Spaghetti Western. Il mezzogiorno di fuoco del genere (anni '68-'71) [Vol. 3] 9788876066238

Matteo Mancini, giunto al terzo capitolo della saga, prende per mano il lettore conducendolo per gli impervi sentieri de

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Spaghetti Western. Il mezzogiorno di fuoco del genere (anni '68-'71) [Vol. 3]
 9788876066238

Table of contents :
Giudizio Morandini: **
La trama
Giudizio Morandini: *1/2
La trama
UNA PISTOLA PER CENTO BARE
La trama
Giudizio Morandini: *
La trama
La trama
La trama
La trama
La trama
La trama
QUEL CALDO MALEDETTO GIORNO DI FUOCO
La trama
La trama
La trama
La trama
La trama
La trama
La trama
La trama
La trama
La trama
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La trama
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La trama
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La trama
La trama

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EDIZIONI IL FOGLIO CINEMA

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Edizioni Il Foglio Collana CINEMA Direttore: Fabio Zanello www.ilfoglioletterario.it Via Boccioni, 28 - 57025 Piombino (LI) © Edizioni Il Foglio – 2016 1a Edizione – Febbraio 2016 ISBN 9788876066238 Elaborazione grafica e impaginazione | [email protected]

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MATTEO MANCINI

Spaghetti Western Volume 3 Il mezzogiorno di fuoco del genere (anni ’68 – ’71)

Con la collaborazione di JAN ŠVÁBENICKÝ

Edizioni Il Foglio

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“Generosità di intenti e messe di informazioni per quella che potrebbe diventare la trilogia più esaustiva sul western all'italiana.” (Ciak, N.10, Ottobre 2012)

“Lavoro scorrevole come le acque del Rio Bravo, ardimentoso e avvincente come una diligenza che arranca tra i canyon del vecchio west, un saggio che ri-colloca il cinephile Matteo Mancini tra le firme più raccomandabili del settore.” (Mario Bonanno, sololibri.net, su Spaghetti Western Vol.2)

“L’auteur est une mine d’informations sur ce thème et nous apprend énormément de chose sur les acteurs, réalisateurs, photographes…etc. Ses connaissances sont vraiment impressionnantes. Le style est agréable et fluide.” (Western-maniac.forum-pro.fr, forum dalla Francia)

“Veramente dettagliato e mostra anche una notevole cultura cinematografica da parte dell'autore. Veramente ben fatto.” (Anonimo su Amazon, che da cinque stelle al primo volume)

“Un lavoro titanico, che alla acutezza dei giudizi e alla saporosa vivacità della scrittura unisce una ricchezza e completezza dell'informazione veramente uniche. Opera definitiva sul cinema western italiano, penso.” (Mario Lanfranchi, regista del western Sentenza di Morte)

“'Sei 'na enciclopedia.” (Antonio Tentori, sceneggiatore, tra gli altri, di Dario Argento, al FI PI LI Horror Festival del 2014 in riferimento a Matteo Mancini)

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“Non conosco il cinema italiano di oggi, non si vede a Los Angeles, gli ultimi successi in sala sono stati Il Postino e La Vita è Bella. Qualche titolo esce, ma non ha la risonanza che un tempo avevano i film italiani: colpivano, scandalizzavano, facevano storia. Un'industria per crescere ha bisogno del cinema popolare dei generi e dall'Italia non arrivano nomi giovani con film d'azione. Dalla Corea o dalla Russia arrivano film rivoluzionari: perché non fate niente di così forte in Italia? Ogni western uscito dopo gli spaghetti western sembrò terribilmente fuori moda. Non bisogna dimenticare che i western italiani uscirono negli anni sessanta, in pieno movimento giovanile e furono i giovani ad appropriarsi del nuovo modo di fare cinema e a imporlo.” QUENTIN TARANTINO, intervista concessa a Maria Pia Fusco per la Repubblica.

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PIANO DELL'OPERA

Vol.1 – L'Alba e il Primo Splendore del genere (Anni 1963-66): Western americani, Fumetti western, Proto-western, Western di ambientazione nazionale, Zorro movie, Paella western, Sauerkraut western, Western preleoniani, Spaghetti western postleoniani, I primi spaghetti western sperimentali tra politica e western d'autore. Vol.2 – La Proliferazione del Genere (anno 1967): Lo spaghetti-western sbarca in America, I nuovi western americani, La critica italiana dell'epoca, Epigoni leoniani, Spaghetti western d'autore, Parodie di Franco & Ciccio e pistolere del western all'italiana. Vol.3 – Il Mezzogiorno di Fuoco del Genere (anni 1968-71): Lo spaghetti-western sbarca nell'Europa dell'est, I western dell'Europa dell'Est, 1968 anno di tensioni sociali, Spaghetti western: tra tesori perduti e macaroni combat, Tortilla Western, le saghe dei pistoleri prestigiatori, 1970-71: crisi del genere e genesi del Fagioli Western. Vol.4 – il Crepuscolo e la Notte: tra Western Kung Fu e Western Nostalgici (anni 1972 a oggi): Fagioli western, Western Kung Fu, Western demenziali, Western sperimentali, Western nostalgici e crepuscolari, Il tentativo negli anni '80 di rivitalizzare un genere morto, Gli omaggi della cinematografia estera.

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7. IL WESTERN IN CECOSLOVACCHIA E NELL'EST EUROPA di Jan Švábenický

7.0 La premessa di Matteo Mancini. Con la prefazione di Tom Betts e i relativi primi capitoli abbiamo preso le mosse del secondo volume spostandoci dall'Italia agli Stati Uniti. Abbiamo visto come lo spaghetti western è stato accolto dalla critica e dagli spettatori d'oltreoceano, ma soprattutto abbiamo cercato di far comprendere ai lettori l'impatto rivoluzionario e l'influenza che gli spaghetti western hanno avuto, indirettamente, nello sviluppo della cinematografia di Hollywood e più in particolare del genere western, un contenitore di storie tipicamente americano e collegato alla cultura del nuovo mondo ricodificato ed esaltato dall'apporto sognante e irriverente dei cineasti italiani. Inutile sottolineare come gli anni in cui è sorto e si è affermato lo spaghetti western siano quelli della guerra fredda, della continua sfida tra blocco occidentale facente capo agli Stati Uniti e il blocco orientale facente capo all'Unione Sovietica, uno scontro messo in atto per interposti stati contrapposti tra loro e che ha intaccato ogni forma di comunicazione, dalla sociopolitica passando per la cinematografica e la sportiva. Ogni occasione era buona per attaccare l'avversario allo scopo di mettere in evidenza una supposta superiorità sull'altro o comunque mettere in cattiva luce l'avversario dichiarato ma non avversato direttamente. In questo clima di tensione si è venuto a trovare anche il western, genere nato negli Stati Uniti, ma riplasmato in Europa e recepito persino dagli Stati del blocco sovietico, pur nello scetticismo delle autorità di censura facenti capo ai vari partiti comunisti o delle autorità statali tese a fare del cinema, grazie all'esempio di Goebbels, uno strumento di manipolazione e di propaganda di massa. Chi meglio dell'amico e studioso di cinema italiano Jan Švábenický avrebbe potuto 679 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

prenderci per mano e condurci nel mondo poco conosciuto in Italia del cinema western cecoslovacco e, più ampiamente, del cinema western prodotto e realizzato nei paesi dell'est Europa? Rinvio alla biografia a termine del libro in cui potrete vedere gli apporti e le pubblicazioni di Jan che ha insistito anche al fine di mostrare le fonti di consultazione che stanno alla base dei capitoli che seguono. Lascio quindi campo libero a Jan che ci parlerà dell'influenza del cinema western americano e poi degli spaghetti western nell'industria cinematografica degli stati dell'Est e di come in essi sia sorto il germe del western. Torneremo poi a riprendere la galoppata negli sterminati sentieri del western all'italiana facendo attenzione a fornire una costante panoramica sulla situazione storica e sulla situazione degli altri generi popolari italiani. Linea allora a Jan e al suo prezioso contributo extra a questa opera.

I saggi d Jan Švábenický 7.1 Il western nel cinema cecoslovacco negli anni '40-'80 Il western è un genere popolare che esiste da molto tempo nella storia del cinema cecoslovacco, pur essendo rappresentato da pochi titoli. La ragione di questa contenuta rappresentanza è riconducibile all'incapacità dell'industria cinematografica cecoslovacca di supportare tali produzioni. Così il western ha avuto maggiore diffusione nella letteratura, grazie al contributo offerto da autori quali Eduard Fiker, Jaroslav Moravec, Mirko Pašek, Miloš Švácha, Vladimír Šustr, Otto Janka, František Flos e Jaroslav Pecháček. Si tratta di scrittori che hanno dato vita a romanzi con tematiche, personaggi e ambientazioni western. Persino un mio lontano parente, Rudolf Švábenický, ha scritto un importante romanzo d'avventura per ragazzi, con elementi western, intitolato I Seminole. Il diario di Campeggio (Seminolové. Táborový deník), uscito nel 1946 con illustrazioni di Cyril Kotyšan. Oltre ai racconti di questi autori, un'intera generazione è cresciuta sfogliando le pagine di una serie di western, debitamente tradotti in ceco, importati dall'estero e frutto dell'ingegno di scrittori tedeschi, quali Karl May, Max Brand, Bruno Traven, Friedrich Gerstäcker e Fritz Steuben, o francesi, tra cui Gustave Aimard, Gabriel Ferry e Pierre Pelot. Negli anni venti furono tradotti e pubblicati in ceco anche i ro680 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

manzi western dello scrittore Emilio Salgari, anche se andavano per la maggiore soprattutto i suoi cicli avventurosi ed esotici legati ai personaggi di Sandokan e de Il Corsaro Nero. Nel ventennio compreso tra gli anni sessanta e ottanta fu la volta dei romanzi di Karl May i quali, grazie anche agli adattamenti che giravano i cineasti tedeschi con coproduzioni europee di Francia, Italia e Jugoslavia, spopolarono in Cecoslovacchia. Nelle pagine che seguono ci occuperemo dei western cecoslovacchi – o alla cecoslovacca – usciti tra gli anni sessanta e ottanta. In via preliminare tracceremo il contesto storiografico del western cecoslovacco, dal periodo del muto agli anni Cinquanta, quindi analizzeremo il western comico e parodistico dei registi Oldřich Lipský e Emanuel Kaněra, con la parentesi psicologico-esistenziale tentata da Jan Schmidt e tratta da un racconto di Alexandr Grin. Proseguiremo con le serie western tratte da Jack London e dirette, per lo più, da Zdenek Sirový con l'apporto in scrittura di Jiří Křižan. Mi preme sottolineare che sulla nostra produzione western non esistono saggi accademici né testi che analizzino nel dettaglio gli aspetti interdisciplinari del western cecoslovacco. Spero con queste poche righe di attirare l'attenzione, più che degli specialisti, storici e ricercatori del cinema, degli appassionati italiani in modo da far conoscere meglio la cinematografica del mio paese. 7.1.1 Il western cecoslovacco dal periodo del muto agli anni Cinquanta. Del periodo del cinema muto sono conosciuti solo due film cecoslovacchi che possiamo etichettare quali western. Il primo è I Rivali (Sokové, 1911), diretto e fotografato da Antonín Pech. Purtroppo sono sopravvissute all'usura del tempo solo poche scene di questo film, per un totale di circa nove minuti. La pellicola, realizzata dalla società di produzione praghese Kinofa, è custodita presso l'Archivio Nazionale del Cinema di Praga dove sono disponibili solo pochi altri materiali e informazioni collegate al film. Dalle scene che abbiamo a disposizione emerge che i cineasti coinvolti avevano una cognizione precisa degli attributi tematici e degli elementi iconografici del western. Il film racconta la storia della rivalità tra un pistolero e un bandito e si intreccia con le sorti di due ragazze, una vestita di bianco e 681 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

una di nero. L'epilogo è tragico. Assistiamo alla morte dell'amante del bandito, cioè la ragazza vestita di bianco. Dal punto di vista iconografico e stilistico si intuisce la volontà del regista di ricostruire le ambientazioni messicane, ce lo suggeriscono anche i costumi dei banditi. È molto probabile che per gli spettatori dell'epoca il film avesse una grande forza attrattiva, del resto i messicani e il Messico venivano spesso raffigurati sulle copertine delle brossure della lunga serie dei romanzi popolari stranieri tradotti e pubblicati in ceco. Il secondo western cecoslovacco è La Collana di Titimek (Titimekův náhrdelník, 1919) di Václav Binovec, ancora una volta ascrivibile al muto. Purtroppo non è rimasta alcuna traccia di questo film, se non la descrizione della trama e qualche informazione filmografica. Le fonti parlano di Tommy Falley-Novotný quale sceneggiatore e direttore della fotografia, mentre nel ruolo di scenografo-architetto viene menzionato František Veselý. Dalle descrizioni si intuisce che la storia è ambientata in Messico e vede quale protagonista un emigrante cecoslovacco (interpretato dallo stesso Binovec) in cerca del tesoro degli Aztechi. A fronteggiarlo ci sono alcuni indigeni attratti dalla collana che l'uomo ha trovato in una tomba azteca, mentre dalla sua parte si schiererà una ragazza innamorata di lui. Dunque un film, che combina western e avventura esotica, in cui trovano spazio azione, dramma e sentimento in un unicum votato allo spettacolo. Si può pertanto intuire quanto nell'epoca del cinema muto l'industria cinematografica cecoslovacca fosse sensibile allo spettacolo popolare e come ricreasse un immagine romantica di un Messico fin troppo distante dalla nostra cultura. Il Messico è rappresentato anche in altro western cecoslovacco intitolato Pancho si Sposa (Pancho se žení, 1946) di Rudolf Hrušínský e František Salzer, girato nel periodo del sonoro. Il film ebbe una gestazione tribolata, essendo stato iniziato durante la seconda guerra mondiale e poi finito nella seconda metà degli anni quaranta. Ha un taglio parodistico e musicale che si avvicina al western successivamente diretto da Oldřich Lipský, con la collaborazione di Jiří Brdečka. Hrušínský e Salzer, combinando situazioni comiche e ironiche con l'iconografia, l'ambientazione e i costumi che caratterizzavano il Messico. Ne esce fuori una storia di rivalità tra due banditi messicani, Pancho e Pedro, innescata da una ragazza, Rosita, che entrambi vorrebbero sposare. Nel cast tecnico figurano il direttore della fotografia Ferdinand Pečenka e il compositore Jiří Srnka, che modellano una scenografia e una colonna sonora culturalmente colle682 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gata al Messico ma con caratterizzazioni comiche. Pancho si Sposa rappresenta, nell'ambito del nostro cinema, un esempio di trasformazione di un genere popolare in una nuova forma che ironizza su tutti gli elementi e gli attributi collegati al western, dalle situazioni drammatiche dei duelli alle costruzioni iconografiche e geografiche delle scenografie messicane. Possiamo inoltre indicare quale western La morte in Sella (Smrt v sedle, 1958) di Jindřich Polák, film d'avventura per ragazzi, ambientato nella Cecoslovacchia degli anni cinquanta. Questo film attinge dai riferimenti socioculturali e dalle idee romantiche della gioventù cecoslovacca innescate dai western letterari e cinematografici. Si racconta la storia di un ragazzo di diciassette anni, Tomáš (Rudolf Jelínek), che sogna di essere uno di quei pistoleri dei romanzi che legge e che d'improvviso diventa un autentico eroe, perché scopre il colpevole di una rapina e lo fa arrestare. Polák parla del western attraverso la passione dei giovani cecoslovacchi per la letteratura di questo genere. Il film ha una certa valenza storica poiché è uno dei primi film cecoslovacchi a esser girati in CinemaScope – EastmanColor, soluzione che gli ha conferito quella forma dello schermo panoramico tipica dei western. Il direttore della fotografia, Rudolf Milič, e il compositore delle musiche Evžen Illín hanno infine ricreato quegli aspetti, stilistici e formali, sintomatici di un western, ivi comprese le inquadrature panoramiche dei paesaggi e le situazioni d'azione rappresentate da duelli con le pistole e cavalcate nelle praterie. Nonostante l'intelaiatura western, il film si svolge tra la fantasia del ragazzo e la realtà legata alla Cecoslovacchia degli anni cinquanta e deve pertanto considerarsi un film ibrido. La produzione western cecoslovacca – come dimostrano questi film – non è molto ricca, tuttavia è innegabile l'interesse del pubblico locale verso il genere come dimostra la lunga serie dei romanzi western tradotti in ceco, per non parlare di quelli dati alle stampe dagli autori indigeni oppure la grande popolarità dei film western stranieri distribuiti sul territorio. Legate all'iconografia western, in particolare quella messicana, vi furono anche molte tavole realizzate dal disegnatore e pittore Zdeněk Burian, che illustrava molti romanzi western di autori mondiali quali Karl May, James Fenimore Cooper, Jack London, Jackson Gregory, Rex Beach, Zane Grey, Enrique Stankro Vráz e persino di qualche scrittore cecoslovacco come František Josef Čečetka e Alberto Vojtěch Frič. Questo per dire che in Cecoslovacchia il fuoco 683 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

del western è sempre stato vivo, magari non portato in superficie e reso fin troppo evidente, ma sotto sotto ha sempre continuato ad alimentarsi e a evolversi, pur se a piccoli passi. 7.1.2 Il western cecoslovacco tra commedia, parodia e dramma esistenziale. Nella prima metà degli anni sessanta, il regista Oldřich Lipský girò, estrapolandolo da uno dei suoi libri e lavori teatrali omonimi, il western comico-parodistico-musicale Limonata Joe o Opera di Cavallo (Limonádový Joe aneb Koňská opera, 1964) coscritto da Jiří Brdečka. Questo film ebbe rilievo internazionale tanto che fu distribuito in Europa Occidentale, in Sud America e persino negli Stati Uniti. Per l'occasione fu persino a costruito un villaggio western poi usato anche per le riprese di due western europei girati da coproduzioni tedescoitalo-francesi, ovvero Alla Conquista dell'Arkansas (1964) di Paul Martin e I Gringos non Perdonano (1965) di Ernst Hofbauer (versioni italiane firmate da Alberto Cardone) di cui parleremo in seguito. Negli stessi studios fu girato anche un altro western comico di produzione televisiva: Il Generoso Cowboy Sandy o La Sposa Perduta (Šlechetný cowboy sandy aneb Prohraná nevěsta, 1964) di Emanuel Kaněra, il cui titolo alternativo di distribuzione era Proč Sandy nechal vychladnout své pistole (Perché Sandy ha Lasciato Raffreddare le sue Pistole). Sebbene si tratti di una parodia, Lipský lavora su molti riferimenti culturali, letterari, teatrali, musicali e cinematografici con cui sviluppa un'intertestualità di genere. Così il suo lavoro pende sul versante della commedia grottesca, in virtù di una costruzione ironica degli attributi collegati al western. La caratterizzazione del protagonista, Joe (Karel Fiala), però è strutturata sul modello dei western del periodo muto e di quelli dei primi decenni successivi. Lipský mostra il suo pistolero quale un gentleman del west, vestito in bianco, che in certi sensi evoca i supereroi dei fumetti o i protagonisti dalla letteratura western. Beve solo limonate che gli conferiscono forza, ma finirà per cadere preda degli antagonisti che gli somministreranno del whisky mischiato alla bevanda prediletta. Questi ultimi sono una coppia di banditi messicani, Coyote Kid (Waldemar Matuška) e Pancho Kid (Karel Effa), avente la funzione di rappresentare la minoranza messicana 684 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

della città dove si svolge la grande parte della storia. Ciò che stacca col genere è la costruzione formale e iconografica degli ambienti, in altre parole vengono associate al western degli elementi che ne sono avulsi, tipo la presenza di una sfinge d'Egitto nel bel mezzo di un canyon dove passa il protagonista. Elementi questi atti a sortire un effetto comico ricreato mescolando tra loro aspetti propri di culture diverse. Gli altri personaggi hanno una caratterizzazione simile a quelli del western all'italiana: c'è il crudele giocatore di carte, Horác Hogo Fogo (Miloš Kopecký), stilizzato come un barone vestito di nero, quindi l'allegro becchino e il barbiere del paese, tutti tratteggiati con alta dose ironica. Compare pure Olga Schoberová, che interpreta una ragazza pistolera, Winifred Goodman, e dunque diversa dal solito. Sul versante tecnico si fa notare la scelta del direttore della fotografia, Vladimír Novotný, di usare nelle sue panoramiche in bianco e nero vari filtri di colore per stilizzare le inquadrature dei paesaggi, gli ambienti e i personaggi. La colonna sonora di Vlastimil Hála e Jan Rychlík sviluppa temi e linee jazz, blues e pop combinate a parti strumentali da grande orchestra. Nota conclusiva per l'architetto-scenografo Karel Škvor e i costumisti Jiří Brdečka, Fernand Vácha, Eva Lackingerová che riproducono ambientazioni, decorazioni, costumi, attrezzi e armi con grande attenzione nei dettagli rispettando in pieno l'iconografica western. Una piccola curiosità è legata a una dichiarazione resa dal regista, il quale ricorda che in origine il film si sarebbe dovuto girare in Jugoslavia, quanto meno per le esterne, con la compartecipazione di una società locale, ma la cosa, come abbiamo visto, saltò. Il secondo western girato dall'industria cecoslovacca negli anni sessanta fu La Colonia Lanfieri (Kolonie Lanfieri, 1969) di Jan Schmidt, coprodotto da società dell'Unione Sovietica e con esterni in Caucaso e Crimea. Questo film fu tratto dal racconto omonimo del russo Alexandr Grin. La lavorazione ebbe inizio nel 1967 e si estese al 1969 per varie ragioni politiche e altre connesse a problemi di produzione. Fu così distribuito solo nel 1969, con una critica che lo etichettò adventure movie, quando in realtà era un vero e proprio western. Protagonista è un tipo misterioso e solitario che si contrappone a una banda di desperados trovando così l'amore di una ragazza. La trama si sviluppa sul versante della vendetta, con inseguimento da parte del protagonista a danno dei desperados e regolamento dei conti finale. Schmit introduce alcuni dettagli (attributi e situazioni) che ne dimo685 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

strano il forte legame col western, come il protagonista che usa un fucile modello Winchester o l'introduzione di una scena di combattimento tra galli tipica delle bettole messicane. Dal punto di vista della psicologia dei personaggi, ma anche delle situazioni drammatiche e della stilizzazione realistica dei costumi e delle location (uso di una fotografia in bianco e nero a carattere un po' documentaristico), Schmidt si avvicina ai film di Zdenek Sirový tratti dai racconti di Jack London di cui parleremo in seguito. Gli esterni nel Caucaso e in Crimea conferiscono al film delle ambientazioni caratteristiche di quei western dove figurano steppe, praterie, burroni, rocce, dirupi o anche mare un po' come possiamo ritrovare in alcuni western all'italiana. La fotografia panoramica di Jiří Macháně è composta da inquadrature che si concentrano sui contrasti delle luci e le composizioni dei personaggi (e cavalieri) nei paesaggi. Da segnalare poi l'utilizzo da parte del compositore Jiří Šust di ritmi e strumenti che scandiscono temi funzionali a evocare movimenti, situazioni drammatiche e stati d'animo tipiche del western. Elogi infine per gli architetti-scenografi Jaroslav Krška, Georgij Kolganov, Vladimír Mácha, Vladimír Slepička e il costumista Theodor Pištěk per il loro puntuale lavoro nel predisporre scenografie e costumi che danno al film un carattere documentaristico e poetico che ben rappresenta il cinema cecoslovacco degli anni sessanta. Nella concezione narrativa e nella costruzione formale possiamo definire il film di Schmidt un western esistenziale che sottolinea la psicologia complessiva dello spettacolo popolare. 7.1.3 I western cecoslovacchi tratti dai racconti di Jack London. Agli inizi degli anni settanta, sia nell'Europa occidentale che in quella orientale, presero piede una serie di film tratti dai romanzi e dai racconti di Jack London, peraltro apprezzatissimi in Cecoslovacchia. Per tali ragioni produttori, registi e sceneggiatori iniziarono a guardare di buon occhio le produzione legate a Jack London. Lo stesso Harald Reinl, che aveva diretto alcuni western della serie di Karl May, realizzò delle coproduzioni tra Germania Ovest, Italia e Jugoslavia con esterni jugoslavi che portarono all'uscita del dittico Il Cacciatore Solitario (Der Schrei der schwarzen Wölfe, 1972) e La Lunga Pista 686 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dei Lupi (Die blutigen Geier von Alaska, 1973). Tali esempi, a cavallo tra gli anni settanta e gli anni ottanta, furono imitati anche dalle coproduzioni tra Germania Ovest, Francia e Romania tanto che uscirono pellicole quali L'oro Perduto degli Incas (Das verschollene Inka-Gold, 1978) di Wolfgang Saudte e I Cacciatori d'Oro (Cautatorii de aur, 1985) di Sergiu Nicolaescu e Alecu G. Croitoru. Tali produzioni venivano agevolate dalle location tipiche dell'Est Europa che ben si prestavano a ricreare ambientazioni polari. In Cecoslovacchia furono tratti diversi western dalle opere di London ed è grazie a queste produzioni che ha potuto prendere il via il regista Zdenek Sirový. Sirový diresse, agli inizi degli anni settanta, tre cortometraggi western - Un Canyon Tutto d'Oro (Kaňon samé zlato, 1970), L'Ultimo Colpo di David Sandel (Poslední výstřel Davida Sandela, 1970) e Claim sul Rio Sordo (Claim na Hluchém potoku, 1971) - che furono poi proiettati nei cinema come un unico film intitolato Un Canyon Tutto d'oro. Si trattava di film girati in Slovacchia, con set immersi in un ambiente nordico fatto di rocce, boschi e canyon profondi atti a simulare i paesaggi dell'Alaska. Questi film di Sirový, sceneggiati da Jiří Křižan, godono di una fotografia realistica firmata dal duo Jiří Macháně e Jiří Kolín. Le colonne sonore sono invece curate da Luboš Fišer e sono state scritte per una grande orchestra, con cori maschili, percussioni, fischi e chitarre a sottolineare i momenti drammatici e malinconici ovvero i destini tragici dei cacciatori d'oro e le lotte degli avventurieri per accaparrarsi l''oro. Le scenografie e i costumi, realizzati da Zdeněk Rozkopal e Theodor Pištěk, rispondono a logiche realistiche. Dal punto di vista contenutistico siamo alle prese con western concentrati sulla figura dei pionieri e dei cacciatori d'oro, rappresentati quali pistoleri e avventurieri disperati che lottano tra loro per mettere per primi le mani sull'oro. La trilogia fu concepita inizialmente sotto il titolo di lavorazione Il Potere dell'oro (Moc zlata), ma poi i produttori modificarono il titolo. Alla stessa maniera dei film di Jan Schmidt, i film di Sirový hanno un taglio caratterizzato da colori e immagini fredde collegate all'ambiente e al periodo autunnale, con un'atmosfera malinconica. Alla fine degli anni ottanta Zdeněk Sirový e lo sceneggiatore Jiří Křižan girarono un ulteriore western dal titolo Viaggio a Sud-Ovest (Cesta na jihozápad, 1989), nuovamente tratto da Jack London. Questa volta il set fu spostato sui Monti d'Oro dell'Altaj, nella Siberia meridionale, tra Mongolia e Unione Sovietica. A differenza degli altri lavori, è un vero e proprio lungometraggio girato su schermo panora687 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mico e curato dal direttore della fotografia Jiří Kolín. Il tema della pellicola ruota sull'avventurosa caccia a un tesoro lasciato da un vecchio avventuriero al nipote. La durata più estesa del prodotto finale ha permesso ai cineasti di sfruttare le esterne e di creare un western spettacolare impreziosito dall'apporto, nella fase iniziale di stesura della sceneggiatura, del drammaturgo Jan Gogola. Non mancano quindi scene d'azione, inseguimenti e cavalcate. Comune alle passate produzioni sono gli esterni volti a ricreare la natura selvaggia dell'Alaska. La narrativa di London fu utilizzata, sempre in Cecoslovacchia, anche per la realizzazione di alcuni serial televisivi. Possiamo menzionare L'Amore della Vita (Láska k životu, 1970) di Dušan Klein e la miniserie Fuga dal Paese d'Oro (Útek zo zlatej krajiny, 1977) di František Chmiel che ha aspetti iconografici in comune con i western classici per la presenza di saloon, diligenze, costumi, attrezzi, armi e personaggi e situazioni drammatiche. Nella prima metà degli anni novanta, il regista Jan Schmidt prese a girare, con esterni in Slovacchia e Canada, un altro western tratto da Jack London, La Situazione del Lupo (Situace vlka, 1994), che purtroppo è rimasto incompleto per problemi connessi alla produzione e complicazioni varie riconducibili alle tecniche cinematografiche utilizzate. Questo film doveva peraltro essere girato nel 1972 come La Giustizia del Lupo. È dunque chiaro che l'industria cinematografica cecoslovacca avrebbe potuto realizzare film popolari western, ma le più alte cariche dei Teatri di posa Barrandov, a Praga, ne hanno sempre osteggiato la produzione non reputando il genere collegato all'ideologia comunista. 7.1.4 Conclusioni Il western cecoslovacco – che possiamo definire anche come western alla cecoslovacca per rispettare la sua identità nazionale e socioculturale – rappresenta una parte minore della produzione cinematografica del mio paese, ciò nonostante ho voluto dimostrare come sia presente nella cultura cecoslovacca soprattutto nell'ambito della letteratura popolare, dove i nostri scrittori non hanno problemi di budget nel concepire le loro scene. La nostra distribuzione ha da sempre 688 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

presentato al pubblico i vari modelli di western europeo – compresi i western all'italiana –, concentrandosi poi su quelli di produzione tedesca, sia della Germania Ovest che di quella dell'Est. Sia i film della Germania occidentale, tratti dai romanzi di Karl May con Lex Barker e Pierre Brice protagonisti, sia quelli della Germania orientale, con Gojko Mitić, hanno riscosso grande successo nei cinema cecoslovacchi tra gli anni sessanta e ottanta, mentre il western locale ha avuto un suo sviluppo storico, socioculturale e industriale, figlio dell'immaginazione alimentata dai romanzi esteri importati e tradotti in ceco, piuttosto limitato. L'unico western cecoslovacco che può fregiarsi di una certa rilevanza internazionale rimane il solo Limonata Joe di Oldřich Lipský che ha aperto la via per “parodizzare” il cinema western. 7.2 Intervista a Jan Gogola sr: si possono considerare dei western i film di Zdenek Sirový? J.S: Nel nostro ambiente culturale il western ha una ricca rappresentazione nella letteratura, pittura, illustrazioni libresche, canzoni di country e persino nella cultura saccopelista. Perché è mancata una simile rappresentazione anche nella nostra cinematografia, secondo lei? Forse l'industria cinematografica cecoslovacca non aveva fiducia nel potenziale di questo genere relativamente al nostro contesto socioculturale o, tutto sommato, non c'erano grandi richieste da parte di pubblico e distribuzione? J.G: Penso che il western non abbia mai avuto una grande rappresentazione neppure nella nostra letteratura. Nella maggior parte dei casi si è trattato di traduzioni di romanzi stranieri, gli originali cechi non sono mai stati molti. Non conosco nel dettaglio la situazione nell'ambiente della pittura, ma penso di poter dire che anche in quel settore “la partecipazione western” non sia mai stata troppo grande. Secondo me il tutto ha una motivazione legata alle tradizioni, visto che il western non è né un genere ceco né ha forti legami con l'Europa. Tranne in Italia, dove è che ha avuto successo e buone condizioni di produzione? Da poche parti. Questo perché è “un'invenzione americana”. Noi siamo sempre stati capaci di girare – pur con risultati non sempre buoni – fiabe, film comici,commedie, ma quando abbiamo affrontato il western e anche i gialli, il poliziesco e il thriller non abbia689 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mo ottenuto buoni risultati; devo però ammettere che le ultime serie gialle e poliziesche della televisione ceca non sono male. È una situazione, questa, comune anche alle altre televisioni europee - tranne Inghilterra e negli ultimi tempi la Scandinavia. Per esempio l'ultima serie di Sherlock Holmes della BBC ha ottenuto grande successo ed è un qualcosa di irraggiungibile per la concorrenza europea. Alla stessa maniera i western hollywoodiani dell'epoca bastavano e bastano a saturare i bisogni del pubblico europeo. Mi chiedo allora che senso abbia girare dei western nella Repubblica Ceca? J.S: Se ignoriamo i film muti e il modello comico e parodistico western, arriviamo alla concezione drammatica e commovente del regista Zdenek Sirový e dello sceneggiatore Jiří Křižan agli inizi degli anni settanta. Si tratta di tre cortometraggi - Canyon tutto d'oro (Kaňon samé zlato, 1970), L'ultimo colpo di David Sandel (Poslední výstřel Davida Sandela, 1970) e Claim sul Rio Sordo (Claim na Hluchém potoku, 1971) - che erano spesso proiettati insieme sotto il titolo Canyon tutto d'oro. Come reputa questi film, è possibile denominarli western, secondo lei? J.G: Canyon tutto d'oro di Zdenek Sirový e Jiří Křižan rappresenta, nel contesto ceco, un'opera ragguardevole che è possibile includere nel genere western, ma non so se sarebbero d'accordo con questa catalogazione i cineasti, gli storici e i teorici cinematografici americani. J.S: All'epoca i film di Zdenek Sirový, nei materiali pubblicitari di distribuzione e negli articoli delle riviste cinematografiche e culturali, erano presentati quali film d'avventura, sebbene sviluppassero elementi western. Ne sono una dimostrazione gli attributi iconografici (paesi, ambienti, scenografia, cavalli, costumi, armi) e le situazioni caratteristiche (duelli, sparatorie, confronti fisici). In qual misura è possibile identificare gli elementi di un western nei nostri film sui cercatori d'oro? È possibile accettare le caratteristiche riconoscitive di cui parlo in questa domanda? J.G.: Come ho risposto nella domanda precedente, per le nostre condizioni e il nostro ambiente culturale probabilmente si, in un contesto straniero più ampio non saprei.

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J.S: Tutto il progetto di Zdenek Sirový e Jiří Křižan originariamente si doveva intitolare Il potere dell'oro. Questo titolo è registrato anche nella copia della sceneggiatura letteraria e tecnica. Per quali ragioni è stato cambiato, forse Canyon tutto d'oro dava meglio l'idea di un western? J.G: Quando furono girati questi film tratti da Jack London non conoscevo ancora personalmente Zdenek Sirový e Jiří Křižan, per cui non saprei rispondere. J.S: Zdenek Sirový nella sua autobiografia ricorda che il produttore e distributore hollywoodiano Mr.Sunner, dopo le proiezioni di questi film, gli offrì la regia di una serie western americana con esterni in Europa. Uno degli attori doveva essere Robert Redford. Il progetto purtroppo non fu realizzato. Per quali ragioni saltò tutto? Come si doveva intitolare la serie e quali attori, sceneggiatori e cineasti avrebbe dovuto avere a disposizione Sirový? J.G: Anche su questo ho risposto parzialmente nella domanda precedente. A ogni modo, Zdenek Sirový, dopo aver diretto il suo migliore film, La Festa Funerale (Smuteční slavnost, 1969), è stato chiuso in una cassaforte, “eliminato” dal regime comunista e trasferito al lavoro di doppiaggio dei film. Gli fu vietato di girare un western negli Stati Uniti per ragioni politiche. J.S: I romanzi e i racconti di Jack London, negli anni settanta, hanno ricevuto un grande interesse dei cineasti che ne hanno curati molteplici adattamenti. Anzitutto in Italia, Germania Ovest e Romania. Alcuni di questi film sono stati presentati anche nella nostra distribuzione. Persino il regista Zdenek Sirový e lo sceneggiatore Jiří Křižan si interessarono al genere. Per quali ragioni solo negli anni settanta presero piede queste produzioni? Quali riferimenti critici e quali riscontri ebbero i film londoniani di Sirový nel contesto internazionale? J.G: Non ho idea di quanti film cecoslovacchi siano stati tratti dalle opere di London, né quanti furono progettati. Costituirono una reazione al periodo di normalizzazione che lentamente arrivava. Si trattava di una “fuga” in un campo non ideologico. In quei tempi si richiedeva troppo impegno politico comunista nei film e questo significava 691 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

scrivere e girare opere celebrative sui meriti bolscevichi nella storia e anche sull'impatto nel nostro paese. Nei film tratti da London non esistevano connotazioni ideologiche... Sulla seconda domanda non so rispondere, ma penso che i riferimenti critici di quei film non furono straordinari né da noi né all'estero. J.S: Durante il periodo comunista furono distribuiti western hollywoodiani, italiani e anche altri film di questo genere importati dall'Europa occidentale. Sirový e Křižan, durante le preparazioni alle riprese dei loro film, si ispiravano a queste opere? Avevano invece i western cecoslovacchi tratti da London, relativamente alla loro linea tematica, narrativa e formale, delle influenze sugli altri nostri film londoniani? J.G: Non ero presente durante le preparazioni e le riprese dei film di Sirový e Křižan, ma conoscevo bene entrambi. Erano sicuramente informati e conoscevano molto bene i film di cui si fa cenno nella domanda, ma andavano per la loro strada e in nessuno caso avrebbero copiato i western stranieri. J.S: Nel 1972 doveva uscire un altro adattamento da Jack London che doveva intitolarsi La situazione del lupo (Situace vlka), con sottotitolo La giustizia del lupo (Vlčí soud), la cui sceneggiatura fu scritta da Pavel Juráček. Chi doveva dirigere la prima versione della sceneggiatura e dove si doveva girare? Perché il progetto non fu realizzato? J.G: Pavel Juráček in quel periodo, per ragioni politiche, era caduto in disgrazia e la sceneggiatura La situazione del lupo era stata “firmata“ anche dal regista Jan Schmidt. Non so perché il film non vide la luce, ma temo che Pavel Juráček non riuscì a completare la sceneggiatura. J.S.: Solo nel 1994 Jan Schmidt decise di girare la sceneggiatura di Pavel Juráček. Le riprese ebbero inizio in Slovacchia e poi la troupe si trasferì in Canada, ma per ragioni tecniche il film è rimasto incompiuto. Lei ha collaborato al film? Quali problemi sorsero? J.G: Parlare della storia della sceneggiatura de La situazione del lupo della fine degli anni ottanta e inizi anni novanta per me, anche dopo tanti anni, è molto difficile. Dopo il ritorno di Pavel Juráček dalla 692 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Germania Ovest, dove era emigrato a metà anni ottanta, mi sono incontrato varie volte con lui, grazie a Zdenek Sirový. Ci sentivamo spesso e parlavamo anche della sceneggiatura de La situazione del lupo. Chiesi varie volte a Juráček di inviarmi il testo per cercare di farla approvare dai Teatri di posa e studi di cinema di Gottwaldov (oggi Zlín). Solo dopo un anno Juráček si decise a mostrarmi il tutto, dicendomi di aver scritto il testo per Zdenek Sirový e per me e di non volere Jan Schmidt come regista. Dopo qualche giorno, insieme a Zdenek, portammo Pavel all'ospedale dove fu ricoverato. Proprio in quei giorni riuscii a far firmare il contratto dal direttore dei teatri di posa cinematografici di Gottwaldov e lo comunicai per telefono a Zdenek, dicendogli che era un miracolo! Il direttore di Gottwaldov era infatti un patito comunista e stalinista, poco interessato al genere. Dissi quindi a Zdenek che mi sarei catapultato presso l'ospedale di Praga per firmare il contratto con Pavel. Purtroppo Pavel era morto già da alcune ore. La notizia ci sconfortò, ma non perdemmo l'entusiasmo. Mandammo la sceneggiatura per il grant e ricevemmo cinque o sei milioni di budget, oltre qualche altro fondo finanziario. Così iniziammo a preparare le riprese del film, ma all'improvviso fui richiamato da un gruppo drammaturgico nei teatri di posa di Barrandov, a Praga, dove mi mostrarono il contratto del soggetto della Situazione del lupo del 1972, su cui figurava la firma di Jan Schmidt. Poiché non avevamo i diritti d'autore sul soggetto fummo costretti ad abbandonare la lavorazione, riconsegnare il testo e rimborsare i soldi. Quindi la nostra intenzione di realizzare il film evaporò come neve al sole. J.S: Come ho già menzionato, del progetto rimase soltanto il torso con alcune scene girate. Quale scene e inquadrature sono state girate e dov'è custodito il girato? Partecipavano anche compagnie di produzione, attori e cineasti canadesi? J.G: Se sono stato informato bene, è stato girato circa venti minuti di film in Canada e poi è stato bloccato per mancanza di fondi. Che fine abbia fatto il materiale girato, non lo so. J.S: Nel 1999 ha provato a ricostruire il progetto incompiuto del regista František Antonín Brabec che insieme allo sceneggiatore e regista Jan Němec ha introdotto delle varianti alla sceneggiatura originale di Pavel Juráček. Lei ha partecipato a questa terza fase del progetto? 693 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Quali sono le ragioni che hanno portato al naufragio anche di questo terzo tentativo? J.G: In realtà non so niente di questo tentativo del 1999. Quello che posso dire è che la sceneggiatura La situazione del lupo di Pavel Juráček è uno dei migliori testi cinematografici tra tutti quelli che ho letto nella mia carriera cinematografica. Era, e lo è tutt'ora, un testo meraviglioso. J.S: L'opera di Jack London è sempre stata popolare tra i lettori cecoslovacchi. Lei conosce altri progetti cinematografici cecoslovacchi tratti delle opere di London che non sono stati realizzati? J.G: Non ne sono a conoscenza. J.S.: Vorrei soffermarmi sul western Viaggio a sud-ovest (Cesta na jihozápad, 1989) di Zdenek Sirový, tratto della sceneggiatura di Jiří Křižan a cui lei ha collaborato come drammaturgo. Questo film doveva essere realizzato in coproduzione con la Germania Ovest. La sceneggiatura letteraria fu scritta nel 1986 e la sceneggiatura tecnica nel 1988. Perché il film è uscito solo nel 1989? Come si è sviluppato il processo di approvazione delle riprese e quali furono le condizioni della lavorazione? J.G: Il problema più grande fu la scelta delle location. Avevamo bisogno di un fiume irruente, dal grande letto e dotato di grande spazio. Il fiume Dunajec, che si trova tra Slovacchia e Polonia, era troppo stretto e sprovvisto dello spazio intorno che ci interessava. Dopo lunghe e complicate ricerche, la produzione decise di girare il film sui monti Altai, in Unione Sovietica. Preparare a Gottwaldov (oggi Zlín) le riprese in Unione Sovietica dava al film un che d'interessante e commovente, per non parlare poi del fascino dei monti Altai. Non sono stato sui set sovietici, ma ne ho sentito molto parlare e ho visto la documentazione fotografica sulla realizzazione del film. J.S: Questo film è stato girato ancora una volta sui caratteri dell'opera di Jack London. Come era la sua comunicazione creativa con lo sceneggiatore Jiří Křižan e il regista Zdenek Sirový? Quali modifiche 694 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

apportò alla sceneggiatura e da quale opera di London deriva il soggetto? J.G: Non so quale racconto di Jack London funse da ispirazione a Jiří Křížan. Si trattava di una storia dove era necessario, per il senso di minaccia che gravava permanente sulla coppia di protagonisti (un vecchio uomo e un ragazzino), mantenere sempre alta la tensione. Credo che sia la sceneggiatura che il film non siano riusciti a centrare l'obiettivo. J.S: Gli esterni dei film girati sulle montagne Altai della Siberia Ovest sviluppano attributi iconografici strettamente collegati al western. Come venivano organizzate le riprese nel cuore della Siberia e come è riuscito a ottenere dalla produzione il placet per quegli esterni? Come trasportavate il materiale necessario per le riprese dalla Cecoslovacchia alla Siberia? J.G.: La produzione di questo film faceva capo al produttore Kamil Spáčil, che era all'epoca il più giovane direttore di produzione di tutte le compagnie cinematografiche cecoslovacche. Ha fatto un lavoro meraviglioso. Il materiale necessario per le riprese veniva spostato in dei contenitori caricati sugli elicotteri. Nel deserto siberiano non c'era la corrente elettrica e i primi villaggi erano distanti circa 150 chilometri dalle nostre location. Ci spostavamo con automobili da trasporto e camion senza distrazioni di sorta, tutti i componenti della troupe cercavano solo il modo di girare bene e rapidamente. J.S: Questo film racchiude in se le caratteristiche iconografiche, tematiche e drammatiche del western, come nel caso dei film precedenti di Zdenek Sirový. Se usciamo dalla costruzione e definizione teorica, il western è una forma specifica del film d'avventura e i film di Sirový sviluppano aspetti tipicamente western. Come percepisce questo film nella comparazione di generi rispetto ai precedenti lavori di Sirový? Sirový voleva concepire il suo film dal punto di vista narrativo e formale come un western? J.G.: Viaggio a sud-ovest è un film d'avventura che include elementi usati dal cinema western, ma non oso definirlo un western puro. Volevamo fare un film spettacolare di tensione, con attributi western, 695 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

pur conoscendo i nostri limiti e ben sapendo di aver scelto uno stile diverso da quello che avrebbero adottato i cineasti hollywoodiani. Sviluppavamo in questo modo le nostre considerazioni personali a proposito di western. J.S: Il manifesto cinematografico di distribuzione della prima proiezione cecoslovacca di Viaggio a sud-ovest includeva slogan pubblicitari “Il drammatico confronto nel mondo dell'oro tra gli uomini rudi e la natura selvaggia”. La concezione visuale del manifesto, con i motivi grafici del gruppo dei cavalieri nella prateria, parla al pubblico con attributi iconici riconducibili al western. Cinque anni fa, Jiří Křížan mi ha detto che considera i film di Zdenek Sirový dei western. In che modo erano percepiti questi film nel nostro contesto culturale? C'erano discussioni tese a chiarificarne il genere di appartenenza? J.G: Canyon tutto d'oro e Viaggio a sud-ovest si possono considerare dei tentativi di western. Zdenek Sirový non ha poi girato altri film di questo tipo, cosicché ritorno su quanto espresso a inizio intervista. Secondo la mia opinione il western è un genere specifico del cinema hollywoodiano, alla stessa maniera della commedia slapstick e del grottesco crazy. Ci hanno provato alcuni cineasti europei come Sergio Leone o Jacques Tati – creatore di signor Hulot – che giravano questi generi con classe, ma si tratta di eccezioni che confermano la regola... J.S: La distribuzione cecoslovacca favoriva la distribuzione dei western hollywoodiani, italiani e tedesco-occidentali, in particolare la serie legata ai romanzi di Karl May. Qual posizione avevano i western stranieri nella cultura e nella società cecoslovacca? Quale atteggiamento aveva la nostra distribuzione, quali rapporti con la censura e il pubblico? J.G: Nella nostra distribuzione non c'erano tanti western. La grande ripercussione e successo sul nostro pubblico che avevano i western tedeschi tratti da Karl May, penso che possa riscontrarsi spulciando gli archivi cinematografici. La ragione di questa popolarità era motivata dalla mancanza, nella nostra distribuzione, di film di questo genere, ma anche da una certa nostalgia culturale. Molti uomini avevano in casa i libri di Karl May, essendo stati pubblicati in massa nel periodo della prima repubblica. Volumi quindi letti non solo dalle gio696 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

vani generazioni, ma anche da quelle più vecchie. Per quanto riguarda i western americani, non mi ricordo quando distribuirono Mezzogiorno di fuoco (High Noon, 1952) di Fred Zinnemann né quando fu distribuito C'era una volta il West (1968) di Sergio Leone, ricordo però le sale piene e l'amore manifestato dai nostri spettatori. Allora però la distribuzione e anche la censura erano dirette dal dipartimento competente del Comitato centrale del Partito comunista della Cecoslovacchia, che controllava che i film stranieri non invadessero troppo la nostra distribuzione. Seguivano regole ferree, con tanto di quote numeriche che non si dovevano superare. C'era un numero percentuale sul totale dei film proiettati corrispondente al numero dei singoli film sovietici, dei film cecoslovacchi, dei film dei paesi socialistici e forse dei film dei paesi sottosviluppati e affiliatati... Per gli Stati Uniti e i paesi occidentali vi era una soglia massima, se non ricordo male, del 20% del numero complessivo dei film distribuiti. La invito a verificare questo numero, ma forse mi sbaglio. La ringrazio cordialmente per l'intervista. Ringraziamenti anche da parte di Matteo Mancini. Jan Gogola Sr. (*1944) è un drammaturgo, soggettista e sceneggiatore di teatro, cinema e televisivo, pedagogo accademico, professore degli studi di cinema all'università, regista di film documentari e attore di cinema. Ha lavorato come drammaturgo per lo Slovácké divadlo (Teatro slovacco) a Uherské Hradiště, per i Teatri di posa a Gottwaldov (oggi a Zlín), Teatri di posa a Barrandov a Praga e per la compagnia di produzione Krátký film Praha (Il film cortometraggio Praga), a Praga. Ha insegnato al FAMU (La facoltà di cinema e della televisione dell'Accademia delle arti performative) a Praga, alla Cattedra di studi di teatro, cinema e dei media dell'Università di Palacký a Olomouc. Oggi lavora e insegna la drammaturgia di teatro e cinema al JAMU (Accademia delle arti performative di Janáček) a Brno. È stato direttore del Vyšší odborná škola filmová (La scuola specializzata di cinema più alta) a Zlín. Come drammaturgo ha collaborato a più di trenta lungometraggi. Per quanto riguarda il genere western alla cecoslovacca ha collaborato al film Il viaggio al sud-ovest (1989) di Zdenek Sirový e al film incompiuto La situazione del lupo (1994) di Jan 697 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Schmidt, ma soltanto alla versione che doveva dirigere Zdenek Sirový tratta dalla sceneggiatura originale di Pavel Juráček. 7.3 L'apporto del cinema cecoslovacco ai western dell'Europa occidentale. Analizzeremo qui di seguito i western realizzati e prodotti con la partecipazione creativa o produttiva del cinema cecoslovacco. Svilupperemo le connotazioni socioculturali e iconografiche che mettono in relazione questi film ai western all'italiana, rappresentate da alcuni elementi formali di stile cinematografico, di scenografia, ambientazione e costumi che costituiscono parte integrante dell'iconografia di genere. Ci occuperemo di tre casi di connessione culturale tra cinema cecoslovacco e western all'italiana, in senso di partecipazione dei nostri attori, cineasti e tecnici a western prodotti da società legate a distinti Stati dell'Europa occidentale o direttamente a western italiani realizzati, nella seconda metà degli anni sessanta, grazie al contributo economico di produttori spagnoli. Nella prima parte ci imbatteremo in due western realizzati in coproduzione tra Germania Ovest, Italia e Francia poi presentati nei cinema italiani come diretti da Alberto Cardone. La seconda parte sarà concentrata sul regista cecoslovacco Leopold Lahola, che ha diretto in Jugoslavia, nel 1965, dei western di coproduzione tedesca-italiana-jugoslava con due attori italiani: Terence Hill e Giacomo Rossi-Stuart. Nella terza parte parleremo infine dei ruoli interpretati dall'attrice cecoslovacca Zuzana Martínková, apparsa in tre western all'italiana girati in Spagna e diretti, tra il 1967 e il 1969, da Giovanni Fago, da Vincenzo Musolino e da Mario Siciliano. Si tratta delle uniche incursioni, dirette e indirette, del cinema cecoslovacco nel western all'italiana, un genere quest'ultimo che, nella Cecoslovacchia comunista, era rappresentato solo dai pochi titoli presentati dalla distribuzione locale. Dal 1963 al 1973 furono distribuiti in Cecoslovacchia solo tre western italiani: Il Mio Nome è Pecos (1966) di Maurizio Lucidi, C'era una Volta il West (1968) di Sergio Leone e O'Cangaceiro (1969) di Giovanni Fago. Negli anni successivi arrivarono altri western italiani: I Quattro dell'Ave Maria (1968) di Giuseppe Colizzi, ...Continuavano a Chiamarlo Trinità (1971), ...E poi lo Chiamarono il Magnifico (1972) di Enzo Barboni, Alleluja e Sartana figli di... Dio (1972) di Mario Sici698 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

liano, Partirono Preti, Tornarono... Curati (1973) di Stelvio Massi, Cipolla Colt (1975) di Enzo G. Castellari, Zorro (1975) e Tex e il Signore degli Abissi (1985) di Duccio Tessari. Per vedere gli altri western all'italiana si è dovuto attendere gli inizi degli anni Novanta, con l'affermarsi del fenomeno culturale costituito dall'avvento delle videoteche. Proprio con le videocassette e il diffondersi della programmazione televisiva gli spettatori cecoslovacchi hanno potuto scoprire gli sterminati titoli della produzione western italiana formata da film rimasti nei decenni precedenti del tutto sconosciuti. Un aspetto quest'ultimo comune anche ad altri generi popolari proposti dal cinema italiano, visto che la distribuzione cecoslovacca dell'epoca preferiva modelli di spettacolo assai distinti. 7.3.1 I due western tedesco-italo-francesi girati nella Cecoslovacchia. Nella prima metà degli anni sessanta sono stati realizzati in Cecoslovacchia due western che hanno coinvolto produzioni tedesche, italiane e francesi. Si tratta di film spettacolari girati per la distribuzione internazionale dalle compagnie di produzione di Wolf C. Hartwig e di Mario Siciliano. Pur se girati in Cecoslovacchia questi film non hanno coinvolto società cecoslovacche, ci si è limitati a realizzarli sfruttando gli esterni del posto e gli interni degli stabilimenti praghesi dei Teatri di posa di Barrandov in cui, qualche hanno prima, erano state allestite delle scenografie usate per le riprese di alcuni western parodistici e musicali cecoslovacchi, che hanno l'esempio più marcato in Limonata Joe o Opera di Cavallo (Limonádový Joe aneb Koňská opera, 1964) di Oldřich Lipský. Mario Siciliano, che ha coprodotto entrambi questi western con una sua società di produzione, la Metheus Film, aveva prodotto negli anni sessanta un western musicale comico, I Magnifici Brutos del West (1964) di Marino Girolami, produrrà in seguito altri due western diretti da Alberto Cardone, 1000 Dollari sul Nero (1966) e 7 Dollari sul Rosso (1966) e un trio di western da lui stesso diretti: I Vigliacchi non Pregano (1968), Alleluja e Sartana Figli di... Dio (1972) e Trinità e Sartana, Figli di... (1972). La partecipazione produttiva nei due western prodotti da Siciliano e girati in Cecoslovacchia da parte delle società tedesche si spiega anche dal fatto che esistono più ver699 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sioni distribuite, sia in Italia che in Germania, con montaggi diversi. Lo testimoniano i dati di distribuzione nell'Archivio del Cinema Italiano (ANICA) e il materiale d'epoca costituito da manifesti, locandine, fotobuste. Il primo di questi film è Alla Conquista dell'Arkansas (Die Goldsucher von Arkansas, 1964) di Paul Martin, tratto dal romanzo “Die Regulatoren von Arkansas – I regolatori dell'Arkansas” del tedesco Friedrich Gerstäcker. In questa versione tedesca Albero Cardone viene presentato come regista della seconda unità e regista delle scene d'azione, mentre nella versione italiana diviene regista con partecipazione alla sceneggiatura di Nino Scolaro. Il film ha un cast internazionale costituito da Brad Harris, Horst Frank, Mario Adorf, Olga Schoberová, Serge Marquand, Ralf Wolter, Josef Egger, Fulvia Franco, Carla Calò, Bruno Carotenuto, Philippe Lemaire, Dorothee Parker, Dieter Borsche, Marianne Hoppe e Thomas Alder. Nel cast tecnico, tra gli italiani, figurano il compositore Francesco De Masi, il conduttore del coro Alessandro Alessandroni, l'aiuto regista Nino Scolaro e il direttore di produzione Antonio Morelli. Nella versione tedesca le musiche portano la firma di Heinz Gietz e alcuni suoi temi verranno poi pubblicati insieme alle musiche di De Masi nella colonna sonora in LP vinile editata in Italia nel 1980. Da parte cecoslovacca figurano il direttore della fotografia Jan Stallich, l'architetto-scenografo Jan Zázvorka, il costumista Fernand Vácha e alcuni attori nelle parti minori come Jaroslav Rozsíval, Jan Diviš, Jiří Holý, Jan Pohan, Miloš Vavruška, Vladimír Hrubý e Karel Hábl. Il soggetto e le sceneggiatura del secondo film, I Gringos non Perdonano (Die Schwarzen Adler von Santa Fé, 1965) di Ernst Hofbauer, sono firmati da Jack Lewis (probabilmente uno pseudonimo) e dall'autore italiano Valerio Bonamano, di cui non abbiamo informazioni precise. Anche in questo caso figura come regista della seconda unità e regista delle scene d'azione Alberto Cardone, che è nuovamente nella versione distribuita sul mercato italiano il regista del film. Il cast è ancora una volta internazionale, partecipano attori hollywoodiani, tedeschi, francesi, spagnoli e jugoslavi, oltre agli italiani Ennio Girolami (con pseudonimo Thomas Moore) e Tony Kendall (Luciano Stella). Il cast è così formato da Brad Harris, Horst Frank, Serge Marquand, Joseph Egger, Jacques Bézard, Joachim Hansen, Pinkas Braun, Werner Peters, Helga Sommerfeld, Edith Hancke, nelle parti minori troviamo gli attori spagnoli Lorenzo Robledo e Ángel Ortiz strettamente colle700 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gati al western italiano degli anni Sessanta e Settanta. Dei cecoslovacchi è rimasto solo qualche nome nel cast tecnico ovvero l'architettoscenografo Jan Zázvorka e il costumista Fernand Vácha. A Praga, nell'Archivio Nazionale di Cinema, è ancora archiviata la sceneggiatura tedesca di questo film ed è anche presente la versione ceca tradotta da Eva Štíchová, poi pubblicata all'interno di un libro come sceneggiatura tecnica. Questa traduzione dimostra che il testo serviva ai cineasti e ai tecnici cecoslovacchi durante le riprese. Come abbiamo menzionato, entrambi i film sono stati girati negli esterni cecoslovacchi e nei teatri di posa di Barrandov, a Praga, dove erano disponibili degli interni saloon e un piccolo villaggio western. Nel caso de I Gringos non Perdonano gli esterni furono girati, oltre che in Cecoslovacchia, anche in Spagna. Tale scelta produttiva ha presentato il vantaggio di impreziosire il film con delle scenografie e paesaggi assai distinti, diventando inoltre l'unico western europeo che ha combinato esterni e culture tra loro molto diverse. Alberto Cardone era uno specialista del genere, spesso interessato a storie malinconiche infarcite da riferimenti culturali ripresi dalla tragedia greca. Tra i suoi western si ricordano 1000 Dollari sul Nero (1966), 7 Dollari sul Rosso (1966), 2000 Dollari sul 7 (1967), Il Lungo Giorno del Massacro (1967), L'ira di Dio (1968) e 20.000 Dollari Sporchi di Sangue (1969). Si tratta di opere che sviluppano drammi familiari figli della vecchia cultura ellenica. Cardone usava il western come strumento iconografico e formale per raccontare dei principi e dei fattori umani che si sarebbero potuti adattare a qualsiasi altra forma di genere popolare. Negli stessi teatri di posa di Barrandov, a Praga, fu realizzato per la televisione un altro western della Germania Ovest ovvero Destry Cavalca Ancora (Destry reitet wieder, 1966) di Dietrich Haugk, tratto dal romanzo omonimo “Destry Rides Again” di Max Brand che è stato tradotto e pubblicato in Cecoslovacchia nel 1930 col titolo “Il Cavaliere Selvaggio”. Si tratta dell'ennesima versione di un volume più volte omaggiato dai western hollywoodiani, con titoli quali Il Re del Far West (Destry Rides Again, 1932) di Benjamin Stoloff, Partita d'Azzardo (Destry Rides Again, 1939) di George Marshall e Storia di Tom Destry (Destry, 1954) diretto nuovamente da George Marshall. Il film di Dietrich Haugk è girato in bianco e nero per il circuito televisivo tedesco e ha struttura simile ai film hollywoodiani. Alla produzione parteciparono anche cineasti e tecnici cecoslovacchi, inoltre le riprese fu701 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

rono realizzate negli stabilimenti del villaggio western costruito dall'architetto e scenografo Karel Škvor per Limonata Joe o Opera di cavallo di Oldřich Lipský. Sul film di Haugk abbiamo a disposizione solo poche informazioni, grazie ai reperti conservati nell'Archivio Nazionale di Cinema di Praga. Purtroppo, dagli anni sessanta agli anni novanta, non è mai stato distribuito dalla nostra televisione. Mi preme ora parlare dell'attrice cecoslovacca Olga Schoberová, conosciuta in Itala col nome Olinka Berova, ma che ha recitato anche nel western cecoslovacco Limonata Joe o Opera di cavallo di Oldřich Lipský. I più se la ricorderanno impegnata in quattro film prodotti dall'industria cinematografica italiana nella seconda metà degli anni Sessanta. Mentre Strategic Command Chiama Jo Walker (1967) di Gianfranco Parolini è un film d'azione e spionistico appartenente alla lunga serie popolare dell'agente segreto Jo Walker (in Germania Ovest chiamato Commissario X), gli altri tre film che la vedono coinvolta si sviluppano per altre vie. Abbiamo il dramma erotico in costume di Lucrezia, l'Amante del Diavolo (1968) di Osvaldo Civirani e de Le Caldi notti di Poppea (1969) di Guido Malatesta, ma anche il dramma d'azione sviluppato nell'ambiente delle corse automobilistiche rappresentato da Formula 1: Nell'Inferno del Grand Prix (1970) di Guido Malatesta. La Schoberová ha poi recitato in un altro western musicale confezionato da una coproduzione di tre stati: Germania Ovest, Austria e Jugoslavia. Si tratta de Il Conte Bobby, il Terrore del Wild West (Graf Bobby, der Schrecken des wilden Westens, 1966) di Paul Martin, che ha diretto anche la versione tedesca de Alla Conquista dell'Arkansas, un'opera caratterizzata da elementi e situazioni votate all'ironia. Parleremo ancora di lei nel parallelo con un'altra attrice cecoslovacca, Zuzana Martínková. 7.3.2 Il western tedesco-italo-jugoslavo del regista cecoslovacco Leopold Lahola. Leopold Lahola era un regista e sceneggiatore cecoslovacco emigrato, nella prima metà degli anni sessanta, in Germania Ovest. È famoso in patria per aver girato un western, realizzato da una coproduzione tra Germania Ovest, Italia e Jugoslavia, intitolato Sparate a Vista su Killer Kid! (Duell vor Sonnenurtengang, 1965). Si tratta di un'opera, coprodotta dalla Duca Compagnia Cinematografica di Tullio 702 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Bruschi, distribuita in Italia con svariati altri titoli, quali Ragazzi, Sparate a Vista su Killer Kid o Killer Kid. Vanta un cast internazionale composto da attori tedeschi (Peter van Eyck, Wolfgang Kieling e Carl Lange), hollywoodiani (Walter Barnes e Carole Gray) e italiani (Terence Hill, ancora col suo vero nome Mario Girotti, e Giacomo RossiStuart). Alla stessa maniera di Lahola, anche Terence Hill all'epoca lavorava per l'industria cinematografica tedesca, tant'è che prese parte a quattro western tedeschi tratti dai romanzi di Karl May: Giorni di Fuoco (Winnetou - 2. Teil, 1964) di Harald Reinl, Là Dove Scende il Sole (Unter Geiern, 1964), Surehand, Mano Veloce (Old Surehand, 1965) di Alfred Vohrer e Uccidere a Apache Wells (Der Ölprinz, 1965) di Harald Philipp. Il western di Lahola ha in comune con la serie Winnetou e Old Shatterhand l'aspetto geografico, si tratta infatti di un film girato negli esterni e negli stabilimenti dei villaggi western jugoslavi, con la partecipazione di attori e tecnici del posto. Le location jugoslave vengono sviluppate da Lahola in una geografia e iconografia esotica che evoca la frontiera tra Stati Uniti e Messico. Tuttavia, si tratta di un'altra variazione socioculturale del western, non è una riproduzione fedele degli aspetti storico-geografici del west americano, bensì un modello basato su temi, narrazioni, situazioni e iconografie legate allo spettacolo popolare. A quei tempi gli esterni jugoslavi erano molto ambiti, anche dalle produzioni italiane, in quanto offrivano vantaggi apprezzabili in termini di location, villaggi western, ma soprattutto di tecnici e condizioni di lavoro alquanto economiche. In Jugoslavia sono stati girati, per esempio, Massacro al Grande Canyon (1963) di Sergio Corbucci, Per un Dollaro a Tuscon si Muore (1964) di Cesare Canevari, Il mio Corpo per un Poker (1967) di Lina Wertmüller e ...E poi lo chiamarono il Magnifico (1972) di Enzo Barboni, film in cui possiamo trovare connotazioni socioculturali e geografiche comuni ai western tedeschi girati nei medesimi spazi. Oltre a tali film vi fu realizzato anche il western francese Febbre di Rivolta (Le goût de la violence, 1961) di Robert Hossein, ambientato nel periodo della rivoluzione messicana. Tutti questi esempi dimostrano che la Jugoslavia era, insieme alla Spagna, un paese importante per tali produzioni. Dopo Sparate a Vista su Killer Kid, Leopold Lahola iniziò a lavorare a un altro western prodotto da società della Germania Ovest, sempre in Jugoslavia, tratto da un romanzo di Karl May. Stiamo parlando de La Battaglia di Fort Apache (Old Shatterhand, 1964) concepito dal 703 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

produttore tedesco Artur Brauner. Lahola fu tuttavia allontanato, dopo alcune settimane di lavoro per complicazioni sorte sul set, e sostituito da Hugo Fregonese. Fregonese, più tardi, produrrà il western italiano Joe... Cercati un Posto per Morire! (1967) di Giuliano Carnimeo, ma questa è un'altra storia. Secondo alcuni Lahola sarebbe anche autore di una delle versioni della sceneggiatura di Old Shatterhand. La sceneggiatura fu poi fatta riscrivere, su invito di Artur Brauner, perché la produzione chiese di rendere più frizzante la storia originale di Karl May. Il western tedesco, che possiamo per sua identità socioculturale nazionale definire come western alla tedesca, rappresentò in questa prima fase una produzione molto importante per il modello di western europeo, perché aprì la strada della produzione western in Europa. La lunga serie popolare dei personaggi Winnetou e Old Shatterhand, interpretati dal divo hollywoodiano Lex Barker e dall'attore francese Pierre Brice, non rimangono gli unici film del western tedesco. Western come Agguato sul Grande Fiume (Die Flußpiraten vom Mississippi, 1963) di Jürgen Roland, Sei Pallottole per Ringo Kid (Freddy und das Lied der Prärie, 1964) di Sobey Martin, Grido di Vendetta (Heiss weht der Wind, 1964) di Rolf Olsen, Sfida a Glory City (Die Hölle von Manitoba, 1965) di Sheldon Reynolds, Lo Sceriffo non Paga il Sabato (Sie nannten ihn Gringo, 1965) di Roy Rowland e Una Bara per Ringo (Wer kennt Jonny R.?, 1966) di José Luis Madrid, girati spesso grazie all'apporto economico di coproduzioni di diversi stati europei, ebbero il pregio di anticipare la violenza e il cinismo dei futuri western all'italiana. Dal punto di vista iconografico e geografico si avvicinano al western italiano La lunga Strada della Vendetta (Der Letzte Ritt nach Santa Cruz, 1963) di Rolf Olsen e Rio Diablos (Die Banditen vom Rio Grande, 1964) di Helmuth M. Backhaus, ambientati in Messico ai tempi della rivoluzione messicana guidata da Pancho Villa e Emiliano Zapata. Anche in Sparate a Vista su Killer Kid di Leopold Lahola possiamo trovare elementi propri dell'ambientazione messicana tuttavia, al di là del contesto visivo e geografico, non si sviluppano aspetti iconografici collegati al Messico, ma si lavora su un piano più nordamericano legato alla figura dei pistoleri. Alcune scene e inquadrature sono realizzate sulla base dello stile hollywoodiano degli anni Cinquanta. La fotografia panoramica di Janez Kalisni, che qui opera con sistema EastmanColor, oscilla tra gli aspetti formali e lo stile visuale caratteristici del western europeo (e anche del western all'ita704 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

liana) e quelli del western hollywoodiano. Alla stessa maniera lavora il compositore jugoslavo Zvi Borodo. che realizza musiche scritte in modo strumentale per la grande orchestra e che illustrano situazioni e azioni drammatiche strettamente collegate alla stilistica di Lahola. Secondo le informazioni filmografiche hanno carattere internazionale anche soggetto e sceneggiatura, grazie all'apporto della sceneggiatrice inglese Anya Corvin e dello scrittore polacco Marek Hlasko, la realtà però è che non abbiamo informazioni e materiali di archivio precisi. 7.3.3 L'attrice cecoslovacca Zuzana Martínková e i suoi tre western all'italiana È grazie al western all'italiana se la nostra attrice Zuzana Martínková – in Italia conosciuta quale Susanna Martinkova – ha acquisito una crescente esperienza personale che ne ha premiato la sua coraggiosa scelta di abbandonare, agli inizi degli anni sessanta, la madre patria per intraprendere l'avventura nell'industria cinematografica. Tra i film italiani che la vedono coinvolta, eccezion fatta per i tre western su cui avremo modo di tornare, possiamo menzionare il dramma biografico El 'Che' Guevara (1968) di Paolo Heusch, il musicarello Il ragazzo che Sorride (1969) di Aldo Grimaldi, il giallo-poliziesco Un Detective (1969) di Romolo Guerrieri, il poliziesco d'avanguardia Colpo Rovente (1970) di Piero Zuffi, la commedia La Ragazza del Prete (1970) di Domenico Paolella, la satira biblica Il Ladrone (1980) di Pasquale Festa Campanile, il thriller politicizzato Notturno (1983) di Giorgio Bontempi e l'horror gotico per la tv La Casa del Sortiegio (1989) di Umberto Lenzi. Questi titoli dimostrano che la Martínková, nell'arco temporale compreso tra gli anni sessanta e ottanta, era un'attrice richiesta per film destinati a una distribuzione internazionale, con incursioni in generi di richiamo variegati, quali commedia all'italiana, giallo all'italiana, poliziesco e altri. Il primo western italiano che la vede in scena è Per 100.000 Dollari T'Ammazzo (1967) di Giovanni Fago, scritto e sceneggiato da Ernesto Gastaldi, Luciano Martino e Sergio Martino, e prodotto Mino Loy e Luciano Martino. In questo film la Martínková interpretata una ragazza, Mary, che compare in flashback, su una spiaggia in riva al mare, in cui sono presenti i due protagonisti principali: i fratelli Johnny Forest (Gianni Garko) e 705 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Clint Forest (Claudio Camaso). Si tratta di un western che riflette lo sfondo socioculturale della tragedia greca antica, con due fratelli contrapposti l'uno all'altro. Fago realizza un western dotato di una forma iconografica di genere finalizzata a esprimere una variazione delle vecchie storie dell'antichità per presentarle quali nuovi modelli di narrazione popolare destinate al linguaggio cinematografico. Attributi ed elementi che hanno connotazioni socioculturali fuori dal genere di riferimento li possiamo trovare anche nei suoi successivi western, caratterizzati per essere strutturati attorno a tradizioni culturali e geografiche diverse. È il caso di Uno di Più all'Inferno (1968) e O'Cangaceiro (1969), mentre il primo parla di un pistolero donnaiolo, stile di Casanova, il secondo si svolge trai i banditi brasiliani, i “cangaceiros”, che lottano contro la crudeltà e l'oppressione politica messa in atto dalla armata del governo brasiliano. La seconda pellicola che coinvolge Zuzana Martínková è Chiedi Perdono a Dio.. Non a Me! (1968) scritta, diretta e prodotta da Vincenzo Musolino. Qua è la sorella del protagonista, Cjamango McDonald (Giorgio Ardisson). La vediamo soltanto a inizio film, quando viene assassinata da una banda di violenti guidata dal sadico Dick Smart (interpretato dall'attore jugoslavo Dragomir 'Gidra' Bojanić). Si tratta di un western molto differente a quello di Fago, sia nella concezione tematica e narrativa, sia nell'iconografica e nello stile; mentre nel western di Fago viene presentata una variazione della tragedia antica, nel film di Musolino siamo alle prese con una storia cupa di vendetta, dai toni propri di un horror gotico. Musolino viene dalle produzioni e cosceneggiature di alcuni western diretti da Edoardo Mulargia. È il caso di Perché Uccidi Ancora? (1965), Vayas con Dios, Gringo (1966), Cjamango (1967) e Non Aspettare Django, Spara! (1967). Come regista dirigerà un altro western, Quintana (1969), che combinerà alcuni temi, variazioni e modelli del western italiano come rivoluzione messicana, revenge movie e pistoleri mascherati in stile Coyote o Zorro, il tutto in una simbologia e iconografia cristiana incastonata in un ambiente malinconico autunnale e dai tratti gotici. L'ultimo western italiano di Zuzana Martínková è I Vigliacchi non Pregano (1968), diretto e prodotto da Mario Siciliano, scritto e sceneggiato da Ernesto Gastaldi, Duilio Chianetta e dallo stesso Siciliano. Si torna dalle parti della tragedia greca iconograficamente concepita e stilizzata quale western. La Martínková ha un ruolo marginale, all'inizio della storia, simile a quello del film di Vincenzo Musolino. È la 706 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sposa del protagonista, Bryan Clarke (Gianni Garko), che viene violentata e assassinata dai soldati unionisti durante la guerra civile, quando un drappello si ferma per il pernottamento presso l'azienda di Bryan. Il livello tragico della storia è strutturato su due livelli: come vendetta di Bryan contro i soldati e come rapporto tra due amici-nemici rappresentati da Bryan e Daniel (Ivan Rassimov). Siciliano si concentra sulla parabola involutiva del protagonista, che diventa un criminale psicotico costretto ad affrontare l'amico sceriffo che rappresenta la legge. Dei western diretti e prodotti da Mario Siciliano e dalla sua Metheus Film ne abbiamo già parlato, mi preme ribadire che si trattava di un regista che amava associarsi alle coproduzioni tedesche anche per la realizzazione di film spionistici e d'avventura. Dunque Zuzana Martínková non è diventata una diva e attrice di punta del western (a differenza di Olga Schoberová, divetta dei western tedeschi), ma ha avuto la fortuna e il merito di esser presente in alcuni western che hanno avuto grande successo di pubblico e distribuzione internazionale. Proprio grazie a questi film la Martínková ebbe la strada spianata per le successive collaborazioni con produttori, registi e cineasti italiani. Non è questa la sede per dilungarsi sulla carriera di questa attrice, possiamo solo fare un cenno sulla tipologia dei personaggi che le sono stati offerti nel contesto western. È passata dal ruolo di ragazza aristocratica nel film di Fago, a quello di ragazza povera vittima di violenze negli altri due western. In entrambi questi casi ha rappresentato modelli sociali e psicologici diversi da quelli incarnati da Olga Schoberová nei western tedeschi, mentre i personaggi della Martínková sono socialmente e psicologicamente strutturati, le ragazze rappresentate dalla Schoberová hanno importanza di simbolo della sessualità femminile degli anni sessanta. Ho voluto parlare di questa attrice, poiché il caso offerto dalla Martínková è un raro esempio di partecipazione di un'attrice cecoslovacca a un western italiano. 7.3.4 Conclusioni. Le partecipazioni dei cineasti, tecnici e attori cecoslovacchi ai western prodotti e realizzati in Europa occidentale, ai western alla tedesca o ai western all'italiana, sono – come dimostrano tutti i film di cui abbiamo parlato – sporadiche ma, in taluni casi, importanti. I tre casi 707 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di cui abbiamo parlato, ovvero i due western tedeschi girati in Cecoslovacchia, il western tedesco-italo-jugoslavo diretto da Leopold Lahola e i ruoli avuti nei western all'italiana da Zuzana Martínková, dimostrano che il cinema cecoslovacco ha delle forti connotazioni socioculturali e produttive legate al fenomeno cinematografico costituito dal western degli anni sessanta. Similmente possiamo percepire anche una posizione internazionale di diva rappresentata da Olga Schoberová, coprotagonista nei due western girati dalle coproduzioni europee tra Germania Ovest, Italia, e Francia negli esterni cecoslovacchi e spagnoli e in un western musicale realizzato da una coproduzione tra Germania Ovest, Austria e Jugoslavi in Jugoslavia. È giusto allora concludere che nonostante l'industria cinematografica cecoslovacca, negli anni sessanta-ottanta, non abbia avuto grande importanza internazionale in fatto di produzione western, la stessa è riuscita comunque a donare al genere dei modelli socioculturali forgiati da una forte identità nazionale. 7.4 I western realizzati negli altri Stati dell'Europa dell'est. In quasi tutti gli altri paesi ex-socialisti si producevano e giravano western che avevano grande popolarità e, in certa misura, anche grande distribuzione internazionale compreso nei paesi dell'Europa occidentale, dell'America del Sud, del Messico e degli Stati Uniti. Il cinema del blocco dell'Europa dell'est a cui, oltre l'Unione Sovietica, appartenevano Albania, Bulgaria, Cecoslovacchia, Germania dell'Est, Jugoslavia, Polonia, Romania e Ungheria, produceva modelli western culturalmente e iconograficamente diversi dagli occidentali. Abbiamo già parlato del western cecoslovacco, qui ci premerà sottolineare l'impegno operato dall'industria cinematografica della Germania dell'Est e della Romania dove produttori, sceneggiatori e registi si concentravano su film di indiani tratti soprattutto dai romanzi di James Fenimore Cooper e di Jack London. La Jugoslavia invece, come abbiamo detto, figurava in coproduzioni internazionali di western di prima linea, ciò avveniva perché era un paese che aveva a disposizione esterni naturali geograficamente molto adattabili all'iconografia western. Anche la Bulgaria funzionava come coproduttore e disponeva di esterni e location per le riprese, ma ebbe un ruolo molto più conte708 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nuto. Assai marginale fu invece la partecipazione di Polonia e Ungheria, rappresentate in questo genere solo da un pugno di western. Oltre a questi film, i paesi del blocco sovietico ne producevano molti altri che usavano e sviluppavano temi, situazioni e azioni collegate al western, ma che in realtà ruotavano su storie che si svolgevano in periodi e contesti sociopolitici molto diversi, come la prima e la seconda guerra mondiale. Di queste produzioni non ci occuperemo, essendo estranee all'iconografia e alla geografia western. Affronteremo invece quattro temi ben distinti. In prima battuta analizzeremo la serie popolare dei western della Germania Ovest girati con la coproduzione di società jugoslave, film questi in cui si possono trovare rapporti socioculturali tra cinema occidentale e cinema dell'Europa orientale. La seconda parte racconterà dell'altra serie popolare dei western con tematica degli indiani sviluppata dalla Germania Est, con l'attore jugoslavo Gojko Mitić chiamato a incarnare indiani o avventurieri messicani. Passeremo quindi ai western realizzati in Romania, dal ciclo di film tratto da James Fenimore Cooper alla trilogia degli emigranti romeni nel west americano. L'ultima parte sarà infine dedicata ai western prodotti e realizzati negli altri paesi dell'Europa dell'est, con particolare attenzione all'Unione Sovietica e alla Jugoslavia, dove avremo modo di menzionare i western della Germania Est e della Romania estranei dalle serie più popolari. 7.4.1 I western della Germania Ovest tratti dai romanzi di Karl May e girati in Jugoslavia. Agli inizi degli anni sessanta il produttore tedesco Horst Wendlandt cominciò a produrre in Jugoslavia una serie western tratta dai romanzi di Karl May, autore, quest'ultimo, che aveva grande popolarità trai i lettori tedeschi ma anche tra quelli dell'Europa dell'est, Cecoslovacchia compresa. Dopo il grande successo internazionale ottenuto dal primo film di Wendlandt e diretto da Harald Reinl, un altro produttore, Artur Brauner, ne seguì l'esempio. Presero così piede le prime coproduzioni tra Germania Ovest e Jugoslavia, favorite dalla partecipazione produttiva di società di produzione francesi e italiane. In altre parole si aprì uno dei primi canali di coproduzione nella realizzazione dei western europei. Le compagine di produzione tedesche della Rialto Film Preben-Philipsen e della CCC Filmkunst furono le più 709 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

attive, insieme alle società jugoslave della Jadran Film e dell'Avala Film. Nonostante si trattasse di film prodotti e realizzati prevalentemente dai tedeschi, la Jugoslavia ne trasse grande importanza economica, organizzativa e cinematografica, potendo organizzare i set nelle esterne, curare le scenografie nei teatri di posa e offrire materiale umano da destinare al ruolo di coproduttori, attori, tecnici, cineasti, cascatori, maestri d'armi e fornitori di cavalli. La serie popolare dei western tedeschi tratti da Karl May, girata tra gli anni 1962 – 1968 grazie ai capitali investiti da Horst Wendlandt e Artur Brauner, cambiò successivamente il punto di vista a livello di concezione del genere. Se i primi quattro film di Harald Reinl - Il Tesoro del Lago d'Argento (Der Schatz im Silbersee, 1962), La Valle dei Lunghi Coltelli (Winnetou – 1. Teil, 1963), Giorni di Fuoco (Winnetou – 2. Teil, 1964) e Desperado Trail (Winnetou – 3. Teil, 1965) - avevano il carattere di western d'avventura romantico, i film degli altri registi si avvicinarono ai modelli del western violento. Per esempio Là Dove Scende il Sole (Unter Geiern, 1964) e Surehand, Mano Veloce (Old Surehand, 1965) di Alfred Vohrer, oppure Uccidere a Apache Wells (Der Ölprinz, 1965) e Il Giorno più Lungo di Kansas City (Winnetou und das Halbblut Apanatschi, 1966) di Harald Philipp furono concepiti quali western con pistoleri e desperados e non più quali storie sugli indiani. Addirittura il western Tempesta alla Frontiera (Winnetou und sein Freund Old Firehand, 1966) di Alfred Vohrer, appartenente alla serie del capo degli Apaches Winnetou, si svolge in ambiente messicano e mostra la lotta dei cittadini della città contro i banditi messicani, prendendo così le distanze dai tradizionali contenuti della serie. In questo senso i film di Phillipp svilupparono un'iconografia e uno stile molto simile al western all'italiana. Anche l'ultimo western di Reinl, L'Uomo dal Lungo Fucile (Winnetou und Shatterhand im Tal der Toten, 1968), fu infarcito di quella violenza e di quel sadismo sintomatici, per retorica e stile, del western italiano. Il produttore Artur Brauner realizzò in Jugoslavia, con la coproduzione di società italiane e francesi, anche due adattamenti dei romanzi di Karl May ambientati in Messico. Videro così la luce I Violenti di Rio Bravo (Der Schatz der Azteken, 1965) e I Violenti di Rio Bravo II (Die Pyramide des Sonnengottes, 1965) diretti da Robert Siodmak, che si rifacevano, quanto ad ambientazioni, al western all'italiana del periodo. Al di là delle serie prodotte da Horst Wendlandt e da Artur Brauner, anche Alberto Grimaldi con la sua società di produzione, le 710 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Produzioni Europee Associati (PEA), produsse un western tratto da un romanzo di May. E' il caso di Viva Gringo! (Das Vermächtnis des Inka, 1965) di Georg Marischka, realizzato con la coproduzione internazionale tra Germania Ovest, Austria, Italia, Spagna e Bulgaria. Questo film si differenzia dagli altri soprattutto per le location, perché fu girato, in esterni, in Perù, Spagna e Bulgaria, quindi dall'America del Sud all'Europa ovest per tornare nell'Europa dell'est. Questi tre western sviluppano un'iconografia e una geografia messicana caratteristica dei western italiani e di Tempesta alla Frontiera di Vohrer, di cui abbiamo già fatto cenno quale eccezione nella saga Winnetou. Un caso speciale è costituito da La Battaglia di Fort Apache (Old Shatterhand, 1964) diretto dall'argentino Hugo Fregonese, regista con esperienze di lavoro a Hollywood, che ha concepito questo film come western cupo e antirazzista contro il genocidio dei indiani. Oltre agli attori principali come l'americano Lex Barker (Old Shatterhand) e il francese Pierre Brice (Winnetou), i film della saga Winnetou hanno avuto il vanto di coinvolgere cast internazionali composti da attori hollywoodiani e britannici come Herbert Lom (attore solito a partecipare ai film cecoslovacchi), Guy Madison, Stewart Granger, Rod Cameron, Anthony Steel e Walter Barnes. In molti film hanno recitato anche attori italiani, quali Terence Hill (col suo vero nome Mario Girotti), Renato Baldini, Fausto Tozzi e in modo particolare Rick Battaglia che spesso interpretava i capi crudeli dei banditi o dei desperados. Possiamo inoltre ascoltare, in due di questi film, le musiche e le colonne sonore scritte da compositori italiani. È il caso de La Battaglia di Fort Apache di Fregonese e di Viva Gringo! di Marischka, le cui musiche sono state composte rispettivamente da Riz Ortolani e da Angelo Francesco Lavagnino. La prima cosa che salta all'orecchio è la differenza culturale e musicale che distingue questi lavori dalle colonne sonore di Martin Böttcher, Peter Thomas e Erwin Halletz. Per quanto riguarda la fotografia facciamo notare le scelte dei direttori tedeschi, Ernest W. Kalinke, Siegfried Hold, Karl Löb e Heinz Hölscher, che prediligevano il formato panoramico e lavoravano con materiali filmici EastmanColor, CinemaScope, UltraScope, TotalScope e SuperPanorama con cui giravano in Jugoslavia azioni drammatiche e panoramiche.

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7.4.2 I western della Germania Est girati nelle esterne dell'Europa dell'est, dell'Asia e a Cuba. La produzione cinematografica della Germania dell'est – similmente al caso delle coproduzioni tra Germania ovest e Jugoslavia – era concentrata sui western caratterizzati dal tema principale degli indiani, con storie tratte da romanzi di autori quali James Fenimore Cooper, Liselotte Welskopf-Henrich, Fritz Steuben ed Eduard Klein. Le differenze fondamentali con la serie tratta da May riguardano gli aspetti iconografici, geografici e di genere, perché ciascuno di questi film si svolge in un ambiente e in un periodo storico diverso, per non parlare di quelli che avevano ambizioni etnografiche nel tentativo di occuparsi della vita e della comunità indiana. Tutti questi film, che sono interpretati dall'attore jugoslavo Gojko Mitić nei ruoli degli indiani o degli avventurieri sudamericani, sono concepiti dal punto di vista dell'ideologia del regime comunista e hanno il fine di esprimere una feroce critica alla politica di colonizzazione yankee (e dunque capitalistica) fatta di genocidi e massacri praticati a danno degli indiani. Il primo film della serie, Cheyenne, il Figlio del Serpente (Die Söhne der großen Bärin, 1966), fu diretto dal regista cecoslovacco Josef Mach e fotografato dal connazionale Jaroslav Tuzar. Tuzar utilizzava un sistema OrwoColor – TotalVision a formato panoramico, con cui girava le esterne dei paesaggi jugoslavi per renderli simili all'ambiente americano. Oltre al film di Mach, tra il 1966 e il 1983, furono girati altri dieci western della Germania est aventi in comune la scelta di utilizzare esterne dei paesi ex-socialistici, coinvolgendo spesso società degli Stati, di volta in volta, interessati con ruoli coproduttivi. Questi western, prodotti e girati nei teatri di posa della tedesca orientale DEFA, si realizzavano nel cuore della Germania dell'Est, della Jugoslavia, della Cecoslovacchia, della Bulgaria, della Polonia, della Romania, dell'Unione Sovietica, del Caucaso, dell'Uzbekistan, della Mongolia e persino a Cuba. Come si può intuire, i produttori e i cineasti avevano a disposizione un numero di esterni naturali assai superiore rispetto ai colleghi occidentali e quindi potevano sviluppare modelli diversi di geografia western. I titoli degli altri dieci western realizzati furono Chingachgook, il Grande Serpente (Chingachgook, die grosse Schlange, 1967) di Richard Groschopp, La Vendetta dei Guerrieri Rossi (Spur des Falken, 1968), Gli Apaches (Apachen, 1973) e Ulzana (Ulzana, 1974) di Gottfried Kolditz, Un Uomo Chiamato Volpe Bianca (Weisse Wölfe, 712 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

1969), L'Errore Fatale (Tödlicher Irrtum, 1970), Osceola (Osceola, 1971) e Lo Scout (Der Scout, 1983) di Kondrad Petzold, Tecumseh (Tecumseh, 1972) di Hans Kratzert, I Fratelli di Sangue (Blutsbrüder, 1975) di Werner W. Wallroth e Severino (Severino, 1978) di Claus Dobberke. Dal punto di vista tematico e iconografico erano film che modellavano e variavano le storie che raccontavano delle lotte tra gli indiani e i bianchi, aggiungendovi un background di fondo politicizzato. L'industria cinematografica della Germania dell'Est si concentrò anche su altri modelli di western, sempre con la tematica indiana o con altre storie tratte dalle opere letterarie. Sul tema degli indiani si ricordano Uccello Blu (Blauvogel, 1979) di Ulrich Weiß, tratto dal romanzo di Anna Jürgen e girato negli esterni di Romania, un film che combinava western etnografico indiano a spettacolo d'avventura per ragazzi. Da alcuni romanzi di Karl May il regista Hans Knötzsch trasse l'ispirazione per il dittico western, con l'attore jugoslavo Gojko Mitić, costituito da Il Cacciatore della Prateria: Il Becco dell'Avvoltoio (Präriejäger in Mexiko: Geierschnabel, 1988) e Il Cacciatore della Prateria: Benito Juárez (Präriejäger in Mexiko: Benito Juárez, 1988), ambientati in Messico durante lotta del presidente Benito Juárez contro l'occupazione francese. Gli esterni di questi due film furono addirittura scelti in Turkmenistan, oltre che in Bulgaria e Germani Est. Sempre incentrato sul Messico è Trini (Trini, 1976) di Walter Beck, tratto dall'omonimo romanzo di Ludwig Renn – conosciuto anche col titolo Morire per Zapata (Stirb für Zapata) – che si svolge durante la rivoluzione messicana, tra il 1910 e il 1917, e racconta la storia di un piccolo ragazzo indiano, il povero Trini, che si arruola nella guerriglia di Emiliano Zapata contro le forze governative. Questo film sviluppa tutti gli aspetti geografici e iconografici caratteristici del Messico come ambiente, scenografia, costumi e cultura popolana. La compagnia cinematografica di produzione DEFA realizzò inoltre anche western tematicamente e iconograficamente diversi, destinati a tutte le categorie di pubblico che variavano i modelli di racconto popolare ambientati nel far west e in Alaska. Così si viene catapultati tra i cercatori d'oro col western Kit & Co. (Kit & Co., 1974) di Konrad Petzold, con protagonista l'hollywoodiano Dean Reed e soggetto ispirato ai racconti di Jack London, con una trama che vede protagonisti due avventurieri. Un film, quest'ultimo, girato nelle campagne della Cecoslovacchia. Lo stesso Dean Reed diresse negli esterni della 713 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Romania il western musicale, con elementi comici, Canta, Cowboy Canta (Sing, cowboy, sing, 1981) dove recitò insieme all'attore e cantante cecoslovacco Václav Neckář, con musiche composte dal cecoslovacco Karel Svoboda. Rispondono ad altre logiche di genere e di iconografia i western Il Grande Colpo di Alaska Kid (Alaska-Kids großer Coup, 1979) di Klaus Grabowsky, tratto da un racconto di Jack London, e Atkins (Atkins, 1985) di Helge Trimpert, che racconta la storia di un avventuriero che lascia la città per andare a vivere tra gli indiani. Se abbiamo parlato delle differenze tra i western della Germania occidentale rispetto a quelli della Germania orientale è comunque innegabile la presenza di una forte matrice comune tra le due tipologie di produzione e che si sostanzia nell'imprinting avventuriero e nella forte attenzione alla cultura indiana che stanno alla base di tutti questi film, aspetti invece piuttosto ignorati dal western all'italiana. 7.4.3 I modelli di genere dei western prodotti e realizzati in Romania. Il cinema romeno aveva negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta – per quanto riguarda i western – una funzione molto simile alla Jugoslavia, perché disponeva di esterni naturali destinati alle riprese dei western prodotti dai altri paesi europei e funzionava spesso anche come coproduttore di società francesi. Insieme alla Germania Est, la Romania era lo Stato che produceva e realizzava il maggior numero di western in Europa orientale. Tra Jugoslavia e Romania possiamo trovare alcune analogie geografiche, perché in entrambi paesi esistono location geograficamente adeguate per la costruzione formale e la struttura iconografica di un western. In altre parole non mancano praterie, montagne, rocce o canyon. Gli esterni erano una delle ragioni principali che spingevano produttori, registi e cineasti francesi a venire a lavorare in Romania piuttosto che altrove. Questo modello di produzione e coproduzione era molto simile a quello che si praticava in Italia per quanto riguarda i western realizzati col supporto delle case di coproduzione spagnole. A ogni buon conto la produzione dei western realizzati in Romania non fu ricca quanto le produzioni in Italia, Spagna o Germania Ovest, dove nascevano i western in modo seriale. La stessa cinematografia francese, nell'ambito western, aveva 714 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

più importanza quale partner piuttosto che come vero e proprio motore trainante. In Romania nacquero due serie di western, ciascuna delle quali formate da quattro film. Il primo ciclo fu tratto dai romanzi di James Fenimore Cooper e realizzato, tra gli anni sessanta e settanta, da coproduzioni franco-romene. I film di questa serie furono codiretti da registi francesi per ragioni legate al sistema delle coproduzioni. La seconda serie di film, tra cui L'Uccisore di Daini (Vînatorul de cerbi, 1968) e La Prateria (Preria, 1969), fu invece diretta da Sergiu Nicolaescu insieme a Pierre Gaspard-Huit, mentre i restanti due western, L'Ultimo dei Mohicani (Ultimul Mohican, 1969) e L'Avventura in Ontario (Aventure en Ontario, 1970), furono sempre diretti da Nicolaescu supervisionato però da Jean Dréville. Prima di queste serie franco-rumene altri paesi europei si erano concentrati sugli adattamenti da Cooper. Negli esterni spagnoli erano stati girati, nella metà degli anni Sessanta, due versioni del romanzo “L'Ultimo dei Mohicani”. Il regista tedesco Harald Reinl aveva diretto, in una coproduzione tra Germania Ovest, Italia e Spagna, La Valle delle Ombre Rosse (Der letzte Mohikaner, 1965), mentre il regista spagnolo Mateo Cano aveva diretto, grazie ai capitali sborsati da una coproduzione italo-sppagnola, L'Ultimo dei Mohicani (Uncas, el fin de una raza, 1965). Nel 1967 era stato poi girato, con esterni cecoslovacchi, Chingachgook, il Grande serpente da Richard Groschopp, tratto dal romanzo “L'Uccisore di Daini”. I due cicli di western romeni si differenziano tra loro perché mentre il primo ciclo è ambientato tra gli indiani e ne ripropone il contesto etnografico e demografico nel senso di popolo aborigeno originale d'America, il secondo ciclo, girato tra gli anni settanta e la prima metà degli ottanta, si svolge in un contesto di civiltà bianca, tra pistoleri. Furono poi girati altri western, quale la trilogia dei Transilvani costituita da Il Profeta, l'Oro e i Translivani (Profetul, aurul si Ardelenii, 1977) e Il Poppante, il Petrolio e i Transilvani (Pruncul, petrolul si Ardelenii, 1981) di Dan Pita e L'Attrice, i Dollari e i Transilvani (Artista, dolarii si Ardelenii, 1979) di Mircea Veroiu. Si tratta di western che raccontano le avventure di alcuni emigranti romeni nel west americano e comprende tutti gli attributi tematici e le costruzioni iconografiche relative ai western, dalle location ai costumi, fino alla cura delle armi dei protagonisti. La costruzione delle sequenze drammatiche, quali sparatorie, duelli e cavalcate, è ricalcata allo stile cinematografi715 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

co del western all'italiana anche per quel che concerne la scelta delle ambientazioni, la scenografia, i costumi e gli effetti sonori. Nei paesaggi, nelle montagne e nelle praterie della Romania possiamo trovare un equivalente geografico dell'Almería e della Tabernas, perché hanno un tocco mediterraneo. Un ultimo aspetto dei western di Sergiu Nicolaescu, tratti dai romanzi di Cooper, è costituito dal carattere di film d'avventura etnografica, sottolineando i rapporti tra indiani e bianchi durante la colonizzazione. Nel cinema romeno esistono altri film che hanno tematiche e forti connessioni iconografiche con i western che possiamo ricomprendere nel genere. Anzitutto abbiamo il western per ragazzi La Morte di Joe, l'Indiano (Moartea lui Joe Indianul, 1968) di Mihai Iacob, ambientato in Mississippi e Louisiana, che è la versione cinematografica della serie televisiva, tratta dal romanzo omonimo di Mark Twain, Le avventure di Tom Sawyer (Aventurile lui Tom Sawyer, 1968) di Iacob e Wolfgang Liebeneiner girata in coproduzione tra Romania, Francia e Germania Ovest. Abbiamo poi la serie televisiva Sotto le Vele Piene (Toate pînzele sus, 1976) di Mircea Muresan, tratta dal romanzo omonimo di Radu Tudoran e ambientata nell'Argentina del 1850. In America e in Alaska si svolgono invece le storie di altre serie televisive coprodotte da Romania, Francia, Germania Ovest e Austria. Questa volta a esser interessato dagli adattamenti è lo scrittore Jack London e i serial sono L'Avventuriero dei Sette Mari (Lupul marilor, 1971) di Sergiu Nicolaescu, Alecu G. Croitoru e Wolfgang Staudte, Alaska Kid (Lockruf des Goldes, 1975) di Nicolaescu e Staudte, Michael, il Cane del Circo (Mihail, câine de circ, 1979) di Nicolaescu e I Cacciatori d'Oro (Cautatorii de aur, 1985) di Nicolaescu e Croitoru. Tutte queste serie televisive hanno avuto anche le rispettive versioni cinematografiche, lo dimostrano i titoli proiettati nei cinema romeni. 7.4.4 I variazioni di western realizzati in Unione Sovietica, Polonia e Jugoslavia. Negli altri paesi ex-socialisti il western è stato maggiormente rappresentato in Unione Sovietica dove nascevano soprattutto adattamenti di romanzi e di racconti di autori angloamericani, con tematiche e ambientazioni da far west o da Alaska. Il regista Alexandr Zguridi diresse, dopo la seconda guerra mondiale, Zanna bianca (Belyj klyk, 716 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

1946) che è da annoverarsi tra i primi adattamenti europei dall'omonimo romanzo di Jack London. Altri film ambientati in America furono girati in Unione Sovietica a partire dalla seconda metà degli anni settanta. Fa eccezione Smoke e Shorty (Smok i Malyš, 1975) di Raimondas Vabalas, che è un altro adattamento da un racconto di London, poiché tutti gli altri film furono produzioni, per lo più televisive, degli anni ottanta. Altri adattamenti coinvolsero ulteriori autori, è il caso de Nella Natura Selvaggia dove i Fiumi Corrono... (V debryakh, gde reki begut..., 1986) di Nana Kldiašvili e Aleksandr Zguridi tratto da James Oliver Curwood o Il Tracciatore (Sledopyt, 1987) di Pavel Ljubimov e Il Boscaiolo (Zveroboj, 1989) di Andrej Rostockij, tratti dalle opere di James Fenimore Cooper. Alla stessa maniera furono adattati romanzi di Mark Twain come Completamente Perduto (Sovsem propaščij, 1973) di Georgi Danelija o Le Avventure di Tom Sawyer e Huckleberry Finn (Prikljušenija Toma Soyera i Geklberri Finna, 1981) di Stanislav Govorušin. Sebbene le storie di questi film si svolgano nella natura selvaggia, in mezzo agli indiani o tra il Mississippi e la Louisiana, hanno un carattere più avventuroso che western e sono più indirizzate ai ragazzi che agli adulti. Esistono tuttavia anche dei film sovietici che sono, dal punto di vista iconografico, geografico e di genere, dei western autentici. A tal riguardo ricordo Il Cavaliere senza Testa (Vsadnik bez golovy, 1972) di Vladimir Vajnštok, che è l'adattamento del romanzo omonimo di Thomas Mayne Reid, girato a Cuba con una coproduzione cubana. Si tratta di un film che combina western, di iconografia e ambientazione messicana, a una storia misteriosa sul fantasma di un cavaliere senza testa che cavalca nelle praterie. Il plot parla della leggenda della Morte a cavallo, un vero e proprio incubo per i messicani superstiziosi, ma che poi si scoprirà essere una macchinazione ordita dagli indiani. Nella concezione iconografica e nello stile filmico, il western di Vajnštok si avvicina ai western all'italiana, anzitutto sul versante delle scenografie, delle ambientazioni e dei costumi messicani. Anche la scelta degli esterni esotici cubani, con la architettura popolana cristiana, è ben calibrata. Il secondo western di Vajnštok, Armato e molto Pericoloso (Vooružon i očeň opasen, 1977), fu realizzato da una coproduzione tra Unione Sovietica, Romania e Cecoslovacchia e girato negli esterni romeni e nei Teatri di posa di Barrandov a Praga. Questa volta a esser adattati furono i racconti di Francis Bret Harte. Vajnštok concepisce e costruisce il film quale western spettacolare, 717 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

con scenografie e costumi dettagliati, esaltati dalle esterni romene iconograficamente e geograficamente collegate al genere. Negli anni Ottanta furono girati in Unione Sovietica altri due film che possiamo etichettare quali western, perché ne usano e sviluppano l'iconografia e la geografia. Si tratta de L'Uomo di Boulevard des Capucines (Čelovek s buľvara Kapucinov, 1987) di Alla Surikova, che racconta la storia di un viaggiatore francese che presenta ai pistoleri del west americano un film dei fratelli Lumiére, e di Messico in Fiamme (Krasnyje kolokola: Mexika v ogně, 1982) di Sergej Bondarčuk, film quest'ultimo che vede protagonisti Franco Nero e Ursula Andress, coprodotto tra Unione Sovietica, e Italia, ma girato in Messico. Questa pellicola, a cui hanno collaborato anche altri italiani quali il montatore Mario Morra e lo scenografo-architetto Giantito Burchiellaro, più che western è un film storico politicizzato che racconta la storia di un giornalista americano, John Reed, che scrive in Messico, durante la rivoluzione del 1910-1917, le cronache sulle lotte di guerriglia di Pancho Villa e Emiliano Zapata. Bondarčuk lavora su alcuni aspetti tematici e iconografici, come scenografia e costumi, che rappresentano il Messico rivoluzionario e costruisce scene spettacolare d'azione e di battaglia tra i rivoluzionari e l'armata del governo messicano. Le altri industrie cinematografiche dell'Europa dell'Est, quali a esempio la Polonia e la Jugoslavia, produssero western solo sporadicamente. Dei film polacchi solo uno può essere reputato un western, si tratta de L'Uomo che ha Demoralizzato Hadleyburg (Człowiek, który zdemoralizował Hadleyburg, 1967) di Jerzy Zarzycki, tratto da Mark Twain. In verità, nella seconda metà degli anni cinquanta, Wadim Berestowski diresse Rancho Texas (Rancho Texas, 1959), pellicola caratterizzata da un'iconografia western (scenografia, costumi, attrezzi), ma ambientata in Polonia. Il film di Berestowski stilisticamente ricorda il cecoslovacco La Morte in Sella (Smrt v sedle, 1958) di Jindřich Polák di cui abbiam già parlato. La Jugoslavia, come più volte ribadito, negli anni sessanta e settanta ebbe funzioni di coproduttore dei western prodotti sia da stati occidentali sia da quelli aderenti al regime comunista, mettendo a disposizione le proprie location naturali. L'unico western autentico jugoslavo è Il Laccio d'Oro (Zlatna praćka, 1967) di Radivoje 'Lola' Djukić, che racconta, sulla falsa riga delle commedie, le avventure di due serbi emigrati nel west americano. 718 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

7.4.5 Conclusioni. I western prodotti e realizzati dai paesi dell'Europa dell'est furono realizzati per gli stessi motivi dei western dell'Europa occidentale, si trattava cioè di pellicole che avevano grande popolarità. A differenza dell'Europa occidentale, si preferivano storie che parlavano dei rapporti tra indiani e bianchi, piuttosto di quelle votate alla spettacolarizzazione degli scontri tra bianchi e indiani per la conquista di territori o dell'oro dei pellerossa. A rappresentare questa tipologia di film furono soprattutto due serie, tratte da romanzi, girate in Germania Est e Romania, con riprese realizzate tra Europa dell'est, Asia e Cuba. Si trattava di film ispirati dalle penne di James Fenimore Cooper e Jack London che godevano di grande popolarità presso i paesi dell'est. Da non sottovalutare, nella realizzazione di questi film, fu il favorevole apporto offerto dalla disponibilità di location e di esterni che ben si sposavano con la tipologia geografica richiesta dal genere cinematografico di riferimento.

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Bibliografia

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LETTERATURA RACCOMANDATA I romanzi:

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BRDEČKA, Jiří. Limonádový Joe. 1. ed. Praha: Alois Hynek, 1946. BRDEČKA, Jiří. Limonádový Joe. 2. ed. Praha: Mladá fronta, 1955. BRDEČKA, Jiří. Limonádový Joe. 3. ed. Praha: Mladá fronta, 1964. BRDEČKA, Jiří. Limonádový Joe. 4. ed. Praha: Československý spisovatel, 1971. BRDEČKA, Jiří. Limonádový Joe. 5. ed. Praha: Československý spisovatel, 1986. BRDEČKA, Jiří. Limonádový Joe. 6. ed. Praha: Maťa, 2001. ISBN 80-7287-027-0.

I lavori teatrali: BRDEČKA, Jiří. Limonádový Joe. Tragická estráda o pěti aktech. 1. ed. Praha: ČDLJ, 1956.  BRDEČKA, Jiří. Limonádový Joe. Tragická estráda o pěti aktech. 2. ed. Praha: Dilia, 1959.  BRDEČKA, Jiří. Limonádový Joe. Tragická estráda o pěti aktech. 3. ed. Praha: Dilia, 1960.  BRDEČKA, Jiří. Limonádový Joe. Zabijácká suita. 4. ed. Praha: Artur, 2004. ISBN 80-86216-29-2. 

Le sceneggiature letterarie e tecniche dei film:   

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BÖHM, R. – HRUŠÍNSKÝ, Rudolf. Pedro se žení. Technický scénář. 1. ed. Praha: Lucernafilm, 1944. BRDEČKA, Jiří. Limonádový Joe aneb Koňská opera. Literární scénář. 1. ed. Praha: Filmové studio Barrandov, 1962. BRDEČKA, Jiří – LIPSKÝ, Oldřich. Limonádový Joe aneb Koňská opera. Literární scénář, technický scénář. 1. ed. Praha: Filmové studio Barrandov, 1963. HRUŠÍNSKÝ, Rudolf – SALZER, František. Pedro se žení. Technický scénář. 2. ed. Praha: Lucernafilm, 1944. HRUŠÍNSKÝ, Rudolf – SALZER, František. Pedros heirat. 3. ed. Praha: Lucernafilm, 1944.

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JURÁČEK, Pavel. Situace vlka. Vlčí soud. Literární scénář. Podle motivu z povídky Jacka Londona Neočekávané. 1. ed. Praha: Filmové studio Barrandov, 1972. JURÁČEK, Pavel – SCHMIDT, Jan. Situace vlka. Literární scénář (A Wolf's Lot). 2. ed. Zlín: Ateliéry Zlín, 1995. JURÁČEK, Pavel – SCHMIDT, Jan – BRABEC, František Antonín – NĚMEC, Jan. Situace vlka. Technický scénář. 3. ed. Praha / Zlín: Prague Production Partners / Česká televize / Ateliery Bonton, 1999. KŘIŽAN, Jiří – SIROVÝ, Zdeněk. Kaňon samé zlato. Technický scénář. Volné zpracování povídek Jacka Londona. 1. ed. Praha: Krátký film Praha, 1970. KŘIŽAN, Jiří – SIROVÝ, Zdeněk. Moc zlata. Technický scénář. Volné zpracování povídek Jacka Londona. 1. ed. Praha: Krátký film Praha, 1970. KŘIŽAN, Jiří – GOGOLA, Jan. Cesta na jihozápad. Literární scénář. Volně na motivy Jacka Londona. 1. ed. Gottwaldov: Filmové studio Gottwaldov , 1986. KŘIŽAN, Jiří – GOGOLA, Jan. Cesta na jihozápad. Technický scénář. Na motivy povídek Jacka Londona. 1. ed. Gottwaldov: Filmové studio Gottwaldov, 1988. POLÁK, Jindřich – CIRKL, Jiří. Smrt v sedle. Technický a literární scénář. 1. ed. Praha: Filmové studio Barrandov, 1958. SCHMIDT, Jan. Kolonie Lanfieri. Literární scénář. 1. ed. Praha: Filmové studio Barrandov, 1967. SCHMIDT, Jan – MACHÁNĚ, Jiří. Kolonie Lanfieri. Technický scénář. 2. ed. Praha: Filmové studio Barrandov, 1968.

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8. 1968: TRA TORTILLA WESTERN E NUOVI SOTTOGENERI

Il 1968 è un anno fondamentale per lo spaghetti-western, in cui si riflettono le tensioni sociali che divampano nel mondo. È l'anno delle rivolte studentesche e del movimento socioculturale sessantottino. Università occupate, frequenti scontri tra studenti e polizia, in Italia e all'estero. Che Guevara è stato ucciso da poco in Bolivia, il nove ottobre del 1967 per la precisione, sorte analoga toccherà in primavera a Martin Luther King e al candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti Robert Kennedy. Nello stesso periodo in Cecoslovacchia ha inizio la c.d. Primavera di Praga che sarà soffocata con la forza dall'URSS, si inasprisce inoltre il conflitto in Vietnam. Tensioni e repressioni nel sangue si registrano inoltre in Messico, Francia e Polonia, con manifestanti uccisi dalle forze dell'ordine e altri lesionati in modo permanente. È un anno di disagi e rivolte prontamente recepite dal nostro cinema. Prendono piede i tortilla western, conosciuti anche come zapata western, ma accanto a questo fortunato e qualitativo filone, nato sulle ceneri degli esperimenti dei vari Sollima, Lizzani e soprattutto Damiani col suo Quien Sabe?, si tenta di dare avvio a nuovi sottogeneri. Uno di questi è quello che andiamo ad analizzare nel capitolo sottostante. 8.1 I primi western della stagione. Al di là dei generi nuovi che prendono piede nel corso dell'anno, il 1968 si segnala per la proliferazione incontrollata di western di quarta fascia. Sono moltissimi i titoli di scarso valore, in quanto girati in fretta e furia, spesso senza alcuna pretesa contenutistica. È l'anno in cui prende piede un regista come Demofilo Fidani, capace di girare 725 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

anche quattro western nell'arco di una stagione, o altri che si improvvisano senza alcuna esperienza, con titoli chilometrici dalla portata altisonante. Affianco di questo plotone, che simpaticamente definisco di desperados, restano i grandi con ulteriori perle che impreziosiscono il genere. È proprio Demofilo Fidani a calamitare l'attenzione nel mese di gennaio con ben due western. Personaggio eclettico fino all'inverosimile, nasce su un piroscafo che sta per raggiungere la Sardegna; a vent'anni si dedica alla pittura dopo aver frequentato l'Accademia delle Belle Arti di Roma, nel 1941 entra nel cinema da assistente scenografo, lavorando anche con Luchino Visconti in La Terra Trema (1948). A partire dal 1961 viene promosso scenografo, fa anche il costumista e lavora in un numero inestimabile di film, addirittura arriverà a dichiararne più di duecento. Collabora soprattutto con Renato Polselli ed esordisce nel western, in qualità di scenografo, con La Strada per Fort Alamo (1964) di Mario Bava, proseguendo con la saga Pecos di Lucidi. L'inatteso successo della coppia di film di Lucidi lo porta a tentare la via della produzione e della sceneggiatura, da queste a quella della regia di western di quarta fascia. Nell'arco di cinque anni ne girerà ben quattordici (molti dei quali legati a saghe apocrife), celandosi dietro i più disparati pseudonimi: Miles Deem, Demos Philos, Dick Spitfire, Sean O'Neil, Lucky Dickinson e Dennis Ford. Il livello di questi film, il più delle volte, sarà di bassissimo valore; così come lo sarà l'altra mezza dozzina di pellicole, tra gangster movie e commedie scollacciate, tra cui La Professoressa di Lingue (1976) che Fidani girerà prima di darsi all'attività di cartomante/sensitivo. A tal proposito scriverà i volumi esoterici Il Medium Esce dal Mistero (1986), La Vita Eterna (1988) e Se ci sei, Batti un Colpo: Realtà e Fascino dell'Aldilà (1991), i primi due dei quali vincitori del Premio Levanto. Nonostante il livello artigianale, con western girati con quattro soldi, Fidani gode dell'interesse di schiere di fan, grazie al taglio spesso scatenato dei suoi film dove l'azione non manca mai. Definito da molti l'Ed Wood italiano, sarà addirittura stroncato da Thomas Weisser, il quale lo additerà come il peggior regista di spaghetti western. Al di là delle critiche, credo che si tratti di un professionista sui generis degno di grande rispetto e meritevole di esser ricordato anche tra i registi di genere. Il debutto di Fidani avviene con Prega Dio... E Scavati la Fossa (1967) di cui cura anche la produzione, facendosi poi coadiuvare dal 726 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

corregionale Edoardo Mulargia alla regia. Il soggetto lo firma Corrado Patara, produttore improvvisato perché (si dice) invaghitosi di un'attrice coinvolta nel progetto (probabilmente la bionda e procace Cristina Penz, niente male davvero seppur semi debuttante e presto destinata a uscire dal mondo del cinema), e lo sviluppano lo stesso Mulargia e Fabio Piccioni. L'intenzione è quella di fare un tortilla-western, tanto che il titolo originario è Peones. Patara però finisce i soldi e Fidani, originariamente coinvolto in veste di scenografo, ne assume il controllo in prima persona, trasformandolo in un western che fa pendere l'ago della bilancia sul revenge movie. Il cambio di registro porta il protagonista, il solito polemico Robert Woods, a scontrarsi con Fidani, che alla fine non gli pagherà il dovuto. Woods ancora una volta, come già avvenuto con la Wertmuller, dovrà ricorrere agli avvocati. Questa volta però non viene sollevato e chiude il film da protagonista. Interpreta un messicano che ritorna in patria per lottare al fianco dei peone. Rapisce, in collaborazione con un amico (Nino Scarciofolo, attore feticcio del regista), la figlia di un latifondista. I due però entrano in contrasto poiché uno pretende i soldi come contropartita per la liberazione della donna, mentre l'altro vuole che siano rispettati i peone. Inevitabile il duello finale tra i due. Film poverissimo, con un cast artistico semisconosciuto e le musiche di Marcello Gigante. Personaggio quest'ultimo legato alla canzone napoletana, aveva vinto il Festival della Canzone Napoletana con Desiderio e Sole (1952), ma soprattutto aveva ricoperto ruoli di direttore di orchestra con compagnie come quella di Wanda Osiris, Carlo Dapporto, Totò e Anna Magnani. Attivo nel mondo del cinema dal 1954, lo sarà fino al 1977 senza lasciare grande traccia. Fidani lancia come primo attore il romano Giovanni “Nino” Scarciofolo, che poi si chiamava Goffredo. Attore acrobatico, dalla capigliatura bionda e dai lineamenti da belloccio esaltati da un fisico asciutto, è una sorta di Giuliano Gemma dei poveri (pur se più crepuscolare) che ricorda un po' l'attuale Chris Hemsworth, quello che ha interpretato James Hunt in Rush (2013) di Ron Howard. Nato come stuntman, comprimario nei peplum e accreditato la prima volta in Ercole contro Moloch (1963) di Ferroni col nome di Jeff Cameron, che poi si porterà dietro per tutta la carriera, era già apparso in una mezza dozzina di spaghetti-western, tipo Adiòs Gringo (1965) o Un Fiume di Dollari (1966), ma col ruolo di comparsa, spesso neppure inserito nei credits. Solo con questo suo ventitreesimo film si ritaglia un ruolo, 727 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

a suo modo importante, nell'ambito della filmografia di genere. Prenderà parte a un'altra dozzina di pellicole, questa volta da protagonista ricevendo critiche a più non posso (a volte ingenerose), per uscire di scena nel 1973 e morire prematuramente dodici anni dopo. Tra i ruoli più importanti lo si ricorderà in Oggi a me... Domani a Te (1968) di Cervi, lavorerà poi in sei western di Fidani e tre di Batzella, chiudendo la carriera con lo sgangherato gangster movie La Legge della Camorra (1973) sempre di Fidani. Resterà dunque legato alle produzioni di serie z, spesso associato a termini come “inguardabile” o “terrificante” associati alle capacità recitative (a mio avviso c'era molto di peggio). Ignorato un po' da tutti, riceve l'implacabile commento di Marco Giusti, il quale salva Woods e un lotto di ragazze, a suo avviso, un bel po' succinte; il resto è di una povertà disarmante. Sebbene il film abbia scarsissimo successo, Fidani non dispera; scrive, produce e gira subito a ruota Straniero... Fatti il Segno della Croce (1968). A coadiuvarlo nello sforzo economico c'è ancora Corrado Patara (infatti è confermata la “bona” Cristina Penz) mentre, in veste di operatore, direttore della fotografia e (per la prima volta) aiuto regista, entra Aristide Massaccesi, su cui avremo modo di scendere in dettaglio nel quarto volume. Il cast tecnico e quello artistico sono quasi del tutto identici a quelli di Prega Dio... E Scavati la Fossa. Per ovvie ragioni, cambia il protagonista: al posto di Woods c'è il debuttante californiano Charles Southwood. Presenti altresì Ettore Manni e, con piccoli ruoli da antagonisti, Massimo Righi e Fabio Testi. Gli stessi Fidani e Massaccesi (con l'assurdo pseudonimo Arizona Massachussetts) si riservano un cammeo: il primo nei panni del sindaco del paese, il secondo in quelli di un bandito che parla romanesco!? Lo script è semplice, rientrante nella categoria dei bounty killer leoniani. Southwood interpreta il classico straniero che giunge in un paese in cui imperversa una banda di criminali sulle cui teste pendono allettanti taglie. A chiamarlo in causa sono gli stessi abitanti, ormai stufi delle peripezie dei briganti. L'antieroe sarà aiutato da uno zoppo (Ettore Manni), irritato da un conto sospeso con la banda. Fidani si diverte nel farlo sostenere su una stampella all'occorrenza arma da fuoco. Il livello qualitativo è basso da ogni punto di vista, ma il film si lascia vedere. La sceneggiatura fa acqua da tutte le parti, specie nei dia728 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

loghi. Fidani è acerbo nella regia e nella coreografia delle scene di azione, lo dimostrano la scarsa cura nei dettagli e l'impiego di molte inquadrature fisse in campo lungo. Maluccio anche gli attori (si salva il solo Scarciofolo), tra cui Simonetta Vitelli ovvero la figlia del regista. Nonostante ciò si segnalano dei momenti deliranti. Oltre a Massaccesi che parla in romanesco, ci sono pistoleri che si dilettano a colpire uova lanciate in aria, con inevitabile caduta della chiara in testa a qualcuno di loro. Marco Giusti ravvede poi un flashback a suo dire tarantiniano. Lo ignorano i blogger esteri. L'unico a parlarne bene è spaghettiwestern.altervista.org che consiglia la visione del film reputandolo tra i migliori di Fidani, soprattutto per la componente violenta. Infatti nei primi cinque minuti si vedono una donna uccisa da un colpo di pistola in piena faccia, un'anziana accoltellata e tre bambini travolti da cavalli in corsa. Critica invece Southwood trovandolo, a ragione, spaesato. A ogni modo il film non se lo fila nessuno. Fidani però ci prende gusto e gira subito un altro western: Ed Ora... Raccomanda l'Anima a Dio! (1968). Il film esce a ottobre, ma pare opportuno analizzarlo qui. Ancora una volta Fidani controlla produzione e sceneggiatura. Promuove Scarciofolo a protagonista e da maggiore spazio a Fabio Testi che inizia a prendere confidenza con il ruolo del damerino. Conferme per Ettore Manni e la scosciata Cristina Penz. Debutta invece nel genere l'iraniano Mohamad Ali Fardin, star indiscussa del cinema mediorientale dove ritornerà subito dopo il film, nonché medaglia d'argento ai mondiali di wrestling di Tokyo del 1952. Franco Villa (diventerà un fedelissimo del regista) sostituisce Aristide Massaccesi alla fotografia con risultati inferiori. Villa è uno dei più impegnati direttori della fotografia nell'ambito del cinema di genere di serie z, ma con punte apprezzabili che lo lasceranno ricordare. Dopo aver preso le mosse quale operatore di macchina nell'immediato dopoguerra, aveva intervallato tale ruolo con quello di direttore della fotografia con debutto in tale veste nel 1960 al servizio di commedie. Avrà una carriera ultra quarantennale togliendosi le maggiori soddisfazioni con la magnifica trilogia noir di Fernando Di Leo costituita da Milano Calibro 9 (1972), La Mala Ordina (1972), Il Boss (1973), vere e proprie eccezioni di una filmografia che consta di molte pellicole trash (i vari Un Urlo nelle Tenebre, Malabimba, Un Toro da Monta). Sue anche le fotografie de La Bestia Uccide a Sangue Freddo (1971) e de I Ragaz729 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

zi del Massacro (1969) sempre di Di Leo con cui instaurerà un fortunatissimo sodalizio. Il soggetto propone tre pistoleri (Testi, Scarciofolo e Fardin) che si uniscono per ragioni diverse. C'è chi deve consumare una vendetta, chi deve ritrovare soci truffaldini e chi va alla ricerca di emozioni forti. In comune c'è la destinazione finale: Denver City. Probabilmente è il film meno sciatto della produzione di Fidani, che qua taglia le stramberie e migliora la regia. Migliorano anche le interpretazioni, mentre persistono i problemi di sceneggiatura e di dialoghi. La storia stenta a decollare, appare troppo sfilacciata fino a diventare noiosa. Molte, troppe, le scene ambientate nel saloon con abbondanza di scazzottate. Lo sconsiglia vivamente fistfulofpasta.com, “coinvolgente per l'impegno degli attori e l'azione anche se scontato nella trama” per spaghettiwestern.altervista.org. Trascurabile. Tra i primi a uscire a gennaio c'è Se Vuoi Vivere... Spara! (1968) che segna il debutto alla regia, celato sotto lo pseudonimo di Willy S. Regan, di Sergio Garrone. Lo abbiamo già incontrato nella trattazione, ma in ruoli di produttore e sceneggiatore. Insoddisfatto dei lavori altrui, Garrone passa dietro alla macchina da presa perché convinto di esser dotato di maggiore estro rispetto a Giuseppe Vari e a Leopoldo Savona con cui aveva collaborato in occasione di Deguejo (1966) e di Killer Kid (1967). Si dedicherà in seguito proprio agli spaghetti-western, girandone ben sette. Peraltro sarà uno dei primi, unitamente a Margheriti, a tentare la via del western gotico, con Una Lunga Fila di Croci (1969) e Django il Bastardo (1969), da considerarsi i suoi migliori film. L'interesse per il gotico lo porterà poi all'horror e ai c.d. nazi-erotici, ma con mediocri risultati. Dei suoi due horror, La Mano che Nutre la Morte e Le Amanti del Mostro entrambi del 1973, Gordiano Lupi dirà: “Si tratta di horror poveri e sgangherati, girati in grande economia, copiando scene già viste e usando parti di un lavoro per completare l'altro.” La grande economia caratterizza anche questo suo primo film. Garrone coinvolge nel cast tecnico la quasi totalità dei produttori. Lui stesso scrive soggetto e sceneggiatura, aiutato dal socio Franco Cobianchi D'Este a cui affida l'interpretazione di uno dei tre antagonisti. Il compositore Elsio Mancuso, oltre a confezionare la colonna sonora affiancato dal fido Vassili Kojucharov, viene coinvolto nel finanzia730 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mento dell'opera, mentre il fratello di Garrone, Riccardo, viene convinto a prendere parte al film in un ruolo di primo piano. Protagonista è il poco costoso Ivan Rassimov, reduce dai western poveri di Edoardo Mulargia. Confermato da Killer Kid il granitico Giovanni Cianfriglia, alias Ken Wood (attore muscolare di provenienza peplum, ma già attivo in vari western a partire da Johnny Oro di Corbucci), a cui va il compito di personificare un antagonista. Il resto del cast artistico è di fortuna, tra molti sconosciuti c'è il caratterista Tom Felleghi, nel ruolo di un facoltoso bullo. Si gira alle porte di Roma, ma se ne accorgono in pochi. La pellicola parte in modo interessante con un bounty killer (Cianfriglia), attorniato da un gruppetto di complici e da uno sceriffo ubriacone, che sfida a poker due stranieri per volta. L'uomo pilota la partita in modo che i due abbiano entrambi poker o full di assi e rilancino l'uno sull'altro. A carte scoperte, poi, gli stranieri si accuseranno reciprocamente di aver barato e il più veloce ucciderà l'altro. A questo punto lo sceriffo, che assistite alle partite, provvede, mediante consultazione di un'agendina, a stilare la taglia dell'assassino in modo che il bounty killer lo vada subito a uccidere. Un inizio quindi molto originale, in cui si palesa la sciatteria della scenografia (saloon deserti e spogli). L'arrivo in città di Ivan Rassimov scombussola i piani del gruppo, perché il giovane elimina l'avversario, si prende tutti i soldi e fugge dal controllo di Cianfriglia che gli darà la caccia, insieme ai suoi uomini, per tutto il corso del film. A questo punto si innesca la seconda parte della pellicola, quella meno interessante. Il film piega nel dejà vù sulla scia dell'abusatissimo II Cavaliere della Valle Solitaria (1953) di George Stevens. Rassimov, ferito in occasione della fuga, viene raccolto e curato da una famiglia di contadini. Qui fa la conoscenza di due ragazzetti che lo considerano un eroe. Uno dei due, la giovane Isabella Savona (quindicenne proveniente dal musicarello Zum, Zum, Zum e che poi raggiungerà la notorietà in una serie di fotoromanzi stampati dal 1970 al 1982), si innamora di lui e fa di tutto per dimostraglielo. Riconoscente, Rassimov si mette a fare il contadino per loro, ma deve vedersela coi bulli che rispondono agli ordini di un signorotto locale (Felleghi). Quest'ultimo vuol cacciare tutti i contadini perché deve far passare la ferrovia sui terreni. Chi accetta le proposte economiche riceverà soldi, chi non vuol vendere verrà pestato. A causa dell'arrivo di Rassimov, il bullo si 731 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

trova costretto a ricorrere ai servigi di una banda di messicani, retta da un tizio che si fa chiamare il Generale (Cobianchi). Questi eseguono gli ordini in modo brutale e, approfittando dell'assenza di Rassimov, sterminano tutta la famiglia meno la Savona andata a cercare aiuto in città. Ecco che si entra nella terza parte del film, dove irrompe il revenge movie, anche se con colpi di scena e strategie riprese dai primi film di Castellari. È la parte migliore dell'opera, soprattutto sotto il profilo della regia, che in precedenza era stata molto convenzionale (a parte qualche dettaglio su canne di fucili che appaiono tra fili d'erba o qualche primo piano con macchina da presa inclinata verso l'alto). Garrone non ha però ancora acquisito quel gusto per le sperimentazioni e per il gotico che caratterizzeranno la sua produzione successiva. In quest'ultima fase Riccardo Garrone ruba la scena a tutti, gigioneggiando con un look elegantissimo e baffetti corti che gli danno un'aria da dandy simile a quella dei personaggi di Gilbert Roland. Così lo vediamo in giacca, doppio petto, cappello e nastrine al posto della cravatta. Il generale messicano, una volta preso prigioniero, sottolineerà tale look costringendolo a denudarsi per evitare di rovinare un così bel vestito. I riferimenti a Roland e a Castellari si confermano nel modus operandi del personaggio di Riccardo Garrone. È molto astuto, opportunista (mercanteggia tutto), manovra il protagonista e tutti gli antagonisti facendoli fare ciò che lui vuole. Memorabile lo stratagemma grazie al quale riuscirà a tirare fuori Rassimov dalle grinfie delle tre bande che lo vorrebbero vedere morto (quelle capitanate da Felleghi, da Cobianchi e da Cianfriglia, con quest'ultimo che non ha nulla da spartire con gli altri due ma che vuol comunque mettere le mani su Rassimov per intascarne la taglia). Garrone le metterà una contro l'altra, col fine di imprigionare lui stesso Rassimov. “Non fidarti mai delle apparenze” gli dirà poi, per commentare lo stupore dell'uomo, convinto che l'altro fosse un suo amico. Dunque una vera canaglia che usa la simpatia e l'intelligenza per raggiungere i suoi scopi, perseguitato da una messicana (Cristina Penz) che è innamorata pazza di lui sebbene quest'ultimo faccia di tutto per evitarla. “L'amaro calice” dirà di lei. Riccardo Garrone è sicuramente un lusso per film di questo calibro. Formatosi in teatro nell'immediato dopoguerra e con una lunga esperienza da doppiatore, prenderà parte a quasi duecento film, anche se spesso con ruoli secondari, vincendo un Nastro d'Argento a 732 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

fine carriera come migliore attore non protagonista de La Cena (1998) di Ettore Scola. Attore molto versatile, si dimostrerà capace di passare da film d'autore a film di genere, preferendo ruoli comici o personaggi capaci di fare ironia. Molto attivo anche in televisione, interpreterà San Pietro nei famosi spot pubblicitari del caffè Lavazza con i vari Tullio Solenghi e poi Paolo Bonolis e Luca Laurenti. Bello, sopratutto per la regia con mezze soggettive e poi nervose soggettive (quasi delle steady cam), il duello finale ad handicap tra un Cianfriglia zoppo e un Rassimov, con le mani legate, che corrono tra le case del villaggio. Alla fine uno spaghettino povero, con un cast artistico abbastanza rabberciato (si salvano Rassimov e Riccardo Garrone), costruito attorno a una sceneggiatura piuttosto ordinata. La fotografia di Sandro Mancori e la lenta colonna sonora sono abbastanza scialbe e spente. Inoltre il film paga l'assenza di antagonisti di spessore (di fatto nessuno dei tre è sufficientemente caratterizzato), ma riesce a intrattenere a sufficienza nonostante i soliti cliché. Personalmente lo ritengo superiore ai precedenti western prodotti da Garrone, e inferiore solo ai già citati Una Lunga Fila di Croci e Django il Bastardo. Tom Betts salva la prova di Cianfriglia, il quale nei panni di un bounty killer, effettivamente (più per demerito altrui), è il più convincente tra gli antagonisti. Forse anche per questo verrà promosso (insieme a Cobianchi, che però migliorerà esponenzialmente la propria prova) al ruolo di coprotagonista nel successivo Tre Croci per non Morire (1968), in cui si dimostrerà, a causa di evidenti limiti espressivi, inidoneo ai ruoli principali. Boccia il film spaghettiwestern.altervista.org che lo definisce uno spaghetti-western classico, ma con interpretazioni del tutto insufficienti e paesaggi privi di spettacolarità. Sulla stessa falsa riga filmtv.it, che lo liquida con una parola: “trascurabile”. A febbraio esce il nuovo western di Rafael Romero Marchent, il quale porta in scena una sceneggiatura di Mario Caiano intitolata Ringo, il Cavaliere Solitario (1968). La sensazione è che si tratti di un film girato per ragioni alimentari. A produrre l'operazione ci sono Eduardo Manzanos Brochero e Carlo Caiano, per quello che è uno dei film minori di Rafael R. Marchent (ne girerà altri due nell'anno). 733 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Lo script è sprovvisto di originalità (come per Un Donna per Ringo il nome “Ringo” serve solo a richiamare pubblico), tanto che lo stesso Mario Caiano lo affida a un altro regista. Abbiamo la solita banda di delinquenti, questa volta composta da disertori sudisti, che mette sotto scacco un paese con rapine e violenze. I cittadini però, stufi dei soprusi, ingaggiano un agente della Pinkerton (Piero Lulli), a cui si affianca un ex capitano yankee (Pietro Martellanza). I due daranno la caccia alla banda capitanata dal caratterista Armando Calvo. Dunque un cast artistico idoneo, in particolare Lulli qua proposto quale protagonista, ma al servizio di una sceneggiatura piatta e senza colpi di scena. Manca inoltre quel tocco melò che caratterizza i western di Marchent. Lo spagnolo si limita a dirigere senza dare all'opera un taglio personale. Lo boccia spaghettiwestern.altervista.org per la lentezza e il troppo legame agli stilemi americani. Eloquente il commento del sito: “lo spettatore in alcuni momenti può rischiare l'abbiocco totale.” Buono per Giusti e Thomas Weisser con quest'ultimo che lo definisce eccellente nell'azione. A mio avviso trascurabile, sulla stessa falsa riga filmtv.it: “western con scarse emozioni.” Sempre a Febbraio, Bruno Turchetto e il fido Vittorio Mascioli, dopo aver sfruttato Peter Lee Lawrence ne I Giorni della Violenza (1967) e in Killer Calibro 32 (1967), insistono sul giovane attore tedesco e producono Killer, Adiòs (1968) – alias Winchester, Uno su Mille - con la collaborazione di Eduardo Manzanos Brochero. La regia passa da Alfonso Brescia all'esperto Primo Zeglio, mentre alla sceneggiatura torna lo spagnolo José Mallorquì, qua affiancato dal prolifico Mario Amendola che già aveva lavorato con Turchetto. Ne esce fuori un prodotto che ha una sua particolarità per merito di un soggetto atipico per il periodo. Siamo alle prese con un giallo trasposto nel mondo western. Tutto ruota attorno a un omicidio riconducibile a un winchester da collezione rivenuto sul luogo del delitto e da cui si innesca una serie di omicidi. Il vecchio sceriffo (Induni) e il suo aiutante (Lee Lawrence), quest'ultimo di ritorno dopo una gioventù burrascosa (dominata dall'impulsività tanto da esser soprannominato “Quello che spara troppo presto”), cercano di risolvere il caso, districandosi tra false piste e infondate richieste dei cittadini. Non mancano ingenuità e forzature narrative necessarie a sviluppare l'intreccio. Gli sceneggiatori sono bravi a celare l'identità dell'as734 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sassino, ma peccano nel proporre indizi utili a far cadere i sospetti sui vari personaggi indiziati. Infatti è chiaro fin da subito che gli indagati sono tutti estranei ai delitti. Gli autori cercano comunque di impreziosire la storia con caratterizzazioni e sfumature incentrate su temi diversi; si va dalle gelosie amorose, agli amori non corrisposti o ad altri pronti a sbocciare, per non parlare delle dispute per il controllo territoriale tra diverse bande capitanate dai signorotti locali (Fajardo e Calvo). Zeglio, al suo quarto e ultimo western, viene ingaggiato dopo esser stato appiedato dalla Pea di Grimaldi. Ormai anziano, sessantuno anni suonati, ha smarrito la voglia di sperimentare e sceglie una regia ordinata che sacrifica la spettacolarità e scandisce un ritmo inizialmente blando (per lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it lo è fino alla fine). Per fortuna gli attori offrono buone prove, facendo leva sull'indubbia esperienza maturata nel settore. Turchetto ingaggia un cast artistico collaudatissimo. Accanto a Peter Lee Lawrence, qui più scontroso e borioso del solito (il vecchietto del paese gli dirà: “Sono passati molti anni ma non sei cambiato. Sei appena arrivato e già hai trovato il modo di metterti nei guai”), si alternano veri e propri specialisti come gli spagnoli Eduardo Fajardo (qua, per una volta, in un ruolo non da antagonista) e Armando Calvo, la piccoletta Marisa Solinas, a cui viene riservato il ruolo della ragazza scanzonata e romantica (il finale, con lei protagonista, è da film rosa), la procace Rosalba Neri, con un look (mega parrucca rossa) improbabile e volgare che la rende meno incisiva del solito, e via proseguendo con caratteristi quali lo statuario Nello Pazzafini (solito ruolo da subdolo anche se questa volta incastrato da altri) o il pazzoide Victor Israel. Niente male la fotografia dell'ispanico Julio Ortas (lo ritroveremo nel 1970 nello psichedelico Matalo!). Non particolarmente memorabile la colonna sonora di Claudio Tallino, al suo debutto assoluto nel mondo del cinema. Non avrà una grande carriera. Stroncato in modo ingeneroso sia dagli utenti di imdb.com sia da 800spaghettiwesterns.blogspot.it (che salva solo gli attori), trova uno zoccolo duro di fan capitanati dal francese Giré che lo apprezza per la coerenza. Marco Giusti, assecondato dallo stesso regista che ha sempre detto di essersi ispirato a L'Uomo che Uccise Liberty Valance di John Ford, lo reputa il miglior western di Zeglio (non che i precedenti fossero poi 735 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dei grandi film). Filmtv.it non condivide e sentenzia: “scialba miscela di western e poliziesco.” A mio avviso, seppur grossolano nella sceneggiatura (penso ai tentativi dell'assassino di depistare le indagini), si può vedere. Chiude il mese Giorgio Capitani, con il suo unico western a cui dedico la scheda seguente. OGNUNO PER SÉ Produzione: Italia, Germania, 1967. Prodotto: Luciano Ercoli e Alberto Pugliese (Produzioni Cinematografiche Mediterranee), Eichberg Film Regia: Giorgio Capitani. Soggetto e Sceneggiatura: Fernando Di Leo, Augusto Caminito. Interpreti: Van Heflin, Gilbert Roland, George Hilton, Klaus Kinski, Federico Boido (Rick Boyd), Sergio Doria, Sonia Romanoff (Sarah Ross). Fotografia: Sergio D'Offizzi. Musiche: Carlo Rustichelli. Sottogenere: Tesori nascosti. Durata 106 min. Giudizio Mancini: ***1/2 Giudizio Morandini: ** La trama Vecchio pioniere (Heflin) trova un ingente quantitativo d'oro in un una cava dispersa nel deserto. Il quantitativo è talmente ingente da rendere necessario il coinvolgimento di un socio. Il vecchio non ha margini di scelta. Si fida solo di un giovane (Hilton) che ha svezzato in passato e di cui ha perso contatto. Decide così di chiamarlo e di proporgli il progetto. Il giovane accetta, ma è seguito da un cinico assassino travestito da prete (Kinski) con cui ha allacciato un rapporto morboso, forse omosessuale. Lo straniero, facendo leva sui sentimenti dell'altro, riesce a convincerlo a partecipare all'operazione. Il pioniere però vede nel coinvolgimento del nuovo collaboratore la base per l'ideazione di un piano atto a depredarlo, così propone metà della sua quota a un vecchio compagno di avventure (Roland), tradito in passato e costretto per questo a scontare degli anni nei campi di concentra736 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mento. La ruggine tra i due, porta il nuovo socio a farsi coprire le spalle da due bounty killer (Boido e Doria) che, all'insaputa degli altri, spiano da lontano la comitiva, pronti a intervenire. In un clima di sospetti e di vendette da consumare, parte la spedizione verso l'oro. Commento: L'accoppiata Luciano Ercoli – Alberto Pugliese, con i loro sceneggiatori di fiducia Fernando Di Leo e Augusto Caminito (già utilizzati ne I Lunghi Giorni della Vendetta), mette in piedi un progetto inizialmente destinato al terrorista dei generi Lucio Fulci. Contrasti dovuti alla determinazione del compenso portano il maestro romano a declinare l'offerta. La scelta ricade allora su un regista di ripiego, cioè Giorgio Capitani. Già quarantenne, ex aiuto di Vittorio Cottafavi e con nove film alle spalle (due dei quali peplum), Capitani si confronta per la prima e ultima volta con lo spaghetti-western, dirigendo un film che sarà un'autentica mosca bianca in una filmografia sterminata (più di cinquanta regie) fatta di commedie brillanti, film comici (cult i suoi Io Tigro, tu Tigri, egli Tigra e Missione Eroica – I pompieri 2 rispettivamente del 1978 e del 1987) e fortunatissime fiction tv come Il Maresciallo Rocca (1996), Commesse (1999) e Ho Sposato uno Sbirro 2 (2010). L'arrivo di Capitani manda su tutte le furie Fernando Di Leo il quale, alla luce degli scarsi risultati ottenuti dal regista nei precedenti film (tanto da essersi dedicato, dopo alcune pellicole fallimentari, al doppiaggio), si scaglia contro la produzione ritenendo il collega inidoneo a portare in scena quella che ritiene (non a torto) una delle sue migliori sceneggiature. Eppure, come già avvenuto per altri, la provenienza di Capitani dalla commedia non si riflette sul risultato finale, anzi porta una ventata di freschezza e di soluzioni innovative che lasciano soddisfatto lo spettatore. Gettato nella mischia d'improvviso, Capitani estrae dal cilindro una perla che si distingue dai western contemporanei, non solo per l'eccellente sceneggiatura ma anche per una regia che non lascia rimpiangere quella di registi blasonati. L'inizio è lentissimo, scandito da una colonna sonora di Carlo Rustichelli sulle prime americaneggiante, poi sempre più ossessiva e appropriata. Anche il soggetto, da principio, richiama i western d'oltreoceano. Si parla di pionieri, miniere d'oro, lunghe ed estenuanti attraversate nel deserto, con cavalli da trasporto e picconi, ma soprattutto di rap737 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

porti umani anteposti alle scene d'azione e all'ironia tipica dei nostri prodotti. Di Leo e Caminito puntano decisamente sulle caratterizzazioni dei personaggi e sul legame che viene a svilupparsi tra questi. Non c'è spazio per l'ottimismo, le relazioni interpersonali vengono viste come opportunità da sfruttare per scopi personali. Così fin dall'inizio serpeggia un'atmosfera tesa, di sfiducia nel prossimo, dove il tradimento è in costante agguato. Solo nel finale le cose sembrano aggiustarsi, ma sarà un epilogo tragico. Da una parte abbiamo un vecchio avido che in passato, pur di farla franca, ha tradito compagni d'avventura senza alcun rimorso, costringendoli al carcere; dall'altra un giovane ragazzo, svezzato dal vecchio, che si lascia andare ad atteggiamenti effeminati (piange quando viene schiaffeggiato), che ne evidenziano una natura omosessuale su cui fa leva un cinico assassino per manipolarlo e metterlo contro il vecchio. Più distinto è il personaggio interpretato da Roland, un ex delinquente che ha scontato anni di lavori forzati, contraendo la malaria, a causa del tradimento del vecchio pioniere e che viene ingaggiato proprio da quest'ultimo come una sorta di polizza assicurativa per tutelarsi dall'eventuale tradimento della coppia di omosessuali. Il concetto di “polizza assicurativa” è il secondo tassello di questo film. Tutti i personaggi sono portati a diffidare dei soci e per questo finiscono per coinvolgere persone di loro fiducia allo scopo di prevenire il tradimento altrui. Il denaro tuttavia è una tentazione troppo forte per le parole d'onore e così coloro che sono stati coinvolti si rivoltano a coloro che li hanno chiamati. Il pessimismo dunque regna sovrano ed è amplificato da un'atmosfera tetra dove i deserti, i sibili del vento e la polvere la fanno da padrona, in un contesto ambientale impreziosito dall'eccezionale fotografia di D'Offizi. Capitani offre molte panoramiche e campi lunghissimi per ritrarre la desolazione dell'Almeria. Lo spettatore si trova così disperso tra dune e orizzonti sterminati, dove il sole cola a picco. La bravura del regista però non si limita alla capacità di sfruttare le scenografie, ma si estrinseca in alcune sequenze di notevole pathos e coinvolgimento, seppur non corredate da sparatorie e scazzottate spettacolari. Tra le più riuscite si segnala il lungo attentato che viene teso ai quattro viandanti da un gruppo di mercenari nascosti in una Chiesa abbandonata. Notevole è inoltre la traversata del deserto, con una cura nei dettagli (terra screpolata, teschi di bisonti nella sabbia) che sarà ri738 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

proposta proprio da Lucio Fulci ne I Quattro dell'Apocalisse. Le scene migliori sono l'uccisione dello sceriffo (con il diabolico Kinski che agita la stella davanti all'obiettivo sfuocato della macchina da presa, a simulare la soggettiva dell'uomo di legge) e la sequenza in cui Kinski tenta di sparare a Roland, senza accorgersi che la colt che ha preso è scarica e che l'altro, da grande marpione, ha una piccola pistola all'interno del taschino della giacca. Gustose infine alcune soluzioni visive che faranno scuola soprattutto nel poliziesco, come la scena in cui Kinski indossa un paio di occhiali da sole, con la macchina da presa che stacca da un primo piano di Kinski alla soggettiva dello stesso con le lenti scure che si sovrappongono all'obiettivo. La buona vena di Capitani si conferma nella direzione degli attori. Il cast, di per sé già eccellente, rende più di quanto sarebbe stato lecito attendersi. Difficile dire chi dei quattro protagonisti sia il più convincente. La prova di ognuno di loro contribuisce a tenere incollato lo spettatore allo schermo anche nei momenti di stanca e questo denota un grande lavoro di regia. Nei panni del protagonista viene rispolverato un grande del cinema western americano, cioè quel Van Heflin protagonista di cult quali Il Cavaliere della Valle Solitaria (1953) e Quel Treno per Yuma (1957) nonché vincitore del premio oscar come migliore attore non protagonista del film Sorvegliato Speciale (1942). Ormai alla soglia dei sessant'anni e al suo terzultimo film, scomparirà tre anni dopo, Heflin mette i suoi tratti alla Anthony Hopkins e la sua immane esperienza al servizio di un personaggio al culmine della vita; un vecchio dai modi rozzi, che contrasta con la perfezione del personaggio interpretato da Gilbert Roland (qua alla sua migliore prestazione in un western italiano). Se sul set Heflin offre il meglio di sé, dietro le quinte il rapporto tra l'attore e il regista è piuttosto burrascoso a causa della cattiva abitudine dell'americano di scolarsi whisky e quanto vi sia di alcolico. Molto bravi Hilton e Kinski, abituati al genere e chiamati a interpretare personaggi sopra le righe. La bravura dei due sta soprattutto nel sottintendere il rapporto di natura omosessuale che lega i loro personaggi. A tal riguardo pare che sia stata tagliata una scena in cui Kinski spegneva un sigaro sul braccio di Hilton. Il personaggio di Hilton è quello di un debole e ingenuo, che si lascia andare a pianti e a urla smodate. L'attore uruguagio è convincen739 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

te e si esibisce in un ruolo coraggioso, visto i personaggi positivi e guasconi che aveva incarnato fino ad allora. Kinski, invece, è il solito glaciale, luciferino, che parla poco ma che, al momento opportuno, è letale come un cobra. Furbo, machiavellico, anticipa sempre le mosse dei compagni (si veda la scena in cui nasconde una pistola dietro un masso, immaginando il comportamento degli altri una volta trovato l'oro). Curioso il suo look: se ne va in giro vestito da prete con un volto bianchissimo, quasi spettrale. Completano il cast due caratteristi come Boido e Doria, ai quali però viene riservato il finale scoppiettante dove si prodigano con pistole montate su un calcio di fucile alla maniera di Lee Van Cleef in Per Qualche Dollaro in Più. Apparizione breve, ma super sexy, per la procace Sonia Romanoff, la quale si esibisce in una scollatura generosa. Un western da valorizzare sicuramente, avente il pregio di distinguersi in modo netto dagli altri prodotti dell'epoca. Marco Giusti non ha dubbi nel definirlo, a ragione, il miglior film di Capitani. L'esperto appassionato vede inoltre nella sceneggiatura un grande omaggio a Il Tesoro della Sierra Madre (1948) di John Huston, da cui si riprende buona parte del soggetto. Amatissimo da George Hilton e dal critico Carlos Aguilar che ne esalta le caratterizzazioni e lo sviluppo dei rapporti interpersonali. Ne parla bene spaghettiwestern.altervista.org il quale tuttavia avanza qualche lieve critica reputando sconclusionata, in alcuni passaggi, l'analisi psicologica dei personaggi. Action all'americana di pura imitazione per filmtv.it, ma tre stelle in sedi di giudizio. Solo due per il Morandini che lo reputa senza infamia e senza lode. Sufficienza abbondante per 800spaghettiwesterns.blogspot.it e gli utenti di imdb.com. A marzo escono un gran numero di western, tra questi uno z-movie definito terribile e poco comprensibile da Marco Giusti. Si tratta di Giurò... E li Uccise ad uno a uno (1968), conosciuto anche come Piluk il Timido. Lo gira, lo scrive e lo produce Guido Celano, di cui Giusti sottolinea l'assurda concezione che aveva del genere: “il suo west, con vacche e canzoncine, sembra ripreso da qualche vecchio serial degli anni '40.” Lo script è un revenge movie con il protagonista (il pessimo Luigi Barbieri) intenzionato a vendicare il figlio (Peter Holden, figlio del 740 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ben più noto William Holden) trucidato nei pre-titoli dai soliti bulli di paese. Lo aiuterà lo sceriffo (lo spaesato Edmund Purdom). Nel cast artistico figurano, in piccoli ruoli, anche Fabio Testi e Livio Lorenzon. Tra i peggiori western dell'anno, ignorato da tutti. È invece tra i più importanti del mese Oggi a Me... Domani a Te! considerato di culto per il coinvolgimento di una serie di soggetti. L'opera vede debuttare nel genere il regista/produttore Tonino Cervi, il grande Dario Argento, in veste di co-sceneggiatore (al suo terzo lavoro, prossimo a sceneggiare un'altra dozzina di opere di cui circa un terzo western), e il giapponese Tatsuya Nakadai ovvero il cattivo de La Sfida del Samurai (1961) di Kurosawa, il film ispiratore di Per un Pugno di Dollari (1964). A rendere di culto il film si aggiunge poi la presenza di un Bud Spencer piuttosto elegante, con barba tenuta in modo aristocratico (in realtà è finta, perché sbarbato per il ruolo avuto in Al di là della Legge) e non ancora nel suo caratteristico ruolo (anche se si esibisce in una bella scazzottata). Al di là di quanto sopra non si registra altro di rilevante. Tonino Cervi è figlio d'arte, suo padre era il grande attore Gino Cervi e lo zio era il critico teatrale Antonio Cervi. Arriva al film dopo aver prodotto una ventina di pellicole, a partire da La Peccatrice dell'Isola (1952), dei vari Mauro Bolognini, Comencini, Bertolucci e Michelangelo Antonioni. Tra esse sono da ricordare il neorealista Deserto Rosso (1964) di Antonioni e il film a episodi Boccaccio '70 (1962) per le regie dei vari Fellini, De Sica, Monicelli, Visconti e Vancini. Quindi un produttore tra i più apprezzati e prolifici dell'epoca che, improvvisamente, decide di sfruttare il successo del western per fare un film senza pretese autoriali. In seguito si dedicherà, alternandosi tra regia e produzione (tra gli altri produrrà l'ottimo giallo di Sergio Martino I Corpi Presentano Tracce di Violenza Carnale del 1972 e il tardo horror Il Nido del Ragno, del 1987, diretto da Giagni), a film di tutt'altro genere. Ne girerà poco meno di una dozzina, collaborando spesso con Alberto Sordi come in occasione de Il Malato Immaginario (1979). Morirà di attacco cardiaco all'età di settantatré anni, nel 2002, dopo aver ultimato le riprese de Il Quaderno della Spesa (2003). A sostenere Cervi dietro alla macchina da presa c'è il grande Sergio D'Offizi, voluto per via della fotografia dallo stesso curata in Ognuno per sé (1967). È D'Offizi a togliere dagli impicci il regista, grazie all'esperienza maturata sia in veste di operatore che di fotografia. 741 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Ne deriva una regia senza fronzoli e senza particolari virtuosismi, che utilizza in modo perfetto (per Marco Giusti persino non convenzionale) il paesaggio autunnale. Il soggetto, dello stesso Cervi e di un giovanissimo Dario Argento (avremo modo di parlarne dopo), è un revenge movie che coinvolge una squadra di specialisti sulla scia de Quella Sporca Dozzina (1967). Il protagonista è un vendicatore triste all'Anthony Steffen (il look è quello di Django, con barbetta, impermeabile, sciarpa e cappello nero), cui da corpo il californiano Brett Halsey. L'uomo è uscito dal carcere ed è intenzionato a debellare la banda comanchero, formata da indiani e meticci, capitanata da El Fego (Nakadai). Il bandito ha stuprato e assassinato a bruciapelo la moglie del protagonista (sequenze mostrate in flashback a metà film), facendo poi ricadere sullo stesso le prove del delitto. Per consumare la vendetta, il nostro ingaggia quattro tra i più abili pistoleri della zona e con gli stessi si pone alla caccia di El Fego. Da qui deriva quello che sarebbe dovuto essere il titolo originario dell'opera: La Vendetta è un Piatto che si Serve Freddo (utilizzato da Squitieri qualche anno dopo). La sceneggiatura è sprovvista di snodi avvincenti (tutto molto lineare e prevedibile) e soprattutto paga un'insufficiente caratterizzazione dei personaggi. Troviamo un lotto di soggetti che, a parte nel vestiario e nell'uso di qualche arma bizzarra (un personaggio, al posto della pistola, usa un fucile corto che tiene nella fondina del cinturone; l'antagonista invece usa un machete a mo' di samurai), non si distinguono tra loro. Curioso il particolare del protagonista che si allena in carcere, per cinque lunghi anni, con una pistola di legno in modo da essere pronto per la resa dei conti finale. Se questi sono i limiti, occorre dire che vi sono dei dialoghi ben congegnati e almeno un paio di sequenze degne di nota. Tra queste il duello tra Bud Spencer, armato di tronco di legno, e Nakadai versione samurai, con il primo che si prende un bel colpo di machete sulla pancia. Bella inoltre la sfida a poker in cui William Berger sorprende un baro lanciandogli, da sotto la tavola, un coltello sulla carta estranea, per poi dar avvio a una sparatoria che coinvolge tutta la banda di Halsey. “Chi ha cominciato?” dirà lo sceriffo, arrivato poco dopo. Il solito vecchietto del paese, ridacchiando e facendo notare le identità dei cinque coinvolti, risponderà: “Chi ha cominciato non lo so, ma una cosa è certa: è stata la più bella sparatoria che io abbia mai visto!” L'uomo di legge, riconosciuti i protagonisti 742 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

celebri per la loro pericolosità – si allontanerà velocemente: “Avrete certo agito con giustizia. Andiamo, chiamiamo il becchino”. Degno di nota, infine, lo stratagemma utilizzato dal protagonista. Piuttosto che braccare El Fego, il nostro si farà inseguire in modo da portare l'avversario in un teatro di battaglia allo stesso sfavorevole: una foresta spoglia, dove i cinque pistoleri si nasconderanno tra arbusti e alberi ed elimineranno uno a uno i comanchero, un po' come già visto in Django Spara per Primo (1966). Da evidenziare il monologo di Halsey: “Esistono due modi per catturare una preda: inseguirla o farsi inseguire. Il secondo è il metodo migliore perché, in questo caso, decideremo noi dove incontrarli. Sai, i comanchero combattono a modo loro e io conosco i loro metodi. Li batteremo con il loro stesso stile, con i loro trucchi”. I trucchi che i nostri metteranno in atto nella lunghissima sequenza finale (circa mezzora di girato in un bosco deciduo, con momenti in notturna e altri nebbiosi di mattina) sono tra le poche cose bizzarre del film; infatti, oltre a nascondersi nella vegetazione e ad attaccare a tradimento gli avversari con coltelli e cappi calati d'improvviso dai rami, vedremo uscire i protagonisti da cespugli o adottare delle soluzioni ingegnose come la fasciatura dei fucili per dare riferimenti erronei sulla distanza dello sparo. “Ci stanno massacrando tutti, quei bastardi conoscono i trucchi!” dirà un uomo di El Fego, indisponendolo sempre più. Non mancano le citazioni a Per Qualche Dollaro in Più (1965) soprattutto nei dialoghi (viene riportato pari pari il commento sul fucile corto utilizzato da uno dei quattro pistoleri, così come viene riproposto il ragionamento del capobanda il quale, dopo una rapina, va in direzione opposta rispetto a quella suggerita da altri), ma anche nel desiderio di vendetta del protagonista e negli atteggiamenti allucinati dell'antagonista. Le interpretazioni non eccellono. Brett Halsey viene convinto a fare il film dalla moglie italiana. L'americano è poco entusiasta del copione, alla fine però cede ma si fa accreditare con lo pseudonimo Montgomery Ford. Atteggiamento alquanto incomprensibile visto che è il solito blocco di marmo già visto nel mediocre Uccidete Johnny Ringo (1966). A ogni modo, il taglio freddo e insensibile del personaggio permette a Halsey di non sfigurare. A fargli da spalla troviamo un poker di attori: William Berger con basettoni da scozzese e vestiti da damerino (forse è il migliore della banda); Bud Spencer, poco ironico e ben ordinato nel look; nonché gli scialbi Wayde Preston (quaranten743 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ne attore americano, lo ritroveremo in seguito, pescato dai serial televisivi dove aveva avuto fortuna per essere il protagonista della celebre serie western Colt .45 andata in onda tra il 1957 e il 1960) e Vic Gazzarra. Da antagonista viene lanciato Tatsuya Nakadai (spacciato per mezzosangue indiano), alla sua prima e unica esperienza in Italia, costretto a imparare ad andare a cavallo e a farsi comprendere dagli operatori (parlava solo in giapponese). L'attore nipponico, considerato una delle star del cinema orientale (centoquaranta film interpretati tra il 1952 e il 2013, tra cui i vari La Sfida del Samurai, Kagemusha – L'Ombra del Guerriero, Ran di Akira Kurosawa e L'Ultimo Samurai di Masaki Kobayashi, spesso contrapposto all'altrettanto famoso Toshiro Mifune), con il suo volto di cuoio e lo sguardo spiritato, dimostra di valere i tanti premi ottenuti in patria. C'è anche il mitico Scarciofolo, alias Jeff Cameron ridimensionato a un ruolo di supporto. Meritevole di lode la spettrale fotografia di D'Offizi, in perfetta sintonia con l'ambientazione invernale della campagna laziale (cieli sempre cupi e nebbiosi, con fango e spruzzi di neve incastonati in praterie erbose e foreste spoglie). Bella, seppure scanzonata (forse non troppo idonea al clima malinconico del film), la colonna sonora di Lavagnino (non è d'accordo 800spaghettiwesterns.blogspot.it che la ritiene insufficiente). Pur venendo apprezzato in Italia, Oggi a Me... Domanti a Te! non godrà di un grande successo internazionale tanto che Halsey dirà: “Credo che non ebbe nemmeno una distribuzione in America”. Tuttavia i critici di settore lo considerano un western da ricordare. Marco Giusti, pur segnalando una struttura di fondo classica, lo reputa uno ottimo spaghetti-western dark, con inventiva, applicato alla canonica formula tanto in voga nel genere: violenza, cattiveria e vendetta finale. Alex Cox, addirittura, lo segnala (generosamente, a mio parere) in quattordicesima posizione nella classifica dei suoi spaghetti-western preferiti. L'entusiasmo non contamina i critici “generici” che si dimostrano tutt'altro che magnanimi. Filmtv.it concede tre stelle con riserva (sorta di remake de I Magnifici Sette), non vanno oltre le due sia il Morandini (qualche trovata originale) che il Farinotti. Sufficienza striminzita per gli utenti di imdb.com. Più equilibrati e condivisibili i blogger. Spaghettiwestern.altervista.org lo valuta più che apprezzabile, dotato di buon ritmo e ben interpretato. Fistfulofpasta.com rivela di 744 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

essersi divertito nella visione, ma fa notare vari difetti sul montaggio dei rumori ambientali. Critiche anche per le scenografie e per la troppa dipendenza dal soggetto de I Magnifici Sette. Il più largo nei complimenti è 800spaghettiwesterns.blogspot.it il quale, pur storcendo il naso per le limitate location e per una sceneggiatura quasi inesistente, reputa il risultato finale molto buono per le atmosfere e il gusto per l'azione. In definitiva è divertente, ma lo sviluppo del soggetto e le caratterizzazioni sono abbozzate. Approda al western il mediocre Roberto Mauri, il cui vero nome è Tagliavia Giuseppe, ma che si firma con un ulteriore pseudonimo: Robert Johnson. Girerà qualcosa come dieci western (tutti piuttosto scarsi), tra cui la trilogia Spirito Santo, su una filmografia di circa venticinque film. Originario di Trapani, nasce come attore caratterista negli anni ''40 per poi debuttare alla regia, nel 1958, su richiesta esplicita di un produttore innamorato di un suo copione offerto come protagoniste a Virna Lisi e a Sandra Milo. Non otterrà grandi risultati, dando il meglio di sé nella prima parte di carriera, specie nel cinema di azione. È la GiaProduzione Film a incaricarlo di dirigere La Vendetta è il mio Perdono (1968), sceneggiato, tra gli altri, da Tito Carpi e Roberto Natale (ex documentarista nonché sceneggiatore specializzato in horror con titoli come Il Boia Scarlatto, Operazione Paura e in seguito La Casa dell'Esorcismo e Il Gatto dagli Occhi di Giada). Mauri arriva alla pellicola con all'attivo una dozzina di film tra cui lo sconosciuto western Colorado Charlie (1965), l'horror La Strage dei Vampiri (1962), impostogli dalla produzione e di cui Gordiano Lupi non parla affatto bene (scade nel ridicolo involontario), e diversi adventure movie, spesso dallo stesso scritti, di cui si salva il solo cappa e spada Il Pirata del Diavolo (1964). Dopo aver girato sette western di seguito, cercherà di sondare nuovi generi come il parapsicologico Madeleine... Anatomia di un Incubo (1974), ma rimasto disgustato dall'atteggiamento ostruzionistico dei distributori deciderà di ritirarsi chiudendo la carriera all'insegna del trash erotico con titoli come Un Toro da Monta (1976) e Le Porno Killers (1980), entrambi girati per ragioni alimentari. Nell'occasione il regista trapanese mette a segno uno dei suoi film più riusciti, un revenge movie con un cast artistico di pregevole fattura. Protagonista è il trentasettenne americano Tab Hunter, cantante e star indiscussa negli anni '50 della Warner Brothers, per il fisico atle745 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tico e i lineamenti aggraziati che lo avevano visto interpretare a Hollywood vari personaggi sportivi. Hunter viene ingaggiato perché trasferitosi da poco in Europa, ma non avrà buoni rapporti con Mauri. L'atteggiamento dell'attore infatti è quello di chi studia il copione e impara tutto a memoria, mentre quello del regista è assai più flessibile, dovendo ogni volta fare di necessità virtù e quindi adattare il copione alle scenografie, ritoccando battute e situazioni. Hunter non girerà altri spaghetti western ma lo ritroveremo nel macaroni combat Quel Maledetto Ponte sull'Elba (1969) di Klimovsky. Di tendenze omosessuali, si ricorda il suo lungo legame sentimentale con l'attore Anthony Perkins, il Norman Bates di Psyco. Nell'occasione interpreta uno sceriffo intenzionato a vendicare la moglie, assassinata durante una rapina da quattro banditi mascherati. Ad affiancare l'attore newyorkese, di origine tedesca, ci sono grandi caratteristi come Piero Lulli (solito ruolo da canaglia) e Mimmo Palmara, oltre alla bella Erika Blanc. Marco Giusti ritiene il tutto abbastanza riuscito; gli fa eco spaghettiwestern.altervista.org che fa notare la spiccata quantità di azione e violenza, oltre a un'atmosfera claustrofobica ascrivibile agli spazi confinati dove si svolge buona parte del film. Lo stronca filmtv.it che gli da una sola stella. Visto da pochissimi, trascurabile. Sulla stessa falsa riga è Uno Straniero a Paso Bravo (1968) con cui lo storico aiuto di Pietro Germi (quattro collaborazioni) e di Giorgio Pàstina (sette collaborazioni), Salvatore Rosso, tenta di affermarsi da regista. Rosso, che si autoproduce, non raggiungerà il suo intento, finirà i soldi in corso di lavorazione e verrà sostituito alla regia nientemeno che dal protagonista Anthony Steffen. Il film è un classico revenge movie, scritto da Lucio Battistrada (Requiescant) e da Fernando Morandi (aiuto regista di Margheriti in Joe, L'Implacabile), col protagonista che esce dal carcere, dopo aver scontato la pena per un delitto che non ha commesso, intenzionato ad acciuffare i veri colpevoli. Gli fa da spalla il vecchietto del paese (Pepe Calvo), supportandolo al cospetto del solito Eduardo Fajardo, nel suo consueto ruolo di latifondista dispotico. Steffen andrà incontro alle canoniche torture leoniane, per poi sfuggire agli aguzzini e compiere la vendetta nel finale. 746 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Nulla di nuovo, con svariati problemi di regia dovuti al cambio di registro operato col passaggio da Rosso a Steffen. Addirittura 800spaghettiwesterns.blogspot.it arriva a dire che il montaggio e i tagli operati rendono difficile seguire la trama. Buona la colonna sonora di Lavagnino. Marco Giusti elogia le prove di Calvo e di Fajardo, mentre definisce Steffen mono espressivo (non è una novità). L'esperto romano sottolinea come il copione sia stato riutilizzato da Antonio Margheriti per il più famoso E Dio Disse a Caino (1969) su cui avremo modo di tornare. Modesto per Roberto Poppi, passa inosservato al botteghino e non viene rivalutato in seguito. Rosso abbandonerà subito la carriera da regista. Curioso sette e mezzo, in controtendenza, per gli utenti di imdb.com. Brutale filmtv.it: dozzinale western all'italiana. Dopo I Crudeli (1967) torna al western Albert Band, alias Alfredo Antonini, che, coadiuvato da Ugo Liberatore, scrive e produce (supportato da Gianni Hecht Lucari) il copione di Escondido, poi uscito col titolo Un Minuto per Pregare, un Istante per Morire (1968). L'intenzione del produttore italo-americano è quella di confermare Sergio Corbucci alla regia, ma il maestro romano declina l'offerta. Antonini decide allora di rivolgersi a Franco Giraldi, impegnato a stendere la sceneggiatura della commedia La Bambolona (1968). Si tratta di una decisione alquanto bizzarra, poiché Giraldi è un regista a cui piace inserire la commedia nel western come dimostrano la mini saga MacGregor e Sugar Colt (1967). Il copione invece, come nella tradizione di Antonini, è crepuscolare, tragico con tendenza melodrammatica. Giraldi accetta, allettato dal cast artistico messo in campo dal produttore. Ci sono infatti Robert Ryan e Arthur Kennedy, ma anche Mario Brega e Nicoletta Machiavelli, mentre il ruolo di protagonista va ad Alex Cord. Il soggetto anticipa nientemeno che Il Grande Silenzio. Abbiamo infatti un governatore, l'ottimo Ryan, impegnato a mettere fine al massacro messo in atto dai cacciatori di taglie ai danni dei banditi. Protagonista è un ricercato (l'americano Alex Cord) sulla cui testa pende una taglia, ma che è intenzionato a cessare la vita da fuorilegge a causa dei problemi fisici che iniziano a tormentarlo (teme di esser affetto da epilessia). Collabora così col governatore, che gli promette il ritiro della taglia, e debella la banda dei banditi guidati da Brega e compo747 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sta da scagnozzi che rispondono agli ordini di uno sceriffo corrotto (Kennedy) che tiene sotto scacco la città e che non condivide la politica del governatore in quanto completamente influenzato dai pregiudizi (è refrattario alle amnistie). Finale tristissimo, tra i più beffardi del genere. Interessante caratterizzazione corbucciana del protagonista, affetto da una malattia che lo sta portando ad avere un braccio paralizzato. Antonini concentra gli sforzi sul tema del reinserimento sociale degli uomini violenti, dipingendo una società forse ancor più violenta e crudele dei fuorilegge. Gli stessi bounty killer hanno quella caratterizzazione negativa che sarà ripresa da Corbucci. Sono avvoltoi a cui poco importa della natura umana, un uomo per loro significa più o meno dollari a seconda del valore che gli viene assegnato dalla legge. Antonini tenta di lanciare un nuovo Clint Eastwood, non ci riuscirà. Alex Cord infatti arriva dai serial tv americani, in particolare Route 66 (1963-64). Tornerà subito in America proseguendo la carriera nel circuito televisivo (parteciperà a più di 300 episodi) con ruolo da protagonista nel serial Supercopter (1984-86). Attore con un passato tribolato, addirittura più del personaggio che gli viene affidato da Giraldi. A dodici anni fu costretto al ricovero nel polmone d'acciaio, perché colpito dalla poliomielite. Appassionato di cavalli al punto da voler diventare un fantino, vinse la malattia rinunciando poi al suo sogno perché troppo alto. Dopo essersi formato all'Actors Studio, sfruttò comunque le proprie abilità da cavallerizzo per entrare nel mondo dello spettacolo, dapprima in Inghilterra poi negli Stati Uniti. Antonini lo sceglie perché lo apprezza nel remake di Ombre Rosse, da noi tradotto I 9 di Dryfork City (1966) di Gordon Douglas. Lo ritroveremo nello spaghetti-thriller L'Etrusco Uccide Ancora (1972) di Crispino e nel western americano Aquila Grigia il Grande Capo degli Cheyenne (1977). Il suo è un personaggio complesso e complessato, fatto di molteplici contraddizioni e con alle spalle un'infanzia turbolenta tra violenza e malattia. L'uomo è tanto abile con la pistola, quanto fragile a livello mentale. 800spaghettiwesterns.blogspot.it scrive che sembra attirare morte dovunque egli vada. Si innamorerà della bellissima Nicoletta Machiavelli, ma senza speranza. Attorno, gli gravitano i veterani Robert Ryan (prossimo a passare sul set de Il Mucchio Selvaggio di Sam Peckinpah) e Arthur Kennedy. Due attori di grosso calibro, il 748 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

primo, ex pugile (da qui i molti ruoli da duro allo stesso affidati nel corso degli anni), con una nomination all'oscar ottenuta nel 1947 con Odio Implacabile di Dmytryk, oltre ad aver partecipato a capolavori quali Stasera ho Vinto Anch'io (1949) di Wise, Lo Sperone Nudo (1953) di Mann e Quella Sporca Dozzina (1967) di Aldrich; lavorerà in Italia solo in occasione di un altro film: il macaroni combat Lo Sbarco di Anzio (1968) di Coletti. Sono addirittura cinque le nomination all'oscar di Kennedy, ottenute con Il Grande Campione (1949), Vittoria sulle Tenebre (1951), L'Imputato deve Morire (1955), I Peccatori di Peyton (1957) e Qualcuno Verrà (1958). A differenza di Ryan, Kennedy lavorerà in molti prodotti di genere nostrani ma non spaghetti-western. Presenza infine di molti caratteristi italo-spagnoli che rendono ancor più accattivante la visione: i fratelli Dell'Acqua (Alberto e Ottaviano), Ray Lovelock, Aldo Sambrell, Lorenzo Robledo e Francisco Sanz. Dunque un cast artistico degno di una grande produzione. Giraldi impiega il tutto per costruire il suo unico western serioso, ma non è abile a sufficienza per imprimere quella forza necessaria a trasformare il film in un must. Credo che in mano a un altro regista, magari un Fulci o un Marchent, il risultato sarebbe stato assai diverso. Peraltro la pellicola non riscuote grande successo ai botteghini e, come tutti i film prodotti da Antonini, non risulta tutt'oggi di facile reperibilità tanto che non ne contempla la recensione neppure spaghettiwestern.altervista.org. Bruttina la colonna sonora di Rustichelli (contrario sonofdjango che la definisce gotica), bene invece la fotografia curata da Aiace Parolin. A mio avviso è da vedere per la forte componente autoriale. Sette abbondante per 800spaghettiwesterns.blogspot.it che critica la regia e la colonna sonora, viste come punti deboli di una pellicola dalla grande sceneggiatura e dalle eccelse interpretazioni. Eloquente il commento di sonofdjango.blogspot.it: “È un racconto spietato di disperati che compiono azioni disperate in un mondo privo di pietà e di misericordia.” A tal riguardo mi piace sottolineare un altro passaggio dell'appassionato anglofono che scrive una cosa che condivido al cento per cento: “La Machiavelli per me è tra le tre migliori attrici di spaghetti western, insieme a Rosalba Neri e Nieves Navarro, in quanto porta sempre un tocco di classe ai film in cui è inserita.” Solo due stelle per il Morandini e filtv.it. 749 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Legata al film appena analizzato è la realizzazione di ...E per Tetto un Cielo di Stelle (1968), attesissimo secondo western del regista Giulio Petroni, chiamato a confermare l'ottimo risultato ottenuto con Da Uomo a Uomo (1967). Il regista cambia produzione, passando dagli specialisti Sansone-Chroscicki al più autoriale Gianni Hecht Lucari. Il produttore di origine austriaca, questa volta, segue il progetto da vicino per mezzo del produttore esecutivo Fausto Saraceni e produce il tutto senza soci. Supervisiona la stesura del copione e cambia il regista poco prima delle riprese, dirottando Franco Giraldi, inizialmente individuato come colui che avrebbe dovuto portare in scena la sceneggiatura, sul set di Un Minuto per Pregare, Un Istante per Morire. La scelta non è delle migliori poiché Hecht Lucari destina i suoi due registi in modo invertito rispetto agli altrettanti copioni. In altre parole lo script di ...E per Tetto un Cielo di Stelle, assai intriso di ironia farsesca, si sarebbe prestato meglio a Giraldi, mentre Petroni sarebbe stato più adatto a Un Minuto per Pregare, un Istante per Morire. Hecht Lucari conferma poi Giuliano Gemma e Nello Pazzafini, con cui aveva appena fatto Wanted (1967) di Ferroni, e mette sotto contratto Mario Adorf. Il produttore, impegnato nello stesso anno nelle commedie d'autore La Ragazza con la Pistola (1968) di Monicelli, Le Dolci Signore (1968) di Zampa e Riusciranno i Nostri Eroi a Ritrovare l'Amico Misteriosamente Scomparso in Africa? (1968) di Scola, intende fare un western diverso dal solito, dai tratti tendenti al cinema d'autore. Affida così il compito di redigere il copione al felliniano Bernardino Zapponi , che ritroveremo (e analizzeremo in dettaglio) in occasione di O'Cangaceiro (1970) di Giovanni Fago. Zapponi, all'epoca impegnato oltre con Fellini anche con Mauro Bolognini e Mario Monicelli, chiede di non essere accreditato perché si vergogna di comparire in un prodotto di genere. Alla fine la sceneggiatura viene firmata dagli sconosciuti Alberto Areal e Francesco Martino (non faranno nessun altro film), dietro ai quali probabilmente si nasconde proprio Zapponi. In seguito Augusto Caminito dirà di aver collaborato alla sceneggiatura con Stefano Strucchi, mentre Giuliano Gemma affermerà di aver dato lui lo spunto iniziale proponendo una rivisitazione western del romanzo Uomini e Topi di Steinbeck. Sia le dichiarazioni di Caminito che quelle di Gemma non saranno provate. È invece da scartare, in virtù della smentita resa dal diretto interessato, la ricostruzione 750 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

