Sociologia e previsione sociale. Un percorso antologico da Durkheim a Parson 8843089277, 9788843089277

La previsione sociale cattura solo raramente l'interesse dei sociologi contemporanei. Ma non è sempre stato così. I

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SOCIOLOGIA

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Antonio Panico

Sociologia e previsione sociale Un percorso antologico da Durkheim a Parsons

Carocci editore

Testo realizzato con il contributo della LUMSA Sez. EDAS di Taranto

L'editore è a disposizione per i compensi dovuti agli aventi diritto. 1' edizione, settembre 2.017 ©copyright 2.017 by Carocci editore S.p.A.. Roma Realizzazione editoriale: Le Varianti, Roma Finito di stampare nel settembre 2.017 da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG)

Riproduzione vietata ai sensi di legge (an. 171 ddla legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione,

è vietato riprodurre questo volume

anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Introduzione

I.

9

La previsione sociale

I3

Un presente da "superare"

I4

2..

La comprensione dei mutamenti

I6



Esiste una "scienza del futuro"?

2.0



La costruzione dello scenario

2.5

Antologia

I.

Émile Durkheim verso una "nuova" solidarietà

33

Le conseguenze di quanto precede (prima parte)

37

Le conclusioni

49

Le conseguenze di quanto precede (seconda parte)

2..



43

Vilfredo Pareto e le previsioni "logiche"

53

Forse che sì, forse che no

57

Speranze e delusioni

59

Georg Simmel: l'individuo e la miriade di relazioni possibili

75

La formazione dell'individualità Il povero Lo straniero

INDICE

8





6.



Ferdinand Tonnies: dalla comunità alla società complessa

IOI

Teoria della società

106

Appendice: risultati e prospettive

114

Max Weber: il futuro tra regole rigide e leadership "forte"

125

La gabbia d'acciaio del capitalismo

131

La burocratizzazione dei partiti

132

Il leader tra demagogia e carisma "responsabile"

139

T horstein Veblen e l' improbabile rivoluzione degli ingegneri

149

Sulle circostanze che fanno prevedere un mutamento

155

Memorandum su un realizzabile soviet di tecnici

165

Pitirim Alexandrovich Sorokin: dalla crisi alla catarsi

1 75

La crisi del nostro tempo Tre ipotesi sul "perché" del mutamento socioculturale Crisi... catarsi... carisma... e resurrezione

8.

Talcott Parsons e la nuova società inclusiva

203

Piena cittadinanza per i neri americani? Un problema sociologico

208

La sociologia dell'antisemitismo moderno

2I4

La trasformazione adattativa di un movimento rivoluzionario

218

Bibliografia

227

Introduzione

Émile Durkheim, nel lontano 1893, quando lo statuto epistemologico della so­ ciologia non aveva ancora trovato un assetto ben determinato, scriveva: Il proposito di studiare anzitutto la realtà non implica la rinuncia da parte nostra a migliorarla: se le nostre ricerche non avessero che un interesse speculativo, non meriterebbero un'ora di lavoro'.

La situazione particolarmente difficile nella quale versa oggi la società occi­ dentale interpella la nostra scienza perché le sue analisi non siano relegate al rango di mera speculazione e restino così inutilmente improduttive. Mentre stentiamo ancora a recuperare dopo una crisi economico-finanziaria durissi­ ma, siamo chiamati a fronteggiare un epocale movimento migratorio e varie crisi conflittuali tra le quali quella posta in essere dall'estremismo islamico che invade spazi in Asia ed Africa e semina terrore in Europa e Nord-Ame­ rica. La sensazione che spesso noi sociologi trasferiamo in chi ci legge o ci ascolta è che la nostra sia una scienza "triste': chiamata a registrare i guasti presenti in un mondo malato senza offrire correttivi alla situazione diffici­ le di cui di volta in volta ci occupiamo; il massimo che possiamo attenderci dal nostro impegno nella ricerca è un'attenta analisi delle cause che hanno prodotto il vulnus. L'invito recapitato da Durkheim alla sociologia è, invece, quello a non risparmiarsi nello sforzo di analizzare con accuratezza i fenomeni, studiare le cause delle fragilità e provare a migliorare la realtà'. Anche Max Weber richiama ciascuno all'assunzione di responsabilità correndo i rischi tipici di una scelta impegnandosi conseguentemente, dopo

1. E. Durkheim, La divisione de/lavoro sociale, Edizioni di Comunità, Milano 1996, p. (ed. or. 1893). 2. Cfr. ibid.

4

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

IO

aver studiato con completezza la situazione, in un "mettersi al lavoro" dotato di senso indirizzato a migliorare la società3• In entrambi gli studi sul loro presente, gli illustri interlocutori palesano con chiarezza una valida proiezione costruttiva verso il futuro, così da evi­ tare l'appiattimento sul contingente che spesso caratterizza la nostra fatica intellettuale. In molti casi, infatti, le nostre analisi sembrano quasi compia­ cersi delle storture che registrano nelle realtà che studiano, avvoltolandosi in spiegazioni che restano un utile esercizio indirizzato a dimostrare al mas­ simo un'abile conoscenza e padronanza di tecniche di ricerca più o meno avanzate. Mi sono chiesto, allora, come vincere la sterilità in termini di proposta di tante nostre fatiche e ho concentrato l'attenzione sui padri e sui maestri della sociologia. Stimolato da due testi così significativi, ho voluto indagare più a fondo negli scritti dei classici per verificare quanto dei loro sforzi sia stato teso a guardare oltre il presente. Ho constatato che nel I92I V ilfredo Pareto, in un suo scritto poco noto pubblicato nella "Rivista d'ltalià: si era posto la stes­ sa questione ed esordiva nella sua riflessione di risposta riportando un dato significativo: Opinione di molti è che le scienze vanno in perfezione quando possono non solo descrivere i fenomeni passati ma anche prevedere i futuri. Le scienze naturali stan­ no avanti in questa via, non così le sociali. Molti e vari ostacoli al progredire di tali scienze si frappongono+.

Chiedersi se questi ostacoli potevano essere rimossi mi è sembrato più che opportuno, così sono stato colto dalla curiosità di scoprire se la "previsione sociale': di cui solo raramente ci occupiamo, abbia rappresentato uno dei sentieri di ricerca percorso da coloro che oggi reputiamo punti di riferimen­ to e ho potuto appurare che, pur non essendo stata una pista molto battuta, presenta una serie di testi davvero stimolanti e, quindi, da riproporre e far co­ noscere a chi è interessato, per studi o per passione personale, alla sociologia.

È nata così questa lunga e meditata ricerca di brani nei quali gli stessi Weber, Durkheim e Pareto, così come Simmel, Tonnies, Veblen, Sorokin e Parsons, propongono nei loro scritti più conosciuti, ma anche in quelli 3· 1919 ) .

Cfr. M. Weber, La scienza come projèssione, Bompiani, Milano

2.008,

4· V. Pareto, Previsione deiftnomeni sociali, in "Rivista d'Italia", IS aprile to in Id., Scritti sociologici, a cura di G. Busino, UTET, Torino 1966, p. m9.

p. 133 (ed. or.

192.1,

riprodot­

INTRODUZIONE

Il

di nicchia, riflessioni tipiche di quella che possiamo chiamare "previsione sociologica". In particolare, è risultata personalmente molto arricchente la lettura di testi dimenticati o addirittura sconosciuti ai più. Proprio i cosiddetti "scritti minori" hanno rappresentato una miniera interessantissima di ri­ flessioni ricchissime dalla quale poter attingere vere e proprie perle di sag­ gezza "previsionale". Ne è così scaturita un'agile antologia tematica che si prefigge essenzial­ mente tre scopi che vado sinteticamente a illustrare. Innanzitutto, essendo una raccolta ragionata di brani originali, permette un contatto diretto con autori dei quali, in genere, si conosce il pensiero così come presentato dai vari manuali di storia del pensiero sociologico. Verrà of­ ferto, quindi, un filtro conoscitivo che viene, però, limitato alla sola sintetica proposta di alcune note utili a offrire un riferimento ermeneutico rispetto ai contenuti inseriti nei brani scelti. Altro scopo che il testo si prefigge è quello di comprendere meglio il pre­ sente a partire dagli esercizi di "previsione globale" in cui si sono cimentati i grandi sociologi del passato, senza per questo aspettarsi delle analisi circo­ stanziate e precise, ma godendo piuttosto di quella capacità di descrivere lo scenario futuro con approssimazioni a volte sorprendentemente aderenti al­ la realtà nella quale siamo inseriti. Infine, lo studio di testi così interessanti protesi a scandagliare un "fu­ turo possibile" si spera possa stimolare noi sociologi contemporanei a guar­ dare con interesse alla previsione sociale quale orizzonte di riferimento per una ricerca che non si limiti a registrare con dovizia di dettagli solo ciò che di inequivocabilmente vulnerabile è presente nel contesto contemporaneo, ma sia capace di proporre nuovi scenari non necessariamente apocalittici.

La previsione sociale

La quotidianizzazione dell'incertezza e del rischio caratterizza in modo marcato la società contemporanea. In un tempo nel quale la minaccia ter­ roristica mina alla base le nostre certezze, il bisogno di sicurezza emerge con prepotenza seminando diffidenza e timore nei confronti dell'alter, che è vi­ sto da ciascuno sempre più con sospetto. A questo è giusto aggiungere gli esiti di una crisi economica e finanziaria che ha attanagliato recentemente larga parte del mondo sviluppato e che sembra debba continuare a conno­ tare in particolare il nostro paese per un tempo ancora lungo, per quanto si stiano registrando, anche dalle nostre parti, segnali di una timida ripresa. Nulla più sembra essere in linea con il recente passato: un impoverimen­ to generalizzato con una sensibile contrazione dei consumi sembra far intra­ vedere il tramonto di un consumismo sfrenato che per decenni ha caratte­ rizzato l'agire di una buona parte della popolazione residente nei paesi col­

locabili geograficamente nel nord del mondo (con l'eccezione di Australia,

Nuova Zelanda e, parzialmente, Sudafrica ) , sebbene esistano ancora forti

resistenze a cambiare paradigma di riferimento optando per uno stile di vita opportunamente più essenziale. Alla crisi dei paesi tradizionalmente considerati ricchi si accompagna la crescita di nuove realtà che godono di maggiori vantaggi economici rispetto al passato ma che non riescono a distribuire in modo equilibrato le risorse a propria disposizione. Le disuguaglianze sociali, che pure sono sempre state presenti sulla scena del mondo, sembrerebbero essere una sorta di costante globalizzata nell'aspetto specifico più inquietante: la crescita del divario tra i più ricchi e i più poveri. Il non riuscire ad accedere da parte di quote maggioritarie della popo­ lazione alla nuova ricchezza prodotta nei paesi di più recente sviluppo, così come la contrazione di risorse e di reddito per chi era stato abituato a posse­ dere di più, genera una forte insoddisfazione. Sono sempre di più gli uomini, le donne e i bambini che fuggono da situazioni di grave conflitto interno o che, molto semplicemente, preferiscono affrontare il rischio di lunghe e pe-

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

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ricolosissime migrazioni pur di trovare condizioni di vita migliori rispetto a quelle che desiderano lasciarsi alle spalle. Le migrazioni forzate e quelle volontarie, la "primavera maghrebina" e le frequenti fibrillazioni in altre zone del continente nero, oltre alla com­ parsa dell'estremismo terrorista in alcuni paesi del Vicino Oriente e in Afri­ ca, testimoniano un imponente mutamento del quadro mondiale d' insieme. Queste novità non possono essere ignorate. Non si può rispondere con l' im­ mobilismo o il silenzio a quelle masse che cominciano a chiedere con forza una distribuzione di risorse economiche più equa o che rivendicano l'espres­ sa volontà di partecipazione diretta alle scelte politiche. L'attivismo prodot­ to in termini di protesta, non sempre non-violenta, dal movimento degli "indignati" in alcune zone d'Europa e negli Stati Uniti prova a scardinare lo strapotere della finanza indicando in questo la causa principe della situazio­ ne difficile nella quale oggi si trovano in numero crescente uomini e donne ovunque nei paesi più sviluppati.

I

Un presente da "superare" Proprio questa insoddisfazione diffusa nel vivere il presente può essere let­ ta come un'espressione costruttiva volta a guardare al futuro con speranza. Pensare a un domani migliore, prevedendo ciò che potrà accadere, permet­ terebbe la realizzazione di tentativi di progettazione che aiutano a vivere il presente incerto e difficile con meno angoscia. La forma liquida' della nostra società, frutto di una flessibilità' che caratterizza molti degli aspetti del vi­ vere quotidiano la cui grande complessità convive con la dimensione impre­ scindibile del rischio3, entra in aperta contraddizione con il difficile presente che sembra quasi ingabbiarci, imprigionarci. Il tempo di crisi può costituire un'occasione di costruzione del domani che ci attende su idee e presupposti 1.

Pensiero che ha nel sociologo polacco Zygmunt Bauman il suo riferimento principale.

La letteratura prodotta sul concetto di società liquida è molto estesa. Tra i testi più signifi­

cativi di Bauman è utile ricordare Modernita liquida ( Laterza, Roma-Bari

2003) e La vita liquida ( Laterza, Roma-Bari 2006). 2. Il testo di riferimento imprescindibile in merito è quello di Richard Sennet, L'uomo flessibile, edito in Italia per i tipi di Feltrinelli ( Milano 1999 ) 3· Ulrick Beck racconta in modo significativo cosa debba intendersi per società del ri­ schio in diversi testi molto noti: Che cosa e la globalizzazione. Rischi e prospettive della societa planetaria ( Carocci, Roma 1999 ), La societa del rischio. Verso una seconda modernita ( Caroc­ ci, Roma 2ooo) e Costruire la propria vita. Quanto costa la realizzazione di sé nella societa del rischio ( il Mulino, Bologna 2008). .

LA PREVISIONE SOCIALE

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diversi. Non va trascurato il fatto che per molti l'uscita dall'insoddisfazio­ ne per quanto si vive nell'oggi può essere anche rappresentata da un nostal­ gico ritorno al passato, ricordato come una sorta di paradiso nel quale si è già vissuto e che si vuole riconquistare evitando così la fatica delle incognite rappresentate dalla novità. Chi non ama l'imprevisto e l'avventura preferirà sempre guardare al passato, incanalando le proprie energie alla ricerca di ciò che rassicura rispetto ai tanti interrogativi lanciati da ciò che in prospettiva sarà vissuto e che può non essere controllato proprio perché non conosciuto. Nonostante queste naturali resistenze, gli uomini da sempre hanno ce­ duto al fascino del futuro che può permettere una "rinascita" lì dove il pre­ sente è insoddisfacente. Anche il semplice aspirare a un futuro migliore, che costituisce una delle costanti spinte verso il progresso, ha indotto gli uomini a desiderare di conoscere in anticipo ciò che potrebbe accadere così da con­ tenere i rischi di ciò che non è noto. A testimonianza di questo, Salvatore Rizza ci ricorda la schiera di «indovini, aruspici, sibille, maghi, tutte le at­ tività divinatorie, di interpretazione dei sogni, di interpretazione del volo degli uccelli e del movimento delle viscere degli animali sventrati»+ di cui è ricca la letteratura universale proprio nell'affannosa ricerca di segni che dia­ no indicazioni su ciò che sarà il domani. Già i presocratici avevano indicato nel divenire la molla che avrebbe condotto lontano gli uominil e, dunque, la scoperta di ciò che sarà è ciò che li proietta verso il futuro con timore e tremore ma anche con passione ed entusiasmo. Se l'uomo vuole realmente essere artefice del proprio destino non può che guardare con grande sollecitudine al domani. Non interessandosi del mutamento, lo subisce con conseguenze difficilmente immaginabili. Non provare a conoscere quali sarebbero gli esiti prodotti da ciò che cambia pre­ lude a una sconfitta probabile dell'azione futura. Il principio di responsabi­ lità che guida un agire umano corretto non può trascurare la ricerca nell'og­ gi dell'acquisizione di certezze che possono valere anche per l'avvenire. Per questo il sociologo più che "inventare il futuro" è chiamato a prevederlo da vero scienziato sociale che, con metodo, va alla ricerca di quanto in prospet­ tiva potrebbe realizzarsi. Se il progresso con i cambiamenti da esso prodotti non va subito, allora lo sforzo dello scienziato sociale non sarà quello titani4· S. Rizza,

Il presente delfuturo. Sociologia e previsione sociale, FrancoAngeli, Milano

2.003, p. 17. s. Sono noti i frammenti di Eraclito e del suo discepolo Cratilo nei quali si sostiene

che tutto muta con grande rapidità e che questo stimola gli uomini a percepire il movi­ mento, l'andare verso il nuovo come un vero principio vitale e considerare così la staticità come morte.

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SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

co di orientare i suoi sforzi nel controllo delle tante variabili di natura psi­ cologica che rendono di fatto il comportamento umano solo parzialmente prevedibile, ma piuttosto quello legato all'esatta comprensione del presente così da intuire dove si potrebbe giungere. Se l'imprevedibilità umana è una variabile gestibile solo in misura limitata, è importante prendere coscienza della necessità di anticipare i tempi, abituarsi a guardare lontano, in tutte le direzioni possibili, così da evitare il pressapochismo dettato dall'improv­ visazione e la creazione di un immaginario futuro più simile a un racconto fantascientifico che frutto di ricerca sociale ben indirizzata.

2

La comprensione dei mutamenti Il sociologo americano Moore nel suo noto saggio sul mutamento socialé fa presente che i cambiamenti sono del tutto naturali nella vita degli uomini che sanno di doverli affrontare, anche se a volte la loro serena accoglienza si alterna alla sorpresa che è accompagnata dallo sconcerto o dalla resistenza. Si è già detto di come il futuro rappresenti un'incognita e che la diffi­ coltà nell'accettazione delle novità possa derivare dall'incapacità nel con­ trollare ciò che non è ancora conosciuto. Quando si intuisce che le cose attorno a noi stanno cambiando, un po' tutti proviamo immediatamente a calcolare le conseguenze che questo potrebbe produrre nella nostra esi­ stenza. Dopo aver sommariamente individuato il fenomeno in mutamen­ to, infatti, cerchiamo di comprendere quali siano le caratteristiche essen­ ziali e successivamente quelle che lo completano così da avere qualche in­ formazione utile in più. In genere, lo sforzo della stragrande maggioranza degli esseri umani si limita a questo, immaginando che ciò sia sufficiente a consentire un adattamento iniziale alla novità apparsa. Si lascia che il tempo faccia il suo lavoro e che la consuetudine con ciò che risulta essere modificato ci consenta di percepire il "nuovo" come più o meno familiare e per ciò "controllabile", meno pericoloso. Lo sforzo di lanciarsi alla sco­ perta delle cause che hanno prodotto o stanno producendo il mutamento è solo di pochi, di quei pochi che potrebbero intuitivamente cogliere l'im­

portanza di studiare ciò che il futuro potrebbe ragionevolmente riservarci, così da non farsi trovare impreparati dalla novità che, in genere, è sempre annunciata da alcuni elementi che la distrazione o forse anche l'eccessiva concentrazione sul presente ci impediscono di leggere come segnali rivela6. W. Moore, Il mutamento sociale, il Mulino, Bologna 1971.

LA PREVISIONE SOCIALE

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tori. Uno scienziato sociale che si rispetti non potrà allora lasciarsi vincere dallo sconcerto e, soprattutto, non resisterà al mutamento che proverà, in­ vece, a comprendere e spiegare così da permettere un più sereno accosta­ mento alla nuova situazione7• Le novità, ovviamente, continueranno a ge­ nerare situazioni anomiche, come ci dice Durkheim, ma la velocità con cui la società è andata via via trasformandosi negli ultimi secoli dovrebbe aver­ ci insegnato ormai a convivere con i rapidi mutamenti senza che questo debba necessariamente provocare gravi e ingestibili sconvolgimenti della vita quotidiana. Oggi ci spostiamo con molta più rapidità di un tempo da una parte all'altra del globo terrestre e riusciamo con ampia soddisfazione a curare i nostri interessi di varia natura, da quelli professionali a quelli lu­ dici, dando ragione a chi in passato si era cimentato nella previsione di un avvenire in cui tutti saremmo stati più facilmente "connessi". Mentre i confini dello spazio sono stati ormai relativizzati, quelli lega­ ti alla dimensione temporale sembrano essere in aperta contraddizione tra loro: raggiungiamo molto più velocemente di una volta le mete che ci sia­ mo prefisse e allo stesso tempo non riusciamo a trovare qualche momento per tante attività e relazioni che pure dovrebbero, o quanto meno potreb­ bero, essere centrali nella nostra esistenza. Viviamo come se il tempo ri­ sparmiato negli spostamenti e nel compiere il lavoro che una volta ci sareb­ be costato qualche ora in più non fosse in realtà un tempo guadagnato, per cui ci affanniamo nel riempirlo di altre incombenze che, paradossalmente, ci mettono in condizione di percepire la nostra esistenza come caratteriz­ zata da un'apnea perenne. Paolo Jedlowski asserisce che «per tutti, poter fare le cose rapidamente significa, in buona sostanza, poterne fare molte. Rappresenta la possibilità di moltiplicare la propria presenza, gli ambiti rispetto a cui si può essere informati, in cui si può agire e contare. Aumen­ tare, insomma, la propria potenza»8• Il prestigio di ciascuno è misurato in rapporto all'apparire affaccendati, pieni di impegni, affannati eppure pronti a cogliere nuove opportunità. Già Simmel, più di un secolo fa, ave­ va parlato della sterilizzazione emotiva prodotta dall' intellettualizzazione derivata degli eccessi di stimoli e opportunità che la vita nella metropoli 7· Max Weber nella sua opera più nota pubblicata nel1922, dopo la sua morte, parla della sociologia come di una scienza «comprendente» l'agire sociale e che, quindi, prima comprende il significato di un'azione e poi ne spiega la portata: «La sociologia deve desi­

gnare una scienza la quale si propone di intendere in virtù di un procedimento interpretativo l'agire sociale, e quindi di spiegarlo causalmente nel suo corso e nei suoi effetti» (Economia e societa, Edizioni di Comunità, Milano1968, p. 4, ed. or.1922, postumo). 8. P. Jedlowski, Un giorno dopo l 'altro. La vita quotidiana tra esperienza e routine, il Mu­ lino, Bologna 2005, p. 62.

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SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

portava con sé9• La velocità degli accadimenti non permette all'uomo con­ temporaneo di gestire con vera e seria consapevolezza tutto ciò che lo ve­ de in qualche modo protagonista. Se è vero che la velocità possa piacerei e, in qualche modo, affascinarci, non può essere misconosciuta la carenza di riflessione e di tempo da dedicare alla riflessione che ne deriva. La fre­ nesia che caratterizza troppo spesso il nostro agire non ci aiuta a guardare oltre l'attimo che stiamo vivendo. Un presente così carico d'azione non consente un'elaborazione completa del senso e delle conseguenze del no­ stro stesso agire e questo produce quell'appiattimento sull'oggi che può trasformarsi in un agitarsi sconnesso e pericoloso, dimentichi del passato e incapaci di progettare con sano realismo un futuro migliore. Il motore che innesca questi processi di veloce e continuo mutamento è la tecnologia che, con il suo incessante progredire, ha radicalmente mo­

dificato ogni settore della vita sociale. La tecnologia ha stravolto la nostra quotidianità che è mutata e seguita a mutare con una rapidità tale da susci­ tare costantemente la necessità di aggiustamenti strutturali della società. Ha inciso così tanto negli ultimi secoli da aver introdotto dei nuovi paradigmi di riferimento e, proponendo situazioni allo stesso tempo vantaggiose e pe­ ricolose ma, comunque, sempre ammalianti e fascinose per quanto a volte "spaventose': ha minato alla base un sistema culturalmente consolidato. Po­ tremmo applicare alle novità prodotte dal progresso tecnologico il concet­ to di "numinoso" proposto dal filosofo tedesco Rudolf Otto'0 a proposito dell'ambivalenza di sentimenti che si scatenano nel nostro animo a confron­ to con il sacro, dal momento che la stessa sacralità viene evocata in relazione al progresso tecnologico da tanti scienziati sin dai tempi dell'Illuminismo. Agli inizi dell'Ottocento Saint-Simon con la sua "religione di Newton� che vedeva gli scienziati come sacerdoti capaci di propiziare un progresso illimi­ tato, conferma questa divinizzazione della scienza che aveva nel progresso tecnologico la sua espressione più avanzata". Anche il segretario di Saint­ Simon, Auguste Comte, con la sua "legge dei tre stadi': divinizza il progresso 9· Cfr. G. Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma 1996 (ed. or. 1903). 10. Il riferimento è al sacro come "non pienamente rivelato", il "nascosto" che è "total­

mente altro" e che per questo è mysterium tremendum efa scinans, che spaventa ed allo stesso tempo affascina l'uomo che è attratto da ciò che non gli è noto se non in piccola parte (cfr. R. Otto, Il sacro, SE, Milano 2009) .

11. Per quanto già nella sua ambiziosa Nuova Enciclopedia del 181o Saint-Simon prenda le distanze dall'Illuminismo, lo sviluppo del suo pensiero resterà ancorato alle origini. La creazione di un'ideologia totalizzante che legava la nuova classe imprenditoriale al progresso scientifico si trasformerà in una vera e propria religione portandolo a scrivere prima un Ca­ techismo degli industriali nel 1824 e l'anno successivo Nuovo Cristianesimo, testi che costitui-

LA PREVISIONE SOCIALE

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scientifico. Fonda anch'egli una nuova realtà religiosa di cui vorrà essere il gran sacerdote, la "Chiesa positivista", il cui riferimento, per così dire scrittu­ ristico, sarà il Catechismo positivista, pubblicato nel 185I, nel quale suggerisce di guardare a leggi generali che presiedono alla conoscenza frutto della ri­ cerca delle singole scienze così da consentire ai sentimenti di avere lo spazio che meritano in un mondo tumultuosamente avviato verso un cambiamen­

to epocale che genera disorientamento.

Comte, nel suo Catechismo, si preoccupa di formulare nuovi valori con

l'intento di creare attorno a essi un consenso vasto nella società anche facen­ do appello alla dimensione emozionale degli uomini e delle donne del tem­

po, così da coniugare i frutti dell'effervescenza della razionalità che produce

progresso con i sentimenti, anche di natura religiosa, che potevano attenuare la disperazione che caratterizzava le vite di tanti individui in un momento così difficile da gestire.

Il progresso apre un ventaglio più vasto di possibilità di scelta per gli uomini ma, se a questo ampliamento di prospettive non si accompagna una

capacità riflessiva adeguata, il soggetto può smarrirsi e alterare le opzioni ge­

rarchizzando il proprio agire in maniera diversa, non sempre rispettosa delle esigenze altrui. La voglia di sperimentare la novità può mettere gravemente

in discussione tutto ciò che di consolidato può esserci nella vita di un uomo, comprese le relazioni più importanti. Può produrre effetti devastanti quando una sorta di delirio dell'anni­ potenza spinge alcuni verso pericolose derive. La dottrina sociale cristiana, con le sue più recenti encicliche proposte da papa Ratzinger e papa Ber­

gog lio, parla di un paradigma tecnocratico che, se non orientato al bene, rende l'uomo schiavo delle sue stesse fatiche con un asservimento dello stesso a una volontà di potere che può addirittura provocare la distruzione

del mondo". Se la tecnologia è ciò che consente all'uomo il controllo sulla natura e per questo lo aiuta ad affrancarsi progressivamente dalla fatica fi­ sica, dalle malattie e dalla fame, questa può diventare, nei suoi effetti non

controllati, un pericolo per l'uomo stesso, come ci testimonia la devasta­ zione provocata dalla bomba atomica a Hiroshima e Nagasaki o l'uso di ranno il riferimento fondativo della cosiddetta chiesa saintsimoniana, che sopravviverà con un discreto numero di adepti sino ai primi anni della seconda metà dell'Ottocento. 12. Al paradigma tecnocratico e alle sue potenzialità devastanti è dedicato il capitolo VI dell'enciclica Caritas in veritate del29 giugno 2009 di papa Benedetto XVI e il capitolo III dell'enciclica Laudato si' del24 maggio2015 di papa Francesco. Entrambi i pontefici sottoli­ neano la positività del progresso scientifico-tecnologico che ha permesso negli ultimi secoli una reale emancipazione da tanti limiti che condizionavano l'esistenza umana ma allo stesso tempo mettono in guardia l'umanità dal suo volersi "sostituire" al Creatore nella convinzio­ ne che la scienza sia in grado di dare risposta a ogni esigenza umana.

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

20

armi chimiche in più circostanze sin dai decenni scorsi fino ad arrivare al conflitto siriano di questi ultimi tempi. Sarebbe semplicistico addossare alla tecnologia le colpe della presenza di devianze e crimini più o meno estesi nella società contemporanea, dal momento che il progresso tecnologico è strettamente connesso al pensiero filosofico che può ispirare il corretto o dannoso utilizzo degli strumenti pro­ dotti dalla ricerca scientifica. L' irrefrenabile velocizzazione registrata negli ultimi decenni prodotta dalle scoperte scientifiche e le loro applicazioni ha modificato l' ipotesi di partenza che aveva ispirato larga parte del funziona­ lismo sociologico: l'adattamento quale "imperativo funzionale" del sistema sociale. Così come pensato da Talcott Parsons, l' adaptation avrebbe dovuto ricreare una condizione di equilibrio nella società a seguito di cambiamenti più o meno significativi e in questo lasciando spazio a un'idea di mutamen­ to perenne in cui c'è davvero poco tempo per trovare un nuovo equilibrio stabile, dal momento che altre novità si presenteranno presto all'orizzonte e lo sforzo di adattamento al mutamento precedentemente vissuto favorirà un impiego di energie per la comprensione di quanto di nuovo avviene nel mondo. L'evoluzione della società e i mutamenti registrati nella sua struttura ge­ nerano l'esigenza di proporre nuovi valori che orientino l'agire umano in un contesto modificato rispetto ad assetti consolidati. Non necessariamente ogni valore preesistente deve essere sostituito ma, con molta probabilità, al­ cuni di essi devono semplicemente trovare un adeguamento, una sorta di ag­ giornamento per essere meglio rispondenti alle mutate condizioni della so­ cietà. Alcune novità intervenute nell'oggi della cultura, dell'economia e della politica obbligano, invece, a una riflessione dalla quale far scaturire nuovi riferimenti frutto dell' incontro tra lo studio dei valori presenti nell'attualità e le stesse mutate condizioni. Solo in questo modo potrà essere delineato un futuro meno caotico e tendenzialmente più armonico, un futuro del quale non provare timore ma da vivere con fiducia e speranza, un futuro da costru­ ire attraverso una previsione attendibile dell'evoluzione del presente.

3

Esiste una "scienza del futuro"? Le previsioni che guardano al domani della società sono attendibili? Esiste qualcuno in grado di costruire una macchina del tempo che non guardi al passato ma proietti il suo ideatore nel futuro che lo attende? Si può parlare di "futurologia" a proposito degli studi su ciò che sarà?

LA PREVISIONE SOCIALE

2.1

Forse non è neppure lecito farsi domande di questa natura. Una del­ le più stimolanti attività intellettuali dell'uomo è immaginare ciò che può accadere ma sino ad oggi questo interesse non è riuscito a porre le basi per la creazione di uno statuto epistemologico in grado di supportare una vera scienza del futuro. La "futurologia'' resta confinata al contesto giornalistico, mentre in campo sociologico si preferisce parlare di previsione sociale come di un'attività di studio del passato e del presente che consenta di anticipare possibili sviluppi nel tempo che verrà. Il termine previsione viene preferito a quello di "predizione" che riman­ da ad un'apoditticità che non può essere supportata dai metodi di cui di­ spongono le scienze sociali. La predizione esprime una certezza in rapporto a ciò che avverrà, maturata in un contesto di presunta conoscenza profonda e dettagliata che consente un elevato livello di attendibilità e che non sembra poter appartenere a un'analisi prospettica di ciò che sarà quando l'oggetto di studio è l'agire umano, che è solo in parte prevedibile e deve, ad ogni mo­ do, sempre confrontarsi con una serie di elementi imprevisti che possono di fatto scompaginare quanto immaginato realizzabile. La predizione rimanda piuttosto all'arte divinatoria o al contesto esegetico nella teologia cristia­ na in particolare, sebbene il termine venga utilizzato anche dalla statistica, mentre la previsione propone più chiaramente nel campo delle scienze so­ ciali espressioni di tipo probabilistico che riferiscono un livello di attendibi­ lità più o meno elevato a seconda dei casi presi in esame. Va considerato che, per quanto possa essere desiderabile conoscere in anticipo con certezza ciò che ci aspetta, un eventuale eccesso di precisio­ ne può avere come probabile effetto un crollo degli stimoli a far meglio per cui la vita dei singoli e dei corpi sociali potrebbe perdere parte del suo "sapore". Per questa ragione si rende accettabile il fatto che la previsione sociologica, così come quella di tutte le scienze sociali, non possa avere la pretesa di essere esatta in tutti i detta gli. Il metodo probabilistico di cui si serve non può garantire l'assolutezza di un'affermazione che resterà sem­ pre solo una probabilità, auspicabilmente molto prossima alla sua realizza­ zione ma nulla di più. La conoscenza del passato e soprattutto del presente non può che generare una riflessione sulle tendenze verso cui alcuni "fatti sociali" sembrerebbero essere indirizzati. Wendell Bell parla di "disposi­ zioni" per tutti quei fatti sociali che potrebbero verificarsi nel futuro se si realizzassero alcune condizioni'3• 13. Cfr. W. Bell,Foundations ofFuturesStud ies: Human Sciencefo raNewEra, vol. I,His­ tory, Purposesand Knowledge, Transaction Publishers, New Brunswick (NJ)-London 2.003.

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

22

Naturalmente le scienze sociali non potranno mai competere con quelle definite "esatte" per cui la loro proposta non potrà produrre una formulazio­ ne di leggi intese come proposizioni universalmente valide: passato, presen­ te e futuro sono connessi tra loro ma ciò che verrà a realizzarsi non è detto che possa essere esattamente consequenziale a ciò che si è vissuto e ciò che si sta vivendo. Barbara Adam e Chris Grooves sono convinti che molti dei fatti futuri sono contenuti nel presente come "fatti latenti" ma resta l'ovvia incertezza sulla loro reale concretizzazione'4• Mendonça e altri studiosi ci ri­ cordano che, negli studi previsionali, la comprensione delle dinamiche del cambiamento non può tener conto solo delle tendenze che vengono a essere evidenziate dallo studio del passato e del presente.

È necessario considera­

re il sopraggiungere di elementi nuovi, improvvisi e unici, che generano di­ scontinuità e che costituiscono l'elemento di svolta nell'evoluzione di una tendenza che pure appariva seriamente protesa verso la sua realizzazione'1• In Mode e utopie nella sociologia moderna Pitirim Sorokin, polemizzan­ do apertamente con i proclami entusiastici di Burgless a proposito della bontà della previsione scientifica, asseriva che questa offriva risultati validi solo in relazione a "fenomeni ordinari e ovvi" e che, su questioni di maggio­ re complessità, la correlazione parziale e multipla, le matrici algebriche, l'analisi fattoriale e le equazioni matematiche, non sono di grande aiuto e l'uso buono e cattivo, che ne hanno fatto i ricercatori psicosociali, non ha potuto evitare il fallimento della maggior parte delle loro previsioni. Fintanto che questi pseudo scienziati preveg­ genti saranno abbarbicati ai loro sbandieramenti di metodi matematici e calcoli probabilistici, al loro astuto modo di sfuggire una analisi seria delle difficoltà di previsione di fenomeni socio-culturali

[ .. . ] fino a quel giorno le loro anticipazio­

ni continueranno ad essere errate e fino ad allora sarà inutile aspettarci un vero progresso in questo campo'6•

Il monito di Sorokin a non confondere la sociologia e le altre scienze che lui definisce "collegate" con l'algebra e la matematica ha inciso nella storia della metodologia della ricerca sociale cosicché oggi i concetti complessi che sca­ turiscono dall'osservazione di un fenomeno, dallo studio accurato median­ te la formulazione di un'ipotesi di ricerca che viene verificata attentamente mediante un percorso rigoroso ci dimostrano che la sociologia si serve di un Future Matters, Brill, Leiden 2007. Wild Cards, Ui:ak Signals and Organisational Improvisation, in "Futures: The Journal ofPolicy,Planning and Future Studies': 2, 2004, pp. 201-18. 16. P. A. Sorokin, Mode e utopie nella sociologia moderna e scienze collegate, Edizioni Universitarie Barbera, Firenze 1965, pp. 27 8-9 (ed. or. 1956 ) . 14. Cfr. B. Adam, C. Grooves, 15. Cfr. S. Mendonça et al.,

LA PREVISIONE SOCIALE

lavoro scientifico che le permette di distanziarsi notevolmente da analisi su­ perficiali e improvvisate che appartengono a una lettura semplicistica della società e che non possono avere alcuna pretesa di attendibilità. La scienza sociologica giunge con metodo alla formulazione di risultati che dimostrano la veridicità di un'ipotesi o la correggono nel caso la stessa non risulti confer­ mata e, inoltre, descrivono i fatti studiati. Ciò che la sociologia propone non va creduto "per fede" ma scaturisce da un lavoro di controllo empirico che ne appuri l'oggettività anche attraverso la falsificazione delle conclusioni a cui giunge così come ci insegna Popper'7• Tutte le scienze umane e sociali sono esposte a qualche fragilità in più ri­ spetto alle cosiddette "scienze esatte" nella verifica delle ipotesi proposte, per quanto il ricorso a dati quantitativi, e per ciò stesso misurabili, possa renderle più simili alla matematica o alla fisica. Nonostante questa particolarità, la so­ ciologia ha in sé una logica interna che procede operativamente raccoglien­ do dati concernenti l'oggetto di ricerca del quale ci si sta occupando, analiz­ zandoli e provando, quindi, ad offrire delle spiegazioni coerenti di ciò che accade. Dalle spiegazioni è possibile passare a delle previsioni attendibili di ciò che potrà avvenire in relazione a quel fenomeno indagato proprio grazie ali'oggettività confermata del percorso metodologico rigorosamente seguito nell'azione di ricerca. Il soggetto che ricerca opera il suo sforzo conoscitivo utilizzando tecniche condivise e consolidate così che viene ridotto il margi­

ne di soggettività. Per Karl Popper oggettività e controllabilità (operazioni ripetute e verificate anche da altri attori sociali ) sono sovrapponibili per cui

la stessa oggettività è il risultato al quale si giunge applicando rigorosamente una metodologia frutto di un corretto percorso logico di riflessione. Ovvia­ mente queste considerazioni di natura epistemologica riportano a questioni di tipo etico dal momento che ogni ricercatore ha i suoi punti di riferimento valoriali che in qualche modo dovrà rendere espliciti così come consigliato in più circostanze da Max Weber che invitava, però, lo scienziato sociale ad astenersi dall'esprimere giudizi di valore'8• In modo ancora più esplicito, il sociologo americano Robert Bierstedt, qualche decennio dopo Weber, rifacendosi al paradigma tipico delle scienze fisiche che egli auspicava venisse applicato alla sociologia, scriveva:

17. Per una conoscenza più estesa delle teorie del grande filosofo austriaco cfr. La logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1970 ma anche La logica delle scienze sociali, Ar­ mando, Roma 2.005 e La scienza, lafilosofia e il senso comune, Armando, Roma 2.005, tutti te­

sti nei quali espone una completa proposta epistemologica applicabile anche alla sociologia. 18.

Per un approfondimento sul tema dell' avalutatività della sociologia cfr. M. Weber, Il

metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 2.003 (ed. or. 192.2., postumo).

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

24

La sociologia è una disciplina categoriale e non normativa; ossia essa si limita ad affermazioni concernenti ciò che è, non ciò che dovrebbe essere. In quanto scienza, la sociologia resta necessariamente in silenzio sulle questioni di valore, non può decidere la direzione in cui la società dovrebbe andare.

[ .. ] Ciò non significa affer­ .

mare che la conoscenza sociologica sia inutile ai fini della formulazione dei giudizi sociali e politici, ma soltanto che la sociologia non può occuparsi dei problemi del bene e del male'9.

Bierstedt non nega la possibilità che la scienza sociologica possa essere uti­ lizzata per produrre effetti positivi guardando al futuro della società ma af­ ferma che la neutralità etica è indispensabile nel procedere in maniera cor­ retta nel lavoro di ricerca. Il dibattito sull'avalutatività e le sue conseguenze ha avuto successivamente altri importanti protagonisti come Gouldner che, attestandosi su una metodologia di ricerca più "qualitativa': ha sostenuto l'u­ tilità del dichiarare i propri valori personali con trasparenza così da evitare che questi stessi riferimenti etici venissero introdotti in maniera involontaria o, peggio, furtiva nel processo di ricerca'0• Per quanto le riflessioni in merito continuino a generare punti di vista diversi, a volta addirittura contraddito­ ri, ciò che interessa è comprendere l'utilità della ricchezza dei tanti metodi a cui la ricerca sociale può affidarsi per la comprensione dei fenomeni studiati e che tutti questi strumenti devono, però, essere applicati con rigorosità me­ todologica se si vuole restare nell'alveo della scientificità, a maggior ragione se lo sforzo conoscitivo riguarda ciò che ancora non è accaduto". La previsione sociale è scientifica nella misura in cui segue un percorso rigoroso di analisi e spiegazione dei fenomeni che vanno, dunque, conosciuti in ciò che è già avvenuto e ciò che sta avvenendo senza lasciarsi condizionare da ciò che potrebbe essere eticamente desiderato come realizzabile. L'auspicio potrebbe risultare poco attendibile se lo studio del passato e l'osservazione del presente indicano una tendenza diversa. Come è stato già ricordato in questo stesso capitolo, l'osservazione può evidenziare la presenza di un trend verso il quale si sta andando ma non può esserci certezza in relazione a ciò che real­ mente accadrà, dal momento che nuove variabili potrebbero inserirsi in mo19. R. Bierstedt, The Social Order, McGraw-Hill, New York 1974, p. n, traduzione mia, come tutte le altre che seguono, salvo diversa indicazione. 20. Cfr. A. W. Gouldner, For Sociology: Renewal and Critique in Sociology Today, Basic Books, New York 1973. 21. La metodologia delle scienze fìsiche, le cosiddette scienze esatte, è sicuramente più rigida rispetto a quella delle scienze sociali che si dovranno districare tra spiegazioni quantitative (più precise ma anche più "disumanizzanti") e qualitative (frutto di intera­

zione e quindi più ricche contenutisticamente, ma meno attendibili in termini statistico­ matematici).

LA PREVISIONE SOCIALE

do inatteso modificando gli assetti precedenti. Cercando di definire ciò che è possibile per la scienza sociologica Hempel, in termini molto espliciti, parla di "abbozzi di previsione" come massima espressione possibile di risultato conse­ guito con un esercizio corretto di ricerca in rapporto all'avvenire". In pratica si può conoscere e spiegare un fenomeno o più fenomeni tra loro connessi e così è possibile cimentarsi nella scoperta di un futuro possibile osservando ciò che con regolarità si ripete. Si può prevedere solo ciò che si conosce perché ri­ petibile. La conoscenza di ciò che è già stato rappresenta allora la base impre­ scindibile dalla quale partire alla scoperta del futuro che risulta essere una delle attività più problematiche per il sociologo che è certamente più attrezzato, o forse semplicemente più abituato, ad analizzare il presente piuttosto che capa­ ce di prevedere il futuro. Il sociologo, sulla base di una serie di analisi che sca­ turiscono dallo studio del passato e del presente, può indicare deduttivamente una serie di anticipazioni che enunciano uno stato di cose future che è ragio­ nevolmente possibile ipotizzare. È del tutto intuitivo che sia possibile avanzare un'ipotesi piuttosto che un'altra comparando tra loro le diverse possibilità sul­ la base di un ampio spettro di riflessioni sulle condizioni che possono incidere sull'assetto futuro del fenomeno che si sta studiando; da questo scaturiscono due importanti conseguenze di tipo metodologico: quanto più elevato è il numero di condizioni prese in considerazione nell'ottica della previsione tanto più alta è la probabilità che la stessa sia realizzabile; la necessità di studiare il maggior numero di condizioni e variabili impe­ disce al sociologo di effettuare previsioni sociali sul lungo periodo e soprat­ tutto lo obbliga a non andare oltre confini spaziali ragionevoli per cui non potrà mai essere accettabile una previsione sul futuro del "mondo intero':

4

La costruzione dello scenario Come ci ricorda Eleonora Barbieri Masini, la studiosa italiana più nota all'estero a proposito della tematica in questione, benché l'uomo abbia da sempre riflettuto sul futuro, negli ultimi decenni l'interesse nei confronti dei cosiddettiJutures

studies ha avuto fasi alterne. Negli anni Cinquanta e

Sessanta del secolo scorso gli studi orientati al futuro hanno conosciuto un grande sviluppo che ha subito un brusco rallentamento negli anni Set­ tanta. Per quanto nel famoso rapporto del 22..

MIT

di Boston (Cambridge) al

Cfr. C. G. Hempel, Aspetti della spiegazione scientifìca, Il Saggiato re, Milano

1986.

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

Club di Roma su I limiti dello sviluppo le previsioni degli studiosi statuni­ tensi si siano rivelate decisamente valide, dimostrando l' insostenibilità di una continua crescita economica in presenza di una chiara diminuzione di disponibilità di risorse energetiche non rinnovabili•3, in generale gli studi sul futuro non avevano previsto né l'arrivo della stessa crisi energetica né la successiva crisi economica e per questo parvero essere del tutto incapaci di rispondere alle esigenze per le quali erano nati•+. L'interesse per tali studi è poi ritornato a farsi vivo soprattutto nei paesi in via di sviluppo non tanto perché ritenuti certamente in grado di prevedere degli eventi, quanto piut­ tosto perché considerati utili nel contribuire a creare percorsi alternativi in rapporto ad un futuro più vicino alle aspettative di chi lavorava per la rea­ lizzazione di un mondo diverso in cui poteva concretizzarsi una più equa ripartizione delle risorse•s. Così in questi anni viene elaborata una metodologia di ricerca sul futuro basata sulla capacità creativa dell'uomo legata alla proiezione di alcune idee chiaramente verificabili che tengono presenti le situazioni storiche e cultu­ rali al momento dello studio. La tecnica in questione è quella della "creazio­ ne dello scenario" in cui si prospettano futuri alternativi sulla base di analisi dettagliate dalle quali scaturiscono ipotesi diversificate che permettono di intuire, quanto più concretamente possibile, il futuro•6• Michel Godet e Phi­ lippe Durance, che possono essere annoverati tra i massimi esperti al mondo nella proposta di un'efficace pianificazione strategica attraverso la creazione di scenari, precisano: Uno scenario non è la realtà futura, ma un mezzo per presentarla con l'intento di illuminare l'azione presente alla luce dei futuri possibili e auspicabili. La prova del­ la realtà e lo scrupolo dell'efficacia devono guidare la riflessione previsionale per una migliore padronanza del presente. Così gli scenari hanno credibilità e un'utilità soltanto se rispettano le cinque condizioni del rigore: la pertinenza, la coerenza, la plausibilità, l'importanza e la trasparenza17• 23. Per approfondire cfr. D. H. Meadows et al., I limiti dello sviluppo, Mondadori, Mi­ lano 1972. Per la storia del Club di Roma e l'impegno dei suoi membri alla scoperta del "prossimo futuro" dell'umanità, cfr. A. Peccei, La qualita umana, Mondadori, Milano 1976. 24. Cfr. E. Barbieri Masini, La previsione: idee, protagonisti, nodi problematici, in "Futu­ ribili� 1, 1994, ma anche Penser le future, Dunod, Paris 2000 e Previsione umana e sociale, in "Rivista di Teologia morale", 4, 2000. 25.

Tra gli studi più significativi e citati che presentano questa prerogativa ricordia­

mo quello del sociologo indiano R . Kothari, Footsteps into the Future, Alp ha Books, New York 197 5. 26.

Cfr. Rizza, Il presente de/futuro, cit., p. 138.

M. Godet, P. Durance, La prospective stratégique pour !es entreprises et !es territoires, Dunod, Paris 2008, p. u4. 27.

LA PREVISIONE SOCIALE

Perché lo scenario delineato non corra il rischio di essere solo uno sterile esercizio di difficile, per quanto appassionante, applicazione del sapere so­ ciologico è importante che lo scienziato sociale applichi le cinque condi­ zioni del rigore metodologico provando a coinvolgere nella propria ricerca anche altri scienziati di discipline epistemologicamente "affini': L' interdi­ sciplinarietà rende il risultato della ricerca più completo e, quindi, più at­ tendibile: va da sé che le singole competenze possano essere integrate così da presentare un quadro di riferimento, uno scenario appunto, decisamente più ampio rispetto a quello che potrebbe essere presentato da specialisti "solita­ ri". Un metodo previsionale "oggettivo" come la costruzione dello scenario, con questo lavoro che potremmo definire "d'équipe': presenta maggiori pos­ sibilità di vedere confermato per grandi linee quanto immaginato rispetto a quello "soggettivo" in cui l'eccessiva settorializzazione impedirebbe la crea­ zione del quadro d'insieme pur presentando in positivo una chiara proiezio­ ne di elevata attendibilità su aspetti specifici circoscritti�8• La creazione dello scenario parte dalla descrizione della situazione pre­ sente effettuata con l'analisi di dati quantitativi e qualitativi così da permet­ tere una descrizione non arbitraria del futuro possibile ed in questo risul­ ta essere uno strumento utile nella valutazione delle decisioni da prendere nell'indirizzare gli sforzi verso la creazione di situazioni migliori rispetto alle tante in alternativa tra loro. Chi si impegna in un esercizio di previsione deve sentirsi in qualche mo­ do investito direttamente da un forte senso di responsabilità che deve aiu­ tarlo a mettere in relazione ciò che in proiezione è possibile con quanto è au­ spicabile per il bene della società. L'etica non resta, quindi, esclusa dal dibat­ tito sull'utilizzo degli studi previsionali: la finalità dello studioso non può che essere volta alla creazione delle migliori condizioni possibili per gli uo­ mini e le donne che abiteranno quello spazio in quel tempo che verrà�9• Nel presentare lo scenario il previsore compie un'azione socialmente utilissima sia che si tratti di ottenere il massimo vantaggio possibile dalle condizioni positive che potrebbero andare a presentarsi sia che metta in guardia la co28. Tra i metodi previsionali "soggettivi" il più noto e diffuso

è il "Delphi", per quanto

il suo impiego nella ricerca sociale imponga una serie di cautele. Consiste nel raccogliere e sistematizzare le opinioni di alcuni esperti su una determinata materia o un particolare avve­ nimento pervenendo ad una sintesi condivisa da un gruppo di coordinamento che può trarre delle conclusioni utili a prevedere futuri sviluppi. Per approfondimenti cfr.: M. Bolognini,

Democrazia elettronica. Metodo Delphi e politiche pubbliche, Carocci, Roma 2001; H. A. Lin­ stone, M. Turoff ( eds. ) , The DelphiMethod: Techniques andApplications, Addison-Wensley Publishing Company, Boston 2002.

29. Cfr. R. Poli, Etica e previsione sociale, in S. Arnaldi, R. Poli ( a cura di ) , La previsione sociale. Introduzione allo studio deifuturi, Carocci, Roma 2012, pp. 225-33.

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

munità rispetto ai problemi verso i quali la stessa sta per imbattersi. Ovvia­ mente la tensione verso l'ambizioso obiettivo di migliorare la realtà o, al li­ mite, contenere un danno che potrebbe in futuro prodursi non deve portare fuori strada lo studioso impegnato nella creazione degli scenari futuri, che non può assolutamente dimenticare che il proprio fondamentale compito è quello di coniugare la creatività tipica dell'immaginazione volta al positivo con l'osservanza delle regole logiche e procedurali che caratterizzano il lavo­ ro scientifico. In questo sono impegnati in particolare i sociologi che rispon­ dono all'esigenza di conoscere la società anche guardando alle tendenze in essa presenti dalle quali è possibile pronosticare futuri approdi della compa­ gine sociale studiata guardando con attenzione ai mutamenti sociali che si manifestano a volte in modo palese ed altre in modo decisamente meno evi­ dente, quasi nascosto. A titolo di pura esemplificazione, Alberto Gasparini, in un suo articolo apparso nel 2004 sulla rivista "Futuribili': delinea uno scenario relativo alle aree metropolitane presenti nel mondo che dimostra l'attendibilità di questi processi conoscitivi. Come da lui pronosticato do­ po aver esaminato con particolare attenzione le tendenze in atto, realmente le metropoli del sud del mondo non avrebbero potuto continuare a racco­ gliere immigrati dai villaggi rurali e per questo sarebbero diventate, ed oggi più che mai lo stiamo constatando, luoghi invivibili dai quali fuggire per raggiungere altre metropoli, questa volta del nord del mondo30• In sintesi, citando Eleonora Barbieri Masini, possiamo dire che: Lo scenario è la descrizione di una serie di avvenimenti che ci consentono di di­ mostrare, iniziando dall'origine di una data situazione, la maniera in cui essa può evolvere, fase dopo fase, verso una situazione futura3'.

Lontana dalla magia e dalla misteriosa intuizione di sciamani o pseudo-sa­ cerdoti, la costruzione degli scenari può rappresentare una delle formule più accettabili di previsione sociale in termini scientifici, per quanto sia del tutto fuori luogo pensare che la scienza possa favorire un controllo totale su ciò che avverrà nel futuro. Anche se Luciano Pellicani asserisce con convinzione che la sociologia è una scienza in grado di spiegare il comportamento degli uomini e che sia anche in grado «di prevedere quale sia la loro condotta futura, e lo può fare con una precisione superiore a quella dei meteorolo­ gi e vulcanologi », dal momento che la stessa è in grado di avere un quadro completo dell'agire umano integrando la variabile culturale a quelle biolo30. Cfr. A. Gas parini, La globalizzazione e ilfuturo dei sistemi di citta e delle aree metro­ politane mondiali, in "Futuribili", 1/2, 2.004, pp. 11-2.. 31. Barbieri Masini, Penser lefuture, cit., p. 36.

LA PREVISIONE SOCIALE

giche e psicologiche, la previsione sociologica non può essere certamente "esatta"l•. Chi, come Karl Marx nel Manifesto

del Partito comunista, George

Orwell nella Fattoria

degli animali e Max Weber con la sua descrizione del protestante e lo spirito del capitalismon, aveva immaginato che lo sviluppo tecnologico e

mondo moderno come "gabbia d'acciaio" presentata nell'Etica

quello scientifico avrebbero prodotto maggiore ordine e maggiore stabilità indirizzando in modo deciso e quasi illiberale il comportamento umano è stato evidentemente smentito dai fatti.

È più giusto, quindi, a mio parere,

affermare che la previsione sociale resta pur sempre un'attività creativa degli esseri umani che possono immaginare un futuro diverso dal presente senza la pretesa di veder concretizzato alla lettera tutto ciò che può essere stato pro­ dotto dal connubio tra immaginazione creativa e rigorosità scientifica. La fantasia dell'uomo può ideare progetti nuovi sostanziati della ricerca scien­ tifica che è necessaria sia nella fase di analisi del presente che nella scoperta delle tendenze espresse dalla società. Lo spirito di immaginazione è di per sé creativo, tocca alla scienza rendere attendibile e attuabile qualcosa che po­ trebbe restare solo un sogno. Citando Salvatore Rizza, possiamo conclude­ re questa parte introduttiva convenendo su un'arguta asserzione secondo la quale «la scienza senza immaginazione è fredda, l'immaginazione senza la scienza è vaga » 34• I brani dei grandi della sociologia qui raccolti ci aiuteranno a compren­

dere meglio come sia possibile rendere complementari questi due aspetti so­ lo apparentemente contradditori che, alla maniera aristotelica, potremmo definire un

sino/o che questi autori hanno saputo "creare" con apprezzabile

successo.

32.. Cfr. L. Pellicani, Dalla societa chiusa alla societa aperta, Rubbettino, Soveria Man­ nelli ( cz) 2.002., p. 2.6. 33· Ulteriori esplicitazioni sulla previsione di Max Weber nel capitolo a lui dedicato in questa antologia. 34· Rizza, Il presente delfuturo, cit., p. 135.

Antologia

I

Émile Durkheim verso una "nuova" solidarietà

Il "padre" della sociologia accademica francese ha guardato al suo tempo come a un periodo di transizione. La velocità dei mutamenti nei quali si stava imbatten­ do la società generava una situazione anomica che andava gestita per evitare che si perpetuasse il disagio di tanti uomini e tante donne smarriti di fronte alla portata di così tante novità. Durkheim nacque nel 1858 ad Epinal, una cittadina della Lorena ai confini con l'Alsazia, in una terra contesa tra Francia e Germania e questa situazione di pericolo costante e di incertezza diffusa condizionò in qualche modo il piccolo Émile così come tutti coloro che vivevano in quei luoghi. Conoscerà anche le difficoltà legate all'antisemitismo che dilagò in quegli anni alla fine della guerra persa dalla Francia con la Prussia, la cui sconfitta venne addebitata al tradimento degli ebrei'. Era infatti figlio di un rabbino della corrente più tradizionalista e da giovane sembrò inizialmente determinato a seguire le orme del padre. Da adolescente Durkheim ebbe occasione di entrare in contatto con il mondo cattolico dal quale restò affascinato, ma crescendo diventò agnostico. Conservò un forte interesse verso la religiosità e in particolare nei confronti dei riti che rappre­ sentavano una importante occasione di coesione in una società che perdeva pro­ gressivamente unitività. Per Durkheim la religione era una «cosa eminentemente collettiva»\ la cui funzione è appunto quella di legare le persone tra loro, come ci insegna la stessa origine della parola, e questo legame poteva avere una funzione positiva in una società nella quale non prevaleva più ormai la coscienza collettiva che garantiva coesione nelle società meno complesse che caratterizzavano il passato: «La solidarietà che deriva dalle somiglianze è al suo maximum quando la coscienza collettiva ricopre esattamente la nostra coscienza totale, e coincide punto per punto con essa: ma in quel momento la nostra individualità è scomparsa. Essa può nascere soltanto se la comunità lascia in noi un certo margine» 3• Per il sociologo francese quel margine diventava sempre più ampio con gli stravolgimenti in atto e il tutto avrebbe potuto provocare una vera e propria di-

1.

Cfr. A. Hertzberg,

The French Enlightenment and the ]ews,

Press, New York 1990. 2. E. Durkheim, Leforme

Columbia University

elementari della vita religiosa, Edizioni di Comunità, Milano 1971, p. so (ed. or. 1912). 3· E. Durkheim, La divisione de/lavoro sociale, Edizioni di Comunità, Milano 1962, p. 144 (ed. or. 1893).

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

34

sgregazione sociale se non fosse intervenuta la religione che, sulla base di convin­ zioni personali condivise da altri, costituiva il collante comunitario che chiamò

densita morale". I valori e la loro funzione regolativa interessarono largamente la riflessione di Durkheim sin dagli inizi del suo lavoro di analisi sociologica. La sua tesi di dotto­ rato su La divisione del lavoro sociale, divenuta poi uno dei suoi lavori di maggior successo, provava a dimostrare in maniera ancora più incisiva rispetto a quanto non avesse già fatto in precedenza Auguste Cornee che la società non consiste semplicemente nella somma degli individui che la compongono ma che ciascuna società è superiore a qualsiasi individuo, anche il più potente e importante. La divisione del lavoro, che aveva innescato in modo inequivocabile l'acce­ lerazione del progresso, si basava sulla differenziazione delle mansioni svolte da ciascuno, determinando differenze crescenti tra gli individui. Come ci ricorda Coser, «i singoli elementi, pur essendo meno simili tra loro, sono tuttavia molto più interdipendenti di quanto non avvenga nel sistema della solidarietà meccani­ ca: infatti, proprio perché i componenti di un gruppo realizzano attività e modi di vivere differenti, dipendono in notevole misura l'uno dall'altro e possono svi­ lupparsi tra loro mutui rapporti di solidarietà» 5• Ad ogni modo, per quanto la solidarietà organica propria delle società evolu­ te fosse stata capace di rendere coese molte individualità in virtù di percorsi pro­ duttivi condivisi, da sola non sembrava essere sufficiente a garantire progresso e benessere per sempre. Nelle opere della maturità, Durkheim asserì che senza valo­ ri condivisi non poteva esserci unità morale e che «qualsiasi società, sia primitiva, sia moderna, era destinata a degenerare e a decadere» 6• Questa forma di "previsione sociale" ci mette in condizione di comprendere quanto importante sia stata per il sociologo francese la ricerca di una soluzione alla questione dell"'anomia" che aveva individuato come il massimo pericolo per quello che lui chiamava homo duplex. La base fisica, biologica e sensoriale di cia­ scun essere umano rispondeva alle leggi di sopravvivenza e di sopraffazione tipi­ che di un soggetto che avrebbe condotto un'esistenza egoistica qualora non fosse intervenuto il livello dell'anima e delle mente che, forgiato dalla società, lo rende­ va capace di relazionarsi ai suoi simili. Nella sua opera probabilmente più citata,

Il suicidio, Durkheim parla degli uomini come di creature insaziabili dai desideri illimitati: «Più si ha e più si vorrebbe avere, e le soddisfazioni ottenute non fanno che stimolare anziché appagare i bisogni» 7• Interviene a questo punto la società che con la sua funzione regolatrice im­ pone dei limiti ai desideri umani così da contenere le inclinazioni individuali che sarebbero andate altrimenti a ledere desideri, aspettative, interessi altrui8•

Cfr. ivi, p. 2.58. L. A. Coser, I maestri del pensiero sociologico, il Mulino, Bologna 199 7, pp. 166- 7. 6. lvi, p. 167. 7· E. Durkheim, Il suicidio, UTET, Torino 1969, p. 302. (ed. or. 1897 ). 8. Cfr. ivi, p. 304. 4·



I.

ÉMILE DURKHEIM VERSO UNA "NUOVA" SOLIDARIETÀ

35

La maggiore competizione esistente nelle società più evolute obbliga ogni singolo individuo a impiegare più energie fisiche e mentali per evitare di soccom­ bere e queste, se non vengono impegnate anche nella ricerca dell'alleanza con l'al­ tro con il quale si viene chiamati a collaborare in forza dei nuovi modelli produt­ tivi, verranno incanalate nell'offrire risposte a bisogni differenziati in funzione della posizione occupata nella realtà sociale alla quale si appartiene9• Nelle nuove società generate dalla rivoluzione provocata dalla divisione del lavoro gli attori sociali sono meno condizionati dalle appartenenze a gruppi fa­ miliari estesi e le loro consuetudini legate ai comuni contesti produttivi lasciano il posto a differenti aspirazioni in campo occupazionale in virtù del principio per il quale «tutti gli impieghi sono egualmente accessibili a tutti i cittadini»'0 e questo perché «l'ereditarietà lascia un campo sempre più vasto alle nuove combi­ nazioni. Non soltanto il numero delle cose su cui essa non ha presa è in aumento, ma anche le proprietà delle quali assicura la continuità diventano più plastiche. L'individuo è quindi meno fortemente incatenato al passato; gli è più facile adat­ tarsi alle nuove circostanze che si producono, e i progressi della divisione del lavo­ ro diventano in tal modo più agevoli e più rapidi»". Questo breve brano appena riportato precede immediatamente i primi due testi inseriti in questa antologia che propongono un'attenta riflessione del sociologo francese sulle conseguenze prodotte nella società a lui contemporanea dai mutamenti allora in atto. Tutti e tre i brani di seguito presentati sono tratti da La divisione del lavoro

sociale che può essere senza dubbio considerato il testo più "profetico" tra quelli prodotti dal sociologo francese. Nessun altro dei suoi lavori pubblicati propone in maniera così lucida ciò che in prospettiva sarebbe potuto avvenire nel mondo quale conseguenza degli straordinari sconvolgimenti che in quel periodo stavano attraversando in particolare i paesi più evoluti. Nel primo testo Durkheim si interessa di tutti coloro che avevano visto cam­ biata la propria esistenza con l'avvio dell'espletamento di funzioni nuove alle quali non potevano che adattarsi. A suo parere nel medio-lungo periodo questa capacità sarebbe diventata una caratteristica peculiare di tutte le società moderne. La flessi­ bilità avrebbe caratterizzato il futuro e le differenze di tipo antropomorfico, che in passato avevano distanziato tra loro gli appartenenti a classi sociali diverse anche quanto a struttura fisica, sarebbero state tese ad annullarsi proprio in virtù del fat­ to che ciascuno avrebbe trovato utile progredire nella gerarchia sociale assumendo funzioni e ruoli diversi rispetto al suo passato. Per questa ragione sempre più «si aspira a non aver l'aria di fare il proprio mestiere»". Anche la consuetudine ad ave­ re delle divise professionali sarebbe andata scomparendo e in effetti oggi registria­ mo solo poche eccezioni nelle quali queste vengono conservate, quasi tutte confina­ te a istituzioni di natura sanitaria o al ruolo di tutori dell'ordine.

Cfr. A. Panico, A. Gorgoni, Una societa vulnerabile, Carocci, Roma 2.011, p. 14. Durkheim, La divisione de/lavoro sociale, cit., p. 32.5. 11. lvi, pp. 32.3-4. 12.. lvi, p. 32.9. 9·

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Il secondo testo scelto è la parte immediatamente successiva al primo brano selezionato. Anche qui la divisione del lavoro rappresenta uno stimolo straordi­ nario al mutamento della società a lui contemporanea e delle persone dalle quali è composta. L'adattamento alle condizioni nuove rispetto al passato spinge ciascu­ no a dare il meglio di sé nel ritagliarsi uno spazio in un contesto nel quale è con­ siderevolmente cresciuto il numero di relazioni intrattenute. Tutti non possono che lavorare di più, specializzarsi di più, rendersi "preziosi" per gli altri e questo non fa che elevare il livello della cultura generale e il progresso non potrà che con­ tinuare la sua marcia. Rielaborando le teorie di Herbert Spencer e servendosi del suo linguaggio mutuato dalla biologia, Émile Durkheim preconizza un tempo nel quale le società più evolute faranno da polo d'attrazione per tanti uomini e donne che vorranno trasferirsi in esse dai centri più piccoli dove la semplicità dell'esi­ stenza risulterà poco entusiasmante. Le migrazioni saranno foriere di nuovi pro­ gressi che potranno irradiarsi anche verso punti più periferici e questo permetterà all'evoluzione sociale di proseguire il suo percorso. Per quanto in questi ultimis­ simi tempi ci stiamo misurando soprattutto con migrazioni di massa provocate da persecuzioni politico-religiose che generano disperazione e morte in Africa ed Asia, negli anni scorsi il movimento in uscita dalle periferie del mondo era gene­ rato, proprio come anticipato da Durkheim, dalla voglia di vedere migliorata la propria condizione complessiva non eludendo la sfida di chi è disposto a rischia­ re pur di vivere un'esistenza più soddisfacente. Più di un secolo dopo Zygmunt Bauman osserverà che «il mondo razionale e moralmente cosciente si sente co­ sì umiliato dalle prospettive di migrazione di massa dei poveri e degli affamati:

è così difficile, senza sentirsi colpevoli, negare ai poveri e agli affamati il diritto di andare dove l'abbondanza di cibo è maggiore; ed è virtualmente impossibile avanzare argomenti razionalmente convincenti per provare che le migrazioni sa­ rebbero per loro, decisioni irragionevoli»'3• Il terzo e ultimo brano qui di seguito riportato costituisce la parte finale delle conclusioni presentate da Durkheim nel suo La divisione del lavoro sociale. Il so­ ciologo francese dichiara apertamente quali sono state le motivazioni che lo han­ no condotto a realizzare questo lavoro d'analisi dettagliata dei mutamenti sociali innescati dali' introduzione delle nuove modalità produttive. Il suo sforzo è stato quello di elaborare una riflessione sulla necessità che ciò che andava sostituendosi alla morale tradizionale non fosse una pura e semplice riproposizione aggiorna­ ta di ciò che in passato aveva regolato le relazioni sociali, ma fosse frutto di una "meditazione" collettiva profonda in grado di generare un nuovo ordine condivi­ so basato su criteri di equità e giustizia capaci di arginare il dilagare dell'anomia. Questa affannosa ricerca di un nuovo equilibrio sembra non essersi mai conclusa: di fatto l'uomo oggi vive la precarietà di una nuova anomia alla quale si continua a proporre la sostituzione con una nuova morale. 13. Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma­ Bari 2.001, p. 85.

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Le conseguenze di quanto precede (prima parte) La divisione del lavoro sociale si distingue dalla divisione del lavoro fisio­ logico per un carattere essenziale: nell'organismo ogni cellula ha un com­ pito definito che non può mutare, mentre nella società, i compiti non so­ no mai stati distribuiti in modo altrettanto immutabile. Anche dove i qua­ dri dell'organizzazione sono più rigidi, l'individuo può muoversi, entro i limiti di quello in cui la sorte lo ha inserito, con una certa qual libertà. Nella Roma primitiva il plebeo poteva liberamente intraprendere tutte le funzioni che non erano riservate esclusivamente ai patrizi; perfino in In­ dia la generalità delle carriere attribuite ad ogni casta era sufficiente per permettere una certa scelta•+. In ogni paese, se il nemico si impadronisce della capitale -vale a dire del cervello stesso della nazione -la vita sociale non subisce per questo un'interruzione, ma in capo a un periodo relativa­ mente breve un'altra città si trova in grado di assolvere questa complessa funzione alla quale tuttavia nulla l'aveva preparata. A misura che il lavoro si divide, questa malleabilità e questa libertà au­ mentano: vediamo gli individui innalzarsi dalle occupazioni più umili alle più importanti. Il principio in base al quale tutti gli impieghi sono egual­ mente accessibili a tutti i cittadini non si sarebbe generalizzato tanto se non venisse costantemente applicato.

È

ancora più frequente che un lavorato­

re abbandoni la sua carriera per abbracciare quella vicina. Quando l'attivi­ tà scientifica non era specializzata, lo scienziato, abbracciando press'a poco tutta la scienza, non poteva affatto mutare funzione, poiché avrebbe dovuto rinunciare alla scienza stessa. Oggi accade sovente che egli si consacri succes­ sivamente a scienze differenti, che passi cioè dalla chimica alla biologia, dalla fisiologia alla psicologia, dalla psicologia alla sociologia. L'attitudine ad as­ sumere successivamente forme diversissime è più che in tutti gli altri campi sensibile nel mondo economico: dato che nulla è più variabile dei gusti e dei bisogni ai quali queste funzioni rispondono, il commercio e l'industria devono trovarsi in un perpetuo stato di equilibrio instabile, per potersi pie­ gare a tutti i mutamenti che si verificano nella domanda. Mentre un tempo l'immobilità costituiva lo stato quasi naturale del capitale, e la legge stessa gli impediva di mobilitarsi troppo facilmente, oggi possiamo a fatica seguirlo attraverso tutte le sue trasformazioni, talmente è grande la rapidità con la quale si impegna in un'impresa, e se ne ritira per porsi altrove, senza pertanto

14. Lois De Manou (trad. di A. Loiseleur-Delongchamps), Paris 1830-33, vol. I, pp. 87-91.

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stabilirsi che per alcuni istanti. Perciò occorre che i lavoratori siano sempre pronti a seguirlo, e perciò a servire in impieghi differenti. La natura delle cause da cui dipende la divisione del lavoro sociale spiega questo carattere. Se il compito di ogni cellula è fissato in modo immutabile, ciò avviene perché le è imposto dalla sua nascita: essa è im­ prigionata in un sistema di abitudini ereditarie che le prescrivono il cam­ mino che deve seguire, e delle quali non può disfarsi; non può neppure modificarle sensibilmente, perché hanno inciso troppo profondamente sulla sostanza di cui è formata. La sua struttura predetermina la sua vita. Abbiamo appena visto che la situazione delle società è diversa: l'indivi­ duo non è votato per la sua origine ad una carriera specifica; la sua strut­ tura congenita non lo predestina necessariamente a un unico compito, rendendolo incapace di assumerne altri, bensì egli riceve dali'ereditarietà soltanto predisposizioni generali e pertanto molto duttili, che possono assumere forme differenti.

