Spettri di Nietzsche 9788823510456, 8823510457

UN’AVVENTURA UMANA E INTELLETTUALE CHE ANTICIPA LE CATASTROFI DEL NOVECENTO «In fondo la tua vecchia creatura adesso è u

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Spettri di Nietzsche
 9788823510456, 8823510457

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Table of contents :
Presentazione
Frontespizio
Pagina di copyright
Torino, 15 ottobre 1944 – Naufragio in riva al Po
Torino, 21 dicembre 1888. «Io qui vengo trattato come un piccolo principe»
Napoli, 25 agosto 1900. Per la morte di un distruttore
Torino, 6 gennaio 1889. «In fondo io sono tutti i nomi della storia»
Val San Martino, 25 aprile 1911. Harakiri
Congo, 1902. «He had summed up – he had judged. ‘The horror!’»
Bonn, 25 agosto 2013. il testimone secondario
Sils Maria, 26 agosto 1888 – Volontà di potenza
Naumburg, gennaio 1889. Il fantasma dell’opera
Torino, marzo 1975. «Lei ha letto i francesi?»
Parigi, 1944. Allegoria e filologia
Weimar, 1901. La sorella-parafulmine
Basilea, 1870-1874. Il piccolo chimico
Charlottesville, 1977. Otobiographies
Londra, 21 febbraio 1848. «Uno spettro si aggira per l’Europa»
Lenzerheide, 1887 – Nichilismo senza antidepressivi
Parigi, 1857. Il mostro delicato
Riga, 1781. Ontologia ed epistemologia
Eutin, 1799. Ontologia e assiologia
Landshut, 1809. Penso dunque sono
Danzica, 1818. Il mondo è una mia rappresentazione
Napoli, 1835. «S’arma Napoli a gara alla difesa de’ maccheroni suoi»
Praga, 1837. Antikant
San Pietroburgo, 1870. I demoni
Genova, 1882. Dio è morto
Parigi, 1882. Au Bonheur des Dames
Vienna, 1915. Lutto e melancolia
Monaco, 1918. Il tramonto dell’Occidente
Lipsia, 1932. L’operaio
Friburgo, 1940. Oltrepassamento della metafisica
Sigmaringen, 1945. Da un castello all’altro
Todtnauberg, 25 luglio 1967. A mano, troppo a mano
Melbourne, 1948. Litio e melancolia
Davos, 1953. La montagna incantata
Münsterlingen, 1956. Imipramina
Nizza, 1886 – Fatti e interpretazioni
Torino, febbraio 1999. Le teste scambiate
Londra, 1602. «Do you see yonder cloud that’s almost in shape of a camel?»
Berlino, 1819. Tessitore di veli
Boston, 1960. Gavagai
New York, 1985. Deconstructing Everybody
Torino, 1998. «Nulla esiste fuori della tela»
Saint-Michel-de-Montaigne, 13 settembre 1592. «Mon bon homme, c’est faict»
Rapallo, 20 gennaio 1883 – Nuovo Cinema Zarathustra
New York, 1967. «See the way she walks»
Torino, 2001. Dioniso brasileiro
New York, 1983. Zarathustra e Zelig
Berlino, 2004. Spettri di Hitler
Orta, maggio 1882 – Femmes!
Atene, IV sec. a.C. «Io, Platone, sono la verità»
Gerusalemme, 33 d.C. «Diventa donna, si cristianizza»
Königsberg, 1781. «Pallida, nordica, königsbergica»
Parigi, 1840. «Canto del gallo del positivismo»
Sorrento, 1876. «Baccano indiavolato di tutti gli spiriti liberi»
Torino, 1888. «Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!»
Copenaghen, 1837. «Ma se non ha niente indosso!»
Silvaplana, 14 agosto 1881 – Eterno Ritorno
Parigi, 1872. L’eternità attraverso gli astri
Buenos Aires 1936. Cantor e Zarathustra
Città del Messico, 1959. «Cuando despertó, el dinosaurio todavía estaba allí»
Roma, 1935. «Diventare natura»
Parigi, 1962. Ripetizione e trasvalutazione
Recanati, 1824. Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie
Cambridge, 1872. Metaphysical club
Sorrento, 187 6 – Imparare a vivere
Lipsia, 1878. Umano, troppo umano
Chemnitz, 1877. L’origine dei sentimenti morali
Parigi, 1736. Les Égarements du cœur et de l’esprit
Amsterdam, 1947. Dialettica dell’illuminismo
Fillerval, 1979. La condizione postmoderna
Salamanca, 1936. «¡Abajo la inteligencia! ¡Viva la muerte!»
Basilea, marzo 1869 – Dionisiaco
Miami, 1° marzo 1969. The End... my only friend, The End...
Basilea, 1872. Stupro a Euterpe
Basilea, 16 aprile 1943. Acid Test al Rinfresko Elettriko
Lipsia, 8 ottobre 1868. «La croce, la morte, la tomba»
Basilea, 1872. Nascita della tragedia
Vienna, 30 settembre 1791. La regina della notte
Tübingen, 1796. Nuova Mitologia
Weimar, 24 giugno 1797. Le Madri
Parigi, 11 giugno 1828. La morte di Lauriston
Stoccarda, 1861. Das Mutterrecht
Parigi, 3 marzo 1875. Carmen
Bayreuth, 13 agosto 1876. «Cedete con me alla vita dionisiaca»
Vienna, 1929. Il disagio nella civiltà
Norimberga, 1° settembre 1933. Raduno della vittoria
Monaco, febbraio 1943. «Alzati, popolo mio»
Pacific Palisades, 7 settembre 1945. «O amico, o patria»
Malaga, 1949. Il secco e l’umido
Bologna, 23-25 settembre 1977. Rivoluzione desiderante
Berlino, 1865 – Kaputt
Berlino, 30 aprile 1945. «Guck mal... der Chef brennt!»
Berlino, 18 febbraio 1943. «Vi chiedo, volete la guerra totale?»
Dresda, 13 e 14 febbraio 1945. Mattatoio n. 5
Berlino, 19 marzo 1945. Nero Befehl
Kirchhorst, 11 aprile 1945. «Non è più possibile riaversi da una tale sconfitta»
San Pietroburgo, primavera 1813. «Sono io»
Warm Springs, Georgia, 12 aprile 1945. «Wunder des Hauses Brandenburg»
Seelow, 16 aprile. «Non è freddo, signor tenente, questa è paura»
Princeton, 1938. Fratello Hitler
Berlino, 20 aprile. «Blutrote Rosen erzählen dir vom Glück»
Berlino, 9 maggio. «Auch die Franzosen!»
Röcken, 1844-1900 – Geologia della morale
Pforta, 14 agosto 1859. «In estate, la domenica la si trascorre così»
Naumburg, 1863. «Come pianta io nacqui presso il camposanto, come uomo in una canonica»
Torino, 1888. «Come mio padre sono già morto, come mia madre vivo ancora e invecchio»
Röcken, 1844-1850. «Il primo avvenimento che colpì la mia coscienza gradualmente ridesta fu la morte di mio padre»
Torino, 1888. «ritrovo sempre mia madre e mia sorella»
Jena, 27 marzo 1890. «Dice di essere a volte il duca di Cumberland, a volte l’imperatore, ecc.»
Naumburg, 1893. «No, madre, disse, sono stupido»
Naumburg-Weimar, 1889-1900. «Vieni, dolce morte»
Röcken, 28 agosto 1900. I beneficii dell’amore
Postilla – L’imitazione dell’Anticristo
Nota ai testi
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Presentazione U

N’AVVENTURA UMANA E INTELLETTUALE CHE ANTICIPA LE CATASTROFI DEL NOVECENTO

«In fondo la tua vecchia creatura adesso è un animale straordinariamente famoso» scrive Nietzsche alla madre, da Torino, nel dicembre 1888. Vuole illudere lei e se stesso: non è vero, nessuno lo conosce, è costretto a pubblicare i libri a proprie spese. Ma nel 1900, quando muore, ignaro di tutto dopo il tracollo che lo ha ridotto alla demenza, è davvero la star che aveva sognato di essere, celebrato da D’Annunzio e Thomas Mann, messo in musica da Strauss e dipinto da Munch. Soprattutto, per uno strano sortilegio, la volontà di potenza sembra uscire dalle pagine dei libri per farsi storia, dalle tempeste di acciaio della Prima guerra mondiale alla catastrofe di Hitler a Berlino. «Io sono Marlow, il testimone secondario. Lui è Kurtz» scrive Maurizio Ferraris, e risale la vita di Nietzsche come un fiume – il Congo di Cuore di tenebra o il Mekong di Apocalypse Now – ripercorrendone i vagabondaggi, tra l’Engadina e la Riviera, dalla fatale Torino alla Sassonia delle origini. Così a ogni stazione corrisponde un contenuto di pensiero – dal dionisiaco all’Eterno Ritorno, dal nichilismo alla morte di Dio – e insieme uno spaccato della storia intellettuale del Novecento, tra Jim Morrison e Heidegger, il ¡Viva la muerte! di José Millán-Astray y Terreros e la rivoluzione desiderante di Deleuze e Guattari, il SuperEliogabalo di Arbasino e la scoperta degli antidepressivi. La fenomenologia dello spirito di una modernità tragica e rumorosa attraverso la storia di quello che si credeva (e non del tutto a torto) «il più silenzioso degli uomini». Maurizio Ferraris (www.labont.it/ferraris) è professore 2

ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Torino, dove dirige il LabOnt (Laboratorio di ontologia). È editorialista di «La Repubblica», direttore della «Rivista di Estetica», condirettore di «Critique» e della «Revue francophone d’esthétique». Fellow della Italian Academy for Advanced Studies (New York), della Alexander von Humboldt Stiftung e del Käte Hamburger Kolleg «Recht als Kultur» di Bonn, Directeur d’études al Collège International de Philosophie, visiting professor alla Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi e in altre università europee e americane. Ha scritto una cinquantina di libri tradotti in varie lingue. Tra i più recenti, Documentalità (2009) e il Manifesto del nuovo realismo (2012), che hanno avviato un ampio dibattito internazionale. È in uscita da Bloomsbury la sua Introduction to New Realism. Da Guanda ha pubblicato Filosofia per dame (2009) e Anima e iPad (2011).

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www.guanda.it

facebook.com/Guanda

@GuandaEditore

www.illibraio.it Disegno e grafica di copertina di Guido Scarabottolo ISBN 978-88-235-1045-6 © 2014 Ugo Guanda Editore S.r.l., Via Gherardini 10, Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol Prima edizione digitale 2014 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

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Torino, 15 ottobre 1944 Naufragio in riva al Po A Torino, in via Carlo Alberto 6, giusto all’angolo con piazza Carlo Alberto, c’è una targa con un bassorilievo che raffigura Nietzsche, e la scritta seguente: In questa casa FEDERICO NIETZSCHE conobbe la pienezza dello spirito che tenta l’ignoto la volontà di dominio che suscita l’eroe qui ad attestare l’alto destino e il genio scrisse Ecce Homo libro della sua vita a ricordo delle ore creatrici primavera autunno 1888 nel I centenario della nascita la città di Torino pose 15 ottobre 1944 a. XXII e. f. La targa fu posta in tempi grami. Io la vedo almeno due volte all’anno, perché in quella casa c’è lo studio del mio commercialista, e pago le tasse nella stanza di Zarathustra. In quello che – dopo le ristrutturazioni imposte da un bombardamento – è oggi un ufficio pieno di decoro 7

subalpino, finisce in modo assurdo e increscioso la vita cosciente di Nietzsche, approdato a Torino nell’aprile del 1888 per poi tornarci definitivamente il 20 settembre, dopo l’estate trascorsa a Sils Maria tentando di portare a termine la Volontà di potenza (senza venirne a capo). Dico «definitivamente» perché quando, all’inizio del gennaio 1889, viene riportato a Basilea, Nietzsche è ormai pazzo, e morirà nel 1900 a Weimar senza saper più nulla di sé («non sa più nulla, è alto sulle ali», come scriveva Sereni del primo caduto sulla spiaggia normanna il 6 giugno 1944). Reduce da un ennesimo scacco, dopo la catastrofe accademica della Nascita della tragedia, il fiasco dello Zarathustra, lo scarsissimo interesse suscitato dai tanti libri pubblicati, Nietzsche aveva tentato la mossa del cavallo: smembrare il materiale accumulato per la Volontà di potenza (o Trasvalutazione di tutti i valori, come suona il sottotitolo spesso promosso a titolo) trasformandolo in piccole opere eccessive e provocatorie, destinate ad attirare l’attenzione su di lui. L’idea di Nietzsche è di far tradurre in francese, e poi in tutte le lingue di cultura, i frutti dell’autunno torinese, e di conquistare una fama mondiale; poi di pubblicare il suo capolavoro virtuale, e di dar seguito a una grandiosa (quanto indeterminata) azione politica. Vasto disegno. In effetti, sul piano della fama letteraria qualcosa incomincia a muoversi: Nietzsche stringe un rapporto epistolare con Strindberg e con Taine, e un germanista abbastanza noto, Georg Brandes, tiene delle conferenze su di lui a Copenaghen. Sono piccole cose, di cui però non smette di gloriarsi, soprattutto in quelle che sono le lettere torinesi più commoventi e rivelatrici, le poche scritte alla madre, dove si vanta di avere ammiratori – tra cui 8

«le signore più affascinanti» – a San Pietroburgo e a Vienna, a Parigi, a Stoccolma, a New York («Ah, se tu sapessi con quali parole i personaggi più importanti mi esprimono la loro devozione»). Scrive anche che lui è ora un «animale famoso», e che tra i suoi lettori ci sono veri geni, e poi che a Torino sta benissimo, che si è fatto un paltò nuovo «foderato di seta blu», che si mangia ottimamente e a buon prezzo. Questa euforia è in patetico disaccordo con una esistenza che fa stringere il cuore, fatta di rifiuti da parte degli editori, isolamento, fondato sospetto che la vita lo abbia messo definitivamente alle corde. Una desolazione su cui pesa come una pietra tombale la lettera di Franz Overbeck (a giusto titolo valorizzata da Walter Benjamin in Uomini tedeschi) che lo esorta a lasciar perdere, a tornare a insegnare a Basilea, non all’università, dove non lo prenderebbero più, ma almeno al ginnasio, magari come professore di tedesco, perché – aggiunge Overbeck – «è una di quelle professioni, forse anzi lo è incomparabilmente più d’ogni altra, per cui negli ultimi anni tu non soltanto non hai perso tempo, ma ti sei fatto ancora più maturo». Wittgenstein ha scritto che la filosofia deve aiutare la mosca a uscire dalla bottiglia. In questo finale di partita vediamo e quasi sentiamo la mosca che sbatte contro le pareti della sua prigione. Dall’angolo in cui si è cacciato, Nietzsche reagisce attaccando Wagner e Cristo, variamente legati a figure paterne (il maestro di istrionismo, e il padre pastore protestante), ma anche due nomi tanto più famosi del suo. Poi ricorre all’eterna strategia del «chi non mi vuole», i tedeschi, gli editori, oramai anche gli amici e le amiche di un tempo, «non mi merita». E tenta di farsi nuovi 9

amici e nemici scelti in un pantheon male assortito di giornalisti, statisti, re, imperatori, criminali, nomi trovati nei giornali letti al Caffè Fiorio, il suo ultimo approdo di terra. A un certo punto non si firma più col suo nome, ma con tanti, tratti dal mito e dalla storia, e dichiara finalmente a Cosima Wagner il proprio amore. Aveva ragione sua sorella Elisabeth, Fritz voleva diventare famoso, e lo desiderava con la stessa mancanza di decoro di un ammalato di celebrità. Ecco, per esempio, la differenza rispetto a un altro grande egotista, Baudelaire: non ci sono schermi dandystici in questo povero superuomo che confida alla mamma di conoscere delle principesse, o che il suo ex allievo e fedele copista Heinrich Köselitz (in arte Peter Gast) si è fidanzato con una aristocratica prussiana che possiede mezzo Brandeburgo. Possiamo immaginarcelo senza difficoltà intento ad aprire un blog dopo l’altro, a chattare con il Vaticano, il Cremlino e la Casa Bianca, a caricare i propri video su YouTube, ad annunciare a ripetizione l’uscita dei suoi libri su Facebook chiedendo la grazia di un «mi piace». «L’ufficio postale è a 5 passi da qui, imbuco io stesso le lettere per comunicare con i grandi elzeviristi del grande [sic] monde.»

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TORINO, 21 DICEMBRE 1888. «IO QUI VENGO TRATTATO COME UN PICCOLO PRINCIPE» La gloria millantata e mitizzata attutisce il sospetto della sconfitta. Alla vigilia della resa dei conti, Nietzsche scrive alla madre: «In fondo la Tua vecchia creatura adesso è un animale straordinariamente famoso: non proprio in Germania, dato che i tedeschi sono troppo stupidi e ordinari per l’altezza del mio pensiero e hanno sempre fatto brutte figure di fronte a me, ma da qualsiasi altra parte. Tra i miei ammiratori ho solo nature elette; tutte persone altolocate e influenti […]. Ho autentici geni tra i miei estimatori – non c’è nome, oggi, che venga onorato e rispettato come il mio. – Vedi, questo è il capolavoro: senza un nome, senza rango, senza ricchezze, io qui vengo trattato come un piccolo principe da qualsiasi persona, giù giù fino alla mia fruttivendola, che non ha pace finché non ha trovato per me il più dolce tra i suoi grappoli d’uva (che adesso costa 28 centesimi la libbra)» (21 dicembre 1888). E agli amici costernati: «Per la traduzione francese [di Ecce homo] mi avvarrò probabilmente del genio svedese A. Strindberg […]. Ieri ho spedito il CREPUSCOLO DEGLI IDOLI a M. Taine con una lettera in cui lo pregavo di interessarsi per una traduzione francese dell’opera. Anche per la traduzione inglese ho un’idea» (a Gast, 9 dicembre 1888). «L’opera che è in stampa adesso si intitola ECCE HOMO. Come si diventa quel che si è. Uscirà contemporaneamente in inglese, francese e tedesco. Le lettere che ricevo ultimamente dalla più alta società di San Pietroburgo, e anche da un autentico genio di poeta, che è svedese, hanno tutte un afflato di storia universale, come se il destino dell’umanità fosse nelle mie mani» (a Paul Deussen, 11 dicembre 1888). 11

Come spesso succede, il tracollo ha luogo in un Wechsel der Töne, lo «scambio di toni» teorizzato da Hölderlin. C’è il mito, c’è la filosofia, c’è la vita quotidiana, e su tutto domina una buona dose di goffaggine professorale. Accanto al progetto di vivere nell’antica reggia dei Papi («Il mio indirizzo non lo so più: poniamo che per il momento possa essere il Palazzo del Quirinale») e di convocare una dieta di principi per fare fucilare il Kaiser, c’è la vicenda di una stufa economica ordinata in Germania; accanto alla convinzione di essere la reincarnazione di Alessandro Magno troviamo la correzione delle bozze (ne aveva ancora tra le mani quando Overbeck venne a prenderlo per portarlo in manicomio) e le lettere ora bellicose ora accomodanti all’editore. A quest’ultimo suggerisce tirature strepitose, assicurando che con lo Zarathustra si potrà diventare milionari: «In un momento in cui la mia vita si trova di fronte a un’immane decisione e sento gravare su di me una responsabilità per la quale non ci sono parole, non tollero che si commettano villanie nei miei confronti. L’editore dello Zarathustra! Del primo libro di tutti i millenni! In cui è racchiuso il destino dell’umanità! Che di qui a pochi anni verrà diffuso in milioni di esemplari!… Non appena uscirà Ecce homo sarò il primo tra i viventi. […] Non pretenderò mai onorari, questo rientra nei miei princìpi; ma vorrei che Lei partecipasse pienamente al successo, alla vittoria dei miei scritti. – La Trasvalutazione di tutti i valori sarà un evento senza pari, non di tipo letterario, ma di quelli che faranno tremare tutto ciò che esiste – è possibile che cambi il computo del tempo –» (26 novembre 1888). È in questo clima che, ai primi di dicembre 1888, abbozza una lettera destinata a Guglielmo II: «Con questa lettera 12

rendo all’Imperatore dei tedeschi il più grande onore che gli si possa tributare, e che tanto più ha peso in quanto devo superare la mia profonda avversione per tutto ciò che è tedesco; gli porgo in mano la prima copia della mia opera, in cui si annuncia l’approssimarsi di un qualcosa di immane – una crisi come non si era mai vista sulla terra, la più profonda collisione di coscienze all’interno dell’umanità, un verdetto emesso contro tutto ciò che si era creduto, che si era preteso, che si era consacrato». Il 3 gennaio 1889 si dice che abbia abbracciato un cavallo frustato dal vetturino, ma ci sono buoni motivi per ritenere che si tratti di una leggenda, sia perché riecheggia il sogno di Raskol’nikov in Delitto e castigo, sia perché la sua prima attestazione risale a un articolo apparso sulla «Nuova Antologia» uscito tre settimane dopo la morte di Nietzsche, il 16 settembre 1900, e ormai in un clima favorevole all’agiografia: «Un giorno, mentre il signor Fino percorreva la vicina via Po […] vide un gruppo di gente che si avanzava ed in mezzo ad esso due guardie civiche che accompagnavano ‘il professore’. Tosto che lo scorse si gettò nelle braccia del signor Fino, il quale ottenne facilmente la liberazione dalle guardie, che raccontarono di aver trovato quel forestiero oltre i portici dell’università, fortemente abbracciato al collo di un cavallo da cui non voleva divincolarsi».

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NAPOLI, 25 AGOSTO 1900. PER LA MORTE DI UN DISTRUTTORE Mentre la nobile muffa d’Europa di Pau, Bayreuth ed Epsom si nutriva, lui abbracciava due ronzini, finché il padrone non lo trasse a casa. Nei versi di Gottfried Benn i cavalli si moltiplicano, al passo della fama dell’immemore. Chi scriveva da Torino era un pensionato in preda a una debordante crisi di mezza età, che aveva perso tutti i suoi amici e non era conosciuto da nessuno. Però quando quest’uomo muore nel 1900 è già una celebrità mondiale, con una leggenda aurea alimentatasi nel tempo, che oggi culmina con milioni di citazioni su Google, ma che è già attestata nei 491 versi di D’Annunzio, Per la morte di un distruttore. F. N. XXV AGOSTO MCM, nei quali, narrandosi i pellegrinaggi italiani di Nietzsche, «Cuma» fa rima con «fuma» (riferito al Vesuvio). Ancora pochi anni e quest’uomo che incarna la disgrazia omerica, «senza famiglia, senza legge, senza focolare», sarebbe stato tradotto in tutte le lingue, citato alla Camera da Mussolini, letto da generazioni di intellettuali e politici, prevalentemente di destra, per poi diventare un anomalo eroe di sinistra. Nel 1940, al valico di confine di Portbou, Benjamin, in fuga dalla Francia occupata dalla Wehrmacht, si era suicidato temendo di non riuscire a rifugiarsi in Spagna, e il giorno dopo lasciarono passare tutti quelli che erano con lui. Qualcosa del genere accadde a Nietzsche. Impazzito per l’indifferenza riservatagli dai contemporanei, quando ha dimenticato tutto, quando le parole «fama» o «D’Annunzio» non possono più dirgli niente, diventa 14

l’uomo celebre che aveva sempre sognato di essere. Cadendo nella pazzia conclamata nei primi giorni del 1889, dopo un Natale e Capodanno trascorsi in una stanza d’affitto a raccontarsi di stare benissimo e di essere Dioniso e Alessandro Magno, Nietzsche non ebbe mai modo di sapere quanto aveva ragione. Sì, aveva davvero fatto un capolavoro, anzi un miracolo. La fama nasce e cresce mentre l’idiota è immemore e periodicamente esibito su un podio a ciò predisposto a Weimar (come il Cristo nella tomba di Hans Holbein il Giovane che Dostoevskij aveva visto nel 1867 a Basilea, giusto due anni prima che ci arrivasse Nietzsche, e di cui tanto si discute nell’Idiota). A Vienna viene fondata una associazione nietzschiana e nel 1898 Richard Strauss (che l’anno successivo si reca in visita all’Archivio, dunque vede Nietzsche senza che lui sappia chi è) compone il poema sinfonico Così parlò Zarathustra. Per restare a una scelta delle pubblicazioni che avvengono Nietzsche vivente, oltre alle conferenze di Brandes, stampate nel 1890 – anno in cui viene pubblicata, e sia pure in danese, la biografia di Ola Hansson – appaiono la monografia di Lou Salomé (1894) e, nel 1895, il primo volume della bio-agiografia scritta dalla sorella Elisabeth in cui (per riprendere il giudizio di Nietzsche sul Nuovo Testamento nel paragrafo 52 di Al di là del bene e del male) si sente il «caratteristico odore dolciastro e stantio proprio dei baciapile e delle anime grette». Sempre del 1895 è il libro di Rudolf Steiner, in cui Nietzsche viene definito un «combattente contro il proprio tempo», nel 1899 quello (in francese) di Henri Lichtenberger sull’idea di trasvalutazione e, nel 1900, il saggio di Julius Zeitler sulla estetica nietzschiana. Non 15

sorprende che, già nel 1897, Tönnies si fosse trovato a stigmatizzare il culto di Nietzsche. Stupisce, casomai, che quest’aura mitologica si fosse diffusa tanto in fretta, per propagarsi in un crescendo nel nuovo secolo, quando Nietzsche è esaltato da filosofi entusiasti come Weininger o Papini, ma anche da filosofi sobri e professorali come Vaihinger, e strappa una inaspettata approvazione anche a Croce, che nel 1907 recensisce la traduzione italiana della Nascita della tragedia vedendoci «un libro scientifico sì nell’assunto ma circonfuso d’arte». In pochi anni, Nietzsche passa dal salon des refusés alla notte degli Oscar. E milionari, con lo Zarathustra, lo divennero per davvero la sorella di Nietzsche, Elisabeth, con le edizioni postume, e Strauss con la versione in musica portata in tournée da Philadelphia a Manaus per poi finire in orbita come colonna sonora in 2001 Odissea nello spazio. Mentre la figura dell’eroe dolente sarà dipinta da Munch (il quadro, primo di una interminabile serie di icone, è del 1906) e raccontata in decine di biografie in Germania, Francia, Italia, America, la letteratura tedesca, e poi mondiale, si impossessa di Nietzsche (Stefan George, Hoffmansthal, Rilke, Gide, Musil…) sino alla consacrazione del Doctor Faustus di Thomas Mann. In un mondo in cui la volontà di potenza, per uno strano sortilegio o piuttosto per una necessità storica, sembra uscire da un libro mai scritto per trasformarsi in una tempesta d’acciaio, le teorie giovanili su apollineo e dionisiaco nutriranno non solo le performance di Hermann Nitzsch, ma anche (lo vedremo) la poetica di Jim Morrison, il leader dei Doors, e risuonano nel rito finale della uccisione di Kurtz in Apocalypse Now, che – in un modo che non potrebbe essere più nitzschiano e 16

nietzschiano – combina la Cavalcata delle Valchirie con The End, cioè appunto la Bayreuth di Wagner e la Los Angeles di Morrison. Questo miracolo ricorda il «miracolo della casata Brandenburg», la morte della Zarina che salvò Federico il Grande dalla disfatta e ne decretò il trionfo, tranne che qui la grazia è a scoppio ritardato. Non è chiaro se, alla luce dell’etica protestante, questa elezione avvenuta con un décalage lievissimo e fatale sia segno di una speciale indulgenza divina, perché l’approvazione del mondo giunta con un soffio di ritardo ha già incorporato e superato il naufragio circonfondendolo di una luce mistica. O se sia l’indizio di una dispettosa ironia teologica, quella di cui si lamenta Borges quando osserva che dio gli ha dato insieme la direzione della Biblioteca di Buenos Aires e la cecità. Ma il miracolo era nelle cose: Nietzsche, con una sensibilità che nessuno può avergli insegnato, ha messo in atto una strategia destinata a stravincere, e che applica con pazienza e puntiglio negli anni dell’oscurità e del misconoscimento: prende un po’ di tutto dalle idee correnti del suo tempo, specie le più radicali, poi le rielabora e le critica imputando loro una mancanza di radicalità. Risultato: il positivismo è troppo fiducioso nei fatti, il razionalismo dei professori troppo ottimista, il darwinismo non è abbastanza spietato nel descrivere la lotta per la vita, il cristianesimo ha dissimulato la volontà di potenza che si portano dentro gli ultimi. L’ingresso in filosofia della funzione-Nietzsche precede di una frazione di secondo non solo il riconoscimento da parte dei potenziali funtori, ma anche – se prendiamo come scala di riferimento duemilacinquecento anni di storia della 17

filosofia – l’esplosione della società di massa, del cinema, della radio, e dei regimi totalitari. Questa funzione, che consiste nel radicalizzare, nell’estremizzare, giungendo alla massima tensione e di lì al paradosso, segue una logica mediatico-avanguardistica poi diventata corrente in filosofia. Tutto è già scritto in Ecce homo, in cui Nietzsche si racconta al pubblico con la stessa automitizzazione e mancanza di riservatezza che impone lo star system. Proprio come farebbe un «theorist» postmoderno, Nietzsche indirizza i suoi libri non ai colleghi, ma a una umanità ampia e indeterminata: tendenzialmente, alla stessa che si dava appuntamento a Bayreuth per l’esecuzione integrale dell’Anello del Nibelungo, e che poi si sarebbe trovata a Woodstock a sentire Jimi Hendrix e Janis Joplin. Una umanità che va anzitutto scandalizzata, stupita, e fidelizzata con la garanzia che ogni singolo lettore è il destinatario esclusivo di un messaggio sapienziale: che la virtù è solo una forma di volontà di potenza, che i concetti non sono che antiche metafore, che il tempo ritorna circolarmente, che non ci sono fatti, solo interpretazioni. È con questi ingredienti che Nietzsche ha creato la mitologia condensata nel sottotitolo dello Zarathustra, prototipo di milioni di promozioni pubblicitarie «per molti ma non per tutti»: un libro per tutti e per nessuno. Un libro per tutti, una specie di pensiero debole nel senso nobile del termine, cioè (scrive Roberto Bolaño) un pensiero «per gente che appartiene alle classi deboli», un poema in prosa che, con una infaticabile volontà pedagogica e mistagogica, trasforma il logos in mythos, in narrazione e in religione. E insieme un libro che teorizza l’ascesi, l’unicità, il sacrificio, l’eroismo, cioè, come recita la lapide di via Carlo Alberto, 18

«la volontà di dominio che suscita l’eroe». Come puntualmente accadrà con lo Zarathustra, di cui nella Prima guerra mondiale viene stampata una speciale edizione, per suggerire – se non agli operai e ai contadini mandati in trincea per sottoporsi a uno sterminio industriale, almeno ai loro ufficiali – l’opportunità di sentirsi «una corda tesa tra la bestia e il superuomo». Ma fuori delle trincee la volontà di potenza è anzitutto volontà di presenza e ansia di riconoscimento. Nietzsche coglie, esprime e anzitutto incarna una caratteristica essenziale della modernità, l’aspirazione collettiva a essere straordinari, la ricerca universale di distinzione e di superiorità, l’esigenza fisica di dar voce a questa unicità, di esprimerla, di urlarla (sappiamo quanto ha urlato quello che, forse non a torto, si era autodefinito come «il più silenzioso tra gli uomini») e, oggi, di postarla. È un po’ come se, nella Fenomenologia dello spirito, il servo accettasse di continuare a servire, a patto di diventare famoso quanto o più del signore. È il paradosso del superuomo di massa, già in atto quando Andrea Sperelli, il miserabile eroe del Piacere, sputa fiele sui caduti di Dogali definendoli «quattrocento bruti, morti brutalmente!». Il mondo di Zarathustra è il mondo dei poveri superuomini che esibiscono tutto di sé sui social network. O, per risalire a una fase appena precedente, si pensi a tutte le persone (anzi, i personaggi, come si dice così esattamente) fotografati sulle copertine dei settimanali di pettegolezzi. Il superuomo rivela così, insieme, la sua comicità e la sua malinconia: tutti famosi per quindici minuti e, ora, infami per l’eternità, per una battuta infelice o stupida registrata e ritrasmessa urbi et orbi sul World Wide Web. Senza trascurare il fatto che i 19

media sono stati anche più aperti e lungimiranti di Nietzsche, perché hanno creato non solo il superuomo, ma anche la superdonna, da Marilyn Monroe a Madonna a Lady Gaga. Come diceva Baudelaire nella dedicatoria delle Fleurs du Mal? «Hypocrite lecteur, – mon semblable, – mon frère!»

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TORINO, 6 GENNAIO 1889. «IN FONDO IO SONO TUTTI I NOMI DELLA STORIA» Con l’acuirsi della mitomania primaria se ne fa avanti un’altra, di secondo livello, un grande delirio teologico degno del Presidente Schreber, le cui Memorie di un malato di nervi, che incantarono Freud e Jung, risalgono del resto al 1903. Nietzsche incomincia a firmarsi «Dioniso» e «Il Crocifisso», ossia prende i nomi dei due redentori dell’umanità e insieme dei due grandi sacrificati; proprio per questo, nella sua sfida contro il cristianesimo, l’Anticristo non può non dirsi cristiano. Nel 1910 uscirono dai Fratelli Bocca di Torino due Ecce homo. Il primo era quello di Nietzsche, l’altro era quello di Sir John Robert Seeley apparso in forma originariamente anonima nel 1866, in cui lo storico e saggista inglese, sebbene educato al Christ’s College di Cambridge, attaccava Cristo vedendoci il fondatore di uno stato teocratico. Ben diverso, e soprattutto sinceramente identificatorio, è il trattamento riservato a Cristo dall’ultimo Nietzsche, che si sente anche lui un creatore di valori e un messia, e che culmina nella patetica corrispondenza tra la definizione di Cristo come «L’idiota sulla croce» nei Frammenti postumi del 18881889 e l’autocrocifissione del crollo torinese. La mitologia alla seconda potenza, teologica e sacrificale, trova la sua più alta testimonianza nella lettera a Jacob Burckhardt del 6 gennaio 1889: «Caro signor professore, alla fine sarei stato molto più volentieri professore basileese che dio; ma non ho osato spingere così lontano il mio egoismo privato da omettere, per causa sua, la creazione del mondo. Come vede, bisogna fare sacrifici, comunque e dovunque si viva. […] Quel che è sgradevole e nuoce alla 21

mia modestia è il fatto che in fondo io sono ogni nome nella storia; anche per i figli che ho messo al mondo le cose stanno in modo tale che rifletto con una certa diffidenza se tutti quelli che vengono nel ‘regno di dio’ vengano anche da dio. Per due volte, questo autunno, mi sono trovato, vestito il minimo possibile, ai miei funerali, la prima volta come conte Robilant (no, questi è mio figlio, in quanto io sono Carlo Alberto, la mia natura sotto) ma Antonelli ero proprio io. Caro signor professore, dovrebbe vedere questo edificio; giacché sono assolutamente inesperto nelle cose che creo, a Lei è permessa qualsiasi critica, e io sono grato senza poter promettere di trarne vantaggio. Noi artisti siamo incorreggibili. Oggi mi sono visto un’operetta genialmoresca; per l’occasione ho constatato con compiacimento che adesso Mosca e anche Roma sono cose grandiose. Come vede, non mi si nega del talento nemmeno per il paesaggio. Pensi un po’, potremmo fare una bellissima chiacchierata. Torino non è lontana, per ora non ci sono seri impegni professionali, sarebbe possibile procurare una bottiglia di vino della Valtellina. È prescritto il négligé. Con cordiale affetto, Suo Nietzsche». E ancora, a mo’ di poscritto: «Vado dappertutto nel mio vestito da studente. Ogni tanto batto sulla spalla a qualcuno e dico: siamo contenti? son dio, ho fatto questa caricatura… Domani viene mio figlio Umberto con la graziosa Margherita, che però riceverò ugualmente in maniche di camicia… […] Di questa lettera può fare qualsiasi uso che non diminuisca la mia considerazione presso i basileesi». Le cause di una follia non sono mai chiare, e Nietzsche non fa eccezione. Ereditarietà, forse sifilide contratta in giovinezza (pare nel 1866, secondo una confidenza fatta 22

all’amico Paul Deussen e trasfigurata nello Zarathustra, «Tra le figlie del deserto»), forse abuso di farmaci, forse, semplicemente, un orrore in cui avremo spesso modo di imbatterci. Se le avvisaglie del male fossero da registrarsi sin dal 1881-1882 (come sostennero Möbius nel 1902 e Benda nel 1925), tutta la parte più impegnativa della riflessione nietzschiana risulterebbe patologicamente condizionata. Questa impostazione può assumere versioni meno trancianti, come quella del principale biografo di Nietzsche, Curt Paul Janz, per il quale solo gli scritti dell’ultimo anno sarebbero da considerarsi come «post-filosofici»; se viceversa si assume che la follia irrompa tra il 28 dicembre 1888 e il 3 gennaio 1889, come propone Karl Jaspers nel suo libro del 1936, solo i biglietti della follia esulerebbero dal pensiero: ma ci rientrerebbero a pieno titolo se, con Michel Foucault, si decidesse che la follia interviene solo con la totale cessazione dell’opera. Poco dopo la lettera a Burckhardt anche i biglietti finiscono, e subentra lo stato che Overbeck, venuto a recuperarlo a Torino, descrive il 15 gennaio 1889 in una lettera a Peter Gast: «Scorgo Nietzsche rannicchiato nell’angolo di un sofà, intento a leggere, terribilmente emaciato; egli mi vede a sua volta e mi si precipita incontro, mi abbraccia vigorosamente, riconoscendomi, e scoppia in un mare di lacrime, poi si lascia cadere nuovamente sul sofà, scosso da sussulti, mentre anch’io per l’emozione non riesco più a stare in piedi. Forse proprio in quell’attimo gli si spalancò davanti l’abisso sul cui ciglio ora si trova, o dove piuttosto è già precipitato? In ogni modo, una cosa del genere non si ripeté più. […] Era entrato nel mondo delle sue allucinazioni, dal quale non è più uscito finché l’ho 23

avuto sotto gli occhi, mantenendosi sempre lucido riguardo a me e in genere alle altre persone, totalmente ottenebrato riguardo a se stesso. Vale a dire che, stando al pianoforte, dove cantava a gola spiegata in preda alla frenesia ed esaltandosi sempre più, prorompeva in squarci di quel mondo di idee in cui era vissuto negli ultimi tempi, lasciando intendere nel contempo, con brevi frasi pronunciate in un tono smorzato indescrivibile, cose sublimi, di mirabile chiaroveggenza e di indicibile orrore, su se stesso come successore del dio morto, accompagnandole con una sorta di interpunzione al pianoforte, al che seguivano nuovamente convulsioni e accessi di una indicibile sofferenza; ma, come già detto, ciò avveniva solo in rari momenti passeggeri, finché almeno io fui presente, mentre nel complesso prevalevano le dichiarazioni relative alla missione che si attribuisce, quella di essere il pagliaccio delle nuove eternità, e lui, l’incomparabile maestro dell’espressione, non era in grado di rendere nemmeno le estasi della sua gaiezza se non con le espressioni più triviali, ovvero scurrilmente ballando e spiccando balzi». Il 10 gennaio 1889 Nietzsche viene ricoverato nella clinica Friedmatt di Basilea, da cui riparte il 17, insieme alla madre, contro cui pare avesse inveito sul treno da Torino. Dall’anamnesi di Basilea: «Il paziente giunge alla clinica accompagnato dai signori professori Overbeck e Miescher. Si lascia condurre nel reparto senza resistenza, durante il tragitto si duole che qui noi abbiamo un tempo così cattivo, dice: ‘Brava gente, domani voglio farvi un tempo splendido’». È l’allegria dei naufragi, di Artaud, di Van Gogh, di Hölderlin, o di Céline.

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VAL SAN MARTINO, 25 APRILE 1911. HARAKIRI «Bene navigavi, cum naufragium feci» è un detto che Nietzsche elegge a propria regola di vita. Senza allontanarsi dalle rive del Po, questo naufragio ne ricorda un altro, quello di Emilio Salgari, approdato a Torino nel 1893, cioè poco dopo che Nietzsche se ne è andato, e che nel 1911 si suicida facendo harakiri con gli occhi rivolti al sole che sorge in Val San Martino, sulla collina torinese. Cioè si sacrifica mettendo in scena uno dei suoi romanzi e insieme prendendo atto della realtà non romanzesca del suo fallimento. Lascerà scritto ai figli Fatima, Nadir, Romero, Omar (nomi non meno lunari di Zarathustra): «Sono un vinto: non vi lascio che 150 lire, più un credito di altre 600». Nietzsche e Salgari, questi due forzati della scrittura, sono accomunati dalla totale mancanza di difese e di cinismo, che li fa affogare nei loro stessi miti. È così che affiora una parentela non troppo segreta tra l’uomo che passeggiando sulle rive del Po fantastica di essere Dioniso e l’uomo che poco dopo e pochissimo lontano scriverà di Tremal Naik e di Yanez su un tavolo con una gamba più corta, per imitare il beccheggio di un praho. Nietzsche-Zarathustra si raffigura Wagner come il Minotauro e sua moglie Cosima come Arianna: «Alla principessa Arianna, la mia amata. È un pregiudizio che io sia un uomo. Tra gli indiani sono stato Buddha, in Grecia Dioniso – Alessandro e Cesare sono le mie incarnazioni». E Salgari-Sandokan si dichiara a Marianna: «‘Mia! Tu sei mia!’ esclamò egli delirante, fuori di sé. ‘Parla ora o mia adorata, dimmi cosa io posso fare per te, che tutto mi è possibile. Se vuoi andrò a rovesciare un sultano per darti un regno, se vorrai essere immensamente ricca io andrò a 25

saccheggiare i templi dell’India e della Birmania per coprirti di diamanti e di oro; se vuoi mi farò inglese’».

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CONGO, 1902. «HE HAD SUMMED UP – HE HAD JUDGED. ‘THE HORROR!’» Continuava Sandokan: «Parla, dimmi ciò che vuoi; chiedimi l’impossibile e io lo farò. Per te mi sentirei capace di sollevare il mondo e di precipitarlo attraverso gli spazi del cielo». Nell’iperbole, nel sacrificio senza riserve, nel giocarsi il tutto per tutto, anche Nietzsche si impegna, da solo e, per così dire, a mani nude, in una guerra totale. E a questo punto, letteralmente, Non sa più nulla, è alto sulle ali il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna. Per questo qualcuno stanotte mi toccava la spalla mormorando di pregar per l’Europa mentre la Nuova Armada si presentava alle coste di Francia. Come in Proust convivono due pittori, il Maestro dell’Esprit de Guermantes, attento alle sfumature, alle conversazioni e alle cattiverie sociali, e il Maestro dei Biancospini, pieno di sensibilità primarie, di buone intenzioni e di buone intuizioni, così in Nietzsche coabitano due movimenti, due mani, due maestri. Il Maestro della Volontà di potenza, il virtuale inquilino del Walhalla, l’uomo che gode della guerra e dei tramonti è dispersivo ed esplosivo: io sono tutti i nomi della storia, The Way of All Flesh, Uno nessuno centomila, Here Comes Everybody, non ci sono soggetti ma solo punti di forza, monadi di potenza in lotta. Qui vivere è fabbricare maschere, portarsi fuori del proprio ambiente sociale di provenienza, spiare il momento in cui lo spirito del tempo si volgerà verso l’oltreuomo e lo 27

riconoscerà. O anche semplicemente rassegnarsi alla malora e al crollo, vedendo nella rovina l’affermazione di una giustizia cosmica, di una volontà che vanifica e ridicolizza ogni volere individuale, d’accordo con la metafisica di Schopenhauer. Il Maestro dell’Eterno Ritorno procede in senso inverso e detta il capitolo di Ecce homo «Perché sono una fatalità». È lui che nell’incipit di questo libro non meno smisurato della lettera a Burckhardt, scrive: «Come mio padre sono già morto, come mia madre vivo ancora e invecchio». Se il Maestro della Volontà di potenza, seguendo una pulsione che potremmo chiamare di eros, si spinge all’autoaffermazione e alla catastrofe, il Maestro dell’Eterno Ritorno, radicalizzando la pulsione di morte o quantomeno l’ansia di controllo, vuole trasformare il contingente in necessario. Tutto tornerà eternamente, e dopo la vita ci sarà altra vita, insperata e uguale, perché ogni cosa ha già avuto luogo, e il futuro non è meno immutabile del passato. Può essere una immagine deprimente, ma in realtà è una grande promessa e una infinita consolazione, perché ci solleva dalla fatica e dalla vanità del titanismo che tormenta il Maestro della Volontà di potenza. Su tutto, però alla fine, domina l’orrore, l’«indicibile orrore» di cui parla Overbeck nella lettera da Torino, preciso e identico a quello di Cuore di tenebra. Un orrore che in Nietzsche è pensato e subìto invece che agito, e anche temuto, desiderato, profetizzato, evocato e scongiurato: «Una sera, mentre stavo entrando con una candela, trasalii sentendogli dire con voce tremula: ‘Sono qui sdraiato nel buio ad aspettare la morte’. La luce era a una spanna dai suoi occhi. Io mi sforzai di mormorare: ‘Oh sciocchezze!’, e 28

rimasi lì impalato vicino a lui. «Non avevo mai visto prima una cosa simile al cambiamento che si produsse nei suoi lineamenti, e spero di non rivederla mai più. Oh, non m’impressionava. Ne ero affascinato. Era come se un velo si fosse strappato. Vidi su quel volto d’avorio l’espressione dell’orgoglio cupo, del potere spietato, del terrore vile – della disperazione immensa e senza speranza. È possibile che in quel momento supremo di conoscenza assoluta stesse rivivendo la sua vita in ogni dettaglio di desiderio, tentazione e resa? Sussurrò rivolto a una qualche immagine, a una qualche visione – gridò per due volte qualcosa che non era più che un rantolo: ‘L’orrore! L’orrore!’»

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BONN, 25 AGOSTO 2013. IL TESTIMONE SECONDARIO In questo momento sto scrivendo da Bonn, dove Pirandello, nel 1891, si è laureato con una tesi su La parlata di Girgenti, e dove Goebbels, tra il 1917 e il 1918, ha frequentato la facoltà di filosofia, appassionandosi ai romantici tedeschi. Nietzsche si era iscritto alla Università di Bonn nel 1864 per studiare prima teologia, poi filologia, ma se ne era andato via l’anno dopo, alla volta di Lipsia, «come un fuggiasco», al seguito del suo professore, Friedrich Ritschl. Se il Maestro dell’Eterno Ritorno ha ragione, una necessità geologica e geografica prima ancora che storica guida la vita di Nietzsche, che non poteva non impazzire nello studio del mio commercialista, così come non poteva non nascere a Röcken, né astenersi dal fare il turista o l’anima in pena tra la Svizzera e la Riviera. Con gli anni, mi sono reso conto di essere stato in quasi tutti i posti in cui ha soggiornato Nietzsche, oltre a essere nato, cresciuto e invecchiato nella città in cui «conobbe la pienezza dello spirito che tenta l’ignoto». Stargli dietro non è facilissimo, ma nemmeno troppo difficile. Nietzsche fu il primo filosofo a fare del turismo nel senso moderno: molti spostamenti, soggiorni anche relativamente brevi, piccole vacanze, e attenzione al portafogli. Del resto, dopo il pensionamento da Basilea nel 1879 (cioè a trentacinque anni), che scelta gli restava? Tornare a Naumburg da sua mamma? «Fossi matto»: e infatti ci tornò definitivamente solo dopo la crisi del 1889, dopo averci passato un inverno spaventoso una decina d’anni prima. Nella villeggiatura forzata e, nella maggior parte dei casi, solitaria, Nietzsche più che altro passeggiava, anche perché si stancava presto gli occhi e più di tanto non poteva leggere né scrivere. La 30

madre gli mandava dei prosciutti che lui teneva in fresco avvolgendoli in un asciugamano umido (si trattava infatti di un tipo speciale di prosciutto, il Lachsschinken, cioè, potremmo dire, «prosciutto salmonato», roseo e delicatissimo), lui andava in giro con un ombrello a tracolla, per avere le mani libere casomai dovesse prendere appunti, e, nonostante i tanti turbamenti del corpo e dello spirito, finiva per apparire muscoloso e abbronzato. Gli itinerari del decennio ’79-’89 possono essere ripetuti senza difficoltà anche oggi, sebbene a prezzi che il pensionato di Basilea (che dai suoi 3000 franchi annui doveva detrarre i soldi per la pubblicazione dei suoi libri) non potrebbe più permettersi. Nietzsche detestava la Germania e (a parte cinque settimane a Lipsia, nell’autunno 1882), non ci tornò se non molto sporadicamente, a BadenBaden (prima delle dimissioni), e poi a Marienbad e a Tautenburg. Progettò anche di andare a Parigi e a Vienna, con Lou Salomè e Paul Rée, però non se ne fece niente, e la sola capitale in cui soggiornò un paio di volte – tranne qualche fugace visita a Berlino – fu Roma. In generale, l’Italia fu la meta preferita. Qualche città d’arte, come Venezia (imitando Wagner) e Firenze (un mese nell’autunno 1885, ospite di un ammiratore, Paul Lanzky, che però presto Nietzsche non sopportò più), e all’inizio il meridione, ancora come Wagner, talvolta con qualche correzione (ad esempio, andò a Sorrento invece che a Ravello). Più tardi prevalse la riviera: Nizza, da poco francese, con passeggiate sino alla vicina Villefranche-surMer, dove conobbe Joseph Paneth, un giovane biologo viennese che fu il primo a parlare di lui a Freud; Rapallo, dove giunse sopraffatto dalla fine della vicenda con Lou e 31

compose parte dello Zarathustra; Ruta, sopra Camogli, dove c’è la galleria che passa sotto il Monte di Portofino e conduce a Santa Margherita e a Rapallo (e da «Ruta di Genova» è datata la prefazione di Aurora). Questo d’inverno (una volta passò anche per Riva del Garda). Nelle mezze stagioni gli capitò di andare a Stresa, Cannobio, a Orta; ma anche a Recoaro e a Vicenza. D’estate preferiva la Svizzera, e qui la villeggiatura più nota è Sils Maria, non lontano da Davos; la casa in cui affittava una stanza è oggi riconoscibile perché nel prato antistante c’è una statua con un’aquila, ed è una foresteria per studiosi nietzschiani. Ma all’inizio, anche prima del pensionamento, era stato a Rosenlauibad, nello Oberland bernese, a Interlaken e a Bad Ragaz – dove, qualche decennio prima, villeggiava, vecchissimo e visionario, Schelling, che difatti è seppellito nel locale cimitero, con tanto di lapide dettata dal re di Baviera: «Al più grande filosofo di Germania». Si trovò bene a St. Moritz; malissimo invece a Lenzerheide, dove, in una stanza troppo umida, compose il frammento sul nichilismo europeo su cui torneremo più avanti. Tutto sommato, delle scelte ben poco zarathustriane (diversamente da quelle di sua sorella Elisabeth, detta «Il Lama», che finì in Paraguay, sebbene non per turismo, bensì perché animata dal proposito di fondare col marito una colonia di pura razza tedesca), con due eccezioni rispetto agli itinerari più battuti: Genova, e la fatale Torino. Risaliamo la sua vita come un fiume. Io sono Marlow, il testimone secondario. Lui è Kurtz.

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Sils Maria, 26 agosto 1888 Volontà di potenza Da Torino torniamo indietro a Sils Maria, dove soggiornarono, oltre a Nietzsche, Proust e Hermann Hesse, Thomas Mann e Rainer Maria Rilke, Karl Kraus e Ernst Robert Curtius. Theodor Wiesengrund-Adorno ci trascorse tutte le estati tra il 1955 e il 1966 con la moglie, al Grand Hotel Waldhaus, manifestazione sensibile del «Grand Hotel Abisso», cioè degli astratti turbamenti etico-politici dei francofortesi su cui ironizzava Lukács. Una volta lo andò a trovare anche Paul Celan, scortato da Peter Szondi, e scrisse «Gespräch im Gebirg», una prosa sulla identità ebraica. Nietzsche affittava una stanza lontanissima dai lussi del Waldhaus. Qui, il 26 agosto 1886, compose quello che solitamente viene considerato l’ultimo piano della Volontà di potenza, un’opera mai esistita in quanto tale, e che insieme è stata uno dei libri (e degli slogan) più influenti nel secolo scorso.

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NAUMBURG, GENNAIO 1889. IL FANTASMA DELL’OPERA Dopo il crollo, il 19 gennaio 1889 Davide Fino, il padrone di casa torinese, spedisce ai familiari di Nietzsche un baule contenente i suoi effetti personali, i libri, e i quaderni di appunti. Tutti pensano (e molti, come Overbeck, temono) che nel baule torinese ci fosse la Volontà di potenza (o, titolo o sottotitolo alternativo, la Trasvalutazione di tutti i valori). Non trovando che appunti, i curatori in pectore suppongono che l’opera sia da qualche altra parte, o che sia andata persa. In effetti, Nietzsche, nelle lettere degli ultimi mesi di vita cosciente, aveva lasciato intendere ai suoi corrispondenti di avere compiuto la sua «opera principale», ma, lo abbiamo visto, le cose andarono altrimenti. A ricostruire congetturalmente l’opera, partendo dagli appunti, ci penseranno gli eredi, quasi che il libro maledetto cercasse a tutti i costi di venire alla luce, incurante del fallimento e persino della morte del suo autore. Nel 1901 esce la prima edizione della Volontà di potenza, a cura di Ernst e August Horneffer e di Peter Gast, con una prefazione di Elisabeth. Comprende 483 pseudoaforismi e costituisce il volume XV della cosiddetta Großoktavausgabe, l’«edizione in ottavo grande». La disposizione dei materiali è tematica e non cronologica. Nel 1903, come volume XIII della Großoktavausgabe, curato da Peter Gast e da August Horneffer, appaiono – questa volta, ordinati cronologicamente – i frammenti postumi 1882/3-1888 sotto il titolo generale «Dal periodo della Trasvalutazione». Altri ne seguiranno l’anno dopo, nel volume XIV, curato da Gast (che firma anche la prefazione) e da Elisabeth. Quest’ultima, il 15 ottobre 1904, sessantesimo anniversario della nascita di Nietzsche, pubblica il secondo tomo del secondo volume 34

della vita del fratello; due capitoli sono dedicati alla Volontà di potenza, con larghe citazioni di inediti che confluiranno, nel 1906, in una edizione con 1067 pseudoaforismi a cura di Elisabeth e di Gast, destinata a restare canonica, e che costituisce i volumi IX e X della edizione tascabile delle opere di Nietzsche da poco avviata sulla scia del successo dell’edizione maggiore. Ma la lista delle versioni della Volontà di potenza non finisce qui: nel 1911 esce l’edizione Weiß, con una appendice comprensiva di altri piani; nel 1917 è la volta dell’edizione «da trincea» di Max Brahn, con 696 pseudoaforismi; nel 1930 viene pubblicata, a cura di August Messer, una versione ridotta, nel quadro di una edizione in due volumi delle opere di Nietzsche, con 491 pseudoaforismi; nel 1935 esce da Gallimard, curata da Friedrich Würzbach, una traduzione francese con addirittura 2397 pseudoaforismi, tuttora ristampata, che verrà pubblicata in tedesco nel 1940. Fra i tanti spettri di Nietzsche, quello della Volontà di potenza non è il meno ingombrante. Non solo per le vicende della sua composizione, ma soprattutto per quelle della sua ricezione, dove si è assistito, in parallelo, a un susseguirsi di commentari politico-filosofici e al dispiegarsi della guerra totale. Perché il secolo in cui la Volontà di potenza fa il suo corso è anche il secolo delle guerre mondiali e dell’Olocausto, poi della Guerra fredda e – giusto cent’anni dopo la prima edizione della Volontà di potenza – delle Twin Towers. Come è possibile che chi ha coltivato l’idea della volontà di potenza, e che nelle opere pubblicate quando era padrone di sé ha predicato contro l’uguaglianza, l’umanità, gli «operai della filosofia» (Kant e Hegel) e gli 35

operai senza virgolette, sia stato anche considerato un profeta della liberazione, accanto e oltre a Marx?

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TORINO, MARZO 1975. «LEI HA LETTO I FRANCESI?» «Lei ha letto i francesi?» Gianni Vattimo mi rivolse questa domanda nel suo studio all’università di Torino nel marzo 1975 (meno di due mesi dopo, il 30 aprile, Saigon sarebbe stata espugnata dalle truppe di Ho Chi Minh, mentre le colonne di fumo dei documenti bruciati si sollevavano dall’ambasciata americana). Lì per lì non capii a chi si riferisse: a Balzac? A Proust? A Dumas? Ovviamente, non intendeva loro, bensì una lista di nomi a me perfettamente ignoti: Derrida, Deleuze, Foucault, Klossowski… Mi misi d’impegno per saldare il debito formativo, e a ripensarci mi pare che la mia impresa ondeggiasse tra l’apprendistato di Bouvard e Pécuchet e quello di Rousseau, tra la volontà di sapere ottusa e la disperazione nervosa, come quando Jean-Jacques scopre che a pagina 3 di un libro si trova un passo oscuro, cerca di chiarirlo con un altro libro, che risulta però indecifrabile a pagina 2, rinviando a un terzo libro, che a pagina 4 contiene un enigma, e alla fine si trova sconfortato in una stanza piena di libri aperti… Così, più o meno, per me. Ricordo che andai persino a fare letteralmente la spesa in Francia, partii per Chambéry, feci qualche giro per librerie, e tornai indietro in giornata. Questo, appunto, nella primavera ’75. In autunno ricordo la stessa scena in grande a Parigi, dove le librerie promettevano meraviglie. Il che, se vogliamo, è il lato Bouvard e Pécuchet. Ma ben più angoscioso era il lato Rousseau: cosa significa tutto questo? I libri che mi ero comprato e sottolineavo con ansiosa incomprensione – gli evidenziatori sarebbero apparsi anni dopo, insieme ai post-it – erano opere come Nietzsche e il circolo vizioso di Pierre Klossowski (1969), ma anche, fuori 37

dal riferimento nietzschiano, Sade prossimo mio (1947) sempre di Klossowski – di lì a poco lo vidi citato nella bibliografia, che già allora mi parve un po’ pretenziosa, posta in apertura di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini, la sua ultima opera che venne a confondersi con la sua morte, il 2 novembre del 1975. Poi c’erano gli Scritti di Lacan, tradotti nel 1974, cui seguirono i seminari, che all’inizio (e per quel che mi riguarda nelle gite in libreria a Parigi) si compravano in trascrizioni semiclandestine, proprio come i bootleg, le incisioni non autorizzate dei concerti di Dylan e dei Rolling Stones. Ma quelli che davano il tono dell’epoca erano Deleuze e Guattari, di cui sempre nel 1975 era stato tradotto in italiano L’Anti-Edipo, uscito in Francia tre anni prima. Da lì diventava possibile risalire a un vecchio libro di Deleuze, Nietzsche e la filosofia (1962), e al più ambizioso Differenza e ripetizione (1968) che, nella edizione italiana, aveva come prefazione una recensione scritta da Foucault anche per suggerire che quello, e non La scrittura e la differenza di Derrida (1967), era il gran libro del momento, anzi, dell’avvenire: «Un jour, peut-être, le siècle sera deleuzien». Foucault si vendicava delle critiche di Derrida alla Storia della follia, ma esprimeva anche una ammirazione sincera per Deleuze, con una prosa che risuscita lo spirito dell’epoca: «Nella garitta del Lussemburgo, Duns Scoto infila la testa nella lunetta circolare; i suoi mustacchi imponenti sono quelli di Nietzsche travestito da Klossowski». Il microcosmo parigino si presentava come un macrocosmo speculativo in cui Duns Scoto dava la mano a Nietzsche, Marx a Heidegger, Sade a Kant, Mallarmé a Lenin. Una cavalcata delle Valchirie tra metafisica, 38

surrealismo e politica, piena di coups de théâtre, ma al riparo da qualunque conseguenza, visto che si svolgeva nel cielo delle idee. A tanto maggior ragione questo valeva per il mio piccolo mondo torinese, in cui rivedo ancora molto Gozzano, tra La signorina Felicita («Tu non fai versi. Tagli le camicie / per tuo padre. Hai fatta la seconda / classe, t’han detto che la Terra è tonda, / ma tu non credi… E non mediti Nietzsche…») e lo struggimento di Torino: Quante volte tra i fiori, in terre gaie, sul mare, tra il cordame dei velieri, sognavo le tue nevi, i tigli neri, le dritte vie corrusche di rotaie, l’arguta grazia delle tue crestaie, o città favorevole ai piaceri! Quattro anni dopo, nel 1979, avevo appena scritto la mia tesi, che era essenzialmente un commento «ai francesi», quando vidi, all’edicola della stazione di Porta Nuova (ossia della stazione da cui Nietzsche era transitato tante volte), un libro di Dario Bernazza, O si domina o si è dominati. L’autore mi era ignoto, e lo rimase a lungo, perché non aveva un pedigree sufficiente agli occhi di un neolaureato che per aver letto un po’ di libri credeva di averli letti tutti, o quasi. Credo che fosse un pensatore solitario, forse un autodidatta, che si stava cimentando con grandi temi (nel 1984 scrisse un libro dove proponeva la soluzione del problema di dio). Sono passati trentacinque anni e non l’ho ancora letto, a questo punto è probabile che non lo leggerò mai, anche se, come talora accade, lo spettro di quel libro non letto ha agito tantissimo in me, come un arto fantasma, come un rimorso, come un rimprovero. 39

A cosa doveva ricondursi il mio senso di superiorità nei confronti di Bernazza, un autore che tutto sommato affrontava gli stessi temi che avevo abbordato nella mia tesi? Oltre che alla spocchia del neofita, a un oscuro senso di colpa, o meglio a un dubbio che non osava prendere forma e voce. Bernazza, in quel libro che fu un best seller delle edicole ferroviarie, sosteneva una versione molto piana della volontà di potenza: è innata in noi la sete di dominio, è legge di natura, e allora tanto vale prenderne atto, altrimenti soccomberemo alla sete di dominio altrui. È la banalità del male, è quello che leggiamo nel diario di Goebbels, 8 maggio 1943: «Oggi viviamo in un mondo in cui bisogna scegliere tra sterminare ed essere sterminati. Non siamo noi che abbiamo creato questo mondo». I miei autori di quegli anni, forse con la sola eccezione di Foucault, sostenevano invece che in Nietzsche abbiamo a che fare con ben altro: l’esito ultimo della storia della metafisica, una sofisticata parodia, un gesto estremo di auto-annullamento del soggetto e l’annuncio di una umanità futura in cui la violenza avrebbe lasciato il posto alle belle arti. Il contrario di Bernazza, e di Goebbels. Ma anche di Nietzsche? La volontà di potenza è una idea incontestabile, una delle poche cose che sembrano chiare come il sole: c’è volontà di potenza in giro, ce ne accorgiamo (e non è né una grande scoperta né una bella sensazione) tutti i giorni. Ed è anche, insieme, una idea pazzesca, l’idea per cui tutto, nel mondo, compresi gli alberi e le sedie, e ovviamente gli organismi anche molto semplici – Nietzsche la trova anche nella scissione delle amebe, che si annientano per raddoppiarsi – è manifestazione della volontà di potenza. È anche, e soprattutto, una idea sinistra, perché si traduce in 40

una assoluzione della violenza. Per venire subito al dunque, se uno chiede «Volete la guerra totale?» fa una domanda superflua, a cui la risposta ovvia è «Sì».

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PARIGI, 1944. ALLEGORIA E FILOLOGIA «Denazificare Nietzsche?» si chiedeva nel 1947 Karl Schlechta. Dopo il crollo del Terzo Reich (si potrebbe riconoscere il processo con esattezza seguendo il ritmo della avanzata degli alleati, visto che il fenomeno inizia nel 1944 nella Parigi appena liberata, con Sur Nietzsche di Bataille), si possono osservare tra i filosofi, o almeno tra i lettori professionali e accademicamente accreditati, due strategie di denazificazione, che hanno luogo, non casualmente, fuori della Germania (dove Nietzsche è recuperato, ma più tardi, nel ’68, da Habermas, come gnoseologo del sospetto), e che seguono, come è naturale e giusto, le due strade canoniche del metodo allegorico e del metodo storico-grammaticale. Il primo inizia con il Nietzsche americano di Walter Kaufmann (1950), che con impassibile tranquillità afferma, per esempio, che quando Nietzsche parla di «belva bionda» non allude ai Germani antichi, e risorti nell’opera wagneriana, bensì al leone, quello che si trova allo zoo – suscitando le ovvie e motivate ironie di Lukács. Molto più potente è la trasfigurazione attuata, nel 1961, dalla pubblicazione dei due volumi del Nietzsche di Heidegger. E non solo più potente, ma anche più sottilmente paradossale, con una ironia quasi gidiana, perché l’intenzione di Heidegger, che aveva scritto quelle pagine trent’anni prima, ai bei (per lui) tempi di Hitler, era diametralmente opposta a quella di procedere a una denazificazione – però certo sostenere che bisogna leggere lo Zarathustra con la stessa deferenza testuale che va dedicata alla Metafisica di Aristotele vale più di mille ermeneutiche della belva bionda, perché colloca Nietzsche seimila piedi al di sopra della geografia e soprattutto della storia. 42

Il metodo storico-grammaticale è invece quello che consiste nel dire che il testo nietzschiano è stato falsificato e che a ripristinarlo nella sua autenticità ci restituirebbe un Nietzsche certo enfant gâté o enfant terrible, ma comunque politicamente accettabile. È la strategia che costituisce il presupposto ideologico, retrospettivamente del tutto comprensibile, della edizione Colli-Montinari, la cui pubblicazione ha inizio nel 1964. Per una sorta di eterogenesi dei fini, questa edizione postbellica ha ottenuto un grande risultato culturale, restituire alla discussione pubblica e filosofica Nietzsche, al prezzo di un monumentale equivoco ermeneutico, sostenere che il Nietzsche «autentico» degli anni Sessanta è tutt’altra cosa dal Nietzsche che era stato letto e commentato negli anni Trenta. È così che l’uomo che ha voluto «imprimere all’essere il carattere del divenire», ossia un pensatore tanto più politico in quanto si professa «impolitico», si trasforma in un pacifista schopenhaueriano, in un mansueto profeta della non violenza. Ad esempio, Colli cita il frammento di Nietzsche «La volontà non esiste», e commenta: «E pensare che per un secolo ci si è azzuffati per penetrare entro la formula magica della volontà di potenza, e soprattutto per giudicarla». Ora, è vero che Nietzsche sostiene in qualche luogo che la volontà non esiste, ma in tanti altri luoghi scrive che esiste eccome, e che è anzi l’essenza dell’universo; ed è anche vero che ha progettato un’opera intitolata Volontà di potenza. Concludere che «la volontà non esiste» significa «la Volontà di potenza non esiste» è davvero correre troppo. Poi c’è il lavorìo di Montinari volto a mostrare come, in extremis, Nietzsche avrebbe abbandonato il progetto della 43

Volontà di potenza. Anche qui, al massimo si dimostra che Nietzsche ha rinunciato a un libro di cui non è venuto a capo, sebbene continuasse a parlarne sino alla fine, traendo in inganno i suoi corrispondenti. Non che un böse Geist travestito da sorella ha fantasticato e falsificato, e che la volontà di potenza non esiste. Infine, c’è l’assunto complessivo, che sta alla base dell’edizione – e che determinò per parecchio tempo la sopravvalutazione dei frammenti postumi rispetto alle opere edite, trasformando i commentari nietzschiani in una sorta di Finnegans Wake – secondo cui, in quei frammenti che si supponevano scampati a chissà quale massacro, si sarebbe compreso che il vero Nietzsche era uomo di tutt’altra pasta rispetto a quella strumentalizzata dai nazisti. Ma Nietzsche resta lo stesso, in tutte le sue contraddizioni e antitesi, nei frammenti postumi come nella Volontà di potenza. E se poi non ci va di leggerla, è sufficiente ricorrere agli editi per trovare delle affermazioni spietate quanto basta.

