Senza paradiso. Miti e credenze sull’aldilà greco 978-88-15-27996-5

In che modo gli antichi Greci si immaginavano l’aldilà? In una religione senza dogma come quella greca antica, molteplic

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Senza paradiso. Miti e credenze sull’aldilà greco
 978-88-15-27996-5

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DORALI CE FABIANO

SENZA PARADISO MITI E CREDENZE SULL'ALDILÀ GRECO

ANTROPOLOGI A DEL MONDO ANT ICO

SENZA PARADISO

In che modo gli antichi Greci si immaginavano l'aldilà? In una religione senza dogma come quella greca antica, molteplici risposte sono possibili. Nel darne conto, il libro mostra innanzi tutto come i Greci costruivano l'identità del morto, definendone i tratti esteriori, il cibo e lo spazio a lui riservati. Entriamo poi in contatto con un gruppo di racconti mitici che riguar-

dano gli individui puniti per sempre nell'aldilà, in una dimensione priva di paradiso: alcuni celebri (Sisifo, Tantalo e le Danaidi), altri meno conosciuti, come il povero Ocno, costretto a intrecciare una corda eternamente divorata da un'asina, o come coloro che non erano stati iniziati ai misteri di Eleusi, immersi per sempre nell'immenso lago di fango degli inferi.

DORALICE FAHIANO È RICERCArRICE IN STORIA DELLE RELIG IONI ALL'UNI VERSITÀ DI GINEVRA ED È AUTRICE DI NUMEROSI CONTRIBUTI SULLA RELIGIONE E LA MITOLOGIA GRECA: HA CURATO CON PHILIPPE BORGEAUD « PERCEl'TION ET CONSTRUCTION DU DIVIN DANS t.'ANTIQUITÉ» (2013).

€ 20.00

ISBN 978-88-15-27996-5

In copertina: Testa di Ade, da Morgantina, V-IV sec. a.e., Museo archeologico di Aidone (EN).

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788815 279965

ANTROPOLOGIA DEL MONDO ANTICO COLLANA DEL CENTRO DI ANTROPOLOGIA DEL MONDO ANTICO DELL'UNIVERSITÀ DI SIENA

a cura di Maurizio Bettini 12.

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull'insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet:

www.mulino.it

DORALICE FABIANO

Senza paradiso Miti e credenze sull'aldilà greco

IL MULINO

Pubblicazione realizzata con la collaborazione del

FONDS NATIONAL SUISSE 5CHWEIZERISCHER NATIONALFONDS FONDO NAZIONALE SVIZZERO Sw1ss NATIONAL SCIENCE FOUNDATION

ISBN 978-88-15-27996-5 Copyright © 2019 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo - elettronico, meccanico, reprografico, digitale - se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d'Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie Redazione e produzione: Edimil srl

www.edimill.it

Indice

Introduzione

p. 7

PARTE PRIMA: RAPPRESENTARE L'INVISIBILE

I.

Dare corpo alle ombre

17

1. Sostituzioni

17 19 28 32 35 40

2. 3. 4. 5. 6.

Il cadavere, un oggetto sociale in transizione Senz'anima Identità visuali Sguardi asimmetrici Per interposta persona

Il. Il cibo dei morti 1. Un corpo da nutrire

2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Felici, ricchi, potenti Placare e rigenerare Cibo dei morti, cibo degli «altri» Astuzie della commensalità Ospiti indesiderati Briciole sotto la tavola Mangiare avanzi

45 45 47 52 56 59 66 74 81

III. L'isola che non c'è

87

1. Punti di vista

87 89 95 105 113 119

2. 3. 4. 5. 6.

In un paese lontano lontano ... Isole occidentali Frontiere d'acqua. Paludi... e sorgenti Uno spazio disorientante

p ARTE

SECONDA: LE PUNIZIONI INFERE

IV. Un giudizio non universale

V.

p.

127

1. «Non temo che tu sfugga al castigo, ma di non vedere io quel giorno!» 2. I Greci «credevano» a un giudizio nell'aldilà? 3. Scappatoie giudiziarie 4. I processi oltremondani dell'Atene classica

127 131 139 148

Delitti e castighi

167

1. 2. 3. 4. 5.

167 169 178 192

Le punizioni infere: una breve presentazione Ritorno alla Nékuia Tantalo tra Hades e Olimpo Sisifo l'astuto Senza compimento: vicende dei non iniziati negli inferi 6. La giara delle Danaidi 7. Ocno, una punizione per immagini

Riferimenti bibliografici

209 225 232

243

Introduzione

Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo. Lev Tolstoj, Anna Karenina (trad. L. Ginzburg)

Il 3 maggio 2007 è una data a suo modo storica: è il giorno nel quale il Limbo cattolico è scomparso senza troppo clamore, abolito da un rapporto della Commissione Teologica Internazionale1. Questo spazio oltremondano, dove una tradizione secolare collocava le anime dei bambini morti senza ricevere il battesimo, ha semplicemente cessato di esistere a un momento ben preciso. L'esigenza di aggiornare una rappresentazione ormai invecchiata è stata esplicitamente motivata con la necessità di fornire risposte adeguate agli interrogativi posti dalla società contemporanea: «nell'odierna stagione di relativismo culturale e di pluralismo religioso il numero dei bambini non battezzati aumenta considerevolmente. In tale situazione, appare più urgente la riflessione sulla possibilità di salvezza anche per questi bambini». Forse nessun altro aneddoto è adatto come questo a mostrare che il mondo dei morti - lungi dall'essere una dimensione immutabile - ha invece una storia e come ogni prodotto della cultura umana può e deve essere studiato in una prospettiva storica. Non si tratta certo di una novità per gli «addetti ai lavori». Decenni di ricerche sull'aldilà cristiano hanno mostrato che le rappresentazioni di Inferno, Purgatorio e Paradiso col volgere dei secoli sono mutate riflettendo i grandi cambiamenti storici, culturali e sociali delle epoche che le hanno prodotte. Per non citare che un solo nome, Jacques Le Goff ha interpretato l'invenzione del Purgatorio tra XI e XIII secolo come il risultato di profondi cambiamenti intervenuti nella società europea, Il testo della Commissione Teologica internazionale è disponibile sul sito dello Stato del Vaticano http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/ cfaith/cti_docurnents/ rc_con_cfaith_doc_20070419_un-baptisedinfants_it.htrnl

