Sintomi morbosi. Nella nostra storia di ieri i segnali della crisi di oggi 9788811608042

«La principale caratteristica dell’interregno tra vecchio e nuovo è l’incertezza. È come guadare un largo fiume. La vecc

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Sintomi morbosi. Nella nostra storia di ieri i segnali della crisi di oggi
 9788811608042

Table of contents :
Indice......Page 253
Frontespizio......Page 3
L’autore......Page 2
SINTOMI MORBOSI......Page 6
PROLOGO......Page 8
1. IL VECCHIO MUORE......Page 11
2. L’AVANZATA DELLA XENOFOBIA......Page 18
3. IL DECLINO DEL WELFARE......Page 59
4. IL CROLLO DEI PARTITI TRADIZIONALI......Page 83
5. L’EGEMONIA AMERICANA......Page 153
6. NARRAZIONI EUROPEE......Page 172
7. L’EUROPA IMPLODE?......Page 192
8. PERDUTE SPERANZE?......Page 215
NOTE......Page 226
RINGRAZIAMENTI......Page 251

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L’autore

Donald Sassoon (Il Cairo, 1946) è professore emerito di Storia europea comparata presso la Queen Mary University of London. Allievo di Eric J. Hobsbawn, è considerato uno dei maggiori storici contemporanei. È stato curatore del festival «La Storia in Piazza» di Genova e visiting professor alle Università di Trento e Padova.

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www.illibraio.it In copertina: progetto grafico di Mauro de Toffol theWorldofDOT Traduzione dall’inglese di Leonardo Clausi Titolo originale dell’opera: Morbid Symptoms © Donald Sassoon, 2019 International Rights Management: Susanna Lea Associates ISBN 978-88-11-60804-2 © 2019, Garzanti S.r.l., Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol Prima edizione digitale: febbraio 2019 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Indice

PROLOGO

1. IL VECCHIO MUORE 2. L’AVANZATA DELLA XENOFOBIA 3. IL DECLINO DEL WELFARE 4. IL CROLLO DEI PARTITI TRADIZIONALI 5. L’EGEMONIA AMERICANA 6. NARRAZIONI EUROPEE 7. L’EUROPA IMPLODE? 8. PERDUTE SPERANZE? NOTE RINGRAZIAMENTI

SINTOMI MORBOSI

La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati. Antonio Gramsci, Quaderni del carcere

PROLOGO

Mi sono reso conto molto presto che la storia (a differenza della matematica) non è interpretata ovunque allo stesso modo. Fu quando iniziai a frequentare le scuole elementari a Parigi, in un’epoca in cui a ogni scolaro francese si insegnava che i «nostri» antenati erano i galli. Il libro di lettura che utilizzavamo conteneva un’immagine del condottiero gallo Vercingétorix (che ispirò il personaggio della famosa serie a fumetti Asterix, creata nel 1959) che aveva sfidato i conquistatori romani, era stato sconfitto da Giulio Cesare nella battaglia di Alesia, tratto prigioniero a Roma, fatto sfilare per le strade e infine giustiziato. Eravamo pieni di simpatia e pietà per l’uomo in catene trascinato dietro al cocchio del malvagio conquistatore. Un paio d’anni dopo, nel 1954, i miei genitori si trasferirono a Milano e mi ritrovai in una scuola elementare italiana. Fatto confortante, le tabelline erano le stesse, ma nelle pagine di storia del nostro sussidiario, dell’eroe gallo non era fatta menzione. Chiesi alla maestra di «Vercingétorix». Dopo un istante di esitazione disse: «Ah, sì, Vercingetorige», aggiungendo, «uno dei tanti barbari schiacciati dalla potenza delle legioni romane di Cesare». Mi fece una certa impressione: un eroe nazionale francese era quasi sconosciuto in Italia, un paese confinante, dove si celebrava il bruto che lo aveva ridotto in catene. Fu la migliore lezione di storia della mia vita. Da allora ho sempre guardato con sospetto alcune certezze nazionali, non per un particolare merito personale, ma per esperienza di vita. Da ebreo nato in Egitto con passaporto inglese, ottenuto presumibilmente per ragioni coloniali dai miei antenati, scolarizzato in Francia, poi in Italia e in seguito nel Regno Unito e negli Stati Uniti, mi riuscì più facilmente che ad altri evitare di cadere preda delle mitologie nazionali, comprese quelle ebraiche. Benché abbia sempre cercato di scrivere per un pubblico più vasto, i miei libri precedenti rientravano nell’ambito cosiddetto «rispettabile» dell’università. Dopotutto la storia è un argomento d’interesse generale ed estremamente accessibile, al contrario di

molte discipline scientifiche e delle sfere più recondite e specializzate della critica letteraria, della filosofia, della sociologia e dell’economia. Quando qualcuno mi chiede quale sia lo scopo della storia, rispondo, secondo il mio umore, o che non ha scopo alcuno, che è puro divertimento – come la musica o il disegno – oppure, più seriamente, che la storia è qualcosa di cui nessuna società, nemmeno le più primitive, può fare a meno, perché le domande «da dove veniamo?» e «che cos’è accaduto tanto tempo fa?» se le pongono tutte. Si cercano risposte che a volte si trovano, altre volte si inventano; da qui nascono i racconti, le favole, i miti, le religioni e… la storia. Più recentemente, vale a dire dal XIX secolo, molti storici hanno finalmente smesso di compiacere i potenti e di celebrare le loro gesta, e hanno cercato di fornire risposte basate su solide prove e su un’analisi spassionata delle fonti. È naturalmente difficile essere equilibrati, abbandonare i propri pregiudizi, essere giusti, ma ci si prova, anche se non sempre con successo. Ottenere queste cose non dipende semplicemente dalla disposizione personale. Dev’esserci un ambiente in cui lo storico possa perseguire il suo compito senza timori. È ovviamente più facile essere uno storico in una democrazia che nella Russia staliniana o nella Germania nazista, mentre si può essere un valente scienziato in entrambe. L’Unione Sovietica aveva buoni storici, ma erano abbastanza intelligenti da tenersi a debita distanza dalla storia recente. I pericoli che si correvano non rispettando la giusta interpretazione di Pietro il Grande non erano gravi come quelli corsi trasgredendo quella di Stalin. Nelle democrazie moderne gli storici sono più liberi, anche se non contano granché (un prezzo che vale la pena di pagare per la libertà). La gente apprende la «propria» storia soprattutto dai romanzi, dai film e dalla televisione. Gli uomini politici spesso usano la storia come un supermercato, mettendo nel carrello tutto quello che torna utile. Gli storici, con l’eccezione dei pochi che hanno dominato l’arte della comunicazione sul piccolo schermo, devono accontentarsi di fornire il materiale grezzo per cineasti e romanzieri. La maggior parte di loro è contenta che i propri libri siano usati in questo modo. In paesi che valorizzano ciò che i francesi chiamano il roman national, la narrazione fondativa dello stato, potrebbero esserci problemi ma, in generale, il revisionismo (termine che denota una sfida all’ortodossia) è consentito e, a volte, anche premiato. I cosiddetti «nuovi» storici irlandesi e israeliani, pur soggetti talvolta a vigorose – e

occasionalmente feroci – critiche da parte di altri storici e da certi politici, non sono stati fucilati o deportati, né hanno perso il lavoro. Se non altro, il tentativo di liberare gli irlandesi o gli israeliani dai miti di fondazione dei loro rispettivi stati ne ha resi alcuni famosi; e meritatamente, perché era un atto coraggioso da compiere. Di conseguenza, presto divenne possibile scrivere della carestia irlandese come frutto di cause principalmente sociali ed economiche e non come qualcosa deliberatamente progettata dagli inglesi, o da questi crudelmente ignorata. In Israele, per studiosi come Benny Morris, Avi Shlaim e Ilan Pappé, divenne possibile scrivere che circa 700.000 palestinesi erano stati vittime di pulizia etnica durante la guerra del 1948 e non che se ne erano andati di loro spontanea volontà, come mi fu insegnato anni fa alla scuola ebraica. In Gran Bretagna la questione è più tranquilla. Nel XIX secolo prevaleva l’interpretazione Whig della storia, con la sua benigna visione di progresso nazionale attraverso le riforme, ma oggi non è più così. Non ci sono più miti nazionali britannici di grande importanza. Naturalmente in molti pensano che la Gran Bretagna abbia vinto la seconda guerra mondiale praticamente quasi da sola, o che il colonialismo britannico avesse solo intenti nobili, o che l’Inghilterra/Gran Bretagna sia stata la prima democrazia del mondo, ma sono pochi gli studiosi seri che ci credono. In Gran Bretagna è dunque facile essere uno storico imperturbabile e composto. Quasi non vi sono rischi. Ma niente di tutto ciò significa che io non debba cercare di controllare le mie passioni politiche, anche se non sempre ci riesco. Vi sono diversi modi di essere autocritici. Quando scrivo, mi piace immaginare di avere, appoggiato sulle spalle, un omino petulante che sputa consigli in modo fastidioso. Legge tutto quello che scrivo in maniera ipercritica, dicendo frasi come: «Questo non significa niente, sii più chiaro; questa frase è troppo lunga: accorciala; questo come lo sai? Dove sono le prove? Questo non è molto originale, qualcuno deve averlo già detto». A volte ascolto, a volte no: ma se si aspira a essere uno storico decente, bisogna ascoltare seriamente. Questo libro tuttavia, benché scritto da uno storico, non vuole essere «equilibrato». Non è un libro di storia. È una polemica – ispirata dalla storia naturalmente – e, a differenza di alcuni di quelli che ho scritto in passato, è misericordiosamente breve.

1. IL VECCHIO MUORE

Nella cella di una prigione fascista a Turi, nell’Italia meridionale, nel 1930, un anno dopo il crollo di Wall Street del 1929, otto anni dopo la marcia su Roma di Mussolini, tre anni prima dell’avvento al potere di Hitler, il leader del Partito comunista italiano Antonio Gramsci scrisse questa famosa riflessione: La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati. 1

Per descrivere la situazione attuale, a poco più di ottant’anni dalla sua morte avvenuta nel 1937, sono ancora importanti queste sue parole? Non siamo negli anni Trenta. Il fascismo non è alle porte. La democrazia liberale vige in un numero di paesi maggiore che in qualsiasi altro periodo del passato. La disoccupazione potrà anche essere aumentata se paragonata agli anni d’oro del boom del dopoguerra, ma la recessione globale del 2007-2008, per quanto seria, non è stata per nulla catastrofica come la grande depressione del 1929, almeno finora. Gramsci spiegava che la crisi, quando il vecchio muore e il nuovo non è ancora nato, consisteva in una «crisi di autorità»: le classi dominanti stavano perdendo terreno, scemava il consenso che ne sosteneva il potere e la presa ideologica sulle masse stava loro sfuggendo. Queste masse, spiegava, non seguivano più le ideologie tradizionali, ma stavano diventando progressivamente più ciniche e scettiche. Non credevano più nelle élite. E questo le élite lo sapevano. Eppure il «nuovo» rimaneva imprevedibile. Tradizionalmente i marxisti vedevano le crisi come un’opportunità per un cambiamento radicale. Gramsci, più vicino a noi, è meno ottimista. La congiuntura che descriveva era un «interregno» brulicante di sintomi morbosi, non una situazione potenzialmente rivoluzionaria. Non escludeva un ritorno al vecchio, benché sperasse (con quello che chiamava «ottimismo della volontà», in contrasto con il «pessimismo dell’intelligenza») che i sintomi morbosi potessero offrire un’opportunità di progresso.

La principale caratteristica dell’interregno tra vecchio e nuovo è l’incertezza. È come guadare un largo fiume. La vecchia sponda è alle spalle, ma la nuova non si distingue ancora. Le correnti possono risospingerti indietro. Potresti annegare. Incapaci di anticipare quel che succederà, si è sopraffatti dalla paura, dall’ansia e dal panico. Un critico di Gramsci potrebbe obiettare che, quando scrisse queste parole, un indesiderato «nuovo» era già comparso: il fascismo italiano, di certo un «sintomo morboso», ma anche una nuova forma di stato, che godeva di un certo consenso popolare. Il vecchio stato liberale si era dissolto; le speranze generate dalla Rivoluzione di ottobre si erano infrante e le attese rivoluzioni in Occidente non si erano materializzate. In gran parte d’Europa, dopo la fine della Grande guerra, i rivoluzionari che avevano sperato di ripetere le conquiste dei bolscevichi erano stati completamente sconfitti. La rivoluzione ungherese guidata da Béla Kun nel 1919 era stata repressa con la violenza. In Austria i consigli dei soldati e dei lavoratori (i «Soviet»), guidati dai comunisti, non riuscirono a distruggere la nascente repubblica borghese. In Germania la rivoluzione spartachista del 1918-1919 era stata schiacciata nel sangue dai Freikorps, un’organizzazione paramilitare di destra, sotto la direzione del socialdemocratico Friedrich Ebert. I leader spartachisti Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht erano stati assassinati. In Italia l’occupazione delle fabbriche e le proteste contadine degli anni 1919-1920, il cosiddetto «biennio rosso», erano fallite. Mussolini fu nominato primo ministro mentre i suoi seguaci marciavano su Roma (28 ottobre 1922). Qualche anno più tardi s’instaurava la dittatura fascista. Nulla di altrettanto radicale accadde in Francia, negli Stati Uniti o nel Regno Unito. Nel 1920, in Gran Bretagna, i portuali si rifiutarono di caricare le navi destinate a un intervento militare contro il regime bolscevico. Nel 1926 ci fu uno sciopero generale, ma durò soltanto nove giorni, mentre i minatori continuarono le loro lotte per mesi. Poi, piegati dalla fame, tornarono alle miniere. L’establishment britannico rimase solido come sempre. In Francia la moneta si svalutò, i governi si alternarono, ma vi furono poche proteste dopo l’ondata di scioperi del maggio 1920. Nel 1921 in West Virginia, negli Stati Uniti, vi fu una delle più importanti proteste operaie della storia americana, che coinvolse circa 10.000 minatori armati (la battaglia di Blair Mountain). 2 L’intervento dell’esercito schiacciò lo sciopero, uccidendo decine di minatori. Poi le cose tornarono all’abituale

violenza americana. In America pochi conoscono questo episodio che quasi non è menzionato nei romanzi, nelle canzoni o nei film. La sinistra era stata sconfitta ovunque, ma gran parte del «vecchio» – il regime zarista, l’impero austro-ungarico, l’impero ottomano – era finito; e c’era del «nuovo»: la nascita dell’Unione Sovietica, della Iugoslavia, dell’Ungheria, dell’Austria, della Turchia. Presto gli Stati Uniti si sarebbero imbarcati nel New Deal. In Cina il governo nazionalista guidato da Chiang Kai-shek, dopo aver sconfitto vari signori della guerra e ucciso, nel 1927, centinaia di comunisti (già suoi alleati), riuscì a estendere il controllo su gran parte del paese. Sulla scia della Rivoluzione di ottobre non emerse un solo regime comunista (eccezion fatta per la Mongolia). I comunisti furono banditi, perseguitati o incapaci di emergere dall’irrilevanza politica fuorché in Germania (dove però furono presto distrutti dai nazisti) e in Francia. Nel periodo tra le due guerre non vi furono rivoluzioni socialiste. Alla vigilia della seconda guerra mondiale i governi autoritari di destra dominavano in gran parte l’Europa. Nel 1923, in Bulgaria, un colpo di stato militare portò alla dittatura di re Boris. Nel 1928, in Albania, un capo locale, Ahmet Zogu, impadronitosi del potere nel 1924, si proclamava re Zog senza temere il ridicolo. Nel paese vigeva un ferreo stato di polizia quando, dopo la seconda guerra mondiale, i comunisti guidati da Enver Hoxha lo trasformarono in un regime ancora più repressivo. Dal 1935 in poi anche la Polonia divenne, di fatto, una dittatura militare. Nel 1932, in Lituania, Antanas Smetona, che aveva assunto il potere nel 1926, instaurò un regime a partito unico. Nel 1929 re Alessandro era a capo di un regime autoritario in Iugoslavia. Nel 1934, in Estonia, toccò a Konstantin Päts diventare un dittatore. Nello stesso anno, in Lettonia, Kārlis Ulmanis, un antisemita, inscenò un suo colpo di stato. Nel 1938, in Romania, re Karol II ottenne pieni poteri, divenendo di fatto un dittatore. Per tutto il periodo fra le due guerre (e fino al 1944) l’Ungheria fu governata dall’ammiraglio Miklós Horthy, il quale, come Mussolini, introdusse leggi razziali nel 1938. C’erano dittature anche in Europa occidentale: l’Italia fascista naturalmente, poi la Germania nazista, la Spagna di Francisco Franco, il Portogallo di António de Oliveira Salazar e la Grecia di Ioannis Metaxas. Negli anni Trenta, in Finlandia, sotto la pressione del quasi-fascista

movimento di Lapua, il governo promulgò una serie di leggi che bandivano pubblicazioni comuniste e portarono all’arresto dei leader comunisti e socialisti. In Austria, Engelbert Dollfuss assumeva poteri dittatoriali nel 1933, solo per essere assassinato da elementi filonazisti l’anno successivo. La dittatura durò fino all’annessione del paese da parte di Hitler, nel 1938. L’Europa pre-1945 era alla mercé dell’autoritarismo di destra. In carcere, Gramsci fece quello che i rivoluzionari intelligenti dovrebbero sempre fare: riflettere sulle cause della propria sconfitta. Stava anche scrivendo all’ombra di quella che allora pareva una notevole battuta d’arresto capitalistica: la grande crisi del 1929. Per alcuni era come se la crisi del capitalismo, a lungo attesa e a lungo prevista, si fosse finalmente manifestata. Eppure la sinistra fu incapace di riorganizzarsi. La situazione della classe operaia era disastrosa. Negli anni Trenta i tassi di disoccupazione erano davvero spaventosi: al 17,2% in Germania, al 22% negli Stati Uniti, quasi al 20% in Canada e Australia, al 16% in Austria, al 15% nel Regno Unito, e al 12% in Belgio. 3 Anche oggi la disoccupazione, specialmente quella giovanile, è un problema. Nel 2017 la disoccupazione media nell’Unione Europea era all’8% (ma del 20% per i giovani). Poco più alta nell’eurozona: 9,4%. Era una questione assai seria in Spagna (17,4%, 40% per i giovani) e nella maggior parte dei paesi balcanici (Bosnia 25,8%, Macedonia 22%, Montenegro 17,7%, Albania 15%, Serbia 14,4%, sebbene la Croazia, con l’11,5%, fosse allineata con l’Italia). Ma nella maggior parte dei paesi ex comunisti la disoccupazione era attorno alla media dell’Unione Europea, aggirandosi tra il 9,4% della Lituania, il 9% della Slovacchia, il 4,2% in Ungheria e il 3,2% nella Repubblica Ceca. La situazione non era per nulla buona a Cipro (11,9%), in Portogallo (11,2%), Italia (11,6%; 30% per i giovani) e in Francia (9,9%; 20% per i giovani). La Grecia era un caso a parte, con la disoccupazione oltre il 23% (40% per i giovani). La Finlandia era appena sopra la media dell’UE, la Svezia appena sotto. Il Canada e l’Irlanda erano di poco sopra il 6%; Israele, Russia, Australia e Nuova Zelanda appena sopra il 5%; gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Cina e la Svizzera meno del 5%; la Germania solo il 3,8%, il Giappone solo il 2,9% e Singapore solo il 2,1%. 4 È un quadro variegato, la disoccupazione rimane un problema serio (soprattutto per i giovani) e potrebbe giocare a favore dei partiti xenofobi, ma – come risulta evidente considerando che in certi paesi dell’Europa dell’Est la destra

radicale è forte nonostante la disoccupazione non sia particolarmente pronunciata – non sembrerebbe esserci una stretta correlazione tra l’impennata dei partiti estremisti e il tasso di disoccupazione. La situazione dell’occupazione odierna non è dunque buona, benché non abbia nulla a che vedere con quella degli anni Trenta. Eppure anche noi ci troviamo di fronte a «sintomi morbosi», con leader autoritari eletti democraticamente in gran parte dell’Europa orientale, in Ungheria (Viktor Orbán), in Russia (Vladimir Putin), ma anche in Occidente, come l’ineffabile Trump negli Stati Uniti, e in Israele Benjamin Netanyahu, costantemente indagato per corruzione. Si verifica una perdita di sostegno popolare per i partiti tradizionali che hanno governato l’Europa dal 1945, soprattutto la sinistra socialdemocratica, ma anche i partiti conservatori e, soprattutto, un’ascesa della xenofobia in gran parte dell’Occidente. E poi si registra la disintegrazione del «sogno europeo», cioè l’idea che un’Europa forte, sicura e integrata avrebbe affrontato, unita, le sfide del domani. A soli quindici anni dall’annuncio di Jeremy Rifkin – guru costantemente sui giornali e solitamente in errore – secondo cui l’Europa stava quietamente eclissando il «sogno americano», 5 il Regno Unito (e l’UE) si trovano davanti alla Brexit; la Spagna potrebbe continuare ad affrontare il separatismo catalano; per la Grecia sembrano arrivare giorni ancora più duri di quelli appena passati; per il Belgio è difficile formare governi e tenere unito il paese. In Italia sono i partiti euroscettici a farla da nuovi padroni. Questo libro non offre alcuna soluzione, ma un po’ di disperazione. Si concentra principalmente sull’Occidente, ma i «sintomi morbosi» sono ovunque: in India – un paese che cresce economicamente mentre ancora prevale un’immensa povertà e in cui, secondo le statistiche ufficiali del 2016, ogni tredici minuti viene violentata una donna, ogni sessantanove minuti viene assassinata una sposa per la dote, e ogni mese vengono aggredite con l’acido diciannove donne – 6 c’è Narendra Modi. E in Turchia c’è Recep Tayyip Erdoğan (inizialmente lodato da tutti quanti compresi il «Financial Times» e il «New York Times» e ora aspramente criticato non del tutto ingiustamente), mentre in Turkmenistan troviamo Gurbanguly Berdymukhamedov, rieletto presidente per la terza volta nel 2017 con il 98% del voto popolare (in un’altra vita era stato il leader del Partito comunista turkmeno). In Brasile c’è Jair Bolsonaro, nostalgico dei bei tempi della

dittatura, omofobo dichiarato, misogino, difensore della tortura, razzista e così via: le ha proprio tutte. In Sudafrica c’era Jacob Zuma (un poligamo accusato di stupro e corruzione, obbligato infine alle dimissioni dal suo stesso partito); il suo successore, Cyril Ramaphosa, era un leader sindacale divenuto milionario, membro del consiglio di amministrazione della Lonmin, l’azienda mineraria britannica che nell’agosto 2012 aveva chiamato la polizia per stroncare uno sciopero dei minatori a Marikana, causando la morte di trentaquattro scioperanti e ferendone settantotto. Nelle Filippine c’è il pericoloso psicotico Rodrigo Duterte, lodato da Donald Trump per gli assassinii extragiudiziali di chi fa uso di droga. 7 Secondo le statistiche ufficiali, più di 4000 persone – c’è chi dice tra 12.000 e 80.000 – sono state assassinate in operazioni antidroga da quando Duterte è diventato presidente. Tutto questo ha portato a un’inchiesta da parte della Corte penale internazionale. Eppure, ispirato da un simile esempio, lo Sri Lanka ha annunciato che anche lì cominceranno a impiccare gli spacciatori, ponendo fine a quasi venticinque anni di moratoria sulla pena di morte. In Messico, nell’ultimo decennio, le cosiddette guerre della droga sono costate la vita a 230.000 persone. 8 Nel 2018, durante la campagna elettorale, sono state uccise più di 103 persone tra candidati alle elezioni del 1o luglio e attivisti, probabilmente a causa della loro opposizione ai cartelli della droga. 9 Il neoeletto presidente, Andrés Manuel López Obrador, che ha impostato contro la corruzione la sua campagna elettorale, avrà un arduo compito. Nel Myanmar, mentre pogrom omicidi e pulizia etnica imperversavano contro i musulmani rohingya (con 6700 persone assassinate solo in un mese nel 2017, secondo Medici senza frontiere) il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi rimaneva colpevolmente muta. 10 La guerra in Afghanistan, la più lunga della storia americana, continua a mietere decine di migliaia di vittime. L’Iraq non è pacificato. La primavera araba, che aveva portato grandi speranze in così tanti cuori, è finita nel disastro: in Tunisia, dove era cominciata, dopo nove governi e pochi cambiamenti reali, l’insoddisfazione popolare non si è placata. In Egitto una dittatura sanguinaria guidata con il sostegno dell’Occidente da Abdel Fattah al-Sisi (lodato da Trump) fa rimpiangere i giorni del precedente dittatore, Hosni Mubarak. In Libia, nonostante o proprio a causa dell’intervento «umanitario» occidentale, la

guerra civile ha lacerato il paese. La Siria, dopo aver sofferto uno straordinario numero di vittime (appena sotto le 500.000), mentre scrivo si trova in quelli che ci si augura siano gli stadi finali di una terribile guerra civile, con il regime di Assad ancora al potere. In Yemen il vicino regime saudita sta conducendo una spietata guerra con annessa una gigantesca crisi umanitaria. In Occidente pensiamo che i terroristi musulmani uccidano molti occidentali. Non è così. I musulmani hanno ucciso un numero assai maggiore di musulmani. I paesi più colpiti dal terrorismo sono Iraq, Afghanistan, Pakistan, Nigeria e Siria. In Nigeria i jihadisti di Boko Haram hanno ucciso decine di migliaia di persone e ne hanno disperse 2,3 milioni. Hanno anche preso di mira moschee «moderate» come quella di Kukawa, uccidendo almeno cento persone nel luglio 2015. Tra il 2003 e il 2007, secondo il South Asia Terrorism Portal (SATP), ci sono state almeno 63.000 vittime della violenza terrorista in Pakistan. 11 Nell’ottobre del 2017 a Mogadiscio, in Somalia, il gruppo terrorista alShabaab ha ucciso circa 300 persone facendo esplodere un camion pieno di tritolo. La notizia è stata relegata a pagina 6 del «Financial Times» e a pagina 10 del «Daily Mail». Come ha scritto la romanziera anglo-somala Nadifa Mohamed, facendo un confronto con la reazione all’attacco terroristico al teatro Bataclan di Parigi l’anno precedente: «Londra, la mia città, non ha marcato quest’atrocità come quelle nelle città occidentali: nessuna bandiera a mezz’asta, niente illuminazione del London Eye nel blu e bianco della bandiera somala, nemmeno un tweet dal sindaco Sadiq Khan». 12 Il mese successivo, nel Sinai settentrionale (in Egitto), militanti armati hanno ucciso più di 300 fedeli durante le preghiere del venerdì alla moschea di al-Rawda. Il 28 dicembre 2017, a Kabul, un attacco suicida ha ucciso quarantun persone ferendone centinaia, ma il giorno seguente il fatto ha ricevuto appena una menzione sul sito della BBC: la notizia più importante era un incendio a New York in cui avevano perso la vita dodici persone. 13 E potrei continuare: nel luglio 2018 un attentatore suicida ha ucciso almeno 128 persone durante un comizio nel Pakistan sudoccidentale, ancora una volta con una copertura minima da parte dei media occidentali. In Occidente vi saranno pure abbondanti sintomi morbosi, ma altrove è assai peggio.

2. L’AVANZATA DELLA XENOFOBIA

La xenofobia si è diffusa parallelamente all’espansione dei movimenti migratori globali. Gli europei, compresi quelli spesso disposti a sostenere l’intervento «umanitario» che solitamente comporta bombardamenti in paesi già martoriati, si lamentano di essere «sommersi» dai richiedenti asilo. Eppure in Europa arriva soltanto il 17% dei profughi di tutto il mondo e il 16% negli Stati Uniti), contro il 30% in Africa, il 26% in Medio Oriente e l’11% in Asia e nel Pacifico. 1 Tra il 2014 e il 2017, 22.500 migranti sono morti mentre tentavano di mettersi al sicuro, e metà di loro cercava di attraversare il Mediterraneo. Nel periodo 1993-2018, più di 34.361 morti possono essere attribuiti a quelle che sarebbe lecito chiamare «le fatali politiche della fortezza Europa». 2 È una cifra superiore a quella delle vittime del terrorismo in tutto il continente dal gennaio 1970: 11.288 compresa la Russia, la nazione più colpita dal terrorismo in Europa. 3 La maggior parte delle vittime dei terroristi in Europa occidentale dal 1970 non sono state assassinate da jihadisti, ma da membri di vari gruppi separatisti (nazionalisti irlandesi, gruppi paramilitari protestanti dell’Ulster, separatisti baschi) o da neofascisti e gruppi dell’estrema sinistra in Italia. In Irlanda del Nord, durante i «Troubles» (la guerra a bassa intensità che ha caratterizzato il conflitto nordirlandese tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Novanta) sono state uccise 3720 persone, metà almeno delle quali sotto i venticinque anni d’età, e ne sono state ferite 47.541. 4 L’anno del picco degli incidenti terroristici in Europa occidentale è stato il 1979, ben prima che fosse coniato il termine «jihadista». Nell’immaginario popolare la parola «terrorista» fa subito venire in mente un musulmano, eppure il più letale omicidio di massa provocato da un individuo in Europa è accaduto in Norvegia nel 2011, quando Anders Behring Breivik, un islamofobo d’estrema destra, uccise settantasette persone (principalmente giovani attivisti del Partito laburista). Il metodo dei terroristi è perseguire un obiettivo politico usando una

violenza «mirata» contro bersagli militari oppure, più spesso, civili innocenti. Non è poi così lontano da quanto suggerito dallo storico militare Frederick W. Kagan (del «neocon» American Enterprise Institute) quando scriveva: «La guerra non è fatta di persone ammazzate e di cose che saltano in aria. È una violenza mirata per ottenere un obiettivo politico. Morte e distruzione, pur essendo l’aspetto più deplorevole della guerra, sono di secondaria importanza. Il perseguimento dell’obiettivo politico è tutto ciò che, in realtà, separa l’uccisione in guerra dall’assassinio». 5 Osama bin Laden non dissentirebbe. L’attacco terroristico più sanguinoso negli Stati Uniti prima dell’11 settembre è stato compiuto da Timothy McVeigh, il quale, il 19 aprile 1995, fece saltare in aria un edificio federale uccidendo 168 persone e ferendone altre 680. McVeigh non era musulmano, o messicano, o arabo. Era diplomato presso una scuola militare in Georgia e veterano pluridecorato della guerra del Golfo del 1991, appassionato di armi e ostile al governo forte e centralista, come molti altri repubblicani. Ma la sparatoria con più vittime provocata negli USA da un solo individuo si è verificata a Las Vegas il 1o ottobre 2017. Vi furono cinquantanove morti e più di 500 feriti. Il fatto sarebbe stato classificato come incidente «terroristico» se il killer si fosse proclamato musulmano, come nel caso di Omar Mateen, il solitario responsabile del massacro di Orlando, nel giugno 2016, quando furono uccise quarantanove persone: molti commentatori avrebbero attribuito il «problema» all’islam. Fosse stato un «rifugiato», si sarebbe chiesto a gran voce di impedire ai profughi l’ingresso nel paese o di rimandare «a casa» quelli che c’erano già. Solo che l’assassino di Las Vegas era un sessantaquattrenne ragioniere bianco in pensione, nato e cresciuto negli Stati Uniti. Nessun muro, o deportazione, o bando dei paesi del Medio Oriente avrebbe salvato le vittime. Un mese dopo la strage di Las Vegas, a Sutherland Springs, nel Texas, un ex membro dell’aeronautica militare americana (bianco) uccideva ventisei persone in una chiesa battista. Naturalmente non si manifestò alcuno sdegno contro i ragionieri in pensione o gli ex membri dell’aeronautica militare. In fin dei conti l’allarme destato dall’episodio fu misurato. Donald Trump dichiarò semplicemente che l’uomo era pazzo e si disse lieto che qualcun altro avesse avuto una pistola per sparare al killer. L’Attorney General del Texas suggerì alle chiese d’impiegare guardie giurate armate per proteggersi

(sebbene lo stesso killer fosse una guardia giurata). 6 Un certo numero di senatori e uomini politici espresse il proprio cordoglio, disperazione e orrore per la tragedia di Las Vegas. Tra loro il senatore John McCain, candidato repubblicano alla presidenza nel 2008, che «pregò» per le vittime avendo ricevuto 7,7 milioni di dollari dalla National Rifle Association (NRA, la lobby delle armi); Marco Rubio, candidato alle primarie nel 2016, anche lui in preghiera «per tutte le vittime e le loro famiglie» pur avendo beneficiato di 3,3 milioni di dollari dalla medesima NRA; c’erano poi il senatore Richard Burr, il cui «cuore era con la gente di Las Vegas» e che aveva ricevuto 6,9 milioni; il senatore Roy Blunt, «rattristato dalla tragica perdita di vite umane» sebbene avesse percepito 4,5 milioni; il senatore Thom Tillis, che inviò le sue più profonde condoglianze accettando 4,4 milioni e così via. 7 Nel febbraio 2018 è avvenuta un’altra strage in una scuola della Florida, dove un ex alunno ha assassinato diciassette allievi. Dall’inizio dell’anno era già l’ottava. Fu seguita da nuove preghiere e condoglianze, soprattutto da senatori e membri del congresso repubblicani, le cui campagne elettorali e le cui spese erano state generosamente sostenute dalla lobby delle armi. La surreale «soluzione» proposta da Trump è stata quella di armare gli insegnanti. L’economista Nouriel Roubini, esasperato, scrisse in un tweet: «Repubblicani con le mani sporche di sangue criminale “pregano” per le vittime della violenza delle armi mentre intascano quotidianamente milioni di dollari di denaro omicida della NRA, che blocca leggi sensate per il controllo delle armi e lascia che accadano massacri quotidianamente. Maledetti assassini». 8 Un paio di mesi dopo, il 18 maggio, a Santa Fe, altri dieci bambini venivano uccisi con armi da fuoco da uno studente rancoroso (non musulmano, non terrorista), il quale si dice mirasse agli studenti che non gli piacevano. 9 In ottobre ancora una strage: l’attacco a una sinagoga di Pittsburgh causava undici morti. Il killer era un bianco di mezza età che odiava gli ebrei perché, almeno così lui credeva, aiutano i migranti messicani. Qualche settimana dopo a Thousand Oaks, in California, un reduce della guerra in Afghanistan, bianco e non musulmano, uccideva dodici persone. E via dicendo. Negli Stati Uniti (che in proporzione conta più civili armati dello Yemen, dove è in atto una guerra, o dell’Iraq), il 64% di tutti gli omicidi ha a che vedere con armi da fuoco, contro il 4,5% dell’Inghilterra. 10 Si capisce che c’è un problema quando i misfatti di una minoranza

obbligano una comunità intera a sentirsi sotto assedio. Nel Nord dell’Inghilterra, in città come Rochdale e Rotherham, una serie di scandali a sfondo sessuale ai danni di minorenni violentate, maltrattate e sfruttate da gang di uomini asiatici, per la maggior parte britannici di origini pakistane, ha ricevuto – giustamente – grande copertura mediatica. Ciò ha indotto Sarah Champion, il ministro ombra laburista per le Pari opportunità, nonché deputata di Rotherham, a scrivere un articolo per il «Sun» in cui affermava che «per troppo tempo abbiamo ignorato la razza di questi molestatori e, peggio, abbiamo cercato di nasconderla. Basta. Queste persone sono predatori e il comune denominatore è la loro origine etnica». 11 Per poi aggiungere alla BBC, mescolando autocommiserazione e rettitudine, che «la destra radicale mi attaccherà per non aver fatto abbastanza e la sinistra “soft” farà altrettanto ritenendomi una razzista». In seguito ha dato le dimissioni dai banchi dell’opposizione chiedendo scusa «per le offese recate dalle parole davvero infelici nell’articolo del “Sun” di venerdì». Qualche giorno dopo, il 13 agosto 2017, Trevor Kavanagh, opinionista del «Sun», versava benzina sul fuoco in un articolo dai toni istericamente islamofobici, in cui scriveva che «la Svezia teme di perdere la propria identità di nazione», che «la Germania combatte con un’ondata di stupri e altri crimini sessuali» e che in Gran Bretagna esiste una «Questione Islamica» (con iniziali maiuscole, come ad alludere alla «Questione Ebraica» di stampo nazista – le maiuscole in seguito sono state tolte dal sito web del giornale). Tra i molti a denunciare l’articolo, più di un centinaio di deputati, oltre al Board of Jewish Deputies. Due mesi prima, il 19 giugno 2017 a Londra, un islamofobo, infuriato per gli scandali sessuali riportati e da una loro drammatizzazione televisiva, piombava con il proprio furgone su un gruppo di persone, alcune delle quali vestite in abiti islamici tradizionali, uccidendone una e ferendone altre dieci. Si trattava di un asociale e alcolista con «problemi mentali» e disoccupato da un anno. Odiare i musulmani deve avergli dato uno scopo nella vita. In un certo senso era l’equivalente di un jihadista. Dopo lo scontro, l’intervento di un imam lo salvò dalla rabbia dei presenti. 12 Si può immaginare lo scalpore globale (pienamente giustificato) se qualcuno avesse osato scrivere – in merito alle accuse di molestie rivolte all’ex direttore generale del Fondo monetario internazionale (FMI) Dominique Strauss-Kahn; al potente produttore hollywoodiano Harvey Weinstein; al noto regista Woody Allen; al grande attore Dustin Hoffman; al celebre

direttore d’orchestra James Levine (per quarant’anni direttore del Metropolitan di New York); al miliardario Philip Green; a lord Greville Janner, presidente del Board of Jewish Deputies ed ex membro del parlamento, presunto molestatore di bambini e scomparso prima di subire un processo e, last but not least, la condanna del famoso regista Roman Polanski per aver avuto rapporti illegali con una tredicenne – che «per gli ebrei esiste una questione di molestie sessuali». In realtà molti uomini potenti, di qualunque origine etnica, sembrano avere problemi con il sesso. Come rivelato dal «Financial Times», nel gennaio 2018, 360 uomini in smoking presero parte a una serata di gala di beneficenza «per soli uomini» tenutasi all’hotel Dorchester a Londra e giunta alla XXXIII edizione: un misto di uomini d’affari, qualche politico, immobiliaristi, produttori cinematografici, finanzieri. Con loro 130 hostess ingaggiate per l’occasione, cui era stato prescritto di indossare abiti neri scollati con biancheria abbinata e tacchi alti e alle quali era stato fatto firmare un accordo di riservatezza. Molte di loro – alcune studentesse presentatesi per guadagnare qualche soldo – furono palpeggiate, molestate sessualmente e fatte oggetto di avances, commenti laidi e volgari e ripetute richieste di appartarsi con i commensali nelle loro camere. Alcuni di questi avevano frequentemente infilato le mani sotto le gonne delle hostess; uno di loro esibì il pene. La raccolta fondi comprendeva premi come una serata in un night club con tanto di ballerine «esotiche». Il compito di trovare le ragazze – che dovevano essere «alte, magre e carine», e che per la serata ricevettero 150 sterline a testa – era stato affidato a un’agenzia specializzata. Una hostess navigata aveva ammesso che tra gli uomini c’erano probabilmente parecchi «stronzi». E questo luogo, dove i «padroni dell’universo» e i «capitani d’industria» si comportano come patetici teppistelli affamati di sesso, in cerca di adulazione e che probabilmente pensano di divertirsi, è il centro finanziario del mondo. 13 Perfino alcuni operatori di ONG come quelli impiegati presso Oxfam frequentavano prostitute in luoghi come Haiti, appena colpita dal terribile terremoto che nel 2010 ha provocato 160.000 vittime, 300.000 feriti e un milione e mezzo di senzatetto. 14 Secondo il capo del Crown Prosecution Service nel Nordest dell’Inghilterra, Nazir Afzal – anche lui musulmano, che ha condotto una campagna contro i matrimoni forzati, la mutilazione genitale femminile e i delitti d’onore –, i colpevoli di delitti a sfondo sessuale nel Regno Unito sono

per la maggior parte maschi bianchi. Sue Berelowitz, vicecommissaria dell’Autorità per i minori in Inghilterra, ha spiegato che i criminali sessuali «provengono da tutti i gruppi etnici e così le loro vittime, contrariamente a quanto certi potrebbero voler credere». 15 Se si considerano le molestie sessuali inflitte a minori nel loro complesso, non vi sono prove del fatto che i colpevoli appartengano in modo preponderante a un solo gruppo etnico. Invece è certo che, per la stragrande maggioranza, si tratta di uomini. Nonostante l’apparente impennata di razzismo, dobbiamo ricordare che il fenomeno in Gran Bretagna era peggiore negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, per non parlare degli anni Cinquanta. Nel 1950 l’allora governo laburista guidato da Clement Attlee avviò una commissione di riesame sulla possibilità di «controllare l’immigrazione in questo paese di persone di colore [corsivo mio] dai territori coloniali britannici». L’immigrazione «di colore» era vista come un problema. 16 Nell’agosto del 1958 si verificarono «disordini razziali» a Notting Hill, scatenati da una subcultura giovanile bianca di destra comunemente definita Teddy Boy. L’anno seguente Oswald Mosley, il leader della British Union of Fascists negli anni Trenta, si candidò alle elezioni del 1959 nel collegio di North Kensington per conto del suo «nuovo» Union Movement (aveva saggiamente eliminato «Fascists») con un programma di rimpatrio forzato degli immigrati caraibici (a suo dire portatori di malattie). Ottenne un non insignificante 7,6% dei voti. Alle elezioni del 1964, vinte dal Partito laburista guidato da Harold Wilson, il candidato conservatore per il collegio di Smethwick, vicino a Birmingham, tale Peter Griffiths, fece una campagna apertamente razzista mentre i suoi sostenitori cantavano lo slogan «If you want a nigger for a neighbour, vote Labour» («Se vuoi un negro per vicino vota laburista»). Griffiths rifiutò di dissociarsene: «Non condannerei nessuno che l’abbia detto. La considero una manifestazione di sentimento popolare». 17 Strappò il seggio al Partito laburista con un margine del 7,2% rispetto a una situazione nazionale che invece vedeva i laburisti vincere del 3,5%. Qualche anno più tardi, nel 1968, il governo laburista promulgò il Commonwealth Immigrants Act, che ridusse per i cittadini delle nazioni del Commonwealth il diritto di stabilirsi nel Regno Unito. Essendoci clausole riguardanti le origini dei nonni, era ovvio che lo scopo fosse quello di prevenire l’arrivo di persone di origine indiana o pakistana perseguitate in alcuni paesi africani in preda a una politica di «africanizzazione», come il

Kenya. Qualche settimana dopo Enoch Powell, che all’epoca era il ministro ombra della Difesa, avvisò che l’immigrazione dalle ex colonie britanniche avrebbe portato una violenza apocalittica paragonabile agli allora recenti disordini razziali negli Stati Uniti. Con l’approvazione mista a comprensione, citò un cittadino del suo collegio che gli aveva detto che presto «il nero avrà una posizione di forza sul bianco». 18 Era il famoso «discorso dei fiumi di sangue» (anche se queste parole non furono mai usate letteralmente) in cui utilizzò il tipico dispositivo retorico con cui si cita qualcuno che abbia detto ciò che non si vuole dire direttamente. Powell avrebbe potuto menzionare i numerosi incidenti razzisti in cui i neri erano picchiati dai bianchi, ma non lo fece. Gli incidenti da lui elencati in un secondo discorso, meno noto, erano invece quasi tutti falsi. 19 La sua ipocrisia fu resa evidente dal fatto che da ministro della Sanità (1960-1963) non aveva mai protestato contro i migranti neri, e le autorità avevano continuato ad attingere dalle ex colonie il personale per il sistema sanitario nazionale. Come ministro della Sanità fu un disastro: rifiutò di aprire un’inchiesta sul talidomide, un farmaco per le puerpere che alleviava la nausea mattutina e che finì per causare, in tutto il mondo, la nascita di più di 10.000 bambini privi di braccia o di gambe, alcuni con seri danni cerebrali. Il suo principale consulente medico aveva procurato le informazioni dalla Distiller, la stessa azienda che produceva il farmaco. 20 A coronare il tutto, rifiutò anche di introdurre alcuni test per il cancro al collo dell’utero che avrebbero potuto salvare molte vite, com’era successo negli Stati Uniti. 21 Anche il suo «discorso dei fiumi di sangue» è inesatto. Per ostentare la sua conoscenza dei classici citò l’Eneide di Virgilio: «Guardando innanzi, sono pieno di prescienza; come il Romano, mi par di vedere il fiume Tevere schiumoso di sangue». Ma si sbagliava: non è un romano che profetizza il sangue. A quell’epoca non c’erano romani. Era piuttosto il dio (greco) Apollo che parlava attraverso la sua sacerdotessa, la Sibilla Cumana, che è greca (Cuma, colonia greca vicino a Napoli) e dice a Enea (un rifugiato di Troia che, fosse stato per Enoch e i suoi seguaci, a Roma non si sarebbe mai neanche avvicinato): «Vedo guerre, orribili guerre, e il Tevere schiumoso di sangue» (Eneide VI,86-87). Qui si parla d’invasione e conquista, ben altro da tutto ciò che avrebbe potuto minacciare la Wolverhampton di Enoch. Dopo il «discorso dei fiumi di sangue», Powell fu rimosso dal governo ombra dal leader conservatore Edward Heath. Ricevette sostegno da ambienti

inaspettati: mille portuali scesero in piazza con slogan come «Don’t Knock Enoch» («Non colpite Enoch») e «Back Britain, Not Black Britain» («Sostenere la Gran Bretagna, non la Bretagna Negra»), protestando contro la «vittimizzazione di Powell». 22 Furono presto seguiti dagli scaricatori della carne del mercato di Smithfield, mentre il quotidiano conservatore «Times» (all’epoca diretto da William Rees-Mogg) definì «malvagio» il discorso di Powell (22 aprile 1968) che ricevette migliaia di lettere di sostegno. Manco a dirlo, il fatto che si sbagliasse in questo come in molto altro e che cambiasse idea frequentemente non intaccò l’ammirazione dei suoi numerosi sostenitori e agiografi. Uno di loro, Simon Heffer, autore di una biografia di Powell assai lunga e positiva, scrisse un articolo su di lui per il «Daily Mail» dal titolo Profeta eppure emarginato. A cento anni dalla nascita, giustizia per Enoch Powell su tante questioni cruciali. 23 L’uso dell’espressione «giustizia» è volutamente controverso: Powell si opponeva all’ingresso nell’Unione Europea ed era un fervente neoliberale – in altre parole, un pioniere dei sintomi morbosi. Non sorprende che il «Daily Mail» fosse in prima linea nella riabilitazione di Enoch Powell, visto che pubblica costantemente articoli denigratori sui profughi, affermando che molti non lo sono affatto, o che «circa sei milioni di profughi in Africa settentrionale, Giordania e Turchia aspettano di arrivare in Europa» (24 maggio 2017). La maggior parte dei richiedenti asilo in Europa proviene da Siria e Afghanistan (vedi Grafico 1) e non si avvicina neppure alla cifra di sei milioni. Grafico 1 – I primi 10 paesi di origine dei richiedenti asilo in UE Prima domanda presentata nel 2015, in migliaia

Fonte: Eurostat.

Il «Daily Mail» non è nuovo nello spacciare fake news (come la falsa lettera di Zinov’ev pubblicata poco prima delle elezioni politiche del 1924 con il titolo Complotto di guerra civile da parte dei padroni dei socialisti) o nell’evidenziare commenti negativi sui profughi stranieri: il 20 agosto 1938 riportò positivamente le parole di un magistrato britannico che lamentava come il modo in cui «ebrei senza patria dalla Germania» stavano «piovendo da ogni porto di questo paese sta diventando uno scandalo…». 24 Qualche anno prima, un titolo del «Daily Mail» salutava la British Union of Fascists con un editoriale scritto dal suo proprietario, lord Rothermere: Evviva le Camicie nere (15 gennaio 1934). Una settimana più tardi il filo-laburista «Daily Mirror» uscì con il titolo Aiutate le Camicie nere. L’autore era lo stesso lord Rothermere, che si dà il caso possedesse anche quest’altro quotidiano. L’antisemitismo in varie forme era vivo e vegeto negli alti ranghi del Partito laburista ben prima del recente furore scatenato dall’anticorbynismo. Nel 1929 Sidney Webb – uno dei principali architetti della Fabian Society, allora lord Passfield e segretario di stato per le colonie nel governo laburista – si rallegrava che «non ci fossero ebrei nel Partito laburista» e che, mentre «il socialismo francese, tedesco, russo è pieno di ebrei, noi, grazie a Dio, ne siamo liberi», aggiungendo che ciò fosse probabilmente dovuto al fatto che nel partito «non c’erano soldi». 25 Simile antisemitismo era del tutto comune: pur detestando il fascismo, Virginia Woolf (il cui marito era ebreo) scrisse cose che oggi potrebbero solo

provocare disgusto. Turbata al ritrovarsi seduta accanto a sir Philip Sassoon, descritto come un «bastardo ebreo di Whitechapel», rifletteva su come «detestassi sposare un ebreo, quanto non mi piacevano le loro voci nasali, la loro gioielleria orientale e i loro nasi e le loro pappagorge», nonostante aggiungesse: «Che snob che ero: hanno una vitalità immensa e penso che sia la qualità che preferisco in assoluto». 26 Con l’islamofobia oggi si guadagnano più soldi che con l’antisemitismo. È difficile immaginare un bestseller che lanci l’allarme contro il presunto potere degli ebrei, ma sono molti i libri che mettono in guardia dalla minaccia rappresentata dai musulmani per i «valori» europei (tra i quali, presumibilmente, non figurano nazismo e stalinismo). Il genere islamofobico non è originale. Afferma che ci sono troppi musulmani, che presto s’impadroniranno di tutto e che l’Occidente è spacciato, a meno che «noi» non reagiamo. Oriana Fallaci, nel suo vendutissimo e ampiamente tradotto La rabbia e l’orgoglio, scritto in reazione all’11 settembre e pubblicato nel 2001, e in La forza della ragione, del 2004, ha prodotto testi infarciti d’insulti isterici verso «i figli di Allah». Londonistan: How Britain is Creating a Terror State Within («Londonistan. Come la Gran Bretagna sta creando al suo interno uno stato del terrore»), titolo di Melanie Phillips (un’altra giornalista che, come Fallaci, è transitata da sinistra a destra) del 2006, la dice tutta. Un esempio più recente di questo genere è La strana morte dell’Europa. Immigrazione, identità, islam (2017, tr. it. 2018), del giornalista britannico Douglas Murray. Lo storico Niall Ferguson, in un articolo per il «New York Times», notando l’invecchiamento della popolazione europea aggiungeva che «una società musulmana giovane a sud e a est del Mediterraneo si prepara a colonizzare – il termine non è eccessivo – una senescente Europa». 27 America Alone: The End of the World as We Know It (2006, «America sola. La fine del mondo come lo conosciamo»), del giornalista canadese Mark Steyn, lamentava il «fatto» che presto i musulmani supereranno in numero i bianchi: «Si riproducono con zelo». 28 Mark Steyn si rilassi: i musulmani americani (l’1% della popolazione) hanno una media di 2,4 bambini nel corso della propria vita. Gli americani «normali» ne hanno una complessiva di 2,1. 29 Secondo il centro di ricerche Pew, entro il 2050 la popolazione musulmana americana dovrebbe raggiungere in proiezione gli 8,1 milioni, il 2,1% della popolazione totale del paese, meno della percentuale odierna di musulmani in Gran Bretagna,

Francia o Germania. 30 Non è esattamente un riprodursi «con zelo». Se c’è qualcuno che si riproduce «con zelo» è la comunità ebraica ortodossa americana con quattro bambini per coppia (a differenza degli altri ebrei che, nel complesso, sono liberal e votano democratico). 31 E non è un fenomeno soltanto americano. In realtà, in Gran Bretagna, dove vivono 270.000 ebrei, gli ultraortodossi (il cui tasso di natalità eccede quello di qualunque altro gruppo) rappresenteranno il 30% di tutti gli ebrei entro il 2031 e raggiungeranno la maggioranza nei vent’anni successivi, oscurando l’immagine in un certo modo stereotipata dell’ebreo progressista, intellettuale e illuminato. 32 In precedenza, sul «Wall Street Journal» del 4 gennaio 2006, Steyn aveva predetto con convinzione che la popolazione musulmana in Europa sarebbe arrivata al 40% entro il 2025. 33 Simili timori demografici sono antichi e le statistiche spesso false (i quotidiani americani dovrebbero avvalersi di ottimi fact-checkers, ma quelli del «Wall Street Journal» evidentemente dormivano). La popolazione musulmana dell’Unione Europea (in Europa orientale quasi non ci sono musulmani, con l’ovvia eccezione della Russia, dove è presente una considerevole popolazione musulmana indigena) era ancora soltanto del 4,9% nel 2016 (dieci anni dopo la grande predizione di Steyn). Secondo il centro di ricerche Pew, ci sono tre possibili scenari riguardo alla percentuale di musulmani in Europa nel 2050: 1. 2. 3.

7,4% se non c’è immigrazione; 11,2% con un’immigrazione «normale»; 14% se i trend attuali, alimentati dalla crisi dei profughi, proseguono. 34

Non sono solo i musulmani a rappresentare una minaccia per gli Stati Uniti. Ci sono anche i messicani: «stupratori», secondo la nota definizione di Donald Trump. È questa la logica dietro il muro al confine con il Messico. Qui Trump non è certo un innovatore, segue le tracce del presidente liberal Clinton. Nel 1994, l’operazione «Gatekeeper» dell’amministrazione Clinton puntava a rendere più difficile e pericoloso l’attraversamento del confine da parte dei migranti messicani clandestini, perché il viaggio attraverso il deserto e il terreno montuoso avrebbe richiesto più tempo e sarebbe stato più rischioso. Avrebbe significato centinaia di morti. 35 Né va ignorato il

sostegno dato da Hillary Clinton al colpo di stato in Honduras nel 2009 (era segretario di stato durante la presidenza Obama), golpe che ha enormemente contribuito all’ondata di rifugiati e migranti da quel paese. Tra maggio e giugno 2018 un’applicazione rigida (tolleranza zero) delle regole esistenti ha fatto sì che circa 2342 figli d’immigrati clandestini fossero separati dalle loro famiglie e inviati in centri di detenzione di massa e trattenuti in gabbie d’acciaio. 36 La scena di bambini in lacrime che chiedevano di vedere i propri genitori inorridì molti americani, ma non Trump. Laura Bush, moglie dell’ex presidente George W. Bush, denunciò sul «Washington Post» la crudeltà e l’immoralità di un’applicazione delle regole così rigida. 37 Le faceva eco, apparentemente, Melania Trump, dichiarando di «non sopportare di vedere bambini separati dalle loro famiglie» (e chi lo sopporta?). Ritenendo di aver esagerato, «The Donald» cedeva con un insolito (e forse temporaneo) voltafaccia, nonostante il proprio fermo convincimento che i migranti senza documenti «non siano persone: questi sono animali». 38 Su Fox News, Ann Coulter, un’opinionista di estrema destra che deve la fama ai propri oltraggiosi commenti, disse che i bambini che piangevano erano «attori». 39 Sarà naturalmente difficile, se non impossibile, riunire tutte queste famiglie: i bambini sono stati sparpagliati per gli Stati Uniti. Alcuni di questi migranti da paesi del Centroamerica sono etichettati, piuttosto spregiativamente, come migranti «economici» anziché richiedenti asilo, come se il desiderio di emigrare per migliorare la propria vita fosse in qualche modo motivo di vergogna, come se non fosse vero che sono stati i migranti «economici» a costruire l’America, grande o no che sia. Tenere alla larga chi fugge da carestie, guerre o persecuzioni è ancora più vergognoso e i precedenti della Gran Bretagna al riguardo sono deplorevoli (sebbene non quanto quelli del Giappone che, nel 2017, ha accettato solo venti delle 20.000 richieste di asilo ricevute). 40 La condotta degli Stati Uniti, un paese con 325 milioni di abitanti, è pessima. Nel 2015, sotto la presidenza Obama, ha ammesso 2192 profughi siriani; nel 2016 il numero è salito a 15.479 e nel 2017, sotto Trump, è sceso a 3024. Da gennaio ad aprile 2018 gli Stati Uniti avevano fatto entrare undici profughi, sebbene, commossi dalle tribolazioni dei siriani (apparentemente) uccisi con il gas dal regime di Assad, avessero bombardato installazioni militari siriane. 41 Mentre i tabloid britannici tratteggiano il quadro di un paese «sommerso»

da richiedenti asilo, la realtà è assai diversa. Nel 2015 la presenza di profughi nel Regno Unito era stimata in 123.000 unità, circa lo 0,2% della popolazione. 42 Per contro, i profughi fuggiti dal 25 agosto del 2017 dal Myanmar in Bangladesh (uno dei paesi più poveri del mondo) sono più di 723.000. 43 L’isteria sui profughi è comune negli organi di stampa, compresi quelli britannici, ma è un gioco cui nemmeno i politici si sottraggono: David Davies, un conservatore gallese, e Jack Straw, ex ministro degli Interni e degli Esteri, hanno avuto anche loro l’abiezione di chiedere che i profughi bambini a Calais fossero sottoposti a un esame dentario per accertarne l’età. 44 La voce in assoluto più importante che si è levata in Europa contro l’isteria antiprofughi è stata quella della cancelliera tedesca e leader del Partito democratico cristiano Angela Merkel. Esibendo un’integrità raramente riscontrata tra gli esponenti della sinistra ufficiale – anzi, ovunque tra i leader europei – Merkel, all’apice della crisi di profughi, decise di aprire i confini accogliendo più di un milione di rifugiati. Per i tedeschi si è trattato di un’occasione per fare bella figura. Come ha scritto Thomas Meaney: «Per una breve stagione, i tedeschi sono stati ebbri della propria magnanimità, offrendo bottiglie d’acqua e animaletti di pezza ai siriani», a differenza dei francesi che non si peritarono di farli marcire nella «giungla di Calais» (una politica seguita tanto dal socialista François Hollande quanto dal centrista Emmanuel Macron), o dai britannici, che ne accettarono a malapena qualcuno, o dagli ungheresi che si erano barricati. 45 La popolarità di Merkel cominciò a vacillare dopo una serie di violenze sessuali (compresi venti stupri o tentati stupri) commesse a Colonia e in altre città ai danni di 1200 donne durante i festeggiamenti per il Capodanno 2015 da parte di circa 2000 nordafricani. Le opinioni negative sui musulmani espresse in un dato paese sono quasi inversamente proporzionali al numero di musulmani presenti. In Ungheria (il paese islamofobo numero uno) le opinioni negative sui musulmani sono dichiarate dal 72% della popolazione (i musulmani in Ungheria sono lo 0,1%); in Italia dal 69% (i musulmani in Italia sono il 3,7%); e in Polonia dal 66% (i musulmani in Polonia sono lo 0,1%). Le percentuali si abbassano attorno al 28-29% nei paesi con la più alta presenza musulmana, come Francia, Germania e Regno Unito, dove i musulmani rappresentano

rispettivamente il 7,5%, il 5,8% e il 4,8% della popolazione. 46 La crescita dei partiti anti-immigrati in Europa non può essere spiegata unicamente con le preoccupazioni riguardanti l’economia. Se in Spagna, Irlanda e Portogallo la politica anti-immigrazione è relativamente sommessa, altrove in Europa si registra invece una accentuazione che è legata a fattori ideologici, come la percezione di un attacco all’identità nazionale e il suo uso da parte dei partiti politici in quello che lo storico Richard Hofstadter – nella sua classica analisi della destra radicale americana al tempo di McCarthy (The Paranoid Style in American Politics, 1966) – ha notoriamente descritto come lo «stile paranoico». Negli Stati Uniti, l’islamofobia paranoica deve la credibilità intellettuale ai cosiddetti think tank che si proclamano imparziali, come il destrorso Gatestone Institute (presieduto da John Bolton, già ambasciatore degli USA presso l’ONU – per poco, fortunatamente! –, ma ora consigliere per la sicurezza di Trump). I loro siti web ospitano articoli secondo i quali l’Europa avrebbe zone «esclusivamente islamiche» e «micro-stati governati dalla Sharia». L’idea di zone per soli musulmani si deve all’«esperto» di terrorismo Steven Emerson. Secondo lui Birmingham (la seconda città britannica) sarebbe «completamente musulmana [… un posto] dove i non musulmani semplicemente non vanno». Si è poi scusato («un errore tremendo […] sono terribilmente dispiaciuto»), ma ormai la sua affermazione era diventata una notizia talmente eclatante da indurre l’allora primo ministro David Cameron a descrivere Emerson – in modo abbastanza corretto – come «un perfetto idiota». 47 Lo stesso dicasi dell’ambasciatore in Olanda nominato da Trump Peter Hoekstra (un emigrato olandese), che nel 2015 aveva affermato che in quel paese esistevano «zone interdette» e che auto e uomini politici venivano dati alle fiamme dai fondamentalisti islamici. Negò alla televisione olandese di aver detto queste cose (le definì fake news), poi gli fecero ascoltare le registrazioni. 48 Non solo mentono, ma dimenticano di mentire. I vendutissimi profeti di sventura ripetevano semplicemente le vecchie storie che prevalevano attorno al 1900, quando emerse una nuova letteratura dell’allarme: tutto era condannato; i barbari erano alle porte; i nostri valori erano in pericolo. Il tema della sventura è esaltante. Dopo la prima guerra mondiale, l’idea del «declino e caduta» divenne un genere di moda, reso ulteriormente popolare da autori come Arnold Toynbee, nella sua Storia

comparata delle civiltà (1934-1961) in più volumi, e Oswald Spengler, con il bestseller Il tramonto dell’Occidente, pubblicato nel 1918 sebbene scritto prima della guerra. Tra le classi colte la xenofobia prosperava. Max Weber, teorico del liberalismo – ma più nazionalista che liberale –, agitato dall’arrivo di lavoratori polacchi, invitò alla chiusura della frontiera orientale. «Da un punto di vista della nazione», scrisse, «le grandi imprese che possono essere protette solo a spese della razza tedesca meritano di essere distrutte». 49 Oggi in tutta Europa le opinioni antimigranti sono in crescita. In Germania, per esempio, la xenofobia non è solo prerogativa di frange periferiche e di partiti in ascesa come Alternative für Deutschland (AfD, Alternativa per la Germania). Un politico tedesco, Thilo Sarrazin – membro del Partito socialdemocratico (la SPD) ed ex membro del consiglio di amministrazione della Bundesbank –, ha rilasciato un’intervista alla rivista culturale tedesca «Lettre International» (settembre 2009) nella quale si riferisce al gran numero di arabi e turchi a Berlino che, secondo lui, fanno poco altro a parte vendere frutta e verdura e produrre «ragazzine con il velo», vivendo di sussidi e rifiutando di integrarsi (è stato perfino in grado di fornire statistiche per simili refuseniks: 70% di turchi e 20% di arabi). 50 In seguito Sarrazin ha utilizzato la sua recente notorietà per pubblicare, nel 2010, un libro zeppo di ostilità verso i migranti, Deutschland schafft sich ab («La Germania si abolisce da sé»), presto divenuto un bestseller da un milione e mezzo di copie vendute, a quanto pare il saggio più venduto nella Germania del dopoguerra. 51 Un nuovo libro, che probabilmente spaccia lo stesso messaggio, intitolato Conquista ostile. Come l’islam frena il progresso e minaccia la società, ha incontrato problemi di pubblicazione. Gran parte del suo dubbio pastrocchio di pseudoscienza e reminiscenze delle teorie eugenetiche del passato è stato ampiamente criticato ovunque da scienziati, compresa Angela Merkel (che ha una formazione scientifica). Pensatori liberali come il giurista Christoph Schönberger e il politologo Herfried Münkler pensavano che la Germania avrebbe potuto guidare l’Europa proprio grazie al fatto di essere stata vaccinata dal proprio passato contro vari tipi di populismo moderno, a differenza di Francia (Le Pen), Italia (Lega) e Grecia (Alba Dorata). 52 Erano troppo ottimisti. Opinioni considerate illegittime in Germania fino a poco tempo fa sono diventate oggi accettabili. L’AfD, a lungo considerato come un semplice partito marginale di destra, nel settembre del 2017 ha

ottenuto il 12,6% del voto popolare, diventando il terzo partito tedesco. Ha ottenuto ottimi risultati nella ex Germania Est, dove ci sono pochi migranti. Non è poi vero che si tratti principalmente di un partito di «svantaggiati»: il 39% dei suoi sostenitori ha un reddito superiore alla media. 53 L’AfD è stata fondata da figure di primo piano che si opponevano ai programmi di salvataggio della Grecia. Uno dei suoi fondatori, Konrad Adam, è stato caporedattore dell’illustre quotidiano conservatore «Frankfurter Allgemeine». Il suo viceportavoce nel 2014 era Hans-Olaf Henkel, ex membro di Amnesty International (!) e presidente della confindustria tedesca (BDI) dal 1995 al 2000. Ha lasciato nel 2015, quando il partito si è mutato in una formazione marcatamente xenofoba. Alice Weidel, co-leader ed ex banchiera a Goldman Sachs, con Margaret Thatcher come modello, è anche euroscettica e forse un po’ femminista, giacché deplorava che soltanto il 18% degli elettori di AfD fossero donne. 54 Tanto per confondere chi ritiene che l’estrema destra debba necessariamente essere omofoba, ha fatto outing dichiarando di avere una partner di origine cingalese con la quale ha adottato due bambini: eppure, ufficialmente, il partito che guida è contrario ai matrimoni gay e difende la famiglia tradizionale. 55 In Italia il razzismo è sicuramente meno complicato e più volgare, e non soltanto tra certi tifosi di calcio. Nel calcio, infatti, il razzismo è endemico in tutta Europa; ai giocatori vengono indirizzati insulti e cori razzisti, mentre in Inghilterra lo slogan «There ain’t no black in the Union Jack / Send the bastards back» («Non c’è il nero nella bandiera, rispedite a casa i bastardi») si sente per tutta la durata delle partite. 56 Carlo Tavecchio, dirigente calcistico, si è fatto conoscere per essersi lamentato del fatto che in Italia giocassero mangiatori di banane (cioè i giocatori africani). 57 Nonostante simili commenti (e la sua fedina penale macchiata da evasione fiscale, molestie sessuali eccetera), Tavecchio è stato eletto presidente della FIGC nel 2014 e rieletto nel 2017. Ha dato le dimissioni nel novembre 2017 perché l’Italia aveva mancato le qualificazioni per la Coppa del mondo del 2018 (e per le numerose accuse rivoltegli). In politica le cose vanno peggio. Il 13 luglio 2013 Roberto Calderoli, membro di punta della xenofoba Lega Nord e già ministro nel governo di Silvio Berlusconi, da vicepresidente del senato dichiarò sprezzante (evidentemente ritenendo ilare la cosa) che il ministro per l’Integrazione Cécile Kyenge (nata nella Repubblica Democratica del Congo) gli ricordava

un orangutan. Kyenge, membro del Partito democratico, era regolarmente insultata e fatta oggetto di lanci di banane mentre parlava in pubblico. Calderoli fu scagionato dal senato (con i voti dello stesso Partito democratico) dall’accusa di diffondere odio razziale. «In cambio» ritirò i 500.000 emendamenti che aveva presentato alle riforme costituzionali proposte dal PD. Calderoli non è nuovo a simili, disgustosi commenti. Nel 2006 aveva detto che la nazionale di calcio francese aveva perso contro gli italiani perché la loro squadra era piena di «negri, islamisti e comunisti». 58 Viene da chiedersi cosa possa aver detto nel 1998, quando la Francia batté l’Italia. All’inizio del 2018 Calderoli era ancora vicepresidente del senato. E il suo partito, la Lega, ha firmato un patto di cooperazione con il partito di Putin, Russia unita, come altri partiti europei di estrema destra. 59 Naturalmente Berlusconi non ha perso tempo a sfruttare la carta dei migranti. Durante la campagna elettorale per le elezioni del marzo 2018 aveva annunciato (febbraio 2018) che l’immigrazione «è una questione urgentissima» perché in Italia «ci sono ora 600.000 migranti che non hanno diritto di restare» e che rappresentano «una bomba sociale pronta a esplodere, perché pronti a compiere reati». Un paio di settimane prima aveva detto che i migranti illegali erano 476.000. Si era evidentemente dimenticato che i crimini commessi in Italia mentre lui era presidente del consiglio (20082011) erano stati di più che negli ultimi cinque anni, quando il numero dei migranti stava notevolmente aumentando. 60 Tali commenti erano la risposta di Berlusconi all’assalto a colpi di pistola di Luca Traini, un attivista della Lega, che a Macerata aveva ferito sei migranti africani. Le elezioni del 2018 sono state dominate dalla questione dei migranti (anche se il problema principale era la disoccupazione, soprattutto quella giovanile). I risultati sono stati una vittoria, in termini percentuali, per il Movimento 5 Stelle (euroscettico e anti-immigrazione), ma la coalizione di centrodestra ha ottenuto il maggior numero di seggi, senza però riuscire a costituire una maggioranza in grado di esprimere un governo. Tuttavia, all’interno di questa alleanza, il partito dominante è diventata la Lega, che ha sorpassato Forza Italia, il partito di Berlusconi. Lega e Movimento 5 Stelle hanno infine costituito una maggioranza a sostegno di un governo comune. In Francia, la leader del Front National, Marine Le Pen, si è fatta scrupolo di prendere le distanze dai virulenti commenti razzisti fatti in passato, fin quando non le fu ricordato – da Christiane Amanpour in un’intervista alla

(20 febbraio 2017) – di aver ammonito ancora nel 2012 che «certi» migranti «ti ruberebbero il portafogli e ti violenterebbero la moglie». Il razzismo più abbietto lo lascia ora ad alcuni dei suoi candidati, ma in pochi dubitano che l’attrattiva principale del Front National siano xenofobia e islamofobia. Ciò ha pagato: un terzo del paese natale della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) ha votato per lei al secondo turno delle elezioni presidenziali del 2017. Ovviamente pensano che questi diritti non debbano essere estesi a chi non è «veramente» francese. Ma non è solo questione del Front National. L’ondata islamofobica in Francia è una questione seria e la «sinistra» è tutt’altro che innocente. Svariati intellettuali non hanno perso occasione di lodare chiunque esprimesse disgusto per l’islam, in particolare dopo il folle attacco ai giornalisti del settimanale satirico «Charlie Hebdo» il 7 gennaio 2015 da parte di due terroristi islamici, che provocò dodici morti e undici feriti. Un libro banale come Sottomissione di Michel Houellebecq, che descrive una Francia occupata «legalmente» dall’islam, è diventato subito un bestseller. L’autore, noto per le sue deliberate provocazioni anti-islamiche (leggere il Corano è disgustoso eccetera) che ne aumentavano la notorietà, è stato ben presto celebrato da intellettuali «illustri» e guru assortiti: Alain Finkielkraut, autore di un libro contro l’antisemitismo e membro dell’Académie Française; Bernard-Henri Lévy; Emmanuel Carrère; Hélène Carrère d’Encausse, storica dell’URSS e segretaria permanente dell’Académie Française e molti altri. 61 Nell’estate del 2016 la polizia francese, pattugliando le spiagge di Nizza, multò una donna musulmana perché non indossava un costume da bagno. Era completamente vestita e aveva il capo coperto, seppure non il volto (dal 2011 in Francia è proibito, come in Olanda e in altri paesi europei «liberali», coprirsi il volto). Il 28 luglio 2016 il sindaco di Cannes, David Lisnard (del partito di centrodestra Les Républicains), proibiva il cosiddetto burkini (sorta di costume da bagno che copre la maggior parte del corpo ma abbastanza leggero da permettere di nuotare). La Francia fu ridicolizzata abbastanza giustamente con l’hashtag di Twitter #WTFFrance (Francia, What The Fuck?). La giustificazione del sindaco fu che il non indossare un «normale» costume fosse contro i principi della laïcité (andrebbe notato che una suora cattolica che cammina sulla spiaggia in piena paratura religiosa non è stata mai multata). Marine Le Pen si gettò nella mischia con una nuova definizione di «francesità»: «La France ce n’est pas le burkini sur les plages. La France CNN

c’est Brigitte Bardot» («La Francia non è il burkini sulle spiagge. La Francia è Brigitte Bardot»). 62 La cosiddetta laicità è diventata sempre più una copertura per l’islamofobia, pur mantenendo il suo fascino in quanto mito di fondazione della Francia moderna. Dovrebbe essere a proposito della separazione fra stato e chiesa, ma la moralità convenzionale, in Francia e altrove in Occidente, è piena di dogmi e tabù, di cosa fare e cosa non fare, di rituali vacanzieri e predeterminati giorni di riposo che devono le loro origini alla religione. Così, la France laïque chiude il Lunedì di Pasqua, il giorno dell’Ascensione, la Pentecoste e l’Assunzione della beata vergine Maria, gli Ognissanti, e, naturalmente, Natale. Ebrei e musulmani hanno dovuto vedersela con questa laicità nelle loro ricorrenze religiose. Inoltre, la legge del 31 dicembre 1959 assicura che lo stato laico francese (cioè i contribuenti) finanzi oltre 8000 scuole quasi tutte cattoliche, e dunque i loro due milioni di allievi (17% del totale) e i rispettivi 140.000 insegnanti. 63 Nel nome della laïcité più di dieci circoscrizioni lungo la riviera hanno bandito il burkini, creato nel 2003 da un’australiana di origini libanesi e che, in Gran Bretagna, si può comprare da Marks & Spencer. Quest’affaire ridicolo non si è fermato a qualche sindaco senza scrupoli che pesca voti nel torbido. Laurence Rossignol, ministra (socialista) delle Pari opportunità, si è unita alla virtuosa lotta contro il burkini, che considera simbolo dell’oppressione femminile. Ha subito ricevuto il sostegno di Manuel Valls, il primo ministro socialista abbastanza destrorso che nel 2012 aveva difeso il diritto degli ebrei di indossare la kippah. 64 Come i talebani, le autorità iraniane e altri esponenti di una concezione totalitaria della società, Rossignol, Valls e altri volevano dire alle donne che cosa indossare. In termini elettorali avevano visto giusto: secondo un sondaggio IFOP, il 64% dei francesi è contro l’uso del burkini in spiaggia e solo il 6% è favorevole, il resto si è dichiarato indifferente. 65 Si rientrò in senno dopo che il Consiglio di stato (il supremo tribunale amministrativo), sapendone di diritti umani più di vari ministri socialisti, aveva revocato il bando, una decisione salutata da «Le Monde» come una vittoria per lo stato di diritto. 66 Tale buonsenso non è durato a lungo, almeno tra i politici della destra francese. Nello sgomento per la mediocre prova di François Fillon, il candidato dei Républicains (gli eredi del gollismo) alle presidenziali del 2017, il partito ha eletto come suo successore un candidato di estrema destra,

Laurent Wauquiez (con uno schiacciante 74,6%, per quanto avesse votato solo il 42% degli iscritti). Wauquiez si era presentato con un programma antiimmigrazione che, nella speranza dei Républicains, avrebbe attratto alcuni elettori del Front National. Si richiamava a «una destra che non si scusa di essere di destra». 67 Come Fillon, Wauquiez è un convinto cattolico che si oppone al welfare, alla settimana corta, ai matrimoni omosessuali e anche alla fecondazione artificiale. Ha spiegato come l’omosessualità non sia compatibile con i suoi «valori personali». Per contro, Marine Le Pen è liberal riguardo ai diritti omosessuali (una mossa vista come ulteriore tentativo di attaccare i musulmani secondo il presupposto ampiamente diffuso che l’islam sia particolarmente omofobo). L’isteria francese sui simboli di devozione alla fede musulmana è continuata anche sotto il governo Macron. Maryam Pougetoux, la leader studentesca della Sorbona, nel maggio 2018 ha rilasciato un’intervista televisiva indossando l’hijab. Sarebbe stata più sicura in bikini. È stata attaccata non soltanto dai soliti troll, ma addirittura dal ministro degli Interni Gérard Collomb (ex socialista e massone), rimasto «sbalordito» del fatto che una leader studentesca indossasse simili simboli religiosi. «Charlie Hebdo», la rivista vittima di terrorismo e presunto orgoglioso bastione delle libertà repubblicane, scese ancora più in basso nel fango razzista pubblicando una vignetta «satirica» che raffigurava la diciannovenne Maryam come una scimmia. 68 Nel 2017 la Corte di giustizia europea ha stabilito che i datori di lavoro possono proibire ai propri dipendenti di indossare simboli religiosi. Il caso è arrivato per la prima volta nei tribunali belgi quando, nel 2006, una segretaria per la filiale belga della G4s, l’azienda di sicurezza privata britannica, era stata licenziata perché voleva coprirsi il capo con il velo. Benché i bersagli principali fossero donne musulmane, questo divieto significa che in teoria un datore di lavoro potrebbe anche impedire a un ebreo di indossare la kippah, agli uomini sikh di indossare turbanti e ai cristiani di portare crocifissi. Nel frattempo è proibito camminare in pubblico indossando burqa e niqab (che copre il volto) in Francia, Danimarca, Bulgaria, Austria, Belgio e in alcuni cantoni della Svizzera, una mossa deplorata da Amnesty International che difende l’ovvio principio liberale secondo cui «tutte le donne dovrebbero essere libere di vestirsi come vogliono e di indossare abiti che esprimono le loro credenze e identità». 69 In Baviera, per contro, una nuova legge

introdotta da Markus Söder, il ministro presidente dell’Unione cristianosociale, stabilisce che il crocifisso debba essere esposto in tutti gli edifici pubblici: il cosiddetto Kreuzpflicht (crocifisso obbligatorio). Una simile iniziativa è stata presa in Italia da Matteo Salvini, leader della Lega di estrema destra e ministro degli Interni. Entrambi hanno incontrato la ferma disapprovazione della chiesa cattolica. In Baviera il vescovo di Würzburg, Franz Jung, il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e altri membri di spicco della chiesa cattolica, che dei principi della laicità ne sanno ovviamente più del primo ministro bavarese, hanno deplorato l’iniziativa. 70 In Italia la rivista cattolica «Famiglia Cristiana», sostenuta da vescovi e gesuiti, ha condannato il provvedimento con il titolo in prima pagina Vade Retro Salvini, paragonandolo così a Satana. 71 Grida d’allarme in Francia sulla fine della civiltà occidentale e l’arrivo di «orde» di migranti non sono nulla di nuovo. Nel 1880 Gustave Le Bon, il teorico della psicologia delle folle, riteneva fosse uno spreco di tempo cercare di imporre costumi occidentali o di trasformare i musulmani in francesi. Nel 1889 pubblicò Recherches anatomiques et mathématiques sur les variations de volume du cerveau et sur leurs relations avec l’intelligence («Ricerche anatomiche e matematiche sulle variazioni di volume cerebrale e sulla loro relazione con l’intelligenza») in cui «dimostrava» che l’intelligenza era tanto più grande quanto più lo era il cranio, che i parigini hanno, ovviamente, crani più grandi dei provinciali, gli uomini più grandi delle donne e così via. 72 Nel 1886 Édouard Drumont, nel suo bestseller La France juive («La Francia ebraica»), spiegava che gli ebrei non si lascerebbero mai sfuggire l’occasione di imbrogliare. Bisognerebbe tenere d’occhio il loro «famoso naso», le orecchie prominenti, i piedi piatti e «la mano viscida e morbida dell’ipocrita e del traditore»; e, naturalmente, puzzano. 73 Più di recente, «razzisti scientifici» come Richard Lynn e Tatu Vanhanen, nel loro IQ and the Wealth of Nations (2002, «QI e la ricchezza delle nazioni»), affermano che la media del quoziente intellettivo (QI) di un paese è la variabile cruciale che spiega le differenze del reddito pro capite. Perciò, presumibilmente, se il Malawi dovesse scoprire le massime riserve petrolifere mondiali, incrementando così il proprio reddito pro capite, sarebbe perché ha un alto QI; fino a quel gioioso momento il QI del Malawi è destinato a restare abbastanza basso. Secondo il bestseller The Bell Curve (1994, «La curva a campana»), di Charles Murray e Richard Herrnstein, i bianchi sono più

intelligenti dei neri. La «scienza» della razza è roba vecchia. Il sottotesto è che istruire i neri è una perdita di tempo. Si diceva la stessa cosa delle donne. C’è chi lo dice ancora. La paura della «razza» vende. Un secolo più tardi, nel 1973, Jean Raspail, un cattolico di destra che avrebbe poi vinto il Grand Prix du Roman dell’Académie Française nel 1981, pubblicò un romanzo di successo, Il campo dei Santi, in cui immaginava l’arrivo in Francia di un milione di migranti dal subcontinente indiano. Spaventati, i «veri» francesi fuggono davanti a questa massa minacciosa. Nel 2011, quando migliaia di nordafricani cercavano rifugio in Europa, il romanzo fu ripubblicato vendendo 20.000 copie in pochi giorni. 74 Le leggi contro i musulmani osservanti sono proliferate in tutta Europa. In Svizzera un referendum popolare del 2009 ha emendato la costituzione in modo da prevenire la costruzione di minareti (esattamente come in Arabia Saudita è proibita la costruzione di chiese). Si possono ancora costruire edifici elevati, purché non siano minareti. Nel 2014 un altro referendum ha deciso (con una maggioranza risicata) di limitare il numero dei migranti. Precedenti referendum sulla stessa questione erano falliti. Ma ciò accadeva prima che la «sovrastranierizzazione» o Überfremdungsangst raggiungesse nuove vette. 75 Negli USA, nel 2015 (prima dell’avvento di Donald Trump), si è registrato un netto aumento dei crimini d’odio contro i musulmani e contro gli arabi. È stato il livello più alto dal 2001. E sebbene siano aumentati anche i crimini d’odio contro altri gruppi (LGBT, ebrei, neri, bianchi eccetera), quelli contro musulmani e arabi sono stati proporzionalmente di più. 76 In confronto, la Gran Bretagna vittoriana era un luogo relativamente tollerante. Benché ci fosse forte ostilità contro chi era straniero, o rifugiato, o immigrato, o povero, o solo diverso, tra il 1823 e il 1905 (quando fu promulgato l’Aliens Act) nessun profugo straniero fu espulso. Esuli politici come Karl Marx, il socialista francese Louis Blanc, il nazionalista ungherese Lajos Kossuth, Giuseppe Mazzini e l’anarchico Felice Orsini vissero più o meno felicemente a Londra (sebbene, quando Orsini andò in Francia e cercò di far saltare in aria Napoleone III, fu arrestato e giustiziato. Avrebbe fatto meglio a starsene quieto a Kentish Town). I migranti non piacciono da lungo tempo. Se falliscono e rimangono disoccupati sono considerati scrocconi; se hanno successo piacciono ancora

meno, perché la loro affermazione è causa di invidie. Questo destino ha afflitto gli ebrei pressoché ovunque, ma anche i tedeschi, i greci e gli armeni negli imperi zarista, austro-ungarico e ottomano, i cinesi in gran parte dell’Asia sud-orientale, e gli indiani del Punjab e del Gujarat in Africa orientale (furono espulsi dall’Uganda nel 1972 e ampiamente discriminati in Kenya). Insulti contro chi è «diverso» arrivano da ogni parte. Nel 1880 in Italia la rivista dei gesuiti, «Civiltà Cattolica», spiegò che gli ebrei erano «eterni bimbi insolenti, ostinati, sporchi, ladri, bugiardi e ignoranti», che abusavano della libertà loro concessa, riuscendo a «controllare non solo tutto il denaro […] ma la legge stessa in quei paesi dove è stato loro permesso di ricoprire pubblici uffici». 77 I migranti non bianchi subirono i colpi della xenofobia americana. La Dichiarazione d’indipendenza stabilisce: «Riteniamo che sono per sé stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali», ma in California e in gran parte degli Stati Uniti occidentali erano previste tasse speciali riguardanti i cinesi cui era anche negato il diritto di possedere la terra e di testimoniare in tribunale contro i bianchi. 78 Simili discriminazioni furono mutate in legge dal Chinese Exclusion Act del 1882 (revocato solo nel 1943) e sostenute dall’American Federation of Labor (AFL). Samuel Gompers, leader dell’AFL (ed ebreo dell’East End di Londra), dichiarò nel 1905 che «i bianchi non lasceranno che i propri standard di vita siano distrutti da negri, cinesi, giapponesi o chiunque altro». 79 Henry George, riformatore radicale e autore del bestseller Progress and Poverty: An Inquiry into the Cause of Industrial Depressions (1879, «Progresso e povertà: un’inchiesta sulla causa delle depressioni industriali»), inveiva contro i cinesi: «Lo standard della loro morale è basso quanto quello della comodità», sono «sporchi nelle abitudini» e «incapaci di comprendere la nostra religione» o «le nostre istituzioni politiche». 80 Anche in Australia il credo suprematista bianco era considerato normale. Nel 1901 la White Australia Policy limitava l’immigrazione ai soli bianchi attraverso un test «di dettatura» in qualsiasi lingua europea (il Partito laburista australiano voleva escludere esplicitamente asiatici e africani). Fu completamente abolito solo nel 1973. In Francia, al Congrès Ouvrier di Lione del 1878, un delegato si riferì agli arabi come «questo popolo ignorante e fanatico» e nel quotidiano socialista