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WEIMAR, 1901. LA SORELLA-PARAFULMINE Insomma, per esorcizzare gli spettri di Nietzsche e l’opera-fantasma è necessario invocare l’intervento di un’altra potenza malefica, nella fattispecie di una strega o quantomeno di una «donna parafulmine», una figura che Nietzsche ha forgiato pensando a Cosima Wagner, che si fa carico delle antipatie suscitate dal grand’uomo, e che si adatterebbe perfettamente a Elisabeth (e Therese e Alexandra, perché battezzata, come Friedrich Wilhelm, coi nomi dei dinasti), la sorella-parafulmine, accusata di aver nazificato i testi nietzschiani. Attivista e megalomane, Elisabeth ebbe autorevoli sostegni per ben tre candidature al Nobel (ovviamente grazie allo spettro dell’uomo-dinamite, il che non è privo di ironia), ma prima dell’ascesa al potere di Hitler, nel 1911, nel 1914 e nel 1922. E ben più che Hitler e Mussolini frequentò, anche qui realizzando i fantasmi di riconoscimento sociale del fratello, Gide, Hofmannsthal, Mahler, Rathenau. Arricchita dall’Archivio, riconosciuta dal mondo, e – elemento non trascurabile in materia di falso ideologico – poco intelligente, aveva di meglio da fare che falsificare in senso reazionario o nazista il fratello. Se non altro perché Fritz reazionario lo era per davvero, come capirono benissimo D’Annunzio e Langbehn molto prima che Elisabeth mettesse mano ai suoi testi. E nazista non lo fu mai, per ovvi e ineludibili motivi cronologici. Secondo la vulgata che circola tuttora, la sorellaparafulmine avrebbe compiuto falsificazioni a diversi livelli, e in particolare: 1. Pretendendo che Nietzsche avesse veramente e sino all’ultimo progettato un’opera intitolata Volontà di potenza. 2. Dando a intendere che il progetto 45

incompiuto di Nietzsche consistesse proprio nel testo che veniva fornito ai lettori. 3. Interpolando affermazioni estremistiche, protonaziste e antisemite nel testo del fratello. 4. Commettendo gravi sviste di trascrizione. 5. Conferendo un andamento aforistico a frammenti che come tali non erano, necessariamente, degli aforismi. 6. Attribuendo a Nietzsche quelli che in realtà erano estratti di lettura da altri autori. Le accuse (2) e (4) si smontano da sole. Se la Volontà di potenza ha conosciuto tante edizioni tutte diverse per organizzazione e dimensioni, è difficile pensare che Elisabeth volesse dare a intendere, di volta in volta, che il testo pubblicato fosse in qualche modo definitivo e corrispondente alle intenzioni dell’autore; e quanto alle sviste, ci sono come in qualunque altra edizione, ma bisogna considerare che Elisabeth aveva il vantaggio di essersi servita, per qualche tempo, di Peter Gast, che conosceva la grafia di Nietzsche meglio di chiunque altro. Più complicata, visto che verte sull’accertamento di intenzioni che non si possono verificare né in positivo né in negativo, è l’accusa (1). In effetti, non abbiamo la minima idea di che cosa avrebbe fatto Nietzsche se non fosse sopravvenuto il crollo torinese, ma nulla autorizza a escludere che avrebbe pubblicato la Volontà di potenza (ovviamente non nella forma che conosciamo, a meno che sia riuscito a Elisabeth un miracolo borgesiano alla Pierre Menard, autore del Chisciotte), giacché l’argomento di solito addotto, e cioè che da un certo momento in avanti comincia a parlare di un’opera intitolata Trasvalutazione di tutti i valori, non appare affatto decisivo, trattandosi, come abbiamo detto, di un titolo concorrente o di un sottotitolo 46

della Volontà di potenza che si trova negli abbozzi sin dalla prima metà degli anni Ottanta. Soprattutto, risulterebbe fuorviante vedere nell’abbandono della Volontà di potenza, definitivo o provvisorio che fosse, il segno di un qualche ravvedimento, quasi che Nietzsche, resosi conto delle enormità che andava scrivendo, avesse deciso di lasciar perdere (tesi che, sia detto di passaggio, gli attribuisce proprio quella psicologia del pentimento e della penitenza che ha combattuto in tutte le sue opere). Semmai, pare invece plausibile ipotizzare che avesse coscienza dei difetti teorici dell’opera, e in particolare di alcuni nodi irrisolti che lo dissuadevano dall’esporsi al giudizio del pubblico. Si può invece rispondere senza esitazione di no all’accusa (3). Elisabeth non ha interpolato affermazioni estremistiche, protonaziste o antisemite sia per ragioni di fatto (per accorgersene basta collazionare gli pseudoaforismi con i frammenti postumi corrispondenti), sia per varie ragioni di diritto, e in particolare per due motivi. In primo luogo, come ho ricordato prima, affermazioni altrettanto e anche più moralmente problematiche sono contenute nei libri che Nietzsche pubblicò nel corso della sua vita cosciente, dunque Elisabeth non aveva alcuna necessità di rincarare la dose. In secondo luogo, Elisabeth non ne aveva non dico bisogno, ma nemmeno interesse, giacché la convenienza di compiacere un regime nazista era ancora molto di là da venire (nel 1901 Hitler aveva i calzoni corti, e non solo durante i soggiorni a Berchtesgaden), e, nel frattempo, restavano gli inconvenienti legati alla gestione di un lascito che avrebbe potuto incontrare la censura delle autorità ecclesiastiche; era questa la preoccupazione maggiore della sorella, che difatti, quando pubblicò l’Anticristo, omise il 47

sottotitolo Maledizione del cristianesimo. Le falsificazioni materiali di Elisabeth, che hanno avuto luogo, si sono esercitate nell’epistolario, per esempio quando finse che fossero indirizzate a lei delle lettere che Nietzsche aveva scritto alla madre, e questo per accreditarsi, contro la verità dei fatti, come interlocutrice privilegiata del fratello, quale in realtà non fu mai, almeno nei termini che pretendeva. Resta il sospetto, anzi, la motivata certezza, che Nietzsche, ove si fosse deciso a pubblicare la Volontà di potenza, non lo avrebbe fatto nel modo (anzi, nei molti modi) che conosciamo. Appare anche plausibile ritenere che non avrebbe dato un andamento aforistico alla sua opera, almeno se consideriamo che, per esempio, la Genealogia della morale (1887), l’ultimo libro pubblicato prima degli scritti dell’autunno torinese, costituisce un ritorno almeno formale alla dissertazione scientifica. Questo significa, dunque, che l’unica vera accusa a Elisabeth che resta in piedi è la (5), sebbene anche in questo caso si possa sostenere che, se è probabilissimo che gli aforismi non sarebbero stati quelli che conosciamo proprio come l’opera non sarebbe stata quella che abbiamo sotto gli occhi, non è detto che a un certo punto – magari, come ripiego rispetto al progetto scientifico e sistematico – Nietzsche non potesse propendere per la soluzione frammentaria, come nel Crepuscolo degli idoli. Certo, appare indubbiamente più corretto, per la Volontà di potenza, parlare di «pseudoaforismi», così come si potrebbe parlare di una «pseudo-opera», purché con questa espressione si intenda un’opera che non si sa se avrebbe visto la luce, e in quali termini, ma non un falso contrario allo spirito e alla lettera di Nietzsche, come pure si è sostenuto più spesso di 48

quanto non si creda. In questo quadro, infine, è indubbio che ci sia del giusto nella accusa (6), cioè di non aver capito (Elisabeth, ma anzitutto chi svolgeva il lavoro materiale: Ernst e August Horneffer, Gast, e i tanti che verranno dopo di loro) che in più casi i manoscritti di Nietzsche contenevano delle note di lettura da altre fonti, ma è una imputazione che difficilmente può lasciar supporre una intenzione deliberata dei curatori, magari subornati dalla sorella-parafulmine, se è vero che a tutt’oggi la meritevolissima ricerca delle fonti è in corso, e periodicamente se ne trovano delle nuove; in breve, è difficile rimproverare a qualcuno di aver omesso, nel 1901, ciò che non si è ancora compiuto 113 anni dopo. Vale conclusivamente la pena di osservare un punto rilevante. Sin dal 1922, insieme a un gruppo di docenti della Università di Jena, Max e Adalbert Oehler, con Karl Koetschau, mettono in cantiere una edizione storico-critica (sarà quella pubblicata dall’editore Beck negli anni Trenta), e il direttore del Goethe-Schiller Archiv di Weimar prende a lavorare nel Nietzsche Archiv per decifrare materiali non ancora trascritti. L’interesse filologico è indubbio, anche perché nel 1930 scadono i diritti, e chiunque può disporre degli editi. Da questo momento, l’Archivio perde il monopolio delle edizioni nietzschiane, e altri, magari nazisti fatti e finiti, potranno pubblicare Nietzsche a piacimento, ma visto che lo scadere dei diritti riguarda solo gli scritti editi, si faranno bastare quelli, traendone grande soddisfazione – tra Dioniso, il superuomo e la critica della democrazia. Precisamente in questi anni nasce – fuori dell’Archivio, contro di esso e sotto la direzione dell’arcinazista Alfred Baeumler – l’edizione in otto volumi 49

tuttora in commercio da Kröner. È in considerazione di ciò che, nel 1931, Elisabeth cerca un prolungamento trentennale dei diritti, e li ottiene appunto per la Volontà di potenza e per i frammenti postumi. Nello stesso anno, e nel quadro delle attività dell’Archivio, prende inoltre avvio l’edizione Beck, che, per esplicito riconoscimento di Montinari, è filologicamente ineccepibile; essa costituisce il diretto antefatto della edizione Colli-Montinari, che se ne è servita ampiamente. In questa vicenda, dunque, non manca una qualche ironia. Se la vulgata vuole che la sorella fosse nazificatrice, la verità è diversa: quando pubblicò la Volontà di potenza, non era nazista per ovvi motivi cronologici; e quando i nazisti si approprieranno di Nietzsche, lo faranno in larghissima parte sulle opere edite, e immuni da qualunque attività della sorella. La quale nel frattempo aveva promosso una edizione critica dei frammenti postumi impeccabilmente filologica. In conclusione, dunque, la sorella-parafulmine era falsaria per vanità intellettuale e per sentimentalità magari demente, non per ideologia, e difatti gli interventi non consistono in aggiunte protonaziste o antisemite, bensì nell’ordinamento tematico anziché cronologico, e nell’accorpamento di brani o, per converso, nella divisione dello stesso frammento. Niente di impegnativo politicamente. Come ho detto, le manomissioni ebbero luogo piuttosto nell’epistolario, per accreditare una intimità spirituale col fratello che non corrispondeva al vero. Ma questo genere di falsi, già denunciati fuori dell’Archivio sin dai primi anni del secolo, dalla cosiddetta «tradizione di Basilea» (quella che risaliva a Overbeck) che si opponeva alla «tradizione di Weimar», cioè a Elisabeth, furono riconosciuti al suo interno sin dalla 50

premessa del primo volume della edizione Beck dell’epistolario, dove si notificava la mancanza di originali di molte lettere, dunque la loro irricevibilità in una edizione critica.

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BASILEA, 1870-1874. IL PICCOLO CHIMICO Per rendere possibile un Nietzsche di sinistra (o almeno non troppo di destra), dopo l’allegoria, la filologia e l’esorcismo della sorella c’è una quarta strategia ermeneutica, anche più sottile, forse persino la più acuta e la più giusta, se non nascondesse, come vedremo, un equivoco di fondo. Si tratterebbe di sostenere che la volontà di potenza è davvero al di là del bene e del male dal momento che parla di cose, come i microrganismi, gli atomi e le comete, che non hanno alcunché di morale, sono completamente fuori scala rispetto al mondo umano, e riguardano solo la biologia o la fisica. Risultato: come fai a prendertela con le particelle subatomiche? E se io, per ipotesi, dico che questa lotta è la legge del vivente, sono forse l’apologista del male, o non sono, invece, l’impassibile anatomista e chimico della natura, umana e non umana? Ora, non c’è dubbio che Nietzsche intendesse fondare il suo sistema, e i due suoi concetti-chiave, ossia la volontà di potenza e l’Eterno Ritorno, su una base scientifica. La scienza del suo tempo, almeno nelle sue aspettative, corroborava quanto aveva imparato dal mondo greco arcaico e anticlassico, ossia che non esiste altro che forza e lotta per la potenza, che l’essere è un velo illusorio gettato sul divenire, che il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, sono il frutto della virtù virile, l’andragathia, termine da cui, sia detto di passaggio, deriva la parola «’ndrangheta». L’attrazione esercitata dalla scienza in quelli che del resto sono gli anni di maggior successo del positivismo è incontestabile, ed è stata riconosciuta di buon’ora da 52

Richter, confermata a metà del secolo scorso da un fondamentale studio di Mittasch, per essere rilanciata più recentemente da Babich, Heit, Abel e Brusotti. Per tutta la vita Nietzsche cercò di rimediare alle lacune scientifiche della formazione solo umanistica ricevuta a Pforta. Incominciò già a ventiquattro anni, quando studiava Democrito, e continuò occupandosi di fisica, chimica e scienze in generale. Tra i libri presi in prestito nella biblioteca di Basilea dal novembre 1870 al novembre 1874 è impressionante la quantità di letture di scienziati o di filosofi vicini alle scienze (Funke, Helmholtz, Cantor, Zöllner, Pouillet, Boscovich, Kopp, Mohr, Mädler, Ladenburg). Altre letture sono testimoniate dai libri presenti nella sua biblioteca privata. La ragione di questa volontà di sapere – profonda e non occasionale – è esposta nel passo di Ecce homo in cui Nietzsche descrive la sua decisione di abbandonare la filologia per dedicarsi alla fisiologia, alla medicina e alle scienze naturali: «Alla mia scienza mancavano completamente le realtà, e le ‘idealità’ chissà a che diavolo servivano!» La fisica, come reale, viene a controbilanciare quel troppo di ideale che gli era stato trasmesso dal pantheon umanistico. Al tempo stesso, e reciprocamente, uno sguardo disincantato sul mondo classico ci svela quanto poco quest’ultimo indulgesse all’idillio. La fisica e la fisiologia vengono così a confermare la filologia dionisiaca, in un quadro filosofico che deve tantissimo alla Storia del materialismo di Friedrich Albert Lange, uscita nel 1866 e subito letta con attenzione da Nietzsche studente di filologia a Lipsia (per una strana ironia, Lange, in una nota della seconda edizione, uscita nel 1873, citava La nascita della 53

tragedia, ma Nietzsche, che aveva letto la prima, e che si ricomprò la quarta, senza note, non lo seppe mai). Gli effetti li troviamo già in scritti come Su verità e menzogna in senso extramorale, e, macroscopicamente, nella teoria dell’Eterno Ritorno, che è fortemente debitrice del libro di Friedrich Zöllner sulla natura delle comete (1872) – oltre che, per l’appunto, nella Volontà di potenza. Più avanti lesse Ernst Mach, il quale sintomaticamente, nella edizione del 1903 della Analisi delle sensazioni (1886), avvertì l’esigenza di tracciare un netto distinguo fra le proprie dottrine e quelle di Zarathustra, vista l’evidente affinità di alcune teorie, e in particolare della tesi secondo cui le forme logiche non sono che l’elaborazione di disposizioni fisiologiche. Quel che è certo è che l’aforisma 112 della Gaia scienza è un palese richiamo al fenomenismo nella sua specifica versione machiana: non diversamente dai presocratici, non siamo in grado di fornire una spiegazione del mondo, perché operiamo «con cose che non esistono», quali linee, superfici, corpi, atomi; nella impossibilità di penetrare l’intima struttura del reale, giova rassegnarsi a considerare la scienza come una efficace umanizzazione delle cose. Ecco, ma cosa c’è, sotto il velo troppo umano: qualcosa o niente? La risposta di Nietzsche è ovviamente che c’è volontà di potenza, quanti di forza: «Ogni centro di forza – e non solo l’uomo – costruisce il resto del mondo a partire da se stesso». Si tratta di una specifica variante della monadologia di Leibniz, che, al solito, non dipende da una lettura diretta, bensì da una mediazione manualistica (Kuno Fischer) e scientifica. Leibniz si era appoggiato alla biologia dei suoi tempi, quando la scoperta degli spermatozoi 54

confortava l’idea che ogni monade, per esempio l’uomo, contenesse al proprio interno altre monadi organiche, animate da una potenza vitale. Nell’Ottocento questa visione era tornata in auge – e Nietzsche poteva contare sull’avallo di Johannes Müller, che nel Manuale di fisiologia (1833) aveva parlato di «monadi organiche», e sui paragoni tra la cellula e la monade rintracciabili nella Anatomia generale (1841) di Jakob Henle. In questa folla di nomi, la mediazione più certa e filosoficamente influente è rappresentata dalla Teoria della filosofia naturale (1758) di Ruder Josip Boscovich (17111787), che Nietzsche aveva conosciuto leggendo Fechner. Filosofo, astronomo, fisico, matematico, storico, ingegnere, architetto, poeta, Boscovich elaborò una fisica delle particelle, anticipando di cent’anni la versione moderna dell’atomismo. L’intuizione fondamentale di Nietzsche viene dunque confermata da Boscovich: non c’è materia, c’è solo forza, solo l’energia è realtà, e tutto il resto è apparenza. Su questa base, può misurarsi con le dottrine di Faraday, e soprattutto di Thomson e di Zöllner, di cui nel 1876, a Lipsia, aveva studiato i Principi di una teoria elettrodinamica della materia. Qui si avanza l’ipotesi di una sensibilità della materia inorganica (che sarebbe dunque capace di percezione oscura ma certa, attestata dalle regolarità dei processi chimici) e si teorizza una velocità elettrodinamica che costituisce la vera essenza della materia, anche qui confermando il primato del divenire sull’essere e della forza sulla forma. Dunque, a voler fissare per sommi capi le basi scientifiche della volontà di potenza, avremmo all’incirca questo. Il mondo come tale è apparenza, noi conosciamo solo dei 55

fenomeni, non delle cose in sé. Era il dogma del trascendentalismo che, dopo Kant e dopo Schopenhauer (insieme a Lange, l’altro nume filosofico di Nietzsche), era stato assunto come ovvio presupposto da tutti i fisici, biologi, fisiologi e psicologi dell’epoca. Ecco, ma che cos’è l’essenza di cui tutto il resto è apparenza? Qui la soluzione non è molto diversa da quella della fisica contemporanea. L’essenza è forza, energia, insomma campi e particelle subatomiche. Tuttavia, con un cambio di scala e di tono che gli è caratteristico, Nietzsche stabilisce una linea continua che dai campi di forza conduce al superuomo, e ne giustifica la crudeltà vedendoci l’espressione non adulterata della fatalità e della prepotenza che dominano l’universo. Per quanto detestasse Rousseau, Nietzsche ne condivideva l’assunto di fondo: ciò che la civiltà fa all’uomo, l’azione della cultura come seconda natura, è una corruzione e una mistificazione dell’originario. Un originario che tuttavia per Rousseau è un uomo naturalmente buono, mentre per Nietzsche è un superuomo dispotico, un maschio alfa, cioè anche un povero fesso, ma un fesso pericoloso.

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CHARLOTTESVILLE, 1977. OTOBIOGRAPHIES Come ha ricordato Derrida in Otobiographies – una conferenza tenuta nel 1977 alla University of Virginia a Charlottesville – non si tratta di dichiarare che Nietzsche non ha mai pensato o voluto ciò che, nel Novecento, è stato fatto in suo nome, né di appellarsi alla falsificazione della eredità, ma piuttosto di domandarsi come mai quella che si chiama tanto ingenuamente «falsificazione» sia avvenuta proprio sulle sue opere; e perché le uniche istituzioni culturali che abbiano avuto la tentazione di richiamarsi a Nietzsche siano state quelle naziste. Certo non sapremo mai che cosa avrebbe detto Nietzsche del mondo in cui ebbe il maggior successo, ossia la Germania tra il ’33 e il ’45, e non è nemmeno difficile immaginare che l’avrebbe contraddetto così come contraddisse il mondo di Bismarck e di Guglielmo II. La constatazione del successo di Nietzsche durante il Terzo Reich deve però guidarci, come una idea regolativa, per evitare la tesi facile e falsa di un fraintendimento assoluto, che avrebbe consegnato lo spettro di Nietzsche al male del nostro secolo. Nietzsche rivendica l’esigenza di una contemplazione impassibile del mondo, al di là del bene e del male. Questa impassibilità c’era anche in Schopenhauer, che però predicava la rassegnazione, non diversamente dal Freud di Al di là del principio di piacere, dove ad avere l’ultima parola nella lotta tra Eros e Thanatos è la pulsione di morte come destino e desiderio profondo del vivente. Come sappiamo, Freud, con quello che è un lapsus molto eloquente, dichiarò di essersi vietato di leggere Nietzsche temendo che l’affinità tra le sue dottrine e la psicoanalisi avrebbe compromesso la scientificità di quest’ultima. Resta tuttavia che tra il 57

pessimismo di Schopenhauer e di Freud e quello di Nietzsche c’è una differenza cruciale. I primi due suggeriscono una conciliazione (che Nietzsche avrebbe definito spregiativamente «buddistica») con il proprio destino mortale, l’abdicazione volontaria alla volontà. Nietzsche, no. Il suo pessimismo non è una dottrina di rassegnazione, al contrario, si trasforma – Bernazza aveva ragione – in un principio attivo, nel nichilismo della forza, nella esaltazione della potenza e di ciò che ne segue, fossero pure la guerra totale e il male assoluto. Ora, la trasformazione dell’essere nel divenire è quanto di più politico si possa concepire (lo si vedrà fin troppo bene in Heidegger), e Nietzsche è stato tutto, tranne che un impolitico. Il suo rovello è molto vivo e molto personale, ed è il rapporto conflittuale tra l’individuo e la collettività, dove l’individuo si vede soffocato, incompreso, maltrattato, e lotta in modo parossistico per il proprio riconoscimento. In questa lotta, che qualcuno – e come dargli torto? – definirebbe immorale ed egoistica, l’individuo ha dalla sua la metafisica: reprimere la forza è fare un torto all’umanità e, come in Eraclito, la giustizia si ottiene attraverso il polemos, con principi che risultano iper-fungibili dal punto di vista politico, appunto perché l’essere diviene anzitutto un fare, un combattere, un trasformare. Il che, in una fase rivoluzionaria, può risultare allettante sia per una squadra di spartachisti che per dei Freikorps antibolscevichi. Nel 1919 apparirà a Breslavia il libro di Hugo Bund, Nietzsche come profeta del socialismo, dove Nietzsche non è anacronisticamente accusato di nazismo, ma è chiamato a correo come ispiratore del socialismo. Il superuomo e la sua tirannia sarebbero la piena realizzazione del socialismo, che 58

– d’accordo col modello leninista – non si contrapporrebbe più al militarismo, ma ne sarebbe anzi il compimento. Sarà, il socialismo si dice in molti modi. Resta che Lukács ha buoni occhi quando sostiene che Nietzsche ha fatto di tutto per screditare, dal punto di vista del pensiero, l’idea della uguaglianza tra gli uomini, e che «non voleva affatto, come i neokantiani, i positivisti ecc., fondare un’etica valida per tutti gli uomini. Al contrario, la sua etica è esplicitamente e coscientemente l’etica della classe dominante; accanto a quest’etica e al di sotto di essa vi è, come qualitativamente distinta, la morale degli oppressi che Nietzsche apertamente nega e combatte».

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LONDRA, 21 FEBBRAIO 1848. «UNO SPETTRO SI AGGIRA PER L’EUROPA» E dunque, tornando alla domanda iniziale, come è possibile che Nietzsche abbia potuto affascinare, e con motivi non così peregrini, la sinistra? E come si spiega il sortilegio per cui un pensatore così profondamente nietzschiano come Jünger poté vantarsi del fatto che le sue opere complete si trovassero non solo nella biblioteca di Hitler, ma anche (insieme, è facile immaginarlo, alla elegante edizione Gallimard delle opere di Nietzsche, con prefazioni di Foucault e Deleuze) in quella di Mitterrand? E ancora, venendo a un altro autore impregnato di Nietzsche, Heidegger, come è stato possibile che il massimo successo di quella che un suo contemporaneo, Lévinas, definiva «la filosofia dell’hitlerismo» abbia avuto luogo a sinistra e non a destra, e dopo la guerra? L’arcano si svela più facilmente di quanto forse non sia apparso sin qui. «Uno spettro si aggira per l’Europa.» Il comunismo. Gli intellettuali si commuovono per questo bisogno di giustizia e compatiscono il proletariato. Ma poiché i loro sono in gran parte astratti furori e intenerimenti letterari, lo spettro comunista potrà facilmente confondersi con fantasmi di tutt’altro tipo, quelli di una insofferenza narcisistica, di un ribellismo antiborghese, di un attivismo da biblioteca. È ancora Lukács che lo spiega: questi intellettuali potranno sostituire al socialismo l’annuncio di Zarathustra, cioè la promessa di un cambiamento ancora più grande e più indeterminato, di un futuro e di un dio a venire. «La ‘missione sociale’ che viene compiuta dalla filosofia di Nietzsche consiste nel ‘salvare’, nel ‘redimere’ questo tipo d’intellettualità borghese, additandole una via che renda superflua ogni rottura, anzi 60

ogni seria tensione con la borghesia; una via in cui possa continuare a sussistere il gradito senso di essere ribelli, e venga reso magari più vivo con la seducente contrapposizione di una ‘più profonda’ rivoluzione ‘cosmico biologica’ alla ‘superficiale’ ed ‘esteriore’ rivoluzione sociale.» Questo messianismo si esprime pienamente in un passo di Al di là del bene e del male che Nietzsche citerà ancora in Ecce homo prima di passare in rassegna i propri libri, e dove è questione di un «genio del cuore», un genio «che insegna alla mano maldestra e precipitosa l’indugio e una maggiore delicatezza nell’afferrare […] dal cui tocco ognuno si diparte più ricco, non graziato e stupito, non beneficato e oppresso come da un bene estraneo, sibbene più ricco di sé, più nuovo che per l’innanzi, dissigillato, alitato e spiato da un vento australe, forse più insicuro, più delicato, più fragile, più infranto, ma colmo di speranze che non hanno ancora un nome». Difficile non trovare in questo toccasana per professori una parentela con almeno tre figure stigmatizzate da Hegel: la legge del cuore e il delirio della presunzione, l’anima bella, e la coscienza infelice. Non giurerei che, oltre a Jünger e a Nietzsche, Mitterrand avesse nella propria biblioteca la Fenomenologia dello spirito. Di certo, in un confronto televisivo per la presidenza francese, Valéry Giscard d’Estaing ebbe la meglio su Mitterrand con una frase famosa: «Vous n’avez pas, Monsieur Mitterrand, le monopole du cœur». Quello del cuore non era il solo monopolio che la sinistra si illudeva di detenere. L’altro era quello della politica. Politica e sinistra erano coestensive, dunque ogni pensatore del politico – fosse pure il giurista di Hitler, come Schmitt – 61

diventava fruibile a sinistra. E l’intima struttura politica del pensiero di Heidegger e di Nietzsche li rendeva particolarmente appropriati a un’epoca iper-politica come il Sessantotto. La storia e la decisione sono l’unica realtà – cosa che era in sintonia non solo con quel funesto antirealista che è stato Hitler, ma anche con quegli antirealisti più benintenzionati che proclamavano la necessità di portare l’immaginazione al potere, e di combattere l’oggettività in nome della solidarietà, il freddo intellettualismo in nome del radicamento in una comunità di popolo. Di qui una gara di radicalismo perfettamente intonata alla funzione-Nietzsche: «Per quanto scioccante possa essere questa suggestione per la nostra sensibilità morale, la nostra integrità intellettuale ci obbliga a domandarci se il nazionalsocialismo non rappresenti la risposta autentica alla questione di come dovremmo vivere». Così tal Christopher Rickey in Revolutionary Saints. Heidegger, National Socialism, and Antinomian Politics, Pennsylvania University Press 2002. La cosa più sorprendente e insieme prevedibile è che chi mette su carta queste bizzarre e funeste enormità ringrazia, all’inizio del suo libro, non solo la famiglia (da intendersi non come Sippe nibelungica, ma proprio nel senso più domestico dei ringraziamenti alla moglie che ha riletto il manoscritto e al figlio che ha dato una mano nella correzione delle bozze), ma anche una fondazione per le ricerche sulla democrazia e il centro per la ricerca sociale dell’università di Chicago. Un’ultima considerazione. Se oggi Nietzsche, Heidegger e Schmitt hanno perso terreno in politicis (come avrebbe detto Nietzsche) è perché è fungibile da qualche anno un 62

Marx postmoderno altrettanto poco impegnativo. Proprio come Nietzsche, Heidegger e Schmitt dopo il 1945, anche Marx, dopo il 1989, è ormai privo, per così dire, di «istituzioni di riferimento», e dunque la funzione-Marx può adempiere alle stesse indeterminate richieste di radicalità a cui rispondeva qualche lustro fa la funzione-Nietzsche. Ci si può certo domandare che cosa direbbero i neomarxisti se Marx (o, a questo punto, anche Nietzsche) ritornasse davvero. Ho il sospetto che dopo i primi festeggiamenti lo considererebbero un ospite ingombrante e molesto, e che verrebbe a crearsi una situazione a metà strada fra il ritorno di Cristo sulla terra nella Leggenda del grande inquisitore («Perché sei venuto a disturbarci? Sei infatti venuto a disturbarci, lo sai anche Tu») e il § 147 delle Passioni dell’anima: «Quando un marito piange la moglie che tuttavia, come accade talvolta, gli dispiacerebbe di veder resuscitare, può accadere che il suo cuore sia stretto dalla tristezza eccitata in lui dall’apparato funerario e dalla mancanza di una persona alla cui conversazione era abituato; e può darsi che qualche traccia d’amore o di pietà, presentandosi alla sua immaginazione, faccia sgorgare dai suoi occhi lacrime sincere; ma nel segreto dell’anima egli prova un’intima gioia, la cui emozione ha tanta forza da non poter essere per nulla diminuita dalla tristezza e dalle lacrime che la accompagnano…»

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Lenzerheide, 1887 Nichilismo senza antidepressivi «Qui ci sono infrastrutture ideali per famiglie, sportivi o per chi ama concedersi il meglio, ma lontano dal clamore. Il lago di Lai, con l’amena area attrezzata del Lido, promette tanto divertimento per tutta la famiglia.» Questa, oggi, è la descrizione di Lenzerheide, nei Grigioni, sul sito dell’azienda di soggiorno. Nel giugno del 1887, in una stanza mal riscaldata e il prosciutto inviatogli dalla mamma che non aveva bisogno di essere tenuto in umido con l’asciugamano, l’umore di Nietzsche era quanto di più restio ai divertimenti. Più che di trovarsi al centro dell’Eterno Ritorno, l’impressione è di essere una pietra che rotola. La stanza è umida, dalla finestra vede una pietra umida anche lei, gli amici sono stanchi di lui e le sue idee fondamentali, la volontà di potenza e l’Eterno Ritorno, non interessano ad anima viva. È in questa stanza e in questo stato d’animo che nascono le poche pagine del Nichilismo europeo, datate «10 giugno», una sorta di apocalisse senza redenzione, la rottura di qualsiasi messianismo o anche più modestamente di qualsiasi speranza. La profezia di Lenzerheide è l’antitesi della promessa contenuta in un altro scritto breve, i 56 versetti di Abacuc nella Bibbia: «Il Signore rispose e mi disse: ‘Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette perché la si legga speditamente. È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà, e non tarderà. Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede’» (Ab 2,2-4). «Se indugia, attendila, perché certo verrà, e non tarderà.» Una persona, un’ora, un evento: verrà, 64

prima o poi, lo ha promesso Dio, così come Dio garantisce che soccomberà il malvagio, e il giusto vivrà della fede. Il nichilismo è il crollo di questa promessa: è inutile che aspetti, non verrà, non verrà nessuno a salvare i vivi e i morti e tutto il tempo vanamente speso. A questo punto, non solo un senso qualsiasi è meglio dell’assenza di senso, ma la stessa catastrofe è, letteralmente, meglio che niente. L’umanità europea procede inesorabilmente verso il peggio, moltitudini in cerca di distruzione si scaraventano verso il nulla come lemming. E questo perché non sanno rispondere alla domanda: «a che scopo?» Leggiamo nel frammento: «Nella vita non c’è niente che abbia valore al di fuori del grado di potenza – dato appunto che la vita altro non è che volontà di potenza. La morale ha preservato dal nichilismo i disgraziati attribuendo a ciascuno un valore infinito, un valore metafisico, e inserendolo in un ordinamento che non concorda con quello della potenza e della gerarchia terrene: ha insegnato la rassegnazione, l’umiltà ecc. Una volta che perisse la fede in questa morale, i disgraziati perderebbero la loro consolazione – e perirebbero». E subito dopo: «Il perire si presenta come un autodistruggersi, come un’istintiva scelta di ciò che è destinato a distruggere. Sintomi di questa autodistruzione dei disgraziati: la vivisezione operata su se stessi, l’avvelenamento, l’ebbrezza, il romanticismo, soprattutto l’istintiva costrizione a compiere azioni con cui ci si inimica mortalmente i potenti (allevandosi per così dire i propri carnefici), la volontà di distruzione come volontà di un istinto ancora più profondo, dell’istinto dell’autodistruzione, come volontà del nulla». «Hunde, wollt ihr ewig leben?», «Cani, vorreste vivere in 65

eterno?», è l’apostrofe con cui pare che Federico il Grande si sia rivolto ai suoi granatieri in fuga durante la battaglia di Kolin, nel 1757, ed è molto probabile che avesse paura quanto loro. Nietzsche guarda alle catastrofi del nichilismo europeo con lo sguardo del forte, e il frammento si chiude con l’elogio di coloro che sapranno sopportare il peso del caso, dell’assurdità, della mancanza di valori, coloro che non temono l’annientamento, che possiedono una grande salute, coloro che riescono a caricarsi sulle spalle il peso dell’Eterno Ritorno. Lo fa per tranquillizzarsi, ma tutto intorno a lui gli conferma il legittimo sospetto di essere la quintessenza degli infelici destinati al tracollo, e che la favola del nichilismo narri proprio di lui.

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PARIGI, 1857. IL MOSTRO DELICATO «Se indugia, attendila, perché certo verrà, e non tarderà»: come è accaduto che questa promessa sia venuta meno? Diversamente che nella prospettiva apocalittica di Nietzsche, la tonalità emotiva in cui si sperimenta la mancanza di senso come male sociale dell’Ottocento è la noia, che Leopardi considerava non a torto come il «desiderio puro della felicità; non soddisfatto dal piacere, e non offeso apertamente dal dispiacere». Le tragedie verranno, ma dopo. In attesa della fine dei tempi, i Fiori del Male di Baudelaire si apre rivolgendosi all’ipocrita lettore cantando (come la diva dell’Iliade) la Noia, «questo mostro delicato». «Tu le connais, lecteur, ce monstre délicat», ecco il sentimento dominante della modernità ottocentesca, che certo non ha lesinato nella ricerca di distrazioni, sino alla tragedia, all’entusiasmo con cui sarà accolta la Prima guerra mondiale – il paradosso di Wilhelm Windelband, secondo cui la guerra mondiale è pur sempre meglio della teoria della conoscenza, racchiude un nocciolo di verità. La guerra contro il mostro delicato si manifesta nella celebrazione di eventi e in una accelerazione dei tempi vitali, si intreccia con il bisogno eminentemente umano di dare una forma al tempo, di scandire, per esempio attraverso i riti e le feste, tutta quella distesa di giorni – insieme troppo lunga e troppo breve – che è la vita. In questa condizione accade qualcosa di singolare. L’uomo moderno guarda con scetticismo alla sua pretesa supremazia nel mondo e incomincia a invidiare o a vagheggiare. Invidia gli antichi, che vivevano in un mondo ancora incantato, e i primitivi, che forse ci vivono ancora. O vagheggia altre forme di vita o modi d’essere ancora più radicalmente diversi. 67

A volte – ed è la grande tentazione del «diventare natura» – il disgusto dell’umanità può condurre a preferire le piante, come in Proust, che guarda dormire Albertine. Chiudendo gli occhi e perdendo la coscienza, animata soltanto dalla «vita incosciente dei vegetali e degli alberi», è finalmente incapace di mentire. Altre volte, la forma di vita aliena e invidiata è l’animale. Che è forse più felice dell’uomo, sebbene sia tutt’altro che certo, perché – osserva a giusto titolo Leopardi – tutte le fantasie umane sulla felicità, o almeno sulla non-sofferenza degli animali, potrebbero rivelarsi infondate, e la verità potrebbe essere che «dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dì natale». Di certo, l’animale appare più eterno, come gli dei Egizi che prendevano le sembianze di tori, sciacalli o gatti, è al riparo dagli accidenti della storia, della cultura, dell’umore, che sembrano affollarsi all’orizzonte dell’uomo, tanto più se moderno.

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RIGA, 1781. ONTOLOGIA ED EPISTEMOLOGIA Ma come può accadere che questo stato d’animo, e il suo correlato oggettivo, prenda il nome di «nichilismo»? Da Parigi conviene spingersi molto più a nord, sino a Riga, in Lettonia, dove l’editore Hartknock pubblicò nel 1781 la Critica della ragion pura di Kant. Proprio in quest’opera che apparentemente tratta soltanto di sapere, e che non sembra dar spazio ai sentimenti, si trova l’origine del processo che, in meno di cent’anni, porterà Nietzsche a teorizzare il nichilismo europeo. Come? Attraverso quella che si potrebbe chiamare «fallacia trascendentale», e che consiste in una confusione tra l’ontologia, ossia quello che c’è, e l’epistemologia, ossia quello che sappiamo. In Kant tutto si raccoglie nell’idea della rivoluzione copernicana: invece di chiederci come siano le cose in se stesse, domandiamoci come debbano essere fatte per venire conosciute da noi. Così, il mondo intero risulta dipendente dall’io, e dagli occhiali che porta sul naso. È indubbiamente un sentimento di potenza ma, al tempo stesso, di grande angoscia, e soprattutto di totale negatività, perché investe i soggetti – anzi, quel singolare soggetto che è l’io penso – di una enorme responsabilità, quasi che il mondo cessasse di esistere quando l’io non lo pensa e non lo sente. I due cardini di questa tesi sono costituiti da due frasi. La prima è che l’io penso deve poter accompagnare le mie rappresentazioni, la seconda è che le intuizioni senza concetto sono cieche. Per la prima il mondo esterno viene assorbito nel mondo interno, nell’io. Per la seconda, si determina un collasso tra l’essere e il sapere, dal momento che si assume che non si può avere alcuna esperienza del mondo in assenza di schemi 69

concettuali. Kant non pretende che il mondo non esista se non ci pensiamo, si limita a sostenere che noi non possiamo avere rapporto con il mondo se non attraverso la mediazione di schemi concettuali, sicché quello che c’è viene intrappolato nella ragnatela di quello che sappiamo. Tuttavia quello che Kant propizia, sia pure con intenti onestamente realistici, è la premessa di un idealismo assoluto che priva il mondo di qualunque positività, lasciandolo alla mercé di un soggetto-vampiro.

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EUTIN, 1799. ONTOLOGIA E ASSIOLOGIA È una deriva, ovviamente, Kant non lo sapeva e non ci pensava, ma questo fu proprio lo sviluppo del suo pensiero tra i suoi indesideratissimi seguaci. Kant scrisse persino una lettera di pubblica diffida, per evitare che si confondessero le sue dottrine con quelle di Fichte, che si pretendeva suo allievo. Ma è difficile non considerare che Fichte fosse coerente con gli assunti kantiani: alla fine, il mondo diviene una pura produzione dell’io, realizzando proprio quella frase che, non si sa se con approvazione o sgomento, il vecchio Kant aveva scritto negli appunti del cosiddetto Opus postumum: «L’io, il proprietario dell’universo». È così che quello che Gadda definirà «il più osceno dei pronomi» si impadronisce del mondo. Dall’altro capo del Baltico, da Eutin, a nord di Lubecca, in una lettera a Fichte del 21 marzo 1799, Friedrich Heinrich Jacobi conia allora il termine «nichilismo» accusando Fichte e Kant di avere idoleggiato le «vuote forme dell’immaginazione». Che cosa c’entra tutto questo con la notte oscura dell’anima di Nietzsche a Lenzerheide? A prima vista, ben poco, eppure non è così. Il nichilismo denunciato da Jacobi, il riennisme di cui si incomincerà a discutere di lì a poco in Francia, è apparentemente una questione che riguarda il rapporto tra l’essere e il conoscere. Se si sostiene che il mondo è una costruzione dell’io, questa è certo una affermazione teorica, ma è anche gravida di conseguenze pratiche. Lo aveva notato con tranquilla ironia, nel 1785, il filosofo scozzese Thomas Reid nei Saggi sulle facoltà intellettuali dell’uomo, quando se la prendeva con la tendenza di Locke, Berkeley e Hume a ridurre il mondo alla rappresentazione che ne abbiamo: «L’intero universo da cui 71

sono circondato, i corpi, gli spiriti, il sole, la luna, le stelle, la terra, gli amici e i parenti, tutte le cose senza eccezioni a cui attribuivo una esistenza indipendente dal fatto di essere percepite, svaniscono in un istante». E, sparito tutto, in compagnia del nostro detestabile io, ci si sente soli e depressi. Sono vecchi argomenti, ma la cosa più importante da notare è che dal nichilismo ontologico, dall’affermazione «nulla è», al nichilismo assiologico, l’affermazione «nulla vale», e di lì alla depressione, il passo è molto breve. È infatti difficile non essere d’accordo con John Locke quando, confutando nel Saggio sull’intelletto umano un ipotetico solipsista, gli aveva obiettato che la certezza che abbiamo dell’esistenza del mondo esterno «è grande come la nostra felicità o la nostra infelicità, oltre le quali non ha importanza per noi il conoscere o l’essere». Se fossimo un cervello in una vasca, se la realtà e la rappresentazione fossero uguali, allora anche la nostra felicità o infelicità sarebbero sogno, e non avrebbe senso cercare di essere felici. E quando una teoria ci dice che non esiste il mondo esterno e i valori sono una semplice allucinazione, allora lo stato d’animo predominante diviene la malinconia, o meglio quella che potremmo definire come una sindrome maniaco-depressiva, un’altalena bipolare che oscilla tra il senso di onnipotenza e il sentimento della vanità del tutto.

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LANDSHUT, 1809. PENSO DUNQUE SONO Come diceva Abacuc richiamando la necessità della promessa, del dono, della rivelazione di qualcosa che viene dall’esterno e non dall’Io? «Se indugia, attendila, perché certo verrà, e non tarderà.» Nell’età dell’idealismo è una prospettiva che si ritrova nella alternativa, inascoltata, offerta dal pensiero affermativo di un autore come Schelling, che nel 1809 pubblica le Ricerche sull’essenza della libertà umana. Per Schelling «Cogito ergo sum», il punto di partenza cartesiano, è stato un falso movimento: dal pensiero all’essere. Tutta la filosofia moderna, da Kant a Fichte, a lui stesso da giovane, a Hegel che ormai lo ha soppiantato nel favore filosofico dei tedeschi, è dunque una filosofia negativa. «Penso dunque sono», «le intuizioni senza concetto sono cieche», «il razionale è reale», sono altrettanti modi per dire che la certezza va cercata in ciò che sappiamo e pensiamo, e non in quello che c’è. La filosofia negativa scava un abisso tra il pensiero e l’essere, uno iato destinato a non venir più recuperato, come del resto testimonia tutta la storia della filosofia degli ultimi due secoli. Per Schelling bisogna procedere in senso inverso. L’essere, e il suo senso, non è costruito dal pensiero, ma è dato, offerto, prima che il pensiero abbia inizio. Non solo perché abbiamo la testimonianza di epoche interminabili in cui c’era il mondo ma non c’era l’uomo. Ma soprattutto perché ciò che inizialmente si manifesta come pensiero viene da fuori di noi: le parole di nostra madre; le filastrocche che riemergono dal passato («Nel tempo dei tempi, ed erano bei tempi davvero, c’era una muuuuucca che veniva giù per la strada», come suona l’incipit del Ritratto dell’artista da giovane di Joyce); i miti che (esattamente come le 73

barzellette) non hanno inventori, e sono residui di senso in cui ci imbattiamo proprio come alla Mecca ci si imbatte in un meteorite; le regole che eseguiamo come automi molto prima di comprenderne il senso. Il pensiero è anzitutto natura, cioè non è un cogito trasparente e immateriale, bensì un inconscio geologico che si rivela poco alla volta, se si rivela. Incontriamo oggetti che esistevano ben prima del nostro sapere e che di colpo o attraverso un lento processo vengono conosciuti. Scopriamo parti di noi (per esempio, di essere invidiosi, di avere la fobia dei topi o di amare qualcuno) così come scopriremmo pezzi di natura, fossili di dinosauri, insetti nell’ambra. Ci si rivelano elementi della società (per esempio, la schiavitù, lo sfruttamento, la subordinazione femminile e poi, con una crescente sensibilità, il mobbing o il politicamente scorretto) che, di colpo, risultano insopportabili, e che dunque prima rimanevano seppelliti, cioè assunti come ovvi, in un impensato politico o sociologico. Verrà indubbiamente, e auspicabilmente in tantissimi casi, il momento della «presa di coscienza». Ma sarà appunto un esercizio di distacco rispetto a una adesione precedente, non un atto assoluto di costruzione del mondo attraverso il pensiero. Nel mondo psicologico e sociale il motto di Schelling potrebbe suonare: «Sono dunque (talora) penso».

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DANZICA, 1818. IL MONDO È UNA MIA RAPPRESENTAZIONE Ma le idee che danno il tono dell’epoca sono di tutt’altro genere: «‘Il mondo è una mia rappresentazione’: ecco una verità valida per ogni essere vivente e pensante, benché l’uomo soltanto possa averne coscienza astratta e riflessa. E quando l’uomo abbia di fatto tale coscienza, lo spirito filosofico è entrato in lui. Allora, egli sa con chiara certezza di non conoscere né il sole né la terra, ma soltanto un occhio che vede un sole, e una mano che sente il contatto d’una terra; egli sa che il mondo circostante non esiste se non come rappresentazione». Sono le prime parole del capolavoro di Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, uscito a Danzica nel 1818, che mette in scena con esattezza il percorso che dal conoscere porta all’essere e di lì ai valori: quello che c’è dipende interamente dal fatto che noi lo conosciamo, dunque nulla esiste indipendentemente da noi, e vaghiamo in un nulla cosmico. Questa è però anche una forma di consolazione, come apprendiamo nel § 54. Il tempo, lo spazio e la causalità sono pure forme dell’apparenza. Sotto di loro opera la volontà universale, che brucia ogni illusione, rivelando che gli individui non sono che la transitoria manifestazione della specie, per cui «l’imbalsamare dei cadaveri appare così pazzo, come sarebbe il conservare accuratamente i propri escreti» (cosa che poi Nietzsche fece in manicomio, ma questa è un’altra storia). «La volontà di vivere è sicura di vivere, e forma della vita è un presente che non finisce mai; poco importa che gli individui, fenomeni dell’idea, sorgano e svaniscano nel tempo come sogni fuggenti.» L’ordine, la misura, la ragione, e persino l’io in cui riconosciamo noi stessi e ci distinguiamo dagli altri, sono mera apparenza, un 75

effetto di superficie, un velo, una quinta teatrale. Dietro, c’è la verità, ed è il mondo come volontà. Qui non ci sono forme spaziali, colori, ragioni, sostanze, e nemmeno individui. C’è solo un flusso oscuro che vuole se stesso, qualcosa di informe e di potente in cui si annega: le Madri, la musica. È il filo conduttore che dalla disperazione del nichilismo conduce alla strana salvezza del dionisiaco. Come ha detto Woody Allen? «Provo un intenso desiderio di ritornare nell’utero… di chiunque.»

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NAPOLI, 1835. «S’ARMA NAPOLI A GARA ALLA DIFESA DE’ MACCHERONI SUOI» Schopenhauer era un pessimista (concetto non meno singolare del nichilismo, con cui condivide la circostanza di essere insieme uno stato dell’anima e una condizione del mondo), e sappiamo quanto abbia contato per la formazione di Nietzsche. Così come ha contato Leopardi, il prototipo di un pessimismo non solo pensato, ma vissuto, che dà il suo meglio quando deride gli ottimisti, i progressisti, i nuovi credenti, appunto, cui riesce di vedere solo la parte maniacale ed euforica della sindrome bipolare, la grande promessa e l’eterna illusione: il mondo è docile alla nostra volontà di trasformazione, ed è naturalmente destinato ad andare verso il meglio. Così nei Nuovi credenti, composto a Napoli nel 1835: S’arma Napoli a gara alla difesa de’ maccheroni suoi; ch’ai maccheroni anteposto il morir, troppo le pesa. E comprender non sa, quando son buoni, come per virtù lor non sien felici borghi, terre, provincie e nazioni. Che dirò delle triglie e delle alici? qual puoi bramar felicità più vera che far d’ostriche scempio infra gli amici? Leopardi ci parla dei banchetti di frutti di mare imbanditi alla sera a Santa Lucia e al Pallonetto, a due passi dal mare, che questa volta è il Mediterraneo. Ma dietro la mitezza è sempre in agguato la ferocia, perché gli ottimisti e i nuovi credenti hanno scordato o rimosso quanto è avvenuto a 77

Napoli poco più di trent’anni prima, che sembra incarnare la pulsione di morte diagnosticata da Nietzsche a Lenzerheide, e ripetere il rito dionisiaco da cui ha origine la tragedia: «Il Popolo», leggiamo in una cronaca dell’epoca che narra della fine di Nicola Fiano, ufficiale compromesso con la Repubblica napoletana, «gli diede sopra, e lo lacerò tutto, lasciandoci sopra quasi le sole ossa. Fu ridotto a brandelli dalla carnivora plebe. Forse tutto fu abbrustolito e mangiato. Il fegato so, che fu ridotto a cottura, e mangiato tutto nell’istesso Mercato dalla vil Plebe Sanfedista. Un lazzaro avendo ricusato di mangiarne, fu ammazzato». «E gli uomini preferirono le tenebre alla luce», come recita il versetto di Giovanni che Leopardi pone in esergo alla Ginestra.

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PRAGA, 1837. ANTIKANT «Adorare, tacere, gioire» pare siano state le ultime parole che, in punto di morte, Antonio Rosmini affidò a Manzoni. Suddito austriaco, probabilmente condivise il motto di Melchiorre Gioia: «L’Italia non si inkanta». Le cose – lo abbiamo appena visto – non andarono esattamente così, l’Italia si è inkantata, e si è anche popolata di hegeliani, ossia di seguaci di colui che nella Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio aveva sostenuto che l’ontologia è un residuo scolastico, e che tutto sta nella logica del divenire, nel movimento dialettico che deliziava gli hegeliani napoletani, chiamati «begriffi» per via del loro gran parlare di Begriff, cioè di «concetto». Dove invece l’ontologia non si lasciò inkantare era nel cuore dell’impero d’Austria. È qui che nel 1837 il sacerdote boemo Bernhard Bolzano pubblica la sua Dottrina della scienza, che è una radicale contestazione della rivoluzione copernicana, e una rivendicazione del mondo dell’essere indipendente dai soggetti e dalle loro manipolazioni. E questo non vale soltanto per tavoli e sedie, cioè per gli oggetti fisici. Vale anche per il pensiero, da concepirsi come una entità rigorosamente separata dalla psicologia, dall’io (empirico o trascendentale) che pensa. Serbi Dio l’austriaco regno, guardi il nostro imperator! Nella fé che gli è sostegno, regga noi con saggio amor! come suona la versione italiana dell’inno imperiale composto da Lorenz Leopold Haschka e musicato da Haydn, il Kaiserhymne che a Trieste veniva familiarmente 79

designato come «la Serbìdiola». I prussiani interiorizzano il mondo, mentre i sudditi dell’austriaco regno esteriorizzano il pensiero, facendo proprio il detto di un altro praghese, Franz Kafka: «Siamo come tronchi d’albero sulla neve. Questi giacciono lì solo apparentemente e con una piccola spinta dovrebbe essere possibile spostarli. Invece no, non si può, perché sono attaccati saldamente al terreno». Bolzano morì nel 1848; proprio in quell’anno nacque Gottlob Frege, anomalo tedesco del Nord che ne raccolse, senza nemmeno saperlo, l’eredità (probabilmente, non ne lesse mai le opere). Un allievo di Bolzano, prete praghese pure lui, Franz Příhonský, nel 1850 pubblicò un Nuovo Anti-Kant, e morì nel 1859, all’epoca della battaglia di Solferino, quando Alexius Meinong, un altro eroe di questa vicenda antikantiana e austroungarica, il futuro autore della Teoria dell’oggetto (1904) aveva soltanto sei anni (e il padre di Meinong effettivamente si batté, con il grado di maggior generale, a Solferino, anche se non risulta che abbia salvato la vita a Francesco Giuseppe come fece Trotta, anzi von Trotta, l’eroe della Marcia di Radetzky).

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SAN PIETROBURGO, 1870. I DEMONI Scrive Dostoevskij: «‘Chi vincerà il dolore e la paura, sarà lui dio. E quell’altro dio non ci sarà più.’ ‘Per conseguenza quell’altro dio c’è, secondo voi?’ ‘Non c’è, ma c’è. Nella pietra non c’è dolore, ma nella paura della pietra c’è dolore. Dio è il dolore della paura di morire. Chi vincerà il dolore e la paura, diventerà lui stesso dio. Allora vi sarà una vita nuova, un uomo nuovo, tutto nuovo… Allora la storia sarà divisa in due parti: dal gorilla fino alla distruzione di dio, e dalla distruzione di dio fino…’ ‘Al gorilla?’ ‘…alla trasformazione fisica della terra e dell’uomo. L’uomo sarà dio e si trasformerà fisicamente. Anche il mondo si trasformerà, e si trasformeranno le azioni e i pensieri, e tutti i sentimenti’». La storia divisa in due parti, come nell’Anticristo; la creazione di nuovi valori, come in Al di là del bene e del male; la corda tesa verso il superuomo, come nello Zarathustra. Qui si apre una terza pista, diversa sia dal nichilismo prussiano, sia dall’ontologismo austriaco. È la pista francorussa, importantissima per Nietzsche, che dei kantiani non sapeva molto, e degli antikantiani non sapeva niente. Quello franco-russo è, per così dire, un nichilismo movimentista. Lo descrive nel 1886 Léon Bloy in Il disperato, quando parla della «disperazione che irrompe oggi, al pari di un drago dell’Apocalisse, dalle pianure slave sul vecchio Occidente spossato dal tedio», con una «minaccia teofanica la cui spaventosa e triologica formula è inscritta sul nero pennone del Nichilismo trionfante: Viva il caos e la distruzione! Viva la morte! Largo all’avvenire! Ma di quale avvenire parlano, questi speranzosi alla rovescia, questi escavatori del nulla umano?» (Ritroveremo più avanti nel tempo e nel libro, e 81

molto più a occidente, questo Viva la morte!) Come osservava Paul Bourget, che su questo punto ha contato molto per Nietzsche, se il nichilismo occidentale è epistemologico e professorale («Sapere che non si può sapere, conoscere che non si può conoscere»), quello russo, per via del «sangue metà asiatico degli slavi», sembra permeato da una voglia di distruzione, come in una «orgia sacra», cioè, di nuovo, dionisiaca. I russi, e i francesi che ne discutono e li traducono, stanno dunque alla base del concetto di «nichilismo» cui fa riferimento Nietzsche, come ha mostrato Elisabeth Kuhn in La filosofia del nichilismo europeo di Friedrich Nietzsche (1992): Dostoevskij, Herzen, Brunetière (il cui capitolo su Černyševskij in Il romanzo naturalistico, 1884, sembra che abbia giocato un ruolo centrale nella elaborazione nietzschiana del nichilismo), che a loro volta poggiavano sulla larga diffusione del termine assicurata, nel 1863, da Padri e figli di Turgenev. Le prime occorrenze del vocabolo (il tema, ovviamente, dati gli antefatti schopenhaueriani, è molto più antico) si hanno nell’estate del 1880, che è poi l’anno in cui Dostoevskij pubblica I fratelli Karamazov, dove si trova il motto più emblematico e proverbiale del nichilismo: «Se dio è morto, tutto è permesso». Questa frase, e il clima che la circonda, manifestano un tono diverso e ben più bellicoso che in precedenza. Non è più questione di mancato accesso alle cose in sé, o del fatto che il mondo si riduce a rappresentazione, e che magari l’io può credersi proprietario dell’universo. Qui ha luogo qualcosa di diverso: con un movimento che troveremo canonizzato nella storia dell’essere proposta da Heidegger (assiduo lettore tanto di Dostoevskij quanto di Nietzsche), 82

l’essere viene identificato con il fondamento, e il fondamento con dio. Il risultato è che si può tranquillamente essere nichilisti senza per questo negare il mondo. Il mondo c’è, tutto, ma è un tutto che non conta niente, perché il mondo rotola verso il nulla, da quando dio è morto e i fondamenti sono volati via.

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GENOVA, 1882. DIO È MORTO Fra le tante ossessioni e proiezioni, Nietzsche fu anche vittima di una identificazione con Cristoforo Colombo, di cui apprezzava la statua fuori della stazione di Piazza Principe a Genova. Nell’aforisma 166 della Gaia scienza la parola d’ordine è «Via sulle navi, filosofi!», perché si tratta di scoprire una nuova giustizia e dei nuovi mondi. Da Genova, tuttavia, il 21 dicembre 1881, scrive alla madre e alla sorella di una vita malata e di preoccupazioni prosaiche: «La mia vista sta precipitando, non posso nascondermelo. Ora mi capita spesso di rovesciare o di rompere qualcosa, e inciampo. Dove trovo un’altra città lastricata così alla perfezione, con pietre larghe, come è Genova: qui anche se mi aggiro nei dintorni trovo sempre pietre dure e lisce (e con scannellature sulle strade in salita)?… Ora però gli occhi si rifiutano di continuare – ma, riuscirete a leggere questi scarabocchi?» Nel febbraio 1882 Nietzsche acquistò la cosiddetta «Schreibkugel», singolare preforma della macchina per scrivere ideata dal danese Malling-Hansen, che Paul Rée gli portò a Genova. La macchina però giunse danneggiata. Nietzsche la adoperò per non più di una dozzina di lettere, sicché la sentenza «dio è morto» fu scritta a mano. Leggiamo l’aforisma 125 della Gaia Scienza: «Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: ‘Cerco dio! Cerco dio!’ E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in dio, suscitò grandi risa. ‘È forse perduto?’ disse uno. ‘Si è perduto come un bambino?’ fece un altro. ‘Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?’ – 84

gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: ‘Dove se n’è andato dio?’ gridò ‘ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potremmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare?’» Se interrompiamo qui una citazione altrimenti lunghissima, è perché l’«eterno precipitare» è imparentato con la sentenza nietzschiana secondo cui da Copernico in avanti l’uomo rotola via verso la X. La tesi della morte di dio è molto semplice, cioè non nasconde visioni o enigmi. Si limita a drammatizzare la secolarizzazione, ossia il venir meno del senso del sacro nel mondo moderno. L’uomo, con il progresso del sapere, ha fatto di dio una ipotesi non necessaria; ma non è all’altezza della sua azione. Il solo modo con cui l’umanità potrà mettersi alla pari con il suo gesto è, allora, diventare essa stessa divina. In altri termini, abbiamo a che fare, molto canonicamente, con una lotta tra il vecchio dio e i nuovi dei, gli uomini che, per l’appunto, sono ancora ignari della loro azione. Per questo l’uomo folle, come poi Zarathustra, deve farsi profeta della morte di dio presso una umanità che non si è accorta di niente. Così infatti si conclude l’allocuzione dell’uomo folle: «Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dei, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di 85

questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!» L’uomo folle, in realtà, è in buona compagnia, e non solo per via di Dostoevskij. Già Hegel – ricorda Heidegger in La sentenza di Nietzsche «dio è morto» – aveva detto che «il sentimento fondamentale della nostra epoca è che dio è morto». Nietzsche trasforma la compassata constatazione del professore nell’«orgia sacra» che viene dall’Oriente. Sappiamo che in Ecce homo Nietzsche mitizzerà la propria ascendenza slava, dichiarandosi «nobiluomo polacco pur sang», e che nel 1884 confiderà a Paneth che il suo nome originale è Niecki, che, in polacco, sarebbe l’«Annientatore», il «Nichilista», lo «spirito che sempre nega». Ma il sogno identitario è contraddetto dall’abilità con cui Nietzsche riesce a comporre – con quel talento sincretistico che rimproverava a Wagner – tutti i filoni e tutte le genealogie, mettendo insieme un nichilismo che è insieme assiologico e ontologico, ed è caratterizzato da un peculiare pathos decostruttivo. Perché alla fine, in Nietzsche, abbiamo tutto. In primo luogo, la crisi dei valori, il nichilismo come stato d’animo e come condizione umana e sociale diffusa, manifestata nel frammento di Lenzerheide. In secondo luogo, il crollo dei fondamenti, come nell’annuncio della morte di dio. In terzo luogo, creando un cortocircuito tra morale e religione, da una parte, e metafisica e teoria della conoscenza, dall’altra, un rilancio e una radicalizzazione del nichilismo ontologico, esemplificato dall’apologo «Come il ‘mondo vero’ finì per diventare una favola» di cui parleremo estesamente più avanti. E, per concludere, la proposta di una ontologia alternativa, dove alla nozione di «essere» viene sostituita 86

quella di «evento» – una scelta molto in linea con il dinamismo dell’età della tecnica, e che incanterà intere generazioni di filosofi, quando di fatto non è che la radicalizzazione del trascendentalismo di Kant, ossia di colui che Nietzsche chiamava con sufficienza «grande cinese di Königsberg».

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PARIGI, 1882. AU BONHEUR DES DAMES Nello stesso anno 1882 in cui, da Genova, Nietzsche annunciava la morte di dio e il trionfo del nichilismo, sul «Gil Blas» Emile Zola pubblicava Le bonheur des dames, «il paradiso delle donne», storia al cui centro c’è uno dei primi grandi magazzini. Paradiso delle donne, si dice in epoca ancora molto maschilista. Ma in realtà anche degli uomini, che negli oggetti trovano – come nelle piante e negli animali – almeno altrettanta felicità. Il nichilismo è non tanto confermato, quanto piuttosto scongiurato dalla felicità insita negli oggetti, e il fatto di vivere in un’epoca così piena di merci quale è la modernità (per non parlare poi della postmodernità) deve essere visto come una benedizione. Già nella nona elegia duinese Rilke suggeriva di mostrare all’angelo «come può essere felice una cosa». Ma contro l’idea di vedere il bene solo nelle persone e non nelle cose militano molti pregiudizi tradizionali, dalla iper-valutazione del soggetto umano come fonte esclusiva di valori, all’antropocentrismo di molte religioni, all’idea kantiana che l’unica cosa buona al mondo sia la volontà buona, un po’ come quando cercano di convincerci, a proposito dei regali, che basta l’intenzione. Ovviamente non c’è convinzione più nefasta. E con un minimo di sincerità risulta arduo sottoscrivere sino in fondo le requisitorie che per decenni si sono scagliate contro il consumismo e l’alienazione, che riducevano la maggior parte dell’umanità a una massa di peccatori incapaci di far penitenza, dimentichi del fatto che siamo polvere e polvere ritorneremo. A ben vedere, anzi, proprio la nostra caducità è uno degli argomenti che depongono con più forza a vantaggio degli oggetti. Come ha 88

visto Sylvia Plath («Siano con me le mie casseruole di rame, i miei vasi di coccio. […] Non mi riconoscerò quasi. Sarà tutto buio. Ma ci sarà il fulgore di questi piccoli oggetti più dolce che il viso di Ishtar»), e come sapevano benissimo i faraoni, che si facevano seppellire circondati di oggetti, e si facevano imbalsamare il corpo (trasformandolo a sua volta in oggetto), gli oggetti dureranno molto più del nostro oblio. Così come è caratteristico che la consapevolezza della brevità della vita si traduca nella gelosia nei confronti delle cose, che ci sopravvivranno, senza fatica, senza lotte e senza portare il peso della noia, e guardandoci come con un sorriso egizio: «Ero quello che sei, sarai quello che sono». Così nei versi di Borges: Quante cose, atlanti, lime, soglie, coppe, chiodi, ci servono come taciti schiavi, senza sguardo, stranamente segrete! Dureranno più in là del nostro oblio; non sapran mai che ce ne siamo andati. Per riprendere il titolo di un film di Rose Troche del 2001, c’è una peculiare sicurezza degli oggetti: loro non ci lasceranno mai, saremo noi a lasciarli; loro sono morti, ma, paradossalmente, ci sopravvivranno, parleranno di noi a chi li avrà ereditati. Per questo il collezionismo è una partita ingaggiata con la morte, e le nature morte sono la concisa espressione della caducità: i fiori dipinti non sfioriscono, i frutti non si corrompono, saremo noi ad andarcene per primi. Gli oggetti trionfano sulla morte, i soggetti no, a meno che si facciano imbalsamare diventando oggetti resistenti. E in questa resistenza (talora drammatica, nel caso 89

dello smaltimento dei rifiuti) le cose possono sprigionare una sorta di poesia spontanea, quella che, per esempio, mi è capitato di ritrovare in un passo dello storico inglese Martin Gilbert: «Il 9 novembre 1958, un pilota che volava sul deserto del Sahara, a sud di Tobruk, vide un aereo abbattuto posato sulla sabbia. Era il bombardiere americano Lady Be Good, scomparso nel 1943 mentre tornava alla base in Libia da una missione di bombardamento nell’Italia meridionale. La radio, i cannoni, le munizioni erano ancora efficienti. In seguito furono scoperti tra la sabbia del deserto gli scheletri di cinque membri dell’equipaggio».

