Spinoza conduce alla costante ripetizione di un rovesciamento che, in un primo tempo, sorprende il lettore, confermandogli poi però, in maniera diretta, la verità del tutto. Si tratta dell’inversione che muove dal pensare secondo scopi verso la libertà da ogni scopo, dal giudicare che valuta verso la visione del necessario priva di ogni valutazione e, inoltre, dalla pretesa propria dell’attività verso l’assoluta tranquillità, conseguita nel lasciare che tutte le cose siano così come sono. I capovolgimenti propri del pensiero di Spinoza possono esprimersi anche in termini inversi: dalla libertà da ogni scopo, propria dell’eternità di Dio, si passa al pensiero orientato da scopi, inteso come una limitazione del pensiero in sé all’interno dell’esserci come modo; dall’intuizione totale priva di valori si passa alla comprensione della limitazione, propria delle valutazioni errate; dalla serenità della certezza di Dio alla fatticità del modo, dalla libertà dal dovere, che attiene all’eterna necessità divina, si passa al dovere legato alle determinate leggi umane. In senso metafisico, da una parte il capovolgimento è il cammino che sale dai modi alla sostanza e poi scende dalla sostanza ai modi. Nei modi, però, risiede l’espressione della sostanza stessa.

e) L’ethos della libertà dal valore Prima di trattare degli affetti, Spinoza scrive: «Io tratterò le azioni e gli impulsi umani come se la mia ricerca avesse a che fare con linee, superfici e corpi» (E3, Pref, p. 1317). «La maggior parte di quanti hanno scritto sugli affetti non attribuisce la causa dell’impotenza e dell’incostanza umana alla potenza comune della natura, bensì a non so quale difetto della natura umana, che pertanto biasimano, irridono, disprezzano o detestano. Nulla accade però in natura che le si possa imputare come una sua mancanza» (E3, Pref, p. 1315). Nel Trattato politico ripete «di essersi impegnato con zelo a non irridere le azioni umane, senza deplorarle né biasimarle, ma

volendo comprenderle. E così non ho preso in considerazione l’amore, l’odio, l’ira, l’ambizione, la compassione come difetti della natura umana, bensì come sue qualità che le appartengono allo stesso titolo con cui appartengono alla natura dell’aria il calore, il freddo, la tempesta, il tuono e altre simili cose, che hanno il significato di avversità, eppure sono necessarie e detengono una loro ragione certa» (TP1, 4, p. 1633). Rispetto a Spinoza si pone un atteggiamento che va «al di là del bene e del male». Spinoza non vuole valutare, giudicare, condannare, nella misura in cui si situa nella disposizione filosofica della conoscenza di Dio. Se ogni cosa accade secondo le leggi eterne della natura per divina necessità, allora ci si può riferire agli eventi nella maniera in cui Spinoza si fa presente osservando i ragni, messi nella stessa rete, che combattono tra loro finché uno cattura l’altro e lo uccide nutrendosi del suo sangue. In questo atteggiamento sono, però, contenute due cose diverse: da una parte la rassegnazione alla necessità di Dio; dall’altra la volontà di conseguire il vero nell’oggettiva conoscenza scientifica che sospende ogni valutazione e ogni scopo per cogliere il suo oggetto nella sua pura oggettività. In Spinoza c’è l’approvazione di quanto iniziò a fare Galilei nella scienza della natura non continuando ad attribuire alcun valore superiore a circoli e sfere, nonché di quanto Max Weber ha condotto a compimento nelle scienze dello spirito, ritrovando e realizzando i metodi per poter studiare la realtà di fatto delle valutazioni umane e le conseguenze che ne trae lo studioso senza presupporre alcun valore. Spinoza, però, pretende molto di più, ovvero non soltanto un atteggiamento di sospensione riguardo ad ogni valutazione personale, valido nelle ore di studio e in ogni istante del giudicare oggettivo, bensì la totale interna disposizione dello spirito, in cui ogni valore è del tutto superato e non soltanto sospeso per certi tratti di tempo. Questo significa dire di sì a tutto quel che è, derivando dalla necessità di Dio secondo le leggi eterne della natura. Certo ci si può chiedere se, da una parte, ci sia una connessione di senso tra la grandezza e la forza dell’idea di Dio e, dall’altra, la capacità umana di giungere, nella conoscenza scientifica, a una vera liberazione dal valore. Si può anche rispondere positivamente a tale domanda. Tuttavia rimangono due cose distinte su piani distinti: il superamento delle inquietudini che ogni conoscenza oggettiva delle cose nel mondo subisce a causa delle nostre

valutazioni, e il superamento dell’inquietudine che corrompe l’intuizione di Dio, riconducibile al fatto che l’abbandonarsi che proviene da Dio è turbato dalle questioni della teodicea.

VII. SCHIAVITÙ E LIBERTÀ DELLO SPIRITO Sono due le conseguenze della grande intuizione spinoziana della libertà dagli scopi propria dell’essere stesso e della libertà dal valore propria della nostra vera conoscenza: in primo luogo, contiene il riferimento a scopi e valutazioni che rendono l’uomo schiavo dei suoi affetti; in secondo luogo, mostra gli itinerari capaci di farci uscire da questa schiavitù, conducendo alla libertà. Tuttavia, tale liberazione non è che la stessa intuizione. Il compimento della grande intuizione fondamentale è già la libertà. Per questo Spinoza fa due cose: astraendo da ogni valore, ricerca gli affetti e le connessioni necessarie del loro generarsi, collegarsi e trascorrere; e poi, attraverso una conversione, compie la più decisiva valutazione filosofica, ponendo lo sguardo sul sommo bene, nel proiettarvi ogni cosa, al fine di scorgere se ad esso sia giovevole oppure capace di impedirne il compimento. La filosofia, come coscienza della necessità si fa contemplazione. La filosofia come vita pratica si subordina al pensiero del sommo bene. Di questo Spinoza è consapevole. Dopo aver stabilito che il buono e il cattivo non sono nelle cose stesse bensì sono modi del nostro pensiero, continua affermando: «Benché le cose procedano così, dobbiamo però tenere ferme queste parole, perché ci dirigiamo a formarci un’idea dell’uomo come modello della natura umana cui dobbiamo mirare» (E4, Pref, p. 1437). Quindi nominerà buono quanto costituisce un mezzo per avvicinarsi al modello di natura umana che ci proponiamo; cattivo, invece, quanto impedisce di corrispondere a tale modello. E gli uomini saranno definiti più perfetti o più imperfetti nella misura in cui si avvicineranno, più o meno, a quel modello. La disposizione fondamentale dell’uomo trascende così la situazione in cui si trova determinato costantemente da scopi e valori, raggiungendo, attraverso una conversione interna rivolta allo scopo stesso, la comprensione del sommo bene. Negare gli scopi non vuol dire rifiutare la volontà di

giungere alla ragione. Pertanto, in Spinoza si rintracciano queste due cose insieme: il rifiuto delle rappresentazioni di scopi per concepire qualcosa dell’essere stesso, e preferenze, scelte, valutazioni, nella ricerca della salvezza intesa come bene della ragione. Ovvero, in altre parole: la partecipazione ai valori nella misura in cui i loro oggetti si concepiscono unicamente con riferimento all’uomo, e la libertà dal valore in senso complessivo, in maniera tale, però, che il conseguimento di questa libertà sia possibile solo attraverso un costante riferimento ai valori. Per questo, nonostante la libertà dal valore, in Spinoza si trovano il «giusto modo di vivere», il «comandamento della ragione», il «sommo bene». Non si risolve la contraddizione ricorrendo all’arbitrio di scegliersi una certa forma di vita pratica. Il pensiero fondamentale, piuttosto, afferma che anche il sommo bene si realizza necessariamente nella natura delle cose mediante la ragione. La valutazione che si compie sul cammino verso il sommo bene è un momento insito nella realtà onnicomprensiva che deve considerarsi libera da ogni valore. Poi, però, il sommo bene è distinto rispetto a tutti gli altri beni e valori poiché, essendo lo scopo ultimo, non è più uno scopo. Non solo non serve più a un altro scopo ma, in quanto è voluto, già coincide con questo stesso volere. Non è voluto come un che di altro, ma è già in quanto tale la volontà che ad esso mira, la ragione. Il sommo bene risiede nel pensiero razionale in maniera tale che è anche sempre azione. Non può essere desiderato senza essere stato già in un certo senso conseguito. Il problema decisivo è quello della libertà. Sembra impossibile eliminare le contraddizioni di Spinoza che nega e afferma la libertà, fondando su di essa tutta la sua filosofia. Nel pensare, nell’operare, nella prassi, il suo ethos tende sempre a favorire la libertà. La soluzione della contraddizione si rintraccia nei diversi sensi della libertà. Primo: non esiste alcuna libertà. Tutto è necessario. Spinoza giustifica il fatto secondo cui la libertà del volere è un’autoillusione. «Tutte le cose create sono determinate da cause esterne. Una pietra

riceve una certa quantità di moto da una causa esterna. Il mantenersi della pietra nel suo movimento è un che di necessario, in quanto deve essere determinato dall’urto di cause esterne… Ora, si immagini che la pietra pensi nella misura in cui continua a muoversi e sia consapevole che, secondo le sue possibilità, tende a mantenersi nel suo movimento. L’opinione di questa pietra, certamente, sarà di ritenersi completamente libera e di mantenersi nel suo movimento solo perché lo vuole. Così è quella libertà umana del cui possesso tutti vanno tanto orgogliosi e che, però, consiste in questo, nel fatto cioè che gli uomini sono consapevoli dei loro desideri ma ignorano le cause da cui loro stessi sono determinati. Così il bambino si crede libero quando desidera il latte, il giovane quando nella sua ira vuole vendicarsi, il vigliacco quando vuole fuggire. Anche l’ubriaco crede di parlare per una libera decisione… Allo stesso modo crede anche la gente quando delira per la febbre… Ed essendo un tale pregiudizio innato presso tutti gli uomini, non è facile che se ne liberino» (Ep58, pp. 2111-2113). Secondo: la libertà esiste. Cosa intende, però, Spinoza per libertà? La libertà è lo stesso che la necessità. Occorre distinguere tra la necessità per costrizione esterna, determinata dalla causazione di un altro essere, e la necessità intesa come divenire, determinato dall’interna successione della propria natura. Quando l’effetto deriva unicamente dalle conseguenze dell’essenza propria, allora la necessità è anche perfetta libertà. Tale libertà conviene perfettamente soltanto a Dio. La libertà di Dio è causa libera, non volontà libera. Non è scelta, ma determinazione completa da se stesso, «necessità libera». «Dio agisce solo secondo le leggi della sua natura e non costretto da nessuno» (E1P17, p. 1175). «Solo Dio esiste nella semplicità della necessità della sua natura, e agisce nella semplicità di tale necessità. Egli solo, pertanto, è causa libera» (E1P17C2, p. 1177). Per quanto riguarda i modi, quindi per l’uomo, la cosa va diversamente. L’uomo è libero solo in quanto è causa adeguata del suo agire nella conoscenza chiara del principio e di quanto ne consegue. Invece, è non libero in quanto pensa e agisce muovendo da idee inadeguate, da affezioni esteriori e interiori, immesso nella sconfinata connessione dell’operare reciproco dei modi. Poiché l’uomo, nel complesso del suo esserci, mai è la causa perfetta e

unica propria della chiarezza delle idee adeguate, per questo è sempre anche non libero. Tuttavia, l’uomo, benché non perfettamente libero, è d’altra parte capace di divenire libero compiendo idee adeguate, ovvero essendo razionale. Egli conosce la necessità nella ragione. Quindi: non esiste libertà e tutto è necessario; ma la visione chiara della propria essenza nella sua necessità è, in quanto tale, una libertà, ovvero quella data dalla partecipazione, attraverso la conoscenza, a tale necessità. La volontà di essere liberi, che coincide con la volontà di conoscere, si concepisce come necessità. Libertà vuol dire: vedere tutte le cose e gli accadimenti come necessari, nonché concepire i valori e le idee di scopo come determinate dalla necessità dell’essere modale e, in ultimo, concepire la ragione attraverso se stessa, come necessaria natura dell’uomo. Le idee spinoziane di libertà e necessità sollevano una difficoltà che si fonda sull’esperienza del «dovere». Il dovere comanda di fare quanto non accade necessariamente, bensì può anche non accadere. Il dovere si esprime nelle leggi che sono poi di due specie: quelle secondo cui ogni cosa accade immutabilmente, e quelle in conformità alle quali si deve agire perché sono norme, ma non sempre si agisce. Noi riteniamo comunemente che la nostra libertà consista nel poter osservare o meno i comandi del dovere. Proprio la concezione spinoziana delle leggi e del dovere ci chiarisce in cosa consista per lui la libertà. Infatti, per Spinoza, solo le leggi inviolabili sono divine; quelle che si possono trasgredire sono leggi umane. La libertà sta nell’unione con la necessità divina che agisce senza scelta. Quando scelgo, potendo anche fare diversamente, io sono non libero. Le leggi degli uomini sono espressione della loro finitudine. «Tutte le leggi che si possono trasgredire sono umane, poiché da tutto quel che gli uomini decidono per il loro bene non consegue che esso serva al bene dell’intera natura, bensì può, di contro, rifluire verso la distruzione di molte altre cose» (KV2, 24, p. 327). Più potenti delle leggi degli uomini sono, però, le leggi della natura, cui, peraltro, gli uomini stessi sono sottomessi. Così, mediante il seguente pensiero, viene superata la contraddizione tra libertà e necessità: il dovere è contenuto nella necessità, in modo tale che la necessità può così illuminarsi e concepirsi

come tale, ovvero, per usare le parole di Spinoza, in modo tale da non essere subita ma agita. In effetti, la conoscenza adeguata coincide con l’agire, non con il patire; è la realizzazione dell’anima secondo la necessità divina. La libertà è il momento, divenuto autocosciente nel pensiero, dell’assoluta onnicomprensiva necessità divina. Tuttavia, ritenere che Dio legiferi allo stesso modo degli uomini, premiando l’osservanza e punendo la trasgressione, costituisce una di quelle false traslazioni di rappresentazioni dell’agire umano e dell’umana limitatezza a Dio stesso. Si tratta, in primo luogo, di una diminuzione di Dio, per cui tutto ciò che accade, accade altresì in maniera reale e incontestabile secondo la sua stessa decisione; nulla può accadere contro di lui. Questa rappresentazione, poi, collegata all’idea del premio, porta alla rovina della virtù morale, che ha in se stessa il suo premio e non in altro. Il pensiero di Spinoza sulla necessità ha una certa similitudine, in molte sue formulazioni, con il pensiero della predestinazione di Calvino, benché, per la sua origine e per le conseguenze che ha nell’atteggiamento interno, ne differisca totalmente. Scrive Spinoza: «Nessuno può muovere a Dio l’accusa di avergli dato una natura debole o un’impotente intelligenza. Così come sarebbe altrettanto insensato che il cerchio volesse lamentarsi con Dio per non avergli dato le proprietà della sfera. Tanto meno l’uomo può lamentarsi dell’impotenza della sua ragione per il fatto che Dio le avrebbe negato la forza, la vera conoscenza e l’amore di Dio. Nonché per il fatto di avergli dato una natura tanto debole da renderlo incapace di dominare e frenare i desideri» (Ep78, p. 2197). Non si può parlare di giusto e di ingiusto: «Come il saggio detiene il più completo diritto su tutto quel che prescrive la ragione, così anche lo stolto e chi ha lo spirito impotente detiene il più completo diritto su tutto quel che il suo desiderio gli suggerisce» (TTP16, 2, p. 1005); infatti, «non tutti gli uomini sono determinati dalla natura ad agire secondo le regole e le leggi della ragione» (TTP16, 3, p. 1005). Dio non è giudice, ma «non per questo l’infelicità che proviene dalle nostre cattive azioni e passioni è meno temibile, poiché ne consegue

necessariamente» (Ep75, p. 2183). «Di fronte a Dio gli uomini non sono scusabili perché sono già in suo potere, come l’argilla è in potere del vasaio che, dalla stessa materia, forma dei vasi, l’uno per uso nobile, l’altro per uso vile» (Ep75, p. 2183). A Spinoza si obietta: se l’uomo è tale come è in modo necessario, allora è anche scusabile. Risponde Spinoza: «Gli uomini possono essere sempre scusabili e, nonostante questo mancare della felicità, in vario modo essere tormentati. Si può scusare il cavallo di essere tale anziché un uomo, eppure deve essere un cavallo e non un uomo. Il cane che impazzisce per un morso si può certo scusare e tuttavia è anche giusto sopprimerlo» (Ep78, p. 2197). È chiaro che Spinoza avesse una simpatia per i calvinisti. Egli scrive che l’opinione che fa dipendere tutto dal parere divino è meno lontana dalla verità di quella per cui Dio compie ogni cosa in vista del bene. Quest’ultima, in effetti, ammette qualcosa al di fuori di Dio, da esso indipendente, ma a cui egli guarda come a un modello. «Ciò significa, di fatto, subordinare Dio al cieco destino». Tuttavia la differenza tra Spinoza e Calvino è radicale, poiché Spinoza non conosce alcun parere o volontà arbitrari di Dio, né un decretum horribile, ma solo la necessità. La differenza più profonda è però nel fatto che in Calvino rinveniamo i modi della coscienza del peccato e del bisogno di salvezza attraverso la fede, mentre in Spinoza l’originaria libertà da qualsiasi coscienza di colpa o di peccato, nonché la tranquillità della libertà nell’essere certi di Dio.

a) La dottrina degli affetti Spinoza costruisce l’azione esercitata dagli affetti basandosi su pochi princìpi che spiegano l’infinita ramificazione dei loro diversi tipi. Tale semplicità gli fa intuire una moltitudine a prima vista irraggiungibile dallo sguardo. Fin dall’antichità è esistita una dottrina tradizionale sugli affetti che, al tempo di Spinoza, era stata radicalmente rinnovata soprattutto a opera di Descartes e di Malebranche. Spinoza conosceva questa tradizione. «Ma, per quanto ne sappia, nessuno ha ancora determinato la natura e le

forze degli affetti, né, d’altra parte, quello di cui l’anima è capace per dominarli» (E3, Pref, p. 1315). Il terzo libro dell’Etica, divenuto celebre, tratta dell’origine e della natura degli affetti. Un grande fisiologo, Johannes Müller, ha accolto quest’intera parte dell’opera spinoziana nel suo Manuale di fisiologia umana (1833-1840), come analisi insuperabile della realtà degli affetti. Questi sono i princìpi del saggio: 1. Tutti i modi finiti si producono a vicenda, sostenendosi e distruggendosi reciprocamente. Nessuna cosa può distruggersi da sola, ma ogni cosa tende a mantenersi nel suo essere per un tempo indefinito. Questa tendenza all’autoconservazione costituisce la reale essenza di ogni cosa nonché dell’uomo. Se consapevole di sé, Spinoza chiama l’autoconservazione desiderio, impulso quando non è consapevole. Essa prende nomi diversi a seconda dei vari aspetti che assume. Pertanto Spinoza avrebbe, come afferma, «ricongiunto insieme e compreso tutte le tendenze della natura umana che nominiamo come impulso, volontà, desiderio o brama» (E3D1Sp, p. 1407). La tendenza è un movimento, che però consegue sul fondamento di uno stato dell’essenza finita. Lo stato dell’essenza umana è chiamato da Spinoza affezione (sia esso innato o acquisito, meramente concepito sotto l’attributo del pensiero o dell’estensione, ovvero riferito a entrambi). Il desiderio (o tendenza, impulso, brama, volontà) differisce in base allo stato dell’uomo stesso, spesso in contrapposizione con se stesso, tanto che l’uomo viene condotto in diverse direzioni e non sa come orientarsi. 2. Il passaggio a una realtà maggiore o perfezione è l’affetto della gioia, il passaggio a una minore è l’affetto della tristezza. L’affezione sta nel passaggio. «Se nell’uomo fosse innata la perfezione a cui passa, allora non avrebbe il possesso dell’affetto della gioia» (E3D3Sp, p. 1409). Anche la tristezza appartiene al passaggio, che si esaurisce nella stabilità di una perfezione minore. 3. «Oltre a questi tre affetti fondamentali – desiderio, gioia, tristezza –, non ne conosco altri che siano tali: tutti gli altri sorgono da questi tre»

(E3P11S, p. 1335). Ma perché sorgono gli affetti? Lo spirito si rappresenta oggetti cui si dirigono gli affetti, che pertanto sono mutevoli. Con riferimento alla tendenza all’autoconservazione, essi rientrano tutti tra le diverse sfumature del vantaggio e dell’ostacolo. «Noi non tendiamo a una cosa, non la vogliamo o la desideriamo perché la giudichiamo buona, ma al contrario la giudichiamo buona perché vi tendiamo, la vogliamo e la desideriamo» (E3P9S, p. 1333). Lo spirito tende a rappresentarsi quel che incrementa la capacità di azione del suo tutto-spirito-corpo, contrastando le rappresentazioni opposte. Da qui derivano i primi affetti fondamentali determinati oggettivamente, amore e odio. L’amore è la gioia accompagnata dall’idea di una causa esterna. L’odio è la tristezza accompagnata dall’idea di una causa esterna. Qualunque cosa ci venga incontro si trova in connessione con un’altra. Così esiste la connessione temporale. Possiamo amare o odiare una cosa solo perché l’abbiamo contemporaneamente considerata in un affetto di gioia o di tristezza, di cui però non è stata affatto la causa efficiente. Le somiglianze tra le cose producono le medesime conseguenze. Quindi possiamo al contempo odiare e amare la stessa cosa, verificandosi pertanto con frequenza un ondeggiamento nel nostro animo. Le diverse articolazioni degli affetti, inoltre, derivano dal rapporto delle rappresentazioni con le cose passate e le future. Il «pentimento» è tristezza accompagnata dall’idea di una cosa passata che si è dimostrata contraria alla speranza. Timore e speranza, tra loro inseparabili, sono tristezza e gioia accompagnate dalla rappresentazione di una cosa futura; quando viene meno l’indecisione, nascono allora la sicurezza o la disperazione. Dobbiamo però rinunciare a riportare la trattazione degli affetti fornita da Spinoza con eccezionale profondità. 4. La grande separazione tra le diverse possibilità degli affetti deriva dalla distinzione delle idee adeguate da quelle inadeguate. I desideri (tendenza all’autoconservazione), come pure la gioia e la tristezza, sono azioni oppure passioni (passiones, passività). Lo spirito si rallegra nelle idee adeguate, per cui è agente; nelle inadeguate, per cui è paziente, sperimenta la tristezza. In entrambi i casi la tendenza fondamentale è costituita dal voler-persistere-

nell’essere, una volta in modo razionale e chiaro, un’altra in modo confuso e cieco. La tendenza razionale fondamentale indica dominio sugli affetti ovvero libertà, quella confusa e cieca indica dominio da parte degli affetti ovvero schiavitù.

b) Descrizione della schiavitù È questa la situazione di tutti i modi finiti e dell’uomo: in natura non esiste alcuna singola cosa a cui non sia superiore un’altra in forza e in potenza. Esiste sempre qualcosa di più potente. Quindi la forza con cui l’uomo persevera nella sua esistenza è limitata e superata infinitamente dalla forza delle cause esterne. Egli, anziché idee adeguate, ha in questo caso rappresentazioni che mostrano più il presente stato del corpo umano che la natura del corpo esterno e, quindi, risultano confuse. Tali rappresentazioni (ad esempio, quella della grandezza e della distanza del Sole) non si oppongono alla verità e non svaniscono alla sua presenza. Le rappresentazioni non scompaiono per la presenza della verità, ma perché altre più forti vi si oppongono. Se l’uomo subisse solo mutamenti conoscibili attraverso la sua stessa natura, allora egli non potrebbe scomparire, ma esisterebbe sempre. In tal caso, però, dovrebbe essere infinito, essendo invece finito ed esposto alle forze esterne. Egli deriva dall’ordine comune della natura, non esiste con necessità attraverso le sue azioni (actiones), bensì è con necessità sempre sottoposto alle passioni (passiones) o agli affetti. La forza delle cause esterne, rispetto alla nostra, determina la crescita e la permanenza di ogni passione. Una passione o un affetto possono superare tutte le altre azioni dell’uomo, così che l’affetto si connette in modo persistente all’uomo. Gli affetti possono essere impediti o annullati solo da altri affetti più forti e contrari. La vera conoscenza del bene e del male, quindi, può impedire un affetto solo quando anche questa appare come affetto. Il presente prevale sul lontano. Un affetto è più forte in rapporto a quanto ci tocca immediatamente nello spazio e nel tempo, essendo più forte anche rispetto a quanto può avvicinarsi più velocemente, anziché

rispetto a quanto è più lontano dal presente. Quindi l’opinione prodotta da una cosa presente ha una forza superiore rispetto alla vera ragione, come dice il verso del poeta: «Io vedo il meglio e lo approvo, ma seguo il peggio». Spinoza chiama schiavo l’uomo che segue l’affetto e l’opinione; chiama invece libero chi vive unicamente seguendo la guida della ragione. L’uno agisce senza sapere quel che fa, invece l’altro, soggetto solo a se stesso, compie solo quanto conosce come la cosa più importante nella vita e che, di conseguenza, desidera sopra a tutto.

c) L’idea e le possibilità della libertà I comandi della ragione si fondano sullo stato di fatto necessario, per cui ognuno, per quel che dipende da lui, tende a conservare il proprio essere. Poiché «tutte le nostre aspirazioni derivano dalla necessità della nostra natura, il fondamento della virtù (virtus, forza) consiste nel tendere alla conservazione del proprio essere; in questo consiste la felicità, ovvero che l’uomo è capace di conservare il suo essere. Agire secondo ragione non è altro che compiere quel che consegue dalla necessità della nostra natura» (E4P18S, p. 1461). Nulla è concepibile che preceda la tendenza all’autoconservazione. «Poiché la ragione non pretende nulla contro natura, pertanto esige che ognuno ami se stesso e ricerchi il proprio utile. Agire secondo la guida della ragione, conservare il proprio essere, vivere, sono tre cose che significano la stessa cosa: agire secondo virtù» (E4P18S, p. 1461). Spinoza è consapevole di essere in opposizione alla comune concezione etica. Sebbene «molti credano che questo principio secondo cui ognuno è tenuto a cercare il proprio utile costituisca il fondamento della mancanza di ogni disciplina, anziché della virtù e del sentimento del dovere», per Spinoza «la cosa sta invece tutta al contrario» (E4P18S, p. 1463). Si può obiettare: quello che comunque accade secondo la necessità della natura, in quanto tale non ha bisogno di essere cercato dall’uomo. Tuttavia, il fondamento di quelle proposizioni paradossali risiede nell’ambiguità di

quello che è necessità e di quello che è natura, ovvero necessità inconscia delle idee inadeguate o consapevole delle idee adeguate. Spinoza, infatti, esige che si cerchi l’utile «veramente utile», senza desiderare ciecamente, ma giungendo a quanto «in verità conduce l’uomo alla maggiore perfezione», e che non si pongano certi calcolati scopi finiti come scopo ultimo, bensì unicamente la ragione stessa e quel che le si fa manifesto e presente. Tre vie sono seguite da Spinoza nel far valere questo ethos: dapprima mostrando una condotta, fornendo indicazioni e stabilendo regole di vita; ricordando poi sempre che ogni verità ha una sua ragione nella certezza riguardo a Dio, cui si riferisce; delineando infine un modello di vita secondo ragione. 1. Condotta e regole di vita. È necessario «conoscere sia la potenza che l’impotenza della nostra natura, al fine di determinare quello di cui la ragione è capace o incapace nel dominare gli affetti» (E5P20S, p. 1579). È illusorio credere nella potenza di una volontà che, basandosi su giudizi sicuri, faccia dipendere da sé gli affetti e le passioni (Stoici, Descartes). Il rimedio non sta in questa violenza; unicamente «in base alla conoscenza delle anime» (E5, Pref, p. 1557) si può determinare quanto sia efficace. Spinoza dimostra che un affetto, che è passione, smette di essere tale appena ce ne formiamo un’idea chiara e distinta. «Quindi un affetto sarà tanto più in nostro potere, e di conseguenza tanto meno ne patirà l’anima, quanto più sarà a noi noto» (E5P3C, p. 1561). Ognuno ha il potere di conoscere se stesso e i suoi affetti con una chiarezza e una distinzione parziale se non incondizionata, e quindi di fare in modo di patirne meno. Pertanto, dobbiamo avere la massima cura nel conoscere chiaramente e distintamente ogni affetto per quanto è possibile. Tutti gli impulsi e i desideri sono passioni, perché scaturiscono da idee inadeguate, e vengono indirizzati tutti alla virtù appena in noi si suscitano o si producono idee adeguate. Nell’anima non esiste altra forza che quella di pensare e formare idee adeguate. Progressivamente, le idee chiare finiscono per prevalere sugli affetti oscuri. Questi sono i possibili procedimenti attraverso cui, pensando, io mi faccio padrone dei miei affetti: L’affetto mi opprime quando tutte le mie intellezioni sono incatenate a una causa esterna cui lo riferisco. Divento libero quando «libero l’affetto dal pensare a una causa esterna e lo lego a un altro pensiero» (E5P2, p. 1559). È allora che si dissolvono amore e odio per le cause esterne.