«L’Humanité» (7 agosto 1913) Maurice Allard, un deputato socialista e anticlericale (aveva cercato di vietare ai preti di indossare l’abito talare in pubblico), parlò di «neri primitivi e grotteschi» con cui affermava di avere assai meno in comune che con i tedeschi. 81 La xenofobia nei sindacati abbondava, rispecchiando le preoccupazioni di molti lavoratori francesi circa l’afflusso di lavoratori belgi e italiani (nel 1886 in Francia c’erano più di un milione di lavoratori stranieri). 82 Tra il 1881 e il 1893 circa trenta italiani furono uccisi nel Sud della Francia in quella che può essere definita solo come una serie di pogrom. 83 L’immigrazione non aveva bisogno di grandi numeri per dare origine al pregiudizio razzista. Tra il 1908 e il 1911 Joseph Havelock Wilson, deputato liberale e leader del National Sailors’ and Firemen’s Union (NFSU), mosse una campagna contro la manodopera cinese nei cantieri navali britannici. 84 Eppure nel 1911 nel Regno Unito di cinesi quasi non ce n’erano e a lavorare sulle navi britanniche erano comunque meno degli scandinavi. 85 I controlli dell’immigrazione sono un’invenzione moderna. Per la maggior parte dell’Ottocento l’emigrazione (molta della quale era dall’Europa) era incontrollata. Dalla fine del XIX secolo erano state create restrizioni in molti paesi, con i governi che facevano valere il proprio diritto di impedire alle persone di varcare i loro confini. La differenza con il passato è che oggi vi sono, in tutta l’Europa, partiti saldamente radicati la cui principale ragion d’essere è l’odio per i migranti e gli stranieri. E non tutti sono partiti marginali: alcuni sono al potere. Nei paesi ex comunisti il problema è particolarmente serio. La Polonia ha il partito Legge e giustizia, la Lettonia Alleanza nazionale, la Slovacchia il Partito nazionale slovacco, la Lituania il Partito di ordine e giustizia. Assistiamo a una proliferazione di partiti nazionalisti che reinventano un passato vittimista, o che lamentano battaglie perdute come quella del Kosovo del 1389, quando gli ottomani sottomisero i serbi, o quella della Montagna bianca (Bitva na Bílé hoře) del 1620, in cui i cattolici sconfissero i protestanti in terra ceca, o che festeggiano vittorie come quella di Carlo Martello contro gli arabi a Tours (o Poitiers) nel 732, che avrebbe salvato l’Europa cristiana dai mori quando in realtà non fece che impedire ad alcuni di loro di saccheggiare il locale monastero. 86 In questo gioco di cattivo gusto storico, il primo premio deve andare al governo macedone guidato da Organizzazione rivoluzionaria interna

macedone-Partito democratico per l’unità nazionale macedone (VMRO-DPMNE; 2006-2016), il quale, convinto che i macedoni di oggi discendano direttamente da quelli di Alessandro Magno (che non era nato nella Macedonia di oggi), si è impegnato in un oneroso progetto, chiamato «Skopje 2014», che consisteva nella costruzione di monumenti incredibilmente costosi tesi alla celebrazione del «glorioso» passato macedone, tra cui una statua di ventidue metri che si crede raffiguri lo stesso Alessandro Magno (e in cui onore è stato battezzato l’Aeroporto internazionale), una di Madre Teresa (che a Skopje era nata), assieme a monumenti che celebrano «gli eroi» che avevano combattuto contro l’impero ottomano (del quale la Macedonia faceva parte). Questo è, naturalmente, quello che fanno gli stati: George Washington, Giovanna d’Arco, Horatio Nelson, Giuseppe Garibaldi, sono tutti celebrati nelle pubbliche piazze. Ma siamo nel XXI secolo e la Macedonia è uno dei paesi più poveri d’Europa, più del Perú o del Turkmenistan. 87 Non si può fare a meno di pensare che, data la povertà prevalente in Macedonia, con una disoccupazione al 22%, ci potessero essere modi migliori di spendere il denaro pubblico, ma, come sempre, il nazionalismo, compreso quello kitsch, prevale sul buonsenso. Tuttavia, il buonsenso sembrava aver fatto ritorno nel maggio 2017, con la vittoria dei socialdemocratici pro-NATO e pro-UE, guidati da Zoran Zaev. È stato raggiunto un compromesso sul nome dello stato per soddisfare l’ossessione greca: se il paese si fosse chiamato soltanto «Macedonia» avrebbe potuto accampare mire territoriali sulla regione greca della Macedonia (verrebbe da pensare che i greci abbiano altro di cui preoccuparsi). È diventata «Repubblica della Macedonia del Nord» dopo un referendum nel 2018. Il nome «Macedonia del Nord» ha ricevuto il 94% dei voti, ma solo il 36% degli aventi diritto si è recato alle urne. Ciononostante, la Macedonia ha accettato il cambiamento di nome. Come ulteriore gesto di buona volontà, Zoran Zaev ha annunciato, all’inizio dell’anno, che da quel momento l’aeroporto si sarebbe chiamato Aeroporto internazionale di Skopje. Alessandro Magno può così riposare in pace. Manco a dirlo, una simile moderazione è stata accolta con enormi manifestazioni di disapprovazione da parte di coloro che, per mutuare uno slogan, volevano rendere la Macedonia «great again». La celebrazione di un passato precomunista, per quanto sgradevole, è una caratteristica comune del nazionalismo postcomunista. A Varsavia è stata

eretta una gigantesca statua di Roman Dmowski, il cosiddetto padre del nazionalismo polacco e famigerato antisemita, mentre a Zamość è stata rimossa una targa che commemorava il luogo di nascita di Rosa Luxemburg. 88 Eppure, come scriveva Bertolt Brecht nell’epitaffio a lei dedicato: Qui giace sepolta Rosa Luxemburg ebrea di Polonia in prima linea sul fronte dei lavoratori tedeschi assassinata per mandato di oppressori tedeschi. Oppressi seppellite la vostra discordia! 89

In Lettonia, i reduci delle divisioni Waffen SS e i loro sostenitori sfilano ufficialmente il 16 marzo (Giornata della memoria in Lettonia) attraverso la capitale Riga per commemorare il loro ruolo nella seconda guerra mondiale come alleati della Germania nazista. 90 In Ucraina occidentale proliferano monumenti a Stepan Bandera, un leader nazionalista che ha combattuto al fianco dei nazisti durante la seconda guerra mondiale. In Ungheria sono state erette svariate statue di Miklós Horthy, alleato di Hitler durante la seconda guerra mondiale. Bálint Hóman, un importante antisemita che tra le due guerre propugnò leggi antiebraiche, stava per essere onorato anche lui con una statua su iniziativa del governo di Viktor Orbán. Quando la notizia si è diffusa è scoppiato uno scandalo, Israele (stretto amico di Orbán) si è arrabbiato, Obama è intervenuto e il governo ha fatto marcia indietro. 91 Quindi niente statua per Bálint Hóman. Il governo di Orbán, in Ungheria, non è nemmeno di estrema destra. Benché lui stesso abbia annunciato, nel 2014, poco prima di vincere le elezioni con una larga maggioranza, di voler porre fine alla «democrazia liberale» in Ungheria – presumibilmente per rendere il paese più simile alla Russia di Putin e alla Turchia di Erdoğan –, e sebbene abbia descritto i richiedenti asilo come un «veleno» e abbia lodato Trump, Orbán deve vedersela, a destra, con un partito ancora più estremista, Jobbik, il quale, costretto a riposizionarsi verso il centro, ha ottenuto un notevole 20% dei voti nel 2014 e nel 2018. 92 Jobbik si definisce un partito «radicale», «patriottico» e «cristiano», campione dei valori e degli interessi ungheresi. È a favore della pena capitale, si oppone all’integrazione europea e al capitalismo globale (è convinto che

gli ebrei – vale a dire George Soros – intendano comprarsi l’Ungheria, ma questo lo pensa anche lo stesso Orbán). Una delle fantasie di Jobbik è che gli ungheresi discendano dalla razza uralo-altaica (affermazione propagandata nel XIX secolo da nazionalisti assortiti finlandesi e ungheresi). Jobbik ha un’ala paramilitare, la Magyar Gárda (Guardia magiara), fondata nel 2007 e sciolta dai tribunali nel 2009, descritta ampiamente come neofascista e la cui uniforme richiama quella delle Croci frecciate, la vecchia organizzazione filonazista ungherese. La proliferazione di organizzazioni e partiti politici di destra in Europa orientale è sintomo di una diffusa disillusione nei confronti del fallimento del postcomunismo e della democrazia liberale. Il 1o maggio 2004 l’Unione Europea aveva accolto dieci nuovi stati membri, otto dei quali appartenenti al vecchio «blocco orientale». Gli europei fiduciosi festeggiarono. Sarebbero rimasti presto delusi. Le elezioni per il parlamento europeo tenutesi il mese successivo furono un fiasco: in tutti i nuovi membri eccetto la Lituania l’affluenza alle urne (42,61%) fu inferiore alla già bassa media europea, nella Repubblica Ceca e in Slovacchia fu rispettivamente del 18% e del 13%. In Russia il clima è altrettanto preoccupante. Un’indagine condotta nel 2017 dallo Yuri Levada Analytical Center confermava che una maggioranza di russi considera Stalin «la figura più straordinaria» della storia, seguito da Putin e da Puškin (allo stesso livello!). 93 L’anno precedente l’8% degli interpellati pensava che Stalin avesse svolto «un ruolo sicuramente positivo» nella storia del paese, mentre il 46%, più cautamente, riteneva che il suo ruolo fosse stato «probabilmente positivo». Solo il 6% lo riteneva «sicuramente negativo» (il 24% «probabilmente negativo»). 94 Ciò è rappresentativo di quello che alcuni hanno chiamato «nostalgia» per certi aspetti del comunismo, come il suo welfare state, la piena occupazione e la sua capacità di mantenere «la legge e l’ordine». Nel 2009 un reportage della Reuters citava una trentunenne bulgara nell’impoverita città di Belene: «Si stava meglio prima, si andava in vacanza sulla costa e in montagna, c’erano vestiti, scarpe, cibo in abbondanza. E ora la maggior parte del nostro reddito è spesa in generi alimentari. Chi ha una laurea è disoccupato e in molti vanno all’estero». Un sondaggio globale di Gallup nel 2008 annoverava la Bulgaria, la Serbia e la Romania tra i dieci paesi più scontenti del mondo. 95 Nei Balcani la situazione è pessima, tanto che anche qui alcuni

rimpiangono i «bei tempi» del comunismo. I salari sono bassi, la disoccupazione molto alta e la pace precaria. In Serbia, nel gennaio 2017, Tomislav Nikolić, allora presidente, si disse pronto a mandare l’esercito in Kosovo se la locale popolazione serba fosse stata minacciata. Nel giugno del 2017, in Montenegro, l’opposizione affermò che il paese si trovava sull’orlo della guerra civile. In Kosovo Albin Kurti, leader del maggior partito (Vetëvendosje) e possibile futuro primo ministro, credeva che una disputa di confine con il Montenegro sarebbe probabilmente degenerata in guerra. In Macedonia i partiti delle minoranze albanesi temono che il paese possa essere smembrato come l’Ucraina. Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska, una delle due entità che costituiscono la Bosnia-Erzegovina, è convinto che il paese crollerà presto. Il primo ministro albanese Edi Rama, sostenuto dal presidente del Kosovo Hashim Thaçi (accusato dal Consiglio d’Europa di aver contrabbandato organi umani), ha minacciato di unificare Albania e Kosovo, una mossa che indubbiamente porterebbe a una guerra. 96 Quando nel 2017 l’Alto rappresentante dell’UE Federica Mogherini ha visitato il parlamento montenegrino è stata contestata dall’opposizione. Mentre parlava al parlamento serbo fu disturbata da nazionalisti euroscettici con grida di «Serbia, Russia, non abbiamo bisogno dell’Unione Europea». 97 Non troppo tempo fa, chiunque giungesse da Bruxelles era considerato una figura da rispettare e corteggiare. 98 Il comunismo ha rappresentato un «progresso» in tutti i paesi dell’Europa dell’Est, sebbene prima del 1940, con l’eccezione della Cecoslovacchia, questi paesi fossero tutti molto più arretrati della maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale e capitalistica. L’Europa orientale precomunista, lungi dall’essere un fondamento della democrazia, era piagata, come abbiamo visto, da regimi dittatoriali di varia estrazione, e infetta di antisemitismo. Oggi i partiti di estrema destra, almeno ufficialmente, non cercano di rovesciare la democrazia. Competono legalmente per la conquista dei voti. Pochi di loro hanno organizzazioni paramilitari. Sono rapidi nel denunciare gli eccessi più oltraggiosi dei loro sostenitori meno intelligenti. Sanno che l’islamofobia è tollerata, mentre l’antisemitismo non lo è (in realtà alcuni di loro hanno rapporti eccellenti con Israele: l’odio per i musulmani crea strane alleanze). Il loro obiettivo è impadronirsi legalmente del potere attraverso le elezioni. Il loro risultato principale è di spingere l’ago della bilancia verso destra. Per riuscire non c’è bisogno di una maggioranza, solo di voti

sufficienti a spaventare i partiti «rispettabili». Dunque, in Gran Bretagna l’UKIP, un partito ridicolo, ora moribondo (cinque leader in diciotto mesi e non è ancora finita…), guidato da Nigel Farage, un ciarlatano eternamente fotografato mentre ghigna con una pinta di birra in mano (descritto così dall’opinionista del «Daily Mail» Richard Littlejohn, che non teme il ridicolo: «Senza dubbio […] dopo Thatcher […] la figura politica più influente e più rilevante dai tempi di Churchill»), ha contribuito a spingere David Cameron a indire il fatale referendum sull’Unione Europea. Che l’islamofobia impazzi anche in Israele non sorprende. Nel 2016 il parlamento di Israele ha approvato la cosiddetta «legge muezzin», che proibisce ai leader religiosi di utilizzare altoparlanti per chiamare i fedeli alla preghiera. 99 L’anno precedente il leader di un gruppo israeliano di estrema destra, Benzi Gopstein, aveva incitato al rogo delle chiese. Contro il gruppo non è stato fatto nulla. 100 Qualunque gruppo in qualsiasi parte dell’Europa incitasse al rogo delle sinagoghe sarebbe – giustamente – perseguito. Morte agli arabi è una canzone intonata spesso durante le manifestazioni. Sono pochi gli arresti. Nel giugno 2018, attivisti di estrema destra cantarono slogan che festeggiavano la morte di un bambino palestinese di diciotto mesi davanti a un tribunale del distretto centrale di Israele, mentre i famigliari del piccolo si trovavano lì per un’udienza. Non fu arrestato nessuno. 101 Invece la poetessa palestinese Dareen Tatour è stata condannata a cinque mesi di carcere con l’accusa d’incitamento alla violenza per una poesia pubblicata su YouTube. Eccone alcuni estratti: Resisti mio popolo, resistigli Resisti mio popolo, resistigli. A Gerusalemme, ho curato le mie ferite e respirato il mio dolore E ho portato l’anima sul palmo Per una Palestina araba. […] Hanno bruciato figli senza colpa; Come per Hadil, i cecchini le hanno sparato davanti a tutti, Uccidendola in pieno giorno. Resisti mio popolo, resistigli. Resisti all’assalto coloniale. […] Resisti, popolo mio ribelle. Scrivimi come prosa sul legno di agar; I miei resti ti hanno come risposta. Resisti, popolo mio resistigli. Resisti, popolo mio resistigli.

Dareen Tatour è una degli oltre 400 palestinesi arrestati nel 2016-2017 per le loro espressioni di resistenza agli israeliani. 102 Anche tra alcuni giovani israeliani si manifesta resistenza. Sessantatré di loro, nel dicembre 2017, hanno inviato lettere alle autorità rifiutandosi di arruolarsi, dichiarando: «Non prenderemo parte all’occupazione». In questo momento gli arruolamenti sono in calo e ogni anno più di 7000 ragazzi e ragazze abbandonano l’esercito. 103 Nel giugno 2018, nella città di Aula, nel Nord di Israele, una manifestazione di ebrei israeliani, guidata dal vicesindaco, è scesa per le strade della città protestando contro i proprietari di una casa che avevano deciso di venderla agli arabi. 104 Immaginate una manifestazione del genere in una parte qualunque dell’Europa contro il fatto di avere vicini ebrei… Nella maggior parte dei reparti di maternità degli ospedali israeliani le madri arabe e quelle ebree sono separate. Bezalel Smotrich, deputato di un partito religioso di destra, ha dichiarato che è del tutto «naturale» che sua moglie non voglia «stare al fianco di qualcuna che ha appena dato alla luce un bimbo che fra vent’anni potrebbe uccidere il suo». 105 Rispecchiando questa mentalità profondamente razzista, il parlamento di Israele ha discusso seriamente una legge che permette a una comunità composta di persone della stessa fede e nazionalità «di mantenere il carattere esclusivo della comunità», in altre parole, consente agli ebrei di escludere gli arabi dai loro quartieri. 106 Questa clausola è stata rimossa dalla stesura finale, ma la nuova legge «statonazione» ha comunque definito ufficialmente Israele la patria del popolo ebraico e stabilito che «il diritto all’autodeterminazione nazionale in Israele è unicamente appannaggio del popolo ebraico. Stabilisce anche che l’ebraico è la lingua ufficiale del paese, declassando dunque l’arabo. 107 Per dirla con Bradley Burston, editorialista di «Haaretz», è «la sola e la più gratuitamente detestabile legge nella storia della nazione». 108 Il celebre direttore d’orchestra Daniel Barenboim, israeliano, ha dichiarato che la legge appena promulgata dal governo di Israele «rimpiazza i valori di uguaglianza e libertà con il nazionalismo e il razzismo». 109 Mentre in Gran Bretagna la deputata laburista Margaret Hodge ha accusato Jeremy Corbyn di essere un «fottuto antisemita» perché il Partito laburista non ha adottato come esempio di antisemitismo l’affermazione che l’esistenza di Israele come stato è razzista (il partito ha poi adottato, in pieno, l’attuale definizione dell’International Holocaust Remembrance Alliance e la maggior parte dei suoi esempi).

Ovviamente, secondo Hodge, anche Barenboim dev’essere antisemita… Hodge è meno delicata quando si tratta dei non-nativi i quali, come disse quando era ministro dell’Edilizia abitativa, dovrebbero essere più in basso nella graduatoria per l’assegnazione degli alloggi, una dichiarazione per la quale è stata criticata perché assecondava l’estrema destra, che invece l’ha lodata. 110 I siti web arabi in tutto il Medio Oriente contengono espressioni di antisemitismo. I sentimenti antiebraici nel Medio Oriente non destano sorpresa, giacché lo stesso Israele confonde «ebrei» e «israeliani». Le crudeltà e le ingiustizie, l’abituale umiliazione e intimidazione ai posti di blocco, le detenzioni e il numero sempre crescente di demolizioni di case sofferte dai palestinesi in tutta la Cisgiordania sono stati abbondantemente documentati (come ha fatto anche il coraggioso quotidiano israeliano «Haaretz»), benché nella stampa mainstream occidentale, probabilmente per timore di essere accusata di antisemitismo, siano finiti solo gli eccessi più oltraggiosi. 111 Gli insediamenti ebraici nella Cisgiordania occupata furono creati confiscando la più fertile terra palestinese e requisendo le riserve d’acqua. I coloni ebrei controllano ora il 42% della Cisgiordania. 112 Sono «protetti» da posti di blocco, da zone militarizzate e dal «Muro della separazione», che ha creato enclave palestinesi nella Cisgiordania occupata. I palestinesi, tagliati fuori da Gerusalemme, non hanno libertà di movimento. Circa metà degli ebrei israeliani (48%) pensa che gli arabi dovrebbero essere espulsi da Israele; il 46% è in disaccordo e il 6% non sa. 113 In Israele è stato espresso un sostegno considerevole nei confronti di un sergente dell’esercito che a Hebron, nel marzo 2016, aveva sparato alla testa di un assalitore palestinese. Il sergente, Elor Azaria, è stato infine incriminato per omicidio colposo e condannato a diciotto mesi di prigione. 114 Ne ha scontati nove, uno in più dei mesi di reclusione inflitti a una minorenne palestinese, Ahed Tamimi, per aver schiaffeggiato un soldato armato di tutto punto. I conflitti accrescono il livello di barbarie. Nel 2013 un soldato britannico colpevole dell’omicidio di un prigioniero talebano è stato inizialmente condannato all’ergastolo. Dopo una campagna promossa dal «Daily Mail», la corte d’appello militare stabilì che soffriva di un disturbo mentale e la sentenza fu ridotta a sette anni. Ne ha scontati solo tre e mezzo. Ma c’è un’altra fobia in Israele, quella degli ebrei verso gli ebrei. Il

sionismo era un progetto «europeo» e gli ebrei europei (gli askenaziti) mostravano nei confronti dei loro «compari ebrei orientali», o sefarditi, gli stessi pregiudizi che gli europei hanno riguardo ai non-europei. Così David Ben Gurion, «padre fondatore» di Israele e primo ministro quasi ininterrottamente dal 1948 al 1963, disse degli immigrati sefarditi che erano «senza la minima traccia di educazione ebraica o umana» e, in parlamento, li definì «dei selvaggi»; Abba Eban (vicepremier dal 1963 al 1966 e ministro degli Esteri dal 1966 al 1974), parlando dei sefarditi, dichiarò che bisognava «infondere in loro uno spirito occidentale, piuttosto che permettergli di trascinarci in un innaturale orientalismo»; e Golda Meir (primo ministro dal 1969 al 1974), parlando nel 1964 alla Zionist Federation of Great Britain, si chiedeva se fosse possibile «elevare questi immigrati a un livello appropriato di civiltà». 115 Erano tutti e tre colonne della classe dirigente laburista israeliana. In Occidente permangono alcune tracce di antisemitismo, ma l’islamofobia è invece costantemente incrementata con il favore di una stampa allarmistica. Il rispettabile «Times» di Londra ha pubblicato un articolo il 28 agosto 2017 a firma del suo giornalista investigativo Andrew Norfolk, con il titolo Bimba cristiana costretta all’affidamento presso musulmani. Secondo l’articolo, una bimba cristiana di cinque anni (la cui madre naturale era tossicodipendente e alcolizzata) era stata «costretta» all’affido presso una famiglia musulmana nella quale una dei componenti indossava il burqa, si facevano commenti spregiativi sulle donne occidentali, nessuno parlava inglese e veniva vietato il consumo di carne di maiale anche alla bambina, alla quale era stato tolto con la forza il suo crocifisso. Una successiva inchiesta dimostrò che simili accuse erano false. Il giornalista investigativo del «Times» avrebbe dovuto investigare di più. La storia è stata ovviamente sfruttata da attivisti di estrema destra, così come dal «Daily Mail» (che usò una foto di una famiglia musulmana, non quella «vera», alterando l’immagine per coprire il volto della donna con il velo). 116 Il «Daily Telegraph» fece di peggio: nel marzo del 2016 pubblicò un articolo del suo giornalista investigativo, Andrew Gilligan (non nuovo alla diffamazione dei musulmani), che cercava di legare Jeremy Corbyn alle «opinioni estremistiche» di Mohammed Kozbar, vicepresidente della Muslim Association of Britain e musulmano moderato, responsabile della moschea di Finsbury Park nella circoscrizione di Corbyn. Kozbar sporse querela e il

giornale dovette pagare i danni e rimuovere l’articolo dal proprio sito web. 117 Tutto ciò contribuiva a creare un’atmosfera in cui l’islamizzazione della Gran Bretagna fosse vista come una grossa minaccia all’identità nazionale. Gli appelli al nazionalismo sono stati a lungo un elemento costante della vita politica britannica. Il 24 settembre 2007, nel suo primo discorso come leader laburista al congresso annuale del partito, Gordon Brown non solo proclamò la propria illusoria visione di una «Gran Bretagna che guida l’economia mondiale», ma caldeggiò la creazione di «lavori britannici per lavoratori britannici», uno slogan usato in precedenza dall’estrema destra del British National Party. Le fantasie di Gordon Brown si fecero particolarmente preoccupanti quando dichiarò che la Gran Bretagna «ha le competenze, l’inventiva, la creatività e lo spirito d’impresa per fare di questo un secolo britannico». 118 Dopo di lui, qualche anno più tardi, durante la campagna del referendum su Brexit, l’allora cancelliere George Osborne parlò di una Gran Bretagna «che plasma il mondo, non che ne è plasmata». 119 Il mondo? Gli Stati Uniti? La Cina? L’Europa? La Russia? Quasi otto miliardi di persone plasmate dalla Gran Bretagna? Illusioni simili possono appartenere solo ai politici di un vecchio paese coloniale e imperiale che oggi, nel migliore dei casi, è una potenza di secondo piano. La Gran Bretagna è un paese che ha una connessione internet più lenta di almeno altri quaranta paesi, tra i quali la Romania, il Madagascar e la Bulgaria. 120 È un paese che fatica a tenere aggregata la Scozia al resto della nazione; che non ha più un’industria automobilistica propria; le cui squadre di calcio sono di proprietà di russi (Chelsea), americani (Manchester United), malesi (Queen Park Rangers); la cui giustamente celebrata birra Newcastle Brown Ale è di proprietà olandese; il noto gin, Beefeater, è dei francesi (proprietari inoltre di whisky famosi come il Chivas Regal e il Glenlivet); il cioccolato Cadbury è un comparto del colosso americano Kraft; la salsa da tavola HP è dell’americana Heinz; i cereali per la colazione Weetabix sono di una multinazionale cinese (Bright Food); mentre le sue marche leader di tè, Tetley e Typhoo, sono, in un piacevole capovolgimento di ruoli coloniali, proprietà di aziende indiane. Un fondo sovrano d’investimento malese ha acquistato la centrale termoelettrica di Battersea (iconico edificio da trasformarsi in appartamenti di lusso), mentre i celebri taxi neri sono prodotti (a Coventry) da un’azienda cinese. Dal danno alla beffa: è stato annunciato

che un’azienda franco-olandese ha vinto l’appalto per realizzare il nuovo passaporto post-Brexit. Oggi, tra un terzo e metà delle aziende del FTSE 100 (Financial Times Stock Exchange) sono gestiti da amministratori delegati non britannici e la maggioranza delle azioni non è più di proprietà di britannici o di fondi pensione britannici. In realtà più di metà del mercato azionario del Regno Unito appartiene a stranieri (cosa che il sempre patriottico «Daily Telegraph» festeggiò il 26 settembre 2013 con il titolo Buone notizie, gli stranieri si stanno comprando la Gran Bretagna). Forse andrebbe piuttosto festeggiato l’antico cosmopolitismo britannico, un paese il cui santo patrono (se è esistito), san Giorgio, era un greco martirizzato in quella che oggi è la Palestina, la cui bandiera (la croce di san Giorgio) fu probabilmente presa in prestito ai genovesi; un paese fondato dal duca di Normandia (William the Conqueror, altresì noto come Guglielmo il Conquistatore, Guillaume le Conquérant o Guillaume le Bâtard); un paese la cui famiglia reale è più tedesca che inglese e il cui motto è in francese (Honi soit qui mal y pense). Tra i più patetici retaggi delle potenze ex imperiali c’è una certa boria. Il capo di stato maggiore britannico, il generale Nick Carter, in un palese e non molto intelligente tentativo di ottenere un aumento del budget delle spese militari, ammonì nel gennaio 2018 che la Russia rappresentava una seria minaccia «per la Gran Bretagna», una minaccia che il paese faticherebbe a contrastare senza il detto aumento. Come se ci fosse la più vaga possibilità che il Regno Unito debba misurarsi da solo con la Russia. In realtà la NATO nel suo complesso spende 864 miliardi di dollari contro i 46 miliardi della Russia, ha 3,1 milioni di uomini contro gli 831.000 della Russia e 3896 aerei da guerra contro i 1046 della Russia. 121 Un ex capo di stato maggiore, Nick Houghton, ha alzato l’asticella della scempiaggine lamentando, nel giugno 2018, che il governo non spendeva abbastanza per la Difesa (il Regno Unito spende in proporzione più di ogni altro paese europeo) «esattamente nel momento in cui la Gran Bretagna post-Brexit aspira a rinnovare e riaffermare la propria immagine come attore globale». Attore globale? La Gran Bretagna post-Brexit? 122 La paura degli stranieri intenti a colpirci da fuori o prossimi a rubarci il lavoro è endemica. Non mancò di assecondarla il successore di Gordon Brown al timone del Partito laburista, Ed Miliband, che ebbe la brillante idea di produrre cinque tazze con i cinque impegni elettorali per le elezioni del 2015 che poi perse (le elezioni, non le tazze). Su una di queste era impressa la

promessa di istituire «controlli sull’immigrazione», alimentando l’opinione erronea che l’immigrazione fosse eccessiva e negativa per l’economia. Eppure l’Office for Budget Responsibility, un’agenzia governativa creata dal governo conservatore nel 2010, aveva stabilito che l’immigrazione era uno dei fattori chiave per l’economia britannica. 123 Molti imprenditori sono preoccupati dalle implicazioni di Brexit. La British Hospitality Association ha avvertito che la carenza di lavoratori locali negli hotel e nei ristoranti britannici è talmente seria che catene come Pret A Manger impiegherebbero dieci anni per sostituire lo staff attualmente di provenienza da altri paesi dell’UE se dopo Brexit questi se ne andassero tutti. Il responsabile delle risorse umane della catena ha detto a un comitato parlamentare che tra coloro che presentano domanda di assunzione presso l’azienda soltanto uno su cinquanta è britannico. 124 L’industria ricettiva è il quarto maggior datore di lavoro nel Regno Unito, con 4,7 milioni di occupati (il 14% della forza lavoro) ed è al sesto posto tra coloro che contribuiscono maggiormente ai guadagni sulle esportazioni. La percentuale di lavoratori dell’UE in questo settore potrebbe arrivare al 24% e, secondo un rapporto del marzo 2017, l’industria necessita annualmente di circa 62.200 nuovi migranti dall’UE. 125 L’industria edilizia, secondo l’Home Builders Federation, affronta problemi simili. Una sua indagine ha evidenziato che circa il 20% dei lavoratori nei cantieri non è originario del Regno Unito e che il 56,3% dei lavoratori nei cantieri londinesi proviene dall’estero. Alcune professionalità edili sono dominate da lavoratori provenienti da altri paesi dell’UE: più del 70% dei carpentieri; il 61% dei lavoratori generici; il 54% degli imbianchini; il 44% dei muratori e circa il 40% dei riparatori di tetti. 126 Inoltre, circa il 39% del corpo docente delle migliori università britanniche (membri del cosiddetto Russell Group, composto da quattro delle dieci università inglesi più prestigiose del mondo) proviene dall’estero. 127 Un terzo dei medici operanti nel NHS, il servizio sanitario nazionale, si è formato all’estero. Tra questi la maggior parte proviene dall’India: quel che perde l’India, la Gran Bretagna guadagna. 128 La British Summer Fruits, l’organismo che rappresenta i coltivatori di frutta a polpa tenera, ha difficoltà ad assumere raccoglitori. Circa 80.000 lavoratori stagionali colgono e lavorano la frutta e la verdura britanniche e la maggior parte di loro proviene dall’UE, principalmente da Romania e

Bulgaria. 129 Proliferano gli studi che dimostrano i benefici dell’immigrazione all’economia in generale, tra cui le relazioni del World Economic Outlook del FMI per il 2016 e il 2018, secondo cui la migrazione può alleggerire «il peso dell’invecchiamento della popolazione e contribuire ad altri vantaggi a lungo termine, quali una maggiore crescita e produttività». 130 Secondo un rapporto pubblicato dal ministero degli Interni britannico nel 2014, non vi sono prove sufficienti a dimostrare che l’immigrazione abbia causato disoccupazione tra i lavoratori nativi del Regno Unito. 131 Lo studio di due economisti dell’University College London (2014), Christian Dustmann e Tommaso Frattini (che ha ora lasciato Londra per l’Università di Milano), ha messo in discussione le accuse secondo cui i migranti provenienti dall’Europa sfruttano il welfare. Gli autori hanno rilevato che i migranti arrivati nel Regno Unito dal 2000 (sia da dentro sia da fuori l’UE) hanno fornito «contribuzioni fiscali costantemente positive a prescindere dalla zona di origine». Hanno contribuito il 12% in più di quanto non abbiano ricevuto. Anche gli immigrati non dell’UE hanno pagato al sistema circa il 3% in più di quanto hanno ricevuto. Sono i nativi, i «veri britannici», ad aver ricevuto più di quanto abbiano dato. 132 Lord Kerr of Kinlochard, il diplomatico che ha contribuito a redigere l’articolo 50 del trattato di Lisbona (invocato dai paesi che vogliono lasciare l’UE), parlando all’Institute for Government nel novembre 2016 ha difeso l’immigrazione dicendo: «Noi nativi britannici siamo così dannatamente stupidi da aver bisogno di un’iniezione di persone intelligenti, giovani che vengano dall’esterno a darci una svegliata di tanto in tanto». L’euroscettico – e privo di humour – deputato conservatore Peter Lilley (ora lord Lilley) uscì sbattendo la porta: per lui, la frase di lord Kerr era un insulto razzista al popolo britannico. 133 La popolazione europea invecchia e dunque, in un certo senso, quello che sta facendo l’immigrazione è ridistribuire la popolazione non solo dai paesi poveri a quelli ricchi, ma da paesi con una popolazione giovane a quelli con una popolazione che invecchia. La migrazione è il rimedio contro una popolazione senescente. Tutto questo non è una novità. Nelle città europee del XVII secolo, le morti eccedevano le nascite. La crescita della popolazione urbana dipendeva interamente dalla migrazione. Per la maggior parte del XIX secolo la crescita demografica a Napoli, Odessa, Roma, Praga e San

Pietroburgo era prodotta da un flusso di migranti provenienti principalmente dalla campagna. 134 Fra il 1850 e il 1950 la popolazione mondiale è raddoppiata; quella dei paesi che hanno accolto immigrati (le Americhe, l’Asia settentrionale e il Sudest asiatico) è cresciuta più del 150%, mentre quella dell’Europa è aumentata solo del 67%. La popolazione dell’attuale Unione Europea è destinata a rimanere relativamente stabile, malgrado l’immigrazione, e sarà progressivamente più vecchia. Nel frattempo la popolazione mondiale sarà aumentata di un altro miliardo.. Il movimento dalla campagna alla città che precedentemente avveniva in un singolo paese si è ora globalizzato, continuando la ridistribuzione della popolazione. Prendiamo in considerazione il Ghana del 1948. Allora contava solo 4 milioni di abitanti. Nel 2015 ha raggiunto i 25 milioni, un aumento del 625%. Nello stesso periodo la popolazione del Regno Unito (che era di circa 50 milioni) è aumentata solo del 20%. Nel 2017 l’età media in Ghana era all’incirca di venti anni, in Gran Bretagna era di circa quaranta e aumenterà nel corso dei prossimi vent’anni. Nel 2016 nel Regno Unito il 18% della popolazione aveva più di sessantacinque anni. Fra trent’anni sarà il 24,7%, uno su quattro. Altri paesi europei sono nella stessa situazione. 135 Chi è contro l’immigrazione semplicemente trascura questi argomenti, preferendo crogiolarsi nei propri pregiudizi o assecondare quelli altrui. Tali pregiudizi sono abbastanza radicati da influenzare anche molti esponenti di sinistra. Così, in Nuova Zelanda, come l’Australia e gli USA un paese di immigrati, Jacinda Ardern, la giovane leader del Partito laburista, ha accettato l’idea di limitare l’immigrazione, aprendo così la strada a un accordo con Winston Peters (che è per metà māori, mentre sua madre è di origine scozzese), il leader del partito nazionalista New Zealand First Party, che aveva accusato i migranti asiatici di «importare attività criminali». 136 Divenuta leader solo il 1o agosto 2017, Ardern ha ottenuto poco meno del 37% alle elezioni del settembre 2017 – un avanzamento notevole rispetto ai precedenti risultati (nel 2014) quando il partito aveva sofferto la sua peggiore sconfitta elettorale in novantadue anni di vita – ma ricevendo meno voti del conservatore National Party, che si era fermato appena sotto il 45%. Ciò ha fatto del New Zealand First Party (al 7%) l’ago della bilancia, benché avesse perso voti rispetto alle elezioni precedenti (come avevano fatto i Verdi, scesi dal 10% al 6%). Jacinda Ardern è così diventata premier di una coalizione

con il New Zealand First Party (che ha ottenuto quattro ministeri pur avendo solo nove deputati) e con il sostegno dei Verdi. Con arroganza, Winston Peters ha annunciato in TV chi avrebbe appoggiato come primo ministro senza prima informare nessuno dei due possibili partner. La Nuova Zelanda ha seri problemi, ma l’immigrazione non è fra questi: secondo l’UNICEF, 300.000 bambini vivono in povertà, un numero sproporzionato dei quali appartiene a famiglie māori. 137 C’è da chiedersi quanto possa durare quest’alleanza scellerata (o «coalizione di perdenti», come l’ha ribattezzata il conservatore Richard Pebble). 138 L’Australia ha precedenti peggiori. Accettò i profughi dalla Germania nazista negli anni Trenta, e la sua politica d’immigrazione «solo bianchi» fu introdotta nel 1901 dal primo ministro del paese nonché leader del Protectionist Party, Edmund («Toby») Barton, che dichiarò: «Non credo che la dottrina dell’uguaglianza fra gli uomini intendesse davvero includere l’uguaglianza razziale. Queste razze sono, paragonate a quelle bianche […] diseguali e inferiori. La dottrina dell’uguaglianza fra gli uomini non è mai stata intesa come applicabile all’uguaglianza fra l’inglese e il cinese». 139 Questo spirito fu mantenuto fino al 1973, quando l’Australia (che aveva inviato forze armate in Vietnam in aiuto degli americani) accettò controvoglia i cosiddetti boat-people vietnamiti. Poi, negli anni Novanta, fu introdotto un sistema di «detenzione obbligatoria» per i profughi. Si sperava dissuadesse l’immigrazione. Ovviamente i profughi continuarono ad arrivare da varie zone travagliate. Dopo l’11 settembre furono detenuti fuori dall’Australia, in stati vicini come la Papua Nuova Guinea e le remote isole Nauru e Manus. Il tribunale della Papua Nuova Guinea giudicò la struttura adibita all’accoglienza «incostituzionale». La struttura fu chiusa il 31 ottobre 2017, costringendo 600 detenuti ad andare altrove. Il romanziere australiano Richard Flanagan (vincitore del Man Booker Prize nel 2014) ha descritto l’isola di Manus come un «inferno di repressione, crudeltà e violenza», aggiungendo che «la vergogna di quest’epoca sopravviverà a tutti noi». 140 L’Australia aveva finanziato simili centri esteri perché accettassero i profughi: era questa la cosiddetta soluzione «off-shore», ovvero qualunque cosa potesse bloccare l’arrivo dei profughi in Australia. Il Partito laburista, guidato da Kevin Rudd, dopo essere salito al potere nel 2007 con il 43% dei voti, attuò una politica più liberale – dopotutto i profughi erano solo qualche migliaio. Elettoralmente questo non funzionò e, nel 2010, il partito perse voti.

Da quel momento Julia Gillard, dopo aver scalzato Rudd come leader laburista, limitò gli ingressi. Al 2012 il numero dei profughi che cercavano di entrare era aumentato e il governo reintrodusse la politica punitiva «offshore» contro la quale aveva fatto campagna nel 2007. Poi, nel 2013, in quello che appariva sempre più un meschino gioco politico, Rudd, vendicatosi di Gillard scalzandola a sua volta, mantenne intatta l’essenza della sua politica sui profughi. Nel 2015 i laburisti persero comunque e il nuovo governo conservatore di Tony Abbott (vale a dire il partito liberale) intensificò la dura politica antiprofughi. Fu, come dichiarò l’ex primo ministro Malcolm Fraser, una corsa verso il basso. 141 E non fu una corsa a poco prezzo. Tra il 2013 e il 2016 il respingimento dei barconi, il trasporto dei richiedenti asilo in remoti luoghi esteri, i pagamenti ai loro governi e quelli alle compagnie di sicurezza private per assicurarsi che i profughi non provassero a tornare in Australia, sono costati 9,6 miliardi di dollari australiani (5,9 miliardi di euro). L’estrema destra europea ha calorosamente approvato piani tanto spregevoli. 142 La situazione è altrettanto fosca in un paese largamente popolato da profughi e con alle spalle una storia di persecuzione: Israele. Nel 2012, Benjamin Netanyahu, il primo ministro, avvertì che i profughi e i lavoratori provenienti dall’Africa minacciavano l’«identità» dello stato «ebraico» così come «il tessuto sociale della società, la nostra sicurezza e la nostra identità nazionali». Il capo della polizia israeliana adottò toni più liberali, dichiarando che ai migranti dovrebbe essere permesso di lavorare per scoraggiarli dal commettere reati poiché, impossibilitati a lavorare legalmente, vivono in condizioni di sovraffollamento e indigenza. Ma nel rifiutare la proposta, il ministro degli Interni Eli Yishai, noto per i suoi commenti razzisti, ha dichiarato, usando argomentazioni che se fossero rivolte contro profughi ebrei sarebbero giudicate abbondantemente antisemite: «Perché dovremmo trovargli un lavoro? Ho la nausea delle anime belle, politici compresi. Un lavoro li porterebbe a stabilirsi qui, avrebbero figli, e quell’offerta produrrebbe solo centinaia di migliaia di arrivi in più». Il tasso di criminalità fra stranieri, per la cronaca, è la metà di quello fra israeliani. 143 Miri Regev, in seguito ministra della Cultura, denunciata in modo appropriato da Jonathan Freedland – un giornalista del «Guardian» sostenitore di Israele – sulle pagine del «Jewish Chronicle», nel 2012 aveva espresso il desiderio di disfarsi dei profughi africani definendoli «un cancro». «Ha poi chiesto scusa

alle persone malate di cancro per il paragone», ha aggiunto Freedland. 144 Certi rabbini non sono meglio. Il 18 marzo 2018, Yitzhak Yosef, il sefardita rabbino capo di Israele, ha definito «scimmie» i neri, commento propriamente denunciato dall’Anti-Defamation League. 145 Un paio di mesi più tardi ha dato la benedizione a Ivanka Trump e al marito Jared Kushner in visita a Gerusalemme. 146 La Prevention of Infiltration Law del 1954 (emendata nel 2012) sancisce la detenzione d’ufficio di tutti coloro che entrano in Israele senza permesso, richiedenti asilo compresi. Molti profughi sono rinchiusi in campi nel deserto del Negev. Amnesty International l’ha definito «un affronto al diritto internazionale». Israele, «l’unica democrazia nel Medio Oriente», ha firmato la convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, un documento che aveva contribuito a redigere in seguito all’esperienza dell’Olocausto, cosa che però non gli ha impedito di comportarsi in maniera spietata contro i circa 39.000 profughi africani che sfuggono alla guerra in Sudan e alla dittatura in Eritrea: li minaccia di espulsione o di arresto. 147 Come ha scritto Michael Brizon su «Haaretz», «il perseguitato diventa persecutore, il rifugiato l’espulsore, lo sradicato diventa sradicatore, l’oppresso l’oppressore, il picchiato diventa picchiatore, il calpestato il calpestatore». 148 I professori universitari, a differenza del succube Partito laburista, hanno protestato a gran voce per dimostrare che prendevano seriamente l’ingiunzione biblica: «Amate dunque il forestiero, perché anche voi foste forestieri nella terra d’Egitto» (Deuteronomio 10,19). Alcuni piloti della linea aerea El Al si sono perfino rifiutati di pilotare gli aerei che deportavano i richiedenti asilo in Africa. 149 I partiti anti-immigrazione sono fioriti in paesi che vantano una reputazione di tolleranza e di virtù civiche. Anche nell’«avanzata» Norvegia la xenofobia è diventata un fenomeno significativo. Dal 2013 il Partito conservatore guidato da Erna Solberg ha governato con l’aiuto del Partito del progresso, che è di destra, è anti-immigrati e persegue una stretta politica sull’immigrazione che prevede la massima riduzione dei richiedenti asilo, soprattutto se «analfabeti» e/o «poveri». In Danimarca l’apertamente destrorso Partito del popolo danese si è classificato al secondo posto alle elezioni del 2015 ottenendo il 21% dei consensi. Il governo ora dipende dal suo sostegno. L’«integrazione forzata» è diventata la policy di un paese che, fino a poco tempo fa, era stato pietra angolare della socialdemocrazia. Ora il governo punta a costringere gli immigrati a far frequentare ai propri figli asili

nido per venticinque ore settimanali dal primo anno di età, e a fissare quote nelle scuole materne così da non avere più del 30% di bambini immigrati. I figli dei migranti devono crescere secondo «valori danesi», qualunque cosa ciò voglia dire. Lo scopo è di «eliminare tutti i ghetti entro il 2030», dove il termine «ghetto» è ormai di uso comune per indicare i luoghi in cui si raggruppano i migranti. Una serie specifica di crimini è sanzionata con pene più pesanti se vengono commessi all’interno dei ghetti. 150 Analoghe misure antimigratorie sono sostenute dai socialdemocratici all’opposizione, che rappresentano ancora il primo partito del paese. La fragile giustificazione è che una simile misura potrebbe essere necessaria per proteggere il welfare danese, ma la vera ragione è quella di voler fermare il flusso di voti della classe lavoratrice verso la destra. In Svezia nel 2014 i Democratici svedesi (Sverigedemokraterna), partito fondato nel 1988 da simpatizzanti filonazisti, hanno ricevuto il 12,9% dei voti diventando il terzo partito. Nel settembre 2018 la loro percentuale di voti è salita quasi al 18%. Nel 2017, in Olanda, la formazione di estrema destra Partito per la libertà (Partij voor de Vrijheid – PVV), guidata da Geert Wilders (che si vanta di essere un grande amico di Israele), è diventata il secondo partito in parlamento con il 13% dei voti. Oggi i partiti xenofobi di estrema destra non sono «antidemocratici». Non sfidano la democrazia convenzionalmente definita. Non sostengono che la democrazia (cioè elezioni, parlamento eccetera) sia un male, non nel modo in cui ne parlavano Mussolini e Hitler negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, o nei termini in cui nello stesso periodo (e in alcuni casi anche più tardi) i partiti comunisti descrivevano la democrazia «borghese» come inferiore alla «dittatura del proletariato». In Occidente la xenofobia moderna poggia su una certa forma di legittimità democratica. La sua crescita è dovuta, come lo è per tutti i maggiori cambiamenti e sviluppi, a una molteplicità di cause tra cui la globalizzazione e la conseguente gigantesca deindustrializzazione che ha colpito l’Occidente, più pronunciata in alcuni paesi (come il Regno Unito) che in altri (come la Germania), e l’invecchiamento della popolazione con il conseguente bisogno di spendere di più in pensioni, salute e previdenza sociale. Ciò richiede a sua volta o un livello più alto di tassazione o politiche di austerità, oppure un poco di entrambi.

3. IL DECLINO DEL WELFARE

Il declino sociale è stato accompagnato da un indebolimento dei sindacati, dalla stagnazione dei salari e da una crescita delle disuguaglianze. Non c’è da meravigliarsi se il welfare state, la base del «capitalismo compassionevole», è stato sotto attacco per più di trent’anni. Nel frattempo, sei paradisi fiscali europei (Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Belgio, Malta e Cipro) come anche le Bermuda, le isole Cayman, Guernsey, Jersey e l’Isola di Man permettono ad aziende e ai privati molto ricchi di «risparmiare» miliardi in contributi fiscali, «un gigantesco, intergenerazionale trasferimento di ricchezza, che arricchisce i vecchi e impoverisce i giovani». 1 Dunque, la xenofobia è l’unico problema? Se, come dice Gramsci, il vecchio muore, che cos’è questo vecchio moribondo? E c’è qualcosa di nuovo all’orizzonte? Mappare il «vecchio» defunto è relativamente facile. Il vecchio che è finito è quella specie di consenso «socialdemocratico» e «liberale» che ha prevalso in Occidente nei trent’anni successivi al 1945, il cosiddetto Soziale Marktwirtschaft, il mercato sociale, un’espressione tedesca usata per denotare il meglio di due mondi: un capitalismo premuroso in cui a una robusta crescita economica si accompagnava un welfare esteso per tutti e protezione mirata per chi non ce la faceva. Gli anziani avrebbero una pensione sicura, anche se ci sono molti più anziani oggi di quando i piani pensionistici furono introdotti alla fine del XIX secolo in paesi come la Danimarca, o la Germania, o in Gran Bretagna all’inizio del Novecento. Allora le persone morivano presto e le pensioni non erano un grande problema. Nei trent’anni successivi al 1945, l’epoca d’oro del capitalismo – i Trente Glorieuses, come ebbe a chiamarli l’economista francese Jean Fourastié nel 1979 –, 2 i disoccupati erano protetti, ma, anche in questo caso, in regime di piena occupazione il costo non era eccessivo. L’istruzione era gratuita, non solo nelle scuole di primo e secondo grado, ma anche nelle università. Nel Regno Unito la minoranza privilegiata che

andava all’università negli anni Cinquanta e Sessanta riceveva, salvo che i genitori non fossero assai benestanti, una borsa di studio ed era esentata dal pagamento delle tasse universitarie. Oggi che le università sono più «democratiche» (almeno il 50% dei giovani in età universitaria le frequenta) gli studenti sono costretti a chiedere in prestito somme consistenti per pagare i costi universitari più alti d’Europa. Infine i servizi sanitari, che sono gratuiti sebbene le persone vivano più a lungo, e dunque necessitino di un’assistenza sanitaria più onerosa. Oggi in Gran Bretagna più di due quinti della spesa sanitaria nazionale riguarda gli over sessantacinquenni, che rappresentano il 18% della popolazione. 3 Il welfare state si è rivelato un affare costoso per i contribuenti, sebbene costoro ne siano naturalmente anche i beneficiari principali. Nel Regno Unito, prima della guerra solo 3,8 milioni di famiglie pagavano la tassa sul reddito. Nel 1988-1989 rientravano nella fascia fiscale 21,5 milioni di famiglie. Nel 1990-1991 i singoli contribuenti erano poco più di 26 milioni, mentre nel 2017 se ne registrano oltre 30 milioni. 4 Eppure il welfare britannico, al contrario di quanto sostenuto dalla propaganda neoliberale, è allineato alla media OCSE: il 21% del PIL (l’OCSE comprende paesi molto più poveri quali il Messico, il Cile e la Turchia). Quello della Francia è del 31,5% e quello della Danimarca del 28,7%. 5 In Occidente i sussidi del welfare non sono stati uniformi ovunque. Gli USA, sebbene si possa parlare anche lì di stato sociale, sono stati meno disponibili e anzi, il welfare ha dovuto confrontarsi con una feroce opposizione, vinta solo dopo il grande crollo del 1929. Quando lanciò il Social Security Act del 1925, Franklin D. Roosevelt si espresse con queste parole, che nessun presidente americano contemporaneo oserebbe utilizzare: Abbiamo dovuto lottare contro i vecchi nemici della pace – il business e il monopolio finanziario, la speculazione, le spericolate operazioni bancarie, l’antagonismo di classe, le speculazioni di guerra. Hanno considerato il governo degli Stati Uniti come una mera appendice dei loro affari. Sappiamo che il governo del denaro organizzato è altrettanto pericoloso di quello della criminalità organizzata. Mai prima nella nostra storia queste forze sono state tanto unite contro un candidato come oggi. Il loro odio nei miei confronti è unanime, ben venga dunque il loro odio. 6

Trent’anni più tardi, nel 1964, Lyndon B. Johnson dichiarò la «guerra alla povertà» che portò al programma Food Stamp, a Head Start, a Medicare e Medicaid, così come la legislazione pro-diritti civili più importante della storia americana del dopoguerra. Anche Richard Nixon estese la legislazione sul welfare e sulla salute, convertendo in legge nel 1970 la Occupational

Safety and Health Administration, proponendo un’agenzia di protezione ambientale, ampliando il Food Stamp Program e incrementando Medicare e Medicaid. Sostenne anche l’Equal Rights Amendment per le donne, seppure quest’ultimo non venne sancito dalla costituzione perché non fu ratificato da un numero sufficiente di stati. Inoltre, difese con successo il Revised Philadelphia Plan, che prevedeva programmi di discriminazione positiva per integrare (in senso razziale) i sindacati del settore edilizio (contro l’opposizione del loro leader George Meany). 7 I presidenti successivi furono meno impegnati socialmente, ma i tempi stavano cambiando. Jimmy Carter, durante la corsa alla presidenza dell’aprile 1976, sostenne la proposta del senatore Ted Kennedy per un’assicurazione sanitaria nazionale. Una volta eletto, ci ripensò. Mentre Ronald Reagan diventava presidente, il «monetarismo» propugnato da Milton Friedman era in piena auge (e prontamente ribattezzato «Reaganomics», sebbene Reagan non avesse nemmeno mai affermato d’intendersi di economia). George Bush senior, dopo aver condotto una campagna nel 1988 con lo slogan «Leggetemi le labbra: niente nuove tasse», fu costretto ad aumentarle per ridurre l’enorme deficit provocato dalla Reaganomics. 8 Bill Clinton, il successore di Bush, promise di porre fine al welfare «come lo conosciamo», un’espressione conservatrice. Il Family and Medical Leave Act del 1993 concedeva ai lavoratori fino a dodici settimane di ferie l’anno per cure mediche o per prestare cure a un neonato o a un altro congiunto, sebbene queste ferie non fossero pagate (a differenza della maggior parte dei paesi europei). Il suo Personal Responsibility and Work Opportunity Act, del 1996, rimpiazzava i fondi federali con sovvenzioni da amministrarsi a livello locale, spingendo probabilmente 2,6 milioni di persone, compresi 1,1 milioni di bambini, nella povertà, 11 milioni di famiglie a perdere il reddito, gli immigrati legali a vedersi negare il Supplemental Security Income e i buoni pasto e, a discrezione statale, anche Medicaid e welfare. 9 I sussidi diminuirono del 32,5%. 10 Clinton fallì miseramente anche sul tema dell’estensione della copertura sanitaria, mentre capitolava alle forze del neoliberalismo con l’abrogazione del Glass-Steagall Act, contribuendo così alla recessione del 2008. Fu il culmine, nelle parole di Joseph Stiglitz, «di uno sforzo lobbistico di 300 milioni di dollari da parte del settore bancario e quello dei servizi finanziari». La «cultura delle banche d’investimento» aveva vinto. 11

Tuttavia Bill Clinton, per qualche ragione adorato ovunque dai liberal, trovò il modo di assumere 100.000 nuovi poliziotti: il suo Violent Crime Control and Law Enforcement Act, del 1994, fu la più grande legge anticrimine nella storia degli Stati Uniti, con un costo di 30 milioni di dollari. I sostenitori dichiararono che aiutava a diminuire i reati violenti. È possibile, ma una gigantesca carcerazione può aver fatto anch’essa la differenza. Tra il 1994 e il 2017 la popolazione delle prigioni federali negli USA è più che raddoppiata, passando da 95.162 a 214.149 unità. È il più alto tasso di popolazione carceraria del mondo, più alto della Russia, cinque volte quello della Cina, che è più basso di quello del Regno Unito. 12 I neri americani vengono arrestati almeno cinque volte più dei bianchi non ispanici, mentre gli ispanici quasi due volte più dei bianchi (dati US Census per il 2010). La questione dell’assistenza sanitaria universale è un tema di scontro costante nella politica americana. Nel 2008 tutti i principali candidati alla nomination democratica, Barack Obama, Hillary Clinton e l’ora pietosamente dimenticato John Edwards (condannato nel 2011 con l’accusa di aver violato le leggi sul finanziamento ai partiti per coprire una relazione extraconiugale, accuse in seguito ritrattate), avevano abbracciato con entusiasmo l’idea. 13 Vinse Obama, eppure, dopo anni di lotte contro un congresso ostile, tutto ciò che ottenne fu l’Affordable Care Act (Obamacare), che estese la copertura ma non la rese universale. Donald Trump, durante la sua campagna presidenziale del 2016, aveva promesso di sostenere Medicare e di riportare in patria i posti di lavoro che erano stati delocalizzati all’estero. Una volta eletto, ha cercato di abrogare l’Obamacare, rischiando di lasciare senza previdenza sanitaria milioni di americani a basso reddito. Ha poi continuato a ridurre le tasse per i ricchi (vedi più avanti). In realtà non ci sarebbe bisogno di alcuna riduzione: negli anni Cinquanta l’amministratore delegato medio guadagnava solo venti volte di più del lavoratore medio, e l’aliquota marginale per chi guadagnava di più era del 91%. Al 2017 l’aliquota marginale era solo del 39% e l’AD medio guadagnava 271 volte più del lavoratore medio. 14 Il tasso d’imposta sulle società è stato tagliato drasticamente, nel tripudio di aziende come JP Morgan, che si aspetta che le proprie imposte diminuiscano dal 32% al 19%. Nel suo passato JP Morgan è stata indagata per illeciti, irregolarità, raggiri agli investitori, istigazione alla frode dei titoli Enron, manipolazione del mercato dell’energia, ostruzione della giustizia, violazione di sanzioni

eccetera. E per concludere, un rapporto del governo federale ha evidenziato che nel paese più ricco del mondo ci sono circa 550.000 persone senzatetto. 15 I tagli fiscali sono stati il principale «risultato» di Trump nel suo primo anno di presidenza. Potrebbero contribuire a una crescita globale a breve termine, ma anche a crescenti disuguaglianze e a un aumento del deficit federale. Aumenteranno le importazioni, e dunque il sempre crescente del deficit commerciale. I tagli fiscali, inoltre, comporteranno il fatto che non rimarrà molto denaro per il trilione di dollari d’investimenti promessi nelle decrepite infrastrutture del paese, o per le sei settimane di maternità pagate promesse a ogni neomamma il cui datore di lavoro non fornisse i sussidi, per non parlare del famoso muro al confine con il Messico. Trump ha promesso che ci sarebbero state «conseguenze» per le aziende che delocalizzano, ma, imperturbabile, Microsoft continua a spostare la produzione in Cina, la General Electric in Canada, l’IBM in Costa Rica, Egitto, Argentina e Brasile. A un anno dalla sua elezione la delocalizzazione di posti di lavoro americani è salita ai massimi livelli mai registrati, quasi tre volte quelli delocalizzati nell’ultimo anno dell’amministrazione Obama. 16 Aveva promesso di rivitalizzare l’industria del carbone in difficoltà, ma gli stabilimenti alimentati a carbone continuano a chiudere. Aveva promesso di proteggere gli operai metallurgici, ma nel 2017 le importazioni di acciaio sono state circa il 20% più alte che nell’anno precedente. 17 Le nuove tariffe su acciaio e alluminio, annunciate nel marzo del 2018, porteranno più disoccupati, in parte perché i costi di entrambi saliranno, in parte per le reazioni degli altri paesi. Nessuno, a parte i molto ingenui, pensava che l’amministrazione Trump sarebbe stata in grado di mantenersi coerente su qualcosa. Martin Wolf, sul «Financial Times», ha definito la guerra commerciale del presidente con la Cina «sciocca», «arrogante» e «ridicola». 18 Il contrasto fra l’estensione del welfare, lo spirito normativo degli anni Sessanta e Settanta e l’oggi è rivelatore. Allora i beneficiari di welfare avevano «diritti», oggi sono invece stigmatizzati. L’Europa ha seguito un modello simile: grandi progressi nel periodo 1945-1975, difesa, oppure ritirata, in seguito. Se si voleva sapere cosa si intendesse con «vecchio» moribondo, ebbene si tratta di questo. La ritirata toccò l’apice più virulento nel Regno Unito con l’elezione di Margaret Thatcher alla carica di primo ministro. Deregolamentò i mercati

finanziari (il cosiddetto «Big Bang»), vendette gli alloggi popolari, privatizzò i servizi, frenò i sindacati, abbassò le tasse ai soggetti ad alto reddito (dall’83% al 40%), ridusse i sussidi sociali, introdusse un «quasi-mercato» nel NHS, il servizio sanitario pubblico, mentre i sussidi scendevano sotto il tasso di crescita salariale (invertendo il trend precedente). Eppure la spesa pubblica sul welfare aumentò perché aumentava la disoccupazione. Il welfare state non fu abolito naturalmente, ma indebolito. Così la solidarietà tra la classe media e quella operaia fu allentata, sebbene tutti continuassero a beneficiare del benessere. I paesi che hanno adottato politiche neoliberali negli anni Ottanta e Novanta hanno conosciuto un aumento nella disuguaglianza in campo sanitario: ciò è stato particolarmente vero per il Regno Unito, gli Stati Uniti e la Nuova Zelanda. 19 Il welfare è diventato sempre più una questione di poveri, una questione di «noi e loro: loro, i poveri fannulloni, e noi che li abbiamo a carico». 20 Vi sono ovviamente alcuni impostori nella classe operaia, e sono puniti. Gli impostori della classe media, invece, se la cavano. Nel Regno Unito la Financial Conduct Authority ha portato alla luce solo otto casi di incriminazione per aggiotaggio nel periodo 2013-2018 e ha prodotto solo dodici condanne. Nel 2015 le autorità fiscali britanniche (HMRC) hanno scoperto solo una trentina di frodi fiscali «serie e complesse» dopo essere state criticate per aver perseguito solo casi più lievi pur di raggiungere i propri target. Per contro, le frodi ai sussidi indagate in un solo anno sono state più di 10.000. 21 Dopo la caduta di Thatcher – provocata nel 1990 dal suo stesso partito in dissenso con l’introduzione della Poll tax (tassa comunale procapite), che avrebbe colpito le fasce di reddito più deboli – il suo successore John Major introdusse la cosiddetta Private Finance Initiative (PFI) per finanziare infrastrutture quali scuole e ospedali. Sotto la cosiddetta Public Private Partnership (PPP), un consorzio di imprese private le avrebbe possedute, gestite e retrolocate al governo (vale a dire il contribuente del Regno Unito) per un periodo fino a quarant’anni. Questo sistema fu incrementato con decisione dal governo laburista (1997-2010), che adattò le regole in modo tale che le imprese pubbliche, anche se ben amministrate, non potessero competere. I governi di Tony Blair e Gordon Brown furono sedotti dalla trovata, perché il debito usato per finanziare le infrastrutture fu rubricato come passività del settore privato e non come spesa pubblica, rispettando così

la «regola d’oro» di Gordon Brown secondo cui il debito non avrebbe potuto eccedere il 40% del reddito nazionale. Si trattava, in realtà, di indebitamento pubblico di fatto, ma con un altro nome. La nuova coalizione di liberal-conservatori (2010-2015) continuò nella pratica con entusiasmo. Nel 2017, secondo il caporedattore economico del «Financial Times», il PFI era stato «screditato dal costo, dalla complessità e dall’inflessibilità». 22 Margaret Hodge, tra le prime a sostenere il PFI, ma in seguito al vertice del Public Accounts Committee della camera dei comuni, ammise che «ci eravamo sbagliati. Il PFI fu un totale scandalo; fummo sedotti dal concetto e imbrogliati dai loro appaltatori». 23 Il National Audit Office non trovò prove che l’investimento del governo in più di 700 progetti PFI esistenti avesse fornito alcun beneficio finanziario. 24 Nelle memorie di Gordon Brown non c’è una parola sul fatto che PFI o PPP siano stati un errore. Eppure è ovvio che ci fosse qualcosa di completamente sbagliato. All’inizio del 2018 falliva la Carillion, una delle maggiori imprese edilizie del paese e pesantemente coinvolta nel PFI e nel PPP. L’azienda dava lavoro a 43.000 persone e si avvaleva di circa 30.000 piccoli sub-appaltatori: si produsse dunque un’enorme perdita di posti di lavoro. Richard Howson, ex capo della Carillion, dopo essersi dimesso nel luglio 2017 avrebbe continuato a ricevere il proprio compenso di 660.000 sterline fino all’ottobre 2018. Nel 2016 Howson aveva anche «guadagnato» un milione e mezzo di sterline, più 591.000 sterline in bonus. L’azienda, che ha un enorme deficit pensionistico, nel 2017 ha pagato 83 milioni di sterline in dividendi. I direttori precedenti della Carillion si sono rifiutati di restituire volontariamente i propri bonus, con i deputati della commissione d’inchiesta parlamentare che li definirono «personaggi deliranti», determinati a incolpare chiunque eccetto sé stessi. 25 O erano colpevolmente all’oscuro della cultura corrotta, o ne erano complici. L’intero sistema di controlli e contrappesi aveva fallito. I revisori della KPMG furono inutili, così come l’ordinamento del settore della revisione dei conti. I consulenti della City di Carillion ovviamente dormivano, stipendiati per questo. 26 Per finire, il presidente dell’azienda Philip Nevill Green era un consigliere di David Cameron sulla «responsabilità delle imprese» (!). Costui non è da confondersi con il già citato «sir» Philip Green, ex presidente del gruppo Arcadia e noto evasore fiscale nonché incaricato da Cameron di svolgere un rapporto di «verifica d’efficienza» nel 2010.

Il sistema PFI fu utilizzato soprattutto nel NHS, che oltre a versare una tassa annuale alle imprese PFI per l’uso e il mantenimento degli ospedali che hanno costruito, dovrà anche rifondere i costi di edificazione con gli interessi. Ne consegue che in Inghilterra tra il 2010 e il 2015 il NHS e le autorità locali hanno speso più di 10,7 miliardi di sterline in ospedali e altre strutture sanitarie costruite sotto il PFI, mentre nello stesso periodo le imprese PFI hanno fatto 831 milioni di sterline di profitti al netto delle tasse, molto più che se avessero investito altrove il loro denaro. Si riteneva, fino alla débâcle della Carillion, che questo fosse un business a rischio contenuto, giacché i prestiti sono garantiti dal governo. E questo aiuta a spiegare il colossale disavanzo accumulato dagli ospedali del NHS. 27 Prevedibilmente, le politiche di «mercatizzazione» dei servizi sanitari furono proseguite dalla coalizione di governo guidata da David Cameron e Nick Clegg. L’Health and Social Care Act del 2012 prevedeva una riorganizzazione che, secondo il thinktank sanitario The King’s Fund, era «dannosa», «complessa» e «confusa». 28 Alla fine del 2017 il NHS vacillava sotto un deficit enorme e insostenibile. 29 Mentre gli illusi continuano a dire che il sistema sanitario britannico è il migliore del mondo, la triste realtà è che, secondo un rapporto dell’OCSE, negli ospedali della Gran Bretagna ci sono soltanto 2,4 posti letto ogni 1000 abitanti, meno di metà della media europea (5,2), mentre la Francia ne ha 6,2 e la Germania 8,2. La Gran Bretagna ha anche meno medici di qualsiasi altro paese europeo, eccetto la Romania e la Polonia. I britannici devono anche attendere più a lungo della media europea per operazioni di routine, come la cataratta o interventi al ginocchio o all’anca. 30 Naturalmente il welfare state britannico sopravvive, sebbene fortemente danneggiato dalle politiche delle successive amministrazioni dei conservatori e con il Labour Party che ha fatto assai poco per porvi rimedio. Come se l’è cavata la Francia? All’inizio, sotto la presidenza di François Mitterrand, fece scelte adeguate. Con l’elezione di Mitterrand nel 1981 e con una maggioranza solida a sua disposizione, venne attuato uno spostamento di risorse verso un welfare più forte. Le pensioni e i sussidi familiari furono sostanzialmente aumentati; i ticket sui medicinali aboliti; i migranti aiutati; la spesa per l’istruzione era al passo con il tasso d’inflazione; idem per il salario minimo (lo SMIC, Salaire Minimum Interindustriel de Croissance); la pena di morte fu finalmente abolita; le condizioni delle famiglie monogenitoriali

migliorarono; le strutture per l’infanzia furono incrementate. Nel febbraio 1982 il governo nazionalizzò cinque grossi gruppi industriali e trentanove banche. Tuttavia queste ultime furono semplicemente annesse a un settore bancario statale già esistente che si era sempre comportato come se fosse privato. Il governo, avendo speso una considerevole quantità di denaro, non sapeva cosa fare di questo nuovo strumento, sebbene soddisfacesse le aspirazioni della sinistra di «rompere con il capitalismo». Più modestamente, e patriotticamente, alcuni socialisti, come Laurent Fabius, affermarono che la nazionalizzazione aveva salvato le grandi imprese francesi dall’acquisizione straniera. 31 All’inizio degli anni Ottanta il governo aveva anche avviato uno dei programmi per l’occupazione più vigorosi dell’Europa occidentale, anche se la disoccupazione in Francia era, all’epoca, meno pronunciata che in Gran Bretagna, Belgio, Italia e Olanda. Fu esteso il pubblico impiego. I giorni lavorativi furono ridotti nella supposizione (erronea) che ciò avrebbe ridotto la disoccupazione. 32 Eppure la disoccupazione aumentò da 1.794.000 (nel maggio 1981) a 2.005.000 (del maggio 1982). 33 Il problema era che il governo francese stava cercando di stimolare l’economia mentre altri paesi attuavano una politica di deflazione. Gli Stati Uniti e il Regno Unito erano in preda alla deflazione almeno dal 1979 e furono raggiunti dalla Germania Federale nel 1980. La Francia, benché assai più costretta della Germania da fattori internazionali, per tacere del Giappone, cercò di essere l’eccezione. 34 Giocò d’azzardo e perse. Questo portò a un’inflazione che, al 1982, era il doppio di quella del proprio principale concorrente, la Germania. Fu come se la Francia, sola e pura, si trovasse circondata da orde di barbariche multinazionali pronte a distruggere l’unicità della sua industria e della sua cultura. Più ci si spostava a sinistra nel Parti Socialiste e più ci s’imbatteva in una peculiare marca di socialismo nazionalista di sinistra che, altrove in Europa, si poteva trovare solo nel Labour Party britannico. Nel giugno 1982 il governo francese fece marcia indietro. Fu tagliata la spesa pubblica. Vennero aumentati i contributi della sicurezza sociale dei lavoratori. La svalutazione, il contenimento dei salari e il calo nei tassi d’interesse a livello internazionale crearono in parte le condizioni per nuovi investimenti. Emerse un modello, seguito altrove, in particolare dal «New» Labour, che cercava di dimostrare ai circoli finanziari che i socialisti perseguivano politiche economiche sostanzialmente uguali a quelle della

destra, un dietrofront ampiamente accolto come un ritorno al «realismo». In Gran Bretagna «the Lady» (la signora Thatcher) dichiarò orgogliosamente che «non tornava indietro». In Francia tornarono indietro più volte. Fu abbandonato lo slogan dell’abolizione del capitalismo. La Francia doveva abbracciare la «modernizzazione», fu dichiarato. La chiamata alla modernizzazione suonava accattivante, come del resto era stato per oltre un secolo, ma qui segnalava la fine dell’ambizione, della passione, e l’inizio della routine. Il Parti Socialiste divenne «un grigio partito in cerca di colore», come disse del proprio partito il deputato laburista Austin Mitchell. Dal 1985 in poi i socialisti dichiararono che «il mercato ha chiaramente dimostrato di essere una delle strade per la libertà. Produrre non è cosa dello stato. Questo è compito delle imprese». 35 Con amaro sarcasmo, il sociologo Alain Touraine ha scritto: «Se vi imbattete in un esagerato tributo ai profitti, all’impresa, alla competizione, è sicuro che state ascoltando un ministro socialista […] insomma, la Francia è diventata reaganiana». 36 Se si vogliono mappare le cause della crescita della destra estrema del Front National non c’è nulla di meglio che esaminare le scelte economiche dei governi socialisti francesi. Mitterrand fu rieletto nel 1988, quando Jean-Marie Le Pen (Front National) otteneva un impressionante 14,4%, mentre il candidato comunista meno del 7%. I tre governi Mitterrand che si succedettero, guidati rispettivamente da Michel Rocard (1988-1991), Édith Cresson (1991-1992) e Pierre Bérégovoy (1992-1993), seguirono il sentiero della prudenza fiscale, spostando il peso della tassazione alle imposte indirette combinate con una rigida politica anti-inflazionistica. La disoccupazione crebbe costantemente. I ricchi diventavano più ricchi e i poveri più poveri. 37 Dal 1991 in poi, tuttavia, l’inflazione fu messa sotto controllo (ma lo era anche altrove). 38 Seguì un’ondata di privatizzazioni che coinvolse anche molte imprese nazionalizzate di recente. Tutto ciò non servì a nulla. C’era un prezzo da pagare. Nel 1993 i socialisti furono spazzati via: crollarono dal 37,5% nel 1988 al 17,6%. Il primo ministro Bérégovoy si tolse la vita. I partiti di destra ottennero 485 seggi, i socialisti 92. Anche la Francia si stava spostando a destra. Seguirono due «coabitazioni». La prima ebbe inizio nel 1993: Mitterrand condivise il potere con il primo ministro gollista Édouard Balladur. La seconda, avviata nel 1995, vide Jacques Chirac presidente e il socialista

Lionel Jospin primo ministro. Con Jospin le grandi riforme propugnate da Martine Aubry, la «ministre de l’Emploi et de la Solidarité», furono l’estensione della copertura sanitaria e la settimana lavorativa corta, mentre Dominique Strauss-Kahn, il ministro delle Finanze, rassicurava i mercati. Da quel momento in poi la sinistra si trovò frammentata al punto che Jospin non riuscì nemmeno a passare il secondo turno alle elezioni presidenziali del 2002. Se avesse ottenuto il supporto dell’intera sinistra francese, compreso il partito di centrosinistra di Jean-Pierre Chevènement, comunisti, trotzkisti assortiti, verdi eccetera, avrebbe ottenuto il 42,89% contro il 19,88% di Chirac e forse avrebbe vinto al secondo turno. Ma non se ne fece nulla. Raggiunse un miserabile 16,18% al primo turno, cedendo così il cruciale secondo posto per il turno decisivo a Jean-Marie Le Pen (16,86%) nella costernazione dell’80% dell’elettorato che, in mancanza di meglio, si raccolse attorno a Chirac. A Chirac è seguita la presidenza di Nicolas Sarkozy (2007-2012). La sinistra in Francia è tornata al potere solo nel 2012, quando François Hollande fu eletto presidente e il Partito socialista ottenne una maggioranza per cinque (deprimenti e fallimentari) anni. Hollande aveva vinto promettendo cambiamenti politici ed economici rilevanti e la riduzione dell’austerità, dell’asservimento al capitalismo finanziario e della condiscendenza fiscale nei confronti del grande business. Diede di sé l’immagine di un président normal, in contrasto con l’iperattivismo del suo predecessore Nicolas Sarkozy, amante del lusso volgare e che, nel 2014, fu accusato di corruzione. Quando si guarda alle politiche dell’uno e dell’altro, tuttavia, le differenze non sembrano molto significative. Di fatto, durante la presidenza di Hollande l’austerità e il consolidamento fiscale continuarono, come anche il sostegno statale ai mercati finanziari e al grande business, mentre le diseguaglianze economiche e sociali aumentavano e la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, s’impennava. Prevedibilmente, la popolarità di Hollande precipitò a strapiombo. La sua caduta aprì la strada alla «terza via» di Emmanuel Macron, ni gauche ni droite. In Italia gli anni Novanta videro una completa ristrutturazione del sistema politico. In seguito al crollo del comunismo in URSS e nel resto dell’Europa orientale, il Partito comunista italiano, il più forte partito comunista d’Occidente, cambiò nome e divenne, nel 1991, il Partito democratico della sinistra. In seguito, in una serie nevrotica di mosse successive, come se fosse

in cerca di un’identità, si trasformò nei Democratici di sinistra (1998) e infine nel generico Partito democratico (2007), un nome adottato imitando l’omonimo partito americano, segnando un’ulteriore istanza di provincialismo della politica italiana. Un precedente partito, I Democratici, guidato dal già democristiano Romano Prodi, ebbe come simbolo un asinello, sempre ispirato al Democratic Party americano, e Walter Veltroni, inebriato da qualunque cosa sia americana, nel 2008, da leader del Partito democratico, arrivò a adottare lo slogan di Barack Obama «Yes, We Can», senza nemmeno tradurlo (Veltroni ha scritto la prefazione all’edizione italiana del libro di Obama, L’audacia della speranza). Quasi contemporanei all’implosione del comunismo, una serie di grossi scandali per corruzione, meglio noti come Tangentopoli, cancellò la Democrazia Cristiana, al potere dal 1945, spingendo inoltre il Partito socialista, il terzo partito, verso l’abisso. Tangentopoli, guidata da un intraprendente gruppo di magistrati, il pool di Mani pulite, fallì, ovviamente, nel suo proposito di ripulire il sistema politico italiano dalla corruzione endemica. In risposta a Tangentopoli, Silvio Berlusconi, un noto magnate televisivo che aveva fatto i soldi nell’edilizia e che non era mai stato eletto prima (precedendo dunque Trump di quasi venticinque anni), nel dicembre del 1993 creò dal nulla un nuovo partito. Lo chiamò patriotticamente Forza Italia, mutuando uno slogan da stadio. Forza Italia vinse le elezioni del 1994 in coalizione con Alleanza Nazionale, fino allora considerato un partito-paria (un tempo ampiamente ritenuto neofascista) e con l’antimeridionale Lega Nord (non ancora xenofoba giacché al tempo in Italia vi erano pochi lavoratori stranieri). Berlusconi rimase al potere solo un anno, poi il centrodestra passò all’opposizione (1996-2001), tornò quindi al potere per un intero mandato (2001-2006, il governo più duraturo dal 1945) e di nuovo nel 2008-2011. La sua coalizione, ma con la Lega davanti a Forza Italia e a Fratelli d’Italia, ha vinto ancora nel 2018. Nel 1994 andava al governo, per la prima volta nella storia europea, un partito interamente creato e fondato da un singolo imprenditore che, come per Trump, godeva di scarsa popolarità presso le élite, sia in patria sia all’estero (l’«Economist», in particolare, non ha perso l’occasione di esprimere il suo spregio nei confronti di Berlusconi, solitamente a ragione). Durante i vari mandati di Berlusconi non è stata promulgata alcuna riforma significativa. Le

cose non sono migliorate tuttavia con i governi di centrosinistra: PIL, produttività, investimenti e salari sono rimasti stagnanti o sono diminuiti; invariate le diseguaglianze regionali; sempre meno competitive le imprese italiane, mentre gli industriali, così dinamici negli anni Cinquanta, si sono rivelati sempre più incompetenti; le università hanno continuato a barcollare di crisi in crisi; l’occupazione è rimasta precaria specialmente tra i giovani; come altrove, si è prodotta una costante deindustrializzazione e la perdita sui mercati esteri, mentre le tasse (e l’evasione fiscale) si sono mantenute a livelli alti e la burocrazia è ancora soffocante. Mentre la sinistra si è mostrata impotente come sempre, sono emersi vari cartelli e coalizioni elettorali di centro, tutti speranzosi di contenere Berlusconi. Gli storici faticheranno non poco a spiegare la proliferazione di «partiti» e coalizioni effimere nei decenni successivi al 1994: la centrista Lista Dini di Lamberto Dini; la cattolica UDEUR di Clemente Mastella; l’Unione democratica per la repubblica dell’ex presidente Francesco Cossiga; il Patto di rinascita nazionale di Mariotto Segni (Patto Segni); l’Italia dei valori di Antonio di Pietro (uno dei magistrati alla guida dell’inchiesta Tangentopoli); Scelta Civica dell’economista Mario Monti (presidente del consiglio per un breve periodo); la cattolica Unione di centro di Pier Ferdinando Casini; Futuro e libertà per l’Italia dell’ex neofascista Gianfranco Fini; Azione sociale, fondato da Alessandra Mussolini, la nipote del duce e suo successore spirituale; il partito di estrema destra Fratelli d’Italia, anch’esso guidato da una donna, Giorgia Meloni. Nel centrosinistra sono emerse varie coalizioni con graziosi nomi «botanici»: l’Ulivo, la Margherita, il Girasole, tutti incapaci di stabilizzare lo spettro politico. Ancora più a sinistra sono comparsi Rifondazione comunista, il Partito dei comunisti italiani, Alleanza dei progressisti, Sinistra arcobaleno, L’altra Europa con Tsipras, Sinistra ecologia libertà eccetera. L’intero circo è stato caratterizzato da dibattiti frenetici sulle riforme elettorali e costituzionali e referendum perduti, come quello tenutosi il 4 dicembre 2016 su iniziativa di Matteo Renzi, all’epoca segretario del Partito democratico e presidente del consiglio, che intendeva riformare la composizione e i poteri del parlamento, ma che fece registrare la vittoria del «No» con un sonoro 60%: una sconfitta che fa sembrare intelligente David Cameron. Pur restando leader del partito, Renzi diede le dimissioni lasciando la poltrona di presidente del consiglio a Paolo Gentiloni (anche lui del Partito

democratico). L’economia seguì lo stesso andamento, il welfare stagnava e il sistema politico continuava a implodere. Le elezioni del 4 marzo 2018 hanno segnato una nuova sconfitta per la sinistra italiana e in particolare per Renzi (che ha dato le dimissioni anche da segretario del partito, forse una volta per tutte). Il Partito democratico ha ottenuto infatti il 18,7% dei voti e pare moribondo. Come se Berlusconi e la Lega non bastassero, in Italia è emerso un nuovo movimento, né di destra, né di sinistra: il Movimento 5 Stelle. Nel parlamento europeo tuttavia ha saputo dove collocarsi: a destra, con l’euroscettico destrorso EFDD (Europe of Freedom and Direct Democracy), accanto allo UKIP, ai Democratici svedesi, ad Alternative für Deutschland e ad altri gruppi di estrema destra. Il Movimento 5 stelle, descritto solitamente come «populista», è stato fondato dal «carismatico» comico Beppe Grillo. Il partito/movimento (non vogliono che sia chiamato partito) è nato nel 2009 e alle elezioni del 2013 ha ottenuto il 25,5% dei voti, diventando il secondo partito italiano. Nel 2016 si è aggiudicato i municipi di Roma e di Torino. Con il rifiutare qualsiasi alleanza contribuisce al problema della governabilità italiana. Alle elezioni del marzo 2018 è diventato il primo partito con quasi il 32%. Se all’inizio rifiutava ogni alleanza, ora era più che pronto ad accordarsi con la Lega destrorsa e xenofoba per formare un governo, confondendo così chi era stato tanto ingenuo da considerarlo una forza di sinistra. Naturalmente, respingere le alleanze è una mossa sensata per un partito simile. Una volta al governo, però, è costretto a fare delle scelte, rischiando così di diventare impopolare tra i suoi sostenitori, che si aspettano miracoli. In ogni caso la sua vittoria nel marzo 2018 ha prodotto un governo debole, instabile e xenofobo. Gli italiani possono solo disperare. E alcuni di loro disperano da molto tempo. Come scrisse Dante, nel VI canto del Purgatorio (vv. 76-78): §§§Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!