(per molti pacifica) secondo la quale dietro il nome di Francesco Martino si sarebbe celato lo sceneggiatore Massimo Laurenti. Dunque una genesi all'insegna del mistero, con l'improvviso cambio di regia e un'intelaiatura che oscilla tra dramma e comicità. La storia è semplice. Un truffatore scanzonato (Gemma) rifila una fregatura a un minatore farfallone (Adorf) e si da alla fuga. Il minatore, imbufalito, si mette sulle tracce del baro. Alla fine i due diverranno amici, ma il truffatore dovrà vedersela con un altro uomo (Anthony Dawson): un bandito sanguinario che lo reputa responsabile della morte dei figli. La pellicola si apre in modo epico, al punto che sia Tom Betts che 800spaghettiwesterns.blogspot.it la definiranno tra le migliori di tutto lo spaghetti-western, con l'appassionato spagnolo che la qualificherà come sbalorditiva. Abbiamo una scena meravigliosa, sottolineata da una colonna sonora di Morricone così malinconica da potersi definire tra le più belle della sua eccezionale produzione. In un deserto frustato dal vento e dai vortici di polvere, vediamo Giuliano Gemma e Mario Adorf dare sepoltura a due uomini e una donna uccisi dal branco di delinquenti che danno la caccia a Gemma. Bellissimo il momento in cui l'attore romano, con un volto accecato dal dolore, accarezza la guancia della povera vittima. Il film prosegue alternando scene comiche e demenziali (si veda il momento in cui Adorf cade dal tetto dopo esserci saltato sopra più volte per verificarne la resistenza) ad altre brutali. Ci sono alcune trovate bizzarre (la donna sirena che si esibisce in un circo!?) unite ad altre vincenti come l'idea di mescolare la commedia (rappresentata dai due protagonisti) alla barbaria di certi atti perpetrati dagli antagonisti (Boido e Dawson) che uccidono uomini e donne disarmati (tortura su una donna perpetrata con una trave chiodata). Al di là di questi aspetti, lo script si sviluppa mettendo in scena tutta una serie di truffe organizzate da Gemma ai danni dell'ingenuo Adorf, con Anthony Dawson che vuol uccidere il protagonista per via di un fatto che non viene mostrato agli spettatori. L'epilogo è piuttosto deludente. Si ripropone il tormentone fordiano dei due protagonisti arroccati all'interno di una casa di campagna, messi sotto assedio dai "cattivi" che sparano all'impazzata dall'esterno. Carina invece la trovata della tagliola, a fungere da diversivo al canonico duello finale. Troppo poco per coinvolgere l'appassionato. Giuliano Gemma è il solito burlone scapestrato e acrobatico. Meleggia di continuo l’ingenuo Adorf, il quale cade sempre nei trucchi 751 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dell'altro. L'attore svizzero si dimostra un'ottima spalla, anche perché è perfetto nei siparietti comici. Diventerà uno dei volti caratteristici del poliziesco all’italiana, indimenticabile nei capolavori di Fernando Di Leo come La Mala Ordina e Milano calibro 9, soprattutto per le movenze teatrali e un innato talento istrionico. Dawson torna dopo Sentenza di Morte e continua a non eccellere. Attenzione al nome: non è Antonio Margheriti, errore spesso commesso dagli appassionati. Boido è il solito sotto bullo. Cammei per Pazzafini e la bella Magda Konopka. Petroni non è molto a suo agio. Rispetto ai suoi canoni, riduce ulteriormente l’azione e scandisce un ritmo lentissimo tanto che non escludo che qualcuno possa finire con lo sbadigliare. Bella la colonna sonora di Morricone che da il suo meglio nel prologo supportato da Alessandroni e diretto dal fido Bruno Nicolai. In conclusione soffia aria di occasione mancata. A parte un eccellente inizio e qualche battuta gradevolissima (“Preferisco usare il cervello, c’è meno concorrenza” risponderà Gemma all’invito di Adorf di imparare a usare la pistola), non c'è materiale per inserire E per tetto un cielo di stelle nell’olimpo dei western da ricordare. Tra l’altro anche il titolo non ha grande senso, se non quello di sottolineare che i due protagonisti sono dei vagabondi che vagano senza trovare sistemazione. 800spaghettiwesterns.blogspot.it tuttavia lo reputa poetico, ma poi converge sull'opinione del sottoscritto ammettendo che il film, dopo un inizio bellissimo, tende a cambiare di tono nella parte centrale finendo col deludere le premesse e con l'anticipare il c.d. fagioli western per la presenza di due personaggi che ricordano molto i futuri Trinità e Bambino. Ottima poi la sintetica analisi: è un western comico con una sotto trama drammatica. Ci va pesante filmtv.it che lo taccia di mediocrità attribuendogli una povertà di narrazione e una struttura insulsa. Più morbido il Morandini che conferma le due stelle di filmtv.it e il concetto di schema arcinoto, ma riconosce a Petroni il tentativo di tentare di dire qualcosa di nuovo. Sulla stessa linea spaghetti-western.net: divertente miscela di stili, ma resta un western minore. La pensano diversamente in molti. Il francese Jean-François Giré vi intravede una grande finezza da parte degli autori nell'aver plasmato la tragedia alla comicità. Marco Giusti parla di bellissimo we752 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

stern crepuscolare, mentre spaghettiwestern.altervista.org lo definisce un western che funziona, da non perdere. Prima della fine del mese debutta, suo malgrado, nel genere uno dei più grandi maestri del cinema di genere: Umberto Lenzi. Avremo modo di parlare di lui più sotto, qui basti ricordare che il regista toscano si trova costretto a girare due western come contropartita per la realizzazione del macaroni combat Attentato ai Tre Grandi (1967). Lenzi gira così questi western svogliatamente, per ragioni contrattuali, essendo interessato solo al sopracitato film. Nonostante questo realizza due prodotti dignitosi, sebbene nelle interviste ne parli sempre malvolentieri quasi come se non ne apprezzasse il valore. A produrre la coppia di film è Salvatore Alabiso, ex sceneggiatore, collaboratore della PEA di Alberto Grimaldi e sul punto da aprire una casa produttrice tutta sua; produrrà per Lenzi anche il thriller Paranoia (1969). Il primo dei due film a uscire è Tutto per Tutto! (1968), scritto dal regista col supporto del non eccelso Nino Stresa. Il copione non brilla per originalità. Propone la canonica caccia a un tesoro nascosto, sulla scia dei film di Castellari, con un piglio scanzonato e continui tradimenti. Lenzi può beneficiare di un discreto cast. Ha Mark Damon come protagonista (torna a essere il brillante donnaiolo) e John Ireland (tutto vestito di nero da qui il nome Il Gufo) a supportarlo nella caccia al malloppo rubato dall'indiano Faccia di Rame (José Torres). A inseguire il carico però c'è anche la banda di Carrancho (Fernando Sancho), il quale a sua volta aveva rapinato il malloppo da una banca. Il film viene sviluppato in virtù di una una serie di peripezie a causa delle quali il bottino passerà da un gruppo all'altro fino alla sorpresa finale. Presenti nel cast, oltre ai citati, gli immancabili Eduardo Fajardo, Armando Calvo, Raf Baldassarre e Luigi Induni Radici. Dunque un bel cast, per un western divertente ma non innovativo. Tra l'altro gli sceneggiatori non brillano nella stesura dei dialoghi, scimmiottando Il Buono, il Brutto, il Cattivo, ma sono bravi nel lavorare sulle caratterizzazioni dei personaggi. Mediocre la colonna sonora di Marcello Giombini. Non è esaltante nella storia per spaghettiwestern.altervista.org, ma comunque ben interpretato e diretto. 800Spaghettiwesterns.blogspot.it lo giudica vivace e gradevole, pieno di combattimenti e sparatorie che rendono il ritmo sempre sollecito. 753 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Meno noto e forse meno qualitativo del secondo western di Lenzi. Lo hanno visto in pochi, il Morandini non è tra questi. QUELLA SPORCA STORIA NEL WEST Produzione: Italia, 1967 Prodotto: Elio Scardamaglia e Gian Domenico Leone (Leone Film), Ugo Guerra (Daiano Film) . Regia: Enzo G. Castellari. Soggetto: Sergio Corbucci. Sceneggiatura: Enzo G. Castellari, Tito Carpi, Franscesco Scardamaglia. Interpreti Principali: Andrea Giordana, Gilbert Roland, Horst Frank, Françoise Prevost, Ennio Girolami, Manuel Silvester Serrano, Gabriella Boccardo (Gabriella Grimaldi), Pedro Sanchez (Ignazio Spalla). Fotografia: Angelo Filippini e Alberto Spagnoli. Musiche: Francesco De Masi. Sottogenere: Melodramma di ispirazione classica. Durata 92 min. Giudizio Mancini: ** Giudizio Morandini: *1/2 La trama L'ufficiale Johnny Hamilton (Giordana), reduce dalla guerra di secessione, torna al paese di origine e scopre molte novità. Suo padre è stato assassinato, sua madre (Prevost) si è sposata con suo zio (Horst) e la sua ex ragazza (Boccardo), senza dargli spiegazioni, gli rivela di non volerlo più vedere. Gli viene detto che a uccidere il padre è stato un bandito messicano (Serrano) e che lo stesso è stato assassinato da suo zio, tuttavia il giovane non ci crede e, aiutato da un vecchio amico (Roland), inizia a indagare... Commento Conosciuto negli Stati Uniti con il più appropriato Johnny Hamlet, Quella Sporca Storia nel West è la versione western del celebre romanzo Amleto di William Shakespeare, con alcune modifiche funzionali ad adattarla al genere. Rivalutato soprattutto negli ultimi anni, 754 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

grazie anche alle ottime parole spese dal regista, il film esce quasi in sordina e non regala gli incassi sperati. Il progetto, peraltro, paga anche il fatto di esser stato anticipato da Dove si Spara di Più (1967) di Gianni Puccini, che aveva già portato Shakespeare nel genere (il riferimento là andava a Romeo & Giulietta). A produrre l'operazione ci sono le stesse case produttrici che l'anno prima avevano sfornato El Desperado (1967). La loro intenzione è di affidare il progetto a Sergio Corbucci. Il regista romano sulle prime accetta, elabora il soggetto poi abdica perché coinvolto in altri progetti. Scardamaglia offre allora il soggetto a Rossetti, con cui aveva fatto il precedente western, alla fine però subentra Enzo G. Castellari, fresco del successo di Vado... L'Ammazzo e Torno (1967). Castellari mette mano alla sceneggiatura, facendosi assistere dal fido Tito Carpi. I due predispongono uno script ambizioso e atipico per il primo Castellari, solitamente scatenato e votato allo spettacolo. Ne esce fuori un ibrido sospeso tra tragedia e action movie, sebbene i due tentino di sottolineare il più possibile il legame con l'opera del poeta inglese. A tal riguardo il regista, senza rinunciare alle scazzottate, pennella atmosfere gotiche a tratti surreali. Ne è un esempio l'onirico inizio e le sequenze ambientate in un cimitero eretto all'interno di una grotta. I produttori però non sono molto convinti e cambiano il titolo del film, prima in Essere o non Essere poi in quello definitivo (in Germania addirittura esce come un sotto Django), facendo scatenare l'ira del regista che ritiene, a ragione, non sfruttato appieno il legame con Shakespeare e attribuisce a ciò l'insuccesso commerciale della pellicola. Nonostante le difese di Castellari, si nota uno script altalenante che non riesce, salvo qualche circostanza (a esempio tutta la sequenza in cui la Prevost fugge ferita per andare a cercare il figlio), a imprimere quel senso di inquietudine e tristezza che sarebbe lecito attendersi da un soggetto di impronta shakesperiana. Ne deriva un film tecnicamente molto interessante, con una regia da horror gotico, impreziosita da effetti speciali realizzati sul momento (su tutti citerei una sovrapposizione di immagini funzionale a creare l'effetto di una donna adagiata sul letto di un fiume, con i capelli mossi dall'acqua) e da una fotografia tra le più belle mai viste in un western. Sono notevoli anche le scenografie di Enzo Bulgarelli in virtù di scenari bizzarrissimi (come il cimitero sotterraneo o alcune rocce 755 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dalla forma di fungo gigante) e location di grande fascino (bello l'inizio con il protagonista che cavalca in riva al mare). Cosa c'è dunque che non va in questo film? A mio modo di vedere la sceneggiatura è poco coraggiosa, addirittura incerta sulla piega da seguire, e sprovvista di dialoghi graffianti. Ci sono alcune buone idee, come la scena (che Castellari riproporrà in Keoma e in Jonathan degli Orsi) in cui Giordana viene crocefisso, con la madre, insanguinata e dolorante, che si inginocchia sotto la croce a rievocare la Passione di Cristo, ma si tratta di trovate numericamente inferiori rispetto a quelle che non convincono. A esempio è posticcio il personaggio di Roland Gilbert; lo vediamo apparire tutte le volte in cui Giordana si trova in difficoltà, quasi come se fosse uno spettatore pronto a entrare in scena non appena l'eroe sta per soccombere. Tale impressione disturba la suscettibilità del pubblico, in quanto rende inverosimile il personaggio. Sono inoltre fuori luogo, dato il contesto, le scene in cui Gilbert e Giordana scherzano prendendo a cazzotti e calci Ennio Girolami. Non manca infine quel sapore dejà vù tipico dei prodotti di seconda scelta. Horst Frank ha un ruolo pressoché identico a quello ricoperto in Preparati la Bara!, mentre l'idea del giovane che ritorna al paese di origine trovandolo soqquadro ricorda troppo Il Ritorno di Ringo. Il limite della pellicola di Castellari sta quindi nell'incapacità di distinguersi per colpi di genio che vadano oltre quelli meramente visivi. Dopo una prima parte che fa gridare al miracolo per la sua bellezza artistica, il maestro romano perde il polso della situazione. Alla fine si resta con l'amaro in bocca, poiché la sceneggiatura finisce in calando, con un epilogo telefonatissimo culminante in un duello deludente (carina solo l'idea della polvere d'oro utilizzata come espediente per fare inceppare l'arma). Peccato, perché il cast artistico si rivela in grande forma. Andrea Giordana, reduce proprio da El Desperado, viene chiamato a ricoprire il ruolo da protagonista inizialmente offerto ad Anthony Perkins (che qualche anno prima aveva conquistato le platee nei panni di Norman Bates in Psyco di Alfred Hitchcock). Scelto in modo particolare per il suo bell'aspetto, Giordana adempie bene al ruolo. Castellari e il direttore del doppiaggio lo convincono, dopo strenua lotta, a farsi doppiare e la cosa aiuta il giovane attore. Interpreta un personaggio poco espressivo, spesso rude, che non si concede all'ironia, e lo fa in modo molto più vivo di quanto riusciranno a trasmettere attori come Leonardo Manzella e altri chiamati in seguito 756 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

a ricoprire il ruolo dei figli vendicatori. Ad affiancarlo c'è Gilbert Roland. Già incontrato nel precedente Vado... L'Ammazzo e Torno, Roland si limita, non per sua colpa, a una performance fisica che lo porta spesso a recitare in scazzottate e in interventi in aiuto di Giordana. L'attore messicano è convincente, ma non è sfruttato come in altre pellicole. In più ha una sfumatura farsesca che rovina il taglio crepuscolare e desolato che dovrebbe avere la pellicola. La parte dell'antagonista viene riservata al glaciale Horst Frank, in un ruolo a lui tipico. L'attore tedesco, classe 1920, è probabilmente il più ispirato della comitiva, grazie a un'ambiguità sospesa tra la falsità e la comprensione. Completano il lotto grandi caratteristi come Ennio Girolami (usato soprattutto per le doti acrobatiche), qui al suo secondo western dopo I Crudeli, ma in seguito presenza costante di molti cult movie, tra cui vale la pena di ricordare i post-atomici 1990 I Guerrieri del Bronx e Fuga dal Bronx (entrambi diretti dal fratello Castellari). Si segnalano infine le presenze eccezionali della figlia d'arte Françoise Prevost (proveniente dal cinema impegnato e qui al suo unico spaghetti western) e della quasi debuttante Gabriella Boccardo, sorella della più famosa Delia Boccardo, anche lei al suo unico western e in seguito passata al cinema impegnato. Di spessore la colonna sonora di Francesco De Masi, che tocca il suo apice con la canzone Find a Man, cantata da una garanzia del cinema western italiano come Maurizio Graf. Nel complesso un western gradevole anche se con importanti cali di ritmo. Ne parlano un gran bene Castellari e spaghettiwestern.alterivista.org. All'estero l'hanno visto tutti i migliori blogger interessati al genere. In particolare lo eleva a capolavoro lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it che lo pone nella sua top quindici con una media voto superiore all'otto e mezzo. Lo spagnolo lo ritiene addirittura il miglior lavoro di Castellari, secondo solo a Keoma. Specifica di ravvedere l'intera essenza tragica dell'opera di Shakespeare e un forte simbolismo religioso. Lodi poi al regista per la direzione e il gusto visivo, con giochi di luci e colori ben resi dalla fotografia e da una tecnica, nell'uso della macchina da presa, invidiabile. Mondo-esoterica.net, pur esaltando sceneggiatura e direzione (è tra i migliori spaghetti western), fa notare che i personaggi femminili sono troppo confusi e che ci sono troppi colpi di scena, rispetto all'opera di Shakespeare, funzionali a introdurre sequenze d'azione estra757 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nee all'originale e talvolta fuori luogo (le scazzottate sono a suo avviso troppo lunghe). Sorprendente al punto da essere inebriante a giudizio di sonofdjango.com. L'appassionato anglofono è colpito dalla presenza di inquadrature innovative e dall'ottimo collage tra sequenze tradizionali e altre che paiono estrapolate da un film di rilievo artistico. Appare in quarantesima posizione nella classifica di spaghetti-western.net ed è addirittura settimo per Alex Cox che lo preferisce a Keoma. Se tutti i blogger esteri lo consigliano a grande voce reputandolo un gioiello da rivalutare, non lo ama filmtv.it che lo definisce un folle progetto senza voli e gli riconosce due stelle. Ironico e divertente il commento del Morandini, che gli da appena una stella e mezzo: “È un Amleto calibro 9, a calci in bocca, che non dimentica né il becchino né una simil-Ofelia... con una compagnia di guitti che recitano Shakespeare.” A mio avviso, negli ultimi tempi, è stato un po' troppo sopravvalutato, resta comunque un western da vedere quanto meno per la splendida fotografia degna di un film di Mario Bava. Ad aprile esce il western di minor successo prodotto da Manolo Bolognini, fresco dai successi ottenuti col trio Django (1966), Texas, Addio (1966) e Preparati la Bara! (1967). Si tratta di Vivo per la Tua Morte (1968) che Bolognini realizza perché pressato dall'americano Steve Reeves al punto da farlo entrare nel finanziamento del film. Reeves, colonna portante del peplum, si trova ormai a un punto morto della carriera. Ex militare impegnato nella seconda guerra mondiale, si era fatto valere dapprima in veste di culturista, aggiudicandosi il prestigioso Mr. Universo nel 1947, e poi in alcuni serial televisivi statunitensi di poco conto. Aveva quindi vissuto il momento di gloria a cavallo tra il 1958 e il 1964, grazie all'esplosione del peplum divenendone un simbolo di riferimento a partire da Le Fatiche di Ercole (1958) di Pietro Francisci. Di lui, la sua controfigura, Giovanni Cianfriglia, dirà: “Non era molto forte, non aveva quei muscoli veri, adeguati a quello che si vedeva; tuttavia penso che nessuno meglio di lui abbia fatto questo genere di film, era veramente bello.” Ed è proprio grazie a questo mix di bellezza e muscoli che Reeves era riuscito a sbaragliare la concorrenza dei vari Gordon Scott, Richard Harrison, Kirk Morris e compagnia, finendo per personificare il modello di ispi758 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

razione per tutti gli attori chiamati a interpretare Ercole. Altri ruoli importati li aveva ricoperti in Sandokan, la Tigre di Mompracem (1964) di Umberto Lenzi e nel seguito I Pirati della Malesia (1964) in veste di Sandokan, nonché in un altra dozzina di pellicole agli ordini dei vari Riccardo Freda, Mario Bonnard, Giorgio Ferroni, Sergio Corbucci e altri. Finito il peplum non era riuscito a inserirsi nello spaghetti-western perché poco apprezzato a livello interpretativo, soprattutto per una certa legnosità nelle scene acrobatiche. Rimasto al palo per circa quattro anni, Reeves decide così di investire in prima persona. Acquista i diritti di un romanzo di Gordon Shirreffs, specialista nel genere western, intitolato Juda's Gun, e lo adatta al formato cinematografico. Purtroppo i suoi sforzi non verranno ripagati (chiuderà addirittura la carriera dopo questa pellicola) e non trovano neppure l'entusiasmo dei registi che rifiutano in massa di dirigere il film. Il copione, scritto con l'aiuto di Roberto Natale, si rivela di concezione hollywoodiana e appare fin dalla carta obsoleto. A poco serve l'impegno di Reeves per compiere il miracolo. L'attore americano ce la mette tutta per dar vita a un grande western. Sceglie persino gli attori, coinvolgendo caratteristi noti (Aldo Sambrell, Guido Lollobrigida, Franco Fantasia, Rosalba Neri) oltre che a un lotto di attori muscolari, quali Domenico Palmara e Nello Pazzafini, e l'esperto Wayde Preton preso direttamente dal cast di Oggi a Me... Domani a Te! (1968). Compaiono grandi nomi anche nel cast tecnico: Enzo Barboni alla fotografia (molto solare) e Francesco Barilli in veste di regista della seconda unità. Quest'ultimo viene ingaggiato grazie all'ottimo lavoro prestato quale aiuto di Pasolini nell'ultra premiato Uccellacci e Uccellini (1966). Barilli, nome che forse ai più non dirà nulla, prima di perdersi in lavori televisivi dalla metà degli anni '70, si segnalerà nel 1972 per la regia di un horror alla Rosemary's Baby intitolato Il Profumo della Signora in Nero, degno di esser riscoperto. Queste le premesse che portano Camillo Bazzoni, fratello più giovane del più qualitativo Luigi, ad accettare la sfida e ad assumere l'incarico di regista. Bazzoni arriva da una decina di cortometraggi di pregio (nomination alla Palma d'Oro di Cannes nel 1966 con L'Urlo) e vanta una discreta esperienza da operatore di macchina maturata agli ordini, tra gli altri, di Comencini (Il Commissario del 1962) e di Bertolucci (Prima della Rivoluzione del 1963). Abbandonerà presto le ambizioni da regista, girando appena altri tre film - tra i quali il discreto mafia movie E Venne il Giorno dei Limoni Neri (1970) e il poliziesco 759 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Abuso di Potere (1972) – trovando la propria collocazione in veste di direttore fotografia. In quest'ultimo ruolo collaborerà con importanti registi quali Samperi, Bolognini, Monicelli, Troisi e Wertmuller. Il debutto da regista di Bazzoni si caratterizza per una serie di difficoltà. Reeves tramuta in certezza le perplessità e i dubbi sollevati da chi aveva scelto di non scommettere su di lui. Finisce persino deriso dai colleghi e si rende protagonista di una serie interminabile di gaffe. Celebri le sue difficoltà nell'estrarre la pistola dal cinturone e persino nel camminare con stivali muniti di speroni. A ciò si aggiungono le scarse doti acrobatiche nelle scene di azione che mandano su tutte le furie gli operatori. I problemi però riguardano anche la regia, Bazzoni stenta a trovare uno stile e finisce col giocare di continuo con lo zoom nonché nel riprendere i personaggi con il sole alle spalle, rendendoli quasi invisibili. Inoltre non riesce a imprimere un ritmo adeguato, tanto che il film scorre in modo lentissimo. Certo, non lo aiuta il soggetto, che definirlo trito e ritrito è dir poco. Le caratterizzazioni sono latenti nonostante vi sia un interminabile numero di antagonisti. Protagonista è un muscolare pistolero (Reeves) ingiustamente incastrato, insieme al fratello (Fantasia), per la rapina di un carico d'oro. Internato nel campo di prigionia di Yuma, un vero e proprio lager diretto da un sadico carceriere (Pazzafini), il nostro riuscirà a evadere facendo scoppiare una rivolta. Braccato da bounty killer vari (tra cui Sambrell), si metterà sulle tracce degli autori della rapina vendicandosi dei torti subiti e della morte del fratello, ucciso dopo tremende torture nel campo di prigionia. Tra i banditi figurano uno sceriffo corrotto (Palmara) e un falso agente ferroviario (Preston). Inevitabile resa di conti finali per un soggetto che trasuda di dejà vù in ogni sua parte. Questa la sinossi di una pellicola sviluppata da una sceneggiatura che non ricorre a dialoghi graffianti né a soluzioni innovative. Oltre al protagonista e al carceriere, gli altri personaggi fanno comparsate troppo veloci e non incidono. Alta la componente della violenza, con pestaggi, torture e con un make up curatissimo che non lesina nel mostrare tagli e ferite grondanti sangue. Le interpretazioni sono buone, Palmara è più incisivo del solito e anche Reeves, seppur granitico e criticato da tutti, non è peggio di altri che si sono misurati col genere. Pazzafini, cattivissimo come al solito, prende a manganellate i prigionieri, e si rivela il migliore dalla compagnia. Wayde Preston è il subdolo cattivo di turno, niente di me760 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

morabile però. Bellissima Rosalba Neri in un fugace cammeo nei panni di una prostituta. La cosa migliore del film sono le splendide e claustrofobiche location all'insegna del deserto e della roccia, esaltate dalla caldissima fotografia di Barboni. In definitiva un western che paga una sceneggiatura di vecchia concezione, ma che viene messo bene in scena (le parti migliori sono quella nel lager e la sparatoria che coinvolge Sambrell) seppur con un ritmo blando e caratterizzazioni latenti. Piuttosto contrastanti i pareri. Si va da imdb.com, che gli riconosce addirittura un sei e mezzo, a Marco Giusti che lo stronca senza alcun appello: è un disastro. Più equilibrate e condivisibili le opinioni del californiano Tom Betts e di spaghettiwestern.altervista.org per i quali si tratta di un western non eccelso, causa una regia incerta, ma comunque guardabile per la presenza di Wayde Preston. Più severo lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it che gli affibbia un cinque e mezzo in pagella, puntando il dito inquisitore su Reeves non giudicato all'altezza della storia. Due stelle per il Morandini che, curiosamente, lo salva un po': non è uno dei peggiori tra la caterva di spaghettiwestern. Il dieci aprile torna nei cinema Bud Spencer con Al di là della Legge (1968) – titolo preferito in extremis al più congeniale ma meno originale L'Uomo che Veniva da Lontano. A dirigerlo c'è Giorgio Stegani, qua al suo ultimo spaghetti-western dopo Adiòs, Gringo (1965) e Gentleman Joe... Uccidi! (1967). Il regista milanese rinuncia allo pseudonimo anglofono e usufruisce di un budget più corposo rispetto ai suoi standard. A cacciare la grana è una produzione che ha in Alfonso Sansone ed Enrico Chroscicki i punti di riferimento. Reduci dagli ottimi Da Uomo a Uomo (1967) e I Giorni dell'Ira (1967), i due produttori – qua associati a una società tedesca – intendono sfornare il loro terzo western di qualità. Il film nasce quindi sotto buoni auspici e viene strutturato attorno a un soggetto di Lorenzo Sabatini, conosciuto anche con lo pseudonimo Warren Kiefer per essere stato il co-regista dell'interessante horror Il Castello dei Morti Vivi (1964). Per il toscano sembra l'inizio di una folgorante carriera, ma non sarà così: naufragherà nell'oblio nei primi anni '70 dopo altri tre film diretti. A dar manforte a Sabatini viene chiamato il grande Fernando Di Leo, col compito di svi761 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

luppare la sceneggiatura, a cui collabora anche Mino Roli (in arrivo da Dio non Paga il Sabato). Sansone e Chroscicki non badano a spese. Confermano per la terza volta la star Lee Van Cleef (vero e proprio attore feticcio della produzione), e puntano sui semi debuttanti, ma già affermati, Antonio Sabàto e Bud Spencer, oltre che su un asso boicottato in patria del calibro di Lionel Stander (vincerà di lì a poco un Golden Globe). Nel ruolo del cattivone invece c'è il più economico Gordon Mitchell, presenza costante nei western di bassa lega sempre con ruoli da psicopatico. Tutto lascerebbe presagire alla realizzazione di uno spaghetti-western di serie A, ma di tale livello ci sarà solo il risultato al botteghino, indubbiamente favorito dal contorno di attori. La pellicola ha una buona partenza, con un assurdo colpo organizzato da un trio di “ladri onesti” (così si definiscono perché evitano di usare la pistola). A formare il terzetto c'è il virile Van Cleef, che se ne va in giro vestito da sciattone con il petto peloso in bella vista, un vecchio predicatore (Stander) che snocciola di continuo passaggi della Bibbia per poi fare l'opposto di quanto predicato e un colored (Hoosman) che suona l'armonica e che sembra ritardato, ma che invece è scaltro e acrobatico. Quest'ultimo infatti tenta di farsi dare un passaggio da una diligenza in marcia in pieno deserto, ben sapendo che lo faranno accomodare all'interno. Emerge fin da subito la componente del razzismo e della stupidità provinciale (leitmotiv di tutto il film). Il colored viene infatti costretto a sedersi all'esterno, sul retro della carrozza. La cosa non lo urta affatto, anzi è funzionale a quello che è il suo vero scopo. Lo vediamo compiere esercizi acrobatici per porsi in orizzontale rispetto al fondo del mezzo dove vi pratica con un coltello un orifizio sufficiente a far cadere la borsa che accompagna un ingegnere europeo (Sabàto) giunto in America per coordinare i lavori in una miniera. Nella borsa, che viene fatta così cadere al suolo, ci sono gli stipendi di tutti gli operai. La recupererà proprio Van Cleef che provvederà a nasconderla in un nascondiglio sicuro. Intanto, tra il bandito e il nuovo arrivato si instaura una profonda amicizia poiché il bandito è l'unico a sostenere il giovane al cospetto delle critiche degli operai e del proprietario della miniera (Bud Spencer) imbufaliti per la perdita dei soldi. Si sviluppa così una storia abbastanza originale, ma portata avanti con un ritmo lentissimo che diventa presto noioso nonostante la presenza di un cast di primario livello. 762 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Interessante l'evoluzione che compiono i due personaggi principali, determinata dal fatto che stanno sempre insieme (anche in camera da letto) acquisendo l'uno gli atteggiamenti dell'altro. Van Cleef, da bandito analfabeta e dal look impresentabile, diverrà un elegante sceriffo acclamato dal popolo, innamorato di una procace ragazza del posto (Graziella Granata); Sabàto, da ragazzo impacciato e completamente avulso dal west (con tanto di look da aristocratico inglese), diverrà uno dei più valorosi fucilieri del paese. “Tu sembri un cucciolo bisognoso di aiuto e di protezione, ma comincio a credere che potresti fare fesso me e cento come me” gli dirà Van Cleef. Così, come già nei due western della coppia Sansone-Chroscicki, si ripropone il tema del vecchio pistolero che svezza l'impacciato giovane intraprendente. Questa volta però cala l'azione, viene quasi meno l'ironia spaccona (dimenticate i vari insegnamenti enfatizzati da massime degne un aforismario) e ci sono troppi momenti irrilevanti ai fini della storia che spezzano il ritmo. Tra questi risultano stucchevoli i corteggiamenti (non corrisposti) di Van Cleef alla Granata. Gli sceneggiatori, probabilmente su pressione di Stegani che aveva una formazione più classica rispetto ad altri registi avendo lavorato a stretto contatto con Giorgio Ferroni, decidono di porre l'accento sui temi della giustizia, dell'amicizia, del lavoro e dell'amore. Ne esce fuori un western vicino agli stilemi hollywoodiani anche se non mancano le sparatorie esaltate dai continui campi lunghi in cui Stegani offre il suo meglio (belle le sequenze relative agli inseguimenti delle carovane). Simpatico l'escamotage adottato da Sabàto per impedire il secondo colpo orchestrato dal trio di ladri, quando finge di porre il denaro in una borsa (poi sostituita furbescamente da Van Cleef) per tenerselo tutto dentro la giacca. Carina altresì l'idea di far assaltare la carovana da un secondo gruppo di banditi, dopo che i due compagni di Van Cleef avevano simulato un falso attacco per permettere al loro complice di gettare la valigetta a terra (valigetta che poi risulterà essere vuota). L'episodio cementifica il rapporto tra i tre banditi e il giovane europeo, con i primi che saranno considerati, loro malgrado, degli eroi per aver respinto l'attacco dei rapinatori. Alla fine, acclamati dal popolo, si troveranno tutti e quattro uniti per sgominare una banda di fuorilegge capitanati dal solito impostato e pessimo Gordon Mitchell, qua vestito in un assurdo stile Zorro (seppur privo di mascherina). I nostri recupereranno il carico di argento preteso da Mitchell, ma finiranno inaspettatamente per contenderselo una volta eliminato 763 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

il crudele avversario. Sabato lo vorrebbe riportare in paese, Stander e Hoosman lo vorrebbero rubare, Van Cleef, con la stella sul petto, è indeciso se tenere fede al suo incarico oppure tornare con i vecchi compagni di avventura. Qua si registra la migliore sequenza del film, con il confronto tristissimo e ben commentato dalla colonna sonora di Ortolani tra Van Cleef e i suoi due ex compagni. Notevole l'inquadratura finale di Stegani, dall'alto, con Van Cleef amareggiato che tiene la stella in mano, incerto se gettarla al vento. Tra gli attori convince più di tutti Lionel Stander che offre una prova maiuscola, ricordando un po' certi personaggi interpretati in seguito da Ernest Borgnine (il riferimento va al tassista di 1997 Fuga da New York). Il suo è anche il personaggio più caratterizzato e divertente della pellicola: mastica tabacco, ha un fare da giullare e va in giro tenendo sempre in mano la Bibbia. Classe 1908, di origine russa, Stander, dopo essersi fatto le ossa in radio, era approdato al cinema nel lontano 1935 dove in quattro anni aveva recitato in quasi trenta pellicole. Costretto a interrompere la carriera nel 1940 e poi nel 1947 in quanto sospettato di congiurare con i comunisti, era ritornato a lavorare in radio, in teatro e per i nascenti serial televisivi finché non gli venne impedito di lavorare nel mondo dello spettacolo a causa del suo continuo braccio di ferro con le autorità. Costretto a emigrare in Inghilterra, fu scelto da Roman Polanski per Cul-de-Sac (1966), prima di avere una lunga carriera in Italia a partire con l'allegra spy story Sette Volte Sette (1968) di Michele Lupo. Prima di poter tornare a lavorare in patria nel 1977, Stander lavorerà in una moltitudine di produzioni italiane con partecipazioni in cult assoluti del genere poliziesco come Milano Calibro 9 (1972) di Di Leo e Piazza Pulita (1974) di Vanzi, ma sarà attivissimo anche nel western partecipando a pellicole di punta come C'era una volta il West (1968) di Leone e La Collina degli Stivali (1969) di Colizzi oltre ad altre piccole produzioni. Avrà ruoli di un certo rilievo anche in Cassandra Crossing (1976) di Pan Cosmatos e New York, New York (1977) di Scorsese, per poi ottenere la grande popolarità in patria grazie alla fiction Cuore e Batticuore (1979-84) che gli varrà il meritato riconoscimento del Golden Globe come migliore attore non protagonista. Chiuderà la carriera al servizio del circuito televisivo. Se Stander impressiona positivamente, vedere a esempio la scena della sua morte in cui offre un'interpretazione eccelsa con un sorriso di beffa e forse di delusione impresso sul volto, è meno brillante del 764 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

solito Lee Van Cleef. Forse disturbato dalle sfaccettature ambigue del suo personaggio, Van Cleef è perfetto quando deve fare il duro, mentre lo è assai meno quando deve corteggiare o quando deve farsi prendere dai dubbi. Non eccelle neppure Sabàto, che farà di meglio in seguito. Anche lui è alle prese con un personaggio dalla doppia faccia, perché passa da impacciato (qua l'interpretazione non è delle migliori) a smaliziato, evoluzione che il siciliano non è bravo a sottolineare (se non nel diverso look). Nel cast, come detto, c'è anche un inconsueto Bud Spencer ben vestito e sbarbato, in un ruolo che non si confà alle sue caratteristiche e che non gli permette di sfruttare le sue potenzialità. È una sorta di sindaco del paese, dai modi ricercati ed eleganti. Bravino l'ex pugile americano Al Hoosman, un peso massimo che si era fatto valere negli anni'30 combattendo anche al Madison Square Garden. Trapiantato in Germania dove si era recato come militare per combattere nella seconda guerra mondiale, si era ricreato negli anni '50 una carriera in qualità di caratterista dei tv movie tedeschi. Lo portano in Italia i coproduttori tedeschi per personificare il gigante di colore richiesto da Stegani, per inserire delle pennellate di critica al bigotto odio razziale dei campagnoli del villaggio. Morirà sei mesi dopo l'uscita del film e verrà sepolto nel cimitero di Monaco di Baviera. Nella banda di Mitchell, invece, sono presenti i caratteristi Romano Puppo e Carlo Gaddi, a cui vengono riservati i soliti ruoli da bullo. Non manca qualche spruzzata di sangue nelle ferite e persino sul volto di una donna trucidata dagli uomini di Mitchell, che la tenevano in ostaggio, insieme ad altri, per usarla come strumento di ritorsione nei confronti dello sceriffo. “Se non mi verrà portato l'argento, ucciderò un ostaggio ogni cinque minuti” è la minaccia di Mitchell, in quella che pare una sequenza estrapolata da un poliziesco. Un ultimo aspetto negativo della pellicola è costituito dalla fastidiosa atmosfera da farsa burlesca che ogni tanto pervade la storia, una sorta di reminiscenza di Gentleman Joe. Ho avuto l'impressione che Stegani non avesse ben chiaro quale tipo di taglio dare al film e la cosa si riflette anche nelle interpretazioni degli attori. Bella l'americaneggiante colonna sonora di Riz Ortolani, seppur dalla melodia hollywoodiana, anche se c'è chi nota delle similitudini con un precedente lavoro del maestro italiano utilizzato nel paella 765 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

western I Tre Spietati (1963). Fotografia sufficiente curata da Enzo Serafin. Nel complesso è un western noioso, ora serio ora comico. Netta la divisione tra i critici di settore. Si va da Thomas Weisser che trova la pellicola “sconfortante e noiosa”, a Marco Giusti che la reputa “il maggior western di Stegani” (a mio avviso non raggiunge l'intrattenimento che è in grado di offrire Adiòs, Gringo). Situazione analoga tra i blogger. Si va dal generoso spaghettiwestern.altervista.org che lo consiglia indicandolo come “film di grande azione, con continui colpi di scena”, al severo anglofono fistfulofpasta.com che esordisce dicendo che “c'è molto di sbagliato in questo film”. L'appassionato inglese individua difetti grossolani connessi alla presenza di riferimenti errati come all'esistenza della nazione della Cecoslovacchia o a balletti con musiche jazz anni '40. Nota altresì la presenza di tracce di autovetture che lo portano a definire “sciatta” la messa in scena. Come spesso avviene in questi casi siamo alle prese con un'opera munita di una buona confezione, ma con un qualcosa di fondo che non funziona. Il tutto viene rappresentato bene dalle pagelle di imdb.com e di 800spaghettiwesterns.blogspot.it che gli rifilano un misero sei in pagella, col secondo che, giustamente, fa notare lo sbilanciamento tra la parte comica e quella drammatica. Tre stelle per filmtv.it, lo ignora il Morandini. Ripeto, viste le premesse, abbastanza deludente. Escono pressoché lo stesso giorno un trio di western di quarta fascia. Il primo è il misconosciuto Una Forca per un Bastardo (1968), un revenge movie con intelaiatura gialla, scritto e diretto dal pessimo Amasi Damiani, con Mimmo Palmara protagonista. Regista di pellicole spesso inedite, Amasi Damiani finirà a dirigere Cicciolina nei softcore. La pellicola è talmente irrilevante che farà notizia, a detta del regista, la sua proiezione su una rete regionale. Introvabile e visto quasi da nessuno. Più noto ma di livello comunque mediocre è Sangue chiama Sangue (1968), ultimo western di Luigi Capuano. Lo produce Felice Zappulla, il quale abbandona per un attimo le commedie, per tentare la carta western. Ingaggia Stephen Forsyth e Fernando Sancho, quindi 766 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mette nelle mani di Capuano la sceneggiatura del fido Fulvio Pazziloro (che chiude qua la carriera dopo cinque copioni). Il film non se lo vede nessuno, viene addirittura riproposto tre anni, dopo ma senza risultati. È un revenge movie con un giustiziere (Forsyth) che arriva a falcidiare una banda di messicani formata da componenti che si contendono un bottino rubato da un santuario francescano. Lo sviluppo della storia è macchinoso, con poca azione. C'è chi fa notare una certa tensione sessuale tra i protagonisti: tutti voglio dominare la propria donna, ma finiscono con l'essere fregati dalla stessa. Si segnala infine un Sancho che, prima di compiere ogni colpo, chiede ai suoi uomini di non spargere sangue e poi consuma mattanze. L'ha visto fistfulofpasta.com che non ne parla male, dicendo che può valere una visione, vuoi per Sancho (nel suo consueto ruolo) vuoi per alcuni momenti esilaranti. Noioso e di modesta fattura per spaghettiwestern.altervista.org. La terza pellicola vede tornare dietro alla macchina da presa Gianfranco Baldanello con I Lunghi Giorni dell'Odio (1968). Dei tre è il western più riuscito, ma il budget è misero. Produce lo sconosciuto e improvvisato Alberto Marucchi, che però ha legami con il mercato americano tanto da racimolare i fondi necessari per completare l'operazione. Siamo ancora una volta alle prese con un revenge movie, che vede Guy Madison impegnato a cercare i responsabili del massacro della sua famiglia. Nel cast compaiono la bomba sexy Rosalba Neri, Pietro Martellanza e Rik Battaglia. Apprezzato dal suo regista, non se l'è visto quasi nessuno, sebbene Marco Giusti affermi che abbia i suoi fan. Lo affossa spaghettiwestern.altervista.org il quale scrive: “western poco incisivo, a tratti banale e con attori poco convincenti...” A metà mese, dopo un debutto nel genere un po' farsesco con Joe l'Implacabile (1967), Antonio Margheriti decide di fare sul serio e unisce al western quel tocco macabro e gotico che caratterizza buona parte della sua filmografia. Ne deriva un'opera dal soggetto piuttosto classico, ma dalla messa in scena bizzarrissima e con un antagonista memorabile che pare uscito dal mondo dei fumetti. Queste le premesse di Joko Invoca Dio... E Muori! (1968), pellicola prodotta da un'altra vecchia conoscenza del genere horror italiano, 767 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

quell'Alfredo Leone, qui al debutto e in società con un gruppo di imprenditori tedeschi, futuro finanziatore di molti cult di Maria Bava come Gli Orrori del Castello di Norimberga (1972), Lisa e il Diavolo (1974) e Cani Arrabbiati (1974). Il soggetto porta la firma di Renato Savino, un vero e proprio factotum del cinema. Dopo aver preso le mosse in qualità di direttore di produzione di film diretti da Silvio Siano, nei primi anni '60, aveva cercato di imporsi in qualità di aiuto-regista maturando proprio alla corte di Antonio Margheriti, nel thriller Nude... si Muore (1968). Passerà presto alla regia senza lasciare il segno, con circa una mezza dozzina di film tendenti al comico da cui si discosterà il solo I Ragazzi della Roma Violenta (1976). Il soggetto è un classico revenge movie che vede come protagonista un temibile pistolero (Richard Harrison) intenzionato a vendicare due compagni di rapina trucidati da una banda di criminali nell'immediatezza di un colpo. Così, affrontando i rivali uno per volta e in separata sede, Joko porterà a termine il piano e recupererà il bottino che i rivali gli avevano sottratto a tradimento. Dovrà tuttavia scontrarsi, in ultima battuta, proprio con uno dei due amici che intendeva vendicare e che non solo non è morto, ma è stato l'artefice del tradimento costato alla vita all'altro compagno. Dunque una trama che di originale non ha nulla, ma che eccelle grazie all'estro visionario del regista, alla prova recitativa di un allucinato Claudio Camaso nonché alla caratterizzazione del personaggio allo stesso assegnato. Evidenti le zampate orrorifiche che vengono messe sul piatto della bilancia fin dall'inizio. Il film difatti si apre con una tortura terribile riservata al povero Ricky, il compagno che Harrison vendicherà, cui da corpo il funambolico Alberto Dell'Acqua (qua in un ruolo marginale). Vediamo il poveretto legato per ogni arto da delle corde tenute in tensione da cinque manigoldi seduti in sella ai reciproci cavalli e posizionati l'uno in direzione opposta agli altri, pronti a lanciarsi al galoppo. “Un burattino, ecco cosa sei. E noi siamo i burattinai!” lo schernisce un delinquente. La scena sarà omaggiata dal cinese Sun Chun per il suo Gli Implacabili Colossi del Karatè (1978). Notevole, al riguardo, la carrellata verso l'alto che il regista regala al pubblico, inquadrando Dell'Acqua mentre si agita nel fango. Il regista manterrà per tutto il film un certo gusto per la ricerca dell'inquadratura più efficace, riprendendo anche da angolature elaborate (spesso con inclinazioni dal basso verso l'alto). 768 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Da qui si assiste alla lunga ricerca dei colpevoli messa in atto da Joko, un mezzosangue che prima di uccidere gli avversari getta contro gli stessi un brandello di corda usata per squartare il compagno di rapina. La caratterizzazione dell'antieroe di turno è, seppur ribaltata, costruita sulla falsa riga dell'antagonista di Navajo Joe (1966), in quanto abbiamo un meticcio odiato sia dai bianchi che dagli indiani. Eloquente il monologo di Harrison: “Sono un bastardo, lo dicevano anche gli indiani: per loro ho la faccia di un bianco schifoso. I bianchi, invece, credono di potermi sputare in faccia, ma tutti quelli che ci hanno provato sono morti!” Il nostro, prima di giungere alla resa dei conti finale contro un avversario sconosciuto, si scontrerà con quattro dei componenti della banda. Gli sceneggiatori li tratteggiano in modo stereotipato: abbiamo il baro, il messicano che ride di gusto e si porta dietro le mignotte, il giovinastro sadico che cerca di battere il protagonista solo dopo averlo fatto menomare dai propri uomini e il traditore senza palle che spara alle spalle. A differenza di altri revenge movie in cui il protagonista va a caccia dei vari soggetti da eliminare affrontandoli uno per volta, occorre dare atto a Margheriti di esser riuscito a creare a una sceneggiatura articolata e piuttosto bilanciata, evitando quell'intelaiatura da film a episodi che, a esempio, contraddistingue Sentenza di Morte (1967). Tra le sequenze più curiose si segnala l'uccisione perpetrata da Harrison con un colpo di speroni volante inferto sul collo del norvegese Goffredo Unger. Bello anche il duello Harrison-Werner Pochath, con un barista che lancia loro le pistole insieme a due boccali di birra lasciati scorrere in senso opposto sul bancone. Inevitabile presenza poi del canonico pestaggio ai danni del protagonista, con una tortura di leoniana memoria. Harrison sarà inoltre costretto, un po' come Gemma in Per Pochi Dollari Ancora, a tenere degli stecchini infilzati sotto gli occhi in modo da lasciarglieli aperti sotto il sole cocente. Spettacoloso l'epilogo dove furoreggia Claudio Camaso, con un look e delle movenze che ricordano il Tomas Milian di Sentenza di Morte. Camaso interpreta una sorta di Joker di batmaniana memoria. Un personaggio dalla forte impronta narcisistica, votato completamente al male. “È un genio dai sentimenti torbidi” dice di lui il protagonista. Vestito in completo giallo, con tanto di guanti, mantellina, capello cilindrico e bastone alla Charlot, il professore – così si fa chiamare dai suoi uomini – vive all'interno di una grotta labirintica correda769 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ta da candele, torce, bizzarre poltrone e manichini. Eccezionale, al riguardo, la fotografia del maestro Riccardo Pallottini che fa tesoro dell'esperienza maturata nell'horror con film come La Vergine di Norimberga (1963) o Danza Macabra (1964). Pallottini, in questo finale memorabile ambientato all'interno di una miniera di zolfo, gioca su tre tonalità di colore: il giallo, l'arancione e il rosso tenue, sfruttando al massimo le fantastiche scenografie. Ottimo il make up, tanto che Camaso, con un volto cinereo quasi butterato, sembra malato e risulta assai credibile nella sua delirante interpretazione. Persino nell'inquadratura finale, da morto, riuscirà a essere beffardo e mefistofelico. Davvero una delle sue migliori prestazioni. Non sfigura neppure Richard Harrison, nell'occasione più convinto e con modi di fare che cercano di evocare il ricordo di Clint Eastwood, pur non avendo l'espressione da iena. Nel cast figurano inoltre celebri caratteristi come il già citato Dell'Acqua, Guido Lollobrigida, Luciano Pigozzi, una giovanissima Mariangela Giordano (si darà poi all'erotico) e un lotto di attori internazionali non trascendentali ma funzionali alla causa. Abbiamo la procace Spela Rozin, che finisce con l'innamorarsi del burbero protagonista, e che viene pescata dal cinema jugoslavo grazie anche ad alcune partecipazioni offerte nel 1964 in pellicole del genere peplum. Slovena di Liubana, era giunta in Italia per prendere parte a Via Vento (1964) di Lipartiti, ricevendo anche un ruolo da comparsa in Cinque per la Gloria (1964) di Roger Corman. Confinata fin da subito negli zmovie, dei vari Tanio Boccia e Zurli, o nei musicarelli (Marinai in coperta, 1967), si distingueva per una bellezza fisica mozzafiato che le aveva aperto anche le porte di film di maggior spessore ma sempre da comparsa. Farà un altro spaghetti-western di scarso valore, prima di tornare in patria e dedicarsi alla televisione. Tra i bulli invece si distinguono l'austriaco Werner Pochath, proveniente dai serial televisivi tedeschi e che avrà una carriera come caratterista nei nostri amati B-movie fino alla prematura scomparsa avvenuta nel '93, e il norvegese di origini tedesche Goffredo Unger, vecchia conoscenza del cinema sci-fi di Margheriti e spesso presente con cammei nel western. Più che sufficienti le musiche di Carlo Savina, su cui Don Powell canta il tema Revenge. Nel complesso un film meno originale di quello che potrebbe sembrare, tuttavia con un'ottima messa in scena e dotato di uno spiccato senso d'azione favorito soprattutto dall'escamotage di contrapporre 770 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

l'antagonista a un lotto di avversari da affrontare uno per volta (c'è anche una sequenza in stile Distretto 13). Di grosso impatto gli ultimi venti minuti, che rendono il film superiore alla media, sebbene non sia supportato da una sceneggiatura innovativa. I fan della pellicola sono molteplici. Marco Giusti la ritiene un bellissimo esempio di western gotico, violento e bizzarro; dello stesso avviso è lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it che gli riconosce un bel sette in pagella, plaudendo il lavoro in cabina di regia di Margheriti. Sonofdjango.blogspot.it gli preferisce il successivo E Dio Disse a Caino (1969), ma lo reputa comunque un buon film che evita di cadere nella parodia e rinuncia all'ironia optando per un taglio cattivo. Fistfulofpasta.com, come il sottoscritto, vede nel personaggio di Camaso tratti degni di Joker. Ignorato da Morandini e Farinotti, merita tre stelle per filmtv.it. Tra i detrattori si segnala il francese Jean François Giré che evidenzia la piattezza della sceneggiatura e la presenza di un protagonista legnoso. Piuttosto deluso anche spaghettiwestern.altervista.org il quale salva solo i due protagonisti e qualche scena d'azione, bollando il resto come poco incisivo o comunque privo di consistenza logica. Sufficienza piena per gli utenti di imdb.com. Per il sottoscritto è il miglior western di Margheriti. Si giunge così a fine mese, quando debutta nel genere Paolo Bianchini il quale gira, a stretto giro di posta, Lo Voglio Morto (1968) e Dio li Crea... Io li Ammazzo (1968). Bianchini passa al cinema di genere dopo una gavetta ultra decennale, iniziata nel 1953, come fedelissimo aiuto di Luigi Zampa (undici collaborazioni, tra le quali Il Vigile del 1960 con Alberto Sordi), ma anche agli ordini di Mauro Bolognini e di Comencini. Passato alla regia col drammatico Sette Contro la Morte (1965), film incentrato sugli orrori della guerra, dirigerà altri due western, tra cui il cult tarantiniano Quel Caldo Maledetto Giorno di Fuoco (1968), e un'altra decina di opere commerciali (soprattutto comici e spy story) di scarso rilievo. Deluso dai riscontri della critica e del botteghino, passerà con successo al settore della pubblicità. Vivrà una seconda giovinezza negli anni '90, interessandosi al cinema impegnato e ottenendo i maggiori riconoscimenti della carriera. Tornerà al cinema con La Grande Quercia (1997), premiato in svariati festival, che lo lancerà nel circuito delle fiction. Nel 2012 spiccherà di nuovo sulla cresta dell'onda col 771 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

film di critica Il Sole Dentro (2012), riscattando una carriera iniziata in modo anonimo. Il primo dei suoi western a uscire è Dio li Crea... Io li Uccido, girato nel 1967 negli studios del Cosmpolitan di Tirrenia (dietro casa del sottoscritto). A produrlo è Gabriele Crisanti il quale, dopo aver costruito gli studios della De Paolis a Roma, impiega buona parte del budget per realizzare il villaggio western di Tirrenia. Lo aiuta nello sforzo lo scenografo Giorgio Postiglione e il produttore Fulvio Lucisano, che si impegna a distribuire il film una volta ultimato. Le spese sono tante, addirittura pare che non avanzino i soldi per pagare Bianchini. Crisanti è poco più che trentenne ed è al debutto da produttore, dopo un paio di esperienze da scenografo alla corte di Mangini. Stringe un contratto con Bianchini per la produzione di tre film, oltre al western in questione gli altri sono Devilman Story e Hypnos – Follia di un Massacro. In seguito produrrà il discreto western Una Lunga Fila di Croci (1969) di Garrone, un paio di decamerotici di modesto valore, diverse commedie scollacciate ed erotici di Andrea Bianchi, ivi compresi gli horror trash Malabimba (1979), Le Notti di Terrore (1980), oltre ad altri trash dell'orrore quali Patrick Vive Ancora (1980) di Mario Landi e La Bimba di Satana (1982) di Mario Bianchi. Tenterà timidamente anche la via della regia con un paio di pellicole di risibile livello. Dunque un produttore legato al cinema di genere di serie z, comunque meritevole di esser ricordato per il discreto numero di pellicole prodotte. Nonostante i pochi capitali, Crisanti si aggiudica una sceneggiatura di Fernando Di Leo e si assicura la fotografia di Sergio D'Offizi. In vesti di aiuto di Bianchini compare anche il futuro regista trash Tonino Ricci, fresco da 10.000 Dollari per un Massacro (1967) di Romolo Guerrieri. Nel cast artistico invece viene data fiducia al cantante Dean Reed, preveniente dal mediocre Buckaroo (1967), e ai più collaudati Pietro Martellanza e Piero Lulli. C'è anche Agnes Spaak, sorella maggiore della più famosa Catherine. Quindi un progetto assai ambizioso per una piccola produzione, ma che delude le attese di Crisanti. Contrariamente al volere del produttore, che se ne va in giro in barca invece di starsene sul set, Bianchini mette in scena il copione in modo umoristico anche perché il soggetto è trito e ritrito. Protagonista è un dandy (Reed) che viene chiamato per indagare su una serie di rapine che funestano un villaggio in balia di una banda di bulli. Il nostro scopre che dietro ai reati ci 772 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sono i dirigenti della banca locale e lo sceriffo. Questi ultimi, naturalmente, cercheranno di far ricadere sullo straniero le colpe dei delitti dagli stessi commessi: un classico dello spaghetti western e non solo di quello... Non manca l'azione, sebbene le morti siano condite dall'ironia. Il bolzanino Pietro Martellanza, nei panni di Luis de la Vega, è l'antagonista armato di bastone con punta retrattile che da gli ordini allo sceriffo colluso interpretato, come al solito, dal grande Piero Lulli. Dean Reed, con l'inconfondibile ciuffo biondo, offre una delle sue migliori prestazioni. Nato come cantante rock alla Elvis Presley, era stato allontanato dagli Stati Uniti a causa delle sue simpatie filocomuniste che gli varranno il soprannome de l'Elvis rosso. Emigrato dapprima in Sud America, producendo soprattutto in Cile un bel lotto di dischi musicali, era approdato nel nostro cinema a metà anni '60 dopo qualche musicarello messicano e argentino e soprattutto dopo esser stato espulso per motivi politici dall'Argentina. Lavorerà in zmovie come I Nipoti di Zorro (1968) di Ciorciolini o Storia di Karate, Pugni e Fagioli (1973) di Ricci, finendo in una media produzione solo in occasione di Indio Black, Sai che ti Dico... (1970) di Parolini. Lascerà l'Italia a metà anni '70 per andarsene nella Germania dell'Est a fare un paio di sauerkraut western, tentando anche la via della regia. Apprezzato dai governi comunisti per i messaggi delle sue canzoni sempre in polemica con il sistema produttivo capitalista, morirà suicida in Germania nel 1986, gettandosi in un lago, in circostanze non del tutto chiare (alla vigilia dell'inizio delle riprese di un film sul F.B.I. prodotto da società sovietiche e in cui avrebbe dovuto interpretare il protagonista) tanto che qualcuno ipotizzerà il coinvolgimento dei Servizi Segreti stranieri. Idealista fino all'eccesso, Reed non tarderà a farsi conoscere in Italia. Durante le riprese di Dio li Crea... Io li Ammazzo, peraltro disturbate dai continui litigi tra le maestranze pisane e quelle livornesi (storica la rivalità tra le due città), pensa bene di andare a protestare ai danni dei connazionali della vicina base militare del Camp Darby. Convincerà addirittura Bianchini a prendere parte alla prima manifestazione italiana di protesta contro l'intervento statunitense in Vietnam. Il risultato finale sarà ovvio: Reed e Bianchini saranno arrestati dalle forze dell'ordine!? Tom Betts elogia la prova dell'attore americano, definendo Dio li Crea... Io li Uccido! uno dei suoi migliori lavori. La trama non è origi773 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nale, spiega il californiano, ma è ben diretta e infarcita di azione tanto da renderla superiore alla media dei prodotti dell'epoca. Ne parla bene pure spaghettiwestern.altervista.org, il quale vede nel protagonista una sorta di 007 del far west. Tra i detrattori spaghettiwesterns.1g.fi che reputa irritante Reed, confermando le analogie con 007. Lodi per la colonna sonora di Marcello Gigante. Ignorato da tutti gli altri, compreso filmtv.it. Trascurabile, ma di valore storico per esser il primo western girato a Tirrenia dopo la riapertura degli studios. È di livello superiore Lo Voglio Morto, il quale beneficia di una produzione più importante grazie alla compartecipazione della Centauro film di Joaquìn Romero Marchent e a un vero e proprio stuolo di improvvisati produttori (non faranno altri film), tra i quali il futuro presidente del Napoli, Corrado Ferlaino. L'apporto della Centauro garantisce cavalli in abbondanza e la disponibilità delle location nei deserti dell'Almeria, oltre alla presenza dell'americano Craig Hill in veste di protagonista. La sceneggiatura è piuttosto lacunosa e confusionaria. Bolzoni (non accreditato per ragioni contrattuali) mette troppa carne al fuoco e lo fa senza avere la possibilità di sviluppare i temi toccati. Il film infatti è poco più di un mediometraggio (la durata è di poco superiore ai 70 minuti) e non riesce ad andare oltre al classico revenge movie, col protagonista che vaga in cerca degli assassini della sorella (la Miss Italia uscente Cristina Businari). Vano è il tentativo di impreziosire la narrazione prendendo spunto da Il Buono, il Brutto, il Cattivo (1966), da cui si ruba l'idea di far muovere i personaggi lungo i campi di battaglia della guerra di secessione. Così troviamo soldati che urlano in preda alla pazzia e altri riversi al suolo, mentre il protagonista batte la pista dell'uomo che va cercando. Oltre a tale contesto, Bolzoni inserisce una serie di sotto trame il più delle volte non sviluppate a dovere. Così abbiamo il rapporto d'amore che sboccia tra il protagonista e una prostituta matura che lo segue dappertutto (Lea Massari, in un ruolo abbastanza ampio) o ancora la presenza di un avaro trafficante d'armi (Andrea Bosic), ostile alla resa sudista, che continua a rifornire armi ai soldati. Non mancano poi le figure stereotipate dello sceriffo che vuol veder impiccato il protagonista, per ragioni personali, ovvero della banda dei delinquenti funestata dai continui tradimenti in774 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

testini. Bolzoni prova a legare il tutto intrecciando le sotto trame, così vediamo Bosic ingaggiare Manuel Martin, l'antagonista ricercato da Hill, per uccidere i generali incaricati di stipulare le condizioni di resa tra nordisti e sudisti, con girandola di colpi di scena finale che porterà alla morte di tutti i coinvolti. Le caratterizzazioni sono abbozzate e abusate (c'è anche un bandito che usa la frusta come arma). Da una parte abbiamo il rude (e per nulla ironico) vendicatore infallibile con la pistola (ma ricettizio all'amore), dall'altra la banda di messicani violenti che ridono a crepapelle (tra loro il caratterista Federico Boido), nel mezzo un vecchio avido (questa volta commerciante piuttosto che proprietario terriero) che antepone il denaro a ogni valore. Le donne hanno i soliti ruoli da maltrattate e finiscono per innamorarsi del rozzo giustiziere di turno. Abbastanza violento il finale, preceduto da una forzatissima roulette russa in cui il protagonista consuma la sua vendetta. Segue lo scontro tra i componenti della banda messicana finalizzato ad accaparrarsi i soldi rubati a Bosic. Quest'ultimo cadrà vittima dei suoi stessi scagnozzi, ferito da un colpo in testa e travolto dalle ruote di una diligenza trainata da cavalli al galoppo. Epilogo favorevole per il protagonista il quale, senza far nulla, si ritroverà ricco. I banditi, difatti, si elimineranno per conto loro, lasciando il bottino su una diligenza priva di cocchiere col vento che farà volare i dollari in mezzo al deserto. Gli aspetti più interessanti derivano dalla regia, a tratti sperimentale. Bianchini predilige inquadrature strette, zoomate e primissimi piani, addirittura ricerca qualche inquadratura fumettistica. Seppur non montata fluidamente da Eugenio Alabiso, è bellissima la prima sequenza con Craig Hill che scorge, vedendoli riflessi sul fondo del bicchiere da cui sta sorseggiando il caffè, due banditi pronti a ucciderlo. Purtroppo il ritmo non è sempre sollecito, anche se non mancano sparatorie, pestaggi e scazzottate Craig Hill è meno ispirato del solito, anche Bosic non riesce a graffiare, penalizzato da un ruolo marginale. Non si distinguono gli altri, a parte Lea Massari (al suo primo e unico spaghetti-western) che sbava dietro a Hill chiedendo di esser amata. Bruttina la fotografia di Ricardo Andreu che infatti, più che un addetto alla fotografia (non ne curerà altre), era un operatore di macchina, attività che riprenderà in patria fino al 1993. Sufficiente la bal775 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

lata (lenta) di Nico Fidenco come colonna sonora. Esiste anche il brano cantato in italiano da Lida Lu e che nel ritornello fa: Non va mai lontano chi male ti fa, se aspetti sul fiume di lì passerà Per Marco Giusti e Tom Betts è una pellicola da non perdere, ma di fatto sono i soli a reputarla una piccola gemma. Filmtv.it e il Morandini la ignorano; più morbido spaghettiwestern.altervista.org che parla di western abbastanza bello e di favolose musiche. Non rinvenuti altri commenti. Solo per appassionatissimi. Con Io non Perdono... Io Uccido (1968) la famiglia Marchent torna a esser protagonista a maggio, questa volta in società con Carlo Caiano. Si tratta di un sodalizio fortunato, come dimostra il precedente Due Croci a Danger Pass (1967). Caiano viene nella fattispecie aiutato dagli spagnoli José Luis Jerez Aloza e José Frade (produttore ancora in auge in Spagna e futuro produttore dei thriller di Luciano Ercoli) della Trebol Films, già attivi nel western con Adios, Gringo (1965). Dietro alla macchina da presa c'è il più famoso dei Marchent ovvero Joaquìn, ormai orfano dei capitali della Pea e costretto a lavorare con budget sempre più risibili. La presenza di un maestro come Marchent, abbinata a una produzione piuttosto debole, porta alla prevalenza dell'impronta ispanica sull'italiana tanto che l'apporto tricolore si riduce alla scialba colonna sonora di Piero Piccioni e al contributo del nostro Giovanni Simonelli nella stesura della sceneggiatura. Il resto del cast tecnico è targato Spagna, a eccezione della solarissima fotografia affidata al veterano argentino Fulvio Testi, emigrato in Spagna negli anni '60 dopo un'esperienza ventennale in patria. Ne deriva un prodotto fortemente caratterizzato da un'atmosfera melodrammatica tanto che la componente western viene a essere fagocitata dal dramma dell'amore impossibile vissuto dai protagonisti. Marchent torna a lavorare sulle caratterizzazioni di personaggi e sulle relazioni familiari, nell'occasione promiscue e tendenti al perverso. L'intreccio resta sullo sfondo, depauperato dall'evoluzione del rapporto tra i tre protagonisti: un ranchero di mezza età che usa metodi brutali per punire bulli e ladri di bestiame (li fa malmenare e poi li lega sotto il sole); il suo giovane figlio di ritorno dagli studi, che condanna ogni forma di violenza; la matrigna sempre più invaghita del figliastro. È proprio il legame tra questi ultimi due a fungere da chiave di volta dell'opera, con il padre/marito che ignora la relazione tra i due amanti mentre il figlio, non riuscendoci, fa di tutto per vincere le 776 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tentazioni della matrigna fino a prendere la drastica decisione di abbandonare la casa del padre, adducendo motivi professionali ma sortendo il solo effetto di scatenare le ire della donna ormai disperata per il perduto amore. Il finale, degno di una tragedia greca (bella l'idea del figlio remissivo che va incontro al suo destino senza combattere) incentrata sulla gelosia e sull'egoismo, porterà alla distruzione totale della famiglia. A proposito di tragedie greche, non è casuale il fatto che la donna responsabile della tragedia si chiami Fedra, da qui il titolo con cui il film è conosciuto in Spagna ovvero Fedra West, poiché il soggetto è vagamente ispirato all'opera teatrale del drammaturgo francese Jean Racine intitolata Phedra e che, a sua volta, si rifaceva ai classici di Euripide e Seneca. Questo il succo di un film che superficialmente ha l'intelaiatura western, ma che poi si rivela esser tutt'altro tanto da poter esser gradito anche da un pubblico femminile. L'azione è inferiore rispetto alla media (c'è un pestaggio ai danni di Andreu e qualche punizione esemplare messa in atto dal ranchero a danno di delinquenti e prepotenti), così come il ritmo non è eccelso. Non eccellono neppure le scenografie più adatte a un contesto campagnolo piuttosto che a un western. Si capisce allora il perché la sequenza migliore del film non abbia nulla a che vedere col genere, ma riguardi un rapporto amoroso tra i due amanti. Marchent, anche per effetto di un sagace montaggio fatto di una successione distorta di primi piani, mette in scena la sequenza dotandola di un tocco dal sapore esoterico/orrorifico, ponendo i due attori all'interno di una grotta corredata da rilievi di divinità pagane scolpite nelle mura. Qui, alla luce di un focolare di fortuna, vediamo la bellissima attrice brasiliana Norma Bengell (già vista nel western I Crudeli di Sergio Corbucci) sdraiarsi su un altare attirando su di sé i baci e l'abbraccio del giovane figliastro, cui da corpo Simon Andreu, mentre tuoni e fulmini tormentano i cavalli lasciati all'esterno sotto la pioggia. Da qui in poi l'atteggiamento della matrigna diverrà sempre più ardito; per lei baciare il figliastro e gridargli in faccia il proprio amore sarà un qualcosa di irresistibile, mettendo in imbarazzo lo stesso costretto a cenare al fianco del genitore. Al di là della Bengell, senz'altro la più qualitativa e convincente del gruppo (quanto meno per i suoi continui ammiccamenti e sguardi seduttivi), le prove recitative sono sufficientemente convincenti. Si distingue il belloccio Simon Andreu, al suo decimo film e destinato a 777 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

una lunga carriera (si parla quasi di duecento film), e l'americano James Philbrook, mediocre comprimario col vizio dell'alcool recuperato dai circuiti televisivi americani e destinato a scarsa fortuna. Dunque, dopo alcune battute di arresto successive al capolavoro I Sette del Texas, Joaquìn R. Marchent torna a sfornare un gran bel melodramma degno di esser rivalutato e conosciuto dagli appassionati italiani. Purtroppo, come altri lavori del regista, la pellicola resta di difficile reperibilità e davvero in pochi sembrano averla vista. Ciò nonostante troviamo Marco Giusti che la definisce cultissimo, mentre per l'americano Tom Betts non è niente di eccezionale se non fosse per la presenza della Bengell che ne rende almeno degna una visione. Più che sufficiente per 800spaghettiwesterns.blogspot.it il quale vede un omaggio al western hollywoodiano Duello al Sole (1946) diretto da King Vidor; cinque virgola otto nella pagella di imdb.com. Si limita a una stella senza dare spiegazioni mymovies.it, tutti gli altri invece danno l'impressione di non conoscerla. Ripeto, per me è un prodotto piuttosto originale degno di esser rivalutato nonostante una cronica assenza di azione. Da antologia il finale melodrammatico. Un altro western interessante è la pellicola con cui Mario Siciliano, dopo aver rotto il sodalizio con Alberto Cardone, culminato con gli interessanti 7 Dollari sul Rosso (1966) e 1.000 Dollari sul Nero (1966), passa dietro alla macchina da presa unendo ai ruoli di produttore e di sceneggiatore quello di regista. L'occasione porta all'uscita de I Vigliacchi non Pregano (1968), western che costituisce il naturale proseguimento della filmografia iniziata da Cardone. Ancora una volta, all'azione e alle sparatorie (comunque presenti), Siciliano antepone la cura della psicologia dei personaggi e la necessità di introdurre una piega spiccatamente drammatica estrinsecata dall'amore-odio tra il protagonista e l'antagonista. Dunque un altro spaghetti-western dai toni tragici e disperati sviluppato dal duo Siciliano-Gastaldi in modo degenerativo, a simboleggiare la lenta parabola verso gli inferi che coinvolge tutti i personaggi del film. La pellicola ruota attorno alla bella idea di partenza (del coproduttore Eduardo Manzanos Brochero) che propone tre pistoleri inseparabili che, a poco a poco, finiscono per scontrarsi per incompatibilità caratteriali. Da una parte abbiamo un nevrotico pistolero (un immenso Gianni Garko) con un passato da soldato modello, funestato nella mente da un evento traumatico (l'assassinio e lo stupro della moglie a 778 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

opera di alcuni yankee) che lo porterà a disprezzare la legge e, addirittura, gli altri fino a diventare uno spietato bandito (per vendetta verso la società); dall'altra parte, a cercare di redimerlo, abbiamo una coppia di fratelli (Ivan Rassimov, reduce dai western di Mulargia, e il già visto nei western di Cardone - Roberto Miali) passati a lavorare per lo Stato nel ruolo di sceriffi di un paesotto di frontiera. La particolarità sta nel fatto che due dei tre personaggi (Garko e Rassimov) sono strutturati in modo da essere l'uno complementare dell'altro, mentre il terzo costituisce la sintesi tra i due, attratto dal carisma dell'uno e dalla rettitudine dell'altro. Al riguardo è eloquente l'ultima sequenza in cui, all'interno di un nascondiglio costruito nel cuore di un canyon, vedremo Roberto Miali scagliarsi contro il personaggio di Garko per cercare di smuoverlo dai suoi deliri di onnipotenza. “Che delusione sei stato!” gli urlerà a brutto muso. “Io ti ammiravo, ti credevo il migliore degli uomini. Il più forte, il più coraggioso, il più leale... Ti credevo migliore anche di Daniel, invece non sei nemmeno la sua ombra. Sei un vigliacco, non sai che ammazzare, accoltellare la gente alle spalle, rubare... Sei il più feroce, il più bestiale, il più spietato!” Ma quale è il motivo dell'affetto che lega i tre? Oltre alla comune esperienza maturata durante le escursioni nel west (mostrati in modo frettoloso da Siciliano), in diversi momenti, l'uno ha salvato la vita dell'altro. Purtroppo il delirio che consuma il personaggio di Garko porterà quest'ultimo a calpestare anche l'amicizia. Ucciderà per mera ira il fratello del protagonista, sebbene lo stesso cerchi di coprirlo per favorirne la fuga in Messico. Inevitabile, a questo punto, la resa dei conti finale in un epilogo in cui la follia dell'antagonista sconfinerà in atteggiamenti da vero e proprio indemoniato incapace di comprendere le proprie azioni: “Tutto quello che mi è successo è come se lo avessi visto succedere a un altro. Tutto quello ho fatto mi sono trovato a farlo senza accorgermene. Avrei voluto essere come gli altri, ma non potevo, non ci riuscivo! E poi con Robert, tu non puoi sapere quanto bene io gli ho voluto... Pensa, io gli volevo bene molto più che a te!”. Neppure l'amore incondizionato di una donna (la spagnola Elisa Montes), che l'uomo porta sempre con sé, pur non amandola, riuscirà a esorcizzare l'odio che lo spinge all'autodistruzione. “Aiutalo, Daniel, c'è qualcosa dentro di lui che non va!” dirà la poveretta a Rassimov, ma senza risultato. Si arriva così a un epilogo già scritto fin dall'inizio, da quando nel cervello dell'ex soldato si è insinuato il seme della follia. Garko è un uomo ossessionato dalla stella cucita sul petto di chi 779 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gli ha assassinato la moglie, un bandito vestito da sceriffo di cui non ricorda il volto e che per questo assume quello di chiunque lo intralci. Se l'idea di partenza è ottima e gioca tutto sulla componente psicologia dei personaggi (in particolare quello di Garko), lo script è dilatato all'inverosimile con tutta una parte centrale che appesantisce la narrazione e che non ha nessuna rilevanza ai fini della storia (mi riferisco all'insediamento di Rassimov come sceriffo, alla sua lotta per inculcare il senso del rispetto della giustizia nei cittadini di un arretrato paese sudista, alle scommesse fatte nel villaggio e via dicendo). Non mancano invece una serie di duelli alquanto bizzarri e originali (seppur improbabili). Vediamo Garko sfidare un signorotto locale in un duello al buio, tenendo un sigaro in bocca come riferimento visivo (bella la soggettiva che precede gli spari); oppure assistiamo a un altro duello con rivali lanciati al galoppo l'uno verso l'altro in stile I Giorni dell'Ira (1967); o ancora un confronto con pistole a salve, eccezion fatta per un colpo caricato solo in una delle due pistole a simulare una specie di evoluzione della più classica roulette russa (il tutto, in un omaggio agli antichi romani, per interpellare la verità divina!?). Siciliano convince nella direzione delle scene di azione e in un pugno di soluzioni visive (eccellente il prologo), tanto che I Vigliacchi non Pregano è forse il suo miglior film, ma pecca nello scandire il ritmo. Eccellente prova recitativa di Garko (gigioneggia a tutto spiano in preda a un'autentica nevrosi), bravo Rassimov (gioca ancora a fare l'Eastwood) qua impegnato in un western dai capitali superiori rispetto alle sue precedenti sortite. Comparsate per alcuni storici caratteristi come il leoniano Lorenzo Robledo, Francisco Brana e Luciano Pigozzi. Degne di nota le malinconiche musiche di Manuel Parada (in alcuni passaggi ricorda Cipriani), anziano compositore spagnolo alla soglia dei settanta anni e con un bagaglio cinematografico fatto da un centinaio di pellicole tra cui Zorro, il Vendicatore (1962), I Tre Implacabili (1963) di J.R. Marchent e Satanik (1968). Brutta la fotografia di Gino Santini, talvolta non adeguato nel predisporre gli opportuni riflettori con la conseguenza di dar vita a delle scene in notturna in cui l'oscurità è tanto fitta da rendere difficoltosa la visione. Bravo invece nel prologo e nelle location interne (penso alla chiesa), grazie a un sapiente gioco di luci e di riflessi atto a ricostruire un'atmosfera degna di un gotico. 780 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

In definitiva siamo alle prese con un lavoro incompiuto, penalizzato da una trama che si perde nella sua parte centrale a causa di una serie di personaggi di contorno utili ad allungare il brodo e a dar vita a delle sotto trame non funzionali alla causa. Ne derivano dei tempi morti che sarebbe stato opportuno eliminare per non spezzare il legame tra i personaggi principali. Peccato, perché le caratterizzazioni sono sopra la media. Non manca chi indichi la pellicola come il miglior copione di Gastaldi (a mio avviso una follia), o chi (sottoscritto compreso) la ritenga il miglior film di Siciliano o la migliore performance di Garko. Marco Giusti plaude la scelta degli sceneggiatori di soffermarsi sulla complessità dei personaggi, sebbene ritenga il film un piccolo western. Opinioni divergenti invece tra i critici generici. Filmtv.it riconosce tre stelle, imdb.com lo reputa appena insufficiente, mentre il Morandini e il Farinotti lo bocciano in modo netto (una stella e mezzo), col primo che lo giudica una tardiva via di mezzo tra dramma, western e orrore dal sapore arcinoto. Di avviso diametralmente opposto sono spaghettiwestern.altervista.org - parla di capolavoro da riscoprire, che si differenzia dagli altri western per la cura nel tratteggiare la profondità dei personaggi – e lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it che gli concede un generoso otto in pagella. Da recuperare, seppur con difetti. Se Siciliano non risente della rottura con Alberto Cardone, lo stesso non può dirsi per quest'ultimo. Il regista genovese chiude, con 20.000 Dollari sul Sette (1968), in modo indecoroso la sua trilogia sulla scommessa. Il budget è talmente basso da impedirgli di avere attori e collaboratori di grido. Rimane il solo Gino Santini alla fotografia, confermato dal precedente lavoro, mentre Roberto Miali viene promosso protagonista (oltre che cosceneggiatore), dietro di loro c'è il vuoto. Il copione è quello del solito revenge movie con protagonista in cerca degli assassini del fratello. Scazzottate inverosimili, interpretazioni pedestri, scommesse assurde (centrare le ore sette di orologi da taschino) e una regia di un Cardone irriconoscibile dopo l'ottimo 1.000 Dollari sul Nero (1966) portano al naufragio del progetto. Il regista conta di sfruttare il successo delle precedenti pellicole in modo da fare cassa investendo pochi soldi, ma ha fatto i conti senza l'oste. 781 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Come autore della colonna sonora debutta (male) Franco Reitano, autore di appena cinque colonne sonore, la seconda delle quali composta cinque anni dopo al servizio di un film del fratello Mino. Lo stroncano tutti, persino spaghettiwestern.altervista.org che lo definisce povero di idee. Da evitare. Fa addirittura peggio il giornalista Sergio Pastore, il quale fonda la sua casa di produzione e con la moglie (Giovanna Lenzi) si getta all'avventura del cinema senza alcuna esperienza dietro alla macchina da presa. Ciò nonostante ingaggia l'attore americano Edmund Purdom, scrive e dirige l'assurdo Crisantemi per un Branco di Carogne (1968). A corto di budget, Pastore si fa coadiuvare nella stesura dello script dall'attore televisivo Gianni Manera, apparso con ruoli di secondo piano in Sette Dollari sul Rosso (1965), che mette poi al fianco di Purdom con un ruolo da coprotagonista. Nel cast artistico, oltre alla moglie e alla spogliarellista Aiché Nana, c'è anche Livio Lorenzon. La trama è assurda. Un bullo rapisce la bella del paese perché la vuole sposare a tutti i costi sebbene la stessa ami un altro. Così la porta all'interno di un monastero per far celebrare il matrimonio da un prete che però si rifiuta e si rivela essere un cacciatore di taglie che si scaglia contro l'intera banda del bullo!? Delirio assoluto, amplificato dall'atteggiamento sul set di Pastore. Il regista romano, migliorerà in seguito pur non sfornando opere degne di nota (segnalo lo scialbo spaghetti-thriller Sette Scialli di Seta Gialla del 1972), dirige a casaccio, senza istruire gli attori e l'operatore. Purdom perde la pazienza e abbandona il film rinunciando persino al compenso. Una catastrofe, addirittura c'è chi dubita che il film sia uscito nelle sale. Tom Betts sostiene che non sia mai stata curata una versione in inglese. Non l'ha praticamente visto nessuno, neppure Marco Giusti. Western fantasma. Un altro che tenta la via della regia è Vincenzo Dell'Aquila. A differenza di Pastore, Dell'Aquila ha alle spalle un diploma in regia conseguito al Centro Sperimentale di Cinematografia. È un promettente sceneggiatore, fido collaboratore di Fernando Di Leo con cui aveva scritto i copioni della mini saga dei MacGregor e il macaroni combat Rose Rosse per il Fuhrer (1968) con cui lo stesso Di Leo aveva debuttato alla regia. Aveva inoltre messo la firma sullo script del valido Professionisti per un Massacro (1967) di Cicero. 782 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Spinto dalla stesso Di Leo, Dell'Aquila scrive il copione di …E Venne il Tempo di Uccidere (1968) e, sotto lo pseudonimo di Vincent Eagle, ne assume la direzione. La produzione è tutt'altro che ambiziosa, ha nel documentarista Renzo Renzi e in Otello Cocchi (direttore di produzione de L'Ultimo Killer e futuro produttore di alcuni film di Demofilo Fidani) i nomi più noti. Nonostante il budget risibile, la sceneggiatura è quadrata. Vi partecipa anche Fernando Di Leo che tenta di fondere Un Dollaro d'Onore di Howard Hawks a Per un Pugno di Dollari, c'è anche un po' di Cavalca e Uccidi (1964) di José L. Borau. Protagonista è il francese Jean Sobieski, pescato dai serial televisivi transalpini e visto nell'ottimo giallo d'autore La Morte ha Fatto l'Uovo (1968) di Questi (avrà in seguito un piccolo ruolo in Una sull'Altra di Fulci, prima di sparire nel nulla), impegnato a ripristinare l'ordine in un paese minacciato da due bande contrapposte (una delle quali capitanata da Mimmo Palmara, l'altra da Furio Meniconi). È nipote di uno sceriffo che, bevendo tequila in continuazione, ha da tempo rinunciato a lottare e assiste passivamente ai misfatti cittadini. A dare corpo a quest'ultimo c'è il bravo Dragomir Gidra Bojanic (per mondo-esoterica.net regala la sua migliore performance), in arte Anthony Ghidra, portato da Cocchi dal set de L'Ultimo Killer. Divenuto vice sceriffo, il giovane riuscirà, a poco a poco, a scuotere lo sceriffo dal torpore e a collaborare con lo stesso per eliminare le due bande. Dell'Aquila non gira male, dona all'opera una piega drammatica, certo non è quel mostro che porta spaghettiwestern.altervista.org a dire: “un bellissimo western italiano.” Musiche del veterano Francesco De Masi, con main theme affidata allo specialista Raul. Passato inosservato in Italia, tanto che Roberto Poppi lo liquida come di modesto interesse, andrà meglio all'estero col titolo Tequila Joe. È apprezzato da Tom Betts che ne esalta le interpretazioni fino a reputarlo un eccellente b-movie. Buoni i commenti dei blogger stranieri che lo segnalano tra i migliori western di seconda fascia, consigliandone la visione. Sei e mezzo per 800spaghettiwesterns.blogspot.it, voto simile per imdb.com. Troviamo di nuovo Gidra Bojanic, questa volta nel ruolo di protagonista indiscusso, in Un Buco in Fronte (1968) per la regia di Giu783 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

seppe Vari. Il regista romano, al suo quinto western, dopo il sufficiente Deguejo (1965) e l'ottimo L'Ultimo Killer (1967) a brillare in una filmografia non trascendentale, beneficia di una produzione leggermente superiore rispetto alle precedenti. A produrlo sono il duo Francesco Giorgi e Antonio Lucatelli, intenzionati a bissare il successo ottenuto con Yankee (1966) di Tinto Brass dopo l'insuccesso de Le Due Facce del Dollaro (1967) di Bianchi Montero. Purtroppo per loro si tratterà di un nuovo buco nell'acqua, sebbene Vari porti in scena in modo ordinato il copione allo stesso affidato. La storia, scritta dal solito Adriano Bolzoni, verte su una caccia a un tesoro nascosto, con soluzioni e sviluppi tipici dei primi spaghettiwestern. Così abbiamo infiltrati in bande di delinquenti che cercano di fare il doppio gioco ma che poi vengono scoperti e pestati a sangue. Tutto ruota attorno a un oro celato in un luogo indicato dalla combinazione di tre distinte carte da gioco raffiguranti tre re di semi diversi. Ovviamente ciascuna carta è in mano a un personaggio e ognuno di loro vorrà mettere le mani sulle altre due carte in modo da ricostruire la mappa. Vari opta per toni cupi e scandisce un ritmo lento, con azione misurata (salvo scoppi improvvisi di violenza) e pochi sperimentalismi dietro alla macchina da presa. La pellicola tuttavia non è noiosa in virtù di riprese in campo lungo e lunghissimo finalizzate a sottolineare le bizzarre location. Vediamo conventi, catacombe e grotte atipiche per il genere. Buona parte delle esterne vengono infatti girate nei pressi delle Grotte di Salone, solitamente teatro di pellicole peplum, a Roma. Non mancano scazzottate e sfide a braccio di ferro con mani che, sotto la pressione dell'avversario, finiscono sbranate da punte acuminate. C'è anche una sequenza con Bojanic che stermina una ciurma di banditi avvalendosi di un mitragliatrice stile Ramon in Per un Pugno di Dollari. Il cast artistico è povero. Bojanic ha il suo classico ruolo fascinoso ma al contempo indolente e triste. Ha la caratteristica di uccidere i rivali centrandoli in piena fronte con un colpo di pistola. Gli si contrappone un Claudio Undari quasi irriconoscibile, con barba, sombrero gigantesco e vesti trasandate, a scimmiottare (con risultati discutibili) Fernando Sancho, nei panni di un generale rivoluzionario messicano. Il terzo possessore di una delle tre carte è Bruno Cattaneo (avrà fortuna nei serial televisivi italiani), che uscirà subito di scena impallina784 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

to dagli uomini di Undari. Ai due sopracitati si aggiungerà un altro bandito, Luigi Marturano, di spessore inferiore rispetto agli altri. Malinconica la colonna sonora (lodata da tutti) di Roberto Pregadio, con alla chitarra Mario Gangi. Buona la fotografia di Amerigo Gengarelli, chiamato a sostituire in corsa Stelvio Massi e rispolverato da Vari (che già l'aveva avuto in occasione di Con Lui Cavalca la Morte) dopo il pessimo Jim il Primo (1964) di Bergonzelli. In pochi hanno visto il film tra gli spettatori italiani, tra questi Marco Giusti che dedica nel suo Dizionario del Western all'italiana poche righe da cui traspare un apprezzamento per le inusuali ambientazioni. Elogi da sonofdjango.blogspot.it il quale si chiede cosa si possa voler di più da una piccola produzione a suo avviso grintosa, atmosferica e con una partitura musicale inquietante. È un western superiore alla media a giudizio di fistfulofpasta.com, sebbene penalizzato da un epilogo deludente. Il sito anglofono, a ragione, fa notare inoltre lo spiccato simbolismo religioso che accompagna tutto il film con l'inizio e la fine ambientate all'interno di un monastero, oltre alla scena di tortura ai danni di Bojanic, con quest'ultimo vestito con un paio di mutande in modo da rievocare la passione di Gesù. Piccolo gioiello per Tom Betts. È critico, forse in modo più veritiero rispetto ai precedenti commenti, mondo-esoterica.net il quale giudica la storia prevedibile e poco entusiasmante, con uno sviluppo lento. L'inglese boccia addirittura la colonna sonora di Pregadio, pur chiudendo il proprio commento inquadrando la pellicola non tra le peggiori del genere ma nemmeno tra le migliori. Sufficienza piena per imdb.com, due stelle per filmtv.it (“scontato spaghetti western”). Può meritare una visione, non essendo tra le peggiori di Vari. È comunque assai inferiore rispetto a L'Ultimo Killer. Altro kamikaze che si lancia d'improvviso nel genere è Ettore Maria Fizzarotti, figlio d'arte e sceneggiatore di commedie, a partire dalla metà degli anni '40, divenuto famoso come regista di una serie di musicarelli interpretati prevalentemente da Gianni Morandi. Dirige Vendo Cara la Pelle (1968) al servizio dell'ennesima produzione di terza fascia. Non ci sono nomi di richiamo. Nel cast tecnico figurano tuttavia l'ottimo Stelvio Massi alla fotografia e Aristide Massaccesi come operatore. 785 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Il copione lo firma lo specialista Giovanni Simonelli, nonostante questo è sprovvisto di originalità. Solito revenge movie con protagonista (lo sconosciuto francese Mike Marshall, già apparso in Con Lui Cavalca la Morte) che cerca, uno a uno, coloro che gli hanno massacrato la famiglia. Li ucciderà ognuno in modo diverso e si legherà a una vedova (Michéle Girardon) che cercherà di frenarne gli ardori creando una nuova famiglia. Fizzarotti va presto in difficoltà, talvolta gira male altre volte non è aiutato dal montaggio. Il ritmo è schizofrenico, c'è una prima mezz'ora a razzo poi rallenta. Vari i buchi narrativi, location romane bruttine. 800spaghettiwesterns.blogspot.it (quattro e mezzo al film) critica in modo duro Marshall, a suo dire alienato e inadatto al genere. Della stessa opinione è anche Marco Giusti: “lo vediamo spesso sgranare gli occhi con effetti quasi comici.” Da segnalare la colonna sonora curata da Enrico Ciacci (sufficiente, ma non farà altro), fratello nientemeno che di Little Tony, con canzone cantata da Nico e i Gabbiani. A proposito di gabbiani... si vola basso. Prima dell'arrivo dell'estate escono un altro pugno di spaghettiwestern da frittura mista. Guido Zurli, dopo l'infausto Thompson 1880 (1966), gira l'altrettanto mediocre O Tutto o Niente (1968), conosciuto anche con il titolo Un Uomo Chiamato Amen. Il budget, tanto per cambiare, è risibile; lo stanzia Aldo Ricci, direttore della fotografia che qua si improvvisa produttore e che in seguito curerà le fotografie di piccoli spaghetti-western come Garringo (1969) e Arriva Sabata! (1970). Zurli, questa volta, mette mano anche alla sceneggiatura e si fa affiancare dall'emergente Renato Izzo al suo secondo copione (arriva dal cult Requiescant). Il risultato finale però, pur migliorando, non è all'altezza della situazione. Il soggetto è quanto di più visto ci sia, mentre i dialoghi sono spesso strampalati. Protagonista è un antieroe su cui pende una taglia (Giorgio Ardisson), viene incaricato dai rappresentanti dell'ordine di recuperare un convoglio d'oro rapinato da una banda di briganti. In caso di successo avrà condonata la pena. L'uomo, chiamato Amen perché ha l'abitudine di invitare gli avversari a farsi il segno della croce prima di estrarre la 786 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

pistola, dovrà vedersela con tradimenti, sorprese e non mancheranno le classiche torture e pestaggi. Rispetto al western del debutto, Zurli è più ispirato ma comunque insufficiente nello scandire il ritmo. Per fortuna ci sono un'ironia cinica di fondo e una caratterizzazione grottesca dei personaggi che risollevano un po' le sorti. Mancano nomi di richiamo, anche se abbiamo il veterano russo Akim Tamiroff. Attore di stampo teatrale emigrato negli Stati Uniti negli anni '20 e divenuto celebre, a Hollywood prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, soprattutto come caratterista, con due nomination all'Oscar ottenute con Il Generale Morì all'Alba (1936) e con Per chi Suona la Campana (1943), interpretazione quest'ultima che gli valse il Golden Globe. Lo ricordo altresì nel cast de L'Infernale Quinlan (1958) di Orson Welles. Arrivato in Italia, in occasione della commedia a episodi I Nostri Mariti (1966), non apparirà in altri spaghetti-western, anche se gli amanti del cinema di genere lo rammenteranno nell'erotico Justine ovvero le Disavventure della Virtù (1969) di Jess Franco. Morirà di cancro nel 1972. Al quasi settantenne Tamiroff, bravo e sotto categoria, viene affidato il ruolo di un doppiogiochista che fa leva sull'espressività ricorrendo di rado all'uso della parola. Per sfortuna la sua partecipazione è poco più che limitata a un cammeo. Buona la fotografia dello specialista Gugliemo Mancori, sebbene si senta troppo la mancanza dei capitali (scenografie pessime, con esterni in Lazio). Per ovviare ai limiti, Zurli tenta la soluzione gotica, ma l'atmosfera non si rivelerà troppo riuscita. Alla fine, complice una pessima distribuzione e un cast poverissimo, il film passa inosservato e viene tolto subito dai cinema. Ignorato da tutti, Marco Giusti compreso, riceve la bocciatura di spaghettiwestern.altervista.org, il quale scrive: “tocca il limite della sufficienza.” Cinque per imdb.com, per spaghetti-western.net è un western di routine con alcune belle sequenze. Idem per filmtv.it che gli da due stelle. Nonostante tutto è il miglior western di Zurli. Trascurabile. Torna la Centauro film di Joaquìn Romero Marchent, in veste di produttrice minoritaria, al fianco di Mario Di Nardo con Quindici Forche per un Assassino (1968). Se Marchent non ha bisogno di presentazioni, Di Nardo è uno sceneggiatore con esperienza quasi ventennale ma con pochi copioni all'attivo (tra cui il western Tre Dollari di Piombo di Mercanti), che tenta la via della produzione. Dato il pes787 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

simo incasso ottenuto, tornerà alle sceneggiature (ricordo i discreti thriller 5 Bambole per la Luna d'Agosto, Giornata Nera per l'Ariete e La Volpe dalla Coda di Velluto, oltre allo spaghetti western Ciakmull), prima di provare a produrre alcune commedie, oltre al trashissimo Yeti – Il Gigante del XX Secolo (1977) di Parolini, nella seconda metà degli anni settanta Nonostante quanto sopra la pellicola vanta un budget interessante e un cast artistico assai pregevole, pur essendo infarcito di seconde scelte. Ci sono Craig Hill, George Martin e Renato Rossini, accreditato con l'usuale pseudonimo Howard Ross. Accanto a questi uno stuolo di storici caratteristi come Aldo Sambrell, Andrea Bosic, Umberto Raho, Margherita Lozano (la vedova dei Baxter in Per un Pugno di Dollari), in un cammeo c'è persino Fernando Sancho. Incomprensibilmente però la produzione si affida all'ultra settantenne Nunzio Malasoma, all'ultimo film di una carriera iniziata nel 1923. Specializzato soprattutto in commedie sentimentali e nei c.d. film dei telefoni bianchi oltre che regista di uno dei primissimi antenati del poliziesco italiano ovvero L'Uomo dall'Artiglio (1931), definito da Roberto Curti “poliziesco ambientato nel mondo delle corse automobilistiche con atmosfere cupe alla Edgar Wallace”, Malasoma era caduto in desuetudine dopo la scoppio della seconda guerra mondiale. Tra il 1923 e il 1943 aveva diretto qualcosa come trentacinque pellicole su un totale di quarantuno, lavorando spesso nella Germania nazista. Arriva al film dopo un'inattività di otto anni e con appena cinque film girati tra il 1947 e il 1960. La scelta di Di Nardo, che firma anche il copione, è quindi da suicidio commerciale. Lo script prende le mosse da Per un Pugno di Dollari (1964) da cui mutua lo spunto iniziale del villaggio falcidiato dalla faida tra due famiglie: una è capitanata da George Martin, l'altra da Craig Hill. Per fortuna però non si segue il canovaccio leoniano, ma si inserisce un importante diversivo. Contro le due bande infatti si scatena una selezione di cittadini guidata da un pistolero, Howard Ross, che vuol vendicare la morte della madre della fidanzata e delle due sorelle di quest'ultima. I leader delle due bande infatti sono ritenuti i responsabili degli omicidi (perché trovati a dormire nella stalla della donna, ovvero la brava Margherita Lozano) e vengono costretti alla fuga, in realtà sono innocenti. Martin e Hill dovranno così mettere da parte i vecchi dissidi e collaborare per trovare il vero responsabile della mattanza. In villaggio invece si divideranno coloro che pretenderanno una giu788 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

stizia sommaria e coloro che invece vorranno vederci chiaro, fino allo scontro tra alcuni esponenti delle varie fazioni. Epilogo tra le fiamme. Una trama quindi piuttosto originale, con un intrigo giallo da crime story e un buon background psicologico dei personaggi. A essere protagonisti, questa volta, non sono degli antieroi ma direttamente dei veri e propri banditi. Martin e Hill sono sufficientemente bravi nel ruolo dei protagonisti senza scrupoli disposti a tutto pur di aver salva la pelle, dapprima rivali poi complici. Rossini è carico come non mai. Grande lotto di caratteristi che tengono su il film. Fotografia di Stelvio Massi, musiche di De Masi piuttosto ritmate ma non memorabili. Purtroppo la pellicola è difficile da recuperare ed è conosciuta da pochi. All'epoca non ebbe alcun successo, ma chi l'ha vista ne parla bene (tra questi Tom Betts). Il severo 800spaghettiwesterns.blogspot.it ritiene addirittura che sia un capolavoro mancato (sette e mezzo in pagella), a causa di una regia un po' incerta: un western da recuperare e da rivalutare. Potenziale sorpresa, sebbene diretta in modo compassato. Non è dello stesso parere filmtv.it: “troppo scontato.” Se gli ultimi due film analizzati presentano degli elementi di interesse, si naufraga nel mediocre con il successivo terzetto. Dopo esser stato sollevato dalla regia di Pochi Dollari per Django (1966), perché ritenuto incapace di dirigere le scene d'azione, Lèon Klimovsky torna alla guida di un western e questa volta fino alla fine. Lo producono Eduardo Manzanos Brochero e Luigi Mondello, quest'ultimo al debutto nel genere ma già attivo da quindici anni soprattutto come produttore di peplum e adventure movie di terza fascia, tra i quali Erik il Vichingo (1965) di Caiano, oltre che di cult della commedia italiana come Il Conte Max (1957) con Alberto Sordi e I Ladri (1959) di Fulci con Totò. Il copione lo firma lo stesso Manzanos Brochero e viene intitolato ...E Intorno a lui Fu la Morte (1968). Non c'è niente di originale. Abbiamo un rapinatore, interpretato dal caratterista Guglielmo Spoletini (accreditato William Bogart), promosso in un ruolo principale dopo alcune comparsate in Arizona Colt (1966), Un Fiume di Dollari (1966) e Da Uomo a Uomo (1967), che evade dal carcere sia per vendicarsi del tradimento perpetrato nei suoi confronti dal socio (il grande Eduardo Fajardo) sia per ritrovare il figlio. Un agente federale, il già incontrato Wayde Preston, tenta di fare la luce sui fatti. Anche qua il 789 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

protagonista è un vero e proprio bandito, poiché la storia viene raccontata dal punto di vista del rapinatore. Ne parlano in pochi, sebbene non sia pessimo. Scarso nelle interpretazioni, Spoletini lascia a desiderare (proseguirà nel genere con ruoli di supporto e avrà una piccola parte nel cult horror Il Presagio di Richard Donner), è comunque nel complesso non incisivo né esaltante come afferma spaghettiwestern.altervista.org. Non ha neppure il voto su imdb.com, sorprende quindi leggere che secondo Marco Giusti il film ebbe buone critiche all'epoca. Oggi, di fatto, non se lo fila nessuno. A nove anni dalla parodia Il Terrore dell'Oklahoma (1959), Mario Amendola si lancia nel western serio. Lo abbiamo già incontrato in veste di sceneggiatore nel corso della trattazione, lo affianca il fido Bruno Corbucci che sottoscrive con lui il copione. I due faranno assai meglio, a parti invertite, qualche mese dopo con Spara, Gringo, Spara. Dai Nemici mi Guardo Io! (1968) invece è un un bel buco nell'acqua. Viene concepito con lo specifico scopo di racimolare fondi, senza altre pretese. Producono però Luigi Rovere e Ferdinando Felicioni, provenienti da buoni prodotti come L'Uomo, l'Orgoglio, la Vendetta (1967) e Un Treno per Durango (1968). I due sceneggiatori però sono a corto di idee e scrivono dialoghi imbarazzanti. Pur disponendo delle location dell'Almèria, scopiazzano, senza fondi e con un cast artistico mediocre, da Il Buono, il Brutto, il Cattivo. Abbiamo l'ennesima caccia al tesoro messa in scena nel corso della guerra civile. Leone però non è l'unico a essere saccheggiato, addirittura si sbircia nelle piccole produzioni. Così se in Un Buco in Fronte (1968) per accedere all'oro era necessario entrare in possesso di tre carte da gioco, qua il protagonista deve radunare tre monete particolari possedute da altrettanti soggetti. Da ciò deriva il titolo scelto per il mercato estero: Tre Dollari d'Argento. A dar corpo ai tre contendenti ci sono attori di terza scelta. Il protagonista è l'americano Charles Southwood, proveniente dai set di Demofilo Fidani, gli altri due invece sono lo spagnolo Juliàn Mateos (già visto ne I Crudeli di Sergio Corbucci) e lo svizzero Mirko Ellis, caratterista del genere. Southwood e Mateos saranno dapprima complici, schierati contro la banda di Ellis, poi si scontreranno per contendersi il malloppo. Amendola piazza un'altra scopiazzatura con l'idea della moneta nel taschino che salva il protagonista da un pistolettata in pieno cuore. Il metallo infatti ferma la pallottola, in una sequenza 790 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

debitrice nei confronti di Un Dollaro Bucato (1965) di Ferroni. Simpatico l'epilogo all'insegna della beffa. Amendola non girerà altri western e non se ne sentirà la mancanza. Privo di originalità e con gravi buchi di sceneggiatura, lo stronca Thomas Weisser che lo definisce orribile. Cinque in pagella per imdb.com, neppure quattro per 800spaghettiwesterns.blogspot.it. Gli altri non l'hanno visto. È addirittura ignorato quasi da tutti Sapevano solo Uccidere (1968), terzo western di Tanio Boccia, a mio avviso il peggiore (la pensa diversamente Thomas Weisser per il quale è il migliore). Ancora una volta, come in occasione di Dio non Paga il Sabato, produce Zeliko Kunkera. Non cambia il budget, misero come al solito. Boccia, solitamente bravo a fare di necessità virtù, questa volta “la butta di fuori”. Opta infatti per una scelta destinata a fallire fin dalla carta. Il regista romano infatti, forse nostalgico dei suoi peplum, pensa bene di fare un western con protagonisti gli attori eroi del peplum. Si tratta di un esperimento suicida, fallito più e più volte nel corso dei primi anni del genere, con pellicole come Tre Colpi di Winchester per Ringo (1966) di Salvi, e naufragato definitivamente con la buona produzione di Bolognini e la presenza dell'asso del peplum Steve Reeves in occasione di Vivo per la Tua Morte (1968) di Camillo Bazzoni. Ciò nonostante Boccia va per la sua strada, disinteressandosi di quello che dice il mercato. Scrive il copione col fido Mario Moroni e, ad avviso di Marco Giusti, fa una versione western del suo Sansone contro i Pirati (1963) di cui ripropone l'attore protagonista Kirk Morris (con cui aveva lavorato in ben sei circostanze), al secolo Adriano Bellini. Fa quindi ingaggiare gli altrettanti muscolosi Sergio Ciani (accreditato Alan Steel) e Gordon Mitchell, in quello che diviene un revival del peplum. La storia è un revenge movie. Kirk Morris è inviperito e intenzionato a vendicarsi di una banda di messicani colpevoli di avergli ucciso i genitori. I banditi sono capitanati dal pessimo Larry Ward, confermato dal precedente lavoro di Boccia e anche lui piuttosto voluminoso. Prima di scontrarsi col capobanda e assumere la stella di sceriffo, Morris dovrà però vedersela con un pistolero platinato, interpretato da un Gordon Mitchell spiritato come non mai. 791 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Marco Giusti commenta con un solo aggettivo: delirio. Il film, girato in Jugoslavia, si rivela un fallimento a trecentosessanta gradi. Adriano Bellini si conferma inadatto al genere e viene preso a calci durante la lavorazione perché incapace di capire i tempi giusti in cui dire le battute. Ex gondoliere veneziano con la passione del culturismo, era divenuto una star del peplum grazie al fisico scultoreo che lo aveva fin da subito lanciato nell'olimpo. Celebri le sue colazioni a base di venticinque uova, così almeno va dicendo nelle interviste. Aveva debuttato proprio con Tanio Boccia, che lo aveva scoperto spulciando in una rivista di culturismo, in occasione de Il Trionfo di Maciste (1961). Il successo riscontrato aveva portato i fan ad accostarlo a Reeves e i produttori a scommettere su di lui scritturandolo nei ruoli dei vari Maciste (interpretato ben sei volte), Ercole e Sansone. Tra i film più riusciti ricordo i cult Maciste all'Inferno (1962) di Freda ed Ercole sfida Sansone (1963) di Francisci. Fisicamente ben messo e dai lineamenti attraenti (non a caso finirà nei fotoromanzi), Bellini metterà in evidenza le limitate capacità recitative e, come il collega Reeves, finirà con l'essere accantonato al morire del peplum. Tenterà la via del macaroni combat con Sette Baschi Rossi (1969) di Siciliano e della sci-fi con 2+5 Missione Hydra (1966) di Francisci, ma troverà sempre meno spazio. Si ritirerà nel 1970 con appena quattro pellicole girate tra il 1966 e il 1970, contro le sedici girate tra il 1961 e il 1965 (cioè nel periodo del peplum). Carriera simile per Sergio Ciani, ex controfigura di Scott Reeves divenuto poi protagonista a partire dal trash Zorro contro Maciste (1963) di Umberto Lenzi, nei panni di Maciste. Andrà incontro ai medesimi problemi patiti dai colleghi, pur avendo una carriera leggermente più lunga rispetto a quella di Bellini. Boccia mette insieme quindi tutti questi attori, possenti, di bello aspetto, ma pessimi sul versante espressivo e recitativo. Se quindi altri suoi colleghi avevano avuto problemi fatali nel proporre un protagonista proveniente dal peplum, Boccia batte ogni record schierandone addirittura tre nei tre ruoli principali!? I buchi di sceneggiatura, la pessima colonna sonora di Lavagnino e la scarsezza delle scenografie fanno poi il resto. Non manca chi fa notare le incongruenze della sceneggiatura che fa della confusione il proprio biglietto da visita, col regista che perde le file della narrazione. Alla fine si capisce poco e ciò che restano impresse sono le pessime prove degli attori, da cui non si salvano neppure Mitchell e Ward. 792 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Nel cast artistico piccolo ruolo per Remo Capitani. Visto da pochissimi temerari, cinque il voto degli utenti di imdb.com. Da evitare, salvo amanti del trash. Il mese di luglio vede uscire appena tre western, prima dell'esplosione che ci sarà ad agosto. Non si tratta di pellicole degne di particolare nota, ma le andiamo comunque ad analizzare per dovere di completezza. La prima a uscire, il diciotto luglio, è All'Ultimo Sangue (1968). Si tratta dell'ennesimo film di un regista, sceneggiatore e anche produttore che si lancia all'avventura in un genere non suo. Nella fattispecie abbiamo Paolo Moffa, assistito nella sceneggiatura da Vincenzo Dell'Aquila, impegnato contemporaneamente a girare ...E Venne il Tempo di Uccidere (1968). Moffa arriva dal cinema anteguerra e viene definito da Roberto Poppi “un cineasta vulcanico e infaticabile, purtroppo dimenticato da tutti”, ma non da noi! Era passato alla regia, col Viaggio del Signor Perrichon (1944), dopo qualcosa come ventiquattro aiuto regie al servizio soprattutto di Mario Mattoli (tredici collaborazioni, anche da montatore) e di maestri del calibro di Vittorio De Sica e Roberto Rossellini. Dal 1945 aveva inoltre iniziato a interessarsi alle produzioni, dapprima col ruolo di segretario di importanti film, tra gli altri, di Germi (Il Testimone), Pietrangeli (Il Sole negli Occhi), Visconti, Rossellini e Antonioni, poi da produttore di opere di genere di terza e quarta fascia con titoli quali i peplum La Rivolta degli Schiavi (1960) di Malasoma e Ursus il Terrore dei Kirghisi (1964) di Ruggero Deodato e gli spaghetti-western Quattro Dollari di Vendetta (1965) di Balcàzar e Starblack (1967) di Grimaldi, oltre alla sua migliore produzione ovvero il macaroni combat Cinque per l'inferno (1968) di Parolini. Prima di tentare la carta western, le sue regie erano state poche, appena quattro (due commedie e due adventure movie), con la sola commedia L'Allegro Squadrone (1954), interpretata da Albertone Sordi, Paolo Stoppa e Vittorio De Sica, in grado di fungere da punta d'iceberg. Moffa si presenta in modo poco convinto, celandosi dietro lo pseudonimo John Byrd. Ingaggia Ettori Manni e uno stuolo di attori di terza fascia come il decaduto Craig Hill, incapace di bissare le ottime prove del 1966, e il mono espressivo Giovanni Cianfriglia (tutti piuttosto spenti). Nonostante gli scarsi capitali investiti, il film viene di793 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

stribuito dalla Warner Bros. Moffa però vuole fare ciccia, come si suol dire, e non si preoccupa dei contenuti. Risparmia il più possibile, addirittura ricicla scene dai western precedentemente prodotti, limita le comparse e mette in scena un soggetto privo di originalità. Hill è il protagonista. Lo aiuta un bandito salvato dall'impiccagione (Manni), convinto a cooperare con la promessa della grazia. I due devono recuperare, per conto della polizia di frontiera, due carichi d'oro rubati uno dalla banda di criminali capitanata da Cianfriglia, l'altro dalla solita ciurmaglia di messicani, questa volta agli ordini del misconosciuto Francesco Santovetti. Sarà inevitabile lo scontro tra le due bande, chiaramente manovrato ad arte dai due protagonisti subentrati all'interno delle stesse con intenti doppiogiochisti. Un copione visto dozzine di volte, a partire da Per un Pugno di Dollari e da Una Pistola per Ringo. Eloquente il commento di Giusti il quale afferma: “Dopo trenta minuti ci si chiede che razza di film si stia vedendo, ci saranno dieci battute e non si capisce dove Moffa vuole andare a parare...” Il critico toscano loda poi le scenografie fotografate da Franco Villa in stile peplum e il duello Cianfriglia-Manni, giudicando infine terribile la colonna sonora di Fidenco. Sono invece tre le stelle garantite da filmtv.it, con persino il Morandini a parlarne benino (ovviamente due stelle) ponendo il lavoro di Moffa tra i primi venti western italiani tra quelli prodotti nel 1968!? Lo sintetizza nella parola grintoso spaghetti-western.net che elogia poi Cianfriglia, visto come il più in palla del cast. Lo ignorano tutti gli altri stranieri. A mio avviso è un prodotto di imitazione trascurabile sotto tutti i versanti. Moffa dirigerà altri due modesti film senza interessarsi più al genere, produrrà comunque Sono Sartana, il Vostro Becchino (1969). Il 26 luglio è la volta di Odia il Prossimo Tuo (1968), probabilmente il migliore del terzetto. A portarlo in scena è Ferdinando Baldi, ancora legato a Manolo Bolognini per il quale aveva appena terminato Little Rita nel West e Preparati la Bara! e per il quale girerà Il Pistolero dell'Ave Maria (1969). Si tratta di un'escursione estemporanea rispetto ai programmi del regista. Baldi gira il film per ragioni di amicizia, si sente quasi costretto e non è convinto dal progetto che non sente proprio. A chiamarlo è Enrico Cogliati Dezza, un proprietario di un cinema romano, alla sua ultima esperienza cinematografica dopo 794 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

aver fatto già fiasco con La Morte non Conta i Dollari (1967) di Freda. Il budget è contenuto, ma sufficiente a ingaggiare Luigi Montefiori e Horst Frank. Baldi sosterrà di non aver avuto alcuna voce in capitolo nella scelta degli attori, affermazione che lascia assai perplesso il sottoscritto visto che i due erano stati diretti dal salernitano in Preparati la Bara! Quel che è certo è che il regista, abituato a lavorare con Franco Nero o Terence Hill, si ritrova un protagonista indesiderato - il greco Spiros Focas (accreditato Clyde Garner) - oltre a un cast minore fatto di attori di terza scelta. C'è anche Nicoletta Machiavelli, limitata tuttavia a una comparsata priva di sostanza. Il copione è banalissimo. Lo firmano, insieme al regista, i mediocri Luigi Angelo e Roberto Natale, reduci rispettivamente dagli insuccessi di Lola Colt (1967) e Vivo per la tua Morte (1967). Gli autori tentano di miscelare il revenge movie al sottogenere avventuroso incentrato sulla ricerca di un tesoro nascosto. Il risultato finale è trascurabile, peraltro non vi è neppure la ricerca del tesoro. I protagonisti lotteranno tra loro unicamente per entrare in possesso delle varie parti della mappa, divisa in due a inizio film da Montefiori. Baldi porta avanti la storia giocando sulle disavventure del personaggio di quest'ultimo, un bandito senza scrupoli. Lo vediamo passare di continuo dalla “padella nella brace”, venendo salvato tutte le volte in punto di morte dall'intervento di terze persone che giungono in suo soccorso per torturarlo (Horst Frank) o per assicurarlo alla giustizia (Focas) ovvero per impiccarlo (lo sceriffo, cui da corpo il solito Franco Fantasia). Le ragioni di queste terze persone sono diverse. Horst Frank vuole entrare in possesso della parte della mappa detenuta da Montefiori e cerca di fargli confessare il luogo dove l'ha nascosta; Focas invece vuole vendicare il fratello ucciso a inizio film proprio da Montefiori (peraltro per sottrargli la mappa). Alla fine si scoprirà che l'assassinio è stato commissionato da Frank. Lo confesserà in maniera delirante un Montefiori crivellato dai colpi e con il petto insanguinato, ma allegro come un grillo canterino. Inevitabile regolamento di conti finali. Le uniche parti da salvare ruotano attorno al personaggio di Frank. L'attore tedesco, elegantissimo (vestito in completo bianco, con cappello texano, in modo da spiccare in mezzo ai suoi rozzi uomini), è eccellente nella recitazione. È un proprietario terriero che si diletta nello inscenare bizzarri combattimenti, trasformando i suoi schiavi in gladiatori. Li fa armare con scudi rudimentali, formati da 795 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

asticciole di ferro messe a protezione degli avambracci, e doppi uncini a forma di artiglio (per farsi intendere, dagli amanti di videogame, in stile Vega di Street Fighter II). Il vincitore, atterrato l'avversario, avrà la possibilità di sparare contro lo stesso tre colpi di pistola, in stile roulette russa con un solo proiettile nel tamburo, e in caso di morte di quest'ultimo ottenere la libertà. La dinamica degli scontri porta Baldi a non lesinare negli squarci e nel proporre profonde ferite che si aprono sul corpo degli attori. I combattimenti non sono tuttavia il momento più alto dove trova sfogo la perversione del personaggio di Frank. Abbiamo difatti una successiva scena in cui l'attore tedesco tortura Montefiori. Lo vediamo far appendere l'ex socio sotto il sole cocente, in modo da fargli sporgere la testa su un pozzo infestato dalle serpi. Come se ciò non bastasse, Frank fa porre dei topi intorno ai piedi del torturato, spargendo cibo sulle corde, molestandolo anche a parole: ”Vedi, Gary, questi roditori? Sono affamati e impazziscono per la pasta di grasso. Si avvinghieranno alla corda e con avidità cominceranno a roderla poco alla volta e, poco alla volta, tu scenderai sempre più dentro la fossa col cervello bruciato dal sole, finché la corda si spezzerà e... Immagini cosa succederà allora?” Al di là delle sequenze appena menzionate c'è poco da salvare. Si segnala lo stratagemma messo in atto dal protagonista per liberarsi dagli uomini di Frank. Lo vediamo far lanciare in aria, sopra gli uomini di Frank, delle cariche esplosive da colpire al volo col fucile. Dunque se il film non è da buttare è per merito del duo FrankMontefiori. I due tendono a emulare i personaggi di Preparati la Bara!, sebbene il secondo abbia un ruolo più trasandato, con Baldi che tenta di sfruttarne la carica erotica (è spesso con i pettorali in bella mostra). Spiros Focas, contrariamente al volere del regista, torna in Italia dopo un intervallo di cinque anni. Era stato lanciato, con ruoli secondari, nel drammatico Morte di un Amico (1959) di Franco Rossi e soprattutto in Rocco e i suoi Fratelli (1960) di Visconti e Psycosissimo (1962) di Steno, prima di far rientro in patria per recitare in una decina di pellicole da protagonista. Non farà altri western, tornando saltuariamente nella nostra penisola interpretando Zorro in Zorro alla Corte d'Inghilterra (1971) di Montemurro, Mark il Poliziotto Spara per Primo (1975) di Stelvio Massi e Holocaust 2000 (1977) di De Martino. Avrà infine la soddisfazione di lavorare in due pellicole hollywoodiane quali Il Gioiello del Nilo (1985) di Lewis Teague e 796 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Rambo III (1988) di MacDonald. Chiuderà la carriera recitando in svariate fiction e serial televisivi greci. Focas mette sul piatto della bilancia una buona presenza fisica, un fisico slanciato, ma pecca di espressività ed è impacciato nelle scazzottate. Marco Giusti, a ragione, lo definirà non all'altezza. Opinione condivisa pure da Baldi che limita le inquadrature su Focas, lasciando campo libero a Frank e Montefiori ovvero gli antagonisti. Completa il cast Nicoletta Machiavelli, assai sobria, castigata nel look e marginale rispetto alla storia in quella che è la sua prova meno interessante nell'ambito del cinema western. Non memorabili gli altri, tra cui Ivy Holzer (attrice legata al cinema di Totò e di Franchi & Ingrassia) che assiste compiaciuta ai cruenti spettacoli di Horst Frank provando però attrazione per Montefiori. Piccoli ruoli ma intrisi di memoria leoniana per i caratteristi Roberto Risso (interpreta il fido del protagonista, una via di mezzo tra il becchino e l'oste de Per un Pugno di Dollari) e Paolo Magalotti, una sorta di “Brega dei poveri“ che verrà corrotto da Montefiori per ribellarsi agli ordini del suo padrone (per punizione finiranno entrambi nell'arena di Frank, a combattere l'uno contro l'altro, armati di uncini). Poverissima la confezione. Baldi gira in modo classico (pochi virtuosismi) e poco convinto, in Ciociaria (esterne tra verde e massi), non aiutato dalla fotografia (Enzo Serafin) né dalla colonna sonora di Robby Poitevin, il quale ricerca incomprensibili (vista la struttura della pellicola) melodie melodrammatiche (contrario 800spaghettiwesterns.blogspot.it, il quale loda Serafin e Poitevin). Scarne e spoglie le scenografie di Giorgio Postiglione. A tal riguardo si sarebbe potuta caratterizzare l'arena di Frank che invece viene messa in scena senza idee. Si segnala la presenza nel cast tecnico del futuro regista trash Mario Bianchi, qua alla sua seconda aiuto regia dopo il debutto in Lola Colt. La pellicola viene salvata da pochi. Marco Giusti è in perfetta linea col sottoscritto sostenendo che è un film che non ha culto. Eppure all'estero l'hanno visto tutti i principali blogger. 800spaghettiwesterns.blogspot.it lo ritiene un western accettabile che ha il suo tallone d'Achille nella sceneggiatura. Mondo-esoterica.net fa notare un taglio registico più vicino ai western americani piuttosto che agli italiani e ne consiglia la visione. 797 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Di poche parole filmtv.it (Western di serie C) e Morandini (Sagra del già visto, ma non raccontata male) concordi nell'attribuirgli due stelle. Tra i più positivi spaghettiwestern.altervista.org che assicura il potenziale spettatore: “è un western che non annoia mai... apprezzabile sul piano dello spettacolo.” Se Odia il Prossimo Tuo non ha culto ne ha assai meno Il Suo Nome Gridava Vendetta (1968), affidato alla regia di un altro sotto-specialista del genere: Mario Caiano. Si tratta di una pellicola per certi versi assimilabile a quella di Baldi, sebbene con un budget superiore e una solida produzione Anche qua abbiamo un cast artistico di un certo prestigio messo al servizio di una storia non all'altezza. La produzione è quella del più fortunato e riuscito Un Treno per Durango (1968), film sempre di Caiano (che ne riprende lo pseudonimo di William Hawkins) uscito a gennaio ma non ancora trattato in quanto inserito nel capitolo dedicato al tortilla western. Al fianco di Bianco Manini, abbiamo i collaudati Emilio Giorgi e Ferdinando Felicioni. Del precedente film viene inoltre confermato l'ottimo Enzo Barboni alla fotografia. Cambia invece il co-sceneggiatore, al posto di Tessari e di Di Leo, arriva il fido di Castellari, Tito Carpi. Visti i nomi, il risultato finale è abbastanza deludente penalizzato dalle interferenze di Manini. Quest'ultimo, stanco di esperimenti autoriali (fatti in occasione di Quien Sabe?), è intenzionato a dar vita a un prodotto commerciale e preme sugli sceneggiatori per realizzare un western stereotipato. Ne deriva l'azzeramento dei rischi e lo stralcio di qualsiasi bizzarria. Il produttore, per risparmiare, cercherà persino di convincere Caiano a riciclare del materiale usato in Quien Sabe?, per fortuna il regista napoletano saprà farsi valere. Il tema centrale ruota attorno alla memoria del protagonista. Il granitico e indolente Anthony Steffen, reduce dalla guerra di secessione, si vede braccato dai bounty killer senza comprenderne la ragione. Ha infatti smarrito la memoria per effetto di un colpo al capo (idea che sarà ripresa da Barboni per il suo Ciakmull). Inizierà a comprendere quando un giudice (William Berger) gli rivelerà che un bandito (Claudio Undari) lo ha incastrato facendogli addebitare dei delitti (diserzione) al fine di sposarne la moglie (la brava Ida Galli, accreditata Evelyn Stewart). Girandola di colpi di scena finale, con Steffen e la Galli impegnati a far fuori tutta la banda di Undari e a vedersela con il personaggio di Berger che ha cercato di sfruttare tutta la situazione 798 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

per perseguire i suoi biechi scopi. Grandissimo humus di caratteristi di prestigio come Mario Brega, Raf Baldassarre, Alberto Dell'Acqua e Jean Louis. Ritmo sufficiente, discrete interpretazioni, storia però prevedibile e senza guizzi degni di nota. Carina la colonna sonora di Robby Poitevin, esplicito anello di unione con Odia il Prossimo Tuo. In Germania, ad arte, verrà distribuito come sotto Django. Ne parla bene spaghettiwestern.altervista.org che ne apprezza il ritmo incalzante e le ottime scene di azione. È buono pure per Marco Giusti il quale però fa notare come non abbia né culto né critiche positive. Sopra la media a giudizio di Tom Betts. Totalmente ignorato dai blogger esteri, da filmtv.it e dal Morandini. Cinque virgola otto il voto degli utenti di imdb.com. Consigliato per chi è sempre alla ricerca di un western, trascurabile per gli altri. 8.2 Un agosto infuocato. Il mese d'agosto del '68 è tra i più infuocati della stagione western. Prende piede definitivamente il tortilla western con due autentici capolavori firmati da Sergio Corbucci e da Sergio Sollima, che spianano la strada a un nuovo filone, inoltre esce un numero copioso di western, il più delle volte di medio-basso cabotaggio. Dunque due capolavori immersi in un lotto di western di terza/quarta fascia. Il primo a uscire è Il Momento di Uccidere (1968) che segna il debutto alla regia di Giuliano Carnimeo, il quale diventerà il regista di riferimento della saga Sartana (di cui girerà ben quattro episodi) e di tutta un'altra serie di western aventi come protagonisti i vari Camposanto, Alleluja, Spirito Santo e Tresette, interpretati da Gianni Garko e George Hilton. Il barese si firma con quello che diventerà il suo inseparabile pseudonimo ovvero Anthony Ascott. Avremo modo in seguito di spendere due parole sui suoi trascorsi. Il progetto è destinato alla regia di Enzo G. Castellari che, unitamente al fido Tito Carpi, ne firma il soggetto su incarico del produttore Edmondo Amati. Castellari decide poi di sviluppare un altro copione, cioè quello de I Tre che Sconvolsero il West (1968) e abbandona il tutto. Perso il regista di fiducia, Amati cede il soggetto a Pier Ludovico Pavoni. Pavoni è un direttore della fotografia di film avventurosi 799 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

e peplum, con quasi cinquanta lavori alle spalle culminati in un Nastro d'Argento, ottenuto con La Muraglia Cinese (1958) di Lizzani, e nel primo premio al San Sebastiàn International Film Festival vinto, per la miglior fotografia di un film straniero, grazie a Un po' di Cielo (1955) di Moser. Meno apprezzato come produttore, aveva comunque collaborato alla realizzazione di piccoli b-movie a basso costo tra cui Il Conquistatore di Atlantide (1964) di Brescia e Kitosh, l'Uomo che Veniva da Nord (1966) di Merino. Tenterà in seguito la carriera da regista, senza acuti ma ottenendo apprezzamenti. Con i pochi capitali che riesce a racimolare, Pavoni fa il massimo. Mette su un interessante ed equilibrato cast artistico. Abbiamo una coppia di protagonisti composta dall'emergente George Hilton e dal veterano Walter Barnes, contrapposta a un'altra formata dall'economico ma sempre bravo Horst Frank (imposto dai coproduttori tedeschi) e dall'elegante e teatrale Carlo Alighiero (attore di impostazione teatrale molto attivo in teatro e nei serial televisivi, tra i quali la saga anni '60 de Il Tenente Sheridan, e con ruoli minori in gialli e poliziotteschi di prima fascia). A fungere da anello di collegamento tra i due gruppi c'è la giovane austriaca Loni Von Friedl, a cui viene riservato il compito di interpretare una disabile a conoscenza di un segreto la cui conoscenza permette di mettere le mani su un tesoro perduto. La Von Friedl, sebbene ai più possa risultare sconosciuta, viene introdotta dai soci tedeschi per la grande notorietà vantata in Germania, dove aveva ottenuto alcuni premi, e anche a livello internazionale grazie a film di produzione americana come La Caduta delle Aquile (1966) di John Guillermin. Lavorerà in seguito in fiction e serie televisive tedesche, non confermando quanto lasciato sperare in giovinezza. Dunque un cast di tutto rispetto messo nelle mani di un regista semi debuttante che saprà ritagliarsi un importante spazio nel genere. Ne deriva un western di un certo rispetto, soprattutto in considerazione del fatto che la sceneggiatura contiene gli elementi embrionali che esploderanno nella saga Sartana. Si tratta infatti di un western dalle forti tinte gialle e fumettistiche, con Hilton (che poi interpreterà Sartana nel terzo film della saga) e il suo fido scudiero Barnes che vengono ingaggiati per fare chiarezza sulla scomparsa di un tesoro sudista nascosto da un colonnello deceduto. La chiave per individuare il malloppo ruota attorno a un indizio che lega Regina (la Von Friedl), giovane figlia del militare, a un libro intitolato Camelot. Il colonnello era infatti solito leggere questo libro alla figlia, nonostante 800 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ciò ha sottolineato solo un dato passaggio avente valenza metaforica: “Un vago profumo di rose allieta l'anima mia come un tesoro nascosto che tu e io soli sappiamo.” Oltre al duo protagonista, sono sulle tracce dell'oro anche il ricco del paese (Alighiero) e il suo folle figlio (Horst Frank). Frank, come al solito, ha il ruolo del sadico psicopatico di turno: spegne mozziconi di sigaro sulle mani dei suoi uomini, li frusta per punizione e ride a crepapelle in modo isterico. Bella la sequenza in cui, in risposta alle risate di scherno dei cittadini che lo beffeggiano per esser stato legato dal duo protagonista, inizia a ridere divertito ammutolendo tutti gli altri rimasti spiazzati dalla sua imprevedibile reazione. Il punto debole della pellicola ricade sul copione, privo di grossi sviluppi centrali. Ci sono delle sequenze di sparatorie troppo lunghe, sebbene ambientate in location bizzarre (all'interno di un macello con carcasse sanguinolente di vitelli appesi ai ganci). Fabio Piccioni, a cui viene affidato il compito di revisionare lo script del duo CastellariCarpi, cerca di risollevare le sorti con la canonica girandola di colpi di scena finale, aggiungendovi tocchi deliranti degni di un fumetto fantasy. Se il soggetto soffre di alcune battute d'arresto, le caratterizzazioni dei personaggi sono curate e divertenti. Carnimeo reputa il film una sorta di pre-Trinità, essendo, a suo dire, i due protagonisti costruiti nello stesso modo di Hill e Spencer e messi al servizio di un western dotato di un taglio umoristico. A mio avviso il paragone non è corretto, perché Barnes, pur interpretando un personaggio sciatto (veste con giacca sudista trasandata), è in rapporto di mera pertinenza rispetto al protagonista. Lo vediamo assistere Hilton, eseguendo i suoi ordini alla lettera. Munito di fucile a canna corta, appare sempre alle spalle degli avversari del compagno in modo da coglierli di sorpresa (non a caso Hilton lo chiama il suo angelo custode). Dunque è un personaggio che non si trova sullo stesso piano del protagonista, ma riceve, compiaciuto, ordini. I due non sono cane e gatto come invece saranno i personaggi Spencer-Hill. Anche sul fatto che si tratti di un western umoristico non sono d'accordo. Il film è intriso di ironia, è vero, ma è un ironia macabra, dettata dalla guasconeria del duo protagonista. Vediamo Hilton comportarsi come un personaggio di un film del primo Tessari (una sorta di pre-Sartana), mentre Barnes sghignazza di continuo e fa battute cattivissime: “Hai visto quella carogna che è riuscita a scappare? Correva più veloce dei miei colpi!”. 801 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

L'atmosfera poi è vicina a un film horror, con personaggi che si muovono tra carcasse di bestie macellate, con picchi di violenza elevati (Barnes subisce una serie di cazzotti che gli fanno scendere il sangue sul volto) che raggiungono il culmine nel duello finale in cui Hilton trafigge Frank piantandogli uno sperone in gola. Se questa vi sembra roba da western umoristico... fate vobis. Carnimeo dimostra di avere idee chiare in quanto a regia e sfoggia il suo stile dinamico, che poi perfezionerà in seguito, fatto di zoomate, soggettive a cavallo e soggettive di pistoleri intenti a sparare con pistole che si intravedono nell'inquadratura. Non mancano virtuosismi che faranno la fortuna della saga Sartana, tra cui l'immancabile gioco in cui Hilton disorienta gli avversari apparendo in uno specchio e poi in un altro. Bella l'apertura con campi lunghi e lunghissimi a esaltare le desertiche location laziali. La fotografia di Stelvio Massi è bruttina (c'è però chi, come fistfulofpasta.com, la giudica inventiva), troppo scura con tutta la parte ambientata nei macelli in cui si stenta a vedere i soggetti. Si tratta sicuramente di una richiesta di Carnimeo, funzionale a esaltare i flash luminosi delle pistole che illuminano a ogni colpo i volti degli attori, ma il risultato finale è tutt'altro che accattivante. Fiacca la musica di Francesco De Masi, sebbene Marco Giusti, fistfulofpasta.com e mondo-esosterica.net la reputino bellissima. La Main theme è cantata da Raoul, voce storica dello spaghetti western. In conclusione si tratta di un western di seconda fascia, che beneficia di ottime interpretazioni e di una regia ispirata. Purtroppo fatica a decollare nello sviluppo della narrazione. Nonostante ciò la pellicola è conosciutissima all'estero, merito di Hilton e soprattutto dell'alone di culto creatosi attorno a Carnimeo. Non la ama 800spaghettiwesterns.blogspot.it il quale salva attori e musica, ma boccia tutto il resto vedendo una forte relazione tra questo film e il western di debutto di Castellari, Sette Winchester per un Massacro (1967), con un Carnimeo più interessato ai virtuosismi che a raccontare la storia. Anche per Mondo-esoterica.net c'è poco di originale: non c'è niente che non abbiamo già visto mille volte prima e, per giunta, presentato senza ambizione. L'appassionato di lingua inglese nota, giustamente, anche un certo atteggiamento compassato nel portare avanti la storia, bollando il lavoro come noioso sebbene non brutto. 802 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Tra i fan c'è Fistfulofpasta.com, il quale sottolinea la componente claustrofobica, senz'altro presente viste le lunghe sparatorie all'interno del macello, e l'alto tasso di violenza (chi si aspetta una commedia ne resterà deluso) che ne fanno un western non classico vista la contaminazione ironica che caratterizza il duo protagonista. Positiva l'opinione dell'americano spaghetti-western.net che, pur facendo notare una certa incertezza sulla piega da dare al film, parla di western molto divertente. Conclusione a cui giunge anche il californiano Tom Betts. Per Marco Giusti è addirittura tra i migliori film del regista anche se a metà strada tra il comico, il giallo e lo spaghetti classico, con belle trovate di messa in scena. Cinico oltre il dovuto filmtv.it che gli da due stelle e lo definisce di quarto ordine. Più che sufficiente, invece, per imdb.com. Morandini non pervenuto. Il film più importante a uscire ad agosto, a parte gli eccelsi tortilla e nonostante il fatto che il regista in questione tenda a non considerarlo con affetto (in verità la pellicola è criticata da molti), è Una Pistola per Cento Bare a cui ho deciso di dedicare un'apposita scheda. UNA PISTOLA PER CENTO BARE Produzione: Italia-Spagna, 1968. Produttore: Salvatore Alabiso (Tritone Filmindustria), Norberto Solino e Eduardo Manzanos Brochero (Cooperativa Cine Espana-Copercines). Regia: Umberto Lenzi. Sogg. e Sceneg.: Umberto Lenzi, Marco Leto. Interpreti Principali: Peter Lee Lawrence, Piero Lulli, John Ireland, Franco Pesce, Eduardo Fajardo, Andrea Scotti, José Jaspe, Raf Baldassarre. Fotografia: Alejandro Ulloa. Musiche: Angelo F. Lavagnino Sottogenere: Revenge Movie. Durata 95 min. Giudizio: Mancini: ** Giudizio Morandini: Non Trovato.

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La trama Jim Slade (Lee Lawrence), soldato pacifista sudista, dopo aver scontato una condanna ai lavori forzati per essersi rifiutato di combattere sul fronte, scopre che la sua famiglia è stata sterminata da un gruppo di quattro delinquenti. Il ragazzo, del tutto inabile nel maneggio delle pistole a causa della sua fede religiosa (è testimone di Geova), impara a sparare e si mette sulle tracce dei quattro. Nel giro di poco tempo, uccide tre dei quattro elementi, mentre del quarto sa solo che si chiama Corbett (Piero Lulli). Determinato a uccidere anche l’ultimo uomo, Slade vaga di paese in paese per consultare le foto segnaletiche mostrate dagli sceriffi. Nessuno però sembra conoscere Corbett, finché un giorno, casualmente, gli appare davanti alla guida di una banda intenzionata a rapinare la banca del paese. Il proposito criminale non va in porto, perché il bottino (200.000 dollari) che Corbett pensava di poter rubare non è stato ancora depositato presso la banca. Il delinquente decide così di rinviare il colpo, non prima però di aver ucciso lo sceriffo locale. Slade coglie al volo l’occasione. Si fa assoldare dal sindaco per proteggere la banca e, aiutato da un predicatore forestiero (John Ireland) e da un vecchio becchino (Franco Pesce), si prepara per la resa dei conti finale. Le sorprese per Slade però sembrano non finire, perché a sterminare la sua famiglia c'era un quinto elemento, qualcuno di cui il giovane si fida ciecamente… Il commento Presentato da Salvatore Alabiso con un titolo poco appropriato (può erroneamente lasciar pensare che il protagonista debba uccidere cento persone), Una Pistola per Cento Bare è una pellicola che, analizzata superficialmente, sembrerebbe non aggiungere niente di nuovo. A sceneggiarla sono Umberto Lenzi e l'amico Marco Leto. I due propongono una storia che ruota attorno a un’idea centrale piuttosto classica (tema della vendetta), con personaggi e scene già viste soprattutto nei film di Sergio Leone, ma anche in Django (epilogo in un cimitero in mezzo alle croci) e ne I Giorni dell’Ira (il protagonista è un giovane inabile alle armi, che vuol imparare a usarle e alla fine diventa un pistolero paladino della giustizia). Più in particolare vengono citati Per un Pugno di Dollari (verso l’epilogo, il protagonista si mette a fare il doppio gioco; in più abbiamo la simpatica figura del vecchio becchino del paese che gioisce a ogni morte, perché può lavorare), 804 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Per Qualche Dollaro in Più (il bottino della banca viene sottratto dalla sua cassa all’insaputa dei criminali e nascosto dal protagonista in un luogo da essi non conosciuto) e Il Buono, il Brutto, il Cattivo (delinquente salvato dall’impiccagione con la corda tagliata dai colpi di pistola). Nonostante ciò, Lenzi crea un'atmosfera tale da rendere l'opera degna di nota, pur non essendo un masterpiece. La prima cosa da considerare è la presenza dietro alla macchina da presa di uno dei maggiori registi di azione (e non solo) del cinema italiano, appunto Umberto Lenzi. Classe 1931, Lenzi, dopo essersi laureato in legge a Pisa ed essersi diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia, si era fatto le ossa a partire dal 1955 alternando aiuto regie al servizio di specialisti del cinema di genere (tra i quali Vivarelli, Zurli e Paolella) e regie di film propri, prevalentemente spy story, avventurosi in salsa salgariana (Umberto Lenzi era un lettore vorace di Salgari), zorro movie e una paio di peplum, non di grande successo e valore artistico. I primi film a segnalarlo in modo deciso erano stati Kriminal (1966) e il macaroni combat Attentato ai Tre Grandi (1967), quest'ultimo distribuito dalla PEA. Dopo aver diretto i suoi due unici western (l’altro è il già analizzato Tutto per Tutto), darà inizio a una serie di film che lo porteranno a essere uno dei più grandi maestri del cinema di genere. La caratteristica principale di Lenzi è la sua versatilità. Si segnalerà come specialista numero uno dei c.d. V.I.P. thriller (con film quali Così Dolce… Così Perversa, Orgasmo, Paranoia e Spasmo girati nel triennio ‘68-‘71) - ovvero gialli ambientati in contesti sociali altolocati dove la corruzione e certi atteggiamenti di emulazione tipici di certi ambienti benpensanti sfociavano in delitti - quindi del c.d. macaroni combat con un trio di capolavori (La Legione dei Dannati, Il Grande Attacco e Contro 4 Bandiere, rispettivamente del 1969, 1977 e 1978) e infine del poliziottesco con perle quali Milano Odia: la Polizia non può Sparare (1974), Napoli Violenta (1976), Il Cinico, l’Infame e il Violento (1977), Da Corleone a Brooklyn (1978) nonché i più commerciali, ma comunque di calibro, Roma a Mano Armata (1976), La Banda del Gobbo (1977) e Il Trucido e lo Sbirro (1976). Con minor successo tenterà di cavalcare il thriller argentiano con pellicole come Sette Orchidee Macchiate di Rosso (1971) e Gatti Rossi in un Labirinto di Vetro (1974), gialli grandguignoleschi di minor qualità rispetto ai precedenti. Negli anni ’80 si specializzerà, contro voglia (Lenzi non amerà mai questi film, al punto da indispettirsi con alcuni fan che lo cercheranno proprio per 805 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

queste pellicole) ma con eccelsi risultati in termini di vendite, nel cannibal movie, genere peraltro lanciato da Lenzi stesso con Il Paese del Sesso Selvaggio (1972). Usciranno così, a stretto giro di posta, i vari Mangiati Vivi (1980) e Cannibal Ferox (1981), preceduti dall'horror Incubo sulla Città Contaminata (1980), pellicola in cui, per la prima volta, assisteremo alla presenza di creature simili a degli zombi che corrono e saltano (l'inglese Danny Boyle si ispirerà a Lenzi per ideare il capolavoro dei giorni nostri 28 Giorni Dopo). Seguiranno un altro manipolo di film non più al livello dei precedenti, spesso mediocri (non a caso lo stesso Lenzi inizierà a usare pseudonimi), complice il declino del cinema italiano. Di quest'ultima fase (una ventina di film) si salveranno in parte gli horror La Casa del Sortilegio (1989), Demoni 3 (1991), un falso sequel ambientato in Brasile e incentrato sulla macumba, e Paura nel Buio (1989). Ritiratosi nel 1996, avrà il grande merito di reinventarsi, con eccelsi risultati, scrittore di romanzi gialli con la serie del detective Bruno Astolfi, radiato dalla polizia per non aver preso la tessera fascista. Si tratta di storie ambientate nel mondo del cinema, tra il 1940 e il 1947, con giornalisti, attori, registi e sceneggiatori realmente esistiti. Dunque romanzi carichi di aneddoti, cura nelle ambientazioni storiche e con ottimi intrecci, che vi garantisco sono un'autentica prelibatezza per tutti i cinefili. Non a caso Lenzi dirà: “L'idea di questa serie è quella di raccontare attraverso dei romanzi di mistery il cinema italiano nel suo evolversi, dal 1940, periodo dei telefoni bianchi, al 1946 che fu l'esplosione del neorealismo. Ognuno di questi romanzi si svolge sul set di un film famoso.” La saga avrà inizio con Delitti a Cinecittà (ristampato di recente nella collana I Gialli Mondadori), cui faranno seguito altri cinque romanzi. In particolare non posso non parlare del quinto della serie: Spiaggia a Mano Armata (2012), ambientato negli studios Pisorno di Tirrenia (e Pisa), sul set del film Tombolo Paradiso Nero di Giorgio Ferroni, con tanto di frase di Quentin Tarantino in alto sulla copertina: “Lenzi è uno dei miei maestri. Sono un suo grande ammiratore.” Per un tirreniese come il sottoscritto tutto questo è un motivo d'orgoglio e ringrazio ancora Lenzi per aver parlato di Tirrenia a un pubblico internazionale. La presenza di un regista importante come Umberto Lenzi è sufficiente a giustificare la visione del film. Rispetto a Tutto per Tutto si segnalano delle idee embrionali che saranno sviluppate nel corso della filmografia del maestro. Infatti, introdotte per un mero scopo dila806 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tatorio e forse poco coordinate al tema principale, vengono proposte una serie di scene che vedono protagonisti un gruppo di matti rinchiusi in un carcere/manicomio. Il gruppo, nel corso della storia, riuscirà a evadere dalla cella e a mettere a ferro e fuoco il paese, con momenti che rievocano atmosfere horror (con atti incendiari e uccisioni provocate da colpi di accetta). Molto particolare sarà il finale, in cui si assiste a una sorta di resurrezione del leader dei pazzi (il bravo Eduardo Fajardo) che si avvinghierà al collo di uno dei due protagonisti (scena che da Halloween di John Carpenter diverrà un classico dello slasher movie, e qua già introdotta seppure in forma confusa). A parte questo e una girandola di colpi di scena finali che porteranno il regista a definire il film come un “thriller mascherato da western”, c'è poco altro da segnalare se non le bizzarre caratterizzazioni del duo protagonista. Lee Lawrence è un testimone di Geova che lotta contro i suoi ideali per vendicare la famiglia, fino a stravolgere la sua personalità. Sarà assai amara la sua battuta finale, quando dirà: “Ormai non posso più bere acqua” (per tutto il film ha sempre ordinato acqua al bancone del saloon). John Ireland, l'antagonista, è invece un falso predicatore che va in giro a leggere passi della bibbia, per poi uccidere senza tanti tentennamenti (soggetto precursore, anch’esso in forma embrionale, del Jules Winnfield interpretato da Samuel L. Jackson in Pulp Fiction di Quentin Tarantino). Da un punto di vista tecnico, Lenzi gira con mano sicura pur non evitando una certa frammentazione nella prima parte (troppe scene di raccordo) e qualche inverosimiglianza verso l'epilogo, anche a causa di qualche difetto di sceneggiatura. A esempio è inverosimile il modo in cui il protagonista finge di passare dalla parte dei banditi. Qualitativo il cast artistico con un trio di attori (Lulli, Ireland e Lee Lawrence) non di secondaria importanza. Colonna sonora (Angelo F. Lavagnino) non tra le migliori, fotografia (Alejandro Ulloa) non eccelsa ma neppure mediocre. Nel complesso un western poco originale, ma con idee embrionali che saranno sviluppate in altri contesti fino a diventare dei veri e propri tormentoni. Per quest'ultimo motivo è da rivalutare. La pellicola non viene apprezzata dai critici. Il Morandini addirittura la ignora. Gli da due stelle filmtv.it, reputandolo uno dei film meno convincenti di Lenzi, opinione che non condivido affatto. Insufficiente anche per gli utenti di imdb.com (cinque e mezzo in pagella). 807 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Lo stronca 800spaghettiwesterns.blogspot.it che addirittura rifila un due come voto alla storia, salvando solo le interpretazioni e la musica di Lavagnino. È in linea col sottoscritto il solo spaghettiwestern.altervista.org per il quale è western molto apprezzabile, seppur narrativamente poco coerente. Per gli amanti delle citazioni: 1) Che significa “una pistola”? Si dice Colt, Smith & Wesson, Derringer. Chiedere “una pistola” è come chiedere “un quadrupede”: può essere un cane, un gatto, un cavallo… Un altro western importante, perché da esso nascerà una vera e propria saga è ...Se Incontri Sartana, Prega per la Tua Morte. … SE INCONTRI SARTANA, PREGA PER LA TUA MORTE Produzione: Italia-Germania, 1968. Produttore: Aldo Addobbati (Paris Etoile Films), Parnass Films. Regia Gianfranco Parolini (Frank Kramer). Soggetto: Adolfo Cagnacci, Luigi De Santis, Fabio Piccioni, Guido Zurli. Sceneggiatura: Gianfranco Parolini, Renato Izzo, Werner Hauff. Interpreti Principali: Gianni Garko (John Garko), William Berger, Klaus Kinski, Fernando Sancho, Franco Pesce, Sal Borgese, Andrea Scotti (Andrew Scott). Fotografia: Sandro Mancori. Musiche: Piero Piccioni. Sottogenere: Caccia al tesoro. Durata 97 min. Giudizio Mancini: ** Giudizio Morandini: * La trama Una bara carica d’oro attira l’attenzione di un gruppo di messicani guidati da Tampico (Sancho), ma il malloppo fa gola anche a Lasky (Berger), un brigante senza scrupoli, e ad alcuni corrotti benestanti. Su tutti però incombe l’ombra di Sartana (Garko), a sua volta braccato da un ulteriore bandito ben vestito (Kinski). Il pistolero studierà i 808 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

movimenti dei rivali, preparandosi a mettere le mani sul carico non prima di vedere sterminare gli avversari l'uno con l’altro. Commento Pellicola girata nelle campagne vicino a Roma, con poco meno di centocinquanta milioni di budget, capace poi di incassare miliardi al punto da diventare un autentico cult con quattro sequel ufficiali e una dozzina di apocrifi. Prodotto da Aldo Addobbati e diretto da Gianfranco Parolini, in sostituzione di di Guido Zurli escluso dalla regia a poco meno di un mese dall’inizio delle riprese perché in disaccordo con la produzione, Se Incontri Sartana è un western che riprende gli stilemi leoniani, miscelandoli ad altri che fanno della bizzarria la loro forza. Parolini, infatti, mantiene l’impronta seriosa, tanto che non manca chi definisce il film un western gotico, senza inserire quel tocco da farsa che contraddistinguerà i Sartana di Carnimeo. Chi lo ritiene un western gotico fa leva sul fatto che vengono mostrate continuamente bare, cadaveri riesumati, croci funebri, c'è persino un laboratorio di un becchino ben realizzato dallo scenografo Giorgio Desideri. Il protagonista, il pistolero Sartana, è un personaggio sui generis. Viene presentato come una sorta di fantasma riemerso dal passato. Non a caso, a inizio film, una donna risponde alle rassicurazioni del marito circa la figura scura che segue la diligenza su cui i due stanno marciando, con la frase: “strano mi era sembrato un fantasma.” Per caratterizzarlo gli sceneggiatori si ispirano al personaggio dei fumetti Mandrake, mago nato dalla penna di Lee Falk nel 1934. Sartana ne prende gli abiti eleganti rigorosamente scuri (esaltati dal fatto che cavalca un cavallo bianco), il mantello nero foderato al suo interno di rosso, un anello pacchiano con una gemma nera e non da ultimo le abilità da prestigiatore. Nel fumetto Mandrake era un illusionista e un investigatore che utilizzava le sue abilità per scovare i criminali e assicurarli alla giustizia. In particolare ipnotizzava i suoi avversari, portandoli a credere di vedere qualcosa che in realtà non esisteva. L'elemento dell'investigazione e del taglio giallo tipico del fumetto diverrà evidente nei sequel di Carnimeo, Parolini preferisce restare sui terreni battuti anche se introduce il canovaccio che caratterizzerà l'intera saga. Il critico Luca Beatrice, opinione poco comprensibile visto che il personaggio non agisce mai per malvagità, vedrà in Sartana Lucifero 809 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

o un Angelo del Male. La penserà diversamente Gianni Garko, che interpreterà quattro volte il personaggio alternandosi a George Hilton, il quale affermerà:“Sartana appare come un divertito semi-Dio vincitore sulla morte. Una sorta di Superman, con speroni e winchester.” Difatti, a differenza dei soliti pistoleri, Sartana non va mai in difficoltà, non subisce pestaggi, controlla sempre tutti e si prende gioco degli antagonisti confezionando persino trappole dal retrogusto vietnamita (corde che aziona a comando e che imprigionano i malcapitati sollevandoli in aria a testa all'ingiù). Il nome del personaggio arriva da 1.000 Dollari sul Nero (1966), pellicola diretta da Cardone, dove era già presente un antagonista chiamato Jerry Sartana, interpretato proprio da Gianni Garko. Le analogie tra i due personaggi si fermano qui. Peraltro è da sottolineare che Robert Rodriguez, nel suo Machete, inserirà un personaggio chiamato Agente Sartana, interpretato da Jessica Alba, al fine di omaggiare la saga di Garko. Agli elementi dark, come abbiamo premesso, si miscelano quelli di derivazione leoniana. Sartana è un giocatore professionista, che ricorre a furbizie e a stratagemmi che poco hanno a spartire col “filone gotico”. Soggetto e sceneggiatura coinvolgono ben sette teste tra i quali gli elementi di maggior calibro, insieme ad Adolfo Cagnacci - qui al suo primo film di genere e ultimo della carriera (in precedenza aveva lavorato per registi quali Petri e Bertolucci) - sono Renato Izzo, che aveva già all’attivo una collaborazione western con Lizzani in occasione di Requiescant e che in seguito firmerà script di interessanti film sia western (Ehi Amico, c’è Sabàta: Hai Chiuso”, Indio Black...) che thriller (L’Ultimo Treno della Notte), e Fabio Piccioni che nel 1967 aveva svolto il lavoro di aiuto regista in western diretti da Carnimeo (Il Momento di Uccidere) e Mulargia (Prega Dio e Scavati la Fossa). Tale dispiegamento di materia grigia porta però a una grande confusione, cui si cerca di compensare abbondando con sparatorie e morti. Il plot propone il tema della ricerca di un tesoro conteso da una lunga serie di personaggi che raggiungono accordi fittizi tra loro allo scopo di prendere tempo e far eliminare gli avversari. Tradimenti, avarizia, amori falsi, trappole si susseguono in continuazione orchestrate dai vari soggetti. Su tutti grava l'ombra di Sartana che alla fine, 810 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dopo un'interminabile sequela di colpi di scena, farà in modo di vedersela con l'unico avversario rimasto: l'austriaco William Berger. A fare la differenza è l’attenta regia di Parolini che, pur abusando con lo zoom, cura i particolari in virtù di moltissimi primi piani su speroni, stivali, carillon, occhi, pistole e via dicendo. Altissimo il ritmo per buona metà d'opera, anche se tende ad affievolirsi alla distanza per effetto di sequenze ripetitive. Bellissima la sparatoria iniziale, grazie alle trovate visive ricercate da Parolini, il quale opta per la soggettiva di Sartana. Vediamo la pistola apparire in basso, quindi abbiamo un stacco di montaggio con un piano americano di Garko che termina i rivali con un winchester. A tal riguardo è piuttosto palese l'omaggio a Per Qualche Dollaro in Più (il riferimento va al duello Van Cleef vs Kinski), in quanto vediamo Gianni Garko tenere un'arma in vista (un winchester tenuto con la canna poggiata sulla spalla) davanti ai rivali che poi va a falciare sfilando una pistola tenuta celata sotto la giacca. Di spessore inoltre la scena in cui Sartana, dopo aver vinto una partita a poker, fa fuori un gruppo di bulli facendo scivolare, con un rapido movimento della mano, una Derringer dal polsino. Non di secondaria importanza sono alcune caratterizzazioni innovative riprese dalla saga 007 (si noti la proposizione di un filtro applicato sull'obiettivo della macchina da presa per rappresentare la soggettiva da un particolare cannocchiale applicato su un fucile) e dal personaggio James Bond. L'omaggio più evidente è la Derringer a quattro canne usata da Sartana, con un tamburo che raffigura i semi delle carte da gioco. Al di là di queste simpatiche trovate, Parolini e i suoi sceneggiatori attingono a piene mani dal mondo leoniano. Troviamo il solito vecchio becchino del paese che simpatizza per lo straniero senza nome. “Non mi hai ancora detto chi sei” dirà alla fine il becchino, ascoltando la beffarda risposta di Sartana: “Sono un becchino di prima classe”. Sempre scuola Leone è il duello finale, in cui Parolini utilizza un sacco di sabbia a mo’ di clessidra (in Per Qualche Dollaro in Più a scandire il tempo c’era la musica di un carillon, presente anche quest'ultimo come elemento di disturbo psicologico). Richiama invece Per un Pugno di Dollari la presenza di un bandito che uccide gli avversari colpendoli sempre in un dato punto (nella fattispecie la testa, al posto del cuore). Come Gian Maria Volontè, il manigoldo resterà basi811 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

to nel veder rialzarsi Sartana. Quest'ultimo, conoscendo il cruccio del rivale, calzerà una protezione di metallo applicata sotto il cappello. Non mancano poi le partite a poker (Sartana abile nel maneggio delle carte tanto quanto il mago Binarelli), i carillon che rievocano assassinii passati, bounty killer, denaro che sparisce dalle casse in cui era custodito e via dicendo. Segnalo, durante una partita a poker, l'escamotage utilizzato da Berger per sbirciare i punti degli avversari, lo stesso infatti pone una tabacchiera a specchio al centro del tavolo e ci passa sopra le carte durante il loro smistamento (naturalmente Sartana non si farà fregare). Nonostante i difetti, Parolini dimostra di essere un regista maturo, a dimostrazione di una carriera quasi ventennale da aiuto regista prima e da regista di peplum e di un paio di western di scarso successo poi: Johnny West, il Mancino (1965) e Sette Donne per una Strage (1966). È proprio grazie a Sartana che Parolini riuscirà a imporsi nel panorama internazionale, tanto che lo ritroveremo protagonista con spaghetti western dal budget importante. Il regista romano viene agevolato nel lavoro da un cast artistico non penalizzato dagli scarsi fondi. Parolini può contare su un gruppo di attori collaudati nel genere e di sicuro rendimento. Nei panni del protagonista viene scelto Gianni Garko, imposto alla produzione da Guido Zurli che poi non girerà il film. Garko è perfetto per il ruolo, lo comprende subito anche Parolini che non ne chiede la sostituzione. L'attore, dal canto suo, partecipa attivamente alla caratterizzazione del personaggio. Propone suggerimenti e otterrà quel successo meritato che lo porterà a essere uno dei volti più reclamati dello spaghetti western, soddisfazione meritata dopo una carriera che lo aveva visto all’opera in molteplici film, ma quasi mai con ruoli importanti se si eccettuano il macaroni combat Cinque per l’Inferno (1968) e il già citato 1.000 Dollari sul Nero (1966). Tra i cattivi troviamo tre volti tipici dello spaghetti western: l’austriaco William Berger, l’ispanico Fernando Sancho e il freddo polacco Klaus Kinski, tutti l’uno contro l’altro perché impegnati a mettere le mani sul carico d’oro. Kinski è il migliore, ma purtroppo viene chiamato a interpretare un personaggio di contorno. Bene Berger, è invece meno incisivo del solito Sancho nel suo canonico ruolo di generale rivoluzionario messicano. Presenza fugace per Sal Borgese, che qui collabora soprattutto come stuntman. Franco Pesce, invece, è chiamato a ricoprire le vesti del becchino ubriacone e lo fa assai bene. 812 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Un altro importante pregio della pellicola è la fotografia di Sandro Mancori (ampio ricorso alle luci corrette da filtri celesti), che raggiunge il suo apice nel duello finale, quando pone una lampada rossa che dondola in un contesto in cui Berger e Garko sono avviluppati da un buio squarciato dal un flebile barlume purpureo. Non memorabile la colonna sonora di Piero Piccioni, visto che il sound ci sembrerebbe più adatto a un thriller erotico. In conclusione, un po’ come i successivi Sartana, siamo alle prese con un film di esclusivo intrattenimento. Parolini non vuole scavare nella coscienza dello spettatore, né proporre dialoghi romantici o scene crepuscolari. Tutto ruota attorno a una canaglia che gioca d’astuzia e di intelligenza e che, alla fine, sfrutta il gioco al massacro del tutti contro tutti, spuntandola su una concorrenza agguerrita e avendo per sé il carico d’oro oggetto di discordia. Marco Giusti, a ragione, non lo reputa un capolavoro e si stupisce che abbia avuto il successo che ha avuto. La pensa in modo diverso il francese Jean-François Giré che, dal punto di vista qualitativo, lo antepone ai successivi western di Parolini (a mio avviso i due Sabàta e Indio Black saranno di gran lunga superiori). Lo stesso regista ne ha un caro ricordo, anche perché è il film che gli permetterà di fare il salto dai low budget alla PEA. “Classico dei western italiani oltre che uno splendido film” è il commento di spaghettiwestern.altervista.org. Il più entusiasta di tutti è lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it il quale gli da un otto complessivo in pagella, con addirittura un dieci alle scenografie e un nove alla regia, spendendo poi parole di critica (condivise dal sottoscritto) per la colonna sonora di Piero Piccioni giudicata blanda. È un po' deluso invece fistfulofpasta.com, il quale, anch'egli a ragione, confessa di aver avuto difficoltà nel seguire la trama trovando comunque ottimo Garko (“ha un sorriso incantatore”). Bocciature da filmtv.it, che definisce il personaggio protagonista del film lo spaghetti-giustiziere per eccellenza, e dal Morandini che non va tanto per il sottile nel reputarlo rozzo e carico di effettacci. A ogni modo, per un appassionato del genere, è da vedere per cultura personale. I western di Lenzi e Parolini vengono seguiti da un lotto di produzioni da terza fascia. 813 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Vincenzo Musolino, produttore e co-sceneggiatore di quattro western di Edoardo Mulargia, decide di lanciarsi alla regia (sotto lo pseudonimo di Glenn Vincent Davis) e produce Chiedi Perdono a Dio... Non a Me (1968), sequel del precedente Cjamango (1967) portato in scena da Mulargia. La scelta viene determinata dal forfait del regista sardo e si rivela alquanto azzeccata, quantomeno sotto il profilo tecnico. Musolino girerà un altro western, il meno riuscito Quintana, prima di morire prematuramente, nel 1969, a trentanove anni. Nato come attore di secondo piano all'inizio degli anni '50, aveva tentato la via della produzione debuttando col pessimo Gli Invincibili Fratelli Maciste (1964) di Mauri, producendo poi i western di Mulargia. Nell'occasione Musolino fa tutto per conto suo, scrive anche la sceneggiatura (qualcuno lo mette in dubbio ma non ci sono prove contrarie) e ingaggia un plotoncino di attori di terza scelta, ma con un certo alone di culto. Giorgio Ardisson è l'incazzoso protagonista che vuole vendicare la famiglia sterminata da una banda di delinquenti capitanati da Dragomir Gidra Bojanic (in arte Anthony Ghidra). Informato da un bizzarro bounty killer messicano interpretato da Ignazio Spalla (che gli rivelerà l'identità degli assassini), ucciderà uno a uno tutti i banditi, col bounty killer che recupererà i cadaveri riscuotendone le taglie. Veloce cammeo di Pietro Martellanza (alias Peter Martell) nei panni del fratello di Ghidra. Tra i banditi, oltre a Riccardo Pizzuti e Remo Capitani, figura anche il caratterista siciliano Gaetano Cimarosa, giustiziato in stile mafioso da Ardisson che gli spara un colpo in piena bocca mentre l'altro invoca il perdono (scena tagliata nella versione da me visionata, ma che all'epoca valse il divieto ai minori di 18 anni). Da segnalare che Cimarosa arriva direttamente dal cast de Il Giorno della Civetta (1967), dopo esser stato lanciato da Franchi & Ingrassia. Lavorerà in seguito in svariate pellicole comiche al fianco di Alberto Sordi, oltre che in film diretti da Loy, Zampa e Scola. Diverrà infine un attore feticcio di Damiano Damiani e Giuseppe Tornatore. Personalmente lo ricordo ne L'Esorciccio (1975) nei panni del rivale politico di Lino Banfi. A partire dal 1975 tenterà la carriera di regista, con modesti risultati. Non lavorerà più in un western. I motivi di interesse della pellicola sono da ricercare nella regia e nelle interpretazioni. La storia infatti è minimale (dialoghi quasi assenti) e tutta incentrata sulla vendetta. Musolino propone poi le inflazionate sequenze del pestaggio ai danni del protagonista (ottimo il 814 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

make up), con relativo imprigionamento e successiva fuga. L'unico personaggio caratterizzato è quello di Ignazio Spalla, accreditato col solito pseudonimo di Pedro Sanchez. Lo vediamo seguire il protagonista come un avvoltoio e intervenire per sottrarre i corpi delle vittime. Spalla è eccezionale nella prova recitativa, in un misto di comicità e di ironia macabra. Bombetta in testa, look alla Sancho, sghignazza e inganna i parenti degli uccisi promettendo funerali e sepolture che poi non farà. Il suo unico scopo è riscuotere le taglie dei rivali di Ardisson, sfruttando quest'ultimo come killer. “Non occorre essere bravi con la pistola. Utilizzare il cervello è molto più importante” rivelerà allo sceriffo, stupito per il carico di morti presentati dal messicano. Gli altri personaggi sono banali, a parte quello di Martellanza: un ubriacone violento che purtroppo (vista la bravura del bolzanino) finisce presto ammazzato. Ardisson è più convincente del solito. Non ride mai, non lascia trapelare emozioni e fa davvero paura con i suoi modi insensibili e brutali. Alla fine deciderà di metter su famiglia, ma solo dopo aver compiuto un massacro finale da far invidia a Django: una mattanza perpetrata con una mitragliatrice, con manovella manuale azionata da Ignazio Spalla. Male Ghidra, autore di una delle sue più anonime interpretazioni (complice la totale mancanza di caratterizzazione del suo personaggio). Buona la regia. Sebbene penalizzato da un budget ridotto all'osso, Musolino dimostra una carica inventiva sorprendente, non disdegnando sperimentalismi. La macchina da presa viene spesso collocata a terra con obiettivo posizionato verso l'alto, ci sono inoltre molte inquadrature oblique e altre con personaggi ripresi in modo parziale e anomalo. Piuttosto serrati il ritmo e il montaggio, tanto che non c'è un attimo di pausa. Ritmatissima anche la colonna sonora di Felice Di Stefano. In alcune versioni sembra che ci sia un prologo, ambientato in un cimitero, in cui un Ardisson invecchiato da consigli a un giovane in cerca di vendetta, nel tentativo di dissuaderlo a intraprendere la catena omicida (la vendetta è una spirale infinita di morte). Da tale sequenza si innescherebbe poi tutto il film, vissuto in una sorta di flashback. Si tratta quindi di un western disperato, angoscioso, ben diretto e interpretato. Purtroppo lo script è mediocre, privo di spunti innovativi. Esce inosservato nei cinema a causa di una distribuzione medio815 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cre, ma avrà comunque un sequel apocrifo: Adiòs, Cjamango (1971) di Zabalza. Ne consiglia la visione spaghettiwestern.altervista.org, a differenza di filmtv.it che fa dell'ironia: “dovrebbero essere gli attori di questo film a chiedere perdono a Dio e agli incauti spettatori, senza nessuna certezza di venire assolti!” Più equo e condivisibile 800spaghettiwesterns.blogspot.it, il quale fa notare quanto il misero budget abbia inficiato una buona idea iniziale, peraltro non sviluppata a dovere dalla sceneggiatura. Cinque e mezzo il voto finale. Da vedere per chi non è mai sazio di spaghetti western. Il calabrese Nick Nostro, dopo il pessimo Un Dollaro di Fuoco (1966), torna allo spaghetti western con Uno Dopo l'Altro (1968) trincerandosi dietro il nome di Nick Howard. Questa volta può beneficiare di una solida produzione facente capo a Bino Cicogna, che ritroveremo addirittura in occasione de I Quattro dell'Ave Maria (1968) e di C'era una volta il West (1968) di Sergio Leone. L'impegno di Cicogna, qua al debutto, con registi di prima fascia fa sì che a Nostro vada una piccola porzione di budget, ma in compenso gli garantisce un'ottima distribuzione e le location in Almeria. Il copione lo firmano il regista e il collaudato Giovanni Simonelli, i quali confezionano una storia poco originale seppur con qualche caratterizzazione interessante. Ritroviamo Richard Harrison protagonista, chiamato a dar corpo a un forestiero ingaggiato dagli abitanti di una cittadina per far fronte a una banda di messicani colpevoli di aver assaltato la banca del sempre bravo José Bodalo. Il nostro si metterà a indagare, scoprendo che il colpo è stato eseguito da un gruppo di delinquenti, al soldo proprio di Bodalo, travestiti da messicani in modo da far ricadere la colpa su questi. Segue il regolamento di conti, con i vari componenti della banda uccisi uno dietro l'altro, e una girandola di colpi di scena tipica del genere. Niente di nuovo, se non il look e l'atteggiamento taciturno del protagonista, che se ne va in giro con una scorta di occhialini tanto da essere paragonato da alcuni critici al cantante Albano Carrisi. Cast artistico povero. Oltre ai citati si segnala la presenza di Pamela Tudor e di José Manuel Martin (è il capo dei messicani ingiustamente accusati). Bruttine le musiche di Berto Pisano e di Fred Bongusto. 816 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Discreto incasso al botteghino, specie in rapporto ai capitali investiti. In seguito non avrà comunque fama. Nel complesso è piuttosto ripetitivo nel mostrare scazzottate e pestaggi, con una fotografia di Mario Pacheco inadeguata e un ritmo troppo altalenante. Non lo salvano le buone prove di Harrison e Bodalo. È poco convinto del risultato finale (“schemi standard... storia piatta seppur con belle sequenze di azione e di violenza”) persino spaghettiwestern.altervista,org, secondo il quale la regia sarebbe di Ignacio F. Iquino (!?). Irritante per filmtv.it, una stella e mezzo per il Morandini. Opinioni assai divergenti all'estero. 800spaghettiwesterns.blogspot.it (cinque e mezzo il voto) lo definisce divertente, grazie ad alcuni violenti combattimenti, ma troppo lento nella prima parte. “Western sottovalutato” per sonofdjango.blogspot.it che ne sottolinea l'azione, la componente umoristica e la sussistenza di una serie di colpi di scena ben orchestrati. Superiore alla media per fistfulofpasta.com. Tom Betts parla addirittura di “piccolo gioiello da recuperare.” Al di là dei discorsi siamo in bassa serie B, diciamo in zona retrocessione. Pur essendo figlio di una modesta produzione, gode di una certa fama Execution (1968), western dal bizzarro sapore orientale. Il progetto viene portato avanti da Fernando Franchi e Giancarlo Zagni. I due, solitamente impegnati in tutt'altre tipologie di film, si trovano costretti a ripiegare sul cinema di genere per recuperare le somme perse in Lady Macbeth, film naufragato prima di vedere la luce nonostante l'ingaggio di attori del calibro di Robert Hossein. Zagni è un affermato regista, soprattutto teatrale, con cinque pellicole alle spalle e un importante riconoscimento in bacheca: il Leone di San Marco al Festival di Venezia per la regia del film per ragazzi Testa di Rapa (1966). È maturato dapprima alla corte di Luchino Visconti in veste di assistente alla regia, sia in teatro che al cinema, in opere quali Senso (1953), poi negli Stati Uniti presso l'Actor's Studio. Chiuderà la carriera nel mondo del cinema proprio dopo Execution, preferendo tornare al teatro. Fernando Franchi è invece legato al mondo tecnico finanziario. Manager di produzione al fianco di Zagni in La Bellezza di Ippolita (1962), era passato col medesimo ruolo a un 817 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

paio di film di Pier Paolo Pasolini, tra cui Uccellacci e Uccellini (1966), e a L'Avventuriero (1967) di Terence Young. Sia Zagni che Franchi sono estranei al cinema bis, anche se il secondo tornerà in rare circostanze a interessarsi di b-movie, sempre con ruoli da manager di produzione, con opere quali lo slasher Reazione a Catena (1971) di Mario Bava e con le produzioni marcate Dario Argento Due Occhi Diabolici (1990) e La Setta (1991). I due producono Execution per ragioni commerciali, a tal fine si accordano anche per un secondo progetto (Black Jack). Nella società viene coinvolto l'israeliano Alexander Hacohen, al debutto assoluto nel cinema (produrrà altre nove pellicole di basso profilo). Zagni vuole sfruttare le location israeliane, inoltre Hacohen gli garantisce i set e la fornitura dei cavalli (dei purosangue arabi!?), prestati direttamente dall'esercito israeliano. L'obiettivo è fare cassa spendendo poco, per tale ragione Zagni, pur scrivendo la sceneggiatura insieme al fido Franchi (qua al suo unico copione), lascia la regia al collega Domenico Paolella, reduce dal soddisfacente incasso di Odio per Odio (1967). Nasce così uno spaghetti-western a basso budget, piuttosto strano sia per la presenza dei Purosangue Arabi (distinguibili per la postura incurvata della coda), sia per alcune stravaganze quali un protagonista (John Richardson) che si trova a ricoprire due ruoli nella medesima scena (con tanto di dialoghi tra i due personaggi). Tra le idee curiose troviamo inoltre l'introduzione di alcuni pistoleri che simulano di sfidarsi a duello, sparandosi contro e stramazzando a terra apparentemente morti, per poi alzarsi mostrando agli spettatori proiettili a salve e salsa di pomodoro. Non manca la violenza, rappresentata da una bizzarra tortura messa in atto dal capobanda messicano (caratterizzazione stereotipata): fa ferire le vittime attraverso un lazzo collegato a una palla uncinata, applicando poi delle sanguisughe sui tagli (!?). Assurda infine l'idea delle taglie che scadono trascorsi cinque anni dalla loro emissione e che possono esser riscosse solo da soggetti autorizzati alla professione di bounty killer. Se si eccettuano le trovate appena elencate, il soggetto non brilla per originalità e non ci sono dialoghi graffianti. La storia vede un ex bandito (Domenico Palmara) uscire di carcere dopo aver scontato una pena per rapina. L'uomo, munito di apposito mandato di cattura, si pone sulle tracce dell'ex socio che lo ha inca818 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

strato. Lo vuole arrestare per intascare la somma di 5.000 dollari previsti dalla taglia, ma anche per recuperare il carico d'oro rapinato. La taglia però sta per scadere di validità... Individuato l'uomo, il cacciatore di taglie decide di imprigionarlo, ma non sa di avere a che fare col fratello del ricercato (John Richardson). Sui due intanto cala l'attenzione di una banda di messicani, guidati da un folle (Nestor Garay) intenzionato ad appropriarsi del malloppo scomparso e che tutti pensano essere nelle mani di Richardson. Così ricercato e cacciatore finiranno preda delle torture dei messicani determinati ad acquisire informazioni sul carico. Questa, in breve, la sinossi, impreziosita da un interessante tocco apocalittico esaltato da un costante vento e dalla spettrale atmosfera di un paese completamente abbandonato. Epilogo con la febbre dell'oro che porta i vari personaggi a schierarsi l'uno contro l'altro, in barba ai rapporti di amicizia o di parentela, con tragiche conseguenze determinate dall'alto senso di giustizia del protagonista che respinge ogni offerta pur di restituire l'oro alle autorità. A proposito di protagonista, fino a metà film si stenta a capire chi debba ricoprire questo ruolo. L'impressione è che sia Palmara a dover prevalere su Richardson, anche perché il personaggio di quest'ultimo è decisamente ambiguo, ma è un impressione... Nonostante quanto detto e una certa lentezza nell'evolversi della vicenda (non mancano tra l'altro buchi narrativi, basti vedere la distorsione temporale che c'è a fine film), Execution si salva per merito delle sortite da cult movie sopraccennate, ma soprattutto grazie all'ottimo lavoro di Domenico Paolella dietro alla macchina da presa. Il foggiano plasma un taglio da pulp movie. Si diletta con lo zoom in e zoom out e con i primissimi piani, specie sugli occhi. Belle poi le inquadrature di specchi usati per riprendere individui che si spostano lontani dall'attore inquadrato in piano americano, e ancora soggettive, giochi di messa a fuoco e via dicendo. Curatissimo il make up con sangue acceso che cola dalle ferite e attinge il suolo. Simpatici i fumettistici titoli di apertura con Paolella che, per tutto il corso dei credit, predispone un camera car inquadrando in primo piano, sulla destra del monitor, l'incollatura di un cavallo al galoppo facendo poi comparire le scritte sul lato opposto. Per gli amanti dei dejà vù è presente un'autocitazione, da Odio per Odio, con il protagonista che, da solo, falcidia una banda di delinquenti sparando con una 819 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

serie di armi (fucili e pistole) manovrate a distanza attraverso corde collegate ai grilletti. Povero il cast artistico. C'è un buon John Richardson (al suo ultimo western), giudicato autore di una grande interpretazione da Tom Betts. Lo ritroviamo in prima linea dopo John il Bastardo (1967) di Crispino. Più che sufficiente Piero Vida (ruolo più ampio del solito), gli altri stentano, a partire dall'inespressivo Domenico Palmara (in una delle peggiori performance della sua carriera) per proseguire con uno scialbo Néstor Garay, pescato direttamente dai serial televisivi italiani in cui era apparso con ruoli ultra marginali (avrà un futuro da comparsa nel cinema italiano lavorando, fino al 2001, in una ventina di film), in un ruolo alla Fernando Sancho (ma senza esser dotato di capacità istrioniche). Caldissima la fotografia. La cura Aldo Scavarda, operatore di macchina dei primi anni '50, futuro vincitore del Nastro d'Argento con Grazie, Zia (1969) di Salvatore Samperi, e già apprezzato con una nomination nel '61 per la fotografia de L'Avventura di Michelangelo Antonioni. Scavarda cerca di massimizzare le polverosissime e soleggiate lande desertiche israeliane, ottenendo l'apprezzamento del Morandini (bella fotografia, commenta). Negli anni '70, dopo aver collaborato con registi del calibro di Bertolucci, Bolognini, Comencini, Soldati e Zampa, si inventerà produttore di un trio di film tentando anche la carriera di regista che si arresterà subito dopo il debutto avvenuto con La Linea del Fiume (1976) Non impressionano le convenzionali musiche di Lallo Gori. Il film, tutt'oggi, resta un prodotto di nicchia apprezzato da vari esperti del genere. Tom Betts lo porta a esempio per dimostrare la possibilità di realizzare un buon film a basso budget; Jean Giré invece ne intravede un controcorrente rifiuto della violenza, opinione quest'ultima sottoscritta dallo stesso regista. Piuttosto sorprendente è il pollice alzato di filmtv.it, il quale attribuisce quattro stellette al film (western teso e insolito) con un grosso plauso al regista definito colto e preparato. Due stelle per il Morandini che, tuttavia, esprime opinioni positive: ordinaria amministrazione, ma diretto con pulizia e senza eccessi efferati. Tra i detrattori figura spaghettiwestern.altervista.org, il quale boccia il film, dalla regia (film mal narrato e mal girato), alle interpretazioni (Richardson convince poco), passando dalla sceneggiatura (poco 820 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

avvincente). Secco rifiuto anche per l'anglofono mondo-esoterica.net che ritiene inadeguate la sceneggiatura e la regia, annoverando il prodotto tra i western completamente da dimenticare, prodotti unicamente per fare cassa. Insufficienza grave per gli utenti di imdb.com per i quali Execution non raggiunge il cinque in pagella. Non annoverato nel corposo database di 800spaghettiwesterns.blogspot.it. Dunque una pellicola controversa. A mio avviso vale meno di quanto affermino gli appassionati, a causa di una prima parte lentissima e non innovativa, ma è fuori di dubbio che si riscatti con un fascinoso e melodrammatico epilogo. Superiore rispetto al primo western di Paolella (ha delle trovate che faranno sicuramente piacere agli amanti del bizzarro), sarà superato dal secondo western prodotto da Zagni ovvero Black Jack (1968) che uscirà due mesi dopo. Ancora legato a Luciano Martino e ai produttori del precedente Per 100.000 Dollari t'Ammazzo (1967), torna al western Giovanni Fago. Il film è Uno di più all'Inferno (1968), scritto sempre da Ernesto Gastaldi e da Luciano Martino. Fago beneficia di uno script inferiore rispetto a quello del debutto. George Hilton prende il posto di Gianni Garko, inoltre i toni cupi vengono sostituiti da una primissima parte tendente al comico. Protagonista è una coppia di bizzarri banditi, uno effeminato (Hilton) l'altro ballerino (Paolo Gozlino). I due si conoscono in carcere e una volta evasi mettono a segno una rapina. Intanto la morte del padre di Hilton porta quest'ultimo a cercare vendetta. Sotto i colpi dell'attore uruguaiano cadranno i soliti cattivi arroganti Paul Muller e Gerard Herter (il quale ha il suo solito ruolo di nobile appassionato della caccia), che hanno l'abitudine di trattare i peone come cavie dei loro sadici divertimenti. Sceneggiatura macchinosa e dai tratti altalenanti (si passa dallo scanzonato al cupo), con svariati intrecci intercorrenti tra i personaggi determinanti ai fini dello sviluppo della narrazione. Il primo di questi è l'amore che scoppia tra Hilton e la donna (Claudie Lange) di un bandito (Carlo Gaddi) facente parte della banda del protagonista, con inevitabile scontro tra i due uomini. Il secondo è l'uccisione del padre di Hilton perpetrato dai bulli di paese che sono intenzionati a strappargli la proprietà terriera. Hilton, prima di scontrarsi con questi ulti821 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mi, dovrà vedersela pure con il suo compagno di avventura interpretato da Gozlino. Complice l'invasione di western, la pellicola non riscuote alcun successo e si segnala tra i peggiori western griffati Martino. Si segnala la presenza di Sergio Martino in qualità di organizzatore generale e di Michele Massimo Tarantini in quella di aiuto regista. Bella la musica di Nico Fidenco, reputata trascinante dal tedesco allesglotzer.blogspot.it. Non l'ha visto quasi nessuno. In Germania esce come ennesimo sotto Django. Due stelle per filmtv.it che lo reputa, a ragione, scontato. Troviamo ancora George Hilton protagonista di un western uscito lo stesso giorno di quello di Fago. Si tratta di T'Ammazzo...! Raccomandati a Dio (1968) diretto da Osvaldo Civirani. Il regista romano tende a fare tutto: è il produttore, l'addetto alla fotografia e lo sceneggiatore. Gli da una mano, nella stesura della sceneggiatura, Tito Carpi, il quale predispone un copione alla Castellari. Abbiamo tre banditi che rubano un bottino di 200.000 dollari. Ognuno di loro tenterà di fregare gli altri, trattenendo l'intero malloppo. Ai tre si aggiunge la prosperosa Sandra Milo che farà la corte a ciascuno di loro, in modo da sfruttare a suo favore la situazione. L'epilogo è in perfetta linea col detto: “tra i tre litiganti, il quarto gode...” Goffredo Lombardo propone a Civirani di vendergli parte del progetto, ma il regista romano rifiuta perché è intenzionato a recuperare le perdite dei western precedenti. Allettato dai successi di Castellari, mette sotto contratto Hilton, John Ireland e Gordon Mitchell, ci sono anche Domenico Palmara e Piero Vida. Purtroppo per lui però non è Castellari, la regia è sciatta e la messa in scena sconclusionata. Bisogna comunque dare atto a Civirani di aver anticipato la saga Trinità, proponendo un personaggio che va in giro facendosi trascinare da un cavallo che traina una sdraio. A ogni buon conto alla fine la pellicola non incassa una lira, sebbene non manchi qualche fan di lusso. Tom Betts la ritiene riuscita, grazie all'ottima interpretazione di Hilton e al mix di comicità e drammaticità. Discreta pure per spaghettiwestern.altervita.org. È di contrario avviso Weisser che la definisce noiosissima. Due stelle per filmtv.it, una per il Morandini. Ignorata dai 822 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

blogger stranieri, è probabilmente il miglior lavoro di Civirani, ma non a sufficienza per essere consigliato. Assai simile al film di Civirani è il quarto western di Enzo G. Castellari che con I Tre che Sconvolsero il West (1968) ritorna, dopo un'opera classicheggiante, a quel western acrobatico e intriso di humor già praticato in occasione di Vado... l'Ammazzo e Torno (1967). Il legame tra i due film è fortissimo, lo si evince anche dal titolo che l'opera avrebbe dovuto avere: Vado, Vedo e Sparo. Purtroppo alla produzione non c'è Edmondo Amati, così come non sono più presenti le citazioni alle opere leoniane. Il progetto viene voluto da Dario Sabatello, esperto produttore legato alla commedia e già passato dallo spaghetti-western con Sette Pistole per i MacGregor (1966) e Sette Donne per i MacGregor (1967), entrambi di Franco Giraldi. L'idea è quella di proporre un western in salsa parodistica, soluzione piuttosto coraggiosa seppur non più pionieristica. Si pensa così di affiancare a un giovane sceneggiatore specializzato nel western, come Augusto Finocchi (qua al suo sesto western), un nome illustre proveniente dalla commedia ovvero Vittorio Metz. Ormai sessantaquattrenne, con una mezza dozzina di film comici alle spalle come regista e addirittura più di cento da sceneggiatore, Metz si ritrova catapultato nel genere a fine carriera. Umorista provetto nonché autore di testi per riviste per ragazzi, Metz era stato decisivo nel lanciare Totò, Tognazzi, Sordi e Chiari. Non scriverà altri copioni western. Dunque un'accoppiata alquanto originale chiamata a rispondere agli ordini dello scatenato Castellari. Ne esce fuori un western dove l'impronta del regista è marcatissima. Abbiamo moltissime sparatorie spettacolari, scazzottate acrobatiche, capriole, tesori contesi e la girandola finale di colpi di scena simile a quella di Vado... l'Ammazzo e Torno, il tutto condito da un'ironia sconfinante nel grottesco. Purtroppo il risultato finale risente di una sceneggiatura scarna oltre che non originale. Abbiamo all'opera tre bizzarri pistoleri (Wolff, Saxon e Sabàto) contrapposti l'un l'altro nel tentativo di accaparrarsi un carico di 400.000 dollari sottratto agli yankee. Braccati dalla banda di un messicano (Anchoriz), il carico passerà continuamente di mano in mano, fino al rocambolesco finale dove entrerà in scena un vecchietto giun823 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

to in possesso del bottino perché custodito in una valigetta identica a quella in cui lui teneva la merenda (finita invece nelle mani dei tre). I quattro, eliminata la banda dei messicani, decideranno così di sospendere la contesa e di mettersi in società. Se la storia ha poco di originale, le caratterizzazioni dei protagonisti non sono male. Antonio Sabàto, qua in una delle sue migliori prestazioni, è un bandito che spara, nascosto tra i massi, con quattro pistole (due per mano) in modo da dare l'idea di trovarsi in branco; Frank Wolff, con look alla scozzese già sfoggiato in Dio Perdona... Io no! (1967), è un trasformista che si spaccia per predicatore e poi per generale nordista (gustosissima la scena in cui convince del proprio grado un plotone di yankee, facendo in modo di farsi attaccare dalla banda di messicani per poter così eliminare in un colpo solo i due gruppi rivali); John Saxon, invece, è un baro elegante che uccide a sorpresa chi intende minacciarlo grazie a una piccola Derringer che nasconde un carillon nel calcio. Ai tre si contrappone Leo Anchoriz, attore su cui avremo modo di tornare, nei panni del messicano di turno. L'azione è il piatto forte dell'opera anche se è farsesca, con momenti degni dei futuri film della coppia Bud Spencer & Terence Hill. Addirittura ci sono sequenze che sembrano ricordare una partita di pallanuoto (vediamo i tre immersi in un fiume, contrapposti ai messicani, passarsi la borsa come una palla) altre di rugby (eliminati i messicani, i nostri si braccheranno e placcheranno a turno correndo sulla riva del fiume, strappandosi a vicenda la borsa). Degna di nota la presenza dell'americano John Saxon, già visto nel western hollywoodiano Gli Inesorabili (1960) di John Huston. Attore di origini campane (il vero nome è Carmine Orrico) che diverrà di grande culto per gli amanti del cinema di genere, ma che aveva avuto un inizio di carriera folgorante culminato nel Golden Globe del 1958, ottenuto quale attore maschile più promettente dell'anno, e nella nomination quale migliore attore non protagonista con A Sud Ovest di Sonora (1966). Viene ingaggiato perché richiesto a gran voce da Castellari, il quale ne era rimasto favorevolmente impressionato dopo averlo visto nel film appena citato. Già impegnato in Italia in occasione del giallo La Ragazza che Sapeva Troppo (1962) di Bava, Saxon non girerà altri spaghetti western, anche se lo ritroveremo al fianco di Clint Eastwood in Joe Kidd (1972) di John Sturges. Finirà relegato in produzioni minori e in serial televisivi, restando comunque scolpito nella memoria degli spettatori per alcuni celebri ruoli come il com824 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

pagno di avventura di Bruce Lee ne I Tre dell'Operazione Drago (1973). Sarà rivalutato a fine carriera al punto da rivelarsi uno dei volti più amati dagli appassionati di B-Movie, specie made in Italy, per le sue frequenti partecipazioni nei poliziotteschi (quasi sempre da boss) di Lenzi come Il Cinico, l'Infame, il Violento (1977) o Napoli Violenta (1976) ovvero in altre perle nostrane come l'horror Apocalypse Domani (1980) di Margheriti o Tenebre (1982) di Dario Argento, con cui girerà il recente mediometraggio Pelts. Apparirà altresì nell'horror culto Dal Tramonto all'Alba (1996) di Robert Rodriguez. Due parole sulla fotografia del maestro Ulloa (poco ispirato) e per la colonna sonora senza infamia e senza lode di Rustichelli. Nel complesso è un film destinato ai più incalliti, ma capace comunque di divertire. Spaghettiwestern.altervista.org, giustamente, sottolinea come si tratti di un western per tutta la famiglia quasi depauperato da ogni forma di violenza. Sulla stessa falsa riga il Morandini che, senza schiodarsi dalle due stelle, parla di western insolito che procede in modo allegro, quasi da ballata. Ribadisce il voto filmtv.it che aggiunge: gli appassionati non resteranno delusi. Il più duro di tutti è lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it che boccia senza appello la pellicola (voto inferiore al cinque in pagella) accusandola di ripetitività, scarsa verve nello sviluppo del soggetto e puntando l'indice sulle performance di John Saxon e Antonio Sabàto. Forse un po' troppo eccessivo nella stroncatura, ma di certo non siamo dalle parti del miglior Castellari. Nella seconda metà del mese escono una mezza dozzina di pellicole. Tra queste figura il piccolo western di coproduzione italo-spagnola Requiem per un Gringo (1968). Lo produce e lo scrive, per la regia dello spagnolo José Luis Merino - qui al suo secondo western dopo aver debuttato col mediocre Kitosch, l'Uomo che Veniva dal Nord (1967) - Arrigo Colombo in collaborazione col fratello Enrico e con una società spagnola. Ormai libero dal legame con Giorgio Papi, col quale aveva prodotto tra gli altri Per un Pugno di Dollari (1964), Colombo si trova a dover mettere in piedi un western dal modestissimo budget, tenendo tuttavia d'occhio l'ottimo lavoro fatto da Sergio Leone. Così, con la complicità di Enrico Colombo e della debuttante attrice con velleità da sceneggiatrice Giuliana Garavaglia, stende un soggetto che ripro825 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

pone lo stereotipo dello straniero senza nome. Difatti siamo alle prese con un revenge movie, con protagonista un vendicatore (deve onorare la memoria del fratello) che procede in sella a un mulo. Indossa un poncho leopardato (!?), un paio di pantaloni da nordista, un cappello identico a quello usato da Clint Eastwood e ha l'immancabile barbetta. Tanto per attenersi ai canovacci consolidati, si divertirà a mettere l'uno contro l'altro i componenti di una banda di rapinatori impossessatasi illegittimamente di una fattoria altrui. Colombo punta sul factotum José Luis Merino, il quale gli strappa un contratto che prevede anche la realizzazione dei macaroni combat La Battaglia dell'Ultimo Panzer e Sette Eroiche Carogne, oltre di una serie di film successivi. Nato come manager di produzione con le prime esperienze maturate a inizio anni '50, Merino era presto passato a ricoprire ruoli da aiuto di diversi colleghi spagnoli per debuttare come sceneggiatore e regista nel 1958 con un mediocre musicarello mai arrivato in Italia. Quando Merino accetta la proposta di Colombo è un regista semisconosciuto in Italia con all'attivo pellicole (per lo più musicarelli) di scarsa fama. In seguito saprà farsi menzionare tra i registi del circuito z-movie spagnolo soprattutto nel settore horror, ma anche cappa e spada e macaroni combat. Chiuderà la carriera nel 1990 con una trentina di pellicole all'attivo e altrettante sceneggiate, tra queste ultime segnalo il western Quel Caldo Maledetto Giorno di Fuoco (1968) poi affidato alla regia di Paolo Bianchini. Girerà un altro spaghetti-western (il terzo episodio della saga MacGregor, ancora prodotto da Colombo) e ben tre zorro movie di mediocre livello. Sul versante horror sono da menzionare Il Castello dalle Porte di Fuoco (1970) e L'Orgia dei Morti (1973) entrambi prodotti da Colombo. Invece di sviluppare il soggetto proposto dai produttori, Merino si affida a quella che diventerà una delle sue migliori collaboratrici ovvero la connazionale Marìa del Carmen Martìenez Romàn, già smaliziata nel genere e con alle spalle i copioni di alcuni tra i più bizzarri spaghetti-western mai realizzati ovvero Dove si Spara di Più (1967) e Se sei Vivo Spara (1967). L'impronta gotica della Romàn, aggiunta all'attitudine per l'horror di Merino, trasformano Requiem per un Gringo in un qualcosa di diverso rispetto al canonico revenge movie, tanto da anticipare i c.d. western gotici alla Django il Bastardo (1969). Non ci si deve dunque sorprendere se la sceneggiatura ha il pregio di proporre innumerevoli spunti originali, purtroppo tutti concentrati nella parte finale e inseriti in un soggetto che è trito e ritrito. La pri826 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ma curiosità è da rilevare nel fatto che il bounty killer vendicatore entra in scena solo nell'ultimo terzo del film (il migliore), mentre i primi due terzi sono riservati alla caratterizzazione dei componenti della banda di rapinatori, in particolare del boss con relativa signora e dei suoi tre luogotenenti. Nelle vesti dell'antagonista abbiamo Fernando Sancho col suo consueto personaggio sciattone, amante delle belle donne (la procace Femi Benussi), crudele e dalla risata facile. A fargli da spalla c'è un trio di uomini propensi al tradimento, tenuti buoni dall'arguzia del loro leader sempre capace di anticiparne le mosse. Tra essi abbiamo un indiano superstizioso, dal look un po' improbabile, che crede nelle stregonerie e che se ne va in giro con una serie di amuleti al collo. Gli da corpo il grande caratterista Aldo Sambrell, truccato con parruccone, denti d'oro e pizzo versione Er Monnezza. Il secondo manigoldo incarna il classico pistolero spaccone, tutto vestito in pelle nera con tanto di guanti e pistole tenute al contrario. Lo interpreta un caratterista specializzato nel genere lanciato proprio nel 1968 e già giunto al suo quinto film: Carlo Gaddi. All'attore di Montefiascone viene riservato un ruolo più ampio del suo solito e può così destreggiarsi tratteggiando il personaggio in modo esoso e pomposo, con una faccia che pare uscita da un film di Dracula. Il terzo componente è un elegantone di mezza età che contende la leadership (perché più preciso con la pistola) e la donna a Sancho, tramando nell'ombra. A personificare il bandito è l'esperto Ruben Rojo, in una delle sue rare apparizioni in un western, nonostante gli oltre cento film interpretati a partire dagli anni '40. Purtroppo questa corposa parte si rivela noiosa e per nulla originale. Merino tenta di inserire curiosi duelli (due uomini legati da una corda ad altrettanti pali, con uno di loro dotato di pistole prive di tamburo in modo da essere ucciso in sicurezza dall'altro, pronto a sciogliersi e a sparare al taglio della corda), torture con frustate in pieno volto (sufficiente il make up), sparatorie con uomini uccisi solo dopo esser stati feriti a tutti gli arti e punizioni esemplari dove si impiccano uomini con al collo cartelloni riportanti la scritta: "Se allunghi troppo le orecchie ti si può allungare anche il collo". Il tutto viene filtrato dal rigido controllo di Sancho, che ride a crepapelle e si diverte con la Fenussi (bella una sua apparizione con un costume fatto di vistose collane), mentre Gaddi tenta di convincere (senza esito) una ragazza interpretata da Marisa Paredes a diventare la sua fidanzata. 827 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

La seconda curiosità riguarda l'ultimo terzo di film dove si nota una spiccata verve orrorifica, con un epilogo tra i più belli dello spaghetti-western di quarta fascia. Vediamo entrare in scena il protagonista, un pistolero che sfrutta a suo vantaggio gli eventi meteorologici creandosi attorno un aura magica e guadagnandosi il soprannome de L'Uomo delle Tormente. A dargli corpo è lo statuario e severo Lang Jeffries. Lanciato dal serial Rescue 8 (1958) con un ruolo di primissimo piano, l'attore canadese era giunto in Italia per La Rivolta degli Schiavi (1960) di Malasoma. Aiutato dal fisico imponente, era riuscito a ritagliarsi un piccolo spazio nel peplum e in seguito nelle spy story nostrane quasi sempre da protagonista. Non sfigura neppure in questa sua unica partecipazione western dove, doppiato del grande Glauco Onorato (lo storico doppiatore di Bud Spencer), offre un'imitazione di Clint Eastwood. Tornerà al cinema di azione, per ritirarsi nei primi anni '80. L'entrata in scena di Jeffries funge da spartiacque tra un western ordinario e uno folle. Il bounty killer agisce col chiaro intento di destabilizzare psicologicamente i tre luogotenenti di Sancho, sfruttando le debolezze degli stessi. Di fatto li sfida uno a uno facendo leva sulle passioni che li possiedono (rispettivamente la stregoneria; la conoscenza di segreti relativi alla scomparsa della donna amata; il controllo della banda). Merino, anziché mostrare i vari scontri, decide di giocare d'astuzia per rendere più accattivante la visione. Propone infatti l'esito dei relativi duelli solo alla fine, ricorrendo all'artificio del flashback per enfatizzare il perverso gioco del protagonista. Quest'ultimo infatti, in modo assai guascone, si presenta al cospetto di Sancho, chiedendogli di entrare nella sua banda e proponendogli di scontrarsi con i tre suoi luogotenenti per dimostrare il suo alto valore. I tre, chiamati a squarciagola da Sancho, non si presentano in quanto già morti. A questo punto il nostro svela la loro fine e assistiamo a tre sequenze psichedeliche da vero horror, miste a una beffarda ironia trasteverina. L'indiano viene eliminato da un Jeffries formato fantasma. Apparso al cospetto del rivale con un gatto nero in collo, il protagonista simula di essere uno stregone (!?), mettendo così in fuga il bandito. Quest'ultimo, lanciato al galoppo in pieno deserto, trova sempre davanti a sé il rivale che lo attende in sella al mulo. A nulla servono i diversi cambi di direzione, il pistolero gli appare sempre davanti (non 828 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

si capisce bene come faccia) fino all'inevitabile assassinio finale dopo che il bandito si convince erroneamente di esser vittima di un'allucinazione dovuta a una roccia dalla conformazione di un uomo a cavallo. Il pistolero in pelle viene invece ucciso in una tormenta di sabbia levatasi dal nulla. Al riguardo non può non notarsi la sciatta messa in scena, dal momento che si vede la sabbia sparata con un ventilatore, senza considerare poi il mistero connesso all'improvvisa tempesta giunta proprio al momento opportuno. Macabro e spettacolare (soprattutto in chiave di ideazione) il terzo omicidio, con una processione funebre in pieno deserto (con adeguato commento sonoro di Lavagnino) e il nostro pistolero nascosto al posto di un cadavere. Ogni sequenza viene seguita dalla prova dell'omicidio, con Jeffries che getta a terra un oggetto o un qualcosa riconducibile alla vittima uccisa (tra cui uno scalpo). Geniale, invece, l'ultimo omicidio, quello di Sancho, con il protagonista che approfitta di un'eclissi solare per mandare in tilt l'avversario: “Non chiedere aiuto ai tuoi uomini. È arrivata la tua ultima ora” sentenzia “È l'ora del castigo divino, è l'ora della maledizione, è la tua ultima ora e la maledizione ti arriva dal cielo!” Qua Merino piazza l'inquadratura più bella di tutto il film, con il primo piano del sole, oscurato dal disco lunare nero, in un cielo dallo sfondo rosso fuoco. Delirante invece la scelta, a questo punto, di alternare zoom in e zoom out sui volti dei protagonisti a simulare una situazione paradossale dove la notte scende improvvisa in pieno giorno. Questa è l'unica soluzione registica sperimentale adottata da Merino, il quale, se si eccettuano le zampate horror (si vedano anche i continui lampi notturni sottolineati dalle luci blu), opta per un taglio piuttosto convenzionale. Dunque un western di quarta categoria penalizzato da un ritmo inizialmente pesante, da un montaggio a tratti incomprensibile, da scenografie posticce e ridotte all'osso nonché da una fotografia di Mario Pacheco tutt'altro che trascendentale, che tuttavia riesce a farsi ricordare per un'ultima parte originalissima sufficiente a elevarlo dalla mediocrità. Credo che una maggiore distribuzione degli elementi horror su tutta la pellicola e una prima parte di film sviluppata in maniera più originale avrebbero reso Requiem per un Gringo una piccola sorpresa. 829 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Non dotato di grande popolarità e comunque infarcito di vari difetti, il film vanta diversi fan. Spaghettiwestern.altervista.org ne consiglia la visione per la presenza di scene di azione e di violenza esilaranti ed evidenzia come si tratti di un western da avere nella propria videoteca. “Vi esalterà dal primo all'ultimo fotogramma” garantisce il sito, che apprezza anche la colonna sonora di Lavagnino (assolutamente favolose) e le prove degli attori. Spaghetti-western.net trova una relazione tra il poncho leopardato e il Dio Giaguaro, per costruire attorno al protagonista un vero e proprio alone soprannaturale che rende il film sorprendente. Tom Betts lo elenca tra i suoi preferiti. Gli utenti di imdb.com gli attribuiscono quasi un sette in pagella, un voto di per sé ottimo che diviene eccezionale per un film di Merino. Sei e mezzo invece per lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it che lo consiglia per l'originalità. Il meno meno convinto di tutti è filmtv.it che si ferma all'apparenza e reputa il tutto una modestissimo lavoro. Inutile dire che il Morandini non l'abbia neppure visto. Consigliato agli amanti dei western pulp. Alberto Cardone, sempre celato dallo pseudonimo Albert Cardiff, raddoppia gli sforzi uscendo nel giro di quattro giorni con due pellicole. Dopo aver chiuso la trilogia della scommessa - avviata con Sette Dollari sul Rosso (1966) - e interrotto la collaborazione col produttore Mario Siciliano, tenta due vie: la prima è quella di una produzione di qualità, la seconda è l'auto-produzione. Escono così rispettivamente L'Ira di Dio (1968) e Il Lungo Giorno del Massacro (1968). A finanziare la prima pellicola sono Elio Scardamaglia e Ugo Guerra, già protagonisti di vari western culto tra i quali Arizona Colt (1966) ed El Desperado (1967), oltre ad altri di Enzo G. Castellari. Dunque ci sono tutte le premesse per uno spaghetti-western di qualità, anche se il budget non è eccelso. Nonostante ciò, L'Ira di Dio non soddisfa appieno. La pellicola è penalizzata da una sceneggiatura, dello stesso Cardone e del co-produttore Ugo Guerra, coadiuvati dal debuttante Italo Gasperini (sottoscriverà altri due copioni, tra i quali il tardo western Scalps di Bruno Mattei), incapace di sviluppare un soggetto già di per sé povero. Ne deriva un film sprovvisto di dialoghi graffianti e di contenuti che vadano oltre ai soliti cliché. Cardone mette in scena la classica revenge story, con un protagonista (l'americano 830 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Brett Halsey, accreditato Montogmery Ford) inviperito per l'uccisione gratuita della fidanzata. L'eroe di turno ha anche subito il furto di 10.000 dollari ed è stato pestato dagli autori dell'omicidio. Decide quindi di lanciarsi in una crociata in cui ucciderà, uno a uno, tutti i componenti della banda. A differenza di quanto avvenuto in film come Sentenza di Morte (1968), gli sceneggiatori non si preoccupano di intessere una trama verosimile, né di caratterizzare i vari personaggi in modo da conferire ai medesimi una qualche profondità psicologica o dei vezzi particolari. Il protagonista è agghindato stile Django e ha un profilo comportamentale tipico dei personaggi di Anthony Steffen. Si pone alla caccia dei banditi senza compiere alcuna indagine eppure, vagando a casaccio, li trova tutti sul suo cammino, uno dietro l'altro. Li riconosce perché ognuno di essi spende, in sua presenza, una banconota da 50 dollari identica a quelle rubate a inizio film. Ne deriva uno schema che diverrà ripetitivo per tutto il corso della visione, costituito dalla scoperta del bandito di turno, dalla colluttazione tra il bandito e il protagonista, dall'inseguimento dovuto all'iniziale svincolamento del bandito e infine dal regolamento dei conti con firma del protagonista che lancia una moneta da un dollaro sul morto di turno. Il riferimento alla moneta è dovuto al fatto che i banditi hanno lasciato sul luogo del delitto sette monete da un dollaro. Il protagonista decide così di utilizzare ciascuna di esse per rappresentare i vari componenti della banda. L'elemento delle monete, peraltro, permette a Cardone di donarsi un'autocitazione. Difatti aveva già utilizzato tale espediente in Sette Dollari sul Rosso. Se nei precedenti western di Cardone (che comunque non aveva scritto i copioni) emergeva una forte componente melodrammatica, ai confini della tragedia greca, ne L'Ira di Dio non c'è traccia alcuna di una simile deriva. Il film scivola via in modo lineare e banale, contenutisticamente impersonale. A metà opera il regista tenta di dare una svolta, facendo incarcerare il protagonista (che poi evade in modo rocambolesco e assurdo, uccidendo un carceriere dopo avergli sbattuto contro la porta della cella) ma è un tentativo poco convinto. Così come non è riuscito l'escamotage di inserire un colpo di scena finale che si rivelerà telefonato e inflazionato (il mandante dell'omicidio iniziale è l'amico fraterno del protagonista, geloso per la relazione amorosa tra quest'ultimo e la donna amata). 831 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Non mancano inoltre ingiustificabili discrepanze, si veda la decisione iniziale della banda di non uccidere il protagonista (“tanto non ci troverà mai” dice Sancho, quando poi invece i suoi uomini circoleranno in bella vista nei pressi del luogo dell'omicidio e spenderanno i soldi rubati senza alcuna preoccupazione) o il fatto che ciascun componente della banda non riconosca il protagonista, sebbene siano passati pochi giorni dall'evento criminoso. Di buono ci sono le location variegate (dai boschi nebbiosi alle dune desertiche) e una splendida fotografia di Mario Pacheco. La regia è discreta, ci sono delle belle articolate sequenze di duelli (il duello Preston-Halsey tra la nebbia in pieno bosco o quello HalseyFantasia tra le dune del deserto o ancora una sparatoria in un'ombra totale squarciata dalla luce degli spari) e qualche bizzarra inquadratura, con la mdp collocata, in posizione aerea, in verticale rispetto agli attori (una sorta di inquadratura da videogame stile Tekken). Ci sono infine delle trovate originali: l'unguento fosforescente spalmato sulla fronte di un avversario per individuarlo nel buio; la borraccia usata a mo' di specchio per studiare le carte degli avversari di un una partita a poker. Quanto sopra però è insufficiente a salvare il film dalla mediocrità. Il cast artistico adempie al suo dovere. Halsey, pur essendo freddino, è meglio di altre volte, tutti gli altri fanno dei cammei e hanno ruoli marginali. Tra essi compaiono Wayde Preston, Renato Rossini e Fernando Sancho (picchia le donne e ne strappa i vestiti) senza che sia concesso loro di spiccare stante la scarsa caratterizzazione dei loro personaggi. Buona la colonna sonora di Michele Lacerenza, confermato da Cardone dopo Mille Dollari sul Nero (1966), qua diretto da maestro Roberto Pregadio. Nel complesso si tratta di un western gradevole e ben messo in scena, ma trascurabile per la totale mancanza di originalità e per una sceneggiatura abbozzata. Curioso notare come Thomas Weisser lo reputi, a palese torto, il miglior western di Cardone. Marco Giusti lo definisce barocco, mentre Davide Pulici di Nocturno ne sottolinea la folle struttura narrativa. Il sito spaghettiwestern.altervista.org non lo recensisce (idem il Morandini), spende poche parole filmtv.it che gli da due stelle. Ai margini della sufficienza per gli utenti di imdb.com, dove campeggia un cinque virgola otto in pagella. 832 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Il film gode di una maggiore considerazione tra i blogger stranieri, che però evidenziano tutti la scarsa qualità della sceneggiatura e l'inverosimiglianza di alcune soluzioni narrative. Per le ragioni indicate, lo stronca 800spaghettiwesterns.blogspot.it, con un voto inferiore al quattro nella scala dei giudizi (per l'appassionato spagnolo non si salvano neppure la regia e le musiche). Lo ritiene invece soddisfacente sonofdjango.blogspot.it che lo consiglia ai suoi lettori per la regia di Cardone e per la presenza di alcuni duelli divertenti. Se L'Ira di Dio non soddisfa, è pessimo Il Lungo Giorno del Massacro (1968), girato in fretta e furia da Cardone con capitali assai inferiori e un cast artistico ridotto all'osso. Pietro Martellanza e Glenn Saxson sono gli attori noti chiamati a capitare un plotoncino di semisconosciuti. Alla sceneggiatura fa la comparsa il futuro regista trash Mario Gariazzo, ex giornalista e impresario di una compagnia di avanspettacolo, su cui torneremo a tempo debito, affiancato da Cardone e dal manager di produzione Armando Morandi (produttore peraltro di un trio di peplum di terza fascia per le regie di Nick Nostro e Cottafavi), qua al suo primo di tre copioni e già collaboratore del regista in occasione de L'Ira di Dio. La storia vede uno sceriffo dai modi bruschi (Martellanza) boicottato dal giudice locale (l'immancabile Franco Fantasia) che non ne tollera i metodi. Accusato ingiustamente di omicidio, lo sceriffo viene destituito e sostituito dal suo vice (Saxson). L'ex sceriffo si lancerà così alla ricerca dei veri autori dell'assassinio e riuscirà alla fine a farsi scagionare ottenendo la collaborazione del suo sostituto. Nulla di nuovo, per quello che viene considerato da tutti un western poco riuscito. L'unico che ne parla bene è Tom Betts che lo elenca tra i migliori di Martellanza. Visto da pochissimi (non compaiono commenti di blogger esteri), addirittura Marco Giusti gli dedica un breve cenno. Non lo commenta spaghettiwestern.altervista.org, una stella per il Morandini. Laconico quattro e mezzo per imdb.com. Quarta serie, nulla a che vedere con i primi western di Cardone.