Eventi accidentali mi colpiscono. Non è necessario che mi sia capitato qualcosa, ma appena conosco le cose come necessarie, allora patisco meno dai miei affetti e acquisto un potere su di essi. In tal modo, «la tristezza per un bene perduto si allevia. Appena l’uomo che lo ha perduto considera che non avrebbe potuto in alcun modo mantenerlo» (E5P6S, p. 1565). La sorpresa mi coglie, qualcosa che mi offende, mi fa incollerire e mi impaurisce, improvvisamente mi assale. Per difendermi devo ordinare i miei affetti, ovvero progettare nell’intelletto un giusto modo di vivere o certe regole di vita, imprimerle nella memoria, applicarle costantemente ai casi che si presentano affinché mi siano sempre di fronte allo sguardo e influenzino i miei modi di rappresentazione. Ad esempio si dà la regola di vita secondo cui bisogna vincere l’odio con l’amore o con la generosità e non ripagarlo con un odio contrario. Per tenere sempre presente questa regola, devo penetrare con il pensiero le comuni offese degli uomini, riflettere spesso su di esse e sul modo migliore in cui possano essere riparate con la nobiltà dell’animo. Nel caso in cui capiti un’offesa, allora, la regola sarà pronta davanti a noi. Così l’ira generata dall’offesa, l’odio, la paura del pericolo e tutti gli altri affetti troveranno l’animo preparato e ordinato da un costante esercizio di autoriflessione. Gli affetti non verranno meno, ma occuperanno uno spazio minore e saranno più facilmente superati. Spinoza individua molte regole per la vita (tratte in buona parte dalla tradizione filosofica soprattutto stoica). Confessa che «sul giusto modo di vivere sono state scritte molte cose eccellenti da uomini illustri» (E3, Pref, p. 1315) verso cui egli sa di essere debitore. Facciamo qui soltanto una piccola selezione tratta dall’abbondanza delle sue osservazioni per la vita pratica. Lo abbiamo sentito parlare riguardo all’amore sensibile, al matrimonio, al denaro, sempre in tono positivo, rifiutando lo smodato e antirazionale. Quindi leggiamo: «L’uomo libero è tanto grande nell’evitare i pericoli quanto nel superarli» (E4P69, p. 1531). Fuggire a tempo debito è segno di una forza di volontà altrettanto grande che affrontare la lotta. Tra gli ignoranti, l’uomo libero è impegnato, per quanto gli è

possibile, a scansarne i benefici, poiché solo gli uomini liberi si corrispondono davvero nella gratitudine. La gratitudine tra uomini dai desideri ciechi, per lo più è una questione commerciale. L’uomo libero non agisce mai in maniera ingannevole, ma sempre con onestà. È inconcepibile essere d’accordo a parole e in disaccordo nei fatti. Bisogna vincere l’odio con l’amore e non ripagarlo con altro odio. Infatti, a causa dell’indebolimento delle loro forze, i vinti seguono con gioia chi vince con l’amore. Spinoza rifiuta i moti dell’animo tenuti comunemente in grande considerazione. La compassione è in sé cattiva e inutile. Poiché è un affetto più debole, il saggio si impegna nel non farsi toccare da compassione, ma, secondo il puro comando della ragione, cerca di aiutare gli altri in modo da realizzare quel che egli sa essere buono. Non si deve aver compassione per nessuno ma piuttosto agire bene! Aggiunge però: «Parlo qui solo dell’uomo che vive secondo la guida della ragione. Infatti, chi non è mosso dalla ragione o dalla compassione ad aiutare gli altri, viene giustamente chiamato un essere disumano» (E4P50S, p. 1505). L’umiltà non è una virtù, non scaturisce dalla vera ragione, ma dalla debolezza. Il pentimento non è una virtù, ma piuttosto, chi si pente di un fatto è un misero e impotente. Forse quanto maggiormente caratterizza Spinoza deriva dalle sue considerazioni sul principio per cui chi reca gioia è buono. Nell’ordinare i nostri pensieri e le nostre rappresentazioni, dobbiamo, per quanto è possibile, tenere presente in ogni cosa sempre e solo il bene, per essere costantemente determinati ad agire dall’affetto della gioia. Rimproverare, accusare, disprezzare, non solo non giova a niente, ma proviene da un rovesciamento inconsapevole. Proprio il più ambizioso senza successo rimprovera al mondo la sua vanità. Chi è respinto dalla sua amata accusa l’incostanza delle donne, ma subito dimentica tutto allorché lei lo riaccoglie. Le doglianze e le accuse di quanti subiscono un destino avverso sono espressione di un animo impotente. Pertanto chi vuole la libertà cerca di colmare il suo animo di ogni gioia che nasca dalla giusta

conoscenza della virtù e delle sue cause. In nessun modo, però, impiegherà le sue forze a osservare i difetti degli uomini, a denigrarli, e a gioire per una falsa apparenza di libertà. Si asterrà dall’enumerare i difetti degli uomini e solo con oculatezza parlerà dell’impotenza umana. È bene però rallegrarsi unicamente di quello che è la ragione stessa. Sono molto diverse le gioie in base al modo in cui sono fatti gli uomini e alla loro condizione; differisce molto la gioia dell’ubriaco da quella del filosofo. È questa la meta più alta: «Quando un uomo, per il suo stato di gioia, è portato a una perfezione tale da conseguire un’adeguata comprensione di sé e delle sue azioni, in egual modo, allora, sarebbe in grado di compiere le stesse azioni cui adesso è determinato dagli affetti che sono passioni, e ne sarebbe anzi maggiormente capace» (E4P59Dim, p. 1517). «Quanta più gioia procureremo, tanta maggior perfezione conseguiremo e tanto più, di conseguenza, parteciperemo alla natura divina» (E4Ap31, p. 1551). All’unico valore della gioia si oppone la superstizione secondo cui chi in sé porta tristezza è buono. Ma nessuno che non sia invidioso può trarre gioia dalla mia impotenza e dal mio disagio. «Solo una superstizione più oscura e triste vieta di divertirsi. Nessuna divinità ci prescrive come virtù le lacrime e la paura. Al contrario, la gioia è propria di ogni grado dell’esserci. Conviene al saggio ristorarsi e rifocillarsi moderatamente con buoni cibi e bevande, godere della grazia delle piante verdeggianti, degli ornamenti, della musica, dei giochi fisici e del teatro» (E4P46S, p. 1499). 2. Ogni verità è riferita a Dio. Tutta la vita pratica sarebbe filosoficamente inutile se non attingesse la sua sorgente ultima alla certezza di Dio. Quindi sono insufficienti indicazioni, metodi, regole di vita, prescrizioni e programmi. Si tratta certo di possibili guide per un comportamento «giusto», ma il loro senso e la loro forza non si trova che sul presupposto di quella profonda ragion d’essere. Pertanto, sarebbe impossibile divenire padroni dei propri affetti nello stato di confusione, attraverso una libertà formale fondata solo sulla conoscenza psicologica, come se si avesse a disposizione un qualche apparato da utilizzare facendolo funzionare come si vuole. In Spinoza si trova ripetuto questo corso di pensiero: «Lo scopo ultimo dell’uomo guidato dalla ragione, ovvero il suo più grande desiderio, è quello di concepire adeguatamente sé e tutte le cose che possono essere oggetto

della sua intellezione» (E5P25Dim, p. 1585). Concepire adeguatamente significa concepire nel terzo genere di conoscenza. Ma da questo genere necessariamente deriva, anzi in questo consiste l’amore spirituale per Dio (amor intellectualis dei), «la gioia, accompagnata dall’idea di Dio come causa» (E5P32, p. 1591). La suprema felicità coincide quindi con «la conoscenza di Dio che ci porta a fare solo quello di cui siamo convinti dall’amore e dal sentimento del dovere». La certezza e la forza della coscienza della realtà di Dio che tutto ricomprende e compenetra, è sempre presente a chi semplicemente non si chiude ad essa, e ha le sue immediate conseguenze per la vita quotidiana. In quanto Dio c’è, l’ethos è reale e agisce di per sé, senza violenza. Tutte le nostre occupazioni filosofiche tendono a farci giungere a questo punto, spingendoci a tornarvi qualora ce ne allontanassimo. Riflettendo costantemente su di sé e volgendo verso quel punto, lo spirito «può far sì che tutte le affezioni corporee e le immagini rappresentative delle cose siano riferite all’idea di Dio» (E5P14, p. 1573). Questa forza della conoscenza e dell’amore per Dio «si alimenta tanto più quanti più uomini ci rappresentiamo legati a Dio dal medesimo vincolo di amore» (E5P20, p. 1577). 3. Profilo della vita razionale. Libertà dallo scopo: l’essere è interamente presente, è la presenza eterna dell’amore; non è altrove e non deve trovarsi né attendersi unicamente nell’aldilà. Quindi la ragione, nel terzo genere di conoscenza, non opera come mezzo per uno scopo, ma è essa stessa scopo, ovvero quello della beatitudine conseguita come amor intellectualis dei. Non è al servizio di altro, non è a metà strada da questo, ma l’ha già raggiunto. Il carattere decisivo della vera virtù è questo: «La beatitudine non è il compenso della virtù ma è la virtù stessa» (E5P42, p. 1605). La vita razionale o etica, pertanto, deve ricercarsi in quanto tale e non per altro. Quando la virtù è concepita come mezzo per altro, allora svanisce. «Non esiste nulla che abbia maggior valore e nulla che sia per noi più utile e in funzione di cui essa debba ricercarsi». Degradare la virtù a mezzo per conseguire una ricompensa oppure forzarne l’attuazione con minacce, sono cose che la eliminano, entrambe contrarie al vero. «Dio non dà agli uomini alcuna legge per compensarli o punirli» (KV2, 24, p. 327). Quindi sono molto distanti dall’autentico rispetto e dalla realtà della virtù coloro che attendono privilegi

da Dio e le più grandi ricompense, sia per le loro buone azioni, che «per la più dura schiavitù». Costoro si comportano «come se la virtù e l’essere-servidi-Dio non costituissero già di per sé la felicità e la liberà suprema» (E2P49S, p. 1313). La libertà dallo scopo è il principio dell’etico, che giustifica reciprocamente la concezione di Dio come causa sui. Attività e abbandono: Spinoza insegna i possibili modi per vivere completamente presso Dio e nel mondo. «L’uomo libero a niente pensa meno che alla morte. E la sua saggezza non è riflessione sulla morte ma riflessione sulla vita» (E4P67, p. 1527). Non è determinato dalla paura della morte, ma desidera agire bene, vivere bene, e conservare il suo essere. L’atteggiamento fondamentale consiste nel vedere tutte le cose, gli avvenimenti e se stessi come necessari e immutabili nell’eterna essenza propria di ciascuno, ovvero appagandosi in tale necessità. È l’attività di cooperare a realizzare l’esserci come modo, nella conoscenza della sua manifesta necessità, mirandovi e contemplandola dall’alto. In Spinoza, come in altri momenti della Storia, l’idea di necessità assoluta non ha che aumentato l’attività attraverso la coscienza di compiere quanto è la stessa necessità. La grande differenza tra Spinoza e gli altri consiste in quello che si ritiene essere la necessità (cosa del tutto differente, ad esempio, nel calvinismo o nel marxismo, rispetto alla necessità spinoziana). Dunque, l’intuizione della necessità ha per conseguenza sia l’attività che l’abbandono. Tutto è necessario, anche la sventura, la follia, il fallimento e quello che attiene alla propria rovina. Non c’è quindi rimprovero per il nemico, per l’infame, per chi erra ciecamente; non residuano odio e disprezzo. In ogni cosa l’intellezione razionale segue la necessità. Questa è la conoscenza libera dal valore che ha luogo nel mondo, estendendosi volta per volta, ed essendo perfettamente presente alla coscienza metafisica. Se poi occorre che nell’esserci umano si decida, si valuti e si scelga, un tale atto compiuto da un modo non è però una cancellazione di quell’atteggiamento libero da ogni valutazione. Piuttosto, lo stesso valutare viene esperito come un momento della perfetta necessità. La conoscenza libera dal valore agisce nel comportamento dell’essenza razionale: ovvero dissolvendo la sua ribellione, l’ira e la violenza, oppure come pazienza e attesa consapevole, o ancora, come riconoscimento della necessità in tutte le sue forme, anche in quella dell’esserci estraneo e irrazionale. L’imperturbabilità diviene

disposizione fondamentale dell’animo. L’imperturbabilità: la forza umana è limitata e superata da quella delle cause esterne. «Noi siamo mossi qua e là in modi diversi dalle cause esterne, come le onde del mare da venti opposti, ignari della nostra fine e del nostro destino» (E3P59S, p. 1405). Questo stato del modo è irrimediabile, ma la filosofia «insegna come comportarci rispetto ai decreti del destino o a quanto sfugge al nostro potere, ovvero attendere e sopportare con lo stesso animo il volto duplice del destino» (E2P49S, p. 1313). Lo sforzo della filosofia è «quello di renderci indipendenti dalla speranza, di liberarci dal timore, e di renderci ubbidienti, per quanto possiamo, al destino» (E4P47S, p. 1501). Questo accade quando noi regoliamo le nostre azioni, i nostri pensieri e le nostre rappresentazioni «secondo il chiaro consiglio della ragione» (E4P68Dim, p. 1529). Sosterremo allora con animo imperturbabile le avversità che ci accadono se avremo la consapevolezza di aver fatto quel che ci spettava e dell’insufficienza delle nostre forze per evitare la sventura. Il fatto decisivo è che siamo interamente compenetrati dal sapere «che ogni cosa consegue dal decreto eterno di Dio con la stessa necessità con cui dall’essenza del triangolo segue che i suoi tre angoli sono uguali a due retti» (CM1, 3, p. 549). All’intellezione non occorre altro se non il necessario; la volontà non vuole altro se non il necessario. Pertanto lo sforzo «compiuto dalla parte migliore del nostro io» (TTP4, 4, p. 739) si accorda con l’ordine della natura come un tutto. Infatti «qualsiasi cosa l’uomo, che pure è parte della natura, compia per sé o per la sua autoconservazione, ovvero qualsiasi cosa la natura gli procuri senza il suo intervento, tutto gli proviene dalla sola potenza divina che opera in parte mediante la natura umana, in parte mediante le cose esterne» (TTP 3, 3, pp. 711-713). La felicità più alta risiede nell’intesa con la necessità divina. In cosa consista tale necessità l’abbiamo chiarito nella nostra esposizione della visione metafisica di Spinoza, intesa come trascendimento effettuato con la categoria della necessità che si compie nella necessità assoluta, oltre questa categoria. Lo stesso significato ha la necessità la cui conoscenza genera imperturbabilità. Seguendo la guida delle necessità relative, proprie degli accadimenti naturali determinabili e degli avvenimenti politici, avvertiamo la necessità totale

del divenire di ogni cosa a opera di Dio. Le leggi naturali che conosciamo possono essere un’analogia della necessità assoluta. Solo in quanto prende questo significato analogico, la necessità relativa comporta la tranquillità (come la tranquillità che ci procura la conoscenza medica della necessità cui è sottoposta una malattia che minaccia la vita). Per Spinoza, però, la necessità assoluta è l’essere di Dio, la sostanza, non la rappresentazione di un accadimento naturale oppure storico. L’intellezione di questa necessità genera la forza d’animo (fortitudo), ovvero gli affetti che danno slancio, potenti, attivi. Spinoza chiama la forza d’animo potenza volitiva (animositas), intesa come capacità di conservare il proprio essere secondo i soli dettami della ragione, nonché della magnanimità (generositas), ovvero il venire in aiuto del prossimo unendosi a lui con amicizia, unicamente perché la ragione lo comanda. L’uomo forte d’animo non odia né invidia nessuno, non va in collera né si indigna, né disprezza nessuno, e non ha la minima superbia. Egli sa «che tutto ciò che pensa essere buono o cattivo e che inoltre appare contrario al costume, atroce, ingiusto e disonorevole, nasce dal fatto che concepisce le cose stesse nel disordine più completo, in modo parziale e confuso» (E4P73S, p. 1537). La sua intellezione della necessità dissolve questa confusione. Allora «certamente non troverà nulla degno di odio, di riso o di disprezzo, e neanche avrà compassione per qualcuno ma, per quanto gli è possibile, si sforzerà di agire bene e di rallegrarsi» (E4P73S, p. 1537). 4. Caratteristica. Questo atteggiamento fondamentale si distingue dall’imperturbabilità stoica, che sembrerebbe affine al concetto spinoziano di cui si tratta, in quanto ricco di un contenuto di certezza di Dio, così lontano dalla certezza stoica come la ragione spinoziana del terzo genere di conoscenza (scientia intuitiva) è distante dalla ragione razionale stoica e come ancora l’autoaffermazione di una egoità assoluta e determinata, propria degli stoici, dista dall’autoaffermazione della condotta tranquilla in Spinoza. A confronto degli stoici, inoltre, Spinoza è privo di ogni violenza. Non vi si rintracciano prescrizioni per coartare o dominare se stessi. Una simile costrizione, anzi, è da lui riconosciuta come inefficace (l’affetto può essere superato solo da un altro affetto) e Spinoza vede quali conseguenze dannose e contro natura provengano dalla costrizione. Poiché la ragione fa svanire gli

affetti senza combatterli, le prescrizioni di Spinoza sono dirette solo all’acquisto di attività della conoscenza. Egli sa che in tal modo procede sulla via della necessità naturale. Né tormento, né ostinazione, né costrizione si trovano in Spinoza; piuttosto sorge in lui la disposizione al distaccato riconoscimento di tutte le cose, al di là del bene e del male. Il pensiero spinoziano non può neanche confrontarsi con l’esigenza morale della ragione kantiana. Spinoza nega che nella ragione stessa sorga spontanea un’esigenza incondizionata con la potenza di un comando. Egli, pertanto, certo conosce regole di vita, ma non imperativi, né divieti, né un’ubbidienza verso la legge morale conosciuta e neanche la conseguente violenza su se stessi. Per Spinoza, dove la ragione si fa luminosa, la moralità secondo la legge naturale sorge da sola, in quanto, essendo divina, coincide con la stessa ragione. Il modo in cui Spinoza intende il Cristo è caratteristico della sua filosofia. Egli crede che Cristo abbia avuto una perfezione maggiore di ogni altro uomo. A lui fu «immediatamente rivelato, senza parola né volto» (TTP1, 18, p. 665), il piano della salvezza divina. «Al di fuori di Cristo nessuno ha ricevuto la rivelazione di Dio senza l’aiuto dell’immaginazione, cioè senza l’ausilio di parole e immagini» (TTP1, 20, p. 665). Cristo tradusse in parole, in genere adeguate alla capacità di comprensione della folla, quello che avvertiva. Egli «non fu tanto un profeta, quanto piuttosto la bocca di Dio» (TTP1, 18, p. 665). Cristo «ha conosciuto nella verità le cose rivelate, poiché una cosa viene conosciuta quando è concepita puramente dallo spirito senza parole o immagini. Cristo ha quindi concepito in modo vero e adeguato le cose rivelate». Tuttavia «egli indubbiamente ha insegnato tali cose come verità eterne e non le ha prescritte come leggi» (TTP4, 10, p. 749). Spinoza pensa a Cristo quando scrive: «Potrebbe darsi che Dio abbia impresso la sua idea chiaramente su qualcuno, e che costui, per amore di Dio, dimenticasse il mondo e amasse gli altri uomini come se stesso». Si è creduto che Spinoza contraddicesse la sua stessa filosofia parlando così di Cristo, ma non è vero. Una volta, in un analogo contesto, si trova ripetuto che egli non si atteneva alla dottrina della Chiesa secondo cui Cristo sarebbe il figlio di Dio, e ancora oltre si trova ripetuta questa considerazione: se si immagina Dio come legislatore o

signore, nominandolo giusto, misericordioso, etc., questo accade «per la capacità di comprensione del popolo» (TTP5, 16, p. 775). In verità Dio agisce solo in base alla necessità della sua natura e della sua perfezione. «Le sue decisioni e i suoi atti di volontà sono verità eterne e implicano sempre la necessità» (TTP4, 8, p. 747). Appare chiaro quando Spinoza inevitabilmente e con ragione si adegua «alla capacità di comprensione della massa», soprattutto in riferimento alla situazione politica. Tuttavia, l’alta considerazione che ha del Cristo non è solo un atto di questa adeguazione. Spinoza riconosce in Gesù come uomo quella certezza di Dio superiore ad ogni altra cosa, che lo colma di amore per Dio e per gli uomini. L’eccellenza che egli attribuisce a Gesù sopra a tutti gli altri uomini, benché raramente espressa, in lui agisce come l’identificazione della conoscenza di Dio che ebbe Gesù quale sapere immediato, che passa da uno spirito a un altro, con il sapere filosofico spinoziano di Dio. Sebbene appaia difficile la via indicata da Spinoza, tuttavia si può rintracciare in modo certo. «E deve essere davvero difficile», così termina il suo libro sull’Etica, «quel che si trova così di rado. Poiché come sarebbe possibile, se la salvezza fosse facilmente accessibile e si potesse raggiungere senza grande sforzo, che quasi tutti l’avessero quasi trascurata? Ma tutte le cose eccelse sono tanto difficili quanto rare» (E5P42S, p. 1607).

VIII. RELIGIONE E STATO Il pensiero politico è il motivo su cui si fonda già il primo trattato di Spinoza, ora perduto. La sua protesta si leva contro le conseguenze che l’interdizione che lo aveva colpito avrebbero potuto avere per la sua esistenza di cittadino. Da allora il pensiero politico accompagna la sua vita, costituendo il contenuto della sua pubblicazione maggiore e più efficace, il Trattato teologico-politico, nonché del suo ultimo scritto rimasto incompiuto, il Tractatus politicus. I princìpi di tale pensiero sono i seguenti: l’uomo avverte in sé l’esistenza di una doppia legge: l’una, proveniente dalla sua comunanza con Dio, e l’altra dalla sua comunanza con gli uomini. Il primo genere di comunanza, a differenza del secondo, è assolutamente necessario. L’uomo infatti deve tenere sempre davanti a sé la legge secondo cui vive di fronte a Dio e con Dio; ma la legge che sorge dalla sua comunanza con gli uomini nel mondo dei modi «non è così necessaria, nella misura in cui è capace di separarsi dagli uomini» (KV2, 24, p. 329). Spinoza ha sempre affermato la doppia legge, ma non quest’ultima proposizione (espressa in gioventù) sulla possibile separazione del singolo uomo. Sapeva infatti che nulla è per l’uomo più utile dell’uomo. Per la conservazione del nostro esserci non possiamo mai giungere a poter fare a meno degli altri uomini. Meno perfetto sarebbe il nostro intelletto se lo spirito non conoscesse altro che se stesso. Senza reciproco aiuto gli uomini non possono conservare la propria vita né educare il loro spirito. Nella relazionalità della libera socievolezza, tuttavia, l’unicità di tale valore che l’uomo è per l’uomo non comporta ancora il raggiungimento di una società sicura. Nonostante la loro somiglianza, gli uomini si differenziano tra loro. La stessa cosa a uno sembra buona, all’altro cattiva; ordinata e confusa; gradita e sgradita. Da qui i modi di dire: tante teste, tante sentenze; a ognuno piace il suo cappello; ognuno ha le sue opinioni e il suo gusto.

Questo mostra soltanto che gli uomini (in base alla disposizione del loro cervello) amano rappresentarsi le cose, anziché conoscerle (secondo ragione). Le rappresentazioni separano, solo la ragione unisce. Dalle affezioni della facoltà rappresentativa nascono i contrasti e poi lo scetticismo, dalla ragione invece sorgono la concordia e la vera intellezione. Il grande impulso a concordare con gli altri, quindi, è ambiguo, generando il contrario nell’ambito delle rappresentazioni: «Per quanto possibile, ognuno tende a far sì che tutti amino quanto egli ama e odino quel che egli odia. Ora, poiché tutti tendono ugualmente a questo, ognuno è di impedimento all’altro, e, poiché tutti vogliono essere lodati e amati da tutti, finiscono poi per odiarsi a vicenda» (TP1, 4, p. 1633). Nel dominio della ragione, invece, quell’impulso raggiunge il suo scopo. La ragione si tempra nella comunità, poiché lascia rivelare l’unica verità comune a tutti. Per la relazione sociale vale la regola: «Chi cerca di guidare un altro in base alla ragione agisce non facendo violenza, bensì essendo amorevole e amicale, interiormente del tutto coerente con se stesso» (E4P37S1, p. 1485). La filosofia insegna «a non odiare, non disprezzare né deridere nessuno, a non adirarsi e a non invidiare nessuno» (E4P73S, p. 1537), che ciascuno deve stare in pace con i suoi e aiutare il prossimo, ma unicamente con la guida della ragione. «Nulla di maggior valore possono desiderare gli uomini per la conservazione del loro essere che convenire tutti in tutto, nel costituire così un solo spirito e un solo corpo». Gli uomini che si lasciano condurre dalla ragione «non cercano di conseguire nulla per sé senza desiderarlo anche per tutti gli altri» (E4P37, p. 1483). Queste regole, tuttavia, non costituiscono un fondamento sufficiente per una comunità reale. La vita associata, in effetti, è determinata raramente dalla ragione, bensì generalmente dalla natura affettiva degli uomini, che fanno ogni cosa secondo il loro capriccio. Poiché gli uomini ragionevoli sono una piccola minoranza, l’uomo razionale vede come inevitabile l’esistenza dello Stato, sia per quanti sono ragionevoli, sia per chi è senza ragione o vi è contrario. Solo lo Stato, infatti, dispone di ogni potere capace di dominare l’egoismo violento della volontà arbitraria degli individui.

Il vantaggio della condizione di una società ordinata a Stato è molto maggiore dei danni connessi. «Per quanto chi fa satira possa deridere le cose umane e i malinconici possano lodare la vita incivile e agreste, ammirando le bestie irragionevoli, tuttavia, costoro faranno esperienza del fatto che gli uomini non possono evitare i pericoli se non unendo le loro forze» (E4P35S, p. 1481). Pertanto, l’abbandono dello Stato sarebbe qualcosa di tanto sciocco quanto l’azione del giovane che, per i rimproveri dei suoi genitori, fugge di casa per arruolarsi, preferendo sopportare l’oppressione di un dominio tirannico ai disagi domestici e agli ammonimenti dei genitori. Al contrario, è ragionevole accettare con imperturbabilità le offese che ci arrecano gli uomini e lo Stato, dedicandosi prontamente a quanto è utile per generare concordia e amicizia. «L’uomo guidato dalla ragione è più libero nello Stato in cui vive secondo la decisione comune, piuttosto che nella solitudine in cui ubbidisce unicamente a se stesso» (E4P73, p. 1535). Come in precedenza, si sono avute istanze contraddittorie circa il concetto del destino dell’uomo; anche qui, in rapporto al concetto spinoziano dello Stato, da un canto si vuole che si conosca lo Stato nella sua necessità, sopportandolo quindi pure senza timore come una necessità, dall’altro che si prospettino un modello e immagini dello Stato migliore, ovvero di quello che nella situazione concreta si mostra come il meglio praticabile, al fine di agire secondo tale modello. Pertanto, Spinoza spiega che la sua filosofia è «di non poco vantaggio per la comunità statale, poiché insegna il modo in cui i cittadini debbano essere governati e guidati, ovvero in maniera che costoro compiano il meglio per libera volontà e non come schiavi» (E2P49S, p. 1313). Alla necessità dell’evento conosciuto (ovvero di un evento nel mondo dei modi) si contrappone la libertà dell’uomo che agisce, ma in maniera che entrambe appartengano all’onnicomprensiva necessità divina. Dunque, questa filosofia vuole introdurre la ragione nella vita dello Stato, conoscendo precisamente quanto accade nel mondo dei modi, per rinvenire, sulla base di tali accadimenti, un modello secondo cui sia ragionevole orientarsi nell’agire, nella legislazione, nella formazione delle istituzioni. Si deve qui fare una distinzione: per la vita dello Stato, come per gli individui, univoco è lo scopo finale, che consiste nel far vivere più

uomini possibile nella perfezione della ragione filosofica fondata sulla certezza di Dio. Tuttavia i modelli hanno diversi significati; nelle varie condizioni degli Stati, infatti, esistono molte forme di durata relativa che mutano di continuo; e qui si ha un’infinità non meno esauribile che nella conoscenza naturale. Molti sono i modelli che, quindi, sono relativi; per nessuno, in pratica, si può raggiungere la perfezione. Molte sono le vie per il meglio. Le condizioni e gli orientamenti raggiungibili si possono progettare in modo idealtipico in base al criterio della durata, della sicurezza e della libertà, come necessità comprensibili per sé (nel suo ultimo scritto politico Spinoza cercò di definire un tale progetto). Nello Stato, la religione riveste tanta importanza da assumere subito il ruolo centrale, successivamente all’autonomo sviluppo delle necessità della vita statuale. Deriva da qui il titolo dell’opera principale: Trattato teologicopolitico. Qui sorge ancora una nuova apparente contraddizione tra il pensiero puramente filosofico e quello teologico-politico di Spinoza. Quando Spinoza, infatti, pensa dal punto di vista politico e tratta della fonte dell’autorità religiosa, soprattutto della Bibbia, non parla ponendosi nell’ambito della metafisica filosofica della necessità eterna, bensì in quello dell’esserci umano comunitario, ovvero nel mondo dei modi sconfinati e in particolare della situazione olandese a lui contemporanea. Muovendosi in molti campi della conoscenza, egli può (ma solo in apparenza) dimenticare la sua filosofia nell’esposizione delle necessità politiche, quando partecipa alle questioni religiose come cittadino con una vita politica.