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VIENNA, 1915. LUTTO E MELANCOLIA Come abbiamo visto, la storia del nulla ha una geografia precisa. Nichiliste sono la Germania, la Francia, la Russia e (in parte) l’Italia. Ma l’Austria-Ungheria, con la tradizione antikantiana, e l’Inghilterra, con la nascente filosofia analitica e il «robusto senso del reale» rivendicato da Bertrand Russell, sembrano refrattarie al «deserto che avanza». Se ne deve concludere che lì tutti stanno bene? Certo che no. Ma la tristezza, la noia, anche l’orrore (ne sa qualcosa Mahler), hanno un altro nome: melancolia. È il clima spirituale che troviamo in Lutto e melancolia di Freud, pubblicato nel pieno della Prima guerra mondiale. Qui, invece di invocare il dinamismo e il nichilismo, Freud si presenta come medico. Tuttavia, la sua è una medicina peculiare. In effetti, la sua tesi è che la malinconia sia un lutto inconscio: mentre nel lutto noi sappiamo che cosa abbiamo perso, nella malinconia lo ignoriamo. Freud si distacca così da quella tradizione di studi sulla depressione che ha inizio con i Greci, per esempio quando Aristotele parla della «malinconia dell’uomo di genio», o Galeno scrive un Trattato sulla bile nera, sino a che nel Seicento Robert Burton propone una Anatomia della melancolia in cui leggiamo che «La melancolia, fredda e asciutta, spessa, nera, e agra» è «prodotta dalla più torbida parte del nutrimento». In tutti questi autori c’è un assunto fisiologico comune, e cioè che l’origine della melancolia sia fisica, e dipenda appunto da una bile (cholé) nera (mélas). E che la melancolia sia un male dell’anima che però emerge dal fondo del corpo lo sapevano tanto Plinio che suggeriva ai depressi di bere le acque di Spa, in Belgio, ricche di ferro, 91

quanto Cartesio, che, ad onta della distinzione tra res cogitans e res extensa, consiglia le terme alla principessabadessa-depressa Elisabetta di Boemia. Con Freud, invece, prevale la causa esterna rispetto a quella endogena, anche perché scrive in un’epoca in cui i lutti erano così frequenti. Ma, come vedremo tra non molto, la pista dell’origine fisica del nichilismo è tutt’altro che da trascurare.

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MONACO, 1918. IL TRAMONTO DELL’OCCIDENTE Quello che tuttavia colpisce è come in un ambiente culturale così vicino alla Germania, in un mondo che parla la stessa lingua sebbene non professi la stessa fede, di «nichilismo» non si abbia traccia, e ciò che per Nietzsche era la demoralizzazione dell’Occidente qui prenda il nome – più dimesso e meno storico-destinalmente sovraccarico – di «disagio nella civiltà». Tre anni dopo il saggio di Freud sul lutto, e a meno di cinquecento chilometri di distanza, a Monaco di Baviera, esce un grande libro che conferma questa strana vicenda di sentieri che non si incontrano, e cioè Il tramonto dell’Occidente. L’autore, Oswald Spengler, è un professore liceale di matematica, lettore di Nietzsche (sarà membro del comitato scientifico dell’Archivio Nietzsche a Weimar), detestato da Thomas Mann ma in relazione con Ernst Bertram, che in quello stesso giro d’anni offrì una grande esegesi mitologica di Nietzsche nello stile del circolo di Stefan George. La descrizione spengleriana delle civiltà come organismi che seguono un decorso di nascita, crescita e morte è una storicizzazione della natura e una naturalizzazione della storia che fa tesoro dell’insegnamento di Nietzsche. Reciprocamente, le impressioni scritte a Lenzerheide un trentennio prima trovano adesso un impianto che le illustra e le motiva: effettivamente il nichilismo europeo è una di quelle malattie che colpiscono un organismo vecchio e diventato troppo stanco e pieno di ricordi, l’impero alla fine della decadenza. Una specie di sindrome degenerativa che ha la forma esatta della depressione e che nel nuovo secolo non si manifesta più semplicemente con la noia della belle époque, ma realizza, nella guerra, l’orrore vaticinato a 93

Lenzerheide.

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LIPSIA, 1932. L’OPERAIO In cerca di shock, il nichilismo senile può infatti ammantarsi di giovinezza, con parate di camicie brune, e diventare l’ideale eroico dei Freikorps che, non rassegnati alla capitolazione tedesca del 1918, diedero vita al processo culminato con l’elezione di Hitler a cancelliere del Reich. Questo nichilismo è narrato, con romanticismo e ironia, da Ernst von Salomon in Der Fragebogen (1951), scritto quando tutto è di nuovo finito, dopo la sconfitta della Seconda guerra mondiale e nella forma di una lunga risposta ai questionari americani per la denazificazione. Ma è stato teorizzato anzitutto da Ernst Jünger in L’operaio, uscito nel 1932, che propone una mobilitazione totale della società nello stesso anno in cui, con spirito antitetico, Hans Fallada racconta in E adesso, pover’uomo? la storia di un impiegato schiantato dalla crisi economica. Due volti, complementari, di una medesima realtà, e che spiegano benissimo quello che accadde l’anno dopo. Heidegger ha dichiarato che nella sua elaborazione del nichilismo ha subito l’influenza di Nietzsche e dell’Operaio, letto – specifica – in una cerchia ristretta di docenti universitari nel 1939-1940. Questo punto fa riflettere. Perché in effetti in Jünger troviamo il ponte che da Nietzsche (che aveva pensato alla militarizzazione degli operai) porta all’idea che il mondo sia totalmente a disposizione della volontà di potenza. Cioè anzitutto della manipolazione tecnica degli uomini, da intendersi tanto come la trasformazione del mondo da parte della tecnica, quanto (e soprattutto) come l’imposizione (Gestell) che la tecnica esercita sugli uomini. Sembra di sentire uno dei rituali lamenti sulla tecnicizzazione dell’esistenza, ma in 95

Heidegger c’è molto più di questo: c’è l’assoluzione da ogni responsabilità, e in definitiva da ogni scrupolo di umanità. Appellarsi alla tecnica, lo ricorda Albert Speer nelle sue memorie, fu infatti la strategia più comune dei gerarchi nazisti a Norimberga, che si presentavano come meri esecutori degli ordini di Hitler lanciati in ogni angolo del Reich con telefoni e telescriventi. Gli Alleati ironizzavano su questa giustificazione («allora eravate solo postini ben pagati»), ma questa ironia non deve aver sfiorato Heidegger quando paragona i campi di sterminio all’agricoltura meccanizzata. Ciò che in Kant era soltanto l’azione del conoscere sull’essere adesso è l’imporsi della tecnica sul mondo, che lo trasforma in una costruzione, in un cantiere. È qui che – come una specie di controcanto a Spengler – si dispiega un nichilismo attivo, eroico, dinamico, quasi una reazione alla depressione, e all’ansia che nel mondo tutto dipenda dalla nostra iniziativa. Ovviamente, tra spari e petardi si verifica una drastica permutabilità di ruoli: l’operaio è militarizzato, il militare è operaizzato, e l’agricoltura è meccanizzata. Qui si disegna un percorso contraddittorio che dal libro di Fritz Giese del 1934 (datato «dall’anno I», si intende dopo il 1933 ed eloquentemente intitolato Nietzsche. La realizzazione), in cui l’essenza dell’insegnamento nietzschiano sarebbe consistita nella contrapposizione tra l’uomo capitalistico e l’uomo tecnico, ci conduce a Il dominio e il sabotaggio (1978) di Toni Negri, dove il tema dell’operaio si intreccia con quello, non meno caro a Jünger (Trattato del ribelle, 1951: lo stesso anno e il medesimo spirito del libro di von Salomon), del sabotatore: «Nulla rivela a tal punto l’enorme storica positività 96

dell’autovalorizzazione operaia, nulla più del sabotaggio. Nulla più di quest’attività di franco tiratore, di sabotatore, di assenteista, di deviante, di criminale che mi trovo a vivere. Immediatamente risento il calore della comunità operaia e proletaria, tutte le volte che mi calo il passamontagna».

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FRIBURGO, 1940. OLTREPASSAMENTO DELLA METAFISICA Nutrita, sul palco, da Eraclito e Platone, Aristotele e Cartesio, Kant e Hegel, e dietro le quinte o nel camerino da Dostoevskij, Jünger, Spengler e chissà chi altro, la storia dell’essere disegnata da Heidegger nei seminari su Nietzsche degli anni Trenta e Quaranta ne rilancia tutta l’ontologia fatalistica e titanica, tranne il riferimento alla scienza. Anzi, come accennavo, ciò che vien proposto è tutt’altro: un Nietzsche aquila solitaria in dialogo segreto con altri grandi, un sacrificato come Hölderlin che attende riscatto dalla nuova contingenza storica. Per il resto, abbiamo una fusione di Nietzsche e di Jünger, una accentuazione del dinamismo: si tratta di superare la metafisica, la quale si caratterizza come oblio dell’essere, confuso sotto gli enti e con gli enti, per vincere il nichilismo pensando veramente l’essere. Heidegger propone la questione dell’essere in termini insieme geopolitici e teologici. Da una parte, c’è il tema dell’essere come essere per la morte. Stretto tra Oriente e Occidente, fra Stati Uniti e Russia (scriverà Heidegger nella Introduzione alla metafisica del 1935), il popolo metafisico per eccellenza si prepara a un nichilismo eroico – il paragone sarà rilanciato, mutatis mutandis, dal premier iraniano Mahmud Ahmadinejād, discepolo in gioventù di Ahmad Fardid (1909-1994), che si proclamava «compagno di strada» di Heidegger. Dall’altra, c’è l’attesa dell’ultimo dio, di un nuovo essere che ritorni a guidare con il carisma di un Führer un mondo secolarizzato. Non è un caso che i seminari su Nietzsche procedano di pari passo con gli abbozzi per i Contributi alla filosofia, un grande libro incompiuto, una ontologia dell’evento destinata a completare Essere e tempo. Un libro 98

in cui si parla appunto dell’essere come accadimento storico, si allude misteriosamente alla figura di un ultimo dio, di un dio a venire destinato a salvare la terra dal nichilismo, e un po’ a sorpresa (ma confermando i sospetti sull’identità storica dell’ultimo dio), nel § 74, si menziona la mobilitazione totale jüngeriana. In effetti, in Heidegger il cortocircuito tra l’arcaico e l’attuale è sempre all’orizzonte. Ad esempio, il tempio greco di cui parla in un altro scritto del 1935, L’origine dell’opera d’arte, era stato, nelle prime versioni pubbliche della conferenza, lo Zeppelinfeld di Norimberga, allestito in stile classicheggiante (si ispirava all’altare di Pergamo) per accogliere il discorso di Hitler, che anche qui Heidegger identifica con il divino. Il che, chiudendo il cerchio, getta una luce sinistra sulla sua dichiarazione del 1966 secondo cui «ormai solo un dio ci può salvare». Il tratto distintivo di questa ontologia dinamica in cui, sotto il segno dell’evento, essere e nulla coincidono, è, per così dire, il passo di marcia, con un tono che è strettamente d’epoca, tanto è vero che si ritrova in quell’altra grande dottrina nichilistica che è la Teoria generale dello spirito come atto puro di Gentile, concepita, nel 1916, sull’onda dell’entusiasmo per l’ingresso in guerra. Lo stesso entusiasmo militante e militare che troviamo, nei corsi heideggeriani sul nichilismo, quando viene celebrato il crollo della Francia sotto i colpi delle armate corazzate del generale Guderian: «In questi giorni noi stessi siamo testimoni di una misteriosa legge della storia, cioè che un giorno un popolo non è più all’altezza della metafisica scaturita dalla sua stessa storia, e questo proprio nell’attimo in cui tale metafisica si è mutata nell’incondizionato». E più 99

avanti, con un ragionamento che ricorda Goebbels quando denuncia il terrorismo dei bombardamenti angloamericani: «Se oggi, per esempio, gli inglesi distruggono le unità della flotta francese all’ancora nel porto di Orano, dal punto di vista della loro potenza ciò è del tutto ‘giusto’; infatti significa soltanto: ciò che è utile al potenziamento della potenza. Con ciò è detto al tempo stesso che noi non possiamo mai né mai dobbiamo giustificare questo modo di procedere; ogni potenza, dal punto di vista metafisico, ha la sua ragione. E soltanto per impotenza passa nel torto». Dopo Stalingrado, con la Germania ormai avviata alla sconfitta militare, le cose cambieranno e Heidegger – che con una lettera del 26 dicembre 1942 comunica all’Archivio Nietzsche di voler abbandonare l’edizione della Volontà di potenza a cui si era impegnato – adotta uno stile passivo e remissivo, aperto financo a influenze taoiste. Abbandono, uno dei testi chiave della svolta, è stato scritto nel 1944, dopo una conversazione con Jünger da cui Heidegger trasse la certezza che la guerra era perduta.

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SIGMARINGEN, 1945. DA UN CASTELLO ALL’ALTRO Negli ultimi mesi di guerra Heidegger è spesso nella sua città natale, Meßkirch. Al riparo dai bombardamenti, aiutato dal fratello Fritz, quello che gli aveva dattiloscritto Essere e tempo, si preoccupa di salvare i suoi manoscritti mettendoli un po’ sepolcralmente in casse di zinco. A quattordici chilometri da Meßkirch, verso nord-ovest, c’è il castello di Wildenstein, di proprietà dei Fürstenberg, dove l’Università di Friburgo aveva messo al sicuro parte degli archivi e dove nel marzo del 1945 Heidegger si era trasferito con altri dieci professori e una trentina di studenti. Risale a questi mesi la lettera in cui Heidegger scrive alla moglie Elfride – rimasta a Friburgo nella casa bombardata, mentre un figlio è al fronte e l’altro è prigioniero dei russi – che per lui, nonostante l’ora buia attraversata dalla patria, è tuttavia un eccellente momento di concentrazione spirituale e di produttività filosofica. A sedici chilometri da Meßkirch, ma verso nord-est, a Sigmaringen, c’è un altro castello, quello degli Hohenzollern, dove alla fine della guerra i tedeschi concentrarono Pétain, Laval, tutti i collaborazionisti, cioè il mondo che Céline racconta in D’un château l’autre. Il côté de chez Heidegger è indubbiamente più nobile del côté de chez Céline, ma non è difficile trovare un sentiero che mostri quanto sono vicini. Anche la denazificazione di Heidegger (e qui, diversamente che nel caso di Nietzsche, si può parlare di «denazificazione» in senso proprio) ha avuto tante vie. Anzitutto quella storico-grammaticale, per cui a leggerlo bene, a capirlo e a metterlo in contesto, si scioglierebbero tutti gli equivoci. Così François Fédier, che negli Scritti politici di Heidegger postilla la chiusa della allocuzione del 101

17 maggio 1933, «Alla nostra grande guida, Adolf Hitler, un Sieg Heil tedesco» con parole che sembrano uno scherzo di cattivo gusto: «Ancora oggi l’espressione ‘Ski Heil’ – senza la minima connotazione politica – viene impiegata, tra sciatori, per augurarsi una buona discesa». Questa trasformazione del Sieg Heil nello Ski Heil ha dell’inquietante, soprattutto se si considera che il Wink, il «gesto» o «cenno» con cui l’ultimo dio, nei Contributi alla filosofia, annuncia la possibilità di un «altro inizio» e di un superamento del nichilismo è, con ogni probabilità, il saluto nazista. Ma c’è anche stata – e continua a esserci, per strano che possa apparire – una via mistico-allegorica, che traducendo in modo incomprensibile il gergo heideggeriano produce una denazificazione per confusione. Come ad esempio nel caso del seguente brano di Che cos’è la verità?: «Ora, che è la clarilucenza? Qual è la genuina prestazione dell’indole ‘clarilucenza’ all’interno dell’umano vedere e cogliere le res? La parola ‘Helle’ (‘clarilucenza’) proviene da ‘hallen’ (‘risuonare’)». Con questa ermeneutica anche gli ordini di manovra di un Sonderkommando sul fronte orientale possono essere trasformati in poemi simbolisti o in ricette di cucina. E cosa dire poi del Discorso di rettorato, il cui titolo, di solito reso pianamente e inequivocabilmente con L’autoaffermazione dell’università tedesca è stato ritradotto con La quadratura in se stessa dell’università tedesca? E che contiene, fra i tanti, un passo dove l’unica cosa (forse) comprensibile è la voglia di menare le mani, o, alternativamente, di tagliare il bilancio? «Solo la lotta mantiene aperto l’antagonismo e impianta nell’intero corpo dei docenti e degli allievi quell’intonazione fondamentale a 102

partire dalla quale l’autosquadrantesi quadratura in se stessa dell’università autorizza il risoluto inquadramento senziente di sé a trasformarsi nella genuina capacità di far quadrare autonomamente il proprio bilancio.» Di una cosa, comunque, si può essere ragionevolmente certi. Heidegger non fu nazista per opportunismo, ma per intima convinzione, che nasceva dall’idea depressiva – e così consona allo stile spirituale radiografato a Lenzerheide – per cui la vita normale non è sufficiente, è sempre monca, e va rivitalizzata con quella sorta di super-paradiso artificiale che è l’essere trasformato in Evento. In fondo, l’esperienza che Heidegger, come milioni di tedeschi, ha cercato nel nazismo, è l’aberrazione di un bisogno fin troppo umano. La vita non è abbastanza intensa, l’esperienza sembra opaca, la comunità vaga, e dunque (sin dai riti tribali, sin dalle tragedie) la si rafforza spettacolarmente con un evento, si cammina sui carboni ardenti, si corre per le vie di Pamplona come in Fiesta di Hemingway, cercando di non farsi incornare dal toro, si organizza un rave party o un tea party. O si attende un cenno dell’ultimo dio, sia pure con la consapevolezza che l’impressione rafforzata di «esserci» (proprio nel senso enfaticamente heideggeriano del Dasein) può mescolarsi inestricabilmente con la convinzione, fondata, che in questa presenza e in questa autenticità ci sia un tasso di mistificazione. Dopotutto, quando in L’educazione sentimentale Frédéric Moreau assiste alla rivoluzione del 1848 a Parigi, o quando Fabrizio Del Dongo in La Certosa di Parma è nel pieno della battaglia di Waterloo, la loro impressione è sempre di una qualche irrealtà, quasi che si chiedessero: «È qui la festa?»

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TODTNAUBERG, 25 LUGLIO 1967. A MANO, TROPPO A MANO Donde, reattivamente, l’ossessione heideggeriana per l’autenticità, per la manualità, per il fatto a mano e lo scritto a mano, che trova il suo culmine a Todtnauberg. Gli abitanti sostengono che Todtnauberg, a 32 chilometri da Friburgo e a 1020 metri di altezza (un grande vantaggio climatico rispetto alla città più calda della Germania) sia famosa per la fabbrica di spazzole fondata nel 1770 da Leodegar Thoma, a cui è stato eretto un piccolo monumento, che pare uno Heidegger carico di spazzole e in cammino verso il linguaggio. In effetti, è molto più nota, almeno tra i cultori di filosofia, proprio per la piccola baita che, su consiglio della moglie, Heidegger si costruì nel 1922. Paesaggisticamente, Todtnauberg regge il confronto con Lenzerheide. Anche la capanna è a suo modo bella, anche se straordinariamente piccola; quando aveva i due figli bambini, Heidegger affittava una stanza da un contadino dei paraggi per poter lavorare in pace; non si ha poi idea di dove abbia messo i quattordici nipoti, forse c’era una rotazione. Il comune ormai è consapevole, Heidegger fa parte delle attrazioni locali insieme alle passeggiate, alla funivia e agli skilift. Nell’anno in cui ci sono passato, il 2002, era previsto un «Autunno filosofico a Todtnauberg», con due seminari heideggeriani, dal 3 al 12 novembre. Sulla copertina del dépliant, Heidegger nella capanna, con una berretta da notte in testa e le braccia conserte sulla tavola da sparecchiare. Nella capanna non si può entrare, ma intorno tutto è segnato da frecce e tabelloni illustrati: la passeggiata di Heidegger, la biografia, lui col solito berretto da notte (e la dicitura famosa e autoassolutoria: «Chi pensa in grande 104

deve errare grandemente»). Ci sono anche informazioni su internet, si può dormire in un eccellente ostello della gioventù, che sta proprio all’inizio della passeggiata di Martin e di Elfride, e nell’albergo Engel è esposto il libro fotografico con ritratti di Heidegger di Digne Meller Marcovicz il 23 settembre 1966 e il 17-18 giugno 1968, che lo riprende sia nella casa di am Rötebuck 47 a Friburgo, sia nella Hütte, cioè la baita, di Todtnauberg. Fra i tanti ricordi (si tratta di un luogo quasi letterario, a Todtnauberg hanno il libro degli ospiti illustri e meno illustri), la più collerica memoria della capanna alpina è dovuta però a uno che non ci è mai stato, Thomas Bernhard, che in Antichi maestri commenta il libro fotografico della Marcovicz, con una invettiva sulfurea e risentita perché la sua amica Ingeborg Bachmann aveva scritto la tesi di laurea su Heidegger, e lui non riusciva a capacitarsene, definendolo «il filosofo delle donne». Dopo averlo descritto con il solito berretto da notte in testa, che mangia tagliatelle all’uovo, lo definisce «un imbecille delle prealpi, credo, giusto quel che ci vuole per il minestrone della filosofia tedesca», sottolineando l’ossessione per l’autenticità che si trasforma in una ossessione per la casa e per la manualità. Tutto è fatto in casa e tutto è fatto a mano nel mondo di Heidegger (compresa la casa, che come dicevamo si era costruita lui stesso): i mutandoni invernali, il bastone da passeggio, i sandali, la papalina, il pane, il libro e «la sua filosofia della Foresta Nera fatta in casa». Bernhard calcava la mano, è il caso di dirlo, e sono sicuro che lo avrebbe deliziato sapere che, stando a una testimonianza di Jaspers, Heidegger trovava bellissime le mani di Hitler. A mano, troppo a mano. Senza dimenticare che la mano è 105

per Heidegger il simbolo dell’umanità e del pensiero, come quando sostiene che pensare è uno Handwerk, un lavoro manuale, e che la scimmia non ha una mano, ma un arto. Ricordo che Derrida, commentando queste affermazioni in un seminario dei primi anni Ottanta, si chiese a un certo punto dove Heidegger avesse visto una scimmia – certo non nella Foresta Nera. Così come ricordo che nel discorso tenuto a Francoforte per il conferimento del premio Adorno, nel 2002, Derrida commentò a lungo la tesi adorniana secondo cui, per un sistema idealistico, gli animali svolgerebbero virtualmente lo stesso ruolo degli ebrei per un sistema fascista. Fra i tanti ricordi della Hütte quello più celebre – e più inquietante proprio per l’assenza di collera – è un altro. Il 25 luglio del 1967 era salito alla Hütte Paul Celan. Aveva tenuto una conferenza a Friburgo il giorno prima, ed era venuto alla capanna per rappacificarsi con una sua contraddizione, quella di essere un grande ammiratore di Heidegger e insieme di disprezzarne il comportamento politico. Della visita resta una poesia, intitolata appunto Todtnauberg, con una qualche assonanza con Todesfuge, «Fuga di morte», il poema scritto nel 1945, che ricorda la deportazione, la perdita dei genitori, l’annientamento del giudaismo in Bucovina; in Todesfuge ricorre un verso celebre: «Der Tod ist ein Meister aus Deutschland», «la morte è un maestro tedesco», e Ein Meister aus Deutschland è il titolo della biografia heideggeriana di Rüdiger Safranski. Ovviamente, sembra un destino che il pensatore della morte mal sopportato da Croce, che recensendo Essere e tempo lo trovava un insopportabile Totentanz gotico, spaccasse legna e scrivesse libri a Todtnauberg. L’assonanza è ripresa ed 106

esplicitata nel titolo della pièce teatrale, Totenauberg (1991), di Elfriede Jelinek che – sia pure con la variante in ie – si chiama come la moglie di Heidegger ma finge un dialogo tra Heidegger e Hannah Arendt da vecchi, tra un filosofo che non ha mai voluto viaggiare e una filosofa che ha dovuto viaggiare molto. Della visita di Celan (che si sarebbe suicidato tre anni dopo) rimane anche un breve appunto sul libro degli ospiti: «Nel libro della Hütte, con uno sguardo sulla stella della fontana, con, nel cuore, la speranza di una parola a venire». La speranza nella parola a venire è chiara: Celan contava sul fatto che, prima o poi, Heidegger dicesse una parola sull’Olocausto – ma quella parola non verrà. Meno trasparente è l’allusione alla stella, che pure è una presenza costante nei versi di Celan. Così, il messaggio mi era risultato in parte ermetico sino a che non ho potuto vedere che la piccola fontana sotto gli alberi sulla destra della capanna è effettivamente sormontata da una grossa stella intagliata nel legno; da vicino il rilievo e la tridimensionalità le danno l’aria di una pigna o di una stella natalizia (si tratta di un simbolo caratteristico della religiosità locale, Heidegger se la fece mettere anche sulla tomba), ma da lontano ricorda vagamente una stella di Davide: la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro ti centra col piombo ti centra con mira perfetta nella casa c’è un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete aizza i suoi mastini su di noi ci dona una tomba nell’aria gioca coi serpenti e sogna la morte è un maestro tedesco i tuoi capelli d’oro Margarete 107

i tuoi capelli di cenere Sulamith.

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MELBOURNE, 1948. LITIO E MELANCOLIA Cambiamo totalmente scena. Siamo a Melbourne, in Australia. Qui, al Bundoora Repatriation Mental Hospital lavora il dottor John Cale, reduce da una lunga prigionia sotto i giapponesi (protrattasi fino al settembre 1945), dopo che era stato catturato, nel 1942, alla caduta di Singapore. Già durante la prigionia aveva osservato che alcuni prigionieri cadevano in stati depressivi gravissimi, il che sembra normale, date le circostanze. Notava tuttavia che questi sintomi regredivano dopo che avevano orinato, e ipotizzò che la depressione fosse dovuta a tossine, eliminate con l’urina. Dopo la liberazione, tornato al lavoro come psichiatra, fece il seguente esperimento. Iniettò urina di malati di mente e di soggetti sani nella pancia di cavie, e osservò che le cavie cui era stata iniettata l’urina dei malati morivano prima, appunto perché era più tossica. Poi, del tutto casualmente, cercando di accrescere la solubilità dell’acido urico nell’acqua, aggiunse dell’urato di litio, e constatò che la tossicità risultava fortemente ridotta. Di qui a concludere che lo ione di litio aveva effetti calmanti il passo era breve, e Cale sperimentò il citrato e il carbonato di litio su pazienti affetti da mania, demenza precoce o melancolia, con risultati incoraggianti. In particolare, un soggetto che era stato in cura per cinque anni, senza esiti, per uno stato maniacale, poté lasciare l’ospedale dopo tre mesi di trattamento. In un’epoca dominata dalla alternativa fra elettroshock e lobotomia, si trattò di un grande passo in avanti, anche se i risultati, pubblicati sul «Medical Journal of Australia», non furono notati fino a quando il medico danese Mogens Schou non ne riconobbe tutta la portata. 109

DAVOS, 1953. LA MONTAGNA INCANTATA Come l’avrebbe presa, Nietzsche, la proposta di una terapia farmacologica del nichilismo? Presumibilmente, visto che, nel primo paragrafo di Umano, troppo umano I ha rivendicato la necessità di una «chimica delle idee e dei sentimenti», non malissimo. Ed è a questo punto che vorrei provare ad aggiungere un paio di stazioni alla storia raccontata sin qui. Ci troviamo a Davos nel 1953, nel Berghof, il sanatorio della Montagna incantata. Sono i luoghi in cui, nel 1929, Heidegger e Cassirer si sono confrontati su Kant. A Davos c’è il Waldhotel Bellevue dove soggiornava Mann quando accudiva la moglie stremata dalle troppe gravidanze (lui, un po’ come il marito di cui parla Cartesio, pensò bene di farla ricoverare in sanatorio) e, proprio lì di fronte, c’è la casa dove (lo attesta una targa), nel 1883, Stevenson aveva iniziato L’isola del tesoro per intrattenere il figliastro, Samuel Lloyd Osbourne. In questo sanatorio a un certo punto si osservò il miglioramento dell’umore dei pazienti cui veniva somministrato un famoso antitubercolare, l’isoniazide, e un suo derivato, l’iproniazide. Sulle prime si pensò che il miglioramento dell’umore dipendesse dall’azione terapeutica antitubercolotica, e l’Associated Press pubblicò una foto di donne bellissime che ballavano spensierate in sanatorio («Blutrote Rosen erzählen dir vom Glück»). La didascalia recitava: «Qualche mese fa qui si potevano sentire solo i colpi di tosse dei malati di tubercolosi che, uno dopo l’altro, si spegnevano lentamente». Quello che non si sapeva ha una cadenza d’inganno degna di Die Betrogene di Mann, l’ultima storia conclusa prima di morire, proprio nel 1953. Nel racconto di Mann una vedova 110

cinquantenne crede di aver vinto la menopausa, ma il sangue che perde è dovuto a «un tessuto anormalmente spesso lungo le tube e al posto di un’ovaia già molto piccola un informe corpo tumorale», anche se l’inganno sarà contemporaneamente una grazia, perché la morte le risparmierà la vecchiaia. Nel sanatorio di Davos, invece, si scopre che l’azione terapeutica dell’iproniazide c’era, ma non era antitubercolare, bensì antidepressiva, come fu successivamente dimostrato da Nathan S. Kline, direttore del Rockland Psychiatric Center dello Stato di New York. Le spensierate pazienti morirono come tutti, ma anche qui l’inganno portò con sé una grazia, perché morirono felici.

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MÜNSTERLINGEN, 1956. IMIPRAMINA Anche l’ultima tappa del viaggio iniziato a Lenzerheide ha luogo in Svizzera. Siamo a meno di cento chilometri da Zollikon, presso Zurigo, dove Heidegger, dal 1959 al 1969, tenne seminari da Medard Boss (psichiatra legato all’analisi esistenziale di Binswanger) che tra l’altro provò a curarlo per una depressione, latente nel messianismo dell’Evento, ma che si era manifestata in tutta evidenza dopo la fine della guerra e l’allontanamento dell’insegnamento (ovviamente Heidegger era portato a interpretarla come accadimento auratico dell’essere: si vedano i resoconti del viaggio heideggeriano in Grecia del 1969, contenuti in Soggiorni). Ci troviamo all’ospedale di Münsterlingen, nel cantone di Thurgau, sul lato meridionale del lago di Costanza (sappiamo che sul lato settentrionale Heidegger aveva frequentato il liceo classico). Qui nel 1956 un altro psichiatra, Roland Kuhn, influenzato a sua volta da Heidegger e da Binswanger, aveva scoperto l’effetto antidepressivo della imipramina. Anche questa volta tutto avvenne per caso, e Alain Ehrenberg, in La fatica di essere, racconta con precisione la vicenda: Kuhn, che aveva bisogno di nuove droghe antipsicotiche, era stato contattato dalla Geigy per testare le proprietà ipnotiche di un antistaminico (la Geigy era di Basilea: nella stessa città, che ha molto a che fare con la storia del dionisiaco, la Sandoz si era invece specializzata, lo vedremo, nella produzione di allucinogeni). Quella che sarebbe stata chiamata imipramina non aveva effetti sulle sindromi psicotiche (in taluni casi le aumentava) ma, a sorpresa, risultava molto efficace contro le depressioni, in particolare quelle maggiori o endogene. La scoperta, comunicata nel settembre 1957 a Zurigo, al 112

secondo Congresso internazionale di psichiatria, fu pubblicata sulla «Schweizerische Medizinische Wochenschrift», e la notizia si diffuse rapidamente nella comunità scientifica internazionale. La storia del nichilismo si arricchisce dunque di un altro Kuhn, non la Elisabeth Kuhn storica del nichilismo europeo che abbiamo incontrato all’inizio di questo viaggio attraverso la melancolia, ma per l’appunto Roland Kuhn, figura culturalmente molto interessante, e di primo piano nella cultura medica internazionale. Non può non aver conosciuto lo psichiatra di Heidegger. Kuhn, che dal 1957 al 1983 insegnò psichiatria nella Università di Zurigo, era personalmente molto vicino a Binswanger, ne condivideva l’analisi esistenziale, ed era convinto della utilità di una azione combinata di psicoterapia e di farmacoterapia. Amava (non seppe mai quanto riamato) la filosofia, e il convegno per i suoi ottant’anni fu su etica ed estetica in filosofia e psichiatria. Risulta inoltre che anche Kuhn trascorresse le vacanze nei Grigioni. Non è escluso che sia passato anche lui da Lenzerheide. Non sappiamo che cosa sarebbe successo se, con un anacronismo degno dell’Eterno Ritorno, imbattendosi in quel professore abbronzato e afflitto, gli avesse proposto una terapia a base di imipramina. Forse la storia della filosofia sarebbe stata, almeno un poco, differente, e il professore triste avrebbe capito che quello che chiamava «nichilismo» era in realtà il frutto di ciò che un altro grande ipocondriaco, Carlo Emilio Gadda, avrebbe definito «un gomitolo di concause»: la depressione, la noia, l’orrore, o, come nel Pasticciaccio «l’uggia e la fatica, e la voja d’annà a dormì», e soprattutto la tendenza troppo 113

umana a confondere il proprio stato d’animo con il corso del mondo e della storia.

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Nizza, 1886 Fatti e interpretazioni Il 38 di rue Cathérine Ségurane a Nizza è l’indirizzo della casa dove Nietzsche affittava una stanza negli anni Ottanta, come spiega anche una targa. È in centro, bella, vicina al Vieux Port e alla casa in cui è morto Paganini, in una zona ancora piena di ricordi e colori del Piemonte, come Place Masséna. Adesso c’è una galleria d’arte. Cent’anni dopo il soggiorno di Nietzsche in rue Ségurane accadrà a Derrida di passare del tempo a Nizza, in un anonimo condominio al 93 di rue Parmentier, per vegliare la madre in coma scrivendo un saggio dopo l’altro, e leggendo libri comprati sulle bancarelle (gli piaceva, ad esempio, l’eloquenza violenta e visionaria di Léon Bloy). A Nietzsche, invece, succederà il contrario, la madre lo accudirà dopo il crollo. Le analogie, dirette o inverse, non finiscono qui. Tutti e due andavano a Villefranche-sur-Mer, tranne che Derrida ci andava per nuotare e vedere i parenti, mentre Nietzsche faceva passeggiate solitarie, e aveva un unico interlocutore, quel Joseph Paneth in cui ci siamo già imbattuti. È da queste parti che è stato scritto un frammento famoso: «Non ci sono fatti, solo interpretazioni». Cioè la chiave di volta del postmoderno: la realtà è socialmente costruita, nulla esiste al di fuori del testo, il sapere è solo un effetto di potere, il mondo si guarda da infinite prospettive che corrispondono ai nostri bisogni vitali in conflitto tra loro, non ci sono cose in sé, ma solo in relazione a osservatori. Ecco le parole, alla lettera, nei Frammenti postumi 1886-1887, 7 [60]: «Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: ‘ci sono soltanto fatti’, direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni. Noi non 115

possiamo constatare alcun fatto ‘in sé’; è forse un’assurdità volere qualcosa del genere. ‘Tutto è soggettivo’, dite voi; ma già questa è un’interpretazione, il ‘soggetto’ non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l’immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo. «È infine necessario mettere ancora l’interpretazione dietro l’interpretazione? Già questo è invenzione, ipotesi. In quanto la parola ‘conoscenza’ abbia senso, il mondo è conoscibile; ma esso è interpretabile in modi diversi, non ha dietro di sé un senso, ma innumerevoli sensi. ‘Prospettivismo.’ Sono i nostri bisogni che interpretano il mondo: i nostri istinti e i loro pro e contro. Ogni istinto è una specie di sete di dominio, ciascuno ha la sua prospettiva, che esso vorrebbe imporre come norma a tutti gli istinti». È un po’ come la volontà di potenza, nella versione di Nietzsche, di Goebbels o di Bernazza… Giustissimo, ovvio, come metterlo in dubbio? Chi può essere tanto stupido da pensare che le cose possano andare in qualche altro modo? Chi può essere così ingenuo o dogmatico da pretendere che esista qualcosa come «un fatto», qualcosa che ci sta davanti ostinato, che si erge come la Sesemi Weichbrodt dei Buddenbrook, l’amica di famiglia anziana e disgraziata, quando batte un pugno sulla tavola e dice con forza una enormità: è vero che risorgeremo. Commenta Mann in quelle che sono le ultime righe del romanzo: «E così stette, vittoriosa nella buona battaglia sostenuta in tutta la vita contro gli assalti del suo raziocinio di maestra: gobba, minuscola, vibrante di convinzione, come una piccola veggente, tutta entusiasmo e rampogna».

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TORINO, FEBBRAIO 1999. LE TESTE SCAMBIATE «È vero!» È vero, ad esempio, e malgrado tutti i controargomenti, tutte le delusioni, in fin dei conti («ma ci sono momenti […] in cui non c’è conforto e, Dio mi perdoni, si comincia a dubitare della giustizia, della bontà… di tutto»), è vero che ci sono fatti, e non solo interpretazioni. «La vita, voi sapete, frantuma tante cose nel nostro cuore, delude tante volte la nostra fede… Rivedersi?… fosse vero!…» Malgrado questo, ci sono fatti, non solo interpretazioni. Ed è talmente vero che Nietzsche per primo ne è la dimostrazione. Nietzsche, infatti, a vederlo, non assomiglia né all’uomodinamite venuto a tagliare in due la storia del mondo (era il parere di un giornalista svizzero, lui ne era rimasto entusiasta), né a un superuomo emancipato ed emancipante. Assomiglia, il più delle volte, a quello che in effetti fu: un professore in pensione. In una foto del 1890, che lo ritrae con la madre, ha anche l’aria di un sempliciotto o persino di uno stupido, come ha autorevolmente osservato Derrida. Ora, su un numero del supplemento letterario della «Stampa» del novembre 1991 la foto era apparsa con la didascalia «Nietzsche con la moglie» (come sappiamo, Nietzsche non si sposò mai). Poco dopo la foto era riapparsa con la didascalia «Nietzsche con la sorella». Verrà il giorno in cui la didascalia sarà: «Nietzsche con la figlia». Il che tutto sommato sembra avallare l’idea che non ci siano fatti, solo interpretazioni. Tuttavia, si osservi questa foto.

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Chi è? Nietzsche? Sembrerebbe proprio di sì, corrisponde alla immagine che ne abbiamo, con quei baffoni e quegli occhi spiritati. Inoltre, digitando «Nietzsche» su Google, e selezionando «immagini», si trova in varie occasioni questa fotografia, che riappare in una quantità di siti nietzschiani, in tantissimi libri, nonché (ho fatto ammenda più volte di questo errore) sulla copertina della prima edizione del Nietzsche che ho curato nel 1999 per Laterza. D’accordo con il principio di Nietzsche, dunque, questa foto rappresenta Nietzsche o qualsiasi altra cosa. È una tesi credibile? Direi di no. Sembra molto più sensato sostenere che la foto, sino a prova contraria, rappresenta Nietzsche e nessun’altra cosa. Fino a prova contraria, però. Perché di fatto – come ho scoperto dopo averne pubblicato la foto sulla copertina del libro di Laterza – il signore con baffoni e occhi spiritati non è affatto Nietzsche, bensì Umberto I di Savoia: si tratta di 118

una foto finita chissà come in una mostra di iconografia nietzschiana e poi rimasta lì per inerzia, anche perché il re buono (si fa per dire) era vagamente nietzscheomorfo. Ebbene, a meno di essere nelle condizioni di Nietzsche a Torino, che credeva di essere Carlo Alberto e di avere assistito ai propri funerali, una volta che si sia stabilito che il signore baffuto è Umberto e non Nietzsche la storia è chiusa, non c’è modo di sostenere che non ci sono fatti, solo interpretazioni. La foto non rappresenta Nietzsche, ma Umberto, e nessun altro. In questo caso, almeno, sembra che la frase «Non ci sono fatti, solo interpretazioni» non sia vera per niente. Ovviamente, Nietzsche non è il responsabile di ogni enormità detta o scritta, anche perché in moltissimi hanno sostenuto tesi di questo genere, per esempio quando Benjamin dice che la traduzione è impossibile, o Valéry che non c’è vero senso di un testo. Più o meno, sono espressioni equivalenti. Ora, facciamoci caso, che cosa hanno in comune? L’introduzione dell’infinito nell’esperienza. Dicendo che non ci sono fatti, solo interpretazioni, o che non c’è vero senso di un testo, o che la traduzione è impossibile, si infinitizza una attività pratica, l’interpretazione, che infinita non è. In effetti, se facciamo caso a ciò che realmente avviene nella nostra vita, ci accorgiamo che si interpreta tanto, ma non si interpreta sempre, e soprattutto non si interpreta all’infinito; al massimo, si interpreta in modo indefinito, vale a dire che non posso decidere, a priori, quante interpretazioni potrà avere un certo testo (soprattutto se non è molto chiaro). Però a volte il testo può essere chiarissimo, eppure c’è chi ha gusto a interpretare anche lì. 119

LONDRA, 1602. «DO YOU SEE YONDER CLOUD THAT’S ALMOST IN SHAPE OF A CAMEL?» AMLETO: Vedete quella nuvola che sembra quasi un cammello? POLONIO: Per la santa messa è così… un cammello. AMLETO: O forse una donnola. POLONIO: Infatti la schiena è di una donnola. AMLETO: O una balena. POLONIO: Una balena, tale e quale. Amleto dialoga con Polonio, a proposito della forma di una nuvola. Amleto si finge pazzo, e il cortigiano vuol dargli ragione: la nuvola assomiglia a un cammello, anzi, è precisa identica a una donnola, o a una balena. Il testo è chiaro come il sole: le nuvole hanno forme vaghe (per quanto servile sia Polonio, Amleto non avrebbe potuto fargli ammettere che un quadrato è identico a un triangolo), e volendo ci si può divertire a trovare delle somiglianze. Tuttavia, almeno due uomini dotti e profondi hanno investito una parte significativa del loro tempo a interpretare non la nuvola, ma le figure che ci trova Amleto. Harold C. Goddard, in The Meaning of Shakespeare (1951) vede nelle tre forme della nuvola i tre stadi del dramma: il cammello rappresenta il peso che grava su Amleto nei primi due atti, la donnola l’ira e la scaltrezza del terzo, la balena rappresenta infine il mostro dell’inconscio che finisce per inghiottire l’eroe. Ovvio. Del resto, vorrei aggiungere, Nietzsche, nello Zarathustra, non aveva forse parlato delle tre metamorfosi dello spirito che diventa cammello, leone e fanciullo? Commentando l’interpretazione di Goddard, Roger J. Trienens, in The 120

Symbolic Cloud in Hamlet (1954), si propone di offrire «una interpretazione più semplice e plausibile», e sostiene (sulla base di un’ampia erudizione) che si tratta in tutti e tre i casi di simboli di lussuria.

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BERLINO, 1819. TESSITORE DI VELI Sino al Settecento le cose andavano altrimenti, e la regola della interpretazione era «In claris non fit interpretatio», il che significa: normalmente, si legge o si guarda, e non si interpreta, le cose sono lì, chiare come il sole. Può capitare, occasionalmente, che qualcosa sia oscuro e costituisca un inciampo per la nostra comprensione. Ed è a quel punto, ma non prima, che si deve interpretare, come giudiziosamente suggeriva Johann Martin Chladenius in un libro che fa ben sperare sin dal titolo: Introduzione alla corretta interpretazione di scritti e discorsi ragionevoli (1742). Le cose cambiano completamente all’inizio dell’Ottocento, con Schleiermacher, che nella Esposizione in forma di compendio di tutta l’ermeneutica (1819) scrive: «La prassi più corriva di quest’arte parte dal presupposto che l’intendimento venga da sé, e formula negativamente la meta con le parole: ‘Il fraintendimento va evitato’. La prassi più rigorosa parte dal presupposto che il fraintendimento viene da sé e che l’intendimento deve essere in ogni punto voluto e cercato». Schleiermacher era convinto che il malinteso si possa nascondere anche nel più banale conversare sul tempo, e c’è da domandarsi con quale ottimismo a tutta prova abbia potuto concepire e portare a termine con successo la traduzione dell’opera completa di Platone – un greco di cui non sapeva quasi niente, che parlava un’altra lingua, e da cui lo separavano ventiquattro secoli. Dunque, leggendo «Schleiermacher», io dovrei prima di tutto chiedermi se sia un nome proprio o un nome comune, «Schleiermacher» nel senso di «tessitore», o «facitore» (Macher) di veli (Schleier), come forse farebbe un traduttore automatico e come del resto amava suggerire Nietzsche, che 122

se la prendeva con Schleiermacher – ma non come teorico dell’ermeneutica, bensì come teologo – e gli rimproverava di fabbricare (insieme a Fichte, Schelling e Hegel) inutili veli, insomma di intorbidare le acque. E non aveva tutti i torti. Rispetto agli ingenui (e sensati) ermeneuti pre-copernicani, è il mondo capovolto, in cui tutto diventa oscuro e indecifrabile, o meglio si trasforma in un laboratorio scientifico, pieno di enigmi e di questioni irrisolte o solo ipotetiche. E l’interprete diventa il demiurgo a cui è affidato l’incarico di portar luce nelle tenebre che, in definitiva, proprio lui ha contribuito a creare. Nietzsche si limiterà a compiere il passo successivo: se tutto è minacciato dall’equivoco, perché mai una interpretazione dovrebbe pretendere di essere vera? Tutte lo sono e nessuna lo è, conta solo la forza con cui si alza la voce. Ammettiamolo, un esito del genere motiva ampiamente il titolo del saggio di Francesco Zamboni, uscito nello stesso 1819 in cui Schleiermacher enunciava la sua tesi sulla priorità del fraintendimento rispetto all’intesa: Saggio di una memoria sopra la necessità di prevenire gl’incauti contro gli artifici di alcuni professori d’ermeneutica.

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BOSTON, 1960. GAVAGAI Tuttavia, uno potrebbe dire: a pensarla come Nietzsche non è solo un pugno di ermeneuti dionisiaci e pasticcioni. Che non ci siano fatti, solo interpretazioni, non è forse la tesi di Willard Van Orman Quine, probo discepolo di Carnap, quando esclude la possibilità di una traduzione radicale? Dal 1942 al 1946 Quine aveva prestato servizio nella Marina americana, nei servizi di intelligence e di decodifica, dunque si era misurato con testi veramente oscuri. Di qui forse il suo famoso esempio, in un saggio raccolto in Parola e oggetto (1960). Sentiamo un indigeno che esclama «gavagai» quando fremono le foglie, vediamo passare un coniglio, e concludiamo che vuol dire «coniglio». Ma forse l’indigeno intende una parte di coniglio, il passaggio del coniglio, o la coniglità. Dunque, la traduzione radicale è impossibile, il fraintendimento è la norma e, in ultima analisi, anche in questo caso non ci sono fatti, solo interpretazioni. A onor del vero, non è proprio così, visto che Quine si limita a sostenere che non abbiamo mai una garanzia ultima nel passaggio dalle parole alle cose, ma (diversamente da Nietzsche) non esclude affatto che ci possa essere una verità come coerenza all’interno delle nostre teorie e dei nostri schemi concettuali. Come dire che la verità in quanto conformità fra la proposizione e la cosa non funziona, ma funziona invece una combinazione di elementi come la coerenza, ma anche l’economia ontologica, la semplicità di dottrina, l’esplicatività, che fungono da «segni» della verità di una teoria. In breve, non potrò mai essere sicuro che il libro che indico sia proprio blu (potrebbe darsi che quello che io intendo come blu in realtà sia rosso), ma non avrò 124

mai ragione di dubitare del fatto che la molecola dell’acqua sia composta da due molecole di idrogeno e una di ossigeno. Tuttavia, ciò che Quine condivide con Nietzsche e con tutta la genealogia di epistemologi venuta fuori da Cartesio è proprio il fatto che basta un dubbio teorico (sarà proprio un coniglio?) per scatenare uno scetticismo pratico più o meno esteso, e potenzialmente illimitato. Chiedersi se gavagai sia un coniglio o non qualche altra cosa (tendenzialmente, qualsiasi altra cosa) è pretendere che uno debba dominare in una maniera assoluta il contesto per tradurre sensatamente. Ossia evocare – sotto le spoglie di quello che è probabilmente un coniglio – i fantasmi del sapere assoluto: se non sai tutto, non sai niente e non puoi dire niente neanche su cose molto circoscritte e semplici (anzi, proprio perché queste cose sono semplici e circoscritte ci sarebbe motivo di dubitarne).

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NEW YORK, 1985. DECONSTRUCTING EVERYBODY Sempre che l’indeterminatezza della traduzione e lo scacco del sapere assoluto costituiscano davvero un problema, e non una tentazione, un’ambizione, una sfida, come parve a molte filosofie del Novecento. O magari e soprattutto un bel gioco che non può fallire, come nella lettera inviatami nel 1985 da un amico americano, allora giovane professore al Brooklyn College, che mi annunciò che per quell’estate non prevedeva di muoversi da casa. Rimaneva lì, chiuso nel suo studio, «deconstructing everybody», dedito infaticabilmente (e dopo aver del resto postulato, e non del tutto a torto, che io avessi capito quello che mi scriveva, sebbene lo scrivesse in inglese) a dimostrare quanto la traduzione sia impossibile, quanto sia vero che non c’è vero senso di un testo, quanto sia un fatto che non ci sono fatti, solo interpretazioni. In questa decisione sul come passare l’agosto a Brooklyn risorgono le ermeneutiche shakespeariane di Goddard e Trienens, e si condensa la penombra che abbiamo attraversato. Littérature et philosophie mêlées, il diario di bordo di Hugo nel 1834, fu caratteristicamente, a metà degli anni Settanta, il titolo di un fascicolo monografico di «Poétique» che rende meglio di ogni altro lo spirito dell’epoca. Si tratta di non distinguere fra teoria e racconto, tra metafora e concetto, visto che la filosofia (come teorizzato da Rorty e praticato dal Decostruttore Universale) è solo un genere di scrittura. Benissimo. Ma come la mettiamo con il global warming? Se diciamo che non ci sono fatti, solo interpretazioni, allora anche il global warming è soltanto una interpretazione, il che sarà anche consolante, sulle prime, ma alla lunga non promette niente 126

di buono, giacché fornisce un eccellente motivo per lasciare le cose come stanno. Ho fatto questo esempio tra i molti possibili (come la mettiamo con lo spread? con il cancro? con l’Olocausto?) perché è quello che ha adoperato Bruno Latour, già convinto costruzionista, in un articolo del 2004 in cui ritratta parzialmente le proprie posizioni. Ridurre la filosofia all’arte, e l’arte all’invenzione futile o improbabile, non sono decisioni prive di conseguenze. Se infatti si pensa che fra teorizzare e narrare non ci sia differenza, allora diviene altissimo il rischio di fabbricare fashionable nonsense o bullshit o bêtises. Sono temi su cui sono stati scritti dei libri, come quello di Sokal e Bricmont o quello di Frankfurt, il che significa che abbiamo a che fare con un fenomeno sociologicamente rilevante. Basta leggere un po’ della produzione teorica di qualche anno fa, per esempio di quelli che, in un libro dedicato a «Tel Quel», Manuel Asensi ha chiamato Los años salvajes de la teoría, per rendersene conto. Significa che erano matti, o che condividevano il disprezzo per la realtà che più tardi caratterizzò il populismo mediatico? No, significa che pensavano che anche la «theory» potesse aver di mira la sorpresa, l’eccesso, il paradosso, ossia ciò che il Cavalier Marino assegnava come obiettivo per la poesia: «È del poeta il fin la meraviglia» e «chi non sa far stupir, vada alla striglia!» E magari si dimenticavano che, tra un verso e l’altro, puntualizzava: «Parlo dell’eccellente e non del goffo».

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TORINO, 1998. «NULLA ESISTE FUORI DELLA TELA» Alla fine del secolo scorso, più o meno nel periodo in cui sbagliavo clamorosamente l’immagine di Nietzsche, ho avuto una modesta illuminazione: basta cambiare una lettera a «Non ci sono fatti, solo interpretazioni» e dire, invece, «Non ci sono gatti, solo interpretazioni». Di colpo ci accorgiamo che il gioco non funziona più. La frase che sembrava profonda ci appare ora falsa e, retrospettivamente, siamo portati a chiederci perché una frase falsa possa, in certe condizioni, per così dire, di illuminazione, apparire profonda. Forse la profondità non riguarda la teoria, ma la vita. In fondo – e su questo punto il § 15 della Nascita della tragedia è chiaro quanto basta – l’interesse di questa fuga interminabile di interpretazioni è anzitutto esistenziale: «L’artista a ogni disvelamento della verità rimane attaccato con sguardi estatici sempre e solo a ciò che anche ora, dopo il disvelamento, rimane velo». La differenza tra l’uomo teoretico e l’uomo artistico consiste proprio nel fatto che il primo si appaga nel momento in cui ha tolto l’ultimo velo ed è arrivato al vero, alla cosa in sé. Mentre l’uomo artistico non gode che del togliere un velo dopo l’altro, questo infinito intrattenimento è ciò che lo appaga, e giungere all’ultimo velo e di lì a un eventuale vero non è affatto una prospettiva che possa attrarlo. La fuga delle interpretazioni non pretende dunque di essere una teoria (e meno che mai una teoria vera), ma anzitutto una paradossale promessa di felicità riservata prioritariamente ai professori, che potranno chiedersi, nei loro libri anche se non nella loro vita, se le pagine – ardue o chiarissime, non importa – di Amleto o dello Zarathustra o 128

di Ulysses significhino la concupiscenza, le età del mondo, o le parti del corpo. Questa medesima felicità da professori sta al centro del mondo dionisiaco, l’universo immaginario in cui Nietzsche traspone i problemi del presente ammantandoli di un’aura arcaica e originaria. Nietzsche è un avversario dell’illuminismo, e dell’idea che la ragione e il progresso portino virtù e felicità; la considera una chimera banale e falsa (e in effetti lo è, se la mettiamo nei termini della morale di fine Ottocento, diciamo quella che viene raccontata da Cuore). A questo presepe contrappone un mondo tellurico e tragico-artistico, contrario alla ragione, quello di Wagner, e per il suo tramite del Faust e di Dürer (ma se fosse vissuto negli anni Sessanta e Settanta del Novecento probabilmente avrebbe preso come esempio i Rolling Stones o i Doors). Poi, un po’ come quando un mobiliere «antica» una poltrona in stile Luigi XVI aggiungendo i buchi dei tarli e i segni dei secoli, traspone l’antagonismo tra artista e professore nel passato greco, e crea una antitesi tra i presocratici come pensatori tragici e Socrate come razionalista (dunque dobbiamo leggere: come borghese e professore ottimista) che sostiene che il sapere e la virtù vanno di pari passo. Ecco perché il punto centrale della Nascita della tragedia, anche più della dialettica tra dionisiaco e apollineo, è la lotta fra Wagner e Socrate. Come è ovvio, le simpatie di Nietzsche vanno tutte all’artista (e al professore artisticizzato: Socrate cultore di musica è il trisavolo del «deconstructing everybody»), e al suo cavalcare attraverso i veli. Non è forse proprio quanto ci suggerisce il principio «Non ci sono fatti, solo interpretazioni»? Non dico che tutto derivi di qui, ma sicuramente qui troviamo l’origine di 129

molte futilità, e magari anche delle variazioni su Nietzsche che state leggendo in questo preciso momento. I motivi di questa predilezione per la maschera e per l’artista sono, a mio modo di vedere, facilmente riconoscibili. Un professore di filologia sente tutta la fragilità del suo sapere rispetto a una società che si avvicina ai mass media, o rispetto al prestigio sempre crescente delle scienze naturali, e diventa il teorico di una filosofia dell’avvenire. In questa veste inventa per sé e per i suoi eredi un nuovo ruolo, quello appunto di smontare i vecchi miti, smascherarli, e soprattutto di trovare il mito nel cuore della ragione – e insieme di creare nuovi valori, nuovi miti e nuovi utenti per le proprie dottrine. Questo spiega perché da una parte Nietzsche citi la frase di Carlo il Temerario in battaglia contro Luigi XI, «Je combats l’universelle araignée», se la prenda con il «dio come ragno» e con i tessitori di veli – e dall’altra sia così profondamente attratto dal velo. È un gioco di decostruzione e ricostruzione, di svelamento e di ri-velazione. O, più pianamente, è la collaborazione tra Charlot vetraio e il monello che tira sassi nel film di Chaplin.

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SAINT-MICHEL-DE-MONTAIGNE, 13 SETTEMBRE 1592. «MON BON HOMME, C’EST FAICT» Alla fine, è sin troppo chiaro quale sia il fatto ininterpretabile a cui si tenta di sfuggire attraverso il gioco delle interpretazioni, e che motiva nel profondo il ciclo delle rivelazioni e dei rivelamenti. «Brav’uomo, è andata: non è possibile raddrizzarvi; al massimo vi si impiastrerà e vi si puntellerà un po’, e si allungherà di qualche ora la vostra miserabile condizione.» Il commiato dagli Essais di Montaigne («laisse, lecteur, courir encore ce coup d’essay…») si richiama all’esperienza del medico, che alla fine dichiara il fatto insuperabile, la vecchiaia e la morte. È contro questa inemendabilità che si mobilita l’artista, con il suo gusto per l’infinito intrattenimento dell’interpretazione. Non si avrà mai ragione sino in fondo ma, al tempo stesso, è scongiurato il rischio di avere completamente torto, di aver sbagliato tutto, di essere stati tutta la vita di fronte a una porta, l’unica che ci fosse destinata, senza averne mai varcato la soglia. L’abisso del fallimento e l’inevitabilità della fine vengono leniti dalla delectatio morosa delle interpretazioni. Che d’altra parte rendono meno tedioso anche il passar del tempo («caro lettore, lasciaci passare ancora questo saggio», come dire, «dammi tempo, ancora un po’ di tempo»). E che – almeno così spera il professore dionisiaco, quando è sprofondato nei suoi miti – lo prolungano all’infinito, per cui il «non ci sono fatti, solo interpretazioni» diventerebbe un po’ come la tela di Penelope («nulla esiste fuori della tela»), o meglio ancora come i racconti di Shahrazād, che da una notte all’altra, offrendo un film sempre nuovo, allontanano l’inemendabile. 131

Rapallo, 20 gennaio 1883 Nuovo Cinema Zarathustra

«Nutrirsi… non fare più versi… nessuna notte più insonne… non più sigarette… non donne… tentare bei cieli più tersi: Nervi… Rapallo… San Remo… cacciare la malinconia; e se permette faremo qualche radioscopia…» Così Gozzano. E così Nietzsche, che il 20 gennaio 1883 scrive a Overbeck confessando che rien ne va, a Rapallo. Ma è ovvio, fatalmente e inevitabilmente ovvio, che a Rapallo non si può che morire di malinconia, come del resto in tutto il Tigullio, il golfo Paradiso, Ruta sopra Camogli, quando si è nelle sue condizioni. Nietzsche si è molto lamentato, a un certo punto, degli inverni trascorsi sulla riviera ligure e francese. Stanze fredde e vita solitaria aggravata dall’inettitudine a parlare in modo accettabile l’italiano o il francese. Rapallo non è ancora rapallizzata, termine tecnico con cui si designa lo scempio edilizio che ha caratterizzato il dopoguerra, quando ancora accoglierà dei filosofi, per esempio Luigi Pareyson che scrisse le sue riflessioni sul male in dio ai tavolini dei caffè sulla passeggiata a mare. Nel Tigullio Nietzsche compone Aurora (1881), gli Idilli di Messina e La gaia scienza (entrambi del 1882). Ed è ancora il Tigullio che accoglie il reduce di una 132

tragedia risoltasi in tre atti. Il 26 aprile 1882, a Roma, Nietzsche conosce Lou Andreas-Salomè, ventunenne figlia di un generale russo, poliglotta, curiosissima di intelletto e di intellettuali. Nietzsche e Lou trascorrono insieme il mese di agosto, a Tautenburg, non lontano da Naumburg, ma con Elisabeth, gelosa e litigiosa; poi cinque settimane, tra ottobre e novembre, a Lipsia, questa volta però insieme a Paul Rée, un allievo e amico di Nietzsche, più giovane di lui di cinque anni e autore di un libro sull’Origine dei sentimenti morali su cui torneremo fra poco. Rée non è molesto come Elisabeth, ma il risultato è anche peggiore: Lou e Rée, il 5 novembre, partiranno da Lipsia alla volta di Berlino, lasciando Nietzsche nella più completa desolazione. Si è molto insistito sull’inettitudine e il disadattamento sentimentale di Nietzsche, serialmente incline a frapporre uno schermo tra sé e i possibili oggetti di amore – l’amico, che aveva addirittura incaricato di fare per conto suo una dichiarazione a Lou; o la sorella sui cui buoni uffici, almeno all’inizio della vicenda, riponeva una fiducia non meno assurda. Era già, dall’origine, lo schema della passione per Cosima, la moglie di Wagner. Come sempre, la differenza tra il disadattato e il genio sta nella potenza della creazione e nella grandiosità dell’automistificazione. Nel caso di Wagner e Cosima ha libero corso la pratica fondamentale di Nietzsche, l’automitografia, che si ritrova nella rielaborazione del trauma di Lou, il cui risultato sarà, letteralmente, la costruzione di un mito, l’equivalente filosofico del Wort-Ton-Drama wagneriano. Dopo che lei se ne è andata con Rée, Nietzsche si rifugia a Rapallo, abusa di farmaci (cloralio che si autoprescrive spacciandosi per medico), forse ricorre a una «pozione giavanese» (cognac e 133

laudano) e, secondo la sua testimonianza, in dieci giorni del gennaio 1883 scrive la prima parte di Così parlò Zarathustra. Nel febbraio si trasferisce a Genova, e qui, il mese successivo, compone i Ditirambi di Dioniso. In aprile, a Roma, ha luogo l’incontro (e la rappacificazione, stando all’interessata) con Elisabeth. In giugno è a Sils Maria, dove, il 6 luglio, risulta finita la seconda parte dello Zarathustra, e abbozzata la terza. Il settembre lo passa a Naumburg, dove sorgono nuove tensioni con la sorella, questa volta per i progetti matrimoniali di costei. Scrivendo «Famiglie! Vi odio! Focolari chiusi; porte serrate; geloso possesso della felicità», Gide era un ottimista. In dicembre, dopo due mesi inquieti (spostamenti in Germania e in Italia), Nietzsche si stabilisce a Nizza e ci sverna; qui, il 18 gennaio 1884, conclude la terza parte dello Zarathustra. Uscirà il 10 aprile: Nietzsche è a Venezia con Gast; indi, in giugno, a Basilea, per due settimane, prima del soggiorno a Sils. Tra la fine di settembre e ottobre è a Zurigo, dove per qualche tempo si trattiene Elisabeth. In novembre, torna a Nizza, dove il 13 febbraio 1885 conclude la quarta parte dello Zarathustra, pubblicata in una tiratura per pochi intimi. Nietzsche ha ormai abbandonato la critica della cultura con cui aveva debuttato in filosofia, e intravede una metafisica dell’Eterno Ritorno e della volontà di potenza; sotto il profilo teorico, dopo lo Zarathustra, il suo pensiero non presenterà elementi nuovi, caratterizzandosi come un costante tentativo mancato di organizzazione e di elaborazione, compensato da una crescente automitizzazione. Nello Zarathustra questo meccanismo funziona a pieno regime: se Pareyson rifletterà sul male in 134

dio, dai tavolini di un caffè a Rapallo Nietzsche si identifica con un profeta iranico, scrive nello stile della Bibbia tradotta da Lutero, e introduce l’idea che l’uomo quale noi lo conosciamo non sia che una tappa del cammino che conduce al superuomo.