È vero che egli stesso le determina mediante l'uso che ne fa. Dato che deve impegnare le sue facoltà in funzioni particolari e specializzar­ le, egli è obbligato a coltivare più intensamente quelle che sono più im­ mediatamente richieste dal suo impiego, e lasciare che le altre in parte si atrofizzino. Per questo non può sviluppare il suo cervello al di là di un certo punto senza perdere una parte della sua forza muscolare o di quella riproduttrice; per questo non può sovraeccitare le sue facoltà di analisi e di riflessione senza indebolire l'energia della sua volontà e la vivacità dei suoi sentimenti, né prendere l'abitudine dell'osservazione senza perdere quella della dialettica. Inoltre, è fatale che la facoltà che egli intensifica a scapito delle altre sia costretta ad assumere forme definite, delle quali diventa a poco a poco prigioniera. Essa si abitua a certe pratiche, ad un funzionamento determinato che è tanto più difficile mutare quanto più lungo è il periodo di tempo dal quale dura. Ma, essendo il risultato di sforzi puramente individuali, la specializzazione non ha la stabilità né la rigidità che può essere prodotta soltanto da una lunga ereditarietà. Tali pratiche sono più malleabili perché la loro origine è più recente: sicco­ me è l'individuo che si è impegnato in esse, egli può anche liberarsene, e riscattarsi per contrarne altre. Può perfino risvegliare facoltà intorpidite da un sonno prolungato, rianimare la loro vitalità, rimetterle in primo piano, per quanto - a dire il vero - questa specie di resurrezione sia già più difficile. Si è portati all'inizio a vedere in questi fatti dei fenomeni di regres­ sione o la prova di una certa inferiorità - o per lo meno lo stato transi­ torio di un essere incompiuto in via di formazione. Infatti, è soprattutto

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negli animali inferiori che le differenti parti dell'aggregato possono così facilmente mutare funzione e sostituirsi a vicenda. Al contrario, a misu­ ra che l'organizzazione si perfeziona, diventa per esse sempre più difficile abbandonare la funzione loro assegnata. Siamo così indotti a chiederci se non verrà il giorno in cui la società assumerà una forma stabile, nella qua­ le ogni organo e ogni individuo avranno una funzione definita che non muterà più. Era questo - a quanto pare'1- il pensiero di Comte; è certa­ mente quello di Spencer'6• L'induzione è tuttavia precipitosa; infatti, que­ sto fenomeno di sostituzione non è proprio agli esseri semplicissimi, ma lo si osserva egualmente nei gradi più elevati della gerarchia, e particolarmen­ te negli organi superiori degli organismi più sviluppati. Così «l turbamen­ ti conseguenti all'ablazione di certe parti della scorza cerebrale spariscono molto spesso dopo un lasso di tempo più o meno lungo. Questo fenome­ no può essere spiegato soltanto dalla supposizione che altri elementi sup­ pliscano gli elementi soppressi e ne assolvano le funzioni. Ciò implica che gli elementi supplenti siano addestrati a nuove funzioni. Un elemento che, quando i rapporti di conduzione sono normali, effettua una sensazione vi­ siva, diventa, in virtù di un mutamento di condizioni, fattore di una sensa­ zione tattile, di una sensazione muscolare o dell'innervazione motrice. Si è anzi quasi obbligati a supporre che, se la rete centrale dei filamenti nervosi ha il potere di trasmettere fenomeni di natura diversa ad un solo ed unico elemento, questo sarà in grado di riunire nel suo interno una pluralità di fun­ zioni differenti»'7• È per questo che i nervi motori possono diventare cen­ tripeti ed i nervi sensibili trasformarsi in centrifughi'8• Infine, se una nuova distribuzione di tutte le funzioni può effettuarsi quando le condizioni di trasmissione sono modificate, c'è motivo di presumere- come dice Wundt­ che «anche allo stato normale si presentino oscillazioni o variazioni le quali dipendono dallo sviluppo variabile degli individui»'9• Ciò dipende dal fatto che una rigida specializzazione non è necessa­ riamente un indice di superiorità; lungi dall'essere un bene in tutte le cir­ costanze, è sovente vantaggioso che l'organo non sia immobilizzato nella sua funzione. Naturalmente, una stabilità anche molto grande è utile dove l'ambiente medesimo è stabile - e questo è il caso, per esempio, delle fun­ zioni nutritive nell'organismo individuale. Esse non sono soggette a gran­ di mutamenti nello stesso tipo organico; di conseguenza non c'è per esse Course de philosophie positive, Paris 1830-42., vol. VI, p. so s. Principes de sociologie, Paris 1878-87, vol. n, p. 57· 17. W. Wundt, Eléments de psychologie physiologique, trad. fr., Paris 1885, vol. I, p. 2.34. 15. A. Comte,

16. H. Spencer,

18. Si veda l'esperienza di Kiihne e Paul Ben, riferita da Wundt, ivi, p. 2.33. 19. lvi, p. 2.39.

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nessun inconveniente- anzi c'è vantaggio- nel fatto di assumere una for­ ma definitivamente stabilita. Ecco perché il polipo, in cui il tessuto inter­ no e il tessuto esterno si sostituiscono a vicenda così facilmente, è armato per la lotta meno bene degli animali più elevati, in cui tale sostituzione è sempre incompleta e quasi impossibile. Ma le cose stanno altrimenti quan­ do le circostanze da cui l'organo dipende mutano sovente: allora bisogna mutare se stessi o perire. Ciò accade appunto alle funzioni complesse che ci adattano anche a ambienti complessi: questi ultimi, infatti, proprio a causa della loro complessità sono essenzialmente instabili- ed incessante­ mente si verifica in essi qualche rottura di equilibrio e qualche novità. Oc­ corre che la funzione- per restare adattata a tali ambienti- sia anch'essa sempre pronta a mutare, a piegarsi alle nuove situazioni. Ma nessuno degli ambienti esistenti è più complesso dell'ambiente sociale: è quindi del tut­ to naturale che la specializzazione delle funzioni sociali non sia definitiva come quella delle funzioni biologiche, e- dal momento che tale comples­ sità aumenta a misura che il lavoro si divide- questa elasticità diventa sem­ pre maggiore. Senza dubbio essa è sempre racchiusa entro limiti determi­ nati: ma questi retrocedono sempre più. In definitiva, ciò che attesta tale flessibilità relativa e sempre crescente è il fatto che la funzione diventa sempre più indipendente dall'organo. In­ fatti, nulla immobilizza una funzione più dell'essere vincolata ad una strut­ tura troppo definita, poiché nessun assetto è più stabile e si oppone di più ai mutamenti. Una struttura non è soltanto una certa maniera di agire, bensì è una maniera di essere che rende necessaria una certa maniera di agi­ re. Essa implica non soltanto un certo modo di vibrare proprio alle mole­ cole, ma anche un loro assetto tale da rendere quasi impossibile ogni altro tipo di vibrazione. Se, quindi, la funzione diventa più malleabile, ciò av­ viene perché essa si trova in un rapporto meno stretto con la forma dell'or­ gano, e perché i vincoli che uniscono questi due termini si sono allentati. Si osserva infatti, che essi si allentano a misura che le società e le loro funzioni diventano più complesse. Nelle società inferiori, in cui i com­ piti sono generali e semplici, le diverse classi che ne sono incaricate si di­ stinguono mediante caratteri morfologici; in altri termini, ogni organo si distingue dagli altri anatomicamente. Come ogni casta, ogni strato della popolazione ha il proprio modo di nutrirsi, di vestirsi e così via, e tali dif­ ferenze di regime comportano differenze fisiche. «l capi delle isole Figi sono grandi di statura, ben fatti e dotati di una forte muscolatura; le per­ sone di ceto inferiore offrono lo spettacolo di una magrezza che deriva dal lavoro opprimente e dall'alimentazione scarsa. Nelle isole Sandwich, i capi sono grandi e vigorosi ed il loro aspetto esteriore è talmente superiore a

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quello del popolo minuto, che si direbbe che appartengono a razze dif­ ferenti. Ellis, confermando il racconto di Cook, dice che i capi thaitiani sono, quasi senza eccezioni, superiori ai contadini sia per la forza fisica che per il ceto e la ricchezza. Erskine nota un'analoga differenza presso gli indigeni delle isole Tonga»'0• Al contrario, nelle società superiori questi contrasti spariscono. Molti fatti tendono a provare che gli uomini votati alle differenti funzioni sociali si distinguono tra loro meno di un tempo per la forma del corpo, per i lineamenti o per le fattezze. Si aspira anzi a non aver l'aria di fare il proprio mestiere. Se, come si augura Tarde, la statistica e l'antropometria si applicasse­ ro a determinare con maggiore precisione i caratteri costitutivi dei diver­ si tipi professionali, si constaterebbe probabilmente che essi differiscono meno che in passato, soprattutto se si tiene conto della maggiore differen­ ziazione delle funzioni. Un fatto che conferma questa presunzione è che la consuetudine delle divise professionali va sempre più scomparendo. Infatti, per quanto le divise abbiano certamente servito a rendere sensibili le differenze funzionali, non possiamo vedere in questo la loro unica ragione d'essere, poiché spariscono a misura che le funzioni sociali si differenziano ulteriormente. Esse devono, quindi, corrispondere a dissomiglianze di un'altra natura. Se d'altronde, pri­ ma dell'istituzione di questa pratica, gli uomini delle varie classi non avessero già presentato differenze somatiche apparenti, non si vede come avrebbero potuto avere l'idea di distinguersi in questa maniera. Questi segni esteriori di origine convenzionale sono certamente stati inventati soltanto ad imitazio­ ne di segni esteriori di origine naturale. La divisa non è altro, a nostro parere, che il tipo professionale che, per manifestarsi anche mediante il vestiario, gli imprime il suo marchio e lo differenzia a sua immagine: essa è per così dire il suo prolungamento. Questo è evidente soprattutto per i segni distintivi che hanno la stessa funzione della divisa e che provengono certamente dalle me­ desime cause, come l'abitudine di portare la barba tagliata in questa o quella maniera, o di non portarla affatto, o di radere i capelli a zero o di portarli lun­ ghi, e così via. Vi sono tratti del tipo professionale che, dopo essersi prodotti e costituiti spontaneamente, si riproducono per via di imitazione e artificial­ mente. La diversità dell'abbigliamento è quindi, anzitutto, il simbolo di diffe­ renze morfologiche; di conseguenza, se essa sparisce è perché tali differenze scompaiono. Se i membri delle diverse professioni non provano più il bisogno di distinguersi gli uni dagli altri mediante segni visibili, è perché questa distin­ zione non corrisponde più a nulla in realtà. Eppure le dissomiglianze funzio2.0.

Spencer, Principes de sociologie, cit., vol. III, p. 406.

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nali diventano sempre più numerose e più pronunciate; ciò significa che i tipi morfologici si livellano. Ciò non vuol dire certamente che tutti i cervelli siano indifferentemente atti a tutte le funzioni; ma che la loro indifferenza funzio­ nale, pur restando limitata, diventa più grande.

Questo affrancamento della funzione, lungi dall'essere un segno di in­ feriorità, prova soltanto che essa diventa più complessa. Se infatti è più

difficile per gli elementi costitutivi dei tessuti assestarsi in modo da incar­ narla, e perciò in modo da trattenerla e da imprigionarla, è perché essa è

composta di congegni troppo sapienti e delicati. Ci si può perfino chiedere se, a partire da un certo grado di complessità, non sfugga loro definitiva­ mente, se non finisca con lo straripare talmente dall'organo da rendere im­

possibile a quest'ultimo riassorbirla completamente. Che in realtà essa sia indipendente dalla forma del substrato è una verità che i naturalisti hanno già da tempo stabilita: però, quando è generale e semplice, non può persi­ stere a lungo nel suo stato di libertà, perché l'organo l'assimila facilmente, e

nello stesso tempo la incatena. Ma non c'è ragione di supporre che tale ca­ pacità di assimilazione sia indefinita; tutto fa presumere al contrario che, a partire da un certo momento, la sproporzione tra la semplicità degli assetti

molecolari e la complessità di quelli funzionali diventerà sempre più gran­ de. Il vincolo tra i secondi e i primi sta quindi allentandosi. Naturalmente,

da ciò non conse g ue che la funzione possa vivere al di fuori de gli organi, e

neppure che possa mancare qualche rapporto tra i due termini; soltanto, il

rapporto diventa meno immediato. Il progresso avrebbe, quindi, per effetto di distaccare sempre più - sen­ za tuttavia separarla - la funzione dall'organo, la vita dalla materia, e cioè

di spiritualizzarla, di renderla più malleabile e più libera in seguito alla sua maggiore complessità. Proprio perché ha il sentimento che questo è il carat­

tere delle forme superiori dell'esistenza, lo spiritualismo si è sempre rifiutato

di vedere nella vita psichica la semplice conseguenza della costituzione mo­ lecolare del cervello. In realtà, noi sappiamo che l' indifferenza funzionale delle diverse regioni dell'encefalo, se non è assoluta, è però molto grande. Perciò le funzioni cerebrali assumono per ultime una forma immutabile. Es­ se rimangono plastiche più a lungo delle altre, e conservano tanto più la loro

plasticità quanto più sono complesse; la loro evoluzione continua così più

a lungo nello scienziato che nell'uomo incolto. Se quindi le funzioni socia­ li presentano questo carattere in modo ancora più spinto, non si tratta di un'eccezione senza precedenti, ma del fatto che esse corrispondono ad uno stadio ancora più elevato dello sviluppo della natura.

[Durkheim, La divisione de/lavoro sociale, cit., pp. 325-31]

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Le conseguenze di quanto precede (seconda parte) Determinando la causa principale del progresso della divisione del lavoro, abbiamo anche stabilito il fattore essenziale di ciò che chiamiamo civiltà. Anch'essa è una conseguenza necessaria dei mutamenti che si verifica­ no nel volume e nella densità delle società. Se la scienza, l'arte e l'attività economica si sviluppano, è a causa di una necessità che si impone agli uo­ mini: per essi non c'è nessun altro modo di vivere nelle nuove condizioni in cui si trovano. Dal momento che il numero degli individui tra i quali si sono stabiliti rapporti sociali è più considerevole, essi non possono sussi­ stere se non specializzandosi di più, lavorando di più, sovraeccitando le loro facoltà; da tale stimolazione generale risulta inevitabilmente un più alto grado di cultura. Da questo punto di vista la civiltà appare quindi non come un fine che muova i popoli mediante l'attrazione che esercita su di essi, non come un bene intravvisto e desiderato in anticipo, del quale es­ si cercano con tutti i mezzi di assicurarsi la maggior parte possibile, bensì come l'effetto di una causa, come la risultante necessaria di uno stato dato. Essa non è il polo verso il quale si orienta lo sviluppo storico, e al quale gli uomini cercano di avvicinarsi per essere più felici o migliori; infatti né la felicità né la moralità aumentano necessariamente con l'intensità della vi­ ta. Essi camminano perché bisogna camminare, e quella che determina la rapidità del loro cammino è la pressione più o meno forte che esercitano gli uni sugli altri, a seconda che siano più o meno numerosi. Ciò non vuoi dire che la civiltà non serva a nulla; ma non sono i servizi che rende, quelli che la fanno progredire. Si sviluppa perché non può farne a meno; il suo sviluppo, una volta effettuato, si trova ad essere generalmen­ te utile, o per lo meno utilizzato; risponde a bisogni che si sono formati nello stesso tempo, perché dipendono dalle stesse cause. Ma si tratta di un adattamento a cose fatte. Bisogna anche aggiungere che i benefici in virtù dei quali essa si rende benemerita a questo titolo non costituiscono un ar­ ricchimento positivo, un accrescimento del nostro capitale di felicità; non fanno altro che riparare alle perdite che essa stessa ha causato. Proprio per­ ché l'attività eccessiva della vita generale stanca ed affina il nostro sistema nervoso, esso ha bisogno di riparazioni proporzionali alle sue spese, cioè di soddisfazioni più varie e più complesse. Con ciò vediamo ancor me­ glio quanto sia falso fare della civiltà la funzione della divisione del lavoro, mentre non è che il suo contraccolpo. Essa non può spiegarne né l'esistenza né i progressi, dal momento che di per sé non ha valore intrinseco e assolu-

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to, ma -al contrario -non ha una ragione d'essere che nella misura in cui la stessa divisione del lavoro risulta necessaria. Non ci si meraviglierà dell'importanza in tal modo attribuita al fattore numerico, se si noterà che esso ha una parte altrettanto capitale nella sto­ ria degli organismi. Infatti ciò che definisce l'essere vivente è la sua duplice proprietà di nutrirsi e di riprodursi -e la riproduzione non è altro che una conseguenza della nutrizione. Di conseguenza, l'intensità della vita orga­ nica è proporzionale -a pari condizioni -all'attività della nutrizione, cioè al numero degli elementi che l'organismo è suscettibile di incorporarsi. Ciò che ha reso non soltanto possibile ma anche necessaria l'apparizione di organismi complessi, è il fatto che, in certe condizioni, gli organismi più semplici restano aggruppati insieme in modo da formare aggregati più vo­ luminosi. Dato che allora le parti costitutive dell'animale sono più nume­ rose, i loro rapporti non sono più gli stessi, le condizioni della vita sociale sono mutate - e tali mutamenti determinano a loro volta sia la divisione del lavoro sia il polimorfìsmo, la concentrazione delle forze vitali e la loro maggiore energia. L'aumento della sostanza organica è il fatto che domina l'intero sviluppo zoologico. Non può stupirei che lo sviluppo sociale sia sottoposto alla medesima legge. D'altronde, senza ricorrere a queste ragioni di analogia, è facile com­ prendere l'importanza fondamentale di questo fattore. Ogni forma di vita sociale è costituita da un sistema di fatti che derivano da rapporti positivi e duraturi, stabiliti tra una pluralità di individui. Essa è quindi tanto più intensa quanto più frequenti e più energiche sono le reazioni scambiate tra le unità che la compongono. Ma da che cosa dipende tale frequenza e tale energia? Dalla natura degli elementi che si trovano di fronte, dalla lo­ ro maggiore o minore vitalità? Vedremo proprio in questo capitolo che gli individui sono un prodotto della vita comune, anziché esserne gli elemen­ ti determinanti. Se a ognuno di essi si sottrae tutto ciò che è dovuto all'a­ zione della società, il residuo che si ottiene, a parte il fatto che si riduce a ben poco, non può presentare una grande varietà. Senza la diversità delle condizioni sociali dalle quali dipendono, le differenze che li separano sa­ rebbero inesplicabili. È chiaro, quindi, che non dobbiamo cercare la causa del diseguale sviluppo delle società nella diseguaglianza di attitudini degli uomini. La troveremo forse nella differente durata di tali rapporti? Ma il tempo, di per se stesso, non produce nulla, è necessario soltanto perché le energie latenti emergano alla luce. Non resta quindi nessun altro fattore variabile, se non il numero degli individui in rapporto e la loro prossimità materiale e morale, vale a dire il volume e la densità della società. Quanto più numerosi sono e più da vicino esercitano la loro pressione gli uni sugli

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altri, tanto maggiore è la forza e la rapidità con la quale reagiscono- tanto più intensa diventa perciò la vita sociale. E proprio questa intensificazione costituisce la civiltà••. Pur essendo un effetto di cause necessarie, la civiltà può però diventare uno scopo, un oggetto di desiderio, in breve un ideale. Infatti, in ogni mo­ mento della sua storia, la vita collettiva di una società ha un certo grado di intensità che è normale, perché proporzionato al numero e alla distribu­ zione delle unità sociali. Certamente se tutto è normale, non ci si può pro­ porre di fare in modo che tutto si svolga normalmente. Se la salute è nella natura, si può dire lo stesso della malattia. La salute, nelle società come ne­ gli organismi individuali, non è anzi che un tipo ideale che non si realizza interamente da nessuna parte. Ogni individuo sano presenta elementi più o meno numerosi di salute; ma nessuno li ha tutti. Cercare di avvicinare quanto più possibile la società a questo grado di perfezione è quindi uno scopo degno di essere perseguito. D'altra parte, la via che bisogna seguire per raggiungere questo fine può essere accorciata. Se, invece di lasciare le cause generare i loro effetti a caso e secondo le energie che li spingono, la riflessione interviene per diri­ gere il loro corso, può risparmiare agli uomini molti tentativi dolorosi. Lo sviluppo dell'individuo non riproduce quello della specie che in modo ab­ breviato; egli non passa attraverso tutte le fasi che essa ha attraversate, ma ne omette alcune e ne percorre più rapidamente altre, perché le esperienze fatte dalla razza gli permettono di accelerare le sue. Ma la riflessione può produrre risultati analoghi, dato che è anch'essa un'utilizzazione dell'espe­ rienza anteriore, per facilitare l'esperienza futura. Per riflessione, d'altra parte, non bisogna intendere esclusivamente la conoscenza scientifica del fine e dei mezzi; la sociologia al suo stato attuale non è affatto in grado di guidarci efficacemente quando si tratta di risolvere simili problemi pratici. 21. Non è nostro compito ricercare se il fatto che determina i progressi della divisione del lavoro e della civiltà- vale a dire l'aumento della massa e della densità sociale- si spieghi

da solo meccanicamente, se sia un prodotto necessario di cause efficienti oppure un mezzo immaginato in vista di un fìne desiderato, di un maggior bene intravvisto. Ci accontentiamo di stabilire la legge della gravitazione del mondo morale senza risalire più in alto. Tuttavia non ci sembra che una spiegazione teleologica si imponga qui più che altrove: le separazioni che isolano le differenti parti della società scompaiono sempre più per effetto di una specie di usura naturale, la cui efficacia può d'altronde venire rafforzata dall'azione di cause vio­ lente. I movimenti della popolazione diventano così più numerosi e più rapidi, e si formano linee di passaggio lungo le quali tali movimenti si effettuano - le vie di comunicazione. Essi sono più particolarmente attivi nei punti in cui molte di queste linee si incrociano: le città. Così aumenta la densità sociale. In quanto all'aumento di volume, esso è dovuto a cause dello stesso genere. Le barriere che separano i popoli sono analoghe a quelle che separano i diversi alveoli di una società, e spariscono nello stesso modo.

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

Ma, al di fuori delle rappresentazioni chiare in mezzo alle quali si muove lo scienziato, vi sono rappresentazioni oscure alle quali certe tendenze so­ no vincolate. Per stimolare la volontà, non è necessario che il bisogno sia illuminato dalla scienza. Oscuri brancolamenti bastano per far capire agli uomini che qualcosa manca loro, per risvegliarne le aspirazioni e far senti­ re nello stesso tempo in quale senso devono indirizzare i loro sforzi. In tal modo una concezione meccanicista della società non esclude l'i­ deale, ed a torto si rimprovera ad essa di ridurre l'uomo a testimonio inatti­ vo della propria storia. Che cos'è infatti un ideale se non la rappresentazio­ ne anticipata di un risultato desiderato, la cui realizzazione non è possibile che grazie a questa anticipazione? Anche se tutto avviene conformemente a leggi, non dobbiamo concludere che non abbiamo nulla da fare. Qual­ cuno troverà forse meschino questo obiettivo, perché in definitiva si tratta di farci vivere in uno stato di salute: ma ciò significa dimenticare che, per l'uomo colto, la salute consiste nella soddisfazione regolare dei bisogni più elevati, esattamente come degli altri, poiché i primi non sono meno radicati dei secondi nella sua natura. È vero che un simile ideale è vicino, e che gli orizzonti che apre non sono illimitati; in nessun caso sarebbe in grado di esaltare al di là di ogni misura le forze della società, ma è capace soltanto di sviluppar! e nei limiti segnati dallo stato definito dell'ambiente sociale. Come ogni insufficienza, anche ogni eccesso è un male. Ma quale altro ideale ci si può proporre? Cercare di realizzare una civiltà superiore a quella che la natura delle condizioni ambientali richiede significa voler scatenare la malattia proprio nella società di cui si fa parte; non è infatti possibile sovraeccitare l'attività collettiva oltre il grado determinato dallo stato dell'organismo sociale, senza comprometterne la salute. In ogni epo­ ca, infatti, la civiltà ha un certo grado di raffinatezza, il cui carattere malsa­ no è attestato dall'inquietudine e dal disagio che l'accompagnano sempre. E la malattia non ha mai nulla di desiderabile.

Ma l'ideale, anche se è sempre definito, non è mai definitivo. Dal mo­ mento che il progresso è una conseguenza dei mutamenti che si verificano nell'ambiente sociale, non c'è ragione di credere che debba finire un gior­ no: potrebbe cessare soltanto se ad un certo momento l'ambiente diven­ tasse stazionario. Un'ipotesi di questo genere è però contraria alle più le­ gittime induzioni: finché vi saranno società distinte, il numero delle unità sociali sarà necessariamente variabile in ognuna di esse. Anche supponen­ do che la cifra delle nascite si manterrà un giorno ad un livello costante, vi saranno sempre movimenti di popolazione da un paese all'altro, sia in seguito a conquiste violente, sia in seguito a infiltrazioni lente e silenzio­ se. È infatti impossibile che i popoli più forti non tendano a incorporarsi i

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più deboli, come i più densi si riversano in quelli meno densi: è questa una legge meccanica dell'equilibrio sociale, non meno necessaria di quella che regge l'equilibrio dei liquidi. Le cose starebbero diversamente soltanto se

tutte le società umane avessero la stessa ener gia vitale e la stessa densità; e questo è inimmaginabile, se non altro a causa delle diversità degli abitati.

È vero che questa fonte di variazioni si esaurirebbe se l'intera umanità

formasse una sola ed unica società; ma, a parte il fatto che ignoriamo se ta­ le ideale sia realizzabile, il progresso si arresterebbe soltanto se all'interno di questa società gigantesca i rapporti tra le unità sociali fossero anch'es­ si sottratti ad ogni mutamento. Esse dovrebbero restare distribuite sem­ pre nella medesima maniera, e non soltanto l'aggregato sociale, ma anche

ogni aggregato elementare di cui sarebbe formato, dovrebbero conservare le medesime dimensioni. Una simile uniformità è però impossibile, per la semplice ragione che tali gruppi parziali non hanno tutti né la medesima estensione né la medesima vitalità. Non è possibile che la popolazione si concentri in tutti i punti nello stesso modo; ed è inevitabile che i centri più grandi, nei quali la vita è più intensa, esercitino sugli altri un'attra­ zione proporzionale alla loro importanza. Le migrazioni che ne derivano hanno l'effetto di concentrare ancora di più le unità sociali in certe regio­ ni, e di conseguenza di determinare in esse nuovi progressi che si irradiano a poco a poco dai focolai in cui sono nati verso il resto del paese. D'altra parte questi mutamenti ne provocano altri nelle vie di comunicazione, che ne suscitano a loro volta altri, senza che sia possibile dire dove cessino le ripercussioni. Infatti, le società, lungi dall'avvicinarsi, nel corso del loro

sviluppo, ad uno stato stazionario, diventano al contrario più mobili e più plastiche. Se ciononostante Spencer ha potuto ammettere che l'evoluzione so­

ciale ha un limite che non può venire oltrepassato•• è perché secondo lui l'unica ragione d'essere del progresso è di adattare l'individuo all'ambien­ te cosmico che lo circonda. Per questo filosofo la perfezione consiste nell'accrescimento della vita individuale, vale a dire in una più completa corrispondenza dell'organi­ smo alle sue condizioni fisiche.

In quanto alla società, essa è uno dei mezzi mediante i quali tale cor­ rispondenza si stabilisce, piuttosto che il termine di una corrispondenza specifica. All'individuo - dal momento che non è solo al mondo, ma è circondato da rivali che gli contendono i mezzi di sussistenza - conviene stabilire con i suoi simili relazioni in virtù delle quali essi, anziché di im22..

Cfr. H. Spencer, Prémiers principes, Paris 1871, pp.

454

ss.

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

paccio, gli siano utili; nasce così la società ed il progresso sociale consiste nel migliorare tali rapporti in modo da ottenere che conseguano più com­ pletamente l'effetto in vista del quale sono stati stabiliti. Perciò, malgrado le analogie biologiche sulle quali ha tanto a lungo insistito, Spencer non vede nelle società una realtà propriamente detta, esistente di per sé ed in virtù di cause specifiche e necessarie, che di conseguenza si impone all'uo­ mo con la propria natura e alla quale egli è tenuto ad adattarsi per vivere, così come è obbligato ad adattarsi all'ambiente fisico. Per lui essa è un'isti­ tuzione stabilita dagli individui al fine di estendere la vita individuale in larghezza ed in lunghezza'3• Essa consiste interamente nella cooperazione sia positiva che negativa; ed entrambe mirano soltanto ad adattare l'indi­ viduo al suo ambiente fisico. Senza dubbio, in questo senso la società è una condizione secondaria di tale adattamento: essa può, secondo la maniera in cui è organizzata, avvicinare o allontanare l'uomo dallo stato di perfetto equilibrio, ma non è di per sé il fattore che contribuisce a determinare la natura di tale equilibrio. D'altra parte, dato che l'ambiente cosmico è do­ tato di costanza relativa ed in esso i mutamenti sono estremamente lunghi e rari, lo sviluppo che deve metterei in armonia con esso è necessariamen­ te limitato. È inevitabile che arrivi il momento in cui a tutte le relazioni esterne corrisponderanno relazioni interne. Allora il progresso non potrà non fermarsi, poiché sarà giunto al fine al quale tendeva, e che era la sua ragione d'essere: sarà così compiuto. Ma, in queste condizioni, anche il progresso dell'individuo diventa in­ spiegabile. Infatti, perché mai egli mirerebbe ad una corrispondenza più perfet­ ta con l'ambiente fisico? Per essere più felice? Abbiamo già detto quanto pensiamo a questo proposito. Non si può neppur dire che una corrispon­ denza sia più completa di un'altra, per il solo fatto di essere più complessa. Si dice infatti che un organismo è in equilibrio quando risponde in modo appropriato non già a tutte le forze esterne, ma soltanto a quelle che eser­ citano un'azione su di esso. Quelle che non lo influenzano non esistono per esso - e quindi non è tenuto ad adattarsi a esse. Qualunque sia la loro vicinanza materiale, sono al di fuori della sua cerchia di adattamento, per­ ché esso è al di fuori del loro campo di azione. Se, quindi, la costituzione del soggetto è semplice e omogenea, soltanto un esiguo numero di circo­ stanze esterne sarà atto a sollecitarlo, e perciò esso potrà rendersi capace di rispondere a tutte le sollecitazioni, vale a dire di realizzare uno stato di equilibrio impeccabile con poca spesa. Se invece il soggetto è molto com23.

Cfr. H. Spencer, Les bases de la morale évolutionniste, trad. fr., Paris

x88o,

p.

u.

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plesso, le condizioni dell'adattamento saranno più numerose e complicate, ma l'adattamento non sarà per questo maggiore. Dal momento che su noi agiscono molti eccitanti che lasciavano insensibile il sistema nervoso trop­ po rozzo degli uomini di un tempo, siamo obbligati, per adattarci ad essi, a svilupparci maggiormente. Ma il prodotto di questo sviluppo, vale a dire l'adattamento che ne risulta, non è più perfetto in un caso che nell'altro; è differente soltanto perché gli organismi che si adattano sono diversi. Il selvaggio, la cui epidermide non sente fortemente le variazioni della tem­ peratura, è adattato ad esse esattamente come l'uomo civile che si protegge grazie ai vestiti. Se quindi l'uomo non dipende da un ambiente variabile, non vediamo perché mai avrebbe dovuto variare; perciò la società non è la condizione secondaria, ma il fattore determinante del progresso. È una realtà che non è opera nostra più di quanto lo sia il mondo esterno e alla quale, di conse­ guenza, dobbiamo piegarci per poter vivere; ed appunto perché essa mu­ ta, noi dobbiamo mutare. Il progresso si fermerebbe soltanto se a un certo momento l'ambiente sociale giungesse a uno stato stazionario- ed abbia­ mo appena stabilito che un'ipotesi di questo genere è contraria a tutte le assunzioni scientifiche. In tal modo, non soltanto una teoria meccanicista del progresso non ci priva di ideali, ma ci permette anche di credere che non ne saremo mai sprovvisti. Proprio perché dipende dall'ambiente sociale che è essenzial­ mente mobile, l'ideale si sposta incessantemente. Non abbiamo quindi ra­ gione di temere che un giorno il terreno possa mancarci, che la nostra at­ tività giunga al termine della sua carriera e veda il suo orizzonte chiudersi davanti a sé. Ma pur perseguendo sempre e soltanto scopi definiti e limita­ ti, c'è e ci sarà sempre tra i punti estremi ai quali giungiamo e lo scopo verso il quale tendiamo, uno spazio vuoto aperto ai nostri tentativi.

[Durkheim, La divisione del lavoro sociale, cit., pp. 331-8]

Le conclusioni Se la divisione del lavoro produce la solidarietà, ciò non avviene soltanto perché essa fa di ogni individuo un soggetto di scambio- come dicono gli economisti'4 - ma anche perché crea tra gli uomini un sistema di diritti e di doveri che li vincolano reciprocamente in modo duraturo. Come le 24.

G. De Molinari, La morale économique, Paris

1888,

p.

248.

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

so

uniformità sociali danno origine ad un diritto ed a una morale che le pro­ teggono, così la divisione del lavoro dà origine a regole che assicurano la cooperazione pacifica e regolare delle funzioni che sono state divise. Se gli economisti hanno creduto che essa avrebbe potuto produrre una solidarie­ tà sufficiente, prescindendo dalla maniera in cui la si fosse realizzata, e se perciò hanno sostenuto che le società umane potevano e dovevano risol­ versi in associazioni puramente economiche, è perché hanno creduto che non incidesse che su interessi individuali e temporanei. Di conseguenza, per valutare gli interessi in conflitto e la maniera in cui debbono equili­ brarsi, cioè per determinare le condizioni nelle quali deve essere fatto lo scambio, soltanto gli individui sono competenti; e dato che questi interes­ si sono in perpetuo divenire, non c'è posto per nessuna regolamentazione permanente. Ma una concezione di questo genere è in ogni punto inadeguata ai fatti. La divisione del lavoro non oppone mai gli individui, ma le funzioni sociali; la società è interessata al gioco di queste ultime: a seconda che esse collaborano regolarmente o meno, essa sarà sana o malata. La sua esisten­ za dipende da esse tanto più strettamente quanto più esse sono divise. Per questo non può !asciarle in uno stato di indeterminatezza- e d'altronde esse si determinano da sole. Così si formano quelle regole il cui numero aumenta con il progredire della divisione del lavoro, e la cui assenza rende impossibile o imperfetta la solidarietà organica. Ma non basta che vi siano regole, occorre anche che esse siano giuste, e per questo è necessario che le condizioni esteriori della cooperazione si­ ano eguali. Se d'altra parte si tiene presente che la coscienza collettiva si riduce sempre più al culto dell'individuo, si vedrà che ciò che caratterizza la morale delle società organizzate, in confronto a quella delle società seg­ mentate, è il fatto che essa ha qualcosa di più umano, e quindi di più ra­ zionale. Essa non vincola la nostra attività a scopi che non ci concernono direttamente; non fa di noi dei servitori di potenze ideali, di natura com­ pletamente diversa dalla nostra, che seguono la loro via senza preoccupar­ si degli interessi degli uomini. Essa ci chiede soltanto di essere amorevoli verso i nostri simili e di essere giusti, di assolvere bene il nostro compito, di adoperarci affinché ognuno sia destinato alla funzione che può adempiere meglio e riceva la giusta remunerazione per le sue prestazioni. Le regole che la costituiscono non hanno una forza costrittiva tale da soffocare il libero esame; ma dal momento che sono più che le altre fatte per noi e, in un certo senso, da noi, siamo più liberi nei loro confronti. Vo­ gliamo comprenderle, ed abbiamo meno paura di mutarle. Bisogna guar­ darsi bene, d'altronde, dal trovare insufficiente un ideale di questo genere,

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col pretesto che è troppo terrestre e troppo alla nostra portata. Un ideale non è più elevato perché è più trascendente, ma perché ci procura più vaste prospettive. Ciò che importa non è che si libri ai di sopra di noi al punto da diventarci estraneo, ma che apra alla nostra attività una carriera assai lunga - e questo ideale non è certamente alla vigilia della sua realizzazione. Siamo anche troppo consapevoli delle difficoltà che comporta l'edifica­ zione della società in cui ogni individuo occuperà il posto che merita e sarà ricompensato come merita, ed in cui perciò tutti collaboreranno sponta­ neamente al bene di ognuno e di tutti. Analogamente, una morale non è superiore a un'altra perché comanda in modo più secco e più autoritario, o perché è più sottratta alla riflessione. È indubbiamente necessario che essa ci leghi a qualcosa di diverso da noi stessi; ma non è necessario che ci incateni fino a immobilizzarci. A ragione è stato detto�1 che la morale - e con questo termine si desi­ gnano non soltanto le dottrine, ma anche i costumi - attraversa una crisi pericolosa. Quanto abbiamo detto nelle pagine precedenti può aiutarci a comprendere la natura e le cause di questo stato malsano. Mutamenti pro­ fondi si sono prodotti, in brevissimo tempo, nella struttura delle nostre so­ cietà; esse si sono svincolate dal tipo segmentato con una rapidità e in una proporzione di cui non troviamo esempio nella storia. Di conseguenza, la morale che corrisponde a questo tipo sociale è regredita, ma senza che l'altra si sviluppasse abbastanza rapidamente da riempire il terreno lasciato vuoto nelle nostre coscienze. La nostra fede si è turbata; la tradizione ha perduto parte della sua au­ torità; il giudizio individuale si è emancipato dal giudizio collettivo. Ma, d'altro lato, le funzioni che si sono dissociate nel corso della tormenta non hanno avuto il tempo di adattarsi reciprocamente, la nuova vita che si è sprigionata quasi tutto d'un tratto non ha potuto organizzarsi in modo da soddisfare il bisogno di giustizia che si è risvegliato più ardente nei nostri cuori. Stando così le cose, il rimedio al male non consiste nel cercare di resuscitare tradizioni e pratiche che, non corrispondendo più alle condi­ zioni presenti dello stato sociale, non potrebbero vivere che una vita arti­ ficiale ed apparente.

È necessario far cessare l'anomia, trovare il mezzo di far collaborare ar­ monicamente gli organi che si urtano ancora con movimenti discordanti, ed introdurre nei loro rapporti più giustizia, attenuando sempre di più le diseguaglianze esteriori che costituiscono la fonte del male. Il nostro ma­ lessere non è quindi - come qualcuno sembra talvolta ritenere - di ordine 25.

Cfr. E. Beaussire, Les principes de la morale, Paris x885, Introduzione.

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

intellettuale; esso dipende da cause più profonde. Non soffriamo perché non sappiamo più su quale nozione teorica dobbiamo appoggiare la mo­ rale che praticavamo fino ad oggi; ma perché questa morale è stata irrime­ diabilmente scossa in alcuni punti e quella che ci è necessaria è appena in via di formazione. La nostra ansietà non deriva dal fatto che la critica degli scienziati ha fatto crollare la spiegazione tradizionale dei nostri doveri che ci veniva impartita; di conseguenza, non sarà un nuovo sistema filosofico quello che potrà dissiparla. Il fatto è che, non essendo alcuni di quei doveri fondati più nella realtà delle cose, ne è risultato un rilassamento che finirà soltanto con lo stabilimento e il consolidamento di una nuova disciplina. In breve, il nostro primo dovere è attualmente quello di costruire una mo­ rale. Un'opera di questo genere non può essere improvvisata nel silenzio di uno studio; non può che elevarsi da sola, a poco a poco, grazie alla pres­ sione delle cause interne che la rendono necessaria. Ma ad una cosa la ri­ flessione può e deve servire - a indicare il fine che bisogna raggiungere. È appunto ciò che abbiamo cercato di fare.

[Durkheim, La divisione del lavoro sociale, cit., pp. 396-9]

2

Vilfredo Pareto e le previsioni "logiche"

Il sociologo classico italiano più conosciuto, noto anche come economista, è sta­ to tra i più attivi propositori di previsioni sociali. La sua tipicità consiste nell'aver indirizzato attente riflessioni sul futuro che sembrava prospettarsi per il suo paese ed altre nazioni alle quali dedicava le attenzioni di scienziato sociale appassiona­ to alle tematiche politiche. Il suo è stato uno sguardo proteso sull'avvenire con alla base considerazioni attente che promanano dalla constatazione dell'esistenza di leggi generali' dalle quali era possibile immaginare, con una certa approssima­ zione, quali potessero essere le situazioni realmente attendibili in un futuro più o meno prossimo. L'ambizione di Pareto è stata quella di fornire alla sociologia lo stesso metodo sperimentato nelle scienze naturali: «Spinto dal desiderio di apportare un comple­ tamento indispensabile agli studi dell'economia politica e soprattutto ispirandomi all'esempio delle scienze naturali, io sono stato indotto a comporre il mio "Tratta­ to di sociologia" il cui unico scopo - dico unico ed insisto su questo punto - è di ricercare la realtà sperimentale per mezzo dell'applicazione alle scienze sociali dei metodi che hanno fatto le loro prove in fisica, chimica, in astronomia, in biologia e in altre scienze simili»•. L'attenzione rivolta al metodo utilizzato dalle scienze empiriche deriva dal suo personale percorso formativo partito seguendo le orme del padre, un ingegne­ re civile vissuto per un lungo periodo in Francia, a Parigi, città nella quale Vilfredo vide la luce il 15 luglio 1848. Gli studi in ingegneria civile impostati su una solida conoscenza della matematica influenzarono largamente il pensiero del giovane Pa­ reto anche dopo aver concluso la prima fase della sua intellettualmente e profes­ sionalmente tumultuosa esistenza come ingegnere direttore nella Compagnia Fer1. Nell'articolo apparso sulla "Rivista d'Italia'' nel 1921 e già citato nell'Introduzione di questa antologia, Pareto si esprime a proposito dell'utilità delle cosiddette leggi generali ridi­ mensionandone la ponata ricordando che: «Le proposizioni che, nelle scienze sociali, dicon­ si leggi sono semplicemente l'enunciato di uniformità osservate nei fatti, e l'aggiunta dell'e­ piteto generali sta solo ad indicare che compendiano un numero grandissimo di fatti» (V. Pareto, Previsione deifenomeni sociali, 1921, in Id., Scritti sociologici, a cura di G. Busino, UTET, Torino 1966, p. 1119). 2. lvi, pp. 73s-6.

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roviaria di Roma, antesignana delle Ferrovie dello Stato e successivamente come amministratore delegato di un'azienda che produceva materiali di ferro con sede a Firenze. Studiò i classici dell'economia e divenne un convinto assertore del libe­ ro scambio che non aveva ancora trovato in Italia una piena applicazione. Grazie ai contatti attivati dal suo amico Maffeo Pantaleoni, noto economista italiano ben introdotto nell'ambiente accademico, iniziò a collaborare con la cattedra di economia politica dell'Università di Losanna a stretto contatto con Leon Walras di cui fu il successore nell'insegnamento. Sempre più appassionato ai suoi studi economici e al suo impegno di docenza in Svizzera, diede alle stampe il Corso di economia politica, una pubblicazione che gli offrì una notorietà che né i suoi innumerevoli scritti politici né il suo impegno diretto come candidato alle elezioni del I882 avevano saputo garantirgli. L'idea di proporre le scelte razionali come quelle anche economicamente più convenienti lo spinse ad approfondire il tema della logicità e illogicità dell'agire umano. Nel ritiro dorato nella sua confortevole villa di Celigny, località svizzera non distante da Losanna dove, nonostante i problemi di salute legati a una per­ sistente insufficienza cardiaca, continuava saltuariamente a insegnare, elabora un pensiero che completa quanto già espresso nei suoi studi economici. È in questo periodo che concentra le sue energie nella stesura del monumentale Trattato di

sociologia generale nel quale spiega l'utilità del comprendere le azioni non-logiche, quelle non razionali che risultano essere nettamente la maggioranza delle azio­ ni compiute da ogni uomo. Pareto era affascinato dalla tendenza tipica di ogni uomo di offrire a ciascuna di esse una forma logica attraverso un percorso di ri­ flessione più o meno articolato e chiamava gli istinti che condizionavano l'agire umano residui e derivazioni i ragionamenti posti in essere dalla mente per dare una parvenza di razionalità alle azioni non logichel. Per Pareto residui erano an­ che le manifestazioni dei sentimenti, delle emozioni che condizionavano l'agire dell'uomo in modo permanente e che, per quanto ci si sforzasse di rendere logiche

attraverso una serie di credenze valoriali anche religiosamente ispirate ( le deriva­

zioni ) , allontanavano l'uomo da tutto ciò che era verità, logicità. L'esempio della

correttezza nel commercio illustra meglio di tanti altri proposti nel Trattato quel­ lo che Pareto intendeva mostrare con i suoi studi: l'azione logica vorrebbe che un uomo non rubasse perché il farlo potrebbe avere delle conseguenze spiacevoli ma, nella stragrande maggioranza dei casi, gli uomini non rubano per una serie diversissima di criteri che ispirano il loro agire: «Un Cinese, un Musulmano, un Cristiano calvinista, un Cristiano cattolico, un Kantiano, un Hegeliano, un Ma­ terialista, si astengono ugualmente dal rubare, ma ognuno dà, dei suoi atti, una spiegazione diversa»4• La sua aspirazione era quella di osservare i fatti in piena libertà creando una scienza della società basata su principi logico-sperimentali e completamente af3· Cfr.

V. Pareto, Trattato di sociologia generale, Edizioni di Comunità, Milano 1964,

vol. I, pp. Bso-1 (ed. or. 1916). 4· lvi, vol. II, p. 14.

2. VILFREDO PARETO E LE PREVISIONI

" " LOGICHE

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francata dai condizionamenti metafisici che avevano contaminato il pensiero di altri scienziati sociali positivisti come Cornee e Spencer1• Avendo in più circostanze verificato la difficoltà nel dialogare proficuamente con altri intellettuali del suo tempo e sperimentata l'impermeabilità alle proprie idee liberali del sistema politico italiano ma anche di quello francese e quello svizzero, Pareto si rinchiuse volontariamente in una sorta di isolamento umano e intellettuale che lo costrinse a guardare agli uomini del suo tempo con criticità, spesso addirittura con disprezzo. Anche la "fede" nella capacità delle élites di cam­ biare in meglio le sorti del mondo sembrò abbandonarlo negli ultimi anni della sua vita. Osservava con triste acutezza che tutte le società più evolute non erano riuscite ad aprirsi ad una perfetta mobilità sociale così da permettere alle persone dotate di capacità e competenze superiori di costruire quell'élite in grado di go­ vernare un paese al meglio per garantire il massimo bene possibile per la collettivi­ tà. Il suo profondo pessimismo lo accompagnò sino alla morte avvenuta nel I923, un anno dopo la Marcia su Roma, nonostante la notorietà afferragli da Benito Mussolini che, professandosi pubblicamente suo discepolo avendo seguito due suoi corsi a Losanna, lo nominò senatore del Regno e rappresentante dell'Italia presso la Società delle Nazioni a Ginevra.

È con questo dolente stato d'animo che Pareto si cimenta nella produzione di brevi saggi su ciò che il futuro poteva riservare al mondo. I due scritti qui riportati mostrano una capacità non comune nel guardare al domani con uno stile ricercato anche nella proposta letteraria. La sua cultura en­ ciclopedica trova modo di essere sfoggiata in questi scritti minori che, per quanto meno "pubblicizzare: riescono a offrire un quadro chiaro del suo pensiero sulle tematiche affrontate a differenza di quanto è possibile verificare nel Trattato nel quale le idee, frutto di importanti intuizioni e lunghe e profonde riflessioni, sono esposte in modo poco organico a volte confuso. Nel primo testo qui presentato, molto breve ma di particolare interesse, con straordinaria lucidità Vilfredo Pareto anticipa i tempi di crisi che sarebbero arri­ vati dopo qualche anno dal momento in cui scrive. Guarda al primo dopoguerra come a un periodo storico nel quale si sarebbe registrata una crescita dell'Europa prima di un inevitabile declino e intuisce che l'aumento dell'inflazione e quello della spesa pubblica volta sostanzialmente a finanziare sprechi e salari esosi di quelli che chiama "plutocraci': veri insaziabili "pescecani" colpevoli dei guasti nel­ la pubblica amministrazione, avrebbe portato alla disfatta di un ordinamento che non si sarebbe più potuto reggere. Solo l'arrivo un vero e proprio "diluvio" e non di un semplice, per quanto distruttivo, "uragano" avrebbe potuto rappresentare la comparsa della speranza costituita da un arcobaleno foriero di una ripartenza. La crisi del 1929 e la Seconda guerra mondiale gli hanno dato ragione, ma gli uomini hanno dimostrato di non aver voluto imparare dalle lezioni della storia e, quindi, 5· Cfr. S. Ricciuti, La conoscenza sociologica in Sociologia': 4, 2005, pp. 31-63.

Vi!fredo Pareto e Max Weber, in "Studi di

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

lo scritto di Pareto potrebbe essere utile ancora oggi per rintracciare alcune del­ le cause che hanno determinato la crisi nella quale ci siamo imbattuti di recente. Il secondo testo, più lungo e articolato in tre momenti, parte da alcune con­ siderazioni fatte a proposito del desiderio naturale che gli uomini hanno di cono­ scere l'avvenire. Un po' tutti intuiscono qualcosa con vari livelli di approssimazio­ ne a partire dal riferimento a parametri emozionali sino a giungere ad un'analisi più o meno attenta dei fatti e provano a giustificare quanto immaginato possibile attraverso ragionamenti poco logici (quelle che lui chiama derivazioni). Molto spesso però, le derivazioni guidate dai sentimenti vengono smentite dagli avveni­ menti e questa constatazione pone il sociologo in condizione di riflettere lunga­ mente su come guardare al domani. L'analisi dei fatti relativi al Primo conflitto mondiale lo spinge a guardare oltre il presente ed essere molto critico in rapporto alle promesse di grandi risorse economiche messe in campo dagli Stati per favo­ rire la crescita. È interessante verificare come la "coperta corta" che caratterizza oggi la spesa pubblica appare essere un problema con il quale in passato ci si è già confrontati. Guardando poi alla rivoluzione bolscevica, Pareto parla degli operai come soggetti ormai a quel tempo ben più potenti di tanti borghesi e immagi­ na una serie di grandi stravolgimenti sociali che non avrebbero potuto produrre «pace e prosperità sociale» nel breve periodo in Europa e in questo la sua fu una previsione molto ben calibrata.

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" " LOGICHE

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Forse che sì, forse che no Sul globo terraqueo è ora strapotente il reggimento della plutocrazia demago­ gica; seguiterà tale dominio, si modificherà, disparirà? Su ciò si possono fare varie ipotesi; ognuna delle quali è suffragata da esempi storici e da possibilità sperimentali. Qui esporremo solo alcuni dubbi. Il durare in avvenire del presente stato di cose ha in suo favore che possie­ de ormai vita quasi secolare, che ha superato disagi e pericoli grandi, sempre vittorioso, ognora più prospero, e che quindi ha dato prova di estremo vigo­ re. Ma tale ragionamento è arma a doppio taglio, perché l'esperienza insegna che, nei fenomeni sociali, il massimo della prosperità spesso di poco procede la decadenza, e che per essi vale il detto che il moto prossimo al fine è maggior­ mente veloce. Ragioni intrinseche di durata si possono sperimentalmente avere dall'as­ senza di efficace resistenza. Di quella dei buoni borghesi, poco c'è da dire. Sem­ pre si manifestarono di scarsa avvedutezza, di poco animo, di nessuna energia, e tali rimangono. Si sono lasciati abbindolare dai miti messi in opera dai pre­ senti reggitori, né vi è alcun segno che stiano per ravvedersi. Hanno approvato ed approvano le spese per le quali sono spogliati, hanno dato i loro denari agli imprestiti dei governi, e seguiteranno a darli, senza accorgersi che tali impre­ stiti stanno tra le maggiori cagioni del caro vivere e dei patimenti dei borghesi con una rendita fissa; perché appunto da tali imprestiti, i governi attingono i denari per pagare i sussidi di disoccupazione, i guadagni dei plutocrati, i salari fantastici degli operai che lavorano in opere pubbliche di poca o nessuna uti­ lità economica; onde, per tal modo, scema la produzione, preme il consumo sulle scarse quantità delle merci, si consolida ed aumenta il caro vivere, ed ab­ bonda il pasto ai pescecani. Sinché sgorgherà tal fonte, seguiteranno quegli effetti. Rimangono inton­ titi i buoni borghesi quando si dice loro che agli imprestiti si possono sostitui­ re le imposte, e dimenticano le lezioni della storia, le quali insegnano che, supe­ rato un certo limite, le imposte più non fruttano, i governi useranno la forza? Come se si potessero mettere all'asta i possessi di gran parte della popolazione! E dove sarebbero i compratori? Il governo della prima rivoluzione francese, anche usando largamente la ghigliottina, non riescì a superare tale ostacolo. I governi stamperanno carta moneta? Eh! Sì, colla corona a cinque centesimi, il marco a quindici centesimi, la lira a quarantaquattro centesimi, il franco a cinquantotto centesimi rimane poco da fare; il meglio del campo è mietuto. La forza dei governi sta principalmente nell'arrendevolezza dei governati. Poiché questa c'è ancora nella borghesia, pochi pericoli assalgono da quel la­ to il reggimento imperante; maggiori lo minacciano dalla parte popolare, per

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quell'ancora indistinto senso di rivolta a cui s'è posto il nome di Bolscevismo, e lì sta veramente l'incognita del problema. Ciò meglio si scorge ave si ponga mente alle incertezze dei nostri governi sul da farsi riguardo ai fatti della Rus­ sia; non sanno proprio che pesci pigliare. Il pericolo è a loro manifesto, il ripa­ ro ignoto. Ora vogliono annientare i Bolscevichi, ora lusingarli e venire a patti con essi; tornano a farsi arcigni e li vogliono perseguitare, da capo si fanno benevoli e li vogliono mansuefare. Il Lloyd Georgé oggi dice bianco, domani nero; e sempre riscuote gli applausi dei plutocrati... e degli ingenui borghesi. All'interno, i governi, non riescono a determinare un programma: voglio­ no e disvogliono imprestiti forzati, o liberi, prelevamenti sul patrimonio, im­ poste sul reddito; impongono ai vinti nemici di pagare tributi e non vogliono riceverne le merci! Allora come si fa il pagamento? Dicono di volere operare contro il caro vivere, ed asseriscono che si cureranno di non lasciare rinvilire i prezzi; si lamentano del rinvio dell'unità monetaria, dicono che provvederan­ no per migliorare il cambio, e si rallegrano perché quel rinvio scema il peso del debito pubblico; in Francia, il Klotz7lo ha espresso chiaramente. Dicono, ed hanno ragione, che occorre aumentare la produzione e sce­ mare i consumi; ma che mezzi propongono per conseguire ciò? Attenti, che il monte partorisce il topo. Di mezzi non ne vedono altri che belle, bellissime prediche morali. Possono tirare via e sussistere perché, dagli avversari, ancora non si è manifestata una forza organica atta ad opporsi a quella ora operante, non sono stati prodotti miti che stiano per avere largo assenso quanto quello che accolse e che accoglie ancora, sebbene affievolendosi un poco, i miti tanto sapientemente adoperati dalla plutocrazia demagogica che domina. Rimane da sapere quanto tempo ancora potrà durare questo ordinamento. Può il movimento ascendente della produzione della ricchezza riprende­ re la via interrotta dai presenti avvenimenti; ed allora le perturbazioni che ora si mostrano saranno come l'uragano che finisce col dare luogo al sole. Nei fe­ nomeni meteorologici tale successione è certa, non così nei sociali; o per di­ scorrere con maggiore precisione, in essi, talvolta, solo dopo il diluvio, appare l'arcobaleno. [Pareto, Scritti sociologici, cit., pp. 840-2. Originale pubblicato in "Il Resto del Carlino" il21 novembre 1919 e successivamente in "L'Economista" il 6 dicembre 1919] 6. David Lloyd George ( 1863-1945 ) dal 1915 e sino al192.2 fu capo del governo liberai­ radicale. Riuscì a comporre, anche coll'appoggio del movimento laburista, i numerosi con­ flitti di lavoro succedutisi in Inghilterra nel dopoguerra. Nel1921 riconobbe l'indipendenza dell'Irlanda

[N.d.A.].

7· Pubblicista finanziario francese, allora molto autorevole e letto

[N.d.A.].

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Speranze e delusioni I

L'uomo ha naturale e vivo desiderio di conoscere l'avvenire, e per appagare tale desiderio ricorre a diversi mezzi, che, per vari gradi, salgono dalla pro­ fezia divina, o dalla artificiosa, sino alla previsione oggettiva e scientifica. Questa, nell'anzidetta scala, è preceduta dalla previsione empirica dell'uo­ mo pratico; il quale, dalla propria esperienza è tratto, senza il più delle volte conoscere come e perché, a previsioni certo non trascurabili, e che anzi, in molte materie, sono le sole sulle quali si possa far assegnamento, sinché, dal progredire della scienza, non siano aperte vie più sicure8• Quando l'uomo pratico vuole giustificare le sue intuizioni, ricorre spessissimo, quasi sempre, a ragionamenti di poco o nessun valore logico - sperimentale, a derivazioni9• Perciò a queste c'è da badare poco, e conviene maggiormente porre mente ai fatti che suffragano l'autorità di tale uomo nella materia di cui si ragiona. In un grado inferiore abbiamo le previsioni in cui l'intuizione non procede solo dall'impressione dei fatti, ma trae in gran parte origine da circostanze soggettive, cioè dalla fede, dai sentimenti, dai desideri, non ul­ timo dei quali è quello di conseguire l'approvazione altrui e di favorire certi interessi. Facilmente prevediamo che seguirà ciò che si confà a tali circostanze, e quando l'opera di esse è patente, suolsi dire che prendiamo i nostri desideri per la realtà, che siamo travolti dalla passione, che vogliamo trarre altrui dove abbiamo il nostro vantaggio. Questi casi estremi, sono molto più rari dei casi intermedi, nei quali simili cagioni non operano da sole. Aggiungasi che chi da esse è mosso spessissimo non se ne avvede, o se ne avvede poco, crede in buona fede usare un ragionamento interamente oggettivo; e di ciò molto si compiace, poiché invero quale maggiore sod­ disfazione può avere l'uomo, se non quello di vedere che la propria fede, i propri sentimenti, i propri interessi, vanno perfettamente d'accordo coli'e­ sperienza oggettiva? Chi dissente da sì buono convincimento non può es­ sere altro che un perverso. In altri tempi si chiamava eretico, scomunicato, oggi, con neologismo di non ben certo significato, si dice disfattista, do­ mani meriterà qualche altro epiteto; ma se diversi sono i nomi, uno solo è 8.

Mi occorrerà qui rammentare parecchie proposizioni di cui le prove stanno nel mio

Trattato di sociologiagenerale, al quale quindi mi permetterò di rimandare il lettore. Sull'ar­ gomento ora accennato nel testo, cfr. parr. 1776 ss. 9· Per amore di brevità uso qui, come nella Sociologia, tale nome per indicare i ragiona­ menti che non sono esclusivamente logico-sperimentali, e che sono prodotti ed accolti prin­ cipalmente dal sentimento e dagli interessi.

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il carattere che indicano, quello cioè di non partecipare punto, o di parte­ cipare poco alla credenza ed agli interessi dominanti. Tale modo di ragionare ed i sentimenti che palesa sono, o non sono con­ venienti, secondo il fine cui si mira'0• Possono essere ottimi per spingere gli uomini all'azione, sono certamente pessimi per le semplici indagini logico­ sperimentali. Può darsi che, agli Ateniesi, fosse utile il sentimento il quale li spingeva a condannare Anassagora", reo di negare la divinità del sole ma è pure certissimo che ciò era di danno al progredire dell'astronomia speri­ mentale. La tolleranza usata dagli Ateniesi al

disfattista Aristofane'� giova a

rendere chiara la fama loro, il che non può dirsi della condanna di Socrate. Il presente conflitto mondiale ci ha fatto tornare a tempi di intolleranza, ed è sperimentalmente un buon esempio del come sono cagionate certe cre­ denze. lnvero si è potuto osservare che esse furono partite secondo confini di popoli; il che basta per dimostrare che da tali o da altre simili circostanze furono determinate, piuttosto che da semplici indagini logico-sperimentali. Appunto perché non siamo consapevoli, o almeno interamente consa­ pevoli del modo col quale operano su di noi le circostanze, rimane molto difficile che ai loro effetti, si sottragga del tutto chi mira solo ad un fine di scienza sperimentale: ma dal poco al molto corre un gran tratto, e si può se non altro procurare di avvicinarsi all'estremo, ave gli effetti sono minimi. Non è da tacere che, nelle scienze sociali, le previsioni scientifiche di­ fettano spesso di utilità pratica, perché esse possono solo investigare l'anda­ mento medio e generale dei fenomeni, mentre molti casi pratici richiedono che ne siano conosciuti i casi singolari e particolari. Non altrimenti segue per parecchie altre scienze. Ad esempio il giocatore del lotto non sa che farsi del calcolo delle pro­ babilità che gli insegna quante volte, all'incirca, in media, uscirà un ambo in un numero grandissimo di estrazione; a lui premerebbe di conoscere a che ruota e quando uscirà un ambo determinato; e di ciò non solo tace il calcolo della probabilità ma neppure se ne occupa'3• Accresce difficoltà alle previsioni un fatto singolare, ed è che nei feno­ meni economici e sociali, spesso l'intensità non passa a grado a grado dal 10. Trattato di Sociologia, parr. 186 ss. 11. Il più illustre rappresentante della Scuola ionica, nato verso il so o a.C. e morto nel 42.8, che per primo introdusse nella fìlosofìa l'idea d'intelligenza, o principio ordinatore [N.d.A.]. 12.. Celebre poeta comico ateniese, autore di undici commedie, notevoli per la forza let­ teraria e per la virulenza politica, sempre in bilico tra la buffonata fantastica e il sottile poe­ tico pessimismo. Nato ad Atene verso il450 a. C. e mortovi nel 386, Aristofane fu uno degli autori preferiti dal Pareto [N.d.A.]. 13. Cfr. Trattato di Sociologia, par. 2.411.

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crescere al decrescere, e viceversa, ma invece muta repentinamente. Per tal modo il crescere presente d'intensità non presagisce un aumento futuro ma può invece presagire un decrescere. Non mi trattengo più oltre su quest'im­ portante argomento, di cui lungamente ragionai altrove'4• Chi ragiona col sentimento, la fede, la metafisica non ha la via ingombra da tanti ostacoli. Il sentimento, che è parte e giudice, guida prontamente a conclusioni assolute e sicure. E bensì vero che poi sono quasi sempre smentite dai fatti, ma la smentita

giunge quando tali derivazioni hanno già prodotto il desiderato effetto, e si sa che: avuta la grazia, gabbato lo santo. II

Le speranze che si osservano nel presente conflitto mondiale possono, se si pone mente all'origine, essere distinte in due classi, secondoché le promesse dalle quali traggono origine e che le suffragano sono state fatte e si ripetono di buona fede, oppure se sono state o sono imposte dalla necessità, con scarsa fiducia di poterle recare ad effetto. Se poi si pone mente alla corrispondenza colla realtà sperimentale, si possono partire in varie classi secondo i vari gradi di probabilità e di possibilità del compiersi di esse. In ogni tempo i capi animarono i loro armati promettendo ad essi di farli partecipi del bottino. Quando Ottavio ed Antonio chiesero cieca de­ vozione ai propri soldati, presero impegno di far loro grandi doni di terre e di quattrini; quando il Bonaparte, trasse l'esercito all'invasione dell'Italia, lo confortò colla speranza di ottima preda'1; quando scoppiò la guerra pre­ sente, i governanti, da una parte e dell'altra, fecero sperare ai popoli gran­ di vantaggi, anzi si può giustamente dire che fu per procacciarseli che gli Imperi centrali mossero ad una guerra di conquista, e che il governo ebbe consenzienti i socialisti, vinti dalla cupidigia delle spoglie che speravano conseguire mercé l'alleanza coi partiti borghesi. Così l'Intesa fu costretta alla difesa; dalla quale passò poi all'offesa, per conseguire a sua volta il pro­ prio vantaggio. Tutte queste speranze erano naturalmente subordinate alla vittoria; ma conseguita che fosse stata, Ottavio ed Antonio, come pure il Bonaparte, pro­ mettevano cose possibili, molto probabili, poiché pochi erano coloro che avevano da impinguarsi della molta roba altrui. E ciò si poteva forse ripete14. Cfr. "Giornale degli Economisti e Rivista di Statistica", Roma, luglio 1918. 15. Lo stato presente della società ha alcune parti simili a quello della società romana sul

finire della Repubblica: Trattato di Sociologia, parr. 2561 ss.

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re nei primi tempi del presente conflitto, quindi le promesse possono essere state fatte allora di buona fede; ma col prolungarsi della guerra, crescevano per tutti i belligeranti le spese e perciò i sacrifizi dei presunti vincitori, men­ tre scemava la quantità del bottino che, in compenso, si poteva sperare dai futuri vinti. Allora parecchi dei governanti e dei loro partigiani si saranno accorti che difficilmente avrebbero potuto mantenere gli impegni, ma la ne­ cessità di spingere alla battaglia il popolo tutto imponeva loro non solo di confermarli ma altresì di aggiungere altri nuovi. Valga pure tale considerazione per le promesse di riforme sociali, di tra­ sferimenti di ricchezza da certe classi di cittadini a certe altre, e per gli im­ pegni del debito pubblico e della carta-moneta. Se la guerra durava poco, si sarebbe potuto provvedere alla non troppo grande spesa solo coll'inasprire le imposte, coll'impoverire certi cittadini per giovare ad altri, col fare sorge­ re nuovi ricchi a scapito degli antichi; ma la somma che si può per tal modo prelevare non è infinita, ha un limite, ed il prolungarsi della guerra ha cagio­ nato spese e fatto nascere speranze tali che forse trascendono dal limite di ciò che è disponibile. Se così stanno i fatti, le speranze dovrebbero mutarsi in delusioni, poiché nessuno può compiere l' impossibile'6• Negli Imperi centrali prevaleva la plutocrazia militare, negli Stati dell'Intesa la plutocrazia demagogica. Ciò spiega la diversa indole delle promesse e le varie difficoltà per recarle in atto. Le promesse della pluto­ crazia militare erano principalmente politiche e si potevano certamente mantenere in caso di vittoria; le promesse della plutocrazia demagogica sono principalmente sociali, e l'effettuarle rimane subordinato al procu­ rarsi i potenti mezzi necessari per ciò compiere. La Germania, se vittorio­ sa, voleva togliere le colonie alla Francia, ciò era evidentemente possibile, come è possibile, possibilissimo che la Francia vittoriosa abbia l'Alsazia e la Lorena. Ma il Lloyd George dichiara, nei suoi discorsi, di volere che tutta la classe povera inglese divenga agiata ed abbia vita con maggiori consumi, maggiore igiene, maggiore dignità. Se i governi degli altri Stati dell'Intesa hanno eguale desiderio, rimane da sapersi se posseggono i mezzi necessa­ ri per recarlo in atto. Ciò può essere, o non essere, ma l'affermativa non è punto certa, anzi è la negativa che pare maggiormente probabile, poiché tale miglioramento delle condizioni generali richiede enorme spesa di be­ ni economici, ed è cosa arcana il sapere da dove si trarranno. Ciò è contrastato da impressioni e da derivazioni. Un'obiezione di grande uso ed alquanto puerile afferma essere evidente che, togliendo ai 16. Di ciò più a lungo in un mio articolo Paghe nominali e paghe reali, in "L'Economista dell'Italia moderna", 1 marzo 1919.

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ricchi, si possono fare agiati i poveri; il che è vero se non troppo grande è la proporzione dei poveri ai ricchi, falso nel caso contrario, quando tale

proporzione si accosta a quella che si è osservata e si osserva in tutte le po­ polazioni a noi note. Le seguenti impressioni sono recenti. Nei quattro anni di guerra, i go­ verni hanno facilmente potuto prelevare sulle popolazioni somme enormi di miliardi, somme tali che neppure in sogno avrebbero sperate; da ciò nasce l'illusione che la fonte che ha dato sì gran getto sia inesauribile; il che manifestamente non si può concedere. Un fatto è da osservarsi. Prima della guerra, a chi propugnava un costoso provvedimento governativo, si soleva opporre la spesa richiesta. Venuta la guerra, scomparve interamente la considerazione della spesa; e ciò si capisce facilmente poiché salus populi suprema lex esto, ma ora che è venuta la pace, si seguita a non volere badare alla spesa, e quanto è stato possibile entro certi confini si vuole ora esten­ dere oltre ogni limite. Un'altra assurda derivazione è benevolmente accolta dal pubblico. Si as­ serisce che l'intervento dello Stato potrà far crescere molto la produzione, e un numero grandissimo di inventori, o di sognatori, da soli od in com­ missioni governative, si tolgono la briga di farci conoscere i migliori modi di tale intervento. Ora viene il bello. Come prova dell'efficacia sinora con­ seguita dall'intervento dello Stato si danno gli effetti che ebbe durante la guerra, benché sia notissimo a tutti che in quel tempo la gente ha patito di­ fetto grande di ogni ben di Dio. A ciò si potrebbe opporre che il male è se­ guito non ostante l'intervento, che senza di questo, sarebbe stato maggiore, e di ciò dare una dimostrazione; ma sopprimerla interamente, addurre sem­ plicemente gli effetti, tacendo che furono pessimi, come prova della bontà dell'intervento, è propriamente giudicare buona una causa perché ha cattivi effetti. È ben vero che lo Stato ha potuto far crescere molto la produzione delle industrie belliche; ma ciò è stato conseguito a scapito di altre produzio­ ni, tirando via sulle spese. Per fermo, non è in tal modo che si potrà provve­ der quanto occorre per compiere le promesse "riforme sociali". Lo Stato non ha saputo nemmeno ordinare la distribuzione delle merci. Ogni giorno si possono vedere nelle città migliaia di donne ed anche di uo­ mini che perdono molte ore per stare alla fila e provvedersi della merce che, prima del benefico intervento, ottenevano in pochi minuti. Gli inventori e sognatori che si propongono di insegnarci i migliori modi dell'intervento dello Stato potrebbero principiare a dare prova della loro scienza, insegnan­ do a questo come può vendere le sue sigarette senza fare perdere ore e ore a chi le vuole comperare. Strano modo invero di fare crescere la produzione è quello di sperperare in tal modo il tempo del lavoro.

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Accade spesso di leggere nella prima pagina di un giornale le lodi dell'in­ tervento del governo, e poi, volgendo il foglio, di trovare nella cronaca la­ menti senza fine sui pessimi effetti dell'intervento, sullo sperpero che ne è conseguenza, sui patimenti del pubblico. Le merci marciscono sulle calate dei porti e mancano nei luoghi di consumo, il bestiame trasportato dalle fer­ rovie muore di fame, le industrie producono ciò che non occorre al consu­ mo e trascurano di produrre ciò che sarebbe necessario; i produttori agricoli smettono di produrre generi requisiti o sottoposti al calmiere. Questo in molti casi ha avuto per effetto principale di far sparire la merce dal mercato. Chi ha denari da spendere trova sempre da comperare ciò che vuole, ma deve comprendere nel prezzo un premio per i pericoli ai quali va incontro il ven­ ditore. Ci sono casi comici. A Milano si sono sequestrate, in autunno, le uo­ va che erano state messe in serbo per l'inverno. L'effetto, che ogni meschin contadino poteva prevedere, è stato che sono mancate in inverno. L'inter­ vento dello Stato si è fermato a mezza strada: non bastava sequestrare le uo­ va, occorreva anche persuadere le galline di smettere la pessima consuetudi­ ne di non farne in inverno. In Francia, il vino sovrabbonda nei dipartimenti vinicoli e manca a Parigi. Via di seguito, a volere qui recare parte notevole di tutte le notizie che si hanno in proposito, ci sarebbe da far crescere la penu­ ria, già grande, della carta da stampare. Per altro la contraddizione tra queste notizie e la lode dell'intervento non è forse tanto grande quanto pare. L'ar­ ticolo di lode è scritto per coloro che, favoriti dalla guerra, godono i frutti del mal di tutti, e che cessata, con sommo loro rincrescimento la guerra'7, sperano in nuovi interventi dello Stato trovare nuovi modi di arricchire. La cronaca è fatta per recare ai molti sacrificati il sollievo che prova l'uomo nel sentire discorrere delle proprie sofferenze. Così sono contenti tutti. In altri modi altresì si procura di consolare chi sta male e si provvedo­ no parafulmini per sviare l'ira dei sacrificati. Ai tempi della peste milanese, i presunti untori furono ottimo parafulmine; oggi lo sono gli incettatori. Il pubblico beve grosso, senza badare che se l'incettatore favorisce il crescere del prezzo della merce quando compera, lo fa calare, od almeno opera in sen­ so contrario dell'aumento, quando vende, e senza porre mente a casi speciali nei quali l'incetta è impossibile. Per esempio, il latte non si può incettare, ep­ pure tale merce mancò spesso in molte città; dunque vi erano altre cause che l'incetta; e perché mai non vi sarebbero anche per merci diverse? Per il latte poi si sa che cause principali della penuria sono il calmiere, le requisizioni di bestiame e di nutrimento pel bestiame operate dal governo, alle quali, ma so­ lo da poco, si aggiunse la malattia dei bovini. Può darsi che l'intervento del 17.

Su ciò più a lungo nel mio articolo in "Coenobium': luglio

1918.

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governo sia come la lancia di Achille, e che possa risanare le inflitte ferite; ma se ciò non è articolo di fede, si gradirebbe di averne una qualche dimo­ strazione; e sinché questa non venga abbiamo solo asserzioni campate per aria. Intanto i moltissimi fatti noti ci mostrano che chi, per dare ai popoli l'abbondanza dei consumi, ripone sua fiducia in tali mezzi opera all'incirca come chi volesse edificare sulle nubi. Nel tempo della guerra apparve grandissima, ed insperata ai reggitori e ai loro seguaci, l'arrendevolezza dei contribuenti nel lasciarsi spogliare; si suppone quindi che possa seguitare inesauribile. Ciò può essere vero, e pare a noi che la nostra borghesia corra allegramente alla propria rovina, come si­ milmente fece la nobiltà feudale al tempo della Crociate. La fede dei nostri borghesi è di altro genere, ma in quanto alla realtà può stare alla pari colla fede di coloro che muovevano guerra per liberare il gran sepolcro di Cristo. Tutto ciò per altro non costituisce il maggior motivo delle spese, il quale sta nella necessità per la plutocrazia demagogica di pagare largamente i suoi partigiani e di attenuare coi doni l'opposizione dei suoi avversari. Essa deve riporre ogni sua speranza nelle opere volpine, non potendo, come la pluto­ crazia militare, usare le leonine. Un miglioramento può essere impossibile in generale pei vari Stati e le varie classi sociali, ed essere invece possibile per piccola parte di questi Stati, di queste classi; poiché per tal modo scema il numero dei gaudenti, cresce quello degli sfruttati. Pochi lupi stanno bene se hanno per sfamarsi molte pecore, ma molti lupi non possono campare con poche pecore. Gli operai abili, detti qualificati in Inghilterra, possono ottenere un no­ tevole miglioramento delle loro condizioni, del quale fa parzialmente le spe­ se il rimanente della classe povera; ma l'intera classe difficilmente può con­ seguire un miglioramento generale, se non avviene un corrispondente au­ mento della produzione. In Inghilterra, il contrasto tra il vecchio ed il nuovo Trade-unionismo dipende principalmente da tal fatto; ed ora le regole stesse delle Trade-Unions sono trascurate e gli operai scioperano senza il permesso dei capi. I governi, per far star buone le popolazioni, promettono ad esse il desiderato miglioramento generale delle condizioni, e chi ci crede andrà de­ luso se non è cittadino di uno dei paesi che saranno dominanti. Questi, per quanto se ne sa ora, parrebbero dovere essere l'Inghilterra e gli Stati Uniti'8• E già essi provvedono per recare a compimento l'impresa. Si sono fatti la parte del leone nelle spoglie del vinto nemico; ma questo è il meno, e mag­ giore assegnamento fanno sul togliersi la concorrenza della Germania, tanto 18. Cfr. M. Pantaleoni, La conferenza: le realta, i miti e le utopie, in "La Vita ltalianà, febbraio 1919.