A) L’idea spinoziana dello Stato La realtà autentica dello Stato si può conoscere unicamente tramite esperienza e non attraverso concetti puri. Infatti, dal concetto dell’essenza non consegue l’esistenza (tranne dall’essenza della divinità), bensì l’effettiva realtà e la sussistenza delle cose si mostra solo all’esperienza. Questo è il motivo per cui «gli statisti hanno scritto sulla dottrina

dello Stato cose molto più giuste dei filosofi» (TP1, 2, p. 1631). Avendo esperienza, hanno insegnato quello che «è tutt’uno con la prassi». Spinoza stima molto Machiavelli e non vuole dire niente di nuovo, ma «soltanto esporre in modo sicuro e incontestabile quello che concorda maggiormente con la prassi» (TP5, 7, p. 1671). L’esito della ricerca è dato dall’esperienza del modo della natura umana, la quale insegna che gli uomini, per la maggior parte, non sono orientati dalla ragione ma dalle passioni. Ognuno vorrebbe che gli altri vivessero secondo il suo senso; quindi gli uomini confliggono tra loro e tentano reciprocamente di soggiogarsi con la forza; hanno compassione per gli infelici e invidia per chi è felice, ma tendono più alla vendetta che alla compassione. «Benché tutti siano persuasi che la religione insegna il contrario, ovvero che ognuno debba amare il prossimo suo come se stesso, tuttavia tale convincimento non ha potere sugli affetti» (TP1, 5, p. 1633). Esso si fa valere al letto di morte, quando già la malattia ha dominato le passioni e l’uomo giace senza forza, oppure nel culto della Chiesa, «dove gli uomini non hanno tra loro alcun rapporto, ma non vale per niente davanti a un tribunale o a una corte» (TP1, 5, p. 1633). In verità, la ragione può molto nel moderare gli affetti, ma sempre arduo è il suo cammino; è magnifica quanto nient’altro. Non fa quindi che sognare un’età dell’oro o un racconto fantastico chi ritiene che «la massa o quanti si occupano degli affari dello Stato, possano giungere a vivere secondo le sole prescrizioni della ragione» (TP1, 5, p. 1633). Inoltre, l’esperienza insegna che gli uomini sono straordinariamente diversi. Ci sono popoli barbari e schiavi (i turchi) e popoli che amano la libertà (gli olandesi).

a) Princìpi della necessità della vita dello Stato 1. I princìpi spinoziani del diritto naturale. Primo: il principio è: tutto ciò che è, e anche l’uomo, vuole perseverare nel suo essere e quindi affermarsi contro pericoli e avversità. Quel che è e si afferma ha potenza: la sua potenza è il suo diritto. Secondo: la necessità secondo cui la potenza ascende o discende è chiamata da Spinoza diritto naturale. Per altro, con questo nome si indica un complesso di norme valide per gli uomini in ogni circostanza, anche quando

non vengono seguite. Tuttavia, Spinoza, vuole parlare della realtà effettiva degli avvenimenti e, contro il senso di quei valori ideali, afferma: quanto maggiore è la potenza, tanto maggiore è il diritto e dove non è potenza ivi non è diritto. Di per sé, la potenza naturale è legge della necessità. Il diritto non è dovere ma un ente in sé. «Per diritto naturale intendo le leggi naturali stesse, ovvero le regole secondo cui ogni cosa accade. Il diritto, anche quello dei singoli individui, si estende quanto la sua potenza. Quindi, quel che l’individuo fa seguendo le leggi della sua natura, lo fa con il più compiuto diritto naturale» (TP2, 4, p. 1637). Terzo: la ragione è in sé la potenza più forte. La sua debolezza sta nel fatto di trovarsi molto raramente fra gli uomini; mai però è del tutto impotente. L’ordinamento dello Stato prende in considerazione sia le passioni che la ragione come fattori, le prime essendo più potenti di questa solo perché così diffuse. Passioni e ragione sono naturali allo stesso modo. Allora, non si può riconoscere alcuna differenza «tra i desideri che provengono dalla ragione e quelli provenienti da altre fonti». Il fatto è questo: «Se gli uomini ubbidissero soltanto al comando della ragione, allora il diritto naturale, nella misura in cui è da considerarsi come peculiare del genere umano, sarebbe determinato solo dalla potenza della ragione. In realtà gli uomini si trovano sotto il dominio di ciechi desideri, e quindi il loro diritto naturale non deve essere determinato mediante la ragione ma attraverso ogni impulso che li spinge ad agire» (TP2, 5, p. 1637). Quarto: l’origine dello Stato deve essere intesa secondo le leggi naturali e non in base a un piano razionale. Poiché tutti gli uomini si creano una certa condizione statuale, «non si devono trarre le cause e i fondamenti naturali dell’essenza dello Stato dai teoremi della ragione, ma ricavarli dalla natura e dalla costituzione universale degli uomini» (TP1, 7, p. 1635). Quest’ultima consiste nel fatto che gli uomini, per loro natura nell’invidia, nell’ira e nell’odio, sono nemici. Il mio acerrimo nemico è colui che devo temere sopra ogni altro. L’uomo da solo tenta invano di opporsi a tutti gli altri, pertanto il diritto naturale dell’individuo, determinato dalla sua potenza, è quasi nullo. Più ha da temere, meno potenza possiede e altrettanto minor diritto. Tuttavia, quanto più gli uomini si uniscono, tanto maggiori sono la potenza e il diritto che hanno. Ne consegue che si può parlare propriamente di diritto naturale come peculiare dell’uomo, solo laddove gli uomini hanno dei diritti in comune e

laddove rendono sicura contro ogni violenza la terra che abitano e coltivano, vivendo in accordo alla comune volontà della loro totalità. Qui è come se «tutti seguissero un solo spirito» (TP2, 16, p. 1645). Quinto: in questa condizione statuale l’individuo «ha sulla natura tanto diritto quanto gliene concede il diritto comune» (TP2, 16, p. 1645). Egli è soggetto «alla concorde volontà della collettività». Il diritto comune «si dice solitamente governo» (TP2, 17, p. 1645). Questo è nelle mani di chi, «secondo la concorde volontà della collettività, si cura delle cose comuni» (TP2, 16, p. 1645), ovvero di chi ha il diritto di fare le leggi, interpretarle e abrogarle, di decidere sulla pace e sulla guerra. Il governo può essere una democrazia (governo di un’assemblea formata in base a tutto il popolo), un’aristocrazia (governo di un’élite), o infine una monarchia (governo di uno solo). Sesto: solo attraverso lo Stato esistono leggi che non sono leggi di natura, le quali costringono in modo necessario, bensì leggi civili che reclamano ubbidienza, benché non sempre la ottengano. «Nello Stato il peccato non è pensabile se non dove il diritto comune dell’intero Stato decide sul bene e sul male. Però l’ubbidienza è la costante volontà di eseguire ciò che è buono secondo il diritto e che deve accadere per decisione della collettività» (TP2, 19, p. 1647). Unicamente attraverso lo Stato possono esistere contratti il cui adempimento si ottiene con i mezzi della sua potenza. Quel che esiste attraverso lo Stato non può esserne il fondamento né può vincolarlo. Quello che lega i cittadini dello Stato non vincola lo Stato stesso. Quindi i patti e le promesse tra Stato e Stato valgono solo «finché non cambia la volontà dei contraenti. In verità chi detiene la potenza di cancellare la sua promessa non ha rinunciato al suo diritto, ma ha prestato solo delle parole. Quando costui, che per diritto di natura è giudice di se stesso, ritiene possibile una conseguenza più dannosa che utile dalla sua promessa, decide secondo il suo parere che questa debba essere cancellata» (TP2, 12, p. 1643). Egli la cancella in base al diritto di natura (diversamente agisce chi conduce la propria vita secondo le regole della ragione; anche quando nessun potere lo obbliga, tiene sempre fede alla sua promessa). Lo Stato è costretto, per sua stessa ragione, a mantenere nei cittadini il timore e il rispetto di fronte ad esso. Però, le regole al riguardo non attengono al campo del diritto civile, bensì al diritto naturale. Il timore e il rispetto si tengono sul diritto di guerra.

Lo Stato «per mantenersi libero, non necessita di essere giudicato nel suo comportamento da nessun altro fuorché da se stesso, né di ritenere buono o cattivo nient’altro che esso stesso riconosca come tale» (TP4, 5, p. 1667). Questo essere svincolati dalla legge e dai contratti sussiste anche, per diritto naturale, nelle relazioni tra lo Stato e i suoi cittadini. Lo Stato non è vincolato da quel che vincola ogni cittadino. «Patti o leggi, con cui la massa trasferisce il suo diritto a un consiglio politico o a un solo uomo, devono essere annientati appena lo esiga il bene comune» (TP4, 6, p. 1667). Ma chi decide cosa richiede il bene comune? «Il giudizio al riguardo non spetta ad alcun privato cittadino» (TP3, 4, p. 1663). Detentore del potere di governare resta solo l’interprete delle leggi che «di fatto non lo obbligano» (TP4, 6, p. 1667). 2. La vita statuale. Il diritto naturale può consentire l’uso arbitrario del potere? Non lo permette né lo vieta, lasciando che si realizzino le conseguenze delle azioni. Un medesimo diritto naturale lascia liberi di infrangere le promesse e di violare le leggi in quanto lega le conseguenze di una diminuzione di potenza o della distruzione dello Stato al falso agire. Infrangendo le promesse e violando le leggi, «il trasgressore» può conseguire un successo duraturo, avendo così ragione secondo il diritto naturale, ma con tale suo agire può anche cadere, e allora ha torto. Lo Stato non è legato ad altra regola che a quella costituita dall’uomo nella sua condizione naturale. Tuttavia in questi risiede tale inesorabile principio: «Non essere nemico di se stesso» (TP4, 5, p. 1665). L’annientamento della potenza è la sanzione che il diritto naturale infligge per l’uso arbitrario ed erroneo del potere. Quindi la trasgressione dei patti e della legge da parte dello Stato ne fiacca la potenza perché muta il comune timore della maggioranza dei cittadini in ribellione. «Si dissolve allora, per questo stesso motivo, anche lo Stato. Pertanto il detentore del potere governativo non è obbligato da nessun’altra ragione a mantenere le condizioni del patto, se non da quella che corrisponde alla ragione secondo cui l’uomo, nel suo stato di natura, non può procurare la sua stessa morte» (TP4, 6, p. 1667). Che la potenza coincida con il diritto significa che un’azione, cui conseguisse la diminuzione di potenza, condurrebbe anche alla perdita del diritto. «Quindi lo Stato pecca quando lascia fare o accadere quel che può essere causa della sua rovina. Noi diciamo qui pecca nello stesso senso in cui i filosofi o i medici affermano che la natura pecca. In tal senso possiamo affermare che lo Stato pecca quando

compie qualcosa contro il comando della ragione» (TP4, 4, pp. 1663-1664). In effetti, poiché i simboli della potenza sono durata e stabilità, il potere politico contingente può trasformarsi. Stabile è solo lo Stato governato dalla ragione, l’unica a compiere quel che è stabile, mentre le passioni generano il mutevole. Ma come riesce la ragione a farsi valere nello Stato? Gli uomini, così come lo Stato in quanto tale, non sono affatto ragionevoli. Solo il timore apre la strada alla ragione, facendovi derivare l’azione favorevole rispetto a quello che la ragione filosofica ha respinto per la ragionevolezza dello Stato, ovvero l’umiltà, il pentimento e il timore reverenziale per i profeti. La ragione richiede la pace, ma solo i motivi della durata e della sicurezza del potere statale inducono a volerla. «Più duraturo di tutti è lo Stato che può custodire quanto si è acquistato senza desiderare nulla che sia di altri e che pertanto si impegna ad ogni costo per evitare la guerra e per mantenere la pace con ogni sforzo» (TP7, 28, p. 1713). Affinché lo Stato divenga ragionevole non è sufficiente che chi lo governi (come uno dei buoni imperatori romani) lo domini ragionevolmente. Quando lo Stato è retto con ragione e coscienza da un solo uomo, proprio per questo, in quanto a lui legato, non può avere una stabile durata. Per sussistere, lo Stato deve «essere ordinato in modo che coloro cui è deputata l’amministrazione non possano mai mettersi nella posizione di essere privi di coscienza o di agire male, senza riguardo al fatto che seguano l’affetto o la ragione. La sicurezza dello Stato non è disturbata dall’atteggiamento della coscienza che obbliga gli uomini a una giusta amministrazione, solo se essa stessa è giusta. Infatti, la libertà o la forza dello spirito sono virtù private. La vera virtù dello Stato è la sicurezza» (TP1, 6, p. 1635). La ragione dello Stato è imposta dalla medesima passione che vuole la durata e la sicurezza del suo proprio potere. Tuttavia, la ragione in quanto tale non si può pretendere dalla massa né dai capi politici, entrambi guidati dalle passioni. Solo il timore li mantiene nei limiti. Al detto secondo cui «la massa è terribile quando non teme» (TP7, 27, p. 1711), Spinoza aggiunge: se si intende che nella plebe non esiste nessuna moderazione e che sa essere solo servile e schiava, ovvero comandare con arroganza, allora si attribuisce con falsità «ogni vizio al popolino», dimenticando che la natura è uguale in tutti, arroganti quando comandano, terribili quando non temono. In ogni caso, «la verità è falsificata in sommo grado dagli animi esasperati e resi schiavi»

(TTP16, 10, p. 1015). Se la sicurezza del potere, poiché desiderata dalla stessa passione, costringe gli uomini a mettere in atto la ragione, questo necessariamente accade per una costante tensione nell’essenza dello Stato: ogni individuo, per la sua sicurezza, ha ceduto allo Stato il suo diritto di «vivere a suo modo», unito alla potestà di difenderlo. Tuttavia, «nessuno può essere privato della capacità di difendersi fino al punto di annientarsi come uomo» (TTP17, 1, p. 1029). Quindi «i sudditi hanno conservato per diritto naturale quello di cui non possono essere privati senza grave pericolo per lo Stato» (TTP17, 1, p. 1029). Come l’egoismo dell’individuo produce contro di lui l’intervento del potere dello Stato, così la violenza arbitraria di chi comanda conduce alla ribellione del popolo. Lo Stato non è determinato unicamente dalla ragione, ma esiste nella sua effettiva realtà, genesi del suo divenire. Tale realtà risulta già dal concetto di un’essenza. Uno Stato pensato non è ancora uno Stato reale. «Pertanto, il principio dell’esistenza delle cose naturali e la loro durata temporale non si può dedurre dalla loro definizione. Infatti la loro essenza pensata rimane la medesima», ma quanto si è formato come potere ha bisogno della sua origine per continuare a esistere. «La stessa potenza di cui le cose necessitano per giungere all’esserci, è necessaria anche per la loro permanenza» (TP2, 2, p. 1635). L’idea spinoziana dello Stato incorre in questa antinomia: primo: i princìpi naturali dell’essenza dello Stato non si possono desumere «dai teoremi della ragione, bensì dalla natura generale dell’uomo» (TP1, 7, p. 1635). Secondo: lo Stato stabile sussiste solo mediante la ragione che non fonda la coscienza, ma che tuttavia viene senz’altro prodotta dalle necessità di sicurezza e di stabilità del potere. 3. La necessità onniabbracciante. Al diritto naturale non si oppone un non-diritto. Ogni cosa ha diritto in quanto ha potenza. Il non-diritto esiste solo in base alla realtà dello Stato considerato come potenza legislatrice. Tuttavia, diritto e non-diritto sono ricompresi in un diritto della necessità. Per quante leggi facciano gli Stati e annuncino i profeti, tutte sono dovute alla potenza di Dio, ma il diritto di Dio, essendo la potenza onnicomprensiva, è sovraordinato ad ogni legge determinata e ad ogni ordinamento giuridico. Se dobbiamo ubbidienza alle leggi dello Stato e a quelle di Dio annunciate dai profeti, non dobbiamo mai dimenticare «di essere in potere di Dio, come

l’argilla è in potere del vasaio» (Ep75, p. 2183). Questo significa che «l’uomo può anche agire contro i decreti di Dio, come sono scritti in quanto leggi nel nostro spirito o in quello dei profeti, mai contro il decreto eterno di Dio scritto nella natura intera e valido per il suo ordine» (TP2, 22, p. 1649). Occorre comprendere questa distinzione spinoziana per non fraintendere il senso filosofico di tutto il suo pensiero politico. Cosa intende Spinoza per «l’intera natura»? Intende la natura naturata nella sua totalità, su cui si imprime la natura naturans, Dio (da qui «Deus sive natura»), poiché include e ricomprende in sé tutte le leggi determinate. Nella natura naturata, nel cosmo, si trovano le leggi naturali. Spinoza assegna a Dio infiniti attributi, come ascrive alla natura naturata infinite leggi. La nostra conoscenza di queste leggi è destinata a rimanere «un’opera incompleta perché l’ordine e la connessione di tutta la natura ci restano per lo più ignoti» (TP2, 8, p. 1641). Pertanto ci domandiamo ora se le eterne leggi necessarie della natura siano identiche a quelle che conosciamo nelle diverse scienze naturali, in parte conosciute; la risposta di Spinoza è affermativa. Allora l’intera realtà del mondo, ovvero la natura naturata, si può comprendere in un sistema di leggi naturali? Solo per l’intelletto infinito di Dio, dice Spinoza, non per noi. Infatti, essendo finito, il nostro intelletto non può conoscere l’infinità del mondo reale né per esperienza né tramite i suoi concetti, mentre certamente può pensare l’infinito in sé in modo fondamentale e adeguato. Per Spinoza la grandezza dell’universale natura onnicomprensiva è infinitamente maggiore della natura conosciuta e della nostra ragione che opera nella conoscenza delle cose finite. Alla nostra ragione, che conosce in modo finito, certo molte cose nella natura appaiono «ridicole, insensate o cattive. Ma in verità quello che la ragione interpreta come cattivo non è tale riguardo all’ordine e alle leggi dell’intera natura, bensì solo riguardo alle leggi della nostra natura» (TTP16, 4, p. 1007), perché noi «vogliamo vedere ogni cosa guidati dai precetti della nostra ragione». La natura, infatti, «non è confinata sotto le leggi della ragione umana che mirano unicamente alla vera utilità e alla conservazione dell’uomo, ma piuttosto è subordinata ad altre infinite leggi che attengono all’ordine eterno dell’intera natura» (TP2, 8, p. 1641).

Le leggi naturali finite conoscibili che noi concepiamo riguardano qualcosa di inferiore alla ragione filosofica e alla libertà. La legge onnicomprensiva divina della necessità eterna è invece superiore ad ogni cosa determinata che possiamo conoscere. Ogni conoscenza finita e il suo utilizzo come mezzo per certi scopi, ogni legge data nella società sotto forma di un dovere, nella legge divina, scompare. Questa situazione fondamentale è chiarita da Spinoza con la più grande penetrazione. «L’uomo, saggio o sciocco, è una parte della natura». Ragione e desiderio sono ugualmente ricompresi e superati dalla natura. «L’uomo, guidato dalla ragione oppure dai meri desideri, agisce sempre secondo le leggi e le regole della natura, cioè secondo il diritto naturale» (TP2, 5, p. 1637). È falso credere che gli stolti disturbino anziché seguire l’ordine della natura. Falso è soprattutto credere che lo spirito umano debba la sua origine a un atto immediato di creazione divina, come se l’uomo fosse nella natura come uno Stato nello Stato, indipendente dalle altre cose, capace incondizionatamente di autodeterminarsi e di usare rettamente la ragione. L’esperienza insegna il contrario: così poco è in nostro potere avere uno spirito sano come un corpo sano. Non sta in noi, in nessuna misura, vivere secondo ragione, oppure seguire i ciechi desideri. I teologi affermano che la causa di questa debolezza sia dovuta al peccato originale dei nostri primi avi. Ma se il primo uomo era padrone del suo spirito e aveva una natura integra, come poteva peccare? Perché fu ingannato dal diavolo, si risponde; ma chi fu poi a ingannare il diavolo? Chi era in grado di rendere tanto folle la prima delle creature razionali da farle desiderare di essere più di Dio? Certo non poté essere questa stessa prima creatura. Come poteva il primo uomo, se era padrone del suo spirito e signore del suo volere, farsi sedurre e confondere? Quindi occorre «riconoscere che non stava in potere del primo uomo fare un uso retto della sua ragione, essendo piuttosto del tutto sottomesso alle sue passioni» (TP2, 6, p. 1639). «Non sta nel potere di ogni uomo utilizzare sempre la propria ragione, ponendosi all’apice della libertà umana» (TP2, 8, p. 1641).

Innanzitutto gli uomini seguono il desiderio più che la ragione, ma non per questo rovinano l’ordine della natura, soddisfacendone piuttosto le necessità peculiari. «Un uomo ottuso e debole di spirito, quindi, secondo il diritto naturale è tanto meno obbligato a condurre una vita saggia di quanto non sia obbligato un malato ad avere un corpo sano» (TP2, 6, p. 1637). Questo sapere fondamentale di Spinoza della necessità onnicomprensiva di Dio o della natura si può sintetizzare così: a causa della natura limitata e finita del suo intelletto, certo l’uomo è abbandonato alla sventura più terribile, andando incontro alla totale distruzione. Tuttavia, non precipita in un caos di cieche potenze naturali, poiché, anche se dovesse cadere fuori dalla sicura esistenza umana che custodisce gli uomini, non può mai uscire dal mondo o da Dio. Egli sta sempre nelle mani di Dio perché si trova ed è accolto, senza potervisi sottrarre, nella necessità eterna. Per la sua intellezione filosofica sa che, qualunque cosa gli accada, si trova sempre in questa necessità, che cancella la sua disperazione donandogli serenità. Spinoza non si lamenta e non accusa le cose per come sono, è privo dell’atteggiamento di Giobbe, ma il suo distacco non scaturisce dall’indifferenza degli irrazionalisti e degli immoralisti, bensì dall’amore per Dio.

b) Profilo dei modelli di Stato All’esposizione degli affetti studiati nei loro impulsi necessari segue la descrizione dell’uomo saggio nella libertà della sua ragione; all’esposizione della dottrina naturale dello Stato segue l’abbozzo dello Stato più giusto. La freddezza di Spinoza nella rappresentazione dello Stato, alle prese con le necessità fattuali, si unisce all’entusiasmo, sia pur contenuto, laddove si parla della ragione e della libertà nello Stato. Nell’impenetrabile necessità delle cose finite, il filosofo che pensa e vuole politicamente coglie la ragione, che, nel tutto, è un momento dell’onnicomprensiva necessità della natura. Anche lo sforzo spontaneo di realizzarsi da parte della ragione appartiene alla natura. Nello Stato vuole giungere alla migliore condizione possibile della società umana, in cui tutti gli individui sono in grado di vivere e di pensare liberamente sotto la condizione di una legalità riconosciuta da un comune

decreto. Dove c’è ragione c’è armonia e soltanto allora possono realizzarsi tutte le autentiche possibilità umane. Per questo Spinoza vede nell’uomo «non solo la circolazione sanguigna ma soprattutto quel che si chiama ragione, vera virtus e vita vera dello spirito» (TP5, 5, p. 1669). 1. Libertà. Spinoza chiarisce in cosa consista la libertà politica tramite la seguente rappresentazione. Domina un altro chi lo abbia messo in catene o gli abbia tolto armi e strumenti per difendersi o fuggire, o ancora lo abbia intimorito, ovvero lo abbia obbligato con la prospettiva di una ricompensa a ubbidire a lui piuttosto che a se stesso e a voler vivere secondo il suo parere anziché secondo il proprio. Nel primo e nel secondo caso, chi detiene il potere possiede solo il corpo di colui che è stato privato della libertà ma non il suo spirito; nel terzo e nel quarto caso, invece, ha vinto sia il corpo che lo spirito, ma solo finché il timore o la speranza perdurano. Anche quando gli è sottratta la libertà, tuttavia, ogni individuo resta padrone del suo diritto, estinto solo in apparenza. Appena cessano la paura per la violenza e la speranza del compenso, questo diritto torna ad essere operante. L’uomo rimane nel suo diritto in virtù dello spirito che gli appartiene in quanto uomo, ma anche questo spirito ha il suo diritto, unicamente perché può fare retto uso della ragione. «Anche la facoltà di giudizio può essere soggetta a un diritto estraneo quando lo spirito può essere ingannato da un altro» (TP2, 11, pp. 1641-1643). La libertà politica ha il senso di fornire un ambito di esistenza alla libertà della ragione. La ragione dell’uomo è già in sé la sua libertà e la sua più grande potenza. «Proprio in quanto la potenza dell’uomo si misura meno secondo la sua forza fisica che secondo quella dello spirito, chi maggiormente possiede e segue la ragione, maggiormente possiede il suo diritto. Pertanto, in generale affermo che è libero l’uomo che segue la ragione» (TP2, 11, p. 1643). L’uomo è tanto più libero e tanto più coerente con se stesso quanto più ama Dio. Pertanto «la ragione insegna ad essere devoti, a stare in pace e ad avere buone intenzioni» (TTP16, 9, p. 1015), ma questo è possibile solo nello Stato. 2. La tensione tra durata e libertà. Nella dottrina naturale dello Stato è contenuto già un criterio dello Stato autentico: la capacità di durare nel tempo. Ora, lo scopo dello Stato è la libertà, e poiché ad essa spetta il

primato, così varia il criterio della durata. Essenziale non è la durata in sé, ma la libertà nella durata. La mera durata può ingannare. Spinoza, che non intende «condannare, accusare, disprezzare o compiangere» (TP1, 4, p. 1633), esprime il più decisivo giudizio quando si tratta della libertà politica, laddove venga meno quella sua volontà di libertà apparsa già come incondizionata. Infatti esiste una condizione di stabilità dello Stato, senza libertà, ad esempio la Turchia. «Uno Stato la cui condizione di pace dipende dalla viltà dei sudditi che si lasciano condurre come pecore per imparare solo a servire, può chiamarsi meglio eremo che Stato». «La pace non consiste nella mancanza di guerra, ma in una virtus generata dalla forza d’animo» (TP5, 4, p. 1669). «Se schiavitù, barbarie ed eremitaggio si devono dire stati di pace, allora per gli uomini non esiste niente di più miserabile della pace, che non consiste nell’essere risparmiati dalla guerra, bensì nell’unità interna e nella concordia dell’animo» (TP6, 4, pp. 1673-1675). Una volta Spinoza si ritrasse nel costume di Masaniello, il rivoluzionario napoletano un tempo famoso. Quindi Spinoza, quest’uomo pacifico che cercava solo la concordia, quest’uomo razionale che trovava in Dio la sua tranquillità, vide in sé la forza del ribelle quando era questione di libertà, ovvero della libertà razionale che vuole quella politica. Per questo egli considera la pubblicità come condizione della libertà, ritenendo, ad esempio, che soltanto chi cerca di conseguire il dominio assoluto afferma che la segretezza nei suoi affari coincida con l’interesse dello Stato. Per lo stesso motivo, ammira Machiavelli, che «stava dalla parte della libertà e aveva dato i consigli migliori per custodirla». Quindi quest’«uomo acutissimo» ha dimostrato «quanto sia sconsiderato il modo di molti che agiscono cercando di eliminare un tiranno senza saper distruggere le cause che trasformano un principe in un tiranno». Ma soprattutto Machiavelli voleva dimostrare «quanto un popolo libero debba guardarsi dall’affidare la sua prosperità senza nessuna riserva a un solo uomo» (TP5, 7, p. 1671). E così, non ha importanza per Spinoza decidere se la migliore costituzione sia la monarchia, l’aristocrazia o la democrazia, poiché importa il modo in cui in una costituzione idealtipica si deve determinare quel che è giusto per ognuna di queste forme di Stato secondo il criterio della durata e

della libertà. 3. Per chi scrive Spinoza. A chi si rivolge Spinoza quando pubblica i suoi pensieri? Da chi avrebbe voluto farsi leggere? Egli dice: «So bene che è tanto impossibile sottrarre al popolo la superstizione quanto la paura. So che la costanza del popolo non è che ostinazione e che non è guidato dalla ragione ma trascinato dalla passione per la lode o il biasimo. Non invito quindi il popolo, e quanti partecipano ai suoi affetti, a leggere questo libro» (TTP, Pref 15, pp. 649-651). Il principale scritto teologico-politico, pur presentando soprattutto la situazione politica dell’Olanda, non è scritto in olandese ma in latino. Spinoza si rivolse a tutti gli uomini colti pronti a usare la ragione e con un autentico desiderio di libertà. Voleva recare la luce più chiara della coscienza su quello che egli stesso intendeva e che volevano questi suoi lettori.

Spinoza e Hobbes Spinoza ha elogiato, cosa per lui insolita, quel Machiavelli da cui peraltro ha desunto ben poche idee. Non fece menzione di Hobbes, benché a questi possano facilmente ricondursi molte idee di Spinoza. Tutto questo si spiega con l’affinità della coscienza di Spinoza con Machiavelli e con la sua estraneità rispetto a Hobbes. Le idee meramente razionali in quanto tali sono un mezzo di comunicazione e, a causa della loro generalità, costituiscono mere forme a cui non può attribuirsi alcun diritto di possesso. È opportuno qui delineare la differenza tra Spinoza e Hobbes. Per Hobbes, il motivo ultimo è costituito dalla sicurezza contro la morte violenta, per Spinoza dalla libertà. Per questo muta il senso degli elementi che Spinoza ha tratto da Hobbes. È vero che per entrambi lo scopo dello Stato è quello di assicurare la vita, ma per Spinoza non è lo scopo ultimo. Per lui, il governo non ha più alcun senso se gli uomini, da essenze ragionevoli quali sono, diventano ciechi sudditi assoggettati all’ubbidienza dal timore. Lo scopo ultimo dello Stato, infatti, non è la sicurezza ma la libertà in cui gli uomini possono esercitare le forze del corpo e dello spirito e giungere alla ragione. La ragione hobbesiana costruisce e calcola le condizioni della sicurezza cui spetta il dominio assoluto. La ragione spinoziana è conoscenza di Dio e amore per l’uomo. Per Spinoza, quindi, nella dottrina naturale dello Stato che

coincide in buona parte con quella di Hobbes, esiste una finalità estranea a quest’ultimo. La ragione hobbesiana ha interesse per la teoria dell’intelletto che assicura la pace secondo un calcolo utilitaristico. L’interesse principale onnicomprensivo di Spinoza è la ragione come certezza e intuizione di Dio. Hobbes non considera la religione se non per il fatto che, dovendo garantire la sicurezza e la pace, ogni decisione sulle questioni del culto, dei dogmi, dei comandi e dei divieti spetta solo allo Stato. Spinoza si muove in una tradizione religiosa di cui elabora l’autentico contenuto nei termini di una ragione filosofica. Per Hobbes la religione è sostanzialmente superflua; Spinoza ne riconosce la necessità per la massa priva di intellezione e incapace di ragione filosofica. Per Hobbes tutti gli uomini sono uguali: ognuno può uccidere l’altro, ognuno ha la stessa capacità di pensiero, potendosi fare uguale all’altro con i giusti metodi intellettuali, e non esiste tra gli uomini alcuna originaria differenza naturale. Per conseguire la sicurezza nello Stato è sufficiente l’apparato calcolato delle istituzioni e delle leggi. Spinoza è consapevole che la maggioranza degli uomini, incapaci di una filosofia, necessitano di quel che filosofia non è ma è religione, distinta dalla volgare superstizione perché riconosciuta dallo Stato, ovvero costitutiva di un ordine posto a suo fondamento (lo Stato degli ebrei). Poiché esistono la massa del popolo e solo pochi saggi, la ragione dello Stato deve fondarsi sulle qualità della massa. A differenza di Hobbes, Spinoza crede che alcuni popoli più di altri siano dotati di un naturale amore per la libertà. Secondo Spinoza, lo Stato di diritto deriva da qui la sua forza. Da questo deriva l’inevitabilità della guerra e in questo vede la forza più grande della libertà: «La libertà è il compenso più alto per il servizio prestato in guerra». Già nello stato di natura «nessuno si aspetta altra ricompensa per la sua virtù guerriera che quella di essere il signore di se stesso». «In guerra non può esistere anelito più degno e forte per la vittoria che quello alimentato all’immagine della libertà». «In guerra chi lotta per la patria e per la casa, certo combatte con animo più valoroso». Non si aumenta la paga a un esercito che lotta per la libertà, potendo i comandanti anche «sottomettere il popolo con un esercito mercenario» (TP7, 22, pp. 1705-1707). Tuttavia, sopra ogni cosa, essi devono temere «un libero esercito popolare che con la sua virtù, il suo coraggio, il suo sangue, si è guadagnato la libertà e la gloria per la patria».