In Germania le cose sono andate meno drammaticamente. Il cancelliere democratico cristiano Helmut Kohl, eletto nel 1982 e in carica per i sedici anni successivi, dapprima estese il welfare state, solo per ridurlo di nuovo nel 1989. Fu quello l’anno fatale in cui cadde il Muro di Berlino, un inaspettato colpo di fortuna per il sempre meno popolare cancelliere. Se la cavò bene.

Prese l’iniziativa, ignorando i desideri dei partner liberali della coalizione di governo, il cui scopo iniziale era la creazione di una speciale zona economica nell’ex Germania orientale. Ignorò le ansie degli alleati occidentali della Germania, soprattutto quelle dei britannici: due mesi prima della caduta del Muro, Margaret Thatcher aveva detto a Michail Gorbačëv di non volere la riunificazione della Germania e gli chiese di fermarla. 39 Anche Mitterrand era preoccupato. Un mese dopo il crollo del Muro di Berlino il suo consigliere personale, Jacques Attali, disse a Vadim Zagladin, un alto consigliere di Gorbačëv, di essere «perplesso» dall’apparente indifferenza sovietica a quanto stava accadendo: «La Francia proprio non vuole la riunificazione della Germania». Che Mitterrand fosse così risoluto è stato messo in dubbio, sebbene la sua ansia e il suo turbamento fossero comprensibili. 40 Noncurante delle obiezioni della Bundesbank, Kohl impose un tasso di cambio uno a uno del marco in ambedue le Germanie. Trionfò alle elezioni del 1990 e vinse di nuovo, sebbene con una maggioranza ridotta, nel 1994. Ma la riunificazione aveva dei costi: il prodotto interno lordo si contrasse mentre nel resto dell’Europa occidentale era cresciuto, raddoppiò la disoccupazione, i tedeschi dell’Est rimasero sgomenti di fronte ai tagli al welfare e alla disoccupazione (due volte il tasso della Germania Ovest) che li colpì. La disoccupazione era sconosciuta nella RDT e alcuni cittadini dell’Est manifestarono un desiderio nostalgico per le certezze del passato, un fenomeno prontamente denominato Ostalgie. Alle elezioni del 1998 Kohl fu sconfitto e il candidato della SPD Gerhard Schröder divenne cancelliere alla testa di una coalizione SPD-Verdi. La situazione non migliorava. L’«Economist» definì la Germania, con un certo gusto, «il malato dell’euro» («The sick man of the euro»). 41 Rieletto nel 2002, e in sincronia con il New Labour di Tony Blair, Schröder, dopo aver promesso in campagna elettorale di non tagliare il welfare, annunciò, nel marzo 2003, la cosiddetta Agenda 2010. Questo piano doveva implementare tagli alle tasse e, di conseguenza, ai servizi sanitari, alle pensioni e ai sussidi di disoccupazione. Era la svolta tedesca verso il neoliberalismo. Agenda 2010 fu sostenuta dai partiti di centrodestra e contrastata dai socialdemocratici dello stesso partito di Schröder, così come dagli assai indeboliti sindacati. Eppure ricevette un voto di fiducia non solo dalla SPD, ma anche dai suoi partner di coalizione, i Verdi. All’inizio la

disoccupazione salì a oltre cinque milioni, ma nel 2007 era scesa sotto i livelli registrati nel 2002. Tutto inutilmente. La SPD, sempre più impopolare, risultava perdente secondo i sondaggi e infatti alle elezioni del 2005 dovette cedere la maggioranza. Alla fine fu formata una grande coalizione CDU/SPD. La cristiano-democratica Angela Merkel inaugurò il suo lungo percorso da cancelliera. Schröder lasciò la politica e si mise a fare soldi veri entrando nel consiglio di amministrazione del gigante russo dell’energia ROSNEFT. Guadagnare fortune dopo aver lasciato una carica importante è diventata pressoché la normalità. In pochi tuttavia sembrano aver superato Tony «New Labour» Blair, il quale, dopo aver lasciato l’incarico di premier, ha accumulato circa 80 milioni di dollari in pochi anni fornendo consulenze a regimi militari e dispotici come i militari birmani – che perseguitavano e perseguitano la minoranza musulmana nel loro paese – e a Nursultan Nazarbayev, allora despota del Kazakistan. Quest’ultimo è stato spesso lodato da Blair per aver dimostrato «la durezza necessaria per mettere il paese sulla strada giusta». 42 Rispetto a Schröder o a Blair, la situazione era meno rosea per molti tedeschi (o kazaki). Benché nel 2015 la Germania fosse, ancora una volta, la locomotiva economica dell’Europa con la seconda industria di export a livello mondiale, povertà e diseguaglianza erano in crescita. I salari aumentavano di poco. Circa 12,5 milioni di tedeschi erano classificati come poveri. Sia la ripresa, sia la crescita della povertà sono state attribuite ad Agenda 2010, da cui la continua impopolarità della SPD. 43 Anche la Svezia si è spostata a destra. Le fondamenta e la forza del welfare svedese stavano nel suo generoso universalismo, che ne spiega il considerevole appoggio della classe media nonostante l’elevata tassazione per sostenerlo. Il lungo dominio della socialdemocrazia giunse al termine nel 1976, quando i cosiddetti partiti «borghesi» assunsero il potere. Avevano speso molta energia durante la campagna elettorale negando qualsiasi intenzione di distruggere il welfare state. Ma la loro vittoria fu un fuoco di paglia e il Partito socialdemocratico (SAP) vinse ancora nel 1982, nel 1985 e nel 1988. Nell’ultima di queste elezioni il SAP guadagnò più seggi della somma di tutti quelli conquistati dai partiti borghesi, i comunisti ottennero i loro migliori risultati in vent’anni (quasi il 6%) e i nuovi Verdi il 5,5%. Ma gli elettori avevano preso gusto per la mobilità elettorale. Nel 1989, con il deteriorarsi della situazione economica, in Svezia la

popolarità dei socialdemocratici iniziò il suo declino. Nel 1991 la loro percentuale di voti era crollata sotto il 40% per la prima volta dagli anni Trenta, sebbene tornarono al potere ancora una volta nel 1994. L’industria manifatturiera svedese cominciò a perdere la sua posizione dominante. Il capitalismo scandinavo fu incapace di ottenere tassi di crescita compatibili con un livello alto di spesa pubblica, e la volontà dei contribuenti di tollerare un ingente peso fiscale. La dipendenza della Svezia dalle vicissitudini dell’economia internazionale era aumentata notevolmente per tutti gli anni Ottanta. I socialdemocratici – come i neoliberali ovunque – smantellarono il sistema di controlli dello scambio con l’estero giacché questo era diventato assai meno efficace in un mondo dominato da imprese multinazionali e mercati finanziari internazionali. Il rapido deterioramento delle finanze pubbliche portò a tagli nei sussidi di disoccupazione, a costi più elevati per l’assistenza sanitaria e a più stringenti regolazioni per i permessi di malattia. Venne attuato un grosso riassetto dell’organizzazione del sistema sanitario, sempre più lontano dal modello razionale di pianificazione centralizzata e verso un mercato interno. 44 Nel 1993, preparandosi alle elezioni dell’anno successivo, i socialdemocratici avevano rinunciato alla possibilità di un ritorno alla piena occupazione, a meno che la Svezia non fosse diventata un membro dell’UE, cosa che si verificò nel 1994. La Svezia era ora sede di un modello di socialdemocrazia malandato. La pietra di paragone per la piena occupazione da quel momento in poi sarebbe stato un tasso di disoccupazione del 13% della forza lavoro. 45 I socialdemocratici rimasero esclusi dal potere dal 2006 al 2014, quando tornarono al governo, ma senza una maggioranza assoluta. Furono costretti a formare una coalizione con i Verdi e ad affidarsi al sostegno del Vänsterpartiet (il Partito della sinistra). Alle elezioni del 2018 il blocco di centrosinistra ha raggiunto solo il 40%, di poco sopra il centrodestra. I socialdemocratici svedesi hanno ottenuto un misero 28,3%, un risultato peggiore di quello ottenuto nel lontano 1911 quando, da partito relativamente nuovo, avevano ricevuto il 28,5%. Per più di cinquant’anni (tra il 1932 e il 1988) hanno sempre ottenuto più del 40% dei voti a ogni elezione. Quell’epoca è finita. Cosa ci dice tutto questo? Che mentre diventa sempre più difficile mantenere basse le tasse e alto il welfare, la socialdemocrazia si sente

costretta a occupare, almeno in parte, il terreno che era stato della destra. Si sente costretta a diventare «moderna», vale a dire più neoliberale. L’era delle nazionalizzazioni, dello stato «paternalista» invadente, del cercare di governare l’economia anziché affidarla alla benevola classe imprenditoriale, è finita. Bisogna lasciare che il mercato si scateni e aiuti i poveri con il denaro generato. È quello che paesi tanto fortunati da avere materie prime importanti, come il petrolio, hanno fatto e continuano a fare. Il Qatar, il Venezuela di Chavez e la Russia di Putin hanno questo in comune: la manna del petrolio può essere spesa – dopo che gli imprenditori si sono presi la loro parte – a favore delle masse in cambio di consenso. Non servono riforme, nuovi modelli economici, strategie, o grandi cambiamenti. I ricchi possono arricchirsi di più e i poveri impoverirsi di meno. E tutti saranno felici, fintanto che dura la manna del petrolio, che naturalmente non dura in eterno. Non tutti hanno la fortuna di avere ampie riserve di importanti materie prime. Eppure occorre muoversi con i tempi, e, nel XXI secolo, ciò significa spostarsi a destra. In Gran Bretagna questa risposta strategica è stata sviluppata da Tony Blair quando divenne primo ministro laburista nel 1997, dopo diciotto anni di governo conservatore. Definì la sua posizione politica «terza via», che significa prendere ciò che è utile sia da destra sia da sinistra. La sua vittoria fu particolarmente popolare tra i socialdemocratici di tutta Europa. Negli USA la «terza via» prese il nome di «triangolazione», un termine adottato da Bill Clinton quando fu rieletto nel 1996. Nel suo discorso sullo stato dell’Unione, sfoderò lo slogan a effetto «l’epoca del governo onnipotente è finita», pur ammettendo che «non possiamo tornare ai tempi in cui i nostri connazionali erano abbandonati a loro stessi». 46 Per dirla con il consigliere politico di Clinton, Dick Morris, significava che il presidente avrebbe preso «il meglio» di democratici e repubblicani, lo avrebbe miscelato e il cocktail risultante sarebbe stata una nuova «terza forza». Vent’anni più tardi, nel 2017, il candidato vincitore alle elezioni per la presidenza francese, Emmanuel Macron, ha fatto esattamente la stessa cosa chiamando la mossa, meno elegantemente, «ni gauche ni droite», agendo come se avesse inventato un tema di cui il XX secolo è stato pervaso, come lo storico israeliano Zeev Sternhell spiega nel suo giustamente celebrato libro sul fascismo in Francia fra le due guerre Ni droite ni gauche. L’idéologie fasciste en France (1983). 47 Nel 1931 il saggista Émile Chartier (sotto lo

pseudonimo Alain) scrisse che quando gli si chiedeva se la divisione fra destra e sinistra avesse ancora un significato, «la prima cosa che mi viene in mente è che la persona che fa quella domanda non sia di sinistra». 48 Lo slogan fu riesumato dal Front National nel 1995 con l’aggiunta della parola «Français»: «Ni droite, ni gauche: Français!». Macron ha vinto le elezioni presidenziali usando ripetutamente la sua espressione preferita (per la quale è stato ampiamente preso in giro) «en même temps» o «mais aussi» («allo stesso tempo» o «ma anche») per nascondere ogni contraddizione apparente. Era favorevole all’intervento militare in Siria e «allo stesso tempo» riluttante a insistere che Bashar al-Assad se ne andasse; bisogna essere a favore degli investimenti nel futuro e «allo stesso tempo» parchi nelle spese; si devono rinforzare i confini e «allo stesso tempo» rispettare i propri doveri nei confronti dei rifugiati. Nell’ottobre 2016 ricordò al suo uditorio i crimini contro l’umanità perpetrati dalla Francia in Algeria «mais aussi» che la Francia aveva «éléments de civilisation» misti a «éléments de barbarie». 49 Walter Veltroni, il leader della «terza via» del Partito democratico, aveva la stessa abitudine, dieci anni prima di Macron, di dire ma anche e fu di conseguenza deriso da un comico: «Siamo aperti ai migranti ma anche al Ku Klux Klan». Per alcuni, questo en même temps è un esempio lampante della moderazione di Macron e la sua abilità di cogliere entrambi i lati di un argomento; per i suoi oppositori è un’altra prova del suo approccio alla politica confusionario e confuso. In realtà, al netto del sensazionalismo, Macron è un ordinario centrista pro-business il cui scopo è quello di indebolire il diritto del lavoro a favore delle imprese, annacquare le tasse francesi sulla ricchezza (non che siano particolarmente significative) e tagliare i sussidi per gli alloggi. Pensa sia questo il modo di affrontare l’alto tasso di disoccupazione del paese: al 9,6%, il doppio di quello del Regno Unito e della Germania. Dopo aver vinto agevolmente contro Marine Le Pen nel 2017, il partito (e gli alleati) di Macron hanno ottenuto, al primo turno delle successive elezioni parlamentari (11 giugno 2017), un terzo dei voti pur considerando un’affluenza alle urne eccezionalmente bassa: 48,7%. Nel secondo turno (il 18 giugno), il partito di Macron ha raggiunto il 49,11%, che gli ha assicurato il 60% dei seggi (350) mentre il Partito socialista ha ricevuto solo il 5,6% dei consensi. L’affluenza alla seconda tornata è stata ancora più esigua: 42,64%. In altre parole, Macron ha ottenuto una maggioranza assoluta nell’Assemblea

nazionale con l’appoggio di appena il 15% dell’elettorato. Macron ha avuto fortuna. I suoi oppositori alle elezioni presidenziali erano particolarmente inetti. Il conservatore François Fillon aveva passato gran parte della campagna elettorale denunciando la corruzione. Poi si venne a sapere che aveva assunto la maggior parte dei suoi famigliari in impieghi pseudogovernativi. Il presidente uscente, François Hollande, nemmeno si è presentato, data la sua impopolarità rafforzata dalla mancanza di dignità e dall’utilizzo del personale di sicurezza per portare i cornetti della colazione a lui e all’amante. Sapeva di non avere alcuna possibilità. Ha offerto il suo sostegno al candidato socialista ufficiale, Benôit Hamon, che poi è stato pesantemente battuto. Il candidato di sinistra, Jean-Luc Mélenchon, era troppo di sinistra; Marine Le Pen troppo di destra. Da quando è stato eletto, la popolarità di Macron è crollata costantemente. Viene visto come «le président des riches». 50 Un sondaggio pubblicato da «Le Monde» nel luglio 2018 ha rivelato che solo il 34% dei francesi si fida di lui (l’anno prima era il 44%), ma dopotutto solo il 10% crede ai partiti politici, il 26% crede ai parlamentari, il 30% crede nei mass media. 51 La sua mossa iniziale rimpiazzava la tassa di solidarietà sulla ricchezza (la «impôt de solidarité sur la fortune») con una tassa sugli immobili. Questo ha favorito i ricchi a spese delle classi medie. 52 Prendendo esempio da Marine Le Pen, Macron ha annunciato nel dicembre 2017 che sarà duro con l’immigrazione. «Le Monde» l’ha criticato con questo titolo: En France, une politique migratoire d’une dureté sans précédent («In Francia, una politica migratoria di una durezza senza precedenti»). 53 Nel marzo 2018 i lavoratori del settore pubblico si sono mobilitati contro le riforme neoliberali di Macron miranti a tagliare drasticamente il settore statale. È probabile che i conflitti sociali cominciati alla fine del 2018 continuino per un pezzo. Macron sembra essere più di droite che di gauche. Anzi, il suo governo è pieno di persone provenienti dal mondo del business e da precedenti governi di destra. Macron non deve preoccuparsi, non per il momento: i suoi oppositori hanno problemi ancora più grandi. Il Partito socialista è nel caos più totale, il Front National si sta leccando le ferite e la destra tradizionale è, nelle parole di «Le Monde», «à terre, affaiblie, déboussolée et fracturée» («prostrata, indebolita, disorientate e divisa»). 54 Tornando a Tony Blair, bisogna prendere atto che c’è voluto l’Iraq, non

l’economia, per danneggiare seriamente la sua popolarità. Nel 2017 un terzo dell’opinione pubblica inglese (compreso il 31% dei sostenitori Labour) pensava dovesse essere processato per crimini di guerra. 55 A lungo gli fu riconosciuto il merito di aver vinto le elezioni del 1997 sebbene, dopo diciotto anni di dominio conservatore, si può presumere che avrebbe vinto quasi qualunque candidato laburista, forse senza una maggioranza così schiacciante. Con i conservatori allo sbando e una successione di leader mediocri – da William Hague (1997-2001) che si vantava di essere in grado di bere, da adolescente, quattordici pinte di birra in una sola serata, a Iain Duncan Smith (2001-2003), dalla leggendaria mancanza di carisma, a Michael Howard (2003-2005), figlio d’immigrati che condusse una campagna elettorale su una forte piattaforma anti-immigrazione – Blair vinse di nuovo nel 2001 (con un’affluenza alle urne straordinariamente bassa, avendo «perduto» tre milioni di voti) e poi ancora nel 2005. Nella sua terza vittoria consecutiva, la prima volta nella storia del Labour, il partito vinse con la percentuale di voti più bassa di sempre. In Inghilterra aveva meno voti dei Tory. Vinse grazie alla Scozia e al Galles. Cifre che apparivano cupe. Significavano che il Labour era solo meno impopolare dei conservatori. Ma nel breve periodo è tutto ciò che conta. Ciononostante, il Labour è stato al potere con comode maggioranze parlamentari per tredici anni, il periodo più lungo della sua storia. Quali sono state le sue conquiste? La lista, snocciolata dai suoi sostenitori con noiosa regolarità, è lunga, ma ammonta alla spesa nei servizi pubblici, il progetto «Sure Start», che ambiva a migliorare l’assistenza all’infanzia, e l’introduzione di un salario minimo nazionale che aiutò a diminuire la povertà. 56 Questi non sono risultati insignificanti ma non possono eguagliare le vaste riforme sociali dei governi Attlee del 1945-1951 (soprattutto la creazione del National Health Service e la nazionalizzazione dei servizi principali), la legislazione sui diritti civili del governo Wilson – quando fu abolita la pena capitale, decriminalizzata l’omosessualità, legalizzato l’aborto, semplificato il divorzio, attenuata la censura, abolite le pene corporali nelle prigioni – e l’introduzione della Race Relations e dell’Equal Pay Act. Diminuire la povertà non è una riforma. Consiste nello spendere denaro pubblico (o costringere i datori di lavoro a pagare un salario minimo) senza

affrontare le cause della povertà. In realtà, gran parte di questi risultati del «New» Labour furono in seguito smantellati. Secondo l’Institute for Fiscal Studies, entro il 2022 più del 35% dei bambini si troverà in relativa povertà, annullando dunque tutti i progressi dei decenni precedenti. 57 Secondo il Child Poverty Action Group c’erano già 3,9 milioni di bambini che vivevano in povertà nel 2014-2015, si tratta del 28% del totale. 58 Il rapporto della Joseph Rowntree Foundation, UK Poverty 2017, dice che nel Regno Unito vivono in povertà 14 milioni di persone, il 20% della popolazione, compresi 8 milioni di adulti in età da lavoro, 4 milioni di bambini e 1,9 milioni di pensionati. 59 Il «New» Labour continuò le politiche di deregulation dei conservatori, assecondando il grande business in misura ineguagliata nel resto d’Europa. A metà anni Ottanta il governo Thatcher aveva deregolamentato gli standard di sicurezza nelle case, abbandonando i requisiti obbligatori per le linee guida cui l’industria edilizia poteva scegliere o no di adeguarsi. Il governo Blair non revocò nemmeno la deregulation delle norme antincendio (in parte responsabili per la tragedia della Grenfell Tower, quando un incendio distrusse un edificio causando la morte di ottanta persone) insistendo perché un ispettore dei pompieri dovesse soltanto «informare e istruire» anziché far rispettare le norme, come ammise nel 2017 Chris Williamson, ministro ombra per gli Incendi e i vigili del fuoco. 60 Nel 2006 Gordon Brown, già cancelliere dello scacchiere da almeno dieci anni (il più longevo della storia britannica), un anno prima che si scatenasse la recessione globale, si congratulò con la City di Londra per i suoi risultati e per aver dimostrato «che la Gran Bretagna può riuscire in un’economia globale aperta, in una globalizzazione progressista, una Gran Bretagna che è fatta per la globalizzazione e una globalizzazione che è fatta per la Gran Bretagna». 61 Il suo verdetto lusinghiero sulla City subì un drammatico ridimensionamento dieci anni dopo (superata ormai da un po’ la recessione globale che i banchieri non seppero prevedere), quando pubblicò le sue autoindulgenti memorie, dove lamentava che banchieri fraudolenti e amanti del rischio non fossero stati arrestati, i loro «beni confiscati e [che non fossero stati] banditi dall’esercitare in futuro», uno stato di cose che semplicemente darà il «semaforo verde» a ulteriori simili comportamenti aumentando il rischio di un’altra crisi. Se solo non fosse stato così timoroso di apparire antibusiness da cancelliere. 62 Non che tutto ciò turbasse Boris

Johnson, il quale, da ministro degli Esteri, alla domanda sulle preoccupazioni espresse dal mondo dell’impresa sulla Brexit, dichiarò con la caratteristica ottusità: «Fuck business». 63 I risultati del Labour negli anni 1997-2010 furono accompagnati da sostanziali riforme basate sul mercato nei settori dell’istruzione e della sanità, oltre alle tasse per gli studenti universitari. Blair poté inoltre arrogarsi congrue riforme costituzionali, come la drastica riduzione nel numero di pari ereditari nella camera dei lord (l’unica assemblea legislativa non eletta ancora esistente in una democrazia), l’introduzione di un parlamento scozzese, di un’assemblea gallese e il Good Friday Agreement dell’aprile 1998, che portò la pace in Irlanda del Nord. Anche in Irlanda del Nord «il vecchio» era in agonia: nel novembre 2003 il (cattolico) Social Democratic and Labour Party (SDLP) e il (protestante) Ulster Unionist Party (UPP), i veri campioni del Good Friday Agreement, erano stati sostituiti dal Sinn Féin (associato ai terroristi dell’IRA) e dal Democratic Unionist Party (DUP) di Ian Paisley. Quest’ultimo, un fondamentalista cristiano contrario all’omosessualità (aveva lanciato nel 1977 la campagna «Save Ulster from Sodomy»), divenne primo ministro dell’Irlanda del Nord. Martin McGuinness, del Sinn Féin, un ex membro dell’IRA e a sua volta contrario all’accordo, divenne il vice di Paisley. Mentre questa strana coppia cominciava a conoscersi, il SDLP e l’Ulster Unionist Party, che rappresentavano la classe dirigente dell’Irlanda del Nord, furono gettati nel sempre più capiente cestino dell’immondizia della storia. Mentre il welfare diminuiva in tutto il ricco Occidente, quelli che i vittoriani avevano chiamato «i poveri immeritevoli» erano tenuti in vita con crescente malavoglia dai sussidi statali: donde l’aumento del numero di mendicanti e senzatetto e il diffuso utilizzo dei «banchi alimentari» anche in paesi ricchi come gli Stati Uniti (che li avevano creati per primi), la Germania, il Belgio, l’Italia e il Regno Unito. 64 È probabile che negli Stati Uniti l’uso dei banchi alimentari aumenterà. L’unico successo politico raccolto da Donald Trump nel suo primo anno in carica è stato quello di far approvare un pacchetto legislativo di cui beneficeranno in modo proporzionale il grande business e i ricchi. Il pacchetto, secondo il non partigiano Tax Policy Center, aggiungerà più di 1,23 trilioni di dollari al deficit federale nel corso dei prossimi dieci anni, pur tenendo conto della crescita economica che la legge genererà in

proiezione. 65 Nel frattempo negli USA vi sono 40,6 milioni di persone in stato di povertà, il 12,7% della popolazione (cifre del 2016). 66 È la ragione per cui lo Special Rapporteur dell’ONU sull’estrema povertà e i diritti umani, Philip Alston, nel dicembre del 2017 ha visitato gli Stati Uniti per esaminare gli sforzi compiuti dal governo per sradicare la povertà nel paese, e come questi sforzi soddisfino gli obblighi degli USA secondo le leggi internazionali dei diritti umani. Nonostante tutta la propaganda sui benefici del libero mercato, una cosa è certa: i mercati non forniscono protezione sociale e non possono assicurare che la globalizzazione possa funzionare per tutti e nemmeno per la maggior parte dei cittadini. 67 Il welfare state avrebbe dovuto creare una comunità nazionale che, nonostante la perdurante diseguaglianza per reddito, ricchezza e livello d’istruzione dei suoi membri, fosse sufficientemente coesa da rendere la vita sotto il capitalismo avanzato migliore di quella sotto qualunque altro tipo di sistema sociale. Questa solidarietà quasi generalizzata cominciò a incrinarsi negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, ma è stato solo negli ultimi vent’anni che ha iniziato a influenzare il sistema dei partiti, indebolendo il centrosinistra e il centrodestra tradizionali. La crisi sociale si è trasformata in una crisi politica: sintomi morbosi a bizzeffe.

4. IL CROLLO DEI PARTITI TRADIZIONALI

La crisi della socialdemocrazia tradizionale Nel 2018 divenne fin troppo evidente – anche a coloro, a sinistra, per i quali l’ottimismo è una posizione necessaria («il futuro è nostro» e simili altri mantra consolatori che appartengono anche ai fascisti) – che la socialdemocrazia riformista era stata sconfitta in tutta Europa. Sopravvivrà in una forma o l’altra? Forse in Svezia, dove è ancora al potere, pur essendo, anche lì, in grossa difficoltà. Nel 2014, con la leadership del primo ministro Stefan Löfven, il Partito socialdemocratico svedese (SAP) era stato costretto, per la prima volta in decenni, a una coalizione (con i Verdi), ma, come se non bastasse, senza maggioranza. Il SAP aveva ottenuto poco più del 30% dei voti, il suo peggior risultato di sempre. I suoi alleati Verdi meno del 7%. Avendo rifiutato la possibilità di una coalizione con il Partito della sinistra (al 5,7%), il governo del SAP era così debole da aver bisogno di qualche sostegno dalla destra per approvare almeno il bilancio. La socialdemocrazia svedese ha i giorni contati. Se il modello svedese, un tempo celebrato, offre ora un triste spettacolo per i socialdemocratici, il resto della Scandinavia può essere descritto solo come una valle di lacrime. In Danimarca i socialdemocratici non sono al potere dal 2015 (quando avevano ottenuto solo il 26,3% pur essendo rimasti il primo partito davanti al destrorso Partito del popolo danese, con il 21%). In precedenza i socialdemocratici erano stati a capo di un governo debole costretto a fare compromessi con tutti, l’alleanza rosso-verde alla sua sinistra e i liberali alla sua destra. Con il primo ministro Helle Thorning-Schmidt, un esponente della cosiddetta «terza via», la Danimarca ha partecipato ai bombardamenti NATO in Libia, ha abbassato le tasse ai ricchi, tagliato i sussidi del welfare, e, nel 2014, ha venduto azioni della Dong Energy (un’azienda statale) a Goldman Sachs e altri (che ci hanno guadagnato il 150% quando hanno rivenduto tre

anni e mezzo dopo). 1 La vendita travolse il governo e, l’anno seguente, Helle ThorningSchmidt non era più in carica, aprendo la strada a una coalizione di centrodestra sostenuta dal Partito del popolo danese, di estrema destra. In Norvegia, il Partito laburista è stato a lungo considerato il partito naturale di governo, avendo mantenuto il potere ininterrottamente dal 1945 al 1963, e poi per circa venticinque anni tra il 1971 e il 2013. Nel 2001 raggiunse il peggior risultato di sempre (24,3%). Nel 2017 ha fatto un po’ meglio: 27,4%. Invaghitosi sempre di più dell’economia di mercato mentre era al governo, privatizzò i beni pubblici, tagliò i servizi sanitari e aiutò i ricchi ad arricchirsi. È all’opposizione dal 2013. Alle elezioni del 2016, in Islanda, uno dei paesi più duramente colpiti dalla crisi finanziaria del 2008, i socialdemocratici, che fino al 2003 avevano più del 30%, sono crollati al 5,7%, il peggior risultato di sempre, ottenendo solo tre miseri seggi parlamentari. Hanno recuperato alle elezioni del 28 ottobre 2017 ottenendo il 12% dei voti e sette seggi, ma sono ormai il terzo partito. Il primo partito è il conservatore ed euroscettico Partito dell’indipendenza, nonostante la perdita di consensi dopo scandali sessuali e fiscali che hanno coinvolto il primo ministro uscente. Il secondo partito è il Movimento sinistra verde, euroscettico, ambientalista e anti-NATO. Sono seguite complicate negoziazioni che hanno portato a un governo guidato dalla leader del Movimento sinistra verde, Katrín Jakobsdóttir, in coalizione con il Partito dell’indipendenza e il Partito progressista di centrodestra. È un’alleanza eterogenea e precaria. Anche in Finlandia, nel 2015, i socialdemocratici hanno ottenuto il loro peggior risultato con il 16,5%, diventando il quarto partito e arrabattandosi all’opposizione. Il partito «centrista», guidato da Juha Sipilä, è andato al potere in coalizione con i Veri finlandesi, euroscettici e di destra, diventati il secondo partito in parlamento, sebbene si è poi scisso nel luglio 2017, lasciando nella coalizione solo i membri della nuova formazione prodottasi. Se ci allontaniamo da quella che si era soliti considerare la roccaforte della socialdemocrazia europea, le cose per la sinistra tradizionale vanno anche peggio. A volte perde nei confronti dell’estrema destra, altre nei confronti dell’estrema sinistra. Alla fine degli anni Novanta, il Partito socialista al potere in Portogallo proseguì con alacrità le privatizzazioni dei suoi predecessori. Riuscì a

rispettare i parametri per la partecipazione all’eurozona adottando il tipo di contabilità «creativa» in auge presso Grecia e Italia. All’inizio, con António Guterres (attuale segretario generale dell’ONU), vi fu una crescita economica sostanziale, attenuatasi però dal 2002. Poi i socialisti persero il potere e i conservatori del Partido Social Democrata, guidati da José Manuel Barroso (ex maoista, in seguito presidente della Commissione europea e attualmente presidente non esecutivo di Goldman Sachs), formarono una coalizione. Questa non ottenne pressoché nulla e preparò la strada a una vittoria schiacciante dei socialisti nel 2005. L’economia declinò ancora di più, i salari aumentarono di poco (restando ben al di sotto della media di quelli dell’Europa occidentale) mentre la disoccupazione schizzava alle stelle. La recessione globale del 2007-2008 peggiorò ancora la situazione. I socialisti vinsero di poco le elezioni del 2009. A quelle del 2011 furono completamente travolti crollando al 28% dal 45% del 2005. Sono tornati al governo nel 2015, nonostante avessero ottenuto un misero 32,3%, riuscendo a formare un governo solo perché l’euroscettico Bloco de Esquerda o «blocco di sinistra» (10,2%) e l’ugualmente euroscettica Coalizione democratica unitaria di comunisti e Verdi (8,3%) accettarono di sostenerli. A dispetto dello scetticismo diffuso sulla stabilità di questa coalizione «di sinistra», nel 2017 il Portogallo se l’è cavata abbastanza bene, con un tasso di crescita ragionevolmente alto. La situazione resta molto instabile non solo perché il paese è povero e la sua economia in difficoltà, ma perché l’affluenza elettorale si è contratta spettacolarmente: da più del 90%, quando fu ripristinata la repubblica nel 1975, a meno del 56% nel 2015. Nel 2013, in Austria, il Partito socialdemocratico (SPÖ) era ancora il primo partito ma con solo il 26,8% dei voti, di poco davanti ai suoi oppositori cristiano-democratici del Partito popolare (ÖVP, ora chiamato, alla Blair, il «Nuovo» ÖVP). Questi due partiti hanno dominato la politica austriaca dal 1954, di solito governando assieme e dividendosi varie cariche, comprese le nomine nella pubblica amministrazione (il sistema noto come proporz). Ciononostante, sono diventati sempre meno popolari. La coalizione SPÖ-ÖVP aveva già cercato di placare la xenofobia frenando l’immigrazione, chiudendo le frontiere ai rifugiati che percorrevano la via balcanica e introducendo il «bando del burqa». Simili politiche opportunistiche non hanno aiutato i socialdemocratici, anzi. Cupi cambiamenti erano all’orizzonte. Alle elezioni presidenziali del maggio 2016 i candidati dei due partiti di governo hanno

ottenuto magri risultati, piazzandosi al quarto e quinto posto. Il terzo posto se l’è aggiudicato Irmgard Griss, un’indipendente, già presidente della corte suprema. Era la prima volta dal 1945 che i candidati dei due partiti di governo non riuscivano a passare al secondo turno, che ha visto in lizza il candidato dell’estrema destra Norbert Hofer e quello dei Verdi Alexander Van der Bellen, che ha vinto per pochi voti. Ma è stato solo un sollievo momentaneo (tra l’altro il presidente austriaco è solo una figura di rappresentanza). Alle elezioni dell’ottobre 2017 Sebastian Kurz, del Partito popolare austriaco (ÖVP), poco più che trentenne, ha spostato il proprio partito a destra (come ha fatto lo SPÖ) in un tentativo disperato di arginare il supporto all’estrema destra del FPÖ (Partito della libertà), guidato da Heinz-Christian Strache che, ventenne, fu arrestato per aver preso parte a una manifestazione organizzata da un movimento neonazista messo al bando, che aveva a modello la gioventù hitleriana. Kurz ha vinto le elezioni, ma con solo il 31,5% dei voti. Ha formato una coalizione con il Partito della libertà di Strache, che si è aggiudicato i ministeri chiave tra cui Esteri, Interni e Difesa. Con il 26,9%, lo SPÖ è riuscito a posizionarsi appena davanti al FPÖ (26%): pessima performance per un partito al potere quasi ininterrottamente dal 1954 e che, nel 1975, aveva poco più della metà dei voti. Di fronte alla prospettiva dell’antisemita Partito della libertà al governo, la comunità ebraica austriaca ha espresso energicamente la propria preoccupazione annunciando che avrebbe boicottato il Giorno della memoria qualora dovessero parteciparvi esponenti del Partito della libertà, sebbene il primo ministro dello «stato ebraico» Netanyahu si fosse affrettato a telefonare a Kurz per congratularsi della vittoria. 2 Nell’aprile 2016, Heinz-Christian Strache ha già trovato il modo di riciclarsi come filosemita e di «farsi kosher», andando in Israele e portando un tributo al Memoriale dell’Olocausto di Yad Vashem (su invito di Netanyahu). 3 I risultati olandesi del 15 marzo 2017 sono stati altrettanto catastrofici per la sinistra: tre partiti di sinistra, il Partito laburista (Partij van de Arbeid, PVDA), i socialisti e i Verdi, hanno ottenuto insieme una percentuale di voti minore (23,9%) del Partito laburista da solo nel 2012 (24,8%). Il Partito laburista ha conseguito il risultato peggiore della sua storia, piazzandosi dietro gli altri due partiti di sinistra. Per tenere fuori la destra estrema (come il PVV di Geert Wilders), i quattro partiti di centrodestra hanno formato una

coalizione instabile sotto Mark Rutte, leader del promercato Volkspartij voor Vrijheid en Democratie (VVD). Nel frammentato sistema a tredici partiti la nuova alleanza otterrà un unico seggio. Nel 1997 i partiti socialdemocratici e laburisti erano al potere in undici su quindici stati membri dell’Unione Europea. Poco più di vent’anni dopo, questi partiti sono al governo (a stento) in un pugno di paesi non molto rilevanti. In Italia il Partito democratico (PD) è rimasto al potere fino alle elezioni del marzo 2018. Il PD fa parte della «famiglia» socialdemocratica ed è erede del Partito comunista. Ma è stato quasi completamente «decomunistizzato». I comunisti non pentiti sopravvivono in formazioni come Rifondazione comunista, ma per ottenere la rappresentazione parlamentare Rifondazione ha dovuto formare alleanze con altre entità minori. Il Partito democratico in sé non è un «vero» partito socialdemocratico, qualunque cosa significhi, giacché è il risultato di un processo di assorbimento da parte degli ex comunisti e gruppi, partiti e rimasugli di vari partiti che includono liberal-progressisti e cattolici che non hanno radici in nulla che ricordi una tradizione socialista (per questo motivo nessuno dei simboli del socialismo appare in bandiere, loghi e nomi del partito). Dal 2011, quando Silvio Berlusconi ha perso il potere consegnandolo al PD, si sono susseguiti quattro presidenti del consiglio. Il primo, Mario Monti, era un economista liberale indipendente sostenuto da una grande coalizione che comprendeva il Partito democratico. Ha governato per meno di diciotto mesi perseguendo politiche di austerity. Dopo le elezioni del 2013 gli è succeduto Enrico Letta, esponente del PD, durato in carica meno di un anno (2013-2014). Poi è stato il turno di Matteo Renzi, allora leader del PD, presidente del consiglio per venti mesi alla testa di una coalizione che comprendeva una fazione dissidente del partito di Berlusconi. Infine, nel 2016, Paolo Gentiloni, altro esponente PD, è diventato presidente della stessa coalizione. Nessuno di questi leader di un’apparente coalizione di «centrosinistra» era mai stato comunista, socialista o almeno di sinistra: Monti era un liberale, Letta e Renzi erano stati democristiani e Gentiloni, di estrema sinistra da studente, era tra i fondatori di un’estinta formazione di «sinistra» cattolica chiamata La Margherita. Prima del 2011 Romano Prodi, il leader della formazione di centrosinistra L’Ulivo, presidente del consiglio nel periodo 1996-1998 e 2006-2008, era democristiano. Di tutti i capi di governo dell’era post-Tangentopoli solo

Massimo D’Alema (in carica nel periodo 1998-2000) aveva un passato chiaramente a sinistra (da comunista). Dunque, per un lungo periodo, nessun governo italiano «di sinistra» è stato guidato da qualcuno che appartenesse alla tradizione socialista. Altrove per la socialdemocrazia tradizionale la situazione è anche peggiore. In Gran Bretagna il Partito laburista ha perso le elezioni nel 2010 e nel 2015, pur ottenendo un buon risultato nel giugno 2017 sotto la guida di Jeremy Corbyn, insultato e messo alla gogna da quasi tutti i suoi colleghi parlamentari e gran parte della stampa liberale. In Francia, alle elezioni presidenziali dell’aprile 2017, il candidato socialista ufficiale, Benoît Hamon, è stato escluso dal secondo turno riuscendo a ottenere soltanto il 6,3% dei voti, piazzandosi perciò quinto dopo il candidato «né di destra, né di sinistra» Emmanuel Macron, la destra estrema di Marine Le Pen, il moderato di destra François Fillon e perfino la sinistra estrema di Jean-Luc Mélenchon. Due mesi più tardi, al primo turno delle elezioni legislative, il Partito socialista (con alleati) ha ottenuto il 9,5%, meno del Front National (13,2%) e meno della France Insoumise di Mélenchon (11%). Per il Parti socialiste si è trattato del risultato più disastroso in tutta la storia della Quinta Repubblica, con l’eccezione di Gaston Defferre, che alle presidenziali del 1969 ottenne solo il 5%. La situazione non è migliore in Germania. I socialdemocratici della SPD, i cui leader sono stati cancellieri nel 1969-1974 (Willy Brandt), nel 1974-1982 (Helmut Schmidt) e nel 1998-2005 (Gerhard Schröder), si sono ridotti a fare da semplici comprimari nelle grandi coalizioni guidate dai cristianodemocratici di Angela Merkel (2005-2009 e 2013-2017) o all’opposizione, come nel periodo 2009-2013. Alle politiche del 2017 la SPD ha raggiunto un misero 20,5% dei voti, il suo peggior risultato di sempre, metà di quanto aveva nel 1979. Il leader della SPD, Martin Schulz, acclamato come uno «su cui si poteva contare» per ravvivare la SPD e che – a differenza di Corbyn – era considerato eleggibile, ha perso. Alla fine ha dato le dimissioni ed è stato sostituito da Andrea Nahles, la prima donna della storia alla guida della SPD. I veri vincitori sono stati AfD, che diventa terzo partito, nonostante faccia bene anche Partito democratico liberale (FPD), rientrando nel Bundestag dopo che ne era stato escluso per quattro anni. Il voto anti-establishment è stato particolarmente pronunciato nell’ex RDT (Germania dell’Est), dove il partito

di estrema sinistra Die Linke ha fatto meglio della SPD, mentre AfD ha superato la CDU. Anche la CDU di Merkel ha ottenuto il peggior risultato dal 1949 (246 seggi, 65 meno del 2013), con l’arduo compito di formare un governo con i liberali e i Verdi, dopo che la SPD (con 153 seggi, 40 in meno del 2013) ha deciso di non far parte della nuova coalizione. Poi la SPD ha cambiato idea. Dopo oltre sei mesi di doloroso negoziato, è finalmente emersa una nuova «grande coalizione» CDU-SPD, anche detta GroKo. Le prospettive sono fosche. Il partito «gemello» bavarese della CDU, la CSU (Christlich-Soziale Union), ha cominciato a comportarsi in modo tutt’altro che fraterno. In termini elettorali ciò non ha avuto i risultati sperati: alle elezioni amministrative dell’ottobre 2018 la CSU, con il 37,2%, è scesa sotto il 40% per la prima volta in assoluto; mentre i Verdi hanno fatto assai bene (17,5%), la SPD si è vista dimezzare le preferenze e AfD ha ottenuto il 10,2%. Un risultato simile è stato espresso in Assia, dove i due partiti principali hanno perso più del 10%, rispettivamente a vantaggio dei Verdi (che in Assia hanno quasi rimpiazzato la SPD come secondo partito) e di AfD, che si è assicurata il 13%. Nei paesi dell’ex blocco sovietico, la reazione contro il comunismo sembra essersi estesa ai neonati partiti socialdemocratici, nati spesso dalle ceneri del comunismo. L’Ungheria era il più liberale dei paesi comunisti. Aveva un settore privato vasto e fiorente. Nel settembre 1989, la leadership comunista riformista aprì il proprio confine con l’Austria permettendo a migliaia di tedeschi orientali di fuggire nella Germania Ovest. Il Muro di Berlino aveva perso il suo scopo. Era la fine del comunismo. L’erede del partito comunista fu il Partito socialista ungherese (MSZP). Dopo un avvio stentato, divenne il partito leader nel nuovo sistema. Nel 2006 poteva ancora raggiungere il 43% e stare al governo. Nel 2010 crollò al 19%, migliorando leggermente nel 2014 (25%). Tuttavia, nell’aprile 2018, mentre Viktor Orbán ha confermato la sua supremazia, i socialisti ungheresi hanno ottenuto solo un misero 12%. In Slovenia i socialdemocratici sono stati al governo nel 2014, ma solo come partito assai minore in un governo centrista, avendo ottenuto alle elezioni meno del 6%. Nel 2008 erano al 30%. Come in altri paesi ex comunisti, la politica in Slovenia è veramente instabile. Un partito chiamato Slovenia Positiva era il primo partito nel 2011; tre anni dopo era scomparso. Il partito principale presentatosi alle elezioni del 2018 è stato il Partito del

centro moderno (Stranka modernega centra), formato nel 2014 e che ottenne più del 34% dei voti alle elezioni di quell’anno. In precedenza si chiamava Partito di Miro Cerar ed era guidato, come è facile intuire, da Miro Cerar. Cerar è uno dei pochi leader liberali in Europa orientale: ha fronteggiato l’impeachment per il sostegno dato a un richiedente asilo siriano (Ahmad Shamieh) che rischiava la deportazione e che, sebbene arrivato da poco, aveva imparato lo sloveno e si era integrato con successo. L’opposizione contro Cerar è continuata senza tregua. Quando nel 2017 la corte suprema del paese ha annullato un referendum su un importante progetto ferroviario ordinando la ripetizione del voto, Cerar ha dato le dimissioni (marzo 2018). Le elezioni del giugno dello stesso anno hanno visto l’anti-immigrati Partito democratico sloveno (SDS) al primo posto, ma solo con il 25% dei voti. Il suo leader, Janez Janša, aveva scontato sei mesi di prigione nel 2014 dopo esser stato accusato di corruzione (la condanna è stata in seguito revocata dalla corte costituzionale). Il partito di Cerar si è piazzato quarto e ha solo dieci seggi. A votare si è recata solo metà degli elettori. Un partito di centrosinistra, la Lista di Marjan Šarec (LMS), si è aggiudicato il secondo posto con il 12,6% dei voti e tredici seggi (Šarec è un ex comico). Nel settembre 2018 Šarec è stato incaricato di formare un governo di minoranza. La situazione è instabile come sempre. La vita è dura per i liberali in Europa orientale. Nella Repubblica Ceca l’ascesa di Andrej Babiš ha significato anche il capolinea dei partiti tradizionali. I socialdemocratici erano il primo partito alle elezioni del 2013 e formarono un governo, ma da allora hanno ottenuto solo il 20% dei voti, che li ha costretti a coalizzarsi con i minori centristi cristiano-democratici e ANO, un altro partito che si professa «né di destra, né di sinistra», il cui acronimo sta per Azione dei cittadini scontenti (Akce nespokojených občanů) ed è guidato da Andrej Babiš, il quale non ha granché da essere scontento perché è un milionario. Fondato nel 2012, ANO era già il secondo partito nel 2013 con quasi il 19% dei voti. Nel 2017 aveva sfiorato il 30%. I socialdemocratici furono polverizzati (crollati a poco più del 7%, il loro peggior risultato di sempre, anche dietro i comunisti), come pure i cristiano-democratici, benché l’economia andasse meglio che nella maggior parte degli altri paesi dell’UE. Anche il cosiddetto Partito pirata, campione della democrazia diretta, ha ottenuto risultati migliori dei socialdemocratici (10,8%). Non avendo tuttavia una maggioranza in parlamento, ANO potrebbe

non essere in grado di formare un governo duraturo giacché tutti i partiti, eccetto i comunisti e l’estrema destra, hanno escluso un’alleanza fintanto che il suo leader, Andrej Babiš, sarà sotto inchiesta per finanziamenti illeciti. Babiš, spesso definito il Trump ceco, è stato un membro del Partito comunista sotto il comunismo ed è diventato milionario sotto il capitalismo, con una forte partecipazione finanziaria nell’industria chimica e alimentare. Aveva poi utilizzato i profitti per acquisire organi d’informazione. Babiš è stato ministro delle Finanze (2014-2017) fino all’allontanamento per presunti illeciti finanziari ed evasione fiscale. È stato formalmente incriminato il 9 ottobre 2017 (due settimane prima della sua elezione). Naturalmente ANO è contro la corruzione e l’evasione fiscale. Babiš gode inoltre della protezione del presidente ceco Miloš Zeman, rieletto nel 2018 contro il centrista filo-UE Jiří Drahoš, già presidente dell’Accademia delle scienze ceca, il quale aveva dichiarato che, se eletto, non avrebbe permesso ad Andrej Babiš di mantenere l’incarico come primo ministro a causa delle accuse pendenti su di lui. Finì che un rapporto dell’unità antifrode dell’UE concluse che Babiš aveva violato numerose leggi per ottenere fondi europei e, come diretta conseguenza, fu passato contro di lui un voto di sfiducia costringendolo alle dimissioni. È riemerso qualche mese dopo, nel luglio 2018, quando è riuscito a formare un governo di minoranza con i socialdemocratici e il sostegno dei quindici deputati comunisti (il loro partito aveva ottenuto solo il 7,8% alle elezioni precedenti), i quali, tuttavia, resteranno fuori dal governo: una stramba (e instabile) alleanza di politici senza principi. Babiš ha rifiutato le quote di rifugiati dell’UE e ha fatto commenti sprezzanti sui rom, ma nella Repubblica Ceca c’è di peggio: il partito di estrema destra Libertà e democrazia diretta, fondato solo nel 2015. È guidato da Tomio Okamura, un imprenditore in parte giapponese, nato a Tokyo, che è rabbiosamente anti-immigrati, vuole uscire dall’UE e ha incitato i cechi a portare a spasso i maiali vicino alle moschee e a non mangiare kebab. Il partito di Okamura ha ottenuto il 10,64% dei voti nel 2017. La situazione non è migliore in Slovacchia dove la sinistra era ancora al potere nel 2017. Questa è una «sinistra» strana. Il primo ministro, Robert Fico (in carica dal 2012, dopo essere già stato al potere nel 2006-2010), è il leader di Direzione – Socialdemocrazia (Smer – sociálna demokracia, SMERSD), formazione nata da una scissione dal Partito socialdemocratico (che da allora è scomparso), e ha iniziato a governare il paese in coalizione con

l’estrema destra nazionalista anti-rom e anti-ungherese del Partito nazionale slovacco, descritto dall’«Economist» come neonazista. 4 Nel 2016 Robert Fico, settimane prima di assumere la presidenza dell’UE, dichiarava che in Slovacchia per l’islam non c’è posto. 5 Lui e il suo partito furono espulsi dal Partito dei socialisti europei (PES) nel 2006 per la loro alleanza con il Partito nazionale slovacco, ma sono stati riammessi nel 2008 e ne sono tuttora membri, pur avendo formato un’altra alleanza con lo stesso partito nel 2016. Con notevole ipocrisia, il 19 novembre 2015 il Partito dei socialisti europei dichiarava: «Respingiamo fermamente ogni forma di odio razziale, xenofobia, antisemitismo, islamofobia e ogni forma d’intolleranza ed estremismo». 6 Ma Fico è ancora il benvenuto fra le loro fila. Dopo l’omicidio del giornalista investigativo Ján Kuciak e della sua fidanzata (febbraio 2018), che avevano collegato Fico alla mafia italiana, ed enormi manifestazioni, Fico ha dato le dimissioni per lasciare l’incarico al suo vice, Peter Pellegrini. L’Ungheria, la Polonia e la Repubblica Ceca sono contrarie all’idea di distribuire i rifugiati in UE secondo una formula stabilita a Bruxelles (dimenticando che, sotto il comunismo, i loro rifugiati, benché assai meno in pericolo di quelli provenienti da paesi straziati dalla guerra, spesso trovavano ospitalità in Europa occidentale). Questa posizione anti-immigrati è quasi normale in Europa orientale. Scrivendo nel 2016, un analista notava che in questo contesto la distinzione destra-sinistra in Europa orientale «si è dimostrata quasi irrilevante […] quasi non c’è un partito tradizionale nella regione che abbia osato sfidare l’attitudine prevalente di respingere i rifugiati». 7 Come già detto, i migranti in Europa orientale sono davvero pochi. Nella classifica dei paesi con più migranti sulla popolazione totale, l’Ungheria, la Lituania, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Bulgaria, la Romania e la Polonia si trovano agli ultimi posti. 8 Diversamente dagli altri partiti socialdemocratici europei, quello rumeno (Partidul Social Democrat) è di gran lunga il primo partito nel suo paese, avendo raccolto almeno il 46% dei voti nel 2016 (per la verità con l’affluenza alle urne più bassa di tutta l’UE: meno del 40%), non sufficiente, comunque, per poter governare da solo. Il livello di corruzione nel Partito socialdemocratico e tra i suoi alleati si è rivelato eccessivo perfino per gli standard est europei: dal 2006 è stato condannato un ex primo ministro e sono

stati incriminati in venti tra ex e attuali ministri, cinquantatré vice e diciannove senatori. Nell’aprile 2016 il leader socialdemocratico, Liviu Dragnea, è stato riconosciuto colpevole di brogli e ha ricevuto una condanna a due anni con la sospensione condizionale, ma è stato rieletto leader dal suo partito con entusiasmo. Poco più tardi la coalizione al governo produceva un decreto per condonare gli arrestati per corruzione se la somma in questione non eccede i 200.000 lei (43.000 euro). In altre parole: se proprio vuoi rubare, fallo, ma senza esagerare. Questo ha scatenato enormi proteste (febbraio 2017) e il decreto è stato ritirato. Nel giugno 2018, Dragnea è stato condannato a tre anni e mezzo di reclusione per incitamento all’abuso di ufficio, ed è in attesa di appello. In Romania la democrazia illiberale imperversa. Il Partito socialdemocratico al potere, autonominatosi campione dei contadini, cercò perfino di organizzare un referendum per restringere la definizione costituzionale della famiglia, che in sostanza escluderebbe la possibilità di legalizzare i matrimoni fra persone dello stesso sesso. I matrimoni fra persone dello stesso sesso sono legali nella maggior parte dei paesi europei occidentali, ma non nella maggior parte di quelli orientali. La Polonia, la Slovacchia, la Bulgaria, la Lituania e la Lettonia non offrono alcun riconoscimento legale per questo genere di rapporti. Per i gay l’avvento del postcomunismo non è stata una gran liberazione. In Spagna, il PSOE (Partido Socialista Obrero Español – Partito operaio socialista spagnolo) ha governato ininterrottamente dal 1982 al 1996 con la maggioranza assoluta dei seggi, ha perso nel 1996, poi ha governato ancora tra il 2004 e il 2011 con José Zapatero. Nel 2011 si è verificato un disastro. Il PSOE ha sofferto la peggiore sconfitta dal ritorno della democrazia nel 1977. Alle elezioni del 2015 riuscì a ottenere soltanto il 20%, e nel 2016 non molto di più. Eppure nel 1982 il partito aveva il 48% dei voti, una delle percentuali più alte mai raggiunte da un partito socialdemocratico nell’Europa del dopoguerra. Lo scontento popolare nei confronti dei socialisti, così come per il conservatore e cristiano-democratico Partido Popular (Partito popolare), si è manifestato con l’ascesa di due nuovi partiti. Il primo, Podemos, di sinistra, ha ottenuto il 20% nel 2015 e il 21,2% nel 2016. Il secondo, il liberale Ciudadanos (Cittadini), ha raggiunto oltre il 13% in entrambe le tornate elettorali. È stato in parte il crollo del bipartitismo, giacché formare un governo è diventato difficile anche per i vincitori (il Partito popolare). In aggiunta alle complicazioni che i partiti spagnoli tradizionali devono

affrontare, si è mostrato anche un picco di nazionalismo catalano che ha portato alla crisi del 2017, mentre nel maggio 2018 il tribunale penale supremo ha sentenziato che il Partido Popular al governo era implicato in un giro di tangenti. Il primo giugno 2018 il suo leader, Mariano Rajoy, ha dato le dimissioni. Gli è subentrato il socialista Pedro Sánchez, pur avendo il suo partito solo 84 seggi in un parlamento di 350. E per quanto Sánchez si sia comportato con notevole generosità, accogliendo i profughi in pericolo respinti dal ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini (che in passato è stato accusato di razzismo per aver dichiarato tra l’altro di voler fare «una ricognizione sui rom in Italia per vedere chi, come, quanti sono», aggiungendo: «Quelli che possiamo espellere, facendo degli accordi con gli stati, li espelleremo. Gli italiani purtroppo ce li dobbiamo tenere» – si veda «la Repubblica», 19 giungo 2018). L’economia ha giocato una grossa parte nella crisi dei tradizionali partiti politici in Spagna. Nei vent’anni precedenti la recessione globale del 2007, la Spagna era cresciuta più rapidamente della media europea. Dopo il 2007 è successo l’opposto: la crescita è precipitata, la disoccupazione è aumentata enormemente, la popolazione è cresciuta e la distribuzione del reddito è diventata ancora più diseguale, mentre il debito privato è salito alle stelle. Le politiche di austerity hanno solo esacerbato la situazione. 9 Ancora più disastroso lo stato della socialdemocrazia in Grecia, dove l’economia è andata molto peggio che in Spagna. Come in Spagna, i socialdemocratici del PASOK (Movimento socialista panellenico) avevano dominato la politica per la maggior parte degli anni Ottanta e Novanta. Alle elezioni del 1981 il PASOK, guidato dal carismatico leader Andreas Papandreou, conseguì una vittoria schiacciante con il 48% dei voti. Seguì un periodo di riforme sostanziali, che riguardavano tra gli altri il servizio sanitario nazionale e i diritti civili. Il partito vinse ancora nel giugno 1985 (46%). Si sentì obbligato a adottare politiche di austerità e il PASOK, pur registrando ancora il 40% alle elezioni del giugno 1989, perse nei confronti dell’opposizione conservatrice (Nuova democrazia), che ottenne il 44%. Ciò non fu sufficiente a formare un governo senza il PASOK. Seguirono governi deboli e altre elezioni. Il PASOK non era ancora finito. Alle elezioni dell’ottobre 1993 ottenne una vittoria schiacciante (47%) e Andreas Papandreou divenne ancora una volta capo del governo. Gli succedette il meno carismatico Costas Simitis, a sua volta seguito dall’ancor meno

carismatico George Papandreou, figlio di Andreas (il quale era a sua volta figlio di Georgios Papandreou, primo ministro nel periodo 1944-1945 e 19631965). Dunque tra il 1981 e il 2011 il PASOK è stato al potere per circa ventitré anni. Con l’aiuto di Goldman Sachs, uno dei beneficiari della crisi dei mutui subprime del 2007 che ha ridotto la Grecia in disgrazia, le statistiche furono alterate in modo fraudolento perché risultassero rispettati i parametri dettati dalle linee guida per mantenersi all’interno dell’Unione Europea e dunque ottenere il permesso di entrare nell’eurozona. 10 Ma i contabili non possono nascondere all’infinito i problemi reali e durante la recessione globale il PIL greco crollò di quasi 7 punti percentuali, e con lui la popolarità del PASOK. Nel 2015 il partito era sceso al 5% (mentre nel 2009 aveva quasi il 44%). In questo vuoto entrò l’estrema sinistra di SYRIZA guidata da Alexis Tsipras, fondata nel 2004 come una coalizione di partiti di sinistra, anche radicale. SYRIZA ottenne il 36%, solo un seggio meno della maggioranza assoluta, il che la obbligò a un’alleanza scellerata con Greci indipendenti, un partito nazionalista, conservatore e anti-UE. Il partito neonazista Alba Dorata raggiunse minacciosamente il 7%. Quanto al PASOK, divenne, a tutti gli effetti, un partito morto. In Turchia, dove la sinistra non è mai stata forte, la situazione naturalmente non è granché migliore. Il Partito democratico del popolo (HDP), una recente coalizione di forze assortite di sinistra, è riuscito a ottenere il 13% alle elezioni del 2015 (di cui circa la metà da regioni curde). È stato il risultato più alto dell’estrema sinistra in Turchia. L’anno successivo ci fu il tentato colpo di stato da parte dei sostenitori del religioso musulmano residente negli USA Fethullah Gülen. A questo è seguita una repressione che ha colpito ben al di là della cerchia dei seguaci di Gülen, coinvolgendo altri partiti e soprattutto i media. In questo clima di repressione le possibilità che il HDP emerga come forza significativa sono assai scarse. Sarà fortunato se sopravvive. 11 Le elezioni tenutesi il 24 giugno 2018 hanno confermato il potere di Erdoğan. In India, l’Indian National Congress Party – di sinistra e a lungo al potere – ha lasciato il posto al Bharatiya Janata Party (BJP, Partito del popolo indiano) guidato da Narendra Modi, di nuovo al potere dal 2014. Questo ha portato l’Indian National Congress a scivolare verso una forma di nazionalismo indiano e, nelle parole dell’editorialista pakistano Fakir S.

Aijazuddin, a comportarsi «come un anziano camaleonte smemorato [che] cerca di reimparare come cambiare colore, dal sicuro mimetismo del secolarismo di Nehru a un provocatorio zafferano Hindutva». 12 Il Giappone sembra aver evitato la crisi dei partiti tradizionali, giacché il conservatore Partito liberaldemocratico ha chiaramente vinto le elezioni dell’ottobre 2018 con il 48% dei voti e Shinzō Abe è rimasto primo ministro, uno dei capi di governo più duraturi della storia giapponese del dopoguerra. Il secondo partito, il cosiddetto Partito della speranza (Kibō no Tō), anch’esso conservatore, formato appena prima delle elezioni con un programma antinucleare, ha ottenuto il 20%. Un altro nuovo partito, il Partito costituzional-democratico, emerso da una scissione con il Partito liberaldemocratico, ha ottenuto l’8,7%. In altre parole, due nuovi partiti conservatori sono riusciti a ottenere quasi il 30%. Quanto alla sinistra, la situazione è catastrofica: mentre il Partito comunista ha registrato il 9% ma ha ottenuto un solo seggio, il Partito socialdemocratico, che nel 1958 era al 33% e ancora riceveva un rispettabile 24% nel 1990, è riuscito a sopravvievere con un irrisorio 1%. Allo stesso tempo il Giappone, la cui economia è stagnante da più di vent’anni, soffre di un tasso di natalità eccezionalmente basso, che ridurrà la popolazione da 127 milioni nel 2015 a 107 milioni nel 2050, quando il 42,5% della popolazione avrà sessantacinque anni o più. Sembrerebbe essere tutta colpa delle donne che non fanno abbastanza figli (il Giappone ha il tasso di natalità più basso del mondo) e che non lavorano (rispetto alle donne di altri paesi con economie simili). In realtà i sondaggi d’opinione suggeriscono che le donne sarebbero più inclini alla maternità se i loro mariti le aiutassero con la cura dei figli e le faccende domestiche (soltanto l’1,7% dei mariti ha approfittato del congedo di paternità nel 2009). Per di più, quando le donne restano incinte, sono spesso «incoraggiate» a lasciare il proprio lavoro. Infine, non ci sono quasi immigrati in Giappone. 13 Niente immigrati, niente bambini, molti pensionati: il futuro sembra lugubre, sebbene il disastro per il Giappone sia stato previsto più di una volta. Il futuro appare ancora più fosco per la sinistra in America Latina. Attorno al 2005 era al potere in Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Ecuador, Nicaragua, Paraguay, Uruguay e Venezuela. In Venezuela in molti percepirono una nuova avanzata rivoluzionaria lanciata dalla vittoria di Hugo Chávez nel 1998. Adesso l’economia del

Venezuela è in rovina, devastata dall’inflazione e dalla pessima amministrazione del successore di Chávez. In Brasile, il Partito dei lavoratori, al potere per quattordici anni dopo il 2002 e guidato da Luiz Inácio Lula da Silva e in seguito da Dilma Rousseff, dal 2011 al 2016, è stato destituito dai conservatori, con il candidato della destra estrema Jair Bolsonaro divenuto presidente alla fine del 2018. Un destino simile è toccato al Partito peronista che ha governato l’Argentina dal 2003 al 2015. Né Lula né i peronisti sono stati in grado di arginare la destra. In Cile la socialista Michelle Bachelet ha governato dal 2006 al 2010 e dal 2014 al 2018. Il suo successore come presidente del Cile è Sebastián Piñera, del partito conservatore Rinnovamento nazionale. Mentre scrivo, Lula sta scontando una lunga sentenza per aver accettato mazzette. In Argentina, nel 2015, Cristina Kirchner è stata accusata di frode. In Nicaragua, ancora oggi uno dei paesi più poveri dell’America Latina, Daniel Ortega, un tempo beniamino della sinistra, si è rivelato responsabile di una repressione di vaste proporzioni trentanove anni dopo la vittoria della cosiddetta rivoluzione sandinista (benché i sandinisti fossero all’opposizione tra il 1990 e il 2006). 14 In Messico, l’elezione alla presidenza del candidato anticorruzione Andrés Manuel López Obrador (2018) offre qualche speranza per il futuro, ma è ancora presto per dirlo. Dunque la socialdemocrazia tradizionale, il tipo di socialdemocrazia che aveva prevalso ed era stata al governo a volte per lunghi periodi, è stata ampiamente sconfitta non solo in Europa, ma pressoché ovunque. Niente di tutto ciò dovrebbe sorprendere. La maggior parte dei partiti democratici ha abbracciato una politica di austerity, ha permesso la stagnazione dei salari, la crescita delle disuguaglianze e ha privatizzato i servizi pubblici in misura inimmaginabile trent’anni fa. Questo ha avuto un duplice effetto negativo: ha fatto pensare che i neoliberali avessero ragione ad affermare che il settore privato poteva gestire meglio questi servizi e, quando divenne chiaro che i servizi non erano particolarmente migliorati, i socialdemocratici non poterono nemmeno dire «ve l’avevamo detto». Hanno permesso alle disuguaglianze di aumentare e non hanno osato tassare i facoltosi beneficiari. Come ha scritto Joseph Stiglitz, «la teoria che i tagli fiscali e la deregulation avrebbero […] portato a una nuova era di crescita elevata è stata screditata del tutto […] l’austerity non ha mai funzionato». 15

Anche il FMI, un tempo roccaforte del neoliberalismo, ha cominciato a dubitare dei dogmi del passato. I suoi rapporti più recenti hanno riconosciuto che diminuire le tasse ai ricchi è controproducente e aumenta le diseguaglianze, e che non è vero che dare più denaro ai ricchi aumenterà gli investimenti, l’occupazione, la crescita. In altre parole, il FMI pensa che, dopotutto, l’economia «trickle down» sia un nonsenso. Ne furono pionieri gli incentivi fiscali del giustamente vituperato presidente Herbert Hoover dopo il crollo del 1929, usati dal presidente Ronald Reagan per giustificare i propri tagli alla tassa sul reddito e cui era stata data una (molto) sottile patina di rispettabilità pseudoaccademica da Arthur Laffer e dalla sua del tutto screditata Curva di Laffer. Secondo un rapporto di economisti del FMI (2016), «aspetti dell’agenda neoliberale […] non hanno soddisfatto come ci si aspettava»; i benefici delle politiche neoliberali «sembrano abbastanza difficili da accertare quando si guardi a un ampio gruppo di paesi», e «i costi in termini di disuguaglianza aumentata sono prominenti». Concludeva con il seguente eufemismo: «I benefici di certe politiche che sono parte importante dell’agenda neoliberale sembra siano stati in qualche modo esagerati». 16 Non sorprende che certi commentatori abbiano sostenuto che il FMI è diventato «Corbynista». 17 È sempre rischioso per un partito politico di sinistra accettare così tanto dell’agenda della destra. Nel frattempo chi è molto ricco oggi può esserlo anche di più dei ricchi di ieri, gli assai disprezzati ricchi della cosidetta Gilded Age americana all’inizio del XX secolo, famiglie come i Carnegie, i Rockefeller e i Vanderbilt. Oggi i cinque individui più ricchi del mondo – Jeff Bezos (Amazon), Bill Gates, Warren Buffett, Amancio Ortega (lo spagnolo proprietario di Inditex, il massimo rivenditore di abbigliamento del mondo, che comprende Zara) e Mark Zuckerberg di Facebook – possiedono 245 miliardi di azioni, l’equivalente di un sesto del prodotto interno lordo del Regno Unito. Nessuno di loro è nella manifattura, anzi: nella lista Bloomberg delle 100 persone più ricche vi sono solo tredici industriali. 18 Il capitalismo di oggi, più che mai, è «tra le nuvole» (il «cloud») o nella vendita al dettaglio. Grafico 2 – La crescita del reddito 1980-2014

Fonte: «The New York Times».

La diseguaglianza nella ricchezza ha colpito anche in luoghi che erano considerati oasi di decenza capitalistica come la Svezia, dove «la diseguaglianza di reddito è cresciuta più rapidamente che in qualsiasi altro paese dell’OCSE fin dagli anni Novanta, benché partendo da un livello molto basso». 19 Negli USA le diseguaglianze sono cresciute ancora più drammaticamente. 20 Tuttavia, secondo il World Inequality Report 2018 (tra i cui autori figura l’economista francese Thomas Piketty) la diseguaglianza nel reddito, definita come la quota di reddito nazionale ottenuta dal 10% al vertice, è cresciuta dal 1980 molto meno in Europa che in Medio Oriente (che registra la diseguaglianza più elevata, seguito da Cina e Brasile). Il 50% più in basso ha tuttavia ottenuto benefici grazie all’elevata crescita della Cina, ma, dal 1980, l’1% degli individui più ricchi del mondo si è aggiudicato due volte tanto ciò che è toccato loro. 21 L’ascesa della diseguaglianza nella ricchezza è stata pronunciata anche negli Stati Uniti, dove la quota di ricchezza dell’1% al vertice è cresciuta dal 22% nel 1980 al 39% nel 2014. La maggior parte di quell’aumento della disuguaglianza era dovuta all’aumento della ricchezza dello 0,1% dei massimi possessori di ricchezza, vale a dire gli ultraricchi. Nel Regno Unito solo poche famiglie ricevono un reddito pro capite chiaramente

sopra la media del PIL. 22 Lo 0,1% al vertice estremo comprende solo 50.000 persone, su una popolazione di 65,5 milioni. Giacché nessuno può vincere le elezioni favorendo questo 0,1%, per tacere del 10% della fascia alta, anche i conservatori sono preoccupati. In realtà il Regno Unito è molto più diseguale (in termini di rapporto dell’1% con il reddito medio) della Germania, la Francia, l’Italia e la Spagna. 23 La crescente diseguaglianza di reddito è «uno dei massimi eventi economici del nostro tempo». Il suo livello nei più diseguali dei paesi ricchi è «insostenibile». 24 La lotta contro le disuguaglianze avrebbe potuto essere un’ovvia carta da giocare da parte della socialdemocrazia. Invece i partiti di quest’area hanno optato per ciò che ritenevano fosse una cautela: assecondare la dominante ideologia filomercato. E così hanno perso la partita.