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per vendere come per comperare nei paesi neutri od anche alleati; inoltre sperano di potere tosto o tardi "salvare" i Russi, cioè sfruttare le ricchezze naturali di quell' immenso territorio. Non è punto impossibile che, per tal modo, i capitalisti inglesi ed americani si procaccino grandissimi guadagni, dei quali faranno parte ai loro operai e a quei loro concittadini che li aiuta­ rono e li aiutano a compiere le divisate imprese, ad acquistare e a mantenere il proprio impero. In tali paesi dominanti, potranno dunque avere effetto in gran parte le promesse di un miglioramento generale. Gli esempi di Atene, di Roma sul finire della Repubblica ed altri simili mostrano che fatti analo­ ghi già sono seguiti e che perciò è possibile che seguano ancora. Non ci tratterremo troppo sulla forma della Società delle Nazioni, o lega o che dir si voglia; ogni giorno si distingue meglio che la sostanza è interamente differente dali' apparenza e che si ha semplicemente un nuovo caso da aggiungere al numero infinito di quelli in cui appetiti materiali si vestono di belle forme ideali. Finché la Germania era forte, poteva essere utile usare contro di essa cer­ te ideologie; come erano quelle tratte dall'etica, dai concetti di giustizia e di diritto, oppure quella, rinnovata dal tempo in cui gli alleati combattevano Napoleone

I

ed invadevano la Francia, o dal tempo più prossimo in cui la

Prussia muoveva guerra a Napoleone

III,

e che recava a distinguere popolo e

governo, asserendo che solo il secondo era il nemico, od infine quella che si manifesta nel disegno della Società delle Nazioni. Di queste ideologie, parte sono sopravvissute alla vittoria e rimangono vive e fresche, parte languono e stanno scomparendo, parte sono venute meno colla vittoria, ed avendo ormai compiuto l'opera per cui erano state create, sono messe in disparte e buttate via come limone spremuto. Non si sa bene se tale sarà la sorte dell' ideologia della Società delle Nazioni, o se potrà rimanere come semplice velo delle alleanze'9• Intanto abbiamo una 19. Se molti fra coloro che vedono la retorica vuota di senso dei discorsi in prò della Lega delle Nazioni, tacciono, vi sono pure alcuni che manifestano apertamente il proprio

pensiero. Mentre sto scrivendo quest'articolo, il telegrafo ci dà notizia di un discorso fatto al Senato americano dal senatore Pointdexter, il quale disse: «Accettando o rifiutando il disegno di tal Lega, gli Stati Uniti decideranno se vogliono rimanere uno Stato sovrano e indipendente, serbando la facoltà di disporre del proprio avvenire, o se stanno per perdere la propria signoria, in favore di un ordinamento internazionale, partecipando ai pericoli, in­ tervenendo nei conflitti, sottoponendosi a tutti gli intricati guai che saranno la conseguenza delle stirpi, delle lingue, delle religioni dell'universo. A noi si chiede di sopprimere la guerra, e per contro si opera in modo da moltiplicare le cagioni di guerra, chiedendoci di rinunciare ai nostri diritti di sovranità, in favore di una lega eterogenea». In realtà, negli Stati Uniti, il conflitto di opinioni circa alla Lega delle Nazioni sta prin­ cipalmente nel sapere se quel disegno può ancora essere utile per dare l'egemonia agli Stati Uniti, oppure se oramai ha dato quel poco o molto che da esso si poteva sperare, lusingando

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bella fioritura di derivazioni. Più non si conquista un territorio, si occupa con mandato della nascitura Società delle Nazioni. Nessuno sa dire come differiscano praticamente questi due modi di appropriarsi terre e popoli soggetti. Indennità di guerra non se ne fanno più pagare, ohibò! Ma si esi­ ge il risarcimento dei danni e delle spese di guerra. Ogni popolo può ave­ re il governo che meglio crede... purché per altro piaccia ai vincitori; deve potere liberamente disporre di sé ... purché con ciò non leda gli interessi dei vincitori, interessi che si esprimono, colle forme, che dicevansi abbando­ nate, dei motivi strategici, delle guarentigie militari, dei giusti confini, del­ le ragioni storiche. Queste entità hanno ora preso il posto degli "interessi vitali': che sono alquanto screditati, forse perché furono molto adoperati dagli Imperi centrali. Similmente, la moderna assistenza civile ha tolto di sede la disusata carità. La democrazia più non tollera la diplomazia segre­ ta, ma se la dice benissimo coi gentlemen 's agreements'0, col mistero delle deliberazioni. Alla Russia non si chiede nessun vantaggio, e chi mai sareb­ be tanto egoista da fare ciò? Ma si vuole "salvare" il suo popolo, tutelarlo; e se non è lupo è can bigio. In tutto ciò non vi è nulla di nuovo né da bia­ simare a priori; il mondo è sempre andato avanti ricoprendo gli interessi colle derivazioni e seguiterà ancora un bel pezzo in tal modo. Altrove lun­ gamente ne trattai e non starò qui a ripetere cose già dette. La sostanza della Società delle Nazioni è l'egemonia dell'Inghilterra e degli Stati Uniti, e il disegno di tale Società può stare colle dichiarazioni dell'Imperatore Alessandro pel patto della Santa Alleanza. Questa procac­ ciò breve pace al mondo; più breve pare dovere essere quella che avrà della le­ ga delle Nazioni. Dappertutto le genti si agitano e preparano conflitti esteri o civili, e molto avranno da fare i capi dell'egemonia per fare stare al dovere i propri popoli e gli altrui". Dall'Irlanda, coi suoi Sinn Feiners, che paiono avere preso sul serio le promesse wilsoniane, perché a loro fanno comodo, sino all'estremo Oriente, da Arcangelo al Capo di Buona Speranza, avrà da darsi briga l'Inghilterra di mantenere l'ordine che meglio giova alla propria potenza; né minori brighe avranno gli Stati Uniti. Per recare a compimento i loro disegni, dovranno i due paesi egemo­ ni mantenere potenti eserciti ed armate, ed invero sin d'ora attendono a certi sentimenti, e se è venuto il tempo di buttarlo via, come un limone spremuto. Vedasi l'ot­ timo articolo di René Johannet nel periodico "Les lettres� icr Mars 1919; e il libro dello stesso autore: Le principe des nationalités, Paris 1918. 20. Pantaleoni, La conjèrenza, cit., p. 126: «Trattati segreti detti ora "gentlemen's agree­ ments" regoleranno ogni cosa con piena soddisfazione dei forti».

21. lvi, p. 128, nota: «Ora chi mai può credere che stiano scomparendo i germi di conflitti».

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costituirli. Nel futuro i piccoli eserciti britannico e americano più non sa­ ranno che un ricordo storico, e l'armata inglese dovrà prevalere su tutte le altre. Gli uomini di Stato di quel paese dicono, e trovano parecchi che ci credono, molti che mostrano di crederci, che sarà pel bene di tutti. .. anche di coloro contro ai quali sarà adoperata l'armata; il che si può concedere, poiché alla fin fine è autorevole parere dei teologi che le punizioni inflitte dalla divinità sono pel bene del peccatore. Neppure i popoli subordinati della Lega potranno trascurare gli armamenti, ed è vano lo sperare che tra essi scompaiano ogni cagione di conflitto, né forse ciò, in parecchi casi, piacerebbe ai capi dell'egemonia, memori che la sapienza romana ha lascia­ to il precetto: divide et impera. Per tali motivi ed altri che facilmente s'intendono, appare manifesto che saranno delusi coloro che, della sperata riduzione degli armamenti, sti­ mano che si potrà ricavare quanto occorre per sopperire alle non lievi spese che richiedono le promesse "riforme sociali". Potrà anche esservi delusione, almeno parziale, circa ali' utilità che avrà ogni Stato, dall'indennità che sarà possibile di fare pagare alla Germania. Si noti anche la contraddizione che c'è nel volere rovinare economicamen­ te la Germania, e nello sperare di trarre grandissime somme da un paese impoverito. L'impero di Roma fu, in molti casi, benefico per le nazioni sulle quali si estendeva; sarà egualmente favorevole alle nazioni subordinate l'impe­ ro dei nostri dominanti? Ciò dipenderà dal modo col quale sarà esercita­ to e dalla rassegnazione colla quale sarà sopportato. Solo questa concede agli egemoni di parcere subiectis, altrimenti conviene loro badare al debel­

lare superbos. Roma ebbe consenzienti in gran parte i popoli soggetti e ciò fu non ultima causa della prosperità del suo impero. Saranno altresì con­ senzienti ali'egemonia inglese e americana i popoli moderni? Che avverrà degli immensi territori che, dal Reno, si stendono sin dove ha termine la Siberia? Che vorranno gli Asiatici e principalmente i Giapponesi? Questi, sin d'ora paiono non avere soverchia fiducia nelle idealità della Società delle Nazioni; forse rinsaviranno... se ci trovano loro vantaggio. I barba­ ri che premevano sui confini del romano impero avranno, o non avranno successori sui confini della moderna Lega? Sono quesiti di grandissimo momento per l'avvenire, ma sui quali, per ora, l'esperienza non ci concede altro che scarse notizie. Miglior conoscenza possiamo avere degli effetti del condominio, perché costante è l'esperienza la quale ci insegna che, tosto o tardi, piuttosto tosto che tardi, il condominio traligna in aperta rivalità. Qui ci dobbiamo fermare e lasciare a chi lavora di

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fantasia il prevedere un tempo in cui potrà esservi guerra tra i popoli domi­ nanti, coll'aiuto dei soggetti ed anche dei nemici. Quando l'imperatore Alessandro sedeva al congresso di Vienna, arbitro dei destini dell'Europa, non prevedeva certo che il suo successore avrebbe dovuto sostenere guerra contro una lega franco-inglese, promossa dal nipote del debellato, rovinato Napoleone

I.

Se tal lega fu possibile, altra simile po­

trebbe vedersi in avvenire tra la Germania ed alcuni dei presenti suoi vinci­ tori. Ma non sempre segue tutto ciò che è possibile. Più sicura deduzione possiamo fare, prevedendo che la rivalità degli ege­ moni potrà giovare ai popoli subordinati per riacquistare la perduta indi­ pendenza. Finché non venga quel giorno i loro uomini di Stato avranno for­ se occasioni di rammentare i precetti che dà Plutarco ai magistrati delle città greche del suo tempo, ammonendoli di non mai dimenticar che al di sopra di essi stanno i magistrati romaniu. Si è voluto avere la dimostrazione della possibilità di una società di na­ zioni indipendenti nell'esempio della Confederazione Svizzera di Cantoni indipendenti; ma tal prova si rivolge contro chi la reca, poiché è ben noto che l'indipendenza dei Cantoni è ora quasi annientata, che scema ogni gior­ no, e che presto avrà sede solo nel passato. Appunto ciò potrà accadere del­ la nuova società delle Nazioni, deludendo coloro che ancora serbano viva nell'animo diversa speranza•3• III

La plutocrazia demagogica ha vinto, stravinto, distrutto la plutocrazia mili­ tare e burocratica, come Roma vinse e distrusse Cartagine e i re macedoni; seguiterà la nostra plutocrazia a trionfare, o, come per Roma, la stessa sua vittoria preparerà la disfatta ?•4 Oggi unico temibile avversario si erge contro di essa il Bolscevismo. Nel­ lo esprimermi in tal modo, uso il comune linguaggio, come fa l'astronomo quando dice che il sole sorge; per essere maggiormente preciso, e poiché l'e­ sperienza ci mostra che, in gran parte, le opinioni hanno origine dai fatti, piuttosto che i fatti dalle opinioni•s, dovrei nominare come contrasto ai no22. Plutarco, Praecepta

gerendae reipublicae, XVII, p. 814.

23. Sull'atteggiamento di Pareto nei riguardi della Società delle Nazioni, cfr. lo studio di

G. Busino, Viifredo Pareto e la Societa delle Nazioni, in "Giornale degli Economisti e Annali d'Economia", settembre-ottobre 1962, pp. 661-6 [N.d.A.]. 24. 25.

Trattato di Sociologia, n. 2541 ss. Ibid.

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

stri plutocrati i sentimenti che oggi si manifestano col Bolscevismo e che do­ mani avranno forse manifestazioni alle quali altri nomi saranno posti. Il Bolscevismo tiene soggetta parte della Russia, e come macchia d'olio, si estende ad altre contrade; ave opera anche indirettamente, promuoven­ do diverse manifestazioni. Acuta e profonda è l'osservazione del Sorel16, il quale stima che, in Germania, la «trasformazione della socialdemocrazia in sindacalismo sarebbe più pericolosa pel capitalismo che non la permanenza dei Soviets russi, perché non mancherebbe di essere accompagnata da una filosofia sociale così potente come fu il marxismo: il popolo germanico ha facoltà metafisiche eccezionali, che gli vengono dal suo attaccamento alla religione, alla mitologia, alla poesia della natura. Del resto l'esperienza ha mostrato che l'uomo del popolo è disposto ad accettare una metafisica più facilmente del letterato». Diceva Catilina, discorrendo dei plutocrati che signoreggiavano la re­ pubblica17: « ...grazie, potere, onori, ricchezze sono per essi o per coloro che favoriscono, a noi rimangono pericoli, ripulse, condanne, povertà. Sin quan­ do patirete ciò fortissimi uomini? Non è maggiormente degno morire da va­ lorosi che perdere con infamia una vita misera e inonorata, dopo essere stati ludibrio dell' insolenza altrui? Ma certamente, per la fede degli dèi e degli uomini, la vittoria è in mano nostra. Vigorosa è l'età, valoroso l'animo no­ stro; all' incontro in essi svigorirono anni, ricchezze, tutto». Tale discorso potrebbe essere messo in bocca dei Bolscevichi del tempo nostro, ed esprime sentimenti che si osservarono, si osservano, si osserveran­ no nei forti che non vogliono rimanere pazienti vittime delle arti volpine di coloro che non usano la forza. Catilina e i suoi seguaci caddero da forti, a Fiesole18; persisterono i senti­ menti che in essi avevano avuto espressione e furono strumento della vittoria di Cesare, e poi di quella di Augusto. Analogamente potrebbero i Bolscevichi russi, gli Spartachiani tedeschi19 essere dispersi, distrutti, e persistere i sentimenti che in essi hanno espressio­ ne, preparando così future trasformazioni sociali. Il passato equilibrio sareb­ be probabilmente stato rotto in ogni modo, ma la rottura fu affrettata dalla 26. Da "Il Tempo': 19 febbraio 1919. 27. Sallustio,Bellum Catilinae, xx. 28. Episodio accaduto nel 63 a.C. mentre Catilina, con le sue truppe, muoveva contro Roma [N.d.A.]. 29. Gli Spartachiani erano i membri del movimento rivoluzionario creato nel 1916 da Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht e chiamato Spartakusbund. La Lega di Spartaco fu sciol­ ta nel 1919 dal governo Noske e i suoi prestigiosi capi, che in nome dell'ideologia pacifista si erano opposti all'arrendevolezza socialdemocratica rispetto alla guerra, furono assassinati

[N.d.A.].

2.

VILFREDO PARETO E LE PREVISIONI

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cupidigia dei plutocrati, che li spinse a muoversi guerra, e dalla mancanza di senno dei governi, che anteposero la materia politica alla sociale, e che non si avvidero che la guerra a cui si accingevano avrebbe avuto effetti sociali di gran lunga più importanti dei politici. Non possiamo dire con sicurezza se i Bolscevichi, gli Spartachiani ed altri che sorgeranno ed avranno nuovi nomi infliggeranno ai nostri plutocrati ed ai nostri politicanti delusioni simili a quelle che il Metternich ed i suoi soci ebbero dai rivoluzionari del loro tem­ po, ma è certo che il fenomeno messo in luce dai presenti rivoluzionari non è trascurabile, e che anzi esso appare di ben maggior momento dei maneggi politici che stanno facendo seguito alla guerra. La belva che si è destata non sarà ammansita, come Cerbero30, buttandole qualche offa, né cederà al dol­ ce canto delle sirene, fatto udire da Lloyd George e dal Wilson e ripetuto dal coro degli umanitari, che anzi in essa crescerà la ferocia coll'aumentare la viltà negli avversari. Oramai è principiato un moto che conduce a gravi avvenimenti; e se anche in questi dovesse andarne di mezzo la nostra civiltà, occorre rammentarsi che già il mondo vide parecchie volte alternarsi medio­ evi e rinascimenti. Tra i sentimenti che sono manifestati dai nuovi rivoluzionari, alcuni so­ no da notare. Uno già si trova nella defunta Internazionale, e mette il con­ flitto di classe al di sopra dei conflitti politici.

È in parte contesa di interessi,

ma in parte altresì contrasto tra la realtà o la metafisica, tra la vita materiale e la vita sentimentale. Il Novicow3' diede il nome di chilometrite alla malattia dello zarismo e dei pangermanisti, dalla quale i governi erano spinti a volere ognora occupa­ re nuovi territori. Di tale malattia morirono il governo russo e il tedesco, i quali, spinti da cupidigie politiche, vennero a battaglia, invece di concludere un accordo che, per molto tempo ancora, li avrebbe fatti sicuri. I nostri rivoluzionari, mossi dall'istinto per deliberato consiglio, mirano a scansare pericoli di tal sorta. Pare agli insorti russi che al contadino prema più assicurarsi il possesso del campo da esso coltivato, che non procacciare ai suoi governanti la conquista di Costantino, la supremazia nei Balcani. Nar­ rasi, sia poi vero o no, essere stato detto dal defunto Zar che, pur di vincere la guerra, avrebbe sacrificato l'ultimo copèco e l'ultimo uomo. Seguì che invece il penultimo uomo sacrificò lo Zar. Le derivazioni etiche prodottesi in gran copia a proposito della Rivo­ luzione russa sono perfettamente simili a quelle già adoperate per la Ri30. Il mitico guardiano degli Inferi, dalle tre teste, che Enea, a detta di Virgilio, ammansì con una focaccia di miele [N.d.A.]. 31. Il sociologo russoJacow Novicow [N.d.A.].

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

72.

voluzione francese3', e sono del pari inutili per conoscere la sostanza dei fatti; potrebbero solo essere utili per discoprire un certo stato d'animo di coloro che le usano, se questo già non fosse notissimo da infiniti fatti storici. Si può dire lo stesso di molte derivazioni etiche a cui diede ori­ gine la guerra presente. Tutte giovano invece molto come strumento per muovere la gente, ed è questa la principale cagione del favore col quale sono accolte. Pei nuovi rivoluzionari, l'opposizione dei godimenti materiali ai go­ dimenti del sentimento e dell'intelletto costituisce ad un tempo una forza ed una debolezza: una forza in quanto che tale opposizione si manifesta con un linguaggio compreso da tutti; una debolezza perché va a ritroso dell'andamento che l'esperienza ci mostra costante nello spirito umano, il quale si accende a virili imprese principalmente per forza di sentimenti e di miti. L'ascetismo è l'opposto del desiderio dei godimenti materiali, eppure può recare ad uno stesso contrasto alla preponderanza dei motivi politi­ ci per determinare le azioni umane. Così seguì che gli umanitari nostri furono in parte d'accordo cogli internazionalisti nel ripudiare, almeno a parole, la guerra; che i tolstoiani concorsero a preparare, in Russia, l'avve­ nimento del bolscevismo; che molti borghesi si dimostrarono e seguita­ no a dimostrarsi favorevoli a moti rivoluzionari, a spogliazioni, a trasfor­ mazioni di cui saranno le prime vittime.

Al solito il determinare in tale e tanto conflitto di interessi e di incli­ nazioni dove sta il maggior utile per la società è quesito di quantità di tali interessi e di tali inclinazioni più che di qualità. Possono essere tutti utili nei limiti di certe sfere, di danno al di là33• In ogni modo e qualunque sia il giudizio che su ciò voglia darsi, è cer­ to che le inclinazioni e gli interessi di cui ora abbiamo fatto parola si tro­ vano nella razza umana e si manifestano dal tempo dei CinicP+, passando a quello dei primi Cristiani, e venendo al tempo nostro; e poiché ognora persistono, si può essere sicuri che se alcun partito li abbandona, tosto ne sorge un altro per propugnarli. I socialisti che approvarono le spese per la guerra operarono forse da buoni cittadini, ma certo non da buoni imer­ nazionalisti; quindi l'eredità lasciata in abbandono dalla defunta Interna­ zionale fu raccolta dai nascituri Bolscevichi, Spartachiani ecc.

Trattato di Sociologia, par. 2.152. ss. lvi, par. 2.ISS· 34· I Cinici erano gli appartenenti alla setta filosofica fondata da Antistene ad Atene nel IV sec. a.C., i quali disdegnavano i beni materiali [N.d.A.]. 32.. 33·

2. VILFREDO PARETO E LE PREVISIONI

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I nuovi rivoluzionari ripudiano alcune ideologie degli antichi e dei presenti. Notevolissimo è il loro distacco dalla dea maggioranza, di cui negano recisamente la divinità. Può darsi che, come la vendita delle indul­ genze papali favorì il nascere del protestantismo, l'uso e l'abuso fatto dai plutocrati del dogma delle maggioranze abbia avuto parte nel determina­ re la moderna eresia. Rimane sempre vero che chi troppo tira la corda, la strappa. Inoltre i nostri rivoluzionari si palesano eretici dell'imperante re­ ligione che condanna come abominevole l'uso della forza per mantenere i governP1, e senza alcun ritegno si spingono sino ad adoperare una forza mercenaria, come fanno ora i Bolscevichi in Russia, che per giunta l'usano in parte forestiera, e come stanno per fare altri rivoluzionari. Sentimenti che sono ancora molto confusi ma che vanno poco alla vol­ ta sviluppandosi dalla nebbia, mirano a capovolgere l'indole delle relazio­ ni delle classi sociali, a porre in alto chi era in basso, e viceversa. Già prin­ cipiano a mutarsi grandemente certe relazioni sociali ed altre economiche. Gli operai, mercé i loro sindacati e l'alleanza coi plutocrati, hanno sul go­ verno ben maggior potere che gran parte della borghesia. Economicamen­ te, molti operai, mercé l'aumento dei salari e la diminuzione delle ore di lavoro, stanno meglio dei l.'iccoli borghesi e di parecchi maestri, professori,

scienziati, magistrati ecc. E vero che tale preponderanza è stata conseguita coli'aiuto dei plutocrati, e non si sa che ne avverrà se l'alleanza si scioglie­ rà, e se allora diverrà maggiore o minore la potenza della classe operaia. Nell'esercito rivoluzionario, si vuole che gli ufficiali siano sottoposti

ai soldati. Vi sono fatti alquanto comici ma caratteristici, come quello del saluto dovuto sin ora dai soldati agli ufficiali, e che si stima di somma im­ portanza il torre via. A qual termine ci avvia l'iniziato movimento è ben difficile conoscere;

ma non vi è dubbio che grandi mutamenti e gravi perturbazioni sociali so­ no da prevedersi; non pare dunque che possono avere effetto le concepite speranze di pace e di prosperità sociale in un tempo prossimo, o almeno non troppo lontano. [Pareto, Scritti sociologici, cit., pp. 797-815. Originale pubbli­ cato in "Rivista d'Italia" il31 marzo 1919, pp. 257-72 e succes­ sivamente in Fatti e teorie, Vallecchi, Firenze 1920, pp. 225-49]

3S·

Trattato di Sociologia, par.

2.201

e

2170.

3

Georg Simmel: l'individuo e la miriade di relazioni possibili

Georg Simmel è una delle figure più poliedriche e discusse tra gli scienziati socia­ li che si sono contraddistinti come protagonisti della vita culturale tedesca tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento.

È il settimo ed ultimo figlio di un uomo d'affari ebreo poi convertitosi al cri­ stianesimo, che morì quando ancora il giovane Georg avrebbe avuto bisogno del­ la sua guida sicura nei meandri della vita vissuta al centro di una metropoli come Berlino la cui crescita sembrava tumultuosa ed inarrestabile. La grandezza della città nella quale viveva esercitava su di lui un fascino significativo e condizionò notevolmente il suo pensiero. Berlino fu fonte importante di ispirazione nei suoi studi sulla metropoli' e, per quanto i suoi interessi spaziassero quasi senza confini e la sua brillante intelligenza lo conducesse a produrre analisi interessantissime anche per studiosi che non appartenevano al contesto tedesco, non volle mai al­ lontanarsi troppo dalla capitale tedesca. Per quanto fosse notorio l'apprezzamento dei numerosi studenti che sceglie­ vano i suoi corsi da Privatdozent, non ebbe mai vita facile nel mondo accademico. La sua fu una figura tollerata e mai sufficientemente stimata dai colleghi che ne ostacolarono in modo censurabile il riconoscimento che avrebbe meritato in pa­ tria. La sua intelligenza vivace e la capacità di interessarsi agli aspetti più diversi del sapere umano lasciavamo molto perplessi tanti colleghi che non amavano il suo volersi necessariamente emancipare dai ristretti confini di una sola disciplina alla quale dedicare tutte le sue energie intellettuali. Per quanto i suoi lavori so­ ciologici venissero apprezzati da figure autorevoli come quella di Max Weber e la diffusione delle sue idee e dei suoi studi avesse raggiunto con successo molti paesi europei e persino gli Stati Uniti, l'antisemitismo largamente presente nel conte­ sto universitario tedesco si manifestò negli ostacoli davvero ignobili posti in me­ rito all'avanzamento della sua carriera accademica•.

1. Uno dei testi più conosciuti di Simmel è proprio Die Gojstiidte und das Geistesleben del 1903 (in italiano ne abbiamo una traduzione del 1995 edita da Armando editore con il titolo La metropoli e la vita dello spirito). 2. Cfr. L. A. Coser, I maestri del pensiero sociologico, il Mulino, Bologna 1997, pp. 238-41.

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

Nel 1914, a s6 anni, diventa finalmente professore ordinario a Strasburgo, una città di provincia contesa tra Francia e Germania\ Ben presto l'attività ac­ cademica di Simmel e dell'intero corpo docente dell'università alsaziana venne sospesa per permettere alle aule di trasformarsi in corsie di ospedale allo scoppio della Prima guerra mondiale. Proprio la guerra convinse Simmel a rendersi diret­ tamente partecipe dell'attualità alla quale, in precedenza, non aveva mai voluto dedicare altro che un'attenzione marginale. Da ebreo in Germania si era sempre sentito straniero nella sua terra e l'eccesso di patriottismo che può leggersi con evidenza in diversi scritti pubblicati durante il conflitto dichiara con chiarezza il suo desiderio di appartenenza a un luogo che amava e dal quale non sembrava essere ricambiato\ Simmel è stato uno scrittore molto fecondo come testimoniano gli oltre due­ cento articoli che furono pubblicati, non solo in Germania, su quotidiani, perio­ dici e riviste del suo tempo. La sua riflessione fu attenta soprattutto alla compren­ sione della società intesa come insieme di individui che si relazionano tra loro a partire dalla conoscenza reciproca. La vita pone ogni uomo presenza di tanti

alter

(ego)

di fronte alla

che rendono possibile la costituzione di una compagine

nella quale tutti sono chiamati a svolgere un ruolo sociale in sintonia con quella che è la vocazione di ciascuno

(beruf).

La società si dibatte in continuazione tra

processi di autoconservazione attraverso i quali preservare la cerchia sociale (quel­ la dei rapporti consolidati tra gli individui) e la flessibilità che permette alla stessa di adattarsi ai mutamenti che nel frattempo sono intervenuti. I cambiamenti con i quali si viene chiamati a confrontarsi spesso producono conflitti ai quali Sim­ mel guarda come ad una realtà ineluttabile che può però, svolgere una funzione positiva: i contrasti possono evolversi costruttivamente preservando il legame at­ traverso un nuovo equilibrio nato da un confronto chiarificatore. L'assenza di confronto, infatti, ha sempre conseguenze negative in una relazione e in molte circostanze produce una rottura insanabile del rapporto.s Per Simmel la società «esiste là dove più individui entrano in relazione reciproca» 6 e al suo interno ciascuno esercita sull'altro un'influenza che tocca la sfera degli interessi, degli scopi, delle inclinazionF. Questa "sociazione" possiede 3· Strasburgo si trova in Alsazia, una zona evidentemente legata a doppio filo ai "classi­ ci" della sociologia visti i natali di Émile Durkheim ad Epinal, cittadina da lì poco distante. 4· A testimonianza dello sforzo estremo prodotto da Simmel per farsi accogliere nella "comunità" dei patrioti tedeschi, Lewis Coser cita un giovane Ernest Bloch, filosofo a lui molto legato intellettualmente e umanamente, che resta particolarmente colpito dal vigore con il quale prende posizione perdendo la caratteristica di "freddo analista" degli avvenimen­ ti che ne aveva caratterizzato da sempre la sua produzione intellettuale (cfr. Coser, I maestri del pensiero sociologico, cit., pp. 241-2). 5· Cfr. G. Simmel, Sociologia, Edizioni di Comunità, Milano 1989, pp. 26-38 (ed. or. 1908). 6. lvi, p. 8. 7· Simmel (Sociologia, cit., p. 10) definisce infatti la sociologia come la scienza «il cui

oggetto è la società e nient'altro: essa può voler indagare le azioni reciproche, questi modi e forme di associazione».

' 3· GEORG SIMMEL: L INDIVIDUO E LE RELAZIONI POSSIBILI

unaforma che rappresenta la modalità che assume l'influenza reciproca e un

tenuto nel

77

con­

quale si esplicita l'insieme degli interessi, degli scopi, dei bisogni che

orientano gli individui tra loro. La sociologia, come scienza che studia le forme di "sociazione': è una sorta di "geometria sociale" dal momento che analizza le forme nelle quali gli uomini si associano come la geometria studia le figure e le loro pro­ prietà8. Simmel individua i due elementi comuni a ogni forma di azione reciproca e sono la numerosità degli attori sociali coinvolti nell'azione e lo spazio ali' inter­ no della quale la reciprocità si estrinseca. Anche l'uomo isolato merita di essere oggetto dell'interesse sociologico per Simmel dal momento che la solitudine è una "sociazione" in senso negativo perché generata da esperienze traumatiche o semplicemente poco soddisfacenti. Più consona ed immediatamente comprensi­ bile è l'attenzione riposta da Simmel ali'analisi della diade nella quale due sogget­ ti, due realtà sociali, entrano in relazione tra loro influenzandosi reciprocamente in uno spazio condiviso. Come si diceva già in precedenza, è essenziale il confron­ to tra gli attori sociali e non deve essere esclusa la possibilità che qualche volta questo possa essere conflittuale. È però il passaggio da due a tre soggetti a costitu­ ire il focus della riflessione del sociologo tedesco: «l'aspetto essenziale è il fatto che in un'unione di due elementi non esiste una maggioranza che possa prevalere sul singolo, e che è data invece già con il sopraggiungere di un terzo elemento»9• La

triade è

una compagine sociale più complessa nella quale il terzo attore,

aggiungendosi, può fungere da

mediatore,

oppure può essere colui che gode dei

conflitti tra i primi due o anche rappresentare il soggetto che provoca divisione. Allo studio dei gruppi e all'appartenenza ad essi di ogni singolo individuo Simmel dedica molto spazio nei diversi saggi raccolti nella sua opera più nota,

Sociologia, che esce nella sua prima edizione a Lipsia nel1908, ma anche in La differenziazione sociale, un testo elaborato e pubblicato molti anni prima ( per la prima volta nelx89o ) . Ogni attore sociale appartiene a cerchie ristrette ed omo­ genee che possono nel tempo dissolversi per permettere ali' individuo l'ingresso in una cerchia più ampia nella quale trovare nuovi spazi di relazione. Il matrimonio rappresenta il classico caso in cui l'attore sociale esce dalla ristretta cerchia della propria famiglia d'origine per incontrarne un'altra e costituirne una nuova: «Da sempre, soprattutto l'appartenenza a più famiglie che il matrimonio pone in esse­ re per i due coniugi, è la sede di arricchimenti, di allargamenti di interessi e rela­ zioni, ma anche di conflitti che inducono l'individuo ad accomodamenti interiori ed esteriori come ad un'energica affermazione di sé»'0• Più ampia è la cerchia sociale di cui si è parte tanto più si rafforza la personali­ tà individuale mentre, invece, quanto più stretta è la cerchia di relazioni tanto più ridotta è la libertà posseduta. Le realtà di piccole dimensioni infatti, esercitano sull'individuo un controllo che alla lunga può deresponsabilizzarlo oppure posso­ no provocare in lui una reazione di volontario allontanamento dalle regole conlvi, p. 14. lvi, p. 82.. IO. lvi, p. 357·

8.



SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

divise con esiti spesso spiacevoli. Ad ogni modo sarebbe erroneo immaginare che all'individuo converrebbe sempre ed in ogni circostanza allargare il raggio delle proprie interlocuzioni personali dal momento che un gruppo ampio di soggetti con i quali ci si relaziona offre il fianco ad un uso distorto della libertà che può provocare «l'isolamento misantropico» o «l'egoismo crasso»". Simmel pensa che l'appartenenza a gruppi di media dimensione costituisca la giusta misura grazie alle quale riuscire a dare consistenza alla propria identità individuale senza doversi difendere dal rischio dell'essere fagocitati dal gruppo di grandi dimensioni all'interno del quale il singolo attore sociale può restare ano­ nimo e percepire un grave senso di inutilità esistenziale. Il collettivo ampio non lascia al singolo possibilità di libera espressione della propria volontà, dei propri desideri perché il gran numero di altri attori sociali con i quali ci si confronta non agevola relazioni reciprocamente arricchenti. Lo smarrimento esistenziale che ne deriva risulta essere molto simile a quello generato all'interno dei piccoli gruppi nei quali le relazioni che sono ovviamente in numero poco consistente, genera­ no una coesione eccessiva nella quale l'individualità può dissolversi. Per questo il sociologo teutonico vede come positiva l'appartenenza del singolo a più cerchie sociali contemporaneamente: il moltiplicarsi dei gruppi d'appartenenza non cau­ sa una perdita di identità individuale ma un potenziamento della personalità del soggetto che è chiamato a mettere ordine evitando sovrapposizioni o concentra­ zioni. L'attore sociale ha il compito di trovare dei punti di contatto tra le diverse cerchie senza che questo costituisca necessariamente un ostacolo insormontabile. Si può avere interessi in comune con persone che fanno il nostro stesso lavoro ed allo stesso tempo si può essere in competizione con loro senza che questo gene­ ri necessariamente uno smarrimento irrimediabile nell'attore sociale. Simmel ri­ propone, aggiornandolo, lo schema di fine Settecento degli utilitaristi secondo il quale interessi puramente individuali non confliggono con un vantaggio com­ plessivo per la società". Il ruolo giocato dal mezzo di scambio, il denaro, è fondamentale per Simmel nel trovare gli equilibri all'interno di una società che in quegli anni era in rapido mutamento'\ Ed è proprio il denaro ad essere protagonista del primo brano sele­ zionato per questa antologia. I I.

G. Simmel, La diflèrenziazione sociale, Laterza, Roma-Bari I982., p. 62. (ed. or. I89o ) .

Il.. Adam Smith già nel I776, nella Ricchezza delle nazioni, ricordava che, nell'economia

liberale, il mercato diventa il luogo nel quale il gioco degli interessi egoistici degli individui trova un suo spontaneo equilibrio grazie alla capacità razionale di ciascuno nel calcolare profitti e perdite. I3. È l'idea sulla quale Simmel costruisce nel I900 uno dei suoi scritti più fortunati, Fi­ losofia del denaro: il denaro è il mezzo di scambio che assume un ruolo così centrale da porre in secondo piano i valori necessari perché nel mondo ci possa essere una pacifica conviven­ za tra gli individui. In particolare, negli uomini che vivono nelle metropoli il denaro genera due "tipi ideali" di atteggiamenti opposti: il cinico e il blasé: nel primo caso l'individuo fa del denaro il centro del proprio interesse e pone in secondo piano tutto ciò che può derivare dalle ricchezza relazionale; nel secondo caso il soggetto viene stordito dal bombardamento

' 3· GEORG SIMMEL: L INDIVIDUO E LE RELAZIONI POSSIBILI

79

Il testo, tratto come gli altri due che seguono da Sociologia, guarda con atten­ zione alla crescita esponenziale dell'importanza riservata al denaro nella società a lui contemporanea e propone, da angolature differenti, alcune conseguenze gene­ rate da questo mezzo di scambio reso sempre più "potente" da un mondo in cui tutto varia con una velocità a quel tempo ritenuta estrema e che, a suo parere, ave­ va bisogno per questo di un elemento unificante attorno al quale trovare stabilità. Il denaro porta ad ampliare al massimo livello possibile il commercio data la sua facile trasportabilità grazie alla quale il mondo intero diventa "una sola cer­ chia economica" nella quale si intrecciano tanti interessi diversi. Questa antici­ pazione della globalizzazione che avrebbe trovato qualche decennio più tardi il suo compimento, era stata avviata nell'espansione dei commerci già nel Medioevo in Svizzera, in Germania e poi anche in Inghilterra e nei Paesi Bassi. Simmel po­ ne questo fenomeno in stretta correlazione con l' «enorme individualizzazione dell'uomo che agisce economicamente»: la concorrenza spinge gli uomini a ten­ tare di primeggiare, difendersi, provare a trovare sinergie e questo li responsabi­ lizza al massimo livello, facendo crescere il valore simbolico e non solo reale del ricavato del proprio impegno nel lavoro, che diventa sempre più qualitativamente differenziato. Le conseguenze sul piano della gestione del potere politico produ­ cono una straordinaria espansione di quella che il nostro autore chiama «demo­ cratizzazione livellante» che porterà ogni cittadino a riconoscersi in un'astratta idea di "popolo" nella quale tutti si vedono privati dei propri diritti in nome di una indistinta appartenenza a un'unità ideale che, per convenienza generale, vie­ ne governata o attraverso il "plebiscito diretto" o con il conferimento del potere a singole persone segnando un grave indebolimento del parlamentarismo. In que­ ste ultime previsioni sull'ascesa di uomini soli al comando delle nazioni il pensie­ ro di Simmel sembra ripresentare, per quanto con uno stile certamente diverso, le riflessioni già rintracciate negli scritti del conterraneo e contemporaneo Max Weber. Il secondo brano è la prima parte del settimo capitolo di Sociologia dedicato completamente al tema della povertà. Simmel affronta la questione sotto diver­ se angolature e lo fa con grande profondità. In questo testo offre un saggio della sua capacità di approfondimento delle implicazioni etiche rendendo esplicito il supporto offertogli dalle sue conoscenze in campo filosofico e teologico. Il brano ci permette di apprezzare l'interdisciplinarietà dell'approccio che in questo caso smentisce i tanti detrattori che vedevano in questo fattore un vulnus metodolo­ gico rispetto alla correttezza della ricerca in campo sociologico. Per Georg Sim­ mel il povero è un uomo alla ricerca di un aiuto che può essere offerto dal singolo che sente l'esigenza morale di "fare la carità" per guadagnarsi il premio della vita eterna proprio come suggerito da più religioni che propongono questo precetto: in questo caso la mano offerta può essere letta come un investimento di carattere continuo dei tanti stimoli ricevuti e l'attrattiva che esisteva prima dell'acquisto svanisce do­ po che questo è avvenuto, lasciandolo in balia di un grigiore totalizzante dal quale non è in grado di emanciparsi.

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

8o

spirituale che vedrà la sua concretizzazione nell'aldilà. Allo stesso tempo il pove­ ro riceve aiuto dallo Stato che articola l'offerta di contributi ai bisognosi in virtù della necessità di garantire l'ordine pubblico. In termini di previsione Simmel non sbaglia nel guardare al bisognoso come a colui che sempre più, in un conte­ sto dove il denaro assumerà maggiore importanza, pretenderà di ricevere l'aiuto richiesto. Nella mente del povero alberga la convinzione di essere vittima di una società ingiusta nella quale il benestante ricava egoisticamente il massimo possibi­ le dalle sue attività. Per il soggetto economicamente svantaggiato si spalanca così la porta dell'assistenzialismo. In breve, il potenzi amento del welfare nel mondo evoluto nei decenni successivi al tempo in cui Simmel scrive, avrebbe avuto la sola funzione di contenimento dei potenziali disordini provocati da chi pretendeva un sostegno da parte delle istituzioni ma non avrebbe di fatto aiutato i poveri ad emanciparsi dal loro reale stato di bisogno. Il terzo brano riportato è il noto excursus sullo straniero. Visto l'impatto delle migrazioni di massa provenienti da Asia ed Africa alle quali stiamo assistendo in questi anni, le previsioni di Simmel relativamente a questo fenomeno sembrano essere delle vere "profezie". Anche in questo caso, come già visto a proposito del povero, lo straniero è un soggetto bisognoso d'aiuto e spera di riceverlo dall'abi­ tante del territorio nel quale giunge. Ci si aspetterebbe che il migrante, a prescin­ dere dal motivo per cui lascia la sua patria, permanga in un luogo solo provvisoria­ mente e invece Simmel invita i suoi lettori a guardarlo non come un «viandante che oggi viene e domani va» ma piuttosto come al «viandante che oggi viene e domani rimane»'\ alla ricerca di una nuova stabilità e provando a sentirsi parte di una nuova realtà. Il sociologo tedesco indica nel commercio l'attività prevalen­ te dello straniero dal momento che nelle cerchie non troppo estese tutto è già ben organizzato e per chi arriva da un contesto diverso lo scambio delle merci, soprat­ tutto se provenienti da altri territori, resta l'unico spazio occupabile senza turba­ re equilibri già ampiamente consolidati e, a giudicare dai tanti "vu cumprà" che popolano le nostre strade e in estate le nostre spiagge, Simmel dimostra di averci visto giusto. Altro aspetto perfettamente rappresentato dallo studioso tedesco è il dato secondo il quale ogni straniero è percepito come un tutt'uno indistinto con gli altri stranieri dalla massa che non sembra essere in grado di guardare la specificità del singolo, e questo fenomeno è ancora oggi di fatto chiaramente os­ servabile.

14. Simmel, Sociologia, cit., p. s8o.

' 3· GEORG SIMMEL: L INDIVIDUO E LE RELAZIONI POSSIBILI

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La formazione dell'individualità L'esempio maggiore che la storia universale offre della correlazione tra l'am­ pliamento sociale e l'accentuazione individuale della vita nei suoi contenuti e nelle sue forme è fornito dall'emergere dell'economia monetaria. L'econo­

mia naturale produce piccole cerchie economiche, relativamente chiuse in sé; già la difficoltà dei trasporti limita il suo ambito e corrispondentemente fa sì che la tecnica dell'economia naturale non pervenga a una considerevole

differenziazione e individualizzazione delle attività. L'economia monetaria

muta questo stato di cose in due direzioni. La generale accettazione del de­ naro e la sua facile trasportabilità, e infine la sua sublimazione nella girata

e nella spedizione della cambiale fanno sì che i suoi effetti arrivino fino a

distanze interminabili e trasformino alla fine l'intero mondo civile in un'u­ nica cerchia economica con interessi che s'intrecciano gli uni con gli altri, con produttività che si inte grano, con usanze uniformi. Nell'altra direzio­ ne il denaro provoca un'enorme individualizzazione dell'uomo che agisce economicamente: la forma del salario monetario rende il lavoratore infini­ tamente più indipendente di qualsiasi retribuzione in termini di economia naturale; il possesso del denaro dà all'uomo una libertà di movimento prima inaudita; le norme liberali che sono di regola congiunte con l'economia mo­

netaria pongono l'individuo in una libera lotta di concorrenza contro ogni

altro; infine questa concorrenza e quell'estensione della cerchia economica

costringono a una specializzazione dell'attività che altrimenti non si avreb­ be, a una sua unilateralità spinta all'estremo, la quale è possibile soltanto in virtù delle compensazioni che avvengono nel quadro di una cerchia molto grande. Nell'economia il denaro è il legame che mette in relazione la mas­ sima estensione del gruppo economico con la massima differenziazione dei suoi membri, dal lato della libertà e dell'autoresponsabilità come da quello

della differenziazione qualitativa del lavoro; o, più esattamente, il denaro sviluppa il gruppo più piccolo, più chiuso, in sé più omogeneo dell'econo­ mia naturale in un altro gruppo il cui carattere unitario si separa nei due aspetti dell'ampliamento e dell'individualizzazione. Gli sviluppi politici realizzano questa costellazione in un gran numero di campi singolari, certamente con molteplici variazioni del rapporto fon­ damentale. Avviene ali' incirca che dalla cerchia minore, strettamente so eia­ lizzata, non si ha un progresso pari passu verso il gruppo grande e verso la differenziazione della personalità, ma si ha, invece, una scelta e un'alternan­ za: nello stato di cose più sviluppato l'accento cade o sull'istituzione di una collettività comprensiva e sull'aumento d'importanza degli organi centrali, oppure sulla conquista di autonomia da parte dei singoli elementi.

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

O ancora l'ampliamento della cerchia non è connesso, per gli apparte­ nenti alla cerchia stessa, con lo sviluppo della personalità, ma lo è con l'idea

di una personalità suprema alla quale la volontà individuale viene per così dire consegnata. Menzioneremo alcuni esempi tratti dai diversi campi della politica. Nell'agricoltura la dissoluzione del possesso comune contadino a

partire dalla fine del Medioevo si è compiuta nelle forme seguenti. Gli Stati centralistici in via di sviluppo da un lato hanno annesso il possesso comu­

nale, la marca comune, in quanto bene pubblico, al possesso dello Stato, e l'hanno aggregato ali'organismo amministrativo della totalità statale; dali'al­

tro, dove ciò non è avvenuto, lo hanno ripartito, in quanto possesso privato, tra i legittimati. E in quest'ultimo fenomeno si manifestano di nuovo le due

tendenze rivolte contemporaneamente all'individuale e al più generale: in­ fatti questa partizione è stata diretta da una parte da concetti del diritto ro­

mano con la loro affermazione del primato degli interessi individuali, dali'al­

tra dali' idea che la divisione della comunità avveniva per il bene della cultu­

ra nazionale, e quindi di nuovo della collettività più ampia. In condizioni materiali e complessive molto diverse, ancora nel secolo

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una fase della

storia del pascolo comunale, del possesso collettivo delle comunità svizzere, ha presentato la medesima forma. In quanto i pascoli comunali sono passati nelle mani di comunità parziali, di corporazioni locali e di villaggio, in alcu­

ni cantoni (Zurigo, San Gallo ecc.) essi vengono trattati dalla legislazione in base alla tendenza o a suddividerli tra i singoli consociati, o a trasferirli a co­

munità territoriali più ampie, perché quei gruppi più piccoli avrebbero avu­

to una base personale e territoriale troppo ristretta per mettere veramente a frutto il loro possesso per l'organismo pubblico.

La forma sopra posta in rilievo di misure di politica agraria si è allargata

in Germania, nello sviluppo successivo al Medioevo, al campo della politica

interna in generale. Le autorità trattavano le cerchie particolari delle unioni che si concludevano l'una con l'altra e con la totalità in base a una tenden­

za differenziata: da un lato a farne delle formazioni di puro diritto privato che sarebbero una faccenda personale dei partecipanti individuali, dall'altro a elevarle a istituzioni statali. Queste corporazioni, che avevano dominato la società medievale, si erano gradualmente irrigidite e ristrette a tal punto che la vita pubblica minacciava di frantumarsi in una somma incoerente di gruppi parziali egoistici. Contrapponendosi a queste, e sostituendole, s' im­ pose all'inizio dell'età moderna l'idea della collettività onnicomprensiva, e precisamente nella forma dell'assolutismo principesco, dal quale promanava -secondo il suo principio-la «legge eguale per tutti», ossia lo svincola­ mento dell'individuo da un lato dagli ostacoli che i privilegi delle corpora­

zioni ponevano alla sua attività pratica, dall'altro dai privilegi che egli stesso



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godeva come loro membro, ma che lo costringevano a un'unità spesso inna­ turale con i consociati. Si trattava dunque fondamentalmente di distrugge­ re i gruppi ristretti, in sé omogenei, per così dire intermedi, il cui predomi­ nio aveva contraddistinto la situazione precedente, per guidare lo sviluppo ali' insù verso lo Stato e ali' ingiù verso la libertà impregiudicata dell' indivi­ duo. Il fatto che questo Stato trovasse a sua volta la propria efficacia prati­ ca nella forma della personalità suprema, del sovrano assoluto, rappresenta tanto poco un'istanza contraria allo schema fondamentale che in un nume­ ro eccezionalmente grande di casi questo si realizza invece proprio così, sia nella successione sia nella contemporaneità. Questa è la connessione, spesso sottolineata, che la storia ha posto in rilievo tra repubblicanesimo e tiranni­ de, tra dispotismo e livellamento. Ogni costituzione che derivi il proprio carattere dali'aristocrazia o dalla borghesia, ossia che offra alla coscienza sociale e politica una pluralità di cer­ chie più ristrette che si limitano tra loro, spinge, non appena vuole andare oltre se stessa, da un lato verso l'unificazione in un potere direttivo persona­ le, dali'altro verso un socialismo con verniciatura anarchica, che vuole istitu­ ire il diritto assoluto della libera personalità cancellando tutte le differenze. La rottura della rigida limitazione del gruppo entro un tutto caratterizzato comunque da una comune appartenenza ha una relazione così stretta con l'accentuazione dell'individualità, che ad essa consegue tanto l'unità di una personalità dominante quanto la libertà individuale di tutti gli elementi del gruppo, come due variazioni del medesimo motivo. In merito alle aristo­ crazie politiche, che sono sempre costruite secondo il tipo sociologico delle cerchie chiuse e rigorosamente delimitate, si è osservato che in dimensioni di una certa grandezza esse non ottengono alcun successo bellico di rilievo; e ciò potrebbe risalire alla loro avversione per quelle due istanze che, in alter­ nativa o contemporaneamente, sono destinate a sostituirle: da una parte esse temono di chiamare tutto il popolo a sollevarsi in un'azione unitaria, dali'al­ tra sono diffidenti verso generali forniti di pieni poteri: con grandi successi. La correlazione tra la volontà generale e l'autocrazia è così netta che mol­ to spesso è stata utilizzata come paravento ufficiale per intenzioni che, alla fine, tendono ali'oppressione della prima. Quando il conte di Leicester fu chiamato alla carica di luogotenente generale dei Paesi Bassi ( Is 8 6 ) , egli mi­

rò a conseguire un potere illimitato, scavalcando le teste delle più ristrette corporazioni fin allora dominanti, degli stati generali e dei ceti provinciali; e ciò sotto il pretesto di principi incondizionatamente democratici, ossia che il volere del popolo era il signore assoluto ed esso aveva chiamato Leicester. Ma nello stesso tempo si sottolineava esplicitamente che mercanti e avvoca­ ti, contadini e artigiani non avevano da immischiarsi del governo, ma dove-

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

vano semplicemente obbedire. La - sedicente - democratizzazione livellan­ te fu dunque spinta a tal punto che sia i ceti superiori sia quelli inferiori ven­ nero privati dei diritti, e rimase soltanto l'unità ideale dell'astratto "popolo in generale"; e gli avversari osservarono ben presto che questo concetto di "popolo� scoperto di recente, aveva l'unico scopo di trasferire la sua sovrani­ tà incondizionata ad un solo uomo. Il nostro rapporto fondamentale assume configurazioni ulteriori nel­ la politica comunale. Già nel Medioevo si manifestava nelle città inglesi il rapporto per cui quelle maggiori erano dominate da corporazioni o ma­ gnati singoli, mentre in quelle minori il popolo nel suo insieme deteneva il potere. Alla cerchia più piccola corrisponde appunto un'omogeneità de­ gli elementi che sostiene l'uniformità della loro partecipazione al potere, mentre nella cerchia maggiore questo vien esercitato in forma separata e si ha da un lato la semplice massa di individui privati, dall'altro la singo­ la personalità dominante. L'amministrazione delle città nord-americane presenta, in una forma rudimentale, il medesimo schema. Finché le città sono piccole, la modalità più appropriata è risultata quella per cui i loro uffici vengono diretti da una pluralità di persone; non appena però es­ se crescono a dimensioni gigantesche, è più conforme allo scopo affida­ re l'ufficio soltanto a una persona. Le grandi dimensioni richiedono, per la loro rappresentanza e per la loro direzione, la personalità individuale pienamente responsabile; la cerchia minore poteva amministrarsi da sé in maniera indifferenziata, in quanto sempre un numero maggiore dei suoi elementi stava immediatamente al timone. Questa differenza sociologica corrisponde perfettamente allo sviluppo con cui la tendenza politica gene­ rale dei singoli stati dell'Unione comprova il tipo fondamentale che dob­ biamo qui illustrare. Sembra che negli ultimi decenni essa proceda decisa­ mente verso un indebolimento del parlamentarismo, sostituendolo in due direzioni: da un lato con il plebiscito diretto, d'altro lato con istituzioni monarchiche, cioè con il conferimento del potere a singole persone.

[Simmel, Sociologia, cit., pp. 630-4]

Il povero In quanto l'uomo è considerato come essere sociale, a ognuno dei suoi do­ veri corrisponde un diritto di altri esseri. Forse anzi la concezione più pro­ fonda è quella per cui esistono a priori soltanto diritti, per cui ogni indivi­ duo ha pretese - sia generalmente umane sia derivanti dalla sua situazione

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particolare - che soltanto come tali diventano doveri di altri soggetti. Poi­ ché ogni soggetto obbligato in questa maniera è anche un soggetto che ha qualche diritto, ne deriva una rete di diritti e di doveri che si intrecciano da una parte e dall'altra, in cui però il diritto è l'elemento primario, dominan­ te; il dovere è soltanto il correlato di quello, certamente inevitabile, posto nel medesimo atto. Si può considerare la società in generale come una reciprocità di esseri autorizzati dal punto di vista morale, giuridico, convenzionale, e ancora in base a molte altre categorie; che ciò implichi per gli altri dei doveri è per così dire soltanto una conseguenza logica o tecnica, e se potesse accadere il fatto impensabile che ogni diritto venga soddisfatto in maniera diversa che nella forma dell'adempimento di un dovere, la società non avrebbe bisogno del­ la categoria del dovere. Con un radicalismo che non corrisponde alla realtà psicologica, ma che sarebbe attuabile nel senso di una costruzione etico-ide­ ale, tutte le prestazioni dell'amore e della compassione, della magnanimità e dell'impulso religioso potrebbero essere concepite come diritti del soggetto che le riceve. Il rigorismo etico ha già affermato, di fronte a tutte quelle moti­ vazioni, che la massima prestazione a cui un uomo può pervenire in generale sarebbe l'adempimento del proprio dovere, e questo richiederebbe già di per sé ciò che a un modo di sentire più lasso o autoadulatorio appare come me­ rito, al di là del dovere; di qui corre soltanto un passo a porre dietro a ogni dovere dell'obbligato il diritto di un individuo autorizzato; anzi ciò appariva propriamente come il fondamento ultimo e più razionale in base al quale possono essere richieste le prestazioni di un soggetto in favore di un altro. Ma qui si rivela un'antitesi più fondamentale tra la categoria sociologi­ ca e quella etica. Quando tutti i rapporti di prestazione vengono derivati da un diritto - nel senso più vasto, comprendente come una sua parte il diritto giuridico - la relazione da uomo a uomo ha completamente compenetrato i valori etici dell'individuo, ha determinato di per sé la direzione. Ma all'in­ dubbio idealismo di questo problema si contrappone il rifiuto non meno profondo di ogni genesi intraindividuale del dovere: i nostri doveri sarebbe­ ro doveri verso noi stessi, e non ne esisterebbero altri. Come contenuto essi potrebbero avere un agire rivolto ad altri, ma la loro forma e motivazione come dovere non potrebbe derivarci da questi, bensì scaturirebbe come au­ tonomia pura dall'io e dalle sue necessità semplicemente interne, del tutto indipendenti da ciò che è al di fuori di esso. Soltanto per il diritto l'altro sog­ getto sarebbe nelle nostre azioni etiche il terminus a quo della motivazione, mentre per la morale in quanto tale sarebbe incondizionatamente soltanto il terminus ad quem.

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In ultima analisi noi dobbiamo soltanto a noi stessi l'eticità del nostro agire, ali' io migliore che è in noi, al rispetto di noi stessi, o come altrimenti vuoi definire il punto enigmatico che l'anima trova in se stessa come propria ultima istanza, e in base a cui essa decide in libertà entro quale ambito i dirit­ ti degli altri siano per essa doveri. Questo dualismo di principio nei sentimenti fondamentali sul senso dell'agire etico trova un esempio, o un simbolo empirico, nelle diverse con­ cezioni dell'assistenza ai poveri. Il dovere di questa assistenza può presen­ tarsi come puro e semplice correlato della pretesa del povero. Specialmente in paesi in cui la mendicità è un mestiere regolare il mendicante crede, più o meno ingenuamente, di avere un diritto all'obolo, il cui rifiuto egli spesso biasima come sottrazione di un tributo dovuto. Un carattere completamen­ te diverso riveste nell'ambito del medesimo tipo -la fondazione della prete­ sa all'assistenza sulla base dell'appartenenza del bisognoso a un gruppo. Un modo di vedere sociale per il quale l'individuo è esclusivamente il prodotto del suo ambiente sociale gli conferisce il diritto di richiedere alla società una compensazione per ogni situazione di bisogno e per ogni perdita. Ma anche dove non c'è una dissoluzione così estrema della responsabilità personale si potrà sottolineare, dal punto di vista sociale, il diritto del bisognoso come fondamento di tutta l'assistenza ai poveri. Infatti soltanto se si presuppo­ ne un diritto del genere, almeno come finzione giuridico-sociale, l'esercizio dell'assistenza ai poveri appare sottratto ali' arbitrio, alla dipendenza dali'ac­ cidentale situazione finanziaria e ad altre incertezze; in tutti i campi l'affida­ bilità delle funzioni viene accresciuta quando nella coppia di correlazioni di diritto e dovere che le sorregge, il diritto costituisce il loro punto di partenza metodico: l'uomo è infatti in media più disposto a far valere un diritto che non ad adempiere un dovere. A ciò si aggiunge il dovere sanitario che la ri­ chiesta e l'accettazione dell'assistenza risulta per il povero interiormente più facile quando con ciò egli esercita soltanto il suo buon diritto; l'oppressione, la vergogna, il declassamento provocati dall'elemosinare vengono eliminati nella misura in cui l'elemosina gli viene concessa non per pietà, per senti­ mento del dovere o per opportunità, ma perché egli può pretenderlo. Poiché questo diritto ha ovviamente i suoi limiti, da stabilire in maniera specifica in ogni caso individuale, il diritto ali'assistenza non li modificherà, dal punto di vista quantitativo-materiale, di fronte ad altre motivazioni. In tal modo viene soltanto fissato il loro senso interiore, e questo si eleva, alla base di un'opinione di principio, al di sopra del rapporto dell'individuo con altri in­ dividui e con la collettività. Il diritto ali'assistenza entra nella stessa categoria del diritto al lavoro e del diritto all'esistenza.

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L'incertezza del limite quantitativo, propria di questi e di altri «diritti dell'uomo», raggiunge naturalmente il massimo grado nel caso del primo, particolarmente quando l'assistenza si attua in forma di denaro, il cui carat­ tere di pura quantità e relatività rende la delimitazione oggettiva delle pretese molto più difficili che non, ad esempio, nel caso di un soccorso in natura - a meno che non si tratti di casi molto più complicati o individualizzati, in cui il povero potrà impiegare un aiuto in denaro in modo molto più opportuno e fruttuoso di quanto possa consentire un soccorso in natura con il suo carat­ tere di provvidenza. Inoltre non è affatto univoco verso chi si rivolga propria­ mente il diritto del povero, e la decisione in proposito segna profonde diffe­ renze sociologiche. Il povero che sente la propria posizione come un'ingiustizia dell'ordi­ ne del mondo, e che pretende per così dire un cambiamento di tutta la sua esistenza, sarà più portato a rendere solidalmente responsabile per questa pretesa ogni individuo, qualunque esso sia, che si trovi in una situazione mi­ gliore. Da ciò risulta una scala la quale va dal proletario criminale che vede in ogni persona ben vestita un suo nemico, un rappresentante della classe che lo ha «diseredato», e che quindi lo rapina per così dire con buona co­ scienza, fino all'umile mendicante che chiede supplicando un obolo «per amor di Dio», come se ogni individuo avesse il dovere di colmare le lacune dell'ordine propriamente voluto da Dio, ma non realizzato pienamente. La pretesa del povero si rivolge qui ali' individuo, ma non a un individuo deter­ minato, bensì soltanto in base alla solidarietà dell'umanità in generale. Al di là di questa correlazione che proprio la totalità dell'esistenza, riguardo alla pretesa ad essa rivolta, fa cristallizzare in qualsiasi essere singolo quale suo rappresentante, stanno le numerose collettività particolari alle quali si rivol­ ge la pretesa del povero. Stato, comune, comunità ecclesiastica, consociazio­ ne professionale, cerchia di amici, famiglia possono avere, in quanto totalità, rapporti estremamente diversi con il loro membro; tuttavia ognuno di que­ sti rapporti sembra contenere un elemento che, in caso di impoverimento dell'individuo, diventa attuale come suo diritto all'assistenza. Questo è l'a­ spetto comune delle relazioni sociologiche del genere, anche quando esse hanno magari natura molto eterogenea. Le pretese dei poveri che derivano da tali relazioni si mescolano in maniera peculiare nelle situazioni primiti­ ve, in cui etica tribale e obbligazioni religiose dominano come unità indivisa l'individuo. Presso gli antichi Semiti la pretesa del povero di partecipare al pasto ha il suo correlato non già nella generosità personale, bensì nell'appartenen­ za sociale e nell'uso religioso. Dove l'assistenza ai poveri trova la sua ragion sufficiente in una connessione organica tra gli elementi, il diritto del pove-

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ro possiede un'accentuazione più forte- sia che esso risalga religiosamente all'unità metafisica, sia che risalga invece per via tribale o familiare all'unità biologica. Vedremo che dove, al contrario, l'assistenza ai poveri dipende teo­ logicamente da un fine da raggiungere per suo mezzo, anziché causalmente da un'unità esistente e attiva nei consociati del gruppo, il diritto di pretesa del povero si ritrae fino ad annullarsi completamente. Mentre nei casi finora considerati diritto e dovere appaiono soltanto co­ me i due lati di un'unità assoluta di relazioni, non appena il punto di parten­ za è costituito dal dovere di chi dà, anziché di chi riceve, ne risultano atteg­ giamenti del tutto nuovi. Nel caso estremo il povero sparisce completamente come soggetto autorizzato e come obiettivo di interessi; il motivo della do­ nazione risiede esclusivamente nel significato che il donare ha per il donan­ te. Quando Gesù disse all'Apostolo ricco «regala i tuoi beni ai poveri», egli si interessava chiaramente non ai poveri ma soltanto ali'anima dell'Apostolo, per la cui salvezza quella rinuncia era semplice mezzo o simbolo. La poste­ riore elemosina cristiana è della medesima natura: non è altro che una forma di ascesi, o un'"opera buona" che migliora il destino del donante nell'aldi­ là. L'eccesso della mendicità del Medioevo, l' insensatezza neli' impiego delle donazioni, la demoralizzazione del proletariato con le elargizioni indiscri­ minate, contrastanti con ogni lavoro civile - tutto ciò rappresenta per così dire la vendetta dell'elemosina per il motivo puramente soggettivistico della sua concessione, che considera soltanto il donante ma non il destinatario. La motivazione si sposta da tale limitazione al soggetto donante- senza per questo rivolgersi già al destinatario - non appena il benessere dell'insieme sociale richiede l'assistenza ai poveri. Esso si attua, volontariamente o in vir­ tù della legge, per non far diventare il povero un nemico attivo, dannoso per la società, per mettere di nuovo a frutto per essa la sua forza diminuita, per impedire la degenerazione della sua discendenza. Il povero come persona, il riflesso della sua situazione nel suo sentimento, è qui altrettanto indifferente come lo è per chi fa l'elemosina in vista della salvezza della propria anima; l'egoismo soggettivo di quest'ultimo è eliminato, ma non per il povero, ben­ sì per la società: che il povero riceva l'obolo non è il suo scopo finale, bensì un semplice mezzo, come nel primo caso. La prevalenza del punto di vista sociale a proposito dell'elemosina si rivela nel fatto che essa può venir anche rifiutata in base al punto di vista esattamente identico e spesso proprio quan­ do la compassione personale o la situazione spiacevole di dover dire di no ci spingerebbe a concederla. In tal modo l'assistenza ai poveri come istituzione pubblica presenta una costellazione sociologica quanto mai peculiare. Dal punto di vista del con­ tenuto essa è del tutto personale, non fa assolutamente altro che alleviare

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situazioni individuali di bisogno. In ciò essa si distingue da tutte le altre isti­ tuzioni che provvedono al bene pubblico e alla protezione del pubblico. In­ fatti queste vogliono andare a vantaggio di tutti i cittadini: l'esercito e la po­ lizia, la scuola e le strade, la giustizia e la chiesa, la rappresentanza popolare e la ricerca scientifica. In linea di principio tutto ciò non si rivolge alle persone in quanto individui differenziati, ma alla loro totalità; l'unità di molti o di tutti è oggetto di queste istituzioni. Invece l'assistenza ai poveri si indirizza, nella sua azione concreta, esclusivamente ali' individuo e alla sua situazione. E proprio questo individuo diventa, per la forma astratta moderna dell'assi­

stenza ai poveri, la sua stazione finale ma nient'affatto il suo scopo finale, che consiste piuttosto soltanto nella protezione e nella promozione della collet­ tività. Anzi il povero non può essere definito neppure come mezzo per que­ sto- il che migliorerebbe ancora la sua posizione- perché l'azione sociale non si serve di lui, ma soltanto di certi mezzi oggettivi, di carattere materiale e amministrativo, per eliminare i pericoli e le sottrazioni dal bene comune che egli minaccia. Questa costellazione formale non vale evidentemente soltanto per la collettività in generale, ma anche per cerchie più ristrette: perfino nell'am­ bito delle famiglie innumerevoli soccorsi si attuano non soltanto a favore di chi viene soccorso, ma allo scopo che egli non costituisca una vergogna per la famiglia e che questa non perda la sua reputazione per il semplice fatto della povertà di un suo membro. Il soccorso che le unioni sindaca­ li inglesi concedono ai loro membri in caso di disoccupazione non de­ ve soltanto procurare un alleviamento al bisogno individuale, bensì anche evitare che il disoccupato lavori per necessità a un salario troppo basso, premendo così sul livello salariale di tutta la categoria. Da questo senso dell'assistenza ai poveri risulta chiaro che essa, prendendo al benestante e dando al povero, non tende però assolutamente a equiparare queste po­ sizioni individuali, che cioè il suo concetto non vuole, neppure tenden­ zialmente, eliminare la differenziazione della società in poveri e in ricchi. Alla base di essa sta piuttosto la struttura della società quale esiste di fatto, nell'antitesi più netta rispetto a tutte le aspirazioni socialistiche e comu­ nistiche, che vorrebbero proprio eliminare questa stessa struttura. Il suo senso è precisamente quello di attenuare certe manifestazioni estreme di differenza sociale, in misura tale che quella struttura possa continuare a reggersi su di essa. Se essa si fondasse sull'interesse per il povero come indi­ viduo non esisterebbe, in linea di principio, alcun confine a cui lo sposta­ mento dei beni in favore del povero debba arrestarsi prima di raggiungere la compensazione; poiché avviene invece nell'interesse della totalità della società- della cerchia politica, familiare, o di un'altra in qualche modo

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determinata sociologicamente- essa non ha alcun motivo per essere, nella forma e nella misura, più sufficiente per il soggetto di quanto richieda il mantenimento della totalità considerata nel suo status quo. Dove esiste questa teleologia puramente sociale, centralistica, l'assisten­ za ai poveri presenta forse la massima tensione sociologica tra lo scopo im­ mediato e quello mediato di un'azione. L'alleviamento del bisogno sogget­ tivo è, per il sentimento, uno scopo autonomo così categorico che detro­ nizzarlo da questa posizione di ultima istanza e trasformarlo in una sempli­ ce tecnica per gli scopi sovra-soggettivi di un'unità sociale rappresenta un estremo trionfo di quest'ultima, una presa di distanza tra essa e l'individuo che- nonostante la poca appariscenza verso l'esterno- per la sua freddezza e il suo carattere di astrazione è più fondamentale e più radicale di quanto lo siano i sacrifici dell'individuo per la collettività, nei quali mezzo e scopo sono di solito congiunti in un'unica serie emotiva. In base a questo rapporto sociologico fondamentale si spiega la carat­ teristica complicazione di diritti e di doveri che si trova nell'assistenza ai poveri propria dello stato moderno. In più luoghi s'incontra infatti il prin­ cipio che da parte dello Stato sussisterebbe il dovere di soccorrere il po­ vero, ma ad esso non corrisponderebbe alcun diritto del povero a venir soccorso. Egli non ha - come si sottolinea esplicitamente ad esempio in Inghilterra- nessun diritto di azione e di risarcimento dei danni nel caso di soccorso illegittimamente rifiutato. L'intero rapporto di doveri e di di­ ritti nei suoi riguardi passa sopra la sua testa. Il diritto che corrisponde a quel dovere dello Stato non è il suo, ma è quello di ogni singolo cittadino a che la tassa dei poveri di cui è gravato venga prelevata e impiegata per un importo tale da permettere il conseguimento degli scopi pubblici dell'assi­ stenza ai poveri. Nel caso che questa venisse trascurata non sarebbe quindi il povero ad avere un diritto azionabile, ma lo avrebbero soltanto gli altri elementi indirettamente danneggiati da questa trascuratezza. Se si potesse ad esempio provare che un ladro avrebbe tralasciato di compiere un fur­ to se gli fosse toccato il soccorso di povertà adeguato per legge e da lui ri­ chiesto, il derubato potrebbe in linea di principio citare l'amministrazione competente in materia di poveri richiedendo un risarcimento dei danni. L'assistenza al povero assume, nella teleologia giuridica, la stessa posizione della difesa degli animali. Nessuno da noi viene punito per il semplice fat­ to di aver tormentato un animale, ma soltanto quando lo ha fatto «pub­ blicamente o in maniera da destare scandalo». Non già l'animale maltrat­ tato, ma il riguardo per i testimoni del maltrattamento motiva quindi la punizione. Questa esclusione del povero, che non gli concede alcuna posi­ zione di scopo finale, anzi - come abbiamo visto - neppure propriamen-



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te una posizione di mezzo nella catena teleologica, si manifesta anche nel fatto che nello Stato moderno, relativamente democratico, quasi soltanto su questo terreno le persone essenzialmente interessate a un ramo di am­ ministrazione sono assolutamente prive di partecipazione all'amministra­ zione stessa. L'assistenza ai poveri costituisce, per la concezione così carat­ terizzata, una spesa di mezzi pubblici per scopi pubblici, e poiché tutta la sua teleologia sta così al di fuori del povero stesso- il che non avviene in maniera corrispondente nel caso degli interessati di altri campi di ammi­ nistrazione- è coerente che il principio dell'amministrazione autonoma, altrove riconosciuto in qualche misura, non venga applicato al povero e all'assistenza ai poveri. Quando lo Stato è obbligato per legge a deviare un torrente e a ottenere l'irrigazione per certi terreni, il corso d'acqua si trova all'incirca nella posi­ zione del povero assistito dallo Stato: esso è sì l'oggetto del dovere, ma non il portatore del diritto che gli corrisponde, diritto che spetta piuttosto ai confinanti con il corso d'acqua. Ma dove domina questo interesse esclusi­ vamente centralistico, anche la relazione diritto-dovere può venir spostata in base a considerazioni di opportunità. Il progetto della legge dei poveri prussiana del I842 sottolinea che lo Stato deve attuare l'assistenza ai poveri nell'interesse del benessere pubblico. A questo fine esso deve istituire organi di diritto pubblico che vi provvedano, e che siano obbligati di fronte ad esso al soccorso degli individui bisognosi; essi non sarebbero obbligati di fronte a questi ultimi, i quali non avrebbero alcuna pretesa giuridica. Questo fe­ nomeno si accentua in maniera significativa dove la legge statale impone ai parenti del povero, che si trovano in una situazione migliore, l'obbligo degli alimenti. Qui sembra a prima vista che il povero abbia effettivamente una pretesa verso i parenti benestanti, che lo Stato si assume soltanto il compito di assicurare e di mettere in atto. Il senso intrinseco è tuttavia diverso. La co­ munità statale si prende cura del povero per motivi di opportunità, e si crea a sua volta una copertura rivolgendosi ai parenti, perché altrimenti i costi sa­ rebbero per essa esorbitanti, o per lo meno vengono ritenuti tali. La pretesa immediata da persona a persona, che gioca ad esempio tra il fratello povero e quello ricco, e che è soltanto morale, non interessa affatto alla legge; questa deve tutelare esclusivamente gli interessi della collettività, e li tutela in en­ trambe le direzioni: soccorrendo il povero e coprendo i costi con i suoi pa­ renti. Che questa sia la struttura sociologica delle leggi sugli alimenti, e che queste non vogliano affatto soltanto attribuire a doveri etici la forma coerci­ tiva del diritto, è dimostrato da procedimenti come quello seguente. Certo la pretesa morale al soccorso tra fratelli e sorelle è quanto mai stringente. Ma quando nel primo progetto del Codice civile essa doveva venir fissata in for-

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ma legale, le motivazioni riconobbero senz'altro la sua straordinaria durez­ za e ne giustificarono l' introduzione con l'argomento che altrimenti l'onere pubblico per i poveri sarebbe aumentato in maniera eccessiva. La stessa cosa è dimostrata dal fatto che l'obbligo legale al sostentamen­ to va talvolta decisamente al di là della misura che si potrebbe richiedere dal punto di vista morale individuale. Il tribunale imperiale ha deciso, nei confronti di un vecchio in condizione di povertà, che egli doveva dare la sua unica proprietà, di alcune centinaia di marchi, per il mantenimento del figlio incapace di guadagno, benché egli avesse argomentato in maniera cre­ dibile che sarebbe diventato dopo non molto tempo anch'egli incapace di guadagno e che quella somma costituiva la sua unica riserva. È estremamen­ te dubbio se in questo caso si possa ancora parlare di un diritto morale del figlio; ma la collettività non si preoccupa di questo, bensì soltanto se può in­ dennizzarsi per la propria obbligazione di fronte al povero in base a norme valide in generale. Questo senso interiore dell'obbligo degli alimenti viene simboleggiato in modo calzante dal suo svolgimento pratico: il povero viene dapprima, dietro sua domanda, soccorso a sufficienza, e soltanto in seguito si cerca un figlio o un padre che eventualmente, secondo la sua situazione patrimoniale, viene condannato a rifondere non tutte le spese di assisten­ za, ma forse la metà o un terzo. Il senso esclusivamente sociale della regola traspare anche dal fatto che, secondo il Codice civile tedesco, l'obbligo di sostentamento interviene soltanto quando «non mette in pericolo il sosten­ tamento conforme al ceto» dell'obbligato. È per lo meno dubbio se in certi casi non sarebbe moralmente richiesto un soccorso che arrivi fino a mettere in pericolo tale sostentamento. Ma la collettività vi rinuncia tuttavia in tutti i casi, poiché il decadere di un individuo dalla sua posizione «conforme al ceto» arreca allo status della società un pregiudizio che sembra superare, per importanza sociale, il vantaggio materiale che potrebbe estorcere a quell' in­ dividuo. L'obbligo degli alimenti non contiene quindi nulla di un diritto del povero verso i suoi parenti benestanti; non è altro che l'obbligo di assistenza gravante sullo Stato, che esso ha rimbalzato sui parenti e al quale non deve corrispondere in generale alcun diritto di pretesa da parte del povero. Il paragone con il corso d'acqua, che abbiamo utilizzato poc'anzi, non era esatto in quanto il povero non è soltanto povero, ma anche un cittadino dello Stato. In quanto tale egli ha certamente la sua parte nel diritto che la legge conferisce alla totalità dei cittadini come correlato dell'obbligo dello stato di soccorrere i poveri; egli è, per attenerci a quel paragone, nello stesso tempo il corso d'acqua e il suo confinante, nel senso in cui lo è anche il cit­ tadino più ricco. Certo le funzioni dello Stato, ponendosi formalmente al di sopra di tutti i cittadini alla medesima distanza ideale, acquistano però

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nel contenuto significati molto differenti per le loro situazioni individuali, e quando quindi il povero non partecipa all'assistenza ai poveri come sogget­ to che pone fini, ma soltanto come membro dell'organizzazione teleologica dello Stato che lo trascende, il suo ruolo in questa funzione statale è diversa da quella del benestante. Dal punto di vista sociologico la concezione è che tutta la peculiarità, dipendente da motivi materiali, della situazione del po­ vero che viene soccorso- la quale da un lato fa della sua situazione indivi­ duale l'obiettivo esteriore dell'azione di soccorso, e dall'altro lo contrappo­ ne alle intenzioni complessive dello Stato come un oggetto privo di diritto e una materia da formare- non impedisca affatto la sua appartenenza in qua­ lità di membro all'unità statale. Nonostante quelle due determinazioni per mezzo delle quali l'assi­ stenza al povero sembra parlo al di là di quest'ultima, o più esattamente insieme ad esse, egli si inquadra organicamente nella connessione del tut­ to, appartiene come povero alla realtà storica della società che vive in lui e al di sopra di lui, ne costituisce un elemento sociologico formale al pari del funzionario o del contribuente, del maestro o del mediatore di qualsi­ asi commercio. Egli sta in rapporto con essa all'incirca come l'estraneo al gruppo, il quale è anch'egli per così dire materialmente al di fuori del grup­ po in cui risiede; ma con ciò nasce appunto una formazione complessiva che abbraccia insieme le parti autoctone del gruppo e l'estraneo, e le azio­ ni reciproche particolari di questo con quelle creano il gruppo nel senso più ampio, caratterizzando la cerchia storicamente presente in realtà. Così il povero è sì posto in certa misura al di fuori del gruppo, ma questo fuo­ ri è soltanto una forma particolare dell'azione reciproca con esso, che lo intreccia in unità con il tutto nel senso più vasto di questo. Soltanto con questa concezione si risolve l'antinomia sociologica del povero, nella quale si riflettono le difficoltà etico-sociali dell'assistenza ai poveri. La tenden­ za solipsistica del tipo medievale di elemosina, di cui si è parlato, passava per così dire interiormente accanto al povero, al quale l'azione era esterior­ mente rivolta; ciò costituiva la completa inosservanza del principio di non trattare mai l'altra persona come semplice mezzo, bensì sempre nello stesso tempo come scopo. In linea di principio anche il soggetto che riceve è un soggetto che dà; da lui rimbalza sul donante un raggio di azione, e questo fa del dono un'azione reciproca, un avvenimento sociologico. Ma se, come in quel caso, il destinatario è completamente escluso dal processo di scopo del donante, se non ha altro ruolo che quello della cassetta in cui viene get­ tato un obolo per qualche messa per i defunti, l'azione reciproca vien me­ no, l'atto del donare non è un avvenimento sociale, ma puramente indivi­ duale. Certo, come abbiamo visto, anche l'organizzazione moderna dell'as-

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sistenza ai poveri non tratta il povero come scopo autonomo; tuttavia con essa si esprime il fatto che il povero, stando in questa serie teleologica che va al di là di lui, è però un elemento organicamente appartenente al tutto e, su questa base data, intrecciato nel suo processo di scopo. Certamente an­ che qui, come in quella forma medievale, la sua reazione al dono che gli è pervenuto non rimbalza su un singolo individuo; tuttavia in virtù del fatto che la sua attività economica viene di nuovo resa possibile, che la sua forza fisica viene preservata dalla decadenza, che i suoi impulsi vengono distolti da un arricchimento violento, la totalità della sua cerchia sociale riceve a sua volta una reazione a ciò che ha fatto al povero. Un rapporto puramen­ te individuale possiederà un'adeguatezza etica e una perfezione sociologi­ ca soltanto quando realmente ciascuno è per ciascun altro reciprocamente uno scopo- naturalmente non soltanto uno scopo; ma questo principio non vale per le azioni di un'unità collettiva sovrapersonale. Questa può tranquillamente procedere con la sua teleologia al di là dell'individuo e, senza per così dire trattenersi su di lui, ritornare a se stessa: poiché ogni individuo appartiene a questo tutto, proprio per questo e a priori egli pure sta nel punto finale dell'azione, non è lasciato fuori come nell'altro caso, ma nonostante il medesimo rifiuto immediato del suo carattere di scopo autonomo partecipa, in quanto membro del tutto, del carattere di scopo autonomo proprio di questo.