Hobbes non ammette alcuna infrazione del patto, in quanto le sue conseguenze sono dannose in ogni circostanza. Al contrario, per Spinoza, l’infrazione è una necessità che deriva dal diritto naturale, che appartiene sia alla volontà dei governanti per conseguire il bene dello Stato, che alla ribellione del popolo; l’infrazione si deve giudicare unicamente per le sue conseguenze che possono essere dirette a conservare, salvare o distruggere lo Stato. Invece riconosce che il saggio, in base all’ethos della ragione, non è disposto a infrangere alcun patto. Hobbes intuisce il progresso nel campo del dominio tecnico sulla natura e guarda al futuro con un ottimismo che sorprende. Spinoza vede il dominio degli uomini sulla natura come un compito ragionevole, ma non gli attribuisce il compito centrale. Il futuro per lui scolorisce di fronte ai singoli doveri del presente (in Olanda), nonché davanti alla necessità eterna che non conosce storia.

B) La religione nello Stato Quel che è necessario intendere come pietà per conseguire la libertà nello Stato e che risiede filosoficamente nella certezza di Dio da parte della ragione, per la massa assume un valore reale come religione, ovvero come «ubbidienza a Dio». Noi uomini, filosofi o credenti nella rivelazione, siamo ubbidienti, ma in due modi; infatti, Dio ha rivelato i comandamenti della ragione, o parlando in noi (e allora la ragione filosofica ha forza e ubbidisce in quanto tale a Dio), oppure rivelandoli ai profeti in forma di leggi (e allora essi operano esigendo cieca ubbidienza). Fin dall’antichità si è riflettuto sul significato politico della religione, sul suo ruolo di potenza ordinatrice capace di imporsi sulla massa. Si ebbero due concezioni fondamentali, una che vedeva nella religione un mezzo tecnico-politico di dominio; Crizia intese la religione invenzione di uomini politici che pensavano come sovrani per governare la massa, non potendo questa essere dominata unicamente da un potere esteriore. Avrebbero inventato la religione come un benevolo inganno o semplicemente come strumento del potere che, in quanto tale, penetra nelle anime. L’altra concezione fondamentale vedeva nella religione il vero ambito comune e stabile per tutti gli uomini, concepito

in gradi diversi nella forma della verità. Nella rivelazione si offre qualcosa di razionalmente assimilabile. La misura di questa penetrazione razionale indica l’altezza cui è giunta la filosofia, come pensavano ad esempio Averroè, Maimonide, Hegel. La posizione di Spinoza diverge da entrambe le concezioni, poiché vede la religione come necessaria alla massa, ma non vi prende più parte. Senza rifiutarlo, prende distanza da quel che riconosce come necessario pur non avendone bisogno per sé, né vedendolo con simpatia; dove c’è la ragione le rappresentazioni spariscono. Grazie all’opera della ragione avviene con libertà e con certezza quanto nell’ubbidienza fideistica – a causa della tendenza alla divisione propria di tutte le superstizioni – si compie senza libertà e in modo incerto. Spinoza cita l’antico storico Curzio: «Nulla domina con maggiore efficacia le masse della superstizione» (TP, Pref 3-5, p. 637). Egli conosce il dominio totale che la fede rivelata ha esercitato nel giudaismo, nel cristianesimo e nell’islamismo. Anche questa è una superstizione? Spinoza lo afferma, ma dice anche: sulla base di questa rivelazione si esigono amore e giustizia, parzialmente realizzati con l’ubbidienza. Quindi, in pratica, questa fede si accorda con la ragione, benché teoreticamente non ne possiede la conoscenza. Pertanto Spinoza non affronta la religione rivelata solo criticamente, ma ne comprende il nucleo razionale e ne mostra l’inevitabilità per la costruzione della comunità pacifica. Il male della superstizione consiste nella reciproca e fanatica ostilità delle molte superstizioni, un carattere innalzato al massimo grado nella religione rivelata. Questo è il suo aspetto più pericoloso e maligno, benché essa mantenga un nucleo razionale. Dal punto di vista politico, per Spinoza, ci si può opporre alla superstizione solo se si impedisce ogni influenza sullo Stato da parte delle Chiese e dei preti, nonché tenendo del tutto separate teologia e filosofia. La teologia insegna l’ubbidienza fideistica, la filosofia insegna la conoscenza della ragione. Entrambe sono giustificate nei rispettivi ambiti, ma dove l’una si mette a contraddire, l’altra genera una discordia insanabile, poiché non esiste un terreno di discussione comune. La verità della filosofia si fonda sui concetti comuni (notiones

communes), sostanzialmente propri a tutti gli uomini; la verità della teologia sulle Sacre Scritture. I concetti della filosofia sono conosciuti per lume naturale, la verità della teologia, invece, attraverso il richiamo alla rivelazione sovrannaturale. La fondamentale visione politico-teologica di Spinoza riposa sull’esperienza dell’impotenza dei saggi. Certo il saggio, secondo natura, è l’uomo più potente, ma il loro numero è così esiguo da non avere nessun ruolo nello Stato. Né le masse popolari, né i politici, sono guidati dalla ragione. L’idea platonica dei re-filosofi è molto distante da Spinoza. Dunque, per il comportamento dei saggi vale questo principio: quanto meglio osserviamo e conosciamo i costumi e le relazioni degli uomini, tanto più con prudenza potremo vivere tra loro e tanto meglio le nostre azioni, fintanto che la ragione ci consiglia, si adegueranno al loro carattere. E per lo Stato vale quindi il principio: la religione rivelata deve essere riconosciuta in base alla comprensione delle condizioni necessarie alla pace e alla sicurezza. Il senso del pensiero politico sta nel limitarsi agli scopi dello Stato; da questa prospettiva, la conoscenza della fede e la filosofia sono valutate secondo vantaggi e svantaggi. Tutto questo pensiero politico viene riconsiderato dal principio. Lo Stato non è lo scopo ultimo; il suo esserci è solo condizione per la formazione di ogni uomo rivolto al suo senso più alto possibile. Per questo ha bisogno della libertà, che include la meta che trascende lo Stato e la condizione della sicurezza e della durata dello Stato medesimo. Il rifiuto filosofico della fede religiosa da parte di Spinoza è inequivocabile: non può esistere alcuna rivelazione. Davvero Dio si annuncia con parole o con immediatezza senza servirsi di altro? «Mai con parole, perché altrimenti l’uomo avrebbe dovuto già conoscerne il senso prima che fossero pronunciate» (KV2, 24, p. 329). Se Dio dice «io sono Jahwe, vostro Dio», l’uomo per comprenderlo avrebbe dovuto sapere già prima chi fosse Dio senza queste parole. Pertanto, Spinoza dimostra l’impossibilità che Dio si sia annunciato agli uomini grazie a qualche segno esteriore. Solo l’intellectus dell’uomo deve conoscere Dio, perché senza Dio non può sussistere né essere concepito. Nulla è così strettamente congiunto all’intellectus quanto Dio stesso. Dio non ha

bisogno che di se stesso per annunciarsi all’uomo, e pertanto non gli occorrono parole o miracoli, né qualche altra cosa creata o qualche ispirazione umana. Se solo Dio è certo nell’intellectus, cosa accade quando questo viene meno, quando resta vuoto, cioè quando nel pensiero non si verifica minimamente l’accertamento di Dio? L’esperienza insegna che questo fatto accade quasi sempre per gli uomini, per la maggior parte legati alla sensibilità e quindi incapaci di farsi presente Dio se non in forma corporea e nelle rappresentazioni. Per questo la superstizione è una necessità psicologica. Inoltre l’esperienza insegna che gli uomini trovano appiglio nella superstizione per aver aiuto in caso di bisogno. Se potessero governare tutte le loro faccende secondo un piano determinato, con una sorte sempre favorevole, «allora non si lascerebbero incantare dalle superstizioni». «Nelle circostanze felici, nonostante l’inesperienza, gli uomini possiedono una saggezza traboccante tanto da ritenere un’offesa personale il caso in cui si volesse consigliarli; invece nell’infelicità non sanno che decisione prendere, implorando tutti di consigliarli e seguendoli, nonostante questo possa essere inopportuno o anche insensato e avventato» (TTP, Pref 1-2, p. 635). A conferma di questo, l’esperienza insegna che chi «nutre un desiderio smodato per cose incerte» (ad esempio Alessandro, il conquistatore dell’Asia), in caso di pericolo dice «che la ragione è cieca e vana la saggezza umana; invece, ritengono i parti della loro fantasia, i sogni e le follie infantili come risposte donate dalla divinità. A questi deliri gli uomini sono spinti dalla paura» (TTP, Pref 3, p. 637). A causa delle qualità umane dei dominanti e dei dominati conoscibili tramite l’esperienza, non devono essere respinti, dalla realtà dell’ordinamento statale, né la rivelazione né il miracolo, non solo perché è impossibile eliminarli, ma perché la superstizione può assumere forme il cui contenuto corrisponde alla verità della filosofia, una verità che attraverso la ragione si realizza come certezza di Dio e amore del prossimo, comunicazione e accordo tra gli uomini, e perché la superstizione o la religione che assumono queste forme preparano la via che conduce alla verità razionale. Quindi la pia devozione è resa possibile non solo dall’indipendenza filosofica ma anche, soprattutto per la maggioranza, dall’ubbidienza alla legge e dalla fede nella

rivelazione che si attua nei libri sacri. Tuttavia, la superstizione che continua a rimanere efficace sotto forma di religione presenta gravi pericoli per il bene comune. Spinge infatti al fanatismo che esclude e alla violenza, in quanto – a differenza dell’unica certezza di Dio, propria della ragione che pensa un Dio unico – la superstizione è molteplice. Solo la ragione unisce, la superstizione divide. Questo insegna ancora l’esperienza. Spinoza ci disegna la situazione che di fatto ha davanti. «La devozione, il Dio eterno e la religione si fondano su misteri irragionevoli e chi disprezza radicalmente la ragione, respingendo e detestando l’intelletto come fosse per sua natura corrotto, è ingiustamente ritenuto un illuminato da Dio» (TTP, Pref 9, p. 643). Spinoza si meraviglia che «quanti si vantano di professare la religione cristiana e quindi l’amore, l’amicizia, la pace e la fiducia verso tutti, al contrario si combattano reciprocamente con la più grande ostilità». «Certo è possibile riconoscere un cristiano, turco, ebreo o pagano, unicamente dalle sue manifestazioni esteriori e dal suo culto; per il resto la loro condotta è la stessa per tutti». «Il popolo ritiene una questione religiosa intendere i servizi ecclesiastici come dignità e i loro uffici come prebende, e tenere in grande onore i religiosi» (TTP, Pref 9, p. 641). La comunità, dominata da una superstizione, genera la violenza che, fin dove si estende il potere, limita la libertà di ogni uomo di progredire secondo la sua propria essenza, vieta il pensiero libero espandendo il suo dominio sullo Stato. Avendo presente questa realtà politico-teologica, Spinoza mette il suo pensiero al servizio della realizzazione della libertà. «È una cosa che contrasta in tutto e per tutto con la libertà generale impedire o limitare la libertà di giudizio di ognuno in base ai pregiudizi… e ritenere le opinioni come atti punibili, come se fossero reati» (TTP, Pref 7, p. 639). Così, i dissensi di opinione comportano disordini e degenerano in ribellioni. Questo male sarebbe impossibile se, secondo la legge dello Stato, «si giudicassero solo le azioni lasciando invece impunite le parole» (TTP, Pref 7, p. 639). Spinoza vuole quindi dimostrare che la libertà (come libertà di giudicare e di

venerare a modo proprio Dio) «non solo può essere concessa senza pericolo per la religione e per la pace dello Stato, ma che non può essere eliminata se non insieme alla pace dello Stato e alla stessa religione» (TTP, Pref 8, p. 641).

a) Ragione e rivelazione: due domini Cattolici, protestanti, ebrei, si basano sulla rivelazione. La realtà storica della fede e il suo significato per la vita in comune portano Spinoza ad avere un’«alta stima delle Sacre Scritture e della rivelazione per quanto riguarda la loro utilità e la loro necessità» (TTP15, 10, p. 1001). Infatti, «poiché tutti gli uomini possono ubbidire incondizionatamente e molto pochi sono quanti raggiungono una condotta virtuosa seguendo la sola guida della ragione, senza la testimonianza delle Scritture, dovremmo disperare della salvezza di quasi tutti gli uomini» (TTP15, 10, p. 1003). Sarebbe follia, egli ritiene, «se non si volesse riconoscere, nonostante tutto, qualcosa che ha acquistato tanta forza attraverso la testimonianza di molti profeti, che ha molto confortato quanti hanno poca forza di spirito, che si dimostra di non poca utilità per lo Stato, e che possiamo tranquillamente credere senza pericolo o danno; chi non lo volesse riconoscere, potrebbe farlo perché queste cose non si possono dimostrare matematicamente» (TTP15, 7, p. 999). Per condurre con saggezza la nostra vita, non possiamo ritenere vero solo quello che non può essere messo in dubbio da nessun motivo, «come se la maggior parte delle nostre azioni non fosse molto incerta e preda del caso» (TTP15, 7, p. 999). Così può parlare Spinoza, benché dimostri filosoficamente impossibile una rivelazione. Ma parla così solo nello svolgimento del suo pensiero politico, riconoscendo la rivelazione unicamente in un determinato senso. Primo: egli può descrivere e caratterizzare la rivelazione nel campo sconfinato delle connessioni in cui si trova il mondo dei modi; ma fuori dei riferimenti al bisogno di rappresentazione propria degli esseri pensanti finiti, non può fornire della rivelazione alcuna spiegazione. Secondo: quando Spinoza parla di queste cose, lo fa con consapevolezza, «considerando la capacità di comprensione della massa», in cui egli include anche le persone ragionevoli per cui scrive la sua opera. Terzo: Spinoza si pone nella prospettiva del modo di pensare della parte che governa, e quindi nella prospettiva del modo della fede che a quel tempo in Olanda era comunemente

intesa come liberalità e tolleranza. Tuttavia, in conclusione, per Spinoza quel che è decisivo è il fatto di trovare perfetta coincidenza tra i precetti biblici dell’amore e della giustizia e le prescrizioni della ragione, nonché l’accoglimento del fatto secondo cui «la parola di Dio» non debba intendersi limitata in un certo numero di libri, bensì unicamente in questi precetti. Così, a proposito dei profeti, afferma che «essi non hanno insegnato alcuna morale che non coincida perfettamente con la ragione. Infatti non è un puro caso se la parola di Dio, nei discorsi dei profeti, coincida in tutto e per tutto con la parola di Dio che ci parla nel nostro intimo» (TTP15, 7, p. 999). C’è adesso però la lotta disastrosa delle confessioni e dei teologi contro coloro che essi dichiarano eretici. Per risolvere queste contese, Spinoza ritiene appropriata e necessaria la chiara separazione di ragione e rivelazione. Due sono i domini: «La ragione è il dominio della verità e della saggezza, invece la teologia è il dominio della devozione e dell’ubbidienza» (TTP15, 6, p. 995). In base alla sua verità, la teologia è limitata alla prassi dell’ubbidienza, ovvero alla realizzazione dell’amore e della giustizia. Pertanto, deve fissare i dogmi di fede solo nella misura sufficiente per ottenere tale ubbidienza. «Ma il modo in cui devono intendersi con precisione questi dogmi è rimesso alla ragione, vera luce dello spirito, senza cui non si vedono che figure di sogno e fantasmi» (TTP15, 6, p. 995). Il falso sapere teologico non solo è dannoso, ma neanche è necessario per la stessa fede. «Quello che gli uomini possono ignorare senza danno dell’amore, sappiamo con certezza estraneo alla teologia e alla parola di Dio» (TTP15, 6, p. 995). Tra i due domini però esistono rapporti, poiché l’uomo non è scisso ma è uno. Se nella fede ubbidisce e nella ragione comprende, tuttavia, nella stessa fede subentra la ragione in quanto la fede pensa, e nella ragione subentra la fede facendosi suo oggetto. Qui però si producono degli sbagli disastrosi qualora, in tali rapporti, non rimanga chiara la divisione. «Né la teologia deve essere al servizio della ragione, né questa al servizio di quella, dovendo ognuna affermare il proprio dominio» (TTP15, 6, pp. 993-995). Entrambe «hanno il loro regno senza reciproca contraddizione» (TTP15, 9, p. 1001). Spinoza

si

chiede:

dal

momento

che

quanto

si

crede

nell’atteggiamento di ubbidienza non può essere dimostrato dalla ragione, «allora perché vi crediamo?». Se accettiamo senza ragione, come ciechi, allora ci comportiamo da stolti e scriteriati. Invece, se volessimo affermare che i fondamenti dell’ubbidienza si possono dimostrare con la ragione, allora la teologia sarebbe una parte della filosofia senza potersene separare. La risposta di Spinoza è questa: «Io affermo senza alcuna limitazione che il dogma fondamentale della teologia non può giustificarsi con una illuminazione naturale e che quindi è stata certo necessaria la rivelazione; tuttavia, possiamo fare uso del nostro giudizio per riconoscere almeno con una certezza morale quanto è stato rivelato. Non possiamo qui aspettarci di conseguire una certezza superiore a quella dei profeti, che è una certezza unicamente morale» (TTP15, 7, p. 997). La loro autorità non si può dimostrare attraverso prove matematiche, né con altre e più forti argomentazioni, rispetto a quelle già utilizzate dai profeti per persuadere il popolo. In primo luogo, attraverso una vivace immaginazione, poi attraverso «segni», intesi come profezie accadute, e in terzo luogo, attraverso una coscienza rivolta al giusto e al bene. Non dobbiamo fede ai profeti, anche quando si verificano i segni, se non quando costoro sentono amore e giustizia per tutto, insegnando con cuore sincero. Quando le proposizioni della filosofia e della teologia si contraddicono, allora Spinoza nega alla teologia la possibilità di giustificare le sue proposizioni. In un primo tempo vorrebbe riconoscere ai teologi di aver fornito alla teologia un fondamento stabile e una dimostrazione. «Infatti, chi vorrebbe fare a meno della ragione o disprezzare la scienza negando la certezza della ragione?». Tuttavia non può scusarli perché il tentativo teologico di chiamare la ragione a giustificare la teologia, significa «voler evocare la ragione per scacciare la ragione medesima». I teologi intendono «dimostrare deduttivamente l’autorità per sottrarla alla ragione e al lume naturale». Oppure fingono di sottomettere la teologia al dominio della ragione «presumendo che l’autorità della teologia acquisti splendore solo se illuminata dalla luce naturale della ragione» (TTP15, 8, pp. 999-1001). Tuttavia, non è di nessun vantaggio per la teologia valicare i propri limiti e volersi fare scienza. Quando si tratta dell’intellezione, «non può testimoniare nessun altro spirito che la ragione». Chi pretende un altro spirito

parla in forza di un pregiudizio dei suoi affetti. «Ma tutto questo è vano, qualunque altare voglia innalzare per sé chi offende la maestà della ragione» (TTP15, 8, p. 1001).

b) La comprensione della Bibbia Tra gli ebrei, i cattolici e i protestanti, la pretesa della fede si fonda sulla Bibbia. Tutti argomentano su passi biblici. Non solo per la fede, ma anche per la politica, l’interpretazione della Bibbia costituisce una forza. Al fine di evitare le conseguenze dannose di tale forza che genera ostilità tra gli uomini e i loro sanguinosi effetti, Spinoza vuole operare nella direzione della «giusta interpretazione della Bibbia» (TTP9, 18, p. 899). Vi sono due presupposti ermeneutici fondamentalmente diversi, e sorge quindi la questione se siano contrastanti tanto da escludersi reciprocamente, oppure se possano convergere. Il primo: la Bibbia è la parola di Dio, con una provenienza fondamentalmente diversa da quella di tutti gli scritti umani, ponendosi quindi come l’unico scritto sacro. Contenendo la parola di Dio, non possono darsi contraddizioni. Quel che vi è contenuto è tutto vero. Il secondo: la Bibbia è una raccolta di scritti prodotti da uomini, che non hanno alcun carattere originariamente diverso dal resto della letteratura umana. L’interpretazione della Bibbia che si basa sul primo presupposto conduce ai seguenti metodi: 1. Se non si possono ammettere contraddizioni nella Bibbia, poiché però vi si rintracciano in gran numero (così come i contenuti scandalosi), la soluzione è data dal considerare che le proposizioni non hanno solo un senso letterale, bensì anche uno allegorico. Di fronte a una contraddizione o a un fatto scandaloso nelle parole, occorre un loro superamento riferendosi al senso allegorico. Questo metodo, di antica origine, è rifiutato da Spinoza. L’interpretazione allegorica, infatti, dipende dall’arbitrio della fantasia senza possedere alcun criterio per decidere quale sia, nel loro mutare, quella vera tra le interpretazioni. 2. L’irragionevolezza che si incontra nel testo viene intesa come un mistero. L’interpretazione, allora, procede in modo tale che il senso

delle frasi «sembra trovarsi nella maggiore contraddizione possibile con la ragione e con la natura». Si presume che «nello scritto si celino i più profondi misteri», preoccupandosi «di giustificare l’insensatezza» (TTP7, 1, pp. 815-817). 3. Si cerca di adattare lo scritto alla ragione, ad esempio alle speculazioni di Aristotele o di Platone. Poiché lo scritto sarebbe divino e quindi completamente vero, allora si presuppone che dal suo esame debba risultare quanto già si crede di sapere filosoficamente. L’avversario spesso nominato da Spinoza è Maimonide, in cui rintraccia questi falsi metodi. Maimonide presuppone che i profeti concordino tra loro e che siano stati grandi filosofi e teologi, nascondendo le loro idee tramite rappresentazioni a uso del popolo; inoltre, che le parole della Scrittura non debbano e non possano essere interpretate nel loro senso letterale, bensì seguendo le opinioni precostituite dell’interprete; in ultimo, che il senso della Scrittura non possa risultare unicamente da questa. Tali metodi ermeneutici contraddicono la pura evidenza della ragione che non ammette presupposti, pretendendo un’autorità propria della tradizione farisaica, l’autorità di quanti sono stati riconosciuti pubblicamente come sapienti e dei Papi. L’istanza veritativa consiste in questa ragione che si presenta come autorità, non nella ragione libera che si convince in forza di se stessa. L’opposizione di Spinoza a tutto questo si basa sull’altro presupposto fondamentale: la Bibbia va intesa, come ogni altro scritto, in modo naturale. Egli «si è proposto di esaminare nuovamente la Scrittura con spirito disinteressato e libero» (TTP, Pref 10, p. 245). Questi sono i suoi metodi: 1. Vale il principio: non accettare né far valere nulla come dottrina che non possa trarsi dalla sua lettura in modo perfettamente chiaro. 2. Per ogni scritto della Bibbia occorre studiarne la genesi, il luogo e il tempo, le circostanze esterne e le situazioni che lo hanno condizionato, da chi e per chi sia stato scritto, studiando la vita, i costumi e le tendenze dell’autore. «È tanto più facile interpretare le parole di un uomo quanto più se ne conoscono lo spirito e l’intenzione» (TTP7, 5, pp. 823-825). 3. Occorre indagare a fondo sul destino che hanno avuto i libri

profetici nel loro insieme, ovvero verificare tra le mani di chi capitarono, il metodo di lettura, chi ne abbia suggerito l’ammissione tra i libri sacri e come siano stati raccolti in un tutto unitario. 4. Si deve raccogliere tutto quello che è riferito allo stesso oggetto, quanto è ambiguo e quanto, infine, mostra contraddizioni. 5. Non si deve confondere la fissazione del giusto senso di un discorso con la questione della verità del suo contenuto. Nell’interpretazione storica si tratta del senso voluto nello scritto e non della sua verità. Si deve stabilire il primo senza con ciò decidere su quest’ultima. Questi metodi conducono Spinoza alla fondazione della moderna scienza biblica come ricerca storica, definendo, in particolare, il significato della lingua, in questo caso l’ebraico: «Poiché tutti gli scrittori dell’Antico e del Nuovo Testamento erano ebrei, è naturalmente necessaria, in primo luogo, una storia della lingua ebraica». Gli scritti del Nuovo Testamento veramente sono redatti in un’altra lingua, ma «mantengono tuttavia un carattere ebraico» (TTP7, 5, p. 821). La Bibbia nel suo complesso è una produzione degli ebrei, è scritta dagli ebrei in tutte le parti dell’Antico e del Nuovo Testamento. Il carattere specificamente ebraico e cristiano si smarrisce se viene a subordinarsi lo studio storico della Bibbia, rendendolo anzi senza importanza in un’unica totalità. Tuttavia l’interesse per il problema della verità è anche qui ardente in Spinoza, che non si limita affatto a quello che si può stabilire dal punto di vista storico. Egli interpreta, ma interpreta basandosi sulla ragione naturale. Interpreta così l’essenza dei profeti come una dote immaginifica, per cui la loro verità risulta diminuita. Interpreta così ancora i caratteri immaginari che si trovano nei testi biblici, argomentando «che la dottrina della Scrittura si adatta alla capacità di comprensione e alle intuizioni di quelli a cui profeti e apostoli solevano predicare la parola di Dio, in modo che gli uomini potessero accoglierla senza problemi e di cuore» (TTP7, 19, p. 845). Ancora in questo modo interpreta la verità del contenuto di tale

predicazione, semplificando straordinariamente il senso della Bibbia: «Io dimostro come la parola rivelata di Dio non sta in un certo numero determinato di libri ma nel semplice concetto dello spirito divino che si è rivelato ai profeti, ovvero nell’ubbidire a Dio con tutta l’anima, con giustizia e amore». Quindi Spinoza afferma che «l’autorità dei profeti ha significato unicamente per le questioni che riguardano la condotta e la vera virtù, ma che peraltro, ci importa ben poco delle loro intuizioni» (TTP, Pref 10, pp. 647, 645). In particolare, interpreta la grande quantità delle leggi mosaiche (a differenza dei dieci comandamenti che si riferiscono alla retta condotta di vita), affermando che queste «costituirono solo l’ordinamento giuridico dello Stato ebraico», e che quindi tale legislazione doveva essere accolta soltanto dagli ebrei «ad essa legati finché fosse esistito il loro Stato» (TTP, Pref 10, p. 645). Spinoza interpreta le contraddizioni della Bibbia in parte storicamente, riflettendo sulla situazione e sull’occasione in cui qualcosa venne affermato. Gli scritti più antichi della Bibbia hanno uno spirito guerriero. Ma Gesù disse: «Se uno ti colpisce sulla guancia destra, offrigli la sinistra». Tuttavia non afferma questo con l’intenzione di un legislatore (infatti non volle abrogare la legge di Mosè: Matteo 5,17), bensì con l’animo del maestro nei confronti di uomini oppressi in uno Stato decadente, di cui vedeva approssimarsi la fine. Similmente parlò Geremia nelle sue Lamentazioni. Ma Gesù e Geremia richiesero agli uomini di subire l’ingiustizia unicamente per quelle epoche. In uno Stato buono sarebbe vero il contrario.

c) La libertà di pensiero L’interesse di Spinoza per la questione della comprensione della Bibbia ha il suo punto di partenza nei sanguinosi conflitti per la sua interpretazione e nella pretesa autorità della giusta interpretazione, da chiunque potesse provenire. A questo Spinoza oppone la sua tesi: poiché gli uomini sono diversi, occorre che ognuno sia libero di giudicare, lasciandogli la possibilità di interpretare i fondamenti della sua fede secondo il suo criterio. Spinoza giustifica questa tesi con le seguenti affermazioni: 1. Se la fede di un uomo è pia o se invece egli è ateo, è qualcosa da

giudicare soltanto secondo le sue opere, le sue azioni e il suo comportamento, non secondo le sue opinioni e la sua professione di fede. «Solo così tutti potranno ubbidire liberamente a Dio e solo così tutti terranno in grande considerazione la giustizia e l’amore» (TTP, Pref 12, p. 647). 2. Si deve distinguere tra l’autentica autorità dello Stato e delle sue leggi, cui deve ubbidienza ogni cittadino, dalla falsa autorità delle fissazioni religiose di dogmi e di leggi. La legge dello Stato si riferisce per diritto dello Stato alle azioni esterne, la religione alla coscienza interna da cui conseguono in modo incoartabile le azioni di amore e di giustizia. Un tempo le leggi mosaiche furono leggi statali, potendo allora pretendere con diritto di esercitare una pubblica autorità. «Infatti, se l’individuo avesse la libertà di interpretare il diritto pubblico secondo il suo arbitrio, allora non potrebbe sussistere lo Stato» (TP3, 3, p. 1651). Quello Stato ebraico non esiste più, i nostri Stati non sono più teocratici. Oggi la religione si riferisce soltanto «alla semplicità e alla veridicità dell’animo», all’amore e alla giustizia. Tuttavia, «nessuno può essere costretto con la violenza ad essere santo». Quello che oggi è adeguato non è la violenza, bensì «il richiamo fraterno», e «in primo luogo si richiede che ognuno giudichi liberamente» (TTP7, 22, p. 853). Ne consegue che nella religione ognuno possiede il diritto alla più piena libertà di opinione. Non si può neanche concepire che qualcuno rinunci a questo suo diritto. Come al governo spetta la suprema autorità nell’interpretazione delle leggi, trattandovisi del diritto pubblico, così ad ogni individuo spetta la suprema autorità di spiegare la religione, relativa all’ambito del diritto individuale. 3. Questa libera interpretazione, come pure la scienza e la critica bibliche, è possibile solo in uno Stato libero. «In uno Stato libero, a ognuno è consentito di pensare quello che vuole e di dire quello che pensa» (TTP20, 1, p. 1109). Spinoza sostiene con passione questa posizione, avanzando i seguenti argomenti: Primo: la libertà di pensiero pertiene al diritto naturale di ogni individuo, che non può essere disconosciuto neanche dal diritto naturale dello Stato. Ognuno, infatti, per il più alto diritto naturale, è sovrano dei suoi stessi pensieri. Quindi, «i supremi poteri mai giungeranno a far sì che gli uomini rinuncino a giudicare le cose secondo il loro senso, dandosi ora all’uno e ora all’altro dei loro affetti» (TTP20, 4, p. 1111). Secondo: certo è vero che le supreme autorità hanno il diritto di trattare da

nemico chiunque non vi ubbidisca in ogni situazione. Tuttavia, il governo è dominio della violenza quando estende la sua autorità sugli spiriti, ovvero quando vuole ordinare quanto ognuno debba accettare come vero e respingere come falso. Il fatto che il governo non abbia diritto a esercitare una tale violenza non consegue da un diritto eterno sovrasensibile dell’uomo, ma deriva dal diritto naturale dello Stato, intento a ricercare la propria stabilità, evitare i disastri della ribellione e delle lotte e realizzare lo scopo di una vita libera per tutti. Quindi Spinoza mostra come la libertà di pensiero avvantaggi lo Stato stesso. Le violenze contro lo spirito sono un pericolo per lo Stato intero e sono difformi da una sana ragione, conducendo, in ultimo, alla distruzione dello Stato stesso. Terzo: la conseguenza della violenza contro lo spirito è che riescono a prevalere uomini di indole plebea. L’ira di quanti non riescono a tollerare intorno a loro gli spiriti liberi, esercita un’autorità oscura che trasforma la superstizione bigotta di una plebe sediziosa in rabbia furiosa. Costoro provocano la plebe senza ritegno contro gli autori di scritti indesiderati. Lo Stato dominato da questi uomini non riesce più a tollerare la presenza di nessuno spirito nobile. Gli uomini nobili, di spirito libero, sono dichiarati nemici, esiliati e minacciati di una morte che però non temono, come fossero colpevoli, giudicando dignitoso morire per la libertà. Tutte le leggi sulle opinioni non colpiscono i malvagi ma gli spiriti nobili. Per quanto riguarda le condizioni dello Stato, ne consegue l’impossibilità di pace. Laddove autorità statali intendono risolvere i conflitti tra i saggi attraverso le leggi, si generano divisioni che non vanno ricercate nella passione per la verità ma nel desiderio di dominio. Quanti davvero insidiano la pace sono coloro che nello Stato vogliono sopprimere la libertà di giudizio che non può mai essere eliminata. Quarto: la libertà di pensiero si deve tenere distinta dalla libertà di azione. Per quel che riguarda le azioni, Spinoza ci indica questa insuperabile situazione fondamentale: chiunque ubbidisce alla ragione ha decretato una volta per tutte, entro lo Stato, di trasferire il suo diritto di agire secondo il proprio diritto alla decisione del potere supremo. È raro, però, che si decida qualcosa unanimemente: «Tuttavia, ogni decisione vale come decisione comune, sia per chi ha votato contro, che per quanti hanno votato a favore» (TTP20, 8, p. 1115). Poiché la decisione nella comunità umana è di tutti, ma

potendosi stabilire, volta per volta, unicamente da parte della maggioranza, ne risulta una sua limitata capacità di azione. Intanto vale solo per le azioni e non per i pensieri. Poi è presa con la riserva «di revocarla nel caso in cui compaia qualcosa di migliore» (TTP20, 14, p. 1121). Chi esce sconfitto dalla votazione si assoggetta nell’azione, non nel pensiero. Quindi occorre governare «in modo tale che le diverse opinioni veraci ma tra loro opposte possano coesistere in armonia». Spinoza però è conscio dei limiti cui è subordinata la pubblica manifestazione delle opinioni. È opportuno che la libertà di fede e la libertà di filosofare siano illimitate. Tuttavia è necessario determinare in uno Stato le opinioni «sediziose» per il senso dell’ordine statuale e per la difesa della libertà, ovvero, in altre parole, fino a che punto si possa concedere a ognuno la libertà di parola senza temere per la pace nello Stato. Pensare e quindi anche parlare senza limiti è concesso a tutti solo alla condizione «che ciascuno parli o insegni con sincerità e difenda la sua opinione unicamente con il sostegno della ragione e non con l’inganno, l’ira e l’odio» (TTP20, 7, p. 1113). Per mantenere la pace, la limitazione della libertà dei discorsi animati dagli affetti è tanto necessaria quanto la libertà del discorso secondo ragione.