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Un altro western visionato da pochissimi è Ad uno a uno... Spietatamente (1968) di Rafael R. Marchent. La pellicola vanta una produzione specializzata nel genere formata da Eduardo Manzanos Brochero e Luigi Mondello, già associati in occasione di ...E Intorno a Lui Fu la Morte di Klimovsky. Il budget è basso, ma sufficiente per ingaggiare Peter Lee Lawrence. Confermati invece Guglielmo Spoletini (alias William Bogart) ed Eduardo Fajardo, presenti nel film di Klimovsky, ci sono inoltre Paco Sanz e Dyanik Zurakowska. Il copione, stranamente firmato anche da Marino Girolami e Tito Carpi, ha in Odoardo Fiory il suo principale artefice. Documentarista ex aiuto di Francesco De Robertis, nonché regista della seconda unità de Arrivano i Titani di Duccio Tessari e de Una Stagione all'Inferno (1971) di Nelo Risi, arriva anche lui dalla pellicola di Klimovsky e non avrà in seguito alcuna fortuna. Fiory stende il classico revenge movie con protagonista (Lee Lawrence) alla caccia degli assassini del padre e per questo disposto a vagare di zona in zona. Il giovane, aiutato da un messicano trasandato (Spoletini), individuerà tutti i colpevoli e li farà fuori. Attenzione alle sorprese finali a cui si arriva alternando doppi giochi, momenti scherzosi e altri cupi. Marchent accantona del tutto il taglio melò e punta su Lee Lawrence come potrebbe fare Alfonso Brescia (800spaghettiwesterns.blogspot.it specifica però che vi sono delle sequenze ben girate che dimostrano che siamo alle prese con un regista dotato di una tecnica invidiabile). A differenza di altri film di terzo piano, si tratta di un western quadrato e ordinato che tuttavia risulta trascurabile per l'assoluta mancanza di originalità. Spaghettiwestern.altervista.org scrive inoltre che la noia regna spesso sovrana. Più che sufficiente per 800spaghettiwesterns.blogspot.it che preferisce la prova di Spoletini (concorde Marco Giusti), in un ruolo simil Tuco de Il Buono, il Brutto, il Cattivo, a quella di Lee Lawrence. Non lo disprezza filmtv.it che gli concede tre stelle. Cinque virgola otto per imdb.com. L'ultimo a uscire ad agosto è Spara, Gringo, Spara (1968), primo western diretto da Bruno Corbucci, fratello del grande Sergio e futuro regista della saga comico-poliziesca, interpretata da Tomas Milian, del commissario Nico Giraldi. Si tratta di un debutto che era nell'aria già da tempo, perché sia Bruno Corbucci che il fido Mario Amendola (che nell'occasione si fir834 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mano rispettivamente Frank B. Corlish e Dean Whitcomb), oltre che in svariati western, avevano partecipato in coppia quali sceneggiatori di Odio per Odio (1967) di Paolella. Mario Amendola aveva inoltre diretto ...Dai Nemici mi Guardo Io! (1968), mentre Bruno Corbucci era già un regista conosciuto, seppur qualitativamente non paragonabile al fratello e più orientato a uno stile convenzionale, per film comici e musicarelli di buon successo commerciale. A fine carriera chiuderà con centocinquanta sceneggiature all'attivo, scritte tra il 1956 e il 1997, di cui un terzo dallo stesso dirette. Roberto Poppi, nel volume “I Registi”, sosterrà che fra i suoi cinquanta film non ci sono opere di particolare rilievo artistico. L'opinione del critico è veritiera, ma ciò non deve far pensare a una scarsa capacità del regista, bensì alla scelta di Corbucci di optare per una filmografia orientata al successo commerciale da perseguire con bassi costi. Infatti i film di Bruno Corbucci hanno spesso avuto un grande successo al botteghino, basti citare i tredici episodi della saga Nico Giraldi ovvero il sorrisi & cazzotti Miami Supercops (1985) con Terence Hill e Bud Spencer o il comico Rimini, Rimini – Un Anno Dopo (1988). Chiuderà la carriera col fortunato serial televisivo Classe di Ferro (1989-91), una sorta di parodia sulla leva militare mandata in onda sulle reti mediaset. Nel 1968 Bruno Corbucci ha solo tre anni di esperienza dietro alla macchina da presa. Arriva infatti da una lunga gavetta di sceneggiatore, soprattutto di opere costruite attorno al personaggio di Totò (più di dodici copioni) intramezzate da altri film comici di facile consumo. Quando gli viene proposto Spara, Gringo, Spara ha già diretto dodici pellicole, per lo più musicarelli, tra i quali Riderà! (1967) e Zum, Zum, Zum (1968), oltre le parodie spy story con Lando Buzzanca relative alla saga James Tont. Continuerà su questa via con i vari Lisa dagli Occhi Blu (1969), Zum, Zum, Zum 2 (1969) fino all'approccio con la saga Giraldi. Spara, Gringo, Spara è il primo film serio nella filmografia del regista, anche se il marchio comico/grottesco è comunque presente. Purtroppo il budget è irrisorio, appena sufficiente a esaudire la richiesta del distributore della commedia impegnata Escalation (1968) di Roberto Faenza, intenzionato a distribuire la stessa solo a condizione che il produttore, tale Giuseppe Zaccariello, realizzi un western. Il distributore infatti non si fida del buon esito del film di Faenza e vuole prevenire eventuali flop con un western. Così Zaccariello, un imprenditore impegnato nel mondo della ceramica e alle prime esperienze 835 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cinematografiche (in seguito produrrà altri sette film tra cui due gioielli: il grottesco Femina Ridens di Schivazappa del 1969 e Reazione a Catena di Mario Bava, ricordato come il primo slasher movie della storia), destina l'essenziale a Corbucci tanto che, a metà lavorazione, il film rischia di saltare perché la pellicola di Faenza riscuote un successo superiore alle attese. Zaccariello, per nulla interessato al genere, contatta Corbucci e gli chiede di interrompere le riprese. Il distributore è già contento, ma in un modo o nell'altro la lavorazione viene ultimata. Il risultato finale non è malaccio e Corbucci si dimostra bravo a girare anche le scene di azione, con un certo gusto nel posizionare la macchina da presa. Si vedano, al riguardo, le angolazioni di certe inquadrature, con la macchina da presa collocata all'interno di un dislivello in modo da riprendere i cavalli che ci passano sopra. Il soggetto è semplice, eppure la messa in scena regge. Il merito va alla regia e a una sceneggiatura che ha il merito di inserire gag e una serie di personaggi grotteschi che salvano una pellicola altrimenti evitabile. Gli sceneggiatori tracciano una storia che ricorda Le Pistole non Discutono (1964) di Caiano, anche se al posto dello sceriffo che vuol ricondurre un criminale nel paese di origine, abbiamo un pistolero (Brian Kelly) assoldato per portare a casa il giovane e scapestrato figlio (Fabrizio Moroni) di un possidente terriero messicano (Folco Lulli). Il ragazzo è entrato a far parte di una banda di rapinatori che rispondono agli ordini di un vecchio disertore nordista (il grande Keenan Wynn). I momenti più divertenti del film sono legati proprio a questa banda, un'accozzaglia di improbabili e strampalati criminali, con alcuni elementi imbranati che non riescono a centrare neanche un bersaglio fisso. Il loro leader organizza addirittura delle esercitazioni a premio, pagando premi in denaro diversificati a seconda della difficoltà del colpo. Il livello di incapacità di questi banditi è talmente alto che alcuni di loro sono estromessi dalle esercitazioni. In passato, difatti, qualcuno è stato capace di uccidere dei compagni sebbene sparasse a bersagli fissi. Tra questi soggetti sono presenti delle vere e proprie macchiette, rese tali da grandi caratteristi pescati dal genere comico come Luigi Bonos (l'aiuto sceriffo di Bud Spencer in Uno Sceriffo Extraterrestre... Poco Extra e Molto Terrestre), Enzo Andronico (futura presenza fissa della commedia scollacciata) e addirittura Jimmy il Fenomeno (anche se non si nota molto). Lo stesso Wynn ha una caratterizzazione sopra le righe, lo si vede cercare di continuo la sua 836 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

paperella porta fortuna e baciarla sul becco, sparando a chi la disturba. Dunque un western con trovate esilaranti (il protagonista agita di continuo una frusta alla Zorro) e comiche, inserite in un contesto serioso da spaghetto western classico. Belle le sequenze nel deserto dell'Almeria, rese eccezionali dal sapiente utilizzo dei campi lunghissimi in modo da esaltare la magnificenza del panorama tutto dune e sabbia. Corbucci offre così il suo omaggio a Il Buono, il Brutto, il Cattivo (1966) con i due protagonisti, Kelly e Moroni (molto bravi e vagamente somiglianti rispettivamente a Ivan Rassimov e a Ray Lovelock), che si comportano come cane e gatto. Il primo ha il compito di riportare in Messico il secondo, ma questo non ci sta e gli scappa di continuo. Così li vediamo procedere in una serie di avventure che rendono il loro viaggio un odissea, ma che segna anche la nascita di una reciproca stima (secondo alcuni, opinione che non condivido, di una sorta di attrazione omosessuale). Si salveranno vicendevolmente la vita, eliminando i vari soggetti che si scaglieranno, di volta in volta, contro ciascuno di loro per motivi diversi (il primo è un disertore ricercato dai nordisti, l'altro è un rapinatore). Quando staranno sul punto di crollare in pieno deserto, a piedi, senza acqua e senza cavalli nonché con i volti screpolati (belli i primi piani sfuocati sul sole per dare l'idea del calore), verranno raccolti da una carovana di pacifisti. Qui il protagonista si innamorerà di una ragazza madre (Erika Blanc) che gli farà capire che la vita da pistolero non è poi la migliore prospettiva di vita per un uomo. Il nostro ne terrà conto alla fine quando, a missione compiuta, deciderà di ritirarsi dall'attività tirandosi dietro anche il ragazzo. Notevole e spettacolare la scena del ponte tibetano con Kelly sospeso nel vuoto per la rottura di alcune assi di legno. Corbucci gira la sequenza con grande pathos, sottolineando con una mezza soggettiva la profondità dello strapiombo. Si segnalano inoltre una “scazzottatona” iniziale e una mega sparatoria finale dove morirà il padre del ragazzo, reo di aver organizzato il tutto per torturare il figlio sotto gli occhi della moglie. Il giovane è infatti colpevole di esser il frutto di un vecchio rapporto extraconiugale della donna e il padre lo voleva con sé per ucciderlo. Curiosa infine la scena in cui Moroni, nascosto dietro un masso, viene bersagliato dai colpi degli avversari che fanno scivolare via il 837 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

masso stesso lasciandolo allo scoperto. Per gli amanti del B-movie cito anche un melone usato come silenziatore di una pistola (!?). Due parole sul cast artistico. Nel ruolo di protagonista c'è Brian Kelly ovvero l'ennesima star del circuito televisivo americano in cerca di fortuna (non la troverà). Figlio del governatore del Michigan, era entrato nei Marines per prendere parte alla guerra in Corea con la prospettiva di darsi alla carriera politica. Dotato di un fisico avvenente era stato poi notato da un talent scout e convinto a intraprendere la carriera di attore. Entrato nel mondo della tv a partire dal 1958, aveva ottenuto ruoli di un certo livello nel poliziesco 21 Beacon Street (1959) e nell'avventuroso Straightaway (1961-62) fino ad assumere quello di protagonista nella fortunata serie del delfino Flipper (1964-67), andata spesso in onda anche sulle nostre reti. Purtroppo, però, chiuderà presto la carriera a causa di un tragico incidente stradale che lo porterà a restare paralizzato sugli arti destri. Utilizzerà i soldi ottenuti come risarcimento per ricoprire il ruolo di produttore esecutivo nientemeno che di Blade Runner (1982) di Ridley Scott. La prova offerta da Kelly è sopra la media se rapportata a quella di altri attori provenienti dal circuito televisivo. Lo vediamo spesso sorridente e in grado di offrire una buona mimica facciale. È un peccato che non abbia fatto altri western. Se la cava bene anche il nostro Fabrizio Moroni, in quello che forse è il suo ruolo più impegnativo di una carriera spesa soprattutto al servizio dei musicarelli (era stato protagonista nel 1966 in Nessuno Mi Può Giudicare e Perdono, oltre che avere ruoli importanti in altri del settore). Moroni è il classico volto pulito da fotoromanzi (da cui proveniva), eppure si dimostra a suo agio nel genere aiutato da innegabili doti acrobatiche. Gli altri attori hanno ruoli marginali. Tra questi spicca il grande ma ormai decaduto Keenan Wynn (peraltro sembra un settantenne quando invece ha una cinquantina di anni), costantemente ubriaco durante la lavorazione, ma buono nel film. Figlio d'arte, il padre era stato attore, Wynn fa parte di quel classico gruppo di attori divenuti grandi in gioventù e poi fagocitati dai serial televisivi, perché non più richiesti dalle grandi produzioni di Hollywood. Aveva iniziato a lavorare nei primi anni '40 con ruoli da protagonista in commedie (spesso musicali) apprezzate dalla critica. Tra i film più famosi aveva preso parte a vari film di George Sideny, tra cui I Tre Moschettieri (1948), al western I Razziatori (1955) di Gerald Mayer e alla commedia Quel Tipo di Donna (1959) di Sidney Lumet. Il primo Wynn era un attore 838 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

specializzato nella commedia, in grado di toccare un invidiabile apice col capolavoro grottesco Il Dottor Stranamore (1964) di Kubrick quando ormai è già attivo nei serial tv. In quest'ultimo ambito era stato protagonista del serial avventuroso Troubleshooters (1959-60), oltre che in molteplici episodi facenti parte di altrettanti serial, tra i quali i cult Ai Confini della Realtà (1960), Alfred Hitchcock Presenta (1958-61) e Rawhide (1962). Da metà anni '60 in poi era però finito in una serie di western americani di scarso valore, eccetto l'accoppiata Tempo di Terrore (1967) e Carovana di Fuoco (1967) diretta da Burt Kennedy. Grazie a questi due film, Wynn arriva sul set di Corbucci e passa immediatamente a quello di C'era una Volta il West. In seguito lavorerà soprattutto in televisione (lo ricordo nel serial di successo Dallas) e in pellicole di scarso valore, tra cui spiccano i cult Piranha (1978) di Joe Dante e L'Orca Assassina (1977) in cui apparirà in ruoli secondari. Chiuderà la carriera nel 1986 con quasi trecento opere all'attivo. Oltre a Wynn debutta nel genere Folco Lulli, fratello del più volte incontrato Piero Lulli. A dispetto di quanto un appassionato del genere potrebbe essere portato a pensar, Folco Lulli era assai più apprezzato di Piero. Aveva persino vinto un Nastro d'Argento come migliore attore non protagonista ne I Compagni (1963) di Monicelli. Abituato ai film d'autore, Folco Lulli si diverte a interpretare un messicanone in stile Sancho. Indossa un sombrero enorme che gli copre metà testa. Morirà due anni dopo, lasciandosi dietro una carriera di prestigio. Roberto Poppi lo qualificherà quale attore tra i più rappresentativi del nostro cinema ricordato soprattutto per Vite Perdute (1953) di Clouzot, La Grande Guerra (1959) di Monicelli e il già citato film che gli valse il Nastro d'Argento. Buona la colonna sonora (anche se viene criticata nei blog specializzati), con temi variegati composti da Sante Maria Romitelli. In particolare è spassoso il brano ritmatissimo che fa il verso alla Cucaracha. La base della main theme, cantata da Little Tony nei titoli di coda, sarà riutilizzata da Gianni Morandi per la canzone "Il Mondo Cambierà". C'è da dire che si tratta della seconda colonna sonora curata da Romitelli, dopo il debutto con I Due Pompieri (1968). Ritornerà al western solo dieci anni dopo in occasione di Diamante Lobo (1976) di Parolini, senza lasciare grandi ricordi. Sua la colonna sonora anche de Il Rosso Segno della Follia (1970) di Bava. 839 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Non è eccelsa la fotografia di Fausto Zuccoli, ma comunque più che sufficiente. Spara, Gringo, Spara è un western gradevole, carino per le sequenze girate nel deserto e per i momenti comico/grotteschi. All'epoca, causa il disinteresse del distributore e del produttore, non fece un grande incasso. Si tentò anche di distribuirlo con vari titoli, tra i quali Rainbow, El Gringo non Perdona e ...E non Seppellirono i Corpi, ma ciò contribuì a rendere più confuso il tutto. Visto a distanza di anni ha saputo conquistarsi il rispetto dei cultori e dei fan, specie se si considera che stiamo parlando di un low budget. Tom Betts loda Brian Kelly, sostenendo che tiene vivo l'interesse. Marco Giusti ne parla con un certo gusto e lo definisce curiosissimo. L'Americano spaghetti-western.net sostiene che il film è l'esempio di come Bruno Corbucci fosse un competente regista di cinema d'azione. Sufficienza piena per gli utenti di imdb.com e per 800spaghettiwesterns.blogspot.it per il quale il divertimento è garantito. Mondo-esoterica.net lo giudica ben recitato, scritto e diretto, anche se sprovvisto di quel tocco che lo avrebbe potuto trasformare in un grande film. Western da non perdere assolutamente assicura spaghettiwestern.altervista.org. Due stelle per filmtv.it, il Morandini lo ignora. 8.3 Il Tortilla Western. Eccoci finalmente arrivati al sottogenere più qualitativo dello spaghetti western. Come abbiamo anticipato all'inizio del settimo capitolo, il 1968 è un anno caldissimo dal punto di vista socio-politico. Ci sono rivolte in tutto il mondo occidentale, gli scontri per le strade e nelle città universitarie non si contano. Questa tensione non può che riflettersi sul cinema, seppur filtrata dalla lente distorsiva tipica del mondo artistico. Sceneggiatori e registi infatti, per aggirare eventuali problemi di censura, traslano i pensieri e i ragionamenti filosofici nonché politici che vengono inneggiati nelle piazze in un contesto, più o meno fantastico, di ambientazione western. Nascono così i western d'impronta filo marxista, favoriti dalla storia del Messico e dal periodo zapatista (1910-17) legato alle gesta del rivoluzionario Emiliano Zapata, del PLM (Partito Liberale Messicano) e dei vari Pancho Villa, Venustiano Carranza e Alvaro Obregon tutti impegnati nel rovesciare il regime militare del Generale Porfirio Diaz, dittatore appoggiato dal840 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

le forze armate e dal clero e non intenzionato ad andarsene in caso di sconfitta elettorale. Sono i peone, cioè i rappresentanti del popolo oppresso e del terzo mondo, a diventare i protagonisti di questi film, talvolta inconsapevoli. Se la devono vedere con soldati al soldo dei proprietari terrieri e dell'alto clero, dispotici e crudeli verso i poveri. Il western diviene così veicolo atto a condannare i latifondisti, il capitalismo e infine l'atteggiamento belligerante in voga negli anni '70. La componente estera è una costante di questi film, c'è sempre un occidentale ben vestito e acculturato che si schiera dalla parte dei peone per favorire la rivoluzione o creare disordine. Qualcuno vede in questo elemento un rifermento agli atteggiamenti destabilizzanti della CIA in Sud America, altri fanno notare il fatto che molti anarchici e rivoluzionari piovvero in Messico contro Diaz da ogni parte del globo per schierarsi dalla parte dei peone. Tra questi ultimi erano presenti italiani come Peppino Garibaldi (nipote di Giuseppe) e Amleto Vespa, entrambi insigniti con i gradi di ufficiali della rivoluzione. In realtà è fuori di dubbio che, nel 1913, dopo la caduta di Diaz, avvenuta dopo un anno di rivolte, e la morte del Presidente Madero (inizialmente appoggiato dai rivoluzionari), il tiranno Victoriano Huerta abbia preso il potere, contando sull'appoggio degli Stati Uniti e instaurando una dittatura fino al 1915. Non di secondaria importanza per l'avvento di Huerta fu l'atteggiamento suicida dei troppi generali rivoluzionari che presero a scontrarsi tra loro, uccidendosi l'uno con l'altro, fino al 1930. Dunque uno spaccato di storia perfetto per inserirvi argomenti contemporanei. Occorre comunque dire che il tortilla western non nasce d'improvviso. Nel lontano 1960 pellicole come Febbre di Rivolta di Hossein avevano già introdotto i germi poi maturati nel 1966 grazie alle sceneggiature di Franco Solinas. È l'autore sardo a introdurre tematiche esplicitamente politiche nello spaghetti-western con La Resa dei Conti (1966) e soprattutto con Quien Sabe? (1966), vero e proprio antesignano del sottogenere. Nel 1967 si era quindi registrato un tentativo di dar linfa al western politico con gli eccelsi Faccia a Faccia (1967), un manifesto di filosofia politica, e Requiescant (1967), a cui avevano fatto seguito opere minori quali Un Uomo e una Colt (1966), Killer Kid (1967) e, in parte, Giarrettiera Colt (1968). Persino in America aveva iniziato a muoversi qualcosa grazie a I Professionisti (1966) di Brooks. 841 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

È però nel 1968 che si ha l'esplosione del sottogenere. Si parte subito a gennaio col film sotto riportato. UN TRENO PER DURANGO Produzione: Italia, Spagna 1968. Prodotto: Bianco Manini (Patry Film), Ferdinando Felicioni ed Emilio Giorgi (Selenia Cinematografica), José Gutiérrez Maesso (Tecisa Film). Regia: Mario Caiano (William Hawkins). Soggetto e Sceneggiatura: Duccio Tessari, Mario Caiano, Fernando Di Leo e Augusto Caminito. Interpreti Principali: Antonio De Teffé (Anthony Steffen), Enrico Maria Salerno, Dominique Boschero, Mark Damon, Roberto Camardiel, Manolo Zarzo, José Bodalo, Alfredo Sanchez Brell (Aldo Sambrell). Fotografia: Enzo Barboni. Musiche: Carlo Rustichelli. Sottogenere: Comico / Tortilla Western. Durata: 92 min. Giudizio Mancini: *** Giudizio Morandini:Non trovato. La trama Due vagabondi sconclusionati, uno americano (Steffen) e l'altro messicano (Salerno), decidono di lasciare il Messico per andare in America in cerca di petrolio. Costretti da uno strozzino ad acquistare i biglietti del treno per Durango a una cifra spropositata, si trovano a viaggiare sul treno in cui è presente una cassaforte indistruttibile piena d'oro. Il carico attira le attenzioni di tre distinte bande di rivoluzionari messicani, rispettivamente capitanate da El Lobo (Camardiel), Heraclio (Zarzo) ed El Jefe (Bodalo), che si uniscono e rapinano il convoglio uccidendo gli occupanti. Si salvano solo i due protagonisti: il messicano perché è rinchiuso in bagno, l'americano grazie a un oggetto di metallo che tiene, sotto il vestito, all'altezza del cuore. Intanto Heraclio rapisce la giovane donna (Boschero) con cui l'americano aveva iniziato ad amoreggiare e la porta via col tesoro. Intenzionato a recuperare la ragazza, l'americano convince il compagno d'avventura a mettersi sulle tracce della banda, anche perché quest'ultimo è en842 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

trato in possesso delle chiavi della cassaforte. Aiutati da uno sconosciuto dandy (Damon) che vaga su un'automobile rossa e si materializza, lanciando bombe o sparando con mitragliatrici, tutte le volte in cui i nostri sono in difficoltà, i due recuperano cassaforte e ragazza, ma... Il Commento Un Treno per Durango è ricordato come uno degli antesignani della deriva comica in cui scivolerà presto lo spaghetti-western. A produrlo c'è un poule di produttori che hanno in Bianco Manini il socio di maggioranza e nel veterano José Gutierrez Maesso il compartecipe spagnolo. In veste di soci minoritari troviamo Ferdinando Felicioni e Emilio Giorgi. Felicioni, reduce dal pessimo Il Magnifico Texano (1967) – co-prodotto proprio con Giorgi - è al suo secondo e penultimo western dopo una carriera spesa, tra il 1956 e il 1967, al servizio di una dozzina di film soprattutto spy story e zorro movie apocrifi. È dunque Bianco Manini il vero artefice dell'opera. Imprenditore nel settore alimentare e fanatico di western, Manini è a dir poco entusiasta del successo ottenuto dal suo primo film, lo splendido Quien Sabe? (1966), tanto da pretendere una nuova opera che ne riprenda l'atmosfera ma in salsa comico/grottesca. Il legame col film di Damiani è esplicitato dal prologo in cui i protagonisti viaggiano sullo stesso treno utilizzato nel precedente film e in cui viene perpetrata, ancora una volta, una rapina con consequenziale sottrazione del carico da parte di un gruppo di rivoluzionari e relativa strage di soldati messicani. Un inizio pressoché identico a quello di Quien Sabe?. Non potendo contare su Damiani, passato nuovamente al cinema impegnato, Manini interpella Mario Caiano offrendogli il compito di dirigere e scrivere il film. Per Caiano è l'ennesima possibilità per riscattare una serie di flop commerciali. Così, anziché stendere la sceneggiatura, si nasconde sotto lo pseudonimo William Hawkins e si limita a tracciare alcune linee guida chiamando uno dei padri del western comico: Duccio Tessari. Tessari ha appena diretto la commedia Per Amore... Per Magia (1967), una bizzarra versione musicale del genio della lampada, con Gianni Morandi nel ruolo di Aladino (!?). Forse stanco o forse già proiettato sulla successiva commedia Meglio Vedova (1968), il buon Duccio, all'insaputa del regista, stringe un accordo con Fernando Di Leo e Augusto Caminito, attribuendo loro il compito di supervisionare e integrare la bozza dallo stesso scritta in 843 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

fretta e furia. Per i due sceneggiatori sarà un lavoro ingrato, non saranno accreditati e neppure messi in comunicazione col regista che, tutt'oggi, continua a sostenere la loro estraneità al progetto. A ogni modo, nonostante le tante mani che si susseguono nella stesura del copione, il film esce fuori bene in virtù di dialoghi e situazioni esilaranti. Caminito arriverà a dire che l'apporto suo e Di Leo fu determinante per la salvezza del film, poiché il lavoro di Tessari e Caiano era un vero e proprio disastro. Eppure è proprio la mano di Tessari a emergere. La pellicola infatti gode di un'ironia e di una goliardia di fondo tipica dell'estro del regista romano. Non a caso il successivo western di Tessari, Vivi o, Preferibilmente, Morti (1969), avrà più di un debito con Un Treno per Durango riprendendone l'idea del finale con la girandola di colpi di scena, ma anche la presenza di un terzo soggetto che va in giro automontato a vegliare sui due protagonisti sconclusionati e spesso in lite. La storia ruota attorno a una cassa indistruttibile che si rivelerà a prova di cannone (!?) e che attirerà l'attenzione di svariati soggetti tutti intenzionati ad accaparrarne il contenuto. Gli unici in grado di aprirla sono i due protagonisti, perché hanno trafugato la chiave a due aristocratici trucidati dai rivoluzionari. Così li vedremo mettere le mani sul bottino ignorando che, oltre alle tre bande che lo hanno rapinato, altri tre personaggi sono sulle loro tracce: una donna ninfomane e ammaliatrice, un dandy che va in giro su un auto rossa e un capitano corrotto. Il film si chiude con una girandola di colpi di scena e con un epilogo follissimo in pieno deserto, che vede contrapposti i due protagonisti al dandy. Steffen e Damon, rimasti senza colpi, bluffano uscendo allo scoperto e avanzando pistola in pugno per dimostrare il loro coraggio e indurre l'avversario ad arrendersi. Terranno duro fino a giungere l'uno al cospetto dell'altro per cedere in concomitanza gettando le pistole a terra e arrendendosi in preda alla paura. “Divideremo in parti uguali il bottino” dirà Steffen tirando un sospiro di sollievo. Damon fingerà di accettare ma avrà in serbo un'ultima sorpresa, eh sì perché la macchina non parte e necessita di una spinta... Quello descritto è solo uno dei tanti momenti divertenti di una pellicola che regala sorrisi dal primo all'ultimo minuto, grazie alle ottime interpretazioni di Salerno, Camardiel e Bodalo. Non di secondaria importanza sono i dialoghi e la caratterizzazione dei tanti perso844 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

naggi con alcuni che sono delle vere e proprie macchiette. Abbiamo un dandy truffatore che parla ricercato e guida un auto rossa. Lo vediamo sempre alle prese con armi diverse (bombe a mano, mitragliatrici),che utilizza per giungere in soccorso ai due protagonisti ogni volta in cui questi sono sul punto di soccombere. Inseguito dai soldati messicani in pieno deserto, l'uomo, interpretato da Mark Damon, arresterà il veicolo e risponderà: “Che è... Eccesso di velocità?” Questo personaggio sarà ripreso pari pari da Tessari nel già citato Vivi o, Preferibilmente, Morti. A Bodalo viene affidato il ruolo di un capo banda omosessuale, dai modi goffi e dagli atteggiamenti sopra le righe (si sveglia sparando a casaccio con la pistola). Torturerà i protagonisti facendoli sotterrare fino al collo e ponendo sopra le loro teste delle pentole da percuotere con dei mestoli (!?). Steffen, prima di eliminarlo, lo chiamerà “Brutto finocchiaccio!”. Un ruolo simile viene affidato a Camardiel, il quale da vita a un bandito ubriacone senza scrupoli, avvezzo a sottoporre i propri uomini a folli prove di coraggio. In particolare li fa riunire attorno a un tavolo, tenendoli tutti bene stretti e abbracciati, cantando a squarciagola la Cucaracha; poi prende una pistola, ne carica il cane, spegne la luce e la lancia in aria in modo che parta un colpo a casaccio a seguito dell'urto sul tavolo. Questa è la spiegazione del gioco: “È una nostra simpatica abitudine: mangiamo e beviamo tutti insieme e ci dimostriamo a vicenda che non abbiamo paura della morte. Sarà un caso, ma va sempre a finire che muore quello che ha più paura” La protagonista femminile è una ninfomane interessata solo al tesoro. A lei Steffen si rivolgerà dicendole: “Io ti amo dal primo giorno che mi hai offerto quel sigaro...Che me frega dell'oro. La mia vita è altrove, in una fattoria del Montana, con tanti bambini, le mandrie e i tori...” A questo punto interverrà Salerno, facendo ironia: “Cornuti come te!” A Enrico Maria Salerno e Anthony Steffen spetta invece di incarnare i due protagonisti. Il loro non è un ruolo di temibili pistoleri, ma quello di vagabondi squattrinati che credono di fare le scarpe a tutti gli altri ma che finiscono truffati dall'inizio alla fine. Per non farsi sottrarre le chiavi dai banditi, pensano bene di ingoiarle facendo poi intendere, in seguito, di averle defecate. Salerno, che ha l'abitudine di carezzarsi la lingua per manifestare il proprio entusiasmo, presenta così il compagno: “Lui ha più taglie in testa che capelli!” 845 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Dunque un mix di personaggi ben caratterizzati, di situazioni grottesche e di dialoghi esilaranti che rendono la pellicola decisamente riuscita e originale. Le sparatorie pur presenti, con alcuni momenti alla Tarantino (due personaggi si uccidono simultaneamente sparandosi contro), non sono preponderanti, mentre mancano del tutto le scazzottate e le scene di violenza. Caiano è meno interessato all'azione, non regalando sequenze memorabili e ricorrendo a molte inquadrature fisse. Tuttavia, è bravissimo nella direzione degli attori, dando vita a quello che, forse a ragione (visto che il sottoscritto apprezza molto anche Le Pistole non Discutono), ritiene il suo miglior western. Il cast artistico è di culto, con un folto lotto di attori di primo piano nell'ambito degli spaghetti western di medio cabotaggio. Enrico Maria Salerno è tra i più ispirati. Offre quella che i più ritengono la sua migliore prova in un western. Giusti, esagerando un pochetto, lo definisce quasi al livello di Milian. Tra i più in palla ci sono l'argentino Bodalo e lo spagnolo Camardiel, due vere e proprie garanzie, qua esaltati da personaggi sopra le righe. Bellissima e sexyssima Dominique Boschero, al debutto nel genere nonostante i trentatré anni suonati. Parigina di origine italiana, arriva al film con circa cinquanta pellicole alle spalle. Lanciata dal cinema francese a metà degli anni '50, dopo aver debuttato come soubrette e indossatrice, era stata ingaggiata per la prima volta in un film italiano da Giorgio Simonelli, nella commedia western Un Dollaro di Fifa (1960), al fianco di Walter Chiari e Ugo Tognazzi, subito seguita da I Magnifici Tre (1961) sempre per Simonelli. Attiva inizialmente nella commedia, era passata, a poco a poco, a tutti i generi, dalle parodie di Franco & Ciccio, ai musicarelli, proseguendo col peplum e le spy story. Gli amanti delle pellicole di genere la ricorderanno nell'horror Contronatura (1969) di Margheriti e nei thriller L'Iguana dalla Lingua di Fuoco (1971) di Freda e Tutti i Colori del Buio (1972) di Sergio Martino. Si ritirerà nel 1975, dopo una serie di vicissitudini personali che la vedranno coinvolta con il fidanzato Claudio Camaso (il fratello di Gian Maria Volonté) in una lite che costerà la vita a un amico comune trafitto da una pugnalata. Riapparirà in una fiction tv italiana negli anni '80, ma sarà un fuoco di paglia. Il suo nome resterà altresì legato a quello del cantante Franco Califano con cui avrà una relazione sentimentale. Caiano sfrutta al massimo la bellezza dell'attrice, usandola in pose piuttosto ardite per il genere. La propone sdraiata sul letto al fianco 846 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di Manolo Zarzo, scosciata e accarezzata dal lento salire della mano dell'uomo dal polpaccio al gluteo e quindi dal bacino fino alla spalla nuda. Zarzo, poi, la bacia sul collo, mentre lei accenna a mordergli l'indice. Una scena più consona a un thriller che a un western, ma che non stona affatto. Inoltre la vediamo spesso in scena con vertiginose scollature che ne mettano in mostra i generosi seni, bustini attillatissimi e un trucco agli occhi, su cui Caiano stringe spesso, che la rende felina. Più bravo del solito è l'elegantissimo (vestiti sempre diversi ma sfarzosi e colorati) Mark Damon. L'americano ha un ruolo a lui congeniale, già sperimentato, caratterizzato da atteggiamenti molto british (baffetto compreso) che lo rendono estremamente simpatico. Fiacco Manolo Zarzo, legnoso Anthony Steffen, più curato del solito con capelli corti, barba rasata e vestito con capi candidi di bianco e azzurro. L'attore italo-brasiliano cerca (non riuscendoci molto) di rendere più espressivo il suo volto, anche perché è chiamato a interpretare un personaggio diverso dal format classico a cui era abituato (ovvero quello del pistolero triste e impassibile). Cammeo per il sempre valido Aldo Sambrell, doppiato da Ferruccio Amendola. Ottima la colonna sonora di Carlo Rustichelli che alterna marcette a una main theme spassosa e ritmatissima. Costituisce infine un valore aggiunto la fotografia di un Enzo Barboni, bravo a far apparire maestose le lande polverose delle location. Il film non ha successo al botteghino, il pubblico non è ancora pronto per i western scanzonati e tende a ignorarlo. Eppure è un vero spasso dall'inizio alla fine ed è uno dei pochi tortilla western ironici. Il regista lo reputa il suo miglior western. Ne parla bene pure Marco Giusti che non fa giri di parole nel reputarlo un ottimo western picaresco, ben ritmato e con una grande colonna sonora. Parere positivo pure per filmtv.it che attribuisce tre stelle e riconosce il merito alla pellicola di anticipare alcuni temi del sorrisi & cazzotti, opinione quest'ultima solo parzialmente condivisibile visto che il film non si regge sulle scazzottate, bensì su uno script comico/grottesco. Conforme spaghettiwestern.altervista.org che, giustamente, non lo ritiene un western classico ma un film avventuroso infarcito di simpatiche trovate e personaggi ben delineati. Calibrata l'opinione dello spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it: film salvato da un umorismo raro per uno spaghetti-western dell'epoca, se si eccettua Una Pistola per Ringo (non a caso diretto e scritto da Duccio Tessari). 847 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Tra i più entusiasti c'è l'inglese fistfulofpasta.com che lo definisce uno dei western più divertenti e curiosi che gli sia capitato di vedere e arriva a salvare anche l'interpretazione di Steffen giudicata molto buona. Il sottoscritto condivide la prima parte del giudizio e reputa il film senz'altro da riscoprire. Dal Trailer “Erano in due, faccia a faccia, pronti a premere il grilletto. Uno era di troppo e il terzo, ormai, non poteva più fermarli. Avevano due colpi, due pallottole per giocarsi la pelle, una donna e una somma favolosa bloccata nella cassaforte di un treno blindato... L'oro faceva gola a parecchi. Tre uomini e una donna, in due tentavano il colpo grosso; lei comunque era riuscita a fare colpo, anche troppo, lui invece era rimasto colpito, un vero colpo basso; l'altro sapeva colpire al momento opportuno.” Se Un Treno per Durango è un film allegro, i due veri tortilla-western della stagione escono in contemporanea il ventinove d'agosto e sono due autentiche perle. Li vediamo uno di seguito all'altro nelle seguenti schede. IL MERCENARIO Produzione: Italia-Spagna, 1968. Prodotto: Alberto Grimaldi (Pea), Norberto Solino (Profilms 21). Regia: Sergio Corbucci. Soggetto: Franco Solinas e Giorgio Arlorio. Sceneggiatura: Luciano Vincenzoni, Adriano Bolzoni, Sergio Spina e Sergio Corbucci. Interpreti Principali: Franco Nero, Tony Musante, Giovanna Ralli, Jack Palance, Eduardo Fajardo, Franco Ressel. Fotografia: Alejandro Ulloa. Musiche: Ennio Morricone e Bruno Nicolai. Sottogenere: Tortilla Western. Durata 103 min. Giudizio Mancini: ***1/2 Giudizio Morandini: **

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La trama Minatore messicano (Musante) assolda un distinto polacco, esperto in armi e tecniche militari (Nero), per respingere le truppe messicane chiamate da un latifondista (Fajardo) per sedare la rivolta dei peone. I due, dopo aver represso l'offensiva dei militari, stipulano un contratto in virtù del quale Kowalski, il polacco, dietro laute ricompense dovrà fornire al ribelle tutte le informazioni e tutto l'aiuto necessario per assaltare banche e compiere rapine celate sotto il falso movente rivoluzionario. Il polacco però cerca di convincere il socio a sfruttare la situazione per fare soldi, ma l'altro, a poco a poco, si convince, anche per amore di una messicana guerrigliera (Ralli), degli ideali politici e si mette a capo di un gruppo di peone rivoluzionari. Dietro al gruppo intanto, oltre all'esercito, si pongono il latifondista interpretato da Fajardo e un baro (Palance) che ha un conto in sospeso con i due ricercati. Commento Grande spaghetti-western riconducibile al sottogenere tortilla western e molto vicino, per atmosfera e struttura, a Corri, Uomo, Corri (1968) di Sergio Sollima uscito in contemporanea. L'opera ha una lunghissima e travagliata gestazione e prende le mosse come western di punta di Alberto Grimaldi per il 1968. Dopo i successi ottenuti con Sergio Leone, il produttore ha deciso di concentrare gli sforzi in pochi ma selezionatissimi western. Il progetto ha un'incubazione estremamente ambiziosa. Grimaldi tenta di convincere Gillo Pontecorvo, reduce dal premiatissimo La Battaglia di Algeri (1966) - film drammatico dai contenuti anticolonialisti, premiato con due nomination all'Oscar, oltre che un Leone di Venezia, un Nastro d'Argento e svariati premi minori – a debuttare nel genere. Il regista pisano, che nel 1969 avrà il privilegio di dirigere Marlon Brando in un altro film dai contenuti politici prodotto da Grimaldi e intitolato Queimada, in un primo momento accetta. La decisione viene favorita dalla presenza di due dei suoi sceneggiatori di riferimento: Franco Solinas e Giorgio Arlorio, quest'ultimo al debutto nel western (aveva scritto per lo più commedie) e futuro sceneggiatore di Zorro (1975) di Duccio Tessari oltre che dei successivi film di Pontecorvo. Solinas invece era già una sicurezza grazie a capolavori come La Resa dei Conti (1966) e Quien Sabe? (1966), a cui si aggiungevano le 849 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

preziose collaborazioni con Pontecorvo. I due sceneggiatori si gettano a capofitto nel progetto. Stendono un soggetto che prende come spunto l'opera teatrale L'Eccezione e la Regola di Bertold Brecht, inserendovi spunti accennati nei precedenti film, in particolare in Quien Sabe? Quando però tutto sembra sul punto di partire, si parla addirittura del coinvolgimento nel cast artistico di Burt Lancaster (in seguito di Eli Wallach e James Coburn), Pontecorvo si tira indietro. Per motivi non troppo chiari inizia a pensare di non essere in grado di dirigere le scene di azione. Non è nuovo il fatto che Pontecorvo fosse un regista estremamente severo e meticoloso con sé stesso, al punto da scegliere con cura i film da girare, come dimostra la sua esigua ma qualitativa produzione: appena cinque film oltre a una serie di documentari. A nulla servono i tentativi Grimaldi di convincerlo a ritrattare la decisione. Per non fare naufragare il lavoro si tenta addirittura di modificarne l'intelaiatura portando l'ambientazione ai giorni nostri, ma Pontecorvo non ne vuole sapere. Ormai è orientato verso altri progetti. Grimaldi è disperato, ma ecco che Sergio Corbucci viene a sapere del film e si fa avanti, forte del buon successo di Django (1966). Per Corbucci è un occasione d'oro: è la possibilità di lavorare con una produzione importante, assai più ricca di quelle a cui era abituato. Grimaldi, preso per la gola, concede la fiducia al regista romano e gli affida il progetto. Intanto Solinas e Arlorio, venuto meno Pontecorvo, si ritirano per seguire il loro maestro. Corbucci si trova così a dover interpretare un soggetto non suo e a svilupparlo anche in funzione della sua verve scatenata e densa di azione. Vengono così ingaggiati i veterani Luciano Vincenzoni e Adriano Bolzoni, rispettivamente reduci da Da Uomo a Uomo (1967) e da Un Buco in Fronte (1968), con quest'ultimo già collaboratore di Corbucci in Minnesota Clay (1965) e Johnny Oro (1966). Collabora alla stesura della sceneggiatura anche il documentarista Sergio Spina. Il soggetto viene stravolto. Dell'idea iniziale restano di due protagonisti dalle personalità e dai modi contrapposti, che collaborano ma che sono legati da un rapporto dove il tradimento è sempre dietro l'angolo, un po' come in Quien Sabe?. Viene inoltre confermato il peone alla Cuchillo de La Resa dei Conti. La presenza di più mani nella stesura dello script causa una certa diversità tra questo film e i precedenti lavori di Corbucci. Al posto 850 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

della violenza estrema, subentra uno spiccato senso dell'ironia culminante nel grottesco. Ci sono scazzottate tra Musante e Nero che si rotolano in mezzo a maiali, asini e galline, dialoghi esilaranti in cui Nero spiega cosa debba intendersi per rivoluzione usando come metro di paragone il fondo schiena di una donna. Non mancano poi i momenti comici, tra i quali un Jack Palance completamente nudo, ripreso di schiena, costretto a vagare nel deserto, ovvero Eduardo Fajardo costretto a ingoiare una lucertola sotto minaccia di una pistola. La cifra stilistica di Corbucci emerge nell'abbondanza delle sparatorie spettacolari, nelle frecciate di pessimismo e soprattutto nei monologhi guasconi di Franco Nero. Si segnalano inoltre delle bizzarrie mai viste in uno spaghetti-western come un deltaplano, che poi Nero farà precipitare con una fucilata (!?), impiegato a bombardare un villaggio (sequenza da war movie). I personaggi sono ben caratterizzati e assai diversi. Abbiamo il peone alla Cuchillo: ingenuo, mal vestito, che ride di continuo perché divertito da tutto e comandato a bacchetta dall'amante che gli rimprovera l'atteggiamento remissivo nei confronti del polacco. Quest'ultimo infatti gli spilla soldi in continuazione, grazie a una dialettica e una furbizia superiore. Tony Musante si rivela adattissimo al ruolo e, nonostante quanto si legga in giro, non fa rimpiangere Tomas Milian, sebbene sia sprovvisto del carisma del cubano. Il trentaduenne attore italo-americano è al debutto in Italia. Vi arriva grazie a New York ore 3: l'Ora dei Vigliacchi (1967) di Larry Peerce, dove era approdato in seguito a una lunga gavetta nei serial televisivi (tra cui Alfred Hitchcock Presenta). Solito a ricoprire ruoli da teppista, non ha alcuna difficoltà a calarsi nella realtà italiana. Resterà nella nostra penisola per un trio di pellicole di grande importanza con ruoli da protagonista: Metti, una Sera a Cena (1969) di Giuseppe Patroni Griffi, L'Uccello dalle Piume di Cristallo (1969) di Dario Argento e Anonimo Veneziano (1970) di Enrico Maria Salerno. Nonostante lo strepitoso successo commerciale di questi film e le discrete interpretazioni, Musante non riuscirà a trovare spazio a Hollywood se non nei serial televisivi. Memorabile, al riguardo, la terribile lite con Dario Argento, con il regista romano rintanato in casa per sfuggire alle ire dell'attore intenzionato a mettergli le mani addosso ma costretto a prendere a calci la porta d'ingresso debitamente sbarrata dell'abitazione del Dario nazionale. Ritornerà ad avere ruoli di un certo livello negli anni '80, sempre in Italia, ne La Gabbia (1985) di Pa851 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

troni Griffi e ne Il Pentito (1985) di Squitieri, per proseguire ancora nel circuito televisivo. A mio avviso avrebbe potuto ottenere molto di più, probabilmente è stato penalizzato dai limiti caratteriali. A fargli da spalla abbiamo il distinto polacco interpretato da Franco Nero. Baffoni e basettoni alla scozzese, look da dandy, Nero abbandona il fare da rude che aveva caratterizzato i suoi precedenti personaggi a vantaggio di un atteggiamento esoso e truffaldino. Ride sotto i baffi, sfotte tutti quanti con sagacia. In una scena costringe un baro a deglutire due dadi truccati, dopo averglieli buttati in un bicchiere di latte. Il tipo, il grande Franco Ressel, non la prende bene: “Kowalski, a giocare troppo col fuoco uno finisce con lo scottarsi le mani!” Il nostro non si scompone e gli risponde: “Porto i guanti” L'altro però, forte della pistola che tiene in pugno, sembra non capire l'ironia. “Dove sono? Io non li vedo!”Inevitabile la battuta del pistolero: “Li ho tolti, perché senza guanti sparo meglio...” Il polacco è un opportunista, vive delle guerre e degli scontri politici altrui, un vero e proprio mercenario che spilla soldi ai peone. Tira più volte fuori dai guai il protagonista per poi solleticarlo con proposte da strozzino. “Sono un professionista, io, non lavoro mai gratis!” Arriva a fargli sottoscrivere un contratto che prevede ogni lusso e privilegio in suo favore. Durante la marcia nel deserto pretende e ottiene di farsi gettare una damigiana d'acqua in testa per fare la doccia e vincere il caldo (!?), attirandosi contro le ire e l'antipatia della donna del protagonista la quale sospetta di lui. Bello lo scambio di battute finali dove il peone, rifiutando le proposte economiche del polacco perché preso dai propositi rivoluzionari, gli dirà una grande verità: “Io ho qualcosa che tu non hai mai avuto: Io ho un sogno!” Secco e assai utile a tratteggiare il profilo psicologico del polacco il pensiero di quest'ultimo: “L'idealismo è il concime dei cimiteri.” Ai due protagonisti si aggiunge il personaggio affidato a Jack Palance, il quale offre una magnifica interpretazione nei panni dell'antagonista (Fajardo è molto più marginale). Vestito in modo aristocratico, con tanto di occhiello al petto, cravatta, riccioli ben ordinati e fare effeminato ma al contempo ironico, se ne va in giro a barare a poker e a parlare in modo gentile ai suoi rivali con frasi che celano crudeli ordini subliminali finalizzati a essere eseguiti dagli uomini che si porta appresso. Commenta ogni assassino compiuto sotto i suoi comandi facendosi un'ipocrita e veloce segno della croce. 852 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Dotato di un caratteristico volto che sembra scolpito nel cuoio (in questo “aiutato” da una serie di interventi chirurgici resi necessari per suturargli le ferite patite nella seconda guerra mondiale) e di un'espressività beffarda che lo rendeva perfetto per i ruoli da duro, Palance debutta nel genere dopo una carriera eccelsa che gli era già valsa ben due nomination all'oscar come migliore attore non protagonista in So che mi Ucciderai (1952) e nel cult western Il Cavaliere della Valle Solitaria (1953). Vincerà poi il premio nel 1992 con la commedia omaggiante il western Scappo dalla Città – La Vita, l'Amore e le Vacche (1991) di Ron Underwood. Di origine ucraina, il vero nome era Volodymyr Palahniuk, e con un passato dapprima da pugile e poi da attore teatrale, Palance interpreterà cento pellicole nell'arco di cinquanta anni, oltre a recitare in numerosi serial televisivi. Si diletterà altresì nella pittura e nella poesia, dimostrando un talento davvero variegato. Apprezzatissimo sia a Hollywood che in Europa, alternerà il proprio lavoro tra film d'autore, tra cui Il Disprezzo (1963) di Jean Luc Godard, film di genere come il bellissimo macaroni combat La Legione dei Dannati (1969) di Umberto Lenzi o Justine ovvero le Disavventure della Virtù (1969) di Jess Franco, e blockbuster quali Batman (1989) di Tim Burton. Agli occhi degli appassionati, tuttavia, Palance resterà legato al genere western con moltissimi ruoli ricoperti sia nell'ambito dello spaghetti-western (da recuperare Vamos a Matar Companeros sempre di Corbucci) sia di quello hollywoodiano. Giovanna Ralli, invece, ricopre il ruolo della dura donna rivoluzionaria, un po' come avvenuto per Martine Beswick in Quien Sabe?. La bella attrice romana, al suo unico western e già con un Nastro d'Argento in bacheca come migliore attrice protagonista de La Fuga (1964) di Paolo Spinola oltre che un tentativo (fallito) di affermarsi a Hollywood, non delude le attese. La sua è una performance spigolosa, austera, impreziosita da un sex appeal da prima fascia. È proprio lei la vera anima tortilla del film, poiché è l'idealista che porterà Musante a sposare gli ideali rivoluzionari. La Ralli vincerà in seguito un altro Nastro d'Argento come migliore attrice non protagonista di C'eravamo Tanto Amati (1974) di Ettore Scola, fallendo in quattro altre circostanze (semplici nomination) con Tempo di Villeggiatura (1956) di Antonio Racioppi, Verso Sera (1990) di Francesca Archibugi, Tutti gli Anni una Volta l'Anno (1994) di Gianfranco Lazotti e Il Pranzo della Domenica (2003) di Carlo Vanzina. Celebre inoltre la sua inter853 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

pretazione da protagonista in Era Notte a Roma (1960) di Rossellini, sebbene il film non riuscì a farsi amare troppo dalla critica per la sua impronta neorealista. Negli anni '70 perderà quell'attenzione che le era stata riservata tra gli anni '50 e '60 (oltre cinquanta film per la regia di grandi autori quali Monicelli, De Sica, Scola), mettendosi al servizio di alcuni B-Movie culto come La Polizia Chiede Aiuto (1974) di Dallamano e svariati commedie scollacciate quali 40 Gradi all'Ombra del Lenzuolo (1976) di Sergio Martino. Poserà altresì nuda sulle pagine di Playboy, prima di passare al teatro dopo il trashoso Manolesta (1981), una sorta di riproposizione de Er Monnezza di Tomas Milian. Tornerà con successo nel mondo del cinema a partire dagli anni '90. Dunque un cast artistico di particolare valore a cui si aggiungono i vari Eduardo Fajardo, nel suo consueto ruolo da nobile crudele e sadico, e Franco Ressel. Eccelso Corbucci alla regia. Il romano supera se stesso, aiutato da un budget superiore alla media. La regia è dinamicissima e scatenata. Soggettive, carrellate, camera car, riprese aeree, inquadrature con macchina da presa collocata dietro alle gambe di un protagonista in modo da riprendere in campo lungo il rivale duellante e via dicendo, il tutto in un ritmo vorticoso impreziosito da una coreografia da grande werstern. Spettacoloso, per inquadrature e colonna sonora, il duello in arena con Musante (truccato da clown) e Palance armati di fucile sotto lo sguardo di un Franco Nero che si erge ad arbitro della contesa (“Darò una pallottola a ciascuno di voi. Camminate in direzioni opposte, al terzo colpo di campana, voltatevi e sparate.”). La sequenza è montata in modo divino, con una moltitudine di inquadrature (compresa una aerea). Inevitabile notare la stretta relazione col finale di Per Qualche Dollaro in Più (1965), evidenziato anche dalla scelta di dilatare al massimo il confronto. È altresì doveroso sottolineare la bellezza eccezionale di questo duello, in grado di brillare in un ipotetica antologia del genere addirittura più di quello di Leone. Attenzione al sangue che affiora dall'occhiello di un Palance inizialmente convinto di averla spuntata, Tarantino omaggerà il momento in Django Unchained (2013). Da un punto di vista tecnico, per interpretazioni, musiche e messa in scena, Il Mercenario è il miglior film di Corbucci fin qui visto anche se non sarà il migliore in assoluto. 854 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Pazzesca la colonna sonora del duo Morricone-Nicolai, senz'altro tra le migliori del genere, non a caso sarà inserita da Tarantino come commento sonoro di Kill Bill. Tra i difetti del film sottolineerei una cura un po' superficiale nel trattare i temi tipici del tortilla western, qua abbozzati a vantaggio delle avventure scanzonate in cui compaiono vecchie auto, pistole semiautomatiche, mitragliatrici, bombe a mano e via dicendo. Ciò detto è innegabile respirare quel pessimismo e quell'utopia connessa alla rivoluzione, vista come un tentativo impossibile di avvicinare i ricchi (la testa) ai poveri (il bel fondo schiena di una donna), poiché in mezzo c'è un gap (la schiena) incolmabile. La componente politica resta comunque accennata e questo penalizza l'opera. Western successivi quali Tepepa (1969) o lo stesso Vamos a Matar Companeros di Corbucci tratteranno meglio l'argomento. Premesso questo, il film resta uno dei migliori spaghetti western, assolutamente imperdibile e capace di incollare alla poltrona l'amante del genere. Compare tra i primi posti di molte classifiche di gradimento. Spaghetti-western.net lo colloca in ottava posizione, addirittura davanti a Vamos a Matar Companeros (scelta che non condivido); è addirittura quarto per Quentin Tarantino che però gli preferisce Django. Per Alex Cox invece non vale i primi venti posti. Sette in pagella per imdb.com, tre stelle per filmtv.it. Tra i meno convinti figura Marco Giusti, il quale plaude la colonna sonora e qualche battuta, ma afferma che il film non decolla mai e che è un trampolino sperimentale che permetterà a Corbucci di girare il suo vero masterpiece rivoluzionario: Vamos a Matar Companeros. Critica poi Musante non ritenendolo all'altezza. Inutile riportare ciò che si legge sui blog, poiché tutti sono concordi nel giudicare Il Mercenario un western da non perdere. Tra i soliti detrattori il Farinotti e il Morandini che non danno più di due stelle pur spendendo, quest'ultimo, qualche complimento: grande spettacolo, un certo ritmo. Storce il naso anche il Merenghetti che parla di western senza infamia e senza lode (!?). CORRI UOMO CORRI Produzione: Italia, 1968. Produttore: Alvaro Mancori e Anna Maria Chretien (Mancori-Chretien). 855 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Regia: Sergio Sollima. Soggetto: Sergio Sollima. Sceneggiatura: Sergio Sollima e Pompeo De Angelis. Interpreti Principali: Tomas Milian, Donald O'Brien, Chelo Alonso, Linda Veras, Nello Pazzafini, Marco Guglielmi, Luciano Rossi (Edward Ross), José Torres, John Ireland e Federico Boido (Rick Boyd) . Fotografia: Guglielmo Mancori. Musiche: Bruno Nicolai. Sottogenere: Tortilla Western. Durata 120 min. Giudizio Mancini: *** Giudizio Morandini: *** La trama Il ladro vagabondo Cuchillo (Milian), asso nel lancio dei coltelli, fa la conoscenza in carcere di un poeta rivoluzionario (Torres). Il letterato è un leader politico dei peone e ha accumulato un bottino di tre milioni di dollari custoditi in una tipografia nel Texas. Appena usciti di prigione, il poeta viene attaccato dalla banda di Reza (Pazzafini), un messicano che sostiene di lottare per la rivoluzione, ma che ha il solo scopo di depredare e uccidere. Il poeta viene assassinato, mentre Reza cerca di estorcergli informazioni sull'oro. Intanto irrompono in scena un ex sceriffo (O'Brien), un tempo filo-rivoluzionario e ora interessato ai soldi, nonché due agenti segreti francesi (Rossi e Guglielmi) al servizio del governo messicano. Tutti, per ragioni diverse, vogliono recuperare il bottino, ma nessuno sa dove esso sia custodito. Solo Cuchillo ne viene a conoscenza, perché informato dal poeta ormai morente. Ha così inizio la lunga corsa all'oro a cui partecipano anche le due donne del messicano: una pudicissima estremista religiosa (Veras), figlia del sindaco della città dove l'oro è custodito, e la focosa messicana promessa sposa di Cuchillo (Alonso). Quest'ultimo, aiutato dall'ex sceriffo, avrà la meglio sulla banda di Reza e sui due agenti segreti francesi, sposando la causa dei rivoluzionari guidati da Santillana (Ireland). Commento Dopo La Resa dei Conti (1966), sempre per la regia di Sollima e l'interpretazione di Tomas Milian, torna il ladro vagabondo Cuchillo, il peone straccione che ripudia le armi da fuoco in favore dei coltelli. 856 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Ancora una volta viene braccato per tutto il corso del film da un manipolo di antagonisti. Sergio Sollima chiude così la sua trilogia western, di cui fa parte anche Faccia a Faccia (1967), portando la piega politica che già caratterizzava i precedenti film verso il tortilla western. Sollima perde la produzione di Alberto Grimaldi e con essa la collaborazione di due maestri come Sergio Donati e Franco Solinas. A finanziare il regista interviene allora l'ex direttore della fotografia Alvaro Mancori (e la sua compagna Anna Maria Chrétien), già incontrato in occasione di piccoli western delle origini come Gli Uomini dal Passo Pesante (1965) e soprattutto creatore degli Studi Elios. Mancori vede in Sollima la possibilità di realizzare uno spaghetti-western di prima fascia, un modo come un altro per riscattarsi dalle esperienze fallimentari avute soprattutto nel genere drammatico. Il budget non è al livello della Pea e gli effetti sono piuttosto evidenti fin dalla lettura dei nomi coinvolti nel cast. Sollima chiede e ottiene l'ingaggio di Tomas Milian, fondamentale per dare continuità al personaggio protagonista de La Resa dei Conti, ma non gli vengono messi a disposizione altri attori di calibro. Il nostro deve fare di necessità virtù dirigendo un lotto di abili caratteristi del genere, tra cui figurano Nello Pazzafini (attore peraltro feticcio di Sollima), Luciano Rossi, José Torres e Federico Boido, e lanciando in un ruolo importante lo sconosciuto Donald O'Brien (solitamente confinato in ruoli da comparsa). Fulminea apparizione invece per John Ireland, che si limita a un paio di sequenze. La storia ruota attorno a un soggetto dello stesso Sollima, coadiuvato da Pompeo De Angelis (autore che non scriverà altri copioni). I due percorrono la via intrapresa da Sergio Corbucci con Il Mercenario (1968) e confezionano una storia che ruota attorno al tema della rivoluzione senza addentrarsi troppo nella tematica politica. Abbiamo molti personaggi, tutti ottimamente caratterizzati, le cui storie si intrecciano tra loro, unite da un elemento comune: la volontà di impossessarsi di un ingente quantità d’oro dislocata in un paesino americano di frontiera. Così facciamo la conoscenza di briganti, rivoluzionari, agenti governativi, ex sceriffi, donne innamorate con spirito di avventura e, nel mezzo a tutti questi, Cuchillo, ladro da quattro soldi, svelto nell’uso del coltello, che si trova coinvolto in avventure che sconfinano nel grottesco. Viene dunque riproposta la tematica della caccia a un tesoro nascosto, che va a interessare una serie di soggetti 857 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

inizialmente schierati l'uno contro l'altro e poi associati per ragioni strategiche. La particolarità sta nell'inserire il canovaccio in un contesto in cui è in corso la rivoluzione messicana. Sollima lavora molto sulla caratterizzazione dei personaggi, sfaccettandoli con cura e meticolosità. Abbiamo il canonico bandito rivoluzionario alla Fernando Sancho (bugiardo, violento e traditore, che spara su donne e bambini), pronto a coprire con la rivoluzione le proprie malefatte. Gli da corpo lo statuario Nello Pazzafini, collaudatissimo in ruoli del genere fin dai tempi di Adios, Gringo di Stegani. Al suo fianco si allineano i due agenti segreti francesi, ben vestiti, arroganti (portano entrambi le pistole posizionate al contrario nel cinturone) e dalle apparenze nobiliari, interpretati dal biondo Luciano Rossi e da Marco Guglielmi, quest'ultimo proveniente dai fotoromanzi e già visto in Bandidos (1967). I due transalpini tenteranno, nella loro meschinità, di usare tutte le pedine del gioco a loro favore. In particolare sfrutteranno l'amore della donna di Cuchillo, che venderà loro informazioni allo scopo di proteggere il suo uomo, guardandosi poi bene di rispettare i patti. Agiranno allo stesso modo con la banda di Pazzafini, convincendo quest'ultimo a invadere il paese in cui si è asserragliato Cuchillo e recuperare il bottino. Tuttavia, mentre Pazzafini metterà a ferro e fuoco la città, i due lo abbandoneranno al suo triste destino lanciandosi all'inseguimento del trio di tipografi che, nel frattempo, avran caricato il tesoro e si saranno dati alla fuga. Raggiungeranno così i fuggiaschi in pieno deserto e, seppur disarmati, li uccideranno a sangue freddo. I personaggi di Rossi e Guglielmi rappresentano così l'arroganza del potere costituito, conclusione sottolineata dalle continue affermazioni che fanno quando sostengono di lavorare per conto del governo. La vigliaccheria della coppia si manifesterà in modo evidente nel duello finale, che contrapporrà Rossi a Milian sotto lo sguardo di Guglielmi. Rossi, armato di pistola, pretenderà di sfidare Cuchillo portandosi a una distanza tale che il coltello del rivale non possa attingerlo. Sollima qui opta per un'autocitazione (il riferimento va al duello pistola vs coltello visto ne La Resa dei Conti), miscelandovi un omaggio sia a Per Qualche Dollaro in Più sia a Il Mercenario. Infatti Milian verrà salvato dall'intervento di Donald O'Brien, proprio nel momento in cui le cose sembreranno mettersi male. O'Brien infatti, armato di fucile, costringerà Rossi a portarsi a distanza leale in modo da dare la possibilità a Cuchillo di difendersi. Il messicano avrà così la meglio, piantando un coltello in piena gola di Ros858 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

si, con Sollima che cita ancora una volta il film di Leone facendo scagliare dal protagonista non il coltello che tiene in bella evidenza sulla spalla ma uno celato nella manica della camicia (il riferimento va al duello Van Cleef vs Kinski). Donald O'Brien, come abbiamo detto, è un caratterista che nell'occasione debutta in Italia con un ruolo (uno dei migliori della sua carriera) di spalla. Attore franco-irlandese, particolarmente noto agli amanti di cinema-bis, O'Brien giunge in Italia da perfetto sconosciuto dopo aver lavorato in svariate pellicole francesi con ruoli marginali, talvolta neppure accreditato. La sua performance è solida e scenica, seppur poco brillante nell'espressività. Da vita a un personaggio disilluso, un ex sceriffo un tempo filo-rivoluzionario, che ha abbandonato ogni proposito politico. “Non credo più negli uomini, ora mi batto solo per me stesso” dirà a un vecchio compagno di lotta che poi si troverà costretto, suo malgrado, a uccidere in duello. Bello il saluto che darà al cadavere dell'amico, sussurrando una frase carica di rispetto: “Non serve battersi per una ragione giusta per vincere”. Sollima tratteggia questo personaggio un po' come lo straniero di Clint Eastwood, anche se lo dota di un alone disincantato e malinconico. Come i due francesi, cercherà di tradire i patti concordati con Cuchillo, infatti dopo averlo braccato e martoriato per metà film (lo legherà persino in pieno deserto, costringendolo a correre dietro al suo cavallo, con la speranza di fargli confessare dove si trovi il tesoro) finirà con lui in galera. Quest'ultima esperienza, unita alla vecchia coscienza filo-rivoluzionaria, lo porterà a salvare la vita del compagno di avventure per ben due volte: prima da Pazzafini (tiene sotto scacco Cuchillo usando come scudo la donna dello stesso) e poi da Rossi, nella sequenza sopra descritta. La prova più che sufficiente offerta da O'Brien non gli sarà tuttavia di grande aiuto, poiché non lavorerà per ben tre anni. Tornerà in una decina di spaghetti-western di infimo livello girati, tra il 1972 e il 1973, da registi quali Vari, Batzella, Sabatini e Crea. Queste partecipazioni lo relegheranno a ruoli da comparsa in opere di genere di medio-basso livello. Avrà tuttavia dei piccoli ruoli in alcuni cult crepuscolari quali Il Ritorno di Zanna Bianca (1974), I Quattro dell'Apocalisse (1975) e Sella d'Argento (1970) tutti di Fulci, Keoma (1976) di Castellari e Mannaja (1977) di Martino. Nel 1980 sarà vittima di un grave sinistro stradale che avrà delle ripercussioni invalidanti sulle sue capacità motorie (resterà parzial859 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mente paralizzato). Dotato di un grande temperamento avrà comunque modo di continuare a lavorare, peraltro ne Il Nome della Rosa (1986) di Annaud, dove interpreterà Pietro D'Assisi. Curioso poi l'ingaggio, propiziato dalle lesioni e delle ridotte capacità motorie, voluto da Joe D'Amato che gli offrirà il ruolo del mostro protagonista in Frankenstein 2000 (1992). Oltre ai citati quattro personaggi, il tesoro farà gola alle due donne che si contenderanno l'amore di Cuchillo. Sollima da sfogo alla sua verve ironica, tratteggiando due soggetti che sono delle vere e proprie macchiette, con carattere e atteggiamenti opposti. Da una parte abbiamo la focosa e olivastra messicana interpretata dalla cubana Chelo Alonso, ex soubrette di trentacinque anni (al suo ultimo film), regina dei peplum e moglie del produttore esecutivo Aldo Pomilia (già collaboratore di Sollima in Faccia a Faccia). Dotata di tratti marcati, la Alonso inseguirà per tutto il film Cuchillo, cercando di tirarlo fuori dai guai. Lo vuole sposare a tutti i costi, ma teme che si faccia ammazzare. Il suo è un amore possessivo e allo stesso tempo esagitato. Il peone, consapevole di ciò, le sguscia in continuazione come un'anguilla. Per mandarla fuori strada le darà anche informazioni false, ma la donna, imprecando e inveendo, sarà implacabile nel trovarlo ogni volta. “Anche nel Texas ti riprendo!” gli promette. Arriverà addirittura a sorprenderlo in compagnia di una giovane invasata, che finirà con lei nel fango in una carambola di calci e pugni che vedrà Cuchillo unico spettatore annoiato. Sarà proprio lei, a fine film, a portarsi via il carico, sotto la benedizione di O'Brien e di Milian. È addirittura più balzano il personaggio offerto a Linda Veras, fidanzata proprio del regista. Figlia del sindaco della città dove è custodito il tesoro, la donna se ne va in giro in carovana per il deserto. Fa proselitismo estremo, vestita da soldato, perché sostiene di appartenere all'Esercito della Salvezza:“Siamo i soldati del signore e combattiamo il demonio per la salvezza delle anime”. Cuchillo, solo nel deserto, si unisce a lei per sfruttare un passaggio. Bonissima ma casta ai limiti della frigidezza (urla in modo isterico dietro Cuchillo, perché lo accusa di essere uno scostumato), costituisce l'anima spensierata del film dando un'atmosfera da western comico, per lo meno nelle sequenze in cui è coinvolta. Quando saprà del tesoro, modificherà l'atteggiamento. Sarà gentile e premurosa nei confronti di Cuchillo, cercherà di sedurlo (e imbrogliarlo), promettendogli una vita sempre insieme. Spettacolosa, al riguardo, la scena con lei che lancia proclami al cospetto di un 860 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gruppo di peone affamati, ammonendoli dal peccare (“Quando la donna accende i vostri sensi, è peccato!”) con Milian che, a ogni affermazione, batte sul tamburo in modo sempre meno convinto per poi sbottare, come un ossesso indemoniato, e spronare i poveri alla ribellione. L'atteggiamento del peone attira subito un pugno di soldati che lo legano e gli infilano un candelotto di dinamite in bocca, mentre la Veras invoca l'intervento divino. D'improvviso si sente un lontano tambureggiare che lascia tutti in trepidazione: sono i rivoluzionari capeggiati da Santillana, che salveranno Cuchillo da morte sicura. A dar volto a Santillana troviamo un attore dal passato illustre: il nominato al premio oscar John Ireland. Il canadese però si limita a un breve cammeo. Salva Cuchillo e lo invita a cooperare con lui, che è il vero volto della rivoluzione ovvero colui che lotta per sovvertire il regime. Bello il rimprovero che Ireland muoverà a Cuchillo per commentare l'assurdo comportamento tenuto da quest'ultimo al cospetto dei militari: “Che stupido che sei! Andare in giro a provocare soldati e ufficiali: mai attaccare se non hai cinquanta probabilità su cento!” Santillana, unitamente a Ramirez (cioè il poeta interpretato da José Torres che Cuchillo conosce in carcere a inizio film), si rivelerà assai convincente, tanto da scommettere su Cuchillo (uno scatenato Tomas Milian), un degenerato su cui nessuno punterebbe un dollaro (in realtà, dopo averlo rubato e poi restituito a vincita avvenuta, è Cuchillo a puntarlo su O'Brien) riuscendo ad appassionarlo alla causa. Cuchillo è l'unico a mostrare un attaccamento alla causa del Messico, ma non scende mai in discussioni politiche. Si limita a eseguire la missione (trovare il tesoro), con un temperamento ingenuo e pacifico, ma non refrattario alla violenza. Nasconde in ogni parte del corpo e in ogni piega dei vestiti una selva infinita di coltelli. Ne ha uno in ogni dove e non esita a scagliarli. Nonostante le abilità finisce più volte sotto scacco venendo salvato dai complici (le due donne, Ireland e O'Brien). Un'altra particolarità è costituita dal fatto che è sempre in fuga, dall'inizio alla fine (da qui il titolo della pellicola). Una comparsa, per tale vezzo, lo canzonerà in questo modo: “Dovunque tu sia, corri, uomo, corri; c'è bisogno di te, del tuo coraggio, della tua astuzia e del tuo coltello.” Se Cuchillo non parla di politica, le cose cambiano col letterato Ramirez (il bravo Torres), giudicato pericoloso dai soldati perché è un poeta (“Pericoloso? Molto, è un poeta!”) che stampa giornali clandestini di lotta. Gli sceneggiatori, a ragione, evidenziano come la cultura 861 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sia sempre una minaccia per chi detiene il potere, in quanto pozzo di conoscenza e lama che squarcia quei veli di ignoranza in cui sguazzano i politici. Proprio la professione dell'uomo, così come il fatto che il tesoro sia stato plasmato sotto forma di una macchina tipografica, portano Marco Giusti, nel suo Dizionario del Western all'Italiana, a fare una giusta considerazione. Il critico individua nelle scelte operate da Sollima la volontà di comunicare, in metafora, che “le fonti da cui nasce la rivoluzione sono la parola e la comunicazione”. Importante passaggio, in tal senso, è costituito dal dialogo tra O'Brien e i tre tipografi ex colleghi del poeta quando, per smuoverli dalla apatia, dirà loro: “Tutta la vita non vi basterebbe per decidervi. Siete dei vigliacchi, rintanati qua dentro ad aspettare che arrivi la rivoluzione, ma la rivoluzione non verrà se ciascuno di voi non la farà scoppiare dentro di sé!” Sollima gira molto bene, con un montaggio serrato (lo ritiene lento mondo-esoterica.net) e svariate sequenze degne di nota. Oltre alle già citate, è da segnalare la crocefissione di Tomas Milian alle pale di un mulino a vento, con il regista che propone le soggettive volteggianti di Cuchillo mentre Guglielmi lo schiaffeggia. Presente poi un grande inseguimento di gruppo con sparatorie e cadute di cavalli su una distesa di neve soffice, ai piedi delle montagne imbiancate. Sollima, come già fatto da Marchent ne I Sette del Texas, per evidenziare lo spostamento dei personaggi dal Messico agli Stati Uniti, sfrutta diverse location. Parte dai deserti colmi di dune e arriva sulle montagne. Adotta infine delle soluzioni visive sperimentali (primi piani di specchi che cadono e che riflettono, nel loro moto, l'evoluzione di un duello) inserite nella sparatoria iniziale in cui fa una comparsa Federico Boido (solito personaggio da bullo che finisce male). Eccezionale e ritmatissima la colonna sonora di Bruno Nicolai. La main theme Espanto en el Corazòn cantata da Tomas Milian in persona è uno spettacolo. Di rilievo i titoli di apertura stile fumetto. Queste le caratteristiche di un western da considerarsi buono, peraltro con un Milian e una Alonso scatenati (sufficienti gli altri), ma non al livello degli altri western di Sollima. Lo penalizza una sceneggiatura non troppo convinta (sta un po' a metà tra il farsesco, il tortilla western e lo spaghetti western) e un finale stiracchiato (il conflitto nel paese fantasma è un ritorno alle origini) aperto a un sequel che Sollima non girerà mai, perché (scandalosamente) non finanziato a dovere. A ogni modo, Corri Uomo Corri, pur non avendo un incasso stellare non andò affatto male. Purtroppo non avremo altri western 862 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di questo validissimo regista, che passerà al noir per poi ottenere successo con la serie Sandokan. Marco Giusti parla di western più volutamente politico tra quelli di Sollima (non sono molto d'accordo), che mette in risalto la forza terzomondista del protagonista. Apprezzato dai “generici” con il sei e mezzo abbondante di imdb.com e le tre stelle del Morandini (“western avventuroso e spettacolare non privo di riferimenti politici”). Filmtv.it lo subordina, a ragione, a Faccia a Faccia. Alla stessa maniera conclude spaghettiwestern.altervista.org che lo giudica godibilissimo con inquadrature geniali, ma non all'altezza degli altri lavori di Sollima. Lo reputa invece sottovalutato spaghetti-western.net tanto da inserirlo in ventesima posizione nella sua classifica dei migliori spaghetti-western (subordinato agli altri due western del regista). È buono per 800spaghettiwesterns.blogspot che lamenta una sceneggiatura un po' limitata. Mondo-esoterica.net, pur esprimendo un giudizio positivo, storce il naso non apprezzando i momenti comici con la Veras (“sono inutili”) e ritenendo scarso il finale. Commenti tutti piuttosto condivisibili, per un western forse un po' troppo sopra le righe, ma comunque meritevole di essere visto. Consigliato. Citazioni: “Adios, Cuchillo se ne va...!” Il buon successo dei tortilla di Corbucci e di Sollima, assai ben accolti dai giovani studenti nonché dagli spettatori dei paesi del terzo mondo, soprattutto messicani e sudamericani, porta altri registi di calibro a investire nel sottogenere. Tra i più recettivi c'è Giulio Petroni, il quale inizia a lavorare su un progetto che vedrà la luce a fine gennaio 1969. Ecco qui di seguito la scheda. TEPEPA Produzione: Italia e Spagna, 1969. Produttore: Richard A. Herland, Franco Clementi e Alfredo Cuomo (Filmamerica) e Tullio Ovedaine e Nicolò Pomilia (Siap), Pefsa. Regia: Giulio Petroni. Soggetto e Sceneggiatura: Franco Solinas e Ivan Della Mea. 863 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Interpreti Principali: Tomas Milian, Orson Welles, John Steiner, Luciano Casamonica, Paloma Cela, José Torres, Paco Sanz e George Wang. Fotografia: Francisco Marin. Musiche: Ennio Morricone. Sottogenere: Tortilla Western. Durata 136 min. Giudizio Mancini: ***1/2 Giudizio Morandini: *** La trama Dottore inglese (Steiner) salva dalla fucilazione il rivoluzionario Tepepa (Milian), caricandolo a bordo di un'autovettura al cospetto del colonnello Cascorro (Welles) e dei soldati messicani schierati per eseguire la pena capitale e rimasti sorpresi dall'evento. Il medico vuole Tepepa non perché è fedele alla causa del Messico, ma per vendicare la fidanzata (Cela) suicidatasi dopo esser stata violentata dal rivoluzionario. Cascorro però lo blocca prima che consumi l'omicidio, facendolo arrestare. Tepepa sfrutta la confusione generale per distruggere l'auto dell'europeo e darsi alla fuga. Tornerà in seguito a liberare il dottore, oltre a una serie di peone, mettendo soqquadro il carcere in cui sono reclusi. Tra i due si instaura così un rapporto di stima-odio, sempre sul filo dell'incertezza. Il messicano, schifato dall'esito della rivoluzione e dall'atteggiamento remissivo del Presidente Madero (Sanz), fa impugnare le armi ai peone liberati e li convince a riprendere la lotta contro latifondisti e esercito. Cascorro, dal canto suo, cercherà di arginare l'avanzata della rivoluzione, comprando informazioni dagli stessi uomini di Tepepa. Il dottore, dapprima nemico poi complice di Tepepa, torna intanto a meditare sulla vendetta... Il Commento Classico tortilla western, originariamente intitolato Viva la Revoluciòn, scritto dallo specialista del genere: Franco Solinas. Rispetto ad altre pellicole “cugine”, tuttavia, vi sono elementi che rendono il risultato finale diverso dal solito. Vedremo meglio in seguito di quali aspetti si tratta, intanto basti dire che l'opera segna il ritorno di Giulio Petroni al western dai contenuti drammatici, dopo la parentesi ibrida di ...E per Tetto un Cielo di Stelle (1968). 864 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

A produrre il lavoro c'è un complesso di piccoli imprenditori, tra i quali il trio Richard Herland, Franco Clementi e Alfredo Cuomo per la Filmamerica, società finanziata da capitali statunitensi. Herland giunge in Itala dopo aver prodotto alcuni serial televisivi americani, in seguito non farà molto; lavorerà raramente, soprattutto in patria, dando vita a film non importati in Italia a eccezione del piccolo adattamento da Hermann Hesse Il Lupo della Steppa (1974), con Max von Sydow protagonista. Al fianco di Herland, debuttano Franco Clementi e Alfredo Cuomo, i quali avranno anch'essi una carriera poco prolifica. Il primo produrrà un pugno di pellicole misconosciute e di scarso rilievo, di genere drammatico, fino al 1973. Più limitato il lavoro di Cuomo che tornerà a lavorare in veste di direttore della produzione nel western Una Ragione per Vivere e una per Morire (1972) di Tonino Valerii, producendo poi, in co-produzione, due gioielli assoluti dell'horror americano: il capolavoro Zombi (1978) di George A. Romero e l'ottimo b-movie, tratto da un racconto di Stephen King, The Night Flier (1997), diretto dallo sconosciuto Mark Pavia (regista che, sorprendentemente, non dirigerà, ne scriverà, nessun altro lavoro pur avendo dimostrato grande talento). Più esperto dei tre sopraelencati, seppur anche lui al debutto da produttore, è Nicolò Pomilia. Pomilia beneficia di una carriera ventennale (fatta da oltre una dozzina di film, tra cui I Due Vigili del 1967 con Franchi & Ingrassia) spesa in ruoli di assistente e di direttore della produzione, soprattutto al servizio del duo Alfonso Sansone ed Enrico Chroscicki, produttori, tra l'altro, del primo western di Petroni (Da Uomo a Uomo) oltre che de I Giorni dell'Ira (1967) di Valerii, di Al di là della Legge (1968) di Stegani e di pellicole di altro genere. Fino alla fine degli anni '80, Pomilia si dedicherà esclusivamente alla produzione di piccoli film, ma senza fortuna, tentando di lanciare in un genere diverso dal western Giorgio Stegani (reduce anche lui dalle produzioni Sansone-Chroscicki), con l'erotico Il Sole nella Pelle (1971). Tra i film prodotti da Pomilia si segnaleranno, per la componente trash, l'assurdo z-movie (considerato tra i più brutti mai realizzati) Yeti – Il Gigante del XX Secolo (1977) di Parolini e il noiosissimo Il Padrone del Mondo (1983) che chiuderà, confermando l'irreversibile declino, la carriera del discusso e visionario regista Alberto Cavallone. 865 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Giusto per sfruttare le location dell'Almeria, completa la produzione una società spagnola: la Pefsa di Madrid. Ottenuti i fondi, Petroni si mette alla ricerca degli sceneggiatori adatti a confezionare un tortilla. Al regista romano è piaciuto molto Quien Sabe?, così pensa di contattare Franco Solinas, il meglio che si possa trovare sul mercato. Lo sceneggiatore cagliaritano però è impegnato, sta lavorando a Queimada (1969) di Pontecorvo e, per liberarsi dall'impegno, segnala a Petroni il giovane ventottenne Ivan Della Mea. Della Mea è un cantautore (cantava in dialetto milanese) e giornalista di sinistra che all'epoca sta tentando di entrare nel mondo del cinema, un po' in tutti i ruoli (attore, compositore e sceneggiatore). L'esperienza non lo entusiasmerà troppo, visto che preferirà dedicarsi alle sue occupazioni originarie nonché alla letteratura. Il suggerimento di Solinas non convince il regista. Della Mea non ha ancora scritto un copione (non ne scriverà altri) e non offre garanzie. Così Petroni strappa un compromesso a Solinas, facendo impegnare quest'ultimo a supervisore il lavoro del giovane cantautore. Nonostante i dubbi della vigilia e una partecipazione marginale di Solinas, lo script si rivela molto buono, anche se penalizzato da un ritmo blando e da una minore componente di azione rispetto ai precedenti tortilla. I distributori del film, per nulla entusiasti della soluzione adottata, optano, per le edizioni estere, per un montaggio più serrato con il taglio di svariate scene. In Italia, però, esce la versione uncut. La storia, come ogni tortilla che si rispetti, è ambientata in Messico e vi troviamo le classiche figure del peone rivoluzionario - cui da corpo e voce il protagonista indiscusso del genere, cioè Tomas Milian – del colonnello repressore e, a fungere da elemento destabilizzante tra i due, dell'ambiguo europeo laureato e dai capelli biondi, che entra in scena a bordo di un veicolo a motore. Dunque ci sono tutti gli stereotipi del tortilla western, anche se assumono una portata diversa. In prima battuta abbiamo un peone protagonista presentato fin dall'inizio come un eroe della rivoluzione (di solito invece si trattava di straccioni o banditi che evolvevano al ruolo di eroi senza volerlo). In secondo luogo, il soggetto europeo non ha nessuna funzione di ispiratore, né incarna gli ideali rivoluzionari, piuttosto è un nemico del Messico popolare, tanto che vuole uccidere Tepepa per punirlo di un torto subito (lo stupro, con successivo suicidio, della fidanzata). Tra i due, tuttavia, si instaura un rapporto altalenante, dove l'ambiguità è 866 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

la costante dall'inizio alla fine del film. Da una parte abbiamo l'analfabeta ma valoroso idealista Tepepa, dall'altra il raffinato, ma imbranato nell'utilizzo delle armi, dottore inglese cui da corpo John Steiner. È proprio quest'ultimo che, a inizio film, sottrae Tepepa al plotone di esecuzione pronto a eseguire la condanna a morte del rivoluzionario. Il gesto non ha alcun valore idealistico, ma è giustificato dal desiderio di vendetta. L'inglese vuole uccidere Tepepa con le proprie mani, non gli è sufficiente che lo faccia qualcun altro. Così il peone passa dalla c.d. padella alla brace. Una serie di vicissitudini porteranno però l'europeo a finire dalla parte di Tepepa. Il peone, infatti, farà di tutto per convincere l'altro a rivalutare il proposito omicida, lo farà perfino evadere dal carcere (dove vi finirà perché braccato anch'egli dai soldati che lo credono complice del messicano) e lo convincerà a diventare medico dei peone. L'opera di convincimento di Tepepa sarà così forte che il medico sarà sul punto di cedere, convinto dall'ottimo lavoro del messicano impegnato a instaurare i giusti valori. “Tu sei il più ignorante di tutti noi!” lo scuoterà Milian “Perché tu magari sai un sacco di cose sulle budella, le orecchie, quell'appendicite là, il naso, ma dell'anima non sai proprio niente. Non è stupido un uomo che vuole uccidere un altro che neanche conosce?” Il dottore deciderà pertanto di abbandonare il campo per ritornarsene in America, ma sarà il colonnello a bloccarlo e a mostrargli i verbali relativi alla stupro della ex fidanzata e al successivo suicidio della stessa. Il desiderio di vendetta rapirà di nuovo il dottore che tornerà sui suoi passi, insieme al colonnello, per prendere parte alla spedizione organizzata per uccidere Tepepa. Ancora una volta però il peone sarà sul punto di convincerlo a rinunciare, decidendo di mettere la propria vita nelle mani del medico chiedendogli di estrargli, in privato, la pallottola che lo ha ferito in pieno petto. Questo è il momento più alto del legame tra i due, Tepepa racconterà con sincerità quanto successo il giorno della morte della donna ponendo l'europeo a un bivio: “Cosa è una donna rispetto alla rivoluzione?” La frase, a mio avviso, ha una valenza non provocatoria. Tepepa intende scusarsi del delitto commesso, del resto è un ingenuo e dice che non avrebbe mai pensato che la donna si sarebbe suicidata. In altre parole cerca di far capire all'amico-rivale che la rivoluzione, ovvero il sovvertimento del sistema (incentrato sulla ricchezza di pochi), è cosa ben più importante di una vendetta, anche perché ci sono molte altre donne nel mondo. Il peone lascia la volontà al dottore di sceglie867 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

re se perseguire o meno il suo proposito, senza prendersi alcuna garanzia (ha chiuso i suoi uomini fuori). Il dottore però, come ha detto Tepepa nella prima parte del film, è un sentimentale e interpreta la confessione come l'ennesima provocazione. I due del resto sono uomini molto diversi e non riescono a comunicare sulla stessa lunghezza d'onda. Petroni e il montatore, al riguardo, sono molto abili nel rappresentare i pensieri dell'europeo, giocando su tutta una serie di primissimi piani. Così la pellicola torna a proporre la stessa situazione iniziale: il medico estrae la pallottola salvando Tepepa (che sarebbe altrimenti morto per mano del colonnello), ma lo fa per il gusto di ucciderlo di mano propria e infatti gli perfora il cuore con un ago. Il rapporto tra i due diviene così uno degli elementi centrali del film. Tomas Milian, entusiasta del personaggio, come dirà in varie interviste, ruba decisamente la scena all'inglese John Steiner che fa il debutto in Italia. Attore smilzo, dai capelli chiari e con tratti che lo porteranno spesso a rivestire ruoli da psicopatico, Steiner viene notato nei serial televisivi britannici in cui aveva preso parte spesso da mera comparsa. Per il ventisettenne, all'epoca sconosciuto, è una grande opportunità. La sua prova non è eccelsa, è assai freddo e impostato. Inoltre ha una paura matta dei cavalli, tanto che non lo si vede quasi mai in sella. La sua partecipazione gli permette comunque di calamitare l'interesse dei produttori italiani. Resterà difatti in Italia per più di venti anni, diventando uno dei volti più noti nell'ambito del cinema bis (in ruoli da caratterista o da antagonista), fino a ritirarsi nel 1991 per intraprendere la carriera di agente immobiliare negli Stati Uniti. Spazierà un po' in tutti i generi, dal thriller al poliziesco, collaborando soprattutto con Fulci, Tinto Brass, Antonio Margheriti e Carlo Verdone per un totale quasi di cento film. Parteciperà a un altro spaghetti-western: Mannaja (1977) di Sergio Martino, oltre alla saga Zanna Bianca (1973) di Lucio Fulci. Gli amanti della commedia lo ricorderanno invece, ancora una volta nei panni del pazzo squilibrato, in I Due Carabinieri (1984) di Verdone, dove interpreterà il rapitore di bimbi fronteggiato da Montesano a bordo di un treno. Se Steiner è un attore mai visto in ruoli di rilievo, lo stesso non può dirsi per l'attore chiamato a interpretare il colonnello messicano. Grazie ai soldi statunitensi e al placet di Tomas Milian, arriva sul set nientemeno che Orson Welles, il quale accetta l'offerta per ragioni alimentari. Per i pochi che non lo sapessero, siamo alle prese con un regista di primissimo livello nonché attore, dapprima teatrale poi cine868 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

matografico, con una lunga esperienza maturata in Irlanda e in Inghilterra. Introdotto al mondo artistico fin dall'infanzia, Welles si era formato in teatro e si era altresì distinto in qualità di pittore. Quando viene contattato per Tepepa, aveva già diretto capolavori come Il Quarto Potere (1941), premiato con l'Oscar (ne vincerà un secondo alla carriera nel 1972) per la migliore sceneggiatura nonché indicato nella rosa delle nomination per l'interpretazione e la regia, e il noir L'Infernale Quinlan (1958), ma soprattutto era salito alle cronache per aver organizzato uno scherzo radiofonico, ancor oggi citato, che aveva suscitato un clima di isteria collettiva con tanto di suicidi e chiamate allarmate alla polizia. Nel 1938, all'età di ventitré anni, aveva infatti interpretato un adattamento radiofonico del romanzo La Guerra dei Mondi di H.G. Wells, in cui sosteneva che gli Stati Uniti erano sotto l'attacco dei marziani!? La prova recitativa era stata tanto convincente da gettare nel caos i cittadini e da convincere una casa di produzione cinematografica a scommettere su di lui (fino ad allora aveva lavorato solo in teatro), mettendolo subito sotto contratto. In seguito, Welles dirà: “Per quello che abbiamo fatto sarei dovuto finire in galera, ma al contrario, sono finito a Hollywood!” Il debutto a Hollywood di Welles, avvenuto proprio con Il Quarto Potere, era stato folgorante, forse troppo. Infatti, le aspettative e la convinzione che quel giovane artista sarebbe potuto diventare un grande finirono con il risultare nocive a Welles. I film immediatamente successivi non furono ai livelli dell'opera di debutto, tanto da costringere il regista a tornare in radio e a scrivere discorsi politici per il Presidente americano Roosevelt, fino a prendere la decisione, nel 1949, di tornare in Europa non senza lasciare alcune dichiarazioni al vetriolo: ”Hollywood è un quartiere dorato adatto ai giocatori di golf, ai giardinieri, a vari tipi di uomini mediocri e ai cinematografi soddisfatti. Io non sono nulla di tutto ciò!” Alla completa avventura nel vecchio continente, si era trovato costretto, pur di racimolare i fondi necessari per produrre i film che aveva intenzione di girare, a interpretare (svogliatamente) ruoli in una serie di film americani girati in Europa. Dopo alcuni film, tra i quali la trasposizione shakesperiana Otello (1952), premiata con la Palma d'Oro al Festival di Cannes, era tornato negli Stati Uniti realizzando film importanti come la trasposizione da Kafka Il Processo (1962), continuando ad accettare ruoli in film altrui allo scopo di racimolare fondi per realizzare, tra gli altri, il Don Chisciotte (non lo 869 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

completerà mai). Proprio in questa ottica, il regista si mette a disposizione di Petroni, disinteressandosi del tutto dell'esito del film. Non contribuisce a caratterizzare il suo personaggio, non mette penna sulla sceneggiatura, entra in polemica con Milian (che lo aveva suggerito alla produzione) e arriva, sembra, a rubare parti di pellicola vergine per riutilizzarle per i suoi film. Tomas Milian, infastidito dalla superbia di Welles, si vendicherà al momento in cui Petroni si troverà a girare la scena della morte del colonnello. L'attore americano chiederà di girare la scena con due inquadrature, in modo da staccare il momento della caduta per permettere alla troupe di posizionare un tappeto sulla sabbia ed evitare di sporcarsi i vestiti. “Facciamo una cosa. Sono in piedi, Tomas mi spara, io accuso il colpo; tagli, e mi mettono delle coperte così ci cado sopra e non mi sporco”. Milian, ancora una volta infastidito dai modi aristocratici del collega, non si farà pregare e interromperà il colloquio tra Petroni e Welles in modo pungente: “Ragazzi, io me ne vado al bar. Tornerò quando mister Welles avrà deciso di morire come c'è scritto nella sceneggiatura.” Welles, ferito nell'orgoglio, cederà alla provocazione di Milian, per la gioia del regista. L'interpretazione dell'americano è più che sufficiente, con un look alla Fu Manchu paffuto, molto sornione e appesantito, ma con un'aura leggendaria che impreziosisce la pellicola. Bella la scena in cui in pieno deserto, a bordo di un'autovettura (anche Welles rifiuta il cavallo), ammanetta Steiner perché non si fida di lui e, dopo aver sentito il rumore di alcuni campanacci, commenta con sagacia l'arrivo di una serie di caprette frustate da alcune donne: “Ecco la stupidità degli uomini. Appena sentono dei suoni se ne preoccupano, scoprono che sono capre e si tranquillizzano, ma perché ci sono quelle capre non se ne preoccupa nessuno.” E difatti le capre sono cariche di dinamite e la loro comparsa sarà il preludio dell'imboscata in cui cadranno i soldati capitanati da Welles. Un'altra sequenza notevole, utile a delineare il personaggio, è quella in cui lo vediamo, in compagnia di un proprietario terriero, intimare ai rivoluzionari la restituzione di un latifondo dagli stessi occupato. Tepepa, intento a lavorare il campo, protesta sostenendo che la terra è dei peone, ma Welles, felice interprete dell'arroganza tipica del potere legalizzato, è lapidario: “Io sono la legge figliolo, e tu non sei niente!”

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Di rilievo anche l'epilogo, in cui vediamo Welles tentare la fuga a bordo di un'autovettura, braccato da Tepepa che lo costringerà a scendere e a camminare in mezzo al deserto. Questi i personaggi principali di un western che, oltre ai rapporti tra i vari soggetti coinvolti, ruota attorno a un tema: il tradimento, sia a livello degli ideali (aspetto che sarà ripreso da Leone in Giù la Testa), sia a livello dei rapporti interpersonali. Petroni e gli sceneggiatori decidono di sviluppare il tema usando l'espediente del flashback. La pellicola ne è infarcita. Gli autori difatti preferiscono, anche per rendere più brillante la visione, optare per una narrazione non lineare, alternando due temi: quello del tradimento della rivoluzione (che è prioritario e peraltro legato alla vera storia del Messico, visto che il presidente Madero è realmente esistito) e quello della vendetta cercata dal dottore. Così, nel corso della visione, assistiamo alle varie evoluzioni della rivoluzione. Vediamo come il futuro presidente del Messico, il signor Madero (interpretato da un elegantissimo Paco Sanz), sproni i suoi uomini alla conquista del potere. L'uomo simboleggia l'anima intellettuale della rivoluzione, la guida della manovalanza ignorante. “La rivoluzione non può aspettare” dice a un giovane Tepepa in lacrime, per il ferimento del padre. Madero lo spinge a portare una lettera al fronte, senza fargli assistere il padre ormai sull'orlo del trapasso. Spinto dai peone, Madero riesce nell'impresa di vincere la rivoluzione, ma i cambiamenti sperati e promessi non si verificano. Eccellente il dialogo tra Tepepa e Madero, al cospetto dei più alti ufficiali messicani – gli stessi che i rivoluzionari avevano combattuto – nel giorno della resa dello Stato. “Signor Madero, io ho preso questo fucile all'esercito per lottare contro l'esercito e adesso dovrei restituirlo all'esercito. Chi ha vinto: la rivoluzione o l'esercito?” chiede il peone al nuovo Presidente del Messico. Madero, con atteggiamento diplomatico, risponde al peone: “L'esercito è al servizio dello Stato e noi controlliamo lo Stato.” La risposta di Tepepa, nella semplicità tipica degli uomini del volgo, è impeccabile: “Allora abbiamo sbagliato, signor Presidente, perché tutto è rimasto come prima.” Madero però insiste nel voler far passare per vera una realtà che è illusoria. “No, i ricchi saranno meno ricchi e i poveri meno poveri.” “E come succederà?” domanda Tepepa. “Con le nuove leggi che l'esercito farà rispettare” afferma Madero, ben conscio che non approverà mai quelle leggi (come infatti poi si verificherà, a causa delle pressioni operate da lobby ed esercito). 871 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

“Lo stesso contro cui ci siamo battuti... Questi?” sbotta, giustamente, perplesso Tepepa. “Vedi, signor Madero, io ho fiducia in te che dici queste cose, ma è difficile crederti...” Insomma Solinas e Della Mea, ratificati da Petroni, sembrano tracciare una palese critica alla demagogia politica e a quell'atteggiamento che abusa della buona fede e dell'entusiasmo dei cittadini per perseguire fini diversi da quelli promessi. Emblematico il seguente monologo di Milian che sottolinea, anche a livello metaforico, l'ingenuità del popolo: “Che vergogna per il Messico. Un paese dove solo i ricchi, i preti e i generali sanno scrivere. E quello che scrivono non lo sapremo mai, perché non sappiamo leggere. Siamo un branco di ignoranti!” E infatti ecco che vediamo, sempre in flashback, i vecchi proprietari terrieri ritornare a riprendersi i fondi che i peone avevano conquistato e a costringere gli stessi a ritornare a impugnare le armi per difendersi dalle spedizioni punitive dei militari. L'animo di Tepepa, tradito dalle persone su cui aveva confidato, è così ferito e deluso da trasformarlo in un criminale, anche se dotato di un alone da antieroe (poiché dotato di una sua etica). “Io sono rimasto solo e la rivoluzione non è servita a niente!” Il suo odio verso gli oppressori è tanto forte da spingerlo a stuprare la figlia di un proprietario terriero (che poi si scoprirà esser stata la fidanzata del medico inglese che darà la caccia a Tepepa) e da entrare in una dimensione allucinata che lo porta a guidare un gruppo di peone (verranno quasi tutti sterminati) in un assalto suicida: armato di sciabola, lo vediamo correre contro un intero gruppo di soldati messicani schierati con fucile in braccio. Il colonnello, interpretato da Welles, ordinerà di non ucciderlo in battaglia, ma di imprigionarlo (ecco perché a inizio film lo vediamo sul patibolo) e, per sottolinearne l'energia bellicosa, scriverà sui verbali: “Da lontano sembravano tutti uguali, solo Tepepa si riconosceva come un'aquila impazzita tra gli spaventapasseri.” Liberato dall'inglese, Tepepa cercherà di mettersi di nuovo in contatto per via epistolare con Madero, convinto ancora della buona fede del Presidente, ma finirà tradito da uno dei suoi uomini prediletti. Per quest'ultimo non ci sarà alternativa alla morte. Sarà lo stesso Tepepa a ucciderlo a sangue freddo, davanti al piccolo figlio dell'uomo. Il tradimento, intanto, porta i soldati messicani a sterminare il campo dei peone gestito da Tepepa che, a questo punto, dopo aver fatto saltare 872 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

una carovana nemica e aver verificato la morte di donne e bambini, sbotta contro il presidente che non si vede e non si sente. “Il presidente Madero ha tradito tutti noi!” esordisce al cospetto dei superstiti “Fino a quando qui, nel Messico, rimane un solo peone che non ha un pezzo di terra, la colpa è di Madero! Fino a quando, qui nel Messico, rimane un solo grande proprietario terriero, la colpa è di Madero! Fino a quando, qui nel Messico, anche un solo rurales sparerà, ammazzerà e brucerà, la colpa è di Madero! E se Madero non lo sa, la colpa è sua lo stesso! E meno sa di tutto questo, e più la colpa è sua! Credete che sia giusto che se Madero si siede dobbiamo farlo anche noi? E credete che sia giusto che se Madero caga dobbiamo farlo anche noi? No! Se Madero caga, noi caghiamo su Madero!” Dunque un pessimismo totale in cui viene tratteggiata la figura del politico che, una volta acquisito il potere, si siede sugli allori (probabilmente questo è il riferimento al sedersi) e sui lussi, perdendo la tempra del combattente e guardando più a sé stesso che agli altri. Il finale tragico è dunque nell'aria, ma Petroni lascia un velo di speranza. Il medico inglese viene anch'esso ucciso, a vendicare Tepepa è proprio il figlio dell'uomo assassinato dal messicano. Paquito, questo il nome del bimbo (il debuttante Luciano Casamonica, lo ritroveremo ne La Notte dei Serpenti e in Indio Black), incarna il vero spirito idealista (non a caso, forse, è un bambino e quindi un soggetto legato alla dimensione del sogno piuttosto che alle tentazioni materialistiche). Lo vediamo accettare, senza fare un piega, la morte del padre per mano di Tepepa (perché la rivoluzione deve essere anteposta persino ai sentimenti personali, un po' come aveva fatto Madero al cospetto della morte del padre di Tepepa), e addirittura destinare l'ingente quantità di soldi ricevuti dal padre e consegnategli da Tepepa (che da un'altra dimostrazione di eticità) per acquistare le armi ai peone. Ucciderà infine il dottore (con cui aveva un rapporto basato su una reciproca simpatia) poiché colpevole di aver intralciato la rivoluzione. Azioni che lo porteranno a essere il vero erede di Tepepa, tanto che lo vedremo in sella a cavallo alla guida dei peoni in un finale un po' sognante che contrasta con la piega pessimista che avvolge l'intera pellicola. La fotografia di Fransisco Marin, imposto a Petroni dai coproduttori spagnoli, non è delle migliori; buona invece la colonna sonora del solito Morricone, diretto dal fido Nicolai, orientato più sul malinconico che all'epico. 873 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

A mio avviso (conformi sonofdjango.blogspot.it e il regista Alex Cox, gli preferiscono Da Uomo a Uomo spaghetti-western.net e Quentin Tarantino) si tratta del miglior western di Petroni (Marco Giusti si limita a definirlo uno dei migliori), il quale tuttavia non eccelle nelle scene di azione alla Corbucci o in quelle poetiche alla Leone e non perde quel suo modo lento di sviluppare il plot. La mano di Solinas però gli da una bell'aiuto e conferisce al film quei monologhi e quei dialoghi che lo elevano tra i migliori del genere, al punto da ispirare i successivi Vamos a Matar Companeros (1971) e Giù la Testa (1971) proprio di Corbucci e Leone. La presenza di Tomas Milian (reputa il film tra i suoi più riusciti), seppur meno scatenato rispetto al solito, poi una garanzia di successo. Il film è amatissimo un po' da tutti anche se non ha quell'alone di cult che, a mio avviso, meriterebbe. Infatti gli utenti di imdb.com si limitano a riconoscergli un misero sei e mezzo in pagella. Più generosi gli altri critici “generici”. Il Morandini lo definisce (a ragione) tra i migliori spaghetti-western del '69 per merito della sceneggiatura di Solinas, vedendo in essa elementi anticolonialisti e tematiche proprie delle proteste sessantottine. Il tutto viene tradotto nelle tre stelle concesse anche da Filmtv.it e Farinotti. Più entusiasti gli specialisti. Spaghettiwestern.altervista.org non tergiversa nell'annoverarlo tra i capolavori dello spaghetti-western, in virtù della prova di Milian e della scia poetica e malinconica che accompagna la pellicola. “Un classico imperdibile dei western rivoluzionari” conclude. Sette abbondante per lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it che lo considera il più politico tra i tortilla western, in quanto viene mostrata la rivoluzione da più punti di vista. Per il blogger si registra inoltre la presenza di un Tomas Milian in grande forma, sebbene non al livello delle prove offerte con Sollima (opinione condivisa dal sottoscritto). Più articolato nell'analisi è l'anglofono sonofdjango.blogspot.it, il quale reputa Tepepa il più intellettuale tra i tortilla western, con personaggi complessi, accecati dai loro specifici fini e caratterizzati in chiaro e oscuro. Non ci sono né buoni né cattivi, ma tutti sono un po' l'uno e l'altro e soprattutto ognuno è incline al tradimento. Il film compare in ventisettesima posizione nella lista dei migliori spaghetti-western stilata da spaghetti-western.net, è diciassettesimo per Quentin Tarantino, addirittura undicesimo per Alex Cox. In tre parole: da non perdere! 874 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Per trovare un nuovo tortilla western bisogna attendere ottobre e Un Esercito di 5 Uomini (1969). Italo Zingarelli col socio Franco Palaggi, reduci da due interessanti western low budget, compiono il salto di qualità, quanto meno sotto il profilo tecnico-artistico, che li porterà a produrre la saga Trinità e poi Io sto con gli Ippopotami (1979). I due infatti chiudono un accordo col regista e coproduttore americano Don Taylor, che li permette di avere a disposizione un cast artistico intercontinentale oltre ai migliori tecnici del settore, tra i quali Enzo Barboni alla fotografia, Ennio Morricone alla colonna sonora, l'emergente Dario Argento alla sceneggiatura e lo stesso Don Taylor alla regia. Lo script, piuttosto povero nei contenuti, è un concentrato action che sfrutta i successi ottenuti da Quella Sporca Dozzina (1967) di Robert Aldrich e dal serial televisivo Missione Impossibile (1966) da cui si prende anche l'attore protagonista. Dario Argento, al suo quarto e ultimo copione western, getta le basi per un tortilla western atipico, in quanto orientato al mero intrattenimento piuttosto che alle tematiche socio-politiche. Queste ultime vengono lasciate sullo sfondo, con una serie di fucilazioni sommarie e qualche sovversione di massa contro l'autorità. Non manca tuttavia la tipica caratterizzazione che contraddistingue il protagonista di questo genere di storie. Ancora una volta abbiamo un carismatico europeo (olandese), cui da corpo l'americano Peter Graves, che inganna e manipola i soci con la promessa di compiere una rapina che frutterà milioni di dollari da ripartire in parti uguali. In realtà Graves rischia la vita per un nobile ideale. Organizza il colpo al fine di destinare i soldi ai peone, poiché è un filo rivoluzionario, e raggiungerà il proprio scopo in un tripudio finale in cui i complici, seppur beffati, saranno portati in trionfo dalla folla festante. Il copione si avvia allo stesso modo in cui Dario Argento aveva iniziato Oggi a Me... Domani a Te! (1967). Così vediamo i futuri componenti della banda avvicinati, singolarmente, mentre sono impegnati in lavori umili in quanto ricercati dalle autorità per i più disparati crimini. Come nel film diretto da Cervi, accettano la proposta di collaborazione per un colpo ideato dal protagonista senza saper bene di cosa si tratti. Qui Argento inserisce il collegamento a Quella Sporca Dozzina, costruendo una storia che sarebbe stata perfetta per un macaroni 875 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

combat, genere gradito dal primo Argento (non a caso aveva scritto i copioni di Commandos e La Legione dei Dannati). Infatti i cinque protagonisti sono tutti dei reietti esperti in diverse discipline: abbiamo un un lanciatore di coltelli giapponese (Tetsuro Tanba), un dinamitardo (James Daly), un acrobata (Nino Castelnuovo) e un possente gigante dalla forza inversamente proporzionale all'intelligenza (Bud Spencer). Il loro compito sarà quello di realizzare un'impresa all'apparenza impossibile: rubare un carico d'oro in polvere trasportato su un treno scortato dai soldati messicani. Qua entra in ballo l'omaggio al serial Missione Impossibile con una lunghissima ed elaborata sequenza (quasi mezz'ora di film) dove i nostri, dapprima agganciati sotto il treno, riusciranno a eliminare i soldati messicani a suon di lanci di coltelli e, correndo sopra il tetto del mezzo, a staccare i vagoni in cui è custodito il carico d'oro facendoli confluire, mediante deviazione dei binari, in un capannone. Purtroppo la pellicola soffre di qualche lungaggine di troppo dovuta anche al cambio di regia. L'americano Don Taylor, al suo unico film italiano e con alle spalle una notevole esperienza maturata dapprima come attore hollywoodiano (anni '40-'50) e poi come regista di serial televisivi, non completa le riprese in quanto costretto a ritornare in patria per pregressi impegni. Seppur cinquantenne Taylor è ancora sulla cresta dell'onda nel ramo televisivo grazie a regie di cult assoluti come Alfred Hitchcock Presenta (1958), di cui aveva girato ben sette episodi, e Il Dottor Kildare (1966), oltre ad altre innumerevoli serie molte delle quali western. In seguito, perseverando nel circuito televisivo, si dedicherà ad alcuni interessanti B-Movie dalle atmosfere horror e dai budget medio alti come Fuga dal Pianeta delle Scimmie (1971), L'Isola del Dottor Moreau (1977) e La Maledizione di Demian (1978), quest'ultimo sequel del famoso Omen – Il Presagio (1976) di Richard Donner. La defezione di Taylor porta Zingarelli a debuttare dietro alla macchina da presa e con risultati sufficientemente apprezzabili. Sulla questione ci sono varie testimonianze. Alcuni sostengono che il film sia stato girato quasi integralmente da Zingarelli, mentre per altri l'apporto di Taylor è stato preponderante. A mio avviso è molto più verosimile questa seconda ricostruzione anche perché Zingarelli più che un regista era un produttore e ciò è dimostrato anche dai suoi successivi impegni che lo vedranno pressoché impegnato solo in tale veste. Girerà altri due film: il misconosciuto Una Prostituta al Sevizio 876 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

del Pubblico e in Regola con le Leggi dello Stato (1970) e il già citato Io sto con gli Ippopotami. A ogni modo la regia, pur non inventando soluzioni visive degne di nota e senza ricercare particolari sperimentalismi, è più vicina al taglio europeo piuttosto che a quello americano. Lascia un po' a desiderare la scorciatoia di non mostrare con immagini certi fatti, magari con dei flashback. Zingarelli infatti ovvia al problema inserendo dei dialoghi verbosi e didascalici che abbassano il pathos e il coinvolgimento emotivo dello spettatore, spiegando ciò che non viene mostrato. Zingarelli/Taylor non cercano di costruire un'atmosfera poetico/romantica come altri loro colleghi, ma badano all'essenziale e all'azione peraltro con un certo gusto per l'esagerazione (si veda il giapponese che uccide svariati messicani a colpi di katana). Le interpretazioni sono buone, in particolare si dimostra in palla lo scatenato Nino Castelnuovo, purtroppo alla sua seconda e ultima performance in un western. Se era apparso elegante e psicopatico antagonista in Le Colt Cantarono la Morte e Fu... Tempo di Massacro (1966) di Fulci, qua invece assume i panni logori di un peone barbuto e straccione che fa da spalla al protagonista. Il suo non è un personaggio alla Cuchillo, come sostiene Marco Giusti, ma si tratta di un acrobata dai modi ambigui, un mix di coraggio e incoscienza, che non spende molto per scagliarsi anche contro Bud Spencer e gli altri compagni di avventura (dei vecchi senza palle) dando sfoggio di arroganza e sicurezza nei propri mezzi. Il suo è il personaggio più caratterizzato del film nonché l'ago della bilancia per le sorti finali della storia. Infatti avrà l'occasione per mettere sotto scacco i tre compagni di avventura (interessati ai soldi) nonché il capo della banda (interessato alla rivoluzione), ma non lo farà perché anche lui ha operato nell'interesse della rivoluzione. Nei panni del protagonista abbiamo Peter Graves, una vera leggenda del circuito televisivo americano legato soprattutto ai serial Furia (1955-60) e a Missione Impossibile (1967-73) con il quale, dopo due nomination nel 1969 e nel '70, riuscirà ad aggiudicarsi nel 1971 un Golden Globe come migliore attore protagonista di serial televisivi. Alla sua unica apparizione in Italia, Graves delude le aspettative dei fan e si rivela fuori ruolo (lo avrei visto meglio in un macaroni combat). Poco più che quarantenne, si limita a una mera presenza corporea. Lo vediamo dirigere gli altri da esclusivo cervello dell'operazione, senza mai salire in cattedra. Volto poco espressivo, lineamenti e 877 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

atteggiamento glaciale. Si lascia facilmente dimenticare. Proseguirà con successo nei serial televisivi americani. Bravo Bud Spencer in un ruolo più canaglia del solito. Pur regalando una scazzottata delle sue, spara per uccidere e gioisce nel veder morire i soldati messicani, correndo come un bambino (il capo arriva persino a sgridarlo per frenarne l'ardore: “Mi servi vivo!”). C'è anche il giapponese Tetsuro Tanba, anch'egli alla sua unica apparizione in un nostro film e reduce dalla saga 007 interpretata da Sean Connery. Forse per motivi di linguaggio, il suo è un personaggio quasi muto. Si esibisce di continuo nel lancio di coltelli e in combattimenti con la katana. È altresì protagonista di un'assurda ma emozionante sequenza che lo vede rincorrere a piedi il treno da cui era caduto e raggiungerlo (!?), dopo aver perso svariate centinaia di metri, grazie a un'incomprensibile scorciatoia per i campi. Considerato tra i più grandi attori nipponici, riceverà svariati premi in patria a coronamento di una carriera che annovererà quasi trecento pellicole molte delle quali inedite nella nostra penisola. Tra i film più importanti interpretati da Tanba ricordo Là Dove Volano i Corvi (1974) di Hideo Gosha e gli action movie inglesi diretti da Lewis Gilbert La Settima Alba (1964) e Agente 007: Si Vive solo Due Volte (1967). Curioso topless, forse il primo nella storia del cinema western, di Daniela Giordano scelta appositamente da Don Taylor, dopo dozzine di provini, perché tra le poche a conoscere bene l'inglese. Si badi bene, la Giordano non era affatto una sprovveduta ma, dopo aver vinto il titolo di Miss Italia nel 1966 ed esser giunta terza a Miss Europa, aveva intrapreso la carriera cinematografica al fianco della coppia Franchi & Ingrassia con I Barbieri di Sicilia (1967). Era quindi passata a piccoli ruoli in un pugno di film di basso lignaggio, tra i quali i western Joe... Cercati un Posto per Morire!(1968) di Carnimeo e Il Lungo Giorno del Massacro (1968) di Cardone, per arrivare a essere messa a disposizione di Dino Risi per Vedo Nudo (1969). Anche in Un Esercito di 5 Uomini le viene riservato un ruolo di contorno ed è assurdo, vista la cocciutaggine di Taylor nel volere un'attrice che conoscesse l'inglese, che per tutto il film non dica neppure una battuta. Nonostante questo il suo personaggio si innamorerà senza motivo del giapponese (classico caso di colpo di fulmine, mah...!?) correndogli incontro e urlando quando lo vedrà in pericolo. Insomma il classico ruolo forzato 878 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

necessario per dare spazio a una modella emergente, senza alcuna rilevanza ai fini della storia. La Giordano proseguirà la carriera con produzioni western, tra le quali Buon Funerale Amigos...! Paga Sartana (1970) di Carnimeo, soprattutto di quarta fascia dirette da Demofilo Fidani e da altri registi marginali, nonché in alcuni cult quali il thriller Il Tuo Vizio è una Stanza Chiusa e Solo io ne ho la Chiave (1972) di Sergio Martino e il thriller a luci rosse Quante Volte... Quella Notte (1972) di Mario Bava. Sarà protagonista inoltre di alcuni horror a basso budget dei vari Caiano e Mario Siciliano, per specializzarsi in seguito in fiacche commedie erotiche fino al termine degli anni '70 quando deciderà di dedicarsi alla parapsicologia e a all'ufologia (!?). Mediocre l'ultimo elemento del quintetto interpretato dal vecchio James Daly, altro attore americano legato quasi esclusivamente al mondo dei serial televisivi (anche se aveva avuto nel 1968 una parte nel cult Il Pianeta delle Scimmie), autore di una performance scialba e priva di personalità. A scusante del cinquantenne (portati male) c'è da dire che il suo è uno dei personaggi più abbozzati del film. Degne di menzione l'ottima fotografia di Barboni, che Zingarelli lancerà un anno dopo alla regia, e la colonna sonora di Morricone diretta dal maestro Nicolai. La pellicola riesce a ottenere un buon riscontro al botteghino ed è apprezzata, a mio avviso oltre modo, da molti appassionati del genere. Tom Betts la reputa spassosa e in grado di divertire gli spettatori, meno entusiasti ma comunque positivi Marco Giusti (“funziona piuttosto bene”) e Jean-François Giré (“è la versione spaghetti della serie televisiva Mission Impossible”). Spaghettiwestern.altervista.org la cataloga tra i più bei western italiani sia per la fattura tecnica (lode alle scenografie di Enzo Bulgarelli, alla fotografia di Barboni e alle musiche di Morricone) sia per la sceneggiatura che viene ritenuta ricca di colpi di scena. Molto apprezzata anche dallo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it che parla di “intrattenimento di primo ordine” seppur in parte penalizzato da alcune sfumature comiche e altre un po' inverosimili che comunque non ne inficiano il valore, tanto da riconoscerle un generoso sette e mezzo in pagella. Più avidi di elogi gli utenti di imd.com che tuttavia la reputano abbondantemente più che sufficiente (sei e mezzo in pagella). Sufficiente anche per filmtv.it che però puntualizza come si tratti di un film 879 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

banale e scontato, seppure interessante per il tentativo di miscelare con intento avventuroso vari generi. Due stelle per il Morandini che scrive una castroneria megagalattica vedendo in Don Taylor uno pseudonimo di Zingarelli e poi bolla il prodotto, in parte a ragione, come straripante di luoghi comuni, colpi di scena prevedibili ed efferate scene d'azione, ma con una certa grinta nella messa in scena. A mio avviso è un divertente western, ben messo in scena anche se povero nei contenuti. La sensazione è che l'intero film sia costruito attorno alla sequenza dell'assalto al treno e che il resto sia marginale. Probabilmente Castellari sarebbe stato il regista migliore per dirigerlo, di certo lo spettacolo ne avrebbe guadagnato. Macaroni combat travestito da spaghetti western di esclusivo intrattenimento. Ritornano invece i contenuti politici con il bizzarro ibrido in salsa tortilla O'Cangaceiro (1969) di Giovanni Fago, con Tomas Milian protagonista. Inserito da alcuni nell'elenco dei film western italiani, l'opera di Fago, in realtà, non è riconducibile a un genere ben definito, vuoi per l'ambientazione esotica (il film è ambientato e girato in Brasile), vuoi per il contesto storico (siamo nel 1925), vuoi ancora per il taglio cinematografico da spaghetti-western grottesco, miscelato a un cinema avventuroso d'azione con una marcata componente filo rivoluzionaria. A produrre il film sono un lotto di piccoli imprenditori italo-spagnoli, tra cui il più famoso è Salvatore Alabiso. Quest'ultimo è reduce da un trio di film di Umberto Lenzi, due dei quali western, che hanno nel giallo culto Orgasmo (1969) la punta di diamante. Sebbene i produttori siano tutt'altro che blasonati, il progetto prende le mosse come una medio-alta produzione. Vengono coinvolti nomi importanti, sia per il cast artistico sia per quello tecnico, e viene presa la decisione di trasferire tutta la troupe a Bahia, in Brasile. Il soggetto porta le firma del debuttante Antonio Troisio, che in seguito si specializzerà nel giallo macabro con discreti film come La Vittima Designata (1971) di Lucidi, Il Coltello di Ghiaccio (1972) di Lenzi e l'horror esorcistico Chi Sei? (1974) di Ovidio Assonitis. Lo affiancano i marpioni ispanici Rafael Romero Marchent e José Luis Jerez Aloza, quest'ultimo coproduttore ormai a fine carriera e con alle spalle svariati spaghetti-western di terza e quarta fascia cui fanno eccezione 880 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gli ottimi Adiòs, Gringo (1965) di Stegani e Io non Perdono... Uccido! (1968) di Joaquìn R. Marchent. L'idea della produzione e di Fago è quella di confezionare una pellicola non convenzionale che si avvicini al western, prendendo come mero spunto di partenza Il Brigante (1953), film brasiliano girato da Lima Barreto e divenuto un culto, in patria e all'estero, al punto da essere premiato a Cannes come miglior film d'avventura e da avere una serie di sequel apocrifi tutti incentrati sui cangaceiros. I cangaceiro erano bande di uomini armati che, nei primi del '900, mettevano a ferro e a fuoco le proprietà dei latifondisti dislocate nel nord del Brasile, spesso con la protezione del popolo costretto alla fame. Per la sceneggiatura viene chiamato a collaborare addirittura il felliniano Bernardino Zapponi. Autore piuttosto poliedrico di riviste qualificate, ma altresì capace di farsi apprezzare negli anni '50 e 60' sia come autore di testi destinati al circuito radiofonico sia soprattutto per quelli destinati ai varietà televisivi, era approdato al cinema grazie al successo ottenuto dalla sua antologia di racconti fantastici Gobal (1967). Federico Fellini in persona, impegnato nel progetto dedicato a Edgar A. Poe - Tre Passi nel Delirio (1967), impressionato dai racconti di Zapponi, lo aveva voluto per sceneggiare il suo episodio Toby Dabbit. Zapponi, nell'occasione, aveva miscelato horror e western anche se poi i frammezzi western saranno tagliati in sede di montaggio. A ogni modo l'inizio cinematografico di Zapponi era stato fin da subito altamente qualitativo. Nel triennio '67-'69 si era messo in grossa luce con i copioni di Vedo Nudo (1969) di Dino Risi e di Fellini Satyricon (1969) di Fellini oltre a un altro film di quest'ultimo e ad altri due di Manolo Bolognini. Dopo la parentesi costituita da O' Cangaceiro, Zapponi non scriverà più western, ma proseguirà il suo sodalizio con Fellini (scriverà un totale di sette copioni per il maestro riminese) e con una moltitudine di registi d'autore come Dino Risi, Luciano Salce, Mario Monicelli e Alberto Sordi. Chiuderà la carriera con oltre cinquanta pellicole all'attivo dislocate in arco di tempo trentennale. Appassionato di storie macabre, porterà il suo contributo per la realizzazione di due spaghettithriller: il capolavoro assoluto Profondo Rosso (1975) di Dario Argento e il meno noto ...E Tanta Paura (1976) di Cavara. Otterrà una nomination all'Oscar con Il Casanova (1976) di Fellini e vincerà un Nastro d'Argento con Il Marchese del Grillo (1981) di Mario Monicelli. Altre opere notevoli sceneggiate da Zapponi saranno I Nuovi Mostri (1977) 881 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di Ettore Scola e Piso Pisello (1981) di Peter Del Monte. Chiuderà la carriera, sul finire degli anni '80 e i primi anni '90, con un paio di copioni per Tinto Brass (Paprika e Così fan Tutte), e una mezza dozzina di film comici diretti da Enrico Oldoini e da Sergio Corbucci. L'ingaggio di Zapponi porta una verve di grottesca comicità che Fago contamina con una regia dal ritmo vorticoso e con momenti da western vero. Purtroppo la sceneggiatura non sarà priva di buchi narrativi e di forzature (su tutte non si capisce come una banda di trenta improvvisati sia così indomabile per un regolare esercito), così come risulterà a tratti poco omogenea alternando momenti alla Jodorowski con altri da spaghetti-western puro. Lo script ha comunque tutti gli elementi tipici del tortilla western. Abbiamo lo scanzonato e ignorante cangaceiro, cioè una sorta di peone brasiliano, che diviene improvvisamente un capo rivoluzionario ponendosi alla guida di un gruppo di disperati che lo considerano un idolo; abbiamo l'europeo doppiogiochista (incarnato da un geologo olandese interessato ai pozzi petroliferi) che getta nel caos il rivoluzionario manovrandolo per tutto il corso del film per poi salvarlo dai guai alla fine; abbiamo il politico corrotto latifondista che vuol reprimere i rivoluzionari per i suoi sporchi affari imprenditoriali; abbiamo il colonnello che fa rappresaglie sui civili per ritorsione. A intensificare il gusto tortilla ci sono poi i volti tipicamente spaghetti come quelli di Eduardo Fajardo, che già aveva ricoperto ruoli simili ne Il Mercenario di Corbucci, e di Leo Anchoriz (reduce dai western di Castellari) nei panni del colonnello. Il tutto viene però inserito in un contesto alieno al genere e viene impreziosito da una caratterizzazione generale assai sopra le righe. Un esempio su tutti è la maratona nella foresta che l'europeo deve fare per incontrare il protagonista, seguendo le indicazioni di una serie di banditi dislocati sul percorso e sdraiati su delle brandine. Le bizzarrie però hanno inizio fin dal prologo. Fago apre la pellicola in modo folle con un Tomas Milian straccione che coccola una vacca che ha rubato. Le toglie le zecche, l'accarezza, le fa bere l'acqua con grande amore. Intanto dei soldati, intenzionati a punire un villaggio colpevole di dare asilo ai cangaceiro, uccidono tutti, compresa la vacca di Milian e dei civili inermi. Il fatto manda su tutte le furie il nostro, per il quale la vacca era come una figlia (il fatto che sia stato assassinato anche suo padre sembra non interessarlo). Salvato da un assurdo eremita che sembra Fu Manchu e che sostiene di esser stato tre volte in paradiso e una all'inferno (!?), il nostro si convince di esser 882 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

investito dal Signore e assume il soprannome di Redentore. Inizialmente vaga per i paesi scimmiottando Gesù Cristo, predicando la fede ed esibendo grosse croci di legno. Deriso da tutti, si trasforma in un messia rivoluzionario e missionario. "La mia missione viene comandata da lassù" urlerà più volte, portando l'esempio di Gesù bambino ma brandendo machete e carabina. Prende così piede un film grottesco. Da antologia la sequenza in cui il protagonista incontra per la prima volta l'europeo, cui da corpo Ugo Pagliai. Quest'ultimo resta basito al cospetto della ferraglia cui è stata ridotta la sua auto, in sua assenza, completamente privata di ogni parte essenziale. Milian si avvicina e pretende la lettura del libro che l'europeo porta con sé per poi dirgli, a notte inoltrata, di preferire le storie della Bibbia. In un contesto del genere è facile comprendere come Tomas Milian possa spaziare a piacimento e salire in cattedra grazie a un personaggio assolutamente fuori da ogni schema. Viene mostrato con un parruccone in stile Valderrama (il calciatore) e un look e un pizzo alla Jack Sparrow de Pirati dei Caraibi (tanto per intenderci). Calza un sombrero piegato nella parte anteriore a mo' di cappello pirata, ornato con croci e gingilli. Sembra un personaggio uscito da una sfilata carnevalesca, davvero memorabile. Sopra le righe sono anche i dialoghi e le battute, spesso proiettate in una deriva comica. Tra queste non può non segnalarsi la cena in cui la banda di straccioni di Milian "cafoneggia" al tavolo dei vip brasiliani (roba da fagioli western). Nonostante le apparenze da buffone inconcludente, però, il Redentore è abilissimo con la carabina, tanto da esser definito dai politici come il più pericoloso e pazzo cangaceiro della zona. A differenza però delle altre bande che imperversano nelle aree su cui i politici vorrebbero riprendere il controllo, quella del Redentore agisce per fini sociali: ridistribuire le risorse in favore dei meno abbienti. Anche su questo versante non si contano i monologhi ironici con cui Milian beffeggia i ricchi, pretendendo di esser riconosciuto come un uomo di Dio. Il governatore intanto, grazie all'appoggio del colto europeo, decide di fare leva sul narcisismo del protagonista e inizia a lodarlo e a fargli pervenire una serie di apprezzamenti e di attestati di stima. Chiaramente lo sta ingannando, ma riesce a strappargli un armistizio chiedendogli, in cambio dell'impunità e di proprietà terriere, di fare 883 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

piazza pulita di tutte le altre bande. Il nostro rispetterà i patti, ma non lo faranno i politici che cercheranno di eliminarlo ingaggiando un gruppo di mafiosi americani espulsi dagli Stati Uniti e dall'accento siciliano (!?). L'esercito infatti sembra incapace di piegare la banda del Redentore. Questa parte è un po' troppo frettolosa e non è all'altezza delle ottime sequenze inserite nella prima parte. Tra queste ultime è degna di nota l'ottima sequenza in cui gli uomini di Milian hanno facile gioco su un plotone di soldati guidati da Howard Ross (al secolo Renato Rossini), qua chiamato a ricoprire un mero cammeo. Li vediamo cadere in trappola all'interno di un gigantesco palazzo abbandonato, attirati da un canto carioca. Sorte simile l'avevano avuta in precedenza gli uomini del colonnello Minas, cui da corpo Leo Anchoriz, trucidati dopo una rocambolesca fuga dal carcere di un Milian che si era finto disabile per offendere il colonnello (colpevole di avergli fatto uccidere la vacca). Non mancano alcune trovate originali: duelli a colpi di machete, preti che benedicono con la nitroglicerina nonché la pazzesca resa dei conti finale tra Fajardo e un Milian che sembra un giullare di corte che salta da un posto all'altro, deridendo l'avversario come un grillo parlante. Fago gira il tutto scandendo un ritmo vorticoso e snocciolando una serie di inquadrature ben studiate. Molto bravo anche a sfruttare le location fatiscenti e caratterizzate da una grande varietà ambientale. Si passa dalle paludi alle ambientazioni desertiche. Favolosa la fotografia del grande Alejandro Ulloa, che rende la pellicola visivamente spettacolare. Le interpretazioni sono buone, anche se Milian domina la scena incontrastato. Nei panni del colto doppiogiochista europeo abbiamo un Ugo Pagliai un po' freddino e qua al suo secondo e ultimo western dopo Testa o Croce (1969). Bello, a giochi fatti, lo scambio di battute finali tra i due. "Vincent Helfen” gli dirà Milian “tu con i tuoi libri e le tue trappole per gli elefanti, là, sei un gran figlio di puttana, lo sai?" Pagliai lo guarderà e, prima di partire con la sua macchina, alzerà il pollice in segno di okay: "Può darsi..." risponderà allontanandosi in mezzo al deserto, passando tra gli uomini di Milian disposti in cerchio, sotto il commento sonoro della colonna sonora carnevalesca. Grande gusto pulp quello di Fago. 884 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Di formazione prettamente teatrale, Pagliai era già piuttosto famoso grazie agli sceneggiati televisivi, mentre nel cinema non era riuscito ancora ad affermarsi. Proseguirà in seguito col teatro e gli sceneggiati tv, riservando al cinema solo delle piccole partecipazioni tra cui ricordo il thriller culto La Dama Rossa Uccide 7 Volte (1972). Avrà particolare successo con i serial Il Segno del Comando (1971), L'Homme sans Visage (1975) e L'Amaro Caso della Baronessa di Carini (1975). Notevolissima la colonna sonora di Riz Ortolani, con sound scatenati dal ritmo carioca che sono tutt'oggi ricordati tra i migliori lavori del maestro marchigiano. In particolare è irresistibile il brano Mulher Rendeira cantato da Katyna Ranieri e velocizzato da Ortolani rispetto all'originale già apparso ne Il Brigante (1953). All'epoca il film non fu molto apprezzato proprio per il suo porsi a metà strada tra vari generi. Gli appassionati dei film sui cangaceiro lo criticarono perché non lo ritenevano allineato al filone. I fan del genere western non ne accettavano il taglio giullare/grottesco. Marco Giusti, nel suo Dizionario del Western all'Italiana, non nasconde la delusione: “Andai a vedere il film pronto a vedere chissà quale capolavoro e rimasi molto deluso”. Il critico parla di un “delirio sotto ogni punto di vista”, una sorta di minestrone gestito con mala grazia da Fago (“non aveva la grinta dimostrata da Corbucci o da Petroni nei loro western rivoluzionari”) che spiana la strada al personaggio alla Monnezza. Non mancano bacchettate anche per Pagliai, mentre vengono promossi Fajardo, Anchoriz e alcuni duelli con Milian protagonista. Meno duri altri critici del settore tra i quali lo spagnolo Carlos Aguilar che ritiene la pellicola degna di rispetto. L'americano spaghetti-western.net ne parla benino rilevando come il film, nella sua stravaganza, non sia mai banale sebbene stenti a decollare in modo deciso. “È abbastanza violento ma di rado raggiunge l'intensità dei migliori tortilla”. Ancora una volta viene criticato Pagliai definito tanto flaccido da far risultare l'interpretazione di Milian più sopra le righe di quanto in effetti lo sia. L'appassionato lamenta inoltre l'assenza di un ruolo femminile forte che funga da ago della bilancia tra l'europeo e il rivoluzionario, un po' come avveniva nei più famosi tortilla western. Spaghettiwestern.altervista.org lo definisce un film di impegno, per le rivolte popolari latinoamericane, imperdibile per i fan di Tomas Milian. 885 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Due stelle per filmtv.it e Morandini, mentre si rivela molto apprezzato dagli utenti di imdb.com dove sfiora il sette in pagella. Ad avviso di chi scrive si tratta di una pellicola molto divertente indicata per chi cerca pellicole bizzarre. Non consigliabile ai puristi, specie del western. Il sottogenere si alimenta con un poker di western di grosso prestigio che, per motivi di cronologia e onde evitare di fare troppa confusione, analizzeremo più avanti. Anticipo comunque i titoli: Vamos a Matar, Companeros (1970), e Che C'entriamo noi con la Rivoluzione (1972) di Sergio Corbucci, Viva la Muerte... Tua! (1971) di Duccio Tessari nonché Giù la Testa (1971) di Sergio Leone, il più famoso dell'intero sottogenere. 8.4 Ultima parte di stagione Chiusa la parentesi tortilla western, che ci ha portato a spaziare nel tempo, torniamo a settembre 1968. Debutta nel genere, con un western di quarta fascia, lo sceneggiatore Mario Colucci (si firma Ray Calloway), autore di una mezza dozzina di script marginali soprattutto destinati a Roberto Mauri. Farà un altro film, l'horror gotico Qualcosa Striscia nel Buio (1971), giudicato da Gordiano Lupi una modesta imitazione di Contronatura di Margheriti. A lanciare Colucci è il produttore siciliano Natalino Gullo (anch'egli al debutto e destinato a uscire dal mondo del cinema senza lasciar traccia) che accoglie la sceneggiatura del regista e gli affida la regia del film che esce col brutto titolo Vendetta per Vendetta (1968). L'opera risente di uno scarsissimo budget, ma anche di una sceneggiatura priva di mordente. Parte in modo lentissimo, occorrono addirittura trenta minuti per intuire la natura del soggetto, peraltro banale. C'è un'eredità in polvere d'oro nascosta in una casa e un vecchio bullo di paese che la ricerca (il veterano John Ireland, ormai in caduta libera). Uno straniero di passaggio (il pessimo e addormentato Gianni Medici, accreditato con lo pseudonimo John Hamilton) arriva però a mettergli i bastoni fra le ruote, dopo avergli conquistato la moglie (Loredana Nusciak, la prostituta protagonista in Django). Finale 886 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

assurdo dove i due, contendendosi il malloppo, vedranno svanire nel vento l'oggetto della contesa. Colucci non porta nulla di nuovo nel genere, gira in modo stanco e tende a dilatare le sequenze. Non ci sono momenti degni di nota, se non qualche scorcio sadico in cui vediamo il protagonista subire un numero interminabile di frustate al cospetto di Ireland. Sorte simile era in precedenza toccata alla Nusciak, ma in modo per nulla spettacolare e con scarsa cura del trucco (non si vede neanche uno squarcio sulla camicia). I personaggi non sono caratterizzati, il cast artistico è poverissimo con molti attori con filmografie esigue che non raggiungono nemmeno i dieci film in carriera. Il ruolo della bella di turno non va alla Nusciak, la quale si limita a una mera comparsa venendo uccisa prima della mezz'ora, ma alla semisconosciuta (cinque film in carriera) Conny Caracciolo che poi tanto bella non lo è neppure. Particina incolore per Remo Capitani (il Mescal de Lo Chiamavano Trinità). Ha un ruolo da pistolero vigliacco anche il caratterista Ivan Scratuglia che arriva ad avere addirittura una crisi di panico che lo porta sull'orlo del vomito. John Ireland è il migliore della compagnia (esito piuttosto scontato visto il passato glorioso dell'attore), ma le sue apparizioni sono limitate allo stretto necessario. Pessimo invece Gianni Medici (marito, nella vita reale, proprio della Nusciak), promosso al ruolo di protagonista dopo esser apparso con ruoli secondari in un pugno di film di basso livello. Avrà una particina anche in Sole Rosso (1971) di Terence Young prima di chiudere la carriera con solo dodici film all'attivo. Spoglie all'inverosimile le scenografie e il villaggio western. Gli scenografi non compiono nessun sforzo teso a rendere accattivante la visione. Le location esterne sono palesemente italiane, anche se Colucci cerca di dare l'idea di un contesto desertico. Giuseppe Aquari, apprezzato dal sottoscritto in Dio non Paga il Sabato (1967) di Boccia, confeziona una fotografia pessima. Carina invece la main theme di Lavagnino che poi fornisce una serie di musiche stridenti e fastidiose. C'è però chi le ha definite degne di un vecchio film di samurai. Nonostante quanto detto, il film, pur essendo di estrema nicchia, ha dei fan (soprattutto in Italia) per merito della rivalutazione operata dalla rivista Nocturno. Davide Pulici infatti ha visto nei momenti di tortura dei motivi di interesse per una componente omosessuale e una tensione sado-erotica che poi avvolge tutto il corso della pellico887 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

la. “Medici”, dice Pulici, “sembra quasi godere quando viene frustato e lo stesso avviene per Ireland che lo guarda in chiave voyeuristica”. A mio avviso, pur accettando tali ricostruzioni (forzate), resta un film noioso con un epilogo fracassone (spuntano fuori anche finte pallottole souvenir!?). Parla di trama di scarso spessore visivo spaghettiwestern.altervista.org, sconsigliando indirettamente la visione (pellicola che non esalta più di tanto). Alla stessa conclusione giunge Gordiano Lupi che lo bolla come “dimenticabile”. I blogger stranieri lo ignorano del tutto così come filmtv.it che non esprime voto. Due stelle per mymovies.it, sufficienza risicata per imdb.com. Il Mancho vi dice: passate oltre, c'è molto di meglio. Sempre a settembre escono due western di scarsa notorietà, ma con motivi di interesse. Il primo è Quanto Costa Morire (1968) girato dal debuttante Sergio Merolle, un direttore nonché ispettore di produzione con un'esperienza di quindici anni fatta di oltre venti pellicole, tra le quali Vaghe Stelle dell'Orsa (1964) di Visconti, La Battaglia di Algeri (1965) e Queimada (1968) di Pontecorvo nonché La Morte ha Fatto l'Uovo (1967) di Questi. Merolle si lancia alla regia (non dirigerà altri film), portando in scena una sceneggiatura del ventottenne Biagio Proietti, qua al suo secondo copione dopo la commedia Fai in Fretta a Uccidermi... Ho Freddo (1967). Proietti avrà modo di affermarsi nel circuito televisivo (ma anche in radio e in teatro) curando i copioni di svariate miniserie gialle e poliziesche, tra le quali Philo Vance (1974), Madame Bovary (1978), Doppia Indagine (1978) e I Racconti Fantastici di Edgar Allan Poe (1979) che gli varrà la chiamata di Lucio Fulci per sceneggiare il thriller-horror Black Cat (1981). L'incontro con Fulci lo porterà a tentare la via della regia, ma con scarsi risultati; verrà sollevato peraltro dalla regia del trash sci-fi Alien 2 sulla Terra (1979). Nel nuovo secolo si dedicherà alla stesura di romanzi gialli e premierà il sottoscritto in quel di Latina, in occasione del premio letterario Giallolatino edizione 2009, consegnandomi Un diploma per aver raccontato con toni gialli e neri il territorio pontino. Nell'occasione il lavoro di Proietti non è tra i più memorabili anche se ha il pregio di anticipare Il Grande Silenzio (1968) di Sergio Corbucci, introducendo ambientazioni innevate. Al di là di ciò abbiamo il classico tema dei banditi (qua ladri di bestiame) che, a causa di una bufera di neve, si instaurano dispoticamente in un piccolo villag888 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gio, prendendosi gioco degli abitanti e costringendoli a lavori coatti e usuranti finalizzati a far perdere loro la dignità umana. Protagonista sarà un giovane ribelle, interpretato da Andrea Giordana (al suo ultimo western, ma più in palla del solito), intenzionato a tendere imboscate ai bulli, a motivare il popolo alla rivolta e soprattutto a vendicare il padre adottivo trucidato dai manigoldi. Non mancherà la solita trovata che contrapporrà il protagonista al padre delinquente (John Ireland), che gli ha celato la sua vera identità perché si vergogna della vita che ha intrapreso. A dar corpo al sadico antagonista c'è Bruno Corazzari, reputato da 800spaghettiwesterns.blogspot.it eccezionale nel ruolo dello psicopatico. Merolle gira nel Parco Naturale dell'Abruzzo, sulle montagne, ma la sua direzione risente della mancanza di esperienza e del supporto di un cast tecnico di calibro. Si segnalano tuttavia le buone musiche di Francesco De Masi, su cui lo specialista Raoul intona Who is the Man. Pochi i commenti spesi sulla pellicola. Spaghettiwestern.altervista.org la reputa confusionale e con un epilogo mediocre, ma ben interpretata da Giordana e Ireland. Ne parla invece un gran bene 800spaghettiwesterns.blogspot.it, il quale sottolinea l'atmosfera claustrofobica che pervade l'opera: “Tutta l'azione si sviluppa nel villaggio e nei suoi dintorni”. Inoltre vede una critica ai totalitarismi che avevano insanguinato l'Europa nel periodo antecedente alla seconda guerra mondiale. L'appassionato spagnolo scrive poi che il film dimostra in modo perfetto che la libertà non viene data automaticamente ai cittadini, ma va conquistata e il prezzo da pagare può essere molto costoso. È buona anche l'opinione di spaghettiwesterns.1g.fi, il quale plaude la regia ma critica il montaggio (sfilacciato in alcune parti). Di contrario avviso filmtv.it, secondo cui il film non va oltre una stella. Soprassiede il Morandini. Il secondo western è Joe, Cercati un Posto per Morire (1968) diretto a metà da Giuliano Carnimeo e dall'argentino Hugo Fregonese, che ne è anche il produttore. Nonostante i nomi, senz'altro più famosi di quello di Merolle, la pellicola è di minor valore ed è stata vista da pochi. Il copione porta la firma di Lamberto Benvenuti (definito da Roberto Poppi: “misterioso autore di alcuni film di genere realizzati nella 889 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

seconda metà degli anni settanta e di cui si perdono le tracce nel 1970”), affiancato dai due registi. I tre propongono un soggetto alla Castellari, seppur rinunciando all'ironia. Abbiamo due cercatori d'oro aggrediti da una banda di banditi nei pressi di una miniera. Costretto da una frana a restare intrappolato sotto le macerie, il pioniere (curiosamente un Piero Lulli in un ruolo di vittima) da ordine alla propria compagna (Pascale Petit) di andare a cercare aiuto in modo da respingere i briganti. La donna si reca al più vicino paese e organizza un gruppo di soccorso infarcito di criminali e reietti. Sul posto sopraggiungeranno così l'americano Jeffrey Hunter, al debutto nel genere ma già apparso in western americani girati in Spagna (tra i quali Murieta John), l'iraniano Reza Fazeli (attore pescato dal cinema orientale, nonché studioso di filosofia religiosa e produttore di documentari), seguiti da altri personaggi bizzarri (tra cui un pistolero, un ginnasta e un falso prete) tutti animati dal desiderio di rubare l'oro e interpretati da Gianni Pallavicino, Nello Pazzafini e Adolfo Lastretti. Giunti sul posto i pretendenti troveranno Lulli morto e il tesoro trafugato dal capo dei banditi ovvero Mario Dardanelli. Si innescherà così la caccia al tesoro, con lenta eliminazione di tutti i pretendenti e storia d'amore tra il personaggio di Jeffrey Hunter e la donna inizialmente compagna del pioniere. Nulla di nuovo dunque (si sarebbe dovuto caratterizzare meglio il gruppo di reietti), per quello che è un piccolo western dal cast interessante. Jeffrey Hunter è alla sua unica partecipazione nel genere, anche perché morirà l'anno seguente a seguito di una caduta dalle scale provocata da un'emorragia cerebrale. Poco più che quarantenne, arriva con una lunga serie di film alle spalle e una formazione teatrale. Fisico aggraziato, volto seducente, si era distinto soprattutto nei western dove aveva recitato in opere quali Sentieri Selvaggi (1956) e I Dannati e gli Eroi (1960) entrambi di John Ford nonché La Vera Storia di Jess il Bandito (1957) di Nicholas Ray. Aveva inoltre interpretato l'importante ruolo di Gesù di Nazareth ne Il Re dei Re (1961) sempre di Ray, ottenendo però pesanti critiche che lo costrinsero a lavorare in opere minori, molte delle quali girate in Europa, e in serial televisivi tra cui il ruolo del Comandante Pike dell'astronave Enterprise nell'episodio pilota di Star Trek (1966). La presenza di un attore come Jeffrey Hunter è di per sé motivo di interesse, per una piccola produzione che ha poco altro da aggiungere 890 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Spaghettiwestern.altervista.org non la ritiene malvagia, ma è tra i pochi a salvarla. In molti la ignorano, ma non 800spaghettiwesterns.blogspot.it che gli riconosce quasi la sufficienza pur rivogando un quattro alla sceneggiatura. Lo spagnolo segnala una certa carica erotica garantita dalla francese Pascale Petit e dalla nostra Daniela Giordano, facendo poi notare (conforme Marco Giusti) il forte debito del soggetto col western Il Prigioniero della Miniera (1954) di Hathaway A detta dell'appassionato, il film ha un inizio promettente e senza preamboli, si spara subito a “manetta” anche se poi si scivola nel dejà vù senza riuscire a mantenere l'indiavolato ritmo iniziale. A ogni buon conto si può vedere, la noia è scongiurata. Il periodo di autunno/inverno vede grande protagonista il produttore Edmondo Amati che, dopo Vado... l'Ammazzo e Torno (1967) e I Tre che Sconvolsero il West (1968) di Castellari, produce tutta una serie di western. Il primo a uscire è Anche nel West c'era una Volta Dio (1968) di Marino Girolami che si firma col bizzarro pseudonimo Dario Silvestri. L'idea è quella di adattare al western il romanzo avventuroso L'Isola del Tesoro di Robert Luis Stevenson. Girolami convince Amati e partecipa al finanziamento del film, dopo di che chiama il fido Tito Carpi e inizia a stendere la sceneggiatura. Partecipa ai lavori anche Amedeo Sollazzo che Girolami si porta dietro dalla parodia con Franco & Ciccio Due Rrringos nel Texas (1967). Al posto del mare viene inserito il deserto, il rum è sostituito dal whisky mentre le navi sono rappresentate dai carri, per il resto si attinge dall'opera originale. Il copione vede Folco Lulli braccato da una banda di delinquenti capitanata da Raf Baldassarre. Questi ultimi vogliono strappare al fuggiasco la mappa di un tesoro trafugato da un Santuario, ma l'uomo riesce a nasconderla a dovere. Tuttavia un giovane bambino (interpretato da Hunberto Sempere) ne entra in possesso e, aiutato da un trio di personaggi (Gilbert Roland, Richard Harrison e Roberto Camardiel), si mette alla ricerca del bottino. Su tutti, intanto, continua a incombere la minaccia dei banditi. Segue la classica girandola di colpi di scena, con doppigiochisti e contendenti che cadono uno dietro l'altro. Nulla di nuovo, peraltro girato senza particolare verve da Girolami, senz'altro meno talentuoso del figlio Castellari. 891 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Si segnala un carismatico Gilbert Roland, definito da spaghetti-western.net la principale attrattiva del film, nel ruolo corrispondente al Long John Silver di Stevenson, anche se al posto della gamba di legno ha un braccio di ferro. Simpatica poi l'idea di un gruppo di maiali che Camardiel ha battezzato dando loro il nome degli ufficiali nordisti. Richard Harrison, invece, è il protagonista, nei panni di un prete pacifista chiamato a recuperare il tesoro. L'attore americano offre una delle sue prove meno convincenti, penalizzato da un personaggio piuttosto avulso e remissivo. Piccoli ruoli infine per la bella Domenique Boschero e per Enio Girolami. Carine le musiche di Carlo Savina con la voce di Raoul che canta Heart of Stone. Il film esce senza entusiasmare nessuno, ottenendo uno dei peggiori incassi ottenuti da un western di Amati. All'estero viene distribuito col titolo Tra Dio, il Diavolo e un Winchester, senz'altro preferibile al pessimo titolo italiano, ma con risultati invariati. Lo stronca 800spaghettiwesterns.blogspot.it (voto: quattro) il quale lamenta la mancanza di forza drammatica e soprattutto di un ritmo adeguato. Bocciatura secca anche per Carlo Savina (“le musiche di contorno sono orribili”). Non ne parla bene neppure Sonofdjango.blogspot.it, per il blogger inglese è un film d'avventura per famiglie, come dimostra la presenza di un bambino di dieci anni nel ruolo di protagonista. Lo salva spaghettiwestern.altervista.org che ne consiglia la visione. Una stella e mezzo per il Morandini, anch'esso spiazzato dalla presenza di un ragazzino in veste di attore principale. Dopo l'insuccesso con Girolami, Edmondo Amati resta coinvolto in un altro piccolo western, questa volta coprodotto da Alfonso Balcàzar. Si tratta di Sartana non Perdona (1968), primo sequel apocrifo della saga Sartana che non ha nulla a che fare col personaggio di Parolini. Il soggetto porta la firma di Jaime Jesùs Balcàzar e viene sviluppato dallo stesso e da Giovanni Simonelli. Alfonso Balcàzar vuole un prodotto sicuro, vicino ai western leoniani, con bounty killer e pistoleri solitari assetati di vendetta. La pellicola sta per uscire col titolo Sonora, ma il successo di Se Incontri Sartana Prega per la tua Morte (1968) fa cambiare idea ad Amati. Memore dell'esperimento già rea892 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

lizzato con Django Spara per Primo (1966), Amati pensa bene di confezionare un tiro mancino. Così ecco il riferimento posticcio a Sartana, sebbene il personaggio affidato al granitico George Martin, al secolo Francisco Celeiro Martinez (attore feticcio del regista), sia legato ai tratti del Django corbucciano. È addirittura chiamato col nomignolo de Il Silenzioso perché “non parla, prepara le trappole in silenzio e in silenzio ti ammazza”. Lo script ricalca numerose situazioni viste in Per Qualche Dollaro in Più (1965). In sintesi abbiamo un vendicatore solitario (Martin) accecato dall'odio verso un subdolo assassino (Jack Elam) che gli ha stuprato e ucciso la donna. Il pistolero avrà la meglio sul manigoldo grazie all'aiuto di un dandy bounty killer doppiogiochista (Roland) e di un rapinatore messicano (Tony Norton). Gli sceneggiatori copiano a più non posso. Ripropongono l'accoppiata di pistoleri (Martin e Tony Norton) che, dandosi una mano a vicenda, eliminano l'intera banda dell'antagonista, proprio mentre lo stesso se ne rimane asserragliato in un'abitazione con la speranza che i suoi uomini abbiano la meglio sui rivali. Soluzione che, chiaramente, non si verificherà con inevitabile duello finale sotto l'occhio di un terzo soggetto a fungere da arbitro della contesa. Viene inoltre ripetuto il tema dello stupro e del suicidio della donna del protagonista (cui da corpo la bella Ana Maria Cazorla accreditata come Diana Lorys, storica caratterista soprattutto dei paella western fin dai primi targati Marchent) messo peraltro in scena con l'escamotage del flashback (eccezionale e malinconico il commento sonoro di Franscesco De Masi). Si arriva persino a ripetere la scelta del protagonista di rinunciare alla taglia del capobanda, come contropartita riconosciuta al socio che lo ha aiutato a compiere la vendetta. Non mancano dialoghi, probabilmente dovuti a Simonelli, conditi dalla simpatica spacconeria trasteverina. Su tutti una sequenza in cui Gilbert Roland invita tre pistoleri a consultare un campionario di bare, con tanto di spiegazione dei pregi e difetti delle stesse, prima di assassinarli in duello. Tra le poche cose apparentemente originali, si segnala un duello in cui due sfidanti si affrontano con un solo colpo nel tamburo della pistola, sparandosi contro in una sorta di roulette russa. L'idea è in verità debitrice de I Vigliacchi non Pregano (1968), da cui ci si discosta per una sfumatura furbesca e sadica (il cattivo infatti fa caricare la pi893 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

stola dell'avversario con un proiettile a salve in modo da avere gioco facile). Degna di nota l'eccezionale fotografia dell'ex operatore di macchina Jaime Deu Casas, molto bravo a scegliere, specie negli interni, soluzioni visive coloratissime. Casas, una carriera spesa tra gli anni '60 e gli anni '80, lo si ricorda soprattutto come operatore di macchina di Mario Bava in Il Rosso Segno della Follia (1970) o come addetto alla fotografia de Il Corsaro Nero (1971). Fotograferà inoltre un'altra cinquantina di film, fino al 1981, in buona parte spagnoli e comunque quasi tutti di modestissimo livello. La regia di Alfonso Balcàzar, pur non essendo eccelsa, è più ordinata del solito, per merito di un budget più sostanzioso tanto da permettergli l'ingaggio di un cast artistico di un certo prestigio. Se il protagonista è il solito George Martin (truccato in stile Franco Nero in Django), a fargli da spalla troviamo l'ottimo Gilbert Roland, con il suo canonico personaggio dandy già ricoperto nei western di Castellari. Il cattivissimo e scorretto Jack Elam, che ritroveremo in C'era una Volta il West (1968) di Sergio Leone, è invece il cattivo di turno. Bravino l'inglese Tony Norton nelle vesti di spalla di Martin. In un ruolo marginale, di circa un minuto, compare anche la bella Rosalba Neri. In definitiva è uno spaghetti-western che si lascia vedere, ma che non aggiunge nulla. A mio avviso è evitabile, anche se non mancano alcuni estimatori, come Jean François Giré, che lo reputano il miglior western di Balcàzar (opinione che sia io che Marco Giusti non condividiamo) o come 800spaghettiwesterns.blogspot.it il quale gli attribuisce quasi un sette in pagella per via dell'ottima atmosfera (gli interni, mi piace sottolinearlo, sono stati girati a Tirrenia negli studios Cosmopolitan) e per la presenza di dialoghi immediati. Positivo anche il commento dell'anglofono fistfulofpasta.com che loda le interpretazioni degli attori, su tutti Jack Elam, e anche la sceneggiatura a suo dire superiore alla media. Eloquenti le bocciature di tutti gli altri con spaghettiwestern.altervista.org che parla di western di poco spessore, imitato da filmtv.it (western dal soggetto troppo scontato). Non raggiunge neppure le due stelle per il Morandini (tema della vendetta esasperato in un romanticismo deteriore), inferiore al cinque in pagella invece per imdb.com.