[Simmel, Sociologia, cit., pp. 395-402]

Lo straniero Se il migrare costituisce, in quanto distacco da ogni punto spaziale dato, l'antitesi concettuale alla fissazione in un tale punto, la forma sociologica dello "straniero" rappresenta però in qualche misura l'unità di entrambe le determinazioni - certamente rivelando anche qui che il rapporto con lo spazio è soltanto da un lato la condizione, dali'altro il simbolo dei rapporti con gli uomini. Qui dunque non s'intende lo straniero nel senso ripetuta­ mente toccato finora, cioè come il viandante che oggi viene e domani va, bensì colui che oggi viene e domani rimane- per così dire il viandante po­ tenziale che, pur non avendo continuato a spostarsi, non ha superato del tutto l'assenza di legami dell'andare e del venire. Egli è fissato in un deter­ minato ambito spaziale, o in un ambito la cui determinatezza di limiti è analoga a quella spaziale; ma la sua posizione in questo ambito è determi-

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nata essenzialmente dal fatto che egli non vi appartiene fin dall' inizio, che egli immette in esso qualità che non ne derivano e non possono derivarne. L'unità di vicinanza e di distanza, che ogni rapporto tra uomini com­ porta, è qui pervenuta a una costellazione che si può formulare nella ma­ niera più breve nei termini seguenti: la distanza nel rapporto significa che il soggetto vicino è lontano, l'essere straniero significa che il soggetto lontano è vicino. Infatti l'essere straniero è naturalmente una relazione del tutto po­

sitiva, una particolare forma di azione reciproca: gli abitanti di Siria non so­ no per noi propriamente stranieri - almeno nel senso sociologico del termi­ ne che viene qui preso in considerazione - ma non esistono affatto per noi, stanno al di là di ciò lontano e di ciò che è vicino. Lo straniero è un elemento del gruppo stesso, non diversamente dai poveri e dai molteplici "nemici in­ terni" - un elemento la cui posizione immanente e di membro implica con­ temporaneamente fuori e un di fronte. Il modo in cui elementi repellenti e distanzianti costituiscono qui una forma dell'essere insieme e dell'unità ad azione reciproca può essere accennato mediante le determinazioni seguenti, che non intendono però affatto essere esaustive. In tutta la storia dell'economia lo straniero appare ovunque commer­ ciante, oppure il commerciante come straniero. Finché prevale essenzial­ mente un'economia per il fabbisogno proprio, o finché una cerchia spa­ zialmente ristretta scambia i suoi prodotti, non vi è bisogno al suo interno di alcun intermediario; al commerciante si ricorre soltanto per quei pro­ dotti che vengono fabbricati del tutto al di fuori della cerchia. Se le per­ sone non vanno all'estero per acquistare questi generi di necessità - nel qual caso esse sono in quest'altro territorio i commercianti "stranieri" - il commerciante deve essere uno straniero; per un altro non vi è possibilità di esistenza. Questa posizione dello straniero diventa più consapevole quan­ do egli, anziché lasciare di nuovo il luogo della sua attività, si fissa in esso. Infatti in innumerevoli casi anche questo gli sarà possibile soltanto quan­ do può vivere del commercio di intermediario. Una cerchia economica in qualche modo chiusa, con un suolo diviso e attività artigianali sufficienti rispetto alla domanda, assicurerà un'esistenza anche al commerciante: in­ fatti soltanto il commercio rende possibile combinazioni illimitate, e in esso l' intelligenza trova ancor sempre ampliamenti e strade nuove le quali riescono difficili al produttore originario con la sua scarsa mobilità, con la sua dipendenza da una clientela che può aumentare soltanto lentamen­ te. Il commercio può ancor sempre impiegare uomini in misura maggiore della produzione primaria; esso è per questo motivo il terreno appropriato per lo straniero, che in certa misura penetra come super numerarius in una cerchia in cui le posizioni economiche sono propriamente già occupate.

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L'esempio classico è fornito dalla storia degli Ebrei europei. Lo stranie­ ro non è per sua natura un possessore fondiario - dove il fondo viene inte­ so non soltanto in senso fisico, ma anche in quello traslato di una sostanza vitale che è fissata, se non in un luogo spaziale, almeno in un luogo ideale dell'ambiente sociale. Anche nei rapporti più intimi da persona a persona lo straniero può dispiegare tutte le attrazioni e le capacità di significato possibili; ma, finché viene sentito come straniero, egli non è per l'altro soggetto un "possessore fondiario". Quella dipendenza dal commercio di intermediazione e spesso - come in una sublimazione di esso - dal puro negozio monetario conferisce allo straniero il carattere specifico della mo­ bilità; in questa, quando ha luogo in un gruppo circoscritto, vive quella sintesi di vicinanza e di distanza che costituisce la posizione formale dello straniero: infatti colui che è senz'altro mobile viene talvolta in contatto con ogni singolo elemento, ma non è congiunto organicamente con nessu­ no di essi mediante le fissazioni parentali, locali, professionali. Un'altra espressione di questa costellazione consiste nell'oggettività dello straniero. Non essendo radicato nelle singole parti costitutive o nelle tendenze unilaterali del gruppo, egli si contrappone a tutte queste con l' at­ teggiamento particolare dell' "oggettivo", che non significa una semplice distanza e non-partecipazione, bensì una formazione particolare costitui­ ta di lontananza e vicinanza, d'indifferenza e impegno. Rinviamo in pro­ posito alla trattazione - condotta nel capitolo sulla "sovra-ordinazione e subordinazione" - relativa alle posizioni dominanti dello straniero, esem­ pio delle quali è apparsa la prassi di quelle città italiane che chiamavano i loro giudici dal di fuori, perché nessun nativo era libero dai vincoli degli interessi familiari e di partito. Con l'oggettività dello straniero è connesso anche il fenomeno prima accennato che vale certo principalmente, ma non esclusivamente, rispetto a chi prosegue il viaggio, cioè il fenomeno per cui a lui si fanno spesso le rivelazioni e le confessioni più sorprendenti, fino al carattere della confessione sacramentale, dalle quali ci si astiene invece ac­ curatamente nei confronti di qualsiasi persona vicina. L'oggettività non è affatto una non-partecipazione, infatti questa sta addirittura al di là di un atteggiamento oggettivo e soggettivo, ma è una specie particolare di partecipazione, così come l'oggettività di un'osser­ vazione teorica non significa affatto che lo spirito sia una tabula rasa pas­ siva in cui le cose inserivano le loro qualità, bensì la piena attività dello spirito che agisce secondo le sue proprie leggi, soltanto escludendo le tra­ sposizioni e le accentuazioni accidentali, le cui differenze individualmente soggettive offrirebbero immagini del tutto differenti del medesimo ogget­ to. L'oggettività può essere definita anche come libertà: l'uomo oggettivo

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non è vincolato da fissazioni di alcun genere che possano pregiudicare la sua recezione, la sua comprensione, la sua ponderazione del dato. Questa libertà, che fa sperimentare e trattare allo straniero anche il rapporto di vi­ cinanza come da una prospettiva aerea, contiene certo ogni specie di pos­ sibilità pericolosa. Da sempre, nel caso di rivolte di ogni specie, il partito attaccato sostiene che si è avuta una sobillazione dall'esterno, mediante emissari e istigatori stranieri. Nella misura in cui è esatto, ciò rappresenta un'esagerazione del ruolo specifico dello straniero: egli è il più libero, pra­ ticamente e teoricamente, egli abbraccia le situazioni con minori pregiudi­ zi, le commisura a ideali più generali e più oggettivi, e non è vincolato nella sua azione dall'abitudine, dalla pietà, dai precedenti'5• Infine la proporzione di vicinanza e di distanza, che conferisce allo straniero il carattere dell'oggettività, acquista ancora un'espressione pra­ tica nell'essenza più astratta del rapporto con lui, cioè nel fatto che con lo straniero si hanno in comune soltanto certe qualità più generali, mentre il rapporto con i soggetti collegati più organicamente si costruisce sull'egua­ glianza di differenze reciproche rispetto a ciò che è semplicemente genera­ le. Secondo questo schema si svolgono in genere, in molteplici ordinamen­ ti, tutti i rapporti in qualche modo personali. Su di essi non decide soltan­ to il fatto che esistono determinate comunanze tra gli elementi accanto a differenze individuali, le quali influenzano la relazione o si tengono al di là di essa. Anche quell'elemento comune viene piuttosto determinato essen­ zialmente, nella sua azione su tale rapporto, dal fatto di sussistere soltanto tra gli elementi di questo rapporto e di essere quindi generale verso l' inter­ no, ma specifico e incomparabile verso l'esterno, oppure di essere comune per la sensazione degli elementi stessi soltanto perché è in generale comu­ ne a un gruppo o a un tipo o all'umanità. Nel secondo caso interviene, proporzionalmente all'ampiezza della cerchia che riveste il medesimo ca­ rattere, un assottigliarsi dell'efficacia dell'elemento comune; esso funzio­ na sì come base unitaria degli elementi, ma non indirizza questi elementi l'uno verso l'altro, e proprio tale eguaglianza potrebbe accomunare qualsi­ asi elemento anche con tutti gli altri possibili. Anche questo è chiaramente un modo in cui un rapporto implica contemporaneamente vicinanza e di­ stanza: nella misura in cui i momenti di eguaglianza sono di natura gene15. Dove però questo viene affermato falsamente dai soggetti attaccati, ciò deriva dal­

la tendenza di chi sta sopra a discolpare pur sempre ancora gli inferiori che sono stati fin allora con essi in un rapporto unitario più stretto. Ricorrendo infatti alla finzione per cui i ribelli non sarebbero propriamente colpevoli, ma sarebbero soltanto istigati e la ribellione non proverrebbe da essi, gli attaccati discolpano se stessi, negando in anticipo ogni moti­ vo reale di rivolta.

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

rale, al calore della relazione a cui essi danno luogo viene aggiunto un ele­ mento di freddezza, un senso di accidentalità proprio di questa relazione, e le forze connettive hanno perduto il loro specifico carattere centripeto. Questa costellazione sembra possedere, nel rapporto con lo straniero, una preponderanza straordinaria rispetto alle comunanze individuali degli ele­ menti che sono proprie soltanto della relazione in questione. Lo straniero ci è vicino in quanto sentiamo tra lui e noi eguaglianze di carattere nazionale e sociale, professionale o generalmente umane; ci è lontano in quanto queste eguaglianze vanno al di là di lui e di noi, e ci con­ giungono soltanto perché congiungono in generale moltissimi soggetti. In questo senso anche nei rapporti più stretti si presenta facilmente un tratto di estraneità. Le relazioni erotiche respingono decisamente, nello stadio della prima passione, quei principi di generalizzazione: si ritiene che amo­ re come questo non sia mai esistito, che nulla sia paragonabile con la per­ sona amata o con la sensazione che proviamo per essa. Un'estraniazione comincia di solito- è difficile stabilire se come causa o come effetto - nel momento in cui alla relazione vien meno il suo senso di unicità; uno scetticismo verso il suo valore in sé e per noi si congiunge al pensiero che, alla fine, con essa si compie soltanto una vicenda umana ge­ nerale, si vive un'esperienza che c'è già stata mille volte e che, se non si fos­ se incontrata per caso proprio questa persona, un'altra qualsiasi avrebbe acquistato per noi il medesimo significato. E qualcosa di questo fenomeno non può mai mancare a nessun rapporto per quanto prossimo, perché ciò che è comune a due persone non è forse mai comune semplicemente ad es­ se, ma rientra in un concetto generale che implica ancora molte altre pos­ sibilità di eguaglianza: per quanto esse possano non realizzarsi, per quanto spesso noi possiamo dimenticarle, qua e là esse si insinuano come ombre tra gli uomini, come una nebbia che sfugge a ogni tentativo di definizio­ ne, la quale dovrebbe prima consolidarsi in una corporeità consistente per potersi chiamare gelosia. In parecchi casi questa è forse l'estraneità più generale, o per lo meno quella più insuperabile, rispetto all'estraneità pro­ dotta da differenze e incomprensioni: che sussista sì un'eguaglianza, un'ar­ monia, una vicinanza, ma con il sentimento che questa non costituisce un possesso esclusivo di questo rapporto, bensì un elemento più generale che vale potenzialmente tra noi e un numero indeterminato di altri soggetti, e che non fa quindi acquistare a quell'unico rapporto che si è realizzato al­ cuna necessità interna ed esclusiva. D'altra parte esiste una specie di "estra­ neità" in cui è esclusa proprio la comunanza sul terreno di un elemento più generale, che comprende le parti: a questo proposito è tipico ad esempio il rapporto dei Greci con il Bdp�apoç e lo sono pure tutti i casi in cui vengono

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negati all'altro soggetto le qualità generali che si sentono come propria­ mente e semplicemente umane. Ma qui lo "straniero" non ha alcun senso positivo, e la relazione con lui è una non-relazione; egli non è ciò che qui si considera, cioè un membro del gruppo stesso. In quanto tale egli è piuttosto contemporaneamente vicino e lonta­ no, com'è implicito nel fatto di fondare la relazione su un'eguaglianza soltanto generalmente umana. Ma tra quei due elementi si crea una ten­ sione particolare, poiché la coscienza di avere in comune soltanto ciò che è generale dà una particolare accentuazione proprio a ciò che non è co­ mune. Ma nel caso dello straniero rispetto al paese, alla città, alla raz­ za ecc. questo non è, di nuovo, qualcosa di individuale, ma è un'origi­ ne estranea, che è o potrebbe essere comune a molti stranieri. Perciò gli stranieri non vengono neppure sentiti propriamente come individui, ma come stranieri di un determinato tipo; l'elemento della distanza nei loro confronti non è meno generale di quello della vicinanza. Questa forma sta ad esempio alla base di un caso così specifico come la tassa medievale sugli Ebrei, che veniva riscossa a Francoforte ma anche altrove. Mentre la Beede pagata dai cittadini cristiani variava secondo lo stato del patri­ monio, l' imposta a carico di ogni Ebreo era stabilita una volta per tutte. Questa fissazione dipendeva dal fatto che l'Ebreo aveva la sua posizione sociale in quanto Ebreo, non già come portatore di determinati conte­ nuti oggettivi. In materia fiscale ogni altro cittadino era possessore di un determinato patrimonio, e la sua imposta poteva seguire le vicende di questo. Invece l'Ebreo era, come contribuente, in primo luogo Ebreo, e in tal modo la sua posizione fiscale acquisiva un elemento invariabile: questo fatto emerge naturalmente al massimo grado non appena cadono perfino queste determinazioni individuali, la cui individualità era limita­ ta dalla rigida invariabilità, e gli stranieri pagano un'imposta personale del tutto eguale. Con tutta la sua aggregazione inorganica lo straniero è però un mem­ bro organico del gruppo, la cui vita unitaria implica il condizionamento particolare di questo elemento; soltanto che noi non sappiamo designare la caratteristica unità di questa posizione se non dicendo che essa è com­ posta di una certa misura di vicinanza e di una certa misura di distanza che, caratterizzando in una qualche quantità ogni rapporto, producono in una particolare proporzione e tensione reciproca lo specifico rapporto formale con lo "straniero".

[Simmel, Sociologia, cit., pp. s8o-4]

4

Ferdinand Tonnies: dalla comunità alla società complessa

A giusta ragione si può asserire con Renato Treves che Ferdinand Tonnies è stato

il pensatore che ha dato avvio al processo di emancipazione della sociologia tede­ sca dalla tradizione francese e da quella proposta dai paesi di lingua inglese. Con lui prende il via un approccio alle problematiche sociali e un modalità di studio su di esse che ha poi fortemente influenzato i sociologi contemporanei e quelli che verranno dopo di lui in Germania ma anche nel resto d'Europa'. Tonnies nasce nel 1855 a Oldensworth, un piccolo centro rurale nei pressi di Eiderstedt, nella regione dello Schleswig-Holstein. Compie studi in diverse gran­ di città come Jena, Lipsia, Bonn e Tubinga e qui consegue il dottorato in mate­ rie umanistiche. Presto diventa lettore all'Università di Kiel dove insegna fino al 1933, quando entra in conflitto con i nazisti ormai al potere.

Intanto aveva ottenuto una cattedra in Economia e Statistica e aveva contri­ buito a fondare, nel 1909, la Società tedesca di Sociologia, assieme a studiosi del calibro di Max Weber, Werner Sombart e Georg Simmel. Della stessa società fu presidente fino al 1933. Nonostante la lunga carriera e un numero importante di opere, Tonnies vie­

Co­ munita e societa ( Gemeinschaft und Gesellschaft), uscita nella sua prima edizione ne ricordato ed è rimasto famoso per una delle sue pubblicazioni giovanili,

nel 1887. Questa distinzione tra espressioni delle modalità di relazione tra gli uo­ mini che da il titolo all'opera, probabilmente deriva dalla sua esperienza di vita che lo portò a trasferirsi dalla campagna feudale alle città in cui iniziò e proseguì i suoi studi, in piena fase di industrializzazione e fungerà da riferimento per tutti gli studiosi che seguiranno. Nel testo affronta inizialmente un problema di metodo, tipico della filosofia e della sociologia tedesca del tempo, laddove sottolinea la necessità che i concet­ ti con i quali si studia la realtà debbano derivare dalla ragione e non dalla realtà stessa. La scienza deve quindi basarsi sia su uno schema teorico definito che su con­ cetti e casi "fittizi" o "ideali"•. Già dalla terminologia si può notare come alcune 1. R. Treves, Introduzione a F. Tonnies, Comunita e societa, Edizioni di Comunità, Mi­ lano 1963, p. 2.

xxv

(ed. or. 1887).

Tonnies, Comunita e societa, cit., p. 7·

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

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sue idee troveranno punti di convergenza, successivamente, con quelle di altri famosi sociologi e in particolare con Max WeberJ. La differenza fra i due concetti espressi viene a delineare due dimensioni ideali necessarie per l'analisi della realtà. A tal proposito l'autore non vuole ana­ lizzare forme conflittuali di relazioni, ma rapporti di integrazione, affermazioni reciproche cioè rapporti che danno origine ad associazioni, unione tra uomini4• In questo senso vede nella comunità, la

Gemeinschaft, una forma associativa

naturale, basata sulla tradizione, sui rapporti di sangue e faccia a faccia, sull'af­ fettività e sull'emotività, sulla stabilità dei legami, sul forte senso dell'apparte­ nenza che sollecita identità e coesione sociale. Una dimensione dove tutto è uni­ to, organico, si svolge nell'interesse comune con forte solidarietà e cooperazione tanto che il momento economico si fonda sullo scambio dei beni per l'utilità che ne deriva. Lo studioso parlerà di comunità come di «perfetta unità delle volon­ tà umane come stato originario o naturale, che si è conservato nonostante e at­ traverso la separazione empirica, atteggiandosi in forme molteplici»s. La primaria forma comunitaria è la famiglia, seguita dalla comunità di luo­ go (vicinato, villaggio) e dalle comunità spirituali. Le varie forme associative hanno come fondamento la concordia, il costume, la religione e, in esse, le prin­ cipali occupazioni ineriscono ali'economia domestica, ali' agricoltura, ali'arte. L'ambito comunitario definisce, inoltre, un assetto sociale dove i ruoli di ognu­ no sono ben precisati e la mobilità è fortemente ridotta per non dire inesistente. La società,

Gesellschaft

in tedesco, è qualcosa di diametralmente opposto.

Essa è un'associazione artificiale, meccanica, ben più vasta come dimensione, in cui i rapporti fra individui sono basati su relazioni convenzionali, di tipo con­ trattuale ed egoistico dove predomina la diversità degli interessi soggettivi, la competizione, il calcolo e lo stesso aspetto materiale si basa sull'utile che si cri­ stallizza nell'importanza del denaro, che è simbolo del profitto e vero emblema di questa forma di associazione. I rapporti sono quindi meno diretti, regolati non tanto dalla tradizione quanto da norme statuite convenzionalmente, che formano istituzioni a cui ci si subordina razionalmente. Esempi di dimensioni di questo tipo sono in primis le città, le metropoli, gli Stati, i gruppi scientifici. Le due prospettive sociali sono così diverse da essere determinate da due tipi di diverse

volontà.

La comunità si realizza grazie alla volontà essenziale ( We­

senwille). Questa è naturale, una forza vitale da cui si forma da sé la vita. Evidente l'in­ flusso delle teorie di Schopenhauer e della sua volontà di vita, intesa come forza irrazionale, psicologica, che si sviluppa autonomamente. La società invece si realizza grazie alla volontà

arbitraria (Kurwille ),

una

forza artificiale, razionale in cui predomina il pensiero, pur sempre nascente dal3· È evidente in tutta la sua trattazione una forte analogia con l'elaborazione concet­ tuale del "tipo ideale" o "idealtipo" teorizzato da Max Weber. 4· s.

Cfr. A. lzzo, Storia del pensiero sociologico, il Mulino, Bologna 1994, p. 152. Cfr. Tonnies, Comunita e societa, cit., p. 51.

4· FERDINAND TONNIES: DA COMUNITÀ A SOCIETÀ COMPLESSA

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la volontà naturale universale ma altresì soggettiva e legata ali' individuo stesso, alternativa a tante altre. Tonnies schematizza tre diversi tipi di volontà essenziale (il piacere, l'abi­ tudine e la memoria) e tre relativi alla volontà arbitraria (la deliberazione, la di­ screzione ed il concetto). La trattazione dell'argomento fa chiaramente trasparire una certa nostalgia dell'autore per la vita della forma comunitaria fondata su una concezione più armoniosa e connaturale alla convivenza pacifica alla quale aspi­ ra l'uomo6• Ad ogni modo Tonnies riconosce che, negli anni in cui lui scriveva, la comunità aveva già iniziato modificarsi depauperandosi a causa dello sviluppo dell'industrializzazione e della modernità che portavano sempre più gli uomini a sperimentare un'unitività di tipo societario. Il sociologo tedesco constata la ne­ cessità di sottoporre a critica la società visto lo sfruttamento degli uomini che si diffonde nel mondo del lavoro, la decadenza dell'istituto familiare, l'espansione di un nocivo consumismo vistoso ed inutile7• Per il sociologo tedesco questo dato legato alla decadenza del vivere le rela­ zioni tra gli uomini non indica l'inevitabile cancellazione della comunità a van­ taggio della società ma segnala piuttosto il fatto che la comunità rimarrà sempre presente in ambito sociale e non scomparirà mai: «Le forme di vita comunitarie perdurano, sia pure atrofizzandosi ed estinguendosi nell'ambito di quelle sociali, come le uniche forme reali»8• La prospettiva con la quale Tonnies studia lo "stare insieme" degli uomini ha permesso di analizzare e studiare un ampio ventaglio in particolare di realtà comunitarie di diverse dimensioni e formatesi in tempi diversi. Lo stesso autore, peraltro, non tralascia, dal punto di vista metodologico, le questioni empiriche. Questo aspetto fu sviluppato anche grazie al forte impulso che Tonnies diede alla

sociografia, cioè agli studi descrittivi che utilizzano la statistica, a cui lo riportava l'esperienza di docente universitario della stessa disciplina. A conferma di quan­ to detto basti pensare a come le sue argomentazioni siano poi diventate snodi di riferimento per tutti gli studiosi si siano occupati di comunità, in primis, ancora una volta, Max Weber che in Economia e societa riprende la sua distinzione appro­ fondendola in senso avalutativo9• D'altro canto egli mostrò anche di essere in atteggiamento di forte sintonia con molta parte della società a lui contemporanea che si sentiva minacciata dal rapido evolversi dei processi legati all'industrializzazione e all'urbanizzazione. Il tema principale della sua opera fu da lui stesso approfondito per tutta la sua vita 6. Cfr. F. Crespi, P. Jedlowski, R. Rauty, La Sociologia. Contesti storici e modelli culturali, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 192 . 7· In relazione a quest'ultimo aspetto deteriore della società si rimanda ai successivi ap­

profondimenti sul tema dell'"agiatezza vistosa" proposti dal sociologo americano di origine scandinava Thorstein Veblen nel suo La teoria della classe agiata. 8. Tonnies,

Comunita e societa, cit., p. 290.

9· Non si può non ricordare come l'aspetto empirico, o sociografìco, sia stato importan­

te anche per Durkheim e Pareto.

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tanto che nel 1935, un anno prima della sua morte, pubblicò Geist der Neuzeit'0, dove analizzava criticamente la storia dell'Occidente moderno a partire dal Me­ dioevo fino ai suoi tempi. In questo lavoro viene evidenziata la sua capacità di guardare al futuro con attenzione e con le discrete capacità previsionali che, in effetti, Tonnies aveva già manifestato con l'uscita di Comunita e societa, il suo capolavoro. I due brani che seguono, tratti proprio dalla sua opera più importante, ci permettono di asserire che nello sguardo verso il domani del sociologo tedesco c'è davvero una capacità non comune di intuire con successo quanto la società avrebbe faticato nel trovare un suo equilibrio. Nel primo testo, contenuto nel "primo libro" di Comunita e societa, prova ad illustrare le caratteristiche essenziali della comunità e della società analizzandole con un criterio che segue l'ordine cronologico. Nel brano selezionato, dopo aver tratteggiato un profilo sintetico della società borghese, l'autore prova a dimostra­ re quanto sia stato esaltato in quegli anni il ruolo del commercio. Il passaggio allo scambio mediato in ogni circostanza dal denaro ha depotenziato i legami solidali che in passato caratterizzavano in positivo quantomeno le relazioni tra persone appartenenti alla stessa famiglia o, semplicemente, allo stesso territorio. Disqui­ sendo a proposito della concorrenza si sofferma sugli aspetti deleteri di questa, quasi a voler smentire l'ottimistica visione di Adam Smith secondo il quale la "mano invisibile" avrebbe continuato a garantire un buon livello di equilibrio. L'individualismo e la sete pressoché inestinguibile di guadagno avrebbero potuto farsi largo negli animi di coloro la cui "debolezza morale" non avrebbe posto dei chiari limiti volti al rispetto del concorrente, e in effetti l'attuale concentrazione della ricchezza nelle mani di una sparuta percentuale di soggetti, nonostante il progresso abbia permesso un miglioramento generalizzato della qualità della vita, dà certamente ragione a Tonnies e alle sue previsioni. Suscita sicuramente inte­ resse l'audacia con la quale il sociologo tedesco si avventura in una descrizione attenta e circostanziata dei processi che avrebbero portato a quella che oggi chia­

miamofinanziarizzazione dell'economia con la crescita esponenziale dell'impor­ tanza del ruolo giocato dalle banche. I banchieri, qui definiti «mediatori della mediazione», realizzano il miracolo del denaro che incrementa il proprio valore pur in assenza di attività produttive e questo fenomeno diventa, per i capitalisti più rampanti, lo scopo assoluto della propria esistenza. Tonnies intravede non pochi pericoli in questo atteggiamento dei capitalisti, dei commercianti, dei ban­ chieri, di quelli che chiama genericamente «possessori di denaro che può essere incrementato con un duplice scambio» che di fatto diventano «i padroni e so­ vrani naturali della società». Preconizza la nullificazione «di tutti i non-capitali­ sti» che vengono ridotti al rango di schiavi, pari a degli «strumenti inerti» che «costituiscono per il diritto delle nullità, cioè vengono concepiti come incapaci

10. In italiano, Lo spirito dei tempi moderni.



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di un proprio arbitrio, e quindi di un contratto valido nel sistema»". Il tentativo di erodere in continuazione quote di democrazia a garanzia dei poteri finanziari che è in atto in questi ultimi anni in paesi dal cosiddetto "capitalismo maturo': per utilizzare una categoria proposta da Jiirgen Habermas negli anni Settanta", è la dimostrazione della bontà delle previsioni elaborate da Tonnies un secolo prima che la situazione degenerasse. Il secondo brano inserito in questa antologia è tratto dall'appendice di Co­ munita e societa e propone una sintesi ragionata delle tipologie di convivenza po­

ste in essere dagli uomini lungo il corso dei secoli. Partendo dalla constatazio­ ne che non sarà possibile un ritorno di massa alla vita serena che caratterizzava le comunità rurali, si esprime a proposito dell'espansione dei centri urbani con sorprendente lungimiranza. Come il suo conterraneo e contemporaneo collega Georg Simmel è affascinato dalla metropoli e studia le relazioni che gli uomini riescono a intrattenere in essa e coglie nei contratti e nella ricerca di interessi co­ muni o complementari lo strumento attraverso cui lo scambio, non solo quello di natura economica, può generare una pacifica convivenza. Il sociologo tedesco anticipa con successo quanto sarebbe accaduto con la nascita di «città mondiali» nelle quali «uomini di tutti i paesi si riuniscono avidi di denari e di piaceri, ma anche spinti dalla curiosità e dal desiderio di imparare» dal momento che questo tipo di città «comprende in sé l'estratto non soltanto di una società nazionale, ma di tutta una cerchia di popoli, cioè del "mondo"». In queste città impressio­ na il fatto che «il denaro e il capitale sono illimitati e onnipotenti», ma anche e soprattutto il fatto che in prospettiva esse sarebbero state in grado «di produrre merci e scienza per l' intero globo, di fornire leggi valide e un'opinione pubblica a tutte le nazioni» '3, Nella città mondiale la differenza tra nativi e stranieri diventa irrilevante dal momento che ciò che conta è la libertà di ciascuno e il patrimonio personale per cui anche un istituto da sempre profondamente radicato nelle vite degli attori sociali come la famiglia decade. Più grande è la metropoli e più «gli affari, gli interessi, i piaceri spingono tutti verso l'esterno, separandoli così gli uni dagli altri»'\ Quello disegnato da Tonnies è il perfetto ritratto delle moderne città cosmopolite che si presentano in crescita numerica e demografica inarrestabile dove il deficit di solidarietà e di coesione sociale oggi raggiunge livelli sempre più preoccupanti 's.

11.

Cfr. Tonnies, Comunita e societa, cit., p. 103.

Cfr. J. Habermas, La crisi della razionalita nel capitalismo maturo, Laterza, RomaBari 197 5. 12.

14.

Cfr. ivi, p. 291. Cfr. ivi, p. 293.

15.

Sul tema cfr. R. Zoll, La solidarieta. Uguaglianza e differenza, il Mulino, Bologna

13.

2003;

Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000; A. Panico,

Coesione, integrazione, inclusione. La solidarieta nel pensiero sociologico, Carocci, Roma 2007.

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Teoria della società LA SOCIETÀ BORGHESE. OGNUNO È UN COMMERCIANTE. LA CONCORRENZA GENERALE. LA SOCIETÀ IN SENSO MORALE

La società, aggregato unito dalla convenzione e dal diritto naturale, viene concepita come una massa di individui naturali e artificiali, le cui volontà e i cui settori stanno in molteplici connessioni l'una rispetto all'altra e l'u­ na con l'altra, e tuttavia rimangono tra loro indipendenti e senza influenze interne. Qui ci appare il quadro generale della "società borghese" o "socie­ tà di scambio': di cui l'economia politica cerca di riconoscere la natura e i movimenti- una condizione in cui, secondo l'espressione di Adam Smith, «ognuno è un commerciante». Perciò, là dove si trovano di fronte indivi­ dui, negozi, ditte e compagnie propriamente commerciali, sul mercato inter­ nazionale o nazionale e nella borsa, la natura della società si presenta come in sintesi o in uno specchio concavo. Infatti la generalità di questo stato non è affatto - come immaginava il famoso scozzese - conseguenza immediata

o anche soltanto probabile dell'innovazione per cui il lavoro viene diviso e i prodotti vengono scambiati. Essa è piuttosto un fine lontano in rapporto al quale deve essere concepito lo sviluppo della società; e nella misura in cui esso si realizza, anche l'esistenza di una società, in un tempo determinato, è reale nel nostro senso. Si tratta pur sempre di un'entità in divenire, che de­ ve essere qui concepita come soggetto della volontà generale o della ragione generale; e nello stesso tempo si tratta (come sappiamo) di un'entità fittizia e nominale. Essa è come sospesa nell'aria quale è uscita dalle teste dei suoi consapevo­ li portatori, i quali si tendono le mani desiderosi di scambio al di là di tutte le distanze, i confini e gli scrupoli, assumendo questa perfezione speculativa come l'unico paese, l'unica città, a cui tutti i cercatori di fortuna e gli avven­ turieri

(merchant adventurers)

hanno un interesse realmente comune. Così

essa viene rappresentata- come la finzione del denaro per mezzo di un me­ tallo o della carta- dall'intero globo terrestre, o da un territorio comunque delimitato. In questo concetto, infatti, si deve astrarre da ogni relazione ori­ ginaria o naturale tra gli uomini. La possibilità di un rapporto sociale non presuppone altro che una pluralità di persone capaci di fornire qualche pre­ stazione, e quindi anche di promettere qualcosa. La società, intesa come totalità al di sopra della quale deve estendersi un sistema convenzionale di regole, è quindi, in linea ideale, illimitata; essa rompe costantemente i suoi confini reali e accidentali. Nel suo ambito ogni persona tende al proprio vantaggio, e afferma gli altri soggetti solamente in quanto e



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finché essi lo possono favorire. Così, prima e al di fuori della convenzione- e anche prima e al di fuori di ogni contratto particolare- il rapporto di tutti ver­ so tutti può essere concepito come un rapporto di ostilità potenziale o come una guerra latente, contro cui tutti quegli accordi delle volontà spiccano poi come altrettanti trattati e conclusioni di pace. Questa è l'unica concezione che sia adeguata a spiegare tutti i fatti del traffico e del commercio, in cui i diritti e i doveri possono essere ricondotti a pure determinazioni patrimoniali e a valo­ ri: su di essa deve quindi fondarsi, anche inconsapevolmente, ogni teoria di un diritto privato o di un diritto naturale (socialmente inteso) puro. Compratore e venditore si trovano sempre, l'uno rispetto all'altro- pur nelle loro molteplici modificazioni - in posizione tale che ognuno desidera e tenta di ottenere, in cambio della quantità minima del proprio patrimonio, la quantità massima del patrimonio altrui. Tra i veri negozianti o commercianti si svolgono delle corse su numerose piste, ed ognuno si sforza di giungere pri­ ma dell'altro, e possibilmente di arrivare primo alla meta, rappresentata dallo smercio del suo prodotto e di una quantità massima di prodotto. Perciò essi devono spesso sospingersi o cercare di farsi cadere reciprocamente; e il danno dell'uno è il vantaggio dell'altro, come avviene anche in ogni singolo scam­ bio, quando i proprietari non scambiano valori effettivamente eguali. Questa è la concorrenza generale che ha luogo in molti altri campi, ma in nessuno in

modo così chiaro e consapevole come in quello del commercio- al quale vie­ ne quindi limitato il concetto nell'uso comune- e che è già stata descritta da più di un pessimista sul modello di quella guerra di tutti contro tutti che un grande pensatore ha addirittura concepito come lo stato naturale della specie umana. Ma anche la concorrenza, come tutte le forme di questa guerra, reca in sé la possibilità della sua fine. Questi nemici- sia pure con difficoltà maggiori di tutti gli altri- riconoscono in certe circostanze il vantaggio di accordarsi, di lasciarsi in pace l'uno con l'altro, o anche di associarsi per uno scopo comune (ad esempio, e sarà la cosa più probabile, contro un avversario comune). In tal modo la concorrenza viene limitata e risolta dalla coalizione. In analogia con questo traffico fondato sullo scambio di valori materiali può anche essere compresa tutta la socialità convenzionale, la cui regola su­ prema è la cortesia: essa consiste in uno scambio di parole e di compiacenze nel quale ognuno sembra essere a disposizione di tutti e tutti sembrano sti­ mare gli altri come loro pari, ma nel quale in realtà ognuno pensa a se stesso ed è preoccupato di affermare la sua importanza e i suoi vantaggi in contra­ sto con tutti gli altri. Cosicché, per tutto ciò che di gradevole l'uno fa all'al­ tro, si aspetta di ricevere in cambio almeno un equivalente, ed anzi lo esige; e di conseguenza pesa esattamente i suoi servizi, le sue adulazioni, i suoi regali, e così via, in relazione all'effetto desiderato. Contratti non formali di questo

108

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

significato vengono conclusi continuamente, e continuamente molti vengo­ no soffocati, nella gara, dai pochi fortunati e potenti. Poiché tutti i rapporti sociali in genere riposano sulla comparazione di una prestazione possibile e offerta, diventa chiaro per quale motivo le relazioni con oggetti visibili e ma­

teriali hanno qui la precedenza, mentre le attività e le parole pure e semplici

possono costituirne la base soltanto in maniera impropria. Al contrario, la comunità, come vincolo del "sangue': è in primo luogo un rapporto tra i cor­ pi, che si esprime quindi in atti e in parole, mentre è di natura secondaria la relazione comune con oggetti che non vengono tanto scambiati quanto pos­ seduti e goduti in comune. Inoltre la società, nel senso che possiamo chiama­ re morale, è interamente condizionata anche dalle connessioni con lo Stato, che finora non è stato preso in esame perché la società economica deve essere concepita come il suo presupposto. IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ. IL MERCATO MONDIALE. IL CAPITALE

Se consideriamo quindi il progresso della società - che si realizza come l'e­ spressione più alta di una vita comunitaria e popolare in via di sviluppo !imitandoci essenzialmente al campo economico, esso ci appare come tra­ passo da una generale economia domestica a una generale economia com­ merciale, e di conseguenza dal predominio dell'agricoltura al predominio dell'industria. Esso può venir concepito come se fosse guidato sistematica­ mente, in quanto, col crescente successo nell'ambito di ogni popolo, i com­ mercianti - come capitalisti - e i capitalisti - come commercianti - si spin­ gono alla testa e sembrano unirsi in un'intenzione comune. Questa inten­ zione è definita nel miglior modo con la parola "traffico". Infatti, mentre un

capo di casa, un contadino o un borghese volgono lo sguardo ali' interno e al centro del luogo, cioè della comunità a cui appartengono, la classe commer­ ciale si volge invece all'esterno: la interessano soltanto le linee che collegano le località, cioè le strade principali e i mezzi di comunicazione. Questa classe risiede, per così dire, nel mezzo di ogni territorio, che essa tende a penetrare e a sovvertire con la sua determinazione. L'intero paese è per essa soltanto un mercato, di acquisto e di smercio; e ciò in quanto il commercio è commercio interno - nel qual caso quasi si alternano un assorbimento e una contrazio­ ne, come sistole, e un'espulsione ed un'espansione, come diastole - ed anche a scopo di commercio estero, dove questa mediazione permette la cessione di merci in eccesso contro merci in difetto. Ogni paese può svilupparsi di­ ventando un territorio di commercio di questo genere; ma, quanto più va­ sto è il territorio, tanto più completo esso diventa come terra della società, e



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tanto più generale e libero diviene il traffico di scambio. Ed è anche più pro­ babile che operino le pure leggi del traffico di scambio, mentre rimangono invece escluse le altre qualità che caratterizzano gli uomini e le cose nei loro rapporti reciproci. Così il campo del commercio si concentra alla fine in un unico mercato principale, e da ultimo nel mercato mondiale, da cui vengono a dipendere tut­ ti gli altri mercati. Ma quanto più grande diventa il territorio, tanto più netta e pura risalta la verità che gli autori e i dirigenti di tale traffico fanno tutto ciò per il proprio guadagno. Essi si pongono al centro di questa area e, dal loro punto di vista, la terra e il lavoro del paese- come di tutti i paesi con cui hanno rapporti- costituiscono oggetti reali o possibili per l'impiego e la circolazione dei loro capitali, e quindi per la moltiplicazione del loro denaro. Inoltre, quan­ to più i dirigenti del lavoro reale o della produzione reale, come proprietari della terra e degli altri fattori materiali, ed anche come proprietari dei lavora­ tori o di forze di lavoro acquistate, esercitano questa impresa solamente in vista di un profitto netto o di un incremento di valore, tanto più diventano essi stes­ si una semplice categoria di commercianti. E ciò avviene sia che questa catego­ ria sembri agire al di sotto o al di sopra del commercio vero e proprio, oppure al suo stesso livello, concordandovi in molti interessi ed apponendovi in altri. Entrambe queste classi funzionano da accumulatori di una ricchezza mo­ netaria liquida e mobile che, incrementandosi incessantemente attraverso l'ap­ plicazione a scopi produttivi o commerciali, si chiama ricchezza di capitale. Ma il capitale esprime in primo luogo la sua essenza come posta e sacrificio messo in gioco dal commerciante, che acquista merci sul mercato meno caro e si sforza di collocarle sul mercato più caro. Ogni venditore che offra in vendita prodotti del proprio lavoro può essere concepito come un commerciante, in quanto agisce in modo simile, calcolando il rapporto tra il prezzo ottenuto e le sue spese. Però egli calcolerà la differenza come equivalente della sua attivi­ tà, mediante la quale è stato in realtà prodotto un nuovo valore. Nella misura in cui tale equivalente può essere posto come effettivo e valido, egli non ricava dallo stesso mercato nulla di più di quanto vi ha messo. E se uno scambio re­ ciproco avesse luogo soltanto tra venditori siffatti (come è stato sottinteso dal

concetto della struttura comunitaria sviluppata ) , esso potrebbe senza dubbio configurarsi come traffico sociale, in quanto spingerebbe i suoi sforzi in un campo illimitato, per ottenere il prezzo più alto possibile. Tuttavia il risultato finale deve essere concepito come l'eliminazione di questo sforzo ad opera di uno sforzo eguale ed opposto, per quanto le manifestazioni empiriche possa­ no rivelare il soverchiare di un venditore sull'altro- cosa che potrà verificarsi tanto più raramente quanto più ognuno è capace di agire come commerciante

IlO

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

( in questo senso è stato detto che la società borghese presuppone in ognuno una conoscenza merceologica enciclopedica) '6• LA POSIZIONE DEL COMMERCIANTE. CREDITO E COMMERCIO. LA CONCEZIONE ORGANICA

Tutto il produrre, il formare e l'agire dell'uomo costituisce quasi un'arte e, per così dire, un'attività organica, mediante la quale la volontà umana tra­ bocca nella materia estranea, dandole forma; e quando serve alla conserva­ zione, al progresso o alla gioia di una comunità, come nel rapporto naturale e originario, può essere concepito come una funzione di questa, come se la comunità, espressa dal singolo individuo (dal singolo gruppo) , si procurasse essa stessa questi servizi. Il commercio, come abilità di ricavare profitti, è il contrario di queste forme di arte. Il profitto non è un valore, è soltanto un mutamento nelle relazioni tra i patrimoni: il plus dell'uno è il

minus dell'altro (le proufict de l'un c'est le dommage d'aultruy- dice Montaigne) [ ..] .L'appropriazione è .

soltanto un'attività occupatoria e quindi, in quanto altri vengono pregiu­ dicati, predatoria; non è un lavoro che trasformi in bene (o in oggetto d'u­ so) ciò che prima non esisteva se non come sostanza in natura, o comunque non possedeva ancora determinate buone qualità. E !'"attività" compiuta dal commercio in riferimento agli oggetti non è altro, nella sua essenza (anche se lo stesso soggetto può aggiungervi qualche lavoro) , che domanda, appro­ priazione, offerta, smercio, e quindi consiste in semplici manipolazioni che lasciano intatta la natura della cosa. Invece il commerciante, ponendo un vantaggio tangibile eppure astratto come lo scopo reale e razionale della sua attività al di fuori di questa, è ( in questo senso) il primo uomo pensante e li­ bero che appaia nello sviluppo normale di una vita sociale. Egli si trova il più possibile isolato da tutte le relazioni necessarie

(necessitudines), da tutti i do­

veri e i pregiudizi'7• Egli è libero dai legami della vita di comunità, e quanto più lo è, tanto meglio per lui. Dinanzi a lui, con lui e i suoi pari, sta in primo luogo il creditore. La differenza è chiara: il creditore tratta con una stessa e identica controparte, alla quale dà qualcosa per ricevere in cambio un di più. Dal canto suo, egli non acquista altro che un credito, cioè un diritto che gli viene dato mediante la promessa del debitore; e con ciò acquista un even16. K. Marx, Das Kapital, Hamburg, 1867, vol. I, cap. I, annotazione 17. «A merchant, it has been said very properly, is not necessarily the citizen o f any

particular country», dice Adam Smith nell'Inquiry into the Nature and Causes oJthe Wealth

ofNations, London 1776, libro III, cap. IV; si confronti questo passo con l'altro, prima citato, dello stesso autore, secondo il quale lo scambio fa di ogni uomo un commerciante.



FERDINAND TONNIES: DA COMUNITÀ A SOCIETÀ COMPLESSA

III

tuale diritto di coercizione contro quest'ultimo, o (almeno) il diritto di trat­ tenere o di prendere come sua una cosa che il debitore gli aveva consegnata come pegno (concretamente o idealmente) per rafforzare la sua promessa. Questo è già stato presentato come il caso puro del contratto efficace nel tempo, che produce un'obbligazione. Che in realtà ciò che viene promesso sia più di ciò che viene dato, non è essenziale al concetto di obbligazione. Si può però dire che sia essenziale allo scambio sottostante, in quanto questo ha un soggetto il cui interesse dipende dalla fine dello scambio come scopo di esso -ed il quale ha dato, per calcolo, un bene attuale per conseguire un bene futuro maggiore. E proprio in ciò il creditore è simile al commercian­ te. Infatti, finché ad esempio il prestito è soltanto una specie di soccorso e

lucrum cessans damnum emergens), il guadagno non è concepito come motivo determi­ nante; invece il commerciante è ex projèsso un soggetto che agisce in vista di

gli interessi vengono richiesti soltanto come indennizzo (per o

uno scopo, e il guadagno è il necessario ed unico motivo delle sue azioni. In compenso, però, la sua figura non si presenta con nessuno di quei caratteri di coercizione e di asprezza che possono eventualmente mettere in cattiva reputazione il creditore come usuraio. Con lui tutto è accomodamento ami­ chevole; come compratore egli ha che fare con uno, come venditore con un altro, magari molto lontano. Non sono necessarie obbligazioni, anche se es­ se sono possibili e probabili, e il commerciante diventa egli stesso un debito­ re oppure un creditore, o anche l'una e l'altra cosa insieme. Ma il creditore diventa una specie particolare di commerciante non ap­ pena esercita la sua impresa sistematicamente e in vista del guadagno. Così il credito, sotto la forma della cambiale, diventa esso stesso una merce trasfe­ ribile, di cui è possibile fare incetta a scopo di rivendita, e il cui consumo ha luogo mediante la sua vendita finale, che ne costituisce la realizzazione. In tal modo il credito si sviluppa come affare sussidiario del commercio vero e proprio. Se i commercianti sono mediatori dello scambio, i banchieri costi­ tuiscono i mediatori della mediazione. In realtà, però, è caratteristica essen­ ziale di entrambe le categorie -quali che siano i servizi resi reciprocamente e agli altri -quella di agire non già come mandatari, ma per iniziativa propria, per proprio conto e a proprio rischio, come potenze libere e indipendenti; e tutte le loro azioni sono mezzi calcolati per scopi razionalmente concepiti. Ciononostante, tutte queste attività, in quanto possano direttamente o in­ direttamente aiutare un bisogno (di scambio) già comunque sussistente in due (o più) punti diversi, possono in effetti venire intese come funzioni au­ siliarie di un organismo comprendente entrambi, se un tale organismo è già stato concepito fondatamente come esistente. Di conseguenza, anche l'in­ tera categoria commerciale, cioè il ceto dei commercianti, se non il singolo

112.

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

commerciante, può venir inteso come organo del genere, il quale deve la sua formazione alla vita e alla volontà comunitaria. Ma in quanto non c'è alcuna comunità, non c'è neppure un organo di mediazione. Esso può però confi­ gurarsi, considerato semplicemente da una parte, come organo di smercio favorevole; oppure può anche, d'altra parte, essere usato e assimilato come organo di approvvigionamento. L'una e l'altra cosa, però, diventano possibili solamente a condizione che lo smercio effettuato vada realmente a vantaggio di tale totalità, in quanto trasformazione di un valore meno utile in valore più utile, e che la sua ali­ mentazione e il suo compenso ( benché esso li tragga nella forma di un pro­ fitto regolare ) siano proporzionati al valore col quale la sua prestazione per questa totalità viene, secondo un'equa stima, a pesare sulla bilancia: con ciò non si esclude quindi un profitto più elevato, in quanto possa venir realizza­ to a spese degli estranei. LA CONTRADDIZIONE. I PADRONI DELLA SOCIETÀ. LA SCHIAVITÙ. GLI SCHIAVI COME SOGGETTI?

In realtà, però, rimane sempre operante una contraddizione che spinge verso un rovesciamento di tutte queste relazioni: mentre in generale ogni vendito­ re offre il prodotto del proprio lavoro come una merce reale, cercando infine come suo equivalente altre merci reali, è proprio sia del commerciante che dell'usuraio avere in mano la merce che essi non hanno prodotto, cioè il de­ naro, e quindi - per

definizione - una merce puramente ideale, anche se di

regola essa può venir rappresentata dalla merce reale di un metallo coniato. Infatti il denaro in sé è la pura qualità astratta di ogni merce, in virtù della quale essa può comprare altre merci, simile alla forza di una leva o di un peso che non può venir creata, ma soltanto raccolta. E raccoglierla è precisamente l'unico oggetto che il commerciante ha avuto di mira. Egli compra denaro con denaro, anche se con la mediazione della merce; l'usuraio fa a meno per­ fino di questo intermediario. La fatica dell'uno e dell'altro sarebbe nulla, nel senso sociale, se essi conseguissero soltanto una quantità eguale: questa è la natura del prestito non commerciale fatto per compiacenza e amicizia e della vendita al prezzo d'acquisto, che occasionalmente può diventare necessaria nell'interesse di un profitto negativo, cioè per evitare perdite. Ma il commerciante e l'usuraio, in quanto padroni del loro mestiere, vo­ gliono regolarmente assicurarsi una quantità maggiore dandone una minore; essi vogliono avere un profitto. Nella misura in cui vi riescono in virtù delle differenze di luoghi e di tempi, essi possono aumentare il loro denaro e il loro patrimonio a dismisura, soprattutto mediante uno sfruttamento ben calcola-



FERDINAND TONNIES: DA COMUNITÀ A SOCIETÀ COMPLESSA

113

to di queste e di altre circostanze favorevoli. Ciò li contrappone ai produttori, che portano al mercato i frutti del loro lavoro per mutarli in una forma più duratura o più gradevole, e quindi più adatta alla conservazione o al godimen­ to -anche se può accadere che venga preferita, quando è disponibile, la forma monetaria, in quanto incorporante la libertà di scelta e di ripartizione di un uso futuro. In effetti, un uso sempre possibile consisterà allora in quell'appli­ cazione mediante cui il denaro si incrementa da sé. E se tale incremento viene concepito e posto come scopo assoluto, la scelta non può che oscillare tra usura e commercio -che sono i metodi più semplici e più facili. Tuttavia, anche se non mancano i desideri e i tentativi, l'occasione e la riuscita di tali attività, o di una partecipazione ad esse, è connessa a molte condizioni particolari. Invece l'incremento del denaro come ricavo di lavoro è limitato dalla materia e dagli strumenti del lavoro, come dalla propria forza lavorativa e dalla propria arte; ed ogni ricavo di tal genere, anche se appare come puro denaro, può essere a buon diritto considerato come il salario e prezzo naturale che il "popolo" (o come altrimenti si voglia esprimere questo concetto della comunità) paga al suo lavoratore per il mantenimento e il miglioramento della vita presente e fu­ tura. Esso consiste perciò, in verità, nel nutrimento, nell'abitazione, nell'abbi­ gliamento e in tutte le cose possibili che gli possono essere utili o piacevoli. Ma il popolo è insensato quando dà una quantità di denaro a qualche suo servito­ re, sia pure il più raro e prezioso, affinché con quello egli gli acquisti merci che poi esso stesso (il popolo) deve di nuovo ricomprare da lui per una quantità di denaro maggiore. Perciò tutta l'analisi di questa realtà, che noi comprendiamo come società, risulta inadeguata. I commercianti o capitalisti - possessori di denaro che può essere incre­

mentato con un duplice scambio -sono i padroni e sovrani naturali della so­ cietà. La società esiste per loro; è il loro strumento. Secondo questa interpre­ tazione tutti i non-capitalisti sono, nell'ambito della società, essi stessi simili a strumenti inerti -questo è il concetto perfetto di schiavitù -e quindi co­ stituiscono per il diritto delle nullità, cioè vengono concepiti come incapaci di un proprio arbitrio, e quindi di un contratto valido nel sistema. Con ciò il concetto del potere, come polo opposto, sarebbe espresso nel­ la forma più pura; ma nello stesso tempo sarebbe negato il concetto della società (umana, in senso generale). Tra i padroni e gli schiavi non esisterebbe alcun rapporto sociale, e quindi alcun rapporto in assoluto. Secondo un'altra interpretazione, invece, gli schiavi sono persone, liberi soggetti del loro arbi­ trio, dello scambio e dei contratti; e quindi sono soggetti della società stessa e delle sue convenzioni. Questo soltanto è il sistema naturale e normale. Nel concetto sociale del diritto naturale tutti gli esseri umani, in quanto soggetti ragionevoli e capaci di agire, sono eguali

a

priori. Ognuno rappre-

114

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

senta e possiede una certa potenza e libertà, con una sfera di arbitrio proprio. Ognuno può uccidere l'altro, se lo ritiene bene; ognuno può appropriarsi e go­ dere di beni abbandonati e difenderli dagli attacchi; ognuno può, possedendo materiale e attrezzi, produrre col suo lavoro nuove cose come proprie. E così tutti possono trasformare la propria attività in cose e venderla; possono farne oggetto di una promessa, e quindi di un contratto. Il riconoscimento di queste capacità generali e necessarie, come spettanti ad ogni essere umano - o almeno ad ogni adulto - fa della schiavitù giuridica un'assurdità, e perciò la sopprime.

[Tonnies,

Comunita e societa,

cit., pp. 95-103]

Appendice: risultati e prospettive TIPI DI CONVIVENZA REALE

Le forme esteriori della convivenza, quali sono date dalla volontà essenziale e dalla comunità, sono state distinte in casa, villaggio e città. Questi sono i ti­ pi costanti della stessa vita reale e storica in generale. Anche nella società svi­ luppata, così come nelle epoche primitive e intermedie, gli uomini convivono in questi diversi modi. La città è la forma più alta, cioè più complicata, della convivenza umana in generale. Essa ha in comune con il villaggio la struttura locale, in antitesi a quella familiare della casa. Ma entrambi conservano molti caratteri della famiglia - ed il villaggio in misura maggiore della città. La città li perde quasi completamente soltanto quando si sviluppa in grande città: le singole persone o famiglie stanno l'una di fronte all'altra, ed il luogo che esse hanno in comune non è che una dimora accidentale ed elettiva. Come la città perdura nell'ambito della grande città - com'è espresso dallo stesso nome di questa - così le forme di vita comunitarie perdurano, sia pure atrofizzandosi ed estinguendosi, nell'ambito di quelle sociali, co­ me le uniche forme reali. Al contrario, quanto più lo stato sociale si allarga in una nazione o in un gruppo di nazioni, tanto più un intero "paese': o il "mondo" intero, tende a diventare simile ad un'unica metropoli. Tuttavia nella grande città, e quindi nella situazione sociale in genere, soltanto gli strati superiori, i ricchi, i colti sono veramente attivi e vitali; essi forniscono la misura alla quale gli strati inferiori devono conformarsi con la volontà sia di soppiantare i primi, sia di diventare simili a loro, per acquistare essi stes­ si una potenza sociale e arbitraria. Tanto in quelle quanto in queste masse, la grande città - e quindi anche la "nazione" e il "mondo" - non consiste se non di persone libere, le quali entrano continuamente in contatto tra loro

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nel traffico, scambiando e collaborando tra loro, senza che tra essi sorga una comunità e una volontà comunitaria se non sporadicamente o come residuo di condizioni precedenti che stanno ancora alla sua base. Piuttosto, questo complesso di relazioni, di contratti e di rapporti contrattuali esterni serve soltanto a coprire altrettanti stati di ostilità e interessi agonistici interni, ed in primo luogo l'antitesi già richiamata tra i ricchi, cioè la classe che detiene il potere, e i poveri, cioè la classe che serve, le quali cercano di ostacolarsi e di distruggersi a vicenda: quest'antitesi- secondo l'espressione di Platone­ rende la città "doppia': cioè divisa nel proprio corpo, ma appunto perciò ne

fa ( secondo la nostra concezione) una grande città, e d'altra parte si riprodu­ ce in ogni rapporto di massa tra capitale e lavoro.

Mentre la comune vita cittadina, continuando a svolgersi in tutto e per tutto nell'ambito della comunità della vita familiare e della terra, si dedica anche all'agricoltura, ma particolarmente all'arte e all'artigianato, fondato su questi bisogni e su questi modi di pensare naturali, la sua elevazione al grado di grande città la distacca nettamente da essa, per riconoscere e usare quella base soltanto più come mezzo e strumento per i suoi scopi. La grande città è la forma di convivenza tipica della società in generale. Essa è perciò essenzialmente una città commerciale e, in quanto il commer­ cio domina in esse il lavoro produttivo, una città industriale. La sua ricchez­ za è ricchezza di capitale, il quale è denaro che si moltiplica con il suo impie­ go, sotto forma di capitale commerciale, usurario o industriale, ed è mezzo per l'appropriazione dei prodotti del lavoro o per lo sfruttamento delle forze di lavoro. Essa è infine la città della scienza e della cultura, che si accompa­ gnano sempre al commercio e all'industria. Le arti cercano qui di assicurarsi i mezzi di sussistenza, e vengono esse stesse sfruttate capitalisticamente. Il pensiero e l'opinione si formano e si modificano con grande rapidità. Il di­ scorso e lo scritto diventano, mediante la diffusione di massa, le leve di ecci­ tazioni enormi. Dalla grande città si distingue la capitale nazionale, la quale presenta in molti aspetti i caratteri di essa, specialmente come sede di una corte princi­ pesca e centro del governo, anche quando non sia ancora tale per la sua po­ polazione e per le altre condizioni. Infine si sviluppa, anzitutto attraverso la sintesi di queste due forme, la massima espressione di questa specie: la città mondiale, la quale comprende in sé l'estratto non soltanto di una società na­ zionale, ma di tutta una cerchia di popoli, cioè del "mondo". In essa il denaro e il capitale sono illimitati e onnipotenti; essa sarebbe in grado di produrre merci e scienza per l'intero globo, di fornire leggi valide e un'opinione pub­ blica a tutte le nazioni. Essa rappresenta il mercato e il traffico internaziona­ le; in essa si concentrano industrie mondiali, i suoi giornali hanno impor-

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SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

tanza mondiale, uomini di tutti i paesi si riuniscono in essa avidi di denaro e di piaceri, ma anche spinti dalla curiosità e dal desiderio di imparare. IL CORRISPETTIVO DELLA COMUNITÀ

La vita familiare è invece la base generale dei modi di vita comunitari. Essa si conserva nel suo sviluppo attraverso la vita di villaggio e di città. La co­ munità di villaggio e la città possono ancora essere concepite come grandi famiglie, e quindi le varie stirpi e i casati possono venir pensati come gli or­ ganismi elementari del suo corpo; le corporazioni, le gilde e gli uffici sono da parte loro i tessuti e gli organi della città. Un'originaria parentela di sangue e un lotto ereditario continuano qui a costituire la condizione essenziale o comunque più importante per una partecipazione e un godimento completo della proprietà e dei diritti comu­ ni. Gli stranieri possono essere accettati e protetti, temporaneamente o du­ revolmente, come membri addetti al servizio o come ospiti, cioè in quanto oggetti, ma non possono appartenere facilmente a questa comunità come portatori e fattori di essa. Anche i fanciulli vivono dapprima nella famiglia soltanto come membri dipendenti, privi di capacità giuridica, ma appunto perciò vengono chiamati "liberi" nella lingua latina, in quanto in loro si scor­ gono già i possibili padroni futuri e, in circostanze normali, i padroni certi, cioè gli "eredi di se stessi". Ciò non vale né per gli ospiti né per i servi, sia nel­ la casa che nella comunità. Ma gli ospiti come persone benvenute e onorate possono avvicinarsi alla posizione dei fanciulli e possono anche acquistarla, e godere del diritto ereditario, con l'adozione o con la concessione della cit­ tadinanza. E i servi possono essere stimati e trattati in modo simile agli ospi­ ti, e per il valore delle loro funzioni possono anzi partecipare come membri della famiglia all'attività di governo. Così può anche accadere che essi si pre­ sentino come eredi naturali o costituiti. La realtà rivela qui numerose gradazioni, inferiori e superiori, che non possono essere costrette nelle formule di concetti giuridici. D'altra parte tut­ ti questi rapporti, in circostanze particolari, possono trasformarsi piuttosto in rapporti di reciprocità, puramente interessati e indissolubili, tra contra­ enti che rimangono indipendenti gli uni dagli altri. Nella grande città que­ sta trasformazione è naturale, almeno per quanto riguarda tutti i rapporti di servizio, ed accompagna sempre più il suo sviluppo. La differenza tra nativi e stranieri diventa irrilevante. Ognuno è ciò che è in virtù della sua libertà personale, del suo patrimonio e dei suoi contratti; è dunque servo soltanto in quanto offre ad un altro determinate prestazioni di servizio, e signore in quanto le riceve. In realtà il patrimonio è qui l'unica caratteristica effettiva



FERDINAND TONNIES: DA COMUNITÀ A SOCIETÀ COMPLESSA

117

e originaria, mentre in tutti gli organismi comunitari la proprietà- quanto partecipazione al godimento del possesso comune, e come sfera giuridica

particolare- è interamente conseguenza e risultato della libertà o dell'in­ genuità, originaria o creata (assimilata), commisurandosi quindi ad esse fin

dove è possibile. Perciò nella grande città, nella capitale e specialmente nella città mondiale l'istituto della famiglia decade. Quanto più quelle possono esercitare i loro effetti, tanto più i resti di questo istituto devono apparire puramente accidentali. Pochi infatti esauriscono la forza delle loro volontà

in una cerchia così ristretta. Gli affari, gli interessi, i piaceri spingono tutti verso l'esterno, separandoli

così gli uni dagli altri. I grandi e i potenti, sentendosi liberi soggetti di una vo­

lontà arbitraria hanno sempre avuto un forte desiderio di infrangere i limiti imposti dal costume. Essi sanno di poter fare ciò che vogliono. Essi hanno il

potere di operare cambiamenti in proprio favore; e questa soltanto è la prova positiva di una potenza arbitraria. Il meccanismo del denaro sembra, in circo­

stanze usuali- quando esso opera con sufficiente pressione- vincere tutte le resistenze, realizzare ogni desiderio, eliminare i pericoli, sanare i mali. Ma ciò

non vale in senso assoluto. Anche ritenendo eliminate tutte le potenze comu­ nitarie, sulle persone libere si elevano comunque le potenze sociali.

Nella società vera e propria (in senso più stretto), la convenzione viene ad occupare, in un largo ambito, la posizione lasciata libera dai costumi e dalla religione: essa proibisce, come dannose all'interesse comune, molte cose che il costume e la religione avevano condannato come cattive in sé e

per sé; e nello stesso senso agisce la volontà dello stato, in confini più ristret­ ti, per mezzo dei tribunali e della polizia. Esso dà le sue leggi per tutti, con­ siderati come soggetti eguali; soltanto i fanciulli e i pazzi non sono respon­

sabili verso di esso. La convenzione vuole conservare almeno l'apparenza dell'eticità; essa è ancora collegata al senso morale e religioso della bellezza,

che è però diventato arbitrario e formale. Allo stato l'eticità interessa ben poco in modo immediato. Il suo compito è soltanto quello di punire le azio­ ni ostili, generalmente dannose, o che appaiono pericolose ad esso e alla so­ cietà. Esso può estendere indefinitamente la sua attività in questa direzione; può anche tentare di trasformare in meglio i motivi e i modi di sentire degli uomini. Infatti, se è vero che il bene pubblico gli viene affidato in ammini­ strazione, esso deve poterlo definire a suo piacimento. Ed esso dovrà infine riconoscere che qualsiasi aumento di conoscenza e di cultura è di per sé in­ sufficiente a rendere gli uomini più benevoli, meno egoisti, più facilmente accontentabili; che un costume e una religione estinti non possono essere richiamati in vita da nessuna coercizione o istruzione, e che, per creare o far

crescere forze etiche e uomini morali, esso deve predisporre le condizioni e

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SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

il terreno adatto, o almeno eliminare le forze che vi si contrappongono. Lo stato, come ragione della società, dovrebbe decidersi ad annientare la socie­ tà o almeno a rinnovarla, riformandola. La riuscita di tali tentativi è estre­ mamente improbabile. LO STATO REALE

Ciononostante l'opinione pubblica, che traduce in espressioni e formule la morale della società, e può così anche diventare superiore allo Stato, rivela decise tendenze a spingere quest'ultimo ad usare la sua potenza irresistibile per costringere tutti a fare ciò che è utile e ad omettere ciò che è dannoso. L'ampliamento del codice penale e l'estensione dei poteri della polizia sem­ brano ad essa i mezzi corretti per far fronte alle cattive tendenze della massa.

L'opinione pubblica passa facilmente dalla richiesta di libertà ( per gli strati

superiori ) alla richiesta di despotismo (contro quelli inferiori ) ; poiché senza dubbio il surrogato convenzionale ha scarsa influenza sulla massa. Nella cor­ sa ai divertimenti e al godimento -che è tanto generale quanto naturale in un mondo in cui l'interesse dei capitalisti e dei commercianti anticipa tutti i bisogni incitando a gara ai più svariati impieghi del denaro -la massa è limi­ tata soltanto dalla scarsità dei mezzi, che lo stesso interesse accorda alla classe lavoratrice come prezzo della forza di lavoro. Una particolare e cospicua sezione di essa, che si estende ben al di là dei "delinquenti" professionali, viene in realtà frenata - nella sua ricerca di im­ padronirsi della leva di tutti i godimenti indispensabili e voluttuari -soltan­ to dal timore di essere scoperta e punita, cioè dal timore dello Stato. Lo Stato è il loro nemico; esso si contrappone loro come forza estranea e fredda. Ap­ parentemente autorizzato da loro stessi, in quanto abbraccia in sé la loro vo­ lontà, esso è invece contrario a tutti i loro bisogni e i loro desideri, difensore della proprietà che essi non possiedono, esattore del servizio militare per una patria che è per essi focolare e altare sotto forma di una camera riscalda­ ta ai piani superiori, o dolce suolo natio sotto forma del lastrico della stra­ da - dove è loro concesso lo spettacolo dell'inaccessibile splendore altrui, mentre la loro vita reale è divisa in un contrasto di lavoro e festa, che snatura l'uno e l'altra, tra la fabbrica come sofferenza e l'osteria come piacere. Così la grande città, e la situazione sociale in generale, rappresentano la decadenza e la morte del popolo che si sforza invano di diventare potente con la sua massa, ed ha la sensazione di poter usare la sua potenza soltanto per la rivolta, se vuole liberarsi della sua infelicità. La massa raggiunge la con­ sapevolezza di sé attraverso un'educazione varia, fornita da scuole e da gior­ nali. Essa passa dalla coscienza di classe alla lotta di classe. La lotta di classe



FERDINAND TONNIES: DA COMUNITÀ A SOCIETÀ COMPLESSA

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può distruggere la società e lo Stato, che essa vuole riformare. E poiché tutta la cultura si è trasformata in civiltà sociale e statale, la cultura stessa tramonta in questo suo aspetto trasformato. Ma i suoi germi sparsi possono rimanere vitali, l'essenza e le idee della comunità possono di nuovo ricevere alimento, e sviluppare una nuova cultura nell'ambito di quella che si estingue. LE ERE

Per concludere questa analisi, possiamo constatare che nei grandi processi di sviluppo culturale si contrappongono due età- un'età della società segue ad un'età della comunità. Questa è definita dalla volontà sociale come con­ cordia, costume e religione; quella è definita dalla volontà sociale come con­ venzione, politica, opinione pubblica. E a questi concetti corrispondono le forme della convivenza esteriore, che si possono schematicamente classifica­ re nel modo seguente. A. Comunità I.

Vita familiare= concordia. Qui l'uomo è presente con tutto il suo modo

di sentire: il suo soggetto proprio è il popolo. 2.

Vita di villaggio= costume. Qui l'uomo è presente con tutto il suo ani­

mo: il suo soggetto proprio è la collettività. 3·

Vita di città= religione. Qui l'uomo è presente con tutta la sua coscien­

za: il suo soggetto proprio è la chiesa. B. Società I.

Vita di metropoli= convenzione. Questa è posta dall'uomo con tutte le

sue aspirazioni; il suo soggetto proprio è la società in generale. 2.

Vita nazionale= politica. Questa è posta dall'uomo con tutto il suo cal­

colo: il suo soggetto proprio è lo Stato. 3·

Vita cosmopolitica= opinione pubblica. Questa è posta dall'uomo con

tutta la sua consapevolezza: il suo soggetto proprio è la repubblica dei dotti. A ognuna di queste categorie si ricollega poi un'occupazione prevalente e

una tendenza predominante dell'orientamento spirituale che vi è congiunto, che si possono raggruppare come segue. A. I. Economia domestica: si fonda sul piacere, e più precisamente sul piacere

del produrre, del creare, del conservare. Le sue norme si trovano nella com­ prensione.

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

120

2.

Agricoltura: si fonda sulle abitudini, cioè su lavori ripetuti regolarmente.

La cooperazione trova la sua misura e direzione negli usi. 3· Arte: si fonda sui ricordi di un insegnamento ricevuto, di regole assimila­

te, di idee proprie. La credenza nella missione e nell'opera unisce le volontà artistiche. B. 1.

Il commercio si fonda su deliberazioni - in quanto l'attenzione, la com­

parazione, il calcolo sono la condizione fondamentale di ogni affare; il commercio è l'azione pura (arbitraria). Il contratto è l'uso e la fede del commercio. 2.