C) Critica dell’interpretazione religiosa e politica di Spinoza a) Mancanza di chiarezza nella relazione tra scienza e filosofia Come per tutti i pensatori del suo tempo e per molti ancora oggi, scienza e filosofia sono la stessa cosa per Spinoza. Egli parla in nome della scienza, della scienza unica, che presuppone e cerca di rintracciare, attraverso la ragione naturale, unicamente una verità che sia valida per ogni ragione. Cosa essenzialmente diversa è però, se Spinoza, con mezzi scientifici, nel senso di una conoscenza valida universalmente, critica le affermazioni dei teologi o della Bibbia che si rivelano false da un punto di vista storico o scientificonaturale, oppure se egli, in nome della ragione (intesa come filosofia), giudica fallaci le altre affermazioni fondamentali per quel che attiene alla coscienza dell’essere e della vita pratica. Nel primo caso, a opporsi agli errori è l’autorità del conoscere universalmente valido, inevitabile per ogni pensatore

(ad esempio, riguardo a certe conoscenze astronomiche, fisiche, biologiche o storiche, come nel caso del miracolo di Giosuè, della resurrezione corporea, di Mosè quale autore dei libri che gli si attribuiscono, etc.). Nel secondo caso, è una fede che si oppone a un’altra. Solo nella scienza si giustifica la fiducia per un consenso universale e unanime nella ragione; questo consenso però non esaurisce l’uomo in tutta la sua essenza, bensì unicamente per la sua parte dell’intelletto in generale, ovunque identico e fungibile, sottratto alla molteplicità dell’esserci, anzi al di là di questa. Noi tutti siamo come un unico uomo rispetto alle regole del divenire degli atomi, ma le bombe atomiche possono essere lanciate da una parte o dall’altra contro le città. Ritenere che l’umanità possa unificarsi attraverso la scienza è un errore. Qualcosa di completamente diverso è la ragione che permea l’essenza intera dell’uomo nel suo complesso, che è il medio della sua esistenza singola e insostituibile, la ragione rivolta a una comunicazione illimitata e decisa ad attuarla. Questa ragione, però, non genera affatto il consenso unanime dell’umanità, lasciando sussistere, al contrario, una molteplicità imprevedibile circa i modi di vivere, le forme di vita, la scienza dell’essere e la coscienza di Dio. La realtà storica, particolare di ogni esistenza, mira a questo, interrogando e lasciandosi interrogare. Non si può unificare tale molteplicità in un solo uomo. Tuttavia, dove c’è la ragione, la spinta alla comunicazione è senza limiti, non solo per conoscere la vera realtà degli altri, ma per ottenere nella comprensione, ognuno per sé, la più grande ampiezza, chiarezza e decisività, e quindi non per annientare tutto in una condizione di uguaglianza. Per Spinoza esiste un’unica filosofia, conoscibile dalla ragione e l’unica ad essere vera. Per questo la confonde con la scienza, ottenendo che molti suoi critici (Jacobi, Lichtenberg) ritengano che, dovendo essere la ragione il fondamento di tutta la vita, questa non potrebbe condurre che allo spinozismo. Si tratta di un errore filosofico. Nel nostro studio e nel nostro approssimarci a Spinoza, dobbiamo tenere distinte queste cose: Primo: nel caso di questioni puramente scientifiche, Spinoza ha sostanzialmente ragione, benché non nei casi singoli. Ma anche questo

vale solo per chi mira senza condizioni alla scienza, giudica presupposto per ogni onestà il legarsi alle possibilità scientifiche, approvandone il senso e scorgendo, nella possibilità di coglierlo, la dignità umana. Chi si rifiuta, non può essere convinto perché si chiude al pensiero e interrompe la comunicazione; bisogna lasciarlo in pace. Approvare senza condizioni il senso della scienza rappresenta un momento della fede filosofica. Spinoza si pone qui tra quanti hanno operato in favore della verità conoscibile contro l’errore. Ne possono derivare importanti rinnovamenti della coscienza (Copernico, la scoperta dell’intero globo terrestre, di uomini del tutto diversi, la storia realistica estesa a millenni sconosciuti). Se questi rinnovamenti non sono tollerati, chi viene ad esserne minacciato non ha alcun diritto, né nel senso della conoscenza esatta, né nel senso della universale validità nella comunicazione. Secondo: trattando di filosofia, Spinoza esprime, come i principali filosofi, la verità incondizionatamente presente nella sua vita di pensatore, che però, come contenuto espresso in parole, non si rende universalmente valido per tutti. Questi due concetti di verità, originariamente differenti, si possono descrivere brevemente: nella scienza si tratta dell’esattezza di proposizioni universalmente valide, ma legate a metodi, relative a presupposti determinati, e quindi particolari, e approvate, di fatto, da ogni intelligenza. Nella filosofia, si tratta della verità che non si esprime assumendo validità universale, non si fa valere universalmente nel fatto, giungendo piuttosto dall’origine che si coglie incondizionatamente. Conseguenza della distinzione tra scienza e filosofia è la chiara consapevolezza di una opposizione duplice, di senso completamente altro, rispetto alla teologia, in ogni sua forma di credenza ecclesiastica. In primo luogo, la scienza si oppone alla teologia che pronuncia giudizi su realtà fattuali e mondane, oppure su proposizioni logicamente deducibili che ogni intelletto può contestare persuasivamente. In tal caso, la teologia si subordina alla durata, di solito adattandovisi. In secondo luogo, la filosofia si oppone alla teologia, non più solo rispetto a talune singole posizioni, bensì contro l’autorità stessa del suo fondamento. Mentre nel primo caso una conoscenza superiore ha vinto contro la povertà di intellezione, nel secondo caso, la fede filosofica si

pone contro la fede autoritaria ecclesiastica. Se la fede filosofica, che si accerta nel pensiero in forza della ragione, è intesa come scienza, allora sbaglia e subito si subordina alla teologia. Se si intende nella sua origine, allora si afferma. In questo caso, però, non ci sono due nemici contrapposti, dove uno deve vincere l’altro, ma si compie la vivente polarità data con le possibilità dell’esistenza dell’uomo. L’indipendenza della scienza è sempre particolare, rispetto alla conoscenza di quegli oggetti che le sono accessibili. L’indipendenza della filosofia è totale in rapporto all’accertamento dell’origine, tanto rispetto alla coscienza dell’essere che alla vita pratica. L’autonomia della conoscenza scientifica potrebbe unificarsi con la conoscenza teologico-autoritaria, ma è molto difficile che questo accada a causa dell’indipendenza della fede filosofica, quando si prenda coscienza del suo duplice carattere. Un esempio di grande, originaria e ingenua unità è dato da Anselmo; il primo e maggior esempio di effettiva indipendenza filosofica moderna è dato da Spinoza. Quando si contrappongono sullo stesso piano l’ortodossia della fede e l’intellezione razionale filosofica di Spinoza – una contrapposizione corretta solo sul piano della fede –, allora si mostra l’inevitabilità del conflitto. L’originaria differenza tra le due cose, però, ha per conseguenza il fatto che sono fondamentalmente diversi anche i modi di discutere, come pure le conseguenze dell’esserci nella lotta con la violenza. La fede filosofica combatte soltanto spiritualmente, difendendosi dalla violenza; invece la fede teologica attacca con la violenza. Non tenendo in considerazione la differenza tra scienza e filosofia, né quindi il fondamento di certezza proprio della sua fede filosofica, che fa coincidere con l’evidenza scientifica, Spinoza ha ritenuto la sua filosofia non la migliore, bensì l’unica ad essere vera. Per questo motivo, si esprime così decisamente contro la scepsi che rifiuta come mancanza di coraggio. Tuttavia la scepsi ha un duplice significato: da una parte è esercitare il dubbio sulla universale validità oggettiva della verità filosofica di ragione, e quindi non è affatto una mancanza di coraggio, bensì forza di fede consapevole di se stessa, capace di distinguere le affermazioni scientifiche, dotate di validità universale, da quelle filosofiche. D’altra parte, la scepsi è un dubbio su di una determinata conoscenza scientifica, e presenta qui un progressivo carattere

metodologico; anche in tal caso non si tratta di mancanza di coraggio, bensì di conoscenza dei modi e delle condizioni in cui si ottiene un sapere determinato volta per volta. Il dubbio vigliacco e in fondo nichilista è costituito da quell’atteggiamento radicale secondo cui non si vive in base alla serietà di quel che è la fede, qualunque forma essa assuma; si tratta della disposizione generale determinata dalla presunta insicurezza di tutte le scienze, capace di impedire di affidarsi alla singola specifica certezza con metodologica consapevolezza. Entrambe queste forme di scettico timore si muovono nelle astratte generalizzazioni delle chiacchiere. A causa del suo carattere dogmatico, l’assolutezza della visione filosofica proposta da Spinoza assume anche un carattere di lotta filosofica. Spinoza riconosce anche nell’avversario una necessità di natura, non vuole annientarlo ma, essendo minacciato nel suo esserci, intende difendersi con prudenza e manifestando pubblicamente le sue idee, in grado di aumentare la presenza della ragione nel mondo. Si potrebbe affermare che sia Spinoza che i teologi che gli si oppongono siano altrettanto intolleranti. Nel caso di Spinoza, però, si tratta di una intolleranza spirituale causata dalla mancanza di una penetrazione intellettiva senza limiti riguardo alle potenze della fede a lui estranee; tuttavia è tollerante riguardo all’esserci, poiché mai ha per scopo la violenza e confida unicamente nella potenza della ragione fin dove essa può giungere. L’intolleranza delle potenze teologiche della fede si insinua nell’esserci con la violenza, volendo distruggere quanto non si assoggetta. Infine ci domandiamo: è possibile una discussione tra potenze così originariamente diverse come la fede autoritaria, la fede filosofica, e il sapere scientifico in generale? Quanti sono dominati da una di queste potenze non finiranno sempre per «scavalcare» gli altri, sentendosi, per quel che li riguarda, incompresi, non trovandosi nessun «piano comune» su cui potersi incontrare? Questa è la risposta: La discussione scientifica e quella filosofica presentano un carattere diverso. La prima, se rettamente condotta, implica un risultato che costringe al consenso sul piano dell’intelletto (della coscienza in generale); invece, la seconda conduce a una reciproca chiarificazione nella comunicazione interumana, svolgendosi nell’ambito di un’umana comunità che rende possibile comprendersi reciprocamente a partire dalla persistente diversità dell’esistenza.

La discussione scientifica presuppone il terreno comune della «coscienza in generale», di fatto percorso da tutti gli uomini. Le eccezioni, determinate non dalla vera realtà degli uomini ma dalla loro violenza, si trovano dove è richiesto il sacrificium intellectus, ovvero dove l’intelletto deve assoggettarsi a qualcosa che ad ogni uomo veramente pensante appare insensato. Allora, da una parte, la comunità, per il tempo che dura, permane nell’assurdo, dall’altra rimane l’interruzione della comunicazione del pensiero. A tali condizioni la discussione è divenuta impossibile. Gli uomini si comportano come se non fossero più tali, ovvero esseri pensanti, e questo proprio perché fanno riferimento a una volontà divina che essi stessi affermano. La discussione filosofica esige una «correttezza» che funga da nesso necessario, legandosi alla conoscenza scientifica, ma per raggiungere qualcosa di diverso, di essenziale. La verità dell’esistenza possibile si verifica nella comunicazione con gli altri. È arduo spiegare come questo possa accadere, poiché il grande esempio storico di tale fatto non ci sta di fronte a portata di mano (tranne che in Platone e in Kant, e anche qui non nella realizzazione di una vita comunitaria). Spinoza, non sentendolo come suo compito, non poteva cercare questa comunicazione, perché si trovava già in possesso dell’espressione e dell’esposizione della vera filosofia.

Spinoza come scienziato Con i suoi interessi, Spinoza ha partecipato alla scienza moderna, facendo esperimenti, molando vetri, occupandosi di matematica e studiano medicina. Il suo pensiero politico si fonda su Machiavelli. Ha condotto ricerche storicofilologiche sulla Bibbia, diversi studi per stabilire la data dei vari testi biblici attraverso la registrazione del diverso utilizzo delle parole e del loro significato, sempre con impegno e profondità (così come i vetri da lui molati devono essere stati particolarmente eccellenti). Gli compete la coscienza moderna della realtà effettiva. Spinoza, però, non ha mai scoperto nulla di davvero nuovo e mai ha trovato nulla nelle scienze matematiche. Anche il suo studio della Bibbia,

quasi insuperato nei princìpi, non ha conseguito qualche risultato tale da fargli rivestire un’importanza storica per quanto riguarda le conoscenze determinate. È noto già prima di Spinoza (Hobbes) che Mosè non sia l’autore del Pentateuco. Il legame tra filosofia e scienza, già prima affermato, e il nuovo collegamento della scienza moderna con la filosofia dell’epoca di Spinoza, che costituisce un controsenso, non fu da lui indagato a fondo. Non solo egli svolse la sua filosofia muovendosi del tutto nell’antico spirito dell’unità di filosofia e scienza, ma non comprese lo spirito specificamente nuovo e moderno della ricerca. Questo è dimostrato dal suo confronto con il chimico Boyle. Le scoperte, nuove per davvero, compiute da Boyle con metodi di ricerca moderni, furono discusse da Spinoza secondo la vecchia maniera scolastica (come Bacone), e seguendo questa stessa maniera, Spinoza effettuò esperimenti sterili in relazione al problema di Boyle. Egli certo comprese il carattere sconfinato della ricerca che si svolge nel mondo dei modi, sottolineò la nostra persistente ignoranza, lasciando aperto quasi ogni ambito che poteva ancora essere conosciuto. Tuttavia, il suo falso metodo di discussione non corrispose a questa sua giusta intuizione. Infatti trattò il sapere naturale sostanzialmente come una scienza in sé conclusa, come accadeva prima al modo aristotelico e adesso a quello baconiano. La sua prospettiva somigliava ancora a quella di un Sigieri di Brabante, il quale riteneva, contro la rivelazione, il sapere naturale fondato in sé stesso. Spinoza non apparteneva a quel grande movimento di scienziati indirizzati verso un futuro senza limiti per lo sviluppo conoscitivo, un futuro di cui si ignorano le capacità acquisitive di nuova conoscenza. Mentre in Bacone, invece di questo vero processo, subentrano speculazioni tecnicistiche riguardo al futuro, per Spinoza tale processo appariva in sostanza irrilevante perché l’essenziale, il fondamentale, il tutto, era già sussistente: egli, dunque, cadde nell’antichissima confusione tra il progettare proprio del filosofare speculativo e la ricerca della conoscenza scientifica. Nel suo atteggiamento fondamentale, pertanto, la scienza naturale di Spinoza non è scienza moderna della natura ma filosofia della natura. Soffia in Spinoza il vento della scienza moderna; sembra presupporre la scienza moderna quando afferma che il suo metodo di esegesi biblica non si differenzia da quello della spiegazione della natura. Tuttavia, nella sua filosofia, tutto opera come una forma che potrebbe essere cambiata, oppure

come forma comunicativa di cui si serve senza legarsi ad essa. La necessità, oggetto della ragione come eternità divina, è espressa attraverso le manifestazioni matematiche e scientifiche. Di fatto, queste non comunicano con le nuove caratteristiche del senso della ricerca e dei metodi, bensì operano come un filo conduttore che in conformità a quell’epoca serviva a qualcosa di completamente diverso rispetto a quanto, in quelle stesse manifestazioni, si rintracciava. Tutto questo si rileva dalla struttura dell’Etica spinoziana secondo il metodo geometrico. Non vi si scorge nulla dello spirito dello scopritore matematico o della concezione matematica della certezza. Spinoza però cerca questa forma per la certezza speculativa, mantenendo nella connessione dei suoi concetti metafisici il carattere antichissimo dell’argomentazione logica. Non condivide nulla con la scienza moderna il modo in cui Spinoza, nel suo pensiero filosofico, si accerta della sua vita pratica e la giustifica. Che nei suoi giudizi sulla realtà di fatto Spinoza riveli una certa disinvoltura, unita a forza di osservazione e a una naturale capacità di comprensione, non è un tratto specifico soltanto della scienza moderna, ma attiene agli uomini ragionevoli di ogni tempo. Quando Spinoza parla delle «fantasticherie di un Aristotele, di un Platone, o di altri simili uomini» (TTP13, 2, p. 961), e delle «frottole aristoteliche» (TTP1, 14, p. 661), non lo fa nello spirito della scienza moderna, bensì per quella indipendenza propria dello spirito del suo secolo che non rispettava o disprezzava la tradizione e i nomi illustri del passato. Se tutti i pensatori, scienziati e filosofi di quell’epoca, parlano di «metodo», in Spinoza il metodo è, tuttavia, piuttosto una via ausiliaria che un metodo di ricerca. Egli cerca la via per «l’emendazione dell’intelletto». Affinché, attraverso i diversi gradi di conoscenza, possa giungere alla conoscenza intuitiva dell’amor intellectualis dei.

b) Scienza biblica, fede, filosofia 1. Il significato della scienza biblica per la fede. Entrambi i contrastanti presupposti dell’interpretazione biblica (la Bibbia come parola di Dio, o come documento letterario dell’esperienza religiosa o di altro genere durata un millennio) possono condurre a una profonda conoscenza della Bibbia. Si può leggere, imparare e pensare seguendo l’una o l’altra via, entrambe da

nominare come scienza biblica. Il primo presupposto, però, implica un’assimilazione su cui si mantiene l’intera esistenza, invece il secondo implica una conoscenza storica del senso che l’autore ha voluto esprimere e delle connessioni tra le idee comunicate, della loro origine e della loro efficacia. La scienza biblica della fede rivelata è antica quanto l’origine del Canone. Sulla base di Spinoza, la scienza storica della Bibbia nacque nel XVIII secolo, sviluppandosi fortemente nei secoli XIX e XX. Qui è nata la questione: che significato ha la scienza storica della Bibbia per la sua assimilazione dalla prospettiva della fede rivelata? Così rispose Kierkegaard: nessuno; piuttosto la scienza storica della Bibbia è un pericolo per la fede. Questa sua via è stata percorsa da pochi teologi. La maggior parte, per il rispetto che la loro epoca aveva per la scienza, ha ritenuto di dover conoscere le notizie storiche in quanto utili per l’assimilazione della fede. Tuttavia, la preoccupazione degli altri era dovuta al fatto che la scienza storica della Bibbia rappresentava già di per sé espressione di mancanza di fede. Benché con opposta intenzione, la stessa prospettiva si afferma nell’atteggiamento illuminato, più comune agli studiosi: la scienza ha contraddetto la fede nella Bibbia. Agli studiosi di storia che si ritenevano credenti si presentò allora questa nuova questione: come può questo nuovo sapere storico conferire alla fede stessa la sua vera forma, presente e autentica? Per Spinoza i termini della questione non stanno così. Non aveva davanti a sé il grande fatto compiuto della scienza storica della Bibbia, essendo uno dei fondatori del suo prodursi. Solo raramente sembra mostrare rispetto per l’interpretazione propria della prospettiva della fede rivelata, poiché la riteneva relegata nel regno delle rappresentazioni e quindi, in quanto tale, priva di intellezione, ma anche soggetta alla condizione di un’attività innocua. Più spesso, respinge duramente e assolutamente questo modo dell’interpretazione, rappresentando per lui «un pregiudizio della superstizione onorare i libri della Scrittura più della parola di Dio stesso» (TTP, Pref 10, p. 647). Gli interpreti teologici mistificano le loro immagini fantastiche nella parola di Dio. Quello che vogliono con il pretesto della religione è convincere gli altri ad avere la loro stessa opinione. Tirano fuori

con negligenza e senza scrupoli le loro invenzioni dalle Sacre Scritture, ma la loro condotta di vita mostra come questa gente si sottragga alla devozione. La loro ambizione e la loro mancanza di rispetto si spingono fino al punto in cui «la religione non sta più nell’ubbidienza verso la dottrina dello Spirito Santo ma nella difesa delle fantasticherie umane, che non consiste più nell’amore ma nell’odio furioso» (TTP7, 1, p. 815). Rimane però la questione: per chi crede nella rivelazione, può conciliarsi un’esegesi religiosa della Bibbia, sul presupposto che essa è la parola di Dio, con un’interpretazione basata sull’indagine storica? È vero che tra le due interpretazioni non può esserci confronto, mancando di un orizzonte comune. Possono solo indicarsene, reciprocamente, i presupposti e le conseguenze che ne derivano, come quando una delle parti dice: tu contesti il carattere unico e sacro della Scrittura, e quindi ti sottrai alla rivelazione di Dio, testimoniata da millenni di fede; l’altra parte allora replica: tu rinunci alla ragione naturale che ci rende accessibile il contenuto della Scrittura secondo quello che intesero i suoi autori, in quanto la ragione, adducendo solamente i documenti accessibili, ne mostra i presupposti storici, mettendo in evidenza come siano mutevoli le opinioni della fede, ora più ora meno profonde. La tua rinuncia significa che tu precludi la visione della realtà effettiva, per questo rendendoti menzognero. Tuttavia, entrambe le parti si ingannano nel rifiutare le conseguenze. La questione è: non potrebbero entrambe le vie condurre a intellezioni che non necessariamente debbano ostacolarsi tra loro, sussistendo nello stesso uomo, in quanto riferite a realtà del tutto diverse, ovvero da una parte alla realtà eterna di Dio nella fede, dall’altra alla realtà empirica della Bibbia, intesa come oggetto di uno studio scientifico che riguarda il finito, ma intorno a un sapere che si inoltra nell’infinito? Solo se i due concetti di realtà venissero erroneamente intesi come identici non sarebbe possibile alcuna unificazione. Spinoza non ha avuto chiara tale questione e non ha dato risposte in merito. Non distingue chiaramente l’interpretazione filosofica razionale da quella fondata sulla fede rivelata, e inoltre non distingue entrambe dalla constatazione scientifica dei fatti, stringente o verosimile, né dalle

interpretazioni psicologiche e sociologiche (sempre ipotetiche) dell’origine della rivelazione. È vero che fa queste distinzioni, ma non vi si attiene. 2. Il significato della filosofia per la fede. Spinoza distingue tra fede rivelata e intellezione razionale, individuando i due ambiti della teologia e della filosofia. Ma fu davvero questo l’intento di Spinoza, ovvero separare teologia e filosofia come due territori di uguale diritto, validi nella loro autonomia? Il criterio più alto che vale in ogni caso è la ragione. Che si dia una rivelazione per ottenere l’ubbidienza è, benché in modo subordinato, indispensabile soltanto perché la maggioranza degli uomini possiede qualità limitate. Esistono due piani: quello storico dell’uomo inteso come un modo finito con idee inadeguate, e quello eterno dell’uomo inteso come essere di ragione che trasversalmente al tempo, alla rivelazione, e alla tradizione, grazie alle sue idee adeguate, è in rapporto immediato a Dio. Il motivo, insieme filosofico e politico, che opera nel pensare di Spinoza, consiste nell’autoaffermazione della ragione filosofica. Non è lo stesso quello che si compie spiritualmente nel filosofo e quanto viene conosciuto come realtà di fatto nel dominio dei modi. Anche la ragione, nel suo storico apparire, diviene un modo. La conoscenza dei modi della Storia è una conoscenza finita ma, in quanto tale, è anche una pretesa di ragione. Spinoza nutre spesso dei dubbi riguardo al riconoscere la rivelazione come atto di Dio, oppure se limitarsi a parlare «secondo la capacità di comprensione della massa». Quello che è certo è il suo ritenere la realtà storica della fede, come ogni cosa esistente, un effetto dell’azione di Dio, benché non creda alla realtà vera e propria della rivelazione come atto specifico compiuto da Dio, collocato spazialmente e temporalmente. Benché sembri una volta affermarlo, questo per Spinoza, dal punto di vista filosofico, è escluso. Spinoza rinuncia a legare con metodo la sua autentica filosofia con la conoscenza concreta rivolta al dominio dei modi? Cioè, in tal caso, rinuncia a connettere sistematicamente la negazione e il riconoscimento della rivelazione? Non è chiaro. Quello che si trova nel dominio dei modi, infatti, come tutto il pensiero politico ed ecclesiastico, secondo i princìpi di Spinoza, non si può abbracciare con lo sguardo che si perde nei particolari. Qui egli non parla con l’astringenza della speculazione filosofica. Adotta prospettive e modi di giudicare consimili soltanto relativi, in quanto hanno per scopo l’esserci finito sotto forma di rappresentazioni. Vuole operare in favore della

ragione sotto le spoglie di un mondo di rappresentazioni. Permangono, quindi, oscurità di cui il lettore deve avere consapevolezza nella sua interpretazione. Una superstizione si dice irreparabile solo quando conduce al conflitto, alla lotta, alla rovina. Quando invece, attraverso rappresentazioni, si raffigura i comandamenti di Dio annunciati dai profeti, per ciò stesso contiene la verità eterna; ma allora non vale come sapere, bensì come una praxis identica a quella filosofica, all’amore e alla giustizia, all’armonia e alla pace. Tuttavia, quale sia il dominio esercitato dalla superstizione nelle religioni confessionali, lo si può vedere dalle loro contese, dal loro fanatismo, dalle loro accuse di eresia e dalla loro brama di potere. Invece, fin dove giunga l’opera che la verità della ragione svolge in esse attraverso la Bibbia, è rivelato dalla devozione di quanti manifestano la loro vera fede con l’azione. Si potrebbe dire che la superstizione, per Spinoza, non sia più davvero tale se corrisponde al contenuto della praxis razionale. Tuttavia il nesso tra la forma di superstizione e il contenuto autentico va concepito come dipendenza dello spirito umano dalle rappresentazioni o dalle idee inadeguate e come incapacità della maggioranza degli uomini di accrescere in tale misura la propria ragione da situarsi sotto il suo dominio e da riceverne forza. La scienza storica della Bibbia ci mostra come, sin dal principio, si siano verificati forti mutamenti del contenuto di fede, per comprendere e far propria la tradizione sempre diversa; si va dalla religione mosaica a quella profetica e a quella teologico-legalista. Questa storia ci dimostra la permanenza delle sue tensioni. La questione che si pone, allora, riguarda il modo in cui il fondamento di fede continui a sussistere in tali cambiamenti, nonostante in apparenza siano compiuti atti di scissione radicale, come nel caso di Gesù e anche di Spinoza. Nelle sempre nuove situazioni che la storia del mondo presenta e nelle condizioni di vita che assumono forme dell’esserci sempre nuove, laddove il fondamento contiene una verità e si manifesta nella sua vera realtà storica, emerge un compito cui nessuno può assolvere con un metodo prestabilito, ma unicamente con la vita e con il pensiero che ognuno realizza in sé, ovvero il compito di ripercorrere originariamente l’esperienza della primigenia presenza di Dio.