I partiti «cattivi» Nel 2002, dopo due sconfitte elettorali, quando il vacuo Iain Duncan Smith era ancora il leader del Partito conservatore britannico, Theresa May – appena nominata presidente del partito e ancora tredici anni prima di diventare premier – ammonì il suo partito all’annuale congresso con una memorabile protesta: «Non prendiamoci in giro. Ci vorrà molto prima di poter tornare al governo […] la nostra base è troppo limitata così come l’occasionale simpatia di cui godiamo. Lo sapete come ci chiama qualcuno: il partito cattivo». A volte i politici dicono la verità. Per poi, spietatamente, continuare: «Alle ultime elezioni politiche sono stati eletti trentotto nuovi deputati Tory. Di questi una sola è donna e nessuno appartiene a qualche minoranza etnica. È giusto? Metà della popolazione ha forse diritto a un solo posto su trentotto?». 25 Eppure, quando Theresa May era ministra dell’Interno (2010-2016) entrarono in vigore nuove regole che richiedevano agli immigrati dai Caraibi (arrivati su invito della Gran Bretagna) di dimostrare che avessero vissuto in Gran Bretagna per decenni pena la deportazione (saltò fuori che il ministero dell’Interno aveva distrutto le carte di sbarco quando gli immigrati erano arrivati). Anche un tabloid anti-immigrazione come il «Daily Mail» s’indignò per l’«orrendo» trattamento riservato a questi migranti. 26 Alcuni caddero in uno stato di profonda ansia quando, dopo decenni di lavoro e di tasse pagate,

si videro privati dell’impiego, della casa e scoprirono che erano state loro precluse le terapie anticancro. Tali furono le proteste che Theresa May, ora premier, e Amber Rudd, sua ministra degli Interni, nell’aprile 2018 furono costrette a supplichevoli scuse, scaricando disonestamente la colpa sui funzionari pubblici che, dopotutto, avevano solo eseguito degli ordini. Questo non era un «errore». Nel 2012 David Cameron aveva organizzato l’«Hostile Environment Working Group» (Gruppo di lavoro ambiente ostile), rivolto a migranti che avrebbero potuto trovarsi nel Regno Unito senza documenti adeguati; l’oltraggiosa espressione «ambiente ostile» era stata originariamente usata quando agli Interni era ministro il laburista Alan Johnson. In seguito, in un discorso sull’immigrazione (25 marzo 2013) Cameron, con il sostegno del leader dei liberali Nick Clegg e dell’allora ministra degli Interni Theresa May, dichiarò che «stiamo per inasprire radicalmente il modo in cui trattiamo gli immigrati illegali che lavorano in questo paese. Adesso, francamente, essere un migrante clandestino in Gran Bretagna è troppo facile». 27 E per chiarire quanto cattiva sarebbe stata, Theresa May incoraggiò i clandestini ad andarsene volontariamente nel 2013 facendo gironzolare alcuni furgoni con il minaccioso messaggio: «In the UK illegally? Go home or face arrest» (Nel Regno Unito illegalmente? Tornate a casa o rischiate l’arresto). Uno dei risultati delle politiche di «ambiente ostile» fu che a migliaia di studenti stranieri, nel Regno Unito legalmente, fu ordinato di andarsene sulla base di prove dubbie e discutibili. 28 L’Immigration Act del 2015 e 2016, promulgato dal ministero dell’Interno (guidato da Theresa May e poi da Amber Rudd), obbligava inoltre i padroni di casa, i datori di lavoro, le banche e i servizi sanitari a effettuare controlli sullo stato dell’immigrazione, trasformandoli di fatto in informatori della polizia e incoraggiandoli a discriminare e umiliare chiunque non sembrasse «davvero» britannico. Il paese stava diventando sempre più cattivo. I conservatori, in Gran Bretagna o altrove, non sono stati sempre i partiti «cattivi». L’Europa occidentale è stata caratterizzata da una sorta di conservatorismo compassionevole che non ha celebrato il capitalismo, ma lo ha accettato entro certi limiti. Per questo nella Germania dell’Ottocento Bismarck fu pioniere del welfare state, come anche il Partito liberale britannico; e per questo perfino i Tory si fecero promotori di riforme sociali. In Francia, durante la Terza Repubblica, i cattolici filomonarchici erano

«reazionari» in tutti i sensi, ma, sulle questioni sociali, non erano regressivi come i politici di centro, i cosiddetti «radicali». Verso la fine degli anni Cinquanta il conservatorismo francese, sotto la bandiera di Charles de Gaulle, era «compassionevole» in molti modi, soprattutto riguardo all’adozione di riforme sociali e alla regolamentazione del mercato. Questo permise a de Gaulle di superare la caratterizzazione destra o sinistra (ben prima che Macron usasse quest’antica formula come se l’avesse inventata lui). 29 In Austria i cristiano-democratici, solitamente alleati dei socialisti, sono stati alla guida del paese con il settore pubblico più grande in Europa occidentale. In Germania, i cristiano-democratici hanno sostenuto un’economia di «mercato sociale», dove il «sociale» era importante quanto il «mercato». In Gran Bretagna i Tory, al potere per tutti gli anni Cinquanta fino al 1964, desistettero dallo smantellare il welfare state e costruirono più alloggi popolari di quanto non avesse fatto il Labour in precedenza. 30 In Italia la Democrazia Cristiana, al potere ininterrottamente dal 1945 agli anni Novanta, cercò, spesso riuscendovi, di arginare l’avanzata del socialismo con l’introduzione di riforme del welfare e puntò al cosiddetto «compromesso storico» tra capitalismo e socialismo. Controllava anche un sindacato e ampliò vistosamente il settore pubblico, creato da Mussolini per proteggere il sistema bancario italiano, allora sotto la minaccia del crollo del 1929. Quando la Democrazia Cristiana si dissolse, schiacciata dallo scandalo di Tangentopoli, tornò al nome originario, Partito popolare italiano, ma nessuno, nemmeno i partiti politici, possono essere vergini due volte. Per sopravvivere, gli elementi più progressisti del cattolicesimo sociale italiano confluirono nel Partito democratico, insieme a quell’area di centrosinistra erede dei comunisti. Alla fine i conservatori europei divennero «cattivi» soprattutto in Gran Bretagna, dove Margaret Thatcher ricostituì il Partito conservatore come un partito neoliberale ben definito dietro la foglia di fico del nazionalismo. I poveri divennero scrocconi e le ragazze madri «incapaci»; i conservatori tradizionali che si opponevano a tanta «cattiveria» furono definiti «molli». Al congresso del partito conservatore del 1992 il già citato Peter Lilley, all’epoca segretario di stato per la Sicurezza sociale, si produsse in una parodia davvero infame del Mikado di Gilbert e Sullivan. Fu uno dei discorsi più disgustosi della politica britannica moderna (il dileggio dei poveri da parte di un benestante davanti a una platea di benestanti). Lilley dichiarò,

nella sua più odiosa espressione: «Sto chiudendo la società del qualcosa in cambio di nulla» (il «qualcosa in cambio di nulla» divenne un tropo consolidato nei circoli della destra antiwelfare: suona bene e non significa nulla). Per poi intonare: §§§Ho una piccola lista di colpevoli di reati a cui tra breve darò la caccia E che non sarebbero mai mancati a nessuno Ci sono giovani donne che rimangono incinte solo per saltare le graduatorie degli alloggi E papà che non manterranno i bambini di donne che hanno… baciato E non ho nemmeno menzionato tutti quei socialisti scrocconi Li ho nella mia lista E nessuno di loro manca Nessuno di loro manca. 31

In barba alle promesse di Lilley, gli «scrocconi» da allora devono ancora essere debellati e vent’anni dopo il governo ancora ci provava, mentre figure come Richard Branson, il capo della Virgin, è un «esule fiscale» e la sua azienda conserva il suo status off-shore per ridurre le tasse da pagare al Regno Unito. Qualcuno l’ha forse messo nella propria lista? Nel frattempo Lilley, un ultrà di Brexit, riceveva (legalmente) più di 400.000 dollari in azioni come direttore non esecutivo della Tethys Petroleum, un’azienda petrolifera con sede alle Cayman, mentre era ancora «membro a tutti gli effetti» della camera dei comuni. È stato uno dei tre deputati a votare contro il Climate Change Act del 2008 (sostenuto largamente sia dalla maggioranza sia dall’opposizione), una posizione coraggiosa che deve aver ricevuto il caloroso sostegno dei suoi datori di lavoro alla Tethys Petroleum. Si è naturalmente meritato l’elevazione a lord nel 2018. Tornato al potere nel 2010, il giustamente vituperato cancelliere dello scacchiere George Osborne varò un colossale programma di austerity mentre tagliava le tasse ai ricchi, vale a dire chi guadagna più di 150.000 sterline l’anno (circa 167.000 euro). Nel 2010, Iain Duncan Smith, ex leader conservatore, ora ministro del Lavoro e delle pensioni nonché uno degli esponenti meno amabili della coalizione liberal-conservatrice del 2010-2015, presentò l’Universal Credit, un «credito universale» con lo scopo di semplificare il welfare state. Il piano era di convogliare un certo numero di sussidi in un unico reddito mensile studiato per «riportare al lavoro» le

persone. Uno dei numerosi problemi è che occorre aspettare sei settimane prima di ricevere qualsiasi sussidio e per molti poveri sei settimane sono troppe: i conti vanno pagati, l’affitto non aspetta, i figli devono mangiare ogni giorno, non ogni sei settimane. Gli aventi diritto che chiamavano il numero «verde» sborsavano 55 pence al minuto (oltre 60 centesimi di euro). Le proteste sono state tali che il governo, nel 2017, è stato vergognosamente costretto a ritirare le tariffe telefoniche e a tagliare l’attesa da sei a cinque settimane e solo dopo il febbraio 2018. Alcuni disoccupati avrebbero dovuto impegnare trentacinque ore la settimana per cercare un lavoro sotto una supervisione, simulando in questo modo «la giornata lavorativa», e ponendo fine alla cultura britannica del «qualcosa in cambio di nulla». 32 Nel 2014 lo stesso Iain Duncan Smith aveva frenato gli sgravi fiscali per le famiglie ponendo il limite ai primi due figli. Così avrebbero imparato a non fare il terzo figlio. Solo i benestanti potevano permetterselo. Duncan Smith descrisse la misura come un’«idea brillante». La criticò perfino il «Daily Mail». 33 Il 18 marzo 2016 Duncan Smith, nello stupore generale, rassegnò le dimissioni dal governo, affermando di non poter accettare i tagli pianificati dal governo ai sussidi per i disabili e attaccandone il programma di austerity come divisivo e ingiusto. L’anno precedente aveva detto alle persone disabili di tirarsi fuori dalla povertà lavorando. In quello successivo aveva trovato una coscienza, presumibilmente la propria. Secondo il thinktank The Resolution Foundation, il cui presidente esecutivo è l’ex ministro conservatore David Willetts, per alcune famiglie l’Universal Credit significa rimetterci 2.800 sterline (oltre 3.000 euro). 34 Nel giugno 2018 il National Audit Office, dopo aver analizzato il sistema di Universal Credit, ha stilato un rapporto sfavorevole nel quale valuta che il progetto costerebbe più del sistema di sussidi che va a sostituire e che non è di aiuto a nessuno. In altre parole, il programma è stato un disastro senza appello. Mentre scrivo, il governo sta cercando di fare marcia indietro in mezzo allo sdegno generale. L’austerità è continuata dopo la vittoria del Partito conservatore del 2015. Allora aveva una maggioranza ridotta ma funzionante e non aveva più bisogno dei liberali. Benché questi fossero stati inefficaci e incompetenti, costituivano una mite barriera contro la cattiveria. Ora questa è venuta meno. Il cancelliere dello scacchiere George Osborne lanciò, con ovvio compiacimento, un’offensiva contro i richiedenti sussidio. La sua Welfare

Reform and Work Bill (pilotata nel luglio 2015 da Iain Duncan Smith) costringeva 200.000 disoccupati a lungo termine o a svolgere lavori socialmente utili, o a recarsi tutti i giorni al Job Centre (ufficio di collocamento). Il non trovare lavoro era ovviamente considerata una colpa. Il gruppo parlamentare del Partito laburista, più che mai allo sbando dopo aver perduto di nuovo le elezioni politiche e impegnato nell’individuare un leader, una volta sconfitto il proprio emendamento decise di astenersi dal voto sul Welfare Bill (anziché votare contro, come dovrebbe fare l’opposizione), terrorizzato all’idea che gli elettori potessero considerarlo tenero con gli scrocconi. La leader temporaneamente in carica, Harriet Harman, spiegò che «non possiamo semplicemente dire al pubblico che alle elezioni si sbagliavano», un non sequitur assurdo, come dire che chi aveva votato Labour si sbagliava. 35 Ciò richiamava alla memoria il 1997, quando il Labour, assecondando i Tory e timoroso di non essere sufficientemente a favore del mondo imprenditoriale, decise di mantenere i piani di spesa dei Tory per i due anni successivi nel tentativo di dimostrarsi degno di fiducia sull’economia; di conseguenza il partito, con Harriet Harman nella carica di segretario per la Sicurezza sociale, decise di tagliare i benefici a tutti i genitori unici (soprattutto donne) dei bambini al di sotto dei cinque anni. Nel 1997 i dissidenti Labour al voto contro la legge sul welfare erano stati quarantasette; nel 2015 furono in quarantotto. Si unirono a loro lo Scottish National Party (SNP), i liberaldemocratici, Plaid Cymru, l’unico deputato verde, e perfino il Democratic Unionist Party dell’Irlanda del Nord. Jeremy Corbyn fu l’unico dei quattro candidati alla leadership del Labour Party a votare contro. Sarebbe presto asceso alla guida del partito. Diane Abbott, Sadiq Khan e David Lammy, candidati a sindaco di Londra, sfidarono anche loro i dirigenti del partito. Sadiq Khan sarebbe stato presto eletto sindaco di Londra, spiazzando profezie (inutili) secondo cui Tessa Jowell, una blairiana che seguiva la linea del partito, avesse più possibilità di vincere le amministrative. 36 La politica del Labour si stava sfilacciando in mezzo allo sconcerto dei commentatori. I conservatori erano stati il partito «cattivo» per lungo tempo, e gli attivisti e ancor di più i fedeli che si presentano al congresso annuale del partito erano spesso spregiativamente descritti da alcuni leader Tory (e non solo da loro) come la brigata dei «forcaioli». Ai bei tempi, prima di Thatcher, la leadership si fidava del fatto che, accanto a normali opinioni reazionarie,

gli attivisti fossero imbevuti di una deferenza fuori moda e contenti, a mo’ di gregge, di lasciare la politica vera e propria ai baroni del partito. «Forcaioli» è una descrizione abbastanza accurata della base del partito. Secondo uno studio condotto alla Queen Mary University of London, i conservatori sono una «specie a parte» rispetto ai membri di altri partiti politici, con forti tendenze verso atteggiamenti illiberali e autoritari: tra loro gli omofobi aumentano, sostengono la pena di morte, sono a favore del controllo dei media per la difesa dei buoni costumi e sono, per la stragrande maggioranza, a favore dell’austerità (mentre l’opposizione all’austerità prevale per il 98% tra i sostenitori del Labour, per il 93% nel Partito nazionale scozzese e per il 75% tra i Libdem). 37 Poi arrivò Thatcher, che parlava il loro linguaggio. Un linguaggio terribile. Fece uscire il genio cattivo dalla lampada e gli attivisti conservatori poterono finalmente dire quello che pensavano. Ma dopo le schiaccianti vittorie del 1979, 1983 e 1987, e la risicata vittoria di John Major nel 1990, i Tory persero tre elezioni di seguito (1997, 2001 e 2005), furono incapaci di ottenere la maggioranza nel 2010 (donde la coalizione con i liberali), poi vinsero una piccola maggioranza nel 2015, prontamente perduta nel 2017. In altre parole, è dal 1987 che i Tory non ottengono una vittoria soddisfacente. E tutto questo nonostante, rispetto al Labour, avessero maggiore disponibilità di denaro per fare campagna elettorale, la maggior parte della stampa dalla propria parte e perfino l’aiuto dell’australiano Lynton Crosby, stratega politico definito da alcuni il «Mago di Oz» (gioco di parole sul diminutivo di Australia, «Oz») che era ovviamente molto bravo nel persuadere le persone di poter vincere le elezioni, ma non altrettanto a vincerle davvero. Aveva gestito la campagna del 2005 per i conservatori, che persero nonostante gli slogan razzisti che aveva suggerito di usare. Fu loro consulente di nuovo nel 2015. Questa volta vinsero di poco. E ancora nelle elezioni per il sindaco di Londra del 2016: un’altra sconfitta, sebbene Crosby ottenesse un cavalierato diventando così «sir» Lynton Crosby. Il suo spregevole tentativo di collegare il candidato Labour (Sadiq Khan) al terrorismo fu un boomerang e Khan sbaragliò il belloccio ma non molto intelligente candidato conservatore Zac Goldsmith. Infine Crosby fu anche «stratega» delle elezioni di Theresa May alle politiche del 2017, nelle quali, benché ci si aspettasse una larga vittoria, perse invece la maggioranza parlamentare.

La strategia di Crosby consiste nel condurre sondaggi d’opinione e poi dire alla gente quel che vuole sentirsi dire. Per tale intelligente intuizione è stato pagato milioni di sterline (4, secondo il «Daily Telegraph»). 38 La «teoria» è che non serve a nulla cercare di far cambiare idea alle persone, come se non fosse ovvio che se la gente non cambiasse idea ci sarebbe ancora la pena di morte e l’omosessualità sarebbe considerata ancora un crimine. La campagna Labour del 2017 ha fatto a meno del «consiglio» di personaggi come Crosby: è stata migliore ed è costata meno, soprattutto perché il gruppo parlamentare del Labour non era molto coinvolto ed era stato assai correttamente ignorato. Tim Bell, il pubblicitario e uomo di pubbliche relazioni che fece da consulente a Margaret Thatcher durante le sue vittorie elettorali negli anni Settanta e Ottanta, nel 2017 ha detto di Lynton Crosby: «La campagna è stata del tutto negativa […] è lo stile di Lynton Crosby. Ha un’unica freccia al proprio arco». 39 Fu Crosby a consigliare a Theresa May lo slogan: «Strong and stable Leadership» (Leadership forte e stabile), slogan da allora incessantemente sbeffeggiato. Pare che May si fosse stufata di sentirsi ripetere «forte e stabile». «Mi fai sembrare stupida», protestò invano con sir Lynton. 40 Nel 2009 i Tory fecero il proprio ingresso formale tra i partiti più «cattivi» d’Europa quando David Cameron, per ammansire l’ala euroscettica del suo partito, ritirò i suoi deputati al parlamento europeo dal gruppo del Partito popolare europeo – considerato troppo «federalista» –, per formare l’«Alleanza di conservatori e riformisti in Europa» accanto a partiti chiaramente di destra ed estrema destra anti-UE, come il polacco Partito di diritto e giustizia, il ceco Partito civico democratico, il finlandese Partito dei finlandesi o altri partiti nazionalisti di quella risma. Negli altri paesi dove in un modo o nell’altro prevaleva la cattiveria, a soffrire veramente furono – come c’era da aspettarsi – le fasce più povere della società. In Francia, durante i cinque anni di presidenza di Nicolas Sarkozy (2007-2011) più di metà dei tagli fiscali avvantaggiarono le famiglie più abbienti. Un’altra porzione fu a favore delle imprese. I tagli erano compresi in una legge descritta con l’acronimo TEPA: Travail (lavoro), Emploi (impiego) e Pouvoir d’achat (potere d’acquisto). 41 La Francia divenne meno competitiva e la disoccupazione aumentò. 42 Naturalmente in Europa ci sono partiti molto peggiori dei Tory britannici o dei Républicains di Sarkozy. In Polonia c’è il Partito di diritto e giustizia

(PIS, Prawo i Sprawiedliwość), fondato nel 2001 dai gemelli Jarosław e Lech Kaczyński (Lech è morto in un incidente aereo nel 2010). Il partito vinse le elezioni del 2005, Lech Kaczyński divenne presidente e Jarosław primo ministro. Poi il PIS perse nelle elezioni del 2007 e del 2011 (contro partiti conservatori) prima di tornare al potere nel 2015. La politica polacca ha virato a destra. La sinistra è morta nel 2015 quando Zjednoczona Lewica (Sinistra unita, ZL), un’alleanza politica di vari gruppi, non raggiunse la soglia dell’8% prevista per una coalizione e non ottenne alcuna rappresentanza parlamentare. Il partito conservatore principale (a «sinistra» del Partito di diritto e giustizia) è Piattaforma civica, una formazione sfacciatamente neoliberale che, nel 2015, aveva ottenuto quasi il 25%. Ad aggiungersi al surrealismo della politica polacca, il terzo partito nel 2015 era Kukiz’15, una formazione di destra che prende il nome dal suo leader, il musicista punk Paweł Kukiz (21%). Con solo il 37,5% dei voti, il PIS ha ottenuto, grazie al sistema elettorale, una maggioranza assoluta in parlamento. Pur favorevole al welfare, guarda con interesse a uno stato forte e autoritario e difende i valori «morali tradizionali» della Polonia, cioè quelli della chiesa cattolica. Cerca di controllare il potere giuridico e l’amministrazione pubblica, di rendere la vita difficile agli omosessuali e di ostacolare il ricorso all’aborto. I contraccettivi per via orale sono difficili da ottenere, mentre la pillola del giorno dopo richiede una prescrizione, dopo una legge (luglio 2016) che sfida i gruppi in difesa dei diritti umani e le linee guida delle agenzie mediche europee. 43 Lo smantellamento dei diritti delle donne era cominciato molto prima, nel marzo 1993, sotto «normali» governi conservatori, uno dei quali guidato da una donna, Hanna Suchocka, che ha prodotto una delle legislazioni sull’aborto più restrittive d’Europa: l’interruzione di gravidanza è permessa solo quando questa minaccia la vita o la salute della madre, se il feto è seriamente danneggiato, o se la donna ha subito violenza. 44 Nel dicembre 2017 il parlamento polacco ha approvato alcune proposte che concedono al Partito di diritto e giustizia un controllo effettivo sulle nomine giudiziarie, una mossa molto criticata come lesiva dell’indipendenza giudiziaria da parte dell’Unione Europea e dal Consiglio d’Europa, così come dal presidente del Consiglio d’Europa ed ex primo ministro conservatore polacco Donald Tusk e da Lech Wałęsa, il fondatore di Solidarność. La Commissione europea ha formalmente ammonito la Polonia

segnalando che «valori fondamentali» sono a rischio se il paese continua nei suoi piani di controllo della giustizia e dei media. Il PIS è fortemente islamofobo in un paese che (come si è visto) di musulmani è quasi privo (sono meno dello 0,1%). 45 Il PIS si crogiola in memorie di finta autocommiserazione sostenuto dall’«altra Polonia»: rurale, pia, i silenziosi perdenti della spericolata «trasformazione» neoliberale e del crollo dell’industria statale. 46 Nel novembre 2017, decine di migliaia di dimostranti nazionalisti hanno manifestato a Varsavia per commemorare il «giorno dell’indipendenza» della Polonia. Alcuni indossavano o urlavano slogan in favore di un’Europa «bianca»; altri cantavano «Polonia pura, Polonia bianca!», «Fuori i profughi!» e «Pregate per un olocausto islamico!». Un dimostrante intervistato dalla TV di stato, che descriveva l’evento come «una grande marcia di patrioti», ha dichiarato di manifestare per «togliere il potere alla comunità ebraica». Il ministro dell’Interno Mariusz Błaszczak lodava i manifestanti. 47 La Polonia non è un posto ameno neanche per i liberali, o gli ebrei, i musulmani, i gay, o le donne che hanno bisogno di interrompere la gravidanza. Quando la prima ministra Beata Szydło ha dato le dimissioni nel dicembre 2017, il suo successore Mateusz Morawiecki (il vero capo era però Jarosław Kaczyński) dichiarò immediatamente che il suo «sogno» era di ricristianizzare l’UE. 48 In Ungheria e in Polonia il femminismo è visto dai gruppi al potere come un progetto straniero che rema contro l’interesse nazionale. 49 Questi sintomi morbosi hanno una molteplicità di cause. La «terapia d’urto» (shock therapy) attribuita, forse ingiustamente, all’economista Jeffrey Sachs (non un neoliberale) ha portato a una gigantesca emigrazione (più di due milioni dall’ingresso della Polonia in UE nel 2004) e contribuito alla convinzione di molti fra coloro rimasti nel paese che la Polonia sia stata tradita dalle élite cosmopolite filoeuropee (sebbene molto di quanto sia migliorato in Polonia si debba ai fondi dell’UE di cui la Polonia, con l’Ungheria, è congrua beneficiaria). 50 Anche in Ungheria il primo ministro Viktor Orbán invoca «valori cristiani» mentre srotola fili spinati e schiera gli idranti ai confini del paese per tenere fuori i profughi. La Commissione europea ha deciso di portare l’Ungheria assieme alla Polonia davanti alla Corte di giustizia per essersi rifiutate di ricevere la quota di profughi loro assegnata. Orbán inveisce, oltre che contro il politicamente corretto e i media indipendenti, contro

«l’immoralità dell’Occidente» e delle sue «élite liberali», così come contro gli «avidi banchieri»; dichiara guerra alle ONG (mettendo in agitazione le Nazioni Unite e Amnesty International), che accusa di interferire negli affari interni dell’Ungheria e cerca di far chiudere la Central European University sovvenzionata da George Soros, la sua bestia nera. 51 Mentre i socialisti, un tempo innamorati del blairismo, restano forti a Budapest, il partito di Orbán, FIDESZ (Alleanza civica ungherese) – un tempo il partito della gioventù metropolitana progressista e dell’intellighenzia –, è ora il partito della retroguardia rurale del paese, del nazionalismo cattolico, della xenofobia, dell’euroscetticismo, dei valori familiari ed è, per ultimo, ma non meno importante, il partito degli oligarchi. 52 Orbán divenne primo ministro nel 1998, quando il suo partito ottenne soltanto il 26% dei voti. Presto dovette cedere il passo a un’amministrazione socialista e rimase escluso dal potere fino al 2010. Poi irruppe nuovamente con un impressionante 52% e due terzi dei seggi parlamentari, ottenendo la rielezione nel 2014. Utilizzò la propria maggioranza per mettere sotto controllo la giustizia, la radio e la televisione, e facendo chiudere il principale giornale d’opposizione, «Népszabadság». Questo fu poi comprato, assieme ad altri giornali, da uno dei suoi migliori amici, Lőrinc Mészáros, divenuto ricco oligarca solo dopo che Orbán era diventato primo ministro. Orbán attacca regolarmente «la leadership dell’UE debole, sclerotica, fuori dal mondo». È stato lesto a congratularsi con Recep Tayyip Erdoğan dopo il referendum vinto nell’aprile 2017, che ha garantito a Erdoğan maggiori poteri. E, naturalmente, è sostenitore e ammiratore di Vladimir Putin come di Donald Trump. In Ungheria non c’è quasi un’opposizione di sinistra di qualche rilievo. Il 22 luglio 2017, in un discorso al ventottesimo Bálványos Summer Open University and Student Camp (a Băile Tușnad, in una zona della Romania con una significativa minoranza ungherese), Orbán descrisse la lotta mondiale tra un’«élite transnazionale» e leader patriottici nazionali come lui e Donald Trump («siamo i precursori di questo approccio, la nuova politica patriottica europea»). Ha poi attaccato l’«alleanza» formatasi a Bruxelles contro l’Ungheria: «I membri di questa alleanza sono i burocrati di Bruxelles e la loro élite politica e il sistema che potrebbe essere descritto come l’Impero Soros. […] C’è un piano Soros (per portare in Europa migranti musulmani). […] Sia i burocrati di Bruxelles sia George Soros hanno interessi particolari a

indebolire l’Europa centrale […] dobbiamo difendere il terreno dal network mafioso di Soros, dai burocrati di Bruxelles e dai media di cui fanno uso». 53 In Ungheria l’isteria anti-Soros non conosce limiti. Un grande poster che lo raffigura è stato incollato al pavimento del tram della linea 49 a Budapest, così che i passeggeri gli camminino sulla faccia. 54 Durante la campagna per le elezioni del 2018, invischiate in scandali e un’incessante retorica antiimmigrazione e islamofobica, Orbán ha paragonato la lotta degli ungheresi contro gli ottomani, gli Asburgo e i sovietici alla lotta contro «lo zio George». 55 Ovviamente ha funzionato: Orbán è stato rieletto accrescendo la sua maggioranza (con anche una più alta affluenza alle urne), e controllando i due terzi del parlamento (con poco meno del 50% dei voti). Il 9 ottobre 2017 András Aradszki, segretario di stato per l’Energia, dichiarava che quello che aveva chiamato il «piano Soros» era «ispirato da Satana» e che era dovere dei cristiani combatterlo. 56 György Schöpflin, che ha vissuto nel Regno Unito dal 1950 al 2004 come mediocre professore presso la School of Slavonic and East European Studies, e che è diventato deputato europeo, ha disonorato la sua ex professione ma ottenuto i suoi quindici minuti di notorietà con l’invito a disseminare teste di maiale lungo il confine con l’Ungheria come deterrente per i profughi musulmani, accompagnando il gesto con il tweet: «Le teste dei maiali dissuaderebbero più efficacemente». 57 Sia Aradszki sia Schöpflin sono membri dell’ungherese Partito popolare cristiano democratico (KDNP), un partito che senza l’aiuto di FIDESZ non passerebbe la soglia di sbarramento alle elezioni. Anche Israele ha mollato ogni pretesa di liberalismo. Questo era un paese fondato da sionisti «socialisti» e a lungo guidato da un Partito laburista che oggi, confluito nell’Unione sionista, è stato incapace di raccogliere più del 18,6% alle elezioni del 2015. Ora Israele è governato, e lo è stato per molti anni, da Benjamin Netanyahu (quattro volte primo ministro), spregiudicato apostolo del «libero mercato». Questi ha liberalizzato il sistema bancario, privatizzato quello che era un enorme settore statale, introdotto un programma di sussidi all’occupazione e tagliato le pensioni mentre sovvenzionava copiosamente i 600.000 coloni nella Cisgiordania illegalmente occupata, mettendo gli ebrei progressisti in allarme. 58 Netanyahu ha istericamente cercato di spaventare e sottomettere la stampa israeliana e ha regolarmente attaccato il potere giudiziario e la polizia che ne raccomandavano la condanna per corruzione, tangenti e frode. 59 Non

sarebbe il primo uomo politico israeliano coinvolto in illeciti (Wikipedia ha una voce apposita con l’elenco dei personaggi pubblici condannati: «List of Israeli public officials convicted of crimes or misdemeanors»). Avraham Hirschson, già ministro delle Finanze, fu condannato nel 2009 per aver rubato milioni di shekel dalla National Workers Labour Federation durante il suo mandato da presidente. Ricevette una condanna a cinque anni e cinque mesi: ha scontato tre anni e quattro mesi. Ehud Olmert, primo ministro (2006-2009) e per dieci anni sindaco di Gerusalemme, è stato incriminato per corruzione ed evasione fiscale e condannato a ventisette mesi di prigione (ne ha scontati sei). Ancora più grave il caso di Moshe Katsav, presidente dello stato di Israele (2000-2007), accusato di molteplici stupri, condannato, imprigionato e rilasciato nel 2016 dopo aver scontato solo sei anni. Netanyahu è un falco in politica estera: vorrebbe tanto distruggere l’Iran e non ha alcuna intenzione di ritirarsi dalla Cisgiordania illegalmente occupata o di alleviare l’esistenza ai suoi abitanti palestinesi, e tutto questo mentre finge di cercare la pace, uno stratagemma che convince i soliti idioti e quelli in cattiva fede. Nell’ottobre 2017 anche il presidente israeliano Reuven Rivlin (un membro del Likud, il partito di Netanyahu) ha perso la pazienza e, in un discorso alla Knesset (il parlamento), ha criticato il comportamento antidemocratico di Netanyahu. 60 Negli Stati Uniti molti ebrei sono lacerati; la maggioranza sostiene il sogno sionista mentre votano per i democratici, ma sono turbati dalla crescente influenza dei sionisti di destra e dal loro assecondare il nazionalismo americano. Israele sta rapidamente perdendo la presa sui giovani ebrei americani, che si rendono conto che lo «stato ebraico» è l’antitesi dei loro valori liberali. 61 Fanno bene a preoccuparsi: nel 2017 la Zionist Organization of America ha invitato Steve Bannon, l’attivista islamofobo «alt-right» (vale a dire di estrema destra) alla sua serata di gala annuale, assieme a un certo numero di falchi sionisti, compresi l’importante avvocato Alan Dershowitz e Joe Lieberman, candidato democratico alla vicepresidenza USA nel 2000. Netanyahu si vanta delle sue amicizie con personalità, tutte di destra, come Silvio Berlusconi, Viktor Orbán e Donald Trump. I candidati della nazionalista AfD si professano a stragrande maggioranza filo-Israele. 62 Obama non è amico di Netanyahu: al meeting del G20 nel 2011, alcuni microfoni lasciati accesi per errore ne diffusero la voce mentre diceva a

Sarkozy, che gli aveva appena detto che Netanyahu era un «bugiardo»: «Non ne puoi più di lui? Io ci devo avere a che fare tutti i giorni». 63 Questo non impedì a Obama di firmare, nel 2016, un accordo con Israele per un pacchetto di aiuti alla difesa militare per il decennio successivo, il più grande aiuto di questo genere della storia americana. 64 Con l’elezione di Trump e con il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele (un nuovo, ampiamente criticato scivolone della politica estera americana) per Netanyahu è andata ancora meglio. Solo sette stati, a parte Israele e gli USA, hanno appoggiato immediatamente l’iniziativa statunitense in un voto alle Nazioni Unite. E che stati! Il Guatemala (un paese governato da Jimmy Morales, un comico televisivo cristiano evangelico di destra, che si fregia di una laurea ad honorem della Hebrew University di Gerusalemme), l’Honduras (un regime autoritario con il più alto tasso al mondo di omicidi), il Togo (una dittatura particolarmente sanguinaria), Nauru (di fatto un protettorato dell’Australia noto, incidentalmente, per essere in vetta alla classifica mondiale dell’obesità), la Micronesia, Palau, e le Isole Marshall: tutti membri della COFA (Compact of Free Association), dominata dagli Stati Uniti. Israele aveva ricambiato in anticipo il gesto di Trump votando – unico altro paese oltre agli USA – contro una risoluzione dell’ONU del novembre 2017, che condannava l’embargo economico americano verso Cuba (191 stati contro 2). Trump minacciò di tagliare gli aiuti agli stati che sostenevano la risoluzione (che avrebbe compreso alcuni dei principali beneficiari degli aiuti americani in Medio Oriente). Questo non ha spaventato nessuno e ha portato John O. Brennan, ex direttore della CIA, a dichiarare con un tweet che la minaccia della Casa Bianca «è quanto mai oltraggiosa. Dimostra che Trump si aspetta lealtà cieca e sottomissione da parte di tutti: caratteristiche di solito tipiche di autocrati narcisisti e vendicativi». 65 Trump sarà pure amico di Israele, ma lo è anche degli ebrei? Ha lodato il pastore Robert Jeffress della First Baptist Dallas Church, il quale disse una volta che gli ebrei non possono essere salvati. 66 Tuttavia gli ebrei sono in buona compagnia, giacché il lunatico pastore aveva detto lo stesso dei mormoni, dei musulmani e degli indù. Nulla di tutto questo gli ha impedito di essere invitato a contribuire alla cerimonia di apertura della nuova ambasciata degli Stati Uniti di Gerusalemme. 67 Netanyahu è in realtà il volto «soft» del governo di Israele. Quello «duro» appartiene ad Avigdor Lieberman, immigrato moldavo e leader del partito

nazionalista Yisrael Beiteinu, che gode del sostegno del milione circa di ebrei che lasciarono l’ex Unione Sovietica. Zeev Sternhell, il noto storico israeliano, l’ha definito come «l’uomo forse più pericoloso di Israele». 68 Lieberman considera l’Iran «la minaccia più grande per il popolo ebraico dalla seconda guerra mondiale». 69 Voleva la pena di morte per i deputati arabo-israeliani che s’incontrano con Hamas. 70 Ha dichiarato: «Dipendesse da me, comunicherei alle autorità palestinesi che domani alle dieci del mattino bombarderemo tutti i loro luoghi di lavoro a Ramallah», aggiungendo: «Distruggere i fondamenti di tutta l’infrastruttura delle autorità militari, tutti gli edifici della polizia, gli arsenali, tutte le sedi delle forze di sicurezza […] che nulla rimanga in piedi. Distruggere tutto» (2002). Dopo che a 250 prigionieri palestinesi era stata concessa un’amnistia, nel 2003 dichiarò: «Sarebbe meglio annegare questi prigionieri nel Mar Morto […] perché è il punto più basso del mondo». 71 Quasi altrettanto dura quanto Lieberman è la sua collega del Likud, Tzipi Hotovely, viceministra degli Esteri (Netanyahu tiene per sé il ministero degli Esteri), che praticamente ovunque passerebbe per fanatica religiosa. Mentre Netanyahu fingeva di negoziare un accordo annunciò, riferendosi ai territori occupati: «Dobbiamo tornare alle verità fondamentali dei nostri diritti su questo paese. Questa è la nostra terra. È tutta nostra». 72 Una grossa maggioranza di ebrei israeliani, il 61%, crede veramente che Israele sia stata data da Dio agli ebrei. 73 Hotovely e altri religiosi politici israeliani paiono ignorare che, se dobbiamo credere al racconto biblico, Dio «diede» agli ebrei tutta la terra dall’Eufrate fino al fiume d’Egitto. Secondo il libro della Genesi (15,18-21), Dio disse ad Abramo: «Alla tua discendenza io do questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate; la terra dove abitano i Keniti, i Kenizziti, i Kadmoniti, gli Ittiti, i Perizziti, i Refaìm, gli Amorrei, i Cananei, i Gergesei e i Gebusei». Giacché l’Eufrate scorre dalla Turchia al Golfo Persico (essendo confluito nel Tigri) e postulando che il «fiume d’Egitto» sia il Nilo, e non l’inaridito torrente Wadi el-Arish a sud di Gaza, si potrebbe affermare sulla base della Genesi che Dio abbia promesso agli ebrei non soltanto l’Israele di oggi e i territori occupati, ma anche il Libano, la Siria, la Giordania, il Kuwait, la maggior parte della Turchia e forse anche l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi e pezzi di Egitto. Ci si può inoltrare parecchio nella follia con la Bibbia in una mano e nell’altra la spada. Di questa divina promessa potrebbe aver tenuto conto Eli Ben-Dahan, del

partito La casa ebraica e rabbino ortodosso: anche lui dichiarò che i palestinesi sono «animali, non umani». All’epoca era viceministro dei Servizi religiosi (in seguito sarebbe diventato viceministro della Difesa). 74 C’è di peggio: Dov Lior, quando era rabbi di Kiryat Arba (un insediamento nella Cisgiordania occupata), «decretò» che Baruch Goldstein (che aveva massacrato ventinove arabi alla Tomba dei Patriarchi nel 1994) era «più santo di tutti i martiri dell’Olocausto». 75 Ha inoltre giustificato l’omicidio di non ebrei, ha detto che gli ebrei non dovrebbero affittare agli arabi e che gli attacchi terroristici al teatro Bataclan di Parigi nel novembre 2015 (in cui persero la vita 170 persone) erano la punizione per quanto fatto dagli europei agli ebrei nell’Olocausto. 76 Ora vive tranquillo a Gerusalemme Est. In qualunque altro paese sarebbe considerato uno psicopatico. La «sinistra israeliana», vale a dire il Partito laburista israeliano, è in condizioni di poco migliori, ma non troppo. Il suo nuovo leader, Avi Gabbay, che fino al 2013 era il capo di una compagnia telefonica e poi ministro in uno dei governi Netanyahu e che è entrato nel Partito laburista israeliano solo nel 2016, ha spinto il partito ancora più a destra di quanto non lo sia dichiarando che gli insediamenti erano «il volto bello e devoto del sionismo» e che Israele deve mantenere il controllo della valle del Giordano in qualunque accordo di pace con i palestinesi. 77 Nel novembre 2017 ha sostenuto il piano del primo ministro Netanyahu di espellere i lavoratori immigrati aggiungendo, proprio come la già citata Tzipi Hotovely, che «l’intera Terra di Israele è nostra, perché fu promessa al nostro patriarca Abramo da Dio». 78 E questa è la cosiddetta «sinistra» israeliana ufficiale. L’Europa del 2018 è inondata da partiti «cattivi», più cattivi dei conservatori tradizionali: in Svizzera l’Unione democratica di centro (quasi il 30% nel 2015); in Belgio la Nuova alleanza fiamminga (31% nelle Fiandre nel 2014); in Bulgaria il Fronte nazionale per la salvezza della Bulgaria (solo il 7%); in Lettonia l’Alleanza nazionale (nome ufficiale Alleanza nazionale tutti per la Lettonia! Per la patria e la libertà!; 16% nel 2014), che fa parte della coalizione di governo; la Lega in Italia; il Front National in Francia; i Democratici svedesi; il Partito dei finlandesi (già noto come Veri finlandesi); il Partito della libertà in Austria; Jobbik in Ungheria; il Partito della libertà in Olanda; Alba Dorata in Grecia e altri ancora. L’ascesa della destra è stata accompagnata da un deterioramento del linguaggio politico. Donald Trump, in una serie di tweet e sparate che

provocano la disperazione di alcuni e il divertimento di altri, usa quasi tutti i giorni un tipo di linguaggio e di pensieri tipici delle rabbiose chiacchiere da bar, di una chiassosa aggressività maschile e/o di adolescenti violenti affetti da insicurezza narcisistica. Non per nulla il senatore Bob Corker commentava che «la Casa Bianca è diventata un asilo nido per adulti», mentre James Comey, ex capo dell’FBI licenziato da Trump, nell’epilogo del suo libro A Higher Loyalty: Truth, Lies, and Leadership («Una lealtà più alta. Verità, bugie e leadership») scrive: «Questo presidente è non-etico e svincolato dalla verità e dai valori istituzionali», e lo paragona a un boss mafioso. Evoca poi alcuni «flashback dell’inizio della mia carriera come pubblico ministero contro la mafia. La cerchia omertosa di consenso. Il boss che detiene il controllo totale. I patti di lealtà. La visione del mondo noi-contro-tutti. Il mentire su ogni cosa, grande o piccola, al servizio di un codice morale che mette l’organizzazione al di sopra della moralità e della verità». Michael Wolff, autore di Fuoco e furia. Dentro la Casa Bianca di Trump, spiegava, nell’«Hollywood Reporter» (gennaio 2018): «“Roba del genere non si inventa.” Il mio anno nella folle Casa Bianca di Trump». 79 L’avvicendamento in questo «folle asilo nido» è notevole. Michael Flynn, consigliere alla Sicurezza nazionale, è rimasto in carica un mese; Reince Priebus, capo di stato maggiore, sei mesi; Katie Walsh, vicecapo di stato maggiore alla Casa Bianca, due mesi; George Papadopoulos, consulente alla Politica estera, dieci mesi; Sean Spicer, ufficio stampa, sei mesi; Steve Bannon, «capo stratega» di Trump, sette mesi; il ministro della Sanità, Tom Price, otto mesi (dopo rivelazioni riguardanti le enormi somme di denaro pubblico spese per i suoi viaggi con aerei privati); Rex Tillerson, segretario di stato, poco più di un anno. 80 Tillerson è stato destituito da Trump nel marzo 2018 a favore di Mike Pompeo, già capo della CIA, ma prima (l’incarico alla CIA lo doveva a Trump) Pompeo non era che un membro del congresso del Kansas e un fedelissimo del Tea Party. Gli piace Israele, non gli piacciono i musulmani e i gay, è contro l’aborto e nega il cambiamento climatico. A succedergli a capo della CIA è stata la sua vice, Gina Haspel, prima donna al comando dell’agenzia, che, secondo il «New York Times», avrebbe responsabilità nella pratica di torture. 81 Nel marzo 2018 Gary Cohn, capo consulente economico (e già presidente di Goldman Sachs) annunciò le proprie dimissioni. Ne è degno successore Larry Kudlow, un esponente di teorie pseudoeconomiche di trickle down,

opinionista radiotelevisivo ed ex cocainomane (per cui era stato rimosso da Bear Stearns nel 1995), il quale, a pochi mesi dalla crisi globale del 2007, predisse che l’economia si sarebbe ripresa. 82 Non ultimo, va ricordato anche il ridicolo Anthony Scaramucci, direttore della comunicazione, durato due settimane. Hope Hicks, che gli è subentrata, è rimasta più a lungo: quasi sette mesi. Nell’ottobre 2018 Nikki Haley, ambasciatrice degli Stati Uniti presso l’ONU, ha annunciato le proprie dimissioni tra indiscrezioni secondo le quali avrebbe accettato doni quando era governatrice della Carolina del Sud. Un mese dopo Trump ha praticamente cacciato Jeff Sessions, il capo del dipartimento della Giustizia, che si era dimostrato riluttante al coinvolgimento nell’indagine Mueller sui collegamenti fra la Russia e lo stesso Trump. Più in basso nei ranghi la faccenda è più seria: Robert Roger Porter, capo di gabinetto della Casa Bianca, ha dovuto dare le dimissioni nel febbraio 2018, dopo che non meno di due mogli lo avevano accusato di violenza domestica. Aveva frequentato Hope Hicks, ma senza picchiarla. La reazione di Trump è stata: «Ha fatto un ottimo lavoro» (come capo di gabinetto, non come marito). Nell’ottobre 2017 il responsabile della campagna elettorale di Trump, Paul Manafort, è stato accusato di riciclaggio di milioni di dollari «guadagnati» grazie al lavoro di lobby per conto dell’ex presidente ucraino filorusso Viktor Janukovyč. 83 Nel marzo 2018 Herbert Raymond McMaster, consigliere per la Sicurezza nazionale, è stato rimosso e sostituito dal super falco e guerrafondaio John Bolton, un relitto dell’era Bush che, come Donald Trump e Bush Jr, era riuscito a evitare l’invio in Vietnam durante il conflitto. Infine, ma indubbiamente la saga continuerà, nel luglio 2018 Scott Pruitt, l’amministratore dell’Agenzia per la protezione ambientale che nega i cambiamenti climatici, colpito da indagini e scandali, è stato costretto a dare le dimissioni. A essere sinceri, sotto questo punto di vista la Casa Bianca di Bill Clinton non era messa meglio di quella di Trump. Mark Gearan, vicecapo di gabinetto e poi responsabile della comunicazione di Clinton, ha detto che lo staff alla Casa Bianca spesso «si comportava come una squadra di calcio di bambini di dieci anni». 84 Un passo avanti, comunque, rispetto all’asilo nido per adulti di Trump. Come ha scritto Machiavelli: «E la prima coniettura che si fa del cervello d’uno signore, è vedere li uomini che lui ha d’intorno». 85

Fatto abbastanza significativo, alla Casa Bianca non ci sono economisti. Regna l’ignoranza: nel gennaio 2018, durante un’audizione della commissione giuridica del senato, è stato chiesto a Kirstjen Nielsen, segretario di stato per la Sicurezza nazionale, se la Norvegia (dalla quale Trump accoglierebbe migranti, anziché da quelli che lui ha definito «paesi di merda» come Haiti) è prevalentemente bianca. La Nielsen ha risposto in modo disarmante: «Non saprei, ma immagino sia così». 86 Con un nome come Kirstjen Nielsen, cosa avrebbe mai potuto saperne della Norvegia, come di qualsiasi paese scandinavo? Forse stava cercando di proteggere il presidente. La risposta esatta, ovviamente, avrebbe dovuto essere: per quale ragione i norvegesi dovrebbero recarsi in un paese dove non c’è congedo parentale, con costose università, niente ferie pagate e privo di controllo sulle armi da fuoco? Trump ha vinto le elezioni presidenziali, ma non il voto popolare. Sono state avanzate ogni sorta di «teorie» per spiegare la sua «vittoria», suggerendo che era stato capace di mobilitare quelli «rimasti indietro», in altre parole i perdenti e, in particolare, le vittime della cancellazione dell’industria manifatturiera negli USA, uno dei temi principali della sua campagna elettorale. Per questo si è immediatamente ritirato dal North American Free Trade Agreement, permettendo a Xi Jinping, il «leader comunista» cinese, di diventare l’improbabile campione del libero mercato globale. La verità è che Hillary Clinton ha ottenuto più voti di Trump e che Trump ha vinto perché 77.744 votanti in stati chiave – Pennsylvania, Michigan e Wisconsin – sono stati decisivi nel dargli una maggioranza nel collegio elettorale, donde la sua vittoria alle presidenziali. Il collegio elettorale è un’istituzione concepita originariamente dai padri fondatori James Madison e Alexander Hamilton, i quali, non fidandosi degli elettori ordinari, hanno preferito che la scelta finale fosse compiuta da quelli con intelletto più elevato, vale a dire un’élite, i grandi elettori. Si staranno rivoltando nella tomba. I grandi elettori di Trump sono stati 304 contro i 227 di Clinton. Ma Hillary Clinton ha ottenuto 65.853.516 voti (48,2%), 2.868.691 più di Trump (che ha ottenuto solo 62.984.825 voti, cioè il 46,1%). Inoltre, solo il 55,5% ha votato, dunque Trump è stato eletto veramente da un americano su quattro, gli altri hanno votato per Clinton o non hanno votato. Siamo lontani dalla vittoria schiacciante come quella di Ronald Reagan contro Walter Mondale

nel 1984, quando Reagan ottenne il 58,8% del voto popolare. Poi c’è la «teoria» secondo cui i russi avrebbero favorito la vittoria di Trump. Questo è abbastanza assurdo: se i russi fossero tanto sofisticati da influenzare gli elettori chiave in tre stati, governerebbero il mondo. L’enorme controversia sull’«interferenza» russa si riduce a poco più di un invio di email e al fatto che alcuni consiglieri di Trump, come Michael Flynn, e il figlio di Trump, Donald Jr., e magari suo cognato Jared Kushner, si sono incontrati segretamente con funzionari russi che avrebbero potuto dare loro notizie compromettenti su Clinton. Nel marzo 2018 tredici cittadini russi sono stati condannati per avere postato sui social media, presumibilmente con il sostegno del governo russo, idee per danneggiare Clinton e sostenere Trump. Tutta la questione ha ricevuto una copertura straordinaria nei media occidentali, come se avesse fatto la minima differenza per il risultato delle presidenziali. In realtà la questione è del tutto politicizzata: nell’aprile 2018 l’House Intelligence Committee degli Stati Uniti ha pubblicato il suo lungo rapporto (più di 300 pagine) su presunte interferenze russe: il verdetto è che non vi sono prove di collusione tra la campagna di Trump e la Russia, e la valutazione dell’intelligence secondo cui il presidente russo Putin avrebbe cercato di aiutare Donald Trump è stata messa in discussione. Il problema è che a votare a favore di questo rapporto erano tutti repubblicani (la maggioranza) e a votare contro erano democratici. 87 Anche il «New York Times», in un commento genericamente anti-Putin, ha ammesso che non vi sono prove conclusive d’interferenze russe. 88 Dal marzo 2018 non solo i russi avrebbero assicurato la vittoria di Trump. La bacchetta magica sarebbe stata manovrata dalle mani di un’oscura organizzazione chiamata Cambridge Analytica (poi fallita). Il suo amministratore delegato, Alexander Nix, subito sospeso, è riuscito a convincere alcuni giornalisti di testate liberal come il «Guardian» e il «New York Times» – che volevano essere convinti – che Cambridge Analytica aveva indotto 77.000 elettori in tre stati chiave a trasferire i propri voti da Clinton a Trump. L’unica cosa difficile da credere è che un numero così elevato di persone abbia potuto dare credito alle spacconate infantili di un simile personaggio, che il «Financial Times» ha definito «un pubblicitario che decanta la propria azienda di data-science». 89 Ma del resto è altrettanto difficile immaginare che Nix fosse così miope e ingenuo da lasciarsi

incastrare in un’operazione sotto copertura orchestrata da alcuni reporter di Channel 4 News (video mandato in onda il 19 marzo 2018) in cui si vantava di poter offrire «belle ragazze ucraine» al fine di screditare uomini politici. È naturalmente possibile che i russi (o alcuni russi) abbiano cercato di danneggiare Hillary Clinton (un falco in politica estera), ma lei ha comunque ottenuto più voti di Trump. Inoltre, gli Stati Uniti hanno «interferito» per decenni in tutto il mondo come se fosse routine. C’è un intero database che punta a tracciare la lunga storia delle interferenze americane in elezioni straniere (ben diverso dallo sponsorizzare occupazioni militari se l’ingerenza non basta). 90 L’America è intervenuta nelle elezioni italiane fin dal 1948 (questo è ampiamente documentato) così come nelle elezioni in Germania, Giappone, Israele, Congo eccetera. Negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, gli Stati Uniti hanno sostenuto finanziariamente e militarmente i ribelli Contras contro il leader sandinista Daniel Ortega, eletto nel 1984. Nel 1990 fornirono aiuti e denaro a Václav Havel in quella che allora era la Cecoslovacchia; in Israele a Shimon Peres, poi a Ehud Barak contro Netanyahu; a Vojislav Koštunica contro Slobodan Milošević in Serbia; e a chiunque capitasse di essere il candidato antirusso in Ucraina. Ha interferito sistematicamente – compresi colpi di stato contro governi democraticamente eletti – in gran parte dell’America Latina. Durante il referendum su Brexit in Gran Bretagna, Barack Obama (naturalmente esortato da David Cameron) è intervenuto apertamente ammonendo la Gran Bretagna che se il paese avesse lasciato l’UE sarebbe stato l’«ultimo della fila» in caso di accordi commerciali. 91 Più di recente, in barba ai più elementari principi della diplomazia, Richard Grenell, il nuovo ambasciatore in Germania, nominato da Trump e in carica da quattro settimane, dichiarava in un’intervista rilasciata al sito dell’ultradestra «Breitbart News» di voler rafforzare altri leader conservatori (cioè l’estrema destra) in Europa. 92 Donald Trump, alla vigilia della sua visita in Gran Bretagna nel luglio 2018, ha concesso un’intervista al «Sun» che violava ogni criterio minimo della diplomazia, rimproverando Theresa May per non aver seguito il suo consiglio sulle proposte Brexit ed esprimendo la propria ammirazione per Boris Johnson (che era appena uscito dal governo sbattendo la porta), il quale, disse, sarebbe stato «un ottimo primo ministro». 93 Il leader straniero che «interferisce» di più nella politica statunitense (e assai più apertamente) è l’israeliano Netanyahu, tra i cui sponsor principali

figura Sheldon Adelson, il miliardario magnate dei casinò, che aveva sostenuto anche la campagna di Trump con 25 milioni di dollari e che da qualche tempo accarezzava il proposito di far cambiare sede all’ambasciata portandola da Tel Aviv a Gerusalemme. 94 Su questo, Trump ha ottemperato – 25 milioni spesi bene. Quanto ai russi e al loro hacking nelle email di Hillary Clinton… Nel 2010 Obama fu informato del fatto che l’Agenzia per la sicurezza nazionale aveva monitorato il telefono cellulare della cancelliera tedesca Angela Merkel (anche prima che diventasse cancelliera). Le permise di continuare, così come permise l’attività di una rete globale di ottanta centri di intercettazione, compresi diciannove luoghi di ascolto europei (senza risparmiare gli alleati: Parigi, Roma, Berlino e Madrid). 95 Molte delle «spiegazioni» della vittoria di Trump sono basate su una lettura dei discorsi dei candidati principali, qualche intervista con elettori per selezionare quelli che si adattano alla «teoria» e poi sull’ipotesi non garantita che gli elettori si siano trovati d’accordo con questo o quell’aspetto dei programmi dei candidati. Benché lungi dall’essere perfetti, i sondaggi condotti il più possibile a ridosso delle elezioni (come gli exit poll) sono una migliore indicazione di chi ha votato per chi. Sappiamo così che una maggioranza di bianchi (compresa una maggioranza di donne bianche) ha votato per Trump e che la stragrande maggioranza degli elettori afroamericani (88%) e due terzi degli ispanici hanno sostenuto Clinton. L’opinione secondo cui Trump aveva il sostegno di individui arrabbiati di estrazione operaia non è suffragata dagli exit poll, secondo cui Clinton aveva la maggioranza dell’elettorato della fascia di reddito più bassa (redditi sotto ai 50.000 dollari annui) contro il 41% che aveva votato Trump. Il suo consenso tra i redditi sotto ai 30.000 dollari, benché in calo rispetto a quello per Obama nel 2012, era assai maggiore (53% contro il 41%) di quello per Trump. Trump ha conquistato il voto rurale con il 62% contro il 34%, e quello suburbano con il 50% contro il 45%, mentre Clinton si è aggiudicata il voto metropolitano con il 59% contro il 35%. E Trump ha avuto una netta maggioranza nella fascia over quarantacinque anni di età, mentre la Clinton è stata più popolare presso gli elettori più giovani. Non è stata la «working class» a votare per Trump, è stata la «working class bianca», persone che beneficiano dei programmi di welfare come Food Stamp e Medicaid. Dunque come mai hanno votato per gente come Trump, che favorisce i ricchi e i

benestanti? Forse perché sono ignoranti e pieni di pregiudizi? La vasta maggioranza dei repubblicani tradizionali ha votato per Trump, mentre la vasta maggioranza dei democratici tradizionali ha votato per Hillary Clinton. Il sostegno a Trump di cristiani evangelici praticanti era all’80%, benché, a differenza di altri presidenti, non menzioni Dio quasi mai (e ha avuto, finora, tre mogli e infinite relazioni). 96 Con questo non si vuole negare che dietro il voto a Trump (così come quello per Brexit) vi fosse un elemento «di sinistra»: opposizione al neoliberalismo, alla libertà di circolazione di capitali, un rifiuto dei baroni di Wall Street (che sostenevano Hillary Clinton), la corruzione di Washington eccetera. Ma quelli che hanno capitalizzato su questi aspetti sono stati candidati di destra, da Donald Trump a Nigel Farage, nel Regno Unito. Come ha detto Anthony Barnett: «La sinistra ha perso davvero quando nemmeno capisce che ha perso». 97 Sia il messaggio di Trump sia quello di Farage erano «no-global», un tema che in precedenza aveva una chiara impronta «di sinistra». Allo stesso modo, l’idea che il paese fosse governato da pochi miliardari a Wall Street o da una potente classe dirigente di Washington è un tropo populista di sinistra e di destra ben consolidato, sanzionato da molti film hollywoodiani dove il «piccolo uomo» sfida il sistema, da Mr. Smith va a Washington di Frank Capra (premio Oscar per il miglior soggetto) a Wall Street di Oliver Stone (1987) con il suo famoso discorso «l’avidità è un bene», a Erin Brockovich – Forte come la verità di Steven Soderbergh (2000), dove Julia Roberts lotta (vincendo) contro una grossa azienda energetica. Il celebre «It’s the economy, stupid» di Clinton suonava bene, ma era stupido nel suo presupporre che sia sempre l’economia a determinare le elezioni. Questo populismo non fa per niente parte dell’immagine ideologica delle élite repubblicane schierate con il grande business. Di certo non sono «noglobal». La distanza fra queste élite e la base dei repubblicani esiste da molto tempo, ma finora non è stata facilmente individuabile. Ora lo è. Importanti repubblicani, compresi George W. Bush, John McCain (candidato alla presidenza nel 2008) e il senatore Bob Corker, hanno espresso il proprio sgomento per Trump mentre, finora, la base del partito resta schierata con il «suo» Trump. 98 Vedremo se «la straordinaria ascesa alla presidenza di Donald Trump nel 2016 è stata una coincidenza di celebrità e circostanze» o il presagio di un’enorme trasformazione nel sistema americano dei partiti. 99

Gli elettori di Trump hanno votato «razionalmente»? Bryan Caplan, nel suo The Myth of the Rational Voter: Why Democracies Choose Bad Policies («Il mito dell’elettore razionale. Perché le democrazie scelgono carttive politiche», 2007), pensa che gli elettori siano economicamente irrazionali. Naturalmente lo sono, giacché è difficile calcolare quello che è nel proprio interesse (io, per esempio, non ci riesco) e quali politiche giovano a un particolare individuo. In realtà, è pressoché impossibile stabilire una qualsiasi ragione «razionale» per votare chicchessia, o semplicemente per votare. È già abbastanza difficile essere «razionali» quando si comprano cibo o abiti. Nel suo Psicologia delle folle (1895), il pensatore reazionario Gustave Le Bon sostenne, ben prima dei politologi contemporanei, che «la folla» sarebbe stata sempre influenzata dal pensiero irrazionale e sentimentale. Mentre lamentava che il progresso nell’istruzione fosse utopistico – giacché la gratuità scolastica creava un esercito di giovani scontenti, non disposti a tornare alla pacifica vita rurale – era anche compiaciuto che le folle, quando sottomesse, sarebbero state sempre pronte a seguire un leader superiore, qualcuno capace di sedurle, di fingere partecipazione ai loro travagli, e di fare promesse esagerate. 100 Sembra Trump, ma quanti lo considererebbero un leader «superiore»? Gli elettori spesso non hanno bisogno di essere ingannati: nel 2003 sette americani su dieci continuavano a credere che l’Iraq di Saddam Hussein avesse avuto un ruolo negli attacchi dell’11 settembre, anche se l’amministrazione Bush e le indagini del congresso hanno sempre affermato che non vi fossero prove. 101 Gli americani medi hanno scelto semplicemente di dare una ragione razionale per quello che era naturalmente del tutto irrazionale (invadere l’Iraq). Questo è il contesto in cui andrebbe vista la vittoria di Trump. Sì, ha ottenuto meno voti di Clinton, eppure è riuscito ad avere dalla propria parte quasi metà dell’elettorato e ha chiaramente vinto le primarie repubblicane contro altri sedici candidati. Ma che candidati! Alcuni di loro sono perfino riusciti a farlo apparire un politico serio, gente come i senatori Ted Cruz e Rand Paul (entrambi convinti sostenitori del Tea Party, una lobby conservatrice in costante declino), come Jeb Bush (fratello di George Bush Jr. e figlio di George Bush senior), governatore della Florida noto soprattutto per una campagna elettorale costosa e inefficace. C’era poi Ben Carson, neurochirurgo creazionista che aveva definito l’Obamacare la cosa peggiore

«dai tempi della schiavitù» (Carson è nero); Rick Santorum, della Pennsylvania (che è antiaborto e antigay); Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas e pastore battista del Sud; e il senatore Marco Rubio, della Florida, che aveva accusato Barack Obama di cercare di rendere l’America «più simile al resto del mondo» mentre lui (Rubio) avrebbe fatto dell’«America il paese più grande del mondo». I candidati repubblicani alla presidenza sembravano avere un’unica cosa in comune: una triste mediocrità. La stampa americana liberal (il «New York Times», il «Washington Post», il «Los Angeles Times» e così via) e network come la CNN non credevano nemmeno che Trump potesse vincere le primarie, figuriamoci la carica più importante. Thomas Frank, autore dell’arrabbiato e intelligente Listen, Liberal, avvertì che «per sconfiggere Trump, i media devono affrontare i propri difetti», elencandone alcuni: i numerosi, mostruosi fallimenti giornalistici degli ultimi decenni: la bolla della dotcom, calorosamente festeggiata dalla stampa economica; la guerra in Iraq, favorita dai massimi saggi del giornalismo; il fallimento completo nel notare l’epidemia d’illiceità professionali che hanno reso possibile la crisi finanziaria del 2008. Tutto ciò che fanno lo fanno in gregge, anche quando si tratta di gettarsi giù da una rupe. 102

Ma l’arcivolgare Trump li ha battuti tutti impiegando un linguaggio semplice, ripetitivo e spesso grossolano, un simbolo della nostra epoca morbosa. È difficile immaginare Franklin Delano Roosevelt o Charles de Gaulle, Konrad Adenauer o Harold Wilson, o anche Willy Brandt scendere a livelli anche solo vagamente paragonabili alla volgarità contemporanea, sebbene in privato de Gaulle ricorresse al turpiloquio. 103 Impossibile immaginare qualcuno di loro vantarsi delle dimensioni del proprio pene, come ha fatto Trump in un dibattito televisivo il 3 marzo 2016 con un candidato rivale (e, una volta presidente, del fatto che il suo pulsante nucleare fosse «più grande» di quello di Kim Jong-un, con cui è andato poi d’accordo meglio che con i suoi alleati europei, dichiarando che Kim è «un tipo sveglio, gran negoziatore e penso che ci capiamo»); o chiamare le donne che non gli piacciono grasse, maiale, cagne, o disgustosi animali; oppure (ma non pubblicamente e nel lontano 2005), illustrando quella che si potrebbe definire la sua «tecnica di seduzione» con le donne, dire: «Quando sei una star puoi permetterti di tutto. Prendile per la fica»; o la sua promessa nella campagna elettorale del 2015 di «rompere il culo all’ISIS»; o i commenti seguiti alla violenza a Charlottesville, Virginia, il 12 agosto 2017 (dove un’attivista per i diritti umani è stata uccisa da un’auto guidata da un suprematista bianco) che

mettevano i dimostranti antirazzisti e non violenti sullo stesso piano di quelli razzisti e violenti. 104 O come quando, nel novembre 2017, diffondeva i tweet di un piccolo gruppo neonazista britannico (Britain First), tra i cui sostenitori figurava l’assassino della deputata britannica Jo Cox, ampliandone così a dismisura la visibilità (è stato debitamente ringraziato da uno dei leader di Britain First con un «Dio benedica Donald Trump»). In precedenza, quell’anno, in pubblico, aveva definito «figli di puttana» i giocatori di football americano che si inginocchiavano anziché rimanere in piedi durante l’inno nazionale. Nel gennaio 2018 alla Casa Bianca, discutendo con membri del congresso d’immigrazione da Haiti, El Salvador e altri paesi africani, chiese retoricamente: «Come mai abbiamo tutta questa gente che viene qua da paesi di merda?». 105 Trump ha negato di averlo detto, ma nessuno gli ha creduto. Né può negare di aver detto ripetutamente, durante la campagna presidenziale, che i migranti dal Messico sono degli stupratori e i musulmani dei terroristi. Secondo il «Washington Post», nei suoi primi 347 giorni in carica Trump ha fatto 1950 affermazioni fuorvianti o del tutto false. 106 Ha usato Twitter per insultare 551 tra persone, luoghi o cose: ha definito Joe Scarborough (conduttore di Morning Joe sulla NBC) «matto», «psicopatico»; Don Lemon (CNN) «un buffone», «scemo come un asino»; Tom Steyer (filantropo e ambientalista) «del tutto svitato»; e Kim Jong-un «basso e grasso». Hillary Clinton è stata la più insultata, di solito definita «corrotta», ma anche «burattino di Wall Street», «la persona più corrotta che abbia mai corso per la presidenza», «dovrebbe essere in galera», «molto stupida», «asseconda i peggiori istinti della nostra società», «una candidata piena di difetti». Quanto a Obama, gli è andata un pochino meglio: «Matto», «un disastro», «debole», «terribile», «orribile», «incompetente», «cerca di distruggere Israele», «il peggior presidente nella storia degli Stati Uniti». 107 Trump si esprime in quello che potremmo chiamare «demotico», vale a dire il modo in cui si esprimono le persone comuni. Come ha scritto John McWhorter (uno specialista in linguistica della Columbia University), «la retorica “casual” di Mr. Trump» fa parte del suo appeal, «parla nel modo in cui un gruppo qualunque di persone parlerebbe al bar e molti di noi si sorprenderebbero nel trovare elementi di quello stile nel nostro eloquio disimpegnato se fosse trascritto». 108 Trump è di certo un caso estremo di pubblica volgarità e mancanza di decoro, ma non l’unico.

Nel febbraio 1988 il presidente francese Jacques Chirac, colto da un microfono durante difficili negoziazioni con Margaret Thatcher, fu udito mormorare: «Cos’altro vuole da me questa casalinga? I miei coglioni su un piatto?». 109 Nel 1991 Édith Cresson, politica socialista e prima donna a diventare primo ministro in Francia, dichiarò, mentre era a capo del governo, che i giapponesi erano come delle laboriose formiche «gialle» e che l’omosessualità era un problema anglosassone. 110 Boris Johnson, che è diventato – tra il divertimento di alcuni e lo sbigottimento di molti – il ministro degli Esteri del Regno Unito nel giugno 2016 (dopo essere stato sindaco di Londra tra il 2008 e il 2016), aveva sviluppato in precedenza la propria perizia diplomatica con l’assimilare Hillary Clinton a «un’infermiera sadica in un ospedale psichiatrico» con «capelli ossigenati e labbra a cuoricino» («Daily Telegraph», 1o novembre 2007), commentando che la regina ama il Commonwealth, in parte perché le fornisce regolarmente folle festanti di «negretti con bandierine […] e sorrisi a forma di fetta di cocomero» («Telegraph», 10 gennaio 2002), e con il comporre una poesia in cui il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan fa sesso con una capra, vincendo così il certamen poetico dello «Spectator» intitolato Poesia offensiva sul presidente Erdoğan: C’era un giovane ragazzo di Ankara Che era un gran coglione Fino a quando se la sposò Con l’aiuto di una capra e non si è fermato nemmeno per ringraziare.

Quand’era ancora sindaco di Londra, nel 2015, e rispondendo all’affermazione di Trump secondo cui certe zone della città erano diventate così radicalizzate che la polizia temeva per la propria vita, Johnson disse: «L’unico motivo per il quale non vorrei visitare New York è il rischio reale di incontrare Donald Trump». 111 Ma in politica dei principi ci si sbarazza col cambiare dei tempi e, nel 2018, il ministro degli Esteri Boris Johnson accusò il sindaco di Londra Sadiq Khan di mettere «a rischio» la speciale relazione tra il Regno Unito e gli Stati Uniti dopo che Trump aveva cancellato la sua visita di stato a Londra (la sua visita successiva non fu ufficiale). Nicolas Sarkozy, all’epoca presidente francese, visitando il Salone dell’agricoltura nel febbraio 2008 disse a qualcuno che si era rifiutato di stringergli la mano: «Casse-toi, pauv’ con!» («Vaffanculo povero stronzo!»). 112 Silvio Berlusconi ha interi siti web dedicati alle sue gaffe e

alle sue volgarità, tanto più degne di nota giacché i politici italiani, prima degli anni Novanta, erano spesso criticati per l’uso di un linguaggio eccessivamente complesso e raffinato. Al parlamento europeo, all’inizio della presidenza di turno dell’Italia (luglio 2003) l’allora presidente del consiglio Berlusconi disse a Martin Schulz, leader della delegazione della SPD, che sarebbe stato «perfetto» nel ruolo del kapò in un film sui campi di concentramento nazisti. 113 Nell’aprile 2009 Berlusconi consigliò ai sopravvissuti sfollati del terremoto, costretti a dormire nel rigore invernale abruzzese, di considerarlo come un fine settimana in campeggio. Lo stesso anno cercò di convincere banchieri americani a investire in Italia con una battuta che ovviamente considerava divertente: «Un altro motivo per investire in Italia è che abbiamo bellissime segretarie […] splendide ragazze». 114 Berlusconi fu alla fine accusato di evasione fiscale e venne chiesta per lui una pena di 3 anni e 8 mesi di prigione nell’ottobre 2012. Il Tribunale di Milano lo condannò a 4 anni di reclusione, ridotti a uno per via dell'indulto da scontare ai «servizi sociali» come stabilito dalla Corte di appello di Milano nel 2013. Ha subito numerosi altri processi, tra cui quello per aver organizzato l’intercettazione telefonica di un membro dell’opposizione, o quello per aver avuto rapporti a pagamento con una ex prostituta minorenne (da presidente del consiglio). Non sta scontando alcuna detenzione per via dei numerosi appelli e, dati gli incredibili ritardi della giustizia italiana e i tempi previsti per la prescrizione, le possibilità che entri mai in una cella sono poche. In tutto è stato coinvolto in più di trenta processi, ma è stato condannato solo in uno. 115 In Italia il campione di linguaggio volgare era Umberto Bossi, leader della Lega Nord, prima antimeridionale, poi xenofoba e islamofoba (che nel 2017, sotto la leadership del successore di Bossi, l’ancora più di destra Matteo Salvini, ha eliminato il «Nord» dalla bandiera per unire al partito gli xenofobi e islamofobi meridionali). Nei comizi Bossi urlava «Noi della Lega ce l’abbiamo duro»; o «Quando vedo il tricolore mi incazzo. Il tricolore lo uso per pulirmi il culo». 116 Al suo famigerato razzismo aggiungeva una pronunciata omofobia: «Quanti partiti democratici hanno omosessuali dichiarati, cioè donnicciole, nei loro posti chiave?». 117 Nel 2002, in Polonia, il demagogo euroscettico Andrzej Lepper, che divenne in seguito vice primo ministro nel 2006 (con Jarosław Kaczyński primo ministro e presidente suo fratello gemello Lech), disse: «Quando

saranno nell’Unione Europea, i polacchi saranno schiavi. Puliranno le natiche delle donne tedesche o spazzeranno le strade…». 118 Lepper, già accusato di calunnia, nel 2010 fu anche incriminato per molestie sessuali e giudicato colpevole. Ciò non gli impedì di essere insignito di un dottorato honoris causa da un’«università» privata ucraina, la Interregional Academy of Personnel Management di Kiev (dove anche il leader del Ku Klux Klan David Duke ha ottenuto un falso PhD in storia), che promuove attivamente l’antisemitismo e incolpa gli ebrei per la devastante carestia degli anni 19321933. Lepper si è tolto la vita nel 2011. Rodrigo Duterte, presidente delle Filippine, ha dato del «figlio di puttana» a Obama nel 2016. Ha utilizzato lo stesso epiteto per Philip Goldberg, ambasciatore degli Stati Uniti nelle Filippine, e per papa Francesco, la cui visita aveva causato intasamenti nel traffico di Manila nel 2015. 119 Una volta attenuata la sua guerra alla droga per soddisfare «le anime belle» in Occidente (dopo che in migliaia erano stati uccisi dalla polizia e da assalitori ignoti) si scagliò contro le potenze occidentali: «Figli di puttana […] interferite nei nostri affari perché siamo poveri. Stronzi. La fase colonialista è passata. Non ci rompete i coglioni». Nel febbraio 2018 Duterte, parlando ai soldati, disse loro di sparare «nella vagina» alle donne ribelli perché, senza vagina, «le donne sono inutili». 120 Come era prevedibile, l’Alto commissario per i diritti umani dell’ONU ha dichiarato che Duterte «necessita di un esame psichiatrico». 121 Altrettanto prevedibilmente Duterte si è ritirato dalla Corte penale internazionale. In Asia Duterte ha alcuni rivali, benché nessuno altrettanto rozzo. In Pakistan, per esempio, Fakir S. Aijazuddin, uno dei più brillanti commentatori del paese, nella sua rubrica sul quotidiano in lingua inglese «Dawn», ha scritto sconsolato: Islamabad sta gradualmente degenerando dalle facezie alle comiche, e ora nella farsa […]. Al centro del palcoscenico un burattino di primo ministro [Shahid Khaqan Abbasi] che deve periodicamente visitare il proprio burattinaio, un primo ministro destituito [Nawaz Sharif] per farsi tirare i fili. […] Ai margini un ministro delle Finanze [Ishaq Dar] sotto accusa per illeciti finanziari. Eppure siede spensierato alle riunioni del governo, lasciando la propria lercia reputazione fuori, nel guardaroba. 122

Almeno il religioso islamico Khadim Hussain Rizvi, presidente di Tehreek-e-Labaik, partito fondato nel 2015, ha dichiarato che non tollererà alcun «cattivo linguaggio». Allude al dileggiare il profeta Maometto, un’offesa criminale in Pakistan, punibile con la morte.

Nel 1999 Vladimir Putin spiegò le proprie vedute sull’antiterrorismo parlando di inseguimento dei terroristi nei bagni pubblici. «Li rincorreremo dappertutto. Se sono in un aeroporto, allora in un aeroporto. E se li troviamo, perdonate, li butteremo giù per la toilette. E questo chiuderà la faccenda.» Discutendo con l’allora primo ministro Ehud Olmert il caso del presidente israeliano Moshe Katsav, accusato di stupro e molestie sessuali (e che in seguito aveva ricevuto due condanne per stupro), Putin esclamò: «Si è rivelato un uomo forte, ha violentato dieci donne. Chi se lo sarebbe mai aspettato, ha sorpreso tutti, tutti lo invidiamo!». 123 Il suo rivale principale, Aleksej Naval’nyj, un nazionalista etnico russo in seguito lodato in Occidente per essere anti-Putin, fu espulso dal partito liberale Jabloko nel 2007 per xenofobia e (durante il conflitto con la Georgia, nel 2008) diede dei «roditori» ai georgiani. 124 Altrove il comportamento è semplicemente volgare: sir Michael Fallon, ministro della Difesa britannico, disse alla collega Andrea Leadsom (a un meeting della commissione parlamentare del Tesoro tra il 2010 e il 2012) che si lamentava di avere le mani fredde: «So dove potresti metterle per scaldarle». 125 Nel 2002, la deputata conservatrice Ann Winterton fu espulsa dal governo ombra per aver raccontato, in pubblico, una «barzelletta» razzista sui pakistani. Due anni dopo le fu tolta la carica di capogruppo per aver detto (alludendo alla morte recente di ventitré cinesi raccoglitori di molluschi a Morecambe Bay) un’altra disgustosa storiella razzista: «Uno squalo dice a un altro di essere stufo di continuare a inseguire tonni e l’altro gli dice: “Perché non andiamo a farci un cinese a Morecambe Bay?”». In seguito si scoprì che lei e il marito, anche lui deputato, avevano «ritoccato» le proprie spese parlamentari. Nel 2005 dichiarò di essere grata del fatto che il Regno Unito fosse un «paese prevalentemente bianco e cristiano». Per fortuna, in seguito allo scandalo delle spese parlamentari, non è più al parlamento. 126 Questo cattivo gusto e queste volgarità sono in perfetta sintonia con i nostri tempi morbosi. Un tempo i profumi si chiamavano, in modo discreto, N. 5 (Chanel, 1921) o Gentleman (colonia per uomo Givenchy, 1969). Nel settembre 2017 lo stilista (e regista) americano Tom Ford ha lanciato una fragranza unisex dal nome accattivante: Fucking Fabulous. Il profumo costa 310 dollari per 50 ml e il nome ha ovviamente attratto molta più pubblicità che se si fosse chiamato Ford N. 6.

Peraltro, gli slogan elettorali sono sempre stati insulsi. Nel 1952 lo slogan per Dwight Eisenhower era «I like Ike»; nel 1964 Barry Goldwater, il candidato americano di destra, si inventò «In your Heart you Know he’s Right» (Nel tuo cuore lo sai che ha ragione), copiato da Michael Howard alle elezioni britanniche del 2005 con l’inquietante «Pensate anche voi quello che pensiamo noi?» (sottotesto: che ci siano troppi immigrati); vi furono poi il piatto «Nixon’s the One» alle presidenziali statunitensi del 1968; «Putting People First» (Bill Clinton 1992); «Yes, America Can!» (George W. Bush 2004) e il simile ma meglio noto «Yes, We Can!» (Barack Obama 2008). François Mitterrand, nel 1981, aveva l’insignificante «La force tranquille»; Nicolas Sarkozy nel 2007 optò per un vagamente socialista «Ensemble tout devient possible» (Insieme tutto diventa possibile). Berlusconi sfodera regolarmente l’attraente «Meno tasse per tutti», ma si è inventato anche, nel 2001, «Un presidente operaio per cambiare l’Italia», il che, detto da uno degli uomini più ricchi d’Italia, dovrebbe fargli vincere il premio per la migliore sfacciataggine dell’anno. In Spagna, nel 2015, il conservatore Partito popolare produsse l’enigmatico «España en serio» (Spagna sul serio) mentre Podemos, di sinistra, propose il banale «Un país contigo» (Un paese con te) così come «Sí se puede» (Yes, we can), preso in prestito da Obama (anche Podemos vuol dire «possiamo»), mentre il socialista PSOE optò per «Vota por un futuro para la mayoría» (Vota per un futuro per la maggioranza – forse il contrario di votare per il passato per una minoranza?). Nella sinistra italiana il vuoto d’immaginazione fu palese quando, come si è già detto, Walter Veltroni, incapace di controllare la sua infatuazione per gli Stati Uniti, propose, in inglese, nel 2008, «I care» e «Yes, We Can», nella perplessità dei suoi seguaci meno anglofoni. Tutto questo fa sembrare il «Let’s make America great again» di Trump quasi shakespeariano. Simili slogan politici, ispirati dalla moderna pubblicità, trattano gli elettori con disprezzo mentre fingono di assecondare la gente. Chi dispera della politica non ha torto.

