Servio e la poesia della scienza
 9788862273732, 9788862273749, 9788862273756

Table of contents :
Sommario
Premessa
Introduzione. Forme dell’epica, idee del potere
I. Poesia, potere e pubblico
II. Un mito da dimenticare. Tragedia e memoria epica
III. Clementia e philanthropia, Atene e Roma
IV. Teseo, la clementia e la punizione dei tiranni. Esemplarità e pessimismo nel finale
v. Un ruolo epico per la donna : ‘La moglie eroica dell’eroe sventurato’
Bibliografia
Indice dei luoghi citati
Indice delle cose e delle parole notevoli

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Biblioteca di «Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici» Collana diretta da Maurizio Bettini, Gian Biagio Conte e Rolando Ferri

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La Tebaide di Stazio Epica e potere Federica Bessone

Pisa · Roma Fabrizio Serra editore 2011

Volume finanziato dal Dipartimento di Filologia, Linguistica e Tradizione classica « A Rostagni », Università di Torino, con Fondi per la ricerca locale - esercizio 2008  



* Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2011 by Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma. www.libraweb.net isbn 978-88-6227-373-2 (brossura) isbn 978-88-6227-374-9 (rilegato) isbn 978-88-6227-375-6 (elettronico) issn 1828-8707

A Sergio e Lorenzo, ai miei, alla memoria dei nostri cari.

Sommario Premessa

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Introduzione. Forme dell’epica, idee del potere

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1. Mito e potere 2. Epica e tragedia 3. Il finale e le Supplici di Euripide 4. Clementia 5. Teseo 6. Parlare del potere, parlare al potere

i. Poesia, potere e pubblico

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1. Tebaide e Silvae 1. L’epica spezzata e i discorsi del potere 2. Poesia ed educazione al potere 3. Guerra, pace, clemenza 2. Religione e potere 1. L’imperatore, gli dèi, Giove : le Silvae e il proemio della Tebai de 2. Dèi e uomini nella Tebaide 3. La provvidenza assente e l’uomo della provvidenza 4. L’eroe, Giove, l’imperatore : clementia e provvidenza

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ii. Un mito da dimenticare. Tragedia e memoria epica

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1. Fraternae acies : epica e tragedia 2. Un mito da dimenticare. Crisi della memoria epica e poetica del nefas 3. Quod nulla posteritas probet, sed nulla taceat. Epica del nefas e poe tica della tragedia 4. Dalle Muse alle Furie : epica e tragedia nella Tebaide

75

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iii. Clementia e philanthropia, Atene e Roma

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102 106 111 116 119 122 125









1. La Clementia nella critica del finale 2. Ara Clementiae. Religione e potere 3. Eziologia, archeologia e rifondazione dei valori 4. Clementia e philanthropia : un confronto di civiltà 5. Clementia e humanitas. Etica e politica 6. Clementia, misericordia, eleos 7. Atene e Roma : una sintesi culturale  



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Sommario

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iv. Teseo, la clementia e la punizione dei tiranni. Esemplarità e pessimi smo nel finale 1. Interpretazione del finale, interpretazioni della Tebaide 2. Una tragedia dimenticata. Amnesie e anamnesi della critica 3. Costruzione (e decostruzione) di un personaggio. Teseo fra Grecia e Roma 4. ‘Iamque hospes Theseus’. Da Catullo a Callimaco (clementia, phi loxenia, philanthropia) 5. Clementia e inclementia regum.Teseo e Creonte : re e tiranno 6. Victor e hospes. Da Callimaco a Virgilio : paradigmi eroici e ideo logia imperiale 7. Aidos ed eleos. Teseo e il potere delle immagini 8. Iusta ira e clementia 9. Trionfo del lutto, trionfo e gioia dei vinti 10. La clemenza di Teseo in battaglia. Esemplarità e pessimismo  

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v. Un ruolo epico per la donna : ‘La moglie eroica dell’eroe sventu rato’

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1. Un ruolo eroico per la moglie 2. Argìa, ‘moglie eroica dell’eroe sventurato’ 3. Un’epica al femminile 4. L’aristia di una matrona virilis 5. Virtutis amor 6. Più di un’Amazzone : un nuovo eroismo femminile 7. Argìa e Antigone 8. La scelta della morte : tra eroi virgiliani ed eroine senecane 9. Argìa e Teseo : opposizione al tiranno e fides coniugale 10. Eroi epici, modelli imperiali

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Bibliografia

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Indice dei luoghi citati

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Indice delle cose e delle parole notevoli

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Premessa

F

orme dell’epica e idee del potere hanno fra loro un nesso profondo, che nella cultura imperiale romana emerge più che mai evidente alla coscienza di autori e pubblico. I successori di Virgilio trasformano il genere dei reges et proelia elaborando in soluzioni narrative nuove tradizione poetica ed esperienza dell’Impero. Dall’anti-Eneide di Lucano agli epici flavi, è in rapporto alla mutata percezione e rappresentazione del sistema imperiale che va letto l’evolversi dell’epos : il genere prestigioso che canta azioni divine e umane, imprese di eroi e vittorie in guerra, come fondamento di un ordine politico. La relazione tra epica e potere è da tempo il tema delle mie ricerche staziane ; lavori degli ultimi anni ed altri più lontani, che ho ripreso e approfondito di recente, sviluppano una riflessione su forma e ideologia della Tebaide, incentrata sul punto di svolta e sulla conclusione del poema. Di qui nasce questo libro, che offre una lettura della Tebaide come discorso sul potere e uno studio del suo disegno epico come risposta a una crisi e come proposta, ideologica e poetica. Poesia e potere sono i termini di un programma letterario e di un confronto sociale. Poeta professionale in rapporto con la corte flavia, Stazio sperimenta nell’epos mitologico una funzione culturale e un modo di parlare del potere imperiale alternativi alla poesia d’occasione, che troverà spazio nella raccolta delle Silvae. Tebe rappresenta in quest’epica il lato oscuro di Roma, come nella tragedia attica inscenava l’alter ego di Atene ; il mito è il linguaggio di una poesia sublime che riflette criticamente sull’esperienza storica, in forme che alla poesia encomiastica sono precluse. Miseria e grandezza dell’Impero saranno contrapposte nelle Silvae come fasi successive di uno sviluppo orientato : il passaggio dalla tirannide di Nerone, attraverso le guerre civili, alla restaurazione flavia. Nella Tebaide l’opposizione fra Tebe e Atene non si lascia ridurre a figura del contrasto tra passato neroniano e presente flavio ; il paradigma atemporale del mito suggerisce la perenne compresenza di potenzialità opposte nella natura stessa del potere assoluto. La rimozione del negativo, che connota in superficie la poesia al presente delle Silvae, contrasta con un’epica in gran parte negativa, che elabora in senso problematico tradizione letteraria ed esperienza storica. Il rapporto fra generi e potere è al centro di queste riflessioni. La novità della Tebaide si coglie nel confronto con la tradizione epico-tragica e con le forme in cui epica e tragedia, in Grecia e a Roma, hanno affrontato il tema del potere ed elaborato l’esperienza dell’assolutismo. Il disegno spezzato del poema, la climax negativa e il nuovo corso del racconto tra undicesimo e dodicesimo libro vengono messi in relazione con l’epos di Lucano e con la tragedia di Seneca, come risposte a Virgilio ; e sono letti come un ripensamento in ter 











La Tebaide di Stazio. Epica e potere

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mini letterari, culturali e politici attuali delle tragedie attiche sul mito tebano : le Supplici di Euripide, continuazione delle Fenicie ; l’Edipo a Colono e l’Antigone di Sofocle. Epica del nefas, la Tebaide inscena una provvidenza assente e fa sua la poetica della tragedia come memoria del male, ma insieme condivide col genere tragico la proposta di modelli etici e politici, in una tensione irrisolta fra esemplarità e pessimismo. Il finale della Tebaide, come quello dell’Eneide, costituisce il punto di partenza per l’interpretazione del poema e il principale terreno di scontro della critica. Nella lettura qui proposta, l’Atene dell’ultimo libro, idealizzata e romanizzata, è la sede di valori umani e civili rappresentati dall’ara Clementiae e affermati nell’azione epica da Teseo. La costruzione poetica del monumento e del personaggio mitico, collegati fra loro e contrapposti infine al mondo di Tebe, dà senso alla struttura asimmetrica del poema : forma narrativa e discorso politico si corrispondono, in un disegno audace che, in chiusa, oppone alla tirannide una sovranità illuminata, sostituisce l’umano al divino, la clemenza alla provvidenza, e – senza illusioni sul sistema del potere di uno solo – suggerisce la via d’uscita dalla crisi in una rifondazione degli ideali imperiali. Interessi per i generi letterari e i generi sessuali, infine, animano lo studio di un ruolo femminile cruciale nell’avvio e nella soluzione del poema, che segna continuità e frattura della Tebaide : il ruolo della moglie di Polinice, che realizza in chiusa un’inedita epica al femminile con un’impresa dettata dall’amore coniugale. Sintesi di tradizione e trasgressione, Argìa si stacca dal modello elegiaco della sposa abbandonata per la guerra ed eguaglia il sublime delle veteres heroides : come una nuova Antigone, compete con l’eroina tragica sofoclea, parla il linguaggio degli eroi virgiliani e si atteggia a martire stoicosenecana dell’opposizione antitirannica. Ripensando nel finale dell’epos le due tragedie che mettevano in scena la sfida a Creonte, le Supplici euripidee e l’Antigone, Stazio confronta Argìa e Teseo come due modelli di opposizione al regime tirannico : due paradigmi di valori etici e politici centrali per l’ideologia flavia, la fides coniugale (esempio estremo di pietas familiare) e la clementia imperiale. Il volume presenta in forma rielaborata e aggiornata, con l’aggiunta di parti nuove e di un capitolo inedito, studi pubblicati in atti di convegni (Bessone 2008), articoli su rivista (2008a), relazioni a colloqui uscite su « md » (2006, 2009) ; alcune sezioni sono state oggetto di interventi a congressi presso le Università di Berlino (2010), di Lille e (in absentia, causa il vulcano Eyjafjallajökull) di Urbana-Champaigne (in corso di stampa). Sono grata a Gian Biagio Conte, che ha accolto il lavoro in questa collana : è alla sua scuola che, da un quarto di secolo, ho imparato ad apprezzare ‘diligenza e voluttà’ della ricerca. A Giovanna Garbarino sono riconoscente per la lucidità della sua guida, per il suo appoggio costante e per la fiducia che mi ha dimostrato in questi anni. Ringrazio il Dipartimento di Filologia, Linguistica e Tradizione classica, che ha sostenuto il progetto in tempi difficili per l’Uni 



















Premessa

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versità. Molti sono gli amici con cui ho discusso idee e problemi, molti gli studiosi che hanno stimolato con osservazioni e interventi la mia riflessione. Per le pazienti letture, l’acume e l’amicizia devo un grazie, in particolare, a Giovan Battista D’Alessio e a Gianpiero Rosati.

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Introduzione. Forme dell’epica, idee del potere 1. Mito e potere

P

arlare del presente attraverso il mito è un privilegio della letteratura, non solo classica ; parlare del potere attraverso la poesia è un ruolo che nella letteratura antica spetta a due generi su tutti : l’epica e la tragedia. La Tebaide è un racconto epico di potere e di passioni, ma soprattutto della passione del potere. Il mito che Stazio narra – la guerra fratricida per il regno tra i figli di Edipo – è per la cultura antica, ormai da secoli, una metafora della storia : la scena tragica ne ha fatto un paradigma dell’odio fraterno e della discordia civile che nascono dall’ambizione del potere, e lo ha consegnato in forma canonica alla riflessione politica e letteraria. Non diversa dalla Tebe mitica, Roma ha conosciuto la lotta tra fratelli fin dal suo atto di fondazione ; anche la sua storia appare condannata a replicare senza fine il trauma del conflitto tra consanguinei. Con l’instaurazione del principato per opera di Augusto, l’Eneide aveva celebrato la fine delle guerre civili ; quando Stazio scrive la Tebaide, una nuova guerra civile, quella da cui è nata la dinastia flavia, è fresca nella memoria. Un secolo di storia imperiale è trascorso fra l’Eneide e la Tebaide : è ormai chiaro che la successione al potere imperiale genera nuovi conflitti e può scatenare lotte devastanti quanto quelle che hanno segnato la fine della Repubblica (una differenza, dirà Tacito, è che il popolo è ora solo spettatore) ; 1 il nuovo assetto costituzionale, ormai consolidato, ha ripresentato i drammi della divisione che pretendeva di aver risolto per sempre. La palingenesi augustea è stata dunque un’illusione breve ; riproporne il modello, in politica e in letteratura, è un programma di ricostruzione che non cancella la coscienza di una crisi ; se la restaurazione flavia si richiama apertamente al modello di Augusto, 2 l’epica di Stazio invoca l’autorità di Virgilio : ma, al tempo stesso, la Tebaide si nutre di Lucano e di Seneca tragico, e delle forme in cui epica e tragedia hanno elaborato l’esperienza del dispotismo, riflettendo sulla natura e sui pericoli del potere assoluto. Quando Stazio scrive, Virgilio è da tempo un classico ; l’epilogo della Tebaide maschera in un gesto di modestia e di venerazione religiosa, come è oggi ben riconosciuto, l’ambizione di succedere al poeta augusteo e di ereditarne il ruolo, di fronte al pubblico dei lettori e al destinatario imperiale. 3 In appa 



























1  Tac. hist. 3, 83. 2  Griffin 2000, p. 11 ; Heslin 2007, spec. pp. 16-20. 3  Theb. 12, 810-819 durabisne procul dominoque legere superstes, / o mihi bissenos multum vigilata per annos / Thebai ? iam certe praesens tibi Fama benignum / stravit iter coepitque novam monstrare futuris. /  



La Tebaide di Stazio. Epica e potere

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rente continuità col modello virgiliano, la scelta stessa dell’epica mitologica è emblematica di questo rapporto ambiguo, in cui la deferenza dissimula l’audacia di un progetto nuovo. Mito e storia, nell’Eneide, continuano l’uno nell’altra ; cantare le gesta di Enea equivale a laudare Augustum a parentibus, perché il passato mitico sta col presente storico in un rapporto di continuità genealogica e di anticipazione simbolica. La missione dell’eroe troiano proietta l’immagine di Augusto come uomo della provvidenza : insieme telos del racconto, culmine della vicenda di Roma e fine della storia. L’intera trama dell’Eneide, l’intero arco narrativo dell’epica virgiliana coincide col disegno del Fato : in un poema che pure inscrive nella forma del suo racconto la contraddizione tragica, 1 accogliendo le cosiddette ‘altre voci’, le ragioni dei vinti, narrazione e provvidenza tendono tuttavia a divenire una cosa sola. Il racconto mitico procede verso uno scopo (una meta storica) indicato fin dall’inizio, già nel proemio, poi nella profezia di Giove ; e la struttura chiusa fa infine corrispondere teleologia narrativa e visione provvidenziale della storia. Il mito della Tebaide è, al contrario, un mito tutto greco, estraneo, senza continuità con la storia romana : il rapporto col presente è qui solo metaforico, di analogia, come in tragedia ; lotta per la successione, rivalità tra fratelli, guerra civile, infine restaurazione dell’ordine, hanno risonanze profonde nell’esperienza del pubblico contemporaneo ; ma in nessun punto del poema il senso del rapporto tra mito e storia è mai reso esplicito, se non in termini universali, sovratemporali. Se la Tebaide è un discorso sul potere, è un discorso del tutto figurato e intrinsecamente ambiguo : che perciò dà adito, ancor più dell’Eneide, a interpretazioni opposte. La realtà contemporanea è confinata qui alle soglie del testo, il proemio e il congedo : la dedica iniziale a Domiziano, con la recusatio di un poema epico-storico, e il nuovo omaggio all’imperatore nell’epilogo, con l’augurio di fama futura per un poema già accolto con favore presso di lui e, soprattutto, presso il pubblico. Mito e potere sono in relazione, ma quello della Tebaide è un mito di per sé slegato dal discorso ufficiale del potere flavio (mentre il discorso augusteo associava il principe ad Enea nelle immagini dell’Ara Pacis o del Forum Augusti) ; è un mito distante : e la distanza del mito è per Stazio una distanza di sicurezza, uno spazio sospeso, e in parte ambiguo, in cui parlare con relativa libertà di temi forti ed attuali come sovranità e tirannide. Libertà relativa, appunto. Una lettura ‘sovversiva’ del poema, che scopre ad ogni verso riferimenti polemici a precisi eventi storici, non convince : non tanto perché sarebbe stato pericoloso esporsi al sospetto di usare il velo del mito per attaccare il potere (un pretesto utile, semmai, a colpire famiglie di opposi 

























iam te magnanimus dignatur noscere Caesar, / Itala iam studio discit memoratque iuventus. / vive, precor ; nec tu divinam Aeneida tempta, / sed longe sequere et vestigia semper adora. / mox, tibi si quis adhuc praetendit nubila livor, / occidet, et meriti post me referentur honores (il testo della Tebaide è citato, qui e in seguito, secondo l’edizione di Hill 1983). Vedi Rosati 2008. 1  Vedi Conte 20072, cap. 4.  

Introduzione. Forme dell’epica, idee del potere

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tori eminenti, come mostra la condanna di Domiziano per il figlio di Elvidio Prisco) ; 1 ma soprattutto perché è difficile attribuire alla figura sociale e alla persona poetica di Stazio, costruite con autocoscienza attraverso la sua carriera, intenti radicalmente ribelli, di opposizione, come pure parte della critica ancora oggi tende a fare. Dall’insieme della produzione staziana, genere epico e poesia d’occasione – le Silvae, impegnate nella celebrazione di Domiziano e della casa flavia, oltre che di patroni privati –, l’immagine che emerge è piuttosto quella di un poeta professionale, devoto per tradizione familiare alla dinastia regnante e legato ad ambienti vicini alla corte, ma determinato a mantenere un possibile spazio di autonomia. 2 Al riparo di una condizione sociale abbastanza modesta per non destare di per sé sospetti, 3 e insieme forte di un ruolo pubblico riconosciuto, della partecipazione ai ludi poetici, del successo nelle recitationes, l’autore della Tebaide sfrutta lo spazio relativamente protetto del mito per far sentire con autorevolezza epica la sua voce, in un periodo in cui grandi figure di intellettuali e letterati, spesso appartenenti alla classe senatoria, sono invece ridotte al silenzio. La scelta del genere epico-mitologico appare insomma come la ricerca di un equilibrio delicato in quello che va visto come un negoziato fra potere letterario e autorità politica : un equilibrio complesso fra assecondare il potere e tenerlo ambiziosamente come sotto ricatto, esercitando per via indiretta una pressione morale, attraverso la presa sul pubblico, la formazione delle classi elevate, la rivendicazione della centralità culturale tradizionalmente riconosciuta all’epica. Torniamo all’Eneide. Un altro elemento distacca la Tebaide dal suo modello dichiarato. Non solo il mito non ha qui una relazione espressa ed inequivocabile con la realtà contemporanea, ma neppure la struttura del racconto suggerisce una corrispondenza analogica trasparente e univoca con l’esperienza storica. Il racconto mitico non è retto qui da un’unica campata che coincida col disegno divino, coi piani di una provvidenza, è anzi spaccato in due unità fortemente squilibrate per estensione e polarizzate nel senso. I primi undici libri conducono in crescendo, attraverso una guerra sbagliata, all’orrore del duello tra Eteocle e Polinice ; nel dodicesimo (nella seconda metà del dodicesimo) Teseo, re di Atene, muove guerra a Tebe per recuperare i corpi degli Argivi, uccide il tiranno Creonte ed è accolto come un liberatore. Una brusca inversione di ritmo narrativo e di clima poetico coglie il lettore sullo scorcio dell’epos. Questo effetto di sorpresa è programmato. Nell’avvio della Tebaide, ciò che il lettore viene invitato ad aspettarsi è nient’altro che distruzione ; prima che Giove parli nel concilio divino, la maledizione di Edipo, con l’invocazione a  













1  Cf. Svet. Dom. 10, 4 occidit et Helvidium filium, quasi scaenico exodio sub persona Paridis et Oenones divortium suum cum uxore taxasset (vedi Coleman 1986, p. 3112). 2  Si veda, in part., lo studio di Nauta 2002 ; inoltre Newlands 2002, Leberl 2004. 3  I pochi dati disponibili sulla condizione familiare di Stazio sono discussi in Hardie 1983, pp. 5-6, 12-13 ; Coleman 1988, p. xv ; Nauta 2002, pp. 198-199, 202-203 ; Gibson 2006, a silv. 5, 3, 118 e 38.  







La Tebaide di Stazio. Epica e potere

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Tisifone, fissa lo scopo del racconto in un atto di empietà mostruosa, il mutuo fratricidio. Il piano di Giove, annunciato poco dopo, è un piano distruttivo : punire con la guerra le colpe di Tebe ed Argo. Anche il proemio nulla lascia intravedere oltre fraternas acies e sontes Thebas, oltre l’odio fraterno perdurante dopo la morte e il divieto di sepoltura. 1 Il disegno complessivo del poema, fino alla svolta ultima, non è mai annunciato, prima di un passo, non a caso defilato, del nono libro, in cui tocca a Giunone ricordare con rimprovero al re degli dèi una promessa di intervento ateniese mai menzionata prima. 2 Non si tratta solo di un mancato preannuncio. Quando finalmente Teseo appare, di Giove non c’è più traccia : prima che il nefas dei fratelli sia consumato, nel libro undicesimo, Giove è già uscito dalla scena del poema. 3 Per un paradosso, la svolta dell’ultimo libro avviene nell’assenza, o quasi, degli dèi. Una frattura vistosa spezza così la linea del racconto, e ne isola la coda ; l’ultimo tempo del poema è un ‘presto’, che novità di disegno e accelerazione narrativa staccano dall’insieme. Questa frattura della forma è, a mio parere, essenziale al senso della Tebaide. Una finalità positiva, costruttiva, è esclusa dalla visuale nell’avvio del poema e per buona parte del suo corso. Se Teseo appare infine come un liberatore, la sua apparizione dev’essere il più possibile inattesa e in certa misura sorprendente, come quella di un deus ex machina. 4 Undici libri di tragedia della tirannide contrastano con l’intervento risolutivo del sovrano di Atene, la città ideale in cui si venera la Clementia. La dissonanza fra le due parti dell’epos, che posizioni critiche opposte tendono da opposti punti di vista ad appianare, è a mio parere una disarmonia prestabilita ; è solo dalla tensione tra i due poli narrativi, così vistosamente sbilanciati, che si può ricomporre il senso complessivo della Tebaide, della sua forma letteraria e del suo discorso politico. Schiacciare anche il finale sulla visione negativa del corpo dell’opera (come fanno i critici cosiddetti pessimisti), o viceversa pretendere che la chiusa riscatti tutto l’insieme in un finalismo epico positivo (come fanno gli ottimisti), rischia di precludere la comprensione piena della novità di quest’epica. Il quadro negativo della sovranità degenerata e la sua versione ideale incarnata da Teseo sono due parti complementari di uno stesso discorso sul potere imperiale : due componenti essenziali l’una all’altra e in tensione dialettica fra loro. Proprio la netta cesura del racconto, e la profonda lacerazione della forma epica, sprigionano il senso di una forma poetica audacemente nuova, scissa ed asimmetrica, in grado di esprimere la coscienza di una crisi : è dal pessi 



















1  Theb. 1, 1-3 fraternas acies alternaque regna profanis / decertata odiis sontesque evolvere Thebas / Pierius menti calor incidit ; 33-37 …satis arma referre / Aonia et geminis sceptrum exitiale tyrannis / nec furiis post fata modum flammasque rebelles / seditione rogi tumulisque carentia regum / funera et egestas alternis mortibus urbes ; cf. 56-87, 224-247. 2  Theb. 9, 517-519 ‘certe tumulos supremaque victis / busta dabas : ubi Cecropiae post proelia flammae, / Theseos ignis ubi est ?’. 3  Theb. 11, 119-135. 4  La definizione è di Braund 1996.  







Introduzione. Forme dell’epica, idee del potere

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mismo sulla realtà del potere assoluto che il racconto di Stazio fa emergere una proposta positiva e uno sforzo di ricostruzione dei valori su cui si fonda l’istituto imperiale. 2. Epica e tragedia I primi undici libri e il dodicesimo intrattengono, in modo diverso, un rapporto essenziale con i generi epico e tragico. Fino all’undicesimo libro, la Tebaide è in gran parte un’opera al nero : un’epica negativa, che sfida lo statuto del genere di celebrare i kleva ajndrw`n, le imprese degli eroi, consegnandole a fama immortale. Alla costruzione di quest’epica nuova contribuiscono l’epos di Lucano e la tragedia di Seneca : con entrambi, Stazio condivide il nodo problematico della celebrazione del nefas, della rappresentazione e della memoria del male. Emblematico di questa poetica è il gesto paradossale con cui, nella climax del racconto (il duello tra i fratelli), il narratore epico condanna l’oggetto della sua narrazione come ‘un mito da dimenticare’ : la damnatio memoriae di Eteocle e Polinice rovescia l’apostrofe di Virgilio a Eurialo e Niso, e con essa una convenzione costitutiva dell’epos, quella di promettere ai protagonisti eterno ricordo nella gloria della poesia. 1 Stazio impara da Lucano : anche il poeta della Pharsalia, all’apice negativo del racconto (al momento di narrare la battaglia decisiva), aveva una mossa paradossale di rifiuto, e invocava il proprio animo perché lasciasse per sempre nelle tenebre dell’oblio quel culmine di orrore : già Lucano invertiva un modulo virgiliano e assumeva il ruolo riluttante del messaggero tragico. 2 Stazio va oltre : mentre augura che i posteri dimentichino l’orrore che ha cantato, invita polemicamente i re a custodire quel ricordo vergognoso : soli memorent haec proelia reges, « solo i re ricordino questo scontro ». Reges et proelia è definizione dell’epica (Verg. ecl. 6, 3) ; qui, la forma stessa della clausola è una perversione dello statuto epico di celebrare re e battaglie : quando i re sono tiranni, e le guerre sono maledette, il genere epico non può che entrare in crisi. Con una densa figura retorica, Lucano e Stazio inscenano una crisi della memoria epica e fondano una nuova epica del nefas, capace di celebrare in negativo i crimini del potere. Il genere epico si accosta così alla riflessione sul potere tirannico che è dominio della tragedia. Nel suo ritorno all’epos mitologico, Stazio prosegue la trasformazione del genere epico operata da Lucano stringendo con la tragedia un rapporto più profondo. Il mito dei Sette a Tebe è un mito tragico per eccellenza : è un paradigma di quei conflitti fra consanguinei (anziché fra nemici) che Aristotele, nella Poetica, raccomanda come soggetto ai poeti di tragedie ; ed è un esempio delle contese dinastiche e civili che Hegel, nell’Estetica, definisce « più adatte alla rappresentazione drammatica », distinguendole dalle guerre fra popoli  

































1  Theb. 11, 574-579 ; Verg. Aen. 9, 446-449 : vedi infra, cap. ii. 2  Lucan. 7, 552-556 ; Verg. Aen. 10, 791-793.  







La Tebaide di Stazio. Epica e potere

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stranieri, le sole « di natura autenticamente epica ». 1 Nel racconto di Stazio, i primi undici libri ripercorrono la materia dei Sette a Tebe di Eschilo, delle Fenicie di Euripide e delle Phoenissae (incompiute) di Seneca. Con più intensità rispetto alla tradizione, quest’epica fa suoi modi e forme di rappresentazione propri della tragedia (soprattutto senecana). La « divina » Eneide, di cui Stazio segue « da lungi » le tracce, ha aperto la strada ; ma su quella strada Stazio va molto più in là. Tebe è fatta per la scena tragica ; il complesso delle storie tebane costituisce già nelle Metamorfosi di Ovidio una sezione epica pervasa dal registro tragico – e forse la prima ‘anti-Eneide’. 2 Stazio spinge la tensione tra forma epica e tragica fino a un punto di rottura. Una guerra contro la patria che culmina in uno scontro tra fratelli : il crescendo della Tebaide ricrea la tensione del teatro senecano verso un delitto sempre più grande. Moduli tragici ritmano il racconto : veri prologhi senecani sono quelli in cui Edipo, subito dopo il proemio, poi Plutone e Tisifone, nei libri ottavo e undicesimo, invocano la realizzazione del nefas. 3 Le Furie agiscono con un’autonomia e una coscienza poetica degne del Tieste ; giunto al nucleo tragico della storia dei Sette, Stazio affida a Tisifone e Megera la responsabilità poetica di mettere in scena il furor fratricida : 4 le Muse epiche (tante volte invocate) cedono il posto alle Furie, le Muse della tragedia. Il modello di epos infernale inaugurato da Alletto nel settimo libro dell’Eneide ritorna qui potenziato dalla tragedia senecana ; la gerarchia virgiliana tra cielo e inferno, tra forze del caos e del kosmos (già in sé problematica), è sovvertita. 5 E così, in un poema in cui il piano di Giove oggettivamente coincide, e collabora, con l’azione delle Furie, ogni senso di provvidenzialismo epico è compromesso : lo scontro tra i fratelli fa parte del disegno punitivo di Giove, ma è in se stesso un nefas, un culmine di empietà che neppure Giove vuole vedere. Sul terreno del duello, gli uomini restano soli : anche le Furie infine si ritirano, risentite perché il furor umano è più potente del loro. 6 Come in tragedia, le Furie sono simbolo delle passioni, soprattutto della passione del potere ; e, come in tragedia, il mito è metafora della storia. Prima che il racconto arrivi a soluzione nel libro conclusivo, Stazio ha mostrato che il nucleo negativo del mito è in se stesso un male assoluto, e destinato a infiniti ritorni nella storia umana. Il nucleo della Tebaide è una tragedia, che la storia ripete ogni volta che il potere si identifica con il regnum.  











































3. Il finale e le Supplici di Euripide È da questa meditazione sugli orrori del potere che nasce il finale del poema. Come un racconto esemplare, io credo, la Tebaide ha infine un eroe positivo 1  Arist. poet. 1453b, 19-22 ; Hegel 1997 (= 1955 [basata su 1842-18432]), tomo ii, pp. 1186-1187. 2  Hardie 1990 ; cf. ora Janan 2009. 3  Cf. spec. Theb. 1, 85-87 ; 8, 65-68 ; 11, 110. 4  Theb. 11, 97-100. 5  Cf. Hardie 1993, cap. 3. 6  Theb. 11, 537-538 nec iam opus est Furiis ; tantum mirantur et astant / laudantes, hominumque dolent plus posse furores.  









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e un ideale da proporre, ma esemplarità e pessimismo convivono fin nella chiusa. Stazio ha anche qui davanti a sé un modello tragico ; il nuovo sviluppo narrativo, innescato dalla mancata sepoltura degli Argivi (per il divieto di Creonte, nuovo tiranno di Tebe), si accosta ora a una tragedia di Euripide forse mai riadattata prima nella letteratura latina, le Supplici : è la tragedia, ambientata ad Eleusi, in cui il re di Argo, Adrasto, insieme alle madri e mogli dei caduti nella spedizione dei Sette, ottiene da Teseo che porti guerra a Tebe per dare sepoltura ai corpi. 1 Il dramma euripideo è un modello lontano, ma vitale ; ripensato alla radice, è ritrovato nella geometria di fondo dei suoi significati : Atene contrapposta a Tebe, come il mondo dei valori umani e politici alla violenza del potere (è il grande tema della tragedia attica indagato da Froma Zeitlin) ; 2 la guerra come dura necessità e come prova suprema per affermare la giustizia ; il lutto femminile che perdura, senza riscatto. La scelta della variante mitica guerresca canonizzata da Euripide (contro la versione pacifista degli Eleusini di Eschilo, con la soluzione diplomatica della crisi) 3 rivela già da sé l’adesione di Stazio alla sostanza tragica dell’invenzione euripidea : una guerra giusta e legittima, che scioglie un nodo tragico ma non ne risolve un altro, rendendo infine possibile il tributo del lutto ai caduti di una guerra ingiusta ed empia, che non avrebbe mai dovuto essere combattuta. Mettendo le Supplici in continuazione diretta con le Fenicie (il loro antefatto mitico), Stazio esalta gli effetti di contrasto, tra spedizione riparatrice e spedizione maledetta dei Sette, e insieme ne crea di nuovi : di fronte allo slancio eroico degli Ateniesi, il quadro dei Tebani stanchi di guerra, costretti dal nuovo tiranno a riprendere le armi appena posate, ancora insanguinate e a pezzi, conferisce al dramma della guerra rinnovata una nuova profondità. 4 Il testo di Euripide è spesso citato appena dalla critica staziana, quasi solo per sottolineare differenze vistose. 5 Eppure, un testo così profondamente trasformato è stato per il poeta flavio, credo, una lettura fondante. Le Supplici sono un dramma eminentemente politico, ed eminentemente politico è il discorso di Stazio nella chiusa della Tebaide : della tragedia euripidea il poeta flavio dà una reinterpretazione in chiave attuale. I punti cardine del suo discorso – Teseo, la Clementia e la punizione dei tiranni – segnano la distanza da Euripide. Il restauro di Teseo come personaggio mitologico e come sovrano ideale (anziché figura civica e capo democratico) ; il suo rapporto col valore imperiale della clementia ; la sua azione come tirannicida, sono le innovazioni decisive. E poi 































1  Vedi infra, cap. iv, § 2. 2  Vedi Zeitlin 1990 (= 1986), spec. p. 147 ; cf. ora Braund 2006. 3  Cf. Ampolo, Manfredini 1988, a Plut. Thes. 29 (5), 27. 4  Theb. 12, 698-708. 5  Cf. Vessey 1973, p. 308 : « …it would hardly be necessary to term the Supplices a source of the Thebaid, were it not for a few parallels in thought and language ». Paralleli e divergenze erano registrati già in Reussner 1921 ; ai singoli contatti presta ora attenzione Pollmann 2004. Per altra bibliografia vedi infra, cap. iv, § 2.  









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ché sul ruolo della Clemenza e di Teseo si gioca l’interpretazione del poema, proprio alle Supplici, come matrice generativa di uno sviluppo nuovo, andrà riconosciuto il giusto rilievo nell’analisi del finale e del suo significato politico. Definite nell’hypothesis, e forse da Aristofane di Bisanzio, « encomio degli Ateniesi », le Supplici sono, almeno in parte, una tragedia patriottica : il dramma esalta il sistema democratico in opposizione alla tirannide, anche se lascia spazio a critiche della demagogia attuale e fa trapelare sfiducia nella realtà politica contemporanea. 1 Manipolando il mito di Teseo in modo fino ad allora inedito, Euripide attribuisce al mitico re fondatore di Atene il merito di fondatore della democrazia, e di rappresentante di una sua versione dirigista e periclea, inattuale e idealizzata. Il contrasto fra Teseo e l’araldo di Tebe mette in scena, nel cuore del dramma, un confronto fra democrazia e tirannide, che è un dibattito costituzionale su diverse forme di governo : la tirannide fornisce qui un termine di contrasto contro cui definire l’identità ateniese, e insieme fa risaltare per opposizione i difetti del governo democratico (è il ruolo che svolge, nel discorso politico della democrazia, un sistema ormai inattuale nel v sec.). 2 Con il suo anacronismo, che avrà fortuna, Euripide fa di Teseo un padre nobile della democrazia ; 3 l’elogio del sistema democratico si affianca così alle lodi proprie già dell’Atene mitica : ospitalità, protezione dei supplici, soccorso dei deboli e degli oppressi – le qualità rappresentate appunto nella tragedia. È in virtù del sistema democratico, mostra Euripide, che Atene è in grado di far rispettare leggi panelleniche e valori universali, come il diritto alla sepoltura rivendicato qui dagli Argivi. Torniamo alla Tebaide. Stazio traduce Euripide in termini attuali, sposta il discorso dal piano del dibattito costituzionale a quello della discussione etico-politica : non più un confronto tra diverse forme di governo, ma una riflessione sul buono o cattivo uso della forma monarchica ; è l’ambito della riflessione politica proprio della Roma imperiale, e di tradizione ellenistica. 4 Il contrasto fra Atene e Tebe diventa qui la contrapposizione fra re e tiranno : un confronto personalizzato, e condotto in forme narrative, fra Teseo e Creonte. Teseo è qui di nuovo il sovr ano ideale che incarna i valori di umanità di Atene : così come era già tornato ad essere, dopo la forzatura di Euripide, nell’Edipo a Colono di Sofocle. Ciò che è violato, e deve essere riaffermato, non sono più norme panelleniche, ma le leggi universali e l’ordine cosmico (terrarum leges et mundi foedera 12, 642) garantiti dalla monarchia ideale : l’intervento ateniese ristabilisce la coesione dell’universo su cui si modella, e in cui si rispecchia, l’ordine politico.  





























1  L’interpretazione della tragedia è vivacemente dibattuta : non sono mancati tentativi di letture ironiche e valutazioni negative del personaggio di Teseo, in un parallelismo interessante con la critica staziana (vedi Collard 1975, introd., pp. 23-31, e la rassegna di Heldmann 2005) ; di contro, si vedano in part. Paduano 1966 ; Di Benedetto 1971, pp. 154-192 ; Bertelli 2003. Vedi infra, cap. iv, § 3. 2  Vedi Raaflaub 2003. 3  Cf. Bertelli 2003, Heftner 2003. 4  Sintesi utile, con bibliografia, in Noreña 2009.  







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4. Clementia C’è un’altra novità rispetto a Euripide : Atene è la città dell’ara Clementiae, l’altare sacro ai miseri che offre rifugio alle donne Argive. 1 Il tempio eleusino di Demetra viene sostituito da un luogo simbolico, sintesi di valori greci e romani. Con un’architettura poetica audace, Stazio riconverte un celebre monumento dell’agorà ateniese, il bwmo;~ ejlevou o Altare della Pietà, in funzione dell’ideologia imperiale romana : lo reintitola alla Clemenza, e ne fa il cuore del poema. È qui che un Teseo romanizzato, in trionfo per la vittoria sulle Amazzoni, accoglie la supplica di Evadne ; è qui che promette guerra contro il tiranno Creonte, paradigma esecrato di inclementia regum (11, 684). Associato Teseo alla clementia, il discorso delle Supplici appare aggiornato all’età imperiale ; nella Tebaide, come a Roma, la riflessione politica verte sul discrimine fra sovrano e tiranno, definito da una virtù : l’esercizio del potere assoluto che trova il suo limite nella clemenza. Siamo, dunque, sulla linea del De clementia di Seneca, il trattato di filosofia politica rivolto al giovane Nerone dal suo consigliere imperiale. La virtù già repubblicana, la clementia populi Romani come rispetto dei nemici vinti, che fondava l’ideologia dell’imperialismo, è divenuta virtù imperiale : prima attraverso la propaganda cesariana e la definizione della clementia Caesaris, poi con l’elaborazione del programma augusteo (fin dal clupeus aureus offerto dal Senato nel 27 a.C.), quindi con il vario riconoscimento degli imperatori successivi, variamente sostenuto dagli intellettuali e valutato dagli storici. Di fronte al fallimento e alla damnatio memoriae dell’ultimo dei Giulio-Claudi, i Flavi si richiamano al fondatore di quella dinastia e dell’Impero, Augusto, che aveva esibito clemenza nella pace seguita alle guerre civili e nei conflitti esterni ; nelle Silvae, Stazio contribuirà al programma dando un risalto centrale alla clementia di Domiziano. 2 Nella Tebaide l’altare non offre solo una risposta alle sofferenze rappresentate nel racconto, ma, aprendo una visione universale (12, 503-504 commune animantibus aegris / confugium), sollecita una riflessione contemporanea. La scelta del termine clementia, l’associazione con la figura di Teseo, le risonanze politiche nella descrizione dell’ara implicano un discorso sul potere. Stazio approfondisce il concetto proprio dell’ideologia imperiale e lo estende rispetto alle più rigorose definizioni e distinzioni filosofiche di Seneca : la clemenza come autolimitazione del sovrano nel comminare pene, la distinzione stoica fra clementia e misericordia. Anche il poeta flavio, tuttavia, ha di mira il contesto politico ; nel mito, la clemenza si amplia a comprendere l’humanitas, come  





















1  Theb. 12, 481-511 : vedi infra, cap. iii. 2  Vedi infra, cap. i, § 1. 3. Della vasta bibliografia sulla clementia, per cui rimando a Malaspina 20052 e a Braund 2009, mi limito a ricordare qui, oltre ad Adam 1970 e a Wallace-Hadrill 1981, alcuni lavori recenti : Konstan 2001, cap. 3 e 2005 ; Griffin 2003. Per il Clupeus Virtutis vedi Galinsky 1996, pp. 84-85. Sul concetto nell’Eneide, Garbarino 1984.  





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nel secondo libro del trattato senecano. È con lo sguardo al presente che il poeta della Tebaide conclude il suo racconto : traduce il mito greco in termini romani, o meglio, accosta filanqrwpiva ateniese e clementia romana ; e in questo rivela un programma ambizioso, di critica e di proposta insieme. 1 La sezione eziologica dell’ekphrasis (12, 497-513) è il centro di questo discorso. All’ideologia della clementia Stazio fornisce una legittimazione mitica e insieme una sanzione religiosa : il valore imperiale diventa qui uno dei doni originari degli dèi all’umanità, per il tramite di Atene. È una risposta all’Eneide : Virgilio vantava il parcere subiectis et debellare superbos come acquisizione romana, contrapposta alle conquiste del pensiero e dell’arte greca ; un poeta ‘greco’ di origine, formazione e fisionomia come Stazio riconosce invece, anche in campo politico, una filiazione culturale : un debito verso la Grecia che sarà presto teorizzato, nell’Impero ormai greco-romano, dagli intellettuali della Seconda sofistica. Non basta. Nella Tebaide la clementia è al centro di un discorso etico-politico che appare in sintonia col discorso ufficiale del potere, ma che lo muta alla radice e lo trasforma dall’interno mediante il linguaggio poetico. Non è solo una archeologia dei valori che viene offerta, in funzione nobilitante, al destinatario imperiale e al pubblico flavio : è un rinnovamento dell’ideale imperiale quello che il poeta epico propone, indicando un ritorno alle origini e costruendo per la clementia un mito di fondazione. Il richiamo alle origini è anche uno sforzo di rifondazione dei valori, il tentativo poetico di dare basi nuove a una virtù problematica e storicamente compromessa. Insistendo sull’aspetto intimo e aniconico del culto, sulla difesa e distanza dell’ara dal potere (persino quello degli dèi : nulli concessa potentum / ara deum, mitis posuit Clementia sedem 12, 481-482), il testo di Stazio suggerisce che la clementia è un valore fragile e minacciato : un valore che va ogni volta riaffermato e ridefinito, raccomandato a chi regna e approfondito nel suo contenuto, per difenderlo da abusi e strumentalizzazioni ; sfruttato dalla propaganda imperiale, realizzato in modo episodico e ripetutamente violato nella pratica politica, screditato dall’abuso che gli imperatori ne hanno fatto, o addirittura scaduto a maschera del dispotismo (dirà Tacito), il valore alla base dell’ideologia politica romana deve essere rifondato. Tocca a un poeta erede di Lucano ridare credito, nell’epica, a un ideale che il Bellum Civile aveva distrutto, aggredendo il mito della clementia Caesaris. 2  























1  Sul concetto di clementia nella Tebaide resta importante Burgess 1972, anche se va rivisto in alcuni aspetti ; inoltre Braund 1996, pp. 9-12 ; attento al rapporto col De clementia, ma non sempre convincente, Delarue 2000, pp. 161-166, 173-176 (cf. 109-111) ; dà invece un’interpretazione apolitica Ripoll 1998, pp. 441 ss., spec. pp. 445-446 ; sulla clementia come soluzione privata alla crisi rappresentata nel poema anche McNelis 2007, pp. 165, 177 ; una valutazione fortemente riduttiva del ruolo di Clementia e della clementia di Teseo (in quanto confuse con la misericordia) in Ganiban 2007, pp. 214 ss., spec. pp. 219-222. 2  Il confronto vincente tra la clementia di Domiziano e quella di Cesare è proposto in silv. 1, 1 : vedi infra, cap. i, § 1. 3.  











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Stazio accosta al pessimismo dell’analisi un limitato ottimismo costruttivo. Per immagini, il mito parla del presente : e l’immagine di un rifugio è l’emblema di una crisi. Si pensa per contrasto a un altro luogo sacro, simbolo poetico della ‘mitezza’ di un’epoca. Nell’Eneide, le porte del tempio di Giano appaiono chiuse per sempre : concluse le guerre civili e rinchiuso il Furor, Augusto ha imposto una chiusura alla storia di Roma. Nella Tebaide, al centro di Atene, l’altare della « mite » Clementia è sempre aperto, e sempre affollato di vittime del potere dispotico : il potere che sempre identifica i regna con ire e minacce, guerre ed esilii. Il degenerare del potere assoluto in furor è un rischio sempre presente ; nel mondo della Tebaide non c’è spazio per la mite Età dell’oro, o per il suo Ritorno. 1 C’è una movenza di denuncia, nella descrizione dell’ara, che ne definisce il senso. La finalità originaria del dono degli dèi suona sempre attuale : commune animantibus aegris / confugium, unde procul starent iraeque minaeque / regnaque, « un rifugio comune per gli uomini afflitti, da cui stessero lontane le ire e le minacce dei regni » (12, 503-505). Con un gesto ammonitorio, il valore della clemenza viene contrapposto alla violenza del regno, agli strumenti del tiranno. La clementia è una difesa dalle degenerazioni del potere assoluto, lo stesso potere di cui rappresenta la versione ideale. Ecco il nodo del problema : il potere di uno solo ha in sé, e in sé solo, la potenzialità di una realizzazione ideale e il pericolo di una degenerazione rovinosa. Lo stesso brano che celebra indirettamente la virtù imperiale, indirettamente accusa i guasti dell’Impero : la tragedia dell’involuzione tirannica esemplificata fin qui dal racconto epico. Solo un potere clemente può offrire protezione dall’inclemenza del potere e sanarne i danni : sarà l’impresa di Teseo a dimostrarlo ; ma la patologia del regime assoluto ha effetti devastanti e il rischio che il governo di uno solo possa degenerare non è mai definitivamente scongiurato. Nella Tebaide il mito parla del presente ; Roma può essere ed è, al meglio della sua storia, una Atene ideale a dimensione ecumenica, ma è stata anche, e rischia di poter essere ancora, una nuova Tebe. Di qui il tono incalzante, polemico dell’ekphrasis : la natura stessa della clementia, considerata ormai garanzia unica del buon governo, richiede una sorta di vigilanza collettiva e una continua pressione sul potere politico perché si conformi a quel modello. Nel disegno del poema, il ritratto di Teseo come re clemente acquista rilievo dalla contrapposizione con la inclementia regum di cui è paradigma Creonte, ultimo esponente di una dinastia funesta. È questa forma di dittico che fa della Tebaide un racconto esemplare. Il dodicesimo libro del poema sta ai primi undici quasi come il De clementia sta alle tragedie di Seneca : sono le due  

































1  Theb. 12, 482 mitis posuit Clementia sedem ; cf. Verg. Aen. 1, 291-296 ‘aspera tum positis mitescent saecula bellis … dirae ferro et compagibus artis / claudentur Belli portae…’. Il ritorno di un’età di grazia, il novum saeculum inaugurato dai ludi saeculares, celebrati da Domiziano nell’88 sul modello di Augusto, sarà cantato con tratti ‘augustei’ nelle Silvae : vedi infra, cap. i, § 1. 3 ; cf. anche silv. 4, 1, 17-18 e 37-38.  





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parti, positiva e negativa, o construens e destruens, di uno stesso discorso sul potere imperiale – e forse, indirettamente, rivolto al potere. Il tentativo di Stazio nel finale della Tebaide assomiglia a quello di Seneca nel trattato rivolto a Nerone e il finale epico contrasta con la tragedia del potere, rappresentata dal poema, come l’utopia del De clementia si contrappone alla visione del potere inscenata nelle tragedie senecane. 5. Teseo Veniamo infine al ruolo di Teseo. Una lettura della Tebaide in chiave stoica, come epica positiva e « della redenzione » – una lettura da tempo tramontata, quella di Vessey –, vedeva Teseo come modello ideale di sovrano clemente. Letture recenti fanno al contrario del re di Atene un personaggio ambiguo, dai risvolti negativi : l’azione lo mostrerebbe violento e smanioso di guerra ; le allusioni al passato e al futuro mitico lo screditerebbero, mostrandolo in altri tempi traditore di donne e fonte di sventure per la sua famiglia, addirittura affine a Edipo nel causare la morte del padre (Egeo) e nel maledire il figlio (Ippolito). Un’interpretazione sovversiva e pessimistica della Tebaide, come epica contro l’Impero, ostile alla casa flavia (cito per tutti Ahl e Dominik), cerca così fondamento in Teseo come ritratto al nero di Domiziano. Anche le ultime monografie anglosassoni, che sul rapporto tra Stazio e i Flavi non si pronunciano in modo netto, vedono incarnata nell’eroe una concezione assai problematica, o decisamente negativa, del potere imperiale. 1 In questa decostruzione del personaggio c’è a mio parere molto di pregiudiziale ; come unilaterale mi pare il tentativo opposto (da ultimo di scuola francese) di identificare senz’altro il modello positivo di Teseo con l’imperatore regnante, facendo apparire infine il poema come un’epica celebrativa tout court – una contrapposizione fra ottimisti e pessimisti che riproduce il dibattito critico sull’Eneide. Uno degli studi più importanti sul finale resta a mio parere quello di Susanna Braund, di una quindicina di anni fa : 2 con l’intervento di Teseo, una sorta di supereroe esterno, in cui si riconoscono valori imperiali, Stazio farebbe almeno un tentativo di risolvere il conflitto tebano e di imporre una chiusura epica al suo poema. La Braund si schiera, in modo un po’ provocatorio, con gli ottimisti ; e forse una dose eccessiva di ottimismo c’è, nel suo leggere il finale della Tebaide come Francis Cairns legge il finale dell’Eneide, in termini senz’altro augustei. Eppure un limitato ottimismo costruttivo, o almeno un tentativo di proposta positiva, anche se schiacciato dal peso dei libri precedenti, va riconosciuto a questa chiusa : esemplarità e pessimismo sono inscindibili, in un finale in cui il trionfo non si distingue dal lutto e alla vittoria segue il lamento funebre. La Tebaide è un poema di contrasti netti e di opposizioni didascaliche – come  



















1  Resoconto del dibattito e bibliografia infra, cap. iv, § 1.

2  Braund 1996.

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quella tra sovranità e tirannide –, ma anche di compresenze tragiche e di paradossale coincidenza degli opposti. Una tensione ossimorica percorre questa chiusa, che è insieme una risoluzione epica positiva e l’ultimo atto di una tragedia. Il poema di Stazio è, insomma, un insieme complesso. Se quella di Virgilio è un’epica dei vincitori (il modello dominante nella tradizione europea) e l’anti-Eneide di Lucano un’epica dei vinti – così le definisce David Quint 1 –, la Tebaide è, fino al duello fratricida, un’epica senza vincitori né vinti (perché entrambe le cause sono sbagliate), ma nel dodicesimo libro diventa un’epica del vincitore. La forza negativa della Pharsalia guida la Tebaide fino all’esito rovinoso della spedizione dei Sette, ma la guerra di Teseo è un superamento di Lucano ; qui, il tiranno non è il vincitore, ma il vinto – anche se non è evidente fino a che punto la causa vincitrice sia piaciuta agli dèi. ‘Terrarum leges et mundi foedera mecum / defensura cohors’, « Soldati, che vi preparate a difendere con me le leggi della terra e i patti che legano l’universo » (12, 642-643) : così Teseo esorta a un’impresa che ristabilisce, insieme a norme etiche comuni all’umanità (le « leggi » delle Supplici), anche l’ordine dell’universo, i mundi foedera : l’ordine naturale che rispecchia l’ordine politico, il kosmos che corrisponde all’imperium – proprio quell’ordine cosmico che la Pharsalia dichiarava sconvolto senza rimedio, nel passaggio dalla Repubblica all’Impero. La critica pessimista accusa l’eroe di violenza : ma la prontezza all’azione è essenziale alla rapidità della chiusa, e il disegno schematico fa risaltare il contrasto col tiranno. Quanto al passato e al futuro di Teseo, gli episodi anche meno luminosi della carriera dell’eroe, Stazio li ha inclusi nel testo, con l’enciclopedismo che gli è proprio, esplicitamente o per via allusiva ; ma i tratti problematici sono qui marginalizzati. Il pallore catulliano di Arianna occupa un verso al margine dello scudo su cui campeggia la vittoria sul Minotauro : 2 se è un segnale alla memoria del lettore, che ha ben in mente il destino della relicta, è un segnale della selezione che il poeta epico ha operato. Quello di Teseo è un mito complesso, ricco di aspetti che una lunga tradizione greca ha lavorato a interpretare e reinterpretare, di volta in volta esaltando o mettendo in ombra, riscattando e razionalizzando, secondo l’opportunità dei contesti storici e letterari. Soprattutto, nella cultura greca Teseo è un efficace simbolo politico, fatto proprio in tempi diversi dai più vari discorsi del potere. È questo il punto che la critica trascura : quella di Stazio è l’appropriazione di un simbolo, un simbolo potente e polivalente della cultura greca, che a Roma ha perso centralità culturale, ma che, almeno in letteratura, ha un precedente di riuso politico nella tragedia di Seneca : e io credo che sia per Stazio un precedente importante. Non viene mai citato, a proposito della Tebaide, il ruolo che Teseo svolge nell’Hercules furens (un’altra tragedia sulla tirannia tebana), come fiancheggia 

























1  Quint 1993.

2  Theb. 12, 676 absumpto pallentem Cnosida filo.



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tore di Ercole nell’uccisione di Lico e come testimone e teorico della punizione dei tiranni da parte degli dèi e degli uomini, sulla terra e nell’aldilà. La Tebaide termina con un tirannicidio : è una novità rispetto alle Supplici, che consacra come centrale il tema del potere e, allo stesso tempo, allinea la chiusa al finale dell’Eneide – il duello fra Enea e Turno. Teseo uccide Creonte e, mentre gli promette sepoltura, lo condanna alle pene dell’inferno ; la sua apostrofe al tiranno è parallela, per forma ed autorevolezza, a quella che la voce del narratore epico rivolgeva a Eteocle e Polinice nel libro precedente. 1 Non c’è nulla, qui, dell’esitazione e della scelta tragica di Enea di fronte a Turno humilis supplex ; in sé, l’uccisione di Creonte è un legittimo tirannicidio. L’unica colpa che non merita clemenza, sembra dire Stazio, è l’inclemenza di un tiranno : che merita il gesto clemente della sepoltura, ma va punita sulla terra con la morte, e va affidata oltre la morte all’inclemente punizione divina. Questo complesso di motivi è già raccolto intorno alla figura di Teseo nell’Hercules furens. 2 Ercole sta uccidendo fuori scena il tiranno Lico ; mentre copre l’amico, Teseo racconta, ad Anfitrione e al pubblico, il viaggio nell’Ade, da cui l’eroe lo ha liberato ; al centro del racconto, inizia ad effetto a illustrare i castighi infernali dalla punizione dei tiranni. Digressione narrativa e azione drammatica si corrispondono 3 (e giustizia divina e azione di un giustiziere umano appaiono, almeno in questo caso, alleate). Il valore esemplare riconosciuto ai castighi dei re fin da Platone 4 è sfruttato qui per rivolgere, con la voce di Teseo, un ammonimento diretto a chi regna : perché usi moderazione e mitezza, si astenga dal sangue e dall’ira, in una parola – una parola che nelle tragedie Seneca non usa – eserciti clemenza :  























quod quisque fecit, patitur ; auctorem scelus repetit suoque premitur exemplo nocens : vidi cruentos carcere includi duces et impotentis terga plebeia manu scindi tyranni. quisquis est placide potens dominusque vitae servat innocuas manus et incruentum mitis imperium regit animoque parcit, longa permensus diu felicis aevi spatia vel caelum petit vel laeta felix nemoris Elysii loca, iudex futurus. sanguine humano abstine quicumque regnas : scelera taxantur modo maiore vestra. (Sen. Herc. f. 735-747)  





1  Theb. 12, 771-773, 779-781 ; cf. 11, 574-575. 2  Il personaggio senecano, criticato per la scarsa consistenza drammatica (vedi Timpanaro 1981, p. 129), andrebbe riconsiderato sotto il profilo del rilievo ideologico. 3  Vedi Dingel 1974, pp. 125-128. 4  Plat. Gorg. 525 c-d ; resp. 615 c-616 b.  



Introduzione. Forme dell’epica, idee del potere

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L’esortazione al buon governo sembra tolta al De clementia (i paralleli sono noti) ; 1 e tocca a Teseo formularla : in quanto testimone delle pene infernali, ma anche in quanto figura pubblica e politica, re fondatore e rappresentante della civiltà ateniese – un ruolo che verrà in evidenza nel finale. 2 L’eccezionalità dell’ammonimento diretto al pubblico, isolato nel teatro senecano all’infuori dei cori, segnala l’importanza del motivo. La condanna della tirannia e l’elogio della sovranità clemente sono due aspetti complementari, proprio come nella Tebaide ; e, come nella Tebaide, tocca a Teseo proporre un ideale politico positivo, che è caso unico nelle tragedie senecane. Il Teseo della Tebaide trova in Seneca, come nelle Supplici, un modello tragico dal potenziale positivo, che può essere valorizzato nel finale dell’epos.  









6. Parlare del potere, parlare al potere A parlare del potere, e forse, indirettamente, al potere, Stazio ha imparato in parte da Seneca : opponendo exempla positivi e negativi, associando la denuncia in funzione di deterrente con l’elogio come forma di esortazione, la sua epica ha quasi l’ambizione di uno speculum principis. 3 Di certo, questo è un epos mitologico che offre ai suoi lettori uno specchio del potere, e uno specchio diviso in due : il mito mostra che clementia e inclementia regum sono due aspetti sempre presenti in potenza nell’istituto del potere monarchico. Più che celebrare, o contestare, il discorso epico pare ammonire : lascia ai lettori il compito di misurare la distanza tra mito e realtà storica, e al destinatario imperiale la responsabilità di identificarsi con l’uno o l’altro polo della narrazione. Ben lontano dal ruolo senecano di consigliere del principe (che la fine stessa di Seneca ha dimostrato fallimentare), il poeta della Tebaide non può illudersi di legare la condotta dell’imperatore agli insegnamenti del suo racconto esemplare ; eppure induce almeno il suo pubblico a riflettere sul potere assoluto, e lo invita a condividerne un profilo ideale – sia pure destinato a rimanere utopico. 4  











1  Cf. Fitch 1987 e Billerbeck 1999, ai vv. citt. ; Malaspina 2003a, pp. 274-275, 286, 300. 2  L’ammonimento funziona dunque in senso opposto rispetto a quello pronunciato dall’empio Phlegyas in Verg. Aen. 6, 620 : un passo che Seneca presuppone e rovescia, riabilitando in modo significativo la figura di Teseo ; cf. Aen. 6, 617-620 ‘sedet aeternumque sedebit / infelix Theseus, Phlegyasque miserrimus omnis / admonet et magna testatur voce per umbras : / “discite iustitiam moniti et non temnere divos”’. Nel testo senecano l’empia impresa tentata da Teseo per fedeltà all’amico Piritoo resta in ombra ; Stazio stesso, sulla scorta di una tradizione consolidata, la presenta come prova di amicizia fedele, persino attraverso le parole di Plutone : vedi infra, cap. iv, § 3. 3  Cf. von Albrecht 1992 (= 1995-1996, p. 952) ; Newlands 2002, pp. 26-27, da cui la mia posizione è in parte diversa : vedi infra, cap. i, § 1. 3. 4  Per questo limite comune alla teoria etico-politica imperiale cf., per es., Noreña 2009, pp. 278-279.  















i. Poesia, potere e pubblico i. 1. Tebaide e Silvae i. 1. 1. L’epica spezzata e i discorsi del potere

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orma epica e discorso politico, nella Tebaide, si corrispondono : una frattura divide entrambi in due componenti antitetiche. Condanna della tirannide ed esaltazione della sovranità clemente, proposte in forma di narrazione bipolare, sono parti complementari di uno stesso discorso sul potere imperiale. L’epos di Stazio va letto insieme alla poesia d’occasione : Tebaide e Silvae, genere epico e carmi encomiastici, sviluppano in modo diverso, ma non irrelato, un rapporto di collaborazione creativa e insieme di riflessione critica nei confronti del potere politico. Il poeta epico rivendica a sé una funzione più ambiziosa e complessa, in parte più libera, ma non incompatibile con quella che proseguirà, anche grazie al successo della Tebaide, come poeta professionale : un ruolo di coscienza critica, non organica ma neppure alternativa, che aspira ad essere attiva e partecipe nella costruzione dell’ideologia flavia. Opporre il positivo al negativo, l’edificante all’esecrando, è un modo collaudato di parlare del potere, e al potere. Nella ricerca dell’esemplarità, etica e politica, la cultura imperiale romana prosegue una lunga tradizione ‘educativa’, che dai trattati ellenistici peri; basileiva~ risale agli scritti biografici di Senofonte e alla retorica encomiastica di Isocrate, e che continuerà nella Seconda Sofistica con Dione di Prusa. La retorica dei discorsi sul potere è spesso una retorica oppositiva, fondata sull’antitesi. Il protrettico imposta la sua strategia su un sistema di opposizioni, e il panegirico vuole un termine di contrasto per dare risalto alle qualità dell’elogiato. Nel De clementia, dove distingue il re dal tiranno, Seneca parla a Nerone per exempla, da seguire e da evitare ; e Plinio, nel Panegirico, esalta il regno di Traiano contrapponendo ad ogni passo il nuovo principe all’ultimo dei Flavi. Come ogni discorso didascalico, il discorso sul potere – dalla parenesi all’encomio, che spesso coincidono – cerca le contrapposizioni. 1 Anche il discorso del potere spesso procede per antitesi. La dinastia flavia, nei linguaggi molteplici della comunicazione politica, fonda la sua legittima 









1  Su encomio e biasimo come mezzi per insegnare la virtù, secondo l’etica aristotelica, e sul loro ruolo nella biografia e storiografia greca, cf. Hedrick 2009 ; sull’opposizione tra re e tiranno, e tra virtù e vizi, nella teoria politica, Noreña 2009. Per la proposta didascalica di esempi positivi e negativi cf., per es., Isocr. ad Nic. 2 …eij dunhqeivhn oJrivsai poivwn ejpithdeumavtwn ojregovmeno~ kai; tivnwn ajpecovmeno~ a[rist∆ a[n kai; th;n povlin kai; th;n basileivan dioikoivh~, « se potessi definire quali norme di comportamento devi seguire e quali evitare per governare nel modo migliore la città e il tuo regno » (tr. di M. Marzi) ; Liv. praef. 10 ; Tac. ann. 4, 33, 2 ; Plut. Demetr. 1, 5-6 ; inoltre Hor. sat. 1, 4, 103-131.  













Poesia, potere e pubblico

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zione sulla discontinuità col regno di Nerone. 1 Le Silvae partecipano a questa elaborazione ideologica costruendo un contrasto fra tirannide neroniana e concordia restaurata dai Flavi. Il genethliacon di Lucano, in chiusa al secondo libro (2, 7), dà spazio all’esecrazione dell’ingratus Nero : nelle parole di Calliope, un dominus nocens, un rabidus tyrannus colpevole di un nefas sopra tutti, la condanna del poeta. La poesia prende qui la sua rivincita sulla violenza del potere ; è la voce autoriale che pronuncia una condanna, inscenando la punizione del tiranno oltre la morte :  







(tu magna sacer et superbus umbra nescis Tartaron et procul nocentum audis verbera pallidumque visa matris lampade respicis Neronem). 2  

(silv. 2, 7, 116-119)

Con la damnatio di Nerone Stazio si proclama erede di Lucano, non nell’ideologia repubblicana, ma nello spirito antitirannico : quello che detta nella Tebaide la condanna alle pene infernali per i fratelli tebani e per il loro successore (Theb. 11, 574-575 ; 12, 771-773, 779-781). 3 La proposta ideologica della Tebaide non si può comprendere se non la si mette in relazione con quella delle Silvae. Il poema esibisce a tratti un’impronta didascalica forte, declamata, che lettori di scuola e sensibilità diversa interpretano ‘a valore facciale’ o decostruiscono, sulla base di tendenze contrastanti che coesistono in effetti nel racconto. E tuttavia, una volta riconosciuto il tono pessimistico di un epos che arriva a svalutare il proprio gesto ammonitorio, 4 va ammesso che il poema di fatto non rinuncia alla funzione esemplare che si è dato : la stessa che, in veste di poeta di corte, Stazio svolgerà a beneficio dei Flavi nelle Silvae. Eteocle, Polinice, Creonte come Nerone : i tiranni del mito somigliano a quelli della storia ; un gesto poetico affine li condanna in eterno e li consegna alla punizione ultraterrena, come prescrive un programma di educazione politica che risale a Platone. 5 Mutato nomine, e mutato genere, la poesia continua a parlare del potere, e al potere.  















1  Sul meccanismo della denigrazione del predecessore cf. Ramage 1983 e 1989 (pp. 642 ss. su Plinio il giovane e Marziale) ; sull’uso nei panegirici Nixon, Rodgers 1994, p. 25 ; Lassandro 1981 e 2003, p. 248. Per la demonizzazione di Nerone negli scrittori di età flavia cf. Degl’Innocenti Pierini 2007, pp. 146-155 con bibliografia ; in Marziale fin da spect. 2 (cf. Coleman 2006, a 2, 3) ; nelle Silvae cf. 4, 3, 7-8 e 5, 2, 33. L’affermazione di Plinio, paneg. 53, 3-5 secondo cui Domiziano, a differenza di Traiano, non permetteva critiche a Nerone (temendo di apparire troppo simile a lui) è una distorsione strumentale, che va contro l’evidenza : cf. Ramage 1989, n. 6 a p. 643. 2  Vedi Degl’Innocenti Pierini 2007 ; Newlands 2011, ad loc. 3  Cf. Introd., § 5 ; cap. ii, § 2 ; cap. iv, § 4, pp. 149-150. Stazio attribuisce inoltre a Lucano la stessa capacità di confrontarsi con l’Eneide che rifiuta modestamente per sé nel congedo della Tebaide, ma che rivendica con orgoglio nelle Silvae : silv. 2, 7, 35 ; 79-80 ; cf. Theb. 12, 816-817 ; silv. 4, 7, 25-28 (cf. Hinds 1998, pp. 93-94). 4  Vedi infra, cap. ii, § 3, pp. 92-93. 5  Plat. Gorg. 525 c-d ; resp. 615c-616b.  

























La Tebaide di Stazio. Epica e potere

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La differenza di genere permette all’epos una libertà di associazioni e un’espressione di inquietudini che nella poesia d’occasione sono non assenti, ma appena affioranti e di norma coperte. Nello spazio sospeso del mito, la Tebaide pone con forza questioni che riguardano il presente, le riassume in una storia di rovina e di ripresa, le condensa in exempla negativi e positivi ; ma, escluso ogni riferimento diretto e univoco alla realtà contemporanea, nei confronti dei detentori attuali del potere si mantiene equidistante e in voluta ambiguità fra elogio e ammonimento, fra celebrazione ed esortazione, forse addirittura fra denuncia e deterrente. Il racconto mitico può apparire in accordo con la rappresentazione ufficiale del passato recente, perché si lascia sovrapporre, per analogia, alla sequenza orientata di tirannide neroniana, guerra civile, restaurazione flavia ; ma nulla nel testo esclude un fascio di significati più complesso, che coinvolge questioni delicate come la successione e l’odio tra fratelli. Tutto, anzi, fa pensare che i due poli della narrazione siano concepiti come entrambi pertinenti a un discorso sul presente e al discorso sul potere assoluto in sé ; clementia e inclementia regum vengono presentati qui alla riflessione come due aspetti dell’autocrazia : due immagini da offrire ogni volta come specchio ai nuovi potenti, per esortare elogiando, per esorcizzare denunciando. L’esecrazione dei cattivi imperatori funge da elogio ed esortazione di quelli presenti e da deterrente per quelli futuri : è il principio che Plinio formula nel Panegirico, dove ascrive a merito di Traiano l’aver dato libertà e materia di lodarlo per antitesi col predecessore Domiziano ; paneg. 53, 5 …licet nobis et in praeteritum de malis imperatoribus cotidie vindicari et futuros sub exemplo praemonere, nullum locum nullum esse tempus, quo funestorum principum manes a posterorum exsecrationibus conquiescant. Il discorso impersonale della Tebaide mantiene, nella condanna e nell’elogio, validità esemplare e universale : senza aperture dirette sul contemporaneo, è meno esposto delle Silvae ai disinganni della storia. La poesia d’occasione sconta in questo una ‘minorità’ che discende dalla sua origine estemporanea ; una forma che sempre rischia di apparire compromessa non lo è mai come nell’encomio di un imperatore condannato dal processo storico : ultimo di una dinastia che si presentava come antitesi a Nerone, e bollato dopo la damnatio come un calvus Nero. 1 A ritroso, l’inquietudine della Tebaide assume un sapore profetico. Un secolo di storia imperiale distacca la Tebaide dall’Eneide. Al centro della visione epica non è più la fondazione dell’Impero, il mutamento di sistema politico che pareva aver risolto una crisi epocale ; centro dell’epos è ora il problema della successione : la crisi del cambiamento che ogni volta, ad ogni nuovo passaggio di potere, espone alle incognite e ai rischi del regime assoluto. È ciò che suggerisce, all’inizio del poema, il commento di un anonimo tebano al patto di alternanza tra i fratelli : l’incertezza del potere a Tebe sembra  

























1  Vedi Charles 2002.

Poesia, potere e pubblico

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estendersi alla visione dell’instabilità costitutiva e ricorrente di un sistema : ‘nos vilis in omnes / prompta manus casus, domino cuicumque parati’ (1, 191-192). Il discorso è screditato dalla personalità di chi lo pronuncia, e il narratore ne prende le distanze ; 1 ma la ti~-Rede è sfruttata per dare voce a inquietudini latenti, quelle a cui il poema risponde con la sua proposta ideologica. Il rischio avvertito dall’anonimo trova conferma, da un diverso punto di vista, nel commento d’autore all’avvento al trono di Creonte, ennesima replica di un potere funesto :  







numquamne priorum haerebunt documenta novis ?  

(Theb. 11, 656-657)

L’incapacità di trarre insegnamenti dall’esempio negativo dei predecessori segnala il punto critico di un sistema politico, ed è l’insegna problematica di un programma poetico. La realtà della successione imperiale accentra il discorso politico sulla personalità e sul profilo etico di un singolo, da cui dipende il bene collettivo. Se l’Eneide è il poema della formazione di una comunità e di uno Stato, 2 la Tebaide restringe lo sguardo alla meccanica del potere : il potere di uno solo nelle sue conseguenze sulla collettività, e le passioni dell’individuo in relazione al potere. La crisi ciclica dell’avvicendamento al trono, che ripresenta ogni volta le insidie dell’autocrazia, può far temere in ogni nuovo sovrano un tiranno. Non c’è nel poema di Stazio – non a caso – l’immagine di una chiusura della storia, il senso di un passato superato e che non può tornare : la linearità della teleologia virgiliana ha lasciato il posto alla circolarità, alla coazione a ripetere e alla ricorsività del male, al ciclo ricorrente di violenza che è il marchio dei miti tebani (e che fa intravedere, oltre la chiusa, la vendetta degli Epigoni). Non c’è spazio, qui, per l’età dell’oro e per i suoi ritorni : se nell’Eneide la storia poteva assumere il colore del mito, il mito, nella Tebaide, ha la tragicità della storia.  







i. 1. 2. Poesia ed educazione al potere Facciamo un passo indietro. Le Silvae offrono a chi studia la Tebaide non solo una versione alternativa dei temi del racconto epico, ma un’autorappresentazione del poeta più articolata di quella accennata nell’epos e un parallelo alla vicenda critica del poema. La lettura sovversiva della Tebaide come epica contro l’impero, che sorregge ed orienta alcune visioni radicalmente negative del finale, si scontra con una difficoltà di ordine generale, comune all’interpretazione delle Silvae : la difficoltà di attribuire un ruolo plausibile di opposizione a un poeta che si autorappresenta come sostanzialmente integrato, e insieme  

1  Theb. 1, 171-173 atque aliquis, cui mens humili laesisse veneno / summa nec impositos umquam cervice volenti / ferre duces. 2  Vedi Barchiesi 2006.

La Tebaide di Stazio. Epica e potere

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determinato ad affermare un proprio spazio di autonomia ; e che mostra di concepire genere epico e poesia d’occasione come impegno in una funzione culturale consapevolmente inquadrata nella società imperiale di età flavia. Posizioni critiche come quella di Ahl, che scopriva una chiave ironica nelle convenzioni encomiastiche e sottintesi polemici nel racconto epico, sono state contestate con argomenti validi in studi recenti, in particolare sulle Silvae. 1 L’interpretazione dell’opera di Stazio che a me sembra meglio rendere conto, allo stesso tempo, della Tebaide e delle Silvae è quella di un negoziato complesso col potere imperiale, un equilibrio delicato di rapporti in cui la poesia riceve riconoscimenti e pretende attenzione, asseconda e promuove – nel suo stesso interesse – un’immagine di armoniosa composizione dello Stato : non si fa solo cassa di risonanza del discorso ufficiale, ma rivendica un ruolo creativo nell’elaborare l’ideologia del principato, una funzione essenziale nella formazione culturale dei ceti elevati (oltre che un compito di nobilitazione letteraria degli ambienti legati alla corte), forse addirittura un ruolo di coscienza critica del potere. 2 L’epica di Stazio dichiara la sua aspirazione a ricoprire un ruolo canonico nella cultura romana, come quello riconosciuto all’Eneide. Nell’epilogo della Tebaide 3 il poeta si rivolge a un pubblico composto dal sovrano e dai lettori (contemporanei e futuri) e davanti all’uno e agli altri – ma, soprattutto, mettendo l’uno di fronte agli altri – rivendica nei confronti di entrambi un ruolo forte, la responsabilità dell’educazione nazionale e forse, implicitamente, quella di un’‘educazione’ del principe. Parlare del potere e (indirettamente) al potere, di fronte ai sudditi e al sovrano insieme : questo mi pare l’intento della Tebaide. Nel congedarla, il poeta chiama non solo se stesso, ma anche gli elementi diversi del suo pubblico, alle responsabilità di cui il racconto epico li ha investiti, facendoli assistere a una vicenda esemplare :  













iam te magnanimus dignatur noscere Caesar, Itala iam studio discit memoratque iuventus. (Theb. 12, 814-815)

Il gesto ambizioso dell’autore epico lega il sovrano a un’opera che lo riguarda, che i suoi sudditi mandano a memoria, e che i posteri giudicheranno anche in relazione a lui (12, 812-813 iam certe praesens tibi Fama benignum / stravit iter coepitque novam monstrare futuris). Le parole, e le persone, dell’epilogo richiamano non a caso un luogo forte del poema, e uno tra i più scopertamente didascalici : il commento d’autore al duello fratricida, che fa del cuore del racconto un exemplum dei mali del potere, e come tale lo offre alla meditazione  

1  Nauta 2002, pp. 421-426 ; Newlands 2002, pp. 46-73 ; Dewar 2008, p. 79 e n. 20. 2  Sul concetto di negoziato, con cui il poeta rivendica la propria capacità di iniziativa e di proposta nei confronti del potere, cf. spec. Nauta 2002, Newlands 2002, Rosati 2008. 3  Vedi supra, Introd., § 1, n. 3 a pp. 15-16, e infra, cap. ii, § 2, p. 88 ; alla ricca bibliografia su questo noto passo, indicata in Rosati 2008, n. 1 si aggiunga ora Gärtner 2008.  





Poesia, potere e pubblico

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del pubblico, dei posteri, dei potenti ; ‘un mito da dimenticare’ per l’orrore che suscita, ma un monito incancellabile che in realtà tutti, e soprattutto i « re », dovranno per sempre, grazie al racconto epico, ricordare : monstrumque infame futuris / excidat, et soli memorent haec proelia reges (11, 578-579). 1 Chiamare in causa, nel congedo, il lettore imperiale e il pubblico dei lettori, usando l’uno per accreditarsi agli occhi dell’altro, è una mossa abile da parte di Stazio, che ricava dalla doppia destinazione un duplice vantaggio. Esibire di fronte ai lettori il favore dell’imperatore verso la propria opera è una trovata pubblicitaria vincente, ben sfruttata anche da Marziale. 2 Di più. Per un poeta che si presenta come il nuovo Virgilio in cerca di un nuovo Augusto, esibire di fronte al sovrano il proprio successo e la propria speranza di fama futura è più di un’autopromozione, è un’affermazione del potere della poesia – della grande poesia epica – di condizionare, sia pure in forma indiretta, il potere politico : significa tenerlo ambiziosamente come sotto ricatto, esercitare su di esso una pressione morale attraverso la presa sul pubblico, assumere nei suoi confronti agli occhi dei lettori, se non una impossibile funzione di controllo, almeno un impegno riconosciuto di coscienza critica. Quello della Tebaide è un progetto audace e potenzialmente rischioso : comporre un poema epico su un mito di potere, slegato dalla storia romana ma carico di valenze politiche, e farne quasi uno speculum principis, o almeno una riflessione sull’autocrazia (sui suoi usi ed abusi) rivolta a un pubblico che ne ha esperienza diretta. Assumere l’autorità della voce epica, insomma, per riflettere e far riflettere sulla natura e sui pericoli del potere assoluto, commentando e sollecitando un giudizio su opposti modelli di sovranità : Stazio può intraprendere un programma così impegnativo stando al riparo di una tradizione familiare di lealismo, di una posizione sociale non indipendente dai patroni, e insieme facendosi forte di un ruolo pubblico, via via riconosciuto, come poeta professionale. Lealismo imperiale e ambizione educativa, nei confronti delle élites e del principe stesso : questo complesso di atteggiamenti trova un modello nella figura del padre costruita da Stazio in Silvae 5, 3. Significativo è il passo che accosta in sequenza, e in continuità ideale, l’attività del padre come educatore della classe senatoria e cantore della casa flavia con l’attività poetica di Stazio fruìta dall’aristocrazia romana. 3 Subito dopo aver rievocato, della figura pa 





















1  Vedi infra, cap. ii. L’ammonimento ai reges richiama, nonostante la distanza storico-culturale, l’appello e la critica ai basilh`~, in quanto amministratori della giustizia, nelle Opere e giorni di Esiodo (38 s., 202 ss., 248 ss., 263 ss.). 2  Vedi Rosati 2008, importante sul rapporto fra potere politico e potere letterario configurato nell’epilogo. 3  Cf. silv. 5, 3, 176-194 (cito il testo secondo l’edizione di Gibson 2006) mox et Romuleam stirpem proceresque futuros / instruis inque patrum vestigia ducere perstas. / sub te Dardanius facis explorator opertae, / qui Diomedei celat penetralia furti, / crevit et inde sacrum didicit puer ; arma probandis / monstrasti Saliis praesagumque aethera certis / auguribus ; cui Chalcidicum fas volvere carmen, / *** / cur Phrygii lateat coma flaminis, et tua multum / verbera succincti formidavere Luperci. / et nunc ex illo forsan  



La Tebaide di Stazio. Epica e potere

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terna, l’insegnamento impartito ai giovani aristocratici (Romuleam stirpem proceresque futuros / instruis 176-177), l’istruzione religiosa di Domiziano fanciullo (sub te … crevit et inde sacrum didicit puer 178-180), 1 la composizione a caldo, sul tema della guerra civile, di una poesia epica gradita al futuro principe e ai Latii proceres (…civilis Erinys … tu … concinis … mirantur Latii proceres ultorque deorum / Caesar… 195-204), 2 Stazio ricorda le recitazioni della propria poesia di fronte ai Latii patres sotto gli occhi compiaciuti e commossi del padre, scomparso troppo presto per vederlo premiato dall’imperatore :  





qualis eras, Latios quotiens ego carmine patres mulcerem felixque tui spectator adesses muneris, heu quali confundens gaudia fletu vota piosque metus inter laetumque pudorem ! quam tuus ille dies, quam non mihi gloria maior ! 3 (silv. 5, 3, 215-219)  

   

Il figlio dichiara così di raccogliere l’eredità del padre, mentre dimostra l’ambizione e l’orgoglio di superarlo. Se l’epicedio configura le linee di una tradizione familiare, l’epilogo della Tebaide conferma che Stazio ha assunto su di sé un ruolo di educatore della Itala iuventus, riconosciuto dal potere imperiale e svolto ora attraverso la propria stessa poesia. Nell’autorappresentazione di Stazio come poeta, la continuità con la figura paterna, con il suo ruolo di formatore delle élites e di cantore epico accreditato dalla casa flavia, è un elemento centrale ; e la continuità riguarda, in certa misura, persino la scelta del tema e della forma poetica : quasi che la Tebaide, nel cantare di fronte all’imperatore un mito di guerra civile e di restaurazione dell’ordine, potesse apparire come la prosecuzione con altri mezzi dell’occasionale opera paterna, un proiettare su larga scala il racconto della civilis Erinys da cui era emerso il potere dei Flavi.  



grege gentibus alter / iura dat Eois, alter compescit Hiberas, / alter Achaemenium secludit Zeugmate Persen, / hi dites Asiae populos, hi Pontica frenant, / hi fora pacificis emendant fascibus, illi / castra pia statione tenent ; tu laudis origo. / non tibi certassent iuvenilia fingere corda / Nestor et indomiti Phoenix moderator alumni / quique tubas acres lituosque audire volentem / Aeaciden alio frangebat carmine Chiron. 1  Per l’identificazione del Dardanius facis explorator opertae (178) con Domiziano quale pontifex maximus cf. Gibson 2006, a 178-180 con bibliografia e discussione (contrario, per es., Nauta 2002, pp. 200-201). 2  La trasfigurazione della battaglia coi Vitelliani sul Campidoglio come Gigantomachia (196-197 Phlegraeaque… / proelia) esalta il ritratto del padre di Stazio come cantore gradito ai Flavi : nella tradizione che risale a Esiodo il mito è un soggetto di canto gradito a Giove, ed è il modello di una poesia encomiastica rivolta al potere (Rosati 2009, pp. 369 ss.) ; qui la poesia di Papinio è ammirata, insieme, dal futuro imperatore Domiziano e dal sommo dio (203-204 …et e medio divum pater adnuit igni). 3  Parallelo il compiacimento del successo sperato presso i Romulei patres con la recitazione dell’Achilleide, in silv. 5, 2, 160-163 (160-161 sed coetus solitos si forte ciebo / et mea Romulei venient ad carmina patres… ; cf. Gibson 2006 per la scelta di coetus di Gronovius al posto del tràdito questus di M).  







Poesia, potere e pubblico

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Ma il progetto della Tebaide è assai più ambizioso e complesso. Questa è una poesia che (a differenza del De bello Germanico) si tiene volutamente a distanza dalla celebrazione diretta – la recusatio lo dichiara – e che ricava per sé, nella dimensione grande dell’epos mitologico, uno spazio di indipendenza. 1 Il racconto mitico parla per figura : può suggerire analogie, scongiurare identificazioni, costruire modelli ; non celebra o condanna apertamente, sembra piuttosto ammonire il potere politico, mentre fa mostra di assecondarlo : una strategia ben nota alla letteratura di corte e panegiristica. La scelta del mito appare come la scelta di una distanza di sicurezza, da cui parlare con relativa libertà di temi forti ed attuali come sovranità e tirannide ; ma l’assunzione della voce epica, e della sua autorità, è al tempo stesso, per Stazio, la conquista di una posizione di forza : una rivendicazione della centralità culturale tradizionalmente riconosciuta a questo genere poetico.  











i. 1. 3. Guerra, pace, clemenza C’è continuità tra Tebaide e Silvae ; e c’è continuità, più di quanto si osservi, tra il finale del poema e l’incipit della raccolta. La guerra di Teseo ottiene la pace mediante la vittoria e offre lo spettacolo della clemenza ; l’azione suscita reazioni critiche discordi, ma che l’eroe sia inteso come paradigma imperiale emerge anche da un accostamento ‘editoriale’ : la contiguità con l’immagine eroica dell’imperatore, costruita con ambizioni epiche e collocata in apertura delle Silvae. 2 Il panegirico imperiale di silv. 1, 1 è una descrizione del colossale monumento equestre a Domiziano, offerto in dono dal Senato e dal popolo e situato in posizione centrale nel foro ; scritto a caldo in occasione della dedica e presentato all’imperatore, forse all’inizio del 90 d.C., il componimento è contemporaneo con l’ultima fase di stesura della Tebaide, e ottiene il posto d’onore nell’edizione dei primi tre libri delle Silvae (successiva al gennaio 93), che segue, forse di uno o due anni, la pubblicazione del poema. 3 L’ekphrasis insiste su una tensione iconografica, la mescolanza di segni di guerra e di pace nella statua, e ricostruisce nel testo poetico un’immagine di Domiziano come condottiero e pacificatore, guerriero e peacemaker : eijrhnopoiov~, secondo un  













1  Sulla recusatio cf. Nauta 2006, Rosati 2002. Sul De bello Germanico Courtney 1980, pp. 195-196 ; 1993, p. 360 ; Braund 1996a, a Iuv. 4, 72-118 ; Nauta 2002, p. 330. 2  Su Silvae 1, 1 come commento alla Tebaide cf. anche Delarue 2000, p. 110. 3  Sulla data di composizione di silv. 1, 1 cf. Geyssen 1996, p. 21 e n. 4 a p. 31 ; cf. silv. 1 praef., 18-19. La probabile pubblicazione simultanea dei primi tre libri delle Silvae è successiva alla vittoria di Domiziano sui Sarmati (gennaio 93 d.C.), non menzionata nel proemio della Tebaide, evidentemente già terminata (Coleman 1988, pp. xvi-xviii ; Laguna 1992, pp. 8-10 ; Nauta 2002, pp. 285-289, 443-444 pensa invece a una pubblicazione separata di Silvae 1, 2 e 3 nel 92, 93 e 94) ; in silv. 1 praef. 6 Stazio si dice ancora trepidante per il suo poema, dopo che è stato pubblicato. Sulle date di composizione e pubblicazione della Tebaide cf. le discussioni di Nauta 2002, pp. 195-204, spec. p. 196 e n. 8 (pubblicazione tra il 91 e il 92) e di Gibson 2006, pp. xvii e 260-266 ; inoltre Pollmann 2004, pp. 12-13 e n. al v. 811.  















La Tebaide di Stazio. Epica e potere

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topos del basilikov~ lovgo~. 1 Il mitis … eques mostra un volto che sa di guerra e pace insieme e che, offrendo la pace, dichiara superata la necessità delle armi :  



iuvat ora tueri mixta notis belli placidamque gerentia pacem ; 2    

(silv. 1, 1, 15-16)

un’espressione in cui lo stesso Cesare, dal tempio vicino a lui dedicato, riconosce una clemenza superiore alla sua (25-27 discit et e vultu quantum tu mitior armis, / qui nec in externos facilis saevire furores / das Cattis Dacisque fidem). 3 Gesti e attributi della statua confermano l’atteggiamento del volto : la destra è protesa in segno di pace ; 4 nella sinistra, una statuetta di Minerva armata di egida sembra incitare il cavallo :  









dextra vetat pugnas, laevam Tritonia virgo non gravat et sectae praetendit colla Medusae ; ceu stimulis accendit equum…  

(silv. 1, 1, 37-39)

La spada riposa sul fianco, mentre la sua quieta minaccia pare tradotta in azione dal destriero pronto allo slancio (43-47 latus ense quieto / securum, magnus quanto mucrone minatur / noctibus hibernis et sidera terret Orion. / at sonipes habitus animosque imitatus equestres / acrius attollit vultus cursumque minatur) ; schiacciata sotto lo zoccolo, la testa del Reno personificato identifica il nemico vinto (50-51 vacuae pro caespite terrae / aerea captivi crinem terit ungula Rheni). 5 Il trionfo per le vittorie sui Catti e sui Daci dell’89, dopo quello dell’83 sui Catti che aveva dato a Domiziano il soprannome di Germanicus, si presta a  



1  Vedi, dopo Geyssen 1996, Leberl 2004, pp. 143-167 (§ 5. 1). Cf. silv. 5, 1, 261 pacantem terras dominum. 2  Il nesso gerentia pacem, che sostituisce il consueto gerere bellum, spiazza le attese. La difficoltà, segnalata da Ahl 1984, p. 93, spinge Courtney 19922 a emendare al v. 16 belli in bellum ; contra, opportunamente, Geyssen 1996, n. 63 a pp. 62-63, e Rosati 2006, n. 33 a p. 50. Per il volto di Domiziano cf. la lunga descrizione in silv. 4, 2, 38-56 ; sulla tradizione di questa duplicità ossimorica di tratti cf. Fucecchi 1993, pp. 31-37, spec. pp. 33 ss., e infra, cap. iv, § 7. 3  Il confronto vincente con Cesare, che implica una critica della clementia Caesaris e l’esaltazione della superiore clemenza di Domiziano, coinvolge il tema della guerra civile, reso attuale dalla rivolta di Saturnino, il legato della Germania Superiore a cui nell’89 si erano uniti i Catti. Stazio insinua, per contrasto, la crudeltà di Cesare verso i concittadini (Dewar 2008, pp. 73-74 sui vv. 26-27 nec in externos facilis saevire furores) e sottolinea che, se Domiziano fosse stato al suo posto, la guerra sarebbe stata evitata (27-28 te signa ferente / et minor in leges gener et Cato Caesaris irent) : tra le glorie dell’imperatore flavio vi è appunto quella di aver posto fine alla guerra civile (79-81 tu bella Iovis, tu proelia Rheni, / tu civile nefas, tu tardum in foedera montem / longo Marte domas). 4  Cf. Zanker 1989 (= 1987), p. 244 (cf. 200-201) e fig. 180b, p. 243 (tazza da Boscoreale : Augusto mostra clemenza verso i barbari del Nord). 5  L’equus Domitiani è rappresentato su un denario del 95 d.C., per noi l’unica altra testimonianza del monumento : Dewar 2008, n. 9 a p. 71 ; cf. Darwall-Smith 1996, pp. 228-229 con fig. 29 ; Geyssen 1996, pp. 23-24, e Thomas 2004, p. 28 n. 34.  













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esaltare la clemenza del sovrano. In Silvae 3, 3 Domiziano è un ductor placidissimus, pronto a concedere una pace clemente alle popolazioni barbare ; è la clementia da lui dimostrata ai nemici che permette di non meravigliarsi per quella usata verso i sudditi, come il padre di Claudio Etrusco (3, 3, 167-171 haud mirum, ductor placidissime, quando / haec est quae victis parcentia foedera Cattis / quaeque suum Dacis donat clementia montem, / quae modo Marcomanos post horrida bella vagosque / Sauromatas Latio non est dignata triumpho). 1 Sulla clemenza militare il discorso di 1, 1 è articolato : la statua commemora la pace dopo la vittoria, ma la distribuzione dei segni di mitezza e di aggressività, rispettivamente, tra cavaliere e cavallo, e la gerarchia simbolica tra mano destra e sinistra, suggerita dalla tradizione iconografica, danno prominenza all’aspetto pacifico del potere : 2 chiuse le ostilità, l’imperatore appare come garante di una pace che riposa sulla forza, ma che solo la stolta ribellione del nemico potrebbe ancora minacciare. Celebrando il successo sui nemici esterni, l’ekphrasis contribuisce così all’immagine di un potere benevolo e protettivo costruita dalle Silvae : un potere pacifico e carismatico, reso sicuro dall’amore dei sudditi e dall’assenza di opposizione, capace di rendere superfluo l’uso delle armi. 3 Vincere e parcere ; nei confronti dei nemici, Stazio ripete un programma costitutivo dell’Impero e costante nella sua storia, che giunge fino agli ossimori di Rutilio Namaziano, al suo encomio di Roma in forma di paradossi : la « clemenza vincitrice », che mitiga la forza delle armi e la presuppone (mitigat armatas victrix clementia vires) ; il « piacere » di combattere e di risparmiare il nemico (hinc tibi certandi bona parcendique voluptas) ; l’« amore » dopo la vittoria (quos timuit superat, quos superavit amat) ; le leggi frutto del trionfo (tu quoque, legiferis mundum complexa triumphis) ; un giogo che porta pace e rende liberi (pacificoque gerit libera colla iugo) ; la virtù, insomma, di far seguire a una guerra giusta una pace non arrogante (iustis bellorum causis nec pace superba). 4  









































1  Il nesso tra clemenza esibita verso i nemici e da mostrare, a maggior ragione, verso i sudditi è sfruttato, per es., in Ov. Pont. 2, 1, 45-48. La clementia è attribuita a Domiziano, in un’accezione più generica, in 3, 4, 73-74 (editto contro la castrazione) nondum pulchra ducis clementia coeperat ortu / intactos servare mares. 2  Si pensi alla fortunata esegesi allegorica dell’iconografia della statua di Apollo Delio descritta in Call. ait. fr. 114 Pf. (= 64 Mass.), 8-17, cui si collega la definizione ovidiana di un modello di piger ad poenas princeps, ad praemia velox : cf. Pfeiffer 1960, Lechi 1988. Una simile interpretazione interessa l’Hercules Epitrapezios di silv. 4, 6, che raffigura un eroe dal mitis vultus, rilassato e conviviale, in una pausa tra le fatiche, con la clava in una mano e la coppa di vino nell’altra (50-58 nec torva effigies epulisque aliena remissis / sed qualem parci domus admirata Molorchi … sic mitis vultus … hortatur mensas. tenet haec marcentia fratris / pocula, at haec clavae meminit manus…) : la distribuzione degli attributi tra destra e sinistra è esplicitata da Marziale, 9, 43, 4 cuius laeva calet robore, dextra mero. 3  Su questa rappresentazione di un potere pacifico, che rende superfluo l’uso della forza, vedi Rosati 2006, pp. 50-52. Cf., per es., la celebrazione dell’Ara Pacis in Ov. fast. 1, 711-718. 4  Rut. Nam. 1, 69-89. Cf., per es., Ov. am. 1, 2, 51-52 aspice cognati felicia Caesaris arma : / qua vicit, victos protegit ille manu ; Pont. 1, 2, 123 qui vicit semper, victis ut parcere posset ; Prop. 2, 16, 41-42 Caesaris haec virtus et gloria Caesaris haec est : / illa, qua vicit, condidit arma manu ; 3, 22, 21-22 nam quantum ferro tantum pietate potentes / stamus : victrices temperat ira manus.  















La Tebaide di Stazio. Epica e potere

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Studi recenti hanno messo in evidenza il legame tra il panegirico di Stazio e questo concetto-chiave dell’imperialismo romano, teorizzato già da Cicerone e riattualizzato dalla dinastia flavia : la pace come frutto della guerra ; un motivo che assume il massimo rilievo nel programma architettonico dei Flavi, di cui la statua equestre nel foro è coronamento e culmine. 1 Silvae 1, 1 ripropone dunque in forma nuova la definizione virgiliana del compito di Roma, ‘regere imperio populos … pacique imponere morem, / parcere subiectis et debellare superbos’ (Aen. 6, 851-853). Un passo soprattutto, nelle Silvae, mostra che su questo punto Stazio dialoga con Virgilio ; è il discorso della Sibilla in silv. 4, 3, che celebra l’inaugurazione della Via Domitiana : un brano di registro sublime e di forte rilievo ideologico, impegnato in un confronto diretto col sesto libro dell’Eneide. Stazio aggiorna e corregge Virgilio ; per bocca della Pizia, Domiziano è proclamato il più degno di regnare su Roma in tutta la sua storia, fin da quando Enea, sotto la guida della profetessa, scese all’Ade ed ebbe la rivelazione del futuro : silv. 4, 3, 130-133 ‘quo non dignior has subit habenas / ex quo me duce praescios Averni / Aeneas avide futura quaerens / lucos et penetravit et reliquit’. La rassegna virgiliana degli eroi, che culminava con Augusto, appare superata ; la sintesi di Stazio non fa nomi, ma la risposta all’Eneide dichiara Domiziano superiore al fondatore dell’Impero. È qui che ricompare il motivo della pace e della guerra, nella lode di un imperatore capace di entrambe :  

















‘hic paci bonus, hic timendus armis’. (silv. 4, 3, 134)

Il programma tracciato da Anchise per i discendenti di Enea, pacique imponere morem … et debellare superbos, è realizzato da Domiziano meglio che da tutti i suoi predecessori : con questa affermazione, un testo ‘minore’, ma di grandi pretese letterarie e ideologiche, ambisce a sostituire il modello virgiliano ; Stazio rivendica, di fronte al potere imperiale, un ruolo di elaborazione ideologica paragonabile a quello dell’Eneide. Il governo della pace presuppone la minaccia delle armi : forza e moderazione insieme sono qualità del sovrano ideale. 2 Plinio farà di Traiano un esempio eccezionale anche di queste virtù : è tale la forza in armi di un principe amante della pace, che neppure i suoi nemici vogliono combattere con lui (paneg. 16, 3 nam ut ipse nolis pugnare moderatio, fortitudo tua praestat ut neque  









1  Vedi Dewar 2008. Cf. Cic. off. 1, 80 bellum autem ita suscipiatur, ut nihil aliud nisi pax quaesita videatur. Sulla pax Romana cf., nel volume di Raaflaub 2007, i saggi di Barton 2007, DeBrohun 2007, Rosenstein 2007. 2  Cf. Geyssen 1996, pp. 67-73 ; Rosati 2006, pp. 50-52 ; Galasso 1995, a Ov. Pont. 2, 9, 45-46 sed quam Marte ferox et vinci nescius armis, / tam numquam facta pace cruoris amans ; cf. Cic. Manil. 42 humanitate iam tanta est ut difficile dictu sit utrum hostes magis virtutem eius pugnantes timuerint an mansuetudinem victi dilexerint ; Hor. carm. saec. 51-52 bellante prior, iacentem / lenis in hostem. Cf. infra, cap. iv, spec. §§ 6 e 10.  







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hostes tui velint) ; nel Panegirico ossimori e variazioni paradossali sul tema sono più volte esibiti (16, 1-3 …innutritus bellicis laudibus pacem amas … non times bella nec provocas … tam confessa hostium obsequia, ut vincendus nemo fuerit). 1 Guerra, pace, clemenza : io credo che il ritratto di Teseo, nella Tebaide, non si discosti da questa matrice ideologica. La clemenza imperiale estende ai sudditi un atteggiamento messo alla prova nel rapporto coi nemici ; nel poema, la mitezza del potere rappresentata ad Atene dall’ara Clementiae è tradotta in azione nella guerra contro i Tebani. Pronto a prendere le armi, Teseo si mostra moderato in battaglia e, ucciso Creonte, sancisce una pace festeggiata sul campo tra la gioia dei vinti ; da hostis si trasforma in hospes, accolto come un liberatore nelle case di Tebe. È un complesso di motivi dell’ideologia imperiale che trova qui, come vedremo, realizzazione narrativa. 2 Domiziano conferisce un rilievo primario, nella sua autorappresentazione, ai successi militari : Marziale e Stazio ne danno ampia testimonianza. 3 Nella Tebaide, ai trionfi dell’imperatore elencati nel proemio (una serie ripetuta in Silvae 1, 1, 79-81) corrispondono i trionfi di Teseo esibiti nel finale, una lunga serie coronata dalla vittoria tebana. 4 Per la chiusa del poema, Stazio ha scelto la variante guerresca del mito, rappresentata dalle Supplici : una scelta che carica la vicenda di un senso tragico, ma che consente il ritratto esemplare di un sovrano capace di forza e di moderazione insieme. 5 Il testo reca traccia della versione mitica scartata ; è il punto in cui l’araldo intima l’ultimatum, e annuncia la disponibilità di Teseo sia alla pace sia alla guerra – e tuttavia, di fronte a un saevus Creon che sta per mettere a morte Argìa e Antigone (12, 677682), rinforza la minaccia delle armi :  

























ille quidem ramis insontis olivae pacificus, sed bella ciet bellumque minatur, grande fremens, nimiumque memor mandantis, et ipsum iam prope, iam medios operire cohortibus agros ingeminans. (Theb. 12, 682-686) 1  Cf. Dion. Chrys. 1, 26-27 ; Fedeli 1989, pp. 433-434. 2  Cf. infra, cap. iv. Mi sembra dunque in parte fuorviante il contrasto istituito da Newlands 2002, pp. 54-55 tra la visione della guerra in silv. 1, 1 e nella Tebaide (« The Silvae therefore put a new valuation on war from that explored in the Thebaid. War brings military glory to the victor and peace to his subjects. In Silv. 1, 1 Statius rewrites epic, putting a new positive interpretation on motifs traditionally associated with war’s most tragic aspects ») ; almeno per la disposizione del condottiero, la guerra di Teseo nel finale dell’epos è invece quanto di più vicino all’apertura delle Silvae. 3  Griffin 2000, pp. 63 ss. ; Leberl 2004, pp. 143-167 (§ 5. 1) e 245-265 (§ 6. 1). 4  Persino i moduli espressivi impiegati a moltiplicarne i successi sono gli stessi. Icona della duplicazione, l’anafora di Theb. 1, 19 bisque iugo Rhenum, bis adactum legibus Histrum (una risposta a Verg. georg. 3, 32-33 et duo rapta manu diverso ex hoste tropaea / bisque triumphatas utroque ab litore gentes) ritorna, a moltiplicare l’immagine di Teseo e delle sue vittorie, in 12, 672-674 terror habet populos, cum saeptus imagine torva / ingreditur pugnas, bis Thesea bisque cruentas / caede videre manus ; il modulo si presta alla celebrazione di imprese eroiche, come mostra Prop. 4, 9, 18. 5  Cf. Introd., § 3 ; cap. iv, § 10.  













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È solo il rifiuto prevedibile, il furor ostinato di Creonte, non condiviso dai suoi sudditi, a impedire la pace : il tiranno tebano è in Stazio un superbus da debellare. 1 Lo stesso passo si può leggere nei termini di un’ideologia che attribuisce all’imperatore il pari dominio della diplomazia e delle armi : essere pronto alla pace e alla guerra, e capace di entrambe, è un requisito del buon sovrano. Anche Livio leggeva il mito attraverso valori già repubblicani, e poi imperiali : e in modo simile, mentre alludeva alle varianti sull’arrivo di Enea nel Lazio, faceva ammirare a Latino la disponibilità dell’eroe troiano sia alla pace sia alla guerra (Liv. 1, 1, 6-8 alii [sc. tradunt] …Latinum … et nobilitatem admiratum gentis virique et animum vel bello vel paci paratum, dextra data fidem futurae amicitiae sanxisse). Forza, moderazione, clemenza. In un ambito civile e urbano, lo stesso complesso di motivi è sviluppato in Silvae 1, 4, il carme che costituisce le « offerte di ringraziamento » per la guarigione di Rutilio Gallico (Soteria Rutili Gallici) : 2 dedicato al praefectus urbi, il componimento è rivolto indirettamente a Domiziano, a cui il massimo rappresentante del potere in Roma, dopo l’imperatore stesso, è legato da un rapporto stretto e personale. 3 L’amore dimostrato a Rutilio dai cittadini, trepidanti per la sua malattia (38-39 quae tibi sollicitus persolvit praemia morum / Urbis amor ! …), è il frutto della mitezza da lui usata nell’esercizio delle funzioni militari e civili, il comando delle coorti urbane e la giurisdizione penale (16 quem penes intrepidae mitis custodia Romae). Senza impiegare il termine clementia, Stazio scrive qui un De clementia in miniatura : 4  























hoc illud, tristes invitum audire catenas, parcere verberibus nec qua iubet alta potestas ire, 5 sed armatas multum sibi demere vires 6 dignarique manus humiles et verba precantum, reddere iura foro nec proturbare curules et ferrum mulcere toga. sic itur in alta pectora, sic mixto reverentia fidit amori.  



(silv. 1, 4, 43-49)

1  Cf. cap. iv, § 5. 2  Su forma e significato del titolo, probabilmente un neutro plurale, e sulla possibilità di attribuirlo a Stazio stesso cf. Nauta 2002, p. 271 (versus Coleman 1988, n. 43 a p. xxx) ; alle pp. 206-210 discussione critica della carriera del praefectus con bibliografia. 3  Cf. Rühl 2006, pp. 347-352 ; sulla vicinanza alle silvae imperiali Nauta 2008, pp. 151-153. 4  Il termine rimosso è suggerito, per contrasto, dalla inclementia fati lamentata ai vv. 50 ss. Anche Henderson 1998, p. 60 parla di « a stereotype in précis ». 5  Si noti la contrapposizione con formule come Sen. Thy. 218 qua iuvat reges eant o Med. 206. 6  Pare eccessiva la scelta di Courtney 19922 di stampare multum … vires tra cruces (in apparato la sua proposta del 1966, multum demittere, e ultro sibi di Skutsch) ; il testo tràdito è accolto da Traglia, Aricò 1980, Shackleton Bailey 2003 e Liberman 2010.  