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Sempre a ottobre esce Black Jack (1968), quarto western diretto dall'altoadesino Gianfranco Baldanello, reduce dai flop dei vari Trenta Winchester per El Diablo (1965), Uccidete Johnny Ringo (1966) e I Lunghi Giorni dell'Odio (1968). Ancora una volta il budget messo a disposizione del regista è risibile, anche se la compartecipazione dell'israeliano Alexander Hacohen, al fianco degli italiani Fernando Franchi e Giancarlo Zagni, permette alla troupe di beneficiare di inusuali esterne nei deserti dell'Israele come già avvenuto nel precedente e unico western coprodotto dai tre: Execution (1968) di Paolella. Il soggetto viene proposto da Luigi Ambrosini, un debuttante che non parteciperà a nessuna altra produzione e di cui non è facile reperire notizie. Ambrosini ricalca l'idea che era stata alla base del western di Lanfranchi, Sentenza di Morte (1968), e che poi costituirà il punto di partenza di Kill Bill (2003) di Quentin Tarantino. Siamo infatti alle prese con un revenge movie in piena regola, con un protagonista ridotto quasi a cadavere dalla banda di rapinatori di cui faceva parte e che si riprenderà per eliminare, uno a uno, i vecchi compagni di avventura. A sviluppare l'idea di partenza troviamo, oltre al regista e al vecchio Mario Maffei (regista nel 1966 del pessimo La Grande Notte di Ringo), uno specialista del genere: Augusto Finocchi. Finocchi ha già scritto sei copioni, tutti western, agli ordini di registi del calibro di Ferroni, Baldi, Lucidi e Castellari. Sebbene già in prematura fase discendente, avrà altre due impennate con l'horror di Jess Franco Il Conte Dracula (1970) e il noir La Mala Ordina (1972) di Fernando Di Leo, Finocchi si rivela fondamentale a Baldanello per permettergli di distanziarsi dalla mediocrità dei suoi lavori. Lo stesso regista, in tempi recenti, considererà Black Jack il suo miglior film. Nonostante ciò lo script non abbonda di momenti eccelsi. Tra questi ultimi tuttavia figura l'ingegnosa rapina iniziale che Baldanello gira con verve poliziesca, tanto da ricordare, a un pubblico contemporaneo, una sequenza di una pellicola che potrebbe avere in Brian De Palma il regista più accreditato. Baldanello non propone infatti una canonica irruzione in banca, ma mette in scena due banditi che si fingono clienti e che, attraverso una serie di escamotage orditi dai collaboratori esterni, portano a termine il colpo nell'indifferenza generale. Al di là della rapina, Finocchi punta tutto sulla mutazione comportamentale del protagonista. Woods, a inizio film, è una persona allegra, poi a poco a poco diviene amareggiato fino a trasformarsi in uno 895 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

psicopatico assetato di vendetta. Tale involuzione è sottolineata metaforicamente dal vestito elegante che indossa il protagonista, inizialmente è nero e lucente poi diviene intriso di polvere, grigio. Non di secondaria importanza è la caratterizzazione fumettistica di questo personaggio. Lo vedremo abbandonarsi a risate diaboliche funzionali a innervosire i rivali, mentre sta dando loro la caccia. Carina anche la sua abitudine, ripresa dal personaggio interpretato da George Hilton in Le Colt Cantarono la Morte... e Fu Tempo di Massacro (1966), di apostrofare le vittime, prima di premere il grilletto della pistola, col saluto “Ehi, amico”. La trovata più geniale però è quella di presentare un killer storpio che si sorregge su un bastone, a causa delle ferite infertegli dagli avversari, ma che nonostante ciò è letale più di un cobra. Con l'intercedere dei minuti si troverà al cospetto dei diversi componenti della banda, escogitando sempre nuovi e crudeli piani per ucciderli. Lo vedremo vendicarsi con gusto, scegliendo modalità sadiche: farà linciare un uomo pagando duecento dollari a una folla affamata, dopo aver conquistato credito lanciando banconote e monete in aria al suo passaggio in paese; ne legherà un altro con un cappio al collo e poi lo farà trascinare da un cavallo imbizzarrito dopo avergli sparato due colpi alle caviglie; costringerà addirittura il boss della banda che lo ha tradito ad assistere allo scalpo della figlia in modo da esser punito per aver fatto altrettanto ad altre persone. Ne esce fuori uno script ben scritto nella prima parte, ma che tende a sfilacciarsi nella seconda. In quest'ultima il protagonista comparirà, di volta in volta, davanti a un nuovo bandito da eliminare senza che il complesso della storia venga raccordato a dovere. Baldanello inoltre, non avendo a disposizione interni di un certo rilievo (le scenografie romane sono a dir poco fatiscenti, tanto che lo stesso protagonista vive in un villaggio abbandonato), sfrutta al massimo le location esterne con frequenti campi lunghissimi di cavalli lanciati al galoppo lungo i deserti sassosi di Israele. Addirittura inserisce una discreta, ma poco funzionale, sequenza in cui Woods, rimasto senza acqua, ondeggia in sella al cavallo per poi scendere quasi morto e giungere in un'oasi. Baldanello sceglie di aggiungere manciate di pepe alla storia, infarcendola di scene violentissime che causano l'apposizione del divieto ai minori di anni 18, poi ridotto a 14 a seguito di un ricorso presentato dai produttori. Tra le scene più truci, sebbene quasi del tutto fuo896 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ri campo o in flashback, propone lo scalpo della carinissima Lucienne Bridou praticato da un Mimmo Palmara sbarbato e nell'inconsueta veste di pellerossa, e soprattutto porta in scena una terribile punizione cui viene sottoposto il protagonista. Pestato fino a fargli uscire il sangue dal naso e dalla bocca, oltre che ferito con un lungo sfregio sulla faccia, Woods viene legato a un palo, con un corda stretta alla gola, torturato con un coltello piantato nel palmo di una mano e infine ferito con due colpi di pistola alle caviglie. Da segnalare inoltre l'accenno erotico con cui si apre il film, con Palmara che spia la bella Lucienne Bridou intenta a lavarsi nella vasca da bagno. Purtroppo Baldanello non darà seguito a questa piega un po' bizzarra per un prologo. La regia comunque compie un netto salto in avanti rispetto alle altre opere del regista. L'altoadesino è ispirato fin dai titoli di apertura, quando vediamo il primissimo piano degli zoccoli di un cavallo in marcia, scoprendo poi che il primissimo piano era stato stretto su uno specchio che rifletteva l'immagine degli arti dell'animale. Il ritmo è sollecito, brioso, con almeno una sequenza eccellente (quella della rapina) e un'altra che, seppur poco originale, si rivela carica di tensione (la partita a poker tra il protagonista e un rivale, col primo che gioca senza guardare le carte). Convince poco l'epilogo, un po' tirato via soprattutto per il montaggio nervoso, sebbene vi sia una certa velleità metaforica (vediamo le case fatiscenti cadere sotto le raffiche del vento). Interpretazioni più che sufficienti, purtroppo Baldanello non può usufruire di un cast altisonante. Woods sembra George Hilton, e si impegna a dovere nello strascinare una gamba al suolo e nel cercare di assumere espressioni facciali da pazzo. Purtroppo in alcuni frangenti gigioneggia più del dovuto, risultando farsesco (quando ride sembra un personaggio malvagio dei cartoni giapponesi degli anni '70). Il ruolo dell'antagonista va al veneto Rik Battaglia, collaudatissimo nei sauerkraut western in cui era una presenza pressoché costante e ben calato nella nuova realtà. Battaglia sfoggia il look tipico del manigoldo, con la barba lunga e il fare subdolo. Proseguirà la carriera come caratterista di moltissimi B-Movie italiani, soprattutto western, finendo scritturato anche in Giù la Testa (1971) di Leone. Tra gli altri si ribadisce la presenza di Palmara, con un ruolo solo scenico visto che non proferisce parola, e di Lucienne Bridou al suo ultimo dei quattro film interpretati. Il resto sono caratteristi, con un moscissimo Nino Fuscagni (come spalla di Woods) già apparso nei precedenti la897 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

vori del regista e con un futuro da attore di serial televisivi quali Il Maresciallo Rocca (1998) e Don Matteo (2000). All'insegna del risparmio la fotografia (decisamente bruttina) curata da Mario Fioretti (non a caso non avrà fortuna nel cinema bis, finendo a lavorare in televisione dopo quindici anni di carriera spesa soprattutto al servizio delle commedie), peggio ancora gli arredamenti e le scenografie del duo Luciano Vincenti e Nicola Tamburro. Simpatica e ben montata la colonna sonora di Lallo Gori. Il film non è di facile reperibilità, specie in italiano (spaghettiwestern.altervista.org dimostra di non averlo visto limitandosi a riportare il commento di Marco Giusti), eppure, nonostante una confezione qualitativamente da terza fascia, gode - specie in America - della fiducia di moltissimi fan per il suo taglio pulp e anticonvenzionale. Alex Cox, esagerando non poco, lo annovera addirittura tra i suoi quindici western preferiti. A mio avviso, insieme a Sentenza di Morte, costituisce un ottimo precursore di pellicole come Kill Bill, indicato agli amanti del B-Movie, grazie a un ritmo sollecito e a un tasso di violenza e di bizzarria decisamente sopra la media. Non lo consiglierei, invece, a chi è a caccia di storie elaborate o che fanno forza sui dialoghi ovvero sugli sviluppi imprevedibili della sceneggiatura. Per i motivi sopraesposti, il film spacca in due critica e appassionati. Si va dall'entusiasmo di Cox e dell'americano spaghetti-western.net che (pur attaccando Baldanello per non aver sfruttato a pieno il potenziale) lo reputa se non un capolavoro quanto meno un piccolo classico, alle nette stroncature di filmtv.it che lo definisce uno scarsissimo western, passando per il silenzio del Morandini che lo ignora. Marco Giusti si sbilancia più del solito, dimostrando di apprezzare non poco la pellicola. Ne sottolinea la cupezza e la bizzarria indicandola quale ottimo western pieno di inventiva; il migliore tra quelli di Baldanello, perché girato in maniera molto moderna, veloce, assolutamente più da film di gangster che spaghetti. Il film è conosciutissimo e apprezzato all'estero. Lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it, solitamente severo con gli spaghetti western poveri, gli riconosce un sette pieno in pagella ed elogia Robert Woods, piuttosto che Baldanello giudicato appena dignitoso. Sulla stessa linea è il portoghese por-um-punhado-de-euros.blogspot.it il quale reputa la performance di Woods la migliore mai espressa dall'attore americano. 898 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Equilibrato e forse più condivisibile di tutti è sonofdjango.blogspot.it il quale sentenzia: il film è ben lontano da esser considerato un capolavoro ma ha qualità più che idonee per essere ricordato come uno dei migliori esempi del genere, grazie a un sapiente mix di melodramma e azione. Tra i film più attesi c'è il secondo western di Giuseppe Colizzi che ripropone la coppia Bud Spencer e Terence Hill ne I Quattro dell'Ave Maria (1968), vero e proprio sequel di Dio Perdona... Io No! (1967). Ancora una volta Colizzi ricopre i ruoli di regista, sceneggiatore e produttore per intessere un soggetto che ha nel romanzo gangster Mano Armata di Harry Grey, che sarà poi la base di C'era una Volta in America (1984) di Sergio Leone, il suo faro illuminante. Grazie all'inatteso successo del suo primo film, Colizzi non ha più problemi di budget e può studiare con cura la pellicola che prende le mosse col titolo Asso Pigliatutto, poi cambiato nonostante l'ipocrita censura ispanica non fosse per nulla contenta del riferimento religioso. La storia inizia laddove terminava la precedente, con i nostri che pretendono e ottengono, mediante estorsione, la somma di denaro che un banchiere corrotto (Steffen Zacharias) si era accordato di versare a Sant'Antonio, il personaggio interpretato da Frank Wolff nel primo capitolo. Divenuti ormai ricchi e con Bud Spencer che sogna già di ritirarsi e comprarsi un bel ranch, i due vengono rapinati in pieno deserto da un greco pulcioso (Eli Wallach) evaso dal carcere proprio grazie all'intromissione del banchiere derubato dai due e intenzionato a riprendersi il maltolto. Il greco però, invece di stare ai patti, fa di testa sua, in quanto ha una serie di conti in sospeso con i compagni di una precedente rapina che lo hanno abbandonato nelle mani dello sceriffo. Così uccide il banchiere, colpevole di averlo tradito in passato, e usa il denaro rubato ai protagonisti per fare opere pie e far divertire gli abitanti di villaggi poveri. I nostri intanto gli danno la caccia in un lungo e continuo inseguimento in cui si susseguono avventure che coinvolgono peone, circensi, rivoluzionari, fino all'epilogo in un casinò dove, uniti tutti e tre e con l'aggiunta di un quarto elemento (Brock Peters), porranno fine alla carriera di un sindaco baro (Kevin McCarthy) e recupereranno la somma dilapidata dal greco. 899 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Non siamo ancora nel sottogenere fagioli western, anche se non mancano le scazzottate. Rispetto al prequel il film è addirittura meno comico. Terence Hill non è ancora il guascone alla Giuliano Gemma, ma resta legato al Django di Preparati la Bara (1967). Lo stesso Bud Spencer è più incazzoso del solito, spara anche con un fucile munito di sette canne. Da segnalare inoltre la presenza di svariati antagonisti, soluzione dovuta alla scelta di sviluppare la trama come un complesso di distinte avventure, che i protagonisti si troveranno a dover affrontare, uno dopo l'altro, nel corso della storia. Ne deriva un lotto di attori assai gustoso, con molti impiegati in meri cammei. Accanto a celebri caratteristi come Steffen Zacharias (al suo debutto nel genere, sarà l'aiutante sceriffo in Lo Chiamavano Trinità), Remo Capitani e Riccardo Pizzuti che ritroveremo nella saga Trinità, ci sono Benito Stefanelli, Livio Lorenzon e Federico Boido, manco a dirlo, nei panni dei cattivi. Tra i big, Colizzi schiera nientemeno che Eli Wallach il quale, seppur meno sopra le righe, tende a ripetere il Tuco de Il Buono, il Brutto, il Cattivo (1966). Nella folta schiera di antagonisti, col ruolo di gestore del casinò, compare l'ottimo Kevin McCarthy, alla sua unica apparizione in un prodotto italiano. Attore americano di lunghissimo corso, a fine carriera potrà vantare oltre 200 film tra cinema e televisione. Dopo una serie interminabile di fiction televisive avviata nel 1944, era salito agli onori della cronaca nel 1952, strappando una nomination all'oscar e un Golden Globe come migliore attore non protagonista in Morte di un Commesso Viaggiatore (1951) di Lazlo Benedek. Aveva altresì avuto il ruolo da protagonista nel cult horror L'Invasione degli Ultracorpi (1956) di Don Siegel, dove la sua interpretazione era riuscita a impressionare vaste schiere di critici. Nel 1961 aveva altresì recitato al fianco della diva Marylin Monroe ne Gli Sposati di John Huston. Molto apprezzato soprattutto nel contesto televisivo, dove diventerà una presenza pressoché onnipresente con partecipazioni a serie leggendarie come Ai Confini della Realtà (1960), L'Ora di Hitchcock (1964), Colombo (1973), Love Boat (1983), A-Team (1986), La Signora in Giallo (1992), non riuscirà mai ad affermarsi tra gli attori di grosso calibro pur essendo stato diretto da maestri del calibro di Jacques Tourner, John Huston e Robert Altman. Gli amanti dei B-Movie lo ricorderanno, oltre per il citato film di Siegel, in Piranha (1978), L'Ululato (1981), nel terzo episodio del film Ai Confini della Realtà 900 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

(1983) e in Salto nel Buio (1987) tutti diretti da quel geniaccio che risponde al nome di Joe Dante. Al di là di McCarthy, Colizzi beneficia di un'ulteriore presenza internazionale: il colored Brock Peters, altro habitué del circuito televisivo americano (Rawhide, Longstreet, Gunsmoke, La Donna Bionica, Magnum P.I., La Signora in Giallo, Batman, Star Trek: Deep Space Nine per citarne alcuni) e anch'esso alla sua unica partecipazione in un film italiano, nonostante i suoi quasi centocinquanta lavori. Specialista del circuito televisivo, Peters era apparso assai raramente in prodotto cinematografici, pur prendendo parte a eccelsi prodotti quali Il Buio oltre la Siepe (1962) di Mulligan e L'Uomo del Banco dei Pegni (1965) di Sidney Lumet. Comparirà in seguito nel western americano L'Ultimo Tramonto sulla Terra dei McMasters (1970) e nel cult sci-fi di Richard Fleischer 2022: I Sopravvissuti (1973). Al newyorkese viene riservato il ruolo di quarto componente del gruppo protagonista, un ruolo piuttosto marginale che raggiunge il suo apice solo nelle scene acrobatiche in cui è chiamato a camminare su fili sospesi in aria. Lo vedremo inoltre all'opera come abile pistolero nonché come paciere tra Wallach e Spencer. La sceneggiatura parte in sordina, ma cresce alla distanza. Il personaggio di Wallach è ben caratterizzato, parla ricordando di continuo gli insegnamenti del nonno e si prende beffa di tutti in virtù di un atteggiamento che pare da ritardato e che invece è da furbacchione. Da ricordare alcune sue burlonate, tra le quali lo scherzo orchestrato ai danni di un Bud Spencer ubriaco. Vediamo Wallach sostituirsi al ritratto che lo immortala su una taglia da ricercato, cambiando di continuo espressione in modo da confondere Bud Spencer che è convinto di vedere un'immagine fissa. L'atteggiamento scherzoso del personaggio di Wallach irrita persino Terence Hill il quale, truccando l'esito di una partita alla roulette in cui è impegnato Wallach, afferma: “Imbecille, non si cura nemmeno di salvare le apparenze!” Wallach, infatti, punta sempre sullo stesso numero: il 13. Chiaramente, dato che Hill sta pilotando la roulette con una calamita posizionata ad arte, il numero esce sempre, attirando le attenzioni dei proprietari del locale. Se il personaggio dell'americano è interessante, appare più abbozzata la coppia Spencer-Hill, che non ha nulla di nuovo. Colizzi, dato il periodo storico, inserisce qualche spruzzatina tortilla western, ma molto superficiale con l'assalto a un fortino dove si 901 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

fucilano i peone e in cui Colizzi si scatena regalando un po' di sana azione. Le sequenze degne di nota per originalità non sono molte. C'è un curioso e rozzo scontro di boxe tra Bud Spencer e un energumeno di colore, e soprattutto un favoloso epilogo assai articolato. Nella lunghissima sequenza finale i nostri mettono a segno una complicatissima truffa all'interno di un casinò in cui, a sua volta, i gestori truffano gli scommettitori ponendo dei magneti sotto il tavolo da gioco così da alterare gli esiti delle partite. Così vedremo Hill guardare dall'alto la partita, in una sorta di soffitta, e comunicare, attraverso un sistema di tubi, con la cantina dove si trovano i complici. Questi ultimi ricevono il comando vocale relativo al numero su cui ha puntato Wallach che invece siede al tavolo da gioco e incassa le vincite. I gestori, chiaramente, mangiano la foglia e scendono nel locale. “Ho capito, è una rapina!” debutta McCarthy, che poco prima in una riunione con le autorità locali sponsorizzava l'importanza dell'ordine e della giustizia. Bellissima la sarcastica risposta di Terence Hill: “In un certo senso si, ma non da parte nostra... Dico bene? O preferisci che lo sceriffo dia uno sguardo in giro, magari in soffitta?” Segue il duello, all'interno del locale, quattro contro cinque, con Wallach che pretende la musica dei violini, un valzer dolcissimo per la precisione, perché in carcere così aveva sognato (McCarthy è l'ultimo sopravvissuto della banda che lo ha tradito e, alla richiesta, impreca: “Buffone!”). Vediamo quindi i due gruppi indietreggiare, sopra un tappeto vivente costituito dagli scommettitori truffati negli anni e costretti a restare sdraiati a terra per assistere al conflitto. Bella la regia, in questa parte, con un'alternanza di controcampi e col dettaglio della roulette che gira (a scandire il tempo in cui sparare) con i due gruppi che si allontanano sullo sfondo, seguita dai primi piani delle gambe che arretrano attente a non calpestare coloro che sono al suolo. Si passa quindi ai piani americani e infine ai primissimi piani sui volti e sulla roulette. Niente male, davvero, ma non a sufficienza per rendere il film superiore a Dio Perdona... Io No! Non buonissima la fotografia di Marcello Masciocchi, costretto a subentrare a lavoro in corso, dopo che Marcello Gatti aveva lasciato il set per incompatibilità caratteriale col regista, a suo dire troppo pressante (“Colizzi faceva orari impossibili”). Non entusiasma neppure la musica di Lavagnino anche se alcuni la reputano superiore a quella del primo capitolo. 902 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

In genere il film è ritenuto un ottimo western, si vedano spaghettiwestern.altervista.org e l'inglese spaghettiwesterns.1g.fi. Bud Spencer lo reputa addirittura il suo miglior film. A mio avviso è sopravvalutato, seppur sufficiente. Il botteghino però risponde assai bene con oltre due miliardi di incasso che assestano il film sotto C'era una Volta il West, come secondo spaghetti-western più visto dell'anno. La pellicola è apprezzata persino dal Morandini che ne loda la briosità e il ritmo, uniti al tono picaresco, al punto da riconoscerle ben tre stellette, addirittura una più di filmtv.it. Quest'ultimo infatti non l'apprezza molto, puntando giustamente il dito su alcune lungaggini della sceneggiatura. È critico, forse oltre il dovuto, 800spaghettiwesterns.blogspot.it che reputa il lavoro di Colizzi insufficiente, sia per la regia che per la scrittura. In particolare, l'appassionato spagnolo, indica svariati buchi di sceneggiatura (“sembra che siano state tagliate alcune parti di film”) che rendono confusionaria e noiosa la storia al punto da causa una certa difficoltà nella visione (opinione esagerata). Lodi invece per gli attori, in particolare Wallach, mentre si ritiene superfluo (a ragione) il funambolico Peters e stereotipato il personaggio di McCarthy. Il californiano Tom Betts parla di una parodia dello stile che ha reso grande Sergio Leone, con una resa dei conti finale troppo lunga e un Terence Hill più qualitativo di quanto sarà nella saga Trinità. Comunque da vedere, soprattutto per un epilogo originale da grande western. Il mese di ottobre termina qua con una grande impennata di pubblico e con un capolavoro che sta per invadere le sale: il primo grande western firmato Sergio Corbucci, un'opera in grado di sfidare la qualità dei western di Sergio Leone. IL GRANDE SILENZIO Produzione: Italia, Francia 1968. Prodotto: Attilio Ricci (Adelphia Compagnia Cinematografica), Les Films Corona. Regia: Sergio Corbucci Soggetto: Sergio Corbucci 903 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Sceneggiatura: Sergio Corbucci, Bruno Corbucci, Mario Amendola, Vittoriano Petrilli. Interpreti Principali: Jean Louis Trintignant, Klaus Kinski, Frank Wolff, Luigi Pistilli, Vonetta McGee, Marisa Merlini, Mario Brega. Fotografia: Silvano Ippoliti. Musiche: Ennio Morricone Sottogenere: Bounty Killer. Durata 105 min. Giudizio Mancini: ****1/2 Giudizio Morandini: *** La trama In un paese innevato, dove i bounty killer imperversano uccidendo tutti coloro su cui pende una taglia, giunge Silenzio (Trintignant), pistolero muto nemico dei cacciatori di taglie. L'uomo è stato ingaggiato dalla vedova (McGee) di un poveraccio ucciso dal mefistofelico Tigrero (Kinski), il più feroce tra i bounty killer. Il compito del mercenario è vendicare l'uomo e proteggere tutti i bandidos che vivono nascosti come topi sulle montagne. Intanto in paese, su disposizione del governatore che vuol porre fine alla mattanza connessa all'usanza delle taglie, arriva un nuovo sceriffo (Wolff). Lo stellato è motivato a ripristinare l'ordine e cerca ogni pretesto per ostacolare i bounty killer. I due, pur abili nell'uso della pistola, si troveranno però a dover fronteggiare un giro di interessi più grande di loro... Commento Settimo spaghetti-western diretto da Sergio Corbucci, probabilmente il migliore della sua intera produzione, un vero e proprio capolavoro del genere. Per la prima volta il regista porta in scena un soggetto scritto di suo pugno, sviluppando quell'idea che gli ronzava in testa dai tempi di Django (1966), ma che i produttori gli avevano sempre bocciato: girare un western ambientato in una location completamente innevata. A credere nell'ambizioso e coraggioso progetto è Attilio Riccio, critico cinematografico e poi modesto sceneggiatore di commedie. La produzione, sulla carta, non è all'altezza di quelle di Grimaldi, così come il curriculum di Riccio non è dei più blasonati. Con un passato da soggettista, aveva scritto il soggetto di Beatrice Cenci (1956) di904 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

retto da Freda, e in seguito da sceneggiatore con titoli come il modesto western, L'Uomo che Viene da Canyon City (1965) di Balcàzar, Riccio aveva ottenuto i suoi migliori risultati proprio in veste di produttore. In tale ruolo aveva debuttato nel 1953 con il discreto La Provinciale di Soldati, orientandosi unicamente verso le commedie impegnate. Lo ritroveremo coinvolto in un'altra perla western di Corbucci, Gli Specialisti (1969), ma con un peso di minore importanza. A collaborare con il regista, nella stesura della sceneggiatura, troviamo i fedeli Bruno Corbucci e Mario Amendola, oltre all'esperto Vittoriano Petrilli, ormai a fine carriera e già collaboratore del regista, in occasione dei primi film degli anni '50, nonché di interessanti pellicole come Il Gobbo (1960) di Lizzani, Il Re di Poggioreale (1961) di Coletti e La Rimpatriata (1963) di Damiani. L'entourage di sceneggiatori, uniti a Corbucci, elaborano un copione eccezionale su cui il regista ha totale carta bianca. Il nostro decide allora di proseguire quel discorso iniziato con Navajo Joe (1966), modificando gli stereotipi del genere e proponendo come protagonisti soggetti destinati a soccombere per difendere i più deboli. In altre parole si plasma un vero e proprio anti-western poiché Corbucci ribalta tutti i canoni del genere. Ancora una volta siamo alle prese con un western antileoniano. Il regista estremizza quanto già fatto con Django. Al di là delle scenografie cupe (da fangose passano a innevate), viene operato un ribaltamento della figura cara a Sergio Leone, cioè quella del Bounty Killer. Se in film come Per Qualche Dollaro in Più (1965) i cacciatori di taglie avevano avuto ruoli da antieroi, con Corbucci diventano dei veri e propri antagonisti, privi di etica e rispetto. Corbucci introduce inoltre un finale terribile, dove fa prevalere gli antagonisti a danno dei pochi personaggi positivi. I “buoni” finiscono tutti col fare una fine tragica, senza speranza. Ne consegue un western, concettualmente parlando, rivoluzionario e innovativo, con le bufere di neve di Cortina d'Ampezzo e la nebbia a sostituire i caldi e soleggiati deserti dell'Almeria. Un contesto di estrema difficoltà per il cast tecnico e per quello artistico, non solo per la temperatura rigida in cui la troupe si viene a trovare a lavorare, ma anche per l'impossibilità di ripetere le scene a causa dello scalpiccio dei cavalli nelle distese innevate. Una scelta quindi complicata e destinata a creare un elevato tasso di problemi (cavalli che annaspano sepolti nella neve, armi che si congelano, attori con difficoltà nel muoversi, eccetera). 905 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Protagonista assoluto è un pistolero indolente, menomato nel fisico, in perfetta tradizione corbucciana. È muto, perché da bambino gli sono state recise le corde vocali da un gruppo di bounty killer che gli hanno sterminato la famiglia. Da qui deriva il suo odio verso questa categoria e la sua abitudine di ucciderli ovvero, per chi si arrende, di amputare loro i pollici in modo che non possano più ricorrere alle armi (Corbucci indugia sui particolari splatter delle ferite). “C'è un uomo che fa tremare i cacciatori di taglie, quando lo trovano. Si chiama Silenzio, perché dopo che è passato lui resta soltanto il silenzio e la morte” dicono di lui i parenti di coloro che sono costretti a vivere come topi ai margini della città (cibandosi di cavalli rapinati ai viandanti), perché braccati dai bounty killer. Silenzio vaga indossando una pelliccia e un paio di guanti di pelle. Usa una Mauser - pistola automatica di importazione tedesca, dotata di dieci colpi e calcio con prolunga (in stile colonnello Mortimer) - tenuta all'interno di una fondina chiusa. Ha un suo metodo: spara per secondo dopo aver indotto l'avversario a estrarre la pistola, così da beneficiare della legittima difesa e aggirare (anche lui) la legge. La sua nomea è così diffusa che vedove e madri, testimoni della morte dei loro cari per mano dei bounty killer, si rivolgono a lui in cerca di giustizia. “Tu fai parte di quelli che lottano contro i potenti” gli dirà un'anziana signora, che aveva convinto il figlio a costituirsi, non sapendo di esser caduta in un tranello dei cacciatori di taglie. “La tua pistola difende le ingiustizie. Anche mio figlio era innocente e l'hanno ucciso come hanno fatto con tanti altri. Vendicalo, e salverai dalla morte tanti altri disgraziati.” Abbiamo così un antieroe molto diverso da quelli fin qui visti. È un assassino di cacciatori di taglie (una sorta di precursore del Dexter che sta riscuotendo successo in questi anni nell’omonima serie televisiva incentrata sulla figura del serial killer dei serial killer). Tigrero, il suo avversario principale, lo canzonerà così: “Lo conosco, è un illuso che crede di rimettere a posto il mondo con la pistola.” Emerge quindi una vena romantica, un po' alla Zorro e un po' alla Eastwood (è un provocatore), tipica di quei personaggi che agiscono ai limiti della regolarità, nutrendo rispetto per i più deboli e le donne. A differenza degli eroi leoniani, Silenzio non è burbero ma stringe un dolce rapporto sentimentale con una vedova (la colored interpretata dalla McGee), in una delle rare sequenze d'amore viste in un western di Corbucci (con tanto di topless e sensuale schiena nuda della Mc906 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Gee). Generoso e coraggioso fino all'eccesso, il pistolero affronterà, come Django, i rivali in condizioni proibitive (una mano ustionata e l'altra fracassata), senza alcuna possibilità di sopravvivenza. Il suo è un suicidio dettato dal proposito di salvare un gruppo di bandidos disgraziati, tenuti in ostaggio dalla banda di bounty killer capitanata da Tigrero. Andrà male a lui e andrà male anche a loro. A interpretare il personaggio viene chiamato un attore inconsueto per il genere: il francese Jean-Louis Trintignant. A spingere per l'ingaggio sono i co-produttori francesi della Les Films Corona, già incontrati in occasione di Un Dollaro Bucato (1965) e di Adios, Gringo (1965). Attore di formazione teatrale e con parenti illustri (suo zio era pilota di Formula 1, vincitore peraltro della 24 di Le Mans), Trintignant giunge sul set da artista emergente assai talentuoso. Salito agli onori ad appena venticinque anni (al suo quarto film), al fianco di Brigitte Bardot, grazie a E Dio Creò la Donna (1955) di Roger Vadim, si era confermato con il celebre Il Sorpasso (1962) di Dino Risi e con Un Uomo, una Donna (1966) di Claude Lelouch che gli aveva dato fama internazionale. La scelta si rivela quanto mai bizzarra. Lo stesso Trintignant si dice perplesso, confida di non sapere l'inglese e di non aver mai recitato in film di azione intriso di violenza. Il regista lo tranquillizza dicendogli che non dovrà proferire neppure una battuta (pare che Corbucci abbia preso l'idea da Marcello Mastroianni che si era proposto, qualche anno prima, per recitare il ruolo di un pistolero muto in un suo eventuale western). Trintignant conferisce al personaggio una connotazione triste, calma, a suo modo flemmatica. Alla fine convincerà eccome, ma non a sufficienza per portarlo a cimentarsi di nuovo col genere. La sua carriera proseguirà in crescendo, in un turbine di successi e premi che lo vedono tuttora operativo (più di centotrenta pellicole nella sua carriera). Personalmente lo ricordo protagonista nel giallo d'autore La Morte ha Fatto l'Uovo (1968) di Giulio Questi e nella trasposizione del capolavoro di Buzzati Il Deserto dei Tartari (1976) diretto da Valerio Zurlini. I critici, invece, lo citeranno per Il Conformista (1970) di Bertolucci e La Donna della Domenica (1975) di Comencini. Vincerà, oltre a un David di Donatello speciale alla carriera nel 1972, il premio di miglior attore protagonista al Festival di Cannes col thriller politico Z – L'Orgia del Potere (1969), per la regia di Costa-Gavras, 907 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nei panni di un magistrato inquirente; e, sempre come miglior attore protagonista, il premio al Festival di Berlino con L'Uomo che Mente (1968) di Alain Robbe-Grillet. Se Trintignant è un attore di calibro casualmente apparso nel filone western all'italiana, sono presenze costanti gli altri due attori principali: Klaus Kinski e Frank Wolff. Entrambi vengono scelti dopo il mancato ingaggio, causa impegni concomitanti, delle prime alternative, cioè Ernest Borgnine e Gastone Moschin (quest'ultimo avrà il ruolo che avrebbe dovuto avere ne Il Grande Silenzio nel successivo film di Corbucci, cioè Gli Specialisti). Tra i due scoppia subito un caso. Klaus Kinski rifiuta di stringere la mano a Wolff, perché si ritiene un tedesco e un vero tedesco non può stringere la mano a un ebreo. Inevitabile il parapiglia, con Kinski che conferma la sua indole violenta e provocatoria. Nel corso della lavorazione, riuscirà persino a rompersi una serie di costole dopo aver fatto imbizzarrire un cavallo allo scopo di dimostrare la sua presunta superiorità nella gestione degli animali rispetto agli artieri. A Kinski viene riservato il ruolo di Tigrero, lo scaltro leader dei bounty killer (nasconde fucili e cadaveri sotto la neve per recuperarli al momento opportuno). Forse è il ruolo più bello affidato all'attore di origine polacca in tutta la sua filmografia western. Non si tratta di un personaggio nevrotico e instabile (come invece accadeva con i ruoli tipici offerti a Kinski), ma di un soggetto meschino, calcolatore, estremamente pacato, quasi effeminato (eccellente il doppiaggio). In apparenza educato e mite, è un killer implacabile che convince i nemici ad arrendersi e poi li uccide a tradimento. Cinico quando tratta di affari (parla delle sue vittime come se fossero dei sacchi di patate da vendere al mercato), non perde occasione di manifestare la sua antipatia celata sotto il velo del rispetto delle procedure. È il prototipo del vero bounty killer legato alla storia d'America. I bounty killer di Corbucci non sono più gli epici soggetti cinematografici esaltati da Leone ma, come già avvenuto per i cowboy di Navajo Joe, sono degli assassini legalizzati. Sono uomini immorali che uccidono i poveracci, senza pietà e ricorrendo all'inganno (sparano su persone disarmate). Tigrero è esaustivo quando spiega la filosofia dei bounty killer: “Portarsi appresso i ricercati, vivi, costa, per questo la legge prevede l'altro caso. E poi sarebbe troppo pericoloso.” Per convincere lo sceriffo, che non approva i suoi metodi (poiché ognuno ha diritto a un processo), Tigrero tenta di giustificarsi in modo ipocrita, ben sapendo 908 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

che la natura del presunto bandito catturato è del tutto superflua ai fini del risultato finale: “È gente contro Dio, contro la morale, contro il genere umano, contro l'ordine costituito. Ucciderli è un'opera buona, credetemi!” La cosa terribile è che il bounty killer parla di valori di cui lui stesso non è dotato, e ne è una dimostrazione la scena in cui uccide lo sceriffo dopo essersi fatto togliere le manette con un'astuzia: “Per questo io, a differenza tua, resto vivo, per difendere l'unica legge che vale: quella del più forte!” Si tratta di una sequenza dall'alto valore simbolico, che segna il fallimento della giustizia rappresentata da Frank Wolff (interpreta lo sceriffo che, su disposizione del governatore, cerca di ripristinare l'ordine) a beneficio del far west su cui lucrano banchieri (il vile strozzino interpretato da Pistilli) e manigoldi. Per i bounty killer avere a che fare con un uomo su cui pende una taglia, a prescindere dalla ragione (si può essere assassini come ladri di polli), coincide con l'esser legittimati a eseguire la pena capitale, in modo arbitrario e barbaro, così da evitare processi e quant'altro. Ne deriva un lotto di soggetti disumani, che trattano i ricercati come merce (infatti si riferiscono a essi proprio con questo termine). Li vediamo nascondere le vittime nella neve per far mantenere i cadaveri, quindi, in un secondo tempo, caricarle sopra le carovane e appuntare sui taccuini il loro credito verso lo stato. Più convenzionale, anche se tendente alla macchietta, è lo sceriffo affidato al simpatico Frank Wolff. Si tratta di un uomo di mezza età che fa del formalismo la principale caratteristica. Recita articoli e procedure, richiama regolamenti e impartisce ordini per contrastare la piaga dei cacciatori di taglie. Spetta a lui rappresentare i valori etici del civile vivere (e che verranno spazzati via dalla legge del più forte). Wolff è ispiratissimo, col suo faccione paffuto e le goffe movenze. Ricorda Renzo Montagnani nelle migliori performance (come dimostrano gli scambi di battute con la Merlini o la gaffe che fa con Silenzio, quando ironizza involontariamente sul fatto che lo stesso sia muto, o con Kinski quando, per colpirlo con un pugno, prende in pieno un’inferriata della cella dove il tedesco è recluso). Formidabile nell'uso della pistola, soccomberà a causa della sua ingenuità, incapace di anticipare le diavolerie di Kinski. Completano il cast caratteristi eccezionali come i leoniani Pistilli e Mario Brega (entrambi un po’ sottotono, Brega soprattutto nei panni dell'aiutante di Pistilli), nonché la ventisettenne americana Vonetta 909 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

McGee, all’epoca sconosciuta ma poi capace di farsi apprezzare in film quali Assssinio sull’Eiger (1975) di Clint Eastwood. Piccolo ruolo per la romana Marisa Merlini (celebre per le sue innumerevoli partecipazioni in commedie e film comici a partire da Il Vigile di Alberto Sordi del 1962, per finire con film di Christian De Sica e Gigi Proietti), che contribuisce, insieme a Wolff, a dare una spruzzatina di allegria al film. Grande lavoro di Corbucci dietro alla macchina da presa. Il ritmo del film è sollecito e la pellicola è ricca di scene suggestive e toccanti. Favolosi il prologo e l’epilogo, ma anche la scena d’amore tra Trintignant e la McGee, per non parlare dell’inquadratura, in primo piano, delle finestre del saloon in cui, da un lato, vengono rispecchiate le sagome di coloro che si trovano all’esterno e, dall’altro, di coloro che si trovano all’interno. Corbucci non rinuncia ai picchi di violenza né disdegna il ricorso del gore (mdp che indugia sulle ferite con dovizia di particolari, dita spappolate da colpi di arma da fuoco con spruzzi di sangue messi in risalto dal bianco immacolato della neve, tasso di emoglobina elevato) il tutto al servizio di una sceneggiatura originale e intelligente. Merita un discorso a parte il finale, un autentico pugno nello stomaco degli spettatori. Dopo aver assistito alla morte dello sceriffo, vediamo Silenzio soccombere al cospetto dei crudeli cacciatori di taglie (faranno la medesima fine anche le corteggiatrici dei due). Bastardissimo, in senso positivo, Corbucci che farà prendere a Kinski la pistola di Silenzio come cimelio di battaglia. Non contenti, i bounty killer trucideranno l'intero schieramento di disgraziati disarmati, legati all'interno del saloon (per costringere Silenzio a uscire allo scoperto), perché più facili da gestire da morti che da vivi. Un finale tra i più crudeli proposti nel genere, all'epoca in grado di suscitare polemiche tra gli spettatori e spingere i produttori e distributori stranieri a pressare Corbucci per convincerlo a girare un happy end alternativa. Per evitare una soluzione del genere, il regista confeziona una happy end impresentabile, con Trintignant e il redivivo Wolff che sterminano l'intera banda di Tigrero, liberando i bandidos. Una soluzione così inverosimile da non poter esser accettata. Le sequenze alternative vengono girate in modo sbrigativo, con escamotage che cozzano con il resto del film. Trintignant infatti, dopo esser apparso menomato agli arti, spiazza tutti sfoggiando degli assurdi guanti di ferro che lo avrebbero protetto al momento opportuno; Frank Wolff invece, caduto in prece910 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

denza in un fiume ghiacciato, si materializza all’improvviso in sella al suo cavallo sparando all’impazzata sui bounty killer, senza capire come abbia fatto a salvarsi. Inevitabile il giudizio dei distributori, messi al cospetto di un'alternativa così posticcia da non poter esser accettata. Bellissima, per il suo malinconico sound, la main theme firmata da Ennio Morricone, non male anche il sound che commenta le cavalcate in mezzo alla neve. Eccellente e nitida la fotografia di Silvano Ippoliti. All’epoca, a causa soprattutto del finale e delle trovate avveniristiche (il ribaltamento della figura dei bounty killer e gli scenari innevati), il film non riscosse quanto meritato, a parte in Germania dove fu apprezzato per via del ruolo di primo primo di Kinski. Oggi è giustamente ritenuto uno dei più grandi western di sempre e sul punto sono concordi un po' tutti. Spaghettiwestern.altervista.org parla giustamente di “film che abbatte tutti gli stereotipi del vecchio west” e “di vera opera d'arte cinematografica”. Bel collegamento sociopolitico individuato dall'amico Fabio Meini di caniarrabbiati.it il quale, sul suo sito, scrive: “I personaggi di Tigrero e di Pollicut, l’usuraio, sono i rappresentanti di un sistema di legalità che inneggiando all’ordine costituito semina più morti di quanti ne farebbero i criminali (chiaro riferimento alla politica americana). Una legge del più forte di fronte a cui la giustizia si trova ferita, disarmata e in ginocchio. L’unica democrazia è quella attuata dai fiocchi di neve che indistintamente si posano lievi sui cadaveri dei banditi e dei bounty killer. ” I complimenti arrivano da tutte le parti, tanto che il film compare in alto in tutte le classifiche di gradimento. È quarto nella classifica di spaghetti-western.net che lo considera il miglior spaghetti-western in assoluto tra quelli non diretti da Leone. Quinto per Alex Cox, solo quattordicesimo per Quentin Tarantino (gli preferisce Django, Navajo Joe e Il Mercenario). Amatissimo oltre misura anche dai blogger, lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it giunge a dargli il massimo dei voti, ponendolo in terza posizione nella sua personalissima graduatoria. L'unico che fa un po' il guastafeste, pur riconoscendone i meriti e l'originalità, indovinate un po' chi è? Il Morandini, ovviamente, che si limita a concedergli tre stellette. Quattro le stelle invece per filmtv.it, quasi otto in pagella per gli utenti di imdb.com. 911 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

In cinque parole: un film da non perdere, consigliato a qualsiasi tipo di pubblico e che sarà citato da molti film quali California (1977) di Michele Lupo e il recentissimo Django Unchained (2012) di Tarantino. Visione d'obbligo. A fine novembre è il turno del secondo western coprodotto da Sergio Garrone e da Ottavio Poggi, i quali confermano quasi in toto il cast tecnico di Se Vuoi Vivere... Spara! (1968) e fanno uscire Tre Croci per non Morire (1968), sempre per la regia di Garrone che si cela dietro lo pseudonimo Willy S. Regan. Il budget non è dei più corposi e non permette di assumere grandi nomi. Vengono ingaggiati Craig Hill, già in parabola discendente dopo il debutto nel genere con Valerii, e Ida Galli, accreditata col consueto nome di Evelyn Stewart. Confermatissimo, nei panni di coprotagonista, Giovanni Cianfriglia (sempre con lo pseudonimo Ken Wood), mentre viene riservato un più ampio ruolo di spalla al duo protagonista al cosceneggiatore Franco Cobianchi D'Este. Il film purtroppo paga un soggetto senza grosse pretese e piuttosto abusato. Abbiamo tre reietti (Craig Hill, Cianfriglia e Cobianchi), tutti ottimi nell'impiego delle armi, che vengono fatti uscire dal carcere con il compito di provare l'innocenza di un ragazzo (Giovanni Scratuglia) condannato all'impiccagione per un omicidio che non ha commesso. In palio ci sono 30.000 dollari e il condono delle pene. I tre dovranno vedersela con il plotone di uomini che rispondono gli ordini del vero autore dell'assassinio (Jean Louis) e con un vecchio avvocato doppiogiochista. La sceneggiatura del duo Garrone-Cobianchi fa ben poco per rendere vivace e coinvolgente il soggetto. Tenta di dare una piega gialla alla vicenda, ma lo fa in modo telefonato e ultra dilatato. Non a caso, a quasi un'ora dall'inizio del film, Cobianchi dirà: “Non abbiamo combinato nulla” e ha perfettamente ragione...!? Garrone cerca di colmare la pochezza narrativa con innumerevoli sparatorie e scazzottate, peraltro girate con un certo gusto. Prova altresì a caratterizzare i personaggi fin dalle prime battute, destinate proprio alla loro presentazione, ma non va oltre i soliti cliché. Così abbiamo un misogino messicano di mezza età, ma al contempo cultore di bellezze femminili (“Maledette donne, sono la causa di tutti i mali!”), specializzato nel furto di mandrie di cavalli e odiato dai razzi912 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sti locali. Abile sia nelle scazzottate che nelle sparatorie, rivela uno straordinario fiuto riuscendo a sentire l'odore dei banditi messicani nascosti tra le montagne (!?). Si prosegue poi con un distinto e gentile casanova che si innamora un po' di tutte le donne (a inizio film lo vediamo lanciarsi da un terrazzo per fuggire a un marito geloso, scopiazzatura da Dinamite Jim), compresa la donna dell'antagonista (la Galli); e un pistolero mono espressivo che non lascia trapelare alcuna emozione e che è completamente disinteressato al sesso. A lui sarà dedicata anche una frase che ispirerà il titolo del successivo film di Garrone: qui è segnato tutto ciò che hai fatto: Una Lunga Fila di Croci. Eccezionale la sua presentazione iniziale, quando fa secchi alcuni avversari affrontandoli con un finto arto ingessato, in modo da sorprenderli con la mano tenuta sotto la giacca: ottima trovata di Garrone! I tre dimostreranno per tutto il corso dell'opera un grande affiatamento e non cercheranno mai di fregarsi l'uno con l'altro. Un risvolto piuttosto originale per il genere. Ciò che non funziona è la componente mistery della vicenda, peraltro costellata da un insieme di forzature. Vediamo la donna stuprata a inizio film (Mariangela Giordano) e caduta, a seguito dello shock, in una profonda catalessi riaversi d'improvviso nel bel mezzo di una sparatoria, per essere subito accoppata, ma non prima di aver urlato il nome dell'assassino ricercato dal trio protagonista. Poi assistiamo all'incomprensibile errore dell'antagonista che spara a bruciapelo a Cianfriglia senza ucciderlo e senza procurargli grossi danni. Come da copione, il nostro fingerà di esser morto per poi destarsi al momento opportuno per intrappolare l'avversario. Clamorosa terza forzatura, seppur caratterizzata da quel tocco pazzo ed esagerato degno dei migliori b-movie, è quella che vede Cobianchi accerchiato da un manipolo di banditi. Il nostro penserà bene di togliersi dall'impiccio sfilandosi e lanciando in aria il cinturone per centrarlo con una fucilata idonea a innescare le cariche esplosive dei vari proiettili che scoppieranno in cielo, l'uno dietro l'altro, facendo secchi tutti i banditi (!?). Garrone ci mette poi del suo inquadrando Cobianchi con un assurdo ma gustoso ondeggiamento continuo di 180' gradi della mdp. Tra le sequenze degne di nota è da sottolineare l'eccelso flashback con cui Garrone mostra l'assassinio e lo stupro attorno al quale verterà l'intera vicenda. Il regista romano inquadra, con gusto orrorifico, delle tende che svolazzano al rallentatore, poi piazza un notevole rallenty con un uomo centrato in piena fronte che cade roteando al suo913 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

lo, e chiude la sequenza con l'inquadratura di colui che sarà accusato dell'omicidio zoomando su labbra, occhi e volto e inclinando più volte di lato la mdp. Ottima sequenza, bissata dall'epilogo con un carro lanciato a piena velocità da un Cianfriglia agonizzante (anche se due scene dopo sarà già arzillo!?). Le zampate di Garrone non devono stupire, poiché conferma una grande padronanza del mezzo tecnico, studiando le inquadrature e il posizionamento della telecamera. Forse non troppo convinto dei propri mezzi, è un po' stucchevole nel voler scimmiottare di tanto in tanto Leone, chiudendo stretti primissimi piani sugli occhi degli attori o sui loro volti anche quando non sarebbe richiesto. Tra l'altro omaggia Il Buono, il Brutto, il Cattivo nella scena in cui Cobianchi viene liberato dai due compari che gli sparano sulla corda che lo tiene appeso a un cappio. Il regista romano migliorerà nei successivi Una Lunga Fila di Croci (1969) e Django il Bastardo (1969), ma già qua la messa in scena è buona. Così come è all'altezza della situazione la fotografia di Sandro Mancori e le laziali scenografie, ora desertiche ora rigogliose di fiumi e vegetazione (bello l'esterno del mulino ad acqua in cui si trova la Galli). Bravi Craig Hill, il quale ride, si commuove e fa anche il duro (oltre che arrivare sul set con le occhiaie e far imbufalire il regista), e Franco Cobianchi, quest'ultimo forse nel ruolo più ampio di tutta la sua carriera. È invece una pietra Cianfriglia, anche se Marco Giusti reputa la sua performance finalmente buona. Come sempre è perfetta Ida Galli. Mediocre Jean Louis nei panni di un cattivo stereotipato: stupra la Giordano (scene suggerita in quanto tagliata), spara sulla propria donna chiamandola “sgualdrina” e uccide i complici per eliminare testimoni scomodi. La colonna sonora, decisamente anonima, è curata dal duo Kojucharov-Mancuso. Il film non è stato visto da molti, sebbene Garrone lo consideri addirittura il suo miglior western (opinione che non condivido) perché dotato di un messaggio di fondo che il sottoscritto stenta a vedere (ravvedo solo una certa misoginia). Giusti lo reputa abbastanza di culto, mentre Weisser ne esalta la messa in scena e la grande cura nel lavoro della macchina da presa. Più completa l'opinione del sito spaghettiwestern.altervista.org che parla di western poco esaltante ma abbastanza gradevole, per poi 914 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

avanzare una serie di critiche alla regia (inquadrature confusionarie) e alla caratterizzazione dei personaggi (Paco è una brutta copia di Tuco de Il Buono, il Brutto, il Cattivo), vedendo invece di buon occhio la piega gialla data alla vicenda. Per gli utenti di imdb.com è sufficiente, non la pensa allo stesso modo filmtv.it che gli concede solo due stelle e tre parole: western non memorabile. Non pervenuti ulteriori commenti. Dopo il trio di western girati nel 1967, Alfonso Brescia torna a confrontarsi col genere con quello che forse è il suo peggior lavoro a tema: Carogne si Nasce (1968). Il mestierante romano perde la produzione di Bruno Turchetto e si affida ai modesti fondi di Alberto Silvestri che, da sceneggiatore di western come Yankee (1966) di Tinto Brass, prova la via della produzione (non gli darà seguito). Cast tecnico e cast artistico pullulano di artisti ormai in parabola discendente. Lo script vede in prima linea Augusto Finocchi, il quale intesse le trame di una storia con Glenn Saxson e Gordon Mitchell, nei panni rispettivamente di un procuratore distrettuale e di uno sceriffo sotto mentite spoglie, impegnati a indagare sugli abusi perpetrati da un gruppo di allevatori a danno dei cittadini e a beneficio della banca di un piccolo paese di frontiera. I due smaschereranno gli imbrogli e i delitti della banda, di cui fa parte il solito Nello Pazzafini (piccoli ruoli anche per Lucio Rosato e Spartaco Conversi), riportando l'ordine in paese. Nulla di nuovo, per una pellicola semisconosciuta incapace di distinguersi dalla massa dei prodotti usciti all'epoca. L'hanno vista in pochi e quei pochi hanno espresso commenti lapidari. Una stella per filmtv.it. Livelli standard da low budget il commento di Tom Betts. Ignorata dai blogger stranieri. Trascurabile. Si giunge a dicembre con un altro prodotto poco considerato dagli appassionati italiani, ma non da buttare. Si tratta de I Morti non si Contano (1968), pellicola che beneficia di un budget medio, ma soprattutto della regia di Rafael R. Marchent e di un cast artistico di un certo pregio. Lo producono il duo Brochero Manzanos e Salvatore Alabiso, nell'ambito di un accordo avviato con i western di Umberto Lenzi e che proseguirà con O'Cangaceiro (1969), Garringo (1969) e Arriva Sabàta (1970). Il soggetto e la sceneggiatura portano la firma 915 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dei futuri registi Marco Leto e Vittorio Salerno. Il primo è un fido di Alabiso, per il quale aveva già sceneggiato Una Pistola per Cento Bare (1968), il secondo, fratello del più famoso Enrico Maria Salerno, lo si è già incontrato in occasione di 1.000 Dollari sul Nero (1966) di Cardone. La storia non fa dell'originalità la propria credenziale. Due bounty killer, i soliti Mark Damon e Anthony Steffen, giungono in una città funestata dagli intrallazzi di una banda che, con l'aiuto dello sceriffo (Piero Lulli), fa pressioni sui cittadini per acquistare ranch a prezzi stracciati. Uno dei due stranieri non sa che il capobanda del posto (Luigi Induni Radici, in un ruolo più ampio rispetto al solito) è il responsabile dell'assassino di suo padre e che in paese si nasconde la sua madre biologica. Ciò che interessa ai due è la riscossione delle taglie, anche se nella seconda parte di film si innesca una girandola di colpi di scena che faranno riemergere i c.d. fantasmi del passato. Tra i manigoldi figura Raf Baldassarre, ci sono inoltre Dyanik Zurakowska e Maria Martin. Anthony Steffen è più sciolto del solito, la sua è una prova meno indolente e raggiunge un sufficiente score. Più contenuto invece Mark Damon, il quale tuttavia può contare su un'espressività superiore a quella del collega brasiliano. Ottime musiche del nostro Marcello Giombini (e non Riz Ortolani come si legge da qualche parte). Nonostante il cast, la pellicola non gode di grande culto. Filmtv.it (imitato dal Morandini) addirittura non la contempla nel suo database. Spaghettiwestern.altervista.org sottolinea la scarsità della trama e della regia (“Marchent avrebbe potuto fare di meglio invece di dilungarsi in estenuanti e noiosi monologhi”), salvando comunque il film per le buone interpretazioni. Le cose cambiano se si valutano le opinioni degli appassionati stranieri. 800spaghettiwesterns.blogspot.it reputa tecnicamente perfetta la regia di Marchent e valuta complementare l'accoppiata Steffen-Damon. L'appassionato spagnolo fa inoltre notare l'alto numero di morti (di cui il titolo), tra cui lo sterminio di un'intera famiglia, intervallate da dosi di ironia che rendono il prodotto finale superiore alla media. Sulla stessa linea si assesta l'opinione dell'americano fistfulofpasta.com, il quale rileva la presenza di una lunga serie di battute divertenti tra Steffen e Damon. Da rivalutare. 916 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

A ottobre abbiamo parlato di un Edmondo Amati scatenato con due western di terza fascia prodotti l'uno di seguito all'altro, Anche nel West c'era una Volta Dio e Sartana non Perdona. Il produttore romano si ripete a dicembre sparando i suoi due colpi più potenti, Vediamoli qui di seguito. QUEL CALDO MALEDETTO GIORNO DI FUOCO Produzione: Italia-Spagna, 1968. Produttore: Edmondo Amati (Fida Cinematografica), José Frade (Atlantida Films). Regia: Paolo Bianchini. Sogg. e Sceneg.: Paolo Bianchini, Claudio Failoni, Franco Calderoni, José Luis Merino. Interpreti: Robert Woods, John Ireland, Ida Galli (Evelyn Stewart), Claudie Lange, Gerard Herter, Roberto Camardiel, Rada Rassimov, Ennio Balbo. Fotografia: Francisco Marin. Musiche: Piero Piccioni. Sottogenere: Giallo. Durata 99 min. Giudizio Mancini: ** Giudizio Morandini: * La trama Durante un viaggio segreto ordinato dal Presidente Lincoln, due generali yankee e l’inventore (Balbo) di una straordinaria mitragliatrice, capace di sparare trecento colpi al minuto, scompaiono nel nulla insieme all’arma. Dietro alla scomparsa c’è una banda di delinquenti capitanati da Torpas (Ireland), un mezzosangue innamorato di una donna (Lange) che non lo ricambia e che lui ricopre di gioielli per strapparne l’amore. Torpas e un suo misterioso socio, che altro non è che uno dei due generali yankee scomparsi, pretendono un oneroso riscatto sia dai nordisti che dai sudisti. Ai primi affermano di aver rapito l’inventore dell’arma; ai secondi di esser in possesso della mitragliatrice, ma non del suo inventore.

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Spetterà a un capitano yankee (Woods), incarcerato perché ritenuto coinvolto nel colpo, il compito di far luce sulla vicenda e di scoprire chi sia il traditore che ha rivelato la notizia del viaggio. Commento Dopo i successi con Castellari e altri piccoli western meno fortunati, Amati propone un nuovo film collaborando con un nuovo e occasionale socio spagnolo: José Frade. Frade è un giovane produttore, raramente coinvolto in produzioni internazionali. Arriva dal paella western Django non Perdona (1965) di Buchs, ma ha anche già preso parte allo spaghetti western con Johnny West, il Mancino (1965) di Parolini. Produrrà una settantina di pellicole di svariato genere, soprattutto comici e commedie di registi iberici. Tra i B-movie sarà coinvolto nel western di quarta fascia La Sfida dei McKenna (1970) di Klimovsky e nel piccolo thriller erotico Le Foto Proibite di una Signora Per Bene (1970) di Luciano Ercoli. Dalla seconda metà degli anni '90, fino ai giorni nostri, si dedicherà alla produzione di serial televisivi. È Amati a controllare e a indirizzare il progetto. Decide di scommettere su Robert Woods, attore americano impegnato soprattutto in low budget, ma ad avviso del produttore pronto per affermarsi in western di maggior calibro. È quindi Woods a invitare Amati ad affidarsi a Paolo Bianchini, regista non ancora affermato con alle spalle l'interessante Lo Voglio Morto. Quel Caldo Maledetto Giorno di Estate sarà il prodotto più conosciuto della filmografia del regista (anche se quest'ultimo dirà di non ricordarselo), al punto da esser apprezzato fin da subito in America e tutt’oggi elogiato da Quentin Tarantino. Spinto dalla continua ricerca di un taglio registico innovativo, Bianchini si diverte nello sperimentare sia dietro la macchina da presa sia in fase di scrittura. Coadiuvato da sceneggiatori poi incapaci di lasciare un'impronta nella filmografia italiana (anche se c’è chi afferma che il soggetto sia di un Sergio Corbucci non accreditato), il regista miscela il genere con la spy story (si parla persino di documenti falsificati) e con altri elementi che avrebbero poi fatto la fortuna dello spaghetti western (su tutti l'elemento del giallo e del western di indagine). L'interesse di Bianchini per l'intreccio spionistico è talmente radicato da portarlo, insieme a Robert Woods, a girare il thriller Hypnos, Follia di un Massacro, subito dopo aver ultimato il western in questione. 918 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Le contaminazioni volute dal regista si ripercuotono nella scelta delle inquadrature. Bianchini vuole un taglio dinamico e variegato, con soluzioni visive non convenzionali. Abbiamo il sole che abbaglia l’obiettivo, carrellate particolari, soggettive (ottima quella di Woods scaricato in una fossa con la terra che viene gettata sull’obiettivo) e mezze soggettive che sembrano estrapolate da un thriller. Vediamo la telecamera seguire alle spalle i protagonisti, mentre si addentrano nel mistero. Al riguardo non può non segnalarsi, come sequenza intrisa di una discreta carica di tensione, la discesa di Woods all’interno di una casa abbandonata completamente avvolta dal buio. Da menzionare infine una scena splatter ben realizzata dagli addetti al make up e mostrata con gusto voyeuristico. Vediamo in primissimo piano la mano insanguinata di Woods, mentre un coltello gli estrae il proiettile da una ferita. Se da un lato le soluzioni ricercate dal regista portano una ventata di aria fresca, dall’altro si sente la mancanza di quella poetica malinconica e crepuscolare che aveva fatto la fortuna del genere. Eppure l’intreccio, pur privo di dialoghi illuminanti e ironici, è qualitativo e originale, anche se non mancano i canonici stereotipi fatti dai doppi giochi e dai traditori di estrazione nobiliare che eliminano testimoni scomodi. Purtroppo gli sforzi di Bianchini vengono travolti da una serie di ingenuità. La più grossa è l’idea di far trattare un manipolo di delinquenti con il governo nordista e allo stesso tempo con quello sudista cercando, in entrambi i casi, di far credere alle controparti di essere in possesso solo di uno dei due “oggetti di scambio” (l’inventore nel caso dei nordisti; la mitragliatrice nel caso dei sudisti). Tale soluzione non può che giudicarsi viziata da una banalità fin troppo manifesta: chi potrebbe credere che la mitragliatrice sia andata perduta, quando invece il suo inventore è finito nelle mani di una banda di criminali? Sono poi presenti alcune imperdonabili incongruenze finali, con Woods che appare da una parte e dall’altra in modo poco chiaro. Lo troviamo infatti nell’assalto alla villa dove risiedono i sudisti, quando poco prima era in casa e subito dopo dietro a una siepe posta sull’altro lato dell’edificio. Viziato da un problema analogo è il duello finale, in cui Woods si salva da un colpo sparato a bruciapelo perché ha una lamiera sotto il guanto. Se sulle discrepanze e le inverosimiglianze un amante di film di genere è disposto a passare sopra, lo stesso non può dirsi per le fred919 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

de interpretazioni (di certo non aiutate dalle caratterizzazioni dei personaggi) e per una colonna sonora che dir anonima è dir poco. Il cast artistico, pur annoverando volti noti dello spaghetti western, offre una prova piuttosto incolore. Si salva solo John Ireland. Il canadese è in palla, alterna momenti di delirio ad altri in cui soffre per i capricci della sua amata o per le crudeltà del suo socio. L'istrionismo del nordamericano oscura la scialba prova di Robert Woods, il quale spreca l'occasione di confermarsi in produzioni più impegnative. Poco più che di contorno gli altri, con un trio di belle bionde, di cui due scelte perché impegnate sentimentalmente con personaggi del cast (Claudie Lange era moglie di Woods, Ida Galli era la fidanzata di Amati), e il famoso attore teatrale Ennio Balbo a fungere da guest star. Non eccelle, nelle scene diurne, la fotografia dell'esperto Francisco Marin, già ammirato nel genere dai tempi de Una Pistola per Ringo (1965) e pronto per passare a dirigere le luci in Tepepa (1969). Il parere, tutt'altro che entusiasta, del sottoscritto viene smentito da molti. L'amico Tom Betts lo reputa un western eccezionale, con tutto il cast artistico in gran forma. Più cauto il collega francese JeanFrançois Giré che lo reputa da riscoprire per una regia che si eleva tra i prodotti di Cinecittà. Marco Giusti plaude il lavoro di Bianchini: “davvero ben girato, con riprese laboriose e soluzioni originali.” Quentin Tarantino, addirittura, lo pone in ventesima posizione nella classifica dei migliori spaghetti western mai realizzati. Bocciature prevedibili da filmtv.it, che gli rifila due stelle giudicandolo sorretto da un intreccio troppo povero, e Morandini per il quale vale solo una stella. Meno prevedibili sono la mezza bocciatura di spaghettiwestern.altervista.org il quale, pur parlando di prodotto discreto, critica il ritmo e la sceneggiatura a suo dire troppo dispersiva; e soprattutto di 800spaghettiwesterns.blogspot.it che stronca il lavoro di Bianchini con un quattro complessivo in pagella. “Copione noioso e mal rifinito” dice lo spagnolo, che poi critica il look di Ireland: “brutta parrucca e costume anche peggio...” Più che sufficiente per gli utenti di imdb.com. In tre parole: luci e ombre.

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Ancora Amati protagonista nel western in cui schiera il suo regista pupillo. AMMAZZALI TUTTI E TORNA SOLO Produzione: Italia-Spagna, 1968. Prodotto: Edmondo Amati (Fida Cinematografica), Joaquin Romero Marchent (Centauro Films). Regia: Enzo G. Castellari. Soggetto: Enzo G. Castellari, Tito Carpi. Sceneggiatura: Enzo G. Castellari, Tito Carpi, Francesco Scardamaglia. Interpreti Principali: Chuck Connors, Frank Wolff, Franco Citti, Giovanni Cianfriglia (Ken Wood), Leo Anchoriz, Alberto Dell’Acqua, Hercules Cortes, Janos Bartha. Fotografia: Alejandro Ulloa. Musiche: Francesco De Masi. Sottogenere: Tesori nascosti. Durata 100 min. Giudizio Mancini: **1/2 Giudizio Morandini: Non trovato. La trama Gruppo di delinquenti, ciascuno abile in una determinata specialità, viene assoldato in gran segreto dal governo sudista per impadronirsi dell’oro dei nordisti. Il gruppo è guidato da un ex prigioniero sudista (Connors), a cui viene promessa libertà in cambio del buon esito della spedizione. Presto però i delinquenti si scontreranno tra loro per accaparrarsi il tesoro e dovranno vedersela anche con un ufficiale (Wolff) che fa il doppio gioco con yankee e sudisti. Commento Edmondo Amati torna a lavorare con Enzo G. Castellari e la vasta schiera dei collaboratori del regista. Castellari, infatti, chiama i suoi fedeli sceneggiatori - Tito Carpi e Franscesco Scardamaglia - nonché Franscesco De Masi in sede di composizione della colonna sonora. Il film è incentrato su un ottimo soggetto che ha in Quella Sporca Dozzina di Robert Aldrich (da cui si riprende l’idea della missione impossibile affidata a degli sbandati chiamati a infiltrarsi nelle linee 921 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nemiche), uscito appena un anno prima, e ne Il Buono, il Brutto, il Cattivo (da cui si mutua la caccia all’oro, con un ufficiale nordista che, in una sorta di campo di concentramento, cerca di corrompere i banditi a suon di pestaggi) i fari guida. Purtroppo si perde in una serie interminabile di stucchevoli sparatorie e scazzottate peraltro, a differenza dell’ottimo Vado... l’Ammazzo e Torno, privo di ironia, sacrificata a vantaggio di un taglio serioso e meno scanzonato. La pellicola si apre in modo memorabile con una lunghissima sequenza, che anticipa i titoli di testa, dove il protagonista mette all’opera i suoi “bastardi senza gloria” (non è un caso se poi Castellari riproporrà questo plot anche per Quel Maledetto Treno Blindato), presentandoli uno a uno agli ufficiali sudisti. Ciascuno ha una caratteristica che lo distingue dagli altri: chi è un mago nell'uso della dinamite, chi ha la forza di un orso, chi è lesto con la pistola e chi con i coltelli e chi, infine, ha l’agilità di una scimmia. Tutti gli interessati sono dei reietti, poiché hanno in comune la spiccata attitudine a delinquere. Questa la semplice e splendida premessa che poi si perde per l’eccessivo bombardamento di azione, con sequenze che, seppur ben girate, si rivelano stucchevoli per la loro banalità. Si assiste infatti a scontri in cui i sei protagonisti riescono sempre a farla franca, sebbene debbano misurarsi con interi plotoni e sempre senza farsi un graffio. I nordisti muoiono come mosche… La sceneggiatura non sviluppa a dovere il soggetto, ma si interessa solo alle caratterizzazioni dei personaggi. Tutto è esclusivamente funzionale all’azione, ben resa grazie a un lotto di attori in perfetta sintonia con l’action movie. In una recente intervista apparsa su internet, Castellari ha escluso che abbia partecipato alla stesura della sceneggiatura anche il regista Joaquin Romero Marchent, il cui nome appare nei credits solo per una ragione meramente di mercato (per favorirne l’esportazione sul mercato iberico). La regia è buona. Castellari mette spesso mano allo zoom e introduce le sequenze, con dei piani che partono da inquadrature superflue per arrivare al momento determinante in cui l'azione inizia a manifestarsi in secondo piano. A esempio, inquadra due che stanno parlando, per poi far apparire, in campo lungo e alle spalle dei due, l’inizio dell’azione che seguirà subito dopo. Si tratta di un ottimo escamotage che sortisce l’effetto di amplificare la dinamicità, rendendo più 922 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

fluida e continua la narrazione (quasi come se anche lo spettatore fosse in scena) con conseguenziale coinvolgimento degli spettatori. Pulp l'autocitazione da Pochi Dollari per Django (1966), in cui un protagonista sfida a braccio di ferro un militare, dopo aver posizionato due coltelli in modo da recidere le vene del soccombente. Curiosa l’inquadratura a simulare la soggettiva di due uomini sommersi in una botte d’acqua, molto bella invece quella sfuocata che precede lo scoppio finale della dinamite. Come abbiamo già anticipato, Castellari non perde occasione per autocitarsi. La scena in cui i “bastardi” guadano il fiume, infatti, è presa pari pari (anche se in modo più credibile, perché questa volta i banditi stanno sotto una zattera) da 7 Winchester per un Massacro. Sarà invece rubata da Margheriti, per il suo E Dio disse a Caino (1969), la scena in cui un uomo viene ucciso tramite sganciamento e successiva caduta di una campana. Bello il triplice colpo di scena finale, che ricorda vagamente le soluzioni adottate in Vado... l’Ammazzo e Torno da cui si riprende, parafrasandolo, il titolo del film (dovuto a una battuta proferita da Frank Wolff a Connors a inizio film). La Fotografia dell’esperto Ulloa è nella media, mentre la colonna sonora di De Masi – con main theme cantata dall'onnipresente Raoul non entusiasma come altre. Nel cast artistico si registra una massiccia presenza di stunt-man e acrobati (Alberto Dell’Acqua, il lottatore spagnolo Hercules Cortes) che qua hanno ruoli di primo piano. Mattatore è il sempre bravo Frank Wolff (nell’occasione senza baffi e barba), mentre nel ruolo di protagonista debutta nello spaghetti western il quarantasettenne Chuck Connors (poco credibile per spaghettiwestern.altervista.org, lo criticano inoltre Tom Betts e Marco Giusti) che poi non tornerà a lavorare in questo genere di film. Ex campione di football, Connors aveva avuto successo grazie alla partecipazione in western hollywoodiani non trascendentali ma comunque di un certo rilievo come Geronimo (1962) di Arnold Laven. In seguito lavorerà in molti altri film americani (quasi tutti di scarso rilievo, a parte l’ottimo 2022 i Sopravvissuti) senza diventare attore di culto. In Ammazzali Tutti e Torna Solo Connors si limita a fare il suo, subendo il carisma di un Wolff imperioso. Gli altri fanno quello per cui sono stati ingaggiati, ossia saltare, rotolare (in modo particolare l’abilissimo Alberto Dell’Acqua che nasce proprio come acrobata), alzare uo923 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mini come stecchini da denti e via dicendo. Tra i migliori si segnala lo spagnolo Leo Anchoriz, caratterista efficace spesso nei ruoli da cattivo, e l’imponente Cortes presentato dai produttori spagnoli e pescato direttamente dal mondo della lotta libera. C'è anche Cianfriglia in versione Cuchillo. Ruolo di primo piano per il romanissimo Franco Citti nella sua seconda e ultima partecipazione in un western (prima era apparso in un ruolo marginale in Requiescant) e conosciuto soprattutto per esser stato lanciato da Pasolini (che lo utilizzò in più film) nel 1961 col film L’Accattone e aver poi proseguito la carriera in molti cult della filmografia di genere italiana (lo ricordo con piacere nei poliziotteschi Uomini si Nasce, Poliziotti si Muore e La Banda del Trucido del 1976 e ’77, nonché nel thriller Il Gatto dagli Occhi di Giada del 1977) fino a strappare una particina ne Il Padrino e ne Il Padrino – Parte 3 di Francis Ford Coppola. Siamo dunque al cospetto di un western d’azione, dove tutto è strumentale all’intrattenimento senza spazio alcuno alla riflessione o ai sentimenti. Sparatorie e scazzottate a go go. Moltissimi i fan, a mio avviso sopravvalutato. Ne parla bene filmtv.it, che gli riconosce un tocco coatto e un alto tasso di spettacolarità tanto da dargli tre stelle nella scala di giudizio. Appena gradevole per spaghettiwestern.altervista.org. Uno dei migliori western di Castellari per Giusti (a mio avviso anni luce inferiore a Vado... l'Ammazzo e Torno, Keoma e Jonathan degli Orsi), semplicemente “rispettabile” per Carlos Aguilar. Al di là delle opinioni, non giustificato l'atteggiamento del Morandini che lo ignora. Divertimento assicurato, sebbene scarso nei contenuti. L'anno si chiude con lo spaghetti-western più atteso che segna anche un punto fondamentale nel genere e che nell'ottica del regista avrebbe dovuto segnare il canto del cigno dello spaghetti-western, fortunatamente non sarà così. Sto parlando di Sergio Leone e del suo C'era una Volta il West. C'ERA UNA VOLTA IL WEST Produzione: Italia, 1968. Produttore: Bino Cicogna (Rafran Cinematografica) e San Marco Films. 924 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Regia: Sergio Leone. Soggetto: Dario Argento, Bernardo Bertolucci e Sergio Leone. Sceneggiatura: Luciano Vincenzoni, Sergio Donati e Sergio Leone. Interpreti Principali: Charles Bronson, Henry Fonda, Claudia Cardinale, Jason Robards, Gabriele Ferzetti, Frank Wolff, Paolo Stoppa, Lionel Stander, Keenan Wynn, Woody Strode, Jack Elam, Al Mulock (Al Mulloch), Marco Zuanelli, Enzo Santaniello, Benito Stefanelli, Fabio Testi e Alfredo Sanchez Brell (Aldo Sambrell). Fotografia: Tonino Delli Colli. Musiche: Ennio Morricone. Sottogenere: Revenge Movie. Durata 167 min. Giudizio Mancini: **** Giudizio Morandini: **** La trama L’indio di poche parole Armonica (Bronson), così chiamato per l’abitudine di suonare l’omonimo strumento a fiato, bracca un crudele sicario (Fonda) che in passato gli ha ucciso il fratello. Il bandito, ormai arricchitosi, è al servizio di un facoltoso e storpio imprenditore (Ferzetti) che vive all’interno di una sfarzosa locomotiva dove commissiona omicidi ai danni di chiunque ostacoli i suoi piani imprenditoriali. Per ordine di quest’ultimo, il sicario uccide un cocciuto irlandese (Wolff) che ha acquistato dei terreni incolti con il fine di dar vita a una nuova cittadina, Sweet Water, in mezzo alla quale far passare la nascente rete ferroviaria. La spedizione omicida non risparmia i giovani figli dell’uomo, trucidati a sangue freddo in modo da eliminare ogni potenziale erede. L’arrivo però della vedova dell’uomo (Cardinale), sposata a sorpresa alcuni giorni prima a svariati chilometri di distanza, manda all’aria i piani dello storpio. La donna, infatti, si dimostra intenzionata a dare esecuzione ai progetti del coniuge, resistendo a ogni minaccia e offerta. A darle una mano saranno proprio Armonica e Cheyenne (Robards), un bandito evaso dal carcere e inizialmente accusato di aver sterminato la famiglia della donna. Commento Western attesissimo, girato tra la primavera e l'estate del '68, che esce nel periodo natalizio e che si segnala - non da subito - tra i più importanti, se non addirittura il più importante, del genere. Leone lo 925 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

concepisce come il suo capitolo di chiusura con lo spaghetti-western, anche se poi non non sarà così. La volontà di passare ad altri contesti cinematografici (il gangster movie o lo storico) deriva dal timore di Leone di restare intrappolato nel genere, ma soprattutto da un suo crescente senso di nausea attribuibile al proliferare di tutta una serie di epigoni della trilogia del dollaro. Proprio per quest'ultima ragione, C'era una Volta il West prende le mosse in un clima di protesta dovuto all'insofferenza del regista verso l'atteggiamento commerciale dei produttori e dei registi italiani. Alla presentazione del film, Leone non si lascia pregare: “Di western i miei colleghi ne hanno fatti parecchi e ne sono disgustato!” La polemica sarà addirittura più marcata qualche anno dopo quando, sulla scia del successo de Lo Chiamavano Trinità (1970), film odiato dal maestro romano perché votato alla piega parodistica, prenderà piedi il c.d. fagioli western e Leone rifiuterà di dirigere Terence Hill ne Il Mio Nome è Nessuno. Alimentato da tali vene disfattiste, Leone da un taglio netto rispetto ai suoi precedenti film e concepisce il progetto in modo più autoriale, più vicino ai western di Hollywood. “Accantona”, almeno in partenza, i suoi storici sceneggiatori (Luciano Vincenzoni e Sergio Donati) e si rivolge a due promettenti intellettuali e figli d'arte, all'epoca alle primissime armi: Bernando Bertolucci e Dario Argento. Tra i due, in particolare, Leone è affascinato da Bertolucci. Lo contatta telefonicamente dopo averlo notato tra il pubblico al primo spettacolo, del primo giorno di proiezione, de Il Buono, il Brutto, il Cattivo. Sollecitato dal regista e a corto di denaro, Bertolucci rivela a Leone di essere un suo grande fan e di essere rimasto impressionato da come Leone inquadri il culo dei cavalli: “I cavalli sono sempre filmati di fianco invece te li filmi da dietro, questi enormi coscioni, come fa John Ford”. Divertito dal coraggio e dalla simpatia del giovane sceneggiatore, Leone risponde: “Tu scriverai il mio prossimo film!” E così il maestro romano mantiene la promessa e punta sui due giovani artisti. Bertolucci è il più affermato dei due. È figlio del grande poeta Attilio Bertolucci e, nonostante la giovanissima età (ventisette anni), ha già alle spalle un'ottima gavetta sia come assistente (di Pier Paolo Pasolini) sia come regista. Quando Leone gli affida il compito di stendere il soggetto, ha già diretto tre lungometraggi (il debutto lo aveva fatto nel 1962 con La Commare Secca) e un paio di documentari, ma senza essersi ancora imposto tra i grandi. Tra i prodotti fin lì diretti si era distinto con Prima della Rivoluzione (1964), pellicola 926 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

(incentrata sulla crisi di una generazione incapace di trovare certezze nella classe politica) anticipatrice delle rivolte sessantottine, non premiata dai botteghini ma ben accolta in Francia e capace di guadagnarsi in seguito la nomea di “manifesto della Nouvelle Vague italiana”. In seguito Bertolucci si affermerà tra i più grandi registi mondiali, dapprima di stampo politico poi più autoriale, al punto da essere omaggiato a Hollywood con la stella a cinque punte (tra le oltre 2.500 presenti) incastonata nel prestigioso Hollywood Walk of Fame, percorso pedonale dedicato alle più grandi personalità del mondo dello spettacolo. In tutta la sua produzione, costituita da venticinque pellicole, saranno almeno quattro i capolavori a elevarlo a regista di culto. Tra questi ultimi splenderà il censuratissimo erotico decadente Ultimo Tango a Parigi (1972), con Marlon Brando protagonista. Il film innescherà un mare di polemiche per alcune scene di sesso troppo spinte, che porteranno al sequestro della pellicola fino al 1987, oltre che all'ordine di distruzione di tutte le copie (alcune si salveranno) e addirittura all'assurda condanna del regista per “offesa al comune senso del pudore” con relativa privazione dei diritti civili (compreso quello di voto) per la durata di cinque anni. Nonostante le ire bigotte e ipocrite di certi contesti sociali tipicamente italiani, Bertolucci otterrà la nomination all'oscar e al Golden Globe come miglior regista e vincerà il Nastro d'Argento proprio con questo film. Premi che, evidentemente, non serviranno a convincere i giudici, così come a nulla serviranno i tanti apprezzamenti ricevuti in precedenza da Bertolucci con Il Conformista (1970), adattamento di un romanzo di Moravia con Trintignant protagonista, col quale il regista aveva già strappato le nomination all'oscar (migliore sceneggiatura non originale) e al Golden Globe, oltre a essersi aggiudicato il David di Donatello e altri premi internazionali. Gli intralci giudiziari e una pausa forzata di tre anni, per fortuna, non placheranno l'estro ribelle di Bertolucci che nel 1975 girerà, avvalendosi di un cast artistico stellare (De Niro, Depardieu, Burt Lancaster e Donald Sutherland), un altro capolavoro della cinematografia mondiale: Novecento (1976). Si tratta di una pellicola lunghissima (316 minuti), divisa in due parti (Atto I e Atto II), giustamente definita da Roberto Poppi, nel suo dizionario sui registi, “un epico affresco di un'epoca che prende il via dalle lotte contadine nell'Emilia dei primi del secolo per concludersi alla fine della seconda guerra mondiale.” 927 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Negli anni '80 girerà pellicole dal grosso budget, con cast internazionali, raggiungendo il culmine grazie a L'Ultimo Imperatore (1987), pellicola che conquisterà addirittura nove premi oscar di cui due a Bertolucci per la miglior regia e la migliore sceneggiatura (premiate anche con il Golden Globe). Un'altra pellicola famosa diretta da Bertolucci sarà Il Piccolo Buddha (1993) con Keanu Reeves protagonista. Dunque una carriera tra le più luminose in Italia che gli varrà svariati premi, compresi quelli alla carriera, tra cui Il Leone d'oro di Venezia (2007) e La Palma d'oro di Cannes (2011). Emergente quasi al livello di Bertolucci, ma con un futuro più settoriale, è anche l'altro giovane artista scelto da Leone: Dario Argento. Già inserito nel mondo dello spettacolo alla stregua di Bertolucci, è figlio del produttore Salvatore Argento e della fotografa di moda brasiliana Elda Luxardo. Argento arriva a collaborare con Leone dopo essersi formato come critico cinematografico difensore delle pellicole di genere e della Nouvelle Vague francese. Critico spesso in contrasto con la critica più blasonata, dimostra fin da subito un forte interesse per la cinematografia di genere prendendo le mosse proprio col western e il macaroni combat. A differenza di Bertolucci (di cui è più anziano di un anno), Argento non ha ancora maturato esperienze né in veste di assistente né di regista, ma ha già sceneggiato un pugno di pellicole tra cui i western Oggi a Me... Domani a Te (1967) di Cervi e Cimitero senza Croci (1968) di Hossein, oltre al film di guerra Commandos (1968) di Crispino. In seguito diventerà il più grande maestro italiano nel campo dell'horror e del thrilling codificando, sulla scia de Sei Donne per l'Assassino (1964) di Mario Bava, un vero e proprio sottogenere: lo psyco thriller visionario, con assassini sadici e perversi che colpiscono sfoggiando mani guantate. Dunque un taglio di regia interessato agli sperimentalismi e all'impatto visivo piuttosto che ai contenuti. Debutterà alla regia, per caso, nel 1969 con l'ottimo L'Uccello dalle Piume di Cristallo (1969), premiato con il Golden Globe come migliore opera prima, proseguendo poi la carriera con oltre venti pellicole di cui il solo Le Cinque Giornate (1973) con Adriano Celentano a non rientrare nel genere giallo/horror. Di lui Alfred Hitchcock, massimo esponente del thrilling mondiale, dirà: “Quell'italiano comincia a preoccuparmi!” E Argento non deluderà le attese, specie nella prima parte di carriera dove presenterà due tra le pellicole più amate dagli amanti 928 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dell'horror: Profondo Rosso (1975) e Suspiria (1977), veri e propri successi intercontinentali. È la passione per la Nouvelle Vague che porta Leone a contattare Argento. Il regista romano vuole infatti dar vita a un western postmoderno che segni la fine del genere. Così i due giovani autori, in compagnia di Leone, iniziano a incontrarsi e a parlare di cinema. La personalità forte di Bertolucci tende subito a prevalere su quella più pacata di Dario Argento e così Leone e il regista parmense si confrontano in vere e proprie lezioni di cinema, a cui il futuro giallista partecipa in veste di arbitro. Sembra di vedere una riunione tra maniaci di cinema come potrebbe avvenire oggi tra Quentin Tarantino, Robert Rodriguez ed Eli Roth, con i tre che si sfidano a citare battute e a ricordare inquadrature su inquadrature riprese da una lunga serie di film dei vari Ford, Aldrich, Dmytryk, Wilder e altri. Iniziano così, pian pianino, a tratteggiare il soggetto di un film dall'intento citazionista e al contempo originale. Argento e Bertolucci convincono Leone a introdurre nel film un forte ruolo femminile, innovazione che incontra non poche resistenze da parte del regista, attorno al quale far ruotare una vicenda di vendetta. Un'altra tematica su cui due spingono è costituita dall'inserimento di una ferrovia in fase di costruzione, in modo da trasformare la stessa in una metafora dell'ormai imminente fine del far west. Infatti, a muoversi in tale contesto, abbiamo sicari organizzati che si sono dati agli affari, e che oltre a sparare hanno sviluppato un certo talento finanziario, contrapposti agli immancabili antieroi smargiassi tipici della filmografia leoniana. Nonostante l'ottimo piglio iniziale, Leone finisce presto con lo stancarsi dei due giovani colleghi e torna ai santi vecchi. Contatta il fidato Sergio Donati e gli chiede di sviluppare il soggetto. “Questi intellettuali non funzionano!” protesta Leone. Donati, indispettito dall'esser stato inizialmente accantonato, accetta solo grazie alla notevole ricompensa, ma lavora comunque con entusiasmo. Alla fine sarà tanto entusiasta della sceneggiatura da dire: “C'era una Volta il West è il film in cui sono riuscito maggiormente a comunicare a Sergio come volevo che fossero calibrati i personaggi.” Con Donati interviene a lavorare sullo script anche Luciano Vincenzoni, altro fedele collaboratore del regista, che revisiona lo scritto finale. Alla fine l'apporto di Bertolucci e Argento viene notevolmente 929 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ridimensionato, ma resta comunque presente in particolare nelle sequenze iniziali e nella caratterizzazione del personaggio femminile. A questo punto Leone ha il suo copione e visti i precedenti risultati del botteghino non ha problemi a trovare finanziatori. Si fa avanti anche Carlo Ponti, a condizione di affidare il ruolo femminile a Sophia Loren. Leone però rifiuta perché, a differenza di Ponti, non ritiene l'attrice napoletana adatta al ruolo. Dopo svariate trattative, il maestro romano punta sul film di tasca propria, “accontentandosi” del supporto di Bino Cicogna e soprattutto della distribuzione internazionale della Paramount per un totale di due miliardi e mezzo di budget. Bino Cicogna è un giovanissimo produttore di origini nobiliari, appena trentatreenne, reduce dal discreto I Quattro dell'Ave Maria (1968) di Colizzi, a cui aveva partecipato anche in veste di sceneggiatore. Figlio di Cesare Cicogna, produttore di Ladri di Biciclette (1948), nonché fratello e socio di Marina Cicogna, anch'essa produttrice di calibro, avrà una carriera brevissima formata solo da sei film girati nell'arco di appena due anni e tutti apprezzati dalla critica. Tra essi ricordo la commedia con Sordi Il Prof. Dott. Guido Tersilli Primario della Clinica Villa Celeste Convenzionata con la Mutua (1969) di Luciano Salce e il gangster movie con cast internazionale Gli Intoccabili (1969) di Giuliano Montaldo. Interromperà improvvisamente la carriera suicidandosi a Rio de Janeiro nel 1971, con il gas del tubo di scappamento della propria auto, a causa del cattivo esito di una serie di affari di famiglia. Cicogna mette in condizione Leone di fare tutto ciò che vuole. Così, in possesso di capitali in abbondanza e forte dei risultati ottenuti dalla trilogia del dollaro, il maestro romano si sbizzarrisce nella scelta degli attori. Per il ruolo di antagonista, contro le pressioni degli americani che gli propongono Charlton Heston e Gregory Peck, pensa a un suo vecchio pallino: Henry Fonda. All'epoca l'attore americano è già in età avanzata, ma non è ancora nella parabola discendente. Leone lo vorrebbe un po' perché lo ha sempre apprezzato e un po' perché la sua faccia garantisce un innegabile richiamo per gli spettatori essendo, fin dagli albori del genere, fortemente legata al western hollywoodiano. Avvicinato dai produttori, Fonda chiede di poter visionare i tre precedenti western di Leone. Li vede uno dietro l'altro, poi risponde: “Dov'è il contratto?” 930 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Classe 1905 e di lontane origini genovesi, dopo la formazione teatrale, aveva fatto il suo debutto a Hollywood nel 1935 segnalandosi subito come attore attraente e di talento, al punto da ottenere grossi apprezzamenti, nei panni di un giovane Abraham Lincoln, in Alba di Gloria (1939) e una nomination all'oscar come migliore attore protagonista con Furore (1940), entrambi per la regia di John Ford. Attore versatile, con una certa predilezione per i ruoli drammatici ma impegnato in tutti i generi quasi sempre da protagonista, era stato lanciato nel western, al fianco di Tyrone Power, da Henry King in occasione di Jess il Bandito (1939), come fratello del famoso pistolero Jesse James, dandovi poi seguito ne Il Vendicatore di Jess il Bandito (1940) di Fritz Lang. Nonostante indubbi capolavori come il kolossal pluripremiato Guerra e Pace (1956) di King Vidor, il film giudiziario La Parola ai Giurati (1957) di Sidney Lumet - che gli valse la nomination all'oscar come miglior film (Fonda lo aveva anche coprodotto), la nomination al Golden Globe come migliore attore in un film drammatico e il Premio Batfa come migliore attore protagonista – Fonda era riuscito a entrare nell'immaginario collettivo come attore western, grazie ai classici diretti da John Ford, come Sfida Infernale (1946), incentrato sulla leggendaria sfida all'O.K. Corral, e Il Massacro di Fort Apache (1948), dove invece si rievocava la disfatta del generale Custer a Little Bighorn, nonché al citatissimo Ultima Notte a Warlock (1959) di Edward Dmytryk, vero e proprio cult del genere. Quando Leone viene informato dell'interessamento di Fonda, l'entusiasmo del maestro romano va alle stelle. Per il regista la presenza di Fonda rafforza i propositi citazionisti e i rimandi a John Ford (con cui Fonda aveva lavorato sette volte), tuttavia l'euforia scema non appena l'attore americano sbarca a Roma. “'A oh, ma questo è un vecchio rimbambito, io non lo vojo!” sbotta Leone al direttore di produzione Claudio Mancini. Fonda infatti arriva a Cinecittà, a bordo di una Limousine, con aria svampita, atteggiamento indolente e occhi acquosi. Mancini, per fortuna, convince il regista a far provare i costumi all'attore. Così quando Fonda riappare vestito tutto di nero, con il volto e il portamento trasformati, Leone non ha più tentennamenti anche se dovrà combattere con le proposte dell'attore che cerca di recitare con basettoni, barba, baffi e lenti a contatto nere, tutte soluzioni scartate a poco a poco da Leone, costretto a utilizzare una certa diplomazia per non irritare il titolato attore. 931 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Curioso notare come a Fonda, solitamente alle prese con personaggi incorruttibili e dai forti ideali, venga riservato il ruolo dell'antagonista. Un personaggio comunque diverso rispetto alla tradizionale figura del pistolero del west. Così lo vediamo, privo di scrupoli e con espressioni crudeli amplificate dai falsi modi gentili, sparare a donne e bambini, con un atteggiamento e un'eleganza nel portamento che lo rendono diabolico. È un capobanda dai modi imprenditoriali, tratta gli omicidi come operazioni finanziarie. Non agisce in modo indipendente, ma lavora agli ordini di un facoltoso e storpio imprenditore ferroviario che vive all'interno di una locomotiva da cui non esce mai. Attorniato da un interminabile banda di manigoldi, a cui è solito delegare funzioni, dimostra una grande sagacia e una certa abilità nell'uso della pistola. Ha anche preso l'abitudine a starsene dietro una scrivania, mostrando bene l'arroganza di chi siede su certe poltrone. Non a caso, quando il suo mandante gli chiederà cosa si prova a stare seduto là dietro, risponderà: “È come stringere una pistola; solo molto ma molto più grande!” Nonostante ciò viene perseguitato per tutto il film dal misterioso protagonista che gioca con lui come il gatto col topo. “La Calma è la prima qualità per un uomo d'affari” lo canzonerà il protagonista, stuzzicandogli la curiosità. “Io voglio solo concludere un affare” la risposta di Fonda, che conferma l'evoluzione del proprio personaggio da bandito senza scrupoli a bandito con cervello interessato ai soldi. “Quale affare, Frank? Ne abbiamo più di uno, io e te” gli ribatte il protagonista sottolineando un qualcosa di misterioso, anche per lo spettatore, confinato nel passato dei due personaggi. “Possiamo sempre farne un bel mazzo e risolverli qui tutti e subito” sbotta spazientito Fonda. “Calma... Bisogna sapersi controllare” ribadisce l'altro, tacendo sulla propria identità e limitandosi a proferire, a ogni domanda “Chi sei?”, nomi di persone uccise dal personaggio di Fonda. La prova dell'attore americano, come suo solito, è elegante, statuaria, a tratti luciferina ma con un contegno sempre controllato e tra le righe. In seguito Fonda, pur ormai indirizzato verso la fine della carriera, tornerà a lavorare per Leone, al fianco di Terence Hill, nel magistrale western Il Mio Nome è Nessuno (1973) per la regia di Valerii e prenderà parte a b-movie nostrani come Tentacoli (1977) di Ovidio Assonitis e il macaroni combat Il Grande Attacco (1978) di Umberto Lenzi. Riuscirà infine a strappare due premi oscar, il primo alla carriera (1981) e il secondo come migliore attore protagonista di Sul 932 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Lago Dorato (1981), pellicola con cui chiuderà una brillante carriera costituita da oltre cento pellicole. A fare da spalla a Henry Fonda, nel ruolo di co-antagonista seppur dotato di minor carisma, c'è Gabriele Ferzetti. Si tratta di un altro attore di grande esperienza e di formazione teatrale, già attivo nel cinema prima dello scoppio della seconda guerra mondiale e con due Nastri d'Argento in bacheca ottenuti come migliore attore protagonista de La Provinciale (1953) di Mario Soldati e come migliore attore non protagonista di A Ciascuno il Suo (1967) di Petri. Ferzetti debutta nello spaghetti western dopo quasi cento film (raramente di genere), tra cui L'Avventura (1960) di Michelangelo Antonioni, il kolossal La Bibbia (1966) di Huston e Grazie Zia (1968) di Samperi. Proseguirà la carriera fino ai giorni nostri, lavorando dagli anni '80 anche per la televisione e iniziando anche a comparire in qualche b-movie, soprattutto poliziotteschi, a partire dalla seconda metà degli anni '70. Lavorerà inoltre con ruoli non da protagonista in Agente 007: Al Servizio di sua Maestà (1969) di Peter Hunt e in Sette Note in Nero (1977) di Fulci, senza più tornare a recitare in uno spaghetti-western. La prova di Ferzetti è maiuscola, tanto da strappare la nomination al Nastro d'Argento. Leone lo preferisce in extremis a Enrico Maria Salerno (a cui avrebbe voluto offrire il ruolo per ringraziarlo dell'eccelso doppiaggio di Clint Eastwood) e gli fa cucire addosso da Sergio Donati un personaggio caratterizzato in modo piuttosto originale. Lo sceneggiatore infatti lo tratteggia come un vigliacco uomo di mezza età, consumato da una malattia che lo costringe a muoversi sulle stampelle e a vivere rintanato in un lussuoso vagone di una locomotiva dotato di sbarre a cui sostenersi (e per questo schernito con il nomignolo di Mr. Ciuf Ciuf). Da qui ordina omicidi a danno di chi intralci i suoi propositi di ricchezza. È dunque un uomo avido, un burocrate, che si nasconde dietro un esercito di criminali e la cui sete di potere non viene frenata neppure la malattia. È lui a comandare Fonda, finché quest'ultimo non deciderà di fare di testa propria attirato dalla curiosità di comprendere chi sia quel misterioso indio che lo bracca e lo provoca. Per sottolineare la differenza caratteriale tra il personaggio di Fonda e quello di Ferzetti è esemplificativo il dialogo che precede il duello finale tra i due personaggi principali del film. Da una parte Bronson, dall'altra Fonda. “Così hai scoperto che, dopo tutto, non sei un uomo d'affari” dirà Bronson a Fonda. “Solo un uomo” risponderà il sicario, ottenendo l'apprezzamento implicito del rivale che gli rispon933 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

derà: “Una razza vecchia, verranno altri Morton e la faranno sparire.” Qui si registra lo stacco tra Fonda e Ferzetti. Pur essendo due personaggi negativi, il primo scende in campo, si confronta con i rivali da vero uomo, ha un certo onore da difendere; l'altro invece è un verme che crede di poter ottenere tutto con il denaro, rappresenta l'archetipo del futuro mondo industrializzato ormai sempre più imminente. Gli sceneggiatori sono espliciti al riguardo e, per sottolineare l'ormai decadenza del far west (una dimensione in cui a contare erano le capacità personali piuttosto che il denaro), fanno dire a Fonda la seguente frase: “Il futuro non riguarda più noi due. Io non sono qui né per la terra, né per il denaro, né per la donna. Sono qui solo per te, perché so che ora mi dirai ciò che cerchi da me”. Splendido qua Bronson che continua con il suo fare sbruffone: “Rischi di non saperlo mai...” Veniamo dunque a parlare del protagonista del film: Charles Bronson. Come per Fonda, è un altro attore corteggiato a lungo da Sergio Leone (e anche da Enzo G. Castellari) in occasione dei suoi precedenti western e che ora viene ingaggiato sebbene non da prima scelta. Leone pensa infatti di riproporre Clint Eastwood, ma il californiano è ormai lanciato anche a Hollywood dove nel giro di un anno ha interpretato il ruolo da protagonista nel western Impiccalo più in Alto (1968) di Ted Post e nel poliziesco L'Uomo dalla Cravatta di Cuoio (1968) di Don Siegel. Quando Leone cerca di convincerlo a prendere parte al progetto, anche per un semplice cammeo, Eastwood declina ogni offerta di lavoro essendo concentrato sul war movie Dove Osano le Aquile (1969) di Brian Hutton. Leone allora ripiega su un altro suo pallino con cui non ha ancora lavorato per ragioni di budget: James Coburn. Coburn prende in esame la sceneggiatura, ma rifiuta il ruolo perché lo ritiene troppo vendicativo. Viene contattato anche l'inglese Terence Stamp (il capo del trio alieno di Superman II, per intenderci), reduce dall'episodio Toby Dammit di Federico Fellini, inserito nel film a episodi Tre Passi nel Delirio (1968), ma anche lui declina l'invito. Alla fine, contro la volontà della Paramount che cerca di boicottare la proposta, arriva Charles Bronson fortemente richiesto dal regista. Bronson sbarca in Europa con l'intenzione di affrancarsi dai ruoli da caratterista di lusso e da star del circuito televisivo che gli venivano offerti in patria, in modo da poter poi rientrare in America con un maggior peso specifico. Di umilissimi origini e molto chiuso di carattere, proveniva da una famiglia lituana formata da quindici figli (lui era l'undicesimo) immi934 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

grata negli Stati Uniti senza ottenere fortuna. Al secolo Charles Buchinsky, era l'unico della famiglia ad aver completato le scuole medie, alternando lo studio al lavoro in miniera fino ad arruolarsi nell'esercito per prendere parte alla seconda guerra mondiale in veste di aviatore. Ritornato dal conflitto, si era avvicinato al teatro e da questo al cinema, ottenendo, nei primi anni '50, ruoli virili dovuti alle indubbie qualità atletiche e a un volto dai tratti netti e duri. Attivo in particolare in prodotti destinati alla tv, aveva ricoperto il ruolo da primo protagonista nel serial noir Man with the Camera (1958-60), oltre a essere apparso nei serial western Gunsmoke (1956-58), Empire (1962-64), Rawhide (1965) e in una lunghissima sequela di altre serie tra le quali Ai Confini della Realtà (1961) e Alfred Hichcock Presenta (1956-62). Al cinema invece aveva avuto ruoli di contorno in importanti film, prevalentemente western e con ruoli da cattivo, come Vera Cruz (1954) e L'Ultimo Apache (1954) entrambi per la regia di Robert Aldrich. Si era tuttavia affermato, agli occhi del grande pubblico, grazie alla partecipazione in due capolavori di John Sturges: I Magnifici Sette (1960) e il war movie La Grande Fuga (1963). Proprio questa collaborazione con Sturges lo aveva portato a ritagliarsi un ruolo sempre più crescente, seppur raramente da protagonista. Così era apparso, come spalla di Vincent Price, per la regia di William Witney, nel film fantastico, tratto da Jules Verne, Il Padrone del Mondo (1961), ma soprattutto nei war movie culto La Battaglia dei Giganti (1964) di Ken Annakin, con un ruolo superiore al suo solito (al fianco proprio di Henry Fonda), e Quella Sporca Dozzina (1967) ancora una volta agli ordini di Robert Aldrich. Dunque un curriculum di grande prestigio, impreziosito da due western interpretati, seppur come attore di supporto, prima di sbarcare a Roma: I Cannoni di San Sebastian (1968) di Henri Verneuil e Viva! Viva Villa! (1968) di Buzz Kulik. La collaborazione con Leone sarà decisiva per lo schivo attore americano ormai alle porte dei cinquanta anni. Grazie a C'era una Volta il West, Bronson inizierà a ricevere ruoli da primo protagonista dapprima nel western e poi in una serie di poliziesco/noir dai tratti violenti e reazionari. Lo troveremo in vari prodotti europei sia spaghetti western, come Sole Rosso (1971) di Terence Young o Valdez, il Mezzosangue (1973) di Duilio Coletti, sia polizieschi, come il francese L'Uomo Venuto dalla Pioggia (1970) o i “nostri” Città Violenta (1970) di Sollima o Joe Valachi... I Segreti di Cosa Nostra (1972) an935 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cora di Young. Ritornerà a lavorare negli Stati Uniti a metà anni '70, questa volta da protagonista assoluto, dando il là alla fortunatissima serie noir avviata da Michael Winner, costituita da cinque episodi, Il Giustiziere della Notte (1974-94). Sarà altresì protagonista del bizzarrissimo western (una sorta di Moby Dick sulla terraferma) Sfida a White Buffalo (1977) di J. Lee Thompson e di vari film di azione di cui ricordo La Legge di Murphy (1986) ancora per la regia di Thompson. Si ritirerà dal cinema all'inizio degli anni '90, dedicandosi a qualche apparizione in alcuni Tv Movie fino a morire nel 2003 per un attacco di polmonite. Il ruolo che Leone gli affida, e che Bronson si porterà cucito addosso per tutto il proseguo della carriera, è quello del vendicatore spietato che si fa giustizia da solo. A differenza del personaggio di Eastwood, il vendicatore di Bronson è molto più freddo e, seppur smargiasso, ha un che di malinconico sprovvisto di quel cinismo che invece caratterizzava lo straniero senza nome. Lo vediamo vagare suonando in modo indisponente un'armonica, con la musica che funge sempre da preludio alla sua entrata in scena. “Non sa solo suonare, sa anche sparare” dirà di lui Cheyenne dopo averlo visto all'opera. La vena trasteverina di Leone emerge però anche in questo personaggio e lo si capisce fin dalla prima sequenza, quando Bronson, sceso a piedi dal treno, sfida tre sicari muniti di cavallo alla maniera di Eastwood. “C'è un cavallo per me?” chiede ai tre. “È vero, ce lo siamo dimenticato...” la risposta del capobanda. Bronson non si scompone e, prima di far cantare la pistola, delizia il pubblico con una spacconata in puro stile Leone: “Ce ne sono due di troppo!” Pur parlando poco e preferendo l'armonica alla parola, il personaggio di Bronson continua con la spavalderia prendendosi gioco dell'antagonista interpretato da Henry Fonda. Bronson lo bracca per tutto il film, perché deve vendicare un fratello ma non lo rivela mai al suo avversario, limitandosi a farglielo intuire. “Tra i tuoi amici la mortalità è piuttosto alta, Frank” lo beffeggia; l'altro, che lo ha sempre evitato, capisce che è lui a falcidiargli la banda, poiché Armonica gli da appuntamenti ormai da anni: “Così sei quello degli appuntamenti...” Bronson non fa una piega e prosegue con le provocazioni: “E tu sei quello che non ci va!” Nonostante quanto sopra, Bronson non ha quelle espressioni da iena tipiche di Eastwood. È una sorta di squalo che non lascia trapelare emozioni ed è perfetto in questo. La sua faccia è cuoio allo stato 936 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

puro, non fa una piega, non va mai in difficoltà, non viene pestato. È quasi un fantasma vomitato dall'inferno, che vuole giustizia: la sua. Leone lo vede come “l'archetipo preciso del giustiziere che, anche se vai in Groenlandia, ti trova e ti segue.” Bellissima la sequenza finale in cui Cheyenne, interpretato da Jason Robards, tratteggia il profilo di Armonica per smontare le fantasie amorose della vedova cui da corpo la Cardinale, che invece lo aspetta convinta di mettersi con lui. “Non sono l'uomo giusto e non lo è nemmeno lui. La gente come lui ha dentro qualcosa che sa di morte. Quello lì, se è ancora vivo, entra da quella porta, piglia la sua roba e dice addio.” Puntualmente vediamo entrare in casa Bronson, prendere i suoi oggetti e congedarsi in modo asettico, mentre la Cardinale commossa vede naufragare il sogno di fare una famiglia con lui. Per lei, infatti, incarna l'idea dell'uomo forte che la protegge in modo integrale. “Io ho finito qui” dice Bronson, guardando fuori la città che gli operai stanno creando in mezzo alla nascente ferrovia. “Diventerà una bella città, Sweet Water” aggiunge subito dopo, accompagnato dalla malinconica musica di Morricone. La Cardinale, bravissima in questa intensa sequenza, cerca di alimentare le sue speranze ponendogli una domanda che possa lasciarle in sospeso un filo di speranza: “Ci passerete un giorno o l'altro?” Bronson non si lascia scalfire nell'animo e resta sul vago: “Un giorno o l'altro...” Un epilogo triste, intriso di una poetica agro-dolce rara da riscontrare nel genere e che esplicita il carattere del protagonista, un uomo interessato solo a consumare la sua vendetta senza alcun proposito costruttivo, ormai confinato in una dimensione (quella del far west) destinata a collassare (fine che, guarda caso, farà il suo compagno di avventura, Cheyenne). Inevitabile fare il parallelo tra il protagonista, il west e il genere spaghetti western, tratteggiati, come dice anche il titolo del film, come mondi ormai passati e morti, il primo per aver assolto il suo obiettivo (la vendetta) e per rigettare i canoni imprenditoriali, il secondo per esser stato superato dall'industrializzazione (ferrovia), il terzo per esser rimasto privo di idee innovative e ormai ridotto a sfornare epigoni. Come abbiamo accennato, accanto a Bronson, nel ruolo di spalla, troviamo Jason Robards nei panni di Cheyenne, un bandito inizialmente accusato di aver trucidato la famiglia della Cardinale. Si tratta di un personaggio che ha elementi in comune con il Tuco di Eli Wallach, seppur meno trasandato e con un'etica più sviluppata. 937 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

“Mi ricordi mia madre” dice alla vedova cui da corpo la Cardinale, “Era la più grande puttana e la donna più in gamba che sia mai esistita. Chiunque sia stato mio padre, per un'ora o per un mese, è stato un uomo molto felice”. Il personaggio si presenta già così, con questa frase. Basettoni, barba piuttosto incolta, veloce con la pistola e dotato di una buona dote dialettica seppur rozza e al contempo romantica. Appena evaso (ha ancora le manette ai polsi), entra subito in polemica con Bronson in una bellissima sequenza (esaltata da una lunga sequela di primissimi piani) ambientata in un'osteria dispersa in mezzo al deserto, dove entra la Cardinale per rifocillarsi. Favoloso l'escamotage, una torcia a petrolio che Robards lascia scorrere su una guida, grazie al quale Leone fa apparire Bronson che, nell'ombra, suona l'armonica. Qui, peraltro, fa la sua comparsa, in un rapido cammeo, il grande Lionel Stander (è il simpaticissimo oste che, alla richiesta di acqua della Cardinale, risponde: “Qui è dai tempi del diluvio universale che nessuno ha più voluto saperne dell'acqua”) già incontrato in Al di là della Legge (1968) di Stegani e in seguito presente in altri spaghetti western. I due, nonostante i primi screzi (“Sai solo suonare o sai anche sparare?”), dovuti anche alla voce secondo la quale Cheyenne avrebbe sterminato la famiglia della Cardinale, finiranno per unirsi contro la coppia Frank-Morton (Fonda-Ferzetti). Cheyenne si limiterà a consolare la povera vedova, coprendola di complimenti e consigli lungimiranti (a differenza di Armonica che invece si manterrà freddo e distaccato), e a intervenire in soccorso di Armonica nelle rare volte in cui questo avrà delle difficoltà. Per Robards si tratta dell'unica partecipazione in un film italiano e, per certi versi, ha pure rischiato di non esservi coinvolto. Infatti, in occasione dei provini, si presenta in condizioni pietose al cospetto di Sergio Leone. È completamente ubriaco, incapace di sostenere le battute. Leone lo vorrebbe cacciare via seduta istante, ma l'agente dell'attore insiste per una seconda possibilità. Del resto Robards, pur non essendosi ancora affermato come farà in seguito, vanta già un discreto curriculum. Formatosi e affermatosi in teatro, aveva debuttato al cinema nel 1959 (quasi quarantenne) dopo una trafila di cinque anni nei serial televisivi. Al suo terzo film, il drammatico Lungo Viaggio Verso la Notte (1962) di Sidney Lumet, si era subito imposto a livello internazionale aggiudicandosi, al Festival di Cannes, il Premio di Miglior attore dell'anno. Nonostante ciò l'interesse di Hollywood non 938 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

era arrivato, costringendolo a tornare a lavorare prevalentemente per la Tv almeno fino al 1965 quando gli venne offerto il ruolo di protagonista dell'apprezzato e candidato all'Oscar L'Incredibile Murray di Fred Coe, commedia contro il conformismo sociale che gli valse la nomination al Golden Globe. Il successo della pellicola aprì così le porte a Robards facendolo entrare nel mondo del cinema western, in veste del pistolero Doc Hollyday, col cult L'Ora delle Pistole – Vendetta all'O.K. Corral (1967) di John Sturges. Era altresì apparso, in veste nientemeno che di Al Capone, nel poliziesco Il Massacro del Giorno di San Valentino (1967) di Roger Corman. È per merito di questi film che Leone decide di visionarlo dal vivo e, seppur impressionato negativamente al primo incontro, l'intuito si rivelerà azzeccato. La prova di Robards è difatti maiuscola, crepuscolare (non a caso muore lentamente, per una ferita infertagli dallo storpio Morton), tanto da permettergli di ritornare in America da grandissimo. Proseguirà nel western col disincantato La Ballata di Cable Hogue (1970) e Pat Garrett & Billy the Kid (1973) di Sam Peckinpah, ottenendo fama crescente nella seconda metà degli anni '70 in ruoli spesso non da protagonista. Sarà addirittura premiato con due premi oscar consecutivi ottenuti come migliore attore non protagonista con i drammatici Tutti gli Uomini del Presidente (1976) di Alan J. Pakula e Giulia (1977) di Fred Zinnermann. Sfiorerà il tris (semplice nomination), sempre come migliore attore non protagonista, con la commedia Una Volta ho Incontrato un Miliardario (1980) di Jonathan Demme. Lavorerà in seguito in un'altra ventina di film, tra cui The Day After (1983) di Nicholas Meyer, Philadelphia (1993) ancora di Demme e Magnolia (1999) di Paul T. Anderson con cui chiuderà la carriera, concentrandosi poi sui prodotti destinati al circuito televisivo. Tra la coppia di protagonisti (i due antieroi Cheyenne e Armonica) e quella dei due antagonisti si pone il personaggio di Claudia Cardinale, la quale funge da perno attorno al quale ruotano tutte le vicende del film. Sono Bertolucci e Argento a convincere Leone a introdurre questo forte ruolo femminile, capace di indirizzare le sorti della vicenda. Non si tratta del primo spaghetti-western che pone una donna in un ruolo centrale, ma è probabilmente l'archetipo di riferimento quando si pensa alle donne del west. Ancora una volta, come già capitato in numerosi western, siamo alle prese con una prostituta, ma si tratta di una prostituta di spessore, non di mero contorno o soffocata dal cari939 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sma degli uomini. Jill McBain (il cognome è un omaggio di Bertolucci allo pseudonimo dello scrittore della saga poliziesca 87' Distretto, appunto Ed McBain) è sofisticata, elegante, proviene dalla città e ha un carattere fortissimo che la porta a sfidare con grande coraggio e fermezza la banda di Morton e Frank (eccezionale la sequenza in cui la Cardinale si troverà contrapposta a Fonda con un'inquadratura che ricorda un duello e che poi ruota mostrando i due sdraiati in un letto), ma anche i due antieroi che le gravitano intorno. Seppur abbattuta per la morte del marito (fulmineo cammeo affidato a un attore solitamente protagonista negli spaghetti-western: Frank Wolff), sposato da pochi giorni e trucidato con la famiglia proprio mentre si preparava a riceverla nella nuova casa, cercherà di non cedere a nessuna pressione pur di concretizzare il sogno del marito: costruire la città di Sweet Water. “Che accidente vuol dire?” diranno alcuni uomini, nel vedere il materiale ordinato dall'uomo e fatto smontare dagli operai su ordine della donna. “È abbastanza chiaro: è una stazione e tutto intorno una città: la città di Brett McBain ” risponderà il lungimirante Cheyenne. “Ma allora era matto...!?” commenteranno gli uomini lì intorno, credendo che un progetto del genere non possa esser concretizzato. Cheyenne invece, che la sa lunga, aggiungerà una frase utile a delineare il carattere dell'uomo ma anche della donna che ha scelto come moglie: “Si, ma un di un genere tutto speciale: un matto irlandese!”. Così è a questo personaggio che è affidato il compito di sostenere l'anima malinconica, sognante e combattiva del film. Il suo arrivo in solitaria alla stazione, dopo la strage dei McBain, è di una tristezza infinita. La gioia della donna, giunta da New Orleans per intraprendere una nuova vita dal sapore del riscatto sociale (dopo una vita di soprusi), si trasforma subito in angoscia. Non c'è nessuno ad attenderla, ma ciò non la porta a demordere. Così intraprende un viaggio dal sapore epico (la colonna sonora di Morricone, da quanto è emozionante, è da Sindrome di Stendahl), che la porta ad attraversare addirittura la Monument Valley (Leone realizza il sogno di abbracciare le scenografie di John Ford, ed è il primo tra i registi italiani, anche se gira il resto in Almeria). A traghettarla nel cuore del west, in una commovente galoppata a bordo di un calesse, c'è il grande Paolo Stoppa. Leone riprende il tutto in rigoroso campo lunghissimo, in modo da sfruttare il panorama mozzafiato, per una volta, veramente americano. Eccezio940 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nale anche la fotografia di Tonino Delli Colli, dai tratti caldi ma comunque crepuscolari. Per il ruolo di Jill Leone chiama la Cardinale, preferendola alla sua storica “rivale” Sophia Loren (scelta indovinatissima). Elegante, formosa (quarta di reggiseno) e con due occhi che comunicano di continuo le emozioni contrastanti del personaggio (un'alternanza tra rabbia, grinta e sogno romantico), la Cardinale offre la migliore performance femminile mai vista in un western italiano. Arriva sul set con un curriculum di primissimo piano, nonostante una vita privata decisamente triste. Nata in Tunisia da genitori di origine siciliana, riceve una formazione franco/tunisina tanto da masticare poco la lingua italiana, almeno in adolescenza. Irrequieta e bizzarra fin da giovane, a differenza di molti suoi colleghi, non nutre il sogno di fare l'attrice, trovandosi per caso invischiata nel mondo dello spettacolo. Insieme ad alcune compagne di scuola, all'età di diciott'anni, partecipa a un cortometraggio che nel 1956 attira l'interesse dei critici del Festival di Berlino. In particolare è un suo primo piano a suscitare ammirazione. Più che la bravura, a stupire è la sua bellezza mediterranea ed è proprio grazie a questa che nel 1957, ancora una volta trovandosi a partecipare per mero caso, vince il concorso di bellezza “la più bella italiana di Tunisia” che gli vale il biglietto di accesso al Festival di Venezia. Giunta in laguna, non passa inosservata e viene convinta a iscriversi al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. L'esperienza è però traumatica. In grave difficoltà nell'apprendere la lingua italiana e poco interessata all'interpretazione, la giovane lascia tutti di stucco e se ne torna a casa. “La carriera di attrice non fa per me” spiega a chi le fa domande. Il destino però, come si è soliti leggere, è una strada che non si può evitare. Così, rientrata a Tunisi, un'inattesa novità la costringe a ritornare sui suoi passi: è rimasta incinta a seguito di un rapporto non voluto con un avventuriero molto più grande di lei. Sola ma intenzionata a non rinunciare al bambino, accetta per necessità alimentari la proposta di Franco Cristaldi (che poi diventerà il suo soffocante compagno) venendo assunta con un piccolo ruolo nientemeno che per il capolavoro I Soliti Ignoti (1958) di Mario Monicelli. Così ha inizio la carriera di una tra le più importanti attrici italiane (seppur di lingua francese), una carriera figlia delle circostanze di vita sfavorevoli piuttosto che della vocazione. Neanche questa svolta però riesce a placare la malinconia della giovane che sviluppa propositi suicida. Intanto, 941 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

venuto a conoscenza della gravidanza della donna, Cristaldi la manda a partorire a Londra con la scusa di farle apprendere l'inglese. In realtà, ciò che Cristaldi vuole evitare è far scoppiare uno scandalo, vista la società bacchettona dell'epoca sempre pronta a puntare il dito inquisitorio su una ragazza madre. Per questa ragione, la Cardinale si troverà addirittura contrattualmente costretta a celare la maternità per ben sette persino al figlio. Nonostante la caotica vita privata, la carriera cinematografica dell'attrice procede bene. Nel 1959 Pietro Germi la dirige in Un Maledetto Imbroglio, dove la Cardinale si accattiva l'ammirazione di Federico Fellini che la elogia su carta stampata. Cristaldi punta molto sulla giovane, facendola lavorare in un alto numero di film sotto la direzione di grandi registi, anche se spesso in ruoli secondari. Così troviamo la Cardinale sui set di Mauro Bolognini, Nanni Loy e Luchino Visconti. Ne Il Bell'Antonio (1960) di Bolognini ha un diverbio con Mastroianni, il quale la corteggia di continuo. La Cardinale respinge le avance del collega, perché non crede alla sincerità dei sentimenti manifestati da quest'ultimo. Tra i due si crea così un clima elettrico che costringe Bolognini a penare le classiche sette camicie. Ne La Ragazza con la Valigia (1961) di Zurlini le viene offerto uno dei primi ruoli da protagonista. Il destino vuole, ancora una volta, che le capiti un ruolo (quello di una donna che nasconde di essere madre) che ricalca la sua triste vicenda della vita reale. L'immedesimazione nel personaggio è tale che la Cardinale stupisce tutti e si aggiudica il David di Donatello. Nell'ambiente si inizia ad accostarla a Brigitte Bardot, attrice da sempre ammirata dalla giovane siciliana. Il poeta Alberto Moravia la contatta per fare un'intervista che diverrà, nel tempo, celebre e in cui il letterato cade in imbarazzo per la spiazzante bellezza dell'attrice. È il momento migliore della carriera della Cardinale. Viene ingaggiata in due capolavori assoluti: Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti e 8 ½ (1963) di Federico Fellini dove riceve l'attenzione totale dei due maestri. È però con La Ragazza di Bube (1964) di Comencini che si aggiudica il suo primo Nastro d'Argento da protagonista. Ormai non è più solo una bella donna, ma è diventata anche un'attrice di primo piano richiesta addirittura dagli americani. Blake Edwards la dirige ne La Pantera Rosa (1963), film che la lancia direttamente a Hollywood. Si trasferisce così per tre anni in California, lavorando al fianco di attori come John Wayne, Rita Hayworth, Anthony Quinn e Sharon Tate. Prende parte anche al western hollywoodia942 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

no I Professionisti (1966) di Richard Brooks, con Burt Lancaster e Lee Marvin. Nel '68 Damiano Damiani la dirige in un altro capolavoro delle cinematografia italiana: Il Giorno della Civetta (1968), con cui si aggiudica il suo secondo David di Donatello come migliore attrice protagonista.. Con questo curriculum (circa quaranta pellicole) e i suoi trent'anni debutta nel cinema di genere lavorando ancora una volta con un grande maestro: Sergio Leone. Farà solo un altro western – Le Pistolere (1971) - dai contorni sexy e in veste di protagonista in coppia proprio con Brigitte Bardot, seppur diretta dal francese Christian Jacque. Non apparirà invece nei B-Movie, continuando a lavorare con Bolognini e Visconti e a ricevere premi come il terzo David di Donatello (ne vincerà anche un quarto alla carriera, nel 1997), con la commedia di Luigi Zampa Bello, Onesto, Emigrato Australia Sposerebbe Compaesana Illibata (1972) al fianco di Alberto Sordi. Nel 1974 avrà l'incontro con l'emergente Pasquale Squitieri che la dirigerà, dopo svariati litigi dovuti al carattere focoso del regista (da cui l'attrice si sentirà attratta perché dotato di tutte quelle caratteristiche che rappresentano la rottura dalla razionalizzazione a cui lei era abituata), nel gangaster movie I Guappi (1974), diventando in seguito persino suo compagno nella vita sentimentale. A seguito di quest'ultimo evento, la Cardinale romperà con la casa di produzione di Cristaldi iniziando a vivere quella vita libera che precedentemente non aveva mai avuto. A discapito della libertà però troverà l'ostracismo del vecchio produttore che la ostacolerà al punto da crearle non pochi problemi lavorativi. Questo sarà il momento più duro della sua carriera. Squitieri, ovviamente, la dirigerà nel gansger movie Corleone (1977) e nel più qualitativo Il Prefetto di Ferro (1977), ma si tratterà di film, seppur buoni, minori rispetto ai capolavori assoluti in cui l'attrice era abituata a recitare. Con Franco Zeffirelli debutterà in televisione grazie a un cammeo nello sceneggiato tv di otto puntate Gesù di Nazareth (1977). Gli anni '80 segneranno il ritorno di fuoco dell'attrice, che potrà di nuovo togliersi la soddisfazione di andare a vincere due Nastri d'Argento (il primo come migliore attrice non protagonista) rispettivamente con La Pelle (1981) di Liliana Cavani e Claretta (1984) ancora di Squitieri. Le sarà riservato un cammeo anche in Fitzcarraldo (1982) di Werner Herzog, pellicola girata tra le mille difficoltà in Amazzonia. In seguito riceverà svariati premi alla carriera, conti943 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nuando comunque a recitare, soprattutto in Francia (dove si trasferirà a fine anni '80) e addirittura in teatro dove mai aveva lavorato in precedenza. Questi dunque sono i cinque attori principali del film, attorno ai quali spiccano tutta una serie di star che si limitano a brevi cammei di lusso (alcuni rapidissimi). Ai già citati Lionel Stander e Frank Wolff nonché ai feticci leoniani Aldo Sambrell e Benito Stefanelli, di cui abbiamo già parlato nel corso del volume, troviamo Paolo Stoppa, Keenan Wynn e un trio iniziale di sicari su cui è bene fare un discorso a parte. Debutta nel genere inoltre il giovanissimo Marco Zuanelli e fa soprattutto la sua comparsa Fabio Testi (qualcuno dice anche il futuro regista John Landis in veste di stuntman) che in seguito avrà un certo rilievo nel genere. Vediamoli uno dietro l'altro. Paolo Stoppa ha il brevissimo ruolo di cui abbiamo parlato poco sopra, ma la sua presenza è comunque di prestigio. Già sulla cresta dell'onda in teatro e nel cinema fin dal periodo fascista, Leone lo chiama a rappresentare quel cinema d'autore che sta alla base delle idee iniziali del film. Non a caso, l'attore aveva già vinto due Nastri d'Argento - il primo nel 1952 per l'intera produzione, il secondo come migliore attore non protagonista con L'Oro di Napoli (1954) di Vittorio De Sica – e ottenuto una nomination per la medesima ragione con Rocco e i suoi Fratelli (1960) di Visconti. Dunque un attore completo, di formazione e impostazione teatrale (vi aveva debuttato nel 1927); proprio nel teatro si era distinto tra i migliori attori italiani mietendo successi su successi soprattutto sotto la direzione di Luchino Visconti. Attore versatile, chiuderà la carriera a metà anni '80 con circa cinquanta anni di attività e quasi duecento film alle spalle. Dagli anni '70 si dedicherà pressoché costantemente agli sceneggiati televisivi, prendendone parte spesso da primo protagonista (su tutti la serie de Il Commissario De Vincenzi) e mantenendo così sempre alto il suo livello di notorietà. A posteriori lo si ricorda in particolare per le sue partecipazioni in commedie d'autore e in capolavori della cinematografia italiana come Il Gattopardo (1963) di Visconti nonché, con ruoli di maggior rilievo, in Miracolo a Milano (1951) di De Sica e Viva l'Italia! (1961) di Rossellini. Vincerà nel 1982 il suo terzo Nastro d'Argento, come migliore attore non protagonista, per l'interpretazione offerta ne Il Marchese del Grillo (1981) di Mario Monicelli, e una nomination al David di Donatello con Amici Miei – Atto II (1982) sempre di Monicelli. 944 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Se Stoppa è una presenza insolita per il western e, più in generale, per il cinema bis, lo stesso non può dirsi per Keenan Wynn. L'attore americano, già apparso in Spara, Gringo, Spara (1968) di Bruno Corbucci, viene impiegato col contagocce. Lo si vede in veste di uno sceriffo intento a dirigere un'asta pubblica ed ammonire Cheyenne. Un ruolo piccolo piccolo, ma che serve a Leone per richiamare i western di Burt Kennedy in cui Wynn aveva preso parte un paio di anni prima. Debutta nel cinema che conta il “bellone” Fabio Testi, che fa una comparsata in qualità di stuntman dopo aver ricoperto piccoli ruoli in un paio di spaghetti-western di quarta fascia diretti da Deomofilo Fidani. Il suo è un ruolo molto marginale, ma in molti si ricordano le sue cadute mal riuscite in cui finiva sempre col farsi del male. Avrà fortuna in seguito, diventando uno degli attori di punta del periodo crepuscolare dello spaghetti-western e del noir nostrano Avremo modo di ritornarci quando parleremo di Anda Muchacho Spara (1971) di Aldo Florio e de I Quattro dell'Apocalisse (1975) di Fulci, oltre che di altri western minori. Debutta invece nel vero senso della parola Marco Zuanelli, a cui viene riservato un ruolo più ampio di quello di Testi. Attore giovane, robusto e barbuto, non riuscirà ad avere una carriera prolifica nonostante una certa bravura. Leone lo impiega nei panni di uno scemo del villaggio maltrattato un po' da tutti. Bronson lo prende per la cravatta e tende a strangolarlo per farsi dare delle informazioni. Fonda invece, dopo avergli chiesto delle informazioni, lo deride per il modo straccione di vestirsi, dicendogli: “Come si fa a fidarsi di uno che porta insieme cinta e bretelle, di uno che non si fida nemmeno dei suoi pantaloni?” Zuanelli resterà pressoché legato a questo tipo di personaggio, con ruoli da pistolero straccione e pasticcione di secondo piano offertigli in western anche di una certa importanza. Chiuderà la carriera a metà anni '70 con una dozzina di pellicole (quasi tutte western) tra le quali Ehi Amigo... C'è Sabata, Hai Chiuso! (1969) di Parolini (farà una piccola comparsa) e Ehi Amigo... Sei Morto! (1970) di Bianchini dove avrà un ruolo di un certo peso. Penso che avrebbe meritato maggiore considerazione poiché, pur nella sciattezza dei suoi personaggi, non sfigura quasi mai. Un discorso a parte, lo avevamo detto, lo merita il trio dei sicari con cui si apre il film. Leone, a differenza della trilogia del dollaro, apre la sua opera in maniera dilatatissima, con un ritmo lentissimo e cadenzato solo dai rumori ambientali (il ronzio di una mosca, il tic945 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

chettare di una goccia d'acqua, il cigolare delle assi di legno mosse dal vento, il rumore delle suole delle scarpe che calpestano il suolo e il battere di un telegrafo). La musica è assente finché, dopo addirittura tredici minuti dall'inizio del film, non entra in scena Bronson. Prima di ciò, accompagnati dai titoli di apertura, vediamo i tre manigoldi, in una stazione ferroviaria dispersa nel deserto, ingannare il tempo in modo diverso l'uno dall'altro. Jack Elam, che interpreta il capo del trio, dopo aver imprigionato il capostazione che gli voleva vendere un biglietto del treno, si mette a giocherellare con una mosca che lo importuna ronzandogli sulla faccia. Infastidito, la intrappola nella canna della pistola battendo la stessa contro la parete su cui si è posato l'insetto. La scena è frutto dell'inventiva di Dario Argento, il quale denota già un certo interesse per gli insetti (in seguito userà le mosche come protagoniste del suo Phenomena), e di un'innegabile pazienza della troupe. Leone deve penare non poco per realizzare questa piccola scena. In un primo tempo pensa di utilizzare una mosca finta, ma l'effetto finale non lo soddisfa. Così, supportato dai suoi tecnici, opta per uno stratagemma che si rivelerà perfetto: cospargere di marmellata la faccia di Elam. Più semplici sono i passatempo dei due aiutanti di quest'ultimo. Abbiamo il colored Woody Strode (al debutto nello spaghetti-western) e il canadese Al Mulock. Il primo si posiziona sotto un leggero stillicidio di acqua piovana infiltrata in una parete, la lascia cadere sulla tesa del cappello e poi la beve. Mulock, invece, spaventa un canarino in gabbia ringhiandogli contro, per poi portarsi fuori sui binari ad attendere l'arrivo del treno, scroccandosi le dita. Proprio su quest'ultimo attore c'è un aneddoto macabro. Leone, in corso di lavorazione, si trova costretto a sostituirlo con una controfigura perché, il giorno prima della fine delle riprese, Mulock si suicida gettandosi dalla finestra della camera d'albergo con addosso il costume di scena!? La cosa manda su tutte le furie Sergio Leone, il quale inveisce contro l'attore: “'sto stronzo...! Non si poteva ammazza' ventiquattro ore dopo...” A preoccupare il regista, oltre alla perdita dell'attore, è il rischio di perdere anche il costume di scena finito all'obitorio con il cadavere. Così il nostro sprona il direttore di produzione Claudio Mancini e gli chiede di recuperare i vestiti. Mancini riesce a far sparire gli abiti dall'obitorio, e il giorno dopo una controfigura reciterà sul set con i vestiti usati da Mulock per suicidarsi... Leone però continuerà a 946 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

imprecare, costretto a non fare le inquadrature che aveva programmato... “'sto stronzo!” Quindi il film prende le mosse con uno degli inizi più blandi della storia del cinema, un inizio all'insegna dell'attesa (tema che ritornerà anche nella sequenza successiva quella con Frank Wolff pronto ad accogliere la sua fresca sposa proveniente da New Orleans), ma di grande impatto e tale da segnalarsi tra le sequenze più belle del film. Leone pensa inizialmente di schierare come sicari Clint Eastwood, Lee Van Cleef ed Eli Wallach, in modo da dare continuità rispetto al suo precedente western. Eastwood però non è disponibile, mentre Van Cleef rifiuta la parte. Il regista allora cambia idea e, al fianco del pretoriano Mulock, ingaggia due caratteristi americani molto noti nel circuito dei western hollywoodiani: Jack Elam e Woody Stroode. Elam arriva sul set dopo aver lavorato praticamente con tutti i migliori registi western d'oltreoceano da Hawks a Mann, passando per Sturges e Aldrich. La sua è una storia un po' strana, perde la funzionalità da un occhio in tenera età, a causa di un banale incidente di gioco (gli viene infilata una matita in un occhio in una disputa tra boyscout), studia e diventa contabile a Hollywood. La cicatrice e il volto da duro finiscono con l'attirare l'attenzione dei produttori che, negli anni '50, a trent'anni suonati, lo lanciano come caratterista per ruoli da duro in western e noir. La lesione patita in gioventù diviene così per Elam un pregio che esalta un volto dai tipici tratti da cattivo. L'aspetto imponente, oltre a un innegabile carisma tenebroso, lo trasformano in una delle più celebri icone del western hollywoodiano pur non essendo mai apparso in ruoli primari. Finisce col ricoprire ruoli da brutale pistolero o da sicario in cult del calibro di Mezzogiorno di Fuoco (1952) di Fred Zinnemann e de L'Uomo dell'Est (1957) di Henry Hathaway. Appare altresì in Sfida all'O.K. Corral (1957) di John Sturges e nel noir Faccia d'Angelo (1957) di Don Siegel, oltre che in almeno una dozzina di western diretti da tutti i maestri del genere. A partire dagli anni '60 finisce definitivamente risucchiato dai serial televisivi lavorando in molte serie western tra cui Gunsmoke (1959-72) dove apparirà ben quindici volte. Continuerà in seguito a lavorare per la tv americana non disdegnando qualche sporadica incursione, sempre da comprimario, nel cinema western con apici come Rio Lobo (1970) di Howard Hawks e Pat Garrett e Billy the Kid (1973) di Sam Peckinpah. 947 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Senz'altro più quotato ma, a mio avviso, meno adatto al ruolo da duro è Woody Stroode che, in tale veste, appare un po' come un pesce fuor d'acqua. Californiano di colore, con un passato da giocatore di football americano, Stroode si avvicina al cinema con ruoli da caratterista specie in film avventurosi dove sfoggia le indubbie qualità acrobatiche (recita in vari Tarzan), ma anche in grandi produzioni come I Dieci Comandamenti (1956) di DeMille o Spartacus (1960) di Kubrick, con cui ottiene una nomination al Golden Globe. Riesce poi a ritagliarsi un ruolo di maggior respiro grazie a John Ford che lo fa debuttare nel western I Dannati e gli Eroi (1960), con un ruolo piuttosto importante. Da allora, Stroode si lega al genere, anche se ritorna ai ruoli marginali, girando sempre per Ford L'Uomo che Uccise Liberty Valance (1962), I Professionisti (1966) per Brooks e Shalako (1968) per Dmytryk. In C'era una Volta il West la sua prestazione è piuttosto sottotono, non proferisce battuta (non che lo facciano gli altri due) e appare nettamente il meno tignoso del trio. Farà sicuramente meglio in seguito, guarda caso in ruoli da co-protagonista o da spalla del protagonista. A differenza di Elam, anziché confluire nei serial televisivi (dove comunque farà qualche comparsa), Stroode resterà in Italia legando il suo nome a cult di genere del calibro de La Collina degli Stivali (1970) di Colizzi, Keoma (1976) di Castellari e del favoloso noir La Mala Ordina (1972) di Di Leo nonché di una mezza dozzina di western minori, tra i quali La Spina Dorsale del Diavolo (1970) di Burt Kennedy e Ciakmull (1970) di Enzo Barboni. Da segnalare anche la performance, al fianco dell'altro colored Fred Williamson, nel truce poliziesco americano Vigilante (1983) di William Lustig, divenuto col tempo (più per la difficile reperibilità che per altro) un ricercatissimo cult. Questo il ricchissimo cast artistico con cui Leone può sbizzarrirsi nel western più autoriale della sua intera produzione. Con C'era una Volta il West il regista romano estremizza o comunque porta al centro dell'attenzione aspetti fino ad allora lasciati in secondo piano. Da Per Qualche Dollaro in Più riprende l'idea del flashback condiviso tra il protagonista e l'antagonista, legato a un omicidio avvenuto nel passato ai danni di un componente della famiglia dell'eroe di turno. Da Il Buono, il Brutto, il Cattivo invece mutua l'inserimento della vicenda dei vari pistoleri in un contesto più ampio, qua rappresentato dall'avanzare del progresso (anziché dalla guerra di secessione). La vera 948 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

novità ricade nei tempi di regia (dal punto di vista visivo cambia poco, ci sono sempre i primissimi piani e il gusto per l'inquadratura ricercata). Leone abbandona quasi del tutto quel suo modo frenetico di fare western, quando diceva che bisognava dare agli spettatori un finale ogni tre minuti, per avvicinarsi a ritmi più vicini a quelli del cinema d'oltreoceano. Quindi da vita a un film dilatato (occorre mezz'ora prima di cominciare a capire qualcosa, prima vediamo solo dei personaggi andare incontro al loro destino), dai tratti onirici, con pochi dialoghi, così lento da subire tagli di circa quattrocento metri di pellicola (poi recuperati per la versione uncut a metà anni '80) imposti dalla Paramount per la versione americana. Una decisione assurda, considerando le accuse mosse da Hollywood ai nostri primi western, giudicati troppo vertiginosi nello sviluppare i soggetti. L'altra grande novità è costituita dalla dimensione psicologica dei personaggi. Sono tutti dei perdenti o comunque degli uomini destinati a esser travolti dal progresso, da un mondo a loro diverso e pronto a fagocitarli così come la ferrovia spazza via le terre degli agricoltori. Emerge una vera e propria analisi sottintesa degli sceneggiatori (sul progresso visto in un'ottica negativa, castrante dei veri valori umani), che va oltre al mero intrattenimento e che diviene elemento centrale dell'opera. In verità già con Il Buono, il Brutto, il Cattivo era avvenuto un qualcosa del genere, ma ciò era rimasto confinato in un secondo piano, limitato a tutte quelle parti connesse alla guerra e ai soldati morti, come piccoli scampi di riflessione. Qua invece l'analisi diviene elemento portante dell'opera e, seppur vertente su argomenti diversi, costituirà elemento essenziale anche dei due successivi film di Leone, cioè Giù la Testa (analisi sulla rivoluzione) e C'era una Volta in America (analisi sull'amicizia e sulla corruzione del potere). Ne consegue un'atmosfera triste, malinconica, ben esaltata dalla chiusura del film, con Bronson che si allontana portando via il cadavere di Cheyenne adagiato sulla sella del cavallo, mentre risuona la splendida colonna sonora di Morricone e vediamo volteggiare da lontano il titolo del film fino all'emergere della scritta in primissimo piano. Un picco di epicità che diverrà il marchio di fabbrica di un Leone ormai divenuto maturo, non più interessato al mero intrattenimento. Le novità però, lo si sa, sono sempre difficili da esser digerite e la pellicola fa un sesto in meno degli incassi de Il Buono, il Brutto, il Cattivo e, in Italia, arriva seconda nella classifica dei film più visti dell'anno. Non va benissimo neppure negli Stati Uniti dove viene giudicata 949 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

noiosa. A influenzare sul responso del botteghino è la scelta di aver diminuito il tasso di azione, a beneficio di un'opera dai contenuti più profondi. La critica italiana gli riconosce solo un David di Donatello, per la migliore produzione, e due nomination al Nastro d'Argento: una per la colonna sonora di Morricone (che avrebbe meritato l'oscar) e una per l'interpretazione di Gabriele Ferzetti come migliore attore non protagonista. Un po' poco per un simile capolavoro, ma è solo questione di tempo. In pochi anni il film viene riscoperto da registi di tutto il mondo e da appassionati, che iniziano a elogiarlo pubblicamente e a scrivere monografie a tema (una anche Fabio Zanello). In molti oggi considerano il film come il western più ambizioso di Sergio Leone (così spaghettiwestern.altervista.org), una vera propria antologia del western sospesa tra John Ford e Sam Peckinpah. C'è anche chi vi vede, a ragione, un'aspra critica al capitalismo industriale. Nelle classifiche di gradimento degli appassionati è spesso sul podio degli spaghetti-western più belli. È al secondo per spaghetti-western.net e per il regista Alex Cox, al quinto per Quentin Tarantino, al sesto per 800spaghettiwesterns.blogspot.com. (che la penalizza solo per le interpretazioni, dando il voto massimo a tutto il resto ma giudicando Bronson inferiore a Eastwood). Persino il Morandini gli riconosce quattro stelle, assurdo invece il Farinotti che, al di là delle stelle (ne da tre), si perde in una critica da pecora nera. Il critico individua i presunti limiti (!?) di Leone nel manierismo che accompagna ogni suo film e arriva a giudicare altresì ingombrante la colonna sonora di Morricone (che invece a mio avviso è superba). Da tali premesse valuta C'era una Volta il West un B-Movie caratterizzato da un insopportabile sentimentalismo. Non contento attacca in modo becero Dario Argento (con Argento tra gli sceneggiatori non si va lontano) e accusa Leone di aver copiato il finale da Duello al Sole (1948) di King Vidor e di aver messo in piedi un inizio da narcisismo registico. È evidente che ciò che per il Farinotti è da considerarsi un vizio, per il sottoscritto diviene pregio. Per il Mancho è un film monumentale, da avere in videoteca. Le Citazioni: Armonica: “Sai contare fino a due?” Cheyenne (dopo aver fatto rullare il tamburo della pistola): “Anche fino a sei!” 950 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Se lo vedi, te lo ricordi: quando dovrebbe parlare, suona... e quando dovrebbe suonare, parla. 8.5 Conclusioni Il 1968 si conferma un anno dall'alta densità di western anche se il numero di pellicole subisce una leggera inflessione, seppur impercettibile, rispetto all'anno precedente. Sono più di settanta gli spaghettiwestern a inondare le sale. Ci sono praticamente tutti, c'è lo spericolato Enzo G. Castellari, l'intellettuale Sergio Sollima, lo scatenato Sergio Corbucci, il mestierante Mario Caiano, lo spionistico alla 007 Gianfranco Parolini, il creatore della coppia del sorrisi & cazzotti Giuseppe Colizzi, i darcheggianti Sergio Garrone e Ferdinando Baldi, il figlioccio di Ferroni Giorgio Stegani, i promettenti spagnoli Rafael R. Marchent, Josè Luis Merino e Alfonso Balcàzar, e ancora gli ottimi Giulio Petroni, lo specialista dell'azione Umberto Lenzi che si confronta col genere per ragioni alimentari (ma con egregi risultati), l'ideatore del Commissario Giraldi, Bruno Corbucci, il semisconosciuto Paolo Bianchini, che vincerà premi a ripetizione in vecchiaia e poi lui, proprio lui, il maestro Sergio Leone che promette di serrare i battenti dopo questo suo ultimo western. Insomma ci sono quasi tutti, mancano solo, tra i più grandi, Duccio Tessari e Lucio Fulci che però “presta” il suo assistente Giovanni Fago. Dimenticavo, c'è anche un Dario Argento in gran spolvero in veste di scrittore di sceneggiature. Dunque un livello medio pazzesco, forse il più alto di sempre, con almeno quattro western in grado di toccare i livelli dei capolavori assoluti del genere. È infatti l'anno in cui si iniziano a vedere i primi western crepuscolari, ed è poi l'anno della nascita della saga dedicata ai pistoleri prestigiatori, con l'ideazione a opera di Zurli e Parolini del Sartana di Gianni Garko, ma è soprattutto l'anno dei primi western di fortuna girati in catena di montaggio da personaggi come Demofilo Fidani ed è soprattutto l'anno della codificazione vera e propria di due nuovi sottogeneri: il tortilla western e quello delle missioni suicida messe in atto da squadre di reietti allestite sulla scia de Quella Sporca Dozzina di Robert Aldrich. Non interesserà poi a nessuno, ma è anche l'anno in cui gli studios cinematografici del Cosmopolitan di Tirrenia, ridente località a cavallo tra Livorno e Pisa, abbracciano nuovamente il western 951 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dopo i fasti degli anni '30 rappresentati dal kolossal trentino-tedesco L'Imperatore della California, girato un po' in America e un po' a Tirrenia. Per quanto riguarda gli attori si ridimensionano le partecipazioni dei volti di punta a vantaggio delle nuove proposte. Giuliano Gemma, Franco Nero, Tomas Milian e Lee Van Cleef compaiono in un solo western a testa; il primo nel comicarello E per Tetto un Cielo di Stelle, il secondo ne Il Mercenario, il terzo in Corri Uomo Corri, mentre il quarto nel non troppo riuscito Al di là della Legge. Chi invece dilata le proprie partecipazioni sono Bud Spencer, che lavora insieme a Terence Hill ne I Quattro dell'Ave Maria, per poi prendere parte a tre ulteriori western, e George Hilton, proposto in quattro pellicole. Partecipa ad appena due western Gianni Garko, che però inizia a plasmare il suo Sartana. Ancora in auge Ivan Rassimov, ma soprattutto il tedesco Peter Lee Lawrence, che compare in tre western, e l'italo brasiliano Anthony Steffen. Si tenta poi di lanciare nel genere, con buoni risultati ma senza soluzione di continuità, Tony Musante, Chuck Connors, Enrico Maria Salerno e Jean Louis Trintignant. Si rivede anche Eli Wallach. Ruoli da protagonisti poi per Brett Halsey, Richard Harrison e Robert Woods. Insiste a esser presente, spesso da dandy a supporto dei protagonisti, Mark Damon, oltre ai vari caratteristi spagnoli Roberto Camardiel, José Torres, Eduardo Fajardo e Fernando Sancho, con quest'ultimo però che perde di importanza essendo precipitato in western da quarta fascia. Aumentano gli spazi concessi a Klaus Kinski che, ne Il Grande Silenzio, diviene antagonista principale, ma anche quelli che vedono gigoneggiare il nobiliare Gilbert Roland. Nel ruolo del villain drogato e schizzato si inizia a vedere la star hollywoodiana Jack Palance, capace di impreziosire le caratterizzazioni anche solo con la sua faccia di cuoio. Si affacciano poi nuovi volti del western economico come Jeff Cameron, al secolo Nando Scarciofolo, o l'americano con passioni comuniste Dean Reed. Prova a ricostruirsi una carriera il forzuto eroe dei peplum Steve Reeves, addirittura finanziando di tasca propria un western muscolare, ma non riuscirà nell'intento. I legami tra spaghetti-western e cinema giapponese, in particolare con Kurosawa, portano inoltre a bizzarri ingaggi come quello di Tatsuya Nakadai per Oggi a Me... Domani a Te! o quello di Tetsuro Tanba per Un Esercito di 5 Uomini, entrambi chiamati a dar corpo a personaggi che a pistola e fucili prediligono spade e machete. 952 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Chi manca all'appello, tra gli attori, è Gian Maria Volonté, ben sostituito però dal fratello Claudio Camaso in Joko Invoca Dio. Relativamente alle attrici brilla di luce abbacinante la bellezza procace, unita alla bravura, di Claudia Cardinale, che riceve il ruolo principale offerto a un'attrice in uno spaghetti-western di Sergio Leone. L'attrice di lingua francese offre un'intensa e malinconica prestazione che resterà scolpita nella storia del cinema italiano. Indimenticabile il suo carisma che la porterà a ribellarsi ai bulli di turno, a rimboccarsi le maniche dopo la morte del marito e a costruire dal nulla una cittadina. Riceve un ruolo importante anche Vonetta McGee, ne Il Grande Silenzio. La colored partecipa a una delle scene d'amore più romantiche del genere, abbracciando e facendosi sciogliere i capelli da Trintignant. Debutta poi nel western la super sexy Dominique Boschero, nel ruolo di una provocante donna che cercherà di fregare due avventurieri stuzzicandoli con spacchi e curve mozzafiato per allentar loro l'attenzione. Su tutte però spicca la seducente performance della bellissima brasiliana Norma Bengell, già apparsa ne I Crudeli di Sergio Corbucci, la quale si erge a protagonista assoluta nel drammatico Io non Perdono... Io Uccido!, con un ruolo perverso e peccaminoso che la porta a sedurre in contemporanea padre e figlio portandoli all'inevitabile scontro. Degno di nota infine il pazzesco duo costituito da Chelo Alonso e Linda Veras in Corri, Uomo, Corri, con le due contrapposte e impegnate a contendersi l'amore di Tomas Milian. La prima è una scatenata peperina che insegue il suo uomo dappertutto, la seconda una fanatica e formalissima religiosa che cerca di civilizzare lo straccione interpretato da Milian. Se per il 1967 avevamo parlato di due soli western degni di esser qualificati quali capolavori, per il 1968 il numero si alza. Abbiamo innanzi tutto C'era una Volta il West che introduce il filone dei western crepuscolari e che avrebbe dovuto costituire il capitolo di chiusura di Sergio Leone. Grazie a questa pellicola debuttano nel genere tre mostri sacri di Hollywood: Charles Bronson, Jason Robard e Henry Fonda. Da molti viene considerato lo spaghetti-western più malinconico del genere, da alcuni addirittura il migliore in assoluto. Si erge al rango di masterpiece anche Il Grande Silenzio con cui Sergio Corbucci riscrive il genere trasformando la polvere e il sole in nebbia e neve e la categoria dei cacciatori di taglie in delinquenti privi di etica legittimati dalla legge all'assassinio di poveri cristi. Bellissi953 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mo il finale che vede il trionfo degli antagonisti, per la stizza dei produttori che avrebbero preferito un epilogo più accomodante. Altra grande pellicola è Il Mercenario, sempre di Sergio Corbucci che gira il suo primo tortilla western con verve, ritmo e taglio propeone. Sulla stessa falsa riga, seppur lievemente inferiore, è Corri, Uomo, Corri di Sollima che pur sprovvisto di Solinas realizza un grande western, il quarto miglior dell'annata. A questi quattro capolavori fanno seguito almeno una decina di pellicole piacevoli, tra cui il controverso Ognuno per sé, sorprendente lavoro di Giorgio Capitani. Si tratta di un'opera che lavora moltissimo sulle caratterizzazioni dei personaggi e sulla spirale di sfiducia che porta ognuno dei tre protagonisti a ricercare la copertura di un soggetto esterno. Un western quindi sulla scia dei primi di Castellari, ma meno scatenato e più curato sotto il profilo psicologico. Molto divertente è il picaresco Un Treno per Durango, probabilmente il western più riuscito di Mario Caiano. C'è poi I Quattro dell'Ave Maria di Giuseppe Colizzi, che parte in modo blando per chiudersi con un epilogo da antologia dove Bud Spencer e Terence Hill recitano al fianco di Eli Wallach al cospetto dei gestori di un casinò dove si truffano i clienti. Azione a raffica col trio figlio de Quella Sporca Dozzina, costituito da tre pellicole fotocopia ovvero Un Esercito di Uomini (che rispetto agli altri due ha delle contaminazioni tortilla), Oggi a Me... Domani a Te! e Ammazzali Tutti e Torna Solo rispettivamente di Zingarelli, Cervi e Castellari. Grande intensità drammatica con venature erotiche per Io non Perdono... Io Uccido! di Rafael R. Marchent; discreto il revenge movie Black Jack che si avvale di uno spiritato Robert Woods e di ambientazioni israeliane. Visivamente spettacolare il revenge movie dai tratti fumettistici Joko Invoca Dio... E Muori di Antonio Margheriti, forse il miglior western con Richard Harrison. Film importante per la genesi del personaggio, anche se non eccelso, è Se Incontri Sartana Prega per la tua Morte che Parolini soffia all'ultimo a Zurli. Sprazzi di buon cinema, si veda il prologo, nel poco equilibrato E per Tetto un Cielo di Stelle, sorta di western comico con sotto trama drammatica. Queste le pellicole più importanti dell'annata, ma non certo le sole da recuperare. Lo ribadiamo, il 1968 è forse l'anno più qualitativo per il genere western. 954 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

9. 1969: ANNO DI RIFLESSIONE

9.1 La prima marcata crisi del genere. Dopo la proliferazione del genere, esploso nel 1966 e affermatosi nel biennio 1967 e 1968 con punte di qualità eccelse e discreto livello medio, come testimonia l'elevato numero di sequel persino apocrifi, il 1969 è un anno di stanca in cui si registra un calo vertiginoso della produzione di settore. Nell'ambito del cinema commerciale inizia infatti a prendere piede il thriller all'italiana, anche se escono i primi esempi ancora incapaci di codificare il genere. Umberto Lenzi, a febbraio, fa uscire Orgasmo, mentre ad agosto uscirà Una sull'Altra di Fulci subito seguito, a ottobre, dal secondo giallo di Lenzi ovvero Così Dolce... Così Perversa, con Dario Argento impegnato nelle riprese del film che spianerà la strada allo spaghetti-thriller argentiano, cioè L'Uccello dalle Piume di Cristallo. Ma è anche l'anno in cui esce il maggior numero di macaroni combat, circa una decina, genere che assorbe diversi attori e soprattutto registi del western all'italiana come Mario Siciliano (Sette Baschi Rossi), Enzo G. Castellari (La Battaglia d'Inghilterra), Giorgio Ferroni (La Battaglia di El Alamein), Umberto Lenzi (La Legione dei Dannati) e Gianfranco Parolini (Cinque per l'Inferno) che si portano dietro i vari Klaus Kinski, Gianni Garko, Ivan Rassimov e George Hilton. Ciò che è chiaro a tutti è che lo spaghettiwestern sta collassando, ormai privo di idee e con poco da aggiungere a quanto mostrato. In molti quindi cercano di battere nuove vie, sarà grazie a Enzo Barboni, nonostante le critiche che gli pioveranno addosso dai puristi, se il genere riuscirà a incanalarsi in una strada che gli permetterà di andar avanti fino alla fine degli anni '70 con il sotto filone dei c.d. fagioli western e dei western comico/demenziali all'insegna del sorrisi e cazzotti. Lo snodo fondamentale sarà Lo Chiamavano Trinità, film senza il quale, probabilmente, l'inaridimento generale avrebbe soffocato i nostri cari pistoleri e banditi delle lande pol955 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

verose d'oltreoceano a partire dal 1970. Immergiamoci allora nel '69, anno di fine decade e di riflessione. Per attendere l'uscita del primo western bisogna attendere la fine di gennaio, quando viene proposto La Morte sull'Alta Collina (1969). Si tratta di un'opera minore prodotta a basso budget da un Bruno Turchetto ormai interessato al poco fortunato filone del western contaminato dal giallo. Dopo aver lanciato Ferroni e, il fido di quest'ultimo, Stegani, Turchetto, come abbiamo visto, si era interessato a tutta una serie di film avvolti nel mistero con Peter Lee Lawrence protagonista e la regia di Brescia. Ed è proprio il giovane attore tedesco a tornare protagonista anche se cambiano sceneggiatori e regia. Eloquente il fatto che nessuno sembra riconoscere la paternità del film. Sulla copia italiana figura il fantomatico nome di Fred Ringoold, dietro al quale dovrebbe nascondersi Fernando Cerchio (così Carlos Aguilar e Giusti) anche se c'è chi sostiene, come Roberto Poppi e filmtv, che il film sia di Alfredo Medori. Quest'ultima tesi viene suffragata dal fatto che il nome Ringoold è associato a un precedente film, la spy story F.B.I. Operazione Vipera Gialla (1968), diretto proprio da Medori. Sul punto cerca di far luce spaghettiwestern.altervsta.org che spiega come Turchetto avesse ingaggiato Medori per poi sollevarlo dall'incarico dopo qualche settimana di riprese, perché ritenuto inidoneo a gestire un set, con relativo incarico conferito a Cerchio. Medori era soprattutto un adattatore dei dialoghi delle sceneggiature straniere dall'inglese all'italiano nonché autore di alcuni copioni di non particolare successo, tra cui Mondo Infame (1962) di Bianchi Montero. Era comunque un soggetto apprezzato dalle produzioni estere per via della sua abilità nel destreggiarsi con l'inglese e il tedesco tanto da ottenere la regia di alcune pellicole di produzione straniera inedite in Italia, tra cui una serie tv tedesca di tredici episodi. C'è abbastanza confusione anche sulla paternità del copione. Sulla versione italiana compare la firma del quotato José Mallorqui poi non presente nella versione spagnola, dove invece c'è quella del coproduttore Eduardo Manzanos Brochero. Quello che è certo è che il copione è di Lorenzo Gicca Palli, già coautore di Killer Calibro 32 (1967). Intrighi e azione sono alla base dello script dove si cerca di introdurre anche un po' di ironia picaresca. Purtroppo la storia non ha molto da dire in termini di novità: rapine, lotte intestine tra banditi per accaparrarsi il malloppo rubato, mandanti insospettabili e relative indagini da infiltrati fungono da corollario a una vicenda vista e ri956 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

vista. La regia è piuttosto ordinata, nonostante una trama molto confusionaria, e non lesina nell'offrire sparatorie, inseguimenti, scazzottate e quant'altro pur senza osare in sperimentalismi. Protagonista è l'argentino Luis Davala, nelle vesti di uno sceriffo che si finge bandito, supportato dall'ambiguo Lee Lawrence (non in una delle sue migliori performance). Ruolo invece da peone messicano cialtrone per Tano Cimarosa, il più ispirato della comitiva. Nel cast ritornano, con ruoli da inutili comparse, Catherine Spaak e Pazzafini, entrambi già sotto contratto con Turchetto. Buone le musiche di Luis Bacalov, riciclate però da altri western. Non è tra i peggiori spaghetti, ma si può subire. Implacabile 800spaghettiwesterns.blogspot.it che gli rifila un quattro striminzito stroncandolo del tutto sul versante della trama e della regia e lamentando la presenza di lunghe sequenze finalizzate ad allungare il brodo. Critiche anche per quel che concerne la mancanza di una caratterizzazione adeguata dei personaggi. “Noiosissimo” conclude lo spagnolo. Circa un mese dopo, preceduto dal già analizzato Tepepa, è il turno dell'ennesimo finto sequel apocrifo: Passa Sartana... è l'Ombra della tua Morte (1969). Alla regia c'è l'inesauribile Demofilo Fidani, con l'inusuale pseudonimo di Sean O'Neil (il che è tutto dire). Si tratta di una pellicola girata in sei giorni (!?) con Aristide Massaccesi a fare da operatore in supporto a un Fidani in veste di regista, produttore e sceneggiatore. Il budget, inutile dirlo, è pari a zero; Fidani fa il film perché è rimasto senza una lira e pensa così di farci quattro soldi vendendolo ai distributori per poi pagare gli attori chiamati a lavorare sulla fiducia ed estinguere dei debiti riconducibili a opere precedenti. Il caratterista Nando Scarciofolo (Jeff Cameron nei titoli) viene promosso protagonista in un cast di comprimari e stuntman tutti italiani, tra cui lo stesso Fidani, sua moglie e sua figlia... Quando si dice fare una cosa in famiglia, anche perché indovinate un po' chi sono gli scenografi, i costumisti e gli addetti al trucco? Avete indovinato... Scarciofolo, biondissimo, pur se mono espressivo e belloccio, tutto sommato regge. Lo vediamo vagare a inizio film in mezzo al deserto, con una sella sulla schiena (alla Django), stendere sei uomini e proseguire fino all'ingresso in un paese fantasma (sequenza più riuscita del film) perché non interessato dai cavalli degli uomini che ha ammazzato. Gli interesserà invece il cavallo di uno dei due unici soggetti che sono presenti nel paese fantasma. Un tipo dai gusti difficili il nostro 957 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Sartana, ma non c'è da farsi domande, perché una sola cosa richiede Fidani: azione. Scazzottate, tuffi, voli nel fango sono il biglietto da visita di questo film girato per esclusive ragioni alimentari. Eloquente il commento di Giusti: “la storia non esiste...” ma anche le scenografie, quasi tutte esterne (non male), tendono a non esistere, così come gli attori muoiono in pratica di continuo perché sono gli stessi che ricoprono più ruoli (un po' come la vecchia storia dei carri armati di Mussolini: sono cinque o sei ma, spostati con criterio, sembrano una ventina). Sartana non ha nulla a che spartire con il personaggio dei film di Carnimeo, se non il nome che è quello che poi accalappia il pubblico. Qua è un pistolero che uccide per ragioni di onore e su cui pende una taglia di 12,000 dollari, ma magicamente viene ingaggiato dagli stessi agenti federali (!?) per ripulire la città dai fuorilegge con la promessa della riabilitazione. “Sartana è un uomo che non teme neppure il diavolo, un temerario ricercato dalla polizia (!?), un vero uomo, uno di quelli che si fanno giustizia per conto proprio!” così si esprime l'atipico giudice del paese che ne tesse le lodi, perché in fondo, pur se un assassino, ha ucciso solo per ragioni d'onore e dunque si può perdonare. “Sparatorie go go, dialoghi slow slow” potrebbe essere il giusto slogan della pellicola che si segue staccando il cervello, perché non c'è niente da capire. La regia non è malaccio. Fidani tenta di rendere brillante la visione, purtroppo però non c'è storia (davvero pretestuosa) e non mancano una serie di lungaggini che non hanno alcun senso se non quello di diluire il brodo. Ne è un esempio la partita a poker tra Scarciofolo e Benito Pacifico, aka Dennis Colt, con quest'ultimo piuttosto anonimo in questo film (duello finale tra i due che si rotolano nella melma, quasi a evocare subliminalmente Django). Non male la fotografia di Franco Villa, non può dirsi invece lo stesso per le ripetitive musiche di Lallo Gori. Spaghettiwestern.altervista.org arriva a scrivere che si tratta di “uno dei migliori film del regista, con ottima caratterizzazione dei personaggi. Difficilmente vi deluderà!” Non per palati fini, io vi avverto... Si prosegue al ritmo di un'uscita al mese, davvero poca roba, con un altro prodotto di quarta fascia, sebbene con budget di livello superiore, ovvero La Legge della Violenza (1969) che esce nelle sale a marzo per la regia di Gianni Crea. Conosciuto anche col titolo Tutto o Nessuno, viene finanziato, manco a farlo a posta visto l'esempio dei 958 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

carri armati sopra riportato, da Romano Mussolini, quartogenito del dittatore fascista. Conosciuto soprattutto quale pianista, cultore jazz e pittore, ma anche quale esecutore di colonne sonore di film culto musicati dal maestro Pregadio, quali Kriminal (1966) e Satanik (1968), Mussolini viene spinto dalla moglie a entrare in modo importante nel cinema. È sposato con la sorella di Sophia Loren, dal cui matrimonio nascerà poi la parlamentare Alessandra Mussolini, e dunque il cinema è di casa. Dopo aver prodotto Mister X (1967) per Vivarelli, viene spinto da Almirante a contattare il regista Gianni Crea che ha in mano una storia western. Produce in contemporanea Puro siccome un angelo papà mi fece Monaco... di Monza (1969) di Giovanni Grimaldi per l'interpretazione di Lando Buzzanca. Si tratta di film che non avranno gran fortuna, ridimensionando subito l'interesse di Mussolini per la produzione. Crea si presenta come regista debuttante dal discreto potenziale, ha svolto il lavoro di assistente di Rossellini e di aiuto di Gianni Puccini. Purtroppo per Mussolini non avrà mai successo, pur girando cinque western (l'uno peggio dell'altro) in tre anni. Il film viene realizzato in Spagna, grazie all'aiuto economico offerto da Alfonso Balcàzar, ma sceneggiatura e cast artistico non sono all'altezza. Crea dispone di un copione approssimativo, da lui stesso scritto col supporto di Regnoli, pieno di buchi narrativi e assai sfilacciato. Siamo alle prese con un revenge movie che travalica i limiti del sottogenere con un vendicatore (si chiama Jack Sparrow come il protagonista de I Pirati dei Caraibi) che prova gusto nell'uccidere e diventa bandito. Crea gira con un taglio vecchio, incerto e raffazzonato, inoltre sembra non amare troppo l'azione. Deve poi sorbirsi attrici imposte dalla produzione (la belloccia Igli Villani, parente della moglie di Mussolini) e un protagonista (Giorgio Cerioni) di scarso spessore e assai goffo, scelto per via del volto da fotoromanzi. Cerioni si può considerare tra i peggiori dell'intero genere e sarà presto destinato, ironia della sorte per un film prodotto da un Mussolini, ai nazimovie. Risultato finale? Un film mediocre che non si lascia ricordare, sebbene venga considerato da tutti, interessato compreso, il miglior film di Crea. Le musiche sono di Stelvio Cipriani, montaggio di Alabiso. Spaghettiwestern.altervista.org ne consiglia comunque la visione, pur sottolineandone i difetti (recitazione e sviluppo del soggetto), per la presenza di alcune sequenze degne di menzione, come l'uccisione 959 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di uno sceriffo a frustate, e per il tentativo di trattare temi come incesto e l'impotenza della legge (da cui deriva la scelta del titolo). Curiosa involuzione del protagonista che da tale diventa antagonista. All'estero non se lo fila nessuno. Ad aprile esce un western avvolto da un grande alone di culto, con molteplici fan pronti a elencarlo tra i migliori spaghetti-western mai realizzati. Tra essi abbiamo il sito anglofono specializzato spaghettiwestern.net che lo inserisce in sedicesima posizione nella sua personale graduatoria; lo pone addirittura più in alto Alex Cox, per il quale vale il dodicesimo posto. Stiamo parlando del revenge movie melodrammatico Cimitero senza Croci (1969) di Robert Hossein, prodotto dall'affiatata coppia Vincenzo Buffolo e Giulio Sbarigia, già protagonista di molteplici western a partire da Un Dollaro Bucato (1965). I due sono supportati, nell'occasione, da una società francese. Nonostante quanto si legga e si dica in giro, il film paga una sceneggiatura poco originale ed estremamente vicina ai paella western di marchentiana memoria. Tale aspetto, ad avviso di chi scrive, ne ridimensiona il valore che pur essendo buono non può lasciar gridare al capolavoro peccando del fattore novità. La storia, scritta dal regista e dal nostro Dario Argento, è incentrata sul tema della vendetta (per interposta persona) e su quello dell'amore impossibile destinato a naufragare in una tragedia annunciata. Abbiamo infatti una moglie, interpretata dalla bravissima Michèle Mercier, intenzionata a vendicare la morte del marito (Benito Stefanelli) trucidato, a ragione (era un rapinatore), da una banda di bulli. La donna, per esaudire il suo fine, si rivolge all'ex amante, un pistolero triste e solitario che vive in un paese fantasma dal giorno in cui la stessa gli ha preferito un altro. Ingaggiato a suon di denaro (anche se la vera ragione è l'infatuazione per la donna), il pistolero, grazie alla propria abilità con la pistola, si infiltra nella banda responsabile dell'omicidio e, una volta entrato, rapisce per conto della donna la figlia del boss (soluzione ripresa pari pari da Io non Perdono... Uccido! del 1967 di Joaquìn Romero Marchent). Il rapimento è infatti l'arma di ricatto che la donna utilizzerà per costringere i componenti della banda a dare degna sepoltura al marito e a partecipare con dolore e frustrazione al suo funerale. Intanto, i fratelli e complici del marito cercano di usare la rapita per portarsi oltre il confine e la violentano per punizione. Segue la mattanza finale, con torture e sparatorie, a cui fa 960 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

seguito il consueto messaggio di condanna della pratica della vendetta (“la vendetta è una pianta che da frutti amari per tutti”) sulla scia del già citato film di Jaoquìn R. Marchent. Dunque un'opera spesso lenta, in cui l'originalità non passa dalla sceneggiatura. Hossein confeziona un mix prendendo molto dai fratelli Marchent e qualcosa da Sergio Leone. Il prologo, girato in un bellissimo nero seppia con inseguimento esaltato dall'impiego dei camera car, ricorda a esempio l'inizio di Mani di Pistolero, girato nel 1966 da Rafael R. Marchent. Arriva invece da Leone l'idea dello straniero che si infiltra nella banda dei bulli dopo aver eliminato alcuni rivali degli stessi. Se non è nel contenuto, la bontà del prodotto deve esser ricercata nella messa in scena fatiscente e negli atteggiamenti disperati e disillusi dei coinvolti. Non esistono infatti personaggi positivi o simpatici, qua sono tutti marcati dall'onta del peccato. Il protagonista, cui da corpo lo stesso regista, è uno dei pistoleri più sofferenti che mi sia mai capitato di vedere in un western. Non parla quasi mai (come del resto molti altri personaggi, che si esprimono a gesti e sguardi) e ha sempre un'espressione triste. In una sequenza, piuttosto imbarazzante grazie all'ottimo lavoro di regia (la mdp sottolinea la curiosità dei vari banditi seduti a tavola nei confronti del nuovo arruolato, con inquadrature all'uopo pensate), la banda di bulli cercherà di farlo sorridere tendendogli uno scherzo con una molla a scatto chiusa in un barattolo. Il nostro, abbozzerà un sorriso molto contenuto per tornare ai suoi tormenti interiori che hanno nell'amore perduto la fonte di origine (peraltro a fine film, per rendere ancora più struggente il tutto, si scoprirà che la donna che lo ha lasciato in realtà lo ha sempre amato). Il vivere nel passato del protagonista viene altresì rappresentato metaforicamente dall'agglomerato fantasma disperso nel deserto (notevole ricostruzione scenografica) in cui lo stesso è solito abitare, giocando partite immaginarie a una vecchia roulette coperta di polvere. Non è da meno la vedova in cerca di vendetta, sposata a un uomo che non amava perché convinta (erroneamente) che il suo amore non sarebbe più tornato a prenderla. Così come è tragica la posizione della rapita, stuprata con crudeltà dai fratelli con la complicità della vendicatrice e senza che il protagonista intervenga a evitare lo scempio (a fine film quest'ultimo, ferito dai sensi di colpa e non più interessato a vivere, si sacrificherà andando incontro passivamente alla vendetta della stessa). 961 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Dunque un western melò, dai contenuti tragici, sprovvisto di ironia, e con dialoghi essenziali. Le location non sono molte, ma beneficiano di spazi esterni dispersivi utilizzati dal regista con gusto per le profondità funzionali a creare disagio nello spettatore. Hossein, il regista, del resto non è uno sprovveduto. Arriva a girare Cimitero senza Croci con una grande esperienza alle spalle, soprattutto in qualità di attore di scuola teatrale (il marchio teatrale, non a caso, è molto marcato nella struttura del film). Già attivo con piccoli ruoli a fine anni '40, era riuscito a ottenere una certa visibilità con Madame Sans-Gène (1961) e Il Riposo del Guerriero (1962), al fianco rispettivamente di Sophia Loren e Brigitte Bardot, proseguendo poi con la serie Angelica (1964) al fianco proprio di Michéle Mercier, per un totale di circa cinquanta film (a fine carriera supereranno le cento unità). Fin da subito interessato anche alla regia, aveva intrapreso tale carriera a metà anni '50 con Gli Assassini Vanno all'Inferno (1955) e via via con un'altra decina di pellicole, dedicandosi soprattutto ai gialli dai contenuti socio-drammatici piuttosto che pulp con vette quali Nella Notte Cade il Velo (1959) e l'omaggio a Fritz Lang La Belva di Dusseldorf (1965). Dopo Cimitero senza Croci, girerà altri tre film, ottenendo vari premi con il drammatico I Miserabili (1982). Pur provenendo da altri contesti, la regia di Hossein è di livello. Poche le soluzioni sperimentali, ma sono indubbie le capacità nella messa in scena estrinsecate dall'esaltazione delle scenografie. Si nota inoltre una gradevole contrapposizione tra campi lunghi e inquadrature strette sui personaggi. Bellissima la sequenza che funge da prologo, girata con gusto di genere e ben fotografata da Henri Persin. Il regista convince meno nei panni di primo protagonista. Seppur bravo a sottolineare la malinconia del personaggio, Hossein non sembra molto credibile nei panni del pistolero infallibile. Il suo è un volto (dai tratti orientali) non molto indicato al genere, infatti ne farà pochissimi (a vantaggio del poliziesco francese), sebbene Sergio Leone lo avesse opzionato in precedenza per un cammeo in C'era una Volta il West (1969) che poi non fece. Proprio il legame con Leone viene evidenziato da Hossein con una speciale ed esplicita dedica finale. Inoltre, il maestro romano avrebbe dovuto prendere parte al film con un cammeo, ma all'ultimo la partecipazione saltò anche se non manca chi sostiene che il cammeo sia stato tagliato in fase di montaggio perché non gradito a Leone stesso. 962 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

È altresì eccezionale per il genere la presenza della bella e aggressiva Michèle Mercier, ex ballerina legata soprattutto alla serie storica/avventurosa Angelica (1964), sua vera e propria croce e delizia al punto da essere spesso identificata con l'eroina settecentesca e per questo imprigionata dal personaggio. Uscirà di scena nei primi anni '70, dopo una cinquantina di film tra i quali I Mostri (1963) e Il Giovedì (1963) di Dino Risi e altre pellicole di importanti firme registiche quali Luigi Zampa, Jean-Luc Godard e François Truffaut. Gli amanti di b-movie la ricorderanno negli horror cult I Tre Volti della Paura (1963) di Mario Bava, dove è la ragazza tormentata dalle telefonate di uno molestatore, e Nella Stretta Morsa del Ragno (1971) di Antonio Margheriti. In Cimitero senza Croci, l'attrice di Nizza personifica una donna dura, stoica, capace di sfidare e di tenere testa a una banda di bulli, con fare deciso e a tratti scorbutico, ma anche di sacrificare innocenti pur di raggiungere il proprio scopo. Di sicuro è la migliore del lotto. Per gli altri ruoli si notano molti caratteristi tra cui Guido Lollobrigida, Ivano Staccioli e il maestro d'armi Benito Stefanelli (solo un cammeo iniziale per lui). Grossa nota di merito per le musiche di André Hossein (padre del regista), abile nel proporre per gli inseguimenti dei brani ritmatissimi e delle melodie lancinanti da strappa lacrime per i momenti disperati. Come anticipato poco sopra, il film vanta numerosi sostenitori. Jean François Giré, a ragione, lo indica come il miglior western francese. Marco Giusti parla di western commovente e vede non poche similitudini con Johnny Guitar (1953) di Nicholas Ray (da cui viene ripresa l'idea del pistolero ingaggiato dall'ex amante per compiere una data missione), ma in chiave lugubre. Il californiano Tom Betts fa notare le atmosfere cupe, a suo avviso gotiche, con set e luci da Hammer Film. Gli entusiasmi si raffreddano con i critici generici. Filmtv.it gli riconosce dei meriti (tre stelle), ma ne sottolinea la lentezza: discreta fattura, ma appesantito da eccessivi formalismi. Più severi il Morandini e mymovies.com. Per il primo non si va oltre le due stelle (“vicenda aggrovigliata, ma messa in scena con eleganza”), per il secondo è mediocre. Abbondantemente più che sufficiente invece per imdb.com e anche per spaghettiwestern.altervista.org, il quale si limita a definirlo interessante. Grida al capolavoro 800spaghettiwesterns.blogspot.it rimasto sorpreso dal taglio brutale, con personaggi spietati, incastonati in una 963 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cornice squallida depauperata da ogni forma di romanticismo. Particolarmente sorpreso pure sonofdjango.blogspot.it il quale, dopo averlo definito superiore alla media, dice: “Hossein utilizza sottili tecniche visive e le competenze dei suoi attori per mantenere un livello di intensità emotiva raramente visto in un film di questo genere.” Per il sottoscritto è un western da non perdere per gli amanti dei melodrammi dal retrogusto ispanico, mentre è meno indicato per chi cerca uno spaghetti-western tradizionale con sparatorie e spacconate. È comunque meno originale di quanto si voglia far credere. A confermare la costante deriva gotica del genere, troviamo ancora delle croci a campeggiare in un titolo. Le pone Sergio Garrone con il suo terzo western: Una Lunga Fila di Croci (1969). Il regista romano, forte dell'interessamento dell'architetto Gabriele Crisanti, appena uscito dalla produzione di Dio li Crea... Io li Ammazzo (1968) di Bianchini, decide per la prima volta di non autoprodursi. Così, dopo quattro western prodotti, due dei quali diretti da Garrone in persona, per il regista sembrerebbe giunta la grande occasione. Crisanti gli garantisce la massima autonomia, ne approva il copione e gli mette a disposizione un cast artistico superiore rispetto ai precedenti. Garrone risponde bene alla proposta e parte con entusiasmo. Realizza un soggetto innovativo, quanto meno per l'idea iniziale che innesca l'intera vicenda. La storia ruota attorno al traffico clandestino dei messicani da destinarsi ai lavori nei campi di proprietà dei latifondisti del sud. Una tematica tutt'oggi attuale, seppur con alcune sottili differenze socioeconomiche. A giostrare il commercio è un facoltoso e distinto uomo d''affari (Riccardo Garrone), che organizza i trasporti avvalendosi di una banda di feroci fuorilegge (in una scena getteranno in un dirupo un intero carico di peone) su cui pendono corpose taglie. Purtroppo la sceneggiatura non punterà molto su questo aspetto, ma si perderà nei soliti cliché. Garrone non solo non eccelle nella stesura dei dialoghi, ma da la chiara impressione di non sapere come sviluppare l'ottimo guizzo iniziale. Così il geniale spunto di partenza diviene mero pretesto per dar vita a innumerevoli sparatorie (qui ce sono a volontà) e alla solita storia sulla scia di Per Qualche Dollaro in Più (1965). Vediamo entrare in scena due bounty killer (Anthony Steffen e William Berger), dapprima indipendenti, che si accordano tra loro per porsi sulle tracce del gruppo di malviventi dediti alla tratta di schiavi. Si giunge così allo scontro finale, preceduto dal cruentissimo 964 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

pestaggio patito da Steffen (e anche dal suo aiutante, Marione Brega, quest'ultimo addirittura crocefisso). Immancabile finale con il protagonista che rinuncia alle taglie, ai soldi recuperati e all'amore per andarsene in una nuova città. Garrone cerca di proporre qualche diversivo, al fine di sorprendere lo spettatore, ma non lo fa bene. Inserisce una serie di confusi colpi di scena, soprattutto nella seconda parte (con tradimenti e accordi non rispettati), e plasma un quarto personaggio che si pone a contrasto sia dei due protagonisti sia degli antagonisti. Si tratta di una donna dai modi e dai vestiti nobiliari (Nicoletta Machiavelli) che si schiera a favore dei peone respingendo le avance dell'antagonista (la vorrebbe sposare) e criticando il barbaro operato dei due bounty killer: “Siete tutti assassini!”. Un altro espediente usato dal regista per personalizzare il film è quello di caratterizzare in modo marcato uno dei due bounty killer. Se il personaggio di Steffen è quello canonico con la solita interpretazione indolente e monoespressiva dell'attore brasiliano, quello di Berger è assai particolare. Lo vediamo tutto vestito di nero, con una mantellina che lo rende simile a un pipistrello. Cavalca e mangia studiando silenziosamente la bibbia (da qui il soprannome Bibbia), parla con timbro vocale femminile e terminologia ricercata, e spara con un grezzo fucile munito di sei canne che esplode una rosa di colpi alla stregua di un cannoncino. Qua si esauriscono le novità anche perché i soldi terminano a metà lavorazione, gettando nel caos più totale Garrone. L'esigenza di chiudere alla meno peggio il film non si nota dal punto di vista visivo, ma penalizza lo sviluppo della storia e la caratterizzazione di alcuni personaggi. Ne è un esempio marcato il tentativo, poi abortito, di gettare luce sull'adolescenza dell'antagonista. Vediamo degli ottimi flashback che lo riguardano, ma che non hanno alcun collegamento col resto. Garrone si trova costretto a racimolare i soldi necessari per completare l'opera firmando svariate cambiali, prendendo pellicole in prestito e rinunciando del tutto al proprio compenso nonché sottoscrivendo accordi vincolanti per la distribuzione dei suoi successivi film. L'impegno del regista è encomiabile. La regia è ricercata, con un taglio sperimentale esaltato dal fortissimo gusto fotografico. Un risultato raramente riscontrabile in un western di seconda/terza fascia. Garrone sposta di continuo la macchina da presa, cerca angolazioni a effetto (belle le inquadrature con la mdp posta ai piedi degli attori e l'obiettivo inclinato in alto per riprenderli in faccia), usa gli elementi di scena (ruote di calesse, gam965 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

be divaricate) o le componenti delle armi (parte del fucile in cui si trova il grilletto) per confezionare ipotetiche cornici al cui interno si muovono in campo lungo i protagonisti e realizza inquadrature costantemente strette infarcite di primissimi piani. Non mancano soggettive di uomini in corsa o nervose carrellate per accompagnare fuggiaschi che cercano la salvezza nel bosco. Dunque una messa in scena curatissima e un montaggio (di Cesare Bianchini) di primo ordine, così come lo è la fotografia del duo Franco Villa - Aristide Massaccesi. Tra le sequenze più belle è da menzionare quella in cui i banditi costringono un gruppo di clandestini a entrare stipati in una carovana munita di doppiofondo. L'escamotage dovrebbe permettere ai trafficanti di eludere le perquisizioni nordiste, ma non avrà buon esito a causa di un colpo di tosse di un giovane peone (sarà punito dai banditi con la morte). Garrone riprende il tutto da delle grate di legno da cui filtra l'immagine dei poveracci costretti a stare al caldo e compressi l'uno sull'altro. Sono altrettanto belli, seppur scollegati al resto, i flashback in bianco e nero che riguardano il personaggio di Riccardo Garrone. Anche nell'occasione il regista regala un paio di inquadrature eccezionali, su tutte citerei il passaggio della pistola da una cameriera al protagonista del flashback. Il cast artistico è buono, ma non ispirato quanto sarebbe lecito attendersi. Fanno eccezione i soli William Berger e la grintosa Nicoletta Machiavelli. Per l'attrice emiliana si tratta di un altro ruolo forte che non è poi così importante al fine della storia, se non sotto il profilo metaforico. Essa infatti personifica la solidarietà umana sopraffatta da un contesto ambientale materialistico che trasforma gli uomini, siano essi peone da vendere o banditi da ammazzare, in meri oggetti dotati di un prezzo. A proposito di Berger invece è da sottolineare la glaciale calma e l'aplomb da prete che riesce a trasmettere, anche se toccherà l'apice nell'unico momento in cui il suo personaggio perderà il controllo. Convinto di esser stato derubato da Steffen, inizierà a sparare a casaccio e a urlare in pieno deserto, per poi abbandonarsi in una follissima risata. Sonofdjango.blogspot,it rileva giustamente la componente enigmatica del personaggio, ben resa dall'attore austriaco: “il pubblico non è mai certo di quali siano le sue reali intenzioni”. Mario Brega, senza Leone, si conferma piuttosto scialbo. Nell'occasione si presenta subito con mutandoni rossi e forza bruta, ma animo docile da bonaccione. Riccardo Garrone (fratello del regista), compo966 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sto e imperturbabile, è piuttosto anonimo. Fa una particina anche Mariangela Giordano che spara come un cecchino, sebbene il suo personaggio sia una banale moglie di un peone (mah!?). Notevole, anche se sono il solo a dirlo, la malinconica colonna sonora del duo Vassili Kojucharov & Elsio Mancuso, riconfermato da Garrone dopo i precedenti lavori del regista. Non male i commenti dei critici del settore. Si va dal “piuttosto riuscito” di Marco Giusti (che poi vede immotivate similitudini, dato che Berger non recita alcun passo della Bibbia prima degli omicidi, tra il Bibbia di Berger e il personaggio di Samuel L. Jackson in Pulp Fiction), alla moderata soddisfazione di Tom Betts che ne plaude lo spunto iniziale ma non ne apprezza lo sviluppo. Il sito spaghettiwestern.altervista.org invece promuove a pieni voti la regia creativa di Garrone. Piuttosto visto all'estero, vanta numerosi commenti nei blog degli appassionati. 800spaghettiwesterns.blogspot.it, come il sottoscritto, ritiene eccelsa la regia di Garrone e tutto sommato buona la sceneggiatura (a parte l'ultimo terzo, a suo dire forzato nei colpi di scena), ma critica la colonna sonora (sul punto è concorde anche sonofdjango.blogspot.it per il quale la musica oscilla tra il kitsch e il melodrammatico) che reputa da z-movie (gli rifila un esagerato tre in pagella). A giudizio del blogger spagnolo, inoltre, Steffen sarebbe più convincente rispetto al suo solito, mentre Brega inconsistente. Parla di pellicola divertente, infarcita di azione, fistfulofpasta.com, aggiungendo che “senza i suoi difetti sarebbe stata un capolavoro”. Ma quali sono questi difetti secondo il blogger anglofono? A suo dire, e come dargli torto, il film va visto con un occhio sospeso dalla realtà, a causa di alcune soluzioni inverosimili. Eloquente, al riguardo, è la sequenza relativa al pestaggio di Steffen, con quest'ultimo ferito, piegato su sé stesso e accecato dalla tequila versatagli sugli occhi che uccide due banditi con un colpo di badile e ne uccide un terzo lanciandogli lo strumento a mo' di giavellotto e riuscendo a infilzarglielo nel petto (“questa è la pala più letale mai vista in un film!” ironizza il blogger). Sufficienza piena per gli utenti di imdb.com. Lo ignorano Morandini e stranamente filmtv.it. Per concludere Una Lunga Fila di Croci è tra i più curati western di seconda fascia per la messa in scena e la regia, mentre paga dazio per la sceneggiatura. Ciò detto è giusto ritenerlo il miglior western di Garrone, anche se superato in notorietà da Django il Bastardo. Buona capacità di intrattenimento, confusionario nella parte finale. 967 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Si prosegue a ritmo ridotto fino a maggio-giugno quando escono tre western di basso profilo. Il primo a vedere la luce è L'Odio è il mio Dio (1969) diretto e interpretato dall'attore Claudio Gora, che ritorna alla regia dopo una pausa di dieci anni. Conosciuto soprattutto per la lunga carriera recitativa iniziata prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, oltre che per essere padre di Andrea Giordana, protagonista anche negli spaghetti-western, Gora (none d'arte di Emilio Giordana) viene finanziato da Fernando Cinquini (manager di produzione di due capolavori come La Resa dei Conti e Il Buono, il Brutto, il Cattivo) e da Liliana Biancini (arriva dagli horror, Un Angelo per Satana di Mastrocinque) con grande fiducia per via degli ottimi risultati conseguiti in veste di attore e anche per via del copione che porta la firma, tra gli altri, di Vincenzo Cerami e di Piero Anchisi. Cerami è al terzo film, ma ha contribuito ai copioni di due campioni di incassi internazionali come El Desperado (1967) e Lo Straniero di Silenzio (1968). Anchisi invece è al secondo lavoro, ma vanta un certo credito quale critico cinematografico. I due vengono chiamati da Gora per scrivere un altro tipo di copione rispetto a quello che vedrà la luce, poi però la scelta cade sul western. Entrano nel progetto anche i tedeschi, nella persona di Theo Maria Werner, conosciuto soprattutto per la produzione di spionistici quali la saga Agente Jo Walker (1967) di Parolini interpretata da Tony Kendall (ovvero Luciano Stella), e per aver prodotto il primo capitolo della saga Sartana rappresentato da Se Incontri Sartana Prega per la tua Morte (1968) sempre di Parolini. Dunque il film, pur non disponendo di un elevato budget, viene concepito sotto buoni auspici. Werner impone Tony Kendall come protagonista, Gora invece inserisce suo figlio Carlo Giordana, quello meno famoso, e la moglie Marina Berti. Ci sono poi Venantino Venantini e, nella parte dello scemo del villaggio, un Pippo Franco (cura anche una colonna sonora totalmente fuori tema) pescato dai musicarelli. La presenza di Franco (uno che il vero nome è Francesco Pippo e che sceglie di adottare un nome d'arte invertendo il cognome con il nome, già di per questo eroico) conferisce alla pellicola un certo alone da z-movie di culto. Gora sul set si atteggia a gran maestro, è convinto di dar vita a un gran film, ma le riprese vanno incontro a non pochi problemi. Restano addirittura bloccate per alcune settimane a causa di svariati problemi di un'organizzazione incapace a far fronte alle difficoltà mete968 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

reologiche, con grosso dispendio di energie. Gora prova a rendere autoriale il suo western, cambia il titolo di lavorazione che era Sul Boia non si Spara, interviene quindi sulla sceneggiatura compromettendone l'integrità (ne deriveranno vari buchi narrativi); alla fine confeziona un delirio da cui prende le distanze persino Pippo Franco. “Bisognerebbe fare vedere il film per mostrare tutto quello che non si deve fare” il commento del cabarettista, che canta nel corso del film la trashissima L'Americana, strimpellando in modo poco convinto la chitarra, con Gora che sul set lo incoraggia. E così mentre Franco canta, Gora si sente il precedente brano del comico, Vedendo la Foto di Bob Dylan lanciato l'anno prima, e annuisce, sornione, quasi a dire alla troupe: “vedrete cosa ci tirerò fuori...” Per lui resterà una chimera, proprio come il titolo del musicarello da cui arrivava Franco. Curioso che poi Bob Dylan, qualche anno dopo, avrà un ruolo del genere in Pat Garret & Billy the Kid (1973) di Peckinpah, dimostrazione che Gora era avanti coi tempi, lui almeno questo avrebbe detto, forse... A differenza di Franco, il film ha due protagonisti che non parlano quasi mai. Uno è un muto per trauma infantile, il mediocre Carlo Giordana, proveniente dai fotoromanzi Lancio, che il padre prova a introdurre nel cinema (non ci riuscirà), l'altro (Luciano Stella) è un pistolero castrato (!?) e psicopatico, chiamato col nomignolo il nero, che va in giro con un cagnolino di cui è geloso oltre limite, ma che poi uccide lui stesso perché ha il difetto di affezionarsi al prossimo (!?). I due si accorderanno per eliminare i tre banditi responsabili dell'ingiusta impiccagione del fratello del muto, esecuzione messa in atto per sottrargli le terre. Ecco quindi le coordinate del tipico revenge movie, ma con caratterizzazioni bizzarre. Il film, nonostante un certo tasso di violenza che porta all'apposizione del “vietato ai minori di 14 anni”, ai botteghini fa flop e Luciano Stella si trova a rimetterci svariati milioni di tasca propria. Gora non girerà altri western, mentre Carlo Giordana uscirà dopo poco dal mondo del cinema. In tempi recenti alcuni critici, come Antonio Bruschini, hanno tentato di operare una rivalutazione del film per l'atmosfera delirante e surreale che lo pervade, pur non nascondendo il contesto sgangherato di contorno. Non è di facile reperimento, ignorato all'estero. Il secondo western a uscire a primavera, prima dello scoppio dell'estate, è Testa o Croce (1969) del pisano Piero Pierotti, prodotto da 969 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Enrico Gianni per la Tirrenia Studios e girato dietro casa del sottoscritto, appunto a Tirrenia. Il film ha un budget irrisorio, peraltro prodotto da soggetti che non risultano neppure menzionati su imdb. Gianni viene supportato da un tal Vinod Phatak della sconosciutissima Golden Gate, ma i soldi son così scarsi che Pierotti riuscirà a completare il film grazie all'apporto dell'Universal chiamata in causa dall'attore protagonista, l'americano ma di nascita tedesca, John Ericson. Eppure, sebbene il film disponga di capitali insufficienti, Pierotti riesce a radunare un cast artistico e tecnico che rende di culto la pellicola. Ormai sessantenne, costretto a girare con un busto per i lancinanti dolori alla schiena e prossimo a morire (spirerà l'anno dopo l'uscita del film), Pierotti è intenzionato a confezionare una pellicola che vada oltre le mere esigenze commerciali, per questo scrive e sceneggia in autonomia quanto dovrà portare in scena e lo presenta ai produttori sotto il titolo Il Boia Arriva a Cavallo (così infatti sarà l'entrata in scena del giustiziere di turno). Giornalista e regista teatrale, Pierotti si era interessato alla settima arte dapprima in modo poco convinto, da amatore, girando corti come Quintopiano. Poi, alla fine del trentennio, aveva deciso di tentare la carriera da professionista iscrivendosi al Centro Sperimentale di Cinematografia dirigendo, al contempo, numerosi documentari. Una volta diplomato si era aperta per lui la strada della lunga gavetta da aiuto regista, prima, da direttore delle seconde unità, soprattutto di Raffaele Matarazzo e di Giacomo Gentilomo, e da ultimo da sceneggiatore. Si era specializzato soprattutto nell'adventure movie e nel cappa e spada, sceneggiando film quali La Ragazza del Palio (1957) di Luigi Zampa, Gli Invasori (1961) di Mario Bava, il cultissimo Maciste all'Inferno (1962) di Freda, proseguendo in quest'ultima attività fino alla morte, con l'ultimo copione, Robin Hood l'Invincibile Arciere (1970). diretto da Merino. Ironia della sorte, aveva debuttato alla regia con un film intitolato L'Arciere Nero (1958), girando poi un'altra dozzina di c-movie, tra cappa e spada (Zorro il Ribelle, 1966), pirati (La Scimitarra del Saraceno, 1959, cosceneggiato con Luciano Martino) e soprattutto peplum quali l'assurdo Golia e il Cavaliere Mascherato (1963), il più riuscito Ercole contro Roma (1963) e la delirante commistione tra western e peplum Sansone e il Tesoro degli Inca (1964), un film nato come peplum e poi trasformato in western perché era il periodo in cui il genere dei pistoleri vendeva in massa. Morirà qualche mese dopo riuscendo però a ultimare il suo 970 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ultimo film: La Grande Avventura di Scaramouche (1970), ancora una volta un cappa e spada. Pierotti si mette così in testa di realizzare la sua opera più personale. Plasma un soggetto western piuttosto atipico, che anziché far leva su bottini da rapinare, taglie da incassare o contadini da cacciare dalle valli, incentra il tutto sulla componente sessuale e sul bigottismo di certe comunità, mettendo in secondo piano gli elementi tipici del genere. Obiettivo numero uno da perseguire è dunque la caratterizzazione dei personaggi e del contesto sociale in cui operano. La storia viene ambientata in un paese moralmente corrotto per effetto della “malattia del sesso”. A far impazzire gli ormoni dei paesani è una comitiva di prostitute messa in piedi da un tale che si chiama Boccadirosa (un Loris Gizzi all'ultimo film in carriera), un nome che è tutto un programma in un'epoca in cui era appena uscita l'omonima canzone di De André, e che ha trasformato il saloon Crazy Horse in una sorta di bordello. Le prostitute spingono gli uomini ad abbandonare le proprie mogli, ma anche a sfidarsi mortalmente per andare con una prostituta piuttosto che con un'altra. “La donna più bella e l'uomo più ricco finiscono a letto sempre assieme” dice Ugo Pagliai (lo ritroveremo in O'Cangaceiro), il banchiere, proferendo quella che è una brutta frase ma che, spesso, contiene una qualche base di verità assai poco “alchemica”. L'occasione si fa dunque propizia per una moglie che vuol mettere le mani sui capitali del marito per assassinarlo e poi far ricadere la colpa sulla prostituta più ambita. Scoppia così una rivolta popolare orchestrata dalle mogli cornute che sfocia nel pestaggio, nella tortura e nell'espulsione delle prostitute, frustate e costrette a lasciare la città. La protagonista intanto, la rossa Spela Rozin (accreditata Sheyla Rosin), accompagnata fuori città da due uomini di legge, subisce pure lo stupro a opera di questi ultimi che pensano poi bene di abbandonarla in pieno deserto. Entra ora in scena il protagonista, Black Talisman, interpretato da John Ericson, il quale fa un po' come faceva Ambrose Bierce, autore del satirico Il Dizionario del Diavolo oltre che autore di svariati racconti western, quando si chiedeva se continuare a fare il giornalista oppure dedicarsi alla carriera di scrittore. Lancia cioè una moneta in aria per riservare al fato la scelta su dove andare a scappare. Bandito ricercato in quattro stati per gravi reati, diventa il protagonista buono che giunge in paese per fare giustizia. Proprio lui, che è una tipo da forca, si erge a eroe buono, solidale e disposto al sacrificio, il tutto in un paese di ben pensanti che 971 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

in realtà altro non sono che dei bigotti materialisti. Marcatissima quindi la critica sociale dell'autore, che giunge a preferire i delinquenti a certe categorie di ipocriti. Pierotti non lesina in scene violente e truci. La moglie assassina (l'attrice Daniela Surina), sadicissima e perversa (fa l'amore accarezzando le pistole dei compagni, perché, inconsciamente, le vede come strumenti di onnipotenza erotica), viene bruciata viva da Black Talisman sebbene questo ne sia attratto. Gli stupratori finiscono col dover digerire delle pallottole introiettate in modo tutt'altro che consigliabile. Il protagonista, anziché fungere da spaccone o simpaticone di turno, se ne va in giro con fare indolente e un alone da eroe maledetto, malinconico, che fa di tutto, riuscendoci, per farsi ammazzare dagli uomini dello sceriffo e lo fa per far pervenire i soldi della sua taglia alla povera prostituta che ha preso sotto l'ala protettiva. Un modo come un altro per sottolinearne l'assenza di scopi nella vita, se non quello di fungere da “angelo/demone sterminatore”. John Ericson, il protagonista, è al suo primo e ultimo spaghetti-western. Si era distinto soprattutto nei serial televisivi americani avendo avuto ruoli di primo rilievo in serie come il poliziesco Honey West (1965-66), ma aveva altresì preso parte a film importanti quali Teresa (1951) di Zinnemann, Rapsodia (1954), al fianco di Liz Taylor, e Fuoco Verde (1954) con Grace Kelly. Gli amanti del western americano lo ricorderanno poi, da coprotagonista, in Giorno Maledetto (1955) di Sturges e in Quaranta Pistole (1957) di Fuller. Piovuto in Italia a inizio anni '60, riceve da Pierotti l'onere di tratteggiare uno dei protagonisti più decadenti del genere. Proseguirà fino al nuovo secolo a lavorare per il circuito televisivo americano. In Italia non avrà fortuna. Spela Rozin viene provata con un ruolo di maggior importanza, dopo aver preso parte a Joko Invoca Dio... E poi Muori (1968), non sfigura ma non riceverà altre occasioni. Sorte simile per l'altra donna di maggior rilievo del film, la ventisettenne Daniela Surina, con il personaggio più difficile del lotto, quello dell'antagonista virago. Apprezzata in Germania, Francia e Italia, arrivava da film di registi impegnati come Blasetti e Bellocchio, dove aveva ricevuto ruoli marginali ma tali da valerle una nomination al Nastro d'Argento con La Cina è Vicina (1967), e dal perverso Scacco alla Regina (1969) di Pasquale Festa Campanile, a cui si è sicuramente ispirata per il ruolo offertale da Pierotti. Non avrà altre occasioni per emergere. Ben diversa, invece, la situazione di Edvige Fenech, italo-maltese giovanissima, appena ven972 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tunenne e fresca vincitrice di concorsi di bellezza in Francia. La Fenech è al suo quinto film in carriera, il primo e unico western, Pierotti la mette in scena in modo convinto. La vediamo denudata dalle donne del paese (non in modo integrale, quello lo farà a metà anni '70 Lucio Fulci ne La Pretora), frustata a sangue (con la Surina che geme e gode dietro a un angolo a ogni colpo di scudiscio), e poi pronta a evirare con un coltello un manigoldo. Purtroppo il regista pisano non ha il coraggio di lanciarla da protagonista, lo farà, nel giro di qualche mese, Mario Bava con 5 Bambole per la Luna d'Agosto (1969) e la Fenech diverrà la star queen del giallo all'italiana (grazie anche alla relazione con Luciano Martino, noto produttore del genere) e poi un'icona della commedia sexy, contendendo alla meranese di nascita Gloria Guida il primato di attrice più bella degli anni '70 tra quelle operanti in Italia. Da inizio secolo si dedicherà alla carriera di produttrice con titoli di caratura internazionale quali il bellissimo giallo Ore 11:14 – Destino Fatale (2003) di Greg Marcks e Il Mercante di Venezia (2004) con Al Pacino. Si nota poi nel cast tecnico, quale operatore di macchina, un Giancarlo Ferrando alle prime esperienze dopo aver mosso i primi passi quale manager di produzione. Diventerà uno dei direttori della fotografia più ambiti del cinema di genere; molte le sue collaborazioni con Sergio Martino (pressoché presente in tutti i suoi film) e Michele Massimo Tarantini (cugino di Martino). Debutterà in quest'ultima veste con il magistrale Tutti i Colori del Buio (1971), proprio con la Fenech splendida protagonista. È tuttora attivo, ricordiamo l'apporto al film di Castellari Caribbean Basterds – Caraibi & Bastardi (2010) e il suo ultimo lavoro, ci pare giusto nell'ideale testa coda nella sua filmografia, quale direttore delle luci in Di Tutti i Colori (2014) di Max Nadari. La colonna sonora, di Carlo Savina, si avvale della voce dell'inconfondibile Raoul. Di difficile reperibilità, non certo un western di grande rilievo, ma di culto per alcune idee innovative inserite nel copione e per un certo coraggio nella messa in scena. Ne parla bene spaghettiwestern.altervista.org che evidenzia la presenza di svariati risvolti gialli e una certa cura nel dare importanza ai personaggi femminili. Ignorato all'estero.