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NEW YORK, 1967. «SEE THE WAY SHE WALKS» Si è molto discusso sulla natura del superuomo, ci si è vista tanto una prefigurazione delle SS (che è una perfetta assurdità) quanto l’annuncio di un uomo liberato e postmetafisico (che è una assurdità non meno perfetta). Più interessante, a mio avviso, riflettere sulla genesi di una figura abbastanza comune nell’Ottocento, tra suggestioni darwiniane che lasciano intravedere la possibilità di una specie successiva all’homo sapiens sapiens e l’attrazione per il mostruoso, da Le Horla (1886-1887) di Maupassant, a Dracula (1897) di Bram Stoker, ritratto in nero di un superuomo transilvano. Quanto a Nietzsche, da una parte è il tentativo, tutto romantico e in atto sin dai tempi della Nascita della tragedia, di dar vita a una nuova religione e a un nuovo dio, dopo duemila anni di cristianesimo. Dall’altra è un espediente iperbolico per superare la frustrazione provocata dalla vicenda di Lou: annientato, Nietzsche rilancia la posta, si pensa come il suicidato della società (per riprendere il titolo del saggio di Artaud su Van Gogh) e insieme come il martire di una nuova religione. Quella che viene proposta da Nietzsche è una religione interamente estetica, fatta di sons et lumières. La morte di dio è la premessa non per una secolarizzazione, ma per una rimitizzazione, per la nascita di nuovi dei (più saggiamente, de Maistre aveva suggerito che il problema non sussiste: dio è morto in croce, ma ha lasciato la sua eredità al Papa, che basta e avanza per i bisogni del cattolico). Questi nuovi dei saranno in tutto e per tutto conformi a quelli che un tempo si chiamavano «divi» del cinema. Il primo divo, l’impresario e lo sceneggiatore ovviamente è lui, Nietzsche, e da questo punto di vista non vanno sottovalutate le lettere terminali in 136

cui si paragona al dio sacrificato e morente (Dioniso, Il Crocifisso), ma anche al dio onnipotente e creatore. Proprio come il divo, il nuovo dio è anzitutto un esempio, un modello di lifestyle. Non si dimentichi che nella seconda delle Considerazioni inattuali composte a Basilea dopo La nascita della tragedia, Sulla utilità e il danno della storia per la vita (1874), c’era una intera categoria, quella della «storia monumentale», destinata a creare immagini di mito che potessero suscitare mimeticamente grandi azioni, qualcosa tra le Vite parallele di Plutarco, i Sepolcri di Foscolo e – appunto – i divi del cinema. Non stupisce, a questo punto, che Nietzsche abbia potuto appassionarsi a un libro come Gli eroi e il culto degli eroi e l’eroico nella storia, (1841) di Thomas Carlyle (tranne poi definirlo un «grande falsario inconsapevole e involontario», ma è un meccanismo che in lui si produce regolarmente), che concepisce la storia non come progresso, bensì come il gran teatro in cui vanno in scena le virtù degli eroi (siano Odino o Dante, Lutero o Cromwell, o Federico il Grande, la cui biografia sarà il livre de chevet di Hitler e di Goebbels negli ultimi mesi di guerra). Il culto dell’eroe risponde, in Carlyle, a un ideale politico reazionario: al democraticismo moderno va sostituito un ideale comunitario medioevale, in cui la collettività è tutelata non da un patto tra cittadini, bensì dalla soggezione all’eroe taumaturgo. Questo suona molto vecchio, ma è anche la promessa di un futuro dandystico e carismatico. Il divo si riconosce non da quello che dice, ma da come lo dice, da come veste, da come parla e agisce: elegance is an attitude. Nell’esemplare posseduto da Nietzsche dei Saggi (1841-1844) di Ralph Waldo Emerson troviamo numerose sottolineature intorno 137

al passo dove si parla di Zarathustra, non come dottrinario, bensì come figura eminente per ciò che concerne «il suo aspetto e il suo incedere». Nietzsche annota: «È lui!» Il concetto si manifesta nell’incedere, proprio come – per trarre un solo esempio da una casistica sconfinata – in Femme fatale («See the way she walks») di Lou Reed, artista maledetto che, per una bizzarra combinazione, sembra sintetizzare nel suo nome il triangolo affettivo di Nietzsche, Lou e Rée. E la bellezza suprema, alla fine, sta nella caduta, che era già il lato seducente delle religioni degli dei che tramontano, di Osiride, di Mitra, di Dioniso, e ovviamente anche del Crocifisso, di cui Nietzsche salva, persino nell’Anticristo, il tonfo spettacolare: «– La sorte del Vangelo fu decisa con la morte – restò sospesa alla ‘croce’… Soltanto la morte, questa morte inattesa e obbrobriosa, soltanto la croce, che in generale era riserbata esclusivamente alla canaglia – soltanto questo atrocissimo paradosso portò i discepoli di fronte al vero enigma: ‘Chi era costui? Che significa tutto questo?’» (§ 40). Sì, davvero, «Chi era costui? Che significa tutto questo?» O «Che cos’è questa porcheria?» («Woher diese Schießerei?»), come disse Hitler il 21 aprile del ’45 quando ebbe inizio il cannoneggiamento sovietico su Berlino – con una espressione uguale all’obbrobrio e all’orrore di cui parla Nietzsche, e in cui risuonano l’improperium Christi e la stultitia Crucis di San Paolo, l’opprobre de la croix dei predicatori barocchi e il «disonor del Golgota» di Manzoni. Una Schießerei che Nietzsche non solo teorizza, ma mette in scena suo malgrado, sin dalla pantomima oscena con cui accoglie Overbeck a Torino. The Show Must Go On, e 138

Nietzsche è il primo filosofo di cui possediamo immagini in movimento. Il film, una lunga sequenza ripresa a Weimar nell’estate del 1899, circa un anno prima della morte, è commovente e involontariamente spietato, si vede un demente che ti fissa negli occhi, quasi immobile, senza un battito di palpebre, «L’idiota sulla croce», con un plaid scozzese sulle spalle e vestito con quella che pare una camicia di forza. Erano le ultime testimonianze di una vita per la quale il cinema era stato una attrazione fatale, anzi, una fatalità, per usare il lessico di Ecce homo. Il cinema, all’epoca, era appena nato, e Nietzsche non lo aveva mai conosciuto sinché aveva avuto coscienza, ma i fili che li legano sono molteplici, e vanno dall’aneddoto alla filosofia, con una affinità elettiva che sembra alimentata già dalla Mole Antonelliana, che lui considerava il simbolo della volontà di potenza, e che è oggi la sede del Museo del Cinema. Ma a ben vedere, pochi anni prima di L’arrivo di un treno nella stazione di La Ciotat (1895) Nietzsche – vero e proprio impresario virtuale per un’opera d’arte totale – aveva già progettato il suo grand opéra. Pensava principalmente a Wagner e poi a Bizet, ma tra gli eroi della sua mitologia non sarebbe stonato Maciste, il titano sofferente di Cabiria, girato sotto la Mole nel 1914, e il cui idolo dorato oggi conservato nel Museo del Cinema sembra l’immagine di copertina ideale di una edizione della Götzerdämmerung. Quello che dà da pensare è la varietà dei film che si possono ricavare da Nietzsche, l’assortimento dei generi, dalla commedia alla tragedia passando per la farsa, il dramma borghese e il musical. Fra le tante, mi limiterò a tre sceneggiature, o magari 139

semplicemente a tre sceneggiate, possibili. La prima è quella di ciò che il cinema ha davvero fatto, direttamente, di Nietzsche, e che, per motivi che chiarirò tra poco, propongo di intitolare «Dioniso brasileiro». La seconda invece segue una strategia obliqua e indiretta, che punta sul comico volontario e involontario di Nietzsche, e che intitolerei «Zarathustra e Zelig». La terza, infine, si sviluppa ugualmente come strategia indiretta, ma punta sul tragico e sul nibelungico, e la si potrebbe intitolare «Spettri di Hitler». Ciò che unisce le tre sceneggiate è quella che a tutti gli effetti mi appare come la cifra dominante della vita e del pensiero di Nietzsche: la tragicommedia o, a seconda dei momenti, l’ilarotragedia.

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TORINO, 2001. DIONISO BRASILEIRO «Per Nietzsche contavano solo le persone forti, di grande capacità, mentre le mediocri non meritavano la minima considerazione. […] Questi sentimenti trovano approvazione immediata nella mente di un noto studioso, un professore americano di filosofia. La figlia del professore inizia a interessarsi al volontariato presso un centro di assistenza per bisognosi, cosa che il professore rifiuta di prendere sul serio. Quando la figlia si porta a casa una giovane operaia, malata e debole, cerca di opporsi, ma alla fine è costretto a rassegnarsi. La ragazza si rivela una sarta incapace, e dopo che gli ha rovinato un po’ di vestiti di pregio il professore decide di intervenire. Dice a sua figlia che l’operaia è ‘una non adatta’. La figlia si rifiuta di scacciarla, ma la povera ragazza si sente in ogni caso ferita nell’orgoglio e decide di andarsene comunque. Nella dura lotta per la vita che segue, il membro di una banda di criminali la tenta con facili guadagni criminosi, ma lei rifiuta seccata.» Allora il gangster mette gli occhi sulla figlia del professore, si finge un eroe, e riesce a strapparle una promessa di matrimonio. «Il professore è sconvolto dalla notizia. Nel dolore si ricorda di una citazione di Nietzsche che sembra prenderlo in giro. ‘Il forte deve diventare più forte’, dice Nietzsche, ‘e nel fare ciò non deve perdere forza nel vano tentativo di riscattare il debole.’» Quelli che abbiamo appena finito di leggere sono stralci del riassunto apparso in The Moving Picture World (1915) di un film muto, e ora perduto, uscito quell’anno, il primo su Nietzsche, o meglio sulla sua filosofia, A Disciple of Nietzsche, sceneggiato da Philip Lonergan e prodotto dalla Thanhouser Film Corporation (dal nome del suo fondatore, 141

Edwin Thanhouser, quasi un Tannhäuser wagneriano). Era un film ispirato al libro del protonietzschiano di Baltimora Henry Louis Mencken (1880-1956), The Philosophy of Friedrich Nietzsche (1908) – alcuni passi erano citati testualmente nella sceneggiatura. Ci si sarebbe potuti aspettare che con il tempo le cose prendessero una piega migliore, però è andata altrimenti. Ci sono stati dei documentari, ad esempio Friedrich Nietzsche: Beyond Good and Evil (1999), o Zarathustra’s Drunken Song (2000) di Stephen Blauweis e Tali Makell. Ma, tra i film veri e propri, quello che colpisce è la scarsa quantità e qualità, quasi che il più cinematografico dei filosofi non piacesse al cinema. Dal 1915 bisognerà attendere più di sessant’anni per avere Al di là del bene e del male (1977), diretto da Liliana Cavani, forse il miglior film su Nietzsche, che però fa retrospettivamente sorridere per la dissonanza tra i volti di un pantheon cinematografico italianissimo anni Settanta e le figure rappresentate: Dominique Sanda nella parte di Lou, Virna Lisi in quella di Elisabeth, Umberto Orsini come Bernard Förster (fortunatamente Nietzsche è impersonato dal meno caratterizzato attore svedese Erland Josephson). Ma queste fragilità inevitabili sono poca cosa se le confrontiamo con quello che Pinchas Perry è riuscito a fare trent’anni più tardi, con When Nietzsche Wept (2007), un film in cui Lou parla con marcato accento russo, e che ci narra di un Nietzsche in analisi che alla fine si libera, si confessa, e diventa buono – seguendo la trama del libro, omonimo, del 1992, dello psichiatra americano Irvin D. Yalom. Meglio il film di Béla Tarr e Ágnes Hranitzky, A torinói ló (Il cavallo di Torino, 2011) dove però Nietzsche non appare mai, e ci si limita a prendere spunto 142

dall’episodio dell’abbraccio al cavallo per raccontare la solitudine di un padre e di sua figlia in una desolata campagna ungherese. C’è molto e molto poco da ridere in tutto ciò. Ma se ho intitolato questa prima sceneggiata «Dioniso brasileiro» è perché il più comico di tutti è Dias de Nietzsche em Turin (2001) di Júlio Bressane, tanto più interessante, in linea di principio, in quanto si concentra sulla parte del percorso nietzschiano, il crollo, che è, da solo, una sceneggiatura perfetta. Eppure, niente funziona. Il professore baffuto approda a Torino, con un gran nasone e un’aria che lascia presagire il peggio, beve caffè, mangia frutta, passeggia, ma lì per lì la sola morale che si riesce a trarre dal racconto è «chi troppo studia matto diventa»; al limite – visto che siamo negli anni di gestazione della Volontà di potenza – «chi troppo vuole nulla stringe». Un tentativo di esegesi dei moventi profondi del disagio nietzschiano non manca, ma è dello stesso genere di When Nietzsche Wept: al superuomo – suggerisce Bressane – mancava un’anima gemella. O magari le donne in generale. Donde fugaci o insistiti inserti di nudi femminili, alcuni del tutto espliciti, altri più consoni alla sentenza per cui non ci sono fatti ma solo interpretazioni (due seni si trasformano in altrettante montagne, saranno quelle da cui discende Zarathustra? Sarà la Val di Susa?) L’epilogo è madornale, ma è l’unica cosa perfetta, visto che rende con esattezza la follia e la desolazione che avevano traumatizzato Overbeck. La scena si svolge nel futuro studio del mio commercialista. A un certo punto, rantoli cupi pervadono la casa. Il padrone e la sua famiglia sono insospettiti, la signora va a origliare, sente ditirambi dall’altra parte, torna dal marito, riferisce; questi, lasciate in 143

salotto le donne di casa (cioè anche le due figlie concupite dal superuomo, almeno così opina Bressane, e non è detto che abbia torto), accorre e vede tutto: cioè Nietzsche nudo e illuminato di blu, con in mano una testa di Dioniso che ha recuperato non si sa dove e che forse esercita la sua hantise ancora oggi, fra ricevute, computer, moduli di versamento.

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NEW YORK, 1983. ZARATHUSTRA E ZELIG Il Dioniso brasileiro pazzo e lascivo è un umorista involontario, che di Nietzsche fa emergere le goffaggini, il ridicolo, il grottesco. È però lecito seguire una strada diversa, una seconda sceneggiata, che rispetto alla prima avrebbe solo una caratteristica in più, ma decisiva, e cioè, per così dire, la cognizione del ridicolo. «Quando studiavo Schopenhauer per la prima volta (1865), io negavo molto seriamente la mia ‘volontà di vita’ per mezzo della cucina di Lipsia. Avere una alimentazione insufficiente e in più rovinarsi lo stomaco – questo problema mi pareva magnificamente risolto dalla suddetta cucina. (Si dice che col 1866 ci sia stato un cambiamento –.) Ma la cucina tedesca in genere – cosa mai non ha sulla coscienza! La minestra prima del pranzo (già nei libri di cucina veneziani del XVI secolo la chiamano alla tedesca); la carne bollita all’eccesso, le verdure che diventano grasse e farinose; i dolci che degenerano in fermacarte! Si aggiunga poi il bisogno veramente bestiale dei vecchi, e non solo dei vecchi, Tedeschi di bere dopo il pasto e si capirà da dove ha origine lo spirito tedesco – dagli intestini in disordine… Lo spirito tedesco è una indigestione, non si libera mai. – Ma anche la dieta inglese che, in confronto con la tedesca, e anche con la francese, rappresenta una specie di ‘ritorno alla natura’, cioè di cannibalismo, ripugna profondamente al mio istinto; mi sembra che appesantisca i piedi allo spirito – piedi da donne inglesi… La cucina migliore è quella piemontese.» È Woody Allen, che sul «New Yorker» del 2006, in un articolo intitolato «Così mangiò Zarathustra», finge di aver trovato, nel corso di un recente viaggio erudito a Heidelberg, un inedito nietzschiano dedicato alla dieta dei 145

filosofi? No, è proprio Nietzsche, in Ecce Homo, nel capitolo «Perché sono così accorto», primo paragrafo. Insomma, come in Nietzsche avviene quasi sempre, la realtà supera di gran lunga la finzione. E rivela una amicizia stellare tra Woody e Fritz. A Wagner, Nietzsche, nell’apocrifo di Allen, attribuisce una ingordigia rivoltante: «Patatine, formaggio alla piastra, nachos – Cristo, non c’è limite al suo appetito, eppure la sua musica è sublime». L’articolo si conclude, in perfetto stile nietzschiano, con una dieta adatta per il superuomo, sprezzante dei trigliceridi e convinto che un formaggio grasso sia il cibo degno di Dioniso (la cena del superuomo consiste in bistecca o salsicce, patate novelle al forno, aragosta Thermidor e gelato con panna montata o millefoglie). Se tutto questo appare profondamente nietzschiano, forse più di quanto Allen stesso non pensi, è perché Nietzsche è proprio questo composto instabile in cui convivono Lord Byron e Pellegrino Artusi, Schopenhauer e Madame Bovary. Di certo, se Nietzsche si fosse nutrito una sola volta come il superuomo di Woody, sarebbe morto sul posto. E proprio per questo il vero Nietzsche, se non ha scritto un libro di dieta, sicuramente ne ha parlato a ogni piè sospinto, in privato ma poi anche in pubblico, ha speculato sul regime alimentare degli antichi, dei moderni, dei bramini, ha descritto maniacalmente i propri usi e precauzioni alimentari. Da un certo momento in avanti, persino le invettive prendono una piega alimentare. Nel Crepuscolo degli Idoli («Scorribande di un inattuale», § 1), riferendosi a Émile Zola, Fritz scrive «Zola, ovvero la gioia di puzzare», e pare che si riferisse al gorgonzola, il formaggio dionisiaco 146

che a Milano viene (o veniva, ancora una trentina d’anni fa) abbreviato dai negozianti proprio con «zola». Il cibo spiega tutto, motiva, giustifica, condanna. I tempi, del resto, erano quelli: materialismo e positivismo – L’uomo è ciò che mangia, come decretava Feuerbach. Ma in Nietzsche la cosa prende il ritmo dell’ossessione, appunto per via delle sue condizioni di salute, tanto precarie ed esposte ai disagi e talora ai disastri delle trattorie a buon mercato. Al di là della dieta di Zarathustra, dall’incontro tra Nietzsche e Woody Allen può venir fuori anche una possibile sceneggiata «Zarathustra e Zelig». Nel film di Woody Allen (1983, giusto cent’anni dopo lo Zarathustra), Zelig diviene un caso clinico e una gloria nazionale (oltre che un fenomeno da baraccone) a causa del conformismo che lo spinge a trasformarsi in tutte le persone che incontra. Proprio come nella lettera a Burckhardt, «in fondo io sono tutti i nomi della storia». Le analogie non finiscono qui. Noto e addirittura malfamato suo malgrado il primo, dedito per tutta la vita alla fabbricazione della propria gloria postuma il secondo, sono entrambi vittime di una sorella profittatrice e di un cognato scroccone: da una parte, la sorella di Zelig e il marito che sfruttano il Conformista trasformandolo in fenomeno, ovviamente con l’aiuto degli psichiatri; dall’altra, Elizabeth, aiutata questa volta da Peter Gast, giacché il cognato si era suicidato in Paraguay (anche questa è tutta una storia romanzesca narrata nel 1992 in un libro, Forgotten Fatherland: The Search for Elisabeth Nietzsche di Ben MacIntyre, che potrebbe benissimo diventare un film). Del pari, tanto Zelig quanto Zarathustra incontreranno una psichiatra con intenzioni poco chiare, e nei cui 147

confronti concepiranno progetti matrimoniali (Mia Farrow, in Zelig, quasi un corrispettivo di Lou, che psichiatra non era, ma che fu psicoanalista e cercò, forse con successo, di sedurre Freud). Certo, le fortune di Zelig e di Zarathustra non sono paragonabili. A quest’ultimo sono stati dedicati libri di illustri filosofi, mentre Zelig ha una sola menzione letteraria di rilievo, nei diari di Fitzgerald, dove si narra di uno «strano tipo» che a una festa prima parla con accento bostoniano e si dichiara conservatore, e poi – con gli sguatteri – parla in slang professando la propria fede democratica. Sono, a ben vedere, le medesime contraddizioni di Zarathustra e di Gatsby. E il merito di questo film sta a mio avviso nel fatto che svela il legame essenziale che unisce il Conformista al Superuomo. E forse chi lo ha capito meglio di tutti è proprio Fitzgerald, nel suo culto della bellezza di tutto ciò che cade, quello che in The Crack-up (la novella del 1936 intorno a cui lui stesso sentiva aleggiare «un tocco di disastro») gli faceva scrivere che la vita è dopotutto un processo di autodistruzione. Perché Gatsby è davvero uno Zarathustra riuscito, in lui c’è l’eroismo e il mistero, l’ironia e l’irrilevanza, e, soprattutto, il sacrificio, che è celebrato dalla congiura tra l’ottusità borghese di Tom-Paul Rée, l’egoismo di Daisy-Lou, e la stupida limitatezza del plain man, quello che forse Nietzsche avrebbe chiamato un chandala, il meccanico che, alla fine del film di Jack Clayton, sacrifica a colpi di pistola Robert Redford. E poi, cosa risponde Zarathustra-Redford a Nick Carraway quando questi gli dice: «Il passato non si può ripetere»? Ma ovviamente: «Come, non si può ripetere? Si deve ripetere!»

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BERLINO, 2004. SPETTRI DI HITLER Quello che ci viene offerto dall’incontro tra Zelig e Zarathustra non è solo romanticismo, ma è, almeno altrettanto, l’immensa e candida comicità di Nietzsche, i legami niente affatto accidentali che uniscono il Superuomo non solo a Superman (una parentela antica quanto Man and Superman di George Bernard Shaw, che è del 1903, altra testimonianza della precoce penetrazione di Nietzsche nella sfera della spettacolarità), ma anche a Fantozzi e a Paperino. Tuttavia le letture oblique di Nietzsche non si fermano qui, perché, d’accordo con The Crack-up e La nascita della tragedia, la vita è davvero un processo di autodistruzione. C’è tutto un altro filone noir, sul registro della crudeltà e della guerra, da Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini (1975) alla Croce di Ferro (1977) di Peckinpah, senza dimenticare Triumph des Willens di Leni Riefenstahl (1935), il documentario sull’adunata nazista di Norimberga del 1934. Questo registro viene a intrecciarsi con un ritorno spettrale e spettacolare della catastrofe della Germania da qualche anno a questa parte (si pensi al successo dei libri di Beevor su Stalingrado e sulla battaglia di Berlino, alle biografie hitleriane di Kershaw, ai romanzi su Hitler, alla pubblicazione dei diari di Goebbels in Francia e al rinnovato successo di un libro bello e scombinato come Kaputt di Malaparte) ed è per questo che intitolerei questa terza sceneggiata «spettri di Hitler». L’orizzonte è la rovina assoluta, quella di Le benevole di Jonathan Littell, e soprattutto di La caduta (2004), il film di Oliver Hirschbiegel sugli ultimi giorni di Hitler nel Bunker di Berlino così vicini, lo vedremo, agli ultimi giorni di Nietzsche nella stanza del mio commercialista. Ecco il 149

punto. Se dovessimo immaginare la massima realizzazione della volontà di potenza, quasi calligrafica nella sua perfezione, non dovremmo pensare, poniamo, al vantaggioso Blitzkrieg contro la Francia del 1940 che Heidegger esaltava commentando La volontà di potenza. Dovremmo piuttosto guardare alla lotta mortale tra la Wehrmacht e l’Armata Rossa da Stalingrado in avanti. Nietzsche, esattamente come Hitler (e come Heidegger che si richiama a Eraclito), ha pensato che nello scontro estremo si riconosca il valore degli individui e delle collettività. E che la perfezione dello scontro non sta nella vittoria, ma appunto nella caduta, che culmina quando sublime e ridicolo si confondono. Ce lo suggerisce Speer con questo ritratto di Göring-Zelig nell’aprile del 1945: «Poco dopo eravamo tutti riuniti intorno al tavolo nella stretta camera del Bunker. Di fronte a Hitler aveva preso posto Göring. Göring aveva sempre attribuito grande importanza all’aspetto esteriore delle cose: orbene, negli ultimi giorni la sua uniforme aveva subito una notevole trasformazione. Potevamo constatare con stupore che aveva sostituito la stoffa grigio-perla con il kaki della divisa americana. Non portava più spalline larghe cinque centimetri, intrecciate d’oro, ma semplici spalline di stoffa, sulle quali spiccava solitaria l’insegna del suo grado, l’aquila d’oro dei marescialli del Reich. ‘Sembra proprio un generale americano’ mormorò uno degli astanti. Ma Hitler non notò neanche questo». Lasciamo in sospeso il finale, ci torneremo più avanti.

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Orta, maggio 1882 Femmes! «Femmes!» ricorda un poco l’urlo dell’arrotino, che ancora gira da qualche parte, del tutto incurante del fatto che di donne non ce ne sono più, in casa, e che anzi in casa non ci sia più nessuno in assoluto. «Femmes!» era l’incipit, quasi l’appello, di Derrida nel 1972, a Cerisy-la-Salle, al convegno su Nietzsche a cui presero parte anche Deleuze, Klossowski, Lyotard (tutti riuniti, insieme a Derrida, Bernard Pautrat e Maurice de Gandillac in una foto memorabile e piena di calzoni a zampa). Derrida si impegnava nella lettura di un frammento di Nietzsche dell’epoca di Basilea, «Ho dimenticato l’ombrello», un ombrello da cui Derrida tirava fuori tutto, o quasi: la castrazione, la verità come Circe dei filosofi, il fatto che non ci sia il vero senso di un testo, e non solo per la frase «Ho dimenticato l’ombrello», ma per qualsiasi altra frase, sentenza, libro – avvisando però, molto opportunamente, che quella di Nietzsche non è filosofia, perché non conta tanto quello che vien detto, ma come lo si dice, d’accordo, dopotutto, con l’autointerpretazione di Zarathustra come profeta. Difficile non cogliere, in questa riduzione di Nietzsche a stile, un caveat rispetto agli usi iper-filosofici che si stavano facendo in quegli anni, nell’epoca della NietzscheRenaissance francese guidata da Deleuze e da Foucault, tra il convegno di Royaumont del 1964 e quello appunto di Cerisy del 1972, che disegnano la parabola del rilancio filosofico di Nietzsche in Francia (e, di riflesso, in Italia, Spagna, Stati Uniti). Per Derrida, che non ha su questo punto una visione molto diversa da Jaspers, Nietzsche è un 151

«pensatore esistenziale», proprio come Agostino e come Rousseau, autori con cui si misurerà tante volte nel suo lavoro – confessando anche la sofferenza di quando, adolescente in Algeria, cercava di tenere insieme gli amatissimi Rousseau e Nietzsche, benché quest’ultimo fosse spietato con il primo. Tutto quello che rimane, di Nietzsche, non è che lo stile, un idioma, una individualità, l’unicità di una firma, cioè una imperfezione e un errore, e anche un tentativo di seduzione, che aleggia nella prosa, nei simboli, negli effetti. Del resto proprio nel 1882 Nietzsche aveva scritto a Lou: «Mia cara Lou, il suo pensiero di una riduzione dei sistemi filosofici agli atti personali dei loro autori è veramente il pensiero di un’anima sorella: io stesso ho spiegato a Basilea la storia della filosofia antica in questo senso e dicevo volentieri ai miei ascoltatori: ‘Questo sistema è morto e sepolto, ma la persona dietro ad esso è incancellabile, la persona non si può affatto seppellire’». Forse Nietzsche ha baciato Lou, una volta, a Orta, dopo una gita al Sacro Monte, nel maggio 1882. Forse no, alla vicenda è dedicato un libro di Laura Pariani, La foto di Orta (2001). Derrida ci è stato tante volte, con il pittore Valerio Adami, che aveva lo studio da quelle parti, e una volta ci sono stato anch’io per un seminario con loro, cenando al Leon d’Oro, ricordo un tramonto bellissimo, e quella sera non sapevo ancora che proprio lì aveva soggiornato Nietzsche. Quello delle donne, come suggeriva Derrida in Sproni (la conferenza sarà pubblicata come volumetto nel 1978, con una copertina di Adami) è forse il miglior filo conduttore per leggere la controversa sequenza «Come il ‘mondo vero’ 152

finì per diventare favola». Qui, come tappa cruciale nel cammino che conduce dal mondo verso il nulla, c’è la transizione fra la verità maschile e platonica, che Nietzsche considera ragionevole («Io, Platone, sono la verità»), alla verità che «si cristianizza» e «diventa donna». Dire che la verità è donna non è farle un complimento. Senza richiamare tutti i luoghi a cui si riferisce Derrida, sulla donna che esercita una actio in distans affine alle seduzioni del vero che hanno tanta presa sul filosofo ingenuo e idealista sedotto da questa Circe, e per restare al Crepuscolo degli idoli, basti pensare alle considerazioni di Nietzsche sulla verità come attentato ai pudeurs femminili, sulla ragione e la grammatica come «donnaccola truffatrice», agli strali contro la «donna letterata, insoddisfatta, eccitata, vuota nel cuore e nelle viscere». Il che, dopotutto, non manca di far pensare. Il laissez faire rispetto alla verità e il prospettivismo circa la realtà si impiantano su una struttura forte e tutt’altro che relativistica: la forza aristocraticomaschile è la misura della realtà e della verità, tutto il resto è ingenuità da filosofi realisti, o inganno servile da chandala, o dialettica da debole-decadente, o dissimulazione femminile. Ecco che, contrariamente a quanto pensano quelli che sono più realisti del re, o meglio più antirealisti di Nietzsche (perché hanno commesso l’errore fatale di prenderlo sul serio), la fuga delle interpretazioni si ferma, il vortice si stabilizza: l’estremo relativismo viene controbilanciato, al solito, da un principio antitetico. La sintesi di «Come il ‘mondo vero’ finì per diventare favola» è del resto, con ogni probabilità, una delle più ingegnose creazioni di Nietzsche. Perché ci troviamo tre ingredienti decisivi. Il primo è lo scetticismo con avallo 153

scientifico. Nietzsche prende dai teorici della conoscenza dei suoi tempi, cioè dai positivisti, la riduzione del mondo vero al mondo apparente, d’accordo con quello che era il fenomenismo radicale di moda nel secondo Ottocento: noi non conosceremo mai le cose in sé, ma sempre e soltanto dei fenomeni, dicevano nei loro libri Spir e Teichmüller. Quest’ultimo pubblica nel 1882 Il mondo vero e il mondo apparente, che costituisce l’origine lessicale del lungo aforisma di Nietzsche, mentre, come vedremo, l’origine concettuale va cercata nella Storia del materialismo di Lange. Il secondo è il dinamismo ontologico, pure questo su base scientifica. Il mondo non è niente di fisso, è un divenire inarrestabile, alla cui base c’è soltanto potenza. Anche qui, e d’accordo con quanto abbiamo detto parlando del «piccolo chimico», Nietzsche – che è iperscettico e ipercritico nei confronti delle scienze dello spirito e maltratta i massimi filosofi, ma verso le scienze della natura conserva la deferenza del profano – giustifica la sua ontologia in base alle acquisizioni della fisica, della chimica e della biologia dei suoi tempi. Il terzo è un dinamismo di altro tipo, storiografico. L’essere è qualcosa che possiede una storia, che incomincia con i Greci, si svolge attraverso i moderni, e culmina con un misto di trascendentalismo e di epistemologia (ossia, in ultima istanza, nella risoluzione dell’essere nel conoscere, cioè appunto nella fallacia trascendentale di cui abbiamo parlato nel capitolo sul nichilismo). Siamo all’origine della «Storia della metafisica» su cui tanto si intratterrà Heidegger, tranne che – diversamente dalla versione di Martin – la fonte di tutta questa storia non è un rifiuto della scienza e un solitario contatto con i vertici 154

della riflessione occidentale, con una leggenda aurea che da Platone porta a Cartesio, Leibniz e Kant, ma rivela una origine ben più spicciola e, in definitiva, cordiale. Da una parte, ci sono per l’appunto le divulgazioni scientifiche, e filosofiche: come abbiamo detto, sin dai tempi in cui studiava filologia a Lipsia, Nietzsche fu un accanito lettore della Storia della filosofia moderna di Kuno Fischer, uscita tra il 1852 e il 1877. Dall’altra, appunto, la Storia del materialismo di Lange. È da lì che Nietzsche trae l’essenziale di una epopea che non cesserà di mettere in scena e sarà replicata e codificata da Heidegger: il moralismo di fondo dell’ontologia platonica contrapposto al naturalismo dei presocratici (di cui inizia la mitizzazione, tuttora in corso); il cristianesimo come «platonismo per il popolo»; Kant come risolutore dell’essere nel conoscere («Il mondo intelligibile considerato come ideale» scrive Lange – Nietzsche gli farà eco sostenendo che con Kant l’idea diventa «pallida, nordica, königsbergica»); e infine i positivisti contemporanei come coloro che hanno portato a compimento il progetto kantiano. Ma, appunto, se Lange, come i positivisti, concludeva la vicenda con una dichiarazione di scetticismo circa la possibilità di accedere ai fondamenti ultimi, con un ignoramus et ignorabimus (d’accordo con l’atteggiamento reso celebre dalla conferenza tenuta da Du Bois-Reymond nel 1872 al convegno della società dei medici e dei naturalisti tedeschi), il percorso di Nietzsche si chiude invece su verità fortissime e certissime: le profezie di Zarathustra, l’Eterno Ritorno come dottrina scientifica, la volontà di potenza come l’essenza vera dell’universo. Insomma, verità in massa, e sovrabbondanza di certezze 155

anche in morale poiché il vero filosofo è creatore di valori. In un certo senso, nelle ambizioni iperfondative di Nietzsche sembra riemergere non il prudente positivismo dei suoi tempi, ma gli anni eroici della scienza cinqueseicentesca, il mondo di Bacone, la pretesa di superare il mondo delle apparenze per cogliere delle essenze fondamentali che era stata parodizzata da de Maistre nell’Examen de la philosophie de Bacon: «In effetti, ci dice gravemente, che vi importa di sapere che cos’è un leone, un’aquila, una rosa ecc.? Tutte queste cose non sono che forme coniugate o individui, e di conseguenza semplici giochi della natura che si diverte. Il vero oggetto della scienza è sapere cos’è il pesante, il leggero, il caldo, il freddo ecc. Si ammutolisce quando si pensa che quest’uomo è lo stesso che si burla di Aristotele» (I, 105-106). Potremmo ripetere, pressappoco, la stessa cosa con Nietzsche, nel cui pensiero abbiamo un misto di scetticismo programmatico e di certezza incrollabile, che alla fine ha di gran lunga la meglio. Cerchiamo di farlo emergere con quello che Deconstructing Everybody avrebbe definito «close reading» dell’apologo sul mondo vero del Crepuscolo degli idoli.

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ATENE, IV SEC. A.C. «IO, PLATONE, SONO LA VERITÀ» «1. Il mondo vero, attingibile dal saggio, dal pio, dal virtuoso: egli vive in esso, lui stesso è questo mondo. (La forma più antica dell’idea, relativamente intelligente, semplice, persuasiva. Trascrizione della tesi: ‘Io, Platone, sono la verità’).» Questa formulazione della verità è del tutto conveniente per Nietzsche, e proprio qui si radica uno dei suoi sentimenti fondamentali, il pathos della distanza, che è anzitutto un pathos della distinzione e della gerarchia. Quando Nietzsche confida che sin da piccolo capì che nessuna voce umana lo avrebbe mai raggiunto, ci segnala un tratto costitutivo della sua visione del mondo. E si pensi a tutte le insistenze sulla «distinzione» e la «differenza» (anche razziale) in Ecce homo, che è davvero il libro della sua vita, in tutti i sensi. Nel pathos della distanza, proprio perché la distinzione non è solo cercata, ma anzitutto subita, c’è un grande dolore, che non giustifica niente ma spiega molto: la difficoltà, il disadattamento, il sentirsi rifiutato che si trasforma in rifiuto (teorizzato molto più che praticato) del prossimo. Questo groviglio di sofferenze e inadeguatezze trova il suo esito naturale nella idealizzazione dell’eroe romantico, cui seguiranno le più dense immagini sacrificali di Dioniso e del Crocifisso. Leggiamo ad esempio nella terza considerazione inattuale, Schopenhauer come educatore (1874), una notazione che retrospettivamente appare autobiografica e profetica: «Heinrich von Kleist è caduto in rovina per questa assenza di amore, e il più tremendo rimedio che si possa contrapporre a uomini eccezionali è cacciarli così profondamente in se stessi, che il loro riemergere diventa ogni volta un’esplosione vulcanica». 157

La prima attestazione a stampa della locuzione «Pathos der Distanz» si ha in Al di là del bene e del male, § 257, in connessione con la società aristocratica in quanto distanza e differenza tra uomo e uomo, così come differenza dell’uomo da se stesso e sforzo di autosuperamento. In un saggio recente Irene Treccani ci informa che la nozione di «pathos della distanza» era stata elaborata da Nietzsche nel periodo 1885-1886. La considerava un «sentimento della differenza di rango» («das Gefühl der Rangverschiedenheit») che sta alla base di tutte le morali, e che si fonda sulla «incarnata diversità» («eingefleischte Unterschied») tra classi. Immagino intendesse con quell’«incarnata» anche le differenze somatiche tra caste, come poi nella analisi della continuità tra melas (nero) e malus (cattivo) nella Genealogia della morale, e come del resto si conferma negli appunti in cui parla di «casta dominante» («herrschende Kaste»), di casta aristocratica («vornheme Kaste»), impegnata a tenere le caste inferiori in basso e alla larga («Nieder-und Fernhalten»). Accanto all’istanza conservatrice della casta, e in forma contraddittoria, c’è il richiamo evoluzionistico alla necessità di autosuperamento dell’uomo («Selbst-Überwindung des Menschen»), secondo il tema fondamentale dell’antropologia nietzschiana per cui l’umanità è una specie non ancora stabilizzata, e dunque ancora impegnata, diversamente dalle altre specie animali, in un percorso evolutivo di autotrascendimento. Infine, e anche questo non manca di suonare come una contraddizione, questa volta con l’evoluzionismo, la casta – sempre nel § 257 di Al di là del bene e del male – è formata da «barbari» («Barbaren»), «uomini da preda» («Raubmenschen») da «uomini più 158

interi» («ganzere Menschen»), che sono anche «bestie più intere» («ganzere Bestien»). Da tutti questi indizi si conferma come il senso focale della nozione di «pathos della distanza» abbia a che fare con la nostalgia (e la profezia) di strutture gerarchiche, idealizzate nel passato e proiettate nel futuro: l’archeologia, d’accordo con un impianto fondamentalmente conservatore, orienta la teleologia, il progresso è decadenza e il futuro prende il volto di un ritorno all’origine. Poco prima, nel § 221, Nietzsche scriveva ad esempio che «bisogna costringere le morali a inchinarsi prima di ogni altra cosa dinanzi all’ordine gerarchico». Soprattutto, non è difficile vedere come, in una struttura di pensiero che è radicalmente e intimamente moralistica, i ragionamenti sui costumi hanno ripercussioni immediate sul sapere e sulla verità. Ecco perché Nietzsche fa iniziare il suo apologo, che è in buona parte la storia di una decadenza, di una plebeizzazione, di un errore appunto, con l’elogio della nozione personale e aristocratica della verità: «Io, Platone, sono la verità». All’altro capo dell’apologo, come antidoto alla decadenza, troveremo una figura non molto diversa dal filosofo-re: Zarathustra.

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GERUSALEMME, 33 D.C. «DIVENTA DONNA, SI CRISTIANIZZA» «2. Il mondo vero, per il momento inattingibile, ma promesso al saggio, al pio, al virtuoso (‘al peccatore che fa penitenza’). (Progresso dell’idea: essa diventa più sottile, più capziosa, più inafferrabile – diventa donna, si cristianizza…).» Ecco una seconda nozione di «distanza», che però non riguarda il rango e la casta, bensì l’actio in distans che, secondo Nietzsche, sarebbe al centro dell’azione delle donne sugli uomini, d’accordo con la tesi esposta nella Gaia scienza, § 60, il brano su cui si concentra l’esegesi di Derrida. Vale la pena di considerare dappresso il modo in cui il tema viene introdotto nei tre paragrafi che precedono il testo commentato in Sproni. Il capitolo si apre (§ 57) con un appello ai realisti, che si considerano sobri e amanti della verità ma in realtà (e qui non è difficile ritrovare la logica sdrucciola del «non ci sono fatti, solo interpretazioni») incorporano in questo amore elementi pulsionali, interessati, erotici e ovviamente rimossi. Ai realisti si contrappone un «noi» che presumibilmente fa riferimento alla nuova schiera dei filosofi dionisiaci, che hanno superato la realtà e che contemporaneamente svelano come, di nuovo in realtà, anche gli apollinei fluttuino nella surrealtà: «Per noi non c’è ‘realtà’ – e neppure per voi, esseri sobri». Poi si passa (§ 58) alla caratterizzazione dei filosofi dionisiaci, i creatori che guardando in fondo all’abisso capiscono come l’essenza delle cose si riduca a un’apparenza, e il paragrafo si chiude con una professione di costruttivismo assoluto: «Soltanto in quanto creatori possiamo annientare! Ma non dimentichiamo neppure questo: è sufficiente creare nuovi nomi e valutazioni e 160

verosimiglianze per creare, alla lunga, nuove cose». Magari fosse vero. Quindi (§ 59) si viene agli artisti e alle donne: «Noi artisti! Quando amiamo una donna, proviamo un lieve odio per la natura, pensando a tutte le ripugnanti naturalezze cui ogni donna è esposta». Anche in questo caso Nietzsche ha disegnato una gerarchia braminica o, se preferiamo, una tassonomia zoologica. In cima alla piramide troviamo i filosofi dionisiaci e artisti, consapevoli del fatto che non ci sono fatti, solo interpretazioni, che tutto è costruito e tutto può essere annichilito, giacché la realtà non esiste. Alla base ci sono i filosofi apollinei e realisti, che rimuovono il sapere dionisiaco, cioè la consapevolezza del fatto che la realtà e la verità non esistono. In mezzo ci sono le donne, che da una parte ripugnano perché sono natura, ma dall’altra esercitano una azione seduttiva sui filosofi (rigorosamente maschi), presumibilmente tanto sugli apollinei quanto sui dionisiaci. La seduzione consiste in una azione a distanza con cui fanno credere agli uomini che esista qualcosa come la verità o la realtà. Cioè, a ben vedere, sanno sin dall’inizio e per istinto ciò a cui i filosofi dionisiaci giungono a colpi di decostruzione, e a cui i filosofi apollinei non pervengono mai. Così appunto nella conclusione del § 60: «L’incantesimo e l’influenza più potente delle donne è, per esprimersi con la lingua dei filosofi, un’azione a distanza, un’actio in distans: ma perché si possa esplicare è necessaria, in primissimo luogo e soprattutto – distanza!» Nel pathos della distanza femminile, così, diversamente dal pathos della distanza maschile (aristocratico-patriarcale), è presente un’aura di mistificazione. Se nella prima stazione abbiamo «Io, 161

Platone, sono la verità», nella seconda abbiamo qualcosa come: «Io, donna, che sono la non verità, produco effetti e allucinazioni di verità attraverso il pathos della distanza». Poco dopo, sempre nella Gaia scienza, Nietzsche sostiene che le donne, invecchiando, «credono alla superficialità dell’esistenza, come se fosse la sua sostanza medesima, e ogni virtù e profondità è per loro solo un velame per questa ‘verità’» (§ 64; «verità» è ovviamente tra virgolette, perché sia chiaro che forse – anzi, certamente – non è verità). Che il femminile sia inganno travestito da verità, e fuga dalla verità che potrebbe smascherare il travestimento, è del resto una stella fissa (o francamente una idea fissa) del pensiero di Nietzsche. Si pensi alla singolare affermazione del § 220 di Al di là del bene e del male, in cui, dopo aver sentenziato come spesso gli accade che non esistono azioni disinteressate, conclude, con uno schiaffo gerarchico: «Ma questo è un campo di domande e risposte in cui uno spirito raffinato non si trattiene volentieri: fino a tal punto la verità è ormai costretta qui a soffocare uno sbadiglio, se è costretta a rispondere. Dopotutto è una donna, non le si deve usare violenza». Dove si disegna una scena abbastanza bizzarra. Il filosofo aristocratico pone delle domande imbarazzanti e mette a nudo le finzioni sociali in nome della verità. Ma, poiché la verità è donna, a un certo punto il filosofo gentiluomo sospende l’interrogatorio, per non annoiarla (salottieramente) o addirittura per non violentarla. (Va detto che, sotto questo profilo, Elisabeth appare più evoluta del fratello: Nietzsche e le donne del suo tempo è il tema dell’ultimo libro che scrisse, e in cui fece professione, che appare sincera, di femminismo.)

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KÖNIGSBERG, 1781. «PALLIDA, NORDICA, KÖNIGSBERGICA» «3. Il mondo vero, inattingibile, indimostrabile, impromettibile, ma già in quanto pensato una consolazione, un obbligo, un imperativo. (In fondo l’antico sole, ma attraverso nebbia e scetticismo. L’idea sublimata, pallida, nordica, königsbergica.)» Il mondo vero, qui, non è quello della Critica della ragion pura, bensì quello della Critica della ragion pratica. Nietzsche sottoscrive l’interpretazione, ai suoi tempi prevalente, di Kant come colui che deve sacrificare la ragione per far spazio alla fede, visto che nelle cose prossime non incontriamo che fenomeni, e quanto alle cose ultime non possediamo certezze razionali. Il che a Nietzsche va benissimo, visto che il suo assunto di fondo è non tanto che ci sia una implicazione morale della verità, bensì che la morale (sia pure intesa in senso extramorale o trasvalutato, cioè concepita come forza) costituisca l’essenza della verità, e il compito del filosofo non consista nell’interpretare il mondo, bensì nel trasformarlo. Proprio come in Marx, solo che qui la trasformazione è per pochi, o per uno solo, quando non addirittura per nessuno. Prendiamo il famoso § 211 di Al di là del bene e del male. «Insisto nel dire che si cessi finalmente dallo scambiare per filosofi gli operai della filosofia e soprattutto gli uomini di scienza – e che proprio su questo punto si dia rigorosamente ‘a ognuno il suo’, e non già troppo a questi, troppo poco a quelli. Può darsi che per l’educazione del vero filosofo sia necessario che anche lui si sia arrestato una volta su tutti questi gradini ai quali i suoi servitori, gli operai scientifici della filosofia, restano inchiodati – devono restare 163

inchiodati; forse deve essere stato anche lui un critico e uno scettico e un dogmatico e uno storico, e oltre a ciò un poeta e un raccoglitore e un viaggiatore e un divinatore di enigmi e un moralista e un veggente e un ‘libero spirito’, quasi ogni cosa, per percorrere la cerchia dei valori e dei sentimenti di valore umani e per potere scrutare dall’alto verso ogni lontananza, dagli abissi verso ogni altitudine, dal cantuccio verso ogni orizzonte. Ma tutte queste sono soltanto condizioni preliminari del suo compito: questo stesso compito vuole qualcosa di diverso – esige che egli crei dei valori. Quegli operai della filosofia, conformi al nobile modello di Kant e Hegel, devono accertare e ridurre in formule qualsiasi ampia fattispecie di valutazioni – vale a dire di antiche determinazioni di valori, creazioni di valori, che sono diventate dominanti e che per un certo tratto di tempo hanno assunto il nome di ‘verità’ – sia nel campo della logica che in quello della politica (morale) e dell’arte. Spetta a questi investigatori rendere perspicuo, ben ponderato, palpabile, maneggevole tutto quanto sino a oggi è accaduto ed è stato oggetto di valutazione; abbreviare ogni lunghezza, anzi il ‘tempo’ stesso, e soggiogare l’intero passato: un compito sterminato e meraviglioso, al servizio del quale ogni sottile orgoglio, ogni tenace volontà può senz’altro trovare il proprio soddisfacimento. Ma i veri filosofi sono coloro che comandano e legiferano: essi affermano ‘cosí deve essere!’, essi determinano in primo luogo il ‘dove’ e l’‘a che scopo’ degli uomini e così facendo dispongono del lavoro preparatorio di tutti gli operai della filosofia, di tutti i soggiogatori del passato – essi protendono verso l’avvenire la loro mano creatrice e tutto quanto è ed è stato diventa per essi mezzo, strumento, martello. Il loro 164

‘conoscere’ è creare, il loro creare è una legislazione, la loro volontà di verità è – volontà di potenza. – Esistono oggi tali filosofi? Sono già esistiti tali filosofi? Non devono forse esistere tali filosofi?» All’operaio della filosofia Nietzsche contrappone il creatore di valori. Cioè, tornando al nostro apologo, il filosofo-re. L’antico sole si rannuvola perché la verità non è un possesso personale del filosofo-re, ma piuttosto è il frutto di un io penso democratico impersonale e uguale per tutti. In questo socialismo degli spiriti la distanza, la nebbia e lo scetticismo che circondano l’antico sole appaiono ancora meno attraenti della verità-donna. Sono semplicemente debolezze e inconcludenze. La severità del giudizio sugli operai della filosofia riceve una luce tenebrosa da quanto Nietzsche scrive degli operai tout court, per esempio nel § 40 delle «Scorribande di un inattuale», cioè sempre nel Crepuscolo degli idoli: «La questione operaia. – La stupidità, in fondo la degenerazione dell’istinto, che è oggi la causa di ogni stupidità, sta nel fatto che vi sia una questione operaia. Rispetto a certe cose non si sollevano questioni: primo imperativo dell’istinto. – Ancora non vedo assolutamente che cosa si voglia fare del lavoratore europeo, dopo che se n’è fatto prima di tutto una questione. Egli si trova troppo bene per non chiedere passo per passo di più, per non chiedere in modo più presuntuoso. In ultima analisi ha il grande numero dalla sua parte. È completamente dissolta la speranza che si costituisca qui in classe una specie semplice e modesta di uomo, un tipo cinese: e questo avrebbe avuto la sua ragione, questo sarebbe stato perfino una necessità. Che cosa si è fatto? – Tutto per annientare in germe anche il presupposto 165

di ciò, – si sono distrutti dalle fondamenta, con la sventatezza più irresponsabile, gli istinti grazie ai quali un operaio può diventare classe, può diventare se stesso. Si sono resi gli operai abili al servizio militare, si è dato loro il diritto di associazione, il diritto di voto: c’è da stupirsi se oggi l’operaio percepisce già la propria esistenza come stato di necessità (detto in termini morali come ingiustizia –)? Che cosa si vuole? chiedo un’altra volta. Se si vuole un fine, si devono volere anche i mezzi: se si vogliono schiavi, si è pazzi ad educarli come dei padroni –». Sarà sempre possibile e legittimo osservare che Nietzsche è un pensatore critico nei confronti del populismo (dal populismo nazista a quello mediatico, benché sia difficile criticare ciò che per ragioni storiche non si può conoscere). Ma non bisognerà dimenticare che la critica viene da destra, e che lo scopo della decostruzione è il ripristino di una autorità sovrana e arcaica, come vede benissimo Julius Evola: «Il successo delle dittature e di altre forme politiche spurie è dovuto, in parte, proprio al fatto che nel capo viene visto ‘uno di noi’, il ‘Grande Compagno’; solo in questi termini lo si accetta come guida e gli si obbedisce. Così stando le cose la preoccupazione per la ‘popolarità’ e per i modi ‘democratici’ è ben comprensibile. Ma ciò, in fondo, è tutt’altro che naturale; non si vede perché ci si debba subordinare quando il capo, alla fin fine, è semplicemente ‘uno come noi’, quando non viene avvertita una distanza essenziale, come nel caso del vero sovrano. Così un ‘pathos della distanza’ – per usare una espressione di Nietzsche – dovrebbe sostituirsi a quello della vicinanza, in rapporti che escludono ogni superba tracotanza da una parte, ogni servilismo dall’altra. Questo è un punto basilare, a carattere 166

esistenziale, per una restaurazione monarchica». (Evola non seppe mai quanto aveva ragione nella caratterizzazione del «Grande compagno». Ecco le ultime parole di Vivere alla fine dei tempi di Slavoj Žižek: «Questa è la sorta di dio di cui ha bisogno oggi la sinistra radicale: un dio che si è completamente ‘fatto uomo’, un compagno tra di noi, crocifisso insieme a due reietti sociali, che non solo ‘non esiste’, ma anche sa di non esistere, accetta la propria cancellazione, trasformandosi completamente nell’amore che unisce tutti i membri dello ‘Spirito santo’, e cioè del partito o del collettivo emancipato».)

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PARIGI, 1840. «CANTO DEL GALLO DEL POSITIVISMO» «4. Il mondo vero – inattingibile? Comunque non raggiunto. E in quanto non raggiunto, anche sconosciuto. Di conseguenza neppure consolante, salvifico, vincolante: a che ci potrebbe vincolare qualcosa di sconosciuto? (Grigio mattino. Primo sbadiglio della ragione. Canto del gallo del positivismo).» Dio è morto, tutto è permesso. È qui che, alla luce di una concezione maschile e personale della verità, possiamo attribuire un nuovo senso alla sentenza: «Non ci sono fatti, solo interpretazioni». Perché l’ovvia contraddizione in cui inciampa (se è un fatto, allora non è vero che ci sono solo interpretazioni; se è una interpretazione, allora potrebbero benissimo esserci dei fatti) viene superata attraverso una teoria privatistica della verità: «Sono i nostri bisogni che interpretano il mondo», «Ogni istinto è una sete di dominio». Dunque sono i più forti (barbari, aristocratici, profeti, filosofi legislatori) che decidono della verità, contro la tendenza plebea del richiamo ai fatti. Insomma, come nell’apologo del lupo e dell’agnello, per difendersi dall’accusa di intorbidare l’acqua al lupo l’agnello si richiama al fatto che il lupo sta a monte e lui a valle, e che dunque, semmai e per legge fisica, la colpa è del lupo. Ma il lupo, stante che «sono i nostri bisogni che interpretano il mondo», può tranquillamente negare l’ovvietà dell’agnello – positivistica, fisicalistica, risentita e da chandala. Così come sarebbe ovviamente legittimato a mangiarselo, giacché «La raison du plus fort est toujours la meilleure / Nous l’allons montrer tout à l’heure», distico che indubbiamente Nietzsche sottoscriverebbe riconoscendoci un tratto da grand siècle. 168

SORRENTO, 1876. «BACCANO INDIAVOLATO DI TUTTI GLI SPIRITI LIBERI» «5. Il ‘mondo vero’ – un’idea, che non serve più a niente, nemmeno più vincolante – un’idea divenuta inutile e superflua, quindi un’idea confutata: eliminiamola! (Giorno chiaro; prima colazione; ritorno al bon sens e della serenità; Platone rosso di vergogna; baccano indiavolato di tutti gli spiriti liberi).» Ci siamo liberati del mondo vero e siamo tutti più felici. Qui abbiamo una versione, al solito aristocratico-classista, del prevalere della democrazia sulla filosofia e della solidarietà sulla oggettività proposta da Rorty una trentina d’anni fa. Perché se Rorty fa della rinuncia alla verità una condizione di democratizzazione, Nietzsche ne propugna un uso antitetico. Addio alla verità, addio alla oggettività, sì, ma per accrescere la distanza sociale. È in questo orizzonte che Nietzsche loda l’uso filosofico del «forse». Per esempio nel § 2 del primo capitolo di Al di là del bene e del male, dopo aver biasimato la tendenza filosofica a voler cercare fondamenti nel perenne, in dio, nella cosa in sé, Nietzsche aggiunge che un nuovo genere di filosofi, più aperti al divenire, all’effimero, al mutevole, si sta avvicinando e si impegnerà a cercare dei «pericolosi ‘forse’». Sotto l’apparenza della rivoluzione e dell’audacia abbiamo la restaurazione. Già nei suoi studi giovanili sulla retorica Nietzsche osservava che la dialettica, l’arte di ottenere ragione con gli strumenti della logica, era considerata dai greci bennati una forma di maleducazione. Qui la constatazione si converte in programma politico: non bisogna permettere che quella massa di parvenu che sono i dialettici si provino a contestare e magari a spodestare il filosofo-re. 169

È come sempre commovente vedere il debole, il dotto, il chierico, esaltare proprio quell’ordine aristocratico rispetto a cui è necessariamente subalterno, come una governante o un precettore. Ma è ancora più commovente, con il senno di poi, pensare che si siano potuti cercare i germi di una emancipazione rivoluzionaria in quello che è dopotutto l’abc del diritto divino secondo de Maistre: «Coi loro ragionamenti arzigogolati i protestanti muoiono dalla voglia di avere ragione; sentimento naturalissimo in qualunque dissidente ma assolutamente inspiegabile in un cattolico».

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TORINO, 1888. «COL MONDO VERO ABBIAMO ELIMINATO ANCHE QUELLO APPARENTE!» «6. Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente? Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente! (Mezzogiorno; momento dell’ombra più corta; fine del lunghissimo errore; apogeo dell’umanità; INCIPIT ZARATHUSTRA).» Fine di una storia che si può riassumere così: gli antichi credevano che ci fosse un mondo vero, poco alla volta ci si è creduto di meno, e alla fine è prevalso lo scetticismo. Tuttavia, con la scomparsa del mondo vero è volato via anche il mondo apparente. Le stazioni della vicenda sono quelle dello svelamento progressivo, e l’ultima corrisponde più o meno a quando Pompeo Magno penetra nel sancta sanctorum del tempio di Gerusalemme, toglie il velo, e scopre che sotto non c’è niente. La buona domanda consisterebbe forse nel chiedersi quale sia il motivo di questo «apogeo dell’umanità». Uno potrebbe dire: è venuta meno la falsa concezione del «mondo apparente» come «mondo illusorio», siamo consegnati al mondo come verità e presenza. Non sarebbe insomma illecito osservare che, se quello che ci sta di fronte non è più un mondo di fenomeni, finalmente siamo alle cose stesse. Ma Nietzsche ha in mente qualcosa di diametralmente opposto: in un mondo senza verità può fiorire rigogliosamente la volontà di potenza come arte, come fabbricazione di mondi. Siamo alla massima emancipazione? C’è ragione di dubitarlo, eppure così hanno pensato alcuni interpreti, del resto cogliendo l’intenzione fondamentale di Nietzsche. Non solo perché – lo abbiamo 171

visto – i testi a cui Nietzsche si ispirava per la questione del «mondo vero» e «mondo apparente» erano tutti più o meno opere di autori inclini al finzionismo. Ma soprattutto perché in un mondo senza vincoli oggettivi può pienamente dispiegarsi il dominio dei più forti. Spiace dirlo, ma chi ha interpretato meglio questo apologo, forse senza averlo mai letto, è un autorevole membro della amministrazione Bush, Karl Rove, nella malfamata risposta a un giornalista inglese che gli chiedeva conto dell’attività politica e militare degli Stati Uniti: «Noi siamo l’impero e quando agiamo creiamo la nostra realtà. E mentre voi state studiando questa realtà, giudiziosamente, noi agiremo ancora, creando altre nuove realtà, che voi potrete soltanto studiare, e nient’altro». Difficile non pensare all’ultimo pseudoaforisma della Volontà di potenza. «E sapete voi che cosa è per me ‘il mondo’? Devo mostrarvelo nel mio specchio? Questo mondo è un mostro di forza, senza principio, senza fine, una quantità di energia fissa e bronzea, che non diventa né più grande né più piccola, che non si consuma, ma solo si trasforma. […] Questo mio mondo dionisiaco che si crea eternamente, che distrugge eternamente se stesso, questo mondo misterioso di voluttà ancipiti, questo mio ‘al di là del bene e del male’ […] per questo mondo volete un nome? Una soluzione per tutti i suoi enigmi? E una luce anche per voi, i più nascosti, i più forti, i più impavidi, o uomini della mezzanotte? Questo mondo è la volontà di potenza – e nient’altro! E anche voi siete questa volontà di potenza – e nient’altro!»

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COPENAGHEN, 1837. «MA SE NON HA NIENTE INDOSSO!» Sia lecito aggiungere un’ultima tappa, o, se vogliamo, la morale della favola. È il finale della fiaba di Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore: «Così l’imperatore andò in processione sotto lo splendido baldacchino e tutta la gente per strada e alle finestre diceva: ‘Dio, quanto sono incomparabili i vestiti nuovi dell’imperatore! Che splendida coda ha sulla marsina! Come gli sta d’incanto!’ Nessuno voleva far vedere che non vedeva niente, perché altrimenti sarebbe passato per stupido o non all’altezza del suo incarico. Nessuno dei vestiti del re aveva mai riscosso tanto successo. ‘Ma non ha niente indosso’ disse un bambino. ‘Signore iddio, sentite la voce dell’innocenza’ disse il padre; e ognuno sussurrò all’altro ciò che diceva il bambino. ‘Ma non ha niente indosso’ gridarono infine tutti insieme. L’imperatore si fece piccolo piccolo, perché gli sembrava che avessero ragione, ma pensò: ‘Ora devo arrivare fino alla fine della processione’. E i ciambellani camminavano e portavano lo strascico che proprio non c’era». Il filosofo-re è nudo, e non è affatto relativista. Il che è insieme ovvio e sorprendente, perché se c’è un punto su cui sembra dominare un consenso incondizionato, tra amici e nemici, è il fatto che Nietzsche sarebbe il padre del relativismo postmoderno, attraverso la dissoluzione delle nozioni di verità e di oggettività. Per cui Nietzsche si perderebbe in una «contraddizione performativa» (cioè, in poche parole, in uno strabismo tra il dire e il fare): in nome di una verità più profonda dissolve la verità, in nome del riconoscimento della autentica struttura dell’universo, la volontà di potenza, critica l’oggettività della scienza. 173

Trovandosi alla fine intrappolato in un labirinto da cui non riesce a venir fuori. Ma, come dimostra l’apologo, non è affatto così, non è mai stato così. Per esempio chiuso il Crepuscolo degli idoli apriamo Il servizio divino dei greci, che raccoglie gli ultimi due corsi tenuti a Basilea prima di abbandonare l’insegnamento, nel 1875-1876 e nel 1877-1878. Ebbene, in questi corsi Nietzsche – come già nella Nascita della tragedia, ma servendosi ora con abbondanza di materiali etnografici – studia i greci fuori da qualunque classicismo, e li concepisce come una tappa della cultura indoeuropea della casta. Più che gli inventori della democrazia, che è già decadenza, i greci sono i teorici dell’aristocrazia braminica. Forti di questa considerazione, torniamo alla conclusione dell’apologo del 1888: «Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente? Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!» Qui c’è qualcosa che suona strano. Nietzsche sta raccontando la storia di un errore e di una decadenza (attraverso il cristianesimo, il kantismo, il positivismo), eppure all’ultima stazione del viaggio dice che assistiamo all’«apogeo dell’umanità». E sarà legittimo domandarsi: che razza di apogeo può esserci, ad aver perso tanto il mondo vero quanto quello apparente? La contraddizione si risolve considerando che le ultime parole dell’apologo sono, in maiuscolo, INCIPIT ZARATHUSTRA. Come dire che, dopo il lungo errore che consisteva nell’andar cercando la verità come oggettività, una umanità eletta capisce che non c’è né mondo vero né mondo apparente, ma solo volontà di potenza, e l’oggettività viene sostituita dall’autorità, da Zarathustra come profeta di una 174

nuova religione e di un nuovo ordinamento per caste. L’apologo, insomma, mi pare confermi quanto suggerivo all’inizio di questo discorso: ben lungi dal propagandare la relatività dei valori, il pensiero di Nietzsche trova il suo filo conduttore nella gerarchia. È un processo che si manifesta sin dai primi lavori filologici su Teognide, il poeta dell’aristocrazia spartana a cui ancora si richiama in pagine cassate dalla Nascita della tragedia (e confluite in Lo Stato greco) dove elogia la schiavitù come sistema sociale necessario perché possa fiorire il genio artistico, e culmina nei secondi anni Ottanta con la lettura appassionata delle descrizioni e prescrizioni del sistema delle caste del Codice di Manu, il testo sacro induista. Dunque, il pensiero di Nietzsche non porta a un prospettivismo radicale, bensì a una gerarchizzazione dei valori. È un po’ come nel caso dei gusti: a Zarathustra piace il Bourgogne, il chandala preferisce il Bordeaux. Il relativismo suggerirebbe che nessuno dei due ha torto, perché il sapore del Bourgogne e quello del Bordeaux hanno tante proprietà oggettive, ma non quella di essere un gusto migliore dell’altro. Chi fosse contrario a questo innocuo relativismo enologico potrebbe dire che invece c’è una proprietà che rende il Bourgogne migliore del Bordeaux. Oppure potrebbe essere d’accordo con l’antirealismo del relativista (non c’è nessuna proprietà del Bourgogne che lo renda migliore del Bordeaux, «avere un buon sapore» è sempre e solo «avere un buon sapore per Zarathustra»), ma sostenere, al tempo stesso, che il Bourgogne è migliore del Bordeaux perché i gusti di Zarathustra sono migliori di quelli del chandala, e vanno generalizzati quanto più possibile perché il vero filosofo è 175

colui che forgia nuovi valori. In questa versione non solo si può essere antirealisti senza essere relativisti, ma si possono trovare eccellenti ragioni di casta contro il relativismo. I conti tornano, e scompare la contraddizione performativa. Al suo posto, però, sorgono due interrogativi politicamente ben più scottanti (e drammaticamente attuali) di quanto non lo siano i dibattiti un po’ logori sul relativismo: l’emancipazione dalla verità è davvero una emancipazione? Ed è davvero emancipazione una libertà riservata soltanto al superuomo? Attraverso l’opaco concetto di «emancipazione» dobbiamo proprio a Nietzsche la fatale confusione (nel concetto di «spirito libero») tra la dimensione personale e quella pubblica e politica, cioè l’idea che un unico gesto dia vita al superuomo e alla «grande politica». Ancora una volta, la vertigine del «Non ci sono fatti, solo interpretazioni» è controbilanciata dalla verticalità dell’«Io, Platone, sono la verità», proprio come – lo vedremo tra un attimo – il dinamismo della volontà di potenza è pietrificato dall’Eterno Ritorno, che trasforma il superuomo in un insetto sepolto nell’ambra.