L'industria: si fonda su decisioni concernenti l'impiego produttivo razio­

nale del capitale e la vendita della forza di lavoro: la fabbrica è dominata da statuizioni. 3· La scienza si fonda su concetti, com'è evidente di per sé: essa si dà le pro­

prie leggi sotto forma di dottrine, presentando così le sue verità e le sue opi­ nioni che passano poi nella letteratura, nella stampa e quindi nell'opinione pubblica. LE EPOCHE DELLE ERE

Nella prima era il tono dominante è costituito dalla vita familiare e dall'e­ conomia domestica, mentre in quella successiva è costituito dal commercio e dalla vita della grande città. Ma un'osservazione più accurata dell'era della comunità permette di distinguere in essa varie epoche. Tutto il suo sviluppo tende verso un'approssimazione alla società; ma d'altra parte la forza della comunità persiste, sia pure attenuandosi, anche nell'era della società, e rima­ ne la realtà della vita sociale. La prima epoca è caratterizzata dagli effetti della nuova base della convi­ venza, che è data dal suolo coltivato, nonché del vicinato che si pone a fian­ co dell'antica e persistente base della parentela del sangue, e del villaggio che sorge accanto alla schiatta. L'altra epoca nasce quando dai villaggi si svilup­ pano le città. Comune ai villaggi e alle città è il principio spaziale della convivenza, al posto di quello temporale della famiglia (della stirpe o del popolo). Infatti quest'ultima ha radici invisibili, metafìsiche, per così dire sotterranee, in quan­ to deriva da antenati comuni. I viventi sono uniti dalla successione delle gene­ razioni che sono state e che saranno, dal passato e dal futuro. Là invece la terra in senso fisico costituisce il luogo permanente, il terreno visibile attraverso cui le relazioni e i rapporti più intensi diventano necessari. Durante l'era comuni-



FERDINAND TONNIES: DA COMUNITÀ A SOCIETÀ COMPLESSA

12.1

taria questo principio spaziale più recente rimane legato a quello temporale più antico. Nell'era sociale esso se ne svincola; e questo dà luogo all'esistenza delle grandi città. Essa è nello stesso tempo, come dice il suo nome, l'espres­ sione eccessiva ed esorbitante della forma cittadina del principio spaziale - la quale si pone, attraverso questa possibilità e realtà, nell'antitesi più decisa con l'insediamento del villaggio, che permane essenzialmente e quasi necessaria­ mente vincolato, costituendo la forma rurale dello stesso principio. Si com­ prende così in quale senso tutto l'andamento dello sviluppo possa essere con­ cepito come una tendenza progressiva verso le forme di vita cittadine: «si può dire che l'intera storia economica della società (cioè delle nazioni moderne) si riassume nel movimento dell'opposizione tra città e campagna»'8• Più preci­ samente, si può dire che da un certo punto le città, apprezzate nei loro effetti e nella loro importanza generale, acquistano nell'ambito di un intero popolo la prevalenza sull'organizzazione rurale di villaggio che sta alla loro base, di mo­ do che quest'ultima deve, per il nutrimento e l'incremento delle città, consu­ mare una quantità delle proprie forze maggiore di quella che può risparmiare per il proprio ricambio. Essa va quindi incontro alla sua dissoluzione, che ha come conseguenza necessaria la successiva dissoluzione di quegli organi e di quelle attività che su di esse riposano. Questa è la legge generale del rapporto tra vita organica o vegetativa e vita animale o sensibile, quale si configura nel corso normale, e quindi an­ che più favorevole, dello sviluppo di un animale - e quale può acquistare un significato particolare, al di là di quello generale, nell'uomo, dove la vita animale e la sua volontà hanno assunto una forma speciale, diventando vita e volere mentale. Ciò avviene in quanto l'uomo è capace di distruggere se stes­ so mediante la ragione - sia direttamente, in base alla ragione, sia nel senso che egli, perseguendo certi scopi e certe intenzioni, è in grado di determi­ nare da sé il suo destino, e quindi di allungare ma anche di accorciare la sua vita. E ciò vale inoltre in quanto la sua decadenza, al pari della sua vita, può configurarsi nella stessa sfera mentale, al di là dell'esistenza animale di altro genere, ed eventualmente anche sopravvivendo a questa. Perciò, per quan­ to riguarda questi fenomeni, l'elemento propriamente animale rimane quasi nel mezzo tra essi e quelli della vita vegetativa, e può essere ascritto per certi aspetti ai primi e per altri ai secondi. Di conseguenza, quando in uno svolgi­ mento normale si distingue una metà ascendente, in cui l'aspetto vegetativo prevale su quello animale, e una metà discendente, in cui il rapporto si inver­ te, ciò rimane valido in un senso generale, e quindi anche per l'uomo; ma in questo caso può acquistare il particolare significato che l'elemento anima18.

K. Marx, Das Kapital, Verlag von Otto Meisner, Hamburg 1867, vol. I, p. 364.

122

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

le, in quanto si esprime in quello mentale, passa attraverso questo processo, e perciò, commisurato ad esso, ogni altro elemento animale coincide con quello vegetativo e viene compreso insieme con esso, in quanto lo esprime. Per questo motivo nella metà ascendente, la quale comporta la prevalenza dell'elemento vegetativo animale, vengono distinte tre categorie, secondo il modo in cui essa si presenta nell'aspetto vegetativo stesso, in quello animale ed in quello mentale; e tre gradi corrispondenti caratterizzano la metà di­ scendente, definita dalla prevalenza dell'elemento animale-mentale. Secondo quest'ordine di idee, all'elemento vegetativo-animale corri­ sponderebbe nella vita di un popolo l'esistenza rurale, e a quello animale­ mentale l'esistenza cittadina. La prima forma, che rimane attiva anche nella città, rappresenta il rigoglio e il massimo sviluppo dell'intero organismo. La seconda forma, che si rende indipendente nella grande città, sembra esistere di per se stessa, in parte facendosi matura ed in parte consumando i frutti, e nello stesso tempo estendendo sempre più il suo dominio sulla totalità, ten­ dendo ad attirare a sé le forze in essa esistenti, oppure (e precisamente così facendo) a distruggerle. DAL COMUNISMO AL SOCIALISMO

Questo intero sviluppo può anche venire concepito - secondo la sua mani­ festazione primaria, che persiste in tutte le successive - come tendenza da un comunismo originario (semplice e familiare) e da un conseguente indi­ vidualismo fondato su di esso (rurale-cittadino), verso un individualismo indipendente (universale e proprio della grande città) e un socialismo posto da esso (statale e internazionale). Questo è già presente con il concetto della società, anche se dapprima soltanto sotto la forma della connessione di fatto di tutte le potenze capitalistiche e dello Stato - il quale, come in esecuzione di un loro mandato, mantiene e promuove l'ordine del traffico. Esso si tra­ sforma poi gradualmente nei tentativi di dirigere unitariamente il traffico e il lavoro stesso attraverso il meccanismo dello stato - la cui riuscita segne­ rebbe però la fine dell'intera società e della sua civiltà. La stessa tendenza comporta necessariamente una simultanea dissoluzione di tutti quei vincoli in cui l' individuo si trova posto con la sua volontà essenziale e senza la sua volontà arbitraria da cui la libertà della sua persona è legata e condizionata nei suoi movimenti, quella della sua proprietà nella sua alienabilità, quella delle sue opinioni nella loro variabilità e nel loro adattamento scientifico, di modo che essi debbono essere sentiti come ostacoli da parte della volontà arbitraria che si determina da sé.



FERDINAND TONNIES: DA COMUNITÀ A SOCIETÀ COMPLESSA

123

Un'analoga dissoluzione si manifesta nella società, in quanto il commer­ cio e il traffico esigono uomini privi di scrupoli, areligiosi, inclini a una vita facile, e tendono a rendere la proprietà o comunque i diritti ad essa relativi sempre più mobili e divisibili; e così pure nello Stato, in quanto esso accele­ ra questo sviluppo e trova nei soggetti illuminati, avidi di guadagno, pratici, gli individui più utili per i suoi scopi. Queste forze e queste antitesi, il loro dispiegarsi e la loro lotta sono comuni ad entrambi gli ambiti di civiltà e ad entrambi i gruppi di popoli su cui possiamo ritenere a ragione di possedere una conoscenza completa: il primo è quello sud-europeo antico, che ha avu­ to ad Atene il suo culmine e a Roma il suo tramonto; il secondo è quello che succede ad esso ovunque e che, influenzato e favorito in molte parti da esso, può venire indicato come l'ambito nord-europeo moderno. Noi scopriamo questa analogia di sviluppi sotto un'enorme varietà di fatti e di condizioni; e nell'ambito dello svolgimento uniforme a cui con­ tribuiscono tutti gli elementi, ognuno di essi ha la propria storia nascosta, che in parte è occasionata da quelli ed in parte, svolgendosi da cause pro­ prie, si inserisce in essi come ostacolo o stimolo. I concetti e i risultati espo­ sti ci aiutano a comprendere le correnti e le lotte che, a partire dagli ultimi secoli, si estendono fino alla nostra epoca, e al di là di essa. Noi pensiamo a questo fine all'intero sviluppo della cultura germanica, che si elevò sulle rovine dell'Impero romano come erede di questo, col diffondersi della con­ versione alla religione cristiana e sotto la feconda potenza della Chiesa: esso può venir inteso come un costante progresso e insieme come decadenza, che diede appunto origine a quelle antitesi che stanno alla base della teoria qui esposta. Perciò si è assunta come punto vero e proprio, anzi necessario, di partenza - in opposizione a ogni ricostruzione che muove deduttivamente dalla profondità del passato - quel momento della storia in cui lo spettatore attuale gode del privilegio insostituibile di osservare i movimenti che si stan­ no compiendo con gli occhi della propria esperienza e di percepire, sia pure incatenato alle rocce del tempo, i suoni e profumi delle approssimatesi figlie dell'Oceano.

[Tonnies, Comunita e societa, cit., pp. 290-300]

s

Max Weber: il futuro tra regole rigide e leadership "forte"

Per quanto venga unanimemente annoverato tra i padri "nobili" della sociologia, Max Weber ha parlato di se stesso in primo luogo come economista ed è proprio il suo interesse verso questa scienza ad avergli consentito di arricchire non po­ co la sua capacità di analisi dei fatti sociali•. Uomo dalla personalità poliedrica e dall'inestinguibile sete di sapere, si occupò anche di filosofia, storia, politica e diritto, lasciando un segno indelebile nella cultura a lui contemporanea e quel­ la successiva. Le sue teorizzazioni furono soprattutto indirizzate alla riflessione metodologica sul sapere scientifico, sulla definizione cioè di un metodo valido e attendibile che permettesse alle scienze storico-sociali di essere considerate og­ gettive nei risultati empirici. I suoi studi si inseriscono, in questo senso, all'inter­ no della discussione aperta da Dilthey, W indelband e Rickert sul metodo delle scienze storico-sociali per lo studio della realtà•. Secondo il sociologo tedesco, per indagare quest'ultima bisogna prendere in considerazione un'infinità di fat­ tori che sottintendono tutti precisi valori di riferimento. È la relazione con questi valori quindi che determina e rende possibile la conoscenza, valori che sono tutti determinati storicamente, socialmente, culturalmente e anche individualmente e, come tali, sempre relativi. Lo scienziato sociale se vuole definirsi tale e cercare la verità in modo scientifico deve essere quindi "avalutativo� cioè esplicitare all'ini­ zio della sua trattazione a quali criteri fa riferimento, a quali presupposti valoriali si ispira, a quali orientamenti soggettivi fa capo la sua ricerca. Solo in questo mo­ do egli può distinguere in maniera chiara i propri valori in relazione ai fenomeni studiati e non farsene condizionare evitando di emettere giudizi di valore rispetto a ciò che sta argomentando\ Una tale dichiarazione d'intenti evidenzia subito come ogni ricerca scienti­ fica sia "unilaterale" in relazione ai valori che la sottintendono e, di conseguen­ za, come la scienza sociale non possa aiutare in alcun modo la politica nelle sue scelte, non potendo emettere alcun giudizio morale o etico né suggerire indica1. M. Weber, La scienza come professione, Bompiani, Milano 2.008 (ed. or. 1919), p. 61. 2.. Cfr. A. lzzo, Storia del pensiero sociologico, il Mulino, Bologna 1991, p. 174. 3· Cfr. Weber, La scienza come professione, cit., pp. 109-2.3.

126

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

zioni pratiche. Ciò che può fare è semplicemente mettere in connessione causale e

comprendere come si produce e si sviluppa l'agire sociale, quali sono cioè i pro­

cessi che conducono da situazioni date ad altre, estrapolandone specifici fattori o cause. La sociologia deve esser vista come scienza

comprendente ( in tedesco ver­

stehen), cioè capace di intendere il senso e di interpretare il significato di ciò che avviene nella società. Lo strumento più utilizzato da Weber allo scopo è

l'idea/tipo ( o tipo ideale),

ossia la costruzione astratta, generalizzata, accentuata di un fenomeno per inter­ pretare la realtà da un particolare punto di vista. In questo modo si garantisce l'oggettività scientifica della ricerca tramite un metodo accurato ed attendibile allo scopo di studiare l'ambito di pertinenza della disciplina: l'azione sociale o azione dotata di senso e le relazioni sociali fra individui, anch'esse dotate di senso e agite in conformità. Definizione chiara dell'obiettivo della materia è riportata in quella che viene considerata la sua summa,

Economia e societa, ponderosa opera pubblicata postu­

ma che tratta i concetti fondamentali dei suoi studi aprendosi inoltre a importan­ ti spunti e prospettive: «La sociologia ( nel senso qui inteso di questo termine, impiegato in maniera così equivoca ) deve designare una scienza la quale si pro­ pone di intendere in virtù di un procedimento interpretativo, l'agire sociale, e quindi di spiegarlo causalmente nel suo corso e nei suoi effetti. Inoltre, per "agire" si deve intendere un atteggiamento umano ( sia esso un fare o un tralasciare o un subire, di carattere esterno o interno ) , se e in quanto l'individuo che agisce o gli individui che agiscono congiungono ad esse un senso soggettivo. Per agire "socia­ le" si deve però intendere un agire che sia riferito - secondo il suo senso, intenzio­ nato dali'agente o dagli agenti - ali'atteggiamento di altri individui, e orientato nel suo corso in base a questo» 4, Nella disamina conseguente l'autore esplicita quattro tipi ideali dell'agire so­ ciale: l'agire razionale rispetto allo scopo, l'agire razionale rispetto al valore, l'a­ gire affettivo e l'agire tradizionale. L'agire razionale rispetto allo scopo si esplica per raggiungere un determina­ to fine attraverso l'applicazione di specifici mezzi. Il secondo tipo di attività rimanda all'affermazione del valore in sé, sia esso etico, estetico, religioso o di altro tipo, indipendentemente dalle conseguenze. L'agire affettivo è l'azione legata ad un particolare stato d'animo, stato affet­ tivo o ali'emozione contingente dell'attore. Infine, l'agire tradizionale è dettato dall'abitudine, dalla consuetudine, dai costumi e dalle credenze in modo quasi automatico. Come sopra descritto Weber è stato convinto assertore del "politeismo dei valori" ma anche del potere della ragione, in quanto uomo e studioso perfetta­ mente inserito nel contesto storico del suo tempo, ed è proprio per questi motivi 4· M. Weber, Economia e societa, Edizioni di Comunità, Milano 1968, p. 4 (ed. or. 1922, postumo).

5· MAX WEBER: IL FUTURO TRA REGOLE E LEADERSHIP

127

che ha dedicato la parte centrale del suo impegno all'ambito metodologico. Il lavoro dello scienziato infatti non è mai definitivo, non può delimitare certez­ ze date le infinite possibilità e concause storiche che determinano la realtà e la stessa verità è sempre e solo una verità parziale, della cui scientificità il metodo è custode. Per lo studioso si può ben dire che la scientificità sia il metodo: «In campo scientifico ognuno di noi sa che in dieci, venti o al massimo cinquanta anni il suo lavoro sarà invecchiato. Questo è il destino, anzi, il senso del lavoro scientifico, e ad esso la scienza si assoggetta e si consacra in maniera che è assolu­ tamente peculiare rispetto a tutti gli altri aspetti della cultura di cui si può dire la stessa cosa: ogni "riuscita" scientifica implica il sorgere di nuove domande e deve essere superata, e quindi invecchiare. A questo è necessario che si rassegni chiunque voglia dedicarsi alla scienza.

[ .. ] .

Ma quello di essere superati dal pun­

to di vista scientifico, lo ripeto, non è solo il nostro destino comune, ma è anche il nostro scopo» s. L'impegno posto nella dimensione metodologica, e gli stessi contenuti che ne costituiscono le premesse, lasciano già intendere che Weber non ha mai trat­ tato in modo sistematico, o anche solo approfondito, l'argomento della previsio­ ne sociale in quanto tale o del futuro possibile delle tematiche trattate. Di certo non ha mai scelto di farlo. Dalla lettura dei suoi testi si possono, però, evincere intuizioni, visioni o idee che, a partire dal presente e dal passato analizzati in maniera critica, possono fornire illuminazioni o anche solo attente aperture su prospettive e dinamiche successive. Due in particolare gli ambiti in cui si rinviene questo tipo di riflessioni: l'e­ conomia e la politica. Del resto l'attenzione posta a questi settori può risultare scontata se pensiamo al corso completo della sua esistenza. Nato ad Erfurt nel 1864, da una famiglia dell'alta borghesia protestante ap­ partenente al mondo della cultura e della politica, con un padre che fu anche parlamentare, insegnò Economia nelle Università di Friburgo e di Heidelberg ed ottenne un dottorato proprio con una tesi di storia economica sulle società commerciali del Medioevo. Il primo dei testi che vengono presentati in questa raccolta antologica si riferisce in effetti ai temi economici a lui così cari. Esso riguarda una delle sue prime opere, e una delle sue più importanti, L 'etica protestante e lo spirito del capitalismo, in cui iniziava ad applicare le sue riflessioni di metodo alla ricer­ ca. In modo originale egli evidenzia come il fenomeno storico del capitalismo, inteso come organizzazione razionale dell'impresa in relazione al guadagno, si fosse maggiormente sviluppato e diffuso in Occidente grazie ad un particolare fattore che ha funzionato da detonatore, un fattore religioso-culturale che egli rintraccia nell'etica protestante. Questa, in particolare nella versione puritana, con l'enfasi posta sulla vita mondana e sul carattere sacro dei compiti professios.

lvi, p.

Bs.

128

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

nali di ciascuno (il concetto di Beruj) 6 e con la sua dottrina della predestinazione delle anime, è il sostrato ideale per lo "spirito" capitalistico che aveva ormai preso piede nel mondo occidentale. Capitalismo inteso non come ricerca affannosa del profitto a tutti i costi ma proprio come ricerca del guadagno, da reinvestire nell'impresa, che rende evidente esteriormente la predestinazione alla salvezza. L'altra opera in cui riprende questo tipo di tematiche è la Storia economica, per quanto questo testo sia stato pubblicato postumo sulla base di alcuni suoi scritti e, soprattutto, su appunti dei suoi studenti dell'Università di Monaco presi poco prima della sua morte, nel 1920. Quest'opera ripropone una genesi del ca­ pitalismo occidentale collegandolo, oltre che all'etica protestante, anche ad altri fattori quali lo Stato moderno, la scienza e la tecnica razionale. In entrambi i testi si sottolinea la diffusione del capitalismo come dato, probabilmente anche nel futuro, trattandosi però, di un fenomeno che ha subito una deviazione negativa nella spasmodica ricerca di profitto slegata da un senso più alto e significativo, perdendo l'afflato ascetico e religioso che ne costituiva la base e trasformandosi in una sorta di "gabbia d'acciaio" che avrebbe potuto portare a forti tensioni sociali8• Un preoccupato grido di allarme nei confronti dell'umanità riecheggia e l'autore, pur non lasciandosi andare a previsioni chiare, fa trasparire una prospettiva in­ certa e negativa dalle sue riflessioni che si possono condividere largamente anche guardando lo stato attuale della situazione. Gli altri due brani selezionati riguardano la politica, altro tema importante nella trattazione di Weber dato che fu sempre partecipe alle vicende del suo tem­ po non solo come intellettuale attraverso la collaborazione con un quotidiano liberale, la "Frankfurter Zeitung': ma anche e soprattutto partecipando ai nego­ ziati di Versailles nella rappresentanza ufficiale del suo paese. I testi sono tratti da Parlamento e governo del 1919 e si occupano del forte processo di burocratizzazio­

ne in atto che avviluppa qualsiasi ambito istituzionale e non, compresa la demo­ crazia e i diversi attori della politica stessa. La burocrazia dei "funzionari" coman­ da, gestisce, prende decisioni anche imponendole a coloro i quali ne avrebbero effettiva competenza senza assumersi alcuna responsabilità e pagare l'eventuale scotto di errori persino nella politica estera. 6. Il termine Beruf, già incontrato nei testi proposti da Simmel, non ha significato uni­

voco nella nostra lingua ma è traducibile allo stesso momento con professione e vocazione. 7· Dottrina che si basa, nel calvinismo, sul fatto che solo Dio ha il potere di salvare l'uo­ mo, non l'uomo stesso che nulla può fare a questo scopo. La riuscita e il successo nel campo professionale vengono visti come segni della «Grazia benevolente di Dio verso l'eletto». 8. «L'ethos economico era sono sul terreno dell'ideale ascetico; ora veniva spogliato del suo significato religioso. Ciò doveva avere gravi conseguenze. Era possibile che la classe operaia, fino a che le si poteva promettere la beatitudine eterna, si accontentasse della sua

sorte. Se questa consolazione veniva a mancare, dovevano determinarsi, all'interno della so­ cietà, le tensioni che, da allora, sono continuamente in aumento. Tocchiamo il momento in cui il primo capitalismo ha termine; e principia, nel XIX secolo, l'età del ferro» (M. Weber,

Storia economica. Linee di una storia universale dell'economia e della societa, Donzelli, Roma 2007, pp. 270-1, ed. or. 1923, postumo).

5· MAX WEBER: IL FUTURO TRA REGOLE E LEADERSHIP

12.9

Egli pone la sua attenzione in particolare sui partiti politici e sul parlamen­ to, con un corollario relativo all'importanza dei capi, i leader di partito. I partiti, visti come nascenti "associazioni" che già si stanno burocratizzando nella forma negativa, sclerotizzandosi cioè in apparati di potere che sviluppano prebende e opportunismi, potrebbero costituire un ottimo strumento di partecipazione dei cittadini "governati" e soprattutto, pur sviluppando una necessaria burocrazia per la loro formazione, dovrebbero costituire quel luogo all'interno dei quali i capi politici, veri leader con ideali e contenuti sociali, possono addestrarsi nella lot­ ta, simbolo della politica, ed emergere come possibili futuri statisti e guide per il parlamento se non per l'intero paese. Questi leader devono avere la capacità di prendere decisioni ed assumersi la responsabilità delle conseguenze, caratteristi­ che indispensabili del politico che lo differenziano dal mero burocrate. Questo non è affatto di poco conto per il futuro se si pensa che lo stesso autore sottolinea come «per quanto se ne deplori moralisticamente l'esistenza

[ .. ] .

l'esistenza dei

partiti non verrà eliminata»9, Le sue considerazioni appaiono particolarmente incisive se si pensa che, al momento in cui l'autore scrive, i partiti non riescono ad assolvere a quella che do­ vrebbe essere la loro naturale e fondamentale funzione di definizione, diffusione e promozione di una particolare visione del mondo, pregna di contenuti ideali e pratici da realizzare. Se l'autore evidenzia l'importanza dello strumento "partito" ancor più si di­ lunga nelle riflessioni dalle quali scaturiranno le sue tesi sul parlamento e sulla "parlamentarizzazione". Nel momento in cui scrive, e pur non volendo affatto negare o eliminare l'importanza della monarchia quale istituzione, critica la fun­ zione svilita del parlamento stesso, sopraffatto dalla burocrazia dei funzionari, e non più ambito di vera discussione politica e di decisione sulle sorti del paese. Questo deriverebbe oltre che dal potere ormai straripante dei burocrati anche dall'architettura istituzionale e formale tedesca, a cominciare da un particolare articolo dell'allora recente Costituzione, che non concretizzerebbe la possibilità di renderlo sede di confronto e di effettiva rappresentanza dei cittadini. Esso è svuotato, può avere una certa forza solo in poche materie, fra le quali il bilancio, ed è quasi costretto ad una politica difensiva, "negativa': dice Weber, che si attesta solo su sterili «critiche, proteste, discussioni, emendamenti e bocciature di pro­ getti di legge del governo» '0, La soluzione proposta dal sociologo è quella in primis di cambiare l'art. 9 della Costituzione che sembra cristallizzare questa situazione, e tutti quei regola­ menti e quelle leggi che imbrigliano l'operato del Reichstag, in modo da restituire a questo la sua fondamentale funzione di controllo sulla burocrazia e sugli altri apparati che sanciscono un equilibrio dei poteri ed una effettiva rappresentanza di chi ha prestato il suo consenso ad essere governato, i cittadini appunto. Il tutto

9· M. Weber, Parlamento e governo, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 2.8 (ed. or. 1919 ). IO. lvi, p . 57·

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

130

per contrastare il potere pervasivo della burocrazia e per permettere un sano svi­ luppo della democrazia, altro elemento portante della sua discussione per la mi­ gliore crescita della Germania dell'epoca. Non sappiamo quanto le sue idee possano aver contribuito ad un certo cam­ biamento ma bisogna pur evidenziare che queste teorie avevano un certo seguito se nell'agosto del 1919 fu approvata la Costituzione della nascente Repubblica di Weimar in cui i poteri essenziali venivano posti in capo al Reichstag, assemblea eletta a suffragio universale, e la repubblica veniva disegnata come federalista e parlamentare, in accordo con le tesi dello studioso. Come ulteriore conseguenza dello sviluppo negativo di partiti e parlamen­ to egli scorge, nella parte finale dell'ultimo testo, la mancata formazione di una classe dirigente competente e responsabile che si ponga come guida degli uni e dell'altro. In particolare, sottolinea l'importanza della figura dei capi o leader di parti­ to, assenti in quel momento nel suo paese, che, diventando fulcro di una ristretta

élite di dirigenti responsabili, potessero davvero «governare e fare la politica» come si dovrebbe in un paese democratico. L'autore scrive al riguardo di «ineli­ minabile risvolto cesaristico» per qualsiasi Stato democratico ed è notevole con­ siderare come questo sia proprio ciò che sta accadendo oggi nei maggiori paesi occidentali dove si tende a far emergere la figura, sia essa di un capo di Stato o di governo, che assolve la funzione leaderistica raggruppando attorno a sé una cerchia di fidati collaboratori con i quali cerca di dirigere e governare al meglio. Si può ben vedere, quindi, come tutte queste tesi siano ancora attuali nel pa­ norama politico e indichino una grande capacità di lettura delle criticità e degli snodi cruciali del tema, oltre che un'attenta valutazione di quanto sarebbe potuto accadere in futuro.

5· MAX WEBER: IL FUTURO TRA REGOLE E LEADERSHIP

131

La gabbia d'acciaio del capitalismo Il puritano volle essere un professionista, noi lo dobbiamo essere. Infatti, quando l'ascesi passò dalle celle conventuali alla vita professionale e comin­ ciò a dominare sull'eticità intramondana, contribuì, per parte sua, a edifi­ care quel possente cosmo dell'ordine dell'economia moderna - legato ai presupposti tecnici ed economici della produzione meccanica - che oggi determina, con una forza coattiva invincibile, lo stile di vita di tutti gli indi­

vidui che sono nati entro questo grande ingranaggio ( non solo di coloro che

svolgono direttamente un'attività economica ) , e forse continuerà a farlo fin­ ché non sia stato bruciato l'ultimo quintale di carbon fossile. Solo come un

«leggero mantello che si potrebbe sempre deporre», la preoccupazione per i beni esteriori doveva avvolgere le spalle dei suoi santi, secondo l'opinione di Baxter". Ma il destino ha voluto che il mantello si trasformasse in una gabbia di durissimo acciaio. In quanto l'ascesi imprendeva a trasformare il mondo, i beni esteriori di questo mondo acquistavano un potere sugli uomini cre­ scente e infine ineluttabile - quale non c'era mai stato prima nella storia. Oggi il suo spirito è fuggito da questa gabbia- chissà se definitivamente? In ogni caso il capitalismo vittorioso non ha più bisogno di questo sostegno,

da quando poggia su una base meccanica. Sembra che impallidisca defini­ tivamente anche la rosea psicologia della sua ridente erede - della cultura illuministica- e come uno spettro di contenuti religiosi di una fede passata si aggira, nella nostra vita, il pensiero del "dovere professionale". Dove "l'a­ dempimento del dovere professionale" non può essere messo direttamente in rapporto con i sommi valori spirituali della civiltà e cultura - o, vicever­ sa: anche sul piano soggettivo non deve essere sentito semplicemente come una coazione economica- oggi l'individuo per lo più rinuncia comunque a interpretarlo. Nel paese dove si è sommamente scatenata, negli Stati Uniti, la ricerca del profitto si è spogliata del suo senso etico-religioso, e oggi tende ad associarsi con passioni puramente agonali, competitive, che non di rado le conferiscono addirittura il carattere dello sport. Nessuno sa ancora chi,

in futuro, abiterà in quella gabbia, e se alla fine di tale sviluppo immane ci saranno profezie nuovissime o una possente rinascita di antichi pensieri e ideali, o se invece (qualora non accadesse nessuna delle due cose) avrà luogo una sorta di pietrificazione meccanizzata, adorna di una specie di importan11.

Si tratta di Richard Baxter, pastore anglicano e apprezzato teologo autore di diversi

volumi tra i quali The Saints' Everlasting Rest, del16so, testo al quale qui Weber fa riferi­ mento

[N.d.A.].

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

za convulsamente, spasmodicamente autoattribuitasi. Poiché invero per gli "ultimi uomini" dello svolgimento di questa civiltà potrebbero diventare ve­ re le parole: «Specialisti senza spirito, edonisti senza cuore: questo nulla si immagina di essere asceso a un grado di umanità non mai prima raggiunto».

[M. Weber, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano 2007, pp. 239-41 (ed. or. 1905)]

La burocratizzazione dei partiti Anche nei partiti il progresso verso la burocratizzazione ha un andamento

non diverso che nell'economia e nell'amministrazione statale. L'esistenza dei

partiti non è riconosciuta da nessuna costituzione e (almeno in Germania) da nessuna legge, benché proprio essi rappresentino oggi i detentori di gran lunga più importanti di ogni volere politico dei governati dalla burocrazia, cioè dei "cittadini dello Stato". I partiti - per quanti mezzi possano impiegare per a ggregare a sé sta­ bilmente la loro clientela - sono nella loro più intima essenza delle or­ ganizzazioni create volontariamente e che hanno come scopo un reclu­ tamento libero e necessariamente sempre rinnovato, in antitesi a tutte le corporazioni stabilmente circoscritte in modo legale o contrattuale. Il loro

fine oggi è sempre la ricerca di voti per elezioni a cariche politiche o in un

organo elettivo. Un nucleo stabile di persone interessate al partito, riuni­ to sotto un capo o un gruppo di notabili, con un'articolazione variamente rigida ed oggi spesso con una burocrazia sviluppata, provvede al finanzia­ mento con l'aiuto di mecenati di partito o di persone interessate economi­

camente o interessate al patronato degli uffici oppure attraverso le quote di iscrizione e per lo più attingendo a varie di queste fonti insieme. Questo

nucleo determina di volta in volta il programma, la procedura e i candida­ ti. Anche in forme assai democratiche di organizzazione di un partito di massa-che comporta poi, come sempre, un corpo sviluppato di funziona­

ri retribuiti-la massa degli elettori, almeno, ma anche, in proporzioni no­ tevoli, dei semplici "iscritti� non partecipa (o partecipa solo formalmente) alla determinazione del programma e dei candidati. Piuttosto gli eletto­ ri vengono presi in considerazione come fattore concomitante solo per

il fatto che i programmi e i candidati vengono scelti commisurandoli alle probabilità di conquistare i loro voti. Per quanto se ne deplori moralistica­ mente l'esistenza, la forma di propa ganda e di lotta e il fatto che la forma­

zione dei programmi e delle liste dei candidati sia inevitabilmente in mano

5· MAX WEBER: IL FUTURO TRA REGOLE E LEADERSHIP

133

a minoranze, l'esistenza dei partiti non verrà eliminata, e tutt'al più lo sarà in misura limitata quella forma della loro struttura e della loro procedura. La legge può regolamentare- come ad esempio è accaduto ripetutamen­ te in America- il modo di formazione di quel nucleo attivo di partito (ana­ logamente alle condizioni per la formazione dei sindacati) e le "regole di lotta" da osservare sul campo di battaglia elettorale. Ma eliminare la stessa lotta di partito non è possibile, se non si vuole che venga a mancare in gene­ rale un'attiva rappresentanza popolare. Tuttavia l'idea confusa che ciò pos­ sa e debba essere fatto, occupa continuamente le menti dei letterati. Essa fa parte, consapevolmente o inconsapevolmente, dei presupposti delle molte proposte di creare, in sostituzione dei parlamenti formati sulla base del suf­ fragio universale dei cittadini (uguale o differenziato), o in aggiunta ad essi, corporazioni elettorali sulla base dei "ceti professionali': nelle quali le rap­ presentanze professionali riunite corporativamente sarebbero nello stesso tempo corpi elettorali per il parlamento. Il che già di per sé è un nonsenso, in un'epoca in cui l'appartenenza formale ad una determinata professione (che la legge elettorale dovrebbe necessariamente collegare a caratteristiche esteriori) non dice notoriamente quasi nulla sulla funzione economica e so­ ciale, e in cui ogni invenzione tecnica e ogni spostamento e innovazione del­ la situazione economica trasforma queste funzioni e con ciò anche il senso delle posizioni professionali che formalmente rimangono invariate e il loro reciproco rapporto numerico.

È evidente che la proposta non costituirebbe neanche un mezzo per rag­ giungere lo scopo desiderato. Infatti, anche se si riuscisse a far rappresentare la totalità degli elettori in corporazioni elettorali - del genere, ad esempio, delle odierne camere di commercio o dell'agricoltura- e a far derivare poi da queste il parlamento, è evidente che la conseguenza sarebbe:

1.

che accanto

a queste organizzazioni professionali tenute assieme dalla legge esisterebbe­ ro, da un lato, le rappresentanze di interessi fondate sul libero reclutamento, così come accanto alle camere dell'agricoltura sta la lega degli agricoltori e accanto alle camere di commercio le varie specie di organizzazioni libere degli imprenditori. D'altro lato, i partiti politici fondati sulla propaganda, lungi dallo scomparire, adeguerebbero naturalmente la direzione e il tipo della loro propaganda alla nuova situazione creatasi. E certo non in senso vantaggioso: l'influenza sulle elezioni che in quelle rappresentanze profes­ sionali eserciterebbero i finanziatori elettorali e lo sfruttamento dei rapporti di dipendenza capitalistici continuerebbero a sussistere in maniera almeno altrettanto incontrollabile. Per il resto, interverrebbero come ovvie conse­ guenze, da un lato,

2.

che l'adempimento dei compiti materiali delle rappre­

sentanze professionali, ora che la loro composizione influenzerebbe le ele-

134

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

zioni parlamentari e con ciò il padronato degli uffici, sarebbe trascinato nel vortice delle lotte politiche di potenza e di partito e che esse sarebbero quin­ di popolate, invece che da rappresentanti professionali competenti in ma­ teria, da rappresentanti di partito. D'altro lato, 3· che il parlamento diven­ terebbe un mercato per compromessi di interessi puramente materiali, sen­ za orientamento politico statale. Per la burocrazia ciò avrebbe il risultato di accrescere, offrendole più libertà di movimento, la tentazione di mantenere la propria potenza giocando su contrasti di interessi materiali e servendosi di un sistema rafforzato di mance per patronati e forniture, e soprattutto di rendere illusorio ogni controllo dell'amministrazione. Infatti i procedimen­ ti ed i compromessi decisivi degli interessati si svolgerebbero, ancor meno controllati, dietro le porte chiuse dei loro consorzi non ufficiali. Non il capo politico, ma lo scaltro uomo d'affari andrebbe in parlamento direttamente per conto proprio, mentre per la soluzione di questioni politiche secondo punti di vista politici una tale cosiddetta "rappresentanza popolare" sarebbe veramente la sede meno adatta. Per una persona competente tutto ciò è ov­ vio, e lo è altrettanto il fatto che non è questo il mezzo per indebolire l'in­ fluenza capitalistica sui partiti e sul parlamento, né per eliminare o almeno depurare il meccanismo dei partiti. Accadrebbe esattamente il contrario. Il fatto che i partiti sono appunto formazioni fondate sul libero reclutamento è di ostacolo alla loro regolamentazione e non viene riconosciuto da simili idee da letterati, che vorrebbero ammettere come organizzazioni soltanto le formazioni create da un regolamento statale e non quelle che sono cresciu­ te "spontaneamente" sul terreno di lotta dell'odierno ordinamento sociale. Negli Stati moderni i partiti politici possono essere costruiti soprattutto sulla base di due differenti princìpi interni fondamentali. Essi possono esse­ re -come in America dopo che sono cadute in disuso le grandi controversie sull'interpretazione della Costituzione -essenzialmente delle organizzazio­ ni per il patronato degli uffici. In tal caso il loro fine è unicamente quello di insediare attraverso le elezioni il loro capo nella carica direttiva, affinché egli poi assegni gli uffici statali al suo seguito, cioè ali'apparato dei funzionari e dei propagandisti del partito. Privi di principi di contenuto, essi, in concorrenza tra loro, iscrivono di volta in volta nel loro programma quelle richieste alle quali attribuiscono la maggiore forza propagandistica presso gli elettori. Questo carattere dei partiti si è sviluppato negli Stati Uniti in una forma così radicale perché là non esiste un sistema parlamentare, ma il presidente dell'Unione eletto dal popolo (con la partecipazione dei senatori eletti dagli Stati) ha in mano il patronato dell'enorme numero degli uffici federali da assegnare. Nonostante la corruzione che comportava, questo sistema era popolare perché evitava la

5· MAX WEBER: IL FUTURO TRA REGOLE E LEADERSHIP

135

nascita di una casta di burocrati. Ma esso era tecnicamente possibile in quan­ to e fino a quando, di fronte all' illimitata abbondanza di possibilità eco­ nomiche, anche la peggiore economia dilettantesca poteva essere tollerata. La crescente necessità di sostituire al funzionario occasionale e al protetto di partito, sprovvisti di ogni istruzione professionale, il funzionario specia­ lizzato che esercita la funzione come professione a vita, sottrae sempre più benefici a questi partiti americani, facendo inevitabilmente sorgere anche là una burocrazia di tipo europeo. Oppure i partiti possono essere soprattutto partiti fondati su una concezione del mondo, che intendono quindi servire al successo di ideali politici di tipo contenutistico. Erano tali in forma ab­ bastanza pura il Centro tedesco degli anni Settanta e la socialdemocrazia fino alla sua completa burocratizzazione. Ma la norma è che i partiti siano entrambe le cose insieme: essi hanno fini politici oggettivi tramandati dalla tradizione, modificabili solo lentamente e avendo sempre riguardo per essa, ma oltre a ciò essi hanno come obiettivo il patronato degli uffici, e precisa­ mente in primo luogo l'occupazione da parte dei loro capi degli uffici diret­

tivi, di quelli cioè che hanno carattere politico. Il raggiungimento di questo fine nella lotta elettorale consente poi ai capi politici e agli interessati all' im­ presa di sistemare, nel periodo in cui il partito ha il potere politico, i loro protetti in impieghi statali assicurati. Questa è la regola negli stati parlamen­ tari, e questa perciò è la via che hanno preso anche i partiti fondati su una concezione del mondo. Negli stati non parlamentari il patronato degli uffici direttivi non spetta ai partiti. In cambio, i partiti più influenti sono di solito in grado almeno di costringere la burocrazia dominante ad accordare ai loro protetti, accanto ai candidati raccomandati da aderenze con funzionari, una sistemazione in posti statali non politici, e di esercitare quindi un patronato degli uffici subalterni Nel corso degli ultimi decenni, con la crescente razionalizzazione della tecnica della lotta elettorale, tutti i partiti nella loro struttura interna sono passati all'organizzazione burocratica. Gli stadi di sviluppo che i singoli partiti hanno raggiunto su questa via sono diversi, ma la direzione gene­

rale del cammino, almeno negli stati di massa, è univoca. Il "caucus" di J. Chamberlain in Inghilterra'\ lo sviluppo in America di quella che signifi­

cativamente è stata chiamata "macchina': e l' importanza ovunque crescen12. Vocabolo in auge nel gergo politico statunitense con cui in questa circostanza si rimanda all'azione di Joseph Chamberlain che sperimentò nelle elezioni del1876 in Gran Bretagna, e precisamente a Birmingham, una nuova modalità di interlocuzione con gli elet­ tori del Partito liberale che prevedeva la scelta di programmi e canditati durante assemblee generali emancipandosi così dalla logica dei "notabili" tradizionalmente indicati come fìna­ lizzatori dell'azione di quella compagine partitica

[N.d.A.].

136

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

te, anche da noi-più rapidamente nella socialdemocrazia, e cioè, natural­ mente, proprio nel partito più democratico - della burocrazia di partito, sono tutti in eg ual modo stadi di questo processo. Nel partito del Centro l'apparato ecclesiastico- la "curatocrazia" - e per il partito conservatore in Prussia-a partire dal ministro Puttkamer-l'apparato statale dei consi­ glieri distrettuali e dei capiufficio compiono, non importa se in modo ma­ nifesto oppure occulto, i servizi della burocrazia di partito. La potenza dei partiti si fonda in primo luogo sulla qualità dell'or ganizzazione di questa burocrazia. Anche le difficoltà delle fusioni di partiti, ad esempio, si basa­ no molto più sull'ostilità reciproca tra questi apparati burocratici di par­ tito che su differenze di pro gramma. Nel fatto che all'interno del partito liberale tedesco i deputati Eugen Richter e Heinrich Richter mantennero ognuno il proprio meccanismo di uomini di fiducia era già prefig urata la successiva disgregazione di questo partito.

Naturalmente una burocrazia statale sembra in parte molto diversa da quella di un partito, e all'interno della prima la burocrazia civile sembra a sua volta diversa da quella militare, e tutte queste a loro volta da quella di un comune, della Chiesa, di una banca, di un cartello industriale, di un consor­ zio professionale, di una fabbrica, di una rappresentanza di interessi (asso­

ciazione di imprenditori, lega degli agricoltori ) . In tutti questi casi, inoltre, è molto differente la misura della compartecipazione di attività svolte a titolo

onorifico o da soggetti interessati. Il "boss" nel partito e il sindacato di con­ trollo nella società per azioni non sono "funzionari". Ogni specie di notabili

o di rappresentanti elettivi dei governati o di so ggetti interessati costretti ad assumere l'incarico possono essere posti in posizione subordinata o com­ plementare o superiore rispetto ai funzionari ( in quest'ultima soprattutto nell'amministrazione comunale) , in forma corporativa o come organi sin­

goli, con funzione deliberativa, sindacativa, consultiva o anche occasionai­ mente esecutiva, nelle molteplici forme della cosiddetta «autonomia ammi­ nistrativa». Ma le manifestazioni di queste forme amministrative, certo im­ portanti dal punto di vista pratico, non ci interessano in questa sede. Infatti -e questo è il solo aspetto che qui ha importanza -nell'amministrazione di gruppi di massa il corpo di funzionari ad impiego fisso e con un'istruzione specializzata costituisce sempre il nucleo dell'apparato, e la sua «discipli­ na» è l'assoluta condizione preliminare del successo. E ciò in misura sempre maggiore col crescere della grandezza del gruppo, della complessità dei suoi compiti e - soprattutto - quanto più la sua esistenza è condizionata dalla sua posizione di potenza (sia che si tratti di lotte di potenza nel mercato, sul

terreno della lotta elettorale o sul campo di battaglia ) . Così avviene anche

nei partiti. Se in Francia ( la cui completa miseria del parlamento dipende

5· MAX WEBER: IL FUTURO TRA REGOLE E LEADERSHIP

137

dall'assenza di partiti burocratizzati), e in parte anche da noi, esistono an­ cora partiti che restano fedeli al sistema dell'amministrazione locale dei no­ tabili, che ali'epoca del Medioevo dominava universalmente tutti i tipi di gruppi e che oggi è ancora predominante in piccoli e medi comuni, questa è una situazione destinata al declino nella struttura dei partiti. Oggi i partiti prendono in considerazione tali "stimati cittadini': "emi­ nenti uomini di scienzà' o come altrimenti si voglia chiamarli, come mezzo di propaganda e solo in quanto tale, ma non come incaricati del lavoro quo­ tidiano decisivo, allo stesso modo in cui ad esempio dei sindacati di control­ lo delle società per azioni figurano dignitari decorativi di ogni genere, nelle riunioni dei rappresentanti della Chiesa cattolica figurano i principi della Chiesa, nelle riunioni della lega dei coltivatori figurano nobili autentici o meno oppure nella propaganda dei pangermanisti interessati ai profitti di guerra e ai privilegi elettorali figurano ogni specie di benemeriti storici, bio­ logi e simili grandi esperti per lo più non politici. Il lavoro reale lo compiono in misura crescente gli impiegati retribuiti e ogni specie di mediatori. Tutto il resto è o diventa sempre di più apprettatura e vetrina. [ ... ]

Di fronte al fatto fondamentale dell'avanzata inarrestabile della burocra­ tizzazione, il problema delle future forme politiche di organizzazione può essere posto in generale soltanto in questi termini: 1.

come è ancora realmente possibile, di fronte a questo predominio del­

la tendenza alla burocratizzazione, salvare qualche residuo di una libertà di movimento in qualche senso "individualisticà'? Infatti è in definitiva una grossolana illusione credere che senza queste conquiste dell'epoca dei "diritti dell'uomo" riusciremmo oggi (anche i più conservatori tra di noi) realmente a vivere. Ma questa volta non possiamo interessarci di questo problema, poi­ ché oltre ad esso c'è un'altra questione che qui ci riguarda: 2.

di fronte alla crescente indispensabilità della burocrazia statale, che qui

ci interessa, e alla crescente posizione di potenza che ne deriva, come può essere offerta qualche garanzia che esistano potenze che tengano a freno l'e­ norme predominio di questo ceto di importanza sempre crescente e lo con­ trollino efficacemente? Come sarà nel complesso possibile una democrazia anche soltanto in questo senso limitato? Ma anche questa non è l'unica que­ stione di cui qui ci occupiamo, infatti, 3·

una terza questione, la più importante di tutte, emerge dalla conside­

razione di ciò che la burocrazia in quanto tale non è in grado di fare. È faci­ le constatare, infatti, che il suo rendimento nel campo dell'impresa pubbli­ ca politico-statale, così come nell'economia privata, ha precisi limiti inter­ ni. Lo spirito direttivo- qui !'"imprenditore" e là il "politico"- è qualcosa di diverso da un "funzionario': non necessariamente nella forma, ma certo

138

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

nella sostanza. Anche l'imprenditore sta seduto nell'"ufficio", e lo stesso fa il generale. Il generale è un ufficiale e quindi formalmente non è nulla di diverso da tutti gli altri ufficiali. E se il direttore generale di una gran­ de impresa è un funzionario impiegato di una società per azioni, anch'egli nella sua posizione giuridica non differisce in linea di principio da altri funzionari. La situazione del politico dirigente nel campo della vita stata­ le è la stessa,formalmente il ministro è un funzionano con stipendio e con diritto alla pensione. La circostanza che, secondo tutte le costituzioni del mondo, egli può in ogni momento essere dimesso e rassegnare le dimissio­ ni, distingue esteriormente la sua posizione professionale da quella della maggior parte degli altri funzionari, ma non di tutti. Molto più rilevante è, invece, il fatto che per lui e soltanto per lui non è prescritta una qualifica di formazione specialistica di nessun genere, come per gli altri funzionari. Ciò indica che egli, appunto per il senso della sua posizione, è qualcosa di diverso dagli altri funzionari, in modo analogo all'imprenditore e al di­ rettore generale nell'ambito dell'economia privata, anzi, più esattamente, che egli deve essere qualcosa di diverso. E così è di fatto. Se un dirigente, nello spirito della sua prestazione, è un "funzionario': per quanto capace egli possa essere - un uomo, cioè, che è abituato a compiere il suo lavoro diligentemente e onorevolmente secondo il regolamento e gli ordini ri­ cevuti -, egli non può allora essere impiegato né al vertice di un'impresa economica privata né a capo di uno stato. Nella nostra vita statale abbiamo avuto modo, purtroppo, di provare la giustezza di questa affermazione. La differenza sta solo in parte nel carattere della prestazione richiesta. Autonomia di decisione, capacità organizzativa in base ad idee proprie, così come sono richieste ai "dirigenti': sono richieste anche ai "funzionari': nella massa dei casi in questioni di dettaglio, ma molto spesso anche in que­ stioni generali. E il concetto che il funzionario sia completamente assorbito dali'attività quotidiana subalterna, e che soltanto il dirigente debba compie­ re prestazioni speciali "interessanti" che pongono esigenze intellettuali, è un concetto da letterati ed è possibile solo in un paese che non ha alcuna idea del modo di condurre i suoi affari e delle prestazioni della sua burocrazia. La differenza non consiste dunque in questo, ma nel genere di responsabilità dell'uno e dell'altro ed è certo da questa differenza che deriva in larga misu­ ra la natura di ciò che viene richiesto alle caratteristiche proprie dell'uno e dell'altro. Un funzionario che riceva un ordine a suo giudizio sbagliato può - e deve - sollevare obiezioni, ma se il superiore insiste nella sua disposizio­ ne, è non soltanto suo dovere, ma suo onore eseguirlo come se corrispondes­ se alla propria intima convinzione, e con ciò mostrare che il sentimento del dovere d'ufficio sta al di sopra della sua volontà personale. È indifferente se il

5· MAX WEBER: IL FUTURO TRA REGOLE E LEADERSHIP

139

superiore dal quale egli riceve un mandato imperativo sia un'"autorità" o una

"corporazione" o un'"assemblea": così vuole lo spirito d'ufficio. Un dirigente

politico che agisse in questo modo meriterebbe disprezzo. Egli sarà spesso costretto a venire a compromessi, cioè a sacrificare il meno importante al più importante. Ma se non riesce a dire al suo sovrano ( sia esso il monarca o il popolo) : ricevo adesso queste istruzioni o me ne vado, allora è un misero "K.leber"•l, come Bismarck ha battezzato questo tipo, e non un capo. Il funzionario deve stare "al di sopra dei partiti': cioè in realtà al di fuori della lotta per conquistare una potenza propria. Al contrario, la lotta per la propria potenza, e la responsabilità personale per la propria causa che da que­ sta potenza deriva, è l'elemento vitale del politico come dell'imprenditore.

[Weber, Parlamento e governo, ci t., pp. 27-39]

Il leader tra demagogia e carisma "responsabile" Con ciò siamo già alla discussione di quelle due potenze che sole sono in gra­ do di avere una parte importante nella vita del moderno Stato costituzionale come istanze di controllo e di direzione, accanto alla onniavvolgente buro­ crazia: la monarchia e il parlamento [ ...].

I parlamenti moderni sono in primo luogo rappresentanze dei soggetti dominati con i mezzi della burocrazia. Un certo minimo consenso interiore almeno da parte degli strati socialmente importanti dei dominati è certa­

mente la condizione preliminare della durata di qualsiasi potere, anche del

meglio organizzato. I parlamenti sono oggi il mezzo per manifestare este­ riormente questo minimo di consenso. Per certi atti dei poteri pubblici è obbligatoria la forma dell'accordo per legge con il parlamento, tipo una di­ scussione preventiva, e di questi fa parte soprattutto il bilancio. Oggi, co­ me dal tempo della nascita dei diritti cetuali, la deliberazione sul modo di finanziamento dello Stato - il diritto di bilancio - costituisce il mezzo di potenza decisivo del parlamento. Certo, finché un parlamento sa dare rilie­ vo alle proteste della popolazione nei confronti dell'amministrazione solo negando i mezzi finanziari o rifiutando di approvare le proposte di legge o presentando mozioni prive di influenza, esso è escluso da una partecipazio­ ne positiva alla direzione politica. Non essendo in grado di fare altro, eser­ citerà allora solo una "politica negativa': ponendosi cioè nei confronti dei capi dell'amministrazione come una potenza ostile, venendo in quanto tale 13.

Letteralmente "glutine': "collante"

[N.d.A.].

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

liquidato da essi con il minimo indispensabile di informazioni e valutato soltanto come un impedimento, come un'assemblea di criticoni impotenti e saccenti. La burocrazia, d'altra parte, viene allora facilmente considerata dal parlamento e dai suoi elettori come una casta di arrivisti e di sbirri, di fronte ai quali il popolo rappresenta l'oggetto delle loro arti moleste e in buona parte superflue. Diversamente accade dove il parlamento ha imposto che i capi dell'amministrazione debbano o addirittura essere tratti dalle sue file (sistema parlamentare in senso proprio) oppure avere la fiducia esplici­ tamente espressa della sua maggioranza per restare in carica o almeno riti­ rarsi in seguito alla dichiarazione di sfiducia (scelta parlamentare dei capi) e debbano per questo motivo rendere conto in maniera esauriente e sotto il controllo del parlamento o delle sue commissioni (responsabilita parlamen­

tare dei capi) e dirigere l'amministrazione secondo le direttive approvate dal parlamento (controllo parlamentare dell'amministrazione). In questo caso i capi dei partiti che di volta in volta hanno un ruolo determinante nel parla­ mento sono necessariamente corresponsabili positivamente del potere stata­ le. Il parlamento è allora un fattore di politica positiva a fianco del monarca, il quale contribuisce a determinare la politica non in virtù dei suoi diritti sovrani formali, o almeno non prevalentemente e in ogni caso non esclusiva­ mente in virtù di essi, bensì in virtù della sua influenza, che è molto grande in ogni circostanza, con forza diversa quindi a seconda della sua intelligenza politica e della sua consapevolezza del fine. In questo caso si parla, non im­ porta se a ragione o a torto, di "Stato popolare", mentre un parlamento dei dominati con una politica negativa nei confronti di una burocrazia domi­ nante rappresenta una varietà dello "Stato autoritario". A noi qui interessa il significato pratico della posizione del parlamento. Per quanto si possa odiare o amare l'istituzione parlamentare, non si po­ trà abolirla. Si può soltanto renderla politicamente impotente, come ha fat­ to Bismarck con il Reichstag. Ma l'impotenza del parlamento si manifesta, oltre che nelle conseguenze generali della "politica negativa': in altri fenome­ ni. Ogni lotta parlamentare è ovviamente una lotta non soltanto per contra­ sti sostanziali, ma anche per il potere personale. Dove la posizione di poten­ za del parlamento implica che il monarca di regola affidi la direzione politica agli uomini di fiducia della maggioranza che si è determinata, questa lotta di potenza dei partiti si rivolge al conseguimento di questa suprema carica politica. Sono allora gli uomini con grande istinto politico di potenza e con le più spiccate qualità di capo politico che combattono questa lotta e che hanno quindi la possibilità di arrivare alle cariche direttive. Infatti l'esistenza del partito nel paese e tutti gli innumerevoli interessi ideali e in parte molto materiali che vi sono connessi esigono allora imperiosamente che giunga al

5· MAX WEBER: IL FUTURO TRA REGOLE E LEADERSHIP

141

vertice una personalità dotata delle qualità di capo. Allora, e soltanto allora, per i temperamenti e i talenti politici sussiste l'impulso a sottoporsi alla sele­ zione di questa lotta di concorrenza.

È completamente diverso se, sotto l'etichetta di "governo monarchico': la distribuzione delle massime cariche dello Stato è oggetto di avanzamento burocratico o di conoscenze occasionali di corte e quando un parlamento impotente deve subire questo modo di composizione del governo. Anche in questo caso, naturalmente, nella lotta parlamentare, accanto ai contrasti so­ stanziali, influisce l'ambizione personale di potenza, ma in forme e direzioni del tutto diverse e cioè subalterne, nella direzione, ad esempio, che essa ha preso in Germania a partire dal 1890. Oltre alla rappresentanza di interessi economici privati locali di elettori influenti è allora unicamente il piccolo patronato subalterno il punto intorno al quale in definitiva tutto ruota. Il conflitto tra il cancelliere del Reich principe Biilow e il Centro, ad esempio, non sorse su contrasti sostanziali di opinione, bensì fu essenzialmente il ten­ tativo dell'allora cancelliere di sottrarsi a quel patronato degli uffici del Cen­ tro che ancor oggi caratterizza in forte misura la composizione del personale di alcuni organi del Reich. E in ciò il Centro non è un caso unico. I partiti conservatori hanno il monopolio degli uffici in Prussia e cercano di intimi­ dire il monarca con lo spettro della rivoluzione, non appena questi interessi di prebende vengono minacciati. I partiti da essi esclusi permanentemente dagli uffici statali cercano però un compenso nelle amministrazioni dei co­ muni o delle casse mutue e praticano, in parlamento, una politica ostile o estranea allo Stato, come faceva prima la socialdemocrazia. Questo è natu­ rale, infatti ogni partito aspira in quanto tale alla potenza, cioè a partecipa­ re all'amministrazione e, quindi, ad avere influenza sull'assegnazione degli uffici. Influenza che da noi gli strati sociali dominanti hanno in una misura non maggiore di quella che si ha di solito in qualunque paese. Solo che essi sono sottratti alla responsabilità per questo loro potere, poiché la caccia alle cariche e il patronato si svolgono dietro le quinte e si estendono ai posti infe­ riori, che non comportano responsabilità personale. Ma da noi la burocrazia trova il suo tornaconto ad amministrare senza essere da parte sua personal­ mente controllata, ma pagando per questo ai partiti determinanti i tributi necessari sotto forma di quel piccolo patronato di prebende. Questa è l'ovvia conseguenza del fatto che il partito (o la coalizione di partiti) che di volta in volta ha di fatto il potere di formare in parlamento la maggioranza pro o contro il governo non è in quanto tale chiamato ufficialmente ad occupare la massima carica di responsabilità politica. D'altra parte, questo sistema permette a persone che posseggono le qua­ lità di un funzionario capace, ma neppure l'ombra del talento dell'uomo di

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

stato, di rimanere in posizioni politiche direttive finché qualche intrigo non

li fa uscire di scena a favore di un altro personaggio dello stesso genere. Da noi abbiamo quindi, il patronato degli uffici da parte dei partiti politici co­ me in qualunque altro paese, solo in una forma più dissimulata disonesta­

mente e soprattutto in modo che esso agisce sempre a favore di determinate

opinioni di partito che sono ritenute "degne': Ma questa unilateralità è !un­

gi ancora dall'essere il male peggiore della situazione attuale. Sotto l'aspet­ to puramente politico essa sarebbe tollerabile se soltanto offrisse almeno la possibilità che dalle file di quei partiti "degni" potessero ascendere alle ca­ riche decisive dei capi politicamente qualificati per la guida della nazione.

Ma ciò non avviene. Questa possibilità esiste soltanto se sussiste il sistema

parlamentare o almeno il patronato parlamentare per le cariche dirigenti. Ci riferiamo innanzitutto ad un ostacolo puramente formale che gli oppone

l'attuale costituzione del Reich.

L'articolo 9 della Costituzione del Reich, ultimo comma, afferma: «Nessuno può essere contemporaneamente membro del Bundesrat'4 e del Reichstag». Mentre, dunque, nei paesi governati col sistema parlamentare

è considerato assolutamente necessario che gli uomini che dirigono lo Sta­ to facciano parte del parlamento, in Germania ciò è per legge impossibile.

Il cancelliere del Reich o un ministro di un singolo Stato che sia deputato al Bundesrat o un segretario di Stato del Reich può sì far parte di un parla­ mento di un singolo Stato, ad esempio della dieta prussiana, e lì dunque in­ fluenzare o persino dirigere un partito, ma non può far parte del Reichstag . La norma era semplicemente un'imitazione meccanica (certo attraverso la mediazione della Costituzione prussiana) dell'esclusione in Inghilterra dei Pari dalla Camera bassa e si fonda quindi su una mancanza di idee. Essa deve essere soppressa. Questa soppressione non significa ancora di per sé l' intro­ duzione del sistema parlamentare o del patronato parlamentare degli uffici,

bensì solo la possibilità che un parlamentare politicamente capace assuma

contemporaneamente una carica politicamente direttiva nel Reich. Non si riesce a comprendere perché un deputato che si mostri adatto ad una carica direttiva nel Reich debba essere costretto innanzitutto a sradicarsi politica­ mente per assumerla [ ...] . Con questo sistema si "decapitano" i partiti e invece di un abile politi­ co si acquisisce al governo un funzionario senza le conoscenze specialisti­ che della carriera e nello stesso tempo senza l'influenza che ha un membro 14. Il Bundesrat (Consiglio federale) era l'organo principale prima della Confederazio­ ne tedesca del Nord, poi del Reich, formato dai rappresentanti dei governi dei singoli Stati [N.d.A.].

5· MAX WEBER: IL FUTURO TRA REGOLE E LEADERSHIP

143

del parlamento. Inoltre si usa in questo modo la forma più miserabile di sistema di mance che si possa applicare nei confronti di un parlamento. Il parlamento come trampolino di lancio della carriera per candidati di ta­ lento alla carica di segretario di Stato: questa caratteristica concezione da burocrati ha come rappresentanti letterati, politici e giuristi che ritengono che in questa forma il problema del parlamentarismo tedesco sia risolto in modo specificamente "tedesco"! E questi sono gli stessi circoli che scher­ niscono la caccia alle cariche che si pretende sia caratteristica soltanto del­ l'"Europa occidentale" e specificamente della "democrazia"! Il fatto che i capi parlamentari non cerchino l'ufficio con il suo stipendio e il suo gra­ do gerarchico, bensì il potere con la sua responsabilità politica e che essi possano averlo soltanto se sono radicati nel parlamento nel loro seguito di partito, e il fatto, inoltre, che due siano le alternative: fare del parlamento un luogo di selezione di capi o di arrivisti aspiranti ad un ufficio - questo quei circoli non lo comprenderanno mai. Per decenni gli stessi circoli si sono presi gioco del fatto che il parlamento tedesco e i suoi partiti vedeva­ no nel governo sempre una sorta di nemico naturale. Ma non li disturba minimamente che attraverso la barriera dell'art. 9, comma

2,

rivolta esclu­

sivamente contro il Reichstag, il Bundesrat e il Reichstag siano trattati per legge come potenze nemiche, che possono intrattenere rapporti tra di loro solo dal tavolo del Bundesrat e dalla tribuna degli oratori. Bisogna rimettere alla consapevole riflessione di uno statista, al gover­ no che gli ha dato l'incarico e ai suoi elettori, se egli possa conciliare con il suo ufficio un mandato, la direzione di un partito o l'attività in esso, e se le istruzioni secondo le quali egli vota nel Bundesrat siano compatibili con le proprie convinzioni che egli rappresenta in parlamento. Al politico dirigente, innanzitutto a colui che nel Reich porta la responsabilità per le istruzioni del "voto presidenziale", quindi al cancelliere del Reich e al mi­ nistro degli Esteri della Prussia, deve essere lasciata aperta la possibilità di dirigere il Bundesrat come presidente sotto il controllo dei rappresentanti degli altri Stati e di influire nello stesso tempo sul Reichstag come membro che dirige i voti di un partito

[ ... ] .

Io credo piuttosto che sia per la semplicissima ragione che da noi un uomo con un forte istinto di potenza e con le qualità di solito corrispon­ denti, a causa della struttura politica dello Stato - e cioè molto semplice­ mente: a causa dell'impotenza del parlamento e del mero carattere buro­ cratico delle cariche di ministro che da essa deriva -, dovrebbe essere addi­ rittura un pazzo per mettersi in questo pietoso meccanismo di risentimen­ to collegiale e su questo terreno scivoloso degli intrighi di corte, quando la sua capacità e la sua volontà sono richiamate da un campo di attività quale

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

144

le grandi imprese, i cartelli economici, le banche e il commercio all'in­ grosso possono offrire. Le persone del suo genere preferiscono finanziare giornali pangermanisti e lasciar fare in questo campo ai letterati le loro chiacchiere. Tutti i talenti di capo della nazione, per via di quella selezio­ ne negativa che il nostro cosiddetto "governo monarchico': spogliato di ogni retorica, in pratica significa, sono sospinti al servizio degli interessi capitalistici privati. Soltanto in quel campo, infatti, ha luogo qualcosa co­ me una selezione delle qualità di capo. Perché proprio lì? Perché, laddove si tratta di interessi economici di centinaia e migliaia di milioni di marchi e di decine e centinaia di miglia­ ia di lavoratori, cessa necessariamente ogni situazione di comodo e cioè, in questo caso, cessa la

retorica dei letterati.

E perché ciò non avviene nel­

la direzione dello Stato? Perché una delle peggiori eredità del dominio di Bismarck è stata il fatto che egli ritenne utile

coprire il suo regime ce­

saristico con la legittimità del monarca. In questo fu imitato fedelmen­ te dai suoi successori, che da parte loro non erano affatto dei cesari, ma semplici funzionari. La nazione non educata politicamente prese per oro colato quelle vuote parole di Bismarck, mentre i letterati dispensavano il loro solito plauso.

È naturale:

essi esaminano i futuri burocrati, si sento­

no essi stessi burocrati e padri di burocrati. E il loro risentimento si dirige contro chiunque ambisca al potere e vi giunga per una via diversa dalla legittimazione attraverso il diploma di esame. Sotto Bismarck la nazione, disabituata a curarsi personalmente degli affari pubblici e specialmente della politica estera, si fece affibbiare come "governo monarchico" qual­ cosa che in realtà significava soltanto l'assenza di ogni controllo su di un mero potere burocratico ali' interno dei quale, se esso viene lasciato a se stesso, non sono mai in nessun luogo del mondo emerse e arrivate al ver­ tice persone con le qualità di capo. Non che nella nostra burocrazia non si trovino anche persone con qualità di capo: siamo ben lontani dall'af­ fermarlo. Ma non solo le convenzioni, e le caratteristiche intrinseche del­ la gerarchia burocratica pongono ostacoli eccezionali proprio alla loro ascesa e inoltre l'essenza della posizione di un moderno funzionario am­ ministrativo è nel complesso altamente sfavorevole allo sviluppo dell' au­ tonomia politica ( che deve essere ben distinta dall'intima indipendenza di carattere puramente

personale).

Bensì l'essenza di ogni politica - come

dovremo ancora più volte sottolineare - è la lotta, il reclutamento di al­ leati e di un seguito volontario, e la carriera burocratica dello Stato au­ toritario non offre appunto occasioni di nessun genere per esercitarsi in questa difficile arte.

5· MAX WEBER: IL FUTURO TRA REGOLE E LEADERSHIP

145

A Bismarck, com'è noto, fece da scuola la dieta di Francoforte'1• Nell'e­

sercito l'addestramento è addestramento alla lotta e può partorire dei ca­ pi militari. Ma per il politico moderno l'unica palestra adeguata è la lotta nel parlamento e per il partito nel paese, che non può essere sostituita da nient'altro di equivalente - meno che mai dalla concorrenza per l'avanza­ mento. Naturalmente soltanto in un parlamento e per un partito il cui capo acquisisca il potere nello Stato. Quale forza d'attrazione può invece mai esercitare su uomini dotati delle qualità di capo un partito che, in caso favorevole, ha la possibilità di cambiare un paio di voci del bilancio nel modo che gli interessi dei suoi elettori rendono auspicabile e di procacciare un paio di piccole prebende a qualche protetto dei suoi maggiorenti? Quali possibilità infatti esso gli of­ fre di manifestare tali qualità? Fin nei minimi dettagli delle convenzioni e del regolamento interno del Reichstag e dei partiti si esprime oggi l'orien­ tamento del nostro parlamento verso una politica meramente negativa. Mi sono noti non pochi casi in cui, all'interno dei partiti, giovani talenti con caratteristiche di capo vennero semplicemente soffocati dai vecchi bene­ meriti maggiorenti locali e di partito, come accade in ogni corporazione. Ciò è naturale in un parlamento privo di potere, che si limita ad una po­ litica negativa, poiché in esso dominano soltanto gli istinti corporativi. Mentre non potrebbe mai permetterselo un partito la cui esistenza fosse improntata alla partecipazione al potere e alla responsabilità nello stato, nel quale di conseguenza ogni compagno di partito, nel paese, saprebbe che l'essere e il non essere del partito e di tutti gli interessi che lo legano ad esso dipende dal fatto che il partito si subordini alle persone con carat­ teristiche di capo di cui dispone. Infatti non è l'assemblea policefala del parlamento in quanto tale che può "governare" e "fare" la politica. Questo è fuori discussione in ogni parte del mondo, anche in Inghilterra. Tutta la gran massa dei deputati funge soltanto da seguito per l'unico leader o per i pochi leader che formano il Gabinetto, e ubbidiscono loro ciecamente fin­ ché essi hanno successo. Così deve essere. Il "principio del piccolo nume­ ro", vale a dire la superiore capacità di manovra di piccoli gruppi dirigenti, domina sempre l'agire politico. Questo risvolto "cesaristico" è (negli Stati di massa) ineliminabile. Soltanto esso garantisce realmente che la responsabilità di fronte all'opinione pubblica, che si disperderebbe completamente all'interno di un'assemblea in cui fossero molti a governare, gravi invece su determinate 15. Dali8SI al1859 Bismarck fu delegato prussiano alla dieta federale di Francoforte (Bundestag), organo della restaurata Confederazione germanica [N.d.A.].

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

persone. È proprio nella vera democrazia che ciò si manifesta. In base alle esperienze finora fatte, i funzionari nominati per elezione popolare danno buoni risultati in due casi: da un lato, nella federazione cantonale locale, dove tra la popolazione stabile ci si conosce personalmente l'uno con l'al­ tro e quindi la dimostrazione delle proprie capacità data all'interno della comunità del vicinato può determinare l'elezione; d'altro lato, con note­ voli riserve, nell'elezione del massimo fiduciario politico della nazione in uno Stato di massa. È raro che in questo modo giunga al potere supremo il capo politico più eminente, ma in media vi giungono tuttavia capi poli­

tici adeguati.

Per tutta la massa dei funzionari intermedi, soprattutto per quelli per i quali è necessaria un'istruzione specializzata, il sistema dell'elezione po­ polare, di regola negli Stati di massa, fallisce invece completamente e per motivi comprensibili. In America i giudici nominati dal presidente erano di gran lunga superiori per capacità ed integrità a quelli eletti dal popolo, in quanto il presidente che li nominava era pur sempre una carica respon­ sabile della qualità dei funzionari e perciò il partito dominante avrebbe più tardi provato su se stesso le conseguenze se fossero stati commessi er­ rori grossolani. Il dominio del diritto elettorale paritario ha perciò sempre

condotto in America al fatto che un uomo di fiducia della cittadinanza venisse eletto sindaco mediante votazione popolare con ampia libertà di procurarsi da solo il suo apparato amministrativo. Il potere parlamentare inglese non è meno incline allo sviluppo di tali aspetti cesaristici. Lo sta­ tista che è al governo acquista una posizione sempre più preminente nei confronti del parlamento da cui proviene. Le debolezze che naturalmente sono insite, come in genere in ogni or­

ganizzazione umana, nella selezione dei politici dirigenti attraverso la pro­ paganda di partito, sono state esposte dettagliatamente fino alla noia dai letterati tedeschi degli ultimi decenni. Che anche il potere parlamentare

di partito pretenda e debba pretendere dali' individuo di sottomettersi a capi che egli spesso può accettare solo come il "male minore': è semplice­ mente ovvio. Ma lo Stato autoritario, in primo luogo, non lascia ali' indivi­

duo assolutamente nessuna scelta e, in secondo luogo, invece di capi gli dà alti funzionari. Questa non è certo una piccola differenza. Avrà pure le sue buone ragioni il fatto che la "plutocrazia" fiorisca anche in Germania, cer­ to in altre forme, ma nella sostanza allo stesso modo che altrove, e che pro­ prio le potenze del grande capitale, dipinte dai letterati nei colori più neri e, del resto, senza alcuna cognizione di causa - le quali in verità conoscono

da sé i propri interessi meglio degli scienziati da tavolino -, e precisamente le più prive di riguardi tra di esse, cioè i rappresentanti dell'industria pe-

5· MAX WEBER: IL FUTURO TRA REGOLE E LEADERSHIP

14 7

sante, stiano da noi come un sol uomo dalla parte dello Stato autoritario burocratico e contro la democrazia e il parlamentarismo. Solo che queste ragioni rimangono nascoste all'orizzonte del piccolo borghese letterato. Con il moralismo più filisteo viene invece sottolineato il fatto ovvio che la volontà di potenza e l'ambizione egoistica verso le cariche fanno parte dei motivi che muovono i capi parlamentari e il loro seguito. Come se non fossero né più né meno l'arrivismo e l'avidità di stipendio ad animare gli aspiranti burocrati, ma soltanto e unicamente i moventi più disinteressati! E per quanto riguarda il contributo della "demagogia" alla conquista del potere, gli svolgimenti delle discussioni demagogiche della stampa, che in questo momento sono in corso sulla nomina del ministro degli Esteri te­ desco, favorite da certi ambienti ufficiali, possono illuminare chiunque sul fatto che proprio un presunto governo "monarchico" indirizza l'arrivismo di ufficio e la lotta delle competenze sulla via delle più perniciose campa­ gne di stampa. In nessuno Stato parlamentare con partiti sarebbe possibile di peggio. I motivi del comportamento personale all'interno di un partito sono certamente tanto poco solo idealistici quanto lo sono consueti gretti inte­ ressi di avanzamento e di prebende dei concenti in una gerarchia di fun­ zionari. Sia qui che là, nella massa dei casi si tratta di interessi personali del singolo (e lo stesso avverrà anche nella tanto celebrata "consociazione di solidarietà" dello stato dell'avvenire dei letterati). Tutto dipende solo dal fatto che questi interessi, in ogni caso umani, spesso troppo umani, ope­ rino in modo che una selezione degli uomini dotati delle qualità di capo non venga almeno apertamente impedita. Ma ciò è possibile in un partito unicamente se, in caso di successo, i suoi capi abbiano la prospettiva del potere e quindi della responsabilità nello Stato. Soltanto in questo caso una sezione è possibile, ma questa condizione non basta ancora da sola ga­ rantire che ciò avvenga. Infatti non un parlamento che tiene discorsi, ma soltanto un parla­ mento che lavora può costituire il terreno sul quale crescono e, attraverso la selezione, compiono la loro ascesa uomini con qualità di capo autenti­ camente politiche e non meramente demagogiche. Ma un parlamento che lavora è un parlamento che controlla continuamente l'amministrazione collaborando con essa. Prima della guerra ciò da noi non esisteva. Dopo la guerra, però, il parlamento deve diventare questo, oppure avremo la solita miseria. Di ciò si dovrà parlare adesso.