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La serie di infiniti, ripresa da un commento finale, ricalca un modulo sperimentato da Cicerone e Seneca per definire il capo o il sovrano ideale, modello di clemenza e oggetto dell’amore dei sudditi : una matrice ideologicoformale in cui alla descrizione, e raccomandazione, dei requisiti di un potere clemente segue la valutazione ed esaltazione dei suoi effetti ; una sequenza all’infinito, introdotta talora da un prolettico e ricapitolata da un sic o da dimostrativi. 1 Al passo delle Silvae si avvicina l’ammonimento di Seneca a Nerone nell’Octavia (attribuita con ogni probabilità ad epoca flavia), a sua volta vicino al De clementia di Seneca : Octavia 472-478 pulchrum eminere est inter illustres viros, / consulere patriae, parcere afflictis, fera / caede abstinere, tempus atque irae dare, / orbi quietem, saeculo pacem suo. / haec summa virtus, petitur hac caelum via. / sic ille patriae primus Augustus parens / complexus astra est, colitur et templis deus. La clemenza, che è innanzi tutto moderazione nell’uso della forza e riluttanza a punire, procura l’amore dei sottoposti ed equipara agli dèi : il tema è sviluppato con molte variazioni da Seneca nel De clementia. Il buon sovrano è ricompensato dall’amore dei sudditi (clem. 1, 1, 5 ; 1, 3, 4 ; 1, 4, 3) ; 2 l’amor della cittadinanza è ottenuto mostrandosi riluttante a punire, invitus (1, 13, 4) ; 3 l’amore prodotto dalla clementia fa sì che i cittadini formulino voti per la guarigione del sovrano, se la sua salute è in pericolo (1, 19, 6-7) ; 4 è infatti la salvezza dell’imperatore ad assicurare il bene della cittadinanza, ed è il bene da lui procurato alla comunità a farlo considerare un dio (1, 19, 8-9). 5 Gli stessi concetti sono riferiti da Seneca, come poi nell’Octavia, all’esempio di Augusto, principe clemente, amato e ritenuto un dio (1, 10, 2-3). Nel passo di Stazio la ricapitolazione sic itur in alta / pectora (48-49) riadatta alla figura del funzionario concetti riservati altrove all’imperatore, e riformula la clausola che Virgilio riferiva ad Ascanio, destinato da Apollo a un futuro imperiale e, come tale, divino : Aen. 9, 641-642 ‘sic itur ad astra, / dis genite ac geniture deos’. 6 Sottratta la dimensione divina dell’apoteosi, e ridotto l’encomio a misura del collaboratore imperiale, Stazio loda Domiziano lodando il  































1  Cf. i passi citati da Ferri 2003, a Octavia 472-475 : Cic. Marcell. 8 ; Sen. clem. 1, 26, 5 ; Med. 222-225 ; Phoen. 292-293. L’elogio di Teodosio in Claud. paneg. iv cons. Hon. 111 ss. (cf. infra, cap. iv, § 9, p. 181 n. 2) è siglato da un’anafora che sottolinea l’amore prodotto dalla sua clemenza : 120-121 hinc amor, hinc validum devoto milite robur, / hinc natis mansura fides. 2  Nella tradizione greca cf., per es., Isocr. ad Nic. 15-16. 3  Invitus è quasi termine tecnico : vedi Malaspina 20052, ad loc. e cf. 1, 22, 3 ; 2, 1, 2 ; 2, 2, 3. Il tema è sviluppato nell’Ovidio dell’esilio : su Pont. 1, 2, 121-126 vedi Lechi 1988, pp. 125 ss. ; cf. 2, 2, 113 ss., 117-118. 4  Cf. Hor. epist. 1, 16, 27-29. Sul motivo del ‘serus in caelum redeas’ vedi inoltre infra, § 2. 1, p. 48 e n. 2 5  Sen. clem. 1, 19, 8 : vedi infra, § 2. 4. 6  Henderson 1998, p. 61 nota che alta, grazie all’ambiguità tra « profondi » e « alti », richiama, e interiorizza, l’astra virgiliano. La sorpresa di pectora in enjambement è colta anche da Vessey 1986, p. 2787.  





























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suo praefectus : l’elogio quasi-imperiale di Rutilio dimostra che le qualità del sovrano si estendono in modo virtuoso al complesso dello Stato. 1 La malattia del prefetto urbano è conseguenza del suo servizio indefesso all’imperatore (52-56) e la sua guarigione si spiega in un quadro di armonia universale : il funzionario è amato dai sudditi, che fanno voti per lui, e dal sovrano, che a sua volta è amato da Apollo e ottiene dal dio la salvezza del suo servitore, come premio dei servigi che lui stesso ha reso alla divinità, celebrando con i ludi saeculares l’inizio di una nuova era (95-97). La guarigione dimostra che i nova saecula (17) sono in atto, e che Domiziano è caro al cielo. 2 La clemenza è dunque al centro della rappresentazione di un potere ideale, sostenuto dall’amore dei sudditi e dalla benevolenza degli dèi. Fino a questo punto, Tebaide e Silvae si corrispondono. Ciò che manca nel testo epico, rispetto alla poesia encomiastica, è la fiducia dichiarata che quel potere possa produrre una palingenesi, una nuova età dell’oro e il ritorno della Giustizia sulla terra : 3 l’espressione più fiduciosa di un’ideologia che le Silvae condividono col De clementia. 4 Nell’epos, l’aspetto benevolo di un potere ricambiato dall’amore prende corpo nella figura di Teseo. L’umiltà di prestare ascolto alle preghiere degli umili, una dote del sovrano ideale condivisa da Rutilio (silv. 1, 4, 46 dignarique manus humiles et verba precantum), connota il re di Atene al suo primo apparire sulla scena del poema. Alto sul carro, in trionfo per la vittoria sulle Amazzoni, festeggiato dal giubilo dei cittadini, presi dal desiderio di guardarlo come da un desiderio amoroso, 5 Teseo ferma il corteo trionfale per rivolgersi alle supplici argive, presso l’ara Clementiae : Theb. 12, 543-545 atque ubi tardavit currus et ab axe superbo / explorat causas victor poscitque benigna / aure preces… 6 Il primo gesto del sovrano ateniese è un gesto di clementia : una qualità per cui Teseo ha già acquisito reputazione letteraria, come gli ricorda Evadne nella sua preghiera, citando l’Ecale di Callimaco e invocando la benevolenza mostrata dall’eroe giovane verso il pianto della vecchia. 7  























1  Altrove il conformarsi spontaneo, persino degli animali, ai mores del sovrano appare l’effetto prodigioso di un potere carismatico : Rosati 2006, pp. 43 ss. ; è il tema del ritorno dell’età dell’oro e della sua innocenza : cf. Sen. clem. 2, 2. 2  Silv. 1, 4, 4-8 es caelo, dis es, Germanice, cordi / (quis neget ?) : erubuit tanto spoliare ministro / imperium Fortuna tuum. stat proxima cervix / *** / ponderis immensi… Vedi Hardie 1983, pp. 187-189, 195 ss. ; 1996, pp. 262 ss. 3  Silv. 1, 4, 2-4 videt alma pios Astraea Iovique / conciliata redit, dubitataque sidera cernit / Gallicus. Sul richiamo a Verg. ecl. 4, 6 iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna cf. Hardie 1983, p. 196. Per il ritorno di Astrea/Dike/Giustizia cf. Bömer 1969, a Ov. met. 1, 149-150 ; Bellandi, Berti, Ciappi 2001 ; Landolfi 1996. Vedi anche Gibson 2006, a silv. 5, 2, 92 ‘quo Pietas auctore redit terrasque revisit’. 4  Cf. Wallace-Hadrill 1982, p. 30. Vedi Malaspina 20052, a 1, 13, 5 ; cf. 2, 1, 3-4. 5  Theb. 12, 519-522 iamque domos patrias Scythicae post aspera gentis / proelia laurigero subeuntem Thesea curru / laetifici plausus missusque ad sidera vulgi / clamor et emeritis hilaris tuba nuntiat armis ; 532-533 primus amor niveis victorem cernere vectum / quadriiugis… Vedi infra, cap. iv, § 7. 6  Cf. 587-588 dixerat ; excipiunt cunctae tenduntque precantes / cum clamore manus. 7  Theb. 12, 581-582 ‘si patrium Marathona metu, si tecta levasti / Cresia, nec fudit vanos anus hospita fletus’. Vedi infra, cap. iv, § 4.  





















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La moderazione nel punire, lodata da Stazio in Rutilio e raccomandata a Nerone nel De clementia, nel caso di un sovrano si estende a una più ampia disposizione protettiva : un ideale di humanitas come filanqrwpiva, che impone di soccorrere non solo i supplici, i bisognosi, gli afflitti, ma persino chi è incorso in un errore o in una colpa : è questo un compito attribuito al sovrano ideale, dalle teorie ellenistiche all’ideologia della clemenza ; 1 è questa, nel testo di Stazio, una funzione dell’ara Clementiae (Theb. 12, 507-509 huc … scelerumque errore nocentes / conveniunt pacemque rogant) ; ed è, nella tradizione letteraria greca e latina che Stazio presuppone, una caratteristica di Teseo e della sua città (Sen. Herc. f. 1334-1336 he. o fidum caput, / Theseu… quoniamque semper sceleris alieni arbiter / amas nocentes… ; 1343-1344 th. illa te, Alcide, vocat, / facere innocentes terra quae superos solet). 2  













i. 2. Religione e potere i. 2. 1. L’imperatore, gli dèi, Giove : le Silvae e il proemio della Tebaide  

In Silvae 1, 1 l’imperatore regge in mano una divinità, senza avvertirne il peso (37-38 laevam Tritonia virgo / non gravat) : è Minerva, che Domiziano ha eletto sua protettrice, o addirittura progenitrice, e a cui ha dedicato in Roma più di un tempio, celebrandola come patrona della guerra e delle arti. 3 Nel monumento equestre la dea raffigurata dalla statuetta ha una funzione guerriera, ma nel testo poetico la statua intera può apparire opera dell’arte divina di Pallade (5-6 an te Palladiae talem, Germanice, nobis / effinxere manus… ?). Divino e umano si confondono o si scambiano di ruolo, in un’aura di miracolo ; l’immagine di bronzo è forse scesa dal cielo sulla terra (al pari delle armi di Enea : caelone peractum / fluxit opus ? 2-3) e una figura divina si lascia accogliere nella mano dell’uomo. Un uomo, o un dio ? Nel bronzo, col capo circonfuso di aere puro, Domiziano splende e sovrasta i templi (32-33 ipse autem puro celsum caput aere saeptus / templa superfulges), mentre pare sorvegliarli (33-36) ; nel testo, echi dell’Eneide  















1  Cf. Sen. clem. 2, 6, 3, su cui vedi infra, cap. iii, § 6 ; Med. 222-225 hoc reges habent / magnificum et ingens, nulla quod rapiat dies : / prodesse miseris, supplices fido lare / protegere ; Ov. Pont. 2, 9, 11 regia, crede mihi, res est succurrere lapsis, con Galasso 1995, a 11-12 e a 21-22 ; Ferri 2003, a Octavia 473 parcere afflictis. 2  Vedi infra, cap. iii, § 2 e cap. iv, § 5, p. 154 n. 3. 3  Sul rapporto tra Domiziano e Minerva, familiare numen (Quint. inst. 10, 1, 91-92), venerata superstitiose (Svet. Dom. 15, 3), dichiarata progenitrice (Philostr. v. Ap. 7, 24), che Marziale definisce Pallas Caesariana (8, 1, 4) e connette con l’attività culturale e militare dell’imperatore (cf. 4, 1, 5 ; 5, 2, 6-8 ; 5, 5, 1 ; 6, 10, 9-12 ; 7, 1 ; 7, 2 ; 9, 3, 10 ; 14, 179), cf. Sauter 1934, pp. 90-96 ; Scott 1936, pp. 166-188 ; Girard 1981 ; Fears 1981, pp. 77-78 ; D’Ambra 1993, pp. 3-18 ; Coleman 1986, p. 3096 e n. 49 ; 1988 a silv. 4, 1, 22 ; Dominik 1994, p. 177 ; Geyssen 1996, pp. 45 ss. Per la predominanza nella monetazione domizianea, con connotazione bellica, cf. Carradice 1998, spec. pp. 111-112 ; sui ludi Albani nelle Quinquatrus (Svet. Dom. 4, 4 ; Dion. Cass. 67, 1, 2) : Hardie 2003, pp. 135 ss. Il programma monumentale flavio, di Domiziano in particolare, collega i successi militari alla protezione della dea : sulla connessione tra il Templum Divorum e quello di Minerva Chalcidica (che si aggiunge al tempio di Minerva nel Foro Transitorio) : Jones 1992, pp. 87-88 ; Griffin 2000, p. 57.  

















































La Tebaide di Stazio. Epica e potere

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e richiami al mito aprono l’ekphrasis su un registro epico, in un’atmosfera numinosa. 1 La divinità di un imperatore chiamato dominus et deus, dichiarata dalla propaganda e celebrata nelle Silvae e in Marziale, diventa tema portante del componimento, fino alla miracolosa visione finale : gli dèi del pantheon flavio che discendono dagli astri per riunirsi ogni notte al loro congiunto. Una dinastia che non vanta origini divine trova nella divinizzazione post mortem uno strumento di legittimazione del potere ; è soprattutto Domiziano a imporre, con un vasto programma monumentale, il culto dei Flavi, mentre, con enfasi senza precedenti, incoraggia la rappresentazione della sua persona in termini divini ed esibisce un rapporto stretto con Giove. 2 Nell’ideologia imperiale l’associazione del sovrano a Giove è una costante, mentre forme e gradi dell’assimilazione variano secondo epoche, contesti, mezzi espressivi : 3 è un tema vasto e ben studiato. In una stratificazione culturale complessa, il concetto, già presente in Omero, passa attraverso l’elaborazione ellenistica, conosce le teorizzazioni stoiche e pitagoriche, trova corrispondenza a Roma fin dall’equiparazione del trionfatore al dio supremo. In poesia è Esiodo a coniare la formula ejk de; Dio;~ basilh`e~, « ma da Zeus vengono i re » (theog. 96), che Callimaco fa propria e trasmette alla tradizione encomiastica (hymn. 1, 79). La poesia di corte di età flavia sfrutta intensamente il motivo : altrove nelle Silvae, e in Marziale, l’accostamento tra il sovrano e Giove è esplicito, o arriva all’identificazione. 4 In Silvae 1, 1 l’idea percorre in forma implicita l’intera ekphrasis, mentre, nella praefatio, era il motto a Iove principium a preannunciare la posizione incipitaria del panegirico imperiale. La poesia encomiastica può spingersi, però, ben oltre i limiti della propaganda ufficiale : in Marziale e Stazio l’imperatore può apparire addirittura superiore agli dèi, e persino al dio supremo. 5 Rappresentante di Giove in terra e deus praesens, Domiziano non solo è « più vicino » di Giove alle vicende umane, 6 ma può essere stimato pari o migliore di Giove addirittura da una  





























1  Geyssen 1996, cap. 2, pp. 44-5, 47 ss., 52-53. 2  Cf. Sauter 1934, pp. 54-78 ; Scott 1936, pp. 133-140 ; Fears 1981, pp. 74-80 ; Coleman 1988, a silv. 4, 1, 17 ; 4, 2, 11 e 14 ; 4, 3, 128-129 ; 4, 7, 49-50. Vantandosi salvato dal dio nei bella Iovis sul Campidoglio, Domiziano consacra un sacello a Iuppiter Conservator, poi un tempio a Iuppiter Custos ; restaura il tempio capitolino dopo l’incendio dell’80 e vi fa inscrivere il proprio nome ; dall’86 celebra ogni quattro anni gli Agoni Capitolini, cui presiede vestito di porpora, con una corona che reca le immagini di Giove, Giunone e Minerva (Caldelli 1993 ; White 1998 ; Hardie 2003, pp. 126 ss. ; Gibson 2006, a 5, 3, 231) ; nella monetazione Giove ha un posto d’onore, mentre Domiziano, ritratto col fulmine nella destra per le vittorie sui Catti, è presentato come il suo vicereggente. 3  Fears 1981 ; Zanker 1989, pp. 245-254 ; Galasso 1995, a Pont. 2, 2, 41-42. 4  Cf. Gibson 2006, a silv. 5, 1, 38 propior Iove ; cf., per es., 1, 6, 27 nostri Iovis ; 3, 4, 18 Iuppiter Ausonius … Romanaque Iuno ; 4, 2, 10-11 mediis videor discumbere in astris / cum Iove ; 20 ss. ; 53-56 ; 4, 3, 128-129 ; cf. 4, 7, 49-50 e 5, 1, 133 ; Newlands 2002, pp. 53-54, 229-230, 241-243, 313-314, inoltre 114 e 196 su silv. 3, 5, 32-33. 5  Cf., in silv. 1, 1, i vv. 101-104 e cf. Geyssen 1996, pp. 53-56, 126 ; Klodt 1998, p. 35. 6  Cf. silv. 5, 1, 37-38 notat ista deus qui flectit habenas / orbis et humanos propior Iove digerit actus, con Gibson 2006, ad loc. ; 74 domini praesentis ; 5, 2, 170 proximus ille deus ; 1, 1, 62 forma dei praesens.  



















































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divinità, e da una dea affezionata al padre degli dèi com’è Pallade : lo dichiarano, in Silvae 1, 1, i versi 39-40 nec dulcior usquam / lecta deae sedes, nec si pater ipse teneres. 1 In assenza di Giove, è attorno a Domiziano che si costruisce un pantheon e una gerarchia dei rapporti divini, oltre che umani. La superiorità dell’imperatore allo stesso Giove è un’idea e un’audacia poetica estranea all’età augustea, almeno in buona parte. In continuità con la tradizione repubblicana, che Augusto pretende di non interrompere, la lirica civile di Orazio traccia una divisione tra prerogative e ambiti del sommo dio e del capo supremo, e un confine tra divinizzazione per meriti e vera e propria natura divina : lo status che era invece attribuito al sovrano, sull’esempio di Alessandro, nelle monarchie ellenistiche. 2 Eppure è già nei poeti augustei che quel confine comincia a farsi labile, e conteso. In Orazio il principe è il vicario in terra del dio dell’universo, potente in quanto subordinato a Giove (carm. 1, 12, 51-57 tu secundo / Caesare regnes. // ille … te minor latum reget aequus orbem ; 3, 1, 5-6 regum timendorum in proprios greges, / reges in ipsos imperium est Iovis) ; 3 Properzio, tuttavia, arriva a insinuare che la presenza di Augusto rende Giove superfluo, o subalterno (3, 11, 66 vix timeat salvo Caesare Roma Iovem ; 4, 6, 13-14 Caesaris in nomen ducuntur carmina : Caesar / dum canitur, quaeso, Iuppiter ipse vaces), mentre Ovidio – l’Ovidio dell’esilio – afferma, e invoca a suo vantaggio, la superiorità morale di Augusto su Giove (Pont. 3, 6, 15-38) : gli dèi sono modello di clemenza (21-22 miseris caelestia numina parcunt) ; Augusto è il più clemente tra gli dèi, perché tempera il suo potere con la giustizia (23-24 principe nec nostro deus est moderatior ullus ; / iustitia vires temperat ille suas) ; la giustizia di Augusto è superiore all’arbitrio degli dèi e di Giove stesso, che colpisce gli innocenti insieme coi colpevoli e non rende alla vita chi è punito (27-38). Sulla relazione tra Giove e Ottaviano-Augusto c’è uno stacco, in Virgilio, tra Georgiche ed Eneide. L’epos mitologico non può che subordinare il potere terreno al potere divino che, nel racconto, ne progetta di lontano l’esistenza ; se vi è un cenno, da parte del sommo dio, alla superiorità degli uomini sugli dèi, è in omaggio a una virtù collettiva e nazionale, la pietas senza pari del futuro popolo romano. 4 Il poema didascalico guarda al mondo umano e divino, al mito e alla storia, da una prospettiva rovesciata : qui dove dal presente si guarda al passato mitico, e dalla terra al cielo, in un testo dai tratti ellenistici ancora marcati, in cui lo stesso progetto dell’Eneide appare ancora quello di un’epica storico-encomiastica, l’autorità terrena sembra quasi avere la preminenza su quella celeste. Il commento di Richard Thomas alle Georgiche osser 































1  Non molto su questo punto in Geyssen 1996, p. 92, che ipotizza un riferimento al vicino tempio di Giove Capitolino, in cui Minerva era rappresentata accanto al dio. 2  La Penna 1963, pp. 96 ss. ; Nisbet, Rudd 2004, a 3, 3, 11-12. 3  Cf. Nisbet, Hubbard 1970, a carm. 1, 12, vv. 50, 51, 57 ; Nisbet, Rudd 2004, a 3, 1, 5-6. 4  Verg. Aen. 12, 838 ss. ‘hinc genus Ausonio mixtum quod sanguine surget, / supra homines, supra ire deos pietate videbis…’, con Traina 1997, ad loc.  



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va, nel proemio e nella chiusa dell’opera, una strana assenza : Ottaviano, invocato dopo gli altri dèi nella preghiera d’esordio e ritratto in chiusa mentre, vincitore, fulminat … viamque adfectat Olympo, sembra in qualche modo soppiantare Giove ; un Giove che è presente nel discorso didascalico, ma « verso cui Virgilio è ambivalente per tutto il poema ». 1 La cornice panegiristica delle Georgiche apre la strada alla poesia encomiastica post-augustea : da sostituto di Giove in terra, il principe si prepara a sostituire Giove in cielo. Anche la cornice della Tebaide esalta il sommo potere terreno : e, in più, lo confronta in modo diretto ed esplicito, a tutto suo vantaggio, col sommo potere divino. Il proemio svolge il motivo panegiristico del ‘serus in caelum redeas’ in un senso rivelatore : 2  

















tuque, o Latiae decus addite famae quem nova maturi subeuntem exorsa parentis aeternum sibi Roma cupit (licet artior omnes limes agat stellas et te plaga lucida caeli, Pliadum Boreaeque et hiulci fulminis expers, sollicitet, licet ignipedum frenator equorum ipse tuis alte radiantem crinibus arcum imprimat aut magni cedat tibi Iuppiter aequa parte poli), maneas hominum contentus habenis, undarum terraeque potens, et sidera dones. (Theb. 1, 22-31)

La parentesi concessiva contempla l’ipotesi che Giove voglia dividere con Domiziano il suo regno celeste in parti uguali : Stazio riscrive secondo un temachiave della Tebaide – la divisione del potere – 3 una delle ipotesi prospettate da Lucano a Nerone, quella che l’imperatore divinizzato scelga di tenere lo scettro celeste : Lucan. 1, 47-52 seu sceptra tenere / seu te flammigeros Phoebi conscendere cursus … iuvet, tibi numine ab omni / cedetur iurisque tui natura relinquet, / quis deus esse velis, ubi regnum ponere mundi. In Stazio l’immagine del proemio si contrappone, come esempio virtuoso, all’oggetto del racconto : la divisione del regno è giusta (aequa parte) e Giove si ritira di buon grado (cedit). 4 Il richiamo al mito evoca tuttavia un pericolo,  









1  Cf. Thomas 1988, a georg. 1, 1-42 ; 1, 24-42 ; 4, 560-562 ; 4, 562. 2  Sul motivo cf. Hor. carm. 1, 2, 45, con Nisbet, Hubbard 1970 ; Ov. met. 15, 868-870 ; Lucan. 1, 46 ; Stat. silv. 4, 2, 22. 3  Lo nota Ahl 1986, p. 2820. 4  Feeney 1991, pp. 358-359 vede espressa qui un’inquietudine per la trasgressione dei limiti umani, sul modello di Capaneo (e di Anfiarao), e per il misurarsi del potere terreno con Giove. Alla blasfemia di Capaneo si contrappone però un’aspirazione presentata come legittima, da parte di Domiziano, a spartire il potere col sommo dio : c’è coerenza con le Silvae, più che contrasto (p. 359 n. 151) ; l’esortazione ad accontentarsi del governo degli uomini (maneas hominum contentus habenis), più che un invito alla moderazione, appare l’esaltazione di un potere che, già in terra, non ha nulla da invidiare a Giove (undarum terraeque potens, et sidera dones). Anche l’incoronazione per mano del Sole-Apollo, correggendo, come mostra Rosati 2008, pp. 184 ss., l’esempio negativo di Fetonte in Lucano, e smentendo la sua reputazione di usurpatore, sottolinea la legittimità  















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o piuttosto segnala un problema ‘teologico’ creato dal culto imperiale : la difficoltà di definire la posizione reciproca e i rapporti di potere tra la somma autorità divina e l’autorità terrena, che, garantita da Giove, potrebbe aspirare a prendere il suo posto in cielo. La questione, sfiorata altrove negli encomi poetici e qui posta con audacia, è lasciata aperta. 1 Ciò che interessa di più, Stazio invita il principe ad accontentarsi di un regno terreno che appare altrettanto, o ancora più importante di quello celeste – una mossa analoga a quella che in silv. 4, 2, 18-22 prende spunto dalla descrizione della reggia imperiale : … stupet hoc vicina Tonantis / regia, teque pari laetantur sede locatum / numina (nec magnum properes escendere caelum). 2 Il confronto col potere degli dèi, di Giove soprattutto, è espresso in modi espliciti e orgogliosi, come nelle Silvae, e configura, per le formule usate e il tono di sfida, una sostituzione in atto. I versi 30-31 mostrano che Domiziano non solo è destinato a uguagliare in cielo il dio supremo, ma non ha nulla da invidiare a Giove già sulla terra, poiché è, letteralmente, Giove in terra : dotato di un potere almeno pari al suo, può fare a meno del cielo, « cedere [ad altri] le stelle » che lo attendono (sidera dones) e che lui stesso già popola di dèi, col « concedere le stelle » ai membri della famiglia flavia (sidera dones, in un senso più preciso). 3 C’è stacco rispetto alla poesia augustea : signore della terra e del mare, l’imperatore domina di fatto già il cielo, a cui destina gli dèi da lui creati (un privilegio riservato in Virgilio e Ovidio agli dèi stessi, o alla cooperazione tra dèi e uomini). 4 Nella chiusa di Carmina 1, 12 Orazio metteva in parallelo governo celeste di Giove e governo terreno di Augusto (53-57 ille … reget … orbem : / tu … quaties Olympum), 5 ma il parallelismo non smentiva le prerogative e i titoli che  



























del potere di Domiziano ; fugati i sospetti di rivalità con Tito, anzi, rimossa la figura del fratello, l’immagine proemiale di una legittima successione si contrappone alla lotta tra i figli di Edipo, oggetto del racconto. 1  Per il sovrano come futuro Giove tout court cf. Apollonid. anth. Pal. 9, 287, 6 Zh`na to;n ejssovmenon. Orazio, in carm. 3, 25, 3-6 immagina di inserire, col suo canto, Augusto tra le stelle e nel consiglio di Giove : quibus / antris egregii Caesaris audiar / aeternum meditans decus / stellis inserere et consilio Iovis ? ; cf. Nisbet, Rudd 2004, al v. 6 ; in Manilio e Stazio si parla invece di una vera condivisione del potere di Giove, dopo la divinizzazione dell’imperatore : cf. Manil. 1, 798-800 Venerisque ab origine proles / Iulia descendit caelo caelumque replebit, / quod reget Augustus, socio per signa Tonante ; allusivo Mart. 13, 4 serus ut aetheriae Germanicus imperet aulae, / utque diu terris, da pia tura Iovi ; più moderato Silio, 3, 625-629, dove è Giove che parla di Domiziano (nonostante 610-611 ‘sacrilegas inter flammas servabere terris. / nam te longa manent nostri consortia mundi’). 2  Rivelatore del mutamento di prospettiva è già Ov. met. 1, 175-176 hic locus est quem, si verbis audacia detur, / non timeam magni dixisse Palatia caeli : il palazzo di Augusto è ormai il termine di paragone per lo stesso potere divino. 3  L’ambiguità è notata da Heuvel 1932 e ribadita da Caviglia 1973, ad loc. ; il senso di « divinizzare » i parenti è accolto anche da Rosati 2008, p. 188. 4  Verg. Aen. 1, 250 ; 259-260 ‘sublimemque feres ad sidera caeli / magnanimum Aenean’, e 289-290 ‘hunc tu olim caelo spoliis Orientis onustum / accipies secura ; vocabitur hic quoque votis’ ; Ov. met. 15, 818-819 ‘ut deus accedat caelo templisque colatur / tu facies natusque tuus’. 5  Un parallelismo più volte espresso da Ovidio, per cui cf. Bömer 1986, a met. 15, 858-860 …Iuppiter arces / temperat aetherias et mundi regna triformis, / terra sub Augusto est ; pater est et rector uterque.  































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restavano riservati al dio supremo : quid prius dicam solitis parentis / laudibus, qui res hominum ac deor um, / qui mare et ter ras variisque mundum / temperat horis ? // unde nil maius generatur ipso, / nec viget quicquam simile aut secundum (13-17), il dio gentis humanae pater atque custos (49). Una poesia encomiastica che invece, sul modello ellenistico, attribuisce ormai all’imperatore la priorità delle lodi già assegnata al sommo dio (silv. 1 praef. 17 ‘a Iove principium’) non può che usurpare anche i titoli di quel potere divino. Nel proemio della Tebaide Domiziano contende a Giove le formule del potere universale : oltre a regnare sugli uomini (hominum … habenis 1, 30), controlla mare e terra (undarum terraeque potens 1, 31) e rimanda nel tempo un dominio del cielo che esercita già dalla sua sede terrena (sidera dones, 1, 31). Terra, mare, cielo. Il dominio degli elementi o delle divisioni del mondo è espressione dell’universalità del potere, divino e umano : dalle monarchie ellenistiche all’impero ecumenico di Roma, il linguaggio politico tende a confondersi col linguaggio religioso. 1 Sul dominio del cosmo, il proemio della Tebaide sollecita un confronto tra imperatore e Giove – un confronto che l’Eneide suggeriva, ma lasciava tra le righe e smorzava con discrezione. 2  











1  Cf., per es., sull’espressione « per terra e per mare » : Momigliano 1942 ; già in uso in Grecia nei trattati di pace e a Roma per la chiusura del tempio di Giano, essa diventa nel mondo ellenistico una formula per il potere del sovrano, presentato per iperbole come quasi universale (Theocr. 17, 91-92 ; Call. hymn. 4, 166-168 ; anth. Pal. 6, 171 ; cf., dei Romani, Melinn., sh 541, 9-11 ; Lycophr. Alex. 1229-1230 ; di Alessandro, Arr. an. 7, 15, 5). La formula è ripresa a Roma per l’opera pacificatrice, le vittorie o il potere dell’imperatore, ed è cara ad Augusto, che la impiega nelle Res gestae (13, 1 ; cf. Malaspina 20052, a Sen. clem. 1, 9, 4) ; in poesia ricorre in Prop. 4, 6, 39 ; Hor. sat. 2, 5, 63 ; epod. 9, 27 ; epist. 1, 16, 25 ; cf. Ov. met. 15, 830-831 ‘quodcumque habitabile tellus / sustinet, huius erit ; pontus quoque serviet illi’. Per l’uso in un confronto tra Filippo V e il potere di Giove cf., oltre ai passi citati nel testo, anth. Pal. 16, 6, 1-2 Koivrano~ Eujrwvpa~, oJ kai; eijn aJli; kai; kata; cevrson / tovsson a[nax qnatw`n, Zeu;~ o{son ajqanavtwn..., « Re d’Europa, che in mare così come in terra comanda sopra i mortali quanto Zeus sui numi » (tr. di F. M. Pontani ; inoltre cig, 4923). Il dominio della terra e del mare è, allo stesso tempo, un attribuito di Giove : così in Cleanth. fr. 1, 15 ss. Powell ; Plaut. rud. 1 ; Cic. S. Rosc. 45, 131 Iuppiter Optimus Maximus cuius nutu et arbitrio caelum terra mariaque reguntur ; cf. leg. 3, 3 (Momigliano, p. 64 n. 45) ; in seguito, per es. in Hor. carm. 1, 12, 15 cit. (cf. Nisbet, Hubbard 1970, al v. 14) ; 3, 4, 45 ss. (cf. Nisbet, Rudd 2004, ad loc.) ; Sen. Thy. 607-608 vos quibus rector maris atque terrae / ius dedit magnum necis atque vitae ; Octavia 482-484 ; nella Tebaide cf. 3, 307 ss. Sulla portata cosmica di simili espressioni polari nell’Eneide, anche a indicare il potere di Giove o quello di Augusto, cf. Hardie 1986, pp. 308-310 ; qui, n. s. 2  Cf. Hardie 1986, cap. 7, spec. pp. 334-335 ; Verg. Aen. 1, 223-224, 229-230, 234-237 ‘certe hinc Romanos olim volventibus annis, / hinc fore ductores revocato a sanguine Teucri, / qui mare, qui terras omnis dicione tenerent, / pollicitus’ (Hardie 1986, p. 334 : « power over Sea and Land, a plain statement of world-empire in terms which could be taken straight from official Augustan propaganda ») ; 1, 250 ‘nos, tua progenies, caeli quibus adnuis arcem’ (Venere completa la promessa di Giove con la terza divisione del mondo, il cielo) ; 1, 287 imperium Oceano, famam qui terminet astris e 6, 781-782 ‘illa incluta Roma / imperium terris, animos aequabit Olympo’ (Hardie 1986, pp. 334-335 : « Virgil stops short of the ultimate expression of royal power, possession of the Heavens (which would necessitate a fully divinized ruler) but the mention in both passages of a word for the Heavens has the illogical effect of making it seem as if the empire spanned both Heaven and Earth. Furthermore, the language used of the astral destiny of Rome … is phrased so generally that these passages may be read as figurative statements of the extension of Roman power on this side of the grave »). La prospettiva è già mutata in Ovidio, dove è Giove stesso che svolge in relazione ad Augusto il motivo panegiri 











































































Poesia, potere e pubblico

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Le Silvae applicano in modo vistoso un procedimento analogo, riadattando all’imperatore le espressioni tradizionali dell’onnipotenza di Giove, « re e padre degli dèi e degli uomini » : il saluto della Sibilla in silv. 4, 3, 139 ‘salve, dux hominum et parens deorum’ riconverte la formula enniano-virgiliana divum pater atque hominum rex (ann. 203 Sk.), 1 mentre in silv. 4, 2 è il poeta, ospite alla reggia di Domiziano come fosse convitato di Giove (mediis videor discumbere in astris / cum Iove 10-11), a rivisitare quelle formule poetiche : tene ego, regnator terrarum orbisque subacti / magne parens, te, spes hominum, te, cura deorum, / cerno iacens ? (14-16) ; in silv. 4, 1 è addirittura Giano che rivolge all’imperatore i titoli di deferenza dovuti a Giove : 4, 1, 17-18 ‘salve, magne parens mundi, qui saecula mecum / instaurare paras’. 2 Il senso di sfida del potere terreno al potere celeste, comunicato dal proemio della Tebaide, fa pensare a epigrammi ellenistici come anth. Pal. 9, 518 (di Alceo di Messene), in cui Giove è messo in guardia da Filippo V, signore della terra e del mare, che potrebbe aspirare al regno del cielo ; un’immagine ripresa, e riferita al potere di Roma, in 9, 526 (da Alfeo di Mitilene). 3 Celebrando il conferimento ad Augusto del titolo di pater patriae, Ovidio rendeva visibile la divisione dei poteri, terreno e celeste, dividendo a metà la formula enniana per il potere di Giove (fast. 2, 130-132 …iam pridem tu pater orbis eras. / hoc tu per terras, quod in aethere Iuppiter alto, / nomen habes : hominum tu pater, ille deum). La poesia flavia fa passi ulteriori e allarga il campo del potere imperiale fin quasi a coprire l’universalità del potere divino : la subordinazione che ancora Ovidio a tratti ribadiva (fast. 2, 138 quodcumque est alto sub Iove Caesar habet ; met. 15, 858-860 Iuppiter arces / temperat aetherias et mundi regna triformis, / terra sub Augusto est ; pater est et rector uterque) lascia il posto a un’identificazione che può assumere il sapore di una sfida. La distanza dal proemio delle Georgiche, con cui Stazio qui dialoga, 4 è rivelatrice ; là Virgilio prospettava a Ottaviano, destinato a diventare dio, una scelta tra dominii diversi del potere divino sul mondo : terra, mare, stelle (georg. 1, 24 ss. tuque adeo, quem mox quae sint habitura deorum / concilia incertum est, urbisne invisere, Caesar, / terrarumque velis curam … an deus immensi venias maris … anne novum tardis sidus te mensibus addas…). Il potere di Domiziano appare invece, nel proemio della Tebaide, già in grado di abbracciare la terra, il mare e, pre 



































stico del ‘serus in caelum redeas’ (met. 15, 830-831 e 838-839 ‘nec, nisi cum senior Pylios aequaverit annos, / aetherias sedes cognataque sidera tanget’) e rappresenta il divus Iulius, trasformato in iubar, che guarda dalla « sede eccelsa » del suo tempio la sede terrena del dio, il Campidoglio (15, 840-842). Sull’analogia tra Giove e Augusto istituita nelle Metamorfosi cf. Feeney 1991, pp. 214-224. 1  Cf. Verg. Aen. 1, 65 ; 10, 2 e 743 ; Hom. Il. 1, 544 (et al.) path;r ajndrw`n te qew`n te ; inoltre Enn. ann. 591 e 592 Sk. Cf. Newlands 2002, pp. 313-314. Cf. anche silv. 3, 4, 18 Iuppiter Ausonius…, 19-20 potenti / terrarum domino. 2  Cf. 4, 1, 46-47, dove Giove promette a Domiziano la sua stessa eternità : longamque tibi, rex magne, iuventam / annuit atque suos promisit Iuppiter annos. Cf. Coleman 1988, ad loc. 3  Vedi Momigliano 1942, pp. 53 ss. e, su 9, 518, Walbank 1942, pp. 134 ss., 144-145. 4  Cf. Verg. georg. 1, 35 iusta plus parte con Theb. 1, 29-30 aequa / parte.  











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sto, le stelle (undarum terraeque … sidera), in un’immagine dell’autorità terrena che ha il respiro universale e cosmico del potere di Giove. 1 Il confronto diretto col sommo dio, evitato nelle Georgiche ed espresso altrove dalla poesia augustea in forme di religioso rispetto, è cercato con insistenza dalla poesia flavia e marcato con toni di competizione o di provocazione. Per Domiziano, per di più – nella visione di Stazio –, ciò che conta è la terra, il cielo può attendere (sidera dones) : non è solo una spartizione dei poteri, ma quasi un gesto di sufficienza, un atteggiamento condiscendente, che ricorda quello attribuito all’Alessandro di Lisippo in anth. Pal. 16, 120, 4 (Asclepiade) ‘ga`n d∆ uJp∆ ejmoi; tivqemai, Zeu`, su; d∆ “Olumpon e[ce’, « sulla terra comando io, Zeus, tu tieni l’Olimpo ». 2 Assistiamo a un’inversione dei rapporti di forza tra umano e divino, tra terra e cielo : la stessa esibita nelle Silvae, dove è Domiziano che può apparire garante del potere di Giove, oltre che signore del pantheon flavio (4, 3, 16-19 qui reddit Capitolio Tonantem / et Pacem propria domo reponit, / qui genti patriae futura semper / sancit limina Flaviumque caelum). 3 Un testo cruciale per avvertire lo strappo di Stazio rispetto ai modelli augustei è ancora una volta Silvae 4, 3. Qui la Sibilla, pronunciando un encomio in crescendo, traccia una piccola storia dell’ideologia imperiale nella sua evoluzione : Domiziano è un dio delegato da Giove a governare in sua vece la terra (4, 3, 128-129 ‘en hic est deus, hunc iubet beatis / pro se Iuppiter imperare terris’) ; in quanto capo carismatico, « migliore e più potente della natura », se avesse il dominio del cielo renderebbe migliore il clima mondiale (135-138 ‘Natura melior potentiorque / hic si flammigeros teneret axes, / largis, India, nubibus maderes, / undaret Libye, teperet Haemus’) ; 4 al pari di Giove, può essere chiamato sovrano degli uomini e padre degli dèi (139 ‘salve, dux hominum et parens deorum’) ; lo attende, come dio di una palingenesi, « una grande serie di secoli », quella che la quarta Egloga annunciava come rinnovamento cosmico (147 magnus te manet ordo saeculorum) ; la durata del suo regno si misura con l’eternità di Giove, il Giove tonante che lui stesso ha immortalato, facendo rinascere il tempio sul Campidoglio :  



































‘et laudum cumulo beatus omni scandes belliger abnuesque currus, donec Troicus ignis et renatae Tarpeius pater intonabit aulae, 1  Già Lucano variava Virgilio, prospettando a Nerone la scelta, non della sfera di influenza sul mondo, ma della sede da cui esercitare il dominio del mondo (1, 52 quis deus esse velis, ubi regnum ponere mundi) ; non nominava Giove (cf. 1, 50-51 tibi numine ab omni / cedetur con Stat. Theb. 1, 29 cedat tibi Iuppiter), ma si riferiva al suo potere con l’immagine dello scettro (1, 47). 2  Vedi ora Sens 2011, ad Asclep. 43 ; cf. tuttavia Gow, Page 1965, ii, pp. 146-147. 3  Caelum è emendamento di Turnèbe (per calvum di M), generalmente accolto dagli editori (cf. l’apparato di Liberman 2010). Cf. Coleman 1988, ad loc. ; Newlands 2002, pp. 289-290. 4  L’ordine tràdito dei versi è conservato da Coleman 1988 : vedi n. a 134-136. Cf. silv. 5, 1, 161 ss., spec. 166-169 quantae poterant mortalibus annis / accessisse morae, si tu, pater, omne teneres / arbitrium : caeco gemeret Mors clusa barathro, / longius et vacuae posuissent stamina Parcae.  









Poesia, potere e pubblico haec donec via te regente terras annosa magis Appia senescat’.

53 (silv. 4, 3, 158-163)

La chiusa di Silvae 4, 3 sembra riscrivere la chiusa di Orazio, Carmina 1, 12, aggiornandone l’ideologia. Là l’imperatore e Giove, l’uno subordinato all’altro, si spartivano il governo della terra e del cielo, i trionfi militari e la punizione dei sacrilègi col fulmine (carm. 1, 12, 49 ss., cf. 53-60 ille seu Parthos Latio imminentis / egerit iusto domitos triumpho, / sive subiectos orientis orae / Seras et Indos, // te minor latum reget aequus orbem : / tu gravi curru quaties Olympum, / tu parum castis inimica mittes / fulmina lucis). Qui, mentre l’imperatore celebra e rifiuta trionfi senza fine (silv. 4, 3, 159), persino il tuono di Giove appare garantito da lui e subordinato al suo potere (160-161 renatae … aulae). Addirittura, il potere terreno si auspica e si configura non più solo come indefinitamente durevole (serus, diu), ma come propriamente eterno (silv. 4, 3, 147 cit. ; 4, 1, 46-47 ; Theb. 1, 24 aeternum) : il sostituto di Giove in terra realizza ormai, di fatto, una sostituzione completa di Giove. La cornice della Tebaide encomia Domiziano e propone un confronto di poteri : 1 se la sphragis accosta con orgoglio il poeta al principe (12, 814 iam te magnanimus dignatur noscere Caesar), il proemio celebra un imperatore pari o superiore a Giove. Il potere della poesia osa misurarsi col potere politico, come nei modelli augustei ; ed è grazie alla poesia che il potere imperiale può addirittura sfidare il potere divino : una sfida aperta, non inusuale per la cultura flavia, quasi inaudita per la poesia augustea. Il modo e il tono in cui il rapporto tra potere divino e potere imperiale viene configurato nel proemio non è privo di conseguenze, credo, per l’interpretazione del poema.  















i. 2. 2. Dèi e uomini nella Tebaide L’apparato divino che ha messo in moto la Tebaide e l’ha spinta verso il nefas non presiede e quasi non prende parte alla soluzione della vicenda ; è il mondo umano che domina il finale e, in nome degli dèi assenti, assume la responsabilità dell’ordine cosmico. 2 All’audacia di un disegno epico così distante dall’Eneide concorrono spinte diverse e fattori culturali molteplici. Gli dèi del poema sono in gran parte screditati, Giove sopra tutti. 3 Il tema  





1  Cf. Rosati 2008 ; inoltre 2009, p. 369 per la matrice esiodea del nesso, essenziale alla poesia encomiastica, tra autorità politica e funzione educatrice della poesia. 2  Fondamentale su molti degli aspetti trattati in questo paragrafo Feeney 1991, pp. 337-391, spec. pp. 356 ss. Cf. anche Neri 1986, pp. 2006-2026. 3  Su Giove in particolare cf. sopr. Feeney 1991, pp. 346 ss. e 353-358 con discussione della bibliografia ; inoltre Delarue 2000, pp. 291-238 ; 2006, pp. 110 ss. All’opposto della visione stoica, senza ombre di Vessey 1973, pp. 82-91 (« a just and impartial Deity »), del tutto negativa l’immagine del dio costruita da Dominik 1994, pp. 1-4 (con rassegna critica delle diverse posizioni) e passim. Piuttosto sommario anche Hill 2008 (che riprende 1990 e 1996). Sulla problematica teologia del poema cf. Criado 2000.  









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della guerra fratricida accentua l’insoddisfazione per la teologia favolosa già espressa da Virgilio, che in punti critici dell’Eneide scatena dubbi sulla teodicea, soprattutto là dove la guerra nel Lazio è vista infine come guerra civile : 1 Aen. 12, 503-504 tanton placuit concurrere motu, / Iuppiter, aeterna gentis in pace futuras ? È a quel dubbio sull’agire di Giove che fa eco, nell’esordio della Tebaide, l’anonimo tebano : Theb. 1, 178-180 ‘tibi, summe deorum / terrarumque sator, sociis hanc addere mentem / sedit ?’, tra ipotesi alternative che imputano le sventure di Tebe agli aspera fata, all’azione umana creatrice di una fortuna levis o a un vetus omen. 2 Dopo Virgilio, l’autorità morale delle divinità e l’impianto provvidenziale dell’epos sono messi in crisi nelle Metamorfosi di Ovidio, e negati e rimossi da Lucano. Stazio restaura l’apparato divino, ma non la sua dignità ed efficacia : soprattutto, nega a Giove, se non la volontà o la visione complessiva, di certo l’espressione di un disegno volto al bene e la sua compiuta messa in atto. Il mito dei Sette è un mito tragico : e la Tebaide fa convivere epica e tragedia inventando una provvidenza assente. L’intervento risolutivo di Teseo è previsto nel piano di Giove, ma il piano non ci è svelato se non in forma indiretta e incidentale, in un reclamo di Giunone che sarà soddisfatto tacitamente nella chiusa (9, 518-519 ‘ubi Cecropiae post proelia flammae ? / Theseos ignis ubi est ?’). Il poema esibisce invece più di una protesta inascoltata contro i mancati interventi del padre degli dèi : sono le accuse del genere tragico all’indifferenza divina, che permette al male di realizzarsi incontrastato ; sono, nel racconto epico, le voci polemiche dell’anonimo (1, 178-180 cit.), di Adrasto (‘ubi iura deique ?’ 11, 430), infine di Evadne (‘ubi numina, ubi ille est / fulminis iniusti iaculator ?’ 12, 561-562). La protesta iniziale di Edipo ottiene, sì, da Giove una risposta pronta ed efficace : ma è una risposta che fa tutt’uno con l’avvio del nefas, l’empia azione epica già messa in moto da Tisifone (1, 79-80 ‘et videt ista deorum / ignavus genitor ?’ ; 1, 239-241 ‘iam iam rata vota tulisti, / dire senex. meruere tuae, meruere tenebrae / ultorem sperare Iovem’). 3 La presunta assenza di Giove diventa, al culmine del racconto, un’assenza deliberata. Il luogo più problematico della Tebaide è la scelta di Giove di ritirarsi prima del duello fraterno :  





































‘nunc par infandum miserisque incognita terris pugna subest : auferte oculos ! absentibus ausint ista deis lateantque Iovem’. (Theb. 11, 125-127)  



1  Sulla « cornice teologica dell’Eneide » Traina 1988, p. 99 ; cf. Conte 20072, p. 113. 2  Cf. Schubert 1984, p. 73. La forma dell’espressione ricorda anche Lucan. 2, 4-6 cur hanc tibi, rector Olympi, / sollicitis visum mortalibus addere curam, / noscant venturas ut dira per omina clades ? 3  Un’altra protesta, quella di Bacco, ottiene soddisfazione : è la richiesta di una punizione per Capaneo, 10, 888-889 ‘nunc ubi saeva manus, meaque heu cunabula flammae ? / fulmen, io, ubi fulmen ?’ ait.  













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Il paradosso di un dio che rifiuta di vedere il nefas che ha voluto è il paradosso di una poetica : la poetica paradossale di un epos ugualmente lontano da Virgilio e da Lucano, e vicino alla tragedia. Di fronte allo scontro tra consanguinei, Giove decide l’autosospensione : così Stazio risponde a Lucano, che di fronte allo scontro di Farsàlo negava esistenza e provvidenza di Giove :  





sunt nobis nulla profecto numina : cum caeco rapiantur saecula casu, mentimur regnare Iovem. spectabit ab alto aethere Thessalicas, teneat cum fulmina, caedes ? … astra Thyestae intulit et subitis damnavit noctibus Argos : tot similis fratrum gladios patrumque gerenti Thessaliae dabit ille diem ? mortalia nulli sunt curata deo. (Lucan. 7, 445-455)  







La risposta del dio staziano è puntuale, e smonta l’accusa appellandosi a rovescio allo stesso esempio mitico, fra altri :  

‘sat funera mensae Tantaleae et sontes vidisse Lycaonis aras et festina polo ducentes astra Mycenas. nunc etiam turbanda dies : mala nubila, tellus, accipe, secedantque poli : stat parcere mundo caelitibusque meis ; saltem ne virginis almae sidera, Ledaei videant neu talia fratres’. 1  







(Theb. 11, 127-133)

È grazie a un paradosso che Stazio salva l’apparato divino dell’epos : rimuovendo Giove (per sua volontà) dal finale, la Tebaide prende le distanze dall’Eneide, ma rifiuta l’ateismo del Bellum Civile. Con una soluzione poetica audace, Stazio si allontana da Virgilio e dall’anti-Virgilio, e si avvicina alla tragedia senza rinnegare l’epica. Il disegno provvidenziale, negato dal genere tragico e messo in crisi dall’epica negativa di Lucano, è restaurato, ma appare più che mai problematico ; un Giove debole e quasi esautorato cede il passo alle Furie, 2 pronte a loro volta a ritirarsi quando gli uomini, da soli, compiono il nefas da esse avviato. Scomparsi l’uno dopo l’altro gli dèi olimpici, le divinità infernali, le personificazioni, è il mondo umano a condurre a termine l’azione  





1  Cf. 11, 134-135 sic pater omnipotens, visusque nocentibus arvis / abstulit, et dulci terrae caruere sereno. 2  Nella Tebaide Tisifone entra in scena prima di Giove e ne esce dopo di lui, più veloce del fulmine nel mettere in moto l’azione : cf. 1, 92 igne Iovis … citatior con 11, 483 caelestique ocior igne.  

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del poema, e a rappresentarne valori e disvalori : 1 sono i personaggi umani che, nell’undicesimo libro, realizzano il male meglio delle Furie, e, nel dodicesimo, realizzeranno il bene meglio di Giove. La contestazione più dura al padre degli dèi viene, nell’imminenza del duello, dalla Pietas in persona, la stessa pietas di cui Giove era garante nell’Eneide ; qui, essa protesta contro la crudeltà del dio supremo e contro la Natura, che l’ha creata per il disprezzo degli uomini e, spesso, degli dèi : iamdudum terris coetuque offensa deorum / aversa caeli Pietas in parte sedebat … fraternaque bella … deflebat, sae vumque Iovem … vociferans… ‘quid me’ ait ‘ut saevis animantum ac saepe deorum / obstaturam animis, princeps Natura, creabas ? …’ (Theb. 11, 457466). Pietas, Clementia, Natura sono le forze che Edipo sente rinascere in sé quando piange pentito sui cadaveri dei figli (11, 605-607). Troppo tardi : la Pietas interviene nella storia di Tebe e nella vicenda di Edipo quando ormai la catena di conflitti intrafamiliari sta per compiersi (11, 486-487 [Tisifone] ‘nunc sera nocentes / defendis Thebas’) o si è compiuta (11, 605-606 [Edipo] ‘tarda meam, Pietas, longo post tempore mentem / percutis ?’). « Troppo tardi » : il segnale autoriflessivo (sera, tarda) annuncia una svolta poetica cruciale ma tardiva, un finale epico in controtendenza dopo undici libri di arma nocentia (silv. 1, 5, 8). La chiusa è opera dell’uomo : i valori che gli dèi non hanno difeso o rappresentato in modo credibile nel poema – Pietas, Clementia, Natura – sono affermati da Teseo, che presso l’ara Clementiae si impegna a un’azione guidata dalla Natura (12, 645 ‘Naturamque ducem’) e destinata a concludersi con un pius tumultus, il fraternizzare dei nemici sul campo (12, 782). È il ravvedimento di Edipo che annuncia la svolta del poema, come la sua maledizione lo aveva messo in moto : nella scena del compianto e nell’incontro con Creonte, segnali di ripetizione e di inversione commentano la continuità e la frattura nel discorso epico della Tebaide. 2 C’è il senso di una ripartenza : Edipo ritratta la maledizione iniziale contro Eteocle e Polinice, e scaglia una nuova maledizione contro Creonte ; 3 rovescia, di fronte ai corpi dei figli, le parole usate per maledirli, e le ripete per maledirne il successore. 4 Il racconto  

































1  Su questa progressione perfetto Feeney 1991, pp. 355-363. Lo stesso studioso, in una sintesi recente, ha indicato, in questa « disturbante » rappresentazione dei rapporti tra dèi e uomini, « a vision of human experience which is related only obliquely to the experience of empire » (Feeney 2007, p. 135). Io credo che, in un altro senso, l’innovazione epica di Stazio sia profondamente legata all’esperienza dell’Impero ; come il discorso politico, anche il discorso religioso della Tebaide disegna un percorso di crisi e di ricostruzione, e tenta di rifondare l’ideologia imperiale come una sorta di ‘religione civile’ (Bellah 1967 = 2009) ; cf. infra, cap. iii, §§ 1 e 2, e Bessone, Religion and Power, in corso di stampa. 2  Il pentimento si manifesta con la ritrattazione dei perversa vota rivolti a Tisifone (1, 59), che avevano avviato l’azione del poema : 11, 616-621 ‘heu dolor, heu iusto magis exaudita parentis / vota malaeque preces ! quisnam fuit ille deorum, / qui stetit orantem iuxta praereptaque verba / dictavit Fatis ? Furor illa et movit Erinys / et pater et genetrix et regna oculique cadentes ; / nil ego…’. 3  Theb. 1, 80-87 ; 11, 701-705. 4  L’indignazione di Theb. 11, 677-682 (cf. 668-669) richiama 1, 74-79 (cf. anche 1, 238-239). Il compiacimento perverso nell’augurio a Tisifone di riconoscere i figli come ‘suoi’, degni di lui nel cri 





















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epico, avviato dall’invocazione di Edipo a Tisifone, si riavvia con un movimento uguale e contrario : la coazione a ripetere, che è la condanna di Tebe e dei suoi re (11, 654-658), contrasta con un rinnovamento interiore dell’uomo che, in assenza degli dèi, prelude all’intervento risolutivo di Atene. 1 Continuità e rottura : nel disegno spezzato della Tebaide, il finale crea un contrasto programmato in un discorso continuo. Tra undicesimo e dodicesimo libro, una serie di opposizioni imposta un dualismo ancora più marcato di quello virgiliano : 2 Tebe e Atene, tiranni e buon re, spedizione empia e guerra giusta, furor e clementia, odio e riconciliazione. Come nell’Eneide, tuttavia, il dualismo convive con la problematicità tragica. Effetti di continuità prolungano nella chiusa le questioni aperte del poema : la soluzione alla guerra è una nuova guerra ; i Tebani, costretti a riarmarsi, scontano le colpe del tiranno ; mentre Teseo insegue Creonte, gli Ateniesi colpiscono sul campo la massa senza nome ; il trionfo è gioia e lutto insieme ; le donne esultano come Baccanti, quasi annunciassero o festeggiassero un nefas ; il lamento funebre che accomuna vincitori e vinti riassume in emblema l’assurdità del conflitto. Ambiguità e inquietudini percorrono una conclusione epica che, a mio parere, non è né un’aggiunta posticcia, 3 né un lieto fine troppo edificante, 4 né una riproposizione del mondo malato del poema, 5 ma una costruzione  



























mine (1, 87 ‘mea pignora nosces’), è rinnegato nel rammarico che essi si siano dimostrati ‘troppo suoi’ (11, 611-612 ‘crudeles nimiumque mei ! nec noscere natos / adloquiumque aptare licet’ ; anche noscere è invertito di segno : ora il padre non può « riconoscere » i figli, nel senso di distinguerli l’uno dall’altro). Un’inversione paradossale investe le immagini di divisione dei legami familiari invocate nella maledizione, cui si contrappone ora il desiderio di dividere l’abbraccio mortale dei fratelli, il vincolo ostile che li unisce : cf. 11, 624-626 con 1, 84-85. 1  Sulla ripetizione come caratteristica dell’epica Hardie 1993, pp. 14-18 (della narrazione, in prospettiva freudiana, Brooks 1995 = 1984, cap. 4, spec. pp. 106 ss.) ; sul contrasto, nell’Eneide, tra ripetizione del passato come regressione, nella prima metà, e ripetizione con differenza, come rovesciamento, nella seconda metà, teleologicamente orientata (ma resa problematica dal finale), cf. Quint 1989. Nella Tebaide l’opposizione tra le due componenti, asimmetriche, del poema convive con le somiglianze, col ripetersi del nefas e del lutto, in una problematicità tragica (sulla ripetizione come regressione cf. Henderson 1991, p. 41). Segnali di ripetizione e di inversione per es. in 11, 329-330 ‘quis furor ? unde iterum regni integrata resurgit / Eumenis ?’, e nel richiamo a 1, 1-2 alternaque regna profanis / decertata odiis, in 12, 441-442 ‘vivunt odia improba, vivunt. / nil actum bello’, e 573-574 ‘bellavimus, esto ; / sed cecidere odia’. 2  Cf. anche Feeney 1991, p. 350. 3  Cf. Traglia, Aricò 1980, p. 689 (« Questo finale ha certamente una funzione catartica … e tuttavia esso appare giustapposto al resto dell’opera … si dimostra fallace la lettura unitaria del poema ») ; Feeney 1991, pp. 362-363 (« Theseus’ intervention has a rushed, even perfunctory air ») ; perplessità anche in Hardie 1993, pp. 46-48 (« The status of the last book of the Thebaid is difficult : does it represent a satisfactory dismantling of the engines of civil war, or is it merely a perfunctory and unpersuasive cap ? …However we assess the victory of Theseus, the epic ends not with triumph but with lament »). 4  Delarue 2000, pp. 372-374, e 2006, p. 120, che parla di « un prince trop parfait » e di una narrazione epica che « ne s’achève-t-elle pas de façon un peu trop édifiante ? ». Cf. Vessey 1973, pp. 307 ss., spec. p. 316 : « The Thebaid ends with the triumph of virtue over sin… The Thebaid is an epic not of sin but of redemption, a chronicle not of evil but of triumphant good ». 5  Dominik 1994, spec. pp. 156-158 su Teseo ; Ganiban 2007, spec. cap. 9 sulla problematica concezione della Clementia e di Teseo (pur con varie oscillazioni di giudizio). Cf. infra, capp. iii e iv.  

























































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esemplare che fa i conti col pessimismo dell’epos e non ne smentisce il senso tragico complessivo. Continuità e rottura segnano anche la rappresentazione del divino : la spezzatura del poema crea un contrasto fra presenza e assenza degli dèi, soprattutto del dio supremo. Richiamato Giove dietro le quinte e rimossa la scena celeste, le divinità ricompaiono affiancate, o associate per analogia, a donne e uomini che decidono in terra l’azione del poema. Le Argive si mettono in marcia verso Tebe : Giunone le scorta « perché la gloria della loro impresa non perisca » ; deviano verso Atene come supplici : la dea si avvia da Pallade perché disponga la città ad accoglierle ; Argìa cerca sul campo il cadavere di Polinice : Giunone ottiene che la Luna le faccia luce ; Teseo decide la guerra contro Tebe : Atena scuote l’egida e spaventa di lontano la città ; l’eroe scaglia la lancia che dà inizio alla spedizione, e appare come Giove che scatena una tempesta ; solleva l’asta sul campo, e i nemici fuggono come se avessero visto Marte. 1 Il linguaggio epico tradizionale continua ad essere impiegato in un epos che osa un discorso nuovo, e ridimensiona il potere degli dèi riducendolo a complemento e immagine dell’azione degli uomini.  

























i. 2. 3. La provvidenza assente e l’uomo della provvidenza Per paradosso, gli dèi della tradizione epica devono tramontare perché quest’epica nuova possa trovare infine una via d’uscita dalla crisi. Il crepuscolo di Giove è una soluzione artistica audace, che risponde a ragioni poetiche, storico-culturali e ideologiche insieme. È anzitutto una scelta letteraria. La Tebaide confronta epica e tragedia : narrando una storia di matrice tragica, che è il trionfo del male, esaspera tensioni già presenti nell’Eneide e introietta la critica radicale di Lucano ; un Giove che si è compromesso col nefas, che è stato coinvolto in meccanismi da tragedia, difficilmente potrebbe essere riconciliato con il ruolo epico virgiliano di divinità provvidenziale ; il suo profilo assomiglia molto più al Giove autoritario, irato e screditato delle Metamorfosi, ridotto alla sola funzione punitiva. Ci sono poi presupposti storico-culturali. Al di fuori dei generi epico e tragico, il ruolo punitivo di Giove rientra in uno schema tradizionale di interpretazione della storia : uno schema ricorrente nella letteratura romana, che rappresenta il crimine delle guerre civili come punizione divina per l’empietà e per la colpa ereditaria di un popolo. 2 È qui che il mito di Tebe si ricongiunge alla storia di Roma. Fin dall’inizio del poema, Stazio esibisce la retorica della deprecazione delle guerre civili. La prima apostrofe del narratore, rivolta ai fratelli tebani,  









1  Theb. 12, 134-136, 291-294 e 295-311, 606-610, 649-655, 730-736. 2  Vedi Wallace-Hadrill 1982 (= 2004), pp. 25-26. Cf. Hor. carm. 3, 6, 7-8 di multa neglecti dederunt / Hesperiae mala luctuosae…, 13-14 paene occupatam seditionibus / delevit urbem Dacus et Aethiops…, con Nisbet, Rudd 2004, pp. 98 e 101 (n. al v. 1).

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quo tenditis iras, a, miseri ? quid si peteretur crimine tanto limes uterque poli… ? 1  





(Theb. 1, 155-157)

riecheggia appassionate movenze interrogative come l’attacco dell’Epodo settimo di Orazio, quo, quo scelesti ruitis ? aut cur dexteris aptantur enses conditi ? parumne campis atque Neptuno super fusum est Latini sanguinis… ?  





(Hor. epod. 7, 1-4)

o l’apostrofe proemiale di Lucano, quis furor, o cives… ? 2  



(Lucan. 1, 8)

Movenze enfatiche, che mettono in contrasto la necessità delle aggressioni esterne con l’assurdità della violenza intestina, e che persino Tacito fa proprie, là dove un sacrilegio come l’incendio del Campidoglio, nello scontro tra Vitelliani e Flaviani del 69, strappa allo storico un commento accorato. 3 Fin dalla ti~-Rede del primo libro, modellata su quella del secondo libro di Lucano, Stazio applica alla vicenda tebana categorie interpretative elaborate nel contesto storico romano. Di fronte al patto di alternanza che prelude alla guerra tra i fratelli, l’anonimo si interroga usando il modulo delle ‘spiegazioni multiple’ : 4  





1  Cf. 162-164 loca dira arcesque nefandae / suffecere odio, furiisque immanibus emptum / Oedipodae sedisse loco. 2  Sulla tradizione del modulo Roche 2009, a Lucan. 1, 8 ; cf. Verg. Aen. 5, 670-671 ; Barchiesi 2007, a Ov. met. 3, 531 ss. Cf. anche Georgacopoulou 2005, pp. 22-23. 3  Tac. hist. 3, 72, 1 id facinus post conditam urbem luctuosissimum foedissimumque rei publicae populi Romani accidit, nullo externo hoste, propitiis, si per mores nostros liceret, deis, sedem Iovis Optimi Maximi, auspicato a maioribus pignus imperii conditam, quam non Porsenna dedita urbe neque Galli capta temerare potuissent, furore principum excindi. arserat et ante Capitolium civili bello, sed fraude privata : nunc palam obsessum, palam incensum, q u i b u s a r m o r u m c a u s i s ? q u o t a n t a e c l a d i s p r e t i o ? stetit, pro patria bellavimus. Cf. anche Sen. rhet. contr. 2, 1, 10 quae tanta vos pestis, cum una stirps idemque sanguis sitis, quaeve furiae in mutuum sanguinem egere ? quod tantum malum uni generi vel fato vel forte iniunctum ? an, ut convivia populis instruantur et tecta auro fulgeant, parricidium tanti fuit ? … 4  Sui molti impieghi del modulo nella Tebaide, fra tradizione epica e didascalica, matrice lucreziana e modello di Virgilio e di Lucano, cf. Hardie 2008, spec. pp. 88-96 (« When put in the mouth of the narrator, multiple explanations suggest the abdication of narratorial omniscience and responsibility, in the manner of Lucan, particularly with regard to the question of whether events and actions are motivated by human or supernatural causes, and, if supernatural, whether by the forces of heaven or hell » : pp. 91-92) ; inoltre Feeney 1991, pp. 349-350 ; Delarue 2000, pp. 276-280. L’insistenza di Stazio sembra suggerire la possibilità di una lettura del poema su più livelli, come finzione epico-mitologica, come intreccio narrativo dominato dal caso, o, forse soprattutto, come  

























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‘hancne Ogygiis’ ait ‘aspera rebus fata tulere vicem, totiens mutare timendos alternoque iugo dubitantia subdere colla ? partiti versant populorum fata manuque fortunam fecere levem. semperne vicissim exulibus servire dabor ? tibi, summe deorum terrarumque sator, sociis hanc addere mentem sedit ? an inde vetus Thebis extenditur omen, ex quo Sidonii nequiquam blanda iuvenci pondera Carpathio iussus sale quaerere Cadmus exul Hyanteos invenit regna per agros, fraternasque acies fetae telluris hiatu augurium seros dimisit ad usque nepotes ?’. (Theb. 1, 173-185)  







Le cause ipotizzate in alternativa sono gli aspera fata, la creazione umana di una fortuna levis, la volontà di Giove o un vetus omen, un augurium funesto che, dallo scontro fratricida tra gli Sparti, discende sui nepotes. Sono gli stessi interrogativi formulati da Orazio nell’Epodo settimo, dove la persona loquens ipotizza alla base della guerra civile il furor, una vis acrior o una culpa, e risponde che gli acerba fata e lo scelus fraterno perseguitano i Romani fin dal fratricidio di Romolo, un sacrilegio che funesta il destino dei nepotes :  

furorne caecus an rapit vis acrior an culpa ? responsum date. tacent, et albus ora pallor inficit, mentesque perculsae stupent. sic est : acerba fata Romanos agunt scelusque fraternae necis, ut immerentis fluxit in terram Remi sacer nepotibus cruor.  



(Hor. epod. 7, 13-20)

La guerra civile come punizione divina : fino a questo punto, il disegno epico della Tebaide mostra affinità persino col pessimismo storico di Tacito ; nel proemio delle Historiae sarà il bilancio drammatico dell’età flavia, una sequenza di sconvolgimenti iniziata coi conflitti interni, a offrire la prova che gli dèi non si preoccupano del bene degli uomini, ma della loro punizione : hist. 1, 3, 2 nec enim umquam atrocioribus populi Romani cladibus magisve iustis indiciis adprobatum est non esse curae deis securitatem nostram, esse ultionem. 1 Mettendo in  







riflessione razionalistica sui fattori psicologici ed etici dell’azione, in un racconto che smantella infine l’apparato fantastico, come squarciando un velo allegorico (11, 537-538 ; cf. infra, cap. ii, § 4), e mostra una concentrazione quasi esclusiva sulla natura umana. 1  È interessante il contrasto con l’elogio di Tito in Plin. paneg. 35, 4 ingenti quidem animo divus  

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crisi la teleologia virgiliana, Stazio dà forma poetica alla coscienza di una crisi storica, che al poeta attivo sotto i Flavi può apparire superata, ma che troverà in Tacito, dopo la fine di Domiziano, un interprete radicale. Alla crisi della provvidenza inscenata nella prima parte del poema Stazio contrappone però, come in un ossimoro, l’intervento provvidenziale di un salvatore : ancora uno schema familiare alla cultura romana, fin dalle orazioni cesariane di Cicerone, 1 e particolarmente caro alla poesia augustea. In Carmina 1, 2, dove dialoga col finale del primo libro delle Georgiche, Orazio auspica che le punizioni di Giove per la colpa originaria dei Romani abbiano fine, e invoca un salvatore scelto da Giove stesso per espiare quella colpa (carm. 1, 2, 29-30 cui dabit partis scelus expiandi / Iuppiter ?) : il divino Caesaris ultor sarà Ottaviano Augusto, che il poeta prega di restare a lungo tra gli uomini. 2 È la concezione soteriologica dell’avvento di una personalità benefica, divina e provvidenziale, in soccorso all’umanità afflitta (Verg. georg. 1, 500-501 hunc saltem everso iuvenem succurrere saeclo / ne prohibete ! ; Hor. carm. 1, 2, 25-26 quem vocet divum populus ruentis / imperi rebus ?). Utile a interpretare il passaggio dalla Repubblica all’Impero, quell’idea viene riproposta in più di una successione imperiale, a celebrare l’uscita dal caos in cui il mondo era stato precipitato da un imperatore precedente : Seneca fa un uso adulatorio o ironico del concetto, in relazione a Claudio ; 3 Plinio il Vecchio lo svolge in lode di Vespasiano : …Vespasianus Augustus fessis rebus subveniens (nat. 2, 18, 1). Il susseguirsi di furor e clementia nella Tebaide sembra riproporre in forma narrativa lo schema di quel modulo panegiristico. Nel racconto epico, come nella successione imperiale, l’opposizione tra l’irrazionalità del dispotismo e l’avvento di un potere illuminato assicura il passaggio dal caos al kosmos. E, come nella tradizione encomiastica o nella trattatistica peri; basileiva~, a operare la rinascita ecumenica è il valore salvifico della clemenza. Solo un potere  























Titus s e c u r i t a t i n o s t r a e u l t i o n i q u e prospexerat ideoque numinibus aequatus est : sed quanto tu quandoque dignior caelo, qui tot res illis adiecisti, propter quas illum deum fecimus ! 1  Cic. Marcell. 18 …ut mihi quidem videantur di immortales, etiam si poenas a populo Romano ob aliquod delictum expetiverunt, qui civile bellum tantum et tam luctuosum excitaverunt, vel placati iam vel satiati aliquando omnem spem salutis ad clementiam victoris et sapientiam contulisse. 2  Hor. carm. 1, 2, 1-6 iam satis terris nivis atque dirae / grandinis misit pater et rubente / dextera sacras iaculatus arces / terruit urbem, // terruit gentis, grave ne rediret / saeculum Pyrrhae nova monstra questae…, 25-26 quem vocet divum populus ruentis / imperi rebus ? …, 29-52 cui dabit partis scelus expiandi / Iuppiter ? tandem venias, precamur … augur Apollo ; // sive tu mavis … sive mutata iuvenem figura … almae / filius Maiae, patiens vocari / Caesaris ultor : // serus in caelum redeas diuque / laetus intersis populo Quirini, / neve te nostris vitiis iniquum / ocior aura // tollat : hic magnos potius triumphos, / hic ames dici pater atque princeps, / neu sinas Medos equitare inultos / te duce, Caesar. Cf. Verg. georg. 1, 498-505 di patrii … hunc saltem everso iuvenem succurrere saeclo / ne prohibete ! satis iam pridem sanguine nostro / Laomedonteae luimus periuria Troiae ; / iam pridem nobis caeli te regia, Caesar, / invidet atque hominum queritur curare triumphos, / quippe ubi fas versum atque nefas : tot bella per orbem… 3  Sen. ad Pol. 13, 1 (apostrofe alla fortuna) patere illum generi humano iam diu aegro et adfecto mederi, patere quidquid prioris principis furor concussit in suum locum restituere ac reponere ; 16, 6 hunc principem lassis hominum rebus datum ; apoc. 4, 23-24 felicia lassis / saecula praestabit.  























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clemente può farsi carico delle sofferenze dell’intero genere umano : lo afferma Seneca nella Consolatio ad Polybium, prima ancora che nel De clementia :  



hic itaque princeps, qui publicum omnium hominum solacium est… hunc [sc. Caesarem] …a quo imperium adustum atque eversum funditus principis mitissimi recreat clementia ; 1 (Sen. ad Pol. 14, 1 ; 17, 3)    



lo fa vedere, nella Tebaide, lo sguardo universale nella descrizione dell’ara Clementiae, concepita come difesa comune dell’umanità dalle ingiurie del potere :  

commune animantibus aegris confugium, unde procul starent iraeque minaeque regnaque… (Theb. 12, 503-505)

Lo schema soteriologico di interpretazione della storia trova tuttavia nell’epos un limite severo. Manca qui una linea teleologica visibile e continua, che esprima la fede incondizionata in una palingenesi. L’illusione diacronica, di uno sviluppo orientato, creata dalla (provvisoria) soluzione ateniese alla crisi tebana, non cancella la visione sincronica di due mondi coesistenti, divisi e inconciliabili : la Tebe tragica come rovescio di Atene, la tirannia come l’altra faccia della monarchia. La spezzatura del racconto è anche una scissione probematica tra azione divina e umana. L’empietà fratricida ha allontanato gli dèi dalla terra, come nella chiusa del carme 64 di Catullo, e solo un uomo ‘divino’, inviato dagli dèi in soccorso agli uomini, può porre rimedio alle loro colpe senza fuggire in cielo, come nel finale del primo libro delle Georgiche o dell’Ode 1, 2 di Orazio. 2 La Tebaide dà forma epica a un mito tragico, e al pessimismo e alle speranze che la letteratura di Roma ha espresso elaborando la sua storia. È l’ultimo libro a completare il senso del discorso di Stazio. L’altare della Clemenza, dono originario degli dèi all’umanità, è al centro di una scena da cui gli dèi sono ormai quasi assenti, e l’intervento provvidenziale di Teseo, figura di Giove, soccorre un mondo epico in cui la provvidenza di Giove è tramontata.  



i. 2. 4. L’eroe, Giove, l’imperatore : clementia e provvidenza  

Con lo sviluppo dell’ideologia imperiale, e delle convenzioni panegiristiche ed encomiastiche, mutano le forme in cui la cultura romana configura il rapporto tra religione e potere. È il principe, eletto dagli dèi, dono degli dèi, a rappresentare in terra la provvidenza divina : lo dichiara in apertura il De  

1  Cf. anche ad Pol. 16, 6. Vedi Degl’Innocenti Pierini 1990, pp. 246-248. 2  Cat. 64, 405-406 omnia fanda nefanda malo permixta furore / iustificam nobis mentem avertere deorum ; Verg. georg. 1, 503-505 iam pridem nobis caeli te regia, Caesar, / invidet atque hominum queritur curare triumphos, / quippe ubi fas versum atque nefas ; Hor. carm. 1, 2, 47-49 neve te nostris vitiis iniquum / ocior aura // tollat.  



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clementia di Seneca, lo ribadisce in incipit il Panegirico di Plinio. 1 Il quadro teorico, tra il De clementia e il Panegirico, resta invariato ; quello che cambia è il risalto dato ai diversi elementi. Scelto da Giove e da Giove garantito – come la teoria continua a riaffermare –, l’imperatore può di fatto apparire ormai come l’unico, vero e autonomo garante della provvidenza tra gli uomini. La presenza del sovrano fa sì che non si senta la mancanza di Giove, libero ormai, grazie a lui, di disinteressarsi della terra :  





talia esse crediderim, quae ille mundi parens temperat nutu, si quando oculos demisit in terras, et fata mortalium inter divina opera numerare dignatus est ; qua nunc parte liber solutusque tantum caelo vacat, postquam te dedit, qui erga omne hominum genus vice sua fungereris. fungeris enim sufficisque mandanti, cum tibi dies omnis summa cum utilitate nostra, summa cum tua laude condatur. (Plin. paneg. 80, 4)  

Colpisce il rovesciamento di prospettiva rispetto alla concezione religiosa tradizionale. Se mai è esistita una provvidenza divina, un Giove capace di volgere lo sguardo alla terra, il suo intervento nelle cose umane deve trovare un modello nella condotta visibile e tangibile dell’imperatore : talia esse crediderim … si quando … dignatus est. Appare quasi capovolta l’ottica di Seneca, in cui è il sovrano, scelto dagli dèi per svolgere in terra la loro funzione, che deve proporsi di imitare il modello divino e può così apparire quasi un dio. 2 L’imperatore può uguagliare gli dèi facendo sue le prerogative divine del servare e del beneficare : il De clementia, che sulla divinità del principe si esprime in forme caute e moderate, restando al di qua della vera e propria divinizzazione, si accorda in questo col Cicerone del De republica, prima ancora che delle orazioni cesariane. 3 Per Plinio, che pure dichiara di rifiutare il culto divino dell’imperatore (paneg. 2, 3 nusquam ut deo, nusquam ut numini blandiamur), i termini tradizionali del rapporto tra il sovrano e Giove possono invece essere invertiti – l’imitazione del dio appare ormai così perfetta da rendere quasi superfluo l’originale.  







1  Sen. clem. 1, 1, 2 ‘egone ex omnibus mortalibus placui electusque sum qui in terris deorum vice fungerer ?’ ; Plin. paneg. 1, 3-6 quod enim praestabilius est aut pulchrius munus deorum quam castus et sanctus et dis simillimus princeps ? …ab Iove ipso coram ac palam repertus electus est … te, Iuppiter optime, antea conditorem, nunc conservatorem imperii nostri… Cf. Ferri 2003, a Octavia 487-489 ; Fears 1977. 2  Sen. clem. 1, 7, 1-2 …optime hoc exemplum principi constituam, ad quod formetur, ut se talem esse civibus quales sibi deos velit … quanto aequius est hominem … miti animo exercere imperium… ! ; 1, 19, 8-9 quis ab hoc non, si possit, fortunam quoque avertere velit … sub quo opulenta civitas copia bonorum omnium abundat nec alio animo rectorem suum intuetur, quam, si di immortales potestatem visendi sui faciant, intueamur venerantes colentesque ? 9 quid autem ? non proxumum illis locum tenet is, qui se ex deorum natura gerit, beneficus ac largus et in melius potens ? hoc adfectare, hoc imitari decet : Maximum ita haberi, ut Optimus simul habeare. Vedi Braund 2009, ad loc. ; Griffin 1976, pp. 219-221. Cf. Lettera di Aristea, 188 …mimouvmeno~ to; tou` qeou` dia; panto;~ ejpieikev~, « se imiterai la costante clemenza di Dio ». 3  Cic. rep. 1, 12 neque enim est ulla res, in qua propius ad deorum numen virtus accedat humana, quam civitatis aut condere novas aut conservare iam conditas ; 6, 16 ; Marcell. 8 haec qui faciat … eum … simillimum deo iudico ; Lig. 38 homines enim ad deos nulla re propius accedunt quam salutem hominibus dando.  







   





















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È la clementia, anche secondo Plinio, che avvicina il principe al divinità : la clemenza non solo intesa come moderazione nel punire, ma estesa a significare la provvida disponibilità a intervenire ovunque, sempre e con prontezza là dove è richiesta assistenza. 1 Tuttavia, è la provvidenzialità dell’imperatore che, ormai, può fornire un modello alla stessa provvidenza divina. Una provvidenza che non c’è più bisogno di immaginare all’opera in cielo : la divina capacità di soccorso rende il sovrano davvero atto a sostituire Giove in terra, in senso pieno e letterale :  







quid ? in omnibus cognitionibus quam mitis severitas, quam non dissoluta clementia ! … [3] o vere principis atque etiam dei curas, reconciliare aemulas civitates, tumentesque populos non imperio magis quam ratione compescere ; intercedere iniquitatibus magistratuum, infectumque reddere quidquid fieri non oportuerit ; postremo velocissimi sideris more omnia invisere omnia audire, et undecumque invocatum statim velut adesse et adsistere ! (Plin. paneg. 80, 1 ; 3)  











È l’immagine che anche il Seneca meno sorvegliato, più marcatamente panegiristico, della Consolatio ad Polybium dà dell’imperatore, maximum et clarissimum numen, e della sua clementia (non ancora distinta, come nel trattato, dalla misericordia) : una forza benefica capace di percorrere il mondo intero, portando soccorso a tempo debito, senza trascurare nessuno ;  



…quae ex virtutibus eius primum optinet locum … clementia… [3] …interim magnum miseriarum mearum solacium est videre misericordiam eius totum orbem pervagantem … non vereor ne me unum transeat. ipse autem optime novit tempus quo cuique debeat succurrere … [4] o felicem clementiam tuam, Caesar… 2 (Sen. ad Pol. 13, 2-4)  

L’immediatezza quasi miracolosa dell’intervento imperiale è un’approssimazione alla potenza divina, anzi, è vista ormai come la manifestazione più piena del divino. Il rovesciamento di prospettiva nella visione dei rapporti tra mondo umano e divino è ancora più evidente in un altro aspetto. In Carmina 3, 5 Orazio mette in parallelo la fede in Giove Tonante, signore del cielo, con la fede nel praesens divus, Augusto, di cui sono argomento le vittorie sui nemici : carm.  

1  Cf. Lettera di Aristea 190 …e{teron ejphrwvta: pw`~ a[n eujnovou~ eJautw`/ e[coi tou;~ fivlou~… kajkei`no~ ei\pen: “eij qewroivhsan pollhvn se provnoian poiouvmenon w|n a[rcei~ o[clwn: su; de; tou`to pravxei~ ejpiblevpwn wJ~ oJ qeo;~ eujergetei` to; tw`n ajnqrwvpwn gevno~, oJ uJgeivan aujtoi`~ kai; trofh;n kai; ta; loipa; kata; kairo;n paraskeuavzwn a{panta”, « chiese a un altro come mantenere la benevolenza degli amici. E  

quegli rispose : “La manterrai se vedranno che avrai grande sollecitudine per le popolazioni che governi. E questo lo farai se osserverai come Dio colma di benefici il genere umano, Dio che procura agli uomini salute, cibo e ogni altra cosa al momento giusto” » (tr. di F. Calabi). 2  Sulla vera e propria divinizzazione dell’imperatore, sottolineata dalla simbologia solare, in ad Pol. 12, 3-4 (attolle te, et quotiens lacrimae suboriuntur oculis tuis, totiens illos in Caesarem derige : siccabuntur maximi et clarissimi conspectu numinis ; fulgor eius illos … praestringet… [4] hic tibi … hic contra fortunam advocandus) cf. Degl’Innocenti Pierini 1990, pp. 245-246.  







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3, 5, 1-4 caelo Tonantem credidimus Iovem / regnare : praesens divus habebitur / Augustus adiectis Britannis / imperio gravibusque Persis. Per risposta a Orazio, Marziale trasforma la paratassi in subordinazione : Mart. 7, 60, 1-2 Tarpeiae venerande rector aulae, / quem salvo duce credimus Tonantem. La fede in Giove è fatta dipendere ormai dalla salvezza dell’imperatore, ed è la salvezza dell’imperatore a fondare la fede in Giove : una visione non diversa nella sostanza da quella oraziana, ma lontanissima nel tono e nelle implicazioni. L’Ovidio dell’esilio ha aperto la strada alla poesia flavia. Rivolgendosi al « dio presente », che solo la distanza da Roma autorizza a chiamare absentia numina, il poeta condannato dichiara che è l’imperatore, fonte di prosperità, la prova vivente del favore degli dèi verso gli uomini : Ov. trist. 5, 2, 45-54 adloquor en absens absentia numina supplex, / si fas est homini cum Iove posse loqui. / arbiter imperii, quo cer tum est sospite cunctos / Ausoniae curam gentis habere deos, / o decus, o patriae per te florentis imago, / o vir non ipso, quem regis, orbe minor – / sic habites terras et te desideret aether, / sic ad pacta tibi sidera tardus eas – / parce, precor, minimamque tuo de fulmine partem / deme. L’implicazione è chiara : è l’imperatore stesso, vero Giove vivente, che si identifica ormai con la provvidenza, che rappresenta, anzi, una provvidenza visibile e tangibile, ben più di quella divina. Marziale fa un passo ulteriore, e subordina la fede stessa negli dèi alla presenza dell’imperatore (2, 91, 1-2 rerum certa salus, terrarum gloria, Caesar, / sospite quo magnos credimus esse deos). Dal parallelismo tra l’imperatore e Giove si passa dunque ad affermare, tra le righe o in modo aperto, la superiorità del praesens numen, più vicino, efficace ed importante degli dèi e di Giove stesso : è il sovrano che assicura pace perpetua e benessere sulla terra. 1 La poesia encomiastica latina si riavvicina così a quella ellenistica, alla contrapposizione fra il sovrano presente e la distanza o assenza degli dèi espressa nell’inno itifallico a Demetrio Poliorcete :  



















“Alloi me;n h[ makra;n gar ajpevcousin qeoiv, h[ oujk e[cousin w\ta, h[ oujk ei[sin, h[ ouj prosevcousin hJmi`n oujde; e{n, se; de; parovnq∆ oJrw`men, ouj xuvlinon oujde; livqinon, ajll∆ ajlhqinovn

Gli altri dèi o sono molto lontani, o non hanno orecchie, o non ci sono, o non si curano affatto di noi, te invece noi vediamo presente, non di legno né di pietra, ma reale. (Athen. 6, 253e = Powell, Coll. Alex. p. 174, 15-19)

Anche in ambiti diversi la letteratura flavia mostra un orientamento analogo. Un funzionario fedele ai Flavi come Plinio il Vecchio esibisce, all’inizio del libro cosmologico della sua enciclopedia, una critica radicale della religione tradizionale e della teologia favolosa ; ad esse è contrapposta una concezione  

1  Per la contrapposizione tra la distanza degli dèi e il praesens numen dell’imperatore cf. Ov. trist. 4, 4, 20 quorum hic aspicitur, creditur ille deus e Nisbet, Rudd 2004, a Hor. carm. 3, 5, 11 ss. (Val. Max. 1 praef. ; Curt. 8, 10, 1).  

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evemeristica, mescolata a un panteismo di sapore stoico, come fede nella divinità della natura, e a cenni di culto solare : 1 una visione che culmina nell’esaltazione di Vespasiano e dei suoi figli, destinati per i loro meriti al cielo :  





deus est mortali iuvare mortalem, et haec ad aeternam gloriam via. hac proceres iere Romani, hac nunc caelesti passu cum liberis suis vadit maximus omnis aevi rector Vespasianus Augustus fessis rebus subveniens. (Plin. nat. 2, 18)

La portata ideologica, e velatamente propagandistica, di questa costruzione composita è messa in luce da Sandra Citroni Marchetti : Plinio istituisce un implicito parallelismo tra il benefico corso del sole, rector dell’universo, e l’evergetismo che innalza al cielo il rector imperiale ; mentre salva, per convenienza utilitaristica, la fede in un intervento divino nelle cose umane che si impegna a confutare in sede teorica, 2 dà invece una netta preminenza all’azione ‘divina’ dell’imperatore nel mondo : deus est mortali iuvare mortalem.  







Il divino è sempre qualcosa che si presenta dal punto di vista degli uomini … la divinità si riflette dall’universo al sole all’imperatore : non una divinità ontologicamente affermata, ma una qualità divina che è giusto attribuire da un punto di vista umano, guardando all’utilità delle opere. Ciò che è supremo deve essere concepito nella sua unità perfetta, senza dividersi e macchiarsi a contatto dei bisogni umani : ai quali sono invece delegate delle entità che su di esso si modellano, sviluppando la propria vocazione di utilità. 3  





La svalutazione di Giove a vantaggio del sovrano è un processo preparato di lontano, a cui collaborano sollecitazioni culturali molteplici. La poesia panegiristica, da Stazio stesso praticata, dà un contributo rilevante ; è ancora qui che, su modello ellenistico, l’imperatore può soppiantare Giove, e le Muse, anche come principio e ispirazione del canto : una contrapposizione che si fa esplicita in Germanico, o in Calpurnio Siculo. 4 A Iove principium è l’insegna delle Silvae – ma Giove ha preso ormai le sembianze dell’imperatore. Torniamo alla Tebaide. Nel finale del poema, come nelle Silvae, Stazio sembra invertire i rapporti di forza tra Giove e il suo rappresentante terreno – ve 





1  Cf., dopo Scott 1932, Attridge 1978, pp. 60-61 ; Köves-Zulauf 1978, pp. 194-195. 2  Nat. 2, 20 agere curam rerum humanarum illud, quicquid est, summum ac tam tristi atque multiplici ministerio non pollui credamus dubitemusne ? ; 2, 26 verum in his deos agere curam rerum humanarum credi ex usu vitae est poenasque maleficiis aliquando seras, occupato deo in tanta mole, numquam autem inritas esse nec ideo proximum illi genitum hominem, ut vilitate iuxta beluas esset. 3  Citroni Marchetti 1991, pp. 21 ss., citazioni dalle pp. 23 e 25. 4  Germ. Arat. 1-4 ab Iove principium magno deduxit Aratus. / carminis at nobis, genitor, tu maximus auctor, / te veneror tibi sacra fero doctique laboris / primitias. probat ipse deum rectorque satorque ; Calp. Sic. 4, 82-86 ab Iove principium, si quis canit aethera, sumat, / si quis Atlantiaci pondus molitur Olympi. / at mihi, qui nostras praesenti numine terras / perpetuamque regit iuvenili robore pacem, / laetus et augusto felix arrideat ore ; Rosati 2002, pp. 242-244. Per l’identificazione con Giove in Calpurnio cf. anche 4, 142-146 (Amyntas) tu quoque mutata seu Iuppiter ipse figura, / Caesar, ades seu quis superum sub imagine falsa / mortalique iaces – es enim deus –, hunc, precor, orbem, / hos, precor, aeternus populos rege ! sit tibi caeli / vilis amor coeptamque, pater, ne desere pacem !  













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dremo in seguito che, a tratti, la presentazione di Teseo ha quasi l’andamento encomiastico di una silva. La mancata autorità morale e la mancata presenza di Giove a garanzia di un piano provvidenziale vengono messe in contrasto con l’azione di un sovrano paragonato a Giove, che si sostituisce a lui nello scioglimento epico. 1 La tensione tra i due poli del poema fa convivere esemplarità e pessimismo nella lettura del mito e, per analogia, della storia. Manca all’architettura epica un impianto teleologico che esprima fiducia in un progetto divino positivo e a lungo termine, capace di assicurare un futuro stabile a Tebe, e forse a Roma ; c’è però la consapevolezza, maturata nella crisi dell’impero nel suo primo secolo di vita, che da ogni crisi di potere (a Tebe, o a Roma) si può uscire grazie alle doti militari, politiche e morali di un capo : un sovrano che riaffermi giustizia e clemenza, si opponga al tiranno e appaia, ogni volta, un uomo della provvidenza. La svolta finale dell’epos esprime un ottimismo relativo : la coscienza problematica che l’empietà ricorrente del mondo umano può essere corretta, ogni volta, dall’azione ‘divina’ di un capo ideale. C’è di più. Il ruolo di Giove nella Tebaide è discusso, da un punto di vista poetico e politico : un dio che progetta il nefas, e scompare prima che si compia, non solo mette in crisi l’idea di provvidenza, ma rende problematica l’immagine del potere ; nella tradizione epica, la somma autorità divina è specchio e modello della somma autorità terrena, a cui fornisce legittimazione : così, critici come Dominik leggono nel presunto ritratto tutto in negativo del dio (oltre che in quello di Teseo) una critica diretta a Domiziano. 2 Io credo che la prospettiva possa essere rovesciata : la debolezza di un potere divino in parte screditato è messa in contrasto, nel poema, con l’efficacia di un potere umano dai lineamenti ideali. I tratti problematici di Giove e il suo abdicare prima della chiusa lasciano la scena libera e danno il massimo risalto a Teseo : un « eroe autosufficiente », paragonato a Giove, che agisce in nome degli dèi senza un’apparente regìa divina ; 3 e un modello umano di regalità superiore al modello divino offerto dal poema. L’epica negativa dei primi undici libri solleva dubbi sulla teodicea e suscita una visione tragica, ma la frattura del poema concilia il pessimismo con la speranza, e contrappone alla distruttiva punizione divina un tentativo umano di ricostruzione, ispirato a ideali etici e politici che gli dèi non riescono più ad incarnare. L’invenzione di una provvidenza assente esalta il ruolo di un uomo della provvidenza : anche in questo, la Tebaide è un’epica del paradosso. L’audace innovazione introdotta da Stazio nella forma epica presuppone un retroterra culturale in gran parte trasformato rispetto all’età augustea, e si spiega anche con un mutamento ideologico. Il ruolo di Teseo nell’assenza di Giove è, a  





























1  Sulla complementarietà tra Teseo e Giove cf. Braund 1996, pp. 15-16 e n. 42. 2  Dominik 1994, spec. pp. 161-167. Per le ripercussioni che il ritratto non esemplare di Giove nelle Metamorfosi può avere sull’analogia tra Giove e Augusto, dichiarata all’inizio e alla fine del poema, cf. Feeney 1991, pp. 214-224. 3  Cf. Feeney 1991, p. 362 ; Hardie 1993, p. 48.  

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mio parere, la realizzazione narrativa di un’ideologia imperiale matura, per la quale l’unica vera provvidenza è la salvezza del sovrano : una visione del potere che trova, come sempre, legittimazione teorica e modelli di riferimento nel potere divino, ma che, di fatto, affida ormai alla suprema autorità terrena la sola realizzazione possibile di un ordine del mondo. Per via indiretta, l’affermarsi del culto imperiale a spese della religione tradizionale contribuisce a corrodere una rappresentazione epica degli dèi già messa in discussione dalle critiche alla teologia mitica e insidiata dai dubbi della tragedia ; se manca nella Tebaide qualsiasi cenno a una vera divinizzazione di Teseo, 1 la preminenza data al potere terreno su quello divino segna un’affermazione quasi autonoma dell’autorità umana : non solo riflesso visibile di una divinità assente, ma sostituto credibile di un potere screditato. La superiorità morale e operativa di Teseo su Giove consiste nella capacità di realizzare la clementia, nel senso pieno e rinnovato proposto dal poema. Il confronto fra clemenza divina e umana è impostato all’inizio, con rilievo programmatico, nella storia di Apollo e Corebo : un aition in cui il dio dà prova di efferatezza, finché non è indotto a mitigare l’ira dall’eroismo esemplare del suo oppositore. 2 La protesta dell’eroe dà voce a un interrogativo inquietante sui rapporti tra uomini e dèi, che in chiusa al primo libro grava sull’avvio del racconto :  













‘quodsi monstra effera magnis cara adeo superis, iacturaque vilior orbi mors hominum, et saevo tanta inclementia caelo est…’. (Theb. 1, 648-650)

Stazio riprende, insieme col composto negativo inclementia (forse conio virgiliano), 3 il contesto più problematico nella rappresentazione degli dèi nell’Eneide, la rivelazione di Venere al figlio nell’ultima notte di Troia :  



‘divum inclementia, divum has evertit opes sternitque a culmine Troiam’. (Aen. 2, 602-603)

1  Un cenno si potrebbe scorgere in 12, 583-584 ‘sic tibi … nec sacer invideat paribus Tirynthius actis’ ; l’augurio di Evadne riecheggia le parole dell’Apollo virgiliano, che, profetizzata l’apoteosi di Ascanio (Aen. 9, 641-642 ‘macte nova virtute, puer, sic itur ad astra, / dis genite et geniture deos’), gli si rivolge con le sembianze di Bute e gli rivela che il dio ammira senza fqovno~ un’impresa pari alle sue : Aen. 9, 654-655 ‘primam hanc tibi magnus Apollo / concedit laudem et paribus non invidet armis’. Si tratta tuttavia di un caso isolato, che allude a un elemento di tradizione non valorizzato nella Tebaide : il culto di Teseo non si afferma al di fuori dell’Attica, e tanto meno a Roma (come invece quello di Ercole ; cf. tuttavia l’affresco pompeiano che ritrae Vespasiano divinizzato fra Ercole e Teseo, su cui Schefold 1972, p. 201 ; Nisbet, Rudd 2004, a Hor. carm. 3, 3, 11-12), mentre il mito dell’eroe, di cui Stazio rivaluta l’immagine, comprende addirittura una condanna eterna nell’Ade, rappresentata nell’Eneide (cf. infra, cap. iv, § 3 e Introd., p. 29 n. 2). 2  Cf. Delarue 2006a. 3  Già in georg. 3, 68.  









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Una visione tragica, in cui Giove stesso istiga gli dèi alla distruzione (2, 617618), e quasi una realizzazione narrativa della riflessione finale delle Trachinie sulla qew`n ajgnwmosuvnh (Soph. Trach. 1266). 1 Ha ragione Randall Ganiban a indicare nell’immagine di Apollo, ingiustamente feroce e infine placato da Corebo, una riflessione sul potere assoluto in termini nuovi rispetto all’Eneide : « In questo mondo di oppressiva autocrazia, la clementia … è divenuta la virtù ideale ». 2 Io non credo, tuttavia, che « l’esercizio tirannico del potere attraverso la clementia » esaurisca il discorso politico della Tebaide. Vedo piuttosto, in questo tragico tema iniziale, sviluppato con variazioni per gran parte del poema, lo sfondo su cui deve risaltare, infine, la diversa clementia di Atene e di Teseo, e la svolta del racconto. L’architettura è studiata. All’inclementia divina dell’esordio corrisponde, sul finire dell’undicesimo libro, l’inclementia regum rappresentata (ancora una volta) da Creonte (11, 684) ; ma l’intervento ateniese, deciso con impegno religioso e politico presso l’ara Clementiae, fa infine deviare il percorso del poema, e conduce dalla visione della tirannia a quella di una monarchia ideale, da un problematico potere divino a un’autorità umana esemplare, da una clementia screditata a una clementia rifondata. Non a caso, la descrizione dell’ara si apre con una movenza negativa (prima di una serie) che definisce la sede sacra per esclusione degli « dèi potenti » : nulli concessa potentum / ara deum (12, 481-482) ; lo stesso altare che protegge dall’arbitrio dei tiranni (12, 504-505 unde procul starent iraeque minaeque / regnaque) è messo al riparo dal potere degli dèi : quasi a tenere lontano lo spettacolo tragico del potere, umano e divino, inscenato fin qui nel poema. Questa presa di distanza del narratore lascia emergere l’insoddisfazione per la teologia tradizionale, insieme all’inquietudine per le degenerazioni dell’autocrazia, ed esprime un’uguale esigenza di rinnovamento, della religione e del potere. Sull’esercizio della clemenza la Tebaide imposta un confronto tra Giove e Teseo. Stazio presta al dio supremo la coscienza riflessiva delle accuse a lui rivolte nella tradizione letteraria : la giustificazione del suo ritiro di fronte al nefas, come osservato sopra, è una risposta alle critiche di Lucano. Anche altrove il Giove di Stazio previene accuse note e già previste. Lo prova il ‘discorso della clemenza’, com’è stato definito il discorso a Bacco in 7, 195-221. 3 Qui Giove replica alle critiche dei poeti epici e tragici, mentre tenta di appropriarsi dei tratti di moderazione nel punire che la poesia panegiristica attribuiva all’imperatore, proponendo come modello proprio la misura del sommo dio nel dispensare punizioni e nell’uso del fulmine. È evidente la preoccupazione di Stazio di ripulire la figura di Giove rispetto alla tradizione epica, in particolare ovidiana. Ma fino a un certo punto : il dio che ribatte le accuse o si sforza  

































1  Vedi Gasti 2006 (contra, Horsfall 2008, a 2, 602). Cf. Barchiesi 2006, pp. viii-ix. 2  Ganiban 2007, p. 21. 3  Smolenaars 1994, a 193-226, e introd., pp. xix-xx.

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di prevenirle non riesce a imporre in modo credibile la sua autorità morale, e non esce dall’ottica puramente negativa e distruttiva del castigo, sia pure ritardato (e perciò ‘clemente’). La pacata risposta di Giove (placida orsa 7, 195) dichiara che la guerra contro Tebe non è una sua concessione all’ira di Giunone, ma ha cause antiche, fissate dai fati, che giungono tardi a realizzazione (veteres seraeque in proelia causae 7, 198) ; a dimostrarlo, rivendica la propria quies irarum e adduce prove della propria riluttanza a punire gli uomini :  



‘nam cui tanta quies irarum aut sanguinis usus parcior humani ? videt axis et ista per aevum mecum aeterna domus quotiens iam torta reponam fulmina, quam rarus terris hic imperet ignis. quin etiam invitus magna ulciscendaque passis aut Lapithas Marti aut veterem Calydona Dianae expugnare dedi : meaque est iactura pigetque tot mutare animas, tot reddere corpora vitae. Labdacios vero Pelopisque a stirpe nepotes tardum abolere mihi ; scis ipse (ut crimina mittam Dorica) quam promptae superos incessere Thebae…’. 1 (Theb. 7, 199-209)  







L’autoapologia impiega slogans e parole d’ordine della clemenza, come l’essere parcus del sangue altrui, 2 o il punire « raramente », tardi e invitus : basti citare il modello di sovrano clemente disegnato da Ovidio in Pont. 1, 2, 121-126 sed piger ad poenas princeps, ad praemia velox, / quique dolet, quotiens cogitur esse ferox… multa metu poenae, poena qui pauca coercet, / et iacit invita fulmina rara manu. 3 Questo Giove ‘sa’ che la professione di clemenza è irrinunciabile per un sovrano, tanto più per il re dell’universo, su cui ogni sovrano, in particolare l’imperatore romano, viene invitato a modellarsi (come Augusto in Tristia 2 e altrove). 4 Il dio di Stazio è un buon conoscitore della letteratura peri; basileiva~. Allo stesso tempo, gli exempla mitici da lui portati ribattono punto per punto le accuse di Giunone in Verg. Aen. 7, 304-307 (‘Mars perdere gentem / immanem Lapithum valuit, concessit in iras / ipse deum antiquam genitor Calydona Dianae, / quod scelus aut Lapithas tantum aut Calydona merentem ?’) e il  













1  Al v. 205 meaque est, lezione dei deteriori, è stampato dalla maggior parte degli editori e da Smolenaars 1994, di cui si veda la discussione ; Hill 1983 accetta nimia, di Phillimore ; Hall 2007 stampa il suo emendamento mentem est. 2  Cf. Claud. cons. Stil. 2, 28-29 nostrique cruoris / parcus ; inoltre paneg. iv cons. Hon. 114 poenae parcus erat. 3  Cf. Pont. 2, 2, 115 ss., con Galasso 1995, a 117-118. Vedi supra, § i. 1. 3, p. 43 n. 3. 4  Ov. trist. 2, 33-42 si, quotiens peccant homines, sua fulmina mittat / Iuppiter, exiguo tempore inermis erit ; / nunc ubi detonuit strepituque exterruit orbem, / purum discussis aera reddit aquis. / iure igitur genitorque deum rectorque vocatur, / iure capax mundus nil Iove maius habet. / tu quoque, cum patriae rector dicare paterque, / utere more dei nomen habentis idem. / idque facis, nec te quisquam moderatius umquam / imperii potuit frena tenere sui.  