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INTRODUZIONE

culminati nell'emergere del nuovo ceto borghese2 • Piero Camporesi e Jean Delumeau hanno dal canto loro proseguito nella direzione intrapresa da Le Goff, muovendosi lungo le strade dell'Inferno e del Paradiso e fornendoci così il quadro di un mondo oltremondano continuamente trasformato per rispondere all'evolversi incessante del mondo dei vivP. Questo libro si propone di prendere spunto da tali problematiche e metodologie di ricerca per trasporle nel mondo antico al fine di riportare i racconti sull'aldilà greco a contesti storici e culturali pertinenti. Per procedere a un'analisi di questo tipo abbiamo scelto di focalizzarci sulle punizioni che secondo gli Antichi hanno luogo dopo la morte, in un regno invisibile e sotterraneo che va sotto il nome di Hades. Si tratta di un nucleo di storie e di immagini che hanno lasciato una traccia potente nell'immaginario moderno, come mostra il fatto che ancora oggi esse compaiono in numerose espressioni proverbiali, si può infatti parlare di un «supplizio di Tantalo», una «fatica di Sisifo», un «vaso delle Danaidi». I motivi di interesse di questo argomento sono molteplici, e per metterli in luce sarà necessario combinare una duplice prospettiva metodologica, quella dell'antropologia storica e quella della storia delle religioni, cioè le due discipline alla cui intersezione questo lavoro si situa. Si tratta - è bene dirlo subito - di due approcci che non sono alternativi ma complementari nell'ideazione di questo libro. Dal punto di vista dell'antropologia storica, il dossier delle punizioni infere ci permette di far emergere le categorie di pensiero emiche, cioè quelle elaborate dai Greci stessi, che sono in gioco in questi racconti. Questo approccio ci permetterà di comprendere meglio l'immaginario dei castighi dell'aldilà decodificandolo alla luce della complessa rete di significati simbolici della cultura antica. In questa prospettiva ci si può chiedere: perché Sisifo è condannato a spingere proprio un enorme masso? Qual è il significato del vaso senza fondo per i greci antichi? Perché gran parte delle punizioni oltremondane sono accomunate dal fatto di essere azioni frustranti e impossibili da portare a termine? Si tratta, insomma, di comprendere in che modo i Greci hanno guardato per secoli a questi racconti, grazie a 2

3

Le Goff [1981]. Camporesi [1987], Delumeau [1992], [1995], [2000].

INTRODUZIONE

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una operazione di decifrazione e traduzione dei codici culturali antichi che ci consentirà di individuare gli scarti continui che intercorrono tra la rappresentazione del mondo dei vivi e quella del mondo dei morti. Cercheremo inoltre di mettere in evidenza cosa costituisce la peculiarità e la diversità di quella «famiglia infelice» (per riprendere la frase posta in exergo) rappresentata dai personaggi puniti negli inferi greci, rispetto a coloro che subiscono il loro supplizio nell'inferno cristiano. Perché entrambi i gruppi - non c'è dubbio - soffrono, ma ciascuno a suo modo, perché anche la sofferenza e le sue cause, lungi dall'essere ovunque uniformi, sono espresse attraverso le categorie proprie a ciascuna cultura. Occorre appena precisare che una tale metodologia di indagine volta a valorizzare differenze e distanze può essere adottata per analizzare qualsiasi ambito della cultura antica e non solo quello che ai nostri occhi rileva della sfera religiosa. Da una prospettiva disciplinare più propriamente di storia delle religioni, invece, i temi che i castighi inferi ci consentono di problematizzare sono di natura differente e riguardano piuttosto la pertinenza delle categorie etiche, cioè quelle adottate da noi moderni al momento di interpretare la cultura e l'aldilà antico, come ad esempio l'idea di «giudizio oltremondano» o quella di «credere» nell'aldilà. Tali categorie, nate nel contesto religioso dei monoteismi, nei quali la dimensione della salvezza oltremondana in un altrove trascendente è un elemento fondamentale, si prestano male a comprendere la visione di un sistema religioso politeista come quello greco, che non conosce né una dimensione trascendente né una soteriologica. Gli Antichi, infatti, non fondano il rapporto con i loro dèi sulla promessa di una vita e di una salvezza ultraterrena in un mondo «altro», ma su una pratica rituale quotidiana e terrena che rinforza e mantiene l'ordine per esso stabilito dagli dèi e garantisce in tal modo il benessere della comunità umana. Quando dunque consideriamo l'aldilà greco dobbiamo tenere conto del fatto che la dimensione oltremondana riveste un'importanza non centrale all'interno delle ordinarie preoccupazioni religiose degli Antichi. L'oltretomba per i Greci si trova alla periferia del loro sistema religioso e non al centro, ciò implica un cambio di prospettiva del quale dobbiamo essere consapevoli nell'approcciare una religione senza paradiso (e senza inferno!).

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INTRODUZIONE

La storia della disciplina riflette perfettamente queste difficoltà. Se la rappresentazione dell'aldilà è stata uno dei temi capitali della storia delle religioni antiche sin dalla fine del XIX secolo (basterà ricordare i nomi di Erwin Rohde e di Franz Cumont, autori di studi fondamentali sull'immaginario oltremondano rispettivamente greco e romano 4 ), questa dimensione è stata spesso analizzata in un'ottica per così dire evoluzionista e teleologica, nella quale i Greci, sprovvisti di un aldilà camme il /aut avrebbero scoperto grazie ai culti dionisiaci, ai misteri orfici o alle religioni orientali (a seconda delle versioni), l' esistenza di un'immortalità dell'anima e di una retribuzione nell'aldilà, idee che forse troppo somigliano ai corrispettivi cristiani. Anche il libro più recente che fornisce una sintesi sul mondo dei morti in Grecia, Restless dead di Sarah Johnston, risente di una visione lineare in cui i Greci passerebbero dalla concezione di un mondo dei morti completamente separato, con cui non esiste possibilità di interazione, a una sempre maggiore permeabilità delle frontiere tra le due dimensioni5 • L'importanza che in quest'evoluzione avrebbero rivestito pratiche rituali che i moderni individuano sotto le nomenclature di «misteriche», «orfiche» o più genericamente «iniziatiche» (tutti termini che sono oggetto di grandi dibattiti all'interno della storia delle religioni 6 ), spiega forse perché gran parte degli studi recenti che concernono l'aldilà greco si occupano proprio di questi contesti, tra i quali le lamelle auree dette «orfiche» hanno fatto, per così dire, la parte del leone negli ultimi anni7. In realtà come vedremo, tali diverse concezioni dell'aldilà coesistono sincronicamente lungo tutta la storia dell'oltretomba greco, senza che sia necessario tracciare una sorta di percorso che porta dritto dritto alla scoperta di un «vero» aldilà. In tutta questa discussione, è innegabile che l'oggetto di questo libro, cioè le punizioni oltremondane, siano restate in disparte e siano perciò tanto più degne di essere riportate all'interno del dibattito. Una delle ragioni dietro questa escluRohde [1898 2] e Cumont [1949]. Johnston [1999]. 6 Per una recente contestazione della categoria di «orfismo» come concepita dalla storiografia moderna, si veda Edmonds [2013]. Per il dibattito intorno alla categoria di misteri Belayche e Massa [2016]. 7 Per la sterminata bibliografia sulle lamelle, cf. la bibliografia data infra cap. 3, par. 6 e cap. 4, par. 3. 4