973 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Prima del solstizio d'estate esce anche Quinto: non Ammazzare (1969), affidato al vecchio Leon Klimovsky. Si tratta di una microscopica coproduzione italo-spagnola di cui Aldo Pace, reduce da Lola Colt (1967), è il promotore principale. Il copione porta la firma dello sconosciuto Dino De Rugieriis, debuttante che scriverà nello stesso anno anche lo script di 36 ore all'Inferno (1969) per poi sparire nel nulla. Il soggetto non propone grandi innovazioni. È un western violento e truce, ma con alcune buone idee. Tra queste figura il travestimento da lebbrosi che mettono in atto i banditi per compiere una rapina ai danni di una banda. Cattivo numero uno è il caratterista Alfonso Rojas, il quale porta la banda a rifugiarsi all'interno di una locanda anche perché qualcuno farà sparire il bottino all'insaputa dei compagni con sospetti che inizieranno a serpeggiare tra i componenti della banda. La cittadina, intanto, si ribella e assolda un pistolero (Giuseppe Cardillo) incaricato di recuperare il bottino, mentre i componenti della banda inizieranno a eliminarsi tra loro. Il film gode di discreto ritmo ed è forse tra i più riusciti di Klimovsky, soprattutto per via dei risvolti gialli e dei colpi di scena legati alla scomparsa del bottino rapinato. Il protagonista Cardillo, aka Steven Tedd, debutta nel cinema proprio con questo film. Ne farà un altra dozzina per poi dedicarsi ad altro già dal 1975. Tra i titoli più conosciuti ricordo i western La Belva (1970) e Reverendo Colt (1970) quest'ultimo ancora di Klimovsky. Cammei per Raf Baldassare e Roberto Camardiel, ruolo femminile per Sonia Romanoff. Musiche di Umiliani. L'hanno visto in pochi. Non è ben chiaro capire quando sia uscito l'ultimo film diretto da Vincenzo Musolino, deceduto nel maggio del 1969, si sa solo che la lavorazione di Quintana (1969) ha avuto inizio a fine ottobre. Il film, complice il decesso del suo produttore, nonché sceneggiatore e regista (ad appena trentanove anni), finisce subito nel dimenticatoio. Non è neppure nel database di filmtv. Si sa solo che propone un personaggio in stile zorresco (usa un foulard sulla bocca), su cui pende un ingente taglia, inserito all'interno di una banda che lotta a favore dei peone contro il governatore del Messico. Non manca poi il tentativo del governatore di conquistare l'amore di una donna (Femi Benussi) che non lo corrisponde, facendo carcerare, ingiustamente, il fidanza974 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

to della stessa con l'accusa di omicidio, in modo da costringere la ragazza a sposarlo. Interverrà Quintana a fare giustizia. Il cast artistico è assai povero. Protagonista è un tale George Stevenson, pseudonimo di un attore che Marco Giusti identifica in Osvaldo Ruggeri, doppiatore e attore in una ventina di film, mentre imdb lo traduce come Tony Dimitri, conosciuto quale Yanez nella mini serie interpretata da Gigi Proietti Le Tigri di Mompracem (1971) e già visto nel demenziale Due Mafiosi nel Far West (1964). Spaghettiwestern.altervista.org giudica il tutto “un minestrone al di sotto della mediocrità” addirittura ispirato da I Promessi Sposi di Manzoni, con un protagonista che scimmiotta un po' Eastwood e un po' Zorro. Giudizio negativo anche sulla regia e per un cast artistico “poco carismatico”. L'hanno visto in pochissimi e non è neppure facile trovarlo. Oggetto misterioso. Si entra in estate ma nessuno sembra più voler produrre uno spaghetti-western di calibro, ormai si comincia concretamente a pensare che sia finita. A luglio non esce neppure un western, ad agosto invece ne escono solo tre di cui uno frutto di un lungo calvario. Si tratta addirittura della risultanza di due registi e di due distinte produzioni, l'una subentrata all'altra. Il film è Dio Perdoni la mia Pistola (1969) che il pasticcione Mario Gariazzo inizia addirittura nel 1966 col titolo L'Uomo dai Dadi d'Oro per poi sospendere le riprese a causa del mancato pagamento del protagonista (Wayde Preston). Il materiale resta in un cassetto per due anni, fino a quando Paolo Moffa (Starblack e Sono Sartana il Vostro Becchino) acquista il pacchetto, costituito dal materiale girato e dalla sceneggiatura, e lo affida a Leopoldo Savona per terminare il film. Dunque una pellicola frankenstein con Savona e il suo entourage costretti a sopperire all'assenza di Preston, ad adattare il copione di Gariazzo alle nuove esigenze e a rimettere le mani sul materiale girato, usando vecchie inquadrature di Preston e controfigure riprese di spalle pur di poter portare avanti il narrato. Peccato davvero perché il cast artistico non è male, così come alcune soluzioni adottate dal protagonista. Lo vediamo dotarsi di uno specchietto collocato sul cappello in modo da permettergli di sparare a chi si trova alle sue spalle. Ha inoltre una stampella che diventa arma da fuoco e adotta svariate soluzioni che, secondo alcuni (qualora facessero parte del girato del 1966), anticiperebbero Sartana (a mio avviso sono state girate dopo, dato che il produttore è lo stesso). La storia 975 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

invece non aggiunge molto a quanto si sia già visto. Abbiamo un ranger (amante dei travestimenti) impegnato nelle indagini di un omicidio attribuito a un presunto assassino che in realtà si rivelerà innocente. Tra gli attori molti volti noti: Loredana Nusciak, Dan Vadis (è il bulletto antagonista che ha fatto impiccare un innocente per coprire un suo assassinio), Livio Lorenzon, José Torres e Riccardo Pizzuti. Direttore della fotografia Stelvio Massi. Le musiche sono riciclate. Spaghettiwestern.altervista.org lo trova lento e prevedibile: complessivamente una pellicola mediocre. Sempre ad agosto esce il secondo western prodotto da Scardamaglia e da Guerra per Alberto Cardone, sempre con Brett Halsey protagonista, si tratta di 20.000 Dollari Sporchi di Sangue (1969), conosciuto anche come Kidnapping! Paga o Uccidiamo Tuo Figlio. La sceneggiatura viene firmata ancora una volta dal duo Guerra-Cardone, cui si aggiunge Vittorio Salerno di ritorno al genere dopo i copioni de 1.000 Dollari sul Nero (1966) e Una Pistola per Cento Bare (1968). Cardone è ormai stanco, ha già diretto cinque western e detto quello che aveva da dire. Sceglie di dare un risvolto giallo alla trama e di puntare sulle caratterizzazioni dei personaggi. Protagonista è un ex sceriffo decadente e ubriacone (Halsey), ritenuto colpevole di aver determinato la morte dei propri familiari e per questo cacciato dal paese e destituito. L'uomo si ritrova a indagare privatamente sul rapimento di un bimbo, perché in paese tutti lo pensano il mandante del delitto. Riuscirà così a risolvere il caso, scoprendo che sia il rapimento sia la morte della propria famiglia sono frutto del lavoro dietro le quinte del nuovo sceriffo, cui da corpo Germano Longo, supportato da una banda di delinquenti che rispondono agli ordini del vecchio Fernando Sancho. Film piuttosto quadrato, ma lento e senza soluzioni registiche che lo facciano ricordare. Cardone non tenta di innovarsi, resta legato agli stilemi dei primi spaghetti-western. Torna infatti a costruire una storia attorno alla famiglia e più precisamente forgiando la caratterizzazione del protagonista in base agli effetti determinati dalla disgregazione familiare e dai sensi di colpa. Abbiamo così un eroe proiettato verso una spirale di abbandono e trasando da cui però riesca a riscattarsi. Halsey continua con il suo procedere indolente e triste, sulla falsa riga del precedente L'Ira di Dio. Musiche di Lacerenza senza infamia e senza lode. È un film sufficiente, ma che si può ignorare. 976 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Piuttosto latente anche l'azione, a causa della scelta di costruire un'evoluzione graduale (e piuttosto ripetitiva) fino allo scoppio della violenza finale. Spaghettiwestern.altervista.org scrive: “Cardone delude le aspettative.” Sufficienza striminzita in tutti i settori per 800spaghettiwesterns.blogspot.it. “Piuttosto lambiccato e inconcludente, sia sul lato moralistico che su quello dell'azione” è il laconico commento di filmtv. A fine agosto esce Garringo (1969), il nuovo western targato Marchent. Lo scrive il più esperto dei fratelli, Joaquìn, mentre lo gira Rafael avvalendosi ancora una volta dei capitali versati da Salvatore Alabiso, questa volta in società con lo spagnolo Norberto Solino. Quest'ultimo, dopo esser cresciuto come manager della produzione nei western prodotti da Alberto Grimaldi, ivi compresi Per Qualche Dollaro in Più (1965) e Il Mercenario (1968), tenta di passare al ruolo di produttore vero e proprio. Tornerà in seguito sui suoi passi, senza più fare investimenti in prima persona. La pellicola viene messa in piedi con un budget modesto che però non penalizza il risultato finale. Alex Cox addirittura considera il film il capolavoro di Rafael Romero Marchent, opinione che non condivido affatto ritenendogli superiori almeno tre altri titoli del regista. Al di là delle opinioni personali, resta uno spaghetti-western onesto che si guarda con piacere. Il merito della considerazione riservata a questa pellicola è attribuibile, oltre a un cast artistico formato da volti noti dello spaghettiwestern di serie B (oltre al trio protagonista ci sono anche i caratteristi lanciati da Alberto Grimaldi: Raf Baldassarre e Lorenzo Robledo), al discreto lavoro di caratterizzazione dell'antagonista. Coadiuvato dal quasi debuttante Giovanni Scolaro (al suo secondo film, farà poco di rilevante in seguito), Joaquìn R. Marchent scrive uno dei western più americani della sua produzione. Ancora una volta prende le mosse dalla famiglia e propone un personaggio che crede nell'inviolabilità della legge, affiancandolo a un altro accecato dall'odio e che vuole solo la vendetta. Per i Marchent si tratta di temi ricorrenti fin dai tempi de I Tre Spietati (1963), ciò che viene a mancare quasi del tutto è la componente melodrammatica sacrificata in favore di un ritmo e di un tasso di azione assai superiore rispetto ai canoni ispanici. 977 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

La particolarità del film ricade sulla caratterizzazione dell'antagonista, un ottimo Peter Lee Lawrence già visto in ruoli del genere. Dopo ...E Divenne il più Spietato Bandito del Sud (1967) e I Giorni della Violenza (1967), all'attore tedesco viene riservato il solito ruolo del giovane dalla faccia d'angelo, apparentemente educato e gentile al punto da esser visto come un ragazzo modello dalla famiglia, ma che in realtà è un capobanda che trucida i nordisti sia per rubar loro i carichi d'oro, sia soprattutto per vendicare il padre assassinato sotto i suoi occhi quando era ancora bambino (lo vediamo nel prologo). Marchent spinge sulla componente psicopatica del giovane, facendogli strappare i gradi agli ufficiali morti (che porterà come trofei sulla tomba del padre) e facendogli scrivere, a mo' di firma dell'omicidio, delle frasi di scherno sulla scena dei vari delitti. Un modus operandi da serial killer moderno, un uomo che uccide simbolicamente tutte le volte colui che ha assassinato il padre, appunto un ufficiale nordista. Marchent, in modo sottile, costruisce la personalità di questo giovane, quasi a curarne i contorni. Così gli fornisce un'etica di azione, un sincero attaccamento alla famiglia di adozione (in particolare alla sorellastra, cioè la tedesca Solvi Stubing) e un look da gentiluomo con tanto di vistoso anello. Lo vediamo rispettare i patti con i complici (lo stesso non potrà dirsi degli stessi che gli si rivolteranno contro), salutare i concittadini ed essere gentile con le donne (regala persino un vitellino a una ragazza ricca). Naturalmente, come ogni assassino seriale degno di tale nome, non si farà pregare nell'eliminare tutti coloro che si frapporranno alla sua delirante missione di uccidere i nordisti. La firma dei Marchent appare evidente nelle prime sequenze, con un bimbo che soffre per la morte del padre e che viene raccolto e allevato da un uomo di valori che poi diventerà sceriffo. Questa figura ha un ruolo determinante per il film, perché funge da elemento di collegamento tra la follia dell'antagonista e la giustizia sommaria che anima il protagonista. Marchent, da grande appassionato di western hollywoodiani, introduce quel modello di sceriffo di stampo americano legato alle procedure e alla giustizia costituita. A dar corpo allo sceriffo c'è l'eccelso José Bòdalo, che i più ricorderanno come il leader dei messicani in Django (1966), ma che qua riesce a distinguersi molto bene in un ruolo diametralmente opposto. Ben vestito, ligio alla legge e con comportamenti perfettamente nelle righe, agirà per far emergere la verità e metterà alla sbarra il figlioccio senza battere ciglio e 978 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

prendendosi colpe che non ha. Difatti lo vediamo turbato dal rimorso di avergli insegnato a sparare in tenera età e di non esser stato capace di trasmettergli i giusti valori (ancora una volta si sottolinea il ruolo educativo della famiglia). Intanto, per interrompere la catena omicida, l'esercito farà uscire dal carcere Garringo, un reietto, ex ufficiale che si porrà sulle tracce del killer. Qua abbiamo l'anima del western italiano di serie B alla Mulargia, tanto per citarne uno, e a rappresentarlo non poteva che non esserci il granitico Anthony Steffen, nella circostanza più funzionale del solito (ottimo nelle scene di azione) in quanto chiamato a interpretare un protagonista anticonvenzionale. Garringo infatti, seppur onesto, non è molto dissimile all'antagonista. Agisce in modo grezzo, tortura i complici dell'uomo che va cercando e non si perita a ucciderli a sangue freddo, perché anche loro hanno fatto altrettanto con i suoi compagni di divisa. Purtroppo Marchent non presta la stessa attenzione dimostrata per l'antagonista e abbozza la figura di questo pistolero infallibile e di poche parole. Spiega molto velocemente il motivo per cui a inizio film si trovi in carcere (ha ucciso degli uomini a causa dei suoi metodi brutali e lapidari) e non gli fornisce un background psicologico. Dunque sembra una sorta di cyborg che deve ultimare la sua missione. Non a caso è del tutto privo di ironia, non lascia trapelare alcuna emozione ed è animato da un profondo odio nei confronti del killer. Questo odio verrà stemperato solo verso la fine, per una sorta di riconoscenza nei confronti dei familiari del killer. Questi ultimi infatti lo hanno curato dopo un pestaggio subito, ragion per cui si impegnerà con loro di non uccidere il giovane. La promessa però servirà a ben poco, poiché la parabola discendente dell'antagonista sarà tale da spingere altri bounty killer sulle sue traccie oltre a dei vecchi complici un po' troppo avidi. Lo script, nonostante Marchent tenti di mischiare più volte le carte per rendere la storia imprevedibile, presenta degli evidenti buchi narrativi. In particolare non si cura l'involuzione psicologica dell'antagonista, ma si passa direttamente dalla spensierata infanzia a quando è già adulto. Poco chiaro è inoltre il motivo per cui, dopo esser scappato dal villaggio a seguito dell'arrivo di Steffen, Lee Lawrence vi rifaccia ritorno, così come è un po' forzata l'insubordinazione finale degli uomini del killer che si schierano contro lo stesso. 979 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

La regia non è innovativa, ma comunque discreta sebbene il ritmo non sia dei più solleciti, così come le sparatorie non abbondino. Tra le sequenze più belle, anche per le bellissime scenografie boschive su cui svettano le rovine in muratura del monastero di El Cercòn (che saranno riprese un paio di anni dopo dall'horror spagnolo Le Tombe dei Resuscitati Ciechi), cito quella in cui Steffen lega a un tronco, in orizzontale, le braccia di un complice di Lee Lawrence, facendolo poi cavalcare come fosse crocefisso. È duro Marco Giusti nel giudicare il lavoro di Rafael Marchent, lo ritiene non all'altezza della storia in quanto tendente a banalizzare un po' tutto. Le musiche sono nella media, curate da Giombini; bella la fotografia di Aldo Ricci, operatore di macchina in Per Qualche Dollaro in Più (1966), alle prime esperienze da direttore della fotografia, che si specializzerà poi come capo squadra dei macchinisti. Il film è considerato tra i migliori western di seconda fascia ed ebbe un successo medio al punto da avere un sequel apocrifo: Sei già Cadavere Amigo... Ti Cerca Garringo! (1971) di Juan Bosch, con Richard Harrison protagonista. Tutt'oggi sono in molti a considerarlo sopra la media, da Betts a Mangini che lo cita (tra i pochi film) all'interno del proprio documentario La Voce del Western. Lo stesso Anthony Steffen lo riteneva uno dei suoi migliori film, tanto da conservarne una locandina formato cinema. Addirittura su un sito generico come imdb.com gli viene dato un sette pieno in pagella. Vengono dunque da sé gli elogi dei siti specializzati come spaghettiwestern.altervista.org dove si parla (assai generosamente) di capolavoro ben narrato e ottimamente girato con un cast di attori molto bravi. Esprime apprezzamenti addirittura superiori lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it che lo inserisce in quindicesima posizione nella classifica dei migliori spaghetti-western mai realizzati, concedendogli un otto e mezzo in pagella con punte di nove per la regia, la sceneggiatura e le interpretazioni. L'appassionato spagnolo lo reputa il miglior western diretto da un regista iberico, dopo Condenados a Vivir (1971) di Joaquìn R. Marchent, e la migliore interpretazione di Peter Lee Lawrence. Più equilibrato spaghettiwesterns.1g.fi che si limita a indicarlo come uno dei migliori western interpretati da Steffen e pone l'attenzione sul fatto che il protagonista appare in più circostanze più spietato dell'antagonista, con mutamenti comportamentali che li rendono entrambi ora dolci e ora 980 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

crudeli. Per il sottoscritto resta un western onesto di seconda fascia, girato con pochi soldi, ma ben messo in scena e con qualche idea innovativa; non certo un capolavoro. A settembre è la volta di Due Volte Giuda (1969), terzo e ultimo western di Nando Cicero, a mio avviso il meno riuscito del trio (c'è chi sostiene che sia il migliore). Si tratta di una sorta di gemello del secondo western di Cicero ovvero Professionisti per un Massacro (1967). Difatti il cast tecnico, così come la produzione (una cordata di imprenditori italo-spagnoli tra cui il regista Alfonso Balcàzar e Oreste Coltellacci), sono pressoché identici e sono il risultato di un accordo firmato nel 1966. La sceneggiatura, tuttavia, perde nomi importanti. Non ci sono più Roberto Gianviti e Vincenzo Dell'Aquila. Il primo è coinvolto in un lotto di commedie e spy story che lo sottraggono del tutto dai western, il secondo è impegnato a dirigere in prima persona soggetti personali. Resta dunque lo spagnolo Jaime Jesùs Balcàzar che si unisce al regista per la scrittura del copione. Ne esce fuori un western dai forti contorni gialli sviluppati però in modo piuttosto confusionario, in virtù di una sceneggiatura che butta nel calderone troppi argomenti che poi non riesce a gestire in modo adeguato. Così abbiamo un protagonista, interpretato da Antonio Sabàto, alle prese con un vuoto di memoria talmente grave da non ricordare nulla del passato. Questa è la tematica principale che evolve poi nei territori del revenge movie, col protagonista alla caccia di un misterioso killer, chiamato Dingus, che gli ha ucciso la moglie. Così tra intrighi da spy story (il nostro scoprirà di esser stato ingaggiato per uccidere il proprio fratello), falsità, cronache di guerra e indagini personali vedremo il protagonista impegnato nel tentativo di ricostruire gli eventi precedenti alla sua perdita di coscienza, e più nel dettaglio a capire chi sia la donna raffigurata in sua presenza nel medaglione di cui è entrato in possesso e comprendere come la stessa sia morta. A questo sviluppo di trama se ne aggiunge un secondo incentrato sulla crociata portata avanti da colui che sostiene di essere il fratello del protagonista, ovvero un uomo freddo ben incarnato da un glaciale Klaus Kinski. Quest'ultimo è schierato contro lo strapotere delle banche, per ostacolare gli acquisti dei terreni della zona voluti dalle stesse. Il suo però non è un fine dovuto a un amore patriottico, ma una spinta riconducibile al desiderio di onnipotenza che lo pone al di so981 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

pra persino della banca (pratica aiuti ai contadini, ma a tariffe da strozzino). Non a caso, pur di concretizzare i propri fini, farà uccidere da un gruppo di pistoleri che tramano nell'ombra tutti coloro che non la pensano come lui. “Ti sei messo contro il progresso e non c'è forza umana che possa arrestarlo!” gli urlerà dietro il rappresentate della banca, indispettito per essere danneggiato dal rivale. Si badi bene, entrambi i soggetti (il banchiere e il protettore delle terre) hanno caratterizzazioni negative. È eloquente la sequenza in cui il banchiere, avendo davanti a se la figlia di un proprietario terriero assassinato da Kinski, non perderà occasione per farle firmare un bel contratto di compravendita avente a oggetto le terre ereditate. A tutto questo si aggiungono ulteriori sotto trame, male sviluppate e talvolta deliranti, che hanno nel razzismo e soprattutto negli abusi perpetrati a danno dei sudisti a opera dei nordisti i loro temi. “Sono stati i nordisti a uccidere tua moglie” dirà Kinski al protagonista, per avvicinarlo a sé e porlo contro la banca. Lo convincerà altresì di essere suo fratello, in modo da poterne controllare i progressi del suo stato di salute mentale e indirizzarne i comportamenti (qualcosa del genere si vedrà anche in Ciakmull di Barboni). Solo un vecchio dottore, interpretato da Pepe Calvo, conosce la vera storia, ma, in modo poco comprensibile (sebbene alla fine cercherà di spiegare la ragione della propria omertà), non rivelerà nulla per tutto il corso del film limitandosi a frasi ambigue come la seguente: “Quando un uomo arriva a sapere tutto della vita, è come se fosse già morto!” Nel finale Kinski, per giustificare i propri omicidi e ricordando le proprie origini indiane, arriverà persino a delirare: “Questa terra era degli indiani e io ho fatto quanto era nel mio diritto per riprendermela! Quanto sopra potrebbe far pensare a un film piuttosto interessante e invece questo è solo parzialmente vero. I buchi di sceneggiatura, purtroppo, sono molteplici e in alcuni casi troppo marcati e incomprensibili, specie quelli relativi ai flashback in cui appare Kinski (addirittura lo vediamo confabulare con gli yankee e contro i suoi stessi parenti senza che nel corso del film se ne spieghi la ragione). Viene poi fatta cadere nel nulla la lotta tra Kinski e i banchieri, così come è assurdo il fatto che gli uomini di Kinski si limitino a pestare un Sabàto sempre più vicino alla verità quando invece avrebbero potuto tranquillamente ucciderlo addossando poi la responsabilità ai banchieri nel frattempo protetti da una squadra di mercenari armati fino ai denti. Dunque ci troviamo ad affrontare difetti troppo grandi per non 982 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

minare un prodotto altrimenti ben messo in scena e visivamente interessante. Abbiamo, sulla carta, un bel prologo col protagonista ferito tra i canyon, sdraiato accanto a un cadavere di cui non si sa niente e che forse potrebbe aver ucciso lui stesso prima di perdere la memoria (il mistero sarà risolto in seguito). Purtroppo anche qua si manifesta un difetto troppo stucchevole per non infastidire. Cicero mette in scena una serie di avvoltoi che calano sul corpo del morto, rubando e montando in modo dozzinale immagini prese dai documentari. Inutile dire che il tutto prende così una piega dal gusto amatoriale. Cicero farà meglio nel corso della pellicola, regalando anche un'ottima sequenza in pieno deserto con Sabàto che salverà Kinski da un cecchino. Le interpretazioni non eccellono, ma sono sufficienti. Sabàto da vita a un pistolero infallibile che spara con la mano opposta a quella preferita (perché ha subito una lesione alla testa), ma che è sempre incazzoso (ironia manco a parlarne) e piuttosto inebetito nello sguardo. Più freddo del solito Kinski, anche se non rinuncia a qualche scatto di pazzia. Di contorno gli altri attori, tra i quali segnalo la diciannovenne Claudia Rivelli (partecipazione in flashback per lei: è la moglie del protagonista). Meglio conosciuta come la sorella di Ornella Muti (notevole la somiglianza estetica tra le due), la Rivelli, alla sua unica esperienza cinematografica, viene pescata dal mondo dei fotoromanzi (poserà in più di quattrocento puntate quasi tutte da protagonista) e degli spot pubblicitari. Le musiche del maestro Pregadio sono discrete. È invece ottima la fotografia del sempre bravo Francisco Marin, qua assistito dall'operatore culto Aristide Massaccesi (in arte Joe D'Amato). In definitiva è un western gradevole e con qualche idea buona (protagonista smemorato, lotta contro i banchieri), ma sviluppato in modo disordinato e inidoneo a massimizzare il potenziale di cui il soggetto era dotato. Consigliato a chi abbia visto gli spaghetti-western principali e ancora non sia sazio. Non è apprezzato dai più per via di un ritmo non sempre sollecito (su imdb.com non raggiunge il cinque in pagella), ma ha vari estimatori illustri. Il francese Jean-François Giré lo reputa interessante e ben diretto; Marco Giusti invece sottolinea un certo fascino sotto il profilo visivo. Spaghettiwestern.altervista.org critica la sparatoria finale, ma per il resto si dice soddisfatto sia delle interpretazioni (“alta qualità”) che del tasso adrenalinico (“ottime scene d'azione”). Tre stelle anche per filmtv.it, una e 983 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mezzo per il Morandini che però, stranamente (sia per il voto che per i difetti oggettivi del film), sostiene che “la storia sta in piedi”. Tra i detrattori un Thomas Weisser a cui non vanno a genio i buchi narrativi: confuso senza averne bisogno e noioso; e soprattutto un 800spaghettiwesterrns.blogspot.it severo oltre il dovuto che gli piazza un tre in pagella. 9.2 Gli acuti degli ultimi tre mesi dell'anno. I migliori western della stagione sono praticamente tutti concentrati negli ultimi tre mesi dell'anno. Si tratta di western discreti ma che, salvo rare eccezioni, non si avvicinano ai top toccati dal 1968 e neppure a quelli del 1967. Anche se esce un film come Tepepa che abbiamo già trattato nel precedente capitolo. Sono per lo più i western gotici o quelli surreali di Parolini e Carnimeo ad andare per la maggiore, c'è persino chi, come Baldi, tenta di rispolverare la commistione tra western e tragedia greca. Vediamo nel dettaglio tutti questi film. EHI AMIGO... C'È SABÀTA, HAI CHIUSO! Produzione: Italia 1969. Prodotto: Alberto Grimaldi (Pea). Regia: Gianfranco Parolini (Frank Kramer). Soggetto e Sceneggiatura: Gianfranco Parolini e Renato Izzo. Interpreti Principali: Lee Van Cleef, William Berger, Franco Ressel, Ignazio Spalla (Pedro Sanchez), Aldo Canti (Nick Jordan), Linda Veras, Claudio Undari (Robert Hundar), Luciano Pigozzi (Alan Collins), Giovanni Cianfriglia (Ken Wood), Marco Zuanelli, Romano Puppo. Fotografia: Sandro Mancori. Musiche: Marcello Giombini. Sottogenere: Eroi solitari in villaggi stranieri. Durata 109 min. Giudizio Mancini: *** Giudizio Morandini:*1/2

984 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

La trama Forestiero tutto vestito di nero (Van Cleef) chiamato Sabàta recupera 100,000 dollari rapinati da un gruppo di banditi a una banca locale e ottiene la ricompensa di 5,000 dollari. Non contento indaga sul caso e scopre che dietro al colpo ci sono il banchiere stesso e altri rispettabili uomini di potere che prendono ordini da un effeminato dandy (Ressel) che vive in un villone costellato da armature e da strani marchingegni usati per i suoi giochi sadici. Il pistolero decide così di ricattare i responsabili del colpo i quali però, in tutta risposta, cercheranno di ucciderlo assumendo sicari e assassini, ma ottenendo in cambio la morte dell'ingaggiato di turno e l'aumentare della quota richiesta da Sabàta. Un vecchio compagno di avventura del protagonista (Berger), che è solito suonare un banjo che all'occorrenza si trasforma in fucile, attende intanto di entrare in azione per mettere le mani sul bottino recuperato da Sabàta. Aiutato da un messicano ubriacone (Spalla) e da un mezzosangue acrobata (Canti), il nostro però avrà la meglio su tutta la compagnia, piegando per ultimo proprio il vecchio compagno. Il commento Dopo aver dato avvio alla fortunatissima saga "Sartana", Gianfranco Parolini, in arte Frank Kramer, strappa l'interesse del blasonato Alberto Grimaldi e compie un netto balzo in avanti nella qualità dei suoi prodotti. Il successo inatteso di “...Se Incontri Sartana Prega per la tua Morte” lo porta a esser considerato un regista di primo livello nel panorama western italiano, soprattutto per la sua verve frizzante e più orientata allo spettacolo scanzonato piuttosto che a quello crudele o politicamente impegnato. Grimaldi si assicura così una collaborazione che prevede la realizzazione di altri due western: un sequel di Sabàta e Indio Black sai che ti dico: Se un Gran Figlio di... (1970) per il quale verrà ingaggiato nel ruolo di protagonista niente meno che Yul Brynner. Il coinvolgimento diretto di Grimaldi garantisce a Parolini budget precedentemente impensabili. La Pea d'altro canto scommette molto sul regista romano, al punto da affidargli il compito di girare l'unico western realizzato nell'annata, concentrando gli sforzi maggiori su due capolavori autoriali del calibro di Fellini Satyricon e Queimada affidati rispettivamente a Federico Fellini e a Pontecorvo. 985 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Grimaldi offre a Lee Van Cleef, suo attore di punta nel genere e reduce da Al di là della Legge (1968) di Stegani, il ruolo di primo protagonista, ma l'attore americano tentenna non essendo convinto delle qualità del regista. Parolini però non ci sta, convince Van Cleef ad andare al cinema con lui e gli fa vedere il macaroni combat 5 per l'Inferno (1968) girato pochi mesi prima. Van Cleef ne resta soddisfatto e accetta. Ha inizio così la stesura di soggetto e sceneggiatura. Parolini si avvale del fido Renato Izzo (al suo secondo film col regista dopo Sartana), e tira fuori l'ennesima pellicola scatenata con tutte le diavolerie tipiche dei precedenti lavori. Ancora una volta, a farla da padrona, abbiamo un protagonista tutto vestito di nero, a metà strada tra un prestigiatore e un giustiziere privato, che beffeggia i rivali con movenze da bounty killer leoniano. Il soggetto è ridotto all'osso, meramente strumentale a portare in scena i non convenzionali personaggi del regista. Tutto ruota attorno a una rapina da 100.000 dollari computa da alcuni malviventi. Sabàta si lancia alle calcagna dei banditi e recupera il malloppo, ottenendo, dalla banca interessata, una percentuale sul valore del carico offertagli come premio. Il pistolero però pensa in grande e agisce sempre sul filo della legge. Si mette a indagare sul colpo finché non scopre il coinvolgimento, in qualità di mandanti, dei soliti insospettabili uomini di potere (tra cui i banchieri stessi). A questo punto, anziché denunciarli, pretenderà dei compensi che cresceranno sempre più per colpa dell'atteggiamento ostruzionistico dei ricattati. Questi, infatti, invece di cedere alle pressioni cercano di fare uccidere il loro ricattatore contattando i più bizzarri assassini (mercenari, banditi, sicari, falsi preti) fino a dover rinunciare a tutti i 100.000 dollari che finiranno nelle tasche di Sabàta stesso. Una soluzione narrativa che sarà ricalcata da molti altri film, tra tutti l'eccezionale sorrisi & cazzotti Altrimenti ci Arrabbiamo (1974). Se il soggetto è abbastanza mediocre, Parolini è bravissimo nel confezionare dei dialoghi conditi da un marcato umorismo nero e soprattutto dimostra un'inventiva superiore alla media nelle caratterizzazioni e nel proporre degli omicidi originalissimi. La regia è spassosissima (carrellate, zoom, personaggi seguiti da vicino), con escamotage visivi brillantissimi. Tra questi spicca la scena in cui Van Cleef utilizza una cornice di un quadro per nascondersi all'interno e sorprendere gli assassini oppure quelle in cui Parolini sfrutta gli specchi 986 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

per offrire inquadrature elaborate. Il regista è altresì perfetto nello scandire un ritmo sollecito che non scende mai di tono. Un ulteriore elogio a Parolini va speso per la sua grande capacità nel gestire un inesauribile campionario di attori senza destare confusione nello spettatore. Anzi, il regista romano massimizza il tutto differenziando l'uno dall'altro i vari personaggi tutti sopra le righe. Sabàta va in giro con giacca, gillet, cravatta, cappello e un impermeabilone nero, dando l'impressione di essere un'evoluzione in chiave ironica del Mortimer interpretato da Van Cleef in Per Qualche Dollaro in Più (1965). Infatti, oltre a sparare con una bizzarra pistola da taschino munita di tre canne (reminiscenza di Sartana), usa un fucile dotato di una prolunga a forma di canna (!?) che gli permette di superare in gittata la distanza coperta da un normale winchester. L'attore americano è perfetto per il ruolo, anche se perde un po' quell'alone da vecchio uomo di mondo a vantaggio di un taglio più ironico e diabolico. Notevole al riguardo, anche per regia e montaggio, la sequenza in cui Van Cleef sparerà sul banjo di Berger, perché infastidito dal suo continuo strimpellare. “Eri fuori tempo...!” gli dirà per smorzare i toni. Ottima la scelta di Parolini di effettuare un'alternanza di primissimi piani sugli stivali dei due pistoleri che avanzano, uno sulle scale e l'altro a terra, intervallati dal volto di Linda Veras, la donna che stravede per entrambi e che avverte la tensione del momento. Per le diavolerie invece è geniale l'uccisione di Luciano Pigozzi nei panni di un falso prete. Sabàta lo ucciderà porgendogli una borsa con all'interno una pistola col grilletto collegato a una corda tenuta in mano da Sabàta stesso. “È un'offerta per la chiesa” gli dirà. Il gesto di afferrare l'oggetto porterà così la pistola a esplodere il colpo mortale. Assassinio articolato e fantasioso, ma le diavolerie di Sabàta non si fermeranno a questo. A fare da spalla al protagonista abbiamo un'insolita coppia. Il primo e più preponderante componente è il bravissimo caratterista Ignazio Spalla, accreditato con il nome spagnolo di Pedro Sanchez, a cui viene affidato un ruolo da messicano ubriacone alla Fernando Sancho. Così lo vediamo ridere a crepapelle, sponsorizzare di continuo Sabàta, oltre che spulciarsi e scagliare coltelli che tiene dietro alla nuca. Un ruolo perfetto per uno specialista del genere come era il quarantacinquenne attore toscano, già avvezzo a ruoli di questo tipo (penso a Thompson 1880). 987 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Il secondo soggetto è l'acrobatico e muscolare stuntman Aldo Canti, nei panni di Gatto Mammone, un mezzosangue con capelli raccolti in una coda, così chiamato perché vive sui tetti e miagola alla luna (!?). Canti, portato da Parolini dal set de 5 per l'Inferno, è al debutto nel genere. Cresciuto nel peplum grazie a un fisico scultoreo e al contempo asciutto, era all'epoca tra i più spettacolari acrobati di Cinecittà nonché buttafuori di alcuni locali trasteverini. Dotato di un carattere schivo, silente e piuttosto enigmatico, aveva debuttato poco più che ventenne come gladiatore ne I Dieci Gladiatori (1963) diretto proprio da Parolini, proseguendo poi come controfigura e comparsa nel genere con una mezza dozzina di pellicole. Era stato ancora Parolini a promuoverlo a un ruolo di primo piano con il folle fantasy I Fantastici 3 Supermen (1967) e il già citato 5 per l'Inferno. In Ehi Amigo... C'è Sabàta, hai Chiuso Canti salta e compie capriole spettacolari per tutto il corso del film senza mai proferire battuta. La sua è dunque una presenza fisica, impreziosita da un volto e da pose a braccia conserte che paiono estrapolate da un fumetto sugli indiani. Ahimè le doti atletiche Canti le metterà a frutto non solo al cinema, ma anche per altre imprese ben meno gloriose. Pur continuando la carriera da acrobata cinematografico in un'altra dozzina di film, farà parlare di sé soprattutto per una serie di condanne penali inflittagli per truffa, rapine, tentati omicidi, associazione per delinquere e detenzione e porto abusivo di armi. Uscirà di scena dal mondo cinematografico nel 1980 proprio a causa dell'irregolare tenore di vita che lo assorbirà sempre più. Finirà per esser conosciuto nell'ambiente della mala capitolina con il soprannome di Robustino, chiudendo la propria vita in modo tragico nell'inverno del 1990: ucciso con un colpo di pistola alla nuca nel galoppatoio di Villa Borghese. Il movente dell'assassino sarà collegato a un regolamento di conti connesso al mondo delle bische clandestine. Davvero un epilogo tragico per uno dei più spettacolari stuntman del nostro cinema, ben sfruttato da Parolini nella pellicola oggetto d'esame. Tra gli antagonisti, invece, spicca Franco Ressel. Lo abbiamo già incontrato con ruoli marginali in pellicole come L'Uomo, l'Orgoglio, la Vendetta (1968) di Bazzoni e Il Mercenario (1968) di Corbucci, ma qua lo ammiriamo in un ruolo di primo piano. È un dandy effeminato che controlla i complici con fare altezzoso, dispensando arroganti aforismi pescati dai libri che è solito leggere. “A me piace vivere in 988 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

completa esaltazione per la vita e la morte. Guardare in faccia l'aldilà senza temerlo, anzi godendone”. Dunque un personaggio narcisista che ricorda abbastanza Oscar Wilde, pur assumendone contorni malvagi e irrispettosi (uccide anche i complici). Vive nel lusso, in una villa arredata con mobilia antica e oggetti di lusso (ottima la scenografia del grande Carlo Simi). Ressel, con gli occhi freddi incastonati in un volto luciferino e al contempo tratteggiato da tratti nobiliari, caratterizza in modo magnifico questo personaggio dotato di un elaborato sadismo che raggiunge l'apice nei folli giochi di morte inscenati in uno studio contornato da armature e candelabri medievali. Lo vediamo sfidare gli avversari lanciandogli armi sul suolo, quindi nascondersi dietro alle armature per sparare dai fori in esse praticati. “Gli esseri dotati di facoltà superiori, e di conseguenza di poteri superiori, hanno sempre un'ultima carta da giocare” dirà sfidando a duello Van Cleef. Quest'ultimo però, prima di ucciderlo, non perderà occasione per dare sfogo alla sua ironia: “Su quella carta non avrei puntato nemmeno questo dollaro”, quindi lancerà la moneta sul tavolo andando a colpire in modo perfetto il grilletto di un'arma su esso adagiata. Una scena inverosimile, ma carina. Ressel si avvarrà di tutta una serie di killer assoldati per far fuori Van Cleef. Tra questi è curioso il ruolo offerto a Marco Zuanelli, un caratterista minore del genere western (farà appena dieci film). Il robusto e barbuto semi debuttante, qua piuttosto bravo, viene portato in scena quasi come se fosse un personaggio destinato ad avere una certa importanza nel film. Viene assoldato mentre litiga con la madre che lo reputa un fannullone, quindi apparire con convinzione alle spalle di Van Cleef e ridere a crepapelle. “Ehi Sabàta, quando finisco di ridere, sei morto!” purtroppo per chi lo ha ingaggiato farà subito una brutta fine, così come la faranno in diversi altri ridotti a un mero cammeo (Pigozzi, Puppo, Cianfriglia). C'è anche il grande Claudio Undari, che torna a lavorare con Grimaldi dopo i successi con Joaquìn R. Marchent, ma con un poco generoso cammeo. Lo ucciderà subito a inizio film Ressel in uno dei suoi sadici giochi. Tra questi due blocchi ben delineati, ovvero i buoni da una parte e i cattivi dall'altra, si pone il personaggio riservato a William Berger. Capelli lunghi, rossicci, atteggiamento da svampito rompi scatole. È una sorta di giullare, con tanto di peneri e campanacci cuciti sui pantaloni, che vive alle spalle della donna del saloon e se ne va in giro suonando un banjo che all'occorrenza si trasforma in fucile. Tutti cre989 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dono si tratti di un buffone, invece è un letale assassino un tempo compagno di avventure di Sabàta. Attenderà paziente il suo momento e cercherà di sfruttare a proprio vantaggio la situazione ingannando tutti quanti ovvero gli antagonisti che lo hanno assunto per uccidere Sabàta, i protagonisti che si sono accordati con lui per organizzare un finto duello dove Sabàta dovrà morire in pubblico (scena poi ripresa da Il Mio Nome è Nessuno) e persino la donna del saloon che lo ama e che lui scaricherà quando sarà sul punto di partire con i 100.000 dollari avuti in premio dagli antagonisti. Una vera e propria canaglia ottimamente interpretata dal simpatico Berger. Favoloso al riguardo il finale dove Sabàta stopperà l'amico complice, mentre lo stesso tenterà di darsi alla fuga col carico di soldi. Il suonatore di banjo, come Ramon de Per un Pugno di Dollari (1964), è un killer consuetudinario: spara sempre al cuore. Sabàta, da perfetto personaggio che ne sa sempre una più del diavolo, lo sorprenderà portandosi al cuore la borsa carica di soldi precedentemente riempita con un cumulo di sabbia sufficiente a frenare il colpo. Quindi gli farà saltare di mano l'arma e, alla fine, gli lancerà 10.000 dollari vicino ai piedi per poi sparare sullo spago che li teneva uniti e lasciarlo a inseguire le banconote portate via dal vento nel bel mezzo del deserto (con tanto di cactus). Davvero un bel finale, esaltato dai simpatici Spalla e Canti intenti a dividersi la loro quota col primo che urlerà a Sabàta: “Ehi, amigo, ma chi sei tu?” e l'altro, lanciato verso l'orizzonte, gli risponderà: “Non l'hai ancora capito!?”, mentre Canti impassibile se ne resta a braccia conserte. Linda Veras, al suo ultimo western dopo aver lavorato con Sollima (peraltro suo fidanzato dell'epoca), è la bellissima corteggiatrice sia di Berger che di Van Cleef che resterà alla fine a bocca asciutta. Crudelissimo Berger quando, dopo averla baciucchiata per tutto il film, la respingerà sul punto di abbandonare la città, sebbene lei si sia messa tutta in tiro, abbia i bagagli in mano e lo tenga per il braccio sorridente. “Te l'ho sempre detto che io ero di passaggio” il laconico saluto del musicista. Eccellente la fotografia di Sandro Mancori, imposto da Parolini stesso alla produzione. Mancori raggiunge l'apice nella lunga sequenza dell'assalto alla villa di Ressel con delle esplosioni visivamente spettacolari. Vediamo il palazzo illuminato da delle luci azzurre che contrastano nettamente sia con il nero del cielo, sia con la calda tonalità dei volti sia, soprattutto, con l'abbagliante giallo-rosso delle fiam990 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mate che si sprigionano dalle esplosioni. Belle anche le inquadrature in notturna con le lampade a petrolio che ondeggiano in un giallo ipnotico, soluzione ricalcata da Tarantino in Django Unchained (2013). Ritmatissima e scatenata anche la colonna sonora di Giombini, il cui main theme viene purtroppo rovinato dallo stucchevole ritornello che ripete di continuo il titolo del film. Il film ebbe un eccezionale successo commerciale che porterà Grimaldi a finanziare un sequel ufficiale, È Tornato Sabàta... Hai Chiuso un'Altra Volta (1971), diretto dallo stesso Parolini, anche per arginare una serie di sequel apocrifi nati sulla scia dei vari Ringo, Django e Sartana. Giustamente (ma siamo in pochi a pensarla così) il regista Alex Cox lo reputa il miglior western di Parolini. Apprezzato anche da Quentin Tarantino (che però gli preferisce Se Incontri Sartana Prega per la tua Morte) e da spaghettiwestern.altervista.org che chiude la sua recensione definendolo western strepitoso. L'americano spaghetti-western.net parla di via di mezzo tra il serial tv Selvaggio West (1965-69) e un film di James Bond in un connubio che lo rende un western insolito, ricco di personaggi colorati, armi esotiche e di un collage di scene action tra il pirotecnico e l'acrobatico. Ventitreesimo nella sua lista dei migliori western italiani, appena sotto di due posizioni rispetto al Sartana di Parolini. Il film è stato visto da tutti i blogger stranieri di maggiore riferimento. Lo reputa un capolavoro, seppur lontano dai canoni degli spaghetti western classici, lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it che gli riconosce un otto e mezzo in pagella, con punte di eccellenza assoluta per la colonna sonora (voto dieci) e le scenografie di Simi (nove). L'appassionato, giustamente, fa notare come il personaggio di Sabàta goda di una netta superiorità rispetto a tutti gli avversari. Egli pare giocare con loro, tenendoli costantemente sotto controllo. Infatti, non viene né picchiato né torturato. Mondo-esoterica.net non apprezza troppo la sceneggiatura, a suo dire minimalista, ma riconosce il merito a Parolini per la regia e per le bizzarrie. “Il film vanta grandi scene di azione ed è ben diretto, ma non è consigliabile a chi sia poco avvezzo al genere”. “Una gioia dall'inizio alla fine che riesce a ottenere il meglio da tutti i personaggi coinvolti” è il commento di sonofdjango.blogspot.it. 991 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Sufficienza abbondante per i generici imdb.com (oltre sei e mezzo in pagella) e filmtv.it con quest'ultimo che sottolinea il gran ritmo e l'altalena tra toni seri e umoristici. Per trovare un detrattore bisogna tornare sul solito refrattario Morandini il quale reputa Sabàta tra i peggiori del genere dandogli solo una stelletta e mezzo: “Le intenzioni ironiche e parodistiche sono trasparenti, persino nello spreco di efferatezze, ma non bastano ad alzare il film sopra la media”. Un commento su cui non vale neppure la pena soffermarsi. Per quel che mi riguarda consiglio la visione, avvertendo però i puristi che il film in questione non è un canonico western ma uno stravagante esperimento funzionale a portare in scena personaggi non convenzionali e sequenze caratterizzate da trovate geniali e al contempo artificiose. Storia non eccezionale, ma divertimento garantito. Spassosissimo e ricco di soluzioni brillanti per gli amanti di B-movie. Da avere nella propria collezione. VIVI O, PREFERIBILMENTE, MORTI Produzione: Italia, Spagna 1969. Prodotto: Turi Vasile (Ultra Film), Hesperia Films. Regia: Duccio Tessari. Soggetto: Ennio Flaiano. Sceneggiatura: Ennio Flaiano, Duccio Tessari, Giorgio Salvioni. Interpreti Principali: Giuliano Gemma, Nino Benvenuti, Chris Huerta, Antonio Casas, Sydne Rome, Jorge Rigaud. Fotografia: Manuel Rojas, Cesare Allione. Musiche: Gianni Ferrio. Sottogenere: Comico / Sorrisi & Cazzotti. Durata 103 min. Giudizio Mancini: **1/2 Giudizio Morandini:**1/2 La trama Monty (Gemma), dandy carico di debiti, è sul punto di essere impiccato da un gruppo di esattori, quando riceve la visita di un notaio che lo informa di essere erede di uno zio defunto che ha lasciato 300.000 dollari a beneficio dei suoi due unici nipoti. Il testamento prevede però una condizione per poter assegnare il malloppo: Monty 992 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dovrà trascorrere sei mesi in compagnia del fratello Ted (Benvenuti) che non vede da venti anni. Allettato dall'offerta e protetto da un anziano aiutante (Casas), che altro non è che un incaricato degli esattori, Monty troverà Ted e, dopo avergli fatto distruggere la casa, lo convincerà a trascorrere insieme il periodo previsto dal testamento. Avrà così inizio una serie di avventure costellate da rapine, causa la mancanza di soldi dei due, e da continui litigi. I due, inoltre, dovranno vedersela costantemente con un terzo incomodo: il bandito Jimmy il Pessimo (Huerta), pronto a rubare a sua volta quanto preso dai due fratelli. Il Commento Turi Vasile dopo aver prodotto i primi due western di Sergio Corbucci (Massacro al Grande Canyon e Minnesota Clay, rispettivamente del 1964 e del 1965) e un'altra decina di film girati nell'arco di quattro anni tra il 1965 e il 1968, tra cui un paio di buone commedie affidate alle regie di Nanni Loy (Il Padre di Famiglia, 1968) e Dino Risi (Operazione San Gennaro, 1966) nonché i più dinamici ma meno riusciti I Bastardi (1968) e Meglio Vedova (1968) entrambi diretti da Duccio Tessari, decide di tornare al western con Vivi o, Preferibilmente, Morti. A spingerlo in tal senso sono le precedenti collaborazioni con il citato Tessari e con Giuliano Gemma, specialisti del genere e desiderosi di girare un nuovo western dopo periodi più o meno lunghi di astinenza (più di un anno per Gemma, quattro per Tessari). L'occasione si crea grazie a un copione di Ennio Flaiano, che Vasile acquista perché colpito dal titolo di leoniana memoria. In realtà di Leone nel soggetto di Flaiano ci sarà ben poco. Autore versatile ed esperto, con una formazione da critico teatrale e un passato da recensore cinematografico e letterario nonché scrittore (ruolo con cui nel 1947 si era aggiudicato la prima edizione del famoso Premio Strega), il quasi sessantenne Flaiano non ha mai scritto copioni western e non lo farà in seguito anche perché ormai è a fine carriera (scriverà solo altri due sceneggiature). Arriva al film con un passato illustre. Si era distinto a partire dal 1942, anno del suo debutto in veste di sceneggiatore e aiuto regista (ruolo che abbandonerà dopo due esperienze), soprattutto nelle commedie, maturando agli ordini di Luigi Zampa, Mario Soldati e Mario Monicelli, per conquistare presto il ruolo di sceneggiatore di fiducia di Federico Fellini per cui sceneggerà dieci film, tra cui capolavori assoluti della nostra cinematografia quali I Vi993 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

telloni (1953), La Dolce Vita (1960) e 8 ½ (1963); suo anche l'adattamento sci-fi da Robert Sheckley La Decima Vittima (1965) di Petri, vero e proprio cult della nostra produzione di genere. Colpito da un primo infarto nel 1970, Flaiano uscirà di scena dal cinema con all'attivo una sessantina di copioni per trovare la morte nel 1972 a causa di un secondo e letale infarto. La verve grottesca votata alla commedia di Flaiano è evidente e fa di Vivi o, Preferibilmente, Morti una sorta di sorrisi & cazzotti con un taglio tendente al demenziale. Lo script, visto l'autorevole autore affiancato da Tessari e da Giorgio Salvioni (altro debuttante nel genere, alla sua sesta pellicola e in seguito produttore di un pugno di commedie di scarsa fama), è un po' deludente a causa di una sceneggiatura scanzonata ma poco articolata. Flaiano sfrutta l'idea base della storia, cioè la necessità dei due fratelli di restare insieme per sei mesi al fine di conseguire la loro parte di eredità, per intessere un soggetto diluito da una serie di gag e di avventure spesso sfilacciate che vedono i due fratelli protagonisti. La sostanza è davvero poca, tutto è funzionale al divertimento di grandi e soprattutto piccini. Non è forse un caso se la violenza è quasi del tutto assente, c'è solo una scena in cui un gruppo di banditi si divertono a torturare i due protagonisti scagliandoli contro dei pezzi di carbone incandescenti mentre gli stessi sono legati a terra a torso nudo. Ne deriva un film sicuramente divertente, in quanto comico ma che ha davvero poco dello spaghetti-western tradizionale. Tessari scandisce un bel ritmo, ma questo suo terzo western ha davvero poco in comune con i due Ringo. Direi che solo la parte finale è degna di un vero western, con un bellissimo assalto al treno girato con gusto acrobatico da Tessari che snocciola grandi cadute di cavalli e cowboy, oltre a vagoni che precipitano in fiumi e varie sparatorie. Al di là di tale sequenza siamo al cospetto di una pellicola che si avvicina molto al genere che farà la fortuna di Bud Spencer & Terence Hill seppure in chiave più farsesca ed esilarante di quella che vedrà all'opera i due famosi attori. Moltissime le sequenze degne di nota sotto il profilo comico/demenziale. L'apice, da questo punto di vista, si raggiunge quando vediamo Nino Benvenuti, ingessato da capo ai piedi, imbracato e fatto salire in un appartamento al primo piano per mezzo di un sistema di verricelli spartani. Non contento Tessari rincara la dose, mostrando un Benvenuti che blatera e sputacchia, mentre Gemma tenta di imboccarlo con cucchiai colmi di minestra. Non da meno la scena in cui, 994 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

durante una rapina, il banchiere e un cliente litigano circa la titolarità del denaro versato da quest'ultimo, con il banchiere che respinge i soldi mentre l'altro insiste per farglieli prendere. Si persevera nel trash volontario con la sfida tra due gruppi di ranger che, per dissuadere possibili rapinatori di treni, si allenano sparando a un barattolo sospeso in aria che va da una parte all'altra come una pallina da tennis durante un incontro. Meno folle (si fa per dire), ma comunque demenziale, la rissa “saponata” nella stanza d'albergo noleggiata dai due protagonisti, con i vari partecipanti che scivolano di continuo sulle saponette lanciate sul suolo da un Giuliano Gemma che se ne resta a farsi il bagno in vasca osservando Benvenuti impegnato contro tutti gli altri (espediente che sarà ripreso per i film di Bud Spencer e Terence Hill). Se alcune sequenze sono dunque estremizzate, al punto da portare qualche appassionato a definirle ridicole, ce ne sono altre ben calibrate che fanno ridere di gusto soprattutto per merito delle battute. Tessari parte subito in quarta con un inizio decisamente insolito per uno spaghetti-western. Ci troviamo infatti a Natale e vediamo Gemma vestito in frac, mantello, cilindro in testa e bastone passeggiare in mezzo ad alberelli addobbati a fare beneficenze ai barboni. Un gruppo di rapinatori, vedendolo, lo avvicina e cerca di rapinarlo. “Se sei così generoso con un cieco, puoi fare qualcosa di più con uno che ci vede!?” lo canzona uno dei quattro. “Certo, posso regalarti un libro!” risponde sarcastico Gemma, facendo scorrere il bastone per sfilare un qualcosa che è custodito all'interno. Lo spettatore potrebbe pensare a un punteruolo e invece no, si tratta di una boccetta contenente del liquido giallognolo che il nostro brandisce verso il gruppo di molestatori. Nitroglicerina? Manco per sogno, è whisky che Gemma ingurgita tutto di un fiato prima di esibirsi in una scazzottata. Stesi i quattro lo vediamo salire su una diligenza. Che sia il suo maggiordomo? Scordatevelo, si tratta del gruppo di esattori a cui Gemma deve 40.000 dollari e che ora lo vogliono impiccare. Il nostro però è un acrobata e, per evitare di farsi mettere il cappio al collo, finisce capo all'ingiù con una gamba infilata nella corda assumendo una posa che ricorda quella dell'appeso della carta dei tarocchi. Per sua fortuna, l'arrivo di un notaio che gli preannuncia un'eredità di 300.000 dollari lo salva dagli esattori che cominciano a trattarlo con reverenza. Il nostro parte così alla ricerca del fratello, poiché il testamento prevede una condizione per poter mettere le mani sul denaro: Monty (cioè Gemma) deve trascor995 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

rere sei mesi col fratello che non vede da venti anni. Ha così inizio la lunga serie di gag tra Gemma e Benvenuti che iniziano molto bene per scendere sempre più nel grottesco. L'incontro ha subito effetti devastanti per Ted (Benvenuti). A poco a poco Monty gli demolisce la casa, un po' come farà il personaggio tipico di Terence Hill con quello di Bud Spener. Decisiva è l'entrata in scena dell'antagonista di turno, Jimmy il Pessimo, interpretato da un insipido Chris Huerta. L'uomo pretende i cavalli dei due, ma Monty si oppone sfilando la pistola. “Vedrai che non finisce qui” lo minaccia Jimmy. “Il rischio è tuo!” la risposta del guascone Monty, mentre l'altro viene fatto uscire di casa. Ted si scaglia subito sul fratello. “Solo perché la casa è tua io devo farmi pestare dal primo fuorilegge che passa?” si sfoga Monty. Benvenuti lo guarda e a denti stretti dice: “Jimmy il Pessimo non è il primo che passa. È il primo in graduatoria da queste parti!” E infatti la casa viene messa sotto tiro dalla banda del bandito. Monty però ha una brillante idea. Si rende conto che all'interno della casa c'è troppa luce e che dunque i rivali possono vederli, così decide di sparare sulla torcia che illumina la stanza per far scendere l'oscurità. “Così va meglio!” dice subito al fratello, che però lo guarda e, circondato dalle fiamme alimentate dal whisky inserito nella torcia, sussurra a denti stretti: “Io non direi!” La casa va così a fuoco, tra le risate dei banditi che assistono allo spettacolo nella notte. Da qui si prosegue con una sequela di vicende che vedranno i due fratelli litigare di continuo (grande scazzottata nel fango tra Gemma e Benvenuti) e compiere sconclusionati reati (rubano un malloppo di spicci credendo di aver rapinato 50,000 dollari, cadono per terra durante una rapina appena entrati in banca, rapiscono la figlia di un banchiere non sapendo che quest'ultimo è ben felice perché la figlia è una rompi coglioni che infatti finisce per metterli a lavorare) sempre braccati da Jimmy il Pessimo che non perderà occasione per rubare a sua volta quanto recuperato dai due. Non mancano le idee originali anche se follissime. Si va da una serie di pistole nascoste sotto l'ingessatura integrale di Ted, in modo da farle entrare in un paese dove sono bandite dallo sceriffo, alla presenza di veicoli rudimentali come biciclette primo tipo (quelle con la grande ruota anteriore) o auto che avvolgono di fumo bianco le persone e producono un rumore simile a una sparatoria. La bizzarria più marcata del film però sta nel cast artistico. Al fianco del collaudato Giuliano Gemma, che qua sembra spaesato anche se 996 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

non perde occasione per dare sfoggio delle sue abilità acrobatiche (salta su molle, corre su tetti di treni in corsa, si tuffa giù da un treno, si lancia in scazzottate varie e via dicendo), si tenta di inventare Nino Benvenuti come attore di grido. Campione olimpico a Roma nel 1960 nei pesi welter e campione mondiale in carica dei pesi medi di pugilato, il trentunenne Benvenuti viene lanciato nel cinema di azione cercando di sfruttare le doti atletiche dello sportivo. Nonostante le indubbie qualità fisiche, quali l'elasticità e la potenza, Benvenuti finisce presto con l'andare incontro a difficoltà di svariato tipo. Oltre a quelle recitative che non riuscirà a superare fornendo un'interpretazione a dir poco legnosa, il pugile va incontro a dinamiche acrobatiche ben diverse da quelle sportive e ciò gli crea una serie di problemi tipici per chi proviene dal mondo dello sport. Il maestro d'armi Nazzareno Zamperla si troverà così costretto a insegnare a Benvenuti a rallentare il proprio impeto e a portare dei cazzotti più lenti e coreografici rispetto a quelli che il pugile era solito portare. A ogni modo la presenza di Benvenuti, vera e propria leggenda del nostro pugilato, ha l'effetto di suscitare una grande curiosità attorno al film. In televisione non si fa altro che parlare dell'uscita, si teme addirittura che Giuliano Gemma possa essere oscurato da Benvenuti. La realtà sarà ben diversa. Benvenuti delude le attese al punto che tornerà al cinema solo in una seconda occasione con il poliziottesco Mark, il Poliziotto (1975) di Stelvio Massi. Se i due primi protagonisti non eccellono, di ben altro spessore è la performance della bellissima semi debuttante Sydne Rome (è al suo secondo film). Bionda, con occhi azzurri, la giovanissima attrice americana con i suoi appena diciotto anni adombra tutti quanti, mettendo al servizio di Tessari un entusiasmo che trapela da ogni sequenza. La Rome, così come il personaggio che è chiamata a interpretare (la figlia viziata di un banchiere a caccia di emozioni forti), è a dir poco scatenata in virtù di una passione nata fin dall'adolescenza e alimentata nei teatri della Pennsylvania. Le sue sequenze sono tra le più divertenti del film. Così la si vede gioire come una bambina quando scopre di esser caduta vittima di una rapina e ancor di più quando viene sequestrata dai due improbabili delinquenti. Costretta a scrivere una lettera al padre, la giovane si scaglierà contro i rapinatori per nulla contenta della quota di riscatto richiesta dagli stessi al punto da farla lievitare a 10.000 dollari. “Se vi serviva solo un migliaio di dollari perché non siete andati a rapire la figlia del droghiere!?” urlerà contro 997 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ai due fratelli che, a poco a poco, finiranno sotto il suo controllo al punto che Gemma dirà: “Dio creò l'uomo e poi la donne ne dispose.” Esilarante al riguardo la reazione del padre della ragazza, cui da corpo Jorge Rigaud, il quale, ridendo a crepapelle, allontana subito un collaboratore che vorrebbe pagare il riscatto: “Rossella è una ragazza deliziosa, ma va presa a piccole dosi se si vuole sopravvivere. E così stando le cose non ho nessuna intenzione di lasciarmi sfuggire questa occasione. Sono stati loro a rapirsela, no? Quindi loro devono sciropparsela!” Ci troviamo senza dubbio nella parte più divertente del film con una Rome che è un vero e proprio sole raggiante, grazie ai suoi sorrisi smaglianti e ai suoi modi di fare da ragazza sognante uscita da un cartone animato (“che emozione... Chissà cosa diranno le mie amiche!”). Tessari cede anche nella tentazione di riprenderla in campo lungo mentre fa il bagno in un laghetto, mostrando un rapidissimo topless (scena piuttosto ardita in un western). La Rome ci prenderà gusto, in seguito, arrivando persino nel 1983 a posare nuda per la rivista playboy. Purtroppo non la rivedremo in un altro western, anche se la carriera dell'americana trapiantata in Italia proseguirà brillantemente in altri generi, spesso da prima protagonista, tra i quali la nostra commedia sexy e il cinema d'autore di Luigi Zampa, Sergey Bondarchuk e di Claude Chabrol, arrivando persino ad avere ruoli di primissimo piano in Che? (1972) di Roman Polanski e, al fianco di Alain Delon, in L'Arrivista (1974) del francese Pierre Granier-Deferre. Reciterà inoltre con attori del calibro di Jodie Foster (in Moi, Fleur Bleu pellicola del '77 non importata in Italia), David Bowie e Marlene Dietrich (in Gigolò del 1979 per la regia di David Hemmings). Sarà inoltre l'intervistatrice che se ne va in giro tra i piloti della formula 1 nel documentario, epico per gli amanti del mondo dei motori, Formula 1 La Febbre della Velocità (1978) di Mario Morra. I cultori del cinema di genere la ricorderanno inoltre in veste di vittima (non accreditata) nel thriller L'Assassino è Costretto a Uccidere (1975) di Luigi Cozzi e nell'avventuroso ma poco riuscito L'Uomo Puma (1980) di Alberto De Martino. Negli anni '80, pur continuando a lavorare per il cinema, passerà soprattutto alla televisione con ruoli da presentatrice in varietà quali A Tutto Gag (1980) e Quo Vadiz? (1984) e anche da cantante di alcuni pezzi commerciali melodiosi che la faranno entrare nei sogni degli adolescenti del periodo. Dagli anni '90 la ritroveremo in moltissime fiction tv italiane e tedesche, tra cui qualche episodio dell'Ispettore Tibbs (1994) e Don Matteo (2001). Tornerà al cinema con 998 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Pupi Avati nel 2007 con l'horror Il Nascondiglio e con le successive commedie Il Figlio più Piccolo (2010) e Il Cuore Grande delle Ragazze (2011). Di sicuro una delle attrici capaci di raggiungere un ottimo compromesso tra bellezza e bravura anche se lei stessa ha riferito: “È limitante fare i ruoli da bella ragazza anche perché da giovane volevo fare l'attrice di carattere però il mio fisico non mi aiutava e allora ho fatto quello che mi hanno offerto. Adesso, invece, posso fare ruoli di carattere, ruoli di brutte, di cattive, ruoli che sono lontani da me e che mi portano a pensare alla psicologia e ai rapporti del personaggi, aspetti che trovo molto più interessanti rispetti ai ruoli da bella ragazza.” Completano il cast il già citato Jorge Rigaud e Antonio Casas (già presente nei primi due western di Tessari), entrambi convincenti dall'alto della loro lunga esperienza. In particolare è piuttosto brillante e simpatico (con occhialoni e cuffia da pilota in testa) Casas, nella veste dell'ambiguo aiutante dei due fratelli (infatti poi si scoprirà essere una sorta di guardiano messo alle spalle di Monty dai suoi creditori) che compare, nei momenti di difficoltà dei due, sempre alla guida dell'autovettura tutta fumo e rumore. Ruolo da antagonista per il deludente Chris Huerta. Voluminoso attore portoghese classe '35, Huerta era già apparso in svariati cult western quali Django, Sette Pistole per i MacGregor e Navajo Joe col ruolo di comparsa, ma qua viene promosso a un ruolo di maggior prestigio che non riesce tuttavia a sfruttare a dovere. Ridicolissima la scena finale in cui duellerà con Benvenuti in un uno scontro accetta contro accetta (“Anch'io, in passato, ho fatto il taglialegna”) che porterà, a causa dei loro errori di mira, alla demolizione totale del vagone in cui i due stanno viaggiando. Il portoghese proseguirà la carriera prestando corpo e volto a più di cento pellicole di genere con una presenza massiccia, seppur di contorno, nello spaghetti-western che tuttavia non lo eleva a volto di culto. Non eccelsa, seppur scanzonata, la colonna sonora di un Gianni Ferrio sottotono che non sfiora i livelli toccati con Un Dolaro Bucato (1965), a dimostrazione della maggiore predisposizione del maestro per temi più votati alla malinconia. Fotografia più che sufficiente dell'accoppiata Rojas – Allione. Nel complesso è un film che riesce a far ridere nella sua sconclusionatezza volontaria, ma che non è indicato a chi sia in cerca di western tradizionali o comunque di pellicole orientate all'azione e alla 999 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

serietà dei contenuti. Conforme al giudizio del sottoscritto è spaghettiwestern.altervista.org che parla di “discreto film incentrato sul tema dell'amicizia” e persino il Morandini che gli concede due stellette e mezzo facendo complimenti alla “briosa” regia di Tessari e ai due protagonisti, sottolineando il taglio “allegramente umoristico” del soggetto. Proprio la particolarità del film e il fatto di essere un western fuori dai canoni standard ha fatto sì che ci siano degli appassionati entusiasti dell'opera, come Thomas Weisser che valuta il film quale migliore commedia di Tessari, e altri che la bocciano senza appello. Tra questi ultimi è particolarmente severo lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it che parla del peggior western di Tessari, a causa di una sceneggiatura inesistente che punta tutto su un umorismo ridicolo che trasforma la pellicola in una parodia. Avido di complimenti il californiano Tom Betts che salva la coppia di protagonisti e il finale ma non il resto: “western un po' stupido e sotto la media.” Più equilibrati ma comunque poco entusiasti Marco Giusti, che giustamente punta il dito su Benvenuti (“è legnoso... un disastro”) e anche su Tessari (“non riesce mai a far funzionare il film”) salvando poi Sydne Rome (“molto carina”), e l'inglese spaghetti-western.net che parla di film non particolarmente buono anche se non terribile in virtù di un buon inizio, di alcune battute esilaranti e di una sexy Sydne Rome, ma in ogni caso zavorrato da una sceneggiatura sfilacciata. Due stelle per filmtv.it e il Farinotti con quest'ultimo che parla di western in chiave umoristica realizzato con discreto mestiere. Per concludere si tratta di un film non per tradizionalisti, che se guardato con distacco riesce a divertire. Il finale, che riporto sotto nelle citazioni per non rovinare la visione di chi non abbia visto il film, è di una ironia beffarda che vale da sola la visione in modo da poterla gustare appieno. Le citazioni: “Monty e Ted correvano dunque incontro alla tanto sospirata eredità finalmente in pieno responsabile accordo. Ed era esattamente quello che voleva lo zio Archie il quale, da buon conoscitore di uomini, convinto che dopo sei mesi di vita in comune e di liti furibonde i due fratelli avrebbero finito col diventare inseparabili, aveva pensato bene di mangiarsi i 300.000 dollari prima di morire, lasciando ai nipoti un testamento falso ma un'amicizia vera.” 1000 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Uno dei pochi film da salvare dell'annata è sicuramente la seconda pellicola girata da Sergio Corbucci in quel di Cortina. Vediamo di seguito la scheda. GLI SPECIALISTI Produzione: Italia, Francia, Germania, 1969. Prodotto: Attilio Riccio (Adelphia Cinematografica), Les Films Marceau, Neue Emelka. Regia: Sergio Corbucci. Soggetto e Sceneggiatura: Sergio Corbucci e Sabatino Ciuffini. Interpreti Principali: Johnny Hallyday, Gastone Moschin, Mario Adorf, Françoise Fabian, Sylvie Fennec, Gino Pernice, Serge Marquand. Fotografia: Dario Di Palma. Musiche: Angelo F. Lavagnino. Sottogenere: Revenge Movie. Durata 90 min. Giudizio Mancini: ***1/2 Giudizio Morandini:*1/2 La trama Il celebre pistolero Hud Dixon (Hallyday) torna al paese di origine per vendicare il fratello, linciato dagli abitanti del paese perché ritenuto responsabile di una rapina di cui ancora non si trovano i soldi. L'arrivo dell'uomo viene accolto malamente dal paese, sebbene lo stesso sia controllato da un nuovo sceriffo (Moschin) che ha imposto a tutti i cittadini il divieto assoluto di portarsi dietro armi. Così anche Hud, per entrare, dovrà sottostare alla richiesta della legge. Nessuno pare voler collaborare con il nuovo arrivato, eccetto El Diablo (Adorf), un bandito messicano che vive sulle montagne ed è interessato al malloppo della rapina. Hud si accorda con quest'ultimo per fargli pervenire l'intero bottino in cambio di notizie. Così riesce a trovare i soldi sepolti in un cimitero, ma l'intervento dello sceriffo gli impedisce di mantenere fede alla promessa. Il messicano decide allora di invadere il paese e di metterlo a soqquadro. Si scopre così che dietro alla rapina c'è la stessa titolare della banca (Fabian) che ha fatto rubare soldi falsi attribuendo la colpa al fra1001 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tello di Hud e ha nascosto poi quelli veri a discapito dell'intero villaggio. A nulla servirà il tentativo della stessa di dar fuoco ai soldi (falsi) recuperati da Hud, poiché El Diablo la sorprenderà e, capito il piano, la farà stuprare dai suoi uomini per farsi dire dove si trovino i soldi veri. Rinchiuso in carcere, Hud riuscirà a liberarsi e si schiererà contro i messicani responsabili di aver ucciso a sangue freddo lo sceriffo e si farà dire dalla donna dove si trovino i soldi. Il Commento Dopo i western degli esordi, Gli Specialisti è il western più americano di Sergio Corbucci sia per l'atmosfera che per la scelta di adottare un ritmo crescente più attento alla sceneggiatura piuttosto che alle sparatorie. Ciò non deve però far pensare a un western classico, ma a una specie di esperimento che prende le mosse dal western hollywoodiano per divenire, a poco a poco, un qualcosa di nuovo, diverso anche dallo spaghetti-western. La sensazione di esser alle prese con un qualcosa di strano si capisce fin dalle prime battute. Probabilmente l'effetto viene agevolato dalla presenza delle fredde location invernali e montane (cieli plumbei e nuvole basse), a cui si aggiunge un cast di attori inconsueto per il genere. Molti di essi, come vedremo, non avevano mai fatto western né ne faranno in seguito. Inoltre Corbucci si trova a dover proporre un protagonista proveniente dal mondo della musica rock francese (Johnny Hallyday), un po' come farà Ferdinando Baldi con Ringo Starr in Blindman (1971). Questo aspetto, unito ai già accennati, conferisce sicuramente un alone di culto a Gli Specialisti. Se queste sono le prime impressioni che saltano in mente dopo la visione del film, le seconde non possono che essere riservate al forte legame sussistente tra questa pellicola e il precedente western di Corbucci ovvero Il Grande Silenzio (1967). I due film possono esser definiti stretti cugini per una serie di motivi. In prima battuta sono entrambi girati nelle inconsuete location di Cortina d'Ampezzo e ancora una volta di inverno (anche se non c'è la neve). In secondo luogo, dopo Jean Louis Trintignant, viene imposto come protagonista un attore transalpino totalmente estraneo al genere ovvero il biondo ma tenebroso Johnny Hallyday che come Trintignant non farà altri western. Hallyday, all'epoca ventiseienne, viene spinto dai produttori francesi. Corbucci, rassicurato da Trintignant, scommette su questo attore più per il carisma da esso dimostrato nell'ambito musicale che 1002 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

per le capacità interpretative. All'epoca Hallyday, al secolo Jean-Philippe Smet, non era ancora famoso come attore. Era invece un vero e proprio re del rock transalpino, un grande cultore di Elvis Presley al punto da riprenderne molti pezzi e reinterpretarli con nuovi adattamenti. Aveva però anche un'anima oscura, amplificata da un tentativo di suicidio praticato nel 1966 dopo che era stato accusato di plagio per una canzone. Corbucci vede in Hallyday una ghiotta opportunità e accetta di lanciarlo come antieroe, sebbene il francese abbia all'attivo solo un paio di mediocri e semisconosciuti musicarelli francesi. La scelta si rivelerà fortunata, sia per la buona prova dell'attore sia per il futuro dello stesso. In seguito, oltre a diventare un'icona rock mondiale, Hallyday reciterà, anche se spesso non da protagonista, con grandi nomi francesi e internazionali come Belmondo, Orson Welles, Jean-Luc Godard, Harvey Keitel, Depardieu e altri. È tuttora attivo sia come cantante che come attore, segnalandosi soprattutto come attore di ottimi noir quali Detective (1985) di Godard, L'uomo del Treno (2002) di Leconte, Crime Spree – Fuga da Chicago (2003) di Mirman e Vendicami (2009) di Johnnie To. Il personaggio che gli affida Corbucci non è molto diverso da Silenzio, se non per un'indolenza e un pessimismo addirittura più marcati. Se il pistolero di Trintignant veniva scosso dall'amore di una donna abbandonata a sé stessa, quello di Hallyday, che comunque avrà a che fare con una donna del genere innamorata di lui, sembra insensibile all'amore in quanto morto nell'animo un po' come lo era stato Django. E come Django, Hud Dixon è interessato a una sola cosa: vendicare il fratello linciato da un villaggio di bigotti. “Si può vivere anche senza violenza, senza uccisioni, senza dolore” gli dirà la ragazza, ottimamente interpretata dal volto innocente di Sylvie Fennec (un'altra buttata nella mischia, dopo il debutto avvenuto l'anno prima con Fino a Farti Male di Simon, e pronta per tornare a lavorare in Francia, soprattutto per la tv). La giovane cerca di consolarlo, di salvarlo dal destino dannato, proponendosi come sua futura donna. Il nostro però senza battere ciglio la gela: “Non ho mai conosciuto questo genere di vita... Le parole non servono, solo i fatti contano specie quando sono definitivi come la morte, da cui non si torna” Dunque il lato oscuro tipico di certa filmografia di Corbucci, penso soprattutto a Django, Navajo Joe e Il Grande Silenzio, emerge anche qua e lo fa in modo più evidente anche se a discapito della spettacolarità, sacrificata in favore di una costruzione più articolata del sogget1003 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

to. Corbucci si conferma inoltre un grande stratega nello strumentalizzare ogni cosa che gli viene messa a disposizione, per creare un qualcosa di atipico, irriverente, capace di scioccare e disturbare lo spettatore. Infatti, oltre alle idee stravaganti del regista, le stranezze che stanno alla base del film discendono anche dalla presenza di una produzione dalla forte matrice francese. Attilio Riccio, il produttore de Il Grande Silenzio, questa volta resta quasi alla finestra, lasciando campo libero ai parigini de Les Films Marceau con cui si limita a collaborare economicamente. Questi ultimi sono rimasti molto impressionati dal successo avuto in Francia dal precedente film di Corbucci, al punto da investire forte e in busta chiusa sul nuovo western del regista. Gli chiedendo però l'introduzione di un largo cast di attori francesi, a partire da Hallyday, in modo da poter vendere bene il prodotto in patria. Corbucci intanto sta lavorando a Roma per ideare il sequel de Il Mercenario, si parla anche di un coinvolgimento di Van Cleef, ma non ha nulla in mano. Non appena gli arriva la richiesta, però, accetta e si mette a disposizione dei francesi senza aver alcun copione. Presenta un soggetto molto a grandi linee, da qui deriva il titolo che avrà poi il film ovvero Gli Specialisti che però non avrà nulla a che fare con il lavoro finale dimostrandosi un titolo piuttosto inadeguato (anche se c'è chi fa notare come il titolo sia riferito ai cittadini del paese in cui è ambientata la storia, perché specializzati in linciaggi). A ogni modo il regista accetta e chiede l'ingaggio di Gastone Moschin, che già aveva cercato per Il Grande Silenzio. Il paffuto attore veneto è anch'egli un altro debuttante nel western, l'ennesimo per questo film. L'arrivo di Moschin porta Corbucci a riproporre, come caratteristiche, lo sceriffo già visto nel precedente film anche perché lo aveva costruito sulle caratteristiche dell'attore veneto. Dunque un uomo ligio alla legge, duro, che pedina costantemente il protagonista, ma che è anche goffo e impacciato. Moschin arriva al film dopo aver lavorato con importanti registi (Nanny Loy, Zampa, Damiani, Pietrangeli) e con tanto di un Nastro d'Argento vinto come migliore attore non protagonista con Signori e Signore (1967) di Germi. Ne vincerà un secondo, venti anni dopo, con Amici Miei – Atto Terzo (1986), ottenendo poi una nomination con Porzùs (1997) di Martinelli. Attore di stampo classico, cresciuto in teatro per poi passare agli sceneggiati televisivi, Moschin si era già dimostrato bravissimo in ruoli drammatici e ancor di più in quelli sopra 1004 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

le righe con tendenze comiche. Aveva ottenuto un certo successo nel ruolo di protagonista del serial televisivo I Miserabili (1964), diretto da Sandro Bolchi, grazie al quale aveva cominciato a ottenere ruoli sempre maggiori rispetto ai secondari avuti a inizio carriera nei primi anni '60. In seguito interpreterà il ruolo del crudele antagonista nel cult per eccellenza del noir all'italiana ovvero Milano Calbro 9 (1972) di Di Leo e nell'ottimo poliziesco Squadra Volante (1974) di Stelvio Massi, ma anche quelli di Don Camillo in Don Camillo e i Giovani Nostri (1972) di Camerini. Avrà inoltre l'onore di partecipare a un capolavoro assoluto come Il Padrino – Parte II (1974) di Francis F. Coppola, dove ancora farà il delinquente, e in un altro grosso cult, questa volta della commedia italiana, Amici Miei (1975) di Monicelli. Dunque un attore completo, capace di spaziare dalla commedia al poliziesco serio, ma assai bravo nei ruoli dai contorni tragico-comici, contorni che caratterizzano perfettamente lo sceriffo che gli affida Corbucci. I francesi quindi non possono che accettare di buon grado la presenza di Moschin, a cui si aggiunge quella dello svizzero Mario Adorf, proveniente dal western ...E per Tetto un Cielo di Stelle (1968) di Petroni. Ad Adorf viene riservato il ruolo del bandito straccione messicano, ruolo che gli permette di sfoggiare un'interpretazione alla Fernando Sancho anche se meno sopra le righe ed equilibrata. Un'accoppiata questa (Moschin-Adorf) che farà la fortuna di Milano Calibro 9. Il cast è quindi già delineato ed è un cast curioso per il genere, ma buono. Lo completano caratteristi come Gino Pernice o l'ombroso Serge Marquand (un tipo che faceva paura solo a vederlo), per non parlare degli spiritati ragazzi cui saranno riservati i ruoli del gruppo hippie. Viene così proposto a Corbucci di girare in Tunisia o addirittura negli Stati Uniti, il romano però ha lavorato bene a Cortina e convince i francesi che tali location non sono adatte all'idea che ha in testa, perché gli servono paesaggi montani e un clima invernale. In realtà, probabilmente, ha poca voglia di intraprendere l'ennesimo viaggio lontano dall'Italia e così la spunta e inizia a lavorare sulla sceneggiatura. Tuttavia l'esigenza immediata dei produttori francesi di girare il film, gli impedisce di ultimare lo script prima dell'inizio delle riprese. Così si trova costretto a dover iniziare la lavorazione del film con un abbozzo di sceneggiatura, scrivendo e completando il resto sul set con 1005 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

audaci invenzioni che probabilmente non gli sarebbero state fatte girare dalla produzione se questa le avesse lette in anticipo. Non a caso la pellicola è infarcita di bizzarrie, alcune allineate alle stravaganze del periodo - come l'idea di far indossare al protagonista una maglia a rete simil medioevale che, a mo' di armatura leggera, lo protegge dai colpi di pistola avversari - altre assolutamente deliranti. Tra queste ultime si ricorda la presenza di un quartetto hippie (!?), composto da tre ragazzi e una ragazza dai capelli rasati (la sconosciuta Gabriella Tavernese che non avrà timore nel mostrare le mammelle per provare di essere una donna), che fumano canne, praticano sesso di gruppo e vagabondeggiano per tutto il corso del film fino a cercare di assumere il controllo dell'intero paese, dopo aver fatto denudare e strisciare a terra l'intero villaggio. Quest'ultima sequenza è follemente ardita per l'epoca, un qualcosa del genere sarà riproposto in tempi moderni dal thriller Profumo – Storia di un Assassino (2006) di Tykwer. Vediamo centinaia di uomini completamente nudi, a culi scoperti, con i volti nel fango e distesi in modo arrendevole a terra. Sono coloro che hanno linciato il fratello del protagonista e che ora devono sperare in quest'ultimo per aver salva la vita. I quattro degenerati infatti lo sfidano a uscire, sebbene lo stesso sia provato e menomato dai precedenti scontri. Il nostro li affronterà senza proiettili nel tamburo, caracollante e imbrattato di sangue da capo a piedi. Davvero un epilogo eccelso, reso crepuscolare dall'esito dello scontro. I quattro, intimoriti dall'avvenenza e dal prestigio dell'avversario, scapperanno a gambe levate incapaci di colpirlo, mentre il nostro guarderà la donna che lo ama e si allontanerà in sella a cavallo, verso un orizzonte su cui cala a picco l'enorme disco arancione del sole. Poetico e dannato al contempo. Corbucci però non si limita a proporre un revenge movie in stile americano per evolverlo in una tragedia dai contorni sadici e perversi. No, signori. Introduce una serie di momenti comico/grotteschi tesi ad allentare la tensione e che finiscono con lo spiazzare ancor di più lo spettatore (a esempio l'uccisione a sangue freddo dello sceriffo da parte di El Diablo non me l'aspettavo, vista la caratterizzazione dei loro precedenti rapporti). Ne sono protagonisti, per lo più, il messicano interpretato da Adorf e Gastone Moschin. Di culto sarà la trashosa sfida a colpi di testa tra i due, legati con le braccia dietro la schiena e lasciati scorrazzare dentro un recinto. Il primo è un personaggio alla Sancho, con un moncherino al posto di un braccio, che si fa seguire da 1006 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

un giovane biografo al quale fa annotare in diretta su un diario tutte le sue imprese; il secondo è ligio alla disciplina ed è anche di polso, ma è impacciato con le donne ed è un credulone un po' come lo è tutto il villaggio che governa. Avrà ragione El Diablo, quando, entrato in paese, griderà: “Siete un popolo di mierda, perché solo un popolo di mierda può farsi fregare da una mujer!” E infatti lo sceriffo, pur controllando bene il pistolero interpretato da Hallyday (lo segue in continuazione come faceva Wolff con Trintignant), finirà più volte superato in astuzia dalla banchiera cui da corpo Françoise Fabian. È quest'ultima la vera cattiva del film, caratterizzata come una sorta di strega ammaliatrice un po' mignotta, non a caso la vediamo sfilare in nudo integrale e poi in topless. Ne farà le spese anche il baro interpretato da Pernice (il tizio a cui viene tagliato un orecchio in Django) ucciso a sangue freddo dalla stessa nonostante fosse disposto a fare tutto per lei. Il baro è un testimone scomodo degli sporchi affari della donna, anch'esso sedotto e manovrato. Il poveretto convinto di darsi a una fuga amorosa con la sua amante, cadrà morto su una montagna dei soldi mentre li annusa e li conta: i soldi della perdizione, come testimonierà il grande finale con Hallyday che li brucerà tutti in una simbolica purificazione dal peccato. Anche Moschin, come detto, subirà il fascino della donna. In una scena lo vediamo indugiare davanti a quest'ultima completamente nuda, mentre nel saloon c'è la ressa che porterà alla morte di un uomo motivato a uccidere il protagonista. La donna lo trattiene sperando così di favorire l'uccisione di Hud, l'unico che potrebbe mandarle all'aria i piani indagando su un episodio che dovrebbe restare sepolto (la morte del fratello). Moschin vorrebbe andare, ma perde tempo a lavare la schiena della donna (che appare prima nuda integralmente e poi in topless), rompendo vasi e facendo gaffe in continuazione per l'imbarazzo, fino a perdere la saponetta nella vasca e finire con il prendere qualcos'altro immerso nell'acqua: “Ehi, ma quello non è il sapone!” gli dirà la maliziosa donna. Più avanti, recuperato il bottino oggetto della rapina e messo in carcere Hud, finirà con l'ubriacarsi sgolandosi una bottiglia di champagne donatogli dalla donna ufficialmente per festeggiare il recupero dei soldi. Non si renderà però conto di esser stato manovrato ancora una volta, perché il suo comportamento sarà previsto dalla banchiera e sfruttato per far sottrarre dall'amante il carico di dollari appena recuperato, mentre appunto lo sceriffo fantasticherà sotto l'effetto dell'alcool. 1007 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

C'è da dire che l'interpretazione della Fabian è notevole sia in fase di seduzione sia nel delirio finale, quando assumerà espressioni e modi di fare nevrotici, perché smascherata su pubblica piazza. Farà una fine terribile: trascinata a terra dai cavalli lanciati a galoppo e poi stuprata in paese, a turno, dagli uomini di El Diablo per non aver rivelato dove si trovano i soldi veri. Lo dirà, prima di morire, a Hud, ma sputando veleno, più per rabbia che per sottomissione. Hud recupererà il bottino, ma anziché prenderselo per sé o ridarlo al villaggio farà un qualcosa di imprevedibile ma di altamente simbolico: li brucerà tutti. Dunque un western dal ritmo crescente, con l'impronta di Corbucci che emerge alla distanza. Ancora una volta non manca la violenza che diviene persino psicologica, scatenando le ire della produzione prima e della censura poi. Il produttore, per evitare che il film venga bloccato, taglia senza dire niente a Corbucci le scene finali con i nudi. Il regista lo viene a sapere e avvia una causa contro i francesi, minacciando anche di togliere il proprio nome dai credit. Contrasti e querelle che rimandano alla mente quelle già avute con Django, solo che in questa occasione Corbucci va veramente oltre il limite mettendo in scena delle sequenze coraggiose che si segnalano tra le più ardite del genere. Per esse giunge anche a litigare sul set con Françoise Fabian che si oppone di girare le scene dello stupro nel dettaglio. L'attrice francese, di padre spagnolo e madre polacca, ha infatti una formazione classica. Nasce artisticamente in conservatorio e poi in accademia drammatica a Parigi, lavorando con Belmondo. Si era fatta le ossa in teatro, approdando al cinema giovanissima nella seconda metà degli anni '50. Il nome della Fabian non è legato al cinema di genere, né tanto meno al western che non farà in altre circostanze. Aveva lavorato con registi di autore, tra i quali Luis Bunuel in Bella di Giorno (1967), ed era stata molto apprezzata e premiata con La mia Notte con Maud (1969) di Rohmer, nominato all'Oscar come miglior film straniero, dove aveva interpretato al fianco di Trintignant. Proprio quest'ultimo, unitamente alla necessità di pagare le tasse, l'aveva spinta a intraprendere l'avventura con Corbucci. Sebbene fosse abituata a ricoprire ruoli da donna libertina e seduttrice (infatti nel film si dimostra a suo agio), si tratta di un salto decisamente netto verso un cinema fatto di esagerazioni a cui evidentemente non era abituata e da qui i capricci sul set. Vincerà in seguito vari premi, tra cui un David di Donatello con Una Donna e una Canaglia (1973) di Claude Le1008 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

louch quale migliore attrice protagonista. Personalmente la ricordo anche nei film a tinte poliziesco/noir Torino Nera (1972) di Lizzani e Perché si Uccide un Magistrato (1974) di Damiani. È tuttora attivissima in Francia sia al cinema che in tv e, senza contare i lavori teatrali, vanta oltre le cento interpretazioni. A causa di tutti questi scontri con attori, censura e produttori, il film non ha grande successo in Italia, va invece forte in Francia grazie anche alla presenza del divo rock Hallyday. Eppure resta un grande western, forse tra i meno conosciuti di Corbucci, ma preso da modello di riferimento, insieme a Django il Bastardo (1969), da Clint Eastwood per la realizzazione de Lo Straniero senza Nome (1973). Il soggetto di quest'ultimo film è pressoché analogo a quello di Corbucci, sono entrambi dei revenge movie incentrati sull'avarizia di un paese di bigotti, che si ripercuoterà sugli stessi all'ennesima potenza portandoli alla derisione pubblica. Un altro aspetto curioso del film sono le curatissime, seppur non sfarzose, scenografie, specie esterne. Cortina sembra un paesaggio canadese: dirupi frastagliati, torrentelli da attraversare, monti dappertutto e tanto verde con gli abeti a farla da padroni. La fotografia è di grossa qualità e firmata da un nome illustre della nostra cinematografia, solitamente al servizio di registi impegnati quali Lina Wertmuller, Ettore Scola, Monicelli e Bolognini: il giovane Dario Di Palma, due nomination ai Nastri d'Argento per le fotografie de Le Stagione del Nostro Amore (1966) di Florestano Vancini e Un Uomo a Metà (1966) di Vittorio De Seta, oltre a un passato da operatore di macchina in cult d'essai come L'Assassino (1961) di Petri e il visivamente sperimentale Deserto Rosso (1964) di Antonioni. In seguito fotograferà anche il bellissimo horror Arcana (1972) di Questi oltre il serial Madame Bovary (1978). Si allontanerà dal cinema di qualità dopo Brutti, Sporchi e Cattivi (1976) di Scola, ritirandosi definitivamente nei primi anni '80 a causa di una crisi depressiva innescata dal suicidio del figlio. Anche per lui si tratta del debutto nello spaghetti-western, genere che non tratterà più. La sua è una fotografia freddissima, complice i cieli sempre grigi e le nubi basse, ma in grado di esaltare i colori dei cavalli e i vestiti di scena. Il clima austero tratteggiato dalla fotografia viene inoltre ricalcato dai continui ululati dei lupi che riecheggiano in background. Chi invece era un veterano di spaghetti-western è il compositore Lavagnino, il quale confeziona una colonna sonora estremamente ati1009 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

pica, giusto per non rovinare la piega sperimentale scelta dal regista. Il sound è allegro e scanzonato e va a formare un gustoso e riuscito contrasto con le scene cruente. Davvero uno dei migliori lavori del maestro, anche se i più indicano la colonna sonora come uno dei punti deboli del film. Il giudizio sull'opera è controverso, non poteva essere altrimenti visto il taglio sperimentale adottato da Corbucci. È amata da alcuni cultori del genere come Marco Giusti, che la reputa “notevole per storia e personaggi, a metà tra il truce e il comicarolo”. Non è dello stesso avviso Alex Cox che disprezza l'interpretazione di Hallyday, trovando nelle parti con la Fabian gli unici motivi di interesse del film. È il ventitreesimo miglior spaghetti-western di tutti i tempi nella classifica di 800spaghettiwesterns.blogspot.it, dietro però ai vari Django, Il Grande Silenzio, Vamos a Matar Comapaneros e a Il Mercenario, a causa, a suo dire, di una certa lentezza di ritmo. Spaghettiwestern.altervista.org evidenzia come il tema del film sia la “sopraffazione attuata dai ricchi e il loro attaccamento al denaro” e ne consiglia caldamente la visione. Appare invece quarantasettesimo nella classifica di spaghetti-western.net. Più che sufficiente il voto degli utenti di imdb.com. Bocciature, piuttosto ingiustificate, da parte di filmtv.it che concede due stellette e scrive che si tratta di un Corbucci in minore, e ovviamente per il Morandini; una stelletta e mezzo e bacchettata stereotipata come commento: “fa perno sul tema della violenza sfruttato in esasperata chiave sadomasochistica”. Da avere assolutamente in videoteca: ben interpretato, diretto bene anche se con un ritmo lento che accelera progressivamente fino a giungere al finale delirante che lo rende un cult assoluto (i puristi troveranno quest'ultima parte squallida, ma non importa). Un altro film importante dell'annata, pur se dotato di budget inferiore è il sequel apocrifo firmato da Sergio Gorrone che vediamo di seguito, cui fanno seguito altri interessanti western tra i quali il secondo capitolo della saga Sartana. DJANGO IL BASTARDO Produzione: Italia, 1969. Prodotto: Pino De Martino (Sepac), Sergio Garrone, Antonio De Teffé e Antonio Lucatelli (Tigielle 33). 1010 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Regia: Sergio Garrone. Soggetto e Sceneggiatura: Sergio Garrone e Antonio De Teffè. Interpreti Principali: Antonio De Teffè (Anthony Steffen), Paolo Gozlino, Luciano Rossi (Lu Kamante), Rada Rassimov, Carlo Gaddi. Fotografia: Gino Santini. Musiche: Vasili Kojucharov Sottogenere: Revenge Movie. Durata 107 min. Giudizio Mancini: ** Giudizio Morandini: * La trama Django (De Teffè), assetato di vendetta per un tradimento subito sedici anni prima ai tempi della guerra di secessione quando vestiva l’uniforme dell’esercito sudista, torna in paese per uccidere i tre ufficiali che vendettero il plotone ai nordisti. Prima di uccidere i traditori, anticiperà l’omicidio piantando una croce a terra col nome della vittima e la data del giorno corrente. Il commento Sequel apocrifo del Django di Corbucci, con cui non ha nulla a che spartire se non la comunanza del nome del protagonista (si ricorda che il Django di Corbucci era un ex nordista, mentre quello di Garrone è un ex sudista). La particolarità del film sta nell’atmosfera goticheggiante e orrorifica che si respira fin dalla prima sequenza (peraltro molto bella), ambientata in un paesaggio fantasma, con un pistolero solitario che, armato di croce di legno, giunge a portare la morte come un provetto ambasciatore dell’inferno. Ed è proprio la natura del protagonista a differenziare la pellicola da film come Se Incontri Sartana o il Django di Corbucci, perché gli sceneggiatori non si limitano a tratteggiare l’alone ultraterreno del pistolero, ma lo suggeriscono esplicitamente (un po’ come era avvenuto in Sentenza di Morte di Lanfranchi) anche se, sul finale, cadranno in contraddizione facendolo ferire dal personaggio interpretato da Luciano Rossi. La teoria del pistolero spettrale viene tuttavia confermata dalle continue apparizioni e smaterializzazioni del protagonista e soprattutto dalla risposta che egli da alla domanda “Chi sei? Dove vai ora?” quando risponde: “All’inferno, e ti assicuro che non ci si sta bene”. 1011 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Si tratta dunque di un’opera che ruota attorno a un’idea iniziale buonissima e che fungerà da spunto per uno dei capolavori western diretti da Clint Eastwood, vale a dire High Plains Drifter del 1973 da noi noto come Lo Straniero senza Nome. Purtroppo lo script non è all’altezza dello spunto iniziale visto che, al di là di un flashback ben calibrato in cui si mostrano le ragioni che stanno alla base del desiderio di vendetta di Django, propone poco di gustoso e tende, alla lunga, a cadere in ripetizioni, con solo qualche spunto interessante quale, a esempio, il trucco con cui Django distoglie l’attenzione dei suoi ricercatori mettendo nel pugno delle vittime delle banconote. Tra gli aspetti positivi della sceneggiatura, firmata dall’accoppiata Garrone-De Teffè, c'è la caratterizzazione di Django, soprattutto il fatto che anticipi gli omicidi piantando croci al terreno (bella anche la scena dei tre pistoleri che cavalcano i loro destrieri stando crocefissi in sella), e quella del personaggio interpretato da un Luciano Rossi a suo agio nei panni di un folle albino epilettico e protagonista della scena più bella del film, quando blocca Django passandogli un cappio sul collo all’interno di una Chiesa. Per il resto si assiste a una serie infinita di sparatorie, fino all’inverosimile scontro tra le due bande che danno la caccia al protagonista; finiranno per spararsi contro proprio nell’attimo in cui il nostro sembrava sul punto di soccombere. La regia di Garrone è buona e attenta. Da buon specialista dell’horror gotico, crea un’atmosfera decisamente sinistra. Particolarmente belle alcune soggettive. Tra esse la caduta in soggettiva di Hawkins ai piedi di Django, con la macchina da presa che ondeggia a simulare la caduta; oppure la soggettiva sfuocata di Django che scorge tre ufficiali e alcuni movimenti di macchina (su tutti la ripresa aerea con cui si apre il film). Il cast artistico è ricco di molti caratteristi, ma non ci sono attori di grosso calibro. L’italo-brasiliano Antonio De Teffé (che reputerà Django il Bastardo come il suo migliore film) è chiamato a ricoprire i panni di un protagonista mono espressivo. In palla Luciano Rossi, senz’altro il migliore del lotto, che viene scelto per un ruolo più impegnativo dei soliti cammei che gli venivano offerti. Di valore anche la prova della bella Rada Rassimov, che si presta a fare il doppio gioco tra Django e i “cattivi di turno” e omaggia il pubblico maschile con il suo seducente taglio di occhi. Abbastanza scialbi gli altri. Colonna sonora non più che gradevole (soprattutto il tema dolce che viene fatto partire quando Django e la Rassimov si incontrano). 1012 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Fredda ma assai qualitativa, specie nelle scene notturne, la fotografia di Gino Santini che, insieme alle umide e malsane scenografie di Giulia Mafai, contribuisce in modo importante a rendere cupa l’intera vicenda. Nel complesso un western che, per le atmosfere ricreate, gode di un grande prestigio tra i cultori del genere, ma che, di fatto, è privo di quel contenuto romantico e decadente che permette a un western di nicchia di conquistarsi un posto nel cuore degli spettatori. Per gli amanti delle citazioni: “L’avidità rende ciechi gli uomini”. IL PISTOLERO DELL’AVE MARIA Produzione: Italia, Spagna, 1969. Prodotto: Manolo Bolognini (Brc Produzione Film) e Izaro Films. Regia: Ferdinando Baldi. Soggetto: Ferdinando Baldi, Piero Anchisi, Vincenzo Cerami. Sceneggiatura: Ferdinando Baldi, Piero Anchisi, Vincenzo Cerami, Federico De Urrutia, Mario Di Nardo. Interpreti Principali: Leonardo Manzella (Leonard Mann), Pietro Martellanza (Peter Martell), Alberto De Mendoza, Piero Lulli, Luciana Paluzzi, Pilar Velasquez, Luciano Rossi, José Suarez. Fotogafia: Mario Montuori. Musiche: Roberto Pregadio. Sottogenere: Melodramma. Durata 88 min. Giudizio Mancini: ***1/2 Giudizio Morandini: Non Trovato. La trama Generale messicano (Suarez) viene assassinato nella propria abitazione dalla moglie Anna (Paluzzi) e dall’amante della stessa (De Mendoza), un signorotto di nome Thomas. Il militare e Anna hanno due figli: Sebastian (Manzella) viene portato via dalla nutrice che fugge temendo di esser assassinata dalla follia omicida della padrona; Isabel (Velasquez), invece, resta in mano alla madre anche se ha capito che ad assassinare il padre è stata proprio la donna. 1013 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Svariati anni dopo, Rafael (Martellanza), vecchio compagno di giochi di Sebastian, ritrova l’amico e gli racconta i fatti di quella terribile notte di cui Sebastian pare ricordare poco o nulla. Rafael racconta anche di esser innamorato di Isabel, ma di non averla potuta sposare perché Francisco (Lulli), uno scagnozzo di Thomas, lo ha castrato per punizione. I due tornano così nel paese di origine intenzionati a vendicarsi. Il commento. Western prodotto da un Manolo Bolognini alla ricerca di storie più originali e soprattutto di facce nuove da lanciare, dopo le scoperte dei vari Franco Nero (in Django e Texas Addio) e Terence Hill (Preparati la Bara). Si affida ancora a Ferdinando Baldi, ma questa volta proponendo un prodotto diverso dai precedenti spaghetti thriller. Innanzi tutto la storia è ambientata in Messico e non si parla di frontiere, quindi il film può ritenersi un western solo per le sue caratteristiche intrinseche piuttosto che per il contesto ambientale, ma non è questo il fatto innovativo. Come già avvenuto con Il Ritorno di Ringo, Il Pistolero dell'Ave Maria miscela il genere con la tragedia greca (nella fattispecie Sofocle) e lo fa in una misura forse più marcata di quanto non fosse già stato fatto. Lo stesso Baldi, nelle interviste rilasciate nel corso degli anni, affermerà che il film è ispirato alle storie di Antigone e di Medea rivoluzionate in chiave western. Ne deriva un’opera drammatica, dagli alti contenuti tragici, diluita con sparatorie e scazzottate, senza però snaturare troppo il lato oscuro e perdente dei vari personaggi. Gli sceneggiatori, infatti, rinunciano del tutto all’ironia (a differenza di quanto aveva fatto Tessari), concentrandosi su una costante che vale da minimo comune denominatore: la tristezza e il conflitto interiore che pervade ogni singolo protagonista. Sebastian non ricorda l’infanzia a causa di un evento traumatico che lo ho frustrato; Rafael vive un amore che non può donare alla sua amata, perché è un uomo castrato; Isabel è costretta a sposare un uomo che non ama e ha un rapporto combattuto tra odio e amore nei confronti della madre (come si evince dal drammaticissimo finale); Luciana è morsa dai sensi di colpa per essersi macchiata di delitti che hanno diviso la sua famiglia; Thomas sfoga la sua rabbia nei confronti degli schiavi (che fa frustare tremendamente fuori dalla sua reggia), perché Luciana non ricambia il suo amore come lui vorrebbe; Juanito, il personaggio interpretato da Rossi, non vede corrisposto il proprio amore da Isa1014 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

bel che lo ha sposato perché costretta a farlo pur di sottrarsi dalla madre. Già da queste caratterizzazioni emerge in modo netto ed evidente l’atmosfera pessimista e tragica che pervade l’opera. I dialoghi sono conditi da un cinismo macabro (si veda la scena in cui Lulli lascia intendere di aver castrato Rafael), così come gli atteggiamenti degli antagonisti sono freddi e brutali ma mai sopra le righe. Tutti questi aspetti donano un taglio realistico alla vicenda, amplificando il senso di disagio e favorendone una grande partecipazione emotiva alla vicenda. A voler trovare un difetto nello script, citerei l’eccessiva presenza di personaggi secondari, cosa che crea un po’ di disorientamento iniziale nello spettatore anche perché c’è una lunga parte in flashback (sequenze che mostrano gli eventi della notte in cui fu perpetrato l’omicidio da cui tutto ha origine). Alla sceneggiatura troviamo un folto numero di autori. Su tutti spicca Vincenzo Cerami, il cui apporto è decisivo per la piega drammatica data al film, seppur addolcita dagli interventi di Baldi indispensabili per rendere più commerciale il film (con l’introduzione delle scazzottate e di altre trovate tipicamente spaghetti western). Accanto a Cerami e a Baldi troviamo altri tre sceneggiatori di cui il più esperto è Mario Di Nardo (attivo da più di dieci anni e futuro sceneggiatore di B-Movie cult quali i thriller Giornata Nera per l’Ariete di Luigi Bazzoni, Cinque Bambole per la Luna d’Agosto di Mario Bava), il quale vantava anche la regia del poco fortunato Non sta Bene Rubare il Tesoro del 1967 (resterà il suo unico film, visto che dal 1975 si dedicherà solo alla produzione di una terna di film); gli altri due sono autori onesti, ma non in grado di affermarsi a grandi livelli anche se De Urrutia aveva già lavorato in vari western (di secondo ordine) diretti per lo più da Buchs e da Zeglio. Ferdinando Baldi, alla regia, si conferma abile, soprattutto nella seconda parte (la prima è forse un po’ troppo lenta) dove regala un epilogo visivamente straordinario, ricorrendo spesso a ottimi primissimi piani sugli occhi e mostrando un abile capacità onirica (ai limiti dell’horror). Dal punto di vista visivo, inoltre, è fondamentale l’apporto (alla fotografia) di Mario Montuori che non fa minimamente rimpiangere Enzo Barboni, anzi… Baldi, infatti, con l’apporto di Montuori mette in scena un epilogo memorabile che sembra girato all’inferno. Bellissimi i colori delle fiamme che si stagliano nella notte, ancor più belli sono i primi piani di De Mendoza che paiono emergere direttamente dalle fiamme come se fosse un diavolo sulla porte degli inferi. 1015 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Davvero uno dei finali più belli dell’intera cinematografia western italiana. Affollato il cast artistico, con rodati caratteristi affiancati alle nuove scommesse di Bolognini. Il ruolo di protagonista viene affidato a un italo americano, Leonardo Manzella, meglio conosciuto con il nome d’arte di Leonard Mann. Appena trentaduenne, Manzella non si rivela una scelta azzeccata né sotto il profilo squisitamente professionale ne sul versante umano (pare che ebbe vari problemi sul set, per delle reazioni sproporzionate rispetto a quelle che sarebbe stato lecito attendere). Da un mio punto di vista, non era adatto neppure per la sua fisionomia. Ha un volto pulito, da faccia angelo, e non è dotato di quella furbizia che traspariva dai vari Gemma e Hill. Inoltre il suo personaggio è un giovane sofferente, disilluso, ma Manzella non riesce a far emergere queste emozioni. Bisogna dire, a difesa dell’attore, che il film segna il suo debutto nel mondo del cinema e quindi è innegabile la mancanza di quella esperienza che avrebbe potuto aiutarlo nella performance. Nel proseguo della carriera Mann riuscirà a ritagliarsi ruoli da giovane innamorato e da bravo ragazzo, fino a conquistare un ruolo di nicchia nel genere poliziottesco nella veste del commissario integerrimo (il suo poliziottesco migliore è Napoli Spara di Caiano del 1976) senza però raggiungere la popolarità, non solo di attori di culto come Franco Nero, Massimo Merli o Tomas Milian, di attori quali Claudio Cassinelli. Molto più bravo, al punto che all’inizio del film si pensa possa essere il protagonista principale, è Pietro Martellanza, già primo protagonista in Due Croci a Danger Pass (1967) e attore di secondo piano in svariati altri western. Dai tratti del volto simili a quelli di Anthony Steffen, l’attore di Bolzano arriva al film con all’attivo vari film, ma è qui che vede crescere la sua stella, dimostrando l’ottimo fiuto che aveva avuto Colizzi ad averlo richiesto come co-protagonista per il suo Dio Perdona… Io No! (film in cui Martellanza fu sostituito da Terence Hill, perché ebbe un infortunio sul set). Purtroppo Martellanza non si affermerà mai quanto avrebbe meritato, rimanendo confinato nella dimensione dei B-Movie e spesso neppure di quelli di prima fascia (lo ricordo nel thriller non molto riuscito La Morte Accarezza a Mezzanotte di Luciano Ercoli del 1972). Alberto De Mendoza è un altro attore che non convince. Qui lo troviamo nei panni del “cattivo” della situazione, anche se non sfrutta appieno le potenzialità del ruolo (sebbene faccia uso della frusta). 1016 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

L’attore argentino, infatti, ha un volto che sembrerebbe più adatto a una telenovelas (guarda caso è anche argentino) e non ricomparirà in altri film di particolare culto. Molto più spavaldo e cinico è il suo braccio sinistro Piero Lulli. Poco sfruttato il grande caratterista Luciano Rossi, qui alle prese con una sorta di umile derelitto. Ben assortito il cast femminile con molte belle attrici (comprese quelle chiamate a compiere mere apparizioni). La più brava (e anche più bella) è Luciana Paluzzi, la migliore del lotto dopo Martellanza. L’attrice romana non vanta una filmografia di grosso rilievo (anche se la ritroveremo in cult quali La Mala Ordina di Fernando Di Leo e A Tutte le Auto della Polizia) eppure nella fattispecie fornisce una prestazione qualitativa, in un ruolo, peraltro, ben caratterizzato e di una certa importanza per le sorti del film. Unico neo nella sua scelta è quello costituito dall’età, appena trentaduenne mentre il suo personaggio avrebbe dovuto avere almeno cinquant'anni (!?). Più convenzionale la debuttante Pilar Velasquez, che si limita a una prestazione senza infamia e senza lode senza poi ritornare alla ribalta in film di spessore. Da lodare infine la morriconeggiante colonna sonora di un’istituzione della televisione e della radio italiana, cioè il maestro Pregadio (sì, proprio quello della Corrida) che compone un’ottima main theme (scelta, anch’essa, per il videogioco Red Dead Revolver) pur avendo un’esperienza nel mondo del cinema di soli tre anni. Purtroppo, negli anni successivi, Pregadio collaborerà per molti altri film (del genere western solo due e di scarsa importanza) ma senza mai farsi ricordare per colonne sonore particolarmente efficaci. Di sicuro il lavoro fatto nell'occasione è tra i suoi migliori lavori cinematografici. Per gli amanti delle citazioni: “Giurami che la pietà non fermerà mai la tua mano anche se sarà necessario colpire chi ha il nostro stesso sangue.” L'inesauribile Demofilo Fidani, dopo aver girato senza fondi e in appena sei giorni Passa Sartana... è l'Ombra della tua Morte, prende gusto alle lavorazioni fulminee autoprodotte, così scrive e gira, questa volta col suo pseudonimo di routine (Miles Deem), ...E Vennero in Quattro per Uccidere Sartana (1969). Ancora una volta troviamo Nino Scarciofalo protagonista (ossigenato per giunta), questa volta 1017 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

però il budget c'è, misero, ma c'è. Fidani sceglie gli studios di Tirrenia per gli interni e riesce a portare sul set quale direttore della fotografia Luciano Tovoli, al suo unico western. Per Tovoli è il terzo film in carriera, all'epoca è solo una promessa, ma ha già ottenuto una nomination al Nastro d'Argento con Come l'Amore (1968). Lascerà, di lì a poco, un'impronta pesante nella cinematografia italiana. Considerato da Poppi un caso più unico che raro di tecnico che abbia debuttato direttamente alla fotografia, vincerà per tre volte il Nastro d'Argento per le fotografie di Professione: Reporter (1975) di Antonioni, Splendor (1989) di Ettore Scola e Che Strano Chiamarsi Federico (2013) di Scola, oltre un David di Donatello per la fotografia de Il Viaggio di Capitan Fracassa (1990) ancora di Ettore Scola. Oltre ai premi ricevuti come non ricordare poi la pazzesca fotografia di Suspiria (1976) di Dario Argento o la fotografia de Il Deserto dei Tartari (1977) di Zurlini. Lavori che lo porteranno a essere apprezzato e ingaggiato anche in Francia e Stati Uniti, a partire dagli anni '80, soprattutto alla corte dei registi Francis Veber (cinque collaborazioni) e Barbet Schroeder (sette collaborazioni). Dunque un tecnico che innalza il livello della pellicola, sebbene qua non sia presente Aristide Massaccesi. La storia vede un sindaco corrotto (Franco Ricci) operare in segreto a capo di una banda che rapisce ragazze allo scopo di richiedere e riscuotere riscatti. Sartana, che non ha nulla a che fare col personaggio creato da Parolini, su invito dello sceriffo, farà giustizia in soccorso ai poveri e agli oppressi. Per fermarlo, il sindaco ingaggerà quattro mercenari. Niente di memorabile, con l'ormai modaiola trama dai risvolti gialli e un cast artistico poverissimo (c'è anche Umberto Raho) fatto per lo più di stuntman. Occorre comunque dare atto a Fidani di aver cercato di caratterizzare con gusto pulp i suoi personaggi, giusto per dare un minimo di sostanza a uno script abbozzato. A tirare le fila del gioco c'è un individuo dalla doppia vita che si fa chiamare il Mormone anche se non se ne capisce la ragione. Se ne va in giro vestito di nero, con mantellina, cappello a tese lunghe e capelli lunghi che gli scendono sulle spalle a mo' di bravo manzoniano. Fidani, con gusto, lo riprende sempre di spalle. Oggi sembrerebbe un personaggio ispiratore del protagonista di V per Vendetta (2005), ma all'epoca è solo un cattivo coperto da un'aura di mistero, esaltata dall'abitudine di parlare ai suoi uomini dal retro di un ritratto con gli occhi forati. Una soluzione dal retrogusto pitagorico che fa più setta segreta che banda di delinquenti (non a caso l'idea sarà ripresa da Pupi Avati 1018 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

per L'Arcano Incantatore). Franco Ricci, che lo interpreta, arriva dalle crime story, aveva già lavorato con Fidani in Sedia Elettrica (1969), ma soprattutto nei musicarelli. Inutile sottolineare che non è adatto al ruolo, forse per questo Fidani lo nasconde. Farà solo un altro western, e di serie z per giunta, Scansati... a Trinità Arriva Eldorado (1973). Così conciato, il Mormone, se ne va in giro a ingaggiare quattro fenomeni da baraccone per contrastare l'indomabile Sartana. Dagli spettacoli similar-circensi ingaggia Buffalo, un uomo che organizza spettacoli in cui denuda una ragazza a colpi di frusta; è poi la volta di Sullivan, un pugile muscolare che induce, senza neppur tirare un cazzotto, a scappare dai ring di fortuna coloro che osano sfidarlo; vengono poi messi sotto contratto un lanciatore di coltelli messicano e infine, rivolgendosi a un mediatore tedesco (l'ottimo e nobiliare Umberto Raho, che si limita a un cammeo dove sembra quasi mister x di Tana delle Tigri), che ha come motto la frase “I miei uomini non sparano mai alle spalle”, un pistolero capace di aprire le ante degli armadi e di stappare bottiglie con un colpo di pistola. A interpretare i quattro ci sono rispettivamente Roberto Danesi, al terzo film in carriera (farà altri tre western di serie z ritirandosi nel 1973), lo scolpitissimo Pietro Torrisi, aka Peter Torres, che non perde occasione per togliersi la maglietta e dar sfoggio del fisico da culturista, quindi l'asettico brasiliano Celso Faria che era già apparso nei western di Mulargia e che ritornerà presto in patria, infine l'immancabile Benito Pacifico accreditato Dennis Colt. A parte il pistolero di Pacifico, gli altri vengono eliminati da Sartana con grande facilità. Torrisi viene addirittura ucciso da Faria che sbaglia a lanciare il coltello. Danesi invece prende il sopravvento sul protagonista sfilandogli la pistola con un colpo di fusta, ma poi va troppo per le lunghe e si fa disarmare da Sartana. Più interessante il duello finale tra Sartana e il pistolero, con Fidani che cita Johnny Oro (elemento del medaglione che abbaglia per il riflesso solare l'avversario) e inserisce un doppio colpo di scena. Vediamo infatti Sartana crollare a terra come se fosse morto e Pacifico che sale a cavallo e si muove in modo trionfante, poi però Sartana si rialza e l'altro cade di sella ferito letalmente. Pacifico è l'ennesimo stuntman provetto e persino maestro d'armi che Fidani inventa attore principale. Aveva già avuto ruoli marginali in diversi spaghetti-western, ma è con Passa Sartana... è l'Ombra della tua Morte che Fidani lo propone come cattivo dei western di serie z. 1019 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Diventerà un feticcio del regista sardo, presente in tutti i suoi film, ma molto apprezzato da altri registi per le doti acrobatiche. Avrà molti ruoli da comparsa nel poliziottesco, quasi sempre non accreditato, e nelle pellicole di Bud Spencer, continuando a lavorare nel cinema fino agli inizi degli anni '90. Suo figlio Claudio sarà uno dei più apprezzati stuntman della cinematografia mondiale lavorando in grandi produzioni americane quali U-571, Gangs of New York e Pirati dei Caraibi. Più esperto invece il catanese Pietro Torrisi che arriva dal peplum, dove aveva avuto ruoli da controfigura (tra gli altri di Gordon Scott) fino ai collettivi I Dieci Gladiatori (1963) di Parolini e Sette Contro Tutti (1965) di Lupo, e da una serie di spaghetti-western in cui non era accreditato. Avrà ruoli da caratterista fino a metà anni '90, finendo pure intervistato da Marco Giusti a Stracult. Indimenticabile, per i fan di Bud Spencer e per i tirreniesi come chi vi scrive, sarà il suo ruolo di capo buttafuori del pub di Bomber (1982). Comparsate varie anche ne Lo Chiamavano Trinità (1970), Un Genio, due Compari, un Pollo (1975), fino a ricevere un ruolo da protagonista nello sconclusionato clone di Conan diretto da Prosperi, ovvero Gunan il Guerriero (1982), dopo il quale saranno girati altri tre film del genere con Torrisi nella veste di Schwarzenegger dei poveri e accreditato Peter McCoy. “Il mio lavoro è fare tutto, prendere a cazzotti, uscire a destra e a sinistra dopo i vari colpi” questa la descrizione che l'attore fa di se stesso. Quando Robert Altman arriverà a ingaggiarlo, alla domanda del regista rivoltagli circa la sua padronanza con l'inglese, l'attore siciliano risponderà: “Io non conosco neppure l'italiano... io parlo u Catanese!” Fidani, dal canto suo, fa quello che può, appare anche in un cammeo con un paio di assurdi occhiali da sole. Da un punto di vista tecnico non è neanche male, regala dettagli su pistole, mani e diverse mezze soggettive molto buone. Riesce persino ad adattare la boscaglia mediterranea, con tanto di pini marittimi, alle ambientazioni western. Purtroppo paga una sceneggiatura raffazzonata ed è un peccato perché con una maggiore cura in sede di scrittura sarebbe potuto essere un western divertente. È comunque uno dei film più riusciti del regista. Ritorna al western anche Julio Buchs, molto apprezzato in occasione de E Divenne il più Spietato Bandito del Sud (1967) tanto da ricevere un budget molto più importante e da cogliere l'attenzione di una coproduzione italo-spagnola che coinvolge il duo costituito da Elio 1020 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Scardamaglia e Gian Domenico Leone, già produttori di svariati western, molti dei quali diretti da Castellari. Buchs arriva da un tonaca movie e da un thriller con venature erotiche, I Caldi Amori di una Minorenne (1969), non troppo riusciti. Girerà in seguito altri tre film, di cui due commedie, morendo prematuramente nel 1973. Nonostante la presenza di due produttori italiani di medio alto calibro, per il genere, il film assume un'anima più spagnola che italiana tanto che attualmente è quasi impossibile trovarlo in italiano. Viene distribuito con il bellissimo titolo de Quei Disperati che Puzzano di Sudore e di Morte (1969) e poggia su un soggetto tutto ispanico firmato, oltre che dal regista, da José Luis Martinez Molla e Federico de Urrutia, due specialisti di cinema di genere. Martinez è l'uomo di fiducia di Buchs, era stato lui a scrivere i primi copioni per la regia dello spagnolo, tra essi Django non Perdona (1966), comparendo poi anche tra gli autori de L'Ira di Dio (1968) prodotto da Scardamaglia per Cardone. Specializzato inoltre nelle spy story, Martinez aveva sceneggiato agli ordini di Stegani e Lupo, con titoli quali Colpo Maestro al Servizio di sua Maestà Britannica (1967). Celebri poi i cult movie Una sull'Altra (1969) di Fulci e il macaroni combat La Battaglia di Inghilterra (1969) di Castellari. Contribuirà in seguito, fino alla fine degli anni '70, alla stesura di un'altra decina di film tra i quali l'ultimo di Buchs, ovvero Doppia Coppia con Regina (1972), il capolavoro giallo Una Lucertola con la Pelle di Donna (1971) e il bellissimo war movie Contro 4 Bandiere (1979) di Lenzi. Più specializzato nel western invece de Urrutia, il quale dopo aver scritto svariati paella western era stato scelto da Marchent per I Sette del Texas (1964) finendo per lavorare nelle piccole produzioni della Pea di Grimaldi. La presenza di uno sceneggiatore come de Urrutia porta al copione una spiccatissima componente melodrammatica che fa de Quei Disperati un tipico western alla Joaquìn R. Marchent. L'opera si apre infatti con un dramma ovvero il decesso della fidanzata del protagonista, un George Hilton con un ruolo diverso rispetto ai suoi canonici, incapace di sopravvivere al parto del figlio. L'uomo prenderà con se il pargoletto chiedendo aiuto e sostegno al popolo, ma verrà respinto malamente perché lui è un gringo e non un messicano. Non riuscirà così a curarlo e nutrilo come si deve, complice anche un'epidemia di colera. Il poverino morirà di stenti, suscitando le ire del padre della madre, uno strepitoso Ernest Borgnine (latifondista messicano accecato dal dolore della perdita della figlia), disposto a tutto pur di uccidere il protagonista. Arriverà 1021 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

addirittura a richiedere e ottenere l'intervento dei militari, pur di mettere in atto la sua vendetta. Hilton intanto, avendo ammutinato dall'esercito sudista per stare accanto alla fidanzata, colmo di rabbia (involuzione del personaggio), intraprenderà la carriera criminale ponendosi a capo di una banda. Obiettivo numero uno è scagliarsi contro chi non lo ha aiutato donando un po' di latte per il neonato. Dunque due personaggi, l'uno contro l'altro, alla ricerca di una vendetta dai contorni tragici che non potrà mai consolare i loro cuori. Finale antologico dai tratti fortemente crepuscolari che non anticipo, dico solo che è ambientato in un'arena. Il film vanta quindi un copione più originale della media e un cast nobilitato dalla presenza di un grande personaggio come Ernest Borgnine, pseudonimo di Ermes Borgnino. Attore italianissimo, originario di Carpi (dove sarà omaggiato a inizio secolo), ma nato e cresciuto negli States. Premio Oscar e Golden Globe quale miglior attore protagonista in Marty, Vita di un Timido (1956) di Delbert Mann, preferito a mostri del calibro di Frank Sinatra, James Dean e Spencer Tacy, Borgnine non è l'usuale attore americano che giunge in Europa perché in parabola discendente, ma è un divo di hollywood ancora in auge per le partecipazioni in cult assoluti quali i western Vera Cruz (1954) di Aldrich, Alamo (1955) di Lloyd e il Mucchio Selvaggio (1969) di Peckinpah, per non parlare del war movie Quella Sporca Dozzina (1967) di Aldrich. Lo ritroveremo in altri cult quali L'Imperatore del Nord (1973) di Aldrich, il road movie Convoy (1978) di Peckinpah, lo sci-fi The Black Hole (1979), il nostro Poliziotto Superpiù (1980) e soprattutto, nel ruolo di tassista di Jena Plissken, in 1997 Fuga da New York (1981) di John Carpenter. Se Borgnine garantisce lustro alla pellicola, non sono da meno le belle musiche di Gianni Ferrio. Buono poi il ritmo e la scelta di introdurre alcune sequenze caratterizzate da un certo gusto per la violenza (si veda il prologo, con un soldato sciacallo che sottrae denti d'oro e anelli ai morti amputando direttamente le dita). Scene queste ultime che hanno portato qualcuno a sostenere che anche Lucio Fulci abbia messo mano alla regia, notizia infondata, come avrà modo di spiegare in più di un'intervista George Hilton, e confusa col set del precedente western di Buchs. Tom Betts afferma che chi lo vede lo aggiunge alla propria collezione. Il problema sta nel reperirlo, specie in lingua italiana. Amatissimo anche da Hilton, che ha per una volta un ruolo drammaticissimo (“al1022 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tissimo spessore recitativo” per spaghettiwestern.altervita.org), si tratta di uno dei migliori esempi di western diretti da un regista spagnolo. Purtroppo Buchs non avrà tempo per girarne altri. “Pellicola memorabile” afferma spaghettiwestern.altervista.org. Apprezzatissimo all'estero dove invece si trova molto bene. SONO SARTANA, IL VOSTRO BECCHINO Produzione: Italia, 1969. Prodotto da: Aldo Addobbati e Paolo Moffa (Società Ambrosiana Cinematografica). Regia Giuliano Carnimeo (Anthony Scott). Soggetto: Tito Carpi. Sceneggiatura: Tito Carpi, Ernesto Gastaldi, Enzo Dell’Aquila, Giovanni Bergamini. Interpreti Principali: Gianni Garko, Frank Wolff, Klaus Kinski, Gordon Mitchell, Ettore Manni, Sal Borgese Fotografia: Giovanni Bergamini. Musiche: Vasco Mancuso Sottogenere: Caccia al tesoro. Durata 102 min. Giudizio Mancini: *1/2 Giudizio Morandini: *1/2 La trama Sartana (Garko), baro abile nel gioco delle carte, è braccato dai bounty killer e dagli uomini di legge perché ritenuto colpevole di una rapina che gli avrebbe fruttato 300.000 dollari. Per niente intimorito dal suo status di ricercato, il pistolero cerca di far luce sulla vicenda e di scoprire chi sia il delinquente che ha fatto cadere tutti gli indizi su di lui. Ad animarlo però non è tanto il desiderio di provare la propria innocenza, ma quello di mettere le mani sull’intero malloppo. Il commento Pellicola considerata di grande culto dagli amanti del genere, ma che a mio avviso merita di essere ricordata, più che per il suo livello qualitativo, per essere il primo western di un certo successo diretto da Giuliano Carnimeo. 1023 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Carnimeo, all’epoca trentasettenne, aveva già alle spalle una discreta esperienza come aiuto regista di Steno, Carlo Campogalliani e di Giorgio Simonelli (con cui aveva collaborato in occasione di una parodia di Franco & Ciccio dal titolo I Due figli di Ringo) nonché come regista dei western Joe, Cercati un Posto per Morire (anche se c’è chi sostiene che questo film sia stato diretto da Hugo Fregonese) e il più riuscito Il Momento di Uccidere, entrambi usciti nel 1968. Con questo Sono Sartana, il Vostro Becchino (titolo che deriva da una battuta recitata da Sartana a termine di una partita a poker), Carnimeo raccoglie il testimone lasciato da Gianfranco Parolini e dal suo Se Incontri Sartana... Prega per la tua Morte per proseguire quella che sarà la lunga serie del pistolero Sartana (oltre a questo, girerà altri tre sequel) e poi dare vita ad altri pistoleri bizzarri quali Camposanto, Alleluja, Spirito Santo” e Tresette. Come già sperimentato ne Il Momento di Uccidere, Carnimeo, nell’occasione coadiuvato da un poker di sceneggiatori di interessante calibro, tra cui spicca l’immenso Ernesto Gastaldi (sceneggiatore di perle western come I Giorni dell’Ira, Il mio Nome è Nessuno, ma anche di moltissimi cult thriller e polizieschi), punta tutto su un’impronta farsesca con soluzioni che sconfinano nel grottesco. Tale inclinazione per gli eccessi caratterizzerà l’intera produzione del regista il quale, nel corso della sua carriera, si avvicinerà sempre più alla commedia, rinunciandovi in rare occasione con risultati catastrofici come l’horror Quella Villa in Fondo al Parco (1987) e il post-atomico Il Giustiziere della Strada (1984). Ne deriva un’originalità ricercata in modo esasperato, oltre i limiti del verosimile, anche se ancorata a un’impostazione che non si discosta molto dai canoni tipici del genere. Vengono così fatte passare per verosimili delle invenzioni folli (in senso positivo) come una pistola che, anziché sparare proiettili, spara dadi da gioco (con tanto di fabbricante incaricato di eseguirla: una sorta di precursore di Hattori Hanzo, per fare un parallelo con la filmografia di Quentin Tarantino), o un pistolero dandy (veste con giacca e cravatta) che si diletta nel compiere giochi di prestigio in cui fa scomparire monete e pistole alla stessa maniera di un’illusionista. Il desiderio di stupire, inoltre, non si limita alle caratterizzazioni dei personaggi ma si estende alla regia; Carnimeo ricerca soluzioni stilistiche innovative, come testimonia la scelta di riprendere i duelli inquadrando in campo medio un personaggio per poi ruotare la macchina da presa di novanta gradi non appena lo stesso viene ucciso, 1024 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

quasi a seguire la caduta del morto. Massiccio l’utilizzo degli zoom e delle soggettive, tanto che alcune sequenze sembrano estratte più da un thriller che da un western (non a caso Carnimeo si lascerà ricordare anche per un thriller di grande culto, girato nel 1973, dal titolo Perché Quelle Strane Gocce di Sangue sul Corpo di Jennifer?). Nonostante i vari difetti e gli eccessi di virtuosismo, si deve comunque dare atto al regista di esser stato capace di girare delle sequenze che faranno storia nella filmografia nostrana, tra tutte l’inquadratura che sarà ripresa da Dario Argento in Profondo Rosso, ovvero il primo piano di un occhio che, da un foro in una parete, spia ciò che avviene all’interno di una stanza. Se da un punto di vista delle caratterizzazioni dei personaggi non si può accusare gli autori di non esser stati originali, lo stesso non può dirsi per il soggetto di Tito Carpi (abituale collaboratore di Castellari). Viene infatti proposto una sorta di giallo in salsa western condito da una forte componente grottesca, ma privo del pathos necessario a coinvolgere lo spettatore. Anche i dialoghi non aiutano la resa del film, sebbene Carnimeo possa vantare di un cast artistico di primo livello ma non sfruttato a dovere. Solo quando entra in scena Klaus Kinski (interpreta un cacciatore di taglie) il film acquisisce un certo interesse, ma purtroppo il ruolo dell’attore polacco è solo marginale; al riguardo è molto carina la scena con Kinski che, a bordo di una diligenza sulla quale sta viaggiando, uccide un gruppo di banditi che volevano rapinare i viaggiatori e poi fa caricare i cadaveri sul tetto del mezzo e dirotta la diligenza in città per riscuotere le taglie. Assai simpatiche alcune battute recitate dallo stesso Kinski (“Non preoccupatevi, quando sparo non faccio mai del male, ammazzo sul colpo”) che va in giro senza tenere il c.d. colpo in canna (come si direbbe oggi), dicendo: “ho sempre un colpo in meno, così mi resta il tempo di pensarci un po’; sono un impulsivo”. Per il resto non c’è molto di interessante. Anche la volontà di mettere al centro del film l’elemento del gioco (si assiste a un campionario di giochi di azzardo e scommesse quasi senza precedenti nella storia dello spaghetti western: si gioca persino alle macchinette, oltre che a poker, alla roulette e ai duelli di pistola), reso evidente persino dal nome ironico della cittadina in cui è ambientato l’epilogo ovvero Poker Fall, pur essendo un’ottima idea si rivela scarsamente riuscita. L’elemento del gioco, infatti, è appena abbozzato e del tutto privo degli approfondimenti del caso, che sono limitati a una caratterizzazio1025 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ne meramente superficiale della città, definita dallo sceriffo nei seguenti termini: “qui basta pagare e non pestare i calli a nessuno: sono tutti gentaglia”. Sufficiente la colonna sonora di Mancuso, meno brillante la fotografia. In definitiva un western con attori di culto, più orientato al comico e con soluzioni bizzarrissime non sfruttate a dovere causa un soggetto incapace di calamitare l’attenzione degli spettatori. Mediocri i dialoghi. Occasione più sprecata che altro. E DIO DISSE A CAINO Produzione: Italia-Germania, 1969 Prodotto: Giovanne Addessi (Dc7 Produzioni) e Peter Carsten (Peter Carsten Produktion). Regia: Antonio Margheriti (Anthony Dawson) Soggetto: Giovanni Addessi. Sceneggiatura: Giovanni Addessi e Antonio Margheriti. Interpreti Principali: Klaus Kinski, Peter Carsten, Antonio Cantafora, Marcella Michelangeli, Giuliano Raffaelli, Luciano Pigozzi. Musiche: Carlo Savina. Fotografia: Riccardo Pallottini e Luciano Trasatti. Durata 98 min. Giudizio Mancini: **1/2 Giudizio Morandini: Non trovato. La trama Dopo dieci anni di lavori forzati per una rapina mai compiuta, Gary Hamilton (Kinski) beneficia di una grazia e viene liberato. L’uomo acquista un fucile e un cavallo e decide di tornare al paese di origine. L'obiettivo è uccidere coloro che lo hanno incastrato e cioè Acombar (Carsten) e Maria (Michelangeli). Il primo è un boss che si è impossessato della casa di Hamilton e ha assunto il controllo dell’intero paese alla guida di una banda di mercenari; la seconda è la ex donna di Hamilton che, al processo, ha mentito non confermando l’alibi dell'uomo in quanto pagata dal vero autore della rapina: Acombar. Ha così inizio una notte di fuoco, accompagnata da turbini di vento e sabbia. 1026 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Commento Dopo aver diretto l’interessante western gotico Joko, Invoca Dio e Muori - subito seguito da un paio di film di altro genere (il drammatico Io ti Amo e l’horror poco riuscito Nude… si Muore) - Antonio Margheriti ritorna sui propri passi con E Dio disse a Caino. Il progetto nasce per volontà di Giovanni Addessi che propose il film a Margheriti come progetto per ritornare al cinema dopo qualche anno di pausa. Addessi infatti, in qualità di organizzatore generale, aveva già lavorato con Margheriti per la realizzazione dell’horror gotico Danza Macabra (1963), uno dei capolavori del regista, ma si era poi ritirato a seguito dello scarso successo di alcuni suoi film. Poco convinto dal budget proposto da Addessi, Margheriti, sulle prime, rifiuta poi accetta, in via di favore, di revisionare la sceneggiatura del produttore e infine di portarla in scena in sole tre settimane (alcune fonti parlano di sette) su un set allestito vicino Roma. Lo stesso Margheriti dirà di non aver mai visto il film. Lo script è tutt’altro che originale, addirittura si dice scopiazzato da un film semi sconosciuto di un anno prima, cioè Uno Straniero a Paso Bravo di Salvatore Rosso con Anthony Steffen protagonista. Da esso, oltre all’idea generale, vengono mutuati persino i nomi dei personaggi. Forti sono anche le similitudini con Django il Bastardo da cui si riprende l’elemento del pistolero fantasma, anche se in modo meno ambiguo di Garrone, e tutta la mattanza notturna ambientata in un paese deserto col protagonista che compie la sua vendetta apparendo, di volta in volta, da un nascondiglio diverso mentre tutti gli danno la caccia. Se sulla carta il film si presenta come un qualcosa di già visto, occorre sottolineare che la messa in scena e la regia, nettamente superiori a quelle dei due film sopra citati, sono tali da fare di E Dio Disse a Caino uno dei western gotici più riusciti. Margheriti, difatti, mette al servizio dell’opera tutta l’esperienza maturata con gli horror. Troviamo quindi pipistrelli che berciano nella notte, finestre che si aprono sotto la spinta del vento, porte socchiuse che sbattono, rintocchi di campane che suonano in modo ossessivo e poi lenzuoli che volano nella notte e un vento continuo che genera nebbie fatte di pulviscolo e filamenti di paglia. L’elemento di forza è la messa in scena e soprattutto le atmosfere, con una regia che dilata le sequenze all’inverosimile col fine, spesso raggiunto, di suscitare tensione. 1027 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Dopo un breve prologo in cui si mostra la liberazione del protagonista e i suoi preparativi per giungere in città, si entra nel vivo senza badare troppo alle caratterizzazioni dei personaggi o ai flashback o a qualunque altra trovata finalizzata a rimpolpare la sceneggiatura. Gli autori puntano sull’azione (i morti e le sparatorie non si contano) e sul taglio spettrale-orrorifico. Alla stregua de Django il Bastardo, i mercenari temono di affrontare un fantasma. Molte le sequenze degne di nota, alcune delle quali eccezionali. La prima di esse è quella che ha inizio con l’arrivo di Kinski in paese quando, atteso da un plotoncino di pistoleri, scompare d’improvviso avvolto in una nube di polvere da cui fuoriuscirà solo il suo cavallo scosso. “Aspetto il vento, andrò con lui” aveva detto poco prima Kinski al vecchio che gli aveva venduto il fucili, in una metafora in cui si utilizza la tempesta meteorologica come elemento rafforzativo della tempesta di piombo che investirà la città. La sequenza viene seguita da un'altra in cui Kinski cammina in una grotta sotterranea inseguito da un indiano che si appresta a sparargli alle spalle, decisivo, a favore del protagonista, è il rumore prodotto da alcune gocce di acqua che cadono dalle pareti in una pozzanghera. Dopo queste sequenze interessanti si scende nell’orrore più classico, con l’apice che si raggiunge quando Kinski, facendo fuoriuscire un braccio da una botola, afferra le gambe di un pistolero e lo fa cadere a terra proprio nel momento in cui viene fatta cadere la campana del campanile con la stessa che, ripresa in primo piano, finisce la sua corsa sulle gambe del malcapitato. E poi ancora altre sequenze cruente come quella in cui una mandria di cavalli, liberata dalla stalla, scappa furiosa per la città e calpesta tutti coloro che si trovano sul suo cammino o quella in cui Carsten uccide un prete dopo averlo preso a schiaffi e via dicendo. Il clou del film lo si raggiunge col finale, in una sequenza che sarà citata da Il mio Nome è Nessuno di Tonino Valerii e soprattutto dall’epilogo de I Tre dell’Operazione Drago di Bruce Lee, con Margheriti che propone un duello che si consuma in una stanza, parzialmente in fiamme, piena di specchi, con Carsten che cerca di sparare a Kinski ma infrange solo i vetri su cui è riflesso l’avversario finché non scarica la colt. Siamo dunque alle prese con un western tecnicamente notevole, ma non straordinario sotto il profilo della sceneggiatura, con personaggi piuttosto stereotipati. Da una parte c'è il solito vecchio padrone avido di denaro nei panni dell’antagonista (“quello che conta, oggi, è solo avere soldi” dice al figlio, maneggiando pugni di banconote e mo1028 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nete d’oro), dall'altra il triste pistolero in cerca di vendetta (per questo a fine film lascerà tutto il denaro e l’oro ai cittadini). Buon lavoro da parte del cast tecnico che non risente troppo del limitato budget. La fotografia dell’accoppiata Pallottini-Trasatti, dapprima calda e poi via via più cupa, è apprezzabile, sufficiente la colonna sonora di Savina, ottime le scenografie di Mario Giorsi. La carenza di budget si riflette, piuttosto, sul cast artistico che propone un lotto di attori non molto ben assortito. Nei panni dell’eroe abbiamo un Klaus Kinski che, per una volta, accantona il suo istrionismo, dando corpo a un personaggio schivo e silente, ma con una sua etica (“Le colpe dei figli non devono ricadere sui padri” afferma quando non spara al figlio del suo rivale). Bravo nella scena in cui si mostra alla sua ex donna, alzando piano piano il capo tenuto inizialmente basso a contemplare il fucile che ha in braccio. A fargli da contrappeso c’è un burbero Peter Carsten che partecipa anche come co-produttore. Se Kinski era un volto notissimo dagli amanti di film di genere lo stesso non poteva dirsi del suo antagonista. Definito dalle sue ammiratrici “il gigante biondo” per il fisico alto e robusto, Carsten era un attore tedesco con alle spalle una carriera quasi ventennale ma tutt’altro che trascendentale. Si era già confrontato con lo spaghetti western partecipando al film di Maurizio Lucidi Due Once di Piombo – Il mio Nome è Pecos, dove però aveva ricoperto un ruolo marginale rispetto a quello di E Dio Disse a Caino. Le esperienze cinematografiche di Carsten erano per lo più limitate a film tedeschi quasi mai distribuiti nel nostro territorio, con l'aggiunta di un ristretto numero di film italiani - non di particolare successo - dove di solito compariva in ruoli secondari. La sua prova in questo western non è delle più esaltanti, ma tutto sommato riesce a fare la sua figura tanto da essere confermato anche nel successivo horror di Margheriti Nella Stretta Morsa del Ragno. Non lascia tracce memorabili la bella ma poco convincente Marcella Michelangeli (le parti in cui urla sono poco credibili e, di fatto, offre il meglio di sé solo quando Margheriti inquadra le gambe che le fuoriescono da vestiti peraltro piuttosto castigati), qui in uno dei suoi primi film (la rivedremo nel western di debutto di Sergio Martino Arizona si Scatenò e li Fece Fuori Tutti e in cult poliziotteschi come Il Grande Racket e Mark il Poliziotto). Stesso discorso per la meteora crotonese Antonio Cantafora (qualche anno dopo interpreterà un personaggio costruito a immagine e somiglianza di Terence Hill nella 1029 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

saga Carambola), in un ruolo piuttosto inutile ai fini della storia (sembra esser stato inserito tanto per mettere un belloccio un po’ impacciato). Margheriti lo pesca dall'horror Ombre Roventi (1969) di Caiano e lo lancia nello spaghetti-western dove Baldi cercherà di consacrarlo quale Terence Hill dei poveri, imitato da Albertini e da altri registi che ne faranno un attore da sorrisi e cazzotti con titoli quali Crash! Che Botte... Strippo, Strappo, Stroppio (1973). Tentativi poco fortunati che lo rilegheranno a una carriera da caratterista. Comparirà per l'ultima volta nel giallo argentiano Il Cartaio (2004). Ruoli marginali per tutti gli altri. Il film viene ricordato dagli esperti come il miglior western di Antonio Margheriti; a mio avviso, si può essere d'accordo da un punto di vista tecnico ma non certo sotto il profilo della sceneggiatura. Nonostante i limiti di script, c’è persino chi afferma, un po’ arditamente, che Clint Eastwood si sarebbe ispirato a questo film per il suo masterpiece Gli Spietati. Carina, ma non eccezionale la main theme Rocks, Blood and Sands cantata da Don Powell. Per gli amanti delle citazioni: 1) “Se l’innocenza va pagata con il carcere, io ho il diritto di uccidere anche se poi Dio dirà anche a me quello che disse a Caino”. Nella settimana di Natale esce La Notte dei Serpenti, quarto, atteso, western di Giulio Petroni, ormai da annoverarsi a pieno titolo tra gli specialisti del genere dopo i successi di Da Uomo a Uomo (1967), ...E per Tetto un Cielo di Stelle (1968) e soprattutto Tepepa (1969). A produrre la pellicola troviamo i giovani Franco Clementi (al suo secondo film, dopo il debutto con Tepepa) e Gianni Minervini definitivamente passato al ruolo di produttore dopo un passato da comparsa e subito dopo da direttore di produzione (peraltro di due dei tre precedenti western di Petroni). Minervini avrà modo di fare fortuna, ma non nel western. Il suo nome resterà legato a circa quaranta prodotti, tra cinema e televisione, tra i quali cult come il thriller Macabro (1980) di Lamberto Bava, i capolavori horror La Casa dalle Finestre che Ridono (1976) e Zeder (1983) di Pupi Avati, nonché i premiati e più impegnati Marrakech Express (1989) e Mediterraneo (1991), entrambi per la regia di Gabriele Salvatores. Dunque un nome 1030 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

che avrà modo di lasciarsi ricordare, e che già da questo primo film ottiene una certa considerazione. Alla sceneggiatura viene concessa fiducia a Fulvio Gicca Palli, convincente con il western Il Tempo degli Avvoltoi (1967). Lo coadiuva Enzo Gicca Palli, meno brillante con lo sconclusionato Thompson 1880 (1966). Si tratta di due autori spesso coinvolti in clamorosi flop e in seguito incapaci di imporsi, se non in rare occasioni come con Il Corsaro Nero (1971) per Enzo Gicca Palli (opera con cui tenterà anche la via della regia, perdendosi poi nel nazi-porno) e Girolimoni, il Mostro di Roma (1972) per Fulvio. Ne deriva una sceneggiatura mal calibrata che prende le mosse da un prologo vagamente ispirato a quello di Da Uomo a Uomo (irruzione in una notte di pioggia all'interno di una casa con relativo omicidio) per diventare sempre più macchinosa e pesante. Non si ravvisano idee originali, sebbene sembri intenzione degli autori dar vita a un western insolito, come dimostrano la curiosa ambientazione (tutta in Messico) e l'innegabile retrogusto drammatico - poliziesco. Tutto ruota attorno al piano ordito da quattro parenti intenzionati a uccidere un bambino di dieci anni, anch'esso loro parente, per incamerare la corposa eredità beneficiata dallo stesso. I quattro però devono vedersela con un tenente corrotto, che ha scoperto il loro proposito e pretende quindi di entrare nell'affare, e un pistolero ubriacone ingaggiato, suo malgrado, per uccidere il bimbo e venire quindi giustiziato quale capro espiatorio del delitto. “Il gringo è meno di un cane”, assicura il capo banda rivoluzionario che lo ha raccolto nel deserto, prima di venderlo al tenente corrotto, “Lo chiami con un fischio e lo scacci con un calcio”. E in effetti l'americano è un vero e proprio derelitto, costretto dai messicani a pulire gli stivali, a bere tequila mischiata a urina e a girovagare completamente ubriaco per dimenticare il grave episodio che ne ha intaccato l'anima: ha ucciso un bimbo durante un gioco di abilità con la pistola, al riguardo è assai disturbante la scena mostrata in flashback nel corso del film. Queste le premesse di una storia che trascorre lentamente, con poche sparatorie e un eccessivo soffermarsi sulle personalità dei personaggi (che sono davvero tanti). Sotto questo profilo sono assai ripetitive le sequenze che vedono Chelo Alonso, nei panni di una prostituta dai modi assai volgari, provocare Franco Valobra, chiamato a interpretare un sacrestano un po' ritardato. 1031 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Più interessante, anche se per nulla originale e ripresa da chorizo western quali Cavalca e Uccidi (1964), è l'attenzione prestata nel mostrare la lenta redenzione del protagonista che, da lustrascarpe abbandonato a sé stesso, vince la schiavitù dall'alcool e chiude i conti con i fantasmi del passato grazie all'amore per una donna e per un bimbo maltrattato da mezzo paese. Eloquente il senso di smarrimento dell'uomo quando risponde all'invito della donna che cerca di curarlo. “Se mangi il peyote sei più vicino a Dio” gli dice la giovane. Il nostro, con fare aspro, risponde: “Come si fa ad avvicinarsi a qualcosa che non esiste!?” A poco a poco però il pistolero riprenderà dimestichezza con la pistola, al punto da far sbottare coloro che lo avevano ingaggiato per usarlo per i loro biechi scopi. “Per uccidere Pancho e Pepe ci volevano dieci uomini e il gringo era solo la metà di un uomo!” urla il capo rivoluzionario. “Anche noi credevamo così e invece, all'improvviso, è diventato come un gigante e sparava come se avesse avuto due pistole per ogni mano!” Si tratta comunque di brevi passaggi ben riusciti, disseminati in una storia che stenta a carburare e che si chiude in modo frettoloso, poco convincente e con un epilogo stereotipato e poco giustificato. Eliminato il tenente e tutta la ciurma dei parenti del bimbo, il pistolero decide di andarsene via da solo in mezzo al deserto ormai liberato dai drammi del passato, salutando la donna e il bimbo (cioè coloro che lo hanno portato alla redenzione) preferendo un destino incerto. Petroni inventa poco, sia alla regia (largo ricorso agli zoom) sia come supporto alla sceneggiatura. Tra le trovate più curiose si segnala un'assurda evasione del protagonista, grazie all'inserimento all'interno della serratura della cella di polvere da sparo estratta dalle pallottole (non si capisce perché le guardie non abbiano tolto il cinturone al prigioniero prima di incarcerarlo!?) e poi fatta esplodere con una miccia di fortuna. Notevole invece, sotto il profilo registico, il prologo dall'intenso gusto thrilling dove Petroni mette in scena un omicidio preterintenzionale, inquadrando il tutto con la macchina da presa posizionata fuori da una finestra i cui vetri sono battuti da una pioggia torrenziale che deforma l'immagine. Povero il cast artistico. Ci sono il bravo Luigi Pistilli (da tutti indicato in una delle sue migliori performance), promosso a primo antagonista, e il trentasettenne americano Luke Askew, reduce dal capolavoro di Dennis Hopper Easy Rider (1969), alla sua unica partecipazione in una pellicola italiana. Askew, personaggio dall'aspetto da figlio 1032 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dei fiori per via della lunga chioma bionda, regge abbastanza bene in veste di protagonista, specie nella parte in cui appare ubriaco e sbandato. Avrà fortuna in seguito soprattutto nel circuito televisivo americano partecipando, dalla seconda metà degli anni '70 e per tutti gli anni '80, a dozzine di fiction tv ma anche, con piccoli ruoli, a svariati western hollywoodiani di prima fascia tra i quali I Magnifici Sette Cavalcano Ancora (1972) di George McCowan, Pat Garrett e Billy Kid (1973) di Sam Peckinpah e I Giustizieri del West (1976) di Kirk Douglas. Piccolo ruolo per la modella polacca Magda Konopka, qua decisamente spenta per quel che concerne l'espressività del volto e costretta in un ruolo che pare anch'esso uscito da un film dei figli dei fiori (la donna infatti ricorre a droghe per entrare in contatto con gli spiriti). Eccessivamente sopra le righe la cubana Chelo Alonso (qui al suo ultimo film). La vediamo, in alcuni passaggi, posseduta da una frenesia che pare innescata dal demonio, viste le condotte sconce che assume, ai limiti dell'incesto, e che sono del tutto fuori luogo per un western. Bravo invece Guglielmo Spoletini, nei panni di un rivoluzionario che passa da una parte all'altra talvolta per denaro talvolta per ideali. C'è anche Benito Stefanelli, caratterista che è sempre un piacere vedere all'opera. Nel complesso, a mio avviso, si tratta di un western bizzarro come struttura, ma molto lento nello sviluppo, sebbene ben interpretato e impreziosito dalla discreta colonna sonora di Riz Ortolani e dall'ottima fotografia del duo Mario Vulpiani e Silvio Fraschetti. Al di là del mio giudizio, in molti considerano La Notte dei Serpenti un gioiellino, qualcuno addirittura un capolavoro. Carlos Aguilar arriva a dire che il film è la miglior opera del regista (!?) per essere uno dei più strani western mai concepiti. L'opinione del celebre critico spagnolo mi pare quanto mai ardita, ma la registro per dovere di completezza. Parole dolci anche da parte di Marco Giusti che ritiene il film di gran culto e violento (probabilmente per le violenze che subiscono i bambini e un pestaggio cui viene sottoposto Askew costretto a parlare con un cappio metallico stretto sulla fronte). Si schiera dalla parte del film anche spaghettiwestern.altervista.org che parla di atmosfere lugubri, decadenti, ai confini dell'horror e di una trama gialla che trascina con scrupoloso interesse fino alla conclusione. Non mancano sviolinate per il cast tecnico, l'unica critica viene mossa ad Askew: in alcuni punti è spaesato. 1033 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Un altro appassionato che non nasconde il proprio entusiasmo è lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it che prima paragona Petroni a Sergio Sollima e a Sergio Corbucci, poi da vita a una lunga serie di complimenti che lo portano a considerare La Notte dei Serpenti tra i venti spaghetti western più riusciti di sempre. Il blogger apprezza la cura di Petroni nello spendere attenzioni sulle relazioni umane dei vari personaggi e soprattutto nel proporre una storia radicata nella morale cristiana con la triade costituita da peccato, colpa e redenzione. Su questi aspetti non posso che condividere l'opinione del collega ispanico, sono invece meno convinto circa la sua interpretazione sociale della sceneggiatura in cui vede una critica al mondo borghese (i cinque soggetti che vogliono uccidere il bimbo sono un sindaco, un titolare di un saloon, un sacrestano, una prostituta e un tenente della polizia) e all'ipocrita atteggiamento sociale (il blogger deduce questo dal falso dolore della moglie del sindaco che grida in piazza per la morte dell'uomo, ma anche dall'abitudine del sindaco stesso di rubare soldi alla moglie). L'appassionato chiude il suo intervento nel seguente modo: un western grande e profondo che si allontana dalla leggerezza e dalla mancanza di connotazioni morali della maggior parte delle pellicole dell'epoca, cosa che rende il film un must per tutti gli amanti del genere. Meno convinti sono l'inglese fistfulofpasta.com che parla di un film non eccellente, per via di una sceneggiatura un po' superficiale suggerendone tuttavia la visione per la sua unicità e per la buona confezione complessiva, e il californiano Tom Betts che punta il dito sulle eccessive caratterizzazioni che, a suo dire (e io condivido), occupano troppo tempo e incidono negativamente sull'azione. Piovono critiche, forse eccessive, da mymovies.it che da alla pellicola una stella, ma anche da filmtv.it che invece concede due stelle ma stronca l'operazione definendola un esemplare non godibile di spaghetti-western per il tentativo di ravvivare, con complicate e insufficienti trovate, uno schema ormai logoro. Non pervenuta la valutazione del Morandini. Petroni, dal canto suo, prende le distanze dal film e si limita a definirlo uno tra i suoi film minori. IL PREZZO DEL POTERE Produzione: Italia-Spagna 1969. Prodotto: Bianco Manini (Patry Film), Films Montana. 1034 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Regia: Tonino Valerii. Soggetto: Massimo Patrizi. Sceneggiatura: Massimo Patrizi e Ernesto Gastaldi. Interpreti Principali: Giuliano Gemma, Warren Vanders, Fernando Rey, Benito Stefanelli, Antonio Casas, Van Johnson, Ray Saunders, José Suàrez, José Calvo, Maria Cuadra, Francisco Sanz. Fotografia: Stelvio Massi. Musiche: Luis Enriquez Bacalov. Sottogenere: Politico. Durata 108 min. Giudizio Mancini: ****1/2 Giudizio Morandini: ** La trama Il presidente americano statunitense (Johnson), nonostante i tentativi di dissuasione messi in atto dal suo fidato accompagnatore (Vanders), si reca a Dallas per convincere il governatore del Texas e i politici del sud a concedere pari diritti ai neri e ai più umili. Osteggiato dallo sceriffo locale (Stefanelli) e dagli uomini di potere texani agli ordini di un ricco galantuomo (Rey), il presidente sfugge a un attentato dinamitardo grazie all'intervento di un ex disertore (Gemma) fatto condannare ai tempi della guerra civile dal presidente stesso. Il ragazzo salva il politico non perché creda in lui, ma perché ha un conto in sospeso con la banda di criminali che hanno organizzato l'attentato, poiché gli stessi sono responsabili anche dell'assassinio di suo padre. Il fatto non ferma i propositi del Presidente, deciso in tutto e per tutto ad attuare il suo piano di riforme. Così resta a Dallas e insiste con i comizi, finché cade vittima di un misterioso cecchino che lo uccide con una fucilata in testa. Del delitto viene incolpato un nero (Saunders), ma sia l'accompagnatore del Presidente sia l'ex disertore non sono convinti della colpevolezza dell'uomo e iniziano a indagare separatamente. Intanto, il vice-presidente (Suàrez) viene costretto dai politici texani a giurare in qualità di nuovo Presidente degli Stati Uniti. Ciò a cui mira il governatore del Texas è fare del Presidente un fantoccio nelle sue mani, grazie a una serie di documenti compromettenti per il governo di Washington che sarebbero nelle mani dei sudisti. I piani di questi ultimi però finiscono per essere messi soqquadro. Da una parte viene provata l'innocenza del nero grazie a un'ottima 1035 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

arringa dell'accompagnatore del Presidente assassinato, che smaschera false autopsie, testimoni corrotti, e ottiene una confessione di responsabilità sottoscritta dallo sceriffo sotto la pressione dell'ex disertore; dall'altra parte gli stessi uomini che lavorano dietro le quinte per i sudisti si ribellano ai loro mandanti, poiché il capo della banda (Casas) si convince di dover mettere le mani sui documenti oggetto del ricatto per far scoppiare di nuovo una seconda guerra civile in cui far vincere il sud. Si innescano dunque una serie di regolamenti di conti che rischiano di gettare nel caos la nazione. Il Commento Terzo western di Tonino Valerii che migliora ulteriormente rispetto ai già netti passi in avanti compiuti con I Giorni dell'Ira (1967). Il regista romano confeziona un vero e proprio capolavoro del genere, nonostante l'azione e le guasconerie siano sensibilmente ridimensionate, vuoi per una sceneggiatura più orientata ai contenuti piuttosto che alle sparatorie (comunque presenti), vuoi per una regia più mirata all'essenziale. Valerii, fatta eccezione per i coproduttori ispanici (già avuti in occasione del suo primo western) cambia ancora il produttore. A cacciare i soldi questa volta è Bianco Manini, alla ricerca del western giusto per bissare il successo ottenuto nel 1966 con Quien Sabe? Dopo i non troppo fortunati Un Treno per Durango (1968) e Il suo Nome Gridava Vendetta (1968) diretti da Mario Caiano. Per perseguire lo scopo, Manini torna al western politico, ma in maniera originale e imprevedibile, finanziando un film che avrà una collocazione tutta sua. Dopo l'esperienza con Solinas, Manini lancia un altro sceneggiatore legato al cinema d'autore: Massimo Patrizi. L'idea avanzata da quest'ultimo è assai ambiziosa: fondere in un'unica storia romanzata in chiave western gli omicidi dei Presidente degli Stati Uniti James A. Garfield e John F. Kennedy. In realtà poi tra le due vicende prevalerà quella Kennedy, poiché di Garfield resterà solo il nome del Presidente protagonista della storia e l'anno della morte dello stesso (il 1881), mentre il resto verterà sulla vicenda JFK, a partire dalla location a Dallas e dall'attentato messo in atto da un cecchino appostato su un tetto (Garfield invece fu ferito a Long Beach da un avvocato e morì due mesi dopo a seguito di una serie di infezioni dovute alla negligenza dei medici nell'estrargli i proiettili dalla ferita). Gli sceneggiatori introducono inoltre un piccolo omaggio allo scrittore Ambrose Bier1036 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ce, più in particolare al racconto “Un Cavaliere nel Cielo”, inserendo un flashback in cui vediamo Giuliano Gemma di sentinella trovarsi al cospetto di un nemico che in realtà è il padre impegnato con le truppe nemiche durante la guerra di secessione. L'omaggio, nonostante quel che dirà in seguito Valerii (“per il film ci siamo ispirati a un racconto di Bierce”), termina qua e si estrinseca nel fatto che anche nel racconto di Bierce il protagonista decide, nonostante le sue origini sudiste, di combattere per i nordisti. Come abbiamo detto Patrizi viene da contesti molto diversi dal cinema di genere e non ha alcuna esperienza nel western, tuttavia è un signor sceneggiatore come dimostrerà il trentennale sodalizio stretto con Luigi Comencini, anche in veste di aiuto regista e talvolta di produttore, che lo porterà a vincere il Nastro d'Argento per la migliore sceneggiatura con Cercasi Gesù (1982). Dunque siamo alle prese con una pellicola particolare, una vera e propria mosca bianca sia nel curriculum dello sceneggiatore sia in quello del regista. Per Patrizi è un evento più unico che raro, già attivo nel cinema a partire dal 1952, al di là di un trio di commedie dallo stesso prodotte a cavallo tra gli anni '50 e 60, il suo nome è legato esclusivamente alla filmografia di Comencini con due sole gustose parentesi: la produzione del cult thriller Sei Donne per l'Assassino (1963) di Mario Bava e la sceneggiatura di un altro cultissimo questa volta della commedia all'italiana: Febbre da Cavallo (1976) di Steno. Viene il sospetto che il soggetto de Il Prezzo del Potere sia stato concepito da Patrizi per il debutto nel western proprio di Comencini che tuttavia mai vi si confronterà. Il copione finisce invece nelle mani di Tonino Valerii che fino allora, e anche in seguito, si era distinto in opere tipicamente di genere. A mediare tra le due anime del film, quell'autoriale di Patrizi e quella di genere di Valerii, viene chiamato Ernesto Gastaldi, che già aveva collaborato col regista in occasione de I Giorni dell'Ira, probabilmente col compito di rendere più spaghetti il copione. Non è chiaro quanto ci sia di quest'ultimo nel film, lo sceneggiatore afferma che ci sia molto, addirittura tutto come si suggerisce nel volume di Jan Svabenicky Aldo Lado & Ernesto Gastaldi – Due Cineasti, Due Interviste. A domanda specifica Gastaldi riferirà circa l'esistenza di una sceneggiatura di Patrizi poi non utilizzata e che il nome di quest'ultimo rimase nei credit per via di un contratto capestro, sebbene poi all'epoca, come riferirà lo stesso Gastaldi, il nome sui titoli non aveva alcuna importanza e quelli che contavano sapevano sempre chi aveva scritto cosa. Il sottoscritto potrebbe tuttavia esser orientato 1037 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

a pensare che l'apporto di Gastaldi si manifesti nei rari momenti squisitamente western (penso ai duelli tra Gemma e Stefanelli), fatto sta che il nome dello sceneggiatore piemontese non viene accreditato a opera ultimata. Al di là dei meriti personali, lo script è notevole, c'è poco da dire. Patrizi, che mai più tornerà a fare western, sviluppa molto bene sia la trama sia la caratterizzazione dei personaggi. Il lavoro è talmente buono che si potrebbe persino sostenere che manchi un vero protagonista e persino un vero antagonista. I ruoli infatti si confondono tra loro e passano di soggetto in soggetto, senza che vi sia spazio per gli stereotipi o per ruoli ben definiti e netti. La presenza inoltre di moltissimi personaggi non genera confusione nello spettatore. Abbiamo un Presidente degli Stati Uniti riformista, che vuole dare il diritto di voto ai neri, tassare i ricchi e affermare la parità dei diritti tra poveri e ricchi. Contro di lui si schierano il governatore del Texas e alcuni facoltosi locali sostenitori dell'oligarchia in luogo della democrazia. Dure le critiche e le proteste di questi ultimi: “È interesse del popolo che i bianchi siano bianchi e i negri negri! Nessuna riforma riuscirà mai a cambiare la testa ai negri e a dare l'intelligenza a chi è soltanto capace di raccogliere il cotone! Con i sogni non si fa politica!” Valerii e i suoi sceneggiatori tratteggiano così una città, quella di Dallas, in mano a un gruppo ristretto di conservatori razzisti che non vogliono rinunciare ai privilegi e che compiono un continuo lavaggio del cervello sui poveri per tenerli sotto controllo. Nette le manifestazioni di razzismo, lo si capisce fin da quando vediamo un colored pestato a sangue dagli uomini dello sceriffo per crimini che non ha commesso (la cosa sarà un leitmotiv del film). Valerii non lesina nel mostrare sangue e tagli inferti in piena faccia, mentre l'attore Ray Saunders, nei panni del torturato, offre una prestazione maiuscola. Ecco che l'arrivo del Presidente Garfield, per questi poveracci, viene visto come una speranza, ma nessuno però manifesta candidamente la propria opinione per paura di ritorsioni. Solo il personaggio interpretato da Saunders acclama come un salvatore il Presidente e si sfoga col medico del posto: “Tutta la gente non fa altro che morire di paura. Non c'è nessuno che abbia il coraggio di mettere fuori il naso. Vogliamo tutti la giustizia e la parità dei diritti, ma aspettiamo che qualcuno ce le porti sempre su un bel piatto d'argento!” L'unico che si ribella agli intrighi e ai tentativi di assassinare il Presidente è un ex condannato per diserzione interpretato da Giuliano Gemma. Il giovane non agisce per un ideale politico, ma per vendi1038 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

care il padre assassinato dagli stessi uomini che vorrebbero eliminare il Presidente e che hanno nello sceriffo la loro prima pedina. Patrizi potrebbe fare di Gemma l'eroe senza macchia e senza peccato, eppure non lo fa. Anzi introduce un elemento di contrasto tra i due personaggi positivi: il giovane infatti, in passato, è stato fatto condannare dal Presidente per diserzione e costretto al carcere. “Ti ho salvato dalla forca allora, erano tempi di guerra” gli dice il politico, dopo che il giovane lo ha salvato da un attentato dinamitardo (gli avversari politici avevano minato il ponte su cui stava per passare il treno presidenziale). Nonostante l'impegno del giovane, che minaccia di morte lo sceriffo nel caso dovesse succedere qualcosa al Presidente o all'accompagnatore di quest'ultimo, cui da corpo Warren Vanders, il Presidente insiste sul suo programma non accettando i suggerimenti di resa. “Nessuna pistola potrà mai fermare un'idea... Se mi dovessero uccidere ne verranno altri con le mie idee...” risponde pacatamente a chi lo ammonisce dei pericoli che sta correndo. Infatti, dopo alcuni fallimenti, i detrattori lo fanno uccidere con un colpo di fucile sparato da un cecchino nascosto sui tetti, mentre il Presidente, salutando il pubblico, sta passando in carrozza seduto accanto alla moglie. Non vi ricorda niente questa scena? Chiaramente è l'omicidio Kennedy riproposto nel west. A questo punto si innescano una serie di intrighi degni di una spy story di primo livello. Fernando Rey, che interpreta Pinkerton, il principale uomo di potere di Dallas, annuncia di essere in possesso di diversi documenti compromettenti per le sorti della nazione e fa pressione sul vice-presidente affinché presti giuramento e si sottometta ai voleri degli Stati del sud. L'obiettivo è quello di far sì che il nuovo Presidente sia un fantoccio dei sudisti e la cosa sembra andare in tal senso, visto che lo stesso accetta. Quest'ultimo però incarica il giovane accompagnatore di Garfield di recuperare i documenti e di scoprire la verità sull'omicidio del Presidente. Ha così inizio una vera battaglia di "debunking" e "cover up". La stampa locale viene costretta a pubblicare articoli che accusano un povero nero di esser l'assassinio del Presidente. “È un'infamia per mascherare la verità, non pubblicarla!” protesta un giornalista nei confronti del direttore della testata, quest'ultimo però in modo assai arrendevole si giustifica dicendo di non avere scelta di fronte ai voleri del padrone del giornale. Bella qua la risposta del collega: “Mi sembra una brutta maniera di fare il giornalista!” Un 1039 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tema che potrebbe senz'altro risultare di moda anche ai giorni nostri, quando si parla di certi finanziamenti ai giornali e di indipendenza dei giornalisti. Oltre ai giornali, anche l'accompagnatore di Garfield spinge per addossare la colpa sul nero, ma per un motivo diverso: “Tutti devono credere che l'assassinio sia stata un'opera di un pazzo”. L'obiettivo del politico è quello di garantire l'ordine e di poter poi ricattare i veri colpevoli nascondendo la verità col fine di manovrarli. Questi atteggiamenti, tuttavia, avranno effetti letali e sproporzionati su un povero Cristo. Il nero infatti viene linciato trucemente insieme alla scorta impiegata per trasportarlo in una prigione più sicura. Davvero una sequenza crudissima con un'interpretazione magistrale di Ray Saunders. Il fatto spinge l'accompagnatore di Garfield a sostenere l'innocenza dell'accusato nel corso del processo, per far emergere il complotto ordito contro il Presidente. Anche questa è un ottima sequenza in cui assistiamo alle arringhe del bravo Warren Vanders che cerca di smontare tutte le tesi dell'accusa, provando false testimonianze e referti medici artefatti. La sequenza raggiunge però il culmine quando entra in aula Giuliano Gemma, l'unico a perseguire veramente la verità. Lo vediamo entrare tenendo in braccio il cadavere del povero nero. Nell'aula cala un silenzio di tomba. “Vedo che lo rispettate più da morto che da vivo” inizia a dire Gemma. “Lui amava il Presidente, perché gli aveva detto che i bianchi e i neri sono uguali!” Segue la bellissima lotta per recuperare i documenti compromettenti, lotta in cui tutti si troveranno a combattere contro tutti. Da una parte l'accompagnatore di Garfield che li vuole recuperare per l'ordine pubblico della nazione. “Certe verità è meglio non dirle. Il nostro Presidente è morto per la pace e io le userò per la pace” dice a Gemma che invece intende averle perché vuole che la verità venga resa pubblica: “È giunta l'ora che la gente sappia!” tuona imbufalito. Poi abbiamo i banditi al servizio di Pinkerton che si ribellano a quest'ultimo perché vogliono fare scoppiare una nuova guerra civile per far trionfare il Sud, mentre il loro dante causa vorrebbe usarli, per conseguire vantaggi per la casta oligarchica che rappresenta, facendo pressioni sul Presidente della nazione. Dunque quattro blocchi contrapposti che rappresentano rispettivamente l'ideologia politica, la verità fattuale delle cose, il popolo frustrato e quindi non pensante, infine l'oligarchia politica intenzionata a perseguire vantaggi solo per sé stessa. La parte finale del film porterà i quattro blocchi a contrapporsi tra loro in una serie di confronti che si svolgono separatamente e in contem1040 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

poranea come le partite di un torneo in svolgimento su campi separati. Avremo Gemma contro Stefanelli (rappresentate degli oligarchici) in due sequenze dal gusto B-Movie con i due che duelleranno al buio tenendo in bocca un sigaro acceso per permettere all'avversario di vedere la posizione del rivale (sequenza copiata da I Vigliacchi non Pregano), poi Gemma contro Vanders, quindi Vanders contro Rey - al riguardo è bellissima questa sequenza poiché entrambi si ricattano a vicenda senza alcun compromesso, convinti di essere l'uno in posizione di vantaggio sull'altro - poi il capo dei banditi interpretato da Casas (rappresenta il popolo non pensante) contro Rey, infine il confronto finale con Gemma e Vanders schierati contro Casas. Dunque una pellicola che ha poche invenzioni sopra le righe, tra queste segnalo una scena dove una persona che cammina con stampelle che diventano all'occorrenza dei fucili (trovata che ispirerà Robert Rodriguez per il suo Planet Terror), puntando tutto sullo script e sugli argomenti politici. La sceneggiatura è costruita su un soggetto antirazzista e dal forte messaggio egualitario, sebbene inserito in un background compromissorio in cui la verità su certi segreti di Stato viene sacrificata a vantaggio di un'ignoranza collettiva necessaria a garantire la pace sociale. Un western quindi degno di comparire nelle primissime posizioni di un'ipotetica classifica di gradimento, che si avvale inoltre di un cast artistico assai ispirato che lo eleva ulteriormente di qualità. Una speciale nota di merito va a Benito Stefanelli, per una volta impegnato in un ruolo di primo piano e non più di contorno o da mera comparsa come avvenuto in precedenza con I Giorni dell'Ira (era il bounty killer che, lanciato al galoppo, sfidava nella duello col fucile Lee Van Cleef) e con i vari western di Leone. Il caratterista romano nonché storico maestro d'armi, con il suo inconfondibile look da scozzese con baffoni e basettoni, è maiuscolo nei panni dello sceriffo corrotto e tiene molto bene il confronto nei duelli con Giuliano Gemma, anzi direi che riesce persino a rubargli la scena. Quest'ultimo invece, probabilmente per la presenza di vari attori schierati con ruoli di primo piano, offre una prestazione piuttosto in ombra, complice un personaggio meno interessante degli altri in quanto più convenzionale (è il vendicatore di turno). Lo vediamo esibirsi nelle sue consuete capriole e in una bella sequenza tra le tavole che sostengono un ponte, mentre va a disinnescare una carica di dinamite; per il resto subisce la verve di Stefanelli, ma anche la prova ispirata e allucinata 1041 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dello sconosciuto Ray Saunders e quella glaciale e decisa di Warren Vanders. Il newyorkese Saunders arriva al film con credenziali tutt'altro che esaltanti. Classe 1922, aveva lavorato in America a partire dal 1947 ricoprendo vari ruoli da stuntman e da controfigura non venendo quasi mai accreditato. Fisico enorme, possente, era giunto in Italia proprio nel 1969 per recitare nel macaroni combat Un Dito nella Piaga (1969) di Tonino Ricci. Diretto da Valerii l'attore di colore offre una prestazione sorprendente grazie anche al doppiaggio di Ferruccio Amendola. Pestato e offeso per tutto il corso del film, lo vediamo dimenarsi, piangere, urlare la propria innocenza col volto pieno di sangue e infine morire in modo atroce con gli occhi sbarrati e il fiato mozzato in gola. Dimostra inoltre le proprie doti acrobatiche a inizio film, mettendole al servizio di un'elaborata e furbesca evasione dal carcere. Non avrà fortuna in seguito ritornando a ruoli marginali in patria a partire dal 1971. Warren Vanders invece è l'ennesima star del circuito televisivo western americano gettata nella mischia dai nostri produttori con la speranza di farne un nuovo Clint Eastwood. Il quasi quarantenne californiano, ben vestito e con fare molto british, rende assai bene l'idea del freddo politicante abile nel gioco delle parole. Se la cava forse meno bene nelle scene di azione, ma la sua presenza è sufficientemente affascinante. Interessante la piega ambigua che viene data al suo personaggio, quando a metà film sembra prostituirsi al doppio gioco, con Vanders sempre a suo agio. Del resto l'esperienza dell'attore, seppur limitata ai serial tv, non era di poco conto. Aveva iniziato a lavorare nel 1958 con ruoli importanti nei serial televisivi soprattutto western come testimoniano i vari Empire (1962-63), Gunsmoke (1962-73) e Daniel Boone (1966-69), in cui era comparso rispettivamente in quindici, tredici, e otto episodi, oltre a una lunghissima serie di comparse in altre dozzine di serial. Proseguirà in seguito nel circuito televisivo statunitense, quasi sempre con ruoli limitati a uno massimo di due episodi. Tra essi ricordo le comparsate in Kung Fu (1973), La Casa nella Prateria (1977) e Dallas (1980). Rarissimi saranno gli ingaggi cinematografici. Il ruolo del Presidente invece va a un Van Johnson sufficiente che si limita al compito di ordinaria amministrazione. L'esperto americano, considerato una delle star hollywoodiane più richieste nel periodo a cavallo tra lo scoppio della seconda guerra mondiale e la fine de1042 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gli anni '50, si era affermato grazie all'aspetto del bravo ragazzo facendosi le ossa soprattutto nelle commedie, nei film di guerra e in quelli musicali. Quando arriva in Italia però fa ormai già parte di quella schiera di attori decaduti fagocitati dal circuito televisivo d'oltreoceano dopo una prima parte di carriera promettente (nel caso di Johnson spesa al servizio della Metro). A farlo debuttare in Italia era stato Enzo G. Castellari col macaroni combat La Battaglia di Inghilterra (1969), mentre Il Prezzo del Potere segna in assoluto la prima esperienza western del attore. Johnson non avrà grande fortuna nonostante i tentativi di rilancio, poiché inadatto al cinema di genere. Si costruirà invece una seconda carriera come interprete di serial televisivi e film tv – tra questi cito Batman (1966), Il Ricco e il Povero (1976), Love Boat (1978) e La Signora in Giallo (1984) - partecipando, di tanto in tanto, a marginali produzioni cinematografiche, anche italiane, come l'ottimo poliziottesco Da Corleone a Brooklyn (1979) di Lenzi e il mediocre horror Assassinio al Cimitero Etrusco (1982) di Sergio Martino. Avrà un piccolo ruolo anche nella commedia di Woody Allen La Rosa Purpurea del Cairo (1985). Completano il cast il magnetico Fernando Rey, che ritroviamo dopo Navajo Joe (1966) in un ruolo da stratega politico insensibile agli interessi del popolo, il veterano José Suàrez in qualità di vice-presidente (anche per lui performance ordinaria) e gli habitué spagnoli Antonio Casas nei panni del capobanda vittima di deliri di onnipotenza, José Calvo, Francisco Sanz nonché il leoniano Lorenzo Robledo. C'è anche Maria Cuadra, chiamata nel ruolo della first lady con il compito di fare presenza ornamentale (c'è perché deve ricordare la moglie di JFK nella scena in cui il Presidente le crolla in grembo dopo lo sparo del cecchino). Cenno rapido per le musiche di Bacalov orientate al classicheggiante. Questi gli ingredienti di uno dei più belli spaghetti-western mai realizzati da annoverarsi, a mio avviso, in un'ipotetica top ten. Valerii, in seguito, riuscirà a sorprendere ancora col più scanzonato e agro dolce Il Mio Nome è Nessuno, qua il regista che sarà scelto da Sergio Leone è orientato al western d'autore. Da vedersi assolutamente anche se all'epoca non fu un grossissimo successo.