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rammarico per la iactura di vite umane fa tesoro della reazione degli dèi alla delibera del diluvio in Ov. met. 1, 246-247 est tamen humani generis iactura dolori / omnibus… 1 C’è quasi una punta di grottesco, in questo rincrescimento per le perdite umane che rappresentano, per il dio, un aggravio di lavoro, dover restituire alla vita tanti nuovi corpi e nuove anime. 2 Un dio preoccupato della sua reputazione e che, fin dal primo libro, muove riluttante a un ruolo punitivo tante volte reiterato nell’epica (mentre ricapitola gli episodi dell’incendio e del diluvio universale nelle Metamorfosi) :  





‘terrarum delicta nec exaturabile Diris ingenium mortale queror. quonam usque nocentum exigar in poenas ? taedet saevire corusco fulmine…’. (Theb. 1, 214-217)  

L’incipit terrarum delicta riassume un programma punitivo, a cui fa eco la protesta di Giunone : ‘quo tempore tandem / ter rar um furias abolere et saecula retro / emendare sat est ?’ (1, 268-270). Nella Tebaide, la responsabilità di Giove nei confronti della terra appare ridotta al compito di punire, e limitata a un orizzonte di distruzione. Il discorso a Bacco del settimo libro, che richiama il discorso a Venere nel primo dell’Eneide, si chiude con la profezia, non di un futuro positivo, ma di una nuova e definitiva sconfitta di Tebe, per mano degli Epigoni : 7, 219-221 ‘sed tu super urbe moveri / parce tua : non hoc statui sub tempore rebus / occasum Aoniis, veniet suspectior aetas / ultoresque alii : nunc regia Iuno queretur’. Nell’Eneide, il modulo profetico veniet … aetas annunciava un futuro glorioso e un imperium sine fine (Aen. 1, 279, 283 ‘veniet lustris labentibus aetas…’) ; Lucano lo aveva stravolto con sarcasmo, nel lamento sulla morte di Pompeo (Lucan. 8, 869 veniet felicior aetas…) ; Stazio riprende Virgilio attraverso Lucano, e distrugge dall’interno l’impianto teleologico dell’Eneide. Invece di garantire l’eternità alla propria discendenza, che da Venere, attraverso Enea, giungerà ad Augusto, il Giove della Tebaide si propone di annientare la propria stessa stirpe : una replica ossessiva del tema della guerra intrafamiliare, che coinvolge nel poema il mondo divino (Theb. 1, 224-225 ‘nunc geminas punire domos, quis sanguinis auctor / ipse ego, descendo’ ; 242-243 ‘totumque a stirpe revellam / exitiale genus’). 3  



















1  Entrambi i passi sono citati da Smolenaars 1994, ad loc. 2  Cf. Delarue 2000, p. 298 : « on ne peut manquer de penser à une ironie dont le modèle serait Ovide ». 3  Cf. 1, 250-251 ‘mene, o iustissime divum, / me bello certare iubes ?’ ; 1, 260 ‘quin age, si tanta est thalami discordia sancti…’ ; 3, 269-272 ‘bella etiam in Thebas, socer o pulcherrime, bella / ipse paras ferroque tuos abolere nepotes ? / nec genus Harmoniae… morantur ?’ (inoltre lo scongiurato scontro fraterno tra Ercole e Pallade in 8, 502 ss., 526 ss.) ; su Plutone e Giove cf. infra, cap. ii, § 4. Il coinvolgimento degli dèi nei conflitti intrafamiliari è inscritto nella storia di Tebe fin dai primordi : cf. 1, 11 unde graves irae cognata in moenia Baccho.  



















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‘Terrarum delicta’ : così esordisce Giove nella Tebaide. ‘Terrarum leges’ : così esordisce Teseo, nel discorso alle truppe che enuncia scopi e principi della spedizione :  





‘terrarum leges et mundi foedera mecum defensura cohors, dignas insumite mentes coeptibus : hac omnem divumque hominumque favorem Naturamque ducem coetusque silentis Averni stare palam est ; illic Poenarum exercita Thebis agmina et anguicomae ducent vexilla sorores. ite alacres tantaeque, precor, confidite causae’. (Theb. 12, 642-648)  



È al sovrano di Atene che spetta « difendere le leggi della terra e i patti che legano l’universo » : un compito di ricostruzione opposto all’impegno distruttivo di Giove, e una responsabilità dell’ordine cosmico che si sostituisce a quella divina. Il rispetto delle leggi è ciò che distingue Atene da Tebe : le leges sono tra i doni originari degli dèi all’umanità, elencati nell’ekphrasis dell’ara Clementiae (12, 501), ed è in nome delle leges che Teseo prende le armi, in una manifesta solidarietà di valori tra il sovrano e la città. Dall’infrazione del patto di alternanza al potere, all’inizio del poema, attraverso la violazione delle leggi del sangue nel duello, e attraverso l’empia legge che è il divieto di Creonte, 1 si giunge infine alla restituzione delle leggi e dei patti universali : l’universale diritto alla sepoltura e, con esso, la legge stessa che tiene insieme l’universo. Il mito tebano viene riletto nei termini dell’ideologia imperiale. Un altro brano, in Stazio, ha l’ampiezza cosmica di questa visione : è il passo che, nelle Silvae, enuncia una sorta di lex parendi universale, e lega in una concezione organica l’obbedienza dei sudditi ai re, dei re a Roma, di Roma all’imperatore, dell’imperatore agli dèi, degli dèi alle leggi del cosmo (silv. 3, 3, 48-58 quid enim terrisque poloque / parendi sine lege manet ? vice cuncta reguntur / alternisque premunt. propriis sub regibus omnis / terra ; premit felix regum diademata Roma ; / hanc ducibus frenare datum ; mox crescit in illos / imperium superis. sed habent et numina legem : / servit et astrorum velox chorus et vaga servit / luna, nec iniussae totiens redit orbita lucis, / et (modo si fas est aequare iacentia summis) / pertulit et saevi Tirynthius horrida regis / pacta, nec erubuit famulantis fistula Phoebi). Un brano di forte valenza ideologica, analizzato da Gianfranco Lotito in uno studio importante. 2 È evidente la matrice stoica di una tale visione : una compatta struttura gerarchica organizza la società e il mondo secondo  



























1  Cf. 1, 138-139 alterni sub legibus anni … iure maligno ; 2, 394 dicti … foederis ; 3, 72-74 ‘dum pellere leges / et consanguineo gliscis regnare superbus / exule’ ; cf. 2, 386 trans legem et tempora regni ; 11, 380 ‘nempe ille fidem et stata foedera rupit’ ; 11, 394-395 ‘o mihi nunc primum longo post tempore frater, / congredere : hae leges, haec foedera sola supersunt’ ; 12, 180 Ogygias leges immansuetumque Creonta ; 477 infandi leges … regni ; cf. 4, 641 et ab igne supremo / sontes lege morae. 2  Lotito 1974-1975, pp. 308-312.  

















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una necessità universale, che è la legge metafisica del potere assoluto. Autorità imperiale e leggi dell’universo sono parti di uno stesso ordine naturale : la buona monarchia rispecchia e garantisce l’armonia del cosmo. Leggi della terra e del cosmo, dèi, uomini, natura, anime dei morti (12, 642645) : l’azione riparatrice di Teseo restituisce l’armonia universale violata, col riconciliare elementi in conflitto tra loro, mentre, schierando su fronti opposti le divinità olimpiche e infernali (hac … illic), ripristina una distinzione e una gerarchia tra poteri che il caos morale del poema aveva confuso in alleanza. L’ordine del mondo appare ristabilito ad opera di un sovrano ideale. Parole e principi enunciati da Teseo sono in parte gli stessi di Giove, nel proclama del settimo libro :  





‘ast ego non proprio diros impendo dolori Oedipodionias : rogat hoc tellusque polusque et pietas et laesa fides naturaque et ipsi Eumenidum mores’.  

(Theb. 7, 215-218)

Lo sguardo cosmico è lo stesso, ma le differenze sono rilevanti. Quelle che Giove chiamava Eumenidi, e Teseo Pene o Furie, sono ricacciate infine sul fronte empio di Tebe ; l’alleanza problematica tra sovrano celeste e potenze infernali, uniti dalla necessità di punire il nefas familiare, è sciolta ; ed è sciolto il nodo tragico che costringeva Giove, per punire le offese alla pietas, a scatenare un nefas capace di scacciare la stessa Pietas, offesa, dalla scena del poema. In nome dell’ordine cosmico Giove avvia la problematica azione della Tebaide, e Teseo la porta a soluzione. Stazio ha distribuito tra il dio e l’eroe il compito della distruzione e quello della ricostruzione : in termini narrativi, la funzione punitiva e quella propriamente provvidenziale. Se il dio fa professione di clementia per giustificare il suo castigo – una clementia ‘negativa’ –, Teseo afferma con la sua azione una clementia più ampia, rinnovata, approfondita, ritrovata nel senso più pieno comunicato dall’ekphrasis sull’ara ateniese : l’atteggiamento di un potere non solo moderato nel punire, ma protettivo e benefico, e animato dalla coscienza di una missione salvifica. La progressione del poema dagli dei potentes, attraverso le personificazioni divine (Virtus, Pietas), alla mitis Clementia, personificata ma non personaggio, che agisce per mezzo di Teseo, è un avvicinamento progressivo dal mondo degli dèi alle qualità divine del mondo umano : e culmina nel ruolo, davvero ‘divino’, del sovrano come salvatore degli altri uomini. La definizione di Clementia, nella descrizione dell’ara, come divinità che mentes habitare et pectora gaudet (12, 494) non è, io credo, l’insegna di una religiosità intima e privata contrapposta alla sfera pubblica, ma il programma etico-politico tracciato per un potere ideale : così lo intenderà un interprete attento di Stazio, Claudiano, che riferirà l’immagine a Stilicone : cons. Stil. 2, 12-13 haec dea [sc. Clementia] pro templis et ture calentibus aris / te fruitur posuitque suas hoc pectore sedes.  













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L’ultima protesta contro Giove, nel poema, è espressa da Evadne nella supplica a Teseo :  

‘heu princeps Natura ! ubi numina, ubi ille est fulminis iniusti iaculator ? ubi estis, Athenae ?’ (Theb. 12, 561-562)  





Alla moglie di Capaneo il dio sommo, autore di una punizione « ingiusta », appare assente quando dovrebbe punire l’ingiustizia di Creonte ; al lettore la giustizia di Giove, efficace nella punizione, appare insufficiente rispetto a un compito non più punitivo soltanto, ma costruttivo e positivo. La sequenza anaforica ubi … ubi … ubi, che culmina nell’appello ad Atene e al suo re, segna il passaggio di responsabilità dagli dèi agli uomini, l’incarico all’uomo di affermare giustizia e clemenza, nell’epica e nella storia. È la svolta narrativa, e ideologica, del poema : da una provvidenza assente all’azione provvidenziale del sovrano. Col suo strappo rispetto alla tradizione epica, Stazio associa il discorso poetico a quello politico. Epos e potere, a Roma, stanno fra loro in un rapporto intrinseco, che lega, attraverso mediazioni culturali complesse, esperienza storica ed elaborazione letteraria. Un secolo dopo l’Eneide, un sistema ormai consolidato si è rivelato nelle sue fragilità e nei suoi pericoli, mentre la propaganda ufficiale e una cultura del consenso hanno sviluppato l’ideologia imperiale in direzioni nuove. Con la Tebaide, ancora una volta dopo Ovidio e Lucano, Stazio impone alla forma dell’epica un rinnovamento audace, che rivela un mutamento profondo nella percezione e rappresentazione del potere imperiale.  







ii. Un mito da dimenticare. Tragedia e memoria epica L’eterna ripetizione delle ferite della memoria ha il proprio limite nel valore esemplare dei crimini, il quale non contraddice l’incomparabile mostruosità di quelli più gravi. P. Ricœur, Ricordare, dimenticare, perdonare : l’enigma del passato  

ii. 1. Fraternae acies : epica e tragedia

U

na guerra contro la patria, un duello contro il fratello : se ogni mito ha la sua forma, il mito dei Sette a Tebe è una curva in crescendo, una gradazione di orrore. La lotta per il potere fra Eteocle e Polinice è la storia di una guerra sbagliata che culmina in uno scontro fratricida ; soggetto per epica e tragedia, offre all’una e all’altra una sequenza ascendente, ordinata in due tempi : una vicenda bellica dal problematico statuto eroico, conclusa da un crimine consanguineo che ha in sé l’essenza del tragico (secondo i principi aristotelici). 1 Sappiamo poco della Tebaide ciclica e dell’epos di Antimaco, ma possiamo guardare ad Eschilo, il più vicino, fra i tre tragici, al mondo di Omero. Nel dramma eschileo tocca ad Anfiarao definire in termini omerici – con sarcasmo – la qualità epico-eroica della spedizione dei Sette : Aesch. sept. 580-583 : « Davvero una cosa gradita agli dèi, bella a udirsi e a raccontarsi per le generazioni a venire, aggredire e distruggere la città dei padri, gli dèi della propria stirpe, portando all’assalto un esercito straniero ! » (h\ toi`on e[rgon kai;  

















qeoi`si prosfilev~, É kalovn t∆ ajkou`sai kai; levgein mequstevroi~, É povlin patrwvian kai; qeou;~ tou;~ ejggenei`~ É porqei`n, stravteum∆ ejpakto;n ejmbeblhkovta…). 2  

1  Aristotele definisce i conflitti fra consanguinei (anziché fra nemici) soggetto privilegiato per il poeta tragico : poet. 1453b, 19-22 o{tan d∆ ejn tai`~ filivai~ ejggevnhtai ta; pavqh, oi|on h[ ajdelfo;~ ajdelfo;n h[ uiJo;~ patevra h[ mhvthr uiJo;n h[ uiJo;~ mhtevra ajpokteivnh/ h[ mevllh/, h[ ti a[llo toiou`ton dra`/, tau`ta zhthtevon, « Ma quando invece gli eventi patetici si producano nei rapporti affettivi, per esempio se un fratello uccide un fratello, o sta per ucciderlo o fa qualche altro atto simile verso di lui – oppure un figlio verso il padre, una madre verso il figlio, o un figlio verso la madre – queste sono le situazioni da ricercarsi » (tr. di P. Donini) ; citando Aristotele (e la tragedia dei Sette a Tebe) Hegel distingue le guerre fra popoli stranieri – le sole guerre « di natura autenticamente epica » – dalle lotte dinastiche e civili, « più adatte alla rappresentazione drammatica » (Hegel 1997 = 1955 [basata su 1842-18432], tomo ii, pp. 1186-1187). Un esempio di azione epica « insufficiente » appariva perciò a Hegel la Pharsalia (« Per quanto grandi possano in questo poema apparire i fini che si scontrano, gli avversari sono però troppo vicini, troppo affini per il comune suolo patrio, perché la lotta non divenga, invece di essere guerra fra totalità nazionali, un semplice conflitto di partiti, che ogni volta, in quanto infrange l’unità sostanziale del popolo, soggettivamente conduce alla colpa tragica ed alla rovina… »). Spostando il punto di vista, la critica recente vede già programmata nella scelta del tema (una guerra civile che è anche guerra fratricida) la qualità ‘drammatica’ dell’epos di Lucano : Conte 19852, pp. 105-106 ; Narducci 2002, p. 21. Dalle definizioni aristotelica e hegeliana prende le mosse anche Ripoll 1998a. 2  Tr. di Centanni 1985 ; il discorso diretto è riportato dal messaggero. Eschilo riformula Hom.  





























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« Bella a udirsi e a raccontarsi per le generazioni a venire » : dovremo ricordarci di questa definizione polemica della guerra tebana, quando parleremo di Stazio e del duello tra i fratelli ; le fraternae acies – possiamo dirlo fin d’ora – rappresentano già nella loro prima fase (lo scontro fra gli eserciti dei due fratelli) una perversione dell’epica : dell’epica come racconto di gesta memorabili e celebrazione dei kleva ajndrw`n. Ma la guerra è solo il primo stadio. Dice la corifea a Eteocle, ai vv. 679-682 : « È già abbastanza che i discendenti di Cadmo si scontrino con i guerrieri di Argo : quello è sangue che potremo lavare ! Ma voi due no ! È morte assassina di due che hanno lo stesso, lo stesso sangue : questa è una macchia che non sbiadisce col tempo » (ajll∆ a[ndra~ ∆Argeivoisi  























Kadmeivou~ a{li~ É ej~ cei`ra~ ejlqei`n: ai|ma ga;r kaqavrsion. É ajndroi`n d∆ oJmaivmoin qavnato~ w|d∆ aujtoktovno~, É oujk e[sti gh`ra~ tou`de tou` miavsmato~). Non c’è « vecchiaia » per questo mivasma : il fratricidio è una contaminazione che non si  





può cancellare. Questo crescendo in negativo, da una guerra che mette in crisi i parametri eroici a un duello che viola i legami di sangue (da una guerra poco memorabile a un’azione da non credere : un a[piston, v. 846), dà forma anche in seguito al racconto del mito. Nelle Phoenissae, il suo dramma incompiuto, Seneca comprime la parte più propriamente epica (come già aveva fatto Euripide) per concentrarsi sullo scontro tra fratelli ; ma anche qui l’escalation di violenza è tema forte, diventa anzi tema portante. È Edipo a farsene portavoce, prima in forma di previsione, poi di maledizione : Sen. Phoen. 354-355 non satis est adhuc / civile bellum : frater in fratrem ruat. 1 La Steigerung inscritta nel mito tebano sembra fatta apposta per essere tradotta da Seneca tragico nella sua poetica del superamento : la ricerca inesausta di un delitto più grande, che non è mai grande abbastanza. 2 La gradazione maledetta fra guerra e duello fraterno prolunga così la serie ascendente di delitti che è la legge della casa di Edipo, e del teatro tragico senecano. Anche la struttura della Tebaide riflette, su scala più vasta, questa gradazione connaturata alla fabula (e la ripropone in termini senecani) : il duello è il  















Il. 2, 119 ‘aijscro;n ga;r tovde g∆ ejsti; kai; ejssomevnoisi puqevsqai’, « Questa è vergogna anche per i posteri a saperla » (Sideras 1971, p. 219 ; cf. Lupas¸, Petre 1981, ad loc.) e presuppone l’aspettativa di gloria poetica presso « i posteri » propria degli eroi omerici (Hutchinson 1985, al v. 581). L’ideale di un canto epico che « possa di anno in anno essere sempre più dolce a cantarsi per gli uomini » è espresso in Ap. Rh. 4, 1773-1775. 1  Cf. 283-287 Argos exul atque urbes movet / Graias in arma : non levis fessis venit / ruina Thebis ; tela flammae vulnera / instant et istis si quod est maius malum, / ut esse genitos nemo non ex me sciat ; 353 ss. maiusque quam quod casus et iuvenum furor / conatur aliquid cupio… 356-358 n e c h o c s a t e s t … date arma matri… (cf. anche 327 nu. prohibe pariter et bellum et scelus). A Edipo fa eco Giocasta, nell’imminenza del duello : 542 ss. ut recedas, magna pars sceleris tamen / vestri peracta est : vidit hostili grege / campos repleri patria… ; 549-550. 2  Sul « maius-Motif », o « comparativus Senecanus », e sulla sua funzione stilistica, drammatica, filosofica vedi Seidensticker 1985 ; sul suo sviluppo nel Tieste, come elemento dell’« estetica della tirannia » professata da Atreo, Schiesaro 2000, pp. 151-152 ; 2003, p. 130. Per le radici senecane della « Überbietung » nella Tebaide cf. Schetter 1960, pp. 26, 115.  













































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culmine della guerra, ed è un culmine di orrore. A esplicitare questo disegno compositivo sono diversi personaggi, in vari punti del poema. Così Giove, nel momento in cui rifiuta di guardare, e di lasciar vedere agli dèi dell’Olimpo, lo scontro finale : Theb. 11, 122-130 ‘vidimus armiferos, quo fas erat usque, furores, / caelicolae, licitasque acies, etsi impia bella / unus init aususque mea procumbere dextra. / nunc par infandum miserisque incognita terris / pugna subest : auferte oculos ! absentibus ausint / ista deis lateantque Iovem ; sat funera mensae / Tantaleae et sontes vidisse Lycaonis aras / et festina polo ducentes astra Mycenas. / nunc etiam turbanda dies…’. 1 Così, poco dopo, Giocasta : 11, 330-332 ‘ipsi etiam post omnia, comminus ipsi / stabitis ? usque adeo geminas duxisse cohortes / et facinus mandasse parum est ?’. In modo simile già nel quarto libro l’ombra di Laio (evocata da Tiresia) aveva fatto intravedere i piani futuri, del destino e del poema, nei modi allusivi di una profezia – la profezia di un vates che è figura del poeta, come Eritto in Lucano. 2 Anche qui l’immensa guerra di Marte, che dispiega « prodigi della terra e armi divine … e morti gloriose » 3 (pulchri obitus), cede il passo, nel punto culminante, alle Furie, a un geminum nefas, e a spade funeste che realizzano la maledizione di Edipo. 4 E così un’epica già di per sé spettacolare, estrema, un’epica dell’eccesso e del fuori misura, 5 lascia infine la scena, nell’undicesimo libro, allo spettacolo tragico del duello. È questo il culmine dell’orrore : quello che Laio non vuole  





























1  Il rifiuto di assistere al nefas previene un’accusa tradizionale, « Giove vede questo ? e non interviene ? » (cf. 11, 248-249), e inscena una risposta a Lucan. 7, 445-455 (cf. 448-449 spectabit ab alto / aethere Thessalicas, teneat cum fulmina, caedes ?) : vedi supra, cap. i, § 2. 2. Stazio restaura l’apparato mitologico (e rimuove il compiacimento attribuito agli dèi in Lucan. 6, 3 parque suum videre dei ; cf. il sarcasmo di Plutone in Theb. 8, 74 ‘iuvet ista ferum spectare Tonantem’), ma lascia emergere una sfiducia nel ruolo provvidenziale di Giove che è, sul piano mitologico, appena meno radicale della posizione di Lucano sul piano filosofico. Sull’eclissarsi di Giove dal poema importante Feeney 1991, pp. 355-358 ; cf. 346, 362-363. 2  Vates è detto di Eritto e del soldato da lei resuscitato in Lucan. 6, 651 ; 628. Cf. O’Higgins 1988, pp. 217-219 ; Masters 1992, pp. 205-215. 3  Tr. di Traglia, Aricò 1980 (qui e in seguito). 4  È un punto rilevato della narrazione, cui segue con stacco netto la digressione nemea : Theb. 4, 626 ss. ‘cur tibi versanti manes, aequaeve sacerdos, / lectus ego augurio tantisque potissimus umbris, / qui ventura loquar ? s a t i s e s t meminisse priorum… (635-644) quodsi adeo placui deflenda in tempora vates, / dicam equidem, quo me Lachesis, quo torva Megaera / usque sinunt : bellum, innumero venit undique bellum / agmine, Lernaeosque trahit fatalis alumnos / Gradivus stimulis ; hos terrae monstra deumque / tela manent pulchrique obitus et ab igne supremo / sontes lege morae. certa est victoria Thebis, / ne trepida, nec regna ferox germanus habebit / sed Furiae ; geminumque nefas miserosque per enses / (ei mihi !) crudelis vincit pater’. 5  Notevole la rilevanza tematica, nella Tebaide, di espressioni e formule che negano il concetto del limite (nec modus est, immodicus e simili), della norma o misura consueta (su 10, 829 e 11, 97 vedi infra) : una convergenza evidente con la poetica di Seneca tragico (su cui Seidensticker 1985, spec. pp. 131-132 ; Tarrant 1985, a Thy. 4-5, 26 nec sit irarum modus, 255, 1052-1068). Così nel proemio, 1, 35 nec furiis post fata modum ; 41-42 inmodicum irae / Tydea (cf. 2, 688-690 ‘iam pone modum … satis…’ : Atena ripete all’eroe il monito da lui rivolto ad Eteocle, 2, 406 ‘pone modum laetis ; satis…’) ; nell’aristia di Capaneo, 10, 834 seu virtus egressa modum (cf. 6, 802 inmodice venientem) ; nella chiusa, 12, 573 (Evadne a Teseo) ‘nam quis erit saevire modus ?’. È un gusto dell’eccesso che si esercita nelle due direzioni, del furor e del pathos ; così nelle scene di addio o di lamento : 4, 18 nec modus est lacrimis ; 5, 289-290 ‘nec fletibus umquam / fit modus alternis’ (cf. 8, 164 nil solitum fessos iuvat).  





















































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dire, e che Giove non vuole vedere ; per loro « è già abbastanza » ciò che è stato prima (11, 127 sat ; 4, 628 satis est) ; 1 ma contro la loro resistenza passiva lavorano nel poema le forze creatrici del male : quelle appunto per cui il male, senecanamente, ‘non è mai abbastanza’. 2 Edipo, Plutone, Tisifone – vedremo – invocano e realizzano, nello spazio epico, quel nefas più grande e inaudito che è il telos di un mito a forte vocazione tragica. Dunque : il mito dei Sette ha in sé una componente epica, di imprese eroiche, che può essere avvertita come acutamente problematica, e un picco di violenza familiare che rientra per eccellenza nella categoria del tragico. Quella scelta da Stazio è una materia negativa – i primi due versi del poema lo dicono chiaro : fraternas acies…, profanis … odiis, sontes … Thebas – ma è anche (fino a un certo punto) un soggetto epico che lascia aperte possibilità diverse, suscettibile di deviazioni e sviluppi in direzioni più luminose. Il nucleo della storia è nero : la guerra (dal punto di vista umano) è sbagliata in partenza – è, letteralmente, una guerra maledetta – ; ma non tutti gli eroi portano su di sé la responsabilità dell’errore. La guerra è guerra civile, anzi più che civile, soltanto al vertice : la colpa dei fratelli non ricade per intero sul piano collettivo 3 – non è questo che interessa a Stazio : questi non sono i cives di Lucano – ; e se quello dei Sette condottieri argivi non può che essere un eroismo minato alla radice, c’è comunque spazio, nella Tebaide, per « belle morti » (pulchri obitus 4, 640), imprese (non giuste ma) audaci, oltre che per gloriosi gesti di opposizione ; vi sono episodi e personaggi minori che, singolarmente presi (e se anche ‘diminuiti’ da una causa non nobile), meritano la lode o la pietà del poeta ; e c’è una grandezza (fino a un certo punto) anche negli eroi empiamente eccessivi – Capaneo è il limite estremo di quest’epica dell’eccesso. Ricordando l’ispirazione ricevuta dal padre, in Silvae 5, 3, Stazio può definire il proprio compito di poeta epico nella Tebaide in termini tradizionali, omerici, come magnanimum … facta attollere regum, 4 « esaltare le gesta di magnanimi  











































1  Che siano i delitti di Edipo (4, 630 ss.) o la guerra a Tebe (11, 122 ss.) o tragedie familiari analoghe, come quelle degli Atridi (11, 127 ss.). 2  È un altro Leitmotiv della tragedia senecana quello della sazietà dell’orrore (espressa dal coro), che si scontra con l’insaziabilità di delitti del protagonista : cf. Tarrant 1985, a Sen. Thy. 138 ch. peccatum satis est ; 252-253 ; 256 atr. nullum relinquam facinus et nullum est satis ; 889-890 iam sat est etiam mihi – / sed cur satis sit ? ; 1053. 3  Per la disapprovazione del duello da parte dei due eserciti vedi Venini 1970, pp. 75-76 nn. a 11, 246 e 247 (su 498 vedi infra, n. 1 a p. 100 ; sull’oscillazione nelle Fenicie di Euripide, Mastronarde 1994, nn. a 1370-1371 e a 1239). Persino la dismisura di Capaneo si arresta davanti al simulacro di uno scontro civile, nei giochi funebri che sono una prova generale della guerra : Theb. 6, 735 ss. (cf. McGuire 1997, pp. 115-116). 4  Silv. 5, 3, 10-11 certe ego, magnanimum qui facta attollere regum / ibam altum spirans Martemque aequare canendo (cf. anche 233-237). Vedi Markus 2003, p. 457. La iunctura magnanimi reges suggerisce l’epica tradizionale anche in Theb. 2, 732-734 (Tideo) ‘hic ego maiorum pugnas vultusque tremendos / magnanimum effingam regum, figamque superbis / arma tholis…’ (lo stesso eroe impersona la tradizione epica in 3, 400 ss. ; cf. Micozzi 2008, pp. 217 ss.). Magnanimus è detto ancora Capaneo nell’incipit dell’undicesimo libro, quasi una soglia oltre la quale si pone la tragedia dei fratelli : 11, 1-2 postquam magnanimus furias virtutis iniquae / consumpsit Capaneus…  



















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re ». La definizione (per quanto riduttiva, e insufficiente rispetto alla novità di quest’epica) può ancora valere, almeno in parte, per l’azione che si svolge nel poema fino al decimo, e poi nel dodicesimo libro. Ma c’è, nella Tebaide, un nucleo duro che rifiuta ogni assimilazione alla poetica dei kleva ajndrw`n. Dopo l’assalto di Capaneo al cielo (e prima dell’intervento di Teseo come deus ex machina) c’è qualcosa che per l’epica è (e resta) uno scandalo : il duello fratricida è come un corpo estraneo, una sfida a qualsiasi parametro di eroismo, un gesto che con l’epos è profondamente incompatibile – ed è una punta di orrore che anche l’epica negativa e paradossale di Lucano era giunta appena a sfiorare. È qui che il soggetto (e il compito) di Stazio epico si fa vicinissimo a quello dei poeti tragici : i tragici che, come è detto in Silvae 5, 3, fanno tuonare « dai loro terrificanti coturni » furias regumque domos aversaque caelo / sidera (vv. 96-97), « le follie furiose delle case dei re e gli astri che rivoltano il loro corso in cielo ». Con l’undicesimo libro la narrazione della Tebaide entra di fatto nel dominio della tragedia : per quest’epica in nero, una prova estrema, che sfida il poeta ad assumere (non solo materia, ma) modi e forme di un diverso genere letterario. Proprio su questa sfida vogliamo soffermarci. Il rapporto fra epica e tragedia nella Tebaide è un tema con cui la critica da sempre deve e, direi, soprattutto dovrà fare i conti. 1 Il duello tra i fratelli può essere un buon punto di vista per impostare il problema e affrontarne un aspetto particolare. Se vogliamo studiare a quali soluzioni originali Stazio spinga la tensione del suo poema tra forma epica e tragica, possiamo partire dalla climax del racconto : quella che pone nel modo più acuto il problema estetico della rappresentazione del male e della sua funzione ; e quella che, sul tema della memoria del male, chiama a un confronto diretto poetica dell’epos e poetica della tragedia.  





















1  Ripoll 1998a pone all’attenzione il problema e saggia il terreno, per es., con alcune considerazioni sull’eroismo degenerato di Tideo (perversione del modello di eroe omerico in un furiosus da tragedia). Limite del lavoro è semmai il prendere come orizzonte di riferimento, per l’epica, il solo Virgilio, e l’identificare tout court lo specifico epico della Tebaide con il finalismo positivo, rappresentato in chiusa dal ruolo di Teseo : la visione provvidenziale riassorbirebbe in sé (senza residui) la tragedia familiare che è al centro del mito dei Sette, realizzando un superamento del conflitto tragico. Una tale lettura pacificante non rende ragione delle tensioni che il poema lascia aperte ; Stazio ha di fronte a sé, come modello epico, anche Lucano, e la lettura della Tebaide non può non presupporre il nuovo, problematico assetto che il genere epico ha assunto con la Pharsalia (esasperando tensioni già presenti nell’Eneide). Una critica analoga è rivolta all’impostazione di Franchet D’Espèrey 1990-1992 da Criado 2000 (p. 222), che alle pp. 220-230 passa in rassegna gli interventi sul tema (da Alfonsi 1954 a Henderson 1993) e propone una lettura della Tebaide in cui il rapporto con Seneca tragico ha un ruolo fondante. Estèves 2005 osserva tratti del « sublime inverso » senecano nella scena del cannibalismo di Tideo, mentre tenta di individuare nel duello fraterno un ibrido « sublime del male », che fonderebbe color epico e tragico.  











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ii. 2. Un mito da dimenticare. Crisi della memoria epica e poetica del nefas Il punto di massima tensione del racconto, quello a cui mira dall’inizio l’arco narrativo della Tebaide, è raggiunto con il crollare di Polinice sul corpo del fratello ai vv. 572-573 del libro undicesimo. Il geminum nefas è compiuto : si chiude qui un duello che è stato rincarato nell’empietà e nell’orrore rispetto alla descrizione euripidea, e che viene trasformato da Stazio in exemplum, manifestazione suprema dell’odio fraterno scatenato dalla passione del regnum. Dopo aver accompagnato lo scontro con implicite, o discrete, note di condanna, la voce dell’autore interviene in forma diretta con un commento conclusivo – un commento che non passa inosservato – :  



ite truces animae funestaque Tartara leto polluite et cunctas Erebi consumite poenas ! vosque malis hominum, Stygiae, iam parcite, divae : omnibus in terris scelus hoc omnique sub aevo viderit una dies, monstrumque infame futuris excidat, et soli memorent haec proelia reges. (Theb. 11, 574-579)  



Molto è stato detto su questi versi. 1 Qui vogliamo rileggerli nel contesto della tradizione epica, per riconoscerne l’eccezionalità e apprezzare la violenta forzatura delle norme del genere che essi realizzano. Lasciamo da parte per un attimo i primi tre – la condanna dei fratelli a tutte le pene dell’inferno, l’implorazione alle Furie – e osserviamo gli ultimi tre : l’augurio che lo scelus dei fratelli tebani non si ripeta, che sia dimenticato, che se ne ricordino solo i re. C’è molto di violentemente paradossale, qui. Prima di tutto la sfasatura tra due punti di vista che vanno però sentiti come compresenti. C’è la voce di un narratore che si finge contemporaneo agli eventi narrati e (come un personaggio o un coro tragico) deplora ciò che ha appena visto e udito ; ma contemporaneamente c’è – dissimulata – la voce dell’autore epico onnisciente, che narra il mito come evento passato, da distanza, e con la consapevolezza implicita della storia – storia politica, ma anche storia della cultura e della letteratura. 2  







1  Non c’è quasi saggio o studio generale sulla Tebaide che non li menzioni, e non mancano interventi più mirati. Cf., spec., Ahl 1986, p. 2816 ; Dominik 1990, pp. 85-86 ; McGuire 1990, p. 33 ; 1997, pp. 76-78, 120 ; Ganiban 1996, p. 184 ; Georgacopoulou 1998 e 2005, pp. 23-25, 151-158 ; Markus 2003, pp. 461-463. La mia analisi è risultata concorde su più punti con Lovatt 2005, pp. 255-256, 77-79, e con lo studio di Bernstein 2004 (spec. pp. 78-83) sulle diverse reazioni allo spettacolo del duello da parte dei diversi pubblici, intra ed extradiegetici, rappresentati o costruiti dal testo di Stazio. Cf. anche McNelis 2007, pp. 147-148 (affrettato, tuttavia, nel concludere che « The authority of the genre has been seriously diminished ») ; Ganiban 2007, pp. 200-205. 2  Questa compresenza di funzioni ricorda Lucano : si veda Leigh 1997 sui ruoli, in Lucano variamente combinati, di « narrator as character », « narrator as narrator », « Neronian narrator » (pp. 73  































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Il risultato è un paradosso provocante, che ha la densità di una figura retorica : le parole finiscono per significare il contrario di quello che dicono. Prendiamo il primo punto, la ripetizione del nefas (omnibus in terris scelus hoc omnique sub aevo / viderit una dies, vv. 577-578). Auspicare che un delitto sia cancellato dalla faccia della terra è un modo efficace di esprimere orrore. Ma, se il ‘narratore-personaggio’ può augurare che lo scelus non si ripeta, l’autore epico è proprio qui per ricordarne (implicitamente) le infinite ripetizioni. Lo scarto tra le due prospettive è appunto quello che contiene il senso : grazie alla doppia focalizzazione, Stazio mostra vano quell’augurio nel momento stesso in cui è formulato – e ne accresce così il pathos. Di una simile sfasatura ironica tra due livelli di conoscenza (uno limitato al presente mitico, l’altro aperto al futuro, del mito o della storia) Stazio trovava un esempio in Seneca. È il coro dell’Oedipus che rievoca il mito degli Sparti, lo scontro ‘civile’ tra i guerrieri nati dalla semina di Cadmo ; 1 qui l’augurio conclusivo, che sia questa la sola guerra civile che Tebe debba mai conoscere, è un tratto di ironia profetica prestato al coro ; per antifrasi, l’autore ricorda al suo pubblico ciò che è ben noto : che la guerra tra gli Sparti è appunto il presagio funesto di quella tra i fratelli tebani : Sen. Oed. 748-750 hac transierit civile nefas ! / illa Herculeae norint Thebae / proelia fratrum. Tocca ora al poeta della Tebaide commentare i nuovi proelia fratrum : come se fossero a loro volta una prima assoluta, e come se potessero, a loro volta, rimanere un unicum. Stazio ricalca la sintassi ricercata di Seneca (transierit … norint ; qui viderit) e riformula (una volta ancora) un augurio fatto con la coscienza della sua vanità, il cui senso è proprio quello di essere (ogni volta) vano. Ma il poeta epico allarga ora la sua prospettiva su un orizzonte più vasto di quello del mito. Già l’invocazione alle Stygiae sorores (v. 576) spostava il fuoco dalle sventure di Tebe a quelle dell’umanità : vosque malis hominum, Stygiae, iam parcite, divae. I tre versi seguenti dissolvono nuovamente l’uno nell’altro i due piani, del mito e della storia : al v. 577 scelus hoc significa : « un delitto come  



























ss. e passim, per es. 93 ss.) ; inoltre Narducci 2002, pp. 94 ss., spec. pp. 99-100 (per il narratore come spettatore contemporaneo « il punto di riferimento più pertinente … restano forse i commenti che il coro della tragedia esprime in momenti cruciali dello svolgersi dell’azione, formulando desideri destinati a non trovare realizzazione… » ; « a questa voce, che enuncia aspettative ‘controfattuali’, è affidata la funzione di fornire un modello alle reazioni emotive del lettore ideale ») ; entrambi sviluppano spunti di Marti 1975 (cf., spec., p. 86 : « the interruption of the narrative by an anonymous persona whose voice expresses sentiments identical with those of the author but who, unlike him, is totally ignorant of the future » ; e p. 89 sull’analogia con il coro tragico). Questa forma di ironia drammatica, che in tragedia collega fasi diverse del mito e in Lucano momenti successivi della storia romana, in Stazio sovrappone al mito il suo futuro inveramento nella storia universale ; rispetto alla Pharsalia manca nella Tebaide, almeno a livello esplicito, la dimensione del ‘narratore flavio’ (che resta limitata al proemio e al congedo) : assente ogni riferimento a un periodo storico determinato, lo sguardo sovratemporale dell’autore epico abbraccia insieme tempo del mito e tempo della storia, e lascia che siano i lettori a misurare sul discorso poetico la concreta realtà storica, anche quella a loro più vicina. 1  Il confronto già in Zwierlein 1986, p. 249. Cf. Töchterle 1994, a Oed. 748-750 e a 748.  

























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questo » e sovrappone al modello mitico le sue repliche future. 1 Il duello fra Eteocle e Polinice è visto qui come il modello originario di un’empietà senza tempo : un mivasma che non invecchia, se possiamo piegare a un senso nuovo le parole di Eschilo. E torniamo così al carattere paradossale dei nostri versi. È un paradosso auspicare che non conosca repliche, e che sia dimenticato, non solo un mito, ma un mito archetipico, il mito di fondazione dell’odio fraterno e della discordia civile che nascono dalla passione del potere e dalla divisione del regnum : un mito destinato a replicarsi in ogni tempo e in ogni luogo, e più che mai nella storia romana antica e recente ; soprattutto, un mito divenuto da secoli metafora della storia, canonizzato come paradigma nella cultura antica, e costantemente riproposto in letteratura come riflessione sui pericoli del potere. 2 Un mito che, proprio in quanto archetipo universale, anche il poeta della Tebaide ha scelto di rinarrare.  











Ci avviciniamo così al punto che più ci interessa : singolare ed inatteso è l’aspetto di questi versi anche dal punto di vista delle forme letterarie. Un altro paradosso è infatti che a pronunciare la damnatio memoriae dello scontro fraterno sia il poeta epico che ne ha appena tramandato il ricordo : e proprio nel punto (l’epifonema finale) in cui la tradizione epica usava consegnare a gloria eterna l’evento narrato. Monstrumque infame futuris / excidat (vv. 578579) : con questo augurio di oblio da parte dei posteri, il commento al duello diventa l’esatto rovescio di una forma codificata. Uno dei gesti che più connotano la poesia epica è quello di apostrofare, in punti culminanti, personaggi della narrazione e di promettere loro eterno ricordo nella gloria della poesia. È questo gesto che Stazio qui platealmente rovescia : augurando (paradossalmente) l’oblio, e cancellando ogni riferimento esplicito alla propria funzione poetica. Credo che per primo Philip Hardie abbia individuato in questi versi « una condanna del potere dell’epica di tramandare alla memoria imprese singolari ». 3 Si può ancora mostrare, credo, che – anche a livello formale – quella che Stazio tiene presente, e consapevolmente sovverte, è una convenzione precisa e costitutiva del genere epico.  













1  Al v. 577 monstrum infame è di nuovo : « questa mostruosa empietà » ; al v. 578 haec proelia : « questo scontro ». 2  Cf. Lanza 1977, pp. 130-140, spec. p. 136, sulle Fenicie di Euripide ; Petrone 1996, pp. 72-76, 80, 159 e passim ; Barchiesi 1988, pp. 19-22 ; Petrone 1997, introd., spec. pp. 6 e 19-20. La preoccupazione per il potenziale diseducativo dei miti di contese familiari che coinvolgono in primo luogo gli dèi, ma anche gli eroi, spinge Platone a escluderli dalla formazione dei giovani nella città ideale, tacendoli o facendoli conoscere a pochissimi iniziati : resp. 377e-378d. 3  L’osservazione, quasi incidentale, in Hardie 1993, p. 8 : « …what amounts to a condemnation of epic’s power to memorialize singular events (11, 577-579) ». Così ora Markus 2003, p. 462 : « …an attitude diametrically opposite to the optimistic view of epic as a medium of perpetual memory and honores, embraced by the paidagogos » (nella teichoskopia, il vecchio Forbante indica ad Antigone le truppe provenienti dall’Elicona : 7, 288-289 ‘ite alacres, numquam vestri morientur honores, / bellaque perpetuo memorabunt carmine Musae’).  



































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C’è un luogo, nell’epica, che forse meglio di ogni altro riassume lo statuto del genere : sono i versi con cui Virgilio congeda Eurialo e Niso – l’unico punto, nell’Eneide, che renda pienamente esplicita la funzione celebrativa dell’epos. 1 Sono questi versi che Stazio replica in negativo :  





fortunati ambo ! si quid mea carmina possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus habebit. (Verg. Aen. 9, 446-449)  

Nulla dies umquam memori vos eximet aevo, « Nessun giorno mai vi cancellerà dalla memoria del tempo ». Virgilio sta riecheggiando, probabilmente, la celebrazione tributata da Ennio ai fr atelli Cecilii nel xvi libro degli Annales : un libro il cui proemio esaltava, insieme agli eroi, la potenza eternatrice della poesia. 2 Il luogo di Virgilio si impone come matrice per molti gesti celebrativi dell’epica successiva ; gesti talvolta ancora dedicati a coppie di eroi : coppie (o terne) legate da parentela, amicizia, affinità, unite insieme nella morte, e unite per sempre nella gloria della poesia. 3 I fratelli tebani sono una coppia maledetta : il loro uccidersi a vicenda è, nella Tebaide, il corrispondente in negativo del modello virgiliano di iuncta mors. 4 Il gesto ostile di Polinice che, con tutto il peso delle armi, si lascia infine crollare sul fratello (11, 572-573 nec plura locutus / concidit et totis fratrem gravis obruit armis) è la versione empia e stravolta del gesto amorevole con cui Niso si lascia cadere sul corpo dell’amico (Aen. 9, 444-445 tum super exanimum sese proiecit amicum / confossus, placidaque ibi demum morte quievit). 5 La morte dei fratelli tebani l’uno per mano dell’altro replica in nero la morte l’uno per l’altro di Eurialo e Niso : ed anche il commento d’autore che segue è una riscrittura in negativo. Non c’è solo l’invocazione di oblio (futuris / excidat) che inverte la promessa di memoria (memori … aevo) ; anche l’augurio  























1  Cf. Hardie 1994, p. 153, n. a 446-449 ; Feeney 1991, p. 277 n. 119. 2  Enn. ann. 404-406 Sk. (cf. Skutsch 1985, pp. 567 ss.). Nel proemio enniano l’eternità della poesia era contrapposta ai monumenti perituri con cui i reges cercano di assicurarsi la gloria ; l’epifonema di Stazio esplora in senso nuovo il rapporto fra potere della poesia e potere dei reges : in un’epica che non ha più per oggetto gli eroi della repubblica, ma gli orrori di un regnum, la poesia celebra di fatto l’infamia dei re di cui desidererebbe cancellare la memoria. 3  Hardie 1994, p. 153. 4  Idem 1993a, p. 63 e n. 13. 5  Cf. Venini 1970 a 11, 573 (cf. anche 570 ‘huc mecum ad manes !’). L’episodio richiama per contrasto quello di Opleo e Dimante nel decimo libro, esemplato per analogia su quello di Eurialo e Niso (vedi infra e cf. Markus 1997) : la iuncta mors di Eteocle e Polinice ricorda in forma stravolta la duplice iuncta mors di Opleo e Dimante sui corpi di Tideo e di Partenopeo ; il gesto di Polinice è una replica perversa di quello di Dimante, che si getta premurosamente sul corpo del giovane capo arcade : 10, 439 ss. et magno proscissum vulnere pectus / iniecit puero… (cf. anche 442-444). Stazio può inoltre avere presente qui il modello di Polissena in Sen. Tro. 1157-1159 nec tamen moriens adhuc / deponit animos : cecidit, ut Achilli gravem / factura terram, prona et irato impetu (cf. Fantham 1982, ad loc.).  















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che « un solo giorno », una dies, abbia visto un tale delitto 1 inverte la promessa che « nessun giorno », nulla dies, cancellerà una tale gloria ; anzi, l’auspicio che lo scelus non si ripeta è formulato in modo tale (un solo giorno « in ogni tempo e in ogni luogo », omnibus in terris … omnique sub ae vo / …una dies) da riecheggiare a rovescio la struttura virgiliana (nulla dies … aevo, con aevo in clausola) e più in generale i convenzionali auguri poetici di fama in ogni tempo e in ogni luogo. 2 Qui, dove il tema della memoria sta per venire in primo piano, anche viderit sembra già suggerire, oltre alla visione diretta degli spettatori dell’azione, l’idea di una ‘visione’ da parte del pubblico letterario : come se Stazio augurasse paradossalmente già qui che il nefas da lui rappresentato, e ora sotto gli occhi dei lettori, non fosse ‘visto’ mai da nessuno. Infine, la memoria universale invocata nell’Eneide (memori … aevo) lascia il posto qui alla memoria dei re (soli memorent … reges) : l’unica polemicamente chiamata a custodire un ricordo vergognoso. Eteocle e Polinice, dunque, come rovescio di Eurialo e Niso : la climax della Tebaide come inversione dell’Eneide in un suo luogo-chiave e negazione dello statuto epico là espresso in forma tradizionale. Ma, prima di giungere al suo apice negativo, la narrazione di Stazio ha esibito anche riprese positive dell’archetipo virgiliano : apostrofi con promessa di fama poetica che sono speculari alla damnatio dei fratelli e la anticipano a contrasto. 3 L’apostrofe a Eurialo e Niso, si sa, è addirittura citata nell’apostrofe di Stazio agli eroi Opleo e Dimante : la sigla a un’aristia che, nel decimo della Tebaide, replica in nuove forme l’aristia del nono dell’Eneide. 4 Anche altrove la stessa matrice virgiliana  































1  La forma dell’emistichio, viderit una dies, ricalca il virgiliano ‘venit summa dies…’, Aen. 2, 324 : non solo « la personificazione di un giorno cruciale in battaglia » (spesso : ‘u n s o l o ’ giorno) « è un topos epico » (Harrison 1991, a Verg. Aen. 10, 508, che cita Hom. Il. 8, 541 = 13, 828 ; Enn. ann. 258 Sk. ; cf. anche Lucr. 5, 999-1000), riformulato qui nell’augurio che quel giorno r i m a n g a unico, ma si affaccia qui con una nuova funzione il tema epico e virgiliano del giorno fatale (nell’Eneide quello della distruzione di Troia e quello della sua rifondazione nel Lazio), già elaborato da Lucano nell’idea ossessiva del giorno di Farsàlo come distruzione di Roma : vedi Conte 1988 (= 1989), pp. 33-39, p. 35 (sul « ricorrere della parola tematica dies, chiusa nell’importante casella metrico-verbale alla cesura maschile del verso » ; cf. Hom. Il. 6, 448 ; Verg. Aen. 7, 145 ; Lucan. 7, 131-132 advenisse diem, qui fatum rebus in aevum / conderet humanis ; 7, 195 venit summa dies ; 7, 254-255 ; inoltre Lucan. 1, 233 ; per un precedente enniano cf. ann. 382-383 Sk.). 2  Nella letteratura latina il motivo compare già in Enn. ann. 12-13 Sk. latos populos res atque poemata nostra / *** cluebunt (dove però è tràdito cluebant : Skutsch 1985, ad loc.). Cf. Zwierlein 1982. 3  Analoga funzione prolettico-contrastiva hanno episodi minori, come il nefas involontario dei due gemelli argivi che uccidono due gemelli tebani in Theb. 8, 448-452 (cf. McGuire 1997, p. 146) : in tutto il poema exempla positivi di pietas fraterna creano uno sfondo a contrasto su cui risalta il duello fratricida. Tacito affida un ruolo simile ad exempla tratti dalla storia remota per essere contrapposti alle aberrazioni contemporanee ; in hist. 3, 51, 2 l’episodio di un soldato fratricida che reclama un premio per il suo gesto (in un’età che ha perso la distinzione tra fas e nefas) è messo in contrasto col suicidio di un soldato sillano scopertosi fratricida involontario : sed haec aliaque ex vetere memoria petita, quotiens res locusque e x e m p l a r e c t i a u t s o l a c i a m a l i poscet, haud absurde memorabimus. 4  La damnatio memoriae dei fratelli tebani è appunto il rovescio della laudatio di Theb. 10, 445-448, dove compaiono già i motivi della sorte ultraterrena e della sopravvivenza memoriale e letteraria  











































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è riusata da Stazio in positivo : così nell’allocuzione ai fratelli Tespiadi, che con la loro pietas e la loro iuncta mors anticipano a contrasto, nell’episodio dell’ambasceria, l’empio duello fratricida – e meritano, al contrario di Eteocle e Polinice, la promessa di fama eterna. 1 Una promessa tradizionale di fama poetica che la Tebaide riserva anche – e in termini esattamente speculari alla damnatio dei fratelli nell’undicesimo libro – alla figura di Meone e al gesto antitirannico del suo suicidio : 2 è un punto importante, su cui non mi soffermo qui. 3 Dunque : il mito tebano può offrire materia, fino a un certo punto, per un racconto epico ‘tradizionale’ ; ma, per arrivare al nucleo tragico della vicenda dei Sette, l’epica deve giungere a snaturare se stessa – o, piuttosto, deve tentare di darsi nuove forme e una nuova funzione. I versi che abbiamo di fronte inscenano, all’apice (negativo) del racconto della Tebaide, una crisi della memoria epica : ma questa crisi è insieme l’affermazione di una nuova poetica dell’epos. Il poema ha al suo centro – un ‘centro’ spostato il più possibile in avanti nel racconto – un’azione mostruosamente empia : per poter raggiungere infine questo picco di orrore, l’epica (quella che celebra per statuto i kleva ajndrw`n) non può che essersi profondamente trasformata. 4  



















I versi che abbiamo preso in esame ci sono apparsi come un violento paradosso : ma questo paradosso non è una novità assoluta nell’epica latina. Un precedente, per questo gesto di rottura con la tradizione, era offerto a Stazio da Lucano. Forse perché del modello lucaneo mancano, qui come in altri luoghi della Tebaide, precisi echi verbali, non si è fatto caso a una coincidenza che  

dei protagonisti : vos quoque sacrati, quamvis mea carmina surgant / inferiore lyra, memores superabitis annos. / forsitan et comites non aspernabitur umbras / Euryalus Phrygiique admittet gloria Nisi (cf. Río Torres-Murciano 2009, pp. 307-311). 1  Su Cromi e Perifante, fratelli pii modellati su Eurialo e Niso e antimodello di Eteocle e Polinice, vedi Hardie 1993a, p. 63 e n. 13. Cf. 2, 629-630 vos quoque, Thespiadae, cur infitiatus honora / arcuerim fama ? ; 642-643 ; 3, 147-149 (nel lamento della madre Ide in 3, 167-168 ‘ite diu fratres indiscretique supremis / ignibus et caros urna confundite manes !’ si noti, rispetto a 11, 574, l’intonazione opposta di ite, la formula di congedo funebre comune all’epitafio di Meone). 2  Theb. 3, 99-113 tu tamen egregius fati mentisque n e c u m q u a m / ( s i c d i g n u m e s t ) p a s s u r e s i t u m , qui comminus ausus / vadere c o n t e m p t u m r e g e s , quaque ampla veniret / libertas, sancire viam : q u o c a r m i n e d i g n a m , / q u o s a t i s o r e t u i s f a m a m v i r t u t i b u s a d d a m , / augur amate deis ?… nunc quoque Tartareo multum divisus Averno / E l y s i a s , i , c a r p e p l a g a s , ubi manibus axis / invius Ogygiis… Legras 1905, pp. 290-291 notava la specularità tra yovgo~ dei fratelli ed ejgkwvmion di Meone ; cf. ora McGuire 1990, pp. 31-33. Per l’opposto destino di fama e infamia, od oblio, che spetta ai tiranni e alle loro vittime, cf. le riflessioni sulla condanna di Cremuzio Cordo in Sen. ad Marc. 1, 4 ; Tac. ann. 4, 35, 5. Vedi Luce 1991, pp. 2919-2922. 3  Il gesto di destinare alla beatitudine dei campi Elisi torna in Silio, 2, 696-698, l’apostrofe ai Saguntini per i loro laudanda monstra, che sembra inoltre invertire di segno il congedo di Stazio da Eteocle e Polinice (cf. Venini 1970, a Theb. 11, 574 ss.) : l’allusione antifrastica commenta il paradosso di un massacro civile che merita la gloria. Una riscrittura in positivo dell’epitafio di Eurialo e Niso è anche in Sil. 4, 396-400, dove si sottolinea il valore di exemplum che la iuncta mors di tre fratelli gemelli assume per la memoria dei posteri. 4  Per la strategia (dichiarata) della dilazione narrativa nella Tebaide Feeney 1991, pp. 339-340 ; sull’« energia negativa » della narrazione McGuire 1997, pp. 117-120, 146.  

























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mi pare significativa. 1 Giunto al culmine del suo racconto epico – lo scontro, a Farsàlo, fra eserciti consanguinei – anche Lucano ha una mossa di rifiuto, paradossale, che funziona come una figura retorica ; il poeta epico (anziché invocare la Musa perché lo aiuti a ricordare) apostrofa la propria mens perché lasci nelle tenebre questa parte della guerra : nessuna età (nulla … aetas) dovrà apprendere dalla sua poesia a quale orrore può giungere una guerra civile. Anche Lucano, nel far saltare moduli tradizionali, inverte una precisa formulazione virgiliana ; il suo paradossale programma di silenzio, tacebo (Phars. 7, 556), è una risposta polemica all’altro luogo dell’Eneide che promette la fama a un’impresa memorabile : la litote non … silebo che introduce le gesta di Lauso (Aen. 10, 793). 2 Ecco il passo della Pharsalia :  













hanc fuge, mens, partem belli tenebrisque relinque nullaque tantorum discat me vate malorum, quam multum liceat bellis civilibus, aetas. a! potius pereant lacrimae pereantque querellae : quicquid in hac acie gessisti, Roma, tacebo. (Lucan. 7, 552-556)  

Anche qui l’autocensura del poeta equivale a una condanna – una condanna che è stata già pronunciata pochi versi prima – : 7, 548-551 non illic regum auxiliis collecta iuventus / bella gerit ferrumque manus movere rogatae : / ille locus fratres habuit, locus ille parentis. / hic furor, hic rabies, hic sunt tua crimina, Caesar. Dunque. Stazio impara da Lucano, ma segue una via nuova : invece di ostentare una resistenza iniziale di fronte alla sua materia, esprime in chiusa il rifiuto di ciò che ha narrato ; entrambi gli epici sottolineano questa rottura delle convenzioni rovesciando puntualmente, Lucano la movenza introduttiva, Stazio l’epifonema conclusivo di un’aristia virgiliana. Il gesto epico di consegnare un evento alla memoria dei posteri è invertito due volte, in due modi speculari. Torniamo così alla Tebaide – e ai suoi paradossi. Augurare l’oblio per un crimine orrendo può essere un pietoso desiderio di rimozione da parte di  







1  Un cenno in Malamud 1995, pp. 23-24 ; cf. ora Ganiban 2007, pp. 203-205. L’osservazione va aggiunta a ciò che è già stato detto sui colori lucanei del duello e del libro undicesimo, affini al racconto di Farsàlo nel settimo libro di Lucano : cf. Venini 1970 a 11, 407 consanguineum … scelus e Venini 1965, pp. 151-154 (= 1971, pp. 47-52). Sulla presenza di Lucano nella Tebaide, dopo i lavori della Venini (cf. anche 1965a, 1967, e 1971, pp. 81-83 Ancora su Stazio e Lucano), ampio studio in Micozzi 1999 e 2004 ; vedi inoltre Narducci 2002, pp. 457-474. 2  Aen. 10, 791-793 hic mortis durae casum tuaque optima facta, / si qua fidem tanto est operi latura vetustas, / non equidem nec te, iuvenis memorande, silebo. Vedi Narducci 1979, p. 33, e ora 2002, p. 175 e n. 28, pp. 181-182 ; O’Higgins 1988, pp. 215-216 ; Feeney 1991, pp. 276-277 ; Masters 1992, pp. 147-148 e cf. 212-213 ; Leigh 1997, pp. 101 ss., 290, 18 ; Schiesaro 2003, pp. 40-41 e n. 41 (il confronto con Virgilio in Narducci e in Schiesaro). Per il motivo encomiastico del non silebo, utile raccolta di passi in Woodman, Martin 1996, ad ann. 3, 65, 1 ne virtutes sileantur ; Tacito lo declina in senso negativo e paradossale in ann. 14, 64, 3 neque tamen silebimus, si quod senatus consultum adulatione novum aut patientia postremum fuit.  

















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chi nel crimine è coinvolto, come spettatore o come vittima ; così nelle Silvae Crispino, scampato all’avvelenamento da parte della madre, invoca per esso le tenebre dell’oblio : Stat. silv. 5, 2, 71 ss., 88-90 ‘ex cidat illa dies aevo nec postera credant / saecula ! nos certe taceamus et obruta multa / nocte tegi propriae patiamur crimina gentis’ 1 – sembra di leggere le parole del nuntius nel Tieste di Seneca : o nullo scelus / credibile in aevo quodque posteritas neget ! (Sen. Thy. 753-754). 2 Ma l’invocazione di oblio che è naturale per un familiare pietoso e sarebbe normale, in tragedia, per un personaggio come il messaggero, è paradossale per un poeta che del nefas ha fatto il centro della sua opera (come paradossale è in Lucano la riluttanza a narrare l’orrore, anch’essa propria del messaggero tragico). 3 E il paradosso va letto appunto come una figura retorica : la forma più appropriata a definire per contrasto, e con la violenza di uno scarto, la nuova epica del nefas. Ricordare il male è proprio il compito che questa nuova epica di fatto si pone – contro ogni espresso desiderio di rimozione, e contro la tradizione stessa dell’epica celebrativa. Rovesciando un cliché dell’epos, la paradossale damnatio memoriae assicura a questo ‘mito da dimenticare’, come alla ‘storia da dimenticare’ di Lucano, un ricordo incancellabile ; l’autocensura ha insomma l’effetto contrario di rendere lo scontro fratricida particolarmente memorabile, proprio in quanto particolarmente orribile e perciò ‘da dimenticare’ 4 (è il paradosso stesso della damnatio memoriae come istituto politico, una repressione della memoria sociale che vuole rafforzare il ricordo del nemico pubblico il cui nome è eraso). 5 Avviene così in Stazio, grazie allo sdoppiamento ironico della voce narrante, qualcosa di simile a quello che avviene in tragedia, dove il desiderio di oblio espresso dai personaggi o dal coro si scontra con la scelta del poeta tra 























1  Il virtuoso figlio di Ezio Bolano invoca la pietà delle Eumenidi per un crimine già punito da Domiziano : 5, 2, 91 ss. ; cf. 97 macte animo, iuvenis ! sed crescunt crimina matris. Riportando le parole di Crispino, il poeta delle Silvae dà fama al nefas di cui questi augura l’oblio ; così, nella Tebaide, il narratore epico onnisciente condanna a eterna infamia il crimine che il narratore-personaggio vorrebbe dimenticato per sempre. Vedi Bernstein 2007, pp. 191-194. 2  Il nefas tragico si configura come un’azione da non vedere, da non credere, da non ricordare ; nel Tieste cf. anche i vv. 623-626 nu. quis me per auras turbo praecipitem vehet / atraque nube involvet, ut tantum nefas / eripiat oculis ? o domus Pelopi quoque / et Tantalo pudenda ! ; 776-778, 1094-1095 thy. aeterna nox permaneat et tenebris tegat / immensa longis scelera (e sul messaggero nel Tieste come figura autoriale, divisa come il poeta tragico fra desiderio di rimozione e coazione al racconto, vedi Schiesaro 2003, pp. 236-237) ; cf., inoltre, Sen. Phoen. 262-267 oed. proloqui hymenaeum pudet / taedasque nostras ? has quoque invitum pati / te coge poenas : facinus ignotum efferum / inusitatum fare q u o d p o p u l i h o r r e a n t , / q u o d e s s e f a c t u m n u l l a n o n a e t a s n e g e t , / quod parricidam pudeat… 3  Anche di quello del Tieste : cf. Sen. Thy. 634 ss. Per questa vicinanza di Lucano alla funzione del nuntius, la cui rhesis è, in tragedia, la parte più affine all’epica, vedi infra, § 3. 4  La controfattualità dell’augurio formulato da Stazio sembra già inscritta nella tensione ossimorica della iunctura infame excidat : infamis può avere un uso generico (« infame, vergognoso, che s a r e b b e degno di cattiva fama »), ma qui l’espressione densa sembra voler suggerire il senso forte dell’aggettivo (per es. in Theb. 1, 333 ; 3, 121 ; 7, 757). 5  Vedi Hedrick 2000, pp. 113 ss., spec. pp. 113-114.  









   





















La Tebaide di Stazio. Epica e potere

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gico di fare appunto vedere, e ricordare, il nefas. Attraverso una densa figura retorica, il poeta della Tebaide dice insieme il bisogno di rifuggire dall’orrore e la necessità di ricordarlo ; la negazione dell’epica celebrativa è un’affermazione del potere dell’epica di celebrare in negativo gli orrori dei re. 1 Stazio ha messo il silenziatore alla riflessione metapoetica proprio là dove la portata metapoetica del suo gesto è più forte. Questi versi vanno letti insieme al congedo dell’opera, con cui condividono una clausola (futuris), un verbo (memorare) e l’indicazione distinta di due tipi di pubblico, quello generale (là iuventus) e quello che rappresenta il potere (là Caesar, come qui i reges) : Theb. 12, 810-819 durabisne procul dominoque legere superstes, / o mihi bissenos multum vigilata per annos / Thebai ? iam certe praesens tibi Fama benignum / stravit iter coepitque novam monstrare futuris. / iam te magnanimus dignatur noscere Caesar, / Itala iam studio discit memoratque iuventus. / vive, precor ; nec tu divinam Aeneida tempta, / sed longe sequere et vestigia semper adora. / mox, tibi si quis adhuc praetendit nubila livor, / occidet, et meriti post me referentur honores. 2 Dire, all’apice del racconto, ‘Questa mostruosità sia cancellata dalla memoria dei posteri, e se ne ricordino solo i re’ non è solo un’espressione efficace di orrore : fuori di retorica, è un’affermazione cruciale per un poema che si augura fama perpetua, e che ha tra i suoi destinatari i detentori di quel potere assoluto di cui rappresenta e condanna le degenerazioni. Dietro la mossa retorica dei nostri versi c’è dunque la consapevolezza di fondare un nuovo modo di fare epica, e di rivendicare alla memoria epica una nuova funzione – ora che in primo piano non vi sono imprese da consegnare a fama eterna, semmai da condannare a eterna infamia. 3 Lo stesso Lucano,  















1  Stazio si accosta così, di fatto, alla poetica della tragedia nella definizione di Lattanzio (che ha di mira soprattutto Seneca) : inst. 6, 20, 28 tragicae historiae subiciunt oculis parricidia et incesta r e g u m m a l o r u m et cothurnata scelera demonstrant ; Petrone 1996, p. 65. 2  Il confronto, già nel commento di Barth, è stato più volte ripreso : cf., per es., Georgacopoulou 1998, pp. 97-98 ; Bernstein 2004, p. 82. Su questi versi cf. cap. i, § 1. 2. 3  Scrivere epica sotto l’Impero, molto dopo la stagione augustea, pone problemi affini allo scrivere storia (cf. n. 1 a p. 93). La consapevolezza di fondare un nuovo tipo di storiografia è similmente espressa da Tacito mediante il rovesciamento di moduli storiografici tradizionali (e la contrapposizione dichiarata rispetto agli storici di età precedenti) in ann. 4, 32-33 ; cf. Martin, Woodman 1989, a 4, 32-33 e nn. ss., spec. a 32, 1 parva … et levia memoratu. Se la storiografia romana, sulla linea di Erodoto e in consonanza con l’epica, prendeva tradizionalmente ad oggetto imprese « grandi e degne di essere ricordate » (in rebus magnis memoriaque dignis, Cic. de orat. 2, 63 ; di una grandezza negativa cf. già Sall. Cat. 4, 2 memoria digna), l’autore degli Annales ribalta qui molti clichés proemiali su grandezza, gloria, piacevolezza degli eventi che stanno per essere narrati (32, 2 nobis in arto et inglorius labor) ; nel fare storia su una materia meschina e negativa (grande e atroce invece in hist. 1, 2) permane l’utilità dell’insegnamento (32, 2 ; 33, 2), ma rischia di venir meno il delectare, tradizionalmente inteso (33, 3 ceterum ut profutura, ita minimum oblectationis adferunt). È significativo che Tacito, contrapponendosi alla grande storiografia romana del passato, connoti quest’ultima in termini adatti all’epos eroico (32, 1 sed nemo annales nostros cum scriptura eorum contenderit, qui veteres populi Romani res composuere. ingentia illi b e l l a , expugnationes urbium, fusos captosque r e g e s … libero egressu memorabant ; 33, 3 nam situs gentium, varietates proeliorum, c l a r i d u c u m e x i t u s retinent ac redintegrant legentium animum ; 33, 4 tum quod antiquis scriptoribus rarus obtrectator, neque refert cuiusquam Punicas Romanasve a c i e s laetius e x t u l e r i s ). Presupposti analoghi (in una prospettiva rove 























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più avanti nel poema, esprimeva questa consapevolezza restaurando – ancora con un paradosso – la convenzione del genere che aveva prima rovesciato : sono i versi famosi rivolti a Cesare, Lucan. 9, 980-986 o sacer et magnus vatum labor : omnia fato / eripis et populis donas mortalibus aevum ! / invidia sacrae, Caesar, ne tangere famae : / nam, si quid Latiis fas est promittere Musis, / quantum Zmyrnaei durabunt vatis honores, / venturi me teque legent : Pharsalia nostra / vivet et a nullo tenebris damnabimur aevo. 1 La funzione epico-celebrativa appare ora ristabilita – ma la celebrazione, qui, equivale a una condanna (la condanna di un tiranno). Il sarcasmo di Lucano lo dichiara : conferire fama immortale alle azioni più empie è qualcosa che mette in crisi lo statuto del genere epico ; e tuttavia da questa crisi nasce una nuova epica del nefas – un’epica destinata a stare per sempre accanto a quella di Omero. Stazio prosegue Lucano, e del suo gesto di rottura fa quasi l’insegna della nuova poetica : una poetica dell’epos che (vedremo) accoglie ora, in modo più diretto ed esibito, forme, funzioni e finalità estetiche della tragedia.  

















ii. 3. Quod nulla posteritas probet, sed nulla taceat . Epica del nefas e poetica della tragedia Celebrare (o no) nell’epica azioni negative : questo è il problema che la Pharsalia pone in forme provocatorie ; all’apice del racconto, il rifiuto di narrare è la manifestazione più acuta di una tensione che percorre tutto il poema, e che si esprime nel sovvertimento di moduli tradizionali. 2 Lucano forza le convenzioni del genere fino a un punto di rottura : fino ad assumere una posa, quella del ‘narratore riluttante’, che si addice piuttosto al messaggero tragico – ma che viene ora trasformata in un autorevole gesto di denuncia da parte dello stesso narratore epico. 3  









sciata) si colgono nella critica di Dionigi di Alicarnasso a Tucidide, giudicato inferiore ad Erodoto nella scelta della materia, che per uno storico deve essere « bella e gradita a chi leggerà » ; anziché « le mirabili imprese dei Greci e dei barbari », Tucidide ha narrato « le luttuose e terribili sofferenze dei Greci », prendendo ad oggetto una guerra « non bella né fortunata, che non avrebbe dovuto aver luogo, o, una volta verificatasi, sarebbe dovuta cadere nel silenzio e nell’oblio, ignorata dai posteri » : epist. ad Pomp. 3, 4 ; cf. Fornaro 1997, ad loc. e a 3, 2, 20. 1  Il v. 986 rovescia 7, 552-554 …tenebrisque relinque / nullaque … discat … aetas per tornare alla formula virgiliana, Aen. 9, 447 nulla dies umquam memori vos eximet aevo. Cf. anche Narducci 2002, n. 47 a p. 183. 2  Dalla promessa di fama che equivale a una maledizione, nel caso di Cesare, alla condanna esplicita ad una notorietà infamante, per eroi in nero come Curione, Sceva, Settimio (4, 811-824 ; 6, 257-262 ; 8, 608-610). Altri esempi della torsione paradossale impressa alle convenzioni dell’epica, in tema di gloria conferita dalla poesia, sono le considerazioni sull’indegna tomba di Pompeo, davanti alle cui tracce cancellate una fortunata età futura potrà non credere al racconto del passato (8, 865-872), o la promessa di far conoscere azioni di per sé famose a lettori che vivranno il racconto di Farsàlo veluti venientia fata, / non transmissa e che parteggeranno ancora per Pompeo (7, 205-213). Cf. Narducci 2002, pp. 171 ss. 3  Lucano assume in qualità di narratore il ruolo dell’a[ggelo~ esitante che Virgilio aveva attribuito ad Enea come narratore interno (Aen. 2, 3 ss. ‘infandum, regina, iubes renovare dolorem…’). L’epica  

























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Una tensione simile tra silenzio e parola poetica, tra oblio e ricordo, tra desiderio di rimozione e imperativo della memoria, dà forma alle tragedie di Seneca : lo ha mostrato Schiesaro analizzando il prologo del Tieste (con il contrasto fra Tantalo e la Furia). 1 Se c’è un genere poetico che è di fatto, in gran parte, una celebrazione del nefas, questo è la tragedia, specialmente nella sua versione senecana. L’epica di Lucano, con le sue strategie di ritardo e le sue mosse di rifiuto, inscena una resistenza di fronte alla propria materia che ricorda la riluttanza di un personaggio come l’ombra di Tantalo (nel Tieste) a mettere in moto l’azione tragica, o la reticenza dei messaggeri che vorrebbero lasciare nelle tenebre e dimenticare quello che hanno visto. Lucano esplora nell’epos una contraddizione analoga a quella che Seneca tragico mette al centro della sua drammaturgia ; 2 dare forma poetica al male è di fatto colludere in parte con esso : un’operazione di per sé ambigua, che dà visibilità a ciò che dovrebbe restare nascosto, ad azioni da non credere e da dimenticare. 3 È un compito che il poeta, epico e tragico, assume in forma problematica, dando voce ad esitazioni e dubbi, esprimendo (in prima persona o per bocca dei personaggi) orrore e rifiuto : ma senza per questo sottrarsi del tutto alla fascinazione ambigua del male, che rischia di coinvolgere il pubblico (e, per Seneca, rischia di compromettere la possibilità stessa di un teatro stoico). 4 L’epica, rispetto alla tragedia, ha il ‘vantaggio’ di poter far sentire in modo diretto la voce dell’autore ; il poeta epico può provare a dissipare l’ambiguità della sua posizione, intervenendo in prima persona per prendere le distanze da ciò che narra : e con Lucano e Stazio l’autore interviene ora pervasivamente a commentare, a giudicare e a condannare. 5 Ma nonostante l’esplicito di 





















flavia impara da Lucano ; anche Valerio Flacco, nell’introdurre l’episodio ‘tragico’ di Lemno, assume i modi del messaggero riluttante : Val. Fl. 2, 216-219 unde ego tot scelerum facies, tot fata iacentum / exsequar ? heu vatem monstris quibus intulit ordo, / quae se aperit series ! o q u i m e v e r a c a n e n t e m / s i s t a t e t h a c n o s t r a s e x s o l v a t i m a g i n e n o c t e s ! (meno trasgressiva rispetto alla tradizione epica è invece l’invocazione alle Muse che introduce la ‘guerra civile’ di Cizico in 3, 14-8, modellata sull’ultima, problematica invocazione di Virgilio alla divinità in Aen. 12, 500-504 – un punto critico dell’Eneide che Lucano stesso doveva avere ben presente – ; in 3, 212-219 sono ancora le Muse ad essere invocate per narrare l’azione delle Furie : Valerio conserva una gerarchia epico-virgiliana che Stazio invece sovvertirà ; vedi infra, § 4). 1  Schiesaro 1994 ; 2003, pp. 26 ss. 2  Vedi Idem 2003, pp. 40-41. 3  Una problematica affine è affrontata nel De clementia a proposito di una questione giuridica, la punizione dei parricidi con la pena del sacco, che all’epoca di Claudio sembra aver moltiplicato i parricidi stessi ; cf. Sen. clem. 1, 23, 1 summa enim prudentia altissimi viri et rerum naturae peritissimi maluerunt velut incredibile scelus et ultra audaciam positum praeterire quam d u m v i n d i c a n t o s t e n d e r e p o s s e f i e r i, con Petrone 1996, pp. 53-54. 4  Cf. Schiesaro 1997, pp. 109 ss. ; 2003, pp. 243 ss., 252 ss. Su Lucano, in part. Masters 1992, pp. 212-213 e n. 70. 5  Importante su questo punto la riflessione sul confronto fra tragedia ed epica in Schiesaro 2003, pp. 243-251 (cf. pp. 84-85) ; discutendo il concetto di « critical spectatorship » applicato da Martha Nussbaum alla tragedia senecana, Schiesaro riparte dall’opposizione fra epica e tragedia messa in luce da Schiller sulla traccia di Aristotele, e arriva a verificare sul teatro di Seneca la nozione di ‘teatro epico’ teorizzata da Brecht : nonostante i tratti che la avvicinano all’epica (ma a un’epica che  





























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stanziamento critico (che vorrebbe orientare in senso univoco la risposta dei destinatari) anche l’epica non può smentire la scelta di un’estetica negativa o sfuggire al sospetto del compiacimento narrativo. E anche quest’epica negativa, come la tragedia, rischia di fare il gioco dei personaggi malvagi. C’è, fra poeta e personaggio tragico, una complicità oggettiva nel mettere in moto l’azione delittuosa (lo dimostra la figura autocosciente di Atreo, che rappresenta sulla scena l’energia creativa del poeta tragico). 1 Una complicità di fatto che è anche coincidenza oggettiva dei fini. La paradossale comunanza di destino che unisce Cesare e Lucano, l’eroe negativo della Pharsalia e il suo poeta, consegnati insieme a fama perpetua, è la stessa che lega protagonista e poeta della tragedia. La fama che il personaggio empio si augura, come un premio, è quella che il poeta di fatto gli assicura, sia pure come una condanna. Quod nulla posteritas probet, / sed nulla taceat : il verso che esprime la tensione di Atreo verso un’azione mostruosa, ma indimenticabile, potrebbe essere il manifesto poetico della tragedia senecana. 2 E potrebbe descrivere la nuova, contrastata funzione memoriale di quest’epica negativa, come l’abbiamo individuata nel nucleo tragico dell’epica di Stazio. La tirannia del male, che chiede e ottiene di essere ricordato, è un’aporia inquietante nelle tragedie di Seneca, ed è la novità ammessa con disagio nell’epica da Lucano e da Stazio. L’epica omerica poteva identificare il suo programma con quello di un suo eroe, Ettore : « fare qualcosa di grande che i posteri conoscano ». 3 Sulla scena tragica un protagonista come Atreo, alla ricerca di un maius malum, perverte l’ideale eroico : « Su, animo mio, fa’ qualcosa che nessuna età futura approvi, ma nessuna taccia ». 4 Nel rovesciamento  





















può essere a sua volta ‘decentralizzata’ ed ambigua come quella di Ovidio), la tragedia senecana non garantisce la ‘distanza critica’ richiesta dalla riflessione brechtiana, e non previene la pericolosa (da un punto di vista stoico) identificazione dello spettatore con le passioni rappresentate in scena. Lucano e Stazio, trattando nell’epica una materia da tragedia, sembrano reagire ai rischi di ambiguità della tragedia senecana rafforzando la voce autoriale e ribadendone la centralità unificante : mentre fondano una nuova epica del nefas, ai rischi estremi della poetica tragica che hanno assorbito reagiscono con gli anticorpi di un’epica, per questo aspetto, più che tradizionale (sull’invadenza della voce narrante in Lucano cf. Narducci 2002, pp. 101-104 ; sull’apostrofe Asso 2008). 1  Schiesaro 2003, spec. cap. 3. Cf. già Picone 1984, spec. pp. 51 ss. 2  Sen. Thy. 192-196 age, anime, fac quod nulla posteritas probet, / sed nulla taceat. aliquod audendum est nefas / atrox, cruentum, tale quod frater meus / suum esse mallet. scelera non ulcisceris, / nisi vincis. Che il loro delitto sia ricordato in eterno è ciò che si augurano i personaggi senecani più creativi e autocoscienti : oltre ad Atreo, Medea in Med. 423-424 faciet hic faciet dies / quod nullus umquam taceat (cf. Schiesaro 2003, p. 43). Tali auguri sono l’equivalente, in tragedia, degli auguri di immortalità poetica nell’epica : tratti metanarrativi che enunciano la poetica negativa del genere tragico, imperniata sulla memorabilità del male (per questa memorabilità negativa cf. Sen. clem. 2, 2, 2-3). 3  Hom. Il. 22, 304-305 “mh; ma;n ajspoudiv ge kai; ajkleiw`~ ajpoloivmhn, É ajlla; mevga rJevxa~ ti kai; ejssomevnoisi puqevsqai”, « Ma non voglio morire senza lotta né senza gloria, bensì facendo qualcosa di grande, che anche i posteri ricorderanno » (tr. di G. Paduano). Cf. il tono di parodia epica in Plauto, Pseud. 590-591 magna me facinora decet ecficere / quae post mihi clara et diu clueant : vedi Zwierlein 1982, p. 97. Per la funzione della memoria all’interno dell’epica omerica cf. Bakker 2008. 4  La ‘grandezza’ eroica è pervertita nel « maius-aliquid-Motiv » (sopr. Thy. 266-270, 273-275). Sei 

















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dei valori su cui si fonda il regnum, e la poetica della tragedia, l’imperativo (etico ed estetico) diventa la grandezza nel male ; il tiranno, e con lui il poeta tragico, cerca l’enormità di un’azione inaudita, che superi ogni modello e si assicuri eterna risonanza : tirannicamente, anche contro il volere dei sudditi, anche contro l’approvazione dei posteri. 1 Dedita per tradizione a riflettere sul potere tirannico, la tragedia ha al centro della sua poetica la memorabilità del male ; a quella poetica si accosta infine, in tempi di regnum, anche un genere nato per immortalare le glorie di re ed eroi, com’è l’epica.  







Torniamo così alla Tebaide. Il commento al duello fa emergere lo stesso nodo problematico comune a Lucano e a Seneca : la tensione fra oblio e memoria, tra desiderio di rimuovere e dovere di ricordare il nefas. Nel suo ritorno al mito, Stazio prosegue la trasformazione del genere epico operata da Lucano attingendo più largamente alla tragedia e alla sua poetica. Vediamo ora come i versi di cui ci stiamo occupando puntino chiaramente in direzione del genere tragico, in chiusa a una sequenza narrativa che alla forma tragica è in gran parte improntata. Abbiamo trascurato finora l’ultimo tratto dell’epifonema, l’augurio finale che solo i re ricordino lo scontro tra i fratelli. Nella densità retorica di questo passo, l’augurio equivale a una denuncia, alla condanna di chi, in ogni tempo e in ogni luogo, è responsabile di scontri come questo (e di guerre come questa). Tutti dovrebbero poter dimenticare un simile orrore ; solo i re dovrebbero ricordarlo, per non ripeterlo. 2 Soli memorent haec proelia reges : ecco ancora un paradosso, un augurio formulato con la coscienza della sua vanità (in tono amaro, e con sarcasmo) ; lo dimostra, cento versi dopo, il commento alla presa del potere da parte del nuovo tiranno, Creonte : 11, 655-657 pro blanda potestas / et sceptri malesuadus amor ! numquamne prior um / haerebunt documenta novis ? 3 Dunque, la forma ironica dei nostri versi è giunta infine alla sua pun 

















densticker 1985 indica in questo il rovesciamento dell’ideale del saggio stoico (cf. Knoche 1941, pp. 66-76 = 1972, pp. 477-489), ma accenna anche alla « Verkehrung des alten griechischen Heldenideals : aije;n ajristeuvein kai; uJpeivrocon e[mmenai a[llwn. Auch Atreus will der beste sein ; auch er will … alle anderen, Tote und Lebende, übertreffen und unsterblichen Ruhm erringen » (p. 131). Cf., inoltre, Schiesaro 2003, p. 46 e n. 50 (che cita Shakespeare, Tit. Andron. 3, 1, 133-135). 1  Cf. Picone 1984, pp. 42-43 ; Schiesaro 2000, p. 151 ; 2003, p. 129. Atreo vuol essere tiranno con i posteri come lo è con i sudditi, costretti a lodarlo anche se non lo approvano : cf. la discussione col satelles sul tema della laus in Thy. 204-212 sat. fama te populi nihil / adversa terret ? : : atr. maximum hoc regni bonum est, / quod facta domini cogitur populus sui / tam ferre quam laudare… atr. laus vera et humili saepe contingit viro, / non nisi potenti falsa. quod nolunt velint, e vedi Picone 1984, pp. 44 ss., spec. p. 45. 2  Il senso complessivo del passo, che invoca la cancellazione del crimine dalla faccia della terra, è a favore di questa interpretazione dell’ultimo verso (la memoria di un esito funesto come deterrente contro nuove lotte di potere) ; non si può escludere del tutto la possibilità di un risvolto sarcastico (il compiacimento di una memoria mostruosa), che costituirebbe una punta ancora più aggressiva contro i reges (così Venini 1970, ad loc.) : ma il testo non sfrutta ulteriormente questa via. 3  Cf. Ahl 1986, p. 2816 ; Georgacopoulou 1998, p. 100 ; Markus 2003, pp. 461-463. Significativo il termine documenta, che glossa a posteriori la narrazione del duello e fa pensare alla storiogra 























   

Un mito da dimenticare. Tragedia e memoria epica

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ta più aspra. Anche qui, le parole significano il contrario di quello che dicono : tutti devono ricordare, perché i reges, ogni volta, dimenticano. 1 Stazio esplicita qui la funzione paradigmatica che il mito tragico dei fratelli tebani svolge stabilmente nella cultura antica. 2 Se è problematico o dubbio che la tragedia in sé, in particolare nella sua fase senecana, possa avere un intento e un valore educativo come speculum principis, è indubbio che ai simboli tirannici elaborati dal teatro tragico si cerchi di assegnare, in altri ambiti, il ruolo ammonitorio di exempla negativi. 3 È il caso della storiografia ; l’appello (inefficace) alla memoria dei re, nella Tebaide, richiama racconti storici su casate regali in cui i paradigmi tragici sono impiegati come ammonimento (spesso vano) sui pericoli della lotta familiare per il potere : una mise en abyme che riflette in grandi figure regali l’attitudine dello storico a insegnare per esempi. 4 Così, Erodiano riferisce i discorsi di Settimio Severo morente ai figli Geta e Caracalla : 3, 13, 3 muvqwn te ajrcaivwn kai; dramavtwn uJpemivmnhsken, ajei; basilevwn ajdelfw`n sumfora;~ ejk stavsew~ dihgouvmeno~, « ricordava loro antichi miti e drammi, raccontando sempre le sventure di fratelli regali causate dalla discordia » ; così, nella narrazione di Livio, Filippo V di Macedonia rammenta ai figli rivali Perseo e Demetrio gli exempla discordiarum fraternarum tante volte proposti loro invano, mentre il ‘fabulis traditus impiorum fratrum eventus’ è menzionato in un discorso ammonitore rivolto ad Attalo, nel racconto della  





















fia moralistica (vedi infra, cap. iv, § 5) ; la funzione didascalico-ammonitoria conferita da Stazio all’episodio mitico è affine a quella assegnata da Livio a un episodio storico analogo, il duello tra i fratelli Corbis e Orsua, disputatisi il dominio della propria città nei giochi gladiatorî organizzati da Scipione : Liv. 28, 21, 9 …mortem in certamine quam ut alter alterius imperio subiceretur praeoptantes cum dirimi ab tanta rabie nequirent, insigne spectaculum exercitui praebuere documentumque quantum cupiditas imperii malum inter mortales esset (l’episodio anche in Sil. 16, 527-548, con riprese da Theb. 11 ; cf. Ariemma 2008). 1  La polemica condanna all’oblio è di fatto una consegna all’infamia : Stazio sfiora qui col suo racconto epico, nei confronti dei reges, la funzione di deterrente per mezzo dell’infamia che Tacito assegna nella storiografia agli exempla negativi, nei confronti delle élites politiche ; cf. Tac. ann. 3, 65, 1 exsequi sententias haud institui nisi insignes per honestum aut notabili dedecore, quod praecipuum munus annalium reor, ne virtutes sileantur utque pravis dictis factisque ex posteritate et infamia metus sit. È questa una funzionalizzazione inconsueta dell’exemplum negativo (cf. Diod. Sic. 1, 1-2 ; 14, 1 ; 15, 1), più spesso giustificato genericamente a fini didascalici (Liv. praef. 10 …inde foedum inceptu foedum exitu quod vites ; Tac. ann. 4, 33, 2 ; Plut. Demetr. 1, 5-6) ; importante sul tema Luce 1991, spec. pp. 2911-2914. Cf. anche Sen. clem. 1, 18, 3 regum … infamia atque odium saeculis traditur ; su Plin. paneg. 53, 5 vedi supra, cap. i, § 1. 1. 2  Un tema approfondito da Petrone 1996 : vedi supra, n. 2 a p. 82. 3  L’ambiguità della tragedia, in quanto esperienza estetica, nel proporre storie funeste di conflitti fraterni può tuttavia essere attribuita talvolta agli stessi paradigmi tragici : in ann. 13, 17, 1 Tacito osserva che, dopo l’uccisione di Britannico, molti fra il popolo tendevano a giustificare il crimine di Nerone antiquas fratrum discordias et insociabile regnum aestimantes. Sull’ambiguità della stessa storiografia di Tacito, e del suo uso degli exempla negativi, cf. Syme 1958, vol. ii, pp. 520-521 ; Luce 1991, p. 2906. È l’ambiguità di fondo da cui neppure l’epica negativa (nonostante il suo forte accento moralistico) può liberarsi. 4  I passi che seguono sono analizzati da Narducci 1998, pp. 482 ss., e ora 2002, pp. 457-463 ; cf. Petrone 1996, pp. 68 ss., p. 80.  





























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sua contesa (questa volta scongiurata) col fratello Eumene per il regno di Pergamo. 1  

Dunque, nel momento in cui il mito tragico di Eteocle e Polinice è giunto al suo esito funesto, Stazio ne rende esplicito il valore di paradigma negativo. La « retorica dei racconti mitici » tolti alle scene ha fatto da tempo della storia dei fratelli tebani, come di quella di Atreo e Tieste, una metafora corrente delle contese familiari per il potere, e delle loro conseguenze rovinose. 2 Ma il riferimento alla tragedia, in questo punto della Tebaide, non è generico. La tragedia, specialmente quella senecana, ha offerto a Stazio modi e forme di rappresentazione per questa sequenza culminante del racconto epico (lo vedremo fra poco) : e, coerentemente, l’epica dichiara qui di assumere quel ruolo di riflessione sul potere, sulla sua natura, la sua logica interna e i suoi pericoli, che per secoli era stato svolto dal genere tragico. 3 Lo stesso gesto, pateticamente inefficace, di rivolgere un ammonimento ai « re » trova un parallelo nel terzo coro del Tieste, Sen. Thy. 607-614 vos quibus rector maris atque terrae / ius dedit magnum necis atque vitae, / ponite inflatos tumidosque vultus… : un appello alla moderazione che va oltre il contesto immediato per rivolgersi « to rulers everywhere (especially Rome) », ma che rimane lettera morta nel seguito del dramma, e viene rovesciato dal trionfo finale di un Atreo superbo ed impunito. 4 La Tebaide vuole essere anche, nelle forme di un racconto mitico, un discorso sul potere assoluto ; il dodicesimo libro, con l’esaltazione della Clementia (e di Teseo), sta ai primi undici quasi come il De clementia sta alle tragedie di Seneca : 5 sono le due facce, positiva e negativa, di un discorso al – o almeno sul – potere. Soli memorent haec proelia reges. La sigla al duello è (anche nella forma della clausola) una perversione dello statuto tradizionale dell’epica, quello di celebrare reges et proelia : 6 ma è l’insegna di un’epica che è entrata di fatto nel dominio della tragedia.  































1  Su Filippo cf. Liv. 40, 8, 11-12 ‘quotiens ego audientibus vobis detestatus exempla discordiarum fraternarum horrendos eventus earum rettuli, quibus se stirpemque suam, domos, regna funditus evertissent ! [12] meliora quoque exempla parte altera posui… ; 16 neque vos illorum scelus similisque sceleri eventus deterrere a vecordi discordia potuit, neque horum bona mens, bona fortuna ad sanitatem flectere’ ; nel passo corrispondente di Polibio (23, 11, 1 ss.) il sovrano menziona ta;~ tragw/diva~ kai; tou;~ muvqou~ kai; ta;~ iJstoriva~, « le tragedie, i miti e le storie ». Per Attalo ed Eumene cf. Liv. 45, 19, 16. 2  Petrone 1996, p. 75 ; Braund 2006. 3  Per la riflessione della tragedia greca sul potere tirannico è fondamentale Lanza 1977 ; cf. Catenacci 1996, pp. 7-8 con bibliografia. Sulla tragedia romana La Penna 1977 (= 1979, pp. 65 ss.) ; 1972 (= 1979, pp. 128 ss.). 4  Cf. Tarrant 1985, ai vv. 610-614 ; Schiesaro 2003, p. 169. 5  Sulla Clementia nella Tebaide in rapporto col trattato senecano vedi infra, cap. iii. 6  La formula con cui Virgilio, in ecl. 6, 3, traduce il « re … o … eroi » del prologo degli Aitia di Callimaco (fr. 1, 3-5 Pf.). Quello tra i fratelli tebani è uno scontro fra re che l’epica vorrebbe rifiutarsi di tramandare alla memoria.  





















Un mito da dimenticare. Tragedia e memoria epica

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ii. 4. Dalle Muse alle Furie: epica e tragedia nella Tebaide L’epifonema che abbiamo analizzato chiude, con importanti richiami al genere tragico, un tratto di narrazione che alla tragedia è fortemente improntato. Abbiamo lasciato da parte, finora, l’invocazione alle Stygiae sorores ; 1 torniamo a quei primi tre versi : 11, 574-576 ite truces animae funestaque Tartara leto / polluite et cunctas Erebi consumite poenas ! / vosque malis hominum, Stygiae, iam parcite, divae. L’apostrofe è un duplice congedo, dei fratelli e delle Furie, dal poema. 2 Un congedo che ha anche valore poetologico : Stazio invoca le Furie in quanto ispiratrici dell’azione, quasi scaricando su di loro la responsabilità (poetica) di avere messo in scena il furor fratricida. E davvero, all’inizio del libro, Tisifone è stata investita di questa funzione. La sua richiesta di aiuto alla sorella Megera (11, 76 ss.) è un prologo vero e proprio, con vistosi tratti programmatici : 3  















‘hoc quodcumque madent campi, quod sanguine fumant stagna, quod innumero Lethaea examine gaudet ripa, meae vires, mea laeta insignia. sed quid haec ego ? Mars habeat, vulgataque iactet Enyo. 4 … non solitas acies nec Martia bella paramus, sed fratrum (licet alma Fides Pietasque repugnent, vincentur), fratrum stringendi comminus enses. grande opus !…’. 5 (Theb. 11, 81-84, 97-100)  







Tisifone rifiuta qui azioni (poeticamente) comuni, da divinità epiche della guerra (vulgata è termine programmatico, fin dal proemio al mezzo delle Ge1  Un modello tragico specifico è indicato da Georgacopoulou 1998 nell’invocazione di Atena alle Erinni in Aesch. Eum. 824-825 oujk e[st∆ a[timoi, mhd∆ uJperquvmw~ a[gan É qeai; brotw`n sthvshte duvskhlon cqovna « Non siete disonorate. Non vogliate, o dee, per un traboccare d’ira eccessiva, rendere desolata la terra ai mortali » (tr. di M. P. Pattoni ; funzione diversa ha l’invocazione alle potenze degli inferi perché permettano al poeta di descrivere il loro regno in Aen. 6, 264-267, confrontato da Steiniger 1998, p. 226 n. 18). Per un’analoga preghiera di un coro tragico cf. Sen. Thy. 132 ss. 2  Ancora variamente evocate e presenti nelle tracce delle loro azioni, dopo questo punto le Furie scompaiono però come presenza attiva e concreta dalla scena della Tebaide. Cf. Ganiban 2007, pp. 200-202. 3  Vedi anche Lovatt 2005, p. 302. 4  Tisifone disdegna di soffermarsi oltre sulle stragi « comuni » e prosegue rivendicando alla sua ispirazione gli episodi eccezionali e culminanti di Tideo e di Capaneo : 11, 85-91 ‘vidistis (Stygiis certe manifestus in umbris) / sanguine foedatum rictus atroque madentem / ora ducem tabo : miserum insatiabilis edit / me tradente caput. modo nempe horrendus ab astris / descendit vos usque fragor : me sacra premebat / tempestas, ego mixta viri furialibus armis / bella deum et magnas ridebam fulminis iras’. Ma il potere della Furia si è ora affievolito, e per la nuova e più alta climax Tisifone chiede il rinforzo di un furor intatto : 92-96 ‘sed iam (effabor enim) longo sudore fatiscunt / corda, soror, tardaeque manus ; hebet infera caelo / taxus et insuetos angues nimia astra soporant. / tu, cui totus adhuc furor exultantque recentes / Cocyti de fonte comae, da iungere vires’. 5  Cf. 11, 100-102 ‘ipsae odiis, ipsae discordibus armis / aptemur. quid lenta venis ? agedum elige cuius / signa feras…’.  





















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orgiche) ; 1 quello che la Furia prepara non è uno scontro consueto, non è una guerra di Marte (non solitas acies nec Martia bella paramus) ; 2 quello che, con Megera (la sua « grande » sorella), vuole realizzare è un’azione (poeticamente) grande, un’azione da tragedia : grande opus !. 3 Stazio ha segnalato nel modo più chiaro che lo scontro tra i fratelli è il nucleo tragico del racconto della Tebaide : lo ha fatto lasciando alle Furie piena autonomia di azione e investendole qui di un ruolo poetologico. Le Furie hanno sostituito le Muse : 4 in questo tratto del racconto (e per il resto del poema) le Muse epiche tante volte invocate da Stazio sono scomparse, e hanno ceduto il posto alle ‘Muse’ della tragedia. Promosse ad un ruolo di primo piano nell’epica da Virgilio in poi, le Furie assumono qui un’autonomia e una coscienza poetica che non hanno pari se non in Seneca tragico (qui più che altrove nella poesia flavia, il modello di Alletto, che ha inaugurato nella seconda metà dell’Eneide un epos infernale della violenza e degli horrida bella, ritorna all’epica potenziato e trasfigurato dalla tragedia senecana, che lo ha nel frattempo fatto proprio). 5 Solo le Furie possono presiedere a un’azione che supera ormai i limiti tradizionali dell’epica : un’azione che non vuole Muse, un’azione mitica ‘da dimenticare’. Abbiamo visto che la gradazione fra guerra e duello è inscritta nel mito dei Sette, e che nella Tebaide il duello è il culmine tragico del racconto : il passaggio dalle Muse alle Furie rende esplicito questo cambio di registro. Le Muse dell’epica sono invocate per l’ultima volta nell’ultimo episodio bellico prima dello scontro tra i fratelli : l’aristia di Capaneo, nel decimo libro. 6 È un’invoca 

































1  Verg. ge. 3, 3-5 cetera, quae vacuas tenuissent carmine mentes, / omnia iam vulgata : quis aut Eurysthea durum … nescit… ? ; cf. anche Theb. 4, 533 ss. (Manto) ‘quid tibi monstra Erebi… ?’, 536-540 (Tiresia) ‘immo … ne vulgata mihi. quis enim remeabile saxum … nesciat ?’. 2  Il programma di matrice callimachea assume qui color senecano : l’originalità poetica fa tutt’uno col carattere ‘inaudito’ del delitto ; cf. Sen. Phoen. 338-339 scelere … haut usitato (cf. Venini 1970, a 11, 97). L’eccezionalità di uno scontro che sovverte le norme dell’epica è sottolineata poi in 11, 407-415 : cf. 411 ss. et ipsi / armorum fugere dei … inque vicem Stygiae rubuere sorores. 3  Vedi Feeney 1991, p. 386. 4  La sequenza orientata delle invocazioni alle Muse (e ad altre divinità della poesia) nella Tebaide è analizzata da Steiniger 1998, che valuta l’effetto di continuità, più che di rottura, creato in questa serie dall’implorazione alle Furie e considera l’avvicendamento coerente col ritirarsi degli dei olimpici di fronte all’azione delle divinità infernali (p. 226, cf. 237). Sul complesso rapporto istituito da Stazio con le Muse, non più investite (nel proemio della Tebaide) di autorità poetica assoluta, ma utilizzate come schermo protettivo nel negoziato del poeta col potere imperiale, Rosati 2002. 5  Per la funzione metapoetica delle Furie in Seneca tragico vedi Schiesaro 2003, pp. 17-18, 29 ss. ; cf. pp. 12 e 183-184. È noto che l’episodio di Alletto nel settimo libro dell’Eneide, modellato sulla tragedia euripidea, ha rappresentato per Seneca un modello cruciale (in particolare per il prologo del Tieste, dove Tisifone è ispiratrice dell’azione tragica : in Virgilio istigata da Giunone, qui la Furia agisce di propria iniziativa, istigando a sua volta l’ombra di Tantalo) ; cf. Schiesaro 2003, pp. 32 ss., spec. p. 35 ; importanti soprattutto le pp. 84-85. Sulla centralità del modello di Alletto nella Tebaide Hardie 1993, pp. 62-63. 6  Sulla gradazione fra guerra, aristia di Capaneo e duello fraterno cf. Venini 1970, n. a 11, 123 ; Burck 1979, p. 323 ; Aricò 2002, p. 181. Capaneo ha ancora gli attributi di un eroe epico : vedi supra, nn. 3 e 4 a p. 78.  





























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zione eccezionale, che segna un limite estremo ; 1 il poeta chiede qui alle Muse tutte insieme una maior amentia, una follia poetica più grande, per cantare il furor dell’eroe empio :  





hactenus arma, tubae, ferrumque et vulnera : sed nunc comminus astrigeros Capaneus tollendus in axes. non mihi iam solito vatum de more canendum ; maior ab Aoniis poscenda amentia lucis : mecum omnes audete deae ! 2 (Theb. 10, 827-831)  









È notevole che molte delle movenze impiegate qui da Stazio (nell’invocare le Muse) siano riprese da Tisifone (nell’invocare la Furia sorella) all’inizio del libro successivo (11, 76-100) : la contrapposizione fra ciò che è stato finora e ciò che sarà adesso (hactenus … sed nunc ; hac … tenus … sed iam) ; il programma di un’azione bellica decisiva (comminus astrigeros Capaneus tollendus in axes ; fratrum … fratrum stringendi comminus enses) ; il vanto di un’azione (poetica) non consueta (non mihi iam solito vatum de more canendum ; non solitas acies nec Martia bella paramus) ; l’annuncio di qualcosa di grande, o di più grande (maior … amentia ; grande opus) ; 3 la richiesta di un’unione eccezionale di forze divine (mecum omnes audete deae ! ; da iungere vires) e di una ‘follia’ potenziata (maior … amentia ; totus … furor). L’agenda poetica della Tebaide, ancora in mano di Stazio e delle Muse nel decimo libro, è passata ora nelle mani della Furia.  

























1  Cf. Leigh 2006, pp. 233-235. Nelle Fenicie il messaggero ha, in questo punto della sua rhesis, una problematica movenza autoriflessiva : Eur. Phoen. 1172 Kapaneu;~ de; pw`~ ei[poim∆ a[n wJ~ ejmaivneto… « Come potrei descrivere come infuriava Capaneo ? » (tr. di E. Medda). L’a[ggelo~ è erede, in tragedia, della voce narrante nell’epos ; in Stazio l’invocazione di una maior amentia è quasi lo sviluppo di quella riflessione metapoetica in abbozzo. Sul nesso tra ‘follia’ poetica e poetica della follia nel genere epico cf. Hershkowitz 1998, pp. 61 ss., pp. 63-64 sulla Tebaide. 2  Quello di Capaneo è un furor forse già ispirato dalle sorelle infernali, o forse ancora una virtus egressa modum, un eroismo fuori misura : 10, 831-836 sive ille profunda / missus nocte furor, Capaneaque signa secutae / arma Iovem contra Stygiae rapuere sorores, / seu virtus egressa modum, seu gloria praeceps, / seu magnae data fama neci, seu laeta malorum / principia et blandae superum mortalibus irae (sulla motivazione multipla Feeney 1991, pp. 349-350 ; Hardie 2008 : vedi supra, cap. i, § 2. 3). Al confine tra virtus epica spinta all’eccesso e furor infernale, l’aristia di Capaneo è ancora gestita in collaborazione dal poeta, dalle Muse e dalle Furie : Stazio chiede una maior amentia (più simile all’ispirazione tragica di quanto non sia il maius opus virgiliano), ma la chiede ancora ab Aoniis lucis (alle Muse), per un episodio di cui le Furie hanno forse già la responsabilità (come confermano Plutone in 8, 75-77 e Tisifone in 11, 88-91). Nel ‘prologo’ al duello, la Furia sarà invece lasciata sola ad agire, come sulla scena tragica. 3  Se la seconda metà di un poema epico è, da Virgilio in poi, un maius opus (Aen. 7, 45), nella Tebaide questo moto ascendente diventa un moto perpetuo : la formula del proemio al mezzo dell’Eneide è riecheggiata una prima volta in 8, 373-374 sed iam bella vocant : alias nova suggere vires, / Calliope, maiorque chelyn mihi tendat Apollo (sono ancora battaglie di Marte : cf. 383-385), ma a questo maior Apollo segue nel decimo libro la maior amentia invocata per Capaneo, e, nell’undicesimo, il vero grande opus di Tisifone ; alla gradazione binaria dell’Eneide si sostituisce una continua, ossessiva gradazione ascendente, che sfonda i limiti raggiunti dall’epica virgiliana : una insaziabilità di grandezza – grandezza poetica e grandezza del male – che deve molto alla poetica della tragedia senecana.  



