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INTRODUZIONE

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sione risiede nella difficoltà di considerarle come facenti parte di un sistema retributivo generalizzato in cui a determinate azioni commesse in vita corrispondono determinati castighi post mortem. Come vedremo, le sofferenze nell'aldilà sono comminate a personaggi del mito che hanno commesso errori particolarmente gravi, ma nelle quali gli individui comuni non sembrano poter incorrere. In questo senso le punizioni dell'aldilà greco sono molto differenti dall'inferno cristiano e ci sfidano a trovare un modo per riformulare i concetti di retribuzione e di giudizio oltremondani, che risultano poco pertinenti se applicati al mondo antico. Un immaginario giudiziario è infatti raramente in gioco nei racconti che concernono i castighi nell'aldilà. Le punizioni oltremondane, insomma, sono interessanti perché costituiscono un insieme di racconti che ci permette di delineare efficacemente un'immagine emica del mondo dei morti antico e ci consente di apprezzare le profonde differenze rispetto all'aldilà quale lo possiamo immaginare e concepire in un contesto religioso cristiano, nel quale esso ha avuto per secoli la funzione di deterrente rispetto a determinati comportamenti codificati come sanzionabili tra i vivi e perciò puniti nell'oltretomba. Per rispondere alle problematiche che abbiamo evocato sopra, questo libro si articolerà in due parti. La prima (capp. 1-111) consiste in una introduzione generale alle rappresentazioni del mondo dei morti in Grecia. A eccezione di una agile presentazione di questo argomento ad opera di Maria Serena Mirto, basata principalmente sui testi letterari, e di una recentissima e pregevole antologia di testi antichi curata da Tommaso Braccini e Silvia Romani, il lettore italiano non dispone infatti di un'opera che lo introduca a quest'argomento 8• Si è deciso di organizzare questa prima sezione su base tematica, senza ricorrere a una disposizione puramente cronologica delle fonti antiche. Questa scelta consentirà di focalizzarci su temi di spiccato interesse antropologico all'interno delle rappresentazioni del mondo antico: l'apparenza esteriore del defunto, il cibo che gli è riservato e lo spazio che occupa una volta passato il confine che separa i due mondi costituiscono altrettanti elementi che ci consentiranno di capire come si articola l'identità del morto in terra ellenica. 8

Mirto (2007), Braccini e Romani [2017).

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INTRODUZIONE

Il primo capitolo si occuperà dei «corpi sostitutivi» con cui il defunto è rappresentato una volta che è privato dalla morte della sua fisicità. Il primo di essi è senza dubbio il cadavere, un corpo che opera una transizione da un mondo all'altro attraverso la complessa procedura dei riti funebri. Il secondo è la psukhi, cioè la componente incorporea dell'individuo che soprawive nell'aldilà: cercheremo di mostrare come essa si costruisca per differenziazione e opposizione rispetto alle modalità con cui si rappresenta l'identità dell'individuo vivente. Il secondo capitolo tratterà invece l'aspetto più propriamente rituale per mezzo del quale i vivi interagiscono con il mondo dei defunti. Se infatti normalmente i vivi e i morti fanno parte di due dimensioni separate, talvolta essi sono chiamati a incontrarsi: in questi casi i Greci sentono il bisogno di costruire questi momenti di contatto secondo il modello delle pratiche di ospitalità in uso nel mondo dei vivi, ma cercando di evitare il più possibile una prossimità eccessiva e utilizzando perciò forme di commensalità che si possono definire per questa ragione come «asimmetriche». Analizzando meticolosamente le diverse tipologie di cibo offerto in queste circostanze e la sua modalità di consumazione, è possibile comprendere il modo in cui grazie alle pratiche rituali il defunto può essere ammesso sia pur temporaneamente nella società dei vivi. Nel terzo capitolo cercheremo di delineare un quadro geografico degli spazi oltremondani che accolgono l'individuo dopo la morte. Il paesaggio greco dell'Hades, awolto nelle tenebre resta per lo più misterioso. L'elemento maggiormente menzionato è il suo confine, talvolta immaginato come un fiume vorticoso e talvolta come una palude melmosa e immobile. Si tratta di due declinazioni differenti del limite tra il mondo dei vivi e quello dei morti che svelano, come vedremo, due concezioni diverse del rapporto tra le dimensioni, intese come radicalmente separate o come invece prossime. I paesaggi idilliaci che attendono pochi privilegiati sono invece dislocati al di fuori della dimensione sotterranea, respinti ai confini del mondo conosciuto, in spazi dove si può pensare una condizione umana esente da sofferenza e morte. La seconda parte del libro (capp. IV e V) affronterà invece il tema delle punizioni oltremondane. Il quarto capitolo ci consentirà di rimettere in questione la categoria di «giudizio oltremondano» nell'aldilà greco. Si tratterà di sottolineare la

INTRODUZIONE

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debolezza dell'idea di retribuzione oltremondana e la scarsa presenza di un immaginario giudiziario nell'Hades. L'idea che l'individuo possa ricevere premi o punizioni dopo la morte costituisce solo una delle rappresentazioni del mondo dei morti, non necessariamente la più importante. Per la natura stessa della religione greca, caratterizzata dall'assenza della nozione di dogma, tali rappresentazioni sono molteplici e non necessariamente coerenti, mentre la necessità di «credervi» o meno è articolata in modo molto differente rispetto alle cosiddette religioni del libro. Nel quinto capitolo incontreremo finalmente i personaggi che subiscono un castigo nell'aldilà, trattati ciascuno in un paragrafo distinto, poiché le loro storie non sono in genere interrelate. Tantalo, condannato a fame e sete perpetua, e Issione, legato a una ruota in continuo movimento, costituiscono una prima coppia problematica, perché il loro castigo può essere collocato sia nell'Hades sia in una dimensione celeste (variamente interpretata come Olimpo o come zona intermedia tra il cielo e la terra). Tali oscillazioni spaziali inducono a ripensare la nozione di castigo infero, perché mostrano che la punizione può avere luogo in un altro spazio, quello celeste, che come l'Hades, è caratterizzato da una temporalità eterna, profondamente diversa da quella che vige nel mondo dei vivi. Sisifo, condannato a spingere lungo un pendio un masso che ritorna sempre a valle, rappresenta la punizione forse più emblematica, che riflette alla perfezione uno dei modi con cui gli Antichi possono pensare l'aldilà, come una dimensione che «lega» e «blocca» chiunque vi entri. I non iniziati ai misteri di Eleusi e le Danaidi, affaccendati intorno a una giara forata che si affannano inutilmente a riempire, rilevano invece di una dimensione più domestica e quotidiana. Attraverso la storia dei proverbi che li riguardano metteremo in luce le metafore economiche e cognitive che sono alla base della potente immagine del vaso impossibile da riempire. La sorte poco invidiabile del misterioso Ocno (intrecciare una corda che un asino alle sue spalle divora) è spiegata in vari modi, ma risulta evidente che in tutti i casi le fonti antiche cercano di interpretare secondo la tecnica dell'argumentum un'immagine particolarmente diffusa nell'iconografia, scegliendo la spiegazione più funzionale al contesto nel quale essa è inserita.

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INTRODUZIONE

Questo libro rappresenta la rielaborazione di una tesi di dottorato in Antropologia del mondo antico discussa all'Università di Siena. Il prof. Carlo Brillante ne ha seguito con grande pazienza quella prima versione, non risparmiando suggerimenti utili e puntuali. Il centro AMA ha costituito un luogo di formazione ricco di preziosi stimoli culturali e umani: Anna Angelini, incontrata a Siena, si è dimostrata un'amica e una collega indefettibile. Dopo il dottorato, Philippe Borgeaud ha accompagnato la mia formazione in storia delle religioni, permettendomi di restare a Ginevra grazie a un programma da lui diretto presso il Swiss Center for Affective Sciences intitolato «Myths and Rites as Cultura! Expression of Emotions», durante il quale ho approfondito alcune delle tematiche che emergono in filigrana in queste pagine. All'amicizia e alla fiducia di Philippe questo libro (e chi scrive) deve moltissimo. Tutta l'équipe ginevrina ha permesso che questa seconda parte della mia formazione si svolgesse in un clima di confronto scientifico fecondo, ma una menzione particolare va a Francesca Prescendi e a Francesco Massa per il loro sostegno, la loro amicizia e il loro entusiasmo. Ringrazio infine il prof. Maurizio Bettini, che in questi anni da Siena non solo ha sempre seguito con interesse e disponibilità il mio lavoro, ma lo ha anche accolto nella collana da Lui diretta. Ai miei genitori che hanno sostenuto concretamente la stesura di questo libro fornendomi aiuto pratico e sostegno morale, va tutta la mia riconoscenza. Pietro e Maia hanno riempito le mie giornate permettendomi di portare a termine questo lavoro con gioia. Nel concludere questo libro, il mio pensiero va alle mie nonne, alla mia prozia Abbondanza e a Mimmi.