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Tra i film minori a uscire nell'imminenza del Natale c'è La Taglia è Tua... L'Uomo l'Ammazzo Io (1969) di Edoardo Mulargia. Ancora una volta il regista sardo può contare solo su un modesto budget sebbene abbia l'appoggio economico dell'israeliano Alexander Hacohen, qua al suo terzo western dopo i bizzarri Execution (1968) e Black Jack (1968), e del prolifico spagnolo Ignacio F. Iquino. A differenza delle prime opere di Hacohen, il film non viene girato in Israele, bensì negli studios Cosmopolitan di Tirrenia. I capitali impiegati si riducono ulteriormente, anche perché i precedenti soci di Hacohen (Fernando Franchi e Giancarlo Zagni) non aderiscono al progetto. La produzione punta ancora su Robert Woods, protagonista di Black Jack, e tenta di lanciare in veste di soggettista e sceneggiatore un ex assistente di Sergio Leone: Fabrizio Gianni. Sarà l'unico script dell'autore che uscirà subito dal mondo del cinema dopo un pugno di assistenze alla regia. A dargli supporto c'è Fabio Piccioni con cui Mulargia aveva già collaborato in occasione di Cjamango (1967). Purtroppo il soggetto, pur beneficiando di alcune interessanti caratterizzazioni, è ridotto all'osso e sprovvisto di un intreccio vero e proprio. Il tutto è di una semplicità e di una banalità che gli sceneggiatori non saranno capaci di superare neppure con i dialoghi che si presenteranno alquanto fiacchi. Questa la trama. Cinque sadici banditi (tra cui Mario Brega e Mark Fiorini) intendono intascare la taglia messa sul capo di un celebre pistolero (Woods) scomparso nel nulla. Quest'ultimo però non è più il letale killer di cui tutti mormorano, ma uno sbandato caduto ormai nel vizio dell'alcool, timoroso della morte al punto da esser preso a mazzate persino dai baristi e nascosto in un villaggio fantasma sotto la protezione di una procace prostituta (Rosalba Neri) che vorrebbe trascorrere la vecchiaia con lui. Questa è l'unica a conoscere la sua identità, insieme a un commerciante che fungerà da tramite tra il protagonista e i banditi. Tutto qui. Eppure il film gode di un certo alone di culto nel cerchio degli appassionati più estremi di c-movie, specie tra coloro che apprezzano le stranezze più sfrenate. Ciò è dovuto alla presenza in particolare di una sequenza perversa e violenta in cui vediamo la Neri presa a schiaffi e poi a cazzotti da Aldo Berti, mentre Mark Fiorini, che personifica lo psicopatico capo banda che da la caccia al protagonista, si eccita dondolandosi su una sedia. Fin qui, seppur la scena sia cruenta e Mulargia non lesini nel mostrare il volto grondante sangue della Neri, nulla di così strano, ma l'assurdo e im1044 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

prevedibile si deve ancora manifestare. A pestaggio completato, Fiorini si alza di scatto e stampa un lungo bacio sulla bocca del suo uomo in quella che potremmo definire la prima scena gay esplicita in un western. La ragione di tale scena dovrebbe esser riconducibile all'intenzione, resa in modo pessimo dagli sceneggiatori, di dare un tocco hippie alla pellicola con sprazzi di buddismo attribuibili alla presa di coscienza e al superamento della crisi esistenziale in cui versa il protagonista. Tali aspetti non emergono minimamente, Mulargia si limita a riprendere di continuo Woods mentre tracanna whisky e mentre risulta affetto da improvvise e poco chiare allucinazioni visive (visto che si manifestano tutto a un tratto tanto da dare l'idea di non essere direttamente innescate dall'alcool). Al riguardo ci sono due lunghe sequenze in soggettiva in cui vediamo le immagini sovrapporsi in più quadrati sfuocati accompagnate da fastidiosi effetti sonori che si potrebbero definire come la fusione tra una sirena e un ronzio di insetti. Un po' poco per catturare l'attenzione anche perché Mulargia si perde in lungaggini che rendono il ritmo pesantissimo. Si spara poco, non ci sono inseguimenti, non c'è una vera trama ma un'accozzaglia di scene che vedono la banda di Fiorini compiere nefandezze e rapine senza che queste siano inserite in una sceneggiatura solida. Brega si macchia persino di un duplice cruento omicidio ai danni di un vecchietto e di una ragazzetta che tentava di stuprare. Il protagonista invece se ne sta in incognito tutto nascosto in un paese, dove non sembra esserci anima viva (per evidenti ragioni di budget), a bere whisky perché su di lui pende una taglia di diecimila dollari che lo ha gettato in paranoia nonostante sia considerato un temibile pistolero. Il tutto non viene legato in modo adeguato. Lo script è sfilacciato, confusionario e lamenta evidenti buchi narrativi. Qualche idea innovativa ci sarebbe, penso alla vecchia che vaga per il paese convinta di trovarsi all'inferno (idea che sarà ripresa da Keoma), ma resta superficiale e non sfruttata. Gli sceneggiatori non curano neppure la metamorfosi grazie alla quale il protagonista recupera dal suo handicap psicologico. A un certo punto sembra che neppure lui sappia come abbia fatto, si veda la reazione dell'uomo dopo aver impallinato Fiorini. Di una bruttezza unica la resa dei conti finale, tra le più sciatte che mi sia mai capitato di vedere. Mulargia chiude la questione in modo frettoloso, freddo, senza alcuna impronta epica o comunque spettacolare. Mario Brega si fa uccidere in modo sciocco, correndo 1045 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

verso l'avversario e sparando a casaccio in preda a una crisi isterica dovuta alla morte del fratello. Gli attori fanno quello che possono. Non abbiamo certo delle prime scelte, ma ci sono dei bei volti (penso anche al caratterista di cmovie Aldo Berti). Abbiamo Mario Brega, purtroppo non messo in grado di esprimersi come nei film di Leone, gli allucinati Woods e soprattutto Mark Fiorini, ennesimo attore pescato dai serial televisivi americani e poi sfumato nell'oblio anche se avrà un piccolo ruolo in Angeli e Demoni (2009) nei panni di un cardinale, che gigioneggiano nei loro ruoli sopra le righe. C'è anche, in una piccola e inutile parte, l'undicenne Valerio Fioravanti che in seguito, a fine anni '70 e dopo aver ricoperto, al fianco della Fenech, anche un ruolo da protagonista nella commedia scollacciata Grazie... Nonna (1975) di Marino Girolami, si macchierà di una lunga serie di delitti di stampo politico che lo porteranno a esser condannato per la Strage di Bologna a quasi trent'anni di carcere come capo dei Nuclei Armati Rivoluzionari. Un epilogo che il padre non si sarebbe certo immaginato dopo averlo lanciato nel cinema fin dall'età di quattro anni quando apparve nel film di Fellini Boccaccio '70 (1962). Grosso “plagio” di Alessandro Alessandroni che confeziona una soundtrack che rubacchia a più non posso da Ennio Morricone dando vita a una main theme a metà strada tra quella de Il Buono, il Brutto, il Cattivo e quella di Una Pistola per Ringo. Piuttosto mediocre, anche se non tra i peggiori in assoluto. Eppure, se si cerca tra le opinioni dei fan stranieri del genere (gli italiani lo ignorano quasi tutti), la pellicola è stata oggetto di rivalutazione. Marco Giusti, che ne apprezza le interpretazioni “stralunate”, la presenta così: “Per molti fan del genere è un film splendido, anti-epico, anti-leoniano”. Francamente non vedo come qualcuno possa vederlo come un “film splendido”. Curioso però notare come anche sul generico imdb.com il film sia premiato con un sei abbondante in pagella. L'americano spaghetti-western.net lo consiglia a gran voce: “un vero grande gioiello dimenticato” e lo pone tra i cinquanta migliori spaghetti-western di tutti i tempi. Meno entusiasta ma comunque ben disposto sonofdjango.blogspot.it il quale lo definisce “ben fatto e avvincente, un vero e proprio tesoro nascosto”. Per fortuna giunge a confortarmi l'equilibrato spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it che rifila un quattro e mezzo all'opera di Mulargia (addirittura tre alla sceneggia1046 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tura) rimproverandogli, tra l'altro, la povertà di atmosfere e l'eccessivo uso dello zoom. Esce anche il terzo e ultimo western di Giuseppe Colizzi il quale, con La Collina degli Stivali (1969), chiude la trilogia avviata da Dio Perdona... Io No! (1967) e proseguita con I Quattro dell'Ave Maria (1968) avente come protagonista la coppia Terence Hill e Bud Spencer. In aggiunta ai produttori precedenti, qua confermati, entrano nel progetto Manolo Bolognini e Silvio Clementelli; due produttori di prestigio, per una produzione interamente italiana che coinvolge ben quattro case di produzione. Clementelli, attivo dal 1958 e al debutto nel western, riuscirà a vincere un Nastro d'Argento per la produzione del war movie Dio è con Noi (1970) di Montaldo, e ben due David di Donatello uno per l'intera produzione del 1974, l'altro con il film L'Inchiesta (1986) di Damiano Damiani. Il budget è dunque di spessore, superiore ai precedenti capitoli e si riflette su un cast artistico che vede entrare nella saga attori di calibro, quali il californiano Victor Buono, famoso per aver interpretato, oltre a una serie interminabile di serial televisivi, un ruolo di primo piano in Che Fine ha Fatto Baby Jane? (1962) di Robert Aldrich che gli valse la nomination all'Oscar e al Golden Globe. Ci sono poi, provenienti dal set di C'era una Volta il West (1968) di Sergio Leone, Lionel Stander e Woody Stroode oltre a personaggi cult del b-movie come Luigi Montefiori e Luciano Rossi (quest'ultimo nell'inconsueto ruolo del burocrate elegante e piagnucolone). Ruoli minori vanno ad altri volti noti come gli acrobati Neno Zamperla e Alberto Dell'Acqua e i caratteristi Romano Puppo e Glauco Onorato. Quest'ultimo, noto soprattutto per essere uno dei più grandi doppiatori del periodo (peraltro dello stesso Bud Spencer oltre di Schwarzennegger e Charles Bronson), arriva al film grazie alle buone prove offerte in due serial televisivi di grosso successo come I Promessi Sposi (1967), dove interpretava uno dei bravi di Don Rodrigo, e La Freccia Nera (1968). In seguito avrà ruoli secondari distinguendosi nella commedia scollacciata e negli sceneggiati tv. Purtroppo, a dispetto dei capitali, la sceneggiatura di Colizzi è farraginosa. Parte da un soggetto abusato, seppur trattato in modo piuttosto originale, incentrato su un documento che attesta l'acquisto di una miniera d'oro in favore di Hill. Il documento è tuttavia una mon1047 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tatura per mettere Hill contro un gruppo di manigoldi che rispondono agli ordini di Fisher, l'insospettabile titolare di una società mineraria (l'obeso ma bravo Victor Buono), che vorrebbe avere tutti per sé i terreni della zona con il placet del giudice di contea (Eduardo Ciannelli) tenuto all'oscuro delle prepotenze di Fisher. Ferito e sul punto di morte, Hill trova rifugio nel circo di Mamy (Stander) dove, tra gli altri, lavorano in qualità di acrobati Stroode, Zamperla e Dell'Acqua. Qui viene curato, mentre i banditi sparano sulle corde che sorreggono un giovane trapezista di colore provocandone la morte. Ripresosi, Hill e Stroode si recano in campagna dove si è ritirato Bud Spencer con il suo aiutante muto cui da corpo Montefiori. I due convincono Bud a dar loro una mano e a orchestrare un piano per farla pagare ai banditi e al loro mandante. Così ritornano in città intenzionati a vendere cara la pelle. Qua Colizzi, alla regia, piazza dei bellissimi campi lunghissimi (con zoom out aerei) commentati dalla bella colonna sonora di Rustichelli. L'ultima parte di film, la più interessante a livello di script, vede la messa in pratica del sagace piano di Hill. Il nostro informa il giudice dei loschi piani di Fisher e, con il concorso del giudice, organizza uno spettacolo circense a cui dovranno assistere in qualità di spettatori Fisher e i suoi uomini oltre agli operai della società. È il giudice stesso a convincere Fisher a partecipare. Così gli uomini di Fisher vengono disposti da un lato, mentre sull'altro vengono fatti accomodare i minatori. La mente geniale di Hill fa sì che lo spettacolo messo in scena dai circensi rispecchi quanto avviene in città con dei poveri cercatori d'oro che vengono maltrattati da dei bulli che pretendono di avere per sé le pepite a suon di schiaffi. Il pubblico, sia quello dalla parte di Fisher (che sghignazza divertito e al contempo avverte una certa derisione nei suoi confronti) sia i minatori, è coinvolto emotivamente nello spettacolo perché si immedesima nelle rispettive parti. A un certo punto appare Stander truccato come Fisher e intento a malmenare i poveri pionieri. La valenza metaforica dello spettacolo è evidente, ma per renderla esplicita Colizzi utilizza un montaggio serratissimo di primi piani in cui vediamo l'attore che interpreta il povero cercatore d'oro preso a schiaffi dagli altri con inquadrature però che alternano ai volti di questi quelli di Fisher e dei suoi uomini intenti a menare schiaffi. Bella sequenza davvero, col giudice di contea che, studiando il comportamento eccitato di Fisher, capisce tutto e gli dice: “Istruttivo, eh?” 1048 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Intanto lo spettacolo prosegue con un intermezzo musicale dove sono protagoniste delle ballerine che cantano una canzoncina dal significato criptato per dire che sotto i seggiolini il pubblico troverà delle sorprese. Così gli operai troveranno delle armi, mentre gli uomini di Fisher solo oggetti inutili. La canzoncina, dalla musica brillante e spensierata, più o meno fa così: “E ora, signori e signore, una bella sorpresa per ognuno di voi, ma attenzione però perché come un bel gioco dura ben poco, sai tu perché, tutto è in funzione di un gran finale che poi, vedrai, stupirà. Metti la mano sotto la panca, così saprai quale sorpresa troverai. Ma stai attento che poi la tua mano un gesto farà e allora guai, dal circo uscir non potrai perché ci resterai. Attenzion, attenzion... ” Colizzi gira e monta la sequenza in modo magistrale, facendo muovere in tondo le ballerine e con esse la macchina da presa che inquadra in modo stretto i loro volti che si susseguono in cerchio in primissimo piano. Alterna poi i mezzi busti degli uomini di Fisher e dello stesso Fisher che rinvengono dei giochetti di legno e ridono per nulla insospettiti, mentre dall'altra parte gli operai trovano pistole e si guardano l'un l'altro seriosi. Una sequenza spettacolosa che vale da sola il film e che ha sicuramente ispirato Quentin Tarantino per il finale del suo Bastardi senza Gloria. Segue uno spettacolo con i trapezisti in cui si suggerisce ai minatori di sparare (mediante dei fuochi di artificio), mentre gli acrobati dicono frasi percepite come oltraggiose da Fisher. Si innesca così la sparatoria finale tra le due parti contrapposte, ma i minatori sono remissivi. “Che ti avevo detto, guarda che bell'esercito che abbiamo messo insieme...” sbotta Bud Spencer “Ve lo avevo detto che perdevamo tempo con questa marmaglia, questi non li smuove nemmeno il terremoto!” “Ma di cosa siete fatti?” interviene un vecchietto, per cercare di smuovere gli operai “lo capite, sì o no, che bisogna agire, adesso” E gli altri sussurrano “è facile parlare” e poi restano inerti. Eloquente la sfiducia di Colizzi nella capacità di organizzarsi del popolo al cospetto degli abusi del potere. Tutto viene rimesso agli antieroi di turno e solo in seguito agli operai, trascinati dai successi dei primi. Bellissima la battuta di Stander, vestito da pagliaccio, nei confronti di Fisher, dopo che lo stesso gli ha sparato alle spalle per poi essere sfidato da Hill, apparso da dietro un tendone: “Avanti, mister Fisher, facci vedere chi sei...” ma Fisher, pur assumendo un'espressione arrogante (capo inclinato verso l'alto), getta a terra la pistola. “Non mi ero 1049 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sbagliato, mister Fisher... Sei tu il vero pagliaccio!” lo schernisce Stander, prima di morire, con un sorriso beffardo scolpito nel volto. Dunque uno spaghetti-western atipico, con molte sequenze di ambientazione circense funzionali alle doti acrobatiche di Zamperla e Dell'Acqua (li vediamo saltare, usare trapezi, camminare sulle mani e via dicendo) e in cui vediamo balletti, nani con i volti coloratissimi e un grande Lionel Stander in veste di presentatore. Più dei precedenti film di Colizzi si nota una marcata incertezza narrativa. Il film resta sospeso tra il western drammatico, peraltro qua di natura sovversivo/politica, e quello goliardico/parodistico. Proprio quest'ultimo aspetto tocca momenti grottesco/demenziali (affidati quasi tutti a Montefiori che si presenta con un improbabile caschetto color carota) che rovinano l'atmosfera e ciò viene volontariamente sottolineato da Colizzi che alterna nel montaggio sequenze spassose e divertenti ad altre drammatiche con Terence Hill sofferente e grondante sangue di un rosso accesissimo che non passa inosservato (bella la scena con lo scorpione che attraversa una pozza di sangue). Colizzi conferma il proprio interesse per i volti degli attori di colore, ancora una volta ne abbiamo un paio, con il gigantesco Stroode a cui viene affidato un ruolo di primo piano tanto che il titolo originale del film sarebbe dovuto essere Death Comes in Two Colours (la morte arriva in due colori) poi rinominato col titolo scartato da Leone in occasione de Il Buono, il Brutto, il Cattivo. Il protagonista assoluto, più dei precedenti episodi, è Terence Hill. Ancora una volta è un personaggio cupo e incazzoso. Ha un forte fondo tinta scuro finalizzato a esaltarne l'azzurro degli occhi. Non lo vediamo mai ridere e prende decisamente il controllo sulla storia manovrando ad arte tutti gli altri coinvolti. È lui che viene inseguito a inizio film, è lui che organizza il piano per vendicarsi ai danni dei bulli antagonisti, è lui a comandare il gruppo questa volta molto più corposo dei precedenti film e formato da cinque unità principali (Stroode, Stander, Hill, Montefiori e Bud), a cui poi si aggiungono gli acrobati Dell'Acqua e Zamperla oltre a una serie di nani clown. Bud Spencer entra in scena dopo trenta minuti, accompagnato da un fedele aiutante che finge di essere sordomuto (Montefiori). Ha un ruolo di ripiego, ma è già piuttosto in linea a quelli che ricoprirà in seguito (è il compagno tutto forza e poco cervello che urla dietro a Hill chiamandolo “Disgrazia”, perché questo lo coinvolge furbescamente nei suoi progetti). 1050 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Eccelle Stander, con una performance istrionica come non mai, nei panni di un presentatore circense tutto pepe. Bravissimo anche Montefiori che, con fare imbranato e ritardato, dispensa sorrisi divertiti in continuazione e alla fine, sorprendendo il personaggio di Bud Spencer, confesserà nel corso di una mega scazzottata di non essere sordomuto. All'attore ligure viene riservato un personaggio che pare essere una caricatura di quello riservato a Bud Spencer tanto che Terence Hill li crede padre e figlio. Sono entrambi muscolari e possenti, ma Montefiori appare più ingenuo e infatuato dalle belle donne per via di un carattere più propenso a fare amicizie. Bud invece è il solito orso asociale, si è infatti rintanato in piena campagna all'interno di una baracca dove vive in mansarda per non farsi sorprendere dai visitatori di passaggio. “Tu e questa faccia da lucida scarpe!” si rivolge facendo riferimento a Stroode, ironizzando sul colore della pelle di quest'ultimo. Alla fine si riunirà con Hill e galopperà verso il tramonto, pronti entrambi a passare nelle mani di Barboni che li avrebbe lanciati nella leggenda del cinema con Lo Chiamavano Trinità (1970). Purtroppo il film è considerato il più debole della trilogia di Colizzi e anche a ragione. Il regista romano, per quel che riguarda ritmo e scelta delle inquadrature, si dimostra cresciuto e confeziona un'opera che dal punto di vista visivo è nettamente superiore alle precedenti. La fotografia di Marcello Masciocchi è eccellente, come buona è la colonna sonora di Rustichelli che sforna temi molto diversi tra loro. Il sound va dallo spensierato, all'epico, passando per temi che generano tensione. Notevole la cura nei costumi, assai più curata e sfarzosa del solito. Ciò che non va è la gestione della sceneggiatura, i troppi vuoti narrativi (finale frettoloso seppur preceduto dalle magistrali sequenze nel circo) e un'alternanza tra drammaticità e comicità a tratti fastidiosa. Alla fine resta l'amarezza per un western che sarebbe potuto essere un capolavoro e invece resta un qualcosa di incompiuto che non è né carne né pesce. A parziale scusante di Colizzi, c'è da dire che il film ha avuto uno scombussolamento iniziale che potrebbe aver creato delle ripercussioni sulla sceneggiatura. Pur essendo fin dall'inizio coprodotto da Colizzi, il film era stato affidato alla regia di Romolo Guerrieri (pare che le scene circensi iniziali siano state dirette proprio da lui) poi sollevato dall'incarico dal distributore della pellicola non soddisfatto del girato di alcune giornate lavorative. La beffa sta nel fatto che Colizzi utilizzerà quelle sequenze anche per la sua versione, rendendo così crudele e ingiustificato l'esonero del povero 1051 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Guerrieri. Anche Bud Spencer sembra esser stato coinvolto a riprese in stadio avanzato, con Colizzi già al timone dell'operazione. Di certo, visti i suoi precedenti western, Guerrieri avrebbe premuto il piede sulla componente drammatica (basti ricordare il suo Johnny Yuma) e forse alla fine sarebbe venuto fuori un film più equilibrato, ma il condizionale resta d'obbligo. Sta di fatto che si tratta di una pellicola non amata, anzi direi che è sottovalutata dai più. Marco Giusti la ritiene tradizionale nell'impianto anche se dotata di una folle ambientazione circense. Spaghetti-western.net, pur definendola godibile, la reputa la meno riuscita dei western di Colizzi a causa del taglio schizofrenico che la caratterizza e che si sintetizza con i continui passaggi da commedia allegra a western duro e viceversa. Lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it è concorde, ma va giù più duramente nel criticare la pellicola. L'appassionato iberico nota, a ragione, dei continui salti e buchi di sceneggiatura quasi come se il film abbia subito dei tagli che hanno poi reso incomprensibile alcune sequenze. Critica inoltre la prestazione di Victor Buono, a suo avviso non convincente nel ruolo dell'aristocratico mefistofelico. Terribile il pagellino che evidenzia una grave insufficienza (addirittura tre) per la sceneggiatura e per la colonna sonora di Rustichelli. Voto finale: un ingeneroso quattro e mezzo. Non lo salva neanche spaghettiwestern.altervista.org che lo reputa il western più leggero tra quelli girati da Colizzi, opinione che non concordo ritenendolo invece il più sovversivo dei tre. Critiche poi per la regia (non vi sono scene d'azione o duelli memorabili) e per la sceneggiatura (la storia a tratti rallenta e non cattura mai del tutto). La pensa diversamente l'americano fistfulofpasta.com che lascia intendere di apprezzare la fatica di Colizzi pur ravvisando delle imperfezioni individuate in una trama poco sviluppata al punto da lasciare disorientato lo spettatore in alcuni snodi principali della storia (si esprime allo stesso modo anche spaghettiwesterns.1g.fi). Curioso poi il commento sulla colonna sonora di Rustichelli: “troppo bella” (allo stesso modo la pensano Marco Giusti e il sottoscritto), cioè l'esatto contrario di quanto dichiarato dal collega spagnolo. Se il film non viene salvato dagli specialisti, fa eccezione il critico di settore Jean Franço Girè che lo considera il migliore della trilogia coliziana; difficile attendersi una rivalutazione dai generici e invece non è così... Filmtv.it gli affibbia tre stelle, intravedendovi il seme da cui poi nascerà Trinità (vi trovano spazio le prime tentazioni parodi1052 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

stiche). Non è da meno il Morandini, che pertanto lo reputa tra i migliori western italiani, il quale, dopo aver definito la pellicola divertente, arriva a dire: Colizzi avrebbe diritto a una rivalutazione. Da notare come il critico milanese reputi La Collina degli Stivali superiore al primo western di Colizzi e sullo stesso livello del secondo. Non si smuovono invece il Farinotti (due stelle) e imdb.com (cinque e mezzo in pagella). Per quel che mi riguarda, consiglio di recuperarlo per alcune sequenze magistrali (il balletto nel circo su tutte) e nonostante i problemi lamentati anche dai blogger internazionali relativi soprattutto ai vuoti di sceneggiatura. Capolavoro mancato. Quanto premesso per O'Cangaceiro, circa il rapporto tra ambientazioni esotiche e contenuti intrinseci legati al genere western, vale in misura più marcata per il terzo film prodotto dal longevo trio composto da Roberto Infascelli e Allan Klein alla produzione, Luigi Vanzi alla regia e Tony Anthony, al secolo Roger Petitto, in veste di protagonista. Stiamo parlano de Lo Straniero di Silenzio (1969), che continua la saga de Lo Straniero iniziata con gli interessanti ma più classici Un Dollaro tra i Denti (1967) e Un Uomo, un Cavallo, una Pistola (1967). Nell'occasione si fa più forte l'influenza di Allan Klein, al punto da porre in secondo piano il ruolo organizzativo di Infascelli che si limita a partecipare economicamente al film. Decide inoltre di investire in prima persona anche Tony Anthony, il quale oltre a recitare e scrivere il soggetto, entra in società con Klein. A motivare i due americani è la grande risposta avuta in patria dai due precedenti capitoli, tanto che il film viene concepito per essere venduto soprattutto nel nord America. Liberati dall'esigenza di sottostare alle regole del mercato continentale, i due soci partoriscono un'idea folle, ma che farà scuola negli anni successivi. Confezionano, in chiave grottesca, un soggetto che riporta alle origini il genere spaghetti-western ideato da Leone. In altre parole, se Leone si era ispirato a Kurosawa per fare un nuovo tipo di western, Klein e Anthony compiono il percorso inverso: si ispirano al western leoniano per fare un nuovo film con i samurai. La storia ricalca Per un Pugno di Dollari, con il solito straniero (Tony Anthony) che giunge in un paese dominato da due cosche contrapposte e sfrutta a suo vantaggio la situazione truffando entrambe le fazioni. Quello che cambia è la collocazione geografica. Non siamo più in un paese di frontiera al confine col Messico ma, dopo un inizio 1053 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tra i monti innevati del Canada, ci si sposta in Giappone. Così avremo un cowboy che dovrà vedersela con samurai, geishe armate di coltelli, ninja, tatuatori e un americano (Lloyd Battista) importatore di mitragliatrici, il tutto in una cornice marcescente fatta di baracche, pioggia battente, risaie e pozzanghere sparse dappertutto. A sviluppare il soggetto vengono chiamati il blasonatissimo, ma all'epoca inesperto, Vincenzo Cerami (al secondo copione dopo El Desperado), e il più esperto ma meno talentuoso Augusto Caminito. I due sceneggiatori si ispirano soprattutto al cinema di Kurosawa che viene portato in scena in chiave parodistica (vedere il duello tra un samurai e Anthony munito di bastone che viene scorciato colpo su colpo). Si decide inoltre di girare il film proprio in Giappone e con attori giapponesi, fanno eccezione il simpatico protagonista e il debuttante Lloyd Battista che poi si costruirà una carriera nei serial televisivi americani recitando anche nella soap opera Beautiful. La scelta logistica ha effetti devastanti sulla troupe. Il regista Luigi Vanzi patisce l'alimentazione locale e viene colto da una terribile dissenteria che lo mette k.o per due settimane. I produttori, per evitare la sospensione delle riprese, cercano di convincere Augusto Caminito a sostituire il regista, ma lo sceneggiatore napoletano rifiuta di recarsi in Giappone. Si tenta così di sfruttare Cerami, regista della seconda unità di alcuni film di Pasolini, con la proposta di un contratto che preveda due successive regie. Cerami però non vuole vincolarsi a lungo termine e non sottoscrive l'accordo, limitandosi a sostituire Vanzi per il tempo strettamente necessario. Ne esce fuori un western da annoverarsi tra i più bizzarri e folli di tutto il genere, sicuramente il più pazzesco fin lì mai concepito. Si esasperano delle trovate già introdotte in forma embrionale da film come Tre Pistole Contro Cesare (1966) o Oggi a Me... Domani a Te! (1968), in cui si erano già visti per la prima volta, rispettivamente, degli orientali esperti in arti marziali ovvero nell'uso di armi bianche usate a mo' di katana, gettando le basi di quello che diventerà lo spaghetti kung Fu. Purtroppo, a seguito di una disputa giudiziale vertente sui diritti di distribuzione della pellicola nonché dello scarso interesse dei nostri distributori più interessati a storie convenzionali, Lo Straniero di Silenzio rimarrà per svariati in anni in un cassetto fino al 1975, quando uscirà negli Stati Uniti. Uscirà in Italia solo nel 1977, a genere or1054 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mai morto, per giunta rimaneggiato e montato in modo pedestre. Non avrà così successo, quanto meno nell'immediato, e non potrà neppure beneficiare del vantaggio di essere il primo a proporre un'esplicita e marcata contaminazione tra il western e il cinema orientale. Infatti sarà preceduto da pellicole come Sole Rosso (1972) o i numerosi spaghetti kung fu usciti dopo l'ondata dei film di Bruce Lee, opere girate dai due o cinque anni dopo rispetto a quella di Vanzi. A ogni modo il film è tra i più folli in assoluto. Vanzi eccede e trasforma il suo western in un film che sembra davvero giapponese. L'esperimento sarà ripetuto ai tempi nostri da Takashi Miike con Sukiyaki Western Django, seppur con una minore verve ironica. Come nell'opera di Miike abbiamo attori giapponesi che ridono in modo istrionico, berciano nella loro lingua e corrono come matti dietro a un'apripista munito di apposito cartellone identificativo del gruppo di appartenenza. Il povero pistolero, con il suo cavallo (imbracato per esser caricato sulla nave), è un estraneo fuori contesto incapace di farsi comprendere. È emigrato in Giappone per compiere una missione: consegnare, a un nobile nipponico (che gli parlerà grazie a una donna in sequenze che rievocano le scene con Laura Gemser in I Due Superpiedi Quasi Piatti) una pergamena ricevuta in punto di morte da un giapponese aggredito da un gruppo di banditi canadesi. Curioso, al riguardo, il corbucciano prologo che cita contemporaneamente Il Grande Silenzio (il protagonista vaga sulla neve) e Django (il protagonista è sprovvisto di cavallo e cammina a piedi). In ballo ci sono milioni di dollari anche perché una fazione rivale, aiutata da una mitragliatrice, montata su un carrello mobile, fornita da un americano, vorrebbe mettere le mani sulla pergamena. Il pistolero sfrutterà la situazione fino al pirotecnico finale dove metterà fuori gioco la mitragliatrice e falcerà la concorrenza con l'ausilio di un fucile ad avancarica dall'esagerato calibro e che spara come un cannoncino. Vanzi caratterizza il tutto con una fortissima ironia grottesca, sia nei dialoghi, sia nelle interpretazioni (c'è anche un nano scatenato) sia soprattutto nelle assurde situazioni che si vengono a creare. Vediamo il protagonista imprigionato e trasportato da due schiavi come un pesce lesso impigliato in una rete oppure vediamo un samurai deviare con il manico della katana un coltello lanciatogli contro dal protagonista o ancora una sequenza follissima (ai limiti dello slasher movie) con delle geishe armate di coltello che attaccano il nostro in una sauna avvolte da una fittissima nebbia o ancora, infine, lo straniero 1055 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

legato per punizione su un asta in un campo a fare da spaventapasseri (!?). Carina ma ripetitiva e ridotta all'osso la colonna sonora di Stelvio Cipriani. Per lo più sconosciuto in Italia, dove è introvabile, Lo Straniero di Silenzio è considerato un vero e proprio cult movie in Giappone e in America al punto da esser stato inserito in altra quota nelle liste di gradimento di alcuni critici. In Italia è stato visto da pochissimi, tra questi c'è spaghettiwerstern.altervista.org che lo reputa memorabile dal punto di vista visivo e giunge a definirlo “un capolavoro”. Tra i detrattori è assai duro 800spaghettiwesterns.blogspot.it che ne apprezza solo l'ambientazione e un po' la colonna sonora troncandolo in tutti gli altri settori. In particolare viene criticata la sceneggiatura, giudicata disarticolata, scollegata e con continui salti nella narrazione. Di sicuro siamo alle prese con un film non per tutti, destinato a chi ama il cinema pulp/trash fatto di esagerazioni, alto senso dell'ironia e gusto per l'azione. Lo script è piuttosto contenuto e integralmente votato al mero intrattenimento. Divertente e innovativo nella messa in scena, pecca un po' nella regia probabilmente troppo convenzionale. 9.3 Conclusioni Dopo le fitte produzioni del 1967 e 1968, il 1969 segna la prima crisi del genere. I primi trequarti di stagione passano all'insegna di pochi film e, per giunta, quasi tutti di scarso rilievo. Alla fine usciranno circa trenta pellicole, con un calo superiore al 50% della produzione dei due anni precedenti. Le motivazioni le abbiam già spiegate. Il 1969 si segnala quindi come l'inizio della crisi, cui si cercherà di rispondere nel 1970 con la nascita di importanti sottogeneri, tra tutti il c.d. fagioli western. A tenere alta la bandiera è ancora il western politico con Tepepa di Petroni, che è di gran lunga il miglior western della prima parte della stagione, e soprattutto con Per il Prezzo del Potere prodotto dall'ideatore del primo tortilla western della storia, Bianco Manini, che, per l'occasione, finanzia un nuovo western politico che fonde due assassinii dei Presidenti degli Stati Uniti spostandoli nel west. A questi due 1056 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

film, usciti rispettivamente a inizio e fine anno, si aggiunge il folle O'Cangaceiro di Fago che esce a metà stagione e che è una via di mezzo tra un tortilla western e un western grottesco con la particolarità di esser ambientato in Brasile. Location esotiche, poi, anche per Lo Straniero di Silenzio che sposta la scena addirittura in Giappone, dando vita al percorso inverso tracciato da Sergio Leone. Questi sono i quattro film più importanti della stagione, a cui si aggiungono La Collina degli Stivali che potremmo quasi definire l'anello di congiunzione tra i primi due western e gli altri due, e il nuovo western di Sergio Corbucci: Gli Specialisti. L'opera di Colizzi infatti, interpretata da Bud Spencer e Terence Hill, ha contenuti politici (pur se extra tortilla non riguardando la rivoluzione messicana) innestati su una storia che mischia tragicità, antirazzismo e lotta allo sfruttamento operaio, con l'allegria parodistica rappresentata da un Luigi Montefiori che fa un muto all'apparenza ritardato che poi, in realtà, sa parlare e pure menare. Contenuti sociali e politici anche nello scatenato western di Sergio Corbucci che realizza un'irriverente critica al bigottismo sociale con quello che si segnala essere il gemello de Il Grande Silenzio. Questi, per la particolarità e alcuni spunti geniali, le magnifiche sei pellicole del '69. Il Prezzo del Potere di Valerii è l'opera più quadrata e autoriale, peraltro con un Giuliano Gemma che viene messo quasi in secondo piano al servizio di una storia che ha nelle caratterizzazioni e nelle diversificate sfumature politiche la propria forza. La segue a ruota Tepepa di Petroni, anche questo assai tragico con un Tomas Milian che rappresenta l'idealista politico che scopre di esser stato tradito dai politici e per questo si pone a capo di un gruppo di rivoluzionari. Quindi Gli Specialisti e O'Cangaceiro, sempre con Tomas Milian diretto però da Fago, che sembra una sorta di parodia votata al sopra le righe di Tepepa e con ambientazione brasiliana. A precedere La Collina degli Stivali e Lo Straniero di Silenzio, di Colizzi e Vanzi, che pagano una certa incertezza nello sviluppo delle rispettive sceneggiature ma, al contempo, propongono sequenze memorabili. E il resto? C'è qualcosa di buono, come il commerciale Ehi Amigo... C'è Sabata hai Chiuso, prodotto dalla PEA di un Grimaldi in formato risparmio rispetto ai capitali sborsati al servizio di Sergio Leone. La dirige Parolini, reduce dal primo capitolo di Sartana, e con Lee Van Cleef a disposizione, dopo averlo convinto a lavorare per lui. Il romano tira fuori un western di intrattenimento spassoso e pieno di bizzarri gadget. Delude un po' il ritorno al western, dopo anni di assenza, 1057 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di Duccio Tessari, che prova a lanciare nel cinema il pugile Benvenuti affiancandolo a Gemma. Il suo Vivi o Preferibilmente Morti, pur strizzando un occhiolino a Leone nel titolo, altro non è che un'anticipazione del sorrisi & cazzotti di Bud Spencer e Terence Hill. Divertente, ma niente più. Molto meglio allora le due pellicole dirette da registi spagnoli: l'introvabile Quei Disperati che Puzzano di Sudore e di Morte e Garringo, rispettivamente di Buchs e Marchent, con quest'ultimo che propone per primo la figura del serial killer nel western. Da segnalare poi la nascita definitiva del c.d. western gotico, che ha in Django e ne El Desperado i suoi antesignani, grazie a un trio di pellicole dirette dall'ospite francese Robert Hossein, con Cimitero senza Croci, ma soprattutto dagli specialisti horror Sergio Garrone e Antonio Margheriti rispettivamente con Django il Bastardo ed E Dio Disse a Caino . Tra gli attori ancora in grande auge Tomas Milian e Giuliano Gemma, con due pellicole a testa, confermati protagonisti Lee Van Cleef, Peter Lee Lawrence, Anthony Stephen, Tony Anthony, George Hilton, Antonio Sabàto e Gianni Garko, presenti infine Bud Spencer e Terence Hill pur se limitati a un'unica pellicola, manca invece Franco Nero, mentre aumenta a dismisura lo spazio concesso a Klaus Kinski, il più impegnato, a cui vengono offerti anche ruoli da primo protagonista. Si tenta poi di lanciare volti nuovi provenienti dai serial televisivi americani, come Ericsson, o giovani rampanti italo-americani quali Leonardo Manzella, piuttosto che veterani hollywoodiani che hanno in Ernest Borgnine l'esempio più eloquente ovvero attori francesi come il regista Robert Hossein ovvero la star rock Johnny Halliday. I risultati, pur se buoni, sono isolati e non danno corso a seguiti. Fa eccezione Manzella che tuttavia non esalta più di tanto nel dramma greco-western, Il Pistolero dell'Ave Maria di Baldi, prodotto da Bolognini. Tra le attrici brilla la stella di Françoise Fabian a cui viene affidato il ruolo di antagonista ne Gli Specialisti. La bella francese è eccezionale nel destreggiarsi in un ruolo complesso e completo che prevede arte seduttrice, carica sessuale, carisma e capacità di trasformarsi in una pazza isterica. A lei va il nostro premio per la migliore attrice western dell'anno. Da elogiare anche la connazionale Michele Mercier, impegnata a tenere testa ai bulli e a organizzare la vendetta per l'assassinio del marito in Cimitero senza Croci. Ruolo carismatico, dunque, anche per lei ma meno complesso. Si segnala infine la spensieratezza scatenata della diciottenne Sydne Rome, nel film di Tessari, un 1058 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

distillato di gaiezza e di energia. Debutta poi nel western, sua unica apparizione, la franco-maltese Edvige Fenech che subito viene sfruttata per l'altissima carica erotica nel piccolo, ma interessante, film del pisano Pierotti girato a Tirrenia e intitolato Testa o Croce.

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10. LA CRISI DEL 1970 E LA NASCITA DEL FAGIOLI WESTERN

10.1 Poca qualità all'inizio del nuovo decennio. Se il 1969 è stato un anno che abbiam definito di riflessione, con pochi western e con una prima produzione all'insegna del poco da salvare poi riscattata da una parte terminale di stagione caratterizzata dall'uscita di buoni film, il 1970 segna la crisi nera che getta le basi per la nascita del fagioli western. Dario Argento ha ormai abbandonato il western e ha dato il là al giallo moderno con L'Uccello dalle Piume di Cristallo (1969) subito seguito da Il Gatto a Nove Code (1970) e da Quattro Mosche di Velluto Grigio (1971). Il filone, nato nello scetticismo becero dei soliti produttori refrattari alle novità, avrà un successo talmente forte da catturare l'attenzione persino del gran maestro del genere: Alfred Hitchcock che in riferimento a Dario Argento dirà “Quell'italiano comincia a preoccuparmi!” Il nuovo genere cresce quindi in modo esponenziale sotto la spinta del maestro romano, cresciuto sulle sceneggiature western, seguito in scia da Lucio Fulci, che preferisce questa nuova strada alla western con la quale aveva tentanto di manlevarsi dal genere comico-parodistico. Il concittadino di Argento dirige così il convenzionale Una sull'Altra (1969) e l'onirico Una Lucertola dalla Pelle di Donna (1970) che innesca la prima grande battaglia tra i due registi. Dario Argento è imbufalito dalla scelta del collega di inserire nel titolo un termine riconducibile a un animale, peculiarità che Argento riteneva (erroneamente) esclusiva. Dunque cinque film che fanno esplodere lo spaghetti thriller con ripercussioni negative sia sul western sia, soprattutto, sul macaroni combat. Quasi tutti i registi di punta del western, infatti, provano la nuova strada. Tra questi ci sono Duccio Tessari che gira 1061 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Una Farfalla con le Ali Insanguinate (1971), Tonino Valerii con Mio Caro Assassino (1971) e Sergio Martino che debutterà nel 1970 col western per passare subito ai thriller lanciando Edvige Fenech splendida protagonista. A tale novità il western italiano tenterà di rispondere con le contaminazioni ora comiche, ora crepuscolari, quindi ancora sorrisi & cazzotti, con chiamata in causa persino di personaggi che praticano arti marziali in modo da scimmiottare i successi dei film di Bruce Lee avviati da Il Furore della Cina Colpisce Ancora (1971). Giungeranno infine le soluzioni surreali e sopra le righe che trasformeranno il western all'italiana in un qualcosa assai diverso dagli esempi che segnarono la via maestra. Il colpo finale sarà poi inferto dalla nascita del poliziottesco, ovvero il poliziesco all'italiana, che non farà altro che miscelare la cronaca nera contemporanea a tematiche e situazioni western tanto da esser definito da alcuni “western metropolitano.” Sarà Steno, in virtù dell'eccezionale La Polizia Ringrazia (1971), a illuminare la via dove si getteranno a capofitto Umberto Lenzi e autori nati nel genere western come Enzo G. Castellari, Fernando Di Leo, Stelvio Massi e Ruggero Deodato. E lo spaghetti-western? Semplice, perderà il ruolo di genere di punta anche perché la deriva sorrisi & cazzotti si sposterà presto in un contesto anch'esso contemporaneo, spesso con ambientazioni esotiche o americane, come dimostreranno pellicole quali Più Forte Ragazzi (1972), I Due Superpiedi Quasi Piatti (1977) o Pari e Dispari (1978) dirette da tre dei principali maestri dello spaghetti-western, gli ultimi ad arrendersi: Giuseppe Colizzi, Enzo Barboni e Sergio Corbucci. Ecco spiegata la crisi nera agevolata dalla decisione di Sergio Leone di lasciare il genere, quanto meno da primo protagonista, perché a suo avviso depauperato da ogni essenza e di interessarsi ad altro. 10.2 Lo spaghetti western entra in crisi. Se il 1969 si era avviato a singhiozzi, relativamente alla produzione western, il 1970 riesce a fare peggio. Tutti stanno alla finestra per capire in quale direzione soffierà il vento, così da adattare i propri copioni per rispondere alle esigenze di mercato. Addirittura il primo western italiano esce a fine marzo per merito di Leon Klimovsky e La Sfida dei MacKenna (1970). Si tratta di una coproduzione italo-spagnola che vede ancora sulla cresta dell'onda il regista argentino tra1062 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

piantato in Spagna. Nonostante l'elevato numero di componenti spagnoli, quasi l'intero cast tecnico, la pellicola viene girata negli studios di Tirrenia, cittadina balneare ormai eletta a luogo specializzato nelle piccole produzioni western. A scommettere su Klimovsky è Giuseppe Maggi, piccolo sceneggiatore con alle spalle alcune produzioni come Il Ranch degli Spietati (1965) di Jaime J. Balcàzar, ma mai in condizione di fare fortuna. Proseguirà negli anni '70 legandosi ad Alfonso Brescia per poi chiudere col cinema erotico. La pellicola, scritta tra gli altri da Edoardo Mulargia, ha il merito di aver un discreto cast artistico e di ereditare dal precedente film del regista sardo, La Taglia è Tua... L'Uomo l'Ammazzo io (1969), le contorte ed elaborate caratterizzazioni dei personaggi. John Ireland è un ex prete evangelista, amante della poesia, che ha ucciso la propria moglie e non disdegna la compagnia delle donne (Klimovsky insisterà per questa via con Reverendo Colt). Pur essendo un moralista, è ritornato nel paese natale per vendicare la propria famiglia sterminata da una banda rivale di cui fanno parte il mafioso e dispotico Roberto Camardiel (latifondista) e il figlio di quest'ultimo, un nevrotico Robert Woods (per una volta antagonista) che ride alla maniera degli psicopatici ed è gelosissimo della sorella perché ne è innamorato. Dopo esser entrato nella famiglia, senza farsi riconoscere, Ireland provocherà i rivali fino a scontrarsi con gli stessi nella parte terminale del film. Ha un piccolo ruolo anche Giovanni Cianfriglia, ormai ritornato ai ruoli di supporto dopo i tentativi di proporlo da protagonista. Il soggetto attinge un po' dall'idea centrale de Il Ritorno di Ringo (1965) ovvero quella del figlio di un possidente assassinato che ritorna, sotto false spoglie, nella terra di origine per vendicare la propria famiglia e riprendersi le terre usurpate da una banda di farabutti. Ne diverge, tuttavia, per una maggiore cura nelle caratterizzazioni dei personaggi, quasi a voler essere un piccolo spaghetti-western con velleità autoriali. Sul set non si forma una grande amalgama tra il regista e i nord americani Ireland e Woods che lamenteranno di esser stati lasciati a improvvisare senza riferimenti e indicazioni registiche. Alla fine però se la cavano sufficientemente bene al punto che sia Thomas Weisser che 800spaghettiwesterns.blogspot.it considereranno la pellicola tra le migliori dell'intera filmografia di Klimovsky. C'è chi sostiene che Edoardo Mulargia abbia messo mano alla regia, ma viste le interviste di Woods e certi atteggiamenti tenuti sul set da Ireland, costretto ad 1063 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

assumere l'onere di dirigere i colleghi sul set, l'ipotesi è da scartare. Woods dichiarerà inoltre di aver diretto lui stesso alcune sequenze coordinandosi alle istruzioni impartite da Ireland, con il quale aveva già lavorato in occasione de Quel Caldo Maledetto Giorno di Fuoco (1968). Una situazione anarchica e autogestita che, a quanto pare, ha dato frutto a un eccezionale risultato finale, quanto mai efficace. Nonostante la disorganizzazione il film regge e riceve complimenti da tutti. “Chiunque l'abbia girato questo western è ben fatto e riesce grazie a un buon copione e a dei dialoghi memorabili” così si esprime spaghettiwestern.altervista.org. Da segnalare l'ottimo prologo, piuttosto violento e impreziosito da certi simbolismi religiosi (saranno mutuati da dialoghi spesso incentrati su Dio e dal ricorrere della figura del pesce), caratterizzato da un linciaggio ai danni di un uomo destinato all'impiccagione con la sua donna costretta a guardare lo scempio al punto da svenire. La donna in questione è la figlia dell'antagonista, ed è proprio quest'ultimo il mandante dell'impiccagione. Si tratta quindi di un western duro e amaro, in cui si muovono personaggi frustrati nelle loro ambizioni. Un western tendente alla tragedia classica degno di esser riscoperto, ma di cui in Italia si parla poco probabilmente a causa della regia non italiana. Per sonofdjango.blogspot.it è addirittura eccellente, ma sono in molti i blogger stranieri a elogiarlo. Musiche di De Masi. Tra i primi a uscire c'è anche Pasquale Squitieri (alias William Redford), alla seconda pellicola dopo il debutto con Io e Dio (1969) finanziato da Vittorio De Sica. Squitieri è un ex assistente di diritto penale, appassionato di teatro e senza un background alle spalle di gavetta nel mondo del cinema. Accetta così di girare due western, uno dei quali Django Sfida Sartana (1970), da lui stesso scritto, per fare esperienza e per raggranellare qualche soldo. Lo scelgono Roberto Bessi e Mario Bregni. Il primo è il direttore delle seconde unità di alcuni film di Sergio Garrone, tra i quali Django il Bastardo, che si lancia in questa nuova avventura debuttando nel settore delle produzioni. Dimostrerà di avere un buon naso producendo il pazzo ma fortunato Il Mio Nome è Shangai Joe (1973) di Caiano, per ridimensionarsi nel ruolo di manager di produzione di una serie di pellicole di genere di scarso livello, tra cui Charleston (1977) di Marcello Fondato con Bud Spencer, e svariati horror movie internazionali di serie z fino a produrre dei cult assoluti quali From Beyond (1986) di Stuart Gordon, 1064 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Fantaghirò (1991) di Lamberto Bava e la serie Lucky Luke (1992) diretta, tra gli altri, da Terence Hill. Buono, seppur molto più selezionato e anch'esso di rilievo internazionale, il futuro curriculum di Bregni che scriverà il copione del poliziottesco La Polizia ha le Mani Legate (1975) di Luciano Ercoli e produrrà un poker di film, affidati a registi quali Michael Anderson, Carlo Lizzani e Lamberto Bava, fungendo da esecutore produttivo de I Ragazzi del Coro (1977) di Robert Aldrich. Dunque una coppia di debuttanti ma di prospettiva che vedono giusto in Squitieri, ma hanno la sfortuna di trovare un regista non adatto al genere e soprattutto poco convinto. I due si troveranno persino costretti a chiamare Sergio Garrone, per girare delle sequenze di raccordo, e l'esperto montatore Amedeo Giomini, per assemblare l'enorme quantità di girato di Squitieri, in modo da rendere più veloce e ritmato il film. La storia è banale, ripresa dal peplum Ercole Sfida Sansone (1963) di Francisci. Django (Luciano Stella aka Tony Kendall) viene informato che Sartana (Giorgio Ardisson) gli ha ucciso il fratello e un banchiere. Così parte subito alla ricerca del collega cacciatore di taglie, ma una volta trovato scopre che dietro all'assassinio c'è il banchiere stesso (Bernard Faber) che ha ordito una rapina in banca per poi far ricadere su altri le colpe, fingendosi morto. Da essere l'uno contro l'altro i due si troveranno soci contro il banchiere. Niente di più prevedibile e per giunta male interpretato dai due protagonisti. Si salva solo il solito José Torres, nei panni di un muto. Epilogo surreale con l'antagonista costretto a indossare due corna di cervo (!?) prima di essere ammazzato. Si difese al botteghino, ma col passare degli anni è finito nel dimenticatoio. Squitieri, invece, diventerà un importante regista interessato a temi quali mafia e criminalità organizzata, riscuotendo svariati apprezzamenti figli anche degli esperimenti maturati con i western alimentari che ne hanno cadenzato il debutto nella settima arte. Tra i film che si lasceranno ricordare segnaliamo Gli Invisibili (1988), L'Arma (1978), Razza Selvaggia (1980) e Claretta (1984). Implacabile filmtv “deriva trash dello spaghetti western, qua a livelli molto bassi... Regia sciatta, sceneggiatura becera.” Da evitare. Altro film a vedere la luce nella prima decade di aprile è Saranda (1970) per la regia di Antonio Mollica, accreditato Ted Mulligan e proveniente dal pessimo Nato per Uccidere (1967). Piccola produzio1065 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ne che fa capo al regista spagnolo Ignacio F. Iquino il quale, supportato da Mario Maggi (piccolo produttore proveniente dai peplum di Parolini), mette in piedi un cast tecnico di spagnoli affidando la regia a Mollica per ragioni contrattuali funzionali a ottenere i finanziamenti dallo Stato italiano. Iquino crede nel soggetto, acquista i diritti di un romanzo di Enrique Vera (autore di tascabili molto popolari in Spagna negli anni '60), ne cura l'adattamento cinematografico e ingaggia l'americano Dean Reed con l'idea di strutturare una serie televisiva ispirata al protagonista di questo film, un meticcio la cui famiglia è stata sterminata dai nordisti. Idea ambiziosa, ma che naufraga presto. Reed non si rivela idoneo al ruolo (del resto fisicamente sembra tutto tranne che un meticcio: è persino biondo!?), in più sul set l'atmosfera si fa burrascosa tanto che Mollica, probabilmente, viene cacciato prima del termine delle riprese a causa dei contrasti con la produzione. Il plot non è per nulla originale, ma risponde a film come I Giorni della Violenza (1967). Abbiamo degli ex sudisti che, terminata la guerra di secessione, perseverano nell'attaccare l'esercito nordista. L'obiettivo non ha ragioni di carattere idealista, bensì materialista. Vogliono infatti sottrarre i carichi d'oro scortati dalle truppe. Alberto Farnese, protagonista del film, una volta accortosi del fine del suo gruppo sgomina la banda di ex compagni e riconsegna ai nordisti un carico d'oro rapinato. La storia va avanti negli anni e vediamo Farnese prendere sotto la propria ala protettrice un meticcio, di nome Saranda, abbandonato perché rimasto orfano. Passati gli anni però i due entreranno in contrasto, perché il meticcio si innamorerà della figlia del padrino e questo si opporrà al matrimonio tra i due, contrasto che però non impedirà a Saranda di tornare a difesa di Farnese per aiutarlo contro gli ex sudisti usciti di carcere e intenzionati a vendicarsi nei confronti di chi li ha consegnati al nemico. Mollica gira male, un po' per incapacità un po' per svogliatezza (si veda il coordinamento degli stuntman spagnoli, tra i peggiori del genere), ma soprattutto per i contrasti con Iquino. Ne risentono anche gli attori, con prove mediocri. Peccato perché il copione non sarebbe neppure malaccio, seppur sfilacciato. “Non supera la mediocrità” è il commento, a cui ci associamo, di spaghettiwestern.altervista.org. “Pessimo” per lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it, che rincara la dose: “il trucco sul protagonista, che dovrebbe essere un meticcio, è peggio di quanto si possa fare a casa con un paio di fondotinta da carnevale!” Visto pochissimo. 1066 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Dopo aver partecipato a trentuno film, dieci dei quali western, col ruolo di direttore della fotografia, Enzo Barboni viene lanciato alla regia da Manolo Bolognini con Ciakmull - L'Uomo della Vendetta. L'occasione si presenta per mero caso, in quanto Bolognini si trova costretto a sostituire il regista di fiducia, Ferdinando Baldi, con il quale aveva in precedenza realizzato Texas, Addio (1966) e Il Pistolero dell'Ave Maria (1969). Baldi, per un capriccio relativo al mancato ingaggio di un'attrice dallo stesso richiesta, decide di dimettersi poco prima dell'inizio delle riprese lasciando il produttore in alto mare. Barboni, dal canto suo, manifesta più volte l'intenzione di fare un western comico, ha anche un soggetto, quello de Lo Chiamavano Trinità, ma Bolognini lo respinge. Allora Barboni tenta di convincerlo a far virare la sceneggiatura di Ciakmull dal dramma tragico, tanto caro a Baldi, alla commedia. Bolognini però respinge i suggerimenti del regista. Si arriva quasi al punto di veder naufragare il progetto. Preoccupato di perdere il ruolo da coprotagonista, Luigi Montefiori (meglio conosciuto, soprattutto dagli affezionati del genere horror, con lo pseudonimo di George Eastman) si improvvisa sceneggiatore (professione che poi intraprenderà con regolarità) per riscrivere il soggetto abbozzato dallo sceneggiatore padre di quasi tutti i western di Bolognini: Franco Rossetti. Alla fine si giunge a un compromesso, determinante per l'uscita del quinto western di Bolognini, che di fatto lascia scontenti tutti. Quello che esce fuori, infatti, è un ibrido, a mio avviso il peggior lavoro di Barboni, peraltro assai diverso da quella che sarà la sua produzione (improntata alla commedia). Ci troviamo a metà strada tra Django, da cui si mutuano le atmosfere invernali e fangose nonché il taglio gotico con scene ambientate nei cimiteri, e Il Pistolero dell'Ave Maria, dal quale si riprendono l'epilogo da tragedia greca e buona parte del cast artistico (Manzella e Martellanza). Il ponte tra i due film non è casuale e trova la sua giustificazione nell'unione di due sceneggiatori: Franco Rossetti e Mario Di Nardo ovvero lo sceneggiatore di Django e quello de Il Pistolero dell'Ave Maria. Alle idee dei due, nonché alla riscrittura di Montefiori, si aggiunge inoltre la verve rivoluzionaria di un Barboni in odore di fagioli western. Il quarantottenne introduce alcuni di quelli che saranno gli ingredienti base di questo sottogenere ovvero le scazzottate nel saloon, la partita a poker con protagonista (nella fattispecie Montefiori) che mischia le carte con abilità da prestigiatore, un tiro alla fune uno contro uno truffaldino 1067 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

(poiché chi banca la scommessa si avvale di altri due uomini, nascosti dietro i tendoni del circo, impegnati a tirare la fune contro lo sfidante scelto tra il pubblico) e l'immancabile pranzo a base di pane e fagioli in umido. Il risultato finale è un'accozzaglia di idee non ben amalgamate che vanno dalla commedia sorrisi & cazzotti alla tragedia greca, ma soprattutto non coordinate tra loro a causa di uno script che fa acqua da tutte le parti. Eppure, nonostante i difetti, ci sono degli aspetti positivi. Rossetti e Di Nardo hanno il merito di proporre alcune idee embrionali molto interessanti (su tutti dei protagonisti usciti da un manicomio) che si innescano sul classico soggetto di kurosawaiana memoria, ovvero la faida tra due famiglie contrapposte che si contendono il controllo di un paese. Il diversivo principale rispetto ai canonici western è costituito dalla figura del protagonista, un terribile pistolero che ha smarrito in toto la memoria ed è finito chiuso in un manicomio criminale senza saperne la ragione. La sola presenza dell'uomo è sufficiente a incutere il terrore tra i banditi del posto. “Ehi, Jack, che ti è preso?” dice un bullo a un compagno che, provocato da Ciakmull, anziché estrarre la pistola si scusa con lo straniero e abbandona il saloon. Incalzato dal compagno, l'uomo risponde: “Fila via, c'è il diavolo in giro!” Poche parole, di una sceneggiatura che del resto non cura molto i dialoghi, ma che suggeriscono un passato da vero e proprio mattatore per Ciakmull. Dunque buone premesse che però non vengono sviluppate. Anche le caratterizzazioni dei personaggi, in particolare gli antagonisti, sono ai minimi termini. Il passato del protagonista resta nebuloso, solo parzialmente illuminato dall'ottimo flashback che precede il duello col fratello e che fa capire la ragione per cui il nostro abbia perso la memoria (ha subito una lesione cerebrale), senza però spiegare chi lo abbia salvato da un capannone in fiamme (in cui tutti lo credono morto) e senza giustificare la sua reclusione in manicomio. Peraltro l'idea dell'eroe smemorato in balia dei suoi stessi nemici che ne manipolano la mente è copiata pari pari da Due Volte Giuda (1969) di Nando Cicero. Tra i momenti più riusciti per la particolarità e la spettacolarità delle immagini, segnalo il prologo in cui vediamo un grosso incendio avvolgere un manicomio e uccidere vari detenuti intrappolati nelle celle. Ciakmull è rinchiuso là dentro ma, insieme a tre compagni, riesce a evadere e a dirigersi verso il paese d'origine. Qui viene circuito 1068 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dalla famiglia schierata contro suo padre, che lo porta a credere di essere un componente della famiglia stessa e dunque ad aggredire l'avversario. Bloccato in extremis da uno dei tre compagni di cella proprio mentre il nostro starà per uccidere il padre, Ciakmull dovrà vedersela con un fratello traditore (è stato lui ad averlo quasi ucciso nell'episodio in cui ha perso la memoria) e con l'intera banda avversaria. Per quel che concerne la scelta delle inquadrature e il dinamismo, Barboni offre un'ottima prova, specie nella prima parte di film. Favolosa, anche per merito del montaggio di Eugenio Alabiso, è la sequenza ispirata a Oggi a Me... Domani a Te (1968) in cui, in una foresta spoglia, i quattro fuggiaschi vengono braccati da altrettanti bounty killer. I nostri corrono a piedi, incalzati dagli altri a cavallo. Qui Barboni gioca con una bellissima alternanza di primi piani, passando continuamente dai singoli volti di Montefiori, Martellanza, Strode e Manzella a quelli dei cavalli degli inseguitori, ricorrendo a camera car ma anche a inquadrature fisse in campo lungo. L'interesse del regista per i particolari si nota altresì nel mostrare primissimi piani su tamburi di pistole che ruotano e si armano e proiettili estratti da armi fumanti nel corso delle sparatorie. Si tratta di vere e proprie ghiottonerie per gli amanti del B-Movie. Eccellente, sotto questo profilo, anche il duello Manzella – Helmut Schneider che si svolge di notte in un cimitero disperso nel bosco. Al di là dei meriti, Barboni si rivela tuttavia incapace di tessere una trama che possa soddisfare lo spettatore più esigente. I protagonisti vengono presentati come dei matti (altrimenti non si spiega perché sono rinchiusi in un manicomio) senza che si investa su una loro caratterizzazione in tal senso, tanto che a risultare veramente strambo c'è solo il personaggio interpretato dal colored Woody Strode: un energumeno insensibile perfino alle pallottole e che, piuttosto che ricorrere alla colt, strozza gli avversari con le mani. In riferimento a quest'ultimo è interessante il legame che si crea con il lanciatore di coltelli cui da corpo Martellanza, i due difatti dimostrano un'amicizia talmente forte da andare insieme incontro alla morte (si suggerisce quasi un rapporto di natura omosessuale tra i due, come testimonia l'estremo gesto di stringersi reciprocamente le mani prima di spirare). Clamorosi alcuni buchi di sceneggiatura che danno l'impressione che alcune scene siano state tagliate senza i raccordi necessari a far 1069 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

filare il tutto. In prima battuta non si capisce come Ciakmull sia finito in manicomio, in secondo luogo si rivela assurda l'imboscata che gli uomini della banda rivale tendono al protagonista dando per scontato che lo stesso non ucciderà il padre, il finale infine si rivela monco, con un Ciakmull che grazia il boss della banda rivale e se ne va via in stato confusionale abbandonato dai compagni (tutti morti nel tentativo di aiutarlo), dal fratello (che uccide lui stesso in duello), dal padre (che ripudia perché ha scoperto non essere il suo vero padre) e dalla vecchia fidanzata interpretata da Ida Galli (alias Evelyn Stewart) che lo chiama senza ricevere risposta. Si resta così con un po' di amaro in bocca, soprattutto perché la confezione del prodotto non è affatto male a partire dall'eccellente fotografia di Mario Montuori che opta per un'atmosfera fredda e invernale che sarà di riferimento per i western crepuscolari della fine degli anni '70. Ritmata la colonna sonora di Riz Ortolani, forse più adatta per la parte centrale del film ma meno per i toni drammatici del prologo e soprattutto per il finale tragico e senza speranza. Ottimo il cast artistico, sebbene sia sprovvisto di catalizzatori di attenzione, dal momento che sia Leonardo Manzella, alias Leonard Mann, sia Lucio Rosato (quest'ultimo nei panni del cattivo) non hanno il carisma per essere quei pistoleri letali che dovrebbero invece essere. Meno brillante del solito Montefiori, bene Martellanza e soprattutto Strode. Piccoli e risibili ruoli per Luciano Rossi (cammeo inutile ai fini della storia), Ida Galli (brava ma poco sfruttata) e il veterano tedesco Helmut Schneider (piuttosto anonimo nella sua unica apparizione in uno spaghetti-western) ingaggiato direttamente dai set dei macaroni combat dove lo ricordo coinvolto in pellicole quali Dalle Ardenne all'Inferno (1967) e La Legione dei Dannati (1969). Il film non ebbe grande successo di pubblico, ma oggi gode di un certo interesse quanto meno per essere l'opera di debutto di un regista che ha creato il sottogenere fagioli western e ha contribuito a fare grande il sorrisi & cazzotti. Se il Morandini ignora Ciakmull, discordanti sono i pareri di critici e appassionati. Marco Giusti parla di un film che non si sa come prendere. Poco entusiasti anche l'americano Tom Betts, per il quale Ciakmull ha un ottimo inizio ma, con l'arrivo dei quattro protagonisti in città, si trascina in avanti stancamente, e Roberto Poppi che reputa la prova di Barboni un debutto in sordina. Sottolinea i difetti di sceneggiatura l'inglese spaghetti-western.net: western minore per effetto di 1070 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

una sceneggiatura in alcuni punti poco sviluppata. Giudizi più larghi per spaghettiwestern.altervista.org il quale lo reputa apprezzabile e ricco di colpi di scena che ne tengono alto il ritmo, sebbene il tutto sia penalizzato da una colonna sonora fuori luogo in alcuni frangenti e a tratti fastidiosa. Apprezzamenti per Montefiori e Barboni, non per Manzella: interpretazione con la solita faccia da cane bastonato (come dare torto a questa critica...). Pareri positivi per filmtv.it che attribuisce tre stelle alla pellicola, Thomas Weisser (buona azione con un Montefiori in gran spolvero) e per lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it il quale, dopo aver criticato la colonna sonora, parla di un bel western, girato in modo classico e intriso di violenza e sparatorie. Al riguardo, per quel che riguarda la violenza segnalo la morte del personaggio interpretato da Strode che, a petto nudo, sfoggia varie ferite da arma da fuoco prima di stramazzare al suolo. Per appassionati estremi e per coloro che sono disposti a chiudere più di un occhio sui vuoti narrativi. Prima dell'arrivo dell'estate il solito Demofilo Fidani, alias Miles Deem, se ne esce con un western auto-prodotto dal titolo chilometrico: Quel Maledetto Giorno d'Inverno, Django e Sartana all'Ultimo Sangue (1970). Il film vede Hunt Powers (con basettoni finti) nei panni di Django. L'americano, all'anagrafe Betts, è dunque riciclato negli z-movie dopo le prove discreti in western di seconda fascia. Non è però lui il motivo di interesse di questo film, la particolarità risiede invece nella presenza di Fabio Testi per la prima volta coprotagonista, nei panni di Sartana, e con lo pseudonimo di Stet Carson. Fidani, che lo aveva già diretto in altre occasioni, punta su questo giovane attore, belloccio e piuttosto acrobatico, affidandogli, di film in film, ruoli sempre più “importanti”. Avremo modo di soffermarci su Fabio Testi nel quarto volume dove sarà uno degli attori protagonisti della parte terminale dello spaghetti-western, ma anche nel poliziesco alternativo con pellicole come Vai Gorilla e Luca il Contrabbandiere. Il resto del cast è fatto di comparse e cascatori al servizio di una trama che vede i due pistoleri, autonomamente, far fuori tutti i banditi di un paesino dal nome evocativo: Black City. Django è un bounty killer, Sartana uno sceriffo ex bounty killer nominato tutore della legge dopo l'assassinio del precedente sceriffo. I due faranno neri tutti quanti a suon di piombo e sganascioni vari. Sceneggiatura assente, sparatorie a go go ma dopo una prima parte soporifera, con Fabio Te1071 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sti impegnato anche come controfigura e stuntman. Siamo nei territori liberi dell'improvvisazione di Fidani che, piuttosto che alla penna, si affida al suo estro nella messa in scena e soprattutto alle doti acrobatiche delle controfigure. Ha i suoi fan, anche se non è il più scatenato prodotto firmato Fidani. Buone alcune inquadrature, per le angolazioni di ripresa, e alcuni giochi di fotografia di Franco Villa. Non sfruttati Powers e Testi che garantiscono comunque un balzo in avanti a livello recitativo rispetto ai precedenti film del regista sardo. Lamenta la mancanza di suspence fistfulofpasta.com che scrive: “Fidani non sa come creare suspence. Le rese dei conti sono blande e poco emozionanti, inoltre Powers, qui, è atroce... Solo per chi voglia completare la filmografia di Fidani.” In estate esce il primo western di Mario Pinzauti, conosciuto soprattutto come scrittore di gialli e di racconti horror, lo si ricorda sotto lo pseudonimo di Harry Small tra gli scrittori della serie I Racconti di Dracula con racconti lunghi quali Lo Squalo Bianco, La Valle dei Cento Morti e Le Piccole Gocce. Il titolo del film, girato quattro anni prima, è il “frankestiano” (visto che scimmiotta svariati titoli più famosi) Giunse Ringo e... Fu Tempo di Massacro (1966-70), noto anche come Wanted Ringo. Pinzauti, disegnatore, studioso di criminologia e paranormale nonché esperto di armi (a inizio anni '80 sarà perito balistico del tribunale di Roma e maestro di tiro), arriva dall'aver scritto alcuni copioni e dalla regia di Interpol Morte al Molo 18 (1962) rimasto senza doppiaggio e incompleto per il fallimento della produzione e dunque mai uscito in Italia. Non avrà fortuna neppure con questo film rivivendo l'incubo del debutto per cause a lui non addebitabili. In prima battuta perde l'attore principale a metà lavorazione. L'ungherese e statuario Mickey Hargitay infatti lascia la troupe senza dir nulla, di punto e in bianco, per recarsi in America dove il figlio è stato morso da un leone (!?). Pinzauti si trova costretto a stravolgere il suo stesso copione e a far ingaggiare in fretta e furia il francese James Luis, in arte Jean Louis. Le scocciature però non sono terminate, perché il produttore italo-americano La Volpe, supportato dal produttore esecutivo del cult 2+5 Missione Hydra (1966), tale Renato Minneci, finisce i soldi prima della post-produzione. La conseguenza è inevitabile: non ci sono denari per pagare attori e regista, figurarsi cast artistico e doppiatori. E se Pinzauti preme affinché il film esca, gli altri, che non 1072 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

lavorano per la gloria, la prendono male e ottengono il blocco della pellicola. Il film, terminato nel 1966, uscirà solo quattro anni dopo con serie ripercussioni in termini economici per la sua obsolescenza e per una distribuzione all'acqua di rose. Lo stesso Pinzauti, deluso, resterà ai box per cinque anni dirigendo in seguito un altro western e altre tre pellicole, tra poliziesco ed erotico, prima di abbandonare cinema e letteratura per le scarse soddisfazioni ricevute. A ogni buon conto si tratta di un western dalle forti contaminazioni gialle, si dice persino horror, con il protagonista Jean Louis che indaga su una serie di delitti. Curiosamente, a commetterli sono due donne avvelenatrici, aspetto questo innovativo, interpretate da Lucia Bomez (al suo ultimo film) e la teatrale Anna Cerretto nella sua unica apparizione cinematografica. Visto da pochissimi, tra questi i critici Bruschini e Fratter che tutto sommato non lo ritengono malaccio. Introvabile. Quattro e mezzo il voto su imdb. Nel mese di agosto escono vari western, quasi tutti piccoli. È Ignacio F. Iquino, ancora una volta, ad anticipare la compagnia con Prima ti Perdono... Poi T'Ammazzo (1970). Si tratta della seconda trasposizione di un romanzo di Enrique Vera con adattamento firmato da Iquino e da Luciano Martino che partecipa in veste di coproduttore. Iquino impone un regista spagnolo e Martino opta per Juan Bosch, vecchio volpone proveniente dalle commedie. La scelta si rivelerà fortunata per il produttore italiano che lancerà Bosch in una nuova carriera da regista, tanto da produrgli altri cinque western in due anni. È però Iquino a organizzare il set e a farlo all'insegna del risparmio, tanto da costringere la troupe a a girare in un angusto studio invaso dall'acqua piovana, per problemi di infiltrazione. Duro quindi il lavoro per i direttori della fotografia per ovviare alle continue difficoltà tecniche. Tra questi figura Floriano Trenker (curerà la fotografia de Lo Strano Vizio della Signora Wardh), figlio di quel Luis che negli anni '30 girò uno dei più famosi protowestern, ovvero L'Imperatore della California. La trama non è tra le più originali. Un bandito (Bruno Corazzari) è in carcere e deve essere sottoposto a processo, ma il testimone che viene inviato in gran segreto in paese per inchiodarlo finisce preda di un rapimento messo in atto dal socio (Fernando Sancho) dell'incarcerato. Quest'ultimo rapisce un'intera carovana (da qui il titolo spagnolo “La Diligenza dei Condannati”) e uccide, uno a uno, i vari compo1073 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nenti per cercare di scoprire l'identità del testimone. Un pistolero (Richard Harrison), però, si ribellerà. Piccola parte per Erika Blanc. Onesto, nonostante i mille luoghi comuni e le svariate incongruenze. Ritorna al western Roberto Mauri che scrive e dirige Sartana nella Valle degli Avvoltoi (1970), con i capitali di Enzo Boetani, amministratore di Ottavio Poggi, al suo terzo film dopo il debutto nel war movie Il Dito nella Piaga (1969) di Tonino Ricci (si dedicherà poi all'erotico oltre a produrre Murder Obsession di Freda). Ennesimo film apocrifo, questa volta con William Berger nei panni di un Sartana simile nel look all'originale (nero vestito con cappello da damerino), ma non caratterizzato da prestigiatore. Il nostro è un ricercato e ha una taglia da 10,000 dollari sulla testa, per questo va in giro a stendere bounty killer. Lo vediamo impegnarsi per far evadere dei banditi che gli hanno promesso la quota del 50% sul valore dell'oro che hanno rapinato all'esercito. Una volta evasi, i banditi (capitanati da Wayde Preston) non tengono fede a quanto promesso e cercano di eliminare Sartana abbandonandolo nella valle degli avvoltoi. Errore fatale, Sartana, dopo esser stato curato e rimesso in sesto da una donna, darà loro la caccia nel deserto... Western lento, non originale e con azione centellinata. Mauri non può neppure sfruttare le ambientazioni, poiché il film è girato in una periferia romana assai poco adatta a un lungo inseguimento nel deserto. Epilogo delirante e poco verosimile: Sartana passa da bandito (quale è) a eroe premiato dall'esercito (!?). Augusto Martelli compone la simpatica main theme per la canzone A King for a Day cantata in coppia con Betsy Bell (compare anche nel film). Risibile, sebbene giudicato da alcuni il miglior film di Mauri. Per Marco Giusti “gli attori funzionano.” Una sola stella per filmtv. Torna al western, a oltre cinque anni di distanza anche Mario Bava e lo fa con una piccola produzione a cui però dedichiamo una scheda. ROY COLT & WINCHESTER JACK Produzione: Italia, 1970 Prodotto: Luigi Alessi (Atlas Cinematografica), Antonio Lucatelli (Tigielle 33). 1074 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Regia: Mario Bava Soggetto e Sceneggiatura: Mario Di Nardo. Interpreti Principali: Brett Halsey, Charles Southwood, Marilù Tolo, Teodoro Corrà, Guido Lollobrigida (Lee Burton) , Federico Boido (Rick Boyd). Fotografia: Antonio Rinaldi e Mario Bava. Musiche: Piero Umiliani. Sottogenere: Comico. Durata 99 min. Giudizio Mancini: *1/2 La trama L'ex rapinatore Roy Colt (Halsey), diventato sceriffo, cerca di mettere contro due bande a caccia di un tesoro indiano sepolto nel deserto. Le due bande, inizialmente associate, sono quella di Winchester Jack (Southwood), ex capo proprio di Roy Colt, e quella di un Reverendo scappato dalla Russia (Corrà). L'obiettivo di Roy non è quello di arrestare i malviventi, ma di impadronirsi lui stesso del tesoro. Tra tutti i pretendenti, però, spunta una giovane indiana (Tolo) contesa tra i due protagonisti e anch'essa disposta a tutto pur di mettere le mani sul malloppo. Il commento Terza e ultima incursione western per Mario Bava, dopo La Strada per Fort Alamo (1965) e Ringo del Nebraska (1966), questa volta tendente a un demenziale decisamente sbandierato. Conosciuto soprattutto per gli horror gotici e per la sua capacità di adottare soluzioni stilistiche e tagli visivi che avrebbero fatto successivamente la fortuna di molti colleghi, il nome di Mario Bava è legato a capolavori quali La Maschera del Demonio (1960), Sei Donne per l'Assassino (1964) thriller che anticipa i gialli argentiani, Reazione a Catena (1971) precursore dei futuri slasher movie, ma anche allo scifi Terrore nello Spazio (1965) capace di gettare le basi per una pietra miliare della fantascienza come Alien di Ridley Scott, e il crudo noir Cani Arrabbiati citato apertamente, fin dal titolo originale, da Quentin Tarantino per il suo debutto avvenuto con Le Iene. Prima che regista, l'estro visionario di Mario Bava si era manifestato nella pittura, quindi in qualità di operatore e infine come grande curatore degli effetti speciali (arte che aveva acquisito dal padre Eu1075 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

genio Bava, uno dei primi esperti in questo campo). Celebri sono i trucchi di Bava realizzati con pochi soldi ma di un'efficacia all'epoca straordinaria grazie all'impiego di lenti colorate, ingrandimenti e plastici creati ad hoc. Memorabili restano le sue trasformazione dei volti come dimostrano i make uo de I Vampiri e La Maschera del Demonio, ottenute con la tecnica della stop motion ma anche con l'uso di particolari raggi luminosi. Bava era anche un abile addetto alla fotografia, con un gusto particolare per il bizzarro e per i colori sgargianti e accesi che rendevano subito riconoscibile un suo lavoro per la spiccata impronta innovativa. Mise lo zampino, terminandone le riprese, nel primo horror della filmografia italiana, cioè I Vampiri (1956) di Riccardo Freda, per poi passare da un genere all'altro, ma sempre con un certa predilezione per l'horror. Roy Colt & Winchester Jack rappresenta una pausa dal suo cinema, pur mantenendo alcune costanti che spiccano subito alla vista dello spettatore attento. In prima battuta, a differenza degli altri film del genere, non si possono non notare le bizzarrissime scenografie. Bava inserisce cactus di cartapesta, serpenti finti e soprattutto dei canyon che torreggiano sullo sfondo e che, con giochi di illusione ottica, vengono fatti apparire sopra ai monti veri in modo da innalzarli. Tipicamente baviana è la bella fotografia e l'utilizzo di fitte nebbie (soprattutto all'inizio) che costituiscono una sorta di ponte di collegamento tra il cinema fantastico del regista a quello più realistico del western. Se quanto detto costituisce il marchio di fabbrica del regista ligure, lo stesso non può dirsi per la forte impronta comico-grottesca che contraddistingue l'intera pellicola, con sprazzi trash-demenziali che regalano più di una risata ma che in vari frangenti si rivelano a dir poco stucchevoli (si veda la sequenza all'interno del bordello o la scena in cui Winchester Jack, dopo aver sorpreso la propria ragazza ad amoreggiare con Roy Colt, viene inquadrato in primissimo piano con dei cactus sullo sfondo ramificati a mo' di ipotetiche corna). La sceneggiatura del veterano Mario Di Nardo, di cui abbiamo già avuto modo di parlare, è una parodia dello spaghetti western classico. Lo script propone le due canoniche bande contrapposte che si contendono un malloppo e che vengono manipolate da un terzo individuo che fa da guastafeste mettendole l'una contro l'altra allo scopo di decimare gli avversari e accaparrarsi il tesoro. La novità, oltre che dal taglio comico, è costituita dall'introduzione di una donna indiana che 1076 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

si concede agli uomini solo a pagamento (cercando di convincerli a sposarla) e che alla fine farà le scarpe a tutti. Carine alcune scene come quella in cui l'indiana sfila la pistola a Winchester Jack dando l'idea di volerlo rapinare e invece, schifata dal suo cattivo odore, lo costringe a fare il bagno nell'acqua fredda prima di fare all'amore, oppure quella in cui viene proposta una scena che anticipa di svariati anni il balletto di Kim Basinger in 9 Settimane e 1/2 con la differenza che dietro alla tapparella non c'è una donna (come sembrerebbe) ma un uomo con assurde appendici che simulano le curve di un corpo femminile. E poi ancora dialoghi di un'ironia completamente sopra le righe: “Prima si paga e poi ci si diverte. Non è che sono venale: è il ritratto di Lincoln che mi eccita” oppure “Quello non si tocca, conosce la strada. Quando avremo l'oro avrà la sua parte... di piombo, scemi!”). Per non parlare del personaggio del reverendo russo che parla con un accento russo misto a un'inflessione dialettale romana. Ma le gag sono davvero molteplici e disseminate per tutto l'arco del film, sarebbe impossibile citarle tutte. Nel cast artistico troviamo un manipolo di attori che di certo non sono riusciti a scrivere pagine importanti nella cinematografia mondiale e neppure in quella di genere, fatta a eccezione per la bella e sfortunata Marilù Tolo che, ad avviso del sottoscritto, avrebbe meritato una carriera più importante di quella che ha avuto e che l'ha comunque vista presente in più di cinquanta film. Nel ruolo di protagonista abbiamo il trentasettenne Brett Halsey, giovane promessa del cinema americano tanto da esser messo sotto contratto dall'Universal prima e poi dalla 20th Century Fox (lo si ricorda ne La Vendetta del Dottor K del 1956 sequel del più famoso L'Esperimento del Dottor K”), ma presto decaduto e costretto a ripiegare in Italia, spesso in pellicole di scarso valore, quindi nelle serie tv (tra le quali la mitica Kung Fu) e poi, a fine carriera, in un paio di film low budget (Quando Alice ruppe lo specchio e Demonia rispettivamente del 1988 e del 1989) tra i meno riusciti di Lucio Fulci. Sorte addirittura meno felice è quella dell'altro protagonista americano: Charles Southwood. Snobbato in patria (dove non si ricorda in nessun film di valore), Southwood riesce a ritagliarsi un suo spazio nello spaghetti western di terza fascia con partecipazioni in film di Giuliano Carnimeo e di Demofilo Fidani. Sia Halsey che Southwood non forniscono performance degne di particolare nota, ma si limitano a fare il loro senza regalare momenti di grande espressività. Decisamente più convincente 1077 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

è l'ex modella Marilù Tolo, di lì a poco fidanzata di Dario Argento (il loro sarà un rapporto burrascoso) e con due grandi occhi penetranti capaci di ipnotizzare buona parte del pubblico maschile. La Tolo, oltre che attraente, sprizza simpatia da tutti i pori e offre quella espressività che sono incapaci di offrire i due colleghi americani. Piuttosto in palla anche il caratterista Teodoro Corrà a cui viene riservato il ruolo più grottesco e sopra le righe delle comitiva (forse il più importante della sua scarna carriera). Ruoli marginali per tutti gli altri. Anonima la colonna sonora di Piero Umiliani, incapace di lasciarsi ricordare al termine del film. Non convince neppure la main theme cantata da un gruppo beat dell'epoca chiamato I Free Love. Nel complesso si tratta di un film con un soggetto trito e ritrito ma proposto in chiave demenziale-comica con più di un momento estremamente divertente. Da vedere senza pretese. 10.3 Tra sequel apocrifi e serie ufficiali. La prima risposta alla crisi nera che avvolge il genere viene dall'uscita di nuovi episodi ufficiali delle saghe dei vari Sartana, Sabàta, Arizona e MacGregor, seguiti da ulteriori sequel apocrifi. Per il resto ancora poco o nulla anche se si registra il ritorno al genere di Mario Costa. C'È SARTANA... VENDI LA PISTOLA E COMPRATI LA BARA! Produzione: Italia e Spagna, 1970. Prodotto: Oreste Coltellacci (Colt Produzione Cinematografica), Hispaner Film. Regia: Giuliano Carnimeo (Anthony Ascott). Soggetto e Sceneggiatura: Tito Carpi. Interpreti Principali: George Hilton, Charles Southwood, Piero Lulli (Peter Carter), Nello Pazzafini, Erika Blanc, Carlo Gaddi, Gigi Bonos, Federico Boido (Rick Boyd), Luciano Rossi (Lou Kamante), Armando Calvo, Franco Fantasia, Marco Zuanelli, Massimo Vanni. Fotografia: Stelvio Massi. Musiche: Francesco De Masi. Sottogenere: Giallo. 1078 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Durata 92 min. Giudizio Mancini: **1/2 Giudizio Morandini: Non trovato. La trama Sartana (Hilton) decide di indagare sul motivo per cui un carro della General Mines che avrebbe dovuto trasportare oro in realtà trasportasse sabbia. Il nostro lo ha visto assaltare dalla banda del messicano Mantas (Pazzafini) che ne ha rubato il carico e trucidato gli accompagnatori, senza dare in escandescenze una volta resosi conto del bluff. Travestito da peone, Sartana prende alloggio nell'albergo di Trixie (Blanc) e cerca di capire cosa ci sia sotto le continue rapine ai danni carri della General Mines. Riesce a farsi ingaggiare da un funzionario della compagnia (Lulli) per accompagnare il nuovo carico. Intanto giunge in paese un altro forestiero intenzionato a imitare Sartana: Sabàta (Southwood). I due scopriranno una clamorosa truffa che vede molti complici e altri disposti a mettere le mani sul vero tesoro, mentre il funzionario della General Mines ha ben pensato di usare tutti i contendenti per metterli l'uno contro l'altro e avere per sé il bottino senza destare sospetti. Il commento Terzo episodio della saga Sartana che vede avvicendarsi in veste di protagonista Hilton a Garko e Oreste Coltellacci ad Addobbati come produttore. Tito Carpi invece, dopo Sono Sartana, il Vostro Becchino (1969), diventa l'unico autore della sceneggiatura nonché autore del soggetto. Confermatissimo in cabina di regia Carnimeo ormai regista ufficiale della saga ideata da Gianfranco Parolini e Guido Zurli. Per Coltellacci si tratta del quarto western prodotto dopo il debutto nel genere avvenuto nel 1966 con Le Colt Cantarono la Morte e Fu... Tempo di Massacro di Fulci. Attivo dal 1958, si era in precedenza dedicato soprattutto alla commedia all'italiana ritagliandosi più di una soddisfazione grazie a pellicole di discreto successo e qualità come I Tartassati (1959) di Steno, Il Mattatore (1960) e Il Sorpasso (1962) di Dino Risi nonché Anni Ruggenti (1962) di Luigi Zampa. Nel 1960 aveva inoltre coprodotto il krimi Il Diabolico Dr. Mabuse (1960) che si segnala tra le ultime pellicole del maestro tedesco Fritz Lang. 1079 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

L'approdo al western per Coltellacci segna tuttavia la parabola discendente nella sua carriera, da sempre interessato al genere parodistico (ricordo, tra gli altri, la parodia horror datata 1959 Tempi Duri per i Vampiri di Steno), a poco a poco, dopo i primi western seriosi e violenti come Professionisti per un Massacro (1967) e Due Volte Giuda (1969), si dedicherà sempre più al western comico/demenziale. C'è Sartana... segna proprio lo snodo che porterà all'ultima e meno produttiva fase della carriera di Coltellacci. Tito Carpi infatti, forse su indicazione del produttore, infarcisce la sceneggiatura di una serie di trovate comico/demenziali, andando quasi ad eliminare la componente gotica su cui ruotavano i primi due capitoli e su cui torneranno a incentrarsi i successivi. Così vediamo Sartana spegnere l'innesco di alcuni candelotti di dinamite lanciando in aria una borraccia per colpirla in volo e far cadere l'acqua proprio sulla miccia (!?) o ancora uccidere un messicano che si diverte ad accendere i fiammiferi tenendoli tra le dita dei piedi per poi sparare sulle capocchie degli stessi (!?). In un'altra sequenza Sartana uccide un bandito sparandogli con la sua inseparabile derringer a quattro canne tenuta nascosta dentro una pagnotta. “Ma che pistola è?” gli chiederà l'oste; “Sandwich colt” l'improbabile risposta di Sartana. L'ironia demenziale coinvolge anche uno degli antagonisti, il capobanda messicano interpretato da Pazzafini, che si mette a fare il classico gioco del “m'ama non m'ama” sparando sui petali di un girasole chiedendosi: “sono più veloce io o era più veloce lui!” Siparietti demenziali che a mio avviso rovinano un po' l'atmosfera gialla e guascona che caratterizza la sceneggiatura, dando l'idea di un tentativo di voler creare un qualcosa di diverso nella speranza continua di sorprendere con trovate d'effetto lo spettatore anche a rischio di esagerare. Non a caso le trovate diaboliche qua raggiungono l'apice della saga e vengono snocciolate in continuazione. Si vede eseguire una rapina con banditi che spuntano fuori da buche celate da tavole ribaltabili, ricoperte d'erba, che si alzano d'improvviso al passaggio della diligenza. Poi c'è un'assurda partita a dama tra il protagonista e l'oste di un bar (l'ottimo Gino Bonos) con dei bicchierini colmi di whisky usati al posto delle pedine. Carpi si diverte a regalare citazioni ai più importanti spaghettiwestern, inserendo gag e scene funzionali solo a tal scopo. Così abbiamo Hilton che fa il bagno in una tinozza in attesa che vengano a ucci1080 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

derlo, un po' come faceva Tuco in Il Buono, il Brutto, il Cattivo (1966), oppure lo vediamo liberare una donna, tenuta schiava dal capobanda messicano, per pietà nei confronti del figlio, quindi donarle dei soldi e farla fuggire per la campagna così come aveva fatto Clint Eastwood in Per un Pugno di Dollari (1964). Riceve un omaggio anche Per Qualche Dollaro in Più (1965) con il confronto finale tra i due soci che si sfidano (facendo scena per il pubblico) per dimostrare chi dei due è più abile con la pistola. Al riguardo è curiosa la modalità con cui Carnimeo mette in scena il confronto. Anziché riprendere un canonico duello, fa camminare in cerchio i due attori (Hilton e Southwood) attorno al tesoro e li fa sparare uno per volta mentre si muovono usando come bersaglio gli speroni dell'avversario, le giacche, i cappelli e così via. Sono poi presenti dei piccoli omaggi a western minori come Le Colt Cantarono la Morte (1966), con Southwood che entra per la prima volta in scena dicendo: “Hey, gentleman” proprio come faceva Hilton nel film di Fulci; Per il Gusto di Uccidere (1966), con il protagonista che spia da lontano le rapine altrui per poi recarsi dal rapinato e offrirsi come guida dei suoi successivi carichi; e infine Ehi Amigo.... C'è Sabàta, Hai Chiuso! (1969) da cui si riprende il protagonista: Sabàta (nella versione inglese si chiama però Sabbath). È bene subito chiarire però che dal film di Parolini si riprende solo il nome del personaggio, poiché il Sabàta di Carnimeo non ha nulla a che vedere con quello di Parolini, piuttosto è una specie di anticipazione di Spirito Santo che poi Carnimeo porterà in scena nei suoi successivi western. Si tratta difatti del perfetto negativo (in accezione fotografica) del Sartana interpretato da Hilton: è biondo, veste in completo bianco, cavalca un cavallo nero, legge poesie prima di sparare e usa un ombrellino bianco da sole che piazza a destra e a manca per indurre in errore gli avversari. Hilton invece è moro, veste di nero, cavalca un cavallo bianco e usa la giacca e il cappello a mo' di spaventapasseri per indurre in errore gli avversari e sorprenderli alle spalle. Di Sabàta, Sartana dirà: “Sente l'oro al fiuto, come i cani da caccia!”. Il personaggio viene interpretato dal semisconosciuto californiano Charles Southwood al suo terzo film dopo aver debuttato in due spaghetti-western di quarta fascia. Proseguirà la carriera senza riuscire a lasciare acuti e spesso in western di secondo piano. Tornerà a lavorare con Carnimeo in Testa t'Ammazzo, Croce sei Morto... Mi Chiamo Alleluja (1971). La sua prestazione, seppur freddina, è sufficiente, sebbene non troppo espressiva e in continuo confronto (perso) con 1081 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

quella di Hilton. I due sono infatti spesso contrapposti, prima a poker, dove si segnala una sfida a quattro (gli altri due sono Erika Blanc che fuma il sigaro e Piero Lulli che ridacchia entusiasta) e poi con le pistole. Nella partita a poker vediamo Sabàta stendere una carta per giocatore per assegnare il mazzo. A Lulli va un Jack, alla Blanc una donna e a Sabàta un re. Southwood sottolinea il valore delle varie carte, facendo capire di aver vinto il mazzo, ma ecco che da dietro interviene Sartana che dice: “E un asso!”. Il valore delle carte non è casuale, ma ha lo scopo di evidenziare l'importanza ai fini della storia dei vari personaggi. Saranno proprio loro a contendersi la posta, mentre tutti gli altri gireranno a vuoto. Sartana e Sabàta si dichiarano subito serviti e rilanciano di continuo la posta in gioco, fino a far uscire dalla partita la Blanc e Lulli. A questo punto Sartana dice di avere perso e non cala le sue carte, lasciando la posta a Sabàta. Lulli, che sta pensando di mettere i due contro i suoi complici in una sfida tutti contro tutti (del resto, la sua prima regola dichiarata è: “Dividere i nemici”), se la ride divertito e abbozza: “Fantastico, era un bluff o... forse due!” Sabàta senza mezzi termini lo gela con freddezza: “Chi lo sa, per sapere certe cose bisogna pagare e anche parecchio.” Il funzionario non immagina che Sartana e Sabàta stanno facendo il suo stesso gioco, ovvero mandargli contro i complici proponendo loro delle false proposte di società, così come farà Lulli con Sartana e con Sabàta. Penso sia giusto sostenere che l'entrata in scena di Sabàta sia fondamentale per rendere la storia accattivante e divertente. Lo script si intinge di giallo e propone una lunga serie di personaggi in combutta con Piero Lulli (grande interpretazione come al solito) nei panni di un rispettabile funzionario che ha orchestrato una serie di finte rapine compiute dalla banda di Pazzafini (sopra le righe anche lui, in una delle sue migliori prestazioni) per sottrarre denaro alla compagnia. Anziché dividere il maltolto, Lulli cercherà di tenere tutto per sé, mettendo contro i soci i soggetti che giungono in paese. Carpi, seppur con qualche sbavatura ed eccesso di troppo, scrive dei dialoghi e delle battute graffianti che Hilton rende ironiche e simpaticamente guascone. Memorabile tutto il gioco finale tra Sartana e Sabàta che fingono di volersi uccidere solo per provare che la Blanc è una bugiarda profittatrice pronta a non stare ai patti. Nel film compaiono anche Federico Boido e Luciano Rossi, rispettivamente nei loro consueti ruoli del bullo che finisce subito per paga1082 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

re dazio e dello psicopatico che ride in modo isterico. Purtroppo hanno la sola funzione di rendere duro e rispettabile l'ingresso in scena di Sabàta, che li costringerà a chiedere scusa ai molestati. Carnimeo gira con il suo inconfondibile stile fatto di zoom in e zoom out, giochi di messa a fuoco e montaggio sollecito. Il film, pur privo di sequenze particolarmente accattivanti, scorre veloce e non annoia mai (sebbene la prima parte abbia varie scene gratuite). George Hilton, verosimilmente preferito da Coltellacci a Garko perché già avuto nei suoi precedenti western, non delude le aspettative e non fa rimpiangere il collega, dando al personaggio un'aria più trasandata (non ha il mantello e neppure la cravatta rossa), ma al contempo più simpatica. Il Sartana di Hilton rinuncia ai trucchi da prestigiatore di Garko e non ha più quell'alone da fantasma invincibile, piuttosto è un guascone che gioca d'astuzia. Pazzafini, rivolgendosi ai suoi uomini dopo esser stato irriso in un conflitto a fuoco dove i protagonisti sono gli uomini della sua stessa banda precedentemente uccisi da Sartana, dirà: “Quel gringos è un hombre muy furbo, è un gringo filosofo. Si è anche permesso di prenderci in giro servendosi dei nostri uomini! ” Qua, unico caso nella saga, vedremo Sartana associarsi con un personaggio che ha molte caratteristiche in comune con lui, pur essendo un pizzico inferiore in astuzia. La colonna sonora di De Masi non è tra le migliori della serie (c'è però chi la definisce buona), così come la fotografia di Stelvio Massi non si rivela curata come altrove. A ogni modo, almeno fino all'uscita degli ultimi due capitoli della serie (visivamente più accattivanti e con script più equilibrati nel gestire le diavolerie del personaggio), è il miglior Sartana uscito nei cinema. È un western surreale, sconsigliato ai puristi, ma capace di regalare divertimento agli amanti del pulp e del bizzarro, grazie all'ironia spavalda e ai continui colpi di scena. Non secondari sono poi i numerosi caratteristi che appaiono, si va dai citati Rossi e Boido ai vari Calvo, Zuanelli e Massimo Vanni Carnimeo farà meglio con i più curati due capitoli successivi di cui l'ultimo (Una Nuvola di Polvere... Un Grido di Morte... È Arrivato Sartana ) chiaramente ispirato a questo terzo episodio quasi da potersi considerare un remake dalle tonalità più cupe e violente (nei panni del furbo antagonista ritroveremo, peraltro, proprio Piero Lulli). 1083 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Carnimeo lo ritiene il suo miglior film e gli appassionati rispondono avendolo visto in massa. Spaghettiwerstern.altervista.org parla di trama irrisoria, comunque contraddistinta da grande azione, con personaggi ben caratterizzati e intersecati tra loro da continue alleanze e successivi tradimenti. Un western da vedere afferma in chiusura di recensione. Fistfulofpasta.com lascia intendere che avrebbe preferito vedere Garko al posto di Hilton, ma si affretta subito a reputarlo un western sopra la media. Vale addirittura (vista la rigidità di opinione nei confronti di altri prodotti) tre stelle nella scala di valori di filmtv.it. Tra i meno entusiasti 800spaghettiwesterns.blogspot.it che apprezza la sfida a poker poco sopra accennata e da la sufficienza finale, senza tante parole. Sufficienza striminzita per imdb.com, ingiustificabile invece il voto di mymovies.it che gli da solo una stella. Morandini non pervenuto, ma non è una novità... Un giorno prima di ferragosto, Sergio Martino vede uscire la sua prima pellicola da regista: Arizona si Scatenò... e Li Fece Fuori Tutti (1970), uno dei titoli più belli insieme ad Ammazzali Tutti e Torna Solo (1968) di Castellari per la sua capacità di far dire allo spettatore: me cojoni. Si tratta del sequel ufficiale di Arizona Colt (1966) che segna il debutto assoluto alla regia del grande Sergio Martino che poi girerà molti capolavori del cinema di genere (soprattutto gialli e comici). Cresciuto al fianco del fratello Luciano Martino (non a caso produttore del film), aveva seguito le orme del fratello maggiore interessandosi al cinema fin dai tempi dell'università, apparendo dapprima come attore in I Ragazzi dei Parioli (1959) e poi come assistente alla regia in film di genere tra i quali Il Demonio (1963) di Rondi e La Frusta e il Corpo (1963) di Mario Bava. Il fratello Luciano, a poco a poco, lo aveva inserito nell'organizzazione della sua società di produzione, affidandogli ruoli organizzativi (manager di produzione ed esecutore di produzione) in più film oltre che la possibilità di farsi le ossa con la stesura di alcuni soggetti tra cui Le Spie Uccidono a Beirut (1965) e il western Per 100.000 Dollari ti Ammazzo (1967). Nel 1969 Luciano Martino lo aveva infine lanciato alla regia di un trio di documentari, per prepararlo così al grande salto appena compiuti trent'anni. Il suo è un debutto un po' in sordina poiché il soggetto del film ricalca due precedenti western del duo Ernesto Gastaldi e Luciano Mar1084 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tino (qua soggettista e produttore) ovvero il citato Arizona Colt e 10.000 Dollari per un Massacro (1967). In seguito però Sergio Martino sfornerà una serie di pellicole che lo eleveranno tra i più grandi registi di genere del nostro cinema, subito dietro ai vari Mario Bava, Dario Argento e Lucio Fulci. Girerà più di sessanta opere, brillando soprattutto nel giallo dai contorni erotici dove lancerà Edvige Fenech (fidanzata del fratello Luciano Martino) con perle come Lo Strano Vizio della Signora Wardh (1971) e l'onirico Tutti i Colori del Buio (1972), alternandoli ad altri gioiellini appartenenti al medesimo genere come Il Tuo Vizio è una Stanza Chiusa e Solo io ne ho la Chiave (1972) e I Corpi Presentano Tracce di Violenza Carnale (1973), film che avranno un successo enorme anche in America. Tra il l974 e il 1976 passerà, con eguale successo, alla commedia scollacciata firmando i migliori film del genere con la Fenech spesso protagonista, alternandoli a un lotto di poliziotteschi di medio livello con il solo La Polizia Accusa: il Sevizio Segreto Uccide (1975) da annoverarsi tra i suoi film più riusciti. Dal 1977 al 1985 farà un po' di tutto, girando con grande tecnica e atmosfere oniriche anche film d'avventura e post atomici coraggiosi (per le loro difficoltà di realizzazione) come L'Isola degli Uomini Pesce (1979) e 2019 Dopo la Caduta di New York (1983), piccole perle artigianali con i loro mille difetti ma comunque imperdibili per gli amanti dei b-movie. Tornerà al western nel 1977 con il bizzarro Mannaja, uno dei migliori prodotti della sua produzione cinematografica. L'ultima parte di carriera la dedicherà quasi completamente al cinema comico, piazzando però altre perle memorabili come Occhio, Malocchio, Prezzemolo e Finocchio (1983) e soprattutto L'Allenatore nel Pallone (1984), cui darà seguito nel nuovo secolo con un nuovo e assai mediocre episodio. Purtroppo in questo Arizona si Scatenò Martino non ha per le mani il soggetto giusto. Sembra quasi un'opera di transizione per prendere confidenza col mondo del cinema, anche perché la scheletratura del film non ha nulla di originale. Come già avvenuto nel primo capitolo della serie, Arizona viene assoldato da un riccone per recuperare la figlia rapita e un carico di denaro rapinatogli da una banda di manigoldi. Gli snodi che vengono inseriti per vivacizzare la storia sono anch'essi copiati da altri spaghetti-western. Il primo di essi vede Arizona salvarsi da un impiccagione grazie a un filo di ferro applicato dietro al cappio (soluzione ripresa da Preparati la Bara!), ovviamente era stato condannato per un delitto commesso dagli antagonisti e a 1085 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

lui imputato a causa di una falsa testimonianza. Il secondo divertissement vede Arizona prendersi gioco della banda di delinquenti con un trucchetto molto semplice: un pugno di dollari lasciati scorrere sulla superficie di un torrente. Alla vista dei soldi i banditi escono alla scoperto, buttandosi in acqua e prendendosi a cazzotti per recuperare le banconote. Intanto Arizona ne approfitta per recuperare il carico di denaro che gli stessi stavano sorvegliando in un capannone. Il trucchetto, che vorrebbe essere originale, è ripreso addirittura da La Strada di Fort Alamo (1964) di Mario Bava. Non è infine originale neppure il colpo di scena che porta la ragazza rapita dai banditi, e liberata da Arizona, a ritornare tra le braccia degli aguzzini perché innamorata del loro leader. La sequenza, infatti, è ripresa pari pari da 10.000 Dollari per un Massacro e come nel film di Guerrieri il protagonista finisce nelle mani dei banditi che lo pestano a sangue. In una di queste scene, è curioso l'aneddoto secondo il quale Anthony Steffen avrebbe perso la dentiera in un fiume, quanto meno questa è la versione raccontata da Sambrell. E allora che resta di buono? Sicuramente le caratterizzazioni del duo protagonista e i dialoghi smargiassi che portano l'inconfondibile firma di Gastaldi. Arizona, che a ogni domanda che gli viene posta risponde con il suo solito tormentone “ci devo pensare...” così come faceva Giuliano Gemma nel precedente film, perde quell'alone da simpatica canaglia dandy, in favore di un aspetto più trasandato; acquisisce invece una certa arroganza basata su una maggiore convinzione in sé stesso, tanto da dare di continuo dell'imbecille a banditi, sceriffi e cittadini. Si autodefinisce intelligente e, quando vede che sulla sua testa pende una taglia da 1.000 euro, offeso per la poca importanza offertagli, afferma: “Hanno davvero perduto la scala dei valori...” Eloquente poi la sequenza in cui lo sceriffo, attorniato da uno stuolo di guardie, lo va a prendere in cella per portarlo sulla forca e il nostro, assonnato e facendo sbadigli come chi si sta alzando per andare a lavoro risponde: “il mio amico, lasciatelo dormire: è delicato. Non sopporta la vista di tanti imbecilli messi assieme.” Nonostante sia uno sbruffone e spaccone, Arizona perde il suo caratteristico sorriso accalappia donne (anche se ne accalappierà una anche qui, facendo irritare il padre come nel precedente episodio) per assumere un espressione più austera e cupa per l'incapacità di 1086 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Anthony Steffen (che sostituisce male Gemma) di svincolarsi dal suo solito personaggio indolente e non espressivo. Sicuramente divertente e sopra le righe, anche di più rispetto al primo episodio, è il personaggio di Doppio Whisky ancora una volta offerto allo spagnolo Roberto Camardiel (prova recitativa maiuscola, specie al fianco di Steffen). Lo vediamo di continuo recitare battute che vertono sul suo liquore preferito: “Che possiate tutti morire di sete e non trovare whisky, solo acqua!” È lui a tirare fuori dagli impicci Arizona e a gigioneggiare professando di essere un povero vecchio e alcolizzato ogni volta che compie una marachella. I due sono contrapposti alla banda capitanata da Aldo Sambrell, che torna ad avere un ruolo di primo piano (un po' come in Navajo Joe) alla guida di un gruppo di cui fa parte anche Raf Baldassarre. Il suo è un ruolo leggermente atipico rispetto ai banditi convenzionali. Non brilla per particolare intelligenza, Arizona lo beffeggia quando lo sfida a poker, gli ruba i soldi pur avendo perso la partita e gli da del baro quando invece a barare per primo era stato lui (“Ti avevo dato solo due assi!”). Sambrell gli vorrebbe sparare, ma si accorge che l'avversario non ha la pistola nel cinturone, temendo così un trucco di Arizona rimane immobile e gli chiede: “Dove tieni la pistola?” Arizona allora fa un cenno a Doppio Whisky e se la fa lanciare, perché era davvero disarmato! Curioso anche il fatto che Sambrell finisca per ricevere ordini dalla sua donna, la procace Rosalba Neri che da rapita diviene complice dei banditi. Anche qua si respirano echi di vecchi spaghetti-western, poiché la Neri ricalca il ruolo che aveva avuto in Johnny Yuma (1966) tratteggiando una donna innamorata del suo uomo ma decisamente crudele e perversa (basti vedere come esce per controllare i pestaggi). È lei che suggerirà a Sambrell di far rapire e torturare la donna di Arizona, ben interpretata da Marcella Michelangeli. Dunque una sceneggiatura con dialoghi brillanti che portano il marchio di Ernesto Gastaldi, piuttosto che di Joaquìm R. Marchent come risulta dai credit. Personalmente, penso che il regista spagnolo non abbia neppure messo penna sul copione (non vi è traccia di melodramma) e che risulti solo per la necessità di ottenere finanziamenti spagnoli. Sergio Martino scandisce un bel ritmo e piazza qualche gustosa soggettiva, senza però proporre nulla di sperimentale come farà invece in seguito. Purtroppo il film è limitato dai troppi deja vù e alla fine, 1087 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

pur confezionato bene e con un buon cast artistico, non si distingue dalla massa. Carinissima la colonna sonora (per la musica, non certo per il testo demenziale), a mo' di marcetta comica, di Bruno Nicolai, anche se quasi tutti la trovano pessima (Thomas Weisser e 800spaghettiwesterns.blogspot.it in primis). A mio avviso non è affatto tra i peggiori film interpretati da Steffen, eppure non viene ben accolto quasi da nessuno. Il più generoso è spaghettiwestern.altervista.org che lo reputa apprezzabile, anche se vi trova alcune sequenze demenziali. Il francese Jean-François Giré invece lo stronca perché lo valuta prendendo come modello di rifermento il primo episodio. Il critico francese sembra non volersi rendere conto che Anthony Steffen non avrebbe mai potuto scimmiottare Giuliano Gemma, essendo diametralmente opposto come caratteristiche recitative. Pertanto una bocciatura del film in questi termini non è a mio avviso giusta, specie se si considera che all'epoca i sequel non erano per nulla fedeli agli originali. Al riguardo non sbaglia sonofdjango.blogspot,it quando dice che, per una volta, gli sceneggiatori si sono sforzati di fare un vero e proprio sequel con alcune caratteristiche comuni rispetto al film di ispirazione. Il critico anglofono ritiene tutto sommato guardabile la pellicola, anche se giudica irritante Camardiel. Duro 800spaghettiwesterns.blogspot.it che gli rifila un quattro in pagella, sulla stessa falsa riga fistfulofpasta.com che conviene con lo spagnolo circa la svogliatezza di Anthony Steffen. Spaghettiwestern.net invece, giustamente, pone l'indice sul copione giudicandolo stanco, privo di freschezza e realizzato con il più atroce spirito della routine. Due stelle per filmtv.it che lo reputa un sottoprodotto con decenti scene di azione, una sola stella per mymovies.it, sufficienza striminzita per gli utenti di imdb.com. Destinato a chi non è mai sazio di spaghetti western, trascurabile ma comunque capace di divertire. Dopo cinque anni di pausa, con La Belva (1970), torna al western il veterano Mario Costa, che chiude così la sua trentennale carriera. Costa scrive soggetto e sceneggiatura cucendola attorno a Klaus Kinski, da lui apprezzato in alcune pellicole secondarie, quindi convince l'ex attore Paolo Prestano a finanziargli il progetto e fa mettere sotto contratto l'attore di origine polacca. Il resto è tutto secondario, anche perché il budget è piuttosto misero. 1088 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Prestano non ha soci ed è alle prime armi nonché al suo unico spaghetti-western. In seguito produrrà una mezza dozzina di pellicole tra commedie e drammatici, con la sola parentesi horror di Un Fiocco Nero per Deborah (1974), ottenendo nel complesso uno scarso successo. Costa si trova quindi a dover lavorare con un cast artistico di fortuna e con un cast tecnico non di prima scelta, cui fa eccezione l'esperto direttore della fotografia Luciano Trasatti (I Vitelloni di Fellini, Il Conte Dracula di Jess Franco) che difatti fa un buon lavoro. Addirittura si ricicla la colonna sonora di Stelvio Cipriani dal western Un Uomo, un Cavallo, una Pistola (1967). La sceneggiatura viene messa al servizio del personaggio di Kinski (unica star della pellicola) senza che vi sia un vero e proprio protagonista o altri personaggi adeguatamente caratterizzati. In altri termini si seguono le vicende dell'antagonista senza che vi sia qualcuno su cui il pubblico possa simpatizzare. L'unica nota positiva del film ricade sul personaggio interpretato da Kinski che rispecchia la personalità schizoide dell'attore, senza che si sappia nulla sul suo passato. Non a caso si registrerà un vero e proprio parallelo tra le avventure cinematografiche del personaggio di Kinski e quelle vissute dall'attore sul set. Quest'ultimo si dimostrerà fin da subito intrattabile e finirà per fare a cazzotti con Remo Capitani, intervenuto per placare i bollenti ardori del polacco sorpreso nel tentativo di stuprare un'attrice dopo che aveva malmenato la Giorgelli. Comportamenti in linea a quelli del personaggio da interpretare, un vero e proprio predatore sessuale sfigato, che aggredisce tutte le donne che gli capitano a tiro. La cosa “buffa” è che non riuscirà a violentare nessuna di esse, perché, per un motivo o per un altro, finirà per essere bloccato o superato in astuzia. Per raggiungere il suo squallido fine, organizzerà addirittura una rapina, convinto che con i soldi potrà avere tutte le donne che vorrà!? Purtroppo per lui neppure i soldi gli permetteranno di conseguire il suo fine. Non riuscirà ad avere un rapporto completo neppure quando pagherà una prostituta, perché verrà prelevato dagli uomini di Machete (Gianni Pallavicino), un bandito, così chiamato per l'abitudine di tagliare teste con un machete (Costa non lo mostra ma lo lascia dire al suo personaggio), che cercherà di fargli dire dove ha nascosto i soldi rapinati.

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Bizzarro il look di Kinski che fuma una pipa dotata di prolunga, calza un cappello quasi dandy, e indossa una giacca crema, una camicia blu e una cravatta gialla. Per recuperare i soldi organizzerà una truffa piuttosto elaborata. Farà rapire un'ereditiera di mezza età (Luisa Rivelli) e la farà sostituire da una complice (Gabriella Giorgelli), nella speranza di confondere il banchiere per intascare la somma in contanti spettante alla signora come eredità. Il colpo andrà a buon fine, ma Kinski finirà per aggredire sessualmente e uccidere la rapita mandando su tutte le furie i complici che non sono degli assassini, ma dei messicani in cerca del colpo che possa sistemarli per sempre. Intanto, una vera banda di spietati assassini guidata da Machete si metterà alla caccia di Kinski e compagni per sottrarre agli stessi la somma provento della rapina. A inseguire i rapinatori, inoltre, ci sarà anche lo sceriffo (Remo Capitani) con i suoi aiutanti, personaggi comunque marginali che vengono caratterizzati per sommi capi. Saranno tutti uccisi, alcuni da Kinski (che diverrà sempre più crudele fino a uccidere a sangue freddo) altri dal suo ex socio dotato di maggior carisma, cui da corpo Giuseppe Cardillo. Quest'ultimo si troverà costretto a battagliare nella speranza di liberare la moglie (Gabriella Giorgelli) rapita prima da Machete e poi da Kinski nel tentativo messo in atto dagli stessi per estorcere la quota della somma spettante al messicano. Bello il finale moralista dove il protagonista, dopo aver eliminato Kinski e Machete, si renderà conto di quanto gli sia costato il suo tentativo di arricchirsi mediante il crimine. Egli infatti perderà moglie (uccisa da Kinski durante un tentativo di stupro), amici, genitori nonché il denaro rapinato (bruciato nel rogo che distruggerà la sua abitazione) in un epilogo triste dove lo vedremo dirigersi verso l'orizzonte tenendo un bimbo morto in collo. Kinski è perfetto per il ruolo e regge quasi da solo la baracca, anche se io l'ho visto più in palla altrove. Non sfigurano neppure gli altri anche se sopraffatti dall'estro delirante del polacco. Una curiosità è costituita dal fatto che tutte le attrice presenti, eccetto la Rivelli, sono piuttosto in carne e non si distinguono per una bellezza esagerata. Costa riesce quasi nel miracolo di confezionare un western discreto con budget irrisorio, poiché dal punto di vista visivo e della messa in scena il film non è affatto male. Il problema quindi non ricade nella messa in scena, né sulla scarsa qualità del cast (come suggerisce spaghetti-western.net), bensì nella sceneggiatura che è abbozzata (sem1090 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

bra di vivere un episodio di vita dell'antagonista senza saper nulla del resto della sua vita) e priva di quella verve capace di coinvolgere lo spettatore. Costa, forse nel tentativo di non far scattare la mannaia della censura, commette inoltre l'errore di non osare. Sebbene il suo soggetto punti tutto sull'erotomania dell'antagonista, non ci sono sequenze ardite, così come la tecnica di ripresa, pur ordinata, non inventa nulla di gustoso. Ne viene fuori un western, tutto sommato, trascurabile, che non aggiunge nulla al genere. Mal distribuito e passato quasi del tutto inosservato all'epoca, La Belva ha saputo conquistare vari fan col decorso degli anni grazie proprio alla presenza di Klaus Kinski. Marco Giusti esalta la prova recitativa dell'attore ponendola a confronto con quelle, a suo dire, poco credibili di Cardillo e della Giorgelli. Secca la bocciatura di 800spaghettiwesterns.blogspot.it (sotto al quattro il voto in pagella) il quale definisce la pellicola blanda e noiosa e rincara la dose ravvisando molti luoghi comuni, una regia sciatta e la mancanza di buone sparatorie. Per il Morandini non brilla neppure Kinski, figuriamoci il resto che viene definito prevedibile e mal confezionato tanto da non schiodarsi dal voto minimo di una stelletta. Due stellette per il Farinotti e Filmtv.it (mediocre fattura e prevedibile, ma con un grande Kinski). Abbastanza alto il voto degli utenti di imdb.com che, pur non dandogli la sufficienza, gli riconoscono un cinque virgola sette come punteggio complessivo. Tra tutte le opinioni, a mio avviso, quella condivisibile in pieno è quella di spaghettiwestern.altervista.org che salva la magnetica interpretazione dell'antagonista, storcendo il naso sul resto al punto da dire: più che un western, è un film su un maniaco sessuale omicida. Trascurabile, ma non pessimo. Sempre a settembre esce il secondo western diretto da Parolini e prodotto da Alberto Grimaldi. L'intenzione è quella di fare un sequel di Sabàta, ma Lee Van Cleef si dice non convinto del copione che gli viene proposto dal duo Izzo-Parolini. Grimaldi tenta così di intervenire per convincere il suo attore a partecipare, anche perché si tratta dell'unico western programmato dalla Pea per l'annata. C'è pertanto la voglia e l'obiettivo di dar vita a un film di successo. Lee Van Cleef, però, declina l'invito, insistendo nel dire di non esser preso dalla soggetto. La realtà probabilmente è un'altra. Dopo essersi rilanciato in1091 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

terpretando in quattro anni sette spaghetti-western (quattro prodotti da Grimaldi) oltre il macaroni combat Commandos (prodotto dall'accoppiata Sansone-Chroscicki, già produttrice dei restanti tre spaghetti-western interpretati dall'attore), Van Cleef tenta di riconquistare Hollywood accettando di lavorari in film diretti da registi americani come El Condor (1970) di John Guillermin e Barquero (1970) di Gordon Douglas. L'operazione non avrà gran successo. Non a caso, Van Cleef tornerà in seguito a lavorare con Parolini proprio per la realizzazione del sequel di Sabàta. Intanto però l'importante defezione dell'attore principe di Grimaldi costringe Parolini a modificare il copione, sebbene per le versioni estere si cerchi di sfruttare il successo del precedente film intitolando l'opera Adiòs, Sabata, giusto per richiamare pubblico. Di Sabàta però non v'è ombra e allora Parolini e il suo fido Izzo creano un nuovo personaggio, non poi tanto dissimile dal precedente. Anch'esso è imbattibile, non va mai in difficoltà ed è dotato di un campionario di armi stravaganti. Prende così le mosse la sceneggiatura di Indio Black sai che ti dico: Sei un Gran Figlio di... (1970), senza che gli autori si sforzino troppo a creare un soggetto originale. La costruzione della storia, di fatto, è assai simile al primo Sabàta. Ritroviamo addirittura il gruppetto (questa volta più folto) di aiutanti messicani, sempre capitanati dallo scatenato e istrionico Ignazio Spalla (che piange ipocritamente ogni volta che muore un compagno e inneggia alla rivoluzione, quando poi invece gli interessano solo i soldi) e da una coppia di acrobati (Borgese e Persaud), oltre al terzo incomodo doppiogiochista (il ruolo va a Dean Reed), che se ne sta defilato, a sfruttare il lavoro del protagonista per piazzare la zampata finale per sottrargli sotto il naso il bottino attorno al quale si evolve la storia. Come per il ruolo già interpretato da Berger, anche nell'occasione il doppiogiochista rammenta al protagonista le gesta da questo compiute in passato (ha infatti un agenda su cui appunta tutto) e cerca di convincerlo a stringere una società con lui. Verso l'epilogo sarà anche riproposto l'escamotage della finta morte (questa volta del doppiogiochista) per andare a scombussolare i piani del protagonista e spiazzare lo spettatore. Resta quindi da decidere a chi affidare il ruolo del protagonista. Grimaldi, stante l'ottimo budget a disposizione, effettua un colpo a effetto e chiama un attore di grosso richiamo, seppure ormai cinquan1092 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tenne, che non ha mai fatto spaghetti-western pur essendo un'icona del western: Yul Brynner. Brynner è un attore di grosso culto, che ha avuto un inizio di carriera alquanto singolare. Nato in Russia da genitori di origine ebraica, si era formato girovagando di stato in stato a causa della separazione dei genitori. Aveva passato l'infanzia in Cina, per poi giungere a Parigi nell'adolescenza. Nella capitale transalpina aveva appreso i primi insegnamenti artistici distinguendosi come chitarrista e trapezista, fino a subire un grave infortunio agli arti superiori a seguito di una caduta durante un esercizio acrobatico. Allo scoppio della seconda guerra mondiale aveva lasciato l'Europa per recarsi negli Stati Uniti e intraprendere la carriera teatrale anglicizzando il proprio nome (Julij Borisovic Bryner). Inizialmente, pur debuttando come attore sia in teatro che in tv, l'interesse di Brynner si era indirizzato alla regia, dirigendo una serie di episodi di serial televisivi e andati in onda tra il 1949 e il '53. Solo nel 1956 era riuscito a scalare la vetta del successo e in modo dirompente, passando improvvisamente dal teatro al cinema. Brynner era infatti il protagonista del musical teatrale Il Re ed Io che stava avendo un successo enorme nella nazione, tanto da valergli il riconoscimento del Tony Award. Il successo aveva subito calamitato l'attenzione di Hollywood che iniziava a pensare di realizzarne una versione cinematografica, con Brynner protagonista. Alla fine il film venne realizzato e fu un successo talmente grande che valse a Yul Brynner il premio oscar come migliore attore protagonista e una nomination al Golden Globe. La stella Brynner poteva così dirsi apparsa nel firmamento hollywoodiano, nonostante i trentasei anni di età dell'attore. Tutti avevano cominciato a cercare Brynner che così poteva scegliersi i ruoli migliori. È infatti protagonista in vari kolossal pluripremiati come I Dieci Comandamenti (1956) di Cecil DeMille, Anastasia (1956) di Litvak, Salomone e la Regina di Saba (1959) di Vidor, fino a giungere all'epico I Magnifici Sette (1960). Quando gli giunge la chiamata di Grimaldi, Brynner è ormai all'apice della carriera e sta già imboccando la parabola discendente. Eppure nonostante i cinquantanni suonati, è ancora un attore integro, di grande carisma, magnetico e con i tipici tratti russi esaltati dal cranio completamente glabro. Inoltre sembra molto più giovane dell'età indicata dalla carta di identità. Purtroppo lavorerà in seguito sempre meno, apparendo comunque nel cult un po' sci-fi e un po' western Il Mondo dei Robot (1973) di Crichton. Tornerà in Italia solo per la realizzazione del gangster mo1093 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

vie Con la Rabbia agli Occhi (1976) di Margheriti con cui curiosamente chiuderà la carriera. Morirà precocemente nel 1985, lo stesso giorno di Orson Welles, per un tumore ai polmoni, probabilmente dovuto al vizio del fumo. Al riguardo, sarà scioccante il video trasmesso postmorten in cui un Yul Brynner, ormai ridotto in fin di vita, inviterà i giovani a non rovinarsi la vita con il fumo: “Don't smoke!” ripeterà più volte. Dunque un attore di grosso calibro che Grimaldi aveva già sondato in occasione di altri film e che ora accetta la proposta. Purtroppo l'entusiasmo iniziale di Parolini viene presto a spegnersi, a causa del carattere lezioso e del tutto privo di ironia di Brynner, che già in passato aveva dato problemi di protagonismo sul set dei Magnifici Sette quando aveva preteso di non voler lavorare con Steve McQueen, di cui soffriva la presenza. A ciò si aggiunge anche il carattere peperino e senza peli sulla lingua di Parolini, regista molto bravo nella direzione degli attori (basti vedere come recita con lui Ignazio Spalla) ma senza alcuno tatto per i divi. Brynner si presenta sul set con fare superbo e atteggiamenti da prima donna, mangia per conto suo e si trastulla in una roulotte di 14 metri in compagnia della moglie. Parolini non lo può sopportare e lo stesso dicasi per Brynner, subito indispettito dall'accusa del regista che gli rimprovera di avere un'interpretazione e delle movenze da attore degli anni '30. I litigi si inaspriscono ulteriormente nel corso del film, durante le scene di azione, perché Yul Brynner, a causa delle vecchie fratture ricordo del passato da trapezista, dimostra gravi difficoltà a impugnare le armi bizzarre concepite da Parolini, costringendo il regista a interrompere le riprese e a girare più volte le scene. Il conflitto tra i due però non termina qua, perché ci si mette anche Dean Reed a far peggiorare le cose. Personaggio espulso dagli Stati Uniti per i suoi eccessi e per i suoi dichiarati ideali filocomunisti, Reed urta la suscettibilità del divo hollywoodiano che non tollera neppure di apparire più basso di altezza. I capricci di Brynner si ripercuotono ovviamente su Parolini, costretto a subirne le lamentele e ad assecondarlo optando per primi piani stretti e inquadrature funzionali a nascondere il divario di altezza tra i due attori. Brynner arriva persino a pretendere dei pancali per risultare più alto del collega!? Nonostante quanto sopra, l'interpretazione della star holywoodiana non ne risente ed è sicuramente di culto, contribuendo peraltro a tenere alta l'attenzione di un western dal soggetto tutto sommato mediocre. 1094 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Parolini e Izzo, come detto, tentano di rifare Sabàta, pur cambiando la caratterizzazione del protagonista che appare non più distinto ma tamarrissimo. È vestito tutto di nero, con un cappello stile cowboy (quindi a tesa larga, ma incurvata verso l'esterno) che non si toglie mai per tutto il corso del film e una camicia sbottonata che lascia il petto in bella mostra. Il look viene poi completato da una giacca e da un paio di pantaloni dotati di peneri. Indio Black suona il piano e, come in tutti i film di Parolini, usa un'arma bizzarra al posto della pistola. Questa volta si tratta di un fucile a canna corta che si ricarica in un modo bizzarro, a mo' di mitraglietta, con un porta cartucce formato da dieci proiettili e un sigaro (!?) da inserire in un orifizio laterale. La ragione del sigaro è motivata dall'abitudine di Indio Black (così detto per via dell'abito e per essere un mezzosangue) di fumarsene uno al termine di ogni sparatoria. Il soggetto è una specie di tortilla western, dove però l'elemento della rivoluzione finisce per essere scalzato dalla sete di denaro e dalla lotta per accaparrarsi il bottino oggetto della contesa. La curiosità sta nel fatto che i nostri ruberanno il carico d'oro ai soldati austriaci, presenti in Messico per sostenere Massimiliano D'Austria. Gli scontri saranno dunque contro questi ultimi, tutti in rigorosa divisa bianca e cappello cilindrico. L'obiettivo di partenza sarebbe quello di destinare l'oro ai rivoluzionari, ma Indio Black fa presto capire ai soci che forse sarebbe meglio rubarlo. Parolini caratterizza i personaggi in chiave fumettistica e condisce la storia con una marcata ironia giullaresca, piuttosto che parodistica come mi è capitato di leggere in giro. Così abbiamo dei soggetti sopra le righe, tra cui spiccano l'acrobata gitano interpretato da Joseph Persaud (stuntman con scarsa esperienza, proveniente da Queimada di Pontecorvo) che balla il flamenco per indisporre gli uomini destinati a esser uccisi dall'uomo per cui lavora (Parolini è bravo a inquadrare in primissimo piano gli stivali che battono a terra, facendo tentennare gli speroni). E poi abbiamo Sal Borgese, nei panni di Tre Palle, un muto con la passione per i carillom, specializzato nel lancio di biglie di ferro che lascia cadere su un piede per poi scagliarle sugli avversari sferrando calci nell'aria. I due sono capitanati da Ignazio Spalla, in un ruolo identico a quello già ricoperto in Sabàta. Il gruppo, così assortito e con l'aiuto di Indio Black, riesce ad assaltare la diligenza e a sottrarre le casse in cui è contenuto l'oro. I nostri però non sanno (e la cosa del resto è poco chiara anche per lo 1095 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

spettatore, causa qualche problema nel bilanciamento dello script nonché qualche vuoto narrativo) di esser stati superati in astuzia dal perfido colonnello Skimmel (Gerard Herter) che ha fatto caricare della sabbia al posto dell'oro, organizzando poi una finta rapina per far ricadere la responsabilità sui messicani e tenersi l'oro tutto per sé. Qua abbiamo un altro personaggio sopra le righe. Skimmel è il classico austriaco nazionalista, che professa la superiorità degli austriaci sulle altre razze e tiene comportamenti distaccati e altezzosi. Baffoni rossi collegati alla basette, vestito in divisa impeccabile e con una lente da taschino costantemente tenuta sull'occhio destro, sembra una via di mezzo tra il Fajardo di Django (come lui fa al tiro a bersaglio dei peone, sparandoli alle spalle da una finestra, uno per volta, dopo averli dato l'illusione di essere liberi) e l'impeccabile fuciliere con il gusto della caccia che aveva già interpretato ne La Resa dei Conti (1966) di Sollima. Nell'occasione Herter ricalca il personaggio che aveva caratterizzato per Sollima e gli conferisce un taglio ancora più narcisistico, come dimostra quando manifesta le proprie perplessità, pretendendo continue correzioni, al pittore impegnato a realizzare un suo ritratto. I nostri, per sottrargli l'oro, dovranno irrompere nel fortino degli Asburgo e scatenare un vero massacro con esplosioni, lancio di nitroglicerina, dinamite e sparatorie di ogni tipo (comprese con mitragliatrici da guerra). Recuperato l'oro ed eliminati gli antagonisti, come in Sabàta, avrà luogo una girandola di colpi di sorpresa con il gruppo di Indio Black che dovrà arginare l'elaborato piano ordito dal ritrattista di Skimmel (Reed) che, per tutto il film, ha fatto il doppio gioco, tentando di fregare sia il colonnello sia Indio Black. Parolini dirige con grande gusto, ma con un ritmo inferiore rispetto al suo solito e uno stile registico meno sperimentale. Non mancano le diavolerie tipiche del regista romano. Così vediamo Brynner uccidere il solito Federico Boido (nel sua consueta apparizione da bullo rompiscatole), standosene seduto a braccia a conserte e con le gambe distese su un tavolo, semplicemente accavallando una gamba sull'altra e facendo così esplodere il colpo dal winchester tenuto adagiato sul tavolo. Trovata davvero sublime, anche perché non ci si aspetta di veder sparare il fucile. Dopo vediamo il colonnello Skimmel eliminare un suo informatore, invitandolo ad aprire un cassetto posizionato sotto il modellino di un veliero con la scusa di dargli la paga. L'uomo apre il cassetto, ma tale gesto aziona i cannoncini del modellino che fuoriescono dagli oblò e lo impallinano. Questi sono le due scene mi1096 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gliori del film, unitamente all'inizio in cui viene presentato Indio Black nel corso di un duello in cui beffeggia gli avversari simulando di non esser capace di colpire un bersaglio mobile (la targhetta col gallo che indica la direzione del vento) Dunque un western dove Parolini punta sulle acrobazie dei suoi attori, sulle sparatorie spettacolari e sopra le righe e su personaggi dotati di armamentari inusuali. La sceneggiatura non propone grandi dialoghi e tutto viene orientato al divertimento, anche se in modo meno riuscito rispetto al primo capitolo della saga Sabàta. La confezione tecnica così come le scenografie (nel deserto e tra la polvere dell'Almerià) sono eccelse. Alla fotografia è confermato Mancori, mentre la colonna sonora, squisitamente morriconiana, è firmata da Bruno Nicolai che da vita a un sound superiore alla media. Pur non dando vita a una saga, incassa bene nelle sale, va addirittura più forte all'estero ottenendo probabilmente più di quanto meriterebbe. D'altronde siamo alle prese con una produzione della Pea e quindi con un western che beneficia di una struttura da spaghetti western di serie A, ma che però non decolla a causa di un soggetto piuttosto fiacco e non innovativo. La presenza di Yul Brynner però costituisce un valore aggiunto tanto forte da dare l'alone di culto al film (non a caso in Giappone avrà un successo stellare), e pensare che Parolini continua a ritenere Brynner il punto debole dell'operazione. Sono ben diretti anche gli altri attori, in particolare Spalla (molto maccheronico quando farà il gesto dell'ombrello per indicare che non destinerà l'oro ai rivoluzionari) e l'aristocratico Herter, meno convincente Reed. Appare in un cammeo (inutile) anche Nieves Navarro. In sintesi bassa serie A, visione comunque consigliata. La valutazione del film è molto combattuta e cambia da appassionato ad appassionato. Il direttore della fotografia Mancori e il sito americano spaghetti-western.net lo ritengono il miglior western di Parolini, si limitano a indicarlo come spassoso Marco Giusti e Tom Betts. C'è persino chi, entusiasta del risultato finale e con una chiave di lettura filosofica, vede in Indio Black un rappresentante senza razza con cui tutti devono fare i conti: i messicani, gli americani e gli austriaci. Una chiave di lettura originale, ma a mio avviso forzata. Non manca poi chi veda in questo film, e in altri di Parolini, il seme germinale da cui poi sarebbe nato lo stile filmografico di Quentin Tarantino, per via dei movimenti di macchina, delle caratterizzazioni esasperate 1097 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

e per il continuo iperrealismo. Opinione questa sicuramente interessante e fondata su aspetti veritieri. Spaghettiwestern.altervista.org invece non lo ama molto, sottolineando come Brynner gigoneggi e sbruffoneggi irritando lo spettatore, tuttavia lo ritiene un buon western anche se folkloristico e bizzarro. Mondo-esoterica.net lo giudica divertente, ma precisa che non si deve prendere sul serio e fa giustamente notare come la trama sia piuttosto confusa: ha più buchi di una delle vittime di Indio. L'appassionato inglese chiude consigliando il film a chi cerchi un western di azione senza cervello. Tre stelle per filmtv.it che fa comunque l'errore di ritenerlo una riuscita parodia, quando invece è un western con elementi ironici e sopra le righe, ma tutt'altro che parodistico. Bocciature, seppur lievi, arrivano dagli utenti di imdb.com (cinque virgola otto in pagella) e dallo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it. Quest'ultimo trova un po' ridicolo il costume di Brynner, e svogliato l'attore di origini russe. Sottolinea inoltre come la trama sia inconsistente e secondaria, essendo il tutto concentrato sulle scene di azione e sulle inusuali caratterizzazioni dei personaggi. Il Morandini, clamorosamente, lo ignora. Se Parolini non riesce a girare il sequel ufficiale di Sabàta, l'argentino Tulio Demicheli ne approfitta per fare uscire una versione apocrifa che ne sfrutta il nome per accalappiare pubblico senza aver nulla da spartire con l'originale. Coprodotto da Salvatore Alabiso, in veste di socio di minoranza degli spagnoli della Producciones Cinematograficas Dia - con i quali aveva già coprodotto l'interessante Garringo (1969) di Rafael R. Marchent – esce Arriva Sabàta...!(1970). Si conferma il duo Anthony Steffen e Peter Lee Lawrence in veste di protagonisti e parte del cast tecnico del precedente lavoro (ritroviamo Giombini alla colonna sonora e Aldo Ricci alla fotografia), ma cambia tutto il resto. In prima battuta sono diversi gli sceneggiatori. Nino Stresa arriva da Un Uomo e una Colt (1967), precedente western di Demicheli, mentre l'esperto spagnolo Florentino Soria debutta nel genere. Si tratta di un'accoppiata inedita, sebbene abbiano entrambi svariati film alle spalle. Stresa aveva ottenuto il meglio con il cinema d'avventura scendendo poi negli spaghetti-western di quarta fascia. Soria invece aveva iniziato la carriera come regista nel 1948, preferendo poi il ruolo di sceneggiatore ottenendo apprezzamenti in Spa1098 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gna soprattutto in commedie impegnate sfociate nella nomination al Leone d'Oro di Venezia con la commedia Calabuig (1956), con cui si era già aggiudicato un premio alla rassegna cinematografica annuale spagnola per i migliori dialoghi dell'anno. Curiosamente, dei film da lui sceneggiati, solo i semisconosciuti La Principessa delle Canarie (1954) e La Banda degli Otto (1962) erano giunti in Italia, quest'ultimo, tra l'altro, diretto proprio da Demicheli. Dunque già dai nomi sopramenzionati, emerge una forte rilevanza della produzione spagnola rispetto all'influenza di Alabiso. Gli sceneggiatori infatti sono graditi soprattutto al regista e hanno già lavorato con lui, seppur non in coppia. Demicheli, regista considerato di talento ai suoi debutti in Argentina, tenta di cogliere al volo l'ennesima occasione (sprecata) per ritagliarsi un posto d'onore nel cinema di genere. Nato a Buenos Aires nel 1914 da una famiglia di origini italiane, si era fatto le ossa nel dopoguerra come sceneggiatore passando alla regia nel 1950 dopo aver vinto due Condor d'Argento al festival nazionale del cinema argentino, per migliore sceneggiatura, con Cuando en el Cielo Pasen Lista (1945) di Carlos Borcosque e Il Demone della Gelosia (1946) di Mario Soffici. Le prime esperienze da regista erano state altrettanto soddisfacenti. Al suo quarto film, Sala de Guardia (1952), aveva attirato l'interesse del Festival di Cannes ottenendovi una nomination. Dunque un inizio di carriera che lo aveva portato fin troppo sotto la luce dei riflettori. Nel 1954, dopo essersi messo contro il governo Peron, era stato infatti costretto a emigrare in Messico senza tuttavia placare la sua prolificità e il suo interesse per i drammi sentimentali. Nella penisola messicana, in appena tre anni, aveva diretto qualcosa come quindici pellicole (nessuna giunta in Italia) e ricevuto nel 1957 una nomination all'Ariel d'oro e un'altra all'Ariel d'argento nelle rassegne cinematografiche locali. Aveva allora deciso di compiere il grande passo e di emigrare in Spagna. Un'altra dozzina di film sentimentali all'attivo finché, nel 1964, con Sfida a Rio Bravo era stato tra i primi a tentare la carta dello spaghetti-western. Da questo momento in poi la produzione di Demicheli si sposta verso il cinema di genere (in particolare la spy story e il western) seppur con risultati piuttosto scarsi. Gli incassi di questi film lo spingono comunque a tentare la via della produzione. Così, dopo un trio di autoproduzioni, produce il gioiello di Sollima La Resa dei Conti (1966) avvalendosi della compartecipazione nientemeno che di Alberto Grimaldi. Purtroppo l'argentino, più legato a una 1099 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

concezione cinematografica di stampo classico, non sfrutta il legame con Grimaldi che gli darà l'occasione d'oro mettendolo alla regia del western Un Uomo e una Colt (1967). Fallito il tentativo con Grimaldi, Demicheli pensa di sfruttare la scorciatoia offerta dal nuovo personaggio lanciato da Parolini. Del resto, in precedenza, altri avevano fatto altrettanto con i vari Ringo, Django e Sartana. Dirige così Arriva Sabàta, ma, pur essendo probabilmente il suo miglior western, non gli andrà troppo bene. Girerà, in seguito, solo un altro western (Tequila), prima di tentare di farsi notare nel genere thriller e horror, ma con mediocri risultati. Parteciperà infine alla stesura del simpatico Anche gli Angeli Mangiano Fagioli (1973) di Enzo Barboni, uscendo dai circuiti internazionali a metà anni '70. È curioso, a mio avviso, notare come Demicheli quasi si vergogni nel chiamare in ballo Sabàta. Ne è una dimostrazione l'atteggiamento adottato dal protagonista, Anthony Steffen, quando Fajardo lo chiama per nome e lui gli grida contro di non chiamarlo più in quel modo (richiesta che sarà comunque disattesa). Con questo passaggio, che non ha altrimenti alcuna ragione di essere, è evidente il collegamento fatto dagli sceneggiatori al personaggio di Parolini. Purtroppo però i collegamenti si fermano qui, poiché il personaggio di Steffen non ha nulla in comune con quello di Van Cleef, né nell'abbigliamento né nei modi di fare. Non c'è neppure spazio per le diavolerie alla Parolini e il soggetto si rivela trito e ritrito. Abbiamo la solita rapina a una diligenza, con un carico di 300.000 dollari rapinato da un trio di spiritosi pistoleri (Steffen, Fajardo e Lee Lawrence). Uno dei tre, il giovane Lee Lawrence, fa il doppio gioco e tradisce i ricconi con cui si era in precedenza accordato per eseguire il colpo. Segue la solita lotta tra i due gruppi per far propri i soldi con pestaggi e salvataggi dal sapore beffardo (della serie si cade dalla padella alla brace), e poi una seconda lotta intestina al terzetto che porterà a un epilogo tragico e con qualche colpo di scena. La pellicola parte molto bene, grazie a una sceneggiatura che sembra voler dare al soggetto una piega farsesca in stile Un Treno per Durango (1967), tanto per citare un film con Steffen protagonista. Le sequenze iniziali sono quindi le migliori. In esse assistiamo a una rapina compiuta dalla coppia Fajardo-Steffen ai danni di una banca dove abbiamo Lee Lawrence come cassiere. Quest'ultimo, assai sagace, riconosce uno dei due banditi e anticipa la rapina di questi intascandosi i quattromila dollari presenti nella cassaforte per consegnarne solo 1100 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mille ai malavitosi e denunciare il furto di cinquemila dollari. I malavitosi, insoddisfatti del colpo, si danno alla fuga a bordo di una vecchia Ford (!?), seminando il caos in paese come se stessero percorrendo le curve di un circuito automobilistico. Da qui deriva il titolo spagnolo, senz'altro più appropriato per la pellicola: Los Bandidos del Ford. Dunque un inizio piuttosto originale, esaltato dalle caratterizzazioni dei tre protagonisti che gli sceneggiatori si impegneranno a sviluppare abbastanza bene nel proseguo dell'opera. A capitanare il trio abbiamo il solito e granitico Anthony Steffen che da corpo a Sabàta. Il suo è il classico delinquente gentiluomo che si trova a delinquere più per costrizione economica che per indole. È legatissimo alla sorella e ambisce a farla sposare con un uomo onesto, nascondendole la sua vita da bandito. Lee Lawrence invece conferma il ruolo del giovane insospettabile e opportunista. È cinico, calcolatore, qua persino gigionesco e non si perita a beffeggiare e a prendersi gioco dei compagni: a inizio film, a esempio, nel corso della rapina, fa i versi della gallina. Farà dell'inganno e delle scorrettezze il suo biglietto da visita, giungendo persino a sedurre la sorella di Sabàta per sgretolare il rapporto di fiducia tra questo e il terzo componente della banda che, a poco a poco, si sentirà messo da parte dal vecchio compagno. A giochi apparentemente fatti, convinto di aver avuto la meglio, Lee Lawrence darà sfogo alla sua vanità deridendo i due compagni di avventura: “Quando ho un poker in mano, mi piace mostrare il punto!” Se i due di cui sopra hanno ruoli convenzionali alle loro caratteristiche, Eduardo Fajardo invece è irriconoscibile. Lui, che era solito personificare aristocratici razzisti (lo ricordo in Django o in O'Cangaceiro), appare in simpaticissima versione peone/gitana con parrucchino, baffoni neri, bombetta in testa e vistoso orecchino da pirata. Addirittura lo vediamo impegnato all'uncinetto per realizzare un improbabile scialle multicolore che non finirà mai (!?), oltre che a parlare in modo sboccato e a guidare in modo spericolato e maldestro una vecchia Ford che fa fumo come una ciminiera. L'attore spagnolo offre così una prestazione sopra le righe meglio di quanto avrebbe fatto Fernando Sancho e si rivela superiore persino al luciferino Lee Lawrence (anch'egli più in forma del solito). Addirittura lo vediamo fare a pugni, sparare con la pistola e finire con la faccia nel fango. Una prova che ne sottolinea la grande poliedricità. 1101 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Sono proprio i tre attori e la piega inzialmente picaresca data alla sceneggiatura a tenere a galla un film che altrimenti non avrebbe avuto nulla da offrire. Demicheli purtroppo, forse più interessato alla caratterizzazione dei personaggi, dà la sensazione di non aver ben chiaro che piega dare al film e alla fine trasforma quello che pareva essere un western scatenato e all'insegna del divertimento in un western tragico. Nonostante ciò non vi è spazio per la componente melodrammatica tipicamente ispanica, ma il tutto viene orientato a un'azione talvolta eccessiva (cadute di cavalli a go go, pure poco credibili) e persino ai colpi di scena. La regia è essenziale e riesce a scandire un ritmo più che sufficiente. La fotografia è più che sufficiente (Aldo Ricci aveva fatto meglio in Garringo), la colonna sonora di Giombini invece ha ritmi e note da film comico. Un film quindi che non gode di un grande alone di culto, ma che ha i suoi aficionados. Marco Giusti lo ritiene un film da recuperare. Ne tesse grandi lodi 800spaghettiwesterns.blogspot.it che, se non fosse per la musica (considerata ultra pessima), lo piazzerebbe tra i western più riusciti. A differenza del sottoscritto, l'appassionato spagnolo sostiene che la seconda parte del film sia migliore rispetto alla prima, senza considerare, forse, che è anche quella dal più intenso sapore di dejà vù. L'anglofono spaghettiwesterns.1g.fi critica la scelta di Fajardo, non ritenendolo adatto al ruolo perché truccato in modo troppo sopra le righe (io penso invece che ciò sia uno dei pochi punti di forza del film perché gli da un quid di originalità), e il fatto che il film soffra di un certo sbilanciamento tra commedia iniziale e dramma finale. Più equilibrato e condivisibile il nostro spaghettiwestern.altervista.org: “western che vale la pena di vedere solo per alcune belle scene d'azione e per l'ottimo cast”. Anche qua si critica una certa confusione di fondo circa la piega adottata da Demicheli che si alterna da toni poco seri a scene di pura violenza. Due stelle per filmtv.it (film di poco conto impreziosito da ottimi stunt), una per il Farinotti che sarcastico afferma: “La sparatoria finale elimina quasi tutti gli attori ma risparmia disgraziatamente il regista”. Cinque e mezzo per imdb.com. In definitiva, nonostante i pareri disfattisti dei “generici”, si tratta di un western gradevole consigliato a chi non è mai sazio di spaghetti-western, gli altri possono astenersi stante la scarsa originalità. 1102 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

A proposito di falsi sequel ci prova anche Rafael Romero Marchent che sfrutta l'ingaggio di Gianni Garko per girare un Sartana più o meno apocrifo. L'attore però si oppone e riesce persino a far modificare, oltre il look del suo personaggio, il titolo del film in Lo Irritarono... e Santana Fece Piazza Pulita (1970). Dunque da Sartana a Santana ovvero dal nome storpiato a quello di ispirazione scelto per battezzare il personaggio nato dalla penna di Parolini. Nonostante la presenza di un attore di calibro come Garko (unico di richiamo in un cast artistico di quarte linee), si tratta di un western minore che coinvolge svariati produttori, dallo spagnolo Norberto Solino (arriva da Il Mercenario) a Salvatore Alabiso. Lo scrive Joaquìn R. Marchent, supportato da Santiago Moncada che debutta nel genere e che vi arriva dopo aver messo le mani sul copione de Il Rosso Segno della Follia (1970) di Mario Bava. Sarà proprio il giallo il campo di elezione di Moncada la cui firma ritornerà su copioni quali quello de Tutti i Colori del Buio (1972) nonché del violentissimo spaghetti-western Condenados a Vivir (1972) di Jaquìn R. Marchent. Il soggetto rientra tra quelli caratterizzati dalla presenza di banditi traditi dai propri compagni di rapina con un malloppo che passa di mano in mano, comprese quelle di una ragazza doppiogiochista (Maria Silva) che si fingerà innamorata dei due protagonisti (Garko e Guglielmo Spoletini) al solo scopo di impossessarsi del bottino. Niente di nuovo e poco marchentiano, totalmente privo di quel tocco malinconico e tragico tipico delle migliori pellicole del regista. Musiche di Marcello Giombini piuttosto bruttine e comicarelle. Neppure menzionato su filmtv. “Trama a dir poco demenziale con montaggio pessimo... Statevene alla larga questo titolo è tra gli spaghetti western peggiori” il monito spaghettiwestern.altervista.org. Di tutt'altro avviso lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it, il quale lo reputa diretto in modo superbo e caratterizzato da un'ottima commistione tra azione e umorismo senza scadere mai nel becero demenziale. Enrico Colombo, fratello del più famoso Arrigo, insiste nel produrre José Luis Merino e, dopo Requiem per un Gringo (1968), fa uscire Ancora Dollari per i McGregor (1970) che si rifà nominalmente alla mini saga lanciata dalla Jolly Film per la regia di Franco Giraldi, senza però avere alcun legame con la stessa. Il film ha un'intelaiatura tutta 1103 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ispanica, fanno eccezione Emanuele Di Cola alla fotografia (comunque proveniente dal precedente Zorro il Dominatore di Merino) e Augusto Martelli alla colonna sonora. Merino concepisce il soggetto e ne discute con Colombo per lo sviluppo. Il budget è basso, inferiore a quello di Requiem, così come non brilla il cast artistico che schiera il solo Peter Lee Lawrence quale attore di richiamo. Nei panni del protagonista troviamo lo spagnolo semi debuttante Carlos Quiney, attore feticcio di Merino (Zorro il Dominatore, 7 Eroiche Carogne, La Furia di Khyber e Robin Hood, L'Invincibile Arciere) che non avrà una grande carriera, affiancato a Maria Mahor. I due interpretano una coppia di fidanzati scatenati che derubano e riscuotono taglie a danno di ingenui ricercati adescati dalla ragazza. Un giorno un bandito capisce il gioco e uccide la giovane. Quiney giurerà vendetta, ma non riuscirà a uccidere il killer perché quest'ultimo sarà trovato da un altro uomo: il personaggio cui da corpo Peter Lee Lawrence che entra in scena a metà film. I due si metteranno comunque d'accordo per catturare un altro pericoloso bandito (Stelvio Rosi) su cui pende un allettante taglia. Bella la caratterizzazione di quest'ultimo, un sadico bandito che, accumulata una piccola ricchezza, si è ritirato a fumare oppiacei e a fare la vita da eremita dedito al culto delle droghe. Un colpo di scena finale metterà contro i due protagonisti poiché il personaggio di Lawrence altro non è che il fratello della fidanzata di Quiney che non perdona a quest'ultimo di aver condotto la sorella sulla strada della delinquenza. Spaghettiwestern.altervista.org parla di piccolo capolavoro per il suo essere insolito e per il suo proporre tanti personaggi con sfaccettature interessanti. Sgonfia gli entusiasmi 800spaghettiwesterns.blogspot.it, pur parlando di western sincero girato con abilità, ma penalizzato dalla scarsa liquidità finanziaria. Si può passare oltre. Lo sceneggiatore nonché direttore di produzione del bizzarro Joko Invoca Dio...E Muori (1968), Renato Savino, si lancia nella regia di film western, quanto meno ci prova ma si fermerà a due sole pellicole. Scrive e dirige così L'Oro dei Bravados (1970) racimolando fondi da Luigi Nannerini, un nobile con la passione del cinema, e da alcuni soci francesi. Nannerini, dopo aver prodotto saltuariamente un pugno di film negli anni '50 e '60, tra i quali l'avventuroso Antinea, l'Amante della Città Sepolta (1961) di Masini con l'interpretazione di Trintignant, e aver svolto un lungo apprendistato con ruoli amministrativi 1104 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nel mondo del cinema, produrrà una mezza dozzina di film, soprattutto decamerotici, per poi prendersi dieci anni sabbatici per ricomparire negli anni '80 dando il via a una serie di horror tra i più brutti della nostra cinematografia, ma con delle eccezioni firmate da Lucio Fulci come Un Gatto nel Cervello (1990) e soprattutto Voci dal Profondo (1991). Il cast artistico non è dei migliori, Giorgio Ardisson è il protagonista, affiancato allo sconosciuto Boby Lapointe, un cantante francese cinquantenne imposto dai soci transalpini che aveva fatto un paio di film in Francia, debuttando da comparsa con Truffaut nel 1960. Morirà due anni dopo. Ruolo da belloccia per Linda Veras. In ruolo da supporto i “prezzemolini” Rik Battaglia, Franco Pesce, Piero Lulli e Federico Boido nel suo consueto ruolo di bandito psicopatico che viene subito messo fuori gioco. La sceneggiatura verte sulla caccia di un tesoro sepolto da due avventurieri che conoscono solo una parte dei dati necessari per rinvenirlo e che non si fidano l'uno dell'altro. Altri personaggi vengono a sapere della ricerca, anche perché si tratta di un tesoro rubato a una banda di delinquenti. Ha così inizio una lotta per mettere le mani sul bottino. Niente di nuovo al fronte, con i nostri che si muovono al termine della guerra di secessione. Una sorta de Il Buono, il Brutto e il Cattivo, ma senza soldi, con cavalli che toccano terra con la lingua e con un regista che fa linguacce e gesticola in continuazione agli attori per poi nascondersi dietro a un prestanome (Giancarlo Rominelli che firma la pellicola). Insomma è come pensare di fare le nozze con i fichi secchi. Curiosa la presenza di Luis Bacalov alla colonna sonora, il maestro sudamericano offre un buon sound ed è forse una delle cose migliori di un film piuttosto carente sul piano dell'azione e del ritmo. Visto da pochissimi e con giudizi che non fanno certo venire voglia di vederlo. Persino spaghettiwestern.altervista.org ne sottolinea i tanti difetti definendolo “un western al di sotto della mediocrità, lento e noioso” Savino farà meglio col successivo Lo Chiamavano King. Torna nei cinema pure Demofilo Fidani, il quale produce e gira in contemporanea due western con il medesimo cast tecnico e artistico. Il migliore dei due è Inginocchiati Straniero... I Cadaveri non Fanno Ombra! (1970), un western che riprende gli stilemi leoniani per miscelarli a quelli di Sergio Corbucci. Così abbiamo l'ennesimo bounty killer (Hunt Powers) impegnato a fare incetta di taglie, pedinato da 1105 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

un misterioso straniero (Franco Borelli) che lo segue senza che se ne capisca il motivo. I due finiranno per collaborare e porranno fine agli abusi perpetrati a danno dei peone da un ricercato, datosi alla vita di imprenditore (Ettore Manni), e da un bullo (Benito Pacifico) che costringe, a suon di frustate, i peone a lavorare nella miniera dell'imprenditore. A banda debellata, lo straniero rivelerà la propria identità e sfiderà a duello il bounty killer per dirimere un vecchio conto in sospeso. Fidani gira con gusto e un certo occhio nella messa in scena, riuscendo a nascondere i limiti del budget. Purtroppo il soggetto di Franco Mannocchi, conosciuto per aver prodotto i mediocri Tre Colpi di Winchester per Ringo (1966) e Thompson 1880 (1966), è sorpassato e troppo legato ai western del biennio '65-'66. Oltre al limite appena accennato, Ambrogio Molteni e lo stesso Fidani non riescono a sviluppare a dovere lo spunto di Mannocchi. La sceneggiatura è abbozzata e al contempo allungata per fare brodo. Abbiamo una prima parte noiosa, lenta e dilatata, in cui viene mostrato l'inutile inseguimento, nel mezzo al deserto, di un bandito estraneo al resto della storia (Gordon Mitchell, usato per un breve cammeo). Non mancano poi i vuoti narrativi, tra tutti è evidente la voragine che si registra dopo il duello – Powers-Pacifico - che funge da preludio all'epilogo. Vediamo Powers, precedentemente tenuto sotto tiro da Borelli, afferrare un bottino d'oro e andarsene dal paese dopo aver impallinato Pacifico. Borelli gli andrà dietro, senza che l'altro se ne preoccupi, neppure quando si vedrà sparare contro. Allo stesso modo è inverosimile la soluzione grazie alla quale, in precedenza, Borelli aveva sorpreso la sagacia di Powers, mettendo in sella al proprio cavallo l'imprenditore (senza legarlo e senza ridurlo al silenzio) vestito con i suoi indumenti, in modo da indurre l'altro a ucciderlo con la certezza di sparare sull'ex socio. Non convincono le caratterizzazioni dei personaggi. Molteni e Fidani si limitano a tratteggiare i protagonisti senza scendere nel dettaglio. Così abbiamo un bounty killer che uccide disinteressandosi della colpevolezza dei ricercati, che non disdegna ricattare gli stessi e che ne tiene in ostaggio altri per farsi pagare più di quanto gli sceriffi gli darebbero in caso di consegna. Un personaggio quindi privo di etica, che gioca a carte al solitario, parla poco e sta spesso a testa inclinata con la tesa del cappello che gli cela il volto. Hunt Powers, al secolo Jack Betts, è molto bravo nel ruolo, anche perché conosce bene Fidani 1106 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

al punto da esserne divenuto un attore feticcio. Lavorare con attori fedelissimi è una caratteristica del regista che anche qua dispone di un cast di pretoriani. Tra questi si distingue Franco Borelli, accreditato Chet Davis, al quale va il ruolo dell'eroe vendicatore che agisce per liberare il padre, schiavizzato dal bounty killer, perché gravato da ingiusta taglia. Il personaggio che gli viene affidato non è caratterizzato, inoltre viene spesso inquadrato in primissimo piano da Fidani che, così facendo, semplifica il lavoro all'attore. Si segnalano poi la bella Simonetta Vitelli (figlia del regista), in un curioso ruolo, purtroppo non caratterizzato, di maga carismatica, e Benito Pacifico, confermato in un ruolo di primo piano (di solito faceva lo stuntman) di capo messicano. Fotografia, sufficiente, firmata da Aristide Massaccesi. Bruttine le musiche di Coriolano Gori. La pellicola non è un gran che, eppure è considerata la migliore di Demofilo Fidani. Spaghettiwestern.altervista.org, in particolare, spende parole di elogio (“piccolo gioiello”) pur evidenziando la pochezza della trama. Western di un certo impatto, sia visivo che narrativo, con dialoghi striminziti ma molto efficaci e con un eccellente colpo di scena finale si legge sul sito, che poi elogia Hunt Powers e Pacifico. Commenti, a mio avviso, esagerati che non trovano riscontro altrove. Festival dei cliché per mondo-esoterica.net che chiude il suo articolo definendo la fatica di Fidani come terribilmente lenta e con una trama priva di polpa. Cinque e mezzo per imdb.com. Si può vedere, ma non è un passaggio essenziale. L'altro film è Arrivano Django e Sartana... È la Fine (1970) per il quale Fidani, che ne cura regia (anche se si firma Dick Spitfire) e produzione, ingaggia oltre a Powers e Borelli, rispettivamente nei panni di Django e Sartana (su alcuni manuali risulta l'inverso), anche Gordon Mitchell che schiaccia i due colleghi che hanno personaggi silenti (poche parole, molti proiettili disponibili anche oltre il consentito dalle pistole). Si dice che il film venga presentato come diretto da Spitfire, ovvero Diego Spataro (che era un figlio di un diplomatico, collaboratore di Fidani), per problemi legati alle sovvenzioni ministeriali. In altre parole, per il ministero, non era possibile che Fidani potesse girare in contemporanea due film, ma i burocrati non avevano ben fatto i conti con il personaggio che avevano davanti. Un mago a tutti gli effetti con le piccole produzioni, capace di girare anche senza 1107 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

budget come abbiam ricordato. Marco Giusti definisce il film “cultissimo”, ma come al solito la sceneggiatura non è un gran che. Due pistoleri, che non hanno nulla a che fare con gli originali, vengono assoldati da un potente proprietario terriero per recuperare la figlia (Simonetta Vitelli, ovvero la figlia di Fidani) rapita da un bandito (il diabolico Mitchell) che la usa come scudo per superare la frontiera col Messico. Pazzesco il personaggio offerto al culturista scuola peplum, affetto da un disturbo mentale che lo porta a litigare con tutti, ma soprattutto a giocare da solo a poker sfidandosi al cospetto dello specchio per poi accusare l'immagine riflessa di barare. Trovata geniale che fa sorridere di gusto gli amanti del pulp e che Mitchell incarna benissimo. Eloquente e corretto, dati anche i sette minuti in cui scorrono i titoli di testa, il commento di Giusti sul Dizionario del Western all'italiana: “Film dal vuoto mostruoso ma con un Fidani in stato di grazia.” Non manca infatti l'azione tipica del sardo, a volte gratuita e forzata ma comunque esaltata dai cascatori che era solito portarsi da un film all'altro, miscelata a errori di regia con cavalieri che cavalcano cavalli bai e nel cambio di inquadratura diventano grigi o personaggi che entrano in scena e poi spariscono senza che si capisca la loro utilità ai fini della sceneggiatura. Errori che venivano determinati dalla fretta e furia con cui Fidani girava i film. Di diverso avviso gli altri appassionati che stroncano il film senza remore, ma ci sono delle eccezioni come spaghetti.western.altervista.org che sottolinea come Fidani, pur confrontandosi con un cinema povero, riuscisse sempre a stupire lo spettatore “con trovate bizzarre e a volte geniali”. Non male il voto su imdb dove riceve un onorevole cinque e mezzo. Inutile interpellare la critica purista che certo “non perde tempo” con questi personaggi interessandosi, spesso, di soporiferi mattoni che non divertono nessuno, ma che godono di distribuzioni e di appoggi tali che non si possono ignorare. Musiche di Lallo Gori e fotografia di Aristide Massaccesi, confermati da Inginocchiati Straniero. Location nelle campagne del Lazio con riprese presso le cascate del Monte Gelato. Z movie con qualche zampata. Dopo il tentativo di dare un sequel a Sabàta, arriva nei cinema il quarto episodio ufficiale della saga Sartana. Viene confermato alla regia Carnimeo (accreditato col solito nome di Anthony Ascott), regista del secondo e terzo episodio, e come attore protagonista torna Gianni Garko presente fin dal primo … Se Incontri Sartana Prega per la Tua 1108 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Morte (1968) di Parolini, ma sostituito da George Hilton nel terzo episodio. Cambia curiosamente la produzione italiana e gli sceneggiatori. Addirittura ci sono due blocchi che si contendono la realizzazione del quarto episodio, al punto che Carnimeo e Garko, appena ultimate le riprese, dovranno mettersi subito a disposizione dell'altra casa di produzione per girare il quinto episodio. Escono così Buon Funerale, Amigos! Paga Sartana (1970) e a dicembre Una Nuvola di Polvere… Un Grido di Morte... Arriva Sartana (1970). Analizziamoli nel dettaglio l'uno dietro l'altro. Il primo film viene prodotto da una coproduzione italo-spagnola non troppo facoltosa formata dal duo Leo Cevenini e Vittorio Martino e dalla Hispamer Film (già socia in minoranza nel terzo episodio della serie). Cevenini e Vittorio Martino erano una coppia che aveva formato un lungo sodalizio iniziato nell'immediato dopoguerra con la produzione del film storico Il Bacio di una Morta (1949) di Brignone e proseguito, fino alla prima metà degli anni '70, con una ventina di film. Dopo una prima parte di carriera votata al drammatico e ai film in costume non di particolare interesse, si erano dedicati alle parodie o comunque alle pellicole comico/musicarello riscuotendo un discreto guadagno. Tra i film più noti ricordo Psycosissimo (1962) di Steno e il cappa e spada con Alain Delon Il Tulipano Nero (1964) di Christian Jacque. Fu però con una mezza dozzina di demenziali della coppia Franchi & Ingrassia che il duo riuscì a riscuotere il vero successo di pubblico col tentativo nel 1970 di fare il salto di qualità con lo spaghetti-western. Il risultato finale sarà tutto sommato buono, aiutato anche dall'alone di culto del personaggio del film e del suo interprete. Nonostante ciò, i due produttori torneranno al comico e non daranno seguito all'avventura western se non col tentativo di contaminazione tra i due generi che avverrà con l'uscita di Gli Fumavano le Colt... Lo Chiamavano Camposanto (1971). Peccato, perché il lavoro produttivo e la confezione di Buon Funerale, Amigos! è di primo livello. Il soggetto lo firma un veterano dello spaghetti-western di serie B (con qualche punta interessante come Django Spara per Primo di De Martino, Vado, l'Ammazzo e Torno di Castellari, Io non Perdono... Io Uccido! di Joaquìn R. Marchent), cioè il regista Giovanni Simonelli che viene promosso dall'apocrifo Sartana non Perdona (1968) di Balcàzar. Gli da una mano un fedelissimo della produzione, il brillante Roberto Gianviti, che aveva in precedenza lavorato sui copioni dei film 1109 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di Franchi & Ingrassia nonché su Psycosissimo ed altri film del duo Cevenini-Martino. L'esperienza nel genere di Gianviti, che abbiamo trovato in occasione del comico Due Rrringos nel Texas (1967), è assai minore rispetto a quella di Simonelli, ma porta un pizzico di qualità che rende briosa e ironica la sceneggiatura. La storia ricalca un po' la piega paroliniana data al primo capitolo della serie, ma è tutt'altro che comica. Sartana è più spettrale del solito. Nessuno riesce a colpirlo, appare e scompare nel nulla come un fantasma, entra nelle camere dalla finestra mentre gli occupanti vagano per la stanza perché hanno sentito dei rumori senza capirne il motivo, parla agli avversari come se fosse un'entità invisibile e per giunta recitando loro passi della Bibbia. Pretende infine dal becchino che le sue vittime abbiano dei funerali sfarzosi. Il taglio giallo dato inizialmente alla sceneggiatura, con il protagonista che cerca di scoprire i mandanti di un omicidio, rende ancor più manifesta questa atmosfera da giudizio universale. Tale aspetto verrà inoltre amplificato dall'isteria che colpirà alcuni soci dell'antagonista che vedranno in Sartana un qualcosa di diabolico, impossibile da eliminare. Come detto non manca la caratterizzazione surreale tipica di un personaggio alla Parolini. Così Sartana, che questa volta è rasato fatta eccezione per un paio di baffoni biondi, oltre a usare una derringer, lancia carte affilate che si infilzano nelle botti e disarmano avversari come fossero stelle ninja e usa la catena di un orologio da taschino come frusta per sfilare la pistola a chi gli sta di fronte. Il suo antagonista (Antonio Vilar), invece, usa un finto registro contabile per uccidere i rivali, proponendo loro un preciso accordo economico per impallinarli all'apertura del libro poiché l'innalzamento della copertina fa sparare, attraverso un meccanismo a molla, la pistola che vi è custodita all'interno. Gli altri, ahimé, non sono caratterizzati molto, fatta a eccezione per il gestore di una bisca cinese, tale Lee Tse Tung (George Wan), che parla di continuo proponendo aforismi di Confucio e cercando sempre di truffare gli altri con atteggiamenti serafici. Alla fine lo trufferà Sartana, portandolo a perdere il controllo e a esibirsi in un improbabile combattimento di kung fu. Al di là del cinese, il punto debole del film è rappresentato proprio dallo scarso spessore degli antagonisti. Antonio Vilar, nei panni del falso uomo tutto di un pezzo, non si lascia ricordare. Gli altri, tra i quali i soliti cattivi Renato Ressel e Federico Boido, vengono eliminati rapidamente riducendo la 1110 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

loro presenza a poco più di meri cammei. Non si notano poi grandi prove recitative, eccetto il sempre bravo Garko. La storia è semplice e tutt'altro che originale, ma gestita bene dagli sceneggiatori in modo da renderla assai piacevole con una girandola finale di colpi di scena. Sartana giunge in un paese funestato dalla morte di un vecchio proprietario di un terreno sabbioso. Il pistolero dice di esser venuto per vendicare il poveretto, in realtà indaga sull'assassinio per preparare una mega truffa sostituendosi nel piano ordito dal vecchio assassinato. Questo infatti, anziché essere un povero uomo, era un vero e proprio farabutto che aveva pensato di far passare un terreno sabbioso per un terreno ricco d'oro, in modo da rivenderlo a un prezzo esorbitante. Invece di ricevere soldi però viene ucciso dai sicari mandati dal banchiere cittadino che controlla tutta la città, sceriffo (Luigi Induni) compreso. Il banchiere confida di acquistare il terreno per pochi dollari dall'ingenua nipote del vecchio (Daniela Giordano), che è all'oscuro del segreto della terra. Sartana però irrompe in scena e usa il cinese gestore della bisca come concorrente del banchiere, facendo così alzare il valore del terreno. La donna, che finge di esser all'oscuro di tutto, a sua volta conta di sfruttare il lavoro di Sartana. È infatti convinta di averlo sedotto col suo fascino e di essere in grado di fregarlo al momento della resa dei conti. E così, mentre il pistolero elimina uno dietro l'altro i sicari che il banchiere gli mette alle calcagna, il valore del terreno arriva a 100.000 dollari che saranno poi versati a Sartana dal cinese. Segue il divertente epilogo, in cui Sartana acciufferà la giovane ragazza allontanatasi nel west in gran fretta convinta di aver tutto per sé il bottino estorto al cinese. Degna di menzione la sarcastica vena spaccona del protagonista, che sottolinea la propria superiorità sugli avversari (che non lo mettono mai in difficoltà) beffeggiandoli di continuo. Raggiunge il suo apice quando farà pervenire un'elegante bara vuota al banchiere, accompagnata da una lettera su cui ha scritto: “Sono stanco di offrire funerali ai burattini!” Poco dopo, lancerà una delle sue carte affilate sulla Bibbia e lo inviterà a trovarvi un suggerimento. Il banchiere andrà così a vedere nel punto indicato dalla carta e, con sua sorpresa, leggerà il seguente passaggio: “Chi va dietro l'oro ne sarà la vittima, molti sono andati in rovina per la sete dell'oro”. Dunque un film che verte attorno al solito carico di denaro e su cui si innesca la girandola di colpi di scena che vedono per protagonista 1111 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

un pistolero invincibile che ne sa sempre una più del diavolo. Niente di nuovo, ma ben messo in scena e diretto con gusto da Carnimeo. Il regista, come suo solito, abusa nell'utilizzo degli zoom in e zoom out, ma rende dinamica la regia dandogli un bel ritmo con vari movimenti a mano della macchina (passa da destra a sinistra, a esempio, di un quartetto di sicari che avanzano in un piazzale). Opta inoltre per delle inquadrature strettissime, infarcite di primissimi piani e dettagli, alternandole con soggettive e mezze soggettive dalle spalle di chi spara per rendere più partecipe lo spettatore e più serrato possibile il montaggio (ne è un esempio il prologo). Eccezionale la sequenza, soprattutto per come è girata (con più di un camera car e con telecamere fissate su supporti diversi), con Sartana che si lancia al galoppo di un carro su cui viaggiano tre sicari nascosti in altrettante bare. Qui Carnimeo piazza i pochi campi lunghissimi della pellicola, per esaltare la rincorsa del suo personaggio vestito in nero e in sella a un cavallo bianco. Il pistolero, dopo esser sopravvissuto all'agguato dei banditi (li aveva visti riflessi sullo specchio, mentre era seduto dal barbiere e loro passavano sulla strada a bordo del carro), li segue sempre più da vicino. “Uscite fuori, sparate... Sparate!” urla disperato il cocchiere, ma i colpi dei sicari vanno tutti a vuoto. Carnimeo alterna attraverso il montaggio i colpi di pistola e di fucile dei banditi con i primissimi piani di Garko che si muove come per schivare i proiettili. “Accidenti, non riesco a beccarlo!” si dispera uno dei manigoldi. Sartana allora, sempre al galoppo, sfila dalla sella il fucile e, uno a uno, li ammazza tutti per poi mirare alla ruota del carro e farla saltare via (dettaglio in corsa prima della canna di fucile puntata da Sartana e poi della ruota che salta) con il conseguente scivolamento delle tre bare nella sabbia. L'unico dei banditi sopravvissuti (Ivano Staccioli) si nasconde tra gli arbusti, ma Sartana, che l'ha riconosciuto, gli promette una brutta fine: “Blackie, avrai anche tu avrai il tuo bravo funerale, ma uno vero!” Lo spettatore non può che annuire soddisfatto della sequenza, anche in virtù di una delle migliori colonne sonore composte per un western da Bruno Nicolai. L'allievo di Morricone, nell'occasione, abbandona le melodie epiche per un sound scatenato tutto ritmo e schitarrate, perfetto per una sequenza di cavalcate. Interessanti, comunque, anche tutti gli altri temi musicale. Dunque un western con una produzione media e una sceneggiatura tutt'altro che originale, ma messo in scena da western di serie A 1112 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