La cosiddetta «estrema» sinistra. Il caso Corbyn L’avanzata dell’estrema destra non è stata accompagnata dall’avanzata dell’«estrema» sinistra. Oggi anche l’espressione «estrema sinistra» è stata allargata per includere posizioni che tra gli anni Cinquanta e Settanta del

secolo scorso facevano parte della socialdemocrazia tout court. Pur comportandosi come se fosse nuovo, gran parte del linguaggio di questa nuova sinistra è vecchio. Usando le tecniche del populismo afferma di parlare per conto della stragrande maggioranza, il 99% contro lo spregevole 1%, presumibilmente il più ricco 1%, come se quel 99% non fosse diviso per classe, genere, politica, religione, istruzione, localismi, età eccetera. L’1% sta per ciò che si usava chiamare «classe dominante», le «classi agiate», i «ricchi», le «élite», il «sistema», «l’establishment» e, in Italia (e Spagna) «la casta». 127 Un tempo i comunisti e la sinistra assortita cercavano di unire tutti contro un non ben definito «capitalismo monopolista». In Francia, negli anni Trenta, i partiti del Fronte popolare, radicali, socialisti e comunisti, esortavano a contrastare insieme le «Deux Cents Familles», che, affermavano, governavano e possedevano il paese. Populismo sarà anche la parola in voga per descrivere la destra e, occasionalmente, la sinistra estreme, ma il populismo è tutt’altro che nuovo: cinquant’anni fa, due importanti politologi, Ghita Ionescu ed Ernest Gellner, avevano annunciato che «uno spettro si aggira per il mondo: il populismo». 128 La cosiddetta «sinistra estrema» (cosiddetta perché quarant’anni fa sarebbe stata chiamata, più semplicemente «la sinistra») che includerebbe SYRIZA in Grecia, Bernie Sanders negli Stati Uniti, Podemos in Spagna, il Bloco de Esquerda in Portogallo, La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, e Jeremy Corbyn, ha avuto un relativo successo negli ultimi dieci anni, ma è andata al potere solo in Grecia, e quello della Grecia era un caso speciale. In Portogallo il Bloco de Esquerda guidato da Catarina Martins, un’attrice con un dottorato di ricerca entrata in politica, ha ottenuto il 10,2% nel 2015, mentre i comunisti l’8,3%. In altre parole, almeno un elettore portoghese su cinque ha votato per la sinistra «estrema». I socialisti hanno formato un governo con i tre partiti di sinistra andando dunque controcorrente rispetto alla socialdemocrazia tradizionale. Pur essendo presto per dare un giudizio ponderato, le prime mosse sono state più che simboliche: aumento del salario minimo, eliminazione di alcuni balzelli sulla salute, inversione della privatizzazione della compagnia aerea di bandiera TAP, maggiore accesso ai sussidi sociali, aumento dei salari dei dipendenti pubblici, riduzione della tassa sul reddito per le fasce reddituali basse, ritorno alla settimana di trentacinque ore per i funzionari pubblici e approvazione

dell’adozione da parte delle coppie gay. 129 Nel 2016, in Spagna, Podemos (il nome completo è Unidos Podemos) ha ricevuto il 21,2% dei voti mentre il PSOE, il Partito socialista ufficiale, ha ottenuto il 22,63%. Insieme, PSOE e Podemos avrebbero potuto superare il vittorioso Partido Popular (PP), di centrodestra, che ha preso il 33%. Podemos deve il proprio successo alla sua opposizione, che ha origine nel movimento anti-austerità degli indignados sorto nel 2011, ma trae forza anche dall’elevata disoccupazione, dagli scandali di corruzione e dalla consapevolezza che qualcosa è andato storto nel processo d’integrazione della Spagna nell’economia globale. Il leader di Podemos, Pablo Iglesias, è quasi sicuro che sia stata la débâcle dell’eurozona a fornire al suo partito l’opportunità di emergere. 130 Il fattore chiave nell’emergere di Podemos, come per altri movimenti simili, è il vantaggio della novità, immacolata, capace di denunciare gli scandali per corruzione che hanno compromesso i partiti tradizionali, mentre la disoccupazione aumenta a un tasso più alto che altrove in Europa occidentale e mentre i partiti al governo insistono con un’impopolare politica di austerità. Non è chiaro a favore di cosa sia esattamente Podemos, ed è un vantaggio in simili circostanze. Nel giugno 2016, appena prima delle elezioni, Pablo Iglesias, parlando a Madrid nell’opulento Hotel Ritz (con accanto il comunista Alberto Garzòn) davanti a una platea di imprenditori, presentò Podemos come «la nueva socialdemocracia», lodò Marx ed Engels, ma poi aggiunse che «se c’è una parola che descrive la nostra candidatura è “patriottica”». 131 Com’è spesso vero, il contraddirsi da soli è inevitabile, particolarmente nel caso di «partiti-movimento» d’opposizione. Podemos, SYRIZA, il portoghese Bloco de Esquerda ma anche movimenti come l’italiano Movimento 5 Stelle potrebbero tutti essere etichettati come «partiti-movimento» anti-austerity e anti-establishment. 132 Ma non c’è bisogno di un partito nuovo per sfidare la classe dirigente: Jeremy Corbyn e Bernie Sanders (come Donald Trump) hanno lavorato con i partiti esistenti, in buona parte perché un sistema bipartitico molto trincerato e sostenuto da un particolare sistema elettorale rende difficile a una terza forza trovare uno spazio nel Regno Unito o negli Stati Uniti. Così Bernie Sanders, in origine un senatore indipendente del Vermont che si autodefinisce un socialista democratico (in un paese dove «socialismo» è una parolaccia), ha cercato di ottenere la candidatura a presidente nelle primarie dei

democratici, un partito in cui era entrato da poco. Ha fatto assai bene, ottenendo, tra i democratici, il 43% contro il 55% di Hillary Clinton, un segno del risentimento contro la Clinton, ampiamente considerata il candidato della classe dirigente. Ha impostato la sua campagna su un programma che, sotto l’inevitabile retorica populista («abbasso i ricchi»), aveva scopi socialdemocratici abbastanza moderati (salario minimo, un servizio sanitario nazionale eccetera). In Francia, alla prima tornata delle elezioni presidenziali del 2017, l’«estrema sinistra» di Jean-Luc Mélenchon ha ricevuto il 19,58%, sbaragliando il candidato socialista ufficiale Benoît Hamon, che ha ottenuto solo il 6,3%. Se solo metà dei voti di Hamon fossero andati a Mélenchon, questi avrebbe ottenuto più voti di Marine Le Pen (che ha preso il 21,3%) e il secondo turno delle presidenziali sarebbe stato fra lui ed Emmanuel Macron. È improbabile che in simili circostanze Macron avrebbe vinto così nettamente come ha fatto contro Marine Le Pen. Il caso di Jeremy Corbyn in Gran Bretagna è abbastanza speciale, poiché Corbyn lottava contro la classe dirigente del proprio partito quasi quanto contro i conservatori. La storia merita di essere raccontata un po’ più approfonditamente. Nel 2015, con l’avvicinarsi delle elezioni, si riteneva, diffusamente ed erroneamente, che i conservatori non sarebbero riusciti ancora una volta a ottenere una chiara maggioranza parlamentare e avrebbero dovuto appoggiarsi ai liberaldemocratici, come avevano fatto dal 2010. Invece riuscirono a ottenere una maggioranza autonoma. A perdere davvero furono i liberali, severamente puniti per aver partecipato a un governo che aveva seguito chiare politiche di austerity. Tanto erano stati ingenui riguardo ai principi strategici basilari delle politiche di coalizione da non ottenere, né cercare, alcuna delle massime cariche dello stato: il ministero delle Finanze, quello dell’Interno o quello degli Esteri. Il loro leader, l’inadeguato Nick Clegg, si accontentò di diventare il «vice primo ministro», una carica ornamentale la cui mancanza di poteri fu ampiamente dimostrata dal fatto che il suo predecessore in quel ruolo era stato John Prescott, un politico di seconda categoria e pieno di sé. Clegg (oggi «sir» Nick Clegg) nel 2015 fu ben descritto dalla comica e giornalista Rosie Fletcher (anche se un po’ crudelmente) come «un omino nascosto in un cubicolo che finge di essere più potente di quanto non sia. Un inutile pallonaro ripetutamente smascherato da un cagnolino. Un imbroglione. Un

reo confesso impostore». 133 Nel 2010 i liberali avevano il 23% dei voti, nel 2015 sono scesi al 7,9% e hanno ottenuto solo otto seggi invece dei precedenti cinquantasette. Clegg ha dato le dimissioni. Il suo successore, Tim Farron, era un cristiano evangelico di modesta intelligenza e con opinioni peculiari sulla moralità sessuale. Non è durato a lungo. Ma le elezioni del 2015 hanno visto anche la chiara sconfitta del Partito laburista guidato da Ed Miliband, che ha rassegnato immediatamente le dimissioni. Il crollo del voto Labour non va attribuito tanto ai risultati in Inghilterra, quanto alla perdita di quasi tutti i suoi seggi scozzesi passati allo Scottish National Party, che ne ha ottenuti cinquantasei dei cinquantanove disponibili. Il Partito laburista si è ritrovato ridotto a un partito prevalentemente inglese e gallese. Senza i seggi scozzesi è difficile che vinca altre elezioni. Si aprì così la battaglia per il successore di Ed Miliband. I candidati erano quattro. Uno di loro era Jeremy Corbyn, un eterno dissidente, avviato verso i settant’anni, senza particolari ambizioni personali. Gli altri tre erano abbastanza scialbi: Andy Burnham, che cercava di collocarsi leggermente a sinistra (benché nel 2010 ancora approvasse la «decisione iniziale» di intervenire in Iraq, dal momento che «aveva dato a una ventina di milioni di persone in Iraq la speranza di una vita migliore, una verità che non si può proprio ignorare»); 134 Yvette Cooper, la migliore dei tre, il cui manifesto per la leadership, pur senza troppa originalità, spuntava le caselle giuste, come aumentare i bassi salari, proteggere il clima, creare più occupazione, costruire più case, aiutare i profughi e così via; infine Liz Kendall, che affermava di essere la candidata «modernizzatrice» ma era ampiamente vista come una «blairiana», un pessimo viatico in molti ambienti, donde il suo continuo ripetere di non esserlo. Kendall ricevette il supporto, tra gli altri, di Alistair Darling, ex ministro delle Finanze, in un lungo articolo del «Guardian» in cui, tranne i soliti cliché sul cambiamento, la modernità e il realismo, di lei si parlava appena: «Dunque voterò per Liz Kendall, perché penso riconosca l’ordine di grandezza della sfida che ci aspetta. È una realista, ma comprende anche che se non saremo il partito del cambiamento potremmo facilmente diventare un partito del passato». 135 Questi tre candidati avevano un unico messaggio: il Labour ha bisogno di un leader eleggibile (una qualità che ovviamente era mancata a Ed Miliband nel 2015, come anche a Gordon Brown nel 2010, a Neil Kinnock nel 1987 e

nel 1992, a Michael Foot nel 1983, a James Callaghan nel 1979, a Harold Wilson nel 1970, a Hugh Gaitskell nel 1959 e a Clement Attlee nel 1951 e nel 1955). Non c’era il più vago sentore di cosa fosse andato veramente storto nell’opposizione ai Tory di Cameron nei cinque anni precedenti, o se Kendall, Cooper e Burnham fossero effettivamente eleggibili. Per molti membri del partito erano noiosi e stanchi: nessuno pensava potessero vincere. Si presentarono con il solito mantra pro-business senza sfidare l’austerity e si astennero sul Welfare Reform Bill, che parve come un tradimento eccessivo. Corbyn era ovviamente il candidato anti-classe dirigente, l’unico dei quattro a non avere mai ricoperto incarichi, al governo o nel governo ombra. Tutta la sua vita politica era passata senza che cercasse avanzamenti o cariche. Aveva una lunga storia di riottosità alla disciplina di partito, di avversione alla guerra e alle cosiddette armi nucleari «indipendenti» britanniche. Era anche repubblicano in un paese a stragrande maggioranza monarchico. All’epoca non era ancora chiaro che questa mancanza di ambizione si sarebbe rivelata uno dei suoi massimi punti di forza. Era ai margini: uno sciocco per i più e un uomo di principi per pochi. Al punto che fu appena in grado di ottenere i trentacinque voti dai colleghi deputati necessari per entrare nella rosa dei candidati. Tra i firmatari del modulo delle candidature per Corbyn ci fu chi lo faceva per compassione e per zittire le lagne della sinistra, come l’ex ministro degli Esteri laburista Margaret Beckett. Che in seguito si pentì, dicendo di essere stata un’«idiota». 136 La maggioranza dei deputati laburisti e quella dei commentatori erano talmente fuori dal mondo da non aver mai pensato che Corbyn potesse farcela. Invece vinse, sbaragliando i suoi tre rivali al primo turno con più voti di tutti loro messi insieme: il 59,5%. Avrebbe vinto anche senza il sostegno di coloro che, secondo le nuove regole interne, avevano pagato 3 sterline per avere il diritto di voto, giacché si era aggiudicato comunque il 49,6% dei votanti di diritto. Nessun leader di partito aveva mai ottenuto un consenso così ampio. E nessun leader di partito aveva avuto un sostegno altrettanto scarso da parte del gruppo parlamentare. O da parte dei media: secondo uno studio universitario condotto dal dipartimento Media e comunicazione della London School of Economics, durante i suoi primi due mesi da leader dell’opposizione gran parte della stampa ha ignorato o riportato erroneamente le sue opinioni. 137

È stato rappresentato ingiustamente, spesso negandogli la parola, sistematicamente trattato con disprezzo e scherno. È stato ripetutamente associato a organizzazioni terroristiche come l’IRA, Hamas e Hezbollah (soprattutto dal «Sun» e nel «Daily Express»). Abbastanza tipico il profilo di Corbyn tratteggiato nel «rispettabile» quotidiano «Daily Telegraph» dall’opinionista di destra Allison Pearson, la quale, solo pochi giorni dopo la sua elezione, lo descrisse come «un tipo barbuto abbastanza noioso che per hobby fotografa tombini, non beve alcol né mangia carne e indossa pantaloni corti abbinati a lunghi calzini scuri che mostrano lunghi stinchi inglesi bianchi e pelosi». 138 Martin Amis, un romanziere di talento che appartiene alla patetica categoria di personalità che provano il disperato bisogno di mantenersi sotto i riflettori snocciolando opinioni oltraggiose e rivelando spesso un’ossessione paranoica per l’islam, così pontificava su Corbyn: «È mal istruito […] non ha humour […] quest’uomo senza humour è una barzelletta, una che non capirà mai. […] Tutto quello che dice Corbyn, senza eccezioni, è sbiadito e di terza mano […] del tutto incapace di cogliere il carattere nazionale, un’abissale mancanza per ogni uomo politico, figuriamoci per un portabandiera». 139 Ma il premio per i commenti più ridicoli va senz’altro al «Sunday Express», il cui titolo SVELATO: Il mostro malvagio che tormenta il passato di Jeremy Corbyn… svelava appunto che, oltre un secolo e mezzo fa, un antenato di Corbyn gestiva un ospizio per i poveri nell’Inghilterra vittoriana. 140 Mentre le elezioni per la leadership procedevano, Tony Blair riemerse dalle remunerative consulenze ai dittatori per darne ai sostenitori del Labour: «Se il vostro cuore è con Jeremy Corbyn, fatevi un trapianto» («The Guardian», 22 luglio 2015); Peter Mandelson, con una sicumera impermeabile agli errori del passato, spiegava che «il Partito laburista è in pericolo mortale» («Financial Times», 27 agosto 2015); l’ineleggibile Gordon Brown spronò il Labour «a non essere il partito della protesta scegliendo Jeremy Corbyn» («The Guardian», 17 agosto 2015). 141 Di bile contro Corbyn abbondava particolarmente il «Guardian». Sconsolato Jonathan Freedland: «La tribù Corbyn tiene all’identità, non al potere» («The Guardian», 24 luglio 2015); beffarda Suzanne Moore: «Il Labour di Corbyn è un partito senza argomenti, guidato da un ribelle con una causa» («The Guardian», 16 settembre 2015); preoccupata Anne Perkins: «Iscritti al Partito laburista, per favore pensateci prima di votare per Jeremy Corbyn» («The

Guardian», 22 luglio 2015). Andrew Rawnsley avvertiva che Corbyn era un «sogno di candidato» per i conservatori, aggiungendo la settimana dopo che «il Labour trangugia un fatale cocktail di fatalismo, rabbia e fantasie». E poi, baldanzosamente, «il Labour dovrebbe andare avanti, fare un regalo a Cameron, scegliere Jeremy Corbyn e schierarlo come proprio leader alle prossime elezioni, cosicché la tesi che il Labour perde perché non è abbastanza di sinistra è finalmente messa alla prova fino alla distruzione che merita così ampiamente» («Observer», 19 luglio e 26 luglio 2015). A essere distrutta fu la credibilità di Rawnsley come acuto commentatore (che però ancora commenta). Martin Kettle, un altro «acuto» commentatore del «Guardian», dichiarò che «la nomina di Jeremy Corbyn ha aiutato Burnham perché, nella corsa, significa che non può essere definito tanto facilmente come quello di sinistra» (presumendo dunque che quelli di sinistra non possano vincere) e che Liz Kendall «ha dimostrato che c’è un corposo sostegno per un candidato blairiano». 142 Il «corposo sostegno» di Kendall ammontava al 4,5%. Il fatto che Kettle si fosse sbagliato non gli ha impedito, due anni più tardi, di dispensare consigli non richiesti a Corbyn: «Il mio consiglio a Jeremy Corbyn: creare un Labour con tutti i talenti». 143 Caroline Wheeler, allora caporedattrice politica del «Sunday Express», non nota per l’acume politico o per l’accuratezza delle sue previsioni, fece un titolo da prima pagina: Con Corbyn leader… CIAO CIAO LABOUR. 144 Nel «Daily Telegraph» Allister Heath (futuro direttore di quello stesso giornale), nato in Francia e trasferitosi in Gran Bretagna a diciassette anni, pontificava: «Una cosa è chiara: Jeremy Corbyn non capisce il popolo britannico» (30 settembre 2015). In realtà nessuno «capisce» il popolo britannico, giacché dovrebbe risultare ovvio anche a un opinionista del «Telegraph» che «il popolo britannico» non è un blocco monolitico (una delle ragioni principali per cui ci sono le elezioni). Il povero David Cameron pensava di «capirlo», da cui il referendum sull’Europa, che ha perso. Lo pensava anche Theresa May: per questa ragione ha convocato le elezioni anticipate nel giugno 2017 presumendo di ottenere una maggioranza gigantesca. Nessuno «capisce» il «popolo britannico». I commentatori si basano semplicemente su agenzie di sondaggi che spesso, anche se non sempre, si sbagliano. Il 23 giugno 2016, meno del 52% dei votanti ha scelto leave, cioè l’uscita dall’UE (con un’affluenza del 72%, perciò di tutto il «popolo britannico»

quelli a favore del leave sono stati il 37,46%). Il Partito laburista aveva fatto una campagna a favore del remain, ma aveva tenuto un profilo basso, a eccezione di deputati come Kate Hoey, nettamente a favore di Brexit. Prevedibilmente, Corbyn fu criticato per essere stato tiepido circa il rimanere nell’UE, anche se nei discorsi precedenti il referendum aveva dichiarato che «noi, il Partito laburista, siamo a stragrande maggioranza per restare, perché crediamo che l’Unione Europea abbia portato investimenti, occupazione e protezione per i lavoratori, i consumatori e l’ambiente». 145 Questo fu davvero uno dei pochi commenti positivi sull’UE durante l’intera campagna, mentre il grosso dei remainer preferiva aggrapparsi al cosiddetto «Project Fear» (Progetto paura), ponendo l’accento sulle disastrose conseguenze dell’abbandono dell’UE. Alla fine della campagna referendaria, i passaggi sui media di Corbyn superavano di sei volte quelli di Boris Johnson, ma la BBC e altri media dedicarono molto più tempo a quest’ultimo che a Corbyn. Essere dei buffoni aiuta. Tanto che nel primo mese di campagna il Partito laburista aveva attratto un mero 6% di copertura, mentre i conservatori ne arraffavano il 32%. 146 Alan Johnson, un critico di Corbyn alla guida della campagna «Labour In for Britain», fu inefficace quanto lo era stato in qualità di ministro ombra delle Finanze sotto Ed Miliband. Non ebbe nemmeno grande impatto nel suo collegio di Hull: la città votò al 67% per il leave. Naturalmente Alan Johnson incolpò Corbyn di questo. Qualche giorno dopo quello che si era rivelato come il peggiore errore mai compiuto da un governo conservatore, cioè convocare un referendum e perderlo, il gruppo parlamentare laburista, invece di capitalizzare sulla sconfitta dei conservatori e le dimissioni di David Cameron, in quella che deve essere classificata come una delle mosse meno intelligenti fatte da qualsiasi partito ovunque in Europa (quando il nemico è a terra lo si finisce, non si perde tempo in autolesionismi), presentò una mozione di sfiducia contro la leadership di Corbyn. Questa mozione ebbe il sostegno di un imponente numero di deputati (172 su 212) così come della maggior parte del governo ombra. Come scrissero Tristram Hunt e Alan Lockey: «La faziosità intestina che aveva accolto la sua [di Corbyn] elezione getta ombra su un partito in cui tutte le correnti si trovano in una sorta di catatonia intellettuale». 147 Fu la loro scelta, per dirla con Milton che parlava per conto di Dio:

«Ognun che stette, / Libero stette, e libero pur cadde / Ognun che cadde» («Freely they stood who stood, and fell who fell»). 148 Tuttavia, la catatonia era assai più prevalente tra gli angosciati antiCorbyn. Un gruppo parlamentare con un briciolo d’intelligenza collettiva avrebbe indagato su come mai ci fosse un simile enorme divario tra loro e gli attivisti del partito che ritenevano di rappresentare. Ma fu un briciolo introvabile. Corbyn rifiutò di dare le dimissioni in quanto eletto dagli attivisti del partito e non dai deputati laburisti. Owen Smith, allora ignoto e ignoto da allora, sfidò Corbyn per la leadership sulla base di un considerevole sostegno in parlamento – in mancanza di meglio –, ma poco al di fuori. Corbyn si sbarazzò della sfida ottenendo almeno il 62% dei voti e fu rieletto leader (settembre 2016), consegnando Owen Smith a un meritato oblio. Ci furono più dimissioni, più problemi alle elezioni locali (400 membri dei council non furono rieletti alle amministrative del 2017), e fu persa un’importante elezione suppletiva (Copeland), sebbene il Labour mantenesse il Galles e vincesse la carica di sindaco di Londra. Eppure le proteste contro l’ineleggibile Corbyn continuarono. Nulla di tutto questo era accaduto quando, con Gordon Brown primo ministro, il Labour aveva ottenuto il peggior risultato in quarant’anni alle amministrative del maggio 2008, finendo al terzo posto. Alle elezioni europee del 2009, ancora sotto Gordon Brown, il Labour aveva ottenuto soltanto il 16% dei voti finendo al terzo posto dietro i conservatori e l’UKIP. Eppure il dissenso interno contro Brown fu minimo. La maggior parte del gruppo parlamentare del partito era rimasta quieta, le loro teste, come ostriche, sepolte nella sabbia, per levarsi solo cinque anni più tardi contro Jeremy Corbyn. Ma se le teste sono prive d’intelligenza politica, non importa che siano sotto o sopra la sabbia. L’ipotesi generale era che, con il Labour ridotto così, i conservatori avrebbero vinto. Questo indusse un’inizialmente riluttante Theresa May, nel pieno dei negoziati su Brexit, a convocare, inaspettatamente, le elezioni anticipate, presumendo di vincere con un’enorme maggioranza così da offrire al paese «un governo forte e stabile». Non fu considerato un grosso azzardo, giacché la maggior parte dei sondaggi le attribuiva una maggioranza sicura. I sondaggisti sbagliarono di molto. Il più ridicolo fu lord Ashcroft il quale, alla vigilia delle elezioni, spiegava fiducioso che il «modello Ashcroft» aveva calcolato che i Tory avrebbero avuto una maggioranza potenziale di almeno sessantaquattro seggi. 149

Ma fu una scommessa che Theresa May perse, assieme alla sua maggioranza. Temendo Corbyn (a differenza dei media abbastanza disinformati, come della maggioranza dello sprovveduto gruppo parlamentare del Partito laburista) aveva riposizionato il suo partito a sinistra (come il «New» Labour si era a suo tempo ricollocato a destra in seguito alle vittorie della Thatcher). Il manifesto elettorale del Partito conservatore «Forward, Together. Our Plan for a Stronger Britain and a Prosperous Future» (Avanti, insieme. Il nostro piano per una Gran Bretagna più forte e un prospero futuro) stupiva letteralmente per la nettezza con cui si sbarazzava di tutto quello che la Thatcher aveva sostenuto: i conservatori (ora) «non credevano in un libero mercato senza freni»; rigettavano «il culto dell’individualismo egoista»; aborrivano «le divisioni sociali, l’ingiustizia, l’iniquità e la diseguaglianza»; cercavano la rappresentanza operaia nei consigli di amministrazione delle aziende; avrebbero assicurato che i diritti dei «lavoratori» conferiti ai cittadini britannici dall’appartenenza all’UE «sarebbero rimasti». I conservatori ora affermavano che il servizio pubblico era «una nobile vocazione, che celebreremo»; denunciavano le ingiustizie sociali sopportate da chi aveva frequentato scuole pubbliche, da chi è di estrazione operaia, da chi è nero (trattati dal sistema giudiziario criminale più duramente dei bianchi), da quelli che sono nati poveri (perché muoiono «in media nove anni prima degli altri») e dalle donne («perché guadagnano meno degli uomini») eccetera. 150 Suggerendo apparentemente che le politiche di austerity perseguite da George Osborne (che lei aveva costretto alle dimissioni) fossero state troppo dure, Theresa May sfidò anche indirettamente il vecchio mantra del «New» Labour di Blair, cioè che l’austerity fosse l’unica alternativa o che il Labour avrebbe dovuto presentare una versione più gentile di thatcherismo. L’anno precedente, al congresso del Partito conservatore (5 ottobre 2016), Theresa May, insediatasi da poco come premier, si era già prodotta in un nuovo populismo: «Oggi nella nostra società vediamo divisioni e ingiustizie ovunque. […] Tra la ricchezza di Londra e il resto del paese. Ma forse, soprattutto, tra i ricchi, chi ha successo, i potenti e i loro concittadini. […] Ma oggi, troppe persone in posizioni di potere si comportano come se avessero più in comune con le élite internazionali che con l’uomo della strada, le persone che assumono e quelle davanti alle quali passano per la via […] ma se ti credi un cittadino del mondo, sei un cittadino di nessun luogo. Non capisci cosa significa la parola “cittadinanza”». 151 Compresi nella categoria

«cittadini di nessun luogo» (in un’altra epoca avrebbe anche potuto usare l’espressione «cosmopoliti sradicati») c’erano «avvocati di sinistra dei diritti umani» che «tormentano i più coraggiosi fra i coraggiosi» (cioè i soldati reduci). Se Jeremy Corbyn avesse usato un simile linguaggio sarebbe stato accusato da molti nel suo partito di essere antisemita. Una docente universitaria, scrivendo sulla «London Review of Books», dichiarava di essersi «sorpresa che un discorso che condannava genericamente le élite finanziarie, gli avvocati dei diritti umani e le persone senza nazionalità non fosse interpretato come antisemita». 152 Del tutto scollegati da questi sviluppi, gli oppositori di Corbyn all’interno del gruppo parlamentare del Partito laburista dichiararono a gran voce che Corbyn era un residuo degli anni Sessanta. Parevano accettare che non ci fossero alternative al thatcherismo, che non fosse solo la Lady a non tornare indietro, ma tutto il paese. Questo significava rinunciare a tutte le idee radicali, a qualsiasi innovazione, a tutti gli ideali di giustizia sociale, spesso proprio le ragioni che li avevano avvicinati alla politica. L’unica politica valida era una variante del thatcherismo o, per coniare una nuova espressione, un thatcherismo dal volto umano. Nella retorica, se non nei fatti, il gruppo parlamentare del Partito laburista si trovò esso stesso superato a sinistra dai conservatori. Nel suo manifesto del 2017, Theresa May non aveva nulla da dire sull’ambiente. Sei mesi dopo, grazie a un documentario televisivo girato dal celebre David Attenborough – beniamino del pubblico britannico – scoprì un nuovo devastante nemico: i rifiuti di plastica erano ora «una delle grandi piaghe ambientali del nostro tempo». 153 Come mai allora non era citata nel manifesto? Perché non aveva ancora visto il documentario alla TV? Era un modo di fare politica navigando a vista. La svolta a sinistra dei conservatori non ingannò nessuno (i manifesti elettorali li leggono comunque in pochi). Theresa May perse la sua maggioranza. L’impegno di avere i lavoratori nei consigli di amministrazione delle aziende fu abbandonato rapidamente. La Social Mobility Commission, istituita dalla coalizione guidata dai conservatori nel 2012 per monitorare i progressi nel migliorare la mobilità sociale, diede le dimissioni a sei mesi dalle elezioni appellandosi alla «mancanza di leadership politica». La svolta elettorale del Labour nel 2017 (più 9,6%), pur non sufficiente ad assicurare la vittoria, è stata la più consistente di ogni precedente elezione

dal 1945. Il Labour ha avuto successo in particolare tra i giovani elettori, sgomenti del voto per Brexit dell’anno precedente. Corbyn ha conquistato il sostegno di due terzi degli elettori sotto i ventiquattro anni di età, e oltre metà di quelli tra i venticinque e i trentaquattro anni, lasciando i conservatori in testa solo tra gli elettori dai quarantacinque anni in su. Tra i giovani diciottotrentaquattrenni, il Labour era davanti in tutte le classi sociali (al 70% tra i lavoratori non qualificati, semiqualificati e i disoccupati, fasce in cui tuttavia l’affluenza era stata bassa). 154 Può anche aver influito il fatto che i giovani fossero la prima generazione del dopoguerra a essere più povera di quella precedente, e su molti gravavano enormi debiti per le tasse universitarie. La quota di sostegno per il Labour è salita al 40%, cinque punti sopra Blair nel 2005 aggiungendo 3,5 milioni di voti al totale del Labour di Ed Miliband nel 2015. In quella che è stata la più forte affluenza alle urne in vent’anni – un impressionante 68,7% – il Labour ha mantenuto la sua maggioranza tra i lavoratori semiqualificati e non qualificati e i disoccupati. 155 Il partito ha aumentato i propri voti presso quasi tutte le fasce di età eccetto gli over settantenni, mentre vi è stato un aumento nel numero di persone più anziane che votavano conservatore, presumibilmente ex elettori dell’UKIP che «tornavano» ai Tory. La svolta a favore del Labour è stata più pronunciata nei collegi visitati da Corbyn, salendo di quasi il 19%, mentre le visite di Theresa May hanno fatto scarsa differenza. 156 Corbyn raccolse più consenso nelle zone operaie del Nord, come Oldham West e Royton, dove la fluttuazione del voto è stata superiore al 10%, tutto il contrario dell’impressione che Rafael Behr del «Guardian» cercò di dare durante le elezioni suppletive del dicembre 2015, quando spiegò che «a Oldham, Jeremy Corbyn non è che un’altra faccia del Labour “radical chic”» (2 dicembre 2015). Due anni dopo ha ritrattato: «I sostenitori di Jeremy Corbyn hanno correttamente compreso che la sua candidatura rappresentava una totale rottura con il passato del partito». 157 Peccato che era stato Behr a non capirlo. I politici, anche quelli intelligenti, non hanno fatto meglio: Sadiq Khan, nell’agosto 2016, aveva spronato gli iscritti al Labour a votare Owen Smith dicendo che «non possiamo vincere con Corbyn […] dunque voterò per Owen Smith» («The Guardian», 21 agosto 2016). I commentatori e i giornalisti, che dovrebbero essere ben informati, hanno sbagliato completamente, in particolare quelli che scrivevano per la stampa

moderatamente di sinistra. Il «New Statesman» aveva intonato: «Il fallimento di Corbyn non è una scusa per il fatalismo» (31 marzo 2017) e nello stesso numero Nick Pearce (dell’Institute for Policy Research e docente universitario) spiegò urbi et orbi che «il corbynismo è ora invisibile. Non ha segreti da nascondere». Il 25 febbraio 2017, dopo una pesante sconfitta alle elezioni suppletive a Copeland, Jonathan Freedland, nel «Guardian», dichiarò che «Copeland dimostra che Corbyn se ne deve andare» e portentosamente spiegava che «la cupa verità è che la pressione che conta non verrà da quelli come me, persone che ammonivano che Corbyn sarebbe stato un disastro dall’inizio», ma dagli attivisti (i quali, fortunatamente per il Labour, non prestarono la minima attenzione a Freedland). Freedland, però, dopo la misera performance del Labour alle elezioni amministrative, ci riprovava: «Basta scuse: la colpa di questo sfacelo è di Jeremy Corbyn» («The Guardian», 5 maggio 2017). Per poi chiedersi altezzosamente, come se sbraitasse in un bar, «di quali altre prove hanno bisogno la leadership del Labour e i suoi sostenitori? Questo non era un sondaggio. Non era un giudizio espresso dall’odiata stampa generalista. Questo è stato il verdetto dell’elettorato espresso nell’urna, e non avrebbe potuto essere più chiaro, o più di condanna». Naturalmente, come spesso accade, soltanto un terzo dell’elettorato aveva votato alle amministrative. Anche ai mediocri studenti di scienze politiche si spiega che è una regola elementare dell’analisi politica il non poter dedurre i risultati delle politiche dalle amministrative. Sarebbe consigliabile a Freedland di munirsi di un paio di manuali. Sull’«Observer» (19 marzo 2017) Nick Cohen, nella sua solita modalità, vale a dire di isteria incandescente, urlava: «Non ditemi che non eravate stati avvertiti su Corbyn», chiedendosi se dopo le elezioni ci sarebbero rimasti «150, 125, 100 deputati laburisti». Il suo consiglio in proposito era di «pensare a un numero e dimezzarlo». Poi aggiungeva, rivolgendosi ai sostenitori di Corbyn – nel caso non avessero colto –, che le parole «ve l’avevo detto fottuti idioti!» sarebbero state sbattute loro «in faccia da chiunque avesse ammonito che la vittoria di Corbyn avrebbe condotto a una storica sconfitta». Il Labour non ha ottenuto i «150, 125, 100 deputati» di Cohen, ma ben 262. Eppure Nick Cohen è ancora al suo posto a sputare insulti. La stampa liberal-radicale si è sbagliata perché prigioniera della propria

ideologia antisinistra e ha scambiato i propri desideri e brame per la realtà. I commentatori, anziché sforzarsi di pensare, si sono uniti al coro. Così, anche sbagliando, si sarebbero trovati in buona compagnia. I professori universitari sono stati più dignitosi, ma in molti si sono sbagliati altrettanto. Ecco Tom Quinn (Department of Government, University of Essex), nel suo blog il 13 marzo 2017, ripetere lo scontato mantra: «Jeremy Corbyn ha reso il Labour ineleggibile», per poi aggiungere che «Corbyn già sembra uno dei più inefficaci e impopolari leader dell’opposizione del secondo dopoguerra». 158 Anche la classe dirigente del Partito laburista si è sbagliata, caduta vittima ancora una volta della realtà. Questo è un partito che rifiuta di imparare dalla storia. Negli anni Trenta riuscì perfino a espellere tre uomini politici oggi rivelatisi i quasi leggendari architetti del welfare state britannico moderno nel governo laburista del 1945-1951: Stafford Cripps, poi ministro delle Finanze; Nye Bevan, poi ministro della Sanità; George Strauss, in seguito ministro delle Forniture belliche, tutti colpevoli di aver raccomandato un fronte popolare con i comunisti. Il 9 giugno 2017 sono stati resi noti i risultati delle elezioni britanniche: tutti hanno riconosciuto che Theresa May è stata la vera sconfitta, avendo perduto la sua maggioranza. Pur non avendo vinto, Corbyn ha ottenuto un risultato migliore dei precedenti leader Labour, e si è trovato a guidare un partito in salute, con una base di iscritti spettacolarmente ampia (il Labour ora è il partito che vanta la più vasta base in Europa, con ben oltre 500.000 iscritti). Secondo il caporedattore politico della BBC Laura Kuenssberg, alcuni dei deputati che avevano visto aumentare il proprio gruppo grazie a Corbyn avevano «sfacciatamente promesso ai propri elettori […] che se ne sarebbe andato dopo le elezioni e che, più precisamente, avrebbero contribuito a rimuoverlo». 159 I nazionalisti scozzesi hanno perso voti, l’UKIP è quasi annegata nell’oblio, i liberali si sono ripresi un po’ dalla loro raccapricciante performance del 2015. In Irlanda del Nord i vecchi partiti della classe dirigente, l’Ulster Unionist Party e il Social Democratic and Labour Party, un tempo il principale partito repubblicano, sono stati spazzati via dal parlamento, mentre l’ultraprotestante DUP ha ottenuto dieci deputati e il repubblicano Sinn Féin sette. Theresa May, ancora premier di un «governo né forte né stabile», è stata

costretta a fare un accordo con il DUP, uno dei partiti più oscurantisti in Europa occidentale. In cambio ha promesso 200 milioni di sterline più 75 milioni l’anno per fornire banda larga super-veloce in Irlanda del Nord e altri 100 milioni l’anno per due anni per la trasformazione del sistema sanitario… In totale l’accordo costerà al contribuente britannico un miliardo di sterline. 160 Chiunque definirebbe tutto questo corruzione sfacciata, eppure, cosa abbastanza incredibile, è legale. Più nello specifico, la crescente sicurezza di sé delle forze del liberalismo civico nella Repubblica d’Irlanda, che ha portato alle vittorie nel referendum per la legalizzazione dei matrimoni fra persone dello stesso sesso (maggio 2015) e dell’aborto (maggio 2018), ha evidenziato quanto sia arretrata l’Irlanda del Nord, dove matrimoni gay e aborto sono banditi in gran parte a causa dell’opposizione del DUP, il migliore amico di Theresa May. Mentre il Partito laburista è rifiorito grazie a una base d’iscritti accresciuta e fiduciosa, i conservatori, come partito, sopravvivono appena. A metà del 2017 il Labour aveva 552.000 iscritti, i liberaldemocratici 102.000, il SNP 118.000 (in proporzione il maggior partito perché ancorato perlopiù alla Scozia). Al dicembre 2013 i conservatori avevano 149.800 iscritti. 161 Il partito ha paura di fare brutta figura pubblicando i dati più recenti. Ha quasi certamente meno di 100.000 iscritti, forse solo 70.000. 162 Nel 1952 ne aveva 2.750.000. 163 Non più. Oggi è un partito di anziani: il 71% dei suoi iscritti sono maschi contro il 63% dei Libdem e il 53% del Labour. 164 Tuttavia la classe dirigente del Labour continua a comportarsi come se i Tory fossero il partito naturale di governo. Inutile a dirsi, pochi commentatori hanno fatto ammenda dopo la sorpresa delle elezioni del 2017. Si sono rassettati gli abiti per continuare con la stessa arroganza di prima, attenuandola appena. Andrew Rawnsley ha scritto, in modo poco convincente: «Non eravamo solo noi. Quasi nessuno se l’aspettava. Non se l’aspettavano soprattutto i politici. Le loro sfere di cristallo erano piene di crepe». (Forse giornalisti, professori e uomini politici dovrebbero usare il cervello e lasciare le sfere di cristallo ai druidi celtici che, a quanto pare, le inventarono.) Poi ha incolpato i Tory che «hanno cercato scioccamente di farne una corsa presidenziale guidati da qualcuno incapace nella vendita politica al dettaglio quanto la signora May, che non saprebbe vendere un bicchiere d’acqua a uno che muore di sete». Peccato non l’avesse detto prima. 165

Owen Smith ha ammesso di essersi «chiaramente sbagliato nel pensare che Jeremy non sarebbe stato in grado di far bene. Penso che abbia dimostrato che mi sono sbagliato come molti altri e mi tolgo il cappello…». 166 Mandelson ha riconosciuto che la campagna di Corbyn è stata «molto solida». Quattro mesi prima, a un evento organizzato dal «Jewish Chronicle» aveva spiegato pazientemente che Corbyn «non aveva idea di come comportarsi nel XXI secolo da leader di un partito che in un’elezione democratica si propone al governo del nostro paese». Aggiungendo che «lavoro ogni giorno nel mio piccolo per accelerare la fine del suo incarico». 167 Si sarebbe lasciato trasportare dalla corrente se solo avesse saputo in che direzione fluiva. Invece è rimasto ad annaspare. Harriet Harman ha detto in un tweet di aver «sovrastimato» Theresa May e sottostimato Jeremy Corbyn. Quelli come Stephen Kinnock, Hilary Benn e Chuka Umunna, che avevano dato addosso a Corbyn, ora, grazie a lui, mantenevano i propri seggi con una maggioranza enormemente aumentata. 168 La notte dei risultati Stephen Kinnock era così visibilmente sconvolto dal successo di Corbyn da dover ricevere da sua moglie, l’ex premier danese Helle Thorning-Schmidt, ovviamente ben più scaltra da un punto di vista politico, apposite indicazioni su come reagire. 169 Ebbene, si può sempre sperare che imparino qualcosa. Come dice Tito Livio nel suo Ab Urbe Condita, con lampante chiarezza: «Eventus docet: stultorum iste magister est» («L’esperienza insegna, essa è la maestra degli stolti»). 170 I commentatori e gli uomini politici hanno cercato di giustificare il loro discredito di Corbyn nei termini della sua ineleggibilità. Avessero avuto un briciolo d’integrità, avrebbero contestato le sue politiche, anziché continuare a ripetere che non poteva vincere. Naturalmente non ha vinto, ma nessun leader laburista avrebbe potuto farlo avendo contro tutta la stampa, la classe dirigente del suo partito e, soprattutto, senza la Scozia. E la Scozia era andata perduta prima che Corbyn entrasse in scena. Ma qual era la posizione di Corbyn? Era contro il rinnovo del programma di armamenti nucleari Trident (indipendente solo di nome); contro l’austerità e dunque contro i tagli al welfare e ai servizi pubblici, di alcuni dei quali proponeva una rinazionalizzazione; contro l’interventismo militare all’estero e l’abolizione della Private Finance Initiative; era a favore della tassazione dei ricchi, dell’aumento del salario minimo, della lotta all’evasione fiscale, dell’abolizione dei benefici alle scuole private e delle tasse universitarie e via

dicendo. Le proposte sono state attaccate perché di «estrema sinistra». Tuttavia, come ha scritto un astuto commentatore, «la realtà è che ha proposto nulla più che un ritorno a quella che un tempo sarebbe stata vista come una versione moderata di socialdemocrazia». 171 Ha anche rischiato di scontentare i suoi tradizionali elettori di estrazione operaia prendendo una posizione di principio sull’immigrazione. Il vero problema sotteso alla lista delle proposte di Corbyn è quello in cui s’imbattono quasi tutti gli uomini politici: come pagherai tutto questo? Se la risposta è: «Metteremo più tasse», allora bisogna domandare se ci sono davvero così tanti ricchi. Se invece la risposta è: «Chiederemo un prestito», allora bisogna domandare quali saranno le conseguenze. Dire semplicemente che politici come Corbyn sono «ineleggibili» significa sottrarsi a simili questioni. In passato Corbyn è stato freddo con l’Europa (ha votato contro i trattati di Maastricht e di Lisbona), ma durante la campagna referendaria ha scelto un approccio «equilibrato»: sì a un’Europa sociale, osservando che l’UE aveva portato lavoro, investimenti, protezione per i lavoratori, ordinamenti ambientali, e aveva impedito alle compagnie telefoniche di «rapinarci», ma protestando per il controllo burocratico e la sua enfasi sulla deregulation. 172 Era anche contrario all’accordo TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) tra gli USA e l’UE, ma lo erano anche Donald Trump e Hillary Clinton, allora in lotta per la presidenza, mentre il presidente François Hollande aveva detto che avrebbe posto il veto sul TTIP così com’era. I media descrissero queste politiche come «estremiste», un ritorno agli anni Settanta o Sessanta. In realtà, molte delle politiche proposte da Corbyn godevano di largo sostegno tra la popolazione. La maggioranza era a favore dell’eliminazione delle armi nucleari, in particolare se la questione verteva sul denaro risparmiato. 173 Un sondaggio YouGov dell’ottobre 2016 mostrava che le politiche di Corbyn erano più popolari di quelle dei conservatori: il 45% dei consultati riteneva che il governo dovesse aumentare la spesa pubblica, mentre solo il 13% che si dovesse proseguire con i tagli; il 58% si opponeva al coinvolgimento del settore privato nel servizio sanitario pubblico, mentre solo il 21% era a favore; il 51% sosteneva la rinazionalizzazione delle ferrovie – cosa non sorprendente visto il caos in cui si trovano (aziende come la Virgin Trains non sono nemmeno state penalizzate per aver portato la concessione ferroviaria al tracollo) –, mentre

solo il 22% era contrario. 174 Rinazionalizzare il servizio idrico è altrettanto popolare in particolare perché aziende come Thames Water sembrano aver fatto tutto il possibile per rendersi impopolari: quasi non paga tasse, i suoi azionisti ricevono dividendi enormi, ha un debito gigantesco ed è stata multata per perdite fognarie non trattate sversate nel Tamigi. 175 Eppure il 33% pensava che i conservatori avessero le politiche economiche migliori, mentre a credere che le avesse il Labour era solo il 13%. Ovviamente molto dipende da com’è posta la domanda, ma queste cifre mostrano che le politiche di Corbyn erano tutt’altro che impopolari. 176 Dove Corbyn (e il Labour) hanno tentennato ed esitato è stato su Brexit, combattuti tra il prendere una chiara posizione per smarcarsi dai Brexiteers Tory alienandosi così alcuni degli anti-UE a sinistra. Hanno scelto di tergiversare. Poco prima delle elezioni Gary Younge, uno dei pochi commentatori del «Guardian» a non lasciarsi irregimentare nella corrente anti-Corbyn, ha scritto: Negli ultimi due anni, l’opinione prevalente è stata che […] il Partito laburista con Corbyn non fosse eleggibile. Non solo che avrebbe perso, ma che non poteva plausibilmente competere. Queste non erano presentate come opinioni, ma come fatti. Chi le metteva in discussione era trattato come un negazionista climatico. […] Prendere sul serio le prospettive del Labour di Corbyn era come rinunciare a prendere sul serio sé stessi. 177

Al festival di Glastonbury, un paio di settimane dopo le elezioni del giugno 2017, il pubblico festante di giovani lo accolse con quello che era già diventato un famoso slogan («Oooh, Jeremy Corbyn!» sul motivo di Seven Nation Army dei White Stripes). 178 I cori sono continuati per almeno venti minuti prima che Corbyn salisse sul palco. Ha radunato la folla più vasta del festival di quell’anno. Una cosa simile non sarebbe riuscita a nessun uomo politico. Quando Corbyn è entrato nella neoeletta camera dei comuni, i suoi deputati senza incarichi di governo, molti dei quali avevano passato i due anni precedenti complottando contro di lui, lo accolsero da eroe. Polly Toynbee, che era stata tutt’altro che entusiasta di Corbyn nell’aprile 2017 («la stupefacente inettitudine del leader dell’opposizione presiederà alla catastrofe del suo partito»), a settembre riconobbe con grazia il proprio errore e il di lui successo: Oh, Jeremy Corbyn! Quanta differenza fa un anno. […] Questo è ora un partito unito, di Corbyncredenti e chi, tra i dubbiosi residui del Labour, può obiettare un punto qualsiasi di questo programma? Credere che possa davvero vincere non è mai stato così facile. La sua curva di apprendimento è stata meteorica, questo discorso autorevole e abbondante di promesse, sia

necessarie, sia popolari. 179

Zoe Williams fu tra i pochi a dedicare un intero pezzo all’ammissione del proprio errore: «Ho sostenuto Owen Smith contro Jeremy Corbyn. Ma ora me ne pento» («The Guardian», 2 gennaio 2018). Anche Gordon Brown si pronunciò in quello che era un tardivo riconoscimento del «fenomeno» Corbyn e del fatto che «esprime la rabbia della gente per quanto accaduto». 180 Non è mai troppo tardi. Lo è naturalmente per Philip Collins, ex autore dei discorsi per Tony Blair e ora editorialista del «Times», il quale, nel novembre 2017, ha paragonato Corbyn a Robert Mugabe e Ratko Mladić (il macellaio di Srebrenica). La ragione apparente, in un articolo che ne era privo, risiedeva nel fatto che Corbyn si era opposto alla guerra in Kosovo e al bombardamento di Belgrado (sostenuto invece da Collins e che provocò centinaia di vittime civili). Ovviamente Collins non riesce a distinguere Srebrenica dal Kosovo. Il suo articolo è infarcito di quel tipo d’insulti che si trovano nella stampa tabloid: per esempio, Edward Herman (coautore di libri assieme a Noam Chomsky) lo chiama «un oscuro sciocco», mentre Chomsky lo descrive come «il decano della sinistra ciarlatana». I commenti dei lettori erano perlopiù favorevoli. Collins conosce il proprio pubblico, conoscenza che lo solleva dalla fatica di ragionare. 181 Corbyn aveva l’enorme vantaggio di non essere al potere. L’opposizione è relativamente facile quando non si deve fronteggiare la brutale realtà dei vincoli politici nazionali e internazionali. Questo è il problema che SYRIZA ha dovuto affrontare in Grecia quando, inaspettatamente, ha vinto le elezioni nel 2015. Il paese era stato particolarmente danneggiato dalla recessione globale del 2007-2008: l’economia era strutturalmente debole, l’evasione fiscale diffusa, l’economia «sommersa» assurdamente dilagante. La Grecia, ma non solo la Grecia, violava regolarmente i criteri di stabilità dell’eurozona, perché, pur di adottare l’euro, i governi greci precedenti avevano usato dubbie statistiche sulle dimensioni del debito e del deficit pubblici (statistiche che furono accettate prontamente dal resto dell’Unione Europea per ragioni politiche). La recessione globale del 2008 ha portato a una crisi di fiducia, a un crescente disavanzo commerciale, a una riluttanza ad acquistare titoli di stato greci e a una serie sfinente di aumenti delle tasse richiesti dal FMI e dalla Banca centrale europea (BCE) in cambio di un bailout. Verso la fine del 2011, con il sistema politico in disfacimento e in mezzo

a una crescente protesta popolare, il governo guidato dal PASOK (socialista) ha dato le dimissioni. Nel 2009 il PASOK aveva vinto le elezioni con il 44%. Nella prima delle due elezioni tenute nel 2012 era crollato al 13%, nella seconda aveva perso un altro punto percentuale. Nel 2015, quando ci sono state altre due elezioni, il PASOK era un partito morto, che racimolava tra il 4% e il 6%. Il partito conservatore tradizionale, Nuova democrazia (ND), ha fatto meglio del PASOK: nel 2009 aveva il 33%; nel maggio 2012 era sceso al 19%, ma, un mese dopo, era di nuovo risalito al 30%. Nelle due elezioni del 2015 si è mantenuto appena sotto al 30% e, a differenza del PASOK, è sopravvissuto. Il partito che era balzato in avanti era SYRIZA, un’alleanza tra partiti della sinistra radicale. Nel 2009, prima che la crisi colpisse la Grecia, SYRIZA era stata capace di raccogliere solo il 4,6% (mentre i comunisti del KKE avevano il 7,5%). Dal maggio 2012 SYRIZA era il secondo partito greco con il 16,8%. Un mese dopo era salito al 27% e nelle due elezioni del 2015 aveva raggiunto il 35-36% formando un governo con il supporto dell’euroscettico Partito indipendente. In precedenza un’alleanza di socialisti e conservatori (cioè ND e PASOK) aveva applicato drastiche politiche di austerità per placare la BCE e il FMI: aumentarono drammaticamente la povertà, la disoccupazione e la disperazione sociale. Fu questa la base del successo di SYRIZA, ma i vincoli non erano cambiati. La posizione di estrema debolezza in cui il paese si trovava significò che SYRIZA aveva pochissimo spazio di manovra. Come notato da Costas Douzinas, docente universitario a Londra e deputato di SYRIZA dal 2015, SYRIZA non era pronto per governare «in condizioni così dure» (ma del resto senza le dure condizioni non sarebbe andato al potere); «delle promesse del manifesto non erano stati calcolati accuratamente i costi»; «molti ministri non avevano una buona conoscenza del loro portafoglio» eccetera. 182 SYRIZA poteva sventolare la bandiera antiausterity ma c’era poco altro che potesse fare. Lasciare l’euro avrebbe semplicemente significato un crollo della nuova valuta che lo avrebbe dovuto sostituire all’istante (al contrario dell’euro, introdotto dopo lunghe preparazioni). L’inevitabile, enorme svalutazione della nuova moneta avrebbe spazzato via i risparmi di molti cittadini greci. La Grecia fu così costretta a rimanere nell’eurozona e a tenersi i suoi debiti.

Alexis Tsipras, il leader di SYRIZA, era stato eletto primo ministro su una piattaforma anti-austerity. Ma la cruda realtà lo convinse che aveva bisogno di fare compromessi con la cosiddetta Troika (la Commissione europea, il FMI e la BCE) per evitare di essere cacciato dall’eurozona. Convocò un referendum il 5 luglio 2015 per decidere se accettare le condizioni imposte. L’elettorato respinse le condizioni a grande maggioranza (oltre il 60%). Per alcuni, come il ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, allontanato poco dopo il referendum, Tsipras sperava che il referendum avrebbe approvato il bailout, sebbene avesse (Tsipras) fatto una campagna per il suo rifiuto, così da non essere incolpato di sottomettersi al «diktat» europeo. 183 L’esito fu che SYRIZA, per ottenere i fondi del bailout, dovette adottare politiche di austerità simili a quelle che loro stessi (e l’elettorato) avevano respinto in precedenza. Anche l’UE aveva vincoli da rispettare, legata com’è da trattati e regolamenti. Dispensarne la Grecia avrebbe provocato le proteste da parte di altri paesi come il Portogallo, la Spagna, l’Irlanda e Cipro, che avevano dovuto accettare le regole. L’unica alternativa all’accettazione delle regole dell’UE sarebbe stata per la Grecia quella di andare in default e lasciare l’eurozona, causando grossi danni al sistema bancario europeo. I greci avrebbero potuto scommettere che l’UE avrebbe battuto ciglio per prima (Varoufakis alla BBC spiegò che «non è un giocare a chi batte ciglio per primo») e aiutato lo stesso la Grecia. 184 Era questo il «piano B», vale a dire il «Piano dracma» della fazione di sinistra di SYRIZA guidata da Panagiotis Lafazanis e Dimitris Stratoulis, una specie di «se non fai come dico io mi faccio saltare in aria e con me tutti gli altri». Comprensibilmente, nessuno ebbe il coraggio o fu tanto folle da giocare a un azzardo simile. In barba al suo radicalismo, la soluzione alla crisi proposta da SYRIZA era tradizionale keynesismo: aiutateci ad aumentare la spesa pubblica e alla fine saremo in grado di ripagare i nostri debiti. SYRIZA non contemplò mai seriamente l’ipotesi di lasciare l’euro uscendo dall’UE. La Grecia potrà sentirsi insicura nell’UE, ma lo sarebbe di più standone fuori. Più sorprendente, date le credenziali di sinistra, è che la Grecia fosse uno dei pochi paesi della NATO a spendere almeno il 2% nella difesa, al secondo posto dopo gli USA (e per questo calorosamente congratulata da Trump). 185 Ancora una volta la paura della Turchia e il bisogno di usare la leva militare per tenere bassa la disoccupazione giovanile hanno contato assai più che la paura della Russia o la lealtà nei confronti dell’alleanza atlantica.

Il dilemma affrontato da SYRIZA è stato quello di tutte le forze europee di sinistra, da Podemos a Corbyn, da Mélenchon al portoghese Bloco de Esquerda: operano in un mondo capitalista globalizzato e interdipendente dove nessuno può isolarsi. Sono deboli e non sono potenti egemoni internazionali. L’Unione Sovietica non c’è più. La Cina non è (ancora) abbastanza forte. Gli Stati Uniti sono in declino. L’Europa è allo sbando.

5. L’EGEMONIA AMERICANA

L’Europa fa ora parte della periferia del mondo. Gli europei parlano ininterrottamente dell’Europa. Si chiedono quale sia il suo ruolo, dove stia andando e se gli Stati Uniti possano continuare a guidarli o se emergerà qualche nuovo paese egemone. Eppure non dovremmo dimenticare che non è inevitabile che sia un unico paese a dover «guidare il mondo». In realtà nessuno ha mai «guidato il mondo» e i poteri egemoni lo erano, al massimo, in una regione determinata (la Macedonia, l’antica Roma, la Cina imperiale, l’India dei moghul, gli imperi inca e azteco e quello ottomano). In ogni caso il mondo può funzionare altrettanto bene (o altrettanto male) senza un paese «egemone». Ciò che conta è quello che fa l’egemone putativo quando la sua egemonia è minacciata – una caratteristica dell’ideologia americana nell’epoca del suo declino: «Cieca soddisfazione di sé e credenza nella giustezza naturale del proprio dominio», per dirla con Perry Anderson. 1 La Gran Bretagna, verso la fine del XVIII secolo e per gran parte del XXI secolo, non era egemone; dominava i mari o così riteneva, giacché aveva la marina più potente del mondo e, alla fine del XIX secolo, il più vasto impero di sempre, ed era la principale nazione commerciale, ma non controllava il mondo. Gli Stati Uniti non erano egemoni prima della seconda guerra mondiale, sebbene fossero stati la prima potenza industriale almeno dal 1900. E anche dopo il 1945, pur essendo di certo la superpotenza principale, dovettero confrontarsi con il blocco comunista. Non potevano fare come volevano. Avevano di fronte la Cina comunista. Non furono in grado di impedire la divisione della Corea. All’inizio, nella corsa allo spazio, inseguivano l’Unione Sovietica. Soffrirono un’umiliazione senza precedenti in Vietnam. Dovettero accettare uno stato comunista, Cuba, a poche miglia dalle rive della Florida. Non poterono proteggere uno dei loro principali alleati in Medio Oriente, lo scià dell’Iran, dalla deposizione da parte dei seguaci dell’ayatollah Khomeini. Non furono capaci nemmeno di soccorrere gli

ostaggi tenuti in Iran, perché due loro elicotteri entrarono in collisione e nell’incidente morirono otto soldati americani. La questione dovette essere risolta dopo negoziati per i quali gli USA accettarono la richiesta originale dell’Iran di svincolare 8 miliardi di dollari di beni iraniani nelle banche americane. L’incompetenza totale dei militari americani è stata ampiamente dimostrata in quasi tutte le loro avventure all’estero, anche se le spese militari (610 miliardi di dollari) sono pari al totale di quelle delle altre sette maggiori potenze che vengono dopo di lei (601 miliardi). 2 Gli Stati Uniti non sono stati capaci di sconfiggere i talebani in Afghanistan (uno degli stati più poveri del mondo), in quella che è diventata la più lunga guerra americana di sempre, anche se avevano schierato, in una sola volta, più di 100.000 soldati – ne avevano persi 2300 – e speso più di un trilione di dollari. 3 Prima del loro coinvolgimento nell’area, le autorità americane, seguendo ciecamente la logica della guerra fredda, fornirono aiuti ai mujāhidīn antisovietici per contrastare l’intervento dell’URSS del dicembre 1979. Nel 1989 l’URSS di Gorbačëv ritirò le truppe senza aver ottenuto nessuno dei propri obiettivi militari. Tuttavia, da quel momento, gli Stati Uniti avevano creato una situazione che non potevano controllare né comprendere. Zbigniew Brzezinski (un tempo consigliere per la Sicurezza nazionale del presidente Carter) fu intervistato nel 1998 dal settimanale francese «Le Nouvel Observateur». Gli chiesero se si fosse pentito di aver fornito aiuti alle forze islamiche dei mujāhidīn (anche prima dell’intervento sovietico). Rispose: «Pentito di cosa? Quell’operazione segreta fu un’idea eccellente. Ebbe l’effetto di attrarre i russi nella trappola afghana e vorreste che me ne pentissi?». «Le Nouvel Observateur»: E non rimpiange di aver sostenuto il fondamentalismo islamico e fornito armi e consigli a futuri terroristi? Brzezinski: Che cos’è più importante per la storia del mondo? I talebani o il crollo dell’impero sovietico? Qualche musulmano sovreccitato o la liberazione dell’Europa centrale e la fine della guerra fredda? «Le Nouvel Observateur»: Qualche musulmano sovreccitato? Ma sentiamo in continuazione che il fondamentalismo islamico rappresenta oggi una minaccia mondiale. Brzezinski: Balle! 4

L’obiettivo americano di nation-building in Afghanistan fallì completamente. Quello che si creò in Afghanistan era un narco-stato. L’«intervento umanitario» degli Stati Uniti in Somalia, invece, naufragò perché qualche mese prima un paio dei loro elicotteri erano stati abbattuti,

causando la morte di diciotto soldati americani. Nella battaglia che seguì persero la vita centinaia di civili. Il presidente Bill Clinton aveva dichiarato in precedenza che «siamo arrivati in Somalia per soccorrere persone innocenti in una casa in fiamme. Avevamo quasi domato l’incendio, ma restano ancora braci incandescenti. Se le abbandoniamo ora, quelle braci torneranno a essere fiamme e altre persone moriranno». Poi se ne andarono lo stesso e la Somalia rimase nel caos completo. Sono seguiti altri «errori». Nel 1998, in rappresaglia degli attacchi terroristici contro le ambasciate americane in Tanzania e Kenya, Clinton ordinò il bombardamento e la distruzione della fabbrica farmaceutica di AlShifa, in Sudan, sulla base di prove fallaci fornite dalla CIA secondo cui i proprietari avevano legami con al-Qaeda. La fabbrica, un importante produttore di farmaci, fu distrutta. Non furono espresse scuse né fu offerto alcun risarcimento. 5 Come scrisse Christopher Hitchens: «Clinton aveva bisogno di mostrarsi “presidenziale” per un giorno […] agì per capriccio e con brutalità, trascurando completamente la legge internazionale, forse contava sull’indifferenza della stampa e della pubblica opinione nei confronti di una società trascurabile come quella del Sudan […]». 6 Nel 2011 vi fu l’intervento USA, sostenuto dall’ONU, caldeggiato da David Cameron e Nicolas Sarkozy, a sostegno della ribellione in Libia contro Muammar Gheddafi, il suo leader. Il presidente Obama, in privato, aveva definito la Libia un «merdaio». La Libia divenne in seguito un porto sicuro per vari tipi di terroristi islamici. 7 Migranti bloccati in Libia dalla guardia costiera del paese con il sostegno dell’UE sono stati detenuti in condizioni «orrende» e «inumane», secondo l’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite (ed ex diplomatico giordano) Zeid bin Ra’ad Al Hussein. 8 Le guerre per procura sono state anche peggiori dell’intervento diretto da parte dell’Occidente. La guerra in Yemen, condotta dall’Arabia Saudita con armi occidentali (gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sono i maggiori fornitori di armi all’Arabia Saudita), ha portato a un enorme numero di vittime e alla più grande epidemia di colera della storia. 9 L’ONU ha avvertito che in Yemen 13 milioni di persone rischiano la morte per denutrizione. Quand’era ministro inglese della Difesa, Michael Fallon chiese ai deputati (25 ottobre 2017) di non criticare l’Arabia Saudita nell’interesse di un accordo per la vendita di bombardieri. Jeremy Corbyn, allora leader del Partito laburista, chiese il ritiro

dell’appoggio ai bombardamenti del governo saudita in Yemen. 129 deputati laburisti lo seguirono, ma altri 100 non lo fecero. Se avessero votato uniti, il governo sarebbe stato sconfitto. Tra quelli che direttamente o indirettamente sostenevano i bombardamenti sauditi c’erano gli ex concorrenti alla leadership del partito Andy Burnham, Liz Kendall e Dan Jarvis, un ex maggiore dell’esercito dato in certi ambienti come futuro leader. Nessun intervento liberale per lo Yemen, ma sostegno al disumano intervento dell’Arabia Saudita. Il blocco saudita allo Yemen (ottobre 2017) ha portato a quello che tre agenzie umanitarie dell’ONU (WHO, UNICEF e WFP – World Food Programme) hanno descritto come «la peggior crisi umanitaria del mondo»: 11 milioni di bambini che necessitano assistenza, 14,8 milioni di persone prive di basilari cure sanitarie e 900.000 casi sospetti di colera. 10 E nessun intervento umanitario neanche per i musulmani rohingya del Myanmar, minacciati di genocidio. Gli Stati Uniti non sono nemmeno stati capaci di portare la democrazia in Iraq con l’intervento «umanitario» del 2003. Non sono stati in grado di risolvere il conflitto israelo-palestinese (o non hanno voluto). Dopo la caduta del comunismo sembrava che gli Stati Uniti potessero «governare il mondo», giacché erano l’unica potenza globale rimasta; invece si trattava probabilmente dell’inizio del loro declino. Ogni intervento lasciava il paese «che aiutavano» in uno stato peggiore di prima, un risultato non trascurabile. Barack Obama fece eccezione fra le autorità americane per aver compreso i limiti della potenza statunitense. La sua massima, ripetuta spesso nonostante la sua ineleganza («Don’t do stupid shit» – Non fare stronzate), gettò nella costernazione i falchi di Washington (in particolare Hillary Clinton e Samantha Powers, ambasciatrice degli Stati Uniti all’ONU nel periodo 2013-2017 che invece sarebbero intervenute pressoché ovunque seduta stante). Al punto che nell’aprile 2008, durante la sua prima campagna presidenziale, Hillary Clinton – la quale, a differenza di Obama, sull’Iraq si era sbagliata – disse che con lei presidente gli Stati Uniti avrebbero «spazzato via del tutto» l’Iran nel caso di un attacco nucleare contro Israele. Senza ammonire pubblicamente Israele di non assalire l’Iran con armi nucleari (Israele ha armamenti nucleari, l’Iran no). 11 Nel febbraio 2011 Hillary Clinton (allora segretario di stato), Samantha Powers e Susan Rice, che aveva preceduto la Powers nella carica di ambasciatore presso l’ONU, avevano insistito per i bombardamenti aerei

nonostante la cautela dei membri dell’amministrazione Obama (facendo così precipitare il disastro). 12 Fanno apparire Trump meno lunatico di quanto non sembri. L’assai ammirato Barack Obama non è esattamente una colomba. All’inizio del suo primo mandato prefigurava un mondo senza armi nucleari. La visione resterà probabilmente tale, giacché la riduzione dell’arsenale nucleare durante la sua presidenza è stata assai più lenta di quella attuata dai suoi tre predecessori (George Bush, Bill Clinton, George W. Bush). 13 Quando si è trattato di ammazzare la gente, Obama non è stato da meno dei suoi predecessori. Durante la sua campagna presidenziale del 2008 era contro la guerra in Iraq e l’uso della tortura. Una volta presidente, insistette che la cosa giusta da fare fosse controllare tutti gli attacchi via drone. Così, ogni settimana, come spiega un lungo articolo del «New York Times», gli apparati di sicurezza gli sottoponevano una lista di sospetti terroristi in terre lontane, raccomandando la morte di alcuni. 14 Poi il presidente spuntava certe caselle. Naturalmente questo non è controterrorismo: è solo ammazzare persone in terre lontane. Nel primo anno della presidenza Obama, la CIA ha condotto cinquantadue attacchi con droni in Pakistan, mentre durante gli otto anni delle due amministrazioni Bush ne furono ordinati quarantotto. Nel 2016 ha poi aumentato i suoi programmi di assassinii mirati in Yemen. Questo programma di omicidi mirati è stato approvato dalla stragrande maggioranza degli americani (l’83%), molti dei quali sono probabilmente sorpresi dal fatto che ci sia qualcuno che voglia uccidere degli americani. 15 Obama ha adottato un metodo controverso per calcolare le vittime civili: tutti i maschi in età da militare di una zona da colpire sarebbero stati considerati combattenti. Se dunque eri abbastanza sfortunato da essere un maschio adulto nella fascia di età giusta e di trovarti in un territorio «occupato» da al-Qaeda, eri considerato comunque un combattente. Questo spiega ciò che le autorità definivano il numero «straordinariamente basso» di morti collaterali. In pratica tutto quello che c’era da fare dopo l’attacco di un drone era contare i cadaveri e dichiarare che erano stati uccisi un tot di militanti. Il metodo assicurava inoltre che non si aggiungessero altri nomi a Guantánamo, perché gli eventuali candidati erano morti. I dati sui droni, raccolti da varie fonti da parte di Micah Zenko del Council on Foreign Relations, suggeriscono che, durante la presidenza di Obama, tra le 3797

persone uccise ci fossero 324 civili. 16 Solo nel 2016 Obama, premio Nobel per la pace, trasgredendo la massima di Abraham Lincoln «Una guerra alla volta», scaricava almeno 26.172 bombe su sette paesi musulmani: Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Yemen, Somalia e Pakistan. 17 Donald Trump ha fatto di meglio. Tra la sua cerimonia d’insediamento (gennaio 2017) e l’ottobre del 2017, ha sganciato più bombe in Medio Oriente che Obama in tutto il 2016. 18 Il 13 aprile 2017 gli Stati Uniti hanno sganciato una delle loro più grandi bombe non nucleari, «la madre di tutte le bombe» (Mother of All Bombs – MOAB), su un complesso di gallerie usato da militanti del cosiddetto stato islamico nell’Afghanistan orientale. Gli esperti militari dicono che l’uso del MOAB avesse rilevanza strategica. Come spesso accade, si sbagliavano di grosso. La bomba non modificò il corso della guerra. 19 I bombardamenti contro Assad del 14 aprile 2018 (coadiuvati dalla Francia di Macron con il sostegno poco entusiasta del governo britannico e la disapprovazione della maggioranza del popolo britannico) non fecero alcuna differenza in una guerra che Assad stava comunque vincendo. Nel frattempo l’Arabia Saudita proseguì la sua guerra in Yemen (caldamente approvata dall’Occidente) mentre Israele sparava ai dimostranti disarmati di Gaza senza un mormorio di disapprovazione da parte dell’Occidente. Uno dei problemi è che l’attore principale della politica estera sta alla Casa Bianca, ed è il presidente. La maggior parte dei presidenti americani non ha la minima esperienza di politica estera e si circonda spesso di persone che hanno una scarsa cognizione delle relazioni internazionali (Brzezinski e Kissinger le più ovvie eccezioni) o che sono troppo codarde per contraddirli. Benché la conoscenza americana in fatto di relazioni internazionali sia insuperata, i presidenti americani, con qualche eccezione (viene in mente Nixon: vicepresidente per otto anni, aveva avuto quindi modo di imparare qualcosa), hanno una comprensione assai modesta del «globale». Kennedy (e suo fratello Robert, che per un breve periodo era stato assistente di Joseph McCarthy nella caccia alle streghe anticomunista e che come procuratore generale degli Stati Uniti – nominato dal fratello nonostante fosse del tutto privo di qualifiche – ordinò l’intercettazione telefonica di Martin Luther King) credette alla CIA su Cuba e approvò l’invasione della Baia dei Porci, il primo di molti fallimenti. Paranoico su Castro e sovrastimandone grossolanamente l’influenza in America Latina (e

dunque aumentandola), Kennedy sostenne il rovesciamento di Arturo Frondizi, il presidente dell’Argentina democraticamente eletto nel 1958, considerò l’ipotesi di intervenire in Brasile per rovesciare il governo democratico del presidente João Goulart (che fu comunque rovesciato nel 1964) e sostenne i golpe militari nel Guatemala e nella Repubblica Dominicana nel 1963 (contro Juan Bosch, il suo primo presidente eletto democraticamente). 20 Il mito che avvolge Kennedy è dovuto ai suoi apologeti indiscussi, Theodore Sorensen e Arthur Schlesinger, al fatto che fosse attraente, avesse una moglie graziosa e alla sua morte per mano di un pazzo assassino. Le sue numerose liaison extraconiugali misero a rischio la sicurezza, lo esposero ai ricatti dell’FBI e di J. Edgar Hoover e lo avrebbero portato alle dimissioni in un paese con una stampa meno servile. Era anche dipendente da anfetamina e altre sostanze, necessarie a combattere i suoi malanni alla schiena e il morbo di Addison. 21 Niente di tutto ciò dovrebbe sorprendere chiunque esaminasse spassionatamente la retorica bellicosa del reboante discorso inaugurale di Kennedy (lodato in tutto l’Occidente), quando dichiarò: «Che ogni nazione sappia, sia che ci auguri il bene, sia che ci auguri il male, che pagheremo qualsiasi prezzo, sopporteremo qualunque peso, affronteremo ogni difficoltà, aiuteremo qualsiasi amico, affronteremo qualunque nemico pur di assicurare la sopravvivenza e il successo della libertà». 22 Se Donald Trump avesse usato un linguaggio simile nel 2017, chiunque in Occidente sarebbe corso a nascondersi in preda al panico. In realtà Kennedy fu un presidente di notevole incompetenza. Paragoniamo la retorica guerrafondaia di Kennedy con la pensosa moralità proclamata da Dwight Eisenhower all’apice della guerra fredda. Eisenhower era un ex generale e fu un mediocre presidente, ampiamente ritenuto responsabile dell’incoraggiamento, tra altri crimini (assieme ai britannici), dell’assassinio, da parte belga, nel gennaio 1961, del leader congolese democraticamente eletto Patrice Lumumba. 23 Tuttavia Eisenhower è ricordato anche per aver denunciato l’«apparato militareindustriale» nel suo discorso di commiato del 17 gennaio 1961 in termini che lo fanno quasi sembrare pacifista: «Dobbiamo guardarci dall’acquisizione di influenze che non danno garanzie, sia palesi sia occulte, esercitate dall’apparato militare-industriale. Il potenziale per l’ascesa disastrosa di poteri male indirizzati esiste ora e persisterà in futuro». Ma dovrebbe essere

ugualmente ricordato per aver detto, all’inizio della sua presidenza, in quello che sarebbe stato ricordato come il discorso «Chance for Peace», che ogni arma da fuoco prodotta, ogni nave da guerra varata, ogni missile lanciato significano, in ultima analisi, un furto ai danni di chi è affamato e denutrito, di chi ha freddo e non ha vestiti. Questo mondo in armi non sta solo spendendo denaro. Sta spendendo il sudore dei suoi operai, il genio dei suoi scienziati, le speranze dei suoi figli. Il costo di un moderno bombardiere è una scuola moderna, in muratura, in più di trenta città. È il costo di due centrali elettriche […]. Di due ospedali completamente equipaggiati […]. Questo non è affatto un modo di vivere, in alcun senso, legittimo. Dietro le nubi di una guerra minacciosa c’è l’umanità appesa a una croce di ferro. 24

Nulla di tutto ciò parve turbare Kennedy. La crisi dei missili cubani del 1962, il suo «momento di gloria» quando si trovò «occhi negli occhi» col Cremlino, ebbe origine dal dispiegamento dei missili americani Jupiter (considerati armi «da attacco a sorpresa») in Turchia, alla portata delle maggiori città russe. Comprensibilmente in allarme, i sovietici reagirono dispiegando missili a testata nucleare a Cuba. Kennedy, che aveva bisogno di darsi un’aria da duro, dichiarò la mossa sovietica una minaccia per la pace e la sicurezza. Tutti furono presi dal panico. Il presidente si mostrò «presidenziale». Alla fine l’URSS ritirò i suoi missili e Kennedy i propri dalla Turchia (e promise di non invadere mai Cuba). Ciò fu fatto lontano dai riflettori: i sovietici compresero che il presidente doveva salvare la faccia. Il maggior errore di Kennedy in politica estera (non combinò quasi nulla in politica interna) fu di credere ai propri generali sul Vietnam, dando il via al più grave disastro in politica estera della storia americana. Kennedy, sempre un falco della guerra fredda, aveva nominato suo segretario alla Difesa Robert McNamara, un uomo che aveva passato la maggior parte della propria vita alla Ford divenendone infine presidente. Come se dirigere un’azienda multinazionale fosse garanzia di acume in politica estera. In seguito, ma molto in seguito, McNamara riconobbe come «una debolezza della nostra forma di governo» che mentre in Europa i ministri spesso avevano trascorso del tempo all’opposizione, ricavandone esperienza, «io, al contrario, arrivai a Washington con l’esperienza da presidente della Ford». 25 E le cattive abitudini continuano: l’insulso segretario di stato di Donald Trump, Rex Tillerson, rimosso nel marzo 2018 e descritto dall’«Atlantic» – in modo forse ingeneroso, giacché la competizione è agguerrita – «come il peggior segretario di stato a memoria d’uomo», era il boss della ExxonMobil, azienda leader nel negare il cambiamento climatico. 26 I principali consiglieri di Trump nel marzo 2018 sono tutti ex generali: John Kelly (capo di gabinetto

della Casa Bianca, ora rimosso), James Mattis (segretario alla Difesa) e Herbert Raymond McMaster (consulente alla Sicurezza nazionale, rimosso alla fine del marzo 2018 a favore del raccapricciante John Bolton). In nessun paese occidentale tutti i ruoli chiave in politica estera sono occupati da ex generali. McNamara fallì in ogni suo tentativo. Sotto la sua responsabilità (e quella di Kennedy) 500.000 soldati andarono in Vietnam, dove morirono in 56.000 assieme a vittime vietnamite (sia civili sia militari) stimate tra 882.000 e 1.050.000. 27 Ci vollero trent’anni perché McNamara ammettesse nelle sue memorie l’enormità dei propri «errori»: «Vorrei contestualizzare il Vietnam […]. Eppure sbagliammo, sbagliammo terribilmente. Dobbiamo alle generazioni future una spiegazione. Credo veramente che l’errore da noi commesso non fu di valori e intenzioni, ma di giudizio e capacità». 28 La mancanza di comprensione degli affari internazionali di McNamara è dimostrata dal suo ingenuo credere alla formula: «Se il mondo libero perde il Laos, a lungo andare perderà tutto il Sudest asiatico». Questo è quanto gli aveva detto Eisenhower (il presidente uscente) e questo ripeté a Kennedy in un promemoria segreto il 24 gennaio 1961. 29 Dean Rusk, segretario di stato americano con Kennedy e Johnson, era convinto che il Vietnam fosse un semplice burattino della Cina. Simile mostruosa ignoranza fu uno degli effetti collaterali delle purghe maccartiste dal dipartimento di stato di «sinistrorsi» che sapevano un paio di cose sull’Asia. Il successore di Kennedy, Lyndon Johnson, era un uomo acuto e intelligente con un’enorme esperienza al congresso, ma abbastanza digiuno di politica estera. Nel 1966 anche McNamara cominciò a dubitare della capacità americana di vincere. In una conversazione telefonica con Johnson (28 giugno 1966) disse: «Stiamo portando […] soldati lo sa Dio con quanti aeroplani, elicotteri e potenza di fuoco a inseguire un mucchio di pezzenti denutriti […] dobbiamo considerare che possano resistere quasi indefinitamente». 30 Altrettanto interdetto era il generale William Westmoreland, l’illuso comandante delle forze americane in Vietnam (19641968), regolarmente definito da David Halberstam (autore del miglior resoconto della guerra in Vietnam, intitolato ironicamente The Best and the Brightest – «Il migliore e il più brillante») come «non brillante»: si riferì ai vietnamiti che stava combattendo come «termiti» in una lunga metafora dai toni razziali. 31 Questo era il linguaggio del comune soldato americano.