PARTE PRIMA

RAPPRESENTARE L'INVISIBILE

Capitolo primo

Dare corpo alle ombre

1. Sostituzioni Narrare l'aldilà significa descrivere una dimensione completamente estranea all'esperienza, cui i sensi non possono per definizione accedere, e della quale perciò si può parlare solo per approssimazione, in modo indiretto, paragonandola o opponendola a ciò che è noto. Spesso gli epigrammi funerari degli antichi Greci la comparano all'immensa e inconoscibile distesa del mare, un gorgo che inghiotte e fa sparire per sempre chi cade nelle sue misteriose profondità 1; altre volte, il mondo dei morti assume l'aspetto di una vasta distesa di paludi che trattiene per sempre chi vi entra; ancora, può prendere la forma di un'isola lontanissima, ricca di prati, in cui regna un'eterna primavera2 • Gettando uno sguardo poco lontano, si scoprirebbe poi che i Romani, dal canto loro, possono dipingere l'aldilà come una grande dimora dalla porta sempre spalancata3• Le immagini utilizzate per descrivere il mondo dei morti costituiscono dunque set di espressioni proprie a ogni cultura, che ne mettono in luce di volta in volta diverse sfaccettature. Non potendo essere oggetto di percezione, insomma, l'aldilà esiste unicamente come oggetto di una rappresentazione mediata e metaforica, la cui analisi consente di comprendere meglio quale sia la concezione che una civiltà ha della dimensione oltremondana, poiché essa rivela di volta in volta le associazioni simboliche che questo mondo suscita all'interno di un determinato quadro culturale4 • 1

Georgoudi [1988a, 54-55]. v. infra, capp. 2 e 3. 3 Virgilio, Eneide 6, 127 noctes atque dies patet atri ianua Ditis «notte e giorno resta aperta la porta dell'oscuro Dite». 4 Bettini [1986, 226-227]. Sul valore cognitivo delle metafore per com2

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RAPPRESENTARE L'INVISIBILE

Ciò appare ancora più evidente nel momento in cui si prende in considerazione non solo la topografia del mondo infero, ma anche la rappresentazione dei suoi abitanti, i defunti. Perché sia ancora possibile parlare dei morti ed entrare in contatto con loro, infatti, questi devono assumere, per così dire, diversi «corpi sostitutivi», necessari a concretizzarli agli occhi dei viventi. Nel mondo greco il morto, ormai privo di corpo, può essere immaginato come un'ombra, a un riflesso, del fumo che si invola, ma senza alcuna consistenza. In circostanze particolari anche alcuni animali possono costituire efficaci corpi sostitutivi del defunto, esprimendone tratti peculiari (farfalla, pipistrello, cane, serpente). 5 Tali identità si presentano, come vedremo, come una costruzione culturale complessa, che si sviluppa in continuo dialogo con la percezione dell'identità fisica e sociale del vivo. Dal nostro punto di vista, le nozioni di «rappresentazione» e «sostituzione» si presentano dunque come concetti chiave della costruzione dell'aldilà, strettamente interrelati tra di loro: del resto, all'origine stessa del termine «rappresentazione>>, come ricorda Carlo Ginzburg in un affascinante articolo che ne ricostruisce la storia, sta proprio l'esigenza di fornire materialmente un corpo sostitutivo al morto6 • Représentation designa infatti in antico francese il fantoccio riproducente le sembianze del sovrano, portato in pompa magna ai funerali regali ed esibito al posto del cadavere, un oggetto che simboleggia, secondo la felice intuizione di Ernst Kantorowicz, uno dei due corpi del re in età moderna, quello del potere, che non muore mai, opposto alla caducità di quello mortale7. Il manichino sta dunque al posto del re, sottolineandone l'assenza nel momento stesso in cui ne realizza la presenza in quanto istituzione imperitura. Nonostante il campo d'indagine dell'inventore della microstoria appaia assai lontano dall'antichità classica, le sue osservazioni mettono tuttavia in luce una problematica ricorrente e strutturale di portata molto più ampia, alla quale l'aldilà dei Greci non sfugge: la rappresentazione della sfera connessa alla morte avviene essenzialmente per «sostituzione»8 • prendere i processi mentali nel mondo antico si veda Short [2008, 112]. ~ Bettini [1986, 228-235); Zografou [2005, 204). 6 Ginzburg [1991). 7 Kan torowicz [ 1957]. 8 Bettini [1992, 49-71).

DARE CORPO ALLE OMBRE

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Saranno proprio i corpi sostitutivi prestati dai vivi al mondo dei morti e ai suoi abitanti a costituire il filo conduttore di questo primo capitolo.

2. Il cadavere, un oggetto sociale in transizione Il primo sostituto che subentra all'individuo vivente dopo la morte è senza dubbio il cadavere, un corpo caratterizzato da una condizione paradossale e ambigua9: da un lato, infatti, esso conserva in tutto e per tutto l'aspetto del vivo, come un ritratto immobile di ciò che l'individuo è stato 10 ; dall'altro, proprio in virtù della sua fissità 11 , manifesta radicalmente l'alterità di chi ha già irrevocabilmente intrapreso il proprio percorso verso il regno dei morti. Per gli antichi Greci, il cadavere non ancora sepolto è un corpo in transizione, sospeso tra le due dimensioni, come mostra la celebre preghiera rivolta in sogno dal defunto Patroclo all'amico Achille, per convincerlo ad affrettare il suo funerale. Dammi sepoltura al più presto, ch'io varchi la porta dell'Hades. Mi respingono indietro le altre anime. Le ombre dei morti non mi permettono ancora di unirmi loro oltre il fiume, ma invano io mi aggiro davanti all'ampio portale della casa di Hades. Su, dammi la mano: mai più nel futuro tornerò dall'Hades, quando mi avrete onorato col fuoco 12 •

9 La riflessione sulla paradossalità dell'identità del cadavere-identico al defunto e tuttavia ormai radicalmente differente, è stata particolarmente sviluppata in ambito filosofico da Maurice Blanchot [1955, 224-227]: «Ciò che si chiama spoglia mortale sfugge alle categorie comuni: qualche cosa è là davanti a noi, qualche cosa che non è né il vivo in persona, né una realtà qualsiasi, né lo stesso di colui che era in vita, né un altro né un'altra cosa» (p. 224). Si veda inoltre, in un'ottica di antropologia filosofica, Thomas Macho [2002, 961]: «Il morto è indubbiamente un uomo, ma non si comporta assolutamente come un uomo. È umano e non umano al tempo stesso, conosciuto ed estraneo, un organismo umano, ma anche una cosa». 10 Hans Belting [2002 2 , 175] sottolinea la prossimità tra cadavere e immagine, quest'ultima intesa come rappresentazione artistica e cultuale del defunto: «Nel momento del decesso il cadavere diventa un'immagine fissa che assomiglia ancora al corpo vivente [ ... ] Essa non è più un corpo ma solo l'immagine di un corpo». 11 Sul carattere della fissità come caratterizzante il mondo della morte in Grecia v. Vernant [1965, 352-354]. 12 Iliade 23, 71-76 (trad. G. Cerri).