Anche Spinoza è immesso in questa storia della religione biblica. Come Geremia, conosce la certezza di Dio: Dio esiste e tanto basta. In conformità alla Bibbia, conosce l’amore per Dio inteso come amore per il prossimo e come giustizia. Con tutto il suo impegno si oppone alla millenaria certezza che ha reso Dio in una realtà corporea, finita, limitata: tu non devi farti immagine alcuna né effigie di Dio. L’esigenza della ragione, dono di Dio, in Spinoza, come nella Bibbia, si oppone agli dèi del naturalismo, i semidei, i demoni, che si dissolvono davanti alla realtà del Dio vero. Non si ha qui il cosiddetto Illuminismo, bensì è la stessa idea di Dio a rifiutare tutte le forme in cui la sua realtà viene relegata. La certezza biblica di Dio, in forma filosofica, cerca di studiare storicamente la Bibbia, per accertarsi del fondamento dal punto di vista storico. Nessuna scienza biblica potrebbe oscurarla, risultando, al contrario, di ausilio per approssimarsi storicamente di più al fondamento, al fine di poterlo ripresentare nella sua originaria presenza. Ci insegna a conoscere la grande unità storica che un popolo e i suoi uomini straordinari hanno conseguito come esperienza fondamentale che, fissata direttamente nella Bibbia, ricompare sempre nel corso delle loro sventure. Quindi Spinoza vede l’unità storica della Bibbia e colloca Gesù tra gli uomini di Dio, fatto spirito dallo spirito, «bocca di Dio». La certezza filosofica di Dio, nella prospettiva filosofica di Spinoza, rivela il senso profondo della Bibbia: esiste un solo Dio, sulla cui fede gli uomini fondano l’amore e la giustizia; la pace ha in Dio il suo fondamento solo per il fatto che Dio è. Lo studio critico della Bibbia ci insegna a comprenderne le contraddizioni che vi si ritrovano, o come una unità di senso delle diverse polarità della fede stessa, oppure come conseguenza del cambiamento storico della veste in cui la fede si presenta. Una meticolosa conoscenza storica non fa che rendere più chiaro, grazie alla luce risplendente dell’Uno, l’accoglimento della prima prospettiva, escludendo la seconda ipotesi.

c) Obiezioni contro la certezza spinoziana di Dio

1. Astrattezza. Non può essere negato che le idee fondamentali di Spinoza in cui viene espressa la sua certezza di Dio siano di una estrema astrattezza. Se tale constatazione si intende come un’obiezione, allora si può rispondere così: Quanto più astratto è un pensiero filosofico, tanto più risulta concreto nella sua vera realtà metafisica. Quanto più è astratto, tanto più ampio è il consenso raggiungibile da coloro che pensano nella fede, in quanto colmano la stessa forma con la loro realtà storica, che differisce dall’uno all’altro soggetto. Il pensatore capace di giungere al fondamento dell’essere con la sua speculazione, parla ad ogni uomo. Dal punto di vista della realtà oggettiva e rappresentabile, tuttavia, non fa che cadere in un vuoto sempre più grande. Chi non sa colmare questo vuoto con il suo pensiero, con le sue stesse risorse, non può che giudicare astratti questi pensieri, intendendoli cioè come forme indifferenti ad ogni contenuto, non cogliendo nulla della loro effettiva forza. Deriva da qui il desiderio di approssimarsi a quel pensiero con rappresentazioni, immagini, figure, miti, cifre, riti, cerimonie, culti e scritti sacri. Questi elementi sono la fonte della diversità storica, ma, al contempo, anche il corpo dell’assoluto, la sua esistenza nel tempo, la storicità dell’origine, della tradizione, del linguaggio; vi si trovano, infine, i racconti infantili e le verità che accetto «perché me lo ha detto mio padre». Per la sua pretesa di parlare liberamente, Spinoza fu messo al bando, da ciò traendo questa conseguenza: costretto a vivere senza uno stabile fondamento storico, egli lo cerca in Dio stesso. Da qui proviene l’astoricismo di Spinoza, il suo estremo astrarre l’idea biblica di Dio, la profonda serietà con cui prende il divieto di non farsene «ritratto e immagine», al fine di vivere nell’etere puro del pensiero. In questa atmosfera rarefatta egli trova, senza pregare, l’autentica realtà di Dio, che domina sulla sua vita. Egli giunse al punto in cui sembra venir meno l’aria per respirare. Proprio qui, in questa fredda realtà divina, che emana i suoi freddi raggi, si colloca il punto assiale verso cui si rivolgono tutte le forme storiche. Queste realtà, se, anziché voler essere solo il corpo dell’esistenza individuale e subordinandosi a un più alto criterio di giudizio, si fanno oggettive nell’assoluto, in quel punto si incontrano. Nello spazio onniabbracciante che, in quanto tale, mai potrà divenire una religione comune, istituzionale e operativa, Spinoza compie questi due passi:

Il primo passo conduce alla religione biblica onnicomprensiva, dove le differenze tra le chiese e tra le confessioni dell’Antico e del Nuovo Testamento vengono meno, dove tutti incontrano il Dio di cui affermano «egli è unico». Dal punto di vista storiografico oggettivo, le religioni bibliche (compreso l’Islam) costituiscono una grande famiglia, ma nella realtà sono diventate un campo di battaglia che ha manifestato al resto del mondo la loro vergogna, dove si è visto scorrere il sangue per dei particolari delle varie confessioni, forme di culto e codificazioni, una battaglia che queste religioni possono sempre di nuovo ricominciare. I formalismi intellettuali possono vincolare gli uomini giunti alla ragione, senza doversi liberare della loro realtà storica, ma in modo da rinunciare all’assolutezza oggettiva dei contenuti, delle rappresentazioni, delle enunciazioni, delle forme di vita di una fede, e al suo carattere esclusivo. Il secondo passo conduce oltre il mondo delle forme di fede biblica, verso quell’astrazione in cui incontriamo anche la Cina e l’India e dove le parole della speculazione contengono qualcosa di comprensibile perché risuona ovunque come un’eco, un’astrattezza però quasi irraggiungibile che porta in sé e ci fa sentire l’assoluta e unica concretezza storica dell’essere quale è stato creato da Dio. Spinoza sembra aver compiuto il sacrificio personale della sua storicità all’essere sovrastorico. Tuttavia, è senza la sofferenza del sacrificio che ci presenta questo momento estremo. In lui manca la servitù dolorosa verso Dio, come è in Isaia, e non c’è nulla del sacrificio ultimo di Gesù, mancando quindi la profondità stessa del dolore, ma presentandosi la tranquillità d’animo, la gioia, il distacco, la beatitudine dell’unica e sola autentica realtà che è Dio. 2. La scomparsa della trascendenza. Riassumiamo ancora una volta la concezione spinoziana di Dio e le sue conseguenze. Dio è causa immanens del mondo. Ogni potenza è potenza di Dio. Potenza è diritto. Le leggi di natura sono leggi di Dio. Nello stato naturale dell’uomo, come in tutto quel che è natura, proibizioni e comandi non hanno valore. Proibizioni e comandi si legano a una comune volontà umana, con una potenza propria e legislatrice, efficiente fin dove continua ad esserci. Ciò che è, come natura o

modo della sostanza, è al di là del bene e del male. È questo quindi l’adeguato comportamento della ragione: non disprezzare nulla, non ridere di nulla, non deplorare nulla. Si costruisce così una visione panteistica, dove si ritrovano questi tre elementi: l’eliminazione della trascendenza, la scomparsa della personalità nella totalità di Dio-mondo-essere, la negazione della libertà. A questa si oppone la visione teistica secondo cui sussistono: l’assoluta trascendenza di Dio, il rilievo della personalità nel suo significato unico, insostituibile ed eterno, l’affermazione della libertà e della decisione. Come si pone Spinoza? Lo si accusa di panteismo: la sua sarebbe una filosofia dell’immanenza che non conosce la trascendenza. Identici sono Dio e mondo. Si dilegua il valore insostituibile della personalità. Per Spinoza non si darebbero libertà né scopo. Le cose, però, in Spinoza non stanno così. Certo, il soggetto personale sembra dissolversi come modo, ma in quanto modo permane, possedendo pertanto tutta la potenza dell’amore conoscitivo rivolto al divino. La libertà sembra negata, ma è nel nuovo concetto di libertà ad essere ristabilita come tranquillità e chiarezza, razionalità della vita conoscitiva, fondando la prassi della vita di tale filosofia. Dal punto di vista concettuale, la trascendenza di Dio è garantita dai suoi infiniti attributi; da una realtà più potente, superiore a tutti gli scopi e necessariamente libera da essi; dalla totalità infinita, mai conosciuta, delle leggi naturali; dall’essere l’uomo non il centro del mondo ma solo un modo al suo interno. Il mondo dei modi presenta una varietà infinita che, senza riferimento agli uomini, testimonia l’autonomia di questo infinito come effetto di Dio. La coscienza spinoziana di Dio è tranquilla umiltà nell’amore per l’infinito che è Dio stesso, è consenso interiore, quieta indifferenza per tutto quello che è finito. Tuttavia, la trascendenza di Spinoza non è quella dell’irrompere nel mondo di una realtà superiore, né quella della rivelazione fatta agli uomini; non si presenta come comando di Dio o come suo ordine. In Spinoza, inoltre, non esiste alcuna assoluta esigenza morale di agire nel mondo contro il mondo, alcun dovere incondizionato oppure un imperativo categorico

kantiano; infatti, la libertà spinoziana è attività della ragione come essenza naturale dell’uomo. L’uomo non è fondamentalmente di un’altra essenza, bensì appartiene alla classe delle formazioni naturali. In ultimo, per Spinoza la trascendenza non è il centro di una decisione eterna, perché per lui non esiste nel tempo alcuna eterna decisione e quindi neanche una storicità esistenziale. Ma quel che così si nega a Spinoza non è espressamente da lui rifiutato, bensì rimane estraneo alla sua prospettiva. Invece è giusto chiedersi se sia possibile comprendere in modo adeguato il suo pensiero ponendolo davanti all’alternativa tra immanenza e trascendenza. Infatti l’amore spinoziano di Dio non è amore per il tutto, se per «tutto» si intende l’insieme totale dei modi. Quando Spinoza dice «deus sive natura», egli intende qui Dio come natura naturans, non come natura naturata. Egli scrive: «Se si crede che io proceda all’identificazione di Dio e natura», (intesa come una certa massa o materia), «allora si sbaglia completamente» (Ep73, p. 2177). Spinoza vuole dire che Dio «non si rivela al di fuori del mondo in uno spazio inventato o rappresentato» (Ep75, p. 2183) e che invece noi, come dice Paolo, «viviamo e ci muoviamo in Dio» (Ep73, p. 2177). Per Spinoza la formula tipica del panteismo «uno e tutto» (hen kai pan) sarebbe corretta solo se nell’uno rimanesse la trascendenza e il «tutto» non costituisse l’insieme totale delle cose finite. 3. La perdita della storicità. L’idea di Dio si è attualizzata in due modi opposti. Primo: Dio viene avvertito al di sopra di ogni cosa, al di là dei fenomeni che pure sono reali nel tempo e nello spazio, al di là della Storia, della natura, dei popoli e delle leggi, del bene e del male, della sventura e della salvezza; e con quest’essere infinitamente lontano si vive come se, benché inafferrabile, fosse tuttavia completamente a noi prossimo, presente. Questa realtà di Dio non consente di invocarlo a proprio vantaggio, ma piuttosto si deve riconoscere che da lui proviene la realtà di tutte le cose nello spazio e nel tempo. Se ci si presenta un avversario umano, se reciprocamente ci consideriamo come uomini – rispetto a quel Dio distante –, è sempre possibile combattere lealmente per decidere della vita e della morte. Se questo non avviene, se viene condotta una lotta senza limiti per l’esserci e per l’annientamento

(stermini, guerre di distruzione, frodi, il «diritto naturale» di Spinoza), comunque rimane la certezza fondamentale che Dio non muore, che io, qualunque cosa accada, non sono esiliato dal suo cospetto, e che anche le cose peggiori devono provenire da lui. Secondo: un popolo o una certa fede ecclesiastica rivendicano per sé Dio come vicino: noi siamo con Dio, gli altri no, noi lo serviamo, gli altri no. Gli altri sono eretici, atei, pagani. Allora, rifiutando Dio agli altri, si verifica uno iato assoluto fra gli uomini. Nella lotta per l’esserci si compie la lotta di Dio contro i suoi nemici; allora combattiamo per Dio contro i falsi dèi (come se Dio volesse questo). Chi si arroga il primato per la propria fede in Dio santifica i suoi interessi per l’esserci e la potenza. Nel primo caso, si ha una fede in Dio inteso come Dio di tutti di uomini e del mondo intero; nel secondo, si ha la fede nazionale o ecclesiastica. Nella Bibbia si trovano entrambe le situazioni, ovvero la religione dell’umanità e la religione nazionale. Certamente la religione dell’umanità esiste fin dai profeti, probabilmente già da Mosè e forse da Abramo. In quella polarità l’idea di Dio si illumina, come Dio prossimo e Dio lontano. Qui, però, si verificano due diverse opposizioni anche se falsamente identificate: Primo: l’opposizione tra la religione dell’umanità e la particolarità storica dei suoi fenomeni. La storicità fa da termine medio spaziotemporale attraverso cui, in una società, si realizza e si tramanda l’astrazione della totalità comprensiva in una comunità reale, che determina la vita umana fino ai suoi giorni e alle sue ore. Secondo: l’opposizione tra la religione dell’umanità e la pretesa esclusivista avanzata da una particolarizzazione storica. Questa pretesa trasforma il particolare storico in universale umano, ovvero si fa pretesa «cattolica» di una Chiesa, di un popolo eletto, e attesa del giorno in cui tutti gli uomini andranno a pregare a Gerusalemme. La contrapposizione e la combinazione di queste due diverse concezioni si trova già nella Bibbia. Qui si genera la lotta dell’uomo per la sua realtà eterna, che non può privarsi né della storicità né del Dio unico onnicomprensivo, in un movimento profondo che interessa e attrae gli uomini

fino ad oggi. Spinoza si pone con decisione e completamente dalla parte dell’universale, indifferente all’importanza della storicità, che lascia svanire senza problemi. È questo aspetto della filosofia di Spinoza a mostrarne profondità e limiti. Di per sé, la più alta astrazione della filosofia rende possibile l’affermazione della più pura storicità. Libera l’incondizionato dalle forme della Storia, sottraendogli le false assolutizzazioni che si generano nella lotta delle diverse confessioni per il possesso della verità esclusiva. In generale, rovescia ogni pretesa di validità assoluta per tutti gli uomini, che una realtà storica annette alle sue affermazioni, intuizioni, immagini e forme di vita. Spinoza si mette del tutto dalla parte della possibilità che libera, e trascura la storicità. Per lui l’astrazione più alta opera con la più grande influenza sulla vita pratica, e questo gli è sufficiente. Gli resta la tranquillità dell’animo e l’attività della ragione, entrambe non connotate da cifre a carattere mitico, dogmatico, legalistico. Pertanto, in lui si rinviene una verità superiore che, però, perdura solo quando si sottrae alla minaccia del vuoto, riempiendosi e assorbendo in sé il contenuto dell’esserci umano. Lo stesso anno del bando contro Spinoza, i beni di Rembrandt erano venduti all’asta. Spinoza divenne un rinnegato, Rembrandt un uomo socialmente declassato. Entrambi, nella loro condizione estrema, guadagnarono la luce della loro metafisica, senza che esistano notizie o indizi di un loro incontro. Quanto visto da Rembrandt nelle immagini che creava, in grado di farci penetrare nella ricchezza incredibile delle sue opere, non fu visto invece da Spinoza. Egli manca di forza intuitiva: le sue forme di pensiero non possiedono la forza plastica delle cifre. Il suo compito era di farci sentire tale mancanza per creare una coscienza nuova e una nuova validità della forza totale del Dio trascendente, onnicomprensivo e davanti a cui cessano di esistere demoni, dèi e mediatori. Il senso del suo pensiero mirava all’essere indistruttibile sovraordinato al tutto, immutabile, intangibile, che agisce come guida nascosta nell’opera di Rembrandt, senza però mai mostrarvisi, perché senza forma né immagine, che si fanno, nella verità di Rembrandt, espressioni essenziali e attraenti. La considerazione seguente è capace di rivelarci nel modo più intenso l’oblio spinoziano per la storicità. Rembrandt vide l’anima ebraica, di cui era partecipe Spinoza senza averne coscienza. Rembrandt seppe scorgerla con

una profondità mai eguagliata né prima né dopo di lui. È possibile domandarsi dove risieda quella originaria certezza di Dio da cui fu sostenuto lo stesso Spinoza, dove si trovi una vita come quella di Gesù, dove quel non smarrirsi nel dolore, quel senso di ultimatività, quell’amore pronto ad ogni sacrificio e quel fervore dell’anima; dov’è che si trovano, non solo affermati come interpretazione teoretica del proprio esserci, ma pienamente realizzati; insomma, dov’è che compaiono più spesso uomini come Gesù (sotto l’aspetto in cui si manifesta nei Vangeli sinottici). È possibile rispondere che tutte queste incarnazioni, benché estremamente rare, si ritrovano soprattutto tra gli ebrei, comunque in modo insolito ed eccezionale. Tuttavia non si troverebbe in Spinoza questo sguardo verso l’essenza dell’anima ebraica, né l’amore che sente questo amore. Spinoza non vide quel che vide Rembrandt. 4. L’assenza del carattere fondamentale di Dio. Si avanza questa obiezione: il Dio biblico – riguardo ai tragici eventi dell’esserci umano – non solo è inconcepibile, ma è adirato, geloso («tu non avrai alcun altro Dio accanto a me»), legislatore. Sarebbe dunque un Dio da temere. E l’uomo non conoscerebbe solo la legge del giorno, ma anche la passione delle tenebre, e Dio si rivelerebbe a lui nell’una e nell’altra cosa. Invece Spinoza nega che Dio sia geloso e lo pensa innocuo. Conosce solo l’amore per Dio, ma non il timore al suo cospetto, quindi non comprende neanche le condanne contro gli eretici da parte di credenti che si avvertono responsabili di fronte a Dio. Gli sfugge il senso e la gravità terribile della scomunica e del bando contro gli atei. Sulla sua via Spinoza cerca solo l’acquietamento, la consolazione, la felicità. A tali rilievi si dovrebbe rispondere che Spinoza vede la necessità in tutta la sua durezza, sia quando osserva sulla tela del ragno le mosche divorate, sia quando avverte l’affinità del suo pensiero con la dottrina calvinista della predestinazione (ma senza il concetto del peccato). Spinoza, tuttavia, di fatto resta senza paura davanti alla realtà estrema che egli stesso esprime. Il timore è respinto in quanto irragionevole. Non c’è verità nel timore, essendo lo scopo la quiete dell’animo. In quella obiezione si ritrovano diversi elementi uniti unicamente per la loro irrazionalità. Non si può negare che Spinoza non voglia partecipare all’apertura verso la realtà autentica della passione per la notte, ovvero a quell’apertura della ragione stessa che, pur ricorrendo all’irrazionale, va in cerca di una eventuale comunicazione, però impossibile. Spinoza davanti ai dolori e alle ingiustizie (tali secondo un criterio umano),

propri dell’esserci, non cede mai all’atteggiamento di ribellione, atteggiamento che intende la stessa tranquillità dell’animo come un’evasione, senza permettere il nascondimento di fatti orribili. Spinoza ignora la rivolta di Giobbe contro Dio eppure al suo fianco, che non trova salvezza nella quiete ma nella sua misericordia. L’obiezione prosegue con l’affermare che Spinoza annulla il «Tu», la comunanza degli uomini con Dio attraverso il dialogo e la preghiera. Per questo si scioglie quel patto con Dio che costituisce il fondamento della vita ebraica e cristiana. Quindi, si smarrisce anche l’autocoscienza dell’uomo storicamente personale, che non si afferma se non nel rapporto con il Dio personale. Un’altra obiezione ritiene che Spinoza conosca solo l’amore degli uomini per Dio e non l’amore di Dio per gli uomini. «Chi ama Dio non può aspirare ad esserne riamato» (E5P19, p. 1577). Questa è una proposizione che ha cercato di dimostrare. Infatti, dice Spinoza, se si parla propriamente, Dio non ama e non odia nessuno, perché non è toccato da alcun affetto, né dalla gioia né dalla tristezza. Quando, però, Spinoza parla dell’amore autentico, realizzato nell’amor intellectualis dei e nelle sue conseguenze in ogni rapporto verso gli uomini e il mondo, allora egli afferma «che Dio, in quanto ama sé stesso, ama gli uomini, e di conseguenza, il suo amore per gli uomini e l’amore spirituale dell’anima per Dio sono una e una stessa cosa» (E5P36C, p. 1595). Rispetto a tutte queste obiezioni, per quello che contengono nel cercare di farci respingere Spinoza, occorre affermare, allora, che queste scaturiscono da impulsi irreprimibili dell’uomo finito, bisognoso del linguaggio delle cifre e della realtà storicamente presente nello spazio e nel tempo. Ma l’uomo è in grado di superare tutto questo in forme di pensiero che Spinoza ha prodotto in una delle più alte formulazioni, benché sempre come realtà storica. Quando le obiezioni nascono per l’incapacità di operare un tale superamento, allora testimoniano solo la pochezza di chi le avanza. Un vuoto si apre davanti a costui e l’onnipotente totalità comprensiva della sostanza di Spinoza gli si riduce a nulla. Costui non sente la vera realtà che, permeando ogni cosa, è sempre e senza tempo presente e toccata dai pensieri di Spinoza. Se però quelle obiezioni intendono quale realtà ultima quello che Spinoza ha superato, allora, quando falliscono, chi vi si attacca (attraverso miti, cifre, dogmi) si trova condotto alla disperazione.

Questa disperazione si può superare solo in quel pensiero di Spinoza che può essere portato a compimento nell’esistenza. Le critiche intendono considerare come realtà autentica le immagini e le analogie indispensabili per noi uomini, concependo Dio riduttivamente, rispetto alla più grande ampiezza di quello che Spinoza ha contemplato con il suo pensiero. Queste critiche non consentono di partecipare a quel grande processo storico che, continuamente ripetuto, va purificando dall’interno l’idea biblica di Dio, processo in cui Spinoza si inserisce come uno degli uomini di Dio degni di fede, come fu anche Gesù, che prendono seriamente il comando: «Tu non ti farai ritratto o immagine alcuna»; certo, gli uomini non possono ubbidire a questo comando, ma questo rappresenta l’ideale senza cui ogni forma della fede in Dio diventa superstizione. Il fondamento della fede in Dio, nella Bibbia si pone in modo tale da impedire lo scambio erroneo o la confusione con la fede nei libri sacri, nei riti, nei culti, nei popoli, nelle chiese, e nei sacramenti sacerdotali. Dobbiamo convincerci che Spinoza fu uno dei veri uomini devoti. Tuttavia, le obiezioni possono cogliere nel segno quando affermano che Spinoza trascura i termini medi che collegano l’uomo a Dio, a causa della finitudine delle rappresentazioni e del pensiero umani. Spinoza si spinge all’estremo, laddove era consapevole di poter essere seguito soltanto da pochi. Non si è messo al servizio di quest’altro duro compito, ovvero di agire tra le masse per favorire la tradizione delle immagini, delle metafore e della struttura della vita. Certo la più alta astrattezza della sua idea è unica. Essa è in grado di attrarre tutti coloro che comprendono, ponendoli in un orizzonte dove il fenomeno di una realtà storica non può più assolutizzarsi in un valore universale, ma è comunque capace di far sì che la realtà storica non venga stravolta, bensì conservi il valore di compimento temporale dell’esistenza, considerata nella sua diversità insuperabile. Alimentare in tale orizzonte la certezza biblica di Dio, suscitarla sempre di nuovo nella sua originarietà che attraversa i cambiamenti del suo manifestarsi sotto le forme sempre diverse dell’esserci umano, è il grande compito di chi ha una cura pratica delle anime. Questo compito non è compreso da Spinoza. Tuttavia, Spinoza ha schiuso nuovamente l’orizzonte in cui tutte le realizzazioni di questo ideale possono

incontrarsi comunicando. Allora, l’unità dei modi della fede che si configurano in molteplici realtà storiche si avverte come il punto centrale che trova una sua espressione o una sua traccia, non direttamente, ma mediata dall’astrazione filosofica.

d) Le decisioni personali di Spinoza e il suo destino Durante la sua vita Spinoza ha preso decisioni che influirono sul suo destino personale, oltre ad avere un significato storico sostanziale. La realtà della sua vita, per una certa epoca, è divenuta un simbolo, verso cui molti uomini di un mondo nuovo si sono rivolti, sia come modello da seguire che da evitare. Non si può pensare con Spinoza senza entrare in rapporto personale con lui. Spinoza combinava in sé diversi elementi. L’esperienza della diaspora ebraica (i suoi avi erano stati cacciati dalla Spagna, i suoi genitori erano emigrati in Olanda dal Portogallo), la partecipazione alla tradizione letteraria spagnola e giudaica, all’educazione umanistica e alla filosofia moderna, la consapevolezza politica del suo diritto come cittadino d’Olanda, Paese al cui servizio si pose col pensiero e con l’azione. L’evento decisivo della sua vita fu il bando, l’esclusione dalla comunità ebraica. Non lo volevano né la Sinagoga né Spinoza, che pretendeva di continuare ad appartenervi, benché ritenesse vero e dicesse quello che pensava, senza comparire nei servizi divini né adempiere ai riti prescritti. Spinoza conobbe la rivelazione e la ragione. Se ci si chiede il perché non sia rimasto nella Sinagoga, si può trovare una risposta in quel conflitto di pretese. Era impossibile consentire a Spinoza di restare nella Sinagoga mantenendo i suoi presupposti, anzi fu insultato per i suoi «abominevoli discorsi blasfemi contro Dio e contro Mosè» (forse per la sua tesi secondo cui il Pentateuco non era stato scritto da Mosè), e inoltre per «le sue azione mostruose» (forse per il mancato rispetto dei precetti delle leggi cerimoniali ebraiche) (Gebhardt). Perché, tuttavia, Spinoza riteneva così importante l’appartenenza alla Sinagoga, tanto da protestare per la sua messa al bando in uno scritto apologetico (andato perduto)? Evidentemente per le conseguenze che potevano derivare per i suoi diritti di cittadino. È probabile che le

sorelle gli contesero l’eredità paterna appellandosi al bando. Certo, il rabbino Morteira scrisse al magistrato di Amsterdam che le concezioni spinoziane sulla Bibbia contrastavano anche con la religione cristiana, chiedendone quindi l’allontanamento dalla città. I ministri della Chiesa riformata concordarono. In effetti, nel giro di qualche mese, Spinoza fu espulso da Amsterdam. Andò a Ouwerkerk, vivendo sotto la protezione delle autorità cittadine. Poco prima un ebreo fanatico aveva commesso un attentato ai suoi danni, da cui Spinoza si salvò con prontezza di spirito, grazie a un agile gesto. Poi conserverà il mantello bucato dal pugnale. Se ci si chiede quale tra le due parti avesse ragione, non si può dare una risposta decisiva, perché i rispettivi presupposti erano inconciliabili. Spinoza portò la questione nell’alveo del diritto civile olandese, ottenendo così protezione, mentre la questione religiosa gli risultava indifferente. Svolgiamo un attimo alcune argomentazioni che allora non ebbero luogo. Si afferma che il comportamento di Spinoza avrebbe l’effetto di sottrarre il credente alla sua fede, indebolendo o cancellando ogni ubbidienza all’autorità, qualora lo stesso comportamento venisse concesso a chiunque faccia appello alla ragione. Ne verrebbe un affievolimento della fede e, per l’orgoglio di diventare migliori, sarebbe turbata la pace e distrutta la comunità. Una possibile risposta di Spinoza avrebbe potuto essere che queste obiezioni presuppongono la menzogna come fondamento della società umana, nonché la pia fraus, una bugia consapevole (presente nel pensiero politico di Platone). Tuttavia, questa esigenza è contraria al vero, in quanto la serietà dell’ubbidienza nella fede non può essere turbata dalla serietà della filosofia razionale; infatti, entrambe convergono nel rigore della loro prassi di vita definita dall’amore e dalla giustizia. Ammettere ubbidienza e rivelazione non implica l’affievolimento, bensì il riconoscimento di una diversa forma storica per un identico contenuto. Il primato della ragion pura può essere compreso da chi ne percorre il cammino. Un tale essere razionale non sarà colto da orgoglio, né disprezzerà o farà ironia verso il fare di chi crede. Egli si situerà in rapporto al credente secondo uguaglianza, perché legato in profondità ai credenti dal rigore della prassi della vita,