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Silvaplana, 14 agosto 1881 Eterno Ritorno Come leggiamo in Ecce homo, «Il pensiero dell’Eterno Ritorno, la suprema formula dell’affermazione che possa mai essere raggiunta» risale all’agosto 1881; è annotato su di un foglio, in fondo al quale sta scritto: «6000 piedi al di là dell’uomo e del tempo». Il 14 agosto 1881, da Sils Maria, Nietzsche scrive a Gast dicendo di aver subito una profonda trasformazione spirituale, a seguito di una visione apparsagli all’inizio del mese a Silvaplana, a quattro chilometri da Sils. La descrizione di Silvaplana offerta nello Zarathustra è abbastanza fedele. La valle è attraversata da un vento forte, e al centro della valle c’è una piccola montagna, con un laghetto. La parte della montagna esposta al vento è completamente brulla; quella riparata, invece, è rigogliosa, ricorda una escrescenza carnosa, un tumore, nel complesso ha un aspetto sinistro. Nella valle ci sono case, per lo più di vacanza, di distinti tedeschi in loden. A Silvaplana ho letto nel 1993, sulla soglia di una casa (queste iscrizioni sono un uso del luogo) il seguente motto in retoromanzo: «Tieu destin tü poust amer e perfin sch’el es amer». Mi ha fatto sorridere l’irruzione dell’Eterno Ritorno, o almeno dell’amor fati, nel panorama, e nella colloquialità del dialetto. Bisogna amare il proprio destino, anche se è amaro, scrive il valligiano; bisogna desiderarlo infinitamente, aggiunge il Maestro dell’Eterno Ritorno. È la chiave della felicità? Davvero l’idea di Nietzsche consiste semplicemente nella variazione di un proverbio, di un detto rassegnato («chi si contenta gode») e simili? In un certo senso, sì, ma la variante è questa, che per Nietzsche bisogna amare non solo il buono, ma anche l’orrido, lo spaventoso, 177

la malasorte, cioè, dopotutto, il dionisiaco. Nell’estate del 1883 Nietzsche espose il suo pensiero a Lou, con estrema circospezione (e fu con lo stesso fare misterioso che narrò la sua visione ad altri due amici, Franz Overbeck e Resa von Schirnhofer). Lou lì per lì ne rise, e continuava a riderne in autunno, quando partì con Rée per Berlino. Undici anni dopo, quando Nietzsche non è più in grado di leggere, Lou scrive un bel libro su di lui nel quale valorizza l’Eterno Ritorno in termini che lo avrebbero reso il più felice degli uomini. L’Eterno Ritorno è per Lou il capovolgimento della filosofia di Schopenhauer, giacché (per esprimersi in forma buddistica), Nietzsche avrebbe richiesto di dire di sì al Samsara, al ciclo eterno del dolore, mentre Schopenhauer (come i buddhisti) aspirava al Nirvana come fine del Samsara.

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PARIGI, 1872. L’ETERNITÀ ATTRAVERSO GLI ASTRI La felicità di Nietzsche, ciò che lui chiama «trasvalutazione di tutti i valori» o amor fati, sarebbe dunque la stessa di cui parla Kafka nella Colonia penale: è l’estasi che invade il condannato quando, dopo qualche ora di supplizio, decifra la condanna (o meglio la pia esortazione, «Sii giusto») che l’erpice gli sta incidendo sulla schiena. Nell’aforisma 341 della Gaia scienza in cui viene presentato per la prima volta l’Eterno Ritorno Nietzsche parla di una «eterna clessidra dell’esistenza», che viene sempre capovolta e in cui noi siamo granelli di sabbia (già nel 1862, in Fato e storia, Nietzsche aveva concepito il corso del mondo come un orologio: la lancetta va avanti, ma poi, raggiunte le 12, ricomincia il suo giro, e il nuovo sarà l’esatta ripetizione dell’antico). A paragonare il tempo a una clessidra che si capovolge eternamente sono stati in tanti, e in particolare, nel 1872, il rivoluzionario e attivista politico Louis-Auguste Blanqui (1805-1881), condannato all’ergastolo da Thiers dopo la Comune, in un libro profondo e poetico, L’eternità attraverso gli astri, che esce nello stesso anno, il 1872, della Nascita della tragedia. Ma lì per lì non è affatto evidente il contenuto salvifico o consolatorio di una simile visione. Cosa può essere più tremendo di una ripetitività senza fine? La ripetizione è il momento in cui l’automa che si nasconde nel vivente diviene perfettamente percepibile, quasi che si togliesse il velo, o magari la carrozzeria, e apparisse lo chassis. Questo momento è, classicamente, la depressione. È per esempio il tema di film come Ricomincio da capo (1993) dove il protagonista è condannato a rivivere ogni mattina la stessa giornata. Esiste anche una versione Disney, il primo dei tre 179

episodi di Topolino e la magia del Natale (1999) che costituisce una severissima obiezione al Paradiso, attraverso la ripetizione infinita del Natale – sempre gli stessi giochi, sempre gli stessi banchetti, e, come diceva Woody Allen, se esiste l’Eterno Ritorno saremo costretti a rivedere Holiday on Ice fino alla fine dei tempi. Dunque le domande cui dobbiamo provare a dar risposta sono due. La prima è, per così dire, storica: come mai Nietzsche ha potuto pensare che una vecchissima idea orientale e greca fosse il suo contributo più profondo e originale alla filosofia? La seconda è invece teorica: in che senso il desolante pensiero per cui ogni singola cosa – anche la peggiore tristezza o banalità o irrilevanza – è destinata a ripetersi per l’eternità dovrebbe lenire in qualche modo il mal di vivere?

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BUENOS AIRES 1936. CANTOR E ZARATHUSTRA Diamo una scorsa al quaderno M III 1 che raccoglie le note dell’agosto 1881, e che sarà pubblicato una prima volta nel 1897 senza peraltro riscuotere un successo sia pur remotamente paragonabile a quello degli appunti per la Volontà di potenza. Se il mondo avesse un fine, osserva Nietzsche riprendendo Schopenhauer, lo avrebbe raggiunto; se, d’altra parte, le cose nascessero continuamente dal nulla, sarebbe un miracolo perenne. Se poi il mondo delle forze fosse soggetto a diminuzione, sarebbe già finito, e se un equilibrio della forza fosse stato raggiunto, sarebbe entrato in una stasi completa. Sono le obiezioni che lungo tutta la seconda metà dell’Ottocento si opposero all’ipotesi della entropia, cioè alla concezione avanzata da William Thomson in Sull’universale tendenza della natura alla dissipazione dell’energia meccanica (1852), secondo cui il mondo ha un inizio temporale, ed è soggetto a una dispersione termica che si risolverà nella stasi. Come nel caso della volontà di potenza, anche qui Nietzsche chiede alla scienza di dar manforte alle visioni di Zarathustra, attraverso un lavorìo di riscontri e di letture che è stato dettagliatamente ricostruito da Paolo D’Iorio in «Cosmologie de l’éternel retour». Che la cauzione scientifica sussistesse veramente è materia controversa. Sempre nel 1897 il matematico e astronomo Felix Hausdorff in Sant’Ilario – Pensieri dal paesaggio di Zarathustra, pubblicato con lo pseudonimo di Paul Mongré, aveva contestato la prospettiva di Nietzsche basandosi sulla concezione matematica dell’infinito. È un argomento che si ritrova in Borges, che nella Storia dell’eternità (1936), si richiama a Cantor e alla teoria degli insiemi e conclude che «Il confronto del bel gioco di Cantor col bel gioco di 181

Zarathustra è fatale a Zarathustra. Se l’universo consta di un numero infinito di termini, è rigorosamente capace di un numero infinito di combinazioni; e la necessità di un ritorno viene annullata». Sebbene Nietzsche la presenti come l’ipotesi «più scientifica», non è esattamente la scientificità l’argomento che può corroborare l’ipotesi ciclica.

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CITTÀ DEL MESSICO, 1959. «CUANDO DESPERTÓ, EL DINOSAURIO TODAVÍA ESTABA ALLÍ» «Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì» è il più breve racconto del mondo, dovuto allo scrittore Augusto Monterroso (1921-2003), e chiarisce le difficoltà, per dir così, «di scala» della dottrina abissale di Nietzsche. Nessuno si è mai svegliato accanto a un dinosauro, per un insieme di motivi banali ma veri. I dinosauri sono vissuti tra il Triassico superiore (circa 230 milioni di anni fa) fino alla fine del Cretaceo (circa 65 milioni di anni fa). I primi uomini sono apparsi secondo alcuni 250.000 anni fa, secondo altri 500.000 anni fa. Per 165 milioni di anni c’erano i dinosauri e non c’erano gli uomini. Per 64 milioni di anni non ci sono stati né gli uomini né i dinosauri. Da mezzo milione di anni ci sono gli uomini e non ci sono i dinosauri. Se le cose stanno in questi termini – e non c’è ragione di pensare altrimenti, e soprattutto di credere che Nietzsche la pensasse altrimenti – non è escluso che nell’Eterno Ritorno sopravviva ancora molto della «volontà di nulla» che lui rimprovera a Schopenhauer. Perché se guardiamo al ciclo cosmico, nella prospettiva dell’Eterno Ritorno i momenti, per così dire, di veglia, sono talmente irrilevanti da conferire un privilegio inaudito al non-essere, al sonno cosmico. Perché bisogna prima di tutto considerare le sterminate antichità in cui non c’era traccia di una qualsiasi forma di vita. Poi a tutto il tempo che passa dalle prime forme di vita ai dinosauri, e poi ancora a tutto il tempo che intercorre tra la scomparsa dei dinosauri e l’apparizione degli umani. Poi ai 500.000 o 250.000 anni che precedono (per una strana e approssimativa cronologia) il 15 ottobre 1844. Poi ai 56 anni che separano il 15 ottobre 1844 dal 25 agosto 1900. 183

L’esperimento si può ripetere su ogni vita umana, anche su quella di Matusalemme, non cambia nulla. Si ha un bel riconoscere, come sosteneva Charles Andler nel suo notevole libro sulla vita e il pensiero di Nietzsche, che nell’Eterno Ritorno si assiste a un recupero del passato e a una resurrezione dei morti. Ma resta che qui, rispetto alla resurrezione classica, gli eoni di silenzio e di attesa sono davvero troppo lunghi. E poi, si tratta di aspettare per degli eoni per cosa? Per la ripetizione di un evento microscopico, una esistenza, che rispetto alla vita nello stato di natura secondo Hobbes («Solitary, poor, nasty, brutish and short») ha solo la caratteristica di essere (talvolta, e non sempre è desiderabile) non solitaria.

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ROMA, 1935. «DIVENTARE NATURA» Tuttavia, esattamente come nel caso di «Non ci sono fatti, solo interpretazioni», la motivazione di fondo è, per Nietzsche, esistenziale: l’Eterno Ritorno rappresenta per lui una dottrina che introduce la necessità naturale nell’apparente libertà e contingenza della storia. Non a torto, dunque, Karl Löwith, in Nietzsche e l’Eterno Ritorno (1935), ci vede un surrogato ateistico della religione, una «metafisica fisica» che assicura una nuova saldezza ontologica al mondo minacciato dalla morte di dio e dalla risoluzione dell’essere nella volontà di potenza. L’Eterno Ritorno è la dottrina che si impegna a ricondurre l’uomo nella natura, l’altro suo fondamento possibile, una volta che si sia messa da parte l’ipotesi di dio. Abbiamo dunque a che fare con una radicale critica dell’esistenza storica e della umanità, con uno svuotamento dall’interno dell’intero orizzonte del politico. Se tutto ritornerà, che senso può avere richiamarsi alla storia e conferire un senso al genere umano? Sotto questa prospettiva, la dottrina dell’Eterno Ritorno ha lo stesso effetto che si ricava dal considerare la terra come astro tra gli astri, azzerando la temporalità enfatica del cristianesimo e delle filosofie della storia che ha generato a partire da Agostino e Orosio, cui nel 1949 Löwith dedicherà un libro famoso, Significato e fine della storia. Non siamo gli eroi di una epopea di creazione, caduta e salvazione, e non ci troviamo nemmeno al centro dell’universo (due condizioni indispensabili per dare un minimo di senso drammatico alla volontà di potenza). Abitiamo un pianeta marginale, un granello di sabbia di un universo che c’è dall’eternità e in cui tutto si ripete, dunque, a ben vedere, siamo davvero immobili come insetti 185

mummificati nell’ambra. Indubbiamente, in Nietzsche, o almeno nel Maestro dell’Eterno Ritorno, c’è anche questo. Lo vediamo in un frammento dell’epoca dello Zarathustra: «La volontà stessa va superata – non attingere più ogni sentimento di libertà dal contrasto con la costrizione! Diventare natura!» Bisogna diventare natura, creare una metafisica pietrificata in cui (come suggeriva il § 2 della Seconda inattuale) l’astronomia deve ritornare a essere astrologia, e cogliere la necessità geologica in base alla quale, obbedendo agli ordini delle stelle, uno stoico e un epicureo si accorderanno eternamente per uccidere Cesare. Escludendo che il mondo abbia un fine o una fine, il ritorno fa saltare la teleologia che, a ragione, Nietzsche imputava a Kant, ma che attribuiva anche, e questa volta a torto, a Darwin. Nulla è più insensato della ricerca del senso: la forza procede casualmente; il corso circolare è privo di aspirazione o scopo, è nulla più che un centro di gravità: «Lo sviluppo momentaneo deve essere una ripetizione, e così quello che lo ha generato e quello che da esso nasce, e così via: in avanti e all’indietro! Tutto è esistito innumerevoli volte, in quanto la condizione complessiva di tutte le forze ritorna sempre» (Frammenti postumi 18811882, 11[316]). La religione dell’avvenire si presenterà come una religione non del senso ma dei sensi, dell’affermazione della vita. Nell’aforisma 136 della Gaia scienza – ossia poche pagine dopo l’annuncio della morte di dio –, Nietzsche sottolinea come il sentimento religioso ebraico fosse affine a quello che l’aristocrazia francese provava per Luigi XIV, cui aveva delegato l’intero proprio potere, e in cui proiettava le proprie aspirazioni di potenza. Il vero dio, dunque, è quello 186

degli eserciti, come affermazione di energia vitale, rispetto al quale il dio cristiano non è che una esangue degradazione. Il superuomo sarebbe l’antitesi del dio morto in croce, il cui regno mondiale è, leggiamo nei §§ 17 e 18 dell’Anticristo, «un regno dell’oltretomba, un ospedale, un regno del sottosuolo, un regno del ghetto… E lui stesso, così pallido, così gracile, così décadent… Persino i più esangui tra gli esangui signoreggiarono su di lui, i signori metafisici, gli albini del concetto. Tesserono le loro trame così a lungo intorno a lui che, ipnotizzato dai loro movimenti, divenne lui stesso un ragno, un metafisico […] Il concetto cristiano di dio – dio come divinità degli infermi, dio come ragno, dio come spirito – è uno dei più corrotti concetti di dio che siano mai stati raggiunti sulla terra; esso rappresenta forse, nello sviluppo discendente dei tipi di divinità, addirittura il grado dell’infimo livello. Dio degenerato fino a contraddire la vita, invece di esserne la trasfigurazione e l’eterno sì!»

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PARIGI, 1962. RIPETIZIONE E TRASVALUTAZIONE Puro vitalismo? No, in questo incondizionato dire di sì alla vita si depone, secondo il Deleuze di Nietzsche e la filosofia, una trasvalutazione di tutti i valori: il pigro che non si ripromette che domani lavorerà non è più lo stesso pigro – anzi, uno che decida di essere pigro, eternamente, di non fare mai più nulla non è più un pigro, è qualcosa di diverso e di sublime. È il discorso sull’Eterno Ritorno come parodia fatto da Klossowski in Nietzsche e il circolo vizioso. Ma è letteralmente la prospettiva di Agostino nella Città di Dio: se tutto ritorna per l’eternità, la speranza è vana o, se vogliamo, sin troppo fondata, è una certezza. Soprattutto, la singolarità storica assoluta, ossia l’incarnazione, la morte e la resurrezione, si trasforma in una replica teatrale senza fine, cioè anche senza scopo: Cristo sale e scende dalla croce eternamente, e non meno eternamente, a Broadway, viene rappresentato Jesus Christ Superstar. Questo spiega per inciso perché la prospettiva dell’Eterno Ritorno sia risultata sgradita a chi voleva fare di Zarathustra un militante e un militare, come per esempio Alfred Baeumler in Nietzsche filosofo e politico. Il che tuttavia non cancella la contraddizione essenziale di Nietzsche, che da una parte ci propone la rinuncia a qualunque finalismo, proclamando l’innocenza del divenire, e, dall’altra, propugna un finalismo iperbolico, per il quale il filosofo, in veste di istitutore di valori, «crea» – leggiamo nello Zarathustra, «Di antiche tavole e nuove» – «la mèta dell’uomo e dà alla terra il suo senso e il suo futuro».

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RECANATI, 1824. DIALOGO DI FEDERICO RUYSCH E DELLE SUE MUMMIE Di certo, il Maestro dell’Eterno Ritorno cerca di introdurre stabilità e necessità là dove il Maestro della Volontà di potenza aveva teorizzato il dinamismo e il caos. L’idea certo è vecchissima. Ma l’esperienza a cui reagisce è invece il culmine della modernità. La vita pietrificata dal Maestro dell’Eterno Ritorno è l’antitesi dell’esperienza di À une passante di Baudelaire: Ero per strada, in mezzo al suo clamore. Esile e alta, in lutto, maestà di dolore, una donna è passata. Con un gesto sovrano l’orlo della sua veste sollevò con la mano. Era agile e fiera, le sue gambe eran quelle d’una scultura antica. Ossesso, istupidito, bevevo nei suoi occhi vividi di tempesta la dolcezza che incanta e il piacere che uccide. Un lampo… e poi il buio! – Bellezza fuggitiva che con un solo sguardo m’hai chiamato da morte, non ti vedrò più dunque che al di là della vita, che altrove, là, lontano – e tardi, e forse mai? Tu ignori dove vado, io dove sei sparita; so che t’avrei amata, e so che tu lo sai! «Forse mai» è il «mai più», il nevermore del Corvo di Poe, così come è il chiù dell’assiuolo di Pascoli, che lancia in extremis (poiché il sistro è lo strumento dei culti di rinascita di Iside) la speranza, se non di un ritorno, di una resurrezione: Su tutte le lucide vette 189

Su tutte le lucide vette tremava un sospiro di vento: squassavano le cavallette finissimi sistri d’argento (tintinni a invisibili porte che forse non s’aprono più?…) e c’era quel pianto di morte… chiù… La massima fonte di dispiacere nella vita è il rimpianto per le occasioni perdute, per il transitorio e l’effimero, e il mondo moderno sembra essere l’apoteosi di questa mélancolie des paquebots. Come recitava il frammento di Lenzerheide? La morale cristiana e tutti i fondamenti ultrasensibili sono crollati, l’uomo si riduce a una pura contingenza. Ma se tutto torna eternamente l’effimero si trasforma nell’eterno, e il contingente nel necessario. Ieri ho bevuto tre caffè, preso un taxi, e compiuto una scelta che magari con il tempo si rivelerà fatale. Tutto questo è avvenuto. Domani ovviamente potrò agire diversamente, e magari ritornare sulla mia scelta. Resta che ciò che è stato è stato. Tuttavia, se abbracciamo l’ipotesi ciclica, questa fatalità prende un aspetto iperbolico e granitico: ciò che è stato non solo è stato, ma sarà eternamente, come una legge di natura immutabile e salvifica. Più nessun rimpianto, più nessun caso, più nessuna fuga delle esperienze in una modernità accidentale, ma, pietrosa, una necessità eterna. È a questo punto che l’Eterno Ritorno diventa una dottrina consolatoria, anzi, un messaggio di salvezza: malgrado le apparenze, non siamo una contingenza, bensì una necessità. Le cose non potevano andare diversamente da come sono 190

andate, e non solo perché il passato è irrevocabile, ma anche perché proprio quel passato, destinato a tornare eternamente, è solo l’anticipazione del nostro futuro. È la risposta dell’extraterrestre a Billy Pilgrim, il protagonista di Mattatoio n. 5 di Vonnegut, che gli chiede perché lo abbia rapito: «‘Dove sono?’ disse Billy Pilgrim. ‘Prigioniero di un blocco d’ambra, signor Pilgrim. Siamo dove dobbiamo essere in questo momento, a cinquecento milioni di chilometri dalla Terra, e procediamo verso una distorsione temporale che ci permetterà di arrivare a Tralfamadore in poche ore anziché qualche secolo.’ ‘Come… Come ho fatto ad arrivare qui?’ ‘Ci vorrebbe un altro terrestre per spiegarglielo. I terrestri sono bravissimi a spiegare le cose, a dire perché questo fatto è strutturato in questo modo, o come si possono provocare o evitare altri eventi. Io sono un tralfamadoriano, e vedo tutto il tempo come lei potrebbe vedere un tratto delle Montagne Rocciose. Tutto il tempo è tutto il tempo. Non cambia. Non si presta ad avvertimenti o spiegazioni. È, e basta. Lo prenda momento per momento, e vedrà che siamo tutti, come ho detto prima, insetti nell’ambra’». Quella del blocco d’ambra è anche l’esperienza che troviamo nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie di Leopardi (1835). Tutto ciò che, con gli occhi della vita, appare accidentale, assurdo, imprevedibile, e soprattutto effimero, prende un aspetto radicalmente diverso se guardato dal punto di vista dell’eterno. Quell’eterno che Vonnegut rappresenta con il blocco d’ambra e che Leopardi ottiene dando voce alle mummie, Nietzsche lo realizza con l’ipotesi ciclica. Come leggiamo nell’aforisma 341 della Gaia scienza, «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, 191

dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione». Ogni nostro gesto, ogni nostro pensiero, comprese le righe che io scrivo in questo momento e che voi leggerete in un altro momento, è eterno, perché esiste da sempre e per sempre esisterà.

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CAMBRIDGE, 1872. METAPHYSICAL CLUB Tutto qui? Non solo. Dalla dottrina spostiamoci al predicatore, riallacciandoci a Zarathustra e al suo ambiente. Nella Gaia scienza (§ 126, cioè subito dopo l’annuncio della morte di dio), Nietzsche scrive che «Le spiegazioni mistiche passano per profonde: la verità è che non sono nemmeno superficiali»; e, nel § 110 di Umano, troppo umano, cita con approvazione la sentenza di Schopenhauer secondo cui «nessuna religione ha mai finora contenuto, né direttamente, né indirettamente, né come dogma, né come allegoria, una verità». Ma forse è il «finora» che conta. Georg Brandes aveva sottolineato come, diversamente dagli inglesi, spiriti pazienti e, nei casi migliori, menti aristoteliche, pensatori come Nietzsche e Schopenhauer vadano piuttosto classificati tra i visionari e gli artisti, interessanti non tanto per quello che dicono, ma per ciò che fanno. Da questo punto di vista, l’Eterno Ritorno non conta tanto come un concetto, ma come un pretesto, come un contenuto mitico per le prediche di Zarathustra. Già Lou Salomé aveva insistito sulla religiosità nietzschiana, e sul tema era tornato Rudolf Steiner, impegnato in prima persona con movimenti neo-religiosi. Nel 1902 fondò il movimento antroposofico, e fu, dal 1902 al 1913, segretario della società teosofica fondata da Helena Petrovna Blavatsky (1831-1891). Come ha scritto Goethe, «il mondo degli spiriti non è ancora chiuso», e Zarathustra non è il solo, in piena modernità, a proporre alla secolarizzazione e al nichilismo l’alternativa di una via mistica, o meglio ancora di una religione che riceve l’avallo della scienza, nella quale, insomma, fenomenologia e occultismo si prendano per mano. Tali sono, ad esempio, le 193

religioni ispirate al mesmerismo, come la Christian Science i cui primi templi furono, a Boston, la «First Church of Christ Scientist» (1879), cui seguì, nel 1881, il «Metaphysical College», che – appellandosi a Berkeley, Fichte e Coleridge – predicava che la materia è mera illusione. Le neo-religioni sono naturalmente inclini al misticismo, come il «Movimento del Santo Graal» fondato da Oskar Ernst Bernhardt (1875-1949), che si riteneva la reincarnazione di Parsifal, o la «Chiesa del Regno di Dio» fondata dallo svizzero Alexander Freytag (1870-1947), che perseguiva opere filantropiche ma era anzitutto interessata al problema della sopravvivenza dopo la morte. Più spesso, tuttavia, fanno variamente appello alla scienza. Così nella «Comunità del divino socialismo» di Julius Fischer, attivo ad Amburgo tra il 1890 e il 1900, o nella stessa Christian Science, che si propone come la migliore terapia dei mali anche fisici che affliggono l’umanità («scienza e salute» è il primo motto della neoreligione). Ma già nel 1872 a Cambridge, nel Massachusetts, all’Università di Harvard, si ebbero le prime riunioni del «Metaphysical Club» che, sotto l’impulso di Charles Sanders Peirce, mirava a valorizzare il concetto di credenza come «ciò per cui l’uomo è pronto ad agire», con un atteggiamento che si ritrova nella Volontà di credere (1896) di William James, un altro dei soci fondatori del club. Il quale, in quel libro, menziona una volta sola Nietzsche, per criticarlo. Ma è chiaro che il progetto di Zarathustra rientra pienamente in questo clima: una religione per il mondo secolarizzato, un mito qualunque, quasi un pretesto per predicare, di certo un gesto per scacciare l’orrore un po’ più in là. 194

Sorrento, 1876 Imparare a vivere Ma come diceva in Ecce homo? «Come mio padre sono già morto.» In qualche modo Nietzsche, esattamente come le mummie di Leopardi, ha sempre guardato la vita con gli occhi della morte («Cosa arcana e stupenda / oggi è la vita al pensier nostro»): in fondo, l’Eterno Ritorno è un rimedio omeopatico che cura l’orrore con l’orrore, e ha di mira questo ritorno all’inorganico. E il dolore di Nietzsche, quello che cerca di lenire con l’Eterno Ritorno, ha a che fare con l’infanzia come fonte di ogni orrore, d’accordo con questo frammento di Leopardi: «Allora mi parve la vita umana (in veder stroncate tante speranze ec.) come quando essendo fanciullo io era menato a casa di qualcuno per visita ec. che coi ragazzini che v’erano intavolava ec. cominciava ec. e quando i genitori sorgevano e mi chiamavano ec. mi si stringeva il cuore ma bisognava partire lasciando l’opera tal qual né più né meno a mezzo e le sedie ec. sparpagliate e i ragazzini afflitti ec. come se non ci avessi pensato mai, così che la nostra esistenza mi parve veram. un nulla». Non bisogna sottovalutare l’orrore dell’infanzia, lo ha visto bene Adorno in un passo della sua Metafisica: l’orrore rimosso dalla metafisica è «la zona che poi in realtà si creò alla lettera nei campi di concentramento; e di cui da bambini si ha un’idea – passa il carro dell’accalappiacani e cose simili – in esperienze spesso subliminali: questa è la cosa più importante, questo è in fondo ciò che conta, la zona della carogna e dello scotennatore». «Passa il carro dell’accalappiacani e cose simili.» Quella di Nietzsche è una vita offesa, fragile, spessissimo umiliata, e il suo è essenzialmente lo sguardo di un malato. Nel 1880 195

pensa di essere lì lì per morire, visto che ha trentasei anni, l’età in cui era morto suo padre, ma sin dallo scacco della Nascita della tragedia, per quanto prosegua in parte il lavoro filologico (studi su Democrito nel 1874, ritornando su un tema di cui si era già occupato anni prima, un paio di pubblicazioni sul «Rheinisches Museum»), Nietzsche è sofferente, ossessionato dall’ombra paterna, sopraffatto dalla forza del destino. Nel maggio 1873 si accentuano i disturbi agli occhi, con un crescendo che culminerà nell’inverno 1879-1880, il «più povero di luce» della sua vita, passato a Naumburg. Nel 1874 trascorre le vacanze estive nella clinica del dottor Wiel a Steinbad, e durante le vacanze invernali, a Naumburg, ha un collasso il giorno di Natale. Nel gennaio 1876 chiede e ottiene di essere sollevato dall’insegnamento liceale a Basilea, e il 7 febbraio sospende quello universitario; tra giugno e luglio scrive «Il vomere» (progetto di Considerazione Inattuale, poi rifuso in Umano, troppo umano), e nell’estate ha luogo una catastrofica visita a Bayreuth, con Paul Rée, in cui Wagner gli si rivela definitivamente come un istrione che flirta con il cristianesimo e con le autorità – erano presenti, al festival del vecchio rivoluzionario, il Kaiser Guglielmo I, l’imperatore del Brasile Dom Pedro II, il re Ludwig II di Baviera. È in questo stato d’animo – che, come spesso gli accade, è quello del fuggiasco – che Nietzsche inizia il pellegrinaggio terapeutico che lo condurrà a Silvaplana, a Torino, a Rapallo. Nell’ottobre 1876 ottiene un anno di congedo da Basilea. Con Rée e Albert Brenner, entrambi suoi allievi, parte per l’Italia. Il 22 ottobre sono a Genova. Il 24 visitano Pisa, dove 196

Nietzsche è impressionato dai dromedari del parco di San Rossore (ne parlerà nel Viandante e la sua ombra, come ricordano Stefano Busellato e Giuliano Campioni). Il 27 giungono a Sorrento, ospiti di Malwida von Meysenbug, che aveva preso in affitto Villa Rubinacci. Oggi la villa è un albergo con pizzeria: «Il ristorante, raffinato ed elegante dotato di due sale con aria condizionata, ed una terrazza all’aperto, offre alla sua clientela un servizio impeccabile ed accurato, una calda accoglienza, professionalità e gentilezza. Ottimo piatto della casa è il pesce, specialità della cucina tipica sorrentina». Allora i suoi ospiti formavano una specie di comunità di studio, intenta a passeggiare, discutere e leggere Tucidide, il Vangelo, Voltaire, Diderot, Michelet, Ranke. È nella futura pizzeria che nasce la «filosofia dello spirito libero», il sogno che Nietzsche perseguì per tutta la vita senza mai realizzarlo, visto che libero non lo è stato mai, forse neanche da pazzo. È molto probabile che Nietzsche, malandato e depresso, sperasse dall’Italia, specie meridionale, quello che tutti i viaggiatori le domandavano, sin dall’epoca di Annibale, ma poi certo dal Grand Tour in avanti, per culminare con Gregorovius, che in un altro libro uscito nell’epocale (per la nostra piccola vicenda) 1872, la Storia di Roma nel Medioevo, celebra la sconfitta e la morte di Teia e dei suoi Goti davanti ai Monti Lattari con il tono di un Nibelungenlied ambientato dove fioriscono i limoni: ristoro fisico, riposo, serenità da pensionato e insieme romanticismo. Come leggiamo in Ecce Homo, «Non so fare differenza fra le lacrime e la musica – non so pensare la felicità, il Sud senza brivido di terrore» («Perché sono così accorto», 7). La cosa che più sorprende, e che resterà una 197

costante dei soggiorni italiani di Nietzsche, è la separatezza rispetto al mondo circostante. L’Italia quasi non esiste, o meglio è uno sfondo puramente turistico (ecco una differenza, per esempio, rispetto ai viaggi in Italia di un altro filologo che fu, come vedremo, suo acerrimo rivale, Ulrich von Wilamowitz-Möllendorff, attentissimo al clima umano e politico). Tutto il mondo circostante, e potenzialmente dionisiaco (almeno stando alle dottrine di Nietzsche), è escluso e invisibile. E ciò di cui Nietzsche scrive è casomai l’apollineo, cioè l’illuminismo.

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LIPSIA, 1878. UMANO, TROPPO UMANO Tornato dal soggiorno italiano, il 2 settembre 1877 Nietzsche incomincia a dettare (come sappiamo, la vista era peggiorata) la prima parte di Umano, troppo umano, che uscirà il 1° maggio 1878, nel centenario della morte di Voltaire, quando Nietzsche è a Bad Ragaz, per cure; nel marzo aveva soggiornato a Baden-Baden, mentre, dopo la partenza di Elisabeth da Basilea – si era trasferita a casa del fratello per accudirlo –, tra giugno e agosto sarà a Rosenlauibad (Oberland bernese), e tra agosto e settembre, in convalescenza, a Interlaken. Infine, tra settembre e ottobre, per tre settimane, a Naumburg: malato. Il nuovo libro (e il nuovo corso stilistico-teorico) piace anche meno della Nascita della tragedia, persino tra gli amici, che sono in gran parte costernati. Rohde sostiene (non a torto) che Nietzsche ha rinunciato a se stesso per diventare Rée, e solo Burckhardt loda la rinuncia a Wagner, che per parte sua (e prevedibilmente) lo attacca sui «Bayreuther Blätter». La seconda parte uscirà nel 1879, e conoscerà la stessa sorte. Fra ottobre e dicembre torna a Basilea e prepara il testo per la pubblicazione, sempre con l’aiuto di Gast (apparirà nel marzo 1879). Dopo un gennaio e un febbraio difficili (vomito e mal di testa), il 2 maggio 1879 presenta le dimissioni all’università, che decorrono dal 30 giugno. Sul posto di Nietzsche viene chiamato un altro giovane professore, il linguista e indogermanista Jacob Wackernagel (1853-1938), e al dimissionario viene assegnata una pensione di 3000 franchi annui. Nell’estate, durante il primo dei molti soggiorni a Saint Moritz, scrive Il viandante e la sua ombra, sezione conclusiva di Umano, troppo umano, che esce alla fine del novembre 199

1880. In ottobre, torna a Naumburg, e ci passa lo spaventoso inverno di cui si è detto; gli anni che verranno, e sino al crollo torinese, saranno, nel migliore dei casi, convalescenza. All’inizio del 1880 trascorre qualche tempo a Riva del Garda, dove lo raggiunge Gast. Con questi, in marzo, parte per Venezia, dove, tra marzo e giugno, detta le note che confluiranno nella prima parte di Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali (uscirà l’8 luglio 1881); tra luglio e agosto soggiorna a Marienbad, e attende alla seconda parte di Aurora; in settembre è a Naumburg, in ottobre a Stresa, quindi, in novembre, a Genova, dove si stabilisce per l’inverno. Di lì, nel maggio 1881, si reca a Vicenza e a Recoaro con Gast. Le opere di questo periodo sono dette «illuministiche», ma potremmo anche definirle «autoterapeutiche», un «self help» (in Ecce homo scrive: «Mi presi per mano, mi curai da solo»). Nietzsche costeggia sistematicamente l’orrore (il dionisiaco, la volontà di potenza, il nichilismo, l’Eterno Ritorno), è sensibilissimo al soffio faustiano – ma, contemporaneamente, cerca di distogliersi da quella attrazione fatale, di creare quello che lui definirebbe «un contromovimento». L’antefatto più diretto dell’illuminismo nietzschiano è la critica della cultura operante nelle Considerazioni inattuali, che preluderebbero al profetismo dello Zarathustra. In effetti, Nietzsche valorizza il modello del libre penseur e ostenta uno stile feuilletonistico. Ma non si tratta di una produzione omogenea (in particolare, La gaia scienza è già attraversata da problemi che eccedono di gran lunga la critica della morale, toccando la fisica e la metafisica dell’Eterno Ritorno). Il Nietzsche liberato e – almeno negli auspici – libertino ricorre all’aforisma, sia perché ha letto i 200

moralisti francesi, Pascal, La Rochefoucauld, sia perché ci vede male e può lavorare poco. E probabilmente anche perché non ha ancora un sistema, se mai lo avrà. Sin qui, abbiamo soltanto la rivendicazione dei diritti della vita e del buon senso, della ragionevolezza, contro ciò che la minaccia, ossia gli ideali che gli erano costati la salute. Nietzsche vuole imparare a vivere, e – con automatismo da professore – pensa di riuscirci insegnando a vivere. La scelta di dedicare Umano, troppo umano alla memoria di Voltaire la dice lunga. Nietzsche è intenzionato a fare ammenda del cristianesimo, del romanticismo e del wagnerismo che hanno segnato la sua giovinezza, e la cura è cercata proprio nell’ironia, nella moderazione, nella ragione. L’autoterapia si presenta come una guarigione dell’umanità e prende un tono lieve e dissacrante. Per l’allievo il professore modello è una liberazione dal passato, un tardivo marinare la scuola: dove ci hanno raccontato che c’erano gli ideali sommi, in realtà troviamo vizi, debolezze, inerzie, paure, calcoli e secondi fini, cioè appunto qualcosa di umano, troppo umano.

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CHEMNITZ, 1877. L’ORIGINE DEI SENTIMENTI MORALI Ma nello smascheramento si trova anche l’origine di qualcosa di più cupo, l’annuncio della volontà di potenza, cioè appunto della sindrome che si scatenerà nel corso degli anni Ottanta. Nel Nietzsche genealogista, aggrondato erede del Nietzsche illuminista, continua ad agire in più di un senso lo spettro di Rée. In L’origine dei sentimenti morali (uscito da Schmeitzner, a Chemnitz, nel 1877, dunque un frutto di Sorrento parallelo a Umano, troppo umano), Rée aveva argomentato che svariati popoli dell’antichità si servivano, come canone di classificazione morale, della distinzione tra nobiltà e plebe, e che, in Islanda come in Grecia, il più antico significato di bene e buono è «nobile», «ricco». I plebei sono classificati come cattivi, il che non vuol dire necessariamente «malvagi», ma piuttosto «semplici» (schlecht è identico a schlicht – semplice o frugale –, come in schlechtweg e schlechterdings). Anche Teognide, l’oggetto degli studi giovanili di Nietzsche, si era fatto sostenitore di una simile prospettiva (sua è la definizione dei patrizi come agathous e dei plebei come kakous e deilous). A parere di Brandes (nella già menzionata monografia del 1890), manifesto è anche il confronto con John Stuart Mill, che nel terzo capitolo di Utilitarismo (1863) cercava di spiegare che il senso di giustizia ha tratto origine dall’istinto animale di riparare un danno, e che era stato discusso da autori familiari a Nietzsche come Eugen Dühring o Eduard von Hartmann. Ci si imbatte ancora una volta nella unione fatale di arcaismo presocratico e di modernità positivistica, anche sotto l’influsso di Stirner, le cui affinità con Nietzsche sono state precocemente segnalate. Se, come osservò Richard 202

Oehler in Nietzsche e i Presocratici (1904), Nietzsche coniuga Darwin con Eraclito, la stessa operazione vale per l’alleanza fra Teognide e Mill. Al di là della filosofia, Nietzsche espone d’altra parte delle prospettive correnti nella pubblicistica dell’epoca. Esemplare il caso di Nordau, che nel 1892, in Degenerazione, farà di Nietzsche il prototipo delle nevrastenie degli uomini di genio. In un precedente lavoro del 1883, Le menzogne convenzionali della nostra civiltà, Nordau disegna un orizzonte in tutto e per tutto conforme a quello che i lettori più ingenui – cioè tutti quando incontrano per la prima volta Nietzsche – considerano una scoperta esclusiva della genealogia. L’evoluzione della umanità ha comportato il declino del causalismo rudimentale che aveva posto capo alla idea di dio. In questo senso, la religione non sarebbe che un surrogato della nostra debolezza intellettuale, a cui va imputato anche il ricorso a una nozione onnipervasiva di finalismo. E proprio come in Nietzsche la critica del teleologismo viene suffragata dal ricorso al biologismo: Nordau si appella alle tesi di Théodule Ribot, che sarà anche una fonte di Nietzsche, sulla trasmissione ereditaria delle nozioni.

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PARIGI, 1736. LES ÉGAREMENTS DU CŒUR ET DE L’ESPRIT In breve, l’illuminismo di Nietzsche, se c’è, non è quello di Kant e di Rousseau, che minimizzava o detestava, ma semmai il cupo razionalismo di Crébillon, di Sade, di Laclos. È il gusto di mostrare che ciò che è nobile e grande nasconde una parte ignobile. È il piacere maligno, la Schadenfreude, potremmo dire, il godimento delle disgrazie altrui, ma insieme la pulsione autodistruttiva, la riduzione dell’uomo a mostro. Espressione di un pensiero in lotta con se stesso, quello di Nietzsche è un illuminismo senza speranza razionale, e viziato dall’assunto che quanto più forte è l’orrore che si riesce a trovare nell’umanità tanto maggiore è la verità che potremo trovare e dire su questa razza decaduta. La sua disperazione antropologica, che è anzitutto una disperazione personale, si concentra tutta nel detto di Voltaire, che gli capiterà più volte di citare: «un monstre gai vaut mieux qu’un sentimental ennuyeux».

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AMSTERDAM, 1947. DIALETTICA DELL’ILLUMINISMO In pensiero in lotta con se stesso è ciò che Horkheimer e Adorno hanno definito, proprio pensando a Nietzsche, «dialettica dell’illuminismo». La richiesta di emancipazione, che si appoggia sulle forze della ragione, del sapere e della verità che si oppongono al mito, al miracolo e alla tradizione, giunge a un punto di radicalizzazione estrema e si ritorce contro se stessa. Dopo avere adoperato il logos per criticare il mito, e il sapere per smascherare la fede, le forze decostruttive della ragione si rivolgono contro il logos e contro il sapere, e inizia il lungo lavoro della genealogia della morale, che svela una onnipresente volontà di potenza: ogni forma di sapere va guardata con sospetto, appunto in quanto espressione di una qualche forma di potere. Di qui una impasse: se il sapere è potere, l’istanza che deve produrre emancipazione, cioè il sapere, è al tempo stesso l’istanza che produce subordinazione e dominio. Ed è per questo che, con un ennesimo salto mortale, l’emancipazione radicale si può avere solo nel non-sapere, nel ritorno al mito e alla favola, cioè a quella che resta la tonalità emotiva fondamentale di Nietzsche, il dionisiaco. Anche qui, come quando ragionavamo sulla vertigine delle interpretazioni, è eloquente la contrapposizione tra l’uomo dionisiaco e l’uomo apollineo, tra l’artista e lo scienziato, tra chi, anche dopo lo smascheramento, conserva i veli e ama le maschere, e chi invece trova tutta la sua felicità nel togliere le maschere e nello svelare. La critica di Nietzsche ha un bersaglio preciso, è Socrate, ossia colui che, morendo, ha sostenuto che c’è un nesso istitutivo tra sapere, virtù e felicità. E a Socrate, filosofo-scienziato, sapiente, razionalista, remotissimo antenato dei dotti della sua epoca, 205

Nietzsche contrappone l’idea del filosofo tragico, o di Socrate cultore di musica, o di Zarathustra danzante: la filosofia deve ritornare al mito, la felicità promessa al dotto deve essere sostituita dalla tragedia. Qui, per così dire, Nietzsche parla a suocera-Socrate per prendersela con nuora-illuminismo, perché è proprio l’illuminismo che ha rilanciato nella modernità il grande racconto socratico sul rapporto di interdipendenza tra sapere, progresso e felicità. Il filosofo artista che ama il velo e l’illusione appartiene allo stesso mondo del Grande Inquisitore di Dostoevskij, condivide con lui il progetto di dare all’umanità ciò di cui ha davvero bisogno. E, andando indietro, al de Maistre geniale calunniatore dell’illuminismo proprio in quello che a suo parere aveva di più errato, la pretesa di giovare agli uomini insegnando loro a pensare con la propria testa, laddove la felicità sta nell’ubbidire all’autorità, e nell’essere legati a essa con la dolce catena dell’ignoranza e della tradizione.

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FILLERVAL, 1979. LA CONDIZIONE POSTMODERNA Andando avanti, invece, arriviamo al postmoderno. Se l’illuminismo collegava il sapere alla emancipazione, nel postmoderno il sapere è uno strumento di dominio e una manifestazione della volontà di potenza. A questo punto, il solo sapere critico è una forma di contropotere, che si impegna a dubitare sistematicamente del sapere, esercitando una decostruzione senza ricostruzione, che risulta del resto coerente con l’assunto del venir meno di qualsiasi valore conoscitivo autonomo della filosofia. Questa autodestituzione del sapere ha origine all’interno di una critica filosofica della scienza che nasce paradossalmente da una sopravvalutazione quasi superstiziosa da parte dei suoi critici. Dico «critici» e non «fautori» perché è soprattutto nei primi che si sviluppa l’idea secondo cui esisterebbe una scienza per tutto, e che la scienza scalzi dappertutto la filosofia, che perde così ogni valore costruttivo e si raccoglie nel ridotto della critica. Donde, con una chiamata di correo, l’insistenza sulla circostanza per cui, proprio come le belle lettere, anche la scienza si avvale di parole, parole, parole, e non ha mai un contatto diretto con il mondo «là fuori». Il trattamento riservato alla scienza valeva anche per la metafisica, sospettata di connivenza con la scienza sul piano della verità e della realtà, al punto che l’oltrepassamento della metafisica è diventato la lotta partigiana di chi aveva amnistiato il nazismo di Heidegger. Proprio con l’elogio dell’«uomo artistico» ha inizio quel venir meno postmoderno dei grandi racconti dell’illuminismo, dell’idealismo e del marxismo, accomunati dal riconoscere un ruolo centrale del sapere nel benessere 207

dell’umanità. O perché, come nel caso dell’illuminismo, il sapere porta emancipazione; o perché, come nel caso dell’idealismo, il sapere è pienamente disinteressato e sganciato da qualunque finalità mondana; o ancora, come nel caso del marxismo, perché illuminismo e idealismo, emancipazione e disinteresse, si coniugano in un processo di trasformazione pratica della società. Ecco i temi di fondo della Condizione postmoderna di Jean-François Lyotard, un piccolo libro pieno di conseguenze che immagino scritto a Fillerval, in Piccardia, dove Lyotard aveva una casa di campagna. L’illuminismo è confutato dall’ideale del filosofo tragico che si impegna a far saltare il nesso tra felicità e sapere. L’idealismo è delegittimato dalla considerazione, che attraversa ogni pagina della Genealogia della morale, per cui il sapere non è altro che interesse, odio tra i dotti, rivalità. E il marxismo cede il posto alla rivoluzione di Zarathustra. Nietzsche ha saputo traghettare nel contemporaneo elementi propri della reazione romantica contro la modernità, gettando un ponte tra Wagner e i greci preclassici, o meglio ancora – come ha scritto Habermas – costruendo una porta girevole che dall’arcaico conduce all’attuale. È così che il prevalere del velo sul vero risuonerà, più di cent’anni dopo, in una famosa sentenza di Matrix: «Io so che questa bistecca non esiste. So anche che quando la infilerò in bocca Matrix suggerirà al mio cervello che è succosa e deliziosa. Dopo nove anni sa che cosa ho capito? – Che l’ignoranza è un bene». L’ignoranza è un bene, anzi è una goduria, una delizia («bliss»), perché il sapere, lo svelamento, non dà felicità, offerta solo dal mito. «Il tempo dell’uomo socratico è finito», «incipit Zarathustra». Sarebbe peccare di ottimismo pensare che si tratti di una cura 208

omeopatica – cioè credere, con Wagner, che «chiude la ferita soltanto la lancia che la ha aperta», frase poco meno arrischiata del detto di Hölderlin «là dove è il pericolo cresce anche ciò che salva». Certo, e malgrado le apparenze, questi motti possono anche offrire una promessa di emancipazione, di solidarietà e di democrazia. È, in fin dei conti, l’idea di Rorty, forse il più volenterosamente morale tra gli interpreti del postmoderno, che propone di lasciarsi alle spalle Socrate e l’illuminismo per decretare il prevalere della solidarietà sull’oggettività, o della democrazia sulla filosofia. Ma, ammesso e non concesso che questo esito sia in qualche modo auspicabile (non dimentichiamoci che l’esempio più insigne della superiorità della solidarietà sull’oggettività è la mafia), c’è da chiedersi se sia l’unico possibile sbocco del postmoderno, e chiaramente non lo è. C’è l’esito surreale e ironico del pensiero debole, che è stato sintetizzato alla perfezione da Arbasino, nella sua nota del 1978 alla riedizione einaudiana al Super-Eliogabalo, un anno prima del libro di Lyotard: «L’ironia, la creatività, la corporeità, il neo-dada, lo spontaneismo, il nonsense, il gioco, la trasgressione, il terrorismo della disseminazione, la liberazione del Desiderio, il situazionismo del Self, l’eruzione dei Bisogni, il rifiuto della Storia burocratica e delle Scienze dittatrici, la demistificazione del falso progresso industriale, i deliranti e gratificanti frullati Nietzsche-Adorno-Lacan-Totò». Ma c’è anche, ed è sempre drammaticamente possibile, l’esito in cui il rifiuto dell’intelligenza si trasforma non nella semplice esaltazione del mito, ma nell’emergere del suo contenuto più profondo, la morte. Che cosa, se non questo, 209

è il senso di «Volete la guerra totale? Se necessario, volete una guerra più totale e radicale di quanto mai oggi possiamo neppure immaginare?», e già della Fiume dionisiaca di D’Annunzio («Siamo trenta d’una sorte, / e trentuno con la morte. / […] Eia, carne del Carnaro! / Alalà!»).

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SALAMANCA, 1936. «¡ABAJO LA INTELIGENCIA! ¡VIVA LA MUERTE!» ¡Viva la muerte! Ecco una frase che sembra cogliere il lato cattivo della critica nietzschiana a Socrate e all’illuminismo. È il motto della Legión Española, e il grido che José MillánAstray y Terreros, comandante della Legione e poi ministro della Propaganda di Francisco Franco, oppose, il 12 ottobre 1936, al filosofo Miguel de Unamuno nella sala del rettorato della Università di Salamanca: «¡Abajo la inteligencia! ¡Viva la muerte!» È l’eterna aria di naufragio dell’eroismo fascista, «la sensualità delle vite disperate» (direbbe Paolo Conte), quella, per esempio, della «fortezza Breslavia» voluta da Hitler, in Slesia (oggi è in Polonia e si chiama Wrocław), che resiste all’Armata Rossa dal 13 febbraio al 6 maggio 1945. Adesso Festung Breslau è anche un war game che prevede quattro giocatori (Terzo Reich, Armata Rossa, Volkssturm e Polonia), nonché una canzone nazional-popolare del bardo di destra Frank Rennicke: «Combatterono con amara disperazione, difendendo le rovine di Breslavia […] Erano, allora, gli uomini e le donne dell’ultima battaglia, nella fortezza Breslavia […] Non dimenticate mai il sangue e le lacrime». Apriamo Ecce homo: «Poi c’è la guerra. A mio modo, io sono guerresco. Attaccare è uno dei miei istinti. Poter essere nemico, essere nemico: già questo, forse, presuppone una natura forte, e in ogni caso è proprio di ogni natura forte. Questa ha bisogno di resistenze, perciò cerca la resistenza: il pathos aggressivo fa parte necessariamente della forza, così come il sentimento di vendetta e rancore fa parte della debolezza». Scrive anche: «Le parole più silenziose sono quelle che portano la tempesta. Pensieri che incedono con 211

passi di colomba guidano il mondo» (Ecce homo, Prologo, § 4). Come sappiamo, questa frase sarà citata da Mussolini il 26 maggio 1934 alla Camera: «Io, come discepolo di Federico Nietzsche polacco germanico, ho imparato da lui come nelle cose difficili bisogna procedere con passo cauto ma leggero». E non dimentichiamo che il motto «Vivere pericolosamente» Mussolini lo aveva tratto proprio dal § 198 di Al di là del bene e del male. La mutuazione era avvenuta in forma non accidentale, se nel 1908 era apparso in tre puntate (29 novembre, 6 e 13 dicembre) sul «Pensiero romagnolo» un saggio di Mussolini, La filosofia della forza. Si trattava del commento a una conferenza del deputato socialista Claudio Treves, e insisteva sull’anticristianesimo, l’antistatalismo e il superominismo. E quattro anni dopo, recensendo sull’«Avanti!» la biografia di Nietzsche scritta da Daniel Halévy, Mussolini si rivelò sensibile alla leggenda di cui era circonfuso il «polacco germanico». «Vivere pericolosamente.» Cioè, anzitutto, automitizzarsi, pensare di essere nati fra i «tuoni della battaglia», o di aver composto le proprie opere in zona di guerra (come Nietzsche scriverà di aver fatto per La nascita della tragedia, ultimata, assicura, sotto le mura di Metz). Così indirizzandosi a Wagner nella breve prefazione del 1871: «Ella si ricorderà inoltre che io mi raccolsi in questi pensieri nello stesso tempo in cui nasceva il Suo magnifico scritto in memoria di Beethoven, vale a dire fra i terrori e le grandezze della guerra appena scoppiata». E nel § 1 del Tentativo di autocritica premesso alla ristampa del 1886: «Qualunque cosa possa esserci stata alla base di questo problematico libro, deve essere stata una questione di prim’ordine, piena 212

di fascino, e inoltre una questione profondamente personale: ne è testimonianza il tempo in cui esso nacque, nonostante il quale esso nacque, il tempo emozionante della guerra franco-tedesca del 1870-1871. Mentre i tuoni della battaglia di Wörth trascorrevano sull’Europa, l’almanaccatore e amante di enigmi, a cui toccò in sorte la paternità di questo libro, se ne stava da qualche parte in un angolo delle Alpi, sprofondato nei pensieri e negli enigmi […]. Alcune settimane dopo, anch’egli si trovava sotto le mura di Metz». In un paragrafo di Ecce homo che sostituirà all’ultimo momento con una maledizione della madre e della sorella, Nietzsche scrive che suo padre, quello vero, era nato il 10 ottobre 1813, proprio nel giorno in cui Napoleone entrava a Eilenburg con il suo stato maggiore, nell’imminenza della battaglia delle Nazioni, combattuta per quattro giorni, dal 16 al 19 ottobre 1813, 600.000 combattenti – tra i quali Carl von Clausewitz, futuro autore di Della guerra –, quasi 100.000 morti, il crollo del sistema napoleonico. In ricordo della battaglia delle nazioni (quasi una inezia, a ripensarci ora, dopo Gettysburg, la Somme, Verdun, Stalingrado, Kursk) è stato eretto, tra il 1897 e il 1913, un monumento assiro e gigantesco, una strana torre di 91 metri di altezza un po’ fuori città, ma ci si arriva in bicicletta. In due lunghi fabbricati che affiancano il monumento, invece, sono raccolti i resti della battaglia. Sciabole, fucili, uniformi, anche corazze di cavalleggeri forate da proiettili, e poi, con migliaia di soldatini, plastici della battaglia nelle sue fasi, lunghissime da raccontare e anche difficili da spiegare proprio perché durò quattro giorni. Il 22 maggio 1813, sempre a Lipsia, era nato Wagner, il padre spirituale di 213

Nietzsche, che accanto a lui (lo vedremo) sentiva che il bello è solo l’inizio del terribile. Questo clima di guerra e di catastrofe è, in fin dei conti, la tonalità emotiva fondamentale di quello che è il primo e l’ultimo concetto di Nietzsche, il concetto che riassume tutta la sua filosofia, ossia il dionisiaco.

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Basilea, marzo 1869 Dionisiaco Il 13 febbraio 1869, non ancora laureato, Nietzsche viene chiamato a Basilea come insegnante di greco e di latino al ginnasio e all’università. E il 17 maggio incomincia a frequentare, nella villa di Tribschen, sul lago dei quattro Cantoni, Richard e Cosima Wagner. È il primo atto di una complicata relazione tutta intrisa di classicismo e di ginecocrazia. Wagner è l’artista per eccellenza, il rigeneratore della musica come arte dionisiaca, lo sciamano che resuscita non solo Schopenhauer e Goethe, ma addirittura Eschilo e Pindaro sulle rive di un lago svizzero. Tra Basilea e Tribschen, tra il posto dell’insegnamento e quello dei weekend artistici, Nietzsche sviluppa un edipo strano e contorto, quello che verrà in piena luce nel crollo torinese. Wagner è Teseo, Cosima è Arianna, e Nietzsche è Dioniso: sin dall’inizio si capisce perché le lettere finali saranno firmate «Dioniso», oltre che «Il Crocifisso», e si indirizzeranno a Cosima chiamandola «Arianna». Un edipo che condurrà Nietzsche a un atteggiamento duramente arciedipico nei confronti del padre precedente, Ritschl, il Doktorvater, il suo professore a Bonn e poi a Lipsia. La prolusione su Omero e la filologia classica con cui Nietzsche si presenta al mondo accademico basileese il 29 maggio 1869 è, neanche troppo fra le righe, una condanna della filologia dei suoi tempi emessa dall’ultimo arrivato. Nietzsche cita il detto di Seneca – quella che un tempo era filosofia, adesso si è ridotta a filologia – e lo capovolge: la filologia deve tornare filosofia. Sappiamo che, in parallelo ai suoi insegnamenti, Nietzsche incomincia a scrivere qualcosa di filosofico, con La filosofia nell’età tragica dei Greci, e 215

soprattutto con il Libro del filosofo, uno strano testo rimasto a lungo inedito la cui tesi fondamentale è che la verità non è che una antica metafora, come dire che al cuore del logos c’è ancora e sempre il mito, e che la verità non è che una menzogna che ha fatto carriera.

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MIAMI, 1° MARZO 1969. THE END… MY ONLY FRIEND, THE END… Cent’anni esatti dopo l’arrivo di Nietzsche a Basilea, e precisamente il 1° marzo 1969, a Miami, i Doors avevano avuto dei guai, perché Jim Morrison aveva simulato una masturbazione sul palco. James Douglas Morrison, alias Jim Morrison, figlio di un ammiraglio, era poeta e musicista colto. Aveva letto Blake, Baudelaire, Rimbaud, Artaud, Céline, e soprattutto Nietzsche. Ray Manzarek, tastierista dei Doors (il nome del gruppo rievocava The Doors of Perception di Huxley), ricorda «passeggiate nella morbida spiaggia di Venice discutendo Nietzsche» con Morrison. In una intervista a Richard Goldstein, Morrison dichiarò che per capire davvero la sua musica bisognava leggere La nascita della tragedia, e Goldstein ricorda che gli occhi di Morrison si illuminavano quando parlava di apollineo e dionisiaco. Del ruolo della Nascita della tragedia parla anche Dylan Jones, in Jim Morrison: Dark Star (1991). Ma non si tratta solo dello spirito della musica: «Ciò che non mi uccide, mi fortifica», sentenziava Morrison, citando Nietzsche, e forse anche il motto «Occidit qui non servat» posto sull’etichetta dell’amaro Petrus Boonekamp. L’illuminazione si ottiene attraverso l’autodistruzione, ed è facile stabilire un rapporto tra «virtù è volontà di tramontare», la sentenza che leggiamo nello Zarathustra, e «…The End… my only friend, The End…» E a Morrison accadde davvero di vivere e di morire come Nietzsche aveva sognato nei suoi momenti più eroici. Alla fine, depresso dopo una vita che Nietzsche avrebbe paragonato a quella di Alessandro Magno, Morrison va a Parigi, dove muore a ventisette anni, nel 1971. Forse non 217

sapeva che proprio in quel posto e in quel periodo era in corso la grande riabilitazione accademica del dionisiaco. Di certo non lo sapevo io, che nel 1972, a sedici anni, andai in pellegrinaggio al Père Lachaise, dove Morrison era seppellito, e vidi la tomba coperta di spinelli, e un distico eptasillabico scritto con lo spray che prometteva una resurrezione lisergica: «Jim est mort, ne nous importe / car un trip nous le remporte».

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BASILEA, 1872. STUPRO A EUTERPE Se Nietzsche attira i musicisti dipende anzitutto dal fatto che lui per primo, come sappiamo, ama (senza esserne troppo generosamente ricambiato) la musica, che costituisce il paradigma del dionisiaco, il marasma in cui annega l’io. È stato detto giustamente che non esistono musiche felici, e indubbiamente il senso dell’orrore e dell’annientamento che costituisce il nocciolo della personalità di Nietzsche, il «vieni dolce morte» che attraversa tutta la sua vita, trova nella musica l’elemento centrale. Come ricorda in un saggio importante Alessandro Arbo, da bambino Nietzsche ascolta il Requiem di Mozart, il Giuda Maccabeo di Händel (di cui apprezza tantissimo anche l’Alleluia e il Messia), la Creazione di Haydn, il Sogno di una notte di mezza estate di Mendelssohn. Ma gli piacciono anche gli oratori, forse anche Fra Martino, il canone che, nel doppio musicale di Nietzsche, il Leverkühn manniano, suggerisce per la prima volta il fascino della dissonanza. Di certo sappiamo che apprezzava anche le marce militari, e non gliene mancavano gli esempi, in Prussia, dalla Hohenfriedberger Marsch che sentiamo in Barry Lyndon alla più ritmata e patetica Preussens Gloria Marsch. Di certo subì l’influenza di Wagner, ma ancor prima di Schumann. E i suoi componimenti adolescenziali costeggiano perennemente il tema del naufragio. A dodici anni scrive una ouverture per un abbozzo di tragedia, Orkadal, e dedica due sonate alla madre. Nel 1859, a Pforta, entra nel coro, come poi a Bonn, studente universitario. Nell’estate del 1861 compone un brano per pianoforte: Il dolore nota fondamentale della natura. Poi da settembre a 219

Natale è impegnato nella composizione di una «sinfonia su Ermanarico», che dovrebbe esprimere «il mondo sentimentale del popolo slavo» (cioè il suo, se crediamo alla auto-identificazione). Nella Pasqua del 1864 scrive Sul demoniaco nella musica. E in Socrate e la tragedia abbiamo la trasposizione musicale della coppia apollineo-dionisiaco: la musica viene da Oriente, è Dioniso, ucciso e fatto a pezzi; tocca ad Apollo il compito di ricomporlo. Poi comporrà una Manfred Meditation, tentativo mancato di superare il tragico primario attraverso l’ironia. Nel 1872 la sottopone ad Hans von Bülow, che la definisce senza mezzi termini «uno stupro ad Euterpe». In una bozza di risposta al suo giudice severo ma giusto (ottobre 1872) Nietzsche si giustifica allegando motivi terapeutici: «Della mia musica so solamente che mi permette di dominare una disposizione affettiva che, insoddisfatta, produrrebbe forse danni maggiori». La frustrazione, che si accompagna all’insuccesso della Nascita della tragedia, ebbe il suo effetto. Dopo la Monodie à deux, scritta nel febbraio 1873, l’Inno all’amicizia, per pianoforte a quattro mani (1875) è l’ultimo tentativo, che soccombe ancora una volta al patetico. Ma la sua parte centrale sta alla base dell’unico componimento di Nietzsche pubblicato in vita, come partitura musicale per i versi della Preghiera alla vita di Lou, che sarà orchestrata da Gast e pubblicata da Fritzsch nel 1887. Certo, così un amico ama l’amico come io amo te, vita misteriosa, sia che in Te io abbia esultato, pianto sia che Tu mi abbia dato felicità, o dolore. Io t’amo con tutte le tue afflizioni: e se tu mi devi sopraffare, 220

mi strapperò dal tuo braccio come ci si strappa dal petto di un amico. Con tutte le mie forze ti stringo a me! Lascia che le tue fiamme mi assalgano, lascia che nelle vampe della lotta io possa sondare il baratro del tuo mistero. Millenni per essere, per pensare, per vivere… Stringimi tra le tue braccia con tutte le forze! se non hai più altra felicità da darmi, allora dammi il tuo dolore. Si trattava evidentemente dell’incontro fra due spiriti melodrammatici. Ma da allora la sola musica che esalterà sarà quella del suo allievo Gast (oltre a quella di Bizet), e l’unica che criticherà, sino alla fine, sarà quella di Wagner, senza prevedere come anche nel caso della musica le sue dottrine, se non le sue composizioni, troveranno più ascolto di quanto non temesse. Dietro la spinta del Caso Wagner e del Nietzsche contra Wagner, e con le suggestioni del dionisiaco nella musica, il dibattito si accenderà quando Nietzsche non è più cosciente: Kulcke, Beillaigue, Heckel, Newman, Halévy, Hofmiller, de Wyzéwa, Marshall, Dauriac, una folla di interventi internazionali nel giro di un decennio – un sogno e, come sempre, un’ironia.

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BASILEA, 16 APRILE 1943. ACID TEST AL RINFRESKO ELETTRIKO Tout se tient, tra Morrison lisergico e Nietzsche dionisiaco. È infatti proprio a Basilea, nei laboratori della Sandoz, che nel pomeriggio del 16 aprile 1943 il trentasettenne chimico Albert Hoffman sintetizzò l’LSD. Che in effetti sembra proporre una esperienza dionisiaca in senso strettamente nietzschiano, visto che, come dichiarerà all’«Independent» mezzo secolo dopo la sua scoperta: «L’LSD non crea dipendenza e non è tossico. Il suo pericolo è che provoca un cambiamento profondo della coscienza: può essere bello, può essere spaventoso». Acid Test al Rinfresko Elettriko a Basilea? Per strano che possa sembrare, sì. Niente come un viaggio nell’LSD può dare l’idea di quanto fragile sia la costruzione dell’io, di quanto avesse ragione Schopenhauer, e di quanto ingannevole sia il principium individuationis – Nietzsche non provò questa esperienza e dovette limitarsi a immaginarsela con i rituali allucinati che stanno alla base della tragedia, ma un nietzschiano come Foucault sperimentò l’LSD nel deserto californiano nel 1975, con accompagnamento, direi incauto, di musiche di Stockhausen. La Basilea in cui Hoffman sintetizza l’LSD e quella in cui Nietzsche concepisce La nascita della tragedia sono esteriormente quasi identiche, a dispetto degli anni trascorsi. Il fatto che dalla Svizzera non sia passata la guerra ha lasciato intatti i luoghi, che si possono ritrovare nel volume di Andrea Bollinger e Franziska Trenkle Nietzsche a Basilea. Scuole. Il ginnasio, di fronte alla chiesa, è ancora in perfette condizioni dopo seicento anni di storia. Adesso ci sono gli studenti che armeggiano con i telefonini, mentre i più piccoli giocano a pallone. Uguale anche l’università, 222

bella, affacciata sul Reno, anche se la sede è stata spostata e qui resta un istituto di studi africani e uno, raffinatissimo, di studi sull’immagine. All’uscita però una enorme «Condomeria», sic. Preservativi, falli artificiali, di tutto un po’. Case. La prima casa di Nietzsche, in Spalentorweg 2, non c’è più, sostituita da un condominio anni Sessanta con parrucchiere da donna. La seconda, con ingresso secondario in Spalentorweg 5, c’è ancora, con lapide. E così la terza, al 48, sempre con lapide, a due passi da Eulergasse 53, casa degli Overbeck, più bella, adesso al pian terreno c’è un centro omeopatico. Ristoranti. Il Goldener Kopf è scomparso. Il Drei König, l’albergo sul fiume dove cenava con la sorella, è diventato il cinque stelle Trois Rois.