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RAPPRESENTARE L'INVISIBILE

Celebrare il funerale significa dunque, dal punto di vista degli antichi Greci, come per molti altri popoli, garantire al defunto l'accesso all'aldilà, il cui nome è Hades, e al tempo stesso rispondere a un suo profondo desiderio di distaccarsi dal mondo dei vivi, un bisogno la cui soddisfazione non può essere elusa 13 • La necessità improrogabile dei riti funebri in questo caso non sembra essere attribuita alla paura dei vivi che il morto continui a vagare o ritorni tra loro, come in passato è stato suggerito sulla base di numerosi paralleli etnografici 14 • Al contrario, è la situazione dolorosa del morto insepolto, che non appartiene né a questo mondo né all'altro, a essere presentata come la ragione decisiva dell'opportunità di celebrare i funerali. Il penoso stato liminare del cadavere, infatti, obbliga i viventi ad adottare un insieme di pratiche - i riti funebri - che, secondo l'ormai classica definizione dell'antropologo Arnold van Gennep, rientrano tra i cosiddetti riti di passaggio 15 Essi permettono cioè di affrontare correttamente una transizione graduale che distaccherà definitivamente il morto dalla società cui apparteneva per aggregarlo alla sua nuova comunità, quella dei defunti. Il passaggio biologicamente evidente dalla condizione di vivente a quella di morto per gli Antichi non è dunque istantaneo, ma è un processo culturalmente elaborato attraverso una serie di pratiche codificate, ritenute indispensabili perché il defunto giunga alla sua nuova e definitiva dimora 16• In questo quadro, la paradossale esistenza del cadavere è fondamentale perché essa consente ai vivi di gestire, attraverso la dimensione della ritualità, l'irrompere della morte nella vita quotidiana e la rottura dei rapporti sociali e familiari che ne consegue. I gesti codificati che accompagnano la transizione del cadavere da un mondo all'altro hanno mantenuto una notevole omogeneità e coerenza lungo tutta la civiltà greca: pertanto ci limiteremo qui a tracciarne per comodità alcune linee fonda13 Si tratta di un concetto espresso chiaramente, ad esempio, da un passo dell'Antzgone di Sofocle (vv. 450-460), in cui Antigone oppone a Creante, che le vieta di seppellire il fratello, l'immutabilità delle norme che concernono gli onori dovuti ai morti alla mutabilità dei decreti umani. 14 Hertz [1907]; Frazer [1933-1936]. " Hertz [1907, 53-54]; Van Gennep [1909, 127-144]; Garland [1985, 13-20]. 16 Già Hertz [1907, 98-101], prima dell'opera di Van Gennep [1909], rimarca la somiglianza dei riti funebri con quelli associati alla nascita e alla morte.

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mentali, come se si trattasse di un insieme sincronico e statico, pur essendo consapevoli del fatto che significative differenze possono presentarsi a seconda dell'epoca, del luogo e della tipologia di fonti a disposizione 17 • La posizione liminare del cadavere ancora insepolto, che non trova pienamente posto né tra i vivi né tra i morti, è ritenuta dai Greci fonte di contaminazione (m(asma) 18 per coloro che sono legati al defunto da un vincolo di parentela o un legame sociale di altro tipo 19 • Come già suggerito dall'antropologo Robert Hertz per alcune popolazioni indonesiane, l'idea di contaminazione in Grecia non è connessa - per quanto sorprendente possa sembrare - al decadimento fisico del cadavere, alla sua graduale decomposizione, sulla quale le fonti antiche conservano, infatti, un silenzio quasi totale, anche iconografico 20 • Del resto, persino nel poema in cui la guerra regna sovrana, l'Iliade, i riferimenti al disfacimento naturale dei corpi sono quasi completamente censurati: la morte ideale dell'eroe, la belle mort del giovane ucciso nel fiore dell'età ne è miracolosamente immune, e se qualcosa mette in pericolo questo ideale non è tanto la naturale decadenza del cadavere, quanto gli oltraggi perpetrati da parte dei nemici 21 • Il m{asma non è dunque causato dalla decomposizione, ma piuttosto dalla condizione stessa del cadavere, che si trova ancora in questo mondo, pur non appartenendogli più. La paradossalità di un corpo che è ancora visibile ai vivi senza essere più vivo esso stesso, infatti, introduce un elemento di 17

Sourvinou-lnwood [1995]. Sul m{asma è ancora fondamentale lo studio di Parker [ 1983, per la contaminazione derivata dalla morte v. soprattutto pp. 35-48]. Parker tuttavia, sottolinea anche come in Omero non sia attestata l'idea di contaminazione causata dalla morte e come quindi le credenze dei Greci potessero essere molto meno uniformi di quanto immaginiamo. 19 La parentela non è l'unico criterio che definisce la comunità che si sente contaminata dal lutto. Nel caso della morte dei re spartani, come racconta Erodoto (Storie 6, 58), l'intera cittadinanza era coinvolta nella misura di due persone - un uomo e una donna - per famiglia. Inoltre, come sottolineato da Parker [1983, 37-41] le fonti non ci permettono di essere sicuri che la contaminazione colpisse i membri della famiglia a prescindere dal contatto fisico con il cadavere. 20 Hertz [1907, 57-58, 95-97]. Sulla non-coincidenza tra l'idea di contaminazione e quella di sporcizia nelle civiltà non dominate dai paradigmi scientifici occidentali, si veda anche Douglas [1966, 65]. Per l'iconografia greca del cadavere v. Bérard [1988]. 21 Vernant [1989, 67-73]. 18

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rottura nell'ordine familiare, sociale e, per così dire, cosmico, un disordine strutturale che, come hanno ben mostrato gli studi di Mary Douglas è uno dei segni caratterizzanti dello stato di contaminazione22 • Varie misure sono messe in atto per rendere evidente il miasma agli occhi di tutti: cospargersi di fango 23 , non lavarsi24 , e per le donne auto-infliggersi ferite sul volto e lacerarsi le vesti25, sono alcuni tra i comportamenti adottati dagli antichi Greci in lutto per rendere immediatamente visibile la contaminazione che la morte lascia su coloro che sono più prossimi al morto26 • Inoltre, varie tipologie di abluzioni o bagni rituali, insieme all'utilizzo di suffumigi di zolfo o di altre sostanze odorose sono a disposizione per allontanare da persone e luoghi la contaminazione derivata dal cadavere, al fine di garantire un ordinato ritorno alla normalità27 • I segni visibili del miasma e le procedure necessarie a liberarsene svolgono in questo contesto un'essenziale funzione sociale. Essi identificano infatti i parenti del defunto come un gruppo solidale, cioè legato da vincoli sociali reciproci, che si manifestano in occasione di decessi, ma anche di matrimoni, nascite e vendette di sangue28 • In effetti, in Grecia, i funerali sono innanzitutto un affare di famiglia: i termini che designano i riti funebri (kedeia o kede) derivano dalla radice lessicale che indica la parentela, specialmente quella 22 Douglas [1966, 151]: «Il pericolo sta negli stati di transizione, semplicemente perché la transizione non è più uno stato e non è ancora l'altro: è indefinibile». Cf. anche pp. 242-243. 23 Priamo si rotola nello sterco alla notizia della morte del figlio (Iliade 22, 414). 24 Nell'Iliade (23, 43-49) è Achille a rifiutare di lavarsi prima che Patroclo sia sepolto. 2 j Luciano, Sul lutto 12 (trad. V. Longo): «Dopo queste operazioni, gemiti e lamenti di donne e, da parte di tutti, lacrime, petti percossi, capelli strappati, guance imporporate di sangue; e magari si lacera l'abito, si sparge la cenere sul capo, e i vivi sono da compiangere più del morto. Quelli, infatti, si rotolano per terra più volte e sbattono la testa contro il pavimento; questo, invece, composto, bello, carico fino all'eccesso di corone, giace alto in posizione eminente, adorno come per una parata». 26 Procedure ancora più complesse e ben regolamentate sono messe in atto a Roma, dove la famiglia colpita da un lutto porta il nome di /amilia funesta v. Scheid [ 1984]. 27 Parker [1983, 35-39]; Garland [1985, 41-47, 147-149]. 28 Glotz [1904, 76-92]; Gemer [1997, 61-103]; Phillips [2008, 69-71]; Gherchanoc [2012, 56-59].