ancor di più di quanto l’uno e gli altri non siano legati al resto degli uomini guidati dagli affetti. L’uomo razionale e i credenti sono estranei sia ai credenti che, con orgoglio, si appellano a un’autorità, compiacendosi della sua potenza e del suo aspetto, sia ai nichilisti sofistici che, privi di ragione, utilizzano una pseudo-ragione per i loro attacchi e, guidati dalla superbia intellettuale, si inorgogliscono per i loro arbitrari giudizi. La condotta di vita dei devoti credenti nella rivelazione, come quella del filosofo indipendente e devoto, si alimenta al convincimento di non dover mai per nessuna ragione confliggere con la condotta dell’altro o, in generale, con il mondo. Costoro sono i portatori della vera pace. Successivamente al bando avvenne un fatto di portata essenziale: Spinoza non si fece cristiano. Certo ebbe buone relazioni con i Collegianti, ma il suo comportamento non condivide nulla con quello dei molti ebrei che passarono al cristianesimo. Sui motivi che determinarono Spinoza non esistono documenti, ma è evidente che non poteva aderire espressamente a una comunità confessionale in cui non era nato. In effetti, la sua filosofia era già di per sé una forma di fede in Dio. Non aveva bisogno di alcuna confessione religiosa. Spinoza cercò la tranquillità e la pace nella beatitudine dell’amor intellectualis dei. Quello che fece, tuttavia, doveva assumere il carattere di un avvenimento pubblico. Non cedette. Quali sarebbero state le conseguenze se, per evitare la frattura, avesse finto, per indifferenza e scetticismo, di conformarsi? Per lui, che in nulla era scettico, la vita avrebbe assunto il carattere di una perpetua slealtà. Sarebbe quindi stato impossibile pensare la sua filosofia e scrivere la sua Etica e il Trattato teologico-politico. Avrebbe fatto la fine di tanti altri. Eppure, non avrebbe potuto stare in attesa e intanto cominciare a scrivere la sua filosofia? Il suo pensiero, tuttavia, poteva prendere forma soltanto vivendo, libero dal servizio divino, in piena libertà di parola. Questo è il motivo per cui, prima della pubblicazione dei suoi scritti, con le sue pretese filosoficamente fondate, Spinoza finì per costringere la Sinagoga, dati i tempi, a bandirlo. Si può supporre che fu proprio questo avvenimento a renderlo consapevole della sua filosofia, con la volontà di farvi partecipe chiunque intendesse vivere liberamente nella certezza di Dio. Chi, come nel caso di Spinoza, animato dalla buona volontà della ragione,

fosse entrato in conflitto con l’istituzione che rappresenta il popolo o con la Chiesa di appartenenza, e si fosse visto escluso dai suoi stessi compagni, dai parenti e dai conterranei, sarebbe precipitato per tali motivi necessariamente nel vuoto? No, in un tempo in cui ognuno era spiritualmente custodito dall’autorità della sua Chiesa, dopo cento anni di sanguinose guerre religiose, dove la diversità delle forme di fede metteva in dubbio la fede stessa come unica verità, dove lo scetticismo e la miscredenza potevano esprimersi con libertà, ma spesso con titubanza e senza capacità di conservarsi, oppure adattandosi a una indifferente e passiva ubbidienza verso l’ordine ecclesiastico statale, come scepsi sovrana; ebbene, in una tale epoca, Spinoza osò, con naturalezza e tranquillità dettate dalla coscienza della necessità della situazione, e con coscienza certa della sua infallibilità senza esitazioni, mettersi su quel fondo stabile che ogni uomo come essere pensante può percorrere, dove ognuno può ritrovarsi presso di sé non appellandosi a una sua origine o tradizione, fondo da cui nessuno può esiliarlo e che, in ultimo, è il campo della vera realtà divina che si manifesta nella certezza della ragione. Pertanto dov’era la patria di Spinoza? Era olandese, ma questo non era l’essenza del suo essere presso di sé, bensì solo il campo dell’esserci che gli rendeva possibile vivere libero nel mondo e verso cui si sentiva obbligato. Spinoza ebbe la convinzione che nella sua condizione la cittadinanza olandese gli consentisse spazio sufficiente per l’esserci della sua persona. Questo Stato lo protesse dalle conseguenze politiche del bando che la Sinagoga si aspettava. Benché all’epoca, in Olanda, la libertà fosse ampia rispetto agli altri Stati europei, c’era pur sempre un pericolo che indusse Spinoza a pubblicare alcuni suoi scritti non senza titubanza, e a non pubblicarne degli altri. Tuttavia è consapevole che, come egli dice, «noi abbiamo avuto la rara fortuna di vivere in uno Stato in cui ognuno esercita liberamente il suo giudizio e onora Dio come meglio crede e dove la libertà è considerata il bene più caro e prezioso» (TTP, Pref 8, p. 639). A tale situazione corrispondeva la sua concezione realista dell’essenza dello Stato, che per lui non ha un carattere platonico. Pur non avendo né carattere né basi religiose, per mantenere la pace nella libertà, deve esercitare la tolleranza verso ogni fede e confessione presente sul suo territorio. Non si tratta di uno Stato assoluto come in Hobbes, ma liberale perché ammette il vivace confronto tra le idee. Non ha compiti pedagogici, ma è solo una comunità di diritto che ha per scopo la libertà di tutti. Lo Stato non è neanche

popolare, perché dipende da un principio puramente politico. A partire dalla situazione reale del tempo, ci si può certo chiedere come fosse possibile, per Spinoza, godere, nella condotta della sua vita, di un destino personale così propizio. Ci si sarebbe potuto aspettare anche che venisse annientato o esiliato. Queste ne furono le ragioni. Era ebreo e non cristiano. Quindi per i cristiani, non essendosi allontanato dal cristianesimo, non era un eretico. Se fosse avvenuto questo, le autorità ecclesiastiche avrebbero avuto il potere di trattarlo in ben altro modo. Interessava poco ai cristiani il suo bando dagli ebrei. Spinoza visse tranquillo, senza essere importunato. Quando fece avvertire la sua personale presenza, attirò anche le simpatie dei suoi avversari. Non si dedicò a nessuna propaganda o sedizione. Le decisioni filosofiche furono sempre prive di affetti provocatori o offensivi. In ultimo, e soprattutto, si mantenne prudente, sostenuto da un grande senso della realtà di fatto.

e) Spinoza e la questione ebraica 1. La nostra questione. Già il suo essere ebreo aveva fatto vivere a Spinoza l’esperienza dell’esclusione dall’appartenenza nazionale. Inoltre, conobbe l’espulsione dal giudaismo. Il suo destino prefigura quella mancanza di terreno stabile che in età moderna è stata determinata da necessitanti situazioni esterne e dal modo in cui l’uomo vi si può adattare con la sua disposizione interiore. La reputazione di Spinoza fu quella di grande ebreo, degno di alta considerazione o di grande disprezzo. È ovvio chiederci quali siano stati gli elementi ebraici del suo pensiero e quanto la sua prassi di vita sia stata condizionata dalla certezza ebraica di Dio e dalla concezione politica degli ebrei. Tali questioni non trovano risposta in Spinoza; mai lo sentiamo affermare di sentirsi ebreo. Egli aveva consapevolezza della sua provenienza come di qualcosa di inessenziale. Non conobbe alcuna questione ebraica, considerando le persecuzioni ebraiche in una prospettiva oggettivamente storica, senza esserne colpito. Non poteva neanche immaginare quella che dalla seconda metà del XIX secolo è andata determinandosi come questione ebraica nel senso politico attuale. Neanche immaginava da una certa prospettiva teologico-politica, il senso di un «diritto» degli ebrei, né sapeva qualcosa dei diritti politici degli uomini.

Cosa direbbe Spinoza se si trovasse nella situazione attuale? L’ebreo moderno e ogni uomo che ha compreso l’intenzione della Germania hitleriana di sterminare tutti gli ebrei si domanda: cosa farei in un ambiente in cui fosse stato abolito lo Stato di diritto e si volesse farmi violenza per annientarmi, in ultima analisi, per la mia provenienza (religione, razza, classe)? Spinoza risponderebbe riferendosi al fondamento del diritto naturale come principio di autoaffermazione, non appellandosi a una giustizia eterna, né puntando all’effettivo riconoscimento di un suo specifico diritto. Quanto qui soccorre è l’autoaffermazione degli uomini perseguitati dal loro ambiente che, proprio a causa di tale persecuzione, sono costretti a unirsi in una comunità. Spinoza direbbe inoltre che questo fatto non riguarda Dio più di ogni altro fatto di autoaffermazione, poiché, in verità, tutti questi fatti si generano dalla sua eterna necessità. Spinoza non identificherebbe questa autoaffermazione dell’esserci con un patto stipulato da Dio con gli ebrei, né farebbe coincidere la certezza di Dio che conferisce sicurezza attraverso una fede in lui con una garanzia per il mio popolo e per me in quanto all’esserci. E con Geremia, guardando la tragedia del suo popolo, affermerebbe ancora: «Così ha parlato Jahwe: in verità, quanto ho edificato lo distruggo ed estirpo ciò che ho piantato, e tu adesso pretendi per te grandi cose? Non pretendere». Spinoza direbbe che il concetto degli ebrei sotto minaccia comprende credenti e non credenti che si riuniscono al suo cospetto, perché dal momento che tutti si caratterizzano per la loro provenienza storica, che opera in modo dimostrabile per ogni individuo, tutti si trovano uniti per la minaccia e il compimento del loro sterminio. Spinoza si limiterebbe dunque a vedere la lotta per l’affermazione dell’esserci subordinata al diritto naturale, secondo cui tutto accade con necessità, qualora i popoli che non sono barbari vogliano vivere e vivere a modo loro desiderando la libertà. Qui il diritto vale in quanto sussiste la potenza. Qui vale il diritto dei pesci, per cui il più grande mangia il più piccolo. Pertanto non esiste alcuna sovraordinata istanza giuridica. Infatti, il diritto si trova solo nello Stato e grazie ad esso, estendendosi fin dove

giunge la sua potenza. L’istanza sovraordinata coincide con l’onnicomprensiva necessità divina, in cui si situa tutto quel che accade. È superiore a tutte le leggi civili che valgono solo nello Stato nella misura della sua potenza. Tale istanza della necessità divina non si può valutare in particolare in base a una legge naturale già conosciuta (in quanto la conoscenza perfetta risiede nell’infinito). L’uomo può solo ricercare e sperimentare quello che accade in base a quella suprema istanza della necessità divina. Qui il destino delle cose si afferma nella sua perenne durezza, nell’orrore e nell’ambiguità, contro cui Spinoza non sa opporre altro che la quiete fondata sulla certezza di Dio. Tuttavia la sua visione filosofica non può ammettere qui che la rappresentazione, possibile in una certa prospettiva, di una sovraordinata istanza giuridica, assuma il carattere di una parvenza menzognera. Tutte le argomentazioni portate per dedurre l’esistenza di un diritto privo di potenza sono mere illusioni. Queste generano in chi è impotente un risentimento inutile, motivato da un’inesistente idea di un diritto eterno, che sarebbe capace però di rimediare all’impotenza con il presupporre un valore superiore che conferisce all’esserci, in via indiretta, validità e potenza. Oppure quelle argomentazioni generano nei potenti, che vorrebbero godere di una potenza superiore rispetto a quella attuale, l’illusione di un principio di legittimità di tale potenza, grazie a un valore superiore (la razza, l’elezione o la provenienza divina). Alla loro potenza dovrebbe sommarsi, oltre al carattere che le è proprio, anche quello di una eterna preminenza, essenza e merito di quanti ne sono portatori. Entrambe le illusioni coprono la visione delle realtà di fatto che operano sempre nel presente secondo i diritti naturali, non facendo cogliere quanto è necessario all’affermazione dell’esserci. L’autoesaltazione conduce alla rovina dell’esserci, per tacere del fatto che genera confusione a causa delle rappresentazioni inadeguate e degli affetti. 2. Il pensiero di Spinoza sugli ebrei. Spinoza però ha anche parlato del destino degli ebrei secondo la seguente concezione: Mosè fondò lo Stato degli ebrei grazie a un patto con Dio. Solo Dio «aveva il governo degli ebrei e quindi lo Stato, in forza del patto,

giustamente si disse regno di Dio. Pertanto i nemici dello Stato erano nemici di Dio. La legislazione statale non era che l’insieme delle leggi e dei comandamenti di Dio. Diritto civile e religione erano una sola cosa. I dogmi della religione non erano dottrine, ma norme giuridiche e comandi. Chi si allontanava dalla religione non era più un cittadino, ma un nemico» (TTP17, 8, p. 1039). Straordinarie erano le conseguenze per l’atteggiamento interiore degli ebrei in questa particolare situazione storica dello Stato. «L’amore degli ebrei per la loro patria non era semplice amore, ma devozione nutrita e comandata dal culto quotidiano insieme all’odio contro gli altri popoli». Il loro culto quotidiano non solo differiva completamente da quello degli altri popoli, ma ne era l’esatto opposto. «Dalla quotidiana riprovazione doveva generarsi un odio permanente per lo straniero, profondamente radicato nei loro cuori più di ogni altro affetto, con la potenza di un odio ispirato da una devozione fervida e considerato, in quanto tale, esso stesso un atto devoto» (TTP17, 23, p. 1061). Un’altra conseguenza di questa reazione fu che, poiché gli altri popoli non potevano che rispondere con odio più acceso rispetto a quello degli ebrei, anche quest’ultimo finiva per crescere. Del tutto diversa era la situazione degli ebrei al tempo di Spinoza. Dopo la distruzione del loro Stato, gli ebrei formavano solo una comunità religiosa. «Attualmente non hanno più nulla di quello che potevano attribuirsi come superiore a tutte le nazioni». Tuttavia hanno continuato a esistere «anche attraverso una distruzione durata per tanti anni». Perché? Secondo Spinoza questo fatto «non meraviglia dopo essersi separati dagli altri popoli tanto da attirare l’odio di tutti, separazione che non consiste solo negli usi esteriori opposti a quelli degli altri popoli, ma anche nella circoncisione». Spinoza ritiene questo segno «tanto importante da essere convinto che sarebbe da solo sufficiente a tenere unito questo popolo» (TTP3, 12, p. 733). Spinoza ritiene di poter provare, attraverso i successivi accadimenti in Spagna e Portogallo, che la ragione principale della sopravvivenza dell’ebraismo risieda nell’odio covato dagli altri popoli. «Quando una volta il re di Spagna obbligò gli ebrei a convertirsi alla religione di quel Paese oppure ad andare in esilio, molti divennero

cattolici romani. Poiché però a quanti avevano abbracciato questa religione si accordarono tutti i diritti degli spagnoli di nascita, ritenendoli degni di occupare tutte le cariche onorifiche, presto si mescolarono con gli spagnoli, tanto che in breve tempo scomparve la traccia e il ricordo di quello che erano stati». Diversamente accadde in Portogallo. Anche qui il re li pose davanti all’alternativa: conversione oppure esilio. Tuttavia, nonostante la loro conversione alla religione papale, di fatto vissero separati dagli altri «poiché il re dichiarò che non erano degni di occupare tutte le cariche onorifiche» (TTP3, 12, p. 733). L’«elezione» del popolo ebraico viene intesa da Spinoza con riferimento allo spazio e al benessere per l’esserci della loro vita quotidiana. «Se qualcuno volesse difendere l’opinione che gli ebrei, per qualche motivo, siano stati eletti da Dio nell’eternità, non lo contraddirei, se però ammettesse che l’elezione, temporale oppure eterna, valendo unicamente per gli ebrei, fa riferimento soltanto al loro regno e ai vantaggi materiali (in quanto solo per questo una nazione può distinguersi da un’altra), ma che, riguardo all’intelligenza e alla vera virtù, nessun popolo si distingue dall’altro e pertanto, sotto tale aspetto, non può essere eletto da Dio a preferenza di un altro» (TTP3, 13, p. 735). Per il momento, il territorio della Palestina è perduto. L’elezione è sospesa. Spinoza, però, giudica verosimile che gli ebrei continueranno a esistere. «Se non saranno i princìpi stessi della loro religione a indebolirne l’animo, posso credere senz’altro che un giorno, presentandosene l’occasione, poiché le cose umane sono soggette al mutamento, restaureranno il loro regno e saranno di nuovo gli eletti da Dio» (TTP3, 12, p. 733) (oggi, gli ebrei nel mondo sono di fatto una comunità religiosa, non una comunità statuale, mentre in Israele – contrariamente all’aspettativa di Spinoza – sono uno Stato ma non sono una comunità religiosa). 3. L’atteggiamento politico di Spinoza verso la questione ebraica. Spinoza, che aveva gli antenati cacciati dalla Spagna e i genitori emigrati dal Portogallo in Olanda, non pronuncia mai una parola adirata e mai si riferisce ai diritti dell’uomo per lamentarsi delle persecuzioni degli ebrei. Non ha nessuna velleità di andare in aiuto del suo popolo. Quel popolo in Olanda stava bene. L’influenza della Sinagoga era tale da poter indurre le autorità olandesi ad allontanare Spinoza da Amsterdam. Spinoza era seriamente

minacciato dagli ebrei (benché non si possa attribuire l’attentato alla Sinagoga), protetto da uno Stato fondato sulla libertà e per la libertà. Poiché in Olanda gli ebrei non correvano pericolo, Spinoza non avvertì nessuna occasione urgente per riflettere sul loro futuro e sul loro destino. La religione della legge e le cerimonie gli erano indifferenti. Senz’altro Spinoza aveva ragione riguardo alla sicurezza e alla condizione giuridica degli ebrei in Olanda, dove dal XVI secolo non erano stati perseguitati né erano stati lesi i loro diritti. Quando la Germania hitleriana compì i suoi crimini anche contro gli ebrei olandesi e non olandesi che vivevano in Olanda, benché costoro, in genere, non potessero essere salvati dal piccolo e debole Stato, trovarono tra gli olandesi una protezione che non ebbero in nessun altro territorio distrutto dai tedeschi di Hitler, fuorché in Italia. 4. L’abbandono da parte di Spinoza di ogni suo legame con l’ebraismo. Che cos’è quello a cui io sono legato per la mia origine, questa realtà del tutto storica fuori dalla quale non si cade che nell’instabile mancanza di fondamento, una mancanza dove, in eterno, sono spiritualmente afferrato unicamente dall’universale umanità, intesa nella storicità totale della sua ragione nella divinità, mentre per quanto riguarda il mio esserci mi ritrovo in uno Stato che mi protegge solo se ha un felice destino (Stato che per Spinoza è l’Olanda)? È la razza, il popolo, o lo Stato, qualcosa di assoluto? Lo è il linguaggio? O un destino comune? Niente di tutto questo, per Spinoza, ma solo l’eterna necessità di Dio. Il patto con Dio concluso da Mosè vale per gli ebrei, non per Spinoza. Dio, con tale elezione, attribuiva in tal modo agli ebrei la fiducia di raggiungere la felicità anche durante il loro esserci mondano, nella misura in cui gli avessero ubbidito. Le tragedie che incontravano erano interpretate come punizioni di Dio per la loro disubbidienza, e si domandavano in cosa consistesse la loro colpa. Ma all’ebreo, che attribuiva il più alto valore all’onestà come veridicità comandata da Dio, fu manifesto che non sempre la felicità è il destino del pio, né l’infelicità dell’empio. Per questo Giobbe lottò con Dio per avere giustizia, ma la sua fiducia poté ristabilirsi solo davanti alla strapotente parola di Dio, che non risponde alle domande degli uomini, non scioglie i nodi, ma appaga

solo in quanto egli è. Possiamo chiederci se la certezza spinoziana di Dio sia una forma diversa rispetto a quella ebraica e se abbia sostituito l’ineffabilità con la necessità eterna. Spinoza ha lasciato cadere le leggi del cerimoniale religioso, l’idea messianica, il patto; ma, proprio per questo, non ha forse lasciato cadere ogni realtà attiva nel mondo, tanto da non poter rintracciare più alcun punto in cui l’individuo in quanto tale possa vivere? Spinoza era ostile alla Sinagoga, non all’ebraismo. Si levò contro la limitazione della libertà di pensiero e l’obbligo imposto dalle leggi del cerimoniale, contro la censura e l’intolleranza. Spinoza diede al conflitto della sua giovinezza il senso della questione dell’essenza e delle condizioni della libertà, del valore dello Stato, in cui tutti possono pensare quello che vogliono e dire quel che pensano. Non si trattava solo di una questione ebraica, ma del grande problema dell’Occidente e poi ancora dell’umanità, verso cui Spinoza ha rivolto le sue magnifiche semplici parole. Certo non posso concordare quando si dice dei «giudizi aspri e anzi ostili espressi da Spinoza contro il popolo da cui proveniva» (Gebhardt). Il tono di Spinoza non differisce da quello utilizzato quando parla di cose cristiane. Non si tratta, in primo luogo, di giudizi che riguardino la religione rivelata, ma piuttosto, di mettere insieme Antico e Nuovo Testamento, cosa ovvia secondo lui, come documento di un’unica progressiva esperienza religiosa. Inoltre, egli qualifica con espressioni forti (come «folle», «delirante», etc.) l’errore dei fanatici, sia cristiani che ebrei. Spinoza non si sente per nulla legato alla coscienza ebraica. La base del suo pensiero è nel puro territorio della ragione umana, non in quello di una qualche sostanza storica già presupposta del giudaismo (benché ci si presenti, e non potrebbe essere diversamente, del tutto iscritto in tale sostanza). Nulla vi scorgiamo di una pretesa che poté essere avanzata dai suoi antenati nel corso di tremila anni. Ammettendo il presupposto che ogni uomo si lega alle sue origini, e manifesta un certo favore per i suoi antenati, sia nei giudizi di valore che nell’atteggiamento generale, si deve riconoscere che tutto questo manca in Spinoza. Egli non fu sensibile alle cifre dell’idea dell’elezione e del patto, come qualcosa che si possa pretendere per sé e non per gli altri.

Sembra che la pienezza storica, costitutiva della ricchezza e della profondità spirituale di cui si nutriva, sia divenuta invisibile alla sua coscienza. Combattendo in Maimonide il condizionamento della filosofia, ovvero qualcosa che in nulla si identifica con l’attaccamento al giudaismo, Spinoza non ha indirizzato il corso del suo pensiero verso questo punto. Nel suo straordinario radicalismo filosofico, tuttavia, Maimonide si riferisce sempre agli ebrei credenti come tali (Leo Strauss). Si basa sul presupposto che la Bibbia sia razionalmente comprensibile (e dunque necessita di essere intesa in quel senso allegorico che Spinoza respinge); inoltre, per Maimoide, si può intendere attraverso la ragione l’esigenza di una rivelazione poi interpretabile razionalmente. In tutto il suo pensiero Maimonide non dubita mai della rivelazione, verso cui nutre una fede costante. Dunque compiva quello che Averroè, fedele al Corano, e Anselmo, di fede cristiana, avevano compiuto per parte loro: ovvero rinvenire la ragione nella fede rivelata. «Nato ebreo tra gli ebrei, Maimonide svolge la sua argomentazione restando legato alla vita ebraica e per i suoi correligionari». Se Maimonide svolge una critica della rivelazione basandosi su di essa, la critica di Spinoza si basa sulla ragione che ha la sua certezza di Dio ed è innata in ogni uomo. Inoltre, Spinoza condusse la sua critica senza presupporre la rivelazione come fa il credente, bensì facendone valere il carattere storico e la funzione politica. Spinoza convoca tutte le cose umane, il cristianesimo, lo Stato, nonché il giudaismo, davanti alla suprema istanza giudicativa: davanti alla ragione filosofica. 5. Giudizi su Spinoza come ebreo. L’amore e il rispetto profondo che Nietzsche tributò a Spinoza non gli impedirono di criticarlo: «Nel Dio degli ebrei covava l’odio ebraico»; del quale non c’è in Spinoza la più piccola traccia. Non odiò né amò gli ebrei, come non amò gruppi o popoli in generale, ma solo Dio e gli uomini in quanto tali. Un autore tedesco che da giovane tradusse accuratamente l’Etica spinoziana, quando i nazionalsocialisti lo fecero professore universitario, nella sua prolusione affermò che nel mondo esisteva soltanto una filosofia «ariana». Un altro professore di filosofia scrisse

allora di Spinoza che il suo pensiero era un insieme di idee simili a quelle degli usurai ebrei. Il bando decretato dalla Sinagoga (e si devono leggere le terribili maledizioni che vi sono espresse) ebbe come conseguenza il ripudio di Spinoza da parte degli ebrei ortodossi. Ma è notevole che un professore di filosofia tedesco, Hermann Cohen, non giudicò diversamente Spinoza. Per Cohen il bando di Spinoza è interamente giustificato «anche senza considerare la preoccupazione di proteggere la comunità da un tipo d’uomo ben noto nella storia delle persecuzioni ebraiche, cioè contro il delatore». Infatti, Spinoza resta «l’autentico accusatore del giudaismo di fronte al mondo cristiano». Egli «ha rifiutato la religione natìa, presentando come condannabile la sua stessa stirpe». Con lui si compie «la distruzione della religione donde proveniva». Egli pose Gesù Cristo sopra Mosè (Spinoza non lo ha mai affermato esplicitamente; Cohen ha dovuto sollecitare i testi). L’influenza di Spinoza è terribile. Nel XIX secolo, «le orge dell’odio contro gli ebrei sarebbero inspiegabili se il cattivo demone di Spinoza non avesse avvelenato dall’interno e dall’esterno tutta questa atmosfera». Cohen si è fatto il nuovo prototipo dell’ebreo che odia Spinoza. Desta meraviglia che un filosofo meritevole come Franz Rosenzweig abbia condiviso questo giudizio su Spinoza, benché moderandolo. Gli ebrei non vincolati dall’ortodossia, orgogliosi di quel grande ebreo, la pensano in genere in modo completamente diverso. Nel trecentesimo anniversario della scomunica spinoziana (1956) sembra che sia stato inviato da Israele all’Aia un blocco di granito con questa iscrizione: «Dein Volk» («Il tuo popolo»). Spinoza si sarebbe stupito, non avendo mai pensato in modo popolare. Nessun popolo, nessuno Stato, può rivendicare per sé un uomo del livello di Spinoza. Certo un ebreo può avvertire che probabilmente solo dall’ebraismo si poteva generare un uomo come Spinoza. E un olandese può certo inorgoglirsi del fatto che Spinoza abbia sentito il suo impulso alla libertà come proprio dello spirito olandese e che abbia potuto vivere grazie a questo Stato. Ma i grandi uomini si possono soltanto reclamare, non possedere. Ci si può chiedere se popoli e nazioni abbiano qualche diritto sui grandi

nati presso di loro. La risposta dipende dal riconoscimento dell’unità di misura che è costituita da questi grandi come appartenenti a un popolo.

IX. CARATTERIZZAZIONE CRITICA DELLA FILOSOFIA DI SPINOZA

a) Sguardo sulla filosofia e l’essenza di Spinoza 1. Razionalismo. Spinoza si mostra come il più perfetto razionalista, ma certo è strano che se presso di lui il pensiero logico necessitante esprime l’assoluto e, come atto, costituisce la realtà autentica, poi tale pensiero si traduca in un amor intellectualis dei e nella beatitudine stessa. Questo è ancora libertà dalle passioni che, ivi illuminate, cessano di essere tali. Questo pensiero non si appaga nei termini di un pensare finito che coglie gli oggetti intesi come modi, ma si verifica come ragione nel terzo genere di conoscenza, ovvero nella libera speculazione di un conoscere che, intuendo, ama. Un tale pensiero non poteva mantenersi nella forma logica necessitante, come superficialmente appare. Spinoza ha oltrepassato il pensiero, se per questo si intende unicamente l’operare in modo universalmente valido, con concetti rigidamente determinati. Il suo pensiero è una forma nuova dell’antichissima contemplazione filosofica che è un interno agire che segna l’uomo intero. La forma della sua certezza fondamentale, che si verifica nel dimostrarsi attraverso la ragione, e che noi abbiamo già imparato a conoscere, può essere ancora una volta espressa con le parole di Spinoza. «Una volta raggiunto il possesso di una dimostrazione certa, non posso più supporre che potrei ancora dubitarne. Così mi appago

interamente in quello che mi presenta l’intelletto, senza per nulla preoccuparmi di potermi essere ingannato… E anche se un giorno dovessi scoprire che il frutto del mio intelletto naturale era falso, sarei felice lo stesso, perché mi impegno a trascorrere la mia vita non nella tristezza e nei sospiri ma nella tranquillità, nella gioia e nell’allegria, cosicché mi vado gradualmente elevando. Inoltre riconosco (cosa che dà alla mia anima la più grande soddisfazione e tranquillità) che ogni cosa accade per la potenza dell’essere supremamente perfetto e secondo il suo immutabile decreto» (Ep21, p. 1937). Spinoza vive e pensa a partire dalla sua certezza fondamentale della realtà attuale di Dio intuitivamente presente nella conoscenza del terzo genere come la sola e unica realtà onniabbracciante. Da questa vera realtà Spinoza percorre nel mondo tre vie: una che conduce alla conoscenza metafisica, una all’esistenza personale, e un’altra all’ordine dello Stato. Spinoza sviluppa il sapere fondamentale comunicabile sulla totalità dell’essere, su Dio e il mondo e sull’uomo nel linguaggio del secondo genere di conoscenza. Con la sua ricerca sugli affetti degli uomini trova la via per la liberazione dagli stessi affetti, la felicità e la salvezza che l’uomo può conseguire attraverso la pura intellezione. Circa la realtà di fatto della comunità umana, egli studia lo Stato e la religione rivelata, avendo presente come suo ideale una forma razionale che assicuri il libero svolgimento di tutte le possibilità umane. 2. L’indipendenza propria della sua filosofia. Spinoza ha vissuto in prima persona questa conoscenza della ragione che si autointende. È l’unico dei grandi filosofi del XVII secolo ad aver fondato tutta la sua vita sulla filosofia, senza la garanzia aggiunta da un’autorità o da una fede rivelata e senza ambigui compromessi con le potenze del suo tempo. Spinoza fu il grande uomo veramente indipendente che, rappresentando in sé l’Occidente, trovò nella filosofia quello che gli uomini di chiesa dichiaravano essere la loro fede. In lui si compì di nuovo l’autonomia del filosofare che, essendo una fede, non ricorre alla fede ecclesiastica. Tale filosofia è una «religione filosofica», così chiamata in opposizione alla religione ecclesiastica. In tal senso, furono religione sia la grande filosofia dell’antichità che tutta la metafisica. Tuttavia, utilizzando questa parola, non si deve dimenticare che la religione filosofica non ha culto, preghiere, istituzioni e chiese, non ha nessuna Sacra Scrittura. L’espressione