[Weber, Parlamento e governo, cit., pp.

40-3,

ss]

6

Thorstein Veblen e l'improbabile rivoluzione degli ingegneri

L'autore di cui parleremo in questo capitolo è considerato fra i padri della socio­ logia nordamericana, spesso citato come il primo rappresentante della sua corrente

critica. Si tratta di T horstein Bunde Veblen, nato a Cato nel 1857, in una fattoria del

Wisconsin, figlio di piccoli proprietari terrieri norvegesi'. I suoi interessi iniziali si di­ ressero dapprima verso la filosofia, con gli studi superiori presso il Carleton College Academy di Northfield, fortemente impregnato della religiosità protestante, e con la successiva iscrizione allaJohn Hopkins University, di Baltimora

(1881). Conseguito

a Yale il dottorato, fu l'economia ad attrarre i suoi interessi con gli studi compiuti anni dopo alla Cornell University di Ithaca, Stato di New York, a partire dal 1891.

Nell'ambiente universitario si faceva subito notare per il forte spirito critico, la causticità del giudizio, il notevole anticonformismo e la libertà di idee e di espres­ sione che gli provocarono molti ostacoli e problemi in carriera. Trasandato nel ve­ stire, scostante nei rapporti, indispettiva gli studenti durante le lezioni parlando volutamente a bassa voce per impedire loro di comprendere fino in fondo il senso delle sue disquisizioni•. Per questi motivi infatti, e anche per diversi comportamenti considerati scandalosi per la società del suo tempo quali adulteri e relazioni amoro­ se non appropriate, fu più volte costretto a cambiare sede e non occupò mai posizio­ ni di rilievo nel contesto accademico. Tutto questo ebbe forti ripercussioni anche

nella sua vita personale che si concluse con la morte in solitudine nel 1929, all'alba della Grande Depressione. Lo studioso americano ha pubblicato molto nella sua vita, sia testi sia articoli e saggi in riviste, in alcuni casi raccolti poi in successive pubblicazioni. L'opera per la quale è più conosciuto è sicuramente La teoria della classe agiata, del 1899. In questo testo l'autore analizza la forte contrapposizione esistente fra l'homofober e

l'homo

hoeconomicus: il primo è un lavoratore che agisce seguendo un impulso naturale che lo spinge a produrre e l'altro è l'uomo ozioso, del tutto improduttivo ma che vive nell'agiatezza proveniente dalle sue rendite finanziarie. 1. Bunde è il cognome materno.

Cfr. F. Ferrarotti, Introduzione, in T . Veblen, Opere, a cura di F. De Domenico, UTET, Torino 1969, p. 17. 2.

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

Le azioni dell' homo fober sono finalizzate al bene comune, all'evoluzione so­

(instinct of workmanships ) , di laboriosità del soggetto. Le azioni dell' homo hoeconomicus sono ispirate dall'istinto predatorio, ciale e si basano sull'istinto di efficienza

dalla volontà di sfruttamento dell'attività altrui, sull'utile personale egoisticamente inteso. L'agiatezza di quest'ultima categoria va intesa quindi come consumo di tem­ po non produttivo: «Il tempo è speso senza un lavoro produttivo: di indegnità del lavoro produttivo; e

2.

1.

per un senso

come un segno della capacità finanziaria di

condurre una vita oziosa» l, La diffusione della proprietà privata e la sua "esaltazione" scatena in molti una vera e propria corsa verso il possesso di sempre maggiori beni e ricchezze che stimola una sorta di contagioso istinto di emulazione. La ricchezza diventa simbolo di di­ stinzione e si esprime nel consumo o spreco vistoso, cioè l'ostentazione del proprio potere finanziario in cibi prelibati, abbigliamento, feste, regali di valore, specie negli ambienti in cui ci si conosce poco, provocando quello che l'autore definisce come sciupìo dei beni. Questo atteggiamento si trasforma in breve tempo in una vera e propria irrefrenabile esigenza psichica che condiziona in modo assoluto la cosid­ detta classe agiata e finisce per incidere in qualche modo sullo stile di vita di tutta la società fino a determinare in modo implicito nuovi canoni estetici: il bello non è più solo ciò che è bello o ciò che piace ma è tale soprattutto ciò che è particolarmen­ te costoso4• I beni non sono più solo utili o necessari ma onorifici e trasmettono un senso di rispettabilità e stima. L'istinto di emulazione porta quindi ad un confronto antagonistico fra gli uomini che lo studioso definirà anche come "paragone invidio­ so� Per Veblen la ricerca dell'ammirazione altrui conduce ad un vacuo consumismo ed in questo senso il sociologo americano è stato il primo feroce critico di questo fe­ nomeno che reputava deleterio per la società. Il denaro assurge a simbolo quasi ido­ latrico della società del suo tempo e la differenziazione dei consumi, così ostentata, rappresenta la traccia evidente del potere e del successo5• Quanto sopra esposto delinea una società capitalistica occidentale, e america­ na in particolare, spezzata in due fra attività industriali e finanziarie. Le prime sono vitali, produttive, esprimono la naturalità dell'uomo con la produzione di beni, lo sviluppo della tecnologia e la diffusione del benessere: sono attività evolutive che apportano una sensibile crescita complessiva della società. Esse sono appannaggio in particolare dei tecnici e degli ingegneri, visti come operatori responsabili e capaci

3· Cfr. T. Veblen,La teoria della classe agiata (1899), in Id., Opere, cit., p. 99· 4· «Le esigenze dell'onorabilità finanziaria hanno in misura notevolissima influenzato il senso della bellezza o dell'utilità degli articoli di uso o di bellezza. Ci sono articoli preferiti per l'uso perché vistosamente dispendiosi; si pensa che in parte essi riescano utili nella pro­ porzione in cui sono dispendiosi e poco adatti al loro uso evidente» ( Veblen, La teoria della

classe agiata, cit., p. 156). s. «La base su cui si fonda in ultimo la buona reputazione in ogni società industriale altamente organizzata è la potenza finanziaria; e i mezzi per dimostrare la potenza finanzia­ ria e guadagnarsi così o conservare un buon nome sono l'agiatezza e un consumo vistoso di beni» ( ivi, p. 12.7) .

6. THORSTEIN VEBLEN E LA RIVOLUZIONE DEGLI INGEGNERI

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di edificare una comunità che sappia indirizzare i suoi più veri interessi verso il bene comune e che, di conseguenza, non trascuri le classi più povere. Le attività finanziarie sono viste come attività "predatorie� basate sul guadagno improduttivo, sulle attività finanziarie dei nascenti mercati economici, sul profit­ to egoistico di pochi. I maggiori interpreti di queste sono i capitani d'industria, i proprietari che non lavorano, i finanzieri e buona parte degli economisti. Secondo l'autore queste attività rallentano e ostacolano lo sviluppo industriale e sociale. Lo studioso arriverà persino ad affermare la presenza di un vero e proprio parassitismo che bloccava il progresso dell'intera collettività e che la classe agiata tende a vivere sull'industria invece che con essa. La sua condanna quindi è tutta per la classe agiata, che opera in modo preda­ torio, assumendo un comportamento simile a quello dei barbari che operano con l'istinto di rapina a danno dei lavoratori veri, i produttori di beni, che sono attivi grazie ali'istinto di efficienza e si fanno guidare dalla razionalità tecnica e tecno­ logica6. La via di uscita secondo Veblen è proprio la diffusione e lo sviluppo della cultura tecnica e dei processi tecnologici che, premiando il merito e valorizzando le competenze, attraverso la disciplina meccanica e impersonale, sarebbe stata in gra­ do di permettere la miglior produzione possibile in vista di un maggior benessere comune. Ad ogni modo, pur sostenendo la necessità di offrire migliori condizioni alle masse, dimostra in diversi scritti di non nutrire particolare fiducia nella capacità di emancipazione delle stesse: «Le abitudini mentali delle masse sono il prodotto della routine quotidiana, e purché la routine del sistema non sia sconvolta seriamen­ te esse mantengono la stessa mentalità, in modo che una qualsiasi guardiana di oche le possa condurre tutte contente alle baracche dove vengono spennate»7• Stessa sfiducia viene riservata alla possibilità che la gente comune, pur in con­ testi democratici, possa assumersi delle responsabilità di governo. I "gestori del potere" continuano ad essere diretta espressione della classe "oziosa": «In effetti finora nessuna maggioranza popolare ha imparato ad affidare delle responsabilità di governo ad individui della sua stessa condizione sociale poiché, nella mentalità popolare, quelle responsabilità non hanno mai cessato di esser prerogativa delle classi benestanti e bene educate»8• 6. Raffaele Rauty, estensore delle pagine dedicate a Veblen nel testo La Sociologia. Con­ testi storici e modelli culturali (Laterza, Roma-Bari 2.001, pp. 2.78-82.) da lui curato con Franco Crespi e PaoloJedlowski, fa risalire "l'odio" nutrito dal sociologo americano-scandinavo ad un'esperienza durissima affrontata in prima persona in occasione del pignoramento della fattoria di famiglia operato dalle banche. Inoltre, l'aver vissuto a Baltimora, ai tempi dei suoi studi presso laJohn Hopkins University, presso una famiglia aristocratica avvezza a consumi vistosi e sprechi inaccettabili lo radicò nella convinzione della scarsa eticità dei compona­ menti della classe agiata. 7· T. Veblen, La Germania imperiale e la rivoluzione industriale (1915), in Id., Opere, cit., p. 412., in nota. 8. T. Veblen, Ricerca sulla natura della pace e le condizioni della sua perpetuazione (1917), in Id., Opere, cit., pp. 875-6.

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

Per Veblen la soluzione possibile è solo quella tecnocratica anche perché ri­ mangono di tutta evidenza gli esiti del galoppante sviluppo tecnologico esteso in senso globale sia all'industria che all'economia. Queste idee furono riprese anche in un'altra sua importante opera: La teoria dell'impresa d'affari, pubblicata nel

1904.

In questa lo studioso americano approfondisce il discorso sulla gestione affaristica

dei capitani d'industria e sui rischi connessi alla loro spregiudicata attività, fattori che avrebbero portato alla creazione di una ricchezza non reale, "di carta� basata sulla speculazione finanziaria. A suo parere tutto ciò avrebbe prefigurato frequenti e ricorrenti crisi anche di rilevanti dimensioni. Una capacità di predizione straor­ dinaria se pensiamo alla crisi di Wall Street del

1929 o a quelle che periodicamente

scuotono le economie odierne9. Veblen si occupò anche di altri temi, a tutto raggio, e altre opere risultano di rilie­ vo quali: La Germania imperiale e la rivoluzione industriale (1915), Ricerca sulla natu­

ra della pace e le condizioni della sua perpetuazione

(1917) e L'alta istruzione in Ameri­

ca: un memorandum sulla guida delle universita da parte degli uomini d'affari (1918). Nella prima pubblicazione, come dice nella prefazione, vuole confrontare e mettere in relazione «il caso della Germania da una parte e quello dei popoli di lingua inglese dall'altra» visti come momenti culturali divergenti. Colpisce in par­ ticolare la sua incredibile previsione della possibile nascita del nazismo nel primo dopoguerra tedesco, rifacendosi a quello che per lui era l'insieme delle caratteristi­ che che contraddistinguevano lo spirito del popolo tedesco. Nel testo in cui disquisisce diffusamente sulla pace indaga, tra l'altro, sui «fat­ tori noti del comportamento umano che l'esperienza ci mostra informare la condot­ ta delle nazioni» in contingenza di guerra'0• Anche in questo caso il sociologo dà prova di grandi capacità di interpretazione del futuro ipotizzando la futura alleanza fra Giappone e Germania, anticipando come acclarata una "globalizzazione" dell'e­ conomia e della tecnologia, disegnando la possibilità per gli Stati Uniti e la Russia di diventare due superpotenze e, soprattutto, segnalando ancora il pericolo dovuto all'ascesa preoccupante e al dominio del grande capitale. L'ultima delle opere citate rappresenta un duro e frontale attacco al mondo uni­ versitario dell'epoca. A suo parere la didattica e soprattutto la ricerca non erano più libere negli Stati Uniti. La scarsa scientificità con la quale venivano condotte molte indagini poteva essere addebitata ad un censurabile atteggiamento supino verso le richieste e gli interessi dei finanziatori delle stesse istituzioni accademiche e questo avrebbe potuto condurre le università americane ad essere poco critiche e, quindi, poco propositive in termini di progresso e divulgazione del sapere ai massimi livelli". 9· Nel192.2. Veblen preconizza la Grande Depressione in un noto articolo dal titolo De­ mentia praecox, pubblicato nella rivista "The Freeman': 1 0. Veblen, Ricerca sulla natura della pace e le condizioni della sua perpetuazione, cit., p. 632.. 11 . Le esternazioni dell'autore scaturiscono dalla sua personale esperienza di ricerca e docenza vissuta presso l'Università di Chicago dal1892. al1906. Quell'università era stata fondata grazie a un'ingente donazione del magnate John Rockfeller.

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Se in questo ultimo caso la capacità previsionale di Veblen non è stata comple­ tamente confermata dai fatti, gli "esercizi di previsione" presentati nei due estratti scelti per questa antologia dimostrano quanto l'aurore americano sia stato attento e lungimirante. Entrambi sono tratti da un'altra delle sue opere più apprezzate, una raccolta di articoli pubblicati sulla rivista progressista "The Dial': con cui collabora dal1918, e che diventano un saggio molto apprezzato, dal tirolo The Engineers and

the Price System, edito nel1921 dalla casa editrice newyorkese Huebsch. Nel primo di questi estratti, Veblen enuncia chiaramente la necessità di un mu­ tamento, anche del tipo rivoluzionario, per far fronte allo stato di cose del tempo. Altrettanto esplicitamente però, già nella parte iniziale, prevede che non ci potrà es­ sere in realtà nessun cambiamento, almeno nel breve periodo. Nel testo analizza con cura il metodo con il quale si è diffuso un capitalismo malato, parassita, grazie ai capitani della finanza da lui definiti con un certo disprezzo "proprietà assenteista': Questi adottano una strategia tale da provocare volutamente sottoproduzione in­ dustriale, disoccupazione di risorse e uomini al solo fine di aumentare i propri pro­ fitti lucrando sull'aumento dei prezzi. Disinteressandosi del benessere di vasti strati della popolazione, essi controllano l'industria pur non occupandosi direttamente di processi industriali e produzione, amministrando cioè affaristicamente con fini esclusivamente commerciali. L'autore punta i riflettori, in netto anticipo sui tempi, soprattutto sull'utilizzo di accorte tecniche di vendita (oggi diremmo marketing) e sull'iniziale diffusione della pubblicità che, per quanto sia un'attività improduttiva dal punto di vista industriale, inizia ad essere considerata decisamente importante sul piano commerciale. Sia la pubblicità che queste tecniche di vendita per Veblen non fanno altro che pesare sul costo finale dei prodotti e quindi sui guadagni della popolazione lavoratrice mentre, al contrario, non fanno altro che maggiorare i pro­ fitti degli "affaristi� Non si può non sottolineare come queste pratiche siano tutt'ora diffuse oltre il necessario e come le problematiche enunciate da Veblen siano ancora decisamente attuali. Al riguardo lo studioso si dice convinto che le masse popolari nel tempo avrebbero preso coscienza di tutto ciò ma che nulla sarebbe cambiato a breve, ed anche in questo caso il suo pronostico risulta veritiero. Importante e illuminante è anche il passaggio in cui l'autore critica, e nemme­ no tanto velatamente, l'assetto pseudo-concorrenziale delle imprese. La diffusione di trusts, gentlemen s agreeements e cartelli fra le aziende, specie quelle di grandi di­ mensioni che sono di importanza primaria per tutte le altre, permettono collusioni che di fatto non fanno altro che allargare a macchia d'olio questo tipo di strategie, negative per tutto l'apparato produttivo con possibili forti ricadute per l'economia reale. Anche in questa circostanza Veblen, con visione lucida, mostra di non crede­ re a cambiamenti imminenti. Lo scritto si conclude con una ipotesi di soluzione: i lavoratori impegnati nella produzione che hanno competenze tecniche effettive, gli ingegneri, gli esperti industriali, che fino a quel momento hanno lavorato certo one­ stamente ma cooperando in pratica allo sviluppo di questo tipo di capitalismo, do­ vrebbero consapevolmente organizzarsi per formare un gruppo leader che si occupi dell'industria del paese (come di tutti i paesi occidentali) anche con un sommovi­ mento rivoluzionario, costituendo un vero e proprio "soviet� L'operato di questi

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SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

dovrebbe poi portare l'apparato industriale al suo stato e funzione naturale, quello di massima produzione e diffusione di benessere per tutti. Il testo si conclude con un'ultima amara previsione, secondo la quale questa possibilità sarebbe stata troppo complessa da realizzarsi e in effetti è accaduto proprio così. Il secondo elaborato approfondisce il primo arrivando alle stesse conclusioni. Lo studioso americano tende a definire un preciso quadro di cambiamenti guida­ to dai tecnici. Utilizzando una terminologia che occhieggia fortemente al comuni­ smo, costruisce un piano completo d'azione che dovrebbe essere condotto da un "soviet " di tecnici11• L'obiettivo dichiarato è quello di costringere gli "interessi co­ stituiti" dalla "proprietà assenteista" a cedere il comando dell'apparato industriale per ricondurlo alla miglior produzione possibile e, conseguentemente, al maggior benessere materiale della comunità. Il tutto o accordandosi con i capitani di ven­ tura per una loro abdicazione oppure con un sommovimento rivoluzionario, non necessariamente armato, che però avrebbe portato almeno ad una espropriazione delle proprietà industriali e finanziarie (anche azionarie) in favore dei tecnici. Eli­ minando i difetti voluti e insiti in quel tipo di capitalismo la società avrebbe avuto possibilità di prosperare. Ciò che colpisce nel testo è la cura e la spiegazione partico­ lareggiata di come ciò sarebbe dovuto avvenire, arrivando ad articolare persino gli organi preposti al cambiamento e le modalità di azione iniziali (sciopero generale dei tecnici) e successive. Altrettanto chiara è la conclusione consapevolmente negativa della sua stessa previsione. Già anticipata nelle prime righe del testo, e più volte riportata ali' inter­ no e alla fine, si richiama in primis a fattori culturali, accompagnandosi alla sfiducia nelle masse, soprattutto quelle americane. L'aspetto culturale rimarcato è quello più tipicamente caratteristico della tradizione a stelle e strisce: «l'idolo di ogni sin­ cero cuore americano» è precisamente la proprietà assenteista, la ricerca dell'agia­ tezza e del successo. Gli uomini d'affari sono visti, quindi, come adatti a gestire le responsabilità del paese e come esempio per tutti. Per Veblen, il sogno americano di quel tempo sembra andare verso una "mentalità commercializzata" che guarda con esagerata ammirazione ai capitani d'industria come a degli eroi e, al contrario, os­ serva con sospetto la sobria produttività dei tecnici. Questo atteggiamento delle masse, sommato ali' incapacità dei tecnici di orga­ nizzarsi, coordinarsi e adoperarsi insieme a una larga fetta della popolazione per il cambiamento, permise a Veblen di prevedere l'assenza di qualsiasi mutamento nel breve periodo. I decenni successivi però, e questi ultimi anni confermano il trend, hanno purtroppo dimostrato che la sua flebile speranza di vedere modificato in po­ sitivo l'assetto della società in tempi successivi rispetto a quelli in cui scriveva risultò essere comunque vana.

12. È giusto precisare che Veblen, pur utilizzando un linguaggio chiaramente legato al marxismo-leninismo, non ha mai aderito ideologicamente alla sinistra hegeliana per quanto ne abbia ovviamente conosciuto le categorie d'analisi ed abbia condiviso parzialmente le ar­ gomentazioni proposte dai suoi esponenti apicali.

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Sulle circostanze che fanno prevedere un mutamento Lo stadio dell'industria, in America e negli altri paesi industriali progredi­ ti, impone alcune severe condizioni ad ogni movimento che miri ad elimi­ nare gli interessi costituiti. Queste condizioni rientrano nella natura delle cose, cioè nella natura del sistema industriale esistente; e finché esse non sono adempiute in modo tollerabile il controllo di quest'ultimo non può esser assunto in maniera effettiva o durevole. È chiaro inoltre che tutto ciò che risulta valido al riguardo per l'America vale anche in misura pressoché identica per gli altri paesi dominati dali' industria meccanica e dal sistema della proprietà assenteista. Si può anche affermare fin d'ora con sicurezza che da un esame impar­ ziale del materiale documentario, quale quello a cui si mira in questa sede, apparirà chiaro che non occorre che vi sia al presente alcun timore di uno spodestamento degli interessi costituiti in America da parte di una solleva­ zione popolare, anche se l'irritazione popolare dovesse crescere in modo as­ sai considerevole al di sopra del suo attuale livello, ed anche se taluni pro­ pugnatori dell' "azione direttà: qua e là, dovessero esser mal consigliati al punto da compiere qualche avventato gesto di rivolta. L'unico pericolo at­ tuale è che una clamorosa campagna di repressione ed inquisizione da parte dei guardiani degli interessi costituiti potrebbe suscitare qualche passeggero tremito di agitazioni sediziose. A questo fine è quindi necessario ricorda­ re, in modo sommario, i fondamentali dati di fatto del sistema industriale e dell'attuale controllo affaristico di esso che assumono rilievo in modo im­ mediato. Si deve osservare, a mo' di premessa generale, che l'ordine costi­ tuito degli affari si basa sulla proprietà assenteista ed è diretto all'unico fine del massimo ricavo netto conseguibile in termini di prezzo; in altre parole, si tratta di un sistema di amministrazione affaristica su basi commerciali. La massa della popolazione dipende per i propri mezzi di sussistenza dal fun­ zionamento del sistema industriale; perciò il suo interesse concreto s'indi­ rizza verso la produzione e la distribuzione di beni di consumo, e non verso un maggior volume d'introiti per i proprietari assenteisti. Si ha quindi una separazione d'interessi tra la comunità degli affari che opera in favore dei proprietari assenteisti, da una parte, e le masse popolari, che lavorano per vivere, dall'altra; e date le caratteristiche della situazione questa separazione d'interessi tra proprietari assenteisti e masse popolari si approfondisce e di­ viene più evidente di giorno in giorno, ciò che origina una certa divisione di sentimenti e una certa misura di sfiducia reciproca. Ciò nonostante, gli stra­ ti inferiori della popolazione conservano tuttora un atteggiamento mentale abbastanza deferente nei confronti dei proprietari assenteisti, e sono assai

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

coscienziosamente imbarazzati nei confronti di ogni riduzione del reddito franco di cui i proprietari sono destinatari, secondo le regole del gioco at­ tualmente in vigore. Le aziende affaristiche cui compete la gestione dell'industria sulla base della proprietà assenteista sono valutate in capitale secondo la loro capacità affaristica, non secondo quella industriale; cioè sono valutate secondo la lo­ ro capacità di produrre profitti, e non di produrre beni. Il loro valore in capi­ tale è computato e stabilito in pratica al livello del massimo normale tasso di profitti ottenuto in precedenza; e ai suoi dirigenti affaristici si richiede ora, pena l'insolvenza, di far fronte a costi fissi sulle entrate commisurati a quel valore in capitale. Perciò, come norma di una salda e sicura direzione affari­ stica, i prezzi devono esser mantenuti o aumentati. Dall'esigenza affaristica di far fronte a simili costi fissi generali sul va­ lore in capitale derivano taluni criteri consuetudinari di spreco e di osta­ colo, che sono inevitabili finché l'industria è diretta con metodi e per fini affaristici. Questi normali criteri di spreco e di ostacolo fanno necessaria­ mente (e incensurabilmente) parte integrante della conduzione affaristica della produzione. Essi sono molti e diversi in dettaglio, ma possono es­ ser per ragioni di convenienza classificati in quattro categorie:

a

)

disoccu­

pazione delle risorse materiali, degli impianti e della manodopera, totale o parziale, intenzionale o frutto d'ignoranza;

b)

tecniche di vendita (che

comprendono, per esempio, l' innecessaria proliferazione dei commercian­ ti e delle rivendite al dettaglio e ali'ingrosso, la pubblicità sui giornali e con cartelloni, le esposizioni e gli agenti di vendita, gli imballaggi e le etichette di fantasia, l'adulterazione, la moltiplicazione delle marche e degli articoli di decoro); c) produzione (e costo di vendita) di beni superflui e non ge­ nuini; d) disarticolazione, sabotaggio e duplicazione sistematici, dovuti in parte alla strategia affaristica, in parte ali'ignoranza affaristica delle esigen­ ze dell'industria (di cui fanno parte, per esempio, le spedizioni a ritroso, la monopolizzazione delle risorse, il rifiuto di attrezzature e d'informazioni ai rivali in affari che si ritiene saggio ostacolare o eliminare). Ovviamente tutto questo quotidiano spreco e confusione, che forma il risultato giorna­ liero complessivo della gestione affaristica, non comporta alcun biasimo, né alcun senso di colpa o di vergogna; tutto ciò fa parte in modo neces­ sario e legittimo dell'ordine costituito d'iniziativa affaristica, nell'ambito della legge e dell'etica del commercio. Le tecniche di vendita sono la più vistosa, e forse la più grave, tra le pra­ tiche dilapidatorie ed industrialmente futili connesse con la conduzione af­ faristica dell'industria; esse risaltano in grande evidenza sia quanto al loro costo immediato che quanto ai loro effetti di adescamento. Sono, inoltre,

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del tutto legittime e indispensabili per ogni azienda industriale che abbia a che fare con una clientela per gli acquisti o per le vendite; il che equivale a dire per quasi ogni azienda connessa con la produzione e la distribuzio­ ne di beni e servizi. In verità, le tecniche di vendita esauriscono in un certo modo lo scopo e l'essenza dell'iniziativa affaristica; la produzione di beni, salvo la misura in cui essa è amministrata al costante fine della realizzazione d'affari profittevoli, non rientra di per sé nella materia affaristica. Proprio la soppressione delle profittevoli transazioni di acquisto e vendita costitu­ isce l'oggetto delle speranze di ogni movimento che aspira attualmente ad un rovesciamento; e la stessa eliminazione della contrattazione profittevole è paventata, con una paura che ne spezza i nervi, dai guardiani dell'ordine costituito. L'abilità nelle tecniche di vendita è anche la più indispensabile e meritoria tra le qualità che compongono il saldo e sano uomo d'affari. Risponde senza dubbio al vero l'affermazione secondo cui, in media, metà del prezzo pagato per beni e servizi dal consumatore va attribuito alle spese per le tecniche di vendita- cioè al costo di vendita e ai profitti netti degli specialisti del ramo. Ma in molti settori commerciali di rilievo il costo di vendita ammonta fino a dieci o venti volte più del costo di produzione vero e proprio, e fino a non meno di cento volte più del necessario costo di distribuzione. Tutto ciò non è fatto oggetto di vergogna o di disgusto; an­ zi, oggi più che mai s'insiste in modo rumoroso e palesemente crescente sui meriti e sull'importanza suprema delle tecniche di vendita, quale pilastro fondamentale del commercio e dell'industria, e si richiede strenuamente un tirocinio più vasto e completo di un maggior numero di giovani nelle tec­ niche di vendita - a spese del pubblico - in modo da consentire che una produzione sapientemente ristretta di beni possa esser venduta a prezzi più profittevoli- sempre a spese del pubblico

[ ] .Per di più la ...

pubblicità e le

manovre di adescamento delle tecniche di vendita sembrano l'unica risorsa a cui gli uomini d'affari del paese sappiano far ricorso per cercar sollievo dal groviglio di difficoltà in cui l'avvento di una pace affaristica ha precipitato il mondo commercializzato. Un aumentato costo di vendita deve rimedia­ re ai mali della sotto-produzione. Al riguardo può valer la pena di ricorda­ re, senza accalorarsi o esprimere biasimo, che tutta quella costosa pubblicità che aumenta il costo di vendita ha il carattere di una prevaricazione, quando non di una sana, aperta menzogna; e ciò in modo del tutto necessario. Nel frattempo, il rapporto tra costi di vendita e costi di produzione continua a crescere, il costo della vita aumenta continuamente per le masse popolari, e le necessità degli affari continuano ad ampliare le necessarie spese nei sistemi e nei mezzi di vendita.

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

È ragionevole ritenere che questo stato di cose, che si è venuto creando in modo graduale negli anni trascorsi, giunga con il passar del tempo ad es­ ser compreso e valutato dalle masse popolari, almeno in una certa misura; ed è altrettanto ragionevole pensare che non appena queste ultime si siano rese conto del fatto che tutto questo traffico dilapidatorio nelle tecniche di vendita sta esaurendo le loro forze produttive senza conseguire alcun risul­ tato migliore di un aumento del costo della vita, saranno spinte a fare qual­ che passo al fine di attenuare il flagello. Perciò, nei limiti in cui questo sta­ to di cose sta cominciando oggi ad esser compreso, il risultato logico è una crescente sfiducia negli uomini d'affari e in tutte le loro opere e parole. Ma le masse popolari sono ancora molto credule nei confronti di qualsiasi cosa che sia detta o fatta nel nome degli affari, e non occorre che vi sia alcuna ap­ prensione circa lo scoppio di una rivolta, per ora. È peraltro evidente anche che ogni programma direzionale che riuscisse a congegnare il modo di fare a meno di tutte queste spese nelle tecniche di vendita, oppure che riducesse materialmente i costi di vendita, avrebbe un corrispondente margine di si­ curezza su cui basarsi, e quindi possibilità di successo corrispondentemente maggiori; così com'è evidente che ogni direzione che non sia quella affaristi­ ca sarebbe in grado di ottenere tanto, dal momento che i costi di vendita so­ no imposti esclusivamente in funzione degli affari e non dell'industria, cioè sono imposti a vantaggio del profitto privato e non del lavoro produttivo. Non vi è peraltro in realtà alcuna prospettiva attuale di una crisi degli affari, dovuta al continuo aumento dei costi di vendita; anche se questi con­ tinueranno per forza a crescere finché l'industria del paese continuerà ad esser diretta secondo l'attuale sistema o secondo uno simile. In effetti le tec­ niche di vendita sono il fattore principale del continuo aumento del costo della vita, il quale è a sua volta il principale fondamento della prosperità della comunità degli affari e la fonte primaria di perenni privazioni e di malcon­ tento per le masse popolari. Vale ancora la pena di notare come l'eventua­ le eliminazione delle tecniche e del costo di vendita alleggerirebbe di circa il cinquanta per cento l'onere produttivo quotidiano delle masse popolari. Tale è l'entità dell'incentivo palese ad espropriare il sistema di proprietà as­ senteista su cui si basa la moderna attività affaristica; e- per quel che può valere - si deve ammettere che vi è di conseguenza nell'attuale situazione una corrispondente tendenza ad un sommovimento rivoluzionario mirante a spodestare gli interessi costituiti. Ma allo stesso tempo l'eliminazione delle tecniche di vendita e di tutto il loro massiccio apparato e traffico ridurrebbe di circa la metà il reddito capitalizzato della comunità degli affari; e un'even­ tualità del genere non viene neppur presa in considerazione, non diciamo

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poi con equanimità, dai guardiani nelle cui mani stanno in ultima analisi le sorti della comunità. Un simile passo è un'assurdità morale, per ora. In stretta relazione con le pratiche dilapidatorie delle tecniche di ven­ dita comunemente intese, se non piuttosto da ritenersi come un prolunga­ mento delle stesse, è la persistente disoccupazione di forze di lavoro, d' im­ pianti e di risorse materiali mediante la quale la produzione di beni e ser­ vizi è contenuta al livello delle "esigenze del mercato" al fine di mantenere i prezzi ad un "livello ragionevolmente profittevole". Tale disoccupazio­ ne, intenzionale e abituale, è uno degli espedienti normalmente impiegati nella gestione affaristica dell'industria; ve ne è sempre una certa quantità, maggiore o minore, in tempi normali. I "ragionevoli guadagni" non po­ trebbero esser realizzati senza di essa, dal momento che "ciò che il traffico può reggere" in quanto a produzione di beni non coincide affatto con la capacità produttiva del sistema industriale, e tanto meno con le necessità complessive di consumo della società; in effetti, esso tende palesemente a non coincidere con nessuna delle due. Più in particolare è nei periodi di ristrettezze popolari, come l'anno in corso, in cui la produzione corrente dei beni non si avvicina neppure al livello necessario per far fronte alle ne­ cessità di consumo della società, che considerazioni di strategia affaristica esigono una sapiente disoccupazione delle forze produttive del paese; nel­ lo stesso tempo questa disoccupazione affaristica d'impianti e di manodo­ pera è la causa più ovvia delle ristrettezze popolari. Tutto ciò è ben noto ai guardiani degli interessi costituiti, e tale consa­ pevolezza, in modo del tutto logico, è per loro fonte di disagio. Ma essi non vi vedono alcun rimedio; ed in verità non ne esiste alcuno, nell'ambito della struttura degli "affari consueti': dato che essa costituisce proprio l'essenza degli affari consueti [ ... ] . Il sistema industriale si espande continuamente in volume e in compli­ cazione, e da ogni nuovo ampliamento del suo campo d'azione e della sua portata e da ogni ulteriore incremento operato nell'impiego della tecnica deriva per gli uomini d'affari al comando una nuova ed urgente opportunità di ampliare e accelerare la loro strategia di ostacolo e di disfatta reciproca; tutto ciò rientra nel lavoro quotidiano. Man mano che il sistema industriale diviene più vasto e più strettamente intrecciato, esso offre possibilità sempre maggiori e più allettanti per manovre affaristiche tali da squilibrarlo effica­ cemente nello stesso istante in cui producono il desiderato insuccesso tattico di qualche rivale in affari; manovre mediante le quali lo stratega affarista che ha successo è posto in condizioni di ricavare qualche piccola cosa senza dar nulla in cambio, ad un costo costantemente crescente per la comunità nel suo complesso. Ad ogni progresso della sua espansione e della sua maturi-

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160

tà il sistema industriale del paese diviene più delicatamente equilibrato, più intricatamente preso nella ragnatela del dare e dell'avere dell'industria, più sensibile ad uno squilibramento di vasta portata a seguito di qualsiasi dislo­ cazione locale, con più larghe e istantanee reazioni ad ogni venir meno della debita correlazione in qualsiasi momento; a causa della stessa evoluzione i capitani d'industria, alla cui responsabilità sono affidati gli interessi della proprietà assenteista, sono messi in grado, o piuttosto spinti dalle necessità degli affari concorrenziali a tracciare la loro strategia di disfatta e squilibra­ mento reciproco seguendo criteri più vasti ed intricati, di portata sempre più ampia e comportanti una più massiccia mobilitazione di forze. Da tut­ to ciò deriva un'insicurezza sempre crescente del lavoro e della produzione giorno per giorno ed una aumentata certezza di danni generalizzati e d' im­ potenza nel lungo periodo; incidentalmente abbinati con un aumento delle privazioni per le masse popolari, che ne consegue come ovvio fatto sussi­ diario, disgraziato ma inevitabile. È proprio questo insuccesso, palesemente crescente, che l'attuale direzione affaristica incontra nel far fronte alle neces­ sità industriali del caso, il suo costante operare in contrasto reciproco nella ripartizione delle fonti di energia, dei materiali e della manodopera

-

è in

breve il fatto che ogni gestione affaristica contrasta necessariamente con le più ampie realtà tecniche del sistema industriale, che soprattutto vale a con­ vincere le persone d'indole apprensiva che il regime dell'impresa affaristica sta rapidamente avvicinandosi al limite di tolleranza. Perciò molti ritengono che l'attuale sistema di proprietà assenteista sia destinato tra breve tempo a crollare, precipitando così l'abdicazione degli interessi costituiti, ricono­ sciuti colpevoli di totale inettitudine

[ ...] .

Vi è naturalmente la possibilità, nient'affatto remota, che il rapido au­ mento delle dimensioni e della complessità del sistema industriale conduca in breve tempo l'industria del paese in una situazione di equilibrio instabile così precaria che neppure una ragionevole, modesta quantità di squilibra­ mento intenzionale possa più esser tollerata, neanche se giustificata dalle più urgenti e legittime ragioni della strategia affaristica e dei diritti consolidati.

È presumibile che, con il passar del tempo, sia da prevedersi un risultato del genere; anzi non mancano segni del fatto che i paesi industriali progrediti, e tra gli altri l'America, si stanno avvicinando a una tale situazione. Infatti il margine consentito per l'errore e per la strategia dilapidatoria viene conti­ nuamente ristretto dall'ulteriore progresso della tecnica industriale; ad ogni nuovo progresso in fatto di specializzazione e di standardizzazione, di spe­ cie, quantità, qualità e di tempi il margine di tolleranza del sistema nel suo complesso nei confronti di qualsiasi errato assetto strategico si restringe con­ tinuamente.

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Quanto sia poi vicino il momento in cui sarà raggiunto il limite di tolle­ ranza in fatto di squilibramento intenzionale, questo sarebbe un arrischiato tema di congetture. Vi sono oggi buone prospettive che il prossimo inverno possa fare un po' di luce su quest'oscuro quesito; ma ciò non significa che la fine sia in vista. Ciò che va ribadito è che tale sinistra eventualità appartiene ancora al futuro, anche se potrebbe rientrare in un futuro computabile. È comunque opportuno tener presente che anche un crollo francamente disa­ stroso dell'attuale sistema di direzione affaristica può non dimostrarsi neces­ sariamente fatale agli interessi costituiti, per ora; cioè fino a quando non vi sia alcuna organizzazione competente pronta a prenderne il posto e ad am­ ministrare l'industria del paese secondo programmi più razionali. Si tratta necessariamente di una questione di alternative. In tutto questo ragionamento relativo alla perpetua disarticolazione e al contrasto reciproco si presuppone che l'attuale gestione affaristica dell'in­ dustria abbia carattere concorrenziale e si muova necessariamente lungo le direttrici della strategia concorrenziale; si presuppone inoltre, come ovvia premessa sussidiaria, che i capitani d'industria i quali dirigono la strategia concorrenziale siano normalmente abbastanza male informati in fatto di problemi tecnici da commettere errori, industrialmente parlando, nono­ stante le più pacifiche e benevole intenzioni. Sono dei profani per tutto ciò che concerne le esigenze tecniche della produzione industriale. Perciò que­ sto secondo, e secondario, presupposto non ha bisogno d'esser discusso; è abbastanza notorio. D'altro canto, il primo presupposto citato sopra, ossia il carattere con­ correnziale dell'attuale impresa affaristica, sarà probabilmente messo in dubbio da molti che ritengono d'aver familiarità con i dati di fatto relati­ vi. Si sostiene, da parte di questo e di quello, che le aziende affaristiche del paese si sono impegnate in consolidamenti, coalizioni, intese e transazioni di lavoro tra loro - cartelli, trusts, fondi comuni, combinazioni, gruppi di­ rigenziali collegati,gentlemen 's agreements, confederazioni di datori di lavo­ ro -, in misura tale da interessare virtualmente tutto l'ambito delle aziende d'affari di grandi dimensioni, quelle che determinano il ritmo e regolano i movimenti di tutte le altre; e che laddove entra in tal modo in vigore una combinazione, cessa la concorrenza. Si sosterrà anche che nei casi in cui non vi è stata alcuna coalizione ufficiale d'interessi, gli uomini d'affari al coman­ do agiscono di solito in collusione, con risultati pressoché identici; è inoltre facile suggerire che, pur nella misura in cui un sabotaggio affaristico di tipo concorrenziale vada ancora fronteggiato, esso può esser integralmente neu­ tralizzato da un ulteriore consolidamento d'interessi, tale da eliminare ogni

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occasione per un contrasto concorrenziale reciproco nell'ambito del sistema

industriale[ . .. ].

In forza della loro coerenza dottrinaria e fedeltà alla tradizione, gli eco­ nomisti accreditati hanno di solito definito l'iniziativa affaristica come un metodo razionale per l'amministrazione del sistema industriale del paese e per garantire una piena ed equa distribuzione dei beni di consumo ai con­ sumatori. Non c'è bisogno di polemizzare con tale opinione; è però sempli­ cemente giusto avanzare la riserva secondo cui l'iniziativa affaristica basata sulla proprietà assenteista, se considerata come metodo per l'amministra­ zione del sistema industriale, ha i difetti connessi con i suoi pregi; e i difetti di questo buon vecchio metodo stanno oggi attirando su di sé l'attenzione. Sino ad ora, dal momento in cui l'industria meccanica ha assunto il ruolo dominante nel sistema produttivo, i difetti della gestione affaristica dell'in­ dustria hanno continuato ad erodere una porzione sempre maggiore dei suoi pregi. Esso ebbe inizio come un sistema di direzione da parte dei proprietari degli impianti industriali, sviluppandosi nei suoi anni più maturi in un si­ stema di proprietà assenteista diretto da agenti finanziari semi-responsabili. Nata come comunità industriale imperniata su un mercato aperto, si è ma­ turata in una comunità d'interessi costituiti a cui compete il diritto conso­ lidato di mantenere alti i prezzi mediante un'offerta scarsa su un mercato chiuso. Non è eccessivo affermare che, nel complesso, questo metodo per il controllo della produzione e della distribuzione di beni e servizi per mezzo degli agenti della proprietà assenteista è oggi divenuto essenzialmente un marchiano pasticcio di difetti. Per i presenti fini, cio è avendo riguardo alla probabilità di un qualsiasi sommovimento rivoluzionario, questa può ser­ vire come descrizione imparziale del regime degli interessi costituiti; la so­ pravvivenza del cui predominio è ritenuta oggi, da parte dei loro guardiani,

minacciata da una sollevazione popolare di carattere bolscevico[ ... ].

L'industria moderna- meccanica, specializzata, standardizzata, tenden­ te alla produzione di massa, tracciata su larga scala- è altamente produttiva, sempre che le condizioni necessarie per il suo funzionamento siano adem­ piute in qualche maniera sopportabile [ ...]. Il suo fondamento e la sua forza motrice sono costituiti da un massiccio complesso di cognizioni tecniche, di carattere estremamente impersonale e niente affatto affaristico, che opera in stretto contatto con le scienze della materia, da cui attinge largamente in ogni occasione - rigorosamente spe­ cializzato, infinitamente dettagliato, estendentesi in tutti i settori della real­ tà empirica. Questo è il sistema di lavoro produttivo, derivato dalla rivoluzione in­ dustriale, dal cui pieno e libero funzionamento dipende giorno per giorno

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il benessere materiale di tutte le società civili. Ogni difetto o impedimento nella sua direzione tecnica, ogni intromissione di considerazioni non tecni­ che, ogni deficienza od ostacolo in qualsiasi suo aspetto risulta inevitabil­ mente in una sproporzionata crisi del complesso equilibrato e porta con sé uno sproporzionato fardello di privazioni per tutti i popoli la cui industria produttiva rientri nel raggio d'azione del sistema. Ne consegue che tutti quei tecnici dotati, qualificati ed esperti che sono oggi in possesso delle informazioni e dell'esperienza tecnica necessaria costi­ tuiscono il fattore primo e immediatamente indispensabile nella quotidiana opera di conduzione dell'industria produttiva del paese; oggi essi formano in effetti lo stato maggiore generale del sistema industriale, checché possano affermare in contrario il diritto e la consuetudine. I "capitani d' industrià' possono continuare a rivendicare vanitosamente per sé il titolo, e il diritto e il costume ad appoggiare tale rivendicazione; ma nella realtà i capitani non hanno alcun rilievo tecnico. Perciò ogni questione relativa ad un sommovimento rivoluzionario, in America od in qualsiasi altro paese industriale progredito, si risolve all'atto pratico in un problema concernente ciò che la categoria dei tecnici farà. In effetti ciò che rileva è il verificarsi o meno del passaggio della discrezionalità e della responsabilità nella direzione dell'industria del paese dai finanzieri, rappresentanti gli interessi costituiti, ai tecnici, rappresentanti il sistema in­ dustriale come complesso funzionante. Non vi è alcuna terza parte che pos­ sieda i titoli per fare un'offerta plausibile o che sia in grado di realizzare le sue pretese ove essa avesse fatto una offerta. Finché i diritti consolidati di pro­ prietà assenteista rimangono intatti, il potere finanziario - cioè gli interessi costituiti - continuerà a disporre delle forze industriali del paese per il suo privato profitto; e non appena, o nella misura in cui tali diritti consolidati cedano il campo, il controllo del benessere materiale della società passerà nelle mani dei tecnici. Non vi è alcuna terza parte. Le possibilità che qualcosa di simile ad un soviet si instauri in America si identificano perciò con le possibilità di un soviet di tecnici. Inoltre, ad opportuna consolazione dei guardiani degli interessi costituiti e dei buoni cittadini che ne formano il sostegno, si può dimostrare che in America una cosa come un soviet di tecnici rappresenta nella migliore delle ipotesi una eventualità remota.

È pur vero che finché non venga realizzata una simile trasformazione di fondo, si può con sicurezza prevedere un regime di permanente e crescente obbrobrio e confusione, disagi e dissensi, disoccupazione e privazioni, spre­ co e insicurezza della persona e della proprietà - quale quello che il governo degli interessi costituiti negli affari ha ormai reso sempre più familiare a tut-

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te le società civili. Ma i diritti consolidati di proprietà assenteista sono anco­ ra radicati nei sentimenti delle masse popolari, continuano ancora a rappre­ sentare il Palladio della Repubblica; perciò è possibile affermare con tutta sicurezza che un soviet ai tecnici non costituisce una minaccia attuale agli interessi costituiti in America. Per consuetudine ormai affermata i tecnici, gli ingegneri e gli esperti in­ dustriali sono tipi innocui e docili, nel complesso ben nutriti, i quali si ac­ contentano alquanto placidamente della "gavetta piena" che di solito i luo­ gotenenti degli interessi costituiti accordano loro. È vero che costituiscono lo stato maggiore generale indispensabile al sistema industriale che alimenta gli interessi costituiti; ma almeno fino ad ora non hanno avuto alcuna voce nella progettazione e nella direzione di esso, se non come dipendenti stipen­ diati dai finanzieri. Essi si sono finora accontentati, senza assolutamente ri­ flettere, di operare in maniera parcellare, senza giungere a intese reciproche, lavorando a cottimo senza riserve per gli interessi costituiti; e hanno presta­ to gratuitamente, senza troppo rifletterei, se stessi e le loro facoltà tecniche alle tattiche ostruzionistiche dei capitani d'industria; tutto ciò mentre il ti­ rocinio che fa di loro dei tecnici non è che una proiezione specializzata di quel capitale comune di cognizioni tecniche che la comunità nel suo com­ plesso si è portata con sé dal passato. Ma rimane pur sempre vero che essi e la loro conoscenza, acquistata a caro prezzo, dei mezzi e dei sistemi - acquistata a caro prezzo da parte del­ le masse popolari - costituiscono i pilastri dell'edificio dell'industria in cui continuano a risiedere gli interessi costituiti. Senza la loro continua ed in­ cessante supervisione e direzione il sistema industriale cesserebbe del tutto di esser un sistema funzionante; laddove al contrario non è facile rendersi conto di come la soppressione dell'attuale controllo affaristico possa non ri­ sultare in un sollievo ed in un'accresciuta efficienza per tale sistema operan­ te. I tecnici sono indispensabili all'industria produttiva di questo tipo mec­ canico; gli interessi costituiti ed i loro proprietari assenteisti non lo sono. I tecnici sono indispensabili agli interessi costituiti ed ai proprietari assentei­ sti, in quanto forza operativa senza di cui non vi sarebbe alcuna produzione industriale da controllare o da spartire; mentre gli interessi costituiti ed i loro proprietari assenteisti non hanno alcuna rilevanza concreta per i tecnici e per il loro lavoro, se non come fonti estranee d'interferenze e di ostacoli. Ne consegue che il benessere materiale di tutte le società industriali pro­ gredite si trova nelle mani di questi tecnici, alla sola condizione che essi se ne rendano conto, si consultino reciprocamente, si costituiscano come stato maggiore generale autodiretto dell'industria nazionale, e si liberino dall'in­ terferenza dei luogotenenti dei proprietari assenteisti. Sono già, dal punto di

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vista strategico, in grado di assumere il comando e di dettare le proprie con­ dizioni direzionali, non appena essi, o un numero decisivo di loro, raggiun­ gano un'intesa comune in tal senso e concordino un piano d'azione. Ma per certo non vi è attualmente alcuna prospettiva che i tecnici impie­ ghino il loro acume e buon senso a tale fine. Non occorre che vi sia appren­ sione per il momento. I tecnici sono tipi "sani e sicuri': nel complesso; e so­ no del tutto commercializzati, particolarmente la generazione più anziana, che parla con autorità e con convinzione, e a cui la generazione più giovane d'ingegneri usa deferenza, nel complesso, con un grado tale di pietà filiale da risultare altamente rassicurante per tutti i buoni cittadini. Proprio in questo sta l'attuale sicurezza degli interessi costituiti, come pure la fatuità di ogni odierno allarme nei confronti del bolscevismo e simili; poiché la coopera­ zione piena e senza riserve dei tecnici sarebbe altrettanto indispensabile per ogni efficace movimento rivoluzionario, quanto il loro servizio incrollabile alle dipendenze degli interessi costituiti è indispensabile per il mantenimen­ to dell'ordine prestabilito.

[T. Veblen, Gli ingegneri ed il sistema dei prezzi (1921), in Id. Opere, a cura di F. De Domenico, UTET, Torino 1969, pp.

972-91]

Memorandum su un realizzabile soviet di tecnici Scopo di questo memorandum è quello di dimostrare, in modo oggettivo, che nelle attuali circostanze non occorre che vi sia alcun timore, né alcuna speranza, di un effettivo sommovimento rivoluzionario in America, tale da sconvolgere l'ordine prestabilito e da spodestare gli interessi costituiti che oggi controllano il sistema industriale del paese[ ... ]. Ogni piano d'azione che possa sperare di far fronte ai requisiti del caso in modo sopportabile deve giovarsi necessariamente di una matura ponde­ razione da parte dei tecnici competenti a dare l'avvio ad una simile impresa; esso deve assicurarsi l'intelligente collaborazione di diverse migliaia di per­ sone tecnicamente qualificate sparse per tutto il paese, nell'una industria e nell'altra; deve effettuare un'evirazione abbastanza completa delle forze in­ dustriali del paese; deve predisporre degli schemi organizzativi realizzabili interessanti in dettaglio l'industria del paese: fonti di energia, materie prime e forze di lavoro; e deve assicurarsi anche l'appoggio attivo ed aggressivo di persone esperte operanti nei settori dei trasporti, delle miniere e delle mag­ giori industrie meccaniche. Questi sono i requisiti iniziali, indispensabili

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per l'avvio di ogni impresa del genere in un paese industriale come l'Ameri­ ca; e quando ciò sia tenuto presente, ci si renderà conto del fatto che ogni ti­ more di un effettivo passo in tale direzione è oggi del tutto chimerico; tanto che, in effetti, si può affermare senza possibilità di equivoco che la proprietà assenteista è al sicuro, per ora. Perciò, per dimostrare in modo conclusivo ed oggettivo quanto remota sia tuttora un'eventualità del genere, si intende esporre qui in modo som­ mario le linee di fondo che ogni simile piano concertato d'azione dovrebbe seguire, e quale sia necessariamente l'unico tipo di organizzazione che possa sperare di assumere il controllo del sistema industriale, a seguito dell'even­ tuale abdicazione o spodestamento degli interessi costituiti e dei loro pro­ prietari assenteisti. Tra parentesi è proprio l'abdicazione, di propria iniziati­ va anche se riluttante, degli interessi costituiti e dei loro proprietari assentei­ sti, più che il loro forzato spodestamento, che rimane sempre un evento da prefìgurare come ragionevolmente probabile nel futuro calcolabile. In realtà non dovrebbe provocare alcuna sorpresa l'osservare come essi si elimineran­ no, in un certo senso, da soli, mollando la presa in modo del tutto involon­ tario dopo che la situazione industriale sia sfuggita completamente al loro controllo. Infatti essi hanno già abbastanza dimostrato, nell'attuale difficile congiuntura, la loro inidoneità a prendersi cura del benessere materiale del paese, che è in ultima analisi l'unico fondamento su cui possano basare una plausibile rivendicazione dei propri diritti consolidati. Allo stesso tempo una sorta di offerta di partenza per un contratto di abdicazione è già venuta da più di una parte

[ ..]. .

Come è ovvio, i poteri e i compiti dell'organismo dirigente futuro avran­ no carattere principalmente se non esclusivamente tecnico; ciò proprio in quanto lo scopo del suo accesso al posto di comando è la cura del benessere materiale della comunità mediante una direzione più competente del siste­ ma industriale nazionale. Si può aggiungere che anche nel caso imprevisto in cui il sommovimento qui preso in considerazione dovesse incontrare, nella sua fase iniziale, l'opposizione armata dei fautori del vecchio ordinamento, i compiti dell'organismo dirigente futuro conserveranno pur sempre un ca­ rattere essenzialmente tecnico, in quanto le operazioni militari sono oggi anch'esse sostanzialmente una questione tecnica, sia nella condotta imme­ diata delle ostilità che nell'ancor più impegnativa opera di sostegno e di ri­ fornimento materiale. L'ordinamento industriale futuro è designato a correggere gli inconve­ nienti di quello vecchio. Perciò i compiti e i poteri del futuro organismo di­ rigente si concentreranno su quegli aspetti dell'amministrazione dell' indu­ stria in cui il vecchio ordinamento si è più segnatamente messo in luce per

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le sue deficienze, vale a dire sulla giusta ripartizione delle risorse e sul conse­ guente impiego pieno e razionalmente proporzionato degli impianti e della manodopera disponibili; sull'abolizione dello spreco e della duplicazione del lavoro; e su un'equa e sufficiente offerta di beni e servizi ai consumatori. Evidentemente l'opera più immediata ed urgente in cui il futuro organismo dirigente dovrà impegnarsi sarà quella per la cui assenza nel vecchio ordina­ mento il sistema industriale sta funzionando in modo fiacco e in contrasto reciproco; cioè la giusta ripartizione delle risorse disponibili in fatto di ener­ gia, di attrezzature e di materie prime tra le maggiori industrie primarie. Nel vecchio ordinamento non è prevista praticamente alcuna misura relativa a questa necessaria opera di ripartizione. Al fine di effettuare questa ripartizione il sistema nazionale dei trasporti

deve esser posto a disposizione dello stesso gruppo dirigenziale di essa inca­ ricato, dato che nella realtà moderna ogni ripartizione del genere può aver effettivamente luogo solo mediante l'uso del sistema dei trasporti. Ma, con lo stesso atto, anche il controllo effettivo della distribuzione dei beni ai con­ sumatori cadrà necessariamente nelle stesse mani, dal momento che i traffici in beni di consumo sono anch'essi essenzialmente una questione di traspor­ ti. Sulla base di queste considerazioni, che sarebbero senz'altro confermate da un'indagine più dettagliata sull'opera da compiere, l'organismo dirigente centrale assumerà presumibilmente la forma di un consiglio esecutivo, cri­ partito in modo approssimativo, munito della potestà di agire in materia di amministrazione dell'industria; un consiglio comprendente tecnici la cui specializzazione consenta di definirli ingegneri delle risorse, insieme con rappresentanti analogamente competenti del sistema dei trasporti e dell'at­ tività connessa alla distribuzione di prodotti finiti e di servizi. Al fine della sua efficienza e funzionalità, il consiglio esecutivo non sarà probabilmente un organismo numeroso; anche se prevedibilmente si servirà di quadri diri­ genti assai vasti per le informazioni e la consulenza, e sarà guidato a mezzo di consultazioni correnti con i rappresentanti accreditati (deputati, commissa­ ri, dirigenti esecutivi, o quale altro ne sia il nome) dei diversi settori primari dell'industria produttiva, dei trasporti, e dell'attività distributiva. Armato di questi poteri e operando in opportuna consultazione con un'adeguata struttura secondaria di centri periferici e di consigli locali, que­ sto organismo dirigente l'industria dovrebbe esser in grado di abolire vir­ tualmente ogni disoccupazione d'impianti e di manodopera utilizzabili, da una parte, ed ogni carestia locale o stagionale dall'altra. La principale di­ rettrice operativa indicata dalla natura del lavoro che incombe all'organi­ smo dirigente, che è anche la caratteristica principale delle attitudini del suo personale dirigenziale, sia esecutivo che consultivo, è quella che richiede i

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servizi degli ingegneri della produzione, per impiegare un termine che sta entrando nell'uso. È peraltro evidente anche che, nella sua prolungata opera di pianificazione e di consultazione, l'organismo dirigente avrà bisogno dei servizi di un considerevole numero di consulenti economici; persone aventi i titoli per esser definite economisti della produzione. La categoria comprende oggi persone dotate dei requisiti necessari, seb­ bene non si possa dire che la categoria degli economisti sia composta princi­ palmente di individui del genere. Per un caso affatto incensurabile, gli eco­ nomisti hanno nutrito una propensione abituale, a causa della tradizione e della pressione del commercio, verso una ricerca teorica sui mezzi e sui si­ stemi delle tecniche di vendita, dei traffici finanziari, e della distribuzione dei redditi e della proprietà, anziché verso un studio del sistema industriale considerato come modo e mezzo per produrre beni e servizi. Pure vi è oggi, nonostante tutto, un numero considerevole e forse sufficiente di economi­ sti, specie della generazione più giovane, che hanno appreso che "gli affari" non sono "l'industria" e che l'investimento non è la produzione. I "consulenti economici" di questo tipo sono un complemento neces­ sario del personale direzionale dell'organismo dirigente centrale, poiché il tirocinio tecnico che serve a formare un ingegnere delle risorse, o del­ la produzione, o anche un esperto industriale competente in qualunque settore di specializzazione, non è tale da conferirgli il necessario pronto e sicuro intuito riguardo al gioco delle forze economiche in senso lato; e com'è noto, in realtà ben pochi tecnici si sono affatto adoperati per ap­ prendere qualcosa di più appropriato in questo senso, al di fuori dei luoghi comuni semi-dimenticati del vecchio ordinamento. Il "consulente econo­ mico" è di conseguenza necessario per coprire una giuntura, che altrimenti rimarrebbe scoperta nella nuova articolazione della realtà. Il suo posto nel sistema è analogo al ruolo che recita oggi il consulente legale nelle mano­ vre dei diplomatici e degli statisti; e i funzionari del futuro organismo di­ rigente muniti di potere discrezionale saranno, in effetti, alquanto simili a statisti industriali del nuovo ordinamento. Vi è anche una certa riserva generica da avanzare nei confronti del per­ sonale dirigenziale, a cui si può opportunamente accennare a questo punto. Al fine di evitare la costante confusione e il prevedibile insuccesso, sarà ne­

cessario escludere da ogni posizione di fiducia e di responsabilità esecutiva tutte le persone che siano state addestrate all'affarismo oppure che abbiano fatto esperienza nelle imprese affaristiche di maggiori dimensioni. Questa regola avrà valore generale per l'intera struttura amministrativa, anche se si applicherà in modo più tassativo nei confronti dei dirigenti responsabili dell'organismo, sia centrali che subordinati, e dei loro collaboratori addetti

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alle informazioni e alla consulenza, in tutti i casi in cui la capacità di giudi­ zio e l'intuito siano essenziali. Ciò che occorre è l'esperienza nei mezzi e nei sistemi dell'industria produttiva, non in quelli delle tecniche di vendita e degli investimenti profittevoli[ ... ]. Realizzazioni concrete in fatto d'industria produttiva costituiscono esattamente ciò che gli uomini d'affari non sanno proporre; ma rappresen­ tano anche l'elemento su cui si fonderà sempre il possibile successo di ogni piano rivoluzionario che sia concepito[ ... ]. Qui il ragionamento entra in contatto con una delle ragioni di fondo per cui non occorre che vi sia alcun timore attuale di un sommovimento ri­ voluzionario. Per consuetudine inveterata il popolo americano è del tutto incapace di concepire l'eventualità di affidare qualsiasi responsabilità di ri­ lievo a chiunque non sia un uomo d'affari; mentre proprio un simile atto di sommovimento può aspirare al successo solo se escluda gli uomini d'affari da tutte le posizioni di responsabilità. Il rispetto sentimentale che il popolo americano nutre nei confronti della saggezza dei suoi uomini d'affari è mas­ siccio, profondo e vivo; al punto che ci vorrà un'esperienza dura e prolunga­ ta per farlo sparire, o per stornarlo in modo adeguato ai fini di qualsiasi di­ versione rivoluzionaria. Più in particolare, il sentimento popolare nazionale non tollererà l'assunzione di responsabilità da parte dei tecnici, che nella considerazione popolare sono ritenuti come una specie di bizzarra confra­ ternita di tipi strambi eccessivamente specializzati, di cui è bene non fidarsi quando non siano sotto gli occhi, a meno che vengano tenuti a freno dalla mano di uomini d'affari sani e sicuri. Né i tecnici hanno essi stessi l'abitu­ dine di valutare la loro posizione in termini molto diversi; continuano a ri­ tenere che, nella natura delle cose, il loro posto sia quello di dipendenti di quegli intraprendenti uomini d'affari i quali, sempre nella natura delle cose, sono predestinati a guadagnare qualcosa senza dar nulla in cambio. La pro­ prietà assenteista è al sicuro, per ora. Con il tempo, e con adeguati stimoli, questa mentalità popolare può ovviamente cambiare; ma in ogni caso è que­ stione di un considerevole periodo di tempo[ ...]. All'eventuale passaggio qui preso in esame ad un sistema nuovo e più pratico di produzione e di distribuzione industriale si è in questa sede fatto riferimento in termini di "sommovimento rivoluzionario" dell'ordine pre­ stabilito. Si è usata quest'espressione scellerata soprattutto perché i guardia­ ni dell'ordine prestabilito nutrono palesemente il timore di un qualcosa di sinistro, che non può esser definito con un termine più gentile; e non con l'intenzione d'insinuare che solo tali misure estreme e sovversive possono oggi preservare la vita delle masse popolari dal dominio sempre più nocivo degli interessi costituiti. L'atto che è qui discusso in maniera teorica sotto

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la forma di quella espressione sinistra, come un'eventualità da cui premu­ nirsi con mezzi sia leali che scorretti, non dovrà in effetti costituire neces­ sariamente un fatto spettacolare; per certo non comporta necessariamente uno scontro armato o uno sventolio di bandiere, a meno che i guardiani del vecchio ordinamento non trovino conveniente, come sta cominciando ad apparir probabile, una cosa del genere. Nei suoi elementi di fondo, l' at­ to avrà carattere semplicissimo e del tutto concreto, anche se senza dubbio molte complicate sistemazioni di dettaglio dovranno aver luogo. In linea di principio, esso comporta necessariamente soltanto un'espropriazione della proprietà assenteista, vale a dire la soppressione di un'istituzione che si è di­ mostrata, nel corso del tempo e delle trasformazioni, nociva al bene comune. Tutto il resto deriverà in modo assai semplice dall'estinzione di questo logo­ ro e infondato diritto consolidato

[ ...] .

Per esser abbastanza espliciti, si può aggiungere che l'estinzione della proprietà assenteista così com'è qui intesa si applicherà indiscriminatamen­ te a tutti gli oggetti di utile impiego industriale, sia beni mobili che immobi­

li, risorse naturali, attrezzature, capitale bancario, o partite di beni elaborati. Come conseguenza immediata di quest'estinzione della proprietà assentei­ sta, parrebbe del tutto probabile che gli oggetti di uso industriale dovrebbe­ ro in breve cessare di esser impiegati a fini di possesso, cioè a fini di privato lucro; anche se potrebbe non esservi alcuna interferenza amministrativa av­ verso tale impiego. Nell'attuale stadio delle tecniche produttive né le risorse naturali a cui si attingono l'energia e le materie prime né le attrezzature im­

piegate nelle industrie maggiori e determinanti si prestano per loro natura ad una proprietà che non sia assenteista; e tali industrie controllano la situa­ zione, cosicché la piccola iniziativa privata rivolta al guadagno troverebbe difficilmente un mercato idoneo. Inoltre l' incentivo ali' accumulazione pri­ vata di ricchezze a spese della comunità dovrebbe virtualmente decadere, in quanto tale incentivo è oggi nella quasi totalità dei casi un'ambizione a otte­ nere un qualcosa del genere della proprietà assenteista; gli altri incentivi so­ no in effetti di entità trascurabile. Evidentemente gli effetti secondari di tale estinzione si estenderebbero oltre, in più di una direzione; ma è anche evi­ dente che servirebbe a ben poco il tentativo di cercar di individuare in questa sede tali ulteriori eventualità mediante prolungate riflessioni teoriche. Per quanto concerne le formalità di carattere giuridico connesse con ta­ le espropriazione della proprietà assenteista, queste non saranno necessaria­ mente estese né complicate, per lo meno nelle loro conseguenze fondamen­ tali. Essa assumerà con ogni probabilità la forma di un'estinzione di tutti i titoli azionari, come atto iniziale. I contratti di società, i titoli di credito e di altri strumenti giuridici che oggi attribuiscono un titolo alla proprietà di

6. THORSTEIN VEBLEN E LA RIVOLUZIONE DEGLI INGEGNERI

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beni non detenuti o impiegati dal proprietario saranno con lo stesso provve­

dimento resi nulli. Con ogni probabilità ciò sarà sufficiente allo scopo.

Questo atto di espropriazione può esser definito sovversivo e rivolu­

zionario; ma, pur senza alcuna intenzione di presentarne qui una qualsia­ si giustificazione, è necessario osservare, ai fini di una valutazione obiettiva dell'atto considerato, che l'effetto di tale espropriazione sarebbe sovversivo o rivoluzionario solo in senso metaforico. Essa non sovvertirebbe né scon­ volgerebbe alcun importante meccanismo o rapporto meccanico, né distur­

berebbe necessariamente in modo concreto la situazione ed i rapporti, sia come lavoratori sia come consumatori di beni e servizi, di un qualsiasi grup­

po abbastanza numeroso di persone oggi interessate nell'industria produt­ tiva. In realtà, l'espropriazione non colpirà nulla di più sostanziale di una finzione giuridica[ ... ].

Non vi è dubbio però che la proposta di espropriare la proprietà assen­

teista urterà la sensibilità morale di molte persone, particolarmente quella dei proprietari assenteisti. Perciò, per evitare di dar l'impressione di averlo trascurato intenzionalmente, è necessario parlare anche dell' «aspetto mo­ rale». Non si ha alcuna intenzione di dibattere in questa sede i valori morali della espropriazione della proprietà assenteista ora esaminata, o di conclude­ re in favore o contro tale atto sulla base di argomentazioni morali o altre. La

proprietà assenteista è giuridicamente valida oggi; anzi, com'è ben noto, la Costituzione comprende una clausola che ne salvaguarda specificamente la sicurezza. Se, e quando, la norma sia mutata per questo aspetto, ciò che oggi è legale cesserà ovviamente di esser tale. In pratica non vi sono molte altre cose da dire al riguardo se non che, in ultima analisi, l'etica economica è as­ servita alla necessità economica. Il sentimento economico-morale della so­

cietà americana di oggi sostiene senza mezzi termini che la proprietà assen­ teista è fondamentalmente ed eternamente giusta e vantaggiosa; e parrebbe

logico ritenere che esso continuerà a sostenerlo per qualche tempo ancora.

Vi è stata di recente una certa irritazione e riprovazione nei confronti di

quelli che sono definiti i "profittatori" e vi può esser un maggiore o minore malcontento ed inquietudine di fronte a quella che è ritenuta una dispari­ tà ingiustamente sproporzionata nell'attuale distribuzione del reddito; ma le persone di carattere apprensivo non dovrebbero perder di vista il fatto fondamentale che la proprietà assenteista è in fondo l'idolo di ogni sincero

cuore americano. Essa forma la sostanza di ciò a cui si aspira e la realtà di ciò

che non si vede. Raggiungere (o ereditare) l'agiatezza, cioè accumulare una ricchezza tale da garantire un "decente" tenore di vita in absentia rispetto

all'industria costituisce l'ambizione universale, ed universalmente lodevole,

di tutti coloro che hanno raggiunto l'età della ragione; ma tutto ciò significa

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una sola cosa - ottenere qualcosa senza dar nulla in cambio, ad ogni costo. Parimenti universale è la timorosa deferenza con cui si guarda ai maggiori proprietari assenteisti perché fungano da guida e da esempio. Questi citta­ dini agiati sono coloro che hanno "avuto successo" nella considerazione po­ polare; sono gli uomini grandi e buoni le cui vite «ci ricordano tutte che possiamo render eccelse le nostre ecc.» [ ... ]. Avendo dunque chiarito che tutto il ragionamento intorno ad un realiz­ zabile rovesciamento dell'ordine prestabilito ha un interesse esclusivamente teorico, è possibile andar oltre ed esaminare quale sarà la natura dell'iniziale atto di rovesciamento con cui sarà posto fine al vecchio ordinamento di pro­ prietà assenteista e sarà costituito un regime di efficienza operativa governa­

to dai tecnici del paese [ ... ] .

Il ruolo dei tecnici, nel loro complesso, è quello di conoscere le risor­ se disponibili del paese in fatto di energia meccanica e di attrezzature; di possedere ed applicare il patrimonio congiunto di cognizioni tecniche in­ dispensabili alla produzione industriale; e infine di esser a conoscenza e di prendersi cura delle normali necessità della comunità e del suo uso di beni di consumo. Essi costituiscono in pratica lo stato maggiore degli ingegneri del­ la produzione, sotto la cui supervisione viene prodotta e distribuita ai consu­ matori la quantità richiesta di beni e servizi. Di contro, il ruolo degli uomini d'affari consiste nel sapere quale ritmo e volume di produzione e distribu­ zione sia più utile ali'interesse commerciale dei proprietari assenteisti, e nel tradurre in pratica tale conoscenza commerciale limitando scrupolosamente la produzione e la distribuzione dei prodotti ai ritmi e ai volumi tollerati dai loro traffici commerciali - cioè a quelli che arrechino il massimo utile net­ to ai proprietari assenteisti in termini di prezzo. In tale opera di sagace ral­ lentamento dell'industria i capitani d'industria agiscono necessariamente in contrasto reciproco tra loro, dato che l'attività ha carattere concorrenziale. Di conseguenza, in questo duplice assetto delle funzioni amministrative compito dei tecnici è quello di pianificare il lavoro e di eseguirlo; e compito dei capitani d'industria è quello di fare in modo che il lavoro vada a vantag­ gio esclusivo di loro stessi e dei proprietari assenteisti loro soci, e che esso non sia spinto oltre il minimo salutare tollerato dai loro traffici commerciali. Per tutto ciò che concerne la pianificazione e l'esecuzione del lavoro svolto, i tecnici assumono necessariamente l'iniziativa ed esercitano la necessaria, fattiva supervisione e direzione, cioè le funzioni che essi, ed essi soli, sono in grado di svolgere; mentre i rappresentanti affaristici dei proprietari assentei­ sti esercitano sapientemente un potere permanente di veto sui tecnici e sulla loro industria produttiva. Essi sono in grado di esercitare effettivamente tale potere di veto commercialmente dosato a causa del fatto che i tecnici sono

6. THORSTEIN VEBLEN E LA RIVOLUZIONE DEGLI INGEGNERI

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in effetti alle loro dipendenze, assunti per eseguire i loro ordini e licenziati se non li eseguono; e forse in misura non inferiore anche a causa del fatto che i tecnici hanno fìnora lavorato in modo parcellare, come individui sparsi sotto l'occhio dei padroni; fìno ad oggi non si sono incontrati sul loro spe­ cifico terreno e non si sono consultati reciprocamente come stato maggiore dell'industria, per determinare ciò che sarebbe più opportuno fare e non fa­ re. Perciò essi hanno fìnora rappresentato, nella conduzione delle iniziative industriali del paese; una semplice proiezione tecnologica della presa con cui gli uomini d'affari si aggrappano al loro personale interesse commerciale. Ciononostante i tecnici, il loro consiglio e la loro supervisione sono, in modo immediato e costante, essenziali per l'adempimento di qualunque com­ pito nelle grandi industrie primarie su cui si fonda il sistema produttivo nazio­ nale, e che determinano il ritmo di tutte le altre. Ed è ovvio che non appena si uniscano in una misura ragionevolmente rappresentativa e si consultino su ciò che sia più opportuno fare, essi saranno in grado d'indicare quale lavoro vada svolto e di dettare i termini per svolgerlo. In breve, per quanto concerne le sue caratteristiche tecniche, la situazione è matura perché un soviet di tecnici au­ toselezionato, ma rappresentativo, assuma la direzione degli affari economici del paese e consenta o vieti di comune accordo ciò che gli sembri opportuno; sempre a condizione che esso rimanga nell'ambito dei requisiti imposti dallo stadio della tecnica industriale di cui è il custode, e che le sue pretese continui­ no a godere dell'appoggio delle masse lavoratrici dell'industria, ciò che equiva­ le in pratica a dire che il soviet deve prendersi cura in modo costante ed effet­ tivo del benessere materiale delle masse popolari. Ora, questa predisposizione rivoluzionaria dell'attuale stadio della tecni­ ca industriale può esser indesiderabile, per taluni aspetti, ma è perfettamente inutile negarla. Non appena - ma soltanto allorché - gli ingegneri si uniscano, si consultino, elaborino un piano d'azione e decidano di espropriare senz'altro la proprietà assenteista, tale atto sarà compiuto. E il modo ovvio e semplice per farlo è una coscienziosa astensione dall'efficienza; vale a dire uno sciope­ ro generale, che interessi quel tanto del personale tecnico del paese bastante a paralizzare con la sua astensione il sistema industriale nel suo complesso, per il periodo di tempo che sia necessario al conseguimento dell'obiettivo. Nei suoi elementi costitutivi, il piano è semplice e ovvio, ma la sua effet­ tuazione richiederà molti, accurati preparativi, assai più di quanti appaiano palesemente da questa spoglia esposizione; perché dall'attuale stadio della tecnica industriale, e dalla natura del sistema industriale in cui si estrinseca la tecnica moderna, deriva anche il fatto che una mancanza di successo anche transitoria nella conduzione dell'industria produttiva risulterà in un crollo precipitoso dell'impresa.