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LIPSIA, 8 OTTOBRE 1868. «LA CROCE, LA MORTE, LA TOMBA» Malgrado l’apparente eterogeneità dei tempi e dei mondi, un filo tenace unisce il nibelungico al dionisiaco, Sigfrido e Morrison. Da Lipsia, l’8 ottobre 1868, poco prima di conoscere Wagner, Nietzsche scrive a Rohde che nel Maestro, come in Schopenhauer, lo appassionavano «il soffio etico, il profumo faustiano, la croce, la morte, la tomba». Ed è anche il motivo della passione che ha sempre esercitato su di lui l’incisione di Dürer Il Cavaliere, la Morte, il Diavolo. Questo spirito che ama la morte, il tramonto – questa voglia di farla finita, come i Nibelunghi travolti da Attila – era ciò che Nietzsche ha evocato nel nesso tra grecità e pessimismo che fa da sottotitolo alla Nascita della tragedia. A Basilea, Nietzsche incomincia una attività poliedrica e probabilmente felice: quella di docente di greco e di latino in cammino dalla filologia alla filosofia (qualche anno dopo tenterà, senza successo, di passare alla cattedra di filosofia); quella di curioso di cose scientifiche, che cerca di colmare le lacune della sua formazione soltanto umanistica. E quella, come è forse meno ovvio, ma in definitiva è il dato più massiccio, di fervente wagneriano. Sono importanti anche altre frequentazioni dell’epoca basileese. Anzitutto, lo storico della Chiesa Franz Overbeck; poi, Burckhardt, all’origine degli interessi di Nietzsche per la civiltà del Rinascimento in Italia, e Franz Dorotheus Gerlach, il latinista collega di università e di ginnasio, che ha l’aspetto di un enorme e pelosissimo satiro. Pressoché inesistenti le relazioni con Johann Jakob Bachofen, di cui tuttavia Nietzsche legge il saggio sulla Simbolica funeraria degli antichi (1859) prendendolo a prestito dalla biblioteca 224

universitaria nel giugno 1871, mentre sta lavorando sulla figura di Socrate. Anche più importante per la formazione di Nietzsche è – come abbiamo detto – la lettura di opere scientifiche e la frequentazione di scienziati colleghi di facoltà, tra cui spicca il naturalista Ludwig Rütimeyer (18251895), allievo di Carl-Ernst von Baer, lettore e critico di Darwin (ancora all’epoca della Gaia scienza, nel quaderno dell’agosto 1881 dove sono contenute le riflessioni intorno all’Eterno Ritorno, Nietzsche tesserà l’elogio dell’antico collega di Basilea). Tra gli allievi, due, che abbiamo già incontrato, rivestiranno un ruolo di primaria importanza nel seguito della vita e dell’opera. Il primo è Heinrich Köselitz, più giovane di lui di dieci anni, cui Nietzsche dà lo pseudonimo di Peter Gast, che lo aiuterà nella preparazione di tutti i manoscritti (con un intervento non puramente meccanico: Nietzsche dirà che il vero scrittore era Gast, e che lui era soltanto l’autore), rivestendo poi – come si ricorderà – un ruolo importante nei primi tempi della gestione dei frammenti postumi, prima di entrare in rotta di collisione con Elisabeth. Il secondo, conosciuto nel 1873, è Paul Rée, più giovane di cinque anni, ma che – prima di scappare con Lou – eserciterà un dominio spirituale su Nietzsche, influenzandolo con i suoi studi sulle origini dei sentimenti morali. All’inizio del 1870, Nietzsche tiene a Basilea le conferenze che stanno alla base della Nascita della tragedia: Il dramma musicale greco (18 gennaio) e Socrate e la tragedia (1° febbraio); una prima elaborazione organica avrà luogo nel luglio 1870, con il titolo La visione dionisiaca del mondo. Il 9 aprile Nietzsche consegue l’ordinariato. Dal 23 agosto al 7 225

settembre, non potendo arruolarsi nella guerra francoprussiana (è diventato cittadino svizzero), presta servizio come infermiere nella zona delle operazioni; ammalatosi di difterite, trascorre la convalescenza nella casa materna di Naumburg. Lì porta a termine il libro sulla tragedia; nelle stesure preparatorie, oltre al titolo La visione dionisiaca del mondo abbiamo anche quello, più prossimo a quello poi prevalso, La nascita (origine) del pensiero tragico.

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BASILEA, 1872. NASCITA DELLA TRAGEDIA La stesura definitiva dell’opera, col titolo La nascita della tragedia dallo spirito della musica, risale all’autunno 1871, e la pubblicazione ai primi del 1872. Già il 31 dicembre, però, il Doktorvater di Nietzsche, Ritschl, aveva annotato nel suo diario: «Buch von Nietzsche Geburt der Tragödie (= geistreiche Schwiemelei)», cioè, si traduce di solito: «Libro di Nietzsche Nascita della tragedia (= stravaganza geniale)». Ha scritto in proposito Gherardo Ugolini: «Il giudizio suona molto meno benevolo di quello che può apparire dalla traduzione italiana corrente. Infatti, l’espressione tedesca originale ‘geistreiche Schwiemelei’ ha un significato fortemente negativo, giacché il sostantivo Schwiemelei, che in senso proprio significa ‘sbevazzata’, presuppone connotazioni piuttosto riprovevoli ed è da associare a vocaboli come Schwindel (‘vertigini’), Rausch (‘ebbrezza’, ‘estasi’), Taumel (‘delirio’, ‘deliquio’). Cfr. i lemmi ‘Schwiemelei’, ‘Schwiemel’, ‘schwiemelig’, ‘schwiemeln’, ‘schwiemen’ in Deutsches Wörterbuch von Jacob und Wilhelm Grimm, Leipzig 1899, Bd. 15, 2617 s.» Ebbrezza a parte, spiace a Ritschl, come scriverà all’ex allievo, la pretesa di giudicare un fenomeno storico, e di definire (filosoficamente) l’estinguersi della tragedia come un suicidio. Anche Wagner teme il peggio per il discepolo, e magari anche per sé («Non vorrei che vi ci rompeste il collo»). Che cosa c’era di scandaloso? Non poco, per un’epoca che nel classico vedeva una specie di barriera contro il caos della modernità. Per Nietzsche, è vero il contrario. Per ritornare alle origini del classico, bisogna guardare non solo alle statue (che a loro volta devono essere de-classicizzate, 227

colorate, volgarizzate), ma anzitutto alla musica, a quei motivi informi che stavano nel sacrificio di Dioniso e nel coro tragico. Bisogna guardare non alle persone e al dialogo, che sono solo apparenza, bensì alla dissoluzione della forma che si ha nella sregolata e sensuale musica asiatica, proprio quella bandita da Platone nella Repubblica. Poiché però la musica greca è perduta, invece di voltarci indietro guardiamo avanti. Il dionisiaco si è conservato per vie eccentriche, come un fiume carsico e mistico, e riemerge nella corale luterana. Proprio quelle corali e quelle musiche d’organo che Nietzsche avrà sentito alla Thomaskirche di Lipsia, dove Bach era stato per tanti anni maestro di cappella. Quella musica che si sente a occhi chiusi, quei cori in cui non si capisce più niente, sono gli eredi del dionisiaco. E, come altro volto della rivoluzione conservatrice, il passato si salva nel futuro, proprio nell’opera d’arte dell’avvenire, cioè in Wagner (che, d’altra parte, può mettersi alla testa del corteo proprio in quanto rappresenta il ritorno del rimosso e del passato, cioè del dionisiaco). Cosa c’entra Wagner con la tragedia? Non è come cercare di mescolare la filologia classica e la pop music? Almeno in parte è così. È come se Nietzsche cercasse (e sarà la sua tendenza costante, sino alla fine, nei confronti degli antichi come dei moderni) il lato pornografico del mondo classico. In definitiva la contrapposizione di fondo tra apollineo e dionisiaco significa: la compostezza classica che avete sotto gli occhi, l’aplomb di quelle statue molto perbene, è solo il frutto di una rimozione. Guardiamo le statue antiche adesso. Sono bianche, compassate, hanno occhi vuoti e nobili, spesso sono mutilate, risultando misteriosamente incomplete e superiori alla realtà. Ma immaginiamole come 228

erano allora: una policromia sgargiante, una mascherata, un classico irriconoscibile, vagamente una pagliacciata da carnevale di Rio, la maschera comica di Franco Franchi nella vecchia pubblicità del rasoio Bic. Eppure, quello era il vero volto del classico. Il resto, lo abbiamo aggiunto noi, moralizzandolo, come moderni e come professori, persino creando le proporzioni idealizzate della fisiognomica, tra Winckelmann e Lombroso, passando per l’angolo facciale di Camper. Ed ecco allora i due principi antitetici, Apollo, la forma, le statue bianche, la misura, il classico come ce lo hanno tramandato i classicisti; e Dioniso, l’informe, lo sregolato, l’Oriente, l’orgia, il colore, la vera vita dell’antichità. Il compito di espellere Nietzsche dalla categoria dei filologi se lo assunse di buon grado il summenzionato Wilamowitz, più giovane di lui di quattro anni, anch’egli allievo a Pforta, il prestigioso ginnasio vicino a Naumburg in cui si era formato Nietzsche. Lo fece con un pamphlet polemico, Filologia dell’avvenire, uscito nel maggio del 1872. Trentadue pagine spietate, e probabilmente ispirate da Rudolf Schöll, coetaneo di Nietzsche, allievo di Mommsen, e furibondo per non essere stato chiamato a Basilea sulla cattedra di Nietzsche. Replicherà, al posto di Nietzsche, l’amico Erwin Rohde, con Afterphilologie (qualcosa come «filologia dell’arrière pensée», ma anche «filologia deretana»), in quell’anno stesso. E controreplicherà Wilamowitz nel 1873 con Filologia dell’avvenire! Seconda parte. Il risultato più consistente di tutta la polemica fu che i filologi si schierarono compattamente a favore dell’ortodossia interpretata da Wilamowitz, sicché per decenni il libro di Nietzsche ebbe 229

influsso ovunque, tranne che negli studi classici. Va detto a onore di Wilamowitz che più tardi fece ammenda delle sue intemperanze giovanili: «Questo fu terribilmente ingenuo. Qui non si mirava alla conoscenza scientifica: in realtà non si trattava affatto della tragedia attica, ma del dramma in musica di Wagner che da parte mia non tenevo in grande considerazione. […] Ero un ragazzo ottuso, del tutto inconsapevole della sua arrogante comparsa in pubblico». Sta di fatto che nel 1872 Wilamowitz, dopo aver paragonato Nietzsche a chi volesse gettare del fango contro il sole (cioè la Grecia classica), lo invita ad abbandonare la cattedra. Cosa che, non molti anni dopo, Nietzsche farà, se non proprio per via dell’invito di Wilamowitz, sicuramente per le conseguenze del libro, il cui primo effetto fu di falcidiare il numero non grande di studenti che aveva a lezione (così, almeno, a dire di Nietzsche, che però forse mitizza anche in questo caso: gli studenti a lezione a Basilea erano sempre pochi, e spesso accadeva di dover sospendere i corsi per mancanza di uditori). In giugno, poi, c’è la mazzata di von Bülow, lo «stupro di Euterpe». Cercando di farsi coraggio da solo, il 7 novembre si vanta con Malwida von Meysenbug di essere riuscito a diventare «il filologo più scandaloso del giorno» (nello Zarathustra leggiamo: «Io sono uscito dalla casa dei dotti: e per giunta ho sbattuto la porta alle mie spalle»).

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VIENNA, 30 SETTEMBRE 1791. LA REGINA DELLA NOTTE Ma per capire che cos’è il dionisiaco, non è necessario ritornare indietro sino alla civiltà greca arcaica, o all’Oriente da cui Dioniso sarebbe giunto in Grecia. La si può prendere molto più da vicino, nel tempo e nello spazio. Per esempio, si può partire dal teatro auf der Wieden di Vienna, il 30 settembre 1791, quando ha luogo la prima del Flauto magico, musica di Wolfgang Amadeus Mozart, testo di Emanuel Schikaneder. Il punto in cui il terribile irrompe nel fiabesco è la cosiddetta «Aria della Regina della Notte»: La vendetta dell’inferno ribolle nel mio cuore, morte e disperazione ardono in me! Se tramite te Sarastro non troverà la morte non sarai mai più mia figlia disconosciuta per sempre, abbandonata per sempre, distrutti siano per sempre tutti i legami della Natura se tu non farai diventare pallido Sarastro! Ascoltate, dei della Vendetta, ascoltate il giuramento di una madre! C’è qualcosa della matrigna di Rapunzel, ma soprattutto c’è qualcosa di radicalmente informe, di notturno e di antitetico alla legge paterna dell’ordine. È in questa uscita scomposta che si trova la manifestazione del dionisiaco che conta per Nietzsche. C’è da una parte lo smembramento, la sfigurazione, l’irruzione dell’amorfo. Dall’altra la potenza del femminile, il terribile «giuramento della madre» (Mutter Schwur), che non promette nulla di buono, come si vede nelle fotografie giovanili di Franziska, con gli occhi dolci, 231

tondi, sciocchi e minacciosi. Occhi in cui si potrebbe annegare, e in cui probabilmente si nascondono tante delle crudeltà, degli egoismi, delle enormità che Nietzsche, più che confessare o svelare, mise in scena – in prosa, in poesia, e infine anche negli atti estremi degli ultimi giorni.

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TÜBINGEN, 1796. NUOVA MITOLOGIA Restando alla storia del dionisiaco, meno di due anni dopo l’aria della Regina della Notte, a Parigi, il 21 gennaio 1793, viene decapitato Luigi XVI. Quello che è davvero importante, per la nostra storia, avviene invece nella provincia tedesca, nella Tübingen in cui Hölderlin, Schelling e Hegel, compagni di convitto allo Stift, scrivono il frammento più tardi conosciuto come «Il più antico programma dell’idealismo tedesco», in cui progettano una «mitologia della ragione», una nuova mitologia che possa prendere il posto di quella cristiana, oramai esaurita. Vogliono dare una forma estetica alle idee, rendendole belle e seducenti, vogliono rendere il popolo razionale e la filosofia mitologica, con una specie di prefigurazione della società di massa e magari della pop filosofia. Se la Regina della Notte era il semplice ingresso in scena del dionisiaco, qui abbiamo una teoria e un progetto politico, quello che si incarnerà nel pantheon polimorfo di Nietzsche – Dioniso, Zarathustra, Alessandro Magno, il Crocifisso, e alla fine tutti i nomi della storia. Il progetto di una estetizzazione del mondo, che diventa favola, e il progresso coincide con il ritorno alle origini.

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WEIMAR, 24 GIUGNO 1797. LE MADRI A Praga, il 29 ottobre 1787, c’era stata la prima del Don Giovanni. Che rifiuta di pentirsi, e finisce tra le fiamme. Lo racconta nell’ultima scena Leporello: Tra fumo e fuoco… badate un poco… l’uomo di sasso… fermate il passo… Giusto là sotto diede il gran botto, giusto là il diavolo se ’l trangugiò. Il coro femminile di Donn’Anna, Donn’Elvira e Zerlina, a cui si unisce Don Ottavio, trasecola «Stelle! Che sento!», ma Leporello garantisce: «Vero è l’evento». Ecco, ma dove era finito? Probabilmente, dalle madri, dalla Regina della Notte. Dieci anni dopo, il 24 giugno 1797, Goethe, che ha appena ripreso a lavorare al Faust, ha la visione (la visione, proprio come Nietzsche, che quando ha l’estasi dell’Eterno Ritorno si paragona esplicitamente a Goethe) della discesa alle Madri. Se ne parla nella seconda parte del Faust, per bocca di Mefistofele: Svelo di malavoglia mistero così alto. Dèe dominano altere in solitudine. Non luogo intorno ad esse e meno ancora tempo. Parlarne è arduo. Sono le Madri. 234

Molti anni dopo, il 10 gennaio 1830, Eckermann ne annota la spiegazione tratta da un colloquio con Goethe: «Esse vivono quasi al di fuori di qualsiasi precisa località perché nulla di solido esiste nelle loro vicinanze e vivono anche al di fuori del tempo perché nessuna stella le illumina che con il suo tramontare ed il suo sorgere indichi l’alternarsi della notte e del giorno. Ferme nel loro stato crepuscolare e nella loro solitudine, le Madri sono, tuttavia, un essere che crea, sono il principio che crea e che conserva, quello dal quale emana tutto ciò che, sulla superficie della terra, ha forma e vita. Se qualcosa cessa di vivere scende a loro nella sua spirituale natura ed esse lo custodiscono sino a che gli si presenta l’occasione di entrare in una nuova esistenza».

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PARIGI, 11 GIUGNO 1828. LA MORTE DI LAURISTON Jacques Jean Alexandre Bernard Law de Lauriston, eroe delle campagne napoleoniche, conte dell’Impero, Maresciallo di Francia, morì a Parigi di ictus l’11 giugno 1828. Si trovava fra le braccia della ballerina Amélie Legallois, sua amante, il che non apparve disdicevole né impedì che il suo nome venisse inciso sul pilastro est dell’Arc de Triomphe. Un libro uscito sei anni prima, De l’amour di Stendhal, stilizzava questo erotismo da arco di trionfo tipizzando la differenza tra maschile e femminile: «Una donna, davanti al telaio da ricamo, opera insipida e che occupa solo le mani, pensa al suo amante, mentre questi, che galoppa nella pianura col suo squadrone, è messo agli arresti se fa eseguire un falso movimento». Le cose non parevano cambiate di molto centocinquant’anni dopo, quando, il 20 maggio 1974, il corpo – stroncato da un infarto – del cardinale arcivescovo di Parigi Jean Daniélou, venne trovato sulle scale della casa della ventiquattrenne spogliarellista Mimi Santoni. In mezzo, però, c’era stato un crescere e un avanzare dell’onda lunga del dionisiaco, «del nascere e del crescere, del trasformarsi e del distruggere». Seguiamo questo filo.

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STOCCARDA, 1861. DAS MUTTERRECHT Esce a Stoccarda, dalle edizioni Krais & Hoffmann, Das Mutterrecht, il matriarcato, un titolo che risuona un po’ come «die Mutter Schwur», il giuramento della madre nell’aria della Regina della Notte. L’autore è Johann Jakob Bachofen, collega di Nietzsche a Basilea, una somiglianza fisica impressionante con Flaubert, avrebbe potuto forse esclamare «Le Mutterrecht c’est moi!» Nella rappresentazione di Bachofen – che a sorpresa attrae oggi una riflessione femminista, dopo aver attirato i rivoluzionari sessuali, da Reich a Fromm – le madri sono disordinate, indistinte, acquatiche (diritto naturale, comunità dei beni, promiscuità sessuale). Sono comuniste, e di un comunismo tanto più facile da accettare in quanto arcaico o immaginario. I maschi, invece, sono celesti, e a loro si devono il diritto positivo, la proprietà privata, la monogamia. La questione del padre (terreno e celeste) è tale che Nietzsche conclude la sua parabola delirando su se stesso come padre, sui figli che ha messo al mondo, e sull’assoluto paterno del dio-padre-crocifisso. È senza patria, senza padre, senza patrimonio, ma, diversamente da Kafka, che nel padre vede l’origine di ogni dispotismo, fa del patriarcato e della misoginia una costruzione apollinea sempre minacciata dal disordine femminile; proprio come in Il padre, che August Strindberg spedisce a Nietzsche nel 1887, dove una moglie poco per volta inocula nel marito il dubbio di non essere il padre dei suoi figli – vero incubo, sovversione del patriarcato – e lo fa impazzire.

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PARIGI, 3 MARZO 1875. CARMEN All’Opéra Comique va in scena la prima della Carmen di Bizet. Inizialmente è un fiasco, e Bizet, che muore tre mesi dopo, non farà in tempo a vederne il successo, esattamente come accadde a Nietzsche, impazzito prima della fama (pare che Nietzsche conoscesse questa vicenda, e che ne avesse discusso con un’amica). Come sappiamo, per lui, che sentì per la prima volta la Carmen a Genova il 27 novembre 1881, si tratterà della vera esplosione del dionisiaco, nella forma del femminile, dell’amore, della morte e del meridione. Sarà l’anti-Wagner, ma Nietzsche al momento è ancora wagneriano.

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BAYREUTH, 13 AGOSTO 1876. «CEDETE CON ME ALLA VITA DIONISIACA» «Sì, amici miei, cedete con me alla vita dionisiaca e alla rinascita della tragedia. Il tempo dell’uomo socratico è finito: inghirlandatevi di edera, prendete in mano il tirso e non vi meravigliate che la tigre e la pantera si accovaccino carezzevolmente ai vostri ginocchi. Ora osate essere uomini tragici: giacché sarete liberati. Accompagnerete il corteo dionisiaco dall’India alla Grecia! Armatevi a dura lotta, ma credete ai miracoli del vostro dio!» Così Nietzsche con una singolare allocuzione nel § 20 della Nascita della tragedia. E Wilamowitz: «Che il signor Nietzsche mantenga la parola! Afferri il tirso e (come Dioniso) vada in corteo dall’India alla Grecia! Scenda però dalla cattedra, dove dovrebbe impartire un insegnamento scientifico! Raccolga pure tigri e pantere intorno alle sue ginocchia, ma non la gioventù filologica tedesca che, attraverso l’ascesi di un lavoro svolto con abnegazione, deve imparare a cercare ovunque nient’altro che la verità». Ma se, al di là delle polemiche, ci chiediamo dove finisca il corteo, ci rendiamo conto che, almeno nelle attese di Nietzsche, dovrebbe finire a Bayreuth. Qui, il 13 agosto 1876, viene inaugurato il primo festival wagneriano, con l’esecuzione dell’Oro del Reno alla presenza non solo degli imperatori di cui abbiam detto, ma anche di compositori come Bruckner, Grieg, Tchaikovsky e Liszt. C’è anche Nietzsche che, tuttavia, è deluso. Appunto perché il dionisiaco non si è realizzato, anzi, c’è qualcosa di completamente diverso dalla discesa alle Madri, qualcosa di molto paterno, con tutti quegli imperatori e re. A meno di sposare la tesi di Baudelaire («Trono e altare, massima rivoluzione!») il progetto di Nietzsche è ampiamente 239

disatteso. Dunque, non è a Bayreuth che rinascerà il dionisiaco, come pronosticato nella Nascita della tragedia. E dove, allora?

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VIENNA, 1929. IL DISAGIO NELLA CIVILTÀ Nel 1886, un anno prima della Genealogia della morale, esce la Psychopathia Sexualis di Krafft-Ebing. Dioniso sta entrando nel discorso pubblico, e in particolare nel discorso dotto. Insieme al nichilismo il ceto colto dell’Ottocento sperimenta il disagio nella civiltà. Scopre, di colpo, che quella nobile malinconia è in realtà tristezza, rinuncia, mancanza, repressione e depressione. Ecco il motivo per cui il borghese incomincia a invidiare l’artista, e a maggior ragione il filosofo-artista che promette una rivoluzione desiderante che, come vedremo, potrà prendere tante forme, dalle sfilate naziste ai concerti rock, ma al cui centro campeggia sempre Dioniso. Vent’anni dopo il libro di Krafft-Ebing, il 29 maggio 1905, a Vienna, è di scena Il vaso di Pandora, che poi, insieme a Lo spirito della terra, verrà a comporre un unico titolo, Lulu, l’opera fondamentale di Frank Wedekind, l’emblema dell’immoralismo e dell’orgiasmo che poi sarà anche, nel 1929, il film di Pabst con Louise Brooks e poi, molti anni dopo, una delle ultime opere musicate da Lou Reed insieme ai Metallica. È il tempo e il luogo in cui si scrivono i libri di Freud, la coincidenza è perfetta: il 1905 non è solo l’anno della teoria della relatività (ristretta) e della prima rivoluzione russa, ma anche dei Tre saggi sulla teoria sessuale. È in questo quadro che si rivela l’ovvia prossimità tra Nietzsche e Freud. Si possono certo indicare gli intermediari, siano Josef Paneth o, più tardi, Lou Salomé; o altri ammiratori di Nietzsche che Freud aveva conosciuto sin dai tempi dell’università (Heinrich Braun, Viktor Adler, Siegfried Lipiner); o, ancora, le discussioni su Nietzsche che 241

avevano luogo durante le riunioni della associazione psicoanalitica. È lecito (lo ricordavo all’inizio) evocare la monumentale denegazione di Freud, che sostenne di non aver voluto leggere Nietzsche affinché le sue dottrine filosofiche non condizionassero le ricerche scientifiche condotte col metodo psicoanalitico. Si può, altresì, indicare la massa di ibridazioni tra psicoanalisi e nietzschianesimo, da Otto Gross all’alleanza tra libido e volontà di potenza in Adler, dalle letture zarathustriane di Jung a Georg Groddeck, Fritz Wittels, Otto Rank. Né è difficile, infine, mostrare come i contemporanei avessero inteso al volo questa prossimità, palese dai diari di Wittgenstein ai discorsi di Binswanger e di Mann per gli ottant’anni di Freud. Tutte queste osservazioni non farebbero che sfondare una porta aperta. Perché l’eros non è il solo filo che annoda Freud al dionisiaco, anzi, ce ne è un altro, più potente e tenace, il movimento di Al di là del principio di piacere (1920) e del Disagio nella civiltà (1929), il desiderio di annientarsi, di seguire la pulsione di morte come l’aspirazione fondamentale, come nella risposta di Sileno a Re Mida nel § 3 della Nascita della tragedia: «L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine fra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: ‘Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggioso non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è 242

– morire presto’». Disperdersi, negarsi, annegarsi (Leverkühn nel Doctor Faustus cerca la morte per annegamento, cosa che, lo vedremo, accadrà anche a Nietzsche, a Naumburg). Il fine di tutta la nostra carriera è la morte, Eros non è che un inganno che la natura ha creato per permettere la sopravvivenza della specie, mentre la verità profonda sta da un’altra parte, in Thanatos che ci aspetta alla fine del cammino: «Se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà». Proprio quello che dice Nietzsche parlando della volontà di potenza, vista come una forza che vuole manifestarsi a ogni costo, senza alcun riguardo per la nostra sopravvivenza.

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NORIMBERGA, 1° SETTEMBRE 1933. RADUNO DELLA VITTORIA A Norimberga, ottanta chilometri da Bayreuth, il 1° settembre 1933 inizia il primo Reichsparteitag des Sieges, il «Raduno della Vittoria», per festeggiare la presa del potere, e dove, il 10 settembre 1935, la prima sera del raduno avrà luogo l’esecuzione dei Maestri cantori di Norimberga, molto amata da Hitler. È qui, piuttosto che a Bayreuth, che finisce il corteo dionisiaco? Non necessariamente qui, non solo qui, ma certo anche qui. Su questo punto non è possibile ingannarsi, sia pure con le migliori intenzioni del mondo, come per esempio avviene in questo – altrimenti ottimo – commentario di Wiebrecht Ries alla Nascita della tragedia: «Nietzsche parla di una ‘guida’ (Führer) carismatica […]. È l’amara ironia della storia che, pochi decenni dopo la morte di Nietzsche, ‘il Tedesco’ si sia affidato a una ‘guida’, un Führer […] che, invece di restituire al popolo tedesco la perduta patria mitica, lo fece precipitare nella catastrofe». Tra la patria mitica e la catastrofe il passo è breve, e se Hitler ha saputo incantare i tedeschi, e non solo loro, è perché nel suo orizzonte c’era qualcosa di straordinariamente simile al «corteo dionisiaco» di cui parla Nietzsche. Altrimenti i tedeschi si sarebbero tenuti Rathenau, o Friedrich Ebert.

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MONACO, FEBBRAIO 1943. «ALZATI, POPOLO MIO» Nel febbraio 1943 Kurt Huber scrive nel sesto volantino della Rosa Bianca: «Libertà e onore! Per dieci anni Hitler e i suoi complici hanno abusato e distorto queste nobili parole tedesche […]. In questi dieci anni di distruzione di tutti i valori materiali e spirituali hanno mostrato quanto valgano per loro la libertà e l’onore. Questo orribile bagno di sangue che hanno causato in tutta l’Europa ha aperto gli occhi anche ai tedeschi più ingenui e semplici […]. Il nome della Germania sarà disonorato per sempre, a meno che la gioventù tedesca non si levi e colpisca i suoi persecutori e invochi una nuova Europa, intellettuale e spirituale. I morti di Stalingrado ci implorano! Alzati, popolo mio». L’ultima frase è dall’incipit di Aufruf di Theodor Körner (che Manzoni, nella dedica di Marzo 1821, dà per caduto a Lipsia, nella battaglia delle nazioni, mentre morì in una scaramuccia, nei dintorni di Gadebusch nel Meclemburgo, il 26 agosto 1813). «Alzati, popolo mio», «Frisch auf, mein Volk!» Goebbels aveva concluso il suo discorso del 18 febbraio al Palazzo dello Sport di Berlino citando altri versi di Körner, «Volk, steh auf, und Sturm, brich los», «Popolo, alzati, tempesta, scatenati!», da cui appunto la Volkssturm, la milizia popolare degli ultimi disperati mesi di guerra.

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PACIFIC PALISADES, 7 SETTEMBRE 1945. «O AMICO, O PATRIA» Il 7 settembre del 1945, nella sua casa al 1550 di San Remo Drive a Pacific Palisades, Thomas Mann, che la Germania l’aveva abbandonata nel 1933, risponde a una lettera di Walter von Molo, già esponente dell’accademia poetica nazista, che lo invita a tornare in patria: «Fu ben difficile, ben angosciosa nel 1933 la scossa che mi fece perdere la fida base dell’esistenza, casa e paese, libri, ricordi e patrimonio, mentre in patria si succedevano le manifestazioni meschine, le defezioni ed i rifiuti […]. Fu ben difficile ciò che seguì poi: la vita randagia di terra in terra, le complicazioni di passaporto, l’esistenza nei vari alberghi, mentre all’orecchio echeggiavano le vergognose notizie provenienti ogni giorno dal paese ormai perduto e inselvatichito, ormai fattosi estraneo. Tutto questo, Loro che hanno giurato fedeltà al ‘carismatico Führer’ (orrenda, orrenda questa cultura ubriaca!) Loro che hanno coltivato le lettere al seguito di Goebbels, non l’hanno sofferto. Io non dimentico che Loro più tardi hanno subito ben più aspre prove alle quali io sfuggii; ma una cosa almeno Loro non conobbero: lo spasimo dell’esilio, lo sradicamento, il terrore nervoso dei senzapatria». La cultura ubriaca (Ritschl aveva ragione) è quella di Dioniso, e la conclusione del Doctor Faustus descrive una patria dionisiaca: «La Germania, coi pomelli accesi, traballava allora al colmo dei suoi orrendi trionfi, in procinto di conquistare il mondo in virtù del solo trattato ch’era disposta a osservare e che aveva firmato col suo sangue. Oggi, avvinghiata dai dèmoni, coprendosi un occhio con la mano e fissando l’orrore con l’altro, precipita di disperazione in disperazione. Quando toccherà il fondo 246

dell’abisso? Quando sorgerà dall’estrema disperazione, pari a un miracolo superiore a ogni fede, il nuovo crepuscolo di una speranza? Un uomo solitario giunge le mani e invoca: Dio sia clemente alle vostre povere anime, o amico, o patria!» Nei primi giorni del maggio 1945, gli americani entrano a Weimar, sede dell’Archivio Nietzsche. In autunno, la Turingia passa sotto il controllo sovietico. Convocato per accertamenti e condannato alla deportazione in Siberia, il direttore dell’Archivio, Max Oehler, muore il 6 dicembre; il 9 l’Archivio è posto sotto sigillo.

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MALAGA, 1949. IL SECCO E L’UMIDO Sulla copertina di Il secco e l’umido di Jonathan Littell (2008) vediamo l’incrocio fra uno spettro e il gatto Silvestro, con passamontagna, bustina, pastrano militare, guanti e mitra. È Léon Degrelle (1906-1984), capo del movimento rexista belga, poi membro della brigata di SS Wallonie sul fronte russo. Littell propone una «lettura ravvicinata» di La campagne de Russie, il libro che Degrelle scrisse nel 1949, in esilio a Malaga, non per giustificarsi, ma per eroicizzarsi: il super-fascista, colui che Hitler disse di desiderare come figlio, rivela un io fragile e ossessionato dalla dissoluzione, ed è per questo che contrappone se stesso, secco e verticale, al liquido e informe della donna, dello slavo, del comunista. A volte pare di vedere Tintin (il fumetto di Hergé di cui Degrelle è il modello) con l’elmetto da Sturmtruppen, e si disegna una figura, quella del militante delle Waffen SS internazionali che combatterono contro il bolscevismo, sino al paradosso che il Bunker di Hitler fu difeso da francesi, i resti della divisione Charlemagne. Ma l’autentico paradosso, se è vero quanto abbiamo visto sinora, è che ciò che stavano difendendo dall’informe era ancora più radicalmente aorgico e indeterminato, ossia era la volontà di nulla.

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BOLOGNA, 23-25 SETTEMBRE 1977. RIVOLUZIONE DESIDERANTE Il 23 settembre 1977, a Bologna, ebbe inizio una grande manifestazione contro la repressione. Il termine era assurdamente proprio quello: repressione. Erano presenti Deleuze e Guattari, che, con L’Antiedipo, avevano rilanciato l’idea di una rivoluzione desiderante. Ma col senno di poi si potrà ritenere che abbiamo avuto a che fare piuttosto con quella che, profeticamente, Marcuse aveva battezzato «desublimazione repressiva». Il punto teorico è molto semplice: il desiderio è sicuramente un fattore politico, ma non è minimamente detto che sia rivoluzionario, potrebbe benissimo rivelarsi arci-reazionario, contribuendo alla creazione e all’accettazione di una servitù volontaria a un sovrano che non si presenta come capo militare, bensì come un seduttore, anche in questo caso appropriandosi in modo perverso e polimorfo dello slogan Make love not war. Da tutto questo emerge un insegnamento o meglio un caveat circa la realizzazione perversa delle utopie. Come il sapere assoluto si è realizzato in modo distorto nella società della comunicazione, così il sogno di una rivoluzione desiderante si è realizzato nella società iper-amministrata. Perché indubbiamente l’estrema liquidità e mobilità che si presentano come il tratto caratteristico del postmoderno emancipano dai vecchi ruoli e fanno crollare le vecchie rendite di posizione (in particolare et pour cause quelle legate al patriarcato). Al tempo stesso, però, ciò che prende il posto delle antiche solidità è liquido ma non leggero, e ha insomma la forma della «microfisica del potere» di cui ha parlato Foucault: in parole povere, non dobbiamo più rispondere a un padrone solo, ma a tantissimi, il che non necessariamente è un vantaggio. E la mobilità ricorda – 249

invece che il mondo vagheggiato da Marx ed Engels nella Ideologia tedesca, in cui è possibile «la mattina andare a caccia, il pomeriggio a pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia» – proprio l’universo blindato e meccanizzato prospettato in tutt’altri tempi da Jünger con l’idea di una mobilitazione totale, in cui dalla mattina alla sera (e in effetti nell’arco di tutte le ventiquattr’ore, d’accordo con gli imperativi della globalizzazione) si è a disposizione delle ingiunzioni che ci vengono dagli schermi dei nostri telefonini, tablet e computer. Questo però non era lo spirito del ’77. Allora l’idea era piuttosto che Freud aveva riconosciuto il potere della repressione, ma in fondo lo aveva condiviso, e che bisognava spingersi avanti, anche con l’aiuto di Nietzsche e di Marx, e portare la libertà agli uomini attraverso un al di là del soggetto che è anche una discesa alle Madri (come cantava De André? «Libertà l’ho vista svegliarsi / ogni volta che ho suonato, / per un fruscio di ragazze / a un ballo, / per un compagno ubriaco»). È con questo cadere che Rilke chiude le Elegie duinesi: E noi che pensiamo la felicità come un’ascesa, ne avremmo l’emozione quasi sconcertante di quando cosa ch’è felice, cade.

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Berlino, 1865 Kaputt

È pungente a toccarlo, come un pruno, o lieve come morbido piumino? È tagliente o ha gli orli lisci e soffici? Ditemi la verità, vi prego, sull’amore. Nietzsche è stato a Berlino tre volte: presso l’amico Mushacke dal 4 al 17 ottobre 1865; dal 5 all’8 ottobre 1867 per questioni di leva. Ma soprattutto sembra abbia contato per lui la rapida e inutile visita del 16 e 17 giugno 1882, nel tentativo di incontrare Lou. Il 18 giugno 1882, tornato a Naumburg, scriverà a Rée: «A Berlino sembravo una monetina smarrita, come quella che avevo effettivamente smarrito e che, grazie ai miei occhi, non riuscivo a vedere sebbene l’avessi davanti ai piedi, tanto che ho fatto ridere tutti i passanti». La Berlino in cui si sentiva perso aveva poco a che fare con quella di oggi, i cui muri, diversamente dal Muro, non sono stati abbattuti, e portano ancora i segni dei colpi di granata, delle fucilate, delle schegge. Calce e cenere pronte a farsi movimento e luce, come quando apprendiamo che l’attuale Ministero della Guerra è lo stesso nel cui cortile, il 21 luglio 1944, è stato fucilato Stauffenberg dopo il fallimento dell’attentato a Hitler. In Ecce homo Nietzsche scrive: «Conosco la mia sorte. Un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di qualcosa di enorme – una crisi quale mai 251

si era vista sulla terra, la più profonda collisione della coscienza, una decisione evocata contro tutto ciò che finora è stato creduto, preteso, consacrato. Io non sono un uomo, sono dinamite» («Perché io sono un destino», § 1). Morto nel 1900, non poté mai sospettare i macelli raccontati da Jünger in Tempeste d’acciaio, né il bombardamento degli Alleati che nel febbraio 1945 ridusse a un ammasso di macerie Dresda. Né quanto accadde a Berlino, pochi mesi dopo.

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BERLINO, 30 APRILE 1945. «GUCK MAL… DER CHEF BRENNT!» «Vieni a vedere… Il capo brucia.» O anche: «Adesso viene bruciato il capo», «Jetzt wird der Chef verbrannt». Così una delle guardie del corpo di Hitler a un collega il 30 aprile del 1945, mentre Hitler ed Eva Braun venivano cremati in modo approssimativo (non c’era abbastanza benzina) nel giardino del Bunker della Cancelleria. Possiamo venire all’ultimo atto, magari guardando le immagini degli ultimi mesi di guerra nei cinegiornali della «Deutsche Wochenschau». D’Annunzio, in Per la morte di un distruttore, prevedeva per Nietzsche una sepoltura spettacolare, nel golfo di Napoli, sotto il Vesuvio. Gli alzeremo un tumulo grande, un’altissima tomba, là dove le coste sono più scoscese e il flutto più rimbomba nelle caverne più nascoste con le eterne risposte alle eterne domande. Gli daremo ghirlande d’ulivo selvaggio e, tra le accese faci, libàmi come all’altare. Gli canteremo in coro una ode misurata al respiro del mare. Non c’è dubbio (osserva Joachim Fest) che se Hitler ne avesse avuto il tempo si sarebbe organizzato qualcosa del genere. Ma anche questo rogo incarna bene i suoi istinti nichilistici, e lo avvicina al suo modello epico, Federico il 253

Grande, che aveva espresso il desiderio – degno davvero del testamento del Marchese de Sade – di essere sepolto accanto ai suoi cani nel parco di Sans-Souci. Ma i due finali di partita si richiamano a vicenda. Da una parte, c’è Hitler che fantastica nel Bunker immani controffensive, si illude di avere attirato in una trappola mortale l’Armata Rossa che ha sfondato il fronte arrivando a Berlino, pensa di essere alla vigilia di una grandiosa replica della battaglia di Canne, con il Primo Fronte Bielorusso di Žukov nella parte delle legioni romane e, in quella dei cartaginesi, come mascelle di una improbabile tenaglia, la Dodicesima Armata di Wenk e la Nona Armata di Busse. Ma le cose andranno diversamente, Wenk aggira Berlino (dirà ai suoi: «Non si tratta più di Berlino, non si tratta più del Reich») e riesce a consegnarsi agli americani al di là dell’Elba, mentre a difendere il Bunker ci penserà, come ho detto, il poco che era rimasto della Divisione Charlemagne, un gruppo di aristocratici e di sottoproletari francesi che a Berlino era convinto di salvare l’Occidente: «Le squadre ‘cacciacarri’ francesi avevano avuto un ruolo particolarmente efficace nella difesa: distrussero circa metà dei 108 carri messi fuori uso nell’intero settore. Il loro comandante di battaglione, Henri Fenet, citò un ragazzo di diciassette anni di Saint Nazaire, di nome Roger, che combatteva da solo con i suoi panzerfaust ‘come un soldato con il suo fucile’. Il sergente Eugène Vaulot, un idraulico di vent’anni soprannominato ‘Gégène’, era l’asso dei cacciatori, con otto carri a suo credito». Dall’altra – e senza che nessuno lo difendesse – c’è Nietzsche che scrive al Kaiser, organizza una grande politica, fantastica di trionfi che, fin tanto che lui sarà in 254

grado di intendere e di volere, non verranno. A un certo punto, i due crolli finiscono per essere uno solo. Come suggerivo nella sceneggiatura sugli Spettri di Hitler, sovrapponiamo mentalmente l’immagine di Bruno Ganz che passa in rassegna i ragazzi della Hitlerjugend in La caduta e quelle di Nietzsche a Weimar. Come colonna sonora, niente Wagner e niente Bizet, ma l’adagio della Settima sinfonia di Bruckner, nella esecuzione di Furtwängler del 1942, quella che la radio tedesca trasmise il 1° maggio del 1945 dopo che Alfred Dönitz aveva dato l’annuncio del suicidio di Hitler.

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BERLINO, 18 FEBBRAIO 1943. «VI CHIEDO, VOLETE LA GUERRA TOTALE?» «Vi chiedo, volete la guerra totale?» è dunque la domanda che, come profetizzando tutto il seguito, Goebbels rivolse alla folla del Palazzo dello Sport di Berlino il 18 febbraio 1943, poche settimane dopo Stalingrado. «Se necessario, volete una guerra più totale e radicale di quanto mai oggi possiamo neppure immaginare?» Gli astanti risposero: «Sì». Meno di un mese prima, il 23 gennaio, Goebbels annotava nel suo diario, riportando una conversazione svoltasi nel Quartier Generale di Rastenburg, che per Hitler Nietzsche era «il filosofo che si avvicina di più al nostro sistema di pensiero e ai nostri sentimenti». L’analogia non è nella vittoria, ma nella disfatta, nella volontà di potenza che diventa volontà di nulla, d’accordo con il motto di Beckett: «Fallisci ancora. Fallisci meglio».

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DRESDA, 13 E 14 FEBBRAIO 1945. MATTATOIO N. 5 «Io ci tornai veramente a Dresda, con i soldi della Fondazione Guggenheim (dio la benedica), nel 1967. Somigliava molto a Dayton, nell’Ohio, ma c’erano più aree deserte che a Dayton. Nel terreno dovevano esserci tonnellate di ossa umane.» Nella notte tra il 13 e il 14 febbraio uno dei più grandi bombardamenti della storia distrugge Dresda. Tra gli scampati c’è Kurt Vonnegut, fatto prigioniero durante il contrattacco delle Ardenne, che racconterà la storia in Mattatoio n. 5. Per vendicarsi del bombardamento terroristico (la città non era obiettivo militare ed era piena di profughi dalla Slesia) Hitler pensò per un momento di non rispettare la convenzione di Ginevra nemmeno con i prigionieri occidentali e di ucciderli. Questo ordine avrebbe messo fuori legge l’intera dirigenza tedesca, e l’avrebbe legata sino alla fine – come in effetti avvenne, comunque – al suo Führer. Si stava realizzando la previsione di Goebbels: «Un qualsiasi compromesso è fuori discussione. Perché, se sopravvenisse il disastro, noi saremmo non soltanto battuti, ma sterminati sino all’ultimo» (Diario, 21 marzo 1943).

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BERLINO, 19 MARZO 1945. NERO BEFEHL Lontani anni luce per carisma e per cultura, Hitler e Nietzsche avevano in comune l’aspirazione a uno scontro totale, senza riserve, il cui esito fosse o la vittoria, o una sconfitta da cui non ci si può risollevare. C’è un passo in cui Konrad Lorenz descrive il modo in cui una leonessa in gabbia passa dal maternage del cucciolo malato alla conclusione che non potrà guarire, e smette di leccarlo, o meglio lo lecca in un modo diverso e poi lo sbrana. Così deve essere successo, dal ’43 in avanti, culminando con il cosiddetto «decreto Nerone» del 19 marzo 1945. «La battaglia per l’esistenza del nostro popolo ci costringe ad adottare anche all’interno del territorio del Reich tutti i mezzi atti a indebolire la capacità combattiva del nemico e a impedirne l’ulteriore avanzata. Devono essere sfruttate tutte le possibilità, dirette o indirette, di recare danni, quanto più possibile duraturi, alla potenza bellica del nemico. È un errore credere che al momento della riconquista potremo rimettere in funzione a nostro vantaggio le attrezzature – non distrutte o soltanto per breve tempo paralizzate – dell’industria, dei servizi informativi, del traffico e dei rifornimenti. Nella sua ritirata il nemico ci lascerà soltanto terra bruciata e non avrà alcun riguardo per la popolazione.» È – con esattezza micrologica – la trasvalutazione di tutti i valori a cui Hitler arriva negli ultimi giorni di guerra. Se vincono i russi, sono migliori. E i tedeschi meritano di tramontare. «Mentre all’inizio, con quella sua teoria della subumanità dello slavo, Hitler aveva considerato la campagna di Russia come un gioco da bambini, ora, a mano a mano che la guerra si protraeva, i russi si imponevano 258

sempre più al suo rispetto. Lo colpiva la forza d’animo con la quale avevano accettato le sconfitte. Parlava di Stalin con molta stima, mettendo in risalto certi parallelismi delle rispettive situazioni.» Così, il 4 agosto 1944, ai Gauleiter e a Speer: «Se il popolo tedesco soccomberà in questa lotta, vorrà dire che è stato troppo debole, che non ha saputo superare la prova della storia, che era destinato a spegnersi». Metà marzo 1945, a Speer: «Se la guerra sarà perduta, anche il popolo sarà perduto. Non è assolutamente necessario preoccuparsi di salvare quanto occorre perché il popolo tedesco sopravviva. Al contrario! È molto meglio che siamo noi stessi a distruggere tutto, anche questo minimo. Il nostro popolo ha dimostrato di essere il più debole. L’avvenire appartiene esclusivamente al popolo dell’Est, che è il più forte. Del resto, quelli che sopravvivranno a questa lotta non saranno che gli infimi, perché i migliori sono caduti!»

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KIRCHHORST, 11 APRILE 1945. «NON È PIÙ POSSIBILE RIAVERSI DA UNA TALE SCONFITTA» L’11 aprile 1945, a Kirchhorst, nella sua casa di campagna vicino a Hannover distrutta, Jünger vede sfilare i carri armati inglesi: «Ininterrotta, lenta, pure inarrestabile, scorre questa immensa fiumana di uomini e di acciaio. Le masse di sostanza esplosiva, che una tale colonna solleva, la avvolgono con una spaventosa radiazione. E, di nuovo, come già nel 1940 durante l’avanzata verso Soissons, sento il prorompere di una poderosa potenza in una regione completamente disfatta. […] Non è più possibile riaversi da una tale sconfitta, così come una volta, dopo Jena o Sedan. Rappresenta una svolta nella vita dei popoli; e non soltanto infiniti uomini, ma anche molte cose che facevano intimamente parte di noi devono morire in questa transizione. Si può vedere l’inevitabile, capirlo, volerlo, persino amarlo; e tuttavia essere tormentati da un tremendo dolore».

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SAN PIETROBURGO, PRIMAVERA 1813. «SONO IO» «In cinque mesi o, per meglio dire, in tre, abbiamo visto sparire mezzo milione di uomini, 1500 pezzi d’artiglieria, 6000 ufficiali, tutti i bagagli, tutti gli equipaggi, tesori immensi, tutto ciò che i francesi portavano via e tutto ciò che avevano portato con sé. Mi è stato citato un reggimento di cosacchi di circa 500 uomini, nel quale ogni soldato ha avuto, per la sua parte, 84 ducati. Si sono vendute delle carrozze per 50 rubli e orologi Bréguet per 25. Ma le sofferenze degli uomini hanno superato ogni immaginazione e non lasciano spazio che alla pietà, anche nei riguardi del più feroce nemico. Gli uomini più irreligiosi sono colpiti da questa spaventosa catastrofe, seguita a una guerra che si è compiaciuta di fare dei sacrifici più rivoltanti un capitolo della sua tattica; e quanto a me, credo che mai dio abbia detto agli uomini con voce più alta e più chiara: SONO IO.» Joseph de Maistre, nella relazione al re di Sardegna sulla sconfitta della Grande Armée – che sospetto sia una delle fonti storiche di Guerra e pace – sente la voce di dio nella catastrofe, riconoscendo l’azione del «governo temporale della Provvidenza», come suona il sottotitolo delle Serate di San Pietroburgo. Si tratta di una peculiare teodicea, ma difficilmente qualcuno oserebbe, oggi, trarre una giustificazione di dio, o addirittura una prova della sua esistenza, dalla sconfitta di Hitler, dai bombardamenti di Dresda, dalla fila interminabile di carri armati inglesi che sfilano sotto gli occhi di Jünger. Tra il mondo di de Maistre o di Donoso Cortés e il nostro si è interposta una frattura irrecuperabile, e probabilmente Nietzsche è stato uno dei primi a capirlo, o probabilmente a sentirlo e a viverlo. La 261

catastrofe vale come catastrofe, il dolore non prova niente e non serve a niente, e la teodicea, se si presenta, è casomai capovolta, e sembra promettere al male una salvezza in extremis.

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WARM SPRINGS, GEORGIA, 12 APRILE 1945. «WUNDER DES HAUSES BRANDENBURG» Il 12 aprile era morto Roosevelt, e Hitler sperò che si ripetesse «il miracolo della casa di Brandeburgo» (come ricordò Göring telefonando entusiasta a Hitler). Per Hitler, come sappiamo, l’identificazione con il re di Prussia e il parallelo tra la Guerra dei Sette Anni e quell’altra guerra dei sette anni che fu la Seconda guerra mondiale divenne una ossessione e una speranza. Nel piccolo studio nel Bunker aveva un ritratto di Federico il Grande, le cui imprese attraevano la sua immaginazione pittorica («So malerisch», disse Adolph Menzel del re di Prussia) e, come sappiamo, leggeva e rileggeva ossessivamente la Storia di Federico il Grande. Avrebbe potuto leggere anche, se l’ideologia glielo avesse consentito, Federico e la grande coalizione di Thomas Mann, con il finale del re ridotto a un bambino sdentato e fragile dopo una guerra vinta, ma che lo aveva distrutto: «Quando si spense all’età di settantaquattro anni, dopo tormentosa e disgustosa malattia, ‘tutto fu silenzio’ come qualcuno disse ‘ma nessuno fu triste’. Nei suoi cassetti non si trovò neppure una camicia sana e pulita, e un servo perciò ne diede una delle sue, con la quale si vestì la salma. Era piccola come il corpo di un bambino». La sera del 12 aprile l’Orchestra Filarmonica di Berlino tenne il suo ultimo concerto. Speer, che l’aveva organizzato, aveva invitato il grande ammiraglio Dönitz e anche l’aiutante di Hitler, colonnello von Below. La sala era stata illuminata in modo adeguato nonostante le interruzioni della fornitura di energia elettrica. «Il concerto ci riportò in un altro mondo», scrisse von Below. «Il programma comprendeva il Concerto per violino di Beethoven, l’Ottava Sinfonia di 263

Bruckner – Speer affermò in seguito che questo era il suo segnale di avvertimento ai professori d’orchestra di allontanarsi da Berlino subito dopo il concerto, per evitare di essere arruolati nella Volksstrum – e il finale del Crepuscolo degli Dei di Wagner. Anche se Wagner non riportò il pubblico alla realtà del presente, quel momento di evasione non durò a lungo. Si dice che dopo il concerto il partito nazista abbia organizzato gruppi di iscritti alla Hitlerjugend che si presentarono al pubblico in uscita, con cestelli di capsule di cianuro che offrirono agli spettatori.» Nietzsche, invece, quando Overbeck lo caricò sul treno per Basilea pare che intonasse una canzone napoletana (Piscatore ’e Pusilleco, suggeriscono alcuni, anacronisticamente, giacché la canzone è del 1925). Fra la catastrofe di Nietzsche a Torino e la catastrofe di Hitler a Berlino c’è la stessa differenza che passa fra Piscatore ’e Pusilleco e la morte di Sigfrido nel Nibelungenlied – ed è una differenza che non va necessariamente a vantaggio di Sigfrido. Scrive Fest: «Con l’approssimarsi della fine, anche le tendenze mitologizzanti andarono assumendo sempre più chiara evidenza. La Germania, assalita da tutte le parti, venne stilizzata a epitome dell’eroe solitario, e la propensione, profondamente radicata nella coscienza tedesca, al disprezzo idealizzato per la vita, al romanticismo del campo di battaglia e alla trasfigurazione della morte violenta, venne una volta ancora mobilitata […]. Vi confluivano, abbaglianti e operistici insieme, motivi wagneriani, nichilismo germanico e romanticherie decadentistiche: ‘Soltanto una cosa ancora voglio: la fine, la fine!’ Non fu certo per caso che Martin Bormann, nell’ultima lettera di lui rimastaci e spedita dalla Cancelleria 264

del Reich ai primi d’aprile del 1945, ricordasse a sua moglie la fine dei Nibelunghi nella grande sala di Attila, e tutto sta a comprovare come il solerte segretario avesse ripreso anche quest’idea dal suo padrone».

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SEELOW, 16 APRILE. «NON È FREDDO, SIGNOR TENENTE, QUESTA È PAURA» Ha scritto Speer: «Con l’offensiva delle Ardenne, il sipario era calato sulla guerra. Ciò che avvenne dopo non fu che la progressiva occupazione del nostro paese, resa più lunga da una resistenza confusa e impotente». I russi sono concentrati sulla linea Oder-Neisse, quella su cui i tedeschi hanno ripiegato dopo lo sfondamento del fronte della Vistola, la caduta di Varsavia, l’invasione della Prussia Orientale, della Pomerania e della Slesia. Anche qui, Hitler aveva voluto strafare. Contrattaccando nel dicembre a ovest, nelle Ardenne, aveva sguarnito il fronte orientale per una operazione fallimentare. Rifiutandosi di ritirare trenta divisioni rimaste intrappolate in Curlandia aveva perso un’altra buona occasione per rafforzare il fronte orientale. Ordinando un contrattacco in Ungheria, quando si trattava di difendere la Germania, aveva confermato le sue doti di cattivo stratega che si lasciava guidare dalle ossessioni, nella fattispecie il desiderio di chi era nato suddito dell’AustriaUngheria di salvare una testa della Monarchia bicipite. E quando gli fecero presente che il rapporto tra tedeschi e russi sul fronte Est era di uno a quattro, rispose che si trattava della più grande fandonia dai tempi di Gengis Kahn. A metà marzo, Hitler aveva fatto la sua ultima visita al fronte, era un uomo malato e finito, molti testimoni sottolineano la mano che trema, dopo l’attentato del luglio precedente, la vecchiaia anticipata, l’alito spaventoso anche per l’abuso di farmaci, le parole che si impastano. Ritiratasi dal Don, poi dalla Vistola, dopo aver percorso all’indietro quattromila chilometri, la Wehrmacht ha ormai l’Armata Rossa in casa, sull’Oder, a ottanta chilometri da Berlino. Anche se i cinegiornali hanno smesso di indicare 266

con chiarezza la linea del fronte e mostrano signore con cappello e mantello che imparano a usare il Panzerfaust, si sa che la spallata finale è imminente. Il tenente Wust, sulle alture di Seelow che sovrastano l’Oder, aspetta. Trema. Chiede a un sottufficiale che gli sta vicino: «Mi dica, ha tanto freddo anche lei?» «Non è freddo, signor tenente, questa è paura.» Alle tre ora di Berlino, cinque ora di Mosca, inizia il cannoneggiamento. Il rumore è tale che molti restano completamente assordati. Oltre mezzo secolo dopo, se si scava, si trovano ancora dei corpi, come nei mattatoi della Prima guerra mondiale. E anche in questa azione conclusiva i russi persero il triplo dei tedeschi. Alle quattro del mattino, Burgdorf, aiutante capo, sveglia Hitler: «Mio Führer! È giunta or ora una telefonata di Krebs. Alle quattro del mattino è cominciata l’offensiva dei russi sull’Oder». Hitler detta l’ultimo proclama: «Ordine del Führer! Ai soldati del fronte orientale! L’ultimo assalto dell’Asia fallirà». «Domani nella battaglia pensa a me, e cada la tua spada senza filo.» L’idea di una fuga per la salvezza, per Hitler e per Nietzsche, non c’è stata. Loro non potevano fuggire perché l’idea di totalità, di guerra totale, di confronto totale, non contempla nulla di simile. Hitler, Gitler come lo chiamavano i russi, non voleva finire esposto in uno zoo, come Emiliano Pugaciòf. Nietzsche non aveva dove fuggire.

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PRINCETON, 1938. FRATELLO HITLER Nel 1938, Thomas Mann scrisse un articolo su Hitler memorabile sin dal titolo, «Bruder Hitler», «Fratello Hitler». Nel Grande Dittatore tedesco Mann non vedeva un genio del male, bensì il fannullone austriaco che, per un seguito fortuito e funesto di circostanze, avrebbe finito per incarnare le aspirazioni di una nazione e poi di un bel pezzo di Europa. «C’è tutto, in un certo modo mortificante: la ‘difficoltà’, la pigrizia, la pietosa incertezza dell’infanzia, il ‘non-essere-mai-a-posto’, il ‘ma-che-cosa-vuoi-insomma?’, il vegetare semimbecille nella più profonda bohème sociale e spirituale, il rifiuto, in fondo altero, in fondo presuntuoso, di ogni attività onorata e ragionevole, e in base a che? in base al nebuloso presagio di essere preservato a qualcosa di molto vago che, se chiamato per nome e se chiamabile fosse, farebbe scoppiar dal ridere la gente.» Quello che appare straordinario, in questo ritratto in piedi, non è solo la piena aderenza al profilo hitleriano, che risulta del tutto conforme a una psiche ricostruita nel monumentale Hitler di Kershaw, ma anche la sua trasponibilità a Nietzsche. Anche qui, c’è la presenza dell’elemento artistico, il tentativo autoterapeutico di raddrizzare il mondo quando si è mal messi di per sé, e l’inseguimento di qualcosa «di molto vago che, se chiamato per nome e se chiamabile fosse, farebbe scoppiar dal ridere la gente». Due uomini che hanno giocato tutto su un solo tavolo, e che su quel tavolo hanno perso tutto. Ma Nietzsche ha perso tutto se stesso, Hitler invece ha gettato nella rovina la Germania e il mondo. Ecco la incomparabile differenza di responsabilità. Scrive Primo Levi: «Il verbo di Nietzsche mi ripugna profondamente; stento a trovarvi un’affermazione 268

che non coincida con il contrario di quanto mi piace pensare; mi infastidisce il suo tono oracolare; ma mi pare che non vi compaia mai il desiderio della sofferenza altrui. L’indifferenza sì, quasi in ogni pagina, ma mai la Schadenfreude, la gioia per il danno del prossimo, né tanto meno la gioia del far deliberatamente soffrire. Il dolore del volgo, degli Ungestalten, degli informi, dei non-nati-nobili, è un prezzo da pagare per l’avvento del regno degli eletti; è un male minore, comunque sempre un male; non è desiderabile in sé. Ben diversi erano il verbo e la prassi hitleriani». Ciò che unisce queste esperienze così diverse – e queste responsabilità così sideralmente distanti – è l’orrore. L’orrore di ciò che hanno fatto i nostri antenati lontani e vicini, e assunti come modelli di civiltà (si consideri lo statuto delle donne e degli schiavi nella Grecia classica). L’orrore di civiltà che conosciamo appena. E ovviamente l’orrore che ha avuto luogo nel cuore della nostra civiltà, come appunto dimostrano i campi di sterminio. Alla cui origine non c’è la follia o la barbarie, ma la propensione a catalogare l’umano e il vivente secondo tassonomie e gerarchie, in un continuo slittamento di soglia tra uomo e animale. Non dimentichiamolo: il Kurtz di Conrad non è solo colui che orna la propria capanna di teschi umani, ma anzitutto colui che, su richiesta della «Associazione Internazionale per la Soppressione dei Costumi Selvaggi», scrive una relazione che «Iniziava asserendo che noi bianchi, per via del livello di sviluppo che abbiamo raggiunto, ‘dobbiamo per forza sembrare a loro [ai selvaggi] come esseri soprannaturali – li avviciniamo con il potere di una divinità’».

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BERLINO, 20 APRILE. «BLUTROTE ROSEN ERZÄHLEN DIR VOM GLÜCK» Ha scritto ancora Fest: «È una questione che da allora non ha smesso di presentarsi: se la fine fosse prevedibile o meno, e se, dietro lo charme delle antiche facciate prussiane degli storici palazzi allineati lungo la Wilhelmstrasse, non fosse già ravvisabile il paesaggio desertico della distruzione (insieme con i blocchi di cemento del Bunker del Führer)». Il 20 è il compleanno di Hitler, che diversamente da Nietzsche non è solo. Quel giorno si svolge la scena famosa, lui che passa in rassegna un gruppo di ragazzi della Hitlerjugend, alcuni dei quali decorati con la Croce di ferro per avere attaccato dei carri armati russi. Alla sera si festeggia, per l’ultima volta nella Cancelleria e non nel Bunker. Cibi e bevande sono disposti su un grande tavolo rotondo disegnato da Speer, il grammofono suona Blutrote Rosen erzählen dir vom Glück. Rose rosso sangue ti parlano di felicità. Nella Caduta, come si ricorderà, la festa è interrotta da uno degli ultimi bombardamenti a tappeto degli alleati. Scrive Eva Braun alla sua amica Herta Ostermayr: «Possiamo già sentire le cannonate dal fronte. Trascorro tutta la mia vita nel Bunker. Come puoi immaginare, siamo sempre pieni di sonno. Ma sono così felice, soprattutto in questo momento, di essere vicina a lui… Ieri ho telefonato a Gretl, forse per l’ultima volta. Da oggi in poi non c’è più alcuna possibilità di uscire. Ma io ho una fiducia incrollabile». Kaputt: «Rovinato, finito, morto. ETIMOLOGIA: voce ted., propr. ‘rotto’, dal franc. faire capot ‘fare cappotto’, cioè vincere senza che l’avversario faccia punto (v. cappottare)». Ha scritto Gibbon, riferendosi alla caduta di 270

Costantinopoli: «Nel descrivere la caduta e il saccheggio delle grandi città lo storico è condannato a ripetere sempre le medesime sventure: le stesse passioni non possono che produrre gli stessi effetti, e quando è possibile indulgere senza controllo a tali passioni, ben piccola, ahimè, è la differenza tra l’uomo civile e quello selvaggio».

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BERLINO, 9 MAGGIO. «AUCH DIE FRANZOSEN!» Alle 2 e 41 del 7 maggio, a Reims, nel quartier generale di Eisenhower, Alfred Jodl aveva firmato la resa della Germania in nome di Dönitz. Scontento del fatto che la resa non avesse avuto luogo in una zona controllata dai russi, Stalin chiede una replica a Berlino. La resa, datata 8 maggio, è firmata dai generali Keitel e Stumpf, e dall’ammiraglio von Friedeburg. Presenziano alla resa, per gli inglesi, il generale Tedder, per gli americani il generale Spaatz, per i russi il maresciallo Žukov. E c’è, in rappresentanza dei francesi, il generale de Lattre de Tassigny. Ma questo, per Keitel, che cinque anni prima aveva ricevuto la resa della Francia nel bosco di Compiègne, è davvero troppo: «Auch die Franzosen!» Chissà come l’avrebbe presa se gli avessero chiesto: «Lei ha letto i francesi?» Dopo la firma, Keitel si tolse il monocolo e fece per iniziare un discorso di circostanza, ma venne interrotto da Žukov che disse che la cerimonia era finita e che i russi potevano andarsene.