Come riportato da Max Hastings, veterano corrispondente di guerra britannico, i soldati americani si rivolgevano regolarmente ai vietnamiti, che fossero amici o nemici, come «musi gialli». In molti espressero la loro simpatia per il tenente William Calley, noto per il massacro di My Lai (quando, il 16 marzo 1968, tra 300 e 500 contadini, donne e bambini compresi, furono assassinati e alcune donne violentate prima di essere uccise). Il maggiore Colin Powell, in seguito segretario di stato degli Stati Uniti, fornì un rapporto su My Lai che fu un «insabbiamento indiscusso». Una giovane recluta disse: «Odierò anche questa guerra, ma ammazzare musi gialli mi piace di sicuro». Allora (era il 1971), come ha scritto Hastings (non un uomo di sinistra), «la maggior parte dei corrispondenti di tutte le nazionalità aveva perso ogni speranza nella causa americana». 32 Tuttavia Westmoreland non accettò mai che gli USA avessero perso. 33 La sua strategia si ridusse a cercare di uccidere più soldati del Vietnam del Nord e Vietcong possibile, fino al raggiungimento di quello che definiva «un punto di svolta» oltre il quale le perdite del nemico sarebbero diventate insostenibili. Tra il 1965 e il 1967 gli Stati Uniti e i loro alleati scaricarono più di un milione di tonnellate di bombe sul Vietnam del Sud causando un crescente numero di vittime, compresi molti civili. 34 Quando il reporter Neil Sheehan, al seguito dell’esercito americano, fece presente a Westmoreland l’enorme numero di vittime civili, il generale rispose: «Sì, ma priva il nemico della popolazione, no?». 35 Tra il 1965 e il 1972 gli USA utilizzarono il napalm, una sostanza gelatinosa che si appiccica al corpo ustionandolo in modo insopportabilmente doloroso e che uccide quasi sempre le sue vittime. Nello stesso periodo gli americani usarono anche l’Agente arancio, un defoliante chimico tossico il cui fine era privare i contadini vietnamiti di cibo e di acqua potabile e rendere il nemico visibile (era stato usato in precedenza dai britannici in Malesia). Fu tutto inutile. Johnson cercò di coinvolgere altri paesi nel pantano vietnamita, in particolare la Gran Bretagna, ma Harold Wilson, ben più sagacemente di Tony Blair, declinò la richiesta. Come scrisse Norman Dixon nel suo On the Psychology of Military Incompetence («Sulla psicologia dell’incompetenza militare»), «In questa guerra tra le più orribili e mal concepite» Lyndon Johnson e i suoi consiglieri selezionavano gli obiettivi «a una buona e sicura distanza di 12.000 miglia», mentre l’uomo sul posto, Westmoreland, era «confuso dal peso assoluto

dell’energia distruttiva». Insieme, Johnson e Westmoreland «produssero un modello di follia marziale tanto abbietto e raccapricciante che alla fine fu troppo per entrambi». 36 Il problema per Johnson, McNamara & Company non era solo il mancato controllo della situazione, ma il non rendersi nemmeno conto di non controllarla. I vietnamiti sapevano di avere il tempo dalla loro parte. Come disse al «New York Times» il primo ministro del Vietnam del Nord, Pham Van Dong, nel 1966: «E per quanto tempo volete combattere voi americani […] un anno? Due anni? Tre anni? Cinque anni? Dieci anni? Vent’anni? Saremo ben lieti di accontentarvi». 37 I vietnamiti del Nord e i Vietcong non avevano aviazione, ma avevano combattuto per decenni, stavano combattendo per la propria terra ed erano infinitamente più esperti degli americani. Per questo erano superiori. Per questo vinsero. In faccende militari la forza non è tutto. Come spiegava Orazio circa duemila anni fa, «Vis consili expers mole ruit sua» («La forza senza saggezza crolla sotto il suo stesso peso, Odi, III,4,65). Johnson avrebbe dovuto dare ascolto a Hans Morgenthau, l’eminente politologo della cosiddetta scuola «realista», il quale aveva compreso che l’America andava incontro a una sconfitta. Come scrisse nel «New York Times Magazine» (18 aprile 1965): «Ci stiamo illudendo in Vietnam». 38 E per questo Lyndon B. Johnson lo rimosse da consigliere. Le cose migliorarono (leggermente) con Nixon il quale, consigliato da Henry Kissinger, fu sufficientemente desto da accettare le perorazioni cinesi. Queste portarono gli americani al riconoscimento della Cina e allo scarico dei precedenti alleati, Taiwan e il Vietnam del Sud. Ci vollero anni perché gli Stati Uniti si districassero dal Vietnam, in parte per evitare di riconoscere che avevano perso. Nixon e Kissinger avevano invaso la Cambogia, bombardato selvaggiamente il Laos e il Vietnam del Nord, sostenuto il golpe di Pinochet in Cile, lasciato mano libera a Saddam Hussein con i curdi e sostenuto l’esercito pakistano nei suoi massacri in Bangladesh. Nixon e Kissinger erano professionisti della politica estera. Dopo di loro si tornò ai dilettanti. Vi fu il mediocre Gerald Ford, il leader della minoranza in parlamento, arruolato come vicepresidente quando Spiro Agnew fu costretto a lasciare l’incarico perché riconosciuto colpevole di evasione fiscale, per poi ritrovarsi presidente quando Nixon diede a sua volta le dimissioni nel 1974 sulla scia

dello scandalo Watergate. Ford mantenne Kissinger segretario di stato e Kissinger passò molto tempo nella cosiddetta diplomazia della spola in Medio Oriente, risolvendo problemi a breve termine e creandone altri a lungo termine mentre sosteneva le stragi indonesiane a Timor Est. A Ford succedette Ronald Reagan, la cui principale esperienza politica, dopo un periodo come attore hollywoodiano di seconda categoria, era stata quella di governatore della California (creando un precedente per l’incarico, ancora più bizzarro, di Arnold Schwarzenegger). Il successore di Reagan fu George Bush senior, che almeno era stato ambasciatore degli Stati Uniti all’ONU, poi inviato in Cina e in seguito, ma per meno di un anno, direttore della CIA. Poi venne il turno di un altro dilettante, Bill Clinton, la cui principale esperienza era stata il governatorato dell’Arkansas, uno degli stati più poveri e meno istruiti del paese, con una popolazione di tre milioni di persone. Poi toccò a George Bush junior, ex governatore del Texas, e infine a Barack Obama, il giovane senatore dell’Illinois (che non mantenne la promessa di chiudere Guantánamo durante gli otto anni dei suoi due mandati, forse per evitare che qualcuno potesse ritenerlo troppo tenero con il terrorismo). 39 Ultimo, ma non meno importante in questa triste sequela, è Donald Trump, che non capisce nemmeno i limiti del potere presidenziale e resterà uno zimbello universale a meno che non scateni la terza guerra mondiale. Durante la sua campagna presidenziale Trump ha dichiarato a gran voce che avrebbe indotto la Cina a smettere di «violentare» l’economia americana. Una volta eletto, in visita a Pechino nel novembre 2017, quasi si è prostrato davanti a Xi Jinping mantenendo un contegno insolitamente decoroso e rispettoso. Non ha menzionato nulla che potesse offendere i cinesi: Taiwan, Tibet, piazza Tienanmen, e non ha incolpato la Cina per il deficit commerciale americano. Come avrebbe potuto dire in uno dei suoi numerosi e sciocchi tweet: «Sad!». Nel luglio 2017, in visita in Polonia, sede di uno dei governi più a destra in Europa, Trump è stato introdotto da sua moglie Melania e ha cominciato il suo discorso rivolgendole un tributo oltremodo imbarazzante: «Davvero non c’è miglior ambasciatrice del nostro paese della nostra bella first lady Melania. Grazie, Melania. È stato molto bello». Gran parte del resto del discorso fu un’ampollosa sviolinata al nazionalismo polacco, abbastanza insignificante se non per i nazionalisti polacchi. Roba come: «Il trionfo dello

spirito polacco su secoli di privazioni dà a tutti noi speranza in un futuro in cui il bene conquista il male, e la pace sconfigge la guerra […] nel popolo polacco vediamo l’anima dell’Europa». Poi è venuto il momento degli affari e Trump il venditore ha ringraziato la Polonia per aver acquistato dagli Stati Uniti «il sistema missilistico di difesa Patriot, testato in battaglia e migliore del mondo». 40 Lo stile amatoriale della politica americana è ulteriormente esemplificato dalla (breve) impennata del sostegno all’improbabile candidatura di Oprah Winfrey a prossima presidente degli USA sulla base di un discorso di otto minuti ai Golden Globe del gennaio 2018. Un discorso ben pronunciato ma di estrema banalità, in cui, seguendo la tradizione, ringraziava varie persone che l’avevano aiutata nella sua carriera: «È un privilegio condividere la serata con […] gli incredibili uomini e donne che mi hanno ispirata», e che finisce menzionando la lotta contro il razzismo, Rosa Parks, e aspettando con impazienza «un nuovo giorno […] all’orizzonte!». 41 Si è tentati di liquidare tutto questo semplicemente come un altro esempio di cultura fuori controllo della celebrità, ma con Trump come presidente e da quando la politica americana è ammaliata dal potere dello spettacolo, «presidente Oprah» diventa un’espressione che non appare più tanto ridicola. 42 Nel primo anno di presidenza Trump l’indice internazionale di gradimento per gli USA in 134 paesi era sceso al 30% (era al 48% nell’ultimo anno di mandato di Obama). Gli unici stati in cui era salito con Trump sono la Bielorussia, Israele, la Macedonia e la Liberia. In Europa era alto solo in Kosovo (75%) e in Albania (72%). In Polonia era al 56% (probabilmente grazie alla sua visita) e in Italia, il quarto paese, a un inesplicabile 45%. Nel Regno Unito, nonostante la «special relationship» era al 33%, in Francia al 25% e in Germania al 22%. Fare di nuovo grande l’America sarà una strada tutta in salita. È stato sondato il gradimento di altri tre paesi: la Cina, che ha ottenuto il 31%; la Russia, il 27%; la Germania, migliore fra tutti, il 41%. 43 A nessuno è stato chiesto di valutare il Regno Unito, nonostante la convinzione di Gordon Brown che la creatività britannica potesse fare del XXI secolo «un secolo britannico». Che l’influenza politica americana a livello globale fosse in declino da qualche tempo era del tutto sfuggito a Tony Blair il quale, parlando al congresso americano il 13 luglio 2003, nella tipica postura genuflessa, spiegò che «la teoria politica più pericolosa» era quella secondo cui la potenza degli

avesse bisogno di essere bilanciata con quella di un altro paese, aggiungendo, tanto per farsi apprezzare dagli storici, che non c’era mai stato un tempo in cui «lo studio della storia ci fornisce così scarsa guida per il momento presente». 44 Come tutti i suoi predecessori e, indubbiamente, tutti i suoi successori, sentì il bisogno di menzionare la leggendaria «special relationship» tra Stati Uniti e Regno Unito. Questo rapporto è uno degli aspetti più imbarazzanti della politica estera britannica. Nella misura in cui esista davvero, si limita alla condivisione di intelligence e al sostegno americano per le armi nucleari «indipendenti» della Gran Bretagna. Dovrebbe essere chiamato un «rapporto di dipendenza». Il «rapporto speciale» è preso sul serio solo nel Regno Unito mentre, negli USA, riceve menzione solo quando un primo ministro britannico atterra a Washington, quasi come per far piacere a uno zio anziano e un po’ strambo che si bea d’illusioni ormai fuori tempo massimo. Quando si tratta di Trump, peraltro, nelle sue considerazioni sulla storia Blair ha probabilmente ragione: storicamente non c’è mai stato nulla come Trump. Nessuno può essere certo di che tipo di presidente sarà (sospetto che l’incertezza sarà l’elemento caratteristico della sua presidenza), la sua famosa ma vaga promessa: «Let’s make America great again» (simile a uno slogan usato da Ronald Reagan nel 1980 e ripreso come sottotitolo per il libro di Peter Beinart The Good Fight: Why Liberals – and Only Liberals – Can Win the War on Terror and Make America Great Again [«La buona battaglia. Perché i liberali – e solo i liberali – possono vincere la guerra contro il terrore e rendere l’America ancora grande»] pubblicato nel 2006), pur sottintendendo che l’America non sia più «great», elude il fatto che «great» l’America non lo è stata mai. Gli interventi militari americani, quasi tutti inutili dal punto di vista dell’interesse nazionale del paese, si sono risolti quasi sempre, come si è visto, in disastri. Una delle molte ragioni, in aggiunta alla cronica incompetenza militare, è che l’americano medio, non irragionevolmente, preferirebbe evitare di morire per il proprio paese, soprattutto quando non ne capisce il motivo. I soldati statunitensi avranno anche potuto credere che gli USA fossero un faro di speranza per il pianeta, ma non capivano cosa stessero facendo in Corea, Vietnam, Cuba, Afghanistan, Iraq, Libia eccetera. «Fermare il comunismo» non è poi un motivo tanto convincente, giacché implica presumere che il comunismo, se non fermato in Laos, Cambogia o Vietnam, raggiungerà in qualche modo USA

Laguna Beach o Palm Beach o Atlantic City. Per dirla con Niall Ferguson: gli americani «preferiscono consumare che conquistare». 45 Ciò significa che i soldati non possono essere schierati a lungo e sono presto sostituiti da altri altrettanto inesperti (a differenza dei vietnamiti o dei talebani che hanno combattuto e combattono per anni). La «grandezza» dell’America, a voler proprio usare un termine vanitoso e machista come questo, è nel campo della cultura popolare (musica, film), nel software (Apple, Microsoft) e nei social media (Facebook, Twitter). Lì, in quello che Joseph Nye ha definito «soft power» (si veda il suo libro del 1990 Bound to Lead: The Changing Nature of American Power [«Condannato a fare da guida. La natura mutevole del potere americano»]) gli USA dominano e continueranno a dominare per qualche tempo, ma nessuno sa quanto a lungo. In Cina il conglomerato tecnologico Tencent, una delle più grandi società mondiali con valore calcolato in mezzo trilione di dollari, protetto dal muro comunista, domina il più vasto mercato digitale del mondo. Dietro Tencent ci sono altri giganti cinesi di internet come JD.com, Alibaba e Baidu. Facebook, Amazon, Netflix e Google hanno di che preoccuparsi. Per altri versi, quella americana non è una società esemplare, come la maggior parte degli americani intelligenti comprende fin troppo bene. La divisione razziale è ancora tanto profonda quanto lo era prima dell’elezione di un presidente nero. Un numero sproporzionato di neri viene ucciso dalla polizia, o è in prigione, o è povero. Gli omicidi di massa sono diventati la norma. Secondo uno studio del dipartimento dell’Educazione degli Stati Uniti, nel paese ci sono 32 milioni di adulti che non sanno leggere. 46 Nel 2016 l’aspettativa di vita è scesa per la prima volta dal 1993. Ogni giorno, più di novanta americani muoiono per overdose di oppioidi come antidolorifici, eroina e fentanyl. 47 Questa crisi degli oppioidi è riconducibile all’inizio degli anni Novanta e alla prescrizione indiscriminata di potenti antidolorifici (negli anni Novanta questo problema esisteva anche nel Regno Unito: all’ospedale Gosport War Memorial più di 450 pazienti morirono per via della politica sui farmaci a base di oppioidi). Nel 2011 le prescrizioni di antidolorifici erano triplicate. Nel 2016 si registrarono 63.000 casi di overdose fatale, più del numero totale di americani uccisi in Vietnam. 48 Secondo la Banca mondiale, il tasso di mortalità neonatale americana nel 2016 era più alto di quello di Cuba e della maggior parte delle nazioni occidentali. Con un tasso di mortalità del 4‰ delle nascite, è poco davanti

alla Cina «comunista» (che ha il 5‰). Le diseguaglianze sono aumentate drammaticamente. C’è un divario sempre più ampio tra chi comanda e chi è comandato: il congresso è diventato un club composto da 245 milionari (su 535 membri elettori), 66 al senato e 179 alla camera. Così, mentre solo l’1% degli americani è milionario, lo è invece il 66% dei senatori (per candidarsi a un seggio ci vogliono infatti milioni di dollari) e il 41% dei membri della camera. 49 Le divisioni politiche sono più forti che mai. Gli accordi bipartisan al congresso degli anni di Clinton e di Obama appartengono ormai al passato. 50 Donald Trump, nel suo discorso inaugurale davanti a una piccola folla (20 gennaio 2017), dopo aver promesso che «da oggi in poi sarà soltanto prima l’America, prima l’America», non vedeva ragioni di ottimismo: Madri e figli intrappolati nella povertà nelle nostre periferie; fabbriche arrugginite sparse come lapidi nel paesaggio della nazione; […] e il crimine e le gang e la droga che hanno falciato troppe vite e derubato il nostro paese di così tanto potenziale inespresso. Questo massacro americano si ferma qui e ora. Grafico 3 – Numero di crimini violenti ogni 100.000 abitanti in USA

Brennan Center for Justice, New York University School of Law In realtà il «massacro» si sta riducendo da anni. 51

Il tasso di omicidi negli Stati Uniti è diminuito di quasi la metà tra il 1992 e il 2011. Dal 2002 al 2011 il numero delle vittime maschili di omicidi era di 3,6 volte quello di vittime femminili; il tasso per i neri era 6,3 volte quello dei bianchi. 52 Nel 2017, 15.613 persone sono state uccise intenzionalmente con

armi da fuoco – più di cinque volte il numero di quelle uccise nei quattro attacchi terroristici coordinati dell’11 settembre 2001 (quando persero la vita in 2996). 53 Il tasso di omicidi in USA ogni 100.000 abitanti era, nel 2011, del 4,7, appena più basso che in Corea del Nord (5,2), ma un poco più alto che a Cuba (4,2), molto più basso che in Honduras (90), Venezuela (53) e Sudafrica (31). Ma il tasso americano è molto più alto di quello di paesi comparabili come il Giappone (0,3), la Corea del Sud (0,9), l’Italia (0,9 – nonostante la mafia), la Germania (0,8), la Nuova Zelanda (0,9), il Regno Unito (1), la Francia (1), o il Canada (1,6). In realtà la maggior parte dei paesi europei si trova nella parte bassa della classifica internazionale del tasso di omicidi. La Cina si conforma al livello europeo: 1 ogni 100.000 abitanti. 54 A livello internazionale gli Stati Uniti sono sempre più isolati, in particolare su questioni come il Medio Oriente e il riscaldamento globale (che Trump considera una bufala cinese, «creata da e per i cinesi per rendere la manifattura degli Stati Uniti meno competitiva»). 55 Non troppo tempo fa gli USA erano anche estremamente «arretrati» nel campo dei diritti civili e in una certa misura lo sono ancora. Si dovettero combattere lunghe battaglie affinché i neri potessero votare negli stati meridionali. Fu solo nel 1967 che la corte suprema dichiarò incostituzionali le leggi contro i matrimoni misti, le cosiddette anti-miscegenation laws che prevalevano in certi stati del Sud. Il verdetto (noto come «Loving vs. Virginia») risale a quando Richard Loving, bianco, sposò Mildred Jeter, nera, nel 1958 a Washington, dove i matrimoni misti erano legali. Tornarono poi in Virginia, dove avevano sempre vissuto. Qualche settimana più tardi furono arrestati nel cuore della notte, incriminati e condannati a un anno di prigione. La sentenza (del 1959) fu sospesa a condizione che la coppia non risiedesse in Virginia. Nel 1964, non sopportando più di non poter visitare insieme i loro parenti in Virginia, fecero appello. Il giudice della Circuit Court, Leon Bazile, rifiutò di abrogare la sentenza dichiarando che «Dio onnipotente creò le razze, bianca, nera, gialla, malese e rossa e le pose su continenti separati […]. Il fatto che abbia separato le razze dimostra che non intendeva che si mescolassero». 56 La corte costituzionale infine intervenne e, nel 1967, dichiarò incostituzionali le anti-miscegenation laws. Ma ci volle molto tempo perché tutti gli stati del Sud si adeguassero. L’Alabama, l’ultimo stato a cambiare le proprie leggi, lo fece nel 2000, ben dopo l’abolizione

dell’apartheid in Sudafrica. Nulla di tutto ciò dovrebbe sorprendere chi è al corrente del fatto che tra il 1877 e il 1950 in dodici stati del Sud si sono registrati 4000 linciaggi razziali. 57 Chi oggi si lamenta dello «stato balia» dovrebbe tener presente che, nel 1914, tredici stati nordamericani non permettevano di sposarsi a chi soffrisse di epilessia. Nel 1927 la corte suprema degli Stati Uniti nel caso «Buck vs. Bell» decretò, con otto voti a favore contro uno, di permettere agli stati di sterilizzare forzatamente soggetti «mentalmente difettosi», tra i quali gli epilettici. Nei successivi trent’anni furono sterilizzati circa 50.000 epilettici. Nel Regno Unito la situazione non era poi tanto migliore: il Matrimonial Causes Act del 1937 decretò che un matrimonio potesse essere annullato se «una delle parti del matrimonio fosse al tempo delle nozze […] soggetta a ricorrenti attacchi di follia o epilessia». Tale clausola fu abrogata solo nel 1971 con il Nullity of Marriage Act. 58 In Giappone circa 16.500 persone furono sterilizzate senza il loro consenso secondo le leggi giapponesi di eugenetica, introdotte nel 1948 e in vigore fino al 1996. 59 Naturalmente altrove andava anche peggio. Nella Germania nazista i «minorati» mentali venivano assassinati. Vi sono periodi in cui uno «stato balia» è preferibile all’essere alla mercé dei propri genitori. Nel 2018, in California, i coniugi David e Louise Anna Turpin sono stati condannati per aver tenuto i loro tredici figli, dai due ai ventinove anni d’età, incatenati in condizioni agghiaccianti, nutriti una sola volta al giorno, maltrattati e torturati. La loro casa era registrata come scuola privata, con David Turpin come preside. In California le scuole private non ricevono la licenza dal dipartimento statale dell’Educazione e non sono regolamentate o supervisionate da alcuna agenzia. Viene solo richiesto loro di fornire una relazione annuale. Alla California, che non è uno «stato balia», manca l’autorità per monitorare, ispezionare o supervisionare le scuole private. 60 Quando si parla con disinvoltura di valori (americani, britannici, francesi e così via) si dovrebbe essere consapevoli che non si tratta di un campo privo di controversie. In ogni società esistono disaccordi. Certe persone un tempo pensavano che gli omosessuali dovessero essere imprigionati, che le donne dovessero restare a casa, che i criminali dovessero essere impiccati, che i neri dovessero stare al loro posto e che fosse perfettamente razionale torturare i prigionieri di guerra per estorcere loro informazioni. Questo non è un passato

di cui andar fieri. Fare l’America «grande» potrebbe implicare la rivisitazione della storia e non usare più l’espressione «di nuovo».

6. NARRAZIONI EUROPEE

I valori vanno e vengono. I «valori europei» sono un costrutto usato da chi vuole promuovere certi valori e screditarne altri perché «non europei». L’idea di un codice unico di principi e valori da potersi definire «europei» è esistita solo nell’immaginazione di certi intellettuali come programma per il futuro, ma non è una realtà. Non sono esistiti valori comuni né in Francia né in Gran Bretagna né in Italia, nemmeno durante il rinascimento o l’illuminismo. Eppure in molti invocano gli antichi «valori» della tradizione. L’idea dei «valori comuni europei» è invece molto recente, nasce nel XVIII secolo. L’idea di «unità europea» è ancora più recente. Poco più di centocinquant’anni fa l’Italia era in via di unificazione, come anche la Germania. Nessuno parlava di un’Europa unita, nemmeno Giuseppe Mazzini, fondatore della Giovine Europa, che immaginava un’Europa unita solo quando si fosse costituito ciascuno stato nazionale. La Giovine Europa era una delle tante fantasie di Mazzini, solo un sogno («non è che un sogno mio») come ammise in seguito lui stesso in una lettera scritta il 22 giugno 1835, il giorno del suo trentesimo compleanno. E tuttavia, come ha commentato Hobsbawm riguardo alle iniziative politiche di Mazzini, la sua «mera presenza» sarebbe stata sufficiente «ad assicurarne la totale inefficacia». 1 L’Europa era talmente divisa che quando gli europei pensavano alle guerre pensavano a guerre da combattere contro altri europei. Alla fine del XIX secolo i britannici e i francesi erano preoccupati dei tedeschi, gli italiani degli austriaci, i polacchi dei tedeschi, i popoli balcanici gli uni degli altri, gli ottomani dell’Europa, e i russi… i russi erano preoccupati più o meno di tutti, come lo sono adesso. Lungi dall’unirsi, gli europei si preparavano alla peggiore guerra intestina della loro storia, peggio della guerra dei Cent’anni, peggio di quella dei Trent’anni, peggio di quelle napoleoniche. Poco più di un secolo fa la prima

guerra mondiale (chiamata mondiale, ma combattuta prevalentemente in Europa) distrusse la possibilità di una supremazia globale europea. Alla fine della guerra i più sagaci tra gli europei compresero che il loro continente non era più il centro dell’universo. Ma molti europei continuarono a coltivare le loro illusioni per tutti gli anni Venti e Trenta. Ci sono ancora francesi e inglesi che continuano a comportarsi come se avessero degli imperi. I britannici credevano di portarsi dietro il «peso dell’uomo bianco» (White Man’s Burden), sebbene Rudyard Kipling, che coniò questa espressione, pensava che il peso dovesse essere portato dagli USA. I francesi avevano una «mission civilisatrice», i portoghesi, molto tempo prima, la loro abbastanza ridicola «Missão civilizadora». Anche altri avevano illusioni simili. Nel 1917 i russi avviarono un progetto straordinariamente ambizioso: la costruzione di una potente società industriale che sarebbe diventata un modello per il resto del mondo, perché avrebbe portato a una società giusta e uguale senza classi né proprietà privata. L’esperimento è fallito miseramente e con un costo umano enorme. La sua caduta ha generato un dominio di plutocrati di tipo mafioso in quella che è diventata una delle più diseguali economie nel mondo, in cui il 10% della popolazione al vertice possiede il 77% della ricchezza. 2 Anche i tedeschi, con Adolf Hitler, sognarono un’Europa che potesse essere unita sotto il loro dominio, epurata da elementi indesiderabili come ebrei, rom e slavi. E non dimentichiamo Mussolini e i suoi sogni patetici di un ritorno alle glorie dell’antica Roma. I paesi minori avevano meno illusioni: uno degli insignificanti benefici dell’essere piccoli e deboli. Come pare abbia detto il belga Paul-Henri Spaak, uno dei «padri» fondatori dell’integrazione europea e primo ministro socialista, ci sono solo due tipi di stati in Europa: stati piccoli e stati che non hanno capito di esserlo. La Francia e la Gran Bretagna appartengono ovviamente alla seconda categoria. La seconda guerra mondiale ha aggiunto altri cinquanta milioni di morti ai venti della prima e completò il compito di portare l’Europa dal centro del mondo alla sua periferia. Nei vent’anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale i francesi e i britannici hanno perduto i loro imperi. L’Europa stessa fu divisa fra Est e Ovest. La Germania fu affettata in due e tale è rimasta fino al 1990, con le sue nuove generazioni fin troppo consapevoli degli orrori della guerra e

determinate ad abbandonare qualunque progetto bellicoso, una lezione imparata ad alto prezzo. Il sogno comunista incarnato dall’URSS è crollato improvvisamente nel 1989-1991. La situazione che affrontiamo oggi, e che continueremo ad affrontare nel prossimo futuro, è largamente determinata da questo evento. Ma permettetemi di tornare alla questione della cosiddetta supremazia europea. Nel XIX secolo l’Europa sarà stata anche «il centro dell’universo», ma certamente non lo era prima del XVIII secolo. Se ipotetici osservatori fossero giunti sul pianeta Terra a bordo di una nave spaziale proveniente da Marte o Giove nei secoli XVI e XVII per una missione conoscitiva, non si sarebbero accorti di una speciale supremazia europea, se non in qualche campo scientifico come l’astronomia e la cartografia (prima degli europei i cinesi avevano già inventato il compasso, l’aratro, la polvere da sparo, la staffa e la stampa). La Cina, l’India dei moghul e forse anche il Giappone erano più avanzati politicamente, con una burocrazia più sofisticata, una medicina superiore, artisticamente alla pari con gran parte dell’arte rinascimentale (molta della quale era confinata all’Italia centrale e settentrionale, all’Olanda e alla Germania). C’erano anche pochi dubbi che la barbarie e l’intolleranza fossero assai più pronunciate in Europa che altrove. Prima del XVIII secolo era di certo assai più sicuro vivere sotto l’islam, o il buddhismo, o il confucianesimo, piuttosto che nell’Europa cristiana. E gli europei che si stabilivano fuori dall’Europa non erano particolarmente illuminati, basti pensare al destino degli indiani americani o degli aborigeni australiani. La barbarie e l’intolleranza europee sono continuate fino a Novecento inoltrato, come dovrebbero ricordarci Auschwitz e i gulag. Il presupposto della superiorità europea fu sviluppato nel XVIII e nel XIX secolo. Nel Settecento questo presupposto si basava sui risultati intellettuali dell’illuminismo, la sua razionalità, il suo trionfo sull’oscurantismo clericale. Il sentimento di superiorità aumentò ulteriormente nel XIX secolo, quando la supremazia europea fu ancorata a una base materiale più solida: lo sviluppo di una società capitalistica tecnologica e industriale. Ci si può inventare l’Europa che si vuole. L’Europa vista come un faro di modernità, la culla della civiltà, era la parte occidentale. Quando i pensatori europei discutevano d’Europa, non intendevano «Europa» come una realtà geografica che si estendesse dalla costa occidentale dell’Irlanda e della

penisola iberica al Caucaso e Costantinopoli e dalle lande ghiacciate di Finlandia, Svezia e Norvegia fino al caldo clima della Sicilia. Intendevano l’Europa occidentale, definita diversamente e in tempi diversi, a seconda di chi scrivesse. Il grande storico Leopold von Ranke, nelle sue Storie dei popoli latini e germanici dal 1494 al 1535 (1824), escluse esplicitamente gli ungheresi e gli slavi che «vacillarono a lungo fra le forme di culto cattolica romana e greca […] non si dirà che anche questi popoli appartengono all’unità delle nostre nazioni [vale a dire i popoli teutonici e latini]: i loro costumi e la loro costituzione li hanno separati per sempre da essa». 3 L’opposizione fra Est e Ovest non è nuova. L’identificazione di «Europa» con l’Europa occidentale e la visione negativa dell’Est sono state molto a lungo opinione comune. Voltaire, nella sua Storia di Carlo XII, uno dei bestseller del XVIII secolo, presumeva, non del tutto erroneamente, che i suoi lettori fossero quelli che vivevano nella civilizzata Europa occidentale e non nel Nord o nell’Europa orientale. 4 Nella sua Storia dell’impero russo sotto Pietro il Grande, Voltaire notava che riformatori come lo zar Pietro non tentavano di emulare paesi lontani, o la Persia o la Turchia, ma cercavano un modello in «notre partie de l’Europe» (la nostra parte di Europa), «dove ogni sorta di talento è celebrata per l’eternità». 5 L’Ovest significava illuminismo, progresso, secolarismo e diritti umani, e anche diritti delle donne (non che simili diritti esistessero realmente in Europa, occidentale od orientale). Ciò che non è «Europa» è territorio barbaro. Montesquieu, nel suo Spirito delle leggi, asserì che era in Asia che «il dispotismo sembra così naturale» («naturalisé»). 6 Da allora, e fino ai giorni nostri, gli europei orientali hanno avuto difficoltà a essere considerati parte dell’Europa. I polacchi posero l’accento sulla divisione fra loro e la Russia «barbarica»; gli ungheresi, i polacchi e i cechi hanno sempre insistito di essere in Europa «centrale» e non «orientale». I nazionalisti ucraini (occidentali) ridefiniscono costantemente l’Ucraina come parte dell’Occidente e della sua tradizione liberale in barba al fatto storico che la maggior parte degli ucraini e dei russi sono legati assieme etnicamente e culturalmente da un’antica storia comune. Alcuni membri delle élite dell’impero ottomano, della Cina e del Giappone erano d’accordo tra loro. Sebbene intendessero conservare la loro «anima», la loro cultura, la loro tradizione, volevano però anche modernità, pensando che il favoloso pacchetto occidentale potesse essere smontato nelle sue varie componenti e che si potesse scegliere una cosa o l’altra. Divennero

ammiratori dell’Europa solo quando l’Europa li superò militarmente minacciando di colonizzarli. L’Europa era una realtà nuova. In precedenza l’Oriente aveva guardato dall’alto in basso l’Occidente, o non lo aveva guardato per nulla, giacché non aveva nulla da imparare. I cinesi consideravano gli europei dei barbari, distinguendo tra Hua (cinesi) e Yi (barbari stranieri). Tuttavia l’Occidente, almeno nei secoli XVII e XVIII, era stupefatto dall’Estremo Oriente e in particolare dalla Cina Qing: i loro giardini e pagode decoravano i Kew Gardens e Tivoli; s’importavano e si imitavano le porcellane e i mobili in lacca; gli artisti rococò s’ispiravano a motivi cinesi. La «saggezza» cinese (c’è sempre una buona parte di fantasia in questo tipo di venerazione) era ammirata dai pensatori dell’epoca, che si basavano sui resoconti risalenti al XVI secolo scritti da gesuiti come Matteo Ricci, che era andato a convertire i pagani e aveva invece scoperto raffinatezza e ricchezza, arte e cultura, una burocrazia impressionante, sovrani benevoli e tolleranti. Matteo Ricci, noto ai cinesi come Li Madou, visse in Cina per ventisette anni e tradusse in latino i quattro libri di Confucio; nei suoi diari, De Christiana expeditione apud Sinas («Sulla missione cristiana presso i cinesi») pubblicata postuma in Occidente nel 1615, espresse la propria ammirazione per Confucio 7 (ma non per il buddhismo). Fu accusato di «trasformarsi in indigeno», per usare un’espressione diffusa in seguito nei circoli britannici per censurare i funzionari che si erano troppo innamorati della cultura locale. Anche Voltaire e Leibniz ammiravano gli insegnamenti di Confucio. Benché di Cina ne sapesse poco, Hegel dichiarò che la Cina «è quest’impero meravigliosamente unico che ha lasciato, e continua a lasciare, attoniti gli europei…». 8 A metà del XIX secolo la situazione si era capovolta: l’Europa credeva di non aver nulla da imparare; l’Asia, tutto. La corte imperiale cinese, dopo aver fatto del proprio meglio per prevenire le riforme, decise con riluttanza di abbracciare il «nuovo». Nel 1901, una lettera che circolava presso i funzionari del vasto impero ottenne varie risposte. Zhang Zhidong, governatore dello Shanxi, propose di ricostruire la Cina sulla base di «metodi occidentali», così da ottenere «forza e ricchezza». 9 Anche il Giappone, e prima della Cina, fu investito da un’ondata di entusiasmo per il progresso occidentale. I leader meiji ricordano le élite contemporanee del Terzo mondo, combattute fra ammirazione e avversione per l’Occidente. Inizialmente, a metà dell’Ottocento, l’impatto con

l’Occidente aveva innescato un movimento xenofobo di rifiuto. Ma negli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento questo lasciò il passo a un diffuso entusiasmo filo-occidentale. L’epoca in cui il Giappone si considerava come unica fra le nazioni era finita. I giapponesi dovevano imparare a diventare come gli europei per evitare di soccombere loro. Era l’Oriente che guardava ora all’Occidente con paura e ammirazione. Due guerre mondiali più tardi era il turno dell’Europa di guardare più a occidente, agli Stati Uniti, con timore e ammirazione. Questa Europa, questa Europa occidentale, si sentiva piccola, minacciata, divisa, ridotta e umiliata. La terribile guerra era stata provocata in gran parte dalle potenze europee occidentali (Germania e Italia). L’Europa era stata salvata dall’URSS, cioè dalla «parte sbagliata dell’Europa», e dagli USA (la parte sbagliata dell’Atlantico). Fu largamente in risposta alla seconda guerra mondiale che nacque la Comunità economica europea (CEE), così come fu chiamata all’inizio. Un’impresa striminzita in confronto all’enorme catastrofe che aveva preceduto la sua creazione. All’inizio era una piccola zona commerciale comprendente solo sei stati (i paesi del Benelux, la Germania Ovest, la Francia e l’Italia) e coinvolgeva una minoranza degli abitanti del continente. Ma presto divenne, benché in modo imperfetto, il focus dei sogni di unità che nutrivano molti europei. In certi casi, simili sogni immaginavano un ritorno a una gloria che pensavano fosse esistita in precedenza. In altri, era un modo per resistere e difendersi dal nuovo «Occidente», cioè gli Stati Uniti. In altri ancora era solo per una questione di prosperità. In molti hanno affermato che l’unità europea fosse un modo di prevenire una nuova guerra intestina, come se ci fosse mai stata una prospettiva seria che, negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, la Germania, divisa e castigata, avrebbe iniziato un’altra guerra invadendo la Francia, la Polonia o il Belgio, o che la Francia e la Gran Bretagna sarebbero entrate in guerra. Eppure l’idea che la pace in Europa fosse un obiettivo centrale della Comunità economica europea fu costantemente ripetuta, come se le questioni economiche fossero troppo sordide perché fungessero da collante per tenere assieme il continente. Come ragionava Jacques Delors, presidente della Commissione europea, nel suo discorso al parlamento europeo (il 17 gennaio 1989): «On ne tombe pas amoureux d’un grand marché» («Non ci si può innamorare di un grande

mercato»). 10 La retorica pacifista era già stata impiegata, il 9 maggio 1950, anniversario della fine della seconda guerra mondiale in Europa, dal ministro degli Esteri francese Robert Schuman. Egli propose una Comunità europea del carbone e dell’acciaio (ECSC o CECA), presago della Comunità economica europea, aggiungendo, con la tipica magniloquenza franco-nazionalista, che la Francia era stata per più di vent’anni campione di un’Europa unita e che la Francia aveva sempre avuto come scopo essenziale quello di «servir la paix», servire la pace. Parole pronunciate mentre il paese combatteva una dura e abbastanza inutile guerra coloniale in Indocina con il sostegno americano. E solo qualche anno prima gli obiettivi della politica estera francese, incarnati dal Piano Monnet del 1946, prevedevano il mantenimento di una Germania debole e l’annessione della Saar (e le sue risorse minerali). Un piano precedente, abbozzato nel 1944 da Henry Morgenthau, all’epoca segretario al Tesoro degli Stati Uniti, proponeva la distruzione delle industrie chiave tedesche. Con Harry Truman l’amministrazione americana, abbastanza giustamente, scartò progetti così vendicativi per approntare invece il Piano Marshall. Meglio aiutare la Germania e l’Europa occidentale a essere ricche e anticomuniste anziché povere e aperte alle perorazioni sovietiche. Incapaci di soggiogare la Germania, i francesi decisero che fosse preferibile cingerla in uno stretto abbraccio. Nel 1993 la CEE era diventata l’Unione Europea. I sei membri originari della CEE divennero, in fasi successive, i ventotto (ventisette quando la Gran Bretagna lascerà). Ciascun passo dai sei ai ventotto è stato descritto come un passo verso l’unità europea. Ovviamente il processo non è così lineare. L’Europa dell’Unione Europea è rimasta profondamente divisa. Ciò non sorprende. L’Europa non è mai esistita come entità unita. Nessun conquistatore o paese sono mai riusciti a imporre il proprio dominio sugli abitanti del continente: non Traiano (sotto il quale l’impero romano raggiunse la sua massima estensione), non Carlo Magno, non Napoleone, non Hitler. Lo sviluppo dell’Unione Europea riflette la sua disunità storica. Gli stati vi sono entrati per ragioni diverse e mai perché si fossero innamorati dell’ideale europeo, benché la retorica politica prescriva di invocare gli ideali quando possibile. È stato il successo economico della CEE a convincere infine i britannici, la cui economia era stata così deludente negli anni Sessanta, a entrarvi nel 1973 (non essendoci riuscita in precedenza per via

dell’opposizione di de Gaulle). I danesi e gli irlandesi sono entrati simultaneamente, perché all’epoca le loro economie erano strettamente interconnesse con quella del Regno Unito. La Grecia è entrata nel 1981 e la Spagna e il Portogallo nel 1986, per lasciarsi alle spalle il loro passato dittatoriale. Poi, nel 1995, sono entrate Svezia, Austria e Finlandia, in gran parte per ragioni economiche. E ancora, tra il 2004 e il 2013 (quasi) tutti gli altri stati: non solo Malta e Cipro, che non volevano restare piccoli paesi isolati, ma anche la maggior parte dei paesi ex comunisti (fuori dall’URSS), perché avevano bisogno di rispettabilità, di riconoscimento, dovevano stabilire una barriera netta tra sé e la storia del comunismo, temevano la Russia e, soprattutto, speravano di diventare ricchi come i paesi europei occidentali. Che l’ethos dominante dell’Unione Europea debba essere filo-mercato non può sorprendere nessun osservatore che tenga in considerazione la sua storia. Il suo obiettivo è sempre stato quello di abolire le barriere economiche interne e la creazione di un mercato unico con un’unica valuta. La legislazione sul welfare è sempre rimasta solidamente in mano agli statinazione. Stesso discorso vale per la tassazione, lo strumento principale delle decisioni economiche. Certe disposizioni sociali sono state aggiunte per mantenere ai margini i sindacati; certi principi relativi ai diritti umani, per accontentare i liberal. In ogni caso l’economia non è sufficiente a costruire un’identità. Si può costruire un’identità europea? Andrebbe costruita? Cosa implicherebbe? L’unico modello di cui disponiamo al riguardo è la costruzione dell’identità nazionale. Questo ci riporta al XIX secolo, quando la Storia, allora appena istituita come disciplina di studio all’università, stava diventando importante. La rivoluzione romantica l’aveva ricollocata al centro come narrativa magistrale, dove le persone potevano leggere la propria biografia. Gli eroi potevano ancora essere re e regine, ma solo perché rappresentavano il «genio» della propria nazione. Gli storici, per secoli lacchè dei sovrani, cronachisti di menzogne, ora acquisivano un ruolo «democratico» e, con questo, un importante mercato. Gli storici britannici del XIX secolo, come Thomas Babington Macaulay, George Macaulay Trevelyan e William Stubbs, rappresentarono la storia britannica in un modo del tutto roseo e accomodante. Era la storia di un susseguirsi di riforme intelligenti basate sul pragmatismo. Anche vicende come quella di Cromwell, la guerra

civile e l’esecuzione di Carlo I furono arruolate in una storia di progresso pacifico e costante verso una maggiore democrazia con più diritti costituzionali. Una classe dominante illuminata e astuta cedette alla pressione popolare esattamente al momento giusto, prima che le masse si dessero a una rivoluzione violenta. A differenza dei francesi sempre in rivolta, dei confusi ma ben intenzionati italiani, dei militaristi tedeschi, degli irrecuperabili romantici polacchi, i britannici facevano tutto come si doveva. Questo cliché domina ancora l’opinione che i britannici hanno di sé. Anche in Francia la storia è stata utilizzata come terreno principale sul quale forgiare un’identità nazionale. Un popolo che non conosceva la propria storia, si riteneva, sarebbe stato sempre in balia di despoti dai quali sarebbe stato raggirato e imbrogliato. Al popolo andava detta la «verità» su di sé. Questo era il compito degli storici, i nuovi sacerdoti dell’ordine secolare. In questo credeva il grande storico Jules Michelet. Nel 1846 scrisse che la Francia era l’unico paese i cui interessi si mescolavano a quelli del resto dell’umanità perché era speciale, perché la sua grande leggenda nazionale «è l’unica che sia completa […] è un immenso, ininterrotto torrente di luce, una vera via lattea su cui il mondo ha sempre fissato gli occhi» («une trainée de lumière immense, non interrompue, véritable voie lactée sur laquelle le monde eut toujours les yeux»). Le sfortunate Germania e Inghilterra, d’altro canto, erano rimaste estranee alla «grande tradizione romano-cristiana e democratica del mondo» («grande tradition du monde, romano-chrétienne et démocratique»). 11 Più di cinquant’anni più tardi, Ernest Lavisse, titolare della cattedra di Storia moderna alla Sorbona, scrisse un testo in più volumi, Histoire de France depuis les origines jusqu’à la Révolution (1901), e altri libri e conferenze indirizzati agli insegnanti di storia nelle scuole della repubblica. Riteneva che ai bambini andasse insegnato che il loro dovere era vendicare la sconfitta subita a Sedan nel 1870 per mano della Prussia (l’elemento bellicoso fu poi gradualmente attenuato) e difendere i valori della rivoluzione francese contro tutti quelli che cercavano di ristabilire l’Ancien Régime. Nella sua voce («Histoire») per il Nouveau Dictionnaire de pédagogie et d’instruction primaire (1911) scrisse: Nel passato più lontano vi è una poesia che deve essere instillata nelle giovani anime per rafforzarne lo spirito patriottico. Facciamogli amare i nostri antenati galli […] Carlo Martello a Poitiers, Orlando a Roncisvalle, Goffredo di Buglione, Giovanna d’Arco […] tutti i nostri eroi del passato, anche se avvolti nella leggenda. 12

«Leggenda» è la parola giusta. Carlo Martello non fermò l’islam a Poitiers nel 732. Orlando, che morì da eroe a Roncisvalle, non stava combattendo i musulmani – come vorrebbe il celebre poema epico La Chanson de Roland – ma i baschi. Goffredo di Buglione fu solo uno dei molti condottieri della Prima crociata. Oggi una simile storia «abbellita» è stata smorzata e gli scolari francesi non sono più obbligati a recitare, com’era stato per qualche decennio, l’assurda nozione che i loro «antenati» fossero i galli e che Clodoveo, il primo re «cristiano», fu il primo re di Francia. Tra le fila dei pochi che vorrebbero tornare a questo facile indottrinamento c’era François Fillon, il candidato del centrodestra sconfitto alle elezioni presidenziali del 2017. Aveva promesso, in un discorso dell’agosto 2016, che, se eletto, avrebbe nominato una commissione «di storici rispettabili» con il compito di produrre una nuova storia per le scuole che avrebbe costituito una «narrazione nazionale» («récit national»), proprio come Michelet nel 1846. Anche Emmanuel Macron ha celebrato il «récit national» durante la sua campagna elettorale dichiarando che nel «roman national» vi sono elementi «che aiutano a costituirci come nazione», per poi snocciolare le solite «grandes figures françaises»: Clodoveo, Giovanna d’Arco e via discorrendo. 13 Alcuni uomini politici britannici hanno echeggiato simili tentativi di inculcare il nazionalismo nelle scuole. Da ministro all’Istruzione, Michael Gove, parlando alla camera dei comuni il 9 giugno 2014, promise che avrebbe richiesto a tutte le scuole di «promuovere attivamente valori britannici». 14 Il 5 ottobre 2010 Gove, un sopravvalutato «intellettuale», lamentò la mancanza di enfasi su Churchill, di importanti vittoriani e della «Gran Bretagna e il suo impero» nei programmi scolastici. «Questo discredito del passato deve finire», disse, protestando che «l’attuale approccio che abbiamo con la storia nega ai bambini l’apprendimento della storia della nostra isola». 15 Gove pensava di avere il sostegno dell’Education Act 2002, approvato da un governo laburista. Una lettura rapida delle sezioni rilevanti di questa legge (sezione 78) mostra che non vi è menzione di valori «britannici»; tutto quello che dice è che le scuole dovrebbero promuovere «lo sviluppo spirituale, morale, culturale, mentale e psicologico degli scolari». È qualcosa di talmente vago e blando che i liberal così come i jihadisti – e anzi la maggior parte delle persone – si troverebbero d’accordo. Tutti pensano che «lo

sviluppo spirituale» sia cosa positiva, pur dissentendo su cosa potrebbe voler dire. Il sito web dell’ispettorato scolastico Ofsted, tuttavia, menziona come valori «britannici» fondamentali «la democrazia, il diritto, la libertà individuale e il mutuo rispetto e tolleranza per chi professa fedi e credo differenti e per chi è senza fede». Non è chiaro come mai questi valori siano specificamente britannici. 16 Un altro uomo politico che celebrava i valori britannici era Gordon Brown. Nel febbraio 2007, solo pochi mesi dopo essere succeduto a Tony Blair come primo ministro, parlando al Commonwealth Club a Londra dichiarò che la «Gran Bretagna» ha una «storia unica», come se gli altri paesi non ne avessero una e come se le componenti del Regno Unito, che Brown elencò debitamente – Inghilterra, Galles, Scozia, Irlanda del Nord –, avessero una storia unica. Lodò poi i «valori britannici» (di nuovo: tolleranza, fede nella libertà, fair play eccetera): «Anche prima che l’America dicesse nella propria costituzione di essere la terra della libertà […] la Gran Bretagna può rivendicare l’idea della libertà» che «è emersa dal lungo fluire della marea della storia britannica, dai duemila anni di ondate successive d’invasioni, immigrazioni, assimilazione e partenariato commerciale, dalla cultura unicamente ricca, aperta e protesa verso l’esterno». 17 Niente male per uno scozzese con un PhD in storia ipotizzare che la Scozia e l’Inghilterra condividessero la stessa storia «britannica» per gli ultimi duemila anni, o che esistano da così tanto tempo. Fa venire in mente il sarcastico commento di George Bernard Shaw, scritto mentre era in corso la prima guerra mondiale: «Ho trascorso gran parte della mia vita cercando di far comprendere agli inglesi che siamo dannati da una fatale pigrizia intellettuale, un’eredità malvagia…» che egli attribuiva alla fortuna di aver avuto il monopolio del carbone e del ferro grazie al quale, per un periodo, la Gran Bretagna aveva goduto di una supremazia. 18 Cent’anni più tardi la stessa pigrizia intellettuale perdura. Quanto ai valori britannici, si dovrebbero aggiungere il colonialismo, il razzismo e il traffico degli schiavi. Andrebbe segnalato anche che la pena di morte fu abolita in Gran Bretagna solo nel 1965 (e in Irlanda del Nord nel 1973), vale a dire dopo Portogallo, Danimarca, Italia, Germania, Austria, Finlandia, Svezia e molti altri; che l’omosessualità maschile è stata ritenuta un crimine nel Regno Unito fino al 1967 (mantenuto in Scozia fino al 1981 e in Irlanda del Nord fino al 1982), ma che la criminalizzazione

dell’omosessualità era stata abolita in Francia nel 1791, in Olanda nel 1811, in Brasile nel 1831, in Portogallo nel 1852, nell’impero ottomano nel 1858 (all’epoca in cui si poteva ancora essere impiccati in Gran Bretagna per «sodomia»), in Giappone nel 1880, in Italia nel 1889, in Danimarca nel 1933, in Islanda, Svizzera e Svezia negli anni Quaranta, in Grecia e Giordania nel 1951, in Thailandia nel 1956, in Cecoslovacchia e Ungheria nel 1961 e in Israele nel 1963; che gli ebrei furono ammessi all’Università di Padova nel 1222, ma solo nel 1856 in quella di Oxford; che le pene corporali furono abolite nelle scuole polacche nel 1783, in Francia nella prima metà del XIX secolo, in Russia nel 1917 (dopo la rivoluzione), in Olanda nel 1920, in Italia nel 1928 (sotto il fascismo!), mentre in Inghilterra e Galles le pene corporali furono messe fuorilegge solo nel 1986, e solo nelle scuole statali (se i tuoi genitori pagavano, potevi essere picchiato in quelle private fino al 1998 in Inghilterra e in Galles, fino al 2000 in Scozia, e fino al 2003 in Irlanda del Nord, sempre l’ultima quando si tratta di diritti umani). Vale la pena di aggiungere che, come documentato in una lettera del 1977 dall’allora ministro degli Interni Merlyn Rees al primo ministro James Callaghan, i ministri conservatori avevano permesso l’uso della tortura contro i detenuti in Irlanda del Nord fino al 1970-1971, prove che non furono evidentemente trasmesse alla Corte europea dei diritti dell’uomo. 19 Nel 2018 il comitato parlamentare di intelligence e sicurezza (presieduto dal deputato conservatore Dominic Grieve) rivelò che le agenzie di intelligence britannica furono coinvolte nella tortura e nel rapimento di sospetti terroristi dopo l’11 settembre, quando Tony Blair era primo ministro e Jack Straw ministro degli Esteri. 20 Valori britannici? Tolleranza? Fair Play? Eppure in Occidente erano stati compiuti rimarchevoli progressi verso la tolleranza. Un rapporto dell’ILGA (International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association) rivela che sono ancora settantadue gli stati che criminalizzano i rapporti fra persone dello stesso sesso (il 37% di tutti gli stati dell’ONU). Trentadue sono in Africa, dieci nelle Americhe (quasi tutti nei Caraibi), ventitré in Asia (compresi India e Pakistan, ma non la Cina). In certi stati solo la «promozione» dell’omosessualità è proibita, come in Russia e in Lituania (come anche nel Regno Unito con la clausola 28 del Local Government Act 1988, abrogato finalmente nel 2003 dopo un’opposizione inizialmente riuscita alla camera dei lord). Nel complesso, quando si guardi

allo status legale degli omosessuali, l’Europa ne esce in buona salute. 21 L’esperienza comune europea è una mitologia di progresso e missione civilizzatrice (ignorando il pesante indebitamento con l’Oriente) così come una storia sanguinosa di guerre e genocidi. Si potrebbero mettere in evidenza gli aspetti positivi e attenuare quelli negativi ma, fortunatamente, è improbabile che gli storici di oggi lo facciano. Dopo aver conquistato la loro libertà professionale, gli storici intellettualmente onesti non adegueranno i propri insegnamenti e i propri studi alle esigenze di «una comune identità europea». Ma le nazioni e il nazionalismo sono troppo forti per essere ignorati nel progetto europeo. Infatti, tutti i documenti dell’Unione Europea si premurano di aggiungere, ogni volta che citano il bisogno di maggiore coerenza e identità comuni, la necessità di evitare frammentazione, caos e conflitto, e quanto sia invece desiderabile raggiungere coesione, solidarietà, sussidiarietà e cooperazione e rispettare le diverse identità degli stati membri. Non credo che si possa insegnare un’identità. Non credo che si possa fare dell’Europa uno stato-nazione di stati-nazione, il che non significa che la lenta e dolorosa costruzione dell’Unione Europea, nonostante i problemi, gli errori, le sciocche regole, il deficit democratico e la bassa affluenza alle urne, non sia la cosa migliore successa nella storia europea. Bisogna inoltre riconoscere che in certi paesi alcuni elementi d’identità europea si sono sviluppati anche grazie alla valuta comune, all’abolizione del passaporto nell’area Schengen, allo scambio universitario noto come programma Erasmus. Quello che manca è l’insegnamento adeguato della storia degli altri paesi europei. Ma non dimentichiamo che la maggior parte delle persone non basa le proprie conoscenze storiche solo su quanto è stato appreso a scuola. La storia che conoscono la ricavano in parte dai ricordi distorti e dai pregiudizi di genitori e nonni, in parte dagli incompleti riferimenti al passato che racimolano nei telegiornali, nei quotidiani, nei libri (romanzi in particolare) e, soprattutto, alla televisione e nei film. Anche i politici contribuiscono alla distorsione della storia ogni volta che usano il passato per giustificare le loro iniziative. È ormai un assioma che se vuoi invadere un paese ostaggio di un dittatore, la posizione standard è paragonare quel dittatore a Adolf Hitler, giacché oggi Hitler ha pochi difensori e, di tutte le figure storiche, è giustamente la più vituperata. Nell’aprile 1999 Ken Livingstone, allora deputato e non ancora sindaco di

Londra, paragonò Milošević a Hitler («The Independent», 20 aprile 1999) mentre sosteneva un intervento «umanitario» contro la Serbia, cioè bombardare Belgrado e la sua popolazione civile. Non fu l’unico. Bill Clinton fece lo stesso, paragonandosi implicitamente a Churchill. Poi, nell’agosto 2002, Donald Rumsfeld, segretario di stato alla Difesa degli Stati Uniti, ammonì il suo uditorio circa l’essere «teneri» con Saddam Hussein come lo era stata l’Europa con Hitler. 22 Nel 2003 (appena prima dell’invasione dell’Iraq) Tony Blair, allora primo ministro, disse la stessa cosa. Forse sarebbe stato meglio essere meno interventisti. Nel novembre 2015 Jeremy Corbyn, già leader dei laburisti, decise che il partito doveva opporsi agli attacchi aerei in Siria; 66 deputati laburisti, guidati dal già citato deputato laburista Hilary Benn, gli votarono contro. Eppure nel 2013 David Cameron si vide bloccare un intervento britannico in Siria subendo il voto contrario a una mozione del governo: 272 voti a favore (che comprendevano 31 liberali) e 285 contrari, con 30 deputati conservatori che si unirono al Labour guidato da Ed Miliband e comprendente Hilary Benn. Il discorso di Benn del 2015 a favore dell’intervento fu ampiamente lodato, per esempio dal «Daily Mirror» («Appassionato») o dal «Daily Telegraph» («Il discorso di un vero leader»). In un’orgia di paralleli storici assurdi, un Benn dalla bocca schiumante paragonò i jihadisti dell’ISIS alla Germania nazista e all’Italia fascista: «Abbiamo di fronte dei fascisti […] e quello che sappiamo dei fascisti è che hanno bisogno di essere sconfitti. […] È la ragione per cui quest’intera aula si oppose a Hitler e a Mussolini». 23 Ma era solo enfasi retorica. I britannici sono stati marginali nella guerra contro l’ISIS in Siria, come confermato da uno sprezzante rapporto del comitato di difesa della camera dei comuni. Vi si legge che tra il settembre 2014 e il maggio 2016 gli attacchi aerei del Regno Unito in Iraq furono solo il 7% del totale e il 4% tra il dicembre 2015 e il maggio 2016. Mark CarletonSmith, vicecapo di stato maggiore alla Difesa (Strategia e operazioni militari), ammise al comitato che, in Siria, il Regno Unito era stato «impegnato marginalmente». 24 E poté prendere in considerazione attacchi aerei solo perché l’esercito britannico garantiva il minimo di efficienza. Fa una tale fatica ad arruolare soldati che ora cerca di incoraggiare donne, gay e minoranze etniche a unirsi ai circa 80.000 effettivi delle truppe regolari. Giovani con qualifiche adeguate, spiegava un arruolato gay, possono fare più soldi «che guadagnare 17.000 sterline per strisciare nella pioggia e nel fango

dello Yorkshire». 25 La sconfitta dell’ISIS è dovuta a una combinazione di potenza aerea russa, milizie sciite appoggiate a terra dall’Iraq, gli hezbollah appoggiati dall’Iran, l’esercito siriano e le forze curde appoggiate a terra dagli americani. La riconquista di Mosul, strappata all’ISIS nel luglio 2017, è stata compiuta da forze del governo iracheno con il sostegno delle forze aeree degli Stati Uniti che, presumibilmente, contribuirono anche al numero paurosamente alto di vittime civili. 26 Nell’ottobre 2017 Raqqa, la cosiddetta «capitale» del cosiddetto «califfato», fu riconquistata da truppe curdo-siriane sostenute da attacchi aerei statunitensi. Una città un tempo di 200.000 abitanti ora giace «a pezzi», secondo la rivista «Time», «con quasi ogni edificio danneggiato o distrutto». 27 Un rapporto di Amnesty International del 5 giugno 2018 ha stabilito che le forze di coalizione guidate dagli Stati Uniti avevano distrutto la città, uccidendo centinaia di civili mentre procedevano alla loro «liberazione» dall’ISIS. 28 Alla faccia dell’intervento umanitario. Guerre come queste portano inevitabilmente a numeri considerevoli di vittime civili, come spiegava il generale maggiore Rupert Jones, il più alto ufficiale britannico allora di stanza in Iraq: «La guerra è un inferno ed è impossibile sconfiggere l’ISIS senza uccidere dei civili». 29 Il conflitto nella zona è probabile continui a diffondersi e a complicarsi ulteriormente con altri interventi turchi. In tutto ciò i britannici sono stati (e continueranno a essere) ininfluenti quanto Hilary Benn e i suoi sciocchi paragoni dell’ISIS a Hitler. Certe similitudini non sono una novità. Nel 1956 il primo ministro britannico Anthony Eden e il leader dell’opposizione Hugh Gaitskell paragonarono entrambi Nasser a Hitler per aver avuto la temerarietà di nazionalizzare il canale di Suez. Durante una sessione del World Affairs Council a Boston, il 15 febbraio del 1984, il segretario di stato USA George Shultz disse che il Nicaragua «sembra la Germania nazista». Nel marzo 2014 Hillary Clinton, non più segretario di stato ma ancora un falco in politica estera, paragonò l’occupazione della Crimea di Putin all’occupazione dei Sudeti di Hitler del 1938. Vi sono, ovviamente, alcune somiglianze, ma la parola «Hitler» non fa pensare ai Sudeti, ma ad Auschwitz, al genocidio, alla seconda guerra mondiale, e chi fa questi paragoni è perfettamente consapevole che la semplice menzione di Hitler è sufficiente a evocare un mostro. Un po’ come dire a un vegetariano: «Toh, un vegetariano: come

Hitler!». A Oslo, il 10 dicembre 2009, durante la sua prolusione per il conferimento del premio Nobel, Barack Obama paragonò i leader di al-Qaeda a Hitler. 30 Più recentemente, nel marzo 2018, in seguito al tentato omicidio presumibilmente per mano russa di Sergei Skripal’ (un russo che spiava per conto della Gran Bretagna ed è stato poi scambiato con spie russe in Occidente) e di sua figlia a Salisbury, Boris Johnson, parlando alla commissione parlamentare esteri e rispondendo a domande rivoltegli dal deputato laburista Ian Austin, esortò l’Inghilterra a ritirarsi dal Mondiale di calcio (tenutosi in Russia) e concordò, con il suo caratteristico understatement, sul fatto che Putin avrebbe usato la competizione nello stesso modo in cui Hitler aveva usato le Olimpiadi del 1936. Questa naturalmente è solo una delle numerose, assurde dichiarazioni di Johnson. Iain Duncan Smith, in un articolo nel «Daily Mail» (e dove altrimenti?), tracciò un paragone tra la posizione della Confederation of British Industry (la confindustria britannica) di pacificazione con Hitler negli anni Trenta alla sua attuale opposizione a Brexit 31 (i Tory, all’epoca, furono i principali propugnatori della pacificazione, ma conta forse la storia quando si cerca di guadagnare punti in un dibattito?). Madeleine Albright, che in storia non è meglio di quanto non fosse da segretario di stato americano, dà del «fascista» a chiunque non le piaccia, come il dittatore nordcoreano Kim Jong-un, mentre Trump è un fascista potenziale. 32 E, da ultimo, ma niente affatto di minore importanza, il principe Mohammad bin Salman, il capo de facto dell’Arabia Saudita, ha dichiarato che «il supremo leader iraniano mette Hitler in buona luce». 33 Tutto ciò va a confermare quanto è noto come legge di Godwin, dall’asserzione dell’avvocato americano Mike Godwin secondo cui, man mano che si sviluppa una discussione politica, aumenta la probabilità di un paragone con Hitler. Hitler è poco più che una metafora per «la persona peggiore che si possa pensare e di cui chiunque abbia sentito parlare». Nel medioevo era Satana. Almeno Hitler è veramente esistito. A parte Hitler, la storia insegnata nelle scuole della maggior parte d’Europa si basa su un presupposto fondamentale: la storia del proprio paese. A questo presupposto si aggiunge un pizzico di storia greca e romana, presumibilmente la nostra eredità culturale, un concetto inventato nei secoli precedenti, alcuni eventi importanti (la peste nera, la rivoluzione francese) e

alcuni punti di riferimento come il rinascimento e l’illuminismo (solitamente ben orientati verso il proprio paese). I popoli degli stati-nazione europei non scelsero la propria nazione. Hanno ricevuto nazionalità e costruzione nazionale dall’alto. Alla fine divennero britannici, tedeschi, francesi, italiani, spagnoli e belgi. Potrebbero essersi sentiti scozzesi o cornovagliesi, guasconi o bretoni, bavaresi o prussiani, siciliani o piemontesi. Per molti è ancora così, ma alla fine, grazie a una burocrazia e a un sistema scolastico che ha dato loro un linguaggio comune e una storia «comune», e grazie a guerre, inni nazionali, tornei sportivi, al concorso canoro Eurovision, a radio e televisioni nazionali e a un insieme di altre iniziative, gli europei hanno imparato a identificarsi con una gamma particolare d’istituzioni politiche che chiamano «nazione». In molti casi alcune circostanze politiche fortuite hanno portato gli abitanti di una particolare regione a sviluppare uno spirito nazionale. I nizzardi oggi sono francesi, e molti probabilmente sono orgogliosi di esserlo, ma fino al 1860 Nizza faceva parte del piemontese Regno di Sardegna. Gli abitanti parlavano il patois locale, il niçois (una specie di occitano). Poi, nel 1860, l’imperatore Napoleone III ottenne Nizza e il territorio circostante dal Regno di Sardegna in cambio dell’aiuto che aveva dato durante la guerra contro l’Austria (1859). Nizza e i suoi abitanti erano ora «francesi» e, indubbiamente, presto si sentirono patriottici come se fossero nati a Lille (che era diventata «francese» nel 1688) o a Lione. Se questo non fosse successo, la riviera italiana sarebbe stata molto più estesa, forse i turisti avrebbero banchettato a base di zuppa di pesce anziché bouillabaisse, e i suoi abitanti avrebbero tifato la nazionale italiana di calcio e non quella francese. Faccio un esempio. Immaginiamo che accada qualcosa di tremendo al Regno Unito, per esempio un grosso crollo dell’economia post-Brexit, qualcosa che infine persuadesse gli scozzesi, i nordirlandesi e perfino i gallesi a separarsi. L’Inghilterra resterebbe sola. Immaginiamo poi che il crollo fosse tanto serio da indurre altre regioni dell’Inghilterra, mettiamo la Cornovaglia, a decidere di volere l’indipendenza. Oggi il Partito nazionalista cornovagliese esiste, anche se è generalmente considerato una burla. Ma lo erano anche i nazionalisti scozzesi. Immaginiamo la Cornovaglia come un paese indipendente. Non impossibile, giacché ha una popolazione di circa 520.000 abitanti (il Lussemburgo ne ha 590.000) e un’area di 3563 chilometri quadrati

(1000 in più del Lussemburgo). Il nuovo governo nazionalista comincerebbe immediatamente a costruire un’identità e una cultura cornovagliese. Al momento sembra che solo 3000 persone al massimo sappiano parlare il cornico (o kerneweg), ma il nuovo governo cornovagliese potrebbe obbligare le scuole a insegnarlo. Dopotutto nel 2002 il governo laburista di allora, forse in un disperato tentativo di ingraziarsi certi elettori (ci sono assai pochi sostenitori Labour in Cornovaglia), richiese che il cornico fosse inglobato nella Carta europea delle lingue regionali o minoritarie. Siccome l’Unione Europea promuove le identità regionali locali, nel 2005 stanziò 80.000 sterline per lo sviluppo del cornico; non una somma principesca, ma l’equivalente dei salari di un paio di maestri elementari. Nel 2014 l’UE ha riconosciuto i cornovagliesi come gruppo minoritario nazionale. La Cornovaglia è una delle regioni più povere del Regno Unito, anzi, una delle più povere dell’UE e beneficiaria di fondi europei; non che questo l’abbia dissuasa dal votare a favore di Brexit nel 2016, probabilmente in preda all’illusione e al miraggio che, una volta fuori dal Regno Unito, Londra finanzi il rilancio dell’economia cornovagliese. 34 Ma, nel nostro esempio fittizio, il nuovo governo indipendente cornovagliese potrebbe porre come condizione per i dipendenti del pubblico impiego la conoscenza del cornico o la disponibilità a impararlo. Potrebbe sovvenzionare un quotidiano in cornico (anche ora uno dei giornali locali ogni tanto ha un articolo in cornico). Non c’è una letteratura cornovagliese vera e propria, ma non significa che il nuovo governo non possa annettersi figure letterarie con agganci alla Cornovaglia, per esempio William Golding, premio Nobel per la letteratura, noto per Il signore delle mosche, e Donald Michael Thomas, autore di L’albergo bianco, entrambi nati lì, o Daphne du Maurier, che visse in Cornovaglia e vi ambientò la maggior parte dei suoi romanzi. Anzi, nel suo ultimo romanzo, Un bel mattino, Du Maurier immagina un movimento secessionista in Cornovaglia represso con la forza dagli americani. 35 Una Cornovaglia indipendente potrebbe anche appropriarsi di antiche storie folcloriche come quella di Tristano e Isotta, buona parte della quale si svolge in Cornovaglia e su cui Wagner basò la sua famosa opera prendendone il tema in prestito da un tedesco del Duecento, Gottfried von Strassburg, il quale lo prese a sua volta da Tommaso d’Inghilterra, probabilmente un normanno stabilitosi in Inghilterra, che l’aveva scritta in langue d’oïl, cioè in francese antico. Non molto cornico da

queste parti. Dopo qualche decennio d’intervento pubblico sistematico, forse anche prima, la Cornovaglia diventerebbe una nazione orgogliosa di sé, proprio come tutte le altre. Per costruire una nazione, la cosa migliore è avere uno stato, esigere tasse, controllare l’istruzione e i media, avere una forza di polizia e un esercito. All’Unione Europea mancano questi meccanismi e pochi vorrebbero che li avesse. È impossibile costruire l’identità europea nel modo in cui è stata realizzata quella francese, britannica o tedesca. Inoltre, proprio ora, mentre lo stato-nazione resta il principale focus dell’identità, una crescente porzione di europei è arrabbiata con i propri politici e vota sempre più massicciamente per partiti euroscettici antisistema di destra, partiti che agitano lo spauracchio dell’immigrazione, o non vota affatto. Si votano anche persone che non sono mai state politici, come se un lavoro nel campo immobiliare o in quello televisivo (Donald Trump e Silvio Berlusconi), nella finanza (Emmanuel Macron), nell’intrattenimento (Beppe Grillo), o nell’industria alimentare (il leader ceco Andrej Babiš) offra garanzie d’integrità politica. Anche nel caso di Jeremy Corbyn, il suo ovvio disinteresse verso la convenzionale politica di partito, nonostante una vita spesa in politica, è stato un vantaggio. I commentatori hanno notato che «il popolo» è arrabbiato con le «élite». Bisognerebbe dedicare più tempo a esaminare come mai la qualità del personale politico in Occidente sia tanto scaduta. Spero non sia visto come un aggrapparsi ai «bei tempi andati» fare confronti tra i vecchi leader come Harold Macmillan, Harold Wilson, Margaret Thatcher, Helmut Schmidt, Willy Brandt, Konrad Adenauer, Giulio Andreotti, Enrico Berlinguer, Aldo Moro, Charles de Gaulle, François Mitterrand, Adolfo Suárez, Felipe González, Andreas Papandreou e suo padre Georgios e i nuovi leader politici. A favore dei primi. Ma a fare la differenza non sono i grandi uomini e le grandi donne, bensì le circostanze che li producono. Dove sarebbero Franklin Delano Roosevelt, de Gaulle e soprattutto Churchill senza la seconda guerra mondiale? I russi non avrebbero pianto in massa la morte di Stalin nel 1953 se non fosse stato considerato il vincitore della guerra, invece del paranoico assassino che era. In epoche morbose la metafora latina «nanos gigantum humeris insidentes» (nani sulle spalle di giganti) non funziona. Questa è un’epoca di pigmei che

dei giganti non hanno alcuna memoria.

7. L’EUROPA IMPLODE?

Ci si sarebbe potuti aspettare che gli europei, scontenti della politica della propria nazione, avrebbero atteso dall’Unione Europea una guida e una leadership, ma la rabbia contro la propria classe politica si è trasformata in opposizione al progetto paneuropeo dei loro leader nazionali. Ma perché tanti europei sono arrabbiati o quantomeno delusi? Non sono mai stati così ricchi. Non hanno mai vissuto un periodo così lungo di prosperità e di pace. Nell’attuale, difficile clima economico l’Unione Europea, pur se irrilevante o marginale, non ha comunque causato la recessione globale del 2008, la delocalizzazione dell’occupazione manifatturiera in Cina o altrove (al contrario, ha cercato di arginarla), la crescente potenza della finanza o delle banche, l’inuguaglianza. Eppure il progetto europeo non è riuscito a conquistare i cuori e le menti di molti. Per diventare centrale nella vita politica, in effetti, l’Unione Europea avrebbe bisogno di maggiori poteri, che non potrà mai avere senza il sostegno degli europei, che non glielo daranno prima che l’Unione abbia conquistato i loro cuori e le loro menti: ecco il palese circolo vizioso in cui si trova l’Unione Europea. Le persone volevano un’Unione ancora più stretta? Ovviamente no. Volevano un’Europa ancor più orientata verso il mercato? Probabilmente no. Vogliono un’Europa «sociale»? Di sicuro sì. Fatto non sorprendente, giacché nessuno vuole pensioni più basse, una sanità pubblica costosa, una giornata lavorativa lunga e la mancanza di politiche a sostegno delle giovani famiglie. L’Unione Europea si è data una costituzione nella speranza che gli europei la percepissero come un elemento unificante. Ma i problemi si sono moltiplicati. La costituzione è diventata un fattore divisivo. Pare che Napoleone abbia detto che una costituzione deve essere «courte et obscure», breve e oscura. La mancata – e ora dimenticata – costituzione europea del 2005 ha passato metà del test napoleonico. Era sì oscura, ma per niente breve (almeno 400 pagine

divise in 448 articoli). Ed era ambigua. Poteva unire coloro che vogliono essere uniti e trovare qualcosa di positivo nel testo, oppure dividere coloro che vogliono il contrario. È quanto accaduto con la proposta di costituzione respinta dai francesi e dagli olandesi nei referendum tenutisi nel 2005 e rinata in seguito con il nome di trattato di Lisbona, firmato nel 2007 e in vigore dal 2009. Inutile negare che la causa principale della mancata costituzione (come la maggior parte delle iniziative dell’UE) è la preponderanza di un’Europa del «mercato» anziché di un’Europa «sociale». Il trattato di Lisbona è stato, inevitabilmente, un compromesso. Ma un compromesso che riflette una certa realtà politica, un determinato equilibrio di forze, che rivela come l’Europa sociale sia sulla difensiva e quella del mercato sia all’attacco. L’idea vincente, espressa da pressoché tutti i conservatori e anche da alcuni a «sinistra», è che i principali impedimenti al progresso economico in Europa sono le rigidità del mercato del lavoro e le eccessive disposizioni in materia sociale, e che la deregolamentazione e la privatizzazione, entro certi limiti, avrebbero aumentato le opportunità e risolto i problemi. La visione neoliberale è stata dunque saldamente al centro del discorso economico dei principali partiti politici europei. Dichiarava che la vera libertà sta nel mercato, un concetto sarcasticamente criticato da Marx quando scrisse che il mercato, dove «il possessore di denaro e il possessore di forza-lavoro» si incontrano, «è in realtà un Eden dei diritti innati dell’uomo. Qui regnano soltanto Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham». Libertà perché le due parti «sono unicamente determinate dal proprio libero volere, si accordano come persone libere». Eguaglianza, perché «scambiano equivalente contro equivalente», cioè salari in cambio di lavoro. Proprietà, perché «ciascuno dispone soltanto del suo». E Bentham, perché «ognuno ha a che fare soltanto con sé stesso». Per poi continuare: «e nessuno [bada] all’altro» e, alla fine, tutto funziona per il meglio «dell’utile comune e dell’interesse generale». 1 Questa è diventata la narrazione centrale della nostra epoca in tutto il mondo, non perché funzioni – non ha funzionato – ma perché portata avanti dagli attori egemoni nel sistema finanziario globale, da Washington e Londra al FMI e alla Banca mondiale. Chi governa il sistema finanziario mondiale è abbastanza incompetente. Tanto per fare un nome: Robert Rubin, segretario di stato al Tesoro degli Stati Uniti, uno degli architetti della deregulation di Clinton e

dell’abrogazione del Glass-Steagall Act. Era il «padrone dell’universo», un uomo che aveva lavorato per Goldman Sachs per ventisei anni (diventandone presidente) e che in seguito era divenuto presidente di Citigroup, pur senza accorgersi dell’approssimarsi della crisi dei mutui subprime. La crisi non gli ha impedito di godersi comunque un bonus di 126 milioni di dollari in contanti e azioni in vista della pensione. Naturalmente Citigroup è stata salvata dal Tesoro degli Stati Uniti con 476,2 miliardi di dollari tra contanti e garanzie. 2 Come ha scritto sarcasticamente il «New York Times», «la City non dorme mai ma lui russava». 3 Ahimè, non era nemmeno l’unico incompetente che guidava l’«universo». Joseph Stiglitz, Nouriel Roubini e altri come il manager Michael J. Burry avevano visto profilarsi la catastrofe. Così come Doris Dungey, che lavorava nell’industria dei mutui e teneva un blog firmandolo con lo pseudonimo di Tanta (è morta di cancro all’età di quarantasette anni), ma che, purtroppo, non era padrona dell’universo, a differenza di Bob Rubin e dei suoi amici. La recente recessione globale, che alcuni hanno paragonato al crollo della borsa del 1929, nelle sue fasi iniziali ha solo scalfito il sistema dell’economia di mercato neoliberale. L’idea del trionfo del capitalismo pareva comunque confermata. Un sistema sociale, infatti, può essere considerato vincente non quando tutto va bene, ma quando è in crisi e tutti cercano di salvarlo. Ed è esattamente quello che è successo: tutti si sono stretti attorno all’idea che il capitalismo libero da regole fosse la cosa migliore (come se i mercati non avessero bisogno degli stati). Questa però non è una piattaforma attorno alla quale si possa costruire unità. L’unità si fonda sull’accordo attorno a regole condivise, non sull’assenza di regole. L’Europa unita neoliberale è un ossimoro. L’identità e l’unità europee non possono essere costruite nemmeno sulla competizione militare e la politica di potenza. Di fronte alla maggior parte degli affari internazionali, come la crisi che ha distrutto l’ex Iugoslavia o le crisi multiple del Medio Oriente, le guerre in Iraq e Afghanistan o la guerra civile in Siria o la catastrofe in cui è precipitata la Libia dopo la caduta di Gheddafi, non c’è mai stata una posizione europea, o, laddove si è trovata una linea comune, è stata inefficace. La guerra in Iraq è stata una circostanza particolarmente drammatica per quanto riguarda la difficoltà di definire una unità europea. I due paesi considerati l’asse dell’integrazione europea, Francia e Germania, erano

contrari all’intervento, ma non sono riusciti ad aggregare la maggioranza degli altri paesi. I sondaggi d’opinione dimostravano regolarmente, anche prima di conoscere l’entità del disastro iracheno, che la maggioranza degli europei era contro la guerra. Forse erano i cittadini di quella che l’allora segretario di stato USA, Donald Rumsfeld, aveva etichettato spregiativamente «vecchia Europa» (di quei paesi, cioè, che si rifiutavano di allinearsi al volere americano) e non la «nuova Europa» (quella che invece, in cerca di protezione contro la Russia, si allineò). La Gran Bretagna era completamente al rimorchio degli americani, con Blair «fianco a fianco» di George W. Bush, il quale continuava a ripetere lo stesso mantra: «Pensavo che fosse la cosa giusta da fare», anche quando tutti avevano ormai capito che era quella sbagliata. L’Iraq non rappresentava alcuna minaccia, non aveva armi di distruzione di massa e gli ispettori dell’ONU non avevano nemmeno completato il proprio compito (non trovando comunque nulla). Nessuno sa quanti iracheni siano morti, sebbene si sappia che sono caduti 4000 soldati americani. Sappiamo che più di due milioni d’iracheni sono fuggiti all’estero e un milione e mezzo sono andati dispersi. Autobombe, assalti suicidi, omicidi settari, una tattica statunitense anti-insurrezionale sproporzionata e attacchi aerei hanno prodotto una catastrofe umanitaria. 4 Il paese non si è mai ripreso, mentre Blair ancora pensa che «fosse la cosa giusta da fare». Quasi tutti i sunniti hanno visto l’invasione come un’umiliazione che puntava a mettere la maggioranza araba sciita al potere. 5 Le autorità statunitensi non capirono l’importanza e la dinamica della politica locale in Iraq, che è la ragione per cui i successivi tentativi americani di nationbuilding sono falliti miseramente. 6 La Gran Bretagna ha fatto lo stesso. Nella massa di documenti presentati all’inchiesta Chilcot sulla guerra in Iraq non c’è alcuna analisi delle probabili conseguenze dell’invasione. 7 Nelle sue memorie scritte nel 2017, ricche di autocommiserazione e piene di rancore contro Tony Blair, Gordon Brown ha dichiarato in modo poco convincente (dopo aver lasciato intendere di non aver avuto nulla a che fare con la decisione e incolpando tutti gli altri) che «avendo rivedute tutte le informazioni ora disponibili [corsivo mio] […] fummo tutti fuorviati sull’esistenza delle armi di distruzione di massa». 8 Nel gennaio 2003 Rumsfeld aveva dichiarato, con la stessa mancanza di savoir-faire diplomatico che sarebbe stata ulteriormente sviluppata da Trump: «Se si guarda all’intera Europa della NATO, oggi il centro di gravità si sta spostando

verso Est e ci sono molti nuovi membri. Il gran numero degli altri paesi in Europa non è con la Francia e la Germania, è con gli Stati Uniti». Francia e Germania s’indignarono. 9 Allo stesso tempo Robert Kagan, neocon americano e commentatore politico, nel suo breve Paradiso e potere. America ed Europa nel nuovo ordine mondiale, si era inventato la formula fortunata (nel senso che i giornalisti potevano ripeterla senza darsi pena di leggere il libro) «gli americani vengono da Marte e gli europei da Venere», aggiungendo che «vanno d’accordo su poco e si capiscono l’un l’altro sempre meno». 10 L’analisi era, almeno in parte, di buonsenso: se uno ha poco potere è meno probabile che scateni una guerra. «Gli americani», spiegava Kagan ammettendo si trattasse di una boutade, credono di essere in «un anarchico mondo hobbesiano» dove si è al sicuro solo se si possono bastonare tutti gli altri; gli europei sono «kantiani» e cercano di vivere in un mondo di leggi e regole di negoziazione e cooperazione. 11 Gli europei potrebbero prenderlo come un complimento, confermando l’idea secondo cui sono diplomatici sofisticati e sottili che hanno letto Machiavelli, mentre gli americani sono dei bulli bellicosi senza cervello. Gli americani, dunque, per parafrasare Abraham Maslow, sarebbero come quel tale con un martello in mano per cui tutti i problemi diventano chiodi. 12 La formula di Kagan fu interpretata da molti a Washington in un altro modo: gli europei non potevano essere considerati un aiuto affidabile nel compito di presidiare il mondo. Gli USA dovevano farlo da sé. La scarsa opinione nutrita da certi consulenti del governo statunitense nei confronti dell’Unione Europea fu maldestramente rivelata da Victoria Nuland (assistente segretario di stato americano e, si dà il caso, moglie di Robert Kagan) quando, in una conversazione telefonica con l’ambasciatore USA in Ucraina fatta trapelare alla stampa durante la crisi del 2014 in quel paese, esclamò: «Si fotta l’UE» («Fuck the EU»). 13 Quando si tratta di importanti questioni internazionali non c’è una posizione europea univoca, non c’è una «Venere» europea da contrapporre al «Marte» americano, nessuna posizione comune, o iniziativa, o soluzione europea. Nessuno si rivolge all’Europa per chiedere consigli. La nomina di un «ministro degli Esteri» europeo che è in sostanza un politico senza alcun potere e che agisce solo da mediatore rivela quanto ci sia di fantasioso dietro l’idea di una comune politica estera. Difficile dare torto a Mark Eyskens quando, da ministro degli Esteri

belga, nel 1991, proprio mentre si scatenava la prima guerra contro l’Iraq, parafrasando una citazione ben nota, disse che l’Europa è un gigante economico, un nano politico, e, cosa ancora peggiore, un verme finché non si preoccupa di elaborare una capacità difensiva. E come potrebbe essere altrimenti? Gli europei sanno poco gli uni degli altri. Non conoscono nemmeno le rispettive canzoni pop, i libri bestseller o i programmi televisivi. L’unico paese che ciascun cittadino europeo conosce meglio di tutti gli altri sono gli Stati Uniti. A questo contribuiscono film, romanzi, canzoni. Anche i media giocano la loro parte. Le elezioni in un paese europeo sono appena riportate dai media degli altri, solo quelle francesi e quelle britanniche ricevono una qualche attenzione. Al telegiornale serale della BBC, Ten O’clock News, il 5 marzo 2018, le importanti elezioni politiche italiane appena svolte e che hanno visto la distruzione del centrosinistra, l’umiliazione di Berlusconi, l’affermazione della Lega xenofoba e dell’euroscettico Movimento 5 Stelle, erano la settima notizia, sbrigata in appena tre minuti. Non è dunque strano se la maggior parte degli europei non conosce il nome del primo ministro della maggior parte degli altri paesi, compresi quelli grandi come l’Italia. Le elezioni americane, d’altro canto, sono sistematicamente esaminate, discusse, dissezionate e commentate. Questo livello di attenzione non è fuori luogo: alla maggior parte di noi importa molto sapere chi sarà il prossimo presidente USA, e per ovvie ragioni, ma questo non giustifica che ci disinteressiamo di chi è o sarà quello del Belgio o della Romania. Cosa può fare, dunque, l’Europa? Dovrebbe guardare meno al passato e più verso il tipo di futuro che vuole e che, soprattutto, può mostrare al mondo. L’Unione Europea è un’associazione di ventotto paesi (ventisette una volta che il Regno Unito lascerà) con una storia differente, lingue diverse e, in un certo senso, con poco in comune e che, tuttavia, contro ogni previsione, cercano di convivere. L’Europa potrebbe provare a mostrare agli altri circa centosettanta paesi del mondo che la coesistenza è difficile, ma che alla cooperazione non c’è alternativa. I tentativi di stabilire un nuovo ordine mondiale (a voler usare le parole di George Bush senior pronunciate l’11 settembre 1990 a una sessione congiunta del congresso poco prima della prima guerra del Golfo) rappresentano un’epoca diversa. Abbiamo visto la superficialità di questo modo di pensare, che in Iraq, Afghanistan, Siria, Libia non ha portato alcun ordine, né vecchio né nuovo.