La Tebaide di Stazio. Epica e potere

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Il programma è simile, ma è evidente la Steigerung fra i due passi. Quella di Capaneo è una virtus iniqua che ha ancora una sua grandezza epica : l’eroe muore memorandaque facta relinquens / gentibus atque ipsi non inlaudata Tonanti (11, 10-11). La sua impresa è l’ultimo atto da ricordare – l’ultimo frutto delle Muse – prima di un duello da dimenticare. Questo stacco fra aristia di Capaneo e nefas dei fratelli è annunciato già all’inizio del poema. C’è, nell’avvio della Tebaide, una spartizione dei ruoli tra il proemio epico e quella sorta di prologo tragico innestato nell’epos che è la maledizione di Edipo. 1 Nel proemio espositivo il duello è censurato, 2 ed è invece annunciato velatamente, al modo di un prologo senecano, nell’invocazione di Edipo a Tisifone, 1, 85-86 ‘da, Tartarei regina barathri, / quod cupiam vidisse nefas’ – dove quod cupiam vidisse nefas allude allo scontro fratricida, riecheggiando la maledizione di Edipo nelle Phoenissae di Seneca. 3 Dunque, all’inizio della Tebaide il narratore epico invoca le Muse (per cantare la guerra, le aristie degli eroi, la lotta di potere tra i fratelli, gli eventi successivi alla loro morte), ma lascia che sia Edipo a invocare la Furia e ad annunciare il culmine della storia : quel nefas supremo che appartiene di diritto al genere tragico ; l’avvicendamento tra Muse e Furie è programmato già qui. L’aristia di Capaneo – vertice dell’azione bellica, e della narrazione epica a cui presiedono le Muse – occupa l’ultimo verso del proemio, 1, 45 alio Capaneus horrore canendus ; col verso successivo, e con la maledizione di Edipo, si entra nel dominio delle Furie : annunciato in un prologo ‘senecano’, il culmine tragico della storia sarà realizzato in un tratto di racconto epico modellato sulla tragedia. E, come abbiamo visto, quello di Edipo non è l’unico prologo ‘tragico’ nella Tebaide. I prologhi sono tre : quello di Edipo, quello di Plutone, quello di Tisifone. Edipo e Plutone invocano Tisifone, Tisifone a sua volta invoca Megera ; tutti e tre, in gradazione ascendente, invocano un nefas : da nefas, dice Edipo / ede nefas, dice Plutone / impelle nefas, dice Tisifone. Così Edipo : 1, 8586 ‘da, Tartarei regina barathri, / quod cupiam vidisse nefas’. 4 Così Plutone : 8, 65-68 ‘i, Tartareas ulciscere sedes, / Tisiphone ; si quando novis asperrima monstris, / triste, insuetum, ingens, quod nondum viderit aether, / ede nefas, quod mirer ego invideantque sorores’. Così Tisifone : 11, 109-110 ‘tibi pareat impius exul, / Argolicumque impelle nefas’. Il duello chiesto da Edipo alla Furia sarà ordinato alla  































1  Barchiesi 2001, pp. 325-326 (per contatti con prologhi senecani cf., inoltre, Aricò 2002, pp. 168 ss., p. 172 ; Ahl 1986, p. 2822). 2  Fraternas acies, nel primo verso, è allusivo, ma generico ; ai vv. 33-37 si passa da arma … Aonia a un indefinito geminis sceptrum exitiale tyrannis, agli eventi che seguono la morte dei fratelli (nec furiis post fata modum…), sorvolando sul passaggio più crudo ; anche ai vv. 41-45, la serie di aristie tra cui la Musa Clio può scegliere non contempla certo lo scontro fratricida. 3  Sen. Phoen. 333 ss., 336-337 aliquid facite propter quod patrem / adhuc iuvet vixisse ; 353-354 maiusque quam quod casus et iuvenum furor / conatur aliquid cupio… ; 362 saeva fratrum bella, quod possum, audiam. Cf. Helm 1892, pp. 41-42, e vedi Barchiesi 2001, p. 326. 4  1, 84-87 ‘i media in fratres, generis consortia ferro / dissiliant. da, Tartarei regina barathri, / quod cupiam vidisse nefas, nec tarda sequetur / mens iuvenum : modo digna veni, mea pignora nosces’.  











Un mito da dimenticare. Tragedia e memoria epica

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Furia da Plutone e sarà imposto dalla Furia alla sorella : tre prologhi senecani, e metaletterari, tra loro legati. Ai tratti senecani del prologo di Edipo abbiamo già accennato. Anche il discorso di Plutone, in apertura del libro ottavo, sembra tolto a una tragedia di Seneca. L’ordine a Tisifone di scatenare un nefas, di cui il fratricidio è il culmine, è formulato come un disegno di vendetta del re degli inferi sul fratello Giove, « re dell’Olimpo » – una proiezione a livello divino degli odi fraterni per la divisione del regno che costituiscono il tema della Tebaide. 1 Le parole di Plutone sono quelle di un fratello senecano : nei vv. 8, 67-68 ‘triste, insuetum, ingens, quod nondum viderit aether, / ede nefas, quod mirer ego invideantque sorores’ il tiranno infernale medita vendetta contro Giove con lo stesso slancio espressivo con cui Atreo progetta la vendetta contro Tieste, in Sen. Thy. 193195 aliquod audendum est nefas / atrox, cruentum, tale quod frater meus / suum esse mallet 2 – e senecani sono molti dettagli del discorso di Plutone. 3 Infine, il prologo della Furia. Tisifone chiede aiuto alla sorella Megera come, nel Tieste, Atreo chiede aiuto alle Furie e a Tisifone ; più avanti nella Tebaide, Tisifone scaccerà la Pietas dal campo di battaglia come, in Seneca, Atreo bandisce la Pietas dalla sua casa (entrambi rovesciando la scena del settimo dell’Eneide in cui Giunone ricaccia la Furia nell’Ade). 4 Così Atreo in Sen. Thy. 249-254 excede, Pietas, si modo in nostra domo / umquam fuisti. dira Furiarum cohors / discorsque Erinys veniat et geminas faces / Megaera quatiens. non satis magno meum / ardet furore pectus, impleri iuvat / maiore monstro : la richiesta di rinforzi per il proprio furor è la stessa che (con Steigerung paradossale) Tisifone rivolge a sua volta a Megera in Theb. 11, 95-96 ‘tu, cui totus adhuc furor exultantque recentes / Cocyti de fonte comae, da iungere vires’.  



















1  Theb. 8, 65-79. Vedi Feeney 1991, pp. 350-353, cf. p. 358 (cenni in Frings 1992, pp. 58-59 e n. 122 ; cf. Vessey 1973, pp. 262 ss.). Il fratricidio è in cima alla lista di orrori richiesti alla Furia per vendicare la violazione del Tartaro (seguono i misfatti di Tideo, Creonte, Capaneo) ed è associato all’odio di Plutone verso il fratello : 8, 69-71 ‘atque adeo fratres (nostrique haec omina sunto / prima odii), fratres alterna in vulnera laeto / Marte ruant’. Il linguaggio della divisione del regno, che vede Plutone al terzo posto dopo Giove e Nettuno (8, 38-39 ; cf. Ov. met. 5, 368, 372), richiama l’insofferenza del ‘secondo posto’ che innesca l’azione della Tebaide e della Pharsalia (Theb. 1, 128 ; Lucan. 1, 124). Il tema della guerra civile tra i fratelli divini sarà ripreso da Claudiano nell’avvio del De raptu Proserpinae, molto vicino a questo brano della Tebaide (hanno rilievo il ricordo del rapimento e il rancore per il suo esito dimidiato) : cf. spec. 1, 32 ss., 38-39, 64-65 (Lachesi) ‘neu foedera fratrum / civili converte tuba’ (un argomento forte per difendere la lezione fraterna … tuba in Theb. 11, 58-59, come pensava già Garrod), 92 ss., 99 ss. (poco in Gruzelier 1993, pp. 93, 99, 104-105, 108 ; cf. Vessey 1973, p. 262 n. 1). 2  La parallela struttura sintattica (che ha il marchio di Seneca : cf. Phoen. 264-267 facinus ignotum efferum / inusitatum fare quod populi horreant, / quod esse factum nulla non aetas neget, / quod parricidam pudeat) insiste sui motivi senecani del nefas inconsueto, enorme, mai visto (cf., per es., Tarrant 1985, a Thy. 255 assueti e a 272-277 ; 267 maius et solito amplius) e culmina nell’iperbole, di gusto senecano, del delitto che deve stupire lo stesso re degli inferi (cf., in rif. a Cerbero, Sen. Thy. 16 quod ipse custos carceris diri horreat) e suscitare l’invidia delle s o r e l l e di Tisifone. 3  Per fare qualche esempio, in Theb. 8, 34-36 il passaggio da ‘quis rupit tenebras… ?’ a ‘uter haec mihi proelia fratrum ?’ ricorda Sen. Thy. 640 ch. non quaero quis sit, sed uter, mentre la richiesta di vendetta per la violazione del Tartaro (8, 52-53, 65, 78-79) richiama Sen. Herc. f. 104. 4  Theb. 11, 485 ss. ; cf. Verg. Aen. 7, 557 ss. Cf. Micozzi 1995, pp. 419-422.  





















La Tebaide di Stazio. Epica e potere

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Dunque, il congedo del poeta alle Furie, nell’undicesimo libro, si contrappone alle invocazioni alle Furie che hanno ritmato il racconto (dal prologo di Edipo a quello di Plutone a quello di Tisifone) : si chiude qui il nucleo tragico della storia dei Sette. Il congedo è come un gesto di purificazione : il poeta che ha lasciato libero campo all’azione delle divinità infernali, cedendo loro l’iniziativa poetica ; che ha rappresentato il duello come uno spettacolo tragico, enfatizzando l’atto del ‘vedere’ ; che vi ha fatto assistere un pubblico (intradiegetico) di spettatori divisi fra innocenti e colpevoli (le ombre tebane senecanamente compiaciute di vedere superati i propri delitti) ; 1 lo stesso poeta prende ora le distanze da ciò che ha narrato. Quella che Stazio opera è insieme una ‘tragedizzazione’ dell’epica, e una ‘epicizzazione’ della tragedia : la voce del narratore epico interviene infine a condannare l’azione rappresentata – con un gesto autoriale che al poeta tragico è negato.  













C’è, infine, un altro senso in cui questo tratto del racconto si fa particolarmente vicino al genere tragico. La preghiera alle Furie perché risparmino ormai « gli uomini » (malis hominum … parcite) – il congedo delle divinità dal poema – richiama il punto in cui le Furie si erano allontanate dalla scena del duello : 11, 537-538 nec iam opus est Furiis ; tantum mirantur et astant / laudantes, hominumque dolent plus posse furores. 2 Stazio aveva già detto in quel punto – squarciando il velo dell’allegoria epica – che per giungere alla climax dell’orrore non c’è più bisogno di Furie, che gli uomini fanno anche meglio da sé. Ora l’allegoria viene ripresa, ma solo per essere squarciata di nuovo : all’implorazione delle Furie segue l’atto di denuncia dei reges. 3 Quello che resta, tolto il velo dell’epica, è anche qui la nuda realtà umana : la ‘realtà’ di personaggi mitici che rappresentano la tragedia delle umane passioni. Come in Seneca, le Furie sono il  















1  Cf. i due quadri a contrasto in Theb. 11, 416-423 prominet excelsis vulgus miserabile tectis, / cuncta madent lacrimis et ab omni plangitur arce. / hinc questi vixisse senes, hinc pectore nudo / stant matres parvosque vetant attendere natos. / ipse quoque Ogygios monstra ad gentilia manes / Tartareus rector porta iubet ire reclusa. / montibus insidunt patriis tristique corona / infecere diem et vinci sua crimina gaudent ; per il motivo in Seneca (fra perverso compiacimento familiare e maledizione della stirpe) cf. Phoen. 335-336 gloriam ac laudes meas / superate e Tarrant 1985, a Thy. 18 s., 134 s., 195 s., 625 s., 1013-1016. Sotto l’azione della Furia, anche gli eserciti cedono infine al compiacimento voyeuristico : Theb. 11, 498 versaeque volunt spectare cohortes ; cf., per contrasto, 429-431 (Adrasto) ‘spectabimus ergo hoc, / Inachidae Tyriique, nefas ? ubi iura deique ? / bella ubi ?’. 2  Sulla scomparsa delle divinità infernali dal poema, simmetrica a quella degli dèi olimpici, e sull’isolamento del mondo umano nell’ultimo libro e mezzo, vedi supra, cap. i, § 2. 2 ; Feeney 1991, pp. 355 ss. (inoltre pp. 364 ss.) ; sulle Furie come allegoria del male di cui sono capaci gli uomini, pp. 377-378. 3  È notevole che, nella folla di motivazioni che conducono al fratricidio, Stazio, al culmine del suo racconto, dia spazio solo a quella umana e politica, l’avidità del regnum (non si parla più né di fati, né di Giove, né di Furie, né della maledizione di Edipo). Cf. Hardie 1993, pp. 77 ss., spec. p. 80 : « At the last even the Furies stand aside to watch… The psychological and social reality underlying the cosmological and theological images of evil is laid bare ». Al ���������������������������������������� di là dell’apparato epico, il nocciolo della storia mitica resta la riflessione sul potere assoluto ; la meditazione sul regnum che pervade la Tebaide viene qui condensata in un punto : una terribile lezione sugli orrori del potere.  

























Un mito da dimenticare. Tragedia e memoria epica

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travestimento poetico delle passioni, e le passioni sono indagate soprattutto in relazione al potere. Come in tragedia, il mito è metafora della storia. L’epifonema che abbiamo analizzato mette in evidenza il problematico porsi della Tebaide tra forma epica e tragica. Sperimentando una forma audace, Stazio mostra di assumere il mito tragico nella prospettiva finalistica dell’epica, e affianca alla rappresentazione del male una celebrazione di valori positivi che culmina nell’ultimo libro : ma la visione provvidenziale dell’epos, ridotta al paradosso di una provvidenza assente, è minata dalla coscienza che il nucleo negativo del mito è, in se stesso, un male assoluto – ed è un male destinato a infiniti ritorni nella storia degli uomini. 1 Nell’universo epico della Tebaide, lo scontro tra i fratelli è parte del disegno ‘provvidenziale’ di Giove, che vuole punire Tebe ed Argo e ristabilire un ordine di valori infranto : ma il duello che realizza la punizione divina è, in se stesso, un nefas, un culmine di empietà che neppure Giove vuole vedere ; se è il passaggio necessario di un piano divino, il piano è troppo vasto o nascosto per poter essere percepito – e forse troppo inconsistente per essere creduto. Il nucleo della Tebaide è (e resta) tragedia allo stato puro : una tragedia che la storia umana replica all’infinito, che appare inevitabile quando il potere si identifica col regnum, 2 e che, fuori dall’epica – di un’epica di per sé in crisi come quella di Stazio –, è ancora più difficile comprendere nei disegni di una provvidenza.  











1  Vedi supra, cap. i, § 2. 2. 2  Se è sfiduciato sulla possibilità di parlare al potere, Stazio non ha rinunciato a parlare, a tutto il suo pubblico, del potere : suona eccessiva la conclusione di Markus 2003, che, prendendo a valore facciale il « self-suppressing style » della Tebaide, parla di « invitation to the audience to forget », di « stifling of the commemorative force of epic » e di « an audience that is there to be entertained, to experience the thrill of horror, to grieve and to forget ».  

















iii. Clementia e philanthropia, Atene e Roma iii. 1. La Clementia nella critica del finale

I

l finale di un poema può essere il punto d’avvio della sua interpretazione, come sappiamo dalla critica virgiliana ; la Tebaide segue anche in questo le orme dell’Eneide, e i suoi interpreti con lei : studiosi distinti in ottimisti, pessimisti, pluralisti riproducono in campo staziano le linee di divisione tra virgilianisti della scuola europea e della cosiddetta Scuola di Harvard. Per Stazio il dibattito, accesosi negli ultimi vent’anni, si incentra sul ruolo di Teseo e della clementia nello scioglimento della vicenda tebana. Ricordiamo le linee del racconto. Conclusa la spedizione dei Sette nell’undicesimo libro, con il duello fratricida fra Eteocle e Polinice, un nuovo sviluppo narrativo viene innescato dal divieto di sepoltura degli Argivi emanato da Creonte, nuovo tiranno di Tebe. Le mogli dei caduti partite da Argo, giunte in vista della città, sono messe in guardia da un reduce e si separano : Argìa prosegue verso Tebe e fa a gara con Antigone per seppellire lo sposo Polinice, mentre il resto delle Argive cerca rifugio ad Atene presso l’ara Clementiae e supplica il re perché intervenga. Di ritorno proprio allora dalla vittoria sulle Amazzoni, Teseo ascolta la preghiera dal carro del trionfo e si impegna all’azione : raccolte immediatamente le truppe e condotta una spedizione, uccide Creonte in duello ed è accolto in città come un liberatore. Gli ultimi trecentocinquanta versi della Tebaide trascinano con rapidità il lettore alla conclusione, ma lasciano gli studiosi a interrogarsi in un dilemma critico. Teseo è un modello di re clemente e giusto, o un eroe ambiguo e violento ? Rappresenta un ideale proposto a Domiziano, o un suo ritratto in nero ? Il rilievo dato alla Clementia implica contestazione o consenso, delusione o speranza ? E la Tebaide è un poema della redenzione o un epos senza soluzione possibile ? Celebra la restaurazione flavia o condanna il sistema del potere imperiale ? Su alcuni di questi aspetti controversi, fra loro strettamente connessi, ci siamo già in parte soffermati, accennando al rapporto tra forma epica e discorso politico nel poema, ai contatti con le Silvae in tema di clemenza imperiale e alla riflessione sulla clementia come motivo portante dell’azione umana e divina. 1 Nell’esercizio clemente del potere, improntato alle teorie della regalità, abbiamo individuato il terreno di confronto tra Giove e Teseo, mentre la progressione del poema dagli dei potentes alle personificazioni divine alla mitis Clementia – che « abita il cuore degli uomini » e agisce attraverso il sovrano di Atene – ci è parsa il disegno audace di un’epica nuova. Discorso politico e discorso religioso, nella Tebaide, tracciano insieme un percorso di  





















1  Vedi Introd. e cap. i, §§ 1. 3 e 2. 4.



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crisi e di ricostruzione : è l’inquietudine per il sistema dell’Impero, unita all’insoddisfazione per la teologia tradizionale, che spinge a soluzioni poetiche innovative e a un tentativo di rifondare l’ideologia imperiale come una sorta di religione civile. In questo capitolo e in quello successivo vogliamo approfondire l’indagine, studiando prima la descrizione dell’ara Clementiae e la definizione di quel valore che ne emerge, quindi la costruzione del personaggio di Teseo e i modi in cui la figura e l’opera del sovrano ateniese vengono messe in relazione con aspetti diversi del concetto di clementia. Anche su questo tema si scontrano interpretazioni discordi : a un’estremità dello spettro critico vi è una visione apolitica della clemenza, come soluzione privata alla crisi inscenata dal poema e come valore morale capace di offrire una speranza ai singoli, ma del tutto indipendente dallo Stato (una tesi sostenuta anche nel recente volume di McNelis sul rapporto fra Tebaide e tradizione callimachea) ; 1 dall’altra parte vi sono letture orientate in senso politico, ma in direzione opposta fra loro : una lettura ottimistica e celebrativa riconosce la rilevanza del valore imperiale romano nel discorso della Tebaide e accosta, o addirittura sovrappone, la chiusa epica all’elogio della clementia di Domiziano nelle Silvae ; 2 ad essa si contrappone una lettura sovversiva e pessimistica, del finale e del poema, che ritrova in Stazio la contestazione radicale della clementia Caesaris espressa da Lucano. 3 Per altra via, una valutazione negativa della clemenza di Teseo è proposta in un altro saggio recente pubblicato a Cambridge (quello di Ganiban 2007, sul rapporto con Virgilio), in base alla teoria stoica delle passioni : al contrario dell’ideale definito da Seneca, la clementia rappresentata nella Tebaide sarebbe snaturata dalla componente irrazionale, e dunque riprovevole, della misericordia ; il ritratto di Teseo non si sottrarrebbe perciò alla visione del tutto negativa della regalità offerta dal poema, nella sua rilettura critica dell’Eneide. 4 Il tema è complesso, come si vede, e per questo voglio dichiarare subito la mia posizione, richiamando argomenti già trattati e anticipando in parte le  





















1  McNelis 2007, pp. 165, 177 : « …the poem allows that individuals may gain comfort from a source that, though not dissociated from the state, is not dependent upon it ». Vedi Ahl 1986, pp. 2890-2891 : « Statius’ Altar of Clemency, as an ideal, has nothing in common with the notorious clemency of monarchs. It stands outside political and religious power structures … clemency dissociated from power, and from despotism or anarchy ». Cf., inoltre, Ripoll 1998, p. 445 ; Franchet d’Espèrey 1999, pp. 277 ss., spec. p. 290 ; Coffee 2009, p. 274. 2  Cf. Vessey 1973, pp. 309-313 (Teseo modello di « re clemente e giusto, degno di regnare sulla città che è la sede della Clementia »), con n. 1 a p. 312 (clementia di Domiziano) ; un rilievo preponderante è dato tuttavia alla dimensione morale del termine, in prospettiva stoica, con uno sguardo alle interpretazioni in senso cristiano. Il rapporto col valore imperiale romano, e col De clementia di Seneca, è sottolineato da Braund 1986, pp. 9-12. Come elogio di Domiziano legge il finale Delarue 2000, pp. 109-111 ; vedi anche Rieks 1967, pp. 224-225 ; ora Baier 2007, spec. pp. 169-170. 3  Lovatt 1999. Solo un cenno al discorso sulla Clementia come « solemn entreaty to a ruler » e ammonimento indiretto a Domiziano in Dominik 1994, pp. 152 s. con bibliografia in n. 60). Sulla posizione equilibrata di Burgess 1972 vedi infra. 4  Ganiban 2007, cap. 9, spec. pp. 214-224.  





























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conclusioni. Io credo che la Tebaide sia un discorso sul potere e che inscriva nella sua forma epica la coscienza di una crisi, letteraria e ideologica insieme. A undici libri di tragedia della tirannide si contrappone, nel finale, l’apparizione di una regalità clemente. Questa frattura della forma è essenziale al senso del poema : si è spezzato il disegno unitario che, nell’Eneide, faceva coincidere narrazione e provvidenza ; qui il piano distruttivo di Giove culmina nel duello fratricida, un nefas che neppure Giove vuole vedere e la cui regìa è lasciata alle Furie infernali ; nell’assenza degli dèi, tocca infine all’azione umana, guidata dalla clementia, ristabilire un ordine di valori etico-politici e imporre una chiusura epica al racconto. Se, fino all’undicesimo libro, la Tebaide è un’epica del nefas, dominata da forze negative e modellata sull’epos di Lucano e sulla tragedia di Seneca (in un rovesciamento di formule virgiliane e della funzione celebrativa del genere), il finale inverte la rotta e tenta una soluzione, per quanto provvisoria. È proprio nella tensione tra le due componenti, asimmetriche, dell’epos che si coglie il senso della Tebaide. Come una storia esemplare, il poema ha infine un eroe positivo e un ideale da proporre, contrappone a una spedizione maledetta una guerra giusta e a un tiranno crudele un sovrano illuminato dalla clemenza ; ma la versione ideale del potere assoluto, incarnata da Teseo, non fa che riparare i danni che la degenerazione di quello stesso potere ha prodotto fin qui nel poema : esemplarità e pessimismo coesistono nella chiusa, il trionfo si mescola al lutto, alla vittoria segue il lamento funebre. A un secolo di distanza dall’Eneide, che (pur facendo propria la contraddizione tragica) celebrava la fondazione del potere imperiale, la Tebaide rappresenta, di quel potere, la degenerazione e l’auspicata rifondazione : è dal pessimismo sul potere assoluto, maturato nell’esperienza storica ed elaborato su modelli epico-tragici, che la Tebaide fa emergere una proposta politica positiva e un tentativo di ricostruzione dei valori su cui si fonda l’istituto imperiale. La clementia ha in questo discorso un ruolo cruciale : studiare modi e forme in cui il concetto è definito, rappresentato e messo in rapporto con la figura di Teseo nel finale può davvero fornire una chiave per interpretare l’intero poema. Un punto vorrei mettere in chiaro – e cercherò di dimostrarlo – : io credo, innanzi tutto, che non si debba dissociare ciò che nel testo di Stazio è presupposto come un’unità ; la Clementia e Teseo sono due parti complementari nel disegno di uno stesso ideale etico-politico : un ideale che ripropone in termini imperiali romani la filanqrwpiva rappresentata da Atene, realizzata dai suoi eroi mitici, e celebrata da una ricca tradizione encomiastica. 1  





















1  La filanqrwpiva, indicata come requisito per il buon governo già nella Ciropedia di Senofonte, nell’A Nicocle e nel Filippo di Isocrate, rappresenta una dote essenziale del sovrano nella tradizione dei trattati sulla regalità, dall’ellenismo fino alla Seconda Sofistica (vedi Adam 1970, pp. 35-39 ; Hidalgo de la Vega 1998, p. 1027 ; Bertelli 2002 ; Sidebottom 2006, pp. 120 s., 136, 151 ; Fontanella 2007, ad Aristid. A Roma, 57 ; sulle ambiguità nella realizzazione di un tale ideale cf. Bringmann 1993). D’altra parte, da Isocrate a Elio Aristide (per non parlare della tradizione poetica), la filanqrwpiva  









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Ho già osservato l’importanza che riveste, per la chiusa della Tebaide, il modello delle Supplici di Euripide, riscoperto qui nei suoi significati di fondo : la contrapposizione fra Atene a Tebe come scontro di valori etici e civili, la tragedia di una guerra in difesa della giustizia violata, la persistenza del lutto femminile. Un dramma politico, che esalta la forma di governo democratica in opposizione alla tirannide, celebra in Teseo il fondatore della democrazia e corona con l’elogio del sistema politico le lodi proprie già dell’Atene mitica, inscritte nella vicenda : ospitalità, difesa dei supplici, soccorso dei deboli e degli oppressi. 1 Stazio reinterpreta Euripide in chiave attuale : restaura Teseo come personaggio mitologico e come sovr ano ideale (anziché figura civica e capo democratico), lo mette in rapporto col valore imperiale della clementia, lo mostra in azione come tirannicida ; e così trasforma il dibattito costituzionale in discussione etico-politica, il confronto tra sistemi di governo in una riflessione sulla forma monarchica e sulla buona o cattiva regalità, secondo lo sviluppo del pensiero politico ellenistico nella Roma imperiale. La contrapposizione fra Atene e Tebe diventa qui il contrasto fra re e tiranno, fra Teseo e Creonte ; Teseo è di nuovo il sovr ano ideale che rappresenta i valori di umanità di Atene (così come era già tornato ad essere, dopo la forzatura di Euripide, nell’Edipo a Colono di Sofocle) ; e ciò che deve essere riaffermato non sono più norme panelleniche, ma le leggi universali e l’ordine cosmico garantiti dalla monarchia ideale (‘terrarum leges et mundi foedera’ 12, 642). C’è un’altra novità. Oltre che la città di Teseo, Atene è la città della ara Clementiae, l’altare sacro agli sventurati dove si rifugiano le donne Argive. Spostata l’azione da Eleusi ad Atene, il tempio di Demetra viene sostituito da un luogo simbolico, sintesi audace di valori greci e romani. Stazio trasforma il celebre bwmo;" ejlevou, l’Altare della Pietà testimoniato nell’agorà ateniese, 2  















è riconosciuta come merito peculiare della città di Atene : ed è proprio con la Seconda Sofistica, nell’ambito della riflessione sul dominio politico romano e della parallela ricreazione del passato ateniese come rivendicazione dell’identità greca (vedi Swain 1996, cap. 3, spec. pp. 87-89), che il tradizionale elogio della polis assume tratti affini all’elogio dell’imperatore e del potere di Roma (Saïd 2006 ; cf. Oliver 1968, ad Aristid. panath. 9 = 10 Lenz, Behr ; Quet 2000, p. 111). 1  Vedi Grethlein 2003, con bibliografia. 2  Paus. 1, 17, 1 ∆Aqhnaivoi" de; ejn th/' ajgora'/ kai; a[lla ejsti;n oujk ej" a{panta" ejpivshma kai; ∆Elevou bwmov", w|/ mavlista qew'n ej" ajnqrwvpinon bivon kai; metabola;" pragmavtwn o[nti wjfelivmw/ [cf. Theb. 12, 505 Fortuna recederet aris] movnoi tima;" ÔEllhvnwn nevmousin ∆Aqhnai'oi. touvtoi" de; ouj ta; ej" filanqrwpivan movnon kaqevsthken, ajlla; kai; qeou;" eujsebou'sin a[llwn plevon..., « Nell’agora di Atene, fra le cose non distinguibili per tutti c’è anche un altare di Eleos, divinità che più di ogni altra è utile alla vita umana e alle sue alterne vicende e che gli Ateniesi sono gli unici fra tutti i Greci a venerare. Gli Ateniesi invero non sono solo disposti all’amore per gli uomini, ma più di ogni altro popolo onorano anche gli dèi… » (tr. di D. Musti ; cf. Musti, Beschi 1982, ad loc.). Le attestazioni letterarie, da Diodoro Siculo a Libanio, e le testimonianze archeologiche relative all’Altare della Pietà sono discusse in Stafford 2000, pp. 199-225, che ribadisce l’ipotesi (di Thompson 1952) di identificazione con l’Altare dei Dodici Dèi nell’agorà, dedicato da Pisistrato nel 522/521 a.C. e probabilmente conosciuto in seguito come « Altare della Pietà » per la sua funzione di rifugio dei supplici ; cf. anche Parker 1996, pp. 232 s. e n. 55 ; Clark 2007, p. 32 e n. 7.  



















La Tebaide di Stazio. Epica e potere

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in monumento a un valore fondante dell’ideologia imperiale romana, la clemenza : 1 e ne fa il cuore del poema. È qui che Teseo, in trionfo come un capo romano per la vittoria contro le Amazzoni, ascolta benevolo la richiesta di Evadne e si impegna all’azione ; è qui che promette guerra contro il tiranno Creonte, la cui condotta è stata bollata poco prima come inclementia regum (11, 684). Con l’associare Teseo alla clementia, il discorso politico delle Supplici è così aggiornato ai tempi : l’orizzonte politico è ora quello imperiale ; il dibattito corrente è la distinzione fra buon re e tiranno ; il discrimine fra sovrano e tiranno si riassume in una virtù : è un esercizio del potere assoluto che trova il suo limite nella clemenza. Siamo, dunque, sulla linea del De clementia di Seneca. Il dodicesimo libro della Tebaide sta ai primi undici quasi come il De clementia sta alle tragedie senecane : sono le due facce, positiva e negativa, di uno stesso discorso sul potere imperiale, e forse, indirettamente, rivolto al potere.  















iii. 2. Ara Clementiae . Religione e potere Vorrei ora analizzare alcuni passi relativi alla clementia, a iniziare da quella con la C maiuscola : la descrizione dell’ara Clementiae, che dell’epos costituisce il centro ideale. È un’ekphrasis di più di trenta versi (12, 481-513), che affianca alla descrizione del luogo sacro, e del suo culto, un resoconto sulla sua origine e sulla sua storia, passata e futura. L’altare sorge nel cuore della città (urbe fuit media 481) ed è dedicato non agli « dei potenti » (nulli concessa potentum / ara deum), ma alla « mite Clemenza » (mitis posuit Clementia sedem) ; è reso sacro dagli sventurati che sempre lo affollano e, notte e giorno, placano il nume con i loro lamenti (et miseri fecere sacram ; sine supplice numquam / illa novo, nulla damnavit vota repulsa. / auditi quicumque rogant, noctesque diesque / ire datum et solis numen placare querelis) ; la devozione non richiede sacrifici (parca superstitio : non turea flamma nec altus / accipitur sanguis) se non l’offerta delle lacrime, delle chiome e delle vesti dei supplici (lacrimis altaria sudant, / maestarumque super libamina secta comarum / pendent et vestes mutata sorte relictae), mentre ulivi e allori ornati di sacre bende formano il bosco all’intorno (mite nemus circa cultuque insigne verendo, / vittatae laurus et supplicis arbor olivae) ; il culto è privo di raffigurazioni, aniconico (nulla autem effigies, nulli commissa metallo / forma dei), perché la dea ama abitare il cuore degli uomini (mentes habitare et pectora gaudet 494). 2 Al culmine di questa prima sezione l’accento è posto sulla clementia come virtù dell’animo, sull’aspetto etico – ancor prima che politico – del concetto ; un aspetto anticipato, nel libro undicesimo, nel primo uso del termine nel poema in riferimento al mondo umano : è l’esclamazione di Edipo che, resti 

























1  Per la bibliografia sulla clementia, oltre ai lavori qui citati, rimando a Malaspina 20052, Braund 2009. 2  Una descrizione dai tratti ‘eccezionali’, che ritornano in Lib. or. 22, 23 ; 30.  

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tuito a se stesso di fronte ai cadaveri dei figli da lui maledetti, sente riaffiorare, nel suo « cuore di uomo », Pietas, clementia e Natura : 11, 605-607 ‘tarda meam, Pietas, longo post tempore mentem / percutis ? estne sub hoc hominis clementia corde ? / vincis io miserum, vincis, Natura, parentem !…’. 1 Ed è ancora il profilo eticopsicologico a venire in primo in piano nell’accoglienza ateniese alle donne argive, descritta poco prima del nostro passo : incamminatesi verso Atene, per vedere « se la clemenza del popolo attico conceda loro aiuto » (12, 175-176 Actaeae si quid clementia gentis / adnuat), le supplici trovano qui una folla immediatamente ben disposta e compassionevole, che le avvia all’altare commiserando il loro aspetto prima ancora che le loro sventure : 12, 471-474 omnis Erectheis effusa penatibus aetas / tecta viasque replent : unde hoc examen et una / tot miserae ? necdum causas novere malorum, / iamque gemunt. 2 Con un’iperbole tipica del suo stile, Stazio esalta la generosità ateniese mostrandola all’opera prima ancora di conoscere « i decreti di Tebe e la crudeltà di Creonte », Ogygias leges inmansuetumque Creonta (477). 3 Dalla sensibilità dei cittadini ateniesi al sentimento paterno di Edipo, il lato emotivo della clementia (la capacità di compatire, affine alla misericordia) appare nel testo di Stazio una premessa non irrilevante e un presupposto per le articolazioni ulteriori del concetto. Dunque, il luogo nel cuore della città a cui le Argive sono indirizzate dagli abitanti è la Mecca dei supplici : semper habet trepidos, semper locus horret egenis / coetibus, ignotae tantum felicibus arae (495-496). Inizia qui la sezione che ci interessa di più : un secondo gruppo di versi (di lunghezza quasi identica al precedente), che traccia la storia dell’ara :  







































fama est defensos acie post busta paterni numinis Herculeos sedem fundasse nepotes. fama minor factis : ipsos nam credere dignum caelicolas, tellus quibus hospita semper Athenae, ceu leges hominemque novum ritusque sacrorum  

1  Vedi Feeney 1991, pp. 359-362, 389-391 per la focalizzazione esclusiva, nel finale, sul problema della natura umana. 2  Cf. 12, 512-513 huc vulgo monstrante locum manus anxia Lernae / deveniunt. L’accoglienza è preparata dall’intervento di Giunone : 292-294 Iuno … Theseos ad muros, ut Pallada flecteret, ibat, / supplicibusque piis faciles aperiret Athenas. Per l’espressione dell’immediatezza a 473-474 necdum … iamque cf. 609-610 necdum Atticus ire parabat / miles, et infelix expavit classica Dirce, dove lo slancio dei guerrieri (come qui la compassione delle donne) è potenziato dalla divinità. 3  Nel distribuire fra le Ateniesi e Teseo la compassione immediata per la sventura, indipendente dalle sue causae, e l’attenzione a queste ultime (cf. 12, 473-474 cit. con 544-545 explorat causas victor poscitque benigna / aure preces), Stazio sembra ricalcare la distinzione di Seneca fra misericordia e clementia, senza ripeterne le preclusioni stoiche : clem. 2, 5, 1 …clementiam mansuetudinemque omnes boni viri praestabunt, misericordiam autem vitabunt : est enim vitium pusilli animi ad speciem alienorum malorum succidentis. itaque pessimo cuique familiarissima est, anus et mulierculae sunt quae lacrimis nocentissimorum moventur, quae, si liceret, carcerem effringerent. misericordia non causam, sed fortunam spectat ; clementia rationi accedit (cf. Ganiban 2007, p. 221 e cf. 217, che però non convince nel contrapporre Teseo a Clementia, in un capitolo non privo di oscillazioni e di punti discutibili). Su misericordia e Teseo vedi infra, § 6, p. 123.  







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seminaque in vacuas hinc descendentia terras, sic sacrasse loco commune animantibus aegris confugium, unde procul starent iraeque minaeque regnaque, et a iustis Fortuna recederet aris. (Theb. 12, 497-505)

Fin qui la storia della fondazione ; poi le vicende successive :  



iam tunc innumerae norant altaria gentes : huc victi bellis patriaque a sede fugati regnorumque inopes scelerumque errore nocentes conveniunt pacemque rogant ; mox hospita sedes vicit et Oedipodae Furias et funus †olynthi 1 texit et a misero matrem summovit Oreste. huc vulgo monstrante locum manus anxia Lernae deveniunt, cedunt miserorum turba priorum. (Theb. 12, 506-513)  





Le categorie umane elencate ai versi 507-508 – i vinti in guerra, gli esuli dalla patria, coloro che sono privati del regno o che si sono macchiati di delitti (victi bellis patriaque a sede fugati / regnorumque inopes scelerumque errore nocentes) – corrispondono ad altrettanti temi e personaggi della Tebaide, e un cenno alla futura purificazione di Edipo segue poco dopo : quello che l’altare offre è innanzi tutto una risposta alle sofferenze rappresentate nel poema. Dalla vicenda tebana tuttavia, in questo luogo dell’epos, lo sguardo si allarga ad un orizzonte più vasto, che abbraccia non solo storie mitiche diverse (gli Eraclidi, Oreste), ma addirittura le sorti dell’umanità intera : commune animantibus aegris / confugium (503-504) : 2 si può comprendere come, entro certe coordinate storico-culturali, questo passo abbia potuto alimentare l’interpretazione del poema di Stazio in chiave cristiana.  







La costruzione poetica di questo luogo simbolico è, da ogni punto di vista, un’opera di sincretismo : del nome, della sede, dei valori. Sincretismo del nome, innanzi tutto : traducendo bwmo;" ejlevou con ara Clementiae, Stazio fa ben di più che sostituire nell’esametro l’ametrico misericordia, corrispettivo di e[leo" ; se fosse stato per questo, avrebbe potuto esprimere il concetto con una perifrasi, e di fatto lo ha riassorbito nei primi versi con et miseri fecere sa 





1  Fra le proposte di emendazione funusque Corinthi, di Klinnert, restituisce un terzo esempio mitico di matrice tragica, quello di Medea, celebre al pari di Edipo e Oreste nella tradizione dell’accoglienza ateniese (Eur. Med. 846-850). Hall in Hall, Ritchie, Edwards 2007 stampa nel testo la propria congettura asylo. 2  Su Atene come madre, patria e benefattrice comune dell’umanità intera cf. poi Aristid. panath. 49, 330 Lenz, Behr (vedi infra ; per un possibile rapporto con la definizione della capanna di Ecale in Callimaco cf. cap. iv, § 4, p. 145). La dimensione ecumenica definisce anche il potere protettivo dell’imperatore : cf. Sen. ad Pol. 13, 1 [sc. Fortuna] patere illum generi humano iam diu aegro et adfecto mederi ; 14, 1 hic itaque princeps, qui publicum omnium solacium est.  





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cram (v. 483) – la misericordia, come vedremo, non è del tutto assente dal suo testo. Ma il cambiamento del nome è una scelta strategica, che investe il senso complessivo della Tebaide : l’altare che altre fonti latine menzionano come ara Misericordiae 1 viene qui reintitolato a un valore imperiale che è il centro ideologico del poema. Per avere un’idea delle associazioni che il nome poteva suggerire, si può ricordare che un’ara clementiae (insieme a un’ara amicitiae), con statue di Tiberio e di Seiano, era stata dedicata – racconta Tacito – nel 28 d.C. da un Senato impaurito e pronto all’adulazione. 2 L’insistenza di Stazio sul carattere aniconico del culto e sull’abitazione interiore della clementia, secondo il concetto di deus internus, 3 è forse anche una prima punta polemica, un primo affondo in direzione politica : la divinità che avrebbe dovuto essere raffigurata mano nella mano con Cesare nel tempio per essa progettato, di cui Tiberio aveva fatto effigiare sulle monete il nome e Vitellio (come poi Adriano e gli Antonini) l’immagine, diventa in Stazio una dea senza volto. 4 Un gesto iconoclasta, che può suonare come un monito o una denuncia 5 – allo stesso modo in cui il rifiuto dei sacrifici (nec altus / accipitur sanguis 487-488) stride con quanto è attestato sulle offerte rituali alla Clementia in onore di Caligola e Nerone. 6 La sovrapposizione stessa di Clementia a Eleos ne esalta il ruolo di virtù divina, più che di vera divinità. 7 Quello di Stazio si profila dunque già qui come un programma ambizioso, di critica e di proposta insieme : un complesso di atteggiamenti ben colto da Burgess in uno studio che resta, per alcuni punti, importante ed equilibrato sulla clementia nella Tebaide. 8  





















1  Sen. contr. 10, 5, 10 [Porc. Latr.] si videtur tibi, istis muneribus aram Misericordiae orna ; Paneg. 9 [4], 7, 1 Mynors inde est quod Atheniensis humanitas aram Misericordiae instituit ; inoltre Quint. inst. 5, 11, 38 aut si misericordiam commendabo iudici, nihil proderit, quod prudentissima civitas Atheniensium non eam pro adfectu, sed pro numine accepit ? ; cf. l’uso metaforico in Apul. met. 11, 15, 1 (con Griffiths 1975). 2  Tac. ann. 4, 74, 1-2. Cf. Clark 2007, pp. 267-268. 3  Per il contatto con Sen. fr. 123 Haase (= 88 Vottero) cf. Delarue 2000, pp. 162-163 ; Pollmann 2004, a 12, 494. Sull’atteggiamento dei Romani verso i culti aniconici vedi Ash 2007, a Tac. hist. 2, 78, 3. 4  Sul tempio decretato dal Senato nel 45/44 alla Clementia Caesaris cf. Weinstock 1971, pp. 241 ss. (che pensa a una connessione con l’Altare della Pietà) ; Hölscher 1986, pp. 296-297 (nn. 13, 19) e Palombi 1993 ; Clark 2007, passim. Per Clementia sulle monete cf. Levick 1975 ; Wallace-Hadrill 1981, spec. pp. 310 ss., 320 ; Noreña 2001, pp. 152-157. 5  Braund 1996, p. 11 allinea invece Stazio a una rappresentazione ufficiale che restava forse in gran parte aniconica. 6  Weinstock 1971, p. 241 ; Hölscher 1986, p. 298 ; il sacrificio di una giovenca alla Clementia/Filanqrwpiva è attestato per Caligola (in un rito annuale dal 39 d.C.) da Dion. Cass. 59, 16, 10 ; per Nerone (66 d.C.) negli Acta fratrum Arvalium (Henzen 1874, pp. lxxxii, 85 ; cil, vi, 1, 2044, 15-21). 7  Vedi Stafford 2000, pp. 221-222. 8  Burgess 1972, p. 348 : « Statius has redefined clementia in terms of wide-reaching human sympathy for the helpless and oppressed, in order to make it once again a respectable, indeed an admirable quality to be shown by a Roman emperor. He has changed the applicability of the concept of clementia from arbitrary tyranny … to benevolent dictatorship by making it a symbol of imperial protection and help ». Limiti del lavoro appaiono invece il mancato riconoscimento  































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Il richiamo alla dimensione spirituale del concetto lascia intravedere una critica agli abusi e alle strumentalizzazioni cui esso si è prestato nella prassi politica imperiale, che lo ha sfruttato come slogan e come emblema spesso svuotato di senso : nella cultura romana la clementia è da tempo un valore contestato, screditato dall’uso che gli imperatori ne hanno fatto o addirittura scaduto a maschera del dispotismo, come segnalerà il sarcasmo di Tacito. 1 Percorrendo a ritroso l’evoluzione storica della clementia da qualità astratta a personificazione divina, destinataria di un culto ufficiale, il poeta della Tebaide sembra proporre una rifondazione del valore imperiale. La dea, sottolinea Stazio, abita il cuore umano : un motivo, questo, di cui lo stesso linguaggio del potere si era già appropriato, ma che il poeta epico sembra voler ripulire dalle incrostazioni della propaganda e restituire al suo significato originario – per riusarlo ancora una volta in funzione politica. 2 Religione e politica, linguaggio del culto e linguaggio del potere si uniscono nella descrizione dell’ara. La valenza politica del discorso di Stazio viene in evidenza nella seconda parte dell’ekphrasis (e sarà confermata dall’azione di Teseo), ma già la chiusa della prima sezione è indicativa. Mentes habitare et pectora gaudet (12, 494). Il carattere intimo del culto non rappresenta, qui, l’annuncio di una religiosità interiore contrapposta all’ambito pubblico : è piuttosto il programma etico-politico tracciato per un potere ideale. L’immagine staziana – lo spirito di un uomo come sede della Clemenza – verrà ripresa nella poesia encomiastica da Claudiano, che potrà dichiarare quel programma incarnato da Stilicone : cons. Stil. 2, 12-13 haec dea pro templis et ture calentibus aris / te fruitur posuitque suas hoc pectore sedes. Con l’esaltare la Clemenza a un livello più che divino, il poeta flavio ridà credito, nell’epica, a un ideale politico che Lucano aveva distrutto, aggredendo il mito della clementia Caesaris. Quella di Stazio è la nuova fondazione di una teologia politica. Sul finire della Tebaide, nel crepuscolo degli dèi, ciò che  











della continuità col De clementia (in particolare col secondo libro) nell’ampliamento dell’ideale imperiale, e l’esclusione del concetto di colpa, al contrario importante nel poema, sottolineato qui dall’esempio di Edipo, e presente nella tradizione tragica sulla filanqrwpiva ateniese. 1  Per il sarcasmo di Cicerone (dopo la morte di Cesare) e di Tacito cf. Borgo 1985, pp. 39-40, 42-44. Una visione disincantata della clementia, come strumento dell’assolutismo, era espressa da Syme (1958, vol. 1, p. 414) ; contro analoghe posizioni moderne, sulla valutazione spesso negativa della clementia di Cesare e degli imperatori da parte dei contemporanei, Konstan 2005 rivendica alla clemenza lo statuto di virtus : non convince però del tutto la sua impostazione, contraddetta da quanto è affermato a p. 344 : « ostensibly ironic uses of the term presuppose, rather than contradict, its positive significance » – appunto, l’elogio della clementia da parte delle élites, come esortazione interessata a un esercizio mite del potere assoluto, non sembra disgiunto dalla coscienza che quella virtù, abilmente fatta propria e propagandata dal potere, era divenuta indissolubile dal dispotismo. 2  Nell’elegia ovidiana dell’esilio (che recepisce e costruisce il linguaggio del potere imperiale) è la Iustitia ad avere un tempio nella mente di Augusto : Pont. 2, 1, 33-34 (cf. Galasso 1995, al v. 34 con bibliografia) ; 3, 6, 25-26. La metafora del tempio interiore, in versione speculare, è attribuita a Tiberio in Tac. ann. 4, 38, 2.  













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appare degno di culto è una qualità divina del mondo umano. È la clementia a rendere divino un potere terreno da cui dipende il bene degli uomini : il potere divino del sovrano come salvatore. La supplica di Evadne a Teseo, poco più avanti nel testo, poco distante dall’altare, lo dimostra ; sulla religione tradizionale, che il poema ha messo in crisi, prevale infine una religiosità che persino la moglie dell’eroe blasfemo riconosce : la fede nei diritti naturali e universali di tutti gli uomini, e la fiducia nel potere politico che è in grado di farli rispettare. 1 Con la costruzione poetica dell’ara Clementiae, Stazio costruisce il mito di fondazione di una religione civile – nel silenzio della provvidenza, quasi una immanente religione del potere.  







iii. 3. Eziologia, archeologia e rifondazione dei valori Guardiamo ora più da vicino la sezione eziologica (vv. 497-505) : è un tratto rilevato, che occupa il centro del brano. Fama est… : la versione che Stazio riporta come vulgata, per poi smentirla, attribuisce la fondazione dell’altare ai figli di Ercole, perseguitati da Euristeo e giunti infine ad Atene in cerca di soccorso. Di tale fondazione, come anche della più generica associazione dell’Altare della Pietà con gli Eraclidi (e con gli Argivi), resta notizia solo in fonti successive a Stazio, e in parte da lui dipendenti. 2 È perciò ipotesi di Pfeiffer, e di altri, che la tradizione che lega gli Eraclidi all’altare, assente in età classica, possa risalire a Callimaco : 3 sappiamo, da uno scolio all’Edipo a Colono (schol. [LRM] Soph. Oed. C. 258), che la chiusa del secondo libro degli Aitia esaltava l’eccezionale misericordia di Atene, ou{neken oijkteivrein oi\de movnh polivwn, « perché unica tra le città sa provare compassione » (fr. 51 Pf. = 60 Massimilla) ; e poiché lo scolio successivo menziona l’altare, si può ragionevolmente supporre che la menzione fosse già nel testo di Callimaco ; che vi fosse anche il richiamo agli Eraclidi, ed eventualmente al loro atto di fondazione, è ipotesi affascinante, anche se indimostrabile. Basata o no sull’autorità di Callimaco, o di altre fonti perdute (se non inventata da Stazio, per contrapporvi poi un’altra e più audace invenzione), 4 la notizia della fondazione da parte dei figli di Ercole ha in questo contesto un ruolo importante : permette al poeta di collegare lo scioglimento della vicenda tebana a un mito gemello, ad essa sempre accostato nella cultura antica. Le leggende degli Eraclidi e degli Argivi, associate alla fama di Atene come città  





















1  Vedi infra, § 5, p. 120. 2  Per la notizia della fondazione, due fonti su tre dipendono in modo diretto da Stazio : Lact. Plac. ad Theb. 12, 487 ; Serv. ad Aen. 2, 761 ; cf. Philostr. epist. 39 ; l’associazione con gli Eraclidi compare in [Apollod.] bibl. 2, 8, 1, da cui derivano lo scolio tardo ad Aristoph. eq. 1151 e l’interpolazione in Zenob. cent. 2, 61. L’accoglienza di Adrasto all’Altare della Pietà è attestata in [Apollod.] bibl. 3, 7, 1. 3  Cf. Zuntz 1953, p. 79 ; Hollis 1992, p. 6. Vedi Massimilla 1996, al fr. 60. 4  Per un’altra, possibile invenzione mitica corredata da una fittizia ‘nota alessandrina’ cf. McNelis 2007, p. 110.  









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compassionevole, costituiscono una coppia paradigmatica stereotipata nella tradizione degli encomi della polis. 1 Le due storie, messe in scena da Euripide negli Eraclidi e nelle Supplici con parallelismi esibiti (Teseo accoglie gli Argivi ; suo figlio Demofoonte, degno del padre, gli Eraclidi), 2 sono storie esemplari, funzionali alla celebrazione degli ideali ateniesi su cui si costruisce, nel v e iv sec. a.C., l’identità della polis. E sono storie legate da un importante tratto comune, che la critica staziana tende a sottovalutare : la disponibilità di Atene, non solo ad accogliere i supplici, ma a sobbarcarsi il peso della guerra per soccorrere gli amici – il motivo sottolineato qui al v. 497 con defensos acie. 3 Così lo esprime il coro, negli Eraclidi, ai vv. 329-332 : « Sempre questa terra è pronta / ad aiutare secondo giustizia i deboli. / Ecco perché ha affrontato per gli amici infinite pene. / E anche adesso vedo avvicinarsi un’altra impresa difficile » (tr. di U. Albini). 4 È una disponibilità che viene ricordata ed esaltata, col richiamo a quei miti, ogni volta che si vuole vantare il primato morale o rivendicare l’egemonia ateniese sul resto dei Greci (il che può prestarsi, da parte degli avversari, a critiche di tipo anti-imperialistico). Così, per es., Isocrate nel Panegirico 51-58 : « Penso … che i nostri antenati meritino la stima per le guerre che affrontarono non meno che per gli altri benefici … infatti misero sempre la loro città al servizio dell’utilità comune e difesero sempre i Greci oppressi… Essi si assunsero infatti il peso della guerra sia per i morti contro i Tebani, sia per i figli di Eracle contro il potente Euristeo… » ; e in chiusa alla sezione (§ 65) : « non so proprio come si potrebbe fare una dimostrazione più chiara a proposito del diritto di egemonia sui Greci ». 5 Gli studiosi di Stazio trascurano questa tradizione ; per questo, le interpretazioni sovversive e pessimistiche della Tebaide, che accusano Teseo di eccessiva prontezza alla guerra, rischiano di risultare riduttive oltre che pregiudiziali : non solo sovrastimano presunte ombre del personaggio e non riconoscono nella rapidità narrativa della chiusa una scelta di stile, ma sottovalutano presupposti culturali e letterari greci indispensabili a comprendere quest’ultimo tratto del poema. 6 Che Atene, « unica » fra le città greche, fosse pronta a intervenire in armi a difesa degli oltraggiati è un motivo encomiastico fondamentale non solo  











































1  Vedi Tzanetou 2005, pp. 99-104. 2  Eur. Heraclid. 320-326 ; vedi Wilkins 1993, p. xxvi (p. xv sulla variante che attribuisce l’accoglienza degli Eraclidi a Teseo). Per il parallelismo tra le due tragedie cf. Mendelsohn 2002, introd., spec. pp. 1-12 ; Konstan 2007. 3  È interessante che nell’In Gildonem di Claudiano, nel discorso con cui Stilicone esorta Onorio a punire il tiranno, la difesa ateniese degli Argivi sia associata a un esempio tratto dalla storia romana, l’appello del socius Aderbale al Senato per la difesa da un’iniuria (cf. Sall. Iug. 14) : in Gild. 404-412 ; cf. 463-466 (su Gildone cf. Ware 2004). 4  Cf. 755 ss., 763 ss., 920 ss. 5  Isocr. paneg. 51, 52, 58, 65 (tr. di C. Ghirga, R. Romussi). Cf. la lode della filanqrwpiva dimostrata da Atene con azioni belliche in Aristid. panath. 75 ss. Lenz, Behr, spec. 78 e 79, con l’esempio degli Eraclidi. 6  Vedi infra, cap. iv. Cf. Heslin 2008.  







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nella tragedia attica del v sec., ma anche nei logoi epitaphioi, i discorsi funebri (annuali e pubblici) per i caduti in guerra, che hanno un archetipo nell’epitafio di Pericle in Tucidide e proseguono con i nomi di Lisia, Demostene, Iperide, oltre che con Gorgia e con la versione virtuale e parodica nel Menesseno di Platone ; ad essi si collega la pubblicistica del iv sec., in particolare il Panegirico di Isocrate, e ancora secoli dopo, nella Seconda Sofistica, il Panatenaico di Elio Aristide. 1 In questa tradizione, il catalogo delle imprese mitiche di Atene si cristallizza in una serie di esempi che rimane stabile nel tempo : l’elenco comprende la guerra contro le Amazzoni e contro Eumolpo, e, appunto, la difesa degli Eraclidi e degli Argivi, cui si affiancano, in un passaggio agevole dal mito alla storia, Maratona e le successive vittorie nelle guerre persiane. 2 Stazio sfrutta dunque, per un discorso politico che interessa Roma, il repertorio delle lodi di Atene : nell’encomio della filanqrwpiva in funzione dell’egemonia ateniese il poeta flavio trova un precedente e un modello per l’elogio della clemenza come giustificazione dell’Impero romano. 3  











Fama est…, « Si dice che… ». Fama minor factis, « ma quello che si dice è inferiore alla realtà » (v. 499). All’ideologia della clementia Stazio fornisce una legittimazione mitica (di più, una sanzione religiosa), e lo fa con un’affermazione audace di autorità poetica : il narratore epico osa una movenza, credere dignum, che ribalta la formula dubitativa si credere dignum in una professione di fede. 4 Interpolando un catalogo topico, Stazio addirittura inserisce la clemenza fra i doni degli dèi all’umanità, tradizionali nelle lodi dell’Atene mitica (sarà poi Claudiano, emulo di Stazio, a superarne l’audacia, risalendo alle origini cosmiche per attribuire alla Clementia la creazione del mondo dal caos). 5 È dunque una archeologia dei valori quella che viene offerta al destinatario imperiale e al pubblico flavio : un’ascendenza mitica nobilitante per un elemento in vista dell’ideologia ufficiale. Al mito virgiliano ed augusteo dell’età dell’oro – un  















1  Loraux 1981, pp. 64 ss., spec. pp. 67-69 ; Thomas 1989, pp. 206 ss., spec. pp. 208-213. 2  L’esempio degli Eraclidi e degli Argivi è in [Lys.] 2, 7-10 ; 11-16 ; 17 ss. ; Isocr. paneg. 51-65, spec. 54-56, 58-60, 64-65 (sulla variazione in panath. 172 cf. Masaracchia 2003, p. 165 ; Nicolai 2004, pp. 78-79) ; cf. Plat. 52-53 ; Hel. 31 ; inoltre Plat. Menex. 239a-c, e [Demosth.] 40, 8-9, che sottolineano la fortuna letteraria del motivo ; Aristid. panath. 50 ss. Lenz, Behr, spec. 52-54, 79. Cf. anche Herodot. 9, 27 ; Xenoph. Hell. 6, 5, 46-47 ; mem. 3, 5, 10 ; spec. Arist. rhet. 2, 22, 4-6. 3  Per il nesso tra filanqrwpiva e hJgemoniva cf., per es., Oudot 2005, pp. 322-325 ; su pietà e potere Tzanetou 2005 ; su humanitas e imperialismo Veyne 1989, Braund 1997. Va segnalato che negli encomi di Atene filanqrwpiva alterna con ejpieivkeia e praovth" (talora megaloyuciva), come mostra Aristid. panath. 8 Lenz, Behr (= 7 nella numerazione di Oliver 1968, di cui cf. il comm. ad loc.) : tutti aspetti riassorbiti nel concetto di clementia, che non ha un corrispettivo preciso in un unico termine greco (Griffin 1976, pp. 144 e n. 3, 155-156, 159, 166 ; 2000a, p. 540 ; Malaspina 2003, n. 33 alle pp. 152-153 ; de Romilly 1979). 4  Cf. Stinton 1976 (= 1990). 5  Claud. cons. Stil. 2, 6-11 principio magni custos Clementia mundi, / quae Iovis incoluit zonam, quae temperat aethram / frigoris et flammae mediam, quae maxima natu / caelicolum. nam prima chaos Clementia solvit / congeriem miserata rudem vultuque sereno / discussis tenebris in lucem saecula fudit. Cf. Keudel 1970, pp. 63 ss.  



































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mito italico, radicato nella terra di Saturno – 1 viene ora sostituito quello che alla clemenza imperiale mancava : un mito di fondazione – ed è, questa volta, un mito greco. L’elenco dei doni divini ai vv. 501-502 …leges hominemque novum ritusque sacrorum / seminaque in vacuas hinc descendentia terras, leggi, incivilimento umano, riti sacri, agricoltura (si fa riferimento ai semi sparsi da Trittolemo), è un elemento obbligato negli encomi di Atene e dell’Attica, e, parallelamente, nelle lodi innologiche di Demetra. Una tradizione che resta viva anche nel mondo latino, come dimostra Cicerone ; così, riecheggiando il Panegirico di Isocrate, l’oratore elogia nella pro Flacco i testimoni ateniesi : Flacc. 62 adsunt Athenienses, unde humanitas, doctrina, religio, fruges, iura, leges ortae sunt atque in omnes terras distributae putantur… ; 2 e così, nell’invocazione che chiude le Verrinae, esalta i benefici della dea Cerere : Verr. 2, 5, 187-188 teque, Ceres et Libera, quarum sacra, sicut opiniones hominum ac religiones ferunt, longe maximis atque occultissimis caerimoniis continentur, a quibus initia vitae atque victus, morum, legum, mansuetudinis, humanitatis hominibus et civitatibus data ac dispertita esse dicuntur. 3 La tradizione delle lodi di Atene 4 e quella delle lodi di Demetra, città e divinità civilizzatrici, sono spesso sovrapposte e mescolate nella cultura greca, in uno scambio continuo fra storia e mito 5 (le ‘leggi’, per es., rimandano ora all’opera legislatrice della polis, ora alle norme, o thesmia, insegnate dalla dea thesmophoros). 6 Queste due tradizioni si fondono allo stesso modo nel testo di Stazio, che recupera così al suo racconto anche l’ambientazione eleusina delle Supplici di Euripide. 7 Siamo di fronte a un altro tratto di sincretismo : questa sede assume su di sé la funzione di diversi luoghi-simbolo dell’ospitalità atenie 

























1  Vedi Wallace-Hadrill 1982, p. 20 (= 2004, pp. 160 s.). 2  Cf. Maselli 2000, ad loc. Si noti che, qui dove non ha la preoccupazione del confronto con Roma, Cicerone elenca fra le glorie di Atene anche l’attività giuridica e legislativa, di cui altrove attribuisce superiore competenza ai Romani. 3  Nel passo che segue si osserva la tendenza ad appropriarsi delle glorie della Grecia per trasferirle a Roma (cf. 2, 5, 99). Sui misteri eleusini come somma gloria di Atene e principio di humanitas cf. leg. 2, 35-36, con Dyck 2004. 4  Sullo stereotipo delle lodi di Atene, in generale, cf. Schröder 1914 ; Nisbet, Hubbard 1970, a Hor. carm. 1, 7, 5-6. Ovidio vi allude ironicamente in met. 2, 794-796 (cf. Barchiesi 2005, ad loc.) ; 6, 421-422 (vedi Rosati 2009a). 5  Mito e storia sono accostati in continuità ideale in Isocr. paneg. 28 (cf. Nicolai 2004, pp. 79-83 ; Masaracchia 2003, p. 161). Una versione razionalistica delle lodi di Atene è quella di Lucr. 6, 1 ss., dove l’unico dono ‘divino’ della città è la filosofia di Epicuro : primae frugiparos fetus mortalibus aegris / dididerunt quondam praeclaro nomine Athenae / et recreaverunt vitam legesque rogarunt, / et primae dederunt solacia dulcia vitae, / cum genuere virum … cuius et extincti propter divina reperta… 6  Cf. Call. hymn. 6, 18 con Hopkinson 1984 (cf. pp. 35 s. e n. 2) ; Hollis 2007, p. 75 su Calvo 31, 1 (= 6, 1 Courtney) leges sanctas docuit ; Pease 1935 a Aen. 4, 58 legiferae Cereri ; Ov. met. 5, 343 prima dedit leges. Per le « leggi » in senso strettamente giuridico cf. invece Lucr. 6, 3 cit. 7  Il richiamo ad Eleusi è interessante anche per la possibile iniziazione del padre di Stazio ai misteri, ipotizzata da Clinton 1972 (che restituisce il cognomen in ig, ii2, 3919) ; cf. 1989, pp. 1514-1515 ; Holford-Strevens 2000, p. 39 n. 4.  





















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se, legati ai diversi miti che Stazio menziona : il santuario eleusino delle Supplici, l’altare di Zeus a Maratona negli Eraclidi, il bosco delle Eumenidi nell’Edipo a Colono, il futuro Areopago che accoglie Oreste nelle Eumenidi. 1 E aggiungo – perché non mi pare sia segnalato – che Stazio potrebbe evocare la memoria di un altro monumento, la tomba di Teseo descritta da Plutarco e da Pausania, non distante dall’Altare della Pietà e simile nella funzione ; un santuario innalzato dopo le vittorie sui Persiani, quando Cimone riportò da Sciro ad Atene le ossa di Teseo, consacrandolo come eroe nazionale : Plut. Thes. 36, 4 : « Le sue spoglie giacciono nel centro della città [ejn mevsh/ th`/ povlei], accanto all’attuale Ginnasio ; è luogo di asilo per gli schiavi, per tutti i più deboli e per coloro che temono i potenti [dediovsi kreivttona"], poiché anche Teseo aveva difeso e aiutato i più deboli e aveva accolto con benevolenza [filanqrwvpw"] le loro preghiere » 2 (tr. di C. Ampolo). L’umanità di Atene e la capacità del suo capo politico di realizzarla sono tutt’uno : filanqrwpiva della città e del suo eroe nazionale si rispecchiano a vicenda. È questa una conferma ulteriore, se ce ne fosse bisogno, che il legame organico (ma negato da alcuni) fra la clemenza e Teseo nel finale della Tebaide, e fra l’aspetto etico e quello politico del concetto di clementia, affonda le radici in una tradizione greca vasta e solida, che Stazio presuppone, accoglie e ripropone in veste romanizzata. È sulla base di quella tradizione che il poeta epico costruisce la sua proposta ideologica : con la sua sintesi originale (ecco il sincretismo dei valori) Stazio arricchisce a suo modo il concetto romano di un retroterra culturale greco, e insieme supera il particolarismo dell’ideale ateniese (la filanqrwpiva, che diventa qui un dono originario alla comunità umana) in una nuova prospettiva universalistica : la prospettiva politica aperta ora dall’Impero romano.  























Tra i doni degli dèi, dunque, quello dell’altare è il dono di un rifugio dalle offese del potere e della sorte. È qui, soprattutto, che il discorso di Stazio si scopre rivolto al presente (e al potere di Roma). C’è una punta polemica, nella descrizione dell’ara, che non deve sfuggire, e che si collega a movenze polemico-politiche disseminate nel poema : unde procul starent iraeque minaeque / regnaque (504-505), « da cui stessero lontane le ire e le minacce dei regni » ; con un gesto marcato di ammonimento e di denuncia, la clemenza viene contrapposta alla violenza del potere, del potere dispotico, il « regno » che fa tutt’uno con l’ira e le minacce, gli strumenti del tiranno. 3 La clemenza è una difesa dalle degenerazioni del potere assoluto, lo stesso potere di cui rappresenta la versione ideale. Questo cortocircuito rende evidente il nodo del problema : il potere di uno solo ha in sé, e in sé solo, la potenzialità di una realizzazione ide 















1  All’esempio di quest’ultimo, istituito da Atena per offrire accoglienza « giorno e notte » (Aesch. Eum. 681-705), riconduce la funzione dell’altare staziano Ahl 1986, p. 2891. 2  Vedi Ampolo, Manfredini 1988, ad loc. Cf. Paus. 1, 17, 6. 3  Vedi Venini 1965a, pp. 161 ss. (= 1971, 60 ss.). Cf. Theb. 12, 590-591 ‘novos… / regnorum mores’.  



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ale e il pericolo di una degenerazione rovinosa. Lo stesso brano che celebra indirettamente la virtù imperiale, indirettamente accusa i guasti dell’Impero : la tragedia dell’involuzione tirannica esemplificata fin qui dal racconto epico. Il ritorno alle origini è dunque anche uno sforzo di rifondazione dei valori, il tentativo poetico di dare basi nuove a una virtù intrinsecamente problematica e storicamente compromessa. C’è nel brano la coscienza di un valore fragile e minacciato, che va continuamente riaffermato e ridefinito, raccomandato ai regnanti e difeso da mistificazioni. È come se si avvertisse un’insufficienza costitutiva, un rischio connaturato a questa che appare ormai come la garanzia unica del buon governo : la natura stessa di questa fragile garanzia richiede una continua pressione sul potere politico perché si conformi a quel modello ideale – è un punto che gli studi sulle virtù imperiali hanno ben illustrato. 1 L’epica di Stazio ha quasi l’ambizione di uno speculum principis, e la riflessione sulla clementia ne è il punto centrale. Rifondare il valore imperiale, rinnovare il significato politico tradizionale della clementia romana, ampliandone la base concettuale : nel discorso poetico della Tebaide Stazio ripropone con altri mezzi il programma tentato da Seneca filosofo nel De clementia. Ciò che distingue il discorso epico, la peculiarità del suo contributo, è la capacità poetica di suggerire analogie e di riconoscere radici e modelli del concetto nella cultura e nella grande letteratura greca, nei valori ideali e nei simboli mitici e poetici da esse elaborati.  







iii. 4. Clementia e philanthropia : un confronto di civiltà Quella di Stazio è anche una risposta all’Eneide. La formula virgiliana parcere subiectis et debellare superbos (Aen. 6, 853) poneva la clemenza verso i vinti come parte di un compito romano, militare e giuridico, definito per opposizione alla civiltà greca. Tocca ora a un poeta di formazione greca superare quella contrapposizione : al centro ideale del suo poema, Stazio pone un valore umano più ampio, nato ad Atene come culla della civiltà. Per la sua centralità ideologica, la descrizione dell’ara sta alla pari con le parole di Anchise che, al culmine della rassegna degli eroi, fornivano la giustificazione morale dell’imperialismo romano. Ma il rovesciamento di prospettiva è evidente. Rivolgendosi al suo popolo (tu … Romane, memento), Virgilio si faceva interprete dell’ethos nazionale e costruiva l’identità romana sulla rivendicazione di un primato – il primato politico – da contrapporre al primato culturale della Grecia :  



‘excudent alii spirantia mollius aera (credo equidem), vivos ducent de marmore vultus, orabunt causas melius caelique meatus describent radio et surgentia sidera dicent :  

1  Vedi Wallace-Hadrill 1981, p. 318. Cf. anche, sul panegirico come protrettico e come programma politico, Braund 1998.

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tu regere imperio populos, Romane, memento (hae tibi erunt artes) pacique imponere morem, parcere subiectis et debellare superbos’. (Verg. Aen. 6, 847-853)

« In questi versi » (scrive Norden 19574) « trova espressione monumentale il contrasto fra le due nazioni, ognuna a suo modo grande ed entrambe tese insieme allo scopo di una cultura universale ». I compiti sono diversi e complementari, ma il tono è quello di un confronto competitivo : 1 l’atteggiamento dei poeti augustei 2 è ancora vicino all’orgoglio nazionalistico esibito nel proemio delle Tusculanae. Là Cicerone ammetteva il ritardo culturale rispetto alla Grecia, ma rivendicava ai Romani la supremazia in campo morale, istituzionale, politico, militare ; e addirittura, con audacia inedita, osava predire che Roma avrebbe presto strappato alla Grecia anche il primato nelle attività intellettuali, in cui era stata finora superata solo perché non aveva voluto impegnarsi (Tusc. 1, 2 nam mores et instituta vitae resque domesticas ac familiaris nos profecto et melius tuemur et lautius, rem vero publicam nostri maiores certe melioribus temperaverunt et institutis et legibus. quid loquar de re militari ?… ; 1, 3 doctrina Graecia nos et omni litterarum genere superabat ; in quo erat facile vincere non repugnantes). 3 Nella prospettiva di Stazio, la preoccupazione del confronto agonistico con la Grecia, che ha segnato un lungo tratto della storia culturale romana, appartiene in gran parte al passato. È un fenomeno che conosciamo bene dalla storia della letteratura : 4 con l’età augustea Roma ha acquisito un proprio canone di autori eccellenti nei diversi generi letterari, finalmente degno di stare alla pari con il canone greco ; quando Quintiliano, nella sua rassegna di poeti e prosatori, confronta la biblioteca latina con quella greca, mostra orgoglio per i risultati raggiunti, ma, a differenza di Cicerone, « non sente affatto il dovere di proclamare ovunque parità o superiorità da parte dei Romani » : le due lingue e le due letterature possono ormai essere oggetto di un confronto pacato. Ed è un fenomeno che riguarda più in generale la società e la cultura, in un’età in cui l’Oriente greco è sempre più parte integrante dell’Impero e  



































1  Un confronto dall’esito equilibrato, ma suscettibile di ulteriori riflessioni e messe a punto, come sembra suggerire qui la parentesi limitativa (credo equidem). Sul confronto competitivo con la Grecia, che accompagna tutto l’arco della cultura latina, vedi, oltre agli studi citati infra, Gruen 1984, pp. 250-272 ; 1992, pp. 223-271 ; Wallace-Hadrill 1998, spec. pp. 947-950. 2  Cf. La Penna 2005, pp. 281-282 per l’insistenza di Virgilio e di Orazio « sulle radici e il carattere romano ed italico della civiltà dell’impero », oltre che su Roma e l’Italia come centro dell’Impero (insistenza motivata fra l’altro dal pericolo, ancora avvertito dopo la vittoria su Antonio, di uno spostamento del centro politico in Oriente). 3  Vedi Citroni 2003, spec. p. 149. Per la consonanza tra Virgilio e Cicerone cf. Norden 19574, a Aen. 6, 847-853, che cita de orat. 3, 137 ut virtutis a nostris, sic doctrinae sunt ab illis exempla petenda. Vedi inoltre Desideri 2003, p. 236. 4  Labate 1990. Ancora Virgilio, nel proemio al mezzo delle Georgiche, proponeva « l’idea di un grandioso trionfo totale sulla cultura della grecità » : Citroni 2003, pp. 182-183.  













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le sue élites sociali sono chiamate a partecipare all’amministrazione romana ; come osserva Citroni, « Il senso di rivalità con la biblioteca greca si è attenuato, in un quadro di crescente integrazione di fatto tra due culture e due realtà politiche e sociali ». In questo quadro, anche l’elaborazione di concetti etico-politici può guardare alla Grecia con atteggiamento più sereno, senza ansia di competizione, ma nella disponibilità a riconoscere un terreno ideale comune. Il concetto di clemenza che Virgilio opponeva alla sapienza greca, riassunto nel parcere subiectis, era una prosecuzione nell’Impero emergente dell’ideale repubblicano : la clementia populi Romani, il rispetto dei nemici vinti. Nel dare ora una veste greca alla versione ampliata di quel concetto, Stazio si pone da una prospettiva imperiale matura, in cui clementia non è più solo il rispetto dei nemici, esterni e interni, ma la virtù di un sovrano benefattore, ‘padre’ e ‘salvatore’ per i propri sudditi, disponibile, protettivo, pronto a provvedere al loro benessere ; è la differenza che corre fra il parcere subiectis dell’Eneide e il parcere afflictis che il poeta dell’Octavia (forse in età flavia) mette in bocca a Seneca, come esortazione alla clementia rivolta a Nerone. 1 A questo ampliamento della visuale politica romana si aggiunge uno sguardo diverso alla Grecia ; è implicita in Stazio la stessa prospettiva di aperto riconoscimento della grandezza dei Greci (in ogni aspetto della loro civiltà) in cui si pone Plinio il Giovane, quando all’amico Massimo, commissario speciale nella provincia Achaia, raccomanda :  















cogita te missum in provinciam Achaiam, illam veram et meram Graeciam, in qua primum humanitas, litterae, etiam fruges inventae esse creduntur … [4] habe ante oculos hanc esse terram, quae nobis miserit iura, quae leges non victis sed petentibus dederit, Athenas esse quas adeas, Lacedaemonem esse quam regas… (Plin. epist. 8, 24, 2-4)

Qui l’elogio della civiltà ellenica si estende al campo giuridico e legislativo, tradizionalmente rivendicato come proprio dai Romani ; la forma stessa dell’espressione quae leges non victis, sed petentibus dederit ha tutta l’aria di essere una replica alla tradizionale esaltazione nazionalistica di Roma come potenza capace di dettare leggi ai popoli che ha sconfitto (regere imperio populos… pacique imponere morem…, Aen. 6, 851-852). Molto è cambiato, dall’età di Cicerone, nel modo di affrontare la suvgkrisi" tra Grecia e Roma. Eppure è interessante che già Cicerone, modello di Plinio  

1  Octavia 472-478 sen. pulchrum eminere est inter illustres viros, / consulere patriae, parcere afflictis, fera / caede abstinere, tempus atque irae dare, / orbi quietem, saeculo pacem suo. / haec summa virtus, petitur hac caelum via. / sic ille patriae primus Augustus parens / complexus astra est, colitur et templis deus (cf. 442 magnum timoris remedium clementia est). Vedi Ferri 2003, al v. 473. Cf. Sen. clem. 2, 6, 3 adflictis … subveniet ; inoltre Med. 222-225 hoc reges habent / magnificum et ingens … prodesse miseris, supplices fido lare / protegere ; Ov. Pont. 2, 9, 11 regia (crede mihi) res est succurrere lapsis con Galasso 1995, ad loc.  



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in quest’epistola, sapesse all’occasione assumere quel diverso punto di vista : quando per opportunità contestuale, messo da parte ogni sciovinismo, si mostrava disposto a riconoscere il debito di Roma verso la Grecia non solo in campo culturale, ma specificamente etico-politico. 1 La famosa prima lettera al fratello Quinto (ad Q.f. 1, 1), scritta per la sua seconda conferma a governatore della provincia d’Asia (nel 59 a.C.), è concepita per la pubblicazione e composta come manifesto politico del buon governo, con rimandi alla Repubblica di Platone e alla Ciropedia di Senofonte – e un occhio rivolto all’opinione pubblica provinciale. 2 Qui Cicerone afferma che nell’esercitare un potere assoluto, attraverso il governatore, sulla Grecia ridotta a provincia, Roma deve applicare con particolare impegno i principi di humanitas e di clementia che proprio dalla Grecia ha appreso. È un testo importante per il nostro discorso, perché riconduce il valore della mitezza, moderazione e clementia di governo al più ampio concetto di humanitas, nato in Grecia e di qui trasmesso a Roma e al mondo ; un concetto che Cicerone stesso riconosce di aver assimilato attraverso la cultura letteraria e filosofica greca 3 (qui humanitas ha il doppio valore di paideiva e di filanqrwpiva) : 4  













…toto denique imperio nihil acerbum esse, nihil crudele, atque omnia plena clementiae, mansuetudinis, humanitatis… [27] …quod si te sors Afris aut Hispanis aut Gallis praefecisset, immanibus ac barbaris nationibus, tamen esset humanitatis tuae consulere eorum commodis et utilitati salutique servire ; cum vero ei generi hominum praesimus non modo in quo ipsa sit sed etiam a quo ad alios pervenisse putetur humanitas, certe iis eam potissimum tribuere debemus a quibus accepimus. [28] …nos isti hominum generi praecipue debere videmur ut, quorum praeceptis sumus eruditi, apud eos ipsos quod ab iis didicerimus velimus expromere. (Cic. ad Q.f. 1, 1, 25-28)  

iii. 5. Clementia e humanitas . Etica e politica Torniamo ora a Stazio. Narrando un mito greco con lo sguardo a Roma, il poeta epico è in posizione privilegiata per segnalare consonanze ideali tra le due culture e sovrapporne per analogia valori e simboli. Ampliare il concetto 1  Su oscillazioni e contraddizioni nell’atteggiamento di Cicerone verso la Grecia, diviso fra riconoscimento del debito e rivendicazione dell’autonomia romana, si veda, oltre a Citroni 2003 (spec. p. 154 e n. 5 con bibliografia), Desideri 2003, pp. 231-236, e 1998, pp. 926-932. 2  Vedi Citroni Marchetti 2000, pp. 31 ss., spec. n. 42 a p. 33 (diversamente da Desideri 1998, p. 928) ; Shackleton Bailey 1980, p. 147. 3  Cf. Desideri 2003, p. 233 : « Qui Cicerone fa evidentemente proprio, anche a nome dei Romani, il principio generale già formulato da Isocrate, secondo il quale la paideiva – l’humanitas in termini latini – non è riservata ai Greci per un diritto diciamo genetico, ma si può estendere indefinitamente ad altri popoli » (cf. Isocr. paneg. 50). 4  Altrove, in Cicerone, prevale nel concetto di humanitas la componente intellettualistica della paideiva, che in età imperiale sarà invece più spesso subordinata o compresente con l’aspetto morale della filanqrwpiva : cf. il noto passo di Gellio, 13, 17 ; vedi Traina 19974, p. 10 e n. 2 con bibliografia ; Braund 1997, pp. 21 ss.  













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imperiale di clementia riconducendolo alla humanitas, e riconoscerne la radice nella filanqrwpiva ateniese : questa è l’operazione tentata nella Tebaide. Ma se la ricerca di affinità con la Grecia è il tratto peculiare dell’invenzione poetica staziana, ricondurre la clementia nell’ambito della humanitas è qualcosa che Stazio impara da Seneca, il Seneca del De clementia e delle Epistole a Lucilio. Il legame tra clementia e humanitas, implicito nella descrizione dell’ara (e che affiora nel nesso hominemque novum al v. 501), 1 viene in evidenza poco dopo nella supplica di Evadne a Teseo : 12, 555-558 ‘hominum, inclute Theseu, / sanguis erant, homines, eademque in sidera, eosdem / sortitus animarum alimentaque vestra creati, / quos vetat igne Creon … heu princeps Natura !…’. Sono versi da confrontare, anche per la formulazione, con l’Epistola 95 di Seneca, in particolare col § 52 natura nos cognatos edidit, cum ex isdem et in eadem gigneret (si noti il poliptoto di idem, che in Stazio torna martellato dall’anafora). 2 Segue, nell’epistola, la citazione del verso di Terenzio divenuto manifesto dell’humanitas : 53 ille versus et in pectore et in ore sit : ‘homo sum, humani nihil a me alienum puto’. È interessante, a tale proposito, che una formulazione greca vicina al verso terenziano si trovi in un testo poetico modello di Stazio in questo finale. Sono le parole con cui, nell’Edipo a Colono, Teseo offre a Edipo accoglienza e comprensione per le sue sventure : « So di essere uomo », e[xoid∆ ajnh;r w[n (Soph. Oed. C. 567) 3 – un’espressione ancora entro i limiti del pessimismo antropologico greco (« uomo », cioè « fragile » e « mortale »), ma già proiettata verso una solidarietà umana positiva, come osserva Kamerbeek (1984) : la solidarietà positiva dell’humanitas. 4 Grazie all’idealizzazione della sua figura, cui la tragedia ateniese aveva dato forma poetica, Teseo si prestava ad essere eletto in ambito romano a simbolo di humanitas : per Stazio, il Teseo di Sofocle ancor più di quello democratico di Euripide, in quanto sovrano da contrapporre al tiranno Creonte e alla sua inumana crudeltà (‘bello cogendus et armis / in mores hominemque Creon’ 12, 165-166, nelle parole di un reduce argivo). Ed è appunto alla tragedia attica che Stazio guarda in questo tratto del poema : la stessa inclusione di Edipo fra i miti di accoglienza ateniese ai vv. 509510 (mox hospita sedes / vicit et Oedipodi Furias) è estranea alla tradizione degli epitafi e rimanda direttamente al dramma sofocleo (così come l’esempio di Oreste al v. 511 richiama l’Eschilo delle Eumenidi). 5 Nel dramma di Sofocle era Edipo in persona a collegare la propria vicenda alla tradizione dell’ospitalità  











































1  Da confrontare per es. con Lucr. 6, 3 [sc. Athenae] recreaverunt vitam. 2  Per il concetto vedi Delarue 2000, pp. 166-168. 3  Cf. Soph. Oed. C. 551 ss., spec. 556-568. 4  Per questa distinzione cf. Traina 19974, pp. 9-12. 5  Attraverso una formulazione virgiliana : cf. Pollmann 2004, ad loc. L’esempio di Oreste sarà poi anche in Aristide, panath. 48 Lenz, Behr (katafugw;n … eij" th;n povlin, wJ" ejntau`qa, ei[per pou, th;n dikaivan filanqrwpivan ou\san, « rifugiatosi … nella città, poiché qui più che in ogni altro luogo vi erano giustizia e generosità »).  





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ateniese : « Che vantaggio si ricava dalla fama, dalle voci pur belle che scorrono inutilmente ? Atene – si dice – è la città più pia, la sola capace di aiutare gli stranieri oppressi, la sola capace di difenderli. Ma dov’è, tutto questo, per me… ? » (Oed. C. 258-263) ; 1 e il richiamo a quella tradizione tornava, più avanti, nelle parole di Antigone : « O terra tanto esaltata, ora è il momento di mostrare coi fatti lo splendore di queste parole » (720-721). 2 La tragedia di Sofocle – è un punto trascurato dalla critica, cui accenno soltanto – ha suggerito a Stazio altri motivi essenziali alla costruzione del finale : il contrasto dichiarato fra Teseo e Creonte, l’uno rispettoso di giustizia e leggi com’è tradizione di Atene, l’altro indegno della grande Tebe (Oed. C. 911-928) ; il confronto in azione fra i due, Teseo pronto ad accogliere i supplici (Edipo e le figlie), Creonte deciso a imprigionare le donne (Antigone e Ismene) e fermato con le armi (uno scontro in scena che Stazio ricrea a distanza grazie al montaggio narrativo, incorniciando l’episodio di Teseo ad Atene con la cattura di Argìa e Antigone a Tebe) ; 3 l’eroismo maschile di Antigone e Ismene (contrapposte ai fratelli in un’inversione dei ruoli di genere : Oed. C. 337-356), modello per l’immagine delle figlie di Edipo come melior iam sexus e per il coraggio virile di Argìa e Antigone nell’epos (Theb. 7, 479 ; 12, 177-186, 452-463).  

































La clementia della Tebaide ha dunque i tratti della humanitas, come definita in termini stoici da Seneca nelle Epistole : 4 valore etico, innanzi tutto. Ma quel valore ha in Seneca anche un’essenziale funzione politica. Che la clemenza sia espressione di humanitas è un concetto posto alla base della teoria politica del De clementia e sviluppato in particolare nel secondo libro del trattato, là dove il filosofo tenta di inquadrare il valore romano tradizionale nel sistema della dottrina stoica. 5 Nel primo libro (più vicino a un Fürstenspiegel ellenistico, un trattato peri; basileiva"), la clementia è stata presentata come virtù comune a tutti gli uomini ma precipua del sovrano, sommamente adatta all’imperatore : clem. 1, 3, 2-3 nullam ex omnibus virtutibus homini magis convenire, cum nulla sit humanior, constet necesse est non solum inter  







1  Cf. Paduano 1982 (da cui la traduzione), n. 15 a p. 740. 2  Il coro ha appena esaltato Colono, e dunque Atene (cf. 707 a]llon d∆ ai\non…). Per il legame tra l’Edipo a Colono e la tradizione sull’accoglienza di Eraclidi e Argivi si veda anche Di Benedetto 1983, p. 230. 3  Theb. 12, 447-463 (463 et ad regem qui deprendere trahuntur) ; 464-676 (at procul Actaeis dextra iam Pallade muris … 674-675 veteres reminiscitur actus / ipse tuens…) ; 677-682 (saevus at interea ferro post terga revinctas / Antigonen viduamque Creon Adrastida leto / admovet … cum dicta ferens Theseia Phegeus / astitit). Cf. Oed. C. 818-1153. 4  Cf. 88, 30 clementiam, quae alieno sanguini tamquam suo parcit et scit homini non esse homine prodige utendum. 5  Vedi Griffin 1976, pp. 155-156 sullo spazio dato nel trattato, oltre che al concetto ‘negativo’ di praovth", all’ideale stoico di filanqrwpiva come amore per l’umanità ; cf. anche 2000, pp. 538 ss. ; 2003, pp. 177-179. Cf., inoltre, Malaspina 20052, a 2, 5, 3 e a 2, 7, 3 con bibliografia (= 2003, p. 146, e cf. n. 17). In questo aspetto, affine all’humanitas di epist. 95, vedono il centro ideologico dell’opera per es. Büchner 1970 (= 1978) e, sopr., Bellincioni 1984 e 1984a (= 1986).  







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nos, qui hominem, sociale animal, communi bono genitum videri volumus… [3] nullum tamen clementia ex omnibus magis quam regem aut principem decet ; o ancora 1, 5, 2 est ergo, ut dicebam, clementia omnibus quidem hominibus secundum naturam, maxime tamen decora imperatoribus… 1 Nel secondo libro, invece, la clementia viene vista in relazione non solo al sovrano ma al sapiens, e dunque all’umanità in generale : è la virtù propria dell’uomo in quanto uomo, animale sociale, volto per natura al bene comune. Sono evidenti, in questo contesto, contatti anche puntuali con l’Epistola 95 ; 2 così, per es., Seneca replica alle accuse di mancanza di humanitas rivolte agli stoici per la loro intransigenza : 2, 5, 3 quod si est, quidni haec scientia, quae dediscere humanitatem iubet portumque adversus fortunam certissimum mutuo auxilio cludit ? sed nulla secta benignior leniorque est, nulla amantior hominum et communis boni attentior, ut propositum sit usui esse, ut auxilio nec sibi tantum, sed universis singulisque consulere. C’è dunque un forte colorito senecano nella rappresentazione che Stazio dà della clementia, nella complessità dei suoi aspetti : come valore insieme etico e politico ; come virtù comune all’umanità e distintiva del sovrano-sapiens ; e come tentato connubio tra le componenti storico-politica e filosofica del concetto, fra clementia tradizionale romana – come giustificazione dell’imperialismo e del potere imperiale – e clementia in quanto manifestazione di humanitas e di obbedienza stoica alla Natura. L’aspetto romano tradizionale, di moderazione verso gli sconfitti, verrà in evidenza più avanti nel poema : la moderazione di Teseo in battaglia sarà illustrata con un paradigma animale – il leone mite con la preda – tradizionale nelle esortazioni alla clemenza (dall’Ovidio dei Tristia al Seneca del De clementia, a Claudiano, passando per il Marziale del ‘ciclo delle lepri e dei leoni’) ; e il trionfo dell’eroe ateniese sarà descritto, tra iperbole e paradosso, come una gioia degli sconfitti (al pari del trionfo di Marcello a Siracusa, o dei trionfi di Augusto secondo l’Ovidio dei Tristia). Anche il ritratto di Teseo, tirannicida ma clemente nel concedere a Creonte la sepoltura, deve qualcosa a Seneca : l’appropriazione di Teseo come simbolo politico, associato alla clemenza del potere e alla punizione dei tiranni, ha un precedente importante nell’Hercules furens. 3  



























iii. 6. Clementia, misericordia, eleos Su un punto Stazio e Seneca divergono, ed è la relazione fra clementia e misericordia : 4 l’e[leo", appunto – vi abbiamo accennato all’inizio, a proposito di  



1  Cf. anche 1, 1, 3 ‘… summa parsimonia etiam vilissimi sanguinis ; nemo non, cui alia desunt, hominis nomine apud me gratiosus est’. 2  Si confronti, per es., clem. 2, 6, 2-3 dabit manum naufrago … in commune auxilium natus con epist. 95, 51-53 ut naufrago manum porrigat … habeamus in commune : nati sumus. 3  Su tutto questo vedi Introd., § 5 e cap. iv, §§ 9 e 10. 4  Vedi Konstan 2001, cap. 3, spec. pp. 95 ss.  



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un saggio recente –. La reazione emotiva di Teseo che, alle parole di Evadne, arrossisce, si commuove e avvampa di legittimo sdegno contro il tiranno di Tebe (12, 588-590 rubuit Neptunius heros / permotus lacrimis ; iusta mox concitus ira / exclamat :…) viene additata come una pericolosa deriva irrazionale, non diversa nella sostanza dalla crudeltà di Creonte : 1 ma leggere la Tebaide applicando come categoria di giudizio il rigorismo stoico significa smontare un sistema di opposizioni su cui il racconto si regge – il contrasto re-tiranno – e fare del testo di Stazio un tutto indistinto. Io credo che il vizio stia nel presupposto : la poesia di Stazio va misurata con l’arte e con la tradizione poetica, epica e tragica innanzi tutto, non col metro dell’etica stoica (affronteremo ancora il problema a proposito della iusta ira di Teseo). 2 Se si libera il testo da questa ipoteca, lo si potrà forse interpretare meglio. Il moto spontaneo di commiserazione del sovrano ateniese (permotus lacrimis) non è una trovata di Stazio per screditarlo, ma un’eredità della grande poesia greca, della tragedia e della tradizione degli encomi di Atene ; la generosità della polis, dei suoi abitanti e del suo capo allo stesso modo, è costantemente espressa in letteratura greca nel gesto dell’oijktivzein (o oijktivrein), nell’e[leo", appunto : così, prima che nel verso di Callimaco citato poco sopra, nell’Edipo a Colono di Sofocle, e ancor prima negli Eraclidi e nelle Supplici di Euripide, per non parlare della tradizione in prosa. 3 Nel secondo libro del De clementia, Seneca tenta una definizione filosofica che concili il valore della clementia con la dottrina stoica, per statuto contraria all’e[leo" in quanto moto irrazionale. 4 È un’operazione non facile, e Seneca è in contraddizione con se stesso : nel primo libro, seguendo la tradizione ellenistica, aveva usato misericordia come sinonimo di clementia ; ora si impegna invece in una puntigliosa classificazione terminologica, che insiste in particolare sulla differentia tra clementia e misericordia – un vizio, quest’ultima, anziché una virtù. 5 Su questo punto è evidente l’imbarazzo negli stoici di età  

























1  Ganiban 2007, pp. 222 (« permotus and concitus express violent emotional upheaval – exactly what, on a Stoic reading, should not inform Theseus’ decision to punish Creon, for he becomes the type of threatening and (potentially) irrational monarch from whom Clementia offers suppliants protection ») ; 223 (« Theseus’ response … thus seems closer to Stoic misericordia, yet it still has something in common with crudelitas. A monarch’s passionate reaction can lead to good as well as to crime and evil, as does Creon’s in the burial prohibition. The very presence of passion is troublesome. Theseus can thus be viewed as a representative of the problematical world of autocracy in the Thebaid »). 2  Cf. cap. iv, §§ 7 e 8. 3  Soph. Oed. C. 551-559 (cf. 254-257, 461) : cf. Johnson, Clapp 2005, pp. 136 ss. ; Sandridge 2008, pp. 436-440 ; Eur. Heraclid. 150-152 ; suppl. 286-288 mh`ter, tiv klaivei"...… a\ra dusthvnou" govou" É kluvousa tw`nde… kajme; ga;r dih`lqev ti, « Madre, perché … piangi ? Senti forse i gemiti di queste donne ? Hanno commosso anche me » (tr. di U. Albini). In prosa ad es. Plat. Menex. 244e ; Isocr. Plat. 52. Sulla compresenza di emozione, giudizio razionale e calcolo interessato nell’esercizio politico della pietà, come messo in scena dalla tragedia attica, cf. Konstan 2005a, spec. p. 65. 4  Cf. Griffin 1976, pp. 158-171 ; Malaspina 2003, p. 150. 5  Clem. 2, 4, 4 ad rem pertinet quaerere hoc loco quid sit misericordia : plerique enim ut virtutem eam laudant et bonum hominem vocant misericordem. et haec animi vitium est… ; 2, 5, 1 (vedi supra, n. 3 a p. 107).  

































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successiva ; 1 ma anche Cicerone, pronto a sostenere la tesi stoica nel discorso filosofico delle Tusculanae (dove distingue clementia da misericordia e condanna quest’ultima come aegritudo animi), quando parla di fronte al dittatore nelle orazioni cesariane usa invece indifferentemente l’uno o l’altro termine, con una combinazione usuale nei trattati ellenistici. 2 In fatto di e[leo", dunque, non si può chiedere a Stazio epico di essere più stoico degli stoici – e, come va concesso al suo Teseo di esercitare, in versione ‘giusta’, quell’ira che è la quintessenza del genere epico, così non va preclusa all’eroe l’espressione di quell’e[leo" che muoveva Achille, nel finale dell’Iliade, ad accordare la sepoltura. Se poi si guarda meglio il testo di Seneca, si troverà che, tolto il rifiuto obbligato della componente passionale (contraria a ragione e a grandezza d’animo), la massima cura è messa dal filosofo proprio nel rivendicare alla clementia tutte le lodevoli azioni e manifestazioni concrete della misericordia :  







ergo [sc. sapiens] non miseretur, quia id sine miseria animi non fit. [2] cetera omnia quae qui miserentur volunt facere libens et altus animo faciet : succurret alienis lacrimis, non accedet ; dabit manum naufrago, exuli hospitium, egenti stipem, non hanc contumeliosam, quam pars maior horum qui misericordes videri volunt abicit et fastidit quos adiuvat contingique ab iis timet, sed ut homo homini ex communi dabit ; donabit lacrimis maternis filium et catenas solvi iubebit et ludo eximet et cadaver etiam noxium sepeliet, sed faciet ista tranquilla mente, vultu suo. [3] ergo non miserebitur sapiens, sed succurret, sed proderit, in commune auxilium natus ac bonum publicum, ex quo dabit cuique partem… (Sen. clem. 2, 6, 1-3)  





È appunto in questo elenco di azioni benefiche (dove clementia è intesa nel senso più ampio, e non nell’accezione strettamente giuridica) che vi sono contatti con la definizione della humanitas nell’Epistola 95 e con la rappresentazione della clementia nella Tebaide. Compaiono qui, fra gli altri, il motivo della sepoltura accordata ai condannati e quello del soccorso prestato anche a chi si è macchiato di colpe (almeno a quelli che appaiono recuperabili, e soprattutto a coloro che è la sorte ad aver reso colpevoli) : 3 un’affinità con il tema tragico, elaborato da Stazio, della disponibilità ateniese ad accogliere e purificare i colpevoli (Edipo, Oreste, Medea) e della capacità di Teseo di andare oltre la considerazione della colpa (di Adrasto e degli Argivi, come altrove di Ercole) grazie a un superiore senso di umanità. 4  





1  Sopr. in Marco Aurelio (2, 13 e 7, 26) : cf. Griffin 1976, p. 156. 2  Vedi ancora Griffin 1976 cit. ; cf. Cic. Tusc. 3, 20-21 ; Marcell. 12 ; Lig. 14-15. Nella pro Murena, inoltre, opponendo al rigore di Catone la moderazione di Panezio e di Scipione, Cicerone tenta di mitigare la condanna stoica della misericordia con il richiamo alla humanitas (Mur. 65 ; cf. 61 ss.). 3  Sen. clem. 2, 6, 3 …etiam ad calamitosos pro portione improbandosque et emendandos bonitatem suam permittet ; adflictis vero et forte laborantibus multo libentius subveniet. quotiens poterit, fortunae intercedet : ubi enim opibus potius utetur aut viribus quam ad restituenda quae casus inpulit ?…omnibus dignis proderit et deorum more calamitosos propitius respiciet. 4  Cf. cap. iv, § 5, pp. 154-155.  















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iii. 7. Atene e Roma: una sintesi culturale La costruzione di Stazio nel finale della Tebaide è una proposta ideologica ambiziosa, in un negoziato complesso fra poesia e potere politico : il poema riflette sul potere e indirettamente parla al potere, rivendicando a sé il prestigioso ruolo intellettuale tradizionalmente riconosciuto all’epica. Ma il discorso di Stazio può essere letto anche come un capitolo di storia culturale. Un poeta di formazione greca e di origine partenopea, educato alla scuola del padre insegnante di letteratura greca e impegnato in Grecia negli agoni poetici, in rapporto con un imperatore filellenico, in un’età che prepara l’integrazione tra le due culture : 1 tocca a Stazio elaborare nell’epica – un epos mitologico di soggetto greco e di ispirazione romana – una sintesi di valori etico-politici delle due civiltà, e di esprimerla in simboli poetici. È un’intuizione che precorre i tempi : il poeta flavio anticipa una tendenza che diverrà dominante nell’età degli Antonini, e che troverà espressione nella Seconda Sofistica. « Nel contesto dell’espansione dei Romani verso Oriente e della loro successiva riorganizzazione di quei territori » (cito Desideri), saranno ancora una volta gli intellettuali greci, in stretto rapporto con Roma, a giungere alla « contrastata elaborazione di un’ideologia imperiale finalizzata alla legittimazione del dominio romano ». 2 Circa mezzo secolo dopo la composizione della Tebaide, nel 144 d.C., Elio Aristide darà col suo discorso A Roma un « manifesto dell’adesione greca all’impero », ed esalterà il potere degli Antonini come affermazione di una civiltà universale greco-romana. Il retore greco, cittadino romano, si colloca « sulla linea di pensiero che, da Cicerone a Virgilio…, ha rivendicato lo specifico titolo dei Romani, in quanto depositari di una superiore arte di governo, a realizzare un imperium tendenzialmente universale, nell’interesse stesso delle popolazioni vinte e assoggettate ». 3 È questo l’aspetto dell’encomio A Roma che Norden collegava con il sesto libro dell’Eneide, osservando la parallela insistenza sulla tevcnh di governo (artes in Virgilio) e sull’equilibrio di un potere che contempera forza e benevolenza, kravto" e filanqrwpiva (parcere subiectis et debellare superbos). 4  





























1  Per l’importanza della dimensione culturale greca nell’opera di Stazio cf. Holford-Strevens 2000. Sul filellenismo di Domiziano, primo imperatore nominato arconte eponimo ad Atene, cf. Jones 1992, p. 112 ; 1996, a Svet. Dom. 4, 4 ; Levick 1982, p. 61 ; Coleman 1986, p. 3097 e n. 56. 2  Desideri 2005, p. 45. Su tensioni e limiti dell’adesione greca alla cultura dei dominatori romani cf. Woolf 1994. 3  Desideri 2005, p. 56. Per questa affermazione di superiorità in campo politico cf. Aristid. A Roma 41 « il fatto che avete superato … i Greci per sapienza politica e moderazione (to; … tou;" de; ”Ellhna" sofiva/ kai; swfrosuvnh/ parelqei`n), mi sembra che costituisca un argomento forte e perfetto per dimostrare il vostro valore, e un tema più glorioso di qualunque altro per il mio discorso » (con la n. di Fontanella 2007), 51, 90-91. 4  Norden 19574 a Aen. 6, 847-853, p. 336 ; cf. Aristid. A Roma 58 tevcnh ; 66 kravto" ajrch`" a{ma kai; megavlh" ge ãkatevceinà kai; oujk ãa[neuà filanqrwpiva" a[rcein ejgkratei`" « esercitare il potere su un  















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C’è però in Aristide – è un punto che vale la pena sottolineare qui – anche un altro atteggiamento, nuovo e diverso, che è in tensione con quello appena menzionato ; ed è l’indicazione delle affinità e l’aperta dichiarazione del debito di Roma verso la Grecia, in particolare verso Atene, sul terreno dei valori culturali, morali, ma anche etico-politici, che dell’Impero stanno alla base. Nell’encomio A Roma e nel successivo Panatenaico, con modulazioni diverse secondo la diversa destinazione, il sofista mette in evidenza aspetti paralleli delle due civiltà, come filanqrwpiva e cura del bene comune, 1 giungendo addirittura a segnalare singoli punti di contatto nell’esperienza politica e istituzionale delle due città (il governo esercitato da entrambe su uomini liberi, la costituzione mista sperimentata in senso diacronico o sincronico, l’Impero come vera e perfetta democrazia ecumenica). 2 È l’impianto concettuale che sorregge anche le Vite parallele di Plutarco, fatto di accettazione rispettosa del potere romano e di rivendicazione dell’identità greca sotto forma di atenocentrismo : una reinvenzione del passato di Atene che è insieme una ‘romanizzazione’ dell’immagine della polis, promossa a centro della Grecia come Roma è centro dell’Impero. 3 Cadute da una parte e dall’altra, sotto la spinta di interessi convergenti (di dominati e dominatori), le pregiudiziali alla piena legittimazione reciproca, il riconoscimento di un terreno comune e di un’eredità ideale può ormai essere completo. Il potere di Roma sui Greci, viene detto nell’A Roma e nel Panatenaico, è la cura protettiva e il governo moderato che si riserva a trofei`" e didavskaloi, a chi di Roma è stato educatore e maestro, e come tale è riconosciuto. 4 Per la sua volontà di potenza sorretta da una giustificazione morale, Atene appare in Elio Aristide una prefigurazione dell’Impero romano ; 5 e degli ideali ateniesi, per converso, Roma è vista come la realizzazione più vasta e compiuta. 6 È attraverso il dominio politico di Roma sul mondo che Atene può  

















impero talmente grande, governando con mano sicura ma non senza benevolenza » (cf. anche 57 ou[te filanqrwvpw" … ou[t∆ ejgkratw`" « non riuscendo a reggere le città con la benevolenza, e non essendo in grado di controllarle con la forza »). 1  Panath. 49 Lenz, Behr …o{sh/ th/` periousiva/ th`" filanqrwpiva" eij" a{panta" ejcrhvsanto kai; o{pw" eij" to; koino;n ejpoliteuvsanto, « …quale fu la portata della abbondante generosità che mostrarono verso tutti gli uomini e come indirizzarono la loro politica al bene comune dei Greci » ; cf. 2 ; cf. Quet 2000, p. 111 ; A Roma 57, 66, 98 con Fontanella 2007 ; vedi supra, n. 1 alle pp. 104-105. 2  Fontanella 2007, ai §§ 38 e 60 ; Desideri 2007, pp. 10-11 e n. 19 ; Quet 2000, pp. 111-112. 3  Cf. Lamberton 1997, pp. 152-158. L’atenocentrismo avrà una realizzazione storica, nel 131/132 d.C., con l’istituzione del Panhellenion da parte di Adriano. 4  A Roma 96 diatelei`te de; tw`n me;n ÔEllhvnwn w{sper trofevwn ejpimelovmenoi « E vi prendete stabilmente cura dei Greci come di quelli che vi hanno educato » (cf. Fontanella 2007, ad loc.) ; panath. 332 Lenz, Behr h{ te nu`n ajrch; gh`" te kai; qalavtth" … oujk ajnaivnetai ta;" ∆Aqhvna" mh; oujk ejn didaskavlwn kai; trofevwn mevrei kosmei`n, « l’attuale impero di terra e di mare… non disdegna di onorare Atene come maestra e nutrice ». 5  Importante, sulla ‘romanizzazione’ di Atene nel Panatenaico, Saïd 2006 ; cf. anche Quet 2000, p. 111 ; Oudot 2008, pp. 43 ss. 6  Cf. Fontanella 2007, ad Aristid. A Roma 63 ; Pernot 1997, pp. 37-38. Per le tracce di ecumenismo nella stessa cultura politica ateniese cf. Bearzot 1998.  





































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ora esercitare un dominio intellettuale sull’umanità intera – proprio i Romani hanno fornito una struttura statale capace di estendere la filanqrwpiva ateniese dall’ambito della polis alle dimensioni dell’ecumene, realizzando l’ideale della humanitas. 1 « In passato voi [sc. Ateniesi] offrivate salvezza ai Greci che cercavano rifugio presso di voi », dice Aristide nel Panatenaico (330 Lenz, Behr), « ora invece è a tutti gli uomini e a tutte le razze che date sostegno con il più splendido dei benefici, facendovi guide di tutta la cultura e di tutta la saggezza e purificando tutti gli uomini in ogni luogo » (provteron me;n ou\n tou;" katafeuv 









gonta" ejf∆ uJma`" tw`n ÔEllhvnwn dieswv/zete, nuni; d∆ ajtecnw`" pavnta" ajnqrwvpou" kai; pavnta gevnh th`/ kallivsth/ tw`n eujergesiw`n ajnevcete, hJgemovne" paideiva" kai; sofiva" aJpavsh" gignovmenoi kai; pavnta" aJpantacou` kaqaivronte"). 2  

Al termine di un lunga storia di confronto e di competizione tra Grecia e Roma, le due culture possono scambiarsi ruoli ideali e addirittura simboli mitici, nel riconoscimento di una comune missione civilizzatrice : « E ciò che aveva detto Omero, “la terra certo è comune a tutti” », osserva ancora Aristide nell’A Roma (101), « voi l’avete fatto diventare realtà, avendo misurato tutta l’ecumene … e avendo civilizzato tutto il mondo col vostro modo di vivere e coll’ordine che avete dato [kai; diaivth/ kai; tavxei pavnta hJmerwvsante"]. Così che personalmente ritengo che la vita prima di voi fosse quella che si pensa sia stata prima di Trittolemo, una vita dura e selvaggia e di poco distante dal modo di vivere che si conduce in montagna, e che la città di Atene abbia sì dato inizio alla vita civile che viviamo tuttora, ma che anche questa sia stata garantita e consolidata da voi, che siete stati i secondi, ma, come si dice, migliori dei primi » (ajll∆ a[rxai me;n tou` hJmevrou te kai; tou` nu`n [sc. bivou] th;n ∆Aqhnaivwn povlin, bebaiwqh`nai de; kai; tou`to uJf∆ uJmw`n deutevrwn, fasivn, ajmeinovnwn). 3 La nuova costruzione di un’Atene ideale nell’Impero di Roma trova un precursore in Stazio. 4 L’altare ateniese della Clementia e il Teseo romanizzato della Tebaide sono parte di una storia delle idee che, dall’integrazione fra cultura greca e latina, conduce alla costruzione della civiltà europea.  