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Röcken, 1844-1900 Geologia della morale «È finita?!» disse la principessina Marija, quando il corpo disteso davanti a loro, immobile da qualche minuto, cominciò a raffreddarsi. Nataša si avvicinò, guardò gli occhi del morto e si affrettò a chiuderli. Li chiuse e anziché baciarli, si appoggiò con la fronte a quello che era il più prossimo ricordo di lui. «Dov’è andato? Dov’è adesso?…» La domanda della principessina di Guerra e pace si può ripetere anche per Nietzsche. Dove è andato? Dove è adesso? Nel 2004 sono andato a Naumburg. Non solo per vedere la casa di Nietzsche, ma anche per via della cattedrale, dove c’è la statua gotica raffigurante una bella margravia, Uta degli Askani di Ballenstedt, sicuramente vista chissà quante volte da Nietzsche. Per una stupefacente peripezia scoperta dal mio amico Stefano Poggi che la racconta in La vera storia della regina di Biancaneve, dalla selva turingia a Hollywood (2007), Uta era diventata il modello di Grimilde, la Regina Cattiva nel Biancaneve disneyano. Il cortocircuito tra Grimilde e Uta ha la potenza di una guerra tra mondi che, sia pure contigui nel tempo e non lontani nello spazio, ci sembrano incomunicanti. Topolino e Auschwitz, Pisolo e il Gotico… Si prova una vertigine molto simile a quando, alla Columbia University di New York, scopriamo che ci ha insegnato Lorenzo Da Ponte, cioè il librettista dionisiaco del Don Giovanni di Mozart; e la vertigine cresce quando scopriamo, leggendo le memorie di Da Ponte, che lasciata New York si spinse a Philadelphia, e commerciò con i pellerossa: Salisburgo tende la mano a Toro Seduto. Un po’ quella vertigine io l’ho provata da 273

bambino quando mio nonno mi raccontò di aver visto Buffalo Bill a Torino; credetti che fosse pazzo, ma era vero: era al circo, il Buffalo Bill’s Wild West, nei primi anni del secolo scorso. E sicuramente quella vertigine si ritrova in Proust, quando scopre che il Côté de Guermantes e il Côté de Méséglise, mete di passeggiate che da bambino credeva conducessero a due universi incomunicanti, erano invece molto vicini, e congiunti da un breve sentiero. È a Naumburg che Nietzsche strinse le prime amicizie, Wilhelm Pinder e Gustav Krug. È a Naumburg che si appassionò da bambino di cose militari e di teatro, poi di poesia, musica sacra, pittura – e poi ancora alla letteratura, alla geologia, all’astronomia e, almeno in nuce, alla filologia (mitologia e lingua tedesca). È a Naumburg che a undici anni entrò al ginnasio, incontrando inizialmente delle difficoltà col greco, risolte però al punto che nell’ottobre 1858, grazie a una borsa di studio, sarà ammesso a Pforta. È ancora a Naumburg che più tardi, arruolato nel locale reggimento di artiglieria, il futuro uomo-dinamite scrisse, nell’aprile 1868, l’abbozzo Sulla teleologia, ovvero sul concetto di organico da Kant in poi, in cui si annunciava il progetto di un esame disincantato del mondo, privo del segreto moralismo che, secondo Nietzsche, si nasconde nella idea che la vita e il mondo abbiano un fine e un senso. «Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case […] considerate se questo è un uomo», scriveva Primo Levi da Auschwitz; rispondeva Vittorio Sereni da Luino: «Voi che dal cuore delle città / parlate delle città senza cuore / pensate cosa può essere un uomo in un paese». Mentre giravo per la cittadina (non brutta, ma talmente angusta da spiegare ogni sorta di fuga e di mania), mi si è fatto chiaro il 274

significato di tutta questa storia, e perché la freccia del percorso corra imperiosamente a ritroso dalla catastrofe torinese alle origini in Turingia. Perché è qui, nella città della regina di Biancaneve, che ha inizio la storia di un uomo senza padre, con una madre e una sorella soffocanti, una educazione che più repressiva non avrebbe potuto essere, e che non ha fatto che esplodere e reagire, in una solitudine sempre più impressionante, a una vita insopportabile, sino al crollo. Un uomo che ha sbagliato tutto nella vita, e che – con una formidabile rimozione – ha rivelato una straordinaria inconsapevolezza circa le determinazioni storiche, sociali, familiari e personali che stanno alla base delle sue idee, decide di cambiare il mondo e, lo abbiamo visto e inteso a sazietà, di insegnare a vivere agli altri, si erige a psicologo, a moralista e persino a cosmologo. La cosa di per sé non ha niente di sorprendente, se non fosse che – diversamente da tanti altri – a Nietzsche è riuscito di farsi ascoltare, con la forza di uno stile sproporzionato e shakespeariano che ripete, a cent’anni di distanza, il miracolo delle Confessioni di Rousseau. Anche in quel libro troviamo un misantropo paranoico che, con l’eloquenza di uno stile idiosincratico, si presenta come il maggiore amico dell’umanità, e pretende di essere il solo ad avere dipinto un uomo per come è veramente, di là da tutte le maschere con cui il resto del genere umano si allevia l’esistenza. Troviamo il fiele gettato sull’umanità da parte di colui che si definisce, senza sospettare la minima contraddizione, come «il più socievole degli uomini»; il cieco bisogno d’amore di chi sostiene che l’affetto della madre è insostituibile e, senza apparenti conflitti di coscienza, mandò tutti i figli al brefotrofio; 275

l’ecumenica dichiarazione di filantropia di un maniaco di persecuzione. Il patetico disaccordo tra il dire e il fare offre il lato bello, poetico e commovente, di Nietzsche e di Rousseau: tra l’uomo privato e la sua trasfigurazione letteraria intercorre con esattezza il rapporto che passa tra Clark Kent e Superman. È questa dismisura che fornisce uno specchio in cui ognuno può riflettere qualcosa che lo tormenta, in sé e fuori di sé.

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PFORTA, 14 AGOSTO 1859. «IN ESTATE, LA DOMENICA LA SI TRASCORRE COSÌ» Leggiamo nell’incipit della seconda dissertazione della Genealogia della morale: «Allevare un animale, cui sia consentito far delle promesse – non è forse precisamente questo il compito paradossale impostosi dalla natura per quanto riguarda l’uomo?» Per Nietzsche l’allevamento ha luogo a Pforta, dove trascorre l’adolescenza e la prima giovinezza, dal 1858 al 1864. Qui stringe le prime amicizie durature, Paul Deussen e Carl von Gersdorff. Qui ha luogo, nel 1862, il primo incontro con la musica di Wagner, attraverso una partitura per pianoforte del Tristano e Isotta. Qui nasce, alla fine degli studi, la decisione di darsi alla filologia invece che alla musica. Nietzsche si congeda da Pforta con uno scritto su Teognide, difensore della nobiltà dorica contro la democrazia, in cui – come si è detto – troviamo l’origine del superuomo. Ma ciò che di Pforta impressiona di più, nei diari di quello che è poco più di un bambino, è il grado di sofferenza, la tristezza che resta attaccata ai muri di un universo repressivo non diverso dall’accademia militare di Mährisch Weißkirchen, frequentata da Rilke e da Musil, che ci ambientò I turbamenti del giovane Törless e la definì «l’ano del diavolo» e «l’ABC dell’orrore». Ma Zarathustra adolescente dà l’impressione di un peso liberamente assunto e vissuto come normale. Il 14 agosto del 1859, ventidue anni prima della visione dell’Eterno Ritorno a Silvaplana, scrive questa cronaca: «In estate, la domenica la si trascorre così: sveglia al mattino alle sei, e alle sette meno un quarto c’è la preghiera. Poi ricreazione in giardino fino alle otto. Dopo c’è ripetizione, fino a quando suonano 277

le campane della messa. Allora ci si mette in fila nel chiostro e si va in chiesa […]. Poi di nuovo ricreazione in giardino, e lo stesso dopo il pranzo, che consiste di minestra, fricassea, arrosto e insalata, fino all’ora della siesta che inizia all’una e mezzo. Poi fino alle tre bisogna di nuovo studiare, fino alle quattro si può stare in giardino, ma subito dopo la merenda inizia l’agognata passeggiata, che dura fino alle sei. Fino alle sette ancora un’ora di lavoro. Poi il giorno si conclude come al solito con la cena, la ricreazione in giardino e la preghiera». Sono cose che gelano il cuore. «Assurdamente presto, a sette anni, io sapevo già che una parola umana non mi avrebbe mai raggiunto.» «Poi c’è il silenzio terrificante che si sente intorno a sé. La solitudine ha sette pelli; non passa più nulla. Si avvicinano uomini, si salutano amici: nuovo deserto, nessuno sguardo saluta più.» Non sorprende che da un certo momento in avanti, anzi, probabilmente sin dall’inizio, la vita di Nietzsche sia stata una corsa verso la notorietà. Mi rendo conto che si pecca di compensazione, che il gioco è troppo facile, ma come non sperare nell’Anticristo, in Dioniso e in Zarathustra, dopo estati del genere? Le povere e miserabili vacanze, i giri dagli zii preti, il bagno nel lago a Ferragosto.

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NAUMBURG, 1863. «COME PIANTA IO NACQUI » Ed ecco un frammento autobiografico del 1863, forse una delle cose più belle che Nietzsche abbia mai scritto: «Come si può delineare la vita e il carattere di un uomo che si è conosciuto? Grosso modo così come si abbozza il disegno di una contrada che abbiamo veduto una volta. Dobbiamo richiamarci alla mente le caratteristiche fisiognomiche: la natura e la forma dei monti, l’ambiente vegetale e animale, l’azzurro del cielo: tutte cose che nel loro complesso determinano la nostra impressione. Ma proprio ciò che salta agli occhi per primo, le masse montuose, le forme delle rocce, i tipi di pietra, non danno di per sé a una contrada la sua fisionomia caratteristica: in diverse zone terrestri, come attirandosi e respingendosi gruppo a gruppo, appaiono secondo identiche leggi identici tipi di monti, le stesse formazioni della natura inorganica. Soprattutto nel regno vegetale i più minuti segni distintivi si offrono alle osservazioni naturalistiche comparate. Qualcosa di analogo accade a chi voglia passare in rassegna e valutare giustamente la vita d’un uomo. Non dobbiamo farci guidare dagli eventi casuali, dai doni della sorte, dalle mutevoli vicende esteriori, che risultano dall’incrociarsi delle circostanze esterne, anche se, come le vette dei monti, sono le prime che saltano agli occhi. Invece proprio quelle minute esperienze, quei fatti interiori che si crede di dover trascurare, mostrano nel loro complesso il carattere individuale con la massima chiarezza, discendono organicamente dalla natura dell’uomo, mentre le prime appaiono a lui legate da un semplice rapporto inorganico. «Dopo questa premessa sembrerebbe che io volessi PRESSO IL CAMPOSANTO, COME UOMO IN UNA CANONICA

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scrivere un libro sulla mia vita. Questo mai. Ma voglio indicare in qual modo vorrei che si intendessero i lineamenti biografici che seguono. Vale a dire: nello stesso modo in cui un ingegnoso naturalista nelle sue raccolte di piante e di pietre ordinate secondo le zone terrestri riconosce la storia e il carattere di ciascuna, laddove l’ignaro fanciullo vede soltanto pietre e piante fatte per giocare e baloccarsi, e l’utilitarista le guarda con disprezzo, come cose prive di utilità e inservibili per il nutrimento e il vestire… Da qui deriva il mio tono saccente? Forse, ma non voglio giustificarlo con questo motivo. Ma una premessa a una biografia che cos’altro può fare, se non ammaestrare, dal momento che non lo fa la vita stessa? E i brevi dati biografici che seguono non sanno né ammaestrare né divertire; sono pietre lisce; nella realtà queste pietre hanno una graziosa copertura di muschio e di terra.» In fondo, Nietzsche non ha mai giocato la carta della trasfigurazione snob, come fa Proust che trasforma la minuscola casa di Illiers nella Combray dove veniva ricevuto Swann. Non ha nemmeno giocato la carta dell’ascesa sociale salottiera, come in fondo gli sarebbe stato possibile, tra Wagner e la Meysenbug a Roma. No, lui ha nutrito sempre quelle aspettative un po’ folli, essere riconosciuto per le sue opere, immortale come il fondatore di una religione, fino alla apoteosi tragica. Così alla fine la posta è ancora più grande, e se Proust trasfigura il padre trasformandolo da medico in diplomatico, Nietzsche compie una metamorfosi ancora più grandiosa, di auto ed eterodivinizzazione. Rispetto ai sogni romantici di una nuova mitologia, Nietzsche avanza una candidatura in prima persona.

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TORINO, 1888. «COME MIO PADRE SONO GIÀ MORTO, COME MIA MADRE VIVO ANCORA E INVECCHIO» «Naumburg, Pforta, la Turingia in genere, Lipsia, Basilea – sono altrettanti luoghi sgraziati per la mia fisiologia.» Sono i luoghi dell’origine, il perimetro in cui Nietzsche si è mosso per i primi vent’anni di vita, e sono i luoghi a cui torna con esecrazione nel monologo finale di Ecce homo. Come un anello, l’inizio si attacca alla fine, e questo è appunto lo strano miracolo di questo capolavoro di automistificazione e di sincerità, un contributo alla critica di se stesso in cui non esita a mettersi sopra a Dante, a Shakespeare e a Goethe, e insieme a proclamarsi l’uomo più mite e silenzioso della terra. Davvero, al più silenzioso degli uomini è toccato di urlare. E sono convinto che non fosse una posa, che insomma lo fosse davvero, il più silenzioso degli uomini. Così come sono convinto che la sincerità con cui si racconta e di cui non c’è ragione di dubitare sia la cosa più premeditata che ci sia. Riapriamo Ecce homo, avvalendoci anche di qualche altro schizzo biografico e materiale nosografico, aggirandoci per quella provincia della Turingia in cui il grande viaggiatore, l’uomo dalle suole di vento, ha tratto la sua propensione alla fuga. Nietzsche ha quarantaquattro anni, solo un anno in più dell’età in cui Thomas Buddenbrook, cui le cose andavano infinitamente meglio che a lui, si considerava un uomo finito. La sua è una sindrome maniaco-depressiva, con forti tratti di atavismo. «La fatalità della mia esistenza ne ha fatto la felicità, le ha dato, forse, il suo carattere unico: io, parlando per enigmi, come mio padre sono già morto, come mia madre vivo ancora e invecchio. Questa doppia discendenza, come dire dal più alto e dal più basso 281

germoglio sulla scala della vita, décadent e inizio al tempo stesso – questo solo, se mai, può spiegare quella neutralità, quella libertà da qualunque partito di fronte al problema generale della vita, che forse mi contraddistingue. Mai nessuno ha avuto un fiuto più fine del mio per i segni dell’ascesa e della caduta, io sono il maestro par excellence di tutto questo – conosco l’una e l’altra cosa, sono l’una e l’altra cosa.» Scrive anche «io sono il mio doppio» (ma già in una strana fantasia del 1862 si poteva leggere: «Mi conosco a fondo, mi manca solo di trovare la testa del mio sosia, per sezionarne il cervello o la mia stessa testa di fanciullo dai riccioli d’oro»). Tra la vita più o meno vigile e il manicomio, sulla soglia, c’è appunto Ecce homo. L’analisi di Nietzsche sulla duplice ascendenza anticipa quella stilata un mese più tardi, nel manicomio di Basilea: «Il padre morì a trentacinque anni e mezzo di encefalomalacia. Madre vivente, sana. Il padre era pastore di campagna, si ammalò al cervello cadendo da una scala. La madre dà un’impressione di limitatezza». Stesso referto nel manicomio di Jena: «Padre morto di encefalomalacia – sorelle del padre in parte rachitiche, molto dotate. La madre viva, poco dotata». L’encefalomalacia è una degenerazione del cervello in seguito a un trauma, un tempo la si chiamava anche «rammollimento cerebrale» – così lo designa ancora Deleuze negli anni Sessanta –: le cellule degenerano, come se marcissero, poi si formano delle cisti (l’autopsia rivelerà la necrosi di un quarto del cervello). «Io sono proprio mio padre e, in certo modo, la sua sopravvivenza dopo una morte prematura.» L’identificazione con il padre morto è una melodia ossessiva 282

che attraversa Ecce homo. «Mio padre morì a trentasei anni: era dolce, amabile e morboso, come un essere fatto per passare oltre – un ricordo benevolo della vita, più che la vita stessa. Nell’anno stesso in cui era declinata la sua vita, declinò anche la mia: nel trentaseiesimo anno la mia vitalità scese al suo punto più basso – vivevo ancora, eppure non riuscivo a vedere tre passi avanti. Allora – si era nel 1879 – mi dimisi dalla cattedra di Basilea, passai l’estate a St. Moritz, sopravvivendo come un’ombra, e l’inverno seguente, il più povero di sole della mia vita, a Naumburg: ero diventato ombra.» Più avanti, parlando di Umano, troppo umano: «A questo punto mi venne in aiuto, e proprio al momento giusto, in un modo che non potrò mai ammirare abbastanza, quella brutta eredità paterna – in fondo la predisposizione a una morte precoce».

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RÖCKEN, 1844-1850. «IL PRIMO AVVENIMENTO CHE COLPÌ LA MIA COSCIENZA GRADUALMENTE RIDESTA FU LA MORTE DI MIO PADRE» Tutto si sedimenta in una sequenza che ha luogo a Röcken. Abbiamo, per così dire, un Röcken 1, una prima manche con una rapida successione di nascite (Fritz, 1844; Elisabeth, 1846; Ludwig Joseph, 1849) e di morti (il padre, 1849, e Ludwig Joseph, 1850). Così è già in un frammento autobiografico del 1863: «Il primo avvenimento che colpì la mia coscienza gradualmente ridesta fu la morte di mio padre. Le sue crescenti sofferenze, la cecità che sopravvenne, la sua figura emaciata, le lacrime di mia madre, l’aria preoccupata del medico, infine le frasi incaute dei contadini dovevano farmi presentire una sciagura imminente. E questa sciagura si abbatté su di noi. Mio padre morì. Non avevo ancora quattro anni». Nel 1857, a tredici anni, avrebbe spiegato così alla sorella (che lo racconta) la ragione dei loro buoni esiti scolastici: «Io penso sempre se non è il caro papà in cielo che ha il merito di mandarci dei buoni pensieri. Di recente zia Rosalie mi diede da leggere una lettera delle zie di Plauen, in cui c’era scritto: ‘Sui due bambini aleggia chiaramente la benedizione paterna, forse dio nella sua clemenza concede al nostro meraviglioso Ludwig nei confronti dei suoi figli orfani un influsso maggiore di quanto abbiano di solito i morti’». È il primo degli innumerevoli spettri di Nietzsche, superuomo obbediente e sottomesso, come ama raffigurarlo Elisabeth.

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TORINO, 1888. «RITROVO SEMPRE MIA MADRE E MIA SORELLA» La rivolta arriva, ma è come la fama: troppo tardi. In Ecce homo aggiunge all’ultimo momento nelle bozze un foglio che la sorella, per evidentissimi motivi, non pubblicherà mai: «Se cerco qual è la più profonda antitesi di me stesso, la incalcolabile volgarità degli istinti, ritrovo sempre mia madre e mia sorella, – credermi imparentato a una tale canaille sarebbe un bestemmiare la mia divinità. Il trattamento che io ho subito da parte di mia madre e di mia sorella, fino al momento presente, mi ispira un indicibile orrore: qui opera una perfetta macchina infernale, che conosce con infallibile sicurezza in quale momento mi si può ferire a sangue – nei miei momenti supremi… perché allora manca qualsiasi forza per difendersi contro i vermi velenosi… La contiguità fisiologica rende possibile una tale disharmonia praestabilita… Ma confesso che la più profonda obiezione contro l’‘Eterno Ritorno’, il mio pensiero propriamente abissale, è sempre mia madre e mia sorella». Loro sono le donne cattive, lui è il martire. «Qualcuno che, a quarantaquattro anni, può dire che non si è mai sforzato di avere onori, donne, denaro! – E non mi sarebbero mancati…» «Una russa affascinante non si ingannerà un solo momento sulle mie origini.» «Posso insinuare che io conosco le femmine? Fa parte della mia dote dionisiaca. E chissà? Forse sono io il primo psicologo dell’Eterno Femminino. Mi amano tutte.» Alla fine, racconta che nel 1876 se ne andò da Bayreuth piantando in asso tutti «nonostante una affascinante parigina cercasse di consolarmi». Sono evidentemente i sintomi di una fissazione di lungo periodo. Al suo amico Paul Deussen sembra che avesse 285

confidato, nel 1864, quanto gli era successo a Colonia, condotto in un postribolo: «Mi vidi improvvisamente attorniato da una mezza dozzina di apparizioni in lustrini e veli, che mi guardavano speranzose. Rimasi in piedi per un po’ senza parlare. Poi, seguendo il mio istinto, andai al pianoforte, unica creatura dotata d’anima in tutta la compagnia, e suonai alcuni accordi. Questi mi sciolsero dal torpore e me la svignai». È il tema che ritroviamo venticinque anni dopo, nel manicomio di Jena, 1° aprile 1889: «Imbrattato di escrementi. Chiedo una veste da camera per una salvezza radicale. Di notte sono state da me ventiquattro puttane» (e già nel manicomio di Basilea: «Afferma di essere un uomo famoso, chiede continuamente delle donne»). Negli stessi giorni Wilamowitz, pubblicando Che cos’è una tragedia attica? offre una replica tardiva alla Nascita della tragedia.

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JENA, 27 MARZO 1890. «DICE DI ESSERE A VOLTE IL DUCA DI CUMBERLAND, A VOLTE L’IMPERATORE, ECC.» Hegel stava concludendo la Fenomenologia dello spirito quando, il 13 ottobre 1806, avvistò Napoleone in ricognizione a Jena, il giorno prima della vittoria contro i prussiani, e scrisse parole diventate celebri: «L’imperatore – quest’anima del mondo – l’ho visto uscire a cavallo dalla città, in ricognizione; è davvero una sensazione singolare vedere un tale individuo che qui, concentrato in un punto, seduto su un cavallo, spazia sul mondo e lo domina». Poco dopo Hegel dovette abbandonare Jena per qualche mese, visto che la sua casa era stata requisita dai francesi, ma spiegò che si trattava di distinguere l’empirico dall’essenziale. L’essenziale era la vittoria dell’anima del mondo, l’empirico era il saccheggio. Con Nietzsche succede il contrario: la catastrofe, il saccheggio, la malora, sono l’essenziale, la cifra entro cui si legge l’esperienza di un’anima rovinata. E dopotutto almeno su questo Nietzsche la pensava come de Maistre: il nostro dio non è un «feste Burg», una rocca solida, ma, proprio al contrario, è il dio che punisce, distrugge, sacrifica. Come diceva Gadda? «Ed è proprio la volta, allora, che Thina gli molla la seconda briscola, il peremptorium, e tiene pronta la terza per subito dopo, cioè il fulmine stroncatore, scavezzacollo. Questo è il fulmine definitivo che ti lascia, al posto del delinquente, una chiazza nerastra per terra, arsiccia, da cui certe volte esala un breve odore di solfiti e ammoniaca: e nient’altro. Nient’altro, capite? Nient’altro, nient’altro se non un breve odore di solfiti e di ammoniaca, che un fiato di vento annichila nell’aria. Nient’altro.» Il 27 marzo 1889, Nietzsche è a Jena, in manicomio. Il 24 287

marzo 1890 lo lascia per abitare con la madre, sempre a Jena. Di lì a poco madre e figlio tornano a Naumburg, dove il figlio (ormai non è altro che un figlio) dichiara: «Mia moglie Cosima Wagner mi ha portato qui». Ma non era già così in Ecce homo? «Frau Cosima Wagner è di gran lunga la natura più nobile; e per dir tutto dirò che Richard Wagner è stato l’uomo a me di gran lunga più affine. […] La affinità con i propri genitori è minima: sarebbe segno estremo della volgarità essere affini ai propri genitori. Le nature superiori hanno la loro origine infinitamente più indietro, per arrivare a esse si è dovuto raccogliere, risparmiare, accumulare come per nessun altro. I grandi individui sono i più vecchi: non lo capisco, ma Giulio Cesare potrebbe essere mio padre – o anche Alessandro, questo Dioniso in carne ed ossa… Proprio mentre scrivo questo la posta mi porta una testa di Dioniso…» (sarà piuttosto Mussolini a regalare nel 1943 una testa di Dioniso Barbato all’Archivio Nietzsche). E subito dopo riattacca a parlare dei meriti dell’«incomparabile padre». 19 gennaio 1889, Jena. «Il malato va nel reparto con molti inchini di cortesia. Con passo maestoso, guardando il soffitto, entra nella sua stanza e ringrazia per la ‘grandiosa accoglienza’. Non sa dove si trova. A volte crede di essere a Naumburg, a volte a Torino.» 10 marzo 1889, Jena: «Molto affamato, riconosce sempre i medici, dice di essere a volte il duca di Cumberland, a volte l’imperatore, ecc.» Mentre si prepara il suo trionfo, Nietzsche è costretto ad allucinarlo.

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NAUMBURG, 1893. «NO, MADRE, DISSE, SONO STUPIDO» Il 16 dicembre Elisabeth torna dal Paraguay (dove il marito si era suicidato il 3 giugno 1889). Ripartirà il 2 giugno 1892. Al momento, la sorella non si occupa tanto dei diritti quanto del riparare la sciagura sudamericana; è vero però che il 13 aprile 1891 va da Naumann per discutere la questione dei diritti (stanno uscendo infatti delle ristampe di opere nietzschiane), e tra il 4 e 6 febbraio 1892 riceve Gast, grazie alla cui mediazione firma (il 9) un contratto con Naumann, che si impegna alla pubblicazione di tutte le opere, rilevando anche quelle che erano sotto contratto con Fritsch. Ma, per il momento, la gestione è principalmente in mano a Gast; Elisabeth prenderà le redini della situazione solo il 19 settembre 1893, quando, liquidate le pendenze paraguayane, esautora Gast e avvia un monopolio dell’Archivio che durerà sino alla morte, nel 1935. A Naumburg, nel 1893, la madre racconta a un visitatore questo dialogo con Nietzsche: «Madre mia, mi disse, sono stupido. No, figlio mio adorato, gli dico io, i tuoi libri adesso fanno sensazione. No, madre, disse, sono stupido». Ha scritto di questo periodo Paul Deussen: «Lo vidi per l’ultima volta il giorno del suo cinquantesimo compleanno, il 15 ottobre 1894. Arrivai la mattina presto perché dovevo ripartire poco dopo. La madre lo condusse da me, io gli feci gli auguri, gli annunciai che oggi compiva cinquant’anni e gli porsi un mazzo di fiori. Di tutto ciò non comprese nulla».

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NAUMBURG-WEIMAR, 1889-1900. «VIENI, DOLCE MORTE» Risale ai tempi di Naumburg un tentativo di suicidio, appunto come quello raccontato nel Doctor Faustus. Morire annegato, come in un naufragio. Ed è davvero una voglia di naufragio e di nulla, la stessa che troviamo in Hemingway, Di là dal fiume e tra gli alberi. Che cita la cantata di Bach, Komm, süßer Tod, «vieni dolce morte». La cantata di Bach recita proprio così: «Vieni, dolce morte, vieni riposo benedetto, vieni, portami alla pace, perché sono stanco del mondo, vieni! Ti aspetto, vieni presto e portami via, chiudimi gli occhi. Vieni riposo benedetto!» Perché, prosegue l’inno: «In cielo è meglio, là ogni piacere è più grande, per questo sono sempre pronto a dire addio». «O mondo, camera da tortura, stattene con i tuoi lamenti in questo mondo triste, a me piace il cielo, e la morte mi porta lassù.» Un posto blu, un firmamento stellato, dove stanno gli angeli. Un po’ è così, Nietzsche, quando rievoca il padre angelico, e quando più tardi penserà all’Eterno Ritorno. Ma c’è un altro lato, tutt’altro che angelico, proprio come la parte bassa della Trasfigurazione di Raffaello che, nella Nascita della tragedia, Nietzsche adopera per rappresentare il dionisiaco. Questo lato ctonio o francamente underground è la versione del gruppo tedesco Eisbrecher, «Rompighiaccio», nell’album Sünde (2008): Ho attaccato briga con dio e con il mondo e con me stesso i miei sensi sono lacerati la mia anima è condannata e così conto le ore fino a che finalmente arrivi la fine. 290

Vieni più vicino, più vicino, più vicino vieni, dolce morte! Porgimi la mano il mondo mi rende malato liberami! Vieni, dolce morte! È giunto il momento nessuna vita, nessun dolore portami da te! Il 20 luglio 1897 muore la madre, e l’Archivio, Nietzsche compreso, si trasferisce a Weimar, nella villa «zum Silberlick», che sarà ristrutturata da Henry van de Velde, molto attivo a Weimar dal 1902 al 1917. È qui che il 2 novembre 1933 Hitler, da poco cancelliere del Reich, verrà in visita, ricevendo in dono da Elisabeth un bastone appartenuto al fratello e uscendo tra due ali plaudenti di folla non prima che Elisabeth gli avesse letto, per certificare i sentimenti della famiglia, un messaggio che Bernhard Förster aveva indirizzato a suo tempo a Bismarck per protestare contro il dilagare dello spirito ebraico in Germania. Inquietante, certo. Così come è inquietante l’articolo di Bataille «Nietzsche e il nazionalsocialismo» del 1937, che come peggior insulto verso Elisabeth non riesce a trovare di meglio che chiamarla «Mme Elisabeth JudasFörster». La villa è su una collina, e Nietzsche ci vive proprio come nella canzone dei Beatles. «Day after day, alone on a hill, / the man with the foolish grin is keeping perfectly still…» Proprio come nello Zarathustra: «Si è fatta sera, scusatemi se si è fatta sera». È qui che veniva a lavorare Montinari, ed è qui che negli anni Sessanta Giorgio Colli veniva di tanto in tanto a trovarlo per l’edizione critica. Scendeva all’Hotel Elephant, seicentesco, ristrutturato anche quello da van de Velde: ovviamente adesso è di proprietà di una catena 291

internazionale, e lo era già quando, nell’agosto del 1994, ci ho dormito, sempre sulle tracce di Nietzsche, in una ex DDR che portava ancora tantissimi segni del passato. Così Daniel Halévy concludeva la sua vita di Nietzsche, proprio quella che Mussolini recensì sull’«Avanti!»: «L’intelligenza distrutta non poté essere salvata, ma l’anima inalterata restò dolce e soave, aperta alle pure impressioni». Nietzsche muore a Weimar, il 25 agosto del 1900, a cinquantasei anni.

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RÖCKEN, 28 AGOSTO 1900. I BENEFICII DELL’AMORE «Cosa curiosa: il Nietzsche che doveva enunciare il verbo dell’egoismo più esclusivo, doveva anche esperimentare per proprio conto tutti i beneficii dell’amore di una sorella, ma sventuratamente la sua mente non gli permise di apprezzarlo.» Così recita «L’Ora», il 26 agosto 1900, annunciando la morte di Nietzsche, esito ultimo di una lunga «malattia della mente e dello stomaco». Siamo quasi all’origine, che in apparenza è semplice, e si completa il viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio, risalendo un fiume che non è, per esempio, la Mosella di Ausonio o il Mekong di Apocalypse Now, ma il corso di vita di Nietzsche, dall’estuario torinese alla sorgente a Röcken, in Sassonia, dove è nato e dove, del tutto prevedibilmente, si trovano le origini, i totem e i tabù. In Teichstraße 8 c’è un brutto monumento. Da lì allo studio del mio commercialista, secondo un navigatore satellitare, ci sono 969 chilometri, e 9 ore e 6 minuti di viaggio in auto. Nietzsche impiegò quarantaquattro anni per arrivare a Torino, e poi altri undici per tornare da Torino a Röcken, dove fu sepolto il 28 agosto 1900. Più che i versi di Per la morte di un distruttore, sembrano adatti quelli di una delle ultime poesie di D’Annunzio, del 1936: Qui giacciono i miei cani gli inutili miei cani, stupidi ed impudichi, novi sempre et antichi, fedeli et infedeli all’Ozio lor signore, 293

non a me uom da nulla. Rosicchiano sotterra nel buio senza fine rodon gli ossi i lor ossi, non cessano di rodere i lor ossi vuotati di medulla et io potrei farne la fistola di Pan come di sette canne i’ potrei senza cera e senza lino farne il flauto di Pan se Pan è il tutto e se la morte è il tutto. Ogni uomo nella culla succia e sbava il suo dito ogni uomo seppellito è il cane del suo nulla. Il monumento funebre, bianco come non dovrebbero essere le statue secondo Nietzsche, riproduce una sua fotografia accanto alla madre successiva al crollo e al ricovero (proprio la fotografia in cui la madre viene talvolta scambiata con la sorella o addirittura con una improbabilissima moglie), né apparentemente si cura del fatto che Nietzsche considerasse madre e sorella le sole obiezioni all’Eterno Ritorno. Racconta un testimone che partecipò alla cerimonia funebre, l’architetto Fritz Schumacher, che più tardi progetterà un bizzarro mausoleo nietzschiano: «Presso la bara di Nietzsche si radunò un gruppo di circa venti 294

persone, che la sorella aveva convocato da tutto il mondo per un’ultima cerimonia. Nella piccola sala della biblioteca – la casa non era ancora stata ristrutturata da van de Velde – era collocata la bara aperta, ricoperta da un velo, tra fiori e corone. Non si poteva evitare di andargli molto vicini, e così, con un sentimento di venerazione e di pudore insieme, ci si veniva a trovare in intimo contatto con il morto. Poi lo storico della cultura Kurt Breysig, di Berlino, appoggiandosi alla finestra aperta, tenne un ‘discorso ufficiale’. Un ovvio sentimento imponeva, data la situazione sia esteriore che interiore, di concentrare in poche, solenni parole sentite lo stato d’animo di quel momento. Invece l’oratore estrasse dalla borsa un voluminoso manoscritto e iniziò a leggere. Poiché non gli riusciva bene, gli improvvisarono lì per lì un podio con il cestino da lavoro della signora Förster, e ora ci lesse senza misericordia una minuziosa analisi storicoculturale della figura di Nietzsche. Raramente ho vissuto momenti più atroci. Fin nella bara, quest’uomo fu perseguitato dall’erudizione sotto le spoglie di cultura, contro la quale aveva lottato coraggiosamente come pochi altri».

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Postilla L’imitazione dell’Anticristo In questo libro non c’è nulla di finto, e quindi il falso (che sicuramente ci sarà) è semplicemente errore. O casomai illazione indebita, generata dal paradosso teorizzato da Borges in Evaristo Carriego: che un uomo attribuisca a un altro uomo pensieri che a rigore appartennero soltanto a un terzo è una evidente assurdità, ma è al tempo stesso l’ingenuo presupposto di ogni biografia. Soprattutto, non c’è nulla che non sia particolare, individuale, come si conviene a un libro di storia. Rinuncio dunque ai pregi del mythos, a cui del resto decenza e coscienza mi hanno sempre dissuaso dall’aspirare: non parlo del necessario e dell’universale, bensì appunto dell’historia, cioè del contingente e del particolare. Dell’individuo, di un individuo, Nietzsche, che tuttavia ha pensato di porsi come universale e come necessario, e che sicuramente è riuscito a essere inevitabile e ossessionante come uno spettro, anzi, come i tantissimi spettri, benevoli e malevoli, che ha generato. Eppure, cosa diceva Aristotele nella Poetica? «La poesia è cosa più nobile e più filosofica della storia, perché la poesia tratta piuttosto dell’universale, mentre la storia del particolare.» Vale intanto la pena di osservare che la Poetica ha una origine polemica. L’idea stessa di dedicare all’arte una trattazione che non sia di censura (o che ben che vada si concentri sulle forme d’arte ammissibili nello stato ideale) segnala la differenza radicale dell’atteggiamento aristotelico rispetto a quello platonico. Anche qui all’origine c’è il rifiuto della teoria delle idee, che autorizzava Platone a sostenere che, essendo le cose sensibili copia delle idee, gli artisti che 296

imitano le cose sensibili sono a due gradi di distanza dalla realtà e producono delle imitazioni di imitazioni, dei simulacri senza valore. Ma per Aristotele a essere simulacri senza valore sono proprio le idee: mere finzioni intellettuali che non apportano alcun vantaggio alla conoscenza. Cosa che non si può dire dell’imitazione, che è una delle funzioni fondamentali dell’essere umano. È imitando gli adulti nel gioco che i bambini crescono, è imitando i maestri che gli allievi imparano, dunque non c’è nulla di più utile, di più umano e di meno ingannevole della imitazione. Che tuttavia è trattata da Aristotele in un modo considerevolmente diverso da Platone. Se quest’ultimo intende con «imitazione» qualcosa come il riflesso statico di una immagine che si raddoppia, Aristotele ha piuttosto in mente una serie di attività. Ora, per guidare queste attività è necessario che ci siano dei racconti, un po’ come quando, tuttora, subiamo nei comportamenti l’influenza dei libri, dei film, delle serie televisive. Queste produzioni, così come quelle a cui fa riferimento Aristotele, non sono ovviamente imitazioni delle idee ma, cosa ancora più importante, non sono neppure delle semplici copie della realtà. Perché la realtà ha la caratteristica di essere particolare e contingente, dunque di poter fornire degli insegnamenti molto modesti, forse nessuno (come sappiamo Aristotele esclude l’ipotesi di una scienza dell’individuale e dell’accidentale). Per cui, dice Aristotele, se anche si mettessero in versi le storie di Erodoto queste resterebbero storie, e non diverrebbero tragedie o poemi epici. E già su questo ci sarebbe parecchio da obiettare. Se le 297

storie di Erodoto non avessero avuto un autore ma fossero state tramandate oralmente, sarebbero diventate dei miti, dunque non è il contenuto di verità, bensì il modo di trasmissione, e la forma che ne consegue, che fa la differenza. Se la strage dei Burgundi avesse trovato lì per lì uno storico disposto a scriverla, probabilmente al posto del Nibelungenlied avremmo avuto qualcosa come la Storia dei Longobardi di Paolo Diacono o la Storia dei Goti di Jordanes. Se viceversa gli evangelisti non avessero scritto l’historia di Cristo, avremmo con ogni probabilità uno dei tanti miti di morte e resurrezione. Aristotele era essenzialmente un lettore di tragedie, se non altro perché trascorse buona parte della sua vita in luoghi dove non c’erano teatri. In un certo senso, dunque, la tragedia di Aristotele è proprio l’antitesi del rito dionisiaco a cui oltre due millenni dopo vorrà ricondurla Nietzsche. Inoltre Aristotele sembra convinto del fatto che il mythos e l’historia abbiano, sin dall’inizio, una origine diversa, mentre Nietzsche ha il merito di ricordare che ciò che viene presentato come mythos all’inizio (un inizio primitivo, selvaggio e senza scrittura) era stata l’historia di una vicenda cruenta, di un singolo essere umano ucciso e divorato dal branco dei suoi simili. Quando Nietzsche se la prende con Socrate come uccisore della tragedia attraverso il logos farebbe meglio a prendersela con Aristotele come uccisore della tragedia attraverso il mythos. Nell’analisi di Aristotele, che peraltro si appoggia su esempi concreti, e riflette dunque il gusto letterario del suo tempo, l’eroe tragico non ha, all’inizio, nulla di eroico: è una persona normale (può essere anche una donna o uno schiavo, il che per Aristotele è una 298

concessione enorme), a cui accade di commettere un errore, appunto, tragico, che lo condurrà alla rovina. Come risultato, la tragedia quale la concepisce Aristotele è intrinsecamente priva di romanticismo, e da questo punto di vista sarà istruttivo un confronto tra Edipo e Amleto, tra un eroe tragico classico e uno romantico. Edipo è un uomo ricco, di buona fama e di buon carattere, con il solo difetto, fatale, dell’irruenza, che lo porta prima a uccidere uno straniero durante una rissa, poi a sposarsi con una donna appena conosciuta. Questi sono i suoi due tragici errori. Di colpo, attraverso un processo di agnizione, Edipo scopre quello che veramente ha fatto, viene bandito dal regno e, soccombendo alla vergogna, si acceca. Diversamente da Edipo, l’uomo normale che è rovinato da uno sbaglio, una amartia che viene dall’esterno, Amleto (come Agostino, come Rousseau, come Nietzsche, nati tutti sotto il segno del peccato originale) porta il suo male in sé, e anzi è quel male e quell’errore, sin dall’inizio del dramma, e sin dall’inizio del dramma riceve dal fantasma del padre la rivelazione del crimine commesso dallo zio. Amleto, dunque, non solo in tutto il racconto è perfettamente innocente (non ha fatto niente) e totalmente colpevole (la sua colpa è di essere chiamato a rimettere a posto un mondo fuor di sesto, e di non avere nessuna voglia di farlo), ma ha anche immediatamente l’agnizione. Se Edipo esiste solo per eseguire la trama, Amleto esiste letteralmente per dar senso a una trama che è chiara solo a lui. Optare per il romanticismo contro il classicismo è dunque semplicemente (Manzoni lo sapeva meglio di chiunque altro) optare, là dove è possibile, per l’historia contro il mythos. Questo diviene un obbligo ancora più vincolante 299

per uno come me, che non è Manzoni, ma un professore che ha letto e scritto tante opere improntate al genere dell’historia, mentre da un certo momento in avanti (pressappoco da quando ha incominciato a occuparsi professionalmente di logos, iscrivendosi a filosofia) non ha più trovato il tempo, ma a voler essere onesti il gusto, per il mythos, preferendo sempre l’historia anche nelle forme di intrattenimento. Perché? A cosa si deve questa preferenza? Non la metto in termini di inclinazioni personali, poco interessanti, ma cerco di motivare la «poetica», per così dire, che ha guidato l’historia nietzschiana messa insieme in questo libro, e poi anche (e soprattutto) per ragioni teoriche più generali che ne eccedono di gran lunga la portata. Anzitutto, l’historia non può essere un genere perfetto. Ci può essere la tragedia perfetta, ma ovviamente non può esserci la historia perfetta, perché appunto si chiude in modo accidentale, riguarda una individualità, e avrebbe potuto comunque andare altrimenti (in genere, pensando alla nostra historia, siamo assurdamente convinti che avrebbe potuto andar meglio). Ma – diversamente da quello che credeva Aristotele – anche l’individualità può insegnare, seguendo la logica di ciò che propongo di chiamare «esemplarità dell’esempio», in cui un accidentale può diventare necessario, come appunto accade quando un evento che come tale è semplicemente un caso fra i tanti, di cui si dice «per esempio», può trasformarsi in un canone, in qualcosa che viene portato a esempio. È una logica molto presente nella vita (per esempio, la pubblicità la sfrutta sistematicamente). Ma sta anche alla base del mythos, che cresce e si sviluppa generalizzando una historia. Se l’Iliade ha potuto sfidare vittoriosamente i secoli 300

sarà pure merito del «genio del popolo greco» che se l’è tramandata e poi ha incominciato a scriverla, ma anche dei fatti veri e cruenti che si sono svolti a Troia, una città che Schliemann ha trovato non trasponendosi medianicamente nella mente di Omero ma scavando in Turchia. Universalità e necessità derivano dalla particolarità e dalla accidentalità che hanno avuto un luogo e un giorno precisi. Possiamo certo dire che il mythos è più universale della historia, ma questo solo perché ha già elaborato il lutto, ossia si è già dimenticato del morto reale, dell’individuo concreto e caduco. Ma, come il lutto, l’universalizzazione e la generalizzazione non sono mai perfette. Cosa c’è di più universale e necessario nel Patroclo di Omero rispetto a quello che è davvero morto sotto le mura, e il cui cadavere è stato trascinato attorno a esse, con un particolare atroce che ritroviamo nelle guerre di oggi? L’universalità è al massimo una mancanza di particolari troppo determinati, come nella differenza tra le statue idealizzate e quelle individualizzate. Dunque, il mythos sarà anche più universale di historia, ma arriva sempre per secondo. All’inizio non c’era il logos, questo lo sospettavamo da tempo, ma nemmeno il mythos, bensì, appunto, historia. Individui accidentali in un mondo reale. Un ultimo punto. Come ricordavo prima, mentre nel mythos a un certo punto l’eroe commette un errore, appunto un «tragico errore», che determina l’esito della vicenda, nell’historia l’individuo è lui stesso quel tragico errore, se lo porta con sé, è quel male, è sin dall’inizio la causa di tutta la tragedia. Che si tratti di Nietzsche o di Gonzalo Pirobutirro, il pasticciaccio brutto è avvenuto prima, è scritto nel carattere del personaggio, e ne 301

determina il destino. Come in Gide, e in Gadda che lo ripete, nell’historia «Il faut d’abord être coupable». Come sia possibile che l’errore risulti esemplare non è un paradosso più complicato di quello per cui traiamo piacere a vedere degli eventi tragici che vorremmo risparmiarci nella vita. E qui si può trovare un argomento più forte che quello della catarsi, a cui aveva dovuto far ricorso Aristotele e che gli si è lasciato passare con troppa tranquillità. Davvero la pietà e il terrore ci purificano? Chiunque sia stato perseguitato da un incubo nato da un film ha ottimi motivi per dubitarne. Come che sia, l’argomento a favore della historia è semplice: sbagliando si impara, o altri imparano. Da questo punto di vista, l’imitazione dell’Anticristo o di un povero cristo è molto più istruttiva della imitazione di Cristo, ammesso e non concesso che ciò che ha fatto Cristo non sia stato un tragico errore. Sì, sbagliando si impara, o altri imparano. È l’insegnamento che si attendeva Montaigne dallo studio dell’uomo e delle sue diverse forme di vivere e di morire. O può rispondere all’aspirazione di Proust, che l’opera sia un microscopio o un telescopio che ci riveli a noi stessi. Al limite, e nella peggiore delle ipotesi, l’insegnamento può ridursi all’apoftegma di Henry Miller che, detto di passaggio, sembra compendiare le stazioni del destino terreno di Nietzsche: «A dieci anni l’uomo è un animale, a venti un lunatico, a trenta un fallimento, a quaranta una frode, e a cinquanta un criminale». Chissà cosa succede a sessanta. Wait and see.

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Nota ai testi La prima versione di questo libro risale al 25 agosto del 2001, e ho messo mano all’ultima versione (quale? il moltiplicarsi dei file e lo stratificarsi degli anni mi hanno fatto perdere il conto) il 25 agosto del 2013 – e anche lì, ovviamente, c’è stata una proliferazione di stesure, sino a che, nella Pasqua di quest’anno, sopravvenne il cecidere manus. Il tempo non depone a favore della qualità di un lavoro, ma sicuramente è testimonianza di una ostinazione o di una ossessione che ha cercato di manifestarsi e forse di pacificarsi. Due miei articoli precedenti presentano, in forma notevolmente diversa l’uno dall’altro, abbozzi della struttura finale di questo libro: «Da Torino a Röcken. Friedrich Nietzsche», in I viaggi dei filosofi, a c. di Maria Bettetini e di Stefano Poggi, Cortina, Milano, 2010, pp. 219-239 e L’amour du destin, in «Philosophie Magazine», 76, febbraio 2014, pp. 37-45. Mentre i capitoli sul nichilismo, il dionisiaco e l’Eterno Ritorno sono stati pubblicati, in forma profondamente diversa dall’attuale, con i seguenti titoli: «Breve storia del nichilismo», in Continenti filosofici, a c. di Mario De Caro e Stefano Poggi, Carocci, Roma, 2011, pp. 185-206; Breve storia del dionisiaco, in «Polifemo. Nuova serie di Lingua e Letteratura», n. 1, anno 2011; Silvaplana, 14 August 1881. Eternal Recurrence, «New Nietzsche Studies», 2014. Ai direttori e ai curatori va tutta la mia gratitudine, così come a tutti gli amici che hanno avuto la generosità di leggere le infinite versioni di questo libro: Tiziana Andina, Carola Barbero, Francesca Borrelli, Elisabetta Brizio, Giuliano Campioni, Elena Casetta, Anna Donise, Maria 303

Cristina Fornari, Daniela Padoan, Vincenzo Santarcangelo, Raffaella Scarpa, Enrico Terrone, Giuliano Torrengo, Gherardo Ugolini. Un ringraziamento particolare va a Irene Treccani, che ha pazientemente e sapientemente rivisto l’apparato dei riferimenti. La redazione finale di questo libro ha avuto luogo durante la mia fellowship al Käte Hamburger Kolleg «Recht als Kultur» di Bonn. Ai collaboratori, ai colleghi, e soprattutto al direttore, l’amico Werner Gephart, va tutta la mia riconoscenza, così come agli amici del LabOnt, come sempre prodighi di letture e consigli. Dedico questo libro a Giuliano Campioni, vecchio duellante in questioni nietzschiane.

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Riferimenti L’apparato che segue mira a fornire i riferimenti essenziali a opere menzionate nel testo e, quando necessario, a dare qualche lume sul contesto. Un più ampio repertorio della letteratura di e su Nietzsche si potrà trovare in M. Ferraris (a c. di), Guida a Nietzsche, Laterza, Roma-Bari, 1998, 2a ed. ivi 2004. La traduzione italiana da cui si cita è Opere di Friedrich Nietzsche, a c. di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano, 1964 ss., affiancate dall’Epistolario di Friedrich Nietzsche, a c. di G. Colli – M. Montinari, Adelphi, Milano, 1976 ss. Per la Volontà di potenza si segue l’edizione a c. di M. Ferraris e P. Kobau, Bompiani, Milano, 1992. Torino, 15 ottobre 1944. Naufragio in riva al Po Per il periodo in esame, è disponibile anche la silloge F. Nietzsche, Lettere da Torino, a c. di G. Campioni, tr. it di V. Vivarelli, Adelphi, Milano, 2008.







I versi di Vittorio Sereni sono tratti da Diario di Algeria (1947), in Poesie, a c. di D. Isella, Mondadori, Milano, 1995, p. 76.



G. Brandes, Aristokratischer Radikalismus. Eine Abhandlung über Friedrich Nietzsche,



«Deutsche Rundschau», LXIII (1890); tr. it. di A. Fambrini, Radicalismo aristocratico e altri scritti su Nietzsche, Dipartimento di scienze filologiche e storiche, Trento, 2001.







W. Benjamin, Deutsche Menschen. Eine Folge von Briefen (1937); tr. it. di E. Ganni, Uomini



tedeschi, in Opere complete: scritti 1934-1937, Einaudi, Torino, 2004, vol. VI, p. 418.





TORINO, 21 DICEMBRE 1888. «IO QUI VENGO TRATTATO COME UN PICCOLO PRINCIPE»



Anonimo, Federico Nietzsche a Torino, in «Nuova Antologia», vol. LXXXIX, fascicolo 690, 16 settembre 1900, pp. 313-315, il passo citato è a p. 315. Per il soggiorno torinese di Nietzsche resta

NAPOLI, 25 AGOSTO 1900. PER LA MORTE DI UN DISTRUTTORE G. D’Annunzio, Per la morte di un distruttore F. N. XXV AGOSTO MCM, in Versi d’amore e di

fondamentale A. Verrecchia, La catastrofe di Nietzsche a Torino, Einaudi, Torino, 1978.

gloria, a c. di A. Andreoli e N. Lorenzini, Mondadori, Milano, 1982-1984, 2 voll., vol. II, pp. 344ss. «Indes Europas Edelfäule / an Pau, Bayreuth und Epsom sog, / umarmte er zwei

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Droschkengäule, / bis ihn sein Wirt nach Hause zog». Turin, in Statische Gedichte (1935-1946); tr.



it. di G. Baioni, Poesie statiche, Einaudi, Torino, 1972, vv. 9-12.



Prima ricezione di Nietzsche: O. Hansson, En framtidssiare. En essay öfver Friedrich Nietzsche,





Verner Landgren, Stockholm, 1890; L. Andreas-Salomé, Nietzsche in seinen Werken (1894); tr. it. di



A. Barbanelli e G. Maragliano, Nietzsche. Una biografia intellettuale, Savelli, Roma, 1979; E. Förster-



Nietzsche, Das Leben Friedrich Nietzsches, Naumann, Leipzig, 1895-1904, 3 voll.; R. Steiner,



Friedrich Nietzsche. Ein Kämpfer gegen seine Zeit, Felber, Weimar, 1895; A. Riehl, Friedrich





Nietzsche, der Künstler und der Denker (1897); tr. it. di B. A. Sesta, Federico Nietzsche artista e





pensatore, Sandron, Milano, et alibi, s.d.; H. Lichtenberger, Die Philosophie Friedrich Nietzsches,





Reissner, Dresden, 1899; J. Zeitler, Nietzsches Ästhetik, Seemann, Leipzig, 1900; F. Tönnies, Der



Nietzsche-Kultus. Eine Kritik (1897), ed. a c. di G. Rudolph, Akademie-Verlag, Berlin, 1990; H.





Vaihinger, Nietzsche als Philosoph, Reuter und Reichard, Berlin, 1902; O. Ewald, Nietzsches Lehre in ihren Grundbegriffen: die ewige Wiederkehr des Gleichen und der Sinn des Übermenschen, Hofmann,



Berlin, 1903; F. Orestano, Le idee fondamentali di Federico Nietzsche nel loro progressivo



svolgimento, Reber, Palermo, 1903; R. Richter, Friedrich Nietzsche. Sein Leben und sein Werk (1903), nuova ed. rivista e accresciuta, Verlag der Dürrschen Buchhandlung, Leipzig, 1909; O.





Weininger, Geschlecht und Charakter. Eine prinzipielle Untersuchung (1903); tr. it. di G. Fenoglio





riv. da F. Maccabruni, Sesso e carattere, Mimesis, Milano-Udine, 2012; A. Drews, Nietzsches



Philosophie, Winter, Heidelberg, 1904; K. Joël, Nietzsche und die Romantik, Diederichs, Jena, 1905;





A. Horneffer, Nietzsche als Moralist und Schriftsteller, Diederichs, Jena, 1906; G. Papini, Il





crepuscolo dei filosofi (1906), 2a ed., Lacerba, Firenze, 1914 e Id., Preghiera per Nietzsche, «La



Voce», 20 gennaio 1910; H. Schafgangs, Nietzsches Gefühlslehre, Meiner, Leipzig, 1913.



Il giudizio di Croce è in «Origine della tragedia di F. Nietzsche» (1907), raccolto in Id., Saggio sullo Hegel, seguito da altri scritti di filosofia, Laterza, Bari, 1913, pp. 423-427; ristampa del 1967, pp. 406-410.





La citazione da R. Bolaño è tratta da Los mitos de Cthulhu, El gaucho insufrible (2003); tr. it. di



TORINO, 6 GENNAIO 1889. «IN FONDO IO SONO

M. Nicola, I miti di Chtulhu, Il gaucho insostenibile, Sellerio, Palermo, 2006, p. 165.

TUTTI I NOMI DELLA STORIA»





Sir J. R. Seeley, Ecce homo: a Survey of The Life and Work of Jesus Christ (1866); tr. it di G.



Salvadori, Ecce homo: un esame della vita e dell’opera di Gesù Cristo, Fratelli Bocca, Torino, 1910.





Specificamente sulla malattia cfr. P. J. Möbius, Über das Pathologische bei Nietzsche, Bergmann,



Wiesbaden, 1902; C. E. Benda, Nietzsches Krankheit, «Monatsschrift für Psychiatrie und

306



Neurologie», LX (1925), pp. 65 ss.; E. F. Podach, Nietzsches Zusammenbruch. Beiträge zu einer Biographie auf Grund unveröffentlichter Dokumente, Kampmann, Heidelberg, 1930; K. Jaspers,



Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophierens (1936); tr. it. di L. Rustichelli, Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, Mursia, Milano, 1996.



W. Lange-Eichbaum, Nietzsche. Krankheit und Wirkung, Lettenbauer, Hamburg, 1946.



L’opera standard è P. D. Volz, Nietzsche im Labyrinth seiner Krankheit. Eine medizinischbiographische Untersuchung, Königshausen & Neumann, Würzburg, 1990. Cfr. più recentemente C.





Koszkas, MELAS (Mitochondriale Enzephalomyopathie, Laktazidose und Schlaganfall-ähnliche Episoden) – eine neue Diagnose von Nietzsches Krankheit, «Nietzsche-Studien», XXXIX (2010), pp.



573-578 e R. Schiffter, Friedrich Nietzsches Krankheiten – eine unendliche Geschichte, «NietzscheStudien», XLII (2013), pp. 283-292. Foucault avanza l’ipotesi per cui sino a che c’è opera non c’è







follia in La follia, l’assenza d’opera, appendice alla nuova edizione della Storia della follia: Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano, 1977, pp. 626-636. La citazione dalla lettera di Overbeck a Peter Gast del 15 gennaio 1889 è tratta da C. P. Janz,





Friedrich Nietzsche. Eine Biographie (1978-79), 3 voll.; tr. it. di M. Carpitella, Vita di Nietzsche, Laterza, Bari, 1980, vol. III, pp. 34-35.



Il passo dell’anamnesi redatta nella clinica Friedmatt di Basilea è tratta da P. D. Volz, Nietzsche im Labyrinth seiner Krankheit, cit. Testimonianze tratte da Volz e da altre fonti si possono trovare in



tradizione italiana in C. Pozzoli, Nietzsche nei ricordi e nelle testimonianze dei contemporanei, Rizzoli, Milano, 1990, pp. 382 ss.









VAL SAN MARTINO, 25 APRILE 1911. HARAKIRI Per l’identificazione di Cosima Wagner con Arianna, la lettera citata è del 3 gennaio 1889 (probabilmente dello stesso giorno anche il biglietto «Arianna, ti amo! Dioniso»); per Salgari la





citazione è tratta da Le tigri di Mompracem, Donath, Genova, 1901, pp. 77 e 78. L’identificazione



tra Nietzsche e Salgari mi è stata suggerita dalla lettura di E. Ferrero, Disegnare il vento. L’ultimo viaggio del capitano Salgari, Einaudi, Torino, 2011. CONGO, 1902. «HE HAD SUMMED UP – HE HAD JUDGED. ‘THE HORROR!’»







J. Conrad, Heart of Darkness (1902); tr. it. di M. Longhi Paripurna, Cuore di tenebra, Giunti, Firenze, 2006, pp. 132-133. Le analogie con Kurtz non si fermano qui. Anche di Nietzsche si può dire che «Le distese desolate della sua mente sfinita erano tormentate da immagini chimeriche – immagini di ricchezza e di notorietà» (p. 130) e che «Alle volte era spregevolmente infantile. Sognava di sovrani che andavano a riceverlo nelle stazioni ferroviarie al ritorno da qualche fantomatico Nulla» (p. 131).





BONN, 25 AGOSTO 2013. IL TESTIMONE SECONDARIO Per il «prosciutto salmonato», cfr. la lettera a Franziska Nietzsche del 24 [23] luglio 1888:



«Allora non avevo ancora assaggiato il prosciutto; adesso posso esprimere un giudizio avendolo provato più volte. Mi dispiace molto, ma non ha affatto avuto la riuscita che avresTi desiderato. Il







prosciutto salmonato è qualcosa di incomparabilmente migliore e più sano. Nonostante tutte le tue esortazioni a usare poco sale, il tizio lo ha salato in maniera insopportabile. La carne ha un aspetto

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Sils Maria, 26 agosto 1888. Volontà di potenza NAUMBURG, GENNAIO 1889. IL FANTASMA DELL’OPERA Per la tradizione della Volontà di potenza si rimanda a M. Ferraris, Storia della volontà di

rosso-bruno, non pallido come la carne del prosciutto salmonato».

potenza, cit. Sinteticamente, la Großoktavausgabe (=GOA) era il risultato di due progetti di edizione



che non giunsero a compimento: Werke, a c. di P. Gast, 5 voll., Naumann, Leipzig, 1893-94 e



Werke, a c. di F. Koegel, 12 voll., ivi, 1895-97. Accanto alla GOA, è da tenersi presente l’edizione Werke, a c. del Nietzsche-Archiv, 16 voll., Naumann, Leipzig, 1899 (Kröner, ivi 1910)-1912 («Kleinoktavausgabe»). Una edizione che ebbe molto riscontro (sta alla base, per esempio, della unica traduzione italiana completa delle opere anteriore alla edizione Colli-Montinari, quella di



Monanni, Milano, 1927 ss.) è Werke. Taschenausgabe, 11 voll., Leipzig, 1906 (I-X Naumann, XI Kröner s.a. [1912]), che non comprende i frammenti postumi. Altre edizioni delle lettere promosse



dal Nietzsche-Archiv: Gesammelte Briefe, a c. di E. Förster-Nietzsche – C. Wachsmuth, 3 voll.,



Schuster & Loeffler, Berlin-Leipzig, 1904; Friedrich Nietzsches Briefe an Mutter und Schwester, a c. di E. Förster-Nietzsche, Insel, Leipzig, 1926.





Antologie ed edizioni di frammenti postumi concorrenti con la Volontà di potenza: Die Unschuld des Werdens. Der Nachlaß, a c. di A. Baeumler, Kröner, Leipzig, 1930 (ried. ivi 1978); con



chiaro intento politico: P. Bergenhahn, a c. di, Judentum / Christentum / Deutschtum, Stegemann,



Berlin, 1936, e H. Endres, a c. di, Rasse, Ehe, Zucht und Züchtung bei Nietzsche und heute, Winter,



Heidelberg, 1938. E ancora: Das Vermächtnis Friedrich Nietzsches, a c. di F. Würzbach, Pustet,





Salzburg-Leipzig, 1940 (ried. Umwertung aller Werte, dtv, München 1969); Zusammenbruchs, a c. di F. Podach, Rothe, Heidelberg, 1961.

Werke des



Sulle vicende dell’Archivio cfr. innanzitutto E. Horneffer, Nietzsches letztes Schaffen. Eine kritische Studie, Diederichs, Jena, 1907; indi le prefazioni e relazioni introduttive alla ed. Beck (H. J. Mette, HKG I,1: VII-CXXVI; W. Hoppe – K. Schlechta, HKG II,1, VII-LVIII); E. F. Podach (Friedrich Nietzsches Werke des Zusammenbruchs, Rothe, Heidelberg, 1961, pp. 412 ss., per la storia



Nietzsche. L’uomo e la sua filosofia, Ubaldini, Roma, 1966; K. Schlechta, Nietzsche-Chronik, Hanser, München, 1975; H. F. Peters, Zarathustra’s Sister, Crown, New York, 1977; D. M. Hoffmann (a c. di), Zur Geschichte des Nietzsche-Archivs, de Gruyter, Berlin-New York, 1991; B. McIntyre

delle edizioni); R. J. Hollingdale, Nietzsche: the Man and His Philosophy (1965); tr. it. di G. Sardelli,

Forgotten Fatherland: The Search for Elisabeth Nietzsche, Mcmillan, London, 1992; D. M. Hoffmann



(a c. di), Rudolf Steiner und das Nietzsche-Archiv, Fritz Koegel, Konstantin Georg Naumann, Gustav



Naumann und Ernst Horneffer, 1894-1890, Steiner, Dornach, 1993; M. Zapata Galindo, Triumph des Willens zur Macht. Zur Nietzsche-Rezeption im NS-Staat, Argument, Hamburg, 1995. Sulla vicenda





della manomissione di Ecce homo, M. Montinari, Ein neuer Abschnitt in Nietzsches ‘Ecce homo’,



«Nietzsche-Studien», I (1972), pp. 381-418. Sulla figura di Gast: F. R. Love Nietzsche’s Saint Peter. Genesis and Cultivation of an Illusion, de Gruyter, Berlin-New York, 1981.

308

Polemiche intorno alla edizione Schlechta, uscita tra le edizioni dell’Archivio e quella Colli-



Montinari: R. Roos, Les derniers écrits de Nietzsche et leur publication, «Revue philosophique»,



CXLVI (1956), pp. 262-287; R. Pannwitz Nietzsche-Philologie?, «Merkur», novembre 1957; K.





Schlechta, Der Fall Nietzsche. Aufsätze und Vorträge, Hanser, München, 1958; K. Löwith, Wille zur



Macht – ja oder nein?, «Berichte und Informationen», (Salzburg) 4/3/1958, p. 13; Id., Zu Schlechtas





neuer Nietzsche-Legende, «Merkur» 12 (dicembre 1958), pp. 781-784; Id., Karl Schlechta, Der Fall



Nietzsche. Zweite Auflage, «Philosophische Rundschau», 9 (1959), pp. 119-124; W. v. den Stein, Um



auf Nietzsche zurückzukommen, «Merkur», August 1958; K. Schlechta, Der Fall Nietzsche, nuova ed. ampliata, Hanser, München, 1959 (con lettera aperta a Löwith, pp. 117-127, ripresa insieme agli altri





interventi sul tema in Löwith, Nietzsche, in Sämtliche Schriften, VI, Metzler, Stuttgart, 1987, pp.



544-552); P. Champromis, Nietzsches Werke des Zusammenbruchs oder Zusammenbruch der editorischen Werke Podachs, «Philosophische Rundschau», XII (1964), pp. 246-263. Sempre nel 1964, Löwith recensisce sulla «Neue Rundschau» i due ultimi libri di Podach, e prende nuovamente posizione contro l’edizione Schlechta. Sull’intera vicenda tornerà R. Roos (Règles pour une lecture



philologique de Nietzsche, in AA.VV., Nietzsche aujourd’hui, atti del Colloquio internazionale di Cerisy-la-Salle, luglio 1972, Union Générale d’Éditions, Paris, 1973, 2 voll., vol. II, pp. 282-324).



Sull’edizione Colli-Montinari: E. F. Podach, Ein Blick in Notizbücher Nietzsches, Rothe,



Heidelberg, 1963; G. Campioni, Leggere Nietzsche. Alle origini dell’edizione critica Colli-Montinari,





Ets, Pisa, 1992. Di Colli e Montinari: G. Colli, Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano, 1974; Scritti su



Nietzsche, Adelphi, Milano, 1980 (1993); M. Montinari, Nietzsche Lesen, de Gruyter, Berlin-New





York, 1982; K.-H. Hahn, Montinari a Weimar, in P. D’Iorio, a c. di, Mazzino Montinari. L’arte di leggere Nietzsche, Ponte alle Grazie, Firenze, 1992.







Polemiche sulla pubblicazione della Volontà di potenza in Italia: G. Campioni, Nel deserto della





scienza. Una nuova edizione della Volontà di potenza di Nietzsche, «Belfagor», n.s., II (1993): 205-



226; M. Ferraris, Filologia col botto, «aut aut», 256, luglio-agosto 1993, pp. 85-111.



TORINO, MARZO, 1975. «LEI HA LETTO I FRANCESI?»