(magari bassa, ma è serie A). Notevole poi la fotografia di Stelvio Massi. Sicuramente consigliato per passare una mezz'ora di divertimento, a mio avviso è tra i migliori Sartana della serie pur pagando sul versante dell'originalità. La pensa al mio stesso modo Tom Betts che evidenzia l'alto tasso di inventiva e di azione. Anche Marco Giusti sembra apprezzare alcune morti dei rivali di Garko, che Carnimeo fa uccidere con trovate spettacolari seppur poco realistiche. Il film gode di un certo alone di culto tra gli appassionati stranieri e non solo. L'hanno visto e apprezzato praticamente tutti, eccetto i soliti critici d'autore. 800spaghettiwesterns.blogspot.it, in particolare, gli da un bel sette, vedendo nello script, seppur più elaborato di quelli della serie, il punto debole. Lo spagnolo sintetizza molto bene la storia: “il film è un continuo tentativo da parte di uomini armati di eliminare Sartana, sebbene il risultato sia sempre lo stesso ovvero dei funerali pagati da Sartana per la gioia del becchino locale.” Solito esagerato entusiasmo per l'italianissimo spaghettiwestern.altervista.org che lo definisce un capolavoro tra i più belli tra quelli realizzati da Carnimeo. Viene inoltre fatto notare che il lancio delle carte affilate ispirerà gli sceneggiatori del fumetto X-Men per la caratterizzazione di Gamblit (personalmente faccio notare che l'idea delle carte affilate è stata ripresa dal ninjutsu). Sono di manica stretta filmtv.it e il Farinotti che non danno più di due stellette in quanto lo ritengono non originale. Fa peggio il Morandini che non va oltre la stelletta e mezzo e sentenzia con crudeltà: “quarto episodio della serie: le storie sono le stesse, cambiano i cavalli...” UNA NUVOLA DI POLVERE... UN GRIDO DI MORTE... ARRIVA SARTANA! Produzione: Italia e Spagna, 1970. Prodotto: Luciano Martino (Devon Film), Eduardo Manzanos Brochero (Cooperativa Cine Espana). Regia: Giuliano Carnimeo (Anthony Ascott). Soggetto: Eduardo Manzanos Brochero. Sceneggiatura: Eduardo Manzanos Brochero, Tito Carpi ed Ernesto Gastaldi. Interpreti Principali: Gianni Garko (John Garko), Piero Lulli, Massimo Serato, José Jaspe, Nieves Navarro (Susan Scott), Francisco Brana, 1113 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Franco Pesce, Mara Krupp, Luigi Induni Radici (Luis Induni), Sal Borgese, Paco Sanz. Fotografia: Julio Ortas. Musiche: Bruno Nicolai. Sottogenere: Giallo. Durata 99 min. Giudizio Mancini: *** Giudizio Morandini: *1/2 La trama Venuto a conoscenza della scomparsa di un bottino costituito da 500.000 dollari e da 2 milioni di dollari falsi, Sartana (Garko) si fa arrestare per organizzare l'evasione di Grande Full (Lulli) internato in un carcere di massima sicurezza per aver ucciso il socio responsabile del colpo che avrebbe fruttato il bottino svanito nel nulla. Grande Full sarebbe a conoscenza del luogo in cui sono nascosti i soldi, ne è convinto anche il truce sceriffo della città (Serato) implicato nel commercio dei soldi falsi. Quest'ultimo pone sotto continue torture l'uomo per estorcergli la confessione, ma senza risultato. Anche un bandito messicano (José Jaspe) è alla ricerca dei soldi scomparsi, perché i 500.000 dollari erano i suoi e li doveva versare per acquistare i soldi falsi dal fratello dello sceriffo. Intanto Sartana riesce a liberare Grande Full e insieme evadono dal carcere. Il primo si reca sul luogo del delitto, mentre il secondo si rifugia a Sonora. Sartana si rende subito conto che il bottino è ricercato, oltre che dallo sceriffo e dal messicano, da molti altri soggetti che tenteranno tutti di accordarsi con lui e, al contempo, di assassinarlo... Il commento Quinto e ultimo capitolo ufficiale della saga Sartana, a mio avviso il migliore. Lo dirige ancora Carnimeo, subito dopo aver terminato le riprese del precedente Buon Funerale, Amigos... Paga Sartana. Come già anticipato cambia la produzione, e per una volta in meglio. Entra nella saga un duo costituito da due volponi come Luciano Martino e lo spagnolo Eduardo Manzanos Brochero, già protagonisti di interessanti spaghetti western e futuri soci nella produzione dei thriller Lo Strano Vizio della Signora Wardh (1971) e La Coda dello Scorpione (1971) diretti da Sergio Martino. A Manzanos, come già av1114 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

venuto con l'interessante I Vigliacchi non Pregano (1969), viene anche attribuito il soggetto, poi sviluppato dai qualificatissimi Ernesto Gastaldi e Tito Carpi che già avevano preso parte alla saga con il secondo e terzo episodio ovvero Sono Sartana, il Vostro Becchino (1969) e C'è Sartana... Vendi la Pistola e Comprati la Bara (1970). Nell'occasione viene eliminata quasi del tutto la farsa comica che già era stata ridimensionata col precedente Buon Funerale Amigos..., cala anche la componente gotica, mentre si ingarbuglia la storia che assume contorni più marcatamente gialli. Il soggetto è una sorta di Rashomon (1950) di Akira Kurosawa, con Sartana che cerca di fare chiarezza sulla scomparsa di 500.000 dollari e di un carico di 2 milioni di dollari falsi. Il nostro entrerà in contatto con ben sette personaggi interessati a recuperare il bottino. Tre di essi forniranno ricostruzioni diverse, tutte mostrate in flashback e tutte incomplete e dunque false, sulla dinamica dell'omicidio iniziale antecedente alla scomparsa del carico. Nel flashback vediamo un intermediario (un vecchio e furbo banchiere) impegnato nel condurre una trattativa per il passaggio di due milioni di dollari falsi dal fratello dello sceriffo agli uomini di un bandito messicano per la somma di 500.000 dollari. L'uomo ha il compito di certificare la qualità dell'oro e la buona fattura delle banconote false, ma la fortuna fa l'uomo ladro e così pensa bene di tenersi per sé i soldi e di uccidere i presenti. Qualcuno però lo anticipa e prima che possa scappare lo uccide e fa sparire il tutto. È su quest'ultimo fatto che le ricostruzioni discordano. La colpa viene fatta ricadere su Grande Full, perché socio del mediatore nella conduzione di una bisca. L'uomo però si professa innocente. Sartana si accorderà con ognuno di questi individui, promettendo metà bottino, ma poi agirà solo pensando a sé stesso. Del resto faranno altrettanto tutti gli altri che si accorderanno, separatamente, l'uno con l'altro pronti però tutti a tradirsi pur di tenersi il bottino e credendosi più furbi degli altri. Cinico, al riguardo, il commento che farà il bandito messicano alla sensuale Nieves Navarro, dopo averla spinta nella polvere: “Le promesse fatte a una donna come te durano finché il letto è caldo!” Gli sceneggiatori danno così vita a un intreccio più interessante della media, ma penalizzato dalla presenza di un eccessivo numero di pretendenti, tra l'altro piuttosto stereotipati. Abbiamo lo sceriffo corrotto implicato in un commercio di soldi falsi (Massimo Serato) che 1115 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tortura i prigionieri, addirittura mediante il gettito di acido; poi una sofisticata vedova (Nieves Navarro) ninfomane che amoreggia, in segreto, con tutti i pretendenti e tiene una Derringer nella calza; un vecchietto (Pesce) giocatore di carte inventore di congegni diabolici; un pazzo capobanda messicano (José Jaspe) che frusta i suoi uomini non appena perde il controllo e comunica con gli altri leggendo i labiali perché sordo; e poi truffatori che si spacciano per agenti governativi fornendo il nome di un agente anch'esso presente in incognito sul posto per indagare sul colpo. Sartana scenderà a patti con ognuno di questi soggetti, sempre con la promessa di dividere a metà il bottino per poi mandare ciascuno di loro contro un altro pretendente. La piega gialla/investigativa è più forte rispetto ai precedenti capitoli. Sartana scoprirà la verità facendo molta attenzione ai dettagli. Lo vediamo analizzare delle tracce di fango presenti sulla suola degli stivali dell'uomo assassinato nel flashback, quindi valutare il tipo di vetrata da cui si sarebbe lanciato Grande Full per sottrarsi al tentativo di uccisione perpetrato dall'uomo poi assassinato e infine lo troviamo a meditare sulla collocazione di tre fish poste su un tavolo dal vecchietto del paese a simulare il luogo in cui è nascosto il bottino (una sala da gioco formata da tre tavoli, due blu elettrici e uno, quello centrale, giallo canarino). Sarà grazie all'astuzia e alle abilità investigative che Sartana avrà la meglio sull'ultimo superstite del plotone di pretendenti, proprio il furbo Grande Full. Riuscirà anche a portarlo a riferire dove si trovino i soldi simulando di aver intuito già tutto per conto suo. Non mancano le diavolerie tipiche del personaggio Sartana, anzi raggiungono vette mai toccate. Una volta evaso, sparando veleno da una cerbottana di fortuna, il nostro le combinerà di tutti i colori fino a impiegare un pupazzetto a carica manuale dalla forma di totem, solitamente impiegato come accendisigari, ma che lui userà come robottino che spara e innesca bombe. Il culmine però si raggiunge in una delle sequenze finali che citano Django (1966), ma con un'impronta alla Robert Rodriguez. Sartana è solo nel villaggio e sta attendendo l'arrivo della banda messicana. Ha piazzato un organo in mezzo alla strada e sta suonando con estrema tranquillità e sigaro in bocca, perché prima di andarsene vuole fare un concerto mentre tutti i cittadini scappano per l'arrivo di Monk. Appena appaiono i banditi, tramite la pressione di alcuni tasti, le canne dell'organo diventano d'improvviso mobili e si trasformano in cannoncini e mitragliatori facendo di un sol 1116 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

boccone della banda del messicano. Una sequenza da antologia, seppur eccessiva. “Quello è un demonio!” dicono gli avversari, incapaci di averne la meglio nonostante i tanti agguati. Il look del pistolero è quello del precedente capitolo, ancora una volta con i baffi e sempre vestito di nero con l'immancabile mantello. “Guarda, è arrivato un prete...” lo canzonano a inizio film tre malcapitati. Carnimeo gira con piglio divertito e divertente (giochi di messa a fuoco, zoomate anche se forse un po' meno del solito), e regala un paio di sequenze di culto, a partire da quella sopra accennata. La pellicola parte in quarta, col protagonista che stende un terzetto di sceriffi corrotti e dispotici (bello il fermo immagine sul piano americano di Garko che ha appena sparato e titoli e la colonna sonora che si innescano dopo) per poi portarli alle porte del carcere dove è recluso Grande Full con lo scopo di farsi arrestare per organizzarne l'evasione. “Tu cosa vuoi?” gli chiede la guardia in servizio all'ingresso del carcere. “Entrare...” risponde con calma, Sartana. “Ma hai un lasciapassare?” continua la guardia. Il nostro risponde sarcastico: “No, ho soltanto tre sceriffi morti ammazzati. Bastano? Erano vivi quando sono arrivato, quindi sono venuto qui a costituirmi...” La caratterizzazione del carcere è quella di un campo di concentramento, con tanto di prigioni interrate con le sbarre di ferro poste sopra la testa dei carcerati costretti così a sorbirsi la cocente luce del sole e il freddo del deserto di notte, una soluzione già vista in Vivo per la tua Morte (1968) di Camillo Bazzoni. Carnimeo fa subito capire che l'ultimo capitolo della saga non punta sulla commedia. Massimo Serato, l'attore che interpreta lo sceriffo corrotto, fa torturare i prigionieri con metodi bestiali. Arriva a far gettare acido sul corpo di Lulli, con tanto di vapore che si alza dalla pelle del poveraccio. Sartana invece, chiedendo disperato dell'acqua, si vede urinare sul capo da una guardia. Scene che penso siano più che sufficienti a far capire che il film, pur nella sua spettacolarità surreale, ha ben poco del parodistico come invece suggerisce qualche critico. Si prosegue con un bel ritmo e con continue trovate, molte delle quali accennate nel corso della recensione, che lo rendono assai spassoso. Di rilievo la sequenza che porta alla morte di Serato, con il pupazzetto che gli va incontro mentre lui ride in modo isterico in quella che 1117 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sembra una scena anticipatrice del famoso omicidio di Profondo Rosso (1975) col pupazzo che irrompe in scena prima dell'assassinio. Curiosa, anche se ispirata a Lo Straniero di Silenzio (1968), la sequenza in mezzo ai vapori di una sauna con Sartana costretto a battagliare contro un pugno di sicari. C'è anche un omaggio a Vado, l'Ammazzo e Torno (1967) di Castellari in cui vediamo Sartana contemplare una pioggia di monete che gli cadranno dall'alto. Il cast artistico è discreto anche se inferiore rispetto ai primi due capitoli. Al sempre bravo Gianni Garko, con il suo cinismo farsesco e goliardico, si aggiunge l'infame Piero Lulli che ritorna dopo aver preso parte al terzo capitolo. Qua però gli antagonisti non si contano. Oltre a Lulli, che inizialmente funge da lepre a cui tutti danno la caccia, abbiamo l'elegante Massimo Serato e il trasandato e pazzo José Jaspe (molto bravo e sopra le righe, in una delle sue migliori prestazioni). Entrambi ultra cinquantenni sono due attori molto diversi. Serato, compagno di Anna Magnani per alcuni anni, con il suo fare aristocratico e il volto da bellone (non a caso ha posato in vari fotoromanzi), era stato un attore dal promettentissimo inizio carriera (era addirittura già attivo prima dello scoppio della seconda guerra mondiale) con ruoli, per lo più, da romantico fidanzato in commedie in cui sfruttava la sua avvenenza fisica e i tratti fotogenici, poi scivolato, con l'avanzare dell'età, in produzioni di bassa lega passando dal cappa e spada al cinema avventuroso (peplum compreso) per abbracciare il cinema di genere quasi nella sua interezza. L'inizio carriera dell'attore veneto era stato addirittura suggellato con un Nastro d'Argento ottenuto come migliore attore non protagonista nel film neorealista Il Sole Sorge Ancora (1946) in cui interpretava un generale nazista. Lavorerà fino alla fine dei suoi giorni chiudendo la carriera (quasi duecento film) nei primi anni '90. Gli amanti dei B-movie, più che per i suoi western (piuttosto risibili), lo ricorderanno per pellicole come I Criminali della Galassia (1965) di Margheriti, A Venezia... Un Dicembre Rosso Shocking (1973) di Roeg e i thriller Macchie Solari (1975) di Crispino e Solamente Nero (1978) di Bido anche se sempre con ruoli di secondo piano. Più abituato al genere Jaspe, coinvolto fin dall'alba del genere anche se in opere il più delle volte mediocri. Qua appare trasandato, con occhi strabici, che urla e frusta tutti assatanato e irragionevole. Ha un ruolo abbastanza importante, seppure un po' limitato (purtroppo!) nelle apparizioni, la sempre sexy Nieves Navarro. All'epoca 1118 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

trentaduenne e ormai in procinto di passare allo spaghetti-thriller con ruoli da protagonista, la spagnola è perfetta nel suo classico ruolo della ninfomane di alto borgo, continuamente impegnata a sedurre uomini (che tiene nascosti anche in camera da letto, sostenendo di essere una donna seria con una certa reputazione). Molto brava quando vede Sartana cadere a terra e, credendolo morto, se ne va via tutta sorridente per cercare di ingannare Grande Full abbracciandolo e stampandogli un bacio da Giuda in bocca. Ruoli minori per grandi caratteristi come Franco Pesce, Sal Borgese e Mara Krup che torna a personificare il ruolo della volgare albergatrice che aveva già ricoperto in Per Qualche Dollaro in Più (1965). Nel cast tecnico, come regista della seconda unità, fa il suo debutto assoluto nel mondo del cinema il futuro regista Michele Massimo Tarantini, cugino del produttore Luciano Martino e da questo svezzato insieme al fratello Sergio Martino. Farà esperienza in più settori, compreso il montaggio e i ruoli amministrativi, per poi girare una trentina di film, con predilezione per il cinema di genere ma senza ottenere grandi risultati se si eccettuano i gradevoli ma crudi poliziotteschi Poliziotti Violenti (1976) e Napoli si Ribella (1977) per poi piegare nella pecoreccia commedia scollacciata (suo genere di elezione in virtù di più di una dozzina di titoli), con tutte le star del genere (Lilli Carati, Gloria Guida, Edwige Fenech, Barbara Bouchet e Nadia Cassini) preferendo i facili riscontri del botteghino alla qualità. Suo anche il pessimo e sgangherato cannibal movie Nudo e Selvaggio (1985) che segnerà l'inizio di un tentativo del regista di rilanciarsi in Brasile. Eccezionale, una delle più belle in assoluto, la fotografia curata da Julio Ortas, specie nelle sequenze in notturna dal sapore gotico con i riflessi blu che avvolgono il background (memorabile quella con Sartana che scava al cimitero e anche la sequenza dell'evasione dal carcere). Variopinte e sgargianti le belle scenografie curate dal veterano José Luis Galicia, uno dei più esperti e qualificati tra gli spagnoli. Molto carina la colonna sonora di Bruno Nicolai che opta per un sound lento, ma con un certo ritmo che tende a diventare sempre più imponente. Credo che si possa definire uno dei migliori western del filone giallo e soprattutto della saga Sartana. La pensa diversamente spaghettiwestern.altervista,org che lo ritiene inferiore agli altri Sartana, pur valutandolo gradevole, a causa di alcune trovate che lo rendereb1119 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

bero poco serio, senza considerare che tutta la saga è caratterizzata dalla volontà di stupire lo spettatore spingendo all'eccesso. È addirittura incomprensibile, soprattutto considerati altri pareri espressi dall'appassionato, l'accanimento di 800spaghettiwesterns.blogspot.it che reputa il soggetto tra i più brutti in assoluto di tutto il genere (!?). Definisce la storia poverissima, senza né capo né coda, peggiore rispetto ai precedenti capitoli con alcuni momenti divertenti dovuti ai soli gadget del protagonista. Valuta persino insufficiente la colonna sonora di Nicolai e appena sufficienti le recitazioni. A mio avviso un commento troppo severo. La dimostrazione viene dall'anglofono mondoesoterica.net che loda lo script definendolo forte, con varie sequenze dal gusto classico e un inizio affascinante. Spaghettiwesterns.1g.fi premette di aver difficoltà a trovargli dei difetti, per giungere a reputarlo superiore ai precedenti Sartana, grazie a un prologo stupendo e una grande colonna sonora. Fa altresì notare, molto giustamente, che nell'occasione il protagonista spara con pistole regolari e va in giro con cavalli di diverso mantello (quindi non più con il suo solito cavallo bianco). Penso proprio che questi ultimi due commenti siano quelli da prendere in maggiore considerazione. L'americano spaghetti-western.net, giustamente, sottolinea come molti appassionati lo ritengano il migliore della saga, seppure a suo avviso meno lucido e meno modaiolo rispetto a Buon Funerale, Amigos. Restano invece incantate sul disco della violenza gratuita le voci di filmtv.it (due stelle) e del Morandini (una stella e mezzo) che assicurano il non trattarsu di uno dei migliori spaghetti-western. Io invece consiglio agli appassionati di recuperarlo, lo sconsiglio solo ai puristi, perché con Sartana siamo dalle parti di James Bond in salsa western con tutte le esagerazioni del caso. Per gli amanti delle citazioni: Sartana: “Non sono né contro né a favore della legge, diciamo che ho idee tutte mie.” MATALO! Produzione: Italia e Spagna, 1970. Prodotto: Cesare Canevari (Rofima Cinematografica), Norberto Solino (Profilms 21) e Eduardo Manzanos Brochero (Copercines). Regia: Cesare Canevari. 1120 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Soggetto e Sceneggiatura: Mino Roli, Nico Ducci e Eduardo Manzanos Brochero. Interpreti Principali: Corrado Pani, Luis Dàvila, Antonio Salines, Claudia Gravy, Lou Castel, Ana Maria Noé e Ana Maria Mendoza. Fotografia: Julio Ortas. Musiche: Mario Migliardi. Sottogenere: Gotico / Tesori contesi. Durata 94 min. Giudizio Mancini: **** Giudizio Morandini:*1/2 La trama Condannato all'impiccagione (Pani) viene salvato sul patibolo da una banda di messicani entrati in paese al galoppo. Gli uomini liberano il bandito in cambio di oro, ma giunti fuori paese vengono trucidati dallo stesso che si è associato con un trio di manigoldi (Dàvila, Salines e Gravy) per assaltare una diligenza su cui viaggia un bottino in denaro. Effettuato il colpo, i quattro si rifugiano in un paese fantasma per far sbollire le acque in attesa di spartirsi quanto rapinato. Qui però devono vedersela con una vecchia pazza (Mendoza), unica superstite del paese, e con uno straniero errante (Castel). I due, inizialmente, vengono imprigionati, ma l'avidità e il sadismo del quartetto porterà i vari soggetti a contendersi l'oro agevolando così la ribellione dei prigionieri. Duello finale a colpi di boomerang. Il commento Spaghetti-western bizzarro in tutto e per tutto, dalla genesi alla scelta del cast artistico e tecnico per concludere col montaggio e una regia psichedelica come non mai. Lo produce, con l'aiuto di due importanti produttori spagnoli come Eduardo Brochero Manzanos e Norberto Solino - incontrati già più volte nel corso della trattazione – Cesare Canevari che ne firma anche la regia. La presenza in un western di un regista come Canevari è anch'essa bizzarra, stante il suo legame soprattutto col cinema erotico. Entrato nel mondo dello spettacolo come attore teatrale e in seguito passato al cinema con un paio di commedie nei primi anni '50, si era riciclato in veste di piccolo produttore debuttando col documentario Gli Italia1121 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ni si Divertono Così (1963), affidato alla regia di Gianni Vernuccio, dandovi seguito col western Per un Dollaro a Tucson si Muore (1964) per la regia del collaboratore di Vernuccio: Oscar De Fina. Si trattava però di produzioni dai budget irrisori, tanto che lo sconosciuto De Fina, non pagato, non ultimò le riprese del suo western costringendo Canevari a improvvisarsi regista. Il risultato fu una catastrofe, amplificata dalla totale inesperienza di Canevari passato, senza gavetta alcuna, dai ruoli organizzativi al compito di dirigere il tutto da dietro la macchina da presa. Celebri le sue difficoltà sul set, incapace di dare fluidità alla regia e in grado solo di portare avanti la lavorazione con una serie di inquadrature in campo lungo di matrice teatrale. Un fallimento totale che lo stesso regista, qualche anno dopo, commenterà senza mezzi termini: “Quando rividi il film al montaggio mi resi conto di quale cagata avessi fatto!” Dunque un debutto traumatico che avrebbe potuto chiudergli la carriera, ma Canevari, per nulla abbattuto, era stato capace di farsi le ossa grazie al noir Una Jena in Cassaforte (1968) e soprattutto all'erotico cult Io Emmanuelle (1969) con Erika Blanc. La strada per l'erotico sembrerebbe spianata e invece Canevari, da buon sperimentatore, decide di ritornare al western, forse per riscattarsi dell'obbrobrio che lo aveva visto debuttare. In seguito si dedicherà pressoché integralmente all'erotico con risultati che gli garantiranno una nicchia di estimatori grazie a titoli sempre sopra le righe come La Principessa Nuda (1976) e il nazierotico, da molti considerato il migliore del genere, L'Ultima Orgia del Terzo Reich (1977). Se quanto sopra potrebbe sembrare curioso, è addirittura più strana la genesi del film. Canevari, anziché stendere un soggetto di suo gradimento, contatta lo sceneggiatore Mino Roli e ne acquista un copione. Fin qui nulla di strano, se non fosse che quel copione era già stato utilizzato per Dio non Paga il Sabato (1967) di Tanio Boccia. Canevari dirà poi che tutti coloro che erano coinvolti nella lavorazione di Matalo! erano all'oscuro di tale circostanza, a ogni buon conto confeziona un vero e proprio remake del film di Boccia. Sulla buona fede del regista sembra concordare anche Antonio Bruschini che definisce il film un remake involontario. Meno deciso, ma comunque orientato per la medesima conclusione, Marco Giusti che parla di remake non dichiarato. 1122 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

In realtà è opportuno sottolineare come sia il film di Boccia sia quello di Canevari abbiano come coproduttore Eduardo Manzanos Brochero, il quale per Matalo! firma persino la sceneggiatura, rendendo quindi piuttosto debole l'affermazione di Canevari Il soggetto e la sinossi del film sono identiche a quelle di Dio non Paga il Sabato, vengono introdotte delle leggere modifiche sul finale e vengono ridotti ulteriormente i dialoghi già scarsi nel film di Boccia. Il copione viene comunque sottoposto a una revisione. A parte Manzanos, vi interviene il debuttante Nico Ducci, che poi in seguito firmerà, oltre al western comico Carambola (1974) di Ferdinando Baldi e al poliziesco Liberi, Armati, Pericolosi (1976) di Romolo Guerrieri, i crepuscolari Keoma (1976) di Castellari e California (1977) di Michele Lupo con cui chiuderà prematuramente la carriera. I ritocchi di script riguardano soprattutto i personaggi che ricevono una caratterizzazione più marcata e votata al surreale rispetto a quelli del film di Boccia. Il protagonista “buono”, interpretato da Lou Castel, veste ricercato (giacca colorata di cashmere), non usa pistole, ma lancia boomerang. “Io per far centro con una pistola o con un fucile devo avere un bersaglio grosso quanto una casa” dirà alla vecchia pazza del paese che è trent'anni che attende, da sola e nella desolazione di un villaggio fantasma, che ritorni la ricchezza per poter ricostruire tutto. “E come mai non sai sparare, da dove vieni?” gli chiederà, sorpresa. Castel risponderà in modo enigmatico e misterioso, come tale è il suo personaggio: “Dal paese dove quelli che hanno paura mettono la testa sotto la terra, ma io sono un'eccezione. Io non faccio del male per tutto l'oro del mondo, ma se me lo fanno devono pagare!” Di questo personaggio non si sa niente, ha l'accento francese e lo si veder risorgere dopo aver ricevuto una pistolettata apparentemente letale. A risvegliarlo è un sussurro di un cavallo bianco, lo stesso cavallo che lo salverà dall'ira di un Salines armato di catena agitata mo' di frusta. La scena viene ripresa dal film di Boccia, ma girata in modo più spettacolare. Vediamo il cavallo imbizzarrirsi al cospetto di Salines e percuoterlo più volte su una mano e poi sul petto con gli zoccoli anteriori. Il regista piazza dei rallenty e delle soggettive del cavallo rampante, con le zampe in avanti in primo piano che si piegano su Salines. Senz'altro uno stralcio da antologia che farà luccicare gli occhi degli amanti del b-movie. 1123 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Piuttosto a sorpresa Lou Castel, che per l'occasione torna al western per la terza e ultima volta, dopo gli splendidi Quien Sabe? (1966) e Requiescant (1967), offre una performance piuttosto fiacca e poco convinta, subendo tutti gli altri colleghi. Prende botte fino alla fine, quando trova la forza di ribellarsi e di dar sfogo alla sua arte alquanto inusuale: il lancio dei boomerang. Proprio alla presenza dei boomerang è legata la scelta dell'attore di partecipare al progetto, ma è una scelta poco sentita. Castel, probabilmente, viene influenzato dal fatto di arrivare da film di ben altro spessore produttivo (commedie e drammatici, oltre il thriller Orgasmo di Umberto Lenzi) e di non aver la flessibilità per adattarsi al delirante clima sperimentale di Canevari. Vi si adatta invece molto bene Corrado Pani, che va a prendere il posto che Boccia aveva assegnato a Rod Dana. Il suo però è un personaggio molto più surreale. Lo vediamo “sniffare” l'odore della polvere da sparo tutte le volte in cui ha sparato col fucile o con la pistola. Ha un atteggiamento burlonesco fatto da mille espressioni (fa il verso del grillo con le labbra per irridere il prossimo), sorride in continuazione e tenta di fregare tutti (una donna, sedotta, si suicida dopo esser stata derubata, perché distratta da un lungo bacio in bocca). Non parla quasi mai, la sua filosofia viene mostrata da azioni e da pensieri narrati da una voce fuori campo che ne traccia una psicologia a dir poco cinica resa ancor più manifesta dal fatto di introdurre il monologo dopo aver sterminato la banda di messicani che lo aveva salvato dall'impiccagione. “Ehi, gente! Sapete cosa disse papà quando io me ne andai dalla sua vecchia, cara, Europa per venire in America? Papà disse: Figliolo, denaro è amore; amore è possesso; possesso è vita; la vita è una rapina; la rapina è un modo comune di vita sia per quelli che stanno lassù in cima sia per quelli giù nella fogna. E il mio papà disse: figliolo, è più facile amare Dio che il prossimo, perché Dio non ti frega mai. Fatti furbo, ragazzo, il denaro è un frutto maturo, allunga la mano e coglilo. La vita è una rapina. Sta dalla parte di quelli che prendono, apri gli occhi, non stare mai dalla parte di quelli che cadono. Ehi gente, se aveste conosciuto mio padre giuro che avreste detto: quello è il più furbo dei furbi... È finito sulla forca!” Un personaggio che fa dell'opportunismo la sua regola di vita, scorretto nei rapporti interpersonali, senza alcun briciolo di riconoscenza, ma nonostante questo estremamente fascinoso. Vestito con 1124 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

una camicia verde e un gillet marrone dotato di peneri, sfoggia un cinturone con fondine ascellari e una benda stretta sulla fronte sopra i capelli raccolti in un caschetto biondo. Notevole la prova di Corrado Pani, al suo unico western (purtroppo), ma capace di dimostrare di essere a perfetto agio col genere. Trentaquattrenne romano di origini sarde, si era distinto fin dall'infanzia prendendo le mosse in radio per poi passare al cinema nel 1953 con Il Viale della Speranza di Dino Risi. Interprete tra i più completi, non perdeva mai occasione per ampliare il proprio bagaglio culturale. Doppiatore, attore di sceneggiati televisivi, teatrali e cinematografici. Conosciuto dal grande pubblico soprattutto per le sue apparizioni televisive, al punto da ottenere nel 1963 il premio come attore televisivo dell'anno grazie al serial Il Dottor Antonio, primo sceneggiato trasmesso dalla televisione italiana. Più di nicchia, ma ugualmente talentuoso in teatro dove aveva ottenuto le maggiori soddisfazioni sotto la regia di Luchino Visconti e di Giorgio Strehler, recitando in opere tratte da Goldoni e Brecht. Famoso inoltre per gli scandali gossip legati alla sua relazione con la cantante Mina, sebbene fosse regolarmente sposato. Avrà con lei un figlio nato fuori matrimonio. Arriva a Matalo! trascinato da un altro successo televisivo: la mini serier I Fratelli Karamazov (1969) tratta dall'omonimo romanzo di Dostoevskij. Proseguirà la carriera alternandosi tra cinema (almeno fino alla fine degli anni '70), tv e teatro con preponderanza di questi ultimi due. Gli amanti del cinema di genere lo ricorderanno protagonista del giallo Il Gatto dagli Occhi di Giada (1977) di Antonio Bido e del meno qualitativo poliziottesco La Città Gioca d'Azzardo (1975) di Martino, sue rare incursioni nel B-movie. Nel 2005 riceverà, postumo, il Premio Gassman alla carriera. Da I Fratelli Karamazov arriva un altro attore del tutto inusuale per il western e più in generale per il cinema bis: lo spezzino Antonio Salines. Classe 1936, anche Salines era soprattutto un attore teatrale, figlio illustre (il padre era un compositore), spesso prestato agli sceneggiati televisivi con cui aveva debuttato nel 1968 con la serie Sherlock Holmes. Interpreterà una dozzina di film (altrettante saranno le apparizioni in produzioni televisive, tra cui Elisa di Rivombrosa), cinque dei quali erotici diretti da Tinto Brass con cui inizierà a collaborare in occasione de L'Uomo che Guarda (1994). Già regista teatrale, tenterà di darsi anche alla regia cinematografica con Zio Vania 1125 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di Anton Cechov (1990), pellicola a metà strada tra il cinema e il teatro. La prova di Salines è anch'essa notevole, nei panni di un personaggio alla Klaus Kinski, complessato (tutti gli dicono che è brutto e che è una bestia) che cade in isterismi figli della frustrazione che poi scaricherà sul malcapitato Castel (giocando con lui come fa il gatto col topo, tenendolo senza acqua e frustandolo con una catena). Interpreta il personaggio che nel film di Boccia era stato riservato a Massimo Righim, e lo fa in modo più teatrale e tragico. È sciatto, trasandato, con i capelli lunghi e una specie di pelliccia bianca come vestito. Da la netta impressione di essere ritardato. Ama la donna del suo capo, ma questa, sebbene sia una poco di buono, fila tutti meno che lui e ne approfitta per provocarlo e allontanarlo al momento topico per ridere di gusto. Nonostante questo crudele sadismo, lui l'adora, come si vede dalla crisi di pianto che avrà quando, prima di subire l'attacco di Castel a suon di boomerang, la vedrà morta. Ecco che si arriva a Claudia Gravy, la bellissima donna bandito proposta dal soggetto di Roli. Anche qua Canevari e i suoi sceneggiatori si superano e fanno meglio di Boccia. Il personaggio della ragazza è più sexy e perverso. La vediamo con un costume strepitoso esaltato da due paia di stivaletti e da una cortissima minigonna su cui scendono dei lunghi peneri che le coprono le cosce. Tiene inoltre un nastrino circolare sulla fronte, a mo' di ragazza hippie. Canevari, da esperto di cinema erotico, sfrutta al massimo le curve della Gravy, protagonista di due tra le sequenze più erotiche di tutti gli spaghetti-western. Nella prima di esse la vediamo provocare Salines, mentre questo sta mangiando del prosciutto. Lei gli passa davanti e lentamente gli alza la coscia a un palmo dal naso con tutti i peneri che si spostano lasciandogliela scoperta, quindi gli prende un pezzo del cibo e se lo porta sulle labbra fingendo una complicità erotica che in realtà non esiste. In un'altra scena, invece, gioca con un Castel legato e sdraiato a terra. Lei gli dondola sopra il petto grazie a un'altalena e gli punta contro un pugnale fino a recidergli la camicia. Scene indubbiamente ardite, utili a caratterizzare il carattere del personaggio. Una giovane provocante e maliziosa che gioca con lo sguardo e che si eccita con le sue condotte sadiche. La vediamo infatti irridere la vecchietta del paese e distruggerle tutto il guardaroba, abbozzando ironiche sfilate denigratorie con i vestiti della stessa; poi prendere a schiaffi una prigioniera 1126 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

coetanea giunta in paese con Castel; e ancora sparare col fucile e tradire il suo uomo per mettersi insieme a Corrado Pani. Attrice attraente ma anche brava, la Gravy era nata in Congo e poi emigrata in Spagna. Aveva debuttato nel cinema all'età di venti anni partecipando a una serie di B-movie ispanici molti dei quali mai giunti in Italia. Già apparsa nel genere con ruoli marginali (soprattutto per la regia di José Marìa Zabalza), aveva avuto un ruolo da comparsa nel celebre erotico Justine Ovvero le Disavventure della Virtù (1969) di Jess Franco. Quando Canevari la chiama per Matalo!, pur avendo all'attivo una trentina di apparizioni (quasi sempre da comparsa o da coprotagonista in piccole produzioni), è di fatto misconosciuta al grande pubblico. La scelta però si rivelerà vincente, in virtù di un'interpretazione difficilmente migliorabile. Lavorerà in seguito in patria, in particolare per la televisione (soprattutto negli anni '80) e il teatro, con quasi centocinquanta partecipazioni dislocate in un arco di tempo ultra quarantennale. Tra le pellicole proiettate nei nostri cinema ricordo l'horror Byleth – Il Demone dell'Incesto (1971) di Leopoldo Savona. Completa il quartetto Luis Dàvila. Attore argentino - nato anche lui (come Gianni Garko) nel giorno del mio compleanno – piuttosto esperto del genere, aveva ricoperto ruoli da protagonista in piccoli western come L'Uomo dalla Pistola d'Oro (1965) e Dinamite Jim (1966) entrambi di Alfonso Balcàzar. Questa volta gli viene dato incarico di dar corpo all'antagonista, anche se purtroppo il suo ruolo è il più convenzionale del lotto: è il capobanda ultra quarantenne che vede la propria donna tradirlo con il più giovane compagno di avventura. La prova di Dàvila è buona (ride spesso anche lui, seppure con uno stile più fisico e imponente, piuttosto che sarcastico e furbetto come invece Pani), ma soffre dei limiti della caratterizzazione del suo personaggio. Prima di tornare in Argentina, farà solo un altro western impegnandosi poi nel horror ispanico e nel cinema d'avventura, con un pugno di opere tra le quali L'Arciere di Fuoco (1971) di Ferroni. Parteciperà inoltre al thriller Paranoia (1970) di Umberto Lenzi. Il ruolo della pazza del paese va alla misconosciuta Ana Maria Mendoza (già apparsa in Sette Donne per i MacGregor e con una decina di pellicole all'attivo), la quale farà appena in tempo a finire il film stroncata da un infarto una settimana dopo il completamento 1127 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dell'opera. Il suo è il classico ruolo della vecchia vedova attaccata al denaro, un po' come la vecchia di 1.000 Dollari sul Nero (1966) di Cardone. Farà di tutto per convincere Castel a recuperare il bottino rapinato (“Io so dov'è l'oro e tu devi difenderlo!”) per rifondare la città, perché una città non sarà mai povera e invece il denaro, se mal gestito, è destinato a finire. Sulla trama è inutile dilungarsi: è la stessa del film di Boccia. Ciò che diverge, al di là delle caratterizzazioni più curate ed estremizzate, è il taglio di regia e l'atmosfera che si respira per tutta la visione. Canevari confeziona un western sperimentale, con una marcata impronta ermetica e orrorifica (in più di un frangente il film suscita paura). Il montaggio poi, dello stesso Canevari, si sofferma su una serie di elementi simbolici che paiono voler dare un significato nascosto e che erano del tutto assenti nel film di Boccia. Si ha quasi l'impressione che ci si trovino in una dimensione infernale, un po' come era successo in Django (1966) e in Se sei Vivo, Spara! (1967). La sensazione viene resa manifesta fin da subito, quando Canevari chiude con un primo piano su un cappio che ciondola nel vento non appena Pani si allontana dal paese in cui sarebbe dovuto morire sul patibolo. Da qui si susseguono tempeste di sabbia con tanto di trombe d'aria, vento continuo, misteriose ombre di memoria espressionista tedesca che si allungano di notte sulle mura delle case abbandonate, canne di fucili che appaiano in primo piano senza capire chi imbracci il fucile, tende che scivolano su arpe facendole suonare, altalene mosse dal vento che sembrano suggerire la presenza di fantasmi e poi primi piani su corvi, lo straniero errante che sembra risorgere grazie al sussurro di un cavallo e via ancora con i boomerang, il malloppo che svanisce portato via da un asinello dopo che Pani ha ucciso la vecchia del paese, il tutto sotto il continuo sguardo di un misterioso occhio che Canevari monta in primissimo piano in varie scene e che scruta da terzo incomodo. Contribuiscono infine a rendere il tutto ulteriormente psichedelico i suoni distorti e metalicci, e soprattutto l'eccezionale colonna sonora di Mario Migliardi dal sound rockeggiante, con tanto di schitarrate alla Jimi Hendrix. A ciò si aggiungono le bizzarre messe a fuoco di Canevari, che inverte quanto si è solito fare, ovvero non mette a fuoco il soggetto dell'inquadratura, ma lo lascia sfuocato, e gli incomprensibili movimenti di macchina con inquadrature che si inclinano per ini1128 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ziare a roteare fino a giungere a panoramiche a trecentosessanta gradi dove tutti sparano contro tutti. Due parole per il compositore Migliardi. Arriva al film con poca esperienza cinematografica (era pianista, organista e direttore d'orchestra spesso impegnato al Festival della Canzone Napoletana), peraltro maturata in tutt'altri generi. Come Canevari, anche Migliardi è uno sperimentatore, lo aveva già dimostrato essendo tra i primi ad aver trasmesso in radio la musica elettronica. Musicherà solo un altro spaghetti-western (Prega il Morte... Ammazza il Vivo) e curerà le colonne sonore del fortunato sceneggiato televisivo RAI A come Andromeda (1972). La fotografia (ottima) e le scenografie sono curate da due uomini di fiducia di Manzanos, che abbiamo già incontrato numerose volte: Julio Ortas e José Luis Galicia. Siamo quindi alle prese con il western psichedelico per eccellenza. Quando uscì, non a caso, qualcuno commentò: “È come guardare un film di John Ford sotto acido.” Purtroppo, all'epoca, non riscontrò successo alcuno. Era troppo diverso e futuristico per essere apprezzato. Fu addirittura rifiutato al Festival di Venezia, perché ritenuto inidoneo. Con gli anni, però, si è detto di tutto. Definito un capolavoro surrealista da alcuni, odiato da altri che lo reputano un trip. Dunque un film che divide le opinioni come era inevitabile che fosse. Lo stesso regista, a mio avviso con troppa modestia, sostiene di non comprendere il motivo per cui sia diventato un cult, spiegando che tutto era costruito sulle ceneri di un genere ormai in decadenza e che la fatiscenza delle location costituiva proprio un parallelo per sottolineare tale situazione. Invero, il motivo per cui sia diventato un cult penso sia piuttosto intuibile. Marco Giusti ne sottolinea l'importanza soprattutto per la stravaganza sia nella messa in scena sia nella scelta degli attori protagonisti, definiti tutti sopra le righe. Antonio Bruschini, giustamente, lo definisce estremamente innovativo e originale nella messa in scena, realizzato in modo bizzarro e con il montaggio di un thriller. A suo avviso è quasi senza parole, con un solo dialogo in campo (in realtà non è proprio così, ma Bruschini non si discosta tanto dalla realtà), e con una musica di dissonanze sonore a fare da commento tra un silenzio e l'altro.

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Tra i detrattori abbiamo il critico californiano Tom Betts che lo ritiene inferiore a Dio non Paga il Sabato, specificando poi che nessuno dei due film è veramente buono. Non lo apprezza neppure lo spagnolo Carlos Aguilar che vede i motivi di interesse dell'opera solo nella presenza di Castel e della bella connazionale Gravy. I blogger appassionati del genere lo hanno visto tutti. Lo stronca con una piena insufficienza lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it che gli affibbia un tre in pagella al soggetto e l'insufficienza alla colonna sonora. L'appassionato sembra non dar importanza ai riferimenti ermetici inseriti dal regista, che reputa impegnato a mettere in atto dei meri esercizi di stile fini a sé stessi definendolo pretenzioso e molto noioso. Mondo-esoterica.net si dissocia dai colleghi, affermando che il film si regge su un soggetto solido, caratterizzato in modo decente e con un epilogo in crescendo capace di impressionare. L'appassionato anglofono loda sia la regia sia la non ortodossa colonna sonora prog-rock di Migliardi, finalizzate a plasmare un western non di routine con un'atmosfera unica e indimenticabile. Sulla stessa falsa riga fistfulofpasta.com che oltre a ritenere notevole la colonna sonora, apprezza la presenza di Claudia Gravy definendola una delle donne più belle mai apparse nel genere. Sonofdjango.blogspot.it vede nel villaggio fantasma Benson un richiamo al malefico Charles Manson (arrestato in quegli anni perché reputato mandante dell'omicidio di Sharon Tate, la moglie del regista Roman Polanski), soprattutto per il taglio hippie e per il carisma del personaggio riservato a Pani che ammalia tutte le donne che trova per strada, sebbene sia un farabutto. Eppure, pur giudicandolo memorabile e definendolo uno di quei film che si amano o si odiano (in tal senso si esprime pure spaghettiwesterns.1g.fi), non lo reputa un buon western, perché ritiene stupido l'inserimento del boomerang (anche qua si ignora la possibile valenza metaforica attribuita all'arma) e con una serie di stravaganze non ben amalgamate da Canevari. Commenti poco positivi anche per il personaggio riservato a Castel il quale, per tutto il corso del film, subisce torture e percosse per riscattarsi solo alla fine. Un ruolo quindi deludente, ad avviso del blogger, stante il prestigio dell'attore. Del tutto contraria l'opinione dell'italiano spaghettiwestern.altervista.org che si sofferma proprio su Castel 1130 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

per tessergli generosi complimenti, così come giudica (questa volta a ragione) straordinarie la cura e la caratterizzazione dei personaggi. Il sorpreso più di tutti dalla visione del film è il portoghese porum-punhado-de-euros.blogspot.pt che inizia la sua recensione in modo diretto: western molto interessante di matrice spettrale in cui sembra che tutti i protagonisti siano sotto l'effetto di droghe, allucinati e con un alto tasso di desiderio sessuale. Questo appassionato intuisce giustamente la componente soprannaturale e suggerisce il film pur sottolineandone la stranezza. Lo ama a dismisura, oltre al sottoscritto, anche Fabio Meini di caniarrabbiati.it che scrive: “siamo fuori standard... un'opera crepuscolare con venature horror che non può che esser definita psichedelica”. Fa inoltre notare che il biografo Tim Lucas nella sua monografia dedicata a Mario Bava avrebbe attribuito la regia del film proprio al maestro savonese (un errore piuttosto marchiano). Per una volta è soddisfatto anche filmtv.it che gli da tre stelle e vi vede una metafora politica sulla ribellione giovanile (a me non sembra affatto) e soprattutto una messa in scena incredibilmente ispirata con musiche stranianti e un tocco kitsch che non guasta. Non si smuove il Morandini: una stella e mezzo e il giudizio implacabile sia sul regista (regista di pseudo erotici di bassa lega) che sul film (western pretenzioso e insolito che aggiunge al genere un tono quasi grottesco). A mio avviso è un grande gioiellino da avere in videoteca sia per il taglio psichedelico che lo rende unico, sia per l'elevato tasso di simbolismi ermetici inseriti in un'atmosfera horror che mette paura in più di una circostanza. Sconsigliato ai puristi e a coloro che hanno la puzza sotto il naso. Per gli amanti delle citazioni: È più facile amare Dio che il prossimo, perché Dio non ti frega mai. A novembre Dino De Laurentis torna alla carica con uno spaghettiwestern dalle atmosfere hollywoodiane. Del resto il pallino del famoso produttore era sempre stato, fin da Navajo Joe (1966) di Sergio Corbucci e Un Fiume di Dollari (1966) di Lizzani, quello costituito dal western all'americana. Per avvicinarsi a queste atmosfere, De Laurentis affida il progetto a Vic Morrow che scrive la sceneggiatura di Sledge (1970) avvalendosi dell'operato del giovane Massimo D'Avak e del 1131 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

veterano Frank Kowalski, quest'ultimo nell'usuale ruolo di supervisore e di consulente ai dialoghi (aveva collaborato, tra gli altri, con Sam Peckinpah in occasione del western La Ballata di Cable Hogue del 1970). Massimo D'Avack arriva da un pugno di pellicole di svariato genere, non si interesserà più al western trovando una certa fortuna, seppur brevissima, col thriller grazie a un poker di pellicole quali Così Dolce... Così Perversa (1969) di Lenzi, Chi l'ha Vista Morire? (1972) di Lado, Il Paese del Sesso Selvaggio (1972) ancora di Lenzi e Il Profumo della Signora in Nero (1974) di Barilli, divenute nel tempo dei veri e propri cult. Desta piuttosto sorpresa la scelta di puntare su un regista americano, di origine ebraica, peraltro quasi improvvisato nel ruolo. Sebbene quarantenne, Vic Morrow era conosciuto soprattutto come attore, in virtù del drammatico Il Seme della Violenza (1955) di Richard Brooks che lo aveva visto debuttare nella settima arte per diventare uno dei volti più ricercati dal circuito televisivo. Si era, in verità, già misurato alla regia nel 1965 con una pellicola non giunta in Italia e aveva altresì diretto e interpretato, da primo protagonista, un war movie in formato televisivo di oltre centocinquanta episodi intitolato Combat! (1962-67). Attore per lo più coinvolto in progetti noir o polizieschi, girerà solo un pugno di episodi piloti per la tv americana e australiana, proseguendo invece nell'attività recitativa, lavorando anche in alcuni film di genere nostrani. Indimenticabile, sempre nelle parte del rozzo o dell'antagonista (data la mole e il volto squadrato), ne L'Ultimo Squalo (1980) o in 1990 I Guerrieri del Bronx (1982) entrambi di Castellari, morirà sul set di Ai Confini della Realtà (1983), insieme a due bambini orientali, decapitato dalle pale di un elicottero precipitato per un'avaria durante le riprese dell'episodio affidato a John Landis. Forse in pochi ne sono a conoscenza, ma è il padre dell'ottima attrice Jennifer Jason Leigh. Morrow, complici i suggerimenti di Frank Kowalski, plasma un western peckenpachiano dal buon ritmo (specie nell'ultima parte), ma dalle grandi pause. La storia non è nuova, eppure è portata avanti in modo personale ed elegante. Innanzi tutto non ci sono personaggi positivi. Il protagonista (James Garner) è un rapinatore che mette su una banda di manigoldi per tentare un colpo all'apparenza impossibile. La caratterizzazione del protagonista è ben resa da uno sfogo con cui lo stesso reagisce alle perplessità avanzate dai suoi uomini: “È l'ultima occasione questa. Non voglio passare la mia vecchiaia nella ca1132 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

setta col prato davanti e la cara donnina che fa i biscotti, mentre io ingiallisco come le foglie degli alberi d'autunno. Io voglio andarmene con una pallottola in fronte o una corda al collo!” Messo su da un vecchio (John Marley), l'uomo si convince a mettere le mani su un carico d'oro, del valore di 300,000 dollari, custodito in un carcere di massima sicurezza. Organizza così il proprio arresto e la conseguenziale fuga atta a rapinare il carico. L'operazione riesce, ma l'ingordigia e l'avarizia del gruppo porterà il protagonista a sottrarre l'intero carico ai suoi compagni. Alla fine regnerà la morte e il carico andrà perduto. Morrow scrive e gira all'americana. Il copione ha un'impostazione alla Peckinpah, non c'è spazio per l'ironia, per le esagerazioni alla Carnimeo, né per la spavalderia trasteverina. Lo stesso cast artistico ha una forte matrice americana. Agli italiani (Riccardo Garrone su tutti) o ai caratteristi del nostro cinema, come Steffen Zacharias e Wayde Preston, vanno ruoli marginali. Fa eccezione Laura Antonelli, nei panni della donna del protagonista, la quale dichiara di continuo il proprio amore e ricopre di baci Garner, in quello che è un tipico personaggio femminile da western americano. Al secolo Laura Antonaz, originaria di Pola, la Antonelli era all'epoca conosciuta per alcuni caroselli della Coca-Cola e soprattutto per i fotoromanzi. Sledge è il suo ottavo film, dopo aver debuttato ne Il Magnifico Cornuto (1964) di Pietrangeli. Avrà successo negli anni '70 diventando un'icona del cinema sexy grazie al clamoroso successo ottenuto da Malizia (1973) di Samperi, con cui si aggiudicherà addirittura il Nastro d'Argento e il Globo d'Oro e grazie al quale lavorerà in pellicole dirette da Chabrol, Risi e Luchino Visconti. Vincerà un secondo Globo d'Oro con Mio Dio, come sono Caduta in Basso! (1974) di Comencini. Negli anni '80 parteciperà a svariati film comici per andare incontro a un graduale declino che, agli inizi degli anni '90, la porterà a finire in carcere per detenzione di sostanze stupefacenti. Nel tentativo di arginare l'inevitabile decorso degli anni, subirà inoltre gli effetti negativi di un'operazione di chirurgia estetica non riuscita con deturpamento dei lineamenti del viso. Sarà la goccia che la relegherà in una condizione psichica tanto grave da subire svariati trattamenti presso il centro di igiene mentale di Civitavecchia. Una fine indecorosa per una donna che aveva fatto ammattire intere schiere di spettatori per pellicole quali Venere in Pelliccia (1969) di Dallamano, Divina Creatura (1975) di Patroni Griffi e La Gabbia (1985). 1133 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

In Sledge la Antonelli ha un ruolo minore, non ancora presentata quale bomba sexy. Viene messa a disposizione di Morrow da De Laurentis che l'aveva messa sotto contratto facendole sottoscrivere un impegno pluriannuale. Sledge è l'unica apparizione in un western italiano dell'attrice. Lo stesso può dirsi per James Garner, preso dai serial televisivi di successo quale il western Maverick (1957-60), dove recitava col ruolo di protagonista. In seguito avrà grande successo in un altro serial: Agenzia Rockford (1974-80). Al cinema era apparso per lo più da caratterista anche se aveva preso parte al cult La Grande Fuga (1963) di John Sturges e a L'Ispettore Marlowe (1969) di Paul Bogart, proprio nei panni del detective nato dalla penna di Raymond Chandler. Otterrà una nomination all'Oscar con L'Amore di Murphy (1985) di Ritt e avrà un ruolo di un certo peso in Space Cowboys (2000) di Eastwood. Garner offre una prova fisica, col suo tono da bel tenebroso.. Recita senza controfigure, del resto era stato un eroe di guerra in Corea, e si atteggia a vero macho. A fine film stermina l'intera banda, affrontando gli amici-nemici con un braccio steccato con un crocefisso. La morte della donna amata non lo spezza più di tanto, così come non lo frena l'amicizia verso i compagni di avventura. La prova recitativa è più che sufficiente. Gli fanno compagnia John Marley, forse più carismatico, nei panni del vecchio che porterà la morte nel gruppo, insinuando il desiderio di ricchezza nei vari componenti. Di origine russa, quasi sempre impegnato in ruoli da malfattore in fiction televisive e, in misura più ridotta, al cinema. Era apparso nel western Cat Ballou (1963) di Silverstein, avrà un ruolo poi ne Il Padrino (1972) di Coppola e ne La Macchina Nera (1977) sempre di Silverstein. Tra gli altri componenti della banda si segnala inoltre Claude Akins, attore con oltre duecento partecipazioni in film e serial televisivi, tra i quali Un Dollaro d'Onore (1959) di Howard Hawks, Il Ritorno dei Magnifici Sette (1966) di Burt Kennedy, Tentacoli (1977) di De Assonitis, La Fattoria Maledetta (1987) di David Keith. Apparso inoltre in sette episodi di Rawhide (1960-65), in cinque episodi di Laredo (1966-67) e in moltissime altre serie tra i quali Movin'On (1974-76) con il ruolo di protagonista. C'è anche Dennis Weaver, futuro produttore di Duel (1971) di Steven Spielberg. Il cast tecnico è all'altezza della situazione. Si distinguono la fotografia del maestro Luigi Kuveiller e le ambientazioni (le sequenze nel carcere sembrano riprese da un gangster movie) e i costumi. Da evidenziare sotto questo profilo la parte finale ambientata 1134 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

in un paese fantasma in cui si sta svolgendo una processione funebre preludio alla mattanza che si registrerà di lì a poco. Musiche più che sufficienti di Gianni Ferrio, con main theme, Other Men's Gold, intonata dal chitarrista Stefan Grossman. Terminate le riprese Dino De Laurentis impone un montaggio che non va a genio di Morrow che cerca di disconoscere il prodotto. Iniziano così a filtrare strane voci sulla paternità dell'opera. C'è persino chi sospetta che il film sia stato diretto da John Sturges o che comunque quest'ultimo abbia diretto alcune sequenze d'azione. A tal riguardo Roberto Poppi scrive: “da testimonianze sicure il film è opera del solo John Sturges”, poi però si rimangerà la parola dicendo l'opposto. In alcune edizioni circola con la firma dell'aiuto regista Giorgio Gentili, altri invece assicurano che la paternità della pellicola sia ascrivibile a Vic Morrow. Quest'ultima soluzione è quella più verosimile, perché se il film fosse stato girato da Sturges, per ragioni di marketing, il nome di quest'ultimo sarebbe stato indicato a caratteri cubitali. Marco Giusti lo definisce notevole, ma l'opinione non trova tante adesioni fatta eccezione per spaghettiwestern.altervista.org. Imdb.com non gli riconosce il sei in pagella, idem 800spaghettiwesterns.blogspot.it. L'appassionato spagnolo evidenzia una certa irregolarità e una gestione del ritmo non perfetta. Gli altri lo ignorano. Si può vedere, ma non è uno spaghetti-western puro. Cambia produzione Roberto Mauri, l'uomo de La Strage dei Vampiri, pur rimanendo su un basso profilo economico e sempre impegnato con sequel apocrifi. Passa infatti da Sartana nella Valle degli Avvoltoi (1970) a Wanted Sabata (1970), girati l'uno a seguito dell'altro senza soluzioni di continuità. A produrlo, con un copione firmato anche da Palambrogio Molteni, è la Three Stars, così chiamata per il numero dei soci che la compongono. La rappresenta, tra gli altri, l'americano, presumo, Ralph Zucker, precedentemente impegnato negli adattamenti stranieri di alcuni film di Demofilo Fidani e produttore di cinema horror con titoli quali Cinque Tombe per un Medium (1965) e Il Boia Scarlatto (1965) di Pupillo, l'avventuroso Eva la Venere Selvaggia (1968) di Mauri distribuito col furbesco King of Kong Island e una serie spy story, oltre il cultissimo Formula 1: Nell'Inferno del Gran Prix per la regia di Guido Malatesta. Produrrà un altro western minore (altro apocrifo incentrato, questa volta, su Durango) portando nel 1135 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

genere il suo attore feticcio: Brad Harris, qui nei panni di Sabata. Tra i soci figurano poi l'ex attore Walter Brandi - protagonista ne Cinque Tombe per un Medium, e nel nazi-movie di Bruno Mattei Casa Privata per le SS (1977) con cui chiuderà la carriera per proseguire in veste di produttore esecutivo di piccoli c-movie tra cui Aenigma (1986) di Fulci - e Gabriele Crisanti, il più esperto del trio avendo costruito il villaggio western degli studios di Tirrenia. Dal cinema di Zucker arriva l'americano Brad Harris, praticamente sconosciuto in patria e lanciato nel cinema italiano fin dai tempi del peplum con i ruoli di Golia, Sansone ed Ercole nei vari Goliath Contro i Giganti (1961) di Malatesta, Sansone (1961) e La Furia di Ercole (1962) questi di Parolini, regista che dimostra di apprezzarlo non poco chiamandolo anche in altre produzioni. Dal peplum era poi passato ai sauerkraut western di Jurgen Roland e da questi ai primi western di Cardone per poi stabilizzarsi nelle spy story, con qualche parentesi nel paella western, fino alla chiamata della Three Stars. Avrà un futuro nei serial televisivi americani quali Dallas (1984-89) e Falcon Crest (1984-89), supportando Lou Ferrigno nel tardivo Hercules (1983) di Luigi Cozzi. C'è poi il collaudato Vassili Karis, uno che a stazza non scherzava. Mauri sulle prime non lo vuole, gli sembra troppo dandy e perfettino poi si ricrede e lo pretende per tutti i suoi film successivi. Per il resto poca roba, perché il budget è quello che è tanto che ufficialmente viene prodotto dallo scontista delle cambiali della società. Mauri e Molteni cercano di predisporre un taglio giallo. Il protagonista, nulla a che vedere con il Sabata di Van Cleef, viene incolpato di un omicidio che è stato posto in essere da un bounty killer, Jim Sparrow (Karis). Il nostro evade dal carcere e cerca di far luce sulla vicenda, mentre tutti lo cercando per metterlo alla forca con tanto di taglia sulla testa. Chi lo accusa però viene ucciso da un secondo uomo che resta sempre nell'ombra. In città tutti accusano Sabata e la taglia cresce, in realtà artefice degli assassini è il bounty killer che pensa bene di sfruttare a suo favore la situazione consegnando al momento opportuno Sabàta alla legge, ma gli andrà male. Niente di nuovo. Harris non è molto adatto al genere, poco espressivo e legnoso. Spaghettiwestern.altervista.org fa notare come nell'ufficio dello sceriffo, Gino Lavagnetto, compaia appesa alla parete la taglia di El Puro, Robert Woods (non presente in questo film), protagonista de La Taglia è tua l'Uomo l'Ammazzo Io girato dietro casa mia, a Tirrenia. 1136 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Che sia un omaggio dello scenografo Crisanti al suo villaggio western in quel del litorale pisano? Giallone... Il film, in ogni modo, è poco esaltante, si può evitare. “Regia fiacchissima” dice filmtv, eppur quadrata aggiungiamo noi. Mancano idee innovative che si cercano di compensare con sparatorie e scazzottate. Fotografia di Mario Mancini, musiche di Vassili Kojucharov. Girato in Lazio. L'ultimo mese dell'anno vede Leopoldo Savona tentare di cavalcare la cresta dell'onda di pubblico che sta per invadere le sale, ma non sarà lui a sfruttarne la potenza quantificabile in banconote rullate sotto gli occhi degli impiegati del botteghino. Scrive così il suo quarto e penultimo western, coadiuvato dal coproduttore Eduardo Manzanos Brochero, e gli da un titolo piuttosto altisonante: Un Uomo Chiamato Apocalisse Joe (1970), che poi nulla ha a che vedere con l'eroe di turno che si chiama Joe Clifford. Un titolo assurdo che deve la sua ragione all'uscita, in aprile, dell'americano Un Uomo Chiamato Cavallo (1970). Protagonista, confermato da Killer Kid, è Anthony Steffen che bene aveva fatto con Savona e che qua si ripete. Al posto di Sancho arriva invece l'altrettanto esperto Eduardo Fajardo, il resto del cast lascia a desiderare e non ha nomi di spicco. Savona tenta di inventarsi la figura di un pistolero appassionato di Shakespeare che, tra una pistolettata e l'altra, dispensa citazioni letterarie. L'uomo è infatti un attore girovago che ha ereditato una miniera d'oro da uno zio assassinato e che, gioco-forza, si troverà costretto a impugnare le pistole per far valere i suoi diritti. Contro di lui ci sarà un bulletto locale (Fajardo) che cercherà di contrastarlo prima per vie legali, mostrando un atto di vendita che si scoprirà esser stato estorto, poi per vie spicce proprie del far west. Sparatorie a go go, intervallate da travestimenti figli delle doti trasformistiche dell'attore improvvisato pistolero (ma mica tanto improvvisato poi). Steffen si traveste persino da donna, piazzando un candelotto di dinamite in una carrozzina, escogitando poi altre diavolerie. Inferiore a Killer Kid, ma non malaccio. Savona è meno brillante, ma Steffen salva baracca e burattini, forte di una caratterizzazione alquanto bizzarra. Interminabile resa dei conti finali, lunga quasi mezz'ora, che si concluderà con Fajardo lanciato nelle fiamme e inquadratura sul volto impassibile di Steffen che, tutto sommato, preferirà ritornare alla sua vita di attore piuttosto che godersi i proventi della 1137 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

miniera (!?). Belle le musiche dell'allievo di Morricone Bruno Nicolai. Non un must, ma si può vedere. 10.4 Sulla via dei Fagioli Western. A dicembre escono due film che vedono per protagonista Terence Hill; il primo viene proiettato la prima settimana del mese e passa quasi inosservato, il secondo invece trova spazio la settimana di natale e ha un successo inatteso che lo porta a essere il secondo film più visto della stagione dietro a Ultimo Tango a Parigi. Sarà proprio questo secondo western a segnare la strada che prenderanno molti dei film successivi. Vediamo qui di seguito le schede. LA COLLERA DEL VENTO Produzione: Italia e Spagna, 1970. Prodotto: Mario Cecchi Gori (Fair Film), Cesàreo Gonzàles. Regia: Mario Camus. Soggetto: Manuel Marinero. Sceneggiatura: Manuel Marinero, Valerio Zurlini, Mario Camus, Mario Cecchi Gori, Alberto Silvestri, Franco Verucci, Miguel Rubio, José Vicente Puente. Interpreti Principali: Mario Girotti (Terence Hill), Maria Grazia Buccella, Fernando Rey, Mario Pardo, Màximo Valverde. Fotografia: Roberto Gerardi. Musiche: Augusto Martelli. Sottogenere: Politico. Durata 97 min. Giudizio Mancini: *** Giudizio Morandini:** La trama Siamo nelle campagne dell'Andalusia del primo '900. I divari sociali sono netti. Da una parte i ricchi proprietari terrieri che controllano un intero paese, dall'altra i contadini sfruttati e maltrattati dai latifondisti. Ma c'è aria di cambiamento, i contadini stanno pensando di mettere in atto una rivolta e attendono l'arrivo di un misterioso uomo che possa organizzarli e dirigerli. Per placare i moti sul nascere 1138 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

e dare un forte segnale di deterrenza, Don Antonio (Fernando Rey), ovvero il più potente tra tutti i proprietari della zona, ingaggia due mercenari per uccidere i leader di un'organizzazione sindacale clandestina che ha proclamato uno sciopero di braccianti che ha avuto l'adesione di tutti i lavoratori della terra. Uno dei killer (Terence Hill), scambiato da alcuni come l'uomo atteso dai contadini, va a pernottare nella locanda della donna (Buccella) corteggiata dal prepotente figlio maggiore (Valverde) di Don Antonio. Il giovane difende la donna prendendo a pugni lo sgradito corteggiatore e si innamora di lei in modo talmente forte da schierarsi dalla parte dei contadini. L'altro killer (Mario Pardo) invece, andando su tutte le furie per l'imprevedibile comportamento del fratello, decide di rispettare l'impegno preso e uccide pubblicamente uno degli uomini indicati da Don Antonio. Il gesto però è talmente plateale da spingere quest'ultimo a far uccidere il killer, onde evitare di inasprire i rapporti con i contadini. Questo però manda su tutte le furie il fratello che metterà in atto una tremenda vendetta trasversale dagli esiti drammatici per tutti. Il commento Western spagnolo in tutto e per tutto, se non fosse per la compartecipazione decisiva di Mario Cecchi Gori nella produzione. Spagnoli infatti sono il regista, l'autore del soggetto, tutto il cast artistico a eccezione dei due protagonisti, l'ambientazione della storia, comunque da considerarsi western per l'intelaiatura scelta, e la tipica piega melodrammatica assunta dal film tanto da dare l'impressione che dietro al progetto ci siano i fratelli Marchent. È Cesàreo Gonzàles, a cui Mario Camus si era rivolto per la realizzazione di un film di tutt'altro genere, a volere questo pseudo western. Come già capitato ad altri registi di stampo autoriale, Camus si vede costretto a sottoscrivere un accordo per due film il primo dei quali dovrà essere un western. Sebbene il nome possa far pensare a un italiano di origine tedesca, Camus è di Santander ed era entrato nel mondo del cinema sulla soglia dei trent'anni, nei primi anni '60, dapprima come sceneggiatore poi come regista di melodrammi e sentimentali strappa lacrime. Quando si rivolge a Gonzales, sebbene sia operativo da appena sei anni, vanta già quattordici film. Tra questi si era distinto, sotto il profilo commerciale, col drammatico Soledad (Chi può Condannarla?) (1970) con Ivan Rassimov protagonista, e 1139 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

col film sul calcio, che in Italia giungerà con sei anni di ritardo, Grazie Amore Mio (1967). Aveva inoltre già ottenuto una nomination alla Palma d'Oro del Festival di Cannes grazie a Con el Viento Solano (1966). In seguito si specializzerà negli adattamenti cinematografici di testi letterari di scrittori e drammaturghi spagnoli (tra i quali Garcia Lorca e il Premio Nobel Camilo J. Cela), ottenendo un numero impressionante di riconoscimenti nazionali e internazionali, tanto da diventare uno dei registi di punta del cinema iberico con pellicole contro il capitalismo e altre sul terrorismo dell'ETA. In Italia i suoi film non avranno gran fortuna anche a causa della scelta di girare opere dal forte legame con la storia sociale spagnola. Girerà, tra gli altri, L'Alveare (1982), premiato con l'Orso d'Oro al Festival di Berlino e ambientato in Spagna negli anni della seconda guerra mondiale, e Los Santos Inocentes (1984), premiato con la Menzione Speciale della giura del Festival di Cannes e considerato tra i migliori film spagnoli del secolo scorso. Otterrà infine altri premi e nomination internazionali (Argentina, Belgio, Stati Uniti, Unione Sovietica e Cuba) con un'altra dozzina di pellicole, considerate comunque inferiori alle sopracitate. Inevitabile il riconoscimento del Goya alla carriera rilasciatogli nel 2011 e peraltro già vinto, quale miglior sceneggiatore, con Sombras en un Batalla (1993). Dunque un regista di un certo peso che si affaccia al western più per costrizione che per un vero e proprio interesse. Anzi, diciamola senza mezzi termini: a Camus di fare un western non andava per nulla a genio e infatti confeziona un ibrido. Il soggetto lo firma un ventisettenne di Zamora, Manuel Marinero, che debutta al cinema dopo aver scritto e diretto due cortometraggi. Sebbene Marco Giusti suggerisca, nel suo Dizionario del Western all'Italiana, che si tratti dello sceneggiatore di fiducia di Camus ciò non corrisponde a realtà. Marinero è al suo primo copione e scriverà i dialoghi solo di un altro film di Camus, lavorando poi con altri registi spagnoli senza lasciare un'impronta particolare e senza dedicarsi al cinema di genere. Negli anni '80 godrà di un po' di fortuna scrivendo i copioni di un pugno di tv movie ispanici. Il vero sceneggiatore di Camus, che il regista trascina con sé nel progetto, è Miguel Rubio. Anche per lui si tratta dell'unica escursione nel western. In precedenza si era fatto le ossa con i documentari diretti da José Luis Borau, un poker di film di Camus e altrettanti di altri 1140 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

registi spagnoli. Stranamente, a parte un film girato a fine anni '70, interromperà la collaborazione con Camus per riprenderla nel 1997, dopo quindici anni di inattività assoluta, con il premiato El Color de las Nubes. Per il resto farà ben poco di interessante, peraltro quasi mai importato nei nostri territori, anche se viene indicato come sceneggiatore non accreditato del sopravvalutato horror Non si Deve Profanare il Sonno dei Morti (1974) di Jorge Grau. L'obiettivo di questo terzetto spagnolo, a cui poi si aggiunge il semisconosciuto José Vicente Puente, è quello di nazionalizzare il western voluto dalla produzione per farne un qualcosa di incentrato sulle lotte dei contadini spagnoli del primo novecento. In altre parole, si punta a realizzare un film storico nazionale dandogli l'intelaiatura western, un po' come si faceva in Italia con i protowestern. Al progetto, seppur non accreditato, partecipa anche il celebre Valerio Zurlini. Il prestigioso regista viene chiamato da Goffredo Lombardo, che intanto prende accordi con la produzione spagnola per entrare nell'affare. Si tratta di due nomi di altissimo valore. Goffredo Lombardo era un grande produttore tanto da essersi aggiudicato due Nastri d'Argento per l'intera produzione nel 1960 e nel 1963 nonché due nomination nel 1961 e nel 1962 oltre a vari David di Donatello vinti con film quali Pane, Amore e... (1955) di Dino Risi, Rocco e i suoi Fratelli (1960) e Il Gattopardo (1963) entrambi di Visconti. La presenza di Zurlini da subito un grosso lustro al progetto che prende le mosse con la prospettiva di diventare uno dei più grandi film spagnoli. Regista e sceneggiatore di apprezzatissimi film d'autore che gli erano valsi, tra gli altri, un Nastro d'Argento per la sceneggiatura di Guendalina (1957); ne vincerà un secondo con Il Deserto dei Tartari (1976) con cui chiuderà la carriera impreziosita anche in virtù di un David di Donatello e di un Leone d'Oro del Festival di Venezia vinti con Cronaca Familiare (1963), oltre a svariate nomination tra cui La Palma d'Oro di Cannes con La Ragazza con la Valigia (1961). Zurlini sposa il progetto dei colleghi e conferisce allo script una forte impronta politica. Mette in bocca ai contadini stralci di brani ripresi da volumi anarchici e marxisti del primo novecento e collabora soprattutto con Rubio, tuttavia, quando il progetto è già in stato avanzato e si comincia a pensare ai protagonisti, Lombardo si tira indietro e lascia nel marasma Gonzales. Per fortuna del produttore subentra niente meno che Mario Cecchi Gori, al suo debutto nel genere ma con 1141 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

già alle spalle un'esperienza di quindici anni fruttati una quarantina di pellicole, molte delle quale dei capolavori del cinema italiano, un David di Donatello ottenuto con Il Tigre (1967) di Dino Risi come migliore produzione e una nomination al Nastro d'Argento per la medesima ragione con L'Armata Brancaleone (1966) di Mario Monicelli. Tra i vari film prodotti si segnalano anche Il Sorpasso (1962) e I Mostri (1963) di Risi, per una produzione complessiva votata soprattutto al cinema comico e a quello più impegnato firmato dai vari Risi (prodotto otto volte), Monicelli, Scola e Salce. Cecchi Gori proseguirà la carriera finanziando le principali pellicole di denuncia di Damiano Damiani, con cui stringerà un lungo sodalizio, spostando presto il proprio interesse sul cinema comico commerciale di facile successo (produrrà quasi tutti i film più noti del settore) dei vari Castellano & Pipolo, Carlo Verdone, Neri Parenti e Carlo Vanzina per un totale di centocinquanta film. Non produrrà altri western e sarà poco interessato al cinema di genere (comico escluso), di questo filone segnalo il cult poliziottesco Il Cittadino si Ribella (1974) di Castellari, l'ottimo noir Vai Gorilla! (1975) di Valerii, il sorrisi & cazzotti Altrimenti ci Arrabbiamo (1974) di Fondato, il thriller sadico Opera (1987) di Dario Argento, e gli horror diabolici La Chiesa (1989) e La Setta (1991) entrambi di Michele Soavi. Vincerà quattro volte il Nastro d'Argento come miglior produttore (1972, 1982, 1989 e 1991) e un David di Donatello alla carriera nel 1990. Morirà all'età di settantadue anni nel 1993, lasciando la società e un vero e proprio impero fatto di cinema e di proprietà (compresa la Fiorentina calcio) in mano al figlio Vittorio Cecchi Gori che però fallirà clamorosamente a metà anni '90. Dunque un produttore che la vede assai lunga ed è molto intelligente. Letto il copione, comincia a temere che il film sia poco esportabile, in quanto poco spettacolare, così pone come condizione per la sua partecipazione la possibilità di operare delle modifiche. In primis pretende Terence Hill, reduce dai successi con Colizzi, e Maria Grazia Buccella come protagonisti. In seconda battuta detta chiare indicazioni per quel che riguarda la caratterizzazione del personaggio di Hill: deve indossare un cappello da pistolero e portare con sé un revolver. Non convinto da questi accorgimenti, fa revisionare l'intero copione a due sceneggiatori di sua fiducia: Alberto Silvestri e Franco Verucci. Entrambi sono sotto contratto con Cecchi Gori per il quale hanno sceneggiato i vari Il Divorzio (1970) di Romolo Guerrieri, Contestazio1142 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ne Generale (1970) di Luigi Zampa nonché un'altra coppia di film. Silvestri lo avevamo già incontrato in occasione di Yankee (1966) di Brass, film con cui aveva debuttato nel mondo del cinema; Verucci, invece, aveva debuttato con Le Due Facce del Dollaro (1969) di Montero, per poi collaborare con Silvestri in una mezza dozzina di film. Proseguirà la carriera soprattutto sul versante comico, firmando i copioni di alcuni cult come Piedone a Hong Kong (1975) di Steno, Cornetti alla Crema (1981) e L'Allenatore nel Pallone (1984) di Sergio Martino, collaborerà inoltre al noir Tony Arzenta (1973) di Tessari. Dalla seconda metà degli anni '80 passerà a lavorare per la tv. Tutti questi stravolgimenti non entusiasmano per nulla Mario Camus. Il regista spagnolo ha la sensazione che si voglia snaturare il suo progetto e arriva sul punto di mandare all'aria il film. Gonzales però lo riporta all'ordine, perché sono già stati spesi un bel po' di soldi e lo convince a girarlo accettando il titolo La Collera del Vento ripreso da Camus da una poesia di Pablo Neruda. Ne esce fuori un cupissimo ibrido dal forte sapore western, sebbene la sua ambientazione sia in Andalusia, un po' come avvenuto con L'Uomo, l'Orgoglio, la Vendetta (1969) di Bazzoni. Gli elementi western sono legati soprattutto alle ambientazioni polverose, a tratti desertiche (anche se, spesso, sembra di essere nelle campagne siciliane dell'ottocento), ai banditi lanciati a cavallo e armati di pistole e fucili, nonché alla presenza di latifondisti avari e prepotenti. Per il resto gli sceneggiatori danno vita a una sorta di gangster movie che ha sullo sfondo la lotta di classe contadina come motore da cui si generano tutti i fatti. Terence Hill è cupo e dannato come mai visto prima e mai si vedrà dopo, anche perché è pronto per ricoprire il ruolo da personaggio scanzonato e guascone di Lo Chiamavano Trinità, che poi monopolizzerà tutta la sua filmografia successiva. Nel film di Camus invece non c'è spazio per l'ironia e per le spavalderie, regna un clima serissimo, disperato, con un epilogo tragico nell'aria. A mio avviso, non suona irriverente considerarlo una sorta di anticipazione western di quei film di denuncia mafiosa che Damiano Damiani porterà in auge, di lì a poco, proprio per conto, guarda caso, di Mario Cecchi Gori. L'atmosfera che si respira, infatti, è più vicina a questi film che a un tortilla western. La sceneggiatura riprende la classica tematica che contrappone i vecchi proprietari terrieri ai propri contadini. Questa volta però c'è 1143 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

uno sforzo di caratterizzazione superiore. I latifondisti non vogliono cedere alle pressione dei lavoratori perché temono di perderne il controllo; questi ultimi invece avanzano delle semplici richieste per ottenere delle migliori condizioni di vita e, per farlo, cercano di darsi una sorta di organizzazione sindacale, organizzano scioperi e cercano di far nascere un'ideologia di lotta. Tale evoluzione, come ovvio, manda su tutte le furie i latifondisti che adottano tecniche di repressione tipicamente mafiose. Gli sceneggiatori inseriscono delle componenti dal vago retrogusto tortilla (con tanto di passaggi estrapolati da libri anarchici e di sinistra del primo novecento), infatti i contadini si ribellano ai padroni spinti da un idealista di passaggio e da un sicario ravveduto (Terence Hill) dall'amore di una locandiera del posto, ma il legame col sottogenere termina subito qui. Camus punta l'attenzione sulla spirale di violenza costituita da regolamenti di conti, omicidi dimostrativi a danno di chi sgarra alle regole, ma anche di chi, pur non essendo contadino (latifondisti filo contadini e componenti della banda del latifondista padrone), rifiuta di rispettare le decisioni prese dal boss. Inevitabile l'infinita serie di vendette e di distruzioni di proprietà altrui, a dimostrazione che dalla violenza nasce solo violenza. Terence Hill dà vita a un antieroe tormentato da un passato da assassino, che sogna una vita normale che mai potrà avere. “Oggi, quando è arrivato, bastava guardarlo negli occhi che ti metteva paura” dirà di lui un contadino. E infatti il suo è un personaggio tetro, cattivo, a causa di un infanzia turbolenta passata in orfanotrofio. “Non ho mai reso conto a nessuno di quel che faccio!” ruggirà alla donna che si è innamorata di lui. “Forse perché non è mai interessato a nessuno” gli risponderà lei, riuscendo a fare breccia nel suo cuore. Così, nonostante non rida mai, lo vediamo confessare il proprio amore per la bravissima Maria Grazia Buccella, ma è un amore senza speranza, destinato a soffocare, perché, come dice Hill, “il passato non si può cancellare”: “Non posso fermarmi perché, quando lo farò, tutto il passato mi sarà addosso di un colpo e allora anche io dovrò pagare il mio debito”. Neppure in Preparati la Bara! Terence Hill era stato tanto crepuscolare e accigliato. Il ruolo del boss mafioso dai modi ricercati ed eleganti, ma che non perita a ordinare omicidi e a ingaggiare killer professionisti, va al grande Fernando Rey. La sua è una performance in linea con gli altri personaggi interpretati nel genere. E come altri soggetti caratterizzati in simil modo, penso all'antagonista di Massacro al Grande Canyon 1144 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di Corbucci, finirà a causa della sua avidità col vedere morire i suoi cari figli. Il film ha un ritmo all'americana: parte in modo lentissimo ma crescente alla distanza, diventando, a poco a poco, sempre più melò. Camus gira in modo essenziale, poco interessandosi dello spettacolo o del mero intrattenimento. E' più interessato allo spessore dei personaggi (che infatti sono tutti ben caratterizzati) e a creare un'atmosfera da tragedia annunciata. Il suo, per così dire, è uno stile alla Marchent che si amplifica quando Hill si troverà a dover vendicare il fratello fatto assassinare da Rey, perché poco accorto nell'eseguire un suo ordine di morte (si era fatto riconoscere da tutti). Qua, siamo verso la fine, il film diviene un vero e proprio revenge movie dove, alla resa dei conti, pagheranno tutti un prezzo assai salato. Le sequenze migliori del film si registrano proprio in quest'ultima fase, Tra esse è degna di nota la sequenza con un Terence Hill impazzito dalla rabbia che da fuoco ai campi di grano, libera le mandrie e distrugge parte delle proprietà di Rey. L'apice però si raggiunge alla fine, all'interno di un vagone di un treno. Vediamo Terence Hill avvicinato da due tipi ben vestiti ma dai volti loschi, che si siedono di fianco a lui. Camus piazza un paio di primi piani su alcuni dettagli, per far comprendere che Hill ha capito di esser stato scoperto, infine mostra uno strano individuo che si intravede dal finestrino mentre passa galoppando. La regia qui è molto ammiccante ed è accompagnata da un montaggio veloce e da una colonna sonora struggente cantata da Augusto Martelli. Camus riesce così a regalare allo spettatore uno dei finali più tragici del cinema western, forse più di quello visto ne Il Grande Silenzio di Corbucci. Un epilogo da vero e proprio antesignano del poliziesco made in Italy, con un Terence Hill che decide di non difendersi perché stanco di vivere una vita che per lui mai potrà avere un senso, cosicché la morte diviene una liberazione. La sensazione viene confermata dal brano cantato da Augusto Martelli, non a caso intitolato Free. Volete un finale più crepuscolare e melodrammatico di questo...? Non credo sia possibile. Da notare le ultime inquadrature che rimandano ad altre che vedranno Michele Placido protagonista, a voi trovarle... I punti deboli del film sono da ricercare in una fotografia retrò di Roberto Gerardi troppo spesso poco curata. Addirittura ci sono alcune sequenze che dovrebbero essere ambientate di notte e che invece sono di giorno (si veda quella in cui Hill rapisce Valverde e lo trascina 1145 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

per i campi dietro al suo cavallo). La cosa è piuttosto stupefacente, perché stiamo parlando di un autore capace di strappare due nomination ai Nastri d'Argento con I Sequestrati di Altona (1962) e Matrimonio all'Italiana (1964) entrambi per la regia di Vittorio De Sica. Dunque un professionista esperto, cresciuto come operatore di macchina in film neorealistici girati nell'immediato dopoguerra e passato poi nel 1957 al ruolo di direttore della fotografia di pellicole impegnate. Dagli anni '70 in poi prenderà una piega discendente finendo inglobato dal cinema più commerciale. Curerà la fotografia de Il Maestro e Margherita (1972) di Aleksandar Petrovic, e stringerà un lungo sodalizio sia con Giorgio Capitani (sette film), sia con Fernando Di Leo per il quale curerà la fotografia di sei tra i film minori del registra tra cui Gli Amici di Nick Hezard (1976) e Avere Vent'Anni (1978). Chiuderà la carriera con Le Comiche (1990) di Neri Parenti, per un totale di settantaquattro film. Non è perfetto neppure il montaggio che denuncia più di un errore nei momenti di raccordo tra una sequenza e un'altra. Buono invece il lavoro del semi debuttante Augusto Martelli, nonostante Mario Camus non lo apprezzi affatto sostenendo che la musica non andava al passo con la storia. Martelli è un figlio illustre, giovanissimo, prima di passare al cinema aveva arrangiato vari brani di Mina di cui era stato anche il compagno. Arriva sul set di Camus dopo aver riscosso un clamoroso successo con la main theme dell'erotico Il Dio Serpente (1970) di Vivarelli. In seguito lavorerà saltuariamente per il cinema anche perché avrà un ruolo importante come arrangiatore di brani di vari cantanti famosi (tra i quali Jovanotti, Gaber, Dorelli, Vanoni) e di altri destinati allo Zecchino d'oro. Realizzerà inoltre l'inno del Milan nonché le musiche di cult di trasmissioni televisive degli anni '80 come Casa Vianello (1988-07). Bim Bum Bam (1983), Ok, il Prezzo è Giusto! (1983) e Il Pranzo è Servito (1982). Dagli anni '80 avrà infine un importante ruolo come compositore di colonne sonore per i cartoni animati, tra i quali i mitici Gatchaman, La Battaglia dei Pianeti (1981) e Holly e Benji Due Fuoriclasse (1986). A inizio del nuovo secolo si troverà implicato in un'indagine contro la pedofilia e verrà condannato per detenzione di materiale pedopornografico. Come aveva temuto Cecchi Gori il film, pur difendendosi in Spagna, fa un clamoroso fiasco e viene distribuito poco in Italia nonostante alcuni tagli, rispetto alla versione spagnola, operati per rende1146 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

re più sollecito il ritmo. Il film resta comunque troppo non convenzionale per solleticare l'attenzione dei distributori che si interesseranno a esso solo dopo il clamoroso successo de Lo Chiamavano Trinità. Si arriverà infatti a rispolverarlo e a spacciarlo come un western comico (!?) dall'improbabile titolo (Non Perdono Nessuno, sono la Collera del Vento), si veda a esempio la locandina dove troneggia un sorridente Terence Hill, e a dargli il titolo internazionale di Trinity Sees Red (Trinità vede rosso), un po' per richiamare il Trinità di Barboni, un po' per unirvi le idee politiche di sinistra che caratterizzano il lavoro. Qualche genio della distribuzione, timoroso che il finale tragico potesse in qualche modo disturbare i fan di Terence Hill, arriverà persino a proporre di tagliare l'epilogo: è troppo scioccante e poi l'eroe non può morire... Per fortuna questi soggetti non saranno assecondati, anche perché, lo ripeto, l'epilogo è in perfetta sintonia con l'andamento crescente della storia. Un finale diverso, cioè l'happy end americana, avrebbe rovinato tutto. Gli appassionati del genere dei giorni nostri lo ricordano con affetto. Per Marco Giusti non era affatto male, anche se non prendeva né il pubblico del cinema d'autore né quello del western. Carlos Aguilar non apprezza i due protagonisti, giudicandoli poco espressivi, e reputa confusa e poco convincente la trama. È una storia molto interessante con personaggi ben sviluppati e ben interpretati, anche se non è un western classico dice giustamente il blogger spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it. Non sono affatto d'accordo con spaghettiwestern.blogspot.it, secondo il quale il film peccherebbe un po' nel finale della storia. Per il resto il sito parla di uno splendido e struggente film anche se non consigliabile a chi cerci western con personaggi dalla pistola facile. Lo bocciano filmtv.it che gli da due stellette e lo bolla come eccentrico, e il Morandini che invece lo definisce molto grezzo. Imperdibile per chi apprezza i western melò. Per gli amanti delle citazioni: Il passato non si può cancellare; per questo non posso fermarmi, perché, quando lo farò, tutto il passato mi sarà addosso di un colpo e allora anche io dovrò pagare il mio debito.

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LO CHIAMAVANO TRINITÀ Produzione: Italia, 1970. Prodotto: Italo Zingarelli (West Film). Regia: Enzo Barboni (E.B. Clucher). Soggetto e Sceneggiatura: Enzo Barboni. Interpreti Principali: Mario Girotti (Terence Hill), Carlo Pedersoli (Bud Spencer), Farley Granger, Remo Capitani, Dan Sturkie, Steffen Zacharia, Luciano Rossi, Ezio Marano, Gisela Hahn, Elena Pedemonte, Riccardo Pizzuti, Michele Cimarosa, Alberto Dell'Acqua. Fotografia: Aldo Giordani. Musiche: Franco Micalizzi. Sottogenere: Fagioli western. Durata: 117 min. Giudizio Mancini: *** Giudizio Morandini: **1/2 La trama Trinità (Hill), di ritorno dal deserto, entra in un piccolo paese dove trova suo fratello (Spencer), noto razziatore di stalloni, in veste di falso sceriffo. Bambino, questo il soprannome dell'uomo, ha infatti rubato la stella al vero sceriffo e si è sostituito allo stesso all'arrivo in paese. I due iniziano a collaborare in supporto a una comunità di mormoni minacciati da un maggiore (Granger) a capo di un manipolo di manigoldi. Il maggiore vorrebbe cacciare dalla valle i mormoni per appropriarsi delle terre occupate dagli stessi e farvi un terreno di pascolo per i propri cavalli. Trinità vuol aiutare i poveretti, perché si è innamorato di due ragazze (Hahn e Pedemonte) che fanno parte della comunità; il falso sceriffo invece, sta attendendo due suoi uomini, Timido (Rossi) e Faina (Marano), con i quali conta di rubare i cavalli del Maggiore e cerca, nel frattempo, di aiutare i mormoni per evitare che intervengano i ranger, in modo che questi non gli rovinino i piani delinquenziali. Resa dei conti finale. Il commento. Seconda grande svolta nello spaghetti-western dopo la rivoluzione operata da Sergio Leone. Protagonista assoluto è l'ex direttore della fotografia di Django, Enzo Barboni, il quale dopo aver debuttato alla regia con Ciakmull (1970), cerca di vendere il suo primo copione 1148 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

scritto un paio di anni prima. Si tratta di un western votato alla commedia e all'ironia, più basato sui dialoghi e sulle battute piuttosto che sulle sparatorie e sui morti. L'idea gli viene suggerita da un colloquio avuto con Bud Spencer incentrato su un copione venduto da Ernesto Gastaldi al produttore Alfonso Sansone e lasciato chiuso in un cassetto. Barboni, convinto che la società di Sansone sia fallita, prenderà forte ispirazione dalla storia raccontata da Spencer, tanto che quest'ultimo qualche anno dopo, per evitare grane giudiziarie, si troverà costretto a interpretare un film per Sansone quasi a titolo gratuito, intitolato Si può Fare... Amigo! (1972). Gastaldi dirà infatti all'amico Jan Svabenicky di aver scritto tutto il copione di Trinità e di averlo ceduto alla produzione Sansone-Croscicki. Probabilmente più che il copione la questione verte sul soggetto, con Barboni che ha il merito esclusivo di aver spinto il tutto sul versante della commedia. Dico questo perché il soggetto iniziale prevedeva un sol protagonista, un soggetto un po' ozioso ma assai abile con la pistola che va in giro a difendere i più deboli. Lo potremmo definire un'evoluzione in salsa western di Robin Hood. Barboni cerca in tutti i modi un produttore che possa accettare la sfida di un western nuovo, propone il copione anche a Manolo Bolognini con cui aveva fatto il precedente film, ne parla con Luigi Montefiori e Pietro Martellanza, proponendo loro i ruoli centrali della storia. Montefiori però legge il copione e sconsiglia a Bolognini di investire capitali su quella storia. “È una boiata” confesserà poi di aver detto, per le ire successive di Bolognini che si accorgerà di aver perso un'occasione ghiotta per fare cassa. Nessuno sembra voler fare il film, anche Franco Nero, a cui viene fatto leggere il copione, non ne è affatto entusiasta. “Qui si parla troppo, si spara poco... non farà una lira!” è la sentenza che Barboni si sente ripetere in continuazione. Alla fine si rivolge all'amico Italo Zingarelli che vede nel copione qualcosa di positivo, suggerisce qualche piccola modifica come l'introduzione di una spalla al protagonista e propone Bud Spencer e Terence Hill come attori principali. Zingarelli arriva infatti da Un Esercito di Cinque Uomini (1969) e ha i due attori sotto contratto, si porta inoltre dietro il fido Roberto Palaggi quale produttore esecutivo e gli affida il compito di mettere su un buon cast artistico. Dopo mesi di lotte, Barboni può così toccare il cielo con un dito, anche perché riceve carta bianca dalla produzione e soprattutto una 1149 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

coppia di attori già svezzata da Giuseppe Colizzi con una trilogia piuttosto fortunata ma non ancora di grandissimo successo. Un know out molto importante da cui partire, anche se sarà con questa pellicola che Bud Spencer e Terence Hill si affermeranno su scala mondiale. I capitali non sono molti, si gira nei dintorni di Roma e di L'Aquila (nei pressi di Camerata Nuova), quasi tutto in esterni o in locali di fortuna, eppure questo non si nota. Viene ingaggiato un attore di rilievo internazionale: l'americano Farley Granger, conosciuto soprattutto per aver avuto parti in Nodo alla Gola (1948) e L'Altro Uomo (1951), entrambi diretti da Hitchcock, ma anche in Senso (1954) di Visconti. Infine si plasma quello che diverrà un nuovo sottogenere ovvero il fagioli western. Il nome è dovuto al prologo di questa pellicola, dove vediamo Terence Hill (per la prima volta doppiato da Pino Locchi in sostituzione di Sergio Graziani) divorare una teglia di fagioli, tra rutti e interi boccali scolati tutti d'un fiato, mandando via l'oste e pretendendo l'intera teglia in luogo della convenzionale porzione riservata ai clienti. Per rendere più verosimile la scena, si narra che Hill digiunò per ventiquattro ore prima di poter ingozzarsi a sazietà dietro l'occhio vigile della macchina da presa. Non di secondaria importanza è il look di questi soggetti, in particolare di Trinità. Lo vediamo farsi trascinare su una specie di slitta (è un travois indiano) agganciata a un cavallo a mo' di sulky sprovvisto di ruote. Polveroso, con una calzamaglia lercia piena di buchi, la pelle del volto talmente sporca da renderlo olivastro. Persino il cavallo è coperto di fango e di terra. Non a caso quando l'aiutante dello sceriffo lo farà lavare in una tinozza commenterà: “Era dallo straripamento del Pecos che non vedevo tanta sporcizia!” Trinità, in tutta risposta, dopo essersi pulito si rimetterà la calzamaglia sporca, non avendo alcuna cognizione della pulizia. Eppure, sebbene abbia tutta l'aria di essere un accattone vagabondo, si tratta di un personaggio tanto letale quanto burlone. Spara ai rivali che ha alle spalle senza nemmeno guardare, è capace di estrarre e rinfoderare la pistola in modo così veloce da ubriacare chi guarda. Atteggiamenti che gli sono valsi il soprannome de la mano destra del diavolo. “Dicono che sei un fulmine con la pistola, è vero?” gli chiede un bounty killer; lui, da canaglia, risponde in modo divertito: “Dicono così?” e poi spara all'uomo senza neppure voltarsi per vedere dove mirare. Barboni è molto bravo a curare le caratterizzazioni dei personaggi, ma soprattutto scrive dei dialoghi e studia una messa in scena con 1150 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

soluzioni scenografiche surreali che si notano fin da subito e che rendono Lo Chiamavano Trinità un film nuovo. Lo stesso titolo scelto darà vita a una serie di film che giocheranno sul nomignolo collegato alla religione, si pensi su tutti alla saga Spirito Santo. Abbiamo detto del bizzarrissimo modo di Trinità di andare a cavallo, ma non passa neppure inosservata la mucca che si trova a pascolare sopra il tetto della bettola dove Trinità va a rifocillarsi. E che dire poi del messicano ubriacone che il protagonista sottrae dalle grinfie di due bounty killer? “Mia moglie stava al fiume, signor, un gringo l'aggredì” inizia a ripetere il piccoletto “avevo il coltello, lui mi guarda con gli occhi spalancati e muore... Nel cadere avrà battuto la testa, io gli ho dato solo qualche coltellata...” Tutto questo è solo l'inizio, poi viene presentato il secondo personaggio principale, Bambino, ovvero la mano sinistra del diavolo. Trinità lo trova mentre viene sfidato da tre delinquenti. Bambino, anche lui strafottente ma meno attaccabrighe, non li guarda nemmeno, è intento a leggere il giornale. “La legge è legge e per quanto strano possa sembrarvi deve esser rispettata” sbuffa, essendo lui il primo a infrangerla, dal momento che la stella che ha sul petto l'ha rubata al vero sceriffo. Quando poi deve interrompere la lettura, si vede passare davanti il fratello che lo guarda con il sorriso dipinto in faccia, frapponendosi tra lui e i banditi. Bambino è già lì che si dispera, perché capisce che il fratello verrà a rompere gli equilibri del paesotto dove lui ha già pensato di mettere a segno un colpo. Per i tre non c'è speranza, vengono abbattuti con una pallottola in pancia. Di culto la sequenza successiva in cui Bambino e Trinità estraggono il proiettile che il messicano ubriacone ha nel braccio. Bambino sterilizza il coltello da usare nell'operazione, lo passa sul fuoco, ci versa sopra del liquore, poi se lo passa sulla maglia lercia (!?) e lo conficca nella ferita del messicano facendo poi estrarre la pallottola da Trinità che inserisce le dita polverose nella ferita. Quando si dice l'importanza di una sterilizzazione...! Dunque a fare la differenza non è tanto il soggetto che, alla fine dei conti, ripropone sempre il tema dei bulli che si schierano contro gli agricoltori (nella fattispecie dei mormoni che rigettano ogni forma di violenza) e in favore dei quali interverranno dei pistoleri che si troveranno a passare per caso in paese. Il merito di Barboni sta nell'aver introdotto una fortissima componente di ironia, di gag surreali e di battute che regalano sorrisi senza cadere nel demenziale e mantenen1151 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

do sempre un registro da western serio con caratterizzazioni da comico. “Ma non hai uno scopo nella vita” inizia Bambino, con fare da fratello maggiore che fa la paternale alla pecora nera della famiglia. E fin qui tutto bene se non fosse che Barboni trasforma subito il discorso in una farsa: “ruba del bestiame, assalta una diligenza, rimettiti a giocare: una volta eri un ottimo baro. Ma fa qualcosa...” Trinità invece si diverte a indisporre il Maggiore prendendo a sberle gli uomini dello stesso, dei bulletti poco svegli, per poi far chiamare il fratello e, senza neppur muover un dito, lasciarglieli stendere a suon di cazzotti. “Erano solo in cinque.” Una soluzione quest'ultima che si ripeterà nei successivi film della coppia, con Spencer che piazza il suo classico “colpo a martello” sulla testa dei malcapitati che cadono giù come sacchi di patate. Memorabile, al riguardo, la scazzottata che vede protagonista il grande Remo Capitani, nei panni del desperado Mescal. Quest'ultimo è un personaggio alla Fernando Sancho, un possente messicano a cui però non interessa la rivoluzione. Il suo fine è delinquere, perché il lavoro è umiliante mentre rubare e razziare genera emozione: “Lavorare per essere pagati è umiliante, meglio rubare: c'è più emozione”. Poi tra un assalto e un altro, Mescal si diverte a rompere le scatole ai mormoni, pretendendo di trovare al suo arrivo vino e arrosto. Richiesta che non può essere accondiscesa con Mescal che, ogni volta, si alza, sbraita in modo scomposto, e prende a schiaffi i vari commensali, arrogandosi il diritto di esser l'unico a poterlo fare. “Questo mi è nuovo, non l'ho mai picchiato” commenta, pensando di avere davanti uno dei mormoni della valle. Capitani tira uno schiaffo a Bud, occasionalmente presente con il cappello dei mormoni perché giunto sul posto prima di Mescal. Bud non si sposta di una virgola. Passa qualche secondo e poi parte il colpo del martello che fa cadere Capitani. Il caratterista romano si tuffa a terra facendo scoppiare l'ilarità della troupe: “Ahò, sembri un piccione morto!” Si rialza, chiama un suo uomo e gli dice: “Picchialo!” Il peone si avvicina, ma intimorito dalla stazza di Bambino gli fa una carezza. Bambino resta fermo, passa qualche secondo e via con un altro colpo su Capitani che ricade a mo' di piccione morto. “Andiamo via... andiamo via” commenta, per la soddisfazione del capo mormone che pensa che il tutto si verifichi per volontà divina. “Questi fratelli appartengono a un'altra confessione religiosa e osservano la legge biblica occhio per occhio, dente per dente.” A dar corpo a questo personaggio c'è l'americano Dan Sturkie. Si trat1152 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ta di un attore minore pescato dai serial televisivi, che Zingarelli si porta dietro da Un Esercito di Cinque Uomini. Sebbene non goda di particolare fama, è perfetto in quello che è il ruolo più importante della sua carriera. È un mormone classico, pacato con la barba lunga, che ripudia ogni forma di violenza, cita testi religiosi e fa proselitismo. Simpatica però l'eccezione finale in cui concede una dispensa ai componenti della propria comunità: “C'è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per amare e uno per odiare, c'è un tempo... Fratelli, qui dice che c'è anche un tempo per combattere e per vincere...!” Il Maggiore, l'antagonista numero uno del film, scocciato degli affronti subiti arriva a ingaggiare due sicari (Antonio Monselesan, maestro d'armi nonché noto allenatore di pugilato, e l'americano Dominic Barto, stuntman spesso presente nei film di Bud Spencer), perché è disposto a spendere qualsiasi somma per mettere le mani sulla vallata e soprattutto per eliminare i due falsi sceriffi. Anche questa è una soluzione che sarà ripresa da Altrimenti ci Arrabbiamo, un bossetto a capo di un manipolo di idioti che impossibilitato a risolvere da solo la questione si rivolge a terzi. I due professionisti, assai impostati, vestiti di nero e spacconi, saranno messi in fuga in mutande da Trinità. “Corri, corri... Ha detto dieci secondi!” urla il più espansivo al collega mono espressivo, mentre corrono senza calzoni per il paese. A essere scocciato però è anche Bambino e non lo è solo col Maggiore, che intende rapinare, ma soprattutto col fratello che rischia di farli saltare i piani. Così lo caccia accompagnandolo fuori paese, osservando che guadi il fiume. Giunto sull'altra sponda, Trinità si volta di scatto e spara contro il fucile del fratello spezzandolo in due. “Se avessi voluto restare, sarei restato!” commenta. L'altro, senza battere ciglio, estrae la pistola e colpisce il cappello del dirimpettaio: “Io non lo credo!” Intanto il Maggiore chiude un accordo pure con Mescal, fino ad allora suo nemico, perché lo vede come alleato utile per scacciare i mormoni. Per sua sfortuna però Trinità va a rifugiarsi proprio da questi ultimi perché è rimasto affascinato da due ragazze della comunità. Le due hanno un ruolo di mero ornamento, si tratta della tedesca Gisela Hahn e di Elena Pedemonte. La Hahn viene proposta da Palaggi e accettata subito da Barboni che la conosce quando il film è già avviato. Una semplice occhiata e poi l'okay: “Mi va benone...” La tedeschina accetta felice perché fare un western era un suo sogno. Cerca anche di convincere Barboni a modificare il copione, in modo da pre1153 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

vedere una scena dove possa sparare, ma niente. La Hahn era già apparsa in un pugno di prodotti tedeschi con ruoli marginali, ma anche in Agente Joe Walker Operazione Estremo Oriente (1966) di Parolini. In seguito avrà ruoli in una dozzina di B-Movie, tutti secondari, tra i quali Viva la Muerte... Tua (1971) di Tessari, I Padroni della Città (1976) di Di Leo, Contamination (1980) di Cozzi e Banana Joe (1982) di Steno. È addirittura più limitato il curriculum della diciottenne Pedemonte, con tre soli film all'attivo e un passato da conduttrice radiofonica. Il ruolo che la renderà più “famosa” sarà quello di moglie di Celestino ne Il Presidente del Borgorosso (1970), dopo di che uscirà dal mondo dello spettacolo dopo un solo anno di attività facendo perdere le tracce. Le due ragazze sono protagoniste della sequenza sul fiume che culmina col bagno con Hill sotto la cascata (siamo alle cascate di Monte Gelato, vicino a Roma) e la promessa di matrimonio, dal momento che i mormoni prevedono la poligamia. È per merito di queste due ragazze che Trinità decide di rimanere nella comunità di Tobia, il capo mormone, cercando di organizzare una difesa per respingere il Maggiore. “Accettiamo quello che ci manda il Signore” salmodia il vecchio e Trinità, col suo sarcasmo peraltro subito recepito dalla volontà divina, risponde: “Beh, se ci mandasse due o tre pistoleri in gamba...” ed ecco che in campo lunghissimo vediamo arrivare Timido e Faina. Sono stanchi e affamati, alla stregua di due banditi che hanno attraversato il deserto con i ranger alle calcagna. Il primo, interpretato da Luciano Rossi, si chiama così perché sta sempre con la testa bassa e rifugge dagli sguardi altrui. È abile soprattutto nel tirare i calci. Faina invece è un subdolo che usa l'astuzia e che si muove in modo furtivo, lo dimostrerà quando andrà a stanare la spia inviata da Mescal, il “famoso” Emiliano interpretato dal caratterista Thomas Rudy (probabile pseudonimo), tagliandogli0 il sottopancia della sella del cavallo per poi ridergli in faccia nel vederlo cadere a terra. A dar corpo a faina c'è Ezio Marano, attore teatrale forgiato da Giorgio Strehler e da poco prestato al cinema. Quando Zingarelli lo ingaggia, portandoselo dietro da Una Prostituta al Servizio del Pubblico e in Regola con le Leggi dello Stato (1970), ha all'attivo tre pellicole sebbene abbia più di quarant'anni. Proseguirà la carriera per tutti gli anni '70 con ruoli di supporto, soprattutto in B-Movie, lo ricordiamo nei thriller La Tarantola dal Ventre Nero (1971) di Cavara e Una Lucertola dalla Pelle di Donna (1971) di Fulci, in un paio di western di Siciliano, nell'autoriale La Classe Operaia va in Paradiso 1154 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

(1971) di Petri e in cult quali La Belva col Mitra (1977) di Grieco e I Due Superpiedi quasi Piatti (1977) di Barboni. Tra i suoi ultimi film si segnala Ginger e Fred (1985) di Fellini. Timido e Faina sono i due uomini che sta attenendo Bambino. Trinità decide così di tirare l'ennesimo colpo mancino al fratello e lo convince a farsi aiutare per cacciare il Maggiore dal paese, in cambio della sua promessa di sposarsi e di mettere la testa a posto. “Tu non devi pensare!” gli urla dietro Bambino, che poi farà esattamente quello che suggerisce Trinità senza dare la soddisfazione a quest'ultimo circa la congruenza e l'opportunità di quanto affermato. È una situazione che diventerà tipica dell'intera filmografia della coppia. Bud in veste di apparente leader del duo e Hill a fare da rottura agli schemi e da mente “occulta” del duo. I quattro si metteranno a collaborare, aiutati anche dall'assistente di Bambino, ovvero Jonathan Swift (omaggio di Barboni a uno dei suoi scrittori preferiti?) rappresentato da Steffen Zacharias (manderà fuori rotta il vero sceriffo che è alla caccia di Bambino e della sua banda, curiosa e burlonesca la quota offerta per chi catturi Bambino: 200 dollari!?). Zacharias, attore nativo di Amburgo, viene portato nel film da Bud Spencer col quale aveva già lavorato ne I Quattro dell'Ave Maria (1968) e in Un Esercito di 5 Uomini (1969). Quando arriva al film ha quarantatré anni anche se ne dimostra una decina di più. Era stato lanciato proprio in Italia, con ruoli di supporto. Proseguirà su questa via prendendo parte a svariati spaghetti-western, tra cui ...E poi lo Chiamarono il Magnifico (1972), oltre ad Anche gli Angeli Mangiano Fagioli (1973) di Barboni, per poi emigrare negli Stati Uniti per prendere parte, dalla seconda metà degli anni '70, ai serial televisivi americani tra cui Kojak (1974), La Casa nella Prateria (1975) e Dallas (1979). Avrà poi ruoli da comparsa in Scusi, Dov'è il West? (1979) di Aldrich e ne Il Giustiziere della Notte II (1982) di Winner. Zacharias ha un ruolo di supporto che incarna benissimo, con la sua simpatia e le sue battute cariche di ironia. Supporta il duo di fratelli e soprattutto fa da balia al messicano ubriacone, l'ottimo Michele Cimarosa (beve e farnetica per tutto il film), fratello del più famoso Tano e prossimo a passare sul set del Homo Eroticus (1971). Il plotoncino, così formato, razzierà i cavalli del maggiore e organizzerà la ribellione dei mormoni, provvedendo a un allenamento intensivo degli stessi in vista della scazzottata generale finale. Un training a base di agilità, potenza, astuzia e acrobatica. 1155 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

“Avete perso la battaglia, Maggiore, da quando siete sceso da quel colle” profetizza Tobia a un incredulo Granger, sceso a capo dei suoi uomini e di quelli di Mescal, e deciso a distruggere il campo dei mormoni. Il maggiore è sicuro e non lo nasconde, rispondendo nel suo aplomb cinico e auto ironico da perfetto britannico. “L'opinione degli altri, anche se sciocca, deve esser rispettata e io non violerò certamente le regole delle buone maniere. Jeff, vuoi distruggere la casa, prego...” Quindi, tirandosi i baffetti da nobile, vestito da cavallerizzo da fine ottocento, si poggia a una carovana e si appresta a gustarsi lo spettacolo della distruzione del campo, ma succede qualcosa... c'è una specie di vespa sul collo, anzi no... non è proprio una vespa. “Jeff, tornate indietro. C'è stata una modifica nei miei piani... Dobbiamo rispettare i principi di queste brave persone, noi siamo in casa loro, posate subito le armi.” Lo stuntman Riccardo Pizzuti (celebre caratterista presente in quasi tutti i film della coppia Spencer-Hill) non capisce e chiede se c'è una ragione per l'improvviso cambio di atteggiamento. Granger, con la sua espressione divertita, annuisce, poi sposta il capo e dice: “Ma certo, amico mio, una ragione di piombo” e vediamo uscire da un foro aperto nel telone della carovana una canna di fucile. L'epilogo è in salsa sorrisi e cazzotti e getta le basi per la fortuna della coppia protagonista. C'è inoltre il classico tiro mancino giocato da Trinità al bruto Bambino, ovvero ha fatto marcare tutti i cavalli razziati al maggiore in modo che non possano più essere ceduti ma lasciati come ristoro ai mormoni. Il marchio è l'ennesima burlonata orchestrata da Barboni che utilizza una sorta di libro ovvero “le tavole della legge”, bizzarro contrasto dal momento che sono stati rubati. “Visto cosa può fare la fede?” si compiace Tobia. Bambino, in modo rozzo, non da soddisfazioni al religioso. “Può fare miracoli, specie se la metti in una canna di un fucile!”. Il maggiore viene invitato a trasferirsi nel Nebraska; Mescal e i suoi uomini malmenati per l'ennesima volta e i valori dell'amore e della fraternità ristabiliti, seppur con modi e personaggi tutt'altro che raccomandabili. Ne è una dimostrazione la rabbia con cui esplode Bambino quando si rende conto del giochetto organizzato da Trinità. “Vai al diavolo tu, i tuoi fratelli, le tue sorelle, i tuoi antenati, le tue vacche, il tuo destino e tutto il resto!” quindi si allontana con Faina e Timido, mentre Trinità storce sempre di più la bocca nel sentire l'elogio alla fatica, al sudore, al lavoro che Tobia salmodia per salutare l'ingresso nella comunità del nuovo fratello. Meglio allora tornare a farsi trainare dal cavallo nella polvere, ma so1156 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

prattutto meglio andare a rompere le scatole a Bambino. “Dov'è il nostro nuovo fratello?” dice Tobia, mentre risuona il fischietto magistrale e unico realizzato da Franco Micalizzi. “In California...” ordina Trinità al suo cavallo, sdraiandosi sulla brandina a strascico, dopo aver messo lo sceriffo zoppo (Ugo Sasso) che ricerca la banda sulle tracce della stessa. L'epilogo ci presenta l'occasione per parlare della scelta di Franco Micalizzi quale autore della colonna sonora. È frutto del basso budget a disposizione. Appena trentenne, un passato da tastierista in qualche piccolo gruppo musicale, Micalizzi è quasi al debutto avendo lavorato in appena cinque film di scarso rilievo. Gli viene chiesta la realizzazione di una ninnananna, ma lui fa di testa sua e compone tre-quattro pezzi molto belli, in particolare la main theme, riutilizzata da Quentin Tarantino nel finale di Django Unchained (2012), Trinity, realizzata con la collaborazione di Lally Scott (autore del testo), leader dei Motowns, e cantata dall'italo-australiano Annibale con i Cantori Moderni di Alessandroni. Un pezzo che ancora oggi monopolizza le suonerie dei cellulari di molti appassionati. Nonostante il successo del film, Micalizzi non riesce ad approfittarne e resta confinato in piccole produzioni fino a realizzare le musiche della splendida Bargain with the Devil, colonna sonora dell'horror Chi sei? (1974), e del malinconico L'Ultima Neve della Primavera (1973). Passerà poi al poliziottesco, lavorando soprattutto al servizio di Umberto Lenzi, tanto da diventare il compositore di riferimento del genere con brani (tutti votati al gran ritmo, piuttosto simili e solo strumentali) come quello di Italia a Mano Armata (1976) omaggiato da Tarantino in A Prova di Morte (2007). A fine anni '70 passerà alla televisione, ricoprendo il ruolo di direttore musicale della trasmissione Domenica In, realizzerà poi, sempre per Barboni, le musiche di Nati con la Camicia (1983) e la simpatica What's goin on in Brazil di Non c'è due senza quattro (1984). Sua anche la celebre colonna sonora del cartoon Lupin (1982) cantata da Irene Vioni, pezzo indimenticabile, e quella di Trider G7 (1981). Questi gli ingredienti, a cui deve aggiungersi la fotografia di Aldo Giordani, quasi sessantenne, operatore già in voga prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, solitamente impegnato in commedie o avventurosi (dal 1960) e al debutto nello spaghetti-western. Direttore della fotografia di fiducia di Carmine Gallone, ma anche di pellicole quali Guardia, Guardia Scelta, Brigadiere e Maresciallo 1157 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

(1956) di Mauro Bolognini. Giordani, ormai, è a fine carriera, lavorerà in un'altra mezza dozzina di film, tra cui il sequel di Trinità, chiudendo la carriera con la miniserie Orzowei (1977). Il suo è un apporto ordinario, che non lascia grande ricordo. A ogni buon conto, Lo Chiamavano Trinità esce in anteprima a Roma, riscuotendo subito ottimi riscontri. Zingarelli investe nella distribuzione e lo fa uscire in simultanea in tutti i cinema di Italia. Il successo è immediato, costato circa 400 milioni, ottiene un incasso attorno ai 3 miliardi e novecento milioni tanto da rivelarsi il secondo film più visto dell'anno dietro a Ultimo Tango a Parigi. Va forte anche in America dove viene prontamente acquistato e proposto. Si parla persino di sale che non si svuotano con gli spettatori che pretendono una seconda visione, rimanendo attaccati alle poltroncine. I puristi del genere, specie dopo gli sviluppi che ne deriveranno, non saranno affatto contenti di questo risvolto. In particolare Sergio Leone, ma anche Sergio Corbucci, accuserà Barboni di aver ucciso il genere, di aver insinuato il seme della parodia che, a poco a poco, avrebbe ucciso il western trasformandolo i qualcosa di sempre più votato al surreale e all'inverosimile. La realtà è che il genere era ormai già arrivato a un punto morto, tanto che altri registi, su tutti Carmineo ma anche lo stesso Colizzi, avevano tentato di ricercare qualcosa di nuovo, estremizzando situazioni e caratterizzazioni, giocando sull'ironia ma senza osare come Barboni. Lo Chiamavano Trinità deve pertanto valutarsi in modo positivo, in quanto ha il merito di aver dato vita a una serie di prodotti, ricordiamo anche il sequel e il successivo Il Mio Nome è Nessuno, che hanno allungato la vita dello spaghetti-western, un genere che altrimenti non sarebbe mai arrivato a fine anni '70. Non di secondaria importanza è l'alone di culto che avvolge la pellicola, tanto da esser tutt'oggi considerata la preferita di molti spettatori. Un film che si guarda sempre volentieri, dotato di buon ritmo, battute esilaranti e in grado di garantire un divertimento continuo per tutta la visione; merito delle caratterizzazioni sopra le righe (su tutte quella di Trinità), delle interpretazioni con un misto di primi attori (Farley Granger in forma come non mai) e di caratteristi ispiratissimi (si veda Remo Capitani, che sembra un attore consumato tanto da non far rimpiangere un Fernando Sancho), ma soprattutto merito dell'intuizione e del talento di Barboni. Bud Spencer dirà, rispondendo alle critiche sulla mancanza di violenza: “Noi abbiam sempre tentato di fare della violenza un qualcosa 1158 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

che, secondo me, bisognerebbe fare anche nel campo da gioco, cioè una violenza onesta, benevola e col rispetto dell'altro.” Avrà due sequel entrambi diretti da Barboni: Continuavano a Chiamarlo Trinità (1971) e lo sfortunato Trinità & Bambino (1995) con i relativi ruoli offerti agli sconosciuti Heath Kizzier e Keith Neubert. Undicesimo nella classifica dei migliori spaghetti-western di sempre stilata da Howard Hughes. Per gli amanti delle citazioni: 1) “Un magazzino devastato, due teste spaccate come zucche al sole, un ferito e un uomo castrato e il tutto in meno di due ore” “Non mi avevi chiesto di darti una mano...?” “Vattene se non vuoi che ti spari alle spalle mentre dormi!” 2) “Qui c'è un fante di troppo...” “No, qui c'è un maggiore di troppo” Negli ultimi giorni di dicembre esce l'ultimo western di un Paolo Bianchini ormai sempre più deluso della sua produzione. Il bravo regista romano è talmente giù di corda da accettare, probabilmente per mere ragioni alimentari, la proposta di Renato Savino che gli offre un copione trito e ritrito che non ha nulla di originale e che viene realizzato per fare cassa spendendo un budget quasi nullo. Esce così Ehi Amigo... Sei Morto! (1970) che, nel titolo, fa il verso al Sabàta di Parolini, ma che poi non ha nulla a che vedere con lo stesso. La storia verte sull'ennesimo furto di monete d'oro, con un pistolero (Wayde Preston) che, dopo essersi ritirato, torna a impugnare la pistola per porsi all'inseguimento della banda autrice del furto ed eliminarne tutti i componenti allo scopo di recuperare il bottino. Lo supporterà l'immancabile ubriacone messicano (Marco Zuanelli) che tutti considerano pazzo e nessuno aiuta (meno che il protagonista, ovviamente), Quest'ultimo, alla fine, tenterà tuttavia di fare il colpo gobbo soffiando i soldi sotto il naso di Preston, ma questo lo bloccherà aprendogli con un coltello la borsa dove sono celate tutte le monete. “Ma dove ho sbagliato...!?” imprecherà il messicano... Se il soggetto non dice nulla di nuovo, la sceneggiatura fa addirittura peggio. Savino e il suo collaboratore Roberto Colangeli, che già avevano lavorato assieme nel più riuscito Joko Invoca Dio... E Muori (1968) di Margheriti, si limitano a un abbozzo di copione che non propone nessun snodo narrativo e che manda avanti la storia a suon 1159 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di azione. Non ci sono dialoghi degni di nota, così come c'è poca ironia rappresentata dal solo Zuanelli. “Queste montagne le conosco come le mie tasche”, gli sentiamo dire. Preston, caustico, gli risponde: “Ci vuol poco: sono sempre vuote!” I personaggi, infatti, nei migliori dei casi sono stereotipati. Abbiamo il messicano trasandato in stile Ignazio Spalla (quello della saga Sabàta, tanto per rimanere in tema), che viene affidato al quasi sconosciuto Zuanelli. Quest'ultimo, c'è da dargli atto, offre la migliore prestazione della sua carriera, grazie anche a un personaggio di rilievo superiore rispetto alle solite apparizioni da comparsa che gli venivano offerte. Il suo, addirittura, è il ruolo più caratterizzato del film. Disprezza apertamente il denaro e forse anche le armi (visto che è disarmato), ma poi cercherà l'oro con il protagonista con l'intenzione di fregarlo e tenerselo tutto per sé. Cavalca un asinello bianco e ha un look più da gitano che da messicano, con un cappello da jolly in testa che ne va a rafforzare il soprannome di "El Loco". Tra i “cattivi” invece non poteva mancare un bandito costruito a immagine e somiglianza di Klaus Kinski, che cerca di stuprare tutte le donne che incontra. Lo interpreta molto bene Aldo Berti. Anche questo personaggio finisce col tradire i propri compagni, per impossessarsi dell'oro. Se la vedrà alla fine con il protagonista, prima di morire in circostanze poco chiare (buco di sceneggiatura abbastanza evidente). Gli altri personaggi non sono minimamente caratterizzati. Neppure la figura del protagonista viene sviluppata, visto che di lui non si sa niente. Gli da corpo in modo anonimo Wayde Preston, il quale ha sempre la stessa espressione sia quando lo pestano sia quando pesta lui. Bianchini è interessato all'azione e alla messa in scena. Come già fatto con i suoi precedenti lavori, in particolare con Lo Voglio Morto (1968), dimostra un'ottima tecnica mettendola però al servizio del nulla. Segue passo a passo i suoi attori, con inquadrature strettissime fatte di mezzi busti e primi piani. Gioca con la messa a fuoco e, di tanto in tanto, piazza qualche zoom in e zoom out. Si riserva infine di regalare qualche campo lunghissimo nelle cavalcate all'esterno del paese (siamo in Lazio). Le cose interessanti del film, se così possiamo definirle, sono legate proprio alla regia di Bianchini anche se alla lunga, non essendo supportata da una storia forte, finisce con lo stuccare anche perché il regista insiste nei primissimi piani per tutto il corso del film. Il momento migliore lo offre nella lunga sequenza iniziale in cui i banditi co1160 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

stringono gli abitanti di un intero paese a entrare all'interno di un locale, in attesa dell'arrivo della diligenza da assaltare. Si tratta di una sequenza lunga più di un quarto d'ora, con Bianchini che fa correre la macchina da presa in mezzo alle donne del paese che scappano alla rinfusa, dando la sensazione allo spettatore di essere in mezzo a loro. Segnalo la presenza nel cast artistico della sorella di Catherine Spaak, tale Agnes Spaak (che è più bona della sorella), molestata sessualmente da Berti. Purtroppo non le viene concesso molto spazio, ma in quel poco che la vediamo gioca assai bene con gli sguardi e si rivela meritevole di ulteriori ruoli (invece si ritirerà di lì a poco). Ci sono anche i caratteristi Raf Baldassarre e Rik Battaglia nei loro soliti ruoli di bandito. La colonna sonora (più adatta a un film di tensione) la firma Carlo Savina, mentre le scenografie sono curate da Demofilo Fidani già ammirato in cabina di regia. Buona la fotografia dell'esperto Sergio D'Offizi. In definitiva si tratta di un piccolo western di serie C che ha il suo maggiore difetto, non tanto nella mancanza di budget (che comunque si vede), ma nell'assoluta carenza del copione. Bianchini, pur mettendolo in scena con gusto, non lo salva. Inferiore sia a Quel Caldo Maledetto Giorno di Fuoco (1968) ma anche a Lo Voglio Morto (1968). Trascurabile. La pensa diversamente Antonio Bruschini che vede nel film un certo onirismo (a mio avviso assente) addirittura assimilabile a quello di Matalo! (1970). Poco visto dagli appassionati, sia stranieri che italiani (figurarsi gli altri), si segnala la generosa votazione di imdb.com che gli da una sufficienza striminzitissima. Due stelle per filmtv.it (“non si distingue dagli altri western del periodo”), una sola per mymovies.it. Esce poi l'ultimo western con il californiano Guy Madison protagonista, affidato alla regia del sessantacinquenne Leòn Klimovksy sebbene sia prodotto da una famiglia di registi romani: i Girolami. Marino Girolami e suo figlio Ennio, che già avevano lavorato col regista argentino in occasione di Pochi Dollari per Django (1967), peraltro con difficoltà tali da spingere al debutto in regia di Castellari, lo confermano in Reverendo Colt (1970), ultimo western da loro prodotto. C'è anche l'altro figlio di Marino Girolami, il più famoso e qualitativo Enzo G. Castellari, che viene accreditato come aiuto regista nonostante si sia già affermato da regista con sei western. Castellari, in seguito, 1161 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dirà di non ricordare di aver preso parte alla lavorazione del film e molto probabilmente ciò corrisponde anche a verità. La sceneggiatura porta la firma di un fedele collaboratore dei Girolami: Tito Carpi. Carpi cerca di sviluppare, questa volta assai male, un soggetto curioso di Manuel Martinez Remis, sceneggiatore di fiducia del regista. Il film propone infatti un protagonista piuttosto bizzarro. Abbiamo un reverendo, col passato da bounty killer, che ha deciso di dedicare la propria vita a Dio dopo aver ucciso per sbaglio un bambino nel corso di una sparatoria. Chiarisce bene la natura del personaggio questo scambio di battute tra Madison (che interpreta il reverendo) e Richard Harrison (lo sceriffo del paese in cui si svolgono i fatti): “Ogni volta che inseguivi e uccidevi un uomo, per te era come uccidere l'assassino di tuo padre” gli dirà Harrison. Bella e originale la risposta di Madison: “In tutti questi anni ho cercato la vendetta, ma il Signore ha detto: la vendetta è solo mia. Ora voglio costruire la mia Chiesa.” Il miglior scambio di battute del film, che potrebbe far pensare a qualcosa di interessante, ma non è così. I due sceneggiatori portano avanti la storia in modo stanco, le uniche cose positive vengono dalla caratterizzazione del reverendo. Nel prologo lo vediamo allontanare una bionda che tenta di infilarsi, tutta nuda (con topless in bella mostra), nel suo letto, ma lui integerrimo la allontana con grazia. Quindi interviene a salvare dal linciaggio un bandito che aveva tentato di ucciderlo, riuscendo poi a redimerlo e portarlo dalla sua parte. Infine lo vediamo recuperare un'ingente somma di denaro per devolverla per la costruzione di una chiesa. Visto che siamo nel far west, però, il reverendo non ha perso la capacità nel ricorrere alle armi, ma fa ciò solo in estrema ratio. Guy Madison interpreta piuttosto bene il personaggio, con un modo di fare serafico e aristocratico da vecchio attore dei western americani anni '50 (è quasi cinquantenne). L'interpretazione calmissima di Madison si contrappone molto bene a quella incazzosa e grintosa di Richard Harrison (che avevamo già trovato al servizio dei Girolami in Anche nel West c'era una Volta Dio). Harrison va costantemente sopra le righe, sbraita e si agita in modo eccitato e al contempo impostato dando luogo a una delle sue migliori interpretazioni. Purtroppo lo vediamo solo nella parte iniziale del film e nel suo epilogo, peccato. Si segnalano infine due discreti flashback mostrati nel corso del film. Nel primo vediamo un giovane (è il reverendo da bambino) assi1162 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

stere all'assassinio del padre, nel secondo assistiamo alla vendetta del giovane, ormai divenuto uomo e temibile bounty killer, che, armato di pistola, uccide i due assassini del padre, con un interessante uso del controcampo esaltato da un rallenty alla Castellari in cui i due uomini cercano di scappare via ma cadono esanimi nella sabbia proprio davanti alla macchina da presa. Queste sono le cose interessanti di una pellicola che per il resto fa della lentezza il suo biglietto da visita. Il soggetto si riduce a una rapina iniziale (che i cittadini, in modo assurdo, imputano al Reverendo perché lo trovano accanto al cadavere del cassiere della banca, nonostante i soldi siano stati portati via da qualcun altro) e al tentativo del protagonista, protetto dalla complicità dello sceriffo, di acciuffarne i responsabili. L'inseguimento lo porta a difendere una serie di carovane di coloni attaccate proprio dai banditi che il reverendo va cercando. Questi ultimi, capeggiati da un mezzosangue (Ennio Girolami), sono intenzionati a rubare un tesoro custodito in una delle carovane. Il gruppo, in pieno deserto, si rifugia così in un fortino abbandonato, mentre i banditi attendono fuori che le risorse di acqua dei coloni si esauriscano in modo da avere gioco facile. Dunque una prima di parte di film briosa che cede presto il passo a uno sviluppo noioso e mal amalgamato. Klimovsky gira con la complicità di Marino Girolami che, a detta di Richard Harrison, avrebbe diretto più di una sequenza. Qualcuno sostiene che perfino Castellari abbia messo mano alla regia, ma tale ricostruzione è sicuramente infondata. Castellari ha sempre dato ai suoi film dei ritmi scatenati, in Reverendo Colt invece l'azione latita a vantaggio dei dialoghi e dei rapporti tra uomini e donne. Ci sono appena un paio di buoni camera car ad accompagnare i consueti inseguimenti alle carovane e un assalto finale al fortino in cui sono asserragliati i protagonisti. Il resto è infarcito di dialoghi verbosissimi e di scene inutili alla causa tanto da sembrare di esser al cospetto di un western americano di terza fascia degli anni '50. C'è anche un goffo tentativo di inserire qualche momento demenziale, con un personaggio con kilt scozzese (il portoghese Cris Huerta) che per far sparare un cannoncino finisce con il distruggere il portone d'ingresso del forte. Al riguardo, è divertente il commento dell'antagonista, il sufficiente Ennio Girolami, che, posizionato poco fuori dal fortino in attesa di attaccarlo, va in paranoia: “Perché hanno fatto saltare la porta del forte, quegli idioti!”. Il vice del bandito, giustamente, gli chiede se devono approfittarne per attaccarli. Ma l'antagonista, che si reputa una volpe, 1163 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gli risponde: “Sei una bestia, Flanagan, avrebbero fatto saltare la porta senza un buon motivo? Quelli aspettano che noi ci buttiamo a testa bassa contro il forte, ma noi non gli daremo questa soddisfazione!” Intanto lo scozzese se la piange coccolato dalla moglie, mentre tutti gli altri, che pur sanno di essere sotto scacco, sottovalutano il fatto di esser rimasti senza protezione quasi ad anticipare la decisione dei banditi di non attaccare. Mah...!? Credo che ci sia qualche forzatura di troppo. La messa in scena è sciatta a causa di location (molta sabbia) e costumi rozzi, con fotografia e scenografie bruttine. Il budget del resto è quello che è, come si intuisce dal cast artistico che, a parte il duo Madison e Harrison, fa economia con un vero e proprio plotone di attori spagnoli. Sufficiente la colonna sonora del duo Ferrio-Umiliani che si firma con l'assurdo nome Lady Park. Se non si sapesse l'età di uscita della pellicola sembrerebbe di essere al cospetto di un western europeo preleoniano, con tutti i suoi debiti con la concezione hollywoodiana del genere (le carovane dei coloni, un protagonista integerrimo che agisce in difesa di sani principi, i dialoghi verbosi e i rapporti tra mogli e mariti), e invece siamo a fine 1970! Un western dunque fuori tempo massimo, da considerarsi pessimo e di vecchia concezione sia dal punto di vista della confezione che dalla regia. Lo sconsigliano tutti. Carlos Aguilar lo considera orribile, Marco Giusti lo valuta “brutto, privo di storia e di costruzione, ma con qualche interessante momento”. Proprio da questi interessanti momenti e da uno spunto iniziale buono (quello del pistolero redento) parte il commento di spaghettiwestern.altervista.org che poi bacchetta Klimovsky imputandogli una maldestra realizzazione finale fatta di lentezza e scarsità incisiva. Laconica la sua ultima frase: “C'è da stare molto attenti a un colpo di sonno.” Bocciature nette da 800spaghettiwesterns.blogspot.it e dagli utenti di imdb.com che gli danno dei voti inferiori al cinque in pagella. Una stella per mymovies.it. L'unico a spendere parole positive è Thomas Weisser che lo reputa il miglior western tra quelli di Klimovsky. Abbiamo infine uno dei western più attesi della stagione che segna il ritorno in chiave western di Sergio Corbucci. 1164 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

VAMOS A MATAR, COMPANEROS Produzione: Italia, Spagna e Germania, 1970. Prodotto: Antonio Morelli e Salvatore Alabiso (Tritone Filmindustria), Josè Frade e Luis Mendez (Atlantida Films) e Terra Filmkunst. Regia e Soggetto: Sergio Corbucci. Sceneggiatura: Sergio Corbucci, Arduino Maiuri, Massimo De Rita e Fritz Ebert. Interpreti Principali: Tomas Milian, Franco Nero, Fernando Rey, José Bodalo, Jack Palance, Iris Berben, Eduardo Fajardo, Gino Pernice, Lorenzo Robledo Fotografia: Alejandro Ulloa. Musiche: Ennio Morricone. Sottogenere: Tortilla western. Durata: 117 min. Giudizio Mancini: **** Giudizio Morandini: **1/2 La trama Il rappresentante di armi svedese, Yodlaf Peterson (Nero), giunge nel piccolo paesino messicano di San Bernardino per aiutare un bandito (Bodalo), che si spaccia quale generale rivoluzionario impegnato contro le forze governative, ad aprire una cassaforte svedese. All'interno si pensa che sia presente una forte quantità di denaro che il bandito promette di destinare per finanziare la rivoluzione. Solo un uomo però è a conoscenza della combinazione di apertura ed è rinchiuso negli Stati Uniti, nel Fort Yuma, perché è un capo rivoluzionario (Rey), questa volta pacifista. Lo svedese, supportato da un peone straccione (Milian), organizzerà la spedizione per liberare il prigioniero, ma dovrà vedersela con le forze governative da una parte e con un mercenario con una mano di legno (Palance) che va in giro munito di un grifone che manda in avanscoperta. Ad aiutare i due avventurieri ci penserà una ragazza (Berben) a capo di un gruppo di studenti schierati sia contro l'esercito sia contro le truppe del generale rivoluzionario. Scontro finale tutti contro tutti. Il commento. Tardo tortilla western dove emerge tutta la verve e l'humor del regista romano. Notorio nell'ambiente il suo black humor, tanto che To1165 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mas Milian, al ricordo, scoppia, a ridere: “Era una sagoma...!” Per fortuna l'attore cubano, tra un litigio e l'altro per incomprensioni sul set col regista, non ha trasformato la sua metafora in realtà dato il materiale di scena costituito da fucili e pistole. Il film viene prodotto da un connubio di più società tra cui figura Salvatore Alabiso, che realizza il suo miglior western dopo una serie di film da “battaglia”. Una fortuna per lui che accetta ben volentieri di finanziare Corbucci, reduce dalle produzioni di Attilio Riccio (la coppia dei due western girati a Cortina) e prima ancora della PEA di Alberto Grimaldi. Corbucci, d'altro canto, trova in Alabiso un ottimo referente che non ha problemi a credere su un soggetto che mischia tortilla western a commedia, avendo lui stesso prodotto l'anno prima lo scatenato O'Cangaceiro. Rispetto ai precedenti western, Alabiso può inoltre contare su un budget assai superiore. Ha l'appoggio del socio Antonio Morelli, manager di produzione di una dozzina di film, per lo più di Giuseppe Maria Scotese, e produttore esecutivo di 1,000 Dollari sul Nero (1966) di Cardone, ruolo che ricoprirà anche per Barboni in Anche gli Angeli Mangiano Fagioli (1973), ma soprattutto può beneficiare della partecipazione di una società spagnola e, in via minoritaria, di una società tedesca. A capo della prima troviamo José Frade, che arriva da Quel Caldo Maledetto Giorno di Fuoco (1968) di Bianchini, e Luis Mendez, altro storico manager di produzione già attivo dai tempi di Adiòs, Gringo (1965) di Stegani e coinvolto in ruoli organizzativi, tra gli altri, in Una sull'Altra (1969) di Fulci e Si può Fare... Amigo! (1973); negli anni '80 diverrà un vero e proprio produttore (anche di fiction tv). Non mancano quindi i soldi e la cosa si riflette sul cast artistico dove figurano volti che hanno fatto la storia dello spaghetti-western. Si va dai primi due della classe, Tomas Milian e Franco Nero per la prima volta insieme, alla faccia di cuoio Jack Palance che inquietava persino i colleghi, fino al professionale Fernando Rey e al caciarone José Bodalo, che rappresentano le due facce opposte della rivoluzione, con quest'ultimo riproposto nel ruolo che aveva in Django (1966). A supporto di questi appare, oltre ai caratteristi Eduardo Fajardo (solo un cammeo), Lorenzo Robledo e il feticcio corbucciano Pernice (quello a cui viene tagliato l'orecchio in Django), la sconosciuta, per l'epoca, Iris Berben, morettina tedesca (dai tratti ispanici) che si farà apprezzare nel proseguo carriera tanto da diventare una delle attrici più popolari del suo paese con oltre cento pellicole all'attivo, svariati 1166 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

riconoscimenti e persino incarichi diplomatici (ambasciatrice per i rapporti tra cristianesimo ed ebraismo) riconducibili alle sue lotte antisemite. La presenza della Bereben è dovuta alla necessità di scegliere un'attrice tedesca per via degli accordi coproduttivi e rappresenta uno dei pochi apporti tecnico-artistici offerti dai tedeschi. Lavorerà pressoché sempre in Germania, soprattutto per la televisione (anche nel ruolo di presentatrice). I fan più accaniti la ricorderanno in posa osé sia sulle pagine della rivista playboy che su quelle di penthouse, ma anche in un episodio della serie Ispettore Derrick (1977). Del resto, a inizio film, appare subito seminuda, con Milian che le strappa di dosso i vestiti. È però il lavoro di caratterizzazione operato da Corbucci a piacere. Si parte dal precedente Il Mercenario (1969) per plasmare un'opera più votata al divertimento, che mischia sapientemente il western impegnato dai risvolti filosofici e metaforici alla macchietta grottesca, il tutto incastonato in un'azione pura e scatenata. Corbucci perde lo specialista di queste storie, Franco Solinas, ma non ne risente. Lo supportano nel lavoro di scrittura un poule di sceneggiatori che qua mettono la firma su uno dei copione più importanti della loro carriera. Il migliore del lotto è il ciociaro Arduino Maiuri, per gli amici Dino, giornalista e direttore di periodici e quotidiani, conosciuto soprattutto per commedie quali Totò le Moko (1949), ma anche per Diabolik (1968), Banditi a Milano (1969) e Città Violenta (1970). Corbucci può sfruttarlo per i trascorsi messicani, avendo Maiuri vissuto in Messico per circa dieci anni dal 1950 al 1960. Diventerà uno dei migliori sceneggiatori del poliziesco d'inchiesta collaborando con Damiani, Squitieri ed Enzo G. Castellari. Alcune opere? L'Istruttoria è Chiusa: Dimentichi (1971), Joe Valachi: I Segreti di Cosa Nostra (1972), Revolver (1973), Il Cittadino si Ribella (1974) e Corleone (1978). Tornerà saltuariamente allo spaghetti-western senza grandissimi risultati. Carriera simile, ma più longeva, per il vent'anni più giovane Massimo De Rita, vincitore in coppia proprio con Maiuri di un Nastro d'Argento per il copione di Banditi a Milano. Molti i copioni cofirmati dai due, a partire proprio dalla pellicola di Lizzani, ma De Rita può vantare una gran carriera anche nel campo delle fiction tv. È ricordato in particolare per aver cosceneggiato il serial La Piovra (1984), e per tutta una serie di miniserie su grandi personaggi legati alla storia dell'Italia, spaziando da un settore all'altro, quali Padre Pio (2000), Ferrari (2003) fino ad Anita Garibaldi (2012) scritto pochi mesi prima della 1167 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

morte. Nulla è dato sapere su Fritz Ebert, che probabilmente non ha neppur messo mano alla penna e che viene accreditato per ragioni di coproduzione, mentre sembra abbia messo mano ai dialoghi l'altro coproduttore, lo spagnolo, José Frade (ci credo poco) poi non accreditato. Ancora una volta abbiamo la figura dell'europeo estraneo alla rivoluzione che viene in Messico per lucrare sulle morti altrui, c'è poi la banda di delinquenti che si spacciano rivoluzionari per far soldi, quindi il gruppo dei veri rivoluzionari che rappresentano i movimenti del 1968 e che guarda caso sono incarnati da studenti che mettono in atto le idee di un professore ecologista e filosofo, quindi il peone straccione alla Cuchillo, rozzo nei modi e tendente alla delinquenza ma in fin dei conti buono. Il tutto viene inserito in un ambiente dominato dai repressori governativi che fingono di aver instaurato un governo democratico, per poi uccidere coloro che votano gli esponenti dell'opposizione e chiudere affari con mercenari in cerca di vendette personali. Partiamo proprio da questi ultimi col personaggio di Jack Palance, che riprende il ruolo avuto ne Il Mercenario, ma in chiave più delirante ed estremizzata. Il suo è un vero e proprio personaggio pulp. Si presenta con una mano di legno e un grifone al seguito a cui è devoto, perché gli ha salvato la vita sbranandogli la mano che gli era stata ammanettata a una trave per farlo morire cotto dal sole in pieno deserto. Ha inoltre la particolarità di fumare erba e di sghignazzare divertito anche facendo ironia su se stesso. Terribile la tortura a cui sottopone Milian, legandolo a terra e mettendogli del grano sul ventre con un topo all'interno di una cesta capovolta che inizia a mangiare il cibo. L'obiettivo, centrato in pieno, è quello di provocare il solletico al torturato per poi commutarlo in terrore quando il topo cercherà di uscire dalla cesta. Ne viene fuori una scena assurda con Tomas Milian che ride e Jack Palance piegato in due che, di rimando, fa altrettanto. Poi arrivano le urla. Una sequenza che sarà ripresa, a modo suo, dal pessimo Holocaust parte seconda (1978) di Elo Pannacciò, dove si assisterà a una tortura similare in cui si cercherà di far morire il coinvolto dalle risate a crepapelle. Fooly, but very pulp direbbero gli inglesi, specie nel constatare l'assurdità del titolo di Pannacciò che non è ricollegato a nessuna prima parte. Passiamo a Milian che dice di essersi ispirato, un pochino, al Che e di voler vedere giustificata la “violenza” del suo personaggio. Interpreta “Il Basco”, così chiamato per esser solito indossare un basco e 1168 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

per essere originario della regione basca. Il personaggio viene concepito a immagine e somiglianza del Cuchillo di Sollima, solo che qua Milian spara e gira con la pistola. È un ingenuo, nazionalista a suo modo, sporco, caciarone, ma in fin dei conti con una sua etica, distorta ma ce l'ha, perché anche quando cerca di violentare la donna interpretata dalla Berben e lei lo respinge, lui si ritrae e le taglia una ciocca di capelli che poi porta sempre con sé. Un personaggio quindi con una punta di romanticismo nel suo essere grezzo. Ricorda molto il protagonista del precedente O'Cangaceiro, sempre interpretato da Milian che era solito partecipare direttamente alla costruzione dei personaggi, da cui mutua il ruolo del vagabondo che diviene eroe rivoluzionario per mero caso, un po' come farà Leone col suo peone in Giù la Testa. Qui a renderlo popolare è un gesto di stizza perpetrato mentre sta lucidando gli stivali a un ufficiale messicano, il grande Eduardo Fajardo (solo un cammeo per lui). Il militare, dopo aver fatto giustiziare un uomo che non era in linea con i suoi pensieri, lo incalza perché vuol saper per chi voterà alle elezioni. Milian fa il vago, l'altro lo incalza minacciandolo e il cubano de roma lo infilza con la spada. Sparatoria a raffica con entrata in scena di José Bodalo. Pacchianissimo, vestito con giacca rossa, munizionamento a tracolla, è il classico generale rivoluzionario alla Fernando Sancho, ruolo già interpretato da Bodalo in Django. L'attore spagnolo, spesso coinvolto in piccole produzioni, è perfetto, ma il suo personaggio è piuttosto convenzionale. Cerca di sfruttare la rivoluzione per fare gli interessi del Messico, ma poi persegue solo il guadagno personale macchiandosi anche lui di crudeltà estrinsecate da esecuzioni sommarie e truci. Molto bella e simbolica è la scena del suo arrivo a San Bernardino dove, dopo aver eliminato i messicani a seguito della rivolta innescata involontariamente da Tomas Milian, va a sedersi proprio sulla poltrona su cui era accomodato Fajardo. Come a dire che tra i due è come passare dalla padella alla brace. Forse non è casuale la storia che il Basco raccontava a Fajardo, mentre gli lustra le scarpe, circa l'obiettivo del padre quando emigrò dall'Europa: “Voleva lanciare in Messico l'idea dei cessi a pagamento...” E in fondo cosa sono i due personaggi interpretati da Fajardo e Bodalo che si siedono al suo cospetto...? Non mi fate essere volgare, suvvia... Il vero rivoluzionario è invece il professore Santos (o Xantos come compare su alcune fonti). Lo interpreta il grande Fernando Rey, già avuto da Corbucci in Navajo Joe (1966) e presente anche nel bellissi1169 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mo Il Prezzo del Potere (1969) di Valerii. Distinto, calmo, barba sale e pepe. Incarna l'ideologia, la ricerca della giustizia sociale al di sopra della politica. È una sorta di Socrate del western, dal momento che rifiuta di fuggire persino dal posto in cui è esiliato perché, dice: “Le idee che io sostengo non hanno paura della morte, né hanno bisogno di fucili per trionfare. Lottando per un giusto ideale si può vincere anche senza violenza.” Bellissima, per delineare la natura del personaggio, la scena in cui studia alcune tartarughine caraibiche che, per un motivo che non sa spiegarsi, si trovano vicino al mare nei cui pressi si trova a passare. Il professore è infatti stato prelevato dal duo Nero-Milian, incaricato dal generale rivoluzionario di ricondurlo in Messico facendolo evadere da Fort americano in cui era stato esiliato per le idee rivoluzionarie. Evidente, forse anche dal nome (Xantos), l'ispirazione dettata agli sceneggiatori dalle figure dei pensatori dell'antica Grecia, i grandi, grandissimi, personaggi che hanno evoluto il pensiero umano. Xantos ripudia ogni forma di violenza, e lo dimostrerà nell'epilogo, poiché è un idealista, vicino in questo all'estremo sacrificio del Cristo: “Una modesta pedina, nel gioco degli scacchi, può vincere da sola anche contro pezzi più forti. Quando si hanno degli ideali tutto è possibile!” Un grande personaggio quindi, senza dubbio il più interessante del film, che dona alla pellicola un background profondo che si sposa alla grande con l'ilarità del duo Nero-Milian, ma anche con l'azione scatenata e fiammeggiante di Corbucci. Una chiara dimostrazione che si possano fare film seri e dai contenuti tragici, plasmando un prodotto divertente e in apparenza scanzonato. A differenza del Generale Mongo (Bodalo), Xantos fa davvero gli interessi del suo popolo. Lo vediamo quando prende a male parole alcuni imprenditori americani che si dicono disposti ad aiutarlo a sovvertire il regime in Messico, in cambio della promessa di avere l'esclusiva sui pozzi petroliferi messicani. Il Professore li caccia dicendo che quel petrolio appartiene al Messico. Dunque un vero e proprio pensatore fuori tempo e appartenente a un'epoca che, purtroppo, è morta, l'epoca dei giusti ed equi pensieri sovraordinati al vile denaro. Questa la frase con cui prende le distanze anche dal populismo: “Dietro il nazionalismo si nasconde sempre la paura e l'insicurezza di un popolo...” il Basco, che è un ingenuo, lo deride, perché crede che il Generale Mongo agisca per la sua terra, perché fa star bene tutti i suoi uomini e chi decide di supportarlo. Il professore, sorridendo amaramente, gli da una grandissima risposta: “lo fa perché sfamandoti ti inganna meglio.” An1170 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tidoto, quest'ultimo, per sedare il populismo e continuare a fare i porci comodi dando l'impressione di essere generosi. Dietro alla teoria del professore si muove un gruppo di studenti, evidente riferimento ai movimenti del '68, che sono i veri rivoluzionari del film. Sono più pragmatici del loro mentore che riconoscono tale e che vanno a riprendersi per evitare che Milian e Nero lo riconsegnino al Generale Mongo, che lo vuole con sé perché il vecchio conosce la combinazione di una cassaforte in cui si pensa sia custodita una grande ricchezza. A capo di questo movimento, altro colpo di genio avanti negli anni di Corbucci, c'è una donna. È la tedesca Iris Berben che, nella vita reale, faceva cose poi non molto diverse, mettendosi spesso a capo di movimenti finalizzati al ripristino dei valori e dei diritti umani. È la donna di cui si innamora, fin da subito, il Basco, ma solo alla fine, con l'evoluzione in vero rivoluzionario di quest'ultimo (un destino già scritto nel nome, tra l'altro), che i due si metteranno insieme perché la Berben non ama i banditi. Il resto del gruppo non ripudia l'uso delle armi, come invece cerca di convincere a fare il professore, si limita solo a usarle in extrema ratio, perché, in fin dei conti, a discorsi non si cambiano le cose. In tutta questa confusione ecco che si inserisce la tipica figura, per il genere, dell'europeo speculatore che viene a vendere armi, non importa a chi basta che paghino, e che poi alla fine si fa coinvolgere dai peone. Bellissima l'entrata in scena, vestito in modo ricercato, con Milian che inizia a ridere da lontano. “Facciamo un applauso al pinguino... eheeee” Ironia della sorte, il tipo, vestito di bianco e con una giacca e cravatta nera, viene pure dalla Svezia e si chiama Yodlaf Peterson. Tomas Milian, con tutti gli altri peone intorno che sghignazzano, gli lancia una buccia di banana ai piedi. Lo svedese, ironico più dell'altro, freddo più di un cubetto di ghiaccio staccato da un igloo, con il bastone da passeggio infilza la buccia di banana e la raccoglie. Poi va da Milian, estrae una moneta da un dollaro e la consegna allo stesso. “Fai conto di aver vinto una scommessa...” e se ne va. Il basco rimane interdetto e per tutto il film ci sarà il tormentone circa la motivazione di questo gesto. Ironia della sorte, ancora un'altra volta quasi a evidenziare gli assurdi scherzi del destino, il basco sarà salvato da questo dollaro che porta al collo e che frenerà un proiettile proprio come avvenuto nel film Un Dollaro Bucato (1965) di Ferroni. Solo a fine film, quando Nero e Milian saranno di nuovo contrapposti in un duello in salsa Castellari (perché poi spareranno altrove come in 1171 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Vado...l'Ammazzo e Torno), lo svedese svelerà l'arcano, facendo incacchiare come una iena il rivale: “Mi ero promesso che, arrivando a San Bernardino, avrei dato un dollaro al primo stronzo che incontravo!” Questo l'humor del personaggio che irrita di continuo il messicano. Tra i due l'ago dell'intelligenza e dell'acume è tutto sbilanciato a favore dello svedese, eppure quest'ultimo rischia a inizio film di finire in polpetta e viene salvato da un'esecuzione dal Generale Mongo, perché il basco lo aveva fatto sotterrare fino alla testa per poi farci passare sopra un plotone di uomini lanciati a cavallo, come nel film di Caiano Un Treno per Durango (1968). Un film dunque che trova la sua forza nell'ottima caratterizzazione dei personaggi, prevalente sul resto della storia meramente strumentale a metterli in azione. Da segnalare la parte finale del film, da vero capolavoro. Vuoi per il montaggio serratissimo di Eugenio Alabiso che combina inquadrature rapide (serie di primissimi piani dei volti dei banditi che cadono, cadute spettacolari di cavalli, machete scagliati in aria e via dicendo) e musica in modo da restare a bocca aperta, vuoi per i contenuti metaforici che vengono inseriti da Corbucci. Spettacolo ai livelli massimi per il genere. Si parte con Nero che, una volta ricevuta la parola d'ordine del professore (“viva il Messico”), apre la cassaforte per trovarci dentro una spiga di grano con Rey che afferma, a un Nero che capisce di esser stato beffato e se la ride: “Il grano, questa è la nostra ricchezza...” Solo che lo svedese è un tipo che ne sa una più del diavolo e pensa bene di andare a rubare la statuetta in oro di San Bernardino che è conservata in Chiesa e che i locali considerano una reliquia dal valore inestimabile. ”Non me ne sono mai andato da un posto senza portarmi niente dietro” è il pensiero dell'europeo. Così sale sul tetto della Chiesa e, munito di corda, dall'alto, aggancia la statua proprio mentre il basco e la capa rivoluzionaria si stanno dichiarando marito e moglie al cospetto di Dio, perché in fondo i preti sono inutili, basta il Cristo come testimone, e lo fanno perché la ragazza vuole fare le cose in regola: è peccato baciare il proprio uomo prima di sposarsi. E così, mentre si scambiano le promesse, il San Bernardino prende il volo. Duello finale fittizio tra Nero e Milian, che si ricollega al prologo, con i due che si fronteggiano per la difesa del Santo. Solo che spunta fuori il redivivo Jack Palance, precedentemente caduto con tutto il campanile dove si era appostato intenzionato a ricoprire il ruolo del Whitman della situazione per uccidere il professore entrato in città per consegnarsi al Generale Mongo e far 1172 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

così liberare un gruppo di studenti sequestrati dallo stesso. Faccia di cuoio è armato di fucile e tiene in scacco i due, ma sopraggiunge proprio il professore che sembra aver accantonato la sua obiezione di coscienza (in realtà ha l'arma scarica). Soluzione finale dall'alto senso metaforico con Nero che lancia la statua di San Bernardino su un detonatore e fa secco Palance con la mano di legno di quest'ultimo che gli vola ai piedi, come a dire che ha avuto un aiuto dall'alto. Spettacolo. Ultima scena con lo svedese che si allontana, ma vedendo l'arrivo in massa dei governativi, torna indietro in supporto dei rivoluzionari e grida, con primissimi piani di tutti i coinvolti, alternati al campo lunghissimo sulla fila dei militari che avanzano al trotto: “Companeros... Vamos a Matar, Companerooooos...!” E poi parte in una carica solista in direzione dei soldati, esaltata dal campo lungo di Nero al galoppo su cui Corbucci stringe con un veloce zoom in, passando al primo piano stretto di Milian che abbozza un sorriso, quindi inquadratura fissa frontale su Nero che al galoppo, braccio levato in aria a far vedere il fucile, avanza verso l'operatore quasi a voler perforare il video, infine improvvisa colorazione in salsa fumetto (nero a sfondo rosso) delle due sagome in diretto collegamento all'open de Per un Pugno di Dollari e con la musica di Ennio Morricone sparata a tutto fuoco... Estatico per gli occhi dei puristi del cinema pulp e citatissimo dal grande Valerio Evangelisti nell'epilogo del terzo romanzo western di Pantera, pistolero mulatto praticante l'arte magica del Palo Mayombe e protagonista di una trilogia avviata da Metallo Urlante, intitolato Antracite, edito dall'Oscar Mondadori nel 2003. Semplicemente: lezione di cinema. Per certi critici con la puzza sotto il naso è notte fonda e a dispetto di quanto si possa dire, Vamos a Matar, Companeros è un vero capolavoro assoluto, sebbene citazionista. Oltre il miliardo l'incasso dell'epoca. Semplicemente immortale, tanto che quando lo vidi la prima volta, in un anonimo pomeriggio d'estate in tv, rimasi a bocca aperta e recuperai tutti gli altri western di Sergio Corbucci, dicendo: “questo non è mica poi tanto inferiore a Sergio Leone...” Superfluo soffermarsi sulla critica perché è un film da vedere. Possiamo solo sottolineare gli elogi di Marco Giusti, e dire che è nella top twenty di molti anche se a noi pare un po' sottovalutato. Undicesimo miglior spaghetti-western per spaghetti-western.net. Non lo ama alla follia Quentin Tarantino, che lo segnala comunque tra gli esempi più 1173 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

riusciti del genere. Risulta apprezzato anche dal Morandini che poi, per partito preso, non può dare tante stelle. Così sta scritto: “Divertente avventuroso con toni da racconto popolare... Prima di passare a Monnezza e di imbolsirsi, T. Milian era di un'irresistibile simpatia.” 10.5 Conclusioni. Nel 1970 torna a crescere, sotto il profilo numerico, la produzione western, si tratta però di una falsa ripresa. La parabola qualitativa discendente è ormai evidente, il livello medio delle pellicole è di gran lunga inferiore non solo agli anni d'oro del genere ma anche al 1969. I primi western della stagione escono solo alle soglie della primavera e si tratta per lo più di pellicole di debuttanti ancora acerbi, come il giovane Pasquale Squitieri, o di altri non ancora al meglio delle loro possibilità come Enzo Barboni o Sergio Martino. Escono inoltre pellicole di registi che si congedano dal genere, veterani che lo avevano tenuto a battesimo negli anni della genesi. Passano infatti per i cinema, da inosservate, le pellicole di Mario Costa, con il cruento La Belva, e di Mario Bava, col surreale e parodistico Roy Colt & Winchester Jack. Opere che propongono qualcosa di buono, ma non convincono appieno a causa di sceneggiature tutt'altro che sviluppate. Ecco allora che di spaghetti-western capaci di assurgere a livelli degni di grande nota non vi è traccia, se non in virtù degli ultimi sviluppi di dicembre. È in questo mese che esce il film a cui si legheranno le sorti dello spaghetti-western degli ultimi anni. Si tratta di un western a cui nessuno sembra credere, se non il suo regista Enzo Barboni. L'ex direttore della fotografia, al suo secondo film, riesce a completarlo dopo aver fatto passare la sceneggiatura nelle mani di più produttori poco convinti della bontà del progetto. È la genesi de Lo Chiavano Trinità, a cui abbiamo già fatto ampio cenno. Film discusso, addirittura odiato da Sergio Leone che lo accusava di aver dato la mazzata definitiva allo spaghetti-western decretandone la morte per la sua verve ironica tendente al comico. In realtà è da considerarsi alla stregua di un forte influsso elettrico sparato da un defibrillatore a un gigante ormai in arresto cardiaco e privo di respiro. Una frustata capace di rianimare il colosso ancora per un poco, di certo a sufficienza per portare Enzo Barboni e la coppia Bud Spencer & Terence Hill in scia, per gli incassi, al film più controverso e provocante del1174 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

l'anno: Ultimo Tango a Parigi. Una sferzata dunque potente, tale da riaccendere gli animi quando ormai la fiammella della vita del western sembrava davvero sul punto di assopirsi e non solo per le cattive voci messe in circolo da quegli uccellacci del malaugurio che erano i critici dell'epoca. E così lo spaghetti-western passa definitivamente dall'essere un genere violento a un formato per famiglie, in cui ci sono, sì, sparatorie e scazzottate, ma orientate al divertimento, all'ilarità con difesa dei deboli e degli oppressi pur perseverando con le caratterizzazioni truffaldine dei protagonisti, che sono sì dei buoni d'animo ma non certo degli esempi da emulare. C'è poco da dire, è merito di Barboni e soci se il western ha potuto continuare a vivere. Nel 1970 però vi è ancora traccia del western violento. Ce lo ricorda l'altra faccia de Lo Chiamavano Trinità, ovvero lo sconosciuto La Collera del Vento, uscito in contemporanea sempre con Terence Hill protagonista, ma semisconosciuto. Un film bellissimo, a metà strada tra un western e un mafia movie con ambientazione spagnola. È curioso vedere come Terence Hill appaia ridente e scanzonato da una parte, mentre dall'altra sia cupo e tragico. Una dicotomia che fa de La Collera del Vento l'anima nera di Trinità. Due prove di spessore, ma con la soluzione di Barboni che prevalerà su quella dello spagnolo Mario Camus. Il primo farà una fortuna sfacciata, il secondo invece farà flop tanto da esser poi ridistribuito col titolo Trinità vede Rosso, una soluzione che non rende giustizia a quello che invece resta un grande film e lo snatura, per ragioni commerciali, come si è soliti fare con le opere di infimo livello. Degno di nota è poi l'eccelso Vamos a Matar Companeros, penultimo grande tortilla-western, in attesa di Giù la Testa. Lo dirige ancora il grande Sergio Corbucci che riprende tematiche e stile da Il Mercenario per farne una versione più scatenata, sia sul versante grottesco che su quello più prettamente legato all'azione. Un nuovo capolavoro dunque, forse il migliore dell'anno, insieme al pazzesco e sperimentale Matalo del sorprendente Canevari, che riprende il soggetto de Dio non Paga il Sabato per riproporlo in un'ottica deformata e deformante che lo avvicina a un horror onirico. Quattro pellicole dunque uscite tutte nella parte terminale dell'anno, caratterizzato per il resto da falsi sequel, da western minori o da tentativi di lancio di nuovi registi, una pochezza di idee da cui si salvano solo i tre sequel ufficiali della saga Sartana (il primo dei quali interpretato da George Hilton in luogo di Gianni Garko, due attori venuti al mondo quasi lo stesso giorno, 1175 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

essendo il primo nato il 16 luglio e il secondo il 15 come il sottoscritto), addirittura migliori dei precedenti, con Una Nuvola di Polvere... Un Grido di Morte... Arriva Sartana, ultimo della serie, a brillare tra i cinque film, e il nuovo western del padre della saga Sartana, Gianfranco Parolini, prodotto da una PEA ormai sempre più interessata ad altri generi, ma capace di portare in Italia Yul Brynner per Indio Black sai cosa ti dico: Sei un Grande Figlio di... Il resto non dico che sia superfluo, ma neppure da apici del genere. Dunque il 1970 si segnala per il ritorno di Franco Nero, ma soprattutto per la definitiva esplosione della coppia Bud Spencer & Terence Hill, ma è anche un anno dove si sente la mancanza dei vari Leone, Sollima, Castellari, Tessari, Ferroni e di grandi registi non di genere eventualmente lanciati sulla scommessa spaghetti-western.

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11. LA GRANDE CRISI DEL GENERE

11.1 Una prima parte di stagione all'insegna dei western di quarta fascia. Nei primi quattro mesi del 1971 escono una serie di western che potremmo tranquillamente omettere senza il rischio di suscitare scandalo nei lettori più scafati (i lettori medi nemmeno si accorgerebbero delle assenze). Pellicole di basso spessore, ignorate dai blogger esteri, viste da pochi eletti (o si farebbe meglio a dire da irriducibili), talvolta iniziate da una produzione e poi terminate da un'altra con cambio del regista e degli attori, altre, ancora, frutto dell'inserimento di sequenze rubate ad altri film. Ci limiteremo quindi a elencarle velocemente con qualche aneddoto. Del resto il 1971 è un anno caratterizzato dalla ripresa, sotto il profilo numerico, della produzione del cinema western, ma con un ulteriore crollo medio della qualità dovuto alla cessata spinta del tortilla western e al quasi totale disinteresse di quei registi che avevano plasmato il genere. Tra i top solo Sergio Leone, peraltro a seguito di litigi con gli attori, Enzo Barboni e Duccio Tessari dirigeranno un western, mentre i vari Sergio Corbucci, Sergio Sollima, Giorgio Ferroni, Enzo G. Castellari e Tonino Valerii si interesseranno ad altro o si concederanno un anno sabbatico. Il primo film a uscire è Rimase uno Solo e fu la Morte per Tutti (1971) dell'irriducibile Eduardo Mulargia al suo penultimo western. Luciano Stella e Jean Louis sono i due protagonisti di un plot incentrato su accuse mosse a danno di un innocente che poi deve dimostrare, dopo la solita evasione, la propria innocenza e trovare il vero colpevole. La pellicola, sotto il nome Una Colt Venuta dal Nord, viene iniziata da Pinzauti che, per la terza volta consecutiva nella sua carriera, si trova costretto a metà lavorazione ad alzare bandiera bianca perché rimasto senza produttore. Subentra allora, dopo qualche mese, una 1177 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nuova casa di produzione che acquista il girato (circa tre settimane), rabbercia la sceneggiatura e chiude il film ingaggiando Mulargia e qualche attore. Alla fine esce fuori un western d'azione, non ancora orientato alla commedia, che non supera però il livello minimo per divertire lo spettatore. Noioso. Per sonofdjango.blogspot.it è tra i peggiori film di Mulargia. Segue l'inferiore Il Tredicesimo è sempre Giuda (1971) con cui Giuseppe Vari chiude col western. Sceneggiatura di Adriano Bolzoni che opta per il quasi mai appagante western giallo. Maurice Poli e Donald O'Brien sono gli attori principali di un'opera di cui l'amico Tom Betts così parla: “Dopo un quarto d'ora ti vien voglia di girare canale”. Non manca però chi difenda il film vedendovi un interessante crescendo di tensione. È più difficile parlar bene di Bastardo, Vamos a Matar (1971), pastrocchio che coinvolge Luigi Montefiori (George Eastman) nei panni di protagonista, chiamato a sostituire William Berger dopo il tramonto della produzione iniziale che aveva concepito l'opera affidandola a Sergio Garrone. Il film lo chiude Luigi Mangini, regista di tutt'altri generi, imparentato con Giuseppe Colizzi, molto nervoso sul set e spesso costretto a urlare per spronare gli attori, Nel cast ci sono anche Remo Capitani e Lincoln Tate (attore americano proveniente dai serial televisivi). La critica lo ritiene una scopiazzatura dei western di Sollima con momenti da commedia non ben amalgamati al resto. Bene Montefiori, tra le poche note positive. Spunti parodistici dal fumettistico All'Ovest di Sacramento (1971) di Federico Chentrens, aiuto regista di Baldanello, al terzo e ultimo film in carriera. Co-prodotto da una società francese che convince Robert Hossein ad accettare il ruolo principale, si trasforma in una farsa vista da pochissimi. Da evitare. Ci riprova la Three Stars, già protagonista del non eccelso Wanted Sabata (1970), con risultati mediocri ma non pessimi. Questa volta il film, Arriva Durango: Paga o Muori (1971), viene affidato a Bianchi Montero, ma ha sempre il legnoso Brad Harris quale primo attore, qua nei panni di un esattore mercenario che si scontrerà con un ban1178 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

chiere strozzino (bello scontro!) reo di non pagargli il dovuto per aver sventato una rapina. Gli altri attori sono caratteristi tra cui figurano José Torres (nei soliti panni del peone), Giovanni Cianfriglia e nei panni dell'antagonista Giovanni Lavagnetto. Fotografia di Mario Mancini. Un altro western frankenstein è Se T'Incontro T'Ammazzo (1971) che Giovanni Crea gira in appena dieci giorni, ricevendo soldi da liberi professionisti estranei al mondo del cinema. Con i capitali così racimolati Crea compra un copione di Fabio Piccioni, lo rintuzza con scene e musiche rubate da altri suoi film e da vita a una nuova opera ingaggiando attori da western da battaglia come Gordon Mitchell, Donald O'Brien, Mario Brega, Dino Strano e Femi Benussi. Un'ideazione da cui è difficile attendersi miracoli, che infatti non si verificano. Revenge movie in piena regola senza innovazioni. Visto da pochissimi. Che dire poi di Sei già Cadavere... Ti Cerca Garringo! (1971) che pure vanta la coproduzione di Luciano Martino, unitamente a Ignacio Iquino, per la regia di Juan Bosch? Poco, solo che si tratta di un altro revenge movie con i protagonisti del primo spaghetti-western ovvero Richard Harrison, Raf Baldassarre e Fernando Sancho. Buona regia, ma poco o nulla di nuovo da offrire e per giunta portato in scena con un budget esiguo. Tra le novità si segnala un pistolero che si allena sparando alle mosche (!?). Niente a che fare con il Garringo di Steffen, tanto che in Spagna il protagonista assume il nome di Sabata diventando poi Sartana nella copia Americana. Girandola quindi di passaggi apocrifi. Il primo spaghetti western di un certo spessore che esce nel 1971 è Testa T'Ammazzo, Croce... Sei Morto... Mi Chiamo Alleluja con il quale Giuliano Carnimeo, alias Anthony Ascott, dopo aver diretto la saga Sartana, cerca di dar vita a un nuovo personaggio: Alleluja. Il regista pugliese viene scelto da Dario Sabatello, già produttore di Castellari. Carnimeo pretende e ottiene l'assunzione di tutto il cast tecnico di sua fiducia, da Tito Carpi alla sceneggiatura, a Stelvio Massi alla fotografia. Come protagonista viene chiamato un altro pretoriano del regista: George Hilton. Carpi e Carnimeo, già orientati agli eccessi e al surreale, puntano tutto sulla piega comica, complice il successo del Trinità di Barboni, 1179 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

miscelandola al tortilla western. Viene così plasmato un copione tendente al parodistico, ma non troppo, con qualche legame con Sartana, riconducibile alle trovate surreali con le quali il protagonista fa tabula rasa degli avversari (qua abbiamo una macchina da cucire che diventa mitragliatrice e lanciamissili nonché un banjo lanciarazzi). C'è ancora qualche reminiscenza del western truculento rappresentato, a esempio, dalla scena con Alleluja che estrae una pallottola da un ferito, usando un cavatappi a vite (!?). La trama, alquanto bizzarra, vede il bandito Alleluja (Hilton) ingaggiato da un generale rivoluzionario (Camerdiel) per mettere a segno un furto di gioielli ai danni dell'imperatore Massimiliano. L'obiettivo del generale è recuperare i gioielli per rivederli e finanziare la rivoluzione. Solo che i gioielli spariscono e su Alleluja si scateneranno i rivoluzionari da una parte, convinti che si sia intascato il carico, un improbabile principe bielorusso (Charles Southwood) dall'altra, poi un trafficante di armi (Andrea Bosic) e persino una suora al soldo dei servizi segreti americani che tiene una pistola nel reggicalze (Agata Flori). Girandola di alleanze e relativi tradimenti per tenersi i gioielli e al contempo debellare gli altri pretendenti sfruttando il contributo di terzi. Carnimeo gira in modo spassoso e divertito (non mancano i suoi zoom e le sue inquadrature da angolature scelte a tavolino) un western dal buon ritmo impreziosito da una divertentissima musica di Stelvio Cipriani. A tal riguardo è da ricordare la marcia della rivoluzione. Ottima la fotografia di Massi. Sembra quasi di assistere a uno dei primi western di Castellari, reso però più farsesco da un protagonista scanzonato che beffeggia e scherza con tutti. “Ti do una scelta: testa t'ammazzo, croce sei morto” ripete per irritare il malcapitato di turno. Un ruolo perfetto per George Hilton che in tali vesti non sbaglia mai un colpo. Decisamente sopra le righe anche il personaggio, fuori luogo nel west, di Southwood (meglio altrove), che fa balletti russi per distrarre gli aggressori e lancia piccoli coltelli come se fosse un ninja. Da non perdere per i fan del regista e per tutti coloro che amano le contaminazioni tra spaghetti-western e trovate stile saga 007. Ci si diverte e si fa anche qualche sana risata, a patto di accettare la deriva grottesca in stile Parolini/Carnimeo. Surreale più dei Sartana. All'epoca ebbe un discreto successo, avrà un sequel originale e diversi apocrifi. Da vedere pur se farraginoso nella sceneggiatura. Una stella su mymovies.it. “Niente di eccezionale, siamo in piena parodia 1180 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

western” per filmtv. Sei pieno per gli utenti di imdb, voto che condividiamo. La pellicola di Carnimeo è però un'eccezione in questa prima parte di anno, perché il livello delle pellicole si assesta su una qualità media tra le più basse fin qui riscontrate. Per il giorno del pesce d'aprile esce l'ennesimo western diretto da Demofilo Fidani, alias Miles Deem: Per una Bara Piena di Dollari (1971). Si tratta di un altro spaghetti western di quarta fascia che, stranamente, gode di un discreto zoccolo duro di fan pronti a definirlo un cult. Non che sia pessimo, sia chiaro, ma neppure un western degno di particolare nota. Lo producono, come al solito, lo stesso regista e il fido Diego Spataro, a cui si aggiunge Massimo Bernardi, proprietario di alcuni locali notturni (nonché ex fidanzato di Edwige Fenech) e intenzionato a entrare nel mondo del cinema; lavorerà con il duo Spataro-Fidani in altre due occasioni, prima di ritirarsi senza lasciare alcun segno. Nell'occasione Fidani decide di portare in scena un copione firmato da Tonino Ricci, futuro regista trash. Ricci, dopo circa un decennio speso in veste di aiuto regista, soprattutto di Marcello Ciorciolini (quattro collaborazioni) e di Paolo Bianchini (due collaborazioni), ha già debuttato alla regia col macaroni combat Il Dito nella Piaga (1969) sebbene abbia quarant'anni. Dirigerà in seguito una ventina di pellicole, dislocate in un arco temporale di venti anni, interessandosi in via prevalente all'avventuroso, senza mai ottenere grandi risultati. Di lui Roberto Poppi scriverà un ricordo abbastanza generoso: “Nonostante budget modesti, resta uno dei grandi e sottovalutati mestieranti del nostro cinema, in possesso di tecnica da vendere, ma prigioniero di un sistema produttivo che spesso gli ha impedito di esprimersi più compiutamente.” Tra le pellicole più riuscite, anch'esse tuttavia mediocri, ricordo lo spaghetti kung-fu Storia di Karaté, Pugni e Fagioli (1973), Zanna Bianca alla Riscossa (1974) e Bermude: La Fossa Maledetta (1977). La scelta del regista di puntare su Ricci, a ogni buon conto, non paga. Il soggetto è trito e ritrito, non ha spunti originali né cerca di lavorare sulle caratterizzazioni dei personaggi. Lo stesso Fidani, che collabora con Ricci alla stesura del copione, non riesce a migliorare le cose. I dialoghi sono fiacchi, non si punta neppure sull'ironia, tratteg1181 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

giando un copione cupo e ormai fuori moda. Ci troviamo al cospetto di un revenge movie vecchio stile, con il protagonista che ritorna dalla guerra di secessione e trova la propria famiglia sterminata dalla banda di un bullo dispotico accecato per l'assassinio dei fratelli, al punto da trucidare anche membri della propria banda. Aiutato da un bounty killer, il nostro sventerà un rapimento e sterminerà l'intera banda responsabile della strage che lo ha colpito negli affetti più cari. Tutto qua, senza acuti di regia o sequenze meritevoli di particolare nota. Fidani ci mette impegno, gira con un certo gusto artigianale (ricorre spesso a primissimi piani e piazza qualche soggettiva a cavallo niente male) ed elimina i momenti morti a beneficio di un ritmo sollecito. Snocciola persino qualche omaggio a Sergio Leone, in particolare a Per Qualche Dollaro in Più. Viene difatti riproposto il tormentone relativo al carillon fatto suonare prima degli omicidi e che il bullo ha sottratto a uno dei componenti della famiglia del protagonista. Lo stesso epilogo, poi, è fortemente debitore della pellicola di Leone. Vediamo il protagonista lasciare al socio tutte le taglie dei componenti della banda, poiché ha agito solo per vendetta. Per sopperire alle carenze di sceneggiatura, Fidani preme sull'acceleratore, soffermandosi sulle sparatorie (infinite e continue) e sulle movenze acrobatiche delle comparse. A parte il protagonista, cui da corpo Nino Scarciofolo (alias Jeff Cameron), belloccio di turno che non perde mai l'occasione per esibirsi in capriole e tuffi vari, si assiste a una serie di uccisioni dove coloro che vengono attinti dai proiettili compiono le più assurde piroette. La cosa si rivela, alla lunga, assai stucchevole. Più che sufficienti, invece, sono le interpretazioni degli attori principali. Al fianco di Scarciofolo, in veste di spalla, abbiamo Gordon Mitchell (baffuto) in uno dei suoi rari ruoli da co-protagonista (anche se ride a squarciagola ogni volta che colpisce un uomo). Il ruolo del cattivo spetta al glaciale Klaus Kinski, nel personaggio de Il Padrone, lasciato però troppo spesso dietro le quinte (poco sfruttato), come mandante delle malefatte della banda e sempre pronto a punire i fallimenti dei propri uomini con la morte. I due luogotenenti fidati di Kinski sono l'ottimo e sottovalutato Hunt Powers (qua baffuto e piuttosto nevrile, finirà ucciso per mano di Kinski) e il caratterista Benito Pacifico, attore feticcio di Fidani. Ruolo forzato infine per la figlia del regista, Simonetta Vitelli, scritturata senza che ve ne fosse bisogno. In un breve cammeo c'è anche lo show-man Renzo Arbore, ingaggiato perché residente nello stesso palazzo di Massimo Bernardi. 1182 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Fotografia di Joe D'Amato (coinvolto in un acceso litigio con Kinski, piuttosto recalcitrante a seguirne i consigli di regia) senza infamia e senza lode. Bruttina la colonna sonora di Lallo Gori. Nel complesso un western trascurabile. Eloquente il commento dell'anglofono fisfulofpasta.com il quale, dopo aver bocciato senza appello la soundtrack (“la canzone I Know my Love, cantata da Marco Wolf, è atroce”), esprime un giudizio che condivido in pieno: “Western guardabile, ma dimenticabile anche se per gli standard di Fidani è da considerarsi un buon prodotto, forse il migliore del regista.” Due stelle per filmtv.it che non spende tante parole: “Western mediocre.” Marco Giusti la pensa in modo diverso e inizia il suo commento sul Dizionario del Western all'Italiana in maniera esagerata: “notevolissimo western alla Miles Deem.” Nel corso del testo ammetterà comunque corposi buchi di sceneggiatura ed evidenti limiti nella storia. Un altro a cantare fuori dal coro è spaghettiwestern.altervista.org il quale ne consiglia la visione, elogiando il ritmo, il cast artistico e facendo leva sulla discreta componente action. Solo per instancabili affezionati del genere. A maggio escono tre western di quarta fascia. Il primo è Anche per Django le Carogne hanno un Prezzo (1971) con cui Luigi Batzella, in arte Paolo Solvay, debutta nel genere. Sardo, quasi alla soglia dei cinquant'anni, Batzella è al quinto film. Si è dapprima fatto le ossa come attore comprimario in modeste pellicole di genere, poi ha preso la via del montaggio, che proseguirà anche negli anni '70, per passare alla regia nel 1966. Quando riceve l'incarico di girare il suo primo western è pressoché sconosciuto, si ritaglierà in seguito un certo alone da regista culto del trash all'italiana per pellicole come Il Plenilunio delle Vergini (1973), Nuda per Satana (1974) e il nazi-movie La Bestia in Calore (1977). Il copione porta la firma, oltre del regista e del debuttante Gaetano Dell'Era (farà pochissimo), di Mario De Rosa che è anche il produttore. Si tratta di un altro sceneggiatore comprimario che poi scriverà il copione di un ulteriore film, lo sconosciuto Suggestionata (1978), per sparire nel nulla. Risultato finale? Pessimo e poverissimo, con Scarciofolo che passa dai film di Fidani a questo di Batzella alla stregua di una frittata che dalla padella plana su un tegame e non certo per il nome dell'attore in odore di culinaria o per i suoi capelli di un biondo 1183 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

affumicato. C'è comunque da sorprendersi che abbiano oliato il pentolame a sufficienza per completare tutti quei passaggi determinati per giungere a conclusione d'opera. Il cast artistico non ha attori di richiamo, addirittura molti sono al debutto, idem nel cast tecnico, tanto che Batzella “cura” anche il montaggio. Stroncato da tutti o meglio da quasi tutti, visto che Giusti, vede nella sconclusionatezza motivo di culto. La trama è quella del cacciatore di taglie che insegue i banditi di turno. Non contento Batzella userà alcune scene di questo film per impinguare altre due sue pellicole western girate a stretto giro di posta. L'apoteosi della mediocrità. Si prosegue con I Quattro Pistoleri di Santa Trinità (1971), una piccola produzione, di livello lievemente superiore, che ripropone il vecchio Giorgio Cristallini in qualità di regista, dopo quindici anni di “declassamento” al ruolo di regista delle seconde unità nei peplum, tra i quali Arrivano i Titani (1961) di Tessari, occupandosi prevalentemente delle scene di massa. Abituato a lavorare nella confusione, Cristallini viene ingaggiato per dirigere un film senza pretese, che ha comunque Peter Lee Lawrence e Ida Galli nel cast artistico, oltre ai validi Umberto Raho, Daniela Giordano e Raf Baldassarre in ruoli di contorno. Dirigerà un altro western di interesse nullo e soprattutto l'apprezzato noir I Gabbiani Volano Basso (1977), con cui chiuderà la carriera. Di questo film, scritto dallo stesso Cristallini, si ricorda un buon epilogo e una struttura narrativa in crescendo che si avvia da un prologo soporifero. Le buone prove degli attori lo rendono presentabile anche se tutt'altro che memorabile. La trama vede un gruppo di delinquenti braccare una ragazza (Giordano) per entrare in possesso di alcuni documenti, ma la giovane scappa trovando la protezione di un giornalista e di uno sceriffo. Musiche del maestro Pregadio. Apprezzato da spaghettiwestern.altervista.org che assicura “vi entusiasmerà”. Per noi è un'ottimista. Il livello, già basso, non viene scosso dall'uscita de Lo Chiamavano King (1971) per il ritorno, tutt'altro che atteso, di Renato Savino che dirige e scrive il copione con Giancarlo Mancori, nascondendosi poi dietro il nome di Giancarlo Romitelli. Certo, rispetto a L'Oro dei Bravados, il livello sale, ma non ci voleva molto. Ad aiutare l'esito sono Richard Harrison e soprattutto Klaus Kinski, oltre a Vassili Ka1184 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ris, Boido e Luciano Pigozzi. Non migliora invece il copione, visto e rivisto, un revenge movie in piena regola incapace di proporre motivi di interesse. Non è sufficiente a salvare l'esito finale il ribaltamento centrale di ruoli che vedrà Kinski passare da tutore della legge a mandante occulto che guida i trafficanti di armi. Musiche di riciclo firmate Bacalov. È definito noioso anche dal buonista spaghettiwestern.altervista.org. Passare oltre. Neppure Sergio Garrone riesce a rivitalizzare il genere, anche perché Alvaro Mancori lo chiama per rimpiazzare Luigi Mangini, in forte lite con gli attori, nella direzione de Quel Maledetto Giorno della Resa dei Conti (1971). Mancori sfrutta il malumore per trovare una scusa per liquidare Mangini, reputandolo inidoneo al genere, ma i problemi sono altri. Si tratta di una produzione non raccomandabile, che finisce i soldi in corsa. Mancori promette di saldare il dovuto poi non paga nessuno. È la fine anche per gli studi Elios che chiudono i battenti con questa pellicola, sovraccaricati di debiti e ipoteche. Cala il sipario su un'era che ha reso magico il cinema italiano. La pellicola tuttavia trova lo sfogo utile a terminare il suo percorso, pur se a pezzi e bocconi. Nel crack sono coinvolti anche Aristide Massaccesi, quale operatore, e alcuni caratteristi culto del calibro di Nello Pazzafini e Federico Boido, oltre alla moglie di Pippo Franco, cioè Costanza Spada. Montefiori interpreta un medico che armatosi di pistola si metterà alla caccia di chi gli ha ucciso la moglie. Nessuna novità in vista, se non l'imbarbarimento del protagonista che da uomo di scienza si trasforma in cieco assassino per sedare la rabbia che lo consuma dall'interno. Un tema quest'ultimo che ha portato il critico Thomas Weisser a reputarlo una sorta di antesignano de L'Ultima Casa a Sinistra (1973) di Craven. Davvero poco per esser riscoperto, ma comunque una piccola soddisfazione per Mangini che, a livello di scrittura, si è sforzato di strutturare i personaggi. Garrone gira, quasi in contemporanea, Uccidi Django... Uccidi per Primo (1971) per l'avvocato Sebastiano Cimino (non produrrà altro) che è pure peggio. Protagonista è l'obsoleto, per il genere, Giacomo Rossi Stuart contrapposto al bandito Aldo Sambrell. Ci sono anche il caratterista leoniano Robledo, George Wang oltre Roberto Camerdiel, ma Garrone, che pure scrive il copione, non fa miracoli. A stuccare è il solito copione dell'innocente accusato di omicidio che poi deve di1185 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

scolparsi da solo acciuffando i responsabili. È considerato da tutti il peggior western del regista che da qui in avanti si occuperà di altro, ma in evitabile calo fatta eccezione de L'Esorciccio (1975), in veste di direttore della produzione, e di un paio di horror passabili. Desta curiosità l'ingresso nel western del cabarettista napoletano Carlo Croccolo, celebre per alcuni siparietti accanto a Totò (che ha pure doppiato), che si improvvisa regista di due western prodotti da Oscar Santaniello (e Carlo Marina), suo commercialista (al secondo film, produrrà o curerà gli aspetti amministrativi di svariati film di Joe D'Amato tra cui i celebri Antropophagus e Buio Omega, dandosi infine al softcore). Si tratta delle due uniche regie di questo attore, se si escludono alcuni porno amatoriali che si dice abbia girato a metà anni '60, in America, per ragioni alimentari (Roberto Poppi non li riporta nel suo volume I Registi, della Gremese Editore). Il primo film a uscire, il meno valido, è Una Pistola per Cento Croci (1971) scritto dallo stesso Croccolo, che si firma Lucky Moore ispirato dal suono reso da Lucky Luciano. Cast artistico povero. Luciano Stella, in arte Tony Kendall, è il protagonista. Domenico Palmara il cattivo, colpevole, da ufficiale sudista, di aver fatto morire, per tradimento, una serie di soldati ai suoi ordini e commilitoni del protagonista. Quest'ultimo prende il consueto nome di Sartana, senza che ve ne sia motivo. Tra le scene di culto si segnala una donna virago che, armata di frusta, spoglia la coprotagonista a suon di sferzate. Le due attrici sono rispettivamente Monica Miguel (negli anni '90 si riciclerà nel ruolo di regista di serial televisivi) e Marina Rabbissi, almeno così Marco Giusti decripta lo pseudonimo di Marina Mulligan che secondo imdb (ma a qualcuno non pare) sarebbe Marina Malfatti. È curioso constatare come Marisa Rabbissi non sia neppure nel database di imdb e quindi sarebbe una debuttante con un solo film all'attivo. Giusti specifica che si tratta della moglie del regista e così anche il Davinotti. Lo stesso Croccolo in un'intervista parla della Mulligan come sua moglie. Cerca di venirci in soccorso wikipedia che indica Marina Rabissi, che tuttavia non compare come attrice su imdb bensì quale regista di una serie televisiva portoghese intitolata Belezas de Verao che uscirà vent'anni dopo questo film. Enigma curioso, che attribuisce a questa pellicola un ulteriore tocco alla Totò, amplificato dal fatto che nella biografia della Malfatti figura la recitazione in questo film. Un giallo degno di chi, da ex commessa di boutique, è stata lanciata dalla partecipazione 1186 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nello sceneggiato tv L'Ombra Cinese (1966) facente parte della serie Maigret. La Malfatti sarà gradita presenza in molti gialli all'italiana, tra cui ricordo La Notte che Evelyn Uscì dalla Tomba (1971) e La Dama Rossa Uccide Sette Volte (1972) di Miraglia, nonché Tutti i Colori del Buio (1972) di Martino e Sette Orchidee Macchiate di Rosso (1972) di Umberto Lenzi, per poi passare ai serial televisivi e al teatro dalla fine degli anni '70. Alla fine non si sa a chi dare ragione, ma si tende a scartare la Malfatti complice l'intervista di Croccolo che spiega che la Mulligan era sua moglie. La trama è un revenge movie, questa volta a spingere il protagonista alla ricerca dei banditi sono acredini di guerra. Croccolo si ritaglia uno spazio comico per una pellicola a basso budget che soffre un po' nel ritmo, ma che non fa fiaschissimo anche se Croccolo stesso alla fine dirigerà due film in luogo dei tre previsti. Presenti svariate scazzottate messe in scena con tocchi grotteschi. Ignorato dai blogger stranieri, quattro abbondante su imdb. A fine luglio, dopo aver curato circa una settantina di fotografie, Adalberto Albertini prova la via della regia western con I Vendicatori dell'Ave Maria (1972) che scrive e gira per conto di Lucio Marcuzzo. Quest'ultimo è un produttore prevalentemente di documentari incentrati su inchieste attorno al mondo della prostituzione e di alcuni lungometraggi del filone spy story. Non produrrà altri western né altri lungometraggi. Il budget è modestissimo. Protagonista Tony Kendall, all'anagrafe Luciano Stella, con attorno un pugno di bravi caratteristi quali Alberto Dell'Acqua, Pietro Torrisi e Remo Capitani. Non a caso la sceneggiatura vede quali eroi di turno un terzetto di acrobati circensi schierato con un signorotto locale (Alberto Farnese) e la sua banda. Albertini, che si firma con grande fantasia Al Albert, può così sfruttare il suo manipolo di stuntman per scazzottate e voli di ogni tipo. Musiche di riciclo riprese da più autori. La pellicola non ha nessun culto e anche l'azione, che secondo alcuni sarebbe notevole (filmtv), non è tra le più serrate. “Filmetto leggero che difficilmente saprà emozionare” commenta spaghettiwestern.altervista.org. Albertini, che arriva dal cinema spionistico e di azione, avrà discreto successo (si parla di incassi miliardari) nel cinema erotico con 1187 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

una trilogia avviata da Emanuelle Nera (1975), interpretata da Laura Gemser e poi proseguita da Joe D'Amato. Il tredici agosto è la volta de La Vendetta è un Piatto che si Serve Freddo (1971) con cui Pasquale Squitieri, alla terza pellicola e con lo pseudonimo William Redford, si conceda dal genere per dedicarsi a tematiche a lui più congeniali come la criminalità organizzata e il terrorismo degli anni di piombo. Lo produce l'imprenditore egiziano Solly V. Bianco, già incontrato in occasione di Buffalo Bill, L'Eroe del West (1964) di Costa e Bandidos (1967) di Dallamano, alla sua ultima produzione (passerà in seguito a ruoli amministrativi). Squitieri stende il copione buttando più di un occhio a Soldato Blu (1970) di Ralph Nelson, dal quale arriva il revisionismo in favore degli indiani inserito nel classico script dei primi spaghetti-western ovvero quello costituito dai grandi proprietari terrieri che vogliono sottrarre i terreni ai piccoli coloni. Per raggiungere l'obiettivo, il signorotto locale (Ivan Rassimov, in uno dei suoi primi ruoli da antagonista) organizza delle spedizioni a danno dei coloni atte a distruggere le loro abitazioni in modo che la colpa ricada sugli indiani. Per rafforzare tale ricostruzione viene dato un importante peso alla stampa, utilizzata quale strumento di influenzamento e di indirizzo delle masse, grazie alla pubblicazione di articoli menzogneri ma strumentali ai fini del signorotto locale. In questo contesto si inserisce la storia del protagonista, interpretato da Leonard Mann, al secolo Leonardo Manzella. Si tratta di un cacciatore di indiani che ha l'abitudine di vendere scalpi e che rivedrà le proprie convinzioni per amore di una pellerossa e soprattutto perché scoprirà la verità che sta dietro al massacro della propria famiglia (mostrato nel prologo). Squitieri, aiutato in fase di scrittura da Monica Venturini, donna tuttofare con precedenti da assistente alla regia e con un futuro da piccola produttrice, porta avanti la storia in modo convenzionale. Fa ferire gravemente il suo protagonista, che viene poi raccolto e rimesso in sesto da un truffatore burlone (Steffen Zacharias, già visto in Lo Chiamavano Trinità), quindi lo fa entrare nella banda dell'antagonista e lo fa agire dall'interno per debellarla in un epilogo dove sarà supportato proprio dagli indiani. Pur non essendo un capolavoro si tratta di una pellicola degna di menzione. In prima battuta cerca di mostrarsi originale, non sceglie la 1188 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

via della farsa ma assume toni drammatici. Squitieri introduce critiche all'uso non controllato della stampa e denuncia il razzismo. Da quest'ultimo punto di vista si assiste a una bella sequenza in cui una ragazza indiana (Elizabeth Everfield) viene sottoposta a un linciaggio a opera di un corposo gruppo di villeggianti. La vediamo trascinata in mezzo alla piazza, costretta a subire le beccate di un pappagallo, quindi cosparsa di catrame e di piume. La salverà Manzella che, come al solito molto silente (proferisce poche battute), si innamorerà di lei pur odiando gli indiani perché convinto che gli abbiano sterminato la famiglia. Dietro al massacro, in realtà, c'è Ivan Rassimov e il suo giornalista personale, Klaus Kinski. Il primo, ben vestito, va in giro con frustino da cavallerizzo esigendo di esser chiamato “padrone”. Il secondo mangia e beve, ospite nella reggia di Rassimov, con un ruolo più marginale. Finirà linciato dalla popolazione una volta informata della falsità degli articoli pubblicati fino ad allora. Curioso il personaggio di Steffen Zacharias, truffatore sopra le righe che va in giro su una diligenza e che non fa altro che esprimersi con frasi latine. Farà da spalla al giovane Manzella, in un ruolo che ricorda quello avuto in Trinità. Toglie persino un dente a un contadino con una lima (!?). Elizabeth Everfield è al suo unico film, ma se la cava sufficientemente bene nel ruolo dell'indiana selvaggia che poi si innamora dell'uomo bianco, ma che deve passare dietro a una serie di violenze. Non mostrato dalla macchina da presa, mozzerà quasi un orecchio al personaggio di Kinski mandando quest'ultimo su tutte le furie e finendo per questo frustata in mezzo alla piazza. La regia di Squitieri è ordinaria, si segnala un bellissimo primo piano di Manzella, con volto non centrato ma spostato sulla sinistra, e con immediata comparsa sulla destra di un bandito pronto ad accopparlo. Niente di eccezionale le musiche di Piero Umiliani e la fotografia di Angelo Lotti. A mio avvio è sottovalutato. Su imdb.com non raggiunge il cinque in pagella, idem per 800spaghettiwesterns.blogspot.it che lamenta alcune forzature di sceneggiatura e uno sviluppo non adeguato della tematica del razzismo. Non si dichiara molto convinto neanche spaghettiwestern.altervista.org. L'unico che si discosta è fistfulofpasta.com che lo definisce “molto interessante” pur se penalizzato da un budget limitato e da ambientazioni poco scenografiche (il film è girato nelle campagne romane). 1189 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Un altra pellicola che esce nel periodo di ferragosto è Anda Muchacho, Spara (1971) che segna il ritorno di Aldo Florio al western. Pur non essendo un'opera trascendentale, è il miglior film diretto da regista ciociaro il quale, rispetto a I Cinque della Vendetta (1966), passa a una produzione di maggior calibro che ha in Fulvio Lucisano e in Eduardo Manzanos Brochero i deus ex machina. Entrambi con esperienze nel genere, il primo saltuariamente, il secondo in modo costante, e già soci in Due Croci a Danger Pass (1967), i due sottopongono a Florio un soggetto di Bruno Di Geronimo. Il regista accetta l'offerta, perché è alla ricerca del film che lo possa lanciare definitivamente e l'occasione gli pare propizia tanto da portarlo a collaborare nella stesura della sceneggiatura e nell'apportare alcune modifiche al plot. Di Geronimo, dal canto suo, è alle primissime armi. Ha debuttato un anno prima collaborando alla stesura dello script del thriller Paranoia (1970) di Umberto Lenzi, tanto entusiasmo da vendere ma non farà molto altro di rilevante, distinguendosi però per alcuni gialli, come Cosa Avete Fatto a Solange (1972), e soprattutto per una serie di fiction televisive quali Il Commissario De Vincenti (1974) e I Misteri della Giungla Nera (1991). Non tornerà più al western, così come non lo farà Florio. I due dimostrano i limiti propri di chi non è specialista, a poco serve l'aiuto di Manzanos Brochero che invece è un volpone in materia. Ne esce uno spaghetti-western dal forte sapore del dejà vù, un po' fuori tempo massimo, che ricalca gli stilemi di Per un Pugno di Dollari (1964) copiandovi alcune sequenze (buona parte dell'epilogo) e addirittura inquadrature (la soggettiva di Ramon dopo che Eastwood lo ha colpito). La sinossi è molto semplice. Vede un uomo (Fabio Testi), evaso da una sorta di campo di concentramento (in stile Per Pochi Dollari Ancora), accordarsi con dei minatori, trattati alla stregua di schiavi dalla banda di un distinto signore (il solito Fajardo) che non si sporca mai le mani e che delega gli omicidi ai suoi scagnozzi, allo scopo di vendicarsi (e non di fare soldi). Segue il trito canovaccio del doppio gioco del protagonista, finalizzato all'ingresso nella banda di delinquenti; la complicità tra questo e una donna tenuta contro volontà della stesa all'interno della banda (come la Koch nel film di Leone) e costretta a sottostare agli abusi di più soggetti che la trattano da prostituta; il pestaggio ai danni del protagonista, perché scoperto traditore dopo che 1190 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ha falcidiato alcuni componenti della banda (soluzione copiata pari pari da Per Qualche Dollaro in Più); e si chiude con la fuga dalla prigionia grazie all'intervento di terzi (in questo caso la donna) e il regolamento di conti finale in puro stile Leone. Questo, in sintesi, è Anda Muchacho, Spara!, una pellicola dove non c'è niente di nuovo. Florio gira in modo ordinato ma impersonale, pur scandendo un ritmo sufficiente e pur sfruttando le morriconeggianti musiche di Bruno Nicolai (ottimo come al solito). Sfrutta anche lui la soluzione del flashback, spalmando la ricostruzione dei fatti del passato in modo da presentarli a poco a poco nel corso del film, per costruire il background sia del protagonista sia della donna sfruttata dalla banda e affidata all'interpretazione della bella Charo Lòpez. A differenza dello straniero di Leone, il personaggio di Fabio Testi non è spavaldo, ma è triste, indolente, dotato di minor fascino perché privo di quell'atteggiamento da spaccone. Inoltre si commuove al ricordo del compagno di fuga, deceduto di stenti nel corso dell'evasione (gli ha dovuto segare una gamba, onde evitare di trascinarselo dietro dato il cappio che serrava le loro caviglie), oltre a innamorarsi della Lòpez, che libera dalla banda perché la vuole per sé sebbene se la siano ripassata tutti (tra i quali i bulli interpretati da Romano Puppo e da Ben Carra). A tal riguardo Florio ce la mostra pure in topless. L'unico che pare non interessato alla donna è Fajardo, e non se ne interessa direttamente perché è un voyeurista che la sfrutta per mettere contro i potenziali individui che potrebbero scalzarlo dalla leadership della banda. Di lui la donna dirà: “Sai solo guardare, hai il solo coraggio di guardare!” Dunque le uniche caratterizzazioni che uniscono il personaggio di Testi a quello di Eastwood sono gli accorgimenti strategici e i gadget utilizzati. Per non ferirsi al palmo della mano, ricorre anche lui a una sorta di fascia di cuoio che indossa prima di sparare, proprio come Eastwood in Per Qualche Dollaro in Più. Si presenta poi nelle ultime sequenze con poncho sulle spalle, materializzandosi nella nuvola che lo porta al cospetto del trio degli uomini di Fajardo. Fabio Testi non lavora male, ma non è ancora al top. Lui stesso dichiara di non ricordare il film. Arriva dalle pellicole di Fidani e da altre piccole produzioni affidate a Marchent e a Vari. Anda Muchacho, Spara! è il suo primo film di una certa importanza, ma al botteghino la risposta sarà alquanto fiacca, appena centocinquanta milioni di incasso. Il flop è piuttosto inatteso, ma è riconducibile, oltre che alla crisi del genere, ai limiti di sceneggiatura (i dialoghi non graffiano, la sto1191 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ria non è originale). Peccato, perché il cast di contorno è in palla. Fajardo interpreta il suo classico personaggio dell'antagonista che si atteggia a nobiluomo, ma in realtà è un sadico ipocrita. Poi abbiamo i vari Massimo Serato, José Calvo, Romano Puppo e la già citata Charo Lòpez. Quest'ultima arriva dai serial televisivi spagnoli ed è al debutto nel genere, in seguito vincerà svariati premi in patria, soprattutto negli anni '80 e '90 lavorando per la televisione. La ritroveremo ne Il Lungo Giorno della Violenza (1971) di Scotese, poi sarà fagocitata dalle produzioni ispaniche dove continua a lavorare al giorno d'oggi. Western onesto, da vedere solo se si è fissati col genere, ma ben considerato dai critici del settore che lo elogiano quasi in massa. Giusti, concordo con lui, è tra i più obiettivi evidenziando che soffre di una vecchia impostazione. Tom Betts lo annovera tra i western minori, ma lo definisce, in tale ambito, eccellente. Elogi, da parte di Thomas Weisser, per la fotografia del veterano Emilio Foriscot, professionista formatosi in Spagna prima dello scoppio della seconda guerra mondiale e già incontrato in western quali Due Croci a Danger Pass e Bandidos di Dallamano, oltre che nei migliori thriller di Sergio Martino. Sopravvalutato oltre modo nella rete. Gli utenti di imdb.com gli attribuiscono un voto superiore al sette, parla persino di “opera tre le più belle del panorama western italiano” spaghettiwestern.altervista.org. Tre stelle per filmtv.it, mentre c'è meno entusiasmo tra i blogger stranieri. L'unico a interessarsi con un commento elaborato è spaghettiwesterns.1g.fi che lo reputa un'ottima copia di Per un Pugno di Dollari, sia sotto il profilo della regia sia di quello delle interpretazioni. Morandini non si distingue e lo evita del tutto. Grande abbondanza di western a settembre, tanto che nella prima settimana sono tre quelli a contendersi le scelte del pubblico. Desta aspettative È Tornato Sabata... Hai Chiuso un'Altra volta (1972) sequel ufficiale di Ehi Amigo... C'è Sabata, hai Chiuso! (1969). Ancora Parolini alla regia e Alberto Grimaldi alla produzione con medesimo cast tecnico. Si ridimensiona, forse, il cast artistico dove vengono confermati Lee Van Cleef, Aldo Canti e Ignazio Spalla e vi subentrano Giampiero Albertini, Karis Vassili e Steffen Zacharias, oltre i caratteri1192 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sti Luciano Rossi, Federico Boido, Alberto Dell'Acqua e Pietro Torrisi. Grande assente William Berger. Sabata, questa volta, è al servizio del popolo e si pone a capo di un manipolo eterogeneo allo scopo di recuperare un malloppo di denaro consegnato dai cittadini a un truffatore irlandese incaricato di ricostruire il paese. A rispondere agli ordini di Sabata sono un gruppo di circensi, un ex commilitone (Reiner Shone, proveniente dal circus televisivo tedesco in cui farà ritorno, qualcuno lo riconoscerà anche in Mortal Kombat Distruzione Totale di John R. Leonetti) e a una coppia di ladri (Candi e Vassili). Parolini sembra quasi rubare l'idea del gruppo circense scatenato contro il bullo della situazione ad Adalberto Albertini (il riferimento va a I Vendicatori dell'Ave Maria) e, ironia della sorte, l'antagonista del film è un altro Albertini, cioè Giampiero, che diventerà famoso quale doppiatore di Peter Falk nella serie de Il Tenente Colombo nonché per alcuni sceneggiati televisivi. La forza del film sta nella regia scatenata di Parolini che non rinuncia ai virtuosismi e conferma i suoi gadget da 007 con pistole che sparano da punti inimmaginabili o atteggiamenti del protagonista degni di un prestigiatore circense (peraltro esplicitato dal prologo). Non manca l'ironia. Contrariamente alle attese però il film non riscuote il successo atteso, viene inoltre caratterizzato dai capricci di Lee Van Cleef. L'americano, entrato in polemica con la produzione per la mancata concessione di alcuni confort, inizia a pretendere controfigure su tutto, intralciando di fatto la lavorazione del film. Reputato da tutti come inferiore di gran lunga al primo capitolo, merita comunque una visione per la sua spensieratezza e spettacolarità scenica. Vi è poi l'ennesimo sequel apocrifo legato al personaggio Sartana (che poi non compare nel film!?) che Mario Pinzauti va a finalmente a ultimare col titolo Vamos a Matar Sartana (1972). Produzione italospagnola poverissima, tanto che si gira in Italia, facente capo a Marco Claudio al suo secondo e ultimo film, dopo il debutto l'anno prima con Il Magnifico Robib Hood (1970) di Bianchi Montero. La maledizione dei mancati pagamenti nei film di Pinzauti si ripete ancora. Claudio finisce i soldi, non paga nessuno. Addirittura il protagonista spagnolo George Martin, al secolo Francisco C. Martinez, mette mano al portafoglio per coprire le spese necessarie per terminare la lavorazione. 1193 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