1  Cf. Plin. nat. 3, 39, un passo notevole anche perché, entro una matrice retorica comune, riconverte motivi propri delle lodi di Atene e dell’Attica in funzione dell’encomio dell’Italia e di Roma : terra [sc. Italia] …quae … sparsa congregaret imperia ritusque molliret et tot populorum discordes ferasque linguas sermonis commercio contraheret ad conloquia et humanitatem homini daret breviterque una cunctarum gentium in toto orbe patria fieret ; cf. Braund 1997, p. 23. Anche Elio Aristide fa un uso intercambiabile della famosa lode isocratea di Atene (paneg. 50 kai; to; tw`n ÔEllhvnwn o[noma pepoivhken mhkevti tou` gevnou~, ajlla; th`~ dianoiva~ dokei`n ei\nai…, « e ha fatto sì che il nome di Greci non indichi più la razza, ma la cultura » : tr. di Ghirga, Romussi) : la riecheggia in panath. 322 Lenz, Behr e la riusa in funzione romana nell’A Roma (63 kai; to; ÔRwmai`on ei\nai ejpoihvsate ouj povlew", ajlla; gevnou" o]noma koinou` tino" « avete fatto sì che ‘romano’ non indicasse l’appartenenza a una sola città, ma fosse il nome di una specie di stirpe comune » ; cf. Fontanella 2007, ad loc.) 2  Si noti che la « purificazione » fa riferimento alla diffusione dei misteri eleusini, di cui si parla subito dopo ; cf. Quet 2000, pp. 114-115 ; sui misteri in età imperiale Clinton 1997. 3  Tr. di Fontanella 2007 ; cf. Quet 2000, pp. 123 ss., spec. p. 134. 4  Sulle successive rinascite del mito di Atene nella cultura europea cf. Reszler 2004.  



























iv. Teseo, la clementia e la punizione dei tiranni. Esemplarità e pessimismo nel finale th. polla; ga;r dravsa~ kala; e[qo~ tovd∆ eij~ ”Ellhna~ ejxedeixavmhn, ajei; kolasth;~ tw`n kakw`n kaqestavnai Eur. suppl. 339-341 her. Theseu… quoniamque semper criminis alieni arbiter amas nocentes… Sen. Her. f. 1335-1337

iv. 1. Interpretazione del finale, interpretazioni della Tebaide

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n personaggio unico sembra reggere su di sé il peso del poema : la storia recente degli studi sulla Tebaide poggia sulla oscillante fortuna critica di Teseo. Nel 1996 un importante articolo di Susanna Braund, in controtendenza rispetto a letture pessimistiche e sovversive del finale e dell’epos, ha rivalutato l’intervento di Teseo come l’estremo tentativo di Stazio di imporre una soluzione al conflitto tebano e una chiusura epica al racconto : eroe esterno nel ruolo di deus ex machina, nella visione della Braund il sovrano ateniese, romanizzato, chiude la guerra civile come un generale trionfatore e ristabilisce la pace affermando il valore imperiale romano della clemenza. Il dibattito sul poema staziano tendeva già da tempo a riprodurre, nella polarizzazione tra ottimisti e pessimisti, le vicende del dibattito critico sull’Eneide, con la contrapposizione tra augustei e anti-augustei, fra scuola europea e Scuola di Harvard (o ‘delle due voci’) ; schierandosi in modo provocatorio con gli ottimisti, la Braund ha invocato l’interpretazione virgiliana di Francis Cairns e la sua costruzione di Enea vittorioso come modello di Augusto. 1 In quegli anni gli studi staziani attraversavano una fase di profondo mutamento. La lettura della Tebaide in chiave stoica, come epica positiva e « della redenzione », « cronaca non del male ma del bene trionfante », affermata all’inizio degli anni ’70 dal saggio di Vessey, aveva ceduto il passo a visioni spesso fortemente negative del poema, talvolta orientate in senso politico e determinate a rintracciare, in quest’epos dominato da forze distruttive, una critica indiretta al potere imperiale o un velato, ma puntuale atto d’accusa  















1  Braund 1996, Cairns 1989.

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contro la casa flavia. 1 Il personaggio di Teseo, innalzato da Vessey a modello ideale di re clemente e giusto, veniva ora sottoposto a una severa revisione critica, fatto oggetto di aspre accuse e trasformato in eroe negativo, capace di gettare ombra sulla costruzione solo in apparenza rassicurante della chiusa. Il ruolo della clementia e di Teseo nel finale andava così assumendo, sempre di più, un’importanza centrale per l’interpretazione dell’intero poema. All’eroe pacificatore, combattente per una giusta causa e paradigma di valori imperiali, 2 si contrapponeva un eroe violento e smanioso di guerra, carico di un passato e di un futuro mitico imbarazzanti, costruito come ritratto in nero di Domiziano : era questo (per citare i nomi più influenti) il Teseo di Ahl e di Dominik. 3 Tra quei due estremi dello spettro critico, interpretazioni ‘pluralistiche’, sensibili alle tensioni irrisolte dell’epos staziano, riconoscevano lo sforzo di risoluzione della chiusa, ma mettevano in luce potenziali, disturbanti ambiguità di Teseo : così, per es., la rapida trattazione di Hardie, problematica e stimolante, nel saggio sui successori epici di Virgilio. 4 La giustificazione dell’impresa ateniese dichiarata in forma esplicita dal testo veniva ora lasciata in secondo piano, come insufficiente e inattendibile, o forse come fuori moda e inutilmente ingombrante ; accuse e sospetti facevano emergere modalità di costruzione del personaggio in grado di smentire quell’ottimismo di superficie : il bellicismo precipitoso dell’azione, le allusioni a episodi meno luminosi nella carriera dell’eroe, le similitudini ambigue impiegate per caratterizzarlo. Il periodo successivo all’intervento della Braund ha visto riproporsi quelle divisioni in forme nuove (e meno nuove), con un acuirsi del dissenso, ma con un progresso della discussione. Pessimisti e sovversivi ad oltranza hanno ribadito le loro tesi, nel frattempo ripetute da più parti e arricchite di argomenti, soprattutto in area anglo-americana : 5 l’interpretazione in chiave politica ha tentato, per es., di allineare Stazio alla critica radicale della clementia Caesaris espressa da Lucano, 6 mentre letture negative orientate in senso ‘privato’ hanno messo l’accento sulla componente del lamento che domina il racconto e sugli aspetti della sofferenza e del lutto femminile rappresentati nel poema. 7  























1  Vessey 1973, citazione da p. 316 ; in direzione opposta Ahl 1986 ; orientati ancora più decisamente in senso politico Dominik 1990 e 1994, McGuire 1990 e 1997. Letture negative anche in Hershkowitz 1995, 1998 ; Fantham 1997, 1999. L’interpretazione pessimista trova un precursore in Burck 1951-1953 (= 1966), 1979. 2  Vessey 1973, pp. 307-316, spec. pp. 314-316 (un cenno al parallelismo con Vespasiano e Domiziano a p. 315 n. 1, alla clementia di Domiziano nelle Silvae in n. 1 a p. 312). Valutazioni positive anche in Rieks 1967, pp. 220-225 ; Helzle 1996, pp. 158-159. 3  Ahl 1986, p. 2896 (etichettato come ‘pluralista’, Ahl inclina verso un’interpretazione assai negativa di Teseo) ; Dominik 1990, pp. 87-92 ; 1994, pp. 93-98 ; cf., inoltre, Davis 1994, p. 471. 4  Hardie 1993, pp. 46-48 (sulle strategie di closure nella Tebaide è tornato Hardie 1997, pp. 151-158, accentuando i contatti con tratti trionfali dell’Eneide). Cf., inoltre, Feeney 1991, pp. 362-363 ; tra i « pluralisti » la Braund classifica anche Henderson 1991 (cf. 1993). 5  Dominik 2005, p. 521. Gli argomenti di Ahl e di Dominik, già riecheggiati da Davis 1994, sono riproposti, per es., da Dietrich 1999, pp. 44-45. Cf., inoltre, Hershkowitz 1998, pp. 144-147 ; Lovatt 1999 (cf. n. 34 a p. 135). 6  Lovatt 1999. 7  Fantham 1999, pp. 226-232 ; Dietrich 1999 ; Pagán 2000 ; Markus 2003, 2004.  



























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Per contro, un nuovo slancio alla tendenza ottimista è stato impresso, con esito vario, soprattutto dalla scuola francese : insieme a quella di Teseo, si è presa in esame la celebrazione della clementia nel poema, ora interpretandola in senso non politico ma esclusivamente morale, come affermazione di humanitas, 1 ora accentuandone invece il valore ideologico-imperiale e mettendo in parallelo – o addirittura facendo coincidere tout court – esaltazione della clementia di Teseo nella Tebaide ed esaltazione della clementia di Domiziano nelle Silvae. 2 All’estremo di questo orientamento, Teseo viene accusato di essere un eroe fin troppo positivo, un principe troppo perfetto in un finale troppo edificante. 3 Nel 2004 il commento al libro dodicesimo di Karla Pollmann ha messo a disposizione uno strumento prezioso per lo studio del finale e un’introduzione equilibrata ai problemi principali, ma è sintomatico che il lavoro rifletta, in alcune oscillazioni di giudizio, i contrasti di un panorama critico inquieto. 4 Le recenti monografie di McNelis e di Ganiban, incentrate sul rapporto di Stazio con la tradizione callimachea e con l’Eneide, respingono una lettura della Tebaide in senso sovversivo e ostile alla casa flavia, ma propongono entrambe, con accenti diversi, una visione problematica del finale. McNelis riconosce nel trionfo di Teseo, modellato su quello di Augusto nell’ottavo libro dell’Eneide, una celebrazione indiretta della restaurazione flavia, modellatasi a sua volta su quella augustea, eppure mostra che, nella visione di Stazio, la pace fragile seguita alla guerra civile non è definitiva e non riscatta le sofferenze dei singoli ; Teseo appare ancora carico di ambiguità, alla luce della tradizione catulliana ; soprattutto, l’eroe viene dissociato dalla Clementia, che offrirebbe nel poema – essa sì – una soluzione e una speranza di pace, ma una soluzione di carattere privato, rivolta all’individuo e indipendente dallo Stato. 5 Più problematico ancora, il Teseo di Ganiban « è uno dei personaggi più disturbanti e trasgressivi dell’epos », preda di passioni e insofferente dei limiti come tutti i sovrani della Tebaide (da Edipo a Creonte), mosso da una clementia che, all’opposto dell’ideale senecano, ha in sé la componente irrazionale, e dunque condannabile, della misericordia : insomma, modello di buon re solo nei limiti della visione totalmente negativa della regalità offerta dalla Tebaide (nella sua revisione critica dell’Eneide). 6 Anche l’ultimo intervento, di Neil Coffee, va in cerca di corrispondenze e di opposizioni narrative che assimilerebbero Teseo a Marte e lo distanzierebbero dalla Clementia dell’altare : la sua difesa di una giusta causa sarebbe dettata non tanto, o non solo, da un senso di umanità, ma dall’occasione della guerra come piacere del sangue, una « motivazione egoistica » che comunicherebbe « una profonda diffidenza nei confronti del potere assoluto ». 7  



































1  Ripoll 1998, pp. 441-446, spec. pp. 445-446. 2  Delarue 2000, pp. 368-374. 3  Delarue 2000, p. 86 ; 372 ; 2006, p. 120. 4  Pollmann 2004 : su Teseo cf. pp. 37-43 e passim nel commento. Oscillazioni anche in Lefèvre 2008, pp. 901-904. 5  McNelis 2007, cap. 6. 6  Ganiban 2007, cap. 9 ; la citazione è da p. 229. 7  Coffee 2009a, citazioni da p. 228.  







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A questo punto del mio discorso, argomenti per una valutazione sono venuti da più direzioni e analisi convergenti. Io credo che in Teseo culmini il discorso politico della Tebaide e che la costruzione del personaggio e la struttura del poema rispondano allo stesso disegno. È questo protagonista estremo, quasi a sorpresa, l’eroe di un epos complesso, asimmetrico nella forma, problematico nella visione : un’opera difficile, risolta dalla partecipazione eccezionale di una figura più che eroica. La stessa sproporzione della struttura esalta questo ruolo d’eccezione : nella disarmonia compositiva c’è lo stile e il senso della Tebaide. Dalla lunga disperazione di una guerra inutile si esce per l’azione fulminea di una personalità straordinaria ; la maledizione di una dinastia è interrotta dall’avvento salvifico di un sovrano d’altro stampo, un capo che appare divino in un mondo in cui la fede nella provvidenza è entrata in crisi. L’impianto provvidenziale virgiliano si è rotto, ma la ricerca di un nuovo equilibrio crea un’architettura poetica innovativa e dà forma a una faticosa elaborazione ideologica : uno sforzo di ricostruzione che non cancella la coscienza di una crisi e che esprime una perdurante inquietudine, letteraria e politica. Letture talora pregiudiziali e unilaterali, che estendono al finale una visione totalmente senza speranza del poema o, al contrario, pretendono un restauro totale del finalismo epico in chiusa, 1 non rendono ragione di questa inquieta complessità. La fine del racconto è, insieme, uno scioglimento epico positivo e l’ultimo atto di una tragedia. Non è un caso che la via d’uscita dalla tragedia tebana (la tragedia delle Fenicie, cui il racconto di Stazio si è fin qui sovrapposto) fosse appunto materia di un’altra tragedia, essenziale a comprendere quest’ultimo tratto del poema : le Supplici di Euripide. Esemplarità e pessimismo convivono in questo finale ; il contrasto con ciò che precede non potrebbe essere più netto, la continuità non potrebbe essere più profonda. A una spedizione maledetta si contrappone una guerra giusta, a un tiranno crudele un sovrano clemente : ma armi e potere, « re e battaglie » – reges et proelia –, sono ormai materia compromessa. L’incarnazione ideale del potere assoluto, in chiusa, non fa dimenticare la degenerazione del potere che è argomento del poema, mentre neppure una guerra legittima, risolta in un tempo minimo, può restituire all’epica una ritrovata integrità, dopo tanti libri di impia bella. Vittoria e lutto, trionfo e lamento nel finale quasi non si distinguono ; persino il giusto e l’ingiusto rischiano di confondersi : è la ten 























1  Ripoll 1998a vede un contrasto fra la tragedia dei primi undici libri e la prospettiva epicoprovvidenzialistica del dodicesimo, che si allineerebbe al presunto ottimismo di Virgilio. Il concetto è più volte ribadito in Ripoll 1998, per es. pp. 437, 439 : « …le changement radical de climat entre la dernière partie de la Thébaïde et tout ce qui précède : l’abandon de l’ambiance tragique et du pessimisme psychologique sénéco-lucanien consacre le retour à un univers épique où les valeurs morales ne sont plus problématiques » ; 444 : « C’est en somme le retour de l’univers épique purifié et dépouillé de l’ambiguïté morale qui entachait la guerre thébano-argienne, contaminée par la tragédie… Clémentia liquide la tragédie, et Thésée ramène l’épopée ».  















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denza all’indistinzione dei confini, paradossale e perturbante, che molti critici osservano. Eppure, io credo, un confine tenace resiste e, nell’oscurità della tragedia, distingue la ragione dal torto : la Tebaide invita a individuare quella linea di confine e, al lettore moderno, chiede di mobilitare ogni strumento di indagine – letterario, culturale, ideologico – per riconoscere nel disegno narrativo le intenzioni del testo. Vorrei ora analizzare in dettaglio qualche aspetto del ruolo di Teseo nel finale, cercando di ricostruire il rapporto organico che lo lega alla clementia e che da più parti viene messo in discussione. Occorre per questo un’operazione complessa : bisogna tornare a considerare i presupposti culturali e i precedenti poetici su cui Stazio lavora, i procedimenti artistici della sua rielaborazione e la proposta ideologica che da questa costruzione viene fatta emergere.  



iv. 2. Una tragedia dimenticata. Amnesie e anamnesi della critica Un’assenza si nota, anche negli studi più recenti. La critica staziana tende a sottovalutare l’importanza di presupposti culturali e letterari greci nell’elaborazione del poema, in particolare il modello delle Supplici di Euripide ; 1 così, non solo oscura un elemento cruciale per l’analisi del testo, ma non si accorge di ripercorrere linee già tracciate dalla critica euripidea, di riproporne problemi e divisioni. Si continua spesso a parlare di Teseo e della sua relazione con la clementia come se questo tema, con altri termini e modalità diverse, non fosse già stato messo in forma nel dramma di Euripide ; si discute, qualche volta, di questo Teseo come se venisse dal nulla, o tutt’al più dal carme 64 di Catullo, e non dalla ricca tradizione mitico-letteraria e ideologico-politica raccolta intorno all’eroe nazionale ateniese ; si distingue la sua funzione da quella dell’ara Clementiae come se la figura del re mitico non fosse stabilmente chiamata a rappresentare, al più alto grado, l’ideale che rende grande e ammirata nei secoli la sua città, Atene : appunto la filanqrwpiva, il soccorso dei supplici, la difesa dei deboli e degli oppressi, che non esclude l’uso della forza e, anzi, prevede l’intervento in armi da parte di una potenza imperialistica – il precedente diretto, insomma, di quel più vasto concetto di clementia che è qui definito e rappresentato. 2  











1  Vedi Introd., § 3. Cf., dopo la ricognizione di Reussner 1921, il giudizio sommario di Vessey 1973, p. 308 ; un cenno promettente, ma senza seguito, in Braund 1996, p. 9 e n. 20 ; così Delarue 2000, p. 161 ; non più di una menzione in McNelis 2007, p. 160, e in Ganiban 2007, p. 223. Singoli contatti con le Supplici sono registrati nel commento di Pollmann 2004. Sulla connotazione antibellica Micozzi 2007, p. 11. 2  Cf. cap. iii. Un manifesto del legame fra l’ideale etico rappresentato da Atene e la capacità di Teseo di realizzarlo è nelle parole di Adrasto in Eur. suppl. 188-191 povli~ de; sh; É movnh duvnait∆ a[n tovnd∆ uJposth`nai povnon: É tav t∆ oijktra; ga;r devdorke kai; neanivan É e[cei se poimevn∆ ejsqlovn « Solo la tua città è in grado di affrontare un tale compito. Atene le sventure le vede e ha in te un capo giovane e capace ». Cf. l’autodefinizione di Teseo in Eur. suppl. 339-341 …ajei; kolasth;~ tw`n kakw`n kaqestavnai « …punire i malvagi, sempre » con la definizione degli Ateniesi in Gorg. fr. 6 D-K, 18-19 e 22 qeravponte~ me;n tw`n ajdiv 













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Un’altra tendenza è spesso operante : si trascura di esaminare il testo di Stazio nella peculiarità dei suoi intenti artistici, delle sue forme e delle sue strategie comunicative, mentre si applicano, in modo piuttosto indiscriminato, metodi di analisi testuale miranti a una decostruzione del personaggio, con atteggiamenti talvolta scopertamente pregiudiziali. Si tende, cioè, a sovrastimare aspetti problematici di Teseo che sarebbero suggeriti (sotto la superficie testuale) da allusioni e risvolti ambigui, mentre si sottovaluta l’esplicitezza della voce epica che ne accompagna e giustifica l’agire, e si scredita l’impostazione fin troppo scopertamente didascalica della narrazione. È un modo di procedere noto, soprattutto, alla critica virgiliana : si svaluta ciò che nel racconto è dichiarato, esibito, programmaticamente commentato, e si lavora su tratti marginali, pieghe nascoste, sottintesi o ambiguità, alla ricerca di ‘altre voci’, polemiche e sovversive, in contrasto con la voce epica ‘ufficiale’. Un procedimento che risulta, per il testo di Stazio, forse ancora più rischioso che per quello di Virgilio : tale è, nella Tebaide, l’impostazione palesemente esemplare del racconto, l’invadenza della voce autoriale a commento della vicenda, la pervasività dell’atteggiamento sentenzioso e didascalico. Un testo pur denso di implicazioni problematiche, ricco di tensioni ossimoriche, sfaccettato e complesso, permeato da un pessimismo di fondo e da una visione intimamente contrastata, si regge tuttavia su un’impalcatura principale, narrativa e ideologica, evidente ed esibita : un racconto paradigmatico, costruito a contrasto, che proprio in chiusa ritaglia la figura del buon re come rovescio del tiranno e oppone l’uno all’altro come modelli antitetici. Ingigantire le ombre di Teseo, che il testo di Stazio non nasconde, ma lascia sullo sfondo e segnala alla memoria del lettore, è un’operazione che inverte i rapporti di forza e la gerarchia dei significati istituita dalla costruzione poetica. Così come ridurre, fin quasi ad annullarle, le differenze fra Teseo e Creonte, o fra Teseo ed Edipo, vuol dire smontare un sistema di opposizioni e fare del testo un tutto indistinto (una notte in cui tutti i sovrani sono neri), privarlo insomma delle distinzioni essenziali alla sua leggibilità e capacità di significazione. 1 Anche l’osservazione dello stile di disegno, del ritmo, del taglio narrativo scelto dall’autore per la conclusione del poema sembra talvolta mancare. Si accusa Teseo di rapidità precipitosa e di eccessiva inclinazione alla guerra,  









kw~ dustucouvntwn, kolastai; de; tw`n ajdivkw~ eujtucouvntwn… uJbristai; eij~ tou;~ uJbristav~, kovsmioi eij~ tou;~ kosmivou~ « pronti ad assistere gli ingiustamente sfortunati, a punire gli ingiustamente fortu 

nati … tracotanti coi tracotanti, moderati coi moderati ». Cf. Mills 1997, p. 78. 1  In questa direzione si muove ora, giudicando Teseo in base alla teoria stoica delle passioni, anche Ganiban 2007, per es. p. 217 : « Statius’ Theseus is just as much a part of the epic’s critique of Virgilian kingship as is the presentation of Oedipus and his sons, even though Theseus’ actions achieve a positive result » ; 219 : « Theseus’ clementia (i.e. misericordia) is just as much a part of the problematic political structure of the Thebaid’s presentation of kingship as is crudelitas » ; 222 : « The words permotus and concitus express violent emotional upheaval – exactly what, on a Stoic reading, should not inform Theseus’ decision to punish Creon, for he becomes the type of threatening and (potentially) irrational monarch from whom Clementia offers suppliants protection ». Sul rapporto tra clementia e misericordia cf. cap. iii, § 6.  























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ma la prontezza all’azione è essenziale alla rapidità della chiusa e il disegno schematico fa risaltare il contrasto col tiranno, che è lo scopo del racconto. L’ultimo tempo del poema è un ‘presto’, che porta con passo incalzante, liberatorio, il lettore alla fine : e deve suscitare in chi legge – C. S. Lewis lo vide bene – l’impressione di svegliarsi da un incubo. 1 Una lettura inevitabilmente non trionfalistica del finale, nella sua complessità, si impone a mio parere non tanto per le presunte ombre o per le possibili ambiguità di Teseo, quanto per il pessimismo che il poema ha espresso e che la chiusa contrasta senza riuscire a dissipare : una consapevolezza tragica che perdura nella sequenza conclusiva, che si coglie in alcuni tratti della narrazione e che emerge dalla struttura complessiva dell’epos. La proposta ideologica di Stazio si fonda, in buona parte, sul disegno di Teseo come modello di sovrano, ma questa costruzione ideale nasce da una devastazione e fa fronte al peso schiacciante del resto del poema. L’esemplarità del finale non esclude il pessimismo di fondo – proprio come nel dramma euripideo che qui Stazio riscrive, le Supplici. Sull’importanza della tragedia di Euripide per la costruzione di Stazio ci siamo già soffermati. 2 La distanza è enorme, ma il rapporto è vitale e investe la geometria profonda dei significati : il conflitto di ideali etico-politici fra Tebe e Atene, il dramma della guerra come strumento di giustizia, la vittoria che si mescola al lutto. La scelta della variante euripidea del mito mette ancora una volta al centro di questo poema guerresco la guerra come problema : dopo il tabù della lotta fratricida, l’istituzione del bellum iustum, in un contrasto netto e in una continuità inquietante. Facendo seguire senza interruzione la materia delle Supplici a quella delle Fenicie, Stazio crea effetti nuovi e disturbanti, come la disparità tra lo slancio bellico degli Ateniesi e la fiacchezza dei Tebani, forzati dal tiranno a riprendere le armi appena abbandonate ; viene così approfondita, coi mezzi del racconto epico, la riflessione problematica della tragedia sul perpetuarsi della guerra. 3 Questa compresenza tragica di aspetti è essenziale, nel finale di un’epica che sulla tragedia, euripidea e senecana soprattutto, è in larga parte modellata. È sintomatico che, nell’affrontare questa complessità, la critica staziana riproduca inconsapevolmente discussioni e divisioni della critica euripidea. La spedizione ateniese è giustificata dal testo, ma in lettori e critici sazi di guerra (e di imperialismi) si fa strada l’idea che Stazio, rappresentando il dramma di uno scontro rinnovato, voglia indirettamente screditare alla radice la decisione del ricorso alle armi. 4  

















1  Lewis 1936, p. 55 (citato da Vessey 1973, n. 1 a p. 308). Cf. invece Ganiban 2007, p. 223 sulla frettolosità di Teseo. 2  Cf. Introd., § 3 ; cap. iii, § 1. 3  Vedi infra, § 10. 4  Cf. Dominik 1990, p. 93 : « In the end the concentration in the narrative upon the negative consequences of a seemingly just war … serves to undermine considerably not only the ideal of such a war but also the surface protrayal of Theseus as a truly just king ». Su Teseo e il iustum bellum, secondo la definizione del De officiis, vedi invece Ripoll 1998, pp. 430-432.  







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Per ribattere, si potrebbero usare le parole con cui Guido Paduano, in uno studio sulle Supplici non recente ma ancora importante, reagiva a interpretazioni negative e ironiche della tragedia e del suo protagonista : 1 « Teseo, aiutando gli Argivi … compie … un’opera di giustizia fondata su un imperativo etico universale e immediato… Che poi per la difesa di questo o di simili principi, Euripide ritenga giusto e necessario il pur rovinoso mezzo bellico, mi pare altrettanto indubbio … sono incontrovertibili ugualmente l’ingiustizia dei Tebani e il dovere di Teseo di opporsi ad essa in nome dell’etica ellenica … la guerra si impone come un portato necessario dei fatti e degli antefatti… ». In contrasto con alcuni critici demolitori, è appunto il nodo tragico della guerra in funzione di giustizia che viene qui sottolineato : « Che l’opera di giustizia debba essere dolorosa e spesso inquietamente incerta, non è una novità da spiegare, è uno dei temi fondamentali del teatro antico. Si può vedervi una sorta di pensosa e tremenda ironia tragica, se si vuole, ma non certo quella satira di Atene e della sua missione umana e civile che vorrebbero vedervi, particolarizzando e banalizzando il motivo, il Blaickock e il Greenwood, oltre il già citato Fitton ». Ciò che vale per il nodo della guerra vale in certa misura, come vedremo, per il giudizio sul personaggio di Teseo : « si può lungamente discutere sull’eticità personale di Teseo, non però sul fatto che l’azione da lui compiuta sia indiscutibilmente etica, che la giustizia combatta al suo fianco… ». Due opere distanti, dunque, appaiono similmente divise tra l’esaltazione di un ideale politico e una concezione profondamente pessimistica. Si ripropone in forme nuove, nella Tebaide, la tensione delle Supplici fra patriottismo ateniese e discorso antibellicista, tra nostalgia dell’ideale pericleo e messaggio pacifista sull’orrore di ogni guerra, « anche quella che gli Ateniesi combattevano contro gli Spartani » : una tensione che Di Benedetto ha ben illustrato. 2 L’equilibrio difficile, insomma, di un dramma concluso da una vittoria, ma « dominato dal principio alla fine dalla rappresentazione del lutto ». 3 Definite dalla critica antica « Encomio degli Ateniesi », le Supplici sono, almeno in parte, una tragedia patriottica : « Il re degli Ateniesi … viene presentato nell’atto di difendere una giusta norma panellenica, sua madre viene raffigurata come piena di comprensione per le infelici donne venute da Argo, la guerra che l’esercito ateniese fa ai Tebani si conclude con la sua vittoria, e più volte nella tragedia si fanno le lodi di Atene, come città libera e pronta a soccorrere i deboli e gli infelici » ; tuttavia, è difficile non riconoscere che « un giudizio del genere coglie solo la superficie della tragedia », che « l’accento batte altrove, e proprio sulla rappresentazione della crisi dei valori ‘patriottici’ ». 4 È questa discrepanza fra idealizzazione e pessismismo, in un racconto mitico denso di riflessione politica, che troviamo riproposta nell’epos staziano.  























































1  Paduano 1966, pp. 199-200 e 203 ss. 2  Di Benedetto 1971, p. 163. La tragedia, rappresentata probabilmente nel 423 o 422 a.C., presuppone la sconfitta ateniese a Delio nel 424 a.C. 3  Ivi, pp. 156-157 ; importanti tutte le pp. 154-192. 4  Ivi, p. 163.  

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iv. 3. Costruzione (e decostruzione) di un personaggio. Teseo fra Grecia e Roma Teseo e Atene sono, per una fase cruciale della cultura antica, l’uno il riflesso dell’altra. L’identificazione tra la città e il suo capo, rappresentata nella letteratura attica del V secolo soprattutto sulla scena tragica, è un dato di fatto per Isocrate, che nell’Elena riconduce al governo di Teseo la « mitezza » (pra/ovth~) caratteristica di Atene e ritrae l’eroe nei termini della propria teoria politica, facendo coincidere il suo profilo con l’ideale del buon re raccomandato nell’A Nicocle. 1 Ritagliare la figura mitica a misura di un ideale etico-politico non è però un’operazione neutra. Proprio la storia del ratto di Elena potrebbe essere d’ostacolo all’idealizzazione dell’eroe, se il retore non ricorresse a un’affermazione apodittica : Teseo possedeva la virtù completa e perfetta (Hel. 21 euJrhvsomen … tou`ton de; movnon … pantelh` th;n ajreth;n kthsavmenon). È così che l’encomio isocrateo di Elena può fondarsi sull’elogio incondizionato del suo primo rapitore (§§ 23-37). Plasmare il mito in forme sempre nuove è un esercizio connaturato alla letteratura ; se poi un personaggio mitico si presta a usi politici o ideologici, cambiargli i connotati per adattarlo a esigenze mutevoli diventa un’ovvia necessità. Che le figure del mito vivano una perpetua metamorfosi non sorprende, né dovrebbe stupire che in una storia mitica, quanto più è complessa, convivano aspetti difficilmente conciliabili : è il continuo fare e disfare degli autori che seleziona i materiali e li compone in sistemi diversi. Tratti forti permangono, ma ogni nuovo disegno ha un carattere a sé : pretendere che la reputazione da playboy del Teseo arcaico ed ellenistico (o neoterico ed elegiaco) comprometta la costruzione di Teseo come simbolo politico e immagine di Atene sarebbe come dire che l’esistenza di un Ercole comico preclude la rappresentazione di Ercole nel ruolo di eroe stoico. Gli studi staziani non riconoscono talvolta alla Tebaide un diritto fondamentale in poesia : la facoltà di attivare nel lettore un processo di memoria selettiva, che tenga lontane interferenze disturbanti prodotte dalla conoscenza di modelli alternativi ; un processo che Richard Hunter ha descritto per l’Elena dell’Idillio 18 di Teocrito. È un procedimento artificioso, di cui poeta e pubblico sono consapevoli (« Not, of course, that Theocritus imagines that we will forget this other Helen ; the obvious ironies of the poem keep her insistently before us »). 2 ������������������������������������������������������� Stazio non ci chiede di ignorare la turbolenta esistenza letteraria di Teseo – tutt’altro –, ma rivendica il diritto di riscriverne a sua volta un capitolo nuovo.  

























1  Isocr. Hel. 37 ou{tw ga;r nomivmw~ kai; kalw`~ diw/vkei th;n povlin w{st∆ e[ti kai; nu`n i[cno~ th`~ ejkeivnou pra/ovthto~ ejn toi`~ h[qesin hJmw`n katalelei`fqai « infatti governò la città in modo così giusto e nobile  

che ancor oggi restano nei nostri costumi tracce della sua mitezza » (tr. di M. Marzi) ; cf. Zajonz 2002, ad loc. e introd., p. 28 e n. 41 ; cf. Hel. 31-37 con ad Nic. (or. 2), 11 ; 15 ; 21 ; 24. 2  Hunter 1996, p. 166.  











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Su Teseo in Grecia e a Roma manca un lavoro complessivo ; se il ruolo centrale dell’eroe ateniese nella cultura greca è stato oggetto di numerosi studi negli ultimi anni, la sua fortuna relativamente modesta nella letteratura e nella cultura latina è rimasta piuttosto in ombra e meriterebbe un capitolo a parte. 1 In mancanza di una visione d’insieme delle vicende del personaggio, chi esamina il Teseo della Tebaide spesso non va oltre il « perfido Teseo » del carme 64 di Catullo, o si limita a segnalare episodi meno nobili nel mito dell’eroe che Stazio implica allusivamente nel racconto. Questa restrizione della visuale produce storture evidenti nella valutazione del personaggio ; mentre si sopravvaluta il peso della tradizione catulliana – quasi che non fosse più possibile vedere Teseo con occhi diversi da quelli di Arianna nel famoso epillio –, si chiudono gli occhi davanti a rappresentazioni diverse, soprattutto greche, che hanno contato di più nella costruzione staziana dell’eroe. La critica sovversiva e pessimistica fa leva su allusioni al passato e al futuro mitico di Teseo che ne evocherebbero la carriera di libertino e sfasciafamiglie, seduttore crudele, figlio e padre funesto : un altro Edipo, che causa la morte di chi lo ha generato e di chi è stato generato da lui. Nella biografia di un eroe dalla vita intensa e dalla secolare esistenza letteraria è inevitabile che non tutti i capitoli siano allo stesso livello : anche un autore che voglia trarne una selezione brillante rischia di vedersi rinfacciare dai lettori l’opacità delle parti tralasciate o messe in ombra, magari con tentativi indebiti di trovarne traccia nel suo stesso testo, forzandone le intenzioni. È interessante che posizioni simili a quelle di alcuni studiosi di Stazio si ripropongano, in modo non del tutto indipendente, nella critica sul Teseida di Boccaccio e sul Knight’s Tale di Chaucer, dove è disegnata, anche sul modello staziano, una figura eroica non priva di trascorsi mitici ingombranti. 2 Nella carriera di Teseo, si sa, non mancano punti oscuri ; Stazio li ha inclusi nel testo, con l’enciclopedismo che gli è proprio, esplicitamente o per via allusiva – ma va riconosciuto che i tratti problematici sono qui marginalizzati. Lasciamo da parte improbabili interpretazioni ostili di episodi mitici ideologicamente connotati, come l’Amazzonomachia, che sono per la cultura antica simbolo costante, ancora attivo a Roma, di vittoria della civiltà contro la barbarie. 3 Lo stupore di fronte alle donne irregolari, alla loro fierezza, alle spoglie esotiche macchiate del loro sangue (12, 523-539) è un tratto spettacolare che  



















1  Tra i molti studi sull’eroe in Grecia ricordo Brommer 1982 ; Neils 1987 ; Bertelli, Gianotti 1987 ; Walker 1995 ; Calame 1996 ; Mills 1997 ; Aloni 2003. Cf. anche la sintesi di Ampolo, Manfredini 1988, pp. xxiii-xxxii. 2  Hagedorn 2004, cap. 3, pp. 75-101 (si veda la citazione di Ahl 1986 nella n. 2 a p. 76). Sul Teseida e i modelli classici cf. Anderson 1988 ; sul rapporto tra il Racconto del Cavaliere e il Teseida, Boitani 1983 e 2001. 3  Cf. Braund 1996, p. 13 e n. 33. Per la spedizione pontica sul frontone del tempio di Apollo Sosiano a Roma cf. La Rocca 1985. Sulle varianti mitiche dell’Amazzonomachia (limc, i, 1, 586653), come impresa di Eracle e Teseo oppure del solo Teseo, come spedizione pontica o invasione dell’Attica, cf. Ampolo, Manfredini 1988, a Plut. Thes. 26, 1-4 ; Pollmann 2004, a Theb. 12, 520.  















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non mette in discussione i valori del trionfo. Al narratore basta l’evocazione anacronistica del Partenone, attraverso lo sguardo delle vergini guerriere che cercano il tempio della dea parqevno~ (innuptae quaerunt delubra Minervae, 12, 531), per commemorare la vittoria ateniese sulle Amazzoni celebrata nelle metope del lato ovest o sullo scudo dell’Atena Parthenos fidiaca. 1 Anche i tentativi di enfatizzare le affinità fra Teseo e Edipo appaiono forzati : nel testo di Stazio persino la forma dell’espressione tende a scagionare l’eroe ateniese, nel verso che evoca il volo di Egeo dal capo Sunio e lo fa apparire, con effetto di illusione sintattica, frutto dell’inganno di una nave cretese – Krh`te~ ajei; yeu`stai, « Cretesi sempre mentitori » – : 12, 624-626 linquitur Eois longe speculabile proris / Sunion, unde vagi casurum in nomina ponti / Cresia decepit falso ratis Aegea velo ; 2 mentre la gravidanza che trattiene Ippolita dal partecipare alla spedizione (12, 636-637 retinet iam certa tumentis / spes uteri) sembra davvero troppo poco per far pesare tutta intera su questo contesto la futura tragedia della maledizione di Ippolito da parte del padre. 3 Quella cretese è certo l’impresa di Teseo più presente ai lettori di poesia romana. Il pallore catulliano di Arianna occupa in Stazio un verso defilato, letteralmente al margine, nella descrizione dello scudo su cui campeggia la vittoria sul Minotauro,  















veteres reminiscitur actus ipse tuens sociumque gregem metuendaque quondam limina et absumpto pallentem Cnosida filo (Theb. 12, 674-676)

(un richiamo a Cat. 64, 100-102 quanto saepe magis fulgore expalluit auri, / cum saevum cupiens contra contendere monstrum / aut mortem appeteret Theseus aut praemia laudis !) : se è un segnale alla memoria del lettore – che certo ricorda il destino della relicta – è un segnale della selezione che il poeta epico ha operato. Selezione e orientamento dei tratti : l’ekphrasis epico-eroica di Stazio rimette al centro della rappresentazione l’impresa contro il Minotauro (forse la più  





1  Cf. limc, i, 1, p. 642. 2  Stazio sembra correggere Lucano, che associava l’inganno delle vele alle navi « ateniesi » : Lucan. 2, 610-612 urbs est Dictaeis olim possessa colonis, / quos Creta profugos vexere per aequora puppes / Cecropiae victum mentitis Thesea velis. Sul dolore sincero di Teseo per la morte del padre, causata dalla sua dimenticanza, non lascia dubbi l’uso dell’exemplum per Claudio Etrusco in silv. 3, 3, 176180 ; là, tuttavia, falsis deceperat … velis sottolinea l’oggettiva responsabilità dell’eroe, così come il tràdito periuria, che però Courtney 19922, Laguna 1992, Shackleton Bailey 2003 e Liberman 2010 emendano con Polster in per Sunia … litora (179-180 haud aliter gemuit per Sunia Theseus / litora, qui [quem Shackl. Bail.] falsis deceperat egea velis ; per mantenere periuria è necessario correggere litora in litore, come già nei recentiores). 3  Ciò non esclude che si creino contatti interessanti (ma, direi, privi di un potenziale destabilizzante) tra le due figure : il ravvedimento di Edipo sui cadaveri dei figli in 11, 605-626 ricorda in qualche tratto la disperazione di Teseo per la morte di Ippolito, innocente, nella Fedra di Seneca ; l’intenzione di appiattire l’uno sull’altro i due personaggi mi sembra tuttavia estranea alla costruzione staziana. Sacerdoti 2008 vede un effetto sinistro nelle coincidenze tra il catalogo staziano delle truppe attiche e la geografia evocata da Ippolito in apertura della Phaedra.  













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gloriosa di Teseo, prima che l’abbandono di Arianna la offuscasse) e relega ai margini, come un’appendice appena accennata, ciò che in Catullo costituiva il cuore dell’ekphrasis e dell’epillio. 1 Il verbo di memoria, reminiscitur, sollecita una memoria poetica potenzialmente imbarazzante, ma sottolinea, con un gesto provocatorio, la novità del contesto epico staziano e suona come una correzione dell’accusa di smemoratezza etica, immemor, che grava su Teseo in Catullo 2 – o come una replica al memini dell’Arianna ovidiana, segnale di un’autocoscienza letteraria antagonista. 3 L’episodio di Nasso è tra i più contestati del fascicolo su Teseo ; menzionato in forma neutra altrove nella Tebaide (7, 686 Theseaque Naxos), viene qui semplicemente taciuto. È questa una strategia collaudata nella letteratura antica. A rivelarlo indirettamente è l’Arianna della decima Eroide, dotata da Ovidio di voce elegiaca e di competenza letteraria, quando invita Teseo, una volta tornato in patria e acclamato dagli Ateniesi, a fornire un resoconto integrale dell’impresa cretese (Ov. her. 10, 125-130 ibis Cecropios portus patriaque receptus, / cum steteris turbae celsus in ore tuae / et bene narraris letum taurique virique / sectaque per dubias saxea tecta vias, / me quoque narrato sola tellure relictam ! / non ego sum titulis subripienda tuis). « Quando … racconterai l’impresa gloriosa della morte dell’uomo-toro … racconta anche di me, abbandonata su una spiaggia solitaria : non devo esser sottratta ai tuoi titoli di gloria » (tr. di G. Rosati). Nel curriculum dell’eroe l’abbandono di Arianna è un incidente, spesso espunto o emendato dalla tradizione a lui più amica. L’affondo polemico dell’eroina segnala ai lettori l’esistenza di versioni espurgate della storia cretese, che ne omettono il seguito inglorioso in quel di Nasso, o ne costruiscono varianti favorevoli a Teseo. 4 È il procedimento testimoniato anche da un’altra relicta : Fillide, che nella seconda Eroide accusa Demofoonte, figlio dell’eroe, di aver preso a modello, fra tante glorie paterne, l’unica impresa di cui Teseo deve discolparsi – proprio quella che non compare nella serie dei suoi tituli. 5 Censure o giustificazioni : sono gli strumenti con cui la tradizione, soprattutto attica, manipola da secoli il mito di Teseo e in particolare l’impresa cretese. Per bocca delle eroine, Ovidio commenta la vicenda letteraria dell’eroe. Spetta ora alle donne, vittime dell’inganno, smascherare le mistificazioni di una carriera da Don Giovanni – i tentativi di occultare, emendare o riscattare  























1  Dà un peso eccessivo al contatto con Catullo, come adesione alla « tradizione callimachea », McNelis 2007, pp. 172-174 (più sfumato in chiusa : « Though we need not privilege the vision of Theseus contained in Catullus 64… ») ; cf. infra. 2  Cat. 64, 58 ; 123 ; 135 ; 248. Cf. Traina 1972 (= 19862, 154). 3  Vedi Conte 19852, pp. 38-39 su Ov. fast. 3, 473. 4  Ieranò 2007, pp. 110-119. 5  Ov. her. 2, 65-78 sum decepta tuis et amans et femina verbis : / di faciant, laudis summa sit ista tuae ! / inter et Aegidas media statuaris in urbe ; / magnificus titulis stet pater ante suis. / cum fuerit Sciron lectus torvusque Procrustes / et Sinis et tauri mixtaque forma viri / et domitae bello Thebae fusique bimembres / et pulsata nigri regia caeca dei, / hoc tua post illos titulo signetur imago : / hic est, cuius amans hospita capta dolo est. / de tanta rerum turba factisque parentis / sedit in ingenio Cressa relicta tuo. / quod solum excusat, solum miraris in illo : / heredem patriae, perfide, fraudis agis.  



























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il catalogo di malefatte sessuali dell’eroe, di cui Plutarco dà conto nella Vita di Teseo. 1 Dal rapimento di Elena (« l’accusa più grave ») all’abbandono di Arianna (« né bello né decoroso »), passando per molti altri episodi (che « non hanno né inizi dignitosi, né fini felici »), i misfatti del seduttore seriale sono da sempre oggetto di interventi riparatori della critica. Una storia di censure che lascia traccia nella storia dei testi, come indica la notizia sull’espunzione del verso esiodeo che attribuiva l’abbandono di Arianna a un nuovo amore di Teseo : « “Infatti lo tormentava terribile amore per Egle, figlia di Panopeo”. Secondo Erea di Megara, Pisistrato tolse questo verso dalle opere di Esiodo, come, per compiacere gli Ateniesi, aveva inserito il seguente nella Nekyia di Omero : “Teseo e Piritoo, figli gloriosi degli dei” » (Plut. Thes. 20, 1-2). 2 Il succedersi delle interpretazioni segue l’avvicendarsi delle convenienze politiche e delle tendenze letterarie : manipolazioni diverse del racconto su Arianna sono messe al servizio di un uso politico del mito o di scelte di poetica. La rappresentazione di un Teseo traditore, attestata dall’epica arcaica e destinata ad ampia notorietà, 3 viene smentita dalla tradizione attica, che, fin dalla ceramica degli inizi del v sec., mette in primo piano l’intervento divino nella storia. È forse in omaggio alla politica di Cimone, e alla sua celebrazione propagandistica di Teseo, che Ferecide attesta un’Arianna abbandonata per ordine di Atena, anziché per volontà dell’eroe (FGrH 3 F148 = 18 Dolcetti). 4 Una visione opposta è funzionale alla caratterizzazione antieroica, o alla focalizzazione femminile, in una parte della tradizione ellenistico-neoterica. La versione dell’Arianna di Catullo – l’oblio colpevole di Teseo – concorda con quella accennata da Simeta nel secondo Idillio di Teocrito e, soprattutto, con quella autoriale di Apollonio Rodio, che nell’ekphrasis sul manto di Ipsipile, nel quarto libro delle Argonautiche, integra il resoconto parziale, strumentale e ominoso dell’esempio di Arianna – privato dell’abbandono – proposto da Giasone a Medea nel terzo libro. 5 Anche quella di Stazio è una versione parziale del mito, che risponde a una scelta poetica e politica. L’artefice dello scudo ha assecondato l’ambizione dell’eroe e il narratore epico si associa, preparando così la candidatura a simbolo politico di un protagonista ritrovato dell’epos. Questo è un Teseo nel cui passato c’è l’Arianna del labirinto, non quella dell’isola deserta ; l’eroina  

































1  Plut. Thes. 20, 1-2 (cf. 3-9) ; 29, 1-2 ; 31, 1 ; compar. Thes. Rom. 6, 1-2 e 5-6. 2  Tr. di C. Ampolo in Ampolo, Manfredini 1988. 3  Philostr. imag. 1, 15, 1 : « Che Teseo si sia comportato ingiustamente con Arianna – anche se alcuni dicono che non si comportò ingiustamente ma che fosse costretto da Dioniso – quando l’ha abbandonata addormentata nell’isola di Dia, l’avrai certo sentito raccontare dalla tua balia » (tr. di Ieranò 2007, p. 114). 4  Cf. Mills 1997, pp. 18 ; 39 ; Ieranò 2007, p. 113 ; su Ferecide e Cimone cf. Dolcetti 2004, pp. 9-16 (sulle diverse versioni della storia di Arianna a Nasso : n. 34 a p. 85). Per il gioco sulle ambiguità del mito in Caritone cf. Smith 2007, pp. 99-104. 5  Cf. Theocr. 2, 45 (la causa dell’oblio non è discussa, ma il tema dell’oblio erotico ha un ovvio interesse nel contesto) ; Ap. Rh. 3, 997-1007 e 4, 423-434, con le note di Paduano in Paduano, Fusillo 1986, e 3, 1069-1076, con Hunter 1989 al v. 1069.  





















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trepidante per l’amato, non quella disperata per l’abbandono – tanto meno per il tradimento –. La rappresentazione ad usum domini sullo scudo, fatta propria dal testo epico, è un racconto tendenzioso tante volte proposto nella tradizione greca ; la Tebaide lo ripropone ancora una volta, a lettori in grado di riconoscerne la parzialità e disponibili ad accettarla. Il racconto di Stazio assorbe dunque in sé i tratti problematici, secondo la poetica inclusiva e onnicomprensiva della Tebaide, ma li neutralizza con cura nel disegno del testo, come una secolare tradizione encomiastica aveva insegnato a fare. A offrire un termine di confronto è ancora il Teseo di Ovidio : non quello dell’Eroide di Arianna (o del suo episodio nell’Ars o nei Fasti), ma quello delle Metamorfosi ; anche qui vicende imbarazzanti, oscurate dalla tradizione eulogistica, non sfuggono all’ironia ovidiana. L’approccio dei due poeti alla biografia di Teseo è quasi opposto. Ovidio recupera l’aretalogia dell’eroe e il materiale tradizionale della Teseide (creata nell’Atene del vi sec. per opporre a Ercole un supereroe attico), 1 ma, quando non li fa smontare da un’eroina abbandonata, li fa confliggere con tradizioni alternative, formulando per voce autoriale esplicite accuse al personaggio. Persino nell’epos, la distanza ironica cercata da Ovidio mette in dubbio i valori eroici di Teseo e li fa vedere da una prospettiva straniata, elegiaco-catulliana. È lo stesso narratore, dopo che le imprese giovanili dell’eroe sono state esaltate ad Atene in forma di inno (met. 7, 433-450), a completare l’elenco, nel libro successivo, con una sintesi poco lusinghiera dell’avventura cretese (met. 8, 172-176 …utque ope virginea nullis iterata priorum / ianua difficilis filo est inventa relecto, / protinus Aegides rapta Minoide Dian / vela dedit comitemque suam crudelis in illo / litore destituit. desertae et multa querenti / amplexus et opem Liber tulit…). La rapidità del raccordo narrativo (il fast forward mode) evita qui una replica del lamento di Scilla di poco precedente, o del lamento catulliano-ovidiano di Arianna che ne è il modello, ma ne riproduce la prospettiva femminile e antieroica ; crudelis è quasi la trascrizione indiretta di un’apostrofe neotericoelegiaca, 2 mentre ope virginea ricorda una verità scomoda, l’« aiuto » decisivo di una donna, poco prima che la fama consacri il nome di Teseo e convinca i Greci tutti a implorare il suo « aiuto » nelle difficoltà (8, 268-270 sparserat Argolicas nomen vaga fama per urbes / Theseos, et populi quos dives Achaia cepit / huius opem magnis imploravere periclis). « Eroe di fama più che di fatto », il Teseo delle Metamorfosi è il protagonista, non di una Teseide, ma di una serie di comparse poco memorabili, distribuite tra la metà del settimo e l’inizio del nono libro. 3 Nelle prove epico-eroiche, come la caccia al cinghiale calidonio, il campione ateniese è ridotto a com 

























1  Per la fortuna di questa tradizione in ambito romano cf. Ov. Pont. 4, 10, 71-84, e Iuv. 1, 1-2, rispettivamente su Albinovano Pedone e su un certo Cordo, autori di Teseidi. 2  Fucecchi 2002, pp. 97-98. 3  Cf. ivi, pp. 93-103 ; Labate 2010, pp. 84-86 e 128-129 ; inoltre Mack 1988, pp. 136-141 ; Gildenhard, Zissos 2004, p. 68 ; sulla riduzione della statura eroica di Teseo persino in confronto all’Ecale, Tissol 1997, pp. 153-157.  







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primario ed è bersaglio dell’ironia del narratore esterno o interno : tocca a Nestore, nel racconto della lotta fra Lapiti e Centauri, screditare la sua pretesa di godere della protezione di Atena (met. 12, 359-360 sed procul a telo Theseus veniente recessit / Pallados admonitu (credi sic ipse volebat)) 1 o insinuare dubbi sul suo gesto di non infierire su un nemico ferito – non per pietà, forse, ma per mancanza di tempo (12, 344-345 nec ulterius dare corpus inutile leto / aut vacat aut curat). Ridotto ai margini dell’azione, Teseo è più spesso destinatario di racconti, che, nelle cornici e nei contenuti, ripropongono episodi del suo passato letterario, come l’ospitalità presso il dio-fiume-in-piena Acheloo, la storia della capanna ospitale di Filemone e Bauci o della lotta fra il toro-Acheloo ed Ercole : 2 una sorta di scomposizione della sceneggiatura dell’Ecale, che conduce lo svuotamento del contenuto epico-eroico a risultati ben più drastici rispetto all’epillio di Callimaco o di Catullo. Nella Tebaide, al contrario di Ovidio, Stazio lavora a restaurare la statura eroica di Teseo : ripulisce il personaggio da interpretazioni devianti rispetto al suo discorso epico e lo riporta all’immagine ideale che parte della tradizione soprattutto greca gli ha costruito addosso ; tutto questo con la complicità del suo lettore, chiamato a partecipare a un processo di rieroicizzazione che rimpicciolisce e mette ai margini testi notissimi della letteratura latina. 3 A Roma, perduto ormai il suo ruolo di campione nazionale, l’eroe ateniese è meno protetto dai fantasmi del passato e, da Catullo in poi, vede crescere la sua reputazione di seduttore : esposto (soprattutto in Ovidio) a una perpetua eco del catulliano ‘perfide … Theseu’, ha un posto d’onore tra gli exempla elegiaci di fides tradita e nel repertorio del lamento femminile, dove colleziona epiteti insultanti, da malus hospes a immemor, periurus, ingratus, crudelis. 4 Un discredito che si estende ai generi alti : lo mostra la punizione eterna nell’Eneide per l’impresa con Piritoo, altrove riscattata come prova di amicizia, qui condannata come oltraggio agli dèi inferi, che fa di Teseo un antimodello del pius Aeneas (Aen. 6, 617-618 ‘sedet aeternumque sedebit / infelix Theseus’) ; lo conferma il ritratto come uomo e amante senza scrupoli nella Phaedra di Seneca, che in questo si stacca dall’Ippolito coronato di Euripide per accostarsi alle Eroidi quarta e decima di Ovidio. 5  























1  Cf. Galasso 2000, ad loc. ; su Teseo e Pallade nella Tebaide vedi invece infra, § 6, pp. 156-157. 2  Barchiesi 1989, pp. 57-64 (= 2001, pp. 50-55). 3  Un procedimento analogo Stazio usa nei confronti delle Eroidi : restaura con un gesto esibito la statura eroica di Giasone, che l’Ipsipile elegiaca aveva compromesso, e fa rovesciare ad Argìa il ruolo elegiaco di eroina abbandonata, quasi una nuova Laodamia, che le sue parole e la sua situazione evocano ; l’epica della Tebaide si apre ad accogliere sollecitazioni di generi diversi, ma reagisce spesso, con segnali evidenti, a difesa del codice eroico (Bessone 1988, pp. 141-144 ; 2002, spec. p. 192 e n. 28). 4  Cf. Prop. 2, 24c, 41-44, con Fedeli 2005 ; Ov. am. 1, 7, 15-16 ; ars 3, 453-460, dove sunt quoque non dubia quaedam mala nomina fama allude con ironia alla reputazione poetica di Teseo e di Demofoonte, consolidata ad opera di Catullo e dello stesso Ovidio (con le Eroidi 2 e 10 e con l’episodio di Arianna nel primo libro dell’Ars). 5  Sen. Phaedr. 91-98, 226-227, 1164-1167, con Coffey, Mayer 1990 ; cf. Ov. her. 4, 109-128 ; Rosati 1985,  















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Persiste tuttavia, in questi casi, la coscienza di andare controcorrente rispetto a un filone importante della cultura greca e, da Virgilio a Ovidio a Seneca, resiste e coesiste, in conflitto con quella screditata, un’immagine idealizzata dell’eroe ateniese : al Teseo della Fedra si oppone quello dell’Hercules furens, alla condanna della Sibilla il rispetto di Enea, alle accuse delle Eroidi di Arianna e di Fedra l’esaltazione interessata nella coppia epistolare di Paride ed Elena. 1 Anche nel carme 64 di Catullo la demolizione per voce di Arianna contrasta con la presentazione eroica, per voce d’autore, di Teseo e della sua impresa : un’aristia che resta intatta nella sostanza, anche se viene messa ai margini (forse più ancora che nell’Ecale di Callimaco) e fatta apparire frutto dei voti della fanciulla, oltre che del suo aiuto ; interesse del poeta è qui sperimentare il gioco di prospettive, che il mito sfaccettato e problematico permette e la struttura dell’epillio esalta. 2 Sono molte le facce contrastanti del Teseo pubblico e privato : eroe valoroso e amante fedifrago, amico fedele o avventuriero empio, « secondo Ercole » e individuo di dubbia reputazione, civilizzatore e rapitore di donne, punitore di malvagi o soccorritore di chi erra, sovrano clemente e seduttore spietato. Spetta ai poeti – e ai loro interpreti – esercitare una continua scelta tra queste diverse opzioni, senza tuttavia eliminare la tensione che può opporle l’una all’altra, anche in uno stesso contesto, per via esplicita o allusiva. Quando rimproverava a Teseo la mancata clementia nei suoi confronti, l’Arianna di Catullo – è un punto che andrebbe sottolineato – contestava un’illustre tradizione letteraria e lanciava un’accusa che doveva suonare paradossale :  

















‘tibi nulla fuit clementia praesto, immite ut nostri vellet miserescere pectus ?’.  

(Cat. 64, 137-138)

Il sostantivo clementia, unico in Catullo, non frequente e sempre carico di una forte connotazione ideologica in poesia, doveva assumere un rilievo ecceziopp. 119-120 ; inoltre Mills 1997, pp. 203-205. La discesa all’Ade con Piritoo per rapire Proserpina è riscattata attraverso le parole di Plutone stesso in Theb. 8, 53-54 ‘me Pirithoi temerarius ardor / temptat et audaci Theseus iuratus amico’ ; per questo accento sulla fedeltà all’amico nella tradizione attica cf. Mills 1997, pp. 10-13. Per le varianti mitiche sull’esito dell’impresa, che presentano Teseo punito in eterno o salvato da Eracle, da solo o insieme a Piritoo, cf. Brillante 1988, pp. 70-72 e n. 96 ; Nisbet, Rudd 2004, a Hor. carm. 3, 5, 79-80, e Fedeli, Ciccarelli 2008, a 4, 7, 25-28. 1  Per Teseo nell’Hercules furens cf. Introd., § 5. Nell’Eneide l’aspettativa creata dalla domanda retorica di Enea sugli eroi tornati dall’Ade, 6, 122-123 ‘quid Thesea magnum, / quid memorem Alciden ?’ (dove il dissenso tra editori e interpreti antichi e moderni sull’attribuzione di magnum potrebbe riflettere una voluta ambiguità virgiliana nell’uso dell’epiteto, sospeso tra due versi e conteso dai due eroi) verrà distrutta dalla Sibilla, insieme al prestigio dell’eroe ateniese, in 6, 617-618 cit. : cf. Norden 19574. Nelle Eroidi il dibattito a tre voci fra Enone, Paride e Elena riproduce il dibattito sul mito di Teseo rapitore di Elena : cf. Bessone 2003. 2  Cf. Gaisser 1995.  











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nale. 1 Ad essere messa in discussione, dal punto di vista di un’amante tradita, era, in quel passo, la reputazione di Teseo consolidata in una tradizione idealizzante e fondata soprattutto sulla fase seguente del mito : l’immagine di un sovrano mite, clemente, misericordioso, incarnazione dei valori ideali di Atene, costruita in secoli di cultura e di letteratura greca. È questa immagine che Stazio mira a ripristinare nel contesto epico, al di là delle forzature soggettive e strumentali della relicta di Catullo : rispetto alla tradizione elegiaco-catulliana, la sua è una vera e propria riabilitazione di Teseo. 2 Una riabilitazione che in ambito latino ha dietro di sé almeno un esempio importante, già orientato in senso politico : è il Teseo dell’Hercules furens di Seneca, investito del ruolo di fiancheggiatore di Ercole nel tirannicidio, di testimone e teorico della punizione dei tiranni sulla terra e nell’aldilà, addirittura di sovrano consigliere di sovrani, che esorta « chiunque regni » alla mitezza di governo teorizzata nel De clementia. 3  















iv. 4. ‘ Iamque hospes Theseus ’. Da Catullo a Callimaco ( clementia, philoxenia, philanthropia ) Il ritorno di Stazio a un’immagine ideale e a valori insieme etici e politici rappresentati da Teseo sembra quasi rifare a ritroso il percorso di Catullo. Il carme 64 appare per certi aspetti un rovesciamento dell’Ecale di Callimaco : un esperimento di epillio che coinvolge ancora Teseo e che, estremizzando tendenze del modello, mette l’azione eroica non solo ai margini, ma in antitesi con una condotta ‘privata’ poco nobile. Mentre richiama il testo callimacheo, sovrapponendo l’impresa del Minotauro a quella del toro di Maratona, 4 Catullo costruisce una storia opposta di rapporti tra l’eroe e una figura femminile che lo ospita : qui Teseo è un hospes divenuto malus, che non dà ma solo riceve aiuto, senza ricordarlo né contraccambiarlo, incapace di clemenza o compassione, ingrato e crudele, insensibile alle lacrime di una donna, cui non accorda neppure il diritto alla sepoltura. Un Teseo ancora eroico, come in Callimaco, ma non più compassionevole – due aspetti, eroismo e umanità, che erano invece compresenti, e tra loro diversamente valorizzati, nell’Ecale. In Callimaco la philanthropia era un valore condiviso dall’umile vecchia e  





1  Clementia non è mai in Lucrezio, Virgilio, Orazio, Tibullo ; è isolato in Properzio (2, 28, 47), nell’apostrofe a Persefone regina, consorte dell’inflessibile Plutone ; in Ovidio compare una volta nelle Metamorfosi, in uno slogan politico-ideologico (8, 57 : cf. infra, § 9, p. 181), poi cinque nei Tristia, quattro nelle Ex Ponto ; Marziale lo usa due volte, a proposito dello spettacolo propagandistico delle lepri e del leone (1, 104, 21 : cf. § 10, p. 197 n. 2) e del ritorno di Clementia alla morte di Domiziano, con l’avvento di Nerva (12, 5, 5). Lucano evita invece il termine per Cesare e lo usa una volta nel nesso clementia caeli (8, 366). Anche Valerio e Silio usano l’aggettivo o l’avverbio, mai il sostantivo, se non nel composto negativo, virgiliano, inclementia (cf. cap. i, § 2. 4, p. 68). 2  McNelis 2007, pp. 172-174 (§ Neoteric clementia) appiattisce invece il Teseo di Stazio sul Teseo accusato dall’Arianna catulliana di mancata clementia. 3  Vedi Introd., § 5. 4  Hollis 20092, p. 32 e comm. al fr. 165 inc. auct. (= 732 Pf.) e al fr. 17 (238 Pf.) ; Hunter 2006, pp. 98-100.  











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dall’eroe, futuro re ; 1 l’episodio di ospitalità, ricambiata da Teseo (a impresa compiuta) con gli onori resi a Ecale defunta, non solo metteva in primo piano l’umanità della figura eroica, ma poteva apparire una tappa nella formazione del futuro sovrano di Atene : forse già l’Ecale poteva suggerire che l’ideale di accoglienza, celebrato come gloria della città e del suo re in una tradizione letteraria sublime, aveva radici nella vita quotidiana dei più modesti abitanti dell’Attica. 2 Se non era già Callimaco a farlo, certo il testo di Stazio sembra segnalare, e quasi commentare, quella consonanza di ideali tra umili e grandi, fra l’eroe destinato a regnare su Atene e la sua ospite povera, accomunati da una stessa impronta etica. Colpisce la sovrapponibilità delle espressioni che definiscono, in Callimaco la capanna di Ecale, in Stazio l’altare della Clemenza : un « rifugio comune », offerto dalla vecchia ai suoi ospiti, da Atene a tutta l’umanità (Theb. 12, 503504 commune animantibus aegris / confugium ; Call. Hec. fr. 80 H. = 263 Pf., v. 5 xuno;n ga;r ejpauvlion e[sken a{pasin, « era infatti un rifugio comune per tutti », tr. di G. B. D’Alessio). 3 Non si può provare, ma si può almeno supporre, che Callimaco facesse intravedere nella philoxenia di Ecale una versione umile e quotidiana della philanthropia esaltata dalla letteratura attica negli encomi di Atene e di Teseo. Quegli stessi versi di commiato, forse pronunciati da Teseo (cui il poeta si associa) e conclusivi dell’epillio, legano l’eroe alla memoria perpetua della sua ospite e dell’ospitalità della sua casa (fr. 80, 3-5 pollavki sei`o, / mai`a, < > filoxeivnoio kalih`~ / mnhsovmeqa « spesso di te, nonnina, (…) dell’ospitale capanna ci ricorderemo ») : una rappresentazione che Arianna rovescia nel carme 64, negando a un Teseo immemor la capacità di ricordare e ricambiare il beneficio. 4 L’ospitalità è in Stazio il motivo portante dell’episodio ateniese, che incornicia in Ringkomposition la chiusa della Tebaide. Lo preannuncia la similitudine delle Argive, giunte in città, con gli « uccelli di Tracia » che trovano rifugio hospitibus tectis (12, 479 ; sono Filomela e Procne, le Ateniesi trasformate in rondine e usignolo dopo il delitto del tracio Tereo). La descrizione dell’ara Clementiae, nel suo punto centrale, dichiara l’altare un dono degli dèi alla città che è sempre disposta a ospitarli : caelicolas, tellus quibus hospita semper Athenae (12, 500). Grazie al riconoscente dono divino, Atene può esercitare  





































1  Per il filone dell’etica greca, attico ed ellenistico, della philanthropia, che ispira l’ospitalità di Ecale (« un simbolo della grandezza morale che si può trovare nella semplicità degli umili ») e, sulla sua scia, l’episodio di Filemone e Bauci e il libro viii dell’Eneide, cf. La Penna 2005, p. 175. 2  I malfattori puniti da Teseo, per converso, sono tacciati di « inospitalità » : Hec. fr. 59 H. = 296 Pf. (schol. [NAB] Eur. Hipp. 979) tuvranno~ a[xeno~ ; fr. 62 H. = 328 Pf. Interessante la prospettiva esiodea di critica della regalità che sembra emergere, in particolare, dal fr. 54 H. = 329 Pf. nukti; d∆ o{lh/ basilh`a~ ejlevgcomen, « e tutta la notte critichiamo i re » : cf. D’Alessio 20074, ad loc. ; n. 65 a p. 307 ; introd., p. 8 e n. 4. 3  Il verso citato di Callimaco era forse quello conclusivo dell’opera : cf. Lehnus 1997 e D’Alessio 20074, ad loc. 4  Che Teseo « ricordasse sempre » la parca mensa di Ecale è confermato dalle testimonianze di Michele Coniata e di Nonno (Call. Hec. fr. 82 H. = sh 284, 252 Pf.). Su immemor nel c. 64 vedi supra, § 3, p. 139 n. 2.  



























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nei confronti dell’umanità intera la sua vocazione all’accoglienza (sic sacrasse loco commune animantibus aegris / confugium 12, 504-505), dimostrata da altri esempi mitici ricollegati qui alla stessa hospita sedes (12, 509-511). L’ospitalità verso gli dèi sarà ribadita nel catalogo delle truppe attiche, col riferimento ai miti di Icario (padre di Erigone) e di Celeo (padre di Trittolemo) e al dono della vite e delle messi da parte di Bacco e Cerere (mittit in arma manus gentilibus hospita divis / Icarii Celeique domus 12, 618-619). Il valore della ‘clemenza’ viene così associato da Stazio alla tradizione dell’‘ospitalità’, radicata nell’Atene mitica e storica, che accomuna gli abitanti della regione, la città e il suo capo politico. Presso l’ara Clementiae, invocando l’aiuto di Teseo in nome dei suoi trionfi a Creta e a Maratona, Evadne cita il pianto della « vecchia ospitale », cui l’eroe ha dato ascolto nell’Ecale : ‘si patrium Marathona metu, si tecta levasti / Cresia, nec fudit vanos anus hospita fletus’ (12, 581-582, un richiamo a Call. Hec. fr. 57 H. = 313 Pf. aJluko;n dev oiJ e[kpese davkru, « e salsa le cadde una lacrima »). 1 Lacrime versate « non invano », al contrario di quelle di Arianna dopo l’impresa cretese ; in questi versi, la studiata collocazione della vittoria sul Minotauro, frapposta tra la liberazione di Maratona dal toro e l’esaudimento di un’altra donna ‘ospite’, neutralizza le interferenze di un episodio parallelo, dall’esito opposto : nel palinsesto staziano, il pianto esaudito di Ecale cancella i vani lamenti dell’Arianna catulliano-ovidiana (che non giungono alle orecchie del malus hospes, ma ottengono vendetta dagli dèi). 2 Il rimando all’Ecale nella supplica sollecita la nota sensibilità di Teseo al lamento femminile e annuncia l’intervento dell’eroe come una prosecuzione ideale dell’epillio di Callimaco. Nell’epos di Stazio la ‘voce’ callimachea è spesso una voce antagonista, che fa resistenza al discorso epico-eroico, si oppone al bellicismo dell’azione e contrasta la tensione iperbolica della poetica. Qui, piuttosto, la tradizione callimachea viene integrata in un disegno epico nuovo, provocante fino al paradosso, che concilia infine i valori eroici con la tensione pacifista e tutti e due con l’ideologia imperiale. 3 In chiusa a un poema di odio e di guerra senza fine, l’eroismo di Teseo sarà, finalmente, l’impegno di un sovrano a una guerra in funzione della pace.  























1  Cf. Hollis 1982 e 20092, ad loc. ; McNelis 2007, p. 169. Cf. anche fr. 158 H. = 682 Pf. Sulla presenza di Callimaco, e in particolare dell’Ecale, in Theb. 12 cf. Delarue 2000, pp. 136-138 : notevole anche il confronto fra 12, 585-586 ‘semper et in curru, semper te mater ovantem / cernat’ e Hec. fr. 78 H. = 371 Pf. Ai[qrhn th;n eu[teknon ejp∆ ajgromevnhi~ uJdevoimi. 2  Cat. 64, 164 ; 170 ; 199. Forzato è qui anche il parallelo tra le imprese di Maratona e di Creta, presentate entrambe come la liberazione di un luogo, patrio o straniero, dalla paura di un mostro (‘si … metu, si tecta levasti / Cresia’). 3  McNelis 2007 sottolinea invece, quasi univocamente, la dimensione ‘privata’ e poetico-programmatica del callimachismo di Stazio ; alle pp. 165-172 l’interdiscorsività con l’Ecale è vista soprattutto come una valorizzazione problematica del lamento femminile, che domina la chiusa epica : « In the workings of Statius’ narrative, epic claims conflict with treatments of loss and grief that rework Callimachean poetry ».  















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È questa idea a prevalere infine nella Tebaide e a prendere corpo, pochi versi prima dell’epilogo, in un’immagine emblematica dell’eroe, che è un nuovo richiamo all’Ecale e ai suoi valori. Ucciso Creonte, la pace si fa all’istante sul campo di battaglia, tra esultanza e lamenti delle donne che accorrono, tebane e argive. Da nemico, Teseo diventa qui ancora una volta un « ospite » : iamque hospes Theseus (12, 784). La definizione di quel ruolo, quasi tolta a un dizionario dei personaggi letterari, è il segnale preciso di un’affiliazione poetica : questo è il Teseo di Callimaco, non quello di Catullo ; l’« ospite » di Ecale, anziché quello di Arianna ; l’eroe civilizzatore, liberatore dell’umanità da mostri e malvagi, che viene restituito qui alla sua piena dimensione epica, ma che, come nell’Ecale, fa prevalere i valori umani e civili sull’uso della forza. La rappresentazione callimachea di un Teseo attento agli umili, insensibile alle ricchezze e grato dell’accoglienza semplice, viene recuperata da Stazio – come vedremo – in una prospettiva epica nuova, anticipata dall’Eneide. Il valore ellenistico della philanthropia come solidarietà umana, che anima l’Ecale, si lascia armonizzare con un ideale etico-politico elaborato nello stesso contesto filosofico e culturale dell’ellenismo : l’ideale della benevolenza del sovrano, vicino ai semplici e aperto ai bisognosi, disponibile ad essere accolto e ad accogliere, soccorrere, beneficare ; la philanthropia, insomma, come fondamento della regalità. Nel finale della Tebaide quel paradigma si realizza in un atteggiamento esemplare, funzionale al racconto epico ed emblematico di un ideale politico romano : il gesto di Teseo vincitore che si lascia ospitare nelle case, addirittura dei nemici vinti (orant succedere muris / dignarique domos. nec tecta hostilia victor / aspernatus init 12, 784-786). In chiusa a un poema ‘pieno di Ares’, quello che era un fondamento dell’ideologia imperiale – il bellum iustum e il concetto della pace come frutto della guerra – appare, piuttosto, una valorizzazione della pace e una proposta di ideali civili che tende idealmente a un ripudio della guerra. Erede di una tradizione attica illustre e politicamente connotata, come l’idealizzazione di Teseo e di Atene nel teatro tragico, l’epillio di Callimaco offriva un paradigma nobile in versione modesta ; insistendo sulla disponibilità reciproca e sulla reciprocità del beneficio tra umili e grandi, proponeva un ideale etico, e forse politico, aggiornato alla cultura ellenistica. La Tebaide collega fra loro tradizioni poetiche e interpretazioni politiche diverse dell’ospitalità ateniese, distribuite dalla tragedia attica all’epillio callimacheo. Quasi commentando corrispondenze implicite nell’Ecale, Stazio inscena la duplice disponibilità di Teseo ad accogliere e ad essere accolto : la sua capacità di soccorrere i supplici e di farsi festeggiare e ospitare dai vinti, che lui stesso ha liberato dal tiranno, con la modestia esemplare di un eroe e di un potente verso chi è in posizione di inferiorità. Ad Atene, Teseo in trionfo ha ospitato le Argive e ne ha ascoltato la supplica, così come, ospite nella capanna di Ecale, aveva prestato ascolto alla preghiera della vecchia ; nel finale, trionfante sul tiranno tebano, lo stesso Teseo si lascia ospitare in città e nelle case dai Tebani scon 



























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fitti, che lo festeggiano come un salvatore : l’intervento contro Creonte, più che una guerra contro Tebe, è la liberazione dei Tebani da un mostro, come l’uccisione del toro per gli abitanti di Maratona ; e sono i Tebani liberati ad acclamare l’eroe, come già gli abitanti dell’Attica salvati dalla mostruosa belva. 1 Eroe e sovrano esemplare, nella Tebaide Teseo dà e accetta accoglienza, ospita ed è hospes – dimostra di apprezzare la philoxenia e di saper esercitare la philanthropia. Smentendo l’Arianna di Catullo, Stazio restaura qui il ritratto virtuoso dell’Ecale di Callimaco (quale ci appare da frammenti e testimonianze) e lo ripropone in dimensioni epico-eroiche, oltre che in versione imperiale romana. Che nell’Achilleide lo stesso Teseo, paradigma eroico per Achille, possa essere allo stesso tempo veicolo di un’allusione all’abbandono di Deidamia è una conferma della plasticità dell’invenzione staziana, interessata a modulare i significati del mito in base alle esigenze del racconto. 2 Mentre fa della Tebaide una nuova Teseide, Stazio non nasconde l’artificiosità del suo procedimento, anzi la dichiara : mostra di edificare un Teseo rinnovato, per renderlo di nuovo edificante. Persino dettagli minori appaiono curati, perché il disegno risulti convincente. Nella supplica di Evadne, la lista delle imprese giovanili contro mostri e briganti dell’Attica, sulla via da Trezene ad Atene, è occasione per ulteriori rifiniture, volte a rimuovere ogni possibile ombra dal ritratto dell’eroe. Il diritto-dovere della sepoltura è il tema chiave nella storia dei Sette a Tebe e, nella cultura romana, appare associato alla clemenza come valore etico-politico – non a caso, è anche pensando alla propria mancata sepoltura che l’Arianna del carme 64 accusa Teseo di mancata clementia. 3 Se l’intervento a favore degli Argivi mostra in Teseo il celebrato difensore di un diritto universale, qualche antico episodio, nella saga sulla liberazione dell’Attica dai suoi flagelli, potrebbe apparire in contrasto con questa rappresentazione : ecco, allora, che la retorica di Evadne interviene a orientarne la lettura nel senso più opportuno. I feroci Sini, Cercione, Scirone hanno fondato la fama di Teseo come civilizzatore, ma, nell’eliminare quei campioni di crudeltà, l’eroe, più che usare clemenza, ha applicato la legge del taglione. Per questo, invocando per gli Argivi i meritati onori funebri, la sposa di Capaneo si prende cura di sottoline 













1  La vittoria sul toro di Maratona, già citata da Ipsipile (Theb. 5, 431-434 ‘hic et ab adserto nuper Marathone superbum / Thesea … cernimus’), è richiamata qui mediante l’identificazione dell’arma di Teseo, che fa della battaglia contro i Tebani un replica ideale dell’uccisione del mostro (12, 730 quercum Marathonida). 2  In Ach. 1, 156-157 Teseo, in coppia con Ercole, è menzionato da Chirone (che ha visto l’eroe tra gli Argonauti : una correzione a Valerio e ad Apollonio) come termine di confronto per il giovane Achille, già in grado di spaventare i Centauri. Lo stesso Achille, cantando sulla lira le glorie degli eroi (1, 188-189), ricorda l’impresa cretese di Teseo (1, 191-192 quanto circumdata nexu / ruperit Aegides Minoia bracchia tauri), mentre il lettore, specie in presenza di un richiamo alle nozze di Peleo e Teti in chiusa (1, 193-194), è forse chiamato a ricordare ciò che Achille omette : l’abbandono di Arianna, che prefigura l’abbandono di Deidamia. Cf. anche Davis 2006, p. 139. 3  Cf. Braund 1996, pp. 10-11 ; McNelis 2007, p. 173.  





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are che neppure i peggiori malfattori sono stati consegnati da Teseo a « mostri immondi » e che, per il crudele Scirone, l’eroe stesso avrebbe desiderato la cremazione (‘tu quoque, ut egregios fama cognovimus actus, / non trucibus monstris Sinin infandumque dedisti / Cercyona, et saevum velles Scirona crematum’ 12, 575-577). L’ordine del catalogo e la forma dell’espressione sono, anche qui, calcolati ; in un contesto dichiaratamente allusivo (fama), l’intenzione attribuita all’eroe (velles) corregge un’interferenza negativa delle Metamorfosi di Ovidio, dove era proprio la dispersione in mare delle ossa di Scirone a fornire l’aition delle rocce Scironidi (met. 7, 443-447 tutus ad Alcathoen, Lelegeia moenia, limes / composito Scirone patet, sparsisque latronis / terra negat sedem, sedem negat ossibus unda, / quae iactata diu fertur durasse vetustas / in scopulos ; scopulis nomen Scironis inhaeret, un aition presupposto in Theb. 1, 333 infames Scirone petras). C’è di più. L’argomento impiegato subito prima a proposito di Sini e Cercione, ‘non trucibus monstris … dedisti’, suonerebbe incongruo nel caso del terzo brigante ; proprio l’Ecale, che Evadne mostra di conoscere bene, attestava che Teseo aveva scagliato Scirone in mare e – come specifica uno scolio a Euripide e come implica fra l’altro la testimonianza di Euforione – lo aveva gettato in pasto alla tartaruga cui il malfattore destinava le sue vittime. 1 Doctus Statius : l’abilità retorica della supplice argiva coincide con quella del narratore epico, che manipola la storia mitica rimuovendo ogni ostacolo alla propria costruzione esemplare. Anche l’ultima impresa di Teseo viene rivista in questa prospettiva : ‘credo et Amazoniis Tanain fumasse sepulcris, / unde haec arma refers’ (12, 578-579) ; grazie alla supposizione mirata (credo), Stazio trasferisce all’episodio della spedizione pontica il motivo delle tombe delle Amazzoni, attestato (con tanto di prove archeologiche) per il doppione mitico dell’invasione dell’Attica da parte delle vergini guerriere. 2 La clemenza di Teseo nel concedere sepoltura a nemici e avversari appare così, da sempre, una qualità costante dell’eroe : una virtù che troverà conferma, dopo la spedizione a Tebe per recuperare i caduti Argivi, nella promessa della sepoltura rivolta allo stesso tiranno tebano, in chiusa al duello. L’ultima voce diretta che udiamo nel poema è la voce di Teseo, che condanna il tiranno alle pene infernali, come il narratore condannava Eteocle e Polinice nel libro precedente :  























‘Argolici, quibus haec datur hostia, manes, pandite Tartareum chaos ultricesque parate 1  Cf. schol. (NAB) Eur. Hipp. 979 ; Hollis 20092, a Call. Hec. frr. 59 e 60 e introd., pp. 28-29 ; Euphor. fr. 9, 6 ss. Powell, che si ritiene dipendere dall’Ecale : vv. 8-9 (sc. Ske]ivrwn) Ai[qrh~ ga;r ajloihqei;~ uJpo; paidiv / nwi>tevrh~ cevluo~ puvmato~ ejliphvnato laimovn, « (Scirone) colpito dal figlio di Etra ingrassò per ultimo la gola della nostra tartaruga » ; cf., inoltre, Ampolo, Manfredini 1988, a Plut. Thes. 10, 1, e Frazer 1921 (= 1995), ad [Apollod.] epit. 1, 2. Per le rappresentazioni iconografiche cf. limc, vii, 1, pp. 931-932, e vii, 2, pp. 642-646 (la tartaruga, menzionata nella descrizione delle pitture vascolari nn. 105, 107, 111, 115, è visibile nelle riproduzioni nn. 106, 119, 113) ; cf. Neils 1987, p. 35. 2  Cf. Paus. 1, 2, 1 (con Musti, Beschi 1982) ; 1, 41, 7 ; Plut. Thes. 27, 6-9.  

















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Eumenidas, venit ecce Creon !’ … ‘iamne dare extinctis iustos’ ait ‘hostibus ignes, iam victos operire placet ? vade atra dature supplicia, extremique tamen secure sepulcri’ (Theb. 12, 771-773, 779-781)  



(da confrontare con 11, 574-575 ite truces animae funestaque Tartara leto / polluite et cunctas Erebi consumite poenas !). A questo eroe, tanto contestato dalla critica, il narratore ha affidato in chiusa la responsabilità stessa della voce epica giudicante. La legittimità del tirannicidio esclude qui la problematicità tragica del gesto di Enea nel finale dell’Eneide ; l’uccisione di un nemico più che mai superbo, in forma di vendetta sacrificale, non rappresenta qui il prevalere contrastato e ambiguo della pietas sulla clementia, ma il ristabilimento della giustizia (iustos) unito alla sola clemenza possibile : è il gesto clemente di un sovrano e condottiero esemplare, che difende per gli Argivi il diritto alla sepoltura e garantisce quel diritto allo stesso tiranno che lo ha violato (con l’intenzione di violarlo ancora) e merita perciò di essere punito con la morte.  





iv. 5. Clementia e inclementia regum . Teseo e Creonte: re e tiranno Nel disegno del poema, il ritratto di Teseo come re clemente risalta per contrasto con l’inclementia regum incarnata da Creonte. 1 L’opposizione tra le due figure è netta e, fino alla fine, priva di sfumature : la complessità tragica della Tebaide non nasce, come nell’Eneide, dall’attenuarsi in chiusa delle differenze tra gli antagonisti, Enea e Turno ; un dualismo ben più marcato di quello virgiliano resta visibile al vertice, mentre è piuttosto fra le masse (di soldati ateniesi e tebani, o di donne tebane e argive) che la violenza sul campo tende ad annullare le distinzioni : è il perpetuarsi inesorabile della guerra, del lutto e del lamento che fa sentire qui come un prolungamento di tragedia anche la sperata conquista della pace. 2 Il regno di Creonte riceve un marchio di condanna fin dall’esordio. Al momento della successione al trono di Tebe, nel libro undicesimo, il narratore commentava la trasmissione della tirannia nella lignée tebana e rifletteva sulla seduzione del male insita nel potere : scandit fatale tyrannis / flebilis Aoniae solium : pro blanda potestas / et sceptri malesuadus amor ! numquamne priorum / haerebunt documenta novis ? iuvat ecce nefasto / stare loco regimenque manu tractare cruentum (11, 654-658). Si noti l’uso di documenta, « dimostrazioni », « ammonimenti che vengono dall’esempio » : un termine importante per la poetica della  



























1  Theb. 11, 684. Cf. cap. i, § 2. 4, p. 69. 2  Sulla problematicità tragica dell’Eneide cf. sopr. Hardie 1993, p. 22, e 1997a ; Conte 20072, pp. 125-142. Sul dualismo esasperato della Tebaide, Feeney 1991, p. 350.  

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Tebaide, pronunciato qui dalla voce epica giudicante e replicato con sarcasmo dal personaggio nel libro successivo (12, 689) ; 1 questo nuovo intervento autoriale mostra la vanità del monito rivolto ai reges ottanta versi prima, a commento del duello fratricida fra Eteocle e Polinice : soli memorent haec proelia reges (11, 579). L’atto inaugurale del regno di Creonte, nel libro dodicesimo, merita ancora uno sferzante giudizio d’autore : primum adeo saevis imbutus moribus aulae / indicium specimenque sui iubet igne supremo / arceri Danaos, nudoque sub axe relinqui / infelix bellum et tristes sine sedibus umbras (11, 661-664). 2 Il divieto di sepoltura è per Stazio l’ennesima manifestazione della tirannia, cui si contrappone infine la clemenza di Teseo ; la formula narrativa che registra la « prima prova di sé » del nuovo tiranno assomiglia a formule che Tacito riserverà in qualche caso alla successione imperiale (di Tiberio e di Nerone) e all’esordio di regni narrati come un catalogo di crimini (ann. 1, 6, 1 primum facinus novi principatus fuit Postumi Agrippae caedes… ; 13, 1, 1 prima novo principatu mors Iunii Silani proconsulis Asiae ignaro Nerone per dolum Agrippinae paratur…). 3 Comunque si valuti il personaggio di Teseo, va riconosciuta la sua funzione essenziale come figura di contrasto, per l’alterità radicale – e, a mio parere, irriducibile – che esso rappresenta nei confronti del sovrano di Tebe. La schematizzazione del racconto rispetto alle Supplici è evidente : Creonte è il paradigma del tiranno, ed è un tiranno recidivo, patologico, parossistico. Il divieto di sepoltura è qui, a differenza che in Euripide, ribadito, riassaporato e rincarato più volte, con tratti di sadismo degni dell’Atreo senecano. Così nel lamento per la morte del figlio Meneceo, dove il lutto rende la crudeltà del tiranno addirittura bestiale, in contrasto con l’umanizzazione virgiliana di Mezenzio alla morte di Lauso ; 4 così nel feroce ritratto indiretto con cui Ornito mette in guardia le donne argive, citando paradigmi di tirannia e spietatezza ; 5 così, ancora, nella risposta provocatoria di Creonte all’araldo di Teseo,  





























1  Per la funzione di ammonimento e di deterrente attribuita nella cultura romana all’esempio negativo si può ricordare Hor. sat. 1, 4, 103-131 (110 documentum ; cf. 128-129). Sull’uso del termine nella storiografia moralistica cf. cap. II, § 3, n. 3 alle pp. 92-93 (cf. Liv. praef. 10 ; 28, 21, 9 ; inoltre 24, 8, 20 ; 25, 38, 10 ; Tac. ann. 16, 33, 1 honestum exemplum … bona malaque documenta). Per l’uso in Stazio cf. Gibson 2006, a silv. 5, 1, 40. 2  Hill 1983 stampa indicium … sui tra parentesi. Cf. 11, 677-682 (Edipo) ‘iamne vacat saevire, Creon ? modo perfida regna / fortunaeque locum nostrae, miserande, subisti, / et tibi iam fas est regum calcare ruinas ? / iam tumulis victos, socios iam moenibus arces ? / macte, potes digne Thebarum sceptra tueri : / haec tua prima dies’. 3  All’empia successione di Creonte si contrappone l’avvicendamento virtuoso tra Anfiarao e l’indovino Tiodamante (8, 294-298, cf. 296 prima sui documenta), illustrato da una similitudine con la successione nei regni orientali : cf. Hardie 1993 (essenziale su questo tema nell’epica), pp. 111-113. 4  12, 94-103 ‘saevum agedum immitemque vocent si funera Lernae / tecum ardere veto ; longos utinam addere sensus / corporibus caeloque animas Ereboque nocentes / pellere fas, ipsumque feras, ipsum unca volucrum / ora sequi atque artus regum monstrare nefandos ! / ei mihi, quod positos humus alma diesque resolvet ! / quare iterum repetens iterumque edico : suprema / ne quis ope et flammis ausit iuvisse Pelasgos ; / aut nece facta luet numeroque explebit adempta / corpora ; per superos magnumque Menoecea iuro’. Su Mezenzio cf. La Penna 1980 e 2005, pp. 307-308. 5  12, 149-159 ‘quo, miserae, quo fertis iter ? funusne peremptis / speratis cineremque viris ? stat pervigil illic / umbrarum custos inhumataque corpora regi / adnumerat. nusquam lacrimae, procul usque fugati /  



































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che si contrappone al silenzio del re di Tebe nelle Supplici : 12, 689-692 ‘parvane prostratis’ inquit ‘documenta Mycenis / sanximus ? en iterum qui moenia nostra lacessant. / accipimus, veniant ; sed ne post bella querantur : / lex eadem victis’. 1 Il confronto politico del dramma euripideo tra Atene e Tebe si è qui personalizzato in un confronto a distanza, e poi ravvicinato, tra due figure di sovrani. È un contrasto che deve qualcosa all’Edipo a Colono : nella tragedia di Sofocle, Teseo e Creonte si scontrano in scena e rappresentano, a parole e in azione, un’antitesi netta tra violenza e giustizia, tra la celebrata accoglienza ateniese e un uso della forza che smentisce la tradizione migliore di Tebe ; sulla scena sofoclea è il re di Atene, soccorritore di Edipo, a liberarne le figlie Ismene e Antigone, fatte catturare da Creonte, così come, nella chiusa dell’epos, è lui a intervenire in tempo per sventare l’esecuzione di Antigone e Argìa, prigioniere del tiranno a Tebe. 2 La caratterizzazione di Creonte riproduce, persino nella forma dell’espressione, tratti tirannici del Cesare lucaneo. L’ossessione numerica del sovrano di Tebe per i corpi degli Argivi, già accennata in precedenza (12, 102 numero, 152 adnumerat), culmina nella descrizione della battaglia finale. A una notazione neutra di Euripide, sulla posizione dello schieramento tebano rispetto ai cadaveri oggetto della contesa (suppl. 664-665 Kavdmou de; lao;~ h|sto provsqe teicevwn É nekrou;~ o[pisqe qevmeno~, w|n e[keit∆ ajgw;n, « L’esercito tebano era allineato davanti alle mura, alle sue spalle aveva i cadaveri degli uccisi, l’oggetto della contesa », tr. di U. Albini]), si sostituisce in Stazio un enfatico commento del narratore : 12, 715-720 hunc saltem miseris ductor Thebanus honorem / largitur Danais, quod non super ipsa iacentum / corpora belligeras acies Martemque secundum / miscuit, aut lacera ne quid de strage nefandus / perderet, eligitur saevos potura cruores / terra rudis. La preoccupazione del tiranno di « non perdere nulla » del mucchio di cadaveri nemici replica, anche nella forma, il compiacimento di Cesare e il suo desiderio di « non perdersi lo spettacolo » della strage dopo la battaglia di Farsalo, davanti ai corpi che coprono il campo : Lucan. 7, 797-798 ac, ne laeta furens sceler um spectacula perdat, / invidet igne rogi miseris… 3 Se, per undici libri, la Tebaide si è modellata in gran parte sulla Pharsalia, come epica del nefas trascinata da una forza negativa, il dodicesimo libro rappresenta un superamento, o addirittura un rovesciamento di Lucano : qui il tiranno sta per essere sconfitto e ucciso, non è il vincitore ma il vinto. Il poe 



































accessus hominum : solis avibusque ferisque / ire licet. vestrisne Creon dabit aequus honorem / luctibus ? inmites citius Busiridos aras / Odrysiique famem stabuli Siculosque licebit / exorare deos ; rapiet fortasse precantes, / si mens nota mihi, nec coniugialia supra / funera sed caris longe mactabit ab umbris’. 1  Cf. Eur. suppl. 673-674 koujde;n Krevwn toi`sd∆ ajntekhvruxen lovgoi~, É ajll∆ h|st∆ ejf∆ o{ploi~ si`ga. 2  Vedi cap. iii, § 5, p. 121. 3  Cf. Lucan. 7, 791-792 sidentis in tabem spectat acervos / et Magni numerat populos. Sul macabro voyeurismo di tutto il brano (7, 797-803), i suoi modelli e le sue riprese, cf. Narducci 2002, pp. 227229 con bibliografia.  





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ma di Stazio ha una prospettiva imperiale compiuta ; a chi vorrebbe allineare anche il finale al discorso contro l’Impero e al sarcasmo verso la clementia Caesaris espressi da Lucano, si può indicare un altro, significativo rovesciamento del Bellum Civile nella chiusa dell’epos. ‘Terrarum leges et mundi foedera mecum / defensura cohors’ (12, 642-643) : così Teseo esorta a un’impresa che ristabilisce, insieme a « norme » etiche comuni all’umanità (le « leggi » delle Supplici), 1 anche l’ordine naturale che rispecchia l’ordine politico, il kosmos che corrisponde all’imperium – proprio quell’ordine cosmico che la Pharsalia dichiarava sovvertito, nel passaggio dalla Repubblica all’Impero. La iunctura foedera mundi, come altre analoghe, era impiegata da Lucano ad indicare la coesione fisica dell’universo messa a repentaglio dalla guerra civile : Lucan. 1, 72-80 sic, cum conpage soluta / saecula tot mundi suprema coegerit hora / antiquum repetens iterum chaos … totaque discors / machina divolsi turbabit foedera mundi ; 2, 1-4 iamque irae patuere deum manifestaque belli / signa dedit mundus legesque et foedera rerum / praescia monstrifero vertit natura tumultu / indixitque nefas. 2 Vicino in questo a Seneca più che a Lucano, Stazio ripristina la visione della monarchia come sistema di governo conforme a natura, in accordo con la cosmologia stoica. 3 Se Creonte è un tiranno da manuale, la soluzione della guerra – è inevitabile – appare fin dall’inizio senza alternative. Così già nelle parole del reduce argivo, Ornito, in 12, 160-166 ‘quin … aut vos Cecropiam (prope namque et Thesea fama est / Thermodontiaco laetum remeare triumpho) / imploratis opem ? bello cogendus et ar mis / in mores hominemque Creon’ – la giustificazione dell’impresa ateniese è preparata di lontano. Anche l’immediatezza della decisione di Teseo e la rapidità dell’intervento in armi, altra deviazione vistosa dalle Supplici, è frutto di un’accorta strategia testuale. La condensazione del modello è dichiarata in anticipo, con un segnale allusivo che agisce per antifrasi, nelle parole di Argìa in 12, 209-212 ‘anne’ ait … ‘expectem quaenam sententia lenti / T heseos, an bello proceres, an dexter haruspex / adnuat ?’ : parole che rimandano al lento maturare della decisione di Teseo nelle Supplici e che fanno risaltare, per contrasto, la prontezza della sua risposta nella Tebaide. 4 All’impazienza di Argìa si contrappone la fulmineità di Teseo nel reagire alla supplica di Evadne, con l’emanazione istantanea di un ultimatum : ‘nulla mora est ; verte hunc adeo, fidissime Phegeu, / cornipedem, et Tyrias invectus protinus arces / aut Danais edice rogos aut proelia Thebis’ (12, 596-598 ; un’intimazione che l’araldo, pacifico e minaccioso, giunto mentre il « crudele Creonte » sta per  







































1  Cf. Eur. suppl. 311, 377-380, 526. 2  Vedi Fantham 1992, ad loc. ; Narducci 2004, p. 19. Cf. Lapidge 1979, spec. p. 361. Sull’uso del nesso (che varia il lucreziano foedera naturae) in Sen. Med. 335 e 606 cf. Fabre-Serris 2000. 3  Sul nesso tra politica e cosmologia già negli stoici antichi cf. Vogt 2008. 4  Mi sembra dunque inopportuno il commento di Ganiban 2007, p. 223 : « Theseus’ response consequently seems hasty, despite the fact that it is directed at Creon’s nefas ». Condivisibile invece Pollmann 2004, ad loc.  







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mettere a morte Argia e Antigone e accolto da una risposta insolente, non può che trasformare in dichiarazione di guerra : 12, 677-692). Di qui in poi saranno fitti nel racconto gli indicatori di velocità, a ritmare il raccogliersi spontaneo delle truppe, la marcia ininterrotta verso Tebe, lo scendere in campo di Teseo alle prime luci dell’alba. 1 Quasi un emblema del principio artistico che informa il finale è l’effetto immediato e miracoloso che la sola decisione ateniese produce a distanza su Tebe : 12, 609-610 necdum Atticus ire parabat / miles, et infelix expavit classica Dirce. L’accelerazione narrativa è anche il risultato di una riduzione del testo tragico. La materia di buona parte delle Supplici è compressa nello spazio di trecentocinquanta versi, con una selezione che riduce al minimo personaggi, dialoghi, episodi e conduce dritto alla conclusione – che qui è il tirannicidio. La tempestività di Teseo nell’epos si contrappone alla sua riluttanza iniziale nel dramma : sulla scena la risoluzione maturava in lui, dopo il dialogo con Adrasto, attraverso il dibattito con la madre Etra ; nella Tebaide vi è un’adesione immediata alla causa delle Argive. Eliminata la discussione col re di Argo e con la madre, Stazio vi sostituisce la supplica, subito efficace, di Evadne, e presenta come un dato di partenza quello che era l’esito di un lento sviluppo : la disponibilità di Teseo, in nome del più vasto ideale di umanità rappresentato da Atene (e ricordatogli in scena da Etra), a soccorrere un popolo pur non esente da colpa, a ristabilire un diritto violato – l’universale diritto alla sepoltura – anche in difesa di chi si è reso responsabile di una guerra illegittima, « senza giustizia », intrapresa contro la volontà degli dèi. 2 Il nodo problematico che la tragedia affrontava col duplice contraddittorio non viene ignorato qui, ma è indicato da Stazio con pochi, discreti segnali nella preghiera di Evadne. Il problema dell’errore degli Argivi, che Teseo rimproverava ad Adrasto, è implicito qui nella scelta stessa della moglie di Capaneo, il più empio degli eroi, come portavoce delle Argive ed è segnalato al lettore attraverso le sue stesse parole : le rivendicazioni della donna eludono a stento la coscienza della colpa, e hanno l’effetto di evocarla di fronte a chi legge, 3 mentre il suo appello a un superiore senso di umanità, di universale comunanza tra gli esseri umani garantita dalla natura, ha la prevalenza su ogni altra  





















1  12, 608 protinus ; 611 continuo (cf. 614 ultroque) ; 640-641 raptim … breves ; 649 praeceps ; 661-664 noctem adeo placidasque operi iunxere tenebras, / certamenque inmane viris quo concita tendunt / agmina : quis visas proclamet ab aggere Thebas, / cuius in Ogygio stet princeps lancea muro ; 709-711 Atticus at contra, iubar ut clarescere ruptis / nubibus et solem primis aspexit in armis, / desilit in campum. 2  Eur. suppl. 229-237. 3  12, 548-551 ‘non externa genus, dirae nec conscia noxae / turba sumus : domus Argos erat regesque mariti, / non utinam et fortes ! quid enim septena movere / castra et Agenoreos opus emendare penates ?’, dove si coglie un’eco, e come un rovesciamento, della domanda-accusa di Teseo ad Adrasto in Eur. suppl. 131 ejk tou` d∆ejlauvnei~ eJpta; pro;~ Qhvba~ lovcou~…, « Come mai hai scatenato contro Tebe sette schiere di armati ? » ; inoltre 12, 553-554 ‘sed non Siculis exorta sub antris / monstra nec Ossaei bello cecidere bimembres’, che stride con la caratterizzazione ‘titanica’ dell’impresa di Capaneo nel decimo libro ; cf. Vessey 1973, p. 312, e sopr. Feeney 1991, n. 156 a p. 361 ; cf., inoltre, Delarue 2000, p. 163.  





























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considerazione. 1 Ancora una volta, i valori di un dramma ridisegnato dalle fondamenta sono recuperati da Stazio nella nuova costruzione. La risposta di Teseo a Evadne è già un confronto diretto con Creonte, apostrofato in absentia e messo di fronte a un aut aut : 12, 590-598 ‘quaenam ista novos induxit Erinys / regnorum mores ? non haec ego pectora liqui / Graiorum abscedens, Scythiam Pontumque nivalem / cum peterem ; novus unde furor ? victumne putasti / Thesea, dire Creon ? adsum, nec sanguine fessum / crede ; sitit meritos etiamnum haec hasta cruores…’. In primo piano è lo sdegno di un buon re contro i novos … regnorum mores. L’estremizzazione dei contrasti si combina qui col gusto del paradosso, una combinazione cara a Stazio : la ‘sete di sangue’, che è tratto tipico del tiranno, diventa la ‘sete di sangue colpevole, che merita punizione’, attribuita a Teseo in veste di giustiziere. 2 Pronunciando il proprio nome, a contatto con quello del nemico, il personaggio mitico si appropria del suo ruolo tradizionale di punitore dei malvagi, da lui stesso rivendicato nelle Supplici (e in seguito superato da una consapevolezza più profonda) : Eur. Suppl. 339-341 polla; ga;r dravsa~ kala; É e[qo~ tovd∆ eij~ ”Ellhna~ ejxedeixavmhn, É ajei; kolasth;~ tw`n kakw`n kaqestavnai, « Con le mie grandi e numerose gesta ho mostrato ai Greci che è mio costume punire i malvagi, sempre ». 3 Con il programmatico ‘nec sanguine fessum / crede’, pronunciato direttamente dal carro del trionfo, l’eroe civilizzatore e guerriero infaticabile, appena reduce dall’Amazzonomachia, si lancia senza esitazione nella nuova impresa contro la barbarie – un intervento fulmineo, che raggiungerà il suo scopo con l’eliminazione di un mostro di tirannia. Il confronto fra re e tiranno, inscenato nel contrasto fra Teseo e Creonte, è elemento portante nel finale del poema : il montaggio narrativo lo esalta, le notazioni d’autore lo sottolineano ; fino al momento decisivo, in cui gli avversari si trovano infine l’uno di fronte all’altro, e la voce epica registra l’opposto atteggiamento dei due capi nei confronti del loro seguito : 12, 754-759 atque hunc diversa bellorum in fronte maniplos / hortantem dictis frustraque extrema minantem / conspicit ; abscedunt comites : sed Thesea iussi / linquebant fretique deis atque ipsius armis, / ille tenet revocatque suos ; utque aequa notavit / hinc atque hinc odia, extrema se colligit ira… Se i compagni di Teseo lo lasciano solo per il duello, certi della vittoria, fidando in lui e nell’aiuto divino, Creonte tenta invano con le minacce (strumento del tiranno) di trattenere i suoi, che non nascon 





































1  12, 555-561 ‘mitto genus clarosque patres : hominum, inclute Theseu, / sanguis erant, homines, eademque in sidera, eosdem / sortitus animarum alimentaque vestra creati … heu princeps Natura !…’, da confrontare con Sen. epist. 95, 52-53 : vedi cap. iii, § 5. 2  Per il tiranno-fiera, assetato o compiaciuto del sangue, cf. Torre 1995 ; Bellincioni 1984, pp. 3744. Cf. Sen. clem. 1, 11, 4-1, 12, 2 quid interest inter tyrannum ac regem … nisi quod tyranni in voluptatem saeviunt, reges non nisi ex causa ac necessitate ? ‘quid ergo ? non reges quoque occidere solent ?’. sed quotiens id fieri publica utilitas persuadet ; tyrannis saevitia cordi est … quis tamen umquam tyrannus tam avide humanum sanguinem bibit quam ille… ?. 3  Cf. Eur. Hipp. 976 ss., 980 toi`~ kakoi`~ m∆ ei\nai baruvn, « che io punisco i malvagi ».  





