Abbiamo imparato a nostre spese che non c’è alcuna bacchetta magica per un grande piano europeo. C’è invece il duro lavoro di stabilire regole di coesistenza che permettano di costruire, almeno, qualcosa di reale, qualcosa che gli europei hanno cercato in passato e continueranno, si spera, a cercare in futuro. Naturalmente coesistere costa caro. Ciò che distingue l’Europa, o almeno l’Europa occidentale, è un tipo di capitalismo sociale, benché oggi non sia in buone condizioni. Diversamente dagli altri due modelli di capitalismo avanzato – americano e giapponese – in quello dell’Europa occidentale ci sono stati sindacati relativamente forti e partiti socialdemocratici, i cui poteri e ambizioni, però, oggi sono assai ridotti. Forse il loro destino è perfino segnato. Inoltre, dato che molte delle politiche «sociali» sono legate allo stato-nazione – principalmente per motivi identitari – l’Unione Europea non può essere il fondamento dell’Europa sociale. Vi sono, naturalmente, importanti elementi «sociali» nell’Unione Europea di oggi, soprattutto per quanto riguarda i diritti, l’istruzione, la salute, le condizioni dei lavoratori. Questi hanno aiutato la sinistra socialdemocratica ad accettare l’integrazione e ad abbandonare l’idea, ristretta e futile, di costruire il socialismo, o, come si dovrebbe dire oggi, il capitalismo sociale, solo nel proprio paese. Il risultato è che l’Europa occidentale, assieme al Giappone e a Singapore, ha sorpassato gli Stati Uniti riguardo agli standard materiali che qui sono i più elevati al mondo. Gli elementi sociali dell’UE, tuttavia, sono sempre stati intesi come funzionali alla competizione. Il loro scopo è stato quello di stabilire una parità di condizioni all’interno dei mercati europei, riducendo le forme peggiori di dumping sociale, muovendosi verso una equiparazione della durata della giornata lavorativa o verso la garanzia di un salario minimo. Anche su quest’ultimo punto, come accennato sopra, non vi è uniformità e certi stati membri, come i paesi scandinavi (che hanno sindacati relativamente forti), così come l’Austria, l’Italia e Cipro, non hanno un salario minimo fissato dal governo. La Germania ha introdotto un salario minimo per legge solo a partire dal gennaio 2015. Gli elettorati di stati con un welfare avanzato non desiderano ridurre i loro standard (come dargli torto?). I loro sistemi di assistenza sanitaria sono migliori di quelli degli Stati Uniti, come anche i loro livelli di protezione. Tuttavia, i paesi con un welfare meno evoluto – e questo riguarda la maggior

parte dei nuovi membri dell’Unione – sanno che l’unica leva a loro disposizione per competere sono i bassi salari, la bassa tassazione e il basso livello delle protezioni sociali. Sono costretti a adottare politiche che prevedono ulteriori tagli fiscali e più privatizzazioni. Le diseguaglianze sociali tra i diversi stati membri restano così un elemento costitutivo dell’Unione Europea. Prendiamo il salario minimo. Le differenze sono rimarchevoli: il salario minimo mensile in Bulgaria è fissato in 260,76 euro, in Romania è 407,45 euro, in Portogallo 676,67, nel Regno Unito 1.463,80, in Francia 1.498,47 e in Lussemburgo è 1.998,59 euro. 14 Solo quando il gap economico tra i paesi più avanzati e i ritardatari si sarà ristretto potrà esserci un’Europa sociale più equilibrata. Quel giorno è lontano. L’«identità europea» – come molti concetti nebulosi dal significato quasi impossibile da definire – è un’espressione calda, confortante. La maggior parte delle persone può essere europea e qualcos’altro. Solo pochi nazionalisti irriducibili temono l’identità europea. Ma lo sappiamo tutti dove il nazionalismo ha portato l’Europa: stragi di massa, genocidi, conquiste, oppressione. Così l’identità europea suggerisce un processo in cui l’Europa volti le spalle al suo triste passato e guardi a un futuro di coesistenza pacifica tra popoli che mantengono la propria lingua, come la propria gastronomia, o altri aspetti più piacevoli della loro identità nazionale. C’è una leggenda metropolitana (ahimè, forse leggenda non è) che circola sul web: pare che se si chiede chi era Giovanna d’Arco, il 12% degli americani risponda la moglie di Noè, forse perché «ark», in inglese, significa «arca». 15 In un certo senso la risposta è ragionevole: se non hai mai sentito parlare di Giovanna d’Arco (e perché mai avresti dovuto se vivi in una cittadina al centro dello Iowa?), forse avrai almeno sentito parlare dell’arca di Noè, e siccome tutti gli animali erano accoppiati, anche Noè dovrà aver avuto una moglie… e giacché la Bibbia non la nomina, Giovanna è un nome che vale tanto quanto Rebecca o Nefertiti. Questa è una delle tante storie raccontate dagli europei (e dagli americani istruiti) con un senso di superiorità intellettuale: gli americani saranno più ricchi o tecnologicamente più avanzati, o strapotenti militarmente o con una cultura popolare migliore, ma quando si tratta di Cultura con l’iniziale maiuscola, i migliori sono gli europei. Ma lo sono poi veramente? La formazione culturale degli europei (come

quella degli americani) è largamente determinata da quello che apprendono a scuola e attraverso i media. Nella grande maggioranza delle scuole europee quello che s’insegna agli studenti sono in gran parte la storia e la letteratura della loro nazione. Perché questa conoscenza resti nelle loro menti deve essere rinforzata regolarmente più avanti nella vita dalle loro letture o da quello che guardano in televisione e ascoltano alla radio. Altrimenti dimenticheranno. Il segreto sta nella ripetizione. Un adolescente americano potrà imparare chi era Thomas Jefferson, ma il nome sarà presto dimenticato, a meno che non sia costantemente ripetuto – da uomini politici, nei film, perché alcune strade ne prendono il nome, o la sua faccia è sulla banconota da due dollari, o è menzionato nella cultura popolare (come i Simpson, il Muppet Show, o Star Trek). Alexander Hamilton è oggi molto più famoso grazie al noto musical, dove il suo enorme contributo al consolidamento del sistema finanziario americano è citato appena. Ogni celebrità sa che, per dirla con il Rigoletto di Verdi, il pubblico «è mobile qual piuma al vento» e che solo la costante ripetizione assicura la durata della fama di qualcuno. Molti sanno chi era Shakespeare perché il mondo in cui vivono è pieno di riferimenti culturali che lo richiamano, ma molti, anche in Gran Bretagna, non ricordano più o nemmeno sanno chi fosse John Milton (il cui grande poema, Paradiso perduto, se fosse stato un appassionante romanzo adattabile da Hollywood avrebbe goduto di maggior fama) o Christopher Marlowe, il cui errore fu di farsi ammazzare a ventinove anni. Le tragedie di Marlowe valgono quanto quelle scritte da Shakespeare alla stessa età. Se Shakespeare fosse morto a ventinove anni non avrebbe scritto Romeo e Giulietta, Il mercante di Venezia, Le allegre comari di Windsor, Amleto, Otello, Macbeth, Re Lear e altro ancora. Oggi, per una combinazione di talento e fortuna, Shakespeare è un’icona internazionale; Marlowe e Milton no. Esiste naturalmente una classe internazionale e cosmopolita di intellettuali, che parlano varie lingue (l’inglese in particolare), viaggiano e hanno amici in vari continenti con i quali condividono idee e conoscenze. Sono l’equivalente dei dotti medievali che avevano in comune una religione (il cristianesimo), una lingua (il latino) e una cultura (i classici greci e latini), mentre la maggior parte degli europei era analfabeta e riusciva a vedere a malapena al di là dei confini del proprio villaggio. Oggi questa classe internazionale, benché assai più vasta di quella del medioevo, è rappresentata da una piccola minoranza. Gli altri europei sono

ancora chiusi nel loro villaggio, sebbene vivano in un mondo globale. Il globalismo e il provincialismo coesistono, come si può vedere in giochi televisivi di successo come Chi vuol essere milionario?. È stato trasmesso in un centinaio di paesi, facendone il quiz televisivo di maggior successo di tutti i tempi. Il format è molto simile: il vincitore può aggiudicarsi un milione nella valuta locale, le domande sono in ordine crescente di difficoltà, i concorrenti che rimangono bloccati davanti a una domanda possono telefonare a un amico o chiedere aiuto al pubblico in sala. Guardando questo programma si scopre che i concorrenti sono persone «normali»: non professori universitari (riluttanti nel subire una pubblica umiliazione), ma periti informatici, agenti di viaggio, insegnanti, segretari e segretarie che hanno accumulato nei recessi della propria mente un’impressionante sequela di nozioni. Il gioco non funzionerebbe mai se le domande non fossero adattate alle culture nazionali. Ciò non è dettato unicamente da considerazioni linguistiche, ma anche dal fatto che esiste davvero poca conoscenza globale. La domanda «Chi scrisse i Promessi sposi?» sarebbe elementare in Italia, ma davvero difficile non solo nell’Illinois bensì anche in Francia o in Inghilterra, dove Manzoni quasi non si sa chi sia. La conoscenza globale si limita alla cultura popolare internazionale: cantanti, attori, uomini politici e qualche sportivo, di solito americano, fatta eccezione per i calciatori. Prove recenti di questa ignoranza globale vengono da un sondaggio condotto nel 2008 dal ministero della Cultura francese. 16 Lo scopo era stabilire quanto tedeschi, italiani e francesi sapessero delle reciproche culture, secondo quanto si insegna nelle scuole. I risultati furono allarmanti. Alla richiesta di citare almeno due importanti figure politiche che avessero avuto un impatto significativo sulla storia tedesca prima del 1900, il 70% degli italiani e il 72% dei francesi non ha saputo citarne nessuno, nemmeno Bismarck. Il 7% ha citato Hitler, ignorando che nel 1900 avesse solo undici anni. Il 70% dei francesi e il 63% dei tedeschi non ha saputo menzionare un singolo protagonista della storia d’Italia prima del 1900, nemmeno Garibaldi (solo il 3% dei tedeschi e il 4% dei francesi conosceva Garibaldi). La storia francese ha ottenuto qualche riscontro migliore grazie a Napoleone (citato da almeno un terzo di italiani e tedeschi), ma il 32% dei tedeschi e il 40% degli italiani non ricordava una sola figura storica francese, nemmeno Giovanna d’Arco, per tacere di suo marito.

Solo il 10% dei francesi sapeva che Dante è l’autore della Divina commedia, benché la maggior parte degli europei avesse probabilmente sentito parlare di Pinocchio (grazie a Walt Disney). I partiti comunisti francese e italiano sono stati a lungo i più forti in Europa occidentale, ma il loro fallimento è evidente: solo il 33% degli italiani e il 16% dei francesi hanno saputo identificare in Karl Marx l’autore del Capitale. Pavarotti è stato, di parecchio, l’italiano scomparso più noto, ma solo il 10% dei francesi sapeva che Verdi ha composto il Rigoletto. Quasi nessuno fuori dell’Italia (e nemmeno poi molti italiani) aveva letto Italo Calvino o Elsa Morante, Leonardo Sciascia o Gabriele D’Annunzio. Si potrebbe continuare, ma il punto è chiaro. De Gaulle aveva purtroppo ragione: l’Europa è davvero «l’Europe des patries». Tutti sanno qualcosa del proprio piccolo orto nazionale ma non molto di quelli altrui. Ciò non è perché le persone siano «ignoranti», ma perché il meccanismo di rinforzo culturale è quasi completamente dominato dai media nazionali. È un circolo vizioso. I media, pubblici o privati, devono dare al pubblico quello che vuole e il pubblico vuole quello che già conosce. E ciò che conosce è il proprio villaggio (nazionale) più gli Stati Uniti. Ci sono abbondanti «piccole» eccezioni a questa mancanza di conoscenza globale – i Beatles sono globali come lo è Harry Potter (scrivere in inglese aiuta) –, ma gli USA sono ancora l’unico paese capace di esportare massicciamente la loro produzione culturale, facilitati dal fatto che, essendo una terra di immigrati, la loro cultura è un misto di molte culture. La persistenza del provincialismo e del nazionalismo di bassa lega è una delle cause del fallimento del progetto europeo. L’euroscetticismo e i partiti euroscettici sono aumentati notevolmente negli ultimi vent’anni. Anche in Italia, un paese tradizionalmente euro-entusiasta, ora nelle mani di partiti euroscettici (Movimento 5 Stelle e Lega). Se nel 2004 il 50% degli europei credeva nell’UE, nel 2016 la cifra è scesa al 32% (avvicinandosi alla triste percentuale di chi ha fiducia nel proprio governo nazionale, che si aggira attorno al 31-32%). 17 A parte la Grecia (abbastanza comprensibilmente), il paese più euroscettico è la Gran Bretagna che, il 23 giugno 2016, ha votato per uscire dall’UE con il 51,89% di favorevoli (leave) contro il 48,11% di contrari (remain). A livello regionale le differenze sono state significative. La Scozia ha votato remain (62%), come anche l’Irlanda del Nord (55,78%) mentre una

maggioranza in Galles, come in Inghilterra, ha votato leave. I leave erano concentrati a stragrande maggioranza nelle città inglesi più piccole e in alcune grandi città come Birmingham e Sheffield, ma Bristol, Leeds, Liverpool e Manchester, come anche Brighton, Oxford, Cambridge e Reading, hanno votato remain. Londra si è espressa massicciamente per il remain (60%), con larghe maggioranze nei quartieri più interni: oltre il 78% a Lambeth e Hackney, circa il 75% a Camden e Islington. Si sono registrate anche altre disparità: il 70% degli elettori la cui scolarizzazione arrivava alla maturità ha votato leave, mentre il 68% di quelli con una laurea ha votato remain. Una vasta maggioranza di giovani (sotto ai venticinque anni) ha votato remain (71%). Una vasta maggioranza di anziani (sopra i sessantacinque anni) ha votato leave (64%). 18 Per il leave si sono espressi il 58% dei conservatori, il 37% dei laburisti e il 30% dei liberali. 19 In altre parole, non è una bizzarra caricatura ipotizzare che i «tipici» proBrexit siano dei provinciali anziani, scarsamente istruiti e conservatori. Saranno loro le vittime principali di Brexit. Hanno deciso il destino del Regno Unito e forse quello dell’Europa. La classe dirigente era tutta per restare: il settore finanziario, gli imprenditori, i sindacati (il TUC) e la maggioranza dei deputati di tutti i partiti, compreso, naturalmente, il primo ministro David Cameron, che aveva convocato il referendum (così come Theresa May che gli è subentrata). La Banca d’Inghilterra, l’OCSE, il FMI, la London School of Economics, la Rand Corporation finanziata dagli USA e il National Institute of Economic and Social Research hanno indagato le conseguenze economiche di Brexit, per giungere tutti alla conclusione che l’impatto sarà negativo. 20 Un rapporto del think tank Global Future, scritto dall’economista Jonathan Portes, ha esaminato quattro scenari probabili («come la Norvegia», «come il Canada», «secondo le regole dell’OMC» e «su misura») per una Gran Bretagna post-Brexit. Sono tutti economicamente dannosi: quello meno nefasto è il modello norvegese, in cui la Gran Bretagna sarebbe sotto regole dell’UE sulle quali non avrebbe alcun controllo. 21 Comprensibilmente, la débâcle britannica sull’Europa è stata imputata ai perdenti, alle classi subalterne, agli elettori ignoranti che hanno creduto che una volta liberi dalla «tirannia» degli acefali burocrati di Bruxelles la manna sarebbe scesa dal cielo, la libertà sarebbe arrivata e «noi» (che non abbiamo mai avuto il controllo) lo avremmo finalmente ritrovato, padroni di casa nostra in questo mondo sempre più globalizzato. Eppure nel 1975 un

precedente referendum aveva confermato l’ingresso britannico nella CEE con una solida maggioranza (67%) e nel 1975 c’erano parecchi provinciali anziani e ignoranti. I veri colpevoli non sono stati «i perdenti», ma i primi ministri britannici che si sono succeduti da allora. Con l’eccezione di Edward Heath (l’unico vero europeista, che negoziò il primo ingresso nel 1973) tutti hanno mostrato di avere una visione ristretta dell’Unione Europea. Come ha scritto David Marquand nel 2009, il Regno Unito «si è deliberatamente tenuto ai margini da pressoché tutti gli sviluppi cruciali nell’UE fin dai primi anni Novanta». La Gran Bretagna non è nell’euro, non ha aderito al trattato di Schengen e «si è deliberatamente trasformata in un’isola estera e periferica, irrilevante per le preoccupazioni e il futuro del continente europeo». 22 Harold Wilson era favorevole all’ingresso perché giovava all’economia nazionale (all’epoca particolarmente malconcia). L’immaginazione non era il suo forte. James Callaghan, anche se ministro degli Esteri e dunque uno dei protagonisti delle rinegoziazioni britanniche che avrebbero portato al referendum e che succedette a Wilson nel 1976, sembrò più che riluttante a sostenere un voto per il «sì». In un colloquio radiofonico con gli ascoltatori il 27 maggio 1975 dichiarò, lasciando di stucco il conduttore Robin Day, di non essere né contro né a favore, prendendo le distanze in maniera straordinaria dalla questione chiave (dopotutto avrebbe dovuto fare campagna per il «sì») e aggiungendo: La penso così, e il primo ministro ha adottato la stessa linea; il nostro lavoro è di consigliare al popolo britannico quello che pensiamo sia il risultato migliore. Ora, ci sono molte altre persone che sono sempre state fortemente attaccate al mercato. Molte altre sono sempre state del tutto contrarie. Non penso che il primo ministro o io abbiamo mai fatto parte dell’una o dell’altra categoria, e quella è la nostra posizione odierna. Sto cercando di presentare i fatti come li vedo e come mai ci siamo schierati a favore del fatto che, ora che la Gran Bretagna è dentro, dovremmo rimanerci. 23

Margaret Thatcher vedeva l’Unione Europea come un’entità dalla quale si doveva cercare di ricavare il massimo vantaggio con il minimo sforzo. Anche se fu uno degli architetti del Single European Act del febbraio 1986 e dunque dello sviluppo dell’integrazione europea, la sua visione dell’UE era la stessa di molti pro-Brexit recenti: quella di Bruxelles era una costosa e sovradimensionata burocrazia da tenere a debita distanza. Combatté come una tigre per tagliare i contributi britannici. «Rivoglio i miei soldi», protestò nel 1980. A Bruges, nel 1988, dichiarò: «Siamo riusciti a superare le frontiere dello stato in Gran Bretagna non per vederle imposte di nuovo a livello europeo, con un super-stato che esercita un nuovo dominio da Bruxelles».

Nel 1986 combatté contro Michael Heseltine, allora ministro della Difesa, che voleva far acquisire l’azienda di elicotteri Westland da un consorzio europeo, preferendo invece la Sikorsky, con base negli Stati Uniti. Lei ebbe la meglio, lui diede le dimissioni furibondo. Divenne sempre più antieuropea. Immediatamente dopo un summit CEE a Roma (28 ottobre 1990) tuonò: «Se qualcuno insinua che andrei al parlamento per proporre l’abolizione della sterlina, no! […] siamo stati chiari sul fatto che non ci lasceremo imporre una moneta unica». 24 Due giorni dopo respinse la proposta del presidente della Commissione europea Jacques Delors di riformare la Comunità europea, dichiarando fermamente, come è noto, che Delors «[…] voleva che il parlamento europeo fosse il corpo democratico della comunità, voleva che la commissione fosse l’esecutivo e voleva che il consiglio dei ministri fosse il senato. No. No. No». 25 Per il vice primo ministro filoeuropeo Geoffrey Howe fu troppo. Diede le dimissioni un paio di settimane più tardi con una complessa metafora derivata dal cricket che in pochi in Europa potevano comprendere. Accusò Thatcher di aver evocato un’«immagine da incubo» dell’Europa come di «un continente senz’altro in combutta con malintenzionati, complottando, sono parole sue, per “estinguere la democrazia”, per dissolvere le nostre identità nazionali e per condurci dalla porta di servizio in un’Europa federale». 26 Con il sostegno dei suoi che vacillava, Thatcher fu costretta a lasciare. Il suo successore, John Major, promise di mantenere la Gran Bretagna «esattamente nel cuore dell’Europa», eppure costrinse il paese ai margini dell’Unione esercitando il diritto di deroga sui temi sociali e sulla moneta unica (Maastricht 1992) e riuscendo a fare in modo che non venisse utilizzato l’odiato termine «federale». Ciò fu appena sufficiente a contenere lo zoccolo duro dei conservatori anti-UE, i quali, in un momento di disattenzione, furono apostrofati come «bastardi» da un esasperato Major. 27 Tony Blair fu meno vincolato: era un europeista convinto (secondo lo standard britannico), aveva una solida maggioranza, il suo partito aveva fatto la pace con l’UE, i conservatori erano allo sbando e guidati da una sequela d’inefficaci euroscettici, da William Hague (1997-2001) a Iain Duncan Smith (2001-2003) e Michael Howard (2003-2005), tutti uomini dalla visione notevolmente ristretta. L’ambizione di Blair, una volta ancora, era di essere «al centro dell’Europa» (espressione usata frequentemente e che denuncia il

vanaglorioso aggrapparsi a un passato di grandezza). Il suo maggiore successo fu l’abbandono del diritto di deroga sui temi sociali. Tuttavia Blair non convinse la Gran Bretagna a partecipare all’Europa – anzi, l’opinione pubblica britannica sembra essere diventata perfino più anti-europea durante il suo incarico –, perché non riuscì ad argomentare a favore di un’Europa più integrata, né a sostenere la necessità di una moneta unica (qui il problema principale fu l’opposizione di Gordon Brown), e perché non riuscì a prendere le distanze dagli Stati Uniti. Gordon Brown era assai meno eurofilo, sebbene non fosse certo un euroscettico. La sua visione dell’Europa presupponeva che gli europei dovessero essere più britannici, vale a dire che dovevano accettare di deregolamentare il mercato del lavoro, essere meno «introversi» e più aperti alla globalizzazione. Giacché il reddito dei lavoratori è calato in tutti i paesi dell’OCSE, non dovrebbe sorprendere che molti credano che l’economia globale stia funzionando solo per pochi. La globalizzazione assume molte forme: quando funziona bene migliorano gli standard di vita e di produttività, ma non necessariamente l’occupazione. 28 La cosa intelligente da fare sarebbe di assicurarsi che nel processo di globalizzazione i perdenti non perdano troppo. I perdenti, dopotutto, sono i destabilizzatori più probabili di un sistema che non li ha fatti vincere. Qui, come in molto altro, quello che conta è la cooperazione internazionale. Quello che conta è essere «al centro» di tutto ciò che conta: «L’influenza della Gran Bretagna deriva dall’essere esattamente al cuore di istituzioni e alleanze internazionali: l’UE, la NATO, l’ONU, il Commonwealth, il G8 e il G20». 29 Gli altri paesi sono «membri»; la Gran Bretagna può solo essere «al centro». E Brown era solidale con Blair sul fatto che «il rapporto bilaterale più importante» fosse quello con gli Stati Uniti d’America. 30 Brown si oppose all’armonizzazione fiscale spiegando nelle sue memorie, con malcelato orgoglio, che «quand’anche in minoranza di uno e sotto pressione perché accettassi un compromesso negli innumerevoli meeting tra i ministri delle Finanze fui risoluto, insistendo che una tassa sul risparmio unica per tutti avrebbe semplicemente spinto i risparmi fuori dall’Europa». 31 In realtà quello che i britannici volevano era poter usare l’Europa per migliorare la loro posizione economica. Non vi fu mai il tentativo di sviluppare politicamente l’Europa, per non parlare del processo

d’integrazione. Accettavano un’unione economica purché l’Unione Europea rimanesse un nano politico. La Gran Bretagna è sempre stata pronta a chiedere deroghe e proroghe insistendo sul fatto che il Regno Unito è un caso a parte. I britannici hanno partecipato ai negoziati che hanno preparato l’introduzione dell’euro con l’obiettivo di indebolirlo, facendo in modo che fosse il meno regolamentato possibile, e sempre determinati nel non volerlo adottare. Hanno sempre cercato di fermare la democratizzazione dell’UE e il rinforzo del parlamento europeo. Hanno accettato tutti i nuovi membri con alacrità perché sapevano che l’allargamento gioca contro l’approfondimento. Tutto quello che contava nel trattato di Maastricht era il mercato unico. Il governo britannico si è sentito sollevato quando sono falliti i trattati di Nizza e di Amsterdam. In perfetta continuità con i precedenti governi laburisti, David Cameron (alleato con il presunto filoeuropeo Partito liberale) si è unito alla Repubblica Ceca nel rifiutare la firma del cosiddetto European Social Compact 2012 (noto come il trattato di stabilità fiscale). Come John Major, David Cameron ha dovuto affrontare gli stessi problemi con i «bastardi» (cioè gli «euroscettici») del suo partito. Nel 2013 promise che, nel caso in cui avesse ottenuto una maggioranza parlamentare alle elezioni del 2015, avrebbe negoziato nuove condizioni per la prosecuzione della partecipazione britannica all’UE e che avrebbe poi convocato un referendum sulla permanenza o meno della Gran Bretagna nell’UE. Probabilmente aveva calcolato (del resto era ampiamente previsto) che non avrebbe avuto una maggioranza alle elezioni o che, se l’avesse ottenuta, avrebbe poi vinto il referendum. Ha sbagliato in entrambi i casi. Avendo ottenuto, nella sorpresa generale, una maggioranza parlamentare, ha cercato di rinegoziare i rapporti con l’UE, benché chiunque dotato di una nozione minima del funzionamento dell’UE sapesse che gli altri ventisette paesi non avrebbero mai accettato alcuna forma di controllo dell’immigrazione o poteri addizionali di veto alla legislazione proposta dall’UE per i parlamenti nazionali, o qualsiasi diminuzione dei poteri della Corte di giustizia europea. La mossa successiva con cui ha convocato un referendum sulla permanenza nell’UE si classifica come l’iniziativa politica meno intelligente nella storia inglese dal 1066. Il referendum ha costretto inevitabilmente gli euroscettici, molti dei quali non avevano mai pensato seriamente che il Regno Unito potesse lasciare l’UE, a fare campagna in

favore di Brexit. Così, tanto per risolvere un patetico problema interno di unità del Partito conservatore, il tipo di problemi che deve spesso affrontare qualunque serio leader di partito, Cameron ha messo a repentaglio il futuro del Regno Unito e dell’Europa, lasciando il suo partito più diviso che mai, unito solo da un’insaziabile «fame di potere». 32 La sventurata Theresa May, succeduta a Cameron, ha dovuto affidare i negoziati per l’abbandono dell’UE alla squadra più incompetente che si possa immaginare. Il ministro responsabile di Brexit, David Davis, era così naïf in fatto di negoziazioni commerciali da presumere che la Gran Bretagna potesse «uscire con disinvoltura» dall’UE e che gli USA, l’Australia, la Cina e l’India si sarebbero messi in fila per entrare in accordi commerciali con il Regno Unito. 33 Si aspettava che Theresa May «innescasse immediatamente un ampio giro di accordi globali con tutti i nostri partner commerciali preferiti», nella certezza che la fase negoziale si sarebbe conclusa «tra i dodici e i ventiquattro mesi». Davis non aveva capito che il Regno Unito non può negoziare alcun accordo commerciale fino a quando è ancora nell’UE, cioè non prima di due anni successivi all’applicazione dell’articolo 50 sul diritto volontario e unilaterale di recesso dall’Unione, quindi non prima del marzo 2019. Non aveva compreso che metà del mercato britannico è fuori dall’UE ma soggetta ad accordi commerciali negoziati attraverso l’UE e che le possibilità che, come dice lui, «si possa negoziare un’area di libero scambio enormemente più vasta dell’UE» è abbastanza remota. Non sembrava capire, pur essendo stato avvertito dal capo negoziatore per l’UE Michel Barnier, che sarebbe stato difficile trovare una soluzione che mantenesse l’assenza di confine tra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord qualora il Regno Unito avesse lasciato il mercato unico. Il 7 dicembre 2017 ha ammesso alla commissione parlamentare su Brexit, non senza una certa irritazione, che i cinquantotto studi che in precedenza (27 ottobre 2017) aveva dichiarato come compiuti, e che contenevano «nei minimi particolari» un’analisi delle probabili conseguenze dei differenti scenari di uscita per vari settori dell’economia, in realtà non esistevano. 34 Infine, nel luglio 2018, Davis ha dato le dimissioni insieme a Boris Johnson, ministro degli Esteri, perché contrario al cosiddetto «piano Chequers» elaborato da Theresa May. Rispetto ad altri membri della squadra Brexit quali Liam Fox (ministro

del Commercio con l’estero) e Boris Johnson, David Davis emerge come un monumento di competenza economica. Johnson, che deve la propria fama internazionale all’arte clownesca di cui è maestro, ha rifiutato la discussione riguardo un ingente pagamento all’UE con un’alzata di spalle. L’UE «se lo sogna», ha dichiarato alla camera dei comuni nel luglio 2017, prima che il compito che aveva davanti gli si rivelasse in tutta la sua immensità. «Non ci sono piani nel caso in cui non ci fosse un accordo, perché otterremo un ottimo accordo», ha annunciato con evidente autocompiacimento (benché David Davis, un mese prima, avesse detto alla BBC che il governo aveva elaborato nel dettaglio un piano qualora non si fosse raggiunto un accordo). Anche Liam Fox era beatamente inconsapevole di quella cosa denominata realtà. Costui aveva manomesso le proprie spese parlamentari e usato denaro pubblico per pagare un amico che lo accompagnasse nei viaggi ufficiali; aveva incolpato imprenditori «pigri e grassi» per la scarsa performance delle esportazioni, e affermato che la Gran Bretagna condivideva valori con Rodrigo Duterte, il presidente delle Filippine, famigerato per incoraggiare gli omicidi extragiudiziali, come già abbiamo detto. Ora pareva che Fox pensasse che il governo britannico poteva concludere quaranta accordi di libero scambio con altri paesi non appartenenti all’UE «non appena» la Gran Bretagna avesse lasciato l’Unione Europea nel 2019, benché questo, riconosceva, può accadere soltanto «copiando e incollando tutti e quaranta gli accordi commerciali esterni dell’UE» già esistenti (nell’ipotesi che tutti si trovino d’accordo). Il 20 luglio 2017 aveva dichiarato: «L’accordo di libero scambio che dovremo fare con l’UE dovrebbe essere tra i più facili della storia umana». 35 Della storia umana? Qualche mese dopo, il 5 settembre, alla camera dei comuni, David Davis ha dichiarato: «Nessuno ha mai fatto credere che sarebbe stato semplice o facile. Ho sempre detto che questo negoziato sarebbe stato duro, complesso e, a volte, conflittuale». 36 Dovrebbe parlare, almeno ogni tanto, con il suo collega Liam Fox. Il 6 luglio 2018 Theresa May ha ottenuto l’approvazione da parte del proprio gabinetto per una nuova proposta che pareva fare alcune concessioni all’UE. Sarebbe stata una Brexit «non troppo dura», ma neanche troppo morbida. All’inizio Davis e Johnson parvero approvare, poi hanno rassegnato rapidamente le dimissioni in successione disordinata, lasciando il Partito conservatore e il paese allo sbando. Avere a che fare con l’UE si è dimostrato più difficile di quanto avessero

previsto gli euroscettici. Ciò non è sorprendente: Theresa May deve soddisfare ventisette paesi, la Commissione europea, il parlamento britannico, dove non ha una maggioranza, il suo partito e anche il piccolo e recalcitrante Democratic Unionist Party (DUP), sul cui sostegno deve fare affidamento. Deve anche prendere sul serio deputati senza incarichi come Jacob Rees-Mogg, che quasi nessuno prendeva sul serio fino a poco tempo fa. Quando, nel dicembre 2017, Theresa May sembrava aver raggiunto il primo stadio di un accordo con il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, è saltato fuori, nell’imbarazzo generale, che non lo aveva sottoposto ai suoi alleati nel DUP. Un documento trapelato dal ministero irlandese ha rivelato che il team britannico incaricato della negoziazione era diventato una barzelletta. Boris Johnson aveva lasciato freddini i cechi, che «erano dispiaciuti per gli ambasciatori britannici» incapaci di comunicare un messaggio coerente. La Lettonia ha dichiarato che i ministri del Regno Unito hanno fatto «scarsa impressione». È stato riportato che Ian Forrester, un giudice britannico presso la Corte di giustizia europea, avrebbe protestato per la scarsa qualità dei politici a Westminster. Tutti erano allarmati per il «caos nel governo conservatore». 37 L’idea che l’UE sarebbe stata talmente spaventata da Brexit da cedere davanti alle condizioni poste dal Regno Unito pervadeva la classe dirigente politica britannica, i patetici rimasugli di una mentalità imperiale che fa sorridere gli stranieri. Uno dei giornali britannici meno intelligenti, il «Sun» di Murdoch, accogliendo l’articolo 50 e la dichiarazione formale che il Regno Unito voleva lasciare l’UE, ha reinterpretato la lettera originale di Theresa May come se minacciasse, nel caso in cui l’UE non avesse fornito un buon accordo per l’uscita, che il Regno Unito non avrebbe dato il suo aiuto nella lotta al terrorismo. Il delirante titolo di giornale era: I vostri soldi o la vostra vita. Commerciate con noi e vi aiuteremo a combattere il terrore («The Sun», 30 marzo 2017). Lo stesso giorno il «Daily Mail» intonava: Cin cin a un grande futuro britannico, con accanto al titolo una grande foto di Nigel Farage, il solito sorriso bovino, con in mano l’inevitabile pinta di birra e un paio di calzini con l’Union Jack bene in vista. Il «New York Times» è stato più realistico: la notizia Brexit era in fondo alla prima pagina, mentre alla Cina e al Medio Oriente veniva data un’importanza assai maggiore. Alcuni ultraeuroscettici nel Partito conservatore hanno comicamente

difettato di realismo. L’ex ministro Owen Paterson, preda di un’ottusa forma autoillusoria, ha dichiarato (29 ottobre 2015) che se la Gran Bretagna avesse votato leave sarebbe stato «inconcepibile non raggiungere un trattato commerciale soddisfacente». 38 John Redwood, un tempo considerato come probabile leader Tory, ha scritto il 17 luglio 2016 che «uscire dall’UE può essere rapido e facile: il Regno Unito tiene in mano la maggior parte delle carte in ogni negoziato». 39 Eppure, un anno dopo, dall’alto del suo ben pagato ruolo di «capo stratega globale» per la banca d’investimenti Charles Stanley (180.000 sterline l’anno mentre apparentemente rappresentava i cittadini del proprio collegio di Wokingham che avevano votato remain), consigliò gli investitori «di guardare più in là mentre l’economia del Regno Unito è in frenata». 40 Parte della difficoltà che il paese ha di fronte sta nell’interpretazione dei risultati del referendum sull’uscita dall’UE. Tutto quel che si sa è che poco meno del 52% vuole uscire. I conservatori hanno scelto di interpretare il risultato come se significasse che «il popolo britannico» volesse lasciare l’unione doganale, il mercato unico, qualunque connessione britannica con la Corte di giustizia europea, e restringere l’immigrazione dall’UE. Un compromesso ragionevole tra il 52% e il 48% sarebbe quello di lasciare l’UE ma negoziando le condizioni per rimanere nel mercato unico (compreso il libero movimento del lavoro), una posizione simile a quella della Norvegia. In realtà, entrando nell’Associazione europea di libero scambio (EFTA), come l’Islanda, la Norvegia e la Svizzera, il Regno Unito sarebbe all’interno del mercato unico, ma le dispute sulle sue regole sarebbero arbitrate dall’EFTA e non dalla Corte di giustizia europea. Sarebbe un compromesso tra chi vuole uscire e chi vuole restare. Ma questo avrebbe rischiato di spaccare il Partito conservatore, perché gli euroscettici, imbaldanziti, non lo avrebbero accettato. Così, ancora una volta, importanti decisioni sul futuro del Regno Unito sono state subordinate al più vasto interesse del futuro del Partito conservatore. Mettere il partito davanti al paese rimane la posizione standard degli pseudopatriottici Tory. Dunque la Gran Bretagna è isolata e divisa, fuori dall’Europa e alla mercé di un presidente americano disadattato. Ma anche l’Europa è disunita, incapace di raggiungere un accordo sui rifugiati e di fronte, con grande sconforto, alla crescente marea di euroscetticismo, di regimi illiberali in Europa orientale e alla possibile disgregazione della Spagna.

Un anno e mezzo dopo il referendum Theresa May ha scritto in un tweet che «c’è ancora da fare, ma dovremmo essere fieri che la produzione manifatturiera è ai livelli più alti degli ultimi dieci anni». Ma poiché dieci anni prima era l’inizio della recessione globale, la premier stava in realtà dicendo che ci erano voluti dieci anni per tornare ai livelli del 2008 (raggiunti, tra l’altro, soprattutto perché il crollo della sterlina aveva aiutato le esportazioni). Come osservato in un altro tweet da David Blanchflower, ex membro della commissione della politica monetaria della Banca d’Inghilterra, significa che è stato il più lento recupero degli ultimi trecento anni. 41 Per di più il lavoratore medio ha guadagnato meno in termini reali di quanto non guadagnasse nel 2008, quando i redditi al vertice erano schizzati alle stelle. Da aggiungere alla sparata fuori luogo è il fatto che le cifre della crescita del Regno Unito per il 2017 erano dell’1,8% paragonate al 2,2% dell’eurozona. 42 La profonda diffidenza dell’elettorato nei confronti dei politici ha delle basi. Come notava il politologo Peter Mair nel 2006, la politica e gli uomini politici sembrano essere diventati sempre più irrilevanti per molti cittadini comuni. Le persone che votano sono sempre di meno. 43 Sempre meno persone si iscrivono a partiti politici, salvo che, avrebbe potuto aggiungere dieci anni più tardi, non ci sia qualcosa che li esalti, come nel caso di Corbyn dopo il 2015. I partiti contano di meno e non sono più solidi come prima, donde l’ascesa dei partiti dell’«antipolitica». Mair ha notato che attraverso ciascuno dei quattro decenni dagli anni Cinquanta agli Ottanta i flussi medi alle urne in Europa occidentale sono scarsamente variati, aumentando marginalmente dall’84,3% negli anni Cinquanta all’84,9% negli anni Sessanta, e poi calando leggermente all’83,9% negli anni Settanta e all’81,7% negli anni Ottanta. Negli anni Novanta l’affluenza media cala sensibilmente, scendendo sotto quota 80%. Nel nuovo secolo l’affluenza è scesa ancora, «un’indicazione notevole del crescente indebolimento del processo elettorale». 44 Il trend attuale è eloquente. L’affluenza in Austria, Francia, Finlandia, Germania, Irlanda, Italia, Svizzera, Regno Unito e Olanda è crollata nettamente, ma non invece in alcuni paesi scandinavi: Tabella 1 – Affluenza elettorale. Europa occidentale (Dati in percentuale) Anni Cinquanta Anni Duemila Austria 95 80 Danimarca 81 86

Finlandia Francia Germania Irlanda Italia Norvegia Svezia Svizzera Olanda Regno Unito

76 80 86 74 93 78 78 68 95 80

67 62 75 64 79 76 82 46 79 60

Fonte: Pascal Delwit, The End of Voters in Europe? Electoral Turnout in Europe since WWII, in «Open Journal of Political Science», vol. 3, n. 1, gennaio 2013. Belgio e Lussemburgo sono stati omessi perché in questi paesi il voto è obbligatorio.

Nei paesi postdittatoriali dell’Europa meridionale, dopo anni di oppressione, le prime elezioni degli anni Settanta furono caratterizzate da un’affluenza elevata, vale a dire attorno all’80%; negli anni 2015-2016 era scesa al 55,8% in Portogallo, al 66,5% in Spagna e al 56,6% in Grecia. Nelle democrazie postcomuniste la partecipazione politica, già bassa negli anni Novanta, più che in Europa occidentale, è scesa ulteriormente. 45 In realtà l’affluenza alle urne è declinata costantemente in tutto l’Occidente. 46 Gli uomini politici, per ovvie ragioni, si preoccupano più degli elettori che degli iscritti (che, se attivisti, servono principalmente a trascinare gli elettori alle urne). I membri di un partito, proprio perché sono in un partito, non sono persone «normali». Sono affascinate dalla politica, vogliono parlarne, sono pronte a passare serate in luoghi tristi a discutere di questioni politiche, anziché guardare tranquilli la televisione, o bere un bicchiere con gli amici o leggere un libro. Come commentava Oscar Wilde, «il problema del socialismo è che occupa troppe serate». I leader si ricordano degli iscritti solo ai congressi, quando rivolgono loro vibranti discorsi. La crescita dei social media ha reso i modi tradizionali di rivolgersi all’elettorato meno rilevanti che in passato. Per vincere, Emmanuel Macron e Donald Trump non hanno avuto bisogno di galoppini elettorali e attivisti di partito. I politici affermano di ascoltare i cittadini dei loro collegi, ma in realtà si informano sull’opinione pubblica principalmente attraverso i sondaggi, giacché gli elettori con cui sono in contatto sono o scontenti, o ossessionati da qualcosa, o ossessionati da una causa: tutte cose «anormali», appunto

perché attivisti. La vasta maggioranza delle persone non sa nemmeno chi sia il deputato del proprio collegio e non le interessa. È significativo, per esempio, il fatto che Kate Hoey, un’accesa pro-Brexit del Labour che non si è fatta problemi a fare campagna a fianco del leader dell’UKIP antimigranti e a far proprie (a Brixton, in piena Londra!) cause tipicamente rurali come la caccia alla volpe con i cani, sia stata rieletta nel 2017 con un’accresciuta maggioranza in uno dei collegi più metropolitani del paese (Vauxhall, a Londra) e in una circoscrizione (Lambeth) che ha registrato il voto proremain più alto del Regno Unito (78,6%) ed è popolata da una massiccia minoranza etnica. La gente ha votato Labour, non Hoey-Brexit. Eppure non è solo a Vauxhall, o a Londra, che i politici si appropriano del significato e dell’importanza dei voti e li interpretano come più gli piace. Gli elettori in quanto elettori possono solo votare. Una volta votato, hanno ceduto il loro potere, i loro obiettivi, i loro desideri a qualcuno di cui sentono di potersi fidare e in cui possono solo sperare. Votare è inevitabilmente un’abdicazione di potere. Si vota e poi si può andare a casa a sfogare la propria rabbia con i propri cari, o con il gatto. Non c’è altro modo. Il potere lo detengono necessariamente in pochi. La questione è come selezionare questi pochi: con la forza bruta, per gerarchia, status, nascita o attraverso le elezioni. Naturalmente, al di fuori della cabina elettorale, in quella che possiamo definire democrazia, si possono influenzare gli altri manifestando, scrivendo, rispondendo ai sondaggisti, facendosi eleggere a propria volta, diventando una personalità, una celebrità o un terrorista. Fuori dalla cabina elettorale c’è il regno del potere diseguale e della diseguale influenza. Dentro si è una persona sola, un voto unico, e dunque si è privi di potere. Ma anche quando vengono eletti, gli uomini politici hanno di fronte i limiti del proprio potere. Non c’è rimedio. La questione della politica moderna è che spesso si fallisce; la maggior parte delle carriere politiche (non tutte), secondo la nota citazione di Enoch Powell, «a meno che non siano interrotte a mezz’aria e in una congiuntura felice, finiscono in fallimento, perché questa è la natura della politica e delle cose umane». 47

8. PERDUTE SPERANZE?

O speranze, speranze; ameni inganni / della mia prima età! Giacomo Leopardi, Le Ricordanze, 1829

La gente non crede ai governi. Non è una novità. La disperazione per le classi dominanti è vecchia come le classi dominanti stesse. Nelle sue Istorie fiorentine, pubblicate nel 1532, scritte in parte per ingraziarsi la famiglia Medici, Niccolò Machiavelli esaminava i sintomi morbosi della seconda metà del Trecento e riportava una denuncia eccezionale di élite litigiose (le famiglie Ricci e Albizzi) da parte di un portavoce di «cittadini preoccupati», soprattutto mercanti e prosperosi membri di gilde raccolti nella chiesa di San Pier Scheraggio a Firenze (dove ora sorge la Galleria degli Uffizi). L’anonimo relatore, esprimendo presumibilmente i pensieri dello stesso Machiavelli, si rivolgeva ai «magnifici Signori» (membri del principale organismo di governo di Firenze). Lamentava, come le persone hanno fatto in tutte le epoche, la decadenza dei costumi e il fatto che «il giuramento e la fede data tanto basta quanto l’utile: di che gli uomini si vagliano, non per osservarlo, ma perché sia mezzo a potere più facilmente ingannare». 1 E veramente nelle città di Italia tutto quello che può essere corrotto e che può corrompere altri si raccozza: i giovani sono oziosi, i vecchi lascivi, e ogni sesso e ogni età è piena di brutti costumi […] dal quale dependono gli odi, le nimicizie, i dispareri, le sette; dalle quali nasce morti, esili, afflizioni de’ buoni, esaltazioni de’ tristi. […] E quello che è più pernizioso è vedere come i motori e principi di esse la intenzione e fine loro con un piatoso vocabolo adonestano, perché sempre, ancora che tutti sieno alla libertà nimici, quella, o sotto colore di stato di ottimati, o di popolare defendendo, opprimano.

La corruzione personale ha avvolto ogni cosa: Perché il premio il quale della vittoria desiderano è, non la gloria dello aver liberata la città, ma la sodisfazione di avere superati gli altri e il principato di quella usurpato; dove condotti, non è cosa sì ingiusta, sì crudele o avara, che fare non ardischino. Di qui gli ordini e le leggi, non per publica, ma per propria utilità si fanno; di qui le guerre, le paci, le amicizie, non per gloria comune, ma per sodisfazione di pochi si diliberano.

Ma il portavoce mantiene un po’ di speranza: Noi non vi abbiamo ricordati i costumi corrotti e le antiche e continue divisioni nostre per sbigottirvi, ma per ricordarvi le cagioni di esse e dimostrarvi che, come voi ve ne potete ricordare, noi ce ne ricordiamo e per dirvi che lo esemplo di quelle non vi debbe fare diffidare di potere frenare

queste.

C’è speranza perché il vecchio mondo si sta decomponendo: «lo Imperio non ci ha forze, il papa non si teme, e che la Italia tutta e questa città è condotta in tanta ugualità». Non ci vuole altro che i «magnifici Signori» risolvano la situazione «mossi dalla carità della patria». E aggiunge: […] la corruzione di essa sia grande, spegnete per ora quel male che ci ammorba, quella rabbia che ci consuma, quel veleno che ci uccide; e imputate i disordini antichi, non alla natura degli uomini, ma ad i tempi; i quali sendo variati, potete sperare alla vostra città, mediante i migliori ordini, migliore fortuna. La malignità della quale si può con la prudenza vincere […] prendendo quelli che al vero vivere libero e civile sono conformi.

Dunque a essere sbagliata non è la natura umana, bensì «i tempi», le circostanze, e queste mutano fintanto che si può nutrire fiducia affinché i «magnifici Signori» facciano la cosa giusta. Bisogna credere in loro, non c’è altro modo, e si deve sperare in tempi migliori. Come spiega Machiavelli nel Principe (VI), vi sono due condizioni per un cambiamento in meglio: ci deve essere una combinazione di «fortuna», cioè di circostanze propizie, e ci vogliono leader con la necessaria «virtù», vale a dire la capacità e la perizia per sfruttare dette circostanze. Sulla fortuna c’è poco da fare. In un mondo sempre più integrato nessun singolo agente può cambiare la situazione, ma si può sempre sperare che ci saranno leader, partiti, gruppi, classi capaci di fare del loro meglio entro le costrizioni esistenti. Questo è il nostro problema attuale. Abbiamo perduto la speranza che tali leader e partiti si mostrino e ci guidino, se non alla salvezza, almeno verso tempi meno morbosi. Vent’anni fa un libro di scienze politiche (uno dei tanti), intitolato Why People Don’t Trust Government, lamentava che la fiducia nei governi americani fosse in declino da trent’anni. E il declino è continuato. Nel 1964 tre quarti degli americani credevano che il governo federale facesse «la cosa giusta». Nel 1997 ci credeva solo un quarto. 2 Un sondaggio Gallup del 2017 ha rivelato che, nel 1972, il 26% degli americani non credeva «granché» al governo e il 3% «per nulla»; nel 2017 le percentuali erano diventate rispettivamente del 34% e del 13%. 3 Potrà consolare che una maggioranza ancora si fidi. Ma non possiamo esserne sicuri: un sondaggio Pew condotto pochi mesi dopo l’insediamento di Donald Trump segnalava che l’80% degli americani non crede al sistema. 4 Fin qui nessuna sorpresa, giacché gli elettori di Trump hanno votato Trump

precisamente perché non avevano fiducia nel governo federale, mentre gli elettori anti-Trump erano ancora sotto lo shock di un risveglio con Trump alla Casa Bianca. Certo, i sondaggi dipendono esattamente da quando e da come si pone la domanda. Ecco altri risultati (sondaggio Pew dell’ottobre 2017) riguardanti lo stesso tema degli insoddisfatti dei propri governi: la Grecia è prevedibilmente in cima alla lista, la Russia, sorprendentemente, ha una bassa percentuale di insoddisfatti, e la Germania ancora meno. 5 Tabella 1 – Affluenza elettorale. Europa occidentale (Dati in percentuale) Anni Cinquanta Anni Duemila Austria 95 80 Danimarca 81 86 Finlandia 76 67 Francia 80 62 Germania 86 75 Irlanda 74 64 Italia 93 79 Norvegia 78 76 Svezia 78 82 Svizzera 68 46 Olanda 95 79 Regno Unito 80 60

La questione della fiducia è legata a come i politici presentano sé stessi. Non possono non fare promesse. Fa parte del loro lavoro. In pochi oserebbero dire: «Non posso fare granché, ma votatemi lo stesso». Una volta al potere rivendicano a sé tutte le cose buone che sono successe e danno la colpa ai propri oppositori o ai governi precedenti per tutte quelle che vanno male. È normale. Naturalmente non è solo agli uomini politici che non crediamo. Non crediamo ai banchieri, ai giornalisti, agli avvocati, agli agenti immobiliari (ovviamente). Secondo un sondaggio britannico quelli a cui crediamo di più sono i medici, gli insegnanti, i giudici, gli scienziati e i parrucchieri (!). La fiducia nei preti è in declino, soprattutto dopo l’insabbiamento ecclesiastico di una sequela di scandali sessuali. 6 La fiducia dipende da quello che succede. Nel 2006, il 49% degli americani aveva «molta» o «parecchia» fiducia nelle banche. Nel 2016 la fiducia nelle banche era prevedibilmente crollata al 27%. 7 Se le cose vanno

bene, si ha più fiducia. Se vanno male, se ne ha di meno. Se c’è una guerra, la fiducia potrebbe aumentare per via della solidarietà collettiva. Se la guerra va male o la minaccia non è presa sul serio, la fiducia diminuisce. La fiducia in Stalin, Roosevelt e Churchill probabilmente aumentò con il procedere della guerra. Non ci vuole un’agenzia di sondaggi per stabilire che, nel 1945, la fiducia in Hitler e Mussolini in Germania e in Italia doveva essere crollata. La fiducia è più che mai volatile dove le fonti di informazione sono numerose. In passato controllare la stampa e i media probabilmente aiutava i governi. Nell’era di internet e della moltiplicazione delle fonti d’informazione il controllo è più difficile da mantenere, benché le persone tendano a cercare notizie che confermino le proprie opinioni. Eppure, dal 1945, non c’è mai stato in Occidente un periodo in cui ci fosse tanto disincanto nei confronti della classe dirigente politica. Tanto scontento e tanto disagio potrebbero durare a lungo. Fanno parte dei sintomi morbosi di un vecchio mondo che non c’è più. Questo vecchio mondo, emerso in Occidente dopo la seconda guerra mondiale, era un mondo di crescita e stabilità, di diffusione dell’istruzione, un mondo in cui i giovani potevano realisticamente presumere che sarebbero stati economicamente più agiati dei genitori, più liberi, meno intralciati dalle convenzioni morali. Era un mondo in cui in molti potevano sentirsi «a casa»; un mondo in cui le aspettative erano ampiamente soddisfatte. Pur mutando di continuo, mutava in meglio. Pareva un mondo sicuro, un mondo che conoscevamo e al quale forse tenevamo. I ribelli del 1968, una minoranza su cui è stato scritto così tanto, si godettero la loro ribellione. Erano pieni di speranza, non di disperazione. Pensavano di poter costruire un mondo migliore. Erano i figli della prospera era del dopoguerra. Non erano preoccupati di doversi trovare un lavoro. Non erano preoccupati dalla fine del welfare o dal collasso dei servizi sociali. Pensavano che welfare e servizi sociali sarebbero durati per sempre. Non prevedevano un futuro con il riscaldamento globale e senza antibiotici. Negli anni Settanta e Ottanta i ribelli del Sessantotto combatterono, in parte con successo, contro misoginia, razzismo, omofobia. E ora? Cosa si aspettano? O forse dovrei dire meglio, cosa ci aspettiamo? Quanto siamo felici? La «ricerca della felicità», un «diritto inalienabile» sancito dalla Dichiarazione d’indipendenza degli USA assieme a «vita» e «libertà», è forse giunta alla fine? È difficile da quantificare, ma alcuni

sondaggisti coraggiosi ci provano ugualmente, sebbene i risultati possano sembrare disorientanti. Il sondaggio Gallup What Happiness Today Tells Us About the World Tomorrow («Cosa ci dice la felicità di oggi del mondo di domani») mette a confronto come si sentono le persone in molti paesi nel periodo 2007-2017 e stabiliscono un indice di «prosperità». Russia, Egitto, Colombia e India sono in fondo alla classifica: sentono che per loro le cose vanno di certo peggio. Le risposte in Grecia e Spagna sono, comprensibilmente, negative: scendono rispettivamente del 25% e del 22%. Anche i paesi ricchi sono meno «prosperi»: la Nuova Zelanda e gli USA calano del 10-11%, Singapore è scesa del 15% e il Belgio del 14%. Di che si lamentano? Che cos’è successo? Non è scontato nemmeno che il maggiore aumento di «prosperi» si trovi in paesi come El Salvador (+27%), Lettonia (+21%), Liberia (+20%) e Honduras (+18%). El Salvador e Honduras registrano un calo nel numero di persone uccise nel decennio, sebbene il tasso di omicidi resta tra i più alti del mondo. Forse sono felici che stia scendendo. In Liberia la guerra civile è finita nel 2003, un aumento della felicità era quasi inevitabile. È sorprendente che sia aumentata così rapidamente nel 2017. Il punteggio alto per la Lettonia è altrettanto sconcertante, giacché nell’aprile 2010 il paese aveva il tasso di disoccupazione più alto nell’UE (22,5%). È vero, le cose sono migliorate, ma i giovani in Lettonia non prosperano di certo: la disoccupazione giovanile in Lettonia era assai più bassa nel 2007 (7,6%) che nel 2010 (quando era a uno sbalorditivo 41%). Forse i lettoni hanno aspettative più basse. Dopo la Lettonia, il paese dell’UE che mostra più persone «prospere» nel 2017 rispetto al 2007 è la Germania. Dunque come mai i due maggiori partiti tedeschi (socialdemocratici e cristiano-democratici) hanno ottenuto risultati così bassi nel 2017 e invece è andata così bene la destra estrema di AfD? Forse le persone non sanno cosa sia bene per sé, o forse «It’s not the economy, stupid», oppure questi sondaggi non valgono granché. 8 E come mai in Finlandia il Partito dei finlandesi euroscettico di estrema destra cresce così tanto (il 17,7% nel 2015 ne fa il secondo partito) quando la Finlandia è in cima agli indici del benessere con stabilità, sicurezza, libertà, mancanza di corruzione, ricchezza, paese più felice del mondo, quarto per eguaglianza di genere, quarto per tasso più basso di povertà, e in cima nell’istruzione tra i paesi dell’OCSE? 9 L’indagine Gallup misurava un miglioramento. Il World Happiness

Report 2018 delle Nazioni Unite ordina i paesi secondo una classifica della felicità. È compilato da illustri economisti come John F. Helliwell, Richard Layard e Jeffrey Sachs. Confermano la Finlandia come il paese più felice, seguito dagli altri paesi scandinavi. La Nuova Zelanda, che non si era posizionata bene nell’«indice della prosperità», è in realtà l’ottavo paese più felice del mondo, appena dopo il Canada e prima della Svezia e dell’Australia. Israele è undicesimo (presumibilmente includendo gli arabi israeliani, sebbene non i palestinesi «senza stato»), il Regno Unito è diciannovesimo, appena dopo gli Stati Uniti. La Francia è ventitreesima, schiacciata fra Malta e il Messico. L’Italia è quarantasettesima, la Russia cinquantanovesima e l’Uzbekistan quarantaquattresimo. Ancora più stupefacente, la Libia è il paese più felice in Africa, e supera anche la Turchia, l’Ungheria e il Portogallo! 10 Nel Regno Unito David Cameron, da primo ministro, stabilì che l’Office of National Statistics non si limitasse a dati facilmente quantificabili come PIL e tassi di occupazione, ma che misurasse il «benessere», compreso quello «personale». Quest’ultimo si rileva nell’unico modo possibile: chiedendo alle persone di «valutare quanto si sentono complessivamente soddisfatte della propria vita», se sentono che la propria vita abbia un «significato» e uno «scopo». Il risultato dà un «indice del benessere»: si potrebbe definirlo «indice della lamentela». Per misurare il benessere sono state rivolte alle persone soltanto quattro domande ed è stato chiesto di classificare le proprie risposte su una scala da 0 a 10. Le quattro domande sono: In generale, quanto è soddisfatta/o della sua vita? In generale, in che misura sente che le cose che fa nella vita abbiano un valore? In generale, quanto si sentiva felice ieri? In generale, quanto si sentiva ansiosa/o ieri? 11

Non si può che compatire gli statistici, cui si chiedono cose impossibili alle quali cercano di fare fronte ponendo domande sciocche. Ieri potevi sentirti triste perché ti era morto il gatto o avevi l’influenza. Domani potresti essere felice perché la tua squadra del cuore ha vinto, o tu hai vinto alla lotteria. Ci dice poco della società e rende impossibili i confronti. In tutti i casi nel Regno Unito poco è cambiato tra il 2016 e il 2017: le persone erano altrettanto ansiose o soddisfatte del proprio benessere. 12 Il referendum su Brexit, le elezioni del 2017, l’ascesa o la minaccia di Corbyn, l’elezione di

Trump, il numero di migranti hanno avuto, prevedibilmente, un impatto assai scarso sul «benessere». La maggior parte degli storici si troverà d’accordo sul fatto che il mondo di oggi appare migliore di quello di ieri, se «ieri» è il 1945, o prima. Ma il 1945 è tanto tempo fa. Solo una piccola minoranza ricorda i giorni prima del 1945. Il passato, per citare l’incipit di L’età incerta di Leslie P. Hartley, «è un paese straniero. Lì, tutto si svolge in modo diverso». L’ottimismo dovrebbe prevalere quando paragoniamo la situazione presente a quella della prima metà del XX secolo. Il libro di Steven Pinker Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia (2011, ed. it. 2013) utilizza forse statistiche dubbie nel confrontare il mondo antico con il nostro (che, dice lui, è migliore, conosce il progresso eccetera). Ma dal 1945 in Occidente le cose sono effettivamente migliorate: meno crimini, meno furti, meno violenza, perfino meno inquinamento (lo smog londinese del dicembre 1952 uccise 8000 persone). 13 Tutto questo non è vero ovunque. Non sto pensando solo al tasso di omicidi in Honduras o alle guerre in Siria, Libia, Yemen e Afghanistan di cui riceviamo continuamente aggiornamenti, ma del numero delle vittime durante la guerra civile in Congo del 1998-2003 che va dai 2,7 ai 5,5 milioni di morti. È stata la più alta perdita di vite umane dalla seconda guerra mondiale, ma, naturalmente, era lontana, le vittime non erano bianche e non coinvolgeva le grandi potenze: dunque, in Occidente, in pochi si preoccuparono e i media accennarono appena al conflitto. Più si torna indietro nel tempo e peggio è, in Occidente come altrove. Era un mondo di guerre, povertà, fame, malattie, genocidi, ma lo è ancora per tutti coloro che non hanno avuto la fortuna di crescere in Occidente. Ma non serve dire alle persone che il passato era terribile, che gli antenati, anche solo fino al XIX secolo, vivevano miseramente, che la maggior parte era povera, lavorava incessantemente e moriva giovane. Quello che conta non è come le persone vedono il passato, ma cosa si aspettano dal futuro. L’espressione «rivoluzione di crescenti aspettative», coniata negli anni Cinquanta, non avrebbe potuto essere usata nei secoli precedenti. L’idea di progresso potrà risalire all’illuminismo, ma ci credevano solo pochi intellettuali. I contadini che lavoravano la terra vicino a Voltaire e Condorcet, o gli schiavi nelle piantagioni non lontani da Benjamin Franklin, non

notavano alcun «progresso». Le giornate si susseguivano sempre uguali e tutto ciò in cui potevano sperare era l’assenza di guerre o di catastrofi naturali. I sintomi morbosi di oggi sono connessi ai decenni precedenti di crescita e prosperità. In gran parte lo scontento attuale è legato alla delusione, alla perdita di speranza che slogan come «l’audacia della speranza» («The audacity of hope») non sanno rispristinare. La frase, usata da Obama alla convention democratica del 2004 e poi nel titolo di un libro di successo, fu presa in prestito dal sermone di un pastore di Chicago, Jeremiah Wright, e a sua volta ispirata da un dipinto dell’artista inglese George Frederic Watts, Hope (Speranza, 1886). Rappresenta una donna bendata e poveramente vestita seduta su un globo, che ascolta il debole suono di una lira dalla singola corda. La sua situazione è senza speranza; forse la musica è fonte di qualche conforto.

Non è così che di solito si rappresenta la speranza. Di solito c’è un’alba, con una luce chiara: «Come quando con regalità lucente una stella / Indora la cima chiara d’una nuvola scura» (John Keats). O c’è una Gerusalemme da costruire «nella bella e verde terra d’Inghilterra» (William Blake). Nelle parole di Emily Dickinson, «la “Speranza” è quella cosa piumata / che si viene a posare sull’anima. / Canta melodie senza parole». La speranza è la Terra Promessa, quella che i patrioti chiamarono «Terra di speranza e gloria, madre dei liberi» («Land of Hope and Glory, Mother of the Free») o che i socialisti chiamarono la società senza classi, una società «in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere» e così «mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare

il bestiame, dopo pranzo criticare» (Marx, L’ideologia tedesca, 1845). Jeremiah Wright, il pastore che ha ispirato Obama e che aveva celebrato il suo matrimonio, non avrà forse perduto la speranza, ma per l’America ne aveva poca. In vari sermoni accusò il governo federale di dare stupefacenti ai neri, costruire prigioni più grandi, promulgare leggi contro i recidivi e poi vogliono che cantiamo «Dio benedica l’America». No, no, no, Dio maledica l’America […] perché uccide gli innocenti […]. Dio maledica l’America, perché tratta i nostri cittadini come subumani. Dio maledica l’America fin quando si comporta come se fosse Dio.

Peggio ancora fu il 16 settembre 2011, la domenica dopo l’11 settembre quando, nella sua chiesa, tuonò: Abbiamo bombardato Hiroshima, abbiamo bombardato Nagasaki e abbiamo ucciso con armi nucleari senza battere ciglio molte più persone delle migliaia morte a New York e al Pentagono. Abbiamo sostenuto il terrorismo di stato contro i palestinesi e i neri sudafricani e adesso ci indigniamo perché quello che abbiamo fatto all’estero ci ritorna sulla soglia di casa. Per l’America è la resa dei conti. 14

Obama e famiglia ruppero tutti i rapporti con il buon pastore. A differenza di Jeremiah Wright, Obama non abbandonò la speranza e divenne presidente degli Stati Uniti. Forse la speranza non andrebbe mai abbandonata perché sarebbe come entrare all’inferno sulle cui porte, come scrisse Dante, c’è la terribile iscrizione: «Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate». Un tempo i socialisti pensavano che il futuro fosse nelle mani dei lavoratori. Nel 1931 il poeta comunista Louis Aragon, prima di consacrarsi, senza esitazione, alla Russia di Stalin, poté scrivere: Assisto alla distruzione di un mondo fuori uso assisto, inebriato, all’eliminazione del borghese. 15

Si sbagliava, ma aveva speranza. Oggi, speranze simili sono appannaggio dei fanatici religiosi. Oggi la speranza «normale» se la passa male: xenofobia, crescenti diseguaglianze, incertezze politiche, riscaldamento globale, degrado ambientale, politici folli. Oggi ciò che è internazionale non «unisce l’umanità» come nell’inno socialista: L’ideale internazionale unisce la razza umana che nessuno costruisca muri che ci dividano venite a salutare l’alba e state al nostro fianco.

Quello che oggi è «internazionale», o sempre più internazionale, non è la «razza umana», ma il mercato globalizzato. Ne risultano società e ricchi individui che mettono un paese contro l’altro per evitare le tasse, mentre

indeboliscono i sindacati e deplorano l’intervento governativo: una corsa verso il basso fra i lavoratori, con ciascun paese che cerca di sottrarre investimenti all’altro. 16 Come ha scritto Martin Wolf nella sua rubrica sul «Financial Times»: «L’ordine internazionale globale sta crollando in parte perché non soddisfa i membri della nostra società». 17 Un tempo gli economisti credevano, come Pangloss, che alla fine l’economia si aggiusterà e che tutto andrà per il meglio nel migliore dei mondi possibili, «Die beste aller möglichen Welten», scriveva Leibniz. Oggi non ne siamo tanto sicuri. Eppure non abbandoniamo la speranza e ancora speriamo che l’inferno non sia dietro l’angolo. Dopotutto, se le cose sono migliorate nel corso dei secoli precedenti, è precisamente perché non abbiamo perduto la speranza, non ci siamo arresi e continuiamo a combattere, per quanto morbosi siano i tempi.

NOTE

1. Il vecchio muore 1 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, quaderno 3 (XX), par. 34, Editori Riuniti, Roma 2012. 2 Robert Shogan, The Battle of Blair Mountain: The Story of America’s Largest Labor Uprising, Westview Press, Oxford 2004, p. 4. 3 Angus Maddison, Phases of Capitalist Development, OUP, Oxford 1982, p. 206 (tr. it., Le fasi di sviluppo del capitalismo, Giuffrè, Milano 1987). Cifre approssimate per eccesso o per difetto. 4 Stime della Banca mondiale sulla base dei dati ILO. Si veda http://data.worldbank.org/…, https://tradingeconomics.com/…; per la disoccupazione giovanile si vedano i dati OCSE riportati nel «Financial Times», 15 dicembre 2017. 5 Questo è un testo pubblicato nel 2004 dal titolo The European Dream: How Europe’s Vision of the Future Is Quietly Eclipsing the American Dream, Polity Press, Cambridge (tr. it., Il sogno europeo, Mondadori, Milano 2004). 6 Si veda https://www.bbc.co.uk/…. 7 Sul «rapporto cordiale» di Trump con Duterte si veda il «Guardian» del 31 ottobre 2017 e del 14 novembre 2017; si veda anche The human toll of the Philippines war on drugs, in «The Economist», 15 settembre 2016; Police have killed dozens of children in Philippines war on drugs, Amnesty says, in «The Guardian», 4 dicembre 2017. 8 CNN: http://edition.cnn.com/…; https://www.theguardian.com/…. 9 Rapporto BBC: https://www.bbc.co.uk/…; e CNN: https://edition.cnn.com/…. 10 Inchiesta del 12 dicembre 2017: http://www.msf.org/…; si veda anche Going Along with a Pogrom, in «The Economist», 9 settembre 2017; e lo straziante film realizzato dal programma della BBC Newsnight sul massacro di Tula Toli: Rohingya crisis: The Tula Toli massacre, ora su YouTube e trasmesso il 13 novembre 2017: https://www.youtube.com/…. 11 Si veda http://www.satp.org/…. 12 Nadifa Mohamed, How many dead Somalis does it take for us to care?, in «The Guardian», 23 ottobre 2017. 13 BBC: http://www.bbc.co.uk/news/world-us-canada-42508963: notizia principale del 29 dicembre 2017.

2. L’avanzata della xenofobia 1 UNHCR: http://www.unhcr.org/…, si vedano le cifre. 2 Cifre dall’International Organization for Migration: si veda il rapporto speciale Fatal Journeys Volume 3 – Part 1, http://unitedkingdom.iom.int; si veda anche http://unitedagainstrefugeedeaths.eu. 3 Si veda https://www.washingtonpost.com/graphics/world/a-history-of-terrorism-in-europe/ che cita fonti raccolte dallo University of Maryland National Consortium for the Study of Terrorism nel suo Global Terrorism Database.

4 Si veda il progetto CAIN a cura della Ulster University http://cain.ulst.ac.uk/…. 5 Frederick W. Kagan, Finding the Target: the Transformation of American Policy, Encounter Books, New York 2006, p. 358. 6 Trump says tougher gun laws would have made Texas church shooting worse, in «The Guardian», 7 novembre 2017; Texas attorney general: congregations should be armed after church shooting, in «The Guardian», 6 novembre 2017. 7 La lista completa si trova in David Leonhardt - Ian Prasad Philbrick - Stuart A. Thompson, Thoughts and Prayers and NRA Funding, in «The New York Times», 4 ottobre 2017. Si veda https://www.nytimes.com/…. 8 Nouriel Roubini, @Nouriel, 15 febbraio 2018. 9 CNN: https://edition.cnn.com/…. 10 Fonti: FBI, UK Home Office, Small Arms Survey; si veda BBC: http://www.bbc.co.uk/…. 11 Sarah Champion, British Pakistani men ARE raping and exploiting white girls… and it’s time we faced up to in, in «The Sun», 10 agosto 2017. 12 Si veda https://www.theguardian.com/…. 13 Madison Marriage, Men Only: Inside the charity fundraiser where hostesses are put on show, in «Financial Times», 24 gennaio 2018. 14 Athena R. Kolbe et al., Mortality, crime and access to basic needs before and after the Haiti earthquake: a random survey of Port-au-Prince households, in «Medicine, Conflict and Survival», 26(2010), n. 4: http://www.tandfonline.com/…. 15 Si veda https://www.theguardian.com/…. 16 Shirley Joshi - Bob Carter, The role of Labour in the creation of a racist Britain, in «Race and Class», 25(1984), n. 3, p. 61, che cita un documento segreto di gabinetto: «Immigration of British Subjects into the United Kingdom, CAB 129/44». 17 Stuart Jeffries, Britain’s most racist election: the story of Smethwick, 50 years on, in «The Guardian», 15 ottobre 2014. 18 Il discorso completo di Birmingham, noto come il «discorso dei fiumi di sangue», si trova sul sito del «Daily Telegraph»: http://www.telegraph.co.uk/…. 19 Peter Wilby, Exposing Enoch Powell’s racist lies in a second, almost forgotten speech, in «New Statesman», 12 aprile 2018, https://www.newstatesman.com/…. 20 Martin Fletcher, Thalidomide 50 years on: «Justice has never been done and it burns away», in «The Daily Telegraph», 8 febbraio 2018, http://www.telegraph.co.uk/…. 21 Harold Evans, My Paper Chase: True Stories of Vanished Times, Little Brown, London 2009. 22 Dominic Sandbrook, White Heat: A History of Britain in the Swinging Sixties, Hachette, London 2015, p. 262. 23 Simon Heffer, A prophet yet an outcast: 100 years after his birth Enoch Powell has been vindicated on a host of crucial issues, in «Daily Mail», 13 giugno 2012, http://www.dailymail.co.uk/…. 24 «Daily Mail», 20 agosto 1938, citato in William Maley, What is a Refugee?, Oxford University Press, Oxford 2016, p. 61. 25 Paul Kelemen, The British Left and Zionism: The History of a Divorce, Manchester University Press, Manchester-New York 2012, p. 20. 26 The Letters of Virginia Woolf, vol. IV, 1929-1931, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1979, pp. 47, 195. 27 Niall Ferguson, The Way We Live Now: 4-4-04; Eurabia?, in «New York Times Magazine», 4 aprile 2004. 28 Mark Steyn, America Alone: The End of the World as We Know It, Regnery Publishing, Washington 2006, p. 134. 29 Dati disponibili su http://www.pewforum.org/2017/07/26/demographic-portrait-of-muslim-

americans/ e http://www.pewresearch.org/…. 30 Per la predizione del Pew del 3 gennaio 2018, si veda Besheer Mohamed, New estimates show U.S. Muslim population continues to grow, http://www.pewresearch.org/…. 31 Pew Research Center: http://www.pewforum.org/…, 26 agosto 2015. 32 Si veda il rapporto dell’Institute for Jewish Policy Research, Strictly Orthodox Rising: What the demography of British Jews tells us about the future of the community, di L. Daniel Staetsky e Jonathan Boyd, ottobre 2015. 33 Mark Steyn, European population will be «40 percent Muslim» by 2025, in «Wall Street Journal», 4 gennaio 2006, p. 17, citato in Nasar Meer, Racialization and religion: race, culture and difference in the study of antisemitism and Islamophobia, in «Ethnic and Racial Studies», 36(2013), n. 3, p. 393. 34 Pew Research Center: http://www.pewforum.org/…. 35 Joseph Nevins, Operation Gatekeeper: The Rise of the «illegal alien» and the Making of the U.S.-Mexico Boundary, Routledge, New York-London 2002, p. 120. 36 BBC: https://www.bbc.co.uk/…. 37 Laura Bush, Separating children from their parents at the border «breaks my heart», in «Washington Post», 17 giugno 2018, https://www.washingtonpost.com/…. 38 Si veda https://eu.usatoday.com/…. 39 Si veda https://www.washingtonpost.com/…, che mostra anche il video di Fox News. 40 Si veda https://www.theguardian.com/…. 41 «The Independent», che cita le cifre dello US State Department: https://www.independent.co.uk/…. 42 Cifre da Full Fact, l’ente indipendente di verifica dei fatti del Regno Unito, https://fullfact.org/ …; si veda anche il rapporto della Croce Rossa britannica https://www.redcross.org.uk/…. 43 Fonte: Alto Commissariato ONU sui rifugiati, consultata il 18 dicembre 2018; http://www.unhcr.org/…. 44 «The Guardian», 19 ottobre 2016 e «The Daily Telegraph», 20 ottobre 2016. 45 Thomas Meaney, In the Centre of the Centre, in «London Review of Books», 39(2017), n. 18, pp. 8-10. 46 Si veda http://www.pewresearch.org/…. 47 «The Daily Telegraph», 12 gennaio 2015. 48 Si veda il reportage CNN: http://edition.cnn.com/…. 49 Max Weber, The Nation State and Economic Policy, in Peter Lassman - Ronald Speirs (a cura di), Weber: Political Writings, Cambridge University Press, Cambridge 1994, p. 12. 50 Mehrdad Payandeh, Fragmentation within International Human Rights Law, in Mads Andenas - Eirik Bjorge (a cura di), A Farewell to Fragmentation: Reassertion and Convergence in International Law, Cambridge University Press, Cambridge 2015, p. 313. 51 «FOCUS Magazin», 1o maggio 2011, http://www.focus.de/…. 52 Perry Anderson, The H-Word. The Peripeteia of Hegemony, Verso, London 2017, pp. 169-174. 53 Philip Oltermann, AfD leaders vow to «hound Angela Merkel» after strong showing at polls, in «The Guardian», edizione online, 24 settembre 2017, https://www.theguardian.com/…. 54 Intervista in «Bild am Sonntag», riportata in «Spiegel Online», 29 ottobre 2017, http://www.spiegel.de/…. 55 Si veda «Global Handelsblatt», 20 settembre 2017, https://global.handelsblatt.com/…. 56 Les Back - Tim Crabbe - John Solomos, «Lions and black skins»: Race, nation and local patriotism in football, in Ben Carrington - Ian McDonald (a cura di), Race, Sport and British Society, Routledge, London 2001, p. 94. 57 25 luglio 2014. Si veda il video: https://video.repubblica.it/….

58 Paolo Fantauzzi, «Kyenge pare un orango», il Pd salva Calderoli. Per il senato non c’è discriminazione razziale, in «L’Espresso», 16 settembre 2015; Calderoli: «Una Francia fatta di negri e islamici», in «ilGiornale.it», 11 luglio 2006, http://www.ilgiornale.it/…. 59 Putin’s party signs deal with Italy’s far-right Lega Nord, in «Financial Times», 6 marzo 2017. 60 Migranti, Berlusconi: «Bomba sociale, in 600mila non hanno diritto di restare», in «IlFattoQuotidiano.it», 4 febbraio 2018, https://www.ilfattoquotidiano.it/…. 61 Si veda Shlomo Sand, The End of the French Intellectual. From Zola to Houellebecq, Verso, London 2018, pp. 215-216. 62 Si veda https://www.bfmtv.com/…. 63 International Free Thought, Le financement public des religions en France, 9 giugno 2012, https://www.internationalfreethought.org/…. 64 Su Valls e la kippah si veda «Le Monde», 24 settembre 2012; su Laurence Rossignol si veda Laurence Rossignol veut combattre le burkini «sans arrière-pensées», in «Le Figaro», 16 agosto 2016; si veda, più in generale, «Midi Libre», 19 agosto 2016, https://www.midilibre.fr/…. 65 «Le Figaro», 24 agosto 2016, http://www.lefigaro.fr/…. 66 Si veda http://www.lemonde.fr/…. 67 Matthieu Goar, Laurent Wauquiez élu président du parti Les Républicains, in «Le Monde», 10 dicembre 2017. 68 Si veda https://www.lemonde.fr/…; http://www.liberation.fr/…; https://twitter.com/…. 69 Amnesty International: https://www.amnesty.org/…. 70 Si veda https://global.handelsblatt.com/…. 71 Si veda il numero di «Famiglia Cristiana» del 29 luglio 2018. 72 Gustave Le Bon, La psychologie politique et la Défense sociale, Flammarion, Paris 1910, pp. 227-228, 232, 241. 73 Édouard Drumont, La France juive, vol. I, Éditions du Trident, La Librairie Française, Paris 1986, pp. 19, 34. 74 Jérôme Dupuis, Le camp des Saints, de Jean Raspail, un succès de librairie raciste?, in «L’Express», 6 aprile 2011. 75 Irma Gadient - Pauline Milani, Letter from Switzerland, in «The Political Quarterly», 86(2015), n. 4, ottobre-dicembre, pp. 468-471. 76 Brian Levin - Kevin Grisham, Hate Crime in the United States, Center for the Study of Hate and Extremism, California State University a San Bernardino 2016, pp. 6 e 15. 77 David Kertzer, The Popes against the Jews. The Vatican’s Role in the Rise of Modern AntiSemitism, Knopf, New York 2001, pp. 136-137 (tr. it., I papi contro gli ebrei, Rizzoli, Milano 2002). 78 Craig Storti, Incident at Bitter Creek. The Story of the Rock Springs Chinese Massacre, Iowa State University Press, Ames 1991, pp. 23-24. 79 Alexander Saxton, The Indispensable Enemy: Labor and the Anti-Chinese Movement in California, University of California Press, Berkeley 1971, p. 273. 80 Henry George, The Chinese in California, in «New York Daily Tribune», 1o maggio 1869. 81 François Bédarida, Perspectives sur le Mouvement ouvrier et l’impérialisme en France au temps de la conquête coloniale, in «Le Mouvement Social», n. 86, gennaio-marzo 1974, p. 38. 82 Alain Dewerpe, Le Monde du Travail en France 1800-1950, Armand Colin, Paris 1989, p. 100. 83 Michelle Perrot, Les ouvriers en grève, Mouton & Co, Paris 1974, vol. I, pp. 171-175. 84 Sascha Auerbach, Race, Law and «The Chinese Puzzle» in Imperial Britain, Macmillan, London 2009, p. 39. 85 Ivi, p. 52. 86 Su Tours si vedano: Alessandro Barbero, Carlo Magno. Un padre dell’Europa, cap. 1, Laterza, Roma-Bari 2000; Franco Cardini, Europa e islam. Storia di un malinteso, Laterza, Roma-Bari 1999.