La sceneggiatura porta la firma del regista unita a quella di Marco Masi, regista culto per aver diretto delle pellicole scomparse nel nulla, omaggiato persino da Cristiana Astori nel giallo Mondadori Tutto Quel Blu (2014) per la regia de L'Autuomo (1984). I due si ritrovano a lavorare di nuovo assieme nonostante una furiosa lite scoppiata a seguito dell'uscita del film Un Cadavere a Spasso (1965) che avrebbe dovuto girare Pinzauti e che invece vide il debutto di Masi. Trama priva di novità, caccia al tesoro messa in atto da due evasi: l'acrobatico George Martin e il demoniaco Gordon Mitchell il cui personaggio si chiama, tanto per cambiare, “il matto”. Seguiranno i classici scontri interni alla banda di complici per tenersi tutto per sé il tesoro. Grande abbondanza di caratteristi spagnoli tra i quali Daniel Martin, Pajarito, Francisco Brana e Cris Huerta. Evitabile e visto da pochissimi. Non migliorano le sorti con In Nome del Padre, del Figlio e della Colt (1972), piccola coproduzione che Silvio Battistini (produttore esecutivo de ...E Divenne il Più Spietato Bandito del Sud) coordina con Eduardo Manzanos Brochero. Diatriba sulla regia. Mario Gariazzo realizza la sceneggiatura, ma stranamente non la porta in scena, verosimilmente perché impegnato su un altro set. È Mario Bianchi, secondo alcune fonti, a prendere l'onere della regia, ma altrove si legge Luigi Mangini. Inutile soffermarsi su questo aneddoto, perché il film non se lo fila nessuno. La pellicola presenta la caratteristica di un assassino mascherato (maschera di cuoio e vestito di nero) che nella notte di Halloween va in giro a uccidere persone armato di coltello. Da qui deriva il titolo per il mercato internazionale The Masked Thief. Aspetto questo molto interessante che sembra anticipare il tema fondante di Halloween (1978) di John Carpenter, tra l'altro non si vede una goccia di sangue nonostante di sparatorie e di assassinii ce ne siano a bizzeffe. Inoltre il protagonista, Craig Hill, si trova al cospetto di un gemello stupratore che attacca le donne. Che John Carpenter e Nick Castle si siano davvero ispirati a questo film...? Difficile... Resta comunque un giallo western non dotato di gran ritmo, molto povero, ma migliore rispetto alla media dell'anno. Marco Giusti sostiene che sia uscito quattro anni dopo la lavorazione, ovvero nel 1975 (gli fanno eco filmtv e spaghettiwestern.altervista.org). Non ne specifica le ragioni, a nostro avviso, invece, tramite i database imdb, 1194 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

potrebbe esser uscito nel settembre del 1972. Cinque pieno per gli utenti di imdb.com. Può destare curiosità anche se visivamente lascia a desiderare. Da un set povero a uno disastrato, quello de Il Giorno del Giudizio (1971), dove troviamo proprio Mario Gariazzo alle prese con un copione dallo stesso firmato in simbiosi con Franco Daniele (scriverà due erotici, dirigendone uno nel 1973, Seduzione Coniugale; di lui Poppi scriverà: “è uno dei nomi più misteriosi del cinema italiano”) e Nello Rossati (è al debutto, prenderà la via della regia girando, tra gli altri, Django 2 – Il Grande Ritorno nel 1987). E' lo stesso Gariazzo ad autofinanziarsi, sembrerebbe supportato dall'attore americano Robert Paget, ma personalmente andrei a escluderlo non avendo quest'ultimo mai prodotto un film e non comparendo nel film. Alcuni sostengono che anche Ty Hardin, il protagonista, abbia sganciato qualche dollaro. Opera poverissima, ma con un affollato palco attori. Star del gruppo è l'americano Ty Hardin, primo protagonista dei serial Bronco (1958-62) e Riptide (1969), giunto in Italia per prendere parte al disastrato Quel Maledetto Giorno della Resa dei Conti (1971). Ironia della sorte, Hardin passa dal giorno della resa dei conti a quello del giudizio, sembra quasi uno scherzo del destino. Eppure era stato un apprezzato attore in America, attore di supporto ne La Battaglia dei Giganti (1965) di Annakin e in Custer Eroe del West (1968) di Siodmak, in Italia sarà per lo più impegnato in western di serie z. A fargli da spalla troviamo Rossano Brazzi, attore esperto, di formazione teatrale, prima ancora canora, apparso sulle scene fin dall'anteguerra, passato al ruolo di protagonista con Guido Brignone nel film Kean (1940) e divenuto attore apprezzato sotto l'egida fascista. Qualità che non erano passate nascoste oltre oceano, favorite anche dal fisico e dalla fama di belloccio, tanto che negli anni '50 Brazzi aveva avuto l'onore di lavorare in diverse produzioni hollywoodiane ricevendo forti attestati di stima. Figurano poi Craig Hill, Gordon Mitchell (qua buono), Rosalba Neri e Umberto Raho, inoltre, con ruoli da comparsa, i caratteristi Guido Lollobrigida, Raf Baldassarre, Giovanni Cianfriglia, Riccardo Pizzuti e Federico Boido. Dunque un cast artistico di tutto rispetto che però Gariazzo non sfrutta. Viene addirittura ricordato come “pessimo” da chi vi ha preso parte. Del resto la trama propone la consueta revenge 1195 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

movie con un marito che intende vendicare la moglie uccisa da una banda di manigoldi e per farlo si traveste (barba finta compresa) e indaga per individuare i responsabili che sono annotati in una lista ben precisa. Una particolarità del film è costituita dall'abitudine del protagonista, prima di sparare, di cadenzare il tempo per far estrarre la pistola all'avversario servendosi di un pupazzetto meccanizzato da cui si libera la melodia di un carillon (evidente omaggio a Per Qualche Dollaro in Più). Nulla di nuovo... Spaghettiwestern.altervista.org individua i limiti, oltre che nel plot, nella regia di Gariazzo reputata mediocre e distratta. Migliorano le cose con Il Venditore di Morte (1971), ennesimo western giallo scritto da Vincenzo Gicca Palli che, dopo aver preso le mosse con un film di buon successo come Il Corsaro Nero (1970) con Terence Hill, riprova la regia di un western dopo aver diretto l'introvabile Giorni di Sangue (1968). A produrlo è Gabriele Silvestri (Due Once di Piombo) che riesce a ingaggiare Gianni Garko e Klaus Kinski. Il primo, pur interpretando il detective Silver già apparso in Killer Calibro 22 e Killer Adios (interpretati da Lee Lawrence), tende a riprendere molte delle caratteristiche di Sartana, come la spiccata ironia e l'attività di indagine tesa a scagionare, dietro pagamento, Kinski accusato di un delitto che non ha commesso. Doppio finale con doppio colpo di scena. Poteva mai essere innocente un personaggio interpretato da Kinski? Non male, grazie soprattutto a Garko, ma non si segnala tra i western da ricordare in quanto sprovvisto di verve innovativa. Molto critico 800spaghettiwesterns.blogspot.it il quale scrive: “Non sense di Gicca Palli che mescola thriller, commedia e western, sprovvisto di una progressione drammatica e di suspence richiesta per una storia del genere. Film quindi senza ritmo, con scene a volte inutili, a volte grottesche. Si salva solo Gianni Garko.” Reduce da quattro dei cinque episodi facenti parte della mini saga Sartana, Giuliano Carnimeo è alla ricerca di un nuovo personaggio con cui avviare un nuovo filone di successo; lo troverà di lì a poco con i vari Alleluja, Spirito Santo e Tresette, l'intenzione è però chiara fin da subito. A chiamarlo nella mischia è il duo Leo Cevenini e Vittorio Martino, per i quali aveva diretto Buon Funerale, Amigos... Paga Sartana! 1196 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

(1970), supportato da Mino Loy, fresco anch'egli degli ottimi risultati ottenuti da 10.000 Dollari per un Massacro (1967) e Per 100.000 Dollari T'Ammazzo (1967) già coprodotti con Cevetini-Martino e tutti interpretati da Gianni Garko. La presenza di Carnimeo porta la produzione a insistere sull'attore giuliano che ritorna al western dopo la parentesi costituita da Waterloo (1970) di Bondarchuk e L'Uomo Venuto da Chicago (1970) di Yves Boisset. Viene inoltre ingaggiato un altro attore legato alla saga Sartana: William Berger, apparso nel primo episodio della serie, Se Incontri Sartana Prega per la tua Morte (1967), e che si riaffaccia al genere dopo il processo per detenzione di sostanze stupefacenti e la morte della moglie, Carol Lobravico, avvenuta in carcere in conseguenza dell'arresto per il reato consumato dalla coppia. Per accelerare la produzione si acquista un copione già confezionato e messo in vendita da Enzo Barboni, senza metterci mano se non nella messa in scena più orientata alla commedia rispetto a quanto messo nero su bianco. Barboni, impegnato nella realizzazione di Continuavano a Chiamarlo Trinità e poco convinto dalla possibilità di dirigere in prima persona quello che nasce come un western serio, cede la sceneggiatura per racimolare fondi e perché ritiene la storia superata dalla freschezza costituita dall'emergente sodalizio instaurato con Bud Spencer e Terence Hill. I produttori dimostrano di pensarla alla stessa maniera, andando a sfruttare quanto di buono fatto fino ad allora. Modificano così il titolo originale del copione, Lo Straniero dell'Ora Pro Nobis, inserendo un nome inequivocabile e una sorta di pretitolo atto a scimmiottare la saga Sartana. Ecco che esce Gli Fumavano le Colt... Lo Chiamavano Camposanto, opera che nasce sotto buoni auspici tanto da far crescere attorno un grande interesse negli spettatori che si accalcheranno nelle sale alle prime proiezioni, facendo incassare alla produzione poco meno di quattrocento milioni. Il soggetto non è tra i più memorabili. Barboni stende una storia che ha poco di interessante da proporre, se non l'idea embrionale, poi sviluppata dallo stesso Barboni in E Poi lo Chiamarono il Magnifico (1971), di due studenti effeminati provenienti dalla città, completamente refrattari all'impiego delle armi, che si calano nella nuova realtà di frontiera, cambiano atteggiamento, imparano a sparare e si ribellano ai bulli del paese che pretendono il versamento del pizzo dagli allevatori. Permane il tema dell'avidità e della corruzione, estrinsecata da sceriffi e giudici corrotti, su cui si inserisce la sotto trama 1197 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

costituita dalla presenza di due sicari leoniani (Garko e Berger), chiamati a curare gli interessi altrui (uno degli allevatori ribelli, l'altro dei bulli), ma orientati a sfruttare la lite tra le parti in causa per impossessarsi dei capitali estorti dai banditi agli allevatori. Interessante il riferimento implicito alla mafia, rappresentato dal popolo di un villaggio che arriva a ritenere giusto il pagamento del pizzo, tanto da schierarsi contro i ribelli e da sposare la politica del “non vedo, non sento, non parlo.” Carnimeo gira a suo modo, con frequenti zoom, inquadrature nervose, grande dinamicità, a volte estremizzata alla ricerca di inquadrature assurde, tanto da scandire un ritmo sollecito e ben calibrato. Il regista barese pecca invece nel costruire un registro equilibrato che dia unitarietà alla pellicola, che invece passa da momenti di comicità demenziale a sequenze da western serio (la pensa in modo inverso 800spaghettiwesterns.blogspot.it). Possiamo pertanto definire Gli Fumavano le Colt un'opera di transizione che somatizza le preoccupazioni di un genere in cerca di nuove strade, in particolare quelle offerte dalla deriva parodistica. Eppure troviamo omaggi a Sartana, sia nelle inquadrature (Carnimeo, durante le sparatorie, persiste nelle soggettive di chi spara, mettendo in campo le pistole davanti all'obiettivo rivolte verso gli avversari che cadono in sequenza) sia in alcune caratterizzazioni, la più evidente delle quali è l'utilizzo da parte di Garko di una Derringer a quattro canne, estratta dal polsino della camicia con capacità prestigiatoria. È lo stesso personaggio di Garko, poi, a rievocare le peculiarità di Sartana, infatti non lo vediamo mai in difficoltà, controlla sempre i rivali e veste in modo distinto. Il suo è un ruolo da “angelo custode” che segue, da dietro le quinte, tutte le mosse dell'improbabile quartetto protagonista costituito da due straccioni peone (i caratteristi comici Ugo Fangareggi, famoso soprattutto per le collaborazioni con Ciccio & Franco, e il meno famoso Raimondo Penne) e da due imberbi accademici. Sarà proprio lui a salvare di continuo dai guai i quattro e ad addestrarli all'uso delle armi. Per interpretare i due giovani si cerca di lanciare Christopher Chittel e John Fordyce. Entrambi di nazionalità inglese, il primo ventiquattrenne e il secondo ventunenne, avranno in comune l'insuccesso nel mondo del cinema. Chittel, il migliore tra i due e con lineamenti alla Garofalo, arriva piuttosto in sordina dal circuito televisivo inglese e dal noir Concerto per Pistola Solista (1970) di Michele Lupo, in cui aveva avuto un ruolo di secondo piano. Abbastanza simpatico, cerca di barcamenar1198 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sela saltellando e sfidando a improbabili incontri di boxe i villani del posto, con una performance che pare scimmiottare Edd Byrnes dei primi western di Castellari. Per nulla fisico, mostra faccine divertite e cerca di imporsi al cospetto di specialisti quali Garko o Berger ovvero di caratteristi consumati, inevitabile il poco convincente risultato finale. Il suo non è un volto adatto al genere e, infatti, sarà spedito subito in madre patria dove proseguirà la carriera nel circuito televisivo ottenendo ruoli da protagonista in alcuni serial tutt'ora in programmazione. È addirittura meno carismatico Fordyce, la cui partecipazione è quasi ornamentale. Anch'egli biondo, resta sempre alle spalle di Chittel uscendosene fuori solo per rafforzare la posizione del compagno di avventura, in quello che potrebbe definirsi un ruolo da spalla. Chiuderà qua la sua breve carriera, costituita da appena cinque pellicole di svariato genere, ma di scarsa fama, tutte con ruoli di terzo piano. La poca originalità della sceneggiatura porta Carnimeo a cercare trovate divertenti, ma poco bilanciate al plot. Così sono numerosi gli inserti comico/demenziali che vanno da una scena in cui Garko e Berger accorciano i baffi a un bandito sparandogli contro un colpo di pistola ciascuno, passando per l'esercitazione di tiro di una vecchietta che si lamenta di non aver più la bravura di quando era giovane ma che spara, da un treno in corsa, a un cactus dividendolo in più parti senza mai sbagliare mira. Si prosegue con bimbi allattati con proiettili usati a mo' di ciuccio, scazzottate farsesche, Chittel e Fordyce che vanno in giro tenendo i cartellini dei prezzi sui calci delle pistole appena comprate e via dicendo. Trovate che potrebbero andar bene in un film di Ciccio & Franco, ma che qua stonano con l'atmosfera e l'imprinting generale. Ecco allora che a salvare il film ci pensano Gianni Garko e William Berger, quest'ultimo con indosso una vecchia divisa nordista e un portafortuna costituito da un bicchiere decomponibile in tre parti. I due sono delle vere e proprie canaglie che fingono di sfidarsi, prendendo i soldi dai rispettivi clienti, ma in realtà sono in combutta e tramano nell'ombra. “Sapete, lo straniero è un tipo difficile da tenere” dirà Berger ai suoi dante causa, per farsi aumentare la paga. “Sei un ladro, Duca!” gli risponderanno. Eloquente la risposta del nostro, utile a capire la psicologia del personaggio: “È naturale, come ogni serio professionista!” Più romantico invece il personaggio di Garko che, alla fine, lascerà il bottino al quartetto di improbabili protagonisti, suscitando l'ira del 1199 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

socio: “Sei la vergogna della categoria, Camposanto!” I due giungeranno persino a sfidarsi in un bel duello finale, cadenzato da una moneta di un dollaro lasciata vorticare sul selciato da Berger per decretare il momento in cui estrarre le pistole. Carnimeo giocherà con continui cambi di messa a fuoco, partendo dal primo piano della monetina danzante. L'epilogo si riallaccerà a quelle soluzioni tanto care a Enzo G. Castellari, penso a Vado... L'Ammazzo e Torno, con i due che si volteranno e spareranno in simultanea altrove (nella fattispecie a un bandito superstite), quando tutti sono in attesa del regolamento dei conti. Piccolo ruolo, una comparsa, per Nello Pazzafini nelle vesti di pittoresco capo messicano che ama adornare il sombrero con i ciuffi dei capelli dei rivali uccisi. Lo eliminerà William Berger in regolare duello, innescato da Garko per mero divertimento con una provocazione ad arte esternata al cospetto del bandito: “Cobra Ramirez quando fa fuori uno gli taglia una ciocca di capelli, per tenere il conto. Non è vero? Beh, salta su un tipo e dice: ma perché non fa il barbiere invece del pistolero!?” Dunque uno spaghetti-western contenutisticamente di seconda fascia, con un plot ridotto all'osso e legato agli stilemi dei primi spaghetti-western (anche se tradotti in chiave farsesca), ma con una coppia di attori di primo livello e un cast tecnico che beneficia della professionalità di Stelvio Massi alla fotografia e soprattutto di una delle più belle colonne sonore western di Bruno Nicolai (tutta fischi e cambi di ritmo). È molto apprezzato dagli appassionati, a mio avviso anche troppo, che ne sottolineano la verve comica, giudicata poco riuscita e molto fuori luogo da spaghettiwestern.altervista.org e dal sottoscritto (siamo eccezioni). Più che sufficiente per gli utenti di imdb.com, “titolo celebre della coppia Ascott-Garko” sia per Marco Giusti che per Tom Betts, il quale, a ragione, evidenzia che i migliori western dell'attore giuliano sono altri. Buono per 800spaghettiwesterns.blogspot.it che lo ritiene ancora lontano dalla parodia, vedendo ben bilanciati gli inserti comici, e soprattutto valorizzato da un Berger e un Garko ai massimi livelli. Si congeda dal genere, dopo una mezza dozzina abbondante di western, Edoardo Mulargia che gira, su incarico di un triunvirato capeggiato da Salvatore Alabiso, W Django (1971). 1200 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Spaghettino mediocre, sceneggiato in modo abbozzato da Nino Stresa (al penultimo film), che ha tuttavia la sua aura di culto. Il titolo viene ripreso dal provvisorio titolo di Preparati la Bara! (1967). Protagonista è l'indolente Anthony Steffen, impegnato nella ricerca degli assassini della moglie. Ennesimo revenge movie, dunque, con il protagonista che scova, uno a uno, tutti i responsabili dell'omicidio iniziale e li fa fuori tutti. Gli da una mano Glauco Onorato, doppiato da Ferruccio Amendola per un capriccio di Mulargia che si era scontrato con il mitico doppiatore di Bud Spencer, perché Onorato non voleva fare le scene di azioni. Presenti nel cast artistico anche Simonetta Vitelli, la figliastra di Fidani, Remo Capitani, Benito Stefanelli e Giovanni Cianfriglia. Qualcuno sostiene che ci sia anche Luigi Montefiori, a noi ci pare strano... Buon ritmo, discreta musica di Umiliani, ma grande povertà di mezzi economici. Morti e sparatorie a raffica (spaghettiwestern.altervista.org parla di record di morti con un assassinato, in media, ogni minuto e mezzo), ma senza sangue. Alla fine riscuote pure un incasso più che sufficiente. Mulargia decide tuttavia di passare a un altro filone. Girerà il discreto thriller caraibico Al Tropico del Cancro (1973), niente a che vedere con il romanzo di Henry Miller, per poi prendere un'inevitabile parabola discendente. Sufficienza piena su imbd. Lo apprezza anche lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it che stronca plot e sceneggiatura (non apprezza le parentesi umoristiche), ma reputa sufficiente tutto il resto. “Sceneggiatura quasi inesistente con pochi e banali dialoghi e sparatorie continue a coprire la mancanza di idee.” 11.2 Gli ultimi tortilla western e il ritorno di Trinità. Come già successo nel 1970, i western migliori escono negli ultimi tre mesi, ma si tratta di pellicole incapaci di fare cassa come un tempo eccetto che per il caso Trinità. Il personaggio ideato da Barboni torna sugli schermi e persevera nello stupire, decretando definitivamente la nuova via da seguire a discapito del western violento. Intanto però a ottobre esce il quinto western di Sergio Leone, gemma preziosa in una vetrina ormai opalizzata a causa dell'inflazionato numero di prodotti esposti alla mercé degli spettatori storditi da titoli chilometrici o 1201 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dal false promesse di collegamento a western di successo (da leggersi quale proliferazione incontrollata e contenutisticamente ingiustificata di finti sequel). GIÙ LA TESTA Produzione: Italia, 1971. Prodotto: Sergio Leone e Fulvio Morsella (Rafran, San Marco Films, Euro International Film). Regia: Sergio Leone. Soggetto: Sergio Leone e Sergio Donati. Sceneggiatura: Sergio Leone, Sergio Donati e Luciano Vincenzoni. Interpreti Principali: Rod Steiger, James Coburn, Romolo Valli, Antonine Saint-John (Jean Michel Antoine), Rik Battaglia, Maria Monti, David Warbeck, Vivienne Chandler, Benito Stefanelli, Alfredo Sànchez Brell (Aldo Sambrell). Fotografia: Giuseppe Ruzzolini, Franco Delli Colli e Sandro Mancori. Musiche: Ennio Morricone. Sottogenere: Tortilla western. Durata: 150 min. Giudizio Mancini: ***1/2 Giudizio Morandini: ***1/2 La trama Dinamitardo dell'IRA (Coburn) coinvolge uno straccione messicano (Steiger) nella rivoluzione messicana, facendogli credere di assaltare la più importante banca del Messico. Intanto il colonnello Gunther Reza (Saint-John), al comando dell'esercito, cerca di reprimere i moti rivoluzionari. Il Commento. Pellicola controversa passata dietro svariate vicissitudini. Sergio Leone la concepisce come un prodotto destinato alla regia altrui. Stende il soggetto, ma fa di tutto affinché sia un altro a girarlo, in quanto ritiene chiusa con C'era una Volta il West (1969) la propria esperienza diretta col mondo del western. Il suo desiderio è quello di affidare il film a Sam Peckinpah, lo contatta e gli offre la possibilità di collaborare assieme. Peckinpah però, dopo le prime difficoltà, si è de1202 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

finitivamente affermato grazie a Il Mucchio Selvaggio e non ci tiene affatto a misurarsi col western all'italiana, né con un despota quale era Leone. Leone se la prende a male, anzi se la lega proprio al dito come è facile comprendere nella visione de Il Mio Nome è Nessuno quando compare una croce, al cimitero indiano, su cui è scritto il nome Peckinpah. Il nostro ripiega allora su un emergente. Lo individua, come già fatto per Dario Argento e Bernardo Bertolucci, tra i giovani legati alla Nouvelle Vague. Questa volta il prescelto arriva dagli Stati Uniti. Si tratta del trentenne Peter Bogdanovich, figlio artistico di Roger Corman e reduce dal thriller Bersagli (1968). Il giovane ha all'attivo anche alcune apparizioni da attore (sarà ricordato, in tale veste, per le sue partecipazioni nel recente serial televisivo I Soprano), è inoltre conosciuto quale cultore di John Ford e di Howard Hawks. Bogdanovich accetta lusingato e viene a Roma, dove ha vari incontri con l'equipe di Leone. Alle riunioni partecipa anche lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni, che rivede la sceneggiatura del duo Leone-Donati e discute soluzioni con Bogdanovich. Leone però è geloso del progetto. Spiega, passo a passo, il ritmo che il film deve avere, suggerisce persino le angolazioni delle inquadrature e i dettagli da fare. Bodganovich, che si reputa un maestro e che all'epoca era ritenuto un regista emergente tanto da aver ottenuto, proprio nel 1971, la nomination all'oscar con L'Ultimo Spettacolo (1971), non ci pensa neppure lontanamente ad assecondare Leone. Ha una concezione e un'impostazione più classica e odia i primi piani e le smargiasserie care all'italiano. Quest'ultimo, dal canto suo, non è incline ai compromessi, così caccia in malo modo il collega, gli paga il biglietto aereo e lo rispedisce in patria: “È 'no stronzo!” commenta, quando deve giustificare la bocciatura. Il budget del resto non manca, dietro al progetto c'è ancora la United Artists. Mentre dialoga con Bogdanovich, Leone predispone il cast artistico. Realizza il sogno di avere in un suo progetto James Coburn. L'attore americano, questa volta è alla portata ed è disponibile, viene così preferito ad Andy McDowell e Jason Robards messi in preallarme in caso di rifiuto della prima scelta. Leone è un fan di Coburn fin dai western culto I Magnifici Sette (1960) di John Sturges e Sierra Charriba (1965) di Peckinpah. Lo aveva altresì apprezzato nella spy story Il Nostro Agente Flint (1966) di Daniel Mann, opera che, sulla scia dei successi della serie 007, aveva fatto decollare le quotazioni dell'attore. Alto, biondiccio, Coburn rappresenta il perfetto incontro tra azione ed espressività comica. 1203 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Elegante nei movimenti, capace di cambiamenti di umore tali da rendere realistiche le proprie interpretazioni (eccezionale quando finge di contenere il proprio divertimento al cospetto delle esplosioni burlonesche del compagno Rod Steiger). Cresciuto in teatro, passato con regolarità alla televisione nella seconda metà degli anni '50 con apparizioni in serial quali Perry Mason, Alfred Hitchcock: Presenta, Acapulco, Ai Confini della Realtà e nei western televisivi Bonanza, Rawhide e La Valle dell'Oro, era riuscito a capitalizzare le poche occasioni cinematografiche capitategli soprattutto in virtù dei ruoli secondari offertigli in occasione dei war movie L'Inferno è per gli Eroi (1962) di Don Siegel e La Grande Fuga (1963) di Sturges. Questi ultimi film gli avevano spianato la strada per interpretare il ruolo dell'agente Flint, da cui poi avrebbe spiccato il volo. Diventerà un attore simbolo del western e dei war movie americani. Del primo gruppo, oltre al già citato I Magnifici Sette, è da ricordare Pat Garrett e Billy the Kid (1973) di Peckinpah e Stringi i Denti e Vai (1975) di Brooks, entrambi considerati due capolavori; del secondo si distingueranno La Croce di Ferro (1977) di Peckinpah e La Battaglia di Midway (1976) di Jack Smight. Appassionato di auto da corsa e di arti marziali (sarà allievo di Bruce Lee), vincerà un oscar, da attore non protagonista, solo alle soglie del nuovo secolo con Affliction (1998) di Paul Schrader. A Coburn viene affidato il consueto ruolo, per un tortilla western, dell'europeo che giunge in Messico, perché espulso dal vecchio continente (nella fattispecie dall'Irlanda), e che finisce per manipolare il classico peone straccione che vuol compiere rapine e che si troverà, inconsapevolmente, eroe della rivoluzione. Una soluzione vista sia nei tortilla western di Sergio Corbucci sia in quelli di Sergio Sollima. Per il ruolo dello straccione messicano, Sergio Leone e Donati pensano a Eli Wallach. Il regista ha addirittura già chiuso con l'attore di origine ebraica, ma i distributori americani lo bloccano perché vogliono un attore di maggior richiamo e presentano la candidatura di Rod Steiger, vincitore del Premio Oscar (del Golden Globe e del BAFTA) come migliore attore protagonista col poliziesco La Calda Notte dell'Ispettore Tibbs (1967) di Norman Jewison, dopo aver ottenuto una precedente nomination da non protagonista, grazie a Fronte del Porto (1954) del maestro Elia Kazan, e un'altra da attore protagonista con L'Uomo del Banco dei Pegni (1964) di Sidney Lumet. Aveva altresì vinto il David di Donatello col Il Sergente (1968) di John Flynn. 1204 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Leone è costretto ad accettare sebbene il suo rapporto con l'attore americano non si rivelerà mai idilliaco. Sarà soprattutto per merito delle capacità diplomatiche di Coburn che i due riusciranno a sopportarsi a vicenda. Steiger è un attore classe 1925, piuttosto appannato e solitamente impegnato in ruoli distinti ma da arrogante cinico, con alle spalle pellicole in costume quali Il Dottor Zivago (1965) di David Lean e Waterloo (1970) di Bondarchuk, nientemeno che nei panni di Napoleone Bonaparte. Aveva altresì ricoperto il ruolo di Papa Govanni XXIII in E Venne un Uomo (1965) di Ermanno Olmi. Per entrare meglio nelle parti, era solito rivolgersi allo psicanalista o farsi seguire da individui che incarnassero le caratteristiche di quelli che avrebbe dovuto interpretare (nella fattispecie parlerà in spagnolo anche fuori dal set). Il suo collega Coburn, anch'esso convinto sostenitore nel metodo Stanislavskij, per meglio interpretare il ruolo dell'immigrato irlandese aveva passato qualche settimana in Irlanda proprio per affinare l'accento. A differenza di Coburn il successo di Steiger è in discesa, pur essendo ricercato non riuscirà a riportarsi ai livelli di inizio carriera. Partito con i serial televisivi nella prima metà degli anni '50, era stato lanciato nel cinema da Fred Zinnemann e soprattutto da Robert Aldrich con Il Grande Coltello (1955), ricoprendo in seguito il ruolo di Al Capone (1959) nell'omonimo film affidato alla regia di Richard Wilson. Ricoprirà in seguito altri importanti ruoli quali quelli di Rasputin, Mussolini e Ponzio Pilato rispettivamente in Mussolini Ultimo Atto (1974) di Lizzani nonché Il Leone del Deserto (1981) di Moustapha Akkad, e Gesù di Nazareth (1977) di Zeffirelli. Negli anni '80 e '90 passerà al cinema più commerciale come dimostrano pellicole quali Amityville Horror (1979), Lo Specialista (1994), Hurricane (1999), Mars Attacks (1996) e Giorni Contati (1999). Rimasto senza regista, Leone affida il progetto al suo assistente Giancarlo Santi. Il romano ha all'attivo un paio di documentari, una dozzina di aiuto regie, tra le quali Il Buono, il Brutto, il Cattivo (1966) e Da Uomo a Uomo (1967), e soprattutto le regie della seconda unità in C'era una Volta il West (1968) e in Infanzia, Vocazione e Prime Esperienze di Giacomo Casanova Veneziano (1969) di Comencini. Non avrà grande fortuna da regista, nonostante il western culto Il Grande Duello (1972), tornando a ricoprire con prevalenza il ruolo di regista delle seconde unità. Fatto sta che Santi inizia a girare. È consapevole di avere per le mani quella che potrebbe essere l'occa1205 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sione utile a fargli fare il grande salto. Purtroppo non ha considerato ciò che sta per accadere. Non appena i due attori principali se lo vedono spuntare sul set scoppia la protesta. Rod Steiger minaccia di andarsene. Afferma di aver accettato la proposta solo per la presenza di Sergio Leone. Quest'ultimo arriva sul set e cerca di mediare. Assicura che il film è come se lo facesse lui, in quanto Santi è un suo uomo di fiducia che rispetterà ogni sua richiesta. Il premio Oscar si imputa, pretende che sia Leone stesso a girare il film. Alla fine il regista romano, pressato dalla United Artists e dal fatto che lo script è pronto, cede. Santi non la prende bene, litiga col maestro e non parlerà più con lui per anni pur aiutandolo in qualità di regista della seconda unità. Sempre come aiuto partecipa anche un regista affermato quale Alberto De Martino, già incontrato nel corso della trattazione, che gira circa una decina di minuti di pellicola. Leone è svogliato. Rivela di voler abbandonare il film in corso di lavorazione, litiga con Steiger e si dimostra più severo del solito anche con i membri della troupe. La moglie deve calmarlo e motivarlo in più di una circostanza, arriverà persino a suggerigli di far inserire il ritornello “Sean, Sean, Sean” nella colonna sonora per dargli un maggior tono. Intanto interviene nelle riprese un altro regista affermato, Antonio Margheriti, incaricato di girare le scene più spettacolari, in particolare lo scontro con deragliamento dei due treni. Sergio Donati torna a modificare la sceneggiatura, già rivista da Vincenzoni, ne deriva un film meno complesso e più lineare rispetto ai precedenti di Leone. Resta la componente malinconico-poetica, i personaggi restano canaglie, ma questa volta sono legati da un rapporto che confluirà quasi nell'amicizia fraterna. C'è persino spazio per l'eroe idealista, il Dottor Villega, interpretato da Romolo Valli. Dopo esser stato costretto a tradire i propri uomini, Villega guiderà un treno contro quello su cui viaggiano gli ufficiali dell'esercito messicano. Il suo è un attacco suicida, da vero eroe della rivoluzione. Lo stesso personaggio interpretato da James Coburn, nonostante i modi e gli atteggiamenti ambigui, non è un vero personaggio leoniano. Non può definirsi un vendicatore, sebbene abbia il dente avvelenato per un tradimento subito in Irlanda, né un delinquente alla ricerca del denaro. È anch'egli un'idealista, seppur disilluso (bello il discorso che fa sul treno a Villega, quando lo sprona ma senza giudicarlo), che combatte per un'ideale alto: la liberazione di un popolo sottomesso dall'arroganza del potere. Cerca persino di scuotere dal disinteresse il 1206 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

suo compagno di avventura, Juan Miranda, un peone straccione che guida una banda a conduzione familiare per compiere rapine e furti e che, intuite le abilità dell'irlandese nell'uso degli esplosivi, pensa bene di sfruttarne le qualità per assaltare banche. L'irlandese, dispettoso e un po' seccato dall'invadenza dell'altro che gli fora per due volte la motocicletta per estorcergli la collaborazione, finge di prestargli aiuto per accedere nella banca più importante del Messico. “Dove c'è rivoluzione c'è confusione, e dove c'è confusione un uomo, che sa cosa vuole, ha tutto da guadagnare!” sentenzia di fronte alla perplessità dell'altro, poco convinto per l'elevato numero di guardie che si aggirano per la città. E infatti la banca che i due vanno ad assaltare, aiutati da un plotone di rivoluzionari improvvisati, è un carcere politico che viene liberato proprio dal peone straccione che inizia a diventare così un capo rivoluzionario involontario. Ruolo quest'ultimo che non gli va a fatto a genio. Da antologia lo sfogo di Steiger, quando Coburn lo incalza per inculcargli i valori rivoluzionari. “Il mio paese siamo io e i miei figli... Rivoluzione? Io so benissimo cosa sono e come iniziano. C'è qualcuno che sa leggere i libri che va da quelli che non sanno leggere i libri, e che sono i poveracci, e gli dice: È venuto il momento di cambiare tutto. Qui ci vuole un cambiamento... E la povera gente fa il cambiamento e poi i più furbi di quelli che leggono i libri si siedono attorno a un tavolo e parlano e mangiano e intanto che fine ha fatto la povera gente? Tutti morti, ecco la tua rivoluzione... e porca troia, lo sai cosa succede dopo? Niente, tutto torna come prima!” Si tratta di uno dei passaggi ricorrenti del film, sebbene Leone sia definito da tutti un apolitico o comunque un regista poco interessato agli aspetti politici. A mio avviso il vero messaggio del film si sostanzia in questo pessimismo di fondo, in una sfiducia nei confronti della classe politica e degli esponenti dei centri di potere sociale. Il prologo del film è eloquente. Vediamo il povero Rod Steiger deriso e offeso da un pugno di “benpensanti” e da una donna altezzosa, c'è persino un uomo di fede. Leone in questa sequenza è geniale. Innanzi tutto fa costruire una diligenza che è il manifesto del lusso, davvero un pugno nello stomaco per un paese povero come il Messico rappresentato dal peone. Inoltre chiude con i primissimi piani delle bocche che mangiano e sparano sproloqui verso l'indifeso straccione che hanno al cospetto, si tratta di attacchi razziali e di osservazioni basate su pregiudizi ipocriti figli di una superiorità nella scala sociale conquistata con pratiche probabilmente poco etiche. Le zoomate sulle labbra e sulle bocche hanno 1207 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

proprio il senso di insinuare nello spettatore un collegamento flebile da riallacciare al monologo di Steiger, quando quest'ultimo parla di “quelli più furbi di quelli che leggono i libri”. Nel suo discorso Steiger vuol evidenziare le categorie dei politici e dei religiosi quali categorie in grado di sfruttare i principi eticamente corretti degli idealisti (rappresentati da Villega) che innescano gli uomini di azione (l'irlandese Coburn) sospinti dalle masse ignoranti e pecorone che, proprio per questo, finiscono per andare al macello in quanto lanciate in una carica frutto della massima fiducia attribuita alle due precedenti categorie. Eloquente la sequenza con Romolo Valli mogio e triste, seduto in macchina accanto al colonnello Gunther Reza, mentre i suoi rivoluzionari improvvisati vengono fucilati al muro, con Coburn (l'uomo d'azione) che osserva il tutto impotente. Leone anticipa questa situazione quando fa gettare a Coburn il manualetto di Bakunin al termine del monologo di Steiger, perché in parte convinto dallo scomposto ma efficace sfogo dell'amico e forse anche per non sentirsi coinvolto in quella ricostruzione quale uomo che sa leggere i libri e che porta, involontariamente, alla morte delle masse ignoranti. Difatti i figli di Steiger pagheranno tutti con la pelle il coinvolgimento rivoluzionario del padre, a dimostrazione della profetica analisi di quest'ultimo che Leone va a sottolineare montando nelle due sequenze (quella del monologo di Steiger e quella con Steiger che scopre i figli morti) la medesima musica di Morricone, un componimento lento e altamente melanconico. Centrale, a questo riguardo, è la spettacolare sequenza in cui Coburn e Steiger fanno saltare il ponte su cui stanno passando gli autoblindo e la cavalleria dei messicani. Coburn rimane da solo, non ottempera agli ordini di Villega (che si riveleranno letali per i suoi uomini). Il personaggio di Steiger resta con lui convinto che, appena i rivoluzionari se ne andranno, i due si lanceranno verso le mete delle rapine. Non andrà così, ma punto nell'orgoglio il peone resterà a dar manforte all'amico. “Ascoltami bene, irlandese pezzo di merda. Tu credi di essere l'unico uomo della terra ad avere le palle? Invece no, anche io ho le palle e resto qua!” così si sfoga il messicano che poi, ragionando tra sé e sé, se ne pente: “Ma che me ne frega a me della rivoluzione...!? Ma dico io, padre eterno mio, non potevi farmi cadere la lingua quando ho detto io resto qua... Eh, eccola là. Tutto per colpa sua, pare un turista, sembra uno che parte e invece resta! Tanto a lui che gliene frega, lui ci si diverte, ma io no!” I due faranno saltare in aria buona parte dell'esercito messicano, caduto in trappola sotto le bom1208 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

be e il fuoco delle mitragliatrici. Momento epico, da antologia western, commentato da una delle più belle colonne sonore di Ennio Morricone. Tra i fumi e le polveri delle esplosioni, il colonnello Gunther Reza vagherà smarrito e scosso, a contemplare i cadaveri dei soldati riversi ovunque. Bravo, al riguardo, Saint-John, una maschera; il volto allungato, i tratti pronunciati, le orecchie un po' a sventola, il fisico quasi scheletrico. Non proferisce mai parola, fa solo cenni eloquenti col capo e con le mani. Leone lo pesca da un film di Filippo Ottoni. È un debuttante originario di Avignone, non farà molto altro nel mondo del cinema lavorandovi appena per quindici anni. Lo ritroveremo quasi sempre da caratterista, con ruoli di terzo piano spesso da cattivo, come in Più Forte Ragazzi! (1972) di Colizzi o Il Mio Nome è Nessuno (1973) di Valerii, interpreterà inoltre il pittore maledetto che viene trucidato nel prologo di ...E Tu Vivrai nel Terrore! L'Aldilà (1981) di Lucio Fulci. Il cast artistico, del resto, è più povero rispetto ai precedenti film di Leone. Lo stesso Romolo Valli, che pure recita bene (era un importante attore teatrale, tra l'altro morirà nel 1980 in un incidente stradale proprio di ritorno da un suo spettacolo teatrale) e arriva al film con svariati riconoscimenti come il Globo d'Oro ottenuto quale migliore attore de Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti, due Nastri d'Argento (ne vincerà un terzo nel 1977 con Un Borghese Piccolo Piccolo) ottenuti per le performance da attore non protagonista in Una Storia Milanese (1962) di Eriprando Visconti e Il Giardino dei Finzi Contini (1970) di Vittorio De Sica, oltre che due nomination per la medesima ragione, uno dei quali con la commedia La Mandragola (1965) di Alberto Lattuada, non è un volto che si potrebbe pensare di poter trovare in un film del genere. Si potrebbe pertanto dire che siamo alle prese con uno spaghetti-western atipico, sembra più un film di guerra che altro. Ha una tarda ambientazione storica, il 1913. L'epopea dei cowboy è finita da un pezzo. Non ci sono più i duelli, niente tesori smarriti da recuperare o questioni politiche da intavolare con gli americani. Restano le ambientazioni, qualche cavallo (anche se in buona parte sostituiti dalle macchine e dalle moto) e un'intelaiatura di fondo che è quella del genere. Lo stesso Leone non amava definirlo un western, bensì “un avventuroso ambientato all'epoca della rivoluzione.” La mano del regista però, nonostante quel che se ne dica e nonostante il film si riveli quasi un fiasco (incassi inferiore oltre alla metà 1209 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

rispetto a quelli di Lo Chiamavano Trinità), si vede eccome. Al di là delle scene di azione, eccezionale il deragliamento finale orchestrato da Antonio Margheriti con il sapiente utilizzo di modellini, si nota il gusto per la dilatazione dei tempi. Non siamo ai livelli di C'era una Volta il West, ma sia il prologo che il flashback che ci lascia immaginare il passato del personaggio di Coburn sono Leone allo stato puro. A quest'ultimo riguardo è tristissimo il finale, che richiama un po' la separazione tra Bronson e Robards del film precedente, ma a parti invertite. Leone usa il flashback per rendere il tutto agro-dolce. Vediamo Coburn ferito in modo grave da Saint-John rimuginare sul passato. Sono ricordi dolci, dove lo vediamo felice con i suoi compagni irlandesi: una donna e un uomo (David Warbeck, diventerà un volto del cinema bis nostrano) con cui era legato da un rapporto fraterno, tanto da scambiarsi l'amore della giovane. Alla fine vediamo un esplosione, probabilmente dovuta a un suicidio del co-protagonista, con primo piano su Steiger che, rimasto completamente solo, dirà: “E ora io che faccio!?” È reputato il western più debole dei cinque del regista, di certo è quello che, rapportato alle premesse, ha incassato meno. Marco Giusti rivela che il film fu una mezza delusione per i giovani dell'epoca. Valuta inoltre poco simpatico Steiger, opinione che non condivido affatto. L'americano, qua truccato in modo da ricordare Eli Wallach, non sfigura affatto con i suoi modi da pacioccone superficiale. Piovono critiche anche su Saint-John: “ha una sola espressione”. Valutazione quest'ultima che condivido ma che non ritengo, nell'occasione, un limite. Saint-John deve incarnare la freddezza degli ufficiali, del resto i gerarchi nazisti non erano il massimo di espressività. La sequenza in cui Saint-John rompe il suo modo freddo e distaccato è quella dell'esplosione del ponte, lì lo vediamo muoversi in un modo assai diverso. Questo per me è più che sufficiente per reputare buona la sua performance. A mio avviso a non pagare a dovere è il soggetto non originale e una sceneggiatura meno profonda rispetto a quelle curate da Solinas. La ragione è semplice. Solinas era uno sceneggiatore impegnato di sinistra, Leone e i suoi sceneggiatori no. Per una volta hanno sfruttato un sottogenere inventato da altri e lo hanno fatto assai bene. Leone piazza qualche scena dall'infausto sapore italo-fascista (fosse comuni, fucilazione di traditori, scene di guerra), introduce anche una citazione iniziale a Mao Tse Tung suscitando le ire degli sceneggiatori che vedono la scelta come una mossa per aggraziarsi un certo pubbli1210 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

co. Da un punto di vista tecnico il film è impeccabile, la fotografia è perfetta e costituisce il risultato di un qualificatissimo triunvirato (Ruzzolini-Delli Colli-Mancori). La colonna sonora poi è tra le più belle in assoluto di Morricone. Malinconia allo stato puro, indimenticabile il fischiettio e il ritornello “Sean Sean, Sean“ introdotto su suggerimento della signora Leone. Combattuta la scelta del titolo, con i distributori spinti a richiamare i precedenti film del maestro romano. Si parla di titoli come Per un Pugno di Dinamite o C'era una Volta la Rivoluzione, poi per fortuna si utilizza la frase che utilizza Sean prima che una sua carica detoni, omettendo la parola “coglione”. A ogni buon conto Giù la Testa resta il film meno analizzato tra quelli di Leone e anche quello di cui si parla meno. Valutando però che si tratta del suo ultimo western, resta un piccolo capolavoro di messa in scena, con alcuni passaggi di sceneggiatura di primario livello. È curioso trovare tra i principali sostenitori il Morandini che intravede un “melodramma antimperialista che non si prende troppo sul serio e che alterna il tono eroicomico con una liturgia solenne”. Per quel che mi riguarda lo trovo un film pessimista e fatalista circa la possibilità di cambiare lo stato delle cose, che comunica il messaggio che il popolo resterà sempre in balia dei più forti. A differenza dei western scritti da Solinas, non ravviso un messaggio antimperialista di fondo, bensì una sfiducia generale su chi cavalca i messaggi antimperialisti. Leone, più o meno volontariamente, dice che l'antimperialismo altro non è che una scusa per permettere a chi sa cosa vuole di ottenere vantaggi personali a discapito della collettività. Il popolo altro non è che un complesso di marionette che vengono manovrate proprio come fa Sean con Juan. Questo è il messaggio di Leone, non so quanto di sinistra come invece vorrebbe leggere una certa critica schierata politicamente. Fatto sta che il Morandini gli concede tre stellette e mezzo, tante quanto quelle date a C'era una Volta il West, valutandolo superiore alla trilogia del dollaro. Filmtv.it evidenzia molte delle pecche del film (scarsa omogeneità, Steiger sopra le righe), ma poi, in modo poco congruente, gli da quattro stelle. Non si nasconde spaghettiwestern.altervista.org, solito elargire complimenti anche a chi non lo meriterebbe, definendo il film “opera minore e meno convincente del regista.” La situazione è ben resa anche dalla lettura delle classifiche stilate dagli esperti e dagli appassionati del settore. Il film, 1211 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

spesso presente, compare in basso rispetto alle altre opere del regista. Dodicesimo per spaghetti-western.net, trentaduesimo per lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it, addirittura non menzionato da Quentin Tarantino, Howard Hughes e da Alex Cox nelle loro top twenty. Resta comunque una pellicola da avere in videoteca, dotata di gran fascino, sebbene con un messaggio quasi arrendevole al cospetto delle volontà della casta del potere. Dal database imdb risulta uscire nella prima decade di ottobre lo sconosciuto, secondo Marco Giusti (“spunta più dalle carte che dallo schermo dal momento che nessuno l'ha visto”), Il Lungo Giorno della Violenza (1971) affidato al quasi sessantenne Giuseppe Maria Scotese. Appassionato di pittura, poi regista nell'immediato dopoguerra, scrittore persino di un volume intitolato Introduzione al Cinema, oltre de L'Enigma di Colombo, testo incentrato sulla storia della politica dal medioevo al 1800 e che si fregia della prefazione curata nientemeno che da Giulio Andreotti, Scotese aveva debuttato alla regia con La Grande Aurora (1946), girando poi una dozzina di pellicole non ascrivibili al cinema di genere. Si era fatto le ossa soprattutto grazie a una serie di apprezzati documentari in cui, come dice Roberto Poppi, “affrontava con serietà e competenza tematiche come la fame nel mondo, la droga e gli sconvolgimenti ecologici”. Decide di lanciarsi nel western all'italiana dopo aver prodotto il mediocre L'Ultimo dei Mohicani (1965) di Mateo Diaz Cano. Desisterà subito ritornando ai documentari. Probabilmente si autoproduce questo film, spillando qualche soldo a Eduardo Manzanos Brochero che gli mette a disposizione Eduardo Fajardo e i set in Almeria. Il protagonista è lo sconosciuto George Garvell di cui non si sa nulla e che è al suo unico film. Lo script è riconducibile al sottogenere del tortilla western, ma chi l'ha visto giura che non sia di culto. Carlos Aguilar non lascia spazio a incomprensioni: “insignificante...” Di pensiero diverso sono Roberto Poppi che parla di “pellicola tecnicamente impeccabile” e soprattutto spaghettiwestern.altervista.org che va oltre la tecnica parlando di “buoni aspetti narrativi” che culminano con la critica, esaltata da un epilogo all'insegna della tragedia, di ogni forma di guerra. Discrete musiche di Marcello Giombini. È probabilmente il tortilla western meno conosciuto.

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Dopo l'uscita del nuovo film di Sergio Leone, il mese di ottobre culmina con un altro campione di incassi. Tornano Bud Spencer & Terence Hill al servizio del sequel del western di loro maggiore fortuna. Il titolo lo avrete già intuito, alla regia c'è ancora Barboni. … CONTINUAVANO A CHIAMARLO TRINITÀ Produzione: Italia, 1971. Prodotto: Italo Zingarelli (West Film). Regia: Enzo Barboni (E.B. Clucher). Soggetto e Sceneggiatura: Enzo Barboni. Interpreti Principali: Mario Girotti (Terence Hill), Carlo Pedersoli (Bud Spencer), Emilio Delle Piane, Kirsti Somersalo (Yanti Somer), Jessica Dublin, Harry Carey Jr., Antonio Monselesan (Tony Norton), Riccardo Pizzuti, Benito Stefanelli, Enzo Tarascio, Franco Ressel. Fotografia: Aldo Giordani. Musiche: Guido & Maurizio De Angelis (Oliver Onions). Sottogenere: Fagioli western. Durata: 128 min. Giudizio Mancini: **1/2 Giudizio Morandini: ** La trama Trinità (Hill) e Bambino (Spencer) si ritrovano a casa dei genitori dopo aver vagato, ciascun per conto suo, nel deserto. Loro padre (Carey Jr), alcolizzato e delinquente più di loro, si duole perché Trinità non si è ancora trasformato in un bandito provetto. Chiede quindi a Bambino, fingendo di essere in punto di morte, di prendere cura del fratello e di condurlo sulla retta via (cioè quella del crimine). I due si mettono quindi in società per compiere rapine e truffe, finché non vengono a conoscenza di un malloppo di 50,000 dollari, provento di un commercio clandestino di armi, nascosto all'interno di una missione religiosa. A orchestrare il tutto c'è il solito alto borghese dagli atteggiamenti aristocratici (Delle Piane) che corrompe sceriffi e ranger per continuare nei suoi loschi affari. I due si fingono così agenti federali in missione segreta e indagano sul traffico, al fine di rapinare i banditi stessi.

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Il Commento. Squadra che vince non si cambia suggerisce un vecchio adagio; così, a meno di un anno dall'uscita de Lo Chiamavano Trinità, Italo Zingarelli chiede a Enzo Barboni di scrivere il copione di un sequel che abbia come protagonisti i due fortunati personaggi del primo capitolo. Ancora una volta concede a Barboni la proverbiale carta bianca e quest'ultimo stende un soggetto sulla falsa riga del primo. Peraltro crescono i capitali e ciò no può che fungere da aiuto alla creatività dell'ex direttore della fotografia. La prima notizia è il taglio di Faina e di Timido che, stranamente, non vengono riproposti, per il resto si continua a lavorare sulle caratterizzazioni dei due, viene mostrata la loro “animalesca” famiglia, ma si concepisce un soggetto meno strutturato del primo. La storia va avanti grazie a una serie di divagazioni divertenti che non hanno nulla a che fare con il cuore della vicenda narrata, si veda la partita a poker o la sequenza al ristorante (che Trinità chiama “la mangiatoia”); soluzioni che divertono ma che dimostrano la fretta e furia del concepimento del film, con conseguenziale riduzione del tasso di fantasia. Nella prima delle due sequenze citate si assiste allo show dell'illusionista Tony Binarelli. È lui, fuori campo, a smazzare e a mescolare le carte. Barboni inquadra in primissimo piano le carte che si muovono da una parte all'altra con arte di prestidigitazione esaltata ai massimi livelli. Protagonista della sequenza è il giocatore professionista Wild Cat Hendricks, interpretato dal caratterista Antonio Monselesan, uno dei due sicari del primo capitolo. Trinità appena lo vede al saloon gli vien subito la voglia di spennarlo. “Dove vai...? Non lo sai che è un professionista?” lo ferma Bambino, ma l'altro non gli da ascolto. Va al tavolo e lo importuna. “Vorrei poter raccontare che Wild Cat Hendricks ha giocato con me...” Monselesan non spiccica parola, si limitata a fare un cenno col braccio ed ecco che arriva anche Bambino: “Non è meglio in cinque?” Altro cenno col braccio del professionista, muto e impassibile, da classico giocatore di poker, apatico e vanitoso nel suo completo da un centinaio di dollari. Inizia subito a smazzare le carte per impressionare gli avversari, per dimostrare fin dall'inizio cosa vuol dire essere un professionista. Trinità scuote il capo per confortare un esterrefatto Bambino, poi, quando tocca a lui, mescola le carte in maniera pazzesca. Binarelli si diverte a più non posso, col mazzo che si divide in tre parti e poi ritorna a formare un unicum o si apre a ventaglio per richiudersi con le carte che si intrecciano. Bellissimo e ripreso da dozzine e dozzine di film. 1214 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Poi da le carte agli avversari così che ciascuno di essi abbia in mano un punto elevato e quindi azzardi forte, in modo da determinare una vertiginosa posta in palio. Inutile dire chi abbia il poker di assi. Monselesan capisce di aver davanti un baro e invita a bere Trinità. “Dicono che una pallottola nello stomaco bruci meno, se c'è del whisky...” Trinità, divertito per l'evolversi della partita, si rivolge al barista: “Il signore lo prende doppio, così non te ne accorgerai nemmeno...” Segue l'epico duello senza sparare, con Trinità che estrae più volte la pistola in modo così veloce dallo schiaffeggiare, in contemporanea, il suor rivale. “Non c'hai capito niente, eh? Te lo rifaccio, se vuoi...” La sequenza sarà ricalcata da Tonino Valerii ne Il Mio Nome è Nessuno (1972). Barboni mantiene dunque il registro della comicità senza cadere nel demenziale, anzi, forse ...Continuavano a Chiamarlo Trinità è più serioso del primo episodio. Vengono mantenuti i giochi di incomprensione circa le frasi religiose, così come si ripropone una parte finale all'interno di una comunità dallo spiccato spirito religioso. Nella fattispecie, addirittura, il rissone finale si consuma tra gli edifici di una missione, con i frati che prendono a pugni i delinquenti, inscenando una sorta di calcio fiorentino con il fagotto che contiene 50,000 dollari lanciato da una parte all'altra alla stregua di un pallone da rugby (sequenza che sarà autocitata dalla coppia in Due Superpiedi quasi Piatti). Non manca poi l'atteggiamento di Trinità che persevera nel tirare brutti scherzi a Bambino, dandogli fregature in continuazione. Si veda la rapina a una diligenza dove l'unico a perdere i soldi è proprio Bambino, Trinità infatti si giustificherà dicendo di aver voluto dimostrare di aver compreso la lezione. Viene inoltre riproposto il lato romantico di quest'ultimo che cade ancora una volta in amore per una poveretta indifesa. Questa volta è una figlia di una coppia di disgraziati che Bambino vorrebbe rapinare, ma che poi si trova ad aiutare fino a essere lui quello che sgancia i dollari. “Se tutti gli uomini fossero generosi come voi” prendono a dire i vecchietti... “Vi fareste rapinare dalla mattina alla sera” chiude la frase Bambino, sbuffando per aver donato, controvoglia, un pugno di dollari. Ancora una volta emerge quel tocco alla Robin Hood della coppia, che già pervadeva la prima opera. Anche perché, spinto da Trinità, Bambino si ripete in altre due occasioni che culminano sempre con la già citata frase dei due, che hanno un piccolo bambino affetto da aerofagia bisognoso di cure. “Ah, qui la chiamano così” commenta Bud Spencer, tirando fuori un rotolo di dollari: “Fategli ingozzare un po' di whisky e passerà”. I 1215 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

poveri contadini si guardano con gli occhi accesi dall'emozione e via con il tormentone del film: “Se tutti gli uomini fossero generosi come voi...” Bud Spencer, con fare grezzo e privo di tatto, non perde l'occasione per chiudere a suo modo: “Diventerebbe un alcolizzato.” Si tratta di un siparietto che Barboni riprenderà, pari pari, per Anche gli Angeli Mangiano Fagioli (1973), sempre con Bud Spencer orso e riottoso, ma alla fine generoso sebbene si impegni a essere un delinquente. Si sottolinea dunque la bontà d'animo della coppia. Trinità ha un background da romanticone, facile agli innamoramenti, ma poco attendibile nelle promesse. A interpretare la giovane fortunata, dai tratti simili alle due del primo capitolo, troviamo la finlandese ventitreenne Yanti Somer, al secolo Kirsti Somersalo. Avrà una carriera cinematografica di appena dieci anni, arriva dal cinema francese dove aveva preso le mosse dopo essersi mostrata come fotomodella. Proseguirà la carriera lavorando soprattutto in Italia, la ricordiamo in un medesimo ruolo ne E poi lo Chiamarono il Magnifico (1972), ma anche ne Il Ritorno di Zanna Bianca (1974) di Fulci. Chiuderà la carriera coinvolta nei pessimi sci-fi a zero budget di Alfonso Brescia, diventando la sua star queen in un poker di film. Il ruolo dell'antagonista viene costruito a immagine del Maggiore del primo capitolo, quanto meno per quel che riguarda l'estrazione sociale. Entrambi hanno un forte legame con i cavalli e sono degli allevatori, sebbene questo personaggio abbia una natura più mafiosa. Emilio Delle Piane, a differenza di Granger, da un taglio più sadico al suo personaggio e lo priva della componente ironica. Ne deriva un minor spessore e una maggiore antipatia che non lo fa spiccare rispetto agli altri personaggi della ciurma che lo contorna. Lo vediamo andare in giro con un frustino, ben vestito, con dei lunghi baffoni rossi, attorniato da alti borghesi e ben felice di corrompere gli agenti federali. Delle Piane arriva dalle serie televisive, tra cui La Freccia Nera (1968) in cui aveva compiti di supporto, e viene provato in un ruolo di maggiore lignaggio rispetto ai suoi tradizionali canoni. Ritornerà subito a fare il caratterista come nei panni del domestico che cerca di far ubriacare Spencer e Hill ne I Due Superpiedi quasi Piatti (1977). Entra in scena nella famosa sequenza del ristorante di lusso, teatro dell'ennesimo show cialtronesco di Bud Spencer e Terence Hill. Li vediamo entrare vestiti con capi di lusso, acquistati con i soldi della partita a poker, giusto per farsi scambiare da agenti federali. Qui i due metteranno in scena il loro campionario da feroci frequentatori 1216 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di bettole, suscitando sdegno e orrore nei bigotti clienti abituali del locale. Non a caso si tratta di un circolo privato. Memorabile la scena della frittata flambé con Spencer che, convinto di esser stato vittima di un agguato, sgancerà il suo classico colpo a martello sul malcapitato Franco Ressel, il responsabile del servizio camerieri. “E' stato lui... è stato lui a dirgli di farlo” commenterà Trinità, dando sostegno al fratello. “Et voilà!” aggiungerà a denti stretti Bambino, indispettito dal continuo parlare in francese dei camerieri e dalle porzioni fin troppo misurate. Del resto, a inizio film, i due avevano già dato dimostrazione di quale sia il loro approccio alla cucina. Una sequenza dove vengono presentati i genitori, ben poco raccomandabili, della coppia, in quella che da tutta l'impressione di essere una famiglia matriarcale. È infatti Jessica Dublin a cacciare il gruppo di sciamannati già rapinati dai figli, dopo ovviamente averli per la terza volta rapinati (all'inizio perdono i cavalli a opera di Bambino, poi vengono indotti da Trinità a picchiarsi per aver salva la pelle, e infine subiscono il furto dei denari dal papà del duo). È la Dublin che interpreta la possente madre dei protagonisti. Newyorkese entrata tardi nel cinema, viene scelta in quanto ammirata ne La Caduta degli Dei (1969) di Luchino Visconti. Non avrà una grande carriera (la si ritrova persino nel trash movie The Toxic Avenger Part. II), ma qua è perfetta. Rozza, spartana e caciarona, comanda la famiglia e ha anche un pensiero molto personale per la religione. “Dolce signora del cielo... tu sei madre come me e ho sentito dire che anche tu hai avuto un figliolo che ti ha dato qualche preoccupazione, quindi puoi capirmi se ti chiedo di proteggere i miei ragazzi. Dico: ci conto, eh?” Da antologia la scena del pranzo, con i quattro che si abbuffano su un tacchino gigante (si suggerisce che sia un aquila), tra rutti suonanti e sporcizia, guardandosi come sciacalli rabbiosi. Si tratta di un qualcosa che diventerà la costante emulata in dozzine di film del duo, tra tutti in Io sto con gli Ippopotami (1979). Il ruolo del padre va invece al simpatico sornione Harry Carey Jr, l'attore di maggior curriculum del film, celebre soprattutto nel circuito televisivo americano ed ex attore feticcio dei primi western di John Ford, tra cui La Carovana dei Mormoni (1950) e Sentieri Selvaggi (1955) a spiccare tra più di una dozzina di pellicole. Tornerà con il medesimo ruolo in E poi lo Chiamarono il Magnifico. Sia la Dublin che Carey vengono impiegati nella seconda sequenza del film, per poi uscire di scena. La loro è una di quelle sequenze che vengono inserite per portare avanti la caratterizzazione del duo, un 1217 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

po' come il prologo che prende avvio laddove era terminato il primo capitolo. Così viene riproposta l'entrata in scena di Trinità, sdraiato sulla sua slitta a strascico, con i primissimi piani su cinturone, stivali e padella che strusciano sulla ghiaia, con la differenza che il primo a entrare in scena, questa volta, è Bambino. Entrambi, come abbiamo anticipato, rapinano un quartetto di sventurati composto per lo più da stuntman, si nota Riccardo Pizzuti. Cambia lo stile, ma non il risultato finale. Bambino è grezzo, subdolo, si fa persino dare le munizioni dai quattro, perché ha la pistola scarica, poi punta l'arma contro di loro e li sottrae i cavalli nonché i fagioli che stanno cucinando. Ha infatti attraversato a piedi il deserto e gli pare poco intelligente proseguire in quel modo. Più divertito e divertente è invece Trinità, che cerca sempre di spettacolarizzare le sue interazioni. Anche qua comunica col cavallo, proprio come al termine de Lo Chiamavano Trinità, solo che questa volta è il quadrupede a rivolgersi a lui, avvertendolo di aver sentito profumo di fagioli. Impossibile allora non andarli a mangiare, pensa Trinità. Trasandato come suo solito, tanto che viene salutato col nome puzzola, si presenta ai quattro dichiarando di essere un ladro di tacchini. “Valgo solo cinquanta dollari, ma dicono che sono sulla buona strada”. I quattro ridono di gusto e pensano bene di recuperare subito un cavallo. “Fagli un graffio e mandalo via” dice Pizzuti a un suo uomo, che ignora con chi ha a che fare, tanto che si mette a giocare facendo più volte finta di estrarre la pistola. Solo che, al momento giusto, la pistola la estrae Trinità. “Mettetevi là e passatemi i fagioli... uhm, buoni!” Persino il cavallo, qua, degusta i fagioli!? Per vivacizzare il momento, Trinità pensa anche di far scontrare i quattro, uno dei quali già rimasto scemo per via del classico colpo del martello sferratogli in precedenza da Spencer. “Ho sentito dire che se uno prende lo stesso colpo ritorna normale... su forza, chi resta in piedi lo lascio vivo...!” e giù botte da orbi. Sarà Pizzuti ad aver la meglio, accorgendosi però che Trinità se ne è già andato. Le novità dello script, in fatto di caratterizzazioni, si registrano proprio nel personaggio di Trinità, che Barboni però è ben attento a non snaturare. La prima cosa che si nota è il cambio di posizionamento a cavallo, Bambino gli impone di togliere lo strascico. Trinità si adegua a suo modo, collocando la slitta in verticale sulla sella così da avere uno schienale e stare seduto di traverso, senza stivali e con i piedi lerci ai quattro venti. “Lo sai, mi stanco facilmente...” si giustifica, proseguendo così per almeno metà film. Dunque molti punti in comu1218 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ne col primo capitolo, ma con una sceneggiatura ben più sfilacciata e un ritmo molto più lento. Cito un'ultima sequenza spassosissima con Bambino che pretende di avere la assoluzione dal priore di una missione (dove il bullo di turno nasconde armi e denaro provento di delitti), perché crede che sia un picchiatore che malmena i peone. In realtà chi si macchia di simili codardie sono gli uomini di Delle Piane che si travestono da frati. “E adesso assolvimi sei hai coraggio!” ruggisce Bambino, dopo aver sconvolto il frate priore raccontando tutti i misfatti di cui si è macchiato nel corso della vita. Il povero Pupo De Luca (notevole batterista jazz, collaboratore del saxofonista Papetti e di Enzo Jannacci), che nel corso della confessione non ha fatto altro che sbiancare fino a implorare Bud Spencer di cessare nel racconto, cerca di calmare il fedele (molto poco direi) e parte per benedirlo, ma Bambino fraintende il gesto e lo sbatte al muro. “Prima si è messo a parlare da solo e poi, nel nome di un altro, è partito con il destro” si giustifica al cospetto di Trinità e degli altri frati accorsi. “Su avanti, confessate: perché pestate i peones?” Il povero De Luca, esterrefatto e convinto di avere davanti un indemoniato, commenta in modo metaforico: “Non siamo noi che li picchiamo... è Lucifero, già... Lucifero in persona”. Trinità aggrotta la fronte e si rivolge al socio: “Lo conosci?” Magistrale battutona scritta da Barboni e messa in bocca a Bambino. “Mai sentito nominare... Deve essere un professionista dell'est...” Trinità, non da meno, ribadisce: “Bene, se questo Lucifero si fa rivedere, ditegli di andare al diavolo!” Sta in queste battute la comicità del film, non certo in sequenze demenziali anche se le scazzottate sono estremizzate e si iniziano a vedere situazioni tipiche del sorrisi & cazzotti. Ne è un esempio il piccoletto (è uno stuntman che comparirà in moltissimi altri film del duo) che si aggrappa sulla schiena di Bud Spencer e che a fine lite se ne va quasi a voler dire “ehi, un momento, io scherzavo...” o l'epilogo, stile finale di Pari e Dispari, in cui i nostri passano da eroi, ma perdono l'intero bottino che hanno recuperato e che viene affidato alle autorità. Emerge ancora una volta un messaggio politicamente corretto, seppur figlio di un modo di fare per nulla raccomandabile. È il tipico marchio di fabbrica della coppia: duri si, ma sempre nel rispetto dei valori quali la solidarietà e la difesa dei più deboli, difesa che passa dall'aiuto di chi versa in condizioni di difficoltà, anche se con una condotta di vita un po' birichina e con un certo gusto per la provocazione, specie a danno dei signorotti e di coloro che si atteggiano da bulli. 1219 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Se alla fotografia ritroviamo Giordani, che confeziona un taglio visivo assai più patinato rispetto al precedente lavoro, la colonna sonora, stranamente, viene affidata ai fratelli De Angelis che sostituiscono un Micalizzi che aveva fatto un lavoro eccezionale. I due diventeranno i compositori di fiducia (pur se non esclusivi, ricordiamo il già citato Micalizzi e i F.lli La Bionda), se così possiamo dire, della produzione filmografica di Bud Spencer e Terence Hiil, ma sul momento sono una coppia di emergenti lanciati proprio in quell'anno da Nino Manfredi in Per Grazia Ricevuta (1971). Sono pertanto dei debuttanti assoluti anche se hanno alle spalle quasi dieci anni di incisioni e di arrangiamenti per cantanti di grido come Lucio Dalla, Gabrella Ferri e Claudio Baglioni. La loro main theme Trinity Stand Tall, cantata da Gene Roman, è una lenta ballata, a mio avviso meno accattivante del brano de Lo Chiamavano Trinità. Compongono anche l'ancor più lenta Remember, brano strumentale usato a commento sonoro delle scene tra Hill e la Somersalo. C'è poi un terzo brano, una sorta di musica gregoriana che impreziosisce la scazzottata finale nella missione. Faranno molto meglio in seguito con almeno una trentina di colonne sonore, cartoni animati compresi, magistrali che, ne son convinto, avran reso compagnia a molte giornate di coloro che leggeranno queste righe. Molti di questi successi saranno firmati col nomignolo Oliver Onions, omaggio allo pseudonimo di uno scrittore di ghost story inglesi dell'ottocento, alcuni dei quali cantati da loro stessi. Tra i pezzi più famosi il divertente Flying Through the Air (da Più Forte Ragazzi, 1973), il malinconico e strumentale Piedone lo Sbirro (1973), il pezzo da hit parade Dune Buggy (Altrimenti ci Arrabbiamo, 1974), la folle base prestata al centravanti della Lazio Giorgione Chinaglia per la canzone I'm Football Crazy (usata anche per il film L'Arbitro, 1975) e ancora Zorro is Back (Zorro, 1974, e reinserita nel 1996 nel film americano Un Colpo da Dilettanti), le soundtrack degli sceneggiati tv Orzowei (1975), Sandokan (1976) e Spazio 1999 (1975), I Don't Mind About Tomorrow (Formula 1: La Febbre della Velocità, 1978), il singolo Santamaria (1978) capace di scalare la hit parade tedesca fino al primo posto e gli scatenati pezzi dei film di Bud Spencer Lo Chiamavano Bulldozer (1978), Pari e Dispari (1978), Bomber (1982), Uno Sceriffo Extraterrestre... Poco Extra e molto Terrestre (1979) e Banana Joe (1981). Sono solo alcuni degli esempi, ma sono moltissime le colonne sonore che bisognerebbe citare, dallo spaghetti-western passando al poliziottesco e via fino all'adventure movie, a quest'ulti1220 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mo riguardo sono degne di nota le main theme de Il Cacciatore di Squali (1979), de L'Ultimo Squalo (1980) e de I Predatori di Atlantide (1983). Non manca poi il contributo a certe commedie di culto come L'Allenatore nel Pallone (1984) e Mezzo Destro, Mezzo Sinistro... Due Calciatori senza Pallone (1985). Negli anni '80, su spinta delle case discografiche, sarà inoltre fondamentale il loro contributo nella realizzazione delle sigle di molti dei cartoni animati giapponesi. Celebre la main theme di Galaxy 999 (poi modificata in Fantasy per volere di Michele Lupo che la voleva per il suo Bomber), ma non di minore importanza saranno quelle di Rocky Joe e de Il Gatto Doraemon. Delle vere e proprie leggende che devono molto a Zingarelli per esser stati proposti in un film che avrebbe avuto sicuro successo commerciale. Infatti ...Continuavano a Chiamarlo Trinità sbanca il botteghino, supera gli incassi de Lo Chiamavano Trinità e riesce persino a ricevere, da qualche critico, degli elogi che superano quelli spesi per il primo capitolo. Ne è un esempio la classifica stilata dall'americano spaghetti-western.net che pone il film in quarantaduesima posizione nell'elenco dei western italiani più riusciti, otto posizioni avanti rispetto al primo capitolo. Il sottoscritto non concorda, non ravvisandone la medesima freschezza di idee e il medesimo ritmo. Ciò che si nota è solo una maggior cura nella messa in scena e una fotografia più patinata. Fatto sta che Bud Spencer e Terence Hill diventano attori di grido in Europa, oltreoceano e persino in Giappone. Nel 1979 il successo di Spencer in Germania sarà talmente forte da esser riconosciuto con il rilascio del premio Jupiter come star più popolare della nazione tedesca. Laconico il Morandini nel definirlo “uno svelenito e buffo spettacolo da oratorio”, un commento che lascia facilmente immaginare la testa del critico che, lentamente, si muove a dar vita a un cenno negativo, tradendo però l'ilarità di un sorriso che si apre, mal celato dall'incresparsi di un labbro, a tradire una serietà ammaliata da un fondo divertito e compiaciuto senza però avere il coraggio di ammetterlo. Tra ottobre e dicembre torna sulla breccia l'instancabile Demofilo Fidani che presenta addirittura tre western dallo stesso prodotti o comunque coprodotti. Nel giro di ventiquattro mesi, tra il 1971 e il 1972, ne girerà addirittura otto. Il secondo a uscire nel 1971, sebbene 1221 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

non sia chiaro il mese, dopo il già trattato Quel Maledetto Giorno di Inverno, dovrebbe essere Era Sam Wallash... Lo Chiamavano Così Sia (1971). Fidani gira presso il villaggio western di Gordon Mitchell che compare anche nel cast come bandito contrapposto a Robert Woods. Ci sono persino Lincoln Tate e Pietro Martellanza. Quest'ultimo, persa la possibilità di avere ruoli primari nei film interpretati dalla coppia Spencer-Hill, si trova costretto ad accettare proposte che lo relegano in “serie c” quando ormai era giunto al punto di fare il grande salto. Davvero un destino beffardo quello dell'altoadesino. Dunque un cast artistico superiore rispetto alla media dei prodotti del regista sardo, ma è solo apparenza. A parte Woods, gli altri si limitano a cammei. Scopriamo che i ruoli maggiori sono assegnati ai soliti Dino Strano (è l'antagonista) e Benito Pacifico. Inutile segnalare che i risultati non migliorano. Il plot è il canonico revenge movie. A essere uccisi, questa volta, sono i genitori del protagonista, assassinati dalla solita banda di bulli che spadroneggiano nel villaggio, giungendo persino a truccare incontri di lotta. Lo script è infarcito da dialoghi poco riusciti, a cui Fidani cerca di bilanciare con la sua solita azione spettacolare. Niente di rilievo, tanto che non è elencato tra i migliori western del regista e il che è tutto dire... Fidani ci riprova, questa volta aiutato economicamente da Diego Spataro (suo direttore di produzione e collaboratore storico) e da Massimo Bernardi, con Il Suo Nome era Pot... ma Lo Chiamavano Allegria (1972). Se ne Lo Chiamavano Così Sia Fidani si era limitato a scimmiottare il titolo del primo Trinità, qua cerca di andare oltre sposando la chiave comica. Ci risono di nuovo Pietro Martellanza e Lincoln Tate (al terzo spaghetti western), ma questa volta promossi, dato il maggior budget, a ruoli principali. Fa una particina anche Erika Blanc che passa per caso sul set e, avendo indosso un vestito di scena e a disposizione un cavallo che le è stato affidato per una sequenza di un altro film, finisce per esser ripresa da Fidani che pensa bene di metterla in campo in modo da sfruttare attrice e cavallo senza scritturare nell'una nell'altro. Nessuno protesta, ma non per generosità piuttosto perché nessuno se ne accorge e la produzione del film a cui la Blanc e il cavallo sono destinati si sfalda tanto da non ultimare il film. Quando si dice la bellezza e la magia del cinema italiano... La sceneggiatura non è scritta da Fidani, ma da Lucio Giachin e Alfredo Medori. Il primo è un personaggio su cui neppure il segugio Roberto Poppi è riuscito a far luce, sebbene risulti ufficialmente regista 1222 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di trash quali I Racconti di Canterbury N.2 (1973) e Quanto è Bella la Bernarda tutta Nera e tutta Calda (1973), quest'ultimo divenuto un esempio negativo teso a indicare quello che non si deve fare nella commedia scollacciata. È probabilmente un nome fittizio che nasconde lo stesso Diego Spataro, anche se alcune fonti affermano trattarsi di un amico dello stesso. Imdb, per complicare le cose, lo presenta come Lucio Dandolo, ma anche questo nome è un probabile pseudonimo di un regista. Qualcuno lo associa persino alla regia di questo Il suo Nome era Pot. Al di là delle voci il nome Giachin è associato alle qualità di un regista mediocre che, a suo modo, è riuscito però ad attirare su di se un po' di attenzioni. È altresì regista il cosceneggiatore Alfredo Medori, maggiormente conosciuto però nella veste di dialoghista. Lo abbiamo già incontrato quando abbiamo parlato de La Morte sull'Alta Collina (1968) che molti gli attribuiscono anche come regia, ma la cosa non è chiara. Dunque una serie di nomi che fanno sorgere molti dubbi relativi all'effettiva paternità della pellicola. Marco Giusti la definisce un “capolavoro di cinema Frankestein all'italiana , girato un po' da tutti.” La leggenda vuole che Diego Spataro conceda la regia a un perfetto sconosciuto, tale Lucio Giachin, che gli si presenta alla porta spacciandosi per regista, un po' come potrebbe fare un rappresentante di elettrodomestici. Il giovane lo convince, grazie a una spiccata arte oratoria, a farsi affidare la regia di un film. Spataro, rimasto ben impressionato, accetta, entrando in polemica col socio Bernardi. Quest'ultimo infatti, quando viene a sapere della scelta del socio, va su tutte le furie (manco fossero abituati a lavorare con Leone, ndr). “Bada che confusione!” commenta Bernardi nel vedere le mille problematiche insorte... “e qui ce vo'le un mago...” Bisogna allora ovviare al pasticcio e chi ti arriva...? Demofilo Fidani, ovvio... Il sardo arriva sul set e, pensate, pensate, dopo aver letto la sceneggiatura dice: “Diego, son carte brutte queste...”. Spataro allora lo ingaggia per girare delle scene di raccordo e per infoltire (!?) la sceneggiatura. Fidani provvede a girare il tutto in un giorno (!?). Il film è una comica così come la sua produzione. Due fratelli rapinatori e burloni finiscono per scontrarsi con gli altri componenti della banda che vorrebbero tenersi per se il bottino rapinato. Si aggiunge alla lotta anche un messicano. “Pessimo tentativo di imitazione sulla scia di Trinità” commenta spaghettiwestern.altervista.org. Thomas Weisser sbotta: è il peggior film di Fidani! 1223 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Demofilo Fidani prende gusto ai titoli scopiazzati e così copia pari pari il titolo all'ultimo film di Leone, aggiungendo poi un sottotitolo sufficiente a far cadere le braccia: Giù la Testa Hombre! - Doppia Taglia per Minnesota Stinky (1971). Il copione è scritto dallo stesso Fidani, supportato da Alfredo Medori. Tornano nel cast Hunt Powers (non è all'ultimo western come dice erroneamente Giusti) e Nino Scarciofolo. Tra i cattivi abbiamo i maligni Gordon Mitchell (Testa di Ferro, un nome che evoca una grande intelligenza) e Klaus Kinski, non mancano poi i fedelissimi Benito Pacifico e Dino Strano, c'è anche Giancarlo Prete (lo ricordiamo in svariati poliziotteschi e protagonista ne I Nuovi Barbari, post atomico di Castellari). Bel cast quindi, fa una capatina persino Renzo Arbore. Aria di cult allora... Si scomoda addirittura la Rai che si reca sul set e intervista Klaus Kinski. Il polacco, con fare aristocratico e da divo, rilascia un'intervista pazzesca dove dice che non gli piacciono i western americani, troppo noiosi per i suoi gusti, e che è molto meglio lavorare con Fidani piuttosto che con Ford. Mitico... Protagonista è Scarciofolo, nei panni di Macho, alleato con Pacifico, contro Powers e Mitchell, il primo addirittura nei panni di Butch Cassidy. C'è persino Sundance Kid, interpretato da Prete, ma soprattutto un Kinski spiritato nei panni di un reverendo. Chiaramente non c'è nessuna corrispondenza con i veri pistoleri del western, se ne ripropongono i nomi solo perché fa più fico. L'obiettivo di Scarciofolo è debellare le bande di due loschi criminali e per farlo si infiltrerà in una di esse allo scopo di spingerla contro l'altra. Riferimento iniziale è ancora Per un Pugno di Dollari, anche se cambia il movente: si agisce per la giustizia in luogo del vile denaro. Attenzione però a pensare a una trama articolata, con Fidani non dovete neppure sospettarlo. Grandissimo delirio di sparatorie a cui si aggiunge lo strascico giudiziario che vede Sergio Leone protagonista. Quando il caso di dire che un hombre non libera dall'ombra del maestro adombrato dalla convinzione di aver subito un plagio. A farlo infuriare è il furto non autorizzato messo in atto da Fidani, come se l'aver riutilizzato il “Giù la Testa” potesse convincere qualcuno ad alzarla per vedere i copioni e dunque rovinare qualcuno. Poco male, si cambia il titolo sparandone uno a casaccio con l'assurdo e poco comprensibile Doppia Taglia su Minnesota Stinky, che non è un personaggio della storia. Il film successivo Fidani, in modo beffardo, lo intitolerà Giù le Mani, Carogna 1224 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

(1972) quasi a voler beffeggiare il numero uno del genere, magari raffigurato in un'ipotetica vignetta mentre strappa la locandina del film di Fidani. Quattro scarso il voto di imdb. Spaghettiwesterns.1g.fi avverte tutti: “Da evitare a ogni costo.” Il mese di novembre si apre con qualche film che fa ben sperare soprattutto se si confronta alla pochezza della stagione. Torna Ferdinando Bali, ma soprattutto il duo Infascelli-Klein che tentanto di innovare il genere proponendo una sorta di Zatoichi in chiave western. BLINDMAN Produzione: Italia e Usa, 1971. Prodotto: Roger Petitto e Roberto Infascelli (Primex Cinematografica), Allen Klein (Abk Film). Regia: Ferdinando Baldi. Soggetto: Roger Petitto. Sceneggiatura: Vincenzo Cerami, Roger Petitto e Piero Anchisi. Interpreti Principali: Roger Petitto (Tony Anthony), Lloyd Battista, Ringo Starr, Raf Baldassarre, Agneta Eckemyr, Magda Konopka, Marisa Solinas. Fotografia: Riccardo Pallottini. Musiche: Stelvio Cipriani. Sottogenere: Bizzarro. Durata: 105 min. Giudizio Mancini: ***1/2 Giudizio Morandini:** La trama Pistolero cieco (Petitto) vaga per il west in cerca di affari da compiere. Si sposta in sella a un cavallo che richiama con un fischio, armato di fucile con baionetta e portando al collo una targa con su scritto “ciego – Blindman”. È stato ingaggiato per condurre cinquanta giovani ragazze nel Texas per offrirle in sposa ai minatori. A tal fine è munito persino di regolare contratto, ma la controparte gli ha giocato un brutto scherzo cedendo il lotto a un bandito messicano (Battista) che usa le ragazze quali esche da bordello per falcidiare gli uomini del generale dell'esercito messicano (Baldassarre). Nella banda del messicano però c'è un anello debole costituito dal fratello (Starr), quest'ul1225 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

timo è innamorato perduto di una ragazza (Eckemyr) che non lo contraccambia. Blindman sfrutterà a suo vantaggio la situazione, rapendo prima il giovane e poi la ragazza per usarli come contropartita per la riconsegna delle cinquanta donne. Il Commento. Dopo il bizzarrissimo Lo Straniero di Silenzio (1969), torna la coppia Allen Klein-Tony Anthony, sempre con il contributo di Roberto Infascelli in veste di socio di minoranza, per la seconda volta persino soci in produzione. Non c'è più Vanzi alla regia, ormai orientato verso altre pellicole e in particolare al lavoro in televisione, lo sostituisce Ferdinando Baldi che diverrà il secondo regista feticcio di Tony Anthony. È l'attore italo-americano a pensare a un nuovo western da girare in Almeria. A convincerlo sono gli incassi stratosferici ottenuti, in patria e nei paesi orientali, dalla trilogia dallo stesso interpretata e diretta da Luigi Vanzi, iniziata a fari spenti con Un Dollaro tra i Denti (1967). Allen Klein, anch'esso soddisfatto e impegnato nella distribuzione internazionale del western bizzarro El Topo (1970) del cileno Alejandro Jodorowsky, crede nel progetto, stanzia un budget superiore ai precedenti e convince il batterista dei Beatles, Ringo Starr, a prendere parte al film in veste di attore. La presenza dell'artista inglese è una manovra commerciale vincente, sia perché i Beatles in quegli anni sono una leggenda sia perché funge da traino promozionale in ogni parte del globo. Il cantante di Liverpool, ormai lanciato in una carriera da solista, è al suo settimo film dopo i debutti nei musical di Richard Lester e un altro paio di pellicole, che avevano coinvolto l'intera band inglese, oltre al tentativo di intraprendere una via personale con Candy e il suo Pazzo Mondo (1968) del duo Christian Marquand e Giancarlo Zagni. Tenterà in seguito di proseguire in questa via, ma con apparizioni molto fugaci, soprattutto in musical e commedie. Tony Anthoy stende il soggetto dimostrando, per l'ennesima volta, il proprio amore per il cinema nipponico. Questa volta si ispira a La Storia di Zatoichi (1962) di Kenji Misumi, samurai cieco abile con la katana, nato dalla penna dello scrittore giapponese Kan Shimozawa e in grado di ispirare serie televisive e una trentina di film, tra i quali Zatoichi (2003) di Takeshi Kitano oltre a rivisitazioni occidentali 1226 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

quali Furia Cieca (1989) di Philip Noyce e riproposizioni in salsa femminile come Ichi (2008) di Sori Fumihiko. Viene così plasmato un pistolero fumettistico, piuttosto cialtrone nel vestirsi e nel porsi, che va in giro in sella a un cavallo grigio con cui comunica a suon di fischi, armato di un fucile dotato di baionetta usato alla stregua di un bastone di orientamento. Il pistolero ha gli occhi spenti per effetto dell'apposizione di lenti a contatto che ne simulano la cecità. A questa bizzarria, Anthony ne aggiunge un'altra, ovvero la materia del contendere che anima tutta la vicenda. Nell'occasione, infatti, non si parla di carichi d'oro contesi o ricercati su cui pendono taglie ovvero contrabbando di armi o latifondisti leviatani, né tanto meno di rivoluzionari che vogliono ribaltare l'ordine politico. No, niente di tutto ciò; qua si parla di cinquanta ragazze oggetto di regolare contratto che finiscono per essere cedute, in contemporanea, a soggetti diversi. Blindman ha un regolare contratto per condurle in Texas e cederle in sposa ai minatori. L'antagonista le ha invece acquistate dallo stesso dante causa per destinarle al bordello gestito dalla sorella. Il generale dell'esercito messicano, invece, ha pagato un'ingente somma per acquistarle dal bandito in modo da far divertire i propri soldati, finendo però in trappola dei loschi piani della banda che ha usato le donne quali esche. Ne deriverà una lotta generale per aggiudicarsi questo inusuale carico, lotta che andrà a discapito di molte ragazze. Fistfulofpasta.com vede in tale evoluzione un ulteriore omaggio operato da Anthony, indicando il western Donne verso l'Ignoto (1951) di William A. Wellman quale fonte di ispirazione. Questo in sintesi il succo della vicenda. Ferdinando Baldi, a cui viene destinato il soggetto in visione, affida alle qualificate penne di Vincenzo Cerami e Piero Anchisi, con cui aveva collaborato ne Il Pistolero dell'Ave Maria (1969), il compito di sviluppare la trama. La scelta del regista ottiene il pieno appoggio di Allen Klein e di Tony Anthony che già avevano beneficiato del lavoro del futuro sceneggiatore di Roberto Benigni ne Lo Straniero di Silenzio (1968). Ne esce fuori un western bizzarro, ma non troppo, con una marcata ironia che non sconfina però nella farsa. Cerami e Anchisi cercano di discostarsi dagli spaghetti-western del periodo, introducendo elementi innovativi. L'inizio sembra orientarsi verso quei western alla Sartana. Vediamo Tony Anthony giungere in un paese fantasma e sparare a un campanile sebbene sia cieco, facendosi solamente aiutare da un passante che gli indica il punto in cui sparare. I riferimenti alle diavolerie dei perso1227 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

naggi di Carnimeo però si esauriscano quasi qua. Baldi opta per il sarcasmo, il suo protagonista ama la battuta e commenta persino gli errori degli avversari guardando in macchina per esprimere delle massime alquanto ovvie ma colorite. Eloquente la scena in cui uccide Ringo Starr, giocando sulla gelosia dello stesso e facendogli trovare un paio di mutande della fidanzata stese su un filo. Così il cieco commenta la morte dell'uomo: “Quando perdi la testa per un paio di mutande, amico, sei fottuto!” Oltre ai già citati elementi, si nota un certo gusto per l'erotismo. Nel corso della visione appaiono vari topless, aspetto assai inusuale per il genere. Baldi sembra non perdere occasione per mostrare seni e curve di comparse di grande bellezza, addirittura sono molteplici le occasioni in cui si notano scollature da cui scappa una mammella. C'è persino una sequenza in cui le cinquanta ragazze oggetto di contesa si trovano in una rudimentale doccia, tutte nude, con delle addette che lanciano contro le ragazze continui secchi di acqua per farle lavare. Non di secondaria importanza è la scena in cui il protagonista lega a un palo la gestrice del bordello, Magda Konopka, e la spoglia strappandole via i vestiti, lasciandola così al centro della piazza sprovvista di ogni capo. Si tratta di una scena che Baldi riprende dalla sceneggiatura di Yankee (1966) di Tinto Brass e che il regista veneto aveva dovuto rinunciare a mettere nel suo film per il veto dei produttori. Si registra inoltre la comparsa di Marisa Solinas, già apparsa in vari western tra i quali Giarrettiera Colt (1968), qua completamente nuda, e di Agneta Eckemyr, anch'essa costretta a sottostare alle voglie sessuali di Ringo Starr che l'apostrofa per i suoi atteggiamenti ostruzionisti: “Sei un pezzo di legno. Un giorno dovrò darti fuoco per riscaldarti”. Dunque un buon prodotto, con discreto ritmo e scene esilaranti, ma comunque ancora legato allo spaghetti-western leoniano. Non mancano infatti le classiche scene del protagonista che viene imprigionato, quindi sottoposto a torture (addirittura con una miccia innescata sul corpo, in modo da provocargli delle ustioni) e poi abile a escogitare un metodo per evadere dal carcere, approfittando dell'assenza di buona parte della banda. Una scena, quest'ultima, ispirata a Per un Pugno di Dollari (1964) di Leone, pellicola altresì citata nella strage dei soldati messicani falcidiati da una mitragliatrice apparsa a sorpresa da dietro le quinte di un palco da cui sarebbero dovute uscire le ragazze del bordello. Lo stesso atteggiamento del protagonista, 1228 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

pur se buffonesco, è in linea con quello dello straniero di Leone. Anche Blindman è disinteressato alle donne (respinge più volte la Eckemyr, lasciandola alla fine nel paese fantasma), è smargiasso e soprattutto votato al denaro. Le sparatorie inoltre sono da western serioso, ben messe in scena, e con un grande make up. Si vedono fiotti di sangue sprizzare dalle ferite, esplosioni spettacolari e un epilogo auto-citazionista, il riferimento va a Preparati la Bara! (1967), nel cimitero di una città fantasma dove la banda dell'antagonista viene sterminata quando stava per aver gioco facile del protagonista (salvato dall'arrivo dell'esercito, proprio come avveniva nei primissimi spaghetti-western). Dagli spaghetti-western pionieristici si eredita inoltre il caratterista Raf Baldassarre, in un ruolo da spalla del protagonista. L'attore romano interpreta il generale messicano finito nella trappola dell'antagonista che lo ha adescato organizzando, per l'esercito messicano, uno spettacolo a luci rosse poi trasformatosi in una mattanza. Baldassarre appare scatenato (simpaticissimo quando salta da un muretto e, nel tentativo di salire in groppa a un cavallo, finisce nel fango imprecando), con un personaggio dotato di humor che ride ed elargisce continui complimenti a Blindman per le capacità balistiche dello stesso. Salverà più volte il protagonista, soprattutto nel finale quando renderà ad armi pari il duello tra lo stesso e Lloyd Battista, l'attore chiamato a interpretare il delirante antagonista, costringendo quest'ultimo alla cecità attingendogli gli occhi con il mozzicone di un sigaro. Una scena cruda e violenta, ben realizzata dagli addetti degli effetti speciali che andranno a cicatrizzare le cavità oculari di Battista. Lloyd Battista, come anticipato, è il capobanda messicano che tenta di far soldi rapendo il generale messicano per estorcere denaro allo Stato. Purtroppo per lui troverà Blindman sulla sua strada e commetterà l'errore di sottovalutare l'avversario apparentemente indifeso, ma abile nel trovare una scusa per non farsi ammazzare (a sua volta, ha rapito la donna del fratello dell'antagonista). L'attore americano viene scelto dal circuito televisivo statunitense per la somiglianza a Ringo Starr, era altresì apparso ne Lo Straniero di Silenzio (1968) e in un piccolo ruolo nel western semisconosciuto Chisum (1970) di McLaglen. Proseguirà la carriera nelle fiction d'oltreoceano prendendo parte, da caratterista, a famosi serial quali Mission Impossible (1970), Mannix (1970), Hunter (1990), Dallas (1991), Walker Texas Ranger (2001) e Beautiful (2002). Lo ritroveremo nel western Get Mean (1975), sua rarissima apparizione cinematografica. Nonostante 1229 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

la poca esperienza, Battista sfoggia una prestazione che non fa rimpiangere attori più qualificati. In particolare si distingue nell'originale scena del funerale di Ringo Starr quando, all'interno del castello medievale che costituisce la base della banda, pretende dal prete la celebrazione del matrimonio tra il fratello morto e la donna dallo stesso amato (sarà interrotto dall'irruzione pirotecnica di Anthony). Bellissima poi la sequenza, in pieno deserto, con Battista che chiama l'assalto ai danni delle cinquanta donne fatte scappare da Anthony e costrette a correre, in vestaglia e a piedi scalzi, nella sabbia, braccate dagli uomini di Battista, che si diverte al tiro a bersaglio, a distanza, col fucile. Baldi regala qua la sequenza più bella del film, con primi piani, campi medi di donne placcate e costrette a subire violenza dai ceffi che rispondono agli ordini di Battista, il tutto cadenzato dalle musiche di Stelvio Cipriani. Ruolo di vice antagonista per Ringo Starr, la cui presenza è quasi marginale. L'attore inglese è l'anello debole della banda dell'antagonista, viziato dall'amore non corrisposto verso una ragazza interpretata da Agneta Eckemyr. Il protagonista sfrutterà questo limite per avere gioco sulla banda. Starr, qua con un look (capelli lunghi e barba alla Jesus Christ) che lo rende quasi uguale a Battista, è comunque bravo, anche se esce di scena a metà film dopo esser stato tratto in trappola da Anthony. Il suo, come già detto, è un ruolo atto a fungere da traino al film. Convincono assai meno Agneta Eckemyr e Magda Konopka, entrambe assai fredde e inespressive. La prima interpreta la giovane e casta ragazza che Ringo Starr cerca di avere come moglie. La vediamo assumere un atteggiamento remissivo per poi innamorarsi di Blindman, senza però mostrare mai personalità, al punto da essere lasciata in asso dal pistolero cieco. La prestazione piuttosto scialba non deve sorprendere, visto che la ventunenne svedese è al debutto nel cinema dopo una carriera da indossatrice. Conosciuta soprattutto per alcune foto pubblicate sulla rivista Playboy, non avrà una grande carriera nel mondo del cinema. Resterà inattiva nei successivi tre anni e a fine carriera saranno meno di dieci le sue comparse, in pellicole (soprattutto svedesi) quali L'Isola sul Tetto del Mondo (1974) di Stevenson e Ridere per Ridere (1977) di John Landis. Male anche la Konopka, sebbene le venga affidato un ruolo che le avrebbe permesso di mostrare il talento. La polacca, di fatti, non sfrutta la caratterizzazione da gestrice del bordello, apparendo triste 1230 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

e spenta. La pensa in modo diverso Giusti, il quale la trova notevole e sadica. Al di là di quanto detto, Blindman è un western che porta aria nuova, con un personaggio che avrebbe potuto dar vita a una mini saga, soluzione peraltro suggerita da un epilogo aperto a un potenziale sequel. Purtroppo Anthony e Baldi si orienteranno verso sviluppi ancor più estremi, avremo modo di parlarne nel quarto volume. Qua preme sottolineare l'ottima confezione, favorita dalla nitida fotografia di Riccardo Pallottini (il quale fa tesoro dell'esperienza maturata nei gotici di Margheriti e in Joko Invoca Dio... E Muori! per esaltare le sequenze ambientate all'interno delle grotte) e dall'inconsueta colonna sonora di Stelvio Cipriani, convinto per una volta a non comporre una soundtrack malinconica. Da segnalare infine il montaggio di Roberto Perpignani, montatore di fiducia di Bernardo Bertolucci e imposto da Infascelli che lo aveva avuto nel film che ha spianato la strada al poliziottesco: La Polizia Ringrazia (1969). La pellicola, sebbene non sia conosciutissima in Italia (è amatissima in Giappone e negli Stati Uniti), gode di un giusto alone di culto tra gli appassionati. Marco Giusti parla di capolavoro e di uno degli esempi più curiosi dell'intero genere. È persino travolgente per spaghettiwestern.altervista.org che invita i lettori a non perderselo. Buone impressioni detraibili persino dal voto che campeggia su imdb.com, addirittura superiore al sei e mezzo. Mondo-esoterica.net è meno convinto, a causa del ritmo. Sottolinea, in altre parole, che la storia procede lentamente ed è costruita sullo stile proprio delle produzioni di Harry A. Towers affidate alla regia di Jess Franco. L'appassionato anglofono, giustamente, pone l'attenzione sul tema dello sfruttamento della donna, caratterizzata alla stregua di un animale da mercato. Lo stesso protagonista, definito un anti-eroe, non si dissocia mai da tale ricostruzione. Del resto è lo stesso Anthony a farlo capire, quando si presenta al cospetto dell'antagonista o quando respinge un bacio della Eckemyr: “Voglio le mie cinquanta donne, perché ho un regolare contratto!” Non c'è traccia alcuna di valori nel personaggio o di spinte emotive riconducibili a sentimenti umani. Sul sito si evidenziano altresì delle forzature nella trama, controbilanciate però dal lavoro di contorno effettuato dagli addetti alle esplosioni e dalle tante comparse che offrono quel quid spesso assente nelle piccole produzioni. 1231 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

La butta sull'umorismo sonofdjango.blogspot.it il quale afferma: “Ci sono più donne nude qui che negli spogliatoi di una palestra dopo una sessione di allenamento femminile”. Ciò detto reputa solida la regia di Baldi, buoni la colonna sonora e il montaggio, sufficienti gli attori e un tono generale brutale e grintoso che darà soddisfazione agli spettatori. Tra i (pochi) detrattori figura lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it che lo reputa insufficiente, poiché inverosimile oltre che infarcito, a suo avviso, di inopportune scene di nudo e pennellate di umorismo spiccio. L'eccezione è senz'altro pertinente, ma l'amico spagnolo non tiene conto della dimensione dell'opera di Baldi che è quella fumettistica e non realistica. Ai limiti dell'offensivo, pur se girato bene, per Fistfulpasta,com a cui non va giù il continuo indugiare sulle donne, con scene che sembrano proprie di un genere erotico votato alla violenza. Tra i critici generici, non esprime giudizi il Morandini, due stellette per mymovies.com; assai diversa l'opinione di filmtv.it il quale gli riconosce tre stelle e mezzo e un giudizio che non lascia adito a dubbi interpretativi: “Scanzonato, pervaso di elementi grotteschi... è sostenuto da un montaggio veloce nelle scene di azione e da una regia impeccabile.” Se con Blindman qualcuno può esser convinto di aver visto un buon spaghetti-western, si ritorna sul pianeta terra alla visione di Quelle Sporche Anime Dannate, secondo tentativo western di Luigi Batzella in arte Paolo Solvay. Il cast artistico è da film di Fidani. Ritroviamo Nino Scarciofolo, nascosto sotto il suo usuale pseudonimo di Jeff Cameron, a incarnare la figura del protagonista. C'è poi Donald O'Brien, nei panni del cattivo, quindi il vuoto. Il copione lo scrive un tale Aldo Barni, che arriva da altre tipologie di film e che è fermo da quasi sei anni, quando firmò il soggetto di All'Ombra di una Colt (1965) di Grimaldi. Non scriverà più altri film. A cacciare i soldi (pochi e da riscuotere facendo acrobazie) è Mario De Rosa, che già aveva prodotto il debutto western di Batzella. Gli da una mano il caratterista Gino Turini, apparso in western quali Wanted Sabata (1970), che già aveva prodotto Batzella ne Tre Falchi di Pietà (1966) recitando lui stesso da protagonista. Solito cliché da revenge movie... Non se ne può più! Girato inoltre male, con errori di regia e trascuratezza generale. Qualcuno fa inoltre notare che alcune scene 1232 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sono state riprese da altri western e rimontate qua... Lo stronca anche spaghettiwestern.altervista.org che lo reputa noioso, rabberciato, banale nell'azione. Insomma, bocciatura su tutto il fronte. Difficile fare peggio? Manco per idea. Ecco allora un'altra pellicola da dimenticare, anche se credo che in pochi potranno farlo, visto che l'avranno vista quattro gatti: Il mio Nome è Mallory... M come Morte (1971) che segna il debutto di Mario Moroni alla regia. Soggettista e sceneggiatore di Tanio Boccia, con qualche esperienza da aiuto regia allo stesso, girerà anche il pessimo thriller Ciak si Muore, per poi ritirarsi. Giusti parla di western giudicato all'unanimità un disastro. Il produttore, si narra, finirà a vendere pullover di Alpaco in Colorado. Cast artistico di basso profilo, ne resta coinvolto Robert Woods, chiamato a interpretare il pistolero protagonista. Il plot verte su ranch su cui gravitano contrasti circa la legittimità dei contratti firmati. Mallory arriverà a difendere il più debole. Siamo davvero ai livelli più bassi del genere, complice un ritmo soporifero e una scarsa azione. Si ricordano le locandine con tre delle quattro “M” del titolo marcate in grassetto forse a omaggiare le due iniziali del regista in una sorta di “Mario... M come Moroni”. Confusionale nello schema narrativo secondo spaghettiwestern.altervista.org. A fine novembre esce il quinto western diretto da Roberto Mauri, il quale dopo aver girato i sequel apocrifi di Sabata e di Sartana gira … E lo Chiamarono Spirito Santo (1971) che esce prima ancora dello Spirito Santo del più blasonato Carnimeo. Non è ben chiaro a chi dei due sia riconducibile il personaggio, di certo si tratta di due soggetti ben diversi che in comune hanno solo il nome. Quello in questione è il primo dei tre capitoli della trilogia di Mauri dedicata a Spirito Santo e che vedrà il greco Vassili Karis, al secolo Vassili Karamesinis, protagonista. A cacciare i soldi, pochissimi in verità, è un impiegato di una società collegata al mondo del cinema, tale Franco Vitolo. Vitolo non ha esperienze dirette, ma conosce l'ambiente. Commissiona a Mauri la realizzazione di un copione western e inizia a guardarsi intorno per raggranellare le somme necessarie per sostenere lo sforzo produttivo. Alla fine trova la compartecipazione di una società francese e l'esborso di un anticipo da parte di un distributore. Non è molto, ma 1233 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sufficiente a finanziare anche i due successivi sequel, oltre a un altro paio di film di altro genere. Si decide di girare il film nei pressi di Roma e si ingaggia Vassili Karis, che già aveva lavorato con Mauri in Wanted Sabata. Il greco diventerà l'attore feticcio del produttore e collaborerà attivamente alla formazione del cast artistico, accettando anche di lavorare in pellicole che non gli vanno a particolare genio. Il copione, contrariamente alla moda del periodo, non percorre la via della commedia ma opta per lo spaghetti western serio e dai contorni tragici. Nulla a che vedere col futuro Spirito Santo di Carnimeo, anche se il protagonista si chiama allo stesso modo (per via di una colomba che si è posata sul davanzale della camera dove la madre lo ha partorito) e anche se Mimmo Palmara, lo sceriffo indiano (!?) che gli da la caccia, ammonisce un complice del protagonista dicendo la canonica frase: "Uomo avvisato mezzo salvato" (il film di Carnimeo si intitolerà Uomo Avvisato Mezzo Ammazzato). Al di là dei limiti del budget, evidenti come dimostra la sciatta fotografia di Mario Mancini, è tutto sommato un film ordinato, senza grandi strafalcioni (a parte l'indiano in veste di sceriffo, decisamente inverosimile) ma anche senza colpi di coda. Non ci sono sequenze degne di esser menzionate, così come la sceneggiatura non ha nulla di originale. Il plot è un dejà vù continuo. Assistiamo all'accompagnamento coattivo di Spirito Santo dal campo di concentramento in cui è internato a un tribunale. È stato infatti intimato come teste. Durante il viaggio riesce a fuggire per l'intervento di alcuni vecchi amici, salvando però la vita allo sceriffo indiano che guida la spedizione. Si capirà poi il perché. Mauri porta a questo punto il film sul versante del sottogenere costituito dalle bande composte da elementi che si eliminano a vicenda per non spartire il bottino provento di un delitto che hanno compiuto insieme. Spirito Santo, infatti, organizza un colpo, aiutato dal padre (Hunt Powers) della donna che ama (Maragaret Kiel). Quest'ultimo non è ben caratterizzato, così come Mauri non si spreme le meningi per tratteggiare il suo protagonista. A parte lo sceriffo cui da corpo Palmara, i personaggi sono tutti dei delinquenti seppur con un senso etico diverso l'uno dall'altro. Spirito Santo è un rapinatore, ma rispetta i patti e non tradisce la parola data. Il personaggio di Powers è più subdolo, dice di non voler problemi con la legge, si veste e si atteggia da nobile, ma poi non perde occasione per fi1234 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nanziare i colpi di Spirito Santo opponendosi al matrimonio tra questi e la figlia perché lui è una persona di classe. Insomma... non è proprio il massimo. I due mettono così in piedi una banda di venti manigoldi che, travestiti da soldati yankee (un po' come in Per un Pugno di Dollari), assalteranno un carico scortato dai militari, per poi spararsi l'uno contro l'altro per via dell'atteggiamento di uno di loro, una sorta di bandito redento (personaggio con una provenienza in comune con la spalla di Spirito Santo di Carnimeo, ma con caratteristiche totalmente diverse) che ritorna alle vecchie abitudini, provando quasi un orgasmo nello scaricare sul prossimo la mitragliatrice che si trova a maneggiare. A dar corpo a questo soggetto c'è il caratterista José Torres, il migliore della compagnia con le sue risate spiritate (davvero delirante il suo personaggio). Il granitico Mimmo Palmara, tra i peggiori nella circostanza a causa della sua mancanza di espressività, è l'unico che cercherà di contrapporsi a questi soggetti e lo farà con l'unico obiettivo di arrestare Spirito Santo poiché è convinto, erroneamente, che gli abbia assassinato la sorella. A parte Palmara, le interpretazioni sono sufficienti. Si segnalano un Hunt Powers irriconoscibile (a causa di due foltissimi basettoni congiunti a dei baffi che gli coprono l'intero volto) e la bella tedesca Margaret Keil, accreditata Margaret Rose, proveniente dai fotoromanzi Lancio, con una dozzina di pellicole alle spalle e conosciuta soprattutto quale testimonial pubblicitaria dell'aperitivo Punt e Mes, purtroppo castigatissima a parte una nuotata in un lago. Mauri preferisce non sfruttarla ed è strano, poiché la Keil si dedicherà in seguito alle commedie decamerotiche e a svariati erotici, inoltre lo stesso regista aveva appena girato Eva la Venere Selvaggia (1968). Mauri gira in modo ordinato, seppur con un che di vecchio nello stile. Ama mostrare i cavalli abbattuti, li vediamo restare a terra dopo le sparatorie e regala anche una sequenza in cui si diverte a inserire battute relative al loro prezzo e a quanto costi mantenerli. Chissà se c'è dietro qualche curioso aneddoto. Per il resto non ha gran senso del ritmo, piazza sequenze stile americano con Karis e la Keil che si promettono amore a vicenda, per poi piazzare un epilogo frettoloso in chiave tragica dove i personaggi perdono tutti la persona amata e dove Spirito Santo riesce a convincere lo sceriffo che non è stato lui a uccidergli la sorella. Mauri chiude, ancora una volta, con un'inquadratura assurda di un cavallo che raspa con lo zoccolo di un anteriore. 1235 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Musiche, senza infamia e senza lode, firmate da Carlo Savina. Nel complesso è trascurabile, ma si può vedere nonostante un ritmo tutt'altro che travolgente. E' uno degli ultimi esempi di spaghetti western serio, particolarmente apprezzato da Karis che lo reputa, a ragione, il migliore della trilogia, ma che non fa urlare i fan del genere. Spaghettiwestern.altervista.org lo definisce banale e poco riuscito. Prima del sopraggiungere dell'ultimo mese dell'anno, Carlo Croccolo spara la sua ultima cartuccia dirigendo e producendo Black Killer (1971). Si tratta della seconda produzione che coinvolge Oscar Santaniello e Carlo Marina dopo Una Pistola per Cento Croci (1971). Croccolo gira i due film uno di seguito all'altro. Arriva Aristide Massaccesi, a sostituire Giancarlo Ferrando, quale operatore di macchina, mentre viene confermato lo storico direttore della fotografia di Fidani ovvero Franco Villa. Tra le novità figura pure Klaus Kinski, in un ruolo di supporto, confermata Marina Mulligan (tale Marina Rabbissi o Rabissi, secondo Giusti), compare poi il norvegese Fred Robsham al primo ruolo importante, dopo aver fatto la comparsa in Bandidos (1967), cui però non darà gran seguito incapace di sfruttare il ruolo pur avendo legami importanti con attori del cinema italiano (la sorella era la donna di Ugo Tognazzi). Il resto è al risparmio. Il copione presenta le firme, oltre di Croccolo, di Luigi Angelo e Carlo Veo. Sono entrambi nomi legati alla commedia popolare, piuttosto che al cinema d'azione; il primo ha comunque messo le mani su Odia il Prossimo Tuo (1968), Veo invece dovrà la sua fortuna a titoli come Quel Gran Pezzo dell'Ubalda Tutta Nuda e Tutta Calda (1972) di Laurenti e Giovannona Coscialunga Disonorata con Onore (1973) di Martino, diventando uno degli sceneggiatori più ricercati per questo genere di film. Tutto lascia presagire a una ciofeca e invece la pellicola ha il suo fascino. Robsham viene lanciato come protagonista, spalleggiato da Kinski che Croccolo propone con taglio positivo, tenendolo però a operare dietro le quinte. L'attore polacco è un avvocato che va in giro senza cinturone, tenendo le pistole all'interno dei codici, debitamente scavati, che è solito tenere intorno a se. Ruolo da bulli locali riservato a Antonio Cantafora ed Ezio Pulcrano, nei panni di una coppia di banditi che uccidono sceriffi. Alla fine è un altro revenge movie, ma il regista napoletano sostituisce i toni da farsa del suo primo western plasmando un film abbastanza violento, dove si vede il sangue e dove non mancano le torture sadiche. Bella l'apertura con 1236 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

soggettiva di un cowboy a cavallo, ma sono molti i momenti in cui Croccolo si sbizzarrisce alla ricerca dell'inquadratura di maggiore effetto o piazzando zoom in e zoom out. Riproposte poi le scene di nudo che non vengono però gradite ai più. Musiche di Daniele Patucchi, artista al secondo anno di attività nel mondo del cinema, proveniente dai decamerotici, e che non avrà alcun culto. Curerà le colonne sonore di vari western italiani di serie z nonché del giallo E Tanta Paura (1976) e del pessimo post atomico I Predatori dell'Anno Omega (1983). Spaghetti-western.net apprezza solo la colonna sonora, giudicando mal sfruttata la presenza di Kinski (“spreca il suo tempo a far capolino da tende o finestre”). Tre secco per 800spaghettiwesterns.blogspot.it, il quale rileva come il personaggio di Kinski abbia la sola funzione di proporre il nome dell'attore nella locandina (dove compare come protagonista) ma che poi è del tutto superfluo ai fini della storia. “A malapena mediocre” il commento di spaghettiwesterns.1g.fi. Tra i film più attesi di dicembre c'è Viva la Muerte... Tua! (1971), opera con la quale Salvatore Alabiso tenta di bissare il successo ottenuto con Vamos a Matar Companeros (1970). Ad aiutarlo nello sforzo economico c'è ancora la Terra Filmkunst di Berlino cui si aggiungono Juan de Orduna, un vecchio regista settantenne avvezzo anche alle produzioni (di drammi e comici premiati in Spagna negli anni '40 e '50) e il californiano Mickey Knox nel ruolo di produttore esecutivo. Quest'ultimo, caratterista con alle spalle svariati film a partire dal dopoguerra, era giunto in Italia nei primi anni '50 in quanto cacciato dagli Stati Uniti perché accusato di essere in combutta con i comunisti. Già collaboratore di Sergio Leone, per quanto riguarda la cura dei dialoghi delle versioni americane dei capolavori del maestro romano, avrà in seguito piccoli ruoli in capolavori quali Il Padrino: Parte 3 (1990) di Francis Ford Coppola e Deliria (1987) di Michele Soavi, ma soprattutto curerà le versioni per il mercato americano di moltissimi cult nostrani quali Confessioni di un Commissario di Polizia al Procuratore della Repubblica (1971) di Damiani e Il Cittadino si Ribella (1974) di Castellari, fungendo altresì da supervisore dei dialoghi per film hollywoodiani come Il Salario della Paura (1977) di Friedkin. Alabiso punta ancora sul tortilla western e tenta di trattenere Sergio Corbucci, che ha appena chiuso per lui le riprese di Vamos a Matar Companeros (1970) ottenendo gran successo. Il budget per con1237 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

vincere il romano c'è, inoltre la collaborazione di Knox porta Alabiso a ingaggiare, oltre a Franco Nero, un attore di grosso richiamo: Eli Wallach. Si decide persino di acquistare i diritti di un racconto, intitolato The Killer from Yuma, di Lewis B. Patten, prolifico scrittore del Colorado. Corbucci però tergiversa, si dice a causa di alcuni diverbi intercorsi con Franco Nero durante le riprese di Vamos a Matar. Alabiso insiste, mostra al regista l'adattamento curato da Massimo De Rita e Dino Maiuri, sceneggiatori che avevano steso la storia del precedente film di Corbucci, ma ogni tentativo si rivela vano. Si deve riparare su Duccio Tessari che ha appena girato il giallo Una Farfalla con le Ali Insanguinate (1971). Il passaggio di mano porta a una decisa virata verso il comico, del resto, a partire da Una Pistola per Ringo (1965) fino allo scatenato Vivi o Preferibilmente Morti (1969), Tessari aveva sempre puntato su l'ironia. Il plot, al di là delle caratterizzazioni e delle trovate esilaranti su cui ci soffermeremo di qui a poco, non gode di grande originalità. Vengono riproposti tutti gli stilemi tipici del sottogenere, guardando in particolare a Giù la Testa (1970), ma anche a Il Buono, il Brutto, il Cattivo (1966). Così abbiamo la figura dell'est europeo (Franco Nero), nella fattispecie un falso principe russo che giura su Henry Ford (perché ne ha comprato le azioni) anziché sullo zar, ben vestito (colbacco, giacca, camicia, cravatte e guanti neri) che manipola e manovra di continuo un peone straccione (Eli Wallach) per far soldi. Quest'ultimo è una sorta di Rod Steiger, veste male, parla sboccato, pensa solo alle rapine, ma alla fine si troverà acclamato dalla folla alla stregua di un leader rivoluzionario. “Per quelli che credono alla libertà, nessun idolo è necessario; per quelli che non ci credono, nessun idolo è sufficiente” si troverà a urlare, al cospetto di un intero villaggio che lo acclama, ormai identificato nel ruolo che gli è stato cucito ad arte addosso. Decisivo a convertirlo alla causa del Messico, come per il personaggio di Steiger, sarà l'assassinio operato dai soldati della sorella e del nipotino. Prima di ciò, i due si trovano costantemente a evadere e a scappare, braccati da una parte dall'esercito messicano guidato da un generale idiota, amante delle donne (il solito Eduardo Fajardo), che si fa sempre fregare, dall'altra dagli uomini di uno sceriffo corrotto (Horst Janson), in cerca di vendetta, solito far evadere i banditi per poi ucciderli e intascarne le taglie. Il tutto si svolge in Messico, nel 1912, in piena rivoluzione e in un contesto dove sfrecciano sidecar, autoblindo e persino rudimentali pulmini. Max Lozoya, questo il nome del perso1238 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

naggio interpretato da Wallach, viene, da un giorno a un altro, identificato da tutti quale El Salvador, grande leader rivoluzionario. Ciò è dovuto all'intercessione di una giornalista irlandese (Lynn Redgrave) che vuole scrivere scoop sulla rivoluzione e per fare questo tenta, riuscendoci, di creare un mito a cui scattare foto e su cui scrivere. Un eroe di cui tutti parlano e che sfrutta le gesta di un combattente di cui nessuno ha mai visto il volto e che, in realtà, è morto in carcere. È lei a far evadere, a inizio film, il duo proprio con l'intento di fare di Lozoya un rivoluzionario. La donna, al tempo stesso peperina e pudica, è protagonista di sequenze grottesche dove si atteggia in stile Bruce Lee, stendendo a pugni un intero plotoncino (!?). Non ha intenti politici, il suo è un fine egoistico, ma determinante per la salvezza dei due che cercano sempre di scaricarla. “Un giornalista è uno che crea gli idoli e poi li distrugge” spiega Nero a Wallach. Purtroppo Tessari non punta molto su questo aspetto ed è un peccato, perché sarebbe stato un qualcosa di nuovo. Ruggero Deodato riprenderà la questione, in altro modo e in altro ambiente, col crudelissimo Cannibal Holocaust (1979) dimostrando l'ottimo spunto di sceneggiatura anticipato in questo western. Gli sceneggiatori scelgono invece la via già percorsa da Mario Caiano con Un Treno per Durango (1967), proponendo un tortilla western picaresco, con un duo sempre in difficoltà e graziato dal continuo intervento acrobatico di terzi che giungono costantemente a sottrarli dalle mani del nemico. Su tale canovaccio si inserisce quello di leoniana memoria della caccia a un tesoro nascosto. I due sono, rispettivamente, a conoscenza di dati parziali e complementari che messi insieme tracciano il luogo e le istruzioni per mettere le mani su una cassa di denaro sepolta. Per questo, per tutto il film, faranno finta di rivelare l'uno all'altro la relativa parte del loro duplice segreto, con l'intento di scoprire quanto necessario per mettere le mani sul carico mettendo, al contempo, fuori strada l'amico-rivale. Oltre a Leone, si scopiazza ancora da Caiano, nello specifico da Ringo, il Volto della Vendetta (1966). Difatti la mappa del tesoro è costituita da istruzioni tatuate sul sedere (!?) di due soggetti, aspetto che permetterà a Tessari di mettere in scena la scoperta delle mappe in modo esilarante e canzonatorio. Franco Nero ed Eli Wallach sono una garanzia, divertono e si divertono in un western ai limiti del grottesco. Tessari, tuttavia, non è completamente votato alla commedia, sebbene vi siano sequenze demenziali (lo strip della Redgrave davanti a Fajardo è da commedia 1239 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

scollacciata). Il ritmo è buono, ci sono discrete scene di tortura (Nero è torturato con cavi che gli irradiano scariche elettriche lungo il corpo) ed eccelse sequenze d'azione collettiva (anche se ogni tanto si piazza qualche soluzione comica). Benone anche Fajardo, collaudatissimo per i ruoli da generale messicano (qua caratterizzato da deficiente che tutti superano in astuzia). Lynn Radgrave, sorella della ben più famosa Vanessa, sembra invece uscita da un fumetto di supereroi. Slanciata, capelli rossi, volto non troppo seducente, si rivela piuttosto antipatica e petulante. Ha una formazione teatrale, votata soprattutto alla commedia, ed è sprecata in un film come quello di Tessari, non a caso l'anno successivo sarà ingaggiata da Woody Allen per Tutto Quello che Avreste Voluto Sapere sul Sesso (Ma non Avete Osato Chiedere) (1972). Arriva dalle candidature ai BAFTA, con La Ragazza dagli Occhi Verdi (1964) di Desmond Davis, quale migliore attrice emergente, e all'Oscar, quale migliore attrice protagonista, con Georgy Svegliati! (1966) di Silvio Narizzano, pellicola con cui aveva vinto il Golden Globe. Si toglierà in seguito svariate soddisfazioni vincendo un secondo Golden Globe e ottenendo una seconda nomination all'Oscar con Demoni e Dei (1998) di Bill Condon. Prenderà altresì parte al serial televisivo House Calls (1979-82), che gli varrà un'altra nomination ai Golden Globe, a Shine (1996) di Scott Hicks e a Spider (2002) di David Cronenberg. Dunque un'attrice di grande importanza, al suo unico spaghetti-western, che va a conferire quell'alone di culto che, al di là di quanto si legga in giro, conviene anche a questa pellicola. Convince assai meno il tedesco Horst Janson, granitico e nei panni di un personaggio di cui si sarebbe anche potuto fare a meno. L'unica cosa interessante che lo riguarda è la caratterizzazione che lo vede andare in giro con una sorta di busto di metallo che gli funge da sostegno e da corazza (il russo gli ha fratturato in passato delle vertebre). Janson avrà una lunga e importante carriera in Germania, dove lavorerà con ruoli da protagonista in una moltitudine di serial televisivi, quali Squadra Speciale K1 (1981-83) e Il Medico di Campagna (1989-96). Piccolo cammeo per Marilù Tolo, la quale interpreta la sorella muta di Lozoya che finisce per essere uccisa (fuori scena) dai soldati. La confezione è da spaghetti western di prima fascia. La fotografia di José F. Aguayo, professionista classe 1911, all'epoca già ultra premiato in patria e già incontrato in Minnesota Clay (1964), è più che di1240 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

screta. Vincerà nel 1987 il Goya alla carriera (più di centotrenta lavori dislocati in cinquanta anni di attività). Curiosa la colonna sonora che presenta brani di Ennio Morricone e altri di Gianni Ferrio, qua orientati a sound da film comico/scanzonato. La sensazione finale non è malvagia. Pur se poco bilanciato, alla fine diverte. All'epoca non andò fortissimo, incassando poco meno di un miliardo. È dunque un film che divide. Si va da Tom Betts, che lo vede come un'opera che potrebbe benissimo stare nella classifica dei venticinque spaghetti-western più riusciti, passando per Marco Giusti, il quale lascia intendere di non amarlo, criticando Nero (troppo farsesco, opinione non condivisa, a ragione, da 800spaghettiwesterns.blogspot.it) e Tessari (“non tiene il ritmo fino in fondo”), per giungere a filfulpasta.com che sbotta: “non vedevo l'ora che finisse! Redgrave troppo invadente, Janson di legno”. Insufficiente, seppur di poco, per imdb.com, mediocre anche per spaghettiwestern.altervista.org. Lo consiglia 800spaghettiwesterns.blogspot.it per la bravura degli attori e per la regia, anche se storce il naso per alcune sequenze comicarelle e per la scarsa originalità della storia. “Sbruffone e picaresco, ma senza l'energia di altri” è il commento che giustifica le tre stelle di filmtv.it. A mio avviso, merita una visione. Torna allo spaghetti-western l'atteso Eugenio Martin, che aveva lanciato nel genere Tomas Milian con The Bounty Killer, curando regia e sceneggiatura di un tortilla western contaminato da comicità e da un plot stile “caccia al tesoro” come suggerisce lo stesso titolo italiano: ...E Continuavano a Fregarsi il Milione di Dollari (1971). La pellicola nasce sotto i migliori auspici. Martin è un regista apprezzato in patria, ma anche in Italia. Dopo essersi fatto conoscere con lo spaghetti-western ha tentato di percorrere altre vie, in particolare col giallo In Fondo alla Piscina (1970) interpretato da Caroll Baker e Marina Malfatti e il musicarello Amore Pensami (1969) tutto sulle spalle di Julio Iglesias. Il ritorno allo spaghetti-western avviene in grande stile. Lo spagnolo riceve pieno appoggio dagli americani Bernard Gordon e Iriving Lerner. Il primo è uno sceneggiatore degli anni '50-'60 con all'attivo poco meno di una ventina di pellicole, in prevalenza di azione. Aveva debuttato nel 1952 col drammatico Furia e Passione, incentrato sulla carriera di un pugile penalizzato da una menomazione fisica, distinguendosi grazie allo sci-fi La Terra Contro i Dischi Volanti 1241 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

(1956), ma soprattutto grazie ai war-movie Le Pantere dei Mari (1957) di Nathan Juran, con il futuro presidente degli Stati Uniti Ronald Regan protagonista, e La Sottile Linea Rossa (1964) di Andrew Marton, adattamento dal romanzo di James Jones poi rifatto in tempi recenti da Terence Malick. Aveva quindi proseguito interessandosi al western scrivendo i copioni de Il Circo e la sua Avventura (1964) con John Wayne, Rita Hayworth e Claudia Cardinale, e Custer, Eroe del West (1967) con Robert Shaw, il Quint de Lo Squalo, chiamato a interpretare lo storico generale George Armstrong Custer. Quando matura l'idea di passare alla produzione, Gordon è fresco dall'aver visto trasposto al cinema il suo copione Krakatoa Est di Giava (1968) diretto da Kowalski. Decide così di venire in Italia e di mettere sotto contratto Eugenio Martin per tre film, gli altri due sono Horror Express (1972) e un altro spaghetti-western intitolato I Tre del Mazzo Selvaggio (1972). Per Martin è un occasione d'oro, purtroppo la sfrutterà molto male, perché potrà avvalersi di attori di primo calibro come Telly Savalas, Christopher Lee, Peter Cushing e Lee Van Cleef. A sostenere Gordon nello sforzo produttivo c'è l'ex regista newyorkese nonché ex montatore Irivng Lerner, che lo accompagna nell'avventura in veste di produttore esecutivo. Regista di documentari fino all'inizio degli anni '50, era passato ai lungometraggi nel 1953 ottenendo non un grande successo se si eccettuano i più riusciti Assassinio per Contratto (1959), che gli valse la chiamata di Kubrick come direttore della seconda unità di Spartacus (1960), e il film in costume La Grande Strage nell'Impero del Sole (1969) con ancora Shaw protagonista. Gordon se lo porta dietro da Custer, Eroe del West, dove Lerner aveva fatto da produttore esecutivo, per sfruttarne l'esperienza maturata nel campo delle produzioni dove il newyorkese aveva debuttato con La Stirpe di Caino (1949) e aveva continuato, con scarsi risultati, fino al western Capitan Apache (1971). Martin può dunque contare su capitali mai avuti a disposizione, riceve persino carta bianca per la stesura del copione che scrive da solo. Da Capitan Apache arriva Lee Van Cleef, viene inoltre ingaggiata, per la prima volta nello spaghetti-western, la prosperosa Gina Lollobrigida, c'è inoltre il grande emergente Gianni Garko e gli immancabili Aldo Sambrell, Eduardo Fajardo e Daniel Martin per un cast artistico di primissimo piano. Purtroppo Martin si perde nella sceneggiatura, dando vita a un copione insulso, senza profondità e soprattutto 1242 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

con delle voragini e delle soluzioni inaccettabili sospese tra macchietta e western serio. Lee Van Cleef, nei panni di Bomba, è un rapinatore di banche che va in giro in Messico a dire di esser particolarmente famoso in America, perché “nel west ci sono sue foto sparse dappertutto” e aggiunge di interessarsi di banche nel senso che “trasferisce fondi da un posto a un altro”. Lo vediamo subito presentato con una sequenza dal retrogusto comico, con un banchiere che mostra a un potenziale cliente la solidità dei muri della cella di sicurezza colpendo con la mano le pareti. “Solida... solida” annuisce compiaciuto l'uomo, poi crolla tutto, perché nei sotterranei Van Cleef e la sua banda, di cui fanno parte anche Dinamite (Simon Andreu, già incontrato in Fedra West) e Gianni Garko detto Pupo, ne hanno minato le fondamenta. Potrebbe sembrare un inizio interessante, ma poi ecco che Martin adotta delle soluzioni assurde. Vediamo i nostri salire su un treno, con Van Cleef che fa la conoscenza di Alicia (Lollobrigida) di cui si innamora e in tre minuti di orologio, senza stacchi temporali nella storia, la sposa per esser subito dichiarato pazzo e internato in un manicomio (!?) grazie ai magheggi della moglie che gli ruba i soldi appena rapinati. Il film prosegue, a distanza di anni, con un colpo su commissione: la distruzione di un arsenale di armi dell'esercito messicano, che vede protagonista la banda di Bomba, nel frattempo uscito dal manicomio. A ingaggiarli è ancora la Lollobrigida, sposatasi intanto con Monetero (James Mason), un marpione che commercia sia con i rivoluzionari sia con l'esercito, allo scopo di costringere i militari a richiedere, per conto di Monetero stesso, una somma di un milione di dollari al fine di comprare nuove armi. L'obiettivo della Lollobrigida, che ha ingaggiato i banditi per 10.000 dollari, è di mettere le mani sul milione, sfruttando la posizione del marito e soprattutto dei banditi che vengono costretti, causa mancato pagamento del pattuito, a partecipare al piano. Martin, anche su questo punto, è poco convincente perché la Lollobrigida dice ai complici di non fidarsi del marito, quando è lei stessa il personaggio meno affidabile del lotto. È una donna infame, senza etica, seduce e sbaciucchia tutti chiedendo sempre allo spasimante di turno: “cosa ammiri di più in una donna?”; una vera e propria vampettona e gatta morta, molto brava nell'interpretare il ruolo. È lei la vera protagonista del film. Van Cleef le si spoglia davanti e poi la tasta bene bene, non pago di esser già stato fregato una volta, con lei che ansima e lo provoca giurandogli amore. Curioso vedere l'attrice in un ruolo così ad alta valenza sexy. Più assurdo è che tutti conti1243 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nuino a darle credito, sebbene faccia di tutto, quasi dichiarandolo, per non riceverlo. Già ultra quarantenne, ma assai attraente, l'attrice, nata nel giorno dell'indipendenza degli Stati Uniti, aveva mosso i primi passi nei fotoromanzi nell'immediato dopoguerra, piazzandosi terza a miss Italia dietro alla Bosé e alla Canale (uno dei trii più qualificati di sempre). Il piazzamento l'aveva fatta subito entrare nel mondo del cinema, seppur con ruoli di comparsa. Solo negli anni '50 era riuscita a compiere il passo importante, grazie a pellicole come Fanfan la Tulipe (1952) di Christian-Jacque e Altri Tempi (1952) di Blasetti, per non parlare dei premi ricevuti come i due Nastro d'Argento vinti grazie a Pane, Amore e Fantasia (1954) di Comencini e Venere Imperiale (1962) di Delannoy, quale migliore attrice protagonista; tre David di Donatello sempre come migliore attrice protagonista con La Donna più Bella del Mondo (1956) di Robert Z. Leonard, Venere Imperiale (1962) e Buona Sera, Mrs Campbell (1969) di Melvin Frank, oltre ad altri tre alla carriera, un Golden Globe con Torna a Settembre (1961) di Henrietta Award e altri premi minori ottenuti da film quali La Provinciale (1953) di Soldati, Trapezio (1956) di Carol Reed, Il Gobbo di Notre Dame (1957) di Leonard e La Legge (1959) di Jules Dassin. Dunque una carriera ricca di soddisfazioni esaltata, a partire dalla seconda metà degli anni '50, dalla chiamata di Hollywood e dell'infinito duello con Sophia Loren per il ruolo della sex symbol assoluta del cinema italiano e non solo di quello (il sottoscritto la preferisce anche per una certa disponibilità a interpretare ruoli che la Loren, a mio avviso, non avrebbe mai accettato). L'approdo a Hollywood l'aveva così messa al cospetto di mostri sacri quali Humphrey Bogart, Errol Flynn, Burt Lancaster, Anthony Quinn, Frank Sinatra, Sean Connery e Yul Brynner, spesso in film in costume e con egregie performance. Esce di scena a metà degli anni '70 per dedicarsi alla fotografia, sua altra grande passione. Ritornerà alla grande negli anni '80 nel serial americano Falcon Crest (1984), ottenendo una nomination al Golden Globe quale migliore attrice non protagonista (celebre la sua tarantella). Quando Gordon la ingaggia è a fine carriera, eppure accetta con entusiasmo il ruolo, tanto da rivelarsi la più ispirata. Con lei arriva un altro pezzo grosso ovvero l'inglese James Mason, due volte candidato all'Oscar con È Nata una Stella (1954) di George Cukor, che gli valse comunque il Golden Globe, e Georgy, Svegliati (1966) di Narizzano; otterrà una terza nomination con Il Verdetto (1982) di Sidney Lumet, per non parlare della nomination al Golden Globe per il celebre 1244 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Lolita (1962) di Kubrick o di quella al BATFA per Chiamata per il Morto (1966) sempre di Lumet. Laureato in architettura, obiettore di coscienza durante il secondo conflitto mondiale, dopo aver preso le mosse in Inghilterra era stato inglobato nel circuito di Hollywood a partire dalla fine degli anni '40, presentandosi quale star più popolare in Gran Bretagna. Memorabili le sue partecipazioni a cult assoluti quali Rommel, la Volpe del Deserto (1951) di Hathaway, nei panni del celebre feldmaresciallo Rommel, Giulio Cesare (1953) di Mankiewicz, quale Bruto, I Topi del Deserto (1953) di Wise, gli adattamenti dai famosissimi romanzi di Verne, 20.000 Leghe Sotto i Mari (1954) dove è Capitan Nemo e Viaggio al Centro della Terra (1959) rispettivamente di Fleischer e di Levin, ma anche di quelli di Conrad con Lord Jim (1965) di Brooks, e ancora Intrigo Internazionale (1959) di Hitchcock. Gli amanti di cinema di genere lo ricorderanno inoltre come attore di supporto in alcuni poliziotteschi tra cui La Città è Sconvolta: Caccia Spietata ai Rapitori (1975) di Di Leo e La Polizia Interviene: Ordine di Uccidere (1975) di Rosati. Gli amanti dell'horror invece lo collegheranno a due prodotti televisivi: il più famoso e poco riuscito Le Notti di Salem (1979) di Hooper, dall'omonimo romanzo di Stephen King, e nel ruolo di John Polidori, medico di Lord Byron e scrittore, in Frankenstein: The True Story (1973) di Jack Smight. Dunque un altro pezzo da novanta che finisce però per non essere sfruttato da Martin. Il regista spagnolo, infatti, vira la seconda parte di film sul versante del tortilla western parodistico. I “nostri”, che si muovono a bordo di battello (curiosa novità), vengono rapiti dai rivoluzionari. Il motivo è semplice: sono anche loro sono a conoscenza dell'assegno e vorrebbero riscuoterlo per comprare armi a beneficio della lotta contro il governo. Non sanno però che l'assegno non è nelle mani dei banditi, né in quelle di Monetero. Il banchiere, infatti, lo ha trasferito in banca in California ed è riscuotibile solo in sua presenza. Il gruppo, suo malgrado, finisce per dover aiutare il generale Fierro (Sergio Fantoni, altro debuttante nel genere con esperienze a Hollywood e una discreta carriera teatrale), un rivoluzionario decisamente idiota che fa guerra al Generale dell'esercito messicano Duarte, il solito Fajardo, che gli spara da trecento metri di distanza con un cannoncino. Fierro conta di respingere l'offensiva di Duarte, che pensa di aver subito la distruzione dell'arsenale per mano dei rivoluzionari, mandando i banditi all'attacco con strategie assurde (“Non andrò certo all'attacco agitando una sciabola” afferma Van Cleef), tipo una macchina “blinda1245 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ta” con l'apporto di tavole di legno e con gli occupanti che lanciano bombe a mano nascosti dietro le assi. Vengono poi adottate delle soluzioni stile Franchi e Ingrassia, totalmente svincolate dal resto, con Fantoni che riceve una cannonata che lo denuda e lo affumica senza ferirlo, con relativa posa comica susseguente. Qui la sceneggiatura si fa confusionaria e soprattutto sfilacciata. Si passa da una sequenza all'altra senza continuità, ci sono stacchi netti che sembrano esser figli di sequenze tagliate. Le caratterizzazioni dei personaggi tendono a essere assenti, i dialoghi, a parte qualche scambio di battute divertenti e la frase “un uomo che uccide per motivi politici non è un assassino, ma un giustiziere”, sono mediocri. Non ci sono scene girate in modo particolarmente accattivante, il tutto si riduce alla ricerca del divertimento e dell'azione, ma Martin non riesce a centrare l'obiettivo. Ha a disposizione un cast stellare e non lo sfrutta, anzi riesce a mettere in ombra fenomeni quali Gianni Garko e lo stesso Mason, che è come se non ci fossero. Tra i più in palla c'è invece Aldo Sambrell, nei panni di un mercenario smemorato che si loda per la memoria di ferro (!?), lo vediamo sparare con una mitragliatrice con un nome dipinto in rosso sulla canna, proprio come fatto da David Ayer nel recente war-movie Fury (2014). Lo stesso Fajardo è al minimo sindacale, un po' meglio Van Cleef ma è sprecato pure lui. Pessimo e raffazzonato l'epilogo, tirato via al più non posso con ennesimo ribaltamento orchestrato dalla Lollobrigida. Alla fine si resta delusi e anche parecchio. Il film è da ricordare per via del suo cast artistico, con due mostri sacri come la Lollobrigida e Mason che non si confronteranno più col genere. Poco interessante la fotografia di Ulloa (assai meglio altrove). Non sono invece da buttare le musiche di Waldo de los Rios, specie la marcetta iniziale. Argentino, figlio d'arte, nato in una famiglia di musicisti e cantanti si era trasformato in un compositore di colonne sonore a partire dalla fine degli anni '50, per emigrare nel cinema spagnolo nel 1965, grazie anche alle collaborazioni col connazionale Hugo Fregonese nel paella western El Cjorro (1966). Non musicherà altri western. Sarà ricordato soprattutto quale arrangiatore di musica classica riconvertita in musica pop. Celebre, in Spagna, il suo arrangiamento della Sinfonia No.40 di Mozart, ma anche le colonne sonore di due apprezzati horror di Narciso Ibanez Serrador: Gli Orrori del Liceo Femminile (1969) e Ma Come si può Uccidere un Bambino? (1976). Malato da anni di depressione si suiciderà a quarantatré anni, nel 1977. Sua moglie, l'at1246 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

trice Isabella Pisano, gli dedicherà la biografia L'Amato Fantasma (2002). Il film non lo salva praticamente nessuno: si va dal quattro abbondante di imdb.com, al quattro stretto di 800spaghettiwesterns.blogspot.it che rifila un due (giusto) alla storia e un cinque e mezzo alla interpretazioni. Chiudono la stagione un terzetto di western minori che andiamo a elencare nell'ordine. Il primo a uscire è Acquasanta Joe (1971), prodotto tra gli altri da Fernando Di Leo che però non lo sceneggia (strano) e diretto da Mario Gariazzo. Cast artistico con i precipitati Lincoln Tate, protagonista, e Ty Hardin, antagonista, affiancati da Richard Harrison in un film la cui sceneggiatura figura sottoscritta dal regista e dall'attore Ferdinando Poggi al suo unico copione, ma presente nello spaghetti-western fin dai tempi di Massacro al Grande Canyon (1964) e Minnesota Clay (1964) di Sergio Corbucci. Il plot è quello del tutti contro tutti per strappare dalle mani degli altri un malloppo conteso. Il periodo di riferimento è il post guerra di secessione. Furoreggia la c.d. Banda del Cannone, un manipolo di rapinatori che fanno uso di un cannoncino rubato ai confederati. Contro di essi arriverà a scontrarsi Acquasanta Joe, così chiamato perché vende acquavite agli indiani. Il protagonista è animato da propositi di vendetta, avendo subito il furto dei capitali depositati in una banca rapinata dalla banda. È il western con cui Mario Gariazzo capisce di non essere tagliato per il genere e di preferire la fantascienza. Personaggio quanto mai bizzarro, iscritto al gruppo americano NICAP fin dagli anni '50, collaboratore CIA, fervente ufologo tra i più importanti in Italia, aveva preso le mosse con l'horror Lasciapassare per il Morto (1961) per poi provare col western, ma i risultati pessimi lo porteranno a prendere la via del filone legato agli alieni con pellicole povere, ma avveniristiche quali Occhi dalle Stelle (1977), Incontri Ravvicinati del Quarto Tipo (1978) e l'inedito Fratello dallo Spazio (1984). Tenterà anche i filoni commerciali del lacrima movie, con Il Venditore di Palloncini (1974), e del cannibalico col pessimo e tardivo Schiave Bianche – Violenza Profonda (1984). Suo anche il pessimo horror di imitazione L'Ossessa (1974) che, a più riprese, sosterrà di aver scritto prima dell'uscita del romanzo L'Esorcista di Blatty. Personaggio dalla parlantina facile, un po' cantastorie, in un'intervista arriverà a dire: “Ho visto 1247 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

un alieno surgelato nell'Ohio, era una creatura di circa 90 centimetri di colore oliva, occhi grandi delle caratteristiche dei nativi della Mongolia.” Questo era Gariazzo. Non si tradisce neppure qua dove sosterrà di aver concepito Acquasanta Joe, molto prima della sua lavorazione, come un western ironico e di esser stato lui a inventare questo sottogenere, al punto da aver ispirato molti colleghi, ma che a causa di produttori che non hanno compreso la portata innovativa del suo copione si è trovato costretto a traccheggiare e alla fine a snaturarne i contenuti. Filippica che non convince spaghettiwesterns.1g.fi che non va per il sottile: “una parola: merda!”. Stroncatura anche per la colonna sonora di Marcello Giombini:“E' la peggiore che io abbia sentito in un western.” Più diplomatico spaghettiwestern.altervista.org che specifica che la trama non funziona e che il film non appassiona. “Complessivamente è un western molto mediocre”. Fece fiasco al botteghino. Non è che faccia meglio Mario Sabatini, aka Anthony Green, che debutta nel western in modo disastroso alla regia de Lo Sceriffo di Rockspring (1971), dirigendo Richard Harrison. È l'attore americano a mettere tutti in guardia: “quel film era un disastro...”. Harrison critica Sabatini, reputandolo un pazzo scatenato e tecnicamente impreparato. All'epoca Sabatini è un semi debuttante, nonostante sia alla soglia dei cinquant'anni. Arriva dal film Squillo (1966), ma non farà carriera. A produrre e a scrivere la sceneggiatura c'è Elido Sorrentino, a quasi dieci anni di distanza dalla produzione del disastrato e disastroso Jim, il Primo di Bergonzelli. Avrebbe fatto meglio a non farlo... E' comunque curiosa l'idea dello sceriffo baby che per otto giorni deve affiancare lo sceriffo vero. Ci pare invece puerile lo scontro tra le fazioni di mormoni e di protestanti che vogliono che venga eletto un loro rappresentante in luogo dell'altro. Adolescenti da una parte (coinvolti anche in scazzottate), adulti dall'altra contro i banditi di turno, con epilogo in salsa e vissero tutti felici e contenti che lo rende stucchevole e inverosimile. “Pare messo in piedi per la recita di una scolaresca... Una rara schifezza” il laconico commento di spaghettiwestern.altervista,org. Nel cast artistico anche Donald O'Brien, coinvolto sempre più in produzioni di serie z. Non si salva neppure la scelta del titolo leggendo il quale il grande Enzo G. Castellari avrebbe detto: “e 'sti cazzi...”

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A proposito di Bergonzelli, eccolo di ritorno dagli erotici, a quattro anni di distanza da Una Colt in Pugno al Diavolo (1967), per produrre e dirigere Su le Mani... Cadavere! Sei in Arresto (1971). Il film parte subito male perché Klaus Kinski, dopo aver firmato il contratto, non si presenta sul set. Bergonzelli lo deve sostituire con Peter Lee Lawrence e modificare il copione. Muove comunque causa nei confronti del polacco, non è dato saperne l'esito. La lavorazione persevera a essere burrascosa come dimostrano i continui cambi di titolo, alla fine esce ufficialmente come diretta da Leon Klimovsky che però non ci mette mano, ma si limita a fare da prestanome vista la presenza di coproduttori spagnoli e la necessità di ottenere incentivi dal governo locale. La trama, firmata da più autori italiani e spagnoli, è all'insegna del dejà vù. Un soldato, di ritorno dalla guerra di secessione, scopre che in paese un bullo (l'inossidabile Aldo Sambrell) costringe i contadini a vendere i terreni a prezzo modico. Il motivo è semplice, vuol fare passare la ferrovia su quelle lande. Chiaramente non ci sta e si schiera dalla parte dei più deboli, anche perché ha un conto in sospeso con l'antagonista. Non è un pessimo lavoro, di certo superiore agli erotici successivi di Bergonzelli, ma si resta sul mediocre. Sparatorie a go go, bravi i due protagonisti. Mediocre la colonna sonora di Alessandro Alessandroni, di ritorno al genere da La Taglia è Tua... L'Uomo l'Ammazzo Io (1969). Si può evitare. 11.3 Conclusioni. Siamo giunti all'epilogo di questa lunga galoppata, ci lasciamo col momento più buio per il genere, almeno fino a questo momento. Dopo la grande esplosione della metà anni '60 e l'affermazione decisa tra il 1967 e 1968, lo spaghetti-western è ormai al bivio. Enzo Barboni ha dimostrato, con i suoi due Trinità, che il viatico per scongiurare la malattia letale del deja vù, con l'obiettivo di vincere la riottosità degli spettatori verso un genere ormai aggredito dal giallo e dal poliziesco, è quello del sorrisi & cazzotti. Si tratta di una soluzione che poggia soprattutto sull'accoppiata Bud Spencer & Terence Hill ed è la reazione più evidente e apprezzabile capace di suturare l'emorragia di incassi. ...Continuavano a Chiamarlo Trinità riesce persino a migliorare gli introiti guadagnati dal primo capitolo, ma si tratta di un caso pressoché isolato. La crisi avvolge persino Sergio Leone che, suo mal1249 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

grado, si ritrova di nuovo dietro alla macchina da presa, dirigendo quello che è il miglior western dell'anno. Curiosamente però, proprio lui che in occasione di C'era una Volta il West aveva denunciato l'atteggiamento smodato di emulazione da parte dei suoi colleghi per il suo cinema, cade vittima delle sue stesse lamentele ispirandosi al cinema tortilla dei vari Sergio Corbucci e Sergio Sollima. Il suo Giù la Testa, comunque bellissimo e ricco di contenuti, finisce così per non esser premiato dal botteghino e si rivela un mezzo flop, pur avendo nel cast il premio oscar Rod Steiger e il divo James Coburn, entrambi alla prima col western. Non guadagna, quanto meno in Italia, le cifre attese neppure Blindman, il terzo miglior spaghetti-western della stagione. Infascelli e il socio Allen Klein, unitamente al loro attore Tony Anthony, hanno l'idea di chiamare in veste di attore nientemeno che il batterista dei Beatles, Ringo Starr, oltre che a cercare di dar vita a una sceneggiatura bizzarra, coraggiosa, al servizio di una sorta di zatoichi del west. Il risultato finale è buono, spassoso, con sequenze atipiche per il genere dove non si lesina nel mostrare i corpi femminili nudi e dove il tutto ruota attorno a un traffico commerciale di donne, espediente fin qui mai visto. La pellicola ha un grosso successo a livello mondiale ed entra di diritto nelle prime posizioni di molte classifiche degli appassionati del genere. Fin qui tutto bene, solo che oltre questi film si registra pressoché il vuoto. Duccio Tessari, che ritorna al genere, delude con Viva la Muerte...Tua, un altro tardivo tortilla western peraltro orientato alla farsa che propone Franco Nero protagonista ed Eli Wallach nei panni del peone alla Tuco. Non male, sia chiaro, ma un po' avaro di novità. E poi? Molti film dalla sceneggiatura trita e ritrita, qualche tentativo, per ora sporadico, di scimmiottare il western comicarello alla Barboni, con Fidani tra i primi a cercare di imboccare la nuova via. Più convincente, in questo senso, Carnimeo il quale, terminata la saga Sartana, è alla caccia di nuovi personaggi da lanciare. Il pugliese ne prova ben due, Camposanto e Alleluja, chiamando a interpretarli, in due film distinti, i suoi due attori preferiti: Gianni Garko e George Hilton. Il primo figura in Gli Fumavano le Colt... Lo Chiamavano Camposanto, l'altro in Testa T'Ammazzo, Croce... Sei Morto, Mi Chiamano Alleluja. Eloquenti, fin dal titolo, i riferimenti a Trinità, addirittura il primo film è pure sceneggiato da Enzo Barboni che poi decide di vendere il copione. Carnimeo confeziona così dei western briosi, non ancora “liberati del 1250 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tutto” alla farsa che irromperà qualche mese dopo, ma inferiori alla saga Sartana, essendo più votati alla commedia. Meglio, decisamente, Alleluja, più riuscito in virtù di uno script surreale e più consono al regista. Propone spunti interessanti anche La Vendetta è un Piatto che si Serve Freddo col quale Pasquale Squitieri si riscatta, parzialmente, dal mediocre debutto. Film un po' a metà strada tra il revisionismo indiano e un'analisi realistica e contemporanea relativa al potere mediatico della stampa nel veicolare le opinioni e gli atteggiamenti di una popolazione incapace di sviluppare un'idea autonoma e libera da condizionamenti esterni. Leonardo Manzella è il buono, Ivan Rassimov e Klaus Kinski i cattivi. Sprazzi dunque di un buon cinema, però strutturati attorno al trito tema del signorotto locale che vuol cacciare i contadini dalle loro terre per motivi economici. Il resto, circa una trentina di film, è tranquillamente sorvolabile e non incidente sul genere.

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INDICE DEI FILM TRATTATI

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A B Acquasanta joe (Gariazzo, Mario, Bastardo, Vamos a Matar (Mangini, 1971) p.1247 Luigi, 1971) p. 1178 Ad uno a uno... Spietatamente Belva, La (Costa, Mario, 1970) (Marchent, Rafael R., 1968) p. 834 p. 1088 Al di là della Legge (Stegani, Giorgio, Black Jack (Baldanello, Gianfranco, 1968) p. 761 1969) p. 895 All'Ovest di Sacramento (Chentrens, Black killer (Croccolo, Carlo, 1971) Federico, 1971) p. 1178 p. 1236 All'ultimo Sangue (Moffa, Paolo, Blindman (Baldi, Fernando, 1971) 1968) p. 793 p. 1225 Ammazzali Tutti e Torna Solo Buco in Fronte, Un (Vari, Giuseppe, (Castellari, Enzo G., 1969) p. 921 1968) p. 783 Anche nel West c'era una volta Dio Buon Funerale, Amigos! Paga (Girolami, Marino, 1969) p. 891 Sartana (Carnimeo, Giuliano, 1970) Anche per Django le Carogne hanno p. 1109 un Prezzo (Batzella, Luigi, 1971) p. 1183 C Ancora Dollari per i Mcgregor C'è Sartana... Vendi la Pistola e (Merino, Josè Luis, 1970) p. 1103 Comprati la Bara (Carnimeo, Anda Muchacho, Spara (Florio, Aldo, Giuliano, 1970) p. 1078 1971) p. 1190 C'era una Volta il West (Leone, Arizona si Scatenò... e li Fece Fuori Sergio, 1969) p. 924 Tutti (Martino, Sergio, 1970) Carogne si Nasce (Brescia, Alfonso, p. 1084 1969) p. 915 Arriva Durango: Paga o Muori Chiedi Perdono a Dio... Non a Me (Bianchi-Montero, Roberto 1971) (Musolini, Vincenzo, 1968) p. 814 p. 1178 Ciakmull – L'Uomo della Vendetta Arriva Sabata...! (Demicheli, Tullio, (Barboni, Enzo, 1970) p. 1067 1970) p. 1098 Cimitero senza Croci (Hossein, Arrivano Django e Sartana... è la Robert, 1969) p. 960 Fine (Fidani, Demofilo, 1970) Collera del Vento, La (Camus, Mario, p. 1107 1970) p. 1138 Collina degli Stivali, La (Colizzi, 1257 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Giuseppe, 1969) p. 1047 Continuavano a Chiamarlo Trinità (Barboni, Enzo, 1971) p. 1213 Corri, Uomo, Corri (Sollima, Sergio, 1968) p. 855 Cristantemi per un Branco di Carogne (Pastore, Sergio, 1968) p. 782

Ed ora... Raccomanda l'Anima a Dio! (Fidani, Demofilo, 1968) p. 729 Ehi Amigo, c'è Sabata, Hai Chiuso! (Parolini, Gianfranco 1969) p. 984 Ehi Amigo... Sei Morto! (Bianchini, Paolo, 1970) p. 1159 Era Sam Wallash... Lo chiamavano Così Sia (Fidani, Demofilo, 1971) p. 1222 D Esercito di 5 Uomini, Un (Taylro, Dai Nemici mi Guardo Io (Amendola,Don, 1969) p. 875 Mario, 1968) p. 790 Execution (Paolella, Domenico, Dio li Crea... Io li Ammazzo (Bianchi- 1968) p. 817 ni, Paolo, 1968) p. 771 Dio Perdoni la mia Pistola (Savona, F Leopoldo, 1969) p. 975 Forca per un Bastardo, Una (Amasi, Django il Bastardo (Garrone, Sergio, Damiano, 1968) p.766 1969) p. 1010 Fumavano le Colt... Lo Chiamavano Django Sfida Sartana (Squitieri, Pa- Camposanto, Gli (Carnimeo, Giuliasquale, 1970) p. 1064 no, 1971) p. 1197 Due Volte Giuda (Cicero, Nando, 1969) p. 981 G Garringo (Marchent, Rafael R., E 1969) p. 977 E Continuavano a Fregarsi il Milione Giorno del Giudizio, Il (Gariazzo, di Dollari (Martin, Eugenio, 1971) Mario, 1971) p. 1195 p. 1241 Giù la Testa (Leone, Sergio, 1971) E Dio Disse a Caino (Margheriti, An- p. 1202 tonio, 1969) p. 1026 Giù la Testa Hombre! Doppia Taglia E Intorno a lui fa la Morte (Klimov- per Minnesota Stinky (Fidani, Desky, Leon, 1968) p. 789 mofilo, 1971) p.1224 E per Tetto un Cielo di Stelle (Petro- Giunse Ringo e fu Tempo di Massani, Giulio, 1968) p. 750 cro (Pinzauti, Mario, 1970) p. 1072 E Venne il Tempo di Uccidere (Del- Giurò... e li Uccise ad uno a uno (Cel'Aquila, Vincenzo, 1968) p. 783 lano, Guido, 1968) p. 740 E Vennero in Quattro per Uccidere Grande Silenzio, Il (Corbucci, Sergio, Sartana (Fidani, Demofilo, 1969) 1969) p. 903 p.1017 E' Tornato Sabata... Hai chiuso I un'Altra Volta (Parolini, Gianfranco, Il mio nome è Mallory (Moroni, Ma1971) p.1192 rio, 1971) p. 1233 1258 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Il suo nome era Pot... ma lo Chiama- Sergio, 1969) p. 964 vano Allegria (Fidani, Demofilo, Lunghi Giorni dell'Odio, I (Baldanel1971) p. 1222 lo, Gianfranco, 1968) p. 767 In Nome del Padre, del Figliolo e Lungo Giorno della Violenza, Il (Scodella Colt (Mangini, Luigi, 1971) p. tese, Giuseppe, 1971) p. 1212 1194 Lungo Giorno del Massacro, Il (CarIndio Black sai che ti dico... (Parolini,done, Alberto, 1968) p. 833 Gianfranco, 1970) p. 1092 Inginocchiati Straniero... I Cadaveri M non fanno Ombra (Fidani, Demofilo, Matalo! (Canevari, Cesare, 1970) 1970) p. 1105 p. 1120 Io non Perdono... io Uccido (MarMercenario, Il (Corbucci, Sergio, chent, Joaquin R, 1968) p. 776 1968) p. 848 Ira di Dio, L' (Cardone, Alberto, Minuto per Pregare, un Istante per 1968) p. 830 Morire, Un (Antonini, Alfredo, 1968) p. 747 J Momento di Uccidere, Il (Carnimeo, Joe, Cercati un Posto per Morire Giuliano, 1968) p. 799 (Carnimeo, Giuliano, 1969) p. 889 Morte sull'Alta Collina, La (Cerchio, Joko Invoca Dio... e Muori! (Marghe- Ferdinando, 1969) p. 956 riti, Antonio, 1968) p. 767 Morti non si Contano, I (Marchent, Rafael R., 1969) p. 915 K Killer, Adios (Zeglio, Primo, 1968) N p. 734 Notte dei Serpenti, La (Petroni, Giulio, 1969) p. 1030 L Nuvola di Polvere... Un Grido di MorLegge della Violenza, La (Crea, Gian- te... Arriva Sartana (Carnimeo, Giuni, 1969) p. 958 liano, 1970) p. 1113 Lo Chiamarono Spirito Santo (Mauri, Roberto, 1971) p. 1233 O Lo Chiamavano King (Savino, Rena- O Tutto o niente (Zurli, Guido, 1968) to, 1971) p. 1184 p. 786 Lo Chiamavano Trinità (Barboni, O'Cangaceiro (Fago, Giovanni, 1969) Enzo, 1970) p. 1148 p. 880 Lo Irritarono... e Santana Fece Piaz- Odia il Prossimo Tuo (Baldi, Ferdiza Pulita (Marchent, Rafael R, 1970) nando, 1968) p. 794 p. 1103 Odio è il mio Dio, L' (Gora, Claudio, Lo Voglio Morto (Bianchini, Paolo, 1969) p. 968 1968) p. 774 Oggi a Me... Domani a Te! (Cervi, ToLunga Fila di Croci, Una (Garrone, nino, 1968) p. 741 1259 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Ognuno per Sé (Capitani, Giorgio, 1968) p. 736 Oro dei Bravados, L' (Savino, Renato, 1970) p. 1104

p. 1185 Quella Sporca Storia nel West (Castellari, Enzo G., 1967) p. 754 Quelle Sporche Anime Dannate (Batzella, Luigi, 1971) p. 1232 P Quindici Forche per un Assassino Passa Sartana... è l'Ombra della tua (Malasoma, Nunzio, 1968) p. 787 Morte (Fidani, Demofilo, 1969) p. Quintana (Musolino, Vincenzo, 957 1969) p. 974 Per una Bara Piena di Dollari (Fida- Quinto: Non Ammazzare (Klimovni, Demofilo, 1971) p. 1181 sky, Leon, 1969) p. 974 Pistola per Cento Bare, Una (Lenzi, Umberto, 1968) p. 803 R Pistola per Cento Croci, Una (Croc- Requiem per un Gringo (Merino, colo, Carlo, 1971) p. 1186 Josè, 1968) p. 825 Pistolero dell'Ave Maria, Il (Baldi, Reverendo Colt (Klimovksy, Leon, Ferdinando, 1969) p. 1013 1970) p. 1161 Prega Dio... E Scavati la Fossa (Fida- Rimase uno Solo e fu la Morte per ni, Demofilo, 1967) p. 726 Tutti (Mulargia, Edoardo, 1971) p. Prezzo del Potere, il (Valerii, Tonino, 1177 1969) p. 1034 Ringo, il Cavaliere Solitario (MarPrima ti Perdono... poi t'Ammazzo chent, Rafael R, 1968) p. 733 (Iquino, Ignacio, 1970) p. 1073 Roy Colt & Winchester Jack (Bava, Mario, 1970) p. 1074 Q Quanto Costa Morire (Merolle, Ser- S gio, 1969) p. 888 Sangue chiama Sangue (Capuano, Quattro dell'Ave Maria, I (Colizzi, Luigi, 1968) p. 766 Sergio, 1969) p. 899 Sapevano solo Uccidere (Boccia, TaQuattro Pistoleri di Santa Trinità, I nio, 1968) p. 791 (Cristallini, Giorgio, 1971) p. 1184 Saranda (Mollica, Antonio, 1970) p. Quei Disperati che Puzzano di Sudo- 1065 re e di Morte (Buchs, Julio, 1969) p. Sartana nella Valle degli Avvoltoi 1021 (Mauri, Roberto, 1970) p. 1074 Quel Caldo Maledetto Giorno di Fuo- Sartana non Perdona (Balcàzar, Alco (Bianchini, Paolo, 1969) p. 917 fonsco, 1969) p. 892 Quel Maledetto Giorno d'Inverno... Sceriffo di Rockspring, lo (Sabatini, Django e Sartana (Fidani, Demofilo, Mario, 1971) p. 1248 1970) p. 1071 Se Incontri Sartana, Prega per la tua Quel Maledetto Giorno della Resa Morte (Parolini, Gianfranco, 1968) dei Conti (Garrone, Sergio, 1971) p. 808 1260 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Se t'incontro t'ammazzo (Crea, Gian- Tre Croci per non Morire (Garrone, ni, 1971) p. 1179 Sergio, 1969) p. 912 Se Vuoi Vivere... Spara! (Garrone, Tredicesimo è Sempre Giuda, Il Sergio, 1968) p. 730 (Vari, Giuseppe, 1971) p. 1178 Sei già Cadavere... ti Cerca Garringo Treno per Durango, Un (Caiano, Ma(Bosch, Juan, 1971) p. 1179 rio, 1968) p. 842 Sfida dei MacKenna, La (Klimovsky, Tutto per Tutto! (Lenzi, Umberto, Leon, 1970) p. 1062 1968) p. 753 Sledge (Morrow, Vic, 1970) p. 1131 Sono Sartana, il Vostro Becchino U (Carnimeo, Giuliano, 1969) p. 1023 Uccidi Django... Uccidi per Primo Spara, Gringo, Spara (Corbucci, Bru- (Garrone, Sergio, 1971) p. 1185 no, 1968) p. 834 Uno di più all'Inferno (Fago, GiovanSpecialisti, Gli (Corbucci, Sergio, ni, 1968) p. 821 1969) p. 1001 Uno dopo l'Altro (Nostro, Nick, Straniero... Fatti il Segno della Croce 1968) p. 816 (Fidani, Demofilo, 1968) p. 728 Uomo Chiamato Apocalisse Joe, Un Straniero a Paso Bravo, Uno (Rosso, (Savona, Leopoldo 1970) p. 1137 Salvatore, 1968) p. 746 Straniero di Silenzio, Lo (Vanzi, Lui- V gi, 1969) p. 1053 Vamos a matar Sartana (Pinzauti, Su le Mani,Cadavere! Sei in Arresto Mario, 1971) p. 1193 (Bergonzelli, Sergio, 1971) p. 1249 Vamos a Matar, Companeros (CorSuo Nome Gridava Vendetta, Il (Ca- bucci, Sergio, 1970) p. 1165 iano, Mario, 1968) p. 798 Vendetta è il mio Perdono, La (Mauri, Roberto, 1968) p. 745 T Vendetta è un Piatto che si Serve T'Ammazzo... Raccomandati a Dio Freddo, La (Squitieri, Pasquale, (Civirani, Osvaldo, 1968) p. 822 1971) p. 1188 Taglia è Tua... L'Uomo l'Ammazzo io, Vendetta per Vendetta (Colucci, MaLa (Mulargia, Edoardo, 1969) rio, 1968) p. 886 p. 1044 Vendicatori dell'Ave Maria, I (AlberTepepa (Petroni, Giulio, 1969) tini, Adalberto, 1971) p. 1187 p. 863 Venditore di Morte, Il (Gicca Palli, Testa o Croce (Pierotti, Piero, 1969) Enzo, 1971) p. 1196 p. 969 Vendo Cara la Pelle (Fizzarotti, EttoTesta t'Ammazzo, Croce... Sei re, 1968) p. 785 Morto... mi Chiamo Alleluja (Carni- 20.000 Dollari Sporchi di Sangue meo, Giuliano, 1971) p. 1179 (Cardone, Alberto, 1969) p. 976 Tre che Sconvolsero il West, I (Ca- 20.000 Dollari sul Sette (Cardone, stellari, Enzo G., 1968) p. 823 Alberto, 1968) p. 781 1261 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Vigliacchi non Pregano, I (Siciliano, Mario, 1968) p. 778 Viva la Muerte...Tua! (Tessari, Duccio, 1971) p. 1237 Vivi o, preferibilmente, Morti (Tessari, Duccio, 1969) p. 992 Vivo per la tua Morte (Bazzoni, Camillo, 1968) p. 758

W W Django (Mulardia, Edoardo, 1971) p. 1200 Wanted Sabata (Mauri, Roberto, 1970) p. 1135

1262 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

GLI AUTORI

Jan Švábenický, nato il 29/05/1981 a Nový Jičín nella regione di Moravia-Slesia, in Cecoslovacchia (oggi Repubblica Ceca), è storico, ricercatore, pubblicista e saggista di cinema. Vive a Příbor (in Moravia-Slesia), luogo di nascita di Sigmund Freud. È specializzato nella storia del cinema italiano per il periodo che va dagli anni Cinquanta agli anni Novanta, e si occupa dei suoi generi popolari. Nel 2008 ha finito gli studi di laurea magistrale nel Dipartimento Studi di Teatro, Cinema e Mass-media nell'Università di Palacký (UP), a Olomouc, nella Repubblica Ceca. A luglio 2014 ha terminato il dottorato di ricerca (PhD) nell'Istituto di Comunicazione Letteraria e Artistica nell'Università Costantino il Filosofo (UKF) di Nitra, nella Repubblica Slovacca. Nel 2014 ha presentato personalmente a Milano il suo primo libro italiano Aldo Lado & Ernesto Gastaldi. Due cineasti, due interviste. Esperienze di cinema italiano raccontate da due protagonisti (Piombino : Edizioni Il Foglio, 2014).

Jan Švábenický e Ennio Morricone a Praga, 2015 1263 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Matteo Mancini, nasce il 15/07/1981 a Pisa ma vive nel paese sorto quale risposta italiana al mito di Hollywood: Tirrenia. Qui vive da sempre nell'unico stabile pertinenziale agli stabilimenti cinematografici Pisorno, poi Cosmopolitan, ancora esistente. Laureato in legge nel 2005 con una tesi sulla repressione penale del doping, ottiene svariati riconoscimenti e pubblicazioni in ambito narrativo, specializzandosi nel genere fantastico. Pubblica le antologie La Lunga Ascesa dal Mare delle Tenebre (2010) e Sulle Rive del Crepuscolo (2010) per la GDS di Milano, ne cura una terza intitolata L'Occhio sul Crepuscolo (2011). Contattato dal Foglio Letterario partecipa alla realizzazione dell'antologia Racconti Sepolti (2009) e cura in modo autonomo l'antologia pulp I Bastardi senza Storia (2012). Dal 2012 avvia, sempre per il Foglio Letterario, l'opera piů monumentale della sua carriera, una trattazione in chiave enciclopedica dedicata al cinema western italiano, ottenendo apprezzamenti internazionali e locali. Collabora infine con Gordiano Lupi alle monografie dedicate a Bruno Mattei e a Franco e Ciccio rispettivamente intitolate Bruno Mattei l'Ultimo Artigiano (2012) e Soprassediamo! Franco & Ciccio Story (2014). Cura due spazi internet, il primo dedicato prevalentemente alle recensioni di romanzi e saggi (giurista81.blogspot.it), il secondo al mondo dell'ostacolismo ippico italiano (ippicaostacoli.blogspot.it).

1264 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Indice

Piano dell'opera

p. 677

7. Il western in Cecoslovacchia e nell'Europa dell'est

p. 679

7.0 La premessa di Matteo Mancini

p. 679

7.1 Il western nel cinema cecoslovacco negli anni '40-'80

p. 680

7.2 Intervista Jan Gogola sr

p. 689

7.3 L'apporto del cinema cecoslovacco al western europeo

p. 698

7.4 I western realizzati negli altri stati dell'Europa dell'est

p. 708

8. 1968: Tra tortilla western e nuovi sottogeneri

p. 725

8,1 I primi western della stagione

p. 725

8.2 Un agosto infuocato

p. 799

8.3 Il tortilla western

p. 840

8.4 Ultima parte di stagione

p. 886

8.5 Conclusioni

p. 951

9. 1969: Anno di riflessione

p. 955

9.1 La prima marcata crisi del genere

p. 955

9.2 Gli acuti degli ultimi tre mesi dell'anno

p. 984

9.3 Conclusioni

p. 1056

10. La crisi del 1970 e la nascita del Fagioli Western

p. 1061

10.1 Poca qualità all'inizio del nuovo millennio

p. 1061

10.2 Lo spaghetti-western entra in crisi

p. 1062

1265 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

10.3 Tra sequel apocrifi e serie ufficiali

p. 1078

10.4 Sulla via dei fagioli western

p. 1138

10.5 Conclusioni

p. 1174

11. La grande crisi del genere

p. 1177

11.1 Una prima parte di stagione all'insegna dei western di… p. 1177 11.2 Gli ultimi tortilla western e il ritorno di Trinità

p. 1201

Conclusioni

p. 1249

Riferimenti bibliografici

p. 1253

Indice dei film trattati

p. 1255

Gli autori

p. 1263

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Edizioni Il Foglio www.ilfoglioletterario.it

1267 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.