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acquisita per via matrimoniale29 • Questa parentela etimologica suggerisce che la partecipazione al lutto rappresenta uno dei più importanti doveri familiari, attorno al quale si costituisce l'unità della parentela, al punto che lo storico Fustel de Coulanges, nella seconda metà del XIX secolo, poté immaginare - formulando un'ipotesi oggi sorpassata - che l'origine della città antica si trovasse proprio nel culto tributato ai morti. In tal modo lo studioso suggeriva una priorità della comunità religiosa, raccolta intorno ai rituali funebri, rispetto alla comunità civica, che sarebbe da essa scaturita in un secondo momento 30 • All'interno di questo contesto, il cadavere si può definire un corpo sostitutivo il cui carattere dominante è la «socialità»: esso infatti costituisce il motore dell'azione rituale di un gruppo che, celebrando i funerali di un congiunto scomparso, si riconosce come unito e solidale, e che dunque rinsalda - proprio grazie alla presenza del cadavere - una struttura familiare ferita dal lutto31 • In tal senso, l'insieme dei riti funerari può essere concepito come un insieme di procedure atte a gestire il corpo transizionale del cadavere garantendo la conservazione dell'identità sociale del defunto e del suo gruppo familiare. Intorno al cadavere si riassestano insomma le configurazioni dei legami familiari e sociali, motivo per il quale i riti funebri sono stati una delle porte d'accesso attraverso le quali le scienze sociali, grazie alle ricerche di Émile Durkheim e Marcel Mauss, hanno maggiormente influenzato gli studi di religione antica all'inizio del XX secolo32 • L'intera manifestazione del lutto rappresenta del resto per i Greci un momento di intensa partecipazione collettiva e non un dolore da vivere privatamente. Non è un caso che la fase centrale del rito funebre antico, sia proprio quella della pr6thesis, l'esposizione del corpo, in cui il cadavere, lavato e avvolto nel sudario, con gli occhi ormai chiusi e il capo incoronato, è collocato in casa su un letto funebre 33 , in

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Garland [1985, 137]. Cf. Aristotele, Etica a Nicomaco 1165 a 20-21. Fuste! de Coulanges [1864, 47-51, 63-69]. 31 Gherchanoc [2012, 49), con una felice espressione, definisce la morte un «opérateur fort de sociabilité». 32 Mauss [1921); Di Donato [1990, 79-99]. JJ contra Boardman [1955), che propone su basi iconografiche che la prothesis avesse luogo piuttosto all'esterno, davanti alla casa del defunto. 30

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una posizione massimamente visibile ai visitatori34 • Ogni dettaglio, in particolare la ricchezza degli oggetti deposti con il morto, è teso a mostrarne lo status sociale. Sotto lo sguardo dell'intera comunità, viene poi dispiegata l'intensa espressione del dolore che il gruppo familiare tributa al defunto per onorarlo, rivelatrice, come si è detto, della solidarietà tra i suoi membri. È il momento del lamento funebre, in cui si tributa al morto il cordoglio che gli è dovuto come forma di géras, cioè di onore che viene manifestato ad un individuo dai suoi pari. «Andiamo con tutti i cavalli a piangere Patroclo: questo è l'onore dei morti (géras than6nton). Quando poi saremo sazi di pianto funebre, scioglieremo i cavalli e ceneremo qui tutti quanti» 35 È con queste parole che Achille incita i compagni a dare inizio ai funerali dell'amico Patroclo. Non si tratta però di un libero sfogo delle emozioni in termini moderni: in una società come quella greca, ci sono regole precise che indicano sia le modalità di espressione del lutto (in particolare i gesti e i tempi) sia le persone che sono incaricate di manifestarlo. Adottando la definizione ormai classica proposta da Marcel Mauss, si può parlare in questo caso di «espressione obbligatoria dei sentimenti» 36 : il lutto, infatti, è una vera e propria messa in scena, una sorta di copione che, per essere efficace e credibile, si deve svolgere seguendo norme precise e tradizionali, rituali appunto. Il ruolo centrale spetta alle donne, specialmente quelle più strettamente imparentate con il morto 37 • Sono loro a farsi carico delle manifestazioni di dolore più eccessive ed enfatiche, la cui espressione non è in sintonia con l'ideale di equilibrio e misura su cui si costruisce, nella società greca, l'identità maschile. Il quadro tramandatoci dall'iconografia e dalle fonti letterarie è singolarmente concorde38 : le donne }< Sulla pr6thesis v. Vermeule [1979, 11-23]; Garland [1985, 23-31]; Pedrina [2001]; Oakley [2004]; Brigger e Giovannini [2004]. 35 Omero, Iliade 23, 9-12 (trad. G. Cerri). } 6 Mauss [1921]. H Stears [1998]. Sulla problematicità della divisione dei ruoli nel pianto funebre, meno chiara di quanto si vorrebbe, si veda Bouvier [2011] con particolare riferimento all'epopea omerica e all'epoca arcaica. Js Sul lamento funerario greco resta ancora fondamentale Alexiou [1974]; più recentemente Palmisciano [2003] offre un'utile rassegna di fonti, e il volume collettaneo Suter [2010] le ultime prospettive di ricerca; sull'iconografia del lamento funebre v. Shapiro [1991]; Pedrina [2001] e Carboni [2006].