«religione filosofica» significa, come l’espressione «fede filosofica», avere a che fare con un pensiero con cui e per cui l’uomo filosofo vive, così che ogni suo fare, incontrare, conoscere si situa in questo orizzonte, si illumina da tale origine per essere appreso e giudicato. Pascal ha scritto: «È impossibile che Dio sia mai la fine della filosofia se non ne è anche il principio». Questo vale anche per Spinoza. Egli pensa nell’origine avendone una prioritaria certezza; pertanto non si solleva sul mondo (con una ricerca che arriva al limite) per pensare il fondamento. Ancora, è per questo che quanto si mostra all’uomo in una luce ambigua, quale cifra dell’essere, non si rivela a Spinoza neanche nelle situazioni-limite. Prima di ogni possibile ricerca sulle cose e di ogni esperienza delle situazioni-limite distruttive, egli si trova già al sicuro nella vera realtà onniabbracciante di Dio. Questa religione filosofica di Spinoza, attraverso la certezza di Dio, porta tranquillità, gioia e armonia con tutto ciò che è. «In quanto noi comprendiamo che Dio è la causa della tristezza, pertanto noi gioiamo» (E5P18S, p. 1577). Il distacco, che nulla persegue, nasce dalla coscienza della necessità. L’amor intellectualis dei genera l’amor fati di Nietzsche: non volere altro e ancora altro se non ciò che è. Non troviamo mai in Spinoza traccia di una lotta interiore. Già dal principio, dalla sua prima affermazione, egli ha conseguito la sua straordinaria tranquillità e la purezza dell’anima, la libertà da ogni scopo nello stesso volere. La filosofia di Spinoza indica l’autoaffermazione dell’individuo attraverso la sua certezza di Dio, l’indipendenza dal mondo con il rifugiarsi nel fondamento delle cose. Questa autoaffermazione non è un individualismo inteso come piacere per il proprio particolare esserci, non presenta alcuna inclinazione per le riflessioni egocentriche, bensì è la più libera dedizione razionale di se stessi a Dio. Non si deve intendere neanche come la chiusura del proprio esserci davanti alla realtà di fatto della comunità umana, ma un interesse nei suoi confronti identico – ma non superiore – a quello per il proprio esserci. Il pensiero per la salvezza individuale e il pensiero politico sono strettamente legati, ma qui non si trova un culto della personalità o un culto dello Stato. Lo sguardo sulle realtà di fatto dell’esserci è freddo, scaturendo dall’amor intellectualis dei che non consente di sostituire Dio con nient’altro, né tollera il venir meno dell’ordine gerarchico delle realtà, bensì, al contrario,

ha sempre presente le cose stabili ed eterne, la vera realtà suprema onniabbracciante. 3. Prudenza e solitudine. In primo luogo la filosofia di Spinoza fu prassi di vita. Questo è testimoniato già dalla motivazione data da giovane sulla decisione di dedicarsi alla filosofia, nonché dal titolo della sua opera principale, l’Etica. La profondità di tale prassi di vita è stata oggetto della nostra esposizione. Vi si rintracciano elementi non originari, ma conseguenti al contatto mondano. La prudenza: nel sapere sul mondo, nell’amore per Dio che suscita ogni sua manifestazione agli occhi dell’uomo, nella sua benevola inclinazione per ogni uomo che incontra, Spinoza nutre tuttavia una profonda sfiducia; infatti sa che cosa accade di regola nel mondo. Da qui deriva la sua prudenza, senza superbia né rimproveri, ma come necessità della vita razionale adeguata alla realtà di fatto. Spinoza non è generoso né avaro con la sua attività, intendendo, ragionevolmente, chiudere la via alla negligenza che genera le rovine umane. Rinuncia del tutto alla gloria. Allora una semplice attività accademica di insegnamento era sufficiente per esporsi a grandi pericoli; quindi vi rinunciò. Rimandò la pubblicazione delle sue opere, ma scrivendole senza fretta, nella speranza che attraverso di esse si estendesse nel mondo il dominio della ragione e ne fossero accresciute le effettive possibilità. Non eremita, ma solitario: Spinoza è stato considerato un eremita. Gli studi di quest’ultimo mezzo secolo hanno smentito questa leggenda. Spinoza non solo è vissuto avendo molte relazioni amichevoli, prossime e distanti, a contatto con il grande mondo spirituale dell’Europa del suo tempo, ma inoltre si interessò di attività politiche. Non era eccentrico, presentandosi sempre con naturalezza, spontaneità e nobiltà. Ovunque andasse si faceva amare oltre che rispettare. Le cose cambiano se lo si definisce un solitario. Filosofando presso Dio stesso, non inserito nell’ordine dei nessi mondani, aveva conquistato il suo «punto di vista dall’esterno». La sua certezza di Dio, da una parte, gli conferiva una perfetta autonomia interiore, dall’altra, manteneva molti contatti umani che lo soddisfacevano senza privarlo della solitudine. Per tale atteggiamento Spinoza ci sembra privo di quella forza d’amore che unisce gli uomini come esseri insostituibili e dona valore assoluto all’ingresso nella storia di uomini che condividono nella vita un unico destino. In primo luogo

Spinoza era se stesso. Pensava e si rappresentava l’universale, il freddo dominio del pensiero che riempie per intero l’animo umano, il dominio dell’amor intellectualis dei, che costituisce la sua stessa vita nella forma più alta, nella ragione. Si dovrebbe pensare a Spinoza, nel conversare con gli uomini, in modo molto diverso, ad esempio, da un Kant o da un Max Weber. La sua tranquillità quasi sovrumana doveva elevare l’animo di chi l’ascoltava. Senza turbamenti, in ogni situazione, Spinoza avrebbe parlato dal terreno della verità eterna. Invece che consegnarsi davvero alla realtà attuale del destino, piuttosto l’avrebbe fatta dissolvere nell’inessenziale. Egli si sarebbe seduto in silenzio davanti al nostro senso di ribellione sempre crescente contro il destino. È allora che noi avremmo sentito la nostra silenziosa ribellione contro il destino. 4. Né modello né eccezione. Spinoza volle essere un esempio e un modello? Non c’è traccia di questa sua pretesa. Forse intese tracciare la via per il futuro? Egli non svolse il suo pensiero seguendo prospettive di riforma della storia universale. Volle vivere e agire nella ragione, senza conoscerne le conseguenze. Allora si autorappresentò come un’eccezione, avendo dovuto subire un destino avverso, determinato dal conflitto del suo stesso essere con la realtà esistente? Nemmeno questo. Spinoza era certo del carattere naturale e normale della sua vita e del suo pensiero. Tutta la sua attività appare come quella di una natura sana, senza scosse o crisi psicologiche, lontana da una riflessione infinita che svuota la mente, non segnata dalla disperazione davanti al nulla (la sua malattia, la tubercolosi, era soltanto fisica e ha potuto far terminare prematuramente il suo esserci senza toccare minimamente la sua essenza). Certo dovette conoscere gli affetti e le turbe della ragione di cui trattava con tanta esperienza, ma come qualcosa che svanisce grazie alla luce. 5. Le idee che Spinoza accolse dagli altri. Si può indicare la fonte da cui derivano quasi tutte le idee di Spinoza. Dallo stoicismo apprese l’atteggiamento fondamentale dell’indifferenza fondato sulla ragione, dalla Bibbia l’idea del Dio unico, dalla scolastica concetti come sostanza, attributo, modo, natura naturans e natura naturata, da Giordano Bruno l’infinità del mondo, da questi e da Leone Ebreo la dottrina dell’eros, da Bacone il metodo empirico e il rifiuto dei pregiudizi, da Descartes la distinzione di estensione e pensiero e il rispetto per la matematica intesa come certezza, da Machiavelli e da Hobbes l’idea dello Stato. Può sembrare che tutto il pensiero di Spinoza si

possa dedurre dalla storia precedente. Tuttavia l’originarietà del suo pensiero non sta unicamente nell’autenticità delle singole idee, bensì anche nel grandioso carattere sorgivo di un’opera attraverso cui combinò e trasfigurò tutti gli elementi razionali determinati che vi confluivano, in un linguaggio in cui trova espressione la sua sostanza unica. La totalità complessiva di questo pensiero, il sapere fondamentale, è presente già dal principio. Uno sviluppo c’è solo nell’esigua modificazione delle figure di pensiero, nell’arricchirsi dell’analisi e nell’opera di chiarificazione e di purificazione. L’insieme totale non conosce fratture né rivolgimenti. Affermando che la novità da lui introdotta sta nel fatto che la ragione umana non si fonda che su se stessa, tuttavia dobbiamo ammettere che ciò si trova realizzato già da molto tempo in quel che si chiama «scienza», «critica», «incredulità», che caratterizza il «Rinascimento». Spinoza, però, non condivide molto con questo spirito di indipendenza aggressiva, spesso molto povero di convinzione. Al contrario, Spinoza riprende e porta avanti l’opera dell’antica ragione filosofica che si rinnova facendosi ragione metafisica costruttiva sotto forma di scienza moderna e di critica. Il senso e lo scopo della conoscenza, secondo Spinoza, non consistono nella molteplicità delle esperienze da compiere e nel dominio sulle cose attraverso la tecnica (Bacone); non consiste neanche nel rendere la natura intelligibile attraverso la matematica (Galilei); non nello Stato (Hobbes); né nella certezza in quanto tale (Descartes); ma consiste, al contempo, in tutto questo messo al servizio di un’unica cosa da cui tutto dipende, la certezza di Dio e la vita pratica volta al compimento del vero bene. Per comprendere Spinoza non si deve fare confusione. Il suo terreno non è quello della scienza moderna, di cui in realtà ignorò il senso e il metodo (benché alcune delle sue intuizioni fondamentali potevano dare un forte impulso a queste scienze, come il suo sapere circa il carattere proprio della conoscenza dei modi imprevedibilmente sconfinati, conoscenza che si svolge in un processo infinito e inesauribile, o come la sua esigenza di libertà da ogni valore). Spinoza non era uno scienziato e non aveva la straordinaria capacità di sapere dei dotti. Non comprese l’autentico carattere della scienza matematica della natura, e pertanto lo ignorò. In nessun modo Spinoza fonda il suo filosofare sulla matematica, anche quando per la sua esposizione ricorre a un presunto metodo matematico. Non lo riguarda neanche quello spirito di costruzione che rende un Hobbes e un Leibniz così pieni di creatività e di

capacità sistematica. Se tutti questi pensatori gli forniscono indizi, egli li utilizza sempre per la sua metafisica. La sua grandezza consiste nell’originalità di tale metafisica, che fa tutt’uno con la sua vita. Spinoza concepisce la necessità in un complesso di concetti razionali al servizio dell’intuizione, propria del suo terzo genere di conoscenza. È l’unico grande metafisico dell’età moderna, unico è il suo stile nella vita e nell’opera, semplice, chiaro e convincente, ma inimitabile.

b) I limiti di Spinoza 1. Le critiche erronee. È stato affermato che Spinoza fosse un propagandista pagato al servizio di Jan de Witt, un’accusa senza senso che non merita alcuna considerazione. Si è visto in Spinoza un filosofo naturalista, ateo, amorale e precursore della visione del mondo marxista. Per Spinoza, però, la natura non è quella della fisica matematica e meccanica moderna, né quella organica teleologicamente strutturata e neanche un mondo demoniaco e simpatetico; la natura di Dio è pensata come natura naturans, da cui trae il suo senso l’espressione «deus sive natura», laddove il concetto principale è quello di «deus». Il pensiero di Spinoza è tanto poco un ateismo che Hegel lo nominò piuttosto come acosmismo, in quanto tutto è in Dio e non residua più un mondo autonomo vero e proprio, già creato e perfino indipendente da Dio. L’amoralismo, che è un fraintendimento della freddezza con cui considera le realtà naturali e la vera realtà di Dio al di là del bene e del male, non può dirsi conveniente a Spinoza, nel quale la vita e l’opera furono piuttosto infallibilmente sorrette dalla vivente moralità della ragione naturale. Si è voluto affermare che il pensiero politico di Spinoza fosse interessato soltanto alla sicurezza dei filosofi e cominciasse con questo problema: come devono pensarsi ed essere effettivamente costruiti Stato e religione affinché sia resa possibile la vita privata del saggio senza che sia importunato? Ma questa poteva essere, tutt’al più, la visione dello Stato degli epicurei e degli scettici, non certo di Platone o di Spinoza. Costoro non volevano garantita la sicurezza del filosofo quando affermavano la separazione della filosofia dalla politica e suggerivano al filosofo di allontanarsi dal mondo (se non per un certo tempo e in certe circostanze). Il loro maggior interesse è una politica filosofica, contrapposta alla politica cieca, in cui pensano a tutti gli uomini e

al modo in cui possono conseguire il loro posto e il riconoscimento del loro diritto in base alle doti personali, all’intelligenza e all’affettività. L’impulso di questi filosofi, frainteso come volontà di sicurezza per i saggi (affidata alla prudenza personale), mira piuttosto a favorire la ragione nel mondo. Un’altra critica dice: l’«essere» di Spinoza sarebbe avvicinato in una rigidezza geometrica in forza della quale si trascura il tempo, confinandolo alla mera parvenza. Pertanto la natura sarebbe concepita con la matematica e nella meccanica secondo formule intemporali, negando quindi il divenire nonché la Storia. Al contrario, si è attribuita a Spinoza una intuizione dinamica del mondo, per cui ogni cosa sarebbe per lui un tendere, una potenza, una permanenza nell’essere e un’autoespansione, una volontà di autoaffermazione, ma sempre nell’intreccio del mondo dei modi che si modificano in perpetuo. Sono tesi di cui l’una esclude l’altra. Entrambe colgono nel giusto, ma non riguardano la sostanza della filosofia, bensì un unico momento particolare della sua totalità. L’errore di questa critica consiste nel prendere le semplici figure di pensiero come verità definitive, senza cogliere la funzione che hanno per il sapere fondamentale del filosofo. Il pensiero complessivo di Spinoza, benché sistematico, non trova adeguata esposizione in un sistema. Estraendone una visione sistematica del mondo, senza riguardo al resto, non sarà difficile «confutarlo». In tal caso, si prende come fatto oggettivo e come affermazione assoluta, e si tratta come sapere oggettivo e finito, quello che in sé è filosofia. 2. I limiti della ragione conoscibili attraverso la ragione stessa. Il limite di Spinoza è quello stesso della ragione. Poiché non sembra aver scorto i limiti propri della ragione, la vera realtà nel suo complesso poteva restargli estranea. È questo il motivo più profondo della critica che si può muovere a Spinoza. Il limite della ragione può essere conosciuto dalla ragione stessa. È vero che Spinoza sembra giungere alla visione di tale momento parlando dell’infinità dei modi, nel senso che noi non conosciamo mai l’insieme sconfinato dei nessi finiti e che molte cose, anzi quasi tutte, ci rimangono incomprensibili nella loro particolarità. Tale ignoranza, però, è solo una conseguenza della finitudine. La conoscenza sarebbe sostanzialmente possibile perché ogni cosa, provenendo da Dio, è razionale. Inoltre sembra che Spinoza abbia una visione ancor più chiara che oltrepassa la ragione, quando vede tutta la nostra ragione all’interno della

necessità divina e in quanto, secondo lui, la nostra ragione umana si lascia andare impotente alla necessità dell’intera natura, necessità che non può penetrare. Anche tale necessità, tuttavia, è ovviamente presupposta da Spinoza come divina e razionale. Solo al nostro intelletto finito qualcosa può apparire come irrazionale. Il Dio onnicomprensivo non è un abisso oscuro; non è accessibile per noi attraverso le tenebre, ma solo grazie alla luce della stessa ragione che, se potesse superare i limiti che la legano alla finitudine dei modi, concepirebbe tutto come ragione. La nostra ragione umana non è altro che la ragione divina, ma in una situazione di limitazione. Anche la nostra ragione è naturale come un momento della natura naturata, ma non è ricompresa, minacciata o limitata da qualcosa di superiore alla ragione, come da una divinità che le si presentasse in modo da costituire non solo la sua fonte, ma anche la fonte di ogni altra cosa. Per Spinoza, invece, la dignità è la ragione stessa. La sua coscienza di Dio non trascende la ragione. A questo si riporta la fede spinoziana nell’assolutezza della ragione, in quanto egli vive attendendo il momento in cui tutti gli uomini dovranno necessariamente concordare nella ragione. Tale presupposto è grandioso e magnifico ma vale unicamente (giustamente e indefettibilmente) per la prassi del nostro cercare e non per la visione che mira all’insieme totale dell’umanità. Inoltre, l’assolutismo razionale di Spinoza contiene la pura gioia senza il desiderio conferito dall’immedesimazione con Dio. La libertà, per Spinoza, è libertà degli affetti, chiarezza pura e incondizionata che coincide con la beatitudine. La libertà non è decisione né fondamento del nostro destino. A questo si lega infine il rifiuto per ogni meraviglia ai fini della conoscenza. L’uomo razionale cerca di comprendere le cose nella natura «come un dotto» e non «come uno stolto» che se ne stupisce. «Quando l’ignoranza finisce, finisce anche lo stupore» (E1Ap, p. 1215). Il ricorso allo stupore diviene dannoso se conduce l’uomo a sottomettersi ciecamente all’autorità, al miracolo, alle forze sovrannaturali. 3. La mancanza del senso della personalità e della storicità. Cosa c’è ai limiti della ragione, che Spinoza non scorge? a) Spinoza non trova una risposta alla questione: perché esistono gli individui? Infatti, ricorrere alla categoria delle conseguenze eterne che provengono da Dio (come l’angolo consegue dal triangolo) non significa rispondere, ma solo constatare lo stato di fatto del legame che congiunge gli

esseri individuali alla loro origine. Il paragone delle conseguenze vale solo a indicare quello che il pensiero non può comprendere, ovvero il salto del logos nella vera realtà. L’individuo – semplice modo – si dissolve come qualcosa di inessenziale nella misura in cui è pensato sub specie aeternitatis. Se l’idea fondamentale è: omnis determinatio est negatio, allora si può dire che questa esprima la verità della nullità degli esseri individuali, lasciando però anche la possibilità di affermare falsamente che la stessa esistenza non abbia alcun significato eterno in virtù del carattere insostituibile della sua realizzazione. Rinunciando all’individualità non va smarrita anche la coscienza del valore insostituibile dell’esistenza (e quindi anche della sua autentica realtà nello stesso Spinoza)? La grande liberazione dalle limitazioni dell’individualità potrebbe ingannarci, portandoci a trascurare l’esistenza nella sua storicità, in quello che c’è di eterno nel suo stesso destino. L’idea dell’eternità e dell’immortalità dell’anima è concepita da Spinoza in modo non molto diverso da quella dell’immortalità della ragione impersonale in generale (dell’intellectus agens di Averroè). b) Spinoza, cancellando il tempo, abolisce la storicità. L’infrangersi del mondo nell’enigma del tempo, la profondità della Storia come tale, l’oscurità irrischiarabile che giace al fondo delle cose, tutto questo, in Spinoza, svanisce. La necessità assegnataci, di raggiungere la trascendenza unicamente attraverso la storicità, dato il nostro esserci nel tempo, il senso della Storia come processo che nel tempo non può compiersi, scompaiono sotto il peso dell’esistenza che si perde nella divinità. Sembra che ci sia solo eternità e non tempo, solo Dio e non mondo. Il peso dell’azione determinata dal destino va così perduto e di essenziale non rimane che l’attività interiore nello slancio dell’amore per Dio. Spinoza sente la necessità ma non l’incertezza, il compimento e il naufragio che avvengono nella quotidiana storicità dell’esistenza. Il tempo è semplicemente cancellato, non già custodito in una figura essenziale alla coscienza dell’eternità. La storicità deve esulare da una vita che trova nella metafisica inizio e compimento, senza rintracciare alcun essenziale fondamento stabile nella realtà temporale. La storicità resta esclusa se l’attività si limita al mondo dell’intelligibile, senza essere intesa come una grande volontà che agisce in una grande opera, e senza l’esperienza del grande rischio della ragione stessa come destino storico. Per questo Spinoza non è attratto da quella profondità e

da quella grandezza ancora oscure (come nei profeti ebraici) e ha bisogno di osare tutto, di sacrificare tutto. Completamente preso nella mera ragione come tipo dell’essere umano e di ogni essere in generale, Spinoza non sa scorgere la passione per la notte che gli appare esclusivamente nell’aspetto dell’affetto senza intellezione. Non volge mai lo sguardo al male. Spinoza non ha soltanto respinto la reale attesa del Messia e quella conseguente del ritorno di Cristo come rappresentazione religiosa inaccettabile da parte della ragione filosofica, ma anche la cifra del pensiero messianico. Non conosce nessun entusiasmo che spinge a operare attivamente per la trasformazione del mondo. Non conosce speranza per un mondo migliore che dipenda dalla responsabilità dell’uomo. Chi vive nell’eternità non vive nel futuro. Dio è immutabile e anche i suoi effetti sono eterni. Immutabile è l’esserci dei modi infiniti, benché tutti i modi finiti mutano senza sosta nel permanere identico del tutto. c) Spinoza non conosce le situazioni-limite. Ignora l’abisso del terrore, la disperazione del nulla, la lotta con Dio, la violenza dell’assurdo, intesa come una possibilità positiva che si rivela alla stessa ragione, il mistero che si cela in modo assoluto. Spinoza trova la sua tranquillità nell’estensione della positiva realtà di Dio. Dio, però, è visto solo come ragione e dalla ragione che, riducendo ogni orrore e ogni disperazione a mere idee inadeguate, cancella tutto quello che è irrazionale, antirazionale, o sovrarazionale, e che però non smette di tormentarci. Così, la sua certezza che mira al fondamento di tutte le cose può sembrare una limitazione dell’orizzonte, ovvero può apparire come un vagare verso l’irraggiungibile. Nelle situazioni-limite è presente un senso diverso dell’essere umano che si offre al dolore, che non vuole sottrarsi e avverte come un tradimento l’eliminazione degli affetti. Invece, Spinoza, in tutta freddezza, può affermare di un fatto come il suicidio «che questo è sempre un atto di un animo impotente vinto da cause esterne contrarie alla sua natura» e può anche dichiarare con perfetta certezza: «Che l’uomo, in conseguenza della necessità della sua natura, possa aspirare a non esistere oppure a mutarsi in altra forma, è una cosa tanto impossibile come che dal nulla si produca qualcosa» (E4P20S, p. 1465). d) In Spinoza, la felicità dell’esistenza è priva di ogni egocentrismo ma anche priva dell’angoscia della decisione. Egli vive nella verità della realtà di Dio e di conseguenza nella fiducia del suo essere se stesso, ma senza averne

consapevolezza. Contro Spinoza si leva la domanda: è forse l’inquietudine, assegnata all’uomo, fondata unicamente sulla finitudine dell’essere modale o sulle rappresentazioni inadeguate? Oppure non esiste un’inquietudine completamente diversa che riguarda la vera presenza dell’eterno nella storicità del nostro esserci? La perfetta tranquillità di Spinoza non si ottiene forse con il sacrificio di tale inquietudine, un sacrificio proprio dell’esistenza temporale in quanto riferito a Dio, nonché con la perdita della coscienza di una decisione eterna nel tempo? Non è forse lo splendore dell’essere impersonale tanto impressionante quanto pure pericoloso per questa filosofia della necessità assoluta? e) Spinoza, non avendo la coscienza della storicità, non possiede neppure la consapevolezza del carattere storico delle sue figure di pensiero. Poiché crede di aver pensato l’unica verità assoluta e necessaria nel suo aspetto eterno e universalmente valido, egli è un dogmatico. Per noi la verità di Spinoza non sta nell’intuizione delle sue dogmatiche figure di pensiero. Si tratta pur sempre di cifre storiche che emettono una luce unica e che ci sono divenute indispensabili, ma non hanno valore oggettivo assoluto.

X. L’INFLUENZA DI SPINOZA Quanto può persuaderci non è il contenuto astrattamente pensato, bensì la vera realtà vissuta in tale pensare. Nella sua opera, quel che ci parla non è la soluzione dei vari problemi determinati, ma la forza dell’accertamento filosofico. L’influenza di Spinoza, come il filosofo che in realtà fu, non ha eguali in nessun altro filosofo dell’età moderna. Nessun altro ha attirato simpatia così fervida e un odio tanto feroce. Nessun nome ha goduto di tale straordinaria risonanza, nessun altro è stato tanto offeso e tanto amato, sia dai cristiani che dagli ebrei. Quasi fosse una figura mitologica, Spinoza non può lasciare indifferente nessuno che lo conosca, in quanto ogni espressione di indifferenza nei suoi confronti cela un’aggressività che nasconde un tentativo di difesa. Spinoza non ha avuto alcuna «scuola». Non si sono avuti spinozisti tra i professori universitari, come si ebbero cartesiani e leibniziani. Tuttavia è stato respinto con ferocia per mezzo di insensati atti di ingiustizia e di incomprensione, soprattutto da parte del Bayle che ha sfigurato per lungo tempo la sua immagine. Spinoza fu l’«ebreo sospetto» (Leibniz), il «miserabile ateo», uno «spirito malvagio», una «ridicola chimera» (Malebranche). Fino alla seconda metà del XVIII secolo quasi tutti quelli che ne pronunciavano il nome si preoccupavano di protestare contro di lui. Nessuno, tranne poche eccezioni, voleva essere messo in connessione con Spinoza. Ancora nel 1767 Brucker parlava del «vergognoso successo dell’ateismo di Spinoza». Spinoza ebbe successo in primo luogo presso alcuni pastori della Chiesa riformata di Olanda, alcuni mistici, nonché artigiani, in un «movimento che ha agitato gli olandesi e turbato la Chiesa, le cui ripercussioni si estendono fino al XIX secolo» (Freudenthal). Ancora nel 1862 si ebbe notizia in Olanda di certi circoli segreti dove «la mistica spinoziana era l’unico conforto dell’anima». Tuttavia, la grande influenza di Spinoza si verificò nella filosofia e nella poesia tedesche. Lessing, Herder, Goethe, diedero a Spinoza una posizione di

altissimo rilievo. Dice Goethe: «Mi sento molto vicino a lui, benché il suo spirito sia molto più profondo e più puro del mio» (1784). «La figura di questo mondo passa, io vorrei occuparmi soltanto di quello che esiste in rapporti stabili, e così, secondo la dottrina di Spinoza, dare al mio spirito l’eternità» (da Roma, nel 1787). Nel 1817 nomina ancora Shakespeare e Spinoza come i due autori che hanno esercitato l’influenza maggiore su di lui. Spinoza gli avrebbe donato «tranquillità e chiarezza», trovandovi «una sconfinata assenza di egoismo». Kant fu molto poco colpito da Spinoza, che quasi non conobbe. Tuttavia, la filosofia tedesca ebbe sollecitazioni di uguale intensità, dopo Kant, sia da questi che da Spinoza. Jacobi (1785) vide in Spinoza la filosofia nelle sue ultime conseguenze, che solo così mostra i suoi errori e i suoi limiti. In senso positivo, Lichtenberg affermò lo stesso: «La religione universale sarà uno spinozismo purificato. La ragione lasciata a se stessa non può condurre altrove» (1801). Fichte fu affascinato dal sistema, dal metodo della deduzione rigorosa. Egli stesso, contro Spinoza, ha pensato seguendone il modello: «Esistono solo due sistemi conseguenti, quello critico e quello spinoziano». Il sistema critico riconosce i limiti dell’«io sono», quello spinoziano li travalica. Schelling vide in Spinoza l’ultimo filosofo a occuparsi degli autentici grandi problemi della filosofia, dimostrando sempre ripetutamente il più grande rispetto per la sua vita. Hegel ritenne la filosofia di Spinoza come assolutamente indispensabile: «Il pensiero deve una volta porsi dal punto di vista dello spinozismo. Questo è l’inizio essenziale di ogni filosofare». «O spinozismo oppure niente filosofia». La filosofia dell’idealismo tedesco, animata da Spinoza, si è svolta contro di lui. Ulteriori influenze di Spinoza, senza importanza filosofica, si rinvengono nelle conseguenze della sua scienza biblica. I teologi che hanno dato alla ricerca storica della Bibbia uno sviluppo davvero grandioso, raramente hanno fatto riferimento a lui. Un altro punto in cui si può parlare appena dell’influenza spinoziana è questo: il fisiologo Johannes Müller aveva inserito con ammirazione nel suo Manuale di fisiologia umana, a suo tempo celebre (1833-1840), la traduzione della dottrina degli affetti di Spinoza, senza però proseguirne l’analisi. E non si può neppure parlare di un’influenza di interesse filosofico ricordando che la psicologia del XIX secolo si è falsamente richiamata a Spinoza

per la dottrina del parallelismo tra i fatti del corpo e quelli dell’anima.

BIBLIOGRAFIA

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Indice SPINOZA (Frontespizio) Introduzione di Gianpaolo Bartoli Avvertenza Note SPINOZA I. VITA E OPERE II. FILOSOFIA E VITA PRATICA III. LA VISIONE METAFISICA a) Sostanza, attributo, modo b) Dio c) I due attributi: le domande di Tschirnhaus d) I modi e) Il tempo; la necessità f) Il salto tra Dio e mondo e la questione della loro unità IV. TEORIA DELLA CONOSCENZA a) I gradi della conoscenza b) Idee c) Relazione a Dio d) L’esposizione spinoziana della sua intuizione secondo il metodo geometrico e) Mistica, razionalismo, pensiero speculativo V. L’UOMO a) L’uomo non è sostanza, ma modo b) Pensiero umano e divino c) L’uomo è spirito e corpo d) L’uomo, l’animale e la differenza umana e) Immortalità ed eternità VI. LIBERTÀ DALLO SCOPO E DAL VALORE a) Scopi e valori sono pregiudizi che sorgono dal rovesciamento dell’idea di Dio b) Il nostro intelletto limitato come un modo (due metafore) c) Realtà e valore d) Lo scambio subitaneo tra i due modi di conoscenza e) L’ethos della libertà dal valore

VII. SCHIAVITÙ E LIBERTÀ DELLO SPIRITO a) La dottrina degli affetti b) Descrizione della schiavitù c) L’idea e le possibilità della libertà VIII. RELIGIONE E STATO A) L’idea spinoziana dello Stato a) Princìpi della necessità della vita dello Stato b) Profilo dei modelli di Stato Spinoza e Hobbes B) La religione nello Stato a) Ragione e rivelazione: due domini b) La comprensione della Bibbia c) La libertà di pensiero C) Critica dell’interpretazione religiosa e politica di Spinoza a) Mancanza di chiarezza nella relazione tra scienza e filosofia Spinoza come scienziato b) Scienza biblica, fede, filosofia c) Obiezioni contro la certezza spinoziana di Dio d) Le decisioni personali di Spinoza e il suo destino e) Spinoza e la questione ebraica IX. CARATTERIZZAZIONE CRITICA DELLA FILOSOFIA DI SPINOZA a) Sguardo sulla filosofia e l’essenza di Spinoza b) I limiti di Spinoza X. L’INFLUENZA DI SPINOZA Bibliografia Indice