87 Dati della Banca Mondiale per il 2016: https://data.worldbank.org/…. 88 Andreas Kossert, Founding Father of Modern Poland and Nationalist Antisemite: Roman Dmowski, in Rebecca Haynes - Martyn Rady (a cura di), In the Shadow of Hitler, I.B. Tauris, London 2011, p. 98. 89 Enrico Ganni (a cura di), Bertolt Brecht. Poesie politiche, Einaudi, Torino 2015, p. 291. 90 Rapporto Reuters, 16 marzo 2013: https://www.reuters.com/…. 91 Per l’intervento di Obama si veda il suo discorso per la Giornata Internazionale dell’Olocausto il 28 gennaio 2016: https://obamawhitehouse.archives.gov/…. 92 Su Orbán si veda https://www.theguardian.com/…. 93 Yuri Levada Analytical Centre: http://www.levada.ru/…. 94 Si veda https://www.levada.ru/…. 95 Anna Mudeva, Special Report: In eastern Europe, people pine for socialism, 8 novembre 2009, http://www.reuters.com/…. 96 Per il rapporto del Consiglio d’Europa sul traffico di esseri umani, si veda www.bbc.co.uk/news/world-europe-11996255. 97 Si veda http://it.euronews.com/…. 98 Filip Milačić, Divide and rule. Ethnic tensions in the Western Balkans are on the rise as the prospect of EU membership fades, in «International Politics and Society», Friedrich Ebert Stiftung, 23 giugno 2017, http://www.ips-journal.eu/…. 99 «The Independent», 14 novembre 2016, http://www.independent.co.uk/…. 100 Israeli extremist group leader calls for torching of Churches, in «Haaretz», 6 agosto 2015. 101 Si veda https://www.timesofisrael.com/…. 102 Si vedano https://jewishvoiceforpeace.org/…; https://jewishvoiceforpeace.org/…. 103 Per approfondire, https://www.haaretz.com/…. 104 Si veda il reportage di «Haaretz»: https://www.haaretz.com/…. 105 «Haaretz», 18 maggio 2018, https://www.haaretz.com/…. 106 Si veda https://www.theguardian.com/…. 107 Si veda https://www.haaretz.com/…. 108 Bradley Burston, The Israel You Know Just Ended. You Can Thank Netanyahu, in «Haaretz», 19 luglio 2018. 109 Si veda https://www.theguardian.com/…. 110 BBC, Hodge attacked for «Bnp language», 25 maggio 2007, http://news.bbc.co.uk/…. 111 Si veda, tra molti, quello recente di Ilan Pappe, The Biggest Prison on Earth. A History of Occupied Palestine, Oneworld, London 2017; Donald Macintyre, Gaza. Preparing for Dawn, Oneworld, London 2017; Ahdaf Soueif - Omar Robert Hamilton (a cura di), This is Not a Border: Reportage and Reflection from the Palestine Festival of Literature, Bloomsbury, London 2017. 112 Si veda il rapporto di B’Tselem (un’organizzazione umanitaria israeliana), By Hook and by Crook. Israeli Settlement Policy in the West Bank, luglio 2010; si veda anche Nur Arafeh - Samia alBotmeh - Leila Farsakh, How Israeli Settlements Stifle Palestine’s Economy, in «Al-Shabaka» (un network politico palestinese), 15 dicembre 2015, https://al-shabaka.org/…. 113 Pew Research Center, Israel’s Religiously Divided Society, 8 marzo 2016, p. 153, http://www.pewforum.org/…. 114 Thousands at Tel Aviv Rally Call for release of IDF soldier charged in Hebron shooting, in «The Jerusalem Post», 19 aprile 2016. 115 Ella Shohat, On the Arab-Jew, Palestine, and Other Displacements. Selected Writings, Pluto Press, London 2017, pp. 40-41. 116 Andrew Norfolk, Christian child forced into Muslim foster care, in «The Times», 28 agosto 2017; Gaby Hinsliff, The Muslim fostering row is a culture war in action, in «The Guardian», 31

agosto 2017; Jamie Grierson, Inquiry rejects press claims about «Christian» girl fostered by Muslims, in «The Guardian», 1o novembre 2017. 117 «Daily Telegraph», Corrections and clarifications, 9 maggio 2018. 118 Si veda http://news.bbc.co.uk/…. Per il discorso completo al TUC si veda http://news.bbc.co.uk/…. 119 Anthony Barnett, The Lure of Greatness. England’s Brexit & America’s Trump. Why 2016 Blew Away the World Order and How We Must Respond, Unbound, London 2017, p. 136. 120 Si veda https://www.cable.co.uk/…. 121 BBC: http://www.bbc.co.uk/…, fonte: Institute for Strategic Studies, The Military Balance 2016 e 2017. 122 David Shariatmadari, UK defence spending is national narcissism, in «The Guardian», https://www.theguardian.com/…. 123 https://www.theguardian.com/…. 124 «The Guardian», 8 marzo 2017, https://www.theguardian.com/…. 125 British Hospitality Association, Online Review Websites, Labour Migration in the Hospitality Sector, marzo 2017, soprattutto pp. 13ss., http://www.bha.org.uk/…. 126 Home Builders Federation, Home Building Workforce Census 2017, https://www.hbf.co.uk/documents/7305/HBF_Workforce_Census_web pdf; si veda pp. 22, 29, 34-39; si veda anche The government’s Brexit immigration plan could push Britain’s housebuilding industry into a staffing crisis, in «Business Insider», https://www.businessinsider.com/…. 127 Russell Group, https://russellgroup.ac.uk/…. 128 Si veda https://static.guim.co.uk/…. 129 BBC: https://www.bbc.co.uk/…. 130 FMI. Si veda il capitolo 4 della relazione WEO dell’ottobre 2016 e il capitolo 2 di quella dell’aprile 2018: http://www.imf.org/…; http://www.imf.org/…. 131 Impacts of migration on UK native employment: An analytical review of the evidence, a cura di Ciaran Devlin e Olivia Bolt, Department for Business, Innovation and Skills, e di Dhiren Patel, David Harding e Ishtiaq Hussain, Home Office, Occasional Paper 109, marzo 2014, https://assets.publishing.service.gov.uk/…. 132 Christian Dustmann - Tommaso Frattini, The Fiscal Effects of Immigration to the UK, in «Economic Journal», vol. 124(580), 2014, pp. F593-F643. Un monitoraggio della letteratura in merito conferma simili risultati: si veda https://fullfact.org/…. 133 Si veda https://www.independent.co.uk/…. 134 Dudley Baines, European Labor Markets, Emigration and Internal Migration, 1850-1913, in Timothy J. Hatton - Jeffrey G. Williamson (a cura di), Migration and the International Labor Market 1850-1939, Routledge, London 1994, p. 43. 135 Si veda https://www.statista.com/…; si veda anche Office of National Statistics: https://www.ons.gov.uk/…. 136 Reportage Reuters: https://www.reuters.com/…. 137 Si veda New Zealand child poverty a source of deep concern, says UN, in «The Guardian», 7 ottobre 2017, https://www.theguardian.com/…. 138 Richard Prebble, Jacinda Ardern will regret this coalition of losers, in «New Zealand Herald», 20 ottobre 2017, http://www.nzherald.co.nz/…. 139 Edmund Barton al parlamento australiano discutendo l’«Immigration Restriction Bill», House of Representatives, Debates, 12 settembre 1901, p. 48, citato in David Dutton, One of Us?: A Century of Australian Citizenship, UNSW Press, Kensington 2002, p. 28. 140 Richard Flanagan, Australia built a hell for refugees on Manus. The shame will outlive us all, in «The Guardian», 24 novembre 2017.

141 Malcolm Fraser backs Greens senator, in «The Sydney Morning Herald», 6 luglio 2013, http://www.smh.com.au/…. 142 Sul costo e, più in generale, sulle politiche anti-immigrazione, si veda l’ottimo Go Back to Where You Came From: The Backlash Against Immigration and the Fate of Western Democracy, di Sasha Polakow-Suransky, Hurst, London 2017, p. 89. 143 Harriet Sherwood, Israel PM: illegal African immigrants threaten identity of Jewish state, in «The Guardian», 20 maggio 2012, https://www.theguardian.com/…. 144 Jonathan Freedland, Benjamin Netanyahu’s appalling betrayal of Jewish values, in «The Jewish Chronicle», 8 febbraio 2018. 145 Si veda https://www.timesofisrael.com/…; https://www.timesofisrael.com/…. 146 CNN: https://twitter.com/…. 147 Russel Neiss, We U.S. Jews Promised to Protect Darfur’s Genocide Survivors. Now Israel’s Expelling Them, and We Don’t Care, in «Haaretz», 27 novembre 2017, https://www.haaretz.com/…. 148 Michael Brizon, The Sick Historical Precedent for Israel’s Asylum-seeker Expulsion Push, in «Haaretz», 11 gennaio 2018. 149 Ilan Lior, El Al Pilots say they won’t fly deported asylum seekers to Africa, in «Haaretz», 22 gennaio 2018. 150 Editoriale, «The Guardian», 8 luglio 2018, https://www.theguardian.com/….

3. Il declino del welfare 1 Gabriel Zucman, The desperate inequality behind global tax dodging, in «The Guardian», 8 novembre 2017. 2 Jean Fourastié, Les Trente Glorieuses, ou la révolution invisible de 1946 à 1975, Fayard, Paris 1979. 3 Stime calcolate dal Nuffield Trust; si veda «The Guardian», 1o febbraio 2016, https://www.theguardian.com/…. 4 Fino al 1989 mancano dati per il singolo contribuente, ma si veda Tom Clark - Andrew Dilnot, Long-Term Trends in British Taxation and Spending, The Institute for Fiscal Studies, Briefing Note n. 25, 2002, https://www.ifs.org.uk/…; per i dati sui contribuenti singoli si veda Hm Revenue & Customs, https://www.gov.uk/…. 5 Si veda Ha-Joon Chang, The myths about money that British voters should reject, in «The Guardian», 1o giugno 2017, https://www.theguardian.com/…. 6 Franklin D. Roosevelt, Address at Madison Square Garden, New York City, 31 ottobre 1936, https://www.presidency.ucsb.edu/…. 7 Terry H. Anderson, The Pursuit of Fairness: A History of Affirmative Action, Oxford University Press, Oxford 2004, p. 124. 8 Si veda il video con la promessa «niente nuove tasse»: https://www.youtube.com/…. 9 Peter Edelman, The Worst Thing Bill Clinton Has Done, in «The Atlantic Monthly», vol. 279, n. 3, marzo 1997. L’autore era assistente segretario nell’amministrazione Clinton e diede le dimissioni per protesta quando Clinton firmò la legge. 10 Bill Ayres, The Poorest of the Poor: The Clinton Legacy?, in «Huffington Post», blog del 22 aprile 2016, aggiornato il 23 aprile 2017, https://www.huffingtonpost.com/…. 11 Joseph Stiglitz, Capitalist Fools, in «Vanity Fair», gennaio 2009, https://www.vanityfair.com/ …. 12 Si veda il reportage BBC: http://www.bbc.co.uk/…. Per i dati sulle prigioni si veda il World Prison database at the Institute for Criminal Policy Research (il link è esterno) presso Birkbeck,

University of London, http://www.prisonstudies.org/…. 13 George Klosko, The Transformation of American Liberalism, Oxford University Press, Oxford 2017, p. 229. L’intero libro è un’indagine eccellente dello sviluppo delle politiche di welfare negli Stati Uniti e le loro implicazioni filosofiche. 14 Lawrence Mishel e Jessica Schieder, CEO pay remains high relative to the pay of typical workers and high-wage earners, Economic Policy Institute, 20 luglio 2017, https://www.epi.org/…; si veda anche Diane Ravitch, Big Money Rules, in «New York Review of Books», 7 dicembre 2017. 15 Alastair Gee, America’s homeless population rises for the first time since the Great Recession, in «The Guardian», 6 dicembre 2017. 16 Si veda la relazione di Good Jobs Nation, The Offshoring of American Jobs Continues, Washington, giugno 2018, http://goodjobsnation.org/…. 17 Robert Reich, A New Year’s update for Trump voters. Have Trump’s promises come to fruition?, in «Salon», 1o gennaio 2018, https://www.salon.com/…. 18 Martin Wolf, Donald Trump declares trade war on China, in «Financial Times», 9 maggio 2018. 19 Jason Beckfield - Nancy Krieger, Epi + demos + cracy: Linking Political Systems and Priorities to the Magnitude of Health Inequities-Evidence, Gaps, and a Research Agenda, in «Epidemiologic Reviews», 31(2009), p. 166, https://www.ncbi.nlm.nih.gov/…. 20 Nicholas Timmins, The «welfare state» should be something we’re proud of. Not a term of abuse, in «The Guardian», 2 novembre 2017; Timmins è l’autore di The Five Giants: A Biography of the Welfare State, William Collins, London 2017 (edizione aggiornata). 21 Andrew Ellson, City traders getting away with abuse of markets. Insider deals by white-collar criminals ignored, in «The Times», 19 gennaio 2018. Sull’evasione fiscale si veda Vanessa Houlder, HMRC steps up prosecutions for tax cheating, in «Financial Times», 29 settembre 2017. 22 Chris Giles, PFI discredited by cost, complexity and inflexibility, in «Financial Times», 26 settembre 2017, https://www.ft.com/…. 23 Margaret Hodge, Labour is right to rule out PFI rip-offs in future, in «The Guardian», 26 settembre 2017, https://www.theguardian.com/…. 24 Rajeev Syal, Taxpayers to foot £200bn bill for PFI contracts – audit office, in «The Guardian», 18 gennaio 2018, https://www.theguardian.com/…. 25 Rob Davies, Former Carillion directors branded «delusional» at MPs’ Q&A, in «The Guardian», 6 febbraio 2018, https://www.theguardian.com/…. 26 Nils Pratley, Entire system failed Carillion, not just directors at the top, in «The Guardian», 16 maggio 2018, https://www.theguardian.com/…. 27 Si veda la relazione del Centre for Health and the Public Interest, P.F.I. Profiting From Infirmaries, agosto 2017: https://chpi.org.uk/…. 28 Chris Ham et al., The NHS under the coalition government: Part one: NHS reform, 6 febbraio 2015, https://www.kingsfund.org.uk/…. 29 Haroon Siddique, NHS trusts post «unsustainable» £886m third-quarter deficit, in «The Guardian», 20 febbraio 2017, https://www.theguardian.com/…. 30 OCSE, Health at a Glance: Europe 2016. State of Health in the EU Cycle; per il numero dei posti letto, ivi, p. 167; per il numero dei medici, ivi, p. 159; per liste d’attesa per operazioni, ivi, p. 175; il rapporto completo è disponibile presso http://dx.doi.org/…. 31 Laurent Fabius, Le coeur du futur, Calmann-Lévy, Paris 1985, p. 207. 32 Pierre-Alain Muet - Alain Fonteneau, Reflation and Austerity. Economic Policy under Mitterrand, Berg, New York 1990, pp. 198-204. 33 Pierre Favier - Michel Martin-Roland, La Décennie Mitterrand, vol. 1, Les ruptures, Éditions du Seuil, Paris 1990, p. 114.

34 Pierre Biacabe, Les mésaventures du franc, in Michel Massenet et al., La France socialiste. Un premier bilan, Hachette, Paris 1983, pp. 12-56. 35 Citato in Gérard Grunberg, Le cycle d’Épinay, in «Intervention», n. 13, luglio-settembre 1985, p. 83. 36 Alain Touraine, Fin de Partie, in «Intervention», n. 13, luglio-settembre 1985, p. 17 37 Nicole Questiaux (a cura di), Les Français et leurs revenus: le tournant des années 80, relazione del Centre d’étude des revenus et des coûts, La Documentation française, Paris 1989. 38 Ian Davidson, Prudent policies beginning to bear fruit, Survey on France, in «Financial Times», 17 giugno 1991, p. II. 39 Michael Binyon, Thatcher told Gorbachev Britain did not want German unification, in «The Times», 11 settembre 2009, https://www.margaretthatcher.org/…. 40 Daniel Vernet, Mitterrand, l’Europe et la réunification allemande, in «Politique étrangère», 68(2003), n. 1, pp. 176-177; Frédéric Bozo, Mitterrand, la fin de la Guerre froide et l’unification allemande: de Yalta à Maastricht, Odile Jacob, Paris 2005, p. 417. 41 The sick man of the euro, in «The Economist», 3 giugno 1999, http://www.economist.com/…. 42 Si veda l’indagine di Francis Beckett - David Hencke - Nick Kochan, Blair Inc.: The Money, the Power, the Scandals, John Blake, London 2016, la citazione è a p. 87. 43 Sumi Somaskanda, Rich Germany Has a Poverty Problem, in «Foreign Policy», 5 maggio 2015, http://foreignpolicy.com/…. 44 Peter Garpenby, The Transformation of the Swedish Health Care System, or the hasty rejection of the rational planning model, in «Journal of European Social Policy», 2(1992), n. 1, pp. 17-31. 45 Survey on Sweden, in «Financial Times», 21 dicembre 1993. 46 William J. Clinton, Address Before a Joint Session of the Congress on the State of the Union, 23 gennaio 1996, https://www.youtube.com/…. 47 Zeev Sternhell, Né destra né sinistra. La nascita dell’ideologia fascista, tr. it. di G. Sommella e M. Tarchi, Akropolis, Napoli 1984. 48 Alain, Propos, a cura di Maurice Savin, Gallimard Bibliotèque la Pléiade, Paris 1956, p. 983. 49 En Algérie, Macron qualifie la colonisation de «crime contre l’humanité», tollé à droite, in «Le Monde», 15 febbraio 2017, aggiornato il 16 febbraio 2017, http://www.lemonde.fr/…. 50 Si veda la relazione nel network di news francese BFMTV: Macron, toujours perçu comme le «président des riches», http://www.bfmtv.com/…. 51 L’optimisme post-élection de Macron s’est dissipé, in «Le Monde», 10 luglio 2018. 52 Si veda Que change la réforme de l’ISF d’Emmanuel Macron?, in «Le Monde», 30 agosto 2017, aggiornato il 27 settembre 2017, https://www.lemonde.fr/…. 53 Maryline Baumard, in «Le Monde», 16 dicembre 2017, http://www.lemonde.fr/…. 54 La stratégie étriquée de Laurent Wauquiez, in «Le Monde», 27 ottobre 2017, http://www.lemonde.fr/…. 55 Sondaggio YouGov condotto il 31 luglio 2017, https://yougov.co.uk/…. 56 Il gap fra i risultati reali e la percezione è esaminato in Polly Toynbee - David Walker, Better of Worse? Has Labour Delivered?, Bloomsbury, London 2005. 57 Andrew Hood - Tom Waters, Living standards, poverty and inequality in the UK: 2017-18 to 2021-22, Institute for Fiscal Studies, novembre 2017, p. 19; si veda anche Patrick Butler, Child poverty in UK at highest level since 2010, official figures show, in «The Guardian», 16 marzo 2017. 58 Child Poverty Action Group, Child poverty facts and figures, http://www.cpag.org.uk/…. 59 The Joseph Rowntree Foundation Analysis Unit (Helen Barnard), UK Poverty 2017, 4 dicembre 2017, https://www.jrf.org.uk/…. 60 Chris Williamson, This is how neoliberalism, led by Thatcher and Blair, is to blame for the Grenfell Tower disaster, in «The Independent», 4 agosto 2017.

61 Gordon Brown, discorso a Mansion House, 22 giugno 2006; https://www.theguardian.com/…. 62 Gordon Brown, My Life, Our Times, The Bodley Head, London 2017, p. 344. 63 Robert Shrimsley, Boris Johnson’s Brexit explosion ruins Tory business credentials, in «Financial Times», 25 giugno 2018, https://www.ft.com/…. 64 http://www.feedingamerica.org/…. 65 Business Insider UK, https://www.businessinsider.com/…. 66 Dati dal US Census Bureau: https://www.census.gov/…. 67 Joseph Stiglitz, The Overselling of Globalization, The Paul A. Volcker Prize Lecture, Washington, 6 marzo 2017, p. 19, https://www8.gsb.columbia.edu/….

4. Il crollo dei partiti tradizionali 1 Avrebbero guadagnato anche di più se avessero aspettato un po’ più a lungo; si veda Christian Wienberg, Goldman Missed Out on $800 Million After Selling Dong Shares, in «Bloomberg News», 12 ottobre 2017, https://www.bloomberg.com/…. 2 Anshel Pfeffer, How Netanyahu Has Betrayed the Jews, in «Haaretz», 27 ottobre 2017. 3 Sue Surkes, Far-right Austrian party chief visits Israel, tours Yad Vashem, in «The Times of Israel», 12 aprile 2016, https://www.timesofisrael.com/…. 4 A neo-Nazi wins, https://www.economist.com/…. 5 Hardeep Matharu, Slovakian Prime Minister says «islam has no place in this country» – weeks before it takes over EU presidency, in «The Independent», 27 maggio 2016, http://www.independent.co.uk/…. 6 Party of European Socialists (PES): https://www.pes.eu/…. 7 Gábor Győri, The political communication of the refugee crisis in Central and Eastern Europe, FEPS and Policy Solutions, Brussels 2016, p. 9; http://www.feps-europe.eu/…. 8 EU Statistics in European Migration Network: http://emn.ie/…. 9 Sulle conseguenze economiche negative delle politiche di austerità in Spagna come in Italia e Portogallo, si veda Philipp Engler - Mathias Klein, Austerity measures amplified crisis in Spain, Portugal, and Italy, in «DIW Economic Bulletin», 7(2017), n. 8, pp. 89-93. 10 Si veda Beat Balzli, How Goldman Sachs Helped Greece to Mask its True Debt, in «Spiegel Online», 8 febbraio 2010, http://www.spiegel.de/…. 11 Daniel Finn, Erdoğan Cesspit, in «New Left Review», n. 107, settembre-ottobre 2017, p. 6 e Shadi Hamid, How Much Can One Strongman Change a Country?, in «The Atlantic», 26 giugno 2017, https://www.theatlantic.com/…. 12 Fakir S. Aijazuddin, Annual Amnesia, in «Dawn», 28 dicembre 2017, https://www.dawn.com/ …. 13 Michael Richley, Why Japan Will Lose 20 Million People by 2050 Bring in the robots, immigrants, and women!, 7 febbraio 2017, https://www.tofugu.com/…; si veda anche Robin Harding, Japan suffers record decline in population, in «Financial Times», 5 luglio 2017. 14 Amnesty International, Nicaragua: State repression has reached deplorable levels, 9 luglio 2018, https://www.amnesty.org/en/latest/news/2018/07/nicaragua-represion-estatal-ha-llegado-aniveles-deplorables/. 15 Joseph E. Stiglitz, When it comes to the economy, Britain has a choice: May’s 80s rerun or Corbyn’s bold rethink, in «Prospect», ottobre 2017; di Stiglitz si veda anche Of the 1%, by the 1%, for the 1%, in «Vanity Fair», maggio 2011 e il suo The Price of Inequality, Allen Lane, London 2012 (tr. it., Il prezzo della disuguaglianza, Einaudi, Torino 2013). 16 Jonathan D. Ostry - Prakash Loungani - Davide Furceri, Neoliberalism: Oversold?, in «Finance

& Development», vol. 53, n. 2, giugno 2016, pp. 38-40. 17 Larry Elliott, IMF tax stance is music to Labour economists’ ears, in «The Guardian», 11 ottobre 2017. 18 Bloomberg Billionaire Index, https://www.bloomberg.com/…; si veda anche «The Guardian», 27 dicembre 2017, https://www.theguardian.com/…. 19 OECD Economic Surveys, Sweden, febbraio 2017, Overview, p. 2, https://www.oecd.org/…. 20 Si veda David Leonhardt, Our Broken Economy, in One Simple Chart, in «The New York Times», 7 agosto 2017, https://www.nytimes.com/…. 21 The World Inequality Report 2018, scritto e coordinato da Facundo Alvaredo, Lucas Chancel, Thomas Piketty, Emmanuel Saez e Gabriel Zucman, http://wir2018.wid.world/…, si veda in particolare p. 7. 22 Danny Dorling, Do We Need Economic Inequality?, Polity, Cambridge 2018, p. 2. 23 Danny Dorling, Inequality in Advanced Economies, in «The Oxford Handbook of Economic Geography», OUP 2018, p. 44. 24 Ivi, p. 40. 25 Micheal White - Anne Perkins, «Nasty party» warning to Tories, in «The Guardian», 7 ottobre 2002, https://www.theguardian.com/…. 26 James Tapsfield, Home Office officials destroyed landing cards which could have proved the right of Windrush immigrants to stay in Britain, it is claimed as May finally says sorry for the ordeal of those hit by the fiasco, in «Daily Mail», 17 aprile 2018, http://www.dailymail.co.uk/…. 27 David Cameron, discorso del 25 marzo 2013, https://www.gov.uk/…. 28 Robert Wright, UK wrongly ordered thousands of foreign students to leave country, in «Financial Times», 2 maggio 2018. 29 Julian Jackson, De Gaulle, Haus Publishing, London 2003, p. 65. 30 D.R. Thorpe, Supermac: The Life of Harold Macmillan, Chatto & Windus, London 2010, cap. 16. 31 Il discorso è immortalato in un video su YouTube: https://www.youtube.com/…. 32 Rowena Mason, Benefit reforms will end «something-for-nothing culture», says Duncan Smith, in «The Guardian», 1o ottobre2013, https://www.theguardian.com/…. 33 Tim Shipman, Families should only get child benefit for the first two children, says IDS, but Clegg condemns «Chinese-style» clampdown, in «Mail Online, 12 gennaio 2014, aggiornato il 13 gennaio 2014, http://www.dailymail.co.uk/…. 34 David Finch, It’s crunch time for Universal Credit – and big changes are needed, in «Resolution Foundation», 7 luglio 2017, http://www.resolutionfoundation.org/…; si veda anche l’editoriale The Guardian view on universal credit: brake, don’t accelerate, in «The Guardian», 29 settembre 2017, https://www.theguardian.com/…. 35 Patrick Wintour, Anger after Harriet Harman says Labour will not vote against welfare bill, in «The Guardian», 12 luglio 2015, https://www.theguardian.com/…. 36 Peter Kellner, Why Tessa Jowell is Labour’s best hope in London, in «YouGov», 17 giugno 2015, https://yougov.co.uk/…. 37 Lo studio è stato condotto da Tim Bale; si veda Grassroots, Britain’s Party Members, pubblicato dal Mile End Institute presso la Queen Mary University of London, gennaio 2018. 38 Jack Maidment, Sir Lynton Crosby’s firm «paid £4 million by Conservative Party for 2017 general election campaign, in «The Telegraph», 8 agosto 2017, http://www.telegraph.co.uk/…. 39 Andy Beckett, How the Tory election machine fell apart, in «The Guardian», 26 giugno 2017, https://www.theguardian.com/…. 40 Si veda la recensione di Fall Out: A Year Of Political Mayhem, di Tim Shipman, a firma di Craig Brown, in «Mail on Sunday», 17 dicembre 2017.

41 Terra Nova, Le bilan redistributif du Sarkozysme, 6 marzo 2012, http://tnova.fr/…. 42 Sull’effetto della disoccupazione si veda François Béguin, La défiscalisation des «heures sup» a accéléré la hausse du chômage, in «Le Monde», 11 marzo 2009, http://www.lemonde.fr/…. 43 Daniel Boffey, Polish government widely condemned over morning-after pill law, in «The Guardian», 26 giugno 2017. 44 Irma Allen, Solidarity according to Polish women in 2017, in «OpenDemocracy», 25 luglio 2017, https://www.opendemocracy.net/…. 45 Si veda http://www.pewforum.org/…. 46 Neal Ascherson, Diary, in «London Review of Books», vol. 39, n. 20, 19 ottobre 2017. 47 Si veda http://www.bbc.co.uk/…. 48 Bloomberg News, 8 dicembre 2017, https://www.bloomberg.com/…. 49 Weronika Grzebalska - Andrea Pető, The gendered modus operandi of the illiberal transformation in Hungary and Poland, in «Women’s Studies International Forum», vol. 68, maggiogiugno 2017, pp. 164-172, https://doi.org/…. 50 Si veda https://www.ft.com/…. 51 Si veda https://www.politico.eu/…. 52 Sul «capitalismo clientelare» di Orbán, si veda Neil Buckley - Andrew Byrne, Orban’s oligarchs, in «Financial Times», 22 dicembre 2017. 53 Si veda il testo completo del discorso in http://abouthungary.hu/…. 54 Benjamin Novak, You, too, can do the shuffle all over George soros’ face!, in «The Budapest Beacon», 7 luglio 2017, https://budapestbeacon.com/…. «The Budapest Beacon» è un giornale online pubblicato dalla Real Reporting Foundation, con sede negli USA. 55 Shaun Walker, Hungarian leader says Europe is now «under invasion» by migrants, in «The Guardian», 15 marzo 2018, https://www.theguardian.com/…. 56 Nagy József, Aradszki András: Nem, nem, Soros nem egyezik meg a Sátánnal. A terve sátáni, in «24-Hu», https://24.hu/…. 57 Siobhan Fenton, Put pig heads on border fences to deter Muslim refugees, Hungarian MEP suggests, in «The Independent», 21 agosto 2016, http://www.independent.co.uk/…. 58 Maayan Lubell, Why Does Israel Pour Billions Into West Bank Jewish Settlements?, in «The Forward», 24 giugno 2014. 59 Peter Beaumont, Israeli anti-corruption police question Netanyahu for fifth time, in «The Guardian», 9 novembre 2017, https://www.theguardian.com/…. 60 Chemi Shalev, Rivlin Blasts Netanyahu’s Dangerous Putsch and Likud’s Profiles in Cowardice, in «Haaretz», 24 ottobre 2017. 61 Si veda la relazione di Judith Maltz, Young American Jews Increasingly Turning Away From Israel, Jewish Agency Leader Warns, in «Haaretz», 22 gennaio 2018, https://www.haaretz.com/…; si veda anche il rapporto Pew del 1o ottobre 2013, A Portrait of Jewish Americans, pp. 81-84, http://assets.pewresearch.org/…. 62 Raphael Ahren, Loathed by Jews, Germany’s far-right AfD loves the Jewish state, in «The Times of Israel», 24 settembre 2017. 63 Yann Le Guernigou, Sarkozy tells Obama Netanyahu is a «liar», Reuters, 8 novembre 2011, https://www.reuters.com/…. 64 Matt Spetalnick, U.S., Israel sign $38 billion military aid package, Reuters, 14 settembre 2016, https://www.reuters.com/…. 65 John O. Brennan, @JohnBrennan, 21 dicembre 2017. 66 Si veda Trump Praises Evangelical Pastor Who Once Said Jews Can’t Be Saved, in «Haaretz», 22 ottobre 2017, https://www.haaretz.com/…. 67 Dale Hurd, Jeffress Prays «for the Peace of Jerusalem» After Being Attacked for Christian

Beliefs, in «cbnnews.com», 14 maggio 2018, http://www1.cbn.com/…. 68 Stuart Whatley, Avigdor Lieberman Roundup: Most Outlandish Public Statements, in «Huffington Post», 9 maggio 2009, https://www.huffingtonpost.com/…. 69 Jonathan Lis, Israeli Defense Minister: Between ISIS and Hamas, Iran Remains Israel’s Biggest Threat, in «Haaretz», 18 luglio 2018, https://www.haaretz.com/…. 70 Lieberman calls Arab MKs who meet with Hamas «collaborators», in «The Jerusalem Post», 4 maggio 2006. 71 Whatley, Avigdor Lieberman Roundup, cit. 72 Orlando Crowcroft, Zion’s women of rage: Israel’s hardliners who reject the gentle touch, in «International Business Times», 23 maggio 2015. 73 Pew Research Center, Israel’s Religiously Divided Society, 8 marzo 2016, http://www.pewforum.org/…. 74 Si veda «The Times of Israel», 11 maggio 2005. 75 Sefi Rachlevsky, A Racist, Messianic Rabbi Is the Ruler of Israel, in «Haaretz», 1o luglio 2011. 76 Controversial rabbi says Paris attacks punishment for Holocaust, in «The Times of Israel», 16 novembre 2015, https://www.timesofisrael.com/…. 77 Alexander Fulbright, Echoing Netanyahu, Labor chief says leftists “forgot what it means to be a Jew”, in «The Times of Israel», 13 novembre 2017. 78 Gil Hoffman, Party leader Gabbay forces Zionist Union to back expulsion of migrants, in «The Jerusalem Post», 20 novembre 2017. 79 «You Can’t Make This S—-Up»: My Year Inside Trump’s Insane White House, in «The Hollywood Reporter», 4 gennaio 2018, https://www.hollywoodreporter.com/news/michael-wolff-myinsane-year-inside-trumps-white-house-1071504 (la citazione «You can’t make this…» è attribuita a Sean Spicer, ex addetto stampa alla Casa Bianca). La citazione da A Higher Loyalty: Truth, Lies and Leadership di Comey è apparsa nel «Washington Post»: https://www.washingtonpost.com/…. 80 Stuart Hermitage, Trump’s Top Trumps, in «The Guardian», 30 dicembre 2017. 81 Matthew Rosenberg, New CIA Deputy Director, Gina Haspel, Had Leading Role in Torture, in «The New York Times», 2 febbraio 2017; si veda anche Heather Digby Parton, New report on CIA nominee Gina Haspel may rescue her: But it shouldn’t, in «Salon», 16 marzo 2018, https://www.salon.com/…. 82 Rhys Blakely, Trump names TV pundit Larry Kudlow as chief economic adviser, in «The Times», 15 marzo 2018, https://www.thetimes.co.uk/…. 83 Charlie Savage, What It Means the Indictment of Manafort and Gates, in «The New York Times», 30 ottobre 2017. 84 Bob Woodward, Agenda. Inside the Clinton White House, Simon & Schuster, New York 2011, p. 324 (tr. it., La Casa Bianca dei Clinton, Sperling & Kupfer, Milano 1994). 85 Niccolò Machiavelli, Il principe, Garzanti, Milano 20176, cap. XXII, p. 76. 86 Si veda la risposta della Nielsen in questo video: https://www.theguardian.com/…. 87 Jeremy Herb, House Republicans release redacted Russia report, CNN, 28 aprile 2018, https://edition.cnn.com/…. 88 Scott Shane, Russian Intervention in American Election Was No One-Off, in «The New York Times», 6 gennaio 2017, https://www.nytimes.com/…. 89 Robert Shrimsley, Alexander Nix, a fake Bond villain obscuring the real mastermind, in «Financial Times», 22 marzo 2018, il vero «manovratore» è Mark Zuckerberg; si veda anche William Davies, Short Cuts, in «London Review of Books», vol. 40, n. 7, 5 aprile 2018, pp. 20-21. 90 Si veda Dov Levin, Database Tracks History Of U.S. Meddling In Foreign Elections, NPR, 22 dicembre 2016, https://www.npr.org/…; si veda anche Doug Bandow, Interfering In Democratic Elections: Russia Against The U.S., But U.S. Against The World, in «Forbes», 1o agosto 2017,

https://www.forbes.com/…. 91 Barack Obama says Brexit would leave UK at the «back of the queue» on trade, BBC News, 22 aprile 2016; https://www.bbc.co.uk/…. 92 Grenell will Konservative in Europa stärken, in «Spiegel online», 4 giugno 2018, http://www.spiegel.de/…. 93 Tom Newton Dunn, Donald Trump told Theresa May how to do Brexit «but she wrecked it» – and says the US trade deal is off, in «The Sun», 13 luglio 2018, https://www.thesun.co.uk/…. 94 Si veda il videoreportage di Nilo Tabrizy, Sheldon Adelson’s Influence on Trump’s Israel Policy, https://www.nytimes.com/…. 95 Reportage nelle riviste tedesche «Spiegel» e «Bild am Sonntag», si veda Philip Sherwell, US «operates 80 listening posts worldwide, 19 Europe, and snooped on Merkel mobile 2002-2003», in «The Daily Telegraph», 27 ottobre 2013, http://www.telegraph.co.uk/…. 96 Dati da Edison Research per ABC News, AP, CBS News, CNN, Fox News, NBC News, sito web della BBC, Reality Check: Who voted for Donald Trump?, 9 novembre 2016, http://www.bbc.co.uk/…; sul sostegno a Trump tra i cristiani evangelici si veda Gregory S. Smith, Among white evangelicals, regular churchgoers are the most supportive of Trump, Pew Research Center, 26 aprile 2017, http://www.pewresearch.org/…. 97 Anthony Barnett, The Lure of Greatness, Unbound, London 2017, p. 14. 98 Michael C. Behrent, Un Cyrus américain? Trump contre les Républicains, in «Esprit», n. 440, dicembre 2017, p. 16. 99 Sam Rosenfeld, The Polarizers, University of Chicago Press, Chicago 2018, p. 285. 100 Susanna Barrows, Distorting Mirrors. Visions of the Crowd in Late Nineteenth-Century France, Yale University Press, Yale 1981, p. 162. 101 Ibidem. 102 Thomas Frank, The media’s war on Trump is destined to fail. Why can’t it see that?, in «The Guardian», 21 luglio 2017; si veda anche Id., Listen, Liberal: or, what ever happened to the party of the people?, Picador, London 2017. 103 Secondo il primo ministro Georges Pompidou, il 19 maggio 1968, mentre si svolgeva la rivolta studentesca, de Gaulle aveva detto «sì alla riforma» ma «non à la chienlit (piscialletto o caga-aletto), un’espressione quasi mai usata. 104 Si veda: https://www.youtube.com/…; Fox News, https://www.youtube.com/…; «Washington Post», 7 ottobre 2016, https://www.washingtonpost.com/…. 105 Trump derides protections for immigrants from «shithole» countries, in «The Washington Post», 12 gennaio 2018, https://www.washingtonpost.com/…. 106 Si veda https://www.washingtonpost.com/…. 107 Per la lista completa delle 551 persone, luoghi e cose insultati da Donald Trump su Twitter: https://www.nytimes.com/…; si veda anche Peter Barker, The Presidency, in «The New York Times», 31 dicembre 2017, https://www.nytimes.com/…. 108 John McWhorter, How to listen to Donald Trump Every Day for Years, in «The New York Times», 21 gennaio 2017. 109 Si veda, tra gli altri, Chirac in quotes, in «The Telegraph», 12 marzo 2007, http://www.telegraph.co.uk/…; e Brigitte Vital-Durand, Gaffes et dérapages, in «Libération, 9 maggio 1995, http://www.liberation.fr/…. 110 Rone Tempest, in «Los Angeles Times», 23 luglio 1991, http://articles.latimes.com/…; e Alan Riding, «The New York Times», 24 luglio 1991, http://www.nytimes.com/…. 111 «The Daily Telegraph», 8 dicembre 2015. 112 Qui il video: https://www.youtube.com/…. 113 Si veda https://www.youtube.com/….

114 Su questo e altro si veda In quotes: Italy’s Silvio Berlusconi in his own words, in BBC News, 2 agosto 2013, http://www.bbc.co.uk/…. 115 https://it.wikipedia.org/…. 116 Discorso a Cabiate, vicino Como, 26 luglio 1997, si veda «la Repubblica», 23 gennaio 2002; per il «ce l’abbiamo duro» si veda il video: https://www.youtube.com/…. 117 «L’Europeo», 14 settembre 1990; citato in Laura Balbo - Luigi Manconi, Razzismi. Un vocabolario, Feltrinelli, Milano 1993, p. 44. 118 Henri Deleersnijder, La dérive populiste en Europe centrale et orientale, in «Hermès, La Revue», 2005/2, n. 42; e «Libération», 28 giugno 2002. 119 Duterte llama «hijo de puta» y «homosexual» al embajador de EEUU en Filipinas, in «El Periodico», 10 agosto 2016, aggiornato il 7 settembre 2016, http://www.elperiodico.com/…. 120 Emily Rauhala, Duterte makes lewd threat to female rebels in Philippines, in «The Washington Post», 12 febbraio 2018. 121 Hannah Ellis-Petersen, Philippine president Duterte needs psychiatric evaluation, says UN chief, in «The Guardian», 9 marzo 2018. 122 Fakir S. Aijazuddin, Waiting for Godot, in «Dawn», 5 ottobre 2017. Ishaq Dar, dopo la sua condanna, fuggì a Londra. 123 Roland Oliphant, Fifteen years of Vladimir Putin: in quotes, in «The Telegraph», 7 maggio 2015, http://www.telegraph.co.uk/…. 124 Oleg Kashin, Will Russia’s Only Opposition Leader Become the Next Putin?, in «The New York Times», 3 luglio 2017. 125 Robert Mendlick - Jack Maidment, Michael Fallon resigned after allegedly telling Andrea Leadsom: «Cold hands? I know where you can put them», in «The Telegraph», 3 novembre 2017, http://www.telegraph.co.uk/…. 126 Nicholas Watt, How a racist joke became no laughing matter for Ann Winterton, in «The Guardian», 6 maggio 2002, https://www.theguardian.com/…; Anthony France, Howard sacks MP for cockle tragedy joke, in «The Daily Telegraph», 26 febbraio 2004, https://www.telegraph.co.uk/…; si veda anche http://news.bbc.co.uk/…. 127 Il termine è stato reso popolare dal bestseller dei giornalisti Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, La casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili, Rizzoli, Milano, 2007. 128 Ghita Ionescu - Ernest Gellner (a cura di), Populism. Its Meaning and National Character, Weidenfeld & Nicolson, London 1969, p. 1. 129 Ana Rita Ferreira, The Portuguese Government Solution. The «Fourth Way» to SocialDemocratic Politics?, FEPS – Foundation for European Progressive Studies, Brussels 2017, p. 52. 130 Si veda l’intervista con Pablo Iglesias, Understanding Podemos, in «New Left Review», n. 93, maggio-giugno 2015, p. 12. 131 Pablo Iglesias, en el Ritz: «Si hay una palabra que defina a nuestra candidatura es “patriotic”», in «El Diario», 6 giugno 2016, http://www.eldiario.es/…. 132 Un’analisi più ampia è fornita in Donatella della Porta - Joseba Fernández - Hara Kouki Lorenzo Mosca, Movement Parties Against Austerity, Polity Press, Cambridge 2017. 133 Rosie Fletcher, Nick Clegg: not the best, not the worst. Just what we’re stuck with, in «New Statesman», 21 aprile 2015. 134 Andy McSmith, I’d be proud to follow Blair and Brown’s lead, says Burnham, in «The Independent», 24 maggio 2010, https://www.independent.co.uk/…. 135 Alistair Darling, Why I’m backing Liz Kendall for Labour leader, in «The Guardian», 19 luglio 2015, https://www.theguardian.com/…. 136 Margaret Beckett: I was moron to nominate Jeremy Corbyn, BBC News, 22 luglio 2015, http://www.bbc.co.uk/….

137 Bart Cammaerts - Brooks DeCillia - João Magalhães - César Jimenez-Martínez, Journalistic Representations of Jeremy Corbyn in the British Press, London School of Economics, 1o luglio 2016, in particolare le pagine 8 e 12, http://www.lse.ac.uk/…. La relazione della Media Reform Coalition copre molto dello stesso terreno ed era pervenuta a conclusioni simili: The Media’s Attack on Corbyn: Research Shows Barrage of Negative Coverage, 26 novembre 2015, http://www.mediareform.org.uk/ …. 138 Allison Pearson, Citizen Corbyn is behaving like a brat, in «The Daily Telegraph», 16 settembre 2015. 139 Martin Amis, Amis on Corbyn: Undereducated, humourless, third rate, in «The Times», 25 ottobre 2015. 140 «The Sunday Express», 20 settembre 2015, https://www.express.co.uk/…. 141 Queste perle e quelle che seguono sono estratte da due brillanti compendi: Mark Perryman (a cura di), The Corbyn Effect, Lawrence & Wishart, London 2017, e Richard Seymour, Corbyn: The Strange Rebirth of Radical Politics, Verso, London 2016; si veda anche la lunga lista di articoli antiCorbyn del «Guardian» nel blog di Tony Greenstein: http://azvsas.blogspot.com/…. 142 Per molte di queste citazioni si veda Alex Nunns, How «The Guardian» Changed Tack on Corbyn, Despite Its Readers, in «The Guardian», 8 gennaio 2017 (un estratto dal suo libro The Candidate. Jeremy Corbyn’s Improbable Path to Power, OR books, London 2016), http://novaramedia.com/…. 143 Martin Kettle, My advice to Jeremy Corbyn: create a Labour of all the talents, in «The Guardian», 28 dicembre 2017, https://www.theguardian.com/…. 144 Si veda il «Sunday Express», 13 settembre e 20 settembre 2015. 145 Jeremy Corbyn says «overwhelming case» for staying in EU, BBC News, 2 giugno 2016, http://www.bbc.co.uk/…. 146 Angela Phillips, How the BBC’s obsession with balance took Labour off air ahead of Brexit, in «The Conversation», 14 giugno 2016, https://theconversation.com/…. 147 Tristram Hunt - Alan Lockey, English radicalism and the Annihilation of the «Progressive Dilemma», in «The Political Quarterly», vol. 88, n. 1, gennaio-marzo 2017, p. 117. 148 John Milton, Il paradiso perduto, tr. di Lazzaro Papi, CDC Centro Diffusione Cultura, Milano 1985, 3/132. 149 Ashcroft Model update: potential majorities and seat-by-seat estimates, 6 giugno 2017, http://lordashcroftpolls.com/…. 150 The Conservative Party Manifesto 2017, Forward, Together. Our Plan for a Stronger Britain and a Prosperous Future, pp. 9, 18, 36, 49, https://www.conservatives.com/…. 151 Full text: Theresa May’s conference speech, in «The Spectator», 5 ottobre 2016, discorso al congresso del Partito conservatore, https://blogs.spectator.co.uk/…. 152 William Davies, Home Office Rules, in «London Review of Books», vol. 38, n. 21, 3 novembre 2016. 153 Theresa May defends «long-term» plastic waste plan, BBC News, 11 gennaio 2018, http://www.bbc.co.uk/…. 154 Kate Alexander Shaw, Baby Boomers versus Millennials: rhetorical conflicts and interestconstruction in the new politics of intergenerational fairness, SPERI - Sheffield Political Economy Research Institute, Sheffield University, p. 18, http://speri.dept.shef.ac.uk/…. 155 Tom Hazeldine, Revolt of the Rustbelt, in «New Left Review», n. 105, maggio-giugno 2017, pp. 75-76. 156 Alia Middleton, Criss-crossing the country: did Corbyn and May’s constituency visits impact on their GE17 performance?, London School of Economics, 9 agosto 2017, http://blogs.lse.ac.uk/…. 157 Rafael Behr, I knew that many people don’t vote. I should have asked why, in «The Guardian»,

3 gennaio 2018. 158 Tom Quinn, Jeremy Corbyn has left Labour unelectable, https://capx.co/…. 159 Laura Kuenssberg, The triumph that wasn’t, BBC News, 21 giugno 2017, http://www.bbc.co.uk/…. 160 Tory-DUP deal: The agreement in full, in «The Daily Telegraph», 26 giugno 2017, http://www.telegraph.co.uk/…. 161 Si veda http://researchbriefings.parliament.uk/…. 162 Rob Merrick, Conservative party’s refusal to admit plunging membership numbers is embarrassing, says Grant Shapps, in «Independent», 5 gennaio 2018, http://www.independent.co.uk/ …. 163 Citato in Andy Beckett, How the Tory election machine fell apart, in «The Guardian», 26 giugno 2017. Si veda anche Geoffrey Wheatcroft, The Strange Death of Tory England, Allen Lane, London 2005. 164 Paul Webb - Monica Poletti - Tim Bale, So who really does the donkey work in multi-speed membership parties? Comparing the election campaign activity of party members and party supporters, in «Electoral Studies», vol. 46, aprile 2017, p. 67. Si veda anche Grassroots, Britain’s Party Members, Mile End Institute presso la Queen Mary University of London, gennaio 2018, https://www.qmul.ac.uk/…. 165 Andrew Rawnsley, The Tzu Rule and other iron laws that always apply – until they don’t, in «The Guardian», 30 luglio 2017, https://www.theguardian.com/…. 166 Leon Watson - Helena Horton - David Millward, Crawling back to Corbyn: The Labour rebels eating their words after benefiting from Jeremy Corbyn’s popularity, in «The Telegraph», 1o giugno 2017, https://www.telegraph.co.uk/…. 167 Rowena Mason - Jessica Elgot, Peter Mandelson: I try to undermine Jeremy Corbyn «every single day», in «The Guardian», 21 febbraio 2017, https://www.theguardian.com/…, dove si può ascoltare una registrazione delle parole di Mandelson. 168 Watson - Horton - Millward, Crawling back to Corbyn, cit. 169 Joe Murphy, Former Danish PM schools husband Labour MP Stephen Kinnock ahead of election night interview, in «Evening Standard», 21 novembre 2017; sul sito si può vedere anche la simpatica scenetta: https://www.standard.co.uk/…. 170 La citazione completa è «Nec eventus modo hoc docet, stultorum iste magister est, sed eadem ratio, quae fuit futuraque, donec res eaedem manebunt, immutabilis est» («E non solo il risultato lo insegna, questo è maestro degli stolti, ma anche la ragione, che fu e sarà immutabile fino a quando le cose restino quali sono»), Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXII,39. 171 Michael Rustin, Are real changes now possible: where next for Corbyn and Labour?, in «Soundings», vol. 66, estate 2017, https://www.lwbooks.co.uk/…. 172 Sull’Europa si veda il testo del discorso di Corbyn The EU referendum is era-defining moment for workers rights, Institute of Engineering Technology, 2 giugno 2016, http://labourlist.org/…. 173 Si veda la relazione di Nick Ritchie - Paul Ingram, Trident in UK Politics and Public Opinion, British American Security Information Council, 15 luglio 2013. 174 Sulla saga dell’appalto della East Coast si veda Andrew Adonis, Chris Grayling’s East Coast bailout echoes the errors of New Labour, in «The Guardian», 7 febbraio 2018, https://www.theguardian.com/…. 175 Damian Carrington, Thames Water hit with record £20m fine for huge sewage leaks, in «The Guardian», 22 maggio 2017, https://www.theguardian.com/…; Nils Pratley, Thames Water needs to clean up its act after yet more fines, in «The Guardian», 15 giugno 2017, https://www.theguardian.com/ …; si veda anche https://www.theguardian.com/…. 176 Louise Ridley, Jeremy Corbyn’s Policies More Popular Than The Tories – But Only If They

Aren’t Linked To Labour, Poll Suggests, in «The Huffington Post», 13 ottobre 2016. 177 Gary Younge, We were told Corbyn was «unelectable». Then came the surge, in «The Guardian», 6 giugno 2017; ma si veda anche la sua lunga e ponderata riflessione sui risultati: A shock to the system: how Corbyn changed the rules of British politics, in «The Guardian», 16 giugno 2017. 178 Il video dello slogan è visibile qui: https://www.theguardian.com/…. 179 Polly Toynbee, Corbyn is rushing to embrace Labour’s annihilation, in «The Guardian», 19 aprile 2017; Ead. et al., Corbyn’s uniting words on Brexit sealed the deal, in «The Guardian», 27 settembre 2017. 180 Rob Merrick, Gordon Brown backs Jeremy Corbyn as Labour leader: «People want to see change», in «The Independent», 10 novembre 2017. 181 Philip Collins, What Corbyn shares with Mugabe and Mladić, in «The Times», 24 novembre 2017; si veda anche la relazione di Human Rights Watch sulle vittime del bombardamento NATO sulla Serbia: https://www.hrw.org/…. 182 Costas Douzinas, Syriza in Power, Polity, Cambridge 2017, p. 45. 183 Si veda Yanis Varoufakis, Adults in the Room: My Battle with Europe’s Deep Establishment, The Bodley Head, London 2017, pp. 443-444, 464-470 (tr. it., Adulti nella stanza, La Nave di Teseo, Milano 2018). 184 Yanis Varoufakis alla BBC il 31 gennaio 2015: http://www.bbc.co.uk/…. 185 Joanna Kakissis, Greece is one of few NATO members to have met defense spending goal, NPR, 9 luglio 2018, https://www.npr.org/….

5. L’egemonia americana 1 Si veda Perry Anderson, The H-Word. The Peripeteia of Hegemony, Verso, London 2017, p. 72, e il capitolo 6 sui teorici delle relazioni internazionali americane. 2 Cifre sulla spesa militare per l’anno 2014 allo Stockholm International Peace Research Institute, SIPRI Military Expenditures Database, aprile 2015. 3 Alfred W. McCoy, How the heroin trade explains the US-UK failure in Afghanistan, in «The Guardian», 9 gennaio 2018. 4 Brzezinski: «Oui, la CIA est entrée en Afghanistan avant les Russes…», in «Le Nouvel Observateur», 15-21 gennaio 1998, p. 76, http://www.voltairenet.org/…. 5 Marc Lacey, Look at the Place! Sudan Says, «Say Sorry», but U.S. Won’t, in «The New York Times», 20 ottobre 2005. 6 Christopher Hitchens, They bomb pharmacies, don’t they?, in «Salon», 23 settembre 1998. 7 Jeffrey Goldberg, The Obama Doctrine, in «The Atlantic», aprile 2016, https://www.theatlantic.com/…. 8 UN News Centre, 14 novembre 2017. 9 Kate Lyons, Yemen’s cholera outbreak now the worst in history as millionth case looms, in «The Guardian», 12 ottobre 2017, https://www.theguardian.com/…. 10 United Nations News Centre: UN agency chiefs call for immediate lifting of humanitarian blockade in Yemen, https://news.un.org/…. 11 David Morgan, Clinton says US could «totally obliterate» Iran, Reuters, 22 aprile 2008, https://www.reuters.com/…. 12 Micah Zenko, The Big Lie About the Libyan War, in «Foreign Policy», 22 marzo 2016. 13 William J. Broad, Reduction of Nuclear Arsenal Has Slowed Under Obama, Report Finds, in «The New York Times», 26 maggio 2016. 14 Jo Becker - Scott Shane, Secret «List» Proves a Test of Obama’s Principles and Will, in «The

New York Times», 29 maggio 2012. 15 Kathryn Olmsted, Terror Tuesdays. How Obama Refined Bush’s Counterterrorism Policies, in Julian E. Zelizer (a cura di), The Presidency of Barack Obama, Princeton University Press, PrincetonOxford 2018, pp. 216-218. 16 Micah Zenko, Obama’s Final Drone Strike Data, 20 gennaio 2017, https://www.cfr.org/…. 17 Micah Zenko - Jennifer Wilson, How Many Bombs Did the United States Drop in 2016?, Council on Foreign Relations, 5 gennaio 2017, sulla base delle cifre del Pentagono, https://www.cfr.org/…. 18 John Haltiwanger, Trump Has Dropped Record Number of Bombs on Middle East, in «Newsweek», 19 settembre 2017. Si veda anche Jennifer Wilson - Micah Zenko, Donald Trump Is Dropping Bombs at Unprecedented Levels, in «Foreign Policy», 9 agosto 2017, http://foreignpolicy.com/…. 19 Si veda la relazione sul campo della BBC, The Mother of All Bombs: How badly did it hurt IS in Afghanistan?, BBC News, 27 aprile 2017, http://www.bbc.co.uk/…. 20 Sul Brasile si vedano le rivelazioni nel principale quotidiano brasiliano «O Globo»: Gravação revela que Kennedy pensava em invadir o Brasil, 6 gennaio 2014, https://oglobo.globo.com/…; si veda anche Stephen G. Rabe, The Most Dangerous Area in the World: John F. Kennedy Confronts Communist Revolution in Latin America, University of North Carolina Press, Chappel Hill 1999. 21 Peter Riddell, The Crumbling of Camelot, in «London Review of Books», vol. 13, n. 9, 10 ottobre 1991 (recensione di Michael Beschloss, Kennedy v. Khrushchev: The Crisis Years 1960-63, Faber & Faber, London 1991, e Thomas Reeves, A Question of Character: A Life of John F. Kennedy, MacMillan, Toronto-New York 1991); si veda anche Seymour Hersh, The Dark Side of Camelot, Little, Brown & Company, Boston 1997. 22 Discorso inaugurale del presidente John F. Kennedy, 20 gennaio 1961, https://www.jfklibrary.org/…. 23 Si veda Ludo de Witte, The assassination of Lumumba, Verso, London 2001, come anche Emmanuel Gerard - Bruce Kuklick, Death in the Congo: Murdering Patrice Lumumba, Harvard University Press, Cambridge-London 2015. 24 Dwight Eisenhower, Address «The Chance for Peace» Delivered Before the American Society of Newspaper Editors, 16 aprile 1953, https://www.presidency.ucsb.edu/…. 25 Robert S. McNamara, In Retrospect: The Tragedy and Lessons of Vietnam, Times Books, New York 1995, p. 35n. 26 Eliot A. Cohen, The Worst Secretary of State in Living Memory, in «The Atlantic», 1o dicembre 2017. 27 Charles Hirschman - Samuel Preston - Vu Manh Loi, Vietnamese Casualties During the American War: A New Estimate, in «Population and Development Review», vol. 21, n. 4, dicembre 1995, p. 806. 28 McNamara, In Retrospect, cit., p. XVI. 29 Eisenhower-John F. Kennedy Correspondences-Contact Documents, http://www.paperlessarchives.com/…. Per una critica spietata dell’amministrazione Kennedy e la guerra del Vietnam, tuttora insuperata, David Halberstam, The Best and the Brightest, Barrie & Jenkins, London 1972 (tr. it., Le teste d’uovo, Mondadori, Milano 1974). Si veda anche McNamara, In Retrospect, cit., p. 37. 30 Department of State, Foreign Relations of the United States 1964-1968, vol. IV, Vietnam, 1966 US, https://1997-2001.state.gov/…. 31 Roxanne Lynn Doty, Imperial Encounters: The Politics of Representation in North-South Relations, University of Minnesota Press, Minneapolis 1996, p. 177; per Westmoreland come «non brillante» si veda Halberstam, The Best and the Brightest, cit., pp. 465, 549.

32 Max Hastings, Going to the Wars, Pan Macmillan, London 2012, p. 110; si veda anche il suo Wrath of the Centurions, in «London Review of Books», vol. 40, n. 2, 25 gennaio 2018 (recensione di Howard Jones, My Lai: Vietnam, 1968, and the Descent into Darkness, Oxford University Press, Oxford 2017). 33 Lewis Sorley, Westmoreland: The General Who Lost Vietnam, Houghton Mifflin Harcourt, New York 2011, p. 96. Si veda anche Halberstam, The Best and the Brightest, cit. 34 McNamara, In Retrospect, cit., pp. 238, 243. 35 Halberstam, The Best and the Brightest, cit., p. 550. 36 Norman F. Dixon, On the Psychology of Military Incompetence, Random House, New York 1994, edizione riveduta, prima edizione 1976, pp. 396-397. 37 Halberstam, The Best and the Brightest, cit., p. 665. 38 Louis B. Zimmer, The Vietnam War Debate: Hans J. Morgenthau and the Attempt to Halt the Drift into Disaster, Lexington Books, Lexington 2011, pp. XXI, 341. 39 Non sembra esserci spiegazione soddisfacente del perché Guantánamo non sia stato chiuso. Si veda Connie Bruck, Why Obama Has Failed to Close Guantánamo, in «The New Yorker», 1o agosto 2016, https://www.newyorker.com/…. 40 Per il testo completo del discorso di Donald Trump in Polonia del 6 luglio 2017, si veda http://www.nbcnews.com/…. 41 La trascrizione completa del discorso è disponibile qui: http://www.bbc.co.uk/…. 42 Si veda Thomas Lynch, President Donald Trump: A Case Study of Spectacular Power, in «The Political Quarterly», vol. 88, n. 4, ottobre-dicembre 2017. 43 Gallup, Rating World Leaders 2018. The U.S. vs. Germany, China and Russia, si vedano pp. 2, 4, 10, https://www.politico.com/…. 44 Il testo completo: Britain’s Prime Minister Tony Blair addressed a joint meeting of the U.S. Congress on Thursday, CNN.com/US, 17 luglio 2003, http://edition.cnn.com/…. 45 Niall Ferguson, Colossus: The Prince of America’s Empire, Allen Lane, London 2004, citato in Anderson, The H-Word, cit., p. 159. 46 The U.S. Illiteracy Rate Hasn’t Changed In 10 Years, in «Huffington Post», 6 settembre 2013, aggiornato il 27 novembre 2017, https://www.huffingtonpost.com/…. 47 National Institute of Drug Abuse: https://www.drugabuse.gov/…, pagina aggiornata nel gennaio 2019. 48 Holly Hedegaard - Margaret Warner - Arialdi M. Miniño, Drug Overdose Deaths in the United States, 1999–2016, US Department of Health and Human Services, Centers for Disease Control and Prevention, National Center for Health Statistics Data Brief, n. 294, dicembre 2017, https://www.cdc.gov/…. 49 Si veda Stephanie Condon, Why is Congress a millionaires club?, CBS News, 27 marzo 2012; https://www.cbsnews.com/…. Si veda anche, sebbene fornisca dati differenti, Larry M. Bartels, Unequal Democracy: The Political Economy of the New Gilded Age, Princeton University Press, Princeton 2009, p. 281; Thomas J. Hayes, Senators of both parties respond to the preferences of the wealthy, and ignore those of the poorest, London School of Economics, 1o ottobre 2013 http://blogs.lse.ac.uk/…. 50 Nick Bryant, The time when America stopped being great, BBC News, 3 novembre 2017, http://www.bbc.co.uk/…. 51 Ames C. Grawert - James Cullen, Crime in 2017: A preliminary analysis, Brennan Center for Justice, New York University School of Law, https://www.brennancenter.org/…. 52 Erica L. Smith - Alexia Cooper, Homicide in the U.S. Known to Law Enforcement, 2011, US Department of Justice, Bureau of Justice Statistics, 30 dicembre 2013, https://www.bjs.gov/…. 53 Si veda il Gun Violence Archive: https://www.gunviolencearchive.org/.

54 Dati dal Global Study on Homicide 2013, United Nations Office on Drugs and Crime, pp. 122133, https://www.unodc.org/…. 55 6 novembre 2012, @realDonaldTrump. 56 Si veda il testo completo del pronunciamento del giudice Leon M. Bazile in Virginia Encyclopedia: https://www.encyclopediavirginia.org/…. 57 Si veda il rapporto della Equal Justice Initiative, Lynching in America: Confronting the Legacy of Racial Terror, 3a edizione (2017), https://lynchinginamerica.eji.org/…. 58 Si veda, tra gli altri, Daniel Smith, A Pound a Glimpse, in «London Review of Books», vol. 39, n. 22, 16 novembre 2017, che recensisce Colin Grant, A Smell of Burning: The Story of Epilepsy, Vintage, London 2017, e Dieter Schmidt - Simon Shorvon, The End of Epilepsy?: A History of the Modern Era of Epilepsy, 1860-2010, Oxford University Press, Oxford 2016. 59 Takashi Tsuchiya, Eugenic Sterilizations in Japan and Recent Demands for Apology: A Report, in «Newsletter of the Network on Ethics and Intellectual Disability», vol. 3, n. 1, autunno 1997. 60 Reportage della CBS Los Angeles, Couple Charged In Perris Torture Case, 18 gennaio 2018, http://losangeles.cbslocal.com/….

6. Narrazioni europee 1 Eric Hobsbawm, The Age of Revolutions 1789-1848, The New American Library, New YorkToronto 1962, p. 163 (tr. it., L’età della rivoluzione 1789-1848, Rizzoli, Milano 1999). 2 Credit Suisse Research Institute, Global Wealth Report, novembre 2017, p. 55. 3 Leopold von Ranke, History of the Latin and Teutonic Peoples, George Bell & Sons, London 1887, p. 5. 4 Larry Wolff, Voltaire’s Public and the Idea of Eastern Europe, in «Slavic Review», vol. 54, n. 4, inverno 1995, p. 936. 5 Voltaire, Histoire de l’Empire de Russie sous Pierre le Grand, in Œuvres complètes, Dupont éditeur, Paris 1823, p. 122 (ed. it., Storia dell’impero russo sotto Pietro il Grande, Migliaresi, Roma 1945). 6 Charles de Secondat Montesquieu, De l’Esprit des lois, vol. I, Gallimard, Paris 1995, p. 180 (ed. it., Lo spirito delle leggi, BUR, Milano 1997). 7 Michael Adas, Machines as the Measure of Men: Science, Technology and Ideologies of Western Dominance, Cornell University Press, Ithaca 1989, pp. 79-81. 8 Georg W.F. Hegel, Lectures on the Philosophy of World History, vol. I, Manuscripts of the Introduction and The Lectures of 1822-23, curate e tradotte da Robert E. Brown e Peter C. Hodgson, Clarendon Press, Oxford 2011, p. 212 (ed. it., Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, Roma-Bari 2008). 9 Testo in Ssu-yü Têng - John King Fairbank (a cura di), China’s Response to the West. A documentary survey 1839-1923, Harvard University Press, Harvard 1961, p. 199. 10 Discours de Jacques Delors devant le Parlement européen (17 janvier 1989), in «Bulletin des Communautés européennes», n. 1/89, 1989, Luxembourg, Office des publications officielles des Communautés européennes, http://www.cvce.eu/…. 11 Jules Michelet, Le Peuple, Calmann Levy, Paris 1877, pp. 277-278 (tr. it., Il popolo, BUR, Milano 1989). 12 Ernest Lavisse, Histoire, in Ferdinand Buisson (a cura di), Nouveau Dictionnaire de pédagogie et d’instruction primaire, Hachette, Paris 1911 edizione elettronica (1911) in http://www.inrp. fr/edition-electronique/lodel/dictionnaire-ferdinand-buisson/. 13 Emmanuel Macron, Le récit national n’est pas un roman totalitaire, France Culture, 9 marzo

2017, https://www.franceculture.fr/…. 14 Michael Gove, House of Commons, 9 giugno 2014, https://www.publications.parliament.uk/…. 15 Michael Gove, All pupils will learn our island story, 5 ottobre 2010, http://conservativespeeches.sayit.mysociety.org/…. 16 Ofsted, School Inspection Handbook, ottobre 2017, https://www.gov.uk/…. 17 Si veda la relazione in «The Guardian», 27 febbraio 2007, https://www.theguardian.com/…. 18 George Bernard Shaw, Common Sense About the War, in «The New York Times», 15 novembre 1914, p. 18, https://archive.org/…. 19 Testo della lettera nel sito di Amnesty International: https://www.amnesty.org.uk/…. 20 Si vedano i due rapporti dell’Intelligence and Security Committee of Parliament: Detainee Mistreatment and Rendition: 2001-2010 e Detainee Mistreatment and Rendition: Current Issues. 21 Aengus Carroll - Lucas Ramón Mendos, State sponsored homophobia. A World Survey of Sexual Orientation Laws, ILGA, Geneva 201712, http://ilga.org/…. 22 Julian Borger - Richard Norton-Taylor, Rumsfeld steps uo Iraq war talk, in «The Guardian», 21 agosto 2002, https://www.theguardian.com/…. 23 Hilary Benn, House of Commons, 2 dicembre 2015, https://www.publications.parliament.uk/ …. 24 House of Commons Defence Committee, UK military operations in Syria and Iraq, Second Report of Session 2016-17, pp. 22, 62, 19, 49, https://www.publications.parliament.uk/…. 25 James Wharton, I was the Army’s gay «trailblazer», but this recruitment campaign is a gross distortion of soldiering, in «The Daily Telegraph», 11 gennaio 2018. 26 Relazione di Amnesty International, Iraq and allies violated international law in Mosul battle: Amnesty, Reuters, https://www.reuters.com/…. Si veda anche Martin Chulov, US admits Mosul airstrikes killed over 100 civilians during battle with Isis, in «The Guardian», 25 maggio 2017, https://www.theguardian.com/…. 27 Jared Malsin, The Islamic State Is Gone. But Raqqa Lies in Pieces, in «Time», 19 ottobre 2017, http://time.com/…. 28 Si veda https://www.amnesty.org/…. 29 Mark Hookham, Major-General Rupert Jones lays bare grim cost of beating ISIS, in «The Sunday Times», 24 settembre 2017. 30 Prolusione al premio Nobel di Barack H. Obama, Oslo, 10 dicembre 2009, https://www.nobelprize.org/…. 31 Iain Duncan Smith, The Nazis, Maggie, the euro… our business bosses always get it wrong, in «Daily Mail», 28 giugno 2018. 32 Madeleine Albright, Fascism: A Warning, HarperCollins, New York 2018. 33 Jeffrey Goldberg, Saudi Crown Prince: Iran’s Supreme Leader «Makes Hitler Look Good», in «The Atlantic», 2 aprile 2018, https://www.theatlantic.com/…. 34 Sulla pessima situazione economica della Cornovaglia si veda il rapporto Cornwall’s Vital Issues 2017 della Cornwall Foundation, http://www.ukcommunityfoundations.org/…. 35 Si veda Rachael Thorn, Did Daphne du Maurier predict Brexit?, BBC News, 17 agosto 2016, http://www.bbc.co.uk/….

7. L’Europa implode? 1 Karl Marx, Il Capitale, vol. I, Utet, Torino 2009, p. 271. 2 Eamon Javers, Citigroup Tops List of Banks Who Received Federal Aid, CNBC, 16 marzo 2011, https://www.cnbc.com/….

3 Frank Rich, The Brightest Are Not Always the Best, in «The New York Times», 6 dicembre 2008. 4 Jonathan Steele - Suzanne Goldenberg, What is the real death toll in Iraq?, in «The Guardian», 19 marzo 2008, https://www.theguardian.com/…. 5 Carter Malkasian, Illusions of Victory. The Anbar Awakening and the Rise of the Islamic State, Oxford University Press, Oxford 2017, p. 29, che cita un sondaggio di Oxford Research International del marzo 2004. 6 Ibidem; ed Emma Sky, Unraveling: High Hopes and Missed Opportunities in Iraq, PublicAffairs, New York 2015. 7 Jonathan Steele, Chilcot Report: Foreign Office, in «The Political Quarterly», vol. 87, n. 4, ottobre-dicembre 2016, p. 484; si veda anche, Emma Sky, Chilcot Report: Post-Invasion Planning, in ivi, pp. 486-487. 8 Gordon Brown, My Life, Our Times, The Bodley Head, London 2017, p. 250. 9 Outrage at «old Europe» remarks, BBC News, 23 gennaio 2003, http://news.bbc.co.uk/…. 10 Robert Kagan, Of Paradise and Power: America and Europe in the New World Order, Knopf Doubleday, New York 2007, p. 3 (tr. it., Paradiso e potere. America ed Europa nel nuovo ordine mondiale, Mondadori, Milano 2003). 11 Ivi, pp. 3-4. 12 La citazione completa è: «Presumo sia una tentazione, se l’unico attrezzo che ti ritrovi tra le mani è un martello, il trattare tutto come se fosse un chiodo», in Abraham Maslow, The Psychology of Science, Harper & Row, New York 1966, p. 16. 13 Ukraine crisis: Transcript of leaked Nuland-Pyatt call, BBC News, 7 febbraio 2014, http://www.bbc.com/…. 14 Cifre Eurostat per il 2018: http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/…. 15 Almeno secondo il sondaggio dell’azienda cristiano-evangelica Barna con sede in California e riportato da Albert Mohler, The Scandal of Biblical Illiteracy: It’s Our Problem, https://www.christianheadlines.com/…. 16 Jean-Michel Guy, Cultures croisées – Références interculturelles des Allemands, des Italiens et des Français, Département des études, de la prospective et des statistiques, novembre 2018, http://www.culture.gouv.fr/…. 17 European Commission, Public opinion in the European Union, Standard Eurobarometer 86, autunno 2016, https://ec.europa.eu/…. 18 Si vedano i sondaggi YouGov: https://yougov.co.uk/…; per ulteriori dati su Brexit: http://blogs.lse.ac.uk/…. 19 Harry Lambert, EU Referendum result: 7 graphs that explain how Brexit won, in «The Independent», 24 giugno 2016, http://www.independent.co.uk/…. 20 Kamal Ahmed, How to make sense of those pesky Brexit forecasts, BBC News, 30 gennaio 2018, http://www.bbc.co.uk/…. 21 Jonathan Portes, Too High a Price? The cost of Brexit – what the public thinks, rapporto di Global Future, aprile 2018, http://ourglobalfuture.com/…. 22 Si veda David Marquand, Blair for EU? Nonsense from start to finish, in «OpenDemocracy», 6 novembre 2009, https://opendemocracy.net/…. 23 David Butler - Uwe Kitzinger, The 1975 Referendum, Macmillan, London 1976, p. 176. 24 Alan Watkins, A Conservative Coup: The Fall of Margaret Thatcher, Duckworth, London 1991, p. 142. 25 Margaret Thatcher, Debate at the House of Commons, 30 ottobre 1990, colonna 873, https://publications.parliament.uk/…. 26 Geoffrey Howe, Debate at the House of Commons, 13 novembre 1990, vol. 180, colonne 461-

465. 27 Stephen Castle, Major says three in Cabinet are bastards, in «The Independent», 24 luglio 1993. 28 Joseph Stiglitz, The Overselling of Globalization, The Paul A. Volcker Prize Lecture, Washington, 6 marzo 2017, p. 8, https://www8.gsb.columbia.edu/faculty/jstiglitz/sites/jstiglitz/files/Volcker Award Speech Paper.pdf. 29 Gordon Brown, discorso al lord Mayor’s Banquet, 16 novembre 2009, http://www.911forum.org.uk/…, citato in Pauline Schnapper, The Labour Party and Europe from Brown to Miliband: Back to the Future?, in «Journal of Common Market Studies», vol. 53, n. 1, 17 novembre 2014, pp. 157-173. 30 Gordon Brown, discorso al lord Mayor’s Banquet, 12 novembre 2007, http://webarchive.nationalarchives.gov.uk/…. 31 Brown, My Life, Our Times, cit., pp. 174-175. 32 Questo è l’elemento costante nella storia del Partito conservatore secondo il suo storico, conservatore lui stesso, John Ramsden. Si veda il suo An Appetite for Power: A History of the Conservative Party Since 1830, HarperCollins, London 1998. 33 David Davis, Trade deals. Tax cuts. And taking time before triggering Article 50. A Brexit economic strategy for Britain, 11 luglio 2016, aggiornato il 14 luglio 2016, http://www.conservativehome.com/…. 34 Jim Pickard, Brexit secretary admits there are no impact papers, in «Financial Times», 6 dicembre 2017. 35 Mark Steel, Liam Fox says the Brexit deal will be te «easiest thing in human history». That’s a relief, isn’t it?, in «The Independent», 20 luglio 2017, https://www.independent.co.uk/…. 36 Si veda https://www.gov.uk/…. 37 Daniel Boffey, Irish report shows lack of respect in EU for UK’s handling of Brexit, in «The Guardian», 23 novembre 2017, https://www.theguardian.com/…. 38 Newsnight, BBC, 28 ottobre 2015, https://www.youtube.com/…. 39 Si veda http://johnredwoodsdiary.com/…. 40 John Redwood, Time to look further afield as UK economy hits the brakes, in «Financial Times», 3 novembre 2017, https://www.ft.com/…. 41 Si veda (@theresa_may, 13 gennaio 2018 e la risposta di Blanchflower @D_Blanchflower. 42 Si veda Theresa May’s government: divided they drift, in «The Guardian», 26 gennaio 2018, https://www.theguardian.com/…. 43 Peter Mair, Ruling the Void?, in «New Left Review», n. 42, novembre-dicembre 2006, p. 26. 44 Ivi, p. 36. 45 Filip Kostelka, The State of Political Participation in Post-Communist Democracies, in «Europe-Asia Studies», vol. 66, n. 6, 2014. 46 World Bank, World Development Report, Governance and the Law, 2017, p. 228, https://qz.com/…. 47 Enoch Powell, Joseph Chamberlain, Thames & Hudson, London 1977, p. 151.

8. Perdute speranze? 1 Per questa citazione e i passi che seguono, Niccolò Machiavelli, Istorie fiorentine, III, in Id., Le opere, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 417-419. 2 Joseph S. Nye - Philip Zelikow - David C. King (a cura di), Why People Don’t Trust Government, Harvard University Press, Harvard 1997.

3 Si veda http://news.gallup.com/…. 4 Pew Research Center, Public Trust in Government Remains Near Historic Lows as Partisan Attitudes Shift, 3 maggio 2017, http://www.people-press.org/…. 5 Sondaggio Pew, 16 ottobre 2017, http://www.pewglobal.org/…. 6 Sondaggio IPSOS Mori, 22 gennaio 2016, https://www.ipsos.com/…. 7 Clare Malone, Americans Don’t Trust Their Institutions Anymore, FiveThirtyEight, 16 novembre 2016, https://fivethirtyeight.com/…. 8 Gallup, What Happiness Today Tells Us About the World Tomorrow, soprattutto pp. 3, 8-9, http://news.gallup.com/…. 9 Statistics Finland, aggiornate al 30 gennaio 2018, https://www.stat.fi/…; sulla Finlandia come il «paese più felice del mondo» si veda John F. Helliwell - Richard Layard - Jeffrey Sachs, World Happiness Report 2018, https://s3.amazonaws.com/…. 10 Helliwell - Layard - Sachs, World Happiness Report 2018, cit. 11 Office of National Statistics, Methodology: Personal Well-being frequently asked questions, https://www.ons.gov.uk/…. 12 Office of National Statistics, Personal well-being in the UK: april 2016 to march 2017, https://www.ons.gov.uk/…. 13 Richard Stone, Counting the Cost of London’s Killer Smog, in «Science», vol. 298, n. 5601, 13 dicembre 2002, pp. 2106-2107. 14 Brian Ross - Rehab El-Buri, Obama’s Pastor: God Damn America, U.S. to Blame for 9/11, ABC News, 13 marzo 2018, http://abcnews.go.com/…. 15 Da Front Rouge, di Louis Aragon, originariamente pubblicata nel 1931 in «Littérature de la Révolution mondiale» dall’Organo centrale dell’Unione internazionale degli scrittori rivoluzionari, Mosca 1931. Il numero fu sequestrato dalla polizia francese e Aragon incriminato per incitamento alla violenza anarchica, rischiando cinque anni di prigione. Le accuse furono ritirate dopo una campagna da parte di alcuni intellettuali. 16 Joseph Stiglitz, The coming great transformation, in «Journal of Policy Modeling», vol. 39, n. 4, luglio-agosto 2017, p. 627. 17 Martin Wolf, Davos 2018: The liberal international order is sick, in «Financial Times», 23 gennaio 2018.

RINGRAZIAMENTI

Ringrazio i vari amici che hanno letto, offerto suggerimenti, corretto errori: soprattutto Marina Lewycka, ma anche Lauro Martines, Ilaria Favretto, Vassilis Fouskas, Stella Tillyard, Leonardo Clausi, Paul Auerbach, il mio vecchio amico Ivo Galante e grazie a Sam Cohn per i suoi consigli su Machiavelli e sui sintomi morbosi del Trecento.

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Frontespizio L’autore SINTOMI MORBOSI PROLOGO 1. IL VECCHIO MUORE 2. L’AVANZATA DELLA XENOFOBIA 3. IL DECLINO DEL WELFARE 4. IL CROLLO DEI PARTITI TRADIZIONALI 5. L’EGEMONIA AMERICANA 6. NARRAZIONI EUROPEE 7. L’EUROPA IMPLODE? 8. PERDUTE SPERANZE? NOTE RINGRAZIAMENTI

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