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piangono sonoramente, si sciolgono le chiome e si strappano i capelli, si lacerano le vesti e si battono il petto. In un secondo momento, a questo dolore scomposto segue il lamento vero e proprio (g6os), col quale le parenti più prossime intonano una per una le lodi del morto, assumendo il ruolo di «guida del pianto» (éxarkhos g6oio), un uso restato vivissimo almeno fino alla metà del secolo scorso in tutto il bacino mediterraneo, e specialmente in Italia, come ha ben mostrato lo studio ormai classico di Ernesto de Martino 39 • Le parenti non sono tuttavia le sole esecutrici del lamento funebre: sono infatti attestate sin da Omero varie tipologie di professionisti, pagati per comporre ed eseguire un canto usualmente designato dagli Antichi col nome di thrénos, che lo distingue dalla dimensione più personale del g6os40 • Il loro ingaggio testimonia la potenza economica e sociale della famiglia del morto, e concorre ad aumentare il valore e la visibilità degli onori che vengono tributati al defunto. Celebri poeti, come ad esempio Pindaro, non disdegnano di comporre questi canti che commemorano il defunto e consolano i sopravvissuti41 • Naturalmente, non tutti possono permettersi un funerale così fastoso 42 , appannaggio esclusivo dei più ricchi. Perciò sin dal VI secolo a.C., soprattutto ad Atene, si cerca di limitare sempre più per via legislativa la magnificenza dei funerali, divenuti vetrine del prestigio delle famiglie aristocratiche, e di «uniformare» le pratiche all'interno della polis. Tale scopo ha, ad esempio, la legislazione di Solone, che fissa un tetto massimo delle spese per i funerali, al fine di attenuare l'esasperazione del lutto aristocratico 43 Una volta effettuata la sepoltura, il ruolo sociale del cadavere è affidato alla tomba, che diventa il corpo sociale definitivo del defunto, in quanto luogo della memoria condivisa da parte 19

De Martino [1958, 195-235]. Sull'uso di thrénos e 960s, v. Olivetti [2011]. 41 Cannatà Fera [1990]. 42 Per una rassegna dei costi, si veda De Schutter [1989]. 41 Il locus classicus è Plutarco, Vita di Solone 21, 6 (trad. M. Manfredini e L. Piccirilli): «Abolì poi l'uso di graffiarsi, percuotersi levare lamentazioni arcate e piangere un estraneo ai funerali di altri. Non permise inoltre di immolare buoi in onore dei defunti né di seppellire insieme con essi più di tre vesti, né di visitare le tombe di estranei fuorché per le esequie». Sulle leggi funerarie di Solone, v. Blok [2006]; in generale sulle leggi suntuarie e l'ideologia che ne era alla base, si leggerà utilmente Loraux [1990, 19-47]; Frisone [2000]; Bouvier [2008]. 40

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del gruppo familiare di appartenenza44 • Dopo la conclusione della pr6thesis, arriva infatti il momento dell' ekphord, cioè del corteo che conduce al luogo di sepoltura, abitualmente al di fuori delle mura cittadine45 • Lì il corpo, inumato o cremato - i due metodi sono stati compresenti lungo tutta la civiltà greca - trova la sua ultima dimora, passando a tutti gli effetti, da cadavere, ancora in uno stato transizionale, a defunto propriamente inteso. Dopo l'interramento si consuma un banchetto (per{deipnon), che ha luogo nella casa del defunto46 o, secondo altre testimonianze, sulla tomba stessa47 , col quale si segna la fine del digiuno dei parenti e l'inizio della ripresa della vita ordinaria48 • La nuova dimora del morto, tuttavia, non lo taglia fuori dalla società della quale ha fatto parte da vivo. Già i nomi che gli antichi Greci danno alla tomba lo dimostrano: essa è per lo più designata con il termine sema, cioè il «segno» che indica la presenza di un defunto, localizzata in un luogo preciso, o mnema, il luogo del «ricordo» condiviso dalla comunità49 • Quando Odissea incontra il compagno Elpenore all'ingresso del mondo dei morti, ad esempio, costui lo prega di dargli sepoltura e di alzare un tumulo di terra «che ne giunga notizia anche ai posteri. Fa' questo per me e pianta sul tumulo il remo col quale, quando ero vivo, remavo insieme ai compagni»50 • 44

Sourvinou-lnwood [1995, 108-297]. Ma non mancano testimonianze contrarie, come ad esempio la scelta fatta da Licurgo a Sparta, Plutarco, Vita di Licurgo 27 (trad. M. Manfredini e L. Piccirilli): «Anche riguardo alle sepolture Licurgo diede delle norme eccellenti agli Spartani. Innanzitutto eliminò ogni forma di superstizione, permettendo di seppellire i morti in città e di tenere i sepolcri vicino ai templi; in questo modo fece sì che i giovani, crescendo in mezzo ad essi, si abituassero alla loro vista e non si turbassero né inorridissero davanti alla morte, come se essa contaminasse chi tocca un cadavere o passa tra le tombe>>. 46 Artemidoro 5, 82. 47 Plutarco, Consolazione ad Apollonia 114F. 48 Luciano, Sul lutto 24 (traduzione V. Longo): «Dopo tutto questo il banchetto funebre (per{deipnon): ci sono i parenti (prosikontes) che consolando i genitori del morto cercano di indurli ad un assaggio, mentre quelli dal canto loro si lasciano anche costringere, per Zeus, senza dispiacersi; ma sono sfiniti da una fame di tre giorni consecutivi». Cf. Georgoudi [ 19886] e Gerchanoc [2012, 63-65]. 49 Per il lessico della tomba in Omero, v. Sourvinou-lnwood [1995, 122-136; 140-146]. 50 Odissea 11, 76-78 (trad. A. G. Privitera). 45

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Nonostante, com'è noto, in Omero non ci siano tracce di pratiche rituali tributate ai morti dopo il compimento dei riti funebrP 1, è importante mettere in evidenza che in questo passo uno dei tratti distintivi della tomba è proprio la sua visibilità, in quanto elemento essenziale ad attivare il ricordo sotto forma di racconto. Sin dal lessico dunque, il sepolcro rappresenta un segno visibile che indica ai vivi dove perpetuare il ricordo del defunto, presentandosi come il luogo privilegiato dello scambio rituale tra vivi e morti e quindi come un ulteriore corpo sociale del defunto. È forse grazie alla documentazione concernente l'Atene classica, che possiamo meglio comprendere in che modo il valore sociale del cadavere sia trasmesso alla tomba 52 • I riti con i quali si onorano i defunti presso il loro sepolcro si effettuano il terzo, nono e trentesimo giorno dalla scomparsa (e probabilmente sono rinnovati ogni anno). Essi portano il nome di nomiz6mena, cioè di pratiche la cui necessità è imposta dalla tradizione (n6mos), un termine che può indicare anche la totalità delle pratiche rituali in uso in una comunità (i sacrifici, le festività etc.) 53 • Le fonti antiche putroppo non dicono in cosa consistessero i nomiz6mena, ma è probabile che essi siano da identificarsi con le khoa(, le offerte liquide, e gli enag(smata, sacrifici o offerte di cibi, portati al sepolcro54 • Celebrare tali riti è un dovere che spetta innanzitutto al successore del defunto, al punto che, nelle orazioni giudiziarie del retore Iseo, vissuto nel IV secolo a.C., questo argomento è spesso utilizzato per dimostrare quale sia il corretto asse ereditario nel corso di dispute familiari 55 Sebbene non si possa propriamente parlare, come è stato più volte sottolineato negli ultimi anni, di un «culto degli antenati», cioè di un culto rivolto agli avi in quanto gruppo unico e indistinto, è però vero che i legittimi eredi si trovano a gestire rapporti fortemente istituzionalizzati e caratterizzati dalla loro obbligatorietà con i defunti da cui derivano il loro status56 • Anche nel caso della festa ateniese 51

Sourvinou-Inwood [1995, 92-94]. Su Atene in età classica si veda essenzialmente Humphreys [1980]; Georgoudi [19886]; per l'epoca arcaica Antonaccio [1994] e su quella post-classica, Alcock [1991]. 53 Georgoudi [19886, 74-75]. 54 v. infra, cap. 2, par. 3. 55 Iseo, Orazioni 2, 36-37, 46; 8, 39 (cf. Polluce, Onomasticon 1, 66; 8, 146). 56 Alcock [1991]; Antonaccio [1994]. 52