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dono ormai il proprio odio. 1 Stazio traduce in forma narrativa la distinzione fra re e tiranno, in base all’affidabilità del loro seguito, tracciata da Seneca nel De clementia : Sen. clem. 1, 13, 1 placido tranquilloque regi fida sunt auxilia sua, ut quibus ad communem salutem utatur, gloriosusque miles (publicae enim securitati se dare operam videt) omnem laborem libens patitur ut parentis custos ; at illum acerbum et sanguinarium necesse est graventur stipatores sui (si veda anche 1, 12, 3 interim, hoc quod dicebam clementia efficit, ut magnum inter regem tyrannumque discrimen sit, uterque licet non minus armis valletur ; sed alter arma habet quibus in munimentum pacis utitur, alter ut magno timore magna odia conpescat nec illas ipsas manus quibus se commisit securus aspicit). Circondato dall’odio dei suoi, ormai pari a quello dei nemici, Creonte appare come il tiranno dell’Eneide, Mezenzio, che in punto di morte, consapevole dell’odio della sua gente, prega Enea di assicurargli la sepoltura, insieme al figlio : Verg. Aen. 10, 903-906 ‘unum hoc per si qua est victis venia hostibus oro : / corpus humo patiare tegi. scio acerba meorum / circumstare odia : hunc, oro, defende furorem / et me consortem nati concede sepulcro’. ‘Sepulcri’ sarà l’ultima parola anche nell’apostrofe rivolta a Creonte da Teseo, che spontaneamente garantirà al tiranno la sepoltura da lui negata ai nemici : 12, 780-781 ‘vade atra dature / supplicia, extremique tamen secure sepulcri’. La costruzione narrativa a contrasto, che abbiamo esaminato in alcuni snodi principali, è programmata per uno scopo : il movimento finale del poema mira a un esito atteso, un’uccisione in duello che ha tutti i tratti di un tirannicidio.  

















iv. 6. Victor e hospes . Da Callimaco a Virgilio: paradigmi eroici e ideologia imperiale La supplica rivolta a Teseo presso l’ara Clementiae traccia, con stilizzazione consapevole, il profilo di una figura ideale. È il modello eroico di Ercole, di cui Teseo è emulo, ad affiorare qui tra le righe. 2 Un modello suggerito dalla tradizione dell’affinità tra i due eroi e dichiarato nelle parole di Evadne, che costituiscono forse un’altra citazione dall’Ecale :  



‘sic tibi non ullae socia sine Pallade pugnae, nec sacer invideat paribus Tirynthius actis’. 3  

(Theb. 12, 583-584)

Il duplice augurio, di godere della protezione di Pallade e di uguagliare le fatiche di Ercole, potrebbe riecheggiare parole che Teseo rivolgeva al padre 1  Un consenso finto aveva accompagnato il tiranno all’atto del suo insediamento, 11, 755-756 sic ait, et ficto comitum vulgique gementis / adsensu limen tumidus regale petebat. 2  Per l’emulazione di Ercole cf. Plut. Thes. 6, 8 ; Diod. Sic. 4, 59 ; Isocr. Hel. 23. Sulla relazione tra i due eroi, per es. Mills 1997, cap. 4 (sull’Eracle di Euripide), spec. pp. 136-139. Sui rapporti tra Ercole e Teseo nella Tebaide, Vessey 1973, p. 313 ; Ripoll 1998, pp. 155-158 (in una trattazione su Ercole nell’epica flavia). 3  Vedi cap. i, § 2. 4, n. 1 a p. 68.  





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in Callimaco, esprimendo la propria determinazione a partire per l’impresa : la clausola pavnta~ ajevqlou~, « tutte le imprese » (Hec. fr. 17, 3 H. = 238, 3 Pf.), sovrapponibile a non ullae… [sine…] pugnae e riferita da Hollis alla fiducia dell’eroe nella dea, è letta da D’Alessio, sulla base di paralleli epici, come un richiamo alle imprese di Eracle, che Teseo aspirava forse ad eguagliare. 1 Comune ai due eroi è la serie ininterrotta di fatiche e di trionfi (‘sed et hunc dignare triumphum. / da terris unum caeloque Ereboque laborem’, 12, 579-580), che si presta alla celebrazione innologica – qui come nel settimo libro delle Metamorfosi, o nell’inno a Ercole intonato presso Evandro nell’Eneide. Il paradigma di Ercole, citato o evocato per allusione come doppio di Teseo, appare nel testo di Stazio investito dei significati politici che l’ideologia imperiale gli conferisce a Roma. 2 È l’ideale, innanzi tutto militare, di un condottiero indomitus semper indefessusque, capace di un’impresa dopo l’altra (aliis super alias expeditionibus … dignus) : quello che Plinio nel Panegirico dirà incarnato dal giovane Traiano, non ancora imperatore, soggetto alle imposizioni di Domiziano come Ercole a quelle di Euristeo. 3 Un modello che Plinio evocherà poco dopo anche per gli aspetti pacifici dell’optimus princeps, alludendo a Ercole (e poi a Enea) vincitore e ospite di Evandro nell’ottavo libro dell’Eneide. Eroe infaticabile, civilizzatore e nemico dei tiranni, benefattore grato dell’accoglienza modesta : un profilo in parte comune, disegnato dalla tradizione mitica e letteraria, predispone in modo simile Eracle e, sulla sua scia, Teseo a divenire simbolo etico-politico e paradigma imperiale. 4 La coppia eroica, di cui il campione ateniese è l’elemento minore, appare legata da affinità mitiche e ideologiche ; Stazio sfrutta quelle associazioni tradizionali e connette fra loro rappresentazioni poetiche e interpretazioni politiche diverse delle due figure. Sottolineando analogie strutturali mediante l’autocitazione, Callimaco metteva in parallelo il Teseo dell’Ecale e l’Eracle ospite di Molorco, protagoni 



















1  Hollis 1982 e 20092 ; D’Alessio 20074, ad loc. 2  Cf. La Penna 1963, pp. 89-90, 91 n. 2, 93, 102, 105 n. 2, 106, 129 ; Galinsky 1972, cap. 6, spec. pp. 136 ss. ; Jaczynowska 1981, pp. 634-641 ; Brink 1982, a Hor. epist. 2, 1, 10-12 e 15-17 ; Codoñer 1991 ; Nisbet, Rudd 2004, a Hor. carm. 3, 2, 21-22 ; 3, 3, 9 ; 3, 14, 1 ; Fedeli 2008, a Hor. carm. 4, 5, 29-36 ; Bonadeo 2010, pp. 112-113, 123-124. 3  Plin. paneg. 14, 4-5 initium laboris mirer an finem ? …nec dubito quin ille qui te inter ipsa Germaniae bella ab Hispania usque ut validissimum praesidium exciverat, iners ipse alienisque virtutibus tunc quoque invidus imperator, cum ope earum indigeret, tantam admirationem tui non sine quodam timore conceperit, quantam ille genitus Iove post saevos labores duraque imperia regi suo indomitus semper indefessusque referebat, cum aliis super alias expeditionibus itinere illo dignus invenireris. 4  Per Ercole come tirannicida cf. silv. 3, 1, 35 regum multo perfusum sanguine robur ; Sen. Herc. f. 271272, 431, 920-924, 936-937, inoltre 480-489 ; Dion. Chr. 1, 84. Come « tiranni » sono talora presentati i malfattori giustiziati da Teseo sulla strada da Trezene (Call. Hec. fr. 59 H. = 296 Pf.). Sul modello dei Tirannicidi nell’iconografia di Teseo, eroe-simbolo della democrazia ateniese, cf. Taylor 19912, pp. 36-95. Per le antinomie tra violenza e nomos, civilizzazione e uso della forza nel mito di Eracle, problematizzato dalla lirica arcaica, cf. Gentili 1977.  





























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sta dell’episodio incorniciato nella Vittoria di Berenice in apertura di Aitia iii. 1 La doppia versione callimachea consacra il motivo dell’ospitalità umile, offerta a un eroe o a un dio in incognito, e lo consegna a vasta fortuna. 2 Nell’ottavo libro dell’Eneide, Virgilio integra Callimaco in un disegno poetico nuovo, che coniuga mito eroico e discorso politico, narrazione epica ed esemplarità etica : l’eziologia si sposa ora all’ideologia imperiale romana. Qui l’Ercole vincitore di Caco – un mostro ctonio dai tratti di tiranno – è ospitato nell’umile reggia di Evandro qualche tempo prima che vi giunga Enea, a sua volta hospes del re arcade, e venga invitato, « grande » sotto un tetto « angusto », a emulare la modestia del suo predecessore. 3 È il narratore stesso che, per bocca di Evandro, parla tramite Enea ai contemporanei e formula un ammonimento enfatico : « osa, ospite, disprezzare le ricchezze e renditi anche tu degno della divinità e accostati non ostile a questa povertà ». 4 La povertà, rappresentata con tratti comico-realistici nell’episodio callimacheo di Eracle e Molorco (e maledetta dalla vecchia nell’Ecale), viene trasfigurata dal poeta augusteo nel mito delle origini umili, da cui si è sviluppato l’Impero di Roma. 5 Riproponendo una sceneggiatura di Callimaco, l’Eneide propone un ideale etico-politico imperiale, che è al cuore del moralismo arcaizzante di Augusto : la semplicità, frugalità e modestia della Roma arcaica, recuperate attraverso la restaurazione del mos maiorum e reinterpretate alla luce della filosofia stoica. È il passo famoso che chiude la ‘passeggiata archeologica’ :  





























talibus inter se dictis ad tecta subibant pauperis Evandri, passimque armenta videbant Romanoque foro et lautis mugire Carinis. ut ventum ad sedes, ‘haec’ inquit ‘limina victor Alcides subiit, haec illum regia cepit. aude, hospes, contemnere opes et te quoque dignum finge deo rebusque veni non asper egenis’. dixit, et angusti supter fastigia tecti ingentem Aenean duxit stratisque locavit effultum foliis et pelle Libystidis ursae… (Aen. 8, 359-368) 1  D’Alessio 20074, n. 28 a p. 461, a sh 260 a (= ait. 151 Mass.), 9 ; n. 17 alle pp. 284-285, a Hec. fr. 17 H. (= 238 Pf.), 3, e n. 127 a p. 337, a Hec. fr. 101 H. (= 339 Pf.) ; inoltre introd., p. 19 e nn. 1 e 6, pp. 446 e 450. 2  Vedi Hollis 20092, pp. 341-354 (Appendix iii). 3  L’associazione tra Ercole, Enea e Augusto è presupposta dal disegno dell’Eneide. Per l’episodio di Caco come emblema della lotta tra kosmos e caos cf. Hardie 1986, pp. 110-118 ; sui parallelismi tra Caco e Mezenzio : Clausen 1987, pp. 71-72 (eccessivo, nell’accostare Caco e Turno, Galinsky 1966 e 1972, pp. 144-145, come poi Buchheit 1963, pp. 116-117, e Cairns 1989, p. 84 ; cf. La Penna 2005, pp. 268-269 e n. 3 a p. 530). Su Ercole come modello per Enea cf. Hardie 1998, pp. 82-83 con bibliografia ; per l’assimilazione di Augusto a Ercole, La Penna 2005, pp. 228-229 e 270-271. Sui tratti primitivi, o addirittura bestiali, di Ercole nello scontro con Caco cf. tuttavia Feeney 1991, pp. 156-162 ; Hardie 1993, pp. 66-67, e sopr. Labate 2010, pp. 46-50. 4  Per i problemi interpretativi posti da dignum … deo cf. Eden 1975 e Gransden 1976, a 8, 364365. 5  Fabbrini 2007, pp. 32-36.  













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Il paradigma di Ercole, proposto a Enea come modello da emulare (e ai lettori dell’Eneide come figura di Augusto), 1 proietta la sua ombra anche nella Tebaide, come una silhouette su cui è ritagliata in chiusa la figura di Teseo :  



iamque hospes Theseus ; orant succedere muris dignarique domos. nec tecta hostilia victor aspernatus init. (Theb. 12, 784-786)  

Victor e hospes : il paradigma eroico giunge alla Tebaide dalle storie parallele di Teseo ed Eracle in Callimaco, mediato dalla rappresentazione di Ercole ed Enea in Virgilio. Il testo di Stazio risale all’archetipo ellenistico attraverso la tradizione epica romana. 2 L’Eneide ha trasformato il modello callimacheo nella matrice nobile di una poesia nuova, raffinata e sublime, sottile e grande insieme : una narrazione epica che concilia l’arte poetica moderna con la grandezza eroica, le tradizioni nazionali, l’impegno politico e ideologico. A sua volta, la Tebaide sviluppa il dialogo con Callimaco – con l’Ecale e con la Victoria Berenices, messe in parallelo tra loro – guardando a Virgilio e insieme superandolo : nel disegnare l’eroe del poema, Stazio ricerca una poetica del paradosso, elabora un’ideologia imperiale matura e concentra la narrazione sulle qualità del sovrano, più che sull’etica collettiva di un popolo. Qui Teseo è hospes addirittura degli hostes : per paradosso, il vincitore viene ospitato e acclamato dai vinti come un salvatore. L’accento cade ora sulla degnazione di un grande – dignari, nec … aspernatus – e sulla benevolenza del potere supremo verso i sottoposti. L’ideale rappresentato non è un imperativo etico comune, ma, in modo più esclusivo, l’etica per un sovrano : è la civilitas dell’imperatore, affabile coi sudditi, avvicinabile dagli inferiori, che si esprime nei gesti di Teseo. 3 Comune con l’Ercole virgiliano è il motivo dell’ospitalità come pausa pacifica nella serie di imprese eroiche e come prova di modestia che mitiga la superbia del vincitore (Aen. 8, 200-204 ‘attulit et nobis aliquando optantibus aetas / auxilium adventumque dei. nam maximus ultor, / tergemini nece Geryonae spoliisque superbus, / Alcides aderat taurosque hac victor agebat / ingentis, vallemque boves amnemque tenebant’ ; 362-363 ‘haec’ inquit ‘limina victor / Alcides subiit’).  















1  Per la specifica associazione tra l’episodio di Ercole e i riti presso l’Ara Maxima al ritorno di Augusto dall’Oriente, il giorno precedente il trionfo del 29 a.C. (rappresentato in Virgilio sullo scudo di Enea), cf. Binder 1971, pp. 42-44 e 145-149 ; Nisbet, Rudd 2004, a Hor. carm. 3, 14, 1. 2  Su victor come parola-chiave in Aen. 8 cf. Gransden 1976, al v. 50 ; per hospes cf. 10, 460, 494-495, 516-517 ; 11, 165. Nel descrivere i gesti dell’ospitalità Stazio riecheggia anche la declinazione ovidiana del motivo, nell’episodio di Acheloo : Ov. met. 8, 550-551 ‘succede meis’ ait, ‘inclite, tectis, / Cecropide’ ; 560-561 adnuit Aegides ‘utor’que, ‘Acheloe, domoque / consilioque tuo’ respondit ; et usus utroque est. / pumice multicavo nec levibus atria tofis / structa subit ; cf. 570 amnis Acarnanum, laetissimus hospite tanto. Il ruolo di ospite caratterizza già le imprese più antiche di Teseo, da sempre accolto festosamente come liberatore da mostri e briganti : cf. Plut. Thes. 12, 1 ; 23, 5 filoxenivh~. 3  Sulla civilitas vedi Wallace-Hadrill 1982.  

















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Anche in Teseo, vincitore e ospite prima ad Atene e poi a Tebe, Stazio sottolinea l’esemplare equilibrio tra superbia e modestia (Theb. 12, 523 ante ducem spolia… ; 543-545 atque ubi tardavit currus et ab axe superbo / explorat causas victor poscitque benigna / aure preces… ; 768-771 risit vocesque manusque / horridus Aegides, ferrataque arbore magnos / molitur iactus, nec non prius ore superbo / intonat… ; 785-786 nec tecta hostilia victor / aspernatus init). Allo stesso tempo, in quest’epica del furor, appaiono ridotte al minimo per l’eroe ateniese, nello scontro con Creonte, l’ira e le furiae che rendevano problematica l’immagine di Ercole nella lotta con Caco e quella di Enea nel duello con Turno. 1 Il modello eneadico dell’Ercole hospes, le cui sacre tracce vengono mostrate all’ammirazione dei visitatori, riaffiora nel Panegirico di Plinio, a proposito delle peregrinazioni di Traiano da giovane tribuno : Plin. paneg. 15, 4 veniet ergo tempus quo posteri visere visendumque tradere minoribus suis gestient, quis sudores tuos hauserit campus, quae refectiones tuas arbores, quae somnum saxa praetexerint, quod denique tectum magnus hospes impleveris, ut tunc ipsi tibi ingentium ducum sacra vestigia isdem in locis monstrabantur. Come in Virgilio le tracce di Ercole, vincitore e ospite pacifico dei tecta pauperis Evandri, vengono mostrate a Enea, esortato a conformarsi a quel modello, così, in Plinio, Traiano ammira le « sacre vestigia » di ingentes duces del passato e si prepara a diventare, a sua volta, oggetto di ammirazione da parte delle generazioni future : i posteri visiteranno i luoghi in cui ha combattuto, in cui si è riposato, in cui è stato – come Ercole ed Enea – « grande ospite » di dimore straniere. 2 Lo stesso complesso di motivi, con analoghe movenze eziologiche e impostazione paradigmatica, segna nella Tebaide la presentazione delle truppe nemee, nel catalogo del quarto libro : un passo che richiama l’episodio di Molorco in Callimaco e ne segnala ai lettori la memoria (gloria nota casae) ; Theb. 4, 159-164 dat Nemea comites, et quas in proelia vires / sacra Cleonaei cogunt vineta Molorchi. / gloria nota casae, foribus simulata salignis / hospitis arma dei, parvoque ostenditur arvo, / robur ubi et laxos qua reclinaverit arcus / ilice, qua cubiti sedeant vestigia terra. Tratti comuni a Stazio, Virgilio e Plinio (il modulo archeologico, con anafora di pronomi e deittici, verbi di ‘mostrare’, funzione didascalica) rivelano una stessa matrice callimachea, su cui si è impressa la stilizzazione virgiliana e la rilettura in chiave romano-imperiale dell’Eneide.  

























1  Su Ercole cf. Hardie 1993, pp. 66-67 e 1997, pp. 319-320 ; su affinità e distanza tra Ercole ed Enea, Labate 2010, pp. 46-47. Per il dibattito sull’ira di Enea, su cui orientano Horsfall 1995, pp. 192-216 (spec. pp. 199, 201-203, 213-214), e Braund 1997, pp. 214-216, cf., in part., Galinsky 1988 e 1994 ; Cairns 1989, pp. 82-84 ; Stahl 1990 ; Putnam 1990 (= 1995) ; Hardie 1991 ; Thomas 1991 e 1998 ; Traina 1990 (= 1998, pp. 113-115, cf. 119) ; Conte 20072, pp. 128-130. Vedi anche infra, § 8. 2  La ripresa è notata da Terzaghi 1949, pp. 126-127 (non persuaso Trisoglio 1973), che insiste piuttosto sul modello di Enea, mentre è il modello di Ercole che viene citato da Plinio nel capitolo precedente ; si noti il dettaglio dell’albero, assente in Virgilio, ma presente anche nel passo della Tebaide che richiama l’episodio di Molorco in Callimaco : Theb. 4, 163-164, citato infra nel testo. Durry 1938 (= 19643), a 15, 4 veniet, nota lo sviluppo simile in Stat. silv. 5, 2, 143-151, su cui cf. Gibson 2006. Significativo anche l’uso dell’exemplum di Ercole e Molorco in [Tib.] paneg. in Mess. 12-13.  



















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Guerra e pace, vittoria e riposo, armi impugnate e deposte, eroismo e convivialità, superbia e modestia : le polarità esplorate negli episodi di Eracle e Teseo in Callimaco si ripropongono nel contesto romano come aspetti compresenti di una visione imperiale, poli di un’ideologia che vuole il sovrano minaccioso e mite, all’altezza della pace e della guerra, trionfante sui nemici e artefice di un superamento dei conflitti nell’armonia politica. 1 Le connotazioni pacifiche dell’Ercole nemeo, in tensione con le caratteristiche di un eroe della forza, sono valorizzate da Stazio anche in Silvae 4, 6. Qui la descrizione della statuetta (l’Hercules Epitrapezios Novi Vindicis) traduce nei modi dell’ekphrasis i valori del racconto callimacheo, accogliendone i principi programmatici nella poetica di un genere minore e mutando quegli ideali estetici nella proposta di un modello insieme etico ed estetico : un modello sociale e morale complesso, che contempera istanze dell’otium e omaggio imperiale, disimpegno politico e adesione alla propaganda ; nel bronzetto del supereroe dal volto mite e rilassato, che regge in una mano la coppa e nell’altra la clava, Stazio concilia raffinatezza del gusto e immagine del potere, stile di vita della committenza privata e richiamo alla rappresentazione ufficiale di Domiziano come alter Hercules. 2 Vincitore e ospite : il Teseo della Tebaide si ricongiunge in chiusa al Teseo dell’Ecale, alla figura vittoriosa e benevola già evocata da Evadne col richiamo a Callimaco e rappresentata dall’eroe, al suo ingresso in scena, nel gesto di ascoltare la supplica dal carro del trionfo. Riappropriatosi di un ruolo bellico da grande epica, l’eroe staziano non dimentica il suo passato nell’epillio ellenistico, ma reinterpreta una parte che l’Eneide ha già riscritto e mutato in paradigma imperiale : il trionfatore grande e modesto, l’ospite eccezionale e misurato, un modello eroico ed etico-politico integrato da Virgilio nel discorso augusteo. Su quell’esemplare, Stazio modella a sua volta il personaggio di Teseo, ridisegnando l’identità dell’eroe in funzione del discorso epico e politico della Tebaide. Ogni parola ha un peso, nell’economia della conclusione. Una coppia di termini compendia una tradizione letteraria ellenistico-romana e rilancia una proposta ideologica valida per l’età flavia : nello spazio di due versi e mezzo, l’immagine finale dell’eroe promuove una visione del potere imperiale. Il modello del vincitore amico degli umili, disegnato da Callimaco per eroi mitici in narrazioni di tono medio e realistico, è divenuto nell’Eneide un paradigma epico-eroico e un modello etico per la società imperiale, fatto di modestia e disprezzo delle ricchezze : nel racconto mitico, Virgilio esprime un ideale affine a quello che lo stesso Callimaco esaltava nell’epinicio per Sosibio, figu 

















1  Vedi cap. i, § 1. 3. Cf. l’exemplum di Ercole per Domiziano a banchetto in silv. 4, 2, 50-51 sic gravis Alcides post horrida iussa reversus / gaudebat strato latus adclinare leoni. 2  Cf. cap. i, p. 39 e n. 2. Su silv. 4, 6 importante ora Bonadeo 2010. Sulle riprese dell’episodio callimacheo di Molorco in Stazio, che comprendono anche silv. 3, 1, cf. Thomas 1983 (= 1999), pp. 103-105 ; per il filtro virgiliano, Micozzi 2007, a Theb. 4, 159-160, 161 e 161-164.  

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ra prestigiosa della corte tolemaica (secondo l’identificazione più probabile) ; Call. ep. et eleg. min. fr. 384 Pf., 53-58 : « e colui per le cui vittorie cantiamo, che amichevole al popolo / ha indole, e non dimentica gli umili, / cosa rarissima a vedersi in un uomo ricco / se il suo animo non è superiore all’opulenza : / non voglio lodarlo quanto merita, né trascurarlo / – in entrambi i casi temo la lingua del popolo – … ». 1 È l’ideale del potente benefattore, caro alla propaganda ellenistica e romana, che può prendere corpo in un eroe del mito. In Stazio quell’ideale si incarna in Teseo e prende la forma di un’immagine emblematica : la rappresentazione di un moto ‘spontaneo’ di simpatia verso gli inferiori che, pure, rispetta una gestualità simbolica e si inscrive in una sceneggiatura già vista. Per il sovrano che percorre la città o vi entra trionfante, il contatto con la folla è un imprevisto programmato, contemplato dal cerimoniale e codificato dall’etichetta imperiale ; i panegirici lo esaltano come tratto distintivo di un imperatore civilis, pronto ad accettare di buon grado le acclamazioni e l’accoglienza del popolo. 2 In termini simili, ancora col ricordo di Virgilio, Claudiano rievoca l’ingresso trionfale di Teodosio a Roma, dopo la vittoria su Magno Massimo, ed esalta il padre di fronte a Onorio come esempio di civilitas e di modestia : paneg. vi cons. Hon. 55-64 nil optimus ille / divorum toto meruit felicius aevo / quam quod Romuleis victor sub moenibus egit / te consorte dies, cum se melioribus addens / exemplis civem gereret terrore remoto, / alternos cum plebe iocos dilectaque passus / iurgia patriciasque domos privataque passim / visere deposito dignatus limina fastu. / publicus hinc ardescit amor, cum moribus aequis / inclinat populo regale modestia culmen. 3 L’ospitalità nelle case dei cittadini, accettata di buon grado dal vincitore, è rappresentata come un trionfo imperiale sulla superbia anche dal panegirista Pacato (Paneg. 2 [12], 47, 3 ut crebro civilique progressu non publica tantum opera lustraveris sed privatas quoque aedes divinis vestigiis consecraris) e accomuna Teodosio a Traiano : la disponibilità ad incontrare e a frequentare gli amici, come un privato cittadino, è un tratto di civilitas che Dione Cassio ed Eutropio attribuiscono all’optimus princeps, mentre il Panegirico di Plinio esalta il contegno affabile di Traiano e il suo mostrarsi accessibile a tutta la popolazione in occasione dell’ingresso in Roma. 4  

























1  Tr. di G. B. D’Alessio (kai; to;n ejf∆ ou| nivkaisin ajeivdomen, a[rqmia dhvmw/ / eijdovta kai; mikrw`n oujk ejpilhqovmenon, / pauvriston tov ken ajndri; par∆ ajfneiw`/ ti~ i[doito / w/|tini mh; kreivsswn h/\ novo~ eujtucivh~: / ou[te to;n aijnhvsw tovson a[xio~ ou[te lavqwmai / - deivdia ga;r dhvmou glw`ssan ejp∆ ajmfotevroi~ -...). Il

passo è citato da Delarue 2000, p. 139. 2  Per il cerimoniale dell’adventus e i valori in esso rappresentati cf. Badel 2009, insieme agli altri contributi in Bérenger, Perrin-Saminadayar 2009, con bibliografia precedente. 3  Cf. Dewar 1996, ad loc. ; Cameron 1970, pp. 382-383. Claudiano loda la stessa mancanza di arroganza in Stilicone : cons. Stil. 2, 160-168 quin ipsa Superbia longe / discessit … contingere passim / adfarique licet … quem videt Augusti socerum regnique parentem, / miratur conviva parem, cum tanta potestas / civem lenis agat ; 3, 191-201, 218 ss. 4  Per attestazioni simili su altri imperatori, a iniziare da Augusto, vedi Wallace-Hadrill 1982, n.  





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Accettare di essere accolto come ospite nelle case private, perfino da vincitore e tra gli onori divini del trionfo, è un atteggiamento fuori dagli schemi, che proprio per il suo carattere straordinario si impone come paradigmatico nel ritratto dell’imperatore. Ritraendo quel contegno, eccezionale ed esemplare insieme, in un contesto di trionfo – addirittura di esultanza dei nemici –, Stazio esalta per iperbole il protagonista epico come l’eroe di un panegirico imperiale. iv. 7. Aidos ed eleos . Teseo e il potere delle immagini Le immagini di Teseo, fissate nel racconto epico quasi come in una rappresentazione monumentale, formano una successione di figure che per evidenza plastica, potenziale simbolico, connotazioni ideologiche pare comporre un’iconografia imperiale. Per molti tratti, l’agire dell’eroe fa pensare a un panegirico messo in forma narrativa. I modi del racconto si distinguono da quelli riservati agli altri personaggi. Atteggiamenti, espressioni del volto, parole e azioni sono, per Teseo, come schemi esemplari o paragrafi di un trattato sulla regalità. La narrazione spedita, non ritardata da interventi divini, digressioni o morae, concentrata e accelerata, corre verso una conclusione attesa : l’eroe, apparso in scena come trionfatore e chiamato immediatamente a una nuova impresa, è pronto all’istante per una nuova vittoria e un nuovo trionfo. Non c’è complicazione nel suo ritratto, né indugio nella sua azione : tutto si muove rapido verso lo scopo, mentre gesti e mosse del protagonista si fermano nei versi acquistando un rilievo quasi plastico. 1 L’ingresso in scena è una processione trionfale, accolta da applausi e grida di gioia, annunciata da una tromba « ilare » che canta vittoria e pace ; con avidità, gli Ateniesi guardano sfilare il sovrano vincitore e, davanti a lui, le Amazzoni e le loro spoglie insanguinate ; desta stupore la regina Ippolita, che si mostra convertita al legame coniugale, mentre le compagne appaiono ancora fedeli ai « costumi severi » di una femminilità ‘barbara’. 2 È su questo sfondo che si svolge la supplica delle Argive, anch’esse ammirate di fronte a un trionfo che, tuttavia, ricorda loro la sconfitta dei mariti. Il loro discostarsi dall’altare per  



















54 a p. 40. Cf. Dion. Cass. 68, 7, 3 pollavki~ kai; tevtarto~ wjcei`to, e[~ te ta;~ oijkiva~ aujtw`n kai; a[neu ge froura`~ e[stin w|n ejsiw;n eujqumei`to, « spesso portava sul suo carro altri tre, entrava nelle case dei cittadini, talvolta senza guardia, e vi si divertiva » ; Eutr. 8, 4 gloriam tamen militarem civilitate et moderatione superavit. Romae et per provincias aequalem se omnibus exhibens, amicos salutandi causa frequentans vel aegrotantes vel cum festos dies habuissent, convivia cum isdem indiscreta vicissim habens, saepe in vehiculis eorum sedens, nullum senatorum laedens… ; 8, 5 inter alia dicta hoc ipsius fertur egregium. amicis enim culpantibus, quod nimium circa omnes communis esset, respondit talem se imperatorem esse privatis, quales esse sibi imperatores privatus optasset ; inoltre Plin. paneg. 22-23 (e cf. 24). 1  Vedi anche infra, § 10, pp. 189-190, a proposito della similitudine col toro, 12, 599-605. 2  12, 519 ss. iamque domos patrias Scythicae post aspera gentis / proelia laurigero subeuntem Thesea curru / laetifici plausus missusque ad sidera vulgi / clamor et emeritis hilaris tuba nuntiat armis… ; 532 ss. primus amor niveis victorem cernere vectum / quadriiugis…  











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assistere alla processione è, al tempo stesso, il moto di avvicinamento con cui il supplice si accosta al supplicato : un gesto rituale che si compirà, dopo il discorso di Evadne, nell’atteggiamento delle donne di tendere le mani in preghiera, tra le grida. 1 La prima immagine di Teseo (la prima frase in cui è soggetto dell’azione) è il quadro del trionfatore che ferma il carro e, dall’alto della sua posizione, si informa sullo stato delle Argive, disposto ad ascoltarne la preghiera con orecchie benevole :  





atque ubi tardavit currus et ab axe superbo explorat causas victor poscitque benigna aure preces, ausa ante alias Capaneia coniunx… (Theb. 12, 543-545)

La visione del condottiero che porge ascolto alla supplice dall’alto del carro fa pensare all’exemplum di Traiano ritratto da Dante, nel Purgatorio, fra i rilievi in marmo del girone dei Superbi : la leggenda dell’imperatore che, in partenza per una spedizione, si attarda per rendere immediatamente giustizia a una « vedovella » che gli suscita « pietà » ; Purg. 10, 73-93 : « Quiv’era ‘storiata l’alta gloria / del roman principato il cui valore / mosse Gregorio alla sua gran vittoria ; / i’ dico di Traiano imperadore ; / e una vedovella li era al freno, / di lacrime atteggiata e di dolore. / Intorno a lui parea calcato e pieno / di cavalieri, e l’aguglie dell’oro / sovr’essi in vista al vento si movieno. / La miserella intra tutti costoro / parea dicer : “Segnor, fammi vendetta / di mio figliuol ch’è morto, ond’io m’accoro”. / Ed elli a lei rispondere… (91) Ond’elli : “Or ti conforta ; ch’ei convene / ch’i’ solva il mio dovere anzi ch’i’ mova : / giustizia vuole e pietà mi ritene” ». Con le storie di Davide e di Maria, l’episodio di Traiano sta di fronte alle anime come esempio della virtù opposta al vizio della superbia ; un’immagine che il Benvenuto commenta sottolineando l’umiltà del gesto imperiale : …hic fuit magna iustitia et clementia, quae sunt duae virtutes principales principum, sed maxima humilitas fuit fundamentum huius virtutis. certe maxima humiliatio fuit quod altissimus princeps ita inclinaret imperatoriam maiestatem ad audiendam mulierculam plorantem sub superbis signis in campo Martio superbo, inter equites superbos (com. Pg. 10, 91-93). Per la sua qualità visiva ed esemplare, la descrizione della gestualità del sovrano in Stazio si avvicina al « visibile parlare » rappresentato in forma di ekphrasis nel testo di Dante. L’entrata trionfale nel poema, cui corrisponde il trionfo finale, stacca Teseo dagli altri personaggi della Tebaide e lo pone a un livello di superiorità assoluta, anche in senso fisico e visivo (ab axe superbo 543). A Roma il trionfatore era equiparato a Giove ; Teseo è pronto ad assumere su di sé la funzione del  







































1  12, 540-542 paulum et ab insessis maestae Pelopeides aris / promovere gradum seriemque et dona triumphi / mirantur, victique animo rediere mariti ; 587-588 dixerat ; excipiunt cunctae tenduntque precantes / cum clamore manus. Cf. Gould 1973, p. 77 ; Telò 2002, pp. 9-10.  





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sommo dio e a rappresentare infine in terra, come sovrano ideale ispirato dalla clemenza, la provvidenza divina che appare ora più che mai assente dal poema. 1 L’esultanza festante tra cui l’eroe compare e si congeda dall’epos è quella delle masse che celebrano in festa il trionfo o l’adventus dell’imperatore : scene che ricorrono con tratti simili nella poesia encomiastica e nei panegirici ; 2 tra ovazioni entusiaste, il desiderio di vedere la figura vittoriosa assomiglia a una manifestazione di ‘amore’ verso il sovrano (primus amor 532). 3 La disponibilità regale all’ascolto, benevola e non arrogante, si esercita come un atto di condiscendenza e modestia da una posizione di indiscussa preminenza e superiorità : è questo il carattere della clemenza imperiale, che qui e altrove viene fatta coincidere con la misericordia. È l’atteggiamento di degnazione che Stazio definisce in un verso delle Silvae, esaltando la clemenza di Rutilio Gallico : dignarique manus humiles et verba precantum (silv. 1, 4, 46) ; un’assenza di superbia da cui deriva al praefectus urbi l’amore del popolo. I gesti di Teseo e il suo aspetto esteriore sono, nel testo, i primi segni della sua grandezza morale. Al termine della supplica, le sue parole di risposta sono precedute dall’immagine del suo volto, che rivela in un riflesso spontaneo le reazioni interiori :  

















dixerat ; excipiunt cunctae tenduntque precantes cum clamore manus ; rubuit Neptunius heros permotus lacrimis ; iusta mox concitus ira exclamat : … (Theb. 12, 587-590)  







Il sovrano arrossisce : una manifestazione fisica straordinariamente rara per l’eroe epico viene attribuita al re di Atene nella duplice veste di condottiero e di capo politico. Stazio riserva all’eroe della Tebaide la stessa attenzione a moti ed espressioni del viso con cui accompagna l’immagine di Domiziano nelle Silvae : il volto del personaggio epico assume qui la stessa, cruciale funzione comunicativa e simbolica che la cultura romana assegna al volto dell’imperatore. 4  





1  Vedi cap. i, § 2. 4. Sull’equiparazione del generale trionfante a Giove cf. Oakley 2005, pp. 101103 con discussione della bibliografia. 2  Cf. Nisbet, Rudd 2004, a Hor. carm. 3, 14, pp. 180-181 con bibliografia ; Fedeli, Ciccarelli 2008, a Hor. carm. 4, 2, spec. pp. 121-123, e a 4, 5 ; vedi supra, § 6, n. 2 a p. 162. 3  Vedi cap. i, § 1. 3, pp. 42-44 ; Du Quesnay 1995, pp. 159-160 e n. 170 ; Fedeli, Ciccarelli 2008, a Hor. carm. 4, 5, 9-16, spec. p. 273 ; cf. Men. rhet. 384, 28-31 ; 395, 31-32. 4  Cf. cap. i, § 1. 3, p. 38 e n. 2 su silv. 1, 1, 15-16 ; inoltre silv. 4, 2, 38-56 (cf. Hulls 2007) ; Krasser 2009, su silv. 2, 5, 27-30 magni quod Caesaris ora … unius amissi tetigit iactura leonis. Per la concentrazione sul volto dell’imperatore in un contesto di trionfo, Ov. Pont. 2, 2, 79 (Tiberio) ipse super currum placido spectabilis ore (Hor. carm. 4, 5, 6-8 sviluppa invece il topos encomiastico dello splendore del volto, apportatore di primavera) ; Plin. paneg. 23, 6 inde tu in palatium quidem, sed eo vultu ea moderatione, ut si privatam domum peteres, e 24, 2 non tu civium amplexus ad pedes tuos deprimis, nec osculum manu reddis ; manet imperatori quae prior oris humanitas (sull’ingresso trionfale di Traiano a Roma) ; la mitezza dello sguardo promette disponibilità all’ascolto (Mart. 5, 6, 8-10). Cf. anche Sen. clem.  





















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Nel Panegirico, rossore e lacrime di Traiano sono letti da Plinio come segni certi di pudore modesto e di commozione sincera, di fronte alle sincere acclamazioni dei senatori : Plin. paneg. 2, 7 ad quas ille voces lacrimis etiam ac multo pudore suffunditur ; agnoscit enim sentitque sibi, non principi dici ; 73, 4 comprobasti et ipse acclamationum nostrarum fidem lacrimarum tuarum veritate. vidimus humescentes oculos tuos demissumque gaudio vultum, tantumque sanguinis in ore quantum in animo pudoris. I fattori psichici implicati sono diversi, ma analogo al nostro passo è il risalto dato all’espressione del sovrano, mostrata in un’occasione ufficiale agli sguardi di un folto pubblico : nelle forme solenni di un contesto istituzionale, il volto comunica più di quanto le parole possano esprimere, e in modo più immediato. L’arrossire pudico si unisce in Traiano addirittura alle lacrime, le lacrime dell’imperatore : un segno potente, la cui forza simbolica è valorizzata anche altrove dalla letteratura panegiristica, più spesso come manifestazione di misericordia. Il segno fisico, che precede e preannuncia l’azione – la concessione di benefici ai miserevoli, che suscitano compassione –, diventa un segno di riconoscimento del buon principe. 1 La capacità di arrossire, il rossore frequente o costante del volto sono elementi sfruttati dalla propaganda politica già in età repubblicana. La tradizione pro- e antipompeiana, rappresentata da Varrone e da Sallustio (oltre che, in forma satirica, da un frammento forse di carme trionfale), interpreta il rossore abituale di Pompeo come segno di probità e modestia o, viceversa, di inverecondia e spudoratezza. Una contrapposizione che si ripresenta fra il ritratto di Domiziano accreditato, secondo Svetonio, dall’imperatore stesso e quello tracciato da Tacito nell’Agricola e nelle Historiae o da Plinio nel Panegirico : proprio il segno distintivo del pudore può coprire, in un cattivo principe, l’incapacità di provare vergogna e dunque un’impudenza assoluta. 2 Nel testo di Stazio, rubuit è l’indizio più immediato di un coinvolgimento emotivo profondo, che umanizza la divinità del Neptunius heros. 3 Non sarebbe facile, né opportuno, riferire il rossore di Teseo (come quello di Lavinia  

















1, 13, 4 voltu, qui maxime populos demeretur, amabilis con Braund 2009. Per altri aspetti politici della fisiognomica come rappresentazione del potere, da Scipione agli imperatori, cf. anche Fucecchi 1993, pp. 31-37, spec. pp. 33 ss. Più in generale, sul nesso tra visibilità e potere nell’ideologia imperiale romana cf. Hekster 2005. 1  Hostein 2006 (p. 218 su Plinio) ; cf. Paneg. 5 [8], 9, 5 vidimus misericordiam tuam umentibus oculis eminentem ; Lassandro 2003, p. 252 ; L’Huillier 1992, pp. 314-315 ; Badel 2009, p. 170. 2  La Penna 1975 ; Tac. Agr. 45, 2 saevus ille vultus et rubor, quo se contra pudorem muniebat ; hist. 4, 40, 1 ignotis adhuc moribus crebra oris confusio pro modestia accipiebatur ; Plin. paneg. 48, 4 in ore impudentia multo rubore suffusa ; Svet. Dom. 18, 1-2 …fuit … vultu modesto ruborisque pleno … commendari se verecundia oris adeo sentiebat, ut apud senatum sic quondam iactaverit : ‘usque adhoc certe et animum meum probastis et vultum’ ; cf., inoltre, Hulls 2007, pp. 203-204 (non privo di forzature, tuttavia, nel cogliere in silv. 4, 2, 43 un riferimento al rossore del volto di Domiziano, confuso col motivo del fulgore divino dell’imperatore trionfante e con l’allusione al presunto volto dipinto di rosso della statua di Giove nel trionfo). Per le diverse disposizioni fisiche e interpretazioni sociali relative all’arrossire cf. anche Sen. epist. 11, spec. § 4. 3  Per un effetto analogo, in relazione a Ercole, cf. silv. 3, 1, 89 erubuit risitque deus.  



















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nell’Eneide) a un’unica emozione, ad esclusione di altre, ma si può tentare di coglierne le peculiarità confrontando la tradizione letteraria. 1 Rubuit Neptunius heros / permotus lacrimis ; iusta mox concitus ira… Rossore, commozione-compassione, giusta ira : in un verso e mezzo, una folla di emozioni turba Teseo e ne confonde il volto. Il rossore di un eroe è una rarità nell’epos. Un solo eroe maschio ‘arrossisce’, per metafora, nell’Eneide – Stazio sembra saperlo bene. è Achille, che « arrossì di fronte a » qualcosa di sacro, « ebbe rispetto dei diritti e della lealtà dovuta a un supplice », ‘iura fidemque / supplicis erubuit’ (Aen. 2, 541-542), quando restituì a Priamo il cadavere di Ettore : 2 lo ricorda Priamo stesso a Neottolemo, figlio indegno dell’eroe, che ha appena fatto morire Polite davanti ai suoi occhi di padre e sta per uccidere il vecchio re all’altare. Erubesco, reso transitivo con un’audacia sintattica, rende concreto il sentimento del rispetto e visibile il senso di vergogna, che al rispetto si mescola e di cui il rossore del volto è segno convenzionale. 3 Rispetto e vergogna : in Virgilio, l’uso figurato di un verbo fisico esprime e traduce in immagine il concetto complesso di aidos. Pudore rispettoso è il sentimento che si prova di fronte ai supplici – l’aidos, appunto –, come gli studi di John Gould e di Douglas Cairns hanno mostrato ; il rispetto di un diritto sacro e della persona offesa, in chi ascolta una supplica, si accompagna (oltre che al disagio di fronte a un’ingiusta umiliazione) alla considerazione di sé, all’orgoglio e al senso del disonore che il mancato esaudimento del supplice comporterebbe, per la mancata osservanza dei doveri del supplicato. 4 Nel contesto rituale, aidos non è solo l’atteggiamento di rispetto, nei confronti dell’obbligo vincolante che il gesto del supplice impone, ma anche il senso ‘negativo’ della costrizione sociale che ne deriva, il sentimento di pudore e di vergogna del supplicato, di fronte all’eventualità infamante di violare quell’obbligo sacro : il timore di venir meno al proprio onore agli occhi della  



























1  Pollmann 2004, ad loc. identifica la prima causa del rossore di Teseo nell’eleos, che tuttavia non risulta tradizionalmente associato a quel sintomo fisico. 2  Quasi moltiplicando l’unicum virgiliano, Stazio fa arrossire tre volte Achille nell’Achilleide (cf. Feeney 2004, p. 98), per ragioni che riflettono l’esitazione dell’eroe, e del poema, tra amore e guerra : l’innamoramento a prima vista (Ach. 1, 304-310), la vergogna di vedersi riflesso in vesti femminili sullo scudo caelatum pugnas, che rappresenta forse l’eroe stesso tra scene di battaglia (1, 864-866 ut vero accessit propius luxque aemula vultum / reddidit et simili talem se vidit in auro, / horruit erubuitque simul, dopo la similitudine col leone addomesticato che, visto il bagliore del ferro, si vergogna e diventa feroce), e una vergogna che mescola l’amore al senso dell’onore guerriero (2, 81-85 ‘quid si nunc aliquis patriis rapturus ab oris / Deidamian eat viduaque e sede revellat / attonitam et magni clamantem nomen Achillis ?’. / illius ad capulum rediit manus ac simul ingens / inpulit ora rubor). 3  Cf. Horsfall 2008, ad loc. (« the blush of respectful modesty, clearly »). Per l’equivalenza tra rossore e pudor o verecundia cf. Kaster 1997, pp. 7-8 ; 2005, pp. 21-22, 61. Claudiano riusa l’audacia di Virgilio nella reazione di Plutone alla supplica di Lachesi, rapt. Pros. 1, 67-69 vix ille pepercit / erubuitque preces animusque relanguit atrox, / quamvis indocilis flecti (non lo notano i commenti, né Tsai 2007, pp. 41-47, che privilegia la componente erotico-elegiaca). 4  Gould 1973, pp. 90-95 ; Cairns 1993, pp. 183-185, 221-223 sull’Edipo a Colono, 276-287 sulla supplica in Euripide.  











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comunità. La situazione di supplica genera tensione e suscita imbarazzo anche in chi ascolta, mostrando rispetto. Le parole di Priamo nell’Eneide evocano il finale dell’Iliade e richiamano l’aidos menzionato insieme all’eleos, nel xxiv libro, come qualità che Achille ha smarrito ed è invitato a ritrovare : l’accusa di Apollo in apertura, “… levwn d∆ w{~ … w{~ ∆Acileu;~ e[leon me;n ajpwvlesen, oujdev oiJ aijdw;~ / givgnetai, h{ t∆ a[ndra~ mevga sivnetai hjd∆ ojnivnhsi”, « come un leone … così Achille ha perduto ogni pietà, e non ha quel rispetto che molto danneggia e favorisce gli uomini » (Hom. Il. 24, 41-45), è seguita in chiusa dalla supplica dello stesso Priamo, finalmente efficace sull’eroe, “ajll∆ aijdei`o qeouv~, ∆Acileu`, aujtovn t∆ ejlevhson, / mnhsavmeno~ sou` patrov~”, « Abbi rispetto verso gli dèi, Achille, e compassione di me, pensando a tuo padre » (24, 503-504). 1 Ricordando Omero, Virgilio esprime l’idea del rispetto nell’immagine del rossore, mentre lascia implicita la compassione (opposta qui alla ferocia di Pirro) nel gesto di Achille di restituire il corpo di Ettore al nemico : corpusque exsangue sepulcro / reddidit Hectoreum (Aen. 2, 542-543). Stazio sembra ricordare il modo in cui l’Eneide alludeva al testo di Omero. Nel contesto di una supplica che rivendica il diritto degli sconfitti alla sepoltura, in una chiusa epica modellata in parte sulla riconciliazione nel finale dell’Iliade, il poeta flavio rilegge Omero attraverso il suo interprete augusteo. Virgilio aveva tradotto l’aidos di Achille in un rossore figurato ; Stazio fa un passo in più : rappresenta l’arrossire letterale di Teseo come reazione visibile alla supplica e manifestazione fisica dell’aidos, nella sua componente ‘negativa’ di pudore vergognoso. Restituendo al verbo, e al gesto dell’eroe, il suo senso concreto, Stazio sostituisce all’audacia sintattica di Virgilio una nuova audacia. Rubuit … permotus lacrimis : nella scena della Tebaide, aidos ed eleos sono messi in parallelo, come nel testo omerico. 2 C’è un paradosso nell’attribuire a Teseo, difensore dei diritti violati degli Argivi, il senso di vergogna provato da Achille di fronte alla supplica di Priamo – il pudore di un eroe responsabile di aver violato il diritto alla sepoltura, di fronte alla richiesta del nemico di riavere il corpo straziato del figlio. La forzatura di Stazio ha il valore di un’iperbole : per contrasto con l’eroe omerico, Teseo mostra di sentirsi in qualche modo responsabile di un’ingiustizia che non ha commesso, ma che giunge in ritardo a riparare. La supplica di Evadne ha chiamato in causa il suo dovere di intervenire a difesa di una legge universale, in nome della responsabilità  























1  Tr. di G. Paduano. Cf. Richardson 1993 e Mirto 1997, ad locc., anche per i sospetti sul v. 45 (= Hes. op. 318), spurio secondo Aristarco ; Cairns 1993, p. 132 n. 254. Cf., inoltre, 24, 207-208 “…ou[ s∆ ejlehvsei, / oujdev tiv s∆ aijdevsetai”, « non avrà compassione né rispetto di te ». 2  Cf. anche la mimesi del rito di supplica nell’invocazione di Licaone ad Achille sul campo di battaglia, Hom. Il. 21, 74, con Mirto 1997, ad loc. Quanto a permotus, che presuppone la misericordia, cf. Hostein 2006, p. 224 e nn. 41 e 42 ; cf. Sen. clem. 1, 1, 4 alterius aetate prima motus sum, alterius ultima ; alium dignitati donavi, alium humilitati ; quotiens nullam inveneram misericordiae causam, mihi peperci.  











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di cui Atene e il suo sovrano sono investiti (e per cui sono inferiori solo agli dèi) : ‘heu princeps Natura ! ubi numina, ubi ille est / fulminis iniusti iaculator ? ubi estis, Athenae ?’ (12, 561-562) ; prima che sia troppo tardi, la città a cui viene riconosciuto il primato di civiltà e giustizia è chiamata ad assumersi il compito che le spetta : ‘properate, verendi / Cecropidae ; vos ista decet vindicta, priusquam / Emathii Thracesque dolent, quaeque extat ubique / gens arsura rogis manesque habitura supremos’ (569-572). Eroe civilizzatore e ‘cittadino’, i cui valori si identificano con quelli della polis, Teseo arrossisce di fronte a un diritto umano calpestato, che attende vendetta dagli Ateniesi : nell’atteggiamento del sovrano si rispecchia quello della città che, per tradizione, rispetta i supplici, mostra compassione delle sventure e ha vergogna di mancare al proprio dovere di ristabilire la giustizia. Il sintomo fisico del pudore, inatteso e clamoroso per un eroe epico, è reso più sorprendente dal contrasto con sovrani che, nella Tebaide, arrossiscono per l’ira furiosa che distingue il tiranno. 1 Qui il rossore è invece la reazione spontanea a un’ingiustizia, che suscita al tempo stesso compassione per le vittime, vergogna di fronte a una condizione immeritata, di cui è un disonore non farsi carico, e giusto sdegno verso i responsabili. La compresenza di pudore, compassione e ira, che spinge all’azione bellica, torna in combinazioni analoghe in altri contesti epici ; nel terzo libro della Tebaide, l’implicita preghiera di Polinice suscita negli Argivi commozione, sdegno e risentimento, che li spingono a far guerra a Tebe (Theb. 3, 381-383 sic variis pertemptat pectora dictis / obliquatque preces. commotae questibus irae / et mixtus lacrimis caluit dolor) ; nel nono libro dell’Eneide, « pudore e ira » istigano i Troiani ad affrontare Turno in campo aperto, se non li trattenesse l’ordine di Enea (Aen. 9, 44 ergo etsi conferre manum pudor iraque monstrant) ; 2 vergogna e compassione per le sventure della propria parte sono sollecitati nel rimprovero di Mnesteo ai Troiani in Aen. 9, 786-787 ‘non infelicis patriae veterumque deorum / et magni Aeneae, segnes, miseretque pudetque ?’, una formula che Stazio varia due volte con pudet miseretque (nel lamento della ninfa che invoca vendetta per il figlio dal padre Ismeno, provocando l’ira del fiume contro Ippomedonte, e nella deplorazione del ratto di Elena esibita da Ulisse, mentre conduce un Achille finalmente irato alla guerra contro Troia). 3  

































1  Theb. 3, 77-78 iam moverat iras / rex ferus, et tristes ignescunt sanguine vultus (cf. 11, 524-526 coeunt … tantum animis iraque, atque ignescentia cernunt / per galeas odia). Per l’oggettivazione simbolica dell’ira e del furor nel rossore del volto cf. 7, 48 Iraeque rubentes ; 11, 415 inque vicem Stygiae rubuere sorores, con Venini 1970, ad loc. Per il rossore come segno di violenza in un tiranno cf. Sen epist. 11, 4, su Silla ; per Domiziano vedi supra, n. 2 a p. 166. 2  Cf. Hardie 1994, ad loc., e cf. Aen. 10, 398 mixtus dolor et pudor armat in hostis. Cf. anche Barton 2001, p. 265. 3  Theb. 9, 389-390 ‘nec tantae pudet heu miseretque ruinae, / dure parens ?’ (cf. 9, 377-380 ‘sic nostro in gurgite regnas ? mitior heu misero discors alienaque tellus, / mitior unda maris, quae iuxta flumina corpus / rettulit et miseram visa expectasse parentem’ ; 9, 476-477 ‘unde haec, Ismene, repente / ira tibi ?’) ; Ach. 2, 63-64 ‘hospitis Atridae – pudet heu miseretque potentis / Europae ! – spoliat thalamos’.  















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L’inattesa attribuzione della vergogna a Teseo, come stimolo all’azione bellica, esalta umanità e senso di responsabilità del sovrano ateniese : di fronte alla supplica, l’eroe sente immediatamente come propria la causa degli Argivi, avverte l’ingiustizia da essi sofferta come una provocazione, un’onta per i Greci tutti e un disonore per la sua identità eroica, messa in crisi se Atene non intervenisse a restaurare un diritto offeso. Il senso dell’aijdwv~ si inquadra qui in un codice eroico più ampio in confronto all’etica del guerriero omerico (per cui l’aidos è il timore individuale del giudizio collettivo) e agli stessi ideali riconosciuti da Achille nel finale dell’Iliade (l’aidos come rispetto sacro dei supplici). Qui il valore bellico individuale (‘belliger Aegide’ 12, 546) fa tutt’uno con la vocazione eroica della città (‘invictae nil tale precentur Athenae’ 12, 586) ed entrambi sono messi al servizio di una missione etica universale, in nome del rispetto dei diritti dell’umanità e delle leggi del cosmo (‘hominum … sanguis erant, homines’ 12, 555-556 ; ‘quaeque extat ubique / gens arsura rogis manesque habitura supremos’ 12, 571-572 ; ‘da terris unum caeloque Ereboque laborem’ 12, 580 ; ‘terrarum leges et mundi foedera mecum / defensura cohors’ 12, 642-643). Nella Tebaide, il codice etico del guerriero si è trasformato nel codice eticopolitico di un buon condottiero e di un buon re, incarnazione dei valori civici di Atene, reinterpretati da Stazio secondo l’ideologia imperiale romana. Presso l’ara Clementiae, lo slancio di Teseo all’azione non è solo la reazione orgogliosa del guerriero, sfidato nell’onore (‘victumne putasti / Thesea, dire Creon ? adsum, nec sanguine fessum / crede ; sitit meritos etiamnum haec dextra cruores’ 12, 593-595), ma rappresenta l’impegno del sovrano a un compito politico ideale, dilatato alle dimensioni ecumeniche dell’Impero di Roma. Compassione e pudore – aidos ed eleos – sono qui i valori umani di una collettività che mostra rispetto e misericordia verso supplici e sventurati, e i requisiti individuali di un eroe capace di tradurre quei valori civili nell’azione epica. Rubuit … permotus lacrimis ; iusta mox concitus ira… Rispetto dei supplici e misericordia legano Teseo all’altare della Clemenza, emblema della città che « sola sa provare compassione » ; pudore e ira lo apparentano ai guerrieri dell’Iliade e dell’Eneide, o ai rari eroi epici che arrivano perfino ad arrossire (come il Fetonte calunniato di Ovidio, met. 1, 755 erubuit Phaeton iramque pudore repressit). 1 Aidos ed eleos, aidos e menis : l’aspetto più fecondo di sviluppi politici e il fondo più arcaico e guerresco dell’eroismo omerico si integrano, nell’epos di Stazio, in una costruzione complessa. Per un eroe civile come Teseo anche l’ira, motore dell’azione epica, diviene una questione di Stato : la guerra giusta che chiude la Tebaide è messa in moto dalla « giusta ira » di un sovrano clemente.  





























1  Gli altri casi delle Metamorfosi sono eccezionali : il rubor di Ermafrodito, ignaro d’amore, che prefigura il mutamento di sesso (4, 329) ; l’erubescere degli eroi di fronte ad Atalanta, nella caccia al cinghiale calidonio, a sottolineare la trasgressione delle norme di genere (8, 388 erubuere viri).  



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iv. 8. Iusta ira e clementia Sulla iusta ira di Teseo si è discusso molto, quasi a riprodurre in piccolo la discussione sull’ira di Enea nel finale virgiliano. 1 Questa prima reazione dell’eroe alla supplica argiva, iusta mox concitus ira (12, 589), 2 ha una replica nella « giusta ira di guerra » che lo infiamma a Tebe nell’aria infetta dai cadaveri : dirisque vaporibus aegrum / aera pulverea penitus sub casside ducens / ingemit et iustas belli flammatur in iras (12, 712-714). 3 La ripresa di un modello epico forte potrebbe bastare da sola a commentare questi passi. Teseo è animato contro Creonte da un sentimento affine a quello che, nell’Eneide, spinge i sudditi di Mezenzio a combattere contro il tiranno : così in Aen. 10, 714 iustae quibus est Mezentius irae, e già nelle parole di Evandro a Enea in 8, 494-495 ‘ergo omnis furiis surrexit Etruria iustis, / regem ad supplicium praesenti Marte reposcunt…’, 498-501 ‘retinet longaevos haruspex / fata canens : “o Maeoniae delecta iuventus, / flos veterum virtusque virum, quos iustus in hostem / fert dolor et merita accendit Mezentius ira…”…’. 4 Quello che Stazio rappresenta qui è uno sdegno giustificato di fronte al male, come il legittimo sdegno ammesso dalla filosofia peripatetica contro cui Seneca polemizza nel De ira. 5 Tocchiamo così un punto delicato. Anche sulla Tebaide, come sull’Eneide, si esercita talvolta una critica incline al fondamentalismo filosofico, mentre dovrebbe essere evidente che non si può pretendere da un poema epico, per quanto costellato di temi, immagini e terminologia stoica, l’impegno filosofico e la coerenza dottrinale di un trattato senecano. 6 Non si può, ma soprattutto non c’è ragione di farlo ; c’è da chiedersi, piuttosto, che cosa sarebbe del genere epico se esso dovesse seguire la setta stoica nel rigore delle sue posizioni estreme, come il rifiuto categorico dell’ira e la  























1  Ampia trattazione in Ripoll 1998, pp. 432-440. Negativo, per es., il giudizio di Ganiban 2007, p. 222 e n. 60 : « While I agree that Theseus’ ira does have a positive outcome (the defeat of Creon), nonetheless the phrase iusta ira represents the problematic nature of Theseus’ clementia that can culminate in a “just” action but that is still based on destructive passions that could lead in the opposite direction – that is, to cruelty and crime ». 2  Stazio riformula, con l’aggiunta di iusta, una clausola impiegata da Lucano per Catone (9, 509 concitus ira) : cf. Delarue 2000, p. 372, e Pollmann 2004, ad loc. 3  Sembra difficile vedere qui « the apparent possession of Theseus by the angry dead » (Hardie 1993, p. 47). Si può confrontare, piuttosto, la scena degli Annales in cui Germanico dà sepoltura alle ossa dei soldati di Varo, caduti sei anni prima nella selva di Teutoburgo : un gesto di pietà che accresce l’ira verso i nemici (Tac. ann. 1, 62, 1 aucta in hostes ira). 4  Cf. Ripoll 1998, pp. 434, 438. Iusta ira è anche quella di Tideo contro Eteocle, giustificata dall’imboscata del tiranno contro l’ambasceria nel secondo libro (7, 538 iustae Tydeus memor … irae), o quella che Achille si prefigge di concepire, ascoltando da Ulisse le cause della guerra di Troia, in Ach. 2, 48 ‘libet iustas hinc sumere protinus iras’ : cf. Heslin 2005, p. 175 e n. 53. 5  Sen. ira 2, 6-14 (cf. 1, 12, 1). 6  Per la discussione sull’Eneide cf. l’opposizione tra condanna stoica e giustificazione peripatetica dell’ira di Enea nei lavori di Putnam e Galinsky (supra, n. 1 a p. 160) ; inoltre Bowra 1933 (= 1990) ; Hardie 1998, p. 82 ; La Penna 2005, pp. 258-261. Per l’epica neroniana e flavia cf. Billerbeck 1986 e 1986a. Sulla necessità di valutare Teseo in termini di tradizione epica, più che di coerenza stoica, insiste Ripoll 1998, pp. 446-450.  





















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negazione della sua utilità persino in guerra. 1 L’epica di Stazio va misurata con l’arte, e con la tradizione epica innanzi tutto, non col metro dell’etica stoica. Nella lignée degli eroi epici l’ultimo eroe della Tebaide si distingue, nonostante insinuazioni e intransigenze della critica pessimistica, per la relativa assenza di furor ; la iusta ira di Teseo appare, nel testo, giustificata dall’arroganza di un tiranno e temperata dalla clemenza del sovrano : una clemenza che si esercita infine verso lo stesso, irriducibile capo nemico, a cui non viene risparmiata la vita, ma è garantita la sepoltura. Rappresentando il gesto clemente di Teseo tirannicida, Stazio sembra correggere la contestata immagine finale di Enea, furiis accensus et ira / terribilis, di fronte a Turno ormai humilis supplex (Aen. 12, 946-947, 930). 2 La costruzione di questo finale va ricondotta, semmai, al dibattito sul rapporto tra ira e clementia che vediamo svilupparsi fra tarda Repubblica e primo Impero, anche al di fuori delle scuole filosofiche, in contesti culturali e letterari che fanno i conti con la decisiva trasformazione politica in atto a Roma. Si deve tenere in conto innanzi tutto la possibile, diversa modulazione del discorso senecano fra teoria etica, da un lato, e precettistica filosofica ad uso del sovrano, dall’altro ; lascia infatti frustrati una promessa non mantenuta nel De clementia, l’annuncio nel primo libro di una trattazione su « come ci si debba adirare coi nemici », non compiuta nel trattato così come lo possediamo : Sen. clem. 1, 12, 3 sed mox de Sulla, cum quaeremus quomodo hostibus irascendum sit, utique si in hostile nomen cives et ex eodem corpore abrupti transierint. 3 Su questo punto possiamo però constatare che una differenza di tono fra contesti diversamente orientati esisteva già nelle opere ciceroniane. In sede teorica, trattando di clementia e magnanimitas nel De officiis, Cicerone respingeva in toto la concezione peripatetica dell’ira (nec vero audiendi qui graviter inimicis irascendum putabunt idque magnanimi et fortis viri esse censebunt ; nihil enim laudabilius, nihil magno et praeclaro viro dignius placabilitate atque clementia…, Cic. off. 1, 88 ; cf. 89), così come, trattando delle passioni nelle Tusculanae, rifiutava più specificamente, con esempi tratti dalla storia e dal mito, la tesi dell’utilità dell’ira in guerra. 4 Eppure, parlando di fronte a Cesare vincitore, l’oratore lodava la clementia da lui dimostrata proprio in mezzo all’ira della vittoria : Marcell. 9 at vero cum aliquid clementer, mansuete, iuste, moderate, sapienter factum, in iracundia praesertim quae est inimica consilio, et in victoria quae natura insolens et superba est, audimus aut legimus, quo studio incendimur, non modo in gestis rebus sed etiam in fictis ut eos saepe quos numquam vidimus diligamus !  



























1  Importante su questo tema Braund, Gilbert 2003 (cf. anche l’appendice ii Contextualizing Epic Ira Philosophically). Per la posizione stoica cf. Sen. ira 1, 11, 1 ‘sed adversus hostes’ inquit ‘necessaria est ira’. nusquam minus : ubi non effusos esse oportet impetus sed temperatos et oboedientes… ; 8 non est itaque utilis ne in proeliis quidem aut bellis ira ; 1, 12, 5 ; 1, 13, 3. 2  Vedi supra, § 6, n. 1 a p. 160. 3  Cf. Malaspina 20052, ad loc. 4  Cic. Tusc. 4, 43 ; 48-50 (Teseo ed Ercole sono qui esempi della fortitudo, che non è mai priva di ratio : 50 …an etiam Theseus Marathonii tauri cornua conprehendit iratus ? …).  













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Se nella discussione teorica ciceroniana la clementia viene contrapposta all’ira, nelle orazioni cesariane una possibile conciliazione tra i due atteggiamenti è di fatto riconosciuta ed ammessa, è anzi trasformata in motivo di lode e impiegata come strumento di elogio (e di pressione) nei confronti del dittatore. La grandezza di un capo non viene fatta consistere, qui, nel non provare ira di fronte a un nemico – ira e vittoria sono anzi presupposte come coincidenti –, ma nel saperla tenere a freno, smettere a tempo, amministrare ad arte : 1 Marcell. 8 animum vincere, iracundiam cohibere, victo temperare, adversarium nobilitate, ingenio, virtute praestantem non modo extollere iacentem sed etiam amplificare eius pristinam dignitatem, haec qui faciat, non ego eum cum summis viris comparo, sed simillimum deo iudico ; 17 vidimus tuam victoriam proeliorum exitu terminatam : gladium vagina vacuum in urbe non vidimus. quos amisimus civis, eos vis Martis perculit, non ira victoriae, ut dubitare debeat nemo quin multos, si posset, C. Caesar ab inferis excitaret, quoniam ex eadem acie conservat quos potest. alterius vero partis nihil amplius dico quam id quod omnes verebamur : nimis iracundam futuram fuisse victoriam (inoltre 15 …cum pacis auctores conservandos statim censuerit, ceteris fuerit iratior ; 31 vicit is qui non … neque omnis quibus iratus esset eosdem etiam exilio aut morte dignos iudicaret). Cicerone elabora ora nel discorso politico, nella prospettiva di un potere assoluto, un concetto fissato in formulazioni proverbiali : vincere l’ira, e se stesso, è per un vincitore la vittoria più difficile, e la più grande. 2 Questa elaborazione di un nuovo discorso del potere, iniziata in età cesariana, che tenta di conciliare la clementia con l’ira – anche in funzione parenetica e a scopo strumentale – prosegue nella prima età imperiale e ha una tappa significativa nell’Ovidio dell’esilio. Le elegie dal Ponto ribadiscono ad ogni passo che la condanna del poeta è stata motivata dalla giusta ira di Augusto, ma ripetono ad ogni passo che la clemenza di Augusto può ora intervenire a mitigare quella pena. 3 Parlando del principe (e, indirettamente, al principe) il poeta esalta la clemenza da lui già dimostrata in mezzo all’ira : quanta sit in media clementia Caesaris ira, / si nescis, ex me certior esse potes (Pont. 3, 6, 7-10) ed  



















1  È interessante la vicinanza con la discussione dell’Etica Nicomachea sulla praovth~ (uno dei termini cui si sovrappone il latino clementia) come giusto mezzo nel dominio dell’ojrghv e come uso controllato dell’ira nelle circostanze opportune e per il tempo opportuno (cf. dei`) : Arist. eth. Nic. 1125b-1126a praovth~ d∆ ejsti; mesovth~ peri; ojrgav~:... oJ me;n ou\n ejf∆ oi|~ dei` kai; oi|~ dei` ojrgizovmeno~, e[ti de; kai; wJ~ dei` kai; o{te kai; o{son crovnon, ejpainei`tai: pra`o~ dh; ou|to~ a[n ei[h, ei[per hJ praovth~ ejpainei`tai « La mitezza è una via di mezzo nel dominio dei sentimenti di collera… Chi dunque monta in collera per le cose delle quali si deve e con chi si deve ed inoltre come si deve, quando si deve e per quanto tempo si deve, viene lodato. Questi sarà pertanto l’uomo mite, se è vero che la mitezza è lodata » (tr. di M. Zanatta). Alle posizioni peripatetiche Cicerone si avvicina anche in quel manifesto politico del buon governo che è l’epistola ad Q.fr. 1, 1, al § 38 : …resistendum esse iracundiae … quae quidem mihi virtus interdum non minor videtur quam omnino non irasci … moderari vero et animo et orationi cum sis iratus … etsi non est perfectae sapientiae, tamen est non mediocris ingeni. 2  Publil. sent. i, 22 ; Ov. her. 3, 85 ; Sen. ira 1, 11, 5 ; Val. Max. 9, 3, 7 ; cf. Gaertner 2005, a Ov. Pont. 1, 7, 48 (e cf. Plaut. trin. 309). 3  Cf. i passi raccolti da Lechi 1988, p. 126 e n. 31. Sul tema cf. Gaertner 2005, pp. 9-12, spec. pp. 11-12.  















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esprime fiducia nella giustizia che ne modera la forza (principe nec nostro deus est moderatior ullus ; / iustitia vires temperat ille suas 23-24). Augusto è un nume mite, anche se giustamente adirato con Ovidio (mite, sed iratum merito mihi, numen, Pont. 2, 2, 109), che ne ha meritato l’ira (meritam post Caesaris iram 2, 2, 19) : la sua clemenza è stata vinta solo da una colpa che ha costretto l’ira a esercitare la sua forza (victa tamen vitio est huius clementia nostro, / venit et ad vires ira coacta suas 2, 2, 119-120). La clementia dell’imperatore viene rappresentata e invocata qui come l’atteggiamento consueto di un giudice esemplare, che è stato eccezionalmente e momentaneamente impedito « solo da un giusto moto di reazione di fronte a una mancanza di estrema gravità ». Le tensioni del rapporto tra ira, iustitia e clementia sono esplorate a fondo nelle elegie dall’esilio, in una complessa mediazione tra modelli ideologici e ritratto del principe, encomio imperiale e parenesi, strategia persuasiva e possibile ironia ; « non c’è contraddizione fra l’esigenza di iustitia e lo sdegno di chi ricorre a misure severe, la sua ira, come Ovidio non si stanca di ribadire » : lo ha mostrato Francesca Lechi in uno studio importante. 1 Di più, persino ira e clementia possono apparire conciliate, addirittura costrette in una iunctura audace ; quella che un nesso frequente legittima come iusta ira è descritta talvolta come mitissima ira, o ira moderata : la retorica dell’elogio e della supplica imperiale culmina in un ossimoro – l’‘ira clemente’ – che viene sfruttato come slogan ad invocare un ulteriore ammorbidirsi dell’ira di Augusto. 2 Con il consolidarsi del principato, il problema del rapporto fra clemenza e giustizia, e fra clemenza e ira, assume un’importanza centrale : l’elegia ovidiana lo testimonia in forme evidenti. Qualsiasi lettura si voglia dare di questa tentata conciliazione tra ira e clementia (che alcuni interpretano, come la poesia dell’esilio nel suo complesso, in senso esclusivamente ironico e sovversivo), il discorso di Ovidio mostra che il tema della iusta ira ha un ruolo di rilievo nell’elaborazione ideologica della clementia imperiale. 3 L’equilibrio tra iusta ira e clementia, cui l’imperatore è chiamato nell’irrogazione delle pene e nell’amministrazione della giustizia, non è diverso – sottolinea Ovidio – dall’equilibrio che egli ha sempre dimostrato nei confronti dei nemici sconfitti. È nell’ambito dei rapporti tra vincitore e vinti che la cultura  



























1  Lechi 1988, pp. 126-127. Per la polarità tra iusta ira e clementia cf., invece, Liv. 28, 25, 13 (i soldati responsabili di una seditio si consegnano a Scipione) : omnia circumspectantes [consilia] nihil reliqui habebant praeter unum tutissimum a malis consiliis receptum, ut imperatoris vel iustae irae vel non desperandae clementiae sese committerent : etiam hostibus eum ignovisse cum quibus ferro dimicasset. 2  Cf. Pont. 1, 8, 69 ut iustam supprimat iram / Caesar ; 2, 3, 61 ira quidem primo fuerat tua iusta ; 2, 8, 76 iustaque quamvis est sit minor ira dei ; trist. 1, 2, 61 quamque dedit vitam mitissima Caesaris ira ; trist. 5, 2, 55 ira quidem moderata tua est ; Pont. 2, 9, 77 habuit moderatam vindicis iram ; inoltre trist. 2, 27-31 his precor exemplis tua nunc, mitissime Caesar, / fiat ab ingenio mollior ira meo. / illa quidem iusta est, nec me meruisse negabo … sed… ; Pont. 1, 2, 87-88 ira viri mitis…, e 96 paene etiam merito parcior ira meo est. 3  Una recente interpretazione in senso ironico è nel commento di Gaertner 2005 al primo libro delle Ex Ponto.  

















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romana, fin dai tempi di Cicerone, costruisce e decostruisce l’opposizione tra ira e clementia. A Roma, la clemenza va meritata con la sottomissione – parcere subiectis et debellare superbos. Nella Tebaide, la superbia senza fine di Creonte merita, fino alla fine, la giusta ira di Teseo, unita alla sola clemenza infine possibile : il sovrano ateniese garantisce al tiranno la sepoltura, mentre lo punisce con la morte per aver negato sepoltura ai nemici. Nelle parole e nei gesti conclusivi dell’eroe si esprime, una volta di più, un legittimo sdegno ; l’esemplare esercizio di clemenza coincide, in chiusa, con una punizione esemplare. L’ira di Teseo, qualificata come « giusta » dal narratore, non ha altro oggetto se non il tiranno. L’aristia dell’eroe, ridotta al minimo, risparmia i Tebani in fuga ed è seguita, al cadere di Creonte sul campo, da un affratellamento immediato tra combattenti ; in una scena epica eccezionale, il vincitore viene festeggiato dagli stessi vinti (12, 782-788). Stazio dà forma narrativa a un modello ideologico che già Ovidio aveva elaborato in poesia. In Tristia 2 la clementia di Augusto in guerra è invocata come modello per la sua condotta in pace ; il poeta condannato può ben sperare nel principe, tanto mite da aver perdonato nemici che non avrebbero perdonato lui e da averli beneficati dopo esserne stato attaccato in armi. 1 Per l’imperatore, sottolinea Ovidio, lo stesso giorno che mette fine alla guerra mette fine anche all’« ira di guerra », belli iram – proprio il nesso che Stazio riferisce a Teseo, iustas belli … iras (Theb. 12, 714). 2 Così, il trionfo diventa una festa comune di vincitori e vinti, tra la gioia collettiva che tende ad annullare la distinzione fra le parti :  





















quaeque dies bellum, belli tibi sustulit iram, parsque simul templis utraque dona tulit ; utque tuus gaudet miles, quod vicerit hostem, sic victum cur se gaudeat, hostis habet. (Ov. trist. 2, 47-50)  

« Lo stesso giorno » diventa in Stazio addirittura lo stesso istante : in un racconto che quasi realizza le iperboli di un panegirico, la condensazione del tempo narrativo esalta le immagini e il loro contenuto simbolico. La scena epica rende concreto il concetto romano della clemenza, nell’accezione politicomilitare, come capacità di deporre l’ira insieme con le armi : dalla propaganda cesariana in poi, la dote essenziale di un capo supremo e di un imperatore. È la capacità attribuita a Teodosio nel Panegirico di Pacato (tu … ita omnem cum armis iram deposuisti, ut ceciderit nemo post bellum, Paneg. 2 [12], 45, 4) o nei versi di Claudiano che celebrano la vittoria imperiale sui tyranni, gli usurpatori Magno Massimo e Flavio Eugenio : Claud. paneg. iv cons. Hon. 111-116 nec tamen  









1  Ov. trist. 2, 43-46 tu veniam parti superatae saepe dedisti, / non concessurus quam tibi victor erat. / divitiis etiam multos et honoribus auctos / vidi, qui tulerant in caput arma tuum. 2  Pollmann 2004, ad loc. cita, insieme a passi di Sallustio e Livio (cui si aggiunga Liv. 1, 30, 7), anche quello di Ovidio, senza darvi particolare rilievo.

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oblitus civem cedentibus atrox / partibus infremuit : non insultare iacenti / malebat. mitis precibus, pietatis abundans, / poenae parcus erat ; paci non intulit iram ; / post acies odiis idem qui terminus armis. / profuit hoc vincente capi… 1 Una dote che era già stata esaltata dall’elegia augustea, come nella formula properziana che rende l’ira soggetto dell’azione clemente : Prop. 3, 22, 21-22 nam quantum ferro tantum pietate potentes / stamus : victrices temperat ira manus. 2 Mitigare la forza delle armi con la clemenza è una prerogativa di Roma, che Rutilio Namaziano farà risalire alla discendenza da Marte e Venere, e riassumerà in una serie di slogans ossimorici : 1, 69-72 mitigat armatas victrix clementia vires : / convenit in mores numen utrumque tuos. / hinc tibi certandi bona parcendique voluptas : / quos timuit superat, quos superavit amat. ‘Amare quelli che si sono sconfitti’ : una formula che sembra essere anticipata, presa alla lettera e realizzata all’istante nella chiusa di Stazio. 3 Rappresentando in Teseo l’equilibrio tra iusta ira e clementia, e il loro controllato avvicendarsi, il poeta flavio delinea un ideale imperiale che ripropone il modello di Augusto, come definito dalla poesia ovidiana : un ideale che vediamo ripresentarsi nella poesia successiva e nei panegirici, anche al di fuori dell’ambito bellico. Saper porre un termine all’ira, quando è venuto il tempo della clemenza : è questa la prerogativa di un buon sovrano. 4 Forse sempre in età flavia, l’autore dell’Octavia menziona il « dare un tempo all’ira » tra le manifestazioni di clemenza che hanno reso Augusto pari agli dei : Octavia 472-478 sen. pulchrum eminere est inter illustres viros, / consulere patriae, parcere afflictis, fera / caede abstinere, tempus atque irae dare, / orbi quietem, saeculo pacem suo. / haec summa virtus, petitur hac caelum via. / sic ille patriae primus Augustus parens / complexus astra est, colitur et templis deus. Secoli dopo, un poeta che ha in Stazio un modello importante ricondurrà all’insegnamento della Clementia la capacità di Stilicone di smettere l’ira rapidamente : Claud. cons. Stil. 2, 1419 haec docet ut … deponas ocius iram / quam moveas. È la natura stessa della clemenza, come autolimitazione del potere assoluto, che presuppone un’illimitata possibilità del sovrano di abbandonarsi all’ira. La cautela del ragionamento di Seneca in veste di trattatista politico è indicativa ; nel negoziato tra  







































1  Cf. Lehner 1984, ai vv. 114-115. Vedi anche infra, § 10. 2  Attribuita qui a Roma nel suo complesso, la clemenza (significata qui da pietas) è esaltata come dote di Augusto in Prop. 2, 16, 41-42 Caesaris haec virtus et gloria Caesaris haec est : / illa, qua vicit, condidit arma manu, ripreso da Ov. am. 1, 2, 51-52 aspice cognati felicia Caesaris arma : / qua vicit, victos protegit ille manu ; cf. anche Pont. 1, 2, 123 qui vicit semper, victis ut parcere posset. 3  Molti degli slogans e degli ossimori che danno forma al concetto romano della pace come frutto della guerra sono riassunti nella celebrazione dell’Ara Pacis in Ov. fast. 1, 711-718 (cf. 718 siqua parum Romam terra timebat, amet). 4  Analogo l’atteggiamento verso Cesare in Sen. ira 2, 23, 3-4 …quo rarior autem moderatio in regibus, hoc laudanda magis est. fecit hoc et C. Caesar ille qui victoria civili clementissime usus est … quamvis moderate soleret irasci, maluit tamen non posse ; gratissimum putavit genus veniae nescire quid quisque peccasset. Quando si ha a che fare con i re, il vero compito è persuaderli a porre fine all’ira, come mostra di sapere la Medea di Seneca nell’affrontare Creonte : Sen. Med. 203-206 difficile quam sit animum ab ira flectere / iam concitatum quamque regale hoc putet / sceptris superbas quisquis admovit manus, / qua coepit ire, regia didici mea.  









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filosofia stoica e potere imperiale tentato nel De clementia, il rifiuto dell’ira, già assoluto e reciso in sede teorica, diventa invece un rifiuto qualificato, che tende necessariamente a perdere la sua rigidezza : non decet regem saeva nec inexorabilis ira (1, 5, 6). 1 Nonostante le pretese della più rigida tra le filosofie, anche il genere epico, come il potere imperiale, non può fare a meno dell’ira. 2 In fondo a un poema carico di ire dei tiranni e di furore di guerra, il giusto sdegno di Teseo ristabilisce una misura epica, che è insieme l’ideale di una misura etica e politica.  





iv. 9. Trionfo del lutto, trionfo e gioia dei vinti Non il trionfo, ma il lutto chiude la Tebaide. Prima di congedarla, il narratore declina il modulo epico delle ‘dieci-cento-mille bocche’ come formula di preterizione, non per introdurre un catalogo di truppe, ma, a rovescio, per scorciare un elenco senza fine di sepolture e di lamenti femminili. 3 Nell’ultimo verso del racconto, il compianto funebre per il più giovane degli eroi accomuna le parti (Arcada, quem geminae pariter flevere cohortes, 12, 807) ; poco prima, a chiudere il libro in un anello di morte, il lutto semipersonificato conduce le Argive ai cadaveri, come, in apertura, « dolore e lutto, condottieri cruenti » guidavano i Tebani a cercare i caduti sul campo (vidui ducunt ad corpora luctus, 12, 796 ; itur in exanguem populum bellique iacentis / reliquias, quacumque dolor luctusque, cruenti, / exegere, duces 12, 22-24) ; ancora, la voluttà del pianto, che nel finale dell’Iliade univa Achille a Priamo (Hom. Il. 24, 227, 507, 513-514), assimila qui, ai Tebani in lutto dell’esordio, lamenti e lacrime delle Argive in chiusa, personificati con audacia (iam lacrimis exempta dies, nec serus abegit / Vesper : amant miseri lamenta malisque fruuntur 12, 44-45 ; gaudent lamenta novaeque / exultant lacrimae 12, 793-794). 4  

















1  Cf. 1, 5, 4-5 clementia … sed in regia, quo rarior, eo mirabilior. quid enim est memorabilius quam eum cuius irae nihil obstat … ipsum sibi manum inicere et potestate sua in melius placidiusque uti… ? muliebre est furere in ira… 2  Ancora per iusta ira, sono significativi i termini con cui Lucano descrive la reazione del figlio di Pompeo alla notizia della morte del padre, e l’atteggiamento di Catone nei suoi confronti, in 9, 145-147 cum talia Magnus / audisset, non in gemitus lacrimasque dolorem / effudit iustaque furens pietate profatur…, 165-166 dixerat et classem saevus rapiebat in undas ; / sed Cato laudatam iuvenis conpescuit iram : il campione dello stoicismo insieme elogia e frena l’ira del giovane, che il giusto amore verso il padre spinge al furore (iusta … furens pietate) e al desiderio di vendetta (saevus). 3  Theb. 12, 797-809 : cf. Pollmann 2004, ad loc. ; Hardie 1997, pp. 154-155 ; Hinds 1998, pp. 34-47, spec. pp. 45-46 ; l’inversione del modulo omerico di Il. 2, 488-490 era già in Ov. met. 8, 533-535, e trist. 1, 5, 53-56 (mediata forse da Verg. Aen. 6, 625-627). 4  Cf. anche 12, 40 quae post bella voluptas. Per la voluttà del pianto cf. Ov. trist. 4, 3, 37 ; Wick 2004, a Lucan. 9, 112 ; Ramondetti 1999, a Sen. ad Marc. 1, 7 (cf. ad Pol. 4, 1 ; epist. 99, 25-29 ; Thy. 952-953) ; Tac. ann. 3, 6, 2 ; Plin. epist. 8, 16, 5. Il concetto, già omerico, è investito di un significato poetologico in Eur. Tro. 608-609 e 115-121 (Di Benedetto 1998, p. 73) e, con valori in parte diversi, negli ossimori di Sen. Tro. 1009-1017 e 1067-1068 (Petrone 2008, spec. pp. 365-367) ; il nesso senecano gaudet … dolor sembra presupposto dal più audace gaudent lamenta di Stazio, legittimato dal parallelismo con exultant lacrimae (figurato e fisico, straniato e proprio insieme).  



























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Trionfo e lutto coesistono. Nella frenesia da Baccanti delle Argive, scese in corsa dai monti di Tebe, ogni cosa si confonde : le lacrime di gioia con la gioia delle lacrime, l’esultanza della vittoria col piacere del lamento, gaudio e lutto con uno slancio guerresco di vendetta ; 1 finché su tutto, tra l’entusiasmo verso Teseo e la furia contro Creonte, prevale l’impulso a ritrovare i corpi dei propri cari :  







ecce per adversas Dircaei verticis umbras femineus quatit astra fragor, matresque Pelasgae decurrunt : quales Bacchea ad bella vocatae Thyiades amentes, magnum quas poscere credas aut fecisse nefas ; gaudent lamenta novaeque exultant lacrimae ; rapit huc, rapit impetus illuc, Thesea magnanimum quaerant prius, anne Creonta, anne suos : vidui ducunt ad corpora luctus. (Theb. 12, 789-796)  







L’attesa di un nuovo nefas, creata dalla similitudine ‘illusoria’ (credas), è subito smentita dal movimento pietoso verso i caduti : l’epica dell’odio è terminata. In un orizzonte chiuso, senza futuro (se non quello, evocato appena, degli Epigoni), la storia tragica dei Sette si è compiuta e ha trovato il suo scioglimento, se non una vera soluzione. Esemplarità e pessimismo sono intrecciati qui in un nodo inestricabile. Il trionfo del lutto è solo uno dei paradossi di questa chiusa : l’esultanza degli sconfitti è il paradosso speculare. Le donne di Tebe gioiscono, anch’esse di estasi bacchica, allo stesso modo in cui il fiume dell’India, sottomesso dal tirso, festeggiava ebbro le orge di Bacco :  





gaudent matresque nurusque Ogygiae, qualis thyrso bellante subactus mollia laudabat iam marcidus orgia Ganges.

(Theb. 12, 786-788)

La vittoria ateniese sembra rifondare l’identità tebana, riportando la città alle sue origini mitiche ; le associazioni dionisiache di Tebe, festose e inquietanti a un tempo, appaiono distribuite qui tra due schiere di donne e due immagini contrapposte : la vittoria di Bacco, come modello del trionfo e paradigma imperiale romano (787-788) ; 2 lo sparagmov~ di Penteo, come maledizione di Tebe e archetipo di ogni nefas familiare e civile (791-793). 3 La visione sdoppiata e  









1  La scena di esultanza richiama il trionfo di Teseo ad Atene (cf. 12, 786 gaudent e 790 femineus quatit astra fragor con 12, 521-522 laetifici plausus missusque ad sidera vulgi / clamor), ma qui al trionfo si mescolano furia e lutto. Sulle ambivalenze del lamento femminile in chiusa, insieme minaccia e strumento di riconciliazione, cf. Panoussi 2007. 2  Cf. silv. 4, 2, 49 sic iacet ad Gangen Indis ululantibus Euhan ; Beard 2007, pp. 315-318. 3  Cf. il paragone per Giocasta, che tenta di scongiurare il duello tra i figli, in 11, 315-320 …amens … non sexus decorisve memor : Pentheia qualis / mater ad insani scandebat culmina montis, / promissum  



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confusa, tra una Tebe ri-conquistata da Bacco e le Argive mutate in ‘Baccanti’ a Tebe, tra folle femminili in festa ed in furia, esalta uno dei paradossi di Stazio : lo scambio paradossale tra la gioia dei vinti (donne e uomini tebani liberati dal tiranno) e il lutto dei ‘vincitori’ (le vedove argive vittime del tiranno e del suo divieto). Con un’inversione dei ruoli, alla gioia del trionfo nella parte sconfitta (gaudent) risponde il trionfo del lutto nella parte vincitrice (gaudent lamenta). 1 Il paradosso è lo stile in cui si esprime la complessità tragica del finale. Eppure, sul paradosso si fonda la stessa costruzione esemplare della vittoria ateniese : un’affermazione di valori che, entro la cornice di pessimismo del poema, rappresenta la proposta ideologica di Stazio. Torniamo ai versi che precedono l’esultanza delle donne tebane, pochissimi versi che condensano motivi cruciali :  







accedunt utrimque pio vexilla tumultu permiscentque manus ; medio iam foedera bello, iamque hospes Theseus ; orant succedere muris dignarique domos. nec tecta hostilia victor aspernatus init ; gaudent matresque nurusque… (Theb. 12, 782-786)  





Tutto qui è iperbolico, eccezionale, esemplare : la pietas delle schiere che si stringono le mani, la pace in mezzo alla battaglia, il nemico che diventa ospite, i vinti che invitano il vincitore, il vincitore che si degna di visitare le case dei nemici, l’esultare della città conquistata. Molto più che una resa, questo è un affratellamento tra combattenti. Il riconciliarsi dei nemici sul campo realizza infine i tentativi di pacificazione tante volte frustrati nel poema. Il modello lucaneo della pace tentata a Ilerda tra soldati cesariani e pompeiani, e soffocata nel sangue dai capi, ha caricato di suspense molte scene della Tebaide, terminate poi in tragedia ; qui, quel modello viene ripreso e superato in una rappacificazione finalmente compiuta, non tra concittadini o consanguinei, ma tra nemici. 2 Quella che Stazio inscena non è solo la spontaneità della sottomis 





saevo caput adlatura Lyaeo ; una similitudine insieme paradossale e prefiguratrice : il tentativo di pacificazione è assimilato al nefas intrafamiliare, che ha in Agave il suo emblema e che accomuna una lunga serie di madri nella storia tragica di Tebe (cf. 1, 229-230 ; 2, 662-663 ; 3, 188-190 ; 4, 565-569 ; 7, 168-171 ; 7, 211-214 ; 11, 487-488). 1  Per gaudeo come verbo del trionfo cf. Bessone 1997, a her. 12, 159-160. 2  Micozzi 1999, pp. 353-357 mostra come l’episodio di Lucano sia modello per le ripetute oscillazioni dei combattenti e dei fratelli, in Stazio, tra pietas e furore bellico, in seguito ai vani tentativi di pacificazione di Giocasta, di Antigone, di Adrasto, della Pietas. Io credo che la scena di Theb. 12, 782-786 cit., con il mescolarsi affettuoso tra le schiere, la stretta delle mani, l’ospitalità al capo nemico, sia l’ultima ripresa di un modello che viene infine rovesciato e superato, nella concordia realizzata sul campo dopo un combattimento tra nemici, anziché tra concittadini : cf. Lucan. 4, 174177 mox, ut stimulis maioribus ardens / rupit amor leges, audet transcendere vallum / miles, in amplexus effusas tendere palmas. / hospitis ille ciet nomen, vocat ille propinquum… ; 196-210 pax erat et miles castris permixtus utrisque / errabat ; duro concordis caespite mensas / instituunt et permixto libamina Baccho … iunctoque cubili … est miseris renovata fides atque omne futurum / crevit amore nefas. nam, postquam foedera pacis / cognita Petreio … famulas scelerata ad proelia dextras / excitat … iunctosque amplexibus ense  





















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sione, motivo frequente nella celebrazione imperialistica, 1 ma addirittura il fraternizzare sul campo tra chi si è combattuto – tanto più sorprendente in un poema che ha visto protrarsi l’odio tra fratelli perfino oltre la morte in duello. Spontaneità della sottomissione, fraternizzare col nemico, addirittura esultanza degli sconfitti. La scena di Stazio traduce anche qui in forma narrativa il linguaggio iperbolico dei panegirici. L’esaltazione della clementia di Augusto in Tristia 2, già citata sopra, offre ancora un confronto importante. Nella visione di Ovidio la mitezza del principe, pronto a deporre l’ira insieme con le armi, trasforma il trionfo in una festa comune di vincitori e vinti : trist. 2, 48-50 …parsque simul templis utraque dona tulit ; / utque tuus gaudet miles, quod vicerit hostem, / sic victum cur se gaudeat, hostis habet. 2 Il quadro ovidiano, iperbolico e paradossale, della gioia del trionfo condivisa dagli sconfitti è quanto di più vicino al finale della Tebaide si possa indicare : qui la guerra si trasforma in pace nell’istante stesso in cui il tiranno è ucciso, e, mentre Teseo viene accolto come un ospite, le donne di Tebe manifestano la loro gioia ; Stazio ne illustra l’esultanza con l’immagine del Gange soggiogato ed ebbro che approva i riti di Bacco : gaudent matresque nurusque / Ogygiae, qualis thyrso bellante subactus / mollia laudabat iam marcidus orgia Ganges (Theb. 12, 786-788). È il trionfo di Augusto sullo scudo di Enea, come è stato notato, a offrire il modello per la rappresentazione del fiume sottomesso : Euphrates ibat iam mollior undis (Verg. Aen. 8, 726) ; Stazio disloca mollior in mollia … orgia e, rincarando iam mollior con iam marcidus, muta l’ammorbidirsi dell’ostilità addirittura in ebbrezza dionisiaca : attribuisce così al fiume personificato, non solo la sottomissione, ma un’approvazione entusiastica del vincitore (laudabat). 3 Il motivo convenzionale del fiume conquistato, modellato su Virgilio, viene attratto qui in un’iperbole audace : la visione della gioia esaltata delle donne vinte, che espande a sviluppo narrativo l’osservazione di Ovidio nei Tristia. Stazio combina così in un unico gesto allusivo due testi poetici diversamente coinvolti nella costruzione dell’ideologia augustea, sul tema della vittoria, del trionfo e della clementia verso i vinti. Presupposto dell’iperbole ovidiano-staziana è un concetto caro all’ideologia  























/ separat et multo disturbat sanguine pacem… ; 245-246 inter mensasque torosque, / quae modo conplexu foverunt, pectora caedunt. 1  Cf. Verg. georg. 4, 561-562 [sc. Caesar] victorque volentis / per populos dat iura ; Galasso 1995, a Ov. Pont. 2, 2, 77 ; Plin. paneg. 16, 3-4 nam ut ipse nolis pugnare moderatio, fortitudo tua praestat ut neque hostes tui velint. accipiet ergo aliquando Capitolium … imperatorem veram ac solidam gloriam reportantem, pacem tranquillitatem et tam confessa hostium obsequia, ut vincendus nemo fuerit. pulchrius hoc omnibus triumphis. 2  Cf. ora Ingleheart 2010, ad loc. 3  Cf. Hardie 1997, pp. 153-154, e Pollmann 2004, ad loc. Per il motivo dei fiumi sottomessi, raffigurati nelle immagini del corteo trionfale o menzionati in poesia a designare le regioni conquistate, cf. Östenberg 2009, pp. 215 ss., 230-245 ; La Penna 1963, n. 3 a p. 69 ; Hor. carm. 2, 9, 21-22, con Nisbet, Hubbard 1978 ; 4, 14, 45-46 ; Fedeli 2005, a Prop. 2, 1, 31-32 aut canerem Aegyptum et Nilum, cum attractus in urbem / septem captivis debilis ibat aquis ; Ov. ars 1, 219-220 ; fast. 1, 285-286 ; trist. 4, 2, 41-42 ; Pont. 2, 1, 39, con Galasso 1995, a flumina ; 3, 4, 107-108 ; cf. Stat. silv. 1, 4, 79.  

























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imperiale di Roma : se il vincitore è clemente, la sua vittoria è vantaggiosa per gli stessi vinti. 1 È il principio a cui si appella Scilla, nelle Metamorfosi, quando medita di tradire la patria per amore di Minosse : ‘quamvis saepe utile multis / victoris placidi fecit clementia vinci’ (Ov. met. 8, 56-57) ; Seneca lo esprime nel De clementia, sempre con la figura etimologica, nelle parole di Augusto a Cinna : ‘hodie tam felix et tam dives es ut victo victores invideant’ (Sen. clem. 1, 9, 8) ; l’elemento dell’utilità verrà in evidenza nelle formulazioni di Claudiano, profuit hoc vincente capi (paneg. iv cons. Hon. 116), e di Rutilio Namaziano, profuit iniustis te dominante capi (1, 64), 2 mentre risale a Livio, e all’episodio del maestro di Falerii, l’espressione articolata del concetto : entrare a far parte della comunità romana è considerato, dai Falisci sconfitti, un valore più grande della propria stessa autonomia 3 (Liv. 5, 27, 12 ‘patres conscripti, victoria cui nec deus nec homo quisquam invideat victi a vobis et imperatore vestro dedimus nos vobis, rati, quo nihil victori pulchrius est, melius nos sub imperio vestro quam legibus nostris victuros… 15 nec nos imperii vestri paenitebit’). Il concetto del vantaggio può trasformarsi, in poesia, nell’immagine dell’esultanza dei vinti ; la gioia manifestata al vincitore, militare e politico, può essere rappresentata o portata ad esempio come segno di apprezzamento per le sue qualità – quando non viene smascherata, da una prospettiva ostile, come una finzione adulatoria cui è costretto chi sottomette. Lucano sembra appunto aggredire uno stereotipo propagandistico, quando imprime al motivo una torsione sarcastica : ‘nunc flere potestas, / dum pendet fortuna ducum ; cum vicerit alter, / gaudendum est’ (2, 40-42). 4 Un altro epico flavio, che come Stazio ripropone temi della propaganda augustea in funzione attuale, elabora il motivo del gioire degli sconfitti, e lo fa narrando un episodio storico di clemenza, presentato come esemplare e accostato al comportamento in pace di Domiziano. Nei Punica Silio esalta la clemenza di Marcello, che, conquistata Siracusa, garantisce salva la vita agli abitanti e impedisce il saccheggio e la distruzione della città, tenendo a freno l’ira dei soldati : 5  





























1  Si veda il modello di Alessandro civilizzatore come costruito da Plutarco nel De Alexandri Magni fortuna aut virtute (e proposto ai Flavi o a Nerone, cf. Desideri 2005a, pp. 11-13) : mor. 328e ...makariwvteroi tw`n diafugovntwn ∆Alevxandron oiJ krateqhvnte~ genovmenoi: tou;~ me;n ga;r oujdei;~ e]pausen ajqlivw~ zw`nta~, tou;~ d∆ hjnavgkasen eujdaimonei`n oJ nikhvsa~, « …i vinti furono più fortunati di coloro che sfuggirono alla conquista di Alessandro : gli uni, infatti, non trovarono nessuno che li liberasse da una vita miserabile, mentre il vincitore costrinse gli altri ad essere felici ». 2  Claud. paneg. iv cons. Hon. 116-121 multosque subactos / prospera laturae commendavere catenae. / magnarum largitor opum, largitor honorum / pronus et in melius gaudens convertere fata. / hinc amor, hinc validum devoto milite robur, / hinc natis mansura fides ; Rut. Nam. 1, 63-66 fecisti patriam diversis gentibus unam ; / profuit iniustis te dominante capi. / dumque offers victis proprii consortia iuris, / urbem fecisti quod prius orbis erat. 3  Cf. Ogilvie 1965, ad loc. 4  Cf. 9, 1104-1108, con Wick 2004 ; 3, 101-103 (all’ingresso di Cesare in Roma) non omina festa, / non fictas laeto voces simulare tumultu, / vix odisse vacat ; 7, 40-42. 5  Il passo è citato da Pollmann 2004, ad loc. Revocata militis ira si contrappone a 14, 299 par omnes simul ira rapit, certantque ruuntque. Evocazione del rituale del bellum iustum e assimilazione del condottiero a Giove (intonat) sono altri elementi comuni ai due episodi (Sil. 14, 292-298).  















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…propere revocata militis ira iussit stare domos indulgens templa vetustis incolere atque habitare deis. sic parcere victis pro praeda fuit, et sese contenta nec ullo sanguine pollutis plausit Victoria pennis.

(Sil. 14, 671-675) 1  

Anche qui, la clemenza del vincitore ha per effetto la gioia comune di vincitori e vinti, còlta dalla figura etimologica :  

ast reliquum vulgus resoluta in gaudia mente certarunt victi victoribus ;  

(Sil. 14, 679-680)

anche qui, l’episodio assume il valore di exemplum (ergo exstat saeclis stabitque insigne tropaeum / et dabit antiquos ductorum noscere mores 682-683) ; e l’intento attualizzante diventa qui esplicito, nell’elogio del buon governo delle province da parte di Domiziano che chiude con enfasi il libro (felices populi, si, quondam ut bella solebant, / nunc quoque inexhaustas pax nostra relinqueret urbes ! / at, ni cura viri, qui nunc dedit otia mundo, / effrenum arceret populandi cuncta furorem, / nudassent avidae terrasque fretumque rapinae 684-688). 2 Altro e più grande modello di clemenza, nel finale dei Punica (per più tratti vicino a quello della Tebaide) Scipione, in più tratti affine a Teseo, vede aprirsi spontaneamente davanti a sé le rocche di Cartagine conquistata : hic finis bello, reserantur protinus arces / Ausonio iam sponte duci (Sil. 17, 618-619). 3 In questa tradizione idealizzante, per cui la buona disposizione o addirittura la gioia dei vinti misura la clemenza del vincitore, il finale di Stazio ha un posto d’eccezione. L’affratellamento tra le schiere sul campo di battaglia, il tono quasi familiare degli inviti al nemico, la restituzione dell’eroe liberatore al suo ruolo di hospes, l’esaltazione delle donne tebane : sono tutti elementi di una rappresentazione iperbolica, dall’intento esemplare, che conferisce alla clementia di Teseo vincitore un risalto straordinario.  











1  Cf. 14, 665-671. 2  Cf. Vinchesi 2001, introd., pp. 14-17, 55-56. L’episodio (diversamente narrato in Livio e in Plutarco) è ricordato come esempio di misericordia anche da Cic. Verr. 2, 2, 4 ; il paradosso della gioia dei vinti è anche in Val. Max. 5, 1, 4 age, M. Marcelli clementia quam clarum quamque memorabile exemplum haberi debet ! …itaque, Syracusana civitas, maxima clade tua aliquid admixtum gratulationis habuisti, quia, si tibi incolumem stare fas non erat, leniter sub tam mansueto victore cecidisti. 3  Cf. Verg. Aen. 12, 584-585 urbem alii reserare iubent et pandere portas / Dardanidis ; Liv. 5, 27, 14-15 ‘sub dicione vestra sumus ; mittite qui arma, qui obsides, qui urbem patentibus portis accipiant. nec vos fidei nostrae nec nos imperii vestri paenitebit’.  