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

174

I tecnici sono in grado da soli di paralizzare effettivamente in poche set­

timane l'industria produttiva nazionale in modo adeguato allo scopo. Nes­ suno che voglia riflettere spassionatamente sul carattere tecnico del sistema industriale potrà fare a meno di convenire su tale dato di fatto. Ma finché non godano almeno del tollerante consenso del popolo nel suo complesso, sostenuto dali'appoggio attivo delle forze lavoratrici qualificate addette ai settori dei trasporti e delle maggiori industrie primarie, essi saranno sostan­ zialmente impotenti a creare una realizzabile organizzazione funzionante su nuove basi; ciò che equivale a dire che in tal caso essi non otterranno in que­ sto campo nient'altro che un periodo passeggero di disagi e dissensi. Di conseguenza, ove si presuma che gli ingegneri della produzione abbia­ no intenzione di giocare un loro ruolo, vi sono per lo meno due fondamentali momenti preparatori sussidiari di cui prendersi cura prima che sia possibile intraprendere qualsiasi atto palese:

a) una vasta campagna d'indagini e di pub­

blicità, tale da far ragionevolmente comprendere alle masse popolari il senso di tutta l'impresa; e

b)

la realizzazione di una comune intesa e di una solida­

rietà di sentimenti tra i tecnici e le forze lavoratrici addette ai trasporti e alle maggiori industrie di base del sistema, a cui va aggiunta, in quanto pressoché indispensabile fin dall'inizio, un'adesione attiva al piano da parte degli operai qualificati della generalità delle industrie meccaniche. Fino a che non si pren­ da cura di questi requisiti preliminari, ogni piano per il rovesciamento dell'or­ dine prestabilito di proprietà assenteista è destinato ad esser futile. A titolo di conclusione si può ricordare ancora una volta che, per ora, gli

ingegneri della produzione formano un gruppo sparpagliato di subalterni discretamente soddisfatti, che lavora in modo parcellare agli ordini dei rap­ presentanti dei proprietari assenteisti; e che le forze lavoratrici delle grandi industrie meccaniche, compresi i trasporti, sono tuttora quasi prive di con­ tatto e di simpatia per i tecnici, e legate da organizzazioni sindacali rivali il cui unico, egoistico interesse si concentra sulla gavetta piena; mentre le masse popolari sono tenute male informate sulla situazione reale nella mi­ sura in cui ciò riesce possibile ai guardiani degli interessi costituiti, compresi i giornali commercializzati, conservando perciò tuttora una mentalità che non tollera alcuna sostanziale menomazione della proprietà assenteista; e le autorità costituite sono convenientemente dedite al mantenimento dello

status quo. Non vi è nulla nella situazione attuale che possa giustificatamen­ te turbare la sensibilità dei guardiani o del vasto strato di cittadini agiati che forma la base della proprietà assenteista, per ora.

[Veblen, Gli ingegneri ed il sistema dei prezzi, ci t., pp. 992-1010]

7

Pitirim Alexandrovich Sorokin: dalla crisi alla catarsi

Uno dei fondatori della sociologia nordamericana e di questa grande protagoni­ sta per buona parte del secolo scorso, è stato sicuramente Pitirim Alexandrovich Sorokin, studioso brillante, innovativo e controverso. Nasce nel 1889 a Turya, nella Russia settentrionale, in un villaggio di ernia komi, di origine ugro-finnica. Ben presto orfano di madre, con un padre pittore di icone e oggetti sacri, già da bambino inizia una vita errante e avventurosa che lo caratterizzerà per sempre. La frequenza a quattordici anni del Seminario di Kh­ renovo, della Chiesa ortodossa russa, dove inizia la sua ricca formazione umana e culturale lo stimola intellettualmente sino ad aiutarlo a maturare la ferma volontà di comprendere meglio le dinamiche sociali. La decisione di uscire da quel conte­ sto austero per avvicinarsi alla politica e militare nel partito social-rivoluzionario, con idee meno radicali di quello marxista', gli permette di allargare ulteriormente gli orizzonti. Divenuto convinto antizarista, viene arrestato e, dopo essere stato scarcerato, si trasferisce nella "grande" San Pietroburgo, per frequentare l'Università iscri­ vendosi ali'Istituto psiconeurologico. Questo è un momento decisivo nella sua formazione grazie alla possibilità di entrare in contatto con docenti che lo in­ fluenzeranno notevolmente, in particolare i sociologi de Roberty e Kovalevsky, di cui diventerà assistente, e il medico behaviorista Pavlov. È un altro passo che lo porterà verso quella conoscenza enciclopedica in vari campi del sapere che costi­ tuirà un suo tratto distintivo. Sempre interessato alla politica, dopo la guerra mondiale e la rivoluzione che lo deluderanno fortemente, diventerà il segretario del primo ministro Kerenskij. Successivamente oppositore anche dei bolscevichi fu di nuovo incarcerato e gra­ ziato dalla morte per ordine di Lenin, nel 1918. Qualche anno dopo si trasferì in 1. Il partito socialdemocratico marxista considera fondamentali gli aspetti economici nella strutturazione della realtà. Il partito socialrivoluzionario ritiene altrettanto importan­

ti gli aspetti individuali, anche in riferimento alle idee e alla creatività personali. Anche dal punto di vista dei soggetti rivoluzionari, quest'ultimo partito allarga l'orizzonte oltre l'ambi­ to operaio, sottolineando l'interesse e l'importanza per la rivoluzione anche di contadini e intellettuali. Cfr. F. Cimagalli, Sorokin. cia (RM) 2010, p. 16.

Attualita di un classico della sociologia, Aracne, Aric­

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

Cecoslovacchia per poi riparare subito negli Stati Uniti, e qui, dopo un felice ciclo di conferenze, riceve un incarico di docenza nell'Università del Minnesota

(1924)

dove riprende a pieno ritmo la sua attività di studio che inizialmente rac­

coglie un positivo riscontro nella comunità scientifica americana. In virtù della sua immensa curiosità e di un' inestinguibile sete di conoscenza, Sorokin lascia con le sue opere tracce indelebili nella cultura statunitense e non so­ lo. Scrive di mobilità sociale e stratificazione, sociologia urbana e rurale, sociologia della crisi e dell'innovazione, e "crea" una "sociologia dell'amore e dell'altruismo" che possiamo definire unica nel suo genere. Nei suoi scritti è forte la critica verso la società occidentale nel suo complesso ma è soprattutto nei confronti delle teorie so­ ciologiche dominanti ai suoi tempi che esprime non poche perplessità e questo gli provocò isolamento e forte ostracismo da parte di diversi colleghi•. Per Sorokin la sociologia è, parafrasando Comte e Durkheim, una scienza sui generis, «scienza generalizzante dei fenomeni socioculturali, analizzati nelle loro

generiche forme, tipi e connessioni principali»3, che riflette contemporaneamen­ te su tutti gli innumerevoli aspetti che compongono la realtà: esterni ed interni, quelli strutturali e quelli individuali, quelli materiali e quelli non materiali, a par­ tire dall'osservazione empirica. Questo approccio unificante, sistemico prende il via dalla considerazione che i fenomeni socioculturali, a differenza di quelli fisici ed organici, oltre alla componente fisico-chimica e quella vitale, hanno un'altra dimensione da comprendere: il significato, il senso. Sorokin definì quest'aspetto col termine "superorganico': aspetto immateriale legato a simboli, valori e norme che vanno decodificati dallo scienziato sociale analizzando il sistema sociale. Questi fenomeni, quindi, si compongono di tre elementi: quello simbolico-im­ materiale, l'oggetto fisico che veicola lo stesso, e un insieme di persone che sviluppa­ no e producono i due precedenti4• A partire da questo dato, in un passaggio che va dal micro al macro, l'oggetto della materia non è quindi unico bensì anch'esso com­ posto da tre dimensioni che ineriscono alle interazioni socioculturali: la personali­ tà, il soggetto e la sua azione; la società cioè la totalità delle personalità e relazioni interagenti; la cultura come insieme dei significati, valori e norme delle personalità interagenti e insieme degli oggetti che li veicolano e li scambiano. 2. Nel saggio La sociologia strutturale e dinamica, in G. Pollini, A. Pretto (a cura di), So­ ciologi: teorie e ricerche, FrancoAngeli, Milano 2016, Mino Garzia ricorda che per questa ra­ gione RalfDahrendorf. in Societa e sociologia in America (1963), definisce "sociologia critica" l'opera del sociologo russo affiancandolo ad autori quali Veblen, Riesman e Milis. Per Carlo Marletti, nel saggio dal titolo Sorokin e la sociologia della crisi rintracciabile nell'edizione di

La dinamica sociale e culturale pubblicata da UTET nel 1975 proprio a cura dello stesso Mar­ letti, la critica proposta da Sorokin non appare mai come inutilmente distruttiva dal mo­ mento che «ha soprattutto l'aspetto e il contenuto di critica ricostruttiva». 3· P. A. Sorokin, Society, Culture and Personality: Their Structure and Dynamics, Harp­ er & Brothers Publishers, New York-London 1947, p. 8. 4· Proprio questa suddivisione, introdotta solo a scopo analitico-didattico, fece dire a Sorokin che i fenomeni socioculturali sono «un' incarnazione della mente». Cfr. P. A. So­ rokin, Storia delle teorie sociologiche, Città Nuova, Roma 1974, voL n, p. 22 (ed. or. 1966).

7· PITIRIM A. SOROKIN: DALLA CRISI ALLA CATARSI

177

Tutti questi aspetti sono intrecciati in modo indissolubile ed inscindibile, tanto da comporre una «invisibile trinità» secondo la stessa definizione dell'au­ tores. Nessuno studio scientifico può svolgersi se non si prendono in considera­ zione sempre tutte le dimensioni. In modo corrispondente, le chiavi interpretative dei fenomeni si sviluppano su tre linee di lettura altrettanto inseparabili e contemporanee: una empirico­ sensoriale, una razionale-intellettuale, una super-sensoriale e super-razionale. La prima dimensione si occupa dell'analisi delle manifestazioni concrete degli og­ getti; la seconda permette la connessione logica tra fenomeni e l'indagine delle eventuali dinamiche di causa-effetto mentre l'ultima è il momento di intuizione, creatività che conduce a nuove ipotesi possibili. Non ci si avvicina al campo della realtà se non utilizzando tutte insieme queste forme di conoscenza, via che reo­ rizza la sociologia integrale di Sorokin, dove per integrale si deve intendere, alla maniera del personalismo filosofico e della dottrina sociale della chiesa cattolica, un riferimento unitario a tutti gli ambiti dell'oggetto di studio6• Proprio questa sua concezione lo contrapporrà sia agli studiosi di stampo behaviorista, che si oc­ cupano fondamentalmente solo degli aspetti esterni dei fenomeni, sia a quelli in­ trospettivi, che focalizzano l'attenzione su quelli interni, segnando uno dei motivi di frizione con i sociologi americani. Il suo universo socio-culturale si distingue, quindi, sia per la presenza del significato e del senso che assume valore primario rispetto agli altri studiosi ( pur non facendo venir meno l'importanza degli altri

fattori ) sia per la rappresentazione di un sistema integrato visto come totalità in cammino, in cui ogni mutamento non avviene per meccanismi mono-causalF.

Un imponente studio proprio sulla dinamica del mutamento fu pubblicato dall'autore in quattro volumi fra il I937 e il I941: La dinamica sociale e culturale. Catalogando ed analizzando in modo rigoroso una eccezionale quantità di docu­ menti dei campi più disparati perviene all'enunciazione di una teoria generale che definisce due tipi principali di sistemi culturali fino ad allora esistenti ( intesi co­ me tipi ideali weberiani ) e di un terzo che ha caratteristiche miste fra i primi due.

Un tipo è quello ideazionale, caratterizzato dalla prevalenza di valori non sensi­ bili, spirituali, con una minore attenzione ai temi e bisogni materiali. Il secondo

è quello sensistico, in cui al contrario sono proprio i temi e i valori sensibili, ma­ teriali, più legati ai bisogni fisici ad essere centrali. Il terzo tipo, misto, è definito idealistico, e presenta in equilibrio armonioso i tratti di entrambi gli altri sistemi. s. Cfr. ivi, p. 63. 6. «Una realtà che è un infinito molteplice, ha una sua composizione plurima e dialetti­

ca come "coincidentia oppositorum", fatta di materia e spirito, di senso e di fede, di razionale e di irrazionale, di amore e di odio, di quantità e qualità, tutti elementi intrecciati e intera­ genti in vivente compossibilità della storia concreta dell'uomo» (T. Sorgi, Introduzione a Sorokin, Storia delle teorie sociologiche, cit., p. 49 ) . 7· In questo risente fortemente dell'influenza di Maksim M. Kovalevsky, sociologo e storico sociale di orientamento positivista, suo docente a San Pietroburgo (cfr. Cimagalli,

Sorokin. Attualita di un classico della sociologia, cit., p. x8).

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

Nella sua opera Sorokin evidenzia come la storia dell'umanità sia una storia di fluttuazioni fra i due tipi, un andamento oscillatorio e ripetitivo che si svilup­ pa anche in forme diverse ed originali a seconda del tempo. Il divenire storico è un'alternanza incessante che contrasta con le teorie lineari o con quelle cicliche della storia in voga al suo tempo, altro motivo generatore di contrasti con la co­ munità professionale. L'autore vede ogni sistema come unità funzionante e svi­ luppa conseguentemente il suo discorso con una «teoria immanente del muta­ mento socioculturale » che evidenzia come, indipendentemente dall'ambiente esterno, ogni sistema si autodetermina e muta continuamente, in ogni momen­ to, pur non sempre potendosi predeterminare in che modo. L'insieme possibile di variazioni è comunque finito, non illimitato, ed è proprio questo che perio­ dicamente porta un sistema a decadere e "sciogliersi" negli altri tipi. Nel suo stu­ dio il russo evidenzia come la società occidentale si trovi ormai da cinquecento anni in una fase di tipo sensistico, con caduta di valori, di ideali, degrado delle istituzioni e del senso morale, anomia, caduta della solidarietà sociale e vittoria delle mete legate all'individualismo e alla competizione, provocando forte disar­ ticolazione sociale e umana. Nonostante ciò, nelle sue previsioni molto precise e dettagliate, non si mostra pessimista sottolineando che si vedono già in con­ troluce, pur in un frangente di decadenza, i primi passi di una possibile rinascita che devono essere comunque sostenuti dalle scelte e dalla responsabilità di tutti,

in primis la classe dirigente. L'elaborazione di un pensiero così duramente critico verso la società occidentale lo condusse ad un vero e proprio isolamento rispetto alla comunità scientifica che ben presto si trasformò in una grave e permanente emarginazione. Fu esautorato dalla direzione del Dipartimento di Sociologia di Harvard che aveva fondato e proseguì solitario il suo percorso professiona­ le8. Riuscì comunque a farsi finanziare, nel 1949, l'Harvard Research Center in Creative Altruism, pubblicando altre opere su questo ed altri temi fino alla sua morte avvenuta nel 1968. Su questo argomento, originale nel campo sociologico anche per l'imposta­ zione scientifica che utilizzò, accompagnata da una grande quantità di dati em­ pirici e indagini, costruisce una sociologia dell'amore che dovrebbe spingere ad una ricostruzione dell'umanità che si basi sui valori e bisogni reali dell'uomo e sulle sue capacità pro-sociali. Le sue opere, ed in particolare Il potere dell'amore, hanno la statura del progetto, indicando modi, soluzioni e tecniche che possano permettere ad ogni ambito, individuale, di gruppo, sociale e culturale ( e qui ri­

torna la sua concezione integrale del tutto) di aumentare la possibilità di essere "amore" e diffonderlo. Inutile dire che anche questa attività acuì la distanza dai 8. Il Dipar timento era stato fondato nel1930 e il giovane brillante sociologo ru sso av e­

va formato e raccolto attorno a sé studiosi quali Parsons, Mer ton, Berger, Homans, P ierce, Zimmermann.

7· PITIRIM A. SOROKIN: DALLA CRISI ALLA CATARSI

179

suoi colleghi anche se negli ultimi anni di vita si registrò una sorta di riavvicina­ mento con la comunità scientifica americana9• Fra le sue opere più importanti va ricordata, infine, La mobilità sociale, scritta nel 1927, nella sua prima fase americana. In questa pubblicazione lo studioso evi­ denzia come tutte le società affrontino fenomeni legati alla mobilità e, allo stesso tempo, producano resistenze al passaggio di individui o gruppi da uno strato sociale

all'altro ( mobilità verticale ) o da una cerchia all'altra ( mobilità orizzontale ) . Parti­

colarmente connessa con la società industrializzata, la mobilità permette maggio­ re equilibrio e prosperità sociale perché realizza una più adeguata selezione delle migliori capacità presenti al verificarsi di due condizioni: la presenza di opportuni meccanismi di selezione e la parità nelle condizioni di partenza. Dove i primi ven­ gano a mancare si può ricadere in condizioni anomiche che portano alla decadenza o al processo rivoluzionario. Lo studio peraltro evidenzia anche le contraddizioni del fenomeno sottolineando l'instabilità che deriva all'individuo dalla minore soli­ darietà sociale e dalla creazione di nuovi legami più artificiosi e convenzionali. L'u­ scita da queste riflessioni è comunque positiva dal momento che è dall'uomo e dalle sue decisioni che dipende sempre, in ultima analisi, la tenuta sociale. L'approfondita analisi di Sorokin si conclude mostrando come non si possa sta­ bilire nessuna tendenza in riferimento alla mobilità lungo tutto l'asse storico: non c'è nessun andamento generale che possa essere rilevato, solo oscillazioni. In questi studi può essere evidenziata la "tendenza previsionale" dell'autore che è ben presente nelle sue opere sin dagli anni Venti del secolo scorso quando predis­ se il sopraggiungere di crisi a breve termine ed il conseguente succedersi di guerre e fenomeni anche culturali di cambiamento'0• Il primo brano riportato in questa antologia, tratto come i successivi da La

dinamica sociale e culturale, conferma questo suo atteggiamento in funzione della visione alta della materia che l'autore propone: una scienza guida che deve prefi­ gurare scenari, visioni e, al tempo, delineare percorsi di soluzione positiva alle crisi supportando i decisori. Egli descrive lo stato della società occidentale, in situazione di tragica decaden­ za di una fase sensistica, sottolineando l'impossibilità di una rinascita a breve della 9· Nelx965 fu nominato presidente dell'American Sociological Association e gli fu de­ dicato un testo celebrativo in cui vengono raccolti contributi originali di molti colleghi an­ che di grande levatura tra i quali spiccano i nomi di Parsons e Merton. 10. «Nelle mie opere, e soprattutto in Social and Cultura! Dynamics e nella sua redazione ridotta intitolata The Crisis oJOur Age, questo ed altri simili periodi di transizione e di crisi erano analizzati dettagliatamente, e sulla base di questa analisi mi fu possibile già negli anni venti diagnosticare la crisi e predire l'avvento di più gigantesche e terribili guerre, di rivolu­ zioni e periodi di anarchia, con tutto ciò che di terribile portano con sé [ ...]e molti altri fe­ nomeni, sino allo spostamento del centro creativo della storia dall'Europa, che lo detenne per cinque secoli, al Pacifico e alle Americhe con le grandi culture redivive dell'India, della Cina, del Giappone, della Russia» (P. A. Sorokin, L 'integralismo e la miafilosofza, in W. Burnett, a cura di, Questa e

la miafilosofia, Bompiani, Milano 1961, p. 265, cit. da G. Machiorlatti, La sociologia critica di Sorokin, un inno d'amore alla sociologia, in "Oikonomià: 3, 2006).

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SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

stessa con gli identici valori, schemi culturali e atteggiamenti individuali e sociali. Immagina quasi sarcasticamente una società utopica che non potrà mai vedersi con­ cretizzata per poi scrivere che non ci potrà essere una reale salvezza per tutti e ovun­ que ma che invece, lentamente e con progetti di ricostruzione umana portata avanti da persone responsabili e lungimiranti, arriverà una fine della transizione che sfoce­ rà in una nuova e armoniosa fase ideazionale o "idealistica� Ciò non potrà avvenire né con l'avvento di rivoluzioni né con un progresso lineare bensì più "umanamen­ te� con il potere creativo e valoriale delle forze socioculturali vive. Il testo successivo esplica la "teoria immanente del mutamento sociocultura­ le" dell'autore, in controtendenza con le tesi di tipo ambientalistico in voga al mo­ mento, che attribuivano le trasformazioni soprattutto a cause esterne al sistema. Il russo confuta queste tesi dal punto di vista logico-sperimentale dimostrando la veridicità della sua formulazione che palesa come un qualsiasi sistema, se attivo e quindi unità in sé funzionante, non è mai in equilibrio e tende a trovare in sé i motivi di trasformazione indipendentemente da cause esterne. In particolare, in un sistema culturale visto come un tutto integrato, tutti i sottosistemi relativi ad arti, scienza, etica, diritto, economia ecc., variando, portano a mutamenti degli altri sottosistemi e del sistema generale. Sorokin precisa che le possibilità di mu­ tamento non sono infinite e che, come è facilmente osservabile, ogni sistema so­ cioculturale ha un suo naturale ciclo vitale che dalla nascita passa ad uno sviluppo più o meno costante per poi vivere la sua naturale decadenza. L'autore in maniera implicita spiega sia come possano essere studiati i mutamenti sia come possano es­ sere previsti analizzando attentamente ed in contemporanea i singoli sottosistemi e i rapporti con quello totale. Il terzo e ultimo brano proposto è una dettagliata previsione sull'evoluzione della società occidentale dei successivi decenni che in alcuni frangenti appare co­ me quella di un "visionario" che alterna buon senso e paradosso in ciò che descri­ ve. Come già anticipato a proposito del secondo testo selezionato, ogni sistema ha un suo ciclo vitale che attraversa vari momenti che si succedono. Nel caso del­ la società occidentale vengono evidenziate quattro fasi: la crisi, la catarsi, la fase del carisma prima della definitiva resurrezione in una nuova società ideazionale o idealistica. Particolarmente degna di nota è la prima fase, quella della crisi, trat­ teggiata in maniera tanto drammatica quanto puntuale e valida ancor oggi. Nella visione profetica dell'autore si rintracciano aspetti attuali ed evidenti ai giorni nostri come l'atomizzazione, lo scadimento dei valori e il correlato relativismo, la scomparsa di una opinione pubblica più o meno compatta, l'aumento esponen­ ziale di forza e cinismo, il maggior uso di tecnologia distruttiva. Rimangono sorprendenti per capacità predittiva soprattutto le affermazioni sulla disgregazione della famiglia e della sua funzione, sul degradarsi della cultura a guisa di "bazar" sincretico senza forza e identità, sulla supremazia dell'esterio­ rità sull'interiorità e sullo svilimento delle forme valoriali e culturali del passato. Il testo si chiude con un richiamo alla responsabilità personale di ciascuno degli attori sociali che potrà essere agente in positivo del mutamento.

7· PI T IRIM A. SOROKIN: DALLA CRISI ALLA CATARSI

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La crisi del nostro tempo L'organismo della cultura e della società occidentale sembra andare incon­ tro a una delle più profonde e significative crisi della sua vita. La crisi è assai più grave dell'ordinario; la sua profondità è insondabile, la sua fine non è ancora in vista, e l'intera società occidentale vi è coinvolta. È la crisi di una cultura sensistica, la cultura che ha dominato il mondo occidenta­ le durante gli ultimi cinque secoli, giunta ormai ad una fase di decadenza.

È anche la crisi della società contrattualistica (capitalistica) che

è ad essa

associata. In questo senso, noi stiamo assistendo ad una delle più radicali svolte nel cammino della storia, una svolta altrettanto grande quanto le poche altre compiute dalle culture greco-romana e occidentale nel passare da una fase ideazionale a una fase sensistica e da una sensistica a una idea­ zionale. La diagnosi della crisi del nostro tempo che viene fatta in questo capito­ lo è stata scritta nel I934· Da allora si sono verificate catastrofi gigantesche: esse non sono state incluse nella diagnosi, e tuttavia la confermano e la svi­ luppano grandemente. Nel corso di quest'opera abbiamo notato segni ben definiti della svol­ ta di cui parliamo. Non un solo settore culturale, non un solo lato dell'at­ teggiamento dell'uomo contemporaneo sembrano essere immuni da questi sintomi inconfondibili. Abbiamo anche notato che questi segni, simili alla " biblica scritta apparsa sul muro': si fanno più chiari man mano che ci si avvi­ cina alla fine del XIX secolo e ci si inoltra nel xx. Le curve della pittura, della scultura, della musica e della letteratura; l'andamento delle scoperte e delle invenzioni; i "primi princìpi" nella scienza, nella filosofia, nella religione, nell'etica e nel diritto; e infine le guerre e le rivoluzioni, tutti questi elemen­ ti mostrano un radicale mutamento man mano che ci si avvicina ai giorni nostri. Dobbiamo dunque sorprenderei se molti, non comprendendo con chiarezza ciò che sta accadendo, mostrano almeno un vago sentimento che lo sbocco non può essere semplicemente quello della "opulenza': della "de­ mocrazia': del "capitalismo" e simili, ma coinvolge l'intera cultura contem­ poranea, la società e l'uomo sensistico? Regnanti e massaie, pur non arrivan­ do alla comprensione con una analisi intellettuale, avvertono acutamente il doloroso artiglio degli eventi. E dobbiamo sorprenderei poi dell'infinita moltitudine di crisi, più gravi

o meno gravi, che negli ultimi decenni ci premono intorno senza posa come le onde di un oceano? Oggi in una forma, domani in un'altra; ora qua ed ora là: crisi politiche, agricole, commerciali, industriali! Crisi di produzione e crisi di distribuzione; crisi morali, giuridiche, religiose, scientifiche e arti-

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

stiche; crisi nella proprietà, nello Stato, nella famiglia, nell'impresa indu­ striale; crisi della repubblica e crisi della monarchia; dell'autocrazia e della democrazia, della dittatura e dell'autogoverno, del capitalismo e del sociali­ smo, del fascismo e del comunismo, del nazionalismo e dell'internazionali­ smo, del pacifismo e del militarismo, dei conservatori e dei progressisti. Crisi della bellezza, della verità, della giustizia, del buon diritto. Crisi dell'intero sistema di valori della nostra cultura. Ciascuna in mille forme e gradi di po­ tenza, ma tutte senza posa ribollenti, con un mugghiare che si ripercuote ogni giorno nei quotidiani. Ciascuna di queste crisi ha logorato i nostri nervi e la nostra mente, ciascuna ha scosso dal profondo le fondamenta della no­ stra cultura e della nostra società, ciascuna ha lasciato dietro sé legioni di de­ relitti e di vittime. E ahimè! la fine non è ancora in vista. Ciascuna di queste crisi è stata come un movimento di una grande e paurosa sinfonia, ciascuna è stata ragguardevole per grandezza e intensità. Ogni movimento di questa sinfonia eseguita negli ultimi tre decenni è stato eseguito da enormi orche­ stre umane, composte da milioni di cori, palchi orchestrali ed attori. Nel I9II è l'orchestra cinese, forte di quattrocento milioni di unità che dà inizio ad uno dei suoi primi festivals, un festival che prosegue tutt'ora mentre la mon­ tagna di vittime che vi hanno contribuito si accresce diventando sempre più alta di giorno in giorno. Nel I9I4 una nuova banda di ottoni composta da numerose nazioni con centinaia di partecipanti dà flato alla mortifera "marcia militare I9I4-I9I8': Gli effetti di questa esecuzione sono stati terrificanti. Il palco, costituito dal suolo dell'intero pianeta, fu intriso di sangue. Molti dei nostri valori sono stati avvelenati dai gas; altri, li hanno fatti saltare le artiglierie. Le fondamen­ ta della nostra società e della nostra cultura sono crollate. Prima che questo festival fosse finito, l'orchestra russa, forte di circa cen­ tosessanta milioni di "virtuosi" suonò una "variazione" di propria invenzio­ ne dal titolo "rivoluzione comunista". Al primo colpo degli strumenti a per­ cussione il sistema sociale e culturale della vecchia Russia fu rovesciato; e i movimenti successivi hanno scosso il mondo intero. L'esecuzione è stata così brillante che milioni di spettatori ne hanno derivato un disgusto profondo per la musica vecchio stile del sistema capitalistico e sono impazziti per il modernismo comunista. In Russia, milioni di ascoltatori e di esecutori sono morti in questo processo; altri milioni sono decaduti al limite della miseria umana, esausti, moribondi, ardentemente desiderosi di finire la loro triste esistenza senza speranza. Altri milioni ancora sono stati rigettati tra la feccia della società, lanciando gemebondi grida disperate di aiuto, senza ricevere risposte né soccorso. Il festival prosegue tuttora splendidamente, con sem­ pre nuovi trucchi e nuove sorprese. Dopo aver saturato il suolo della Russia,

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il sangue, questo rosso fertilizzante, ha cominciato a scorrere al di là dei suoi confini, nelle terre degli spettatori di quest"'esperimento meraviglioso". Altre compagnie, a dozzine - la Turchia e l'Ungheria, l'Austria e la Germania, la Bulgaria e la Romania, la Spagna e il Portogallo, l'Italia e la Polonia, l'Abissinia e il Manciukuò, gli Stati dell'America centrale e meri­ dionale, il Giappone e l'Arabia, la Palestina e l'Egitto, la Siria e l'Afghani­ stan- hanno rappresentato anch'esse i loro festivals di crisi. Alcune di esse, come gli Stati dell'America centrale e meridionale, hanno trasformato il fe­ stival in un trattenimento giornaliero; altre, come l'Abissinia e il Manciu­ kuò, hanno suonato per la propria morte. Nel frattempo anche quel vasto continente che è l'India ha fatto passi decisivi per dare il suo concerto di gala. Già da alcuni anni l' immensa orchestra indiana stava provando: alle prime prove, la sinfonia venne eseguita con un pianissimo a cui si sostituì poi il moderato della resistenza non violenta, sempre più frequentemente inframmezzato dallo staccato acuto delle mitraglie e dei fucili, delle bombe, dei colpi delle bastonate della polizia. Senza dubbio udremo presto il fortis­ simo di questo burrascoso festival. Se tendiamo l'orecchio all'Europa, senza bisogno di alcuna radio ad on­ de corte udremo numerosi festivals come questi. Un giorno il palcoscenico è occupato dai fascisti; un altro dai comunisti; poi dagli hitleriani, poi dal

Fronte popolare: camicie rosse, camicie nere, camicie brune, camicie argen­ tee, camicie blu, camicie verdi. A un dato momento è la crisi spagnola all'o­ nore delle prime pagine; poi quella francese o austriaca, sempre accompa­ gnate da notizie circa le perdite della sterlina inglese, del dollaro americano, del franco francese o del marco tedesco. Ecco poi la "cooperazione cordiale e la mutua intesà' tra Cinesi e Giapponesi, la benedetta liberazione dell'A­ bissinia da se stessa, le dimostrazioni sovietiche di "pacifismo': o l'apologia della "intangibilità dei patti" fatta da governi che non ne rispettano alcuno; e altre forme simili di "solidarietà internazionale e di buona volontà". Per un momento tutto ciò rimette in auge quella specie di medico omeopatico di famiglia che è la Lega delle Nazioni, altrimenti dimenticata; oppure fa spun­ tare una di quelle lunghissime conferenze internazionali dei "capi delle gen­ ti" che mettono a posto ogni guaio; e dopo le quali di solito i guai saltano fuori a dozzine là dove non ve n'era che uno. Fino al I929 la terra benedetta dei Padri Pellegrini è rimasta immune da questa moda della crisi. Abbiamo preferito ascoltare i concerti della crisi degli altri paesi, mentre in casa ci rallegravamo con l'andante cantabile del­ la "dolce abbondanza". Ma dalla fine del I929 i nostri gusti sembrano esse­ re mutati. Almeno momentaneamente, l'abbondanza è caduta in disgrazia e la musica della crisi ha conquistato il nostro estro. Da ogni radio ascoltia-

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mo ora quasi solamente la versione "classica" o quella "crooning " della cri­ si dell' industria e dell'agricoltura, dell'occupazione e della disoccupazione, dell'educazione e della morale, dei crolli in borsa e dei fallimenti bancari; l'a­ dagio lamentoso del lusso perduto; la marcia funebre ed in memoriam delle speranze appassite; il requiem delle fortune scomparse, l'allegro non troppo dei mormorii di insoddisfazione; il crescendo delle critiche all'ordine vigen­ te, gli scherzi occasionali dei marciatori della fame, dei dimostranti seduti per terra e degli scontri tra polizia ed estremisti. Nel giro di pochi anni ab­ biamo imparato anche noi il gusto di questa nuova musica. Queste non sono se non poche variazioni del tema centrale dell'odierna sinfonia della storia. Il totale delle variazioni è immenso. Non solo il siste­ ma politico e il sistema economico, ma ogni aspetto importante della vita, dell'organizzazione e della cultura della società occidentale è coinvolto nella crisi. Essa è malata nel corpo e nella mente; non v'è punto del suo corpo che non sia coperto di piaghe, né fibra nervosa il cui funzionamento resti sano. A quanto pare ci troviamo tra due epoche: la morente cultura sensistica

del nostro splendido ieri, e la sopraggiungente cultura ideazionale idealistica del nostro creativo domani. Noi viviamo, ragioniamo, agiamo alla fine di un giorno brillante, un giorno sensistico durato seicento anni. I raggi del sole cadente illuminano ancora la gloria dell'epoca passata. Ma la luce tramonta e con l'avanzare dell'ombra diventa sempre più difficile vedere con chiarezza e orientarsi in modo sicuro nell'ambivalente luce crepuscolare. La notte della transizione comincia a gravare su noi e sulle generazioni nascenti con i suoi incubi, i suoi spaventosi fantasmi, i suoi orrori strazianti. Di là da essa tut­ tavia, l'alba di una nuova grande cultura, ideazionale o idealistica, è forse in attesa a salutare gli uomini del futuro[ ... ]. In queste condizioni, il grande compito della nostra generazione e della prossima non consiste in una impossibile risurrezione di ciò che già è vano, ma nella soluzione di due problemi: primo, far sì che la transizione, questo

dies irae dies illa, avvenga nel modo meno doloroso possibile; e secondo, ela­ borare progetti costruttivi per la società e la cultura future. Ogni progetto lungimirante di un nuovo ordine socioculturale deve porsi oltre "il vecchio regime della cultura sensistica': in direzione di un regime nuovo, ideazionale o idealistico. Senza tale mutamento fondamentale non sarà possibile in fu­ turo alcuna società realmente costruttiva e creativa. Tale è, mi sembra, il punto a cui siamo giunti sulla via della storia. I capi­ toli precedenti forniscono prove in questo senso. La conclusione cui siamo giunti è irriducibilmente in contrasto con le altre diagnosi correnti. In primo luogo, essa contraddice nettamente tutte le teorie di un pro­ gresso "moderato': "sensibile': "ordinato': Non avendo capito che il loro cul-

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to per il progresso è ormai superato dai tempi, una folla di intellettuali uma­ nitari, di oratori pacifisti e progressisti, di ministri, professori e politici so­ cialisti e radicali, oltre ad una vera e propria legione di intellettuali rotariani e kiwaniani di tutte le razze professano ancora questo credo. Essi vedono il processo storico un po' come un bravo ragazzo che man mano passa dalla licenza elementare al diploma e si fa intanto sempre più grande e bravo. Il futuro è da loro descritto come un paradiso, in cui fiumi di latte scorrono tra rive di gelato alla crema; in cui tutte le armi sono trasformate in golf dubs, in apparecchi radio e tostapane elettrici; in cui regneranno supremi la "coo­ perazione internazionale", la "reciproca comprensione" e la " buona volontà': Non vi saranno guerre, delitti, pazzia, fatti di sangue, stupidità o torbidi, ma una esistenza felice di gentiluomini e gentildonne progressisti e contenti

( benignamente confortati dal controllo

delle nascite ) . Il lavoro sarà svolto

unicamente da congegni meccanici. Per tutti quanti il pasto quotidiano sarà composto da asparagi, polli arrosto, gelati alla crema, torte à la mode e ogni piatto sarà preceduto da cocktails e seguito da sciroppi. Ognuno avrà tem­ po ed agio per comprare, giocare a golf o a bridge, andare a cavallo, flirtare e soprattutto seguire conferenze sul sesso e le Nazioni Unite, e resoconti di ogni tipo su altri soggetti. Ciascuno avrà modo di educarsi pienamente con la lettura di best sellers e libri selezionati dal Club del mese, con l'ascolto dei discorsi alla radio delle ultime "autorità" in ogni campo, sfogliando le pagine di riviste come Selezione, Scienza illustrata e Fiera letteraria; e infine, con gli spettacoli cinematografici, le sale da ballo e la televisione.

Al posto di questo paradiso, ahimè! la tesi da me sostenuta offre un'epo­ ca alquanto malinconica di sangue, crudeltà e miseria in cui l'umanità sarà "sradicata': i bei sogni umanitaristici svaniranno nel vento e soprattutto, i va­ lori più grandi ed eterni saranno calpestati. A mio avviso, nemmeno la cultu­ ra di domani rassomiglierà in alcun modo a questo paese di Nubicuculìa fan­ tasticato dall'immaginazione postprandiale. Nella forma particolare che ha ora, quest'utopia è stata creata nella seconda metà del XIX secolo ed ha rap­ presentato una delle più affascinanti bolle di sapone con cui la felice Europa vittoriana amava baloccarsi. Col suo declino, la bolla di sapone è scoppiata. A chiunque piaccia quest'utopia, ben se la goda; per me, io intendo distinta­

mente il requiem che la sinfonia della storia sta intonando alla sua memoria. La mia teoria contrasta non meno con tutte le ideologie di progresso violento e rivoluzionario, à la sans-culotte, à la Karl Marx-Lenin-Stalin o à l'anarchie. Dopo tutto, la differenza fra le teorie che sostengono un pro­

gresso moderato e quelle che sostengono un progresso violento, è piccola e consiste semplicemente nella differenza di temperamento tra i loro soste­ nitori e nella differenza delle tecniche con cui viene promosso il progresso.

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Entrambe le fazioni sono ultra-sensistiche, entrambe credono nel progresso sensistico, ma i moderati non desiderano accelerarne la realizzazione. Essi non amano lo spargimento di sangue, la perdita dei loro investimenti e l'in­ vasione delle loro sedi da parte di una plebaglia spietata e folle. Gli estremi­ sti, al contrario, vogliono affrettare il progresso con tutti i mezzi, ad ogni costo, vogliano o non vogliano gli altri entrare nel loro paradiso. Essi non hanno nulla da perdere o ben poco e perciò non temono di essere rovinati, di versare sangue e nessun'altra delle tumultuose evenienze che comporta il progresso attuato in modo rivoluzionario. Questi schemi rivoluzionari altro non sono che utopie di menti sconvol­ te, di uomini depravati; esse nascono come conseguenza del disgregarsi della cultura in quest'epoca di transizione[ ... ]. Queste osservazioni sommarie mostrano che la mia teoria e la mia dia­ gnosi non sono una ennesima variante delle concezioni suddette, delle ide­ ologie moderatamente lineari, progressiste rivoluzionarie o di decadenza e declino ciclici. La teoria qui sviluppata viene proposta autonomamente, sen­ za rapporti con altre filosofie sociali dominanti. Essa non ha bisogno di ap­ poggiarsi o di essere comprovata da tali filosofie, in quanto ha gambe per camminare da sé ed è fondata assai più solidamente. Agli avvocati delle utopie toccasana e postprandiali tale teoria potrà ap­ parire pessimistica, ed in un certo senso lo è. Ma da un punto di vista più profondo essa è grandemente ottimistica, in quanto mostra che le forze so­ cioculturali sono assai più ricche di potere creativo di quanto non sia il rigi­ do ideale di questi utopisti. Essa è più ricca di ogni altra teoria che si fondi sulle forme di cultura sensistica, ideazionale o mista prese isolatamente in quanto le abbraccia tutte, attribuendo il suum cuique a ciascuna. Essa è poi ottimista anche in quanto non predice né la decadenza né la morte certa della cultura e della società occidentale. Mentre mette in evidenza il declino nell'attuale fase sensistica e la probabilità di un periodo fosco di transizione, essa indica pure la possibilità dell'ascesa di una nuova splendida società e di un uomo nuovo, ideazionali o idealistici. Un tal punto di vista non suscita paura per il declino temporaneo, né lo rimpiange. Qualunque valore, nel momento in cui declina, merita gratitudine e compassione, ma non ammi­ razione; e ancor meno merita sforzi per mantenerlo in vita quando sta per nascere un valore nuovo, forse altrettanto grande e altrettanto bello. L'umanità dev'essere grata alla cultura sensistica per le sue sorprendenti conquiste. Non però quando essa è agonizzante, quando essa produce gas velenosi anziché aria pura, quando le sue conquiste pongono nelle mani dell'uomo una potenza terrificante sulla natura e il mondo sociale e culturale senza fornirgli un autocontrollo, una capacità di dominare le sue emozioni,

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passioni, voglie e appetiti sensistici. Nelle mani d'un uomo di questo genere, le conquiste scientifiche e tecnologiche della cultura sensistica la rendono un pericolo crescente per l'umanità intera e tutti i suoi valori. Il più urgente bisogno del nostro tempo è l'uomo in grado di controllare sé ed i propri appetiti, che sa compatire il suo simile, che è in grado di capire e che ricerca i valori eterni della società e della cultura, e che è profondamen­ te consapevole di avere una responsabilità unica nell'universo. La funzione principale della cultura sensistica è la conquista delle forze naturali; mentre la sottomissione dell'uomo, la sua "umanizzazione': il suo innalzamento a partecipe dell'Assoluto divino sono sempre stati la funzione principale della cultura ideazionale o idealistica. La cultura sensistica ha fatto del suo meglio nell'intento di degradare l'uomo a mero riflesso meccanico, a mero organo spinto dal sesso, a mero organismo semimeccanico, semifisiologico, svuota­ to di ogni scintilla divina, di ogni valore assoluto, di tutto ciò che è nobile e sacro. Una simile degradazione sta ora diventando sempre più pericolosa per l'uomo sensistico stesso; di qui l'urgenza di passare dal sensismo ali' ideazio­ nalismo o ali' idealismo, dalla sottomissione e dal controllo della natura da parte dell'uomo al controllo dell'uomo su se stesso. Senza un sistema di valori assoluti, universali ed eterni, questo controllo è impossibile. Tali valori sono inconciliabili con la mentalità e la cultura sen­

sistiche, che per loro natura sono relativistiche, utilitaristiche, edonistiche ed opportunistiche. Di qui la necessità logica e l'urgenza pratica di passare ad una nuova cultura ideazionale o idealistica. All'uomo di questa società potrà essere affidato il potere creato dalla cultura sensistica. Già adesso il potere e la tecnica disponibili consentirebbero ad un tale uomo di edificare una so­ cietà ed una cultura con meno povertà e miseria, immune dall'odio tra indi­ vidui e gruppi, più nobile, più giusta, più umana e migliore della fase attuale della nostra società sensistica.

[P. A. Sorokin, La dinamica sociale e culturale, UTET, Torino 1975, pp. 9I9-28 (ed. or. I94I)]

Tre ipotesi sul "perché" del mutamento socioculturale Sappiamo che tutti i fenomeni socioculturali, considerati sotto il loro aspet­ to empirico, mutano incessantemente senza eccezione alcuna. Il problema che si pone è perché mutano e perché non restano invece immutabili? Per­ ché questo divenire ineluttabile invece di una permanenza sempre uguale?

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È facile dare in generale una risposta al problema: non solo i fenomeni socioculturali ma ogni fenomeno empirico - inorganico, organico e socio­ culturale - è soggetto al mutamento nel corso della propria esistenza empi­ rica. Il destino dei fenomeni, per dirla con Eraclito, è di fluire senza posa. È perciò sufficiente richiamarsi a questa costante universale della realtà empi­ rica per rispondere al problema su accennato, nella sua forma più generale. Ciò detto, il problema diventa: dove trovare le radici del mutamento dei fenomeni socioculturali e come interpretarlo? Dobbiamo cercare le "cause" del mutamento di un dato fenomeno socioculturale nel fenomeno stesso, o in una qualche "forza" o "fattore" esterno ad esso? Questo problema può apparire "metafisica" ma non lo è. Come vedremo, esso ha un'importanza primaria sul piano metodologico e scientifico. Il tipo di risposta che vi si dà condiziona il carattere di fondo di ogni analisi, "causale': "fattoriale" o di al­ tro genere nelle scienze sociali. Sul piano logico, tre sono le possibili risposte al problema, e tutte e tre sono state utilizzate nelle scienze sociali. La prima soluzione è rappresenta­ ta dalla "teoria del mutamento esogeno': la quale ricerca le ragioni ("cause': "fattori" o "forme" ) del mutamento di ogni sistema socioculturale in alcune "variabili" che si trovano fuori dal sistema socioculturale stesso. Esplicita­ mente o implicitamente, è questo il punto di vista che oggi predomina. Si può prendere indifferentemente quasi ogni opera storica, sociologica od economica che tratti del mutamento di un qualsivoglia fenomeno sociale e culturale. Quando si pone il problema di quali siano i "fattori': le "ragioni" o le "variabili" del mutamento, gli studiosi assumono quasi invariabilmente fattori o variabili esterni rispetto al fenomeno considerato, il mutamento del quale viene spiegato tramite il mutamento di questo (o questi) fattori ester­ ni. Quando un autore si pone, ad esempio, il problema del perché la famiglia sia mutata negli ultimi cento anni, la spiegazione viene cercata in variabili come il mutamento delle condizioni industriali, la densità di popolazione, le leggi dello Stato, i fattori biologici e persino le macchie solari e le condizio­ ni climatiche. Di per sé la famiglia è considerata come un'entità meramente passiva, priva di ogni capacità di mutarsi da se stessa, spinta al mutamento da questa o quella forza esterna. Senza l'intervento di tale "fattore" sembrereb­ be che la famiglia sia destinata a rimanere immutabile e "stazionaria". Lo stes­ so metodo viene seguito quando uno studioso si occupa dei fattori di muta­ mento dello Stato, delle istituzioni economiche, politiche e sociali, dell'ar­ te, della scienza, della filosofia, del diritto, dell'etica e praticamente di ogni fenomeno sociale e culturale. Il mutamento viene prevalentemente spiegato in modo esogeno. Negli studi quantitativi e statistici il fattore, o "variabile indipendente': rappresenta in molti casi una variabile esterna alla variabile

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dipendente. Vi sono certamente eccezioni, e le vedremo, ma il procedimen­ to è in prevalenza esogeno. Ciò vale praticamente per tutte le scienze sociali

e vale in misura rilevante anche per le scienze biologiche. Ne è espressione il

trionfo della cosiddetta "teoria ambientalistica" specie nella spiegazione ed interpretazione dei problemi umani.

Generalmente parlando, l' "ambientalismo" è una teoria e un metodo di spiegazione esogena del mutamento in base a "forze ambientali" che si tro­ vano al di fuori e non all'interno dell'unità considerata. Si ritiene che que­ ste forze esterne o ambientali plasmino, controllino, modifichino, mutino, spingano e respingano, creino e distruggano i fenomeni considerati. L'unità in oggetto viene sempre considerata passiva, punto focale di applicazione di

queste forze e fattori. Non si ritiene che essa abbia una propria capacità di

mutamento. Quest'ambientalismo esogeno ha oggi permeato le scienze so­ ciali. Dal delitto alla religione, dai cicli finanziari al genio puro, quasi ogni cosa ed ogni mutamento vengono spiegati con il ricorso all'ambiente.

Un'altra variante di quest'esogenismo è da vedersi nelle diffuse interpre­

tazioni meccanicistiche e behavioristiche dei fenomeni mentali e sociocultu­ rali. Fondamentalmente, la teoria meccanicistica del mutamento sociocultu­ rale rappresenta una forma estrema dell'interpretazione esogena. È curioso il fatto, per altro tipico della mentalità contemporanea, che la seconda parte della legge cartesiana e newtoniana di inerzia, e cioè che un corpo materiale se si trova in moto si muove in modo rettilineo e uniforme (proprio perché esso è in moto), sia stata trascurata: l'interpretazione meccanicistica del mu­ tamento socioculturale assume di solito che ogni fenomeno socioculturale è in uno stato di quiete o di equilibrio statico e rimane in questo stato di quie­ te sino a quando qualche "forza esterna" non lo sposta dal proprio luogo e

lo costringe a muoversi e a mutare. Si ritiene che altrimenti il fenomeno non

abbia alcun motum proprium e rimanga in uno stato di inerzia o si mantenga "in quiete". Alquanto simile è l'esogenismo delle teorie behavioristiche, del

mutamento psico-socioculturale, e non soltanto delle teorie behavioristiche,

ma delle teorie psicologiche oggi prevalenti. Il loro principio fondamenta­ le è lo "stimolo-reazione". Senza uno stimolo -e lo stimolo è quasi sempre qualcosa di esterno all'uomo, all'organismo e ad ogni fenomeno sociocultu­

rale -l'uomo, e qualunque sistema socioculturale, è da ritenersi incapace di

qualsiasi reazione e di esercitare qualsivoglia attività o di sperimentare qual­

siasi mutamento o trasformazione. Questa formula dello stimolo-reazione

è di carattere fortemente esogeno: nelle opere di molti psicologi e scienziati sociali essa viene del resto esplicitamente dichiarata tale. Un'ulteriore variante dell'esogenismo è rappresentata da una corrente assai diffusa che comprende i movimenti di "riforma" o di "ricostruzione':

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i quali individuano "radici del male" e "il rimedio patentato" di qualunque fenomeno sociale e culturale nell'"ambiente" e nei fattori esterni alla perso­ na, all'istituzione sociale o all'unità culturale in questione. Si ritiene che le prevaricazioni di un delinquente siano da imputarsi all'ambiente, non al cri­ minale in sé, ed è all'ambiente che si guarda per la sua cura. Le deficienze di un'istituzione sociale, sia la famiglia, l'organizzazione politica o quella eco­ nomica, hanno anch'esse radice nelle forze dell'ambiente, non nell'istituzio­ ne medesima. Si ritiene che una modificazione di queste condizioni produca automaticamente il mutamento desiderato del sistema stesso. Questa concisa caratterizzazione mostra la natura della teoria esogenica del mutamento sociale, le sue varianti e la sua odierna popolarità. Essa dimo­ stra anche che la questione avanzata non è meramente "accademicà'. Vedia­ mo ora come il postulato esogenico determini il carattere essenziale di ogni ricerca "causale" o "fattoriale" in tutti i campi delle scienze sociali; come esso modelli le "tecniche" ed i "procedimenti" dell'indagine; come esso permei di sé le politiche d'intervento e le attività dei movimenti di riforma e di ri­ costruzione sociale; come influenzi la mentalità teorica e pratica e le attività dei suoi partigiani sia in questioni d'ogni giorno, sia in particolari condizioni socioculturali. La seconda soluzione del problema è l'opposto della prima. Possiamo definirla teoria immanente del mutamento socioculturale. Essa sostiene che ogni sistema socioculturale muta in virtù delle sue forze e proprietà. Tale mutamento non può essere evitato, anche quando tutte le condizioni ester­ ne permangono costanti. Esso è perciò immanente ad ogni sistema sociocul­ turale, intrinseco ad esso e da esso inalienabile. Il sistema porta in se stesso il seme del proprio mutamento. Mantenendosi costanti le condizioni esterne della famiglia, dello Stato, dell'organizzazione economica, del partito politi­ co e di ogni sistema sociale, come pure mantenendosi costanti le condizioni esterne di ogni sistema integrato di arte, scienza, filosofia, religione e diritto, nessuno di questi sistemi sociali o culturali resta uguale, ma tutti sono de­ stinati a mutare in modo immanente per virtù della loro esistenza e del loro funzionamento. Alcune loro proprietà scompariranno e ne nasceranno di nuove; taluni tratti si svilupperanno ed altri verranno meno . Più lentamen­ te o più velocemente, il sistema subirà una trasformazione. Tale in breve è nell'essenziale il carattere di questa teoria.

È facile vedere come rappresenti l'opposto dell'ipotesi esogenica. Una volta accettata, essa conduce chiunque ragioni in modo coerente a una serie di conclusioni nello studio di quasi tutti i problemi sociali e culturali che sono completamente differenti dalle conclusioni che si raggiungono parten­ do dal postulato esogenico. Nell'analisi della trasformazione di un qualsiasi

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sistema socioculturale, il partigiano della teoria del mutamento immanente cercherà le ragioni o fattori del mutamento innanzitutto nelle proprietà in­ terne (effettive e potenziali) del sistema stesso, e non soltanto nelle condizio­ ni esterne. Egli non tenterà di trovare qualche fattore esterno la cui "spinta': "trazione" o "pressione" possa spiegare il mutamento. Egli può considerare come sussidiario ogni fattore di questo genere; nella maggioranza dei casi, però, non imputerà ad esso il mutamento nella sua totalità e nelle sue moda­ lità essenziali. Nella stesura di piani di riforma o di ricostruzione per "rime­ diare" a questo o quel male della società egli non confiderà esclusivamente e nemmeno in modo rilevante su un puro e semplice riaccomodamento delle condizioni esterne. Come un medico, egli studierà in primo luogo il sistema stesso e le sue proprietà immanenti; e questo studio gli fornirà poi una base concreta di diagnosi. Se constaterà che il sistema, figurativamente parlando, è simile all'organismo di un uomo di ottant'anni, asserirà che qualunque ten­ tativo di trasformare tale organismo in quello di un giovane di venti è futile,

e qualunque accomodamento di condizioni esterne non avrà alcuna impor­ tanza. Egli argomenterà che in base ad una esperienza dimostratasi valida, un organismo di ottant'anni non può essere mutato in un sistema giovanile. Se le proprietà immanenti del sistema mostrano potenzialità più favorevoli, egli riterrà che in qualche modo esse si dovranno a suo tempo manifestare. Le sue prescrizioni, pur non trascurando le condizioni esterne, punteranno di norma sulle capacità interne e sullo sforzo del sistema stesso. Egli non farà troppo affidamento su riaccomodamenti meramente meccanici delle con­ dizioni esterne. Per riassumere, il principio del mutamento immanente dei sistemi socioculturali, una volta adottato, dischiude una gamma vastissima di ricerche e di attività pratiche profondamente diverse quanto ai procedi­ menti, alle tecniche ed ai programmi da quelli della teoria del mutamento esogeno. Tale è la seconda teoria intorno a questo problema. V'è infine una terza risposta al problema, di carattere intermedio o inte­ grale. Essa tende a vedere il mutamento di qualunque fenomeno sociocultu­ rale come il prodotto di forze esterne ed interne combinate. Spesso tale te­ oria assume un carattere eclettico e colloca i due tipi di fattori l'uno accanto all'altro senza fare un serio tentativo di indicare quale sia il ruolo specifico delle forze immanenti rispetto a quelle esterne. In alcuni casi, tuttavia, il ca­ rattere sintetico o integrale di questo principio è mantenuto e reso operante effettivamente. In questi casi, e solo in essi, il carattere integrale del principio viene a realizzarsi e la sua natura non è distorta. Tali sono le tre principali ri­ sposte al problema avanzato. Quale è la più valida di esse?

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Personalmente, io opto a favore del principio del mutamento immanen­ te, corretto dal principio esogenico entro certe condizioni e limiti. Le prin­ cipali ragioni di questa convinzione sono le seguenti. In primo luogo il principio del mutamento immanente di un sistema socioculturale è confermato dali'osservazione empirica. Empiricamente non si conosce alcun sistema o fenomeno socioculturale che non muti nel corso della sua esistenza o con il passare del tempo. È assai dubbio che vi sia an­ che un solo sistema, nell' intero universo socioculturale ed empirico, che sia rimasto immutato. Quest'osservazione è incontestabile. L'unica obiezione possibile è che sebbene il mutamento è incontestabile, non possiamo dire a che cosa sia dovuto, se a forze unicamente immanenti al sistema o ad un in­ cessante condizionamento di esso da parte di un insieme di fattori esterni. L'obiezione è valida. Per la soluzione del problema dobbiamo perciò passare ad altri elementi probanti, sia empirici che logici. Un elemento probante sia logico che empirico possiamo enunciarlo con la proposizione seguente: qualunque sistema che nel corso della sua esisten­ za costituisce un'entità funzionante che opera, agisce e non si trova in stato di quiete, non può fare a meno di mutare fin tanto che esiste per ciò appun­ to che svolge una certa attività e un certo lavoro. Solamente un sistema che sia nel vuoto assoluto, in stato di quiete e non funzionante, potrebbe evitare di mutare, in base a queste condizioni. Si può prendere l'automobile meglio costruita del mondo, mettervi la benzina migliore e tenere costanti tutte le altre condizioni; e con tutto ciò se essa funziona e corre, prima o poi muterà, e dopo un certo tempo si logorerà. Nel nostro caso, potremmo esser d' accor­ do di tenerla in un ambiente esterno che si mantenga costante e che sia il mi­ gliore possibile. Il suo mutamento, tuttavia, è dovuto al fatto che essa corre, lavora, opera, agisce. Il mutamento è una conseguenza immanente del fatto che il sistema è un'entità funzionante. È il funzionamento del sistema che rende inevitabile il mutamento. Lo stesso si può dire di ogni altro sistema meccanico, pur­ ché sia un'entità funzionante. La proposizione è ancor più valida per i si­ stemi organici. Una delle proprietà fondamentali di un organismo viven­ te è la sua attività - esterna o interna - la sua mobilità, il suo operare, la sua natura dinamica. In altre parole, ogni sistema organico è per sua natura un'entità funzionante, e in quanto tale finché vive, lavora, agisce e opera; e finché opera non può fare a meno di mutare. «La vita non può mai essere in equilibrio»". «Un equilibrio totale non può mai essere raggiunto da un 11. l. S. Huxley, The Individuai in the Anima/ Kingdom, Cambridge University Press, Cambridge 1912., p. 114.

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organismo; e se lo fosse, riuscirebbe fatale in quanto significherebbe stagna­ zione, atrofia e morte»". Indipendentemente dall'ambiente in cui si trova, l'uomo non può fare a meno di mutare incessantemente nel corso della sua esistenza, passando dall'infanzia alla maturità e quindi alla vecchiaia ed alla morte. Forse solo l'uomo congelato e posto in condizioni anabiotiche assai prossime alla morte può grandemente rallentare il ritmo di mutamento. Tali condizioni significano però la trasformazione dell'uomo da entità vivente a una specie di mummia. Questa possibilità conferma e non contrasta con la nostra proposizione. Poiché ogni sistema socioculturale è tra l'altro composto da uomini, e poiché ogni organismo fin tanto che esiste non può fare a meno di mutare, il sistema socioculturale è un'"entità funzionante" e non può fare a meno di mutare sin tanto che esiste, indipendentemente dalle condizioni esterne, anche se esse rimangono costanti nel modo più assoluto. Lo svolgimento di una qualsiasi attività, qualunque reazione o risposta ad un dato ambiente A, muta il sistema, lo fa reagire diversamente una seconda volta e poi una ter­ za ed altre ancora. Altre componenti di ogni sistema socioculturale sono i significati ed i veicoli. Essi pure portano in se stessi il seme del mutamento, mutamento per essi e per il sistema. Tutti i significati che contengono po­ tenzialmente in se stessi qualche contraddizione - e secondo Hegel, come si vedrà più avanti, non v'è significato che non sia contraddittorio- prima o poi esplicitano tale contraddizione, ed eliminandola fanno germinare il pro­ prio mutamento. In questo senso anch'essi mutano in modo immanente, in quanto significati radicati in una realtà empirica e in quanto significati che vengono pensati da esseri umani, empirici anch'essi. Tutti i veicoli, proprio in quanto veicoli, sono entità funzionanti: essi operano, sono usati e talvolta si logorano con il funzionamento. Pertanto anch'essi non possono fare a meno di mutare. Queste considerazioni logico-sperimentali sono sufficienti a rendere va­ lido il principio del mutamento immanente dei fenomeni socioculturali [ ...]. Quando l'ambiente di un qualsiasi sistema che costituisce una entità funzionante si mantiene costante, mentre il sistema muta, l'ambiente non può essere considerato come la causa o l'origine del mutamento del sistema. Se il più semplice dei microorganismi (ad esempio ilparamecium caudatum) stando agli esperimenti di Metalnikov e Jenning, la prima volta reagisce in un certo modo allo stimolo A, poi una seconda volta reagisce allo stesso sti­ molo e in presenza di condizioni uguali in modo diverso, il mutamento evi­ dentemente non è dovuto né all'ambiente né ad A, ma alla proprietà imma12. J. C. Smuts, Holism and Evolution, MacMillan & Co., London 1927, p. 223.

194

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

nente dell'organismo di mutare in base alla propria esistenza e quindi alla propria attività. Persino la capacità di reagire o rispondere allo stimolo è una capacità immanente dell'organismo. Ciò dimostra che il problema del mutamento dei sistemi socioculturali è stato impostato in modo erroneo. Esso non è un mistero, e non è neppure un problema difficile da spiegare. Assai più difficile sarebbe spiegare l' immu­ tabilità di un qualche sistema sociale, se mai ciò si verificasse. Stante la grande popolarità di cui godono oggi le teorie del mutamen­ to esogeno, è opportuno approfondire ulteriormente l'esame delle loro de­ ficienze. Il loro primo difetto è che esse sono inutili, in quanto nel migliore dei casi qualunque teoria coerente del mutamento dell'esterno non risolve il problema ma ne pospone solamente la soluzione; per cui o scade nel miste­ ro, nel senso deteriore del termine, o giunge ali' assurdo logico di tirar fuori il proverbiale coniglio dal cappello, e cioè dal mero nulla. Stabiliamo per ipo­ tesi che il mutamento non sia immanente ai sistemi socioculturali. Prendia­ mo la famiglia (A) , per fare un esempio. Stando alla teoria del mutamento esogeno, per spiegare perché la famiglia americana sia mutata negli ultimi cinquant'anni dovremo ricorrere a qualche fattore esterno ad essa: ad esem­ pio il mutamento delle condizioni industriali

(B).

Una volta data tale spie­

gazione possiamo chiedere: perché le condizioni industriali sono mutate? Stando all'esogenismo coerente dobbiamo prendere qualche fattore esterno per spiegare il cambiamento di

B.

Sia esso ( C) , e cioè un mutamento nella

densità e nella massa di popolazione, nelle condizioni climatiche, nelle mac­ chie solari o che altro si vuole. Una volta arrivati a C, possiamo porre la me­ desima questione anche riguardo ad esso: perché C è mutato? E così via, ad

infinitum. Ecco che cosa intendo parlando di posposizione della soluzione. In secondo luogo, qualora un esogenista coerente continuasse a sostene­ re che nel processo di regressione egli può trovare in qualche modo una so­ luzione, verrebbe allora a cacciarsi in uno dei seguenti quattro vicoli ciechi. A. Regressione senza fine da A a B, da B a C, da C ad N e così via infini­ tamente, senza che nessuno dei termini possa mutare se stesso o essere ori­ gine di mutamento per gli altri. L' intera regressione è infinita ed inutile, e non può offrire una spiegazione del mutamento indicando la fine di que­ sta caccia senza speranza, in un ente che rappresenti il punto di partenza della catena incessante di fattori.

B.

Rinvio al Primo Motore, Dio o qualche altro principio ultimo, consi­

derato immobile (come nella teoria platonico-aristotelica ) o muoventesi da se stesso (come in alcune altre teorie ) . Nella metafisica questa soluzione della ricerca di una origine ultima dei mutamenti può essere più o meno adeguata; ma nello studio empirico dei fenomeni socioculturali non risol-

7· PI T IRIM A. SOROKIN: DALLA CRISI ALLA CATARSI

195

ve affatto il problema. Le teorie del mutamento esogeno infatti non chia­ mano in causa a questo proposito il Primo Motore che non è e non può essere un agente empirico, ma assumono come fattore di mutamento qual­ che "variabile" empirica. C. Attribuzione di un mutamento immanente a qualche sistema socio­

culturale, in generale empirico: ad esempio, al clima, ai "modi e mezzi di produzione" di cui parla il marxismo, al "fattore demografico': e così via. Una soluzione di questo genere comporta però l'abbandono della teoria esogenica ed è autocontraddittoria in quanto implica, contrariamente al­ la tesi esogenica, che alcuni sistemi socioculturali o empirici portano in se stessi la ragione del loro mutamento, possono autoregolarsi e regola­ re altri sistemi e variabili. Una tale tesi è però nient'altro che una varian­ te del principio del mutamento immanente. Per di più, è una via d'uscita che comporta alcuni gravi svantaggi in quanto rende necessario dimostra­ re perché taluni sistemi socioculturali, ad esempio la famiglia, la religione o la scienza, non possono mutare da se stessi, mentre altri come i mezzi e gli strumenti di produzione, la densità della popolazione, i costumi, l'arte o le macchie solari possono farlo. Oltre a ciò, la maggior parte delle teorie esogeniche e fattorialistiche di solito "spiegano" il mutamento risalendo dai fattori socioculturali ai fattori biologici (demografici e di altro gene­ re), e da questi ultimi ai fattori inorganici (climatici, geografici, atomici ecc.). Tale regressione sarebbe veramente scientifica in quanto "spiega" i fenomeni socioculturali con quelli biologici, ed i fenomeni biologici con quelli fisico-chimici. Quale che sia la validità di un presupposto di questo genere nell'analisi di altri problemi, nel problema in questione tale proce­ dimento, e il dogma da cui discende, è sicuramente errato. La ragione è che tanto sul piano dell'osservazione come su quello della logica, i fenomeni più dinamici e mutevoli sono appunto i fenomeni socioculturali e dopo essi i fenomeni biologici, quindi i fenomeni fisico-chimici. Il procedimento che critichiamo dunque, rappresenta una

«

spiegazio­

ne» dei fenomeni socioculturali, la maggior parte dei quali mutano da se stessi per mezzo di fenomeni meno dinamici, come quelli biologici, e poi per mezzo di variabili fisico-chimiche che sono le meno mutevoli per virtù propria. D. Infine, il quarto vicolo cieco in cui il sostenitore dell'esogenismo ver­

rebbe a cacciarsi nel tentativo di trovare una via di uscita, è l'assurdità logica della produzione di un qualcosa (il mutamento) dal nulla (dai sistemi che, stando alle teorie esogeniche, sarebbero privi di mutamento immanente). Se i sistemi socioculturali sono privi di mutamento, se lo stesso vale per i feno­ meni biologici ed inorganici e se infine non si postula una regressione all'in-

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

finito, un Primo Motore finale, o arbitrariamente il mutamento immanente di qualche cosa, allora l'ultima origine del mutamento che resta all'esogeni­ sta è "il nulla': Già da gran tempo però Melissa diceva: «Perché il mutamen­ to giunga all'essere, è necessario che prima vi sia stato il nulla; se, d'altra par­ te, vi era il nulla, nulla mai può dal nulla venire» Tali, dunque, sono i quattro vicoli ciechi cui conduce il principio esogeni­ co adottato con coerenza. Nessuno di essi risolve o può risolvere il problema. Per tutte queste ragioni un esogenismo assoluto e coerente non è so­ stenibile. All'opposto, il principio del mutamento immanente di un siste­ ma socioculturale è immune da questi errori di logica e di fatto. L' imma­ nentismo, accompagnato dall'accettazione del principio esogenico, in via complementare e con le adeguate limitazioni, è quindi assai più accettabile delle ipotesi esogeniche. L'accettazione del principio del mutamento immanente non impedisce il riconoscimento del ruolo delle forze esterne nel mutamento del sistema socioculturale. Ogni sistema sociale esiste e funziona in mezzo ad altri siste­ mi socioculturali. Poiché ciascuno di essi reca in sé il seme del proprio muta­ mento, la loro interazione lo accelererà maggiormente. Se il sistema A con­ tiene in sé le ragioni del proprio mutamento e così è per il sistema B, C ed N, allora l' interazione fra A, B, C e molti altri sistemi favorisce maggiormente il mutamento di A, B e ogni sistema interagente. Quanto sopra basta a risolvere il problema de «La dinamica», e cioè perché una cultura come tutto integrato, composto da una costellazione di numerosi sottosistemi, muta e passa da uno stadio ad un altro. La risposta è che il sistema ed i suoi sottosistemi - come la pittura, la scultura, l'archi­ tettura, la musica, la scienza, la filosofia, il diritto, la religione, i costumi, le forme di organizzazione sociale, politica ed economica - mutano in quanto ognuno di essi è una entità funzionante che reca in sé le ragioni del proprio mutamento.

[Sorokin, La dinamica sociale e culturale, cit., pp. 931-42]

Crisi... catarsi... carisma... e resurrezione Lo stato attuale della società e della cultura occidentali ci fornisce un tra­ gico reperto dell'inizio della disgregazione del supersistema sensistico. Pertanto il loro prossimo futuro, calcolato in anni, anzi in pochi decenni, dovrà passare sotto il segno del dies irae dies illa di una transizione ad una nuova fase, ideazionale o idealistica, con tutti i fenomeni associati ad un

7· PITIRIM A. SOROKIN: DALLA CRISI ALLA CATARSI

1 97

processo di questo genere. La tendenza che prevarrà in quest'epoca sarà quella che qui delineiamo concisamente. CRISI I.

I valori sensistici verranno relativizzati e atomizzati ancor di più, sinché

saranno ridotti in cenere e privati del riconoscimento universale e di qualun­ que legittimazione. La linea di demarcazione tra il vero ed il falso, il giusto e l'errato, il bello ed il brutto sarà sempre più obliata, finché l'anarchia spiri­ tuale, morale, estetica e sociale regnerà suprema. 2.

I valori sensistici progressivamente atomizzati e con loro l'uomo stesso,

saranno ancor più sviliti, sensualizzati, materializzati e privati di tutto ciò che vi è di divino, sacro ed assoluto. Essi sprofonderanno maggiormente nel sudiciume della feccia sociale e diverranno sempre più distruttivi anziché costruttivi, e nella loro totalità rappresenteranno sempre più il museo delle anormalità sociali, anziché i valori imperituri del regno di Dio. La mentalità sensistica interpreterà sempre più l'uomo e tutti i suoi valori in modo "fisio­ chimico': " biologico': "riflessologico", "endocrinologico': " behavioristico': "economicistico': "psicanalitico� "meccanicistico" e "materialistico" ; come un universo di atomi, elettroni e protoni che avvolge con la sua rete inerte e mostruosa il robot umano. 3·

Con l'atomizzazione di tutti i valori scomparirà qualunque "opinione

pubblica" o "coscienza del mondo" genuina, autorevole e normativa. Al lo­ ro posto si avrà una moltitudine di "opinioni" contrastanti di fazioni senza scrupoli e di pseudo-coscienza dei gruppi di pressione. 4·

Contratti e convenzioni perderanno quel poco che loro rimane di legit­

timazione. Lo splendido edificio socioculturale contrattualistica costruito dall'uomo occidentale nel corso dei secoli precedenti crollerà. Con lo sbri­ ciolarsi di esso, la democrazia contrattualistica, il capitalismo contrattuali­ stica e con loro la proprietà privata e la libera società contrattualistica degli uomini liberi, verranno spazzati via. s.

La forza bruta e il cinismo fraudolento diverranno i soli arbitri di ogni

valore e di ogni rapporto tra gruppi ed individui. La forza sarà il diritto. Co­ me conseguenza di ciò, le guerre, le rivoluzioni, le rivolte, le turbolenze e le brutalità si ergeranno impetuose e il bellum omnium contra omnes, uomo contro uomo, classe contro classe, nazione contro nazione, credo contro cre­ do, razza contro razza, solleverà la sua testa. 6.

La libertà per i più non sarà altro che un mito, e sarà licenziosa sfrena­

tezza per le minoranze dominanti. I diritti inalienabili verranno alienati; la Dichiarazione dei diritti dell'uomo sarà abolita o verrà usata come schermo elegante di una ferrea coercizione.

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE



I governi diverranno sempre più fatiscenti, fraudolenti e tirannici, e in­

vece di pane daranno bombe; invece di libertà, morte; invece di leggi, vio­ lenza; invece di creazione, distruzione. Essi avranno vita sempre più breve, e saranno sempre più instabili e soggetti a rovesciamenti. 8.

La famiglia intesa come unione sacra dell'uomo e della donna, dei geni­

tori e dei figli, continuerà a disgregarsi. I divorzi e le separazioni aumente­ ranno, finché scomparirà ogni vera differenza tra il matrimonio legittimato socialmente e le relazioni sessuali illecite. I figli verranno strappati sempre più presto ai loro genitori e le funzioni socioculturali fondamentali della fa­ miglia deperiranno sempre più, finché la famiglia non sarà ridotta alla mera coabitazione accidentale del maschio e della femmina e la casa diventerà un mero luogo di ricovero per la notte, adibito principalmente all'intratteni­ mento di rapporti sessuali. 9·

Il supersistema sensistico della nostra cultura diventerà sempre più un

informe "bazar culturale': impregnato di sincretismo per gli elementi cultu­ rali non assimilati e privo di ogni unità e individualità. Riducendosi a bazar esso diverrà preda di forze fortuite che ne faranno un "oggetto di storia" an­ ziché il soggetto vivente ed autogovernantesi di essa. 10.

La creatività di questo sistema continuerà ad inaridirsi e deperire. Sem­

pre più, al posto dei Galileo o dei Newton, Leibniz, Darwin, Kant, Hegel, Bach, Beethoven, Shakespeare, Dante, Raffaello e Rembrandt, avremo una moltitudine di mediocri pseudo-pensatori, arruffa-scienza, arruffa-pittura, arruffa-musica, arruffa-letteratura, arruffa-spettacoli, un gruppo più volga­ re dell'altro. Al posto degli imperativi morali categorici avremo man mano le arrangiature atomistiche ed edonistiche di egoisti furbacchioni, protervi, fraudolenti e prevaricatori. Alla grandezza del cristianesimo si sostituirà la moltitudine delle più atroci contaminazioni di frammenti di scienza e bran­ delli di filosofia, cucinati in una massa rudimentale di credenze magiche ed ignoranti superstizioni. Alle invenzioni tecnologiche positive si sostituiran­ no man mano invenzioni distruttrici. Più particolarmente:

a

)

Il gigantismo quantitativo si sostituirà alla per­

fezione qualitativa ed avremo il grandioso invece del bello, il best-seller inve­ ce del classico, la scintillante esteriorità invece dei valori interiori, la tecnica invece del genio, l'imitazione invece della creazione, il sensazionale invece del valido, la "manipolazione operativa" invece dell'intuizione illuminatri­ ce.

b)

Anziché pensare ci limiteremo a richiedere informazioni; al posto dei

sapienti avremo i furbacchioni, al posto dei princìpi veri, princìpi adulterati; al posto dei grandi capi, gli imbroglioni.

)

c

I più grandi valori culturali del

passato verranno anch'essi sviliti. I Beethoven e i Bach faranno da appendice alle eloquenti rapsodie pubblicitarie di lassativi, gomma da masticare, noc-

7· PITIRIM A. SOROKIN: DALLA CRISI ALLA CATARSI

199

cioline, birre ed altre piacevolezze non sofisticate. I Michelangelo e i Rem­ brandt serviranno ad abbellire saponi e lamette da barba, lavatrici e bottiglie di whisky. I cronisti e i blateranti annunciatori radiofonici acconsentiranno ad onorare gli Shakespeare ed i Goethe una volta ogni tanto, permettendo ad essi di occupare qualche riga nei loro articoli o nelle loro trasmissioni. 11.