Milano, 1975; Id., Nietzsche et le cercle vicieux (1969); tr. it. di E. Turolla, Nietzsche e il circolo vizioso, Adelphi, Milano, 1981; G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie (1962); tr. it. di F. Polidori, Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino, 2002 e Id., Différence et répétition (1968); tr. it. di G. Guglielmi, Differenza e ripetizione, Il Mulino, Bologna, 1971; M. Foucault, Nietzsche, Freud, Marx, (1964) in AA.VV., Nietzsche, «Cahiers de Royaumont», ed. de Minuit, Paris, 1967, pp. 183-192; Id., Nietzsche, la généalogie, l’histoire (1971); tr. it. Nietzsche, la genealogia, la storia, in M. Foucault, P. Klossowski, Sade, mon prochain (1947); tr. it. di A. Valesi, Sade, prossimo mio, Garzanti,

Microfisica del potere, a c. di A. Fontana e P. Pasquino, Einaudi, Torino, 1977, pp. 29-54; J. Lacan,

309





Ecrits (1966); tr. it. di G. B. Contri, Scritti, Einaudi, Torino, 1974, 2 voll.; G. Deleuze – F. Guattari,





L’Anti-Œdipe: Capitalisme et schizophrénie (1972); tr. it. di A. Fontana, L’Anti-Edipo: Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino, 1975. Come si è detto, il passo di Foucault è tratto dalla prefazione alla traduzione italiana di



Differenza e ripetizione del 1971; il testo era in precedenza comparso, come recensione all’edizione





francese, con il titolo Theatrum Philosophicum su «Critique», n. 282 (1970), pp. 885-908.









I versi di Gozzano sono tratti da La signorina Felicita (VI, vv. 19-22), I colloqui, in Tutte le poesie, a c. di A. Rocca, Mondadori, Milano, 2006.





D. Bernazza, O si domina o si è dominati, Messaggerie del libro, Roma, 1979; Id., La soluzione al problema di Dio, Mondadori, Milano, 1984.



Il passo di Goebbels è tratto da J. Goebbels, Journal 1943-1945, a c. di P. Ayçoberry, Tallandier, Paris, 2005. PARIGI, 1944. ALLEGORIA E FILOLOGIA



K. Schlechta, Entnazifizierung Nietzsches? Wandel in Urteil und Wertung, «Göttinger Universitäts-Zeitung», 2 (18 luglio 1947), pp. 3-4; anche in «Aachener Nachrichten», 29 luglio 1947.







G. Bataille, Sur Nietzsche, volonté de chance (1944); tr. it. di A. Zanzotto, Nietzsche, il culmine e il possibile, Rizzoli, Milano, 1970, indi SE, Milano, 1994.







K. Jaspers, Die Schuldfrage (1946); tr. it. La questione della colpa: sulla responsabilità politica della Germania, a c. di A. Pinotti, Prefazione di U. Galimberti, Raffaello Cortina, Milano, 1996; J.







Habermas, Erkenntnis und Interesse (1968); tr. it. di G. E. Rusconi, Conoscenza e interesse, Laterza, Roma-Bari, 1970.





W. Kaufmann, Nietzsche. Philosopher, Psychologist, Antichrist (1950); tr. it. di R. Vigevani,



Nietzsche. Filosofo, psicologo, anticristo, Sansoni, Firenze, 1974; G. Lukács, Die Zerstörung der





Vernunft (1954); tr. it. di E. Arnaud, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino, 1959; M.







Heidegger, Nietzsche (1961); tr. it. di F. Volpi, Nietzsche, Adelphi, Milano, 1994.





G. Colli, Scritti su Nietzsche, Adelphi, Milano, 1980, 5ª ed. 2008, p. 163; M. Montinari, Su Nietzsche, Editori Riuniti, Roma, 1981. WEIMAR, 1901. LA SORELLA-PARAFULMINE



Sulla «donna parafulmine»: Umano, troppo umano, aforisma 430.



Sulle vicende dell’Archivio cfr. H. F. Peters, Zarathustra’s Sister, cit.; D. M. Hoffmann (a c. di),



Zur Geschichte des Nietzsche-Archivs, cit.; M. Ferraris, Storia della volontà di potenza, cit. BASILEA, 1870-1874. IL PICCOLO CHIMICO



Su Nietzsche e la scienza: C. Richter, Nietzsche et les Théories biologiques contemporaines,



Mercure de France, Paris, 1911; A. Mittasch, Friedrich Nietzsche als Naturphilosoph, Kröner,





Stuttgart, 1952; B. E. Babich, Nietzsche’s Philosophy of Science (1994); tr. it. di F. Vimercati,

310

Nietzsche e la scienza, Cortina, Milano, 1996.



H. Heit – G. Abel – M. Brusotti, a c. di, Nietzsches Wissenschaftsphilosophie: Hintergründe,



Wirkungen und Aktualität, de Gruyter, Berlin-Boston, 2011; H. Heit – L. Heller, a c. di, Handbuch. Nietzsche und die Wissenschaften, de Gruyter, Berlin-Boston, 2013.



Fonti scientifiche di Nietzsche: H. v. Helmholtz, Die Lehre von den Tonempfindungen als



physiologische Grundlage für die Theorie der Musik, Braunschweig, Vieweg, 1863; Id., Handbuch der



physiologischen Optik, Voss, Leipzig, 1867; Id., Wissenschaftliche Abhandlungen, 3 vol., Barth,



Leipzig, 1882; C. S. M. Pouillet, Eléments de physique expérimentale et de météorologie, Béchet,







Paris, 1827-1830; R. Boscovich, Philosophiae naturalis theoria (1767); tr. ingl. di J. M. Child, A Theory of Natural Philosophy, The M.I.T. Press, Cambridge/Mass-London, 1966; H. Kopp, Geschichte der Chemie, Vieweg und Sohn, Braunschweig, 1843-1844.



Altre fonti scientifiche: F. Mohr, Allgemeine Theorie der Bewegung und Kraft als Grundlage der



Physik and Chemie, Vieweg, Braunschweig, 1869; J. H. Mädler, Der Wunderbau des Weltalls, oder



populäre Astronomie, Heymann, Berlin, 1856; A. Ladenburg, Vorträge über die Entwicklungsgeschichte der Chemie in den Letzten 100 Jahren, Vieweg und Sohn, Braunschweig,



1869; E. Mach, Die Analyse der Empfindungen und das Verhältniss des Physischen zum Psychischen



(1886); tr. it. L’analisi delle sensazioni e il rapporto fra fisico e psichico, a c. di L. Sosio,



Feltrinelli/Bocca, Milano, 1975; Id., Compendium der Physik für Mediciner, Braumüller, Wien, 1863;



Id., Die Geschichte und die Würzel des Satzes von der Erhaltung der Arbeit, Calve, Prag, 1872; Id., Die Mechanik in ihrer Entwickelung historisch-kritisch dargestellt, Brockhaus, Leipzig, 1883; J.

Henle, Allgemeine Anatomie. Lehre von den Mischungs-und Formbestandtheilen des menschlichen Körpers, Voß, Leipzig, 1841; T. Fechner, Über die physikalische und philosophische Atomenlehre, Mendelssohn, Leipzig, 1855; W. Thomson (Lord Kelvin), On a universal tendency in nature to the Müller, Handbuch der Physiologie des Menschen für Vorlesungen, Hölscher, Coblenz, 1833 ss.; J.

dissipation of mechanical energy, «Transactions of the Royal Society of Edimburgh», IV (1852), pp.



139-142; J. C. F. Zöllner, Über die Natur der Kometen. Beiträge zur Geschichte und Theorie der



Erkenntnis, Engelmann, Leipzig, 1872; Id., Principien einer elektrodynamischen Theorie der Materie, Engelmann, Leipzig, 1876.





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Campioni – A. Venturelli, La «biblioteca ideale» di Nietzsche, Guida, Napoli, 1992; T. H. Brobjer, Nietzsche’s Reading and Private Library, 1885-1889, «Journal of the History of Ideas», 58, 1997, pp.



663-693; G. Campioni – P. D’Iorio – M. C. Fornari – F. Fronterotta – A. Orsucci, Nietzsches



persönliche Bibliothek, de Gruyter, Berlin-New York, 2003; G. Moore – T. H. Brobjer, Nietzsche and

311





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Per l’ambito specifico degli interessi biologici, cfr. F. Würzbach, Die wichtigsten biologischen



Erkenntnisse in der Philosophie Nietzsches, «Forschungen und Fortschritte», IV (1928), pp. 14-15;



C. U. M. Smith, Clever Beasts Who Invented Knowing: Nietzsche’s Evolutionary Biology of



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Nietzsche’s Biology, «Biology & Philosophy», IX, (1994), pp. 25-44; B. Stiegler, Nietzsche et la



biologia e teleologia cfr. F. Moiso, Preformazione ed epigenesi nell’età goethiana, in V. Verra, a c. di, biologie (2001); tr. it. di F. Leoni, Nietzsche e la biologia, Negretto, Mantova, 2010. Sul rapporto tra

Il problema del vivente tra Settecento e Ottocento. Aspetti filosofici, biologici e medici, Istituto



dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1992, pp. 119-220; Id., La volontà di potenza di Friedrich Nietzsche. Una riconsiderazione, «aut-aut», 1993, n. 253, pp. 119-136. Per il ruolo della monadologia nella genesi della volontà di potenza il testo-chiave, come si è





detto, è la Theoria Naturalis di Boscovich. Letteratura secondaria:



F. Kaulbach, Nietzsche und der monadologische Gedanke, «Nietzsche-Studien», VIII (1979), pp.



127-156; G. Stack, Nietzsche and Boscovich’s Natural Philosophy, «Pacific Philosophical Quarterly»,



LXII (1981), pp. 69-87; M. Bauer, Zur Genealogie von Nietzsches Kraftbegriff: Nietzsches Auseinandersetzung mit J. T. Vogt, «Nietzsche-Studien», XIII (1984), pp. 211-227; R. Small, Boscovich contra Nietzsche, «Philosophy and Phenomenological Research», IVL (1987), pp. 419-435;



H. Seigfried, Autonomy And Quantum Physics: Nietzsche, Heidegger, Heisemberg, «Philosophy of



Science», LVII (1990), pp. 619-630; P. D’Iorio, La linea e il circolo. Cosmologia e filosofia dell’Eterno



Ritorno, Pantograf, Genova, 1995; G. Whitlock, Roger Boscovich, Benedict de Spinoza and Friedrich



Nietzsche: the Untold History, «Nietzsche-Studien», XXV (1996), pp. 200-220; T. Andina, Alle origini dell’ontologia nietzschiana: sulle tracce di R. J. Boscovich, in «Rivista di estetica» n. 3 1998,



XXXVIII: pp. 145-172; P. Gori, La visione dinamica del mondo. Nietzsche e la filosofia naturale di Boscovich, La Città del Sole, Napoli, 2007.



Sugli apporti neokantiani: D. M. Fazio, Nietzsche e il criticismo, Quattro Venti, Urbino, 1991.







Sul contesto cfr. O. Liebmann, Kant und die Epigonen (1865); tr. it. di G. Cognetti, Kant e gli



epigoni, Editoriale Scientifica, Napoli, 1990; G. Teichmüller, Die wirkliche und die scheinbare Welt. Neue Grundlegung der Metaphysik, Koebner, Breslau, 1882. Su neokantismo e finzionismo: H.







Vaihinger, Die Philosophie des Als ob (1911); tr. it. di F. Voltaggio, La filosofia del «come se», Ubaldini, Roma, 1967.



Su Nietzsche e Mach, A. Mittasch, Friedrich Nietzsche als Naturphilosoph, cit.; M. Cacciari, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano, 1976; G.

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Wien, 1982; A. Negri Nietzsche. La scienza sul Vesuvio, Laterza, Roma-Bari, 1994. CHARLOTTESVILLE, 1977. OTOBIOGRAPHIES









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J. Derrida, Otobiographies. L’enseignement de Nietzsche et la politique du nom propre (1984); tr.



it. di R. Panattoni, pref. di M. Ferraris, Otobiographies, il Poligrafo, Padova, 1993.





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H. Kiesewetter, Von Hegel zu Hitler, Hoffmann und Campe, Hamburg, 1974; K. R. Fischer Nazism

Appropriation of Nietzsche, «Nietzsche-Studien» XII (1983), pp. 428-435; G. Pasqualotto, Nietzsche: critica del socialismo come ideologia, in M. Bertaggia, a c. di, Nietzsche e la cultura contemporanea, Arsenale, Venezia, 1982, pp. 11-28; G. Penzo, Il superamento di Zarathustra. Nietzsche e il nazionalsocialismo, Armando, Roma, 1987; B. H. F. Taureck, Nietzsche und der Faschismus, Junius, Hamburg, 1989; Th. Laugstien, Philosophieverhältnisse im deutschen Faschismus, Argument, Hamburg, 1990; S. E. Aschheim, The Nietzsche Legacy in Germany 1890-1990, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-Oxford, 1992, pp. 232-271; M. Zapata Galindo, Triumph des Willens zur Macht. Zur Nietzsche-Rezeption im NS-Staat, cit.; M. Riedel, Nietzsche in Weimar. Ein as a Nietzschean ‘Experiment’, «Nietzsche-Studien», VI (1977), pp. 116-23; R. E. Kuenly, The Nazi

deutsches Drama, Reclam, Leipzig, 1997.

LONDRA, 21 FEBBRAIO 1848. «UNO SPETTRO SI AGGIRA PER L’EUROPA» Ancora sulle ragioni della ricezione politica di Nietzsche: E. Lévinas, Quelques réflexions sur la philosophie de l’hitlérisme (1934); tr. it. Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, a c. di G. G. Lukács, Die Zerstörung der Vernunft, tr. it. cit., p. 357.

Agamben, Quodlibet, Macerata, 2002.

C. Rickey, Revolutionary Saints. Heidegger, National Socialism and Antinomian Politics, G. Lukács, Die Zerstörung der Vernunft, tr. it. cit., p. 316.

Pennsylvania University Press, Philadelphia, 2002, p. 213.



R. Descartes, Les passions de l’Âme (1649); tr. it. di S. Obinu, Le passioni dell’anima, Bompiani, F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov (1879); tr. it. di S. Prina, Feltrinelli, Milano, 2014, p. 345.

Milano, 2003.

313

Lenzerheide, 1887. Nichilismo senza antidepressivi Il testo da cui sono tratte le citazioni è F. Nietzsche, Il nichilismo europeo. Frammento di Lenzerheide, a c. di G. Campioni, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano, 2006. Nell’amplissima



letteratura sul nichilismo segnaliamo V. Verra, «Costruzione, scienza e filosofia», in Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Mursia, Milano, 1979, pp. 120-36; Id., «Nichilismo», in Enciclopedia del Novecento, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1979, IV, pp. 778-790; H. J.



Gawoll, Nihilismus und Metaphysik: Entwicklungsgeschichtliche Untersuchung vom deutschen



Idealismus bis zu Heidegger, Frommann-Holzboog, Stuttgart, 1989; M. A. Gillespie Nihilism before



Nietzsche, University of Chicago Press, Chicago-London, 1995; S. Givone, Storia del nulla, Laterza,



Roma-Bari, 1995; F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari, 1996. PARIGI, 1857. IL MOSTRO DELICATO







C. Baudelaire, Les Fleurs du Mal (1857); tr. it. di G. Raboni, I fiori del male, Einaudi, Torino,



2006, Al Lettore, vv. 29-40.







G. Leopardi, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, Operette morali (1835), in Tutte le opere, a c. di W. Binni e E. Ghidetti, vol. I, Sansoni, Firenze, 1969, pp. 110-112. RIGA, 1781. ONTOLOGIA ED EPISTEMOLOGIA Per l’impostazione generale dei rapporti tra ontolgia ed epistemologia mi permetto di rinviare a







M. Ferraris, Il mondo esterno, Bompiani, Milano, 2001 e a Goodbye, Kant! Cosa resta oggi della Critica della ragion pura, ivi 2004. Per una descrizione più ampia della vicenda narrata in questo



capitolo cfr. M. Ferraris (a c. di), Storia dell’ontologia, ivi 2008. EUTIN, 1799. ONTOLOGIA E ASSIOLOGIA







F. H. Jacobi, Jacobi an Fichte (1799); tr. it. di A. Acerbi, Lettera a Fichte, Istituto Italiano per gli





Studi Filosofici Press, Napoli, 2011; Th. Reid, Essays on the Intellectual Powers of Man (1785); tr. it.





a c. di A. Santucci, Saggi sulle facoltà intellettuali dell’uomo, in Ricerche sulla mente umana e altri





scritti, Utet, Torino, 1975, p. 95; J. Locke, An Essay Concerning Human Understanding (1690); tr. it.





a c. di M. e N. Abbagnano, Saggio sull’intelletto umano, UTET, Torino, 1971, libro IV, cap. 2, §14. LANDSHUT, 1809. PENSO DUNQUE SONO





F. W. J. Schelling, Über das Wesen der menschlichen Freiheit (1809); tr. it. Ricerche sull’essenza della libertà umana, a c. di G. Stummiello, Bompiani, Milano, 2007.







J. Joyce, A Portrait of the Artist as a Young Man (1916); tr. it. di B. Oddera, Ritratto dell’artista



da giovane, in Racconti e romanzi, Mondadori, Milano, 1982, 3a ed. DANZICA, 1818. IL MONDO È UNA MIA RAPPRESENTAZIONE







A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung (1819); tr. it. di N. Palanga, Il mondo



come volontà e rappresentazione, Mursia, Milano, 1969, incipit.

314



NAPOLI, 1835. «S’ARMA NAPOLI A GARA ALLA DIFESA DE’ MACCHERONI SUOI»



G. Leopardi, I nuovi credenti, vv. 13-22.



Il riferimento al cannibalismo dei lazzari è tratto da D. Marinelli, La caduta di Napoli. Entrata



dell’Armi Reali in Napoli (1799), La Città del Sole, Napoli, 1998, p. 23. PRAGA, 1837. ANTIKANT



B. Bolzano, Wissenschaftslehre: Versuch einer ausführlichen und grosstentheils neuen Darstellung



der Logik mit steter Rücksicht auf deren bisherige Bearbeiter (1837); è disponibile una traduzione



italiana della prima parte: Dottrina fondamentale §§ 1-45 della dottrina della scienza, Testo tedesco a fronte, Introduzione e traduzione di G. Rigamonti, Note e apparati di L. Fossati, Bompiani, Milano, 2014.



F. Kafka, I racconti, a c. di G. Schiavoni, Rizzoli, Milano, 1985 , 3ª ed., p. 59.





F. Příhonský, Neuer Anti-Kant und Atomenlehre des seligen Bolzano (1850), n. ed. a c. di E. Morscher e C. Thie, Academia, Sankt Augustin, 2003.







A. Meinong, Über gegenstandstheorie (1904); tr. it. Teoria dell’oggetto, a c. di V. Raspa, Edizioni Parnaso, Trieste, 2002.





SAN PIETROBURGO, 1870. I DEMONI



F. Dostoevskij, I demoni, tr. it. di A. Polledro, Einaudi, Torino, 1942 (n. ed. 1994), p. 106.



L. Bloy, Le Désespéré, A. Soirat, Paris, 1887. Per le influenze franco-russe sul nichilismo



nietzschiano cfr. oltre a E. Kuhn, Friedrich Nietzsches Philosophie des europaischen Nihilismus, de



Gruyter, Berlin-New York, 1992; W. Müller-Lauter, Nietzsche. Seine Philosophie der Gegensätze und die Gegensätze seiner Philosophie, de Gruyter, Berlin-New York, 1971. GENOVA, 1882. DIO È MORTO







M. Heidegger, Nietzsches Wort: «Gott ist tot» (1943); tr. it. di P. Chiodi, La sentenza di



Nietzsche «Dio è morto», in M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1968, pp. 191-246.





PARIGI, 1882. AU BONHEUR DES DAMES





Sylvia Plath, Ultime parole, in S. Plath, Lady Lazarus e altre poesie, a c. di G. Giudici, Mondadori, Milano, 1998.







J.L. Borges, Le cose in Id., Elogio dell’ombra, tr. it. di F. Tentori Montalto, Einaudi, Torino, 1971. Per una analisi filosofica della sopravvivenza (e della superiorità) dell’oggetto rispetto al soggetto



mi permetto di rinviare ai miei Il tunnel delle multe. Ontologia degli oggetti quotidiani, Einaudi,



Torino, 2008 e Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Roma-Bari, 2009; nonché a





R. Bodei, La vita delle cose, Laterza, Roma-Bari, 2009, e a E. Coccia, Il bene nelle cose, il Mulino,

315

Bologna, 2014.

M. Gilbert, The Second World War: A Complete History (1989); tr. it. di M. Spinella, La grande R. Troche, The Safety of Objects (Usa 2001).

storia della Seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano, 2003, p. 847. VIENNA, 1915. LUTTO E MELANCOLIA









S. Freud, Trauer und Melancholie (1915); tr. it. Lutto e melancolia in Opere, cit., vol. VIII;



Aristotele, La «melanconia» dell’uomo di genio, a c. di C. Angelino e E. Salvaneschi, Il melangolo,



Genova, 1981; C. Galeno, Trattato sulla bile nera, a c. di F. Voltaggio, Aragno, Torino, 2003; R.







Burton, The Anatomy of Melancholy (1621); tr. it. di G. Franci e F. Fonte Basso, Anatomia della malinconia, Marsilio, Venezia, 2003; le brevi citazioni nel testo sono tratte dalla sez. I, II, § 2.



Per i riferimenti a Cartesio e a Plinio cfr. R. Kuhn, Vierzig Jahre psychopharmakologische



Depressionsbehandlung, tr. it. di E. Pavesi, Quaranta anni di farmaci antidepressivi, in «Psichiatria e Territorio», XIV, 1 (1997). MONACO, 1918. IL TRAMONTO DELL’OCCIDENTE







O. Spengler, Der Untergang des Abendlandes (1918-1922); tr. it. di J. Evola, introd. di F. Jesi, Il



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M. Heidegger, Gelassenheit (1959); tr. it. L’abbandono, introduzione di C. Angelino, traduzione e note di A. Fabris, Il melangolo, Genova, 2006.

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Su Heidegger e il nazismo l’opera più completa è E. Faye, Heidegger, l’introduction du nazisme





dans la philosophie (2005); tr. it. a c. di L. Profeti, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’oro, Roma, 2012. SIGMARINGEN, 1945. DA UN CASTELLO ALL’ALTRO



M. Heidegger, Mein liebes Seelchen! Briefe von Martin Heidegger an seine Frau Elfride. 1915-



1970 (2005); tr. it. di P. Massaro e P. Severi, «Anima mia diletta!». Lettere di Martin Heidegger alla moglie Elfride (1915-1970), Il melangolo, Genova, 2007.







F. Céline, D’un château l’autre (1957); tr. it. Da un castello all’altro, a c. di G. Guglielmi, Einaudi, Torino, 2008.





M. Heidegger, Scritti politici (1933-1966), prefazione, postfazione e note di F. Fédier, edizione



italiana a c. di G. Zaccaria, Piemme, Alessandria, 1998, p. 329. Id., Sein und Wahrheit, tr. it. di C.





Götz, Christian Marinotti, Milano, 2011, p.173. Id., Scritti politici (1933-1966); tr. it. cit., p. 140.







TODTNAUBERG, 25 LUGLIO 1967. A MANO, TROPPO A MANO







I. Bachman, Die Kritische Aufnahme der Existential-Philosophie M. Heideggers (1985); tr. it. La ricezione critica della filosofia esistenziale di Heidegger, Guida, Napoli, 1992.







T. Bernhard, Alte Meister. Komödie (1985); tr. di A. Ruchat, Antichi Maestri. Una commedia,



Adelphi, Milano, 2a ed. 1995. Ecco in extenso il brano, che ho dettagliatamente commentato in A



mano, troppo a mano, introduzione a J. Derrida, La mano di Heidegger, Laterza, Roma-Bari, 1991: «Ho visto una serie di fotografie che una fotografa di eccezionale talento ha fatto a Heidegger con quella sua aria da pingue ufficiale di stato maggiore in pensione che ha sempre avuto, diceva Reger, e un giorno gliele mostrerò; in quelle fotografie Heidegger scende dal letto, si rimette a letto, Heidegger dorme, si risveglia, indossa i mutandoni, infila i pedalini, beve un sorso di mosto, esce dalla casamatta e contempla l’orizzonte, intaglia il bastone, si mette il berretto, si toglie il berretto dalla testa, tiene il berretto in mano, divarica le gambe, alza la testa, china la testa, mette la mano destra nella sinistra di sua moglie, sua moglie mette la mano sinistra nella sua destra, cammina davanti a casa, cammina dietro la casa, si dirige verso casa, si allontana da casa, legge, mangia, prende qualche cucchiaiata di minestra, si taglia una fetta di pane (fatto in casa), apre un libro (scritto in casa), chiude un libro (scritto in casa), si china, si stiracchia, e così via, diceva Reger. Roba da vomitare. Se già i wagneriani sono insopportabili, figurarsi gli heideggeriani».



D. Meller Marcovicz, Martin Heidegger: Photos, 23. September 1966, 16. und 17. Juni 1968, Klostermann, Frankfurt/M., 1985.





R. Safranski, Ein Meister aus Deutschland, Heidegger und seine Zeit (1994); tr. it. di G. Bonola, Heidegger e il suo tempo, Longanesi, Milano, 1996.



E. Jelinek, Totenauberg. Ein Stück, Rowohlt, Reinbeck, 1991.



P. Celan, Conseguito silenzio, tr. it di M. Ranchetti e J. Leskien, Einaudi, Torino, 1998. MELBOURNE, 1948. LITIO E MELANCOLIA



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Th. Mann, Die Betrogene: Erzählung (1954); tr. it. di R. Rossanda, L’inganno, Marsilio, Venezia, 1992. MÜNSTERLINGEN, 1956. IMIPRAMINA



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M. Heidegger, Aufenthalte (1989); tr. it. di A. Iadicicco, Soggiorni. Viaggio in Grecia, Guanda, Parma, 2012.

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Per un riesame complessivo della ricezione ermeneutica di Nietzsche cfr. J. Figl, Nietzsche und die philosophische Hermeneutik des 20. Jahrhunderts, «Nietzsche-Studien», X-XI (1981), pp. 408441. Per una presentazione generale del problema ermeneutico in Nietzsche mi permetto di rinviare



alla mia Storia dell’ermeneutica, Bompiani, Milano, 1988, pp. 189-197.





TORINO, FEBBRAIO 1999. LE TESTE SCAMBIATE





Il volume con in copertina la foto di Umberto I di Savoia è la già citata Guida a Nietzsche. Ho emendato il mio errore, cfr. M. Ferraris, «Nietzsche, Umberto e centomila», in «La Stampa», 1° febbraio 1999, p. 24. «Il n’y a pas de vrai sens d’un texte. Pas d’autorité de l’auteur. Quoi qu’il ait voulu dire, il a écrit ce qu’il a écrit. Une fois publié, un texte est comme un appareil dont chacun peut se servir à sa guise et selon ses moyens: il n’est pas sûr que le constructeur en use mieux qu’un autre.» P. Valéry, «Au







Sujet du Cimetière marin» (1933), in Variété III (1936), Pléiade t. I, p. 1507. W. Benjamin, «Die Aufgabe des Übersetzers» (1920); tr. it. di R. Solmi, «Il compito del



traduttore», in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino, 1982, pp. 37-50. LONDRA, 1602. «DO YOU SEE YONDER CLOUD THAT’S ALMOST IN SHAPE OF A CAMEL?»



W. Shakespeare, Hamlet, atto III, scena 3, versi 393-400; tr. it. di L. Squarzina, NewtonCompton, Roma, 2005.



H. C. Goddard, The Meaning of Shakespeare, The University of Chicago Press, Chicago, 1951.

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R. J. Trienens, The Symbolic Cloud in Hamlet, «Shakespeare Quarterly», vol. 5, n. 2, Spring, 1954. BERLINO, 1819. TESSITORE DI VELI





J. M. Chladenius, Einleitung zur richtigen Auslegung vernünftiger Reden und Schriften (1742), Stern-Verlag Janssen & Co, Düsseldorf, 1969.





F. D. E. Schleiermacher, Hermeneutik und Kritik (1819), ed. a c. di H. Kimmerle, «Abhandlungen der Heidelberger Akademie der Wissenschaften» 1959; 2a ed. rivista, Winter, Heidelberg, 1974, p. 86.



F. Zamboni, Saggio di una memoria sopra la necessità di prevenire gl’incauti contro gli artifici di alcuni professori d’ermeneutica, Stamperia dell’accademia, Roma, 1819. BOSTON, 1960. GAVAGAI







W. V. O. Quine, Word and Object (1960); tr. it. di F. Mondadori, Parola e oggetto, Il Saggiatore, Milano, 1970, pp. 38-102.





NEW YORK, 1985. DECONSTRUCTING EVERYBODY Littérature et philosophie mêlées, «Poétique», 21, 1975. È in quel fascicolo che apparve «La



mythologie blanche» di Derrida, che appunto muovendo dalla tesi difesa da Nietzsche nel Libro del



filosofo secondo cui il concetto non è che un’antica metafora concludeva sulla impossibilità di distinguere tra letteratura e filosofia.





R. Rorty, Philosophy as a Kind of Writing: An Essay on Derrida (1978), in R. Rorty,





Consequences of Pragmatism (1982); tr. it. di F. Elefante, La Filosofia come genere di scrittura, in Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli, Milano, 1986.



B. Latour, Why Has Critique Run out of Steam? From Matters of Fact to Matters of Concern, in «Critical Inquiry», 30, Inverno 2004, pp. 225-248. In un articolo famoso Latour sosteneva, paradossalmente ma non troppo, che Ramsete II non poteva essere morto di tubercolosi (come sostenevano dei medici che ne avevano analizzato la mummia) perché il bacillo della tubercolosi era



stato isolato solo alla fine dell’Ottocento. Cfr. B. Latour, Ramsès est-il mort de la tuberculose?, in «La Recherche», marzo 1998, n. 307, pp. 84-88.







A. Sokal e J. Bricmont, Impostures intellectuelles (1997); tr. it. di F. Acerbi, Imposture intellettuali. Quale deve essere il rapporto tra filosofia e scienza?, Garzanti, Milano, 1999.







H. Frankfurt, On Bullshit (1986); tr. it. di M. Birattari Stronzate. Un saggio filosofico, Rizzoli, Milano, 2005.



M. Asensi Pérez, Los años salvajes de la teoría: Ph. Sollers, Tel Quel, y la génesis del pensamiento



post-estructural francés, Tirant lo Blanch, Valencia, 2006. La terzina del Marino si trova in La murtoleide. Fischiate, 1619. TORINO, 1998. «NULLA ESISTE FUORI DELLA TELA» Mi permetto di rinviare al mio «Non ci sono gatti, solo interpretazioni», in J. Derrida – G.



Vattimo (a c. di), Diritto giustizia interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 1998, pp. 129-163.

319



Per la «ragnatela universale», Genealogia della morale, terza dissertazione, § 9. Per il «Dio come





ragno», Anticristo §§ 17-18, «Der christliche Gottesbegriff – Gott als Krankengott, Gott als Spinne, Gott als Geist».





SAINT-MICHEL-DE-MONTAIGNE, 13 SETTEMBRE 1592. «MON BON HOMME, C’EST FAICT»







M. de Montaigne, Essais (1580-1588); tr. it. di F. Garavini, Saggi, Adelphi, Milano, 1992, 2 voll., p. 1459.

Rapallo, 20 gennaio 1883. Nuovo Cinema Zarathustra G. Gozzano Alle soglie (I, vv. 11-14), I colloqui, in Tutte le poesie, cit. P. Rée, Der Urspung der moralischen Empfindungen (1877); tr. it. di D. Vignali, L’origine dei sentimenti morali, Il melangolo, Genova, 2005.



Le corrispondenze tra Lou, Rée e Nietzsche sono raccolte nel volume Triangolo di lettere. Carteggio di Friedrich Nietzsche, Paul Rée e Lou von Salomé, a c. di E. Pfeiffer e M. Carpitella, Adelphi, Milano, 1999.



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1873, 2 voll.; G. Teichmüller, Die wirkliche und die scheinbare Welt: neue Grundlegung der Metaphysik, Koebner, Breslau, 1882;





F. A. Lange, Geschichte des Materialismus und Kritik seiner Bedeutung in der Gegenwart (1866);





tr. it. di A. Treves, Storia del materialismo, Monanni, Milano, 1932, 2 voll.; K. Fischer, Geschichte der neueren Philosophie, C. P. Scheitlin’s Verlagshandlung-Verlag von Friedrich Bassermann-Carl Winter’s Universitätsbuchhandlung, Stuttgart-Mannheim-Heidelberg, 1852 ss., 8 voll.



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ATENE, IV SEC. A.C. «IO, PLATONE, SONO LA VERITÀ»



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GERUSALEMME, 33 D.C. «DIVENTA DONNA, SI CRISTIANIZZA»



Così già in Aurora: «Da tempo immemorabile, per quanto sulla terra si è parlato e persuaso, la morale si è appunto dimostrata la più grande maestra di seduzione – e, per quel che concerne noi filosofi, la vera e propria Circe dei filosofi» (Opere, V.1, p. 5). Il tema ritorna anni dopo: «La morale – l’ho già detto una volta – è stata sinora la Circe dei filosofi. Essa è la causa del pessimismo e del



nichilismo» (Frammenti postumi 1887 9[83]).



E. Förster-Nietzsche, Friedrich Nietzsche und die Frauen seiner Zeit, C. H. Beck, München, 1935. KÖNIGSBERG, 1781. «PALLIDA, NORDICA, KÖNIGSBERGICA»





J. Evola, Significato e funzione della monarchia, in K. Loewenstein, La monarchia nello Stato moderno, G. Volpe, Roma, 1969, pp. 186-187.





S. Žižek, Living in the End Times, Verso, London-New York, 2009; tr. it. C. Salzani, Vivere alla fine dei tempi, Ponte alle Grazie, Milano, 2011, p. 555. PARIGI, 1840. «CANTO DEL GALLO DEL POSITIVISMO» Ho sviluppato il parallelo tra «non ci sono fatti, solo interpretazioni» e «la ragione del più forte è



sempre la migliore» nel mio Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari, 2012. SORRENTO, 1876. «BACCANO INDIAVOLATO DI TUTTI GLI SPIRITI LIBERI»









R. Rorty, Solidarietà o oggettività? (1984) e Il prevalere della democrazia sulla filosofia (1986), in Scritti filosofici, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1993-1994.



J. de Maistre, Du Pape, tr. it. cit., libro I, cap. XV. TORINO, 1888. «COL MONDO VERO ABBIAMO ELIMINATO ANCHE QUELLO APPARENTE!»



M. Heidegger, «La volontà di potenza come arte» (1936), in Id., Nietzsche, tr. it. cit., pp. 21-215.



G. Vattimo, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano, 1974. COPENAGHEN, 1837. «MA SE NON HA NIENTE INDOSSO!»







H. C. Andersen, I vestiti nuovi dell’imperatore (1837), in Fiabe e storie, a c. di B. Berni, Feltrinelli, Milano, 2012, p. 78.

Silvaplana, 14 agosto 1881. Eterno Ritorno

F. Nietzsche, Il servizio divino dei greci, a c. di M. Posani Löwenstein, Adelphi, Milano, 2012.

322

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La frase «Se esiste l’Eterno Ritorno saremo costretti a rivedere Holiday on Ice» è tratta da



Hannah e le sue sorelle, 1986.





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A. Arbo, «Musica», in M. Ferraris, Guida a Nietzsche, cit., pp. 109-144, a cui si rinvia anche per



una rassegna bibliografica completa, pp. 323-329. Vedi anche L. Goehr, The Imaginary Museum of Musical Works: An Essay in the Philosophy of Music, Clarendon Press, Oxford, 1992.



Primi dibattiti su Nietzsche e Wagner: E. Kulke, Richard Wagner und Friedrich Nietzsche, C.



Reimer, Leipzig, 1890; C. Bellaigue, Un problème musical. Le cas Wagner, «Revue des deux



mondes», marzo 1892, pp. 221-227; K. Heckel, Friedrich Nietzsche und Richard Wagner, «Neue



deutsche Rundschau», 7, 1896, pp. 721-737; E. Newman, Friedrich Nietzsche’s book on Wagner: Nietzsche and Wagner, «University magazine and free review», 7, dicembre 1896, pp. 268-275; D.





Halévy, Nietzsche et Wagner. 1869-1876, «Revue de Paris», 15 novembre e 1 dicembre 1897, pp.



302-327, 649-674; J. Hofmiller, Nietzsche und Wagner, «Zukunft», 5, 1897, vol. XIX, pp. 58-67; T.



de Wyzéwa, Beethoven et Wagner, Perrin, Paris, 1897 (in particolare le pp. 174-197); B. Marshall,



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LIPSIA, 8 OTTOBRE 1868. «LA CROCE, LA MORTE, LA TOMBA»



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G. Ugolini, Filologi talpa e filologi centauro. La critica di Nietzsche alla filologia classica, «Eikasmòs», 23, 2012, pp. 375-398.







Per la polemica intorno alla Nascita della tragedia, i testi sono raccolti in K. Gründer, Der Streit um Nietzsches «Geburt der Tragödie». Die Schriften von E. Rohde, R. Wagner, U. v. Wilamowitz-



Möllendorff, Olms, Hildesheim, 1969, e sono tradotti in italiano in F. Serpa, a c. di, La polemica



sull’arte tragica, cit. Per un inquadramento complessivo della polemica si rinvia all’Introduzione di F.



Serpa (specialmente pp. 26 ss.) e ai seguenti lavori: C. P. Janz, Friedrich Nietzsche. Eine Biographie,



cit. (tr. it. I, 429 ss.); D. Lanza, Il suddito e la scienza, «Belfagor», XXIX (1974), pp. 1-32; M. S. Silk



e J. P. Stern, Nietzsche on Tragedy, cit., pp. 90 ss.



Sull’autocritica di Wilamowitz, Erinnerungen 1848-1914, tr. it. cit., pp. 172-173). Approfondiscono il rapporto tra i primi scritti con la produzione saggistica di Wagner, S.





Barbera–G. Campioni. L’illusione e la musica. Note su Wagner e il giovane Nietzsche, in Nietzsche. Verità-interpretazione, Atti del convegno di Rapallo (1981), a c. di A. Monti, Tilgher, Genova, 1983,



pp. 33-72; Idd., Il genio tiranno. Ragione e dominio nell’ideologia dell’Ottocento: Wagner, Nietzsche,



Renan, Franco Angeli, Milano, 1983; S. Barbera, Apollineo e dionisiaco. Alcune fonti non antiche di



Nietzsche, in G. Campioni – A. Venturelli, La «biblioteca ideale» di Nietzsche, cit., pp. 45-70. Sulla



polemica antiwagneriana cfr. G. Morpurgo-Tagliabue, Nietzsche contro Wagner, Edizioni Studio



Tesi, Pordenone, 1984; M. Eger, «Wenn ich Wagnern den Krieg mache»: Der Fall Nietzsche und das Menschliche, Allzumenschliche, Knaur, München, 1991. S. Lorenz Sorgner – H. James Birx – N.



Knoepffler (a c. di), Wagner und Nietzsche. Kultur – Werk – Wirkung: ein Handbuch, Rowohlt, Hamburg, 2008.





VIENNA, 30 SETTEMBRE 1791. LA REGINA DELLA NOTTE Elisabeth ha polarizzato le antipatie, ma è difficile sottovalutare le responsabilità di Franziska nella fragilità psichica di Nietzsche. Klossowski (Nietzsche et le cercle vicieux, tr. it. cit., p. 265) ricorda che ai tempi della vicenda di Lou Franziska gli avrebbe lanciato una accusa sinistra e bizzarra: «Tu insozzi la tomba di tuo padre».



TÜBINGEN, 1796. NUOVA MITOLOGIA



F. Hölderlin – W. F. Schelling – F. Hegel, Das älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus





(1796); tr. it. di L. Amoroso, Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco, ETS, Pisa,

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A. Strindberg, Fadren (1887); tr. it. Il padre, a c. di L. Codignola e B. Ottoson, Adelphi, Milano, 1978.





PARIGI, 3 MARZO 1875. CARMEN



«Io non avevo mai assistito alla Carmen, ne avevo solo sentito alcuni brani, non sapevo nulla di Bizet e ascoltai con interesse quel che Nietzsche mi raccontò del compositore, morto trentasettenne senza aver mai ottenuto riconoscimento», Resa von Schirnhofer, testimonianza del 1884, in Pozzoli, Nietzsche nelle testimonianze dei contemporanei, cit., p. 325.





BAYREUTH, 13 AGOSTO 1876. «CEDETE CON ME ALLA VITA DIONISIACA»



U. von Wilamowitz-Moellendorff, Zukunftsphilologie!, tr. it. cit., pp. 211-242 (citazione a p. 242). VIENNA, 1929. IL DISAGIO NELLA CIVILTÀ





R. Krafft-Ebing, Psychopathia sexualis: eine klinisch-forensische Studie (1886); tr. it. di F.



Rasetschnig, Psicopatia sessuale. Perversioni e anomalie, Edizioni Mediterranee, Roma, 1975.







F. Wedekind, Die Büchse der Pandora (1904); tr. it. di E. Castellani, Il vaso di Pandora, Adelphi, Milano, 1972.







S. Freud, Drei Abhandlungen zur Sexualtheorie (1905); tr. it. di R. Colorni, Tre saggi sulla teoria









sessuale, in Opere, cit., IV; Id., Jenseits des Lustprinzips (1921); tr. it. di R. Colorni, Al di là del







principio di piacere, in Opere, cit., IX; Id., Das Unbehagen in der Kultur (1929); tr. it. di R. Colorni,



Il disagio nella civiltà, in Opere, X.



R. Gasser, Nietzsche und Freud, de Gruyter, Berlin-New York, 1997.





NORIMBERGA, 1° SETTEMBRE 1933. RADUNO DELLA VITTORIA



W. Ries, Nietzsche für Anfänger, Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik. Eine Lese-





Einführung (1999); tr. it. di F. Reinders, La nascita della tragedia, Garzanti, Milano, 2001, p. 132.

328



MONACO, FEBBRAIO 1943. «ALZATI, POPOLO MIO»



Ecco i primi versi di Aufruf: Frisch auf, mein Volk! Die Flammenzeichen rauchen; Hell aus dem Norden bricht der Freiheit Licht. Du sollst den Stahl in Feindesherzen tauchen. Frisch auf, mein Volk! – Die Flammenzeichen rauchen, Die Saat ist reif; ihr Schnitter, zaudert nicht! Das höchste Heil, das letzte, liegt im Schwerte. Drück dir den Speer ins treue Herz hinein! Der Freiheit eine Gasse! – Wasch die Erde, Dein deutsches Land, mit deinem Blute rein! Con una traduzione di servizio si potrebbero rendere così: Orsù, o popol mio! Fuman le fiaccole, da Nord riluce di libertà il lume. Affondar devi l’acciaio nel cuor nemico. Orsù, o popol mio! Fuman le fiaccole, matura è la messe, non tremate, o falciatori! La suprema grazia, l’ultima, è nella spada. Premi la lancia nel tuo fido cuore! Si apra una via alla libertà! Lava la terra, la tua terra tedesca, con il tuo sangue!









PACIFIC PALISADES, 7 SETTEMBRE 1945. «O AMICO, O PATRIA»







Th. Mann, Ausgewählte Briefe (1961); tr. it. di I. A. Chiusano, Lettere, Mondadori, Milano, 1986, pp. 583-584.

Freunde (1947); tr. it. di E. Pocar, Doctor Faustus: la vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn

Id., Doktor Faustus: Das Leben des deutschen Tonsetzers Adrian Leverkühn, erzählt von einem

narrata da un amico, Mondadori, Milano, 1980, p. 593. MALAGA, 1949. IL SECCO E L’UMIDO







J. Littell, Le Sec et l’humide (2008); tr. it. di M. Botto, Il secco e l’umido, Einaudi, Torino, 2009.



L. Degrelle, La campagne de Russie, la Diffusion du Livre, Paris, 1949.





BOLOGNA, 23-25 SETTEMBRE 1977. RIVOLUZIONE DESIDERANTE



H. Marcuse, One-Dimensional Man – Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society



(1964); tr. it. di L. Gallino e di T. Giani Gallino, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1967. L’analisi della «desublimazione repressiva» è svolta nel capitolo III.







R. M. Rilke, Duineser Elegien (1923), X, tr. it. Elegie duinesi, a c. di M. Ranchetti, tr. di M. Ranchetti e J. Leskien, Feltrinelli, Milano, 2011 («Und wir, die an steigendes Glück / denken, empfänden die Rührung, / die uns beinah bestürzt, / wenn ein Glückliches fällt»).

Berlino, 1865. Kaputt W. H. Auden, Tell me the truth about love, Poems (1948); tr. it. di G. Forti, La verità vi prego sull’amore, Adelphi, Milano, 1994, 20ª ed. («Is it prickly to touch as a hedge is, / Or soft as

329

eiderdown fluff? / Is it sharp or quite smooth at the edges? / O tell me the truth about love»).





E. Jünger, In Stahlgewittern. Aus den Tagebuch eines Stoßtruppführers (1920); tr. it. G.



Zampaglione, Nelle tempeste d’acciaio, Guanda, Parma, 2007.









BERLINO, 30 APRILE 1945. «GUCK MAL… DER CHEF BRENNT!»



G. D’Annunzio, Per la morte di un distruttore, cit., vv. 408-420.



A. Beevor, Berlin: the downfall 1945, tr. it. cit., p. 381.





BERLINO, 18 FEBBRAIO 1943. «VI CHIEDO, VOLETE LA GUERRA TOTALE?»



Cfr. le analisi di questo discorso in S. Žižek, For They Know Not what They Do: Enjoiment as a





Political Factor (1991); tr. it. di D. Cantone e R. Scheu, Il godimento come fattore politico, Raffaello Cortina, Milano, 2001.

K. Vonnegut, Slaughterhouse-Five, tr. it. cit., p. 11. BERLINO, 19 MARZO 1945. NERO BEFEHL A. Speer, Erinnerungen, tr. it. cit., pp. 366, 468, 520. KIRCHHORST, 11 APRILE 1945. «NON È PIÙ POSSIBILE RIAVERSI DA UNA TALE DRESDA, 13 E IL 14 FEBBRAIO 1945. MATTATOIO N. 5

SCONFITTA»







E. Jünger, Strahlungen (1955); tr. it. H. Furst, Irradiazioni. Diario 1941-1945, Guanda, Parma, 1995, p. 527.





SAN PIETROBURGO, PRIMAVERA 1813. «SONO IO»



J. de Maistre, Napoleone, la Russia, l’Europa. Dispacci da Pietroburgo 1811-1813, a c. di E. Galli della Loggia, Donzelli, Roma, 1994.









WARM SPRINGS, GEORGIA, 12 APRILE 1945. «WUNDER DES HAUSES BRANDENBURG»

Th. Mann, Friedrich und die große Koalition (1915); tr. it. Federico e la grande coalizione, in Opere, a c. di L. Mazzucchetti, vol. XI, Scritti storici e politici, Mondadori, Milano, 1957, p. 110. J. C. Fest, Hitler. Eine Biographie (1973); tr. it. di F. Saba Sardi, Hitler, Rizzoli, Milano, 1974, A. Beevor, Berlin: the downfall 1945, tr. it. cit., p. 219.

p. 899.



SEELOW, 16 APRILE. «NON È FREDDO, SIGNOR TENENTE, QUESTA È PAURA»



A. Speer, Erinnerungen, tr. it. cit., p. 497.



W. Shakespeare, Riccardo III: «Tomorrow in the battle think on me, / And fall thy edgeless

330

sword. Despair, and die!», Atto V, scena 2.



PRINCETON, 1938. FRATELLO HITLER









Th. Mann, Bruder Hitler (1938); tr. it. L. Mazzucchetti, Fratello Hitler, in T. Mann, Scritti minori, Mondadori, Milano, 1958, pp. 370-371.



P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 1986, p. 53.







BERLINO, 20 APRILE. «BLUTROTE ROSEN ERZÄHLEN DIR VOM GLÜCK»

A. Beevor, Berlin: the downfall 1945, tr. it. cit., p. 234. E. Gibbon, The Decline and Fall of the Roman Empire (1776-1788, 6 voll); tr. it. di M. Lo Buono sulla base della edizione abbreviata di D. A. Sanders, Declino e caduta dell’impero romano, J. C. Fest, Hitler. Eine Biographie, tr. it. cit., p. 39.

Mondadori, Milano, 1990, p. 492.



J. Conrad, Heart of Darkness, tr. it. cit., p. 98.





BERLINO, 9 MAGGIO. «AUCH DIE FRANZOSEN!» «La vieillesse est un naufrage. Pour que rien ne nous fût épargné, la vieillesse du maréchal Pétain allait s’identifier avec le naufrage de la France» ha scritto de Gaulle di Pétain. Aggiunse anche che Pétain, con la resa del 1940, si era raccattato una corona di cartapesta nel bosco di Compiègne.

Röcken, 1844-1900. Geologia della morale S. Poggi, La vera storia della regina di Biancaneve, dalla selva Turingia a Hollywood, Raffaello Cortina, Milano, 2007.





Tutte le citazioni da Ecce homo sono tratte dal capitolo «Perché sono così saggio».



Per il referto di Jena, cfr. Pozzoli, Nietzsche nei ricordi e nelle testimonianze dei contemporanei, cit., p. 385.

F. Nietzsche, La mia vita. Scritti autobiografici 1856-1869, nota introduttiva di M. Montinari, tr. PFORTA, 14 AGOSTO 1859. «IN ESTATE, LA DOMENICA LA SI TRASCORRE COSÌ»

it. di M. Carpitella, Adelphi, Milano, 1977, p. 53. NAUMBURG, 1863. «COME PIANTA IO NACQUI PRESSO IL CAMPOSANTO, COME UOMO IN UNA CANONICA»



F. Nietzsche, La mia vita, cit., pp. 132-134. TORINO, 1888. «COME MIO PADRE SONO GIÀ MORTO, COME MIA MADRE VIVO ANCORA E INVECCHIO»



Cfr. P. Klossowski, Nietzsche et le cercle vicieux, tr. it. cit., pp. 257-292, «La consultazione dell’ombra paterna». RÖCKEN, 1844-1850. «IL PRIMO AVVENIMENTO CHE COLPÌ LA MIA COSCIENZA GRADUALMENTE RIDESTA FU LA MORTE DI MIO PADRE»



F. Nietzsche, La mia vita, cit., p. 134.

331



La testimonianza di Elisabeth si trova in C. Pozzoli, Nietzsche nei ricordi e nelle testimonianze dei contemporanei, cit., p. 144.





W. Melville, Moby Dick o la balena (1951); tr. it. di C. Pavese (1932, 1941), Adelphi, Milano, 1987.



W. Siti, Il realismo è l’impossibile, Nottetempo, Roma, 2013. TORINO, 1888. «RITROVO SEMPRE MIA MADRE E MIA SORELLA»





La versione originaria del paragrafo 3 di Ecce homo si trova in appendice all’edizione Adelphi.





U. von Wilamowitz-Moellendorff, Was ist eine attische Tragödie? (1998); tr. it. di G. Ugolini, Che cos’è una tragedia attica?, La Scuola, Brescia, 2013.



Questi come i referti medici presenti nei paragrafi successivi sono tratti da Pozzoli, Nietzsche nei ricordi e nelle testimonianze, cit., pp. 377 ss.







JENA, 27 MARZO 1890. «DICE DI ESSERE A VOLTE IL DUCA DI CUMBERLAND, A VOLTE L’IMPERATORE, ECC.»



G. W. F. Hegel, Epistolario, a c. di P. Manganaro, Guida, Napoli, 1983 ss., vol. I, p. 233.





C. E. Gadda, La cognizione del dolore, in Romanzi e Racconti, Garzanti, Milano, 1989, vol. II, p. 718. NAUMBURG, 1893. «NO, MADRE, DISSE, SONO STUPIDO»



C. Pozzoli, Nietzsche nei ricordi e nelle testimonianze, cit., p. 412 e p. 415. NAUMBURG-WEIMAR, 1889-1900. «VIENI, DOLCE MORTE»









E. Hemingway, Across the River and Into the Trees (1950); tr. it. di F. Pivano, Di là dal fiume e tra gli alberi, Mondadori, Milano, 1998.







G. Bataille, Nietzsche et le fascistes (1937); tr. it. di F. Di Stefano, Nietzsche e i fascisti, in G.



Bataille, La congiura sacra, Bollati Boringhieri, Torino, 1997, p. 13.



D. Halévy, La vie de Frédéric Nietzsche, tr. it. cit., p. 335.







RÖCKEN, 28 AGOSTO 1900. I BENEFICII DELL’AMORE La morte di Federico Nietzsche, «L’Ora. Corriere politico quotidiano della Sicilia», 26 agosto 1900.





Testimonianza di Fritz Schumacher, in C. Pozzoli, Nietzsche nei ricordi e nelle testimonianze, G. D’Annunzio, Qui giacciono i miei cani (1935), in Versi d’amore e di gloria, cit.

cit., p. 423.

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Indice Presentazione Frontespizio Pagina di copyright



Torino, 15 ottobre 1944 – Naufragio in riva al Po Torino, 21 dicembre 1888. «Io qui vengo trattato come un piccolo principe» Napoli, 25 agosto 1900. Per la morte di un distruttore Torino, 6 gennaio 1889. «In fondo io sono tutti i nomi della storia» Val San Martino, 25 aprile 1911. Harakiri Congo, 1902. «He had summed up – he had judged. ‘The horror!’» Bonn, 25 agosto 2013. il testimone secondario



Sils Maria, 26 agosto 1888 – Volontà di potenza Naumburg, gennaio 1889. Il fantasma dell’opera Torino, marzo 1975. «Lei ha letto i francesi?» Parigi, 1944. Allegoria e filologia Weimar, 1901. La sorella-parafulmine Basilea, 1870-1874. Il piccolo chimico Charlottesville, 1977. Otobiographies Londra, 21 febbraio 1848. «Uno spettro si aggira per l’Europa»



Lenzerheide, 1887 – Nichilismo senza antidepressivi Parigi, 1857. Il mostro delicato Riga, 1781. Ontologia ed epistemologia Eutin, 1799. Ontologia e assiologia Landshut, 1809. Penso dunque sono Danzica, 1818. Il mondo è una mia rappresentazione Napoli, 1835. «S’arma Napoli a gara alla difesa de’ maccheroni suoi» Praga, 1837. Antikant San Pietroburgo, 1870. I demoni Genova, 1882. Dio è morto Parigi, 1882. Au Bonheur des Dames Vienna, 1915. Lutto e melancolia Monaco, 1918. Il tramonto dell’Occidente Lipsia, 1932. L’operaio Friburgo, 1940. Oltrepassamento della metafisica Sigmaringen, 1945. Da un castello all’altro Todtnauberg, 25 luglio 1967. A mano, troppo a mano

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Melbourne, 1948. Litio e melancolia Davos, 1953. La montagna incantata Münsterlingen, 1956. Imipramina



Nizza, 1886 – Fatti e interpretazioni Torino, febbraio 1999. Le teste scambiate Londra, 1602. «Do you see yonder cloud that’s almost in shape of a camel?» Berlino, 1819. Tessitore di veli Boston, 1960. Gavagai New York, 1985. Deconstructing Everybody Torino, 1998. «Nulla esiste fuori della tela» Saint-Michel-de-Montaigne, 13 settembre 1592. «Mon bon homme, c’est faict»



Rapallo, 20 gennaio 1883 – Nuovo Cinema Zarathustra New York, 1967. «See the way she walks» Torino, 2001. Dioniso brasileiro New York, 1983. Zarathustra e Zelig Berlino, 2004. Spettri di Hitler



Orta, maggio 1882 – Femmes! Atene, IV sec. a.C. «Io, Platone, sono la verità» Gerusalemme, 33 d.C. «Diventa donna, si cristianizza» Königsberg, 1781. «Pallida, nordica, königsbergica» Parigi, 1840. «Canto del gallo del positivismo» Sorrento, 1876. «Baccano indiavolato di tutti gli spiriti liberi» Torino, 1888. «Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!» Copenaghen, 1837. «Ma se non ha niente indosso!»



Silvaplana, 14 agosto 1881 – Eterno Ritorno Parigi, 1872. L’eternità attraverso gli astri Buenos Aires 1936. Cantor e Zarathustra Città del Messico, 1959. «Cuando despertó, el dinosaurio todavía estaba allí» Roma, 1935. «Diventare natura» Parigi, 1962. Ripetizione e trasvalutazione Recanati, 1824. Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie Cambridge, 1872. Metaphysical club Sorrento, 1876 – Imparare a vivere Lipsia, 1878. Umano, troppo umano Chemnitz, 1877. L’origine dei sentimenti morali Parigi, 1736. Les Égarements du cœur et de l’esprit

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Amsterdam, 1947. Dialettica dell’illuminismo Fillerval, 1979. La condizione postmoderna Salamanca, 1936. «¡Abajo la inteligencia! ¡Viva la muerte!»



Basilea, marzo 1869 – Dionisiaco Miami, 1° marzo 1969. The End… my only friend, The End… Basilea, 1872. Stupro a Euterpe Basilea, 16 aprile 1943. Acid Test al Rinfresko Elettriko Lipsia, 8 ottobre 1868. «La croce, la morte, la tomba» Basilea, 1872. Nascita della tragedia Vienna, 30 settembre 1791. La regina della notte Tübingen, 1796. Nuova Mitologia Weimar, 24 giugno 1797. Le Madri Parigi, 11 giugno 1828. La morte di Lauriston Stoccarda, 1861. Das Mutterrecht Parigi, 3 marzo 1875. Carmen Bayreuth, 13 agosto 1876. «Cedete con me alla vita dionisiaca» Vienna, 1929. Il disagio nella civiltà Norimberga, 1° settembre 1933. Raduno della vittoria Monaco, febbraio 1943. «Alzati, popolo mio» Pacific Palisades, 7 settembre 1945. «O amico, o patria» Malaga, 1949. Il secco e l’umido Bologna, 23-25 settembre 1977. Rivoluzione desiderante



Berlino, 1865 – Kaputt Berlino, 30 aprile 1945. «Guck mal… der Chef brennt!» Berlino, 18 febbraio 1943. «Vi chiedo, volete la guerra totale?» Dresda, 13 e 14 febbraio 1945. Mattatoio n. 5 Berlino, 19 marzo 1945. Nero Befehl Kirchhorst, 11 aprile 1945. «Non è più possibile riaversi da una tale sconfitta» San Pietroburgo, primavera 1813. «Sono io» Warm Springs, Georgia, 12 aprile 1945. «Wunder des Hauses Brandenburg» Seelow, 16 aprile. «Non è freddo, signor tenente, questa è paura» Princeton, 1938. Fratello Hitler Berlino, 20 aprile. «Blutrote Rosen erzählen dir vom Glück» Berlino, 9 maggio. «Auch die Franzosen!»



Röcken, 1844-1900 – Geologia della morale Pforta, 14 agosto 1859. «In estate, la domenica la si trascorre così»

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Naumburg, 1863. «Come pianta io nacqui presso il camposanto, come uomo in una canonica» Torino, 1888. «Come mio padre sono già morto, come mia madre vivo ancora e invecchio» Röcken, 1844-1850. «Il primo avvenimento che colpì la mia coscienza gradualmente ridesta fu la morte di mio padre» Torino, 1888. «ritrovo sempre mia madre e mia sorella» Jena, 27 marzo 1890. «Dice di essere a volte il duca di Cumberland, a volte l’imperatore, ecc.» Naumburg, 1893. «No, madre, disse, sono stupido» Naumburg-Weimar, 1889-1900. «Vieni, dolce morte» Röcken, 28 agosto 1900. I beneficii dell’amore



Postilla – L’imitazione dell’Anticristo Nota ai testi Riferimenti Seguici su IlLibraio

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Indice Presentazione Frontespizio Pagina di copyright Torino, 15 ottobre 1944 – Naufragio in riva al Po Torino, 21 dicembre 1888. «Io qui vengo trattato come un piccolo principe» Napoli, 25 agosto 1900. Per la morte di un distruttore Torino, 6 gennaio 1889. «In fondo io sono tutti i nomi della storia» Val San Martino, 25 aprile 1911. Harakiri Congo, 1902. «He had summed up – he had judged. ‘The horror!’» Bonn, 25 agosto 2013. il testimone secondario

Sils Maria, 26 agosto 1888 – Volontà di potenza Naumburg, gennaio 1889. Il fantasma dell’opera Torino, marzo 1975. «Lei ha letto i francesi?» Parigi, 1944. Allegoria e filologia Weimar, 1901. La sorella-parafulmine Basilea, 1870-1874. Il piccolo chimico Charlottesville, 1977. Otobiographies

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Londra, 21 febbraio 1848. «Uno spettro si aggira per l’Europa»

Lenzerheide, 1887 – Nichilismo senza antidepressivi Parigi, 1857. Il mostro delicato Riga, 1781. Ontologia ed epistemologia Eutin, 1799. Ontologia e assiologia Landshut, 1809. Penso dunque sono Danzica, 1818. Il mondo è una mia rappresentazione Napoli, 1835. «S’arma Napoli a gara alla difesa de’ maccheroni suoi» Praga, 1837. Antikant San Pietroburgo, 1870. I demoni Genova, 1882. Dio è morto Parigi, 1882. Au Bonheur des Dames Vienna, 1915. Lutto e melancolia Monaco, 1918. Il tramonto dell’Occidente Lipsia, 1932. L’operaio Friburgo, 1940. Oltrepassamento della metafisica Sigmaringen, 1945. Da un castello all’altro Todtnauberg, 25 luglio 1967. A mano, troppo a mano Melbourne, 1948. Litio e melancolia Davos, 1953. La montagna incantata Münsterlingen, 1956. Imipramina

Nizza, 1886 – Fatti e interpretazioni 339

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Torino, febbraio 1999. Le teste scambiate Londra, 1602. «Do you see yonder cloud that’s almost in shape of a camel?»

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Berlino, 1819. Tessitore di veli Boston, 1960. Gavagai New York, 1985. Deconstructing Everybody Torino, 1998. «Nulla esiste fuori della tela» Saint-Michel-de-Montaigne, 13 settembre 1592. «Mon bon homme, c’est faict»

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Rapallo, 20 gennaio 1883 – Nuovo Cinema Zarathustra New York, 1967. «See the way she walks» Torino, 2001. Dioniso brasileiro New York, 1983. Zarathustra e Zelig Berlino, 2004. Spettri di Hitler

Orta, maggio 1882 – Femmes! Atene, IV sec. a.C. «Io, Platone, sono la verità» Gerusalemme, 33 d.C. «Diventa donna, si cristianizza» Königsberg, 1781. «Pallida, nordica, königsbergica» Parigi, 1840. «Canto del gallo del positivismo» Sorrento, 1876. «Baccano indiavolato di tutti gli spiriti liberi» Torino, 1888. «Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!» Copenaghen, 1837. «Ma se non ha niente indosso!»

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Silvaplana, 14 agosto 1881 – Eterno Ritorno 177 340

Parigi, 1872. L’eternità attraverso gli astri Buenos Aires 1936. Cantor e Zarathustra Città del Messico, 1959. «Cuando despertó, el dinosaurio todavía estaba allí» Roma, 1935. «Diventare natura» Parigi, 1962. Ripetizione e trasvalutazione Recanati, 1824. Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie Cambridge, 1872. Metaphysical club

Sorrento, 187 6 – Imparare a vivere Lipsia, 1878. Umano, troppo umano Chemnitz, 1877. L’origine dei sentimenti morali Parigi, 1736. Les Égarements du cœur et de l’esprit Amsterdam, 1947. Dialettica dell’illuminismo Fillerval, 1979. La condizione postmoderna Salamanca, 1936. «¡Abajo la inteligencia! ¡Viva la muerte!»

Basilea, marzo 1869 – Dionisiaco Miami, 1° marzo 1969. The End... my only friend, The End... Basilea, 1872. Stupro a Euterpe Basilea, 16 aprile 1943. Acid Test al Rinfresko Elettriko Lipsia, 8 ottobre 1868. «La croce, la morte, la tomba» Basilea, 1872. Nascita della tragedia Vienna, 30 settembre 1791. La regina della notte Tübingen, 1796. Nuova Mitologia 341

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Weimar, 24 giugno 1797. Le Madri Parigi, 11 giugno 1828. La morte di Lauriston

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Stoccarda, 1861. Das Mutterrecht Parigi, 3 marzo 1875. Carmen Bayreuth, 13 agosto 1876. «Cedete con me alla vita dionisiaca» Vienna, 1929. Il disagio nella civiltà Norimberga, 1° settembre 1933. Raduno della vittoria Monaco, febbraio 1943. «Alzati, popolo mio» Pacific Palisades, 7 settembre 1945. «O amico, o patria» Malaga, 1949. Il secco e l’umido Bologna, 23-25 settembre 1977. Rivoluzione desiderante

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Berlino, 1865 – Kaputt

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Berlino, 30 aprile 1945. «Guck mal... der Chef brennt!» Berlino, 18 febbraio 1943. «Vi chiedo, volete la guerra totale?» Dresda, 13 e 14 febbraio 1945. Mattatoio n. 5 Berlino, 19 marzo 1945. Nero Befehl Kirchhorst, 11 aprile 1945. «Non è più possibile riaversi da una tale sconfitta» San Pietroburgo, primavera 1813. «Sono io» Warm Springs, Georgia, 12 aprile 1945. «Wunder des Hauses Brandenburg» 342

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Seelow, 16 aprile. «Non è freddo, signor tenente, 266 questa è paura» Princeton, 1938. Fratello Hitler 268 Berlino, 20 aprile. «Blutrote Rosen erzählen dir vom 270 Glück» Berlino, 9 maggio. «Auch die Franzosen!»

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Röcken, 1844-1900 – Geologia della morale 273 Pforta, 14 agosto 1859. «In estate, la domenica la si trascorre così» Naumburg, 1863. «Come pianta io nacqui presso il camposanto, come uomo in una canonica» Torino, 1888. «Come mio padre sono già morto, come mia madre vivo ancora e invecchio» Röcken, 1844-1850. «Il primo avvenimento che colpì la mia coscienza gradualmente ridesta fu la morte di mio padre» Torino, 1888. «ritrovo sempre mia madre e mia sorella» Jena, 27 marzo 1890. «Dice di essere a volte il duca di Cumberland, a volte l’imperatore, ecc.» Naumburg, 1893. «No, madre, disse, sono stupido» Naumburg-Weimar, 1889-1900. «Vieni, dolce morte» Röcken, 28 agosto 1900. I beneficii dell’amore

Postilla – L’imitazione dell’Anticristo Nota ai testi Riferimenti 343

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