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iv. 10. La clemenza di Teseo in battaglia. Esemplarità e pessimismo La giusta guerra degli Ateniesi contro i Tebani è, in Stazio, una guerra-nonguerra : 1 lo stacco dalle Supplici è anche qui significativo. Il paradosso è ancora una volta la cifra del racconto. La battaglia si profila da subito come uno scontro impari, addirittura senza storia, a differenza dello scontro ad armi pari, e a fasi alterne, narrato dal messaggero in Euripide ; 2 l’aver messo a contatto diretto la materia delle Supplici con quella delle Fenicie produce effetti dirompenti sulla rappresentazione bellica. Programmatico è già il commento d’autore al disperato ordine di riarmarsi emanato da Creonte di fronte all’ultimatum : quis fuit ille dies, tanto cum sanguine Thebis / pax inventa perit ! (12, 698699). 3 Un’esclamazione simpatetica, cui seguono una scena di vestizione delle armi pietosa e paradossale, e la versione in negativo di un’altra scena tipica dell’epos, tante volte declinata nella Tebaide, quella degli addii : 4  

















patriis modo fixa revellunt arma deis, clipeisque obducunt pectora fractis, et galeas humiles et adhuc sordentia tabo spicula : non pharetris quisquam, non ense decorus, non spectandus equo ; cessat fiducia valli, murorum patet omne latus, munimina portae exposcunt : prior hostis habet ; fastigia desunt : deiecit Capaneus. exanguis et aegra iuventus iam nec coniugibus suprema nec oscula natis iungit, et attoniti nil optavere parentes. (Theb. 12, 699-708)  









Il quadro è in marcato contrasto con lo slancio eroico degli Ateniesi :  

hos ubi velle acies et dulci gliscere ferro dux videt, utque piis raptim dent oscula natis amplexusque breves, curru sic fatur ab alto… (Theb. 12, 639-641)

È emblematico del pathos, dei paradossi e del pacifismo della Tebaide che la giusta guerra di Teseo colpisca un popolo descritto con enfasi come stanco di guerra, desideroso di pace e costretto ancora una volta a combattere per vo-

1  Sui tratti anomali di questa battaglia rispetto alla tradizione epica cf. Esposito 2002 ; sulla compressione narrativa osservazioni cursorie in Gibson 2008. 2  Eur. suppl. 683 sunh`yan ajlkh;n kajkravtoun hJssw`ntov te, « scesero in lizza con esito alterno » ; 700-706 e[kteinon ejkteivnonto ... h\n d∆ ajgw;n ijsovrropo~, « si uccideva, si veniva uccisi … le forze si equilibravano ». 3  Cf. 12, 694-695 armari populos tamen armaque ferri / ipse iubet pallens. 4  Cf. Micozzi 2002.  











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lontà del tiranno, in una replica estenuata di una scena già vista : 1 la complessità tragica delle Supplici è così ulteriormente e originalmente approfondita. La disparità tra i due eserciti diventa evidente quando si giunge al confronto diretto sul campo : iamque alternas in proelia gentes / dissimilis Bellona ciet ; non clamor utrimque, / non utrimque tubae : stat debilis altera pubes / summissos enses nequiquam ammentaque dextris / laxa tenens ; cedunt tellure, armisque reductis / ostentant veteres etiamnum in sanguine plagas (12, 720-725). Dopo l’empio scontro tra i fratelli, nemici troppo uguali, anche questo iustum bellum tra avversari troppo impari perverte le norme della guerra. 2 In questa patetica asimmetria, i Tebani, più che in assetto marziale, appaiono quasi nell’atteggiamento di una miseratio, ostentando di fronte agli avversari le ferite della guerra recente. Quella visione produce sulle truppe ateniesi un effetto disarmante :  















iam nec Cecropiis idem ductoribus ardor, languescuntque minae et virtus secura residit : ventorum velut ira minor, nisi silva furentes impedit, insanique tacent sine litore fluctus. (Theb. 12, 726-729)  

L’impeto eroico che ha impresso fin qui un movimento rapido alla narrazione si smorza di colpo, e il fervore ideale che ha indirizzato ogni sforzo contro il tiranno si trova a fronteggiare la realizzazione di una guerra contro un popolo che del tiranno appare vittima. Una tensione problematica tra linguaggio bellico e linguaggio dell’etica si coglie in questi versi. Virtus è il valore militare, ma virtus secura residit, mentre descrive l’affievolirsi della virtù guerriera, fa pensare a formule stoicheggianti ; residit sembra suggerire l’infiacchirsi della virtù morale in mancanza di un ostacolo (marcet sine adversario virtus, Sen. prov. 2, 4), mentre virtus secura evoca, all’opposto, il tranquillo, imperturbabile conformarsi del saggio al destino : appare rovesciata la clausola con cui Catone giustificava, in Lucano, la sua partecipazione alla guerra civile (Lucan. 2, 286-288 ‘summum, Brute, nefas civilia bella fatemur. / sed quo fata trahunt vir tus secura sequetur : / crimen erit superis et me fecisse nocentem’). Perdendo per un attimo lo slancio eroico, le truppe di Teseo perdono tensione etica, o acquistano grandezza morale ? Smarriscono la coerenza del loro impegno, o ne scoprono le implicazioni tra 







1  La ripetizione di quanto i Tebani avevano subito per volontà del tiranno precedente, Eteocle : 4, 345-363 at parte ex alia Cadmi Mavortia plebes, / maesta ducis furiis … tardius illa quidem regis causaeque pudore, / verum bella movet. nulli destringere ferrum / impetus aut umeros clipeo clausisse paterno / dulce nec alipedum iuga comere, qualia belli / gaudia ; deiecti trepidas sine mente, sine ira / promisere manus … bellator nulli caluit deus … tamen et Boeotis urbibus ultrix / adspirat ferri rabies, nec regis iniqui / subsidio quantum socia pro gente moventur. / ille velut pecoris lupus expugnator opimi… ; cf. 3, 206-209. 2  Cf. 11, 407-415 stat consanguineum campo scelus, unius ingens / bellum uteri, coeuntque pares sub casside vultus. / signa pavent, siluere tubae, stupefactaque Martis / cornua ; ter nigris avidus regnator ab oris / intonuit terque ima soli concussit, et ipsi / armorum fugere dei : nusquam inclita Virtus, / restinxit Bellona faces, longeque paventes / Mars rapuit currus, et Gorgone cruda virago / abstitit, inque vicem Stygiae rubuere sorores.  









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giche ? È descritto qui il placarsi utopistico di una furia esecrabile ed evitabile, se non la imponesse la necessità della guerra ? Una serie di associazioni inattese, fra loro contraddittorie, complica la nostra ricezione del testo di Stazio e lascia aperti interrogativi sullo statuto morale dell’impresa ateniese. Questo momentaneo smorzarsi della furia bellica è l’ultima replica di un espediente narrativo tante volte impiegato nella Tebaide, sul modello di Lucano : l’ennesimo indugio, o tentativo frustrato, che ritarda uno scontro decisivo e accresce la tensione drammatica. 1 La ‘ripetizione con differenza’, o con rovesciamento, è il principio artistico che lega il finale ai primi undici libri, segnando continuità e rottura tra le due parti del poema. 2 Più volte, nel racconto, una tregua illusoria ha fatto sperare una sospensione del nefas, tra due avversari improvvisamente consci del proprio empio furore ; qui la pausa degli sfidanti, insieme inattesa e pacatamente composta, ritarda il compimento di una missione che è giusta e tragica insieme. Anche la similitudine che segue è ambigua ; i termini ira, furentes, insani rispecchiano nella descrizione naturalistica il furor bellico, che l’esitazione delle truppe per un momento tiene lontano : è come se fosse affidato all’illustrans, in una sorta di controcanto, il commento alla follia della guerra, anche di una guerra giusta come questa. L’immagine prolunga una serie che, nella Tebaide, associa lo scatenarsi delle armi alla furia degli elementi. 3 Stazio rielabora qui una similitudine con cui Lucano illustrava, attraverso le stesse parole del condottiero, la smania di guerra di Cesare ; un’immagine interpretata appunto come « la versione ‘satanica’ … del motivo secondo il quale la virtù, per consolidarsi, ha bisogno di temprarsi continuamente nella lotta contro le avversità » : 4 Lucan. 3, 362-366 ‘ventus ut amittit vires, nisi robore densae / occurrunt silvae, spatio diffusus inani / utque perit magnus nullis obstantibus ignis, / sic hostes mihi desse nocet damnumque putamus / armorum, nisi qui vinci potuere rebellant’. 5 Il paragone, con variazione del duplice comparatum, è riproposto in una situazione rovesciata, in un contesto di tono opposto : Cesare si scagliava furioso contro la proposta di pace degli abitanti di Marsiglia, mentre qui non sono gli Ateniesi, ma è il tiranno di Tebe, vero responsabile della guerra, ad aver frustrato il desiderio di pace del popolo tebano ; quello che, nella Pharsalia,  

































1  Cf. Micozzi 1999. Cf., per es., 7, 527-533 tumidas frangebant dicta cohortes, / nutantesque virum galeas et sparsa videres / fletibus arma piis. quales … sic flexa Pelasgum / corda labant, ferrique avidus mansueverat ardor. 2  Vedi cap. i, § 2. 2 e n. 1 a p. 57. 3  La furia degli elementi, immagine del caos, è un ovvio corrispettivo del furor bellico nella tradizione epica, fin da Omero ; la Tebaide ne è colma : cf. Taisne 2008 ; cf., per es., 3, 316-323 (Marte scatena la guerra per ordine di Giove, più veloce del fulmine di Giove) ; 3, 432-439 (Marte come Nettuno) ; 12, 649-655 (Teseo dà inizio alla spedizione, come Giove che scatena una tempesta) ; un uso paradossale è in 7, 81-89 (Giove si placa, come la tempesta, quando Marte provoca la guerra). Per contro, il clemente placarsi della furia di venti e mare fornisce un correlativo alla mitezza di Pollio Felice, nella descrizione della sua villa sorrentina in silv. 2, 2, 26-29. 4  Narducci 2002, pp. 192-194. 5  Il confronto è già in Pollmann 2004. Stazio tiene presente anche Lucan. 4, 280-281 sic deflagrare minacis / in cassum et vetito passus languescere bello (cf. Theb. 12, 727 languescunt … minae).  











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era un violento rammarico del condottiero, insofferente della quiete forzata, diventa qui una descrizione oggettiva del placarsi delle truppe di Teseo, di fronte a un nemico quasi inerme. Tuttavia l’immagine lucanea, con il senso dell’incombere di uno scontro rimandato, torna a rendere più complessa la nostra percezione delle circostanze narrative e fa apparire problematico l’intervento ateniese, che il testo di Stazio apertamente giustifica : il fondo amaro del poema emerge, anche in questo finale che dovrebbe trasformarlo in un’epica dei vincitori. 1 È dunque una guerra-non-guerra quella che si annuncia, attraverso gli elementi di una descrizione paradossale : un esercito senza forze, una vestizione anomala, un addio mancato, un segnale privo di suono, uno schierarsi a chiedere pietà, il ritirarsi prima di cominciare, lo spiazzamento degli avversari. Quando infine Teseo solleva la lancia, la sua sola ombra ha già messo in fuga i Tebani. 2 La similitudine che paragona l’eroe a Marte, impugnata dalla critica pessimista come prova della colpevole violenza di Teseo, apre la strada, al contrario, a una rappresentazione (anch’essa fuori dal comune) dell’aristia misurata e della calcolata moderazione dell’eroe in battaglia. 3 La movenza comparativoipotetica fa vedere l’immagine incombente di Teseo-Marte dal punto di vista dei Tebani atterriti, mentre l’eroe, con il suo comportamento, subito dopo la smentisce, sdegnando di inseguire i nemici che la sua sola vista ha messo in fuga :  











ut vero aequoreus quercum Marathonida Theseus extulit, erectae cuius crudelis in hostes umbra cadit campumque trucem lux cuspidis implet, ceu pater Edonos Haemi de vertice Mavors impulerit currus, rapido mortemque fugamque axe vehens, sic exanimis in terga reducit pallor Agenoridas ; 4 taedet fugientibus uti Thesea, nec facilem dignatur dextra cruorem… (Theb. 12, 730-737)    

1  A questa similitudine si contrappone quella successiva tra Teseo e Marte, che illustra lo scatenarsi della battaglia ; anche nel settimo libro una coppia di similitudini metteva in contrasto il momentaneo effetto sulle truppe della supplica di Giocasta e la ripresa dello slancio bellico per l’esortazione di Tideo (7, 529-533, 559-563). 2  C’è simmetria e contrasto con Capaneo, che spaventa i Tebani con la sua enorme ombra dall’alto delle mura (10, 872 ingenti Thebas exterruit umbra), dopo aver infuriato in battaglia indistintamente contro combattenti e supplici (10, 751-753 non ullius aetas, / non cultus, non forma movet ; pugnantibus idem / supplicibusque furit). 3  Per la similitudine con Marte come senz’altro denigratoria di Teseo cf. Dominik 1994, pp. 95 e 97, e ora Coffee 2009a, pp. 222-224, che respinge con argomenti non decisivi la valutazione positiva di Ripoll 1998, pp. 176-178 (in uno studio delle similitudini con Marte nell’epica flavia, alle pp. 164-190). 4  L’effetto della vista di Teseo sui nemici può ricordare quello sugli abitanti di Maratona, dopo l’uccisione del toro, in Call. Hec. fr. 69 H. (= sh 288, 1-15 ; 260, 1-15 Pf.), 2-3 wJ~ i[don, wJ~ a{ma pavnte~ uJpevtresan, oujdev ti~ e[tlh É a[ndra mevgan kai; qh`ra pelwvrion a[nta ijdevsqai, « Come lo videro, subito si ritrassero tutti tremanti, e nessuno ebbe forza di guardare in fronte il grande uomo e la fiera mostruosa » (tr. di G. B. D’Alessio).  









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C’è una voluta corrispondenza a contrasto con l’unica similitudine con Marte nell’Eneide, intenzionalmente riservata da Virgilio a connotare, nel dodicesimo libro, la violenza di Turno : 1 un paragone crudo per un’aristia sanguinosa ed insistita, in cui l’eroe travolge col carro i nemici, li incalza nella fuga, ne calpesta i cadaveri, strappando all’autore un commento patetico (Aen. 12, 329-330 semineces volvit multos : aut agmina curru / proterit aut raptas fugientibus ingerit hastas… 338-339 miserabile caesis / hostibus insultans). Silio concorda con Stazio nel restituire la similitudine a una funzione non distanziante, la trasforma anzi in un elemento apertamente celebrativo, paragonando Scipione a Marte nella battaglia finale dei Punica. 2 L’effettivo comportamento di Teseo, in Stazio, è ritratto da un’altra similitudine, subito successiva, che oppone al superiore disdegno del capo l’impegno del resto delle truppe a far strage di nemici. Prima di esaminarla, vorrei fermarmi un momento sul presunto parallelismo perfetto tra Teseo e Marte, che è stato proposto di recente come prova di un ritratto in nero dell’eroe. 3 Io credo, al contrario, che Stazio sfrutti il potenziale positivo di un confronto epico tradizionale, mentre neutralizza le implicazioni negative del paragone con la figura divina e col suo ruolo nel poema : le differenze sono qui più importanti delle somiglianze, ed è proprio sugli effetti ossimorici dell’accostamento che il testo insiste (con un uso quasi paradossale della similitudine ‘a contrasto’, non isolato nella Tebaide, che meriterebbe uno studio). Più ancora che nella precedente comparazione con Giove, Teseo appare qui non tanto pari, ma moralmente superiore alla divinità, e sempre in virtù della sua clemenza. 4 Marte è un termine di confronto necessario, ma non sufficiente, anche nel ritratto di Domiziano in Silvae 1, 1. Nel panegirico l’imperatore trionfante su Catti e Daci è paragonato, in stile epico, al dio reduce dalle battaglie (exhaustis … armis), mentre tutto il contesto implica la superiorità del principe, che sa essere insieme bellicoso e mite e fa prevalere i valori della pace sulla pur necessaria violenza della guerra. 5 Così è per Teseo, che assolve con la dimostrazione del valore guerresco il dovere primario di un imperatore, ma si distingue dal dio  















1  Verg. Aen. 12, 331-340 qualis apud gelidi cum flumina concitus Hebri / sanguineus Mavors clipeo increpat atque furentis / bella movens immittit equos (illi aequore aperto / ante Notos Zephyrumque volant, gemit ultima pulsu / Thraca pedum circumque atrae Formidinis ora / Iraeque Insidiaeque, dei comitatus, aguntur) : / talis equos alacer media inter proelia Turnus / fumantis sudore quatit, miserabile caesis / hostibus insultans ; spargit rapida ungula rores / sanguineos mixtaque cruor calcatur harena. Cf. Traina 1998, pp. 99-100 ; Pöschl 19773, pp. 150-151. 2  Sil. 17, 486-490 ipse super strages ductor Rhoeteius instat, / qualis apud gelidum currus quatit altior Hebrum / et Geticas solvit ferventi sanguine Mavors / laetus caede nives, glaciemque Aquilonibus actam / perrumpit stridens sub pondere belliger axis, da leggere in stretta connessione con la rassegna dei misfatti degli illustri guerrieri cartaginesi di cui Scipione va in cerca, ai vv. 491-503. Cf. Ripoll 1998, p. 179. Sui risvolti problematici della comparazione insiste Tipping 2010, pp. 180-181. 3  Coffee 2009a, spec. pp. 222-224. 4  Per Teseo e Giove, su cui infra nel testo, vedi anche cap. i, § 2. 4. 5  Silv. 1, 1, 18-21, su cui Geyssen 1996, pp. 53-56.  





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della guerra per la volontà della pace e per l’impegno della propria prodezza infaticabile in una causa giusta : 1 la sua lancia ha sete di sangue colpevole, meritos … cruores (12, 595), quanto la furia empia del dio può scatenarsi contro genti incolpevoli, inmeritas … urbes (7, 23 : a dirlo è Giove) ; dalla guerra, Marte torna alla sua domus inmansueta (7, 42), Teseo all’ara Clementiae (12, 481 ss.) ; la dimora di ferro che moltiplica il volto mai placato del dio (7, 60), tra boschi sterili (7, 40), sangue di vittime sulle are e personificazioni della furia bellica (7, 47-53), ha il suo rovescio simbolico nell’altare che accoglie gli afflitti, cinto da un bosco mite (12, 491), privo di immagini e di sangue sacrificale (12, 493-494), chiuso all’ira e alle minacce (12, 504). Non basta una similitudine, per di più imperfetta e ‘illusoria’, ad annullare ogni distinzione tra il dio della violenza e un sovrano che intende la guerra in funzione della pace. Il linguaggio epico della Tebaide è compromesso, ma non irrimediabilmente contaminato, dall’epica perversa dei primi undici libri ; per costruire l’eroe del finale, Stazio impiega i materiali tradizionali in una funzione nuova, con esiti opposti, e chiede al lettore di apprezzare questo scarto. 2 La similitudine di Teseo, che dà inizio alla spedizione, con Giove che scatena una tempesta è l’ultima replica di un Leitmotiv legato al racconto di una guerra empia, ma è una replica invertita di segno :  















dixit, et emissa praeceps iter incohat hasta : qualis Hyperboreos ubi nubilus institit axes Iuppiter et prima tremefecit sidera bruma, rumpitur Aeolia et longam indignata quietem tollit hiems animos ventosaque sibilat Arctos ; tunc montes undaque fremunt, tunc proelia caecis  



1  Teseo, appena reduce da una spedizione, ne intraprende un’altra (12, 519-522, 593-595), come Marte per ordine di Giove in 3, 220 ss. (cf. 227-230 hunc ubi Sarmaticos etiamnum efflare labores / Iuppiter et tota perfusum pectora belli / tempestate videt : ‘talis mihi, nate, per Argos, / talis abi, sic ense madens, hac nubilus ira…’ ; 260-261 gaudet ovans iussis et adhuc temone calenti / fervidus in laevum torsit Gradivus habenas). La distanza è enorme : Marte torna ancora furente, in preda all’ira, tra fragori di guerra, pronto a nuovi furibondi scontri, mentre l’immagine di Teseo è quella ormai placata di un trionfatore acclamato dalla folla, che ha compiuto un’impresa civilizzatrice, ha condotto la guerra per ottenere la pace e viene accolto da una tromba ilare, che annuncia il cessare delle armi. Il contrasto non è smentito dall’espressione duri Mavortis imago, apposizione ossimorica dei virginei currus delle Amazzoni prigioniere, in 12, 523 (Coffee 2009, p. 223) : semmai, un invito al lettore a riconoscere la differenza tra le due figure. 2  I segnali testuali di questa ripetizione con rovesciamento meriterebbero uno studio (vedi supra, p. 185 e n. 2). L’ultimo protinus del poema, riferito all’effetto prodotto su Tebe da Minerva che scuote i serpenti dell’egida (12, 606-610 ipsa metus Libycos servatricemque Medusam / pectoris incussa movit Tritonia parma. / protinus erecti toto simul agmine Thebas / respexere angues ; necdum Atticus ire parabat / miles, et infelix expavit classica Dirce), si contrappone al primo protinus, detto di Tisifone che, giunta a Tebe, scatena la discordia fraterna (1, 123-126 atque ea Cadmeo praeceps ubi culmine primum / constitit adsuetaque infecit nube penates, / protinus attoniti fratrum sub pectore motus, / gentilisque animos subiit furor), mentre l’effetto miracoloso delle serpi richiama l’invocazione della Furia alla sorella Megera per il duello tra i fratelli (11, 64-68 …et (Elysiis signum indubitabile regnis) / crinalem attollit longo stridore cerasten : / caeruleae dux ille comae, quo protinus omnis / horruit audito tellus pontusque polusque, / et pater Aetneos iterum respexit ad ignes). Cf. invece Hershkowitz 1994, n. 46 a p. 145 : « …Minerva … acts disturbingly like Tisiphone ».  

















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nubibus et tonitrus insanaque fulmina gaudent. icta gemit tellus… (Theb. 12, 649-655)

L’immagine illustra ora un atto simbolico del bellum iustum, il gesto rituale di scagliare la lancia al modo dei feziali, 1 e con esso l’avvio di un’impresa proposta nel discorso alle truppe come il ristabilimento dell’ordine cosmico. 2 L’accostamento a un dio screditato nel poema non scredita il protagonista, che risulta anzi esaltato come eroe autosufficiente e sovrano provvidenziale, sostituto di Giove in terra superiore di fatto alla divinità nel difendere le leggi universali e nell’esercitare la clemenza. 3 Perfino il folle « gioire » dei fulmini (insanaque fulmina gaudent), che sposta sugli elementi naturali la furia bellica (quasi a correggere il « gioire » di Cesare-fulmine in Lucano, 1, 150-155 gaudensque viam fecisse ruina. / qualiter expressum ventis per nubila fulmen … in sua templa furit…), appare subordinato qui a una missione giusta, nel quadro di un’armata che associa, e unisce coi suoi bagliori, la terra al cielo. 4 La ripetizione è l’anima del racconto epico, e un principio della poetica perversa della Tebaide, ma quella cui si assiste qui è una ripetizione progressiva, non regressiva : interrotta in chiusa la coazione a ripetere della storia di Tebe, la forma spezzata del poema infonde un senso nuovo nel linguaggio epico, e una speranza dentro al tragico replicarsi della guerra. Un altro esempio, sempre in tema di comparazioni. Se Eteocle e Polinice sono stati più volte paragonati a tori furiosi, non per questo la similitudine col toro basta a fare di Teseo una replica dei fratelli tebani e del loro empio furore. 5 Anche qui le differenze contano più delle somiglianze. L’ultima comparsa dell’immagine nel poema elimina i tratti di furor e insiste su sofferenza e tenacia dell’animale, che vince fatica e ferite per passare da una battaglia all’altra ; ne emerge il ritratto di un condottiero infaticabile, capace di dissimulare il dolore fisico – come Enea la sofferenza morale, nel primo libro di Virgilio – per  





















1  Il gesto è risemantizzato qui rispetto ai precedenti epici, grazie alla costruzione esemplare dell’intero contesto ; cf. Pollmann 2004, al v. 649, e Hardie 1994, a Aen. 9, 52-53. Per il concetto di bellum iustum cf., tra gli studi più recenti, Mantovani 1990 ; Loreto 2001 ; Calore 2003, 2003a ; Zuccotti 2004. 2  Theb. 12, 642-648 ‘terrarum leges et mundi foedera mecum / defensura cohors, dignas insumite mentes / coeptibus : hac omnem divumque hominumque favorem / Naturamque ducem coetusque silentis Averni / stare palam est ; illic Poenarum exercita Thebis / agmina et anguicomae ducent vexilla sorores. / ite alacres tantaeque, precor, confidite causae’. Per la contrapposizione ideologico-religiosa tra le parti e le loro causae cf. Ov. ars 1, 199-204 tu pia tela feres, sceleratas ille sagittas ; / stabit pro signis iusque piumque tuis. / vincuntur causa Parthi, vincantur et armis : / Eoas Latio dux meus addat opes. / Marsque pater Caesarque pater, date numen eunti : / nam deus e vobis alter es, alter eris. 3  Vedi supra, cap. i, § 2. 4. 4  12, 656-660 icta gemit tellus … nec pulvere crasso / armorum lux victa perit, sed in aethera longum / frangitur, et mediis ardent in nubibus hastae. Sulla similitudine come immagine di follia cf. invece Hershkowitz 1998, pp. 270-271. 5  Così Hershkowitz 1994, pp. 144-147, spec. p. 145 (= 1998, pp. 297-298), nella rappresentazione di un Teseo coinvolto nella follia di Tebe e costretto a superarla, per vincerla ; cf. anche Dominik 1994, pp. 95-96.  



















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esortare i compagni a nuove imprese : Theb. 12, 599-605 sic ait oblitus bellique viaeque laborum, / hortaturque suos viresque instaurat anhelas : / ut modo conubiis taurus saltuque recepto / cum posuit pugnas, alio si forte remugit / bellatore nemus, quamquam ora et colla cruento / imbre madent, novus arma parat campumque lacessens / dissimulat gemitus et vulnera pulvere celat (da confrontare con Verg. Aen. 1, 197 dictis maerentia pectora mulcet ; 202-203 ‘revocate animos maestumque dolorem / mittite’ ; 208-209 curisque ingentibus aeger / spem vultu simulat, premit altum corde dolorem). A differenza del problematico protagonista dell’Eneide, Teseo non ha per sé lo spazio dell’approfondimento psicologico, né assumerà su di sé in chiusa la responsabilità di una scelta tragica : in un finale stilizzato e accelerato, l’eroe della Tebaide svolge senza esitare una funzione risolutiva, mentre problematicità e contraddizione tragica, pur non assenti, non investono direttamente la costruzione del suo personaggio. Vorrei infine esaminare, come emblematica della compresenza di esemplarità e pessimismo nella chiusa, un’altra delle similitudini che accompagnano Teseo in battaglia : un paragone che illustra la condotta dell’eroe in combattimento con un tradizionale exemplum di clementia. Ecco il passo :  













taedet fugientibus uti Thesea, nec facilem dignatur dextra cruorem ; cetera plebeio desaevit sanguine virtus : sic iuvat exanimis proiectaque praeda canesque degeneresque lupos, magnos alit ira leones. (Theb. 12, 736-740)  



Osserviamo la sequenza narrativa. Stazio modella il racconto sul finale dell’Eneide. Il rifiuto di inseguire i nemici in fuga, detto con nec … dignatur, è un primo segnale che allinea Teseo ad Enea : Verg. Aen. 12, 462-467 tollitur in caelum clamor, versique vicissim / pulverulenta fuga Rutuli dant terga per agros. / ipse neque aversos dignatur sternere morti / nec pede congressos aequo nec tela ferentis / insequitur : solum densa in caligine Turnum / vestigat lustrans, solum in certamina poscit. Tornato in campo e deciso a far rispettare infine il patto del duello, Enea non si cura, non solo di colpire a morte i nemici che fuggono (aversos), ma neppure di inseguire chi cerca lo scontro ad armi pari o chi gli scaglia giavellotti da lontano : il suo unico scopo è ormai affrontare Turno (solum … Turnum … solum) e porre fine alla guerra. Solo in seguito, frustrato da Giuturna e provocato da Messapo, l’eroe torna a combattere e sfoga la sua ira contro tutti i Latini : un furor che Virgilio ha cura di giustificare, ma che dà luogo a una strage indiscriminata, in un’aristia parallela a quella di Turno, e provoca una inquieta domanda sulla teodicea (Aen. 12, 494-504). Nella Tebaide, a battaglia appena iniziata, anche Teseo non si cura di approfittare dei nemici in fuga né si degna di spargere sangue « facile » (mentre su sangue « comune », di Tebani qualsiasi, infieriscono i suoi). 1 Anche Teseo,  

















1  Errata l’interpretazione di plebeio in Pollmann 2004 (« plebeio does not refer to the pursued  

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e qui fin dall’inizio, ha di mira il solo Creonte, come Stazio dirà ripetendo l’anafora virgiliana ai vv. 752-753 sed solum votis, solum clamore tremendo / omnibus in turmis optat vocitatque Creonta. 1 Tra questi due momenti, tuttavia (attamen 12, 741), l’eroe ateniese soddisfa nel testo di Stazio i requisiti minimi di una battaglia epica, con un’aristia di undici versi (12, 741 ss. attamen Olenium Lamyrumque, hunc tela pharetra / promentem, hunc saevi tollentem pondera saxi / deicit…) : il minimo indispensabile, inserito con precisione chirurgica nel taglio praticato sul modello virgiliano. 2 Nella cornice di quei quattro versi dell’Eneide viene così interpolata un’aristia in miniatura : sei nomi in tutto, pochi dettagli, un catalogo essenziale ; 3 sarebbe difficile, su questa base, sostenere che Stazio abbia ritratto un eroe in preda a smania di guerra. 4 Più ancora che nell’Eneide, centro esclusivo dell’interesse è qui il duello. E di fronte al tiranno, nel disegno rapido e stilizzato della Tebaide, Teseo sarà un Enea senza esitazioni : anche lui assimilato implicitamente a Giove (Theb. 12, 770-771 nec non prius ore superbo / intonat ; Aen. 12, 700 horrendumque intonat armis), anche lui impegnato in un atto sacrificale (Theb. 12, 771 ‘Argolici, quibus haec datur hostia, manes’ ; Aen. 12, 948-949 ‘Pallas te hoc vulnere, Pallas / immolat…’), anche lui vendicatore di un sangue scellerato, ma questa volta definito « empio » col suggello oggettivo della voce autoriale (Theb. 12, 776-777 emicuit per mille foramina sanguis / impius ; Aen. 12, 949 ‘…et poenam scelerato ex sanguine sumit’). 5  



























enemy ») : vedi infra. Per la forma dell’espressione cf. silv. 4, 1, 29-30 nec parva exempla recense, / sed quae sola meus dignetur vincere Caesar. 1  Cf. Aen. 12, 481-483 haud minus Aeneas tortos legit obvius orbes / vestigatque virum et disiecta per agmina magna / voce vocat. L’anafora virgiliana è variata da Stazio in Ach. 1, 473-476. 2  Theb. 12, 741-751, cf. 743 ss. …et triplici confisos robore gentis / Alcetidas fratres, totidem quos eminus hastis / continuat ; ferrum consumpsit pectore Phyleus, / ore momordit Helops, umero transmisit Iapyx. / iamque et quadriiugo celsum petit Haemona curru, / horrendumque manu telum rotat : ille paventes / obliquavit equos ; longo perlata tenore / transiit hasta duos, sitiebat vulnera nec non / tertia, sed medio cuspis temone retenta est. L’uccisione in sequenza dei tre fratelli (triplici … continuat) ricorda la triplice prodezza di Enea in Aen. 12, 513-514 ille Talon Tanaimque neci fortemque Cethegum, / tris uno congressu … mittit, mentre il sollevamento del masso richiama quello di Turno, Aen. 12, 896-897 saxum … ingens, / saxum antiquum ingens ; 904 tollentemve manu saxumve immane moventem. 3  Notevole il parallelismo con Tideo, che trascura avversari « minori » e cerca invano di scontrarsi col solo Eteocle, ma « tuttavia » (tamen 8, 696) fa strage di nemici, con una crudezza del tutto estranea all’eroe ateniese (8, 671-672, 677-679, 684-685, 689-699 ; cf., nella similitudine, nec cura … illum, illum…) : una cattiva anticipazione del tirannicidio di Teseo. 4  Silio sembra riprendere insieme Stazio e Virgilio (con interessanti correzioni) nell’aristia conclusiva di Scipione, Pun. 17, 491-521 (cf. lustrans … taedet … Hannibal unus … unus … lustrans … clamore feroci … increpitans … poscit). 5  Cf. Hardie 1993, p. 46 ; 1997, p. 153 ; Braund 1996, pp. 3-4. Si veda anche la giustificazione della propria causa in Aen. 12, 565 ‘(Iuppiter hac stat)’ e in Theb. 12, 644-647 ‘hac omnem divumque hominumque favorem … stare palam est…’ (con Pollmann 2004, ad loc.) ; Stazio rielabora inoltre qui Eur. suppl. 594-597 thes. e{n dei` movnon moi: tou;~ qeou;~ e[cein o{soi É divkhn sevbontai. tau`ta ga;r xunovnq∆ oJmou` É nivkhn divdwsin: aJreth; d∆oujde;n fevrei É brotoi`sin h[n mh; to;n qeo;n crhv/zont∆e[ch/, « Una sola cosa mi serve : avere dalla mia parte gli dei che onorano la giustizia. In questo caso la vittoria è assicurata. Perché senza il favore degli dei il valore non serve » ; cf. 328 aithr. wJ~ ou[te tarbw` su;n divkh/ s∆ oJrmwvmenon, « Non ho paura per te che ti metti in moto con la giustizia al tuo fianco » ; 347-348 thes. eij de; mhv,  











































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Torniamo ora ai versi illustrati dalla similitudine. Disdegnare di colpire un nemico mentre fugge è un tratto di eroismo nobile, che Virgilio attribuisce anche a Mezenzio in Aen. 10, 732-733 atque idem fugientem haud est dignatus Oroden / sternere nec iacta caecum dare cuspide vulnus… – ma se Mezenzio insegue il nemico per costringerlo a combattere a viso aperto, Teseo si limita ad affrontare i pochi rimasti a resistergli. Nel testo di Stazio, il rifiuto di Teseo di « approfittare » (uti) della fuga dei Tebani sembra inoltre correggere un’immagine ovidiana, nel racconto della Centauromachia per voce di Nestore : Ov. met. 12, 355-356 ‘haud tulit utentem pugnae successibus ultra / Thesea Demoleon’ ; a un Teseo indefesso e compiaciuto dei propri successi, nella lotta contro creature mostruose, si contrappone qui un Teseo moderato nell’infierire sui sudditi di Creonte. 1 La moderazione mostrata da Teseo in battaglia ha un precedente importante nelle Supplici. 2 Nella tragedia il diverso tenore dello scontro provoca, in una prima fase, un’esibizione più eclatante del valore dell’eroe, ma ad essa segue infine, con un contrasto voluto, una prova decisiva di autocontrollo e di senso della misura. 3 I due momenti sono accompagnati da due tratti metanarrativi, due commenti simmetrici del messaggero che elogiano, prima il coraggio, poi la moderazione del capo. Il primo encomio, « A questo punto è da elogiare il comandante in capo » (kajn tw/`de to;n strathgo;n aijnevsai parh`n 707), introduce l’esortazione ai soldati in difficoltà e l’aristia di Teseo, armato di clava, che mette infine in fuga i nemici (movli~ dev pw~ e[treyan ej~ fugh;n povda … oiJ d∆ e[teinon ej~ puvla~…, « I Tebani scamparono a fatica … i nemici correvano verso le porte », 718-720). Dopo un nuovo intervento del comandante, che trattiene le truppe dal devastare Tebe e dichiara di essere venuto non per saccheggiare la città, ma per chiedere la restituzione delle salme (paro;n de; teicevwn e[sw molei`n  





















É Qhseu;~ ejpevscen: ouj ga;r wJ~ pevrswn povlin É molei`n e[fasken ajll∆ ajpaithvswn nekrouv~, « Le truppe ateniesi avrebbero potuto varcare le mura, ma Teseo le  

trattenne. Dichiarò di essere venuto non per saccheggiare una città, ma per chiedere la restituzione delle salme » 723-725), ecco il secondo commento :  



toiovnde toi strathgo;n aiJrei`sqai crewvn, o{~ e[n te toi`~ deinoi`sivn ejstin a[lkimo~ misei` q∆ uJbristh;n laovn, o{~ pravsswn kalw`~ ej~ a[kra bh`nai klimavkwn ejnhvlata zhtw`n ajpwvles∆ o[lbon w|/ crh`sqai parh`n.

È lui il capo da scegliere, coraggioso nel pericolo, ma nemico della massa tracotante, biva/ doro;~ É h[dh tovt∆ e[stai koujci; su;n fqovnw/ qew`n, « Altrimenti ricorrerò alla forza delle armi e gli dei non mi saranno ostili ». 1  Vedi supra, § 3, p. 142, per l’ironia sulla scelta di Teseo di non infierire sul nemico vinto in Ov. met. 12, 344-345. 2  Cf. già l’annuncio dell’araldo di Teseo in suppl. 670-672 hJmei`~ h{komen nekrou;~ mevta, É qavyai qevlonte~, to;n Panellhvnwn novmon É sw/vzonte~, oujde;n deovmenoi tei`nai fovnon, « Noi siamo venuti qui perché vogliamo seppellire i morti, salvaguardare una legge ellenica, non cerchiamo stragi ». 3  Cf. Di Benedetto 1971, p. 168.  







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di quanti, fortunati, cercano di salire sui pioli della scala sino alla cima, e perdono così la fortuna già acquisita. (Eur. Suppl. 726-730 ; tr. di U. Albini)  

È il ritratto di un comandante ideale, se non addirittura un « appello elettorale », quello che viene proposto nelle parole del messaggero : 1 il profilo di un capo democratico moderato e immune da demagogia. Stazio sostituisce a quel paradigma il modello imperiale della clementia, e lo condensa in un’immagine emblematica. Valore e moderazione insieme : sono ancora queste, in proporzioni diverse, le qualità del Teseo della Tebaide, che subito dopo la rapida vittoria non solo non deve dissuadere i suoi dal saccheggio, ma – tratto eccezionale – è acclamato dai nemici come un liberatore e accolto in città come un ospite. Costruendo un eroe teso solo al tirannicidio, Stazio ha rappresentato la moderazione di Teseo già sul campo, nel corso stesso della battaglia, e ne ha fatto, ancor prima della vittoria, un modello di clementia verso i nemici, prima ancora che verso i vinti. È un atteggiamento che può ricordare l’ordine di Cesare, a Farsalo, di risparmiare i concittadini volti in fuga : un esempio di clemenza passato nell’aneddotica, testimoniato da Svetonio e da Appiano, riferito in forma problematica da Floro e aggredito dal sarcasmo di Lucano. 2 Nel testo di Stazio il commento alla misura di Teseo in battaglia è affidato all’evidenza di un’immagine : una comparazione che si offriva al poeta flavio già carica di significati ideologici. La similitudine col comportamento del leone verso la preda, contrapposto a quello dei cani e dei lupi, ripropone la materia più tipica delle similitudini epico-omeriche in una forma che alla tradizione epica è estranea. Rivelatore è l’impianto stesso del paragone, argomentativo e dimostrativo piuttosto che descrittivo : il dittico animale, più che dipingere una scena, delinea un contrasto ‘etico’. Non è nella poesia omerica che si può trovare il modello di Stazio, ma nella tradizione delle esortazioni e degli elogi alla clementia. L’immagine del leone che sdegna di accanirsi sulla preda abbattuta è il correlativo animale dello slo 

















1  Con queste parole, secondo Di Benedetto 1971, pp. 158 ss., Euripide avrebbe invitato gli Ateniesi, in vista dell’elezione degli strateghi, a scegliere un moderato, dopo che il bellicismo di Cleone aveva causato il disastro di Delio del 424 a.C. 2  Svet. Caes. 75, 2 acie Pharsalica proclamavit, ut civibus parceretur ; Flor. epit. 2, 13 (4, 2, 50) voces quoque obequitantis acceptae, altera cruenta, sed docta et ad victoriam efficax ‘miles faciem feri !’ altera ad iactationem composita ‘parce civibus !’… ; Appian. 2, 74, 309 “treyavmenoi d∆ aujtou;~ tw`nde me;n wJ~ suggenw`n feidwvmeqa…”, « dopo averli volti in fuga, risparmiamoli, in quanto sono del nostro sangue » ; 2, 80, 336-337 khvruka~ ej~ ta;~ tavxei~ pantacou` perievpempen, oi{ toi`~ nikw`sin ejkevleuon ajyaustei`n tw`n oJmoeqnw`n…, « mandò ovunque tra le schiere suoi messi a ordinare ai vincitori di astenersi dai concittadini e incalzare soltanto gli alleati » (tr. di D. Magnino) ; cf. Caes. civ. 3, 90, 2 neque se umquam abuti militum sanguine neque rem publicam alterutro exercitu privare voluisse. Inoltre Lucan. 7, 318-322 ‘vos tamen hoc oro, iuvenes, ne caedere quisquam / hostis terga velit : civis, qui fugerit, esto. / sed, dum tela micant, non vos pietatis imago / ulla nec adversa conspecti fronte parentes / commoveant : voltus gladio turbate verendos…’, con Leigh 1997, pp. 216-217 ; Narducci 2002, p. 216 e nn. 86, 87.  

























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gan bellante prior, iacentem / lenis in hostem coniato da Orazio per la clemenza di Augusto (carm. saec. 51-52) e ripreso per Teodosio da Claudiano, non insultare iacenti / malebat (paneg. iv cons. Hon. 112-113). È proprio delle bestie ignobili accanirsi sulla preda stesa a terra, mentre leoni ed elefanti trascurano le loro vittime dopo averle abbattute. Così Seneca, nel De clementia, illustra con esempi animali il concetto di magnanimità 1 (si noti proiecta, lo stesso termine impiegato da Stazio) :  



magnam fortunam magnus animus decet … magni autem animi proprium est placidum esse tranquillumque et iniurias atque offensiones superne despicere. muliebre est furere in ira, ferarum vero et generosarum quidem praemordere et urguere proiectos. elephanti leonesque transeunt, quae inpulerunt ; ignobilis bestiae pertinacia est. 2  



(Sen. clem. 1, 5, 5)

La contrapposizione fra il leone « magnanimo » e animali meno nobili aveva già trovato forma poetica nell’Ovidio dell’esilio, in una serie di exempla di magnanimità, clemenza, capacità di placare la propria ira tratti anche dal mito e dalla storia. Il leone si accontenta di abbattere la preda, mentre lupi, orsi ed altre fiere ignobili infieriscono sui morenti :  





quo quisque est maior, magis est placabilis irae, et faciles motus mens generosa capit. corpora magnanimo satis est prostrasse leoni, pugna suum finem, cum iacet hostis, habet : at lupus et turpes instant morientibus ursi, et quaecumque minor nobilitate fera est. maius apud Troiam forti quid habemus Achille ? Dardanii lacrimas non tulit ille senis. quae ducis Emathii fuerit clementia, Porus Dareique docent funeris exequiae. neve hominum referam flexas ad mitius iras, Iunonis gener est qui prior hostis erat. (Ov. trist. 3, 5, 31-42)  



Il poeta sta suggerendo all’amico (forse il poeta Caro), distinto per le sue doti oratorie, gli argomenti di un discorso persuasivo con cui predisporre Augusto alla clementia (28-30 …tu mihi, quod cupio, fas, precor, esse proba, / quaeque tibi est linguae facundia, confer in illud, / ut doceas votum posse valere meum) ; il paradigma animale è parte di un pezzo già retoricamente elaborato, che dovrebbe indurre il principe a non infierire sul poeta : la condanna all’esilio può ora essere mitigata con la scelta di un luogo di pena meno ostile.  



1  Su magnanimus detto di Teseo in 12, 795, e di Domiziano in 12, 814, cf. Braund 1996, p. 18. 2  Accolgo, con Malaspina 20052, l’integrazione ne di Haase ; Braund 2009 propone invece, e stampa nel testo, est ignavarum.  

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Il motivo del leone clemente, estraneo a Omero e presente nella tradizione favolistica, è recepito anche nell’enciclopedia di Plinio : Plin. nat. 8, 48 leoni tantum ex feris clementia in supplices. prostratis parcit et, ubi saevit, in viros potius quam in feminas fremit, in infantes non nisi magna fame. credit Libya pervenire intellectum ad eos precum… 1 Una sua diffusione come exemplum nella tradizione retorica e di scuola è suggerita da [Quint.] decl. 9, 18 age, si perisset, cadaver calcasses ? ferae mehercules generosiores iacentes transeunt, et, reservati hostes restitutaeque urbes maiora causae exempla sint, quod scio, victis etiam gladiatores parcunt. Al tema della clemenza si unisce, nel testo di Stazio, la sottolineatura dell’ira come tratto di nobiltà dell’animale (magnos alit ira leones), in quanto impeto che si placa dopo il primo slancio : un aspetto non estraneo alla discussione filosofica, come mostra la polemica di Sen. ira 2, 16, 1-2 (‘animalia’ inquit ‘generosissima habentur quibus multum inest irae’ … iracundia leones adiuvat … quid quod ne illud quidem verum est, optima animalia esse iracundissima ? …). Tradizioni culturali diverse collaborano così a fare del leone un esempio di equilibrio tra ira e clementia ben adatto ad essere proposto all’autorità politica. Nel testo di Stazio, l’insieme di similitudine e referente narrativo suggerisce la compresenza di due aspetti : il disdegno di una preda facile e comune (nec facilem dignatur … cruorem ; plebeio … sanguine) e il rifiuto di accanirsi sulla preda abbattuta e inerme (exanimis proiectaque praeda). Questa combinazione di motivi tornerà più di una volta in Claudiano, memore di questo e di altri passi di Stazio, oltre che dei versi di Ovidio. Il leone che cerca lo scontro col toro, ma trascura prede « umili » e « atterrate », è uno dei modelli di comportamento che la Clementia insegna a Stilicone, nell’elogio di Claudiano :  























haec dea pro templis et ture calentibus aris te fruitur posuitque suas hoc pectore sedes. haec docet ut poenis hominum vel sanguine pasci turpe ferumque putes ; ut ferrum Marte cruentum, siccum pace feras ; ut non infensus alendis materiem praestes odiis ; ut sontibus ultro ignovisse velis, deponas ocius iram quam moveas, precibus numquam inplacabilis obstes, obvia prosternas, prostrataque more leonum despicias, alacres ardent qui frangere tauros, transiliunt praedas humiles. hac ipse magistra das veniam victis… 2 (cons. Stil. 2, 12-23)  







La stessa immagine è impiegata dal poeta nella Deprecatio ad Hadrianum per indurre il magister officiorum a un comportamento clemente nei suoi confron1  Nel finale dell’Iliade l’immagine del leone è impiegata all’opposto, da Apollo, per caratterizzare la mancanza di e[leo~ di Achille (Il. 24, 31-45). Per il leone clemente nella favola cf. Phaedr. fab. 563 P. ; Babr. 107 ; Romul. fab. 22 Thiele ; vedi Weinreich 1931 (= 1973), e Citroni 1975, a Mart. 1, 22 ; inoltre Spina 2008 sul racconto di Androclo e del leone. 2  Cf. Keudel 1970, pp. 63 ss., 74-77.  







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ti : responsabile di un’offesa, Claudiano ha perduto il favore del patrono e, caduto in disgrazia, lo esorta ora a non accanirsi indegnamente contro un inferiore : 1 carm. min. 22, 11-13 excessit iam poena modum. concede iacenti. / en adsum ; veniam confessus crimina posco. / manibus Hectoreis atrox ignovit Achilles… ; 26-31 quid superest damnis ? quae saeva pericula restant ? / emollit rabiem praedae mortisque facultas. / praetereunt subiecta ferae, torvique leones, / quae stravisse calent, eadem prostrata relinquunt / nec nisi bellantis gaudet cervice iuvenci / nobiliore fames… 2 Il tema era divenuto già da tempo tradizionale nel discorso politico, in sede di definizione teorica e di esortazione alla clementia. È però in età flavia, in un ambito sociale e culturale vicino a Stazio, e rappresentato nella sua stessa poesia d’occasione, che troviamo una declinazione per noi ancora più interessante del motivo. Alla sfera degli spettacoli pubblici rimanda Silvae 2, 5, il compianto scritto a caldo per il leo mansuetus che, ucciso nell’anfiteatro da una fiera vile, ha suscitato la commozione dell’imperatore. Il leone addestrato alla mitezza, esibito al popolo come esempio prodigioso di rinuncia alla violenza, propone un corrispettivo animale della clemenza di Domiziano. 3 La realtà di una rappresentazione ludica subordinata al discorso imperiale, accennata di scorcio nel testo di Stazio (suetus et a capta iam sponte recedere praeda / insertasque manus laxo dimittere morsu, silv. 2, 5, 5-6), è testimoniata in modo ancora più diretto ed evidente in alcuni componimenti di Marziale. Si tratta del ‘ciclo delle lepri e dei leoni’ nel primo libro : la serie di epigrammi, ben studiata in tempi recenti, che commenta uno spettacolo dell’anfiteatro dal chiaro valore propagandistico. 4 Il leone che gioca, mite e inoffensivo, con le lepri – prede piccole, imbelli, indegne del re degli animali – offre agli spettatori una rappresentazione simbolica della clemenza dell’imperatore e può apparire come una manifestazione della sua potenza divina, estesa al controllo sulla natura. Il poeta si fa tramite del messaggio politico dei giochi presso il pubblico dei lettori e si propone come ‘interprete creativo’ dell’ideologia imperiale : traducendo i valori simbolico-visuali nel discorso poetico, invita a sottomettersi con fiducia a un potere protettivo verso i deboli, temibile verso  























1  Vedi Consolino 2004, pp. 149-153. 2  Cito il testo secondo l’edizione di Hall ; Ricci 2001 stampa invece, con Birt, gaudent … nobiliore fame. Il soggetto astratto fames è notevole e andrà conservato (cf. Mart. 1, 22, 4 nec gaudet tenui sanguine tanta sitis) ; si potrebbe forse pensare a correggere nobiliore in nobilior : si avrebbe così un nesso interessante e si restituirebbe al leone la nobiltà che è il suo tratto distintivo. L’espressione nec nisi bellantis gaudet cervice iuvenci ricalca Theb. 8, 596 nec nisi regnantis cervice recumbere tauri ; sul rapporto con Ovidio cf. Ricci 2001, ad loc. e Ricci 1998. Al v. 29, dove i mss. sono divisi tra calent e valent, Ricci 2001 stampa vident, congettura di Tandoi (Barth correggeva in volunt). 3  Cf. Augoustakis 2007, p. 211 ; sulle associazioni con la favola e sul discorso politico del carme : Newlands 2005, 2011. 4  Mart. 1, 6 ; 14 ; 22 ; 48 ; 51 ; 60 ; 104. Cf. Weinreich 1928, pp. 90-103 ; Citroni 1975, introd. a 1, 6 e comm. ai singoli epigrammi ; Lorenz 2002, pp. 126-134, ma soprattutto Nauta 2002, pp. 402-412 ; importante Rosati 2006, pp. 41-52, spec. pp. 45-48. Sul tema vedi ora anche Coleman 2006, passim (introd., pp. lxxix-lxxxi ; comm. a Mart. spect. 12 [10], 20 [17], 21 [18], 33 [30 S, L ; 29 H]).  

































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i forti – ripropone insomma, nelle forme e nella misura minore dell’epigramma, il virgiliano parcere subiectis et debellare superbos. 1 Un epigramma del ciclo, in particolare, è notevole in relazione al nostro discorso, non solo perché presenta la stessa contrapposizione tra leone e cani della similitudine di Stazio, ma perché lega in modo diretto ed esplicito il tema della mitezza verso la preda piccola, e della minaccia per le prede grandi, alla clementia di Domiziano nelle campagne militari contro i Daci (siamo probabilmente nell’85/86 d.C.) :  



quid nunc saeva fugis placidi lepus ora leonis ? frangere tam parvas non didicere feras. servantur magnis isti cervicibus ungues nec gaudet tenui sanguine tanta sitis. praeda canum lepus est, vastos non implet hiatus : non timeat Dacus Caesaris arma puer. 2  





(Mart. 1, 22)

Stazio sfrutta dunque nel contesto epico un’immagine densa di implicazioni ideologico-politiche ; con uno spostamento agevole, la piega ad illustrare una situazione bellica, restituendo l’analogia animale al ruolo ad essa consueto nella tradizione epico-omerica. Il ‘moderno’ paradigma etico del leone-imperatore-clemente si sovrappone così al cliché omerico del guerriero-leone, risultando in rapporto di perfetta omologia e di ‘corrispondenza multipla’ col referente narrativo della battaglia. 3 Le similitudini col leone appaiono distribuite nella Tebaide secondo un disegno significativo. 4 La comparazione con la più forte delle fiere è spesso utile al poeta epico, non diversamente che nella tradizione omerica, per commentare i rapporti di forze tra i combattenti ; 5 altrove Stazio valorizza, più in partico 









1  Rosati 2006, pp. 45-52. Nella Tebaide cf. anche 11, 717-720 ‘… altusque iacentes / praetereas…’. 2  La contrapposizione fra leone e cani è anche in 1, 48, 7-8 si vitare canum morsus, lepus inprobe, quaeris, / ad quae confugias ora leonis habes ; quella fra prede piccole e grandi (lepri e tori) è invece in 1, 48, 1-2 ; 1, 51 non facit ad saevos cervix, nisi prima, leones. / quid fugis hos dentes, ambitiose lepus ? / scilicet a magnis ad te descendere tauris / et quae non cernunt frangere colla velint. / desperanda tibi est ingentis gloria fati : / non potes hoc tenuis praeda sub hoste mori ; 1, 60 intres ampla licet torvi lepus ora leonis, / esse tamen vacuo se leo dente putat. / quod ruet in tergum vel quos procumbet in armos, / alta iuvencorum volnera figet ubi ? / quid frustra nemorum dominum regemque fatigas ? / non nisi delecta pascitur ille fera ; 1, 104, 12-22 haec transit tamen, ut minora, quisquis / venatus humiles videt leonum, / quos velox leporum timor fatigat. / dimittunt, repetunt, amantque captos, / et securior est in ore praeda, / laxos cui dare perviosque rictus / gaudent et timidos tenere dentes, / mollem frangere dum pudet rapinam, / stratis cum modo venerint iuvencis. / haec clementia non paratur arte, / sed norunt cui serviant leones. Gli epigrammi 1, 6 e 1, 14 sono invece incentrati sulla clemenza del leone come emanazione miracolosa di quella del sovrano. 3  La matrice politica dell’immagine potrebbe essere compresente nella similitudine per Atreo in Sen. Thy. 732-741 : il tiranno che non risparmia (731), dopo i due più grandi, neppure il figlio più piccolo del fratello è come un leone che, fatta strage di tori, pulsa fame / non ponit iras : hinc et hinc tauros premens / vitulis minatur dente iam lasso inpiger (734-736). 4  Kytzler 1962, pp. 150-152. 5  Capaneo che attacca l’imbelle sacerdote di Bacco e gioisce dello scontro impari (7, 675 sic tum congressu Capaneus gavisus iniquo) è come un leone che al mattino sfoga la prima fame su un cervo o su un  



















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lare, la pertinenza dell’immagine al discorso della clemenza. Il re degli inferi, Plutone, nel momento in cui si piega sdegnoso alla preghiera di Anfiarao (intonata come una supplica imperiale), 1 è paragonato al leone che, una volta abbattuto l’uomo nemico, placa la propria ira e gli risparmia la vita (accipit ille preces indignaturque moveri. / ut leo, Massyli cum lux stetit obvia ferri, / tunc iras, tunc arma citat ; si decidit hostis, / ire supra satis est vitamque relinquere victo 8, 123126). C’è una punta paradossale nel descrivere il risparmiare un ‘morto-vivo’ come si risparmia la vita a un vivente ; soprattutto, è un paradosso tipico della Tebaide che l’inflessibile re dell’Ade non solo si lasci vincere dalle preghiere (come di fronte a Orfeo in Virgilio e Ovidio), ma venga addirittura costruito come un modello di sovranità clemente. 2 L’ultima similitudine per Teseo in battaglia aggiunge dunque un altro tratto all’esemplarità dell’eroe, 3 ma è in pari tempo emblematica del pessimismo della Tebaide : mentre esalta la moderazione del sovrano ateniese, mette in evidenza, per contrasto, la furia bellica dei suoi compagni. Il senso di sospensione del furor, creato poco prima dal paragone col placarsi degli elementi, qui si spezza : la designazione delle truppe come cetera virtus (12, 738) richiama il precedente virtus secura residit (12, 727), mentre il nesso desaevit sanguine virtus (12, 738), giocando di nuovo sullo iato tra virtus militare e morale, fa stridere, in un contatto ossimorico, crudeltà e virtù. 4 Stazio descrive l’infuriare dei soldati ateniesi con il composto intensivo che Virgilio usava per Enea nella sua aristia più brutale, nel momento in cui lo paragonava al gigante Egeone : Aen. 10, 569-570 sic toto Aeneas desaevit in aequore victor, / ut semel intepuit mucro ; 5 il contatto con uno dei punti più problematici dell’Eneide fa sentire, anche qui, la tragedia di una guerra sia pure legittima. Anche la sottolineatura del carattere comune delle vittime (plebeio), mentre fa risaltare la clemenza di Teseo  





















giovenco ancora privo di corna (7, 670-676). Il giovane Atys che inizia a far strage di schiere « facili » è come un leone ancora privo di criniera, e ancora ignaro del sangue di prede grandi (8, 574 magnique etiamnum sanguinis insons), che assale un gregge indifeso e sbrana una tenera agnella (8, 570-576) ; per contro Tideo, che non degna il giovane se non di una freccia noncurante (ma per lui mortale), è come un leone già sazio, che trascura vitelli e giovenche e cerca il sangue di prede grandi, il toro sovrano (8, 592-596 sic ait, et belli maiora ad praemia mente / ducitur : innumeris veluti leo forte potitus / caedibus imbelles vitulos mollesque iuvencas / transmittit : magno furor est in sanguine mergi / nec nisi regnantis cervice recumbere tauri ; cf. 583-584 audacem non ense nec hasta / dignatus). 1  Theb. 8, 93 ss. ‘…oro, minas stimulataque corda remulce, / neve ira dignare hominem et tua iura timentem… (119-122) sed pectora flectas / et melior sis, quaeso, deis. si quando nefanda / huc aderit coniunx, illi funesta reserva / supplicia : illa tua, rector bone, dignior ira’. 2  Meno significativo l’uso dell’immagine a illustrare il temporaneo placarsi delle truppe argive, di fronte alla supplica di Giocasta, in Theb. 7, 529-533 quales ubi tela virosque / pectoris impulsu rabidi stravere leones, / protinus ira minor, gaudentque in corpore capto / securam differre famem : sic flexa Pelasgum / corda labant, ferrique avidus mansueverat ardor : qui il piacere di saziare la fame sulla preda è solo rimandato (cf. Smolenaars 1994, ad loc.). 3  Cf. Braund, Gilbert 2003, pp. 256-257. 4  Sugli aspetti negativi di virtus nella Tebaide cf. Fantham 1995 ; Pollmann 2008, pp. 361-365 ; Lefèvre 2008, pp. 892-894. 5  Cf. Harrison 1991, ad loc. Nella Tebaide il composto è anche in 9, 785 ‘dum ferus hic vero desaevit pulvere Mavors’.  





















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che le ignora, suggerisce il carattere indiscriminato della strage compiuta dal resto delle truppe ; è un tratto che può ricordare la problematica aristia di Eurialo contro una massa senza nome, multam … sine nomine plebem (Verg. Aen. 9, 343) – Eurialo paragonato, come Niso, a un leone digiuno e omericamente affamato che fa strage di prede imbelli. 1 Se torniamo per un attimo al passo delle Supplici, la differenza di prospettiva salta agli occhi : là il pregio di un capo democratico veniva fatto risiedere nella capacità di trattenere il « popolo arrogante » ; nella visione imperiale di Stazio, tutto l’interesse si concentra sul capo, e quel che più conta è disegnare il profilo ideale di un solo uomo, a tutti superiore : il modello del sovrano. È la relazione con un altro luogo della Tebaide, infine, a completare il senso del nostro passo. All’inizio dell’undicesimo libro il fulmine scagliato da Giove contro Capaneo mette in fuga gli Argivi, e i Tebani ne approfittano. Una similitudine li qualifica ; il leone, dopo aver abbattuto dei tori, re degli armenti, se ne va soddisfatto, ed è allora che orsi e lupi arrivano, senza slancio d’ira, ignobili, a leccare le ferite di una preda altrui :  

















instat Agenoreus miles caelique tumultu utitur : indomitos ut cum Massyla per arva armenti reges magno leo fregit hiatu et contentus abit ; rauci tunc comminus ursi, tunc avidi venere lupi, rabieque remissa lambunt degeneres alienae vulnera praedae. 2  





(Theb. 11, 26-31)

La specularità delle immagini, nel finale, sottolinea l’alternanza di sorti : i Tebani inseguitori sono ora inseguiti ; essi che avevano approfittato (utitur) della fuga degli Argivi, causata da Giove, vedono ora approfittare della propria fuga, causata da Teseo, i soldati ateniesi. La correlazione tra le due similitudini provoca un ulteriore effetto di senso. Il contrasto tra leone e fiere ignobili torna a illustrare la sproporzione di valore tra la massa dei soldati e un combattente d’eccezione, che nel libro precedente era addirittura Giove : il parallelismo nobilita Teseo, ma fa scadere gli Ateniesi al livello dei Tebani profittatori. Esemplarità e pessimismo sono inscindibili in questo finale, quasi una sigla che definisce l’epica di Stazio. Lo scandalo delle fraternae acies trova infine riparazione in un bellum iustum, ma, a tratti, il senso di ripetizione smorza l’effetto del contrasto. In forme diverse rispetto all’Eneide, anche qui la tragedia ha inciso a fondo nel genere dei kleva ajndrw`n. Quando la guerra si realizza sul campo – la Tebaide dimostra – può diventare difficile distinguere una guerra giusta da una sbagliata.  





1  Verg. Aen. 9, 339-345 impastus ceu plena leo per ovilia turbans / (suadet enim vesana fames) manditque trahitque / molle pecus metumque metu, fremit ore cruento ; / nec minor Euryali caedes : incensus et ipse / perfurit ac multam in medio sine nomine plebem, / Fadumque Herbesumque subit Rhoetumque Abarimque, / ignaros… 2  Cf. Venini 1970, ad loc.  



v. Un ruolo epico per la donna : ‘La moglie eroica dell’eroe sventurato’  

v. 1. Un ruolo eroico per la moglie

N

ell ’ ottavo libro del Bellum Civile di Lucano, dopo la sconfitta a Farsàlo, Pompeo fa coraggio alla moglie Cornelia pronunciando una sententia :  

‘habes aditum mansurae in saecula famae : laudis in hoc sexu non legum iura nec arma, unica materia est coniunx miser’. (Lucan. 8, 74-76)  

« La gloria, per il tuo sesso, non sono le leggi né le armi, l’unica occasione di gloria è la sventura dello sposo ». Le parole dell’eroe delimitano lo spazio della matrona nella società romana e, al tempo stesso, definiscono un ruolo femminile tra i più prestigiosi nella letteratura antica. Lucano richiama motivi dell’Ovidio dell’esilio : 1 la costruzione di una persona eroica per la moglie, sposa devota di una vittima ; l’esortazione a dar prova, nella sventura del marito, di una virtus più che femminile ; la promessa di una fama letteraria pari a quella delle nobili eroine del mito. Un « grande ruolo » da interpretare su una « grande scena », magna … persona…, scaena … magna (Pont. 3, 1, 43-44 magna tibi imposita est nostris persona libellis : / coniugis exemplum diceris esse bonae ; 5960 quidquid ages igitur, scaena spectabere magna, / et pia non parvis testibus uxor eris) : è questa l’occasione offerta alla donna dalla sventura del marito, che si assimila a sua volta ai grandi eroi sventurati della poesia mitologica. 2 Una pia uxor diventa così, sotto gli occhi di molti, coniugis exemplum … bonae ; 3 la virtus che essa deve mostrare in pubblico non è (sottolinea Ovidio) la virtù guerriera di un’Amazzone, 4 ma il coraggio, anch’esso degno di un vir, nel combattere contro la Fortuna avversa : una versione eroica ed esibita di quella probitas matronale che è di norma destinata a restare nell’ombra. 5 È la donna  





































1  Cf., dopo Postgate 1917, Bruère 1951, p. 227 ; Mayer 1981, a 8, 75-76 ; Narducci 2002, p. 295 e n. 66. 2  Ovidio sviluppa in positivo uno spunto di Properzio, che in 1, 15 lamenta la perfidia di Cinzia nel periculum inflittogli dalla fortuna e la paragona per contrasto a eroine fedeli, o addirittura eroiche, del mito, di cui lei ha perso l’occasione di eguagliare la fama : Prop. 1, 15, 17-18 (dopo gli exempla di Calipso, Ipsipile, Evadne, Alfesibea) quarum nulla tuos potuit convertere mores, / tu quoque uti fieres nobilis historia ; cf. Fedeli 2004, pp. 242-244. 3  Cf. anche trist. 1, 6, 26 ; 4, 3, 72. Vedi Hinds 1999. 4  Pont. 3, 1, 93-96 nota tua est probitas testataque tempus in omne : / sit virtus etiam non probitate minor. / nec tibi Amazonia est pro me sumenda securis / aut excisa levi pelta gerenda manu. 5  Così, con tratti di linguaggio programmatico-letterario, trist. 5, 14, 21-34 (23-24 area de nostra nunc est tibi facta ruina ; / conspicuum virtus hic tua ponat opus) ; 4, 3, 71-84 (73-74 materiamque tuis tristem virtutibus imple : / ardua per praeceps gloria vadit iter ; 81-84 dat tibi nostra locum tituli fortuna,  



















Un ruolo epico per la donna: ‘La moglie eroica dell’eroe sventurato’

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a vestire eccezionalmente i panni dell’eroe, sulla scena lasciata vuota dalla sventura del coniuge. Secondo un principio caro all’etica antica, la virtù si dimostra nelle avversità. La virtù eroica, in particolare, trova nella sventura un’occasione di gloria letteraria. Ma se la gloria di un eroe coincide con la sventura della patria, di un popolo, con quella politica o personale, ciò che fa la gloria di una moglie è soprattutto la sventura del marito : perché è in essa che dà prova sublime di sé la virtù suprema di una donna, la sua fedeltà all’uomo. Se Troia fosse stata felice, la virtus di Ettore sarebbe sconosciuta (Hectora quis nosset, si felix Troia fuisset ? / publica virtutis per mala facta via est, trist. 4, 3, 75-76) ; ma se, tra le figlie di Pèlia, conosciamo per fama solo Alcesti (cum Pelia genitae tot sint, cur nobilis una est ?), è « perché fu l’unica sposata a un uomo sventurato », nempe fuit misero nupta quod una viro (trist. 5, 5, 55-56) : la stessa sorte che tocca ora alla moglie di Ovidio esule, digna minus misero, non meliore viro (trist. 1, 6, 3-4). 1 Penelope, Andromaca, Evadne, Alcesti, Laodamia : le eroine della fides, exempla immancabili in ogni discorso sulla fedeltà coniugale, hanno tutte questo tratto in comune ; ma un gruppo ristretto fra loro ha accesso al vertice della gloria, il sacrificio della vita per amore dello sposo. 2 L’elegia di Ovidio accosta più volte la moglie dell’esule alle veteres heroides, la dichiara pari a quelle nell’intensità dell’affetto e nella probità, 3 le promette, pur in un genere poetico minore, una gloria altrettanto grande e duratura. Ciò che il poeta elegiaco, tuttavia, non vuole e non può chiedere alla coniunx è di raggiungere il sublime tragico di quei modelli con la scelta della morte : morte nihil opus est pro me, sed amore fideque : / non ex difficili fama petenda tibi est (trist. 5, 14, 41-42). 4 La Tebaide, come vedremo, raccoglie quella sfida, rimasta aperta, e la porta fino in fondo : con la sposa di Polinice, Argìa, Stazio crea un’eroina epica che interpreta ‘La moglie eroica dell’eroe sventurato’ fino alle conseguenze estreme, e che eguaglia la più nobile ascendenza letteraria di quel ruolo femminile.  































caputque / conspicuum pietas qua tua tollat, habet. / utere temporibus, quorum nunc munere facta est / et patet in laudes area magna tuas) ; 5, 5, 49-60 (49-50 scilicet adversis probitas exercita rebus / tristi materiam tempore laudis habet). Cf. Lucan. 8, 77 ‘tua cum fatis pietas decertet’. 1  Cf. Pont. 3, 1, 66 ‘haec est pro miseri lenta salute viri’ (e trist. 3, 3, 50). 2  Vedi i tratti metalinguistici in Eur. Alc. 445-454 ch. pollav se mousopovloi / mevlyousi kaq∆ eJptavtonovn t∆ ojreivan / cevlun e[n t∆ ajluvroi~ klevonte~ u{mnoi~ … toivan e[lipe~ qanou`sa mol-/pa;n melevwn ajoidoi`~, « Molto ti canteranno i poeti sulla lira a sette corde, e anche nei canti senza lira … tale materia di canto hai lasciato morendo ai poeti » (tr. di G. Paduano) ; cf. 150-157. Secondo il discorso di Fedro in Plat. symp. 179b-d, Eros ispira ajrethv anche nelle donne, come Alcesti, la cui impresa disarmata è degna di stare accanto a un paradigma di eroismo come Achille (torno sul tema in Love and War, in corso di stampa). 3  Trist. 1, 6, 19-36 ; 5, 5, 43-60. 4  Cf. Pont. 3, 1, 113-114 morte nihil opus est, nihil Icariotide tela : / Caesaris est coniunx ore precanda tuo.  











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v. 2. Argìa, ‘moglie eroica dell ’ eroe sventurato’ Nell’elegia erotica e nell’epica latina non mancano, come sappiamo, figure eroiche di spose devote, divise tra i due mondi antitetici dell’amore e della guerra : mogli che aspirano a dar prova della propria fedeltà seguendo il marito nella sfera maschile degli arma ; voci di donne che protestano per la separazione dall’amato e si dichiarano disposte, in nome dell’amore coniugale, ad accompagnarlo in mezzo ai pericoli, negli accampamenti e fin sul campo di battaglia, invidiando talora il ruolo delle Amazzoni. È il cosiddetto « modello di Aretusa », 1 costruito da Properzio nell’elegia 4, 3, cui si richiamano Marcia e Cornelia in Lucano, o Imilce in Silio Italico : 2 un paradigma di sposa devota e insieme di matrona virilis, « sintesi di tradizione e di modernità », che elabora stimoli del contesto storico e sociale contemporaneo ; un modello che Stazio tiene presente anche quando disegna, nello spazio idealizzato delle Silvae, il personaggio della propria moglie, Claudia, o quello di Priscilla, moglie di Abascanto. Per citare uno studio importante di La Penna, dedicato fra l’altro a Priscilla e ad Argìa, « La pietas, il pudico amore coniugale infondono nelle donne un’energia virile meglio delle passioni violente, sino a dare ai personaggi una statura eroica ». 3 Con l’Aretusa di Properzio, e con la Laodamia delle Eroidi ovidiane, l’elegia d’amore tenta un approccio al mondo della guerra, contro cui prosegue la sua protesta antimilitarista. Del modello elegiaco, l’epica post-virgiliana recepisce le appassionate richieste e proteste della relicta, senza più mettere in discussione, tuttavia, la scelta della guerra in quanto tale (e con essa le norme e l’ideologia del genere epico). Da Lucano a Silio, il lamento della ‘sposaabbandonata-per-la-guerra’, che vena l’epos di elegia, convive col necessario riconoscimento del ruolo militare del condottiero, e cede infine a un’accettazione sofferta : l’accettazione del ruolo marginale riservato alla donna nel genere maschile degli arma. 4 Ma è nella Tebaide che il fortunato ‘modello di Aretusa’ trova la sua declinazione più interessante, una declinazione insieme paradossale ed estrema. Argìa è un personaggio in gran parte nuovo, creato da Stazio su pochi dati  





























1  Rosati 1996. 2  Oltre che Deidamia nell’Achilleide di Stazio : cf. Rosati 1992, 1994, 1994a ; Vinchesi 2005, pp. 97-108. 3  La Penna 1981, p. 234 (= 2000, p. 48). Su Priscilla cf. ora Gibson 2006, a silv. 5, 1, 67-69 e 127-134, passim ; Zeiner-Carmichael 2007 ; su silv. 3, 5 e l’idealizzazione della moglie Claudia : Fögen 2007, Henderson 2007. 4  Il ruolo delle donne nell’epica rivela una tensione costante fra teorizzazioni del genere letterario e prassi poetica : cf. Hinds 2000 e Keith 2000 ; inoltre Foley 2005. Sui ruoli femminili in Lucano : Finiello 2005 ; per la Tebaide, oltre ai lavori citati infra, Lesueur 1992 e, sul rituale del lamento funebre, Fantham 1999 ; Dietrich 1999 ; Panoussi 2007, pp. 124-132.  





















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della tradizione. 1 Nel disegno del poema, le nozze tra la figlia del re di Argo e Polinice non sono nient’altro che semina belli, uno strumento voluto da Giove perché si realizzi la spedizione dei Sette contro Tebe. Argìa, sposa novella a cui la guerra strapperà presto lo sposo, appare così come una nuova Laodamia. 2 All’inizio del racconto, quando la guerra si va profilando, Stazio costruisce per lei la situazione tipica della relicta, solo per farle ben presto smentire le convenzioni di quel ruolo ; dal timore per la guerra che la separerà da Polinice (2, 351 ‘quo tendis iter ?’) Argìa passa, nel giro di un libro, alla richiesta della guerra, rivolta ad Adrasto (3, 696 ‘da bella, pater’). Paradossalmente, è proprio in nome dell’amore coniugale che Argìa chiede la guerra : in nome dell’amore per uno sposo sventurato. C’è un punto cruciale, nella preghiera dell’eroina, su cui merita soffermarsi :  











‘nescis, pater optime, nescis quantus amor castae misero nupsisse marito’. (Theb. 3, 704-705)

La frase che dichiara l’intensità e la forza del suo amore coniugale conferma come il personaggio di Argìa sia modellato sulla tradizione della relicta ; la sentenza si pone in una serie che va da Aretusa, passando per Laodamia, a Pompeo e Cornelia in Lucano, a Imilce in Silio Italico, e che esalta l’affetto matrimoniale messo alla prova dalla guerra (Prop. 4, 3, 49 omnis amor magnus, sed aperto in coniuge maior ; Ov. her. 13, 30 pectora legitimus casta momordit amor ; Lucan. 5, 727-728 heu, quantum mentes dominatur in aequas / iusta Venus ! ; Sil. 3, 113 ‘castum haud superat labor ullus amorem’). 3 La nota peculiare del passo di Stazio sta però nell’aggettivo misero ; ‘…quantus amor castae misero nupsisse marito’ : nell’avvio del poema, Argìa si candida a inscenare il ruolo di ‘Sposa eroica dell’eroe sfortunato’, che sarà decisivo nello scioglimento della vicenda tebana. L’intera frase è densa di ironia drammatica. Argìa motiva la richiesta della spedizione con un affetto di moglie che è devozione incondizionata e con la pietà per la miseria di Polinice esule ; ma il carattere di scontro fraterno, proprio della guerra tebana, perverte il senso delle sue parole. Per Argìa, amare il coniuge significa entrare a far parte di una vicenda empia : scegliendo una guerra sbagliata, la sposa di Polinice si rende complice del nefas e commette un errore tragico che riscatterà solo alla fine del poema. È un altro, tuttavia, l’aspetto che ci interessa di più ora. I versi che abbiamo letto funzionano, a livello narrativo, come un’anticipazione del finale  



















1  Cf. limc, ii, 1, 1984, p. 587. 2  Vedi Bessone 2002. 3  Cf. Rosati 1996, p. 148 e n. 36. Quanto a Properzio, 4, 3, considero il distico 49-50 autentico (vs Hutchinson 2006) e accolgo il tràdito aperto (contrariamente a Heyworth 2007), che andrà inteso come « legittimamente riconosciuto » : cf. Maltby 1981 e Rosati 1996, p. 148 n. 33. I versi di Lucano sono un commento del narratore sulla debolezza di Pompeo : uno dei tratti paradossali dell’addio a Cornelia.  







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e annunciano il ruolo eroico e virile che Argìa assumerà dopo la morte di Polinice, nel dodicesimo libro. L’anafora nescis … nescis, mentre sottolinea l’inconsapevolezza di Adrasto, e del lettore, prepara di lontano uno sviluppo eccezionale ed inatteso ; se si legge fra le righe, si riconosce che l’espressione di Argìa contiene già in sé un preciso programma letterario : la promessa di uguagliare, in quanto moglie di un eroe sfortunato (misero … marito), le più nobili eroine dell’epica e della tragedia. Nella Tebaide la duplicità del modello femminile di Aretusa, moglie devota e matrona virile, diventa la tensione tra due punte estreme, situate agli estremi del poema : da un lato il pudore della sposa novella, che trepida nel talamo per la violenza che minaccia l’amato, dall’altro l’inaudito eroismo della giovane vedova, in cerca del corpo del marito sul campo ancora caldo della battaglia. L’ipotesi di farsi comes dello sposo sul teatro di guerra è destinata a realizzarsi qui in una versione tragica e sublime : nell’ultimo libro, Argìa ‘segue’ a Tebe Polinice defunto, e da sola sfida la morte, dopo i pericoli e le fatiche della marcia, per rendere al cadavere gli onori funebri. Da modello di moglie più che tradizionale, Argìa giunge infine ad una infrazione clamorosa, e per una volta non solo sognata, della distinzione tra ruoli di genere. In nome di una fedeltà che va oltre la morte, 1 l’eroina di Stazio supera il ‘modello di Aretusa’ e raggiunge la statura di un personaggio tragico, tale da stare alla pari con Antigone. 2 Argìa è – lo vedremo tra poco – una nuova Antigone, che affronta virilmente la morte in nome dell’amore coniugale. Nella poesia latina tocca all’epica perversa e sublime della Tebaide restituire alla ‘Moglie eroica dell’eroe sventurato’ tutta la sua grandezza del suo ruolo.  











v. 3. Un ’ epica al femminile Siamo nel dodicesimo libro della Tebaide. La spedizione dei Sette si è conclusa, nel libro precedente, con il duello fratricida tra Eteocle e Polinice. Creonte, nuovo tiranno di Tebe, ha vietato la sepoltura dei caduti argivi. Da Argo una miserabile schiera di donne, vedove e madri dei guerrieri, marcia alla volta di Tebe come una fila di prigioniere di guerra. 3 Argìa, « regina » di quel  





1  Cf. 12, 186 citato infra, § 4 ; 12, 346-347 ‘aeternumque tuo famulata sepulcro / durabit deserta fides’, e infra, § 8. 2  Il ruolo di Argìa accanto ad Antigone poteva essere anticipato nell’Antigona di Accio (e forse nell’Antigone di Euripide o nei tragici post-euripidei ; resta ipotetica la presenza in Callimaco) : cf. Aricò 1972b, p. 319 n. 5 ; 1987, pp. 206-212, spec. pp. 207-208 ; 2002, p. 183 ; Dangel 1995, p. 362. Su questa coppia di eroine nella Tebaide cf., oltre agli studi discussi infra nel testo, Iglesias-Montiel 1987-1989 ; Taisne 1994, pp. 76-77, 103 ; Franchet d’Espèrey 1999, pp. 317-319, con puntualizzazioni condivisibili rispetto a Hershkowitz 1998, pp. 293-296, e a Frings 1991, p. 143 (cf. Bessone 2002, n. 1 a p. 185, n. 26 a p. 191). Non del tutto convincente Ganiban 2007, pp. 207-212. Cf. infra, n. 3 a p. 216. 3  Theb. 12, 105-110 flebilis interea vacuis comitatus ab Argis / (fama trahit miseras) orbae viduaeque ruebant / Inachides ceu capta manus ; sua vulnera cuique, / par habitus cunctis, deiecti in pectora crines / accinctique sinus ; manant lacera ora cruentis / unguibus, et molles planctu crevere lacerti. Un quadro  



















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corteo funebre, straziato dai segni del lutto, avanza a fatica, sorreggendosi alle ancelle, con il nome di Polinice sulle labbra (Theb. 12, 111-115 prima per attonitas nigrae regina catervae, / tristibus inlabens famulis iterumque resurgens, / quaerit inops Argia vias ; non regia cordi, / non pater : una fides, unum Polynicis amati / nomen in ore sedet). Il testo di Stazio ha qui, io credo, un primo segnale importante, trascurato dalla critica. Quella che si va preparando, a dispetto del quadro luttuoso di lamento femminile, è una vera e propria impresa epico-eroica. Leggiamo i versi seguenti :  





ipsa per aversos ducit Saturnia calles occultatque vias, ne plebs congressa suorum ire vetet pereatque ingentis gloria coepti.

(Theb. 12, 134-136)

Ne … pereat … ingentis gloria coepti : nella forma discreta di una subordinata finale è adombrata la promessa di gloria poetica per una « azione grande » – epicamente grande, al pari degli ingentia coepta di Eurialo e Niso o di Pallante nell’Eneide. 1 L’understatement è anche nell’ambiguità del linguaggio : perire ha qui il senso di « essere vanificato, andare perduto », 2 ma il nesso con gloria non può non suggerire, allo stesso tempo, l’augurio di una im-peritura, immortale gloria epica. L’azione delle Argive, che sarà presto proseguita dalla sola Argìa, si annuncia così come una gloriosa e inedita epica al femminile. Un’epica nuova : il carattere straordinario dell’impresa sta già nel paradosso della necessità di nascondersi, anziché ai nemici, alla propria stessa gente (suorum) ; 3 come se l’eroismo femminile fosse innanzi tutto un’impresa contro la propria comunità e contro il ruolo di genere che essa assegna alle donne. In più, c’è forse in questi versi un tratto di ambiziosa autoriflessività letteraria : l’immagine dei sentieri poco frequentati (aversos … calles), contrapposta a quella della folla comune (plebs), sembra voler imprimere all’episodio il marchio callimacheo dell’originalità poetica. Dopo undici libri di epica del nefas, in cui l’eroismo maschile raramente è apparso puro dalla contaminazione di una guerra empia, e dopo il culmine di empietà del duello fratricida, lo stacco è forte : è la nobile impresa delle donne (pur implicate in vario modo nell’errore dei mariti) a segnare per prima il  

























che (insieme a 12, 280-285) ha interessanti punti di contatto con quello, altrettanto drammatico e diversamente paradossale, di Tac. ann. 1, 40, 4-41, 3 (Agrippina Maggiore, col piccolo Caligola e altre donne, viene fatta allontanare dall’accampamento, nonostante le sue proteste, dal marito Germanico, per il pericolo della rivolta militare). 1  Verg. Aen. 9, 296 ; 10, 461. È interessante che coeptum sia usato solo un’altra volta, in questo stesso libro, in relazione all’impresa di Teseo : 12, 643-644 ‘dignas insumite mentes / coeptibus’. 2  Cf. Ach. 1, 341-342 ne … incepti pereant mendacia furti ; Theb. 10, 133 ne pereant voces. 3  Cf. Pollmann 2004, ad loc. Nell’episodio di Eurialo e Niso viene descritta, in termini simili a quelli impiegati da Stazio, la selva in cui i due cercano di nascondersi dai nemici : Aen. 9, 383 rara per occultos lucebat semita calles.  







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ritorno della pietas. Un effetto di contrasto che sarà cercato anche da Tacito nel proemio delle Historiae, dove, al quadro di guerre civili, sconvolgimenti e involuzione tirannica dell’epoca flavia (§§ 1-2), verrà contrapposto un elenco di bona exempla aperto proprio dalla virtus delle donne (§ 3) : il coraggio esemplare di mogli e di madri che hanno seguito fedelmente nella sventura i propri congiunti (Tac. hist. 1, 3, 1 non tamen adeo virtutum sterile saeculum, ut non et bona exempla prodiderit. comitatae profugos liberos matres, secutae maritos in exilia coniuges…).  

v. 4. L’aristia di una matrona virilis Fin qui il percorso di Argìa coincide con quello delle compagne ; ma è l’incontro con un reduce argivo, e la notizia del divieto di Creonte, a isolare l’eroina. La minaccia di morte del tiranno per chi infranga il suo decreto raggela il gruppo e lo divide : una parte approva il consiglio di implorare ad Atene l’aiuto armato di Teseo, un’altra pensa a un tentativo disperato di blandire Creonte ; 1 è in quest’incertezza collettiva che Argìa concepisce il suo disegno individuale e, mascherando le proprie intenzioni, ottiene di proseguire sola verso Tebe. Il punto di svolta, ciò che fa scattare in Argìa la decisione eroica – voglio sottolinearlo – è proprio la prospettiva della morte, e di una morte crudele inflitta dal tiranno : Theb. 12, 157-159 (Ornytus) ‘rapiet fortasse precantes, / si mens nota mihi, nec coniugialia supra / funera sed caris longe mactabit ab umbris’. In questa luce va letto il brano che mette in scena la metamorfosi dell’eroina : un personaggio capace di passare, nel giro di sessanta versi, dalla tradizione alla trasgressione, dal rituale ruolo femminile del lamento a un eroismo che infrange le norme di genere sessuale : 2  















hic non femineae subitum virtutis amorem colligit Argia, sexuque inmane relicto tractat opus : placet (egregii spes dura pericli !) comminus infandi leges accedere regni, quo Rhodopes non ulla nurus nec alumna nivosi Phasidis innuptis vallata cohortibus iret. tunc movet arte dolum, quo semet ab agmine fido segreget, inmitesque deos regemque cruentum contemptrix animae et magno temeraria luctu provocet ; hortantur pietas ignesque pudici. (Theb. 12, 177-186)  





Spesso, nella Tebaide, gli stereotipi di genere sono esibiti per essere violati. All’inizio del poema Argìa e Deipile, figlie di un re privo di prole maschile, erano definite per contrasto con l’assenza del melior sexus (1, 393-394 hic sexus 1  Theb. 12, 166-176. 2  Per l’opposizione tra virtus maschile e lutto femminile cf., per es., Hor. epod. 16, 39 vos, quibus est virtus, muliebrem tollite luctum (e cf. Theb. 5, 650-655).

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melioris inops sed prole virebat / feminea, gemino natarum pignore fultus). Melior sexus : una notazione fatta apposta per essere smentita, e rovesciata già nel settimo libro dalla definizione speculare delle figlie di Edipo, Antigone e Ismene, come melior iam sexus, in contrasto con gli empi fratelli Eteocle e Polinice (Theb. 7, 479-481 hinc atque hinc natae, melior iam sexus, aniles / praecipitantem artus et plus quam possit euntem / sustentant) ; 1 uno scambio di ruoli di genere che era già dichiarato nell’Edipo a Colono di Sofocle. 2 Argìa passa dunque, nell’arco del poema, dal cliché della debolezza femminile al paradosso della matrona virilis, a sua volta uno stereotipo. 3 Questo rifiuto, dichiarato dal testo, del convenzionale ruolo di genere (sexu … relicto) non è isolato nella Tebaide : la storia delle Lemniadi, nel quinto libro, ne ha dato un esempio in negativo (5, 105 ‘pellite sexum !’), 4 offrendo una declinazione al femminile e una mise en abyme del nefas familiare oggetto del poema. Nel libro conclusivo, che tenta di riscattare l’empietà dei precedenti, l’energia virile di una donna si mostra invece in una versione nobile, degna di stare alla pari con la nobile impresa di un eroe tradizionale come Teseo.  















v. 5. virtutis amor L’immane opus che si annuncia, in perfetto stile epico (e quasi con tratti proemiali), 5 è dunque il prodotto singolare di una non feminea virtus : espressione che evoca l’etimologia di virtus da vir 6 e sottolinea l’estraneità di una femina al genere maschile degli arma virum, dei kleva ajndrw`n. C’è di più. Il  





1  Cf. 8, 607-609 sorores, / par aliud morum miserique innoxia proles / Oedipodae ; Franchet D’Espèrey 2008, p. 195. 2  Soph. Oed. C. 337-345 oed. w[ pavnt∆ ejkeivnw toi`~ ejn Aijguvptw/ novmoi~ / fuvsin kateikasqevnte kai; bivou trofav~: / ejkei` ga;r oiJ me;n a[rsene~ kata; stevga~ / qakou`sin iJstourgou`nte~, aiJ de; suvnnomoi / ta[xw bivou trofei`a porsuvnous∆ ajeiv. / sfw`/n d∆, w\ tevkn∆, ou{~ me;n eijko;~ h\n ponei`n tavde, / kat∆ oi\kon oijkourou`sin w{ste parqevnoi, / sfw; d∆ ajnt∆ ejkeivnoin tajma; dusthvnou kaka; / uJperponei`ton. h{ me;n … ; 353 su; d∆, w\ tevknon …, « ed. Ah, come si sono adeguati, quei due, ai costumi e al modo di vivere degli Egiziani. Laggiù gli uomini stanno seduti in casa a tessere la tela, mentre le mogli escono per provvedere al sostentamento quotidiano. Similmente nel vostro caso, figlie mie, coloro che dovrebbero prendersi questa pena stanno a far la guardia alla casa, come fossero due fanciulle, mentre voi vi sobbarcate, al posto loro, il peso delle mie disgrazie : una, Antigone … e tu, Ismene… » (tr. di F. Ferrari). 3  Tra i molti esempi di matrone o di vergini virili (vedi per es. Petrone 1995) cf. Sil. 13, 828-830 ‘… contemptrix Cloelia sexus’ ; Tac. ann. 16, 10, 3 (Pollitta, vedova di Rubellio Plauto) sexum egressa ; Apul. met. 5, 22, 1 Psyche et corporis et animi alioquin infirma … viribus roboratur, et … sexum audacia mutatur. Sulle donne virili nel dibattito filosofico greco fino a Musonio Rufo cf. McInerney 2003, pp. 323-327. Sulla sfida di Argìa alle aspettative di genere cf. Bernstein 2008, pp. 85-88, 94-101. 4  Cf. 5, 397 ‘rediit in pectora sexus’. Il motivo è esteso al mondo animale : 6, 334 ; 9, 118. 5  Per le risonanze letterarie di tractat opus cf. Hor. carm. 2, 1, 6-7, con Nisbet, Hubbard 1978 sullo « stile da prefazione » ; Mart. 2, 77, 6 ; Quint. inst. 1, 9, 3 (e 8 pr. 8) ; Plin. nat. 19, 189 ; allo stesso tempo, il senso concreto di tractare parrebbe evocare l’immagine del maneggiare un’arma. 6  Cf. Varr. ling. 5, 73 ; Cic. Tusc. 2, 43 ; Weiden Boyd 1987 ; Maltby 1991, s.v. virtus ; Gibson 2003, a Ov. ars 3, 23-24. Su « virtus e le donne » cf. McDonnell 2006, pp. 161-165, spec. p. 165 n. 11 ; per Argìa cf. Pollmann 2008, pp. 364-365.  











































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nesso virtutis amor è usato altrove da Stazio in contesti di educazione ai tradizionali valori maschili, in primo luogo al valore guerriero : così nell’elogio di Crispino, figlio di Vezzio Bolano ed emulo dei suoi successi militari, in silv. 5, 2, 51-54 disce, puer (nec enim externo monitore petendus / virtutis tibi pulcher amor…), tu disce patrem… (una variazione sul tema, e sulla iunctura, è in silv. 4, 8, 58 pulchrae studium virtutis) ; così, con clausola identica a quella del nostro passo, nell’esortazione di Ippomedonte alle truppe nel catalogo del quarto libro, pulchraeque docet virtutis amorem (Theb. 4, 128) ; due brani che richiamano un modello forte di ideologia epica, e di educazione romana, come l’addio di Enea al figlio nell’ultimo libro dell’Eneide (12, 435-436 ‘disce, puer, virtutem ex me…’). 1 Se un maschio romano apprende attraverso exempla la virtù che gli viene insegnata per linea paterna, in questa materia una donna come Argìa non può che essere autodidatta, o improvvisare. Il testo di Stazio sottolinea che l’amore per la virtù è in Argia un innamoramento improvviso : hic non femineae subitum virtutis amorem / colligit Argia (12, 177-178). 2 Eppure, in un’intuizione repentina, l’eroina concepisce un amore per la virtus capace di assumere addirittura una coloritura stoica : 3 un amore della virtù non diverso da quello che, per il sapiens Catone, è una professione, dichiarata dal nomen agentis : ‘durae … virtutis amator’ (Lucan. 9, 562). Anche la « durezza » (la « durezza » della « speranza », un nesso ossimorico) accosta Argìa al saggio stoico, 4 mentre la sua virtus che insegue un periculum (egregii spes dura pericli ! 12, 179) ‘realizza’ formulazioni senecane come quella di prov. 4, 4 avida est periculi virtus. Nel proemio di questa aristia è già implicito lo slancio di morte che Argìa mostrerà di fronte a Creonte, centinaia di versi dopo : là questo virtutis amorem diventerà mortis amore (12, 679) e la egregii spes dura pericli una animosa … leti / spes (12, 456-457).  



































v. 6. Più di un ’ amazzone: un nuovo eroismo femminile L’aristia senz’armi di Argia, improntata a una virtus dai tratti stoicheggianti, è costruita da Stazio come un’impresa bellica, con l’uso di linguaggio milita1  Cf. Bernstein 2007, pp. 187-189 ; Micozzi 2007, a Theb. 4, 128, anche per la problematicità del concetto di virtus nel contesto di guerra civile della Tebaide, come già in Lucano, e per il rapporto tra quel verso e il v. 135 laudatque nefas (Danao che arma le figlie, nella rappresentazione sullo scudo di Ippomedonte). Cf. supra, cap. iv, § 10, n. 4 a p. 198. 2  Cf. Pollmann 2004, ad loc. L’espressione potrebbe riecheggiare un punto critico dell’episodio virgiliano di Camilla, Aen. 11, 782 femineo praedae et spoliorum ardebat amore, contrapponendo all’unico tratto di debolezza femminile dell’Amazzone, che ne causa la morte, l’eccezionale virilità della moglie di Polinice ; cf. Fucecchi 2007, n. 29 a p. 13. 3  Cf. i passi citati da Micozzi 2007, a 4, 128 (tranne Theb. 5, 742 e Sil. 13, 663) : Hor. epist. 1, 16, 52 ; Sen. otio 6, 2 ; brev. 19, 2 ; Sil. 10, 194-195 ; si aggiunga Sen. ben. 4, 24, 2 ; in connessione con le imagines degli antenati, Plin. nat. 35, 8 ; sopr. Sen. epist. 71, 5 ; 94, 8 ; Sil. 15, 130 ; e cf. Apul. Plat. 2, 3 ; Aug. civ. 10, 28, p. 446, 9-10, citati da Wick 2004. 4  Cf. Wick 2004, a Lucan. 9, 403 gaudet patientia duris.  

























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re : 1 un’operazione letteraria che sfrutta la stilizzazione militare impressa da Seneca alla lotta del saggio contro la Fortuna. La sfida al tiranno e alle sue leggi empie è introdotta programmaticamente nei termini di un duello, annunciato da comminus (placet… / comminus infandi leges accedere regni 12, 179-180) : un avverbio che, nella Tebaide, può connotare altre ribellioni ai tiranni, come il suicidio eroico di Meone al cospetto di Eteocle (3, 99-101 tu tamen egregius fati mentisque nec umquam / indignum passure situm, qui comminus ausus / vadere contemptum reges), 2 oppure fare da proemio enfatico a imprese belliche d’eccezione, quali l’assalto di Capaneo al cielo o il duello tra Eteocle e Polinice (10, 827-828 sed nunc / comminus astrigeros Capaneus tollendus in axes ; 11, 99 ‘fratrum stringendi comminus enses’). Ma la sfida al tiranno è presentata come addirittura superiore a un’impresa bellica : la spedizione individuale e disarmata di Argìa è esaltata da Stazio attraverso il confronto vincente con il paradigma dell’eroismo militare femminile, le Amazzoni guerriere (un esempio della Überbietung cara all’autore). Una moglie sola, fedele al marito oltre la morte, è dichiarata vincente su un esercito di donne che rifiutano le nozze (quo Rhodopes non ulla nurus nec alumna nivosi / Phasidis innuptis vallata cohortibus iret 12, 181-182). 3 Il paradosso di una matrona virile che supera le Amazzoni è correlato, in questo stesso libro, al paradosso speculare delle vere Amazzoni, condotte ad Atene e ‘addomesticate’ da Teseo vincitore, e della loro regina Ippolita ridotta di buon grado al ruolo di moglie, procreatrice e domiseda : 4 una moglie in attesa, cui il premuroso marito vieta di partecipare alla sua prossima impresa bellica (12, 534-535 Hippolyte, iam blanda genas patiensque mariti / foederis… ; 539 hosti veniat paritura marito… ; 635-638 isset et Arctoas Cadmea ad moenia ducens / Hippolyte turmas : retinet iam certa tumentis / spes uteri, coniunxque rogat dimittere curas / Martis et emeritas thalamo sacrare pharetras). Il poeta della Tebaide crea così un nuovo modello di eroismo femminile : quanto di più vicino all’eroismo bellico, ma senza la rinuncia al ruolo tradizionale della donna ; un massimo di trasgressione, contenuto in un massimo di tradizione. L’ossimoro apparirà più avanti in un’immagine emblematica : l’immagine di Argìa che, giunta con una marcia eroica a cercare il marito sul campo di battaglia, lo riconosce dalla veste che lei stessa ha tessuto, frutto del suo lavoro domestico e simbolo delle sue virtù matronali (312-315 primum  





























1  Vedi Bernstein 2008, pp. 98-99 ; Pollmann 2004, a 180 comminus. 2  Cf. 3, 99-113 (il nostro passo è portato a confronto da Snijder 1968, ad loc.). Interessante è anche il glorioso opporsi di Corebo alla inclementia quasi tirannica di Apollo in 1, 638-661 (641 comminus). 3  Per l’interpretazione di Rhodopes … nurus e alumna … Phasidis in riferimento alle Amazzoni si veda, di contro a Pollmann 2004, ad loc. (che vede un’allusione a Procne), Fucecchi 2007, n. 20 a p. 11 ; cf. anche Lesueur 1994, p. 179 n. 17. Il riferimento è chiaro in silv. 1, 6, 53-56 stat sexus rudis, insciusque ferri / ut pugnas capit improbus viriles ! / credas ad Tanain ferumque Phasim / Thermodontiacas calere turmas. 4  Per la femminilizzazione ellenizzante della regina delle Amazzoni nella Vita di Teseo di Plutarco cf. Hardwick 1990, pp. 21 e 23.  





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per campos infuso lumine pallam / coniugis ipsa suos noscit miseranda labores, / quamquam texta latent suffusaque sanguine maeret / purpura) ; 1 la virtus virile si combina così in Argia con le tradizionali attività femminili, le attività rifiutate per statuto dalle Amazzoni e da un’‘amazzone’ come Camilla, la vergine guerriera (Verg. Aen. 7, 805-807 bellatrix, non illa colo calathisve Minervae / femineas adsueta manus, sed proelia virgo / dura pati).  



v. 7. argìa e antigone Per la sua impresa, Argia sceglie un isolamento volontario (quo semet ab agmine fido / segreget 12, 183-184) : è questo il primo approccio dell’eroina al modello di Antigone. 2 La sua aristia individuale e disarmata inizia evocando l’isolamento tragico dell’eroina sofoclea ; subito dopo, la sfida a un sovrano dispotico (regemque cruentum … provocet) 3 e la scelta della morte eroica (contemptrix animae) proseguono l’identificazione. Dove il testo avvicina Argìa al paradigma di Antigone, dichiara anche lo stacco da quel modello : hortantur pietas ignesque pudici (12, 186). Argìa si annuncia come un’Antigone nuova e diversa, che agisce in nome dell’amore coniugale. Stazio raccoglie una sfida lanciata dal testo di Sofocle e contenuta nelle parole stesse dell’eroina, mentre si avvia alla tomba :  











kaivtoi s∆ ejgw; jtivmhsa toi`~ fronou`sin eu\. ouj gavr pot∆ ou[t∆ a[n eij tevkn∆ w|n mhvthr e[fun ou[t∆ eij povsi~ moi katqanw;n ejthvketo, biva/ politw`n tovnd∆ a[n hj/rovmhn povnon. tivno~ novmou dh; tau`ta pro;~ cavrin levgw… povsi~ me;n a[n moi katqanovnto~ a[llo~ h\n, kai; pai`~ ajp∆ a[llou fwtov~, eij tou`d∆ h[mplakon, mhtro;~ d∆ ejn ”Aidou kai; patro;~ kekeuqovtoin oujk e[st∆ ajdelfo;~ o{sti~ a[n blavstoi potev.

(Soph. Ant. 904-912) E tuttavia fu giusto l’onore che ti resi, almeno agli occhi di chi ha mente retta. Certamente non avrei intrapreso questa audacia sfidando il volere della città né per i figli, 1  Il lamento di Argìa sul cadavere del marito ha un modello omerico nel lamento di Andromaca (Il. 22, 477-514) ; ma se la moglie di Ettore apprende la morte dell’eroe mentre tesse una tela nello spazio domestico, Argìa è un’eroina che ha ormai abbandonato da tempo le stanze femminili della reggia. 2  Fucecchi 2007, n. 22 a p. 11 ; Heslin 2008, p. 115. 2  Così anche la sfida agli dèi senza pietà, immitesque deos … provocet : cf. Soph. Ant. 921-928 … poivan parexelqou`sa daimovnwn divkhn… / tiv crhv me th;n duvsthnon ej~ qeou;~ e[ti / blevpein… tivn∆ aujda`n xummavcwn… ejpeiv ge dh; / th;n dussevbeian eujsebou`s∆ ejkthsavmhn. / ajll∆ eij me;n ou\n tavd∆ ejsti;n ejn qeoi`~ kalav, / paqovnte~ a[n xuggnoi`men hJmarthkovte~: / eij d∆ oi{d∆ aJmartavnousi, mh; pleivw kaka; / pavqoien h[ kai; drw`sin ejkdivkw~ ejmev, « Ho forse violato la giustizia divina ? Ma perché un’infelice come me dovrebbe rivolgersi ancora agli dèi ? E a chi domanderò aiuto, se per la mia pietà mi sono guadagnata il nome di empia ? Ebbene, se così par giusto agli dèi, dopo aver sofferto riconoscerò il mio errore ; ma se i colpevoli sono loro, non abbiano a soffrire pene maggiori di quelle che ingiustamente mi infliggono » (tr. di F. Ferrari).  

















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né se avessi visto putrefarsi il corpo del mio sposo. E dunque in ossequio a quali principi ragiono così ? Se avessi perduto il marito, avrei potuto trovarne un altro e avere da lui un altro figlio, se mi fosse morto un figlio ; ma ora che mio padre e mia madre giacciono sotto la terra, non potrò più avere un altro fratello. (tr. di F. Ferrari)  



Un passo famoso, sgradito a Goethe, già sospettato o espunto e ora ben difeso dagli studiosi, che dialoga con un racconto erodoteo. 1 Argìa realizza l’ipotesi che Antigone scartava e agisce in nome del principio opposto : non il legame di sangue, ma il legame matrimoniale – quello che tradizioni letterarie, convenzioni culturali e modelli esemplari della storia romana presentavano come unico e insostituibile, e vivo oltre la morte. Questa sfida a distanza tra sorella e moglie di Polinice diventerà tra poco, nel testo di Stazio, uno scontro ravvicinato, prima di mutarsi in alleanza. 2 Il testo è ricco di segnali autoriflessivi (già in parte notati), che commentano l’ambiziosa operazione poetica di Stazio : sostituire, e poi affiancare, un personaggio in gran parte originale a un’eroina ‘riconosciuta’ come Antigone. Così, giunta per prima sul cadavere insepolto di Polinice, Argìa sottolinea l’assenza della « famosa Antigone » (12, 331-332 ‘ubi mater, ubi incluta fama / Antigone ?’) ; 3 così, poco dopo, Antigone lamenta che Argìa si sia appropriata della notte eroica che appartiene al suo personaggio (12, 366-367 ‘cuius’ ait ‘manes, aut quae temeraria quaeris / nocte mea ?’), e infine riconosce che il suo affetto di sorella è stato preceduto e superato (12, 383-385 ‘mea membra tenes, mea funera plangis. / cedo, tene, pudet heu ! pietas ignava sororis ! / haec prior –’). 4 Il linguaggio agonistico impiegato da Stazio sottolinea il successo della sua emulazione poetica ; allo stesso tempo, dà all’eroismo di Antigone una caratterizzazione competitiva che ha il marchio di Seneca : l’Antigone di Stazio parla come l’Antigone di Seneca, decisa ad essere prior nella ricerca eroica della morte (Sen. Phoen. 73 ant. dum prior, quo vis eo), e introduce così nell’epica la teatralità di atteggiamenti e l’esasperato esibizionismo stoico della tragedia senecana. 5 La competizione tra Antigone e Argìa riprenderà dopo il compimento dell’impresa, al cospetto di Creonte, dove le due donne, in un duetto di  































1  Cf. Neuburg 1990 ; Griffith 1999, ad loc. ; West 1999, con bibliografia (per l’interpolazione si pronuncia per es. Rösler 1993). Anche Fucecchi 2007, n. 23 a p. 11 segnala il rovesciamento. 2  12, 385-391 hic pariter lapsae iunctoque per ipsum / amplexu miscent avidae lacrimasque comasque, / partitaeque artus redeunt alterna gementes / ad vultum et cara vicibus cervice fruuntur. / dumque modo haec fratrem memorat, nunc illa maritum, / mutuaque exorsae Thebas Argosque renarrant, / longius Argia miseros reminiscitur actus. 3  Heslin 2008, pp. 116-117. 4  « …Lei è stata la prima – ». Diversamente stampa e interpreta Shackleton Bailey 2003 : ‘pietas ignava sororis ! / haec prior’, « A sister’s piety is but a poor thing. This has first place » ; cf. 1983, p. 60 : « haec prior is not an aposiopesis … and haec is not a pronoun but an adjective referring to pietas. ‘This (wifely) love takes precedence of a sister’s’ ». 5  Analoga la gara eroica di Opleo e Dimante (dichiaratamente modellati su Eurialo e Niso) per dare sepoltura a Tideo : cf. 10, 363-364 (Dimante) ‘idem animus misero ; comitem circumspicit olim / mens humili luctu, sed nunc prior ibo’, che si contrappone a 10, 350 prior Arcada concitat Hopleus.  



