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dei Genésia, in cui tutti i nuclei familiari commemorano i propri morti, non è un membro qualunque a portare le offerte funebri alla tomba, ma il figlio maggiore5 7 • È forse per iniziativa di Solone - se accettiamo l'ipotesi del grande storico dell'antichità Felix Jacoby - che tale festività sostituisce le più antiche celebrazioni annuali tenute in occasione dell'anniversario della scomparsa di ciascun defunto58 • Tale scelta, come la regolamentazione soloniana delle spese per i funerali, cela probabilmente il desiderio di mettere in scena l'uguaglianza dei cittadini ateniesi, sostituendo ai particolarismi di ciascuna famiglia una celebrazione collettiva e simultanea dei morti. Il corpo sociale del cadavere continua dunque la sua funzione anche dopo il passaggio alla condizione di defunto: tuttavia, mentre nella fase di transizione esso è il perno rituale che permette il rinsaldamento dell'unità familiare e la ristrutturazione dei legami al suo interno, dalla tomba, invece, il defunto assume un ruolo di autorità rispetto ai viventi, come garante, di fronte alla società dei vivi, della legittimità di quegli stessi legami familiari. Insomma, il cadavere e la tomba sono corpi sostitutivi che consentono sia al defunto sia alla sua famiglia di mantenere vivi identità sociale e legami familiari per mezzo dei riti funebri e di quelli di commemorazione. 3. Senz'anima Come abbiamo detto nel paragrafo precedente, la finalità principale dei riti funebri è quella di stabilire le modalità corrette attraverso cui i vivi possono e devono continuare un contatto con il morto. Oltre al corpo sociale rappresentato dal cadavere e dalla tomba, esiste tuttavia nella cultura greca anche un corpo intangibile e invisibile, cioè la psukhé, la cui natura è radicalmente diversa da quella del vivente. È sotto questa forma che i morti giungono nell'aldilà. Tale termine, che appartiene alla stessa radice linguistica del verbo psukheìn «respirare», ci suona immediatamente familiare. D'istinto traduciamo questa parola con «anima», una categoria culturale per noi ricca di storia e di significati. Ovviamente, le cose non sono 57 58

Erodoto, 4, 26. [ 1944a]; contra Georgoudi [ 19886].

Jacoby

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così semplici, e molta distanza - temporale e culturale - separa la psukhé antica, e in particolare l'immagine che emerge dai poemi omerici, dalla nostra idea di «anima», inevitabilmente influenzata 9 dal cristianesimo, anche se certo non priva di radici elleniche5 • In Omero, ad esempio, la psukhé compare solo al momento della morte, quando le funzioni vitali cessano, mentre non è mai menzionata in relazione a un essere vivente, un uso testimoniato solo alle soglie del V secolo a.C. 60 • Ancora in Pindaro, essa si attiva in particolari condizioni di incoscienza, quali il sonno o lo svenimento, senza tuttavia mai comparire nel corso della vita ordinaria dell'individuo 61 • Proprio per queste sue caratteristiche, lo storico delle religioni Jan Bremmer ha ricondotto la psukhé omerica a un modello antropologico diffuso in molte civiltà, definito dal sanscritista svedese Ernst Arbman/ree soul. Quest'anima «libera», cioè svincolata dal corpo, sostituisce l'individuo nei momenti in cui egli non ha più controllo e percezione di se stesso, quali il sonno, la trance, la morte. La psukhé omerica sembra dunque essere contrapposta e alternativa all'esistenza del corpo, e non un elemento che ne faccia inestricabilmente parte durante la vita. In questo senso si può affermare che nel pensiero greco essa svolge una funzione sostituiva, assicurando una continuità dell'identità personale quando il corpo non esiste più o sfugge ad ogni controllo. Tale natura della psukhi comporta importanti conseguenze. Quando Odissee si inoltra nell'Hades, le psukha{ dei morti sono infatti ridotte a ben poca cosa: i defunti, certo, in qualche misura sussistono ancora, ma si tratta di un'esistenza, per così dire, diminuita62 • Pur conservando l'aspetto che avevano da vivi, essi vivono una condizione di completa apatia, nella quale non sono coscienti dello stato in cui si trovano, né serbano alcun ricordo della loro vita passata, né, infine, paiono capaci di provare sentimenti ed emozioni o di comunicarli. Persino la psukhé di Anticlea, madre di Odissee, nell'aldilà non è in grado di riconoscere suo figlio: «Dimmi, signore, come può riconoscere che sono proprio io?» chiede disperato l'eroe 59 Oltre all'ormai classico Rohde [1898 2], sulla psukhé si vedano Bremmer [1983]; Johnston [1999]; Lars [2000]. 60 Bremmer [1983, 10, 24]. 61 Pindaro, fr. 1316 Snelle Maehler; Brillante [1991a, 43-46]. 62 Bettini [1986, 228-232] parla di una rappresentazionep erdetractionem.

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all'indovino Tiresia, l'unico che, dopo la morte, grazie al favore di Persefone, regina dei morti, conserva le facoltà cognitive63 • Solo bere il sangue sacrificale di un ariete nero restituisce a lei e agli altri defunti la forza vitale necessaria per recuperare la coscienza di sé e interloquire con l'eroe, attenuando parzialmente l'atmosfera tetra del passo. Se non possono gustare l'orrida bevanda, i morti si limitano a stridere in modo inarticolato (tr{zein), come uccelli, o a restare ostinatamente muti 64 • Si tratta di una descrizione che non lascia certo indifferente il lettore moderno: l'idea stessa, per noi così familiare, della sopravvivenza dell'individuo nell'aldilà, è infatti messa in crisi da Omero. Un individuo che non ha più coscienza, pensiero, ricordi, né capacità di comunicare è ancora un individuo? È cioè ancora se stesso? È evidente che ci stiamo scontrando con una nozione di «persona» molto differente dalla nostra: per comprenderla meglio occorrerà delineare alcuni tratti di antropologia omerica, sulla scorta degli studi ormai classici di Bruno Snell e Jan Bremmer65 • Per Omero, infatti, ogni attività psichica è il prodotto di organi interni, o di elementi fisici situati nel corpo e dotati di una reale concretezza: le facoltà intellettive ed emozionali sono quindi prodotto di processi tangibili e corporei, e non sono prerogativa di una componente spirituale, che oggi definiremmo «anima». Si tratta, certo, di un'anatomia molto diversa da quella di un manuale di medicina moderna: senza una vera parola che designi quello che noi indichiamo globalmente come «corpo», i poemi omerici rappresentano l'individuo come un insieme di parti indipendenti che si alternano per adempiere ciascuna a una funzione 66 • Un ruolo rilevante è assunto non solo dal cuore (krad{e), ma anche dal 6 J 64

Odissea 11, 143-144. Odissea 11, 38-43. Cf. akéousa «silenziosa» riferito ad Anticlea in Odissea II, 142. 65 Snell [1946]; Bremmer [1983]. 66 Celebre l'osservazione di Aristarco, (fr. 95, p. 86-87 Lehrs = Apollonio Sofista, Lexicon Homericum p. 148, 23-26 Bekker; cf. Plutarco, Sulla poesia e la vita di Omero 124, p. 399 Bernardakis) da cui parte l'indagine di Snell [ 1946, 24-25], secondo la quale il termine soma in Omero indica unicamente il cadavere: ò 'Apicrrapxoç napaTET~Pl')KEV TÒ cruv~0wç 'Oµ~p4J, KaÌ