Con la crescente anarchia morale, spirituale e sociale, e con il decadere

della creatività della mentalità sensistica, la produzione di beni materiali di­ minuirà, la recessione si farà più grave e il tenore di vita si abbasserà. I2.

Per le stesse ragioni verrà meno la sicurezza del vivere e della proprietà; e

con essa la serenità dello spirito e la felicità. Aumenteranno i suicidi, le ma­ lattie mentali, i crimini; la stanchezza si impadronirà di masse sempre più grandi di popolazione. I3.

Le persone si distingueranno sempre di più in due tipi: gli edonisti sen­

sistici, per i quali non v'è che «il bere, il mangiare e fare all'amore perché il domani reca la morte»; ed eventualmente gli ascetici e gli stoici, indifferenti o contrari ai valori sensistici. CATARSI.

A questo modo l'uomo e la cultura sensistici andranno incontro al

loro fallimento ed alla autodistruzione. Col venir meno degli agi materiali, con lo svanire della libertà, le sofferenze aumenteranno a scapito dei piaceri; la sicurezza, la salute, la felicità sensisticamente intese diverranno un mito; la dignità e il valore dell'uomo saranno spietatamente calpestati; la creatività della cultura sensistica svanirà; lo splendido edificio della cultura sensistica si sbriciolerà; dappertutto si vedranno distruzioni; regni e città verranno spaz­ zati via; il sangue dell'uomo scorrerà per tutta la terra; tutti i valori sensistici andranno in pezzi e i sogni del sensismo svaniranno. In queste condizioni, le genti occidentali non potranno fare a meno di aprire gli occhi ed accorgersi del vuoto della cultura sensistica, perdendo ogni illusione su di essa. Di conseguenza tenderanno ad abbandonarla, indirizzando la loro de­ vozione a valori ideazionali o idealistici. Con la tragedia, la sofferenza e la crocefissione saranno purificati e ricondotti alla ragione ed ai valori eterni, permanenti, universali, assoluti. Alla disgregazione dei valori farà seguito la loro universalizzazione e assolutizzazione. I valori sensistici verranno sosti­ tuiti o subordinati ai valori ideazionali e idealistici. I princìpi fondamentali della cultura sensistica e del supersistema sensistico a poco a poco verranno sostituiti dai princìpi e dai supersistemi integralistici o ideazionali. Per primi porteranno avanti questa trasformazione i più grandi spiriti della società occidentale. Un'altra volta le sue intelligenze migliori diverran­ no nuovi Paolo e nuovi Agostino, grandi capi religiosi e morali la cui guida

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

200

verrà seguita dalle masse. Allorquando la catarsi avrà raggiunto questo sta­ dio, la crisi sarà terminata. CARISMA E RESURREZIONE.

Purificata da questa fiammante ordalia, la so­

cietà occidentale verrà gratificata da un carisma nuovo che porterà alla resurre­ zione ed alla liberazione delle forze creative. Esse annunceranno il periodo co­ struttivo di un supersistema di cultura nuovo, più integralistico; ed una nobile società costruita non già sul fondamento inaridito del sensismo ma su quello più vigoroso e sano del principio integralistico. Per la cultura occidentale si aprirà così un'età novella. Questa sequenza uniforme - crisi, catarsi, carisma e resurrezione - è la stessa secondo cui sono avvenute le grandi crisi del passato, come le crisi dell'Egitto storico verso la fine dell'antico, medio e basso impero ed altre due volte nel periodo saitico e in quello greco-romano; come la crisi avutasi nell'antica Babilonia intorno al

I200

a.C.; come varie grandi crisi della cul­

tura induistica, ognuna delle quali è terminata con la rinascita dell' induismo o la comparsa del buddismo. In Cina, la crisi del VI secolo a.C. terminò con la comparsa del taoismo e del confucianesimo; nella cultura giudaica, le crisi avutesi dal IX al III secolo a.C. terminarono con la comparsa del profetismo di Elia, Eliseo, Amos, Osea, Isaia, Ezechiele e Geremia fino ad Esdra ed ai suoi successori. Infine, per non fare che pochi esempi, la grande crisi della cultura sensistica greco-romana finì nello stesso modo, con la comparsa e la diffusione del cristianesimo e della grande cultura cristiana del medioevo. Dinnanzi a noi si stende l'irto cammino del

dies irae della transizione.

Ma oltre ad esso già traspaiono, nella loro magnificenza, le vette della nuo­ va cultura, ideazionale o idealistica, che a modo suo sarà altrettanto grande quanto lo fu la cultura sensistica al culmine del proprio genio creativo. A questo modo, la missione creativa della società e della cultura occidentali verrà proseguita, e una volta di più il grande mistero socioculturale finirà

Et incarnates est de spiritu sancto... et homo Jactus est... crucifìxus... et resurrexit... Amen. con una nuova vittoria.

AL TERMINE DEL CAMMINO.

In concordanza con le diagnosi e le progno­

si da me enunciate nell'edizione originale in quattro volumi di quest'ope­ ra, pubblicata nel 1937-41, negli ultimi decenni la tendenza fondamentale è consistita:

a)

nella decadenza progressiva della cultura, della società e del

tipo d'uomo sensistici, e

b)

nella comparsa e nel lento sviluppo dei primi

elementi di un nuovo ordinamento socioculturale, ideazionale o idealistico. Nella scienza questo duplice processo si è manifestato:

a) nella crescente

potenza distruttiva dei progressi scientifici sensistici moralmente irrespon-

7· PI T IRIM A. SOROKIN: DALLA CRISI ALLA CATARSI

201

sabili, con l'invenzione di armi nucleari e batteriologiche e con altri mezzi diabolici di distruzione dell'uomo e di tutti i più grandi valori; e b) nella tra­

sformazione delle teorie fondamentali della scienza in senso ideazionale o

idealistico, verso una responsabilità morale. Questo mutamento ha già reso la scienza odierna meno materialistica, meccanicistica e deterministica - ov­ vero meno sensistica - di quanto essa non sia stata nei due secoli precedenti. Per questa scienza moderna la materia non è altro che una forma di energia condensata, che si smaterializza nelle radiazioni. L'atomo di materia è già stato scomposto in più di una trentina di particelle elementari non materia­

li, «occulte, arcane, conturbanti, enigmatiche e imperscrutabili»: elettroni e anti-elettroni, protoni e anti-protoni, fotoni, mesoni ecc.; oppure si è dis­ solto nell'immagine di onde che seguono la curva di probabilità, onde di coscienza che il nostro pensiero proietta a distanza. Tali onde, come quelle connesse alla propagazione dei quanti di luce, non richiedono alcun sostra­

to per propagarsi nello spazio-tempo; la loro fluttuazione non avviene né in

un fluido, né in un solido, né in un gas. Davanti alla meccanica quantistica o

all'elettronica, le nozioni fondamentali della scienza "materialistica" e "mec­

canicistica" come materia, realtà oggettiva, tempo, spazio e causalità non so­

no più impiegabili; e la testimonianza dei nostri sensi perde in gran parte il suo significato. Quanto alla causalità deterministica, è ormai sostituita nella scienza moderna dal principio di indeterminazione di Heisenberg , dai ca­

pricciosi "salti quantici " e dalle relazioni probabilistiche; e nel campo dei fenomeni psico-sociali, dalla "legge di direzione volontaristica libera': priva

sia di causalità che del caso.

Una trasformazione simile ha avuto luogo con le nuove teorie predomi­

nanti nelle scienze biologiche, psicologiche e sociali. Contrariamente agli stereotipi (ormai superati anche se tutt'ora seguiti) della biologia, psicologia

e sociologia meccanicistiche, materialistiche e deterministiche, in queste di­

scipline le nuove e più significative teorie mostrano chiaramente che i feno­

meni della vita, degli organismi, della personalità, della mente ed i processi socioculturali non possono essere ridotti e non possono venire intesi come realtà meramente materiali, meccaniche o sensoriali. Secondo queste teorie tali fenomeni, oltre al loro aspetto empirico hanno altri aspetti assai più im­ portanti; aspetti razionali-coscienziali e anche sovrasensibili e sovraraziona­ li. Su questo come su altri punti la scienza più recente è già diventata molto più ideazionale o idealistica di quanto fosse nel XIX secolo. Ciò significa che

nella scienza si avrà una sempre maggior sostituzione degli elementi deca­ denti del sensismo con nuovi elementi, ideazionali o idealistici. Nel campo della filosofia, il duplice processo di cui sopra si è manifesta­ to con la crescente sterilità e declino del materialismo, del meccanicismo,

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

202

del "positivismo" e di altre filosofie sensistiche; e con la comparsa e lo svi­ luppo dell'"esistenzialismo': dell"'intuizionismo': del "neo-tomismo': del­ l'"integralismo': del "neo-misticismo': del "neo-vedismo" e di altre filosofie coerenti con i princìpi fondamentali dell' ideazionalismo e dell'idealismo. Un duplice processo di questo genere si è avuto in tutti i settori delle bel­ le arti. Nell'ambito della religione questo processo si è espresso nello svilup­

) dell'ateismo militante; b) del revival religioso. Nell'etica esso ha dato luogo: a ) alla bestialità totale e alla perversione

po simultaneo:

a

morale mostrate dalla seconda guerra mondiale, dalle sanguinose rivolu­ zioni e dalla crescente criminalità; e b) allo sviluppo dell'eroismo morale, dell'altruismo sublime e dei movimenti per la messa al bando della guerra, dello spargimento di sangue e dell'ingiustizia. Nella politica questo duplice processo si è verificato:

a

)

con la proli­

ferazione di dittature tiranniche di tutti i tipi; b) con la lenta crescita di movimenti di massa per l'istituzione di un governo competente, onesto e moralmente responsabile; un governo del popolo, da parte del popolo, per il popolo. Questa contesa tra le forze dell'ordinamento sensistico, che un tempo

fu creativo ma ormai

è guasto, e le forze creative del nuovo ordinamento

ideazionale o idealistico emerse recentemente, si svolge senza soste in tutti i settori della vita sociale e culturale. Il risultato finale di questo conflitto sto­ rico dipenderà in gran parte dalla capacità dell'umanità di evitare una nuova guerra mondiale. Se le forze del decadente ordinamento sensistico facessero scoppiare una guerra di questo genere, consumando in essa le loro energie superstiti, ciò potrebbe bloccare o ostacolare seriamente il progresso creati­ vo dell'umanità. Se tale catastrofe apocalittica potrà essere evitata, allora le forze creative emerse di recente introdurranno l'umanità ad una nuova e splendida epoca storica. Quale di queste vie alternative finirà per prevalere, è cosa che dipen­ de da ognuno di noi.

[Sorokin, La dinamica sociale e culturale, cit., pp. 1022-9]

8

Talcott Parsons e la nuova società inclusiva

Nel 1902, in una cittadina di provincia del Midwest, Colorado Springs, nasce Tal­ cote Parsons, il primo maestro americano della sociologia contemporanea, risposta e ideale continuazione d'oltreoceano della ben più matura sociologia europea. Te­ orico dello strutturai-funzionalismo in sociologia, a partire dall'esperienza propria della società statunitense, caratterizzata da forte immigrazione ed elevata varietà di gruppi etnici, elabora approfondite analisi per la definizione di una teoria sociolo­ gica generale che abbia come fondamento l'idea di coesione sociale, stabilità e, so­ prattutto, integrazione. Dopo i suoi primi studi di biologia e medicina orienta le sue energie intellettua­ li verso l'approfondimento delle conoscenze nelle scienze sociali e l'economia, stu­ diando alla London School of Economics. Qui subì la prima importante influenza che segnò la sua elaborazione scientifica: gli insegnamenti di antropologia culturale di Bronislaw Malinowski e, in seguito, del suo collega Alfred Radcliffe-Brown. Dai due studiosi Parsons deriverà l'importanza dei concetti di analisi funzionale e quel­ lo di struttura sociale. Il primo evidenzia come ogni fenomeno sociale adempia una funzione vitale, in ogni civiltà e cultura', il secondo collega questa funzione al siste­ ma sociale a motivo della sua stabilità1• Supportato da una borsa di studio si trasferisce in Germania, a Heidelberg, e in questa città approfondisce i contenuti proposti dal pensiero di Max Weber nel quale è possibile rintracciare un'altra influenza determinante per la prosecuzione dei suoi studP. Rientrato negli Stati Uniti, ebbe il merito di trasferirvi il dibattito sociologico europeo\ Divenne professore a Harvard dove ebbe modo di collaborare con Pi­ tirim Sorokin e qui rimase per tutta la sua vita professionale divenendo nel 1946 1. Cfr. B. Malinowski,

Teoria scientifica della cultura e altri saggi, Feltrinelli, Milano

1962., p. 75· 2.. Cfr. A. R. Radcliffe-Brown, Struttura e funzione nella societa primitive, Jaca Book, Milano, 1968 p. 181. 3· Max Weber aveva insegnato a Heidelberg molti anni. La dissertazione di dottorato, Il concetto di capitalismo nella recente letteratura tedesca, permise a Parsons di approfondire le teorie del grande sociologo tedesco oltre che quelle di Marx e Sombart. 4· In particolare studiò le opere Weber, Durkheim e Pareto dalle quali venne influenza­ to e che, non a caso, mette a confronto nella sua prima opera, La struttura dell'azione sociale.

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direttore del Dipartimento interdisciplinare di Relazioni sociali. A testimonianza del riconoscimento generale della "giovane" comunità accademica statunitense dei sociologi, va ricordato che Parsons è stato in quegli anni presidente dell'American Sociological Association. L'idea primaria di Parsons fu quella di enucleare una teoria generale sistema­ tica e funzionalista per l'interpretazione della società e dei fenomeni che la carat­ terizzano. Questo suo tentativo iniziò negli anni Trenta per arrivare ad una sua conclusio­ ne nei primi anni Cinquanta attraverso un lungo lavoro di riflessione dal quale sono scaturite tre importanti pubblicazioni. Nella prima di queste, La struttura dell'azione sociale, pubblicata nel 1937, inizia a delineare la sua teoria volontaristica dell'azione in cui, senza escludere condiziona­ menti materiali e strutturali, mette in rilievo le motivazioni soggettive dell'indivi­ duo e la sua libertà, evidenziando così i suoi debiti verso Freud, in relazione però, ad un forte riferimento valoriale e normativa espresso dalla società. Definendo l'unità fondamentale di un fenomeno, chiamato atto elementare, come composto da quat­ tro elementi\ nell'ultimo si intravede una traccia che rimarrà basilare per i futuri sviluppi delle sue teorie. Da ciò si può già ben comprendere quanto sia determinan­ te in Parsons la questione dell'ordine sociale e della stabilità per lui resa possibile solo grazie a riferimenti simbolici, culturali e normativi che orientano l'agire per­ mettendo l'integrazione ed il controllo delle tendenze individuali potenzialmente conflittuali. Nelle due opere successive, entrambe del 1951, lo studioso completa la sua si­ stemazione teorico-analitica6• Per scopi analitici, dato che nella realtà quello che propone non avviene, suddivide l'azione in tre possibili livelli o sistemi: il sistema della personalità, della cultura ed il sistema sociale. Il primo considera l'individuo in quanto insieme di elementi soggettivi e psichici, ed è studiato dalla psicologia. Il secondo lo vede come immerso in rappresentazioni, simboli, segni, valori e nor­ me che tendono ad orientarne il comportamento in ordine alla coesione sociale, s. Cfr. T. Parsons, La struttura dell'azione sociale, il Mulino, Bologna 1962 (ed. or. 1937), pp. 66-7: «In questo senso dunque un "atto" richiede necessariamente i seguenti elementi: 1. colui che compie l'atto,l'"attore" ; 2. l'atto deve avere, per definizione, un "fi­

ne", ovvero una situazione futura verso la quale è orientato il processo dell'azione; 3· esso ha inizio in una "situazione",le cui linee di sviluppo differiscono,in misura maggiore o mi­ nore, dalla situazione verso la quale è orientata l'azione, il fine. Questa situazione di par­ tenza è a sua volta analizzata in base a due elementi: quelli nei confronti dei quali l'attore non ha possibilità di controllo, che cioè egli non può modificare in relazione al suo fine, e quelli sopra i quali egli ha tale possibilità di controllo. I primi possono essere definiti le "condizioni" dell'azione, i secondi i mezzi; 4· è implicita nella concezione stessa di questa unità, nel suo uso analitico, una determinata forma di rapporto tra questi elementi. Cioè, nella scelta di mezzi alternativi per un dato fine, in quanto la situazione consenta delle al­ ternative, si ha un "orientamento normativo" dell'azione». 6. I testi in questione hanno come titolo Il sistema sociale e Vérso una teoria generale

dell'azione.

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ed è oggetto di studio dell'antropologia culturale. Il sistema sociale è appannag­ gio della sociologia e riguarda le interrelazioni fra individui, le strutture e le fun­ zioni che si sviluppano. Questa caratterizzazione ci mostra un sistema in cui diviene fondamentale, per la migliore evoluzione della società, l'interiorizzazione dei principi e dei valori cul­ turali in essa presenti. Il sistema così definito si regola e mantiene un equilibrio sia verso l'interno che verso l'esterno (ambiente ed altri sistemi esterni). Aggiungendo a queste due categorie interno-esterno quelle relative agli scopi e ai mezzi con i quali si raggiungono, Parsons definisce i quattro imperativi o prerequisitifunzionali a cui qualsiasi sistema deve adeguarsi per poter essere funzionale e funzionante, impera­ tivi che vanno a costituire il cosiddetto schema AGIC. Il primo è quello dell'adattamento, cioè i rapporti tra il sistema e l'ambiente, so­ prattutto per controllarne le condizioni e per reperirne le risorse. Queste funzioni sono svolte in genere dalle istituzioni economiche. Il secondo imperativo si riferisce al conseguimento degli scopi tramite la loro selezione e l'assegnazione di priorità per l'ordine sociale indirizzando verso questi il sistema. È una funzione garantita prin­ cipalmente dalle istituzioni politiche. Il terzo imperativo riguarda il mantenimento

delle strutture latenti che assicura la stabilità del sistema attraverso l'interiorizzazio­ ne di norme, valori, modelli di comportamento e ruoli che orientano l'azione nel modo più congeniale per il sistema. La definizione di strutture latenti è relativa al fatto che sono compresi anche tutti i meccanismi di socializzazione di quanto so­ pra menzionato, aspetti che agiscono quindi anche con una certa inconsapevolezza del soggetto agente. Di questa funzione si occupano le istituzioni culturali. L'ulti­ mo imperativo è quello dell'integrazione, che permette l'armonizzazione di tutte le componenti anche controllando e sanzionando eventualmente i trasgressori. Qui entrano in gioco le istituzioni giuridiche, penali e i meccanismi di controllo sociale.

È opportuno sottolineare come ognuna di queste tipologie di istituzioni possano essere considerate e analizzate in modo autonomo, come singoli sottosistemi. Altri importanti concetti definiti da Parsons sono quelli di status e ruolo. En­ trambi sono inerenti al modo in cui nel vasto campo sociale ogni individuo, cioè l'attore sociale parsonsiano, inserito in un sistema di relazioni reciproche con altri, si rapporterà a questi. Lo status riguarda ciascuna posizione sociale occupata ali' in­ terno del sistema (padre, lavoratore, studente, cittadino ecc.) mentre il ruolo è il comportamento o modello di comportamento relativo a quello status. Tutto ciò, in particolare le aspettative comportamentali rispetto ai ruoli di ciascuno, permette e garantisce l'ordine sociale e un conseguente migliore sviluppo della società. Divie­ ne quindi fondamentale nel suo paradigma l'aspetto normativo-valoriale costruito, condiviso, socializzato e istituzionalizzato senza il quale la società ricade in una di­ sastrosa situazione anomica. 7· L'acronimo si riferisce alla terminologia inglese con la quale è stato elaborato lo sche­ ma (adaptation,goals attainment,latent patterns maintenance o latency,integration ) .

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Proprio queste determinazioni hanno costituito uno dei punti critici della sua analisi teorica: Parsons è stato accusato di essersi occupato principalmente dei pre­ supposti di stabilità ed equilibrio trascurando da un lato gli aspetti del conflitto e della tensione, dall'altro il suo iniziale assunto sull'importanza della motivazione soggettiva che viene così a perdere di valore. Anche se i lavori più conosciuti di Parsons hanno riguardato la possibilità di sostanziare teoricamente un sistema generale della struttura e dei processi dell'a­ zione sociale8, di forte interesse e rilievo è stata anche la sua produzione saggistica poi raccolta in pregevoli testi. In questi l'autore si è cimentato con successo in ri­ flessioni sull'educazione e la scuola, la professione medica, le forme di aggressio­ ne sociale, la dittatura, l'antisemitismo, i conflitti razziali ed etnici, la religione, il potere politico, dando ampia dimostrazione di capacità analitiche non comuni alle quali abbinava una spiccata propensione ad ipotizzare l'andamento del feno­ meno indagato. I testi proposti in questa antologia offrono un saggio della capacità di Parsons di proporre anticipazioni ben calibrate sulla direzione che avrebbero poi preso nel tempo alcuni di questi temi affrontati nei suoi saggi. Il primo si riferisce alla problematica razziale dei neri americani, che l'autore estende ad una più generale identità nera "globalizzata". Partendo dal dato non meramente fisico del colore della pelle ma da quello reale, cioè il dato simbolico della supposta inferiorità in quanto prima schiavi e poi schiacciati al fondo della società, delinea la possibilità di un processo di inclusione per questa parte nume­ ricamente considerevole di popolazione. Già in precedenza gli Stati Uniti erano riusciti a procedere positivamente con l'inclusione di ebrei e cattolici in un con­ testo a maggioranza protestante per cui non sarebbe mancata la necessaria spinta interna in quella direzione prodotta da tutte le forze sociali progressiste e plura­ liste9. A suo parere una più attiva azione contro l'esclusione da parte della stessa comunità nera poteva arrivare a far assurgere il movimento già sviluppatosi come "guida" di tutte le minoranze sfruttate del mondo oltre che portare ad «uno dei più grandi risultati della società americana». Pur non disponendo di certezze as­ solute, in altra parte del saggio sottolinea come i tempi erano ormai maturi per un progresso sostanziale, indicando la piena autonoma partecipazione dei neri alla vita sociale escludendo come ipotesi sia quella del separatismo che quella dell'as­ similazione. Nel testo peraltro traspaiono in modo chiaro le " buone speranze" dello studioso per una positiva seppur non breve conclusione del processo, riba­ dite successivamente anche in altri saggi'0• Nonostante l'integrazione non sia per8. Lo stesso autore nella dedica alla sua opera Il sistema sociale si definisce «un ingua­

ribile teorico». 9· Numerose in quegli anni leggi e sentenze giudiziarie che allargavano il campo della

cittadinanza per i neri soprattutto estendendo la fascia dei diritti cosiddetti "sociali" cioè ri­ feriti alla sanità, educazione, welfare, come schematizzati da T. H. Marshall. 10. T. Parsons, Comunita societaria e pluralismo. Le difforenze etniche e religiose nel comples­ so della cittadinanza, a cura di G. Scionino, FrancoAngeli, Milano 1994, p. 177-

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fetta e permangano sacche di discriminazione e forti tensioni riscontrabili ancora in questi ultimi anni, l'elezione di Obama a presidente dell'Unione e tanti altri elementi dimostrano con chiara evidenza che sarebbe quanto meno ingeneroso non sottolineare la pertinenza di quanto anticipato diversi decenni fa da Parsons nei suoi scritti. Il secondo testo selezionato riguarda l'antisemitismo e fu elaborato fra il 1939 e il 1942, mentre il nazismo raggiungeva in Europa i suoi massimi risultati in ter­ mini di espansione. Lo scritto connette la responsabilità della questione prima­ riamente a una forma di disorganizzazione sociale e all'insicurezza che ne con­ segue, e non alla dimensione razziale o religiosa. Nell'esaminare le differenze tra Germania e Stati Uniti e i fattori principali che hanno portato alla diffusione del fenomeno nel paese europeo, l'autore non esprime certezze assolute ma enuncia ipotesi di previsione fortemente orientate, quasi delle sicurezze espresse in punta di piedi. In più parti si dice convinto e sottolinea l'"improbabilità" che l'antise­ mitismo, ed il nazionalismo che ne fa da sfondo, possa raggiungere un qualche livello di rischio negli Stati Uniti così come gli sembrava estremamente difficile pensare che nel suo paese potesse nascere e crescere un partito politico che propo­ nesse disvalori così accentuati. La sua personale lettura, se vogliamo anche fredda e distaccata rispetto a ciò che stava accadendo in Europa, lo portava a vedere una possibile soluzione nei processi di riduzione di qualsiasi forma di discriminazio­ ne, in termini quindi più generali e ampi della semplice repressione dell'antise­ mitismo già molto radicato. Esattamente come nel testo già discusso qui ritorna la grande capacità di saper leggere i "futuri possibili" con particolare acutezza. Stessa pregnante caratteristica può rinvenirsi nell'ultimo brano scelto in que­ sta selezione. Questo è tratto da Il sistema sociale, pubblicato nel 1951. Il testo, po­ sto fra gli esempi specifici di processi di mutamento sociale, è il paragrafo finale di un capitolo che tratta teoricamente delle trasformazioni nella struttura di un si­ stema sociale, dei processi relativi e delle eventuali motivazioni e direzioni di que­ sti. Lo scritto verte sulla situazione dell'Unione Sovietica esaminando l'esito della rivoluzione comunista. A partire dal dato teorico, sviluppato sia dal punto di vista psicologico che politico, si ricollega all'attualità russa tracciando un quadro che evidenzia i mutamenti già avvenuti nell'ideologia comunista e nel paese. Secondo il sociologo statunitense, le tensioni e le concessioni sia ideologiche sia concrete in atto avrebbero portato più o meno rapidamente a notevoli mutamenti dell'ordine delle cose, tanto da far dire allo studioso che, nel lungo periodo, la prospettiva era «senza dubbio oscura», a partire dali'eventuale successione del leader, il dittatore georgiano Stalin. Poco oltre, con la forza di chi è in possesso di una convinzione granitica, sosterrà la tesi che il comunismo non si sarebbe mai realizzato, definen­ done con esattezza anche i tempi del suo declino. Considerando il momento in cui l'autore scrive, in piena guerra fredda e con i regimi comunisti saldamente a cavallo non solo nell'Europa dell'Est, il testo rappresenta un ulteriore esempio di acume prospettico come dimostrato dal rovinoso crollo giunto nell'autunno del 1989 al culmine di una lunga e drammatica crisi.

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Piena cittadinanza per i neri americani? Un problema sociologico IL MOVIMENTO NERO E IL PROBLEMA DELL'IDENTITÀ NERA

Una caratteristica saliente dell'attuale fase di cambiamento di status dei neri è stata l'emergere di un forte movimento che ha avuto un appoggio ampio e

significativo tra i bianchi, ma che ha messo radici nella stessa comunità nera più profonde rispetto a periodi precedenti. L'emergere del movimento è fun­ zione di diversi fattori, quali i cambiamenti sociali generali delineati sopra, lo stimolo derivante dalla creazione di nuovi stati africani, il rafforzamento delle classi medie nere, con i loro livelli di istruzione più elevati, e la concen­ trazione dei neri nelle città, soprattutto nel Nord. Questo saggio non può compiere un'analisi più dettagliata di tutti questi aspetti. Vorrei invece mo­ strare alcune implicazioni di tali sviluppi, soprattutto rispetto alle opportu­ nità che essi presentano.

È stato notato in molti saggi che il gruppo nero ha avuto generalmen­ te una solidarietà minore e un'organizzazione più debole degli altri gruppi etnici che lo hanno preceduto nell'ottenimento dell'inclusione. La crescita del movimento attuale sembra essere sia un sintomo, sia una causa, di un no­ tevole rafforzamento di tale solidarietà, che inizia a creare una coscienza di gruppo più chiaramente definita e un senso di potere ed opportunità. Ciò offre una occasione nuova per spostare la definizione dello status di nero dal suo significato prevalentemente negativo di gruppo oppresso, tipicamente escluso ed esposto a molteplici svantaggi. Il problema è sviluppare una ba­ se per una concezione più positiva dell'identità di gruppo, sia nella società americana sia in quella mondiale. Vorrei argomentare che esiste una non co­ mune opportunità connessa alla natura del movimento e alla sua situazione, la cui importanza non è tuttavia ancora interamente apprezzata. Un punto di riferimento molto importante è che la fonte principale del torto subito dai neri, l'esclusione sulla base di una asserita inferiorità intrin­

seca, è l'ingiustizia più radicale subita da qualsiasi gruppo non Wasp", con eccezione forse dello spossessamento subito dagli indiani americani. Ciò solleva una questione chiaramente e più drasticamente morale rispetto agli altri casi, che si lega allo status di schiavi degli antenati dei neri e all' ingiu­ stizia dell'uso del simbolo "triviale" del colore come motivo principale di 11. WASP è l'acronimo della locuzione white anglo-saxon protestant con il quale si indi­ cano i cittadini statunitensi discendenti dai primi colonizzatori inglesi considerati i rappre­ sentanti della cultura egemone e del potere reale nell'Unione [N.d.A.].

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esclusione. Considerati gli elementi universalistici ed egualitari delle nostre tradizioni nazionali, sia religiose che costituzionali, è difficile trovare una questione che sia moralmente più evidente.

È stato possibile mantenere tale questione relativamente isolata per un

lungo periodo, ma i recenti cambiamenti sociali, così come lo stesso movi­ mento, hanno reso ciò progressivamente più problematico. Ora, in un perio­ do di crescente benessere economico e, si può dire, di ambivalenza sia riguar­ do a questo, sia alla confusione sul ruolo americano negli affari mondiali, si presenta alla nazione la possibilità di definire una chiara e semplice questio­ ne di coscienza. In complesso, le ripercussioni della questione su molti grup­ pi diversi sono state ampie ed impressionanti, nonostante la tenacia della resistenza appena esaminata. Forse la questione diviene anche più urgente proprio a causa del progresso fatto nella risoluzione degli altri problemi di inclusione che abbiamo discusso, poiché ciò lascia i neri in una posizione di ancora più evidente esclusione. Sembra particolarmente significativo che il coinvolgimento dei bianchi si sia manifestato soprattutto da due parti, le chiese, in particolare il clero, e gli studenti. La mia categorizzazione del problema dell'inclusione con gli esempi re­ lativi ad ebrei e cattolici, piuttosto relativi alle corrispondenti categorie et­ niche, è il risultato di una deliberata scelta teorica e non di semplice conve­ nienza. Sono stato a lungo convinto del fatto che il retroterra religioso di questi problemi sia stato - e rimanga - fondamentale e che sia le difficoltà sia le opportunità di successo dell'inclusione siano strettamente legate alla religione. Si potrebbe sostenere che per l'inclusione dei nuovi immigranti il problema era centrato su quegli elementi della comunità protestante relati­ vamente "liberai" che erano, in un modo o nell'altro, impliciti nella tenace rivendicazione Wasp di uno status aristocratico. Ho notato come il processo di cambiamento sociale in questo secolo sia andato crescentemente verso la polarizzazione della società lungo un asse che include non solo il conservatorismo politico, che si manifesta nella re­ sistenza al cambiamento, ma anche, strettamente collegato a questo, quello che definiamo "fondamentalismo" religioso. Nel Sud, il legame tra il segre­ gazionismo militante e il fondamentalismo è stato piuttosto chiaro, e ho so­ stenuto che una più ampia connessione era del tutto evidente nella campa­ gna elettorale di Goldwater. In termini generali, esistono anche importanti relazioni tra il fondamen­ talismo religioso e lo status di classe inferiore nelle società industriali, le ori­ gini sociali legate ad assetti sociali più "primitivi" e "sottosviluppati': soprat­

tutto di tipo contadino e un certo conservatorismo generale (o, come dice

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Lipset, "autoritarismo"). Invero si può dire che la forma prevalente di catto­ licesimo tra le masse urbane di nuovi immigrati fosse una forma di fonda­ mentalismo e che la liberalizzazione del cattolicesimo americano nell'ultima generazione sia in parte funzione della mobilità ascendente e dell'inclusio­ ne di queste masse. In un certo grado, anche l'ortodossia di un gran numero di ebrei immigrati dall'Europa dell'Est era una forma di fondamentalismo. La maggioranza degli americani neri è stata, ed è, sotto il profilo reli­ gioso, fondamentalista. Ma questo fatto non ha conseguenze lineari. Senza dubbio, nella loro condizione segregata e separata nel Sud rurale, il fonda­ mentalismo aiutò i neri a trovare le ragioni per accettare il proprio destino; allo stesso modo hanno operato le corrispondenti caratteristiche nel fonda­ mentalismo cattolico ed ebraico, in condizioni rurali o di ghetto nei "vecchi paesi" e nelle prime difficoltose fasi di coinvolgimento nella società america­ na degli immigrati di prima o seconda generazione. Allo stesso tempo, vi è una ben stabilita tradizione giudaico-cristiana di motivazione religiosa a preservare l'integrità, ad asserire l'autonomia ed in­ fine a ricercare la giustizia attraverso un cambiamento nella struttura della situazione. Qui, quello che chiamo l'orientamento più fondamentalista ha assunto, ripetutamente nel corso della storia, un ruolo di leadership morale, favorito in parte da una spirituale mancanza di interesse per la complessità dei processi nelle società altamente differenziate. I fondamentalisti in questo senso - comprese quelle "religioni secolari" come il comunismo - propen­ dono per l'azione diretta e tendono a vedere i problemi in termini unicamen­ te morali; molto spesso, un'analisi di lungo periodo ne rivela i meriti.

Tuttavia, il fondamentalismo nero, come quello delle precedenti masse di immigrati, ha finito per essere mobilitato sul fronte della differenziazio­ ne e dell'inclusione, non della segregazione e dell'esclusione. Lo sviluppo del movimento ha fortemente attivato i sentimenti morali degli altri gruppi, compresi gruppi molto significativi di non protestanti. Questo processo ha quasi direttamente diviso l'elemento fondamentalista nella religione ame­ ricana, con tutte le sue importanti relazioni indirette con la politica e con altri contesti. La base morale dell'opposizione al cambiamento nel vecchio o più semplice ordine - così fortemente esaltato dai conservatori del nostro recente passato - è pertanto gravemente minata. Tra questi schieramenti si è sviluppato, significativamente, un dialogo intenso e a volte molto profondo sul tema della giustificazione morale. Questo porta il processo di ristruttura­ zione del sistema sociale al più alto livello normativa, livello già pienamente strutturato, specificamente in termini di pluralismo religioso e sociale. Esso solleva, in una forma difficilmente evadibile, il problema della base morale della Free Society di tipo americano.

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Vorrei sottolineare la sottile combinazione di somiglianze e differenze tra i processi di inclusione dei gruppi di nuova immigrazione e i neri. Tutti e tre sono stati in qualche senso "stranieri". Sono inoltre tutti arrivati con mo­ delli socio-culturali relativamente "arretrati" secondo gli standard principali della nuova società- per chiarire, tutti, tranne gli ebrei, sono stati "conta­ dini': e questi sono stati borghesi di piccole città. Tutti i tre gruppi aveva­ no orientamenti religioso-culturali che possono essere definiti "fondamen­ talisti". Comunque, tutti tre si sono ritrovati, dal punto di vista ambientale, immersi in una serie convergente di influenze interattive, come nel caso dei nuovi arrivati di classe inferiore nelle più grandi comunità urbane. I tre gruppi non solo sono distinti l'uno dall'altro, ma costituiscono an­ che una serie. Gli ebrei, il che sotto certi profili è curioso, sono stati il grup­ po incluso più facilmente. Lo stesso non accadde in Germania, con la sua struttura sociale molto più gerarchica. Ma nella "individualista" America, il problema principale fu quello di definire la legittimità- e l'opportunità­ del pluralismo culturale senza pregiudicare le altre basi, più strumentali, del­ la partecipazione. I cattolici hanno dovuto superare la ipersensibilità degli americani per le collettività organizzate con forti legami interni, che poteva­ no essere accusate di "cospirazione". In questa successione i neri si pongono alla "fine della linea". La loro base di esclusione è la più seria (anche se per certi aspetti la più plausibile), vale a dire, la loro intrinseca inferiorità. La soluzione relativamente soddisfacenteanche se noi non riusciremo a vederla nella sua completezza- del problema dell'inclusione dei neri sarà certamente uno dei più grandi risultati della socie­ tà americana. Inoltre la storia del movimento, almeno sino ad ora, ha chiarito che una gran parte del credito dovrà andare alla stessa comunità nera; sarà un

loro successo, certamente nel senso di un diretto orientamento all'obiettivo in misura molto maggiore rispetto ai gruppi che hanno già ottenuto l'inclusione. Mi sembra che questo punto sia di cruciale importanza per il futuro del­ la identità collettiva dei neri. La comunità nera ha la possibilità di definirsi come la punta di lancia di uno dei principali progressi qualitativi della socie­ tà americana in tutta la sua storia- e di fare ciò non solo in vista del proprio ovvio interesse, ma per il soddisfacimento di un imperativo morale. È un cambiamento nella società americana profondamente coerente con le nostre tradizioni morali, ma anche tale da non poter essere realizzato senza eserci­ tare pressioni forti e sistematiche e una forte leadership. Le resistenze sono più che sufficienti a spiegare queste necessità. Questo ruolo del movimento nero e della comunità che lo sostiene ha un significato che trascende la scena interna americana. Il mondo intero è ora divenuto più o meno polarizzato tra nazioni sviluppate e sottosviluppate.

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Questa polarizzazione coincide largamente con la liberazione di grandi aree del mondo dalla condizione coloniale, un processo che è avanzato mol­ to rapidamente in questi ultimi anni, e con la loro emancipazione da uno status di inferiorità in termini sia di dipendenza politica sia di sviluppo eco­ nomico e culturale. Non meno importante, questa distinzione è strettamen­ te connessa con la distinzione secondo il colore - le nuove nazioni asiatiche ed africane sono prevalentemente non bianche.

È stato sottolineato prima che la tradizione della Rivoluzione america­ na ha preparato questo paese ad una posizione di leadership nel movimento per l'uguaglianza delle nuove nazioni extraeuropee. I processi interni di in­ clusione degli ebrei e dei cattolici hanno rafforzato la posizione americana sotto tale aspetto - le vantate promesse di un trattamento eguale non sono state del tutto prive di valore. La possibilità per i neri è, quindi, quella di simbolizzare il completa­ mento di questo processo interno (e di fare una promessa simbolica di so­ luzione di questi problemi mondiali), quale vasto gruppo di colore che ha trovato il proprio posto giusto nella società americana e lo ha fatto in gran parte con i propri sforzi. Si è sopra osservato che nei primi anni di questo secolo ci fu una tenden­ za a definire le divisioni di classe negli Stati Uniti come più o meno equiva­ lenti a divisioni etniche, con i nuovi immigrati componenti il nucleo della "classe operaia". È probabilmente vero che l'influenza notevole dei nuovi im­ migrati abbia contribuito in modo sostanziale a prevenire la cristallizzazio­ ne della divisione di classe nella vecchia comunità secondo le linee europee, considerate dai marxisti come tipiche delle società "capitaliste': In ogni caso, la società americana si è certamente evoluta in direzione opposta a questo modello marxiano: uno degli aspetti più importanti di tale sviluppo è costi­ tuito dalla inclusione dei primi gruppi di immigrati. Per quanto i neri siano stati discriminati, essi sono stati un gruppo troppo piccolo per costituire un vero e proprio "proletariato" - invero, all'interno del gruppo stesso, vi è stata una resistenza molto forte a questa definizione del proprio ruolo, nonostan­ te l'intensa propaganda da parte comunista. L'intera tendenza dello sviluppo della società americana rappresenta la sfida più profonda alla diagnosi comunista del mondo moderno, e anche l'Europa occidentale si va muovendo per molti aspetti sempre più nella di­ rezione americana. Queste tendenze non possono essere spiegate sulla base delle premesse marxiste. Lo status dei neri è stato moralmente la caratte­ ristica più debole della società americana. Se, e sembra che ci siano buone speranze, questo problema può essere affrontato con efficacia, può avere un effetto più ampio sulla situazione mondiale generale.

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Ciò perché la tendenza comunista è stata quella di ridefinire la "lotta di classe" come una lotta non tra classi all'interno della stessa società, ma tra società sfruttatrici e sfruttate, secondo la famosa teoria dell'"imperialismo': Come la riuscita inclusione dei neri porrà un sigillo sull'errore marxiano nell'analisi della società americana, così gli Stati Uniti, con una forte parte­ cipazione- o meglio con la guida- dei neri, hanno la possibilità di presen­ tare una vera alternativa al modello comunista su scala mondiale, non ne­ cessariamente legato allo stereotipo del "capitalismo': A causa dell'enorme importanza del ruolo della razza e del colore nella situazione mondiale, la posizione strategica dei neri americani è cruciale. Questa subcomunità della nostra società pluralistica ha l'opportunità di essere il principale portavoce simbolico della possibilità di raggiungere una società mondiale pluralistica sotto il profilo razziale, religioso, nazionale, nella quale una certa integrazio­ ne tra gruppi razziali possa essere sviluppata senza una perdita di identità, e in termini compatibili con l'innalzamento di coloro che erano in posizione di inferiorità rispetto allo status di uguaglianza fondamentale nella cittadi­ nanza mondiale. Circa all'inizio di questo saggio avevo sottolineato la distinzione tra inclusione e assimilazione. Il fine di quest'ultima parte dell'analisi è quello di suggerire che identificare la non-discriminazione (cioè l'inclusione) in modo troppo forte con la completa "cecità di fronte al colore" può portare all'eliminazione di un bene molto prezioso non solo per i neri ma per l'in­ tera società americana. Il mio punto di vista è che la linea più alta di svi­ luppo non sia la preservazione, ma l'effettiva costruzione della solidarietà della comunità nera e del sentimento che l'essere nero ha un valore posi­ tivo. In questo processo c'è il pericolo di coltivare il separatismo, come vi­ stosamente esemplificato dai musulmani neri. Ma la soluzione pluralistica, come è stato messo in rilievo in questa saggio, non è né quella del separa­ tismo- con o senza eguaglianza- né quella dell'assimilazione, ma quella della piena partecipazione, combinata con il mantenimento dell'identità. Gli ebrei e i cattolici americani sono stati in grado, complessivamente, di raggiungere questo risultato. Chiaramente, a processo di inclusione avvenuto, le relazioni tra neri non dovrebbero più essere obbligatorie. Ogni individuo nero dovrebbe essere li­ bero di associarsi con un non nero in ogni modo legale che ritenga opportu­ no e, se lo desidera, di abbandonare completamente la sua identità di nero, nel senso di appartenere ad una comunità nera. Ma ciò non significa che l'identità nera dovrebbe sparire o che sparirà. La mia previsione è che con­ tinueranno a prevalere i matrimoni tra neri. Non vedo alcuna ragione per la quale alcune confessioni religiose non debbano essere identificate come

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"chiese nere': o che, nella misura in cui la residenza non è un fatto obbligato, molti quartieri continuino ad essere prevalentemente neri, così come molti oggi sono ebrei. Una volta che l'essere nero abbia perso lo stigma di inferiorità, ritengo che sia probabile che queste questioni cesseranno di essere rilevanti. Do­ potutto, il colore è un simbolo e, se il contesto del suo significato storico è sufficientemente cambiato, la prospettiva è che cesserà di essere la base di uno stigma.

[T. Parsons, Comunità societaria e pluralismo. Le differenze etiche e religiose nel complesso della cittadinanza, a cura di G. Sciortino, FrancoAngeli, Milano 1994, pp. 154-60. Il saggio Full Citizenship for the Negro American? fu pubblicato per la prima volta nella rivista statunitense "Daedalus� 94, 4, 1965].

La sociologia dell'antisemitismo moderno PROGNOSI E POLITICA

Nell'analisi fin qui svolta si sono affrontati solo gli aspetti più generali del fenomeno dell'antisemitismo, tralasciando numerose problematiche ad esso correlate. La riflessione, inoltre, si è limitata al livello teorico piuttosto che a quello concreto. Nel tracciare le conclusioni e, in particolare, nel tentare una prognosi e suggerire una linea da intraprendere, bisogna dunque usare estrema attenzione. Di fronte alla forma violenta assunta dall'antisemitismo in molti paesi europei, specialmente in Germania, la domanda che di questi tempi viene sollevata più frequentemente è se l'antisemitismo potrà diffondersi e rag­ giungere negli Stati Uniti le punte estremistiche toccate in altri paesi. Come già asserito, è difficile fare previsioni certe ma, considerando alcune diffe­ renze radicali nella configurazione politica e nazionale e nella specifica con­ giuntura che caratterizza Stati Uniti e Germania, non è azzardato afferma­ re che un movimento antisemita probabilmente non raggiungerà mai negli Stati Uniti le dimensioni che ha assunto in Germania. Sarebbe molto difficile sostenere che esistono delle differenze rilevanti tra l'antisemitismo statunitense e quello tedesco; sarebbe parimenti arduo misurare il grado in cui esso, come forza latente o potenziale, varia nei due paesi. È chiaro, tuttavia, che le cause responsabili della disorganizzazione

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sociale, con il loro richiamo di sentimenti antisemiti, sono totalmente di­ verse nei due contesti.

È indubbio che gli Stati Uniti abbiano registrato un notevole livello di disorganizzazione dovuta agli effetti di una rapida industrializzazione e ur­ banizzazione e alla presenza di diversi gruppi di immigrati. La Germania, al confronto esente da questi ultimi, ha subito maggiormente le conseguenze negative della rapida industrializzazione e urbanizzazione; tuttavia il pun­ to più importante, anzi il vero nodo del problema tedesco, è stato l'effetto disgregante che ha avuto sul paese la sconfitta bellica, con tutte le difficoltà del dopoguerra: nella sua ondata, essa ha provocato il crollo dell'economia nazionale e, insieme, umiliazione e insicurezza, fattori completamente as­ senti nel caso degli Stati Uniti. Inoltre, con la caduta della monarchia e della vecchia aristocrazia, sono andati persi molti dei più importanti simboli di integrazione, così che la nazione si è trovata abbandonata in una situazione di forte insicurezza psicologica e strutturale. Due fattori in particolare sono responsabili della diffusione dell' antise­ mitismo in Germania: uno è costituito dalla forma esacerbata di nazionali­ smo del popolo tedesco; l'altro dal movimento nazista. In Germania l' antise­ mitismo è legato a una forma di nazionalismo particolarmente intenso, che ha in sé tutti i caratteri della proiezione dell'aggressività diffusa sui "nemici" della Germania. Indiscutibilmente, il regime postbellico ha gravemente tra­ scurato la necessità di convogliare i sentimenti alla base di questo naziona­ lismo entro canali stabilizzanti, permettendo al partito nazista che saliva al potere di mobilitarli facilmente al servizio dei propri fini. Lo scopo dei nazisti era quello di screditare la forma esistente di governo e, poiché gli ebrei avevano un ruolo preminente in esso e nella élite sociale di recente acquisizione, divennero il capro espiatorio più appropriato. Il secon­ do fattore, già indicato, era il movimento nazista stesso. Non è possibile in questa sede entrare nel merito di tutti i fattori responsabili dell'ascesa e dello sviluppo di questo movimento, ma essi costituiscono indubbiamente una combinazione non comune. Almeno tre elementi diversi ne erano coinvol­ ti: I. un'efficace propaganda;

2.

una combinazione di nazionalismo, "sociali­

smo" e antisemitismo e 3· una organizzazione straordinariamente efficiente. Fatta questa premessa, sembra estremamente improbabile che il nazio­ nalismo possa toccare picchi di intensità così alti negli Stati Uniti, o che si possa comunque cadere, per lo meno nel prossimo futuro, in uno stato di in­ sicurezza nazionale paragonabile a quello della Germania; è parimenti dub­ bio che un appello all'estremo nazionalismo possa riscuotere tanto successo. Inoltre, il nostro tipo di governo liberal-democratico, che troverebbe in sé delle difficoltà nell'appoggiare un movimento antisemita su vasta scala, non

216

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

è gravato dall'umiliazione della sconfitta, come lo era la Repubblica tedesca.

È perciò improbabile che un movimento con un richiamo propagandistico simile a quello della Germania possa raggiungere tali proporzioni al di qua dell'oceano; per lo meno, rispetto alla Germania, la forma di governo statu­ nitense dovrebbe essere in grado di opporre maggiore resistenza a un movi­ mento di questo tipo. Si può dunque azzardare, per gli Stati Uniti, l'ipotesi dell'improbabilità di un movimento antisemita di proporzioni paragonabili a quelle della Germania nazionalsocialista o, se ciò accadesse, di un suo con­ trollo assoluto del governo, almeno nel prossimo futuro. E ciò, nonostante il fatto che in questo paese sia presente la maggioranza degli elementi che era­ no alla base del nazionalsocialismo. La posizione che verrà qui di seguito espressa va considerata solo come opinione personale, senza voler reclamare alcuna autorità scientifica a suo sostegno. L'autore considera l'antisemitismo del tipo qui esaminato come un fenomeno pernicioso e indesiderabile che dovrebbe essere ridotto al mini­ mo, nutre un solido senso morale a riguardo dell'importanza e auspicabilità di modelli universalistici di eguaglianza delle opportunità, tanto importanti nel moderno sistema occupazionale; tuttavia, questo non significa che tali sentimenti siano eticamente assoluti, nel senso che nessuna deviazione da essi viene giustificata. Ciò sarebbe, naturalmente, incompatibile con i costu­ mi che sono alla base della nostra struttura familiare e con i valori che fanno grappolo attorno a essa. In altre parole, di fronte a opportunità diseguali, la gente tenderà a prendere meno seriamente l'ideale di equità e a preoccupar­ si anzitutto di migliorare la propria sorte e quella dei suoi familiari; pratica, questa, che implica discriminazione, naturalmente. In termini generali, dunque, la discriminazione contro gli ebrei, special­ mente nelle sfere in cui sono applicabili più chiaramente dei criteri univer­ salistici, deve essere considerata deplorevole e l'onere della prova che essa sia giustificabile va posto appunto in termini di giustificazione, non di attacco. Il grado di discriminazione attualmente esistente è troppo elevato per poter essere compatibile con gli ideali personali dell'autore; l'obiettivo, allora, do­ vrebbe essere chiaro: riduzione della maggioranza delle forme attuali di di­ scriminazione e completa eliminazione di buona parte di esse. Una volta accettata questa premessa, sorge la questione del miglior mez­ zo per raggiungere l'obiettivo, precisando che si tratta di un problema scien­ tifico, non etico. Naturalmente, è possibile affrontare questioni di politica in uno spirito non razionale, che ignori completamente le probabili conse­ guenze dei propri atti: coloro che impostano il problema in questo modo sono di solito preoccupati solo di "fare la cosa giusta". Tale posizione, ove sostenuta onestamente, può meritare solo del rispetto. L'approccio raziona-

8. TALCOTT PARSONS E LA NUOVA SOCIETÀ INCLUSIVA

2.17

le, tuttavia, richiede che si soppesino i possibili benefici contro le probabili conseguenze indesiderabili di un certo corso dell'azione; e questa è la posi­ zione che qui viene assunta. Per alcuni un fenomeno indesiderabile come l'antisemitismo è semplice­ mente l'espressione di individui malvagi. Per costoro la questione della cor­ retta condotta politica da intraprendere è semplice: impedire alle persone "cattive" di agire nel loro modo consueto e punirle se persistono in quella direzione. Sarebbe banale sostenere che le proibizioni, siano esse legali o me­ no, e la sanzione delle infrazioni sono sempre state inefficaci nel raggiungere i loro scopi; allo stesso tempo, però, esse hanno delle limitazioni importanti. A meno che l'analisi fin qui condotta non sia completamente slegata dai fat­

ti, l'antisemitismo è troppo profondamente radicato nella struttura sociale per essere trattato in modo così semplice. La questione delle misure positive, al di là delle situazioni particolari, è estremamente difficile da esaminare in via generale e non sarà affrontata in questa sede, ma un importante suggeri­ mento può essere avanzato.

È stato sostenuto che la fonte principale dell'antisemitismo virulento è probabilmente la proiezione sull'ebreo, in quanto simbolo, di aggressività fluttuante che scaturisce dall'insicurezza e dalla disorganizzazione sociale. Le ragioni per le quali l'ebreo costituirebbe a questo proposito un simbolo vulnerabile non sono banali, ma profondamente radicate sia nel carattere del popolo semita, sia in quello della più ampia società nella quale esso vive; non è affatto inevitabile, però, che ciò debba sfociare in un tipo di antise­ mitismo che metterebbe a repentaglio la posizione tenuta dagli ebrei nelle nostre comunità. L'antisemitismo dipende da una molteplicità di circostan­ ze che possono difficilmente essere eliminate, ma che possono essere tenu­ te sotto controllo in misura efficace, provocando così l'auspicata riduzione dell'antisemitismo; in altre parole, se non si può eliminare completamente l'antisemitismo, se non lo si può recidere alle radici, lo si può ridurre consi­ derevolmente. In generale, qualsiasi politica che tenda a fare degli ebrei degli elementi ben distinguibili sarebbe tendenzialmente un invito alla reazione antisemita, e questo vale soprattutto nel caso di quegli ebrei che sono allo stesso tempo simboli vulnerabili su vari fronti. Perciò, l'attacco indiscrimi­ nato a ogni forma di discriminazione esistente, cieco di fronte a tutto tranne che ali'efficacia immediata dei mezzi, non sarà in grado di realizzare l'effetti­ va eliminazione dell'antisemitismo ma, al contrario, intensificherà probabil­ mente quelle stesse reazioni che tenta di bloccare. La situazione può essere paragonata a quella di uno psichiatra che ha un paziente in cura: lo psichiatra non ricorre ad ammonimenti a "essere ra­ gionevole" né a misure coercitive, perché sa che non porteranno a nulla di

218

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

buono; ciò che gli preme è studiare il caso da ogni angolo, ciò che tenta è la comprensione delle origini del problema: solo allora potrà trovare una cura efficace per il suo paziente. Senza un attento studio del caso, tutti i tentati­ vi di cura rischiano di dimostrarsi non solo vani, ma persino pericolosi; allo stesso modo, l'antisemitismo può essere trattato in modo efficace solo attra­ verso una piena comprensione di tutti i problemi che vi sono coinvolti. In altre parole, una politica razionale mirata a combattere l'antisemitismo non può consistere nella soppressione e punizione delle sue espressioni, ma solo in un tentativo di controllo delle sue cause più profonde. La mera repressio­ ne indignata di una male è la cura dei sintomi, non della malattia.

[Parsons, Comunita societaria e pluralismo, cit., pp. 78-82. Il saggio The Sociology ofModern Antisemitism fu pubblicato per la prima vol­ ta nel testo ]ews in a Gentle World (1942), curato da L Graeber e S. Henderson Britt].

La trasformazione adattativa di un movimento rivoluzionario Essendo stato interrotto lo sviluppo della Germania nazista, prenderemo in esame il caso della Russia sovietica, dato che nei trentaquattro anni dalla Ri­ voluzione esso ha proceduto abbastanza avanti perché certi fenomeni potes­ sero emergere chiaramente. Il primo complesso di condizioni riguarda il fatto che, contenendo sempre un sistema di credenze rivoluzionario (o religioso) elementi uto­ pistici in misura considerevole, deve esserci in generale un processo di "concessione" allo sviluppo di "strutture di adattamento". Che cosa queste sa­ ranno esattamente, in quale ordine e attraverso quali processi si svilupperan­ no, varierà moltissimo in funzione del contenuto dell'ideologia e del grado in cui essa ha carattere utopico. Anche quando questo grado non è altissimo, per i capi è forte la tendenza - dato che il modello motivazionale dominan­ te di un movimento rivoluzionario è forzato - a orientarsi in base a "princi­ pi" e ad essere perciò riluttanti a fare concessioni "normali" alle esigenze di un sistema sociale operante, concessioni che sono sempre necessarie. Per un movimento religioso che non abbia ottenuto il predominio in una società nel suo complesso, e per un movimento rivoluzionario che non sia al potere, questo problema può naturalmente essere rinviato. Così, nel Cristianesimo primitivo era possibile per San Paolo consigliare semplicemente di «rima­ nere nello stato in cui si è chiamati», dato che i Cristiani in quanto tali non avevano nessun controllo sugli affari più ampi della società. Nel Medioevo

8. TALCOTT PARSONS E LA NUOVA SOCIETÀ INCLUSIVA

2.19

la Chiesa non poté però evitare la responsabilità di questi affari; le piacesse o meno, essa costituiva una "potenzà'. I punti in cui siamo più certi del verificarsi di questi processi di adatta­ mento sono costituiti dai principali raggruppamenti empirici della struttura sociale, che abbiamo discusso. Ci siamo preoccupati di non esagerare il grado di rigidità all'interno di queste sfere; ma rimane il fatto che probabilmente molti, se non tutti i mo­ vimenti radicali del mondo occidentale contengono un forte elemento uto­ pistico in relazione a qualcuna di queste sfere, a giudicare dei loro limiti in base alle prove disponibili. Non c'è dubbio che l'equivalente della conside­ razione marxistica della famiglia come "pregiudizio borghese" sia apparso molte volte. La stessa cosa vale per l'egualitarismo radicale che nega del tutto la legittimità di qualsiasi compenso differenziale, e spesso anche dell'istitu­ zionalizzazione della proprietà. Analogamente, l'organizzazione del sistema del potere- soprattutto in rapporto all'uso della forza- è stata spesso di­ chiarata radicalmente cattiva, e l'acquiescenza a qualsiasi specie di autorità sostenuta da sanzioni coercitive è stata dichiarata sostanzialmente inaccetta­ bile. Il problema del centro fondamentale di integrazione dei valori suscita particolari difficoltà che verranno ora ricordate. Esso implica ciò che accade all'ideologia stessa a lunga scadenza. Il secondo gruppo di condizioni è strettamente collegato al precedente, ma può esserne distinto. Esso riguarda le conseguenze del fatto che la compo­ sizione motivazionale di

un

movimento rivoluzionario è sempre, in notevole

grado, ambivalente nella sua struttura. Abbiamo visto che la partecipazione al movimento stesso permette un certo addolcimento di questo conflitto, in quanto ne divide le componenti. Questa è però soltanto una soluzione parzia­ le, ed è generalmente seguita da prove evidenti dell'azione dei meccanismi di difesa o di adattamento come per esempio nella distorsione conoscitiva forza­ ta della realtà dell'ordine istituzionalizzato contro cui il movimento è in rivol­ ta, di cui abbiamo discusso in precedenza. In questo senso, per i primi Cristia­ ni il "mondo" in quanto tale era radicalmente cattivo. Il predominio del movimento richiede dai partecipanti, che passano dalla fase dell"'opposizione" a quella del controllo, una riorganizzazione: il "sistema" non è più "di loro': ma è "nostro". Esso deve funzionare; e soprat­ tutto nel contesto attuale la pressione a contenere certi vecchi bisogni sta­ biliti di conformità, a causa della loro incompatibilità con una lotta senza compromessi contro l'ordine esistente, risulta allentata. Le sparse possibilità di conformità del movimento di opposizione vengono adesso allargate in modo da includere le possibilità di un'intera società che, essendo controllata dal movimento, appare in certa misura legittimata. In un certo senso il con-

220

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

flitto fondamentale cambia aspetto, trasformandosi da una contrapposizio­ ne tra movimento e società in un'antitesi tra i "principi" del movimento e la tentazione dei suoi membri di impiegare il loro controllo sulla società allo scopo di gratificare i propri bisogni-disposizioni repressi - alcuni dei quali sono precisamente bisogni di conformità con i modelli della vecchia società, che essi hanno cercato di abolire. Questo processo di riemergenza dei biso­ gni di ristabilire elementi del vecchio ordine, sotto l'apparenza del regime rivoluzionario, costituisce una delle fonti principali della tendenza a "miti­ gare" il carattere radicale della rivoluzione. Ciò è particolarmente favorito da un altro carattere molto comune della situazione di un regime rivoluzio­ nario, cioè dal fatto di trovarsi in conflitto con il mondo esterno, per cui la vecchia dissociazione tra movimento e patriottismo viene rovesciata e spesso la "restaurazione" può avvenire sotto la veste del patriottismo. Può accadere che questa trasformazione sia sufficiente a distruggere, almeno in parte, il predominio dell'ideologia rivoluzionaria, ma assai spesso ciò non si verifica se sussiste una continuità di regime. Esiste un problema complementare a quello della riemergenza di bi­ sogni repressi di conformità nel gruppo rivoluzionario, e cioè il problema di "disciplinare" in termini di valori rivoluzionari la popolazione su cui il movimento ha acquistato il predominio, ma che non ha partecipato al movimento. Ciò spiega in larga misura l'estremo interesse dei regimi rivo­ luzionari per !'"educazione". Ma il problema è anche strettamente connesso ai motivi per cui un aspet­ to della credenza utopistica- cioè la convinzione dell'illegittimità della co­ ercizione- è quasi sempre destinata a essere abbandonata negli stadi iniziali di un regime rivoluzionario. Talvolta, come nel caso del comunismo, questa credenza viene proiettata nello stato indefinitamente futuro del comunismo stesso, mentre si insiste grandemente sulla legittimazione della coercizione allo scopo di conseguire questo scopo, affermando che essa non sarà più ne­ cessaria quando lo scopo sarà stato raggiunto: è però difficile ritenere che questo atteggiamento possa essere mantenuto senza una tensione considere­ vole. Ad ogni modo è tipico di questi regimi, sia nell'interesse a controllare i propri seguaci nella loro tendenza a "scivolare ali' indietro" sia nell' interes­ se ad "addomesticare" la popolazione non-rivoluzionaria, il ricorso a misu­ re coercitive in misura nettamente maggiore di quella che si riscontra nella maggior parte delle società normalmente stabilizzate. La necessità di affrontare questi aspetti della situazione, unita al fatto che il problema principale del movimento non consiste più nella «propa­ ganda» diretta ad assicurare un sostegno volontario, è probabilmente in stretto rapporto con il fenomeno ben noto secondo il quale i vecchi capi del

8. TALCOTT PARSONS E LA NUOVA SOCIETÀ INCLUSIVA

221

movimento tendono a essere soppiantati durante la fase di consolidamen­ to del movimento, mentre emergono tipi del tutto differenti di capi. Sen­ za dubbio i paralleli possono essere soltanto approssimativi, ma forse non è puramente sacrilego suggerire un parallelo tra Marx e Gesù, tra Lenin e Co­ stantino. Come si è dubitato che Costantino fosse "realmente un Cristiano': così ci si è chiesto se Stalin fosse "realmente un comunista". Questo intero gruppo di circostanze può essere riassunto dicendo che c'è un senso nel quale acquistare il predominio in una società ha l'effet­ to di rovesciare la situazione per il movimento rivoluzionario. Il processo del suo consolidamento come regime costituisce infatti, in un certo senso, l'inverso della sua genesi come movimento. Si tratta di un processo di rie­ quilibrio della società, molto probabilmente verso uno stato molto diver­ so da quello che si sarebbe avuto se il movimento non fosse sorto, ma non così profondamente diverso come potrebbe suggerire un'interpretazione letterale dell'ideologia del movimento. C 'è una fase finale del processo che può essere menzionata brevemen­ te. Il tipo di struttura motivazionale coinvolto nell'attrazione da parte di, e nella partecipazione a, un movimento rivoluzionario opposto a un sistema istituzionalizzato non può ovviamente essere quello che la "nuova società" tende a sviluppare nei suoi membri attraverso un processo di socializzazione. I valori rivoluzionari diventano necessariamente quelli di un'"ortodossia"; e si svilupperà la tendenza a socializzare gli individui in conformità a questi valori, nello stesso senso fondamentale che vale per qualsiasi società stabiliz­ zata. Così essere Cristiano nel secolo

I

d.C. e nella Francia medievale signi­

ficava due cose del tutto differenti, così come sono oggi cose diverse essere comunista negli Stati Uniti e nella Russia sovietica. È ben chiaro che per una società sarebbe del tutto impossibile diventare stabilizzata qualora diventas­ se normale una struttura motivazionale ambivalente nei confronti dei suoi valori centrali e della sua ideologia. Il modo in cui i fondatori diventano mo­ delli di ruolo per una identificazione su nuova base e il modo in cui si svilup­ pano le altre fasi del processo sono quanto mai problematici. Ma anche in questo caso, come per vari altri aspetti, un movimento rivoluzionario deve pagare il prezzo del successo. Esso non può al tempo stesso conservare il dol­ ce dei vantaggi motivazionali della rivolta, e mangiarlo diventando il centro di istituzionalizzazione di un'ortodossia. Insomma, esso cessa di essere un movimento rivoluzionario. L'insistenza su questi aspetti riequilibratori del processo non significa na­ turalmente, in nessun senso, che nessun mutamento fondamentale venga mai introdotto dai movimenti rivoluzionari. Esso significa che questi movimenti sono sottoposti alla dinamica di un processo di sviluppo che comporta certe

222

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

esigenze definibili in maniera abbastanza precisa; vuol dire cioè chiaramente che nessun movimento rivoluzionario può ricostruire la società secondo i va­ lori formulati nella sua ideologia, senza apportare nessuna restrizione. Come un movimento rivoluzionario può sfociare, e sfocia di fatto, nell'introduzione di un mutamento permanente, così esso lascia spesso tra i suoi residui certe tensioni non risolte che possono costituire i punti di par­ tenza di ulteriori processi dinamici. Uno di questi punti riguarda le tensioni implicite nello sforzo di mantenere intatta l'ideologia, compresi i suoi ele­ menti utopistici, e di fare però al tempo stesso le concessioni indispensabi­ li alle esigenze del funzionamento della società. Come abbiamo osservato in precedenza, un sistema trascendente di credenze religiose presenta sotto questo aspetto un vantaggio nei confronti di un'ideologia secolare, in quan­ to può proiettare l'Ausgleich11 delle discrepanze in una sfera trascendente, mentre per l'ideologia secolare l'unico ricorso possibile è il futuro. Senza questa risorsa le ideologie radicalmente utopistiche sarebbero costrette a ce­ dere, dopo una lotta, alla pressione. Il Cristianesimo primitivo aveva una fer­ ma credenza in un secondo avvento escatologico e in un giorno del giudizio reale. Questa credenza sopravvisse attraverso una serie di rinvii, il più impor­ tante dei quali fu per l'anno

1000;

da allora, eccetto per alcune piccole set­

te, questa credenza è scomparsa dal Cristianesimo.

È probabile che lo stato

finale del "comunismo" subisca un destino analogo, e quasi certamente con rapidità molto maggiore. I fenomeni centrali dell'Unione Sovietica che presentano un rilievo per questo processo sono già stati citati in varie occasioni e richiedono soltan­ to una breve ricapitolazione. L'abbandono e l'abolizione immediata della coercizione arrivò molto presto, di fatto: l'organizzazione semi-militare del partito e la sua disciplina furono trasferite più o meno intatte nel nuovo regi­ me. Nella parte iniziale della Rivoluzione esisteva però certamente un'aspet­ tativa molto diffusa, secondo la quale gli uomini sarebbero stati finalmente liberi e avrebbero potuto fare letteralmente ciò che più piaceva loro. Il passo forse decisivo fu compiuto dopo l'attentato a Lenin, che fornì l'occasione per l'istituzione del Terrore come politica deliberata, mai più attenuata da allora. Si può forse sostenere che la tensione tra il netto rifiuto valutativo della coercizione nello stato ideale e il modo rigido in cui il regime l'ha im­ piegata ai propri fini costituisce di sicuro la fonte più profonda della tensio12. Ausgleich è un termine tedesco tradotto in italiano con la parola "compromesso': Il riferimento storico è al 1867, anno in cui l'imperatore Francesco Giuseppe volle riformare la costituzione offrendo all'Ungheria pari dignità rispetto all'Austria istituendo un'unica mo­

narchia con due stati distinti aventi in comune i ministeri delle finanze, degli esteri, dell'eser­ cito e della marina oltre che il vincolo dinastico [N.d.A.].

8. TALCOTT PARSONS E LA NUOVA SOCIETÀ INCLUSIVA

2.2.3

ne a lunga scadenza che esiste nel comunismo russo. La sua importanza viene

facilmente trascurata in una prospettiva a breve scadenza, specialmente dal­

le persone inclini a un certo tipo popolare di cinismo diffamatore secondo il quale non è importante ciò che gli uomini professano di credere, poiché soltanto i loro "interessi" determinano le loro azioni. Alla luce della teoria sociologica e delle prove empiriche si può mostrare in maniera definitiva che questa concezione è errata. La rinascita di istituzioni fondamentali, che dall'ideologia erano dichia­ rate "pregiudizi borghesi", costituisce sotto certi aspetti il carattere specifico più marcato dello sviluppo sovietico. Questo processo culminò verso la me­ '

tà degli anni 30, vale a dire quasi vent'anni dopo la rivoluzione originaria. I

casi più notevoli sono costituiti dalla famiglia, dai compensi differenziali nel sistema professionale, dal nuovo sistema di stratificazione e dalla rinascita di un sistema giuridico. Si osserverà che tra questi fenomeni non si è menziona­

ta l'iniziativa privata nell'economia. La fase della Nuova Politica Economi­ ca venne considerevolmente in anticipo rispetto alle altre reviviscenze, e fu liquidata prima che le altre fossero veramente avviate. Abbiamo però soste­ nuto costantemente che questo aspetto dell'organizzazione del complesso strumentale non rappresenta un'istituzione fondamentale nello stesso sen­ so in cui lo sono un'autorità coercitiva di governo, la famiglia, i compensi differenziali e la stratificazione. La rinascita del formalismo in educazione, specialmente l'uso della disciplina e delle sanzioni, costituisce un altro feno­ meno che merita un rilievo particolare. Questo processo può essere considerato come una combinazione del­ le due prime tendenze generali precedentemente menzionate, cioè il biso­ gno di strutture di adattamento dinanzi ai requisiti funzionali fondamentali del sistema sociale e la riemergenza di bisogni di conformità collegati con la vecchia società in quanto tale. Si può ritenere che l'autoritarismo parti­ colarmente rigido del regime sovietico implichi in buona parte bisogni del genere, e non dipenda semplicemente da esigenze di sopravvivenza in un mondo scosso sia dall'interno che dall'esterno. Evidentemente la fusione del regime sovietico con il nazionalismo russo e con una serie di elementi ad esso

collegati rappresenta un fenomeno molto cospicuo. Per considerare un solo particolare, cioè il ruolo rilevante attribuito alle cose militari e la tendenza a estendere il modello militare di simbolizzazione visibile del rango, sembra che esso costituisca molto di più un tratto del vecchio regime, difficilmen­ te ricavabile dalle esigenze di attuazione del comunismo rivoluzionario in qualsiasi società complessa. Il caso della religione è un caso complesso. Per quanto siano state fat­ te certamente concessioni importanti alla religione tradizionale, queste non

224

SOCIOLOGIA E PREVISIONE SOCIALE

costituiscono in apparenza una violazione del programma rivoluzionario nello stesso senso o nello stesso grado degli altri casi. I compromessi sono stati largamente favoriti dal tradizionale modello russo di controllo statale della chiesa, e sembra esserci pieno accordo sul fatto che la Chiesa ortodossa in Russia non possiede, in quanto organizzazione, un grado di indipendenza maggiore delle altre organizzazioni.

È ovvio che questa è una sfera in cui esistono limiti intrinseci molto netti a qualsiasi concessione. Nel caso concreto il regime non può semplicemente abbandonare la sua aderenza all'ideologia marxistica, per quanto questa pos­ sa essere piegata e ritorta. L'intera relazione storica tra marxismo e Cristiane­ simo è tale da rendere impossibile per il regime affermare che la "religione è un pilastro dello Stato sovietico': come è stato ufficialmente detto a proposi­ to della famiglia. Ciò che si può fare è soltanto concedere un certo posto alla religione tradizionale. Che questa concessione si sia rivelata necessaria è un fatto di importanza primaria; e non è impossibile che esso possa diventare un centro importante di organizzazione dell'opposizione.

È chiaro che una società come quella della Russia sovietica è percorsa da tensioni interne estremamente gravi. Infatti sia l'espansionismo esterno, che è naturalmente legittimato dall'ideologia, sia la marcia rigorosa dell'indu­

strializzazione interna sono probabilmente, in parte notevole, espressioni di queste tensioni. Lasciare che le cose si "accomodino" nell'uno o nell'altro di questi due sensi potrebbe diventare estremamente pericoloso per la stabilità del regime, per la semplice ragione che l'emergenza produce qualche tipo di integrazione, e uno stato di emergenza continua è probabilmente una mi­ naccia minore del suo rilassamento. La prospettiva a lunga scadenza è senza dubbio oscura. È del tutto pos­ sibile che qualche spaccatura interna si sviluppi nell'unità del regime, parti­ colarmente, ma non esclusivamente, sul problema della successione a Stalin. Se il regime stesso non cadrà, è certo che nella prossima o nelle prossime due generazioni dovrà verificarsi un complesso processo di adattamento tra l' ide­ ologia e la realtà del sistema sociale. La particolare predizione del sociologo è che il comunismo non si realizzerà, e che la progressiva consapevolezza del

fatto che non esiste alcuna prospettiva di realizzazione costringerà a modi­ ficazioni molto profonde nell'ideologia. Infatti è difficile scorgere in qua­ le modo possa reggere il sistema di credenze, una volta terminata la fase di espansionismo dinamico, all'interno e all'esterno - e anche se si estenderà al massimo, essa non potrà procedere all'infinito. Anche qui ci si permetta di osservare che siamo vicini al ricorso cristiano alla proiezione della concilia­ zione delle discrepanze in un mondo trascendente.

8.

TALCOTT PARSONS E LA NUOVA SOCIETÀ INCLUSIVA

2.2.5

Questo problema è connesso con un altro. L'industrializzazione, in vir­ tù del suo stesso successo, genera probabilmente un altro ordine di tensioni molto importanti. Possiamo esprimere questo fatto in termini formali, di­ cendo che l'industrializzazione sposta l'accento dal modello universalistico dell'attribuzione al modello universalistico della realizzazione. Come abbia­ mo visto, ciò implica una specie di "individualismo" che è difficilissimo con­ ciliare con il carattere attuale del regime. Ci si può attendere che i problemi impliciti in questa tensione diventeranno più acuti, particolarmente in rap­ porto con lo status dell' intelligentsia. Ma una maggiore libertà per l' intelli­ gentsia deve comprendere la libertà di criticare la versione ufficiale dell'ide­

ologia. La vulnerabilità intrinseca dell'ideologia ufficiale è però talmente gran­ de che risulta difficile vedere come questa libertà possa essere concessa. L'a­ nalisi futura o gli eventi futuri decideranno quale sarà il risultato di questo dilemma.

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