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rivalità eroica e letteraria, rivendicheranno a gara di aver agito, rispettivamente, per pietas fraterna e per amor coniugale (12, 457-459 haec fratris rapuisse, haec coniugis artus / contendunt vicibusque probant : ‘ego corpus’, ‘ego ignes’, / ‘me pietas’, ‘me duxit amor’). 1 Là dove la gara lascia invece il posto alla solidarietà, le due donne si alleano in un’impresa comune, e lo fanno imitando alla lettera la coppia eroica più celebre nell’epica, quella di Eurialo e Niso : l’attacco interrogativo di Antigone in 12, 382-383 ‘mene igitur sociam (pro fors ignara !) malorum, / mene times ?’ replica quello di Eurialo in Verg. Aen. 9, 199-200 ‘mene igitur socium summis adiungere rebus, / Nise, fugis ? solum te in tanta pericula mittam ?’. 2 Argìa e Antigone sono giunte all’appuntamento narrativo per vie letterarie diverse : Antigone raggiungendo in fretta, di nascosto dalle guardie, un luogo vicino, a lei ben noto e facilmente riconosciuto dai lettori, il campo sotto le mura di Tebe dove, nel secondo episodio dell’Antigone di Sofocle, la guardia raccontava di averla sorpresa in flagrante (12, 349-350 ecce alios gemitus aliamque ad busta ferebat / Antigone miseranda facem ; 358-360 nec longa morata, / quippe trucem campum et positus quo pulvere frater / noverat). Argìa è stata invece condotta a Tebe dal narratore con una lunga marcia eroica, tra pericoli e fatiche, nella notte, in un territorio sconosciuto e nemico, con l’unico accompagnamento di una debole figura maschile, a far risaltare la solitudine della donna (12, 219-269) ; il ricongiungimento con Polinice defunto è un’agnizione drammatica, dopo una ricerca affannosa in mezzo ai cadaveri e alle armi, sul campo di battaglia (12, 270-348). Quella che Stazio ha creato per la moglie di Polinice è una vera e propria aristia epica, che aggiunge una dimensione nuova al modello di Antigone e apre al personaggio i grandi spazi narrativi dell’epos : il viaggio a Tebe è una marcia paramilitare, e Argìa è un’eroina errante, quanto la protagonista di Sofocle era attrice di un dramma ‘cittadino’ – in questo allargare la prospettiva, Stazio espande tuttavia un suggerimento che gli veniva ancora da Antigone : l’Antigone dell’Edipo a Colono, accompagnatrice del padre in esilio, di cui Edipo dava in miniatura l’immagine di una marcia eroica. 3  



























1  L’attacco me pietas ricorda le parole della moglie di Ovidio in trist. 1, 3, 85-86. In termini simili, Corebo rivendica la propria azione al cospetto di un Apollo inclemente e ‘tirannico’ : Theb. 1, 644646 ‘…mea me pietas et conscia virtus / has egere vias. ego sum qui caede subegi, / Phoebe, tuum mortale nefas… ; cf. 658-659. 2  Cf. Theb. 12, 378 (Argìa) ‘iunge, age, iunge fidem’. 3  Soph. Oed. C. 345-352 oed. h{ me;n ejx o{tou neva~ / trofh`~ e[lhxe kai; kativscusen devma~, / ajei; meq∆ hJmw`n duvsmoro~ planwmevnh, / gerontagwgei`, polla; me;n kat∆ ajgrivan / u{lhn a[sito~ nhlivpou~ t∆ ajlwmevnh, / polloi`si d∆ o[mbroi~ hJlivou te kauvmasi / mocqou`sa tlhvmwn deuvter∆ hJgei`tai ta; th`~ / oi[koi diaivth~, eij path;r trofh;n e[coi, « una, Antigone, da quando non è più una bimba e ha consolidato il suo corpo, guida questo vecchio vagabondo senza tregua con me e spesso, poverina, errando scalza e affamata per aspre selve, sotto la sferza di piogge torrenziali o del sole infuocato, trascurando gli agi della vita domestica, purché suo padre abbia di che nutrirsi » (tr. di F. Ferrari). Versi da confrontare con la lunga descrizione di Theb. 12, 219-242 (in part. coi vv. 230 ss. …cum tamen illa gravem luctu fallente laborem / nescit abesse diem : nec caligantibus arvis / terretur, nec frangit iter per et invia saxa / lapsurasque trabes nemorumque arcana (sereno / nigra die) caecisque incisa novalia fossis, / per fluuvios secura vadi, somnosque ferarum / praeter et horrendis infesta cubilia monstris.  









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v. 8. La scelta della morte: tra eroi virgiliani ed eroine senecane Contemptrix animae et magno temeraria luctu (12, 185) : l’eroismo di Argìa è, da subito, una coraggiosa accettazione della morte. Il motivo accomuna l’eroina ad Antigone ; tutto il verso è una sintesi del ragionamento della protagonista in Soph. Ant. 460-470 : « …chi, come me, vive immerso in tanti dolori, non ricava forse un guadagno a morire ?… » (o{sti~ ga;r ejn polloi`sin wJ~ ejgw; kakoi`~ / zh`/, pw`~ o{d∆ oujci; katqanw;n kevrdo~ fevrei… 463-464). Il linguaggio in cui è presentata la scelta di morte di Argìa è però il linguaggio degli eroi virgiliani, caricato di tinte stoicheggianti e declamato in pose senecane. Il disprezzo della vita, espresso col nomen agentis, contemptrix, avvicina Argìa all’animus di Eurialo, lucis contemptor (Verg. Aen. 9, 205-206 ‘est hic, est animus lucis contemptor et istum / qui vita bene credat emi, quo tendis, honorem’) ; allo stesso tempo, il suffisso ‘professionalizzante’ mantiene intorno all’eroina un’aura senecana, vista la predilezione di Seneca per una forma (femminile e maschile, contemptrix e contemptor) che esprime la costanza della virtù stoica nel disprezzo di beni e mali indifferenti. 1 Il mondo degli eroi virgiliani, insieme a quello degli eroi e dei sapienti senecani, è l’ambito cui bisogna guardare per comprendere altri passi in cui si esprime la scelta della morte da parte di Argìa. C’è un punto di interpretazione discussa, nel monologo che l’eroina pronuncia una volta isolàtasi dal gruppo ; è il punto cruciale, conclusivo, quello che conferma la sua decisione eroica. Leggiamo tutto il brano :  



















atque ubi visa procul socias liquisse malorum, ‘anne’ ait ‘hostiles ego te tabente per agros (heu dolor !) expectem quaenam sententia lenti Theseos, an bello proceres, an dexter haruspex annuat ? interea funus decrescit, et uncis alitibus (non hos potius ?) supponimus artus. et nunc me duram, si quis tibi sensus ad umbras, me tardam Stygiis quereris, fidissime, divis. heu si nudus adhuc, heu si iam forte sepultus : nostrum utrumque nefas ; adeo vis nulla dolenti ?  











/ tantum animi luctusque valent ! …quas non illa domos pecudumque hominumque modesto / pulsavit gemitu ? quotiens amissus eunti / limes, et errantem comitis solacia flammae / destituunt gelidaeque facem vicere tenebrae ! ; cf. 206-207, 267-269). 1  Su 58 casi di contemptor registrati dal phi (prima di Virgilio, che ne ha tre nell’Eneide, solo in Sall. Iug. 64, 1) undici sono in Seneca (cf., per es., ad Marc. 25, 2 contemptores vitae ; epist. 24, 11 contemptores mortis), che ha anche due casi interessanti di contemptrix, su 10 totali (da Plauto) : ben. 4, 2, 4 virtus … contemptrix eius (sc. voluptatis) ; epist. 88, 29 singulas lubet circumire virtutes. fortitudo contemptrix timendorum est (nell’epica, dopo Ov. met. 1, 161, cf. Sil. 13, 830 contemptrix Cloelia sexus ; 17, 410 contemptrix turba pericli). Contemnere mortem è ovviamente un principio stoico : cf., per es., Sen. epist. 24, 6 ; cf. Scarpat 2007. Sugli eccessi del contemnere vitam e la libido moriendi cf. Sen. epist. 24, 25.  



   













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mors nusquam saevusque Creon ? hortaris euntem, Ornyte !’. (Theb. 12, 208-219)  



Il discorso rivolto poco prima alle Argive, ricordiamolo, ha avuto quasi il carattere di una Trugrede (12, 183 tunc movet arte dolum), in cui Argìa ha mascherato la prospettiva della sfida al tiranno con la speranza di essere accolta a Tebe presso la famiglia del marito (12, 200-202 ‘nec surda ferae pulsabimus urbis / limina : sunt illic soceri mihi suntque sorores / coniugis, et Thebas haud ignoranda subibo’). Una volta rimasta sola, l’eroina ribadisce invece a se stessa i veri motivi della sua scelta individuale : l’impazienza dell’attesa, l’urgenza di dare sepoltura a un corpo che si consuma, la volontà di corrispondere al desiderio del coniuge, immaginato in termini elegiaci come un amante fedele oltre la morte, che nell’Ade lamenta l’indifferenza e lentezza dell’amata. Per Argìa è troppo tardi, sia che giunga per prima, sia che sia stata preceduta nel rendere gli onori funebri : un nefas in ogni caso. È questa autoaccusa – la coscienza di una lentezza colpevole, avvertita come un’empietà – a risospingere l’eroina al pensiero della morte, della prop r ia morte : un pensiero dominante, che pervade i versi successivi e su cui si chiude, non a caso, il monologo decisionale. Punteggiatura e interpretazione degli ultimi tre versi (12, 217-219) sono contestate. Io credo che il doppio movimento interrogativo, certamente da preferire (‘adeo vis nulla dolenti ? / mors nusquam saevusque Creon ?’), equivalga a un’autoesortazione, commentata infine dall’esclamazione ‘hortaris euntem, Ornyte !’. Iniziamo da quest’ultima. Con un paradosso, Argìa applica un’espressione proverbiale, del tipo currentem incitare (esortare chi procede già da sé), 1 al discorso con cui il reduce argivo ha dissuaso le donne dal proseguire il cammino ; per l’eroina, la morte minacciata dal tiranno non è un motivo di dissuasione, ma di persuasione (del resto superflua) a procedere. Così spiegava già Lattanzio Placido : ‘hortaris euntem verbis dehortantibus cohortaris’. Il riferimento finale al discorso di Ornito ricollega così la decisione definitiva di Argìa all’evento iniziale che l’aveva spinta all’azione : l’annuncio da parte del reduce della condanna a morte di Creonte, che l’eroina aveva immediatamente scelto di affrontare, contemptrix animae et magno temeraria luctu (12, 185). Nella fase conclusiva del monologo è dunque il senso di colpevolezza, la coscienza di essersi resa responsabile di un nefas, ad aggiungere una motivazione nuova e decisiva alla scelta di affrontare la morte, fin dall’inizio accettata da Argìa come una sfida eroica. Io credo che le parole dell’eroina si comprendano meglio se le si confronta con le parole di Turno nel finale dell’Eneide. Rileggiamo i versi 217-218 : ‘adeo vis nulla dolenti ? mors nusquam saevusque Creon ?’, « Davvero nessuna forza ha chi  





























1  Cf. Labate 1987, p. 109 n. 34 ; Ov. Pont. 2, 6, 37 con Galasso 1995 ; 2, 11, 13-14 ; 3, 1, 89-90 (e 4, 15, 27-28) ; Luck 1967-1977, a trist. 5, 14, 43-46.  







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soffre ? Da nessuna parte c’è la morte, e Creonte crudele ? ». 1 Questa, io credo, è una reazione orgogliosa del personaggio eroico, che sente di essere venuto meno ai propri valori, alla fedeltà e all’onore, e si esorta a riaffermarli con una morte eroica, una ‘bella morte’ che è insieme autopunizione e restaurazione del codice di comportamento che è stato violato. La movenza interrogativa, polemicamente sdegnata e impaziente, è allo stesso tempo un’autoaccusa e un’autoesortazione : proprio come quella, celeberrima, di Turno in Aen. 12, 646 ‘usque adeone mori miserum est ?’, « A tal punto è doloroso morire ? » ; 2 un’interrogativa che ne segue altre, con cui l’eroe si riscuote dal disonore dell’inazione (‘exscindine domos (id rebus defuit unum) / perpetiar, dextra nec Drancis dicta refellam ? / terga dabo et Turnum fugientem haec terra videbit ? 643-645), e dopo la quale vi è l’annuncio della propria imminente discesa ai Mani, come anima pura dalla colpa e non indegna degli avi (‘vos o mihi, Manes, / este boni, quoniam superis aversa voluntas. / sancta ad vos anima atque istius inscia culpae / descendam magnorum haud umquam indignus avorum’ 646-649). Il luogo virgiliano lascia altrove tracce significative in Stazio, che usa sia usque adeo (in Virgilio un caso unico, anche di adeo interrogativo), sia, come qui, il semplice adeo, in interrogative retoriche sdegnate, talora col ricordo preciso delle parole di Turno ; interessante, per noi, soprattutto Ach. 2, 80 ‘usque adeo nusquam arma et equi, fretaque invia Grais ?’ : un’eroica esortazione, e autoesortazione, di Ulisse alla guerra contro Troia, non lontana nel tono dall’autoesortazione di Argìa alla morte eroica. 3  

































1  Così interpungono e intendono Hill 1983 (che in apparato approva l’interpretazione di Weber, ‘adeo non possum vel per meam manum, vel per tyrannidem Creontis his me malis eximere ?’) ; Traglia, Aricò 1980 (« così poca è la forza in chi soffre, in nessun luogo c’è la Morte o Creonte implacabile ? Sei tu, Ornito, che dai forza alla mia impresa ! ») ; Lesueur 1994 (« La souffrance m’interdit elle à ce point d’agir ? La mort, le cruel Créon ne sont-ils pas là ? Tu m’exhortes à partir, Ornytus »), Melville 1992 (« Is sorrow impotent ? Is death / Nowhere and Creon pitiless ? Good cheer / You give me, Ornytus ») ; Faranda Villa 1988 (« A tal punto mi manca la forza nel mio dolore ? Dov’è la morte, dove il crudele Creonte ? Sono le tue parole che mi esortano ad andare avanti, Ornito ! ») ; Micozzi 2010 (« Davvero non c’è forza nel dolore ? Non c’è forse la Morte ? Non c’è il crudele Creonte da affrontare ? Le tue parole, Ornito, m’incitano piuttosto ad andare ! ») ; così intendeva già Barth 1664. Shackleton Bailey 2003 stampa due interrogative, ma traduce : « So true is it that violence is nothing to the mourner, that death and cruel Creon do not exist ? », interpretando come una diversa autoaccusa di Argìa (« Is this what comes of my claim that death and Creon don’t exist ? » ; cf. 1983, p. 59). Altri stampano come frasi affermative e intendono variamente ; cf. appar. Hill : alii, sine interrogationis nota, interpretantur ut Beraldus : ‘nam vis nulla, nec mors, nec saevus Creon possunt me dolentem deterrere’ ; così Hall, Ritchie, Edwards 2007 : « There is no power at all against a mourning woman, death is nowhere, nor cruel Creon. Ornytus, you are speeding me on my way » ; in modo diverso, e improbabile, Lattanzio Placido, ad 217-218 : nusquam est animi magnitudo quae perducat ad mortem. Pollmann 2004 stampa la prima frase come interrogativa (spiegandola in maniera improbabile con Valpy : « for me who i s g r i ev i n g t o s u c h a n e x t e n t , there is no force (sc. neither Creon nor death) which can stop me from what I intend to do ? »), la seconda come esclamativa (« for me, death or wild Creon do not exist anywhere ! »). 2  Macr. Sat. 5, 16, 6-7 pone il verso virgiliano accanto agli ajpofqevgmata di Omero che vice proverbiorum in omnium ore funguntur (cf. Otto 1890, p. 228). Cf. l’aneddoto in Svet. Ner. 47, 2. 3  Nusquam accompagna anche qui la menzione degli strumenti a disposizione per agire (arma et equi ; cf. 12, 218 mors … saevusque Creon). Cf. il rimpianto di una morte eroica in Theb. 9, 509-510 (Ip 







   



























   











   











































   







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Argìa, dunque, come Turno : il dolore di vedova innalza l’eroina della Tebaide al livello degli eroi virgiliani ; la sua prima domanda, ‘adeo vis nulla dolenti ?’, troverà risposta poco oltre nel testo : tantum animi luctusque valent ! (12, 237). 1 La seconda interrogativa ci porta invece in un ambito letterario diverso, e altrettanto importante per il personaggio di Stazio. La domanda retorica ‘mors nusquam [sc. est]… ?’ trova – io credo – la sua risposta in Seneca : ubique mors est (Phoen. 151) ; Stazio presuppone e fa suo l’insistente motivo senecano della onnipresenza della morte, e delle innumerevoli vie di morte ovunque disponibili al saggio come garanzia di libertà. 2 Così, anche l’ultimo tratto della domanda di Argìa, ‘…saevusque Creon ?’, è insieme una sfida di sapore stoico a un potere dispotico e un’invocazione di morte : come il suicidio, anche il supplizio inflitto da un tiranno può diventare per il sapiens uno strumento di libertà. Questa caratterizzazione stoicheggiante verrà in evidenza quando Argìa, insieme ad Antigone, sarà prima catturata e poi condotta al cospetto di Creonte. Le due donne assumeranno allora in modo esibito gesti e pose da eroine senecane, e senecanamente si impegneranno in una lotta per il primato nell’offrirsi alla morte 3 – un aspetto tanto tipico di Seneca tragico da essere fatto oggetto di parodia in Petronio. 4 Così al momento della cattura :  





























at ipsae ante rogum saevique palam sprevisse Creontis imperia et furtum claro plangore fatentur securae, quippe omne vident fluxisse cadaver. ambitur saeva de morte animosaque leti spes furit : haec fratris rapuisse, haec coniugis artus contendunt vicibusque probant : ‘ego corpus’, ‘ego ignes’, ‘me pietas’, ‘me duxit amor’. deposcere saeva supplicia et dextras iuvat insertare catenis.  



pomedonte) ‘adeone occumbere ferro / non merui ?’ ; in senso opposto alle parole di Turno e di Argìa, invece, 3, 631-632 (Anfiarao) ‘adeone animarum taedet… ?’. Cf. anche, con un pronome interrogativo, 9, 791-792 ‘quisnam adeo puer, ut bellare recuset / talibus ?’. 1  Per il dolor che spinge anche individui umili ad affrontare volontariamente la morte cf. Sen. epist. 70, 25. 2  Cf. i passi citati da Hirschberg 1989, a Phoen. 151 (cf. 153 mille … aditus) : nat. 5, 18, 9 mortem, quae ubique superest, 6, 2, 6 cum mors ubique praesto sit et undique occurrat ; epist. 49, 11 non ubique se mors tam prope ostendit : ubique tam prope est e, per converso, [Sen.] Herc. O. 1200 ubique mors me fugit ; si aggiunga Tro. 1171-1173 …mors … ubique properas. Per il motivo in generale vedi Frank 1995, a Phoen. 151-153 e cf. ad Marc. 20, 1-3 ; ira 3, 15, 4 ; prov. 6, 6 ss., cf. 6, 8-9 omne tempus, omnis vos locus doceat quam facile sit renuntiare naturae et munus illi suum inpingere … in proximo mors est ; epist. 12, 10 ; 51, 9 ; 66, 13 ; 70, 7 ; 70, 14 ; 77, 15 ; 117, 22-23 ; cf. Phaedr. 551. Vedi Traina 2000, pp. 12-13. 3  Questo a me pare il tono e il senso della contesa eroica, virtuosa ed esasperata al modo senecano, tra Argìa e Antigone, che altri interpretano come furor assimilabile a quello dei fratelli tebani (cf. supra, n. 2 a p. 204 e, da ultimo, Augoustakis 2010, pp. 83-85) ; io credo che anche una notazione come iram odiumque putes (12, 462) sottolinei, piuttosto, un’apparenza ingannevole e un paradossale effetto di somiglianza, proprio come la similitudine ‘illusoria’ e ‘a contrasto’ di 12, 792-793 … magnum quas poscere credas / aut fecisse nefas, su cui cf. cap. iv, § 9, p. 178. 4  Stagni 1988, pp. 319-321.  





































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nusquam illa alternis modo quae reverentia verbis, iram odiumque putes ; tantus discordat utrimque clamor, et ad regem qui deprendere trahuntur. (Theb. 12, 452-463)  

Così ancora quando, dopo lo stacco dell’episodio ateniese, l’esecuzione starà per essere messa in atto, e sarà sospesa dall’arrivo dell’araldo di Teseo :  

saevus at interea ferro post terga revinctas Antigonen viduamque Creon Adrastida leto admovet ; ambae hilares et mortis amore superbae ensibus intentant iugulos regemque cruentum destituunt, cum dicta ferens Theseia Phegeus astitit. (Theb. 12, 677-682)  

Tutto in questi versi, dall’aggressiva ammissione del ‘misfatto’, al disprezzo ostentato per gli ordini di Creonte, fino al gesto estremo di offrire il collo al carnefice, ha un evidente colorito senecano, teatrale e stoico. Quella che Stazio mette in scena (e che sarà sventata all’ultimo momento) è una vera e propria ambitiosa mors : il testo infatti lo dichiara, anticipando la definizione tacitiana (Agr. 42, 4), al v. 456 ambitur saeva de morte. Basterà qui indicare i paradossi di cui il poeta si compiace : una gara di virtù che assomiglia a un duello di odio (iram odiumque putes 462) ; la gioia di reclamare il supplizio e di indossare le catene (deposcere saeva / supplicia et dextras iuvat insertare catenis 459-460) ; 1 le guardie che, invece di trascinare, vengono trascinate (ad regem qui deprendere trahuntur 463) ; infine, in una esaltante speranza di morte, il collo che si protende verso la spada, che anzi minaccia la spada stessa da cui dovrebbe essere minacciato (ensibus intentant iugulos 680). 2 Stazio costruisce Argìa e Antigone sul modello di eroine-martiri senecane « entusiaste dell’autodistruzione », che si offrono volontariamente al supplizio, e che precedono addirittura il loro carnefice, invece di seguirlo, come Polissena nelle Troades : 3 stupet omne vulgus  





















1  Cf. Tac. ann. 15, 63, 1 (Paolina, moglie di Seneca) manumque percussoris exposcit. Come mi suggerisce Marco Formisano, la gioia (hilares v. 679) è tipica degli acta martyrum : cf. pass. Perp. 18, 1 hilares, e Bremmer 2002, p. 94. 2  Di norma il rapporto è inverso : Sen. epist. 85, 29 si ferrum intentatur cervicibus viri fortis. Per questo rovesciamento paradossale della prospettiva, di gusto tipicamente senecano (un rovesciamento del consueto rapporto dinamico tra corpo e armi, per esprimere l’eccezionalità di una ricerca volontaria della morte), cf. Sen. Herc. f. 1028 pectus en telo indue… ; 1312 ; Kenney 1958, p. 62 su Ov. am. 2, 10, 31-32, e cf. McKeown 1998, ad loc. con bibliografia ; si aggiunga Sen. ira 3, 2, 6 (sui barbari) …pericula adpetentes sua ; gaudent feriri et instare ferro et tela corpore urgere et per suum vulnus exire ; un’applicazione grottesca in Sen. Oed. 962-964 ; Phoen. 177-178. Vedi anche Tarrant 1976, a Ag. 975 intenta cervix vulnus expectat tuum. Lucano aveva ulteriormente elaborato il concetto : cf. Conte 1988, a 6, 160-161, Esposito 2009, a 4, 560-562 e 276-280. 3  Fantham 1982, a 1147, parlando della psicologia del martire senecano, confronta Cassandra in Ag. 1004 ne trahite, vestros ipsa praecedam gradus e, appunto, Antigone in Phoen. 63-64 vado ; praerupta appetis ? / non obsto, sed praecedo ; 73 dum prior, quo vis eo ; 76 si moreris, antecedo, si vivis, sequor.  

























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… movet animus omnes fortis et leto obvius. / Pyrrhum antecedit… (1143-1147), audax virago non tulit retro gradum ; / conversa ad ictum stat truci vultu ferox… (11511152), nec tamen moriens adhuc / deponit animos… (1157-1158).  

v. 9. Argìa e Teseo: opposizione al tiranno e fides coniugale L’ultimo libro della Tebaide, come l’ultimo dell’Iliade, pone il problema della sepoltura : Argìa e Teseo lo affrontano con due imprese complementari, che conducono a soluzione la vicenda. È l’iniziativa femminile a mettere in moto l’azione, quella maschile a concluderla ; mentre Argìa e Antigone seppelliscono Polinice, il sovrano di Atene, accolta la supplica delle Argive, conduce una spedizione contro Tebe, uccide in duello Creonte ed è accolto in città come un liberatore. La condanna a morte delle due eroine è sventata dall’intervento di Teseo come deus ex machina e la vittoria in armi è seguita dagli onori funebri resi all’intero esercito argivo (12, 798 tot busta simul vulgique ducumque). Il problema della sepoltura degli Argivi, dopo la spedizione dei Sette a Tebe, era affrontato dalla tragedia attica in due drammi diversi : l’Antigone di Sofocle e le Supplici di Euripide ; i protagonisti, Antigone e Teseo, reagivano al divieto di Creonte incarnando due diversi modelli di eroismo, femminile e maschile, disarmato e in armi, individuale e collettivo. « Le Supplici di Euripide, una tragedia posteriore all’Antigone di quasi vent’anni, …generalizza il caso di Polinice, attribuendo a Creonte la volontà di negare la sepoltura a tutti i Sette, ma ponendo contro di lui non la solitaria disobbedienza di Antigone, bensì la politica filantropica di Atene, guidata dall’eroe nazionale Teseo ». In uno studio recente (da cui cito), Guido Paduano ha indicato nelle Supplici una continuazione ideale dell’Antigone, e ha letto quest’ultima, contro la visione deformante di Hegel, come dramma della ribellione a un potere dispotico, che non ammette dissenso, e chiede obbedienza agli ordini, giusti o ingiusti che siano ; anche il Creonte dell’Antigone, lungi dal rappresentare le ragioni superiori dello stato, sarebbe criticato dal punto di vista della democrazia ateniese : lo mostrano punti forti del testo che trovano precisa corrispondenza in Euripide (« è mio parere che l’Antigone esprima una critica del regime assoluto e, indirettamente, un elogio della democrazia »). Nell’una e nell’altra tragedia il dovere della sepoltura, che prevale sulla colpevolezza del defunto, è presentato allo stesso tempo come dovere divino e umano, che lo si chiami « legge degli dei » o « legge panellenica ». 1 Il tema del diritto universale agli onori funebri era dunque affrontato da Sofocle e da Euripide, rispettivamente, sul piano privato o pubblico, familiare o politico, ma comune ai due drammi – mostra bene Paduano – era il senso dell’oppo 





























1  Per la « associazione fra legge umana e legge divina » nell’Antigone, un principio cui si richiamano il coro (vv. 368-369) e Emone (v. 745), cf. Paduano 2008, pp. 8 e 11 ; per la coincidenza, nelle Supplici, tra le « leggi degli dei » invocate da Etra (vv. 301-302) e la « legge panellenica » difesa da Teseo (526, 538) : Idem 2008, p. 12.  















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sizione a un potere rappresentato (in forma più o meno dichiarata) come un potere tirannico. In Stazio la caratterizzazione di Creonte come tiranno diventa netta, da manuale, in funzione di un discorso sul potere che è il cuore del poema. Il finale della Tebaide, come abbiamo visto, reinterpreta il significato politico delle Supplici ; Stazio traduce il confronto euripideo fra Atene e Tebe, fra democrazia e tirannide, nei termini del dibattito etico-politico attuale : la riflessione su buono e cattivo uso del potere assoluto ; l’opposizione fra Teseo e Creonte diventa qui un confronto fra re e tiranno, fra un despota e un sovrano illuminato dalla clementia – l’ideale imperiale romano, simboleggiato dall’ara Clementiae al centro di Atene. 1 Il ruolo di Teseo nella chiusa dell’epos replica dunque il ruolo dell’eroe in Euripide, ma, parlando del potere a un pubblico romano, Stazio restaura la sua figura come modello ideale di sovrano, anziché (anacronistico) fondatore della democrazia. Parallelamente, il ruolo di Argìa, poi affiancata da Antigone, ripropone il ruolo dell’eroina di Sofocle in forme nuove, come emblema di un diverso ideale di pietas familiare. Anche il significato politico dell’Antigone, modello femminile di ribellione al potere, viene reinterpretato da Stazio – come vedremo – in termini attuali. Ripensando le due tragedie che mettono in scena la sfida a Creonte, Stazio rappresenta Argìa e Teseo come due diversi modelli di opposizione al regime tirannico – individuale e collettiva, privata e pubblica, disarmata e bellica. Il confronto tra i due ruoli è sollecitato dal testo, nel monologo di Argìa citato sopra :  









‘anne’ ait ‘hostiles ego te tabente per agros (heu dolor !) expectem quaenam sententia lenti Theseos, an bello proceres, an dexter haruspex adnuat ?’. (Theb. 12, 209-212)  



Il linguaggio dell’eroina sottolinea la lentezza, per lei intollerabile (‘anne … expectem … lenti… ?’), di una decisione politica (‘sententia’) che richiede il consenso delle autorità aristocratico-militari e religiose (‘an … proceres, an … haruspex … adnuat’) per intraprendere la guerra (‘bello’). La reazione di Argìa al divieto di Creonte è invece un’iniziativa individuale e disarmata, dettata dal sentimento e dal dovere della fides coniugale :  



‘interea funus decrescit, et uncis alitibus (non hos potius ?) supponimus artus. et nunc me duram, si quis tibi sensus ad umbras, me tardam Stygiis quereris, fidissime, divis. heu si nudus adhuc, heu si iam forte sepultus : nostrum utrumque nefas’. (Theb. 12, 212-217)  



1  Vedi Introd., capp. iii e iv.

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Già poco prima, era stata la visione ossessiva di Polinice insepolto a staccare Argìa dalle compagne, in cerca di una soluzione ‘privata’ alternativa a quella bellica :  

sed nulla animo versatur imago crebrior Aonii quam quae de sanguine campi nuda venit poscitque rogos. his anxia mentem aegrescit furiis et, qui castissimus ardor, funus amat ; tunc ad comites conversa Pelasgas, ‘vos’ ait ‘Actaeas acies Marathoniaque arma elicite, aspiretque pio Fortuna labori. me sinite Ogygias, tantae quae sola ruinae causa fui, penetrare domos et fulmina regni prima pati’. (Theb. 12, 191-200)  

La scelta è anche letteraria, e assume quasi i tratti di una recusatio : Argìa rifiuta la soluzione propriamente bellica per un ruolo eroico che la porterà, senz’armi attraverso uno scenario di guerra, ad agire infine su una vera e propria scena tragica. L’antitesi dei pronomi, che oppone scelte d’azione e di poetica, è quasi un programma in forma di Priamel. L’eroina lascia alle altre il compito di suscitare ancora una volta un’epica guerresca, augurando ad essa un successo anche letterario (‘vos … acies … arma / elicite, aspiretque pio Fortuna labori’), 1 e riserva invece al suo personaggio, entrato nella dimensione del furor in virtù del suo amore casto, il ruolo di introdursi nei palazzi regali per una diversa sfida al potere : furiis … domos … regni è una sequenza marcata, sovrapponibile a una definizione della poesia tragica come quella di silv. 5, 3, 96-97 qui furias regumque domos … terrifico super intonuere cothurno. 2 Epica del paradosso, la Tebaide celebra la gloria di una donna ‘in guerra’, senza armi, per amore : un ruolo femminile senza precedenti nella tradizione del genere, che ha i suoi modelli in eroine di tragedia, impegnate nella sfida al tiranno o ispirate dall’amore coniugale, e disposte al sacrificio della vita. È stato dunque l’amore casto e sublime per il funus del marito (qui castissumus ardor, / funus amat 12, 194-195) 3 a far scegliere ad Argìa di affrontare i fulmina regni – un ruolo analogo a quello assegnato da Ovidio alla moglie in trist. 5, 14, 27-28 cum deus intonuit, non se subducere nimbo, / id demum est pietas, id socialis amor. Nel monologo decisionale (12, 208-219), il pensiero dominante del funus (‘funus decrescit’ 12, 212) diventa una visione, dagli inconfondibili trat 











1  Aspiretque pio Fortuna labori quasi coincide con Verg. Aen. 2, 385 adspirat primo Fortuna labori, ma il contesto suggerisce l’idea del favore all’ispirazione poetica, come in Ov. met. 1, 2-3 di, coeptis… / aspirate meis, e Verg. Aen. 9, 525-528 vos, o Calliope, precor, adspirate canenti … et mecum ingentis oras evolvite belli, su cui cf. Hardie 1994. 2  Cf. Gibson 2006, ad loc. 3  L’espressione è da confrontare con hjgavpa nekrouv~, « si prendeva cura dei morti », detto di Teseo in Eur. suppl. 764 : cf. Pollmann 2004, ad loc.  





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ti elegiaci, del marito fedele che lamenta negli inferi l’indifferenza dell’amata (‘et nunc me duram, si quis tibi sensus ad umbras, / me tardam Stygiis quereris, fidissime, divis’ 12, 214-215) : il verbo queror è termine tecnico per il lamento elegiaco, e gli aggettivi dura e tarda sono termini convenzionali di quel linguaggio poetico, come fidissime ne riassume il nucleo ideologico. Il miglior commento a questi due passi è forse un’elegia di Properzio, la 1, 19, in cui il poeta-amante esprime il timore che Cinzia possa non amarlo da morto (vereor … ne forte tuo careat mihi funus amore, vv. 1-3), mentre assicura da parte sua che la amerà fedelmente anche nell’Ade, come Protesilao Laodamia. 1 Questo Polinice immaginato, che lamenta nell’aldilà l’indifferenza della moglie, non fa che ripetere il lamento elegiaco di un Properzio che si rappresenta come Protesilao. L’eroina di Stazio va però oltre i modelli elegiaci, per affiancarsi alle antiche eroine della fedeltà coniugale : Argìa come Laodamia, ancora una volta, nel desiderio appena suggerito di ricongiungersi all’amato nella morte (12, 215 ‘me tardam Stygiis quereris, fidissime, divis’), ma anche come Alcesti, quando rimpiange di non giacere morta al posto del marito (12, 212-213 ‘et uncis / alitibus (non hos potius ?) supponimus artus’), e come Evadne, quando con Antigone minaccia di gettarsi sul rogo diviso (12, 444-446 [Antigone] ‘tuque exul ubique, / semper inops aequi, iam cede (hoc nupta precatur, / hoc soror), aut saevos mediae veniemus in ignes’). A un livello più elevato rispetto al genere elegiaco, e come per le antiche eroine tragiche, l’amore oltre la morte è per Argìa la scelta, eroica e sublime, della morte : ‘mors nusquam ?…’. Staccandosi dai modelli elegiaci, l’eroina di Stazio si accosta, oltre che alle veteres heroides, alla rappresentazione esemplare di figure eroiche della storia romana : donne portate alla ribalta dagli sconvolgimenti delle guerre civili tardorepubblicane o dalle crisi politiche della prima età imperiale, e chiamate a un ruolo eroico dalla caduta in disgrazia dei mariti. Il personaggio epico ricorda da vicino mogli di martiri della libertà, trasformate a loro volta in paradigmi, cui la letteratura degli exitus illustrium virorum dedica una sezione speciale. 2 La caratterizzazione in senso stoico dell’opposizione di Argìa a Creonte, che abbiamo visto sopra, evoca le pose stoiche in cui quella tradizione letteraria ritrae gli oppositori al regime imperiale, insieme alle loro consorti : donne virili come Fannia, che segue il marito nell’esilio, o Arria Maggiore, che lo precede nella morte. 3 Una eroicizzazione della donna che evoca talora  



















1  Prop. 1, 19, 1-26 non ego nunc tristis vereor, mea Cynthia, Manis, / nec moror extremo debita fata rogo ; / sed ne forte tuo careat mihi funus amore, / hic timor est ipsis durior exsequiis. / non adeo leviter nostris puer haesit ocellis, / ut meus oblito pulvis amore vacet. / illic Phylacides iucundae coniugis heros / non potuit caecis immemor esse locis … illic quidquid ero, semper tua dicar imago : / traicit et fati litora magnus amor … quamvis te longae remorentur fata senectae, / cara tamen lacrimis ossa futura meis. / quae tu viva mea possis sentire favilla ! / tum mihi non ullo mors sit amara loco. / quam vereor ne te contempto, Cynthia, busto / abstrahat a nostro pulvere iniquus Amor … non satis est ullo tempore longus amor. 2  Cf. Ronconi 1940 (= 1950). 3  Sul loro ritratto in Plinio cf. Carlon 2009, pp. 175-182, spec. pp. 179 ss.  





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le veteres heroides, ma che ha tratti di modernità : a partire da Seneca, nell’etica matrimoniale la cultura romana mostra « un orientamento moderno, innovativo, che avrà una sua duratura continuazione : la moglie per le sue virtù può essere uguale o superiore al marito » ; un orientamento ispirato dalla filosofia stoica e confermato dall’insegnamento di Musonio Rufo, che « rivendicò il diritto della donna alla cultura filosofica, il che dava alla moglie una dignità intellettuale e morale pari a quella del marito… ». 1 La sfida a Creonte messa in scena nel finale della Tebaide, in versione femminile e maschile, è dunque un ripensamento del mito tragico nei termini di un discorso attuale, dal punto di vista culturale, letterario e politico. La vittoria di Teseo è la punizione di un tiranno da parte di un sovrano ideale ispirato al De clementia di Seneca, e la ribellione di Argìa, insieme ad Antigone, è il gesto di una martire dell’opposizione antitirannica, stoicamente e senecanamente atteggiata.  















v. 10. Eroi epici, modelli imperiali L’ultimo libro della Tebaide restaura un ordine di valori sovvertito dalla guerra fraterna per il potere. Se Teseo, giustiziere di un tiranno, incarna il valore politico della clementia, Argìa afferma il valore, sociale ed intimo, della fides coniugale : entrambi valori ufficialmente riconosciuti e propagandati dalla cultura flavia, in particolare da Domiziano, che si rappresenta come un nuovo Augusto nella gestione clemente del potere e nel programma di restaurazione morale, avviato in qualità di censore. Come la clemenza di Teseo ha un corrispettivo, nelle Silvae, in quella di Domiziano o del suo praefectus urbi (Rutilio Gallico, dedicatario di 1, 4), così vi sono evidenti punti di contatto tra l’eroina della Tebaide e figure femminili come Priscilla o Claudia, modelli esemplari di quel mondo idealizzato, proposto al pubblico, ai patroni e all’imperatore. 2 L’unione coniugale tra Priscilla e il liberto imperiale Abascanto, celebrata nell’epicedio di Silvae 5, 1, offre più di un parallelo – lo sappiamo – alle virtù coniugali di Argìa : come l’eroina della Tebaide, Priscilla sarebbe stata disposta a seguire il marito in guerra e, come Argìa verso il marito, Abascanto dimostra una pietas esemplare verso la moglie morta. Ciò che va ancora sottolineato, credo, è il carattere ‘ufficiale’, gradito al potere, di un tale modello etico. Nella praefatio al libro quinto, Stazio giustifica la sua esaltazione poetica della fedeltà del liberto oltre la morte adducendo la pubblica utilità dei bona exempla :  







omnibus adfectibus prosequenda sunt bona exempla, cum publice prosint. pietas, quam Priscillae tuae praestas, et morum tuorum pars et nulli non conciliare te, 1  La Penna 2000, pp. 28-30. Cf. ora Franchet d’Espèrey 2008. Su esempi di valorizzazione nella donna di qualità comuni all’uomo, che, in Quintiliano, Stazio (Silvae) e Plinio, smentiscono in parte la polarizzazione ideologica dei generi, cf. Centlivres Challet 2008. 2  Bernstein 2008, pp. 100-101.

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praecipue marito, potest. uxorem enim vivam amare voluptas est, defunctam religio. (silv. 5 praef.)

Nell’epicedio, il poeta dichiara che il castissimus ardor di Abascanto, uguale a quello di Argìa (anche nella forma della clausola), è degno di essere approvato dall’imperatore-censore :  

macte animi ! notat ista deus qui flectit habenas orbis et humanos propior Iove digerit actus, maerentemque videt, lectique arcana ministri. hinc etiam documenta capit, quod diligis umbram et colis exsequias. hic est castissimus ardor, hic amor a domino meritus censore probari. (silv. 5, 1, 37-42)  

Dalla poesia d’occasione l’epos di Stazio resta distante, per il pessimismo di una poetica che rende controversa persino l’esemplarità : qui i paradigmi etico-imperiali danno infine proiezione ideale a un discorso complesso, che ha elaborato in senso problematico forme dell’epica e idee del potere. Clemenza e fedeltà coniugale oltre la morte sono risposte eroiche a un’involuzione tirannica della sovranità, che la Tebaide pone al centro dell’analisi e le Silvae in gran parte rimuovono. Teseo e Argìa portano a soluzione la vicenda tebana, ma è intorno a un nodo insolubile che personaggi e azione del poema appaiono costruiti. L’eroe ateniese, emendata la propria storia mitica in un profilo ideale, non può evitare il dramma della guerra rinnovata, e la sposa di Polinice, con la sua impresa nobile, non può che riscattare infine un tragico errore iniziale. L’eroina di Stazio accompagna il percorso di crisi e di ricostruzione del poema : se il re di Atene compare in chiusa come deus ex machina, eroe provvidenziale ed esterno, Argìa partecipa da protagonista allo scioglimento della vicenda dopo esserne stata corresponsabile ; se Teseo segna la frattura, Argia segna la continuità della Tebaide, e la sua svolta. Al riscatto del poema, messo in moto dalla maledizione di Edipo e avviato a soluzione dal suo ravvedersi sui cadaveri dei figli, corrisponde l’evoluzione di un’eroina che, all’inizio, invoca la guerra voluta dallo sposo e, in chiusa, rinnega le proprie parole nel lamento sul cadavere di Polinice. 1 Sulla scena epica della Tebaide, Argìa recita infine il ruolo di ‘moglie eroica dell’eroe sventurato’ in un’interpretazione sublime, eccezionale nel genere poetico ed esemplare per il genere femminile ; essa ottiene così quella che nella cultura romana era la massima distinzione, sociale e letteraria, per una donna : uguagliare le qualità eroiche del vir – del maschio, e del marito – dimostrandogli nella sventura una fedeltà eroica. 2  













1  Vedi Bessone 2002 e qui cap. i, § 2. 2, pp. 56-58. 2  Cf. Parker 1998, pp. 163-170. Per interessanti punti di contatto con la Laudatio Turiae vedi Rühl 2010.

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Indice dei luoghi citati Aesch.

Arist.

Eum. 681-705 : 115 n. 1 824-825 : 95 n. 1  



sept. 580-583 : 75 679-682 : 76 846 : 76

eth. Nic. 1125b-1126a : 173 n. 1  

poet. 1453b, 19-22 : 20 n. 1 ; 75 n. 1  



rhet. 2, 22, 4-6 : 113 n. 2









Aristid.

anth. Pal. 6, 171 : 50 n. 1 9, 518 : 51 287, 6 : 49 n. 1 526 : 51 16, 6, 1-2 : 50 n. 1 120, 4 : 52  











[Apollod.]

A Roma 38 : 126 n. 2 41 : 125 n. 3 57 : 104 n. 1 ; 125-126 n. 4 ; 126 n. 1 58 : 125 e n. 4 60 : 126 n. 2 63 : 126 n. 6, 127 n. 1 66 : 125 ; 125-126 n. 4 ; 126 n. 1 96 : 126 n. 4 98 : 126 n. 1 101 : 127  























bibl. 2, 8, 1 : 111 n. 2 3, 7, 1 : 111 n. 2  



epit. 1, 2 : 149 n. 1





panath. 2 : 126 n. 1 8 : 113 n. 3 10 : 104-105 n. 1 48 : 120 n. 5 49 : 108 n. 2 ; 126 n. 1 50-54 : 113 n. 2 55 ss. : 112 n. 5 79 : 113 n. 2 322 : 127 n. 1 330 : 108 n. 2 ; 127 332 : 126 n. 4  







Ap. Rh.



3, 997-1007 : 140 e n. 5 1069-1076 : 140 e n. 5 4, 423-434 : 140 e n. 5 1773-1775 : 75-76 n. 2  



















Apul.



met. 5, 22, 1 : 207 n. 3 11, 15, 1 : 109 n. 1

Arr.

Plat. 2, 3 : 208 n. 3

Aug.











an. 7, 15, 5 : 50 n. 1  

civ. 10, 28, p. 446, 9-10 : 208 n. 3  

Appian. 2, 74, 309 : 193 n. 2 80, 336-337 : 193 n. 2  



Babr. 107 : 195 n. 1  

La Tebaide di Stazio. Epica e potere

252

64, 123 : 139 n. 2 64, 132-133 : 142 64, 135 : 139 n. 2 64, 137-138 : 143 64, 164 : 146 n. 2 64, 170 : 146 n. 2 64, 199 : 146 n. 2 64, 248 : 139 n. 2 64, 405-406 : 62 n. 2  

Benvenuto da Imola com. Purg. 10, 91-93 : 164









Caes.





civ. 3, 90, 2 : 193 n. 2  



Call.



ait. fr. 1 Pf. (= 1 Mass.), 3-5 : 94 n. 6 51 Pf. (= 60 Mass.) : 111 e n. 3 114 Pf. (= 64 Mass.), 8-17 : 39 n. 2 se 260 A (= 151 Mass.), 9 : 158 n. 1  







ep. et eleg. min. fr. 384 Pf., 53-58 : 162 e n. 1  































hymn. 1, 79 : 46 4, 166-168 : 50 n. 1 6, 18 : 114 n. 6  





Calp. Sic.

Cic. ad Q.fr. 1, 1, 25-28 : 119 1, 1, 38 : 173 n. 1  



de orat. 2, 63 : 88 n. 3 3, 137 : 117 n. 3  

Hec. fr. 17 H. (= 238 Pf.) : 144 n. 4 ; 157 ; 158 n. 1 54 H. (= 329 Pf.) : 145 n. 2 57 H. (= 313 Pf.) : 146 59 H. (= 296 Pf.) : 145 n. 2 ; 149 n. 1 ; 157 n. 4 60 H. (= 245 Pf.) : 149 n. 1 62 H. (= 328 Pf.) : 145 n. 2 69 H. (= 260 Pf.), 2-3 : 186 n. 4 78 H. (= 371 Pf.) : 146 n. 1 80 H. (= 263 Pf.), 5 : 145 82 H. (= 252 Pf.) : 145 n. 4 101 H. (= 339 Pf.) : 158 n. 1 165 inc. auct. H. (= 732 Pf.) : 144 n. 4  





Flacc. 62 : 114  

leg. 2, 35-36 : 114 n. 3 3, 3 : 50 n. 1  



Lig. 14-15 : 124 n. 2 38 : 63 n. 3  



Manil. 42 : 40 n. 2  

Marcell. 8 : 43 n. 1 ; 63 n. 3 ; 173 9 : 172 12 : 124 n. 2 15 : 173 17 : 173 18 : 61 n. 1 31 : 173  















4, 142-146 : 66 n. 4  

Mur. 61-65 : 124 n. 2  

Calv. 31 H. (= 6 C.), 1 : 114 n. 6  

Cat.

off. 1, 80 : 40 n. 1 88-89 : 172  



64 : 143, 145 e n. 4, 148 64, 58 : 139 n. 2 64, 100-102 : 138  





rep. 1, 12 : 63 n. 3 6, 16 : 63 n. 3  





Indice dei luoghi citati Curt.

S. Rosc. 45, 131 : 50 n. 1

8, 10, 1 : 65 n. 1





Tusc. 1, 2-3 : 117 2, 43 : 207 n. 5 3, 20-21 : 124 n. 2 4, 43 ; 48-50 : 172 n. 4  

Dante Purg. 10, 73-93 : 164  







253



Verr. 2, 2, 4 : 182 n. 2 5, 99 : 114 e n. 3 5, 187-188 : 114 e n. 3  

[Demosth.] 40, 8-9 : 113 n. 2  

Diod. Sic. 1, 1-2 : 93 n. 1 4, 59 : 156 n. 2 14, 1 ; 15, 1 : 93 n. 1









cig



4923 : 50 n. 1



Dion. Cass.



59, 16, 10 : 109 n. 6 67, 1-2 : 45 n. 3 68, 7, 3 : 162-163 n. 4

Claud.





carm. min. 22, 11-13, 26-31 : 196





cons. Stil. 2, 6-11 : 113 n. 5 12-13 : 73, 110 12-23 : 195 14-19 : 176 28-29 : 70 n. 2 160-168 : 162 n. 3 3, 191-201, 218 ss. : 162 n. 3

Dion. Chrys. 1, 26-27 : 41 n. 1 1, 84 : 157 n. 4  











Dion. Hal. epist. ad Pomp. 3, 4 : 88-89 n. 3  







in Gild. 404-412, 463-466 : 112 n. 3  

paneg. iv cons. Hon. 111-116 : 175-176 111-121 : 43 n. 1 112-113 : 194 114 : 70 n. 2 116-121 : 181 e n. 2 paneg. vi cons. Hon. 55-64 : 162 rapt. Pros. 1, 32 ss., 38-39, 64-65 : 99 n. 1 67-69 : 167 92 ss., 99 ss. : 99 n. 1  

















Cleanth. fr. 1, 15 ss. P. : 50 n. 1  

Enn. ann. 12-13 Sk. : 84 n. 2 203 Sk. : 51 258 Sk. : 84 n. 1 382-383 Sk. : 84 n. 1 404-406 Sk. : 83 n. 2 591, 592 Sk. : 51 n. 1  











Euphor. fr. 9, 6-9 P. : 149 n. 1  

Eur. Alc. 150-157, 445-454 : 201 n. 2  

hf : 156 n. 2  

Heraclid. 150-152 : 123 n. 3  

La Tebaide di Stazio. Epica e potere

254

320-326 : 112 n. 2 329-332 : 112 755 ss., 763 ss., 920 ss. : 112 n. 4  



Germ.



Hipp. : 142 976-980 : 155 n. 3  

Arat. 1-4 : 66 n. 4  

Gorg.



fr. 6 D.-K., 18-19, 22 : 132-133 n. 2

Med. 846-850 : 108 n. 1



Herodian.



Phoen. 1172 : 97 n. 1 1239, 1370-1371 : 78 n. 3  



suppl. hypoth. : 22 131 : 154 n. 3 188-191 : 132 n. 2 229-237 : 154 n. 2 286-288 : 123 n. 3 301-302 : 218 n. 1 311 : 153 n. 1 328 : 191 n. 5 339-341 : 128 ; 132 n. 2 ; 155 347-348 : 191-192 n. 5 377-380 : 153 n. 1 526 : 153, 218 n. 1 538 : 218 n. 1 594-597 : 191 n. 5 664-665 : 152 670-672 : 192 n. 2 683 : 183 n. 2 700-706 : 183 707, 718-720, 723-725 : 192 723-725 : 192 726-730 : 192-193 764 : 220 n. 3  





3, 13, 3 : 93  

Herodot. 9, 27 : 113 n. 2  

Hes. op. 38 s., 202 ss., 248 ss., 263 ss. : 35 n. 1 318 : 168  











theog. 96 : 46  











Hom. Il. 1, 544 : 51 n. 1 2, 119 : 75-76 n. 2 488-490 : 177 n. 3 6, 448 : 84 n. 1 8, 541 (= 13, 828) : 84 n. 1 21, 74 : 168 22, 304-305 : 91 n. 3 477-514 : 210 n. 1 24, 31-45 : 195 n. 1 41-45 : 168 207-208 : 168 227 : 177 503-504 : 168 507, 513-514 : 177

















































Tro. 115-121, 608-609 : 177 n. 4







Hor.

Eutr. 8, 4-5 : 162-163 n. 4  

carm. 1, 2, 1-6 : 61 n. 2 2, 25-26 : 61 2, 29-30 : 61 2, 29-52 : 61 n. 2 2, 45 : 48 n. 2 2, 47-49 : 62 n. 2 7, 5-6 : 114 n. 4  

Flor.



epit. 2, 13 (= 4, 2), 50 : 193 n. 2  





Gell.



13, 17 : 119  





Indice dei luoghi citati 1, 12, 13-17 : 50 e n. 1 12, 49 : 50 12, 49-60 : 53 12, 50-57 : 47 e n. 3 12, 53-57 : 49 2, 1, 6-7 : 207 n. 5 9, 21-22 : 180 n. 3 3, 1, 5-6 : 47 e n. 3 2, 21-22 : 157 n. 2 3, 9 : 157 n. 2 3, 11-12 : 47 n. 2 ; 68 n. 1 4, 45 ss. : 50 n. 1 5, 1-4 : 64-65 5, 11 ss. : 65 n. 1 5, 79-80 : 142-143 n. 5 6, 7-8, 13-14 : 58 n. 2 14 : 165 n. 2 14, 1 : 157 n. 2 ; 159 n. 1 25, 3-6 : 49 n. 1 4, 2 ; 4, 5 : 165 n. 2 5, 6-8 : 165 n. 4 5, 9-16 : 165 n. 3 5, 29-36 : 157 n. 2 7, 25-28 : 143 n. 5 14, 45-46 : 180 n. 3

255



Isocr.





ad Nic. 2 : 30 n. 1 11 : 136 n. 1 15 : 136 n. 1 15-16 : 43 n. 2 21, 24 : 136 n. 1























Hel. 21 : 136 23 : 156 n. 2 23-37 : 136 31 : 113 n. 2 31-37 : 136 n. 1



























panath. 172 : 113 n. 2









paneg. 28 : 114 n. 5 50 : 119 n. 3 ; 127 n. 1 51-58, 65 : 112 e n. 5 ; 113 n. 2























carm. saec. 51-52 : 40 n. 2 ; 194

Iuv.



1, 1-2 : 141 n. 1 4, 72-118 : 37 n. 1

epist. 1, 16, 25 : 50 n. 1 16, 52 : 208 n. 3 2, 1, 10-12, 15-17 : 157 n. 2







Lact.





inst. 6, 20, 28 : 88 n. 1  

epod. 7, 1-4 : 59 13-20 : 60 9, 27 : 50 n. 1 16, 39 : 206 n. 2

Lact. Plac.



ad Theb. 12, 217-218 : 215 n. 1 218-219 : 214 487 : 111 n. 2











sat. 1, 4, 103-131 : 30 n. 1 ; 151 n. 1 2, 5, 63 : 50 n. 1  



Plat. 52 : 123 n. 3 52-53 : 113 n. 2











Laudatio Turiae : 223







Lettera di Aristea

ig

188 : 63 n. 2 190 : 64 n. 1

ii 2, 3919 : 114 n. 7







Inno a Demetrio Poliorcete Powell, Coll. Alex. p. 174, 15-19 : 65  

La Tebaide di Stazio. Epica e potere

256

7, 318-322 : 193 n. 2 445-455 : 55 ; 77 n. 1 548-551 : 86 552-554 : 89 n. 1 552-556 : 19 n. 2 ; 86 791-792 : 152 n. 3 797-798 : 152 797-803 : 152 n. 3 8, 74-76 : 200 77 : 200-201 n. 5 366 : 144 n. 1 608-610 : 89 n. 2 865-872 : 89 n. 1 869 : 71 9, 112 : 177 n. 4 145-147, 165-166 : 177 n. 2 403 : 208 n. 4 562 : 208 980-986 : 89 1104-1108 : 181 n. 4  

Lib.



or. 22, 23 ; 30 : 106 n. 2  









Liv.



praef. 10 : 30 n. 1 ; 93 n. 1 ; 151 n. 1 1, 1, 6-8 : 42 30, 7 : 175 n. 2 5, 27, 12-15 : 181 ; 182 n. 3 24, 8, 20 : 151 n. 1 25, 38, 10 : 151 n. 1 28, 21, 9 : 92-93 n. 3 ; 151 n. 1 25, 13 : 174 n. 1 40, 8, 11-12, 16 : 93-94 ; 94 n. 1 45, 19, 16 : 94 n. 1  





















































Lucan.



1, 8 : 59 e n. 2 46 : 48 n. 2 47-52 : 48 ; 52 n. 1 72-80 : 153 124 : 99 n. 1 150-155 : 189 233 : 84 n. 1 2, 1-4 : 153 4-6 : 54 n. 2 40-42 : 181 286-288 : 184 610-612 : 138 n. 2 3, 101-103 : 181 n. 4 362-366 : 185 4, 174-177, 196-210, 245-246 : 179-180 n. 2 276-280 : 217 n. 2 280-281 : 185 n. 4 560-562 : 217 n. 2 811-824 : 89 n. 2 5, 727-728 : 203 6, 3 : 77 n. 1 160-161 : 217 n. 2 257-262 : 89 n. 2 628, 651 : 77 n. 2 7, 40-42 : 181 n. 4 131-132 : 84 n. 1 195 : 84 n. 1 205-213 : 89 n. 2 254-255 : 84 n. 1



































































Lucr. 5, 999-1000 : 84 n. 1 6, 1 ss. : 114 nn. 5 e 6 ; 120 n. 1  





Lycophr. Alex. 1229-1230 : 50  

[Lys.] 2, 7-10, 11-16, 17 ss. : 113 n. 2  

Macr. Sat. 15, 16, 6-7 : 215 n. 2  

Manil. 1, 798-800 : 49 n. 1  

Marc. Aur. 2, 13 ; 7, 26 : 124 n. 1  



Mart. epigr. 1, 6 : 196 n. 4 ; 197 n. 2 14 : 196 n. 4 ; 197 n. 2 22 : 195 n. 1 ; 196 n. 4 ; 197 22, 4 : 196 n. 2 48 : 196 n. 4  

















Indice dei luoghi citati 1, 48, 1-2, 7-8 : 197 n. 2 51 : 196 n. 4, 197 n. 2 60 : 196 n. 4, 197 n. 2 104 : 196 n. 4 104, 12-22 : 197 n. 2 104, 21 : 144 n. 1 2, 77, 6 : 207 n. 5 91, 1-2 : 65 4, 1, 5 : 45 n. 3 5, 2, 6-8 : 45 n. 3 5, 1 : 45 n. 3 6, 8-10 : 165 n. 4 6, 10, 9-12 : 45 n. 3 7, 1 ; 7, 2 : 45 n. 3 60, 1-2 : 65 8, 1, 4 : 45 n. 3 9, 3, 10 : 45 n. 3 43, 4 : 39 n. 2 12, 5, 5 : 144 n. 1 13, 4 : 49 n. 1 14, 179 : 45 n. 3

257



ars 1, 199-204 : 189 n. 2 219-220 : 180 n. 3 525-564 : 142 n. 4 3, 23-24 : 207 n. 5 453-460 : 142 n. 4

























fast. 1, 285-286 : 180 n. 3 711-718 : 39 n. 3 ; 176 n. 3 2, 130-132, 138 : 51 3, 473 : 139 n. 3





















her. : 142 n. 3 ; 143 n. 1 2 : 142 n. 4 65-78 : 139 n. 5 3, 95 : 173 n. 2 4 : 142, 143 109-128 : 142 n. 5 5 : 143 n. 1 10 : 142-143 125-130 : 139 13, 30 : 203 16-17 : 143 e n. 1  































spect. 2 : 31 n. 1 12 [10] : 196 n. 4 20 [17] : 196 n. 4 21 [18] : 196 n. 4 33 [30 S., L. ; 29 H.] : 196 n. 4  















Melinn.







met. 1, 2-3 : 220 n. 1 149-150 : 44 n. 3 161 : 213 n. 1 175-176 : 49 n. 2 246-247 : 71 755 : 170 2, 794-796 : 114 n. 4 3, 531 ss. : 59 n. 2 4, 329 : 170 n. 1 5, 343 : 114 n. 6 368, 372 : 99 n. 1 6, 421-422 : 114 n. 4 7, 433-450 : 141 443-447 : 149 8, 56-57 : 144, 181 172-176 : 141 268-270 : 141 388 : 170 n. 1 533-535 : 177 n. 3 550-551 : 159 n. 2 560-561 : 159 n. 2 570 : 159 n. 2  







sh 541, 9-11 : 50 n. 1  



Men. rhet.





384, 28-31 : 165 n. 3 395, 31-32 : 165 n. 3  







Octavia





442 : 118 n. 1 472-478 : 43 e n. 1 ; 118 n. 1 ; 176 473 : 45 n. 1 482-484 : 50 n. 1 487-489 : 63 n. 1  













Ov.















am. 1, 2, 51-52 : 39 n. 4 ; 176 n. 2 7, 15-16 : 142 n. 4 2, 10, 31-32 : 217 n. 2  















La Tebaide di Stazio. Epica e potere

258

12, 344-345 : 192 n. 1 ; 142 355-356 : 192 359-360 : 142 15, 818-819 : 49 n. 4 830-831 : 50 n. 1 ; 50-51 n. 2 838-842 : 50-51 n. 2 859-860 : 49 n. 5 ; 51 868-870 : 48 n. 2  





















Pont. 1, 2, 87-88, 96 : 174 n. 2 2, 121 : 39 n. 2 2, 121-126 : 43 n. 3 ; 70 2, 123 : 39 n. 4 ; 176 n. 2 7, 48 : 173 n. 2 8, 69 : 174 n. 2 2, 1, 33-34 : 110 n. 2 1, 39 : 180 n. 3 1, 45-48 : 39 n. 1 2, 19, 109 : 174 2, 41-42 : 46 n. 3 2, 77 : 180 n. 1 2, 79 : 165 n. 4 2, 113 ss., 117-118 : 43 n. 3 ; 70 n. 3 2, 119-120 : 174 3, 61 : 174 n. 2 6, 37 : 214 n. 1 8, 76 : 174 n. 2 9, 11-12 : 45 n. 1 ; 118 n. 1 9, 21-22 : 45 n. 1 9, 45-46 : 40 n. 2 9, 77 : 174 n. 2 11, 13-14 : 214 n. 1 3, 1, 43-44, 59-60 : 200 1, 66 : 201 n. 1 1, 89-90 : 214 n. 1 1, 93-96 : 200 n. 4 1, 113-114 : 201 n. 4 4, 107-108 : 180 n. 3 6, 7-10 : 173 6, 15-38 : 47 6, 23-24 : 174 6, 25-26 : 110 n. 2 4, 10, 71-84 : 141 n. 1 15, 27-28 : 214 n. 1 trist. 1, 2, 61 : 174 n. 2 3, 85-86 : 212 n. 1  



















































1, 5, 53-56 : 177 n. 3 6, 3-4 : 201 6, 19-36 : 201 n. 3 6, 26 : 200 n. 3 2, 27-31 : 174 n. 2 33-42 : 70 n. 4 43-46 : 175 n. 1 47-50 : 175 ; 180 3, 3, 50 : 201 n. 1 5, 28-30, 31-42 : 194 4, 2, 41-42 : 180 n. 3 3, 37 : 177 n. 4 3, 71-84 : 200 n. 3 ; 200-201 n. 5 3, 75-76 : 201 4, 4, 20 : 65 n. 1 5, 2, 45-54 : 65 2, 55 : 174 n. 2 5, 43-60 : 201 n. 3 5, 49-60 : 200-201 n. 5 5, 55-56 : 201 14, 21-34 : 200 n. 5 14, 27-28 : 220 14, 41-42 : 201 14, 43-46 : 214 n. 1  



















































Paneg. 2 [12], 45, 4 : 175 2 [12], 47, 3 : 162 5 [8], 9, 5 : 166 n. 1 9 [4], 7, 1 : 109 n. 1  







pass. Perp.































18, 1 : 217 n. 1  

Paus. 1, 2, 1 : 149 n. 2 17, 1 : 105 n. 2 17, 6 : 115 n. 2 41, 7 : 149 n. 2  







Phaedr. fab. 563 Perry : 195 n. 1  

Pherecyd. FGrH 3 F148 = 18 D. : 140  

Indice dei luoghi citati Philostr. epist. 39 : 111 n. 2

259

paneg. 1, 3-6 : 63 n. 1 2, 3 : 63 2, 7 : 166 14, 4-5 : 157 e n. 3 15, 4 : 160 e n. 2 16, 1-3 : 41 16, 3 : 40-41 16, 3-4 : 180 n. 1 22-24 : 162-163 n. 4 23, 6 : 165 n. 4 24, 2 : 165 n. 4 35, 4 : 60-61 n. 1 48, 4 : 166 n. 2 53, 3-5 : 31 n. 1 ; 32 ; 93 n. 1 73, 4 : 166 80, 1 ; 3 : 64 80, 4 : 63  







imag. 1, 15, 1 : 140 n. 3







v. Ap. 7, 24 : 45 n. 3









Plat.



Gorg. 525c-d : 28 n. 4 ; 31 n. 5  



Menex. 239a-c : 113 n. 2 244e : 123 n. 3



















resp. 615c-616b : 28 n. 4 ; 31 n. 5 377e-378d : 82 n. 2  







symp. 179b-d : 201 n. 2  

Plaut. Pseud. 590-591 : 91 n. 3  

rud. 1 : 50 n. 1







Plut. Demetr. 1, 5-6 : 30 n. 1 ; 93 n. 1  



mor. 328e : 181 n.1  

Thes. 6, 8 : 156 n. 2 10, 1 : 149 n. 1 12, 1 : 159 n. 2 20, 1-2, 3-9 : 140 e n. 1 23, 5 : 159 n. 2 26, 1-4 : 137 n. 3 27, 6-9 : 149 n. 2 29, 1-2 : 140 n. 1 29, 5 (27) : 21 n. 3 31, 1 : 140 e n. 1 36, 4 : 115 compar. Thes. Rom. 6, 1-2, 5-6 : 140 n. 1  







trin. 309 : 173 n. 2  







Plin.



nat. 2, 18 : 61, 66 20 ; 2, 26 : 66 n. 2 3, 39 : 127 n. 1 8, 48 : 195 19, 189 : 207 n. 5 35, 8 : 208 n. 3  













Plin.











Polyb. 23, 11, 1 ss. : 94 n. 1  

epist. 8, 16, 5 : 177 n. 4 24, 2-4 : 118  



Prop. 1, 15, 17-18 : 200 n. 2 19 : 221 e n. 1  



La Tebaide di Stazio. Epica e potere

260

2, 1, 31-32 : 180 n. 3 16, 41-42 : 39 n. 4 ; 176 n. 2 24c, 41-44 : 142 n. 4 28, 47 : 144 n. 1 3, 11, 66 : 47 22, 21-22 : 39 n. 4 ; 176 4, 3, 49-50 : 203 e n. 3 6, 13-14 : 47 6, 39 : 50 n. 1 9, 18 : 41 n. 4  







schol. (nab) Eur. Hipp. 979 : 145 n. 2 ; 149 n. 1  

















Quint.

Sen. ad Marc. 1, 4 : 85 n. 2 1, 7 : 177 n. 4 20, 1-3 : 216 n. 2 25, 2 : 213 n. 1  







ad Pol. 4, 1 : 177 n. 4 12, 3-4 : 64 n. 2 13, 1 : 61 n. 3, 108 n. 2 13, 2-4 : 64 14, 1 : 62, 108 n. 2 16, 6 : 61 n. 3 17, 3 : 62

inst. 1, 9, 3 : 207 n. 5 5, 11, 38 : 109 n. 1 8 pr. 8 : 207 n. 5 10, 1, 91-92 : 45 n. 3





















[Quint.]



decl. 9, 18 : 195

Ag. 975 : 217 n. 2 1004 : 217 n. 3



Publil.





sent. I 22 : 173 n. 2  

apoc. 4, 23-24 : 61 n. 3

r. gest. div. Aug.



13, 1 : 50 n. 1

ben. 4, 2, 4 : 213 n. 1 24, 2 : 208 n. 3



Romul.





fab. 22 Thiele : 195 n. 1  

brev. 19, 2 : 208 n. 3

Rut. Nam.



1, 63-66 : 181 e n. 2 69-72 : 176 69-89 : 39 e n. 4  



clem. 1, 1, 2 : 63 n. 1 1, 3 : 122 n. 1 1, 4 : 168 1, 5 : 43 3, 2-3 : 121-122 3, 4 : 43 4, 3 : 43 5, 2 : 122 5, 4-5 : 177 n. 1 5, 5 : 194 5, 6 : 177 7, 1-2 : 63 n. 2 9, 4 : 50 n. 1 9, 8 : 181 10, 2-3 : 43  







Sall.



Cat. 4, 2 : 88 n. 3







Iug. 14 : 112 n. 3 64, 1 : 213 n. 1













schol. Aristoph. eq. 1151 : 111 n. 2  





schol. (lrm) Soph. Oed. C. 258 : 111  









Indice dei luoghi citati 1, 11, 4-12, 2 : 155 n. 2 12, 3 : 156 ; 172 13, 1 : 156 13, 4 : 43 ; 165-166 n. 4 13, 5 : 44 n. 4 18, 3 : 93 n. 1 19, 6-8 : 43 e n. 4 19, 8-9 : 43 ; 63 n. 2 22, 3 : 43 n. 3 23, 1 : 90 n. 3 26, 5 : 43 n. 1 2, 1, 2 : 43 n. 3 1, 3-4 : 44 n. 4 2 : 44 n. 1 2, 2-3 : 91 n. 2 2, 3 : 43 n. 3 4, 4 : 123 n. 5 5, 1 : 107 n. 3 ; 123 n. 5 5, 3 : 121 n. 5 ; 122 6, 1-3 : 124 e n. 3 6, 2-3 : 122 n. 2 6, 3 : 45 n. 1 ; 118 n. 1 7, 3 : 121 n. 5  

























ira 1, 11, 1 ; 8 : 172 n. 1 11, 5 : 173 n. 2 12-16 : 171 n. 5 12, 5 : 172 n. 1 13, 3 : 172 n. 1 2, 6-14 : 171 n. 5 16, 1-2 : 195 23, 3-4 : 176 n. 4 3, 2, 6 : 217 n. 2 15, 4 : 216 n. 2























































epist. 11, 4 : 166 ; 169 n. 1 12, 10 : 216 n. 2 24, 6 ; 11 ; 25 : 213 n. 1 49, 11 : 216 n. 2 51, 9 : 216 n. 2 66, 13 : 216 n. 2 70, 7 ; 14 : 216 n. 2 70, 25 : 216 n. 1 71, 5 : 208 n. 3 77, 15 : 216 n. 2 85, 29 : 217 n. 2 88, 29 : 213 n. 1 88, 30 : 121 n. 4 94, 8 : 208 n. 3 95, 51-53 : 120 ; 121 n. 5 ; 122 n. 2 ; 155 n. 1 99, 25-29 : 177 n. 4 117, 22-23 : 216 n. 2  











































fr. 123 H. (= 88 V.) : 109 n. 3  

Herc. f. : 143 104 : 99 n. 3 271-272, 431, 480-489 : 157 n. 4  















Med. 203-206 : 176 n. 4 206 : 42 n. 5 222-225 : 43 n. 1 ; 45 n. 1 ; 118 n. 1 335 : 153 n. 2 423-424 : 91 n. 2 606 : 153 n. 2  













261

735-747 : 28 920-924, 936-937 : 157 n. 4 1028, 1312 : 217 n. 2 1334-1336 : 45 1335-1337 : 128 1343-1344 : 45









nat. 5, 18, 9 ; 6, 2, 6 : 216 n. 2  



Oed. 748-750 : 81 e n. 1 962-964 : 217 n. 2  



otio 6, 2 : 208 n. 3  

Phaedr. : 142 ; 143 e n. 1 91-98, 226-227 : 142 n. 5 551 : 216 n. 2 1164-1167 : 142 n. 5  









Phoen. 63-64 : 217 n. 3 73 : 211, 217 n. 3 76 : 217 n. 3 151-153 : 216 e n. 2 177-178 : 217 n. 2 262-267 : 87 n. 2 264-267 : 99 n. 2 283-287 : 76 n. 1  















La Tebaide di Stazio. Epica e potere

262 292-293 : 43 n. 1 327 : 76 n. 1 333-337 : 98 n. 3 335-336 : 100 n. 1 338-339 : 96 n. 2 353-354 : 98 n. 3 353-358 : 76 e n. 1 362 : 98 n. 3 542-550 : 76 n. 1

1052-1068 : 77 n. 5 1053 : 78 n. 2 1094-1095 : 87 n. 2























prov. 2, 4 : 184 4, 4 : 208 6, 6-9 : 216 n. 2  





Tro. 1009-1017, 1067-1068 : 177 n. 4 1143-1147 : 217-218 1151-1152, 1157-1158 : 218 1157-1159 : 83 n. 5 1171-1173 : 216 n. 2  









[Sen.] Herc. O. 1200 : 216 n. 2  



Thy. 4-5 : 77 n. 5 16 : 99 n. 2 18-19 : 100 n. 1 26 : 77 n. 5 132 ss. : 95 n. 1 134-135 : 100 n. 1 138 : 78 n. 2 192-196 : 91 e n. 2 193-195 : 99 195-196 : 100 n. 1 204-212 : 92 n. 1 218 : 42 n. 5 249-254 : 99 252-253 : 78 n. 2 255 : 77 n. 5 ; 99 n. 2 256 : 78 n. 2 266-270 : 91 n. 4 267 : 99 n. 2 272-277 : 99 n. 2 273-275 : 91 n. 4 607-608 : 50 n. 1 607-614 : 94 623-626 : 87 n. 2 625-626 : 100 n. 1 634 ss. : 87 n. 3 640 : 99 n. 3 731-741 : 197 n. 2 753-754 : 87 776-778 : 87 n. 2 889-890 : 78 n. 2 952-953 : 177 n. 4 1013-1016 : 100 n. 1  









Sen. contr. 2, 1, 10 : 59 n. 3 10, 5, 9 : 109 n. 1  



Serv. ad Aen. 2, 761 : 111 n. 2  

























































Sil. 2, 696-698 : 85 n. 3 3, 113 : 203 610-611, 625-629 : 49 n. 1 10, 194-195 : 208 n. 3 13, 828-830 : 207 n. 3 830 : 213 n. 1 14, 292-299 : 181 n. 5 665-671 : 182 n. 1 671-688 : 182 15, 130 : 208 n. 3 16, 527-548 : 92-93 n. 3 17, 410 : 213 n. 1 486-490 : 187 n. 2 491-503 : 187 n. 2 491-521 : 191 n. 4 618-619 : 182  































Soph. Ant. 368-369 : 218 n. 1 460-470 : 213 745 : 218 n. 1 904-912 : 210 921-928 : 210 n. 2  









Indice dei luoghi citati

263

1, 1, 62 : 46 n. 6 1, 79-81 : 38 n. 3 ; 41 1, 101-104 : 46 n. 5 4 : 42 ss., 222 4, 2-4 : 44 n. 3 4, 4-8 : 44 n. 2 4, 16 : 42 4, 17 : 44 4, 38-39, 43-49 : 42 4, 46 : 44 ; 165 4, 48-49 : 43 4, 50 ss. : 42 n. 4 4, 52-56 : 44 4, 79 : 180 n. 3 4, 95-97 : 44 5, 8 : 56 6, 27 : 46 n. 4 6, 53-56 : 209 n. 3 2, 2, 26-29 : 185 n. 3 5, 5-6 : 196 5, 27-30 : 165 n. 4 7, 35 ; 79-80 : 31 n. 3 7, 116-119 : 31 3, 1 : 161 n. 2 1, 35 : 157 n. 4 1, 89 : 166 n. 3 3, 48-58 : 72 3, 167-171 : 39 3, 176-180 : 138 n. 2 4, 18-20 : 46 n. 4 ; 51 n. 1 4, 73-74 : 39 n. 1 5 : 202 n. 3 5, 32-33 : 46 n. 4 4, 1, 17-18 : 25 n. 1 ; 46 n. 2 ; 51 1, 22 : 45 n. 3 1, 29-30 : 190-191 n. 1 1, 37-38 : 25 n. 1 1, 46-47 : 51 n. 1 ; 53 2, 10-11 : 46 n. 4 ; 51 2, 11 ; 2, 14 : 46 n. 2 2, 14-16 : 51 2, 18-22 : 49 2, 20 ss. : 46 n. 4 2, 22 : 48 n. 2 2, 38-56 : 38 n. 2 ; 165 n. 4 2, 43 : 166 n. 2 2, 49 : 178 n. 2  

Oed. C. 254-257 : 123 n. 3 258-263 : 121 337-345 : 207 n. 2 337-356 : 121 345-352 : 212 n. 3 353 : 207 n. 2 461 : 123 n. 3 551-559 : 123 n. 3 551-568 : 120 n. 3 567 : 120 707 : 121 n. 2 720-721 : 121 818-1153 : 121 n. 3 911-928 : 121

































































Trach. 1266 : 69







Stat.





Ach. 1, 156-157 : 148 n. 2 188-194 : 148 n. 2 304-310 : 167 341-342 : 205 n. 2 473-476 : 191 n. 1 864-866 : 167 2, 48 : 171 n. 4 63-64 : 169 n. 3 80 : 215 81-85 : 167 silv. 1 praef. 6 : 37 n. 3 17 : 50 18-19 : 37 n. 3 1, 1 : 24 n. 2 ; 37 e nn. 2-3 ; 39-40 ; 41 n. 2 ; 46 ; 187 1, 2-3, 5-6 : 45 1, 15-16 : 38 e n. 1 ; 165 n. 4 1, 18-21 : 187 n. 5 1, 25-28 : 38 e n. 3 1, 32-36 : 45 1, 37-38 : 45 1, 37-39 : 38 1, 39-40 : 47 1, 43-47, 50-51 : 38  





























































































































La Tebaide di Stazio. Epica e potere

264

4, 2, 50-51 : 161 n. 1 2, 53-56 : 46 n. 2 3, 7-8 : 31 n. 1 3, 16-19 : 52 3, 128-129 : 46 n. 2 ; 52 3, 130-134 : 40 3, 135-139 : 52 3, 147 : 52 ; 53 3, 158-163 : 52-53 6 : 161 e n. 2 6, 50-58 : 39 7, 25-28 : 31 n. 3 7, 49-50 : 46 nn. 2 e 4 8, 58 : 208 5 praef. : 222-223 5, 1 : 222 1, 37-38 : 46 nn. 4 e 6 1, 37-42 : 223 1, 40 : 151 n. 1 1, 67-69 : 202 n. 3 1, 74 : 46 n. 6 1, 127-134 : 202 n. 3 1, 133 : 46 n. 4 1, 161-169 : 52 n. 4 1, 261 : 38 n. 1 2, 33 : 31 n. 1 2, 51-54 : 208 2, 71 ss., 88-90 : 87 2, 91-97 : 87 n. 1 2, 92 : 44 n. 3 2, 143-151 : 160 n. 2 2, 160-163 : 36 n. 3 2, 170 : 46 n. 6 3, 10-11 : 78 e n. 4 3, 38, 118 : 17 n. 3 3, 96-97 : 79 ; 220 3, 176-180 : 36 e n. 1 3, 176-194 : 35-36 n. 3 3, 195-204 : 36 e n. 2 3, 196-197, 203-204 : 36 n. 2 3, 215-219 : 36 3, 233-237 : 78 n. 4  

























































































Theb. 1, 1 : 98 n. 2 1-2 : 57 n. 1 ; 78 1-3 : 18 n. 1 11 : 71 n. 3  









1, 19 : 41 n. 2 22-31 : 48 e n. 4 24 : 53 29 : 52 n. 1 29-30 : 51 n. 4 30-31 : 49, 50 33-37 : 18 n. 1 ; 98 n. 2 35 : 77 n. 5 41-42 : 77 n. 5 41-45 : 98 e n. 2 56-87 : 18 n. 1 59 : 56 n. 2 74-79 : 56 n. 4 79-80 : 54 80-87 : 56 n. 3 84-85 : 56-57 n. 4 84-87 : 98 n. 4 85-86 : 98 85-87 : 20 n. 3 87 : 56 n. 4 92 : 55 n. 2 123-126 : 188 n. 2 128 : 99 n. 1 138-139 : 72 n. 1 155-157 : 59 162-164 : 59 n. 1 171-173 : 33 173-185 : 60 178-180 : 54 191-192 : 33 214-217 : 71 224-225 : 71 224-247 : 18 n. 1 229-230 : 178-179 n. 3 238-239 : 56 n. 4 239-241 : 54 242-243 : 71 250-251, 260 : 71 n. 3 268-270 : 71 333 : 87 n. 4 ; 149 393-394 : 206-207 638-661 : 209 n. 2 644-646 : 212 n. 1 648-650 : 68 658-659 : 212 n. 1 2, 351 : 203 386 : 72 n. 1  

































































































Indice dei luoghi citati 2, 394 : 72 n. 1 406 : 77 n. 5 629-630, 642-643 : 85 n. 1 662-663 : 178-179 n. 3 688-690 : 77 n. 5 732-734 : 78 n. 4 3, 72-74 : 72 n. 1 77-78 : 169 n. 1 99-101 : 209 99-113 : 85 n.2 ; 209 n. 2 121 : 87 n. 4 147-149 : 85 n. 1 167-168 : 85 n. 1 188-190 : 178-179 n. 3 206-209 : 184 n. 1 220-230 : 188 n. 1 260-261 : 188 n. 1 269-272 : 71 n. 3 307 ss. : 50 n. 1 316-323 : 185 n. 3 381-383 : 169 400 ss. : 78 n. 4 432-439 : 185 n. 3 631-632 : 215-216 n. 3 696 : 203 704-705 : 203 4, 18 : 77 n. 5 128 : 208 e nn. 1 e 3 135 : 208 n. 1 159-164 : 160 e n. 2 ; 161 n. 2 345-363 : 184 n. 1 533-540 : 96 n. 1 565-569 : 178-179 n. 3 626-644 : 77 e n. 4 ; 78 e n. 1 640 : 78 641 : 72 n. 1 5, 105 : 207 289-290 : 77 n. 5 397 : 207 n. 4 431-434 : 148 n. 1 650-655 : 206 n. 2 6, 334 : 207 n. 4 735 ss. : 78 n. 3 802 : 77 n. 5 7, 23 : 188 40, 42 : 188 47-53 : 188  



































































































265

7, 48 : 169 n. 1 60 : 188 81-89 : 185 n. 3 168-171 : 178-179 n. 3 195-221 : 69-70 211-214 : 178-179 n. 3 215-218 : 73 219-221 : 71 288-289 : 82 n. 3 479 : 121 479-481 : 207 527-533 : 185 n. 1 529-533 : 186 n. 1 ; 198 n. 2 538 : 171 n. 4 559-563 : 186 n. 1 670-676 : 197-198 n. 5 686 : 139 757 : 87 n. 4 8, 34-36 : 99 n. 3 38-39 : 99 n. 1 52-53 : 99 n. 3 53-54 : 142-143 n. 5 65 : 99 n. 3 65-68 : 20 n. 3 ; 98 65-79 : 99 n. 1 67-68 : 99 74 : 77 n. 1 75-77 : 97 n. 2 78-79 : 99 n. 3 93 ss., 119-122 : 198 n. 1 123-126 : 198 164 : 77 n. 5 294-298 : 151 n. 3 373-374 : 97 n. 3 383-385 : 97 n. 3 448-452 : 84 n. 3 502 ss., 526 ss. : 71 n. 3 570-576, 583-584, 592-596 : 197-198 n. 5 596 : 196 n. 2 607-609 : 207 n. 1 671-672, 677-679, 684-685, 689-699 : 191 n. 3 9, 118 : 207 n. 4 377-380, 389-390, 476-477 : 169 n. 3 509-510 : 215-216 n. 3 517-519 : 18 n. 2 518-519 : 54  































































































La Tebaide di Stazio. Epica e potere

266

9, 785 : 198 n. 5 791-792 : 215-216 n. 3 10, 133 : 205 n. 2 350, 363-364 : 211 n. 5 439-444 : 83 n. 5 445-448 : 84-85 n. 4 751-753 : 186 n. 2 827-828 : 209 827-831 : 97 829 : 77 n. 5 831-836 : 97 n. 2 834 : 77 n. 5 872 : 186 n. 2 888-889 : 54 n. 3 11, 1-2 : 78 n. 4 10-11 : 98 26-31 : 199 64-68 : 188 n. 2 76-100 : 97 81-84 : 95 85-96 : 95 n. 4 88-91 : 97 n. 2 95-96 : 99 97-100 : 20 n. 4 ; 77 n. 5 ; 95-97 99 : 209 100-102 : 95 n. 5 109-110 : 98 110 : 20 n. 3 119-135 : 18 n. 3 122-130 : 77, 78 e n. 1 123 : 96 n. 6 125-127 : 54 127-133 : 55, 78 n. 1 134-135 : 55 n. 1 246-247 : 78 n. 3 248-249 : 77 n. 1 315-320 : 178-179 n. 3 329-330 : 57 n. 1 330-332 : 77 380 : 72 n. 1 394-395 : 72 n. 1 407 : 86 n. 1 407-415 : 96 n. 2, 184 n. 2 415 : 169 n. 1 416-423 : 100 n. 1 429-431 : 100 n. 1 430 : 54  

































































































11, 457-466 : 56 483 : 55 n. 2 485 ss. : 99 e n. 4 486-487 : 56 487-488 : 178-179 n. 3 498 : 78 n. 3, 100 n. 1 537-538 : 20 n. 6 ; 59-60 n. 4 ; 100 570 : 83 n. 5 572-573 : 80 ; 83 e n. 5 574 : 85 nn. 1 e 3 574-575 : 28 n. 1 ; 31 ; 150 574-576 : 95 574-579 : 19 n. 1 ; 80-82 ; 84 e n. 1 576 : 100 578-579 : 35, 82 579 : 92 e n. 2 ; 94 ; 151 605-607 : 56 ; 107 605-626 : 138 n. 3 611-612 : 56-57 n. 4 616-621 : 56 n. 2 624-626 : 56-57 n. 4 654-658 : 57, 150 655-657 : 92 656-657 : 33 661-664 : 151 668-669 : 56 n. 4 677-682 : 56 n. 4 ; 151 n. 2 684 : 23 ; 69 ; 150 e n. 1 701-705 : 56 n. 3 717-720 : 197 n. 1 755-756 : 156 n. 1 12, 40 : 177 n. 4 22-24 : 177 44-45 : 177 94-103 : 151 n. 4 102 : 152 105-110 : 204-205 n. 3 111-115 : 205 134-136 : 58 n. 1, 205 149-159 : 151-152 n. 5 152 : 152 157-159 : 206 160-166 : 153 165-166 : 120 166-176 : 206 n. 1 175-176 : 107 177-178 : 208  























































































































Indice dei luoghi citati 12, 177-186 : 121 ; 206 179 : 208 179-180 : 209 e n. 1 180 : 72 n. 1 181-182 : 209 183 : 214 183-184 : 210 184-186 : 210 e n. 2 185 : 213 ; 214 186 : 204 n. 1 191-200 : 220 200-202 : 214 206-207 : 212-213 n. 3 208-219 : 213-214 ; 220 209-212 : 153 209-217 : 219 212-215 : 221 217-218 : 216 218 : 215 n. 3 219-269 : 212 ; 212-213 n. 3 270-348 : 212 280-285 : 204-205 n. 3 291-294 : 58 n. 1 292-294 : 107 n. 2 295-311 : 58 n. 1 312-315 : 209-210 331-332 : 211 346-347 : 204 n. 1 349-350, 358-360 : 212 366-367 : 211 378 : 212 n. 2 382-383 : 212 383-385 : 211 385-391 : 211 n. 2 441-442 : 57 n. 1 444-446 : 221 447-463 : 121 n. 3 452-463 : 121 ; 216-217 456-457 : 208 457-459 : 212 462 : 216 n. 3 ; 217 464-676 : 121 n. 3 471-474 : 107 e nn. 2 e 3 477 : 72 n. 1 ; 107 479 : 145 481-482 : 24 ; 69 481-504 : 188  













































































































267

12, 481-511 : 23 n. 1 481-513 : 106 482 : 25 n. 1 483 : 109-110 487-488 : 109 494 : 73 ; 109 n. 3 ; 110 495-496 : 107 497 : 112 497-505 : 111 497-513 : 24 ; 107-108 499 : 113 500 : 145 501 : 72 501-502 : 114 503-504 : 23 ; 145 503-505 : 25 ; 62 504-505 : 69 ; 115 ; 146 505 : 105 n. 2 507-509 : 45 509-511 : 120 ; 146 512-513 : 107 519-522 : 44 n. 5 ; 163 n. 2 ; 188 n. 1 520 : 137 n. 3 521-522 : 178 n. 1 523 : 160 ; 188 n. 1 523-539 : 127 531 : 138 532 : 165 532-533 : 44 n. 5 ; 163 n. 2 534-535 : 209 539 : 209 540-542 : 164 n. 1 543-545 : 44 ; 160 ; 164 544-545 : 107 n. 2 546 : 170 548-554 : 154 n. 3 555-556 : 170 555-558 : 120 555-561 : 155 n. 1 561-562 : 54 ; 74 ; 169 565 : 191 n. 5 569-572 : 169 571-572 : 170 573-574 : 57 n. 1 ; 77 n. 5 575-577 : 149 578-579 : 149 579-580 : 157  































































































































La Tebaide di Stazio. Epica e potere

268

12, 580 : 170 581-582 : 44 n. 7 ; 146 e n. 2 583-584 : 68 n. 1 ; 156 585-586 : 146 n. 1 586 : 170 587-588 : 44 n. 6 ; 164 n. 1 587-590 : 165 588-589 : 167-168 588-590 : 123 589 : 171 590-591 : 115 n. 3 590-598 : 155 593-595 : 170 ; 188 n. 1 595 : 188 596-598 : 153 599-605 : 163 n. 1 ; 190 606-610 : 58 n. 1 ; 188 n. 2 608 : 154 n. 1 609-610 : 107 n. 2 ; 154 611, 614 : 154 n. 1 618-619 : 146 624-626 : 138 635-638 : 209 636-637 : 138 639-641 : 183 640-641 : 154 n. 1 642 : 22, 105 642-643 : 27 ; 153 ; 170 642-648 : 72-73 ; 189 n. 2 643-644 : 205 n. 1 644-647 : 191 n. 5 645 : 56 649 : 154 n. 1 649-655 : 58 n. 1 ; 185 n. 3 ; 188-189 656-660 : 189 n. 4 661-664 : 154 n. 1 672-674 : 41 n. 4 674-676 : 138 676 : 27 n. 2 677-682 : 41 ; 121 n. 3 ; 217 677-692 : 154 679 : 208 682-686 : 41 689 : 151 689-692 : 152 694-695 : 183 n. 3 698-708 : 21 n. 4 ; 183

12, 709-711 : 154 n. 1 712-714 : 171 ; 175 715-720 : 152 720-725, 726-729 : 184 727 : 185 n. 4 ; 198 730 : 148 n. 1 730-736 : 58 n. 1 730-737 : 186 736-740 : 190 738 : 198 741-751 : 191 e n. 2 752-753 : 191 754-759 : 155 768-771 : 160 770-771 : 191 771-773 : 28 n. 1 ; 31 ; 149-150 776-777 : 191 779-781 : 28 n. 1; 31 ; 150 780-781 : 156 782 : 56 782-788 : 175 ; 179 e n. 2 784-786 : 147 ; 159 785-786 : 160 786-788 : 178 ; 180 789-796 : 178 791-793 : 178 792-793 : 216 n. 3 793-794 : 177 795 : 194 n. 1 796 : 177 797-809 : 177 n. 3 798 : 218 807 : 177 810-819 : 15-16 n. 3 ; 88 812-815 : 33 814 : 53 ; 194 n. 1 816-817 : 31 n. 3



























































































































































Svet. Caes. 75, 2 : 193 n. 2  



































































Dom. 4, 4 : 45 n. 3 ; 125 n. 1 10, 4 : 17 n. 1 15, 3 : 45 n. 3 18, 1-2 : 166 n. 2  









Indice dei luoghi citati

269

Val. Max.

Ner. 47, 2 : 215 n. 2

1 praef. : 65 n. 1 5, 1, 4 : 182 n. 2 9, 3, 7 : 173 n. 2





Tac.





Agr. 42, 4 : 217 45, 2 : 166 n. 2

Varr.





















ling. 5, 73 : 207 n. 6  

ann. 1, 6, 1 : 151 40, 4-41, 3 : 204-205 n. 3 62, 1 : 171 n. 3 3, 6, 2 : 177 n. 4 65, 1 : 86 n. 2 ; 93 n. 1 4, 32-33 : 88 n. 3 33, 2 : 30 n. 1 ; 93 n. 1 35, 5 : 85 n. 2 38, 2 : 110 n. 2 74, 1-2 : 109 n. 2 13, 1, 1 : 151 17, 1 : 93 n. 3 14, 64, 3 : 86 n. 2 15, 63, 1 : 217 n. 1 16, 10, 3 : 207 n. 3 33, 1 : 151 n. 1  



















hist. 1, 1-3 : 206 1, 2 : 88 n. 3 3, 2 : 60 2, 78, 3 : 109 n. 3 3, 51, 2 : 84 n. 3 72, 1 : 59 n. 3 83 : 15 n. 1 4, 40, 1 : 166 n. 2

Verg. Aen. 1, 65 : 51 n. 2 197, 202-203, 208-209 : 190 223-224, 229-230, 234-237 : 50 n. 2 250 : 49 n. 4 ; 50 n. 2 259-260 : 49 n. 4 279, 283 : 71 287 : 50 n. 2 289-290 : 49 n. 4 291-296 : 25 n. 1 2, 3 ss. : 89 n. 3 324 : 84 n. 1 385 : 220 n. 1 541-542 : 167 542-543 : 168 602-603 : 68 617-618 : 69 4, 58 : 114 n. 6 5, 670-671 : 59 n. 2 6, 122-123 : 143 n. 1 264-267 : 95 n. 1 617-618 : 142, 143 n. 1 617-620 : 29 n. 2 625-627 : 177 n. 3 781-782 : 50 n. 2 847-853 : 116-117, 125 n. 4 851-853 : 40, 118 853 : 24, 125, 197 7, 45 : 97 n. 3 145 : 84 n. 1 304-307 : 70 557 ss. : 99 n. 4 805-807 : 210 8 : 145 n. 1 50 : 159 n. 2 200-204 : 159  

































































Theocr.



2, 45 : 140 e n. 5 17, 91-92 : 50 n. 1 18 : 136















[Tib.]



paneg. in Mess. 12-13 : 160 n. 2  





Val. Fl.



2, 216-219 : 89-90 n. 3 3, 14-18, 212-219 : 89-90 n. 3  







La Tebaide di Stazio. Epica e potere

270

8, 359-368 : 158 e n. 4 494-495, 498-501 : 171 726 : 180 9, 44 : 169 199-200 : 212 205-206 : 213 296 : 205 n. 1 339-345 : 199 e n. 1 383 : 205 n. 3 444-445 : 83 446-449 : 19 n. 1 ; 83 e n. 1 447 : 84, 89 n. 1 525-528 : 220 n. 1 641-642 : 43 ; 68 n. 1 654-655 : 68 n. 1 786-787 : 169 10, 2 : 51 n. 1 398 : 169 n. 2 460 : 159 n. 2 461 : 205 n. 1 494-495 : 159 n. 2 508 : 84 n. 1 516-517 : 159 n. 2 569-570 : 198 714 : 171 732-733 : 192 743 : 51 n. 1 791-793 : 19 n. 2 ; 86 e n. 2 903-906 : 156 11, 165 : 159 n. 2 782 : 208 n. 2 12, 329-330, 338-339 : 187 331-340 : 187 n. 1 435-436 : 208 462-467 : 190 481-483 : 191 n. 1 494-504 : 190  



























































12, 500-504 : 89-90 n. 3 503-504 : 54 513-514 : 191 n. 2 584-585 : 182 n. 3 643-649 : 215 700 : 191 780-781 : 156 838 ss. : 47 n. 4 896-897 : 191 n. 2 930 : 28 ; 172 946-947 : 172 948-949 : 191  

























ecl. 4, 6 : 44 n. 3 6, 3 : 19 ; 94 e n. 6 ; 131  







georg. 1, 1-42 : 48 n. 1 24 ss. : 51 35 : 51 n. 4 498-505 : 61 n. 1 500-501 : 61 503-505 : 62 n. 2 3, 3-5 : 96 n. 1 32-33 : 41 n. 4 68 : 68 n. 3 4, 561-562 : 48 e n. 1 ; 180 n. 1  





























Xenoph. Hell. 6, 5, 46-47 : 113 n. 2  













mem. 3, 5, 10 : 113 n. 2  

Zenob. cent. 2, 61 : 111 n. 2  

Indice delle cose e delle parole notevoli Achille (e Teseo) : 124, 148 e n. 2, 167-170, 171 n. 4, 194-196  

Antigone : 12, 82 n. 3, 179 n. 2, 207 - e Argìa : 12, 41, 102, 121, 152, 154, 204 e n. 2, 210-213, 216-219, 221-222  



Callimaco, callimacheo : 46, 94 n. 6, 96 n. 2, 103, 111, 123, 130, 139 n. 1, 142-148, 156162, 205 - Ecale : 44, 108 n. 2, 141 n. 3, 142-149, 186 n. 4 - Ecale e Victoria Berenices (Teseo ed Ecale, Eracle e Molorco) : 156-161 - epinicio per Sosibio : 161-162 - poetica callimachea e ideologia imperiale : 146-148, 158-161  









clementia/clemenza : 12, 21-22, 23-26, 2829, 37-45, 47, 61-74, 103-127, 128, 144-150, 151, 165, 170-176, 181-199, 222-223 - ara Clementiae : 12, 23-25, 41, 44-45, 56, 62, 69, 72-73, 102-103, 105-116, 120, 127, 130, 132, 145-146, 156, 163, 170, 188, 219 - De clementia, Seneca : 23, 24 n. 1, 25-26, 29, 30, 42-45, 62-63, 90 n. 3, 94, 103 n. 2, 106, 109-110 n. 8, 116, 120-123, 144, 156, 172, 177, 181, 194, 222 - e misericordia : 23, 24 n. 1, 64, 103, 107 e n. 3, 108, 109, 111, 122-124, 130, 133 n. 1, 165-166, 168 n. 2, 170, 182 n. 2 - inclementia/inclemenza : 23, 25, 28, 29, 32, 42 n. 4, 68-69, 106, 144 n. 1, 150, 209 n. 2, 212 n. 1  









disegno del poema - asimmetria : 12, 18, 57 n. 1, 104, 131 - continuità e rottura : 57-58, 96 n. 4, 131, 134, 185, 223 - contrasti, contrasto re-tiranno : 21-22, 58, 84 e n. 3, 85, 105, 121, 123, 131, 133, 134, 150-156, 169, 183, 187-188, 193, 198-199, 205-206, 207 - crescendo, gradazione, Steigerung : 17, 20, 75-79, 97 n. 3, 96 n. 6, 98  







- crisi e ricostruzione : 11-12, 15, 18-19, 24 n. 1, 25, 32-33, 54, 55, 56 n. 1, 58, 61, 62, 67, 76, 80-85, 101-104, 111, 131, 135, 223 - dittico, epica spezzata, frattura della forma : 11-12, 17-19, 25, 30-33, 56-58, 62, 67, 104, 189, 223 - dualismo e complessità tragica : 57, 150 - dagli dèi agli uomini : 53-62, 66-74, 100101, 102 - guerra civile come punizione divina, schema soteriologico : 58-62 - rapidità della chiusa : 18, 27, 133-134, 154, 191  











Domiziano : 16-17, 23, 24 n. 2, 25 n. 1, 26, 31 n. 1, 32, 36 e nn. 1 e 2, 37-53, 61, 67, 87 n. 1, 102-103, 125 e n. 1, 129 e n. 2, 130, 144 n. 1, 157, 161 e n. 1, 165-166, 169 n. 1, 181182, 187, 194 n. 1, 196-197, 222-223  

Eneide : 15-17, 20, 24-28, 32-34, 40, 45, 47, 50, 53-58, 68-69, 71, 74, 79 n. 1, 83-84, 86, 8990 n. 3, 96, 97 n. 3, 99, 102-104, 116, 118, 125, 128, 129 n. 4, 130, 142, 143 n. 1, 145 n. 1, 147, 150, 156-161, 167-171, 187, 190-191, 198-199, 205, 208, 213 n. 1, 214-215 finale dell’- : 12, 26, 28, 57 n. 1, 102, 150, 171, 171-172, 190, 214  



epica del nefas, epica negativa : 19-20, 55, 67, 79, 87, 89-92, 93 n. 3, 152, 205  

epica e tragedia : 11-12, 15-16, 19-22, 25-29, 54-55, 58, 68-69, 75-101, 104-105, 131, 132135, 150, 154-155, 198-199, 204, 211-212, 218-222  

Ercole (e Teseo) : 28, 68 n. 1, 111, 124, 136, 141-144, 148 n. 2, 156-161, 166 n. 3, 172 n. 4  

esemplarità : 20, 25, 28-32, 34, 41, 68-69, 104, 133, 147-150, 158-164, 170, 174, 175, 179-182, 189 n. 1, 206, 221-223 - e pessimismo : 12, 21, 26, 58, 67, 104, 128 ss., 178, 179, 183-199, 223  



La Tebaide di Stazio. Epica e potere

272

- exemplum/esempio : 29-34, 70, 80, 84 n. 3, 85 n. 3, 93 e nn. 1 e 3, 94 n. 1, 138 n. 2, 142, 151 n. 1, 160 n. 2, 161 n. 1, 164, 182, 190, 194, 195, 200-201, 206, 208, 222 - paradigma, paradigmatico, modello (eroico, etico-politico, femminile, ideale, ideologico, imperiale) : 1, 12, 15, 19, 23, 25, 26, 35, 37, 39 n. 2, 43, 47, 63-64, 6770, 82, 93-94, 102, 103 n. 2, 111, 113, 116, 122, 128, 129, 130, 133, 134, 139, 147, 148, 151, 156-157, 158 n. 3, 159-161, 163, 174, 175, 176, 178, 181 n. 1, 182, 193, 194, 195, 197, 198, 199, 201 e n. 2, 202, 204, 208-212, 217-223  



Euripide - Fenicie : 12, 20, 21, 78 n. 3, 82 n. 2, 97 n. 1, 131, 134, 183 - Supplici : 12, 20-23, 27-29, 41, 105-106, 112, 114-115, 123, 131-135, 151-155, 183-184, 192193, 199, 218-219  



n. 2, 181, 184-186, 189, 193, 200-203, 208 nn. 1 e 4, 217 n. 2 paradosso, paradossale : 18, 19, 27, 39, 41, 55, 56-57 n. 4, 58, 67, 80, 81-82, 84, 85 e n. 3, 86 e n. 2, 87, 89 e n. 2, 91, 92, 99, 101, 122, 132, 143, 146, 155, 159, 168, 178-180, 182 n. 2, 183, 185 n. 3, 186, 187, 198, 202-203, 205, 207, 209, 214, 216 n. 3, 217 epica del, poetica del- : 55, 67, 79, 159, 220  



Punica finale dei- : 182, 187  

ripetizione - coazione a ripetere, replica : 15, 33, 57, 71, 82, 101, 185, 188, 189 - ‘con differenza’, con rovesciamento, - e inversione : 56-57, 184 e n. 1, 185, 188189, 199  



Iliade finale dell’- : 124, 168, 170, 177, 195 n. 1, 218

Seneca tragico, poetica di- : 11-12, 15, 1920, 25-29, 76-77, 79, 81, 86-101, 104, 106, 134, 144, 151, 211-213, 216-218, 222

Lucano : 11, 15, 19, 24, 27, 31, 48, 52 n. 1, 5455, 58-59, 69, 71, 74, 75 n. 1, 77-79, 80-81 n. 2, 84 n. 1, 85-92, 99 n. 1, 103-104, 110, 129, 138 n. 2, 152-153, 177 nn. 2 e 4, 179 e

Sofocle - Antigone : 12, 210-213, 218-219 - Edipo a Colono : 12, 22, 105, 111, 115, 120121, 123, 152, 167 n. 4, 207, 212











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* Novembre 2011 (cz2/fg17)

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